[Title will be auto-generated]

Page 1

RIVISTA ITALIANA DI

DIRITTO E PROCEDURA PENALE FONDATA DA GIACOMO DELITALA

DIRETTA DA G. L E O N E T. D E L O G U G. V A S S A L L I M. G A L L O G. C O N S O A. C R E S P I C. P E D R A Z Z I G. D E L U C A M. S I N I S C A L C O D. SIRACUSANO M. P I S A N I A. P A G L I A R O V. CAVALLARI C. F. G R O S S O G. L O Z Z I G. MARINUCCI F. MANTOVANI F. S T E L L A M. R O M A N O V. G R E V I D. P U L I T A N Ò T. P A D O V A N I E. M U S C O E. D O L C I N I A. G I A R D A - F. C. P A L A Z Z O

NUOVA SERIE - ANNO LIX 1996

M I L A N O - D O T T. A . G I U F F R È E D I TO R E


INDICE GENERALE

DOTTRINA AMODIO E., Affermazioni e sconfitte della cultura dei giuristi nella elaborazione del nuovo codice di procedura penale (A) ...................................................

899

BERNARDI F., Indagini difensive ed utilizzo degli elementi probatori. Aspetti deontologici, orientamenti giurisprudenziali e dottrinari, nuova regolamentazione normativa (legge 332/95) (A) ............................................................

119

CALAMANDREI I., Diversità del fatto e modifica dell’imputazione nel codice di procedura penale del 1988 (A) .........................................................................

634

CASTALDO A.R., Accesso all’attività bancaria e strategie penalistiche di controllo (A) ................................................................................................................

75

CERESA-GASTALDO G., L’incompatibilità a testimoniare dei magistrati e dei loro ausiliari: profili sistematici ed aspetti applicativi (A) ..................................

917

CULOTTA A., Il nuovo sistema sanzionatorio in materia di sicurezza ed igiene del lavoro e le responsabilità penali in caso di attività date in appalto (A) ....

949

DE FRANCESCO G., Il principio della personalità della responsabilità penale nel quadro delle scelte di criminalizzazione (A) ................................................

21

DI GIOVINE O., La bestemmia al vaglio della Corte costituzionale: sui difficili rapporti tra Consulta e legge penale (N) .....................................................

819

ESER A., Il « giudice naturale » e la sua individuazione per il caso concreto (A) ........

385

FORTI G., L’insostenibile pesantezza della ‘‘tangente ambientale’’: inattualità di disciplina e disagi applicativi nel rapporto corruzione-concussione (A) .....

476

FORZATI F., I fatti di illecito finanziamento ai partiti politici: prospettive dommatiche e di politica criminale (A) ...................................................................

658

GAROFOLI V., Omesso avvertimento ex art. 555 comma 2o c.p.p. e suoi riverberi sulle potenzialità difensive dell’imputato (N) ..............................................

832

GARUTI G., Questioni in tema di compatibilità tra giudizio abbreviato in sede di appello e rinnovazione dell’istruzione dibattimentale (N) ...........................

1206

GARUTI G., Utilizzabilità delle dichiarazioni orali di querela (N) .......................

859

GELARDI M., L’abuso d’ufficio per omissione del controllo e dell’iniziativa disciplinare: il caso del Rettore di un’Università (N) .........................................

880

GIACCA M., L’esame dell’imputato nell’esperienza comparatistica: spunti problematici (A) .....................................................................................................

165

GROSSO C.F., Le fattispecie associative: problemi dommatici e di politica criminale (A) ........................................................................................................

412

GUALTIERI P., La tutela di interessi lesi dal reato fra intervento e costituzione di parte civile (A) .............................................................................................

101


— IV — LORUSSO S., La valutazione della chiamata in correità ai fini della sussistenza dei « gravi indizi di colpevolezza » che legittimano l’adozione di una misura cautelare personale (A) ................................................................................ MAMBRUCCHI K., Rispetto del diritto di difesa e alchimie interpretative sull’efficacia della decisione invalida (N) ................................................................... MANGIONE A., La « contiguità » alla mafia fra ‘prevenzione’ e ‘repressione’: tecniche normative e categorie dogmatiche (A) .................................................. MANNA A., Considerazioni sulla riforma del diritto penale in Italia (A) ............ MARINUCCI G., Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza (A) .... MASULLO M.N., La funzione di integrazione dell’art. 261 c.p.m.p. e i suoi ‘‘effetti distorsivi’’ alla luce del nuovo codice di procedura penale. A proposito della parte civile nel processo militare (N) ........................................................... MERCURI B., Le Sezioni Unite intervengono sull’ambito applicativo della regola di giudizio ex art. 530 comma 2 c.p.p. (N) ..................................................... MILITELLO V., L’errore del non imputabile fra esegesi, dogmatica e politica criminale (A) ........................................................................................................ MOCCIA S., Il ritorno alla legalità come condizione per uscire a testa alta da Tangentopoli (A) ................................................................................................ MOLINARI F.M., Considerazioni in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione (A) ................................................................................................................ MOLINARI F.M., Sui rapporti tra gravi indizi di colpevolezza e chiamata in correità ai fini della applicazione delle misure cautelari (N) ........................... MOLINARI F.M., Sulla illegittimità costituzionale del divieto di pubblicazione degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento (N) ................................ MORMANDO V., L’evoluzione storico-dommatica delle condizioni obiettive di punibilità (A) ................................................................................................... MUCCIARELLI F., Errore e dubbio dopo la sentenza della Corte costituzionale 364/1988 (A) ............................................................................................... ORLANDI R., Inchieste preparatorie nei procedimenti di criminalità organizzata: una riedizione dell’inquisitio generalis? (A) ................................................ PADELLETTI M.L., Sulla custodia cautelare disposta dal Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nella ex-Jugoslavia (N) .............................. PADOVANI T., Il problema « Tangentopoli » tra normalità dell’emergenza ed emergenza della normalità (A) ............................................................................ PAZIENZA F., ‘‘Il passo alla depenalizzazione sino alla maggiore età’’ (A) ......... PELISSERO M., Consapevolezza della qualifica dell’intraneus e dominio finalistico sul fatto nella disciplina del mutamento del titolo di reato (N) ................. PERIS RIERA J.M., Il lungo cammino verso un codice penale della democrazia in Spagna (A) ................................................................................................... PERUZZI P., Note sull’elemento soggettivo nel reato di stregoneria nel diritto comune (A) ......................................................................................................

183 1183 705 525 423

842 1164 543 463 974 1147 808 610 223 568 1225 448 511 328 3 593

PEYRON F., Sulla legittimazione del convivente di fatto a costituirsi parte civile in caso di omicidio (N) .................................................................................... PIERGALLINI C., La responsabilità del produttore: avamposto o Sackgasse del diritto penale? (N) ........................................................................................... SCHIAFFO F., Una sentenza storica in materia di estradizione e pena di morte (N) ..... TRIGGIANI N., La ricognizione personale: struttura ed efficacia (A) ....................

354 1126 728

VANNI R., Prospettive organizzative degli uffici del pubblico ministero in un raffronto tra gli Stati della Comunità Europea (A) .......................................... VECCHI M., Disvalore dell’oltraggio e comminatoria edittale della pena (N) ......

995 783

375


— V — VIGONI D., Corte costituzionale, prelievo ematico coattivo e test del DNA (A) .

1022

ZANIOLO D., Brevi considerazioni in merito al principio di ultrattività in materia di reati finanziari (N) ...................................................................................

872

COMMENTI E DIBATTITI COPPETTA M.G., Il controllo sull’ammissibilità della richiesta di misure « rieducative » ............................................................................................................. PATALANO V., Il diritto penale tra ‘‘essere’’ e ‘‘valore’’. A proposito di un recente contributo alla teoria della pena ..................................................................

286 777

NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO CADOPPI A., Il codice Zanardelli e la codificazione nei paesi di common law ... CATALANO E.M., Giurisprudenza creativa nel processo penale italiano e nella common law: abnormità, inesistenza e plain error rule ..............................

1052 299

RASSEGNA BIBLIOGRAFICA ALBEGGIANI F., Profili problematici del consenso dell’avente diritto, Giuffré, Milano, 1995, pp. 1-126 (C.B.) ........................................................................

1105

GHEZZI M.L., Diversità e pluralismo. La sociologia del diritto penale nello studio di devianza e criminalità, Cortina, Milano, 1996, pp. XIX-207 (C.B.) ......

1107

MENLOWE M.A., MCCALL SMITH A. (a cura di), The Duty to Rescue. The Jurisprudence of Aid, Darthmouth, Aldershots, 1993, V-VII, 1-209 (M.P.) ............

1108

MOCCIA S., La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1995 (F.P.C.) ........................................

1112

PONCELA P., Droit de la peine, Presses Universitaires de FRance, Parigi, 1995, pp. 445 (F.K.) .....................................................................................................

1115

GIURISPRUDENZA Abuso d’ufficio — Svolgimento di attività professionale c.d. extramuraria - Esclusione - Peculato - Sfruttamento dell’attività lavorativa di un dipendente pubblico a fini privati Insussistenza (C.p. artt. 314 e 323) (con nota di M. GELARDI) ....................

880

— Violazione della disciplina sulle incompatibilità - Sussistenza - Peculato Sfruttamento dell’attività lavorativa di un dipendente pubblico per fini privati - Insussistenza (C.p. artt. 314 e 323) (con nota di M. GELARDI) .................

880

Atti del procedimento penale — Pubblicazione degli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento - Divieto di


— VI — pubblicazione - Possibilità di pubblicazione del contenuto di atti non coperti da segreto - Indeterminatezza della distinzione - Contrasto con la direttiva n. 71 dell’art. 2 legge delega 16 febbraio 1987, n. 81 - Illegittimità costituzionale (Cost. artt. 3, 21 e 76; c.p.p. art. 114, comma 3) (con nota di F.M. MOLINARI) ...............................................................................................................

808

Atti non ripetibili — Dibattimento - Lettura consentita - Atti « assunti » dalla polizia giudiziaria Processo verbale di ricezione della querela - È tale (C.p.p. art. 512; d.l. 8 giugno 1992, n. 306, art. 8, conv. dalla l. 7 agosto 1992, n. 356, art. 1, comma 1, con modificazioni) (con nota di G. GARUTI) .................................................

859

Bestemmia — Trattamento sanzionatorio penale - Cessazione della religione cattolica quale sola religione dello Stato italiano - Presunta indeterminatezza della fattispecie penale - Richiamo alla sentenza della Corte n. 925 del 1988 - Differenziazione della tutela penale del sentimento religioso individuale a seconda della fede professata - Violazione del principio di eguaglianza - Illegittimità costituzionale (Cost. artt. 3 e 8; c.p. art. 724, comma 1) (con nota di O. DI GIOVINE) ........

819

Concorso di persone — Art. 117 c.p. - Conoscenza della qualifica da parte dell’estraneo - Necessità. — Art. 117 c.p. - Rapporto tra azione tipica e intraneo - Necessità che il concorrente qualificato agisca da autore. — Correità e complicità - Distinzione - Dominio finalistico sul fatto - Necessità. — Nozione di dominio finalistico sul fatto - Controllo della volontà sulla realizzazione del reato concertato - Assunzione della decisione comune di commettere il reato - Necessità - Intervento nella fase di esecuzione dell’illecito - Irrilevanza - Conseguenze in tema di dolo. — Mutamento del titolo del reato per taluno dei concorrenti - Art. 117 ultima parte c.p. - Circostanza attenuante - Concessione - Possibilità limitata soltanto ai complici accessori (con nota di M. PELISSERO) ..........................................

322

Custodia cautelare in carcere — Competenza del Presidente del Tribunale in merito alle modalità di esecuzione della custodia cautelare — Misure equivalenti alla custodia cautelare in carcere — Arresti domiciliari — Valore delle legislazioni nazionali (art. 64 del Regolamento di procedura e di prova del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja) (con nota di M.L. PADELLETTI) .............................................................

1216

Decreto di citazione a giudizio — Cause di nullità - Omesso o insufficiente avviso all’imputato circa la possibilità di adire riti alternativi - Omessa previsione - Violazione del diritto di difesa - Illegittimità costituzionale (Cost. art. 24, comma 2; c.p.p. art. 555, comma 2) (con nota di V. GAROFOLI) ...........................................................

832

Decreto penale di condanna — Richiesta di decreto penale di condanna — Giudice che ritenga la prova mancante, insufficiente o contraddittoria — Applicabilità del proscioglimento in merito — Esclusione — Restituzione degli atti al Pubblico Ministero a norma dell’art. 459 comma 3 — Necessità — Mancanza assoluta della prova della colpevolezza, prova non altrimenti acquisibile — Applicazione dell’art. 129 c.p.p. — Necessità (con nota di B. MERCURI) ................................................

1157

Estradizione — Cittadino italiano imputato di omicidio di primo grado dal giudice della Contea di Dade (Florida) — Ratifica ed esecuzione del trattato di estradizione tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo degli Stati Uniti d’America — Estradizione anche per i reati puniti con la pena capitale a fronte dell’impe-


— VII — gno, assunto dal paese richiedente, con garanzie ritenute sufficienti dal paese richiesto, a non infliggere la pena di morte o, se già inflitta, a non farla eseguire — Assolutezza della garanzia costituzionale del divieto della pena di morte incidente sull’esercizio delle potestà attribuite a tutti i soggetti pubblici dell’ordinamento repubblicano, comprese quelle attraverso le quali si realizza la cooperazione internazionale ai fini della mutua assistenza giudiziaria — Inammissibilità di una concezione flessibile e discrezionale dell’estradizione da parte dello Stato richiesto — Intrinseca inadeguatezza del meccanismo adottato dal codice di procedura penale e dalla legge di esecuzione del trattato in esame rispetto al canone costituzionale — Richiamo alla sentenza della Corte n. 54/79, n. 7, del considerato in diritto — Illegittimità costituzionale (C.p.p. art. 698, comma 2; l. 26 maggio 1984, n. 225, nella parte in cui dà esecuzione all’art. IX del trattato di estradizione) (con nota di F. SCHIAFFO) ........

1119

Giudizio abbreviato — Appello — Assunzione di nuove prove — Rinnovazione dell’istruzione dibattimentale — Limiti — D’ufficio — Assoluta necessità ai fini della decisione (C.p.p. artt. 443, 599, 603) (con nota di G. GARUTI) ...................................

1196

Misure cautelari personali — Condizioni di applicabilità — Gravi indizi di colpevolezza — Criteri valutativi previsti dall’art. 192 — Applicabilità — Esclusione (C.p.p. art. 192) (con nota di F.M. MOLINARI) .......................................................................................... — Condizioni di applicabilità — Gravi indizi di colpevolezza — Chiamata di correo — Valutazione — Criteri (C.p.p. artt. 192) (con nota di F.M. MOLINARI) ...... — Riesame — Procedimento — Udienza — Traduzione dell’istante che ne abbia fatto richiesta — Omissione — Nullità assoluta — Conseguente inefficacia della misura coercitiva — Esclusione (C.p.p. artt. 127, 178, 179, 309) (con nota di K. MAMBRUCCHI) ................................................................................ — Richiesta di decreto penale di condanna — Giudice che ritenga la prova mancante, insufficiente o contraddittoria — Applicabilità del proscioglimento in merito — Esclusione — Restituzione degli atti al Pubblico Ministero a norma dell’art. 459 comma 3 — Necessità — Mancanza assoluta della prova della colpevolezza, prova non altrimenti acquisibile — Applicazione dell’art. 129 c.p.p. — Necessità (con nota di B. MERCURI) ................................................

1141 1141

1180

1157

Nullità — Decreto di citazione a giudizio - Cause di nullità - Omesso o insufficiente avviso all’imputato circa la possibilità di adire riti alternativi - Omessa previsione - Violazione del diritto di difesa - Illegittimità costituzionale (Cost. art. 24, comma 2; c.p.p. art. 555, comma 2) (con nota di V. GAROFOLI) ...........

832

Oltraggio a pubblico ufficiale — Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale - Reato in genere - Oltraggio a pubblico ufficiale - Minimo edittale della pena (mesi sei) - Sproporzione ed eccessività anche in rapporto all’assai più ridotto minimo di pena applicabile per il reato di ingiuria - Irragionevole bilanciamento tra la tutela della pubblica amministrazione e il valore della libertà personale - Lesione del principio di finalità rieducativa della pena - Illegittimità costituzionale parziale Assorbimento di ulteriore profilo - Possibilità per il legislatore di stabilire un diverso trattamento sanzionatorio, purché conforme ai principi surrichiamati (Cost. artt. 3, 27, comma 3, e 97; c.p. art. 341, comma 1) (con nota di M. VECCHI) ...........................................................................................................

783

Parte civile — Costituzione di parte civile - Inammissibilità nel procedimento penale militare - Illegittimità costituzionale (Cost. artt. 3 e 24; c.p.m.p. art. 270) (con nota di M.N. MASULLO) ..............................................................................................

842


— VIII — — Legittimazione - Omicidio volontario - Legittimazione del convivente di fatto della vittima a costituirsi parte civile - Sussistenza - Condizioni (C.p. artt. 185, 575; c.p.p. artt. 74, 76; c.c. 2043) (con nota di F. PEYRON) ........................ Peculato — Abuso d’ufficio - Svolgimento di attività professionale c.d. extramuraria Esclusione - Peculato - Sfruttamento dell’attività lavorativa di un dipendente pubblico a fini privati - Insussistenza (C.p. artt. 314 e 323) (con nota di M. GELARDI) ......................................................................................................... — Abuso d’ufficio - Violazione della disciplina sulle incompatibilità - Sussistenza - Peculato - Sfruttamento dell’attività lavorativa di un dipendente pubblico per fini privati - Insussistenza (C.p. artt. 314 e 323) (con nota di M. GELARDI)

371

880

880

Querela — Dibattimento - Lettura consentita - Atti non ripetibili - Atti « assunti » dalla polizia giudiziaria - Processo verbale di ricezione della querela - È tale (C.p.p. art. 512; d.l. 8 giugno 1992, n. 306, art. 8, conv. dalla l. 7 agosto 1992, n. 356, art. 1, comma 1, con modificazioni) (con nota di G. GARUTI) .............

859

Reati contro la persona — Delitti contro la vita e l’incolumità individuale - Omicidio colposo - Responsabilità del produttore - Difetto di fabbricazione - Responsabilità del vertice aziendale - Configurabilità - Limiti - Accertamento della posizione di ciascun componente nella compagine societaria. — Delitti contro la vita e l’incolumità individuale - Omicidio colposo - Paracadute - Vizio di fabbricazione di una bretella - Mancata rilevazione per carenza di controllo del produttore - Difettosa apertura della velatura principale Omessa attivazione della velatura secondaria da parte del paracadutista Morte del paracadutista - Responsabilità del produttore - Esclusione - Ragioni - Fattispecie (con nota di C. PIERGALLINI) ......................................................

352

Reati finanziari — Depenalizzazione ex art. 2 legge n. 562/1993 - Possibilità di applicazione della deroga alla ultrattività per effetto del disposto dell’art. 40 legge n. 689/1981 - Operatività (L. 28 dicembre 1993 n. 562, art. 2; l. 24 novembre 1981 n. 689, artt. 39, 40; l. 7 gennaio 1929 n. 4, art. 20; D.P.R. 29 gennaio 1973 n. 43, artt. 292, 296) (con nota di D. ZANIOLO) ................................. — Reati finanziari - Reati puniti con pena pecuniaria per i quali sia prevista nelle ipotesi aggravate anche la pena detentiva - Depenalizzazione - Operatività (L. 28 dicembre 1993 n. 562, art. 2; l. 24 novembre 1981 n. 689, artt. 32, 39; D.P.R. 29 gennaio 1973 n. 43, artt. 292, 296) (con nota di D. ZANIOLO) ..

872

872


DOTTRINA

IL LUNGO CAMMINO VERSO UN CODICE PENALE DELLA DEMOCRAZIA IN SPAGNA (*)

SOMMARIO: 1. Impostazione. — 2. Brevi cenni storici sulla codificazione penale spagnola (con particolare riferimento ai continui esempi del rapporto « cambiamento politico/cambiamento del codice ») dalle origini fino a Juan Carlos I. — 3. La transizione politica e i mutamenti penali. — 4. I tentativi di codificazione successivi alla promulgazione della Costituzione del 1978: occasioni perdute di approvare un Codice Penale della democrazia. A) Il Progetto del 1980. B) La Riforma Urgente e Parziale del 1983: anticipazione di un nuovo Codice Penale che non superò la fase della Proposta di Progetto Preliminare (1983). C) Alcune riforme settoriali successive. D) I Progetti del 1992 e del 1994. — 5. Considerazioni conclusive.

1. Impostazione. — Negli ultimi anni, la Spagna sta vivendo un’esperienza sconosciuta nella sua storia della codificazione penale. Si può infatti affermare che, dal lontano Codice Penale del 1822 fino all’entrata in vigore della Costituzione del 1978, in questo Paese la nascita di ogni testo di diritto punitivo, e le sue successive riforme sono state sempre condizionate dai mutamenti politici. Tale fenomeno, in sé considerato, non è affatto misterioso. Una volta ammesso che il Codice Penale ha il compito di tutelare i valori ed i principî riconosciuti come basilari per la convivenza sociale, ne consegue necessariamente che, quando mutano questi, debba mutare anche quello (1). Tuttavia, sembra che negli ultimi quindici anni, in una democrazia che si riconosce già consolidata, non vi sia stata alcuna forza politica, sociale o intellettuale capace di affrontare una sostituzione definitiva della legislazione penale vigente per quarant’anni di dittatura. L’elaborazione di un testo punitivo, che non solo sia nuovo, ma che, altresì, si adatti correttamente alla realtà socio-politica di un Paese completamente trasformato è compito arduo, che non può essere svolto adeguatamente in tempi brevi, soprattutto quando si conviene unanimemente che il Codice Penale rappresenta una sorta di « Costituzione negativa », che assume un ruolo di particolare rilievo nell’ambito dell’ordina(*) La traduzione dallo spagnolo è stata curata dalla Dott.ssa Isabella Leoncini dell’Università di Firenze. (1) Esposizione dei motivi al Progetto di Legge Organica del Codice Penale del 1994. Riv. ital. dir. proc. penale 1/1996


— 4 — mento. Alcuni (2), insistendo sulla normalità del ritardo, hanno portato ad esempio la storia più o meno recente di Paesi con un sistema democratico radicato, come la Germania e l’Italia, nei quali egualmente si è tardato a modificare le norme penali fondamentali. Nondimeno, i due decenni trascorsi dalla morte di Franco e i diciassette dall’entrata in vigore della Costituzione democratica, con dodici anni di governo socialista — di cui dieci con la maggioranza assoluta in Parlamento —, dovrebbero essere stati più che sufficienti per avallare il cambiamento della normativa penale fondamentale in una società che, dal 1975, si è trasformata con ritmi vertiginosi: in un secolo e mezzo di storia, in Spagna, è bastato molto meno per intraprendere simili cambiamenti. Nelle pagine che seguono, si vuole presentare, non già uno studio storico della codificazione spagnola, che senza dubbio richiederebbe un diverso tipo di analisi e un’indagine più esaustiva, ma piuttosto una visione più chiara possibile del peculiare itinerario di un processo legislativo, nel quale si è costantemente realizzata l’equazione cambiamento politico/cambiamento del Codice Penale e che, paradossalmente, si è interrotto a seguito di una delle trasformazioni socio-politiche più singolari, non solo della storia spagnola, ma anche (perché non dirlo?), di quella europea. 2. Brevi cenni storici sulla codificazione penale spagnola (con particolare riferimento ai continui esempi del rapporto « cambiamento politico/cambiamento del codice ») dalle origini fino a Juan Carlos I. — Se l’Illuminismo spagnolo — nelle parole di CASABÒ — non aveva in alcun modo sfigurato nel confronto con gli altri Paesi europei, ed aveva improntato l’ideologia dei primi tentativi di codificazione, furono peraltro i problemi e i timori politici derivanti dallo scoppio della rivoluzione francese a frenare, due secoli fa, la prima opera di codificazione, intrapresa in Spagna nel 1770 (3), su iniziativa di una magistratura profondamente permeata di idee illuministiche. Correlativamente, la storia del nostro primo Codice Penale, quello del 1822, consente di conoscere (4) il pensiero sotteso a quelle norme e i principî sui quali esse si fondano, poiché illustra l’ambiente e le vicende della sua nascita. La sintesi di tale storia è particolarmente rivelatrice: con la restaurazione della Costituzione del 1812 e la rielezione del Parlamento, viene nominata una Commissione, fra i membri del Consiglio, incaricata di redigere un Progetto, in attuazione del pre(2) Relazione introduttiva del Ministro della Giustizia, Tomás Quadra-Salcedo, al testo del Progetto Preliminare di Codice Penale del 1992. (3) CASABÒ RUIZ J.R., Los orígenes de la Codificación penal en España: el plan de Código Criminal de 1787, in Anuario de Derecho Penal y Ciencias Penales, 1969, 313 ss. (4) Stante che le vicende della sua preparazione sono completamente e perfettamente documentate.


— 5 — cetto costituzionale che disponeva la formazione del codice. La conclusione della piccola storia della precaria vigenza di detto codice, « breve, imperfetta e incostante », ripete lo stesso schema: sono i disastrosi eventi politici, che nel 1823 colpiscono la Spagna, ed il conseguente ordine di Ferdinando VII di annullare tutti gli atti del Governo costituzionale, a stroncare la possibile vigenza del primo Codice Penale spagnolo (5). Poco prima della morte di Ferdinando VII, grazie ad un impulso favorevole al legalismo, che era rimasto latente sotto l’influsso dell’Illuminismo, risorgono le aspirazioni alla codificazione, che danno origine alla stesura di una serie di progetti (6), che, tuttavia, non sarebbero arrivati a vedere la luce. Fu nuovamente un evento politico, la restaurazione, nel 1836, della Costituzione del 1812, a risultare determinante per la elaborazione di un nuovo Codice Penale che, dopo alcuni tentativi falliti (7), sfocerà nel testo del 1848, vero e proprio filo conduttore di tutte le norme penali codificate fino al giorno d’oggi. Con tale Codice, il cui contenuto fondamentale si è conservato fino ai nostri giorni, con i logici ed inevitabili ritocchi e adattamenti, si consolida in Spagna una scienza penalistica eclettica, con un orientamento politico liberal-moderato. Sotto il profilo tecnico, il suddetto Codice risultava fortemente influenzato dal Codice penale francese del 1810, da quello brasiliano del 1830 e da quello napoletano del 1819 (8). Si può affermare che questo testo ha rappresentato in Spagna il corpo centrale della disciplina penale, sicché, con maggiori o minori trasformazioni, che hanno cercato di adattarlo — e in certi casi di imbrigliarlo — ad una realtà in mutamento, la sua vigenza è sopravvissuta ad un secolo e mezzo di storia. In effetti, a parte il Codice Penale del 1928, tutti gli altri corpi di diritto punitivo si limitarono a realizzare un’opera di aggiustamento di tale Codice alla realtà politica via via dominante. Le successive riforme che esso ha subìto finora rispecchiano fedelmente il binomio cambiamento politico/riforma penale, che ha governato la nostra storia della codificazione penale. Molto presto, nel 1850, si presenta la prima grande trasformazione (5) ANTON ONECA J., História del Código Penal de 1822, in Anuario de Derecho Penal y C.P., 1965, 263 ss.; SAINZ CANTERO J., Lecciones de derecho penal, Parte general, I, 1979, 216; CASABÒ RUIZ J.R., Vigencia del Código Penal de 1822, in Anuario de Derecho Penal y C.P., 1979, 333 ss. (6) Tutti questi progetti sono stati studiati e pubblicati da CASABÒ RUIZ J.R., El Proyecto de Código Criminal de 1830, Murcia 1978; El Proyecto de Código Criminal de 1831 de Sainz De Andino, Murcia 1978; El Proyecto de Código Criminal de 1834, Murcia 1978. (7) La Commissione incaricata della revisione e adattamento del Codice Penale del 1822 andò molto più in là di quanto le fosse stato richiesto, giungendo all’elaborazione di un nuovo Progetto (1839), che non fu mai presentato in Parlamento. (8) ANTON ONECA J., El Código Penal de 1848 y Don Joaquin Francisco Pacheco, in Anuario de Derecho Penal y C.P., 1965, 473 ss.; SAINZ CANTERO, Lecciones de Derecho Penal, Parte general, I, 1979, 223 ss.


— 6 — (la cui portata fu maggiore di quanto tradizionalmente si riconosca), risposta automatica — e autoritaria — agli eventi rivoluzionari del 1848, che furono considerati all’origine della svolta reazionaria nel Codice. Identico processo, anche se questa volta di segno contrario, sta alla base del secondo grande cambiamento, che dette vita al Codice del 1870. Nel 1868 si verifica la rivoluzione liberale, e nel 1869 la Spagna già si cimenta con una nuova Costituzione che, logicamente, crea nuovi organi politici e si conforma ad una concezione dei diritti individuali coerente con l’impostazione rivoluzionaria: la modifica della normativa penale appariva necessaria e urgente. La rapidità con cui fu conseguita la suddetta trasformazione fu tale che è divenuta famosa la qualifica che Silvela attribuì al Codice definendolo « Codice d’estate », anche se, senza dubbio, fu la situazione politica — e il rapporto tra le forze parlamentari — a rendere possibile l’effettività della riforma; non a caso Saldana lo presentò come « figlio dell’abilità politica ». Sebbene vi siano stati progetti successivi senza esito, molti di essi egualmente segnati dalle alterne vicende politiche (9), il Codice rimase in vigore fino al radicale cambiamento politico che ne determinò la modifica nel 1932. Per più di sessant’anni, la sua applicazione ebbe solo una parentesi, che fu come sempre provocata dagli eventi politici: nel settembre del 1923 si verifica il colpo di stato capeggiato dal generale Primo de Rivera, viene sospesa la Costituzione del 1876 e, sorprendentemente, si conserva il Codice del 1870, creandosi però una legislazione penale complementare di marcato segno autoritario, conforme alla svolta politica avvenuta. Soltanto qualche anno dopo, quello che era cominciato come un tentativo di riforma e adattamento del Codice, finisce per convertirsi nel nuovo testo punitivo del 1928 che è, senza dubbio, l’unico corpo normativo estraneo alla linea tracciata nella nostra storia penale codificata dal Codice del 1848, e che si distacca visibilmente dai suoi predecessori (10). Il criticato e vilipeso testo del 1928 si informa completamente alla dottrina della difesa sociale e, pertanto, si fonda sulle teorie del c.d. indi(9) Ispirato a rigorose idee correzionaliste, il c.d. Progetto di Salmeron del 1873 fu uno dei pochi tentativi di riforma che non mosse tanto da un impulso politico, quanto scientifico. Il Progetto di Estrada e Danvila del 1877 si proponeva dichiaratamente di armonizzare il Codice del 1870 con la nuova Costituzione del 1876, medesimo obiettivo ebbero il Progetto della Commissione del 1879 e quello di Bugallal del 1880. Di maggior portata e rilievo furono i Progetti di Alonso Martinez del 1882 e il famoso Progetto Silvela. I tentativi si ripeterono nel 1886 (altro Progetto di Alonso Martinez), 1887, 1891, 1902, 1905, 1912 e 1918. Non può qualificarsi riformatore il c.d. « Codice Penale di Don Carlos VII », stante che tale testo, pubblicato nel 1875, era un autentico codice penale di taglio assolutista, conforme all’ideologia del pretendente al trono di Spagna (sotto il profilo tecnico era il Codice del 1850, con le necessarie riforme di carattere politico). (10) RODRIGUEZ MOURULLO G., Derecho Penal, Parte general, Civitas, Madrid 1978, 44.


— 7 — rizzo intermedio (la Terza scuola italiana e la Scuola sociologica o politico-criminale tedesca). L’ispirazione « difensivista » di tale Codice, che introduce il sistema dualistico, si avverte non solo nell’accoglimento delle misure di sicurezza, ma altresì, come a suo tempo pose in rilievo CASABÒ, nella possibilità di tenere conto della pericolosità del delinquente nella commisurazione della pena. Per molto diverso che fosse, il Codice del 1928 non ebbe peraltro una sorte differente dai suoi predecessori: il 14 aprile del 1931 viene proclamata la II Repubblica spagnola e la mattina del giorno seguente viene dichiarato « senza alcuna validità né efficacia il Codice Penale del 1928 ». Il binomio cambiamento politico/riforma penale acquista in questo momento un’evidenza paradigmatica: in quello stesso giorno rientra in vigore il Codice del 1870 e, contemporaneamente, si dà inizio all’elaborazione di una nuova Costituzione. La Commissione di Giustizia della Corte Costituente adottò il Progetto Preliminare presentato dalla Commissione giuridica Consulente, talché il 1o dicembre del 1932 entrava già in vigore il nuovo Codice. Tale testo non si discostò troppo da ciò che ci si era proposti: adattare il Codice del 1870 ad una nuova realtà politica e introdurre le necessarie modifiche tecniche ad un corpo legislativo già vecchio di sessant’anni. La dinamica cambiamento politico/cambiamento del Codice, che si pone come filo conduttore della nostra esposizione, spiega come le modificazioni di indole politica abbiano avuto la stessa durata della Costituzione repubblicana, mentre così non fu per quelle di natura tecnica, che sono sopravvissute pressoché intatte fino ad oggi. L’insurrezione militare del 1936 dà inizio ad un indirizzo politico di impronta autoritaria che, malgrado la Guerra Civile spagnola si fosse già conclusa nel 1939, non riesce a prendere forma in un Codice Penale fino al 1944. Il testo apparso quell’anno non era — né voleva essere — un nuovo Codice. La sua denominazione di « Testo riformato » intendeva porre in risalto la continuità con quello del 1932, anche se non vi sarebbe stato alcun imbarazzo a giustificare l’autoritarismo degli aspetti più rilevanti della trasformazione. Se la struttura di questo corpo legislativo recepisce le linee generali del Codice del 1932, l’inasprimento delle pene, il potenziamento dei fattori di prevenzione generale, la punibilità generalizzata dell’accordo, proposta e istigazione per delinquere, l’introduzione di nuove aggravanti e la criminalizzazione del dissenso politico, riflettono nitidamente, come avrebbe posto in rilievo DEL ROSAL, quell’autoritarismo. Tuttavia, similmente a ciò che avvenne per il Codice penale fascista italiano, e in contrasto con la linea seguita dal Codice nazionalsocialista tedesco, non venne formalmente soppresso il principio di legalità (scelta che la dottrina interpretò più come mezzo per evitare possibili deviazioni del potere giurisdizionale, che non come un’inimmaginabile concessione al pensiero liberale).


— 8 — Il Testo Riformato del 1944 andò subendo piccole e medie modificazioni successive dovute, le une, alla necessità di superare inconvenienti tecnici, le altre all’esigenza di dare risposta a nuove forme di delinquenza apparse e moltiplicatesi in un ambiente sociale ed economico di permanente stato post-bellico e, al contempo, a esigenze di adeguamento della nostra legislazione a quella della comunità internazionale, imposte da alcuni accordi internazionali. Risultato di tutto ciò fu il Testo revisionato del 1963. Furono inoltre promulgate diverse leggi a contenuto direttamente o indirettamente politico (11), da cui derivò il Testo Riformato del 1973 che, con poche modifiche, rappresenta l’ultima versione del Codice Penale spagnolo fino alla morte di Franco, il 20 novembre del 1975. 3. La transizione politica e i mutamenti penali. — Il profondo processo di trasformazione politica, iniziatosi in Spagna il 20 novembre del 1975, acquista autentica carta di cittadinanza con l’entrata in vigore della Costituzione del 1978; tuttavia già da prima si fece avvertire la tradizionale interdipendenza tra mutamento politico e mutamento penale. In quel triennio, infatti, si affronta, senza attendere la promulgazione della Carta fondamentale, una serie di importanti riforme nel campo della legislazione penale, che, direttamente o indirettamente, perseguono l’armonizzazione del vecchio sistema penale con il nuovo orientamento politico. In tre soli anni vengono anticipate quelle misure che non potevano attendere la comparsa della nuova Costituzione (e che si pongono, rispetto alle future disposizioni di questa, in piena consonanza), né l’approvazione di un nuovo Codice Penale (il cui progetto iniziale rimase molto presto paralizzato). Tali misure investirono, come era da attendersi, i settori del vecchio Codice maggiormente rappresentativi della sua ideologia politica e sociale. La L. n. 23 del 19 luglio 1976 fornisce sostegno penale alla L. sulle Associazioni politiche del 14 giugno 1976 e alla L. del 29 maggio dello stesso anno disciplinatrice del diritto di riunione e manifestazione. Si tratta chiaramente di una legislazione di apertura, che modifica tutta la vecchia normativa penale delle associazioni, riunioni e manifestazioni ille(11) La L. del 21 dicembre 1965 presentava uno spiccato carattere politico, poiché riformava il delitto di sciopero. La L. dell’8 aprile 1967 disciplinò nel Codice tutta la materia dei delitti di circolazione, ma introdusse altresì modifiche nel campo dei delitti contro la sicurezza dello Stato, e allo stesso tempo creò alcuni reati di stampa secondo il modello delineato, con riferimento al diritto di espressione, dalla Legge sulla stampa e editoria del 1966, e ancora dette vita ad una serie di delitti contro le Leggi Fondamentali. La L. del 15 novembre 1971 dava inizio ad una riforma incentrata sulla tutela penale della persona e i diritti del successore al Governo dello Stato; la riforma investì infine altri diritti come ad es. la libertà religiosa.


— 9 — cite e della propaganda illegale. L’area che può qualificarsi, in senso ampio, dei delitti politici fu oggetto di numerose modificazioni, come quella che riconobbe il diritto di sciopero, modificando l’art. 222 del Codice (Decreto L. n. 17 del 4 marzo 1977 sui rapporti di lavoro), o quella che ampliò la libertà di espressione (Decreto L. Reale n. 24 del 1o aprile 1977 sulla libertà di espressione), con la abrogazione dell’art. 165 bis, lett. b) relativa ai reati di stampa. Al contempo, si andavano colpendo gli articoli del Codice preposti alla tutela penale delle norme e degli istituti del precedente regime (L. n. 17 del 15 febbraio 1978). Degna di nota è infine la tipizzazione del delitto di tortura con la L. n. 31 del 17 luglio 1978. Fu varata inoltre una serie di disposizioni legislative, Decreti e Leggi, attraverso le quali si esercitava il diritto di grazia, che si inserivano in una linea piuttosto coerente con i mutamenti politici (12). Più strettamente correlata ai mutamenti sociali intervenuti, risulta una serie di modificazioni, soprattutto abrogative di delitti, che rappresentano un autentico processo di depenalizzazione di condotte, dovuto a cambiamenti nel costume, nella morale e negli usi sociali. Così, per esempio, la depenalizzazione dell’adulterio e del concubinato (L. n. 22 del 26 maggio 1978), dei giochi aleatori, d’azzardo e scommesse (Decreto L. Reale n. 16 del 25 febbraio 1977), o la depenalizzazione parziale della vendita di anticoncezionali (L. n. 45 del 7 ottobre 1978). Al contempo, fu intrapreso un processo di criminalizzazione di certe condotte, rispetto alle quali si cercò di utilizzare, con scarso successo visti i risultati, il carattere promozionale e il valore simbolico del diritto penale: l’introduzione del delitto fiscale nell’articolo 319 del testo punitivo (con la L. n. 50 dell’11 novembre 1977) ne fu un esempio emblematico. I mutamenti normativi non si arrestarono peraltro ai confini del Codice Penale, ma si estesero a rilevanti settori della legislazione speciale. Così, fra l’altro, il Decreto Reale n. 2273 del 29 luglio 1977, diretto all’umanizzazione dell’ambiente penitenziario, che modifica completamente il Regolamento dei servizi delle Istituzioni penitenziarie; il Decreto L. Reale n. 20 del 18 marzo 1977 sulle norme elettorali, o il Decreto L. Reale n. 45 del 21 dicembre 1978, che riforma il Codice di Giustizia Militare, la L. penale e processuale della navigazione aerea e la L. penale e disciplinare della marina mercantile. Esempio paradigmatico è costituito dalla L. n. 77 del 26 dicembre 1978, che modifica la L. sulla pericolosità e la riabilitazione sociale. Un posto a parte occupa in questo periodo, e anche negli anni successivi, tutta una serie di disposizioni volte a dare soluzione penale al pres(12) Decreto L. Reale n. 10 del 30 luglio 1976; Decreto L. Reale n. 19 del 14 marzo 1977; D. Reale n. 388 del 14 marzo 1977, che completa il precedente; L. n. 46 del 15 ottobre 1977.


— 10 — sante problema del terrorismo. Si tratta di una serie di misure legali che, nel complesso, a volte senza troppo successo, intendevano fornire per questo tipo di criminalità un trattamento differenziato rispetto a quello previsto per la criminalità comune. 4. I tentativi di codificazione successivi alla promulgazione della Costituzione del 1978: occasioni perdute di approvare un codice penale della democrazia. — La frenesia riformatrice, che cercava di adattare una legislazione penale rimasta in vigore per quattro decenni di dittatura alla nuova e diversa società sorta con la trasformazione politica, sembrava preconizzare la rapida approvazione di quello che, da parte di diversi settori intellettuali e sociali, veniva annunciato come il codice penale della democrazia. Il 29 dicembre del 1978 entra in vigore la nuova Costituzione e può considerarsi concluso il primo periodo della transizione politica spagnola. Parrebbe, così, anche giunto il momento di dare attuazione alle aspettative di un nuovo codice penale, dando vita, una volta di più, al fenomeno « cambiamento politico/cambiamento del Codice », che è sempre stato una costante nazionale dall’inizio del processo di codificazione. Tuttavia, oggi, diciassette anni dopo, il vecchio testo punitivo, che trova le sue radici più profonde nel lontano Codice del 1848, è stato oggetto soltanto di modifiche parziali, conseguenza di un’inevitabile e urgente opera di ritocco legislativo, che ha minato innumerevoli volte la sua struttura e l’armonia sistematica dei suoi principî. È inevitabile interrogarsi sui motivi del perenne rinvio, a fronte dei diversi tentativi evidenziati, alcuni parzialmente anticipatori nella loro realtà legislativa. A) Il Progetto del 1980. — Il punto di partenza di tutti i tentativi di codificazione post-costituzionali è rappresentato dal Progetto di Legge Organica di Codice Penale del 1980. Formalmente, tale Progetto è il risultato dei lavori iniziati nel 1978 da una Commissione speciale composta da quattro specialisti teorico-pratici di Diritto Penale (13), lavori completati con la relazione elaborata da più di trenta insigni personalità della scienza giuridico-penale, che facevano parte come membri, permanenti o aggiunti, della Quarta sezione della Commissione Generale di Codificazione. L’elaborazione di un nuovo Codice fu iniziata nella piena convinzione di intraprendere un compito « indifferibile », finalizzato alla defini(13) Nel 1978, Landelino Lavilla, allora Ministro della Giustizia, nomina una Commissione speciale, composta da Conde-Pumpido, Diaz Palos, Gimbernat Ordeig e Rodriguez Mourullo; quest’ultimo relatore generale. Essa fu costituita in rappresentanza della Procura Generale, della magistratura, del corpo docente dell’Università e dell’avvocatura. Dei lavori relativi alle misure di sicurezza fu incaricata un’altra Commissione complementare, il cui relatore generale era Marino Barbero Santos e cui partecipò anche Morenilla.


— 11 — tiva sostituzione delle linee generali tracciate dal Codice del 1848, poiché la sistematica di fondo di tale vecchio testo — senza negare i suoi meriti — « non rispondeva alle esigenze sociali, politiche e tecnico-giuridiche attuali » (14). Si trattava, cioè, di sostituire tutta una serie di concezioni che erano già « storia » della Scienza penale (15). Il Progetto delineava un Codice ispirato ai postulati della moderna politica criminale, fondato su un’idea del sistema penale come mero mezzo per conseguire una dimensione minima di convivenza e, pertanto, profondamente ancorato al principio del minimo intervento. Ne consegue, che uno degli obiettivi centrali del nuovo Codice fosse correggere l’ipertrofia, quantitativa e qualitativa, del sistema penale precedente. Si mitigano tutte le pene, senza intendersi con ciò rendere « più blando » il sistema punitivo, ma piuttosto dare attuazione al vecchio principio politicocriminale Beccariano, secondo il quale il contenimento della criminalità va perseguito, non tramite la durezza delle pene, bensì attraverso la loro certezza. Inoltre, al livello dei principî generali, il Progetto non si accontenta della proclamazione del principio di legalità (estremo già consacrato nel Codice attualmente vigente), ma si propone di dotarlo di effettiva validità concreta, eliminando o modificando tutti gli articoli, che violavano le esigenze di certezza e sicurezza giuridica proprie di uno Stato di diritto. In funzione delle nuove impostazioni sostanziali del concetto di reato, fondate sul criterio della offensività, vengono eliminati i reati meramente formali e di mera disubbidienza, e viene mutata la struttura classificatoria del testo (che si fonda ora sul bene giuridico). Questa medesima linea-guida è utilizzata nella depenalizzazione di condotte tradizionalmente incluse nel Codice e, al tempo stesso, nella criminalizzazione di nuovi comportamenti. Circa le conseguenze giuridiche del reato, il Progetto si uniforma al sistema dualistico, recependo la previsione di pene e misure di sicurezza; in tale ultimo ambito « per evidenti ragioni di garanzia dei diritti fondamentali della persona, si circoscrive il sistema delle misure penali agli stati pericolosi post-delictum e alla c. d. pericolosità criminale » (16). La pena deve essere proporzionata alla gravità del fatto commesso e si fonda sulla colpevolezza del soggetto; conseguenza della proclamazione del principio nulla poena sine culpa, sarà la soppressione di tutte le disposizioni che, storicamente, avevano consacrato la responsabilità oggettiva. Cambia anche tutto il sistema delle pene, con la semplificazione del catalogo delle (14) Esposizione dei Motivi al Progetto di Legge Organica del Codice Penale. (15) Paradigmaticamente, si menzionava l’idea di un diritto penale poggiante sul concetto di responsabilità morale, a sua volta fondato sull’idea di un libero arbitrio indifferenziato, e parimenti si richiamava l’immagine di una repressione penale uniforme, basata quasi esclusivamente sulla pena detentiva e priva di finalità di reinserimento. (16) Relazione al Progetto di Legge Organica di Codice Penale.


— 12 — pene restrittive della libertà personale e con una differente configurazione della pena della multa. Circa i reati in particolare, il Progetto, dopo un intenso processo di depenalizzazione (che colpisce inizialmente le contravvenzioni), intraprende una profondissima modifica delle tradizionali categorie delittuose. Le innovazioni obbediscono a ragioni sia di natura tecnica, sia attinenti alla nuova organizzazione politica. Si hanno inoltre cambiamenti dovuti ai mutamenti sociali, nonché a peculiari esigenze costituzionali di criminalizzazione. Vengono infine introdotti nel Progetto alcuni reati provenienti da leggi speciali, con l’intento di rafforzare la centralità del Codice. Questo Progetto, punto di riferimento di tutti i successivi e fondamento della Riforma Urgente e Parziale del 1983, è stato oggetto di dettagliate analisi scientifiche. Intorno ad esso fiorirono dibattiti, corsi monografici e prese di posizione degli organi coinvolti nella sua futura applicazione, e si aprì una vera e propria linea di ricerca scientifica specializzata (17). Il suo livello generale di approvazione, che ha condizionato anche le iniziative più recenti, isola affermazioni come quella di RODRIGUEZ DEVESA, che si riferì ad esso considerandolo « il momento più vergognoso del nostro non troppo brillante itinerario giuridico-penale dal 1848 » (18). B) La Riforma Urgente e Parziale del 1983: anticipazione di un nuovo Codice Penale che non superò la fase della Proposta di Progetto Preliminare (1983). — L’ampia riforma, di cui fu oggetto l’attuale Codice Penale spagnolo mediante la Legge Organica del 25 giugno 1983, costituisce un ulteriore esempio, espresso ora nei suoi più minuti dettagli, dell’interazione tra sistema politico e sistema penale. Questa trasformazione del testo punitivo, che fu qualificato dalla stessa L. come « urgente e parziale », rappresentava, non tanto un adattamento del vecchio codice, quanto, piuttosto, un’anticipazione degli aspetti fondamentali di una nuova concezione penalistica, che si era andata plasmando nella c.d. Proposta di Progetto Preliminare di Codice Penale, presentata dai socialisti nel 1983. La Riforma Urgente e Parziale si presentava perciò come « l’ultimo respiro » di un Codice destinato ad essere completamente abrogato e (17) Come era da augurarsi, tutti i lavori specialistici apparsi dopo l’approvazione del Progetto Preliminare facevano esplicito riferimento ad esso. Per quanto riguarda i lavori miscellanei e con tendenza alla completezza si debbono segnalare le seguenti opere monografiche: La reforma penal y penitenciaria, Santiago de Compostela 1980; La reforma del Derecho Penal, Revista de la Universidad Complutense, numero monografico, 1980; El Proyecto de Código Penal, Revista juridica de Cataluña, numero straordinario, 1980; La reforma del Derecho Penal, voll. I e II diretto da S. MIR PUIG, Barcelona 1980, 1981; La reforma penal. Cuatro cuestiones fundamentales, Madrid 1981. (18) RODRIGUEZ DEVESA J.M., Derecho Penal español, Parte general, Madrid 1985, 149.


— 13 — si proponeva di assolvere, da un lato, la funzione di « anticipare gli aspetti di una nuova concezione penalistica che, risultando suscettibili di essere incorporati nella struttura del Codice Penale tuttora vigente senza determinare una situazione caotica, sono stati reputati più urgenti »; e, dall’altro, « l’ulteriore funzione di rendere più graduale la transizione verso il futuro testo legislativo » (19). Nell’ottobre del 1982, i socialisti avevano vinto le elezioni generali, ottenendo, per di più, la maggioranza assoluta. Tale gruppo parlamentare, ora maggioritario in Parlamento, aveva inserito nel suo programma elettorale l’elaborazione di un nuovo codice penale, avendo compreso che la grande opera di riforma non poteva limitarsi ad una mera trasformazione, ma doveva essere affrontata con l’imprescindibile apporto del Progetto del 1980 e, altresì, delle critiche di cui era stato oggetto a livello scientifico, pratico e, soprattutto, parlamentare. Così, prevalendo quest’ultima prospettiva, viene costituita una Commissione (20), incaricata di elaborare un testo articolato su una base principale rappresentata dal Progetto del 1980 e dagli emendamenti allo stesso presentati a suo tempo dal gruppo parlamentare socialista; ma vengono tenute presenti anche le linee direttrici del programma elettorale della maggioranza parlamentare, nonché gli emendamenti degli altri gruppi parlamentari al Progetto, così come i contributi scientifici sorti intorno alla riforma penale. Nel complesso, si può affermare che gli aspetti fondamentali affrontati dalla Proposta di Progetto Preliminare del 1983 si incentravano sulle seguenti innovazioni: nel fondare la punibilità sulla colpevolezza, escludendosi qualunque forma di responsabilità per il risultato. Nella Parte Generale del Codice, si introducono modificazioni attinenti alla configurazione dell’illecito penale (rilevanza penale dell’errore sul fatto e sul divieto, sostituzione dell’imprudenza come tipo autonomo con figure individuate di crimina culposa e punizione delle fasi preparatorie — accordo, proposta e istigazione per delinquere — solo nei casi espressamente previsti) e altre concernenti il sistema delle pene (limitazione delle pene brevi restrittive della libertà, configurazione della pena pecuniaria secondo il sistema scandinavo della multa giornaliera, soppressione delle misure di sicurezza ante-delictum). Circa i reati in particolare, si dà inizio a tutta una riforma volta ad adattare, in via definitiva, la disciplina penale alla Costituzione. Vengono così introdotti reati orientati alla tutela penale delle istituzioni costituzionali e dei diritti fondamentali. Si adattano i titoli tradizionali, come quello (19) GIMBERNAT ORDEIG E., Código Penal, Tecnos, Madrid 1983, Premessa alla prima edizione. (20) Fernando Ledesma, Ministro della Giustizia, designò quali membri di tale Commissione i Professori Cobo Del Rosal, Gimbernat Ordeig, Luzón Peña, Muñoz Conde e Quintero Olivares e il Magistrato della Corte Suprema Garcia Miguel.


— 14 — dedicato all’onore, che si estende alla riservatezza. Si procede ad una tipizzazione dei delitti socio-economici « come categoria a vocazione unitaria », intesa a rivitalizzare la centralità del Codice, con il raggruppamento di figure sparse nelle leggi speciali. Si disciplinano in modo diverso categorie tradizionali come le lesioni e il traffico di stupefacenti. Prima che si manifestasse come imminente la comparsa di un nuovo Codice Penale, che pareva garantita dalla maggioranza assoluta detenuta in Parlamento dal gruppo socialista, la Riforma Urgente e Parziale del 1983 anticipò alcuni degli aspetti menzionati, che si reputavano più importanti, senza rompere il già instabile equilibrio di un Testo punitivo ripetutamente rimaneggiato. Conseguenza di tale esigenza è stata l’introduzione di un nuovo concetto dell’illecito penale, fondato sull’esclusione della responsabilità penale in assenza del dolo o della colpa. Si operò inoltre un’attenuazione generalizzata delle pene restrittive della libertà (concentrata in particolar modo sui delitti di traffico di stupefacenti e delitti contro la proprietà). Sotto il profilo tecnico, si introdussero istituti come quello dell’agire in nome altrui, il reato continuato e una nuova disciplina della truffa, diretta a dotare di maggiore certezza giuridica la punizione di alcune di queste condotte. C) Alcune riforme settoriali successive. — L’auspicata, e apparentemente inevitabile, entrata in vigore di un nuovo Codice non si è verificata. La Proposta di Progetto Preliminare del 1983 non raggiunse lo stadio di Progetto e, negli anni successivi, fu introdotta una serie di riforme che non potevano essere catalogate come anticipazione di alcunché, bensì, così commentò amaramente GIMBERNAT (21), come autentico « saccheggio » del testo prelegislativo. Si trattò di riforme molto circoscritte, di portata ben delimitata, che hanno modificato i delitti di insurrezione in tempo di pace (1985), i delitti contro la proprietà intellettuale (1987), quelli di incendio (1987), traffico di stupefacenti (1988), terrorismo (1984), pubblico scandalo (1988), la responsabilità civile del corpo docente (1991), e creato delitti come l’uso indebito di informazioni privilegiate e traffico di influenze (1991), o contro il dovere di prestare il servizio militare (1991). Soltanto la riforma intrapresa con la L. Organica del 21 giugno 1989 (22) può essere considerata qualcosa di più di una modificazione settoriale del Codice. Nel complesso, essa consiste in una modifica volta alla depenalizzazione di un ampio settore delle contravvenzioni e dei de(21) GIMBERNAT ORDEIG E., Código Penal, Tecnos, Madrid 1989, Premessa alla sesta edizione. (22) L’origine e l’elaborazione di tale riforma si accorda con la Legge Organica n. 7/1988, sui tribunali penali, con la quale si modificano diverse disposizioni della Legge Organica sul Potere Giurisdizionale e il procedimento penale.


— 15 — litti di imprudenza, e allo stesso tempo a introdurre una nuova disciplina dei delitti di lesioni. Tuttavia, negli esiti, essa andò oltre le intenzioni iniziali, incidendo sui delitti contro la sicurezza dello Stato, i delitti di rischio in generale, alcuni delitti contro la persona (omicidio e rissa tumultuosa, aborto e lesioni), i delitti contro la libertà sessuale, i delitti contro la libertà e la sicurezza e i delitti contro la proprietà (23). Tutte queste modificazioni parziali, frutto quasi sempre di contingenze, di improvvisazione (conseguenza, spesso, di autentiche « campagne » giornalistiche su singoli problemi legati al caso concreto), o peggio, animate da motivazioni puramente demagogiche, hanno finito per ritardare l’approvazione di un codice penale completo. Insigni penalisti, come GIMBERNAT, che nel 1983 si dichiaravano disponibili a collaborare all’elaborazione di un codice di segno democratico, « occasione che suole presentarsi solo una volta per ogni secolo » (24), si trovarono a manifestare, nel 1989, il loro disappunto per aver assistito ad uno spettacolo che proponeva « il caos delle riforme asistematiche, invece dell’armonia che era stata annunciata dalla promessa approvazione di un nuovo Codice Penale completo » (25). D) I Progetti del 1992 e 1994. — All’inizio degli anni Novanta, risorge con rinnovato impulso e con ambizione di opera conclusiva, l’elaborazione — ora definitivamente « rielaborazione » — di quello che, una volta di più, si auspica essere il Codice Penale della democrazia. Il cambiamento del Ministro della Giustizia provoca anche mutamenti nella composizione della Commissione redattrice (26). I Lavori si basano sempre sulla precedente Proposta di Progetto Preliminare del 1983, nonché sulle osservazioni e critiche ad essa mosse negli anni successivi (27). Nel 1991, e ancora una volta con un diverso Ministro della Giustizia, ci si accinge alla ricompilazione e sistematizzazione di tutti gli studi precedenti, si rimaneggia la bozza esistente, sia per quanto riguarda la Parte (23) Sul punto v.: BOIX REIG, ORTS BERENGUER e VIVES ANTON, La reforma penal de 1989, Tirant lo blanch, Valencia 1989. (24) Premessa alla prima edizione del Codice Penale edito da Tecnos, Madrid 1983. (25) Premessa alla sesta edizione del Codice Penale edito da Tecnos, Madrid 1983. (26) Nel 1990, la Commissione era composta da Carlos Garcia Valdés, T.S. Vives Anton (che sarà sostituito da Quintero Olivares), Berdugo Gomez de la Torre, Garcia Miguel, Paz Rubio e Mestre Delgado. (27) Le osservazioni svolte dalla dottrina e dai pratici del mondo del diritto su questa Proposta del 1983 furono molteplici e sono state raccolte in vari testi. Così, ad es., la Revista de la facultad de Derecho de la Universidad Complutense de Madrid dedicò alla stessa un numero monografico (n. 6) nel 1983. Di particolare interesse fu il numero monografico della Revista de Documentación juridica del Ministerio de Justicia pubblicato nel 1985, che includeva vari contributi della dottrina; la stessa Revista pubblicò (nn. 37-40) le indicazioni fornite sulla stessa dalle Associazioni dei Giudici e dei Procuratori Generali, da docenti universitari, Ordini di avvocati, Camere di Commercio, partiti politici, sindacati, ecc.


— 16 — Generale sia Speciale, e si considera con ciò concluso un lavoro, che nel 1992 raggiungerà i livelli successivi di Progetto Preliminare e di Progetto. A prescindere dal suo contenuto, la novità più rilevante che il Progetto di Codice Penale del 1992 presenta è quella di considerare chiusa tutta una fase preparatoria e di dibattito sul Testo punitivo. Il testo di presentazione firmato dal Ministro esprime esplicitamente l’idea, secondo la quale il Testo « non nasce con lo scopo di suscitare la discussione ». Pur non disdegnandosi le opinioni che possano essere espresse dai soggetti direttamente o indirettamente coinvolti (28), questa volta però, il Testo si attiene solo a quelle che « abbiano esatta conoscenza delle proposte che il Governo considera più ragionevoli ». Si può dire che termina qui il periodo ufficiale delle consultazioni, iniziatosi con il Progetto del 1980 e si apre quello più strettamente politico delle decisioni. In questa occasione, il Progetto del 1992 tenne conto della Relazione del Consiglio Generale del Potere Giurisdizionale (formulato con riferimento al Progetto Preliminare), che prendeva in esame, essenzialmente, la costituzionalità e la correttezza tecnica della disciplina della potestà punitiva, nonché le ripercussioni del nuovo testo sull’esercizio della giurisdizione e il funzionamento dell’amministrazione della giustizia. Non ci si addentrava, invece, in considerazioni politico-criminali « che spettano alla valutazione del Governo e del Parlamento ». La maggior parte delle precisazioni svolte, così come alcune delle indicazioni generali giunte da distinti ambienti, in seguito alla diffusione data al Progetto Preliminare, furono tenute presenti nella redazione definitiva del Progetto. L’impronta del Progetto del 1980 e, segnatamente, della Proposta di Progetto Preliminare del 1983 è presente in tutto il complesso degli articoli del nuovo testo. Si è cercato altresì di armonizzare, per quanto possibile, tale Progetto con la sensibilità giuridica degli altri Paesi componenti il Consiglio di Europa. Nelle linee generali, l’opera risulta più lineare e semplice delle precedenti, semplicità acuita dalla scomparsa di alcune materie delittuose (29), la cui disciplina è affidata a leggi speciali (scelta non condivisa da rilevanti settori dottrinali). Si puniscono solo le condotte dolose, e, unicamente rispetto ai beni più importanti e suscettibili di lesione con condotte negligenti, si prevede la punibilità per colpa. Si consacra il principio di colpevolezza come garanzia centrale del sistema penale, proprio di uno Stato sociale e democratico di diritto e si esclude ogni possibilità di responsabilità oggettiva. La (28) Il testo del Progetto Preliminare del 1992 fu sottoposto ai gruppi parlamentari, partiti politici, organizzazioni sindacali, Associazioni di Giudici Magistrati e Procuratori Generali, Ordini degli avvocati e procuratori, docenti universitari: « a tutti coloro che verosimilmente hanno qualcosa da dire con riferimento ad una normativa tanto direttamente legata alla condotta quotidiana della cittadinanza come il Codice Penale ». (29) Delitti contro la finanza pubblica e delitti elettorali.


— 17 — modifica più notevole si ha nell’ambito delle pene e delle misure di sicurezza: si riduce la durata delle pene lunghe restrittive della libertà, ma se ne assicura l’effettiva applicazione; si evitano le pene detentive di breve durata e si prevedono misure sostitutive delle pene restrittive della libertà inferiori a due anni; le misure di sicurezza sono esclusivamente post-delictum e sono assoggettate al sistema vicariale. Furono nuovamente le vicissitudini politiche a troncare la possibilità che il Progetto del 1992 si trasformasse nell’auspicato Codice Penale: quando la discussione parlamentare aveva già raggiunto uno stadio molto avanzato, lo scioglimento delle Camere e la convocazione di nuove elezioni, paralizzarono un processo pressoché concluso. Nei comizi celebrati nel 1993, il Partito socialista vince le elezioni generali con un discreto margine, ma perde la maggioranza assoluta, che deteneva dal 1982. È in tale congiuntura politica che viene presentato il Progetto di Codice del 1994: nuovo tentativo che si fonda sia su quello del 1992, sia, e soprattutto, sui risultati delle discussioni parlamentari tenutesi su di esso, nonché sui dettami del Consiglio Generale del Potere Giurisdizionale, e infine « sullo stato della giurisprudenza e le opinioni della dottrina ». Quello che fino ad oggi può essere considerato l’ultimo tentativo di codificazione — visto il panorama precedente pare arrischiato chiamarlo « definitivo » — si riconosce esplicitamente come il frutto dei diversi tentativi di riforma compiuti dall’instaurarsi del regime democratico e si propone di mantenere, come asse portante dei criteri di riforma — come era avvenuto per i suoi predecessori — l’adattamento positivo del nuovo Codice Penale ai valori costituzionali. In questo senso, si introduce una totale riforma dell’attuale sistema delle pene, procedendo nella direzione aperta dai progetti socialisti anteriori: semplificazione delle pene restrittive della libertà e possibilità della loro sostituzione; sistema della multa giornaliera per le pene pecuniarie e introduzione del lavoro a favore della comunità. Vengono apportate, inoltre, modifiche volte a dare una precisa attuazione al principio del minimo intervento, e allo stesso tempo a giungere all’armonizzazione dello stesso con l’incontestabile esigenza di tutela dei nuovi beni di una società parimenti nuova. Spariscono così — come avveniva nei testi precedenti — figure tradizionali e ne sorgono altre finalizzate alla protezione di beni emergenti (delitti relativi alla organizzazione del territorio e delle risorse naturali). Se sul terreno dei principî, quest’ultimo Progetto non differisce troppo dai precedenti, se ne distacca invece, e molto, nell’affrontare la tradizionale alternativa Codice Penale/leggi speciali. Mentre tutte le iniziative precedenti insistevano sull’idea tradizionale di « disciplina completa della potestà punitiva dello Stato » mediante un unico corpo legislativo, il Progetto del 1994 dichiara esplicitamente la sua differente « pretesa di


— 18 — universalità ». Così, adottando una diversa visione della tecnica legislativa, si riconosce nella esposizione dei motivi che oggi non è più possibile dar credito al pregiudizio che, storicamente, ha colpito le leggi speciali e, perciò, non si può assegnare un valore assoluto alla pretesa universalistica del codice, senza armonizzarla con la stabilità e certezza dello stesso. Ci si dichiara dunque favorevoli ad affidare alla disciplina di leggi speciali materie che vi si prestino « per situazioni speciali rispetto al resto dell’ordinamento o la natura stessa delle cose ». Conseguenza di questa nuova prospettiva è l’uscita dal codice dei delitti di manipolazione genetica e dei delitti relativi al controllo della borsa. Identico procedimento è impiegato per le norme disciplinatrici della depenalizzazione della interruzione volontaria di gravidanza. 5. Considerazioni conclusive. — Già da anni è indiscutibile la necessità di riformare il Codice Penale spagnolo, bisogno che si è fatto progressivamente più pressante in relazione ai profondi mutamenti della società, dell’economia e della politica del Paese. È un’affermazione, questa, che nessuno dei tentativi legislativi successivi all’entrata in vigore della Costituzione del 1978 ha trascurato, ma che, tuttavia, nessuno ha realizzato. Con tutto ciò, parrebbe trascorso un termine più che ragionevole affinché, nonostante la rilevanza della normativa, la complessità del suo contenuto e la portata dell’opera, l’impresa potesse vedersi coronata dal successo. Se a ciò si aggiunge l’ampio lasso di tempo in cui il gruppo parlamentare socialista, promotore di tre iniziative, ha goduto della maggioranza assoluta, è incontestabile che deve sussistere un’autentica ragione di fondo in grado di giustificare il ritardo. Tale ragione non può certo essere ravvisata nell’impossibilità di produrre « un atto autoritativo della maggioranza », che era perfettamente possibile, ma va ricercata in ragioni sostanziali di maggior peso. Nella relazione che il Consiglio Generale del Potere Giurisdizionale formulò con riferimento al Progetto Preliminare di Codice Penale del 1992, nella spiegazione dell’esigenza formale di una legge organica per approvare un determinato codice, si operava una distinzione tra « consenso apparente e occasionale » e « consenso profondo e razionalmente fondato ». Il Consiglio avvertiva la difficoltà e la complessità — non si parlò di impossibilità — insita in qualunque pretesa di giungere ad una legislazione penale che esprimesse « le relazioni necessarie che derivano dalla natura stessa delle cose », frutto del consenso profondo; ed è possibile che proprio da qui si debba muovere nella ricerca della vera ragione del ritardo nell’approvazione di un nuovo Codice Penale in Spagna. In effetti, come abbiamo avuto modo di dimostrare nelle pagine che precedono, nella storia della nostra legislazione non si rinvengono difficoltà ad


— 19 — agire in tempi brevi, quasi immediatamente, proprio a causa del binomio cambiamento politico/cambiamento del Codice. È stato sufficiente a tal fine eludere un’autentica discussione parlamentare e operare mediante atti assoluti d’autorità della maggioranza governativa: di tutti i precedenti fin qui analizzati, unicamente il Codice del 1822 (che è stato, paradossalmente, anche quello privo di applicazione diretta) fu frutto del dibattito parlamentare; tutti gli altri non passarono per il Parlamento, o se lo fecero fu attraverso equivoche formule di puro compromesso, o mediante il ricorso a Leggi Delega. È stato un processo, questo, che fin dal principio ha impedito la promulgazione di un Codice Penale della Spagna democratica. Certamente, un’autentica discussione parlamentare obbliga ad un avvicinamento di posizioni e opinioni divergenti, e probabilmente per questo il Costituente ha imposto formalmente una legge organica per l’approvazione di tale normativa, poiché, come ha sottolineato di recente il Consiglio Generale del Potere Giurisdizionale, attribuendo un senso a questa esigenza, ciò implica « cementare il Codice su un consenso profondo e razionalmente fondato », un consenso che può essere ottenuto « in quanto si discuta su ragioni e argomenti con responsabilità ». Tale obiettivo fu perseguito, con molto buon senso, dal Progetto del 1980 e dalla Proposta di Progetto Preliminare del 1983, lasciando aperto il più ampio dibattito e cercando di evitare qualsiasi fretta, che, dando ascolto a esigenze politiche momentanee, contingenze sociali e mutamenti di opinione, come sempre effimeri, precipitasse l’approvazione di un Codice frutto di un consenso apparente e occasionale, destinato ad essere modificato, completato e ritoccato fin dalla sua entrata in vigore. Tuttavia, il Progetto del 1992 non si presentò con questa stessa attitudine, probabilmente a sottintendere che un decennio era stato un periodo più che sufficiente per la riflessione e il superamento di tutte le discussioni, e forse per indagare sui rischi derivanti da un ritardo non giustificabile con la rilevanza della normativa o la complessità dei suoi contenuti, e neppure con la mole dell’opera. Il prelegislatore del 1992 non lo dice esplicitamente, ma dà soltanto per conclusa una necessaria fase di « studio e riflessione », e, a nostro avviso, fu il Consiglio Generale del Potere Giurisdizionale ad indicare, nella Relazione a questo Progetto, la vera ragione dell’attuale ritardo, che non può ritenersi dovuto alla pendenza di dibattiti tecnici, sociali o politici: oggi sulla base di divergenze politiche di fondo « è nata una sorta di disputa di principî », che sembra ricordare, a volte, la vecchia disputa tra scuole, e « che è necessario risolvere perché il consenso sia possibile ». La verità è che il legislatore spagnolo, superata e felicemente abbandonata l’epoca degli atti autoritativi della maggioranza di governo, è alla coraggiosa ricerca di un testo punitivo « che deve essere di tutti », inten-


— 20 — dendosi con ciò che « debbono essere ascoltate tutte le opinioni e si deve optare per le soluzioni che appaiano più ragionevoli ». Muovendo da quest’idea, si ammette che in materia « al Governo non spetta l’ultima parola, ma soltanto la prima ». Tale atteggiamento obbliga, e di qui il ritardo, a saggiare ogni possibile formula per appianare la disputa tra principî, nella quale, forse senza pretendersi tanto, si trova irrimediabilmente immerso. Viene naturale chiedersi se sia proprio questo il momento adatto per un progetto tanto ambizioso; la risposta eccede gli scopi di questo articolo, ma rappresenta il punto di partenza della questione, che riflette con esattezza, a nostro avviso, le ragioni dell’attuale fase legislativa della Spagna democratica. JAIME M. PERIS RIERA Professore dell’Università di Valencia


— 21 —

IL PRINCIPIO DELLA PERSONALITÀ DELLA RESPONSABILITÀ PENALE NEL QUADRO DELLE SCELTE DI CRIMINALIZZAZIONE (*) SUGGESTIONI TELEOLOGICHE ED ESIGENZE POLITICO-CRIMINALI NELLA RICOSTRUZIONE DEI PRESUPPOSTI COSTITUZIONALI DI « RICONOSCIBILITÀ » DELL’ILLECITO PENALE

SOMMARIO: 1. Tendenze e problemi nell’individuazione dei confini dell’intervento penale alla luce della Costituzione. — 2. Il principio della personalità della responsabilità penale e la problematica della « riconoscibilità » dell’illecito, nel quadro dei rapporti tra scelte di tutela e significato sotto il profilo « motivante » del messaggio normativo. — 3. Nozione e contenuto del profilo « penale » della responsabilità, nell’ottica di una ricostruzione in chiave « deontologica » e politico-criminale del principio dell’art. 27, 1o comma; riflessi in tema di oggetto e di termine di riferimento del requisito della consapevolezza dell’illiceità del fatto. — 4. Gli sviluppi della giurisprudenza costituzionale e la selezione dei valori idonei ad esprimere le esigenze di tutela della convivenza organizzata. In particolare: la possibilità di riconoscere la rilevanza « penale » del fatto, di fronte all’emersione di nuove categorie di interessi e delle relative forme di offesa o messa in pericolo. — 5. Tecniche di tutela e modelli di « comunicazione »delle scelte incriminatrici: il senso e la portata di un rinnovato impegno di « codificazione penale ».

1. In un noto studio dedicato ai rapporti tra dommatica e politica criminale (1), Franco Bricola sottolineava la necessità di ricostruire le categorie generali della responsabilità penale alla luce dei principi costituzionali, e di assicurare, altresì, sempre alla luce di tali principi, l’idoneità dei presupposti strutturali su cui esse si fondano a porne chiaramente in evidenza, sotto un profilo teleologico e politico-criminale, le profonde differenze di contenuto rispetto a quelle proprie di altre tipologie di illeciti, incapaci di esprimere un disvalore corrispondente a quello sotteso ad un (*) Il presente lavoro trae origine da un intervento svolto a Bologna in occasione del Convegno Il diritto penale degli anni ’90. In ricordo di Franco Bricola (18-20 maggio 1995). (1) BRICOLA, Rapporti tra dommatica e politica criminale, in questa Rivista, 1988, 16 ss., 33 ss. V. anche ID., Tecniche di tutela penale e tecniche alternative di tutela, in Funzioni e limiti del diritto penale. Alternative di tutela, 1984, 40 ss., 51 ss., 68 ss.; ID., Commento all’art. 25, 2o comma Cost., in Commentario della Costituzione, Art. 24-26, 1981, 272 ss., 294 ss.; ed, ancor prima, ID., voce Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., 1973, XIX, 47 ss., 60 ss. Riv. ital. dir. proc. penale 1/1996


— 22 — simile « modello » d’imputazione della responsabilità per il fatto commesso. Simili osservazioni — accompagnate da approfonditi rilievi critici e prospettate in quello stile affascinante che ha fatto della sua opera un esempio inimitabile nell’ambito della nostra produzione scientifica — sembrano allora prestarsi, come vedremo (ed al di là delle stesse intenzioni originariamente perseguite dall’illustre Autore) ad offrire alcuni significativi spunti di riflessione in merito ai rapporti tra le problematiche generali dell’imputazione del reato e le tendenze attuali verso un’opera di riforma penale maggiormente in linea con i valori fondamentali posti alla base del vigente assetto costituzionale. In particolare, scopo della presente indagine è quello di mostrare come la ricostruzione del contenuto dei principi costituzionali riguardanti la struttura ed i coefficienti di imputazione dell’illecito penale — ed in particolare, di quello corrispondente alla solenne proclamazione costituzionale della « personalità » della « responsabilità penale » — sia destinata a svolgere un ruolo particolarmente significativo, non soltanto per individuare i presupposti necessari per poter affermare la responsabilità dell’autore del fatto, bensì, ancor prima, per identificare e circoscrivere in maniera più rigorosa lo stesso ambito relativo alla « selezione » dei comportamenti meritevoli di essere assoggettati ad una sanzione di contenuto limitativo della libertà personale. Per comprendere appieno l’importanza ed il significato di un simile approccio metodologico al tema dei rapporti tra principi costituzionali e scelte fondamentali di tutela penale, sembra allora opportuno tratteggiare, sia pure per grandi linee, gli sviluppi più recenti e significativi in merito alla ricerca di criteri adeguati a circoscrivere e a delimitare entro più rigidi confini l’attuale sfera di legittimazione dell’intervento penale. Secondo una prima tendenza, che ha trovato proprio in Franco Bricola il suo più autorevole rappresentante (2), l’individuazione dell’area del penalmente rilevante dovrebbe essere operata attraverso una valorizzazione del criterio dell’offesa a beni giuridici dotati di un fondamento nella stessa Carta costituzionale. Senza ripercorrere analiticamente i passaggi argomentativi di tale concezione — che costituiscono ormai patrimonio comune della scienza e della politica criminale in Italia ed all’estero (3) — basti ricordare in questa sede come la costruzione dell’illustre Autore abbia rappresentato storicamente il massimo sforzo per ancorare (2) V. BRICOLA, Teoria generale, cit., 14 ss., 81 ss. (3) È sufficiente menzionare, tra i riconoscimenti più significativi del contributo di Franco Bricola all’evoluzione del diritto penale, quello, autorevolissimo, di JESCHECK, nella Relazione introduttiva al Convegno Il diritto penale degli anni ’90. In ricordo di Franco Bricola, tenutosi a Bologna nei giorni 18-20 maggio 1995, ed i cui Atti sono prossimi alla pubblicazione.


— 23 — alla Costituzione le basi fondamentali della repressione penale, con la conseguenza di sottrarre quest’ultima a scelte punitive fondate unicamente su di un apprezzamento discrezionale da parte del legislatore circa l’opportunità di fare o meno ricorso allo strumento della sanzione penale. In definitiva, il contributo di Bricola tendeva a ricollocare il diritto penale nell’alveo di una moderna riflessione in merito ai « vincoli materiali » all’opera del legislatore ordinario, al fine di realizzare — pur nel contesto di una visione del diritto penale ormai da tempo permeata ed influenzata dal progressivo consolidarsi di concezioni giuspositivistiche del diritto e dello Stato — obiettivi di politica criminale saldamente ancorati a condizioni e a limiti preesistenti alle scelte di tutela devolute agli organi titolari del potere di normazione penale. Le radici ideali proprie del pensiero giuridico d’ispirazione « giusnaturalistica » (4), mai del tutto tramontate presso gli studiosi più sensibili alla necessità di porre confini rigorosi alle scelte repressive promananti dal potere politico (5), venivano in tal modo a riacquistare — nella costruzione di Bricola — una nuova base di legittimazione, sia pure, questa volta, tramite un diretto riferimento alla fonte normativa in cui il nucleo originario di tali concezioni è destinato ad incarnarsi negli ordinamenti contemporanei, e cioè nella Costituzione (6). (4) Si allude alle radici ideali del pensiero giusnaturalista, specialmente di ascendenza illuministica, senza voler minimamente impegnarsi, com’è ovvio, nella verifica del fondamento sul piano giuridico-filosofico di tale dottrina. Sull’argomento v. comunque, per un quadro di sintesi FASSÒ, Storia della filosofia del diritto, II, 1968, 241 ss.; ID., Storia della filosofia del diritto, III, 1970, 397 ss., 405, e, più ampiamente, BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, 1984, 163 ss., 190 ss.; ID., L’età dei diritti, 1992, 7 ss., 136 ss., nonché G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, 1992, 154 ss. Con riguardo ad una vicenda specifica, dalle caratteristiche peculiari, cfr. ROXIN, Sul rapporto tra diritto e morale nella riforma penale tedesca, in Arch. pen., 1982, 29 ss., nonché VILLANI, Diritto e morale nella giurisprudenza tedesca contemporanea, 1964, 24 ss. A favore di una decisa rivalutazione del pensiero giusnaturalista, cfr. le suggestive pagine di STRAUSS, Diritto naturale e storia, 1990, 11 ss., 90 ss. Con particolare riferimento all’evoluzione concernente le fonti di legittimazione del diritto penale, pur se da differenti angoli visuali, cfr. le analisi di AMELUNG, Rechtsgüterschutz und Schutz der Gesellschaft, 1972, 4 ss., 16 ss., 19 ss.; ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, 1983, 17 ss.; MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, 1974, 59 ss.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, I, 1995, 52 ss.; PADOVANI, Alle radici di un dogma: appunti sulle origini dell’antigiuridicità obiettiva, in questa Rivista, 1983, 550 ss.; SINA, Die Dogmengeschichte des strafrechtlichen Begriffs « Rechtsgut », 1962, 11 ss. (5) In argomento, per un ampio quadro ricostruttivo, cfr. oggi FERRAJOLI, Diritto e ragione, 1990, 210 ss., 466 ss. Una particolare sensibilità verso il significato dell’« eredità » del giusnaturalismo illuministico in materia penale mostrano, sia pure sotto ottiche differenti, CATTANEO, I principi dell’illuminismo giuridico penale, in Diritto penale dell’Ottocento. I codici preunitari e il codice Zanardelli, 1993, 6 ss., e PADOVANI, Note sulla crisi del modello penale illuministico e la funzione « promozionale » del diritto penale, in Difesa pen., Suppl. al n. 9, 1985, 48 ss.; ID., Francesco Carrara e la teoria del reato, in questa Rivista, 1988, 873 ss., 881 ss., 901 s. (6) Sulla funzione esplicata dalla Costituzione a tale proposito, si vedano, in chiave


— 24 — Una simile tendenza, peraltro — e veniamo adesso al secondo indirizzo volto a ricondurre il diritto penale ad una sfera di tutela ispirata al criterio dell’extrema ratio — doveva incontrare, in tempi più recenti, le obiezioni di un settore qualificato della dottrina, mossa dalla preoccupazione che il riferimento a beni giuridici di rilevanza costituzionale potesse tradursi in un eccessivo « irrigidimento » delle scelte di criminalizzazione, tale, cioè, da impedire al legislatore di operare di volta in volta un adeguato « bilanciamento » tra beni giuridici, pur di fonte costituzionale, ed altri interessi emergenti dal tessuto sociale, non meno importanti e significativi nell’ottica di una valutazione circa l’effettiva « necessità » del ricorso allo strumento penale (7). generale, i perspicui rilievi di MENGONI, Diritto e valori, 1985, 6: « i ‘valori fondamentali’ della Costituzione hanno un modo di essere diverso da quello del diritto positivo: non valgono in quanto ‘posti’ [...]. Non si può dire che il legislatore statale positivizza una norma soprapositiva. Ciò che viene ‘positivizzato’, con un atto di volontà dello Stato espresso nella legge fondamentale, è il vincolo del diritto positivo a valori metalegislativi, il rinvio ad essi come misura di ‘diritto giusto’, a principi regolativi dell’attività di formazione delle leggi ». Sui rapporti tra Costituzione e materia penale v., d’altronde, l’ampio ed approfondito studio di PALAZZO, Valori costituzionali e diritto penale (un contributo comparatistico allo studio del tema), in L’influenza dei valori costituzionali sui sistemi giuridici contemporanei, I, 1985, 533 ss. (dell’estratto). (7) Cfr., in particolare, PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in questa Rivista, 1983, 495 ss.; ID. , Politica criminale, in Diritto penale in trasformazione, 1985, 33 ss.; ID., Bene giuridico e giustizia costituzionale, in Bene giuridico e riforma della parte speciale, 1985, 174 ss. Ma v. pure FIANDACA, Concezioni e modelli di diritto penale tra legislazione, prassi giudiziaria e dottrina, in La riforma del diritto penale, 1993, 34 ss.; MARINUCCIDOLCINI, Corso, cit., 142 ss. Sul punto, cfr., altresì, PUGIOTTO, Sentenze normative, legalità delle pene e dei reati e controllo sulla tassatività della fattispecie, in Giur. cost., 1994, 4217. In termini maggiormente problematici, cfr., peraltro, con riguardo alla tematica degli obblighi di incriminazione, gli autorevoli rilievi di ROXIN, Strafrecht, A.T., 1992, 16 s. V’è, tuttavia, da osservare come l’impostazione di Bricola non venisse a comportare un nesso di correlazione necessaria tra rilevanza costituzionale del bene giuridico e ricorso alla sanzione penale: la preoccupazione che aveva animato l’elaborazione originariamente dedicata alla « teoria generale del reato » si esprimeva, in realtà, soltanto nell’esigenza di escludere la tutela di qualsiasi interesse — anche se privo di rilievo costituzionale — e non già nel postulare un dovere indefettibile di apprestare la tutela penale per i beni giuridici riconducibili al quadro dei valori costituzionali: in tal senso cfr. lo stesso BRICOLA, Tecniche, cit., 9; ID., Carattere « sussidiario » del diritto penale e oggetto della tutela, in Studi Delitala, I, 1984, 107. D’altronde, come osservava lo stesso A. (Carattere sussidiario, cit., 115), un’eccessiva « elasticità » nell’interpretazione dei limiti costituzionali alla repressione penale avrebbe potuto esporsi al rischio di condurre a « relativizzare la tavola dei valori costituzionali e di piegarla ai tatticismi politici in rapporto alla politica criminale »: conseguenza, certamente, indesiderata, anche da parte delle tendenze sfavorevoli ad una configurazione in chiave costituzionale della categoria degli interessi penalmente tutelabili. Ed invero, la disinvolta « discrezionalità » del legislatore degli ultimi decenni nell’apprezzare l’opportunità di fare o meno ricorso allo strumento della sanzione penale ha posto chiaramente in evidenza i pericoli insiti nel sottrarre la politica criminale a qualsiasi possibilità di un riscontro critico razionalmente (e costituzionalmente) fondato. In quest’ottica devono essere « lette » ed in-


— 25 — Sotto un diverso profilo, non si è mancato di rilevare, d’altronde, come, sviluppando fino alle estreme conseguenze le premesse fondamentali della concezione in esame, quest’ultima fosse destinata a condurre a dei risultati sul piano politico-criminale, tali da apparire addirittura contrastanti con l’obiettivo di pervenire ad una più rigorosa delimitazione dell’area dell’intervento penale. Ed invero, non è stato difficile obiettare alla teoria « costituzionale » del bene giuridico come le stesse fonti normative invocate allo scopo di circoscrivere la sfera degli interessi meritevoli di tutela penale (e cioè, per l’appunto, le singole disposizioni contenute nella Carta del ’48) siano tali, in realtà, da condurre al riconoscimento di una serie assai più ampia e cospicua di interessi e di valori: « dalla dignità della persona al paesaggio, dal lavoro alla maternità, dal risparmio alla scienza, dall’arte alla cooperazione mutualistica » (8); ragion per cui, l’iterpretate anche le osservazioni formulate, sia pure incidenter, in un altro studio dell’illustre Autore (cfr. BRICOLA, Considerazioni introduttive, in Il codice Rocco cinquant’anni dopo, in Quest. crim., 1981, 19); l’apparente richiamo (sottolineato da MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., 142 e nota 78) all’idea che determinati beni giuridici possano suggerire in ogni caso il ricorso alla sanzione penale si iscriveva, in realtà, nel quadro di una critica a talune tendenze della legislazione speciale ad uniformare e ad appiattire le tecniche di tutela, senza una congrua diversificazione dei modelli punitivi in funzione del rango degli interessi (e delle singole modalità di aggressione) di volta in volta configurabili. In particolare, la preoccupazione di Bricola era quella di evitare che lo strumento penale potesse finire con l’« omologarsi », per così dire, all’obiettivo di assicurare il soddisfacimento di determinate finalità di disciplina (per lo più di natura extrapenale), smarrendo completamente la sua funzione di reprimere comportamenti offensivi di beni giuridici caratterizzati da una chiara ed evidente autonomia di contenuti (cfr. lo stesso BRICOLA, Considerazioni, cit., 19). Una volta ravvisata la necessità di fare ricorso allo strumento penale, i principi propri di quest’ultimo avrebbero dovuto imporre, in altri termini, l’adozione delle corrispondenti tecniche normative di tutela; la circostanza che il fascio di interessi sottesi a determinati campi di materia consentisse di utilizzare anche strumenti di natura extrapenale, non avrebbe potuto comportare — relativamente alle condotte ritenute meritevoli di una risposta penale — né il ricorso a misure alternative, né la « banalizzazione » del modello di controllo penalistico attraverso la redazione di fattispecie incapaci di esprimere in forma autonoma un contenuto offensivo corrispondente alle funzioni ad esso assegnate. (8) Cfr. PADOVANI, Diritto penale, 19932, 105. D’altronde, si fa pure osservare come possano delinearsi sfere di interessi che, pur meritevoli di una risposta penale, non trovano nella Costituzione uno specifico aggancio normativo — quali la fede pubblica e la pietà dei defunti — (cfr. ancora PADOVANI, Diritto penale, cit., 106: PAGLIARO, Principi di diritto penale, P.G., 19934, 226, come pure MANTOVANI, Diritto penale, P.G., 19923, 207 s.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., 124 ss., ed altresì FIANDACA, Il « bene giuridico » come problema teorico e come criterio di politica criminale, in Diritto penale in trasformazione, cit., 151 ed ANGIONI, Contenuto, cit., 196 ss.). L’idea di postulare, in simili casi, un riconoscimento costituzionale « implicito » di tali valori (cfr. BRICOLA, Carattere « sussidiario », cit., 126 s. In senso sostanzialmente analogo cfr. SAX, « Tatbestand und Rechtsgutsverletzung, in JZ, 1976, 11) condurrebbe, allora, a vanificare nella sostanza il limite dell’aggancio alla Costituzione della categoria del bene giuridico, mostrandone l’evidente insufficienza come parametro di legittimazione dell’intervento penale (cfr. gli Autori delle opere sopra ricordate). Deve tuttavia osservarsi come il richiamo alla necessità di un collegamento dei predetti interessi a


— 26 — dea di tutelare con la sanzione penale qualsiasi forma di lesione di simili interessi rischierebbe di risolversi, in ultima analisi, non già in una limitazione, bensì, al contrario, in un’indefinita espansione dell’area del penalmente rilevante. D’altro canto, il pur importante « correttivo » introdotto da Bricola, secondo il quale l’intervento penale sarebbe ammissibile soltanto in presenza di una violazione « significativa » di simili interessi (9), non sarebbe idoneo a fondare e a legittimare una limitazione della tutela sufficientemente rigorosa e « selettiva »; l’apprezzamento del carattere « significativo » dell’offesa, a causa del carattere eccessivamente indeterminato di un siffatto criterio di valutazione, sarebbe destinato, in realtà, a divenire, ancora una volta, appannaggio delle scelte politiche proprie del legislatore ordinario, dando luogo nuovamente a quella « discrezionalità » incontrollata (ed incontrollabile) che la stessa concezione in esame si proponeva di scongiurare (10). quelli costituzionalmente riconosciuti rappresenti pur sempre un limite più intenso e rigoroso rispetto a quello insito nelle opinioni propense a svalutare il riferimento alla tutela dei valori sanciti nella Carta fondamentale. Pare evidente, in altri termini, come il fatto stesso di configurare una sorta di « onere probatorio », per così dire, circa la sussistenza di un rapporto di connessione e di funzionalità teleologica di determinati interessi rispetto a quelli costituzionalmente riconosciuti conduca, quanto meno, a postulare un vincolo ed un criterio di orientamento nei confronti delle scelte del legislatore potenzialmente idoneo a circoscrivere entro confini più rigorosi l’ambito della discrezionalità in ordine alla scelta se avvalersi o meno dello strumento della coercizione penale (stimolando, ad es., a richiedere l’esistenza di un coefficiente di concreta pericolosità rispetto al bene di riferimento, o comunque di una correlazione con quest’ultimo tale da suggerire una configurazione del fatto tipico in termini di maggior spessore sotto il profilo contenutistico). (9) Cfr. BRICOLA, Teoria generale, cit., 15 ss.; ID. , Commento, cit., 274 ss. (10) Cfr. PADOVANI, Diritto penale, cit., 105. Sulla tematica della rilevanza del « principio di offensività » nel quadro del sindacato della Corte costituzionale, ponendone in evidenza alcuni aspetti problematici, cfr. PALAZZO, Ragionevolezza delle previsioni sanzionatorie e disciplina delle armi e degli esplosivi, in Cass. pen., 1986, 1702 s.; ID., Dogmatica ed empiria nella questione di costituzionalità della legge antidroga, in questa Rivista, 1992, 319 ss.; nonché INSOLERA, Reati artificiali e principio di offensività: a proposito di un’ordinanza della Corte costituzionale sull’art. 1, VI comma l. n. 516 del 1982, ivi, 1990, 733. Sul pericolo che il rinvio della Corte alle valutazioni operate dal giudice possa sortire effetti « paralizzanti » sulla riforma del sistema penale v., peraltro, FIANDACA, Note sul principio di offensività e sul ruolo della teoria del bene giuridico tra elaborazione dottrinale e prassi giudiziaria, in Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, 1991, 70 s. Per una posizione differente cfr. VASSALLI, Considerazioni sul principio di offensività, in Scritti Pioletti, 1982, 662 s. Sulla questione cfr. di recente MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., 208 ss., i quali scorgono aspetti di significativa evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia, sotto il profilo della tendenza a sollecitare l’esclusione della punibilità per fatti oggettivamente « esigui », per ciò stesso inidonei ad offendere il bene penalmente tutelato. Tali Autori (Corso, cit., 148) pongono, peraltro, in risalto la necessità di differenziare la tematica dell’offensività del fatto rispetto a quella della selezione dei beni giuridici da tutelare, la quale spetterebbe, sia pure nel rispetto delle direttive di fondo della Carta costituzionale, alle scelte del legislatore ordinario. In analoga prospettiva si pone ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, 19952, 22, 482.


— 27 — In definitiva, la riflessione costituzionale avviata da Bricola circa i parametri destinati a circoscrivere l’area dell’intervento penale, dovrebbe essere, più plausibilmente, ricondotta ad un contesto di valutazioni e di direttive sul piano politico-criminale di contenuto meno « rigido » e vincolante: nel senso, cioè, che tali parametri sarebbero destinati a svolgere esclusivamente il ruolo di un « criterio di orientamento » (sia pure particolarmente qualificato) di cui il legislatore dovrebbe avvalersi nel valutare le ragioni pro e contro l’ammissibilità del ricorso alla sanzione penale; mentre, risulterebbe priva di un reale fondamento sotto il profilo teleologico e politico-criminale l’ulteriore pretesa di desumere dai principi costituzionali una soluzione « a rime obbligate », per così dire, nel senso di consentire (ovvero di escludere) l’ammissibilità di una scelta legislativa volta a presidiare determinate categorie di beni giuridici con lo strumento della sanzione penale (11). Orbene, se si eccettuano gli autori, che, all’interno della seconda tendenza or ora esaminata, manifestano un tendenziale scetticismo circa la stessa possibilità di fare riferimento alla categoria del « bene giuridico » (12) (con il rischio, peraltro, di allontanare definitivamente la tematica delle scelte di criminalizzazione da qualsiasi fondamento o « vincolo » costituzionale nei confronti del legislatore ordinario) non può non suscitare particolare interesse l’opinione di quella parte della dottrina che si è mostrata, viceversa, particolarmente sensibile alla necessità di porre a (11)

Cfr., in vario senso, FIANDACA, Concezioni e modelli, cit., 37; MARINUCCI-DOL-

CINI, Corso, cit., 111 ss., 148 ss.; PULITANÒ, Obblighi costituzionali, cit., 498 ss.

In quest’ottica, che rifugge tendenzialmente da visioni « assolute », e che viene a collocare il diritto penale all’interno di scelte politico-legislative complesse ed articolate (cfr., tra gli altri, FIANDACA, Problematica dell’osceno e tutela del buon costume, 1984, 135 ss.; MARINUCCI, Profili di una riforma del diritto penale, in Beni e tecniche della tutela penale, 1987, 25 ss.; PULITANÒ, Obblighi costituzionali, cit., 522 ss.; ID., Politica criminale, cit., 34 ss. Nella dottrina straniera cfr. AMELUNG, Strafrechtswissenschaft und Strafgesetzgebung, in ZStW, 1980, 26 ss.; ID., Rechtsgüterschutz, cit., 328; GÜNTHER, Die Genese eines Straftatbestandes, in JuS, 1978, 8 ss.; NOLL, Strafrechtswissenschaft und Strafgesetzgebung, in ZStW, 1980, 77 ss.; ZIPF, Politica criminale, 1989, 173 ss., con dubbi, tuttavia, circa gli obblighi di incriminazione — ivi, 170 s. —) le scelte di tutela penale sarebbero costrette a misurarsi con un riscontro critico condotto alla stregua di una pluralità di valori e di interessi confliggenti, ed al quale non potrebbero rimanere estranee le basi empirico-sociali dei fenomeni di volta in volta considerati. (12) Una sostanziale sfiducia verso la categoria del bene giuridico sembra esprimere, ad es., FIANDACA, Laicità del diritto penale e secolarizzazione dei beni tutelati, in Studi Nuvolone, I, 1991, 174 s.: « non una aprioristica teoria del bene giuridico, ma i principi di fondo del nostro ordinamento costituzionale concorrono ad influenzare la selezione dei comportamenti legittimamente punibili » (l’Autore fa riferimento in proposito ai principi della sovranità popolare, della tolleranza ideologica, e della funzione rieducativa della pena). Alcune perplessità esprime anche PALAZZO, I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di criminalizzazione, in questa Rivista, 1992, 458 ss., il quale adduce a conferma i rilievi problematici di NAUCKE, Strafrecht, 1987, 192.


— 28 — confronto il ruolo giocato da una simile categoria con la possibilità concreta di fare ricorso ad altri modelli sanzionatori a carattere « punitivo », tra i quali, in primis, la sanzione amministrativa (13). « In un ordinamento caratterizzato da un doppio binario di sanzioni punitive, penali e amministrative » — questo il succo dell’argomentazione — « la funzione del bene giuridico è in pratica quella di un ‘selettore’ all’interno stesso del sistema punitivo: non si tratta più di decidere se un determinato illecito debba o non debba essere punito, secondo i termini radicali in cui la scelta si profila in un ordinamento « monistico », ma se un illecito debba essere punito con una sanzione penale o con una sanzione amministrativa. In questo diverso contesto, il problema non è più l’an della tutela, ma il quomodo con cui essa deve esprimersi », e cioè, per l’appunto, « secondo quali tecniche tale protezione deve essere assicurata » (14). In tale ottica, (13) Oltre alla fondamentale Circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri 19 dicembre 1983, in Legislaz. pen., 1984, 281 ss., si ricordano, a proposito della problematica della suddivisione tra illeciti penali e amministrativi, e sia pure da angoli visuali talora sensibilmente differenti, ANGIONI, Beni costituzionali e criteri orientativi sull’area dell’illecito penale, in Bene giuridico, cit., 60 ss.; BERNARDI, Dépénalisation et contraventionnalisation: à propos de deux circulaires italiennes etc., in Arch. pol. crim., 1987, 176 ss.; CADOPPI, Il ruolo delle Kulturnormen nella opzione penale con particolare riferimento agli illeciti economici, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1989, 298 ss.; ID., Il reato omissivo proprio, I, 1988, 510 ss.; DELMAS-MARTY, I problemi giuridici e pratici posti dalla distinzione tra diritto penale e diritto amministrativo penale, in questa Rivista, 1987, 766 ss.; DOLCINI, Sanzione penale e sanzione amministrativa: problemi di scienza della legislazione, ivi, 1984, 606 ss.; ID., Sui rapporti fra tecnica sanzionatoria penale e amministrativa, ivi, 1987, 778 ss.; DONINI, Il delitto contravvenzionale, 1993, 363 ss.; HASSEMER, Theorie und Soziologie des Verbrechens, 1973, 219 s.; ID., Il bene giuridico nel rapporto di tensione tra Costituzione e diritto naturale, in Del. pen., 1984, 110 ss.; JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts, A.T., 19884, 52 ss.; KRÜMPELMANN, Die Bagatelldelikte, 1966, 149 ss.; LATTANZI, Sanzioni penali o sanzioni amministrative: criteri di scelta e canoni modali in una circolare della Presidenza del Consiglio, in Foro it., 1985, V, 251 s.; LORVELLEC, Les frontierès entre infraction pénale et infraction administrative en Italie, in Arch. pol. crim., 1985, 186 ss.; MANNA, Beni della personalità e limiti della protezione penale, 1989, 119 ss.; MAURACH-ZIPF, Strafrecht, A.T., I, 19877, 16 ss.; MOCCIA, Considerazioni di politica criminale sull’illecito depenalizzato, in Arch. pen., 1986, 524 ss.; PADOVANI, La problematica del bene giuridico e la scelta delle sanzioni, in Del. pen., 1984, 114 ss.; ID., La distribuzione di sanzioni penali e di sanzioni amministrative secondo l’esperienza italiana, in questa Rivista, 1984, 953 ss.; ID., Il binomio irriducibile, in Diritto penale in trasformazione, cit., 461 ss.; ID., La scelta della sanzione in rapporto alla natura degli interessi tutelati, in Beni e tecniche, cit., 90 ss.; ID., Tutela di beni e tutela di funzioni nella scelta fra delitto, contravvenzione e illecito amministrativo, in Cass. pen., 1987, 671 ss.; ID., Diritto penale, cit., 109 ss.; PALAZZO, I criteri di riparto tra sanzioni penali e sanzioni amministrative, in L’illecito penale amministrativo, 1987, 18 ss.; ID., Principi costituzionali, beni giuridici e scelte di criminalizzazione, 1990, 13 ss.; ID., Bene giuridico e tipi di sanzioni, in La riforma del diritto penale, cit., 75 ss.; PALIERO, Minima non curat praetor, 1985, 174 ss., 385 ss., 649 ss.; PALIERO-TRAVI, La sanzione amministrativa, 1988, 319 ss.; SGUBBI, Depenalizzazione e principi dell’illecito amministrativo, in Ind. pen., 1983, 259. (14) Così PADOVANI, Tutela di beni, cit., 672.


— 29 — il ruolo dei principi costituzionali dovrebbe essere appunto quello di fornire criteri selettivi adeguati rispetto all’esigenza di riportare la categoria del bene giuridico ad un quadro di valutazioni compatibile con la necessità di operare una simile « scelta » tra diversi strumenti punitivi. In particolare, le norme costituzionali destinate ad influire sulle scelte di criminalizzazione dovrebbero identificarsi essenzialmente con quelle rappresentate dagli artt. 27, 3o comma e 13, 1o comma, Cost. (15). Il primo richiederebbe che la « reazione all’illecito corrisponda alla sua gravità, non potendosi perseguire alcuna azione rieducativa mediante un trattamento sanzionatorio sproporzionato alla gravità del fatto » (16). Accanto a tale esigenza di « proporzione » (17), si porrebbe, d’altronde, anche un ulteriore riscontro in termini di « sussidiarietà » della tutela (18). In effetti, l’art. 13 Cost., considerando « inviolabile » la libertà personale, offrirebbe « un’implicita, ma significativa indicazione a favore dell’impiego della sanzione penale come ultima ratio, quando, cioè, sia esaurita qualsiasi possibilità di tutela attraverso strumenti sanzionatori che non incidano su di un bene di rango così elevato » (19). Sulla base di tale (duplice) premessa, la categoria del bene giuridico (15) La scelta di limitare maggiormente il novero dei parametri costituzionali di raffronto pare maggiormente condivisibile, nella misura in cui essa permette di evitare che un richiamo eccessivamente generico a principi e criteri direttivi di portata troppo ampia ed onnicomprensiva possa far perdere di vista i termini essenziali del problema concernente pur sempre la scelta di fare o meno ricorso, per la tutela di determinati interessi, ad una sanzione di contenuto privativo della libertà personale. (16) Cfr, la Circolare, cit., 284. (17) In merito alla quale cfr., tra gli altri, ANGIONI, Beni costituzionali, cit., 63 ss.; FIORELLA, voce Reato in generale, in Enc. dir., XXXVIII, 793; MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., 150 ss.; PADOVANI, La distribuzione, cit., 953 s.; PALAZZO, Bene giuridico e tipi di sanzioni, cit., 73 ss.; VASSALLI, I principii generali del diritto nell’esperienza penalistica, in questa Rivista, 1991, 706 s. Spunti di indubbio interesse a proposito del significato del principio di proporzione si rinvengono nella giurisprudenza costituzionale: cfr., da ultimo, Corte cost., 25 luglio 1994, n. 341, in Cass. pen., 1995, 25 ss., con nota di ARIOLLI, Il delitto di oltraggio tra principio di ragionevolezza e finalità rieducativa della pena. Sulla rilevanza del principio della proporzione della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito negli sviluppi del diritto comunitario cfr., inoltre, gli studi di BERNARDI, « Principi di diritto » e diritto penale europeo, in Annali Università di Ferrara, sez. V, II, 1988, 197 ss.; ID., Sulle funzioni dei principi di diritto penale, in Annali, cit., sez. V, VI, 1992, 105 ss.; GRASSO, La protezione dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario e i suoi riflessi sui sistemi penali degli Stati membri, in Scritti Dell’Andro, I, 1994, 458 ss. (18) In proposito, cfr., tra gli altri, MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., 152 ss.; PADOVANI, La problematica, cit., 129 s. (19) Cfr. la Circolare, cit., 285. Sul significato dei principi di proporzione e di sussidiarietà cfr., riassuntivamente, i rilievi scultorei di PEDRAZZI, voce Diritto penale, in Dig. disc. pen., IV, 69: « se la norma penalmente sanzionata possiede un’operatività specifica, è nel senso di proporre ai destinatari [...] un appello a esigenze di valore. Una coerente politica di extrema ratio mira a valorizzare questo potenziale qualificante e insieme a preservarlo, evitando che la sanzione penale si banalizzi o assuma una connotazione persecutoria ».


— 30 — sarebbe destinata, in ultima analisi, a doversi inevitabilmente confrontare con un ulteriore riscontro in termini di politica criminale, suscettibile di ridimensionarne il ruolo, originariamente conferitole, di criterio di « spartiacque » esclusivo tra lecito ed illecito. Anzitutto, non sempre la sanzione penale si rivelerebbe uno strumento legittimo, in termini di « proporzione », allorché l’aggressione al bene, anche se di rango elevato, non realizzi gli estremi di una lesione (o di un pericolo concreto), ma venga invece a collocarsi in uno stadio accentuatamente « prodromico » rispetto all’effettiva possibilità di un’offesa (come accade nelle ipotesi di pericolo « astratto », ed, a fortiori, meramente « presunto ») (20); in secondo luogo, pur in presenza di un requisito di « proporzionalità » della san(20) V. la Circolare, cit., 286, dove si sottolinea, tuttavia, che, di fronte ad interessi di particolare importanza e significato, può rivelarsi legittima una più marcata anticipazione della tutela penale. In merito alla problematica della distinzione tra le varie forme di pericolo ed alla loro idoneità a giustificare il ricorso alla sanzione penale, si registrano tuttora opinioni divergenti. Con l’inevitabile approssimazione, dovuta alla presenza di differenti modelli ricostruttivi delle singole categorie ed all’avvicendarsi di opinioni, ora più nette e radicali, ora, invece, più sfumate e possibiliste (e senza dimenticare gli sforzi compiuti, specialmente da parte della dottrina italiana, per impedire comunque il verificarsi di esiti di indiscriminata repressione), si ricordano, tuttavia, tra i fautori di un’estensione della tutela oltre la soglia del pericolo concreto, ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, 19942, 227 s., 238 ss.; ID., Contenuto e funzioni, cit., 109 ss. (ridimensionando, tuttavia, in entrambe le opere, la possibilità di allontanarsi dalla logica del pericolo effettivo); CANESTRARI, voce Reato di pericolo, in Enc. giur., XXVI, 9 (anche qui con forti limitazioni); FIANDACA, Note sui reati di pericolo, in Scritti Bellavista, Il Tommaso Natale, I, 1978, 198 ss.; ID., La tipizzazione del pericolo, in Del. pen., 1984, 453 ss.; ID., Commento all’art. 27, 3o comma Cost., in Commentario della Costituzione, Artt. 27-28, 1991, 248 ss.; FIANDACA-TESSITORE, Diritto penale e tutela dell’ambiente, in Materiali per una riforma del sistema penale, 1984, 61; GRASSO, L’anticipazione della tutela penale: i reati di pericolo e i reati di attentato, in questa Rivista, 1986, 710 ss.; MANTOVANI, Sulla perenne esigenza della codificazione, in Valore e principi della codificazione penale: le esperienze italiana, spagnola e francese a confronto, 1995, 243, 245 (con alcune distinzioni); MARINUCCI, Relazione di sintesi, in Bene giuridico, cit., 339 ss.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., 205 ss.; PAGLIARO, Principi, cit., 236; PEDRAZZI, Problemi di tecnica legislativa, in Comportamenti economici e legislazione penale, 1979, 32 s.; ID., Interessi economici e tutela penale, in Bene giuridico, cit., 304; ID., La riforma dei reati contro il patrimonio e contro l’economia, in Verso un nuovo codice penale, 1993, 357; ROMANO, Commentario, cit., 320 (il quale, tuttavia, pur non ravvisando profili d’incostituzionalità nei confronti delle figure di pericolo astratto o presunto, ne sconsiglia l’introduzione in un’ottica politico-criminale). Seri dubbi esprimono, viceversa, nei confronti della dilatazione della categoria del pericolo, BRICOLA, Teoria, cit., 86 s.; ID., Commento, cit., 281; CONTENTO, Corso di diritto penale, 1989, 26; M. GALLO, I reati di pericolo, in Foro pen., 1969, 5, 8 s.; MAZZACUVA, Il disvalore di evento nell’illecito penale, 1983, 172 ss.; MOCCIA, Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, in questa Rivista, 1995, 368 ss.; PETRINI, Reati di pericolo e tutela della salute dei consumatori, 1990, 88 ss., 116 ss.; SGUBBI, Il reato come rischio sociale, 1990, 24. Particolarmente rigorosa e stringente, in ordine alla verifica circa l’esistenza del pericolo (pur ammesso, in linea di principio, oltre la soglia dell’esistenza di un evento concretamente pericoloso) è la posizione di FIORE, Diritto penale, P.G., I, 1993, 184 ss.; ID., Il principio di offensività,


— 31 — zione penale rispetto al disvalore del fatto, il ricorso alla pena sarebbe parimenti illegittimo, allorché, rispetto a determinate tipologie di offesa, possano intervenire, con pari (ed, al limite, con maggiore) efficacia, altri modelli punitivi, destinati ad incidere meno intensamente sui diritti fondamentali della persona (come accade per gli illeciti di natura amministrain Ind. pen., 1994, 280; v. anche, in una differente prospettiva, la documentata ricerca di PARODI GIUSINO, I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, 1990, 374 ss., 379 ss., 402 ss. Nella dottrina straniera, si mostrano favorevoli all’adozione della tecnica del pericolo astratto, KRATSCH, Verhaltenssteuerung und Organisation im Strafrecht, 1985, 283 ss.; KUHLEN, Zum Strafrecht der Risikogesellschaft, in GA, 1994, 362 ss., 367; SCHÜNEMANN, Kritische Anmerkungen zur geistigen Situation der deutschen Strafrechtswissenschaft, ivi, 1995, 212 ss.; TIEDEMANN, Wirtschaftsstrafrecht und Wirtschaftskriminalität, I, A.T., 1976, 81 ss.; ID., Tatbestandsfunktionen im Nebenstrafrecht, 1969, 117 ss., 169. Perplessità al riguardo sono invece manifestate da HASSEMER, Grundlinien einer personalen Rechtsgutslehre, in Jenseits des Funktionalismus, 1989, 89 ss.; ID., Rasgos y crisis del Derecho Penal moderno, in An. der. pen., 1992, 248 s.; ID., La ciencia jurídico penal en la República Federal Alemana, ivi, 1993, 76 ss.; HERZOG, Gesellschaftliche Unsicherheit und strafrechtliche Daseinsvorsorge, 1991, 32 ss., 41 ss. (dove viene, tra l’altro, analizzata la complessa impostazione di KINDHÄUSER, Gefährdung als Straftat, 1989, 227, 274 ss.); ID., Límites al control penal de los riesgos sociales (Una perspectiva crítica ante el derecho penal en peligro), in An. der. pen. , 1993, 325 ss.; HOHMANN, Von den Konsequenzen einer personalen Rechtsgutsbestimmung im Umweltstrafrecht, in GA, 1992, 81 ss.; MUÑOZ CONDE, Principios inspiradores del Proyecto de Código penal español de 1994, in Valore e principi, cit., 91 s. (il quale si esprime, tuttavia, in termini maggiormente problematici); PORTILLA CONTRERAS, Principio de intervención mínima y bienes jurídicos colectivos, in Cuad. pol. crim., 1989, 745 ss. (con alcune precisazioni ulteriori). Una discussione critica in merito alle varie opinioni si rinviene in MÜLLER-DIETZ, Aspekte und Konzepte der Strafrechtsbegrenzung, in Schmitt FS, 1992, 11 ss.; ROXIN, Strafrecht, cit., 262 ss.; STRATENWERTH, Zukunftssicherung mit den Mitteln des Strafrechts?, in ZStW, 1993, 687 ss.; v. inoltre la recensione di NEUMANN a HERZOG (Gesellschaftliche, cit.), in ZStW, 1994, 189 ss. Alla base delle diverse tendenze, si scorgono, d’altronde, i riflessi sul diritto penale della crescente complessità dei sistemi sociali e delle (per vero inquietanti) virtualità repressive evocate dalla nota formula della c.d. Risikogesellschaft (cfr. in generale il volume curato da BECK, Politik in der Risikogesellschaft, 1991, nonché HILGENDORF, Strafrechtliche Produzentenhaftung in der « Risikogesellschaft », 1993, 17 ss., 45 ss.); in tema cfr. BARATTA, Funzioni strumentali e funzioni simboliche del diritto penale, in Studi Tarello, II, 1990, 31 ss.; FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in questa Rivista, 1994, 43 ss.; MÜLLER-DIETZ, Aspekte, cit., 104; PALAZZO, Diritto penale e società tecnologica, in Il Ponte, 1991, 49 ss.; PALIERO, L’autunno del patriarca, in questa Rivista, 1994, 1228 ss.; PRITTWITZ, Strafrecht und Risiko, 1993, 49 ss., 199 ss., 242 ss. Tra i problemi più significativi sollevati da simili tematiche, si pone, peraltro, anche quello — di rilievo costituzionale — della riconoscibilità dell’illiceità penale del fatto, come presupposto essenziale per l’orientamento delle condotte individuali. Rinviando in proposito ai successivi sviluppi dell’indagine, si ricordano, tuttavia, con particolare riferimento all’evoluzione intervenuta nella giurisprudenza costituzionale, le interessanti osservazioni di PARODI GIUSINO, Su alcune conseguenze, riguardanti i reati di pericolo, dall’applicazione dei principi posti a fondamento della sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale, in Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, 1989, 215 ss.


— 32 — tiva, cui si accompagna l’irrogazione di una misura di contenuto non privativo della libertà personale). In conclusione, la possibilità di disporre di ulteriori strumenti sul piano sanzionatorio, contribuirebbe a superare e a « sdrammatizzare », in certa misura, la constatata difficoltà di erigere la categoria del bene giuridico a parametro e a fondamento esclusivo delle scelte di criminalizzazione, permettendo in tal modo di evitare il duplice ed opposto rischio che il richiamo ad una simile categoria possa concretamente risolversi, ora in un’eccessiva estensione, ed ora, invece, in un’incongrua limitazione dell’area dell’intervento penale. Allo stesso tempo, una siffatta « mediazione », per così dire, tra la « natura » del bene e le modalità in concreto della lesione (o del pericolo) consentirebbe finalmente di realizzare l’auspicato obiettivo di un più razionale « contemperamento » tra le direttive di fondo espresse dalla Carta costituzionale e gli spazi di « discrezionalità » concessi al legislatore ordinario; pur rimanendo in linea di principio vincolato alle scelte di valore contenute nella Carta fondamentale, quest’ultimo sarebbe in grado di apprezzare e di valutare di volta in volta — attraverso un riscontro comparativo dei risultati derivanti da un giudizio in termini di « proporzione » e di « sussidiarietà » della tutela — l’effettiva necessità di reagire a determinate tipologie di offesa mediante il ricorso alla misura estrema di una sanzione di contenuto privativo della libertà personale. 2. Nonostante la particolare sensibilità mostrata dalla dottrina più recente nella ricerca di principi e criteri direttivi volti a limitare e a circoscrivere la sfera di legittimazione dell’intervento penale — e pur riconoscendo che l’ultima concezione or ora esaminata è destinata probabilmente a rappresentare la tappa più significativa verso l’elaborazione e la concreta attuazione di una seria e razionale politica delle riforme — resta tuttavia l’impressione che la problematizzazione dei rapporti tra Costituzione e scelte di politica criminale non sia stata ancora operata, valorizzando appieno i molteplici significati sottesi al ricco ed articolato quadro delle garanzie costituzionali riguardanti il fondamento ed i limiti della responsabilità penale. Le ragioni di tale insoddisfazione discendono essenzialmente dal fatto che la ricerca di soluzioni adeguate a circoscrivere l’area dell’intervento penale, è stata per lo più sviluppata — come le osservazioni che precedono mostrano chiaramente — dall’angolo visuale delle direttive costituzionali in tema di connotati obiettivi dell’illecito penale, senza attribuire la dovuta importanza alle implicazioni derivanti dal riconoscimento costituzionale del principio della « personalità » della « responsabilità penale » (21), ed ai rapporti problematici di tale principio con le possibilità (21)

Sul quale v., in generale, ALESSANDRI, Commento all’art. 27, 1o comma Cost., in


— 33 — concrete a disposizione dei consociati per orientare e dirigere la propria condotta in senso conforme alle esigenze di tutela sottese alla funzione esplicata dalle singole norme incriminatrici. Il principio dell’art. 27, 1o comma è stato generalmente considerato, in altri termini, come una mera « appendice », come un risvolto ed una conseguenza — o, tutt’al più, come un’ulteriore conferma — dell’esigenza di agganciare l’illecito penale a scelte di criminalizzazione suscettibili di limitare la sfera di rilevanza penale di determinati comportamenti (22); mentre, non si è indagato a sufficienza in merito all’interrogativo se tale disposizione non venga, in realtà, ad assumere — nel quadro dei principi costituzionali — un ruolo ed un significato di rango ben più elevato e di contenuto ben più intenso e qualificante, proprio nell’ottica della ricerca di un fondamentale criterio di orientamento nell’individuazione dei limiti Commentario della Costituzione, Artt. 27-28, cit., 15 ss.; FIORELLA, voce Responsabilità penale, in Enc. dir., XXXIX, 1303 ss. In precedenza cfr., anche per ulteriori riferimenti, GROSSO, voce Responsabilità penale, in Noviss. dig. it., XV, 712 ss.; SPASARI, Diritto penale e Costituzione, 1966, 53 ss. Per uno sguardo comparatistico cfr. PALAZZO, Valori costituzionali, cit., 560 ss.; VASSALLI, voce Colpevolezza, in Enc. giur., VI, 7 ss. Sui rapporti tra principio di colpevolezza e determinatezza cfr. ancora PALAZZO, Il principio di determinatezza nel diritto penale, 1979, 87 ss. (22) Da questo punto di vista, è possibile riscontrare in dottrina due ordini di motivazioni: da un lato, quello sviluppato da BRICOLA, Teoria generale, cit., 15, 50 ss., dove il principio della personalità dell’illecito, in quanto destinato a circoscrivere la sfera d’imputazione della responsabilità, viene considerato espressione dell’esigenza di limitare l’intervento penale, in modo da riservare ad altri settori dell’ordinamento il compito di reagire a determinate tipologie di comportamenti illeciti attraverso strumenti di tutela condizionati a presupposti meno rigorosi (quali, ad es., la previsione di forme di responsabilità civile « da rischio »). Dall’altro lato, quello, più strettamente collegato alla problematica della possibilità da parte dei consociati di percepire l’illiceità penale del proprio comportamento, volto a sottolineare come un’effettiva realizzazione del principio di colpevolezza venga altresì a dipendere da una formulazione delle fattispecie penali tale da porne chiaramente in risalto l’incidenza offensiva su valori socialmente significativi: in questo senso, cfr., tra gli altri, PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, 1976, 129 ss., 459 ss., 476 ss., 533, 554 s.; ID., La disciplina dell’errore nell’ottica della riforma penale, in Verso un nuovo codice, cit., 268; ID., Il principio di colpevolezza e il progetto di riforma penale, in Jus, 1974, 507 ss. Nell’ambito della dottrina straniera si segnalano i fondamentali studi di Arth. KAUFMANN, Das Unrechtsbewusstsein in der Schuldlehre des Strafrechts, 1949, 196; ID., Die Irrtumsregelung im Strafgesetz- Entwurf 1962, in ZStW, 1964, 561 s.; ID., Einige Anmerkungen zu Irrtümern über den Irrtum, in Lackner FS, 1987, 188 ss. In merito alle ascendenze storiche della tendenza a riconoscere la possibilità (e la rilevanza) in concreto dell’errore in funzione della circostanza che il relativo oggetto rientrasse o meno nei dettami del « diritto naturale », cfr. l’ampia disamina di FIGUEIREDO DIAS, O problema da consciência da ilicitude em direito penal, 19873, 104 ss. Ripropone un’analoga problematica KÜCHENHOFF, Die staatsrechtliche Bedeutung des Verbotsirrtums, in Stock FS, 1966, 86 ss. Più recentemente v. CATTANEO, La ratio delle norme giuridiche penali: il carattere sanzionatorio del diritto penale ed il problema della ignorantia juris, in Scritti Mengoni, 1995, III, 1770 ss. Per ulteriori notizie storiche cfr. LEVI, Dolo e coscienza dell’illiceità, in Studi econ. giur. Univ. Cagliari, 1928, 25 ss.


— 34 — costituzionali dell’illecito penale (23), e della connessa possibilità di addebitare o meno all’agente un titolo di « responsabilità » corrispondente a quello — di natura « penale », appunto — solennemente evocato dal paradigma normativo dell’art. 27, 1o comma, Cost. Una siffatta « resistenza », per così dire, ad inquadrare il principio della personalità dell’illecito all’interno della problematica delle scelte di criminalizzazione, è stata probabilmente determinata, d’altronde, anche dal timore — non del tutto privo di fondamento alla luce delle più recenti tendenze dottrinali (specialmente di lingua tedesca) in materia di prevenzione generale c.d. « integratrice » (24) — di far giocare il principio di colpevolezza come un mero « sottosistema » funzionale rispetto all’esi(23) V. però MARINUCCI, Relazione di sintesi, cit., 344 s. Soffermandosi sul problema dei limiti dell’intervento penale, l’A. esordisce: « già possiamo argomentare dal principio di colpevolezza (ex art. 27): un principio estraneo e lontano solo in apparenza. La funzione di richiamo, di appello, di ammonimento del ‘dolo del fatto’ (ma anche della ‘colpa del fatto’) è pensabile solo se il ‘fatto’ incorpora, almeno tendenzialmente, il riferimento al bene tutelato e offeso ». Per ulteriori richiami all’art. 27 Cost., cfr. ANGIONI, Contenuto, cit., 193 s., 225; MANNA, Beni della personalità, cit., 88 ss. Questi Autori utilizzano, peraltro, il riferimento agli artt. 25 e 27 Cost., soprattutto allo scopo di giustificare l’estensione del principio di « determinatezza » anche all’oggetto giuridico del reato. (24) Cfr. soprattutto JAKOBS, Strafrecht, A.T., 19912, 6 ss., 480 ss. In merito a tale dottrina si è sviluppata, com’è noto, una vastissima letteratura, per lo più caratterizzata da toni fortemente critici. Si ricordano, tra gli altri, gli scritti di BARATTA, Integrazione-prevenzione. Una « nuova » fondazione della pena all’interno della teoria sistemica, in Del. pen., 1984, 8 ss.; BURKHARDT, Das Zweckmoment im Schuldbegriff, in GA, 1976, 321 ss.; EUSEBI, La « nuova » retribuzione, in questa Rivista, 1983, 1333 ss.; ID., La pena « in crisi », 1990, 129 ss.; FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., 263 s., 323; FIANDACA, Considerazioni su colpevolezza e prevenzione, in questa Rivista, 1987, 861 ss.; ID., Commento, cit., 269 ss.; HASSEMER, Einführung in die Grundlagen des Strafrechts, 1981, 219 s.; ID., Principio di colpevolezza e struttura del reato, in Arch. pen., 1982, 63 ss.; HIRSCH, Das Schuldprinzip und seine Funktion im Strafrecht, in ZStW, 1994, 753 ss.; MAIWALD, Gedanken zu einem sozialen Schuldbegriff, in Lackner FS, cit., 151 ss., 161 ss.; MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, 1992, 62 e nota 132; MONACO, Prospettive dell’idea dello « scopo » nella teoria della pena, 1984, 111 s.; PADOVANI, Teoria della colpevolezza e scopi della pena, in questa Rivista, 1987, 822 s.; PALAZZO, Ignorantia legis: vecchi limiti ed orizzonti nuovi della colpevolezza, in questa Rivista, 1988, 927 ss.; ID., voce Ignoranza della legge penale, in Dig. disc . pen., VI, 16 ss. (dell’estratto); PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in questa Rivista, 1992, 854 ss., 903; PULITANÒ, Politica criminale, cit., 43 ss.; ROMANO, Commentario, cit., 304; ID., Prevenzione generale e prospettive di riforma del codice penale italiano, in Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati, 1980, 178 e nota 65; ROXIN, Strafrecht, cit., 546 s.; ID., Was bleibt von der Schuld im Strafrecht übrig?, Relazione presentata al Seminario di Studi su « Prospettive attuali di teoria generale del reato: il diritto penale tra dommatica e politica criminale », Napoli, 1987, 14 ss. (del dattiloscritto); RUDOLPHI, in RUDOLPHI-HORNSAMSON, SK, A.T., I, 19895, pre-par. 19, 119 s.; SCHMIDHÄUSER, Über den axiologischen Schuldbegriff des Strafrechts: die unrechtliche Tatgesinnung, in Jescheck FS, I, 1985, 501 s.; SCHÜNEMANN, L’evoluzione della teoria della colpevolezza nella Repubblica Federale Tedesca, in questa Rivista, 1990, 15 s.; STRATENWERTH, Die Zukunft des strafrechtlichen Schuldprinzips, 1977, 24 ss. Diversamente, MORSELLI, La prevenzione generale integratrice nella moderna prospettiva retribuzionistica, in questa Rivista, 1988, 76 s., il quale considera la


— 35 — genza di reintegrare e di « compensare » le « aspettative sociali » connesse al senso di sicurezza e di fiducia nel rispetto del comando normativo. In altri termini, muovendo dall’idea, di evidente impronta liberalgarantista, che la categoria della colpevolezza debba rappresentare necessariamente un limite (25) (connotato in termini « materiali » vincolanti per lo stesso « prevenzione integratrice » come un « effetto » della natura retributiva della pena. Sia pure all’interno di una diversa impostazione, sottolinea un profilo di collegamento e di derivazione della prevenzione integratrice da determinati presupposti in tema di irrogazione della pena MÜLLER-DIETZ, Integrationsprävention und Strafrecht, in Jescheck FS, II, 1985, 827. Recentemente, in argomento, cfr. BAURMANN, Vorüberlegungen zu einer empirischen Theorie der positiven Generalprävention, in GA, 1994, 381, il quale afferma la possibilità di attribuire basi empiriche alla prevenzione generale « positiva », nonché HÖRNLE-v. HIRSCH, Positive Generalprävention und Tadel, ivi, 1995, 280 ss., i quali ricostruiscono il significato e la rilevanza della generalprevenzione alla stregua di un criterio di « biasimo » nei confronti del fatto illecito, ritenuto idoneo ad evitare che l’ottica preventiva venga ad esaurirsi in una dimensione puramente funzionalistico-strumentale. A favore dell’introduzione di una serie di vincoli e di condizioni all’operatività della prevenzione generale, pur considerata come profilo essenziale (specialmente in guisa di prevenzione « allargata ») ai fini del consolidamento e della salvaguardia dei valori sociali, cfr. PAGLIARO, Diritto penale, cit., 660 ss.; ID., Colpevolezza e responsabilità obiettiva: aspetti di politica criminale e di elaborazione dogmatica, in Responsabilità oggettiva, cit., 21; ma v. anche MILITELLO, Prevenzione generale e commisurazione della pena, 1982, 110 ss.; ID., La prevenzione dei reati, in Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, 1985, 17 ss. (dell’estratto). (25) In questa prospettiva, cfr., tra gli altri, ALESSANDRI, Commento, cit., 84 s.; EUSEBI, La pena « in crisi », cit., 141 ss.; HASSEMER, Principio di colpevolezza, cit., 64 s.; Arth. KAUFMANN, Das Schuldprinzip, 1976, 266 ss.; MÜLLER-DIETZ, Grenzen des Schuldgedankens im Strafrecht, 1967, 33 ss.; NAUCKE, Colpevolezza ed esecuzione della pena, in Arch. pen., 1982, 495 s.; PADOVANI, Teoria della colpevolezza, cit., 822 ss.; PULITANÒ, L’errore, cit., 106 ss.; ROMANO, Prevenzione generale, cit., 178 e nota 65; SCHÖNEBORN, Schuldprinzip und generalpräventiver Aspekt, in ZStW, 1976, 351 s., 354 ss.; STRATENWERTH, Die Zukunft, cit., 27 ss. In merito alle varie tendenze, cfr., inoltre, il quadro autorevolmente delineato da VASSALLI, Colpevolezza, cit., 6 ss. Peculiare la posizione di ROXIN, il quale, da una prospettiva volta a subordinare la colpevolezza alle esigenze della prevenzione (cfr. Politica criminale e sistema del diritto penale (a cura di MOCCIA), 1986, 40 ss., 60 ss. Nel precedente studio su Sinn und Grenzen staatlicher Strafe, in Strafrechtliche Grundlagenprobleme, 1973, 1 ss., la questione non era stata ancora affrontata in maniera programmatica: cfr. PADOVANI, Teoria, cit., 804) e ad accentuarne il ruolo funzionale rispetto agli scopi della pena (v. ID., « Schuld » und « Verantwortlichkeit » als strafrechtliche Systemkategorien, in Henkel FS, 1974, 181 ss.; ID., Zur jüngsten Diskussion über Schuld, Prävention und Verantwortlichkeit im Strafrecht, in Bockelmann FS, 1979, 286 ss.), è passato successivamente a rivendicare alla colpevolezza un più significativo ruolo di limite garantista (cfr. ID., Sul problema del diritto penale della colpevolezza, in questa Rivista, 1984, 20 ss., ed, ancor più nettamente, ID., Was bleibt, cit., 11 ss.). Nel riferire le posizioni dei singoli Autori, si è omesso di evidenziarne le pur rimarchevoli differenze d’impostazione (quanto a premesse ideologiche, politico-criminali e scientifico-sistematiche); ciò che premeva porre in risalto (al di là delle dispute circa il ruolo più o meno autonomo della colpevolezza rispetto agli scopi della pena) era, in effetti, la comune ispirazione e tendenza verso l’obiettivo di svincolare la categoria in questione da una logica


— 36 — legislatore) (26) rispetto alle esigenze generalpreventive — e non possa, pertanto, risolversi in un giudizio puramente « ascrittivo » tautologicamente desunto dalle opzioni normative di criminalizzazione concretamente adottate all’interno di un determinato sistema positivo — è sembrato opportuno tenere ben distinti il problema delle scelte di tutela penale poste a fondamento dei connotati obiettivi delle singole fattispecie incriminatrici rispetto a quello della rimproverabilità sul piano « personale » dell’autore delle condotte corrispondenti allo schema legale da queste astrattamente delineato. In questa prospettiva, il principio della « personalità » dell’illecito, proprio in quanto espressivo di un limite di carattere « individuale » nei confronti delle esigenze generalpreventive trasfuse nelle scelte di criminalizzazione, dovrebbe rappresentare, non già un momento di conferma e di « asseverazione » della minaccia penale nella sua funzione preventiva rispetto agli scopi di tutela di determinati beni giuridici, bensì, all’opposto, un profilo di valutazione volto a bloccare e a « paralizzare », in buona sostanza, la concreta possibilità di far discendere dalla fattispecie normativa (pur obiettivamente integrata) le conseguenze sanzionatorie potenzialmente ricollegabili all’autore del comportamento incriminato. Senonché, come si avrà modo di constatare tra breve, simili preoccupazioni appaiono strettamente collegate (e nonostante le contrarie affermazioni dei rispettivi autori) (27) ad una visione del sistema repressivo tuttora permeata dell’influenza e del retaggio di impostazioni di tipo essenzialmente « giuspositivistico » della tutela penale, e, più precisamente, dal timore che, a fronte di determinate scelte punitive discrezionalmente operate da parte del legislatore ordinario, il rimprovero di colpevolezza finisca con l’attestarsi ed « omologarsi », per così dire, su di un giudizio di riprovazione per il fatto commesso espresso secondo canoni normativi di attribuzione del tutto astratti, e, soprattutto, sostanzialmente privi di un reale coefficiente di « personalizzazione » della responsabilità penale. Ragionando in tal modo, si trascura, tuttavia, di valorizzare e di recepreventiva ritenuta inidonea a porsi in sintonia con il ruolo ed il significato dell’atteggiamento sul piano personale dell’autore del fatto. (26) Sul punto v., particolarmente, l’ampia e suggestiva ricostruzione di PULITANÒ, L’errore, cit., 105 ss. (27) V., peraltro, PADOVANI, Teoria, cit., 823 s.: « l’armonizzazione dei rapporti fra politica criminale e dogmatica penalistica è un compito che può essere prospettato nei sistemi in cui la politica criminale calata nelle norme sia riconoscibile come espressione dei postulati di uno stato sociale di diritto »; d’altronde, nella misura in cui la colpevolezza venga collegata ad un superiore « concetto deontologico alla cui stregua » poter valutare « l’assetto normativo [...] e le scelte politico criminali ad esso sottese », risulterà concretamente possibile « rendere la colpevolezza [...] sempre più corrispondente ad una prevenzione generale intesa soprattutto come orientamento socioculturale », in quanto tale idonea ad assicurare « la riconoscibilità come valore del bene » tutelato dalle norme penali.


— 37 — pire in tutta la sua reale portata proprio il messaggio — intriso di contenuti « teleologici » e di prospettive politico-criminali « vincolanti » nei confronti delle scelte del legislatore — ricavabile dagli stessi parametri costituzionali pur invocati a sostegno di una più rigida delimitazione dell’intervento penale. Più esattamente: l’interpretrazione del principio contenuto nell’art. 27, 1o comma, quale si desume dalle correnti dottrinali or ora sinteticamente richiamate, si rivela, in realtà, come il frutto e la conseguenza di un atteggiamento ermeneutico incapace di ricollegare lo stesso principio della « personalità » dell’illecito ai contenuti di valore che i destinatari del precetto sono appunto chiamati ad individuare e a « riconoscere » di volta in volta nel momento di decidere se intraprendere o meno la realizzazione della condotta vietata. Da questo punto di vista, l’idea di un rimprovero di colpevolezza come limite alla prevenzione generale — come un momento antagonistico e « disfunzionale » (28) rispetto alle esigenze di tutela che quest’ultima è preordinata ad assicurare — non sembra destinata, in realtà, a presentarsi nei termini di una contrapposizione e di un’incompatibilità così nette e radicali (29), non appena le stesse scelte di criminalizzazione vengano, a loro volta, « funzionalizzate » alla capacità da parte dei consociati di percepire la dimensione « penale » del fatto alla luce dei criteri di valore postulati dai principi costituzionali dettati in materia (30). Al contrario, una volta che lo stesso principio contemplato (28) Per una siffatta terminologia cfr. PADOVANI, Teoria, cit., 801. (29) Nell’ottica della ricerca di un significativo profilo di compatibilità e di reciproca conciliazione tra colpevolezza e prevenzione, vanno segnalate le due fondamentali opere di NOLL, La fondazione etica della pena, in La funzione della pena: il commiato da Kant e da Hegel, 1989, 38, 47; ID., Schuld und Prävention unter dem Gesichtspunkt der Rationalisierung des Strafrechts, in Mayer FS, 1966, 223 s. Ma v. anche, nel quadro di una particolare impostazione, MUÑOZ CONDE, Über den materiellen Schuldbegriff, in GA, 1978, 74 s. Cfr. altresì, KUNZ, Prävention und gerechte Zurechnung, in ZStW, 1986, 829 s.; LÜDERSSEN, La funzione dl prevenzione generale del sistema penale, in Teoria e prassi, cit., 101 ss. È interessante osservare come, pur svalutando l’autonoma rilevanza della categoria della colpevolezza, sia stata talora affacciata la possibilità di configurare i presupposti ed i limiti della funzione di prevenzione generale in maniera da evitare una strumentalizzazione della responsabilità del singolo rispetto ad istanze di politica criminale del tutto arbitrarie ed incontrollate: cfr. ACHENBACH, Individuelle Zurechnung, Verantwortlichkeit, Schuld, in Grundfragen des modernen Strafrechtssystems, 1984, 150. In merito all’interpretazione del significato di tale posizione, cfr. le acute considerazioni di ROXIN, Was bleibt, cit., 11 s. (30) PULITANÒ, L’errore, cit., 130 ss., 165 ss., 459 ss., 475 ss., 554 s., pur attribuendo particolare importanza al complesso delle garanzie — ivi comprese quelle relative alla « selezione » dei beni giuridici penalmente tutelabili — che qualificano il volto dell’attuale sistema liberaldemocratico, sottolinea, tuttavia, il ruolo autonomo dei coefficienti di riconoscibilità dell’illecito, in presenza di eventuali discrasie tra sistema normativo e possibilità concreta e personale di attingerne le sottostanti scelte di valore. Simili considerazioni, per quanto condivisibili in linea di principio, sono tuttavia destinate ad assumere un diverso peso e significato, a seconda del ruolo che i limiti dell’intervento penale vengano chiamati ad esplicare nel quadro dei principi costituzionali (ed, in particolare, di quello sancito nell’art.


— 38 — dall’art. 27, 1o comma venga ad essere interpretato in una prospettiva conforme all’esigenza costituzionale di attribuire la qualifica di « penale » soltanto a determinate categorie di comportamenti illeciti (e vedremo successivamente di quali debba trattarsi) si saranno poste le basi per l’individuazione di parametri costituzionali di delimitazione dell’intervento penale ancor più intensi e rigorosi — e tali da consentire, inoltre, un’effettiva « riconoscibilità » dell’illecito da parte dei destinatari del precetto — rispetto a quelli emersi dall’analisi delle tendenze dottrinali manifestatesi a proposito del delicato e controverso problema delle scelte di criminalizzazione. Che il problema concernente l’interpretazione del contenuto dell’art. 27, 1o comma sia destinato a presentare risvolti ed implicazioni ulteriori rispetto a quelli generalmente richiamati nell’ambito delle indagini dedicate ai profili costituzionali della responsabilità penale, emerge, del resto, già ad un primo approccio, dall’analisi di alcune recenti prese di posizione della dottrina (e della stessa giurisprudenza) relativamente alla controversa materia dell’« errore sul precetto » penale. La necessità di prestare una particolare attenzione agli orientamenti sviluppatisi a proposito di tale problematica deriva dalla circostanza che quest’ultima sembra manifestare (ed ancor più dopo la fondamentale pronuncia della Corte costituzionale in tema di errore sul divieto) (31) un’intrinseca « vocazione », per 27 1o comma Cost.); pare evidente, in effetti, come, nella misura in cui la selezione dei comportamenti incriminabili venga operata in funzione dell’obiettivo primario di assicurare un collegamento con la possibilità da parte dei consociati di riconoscere l’illiceità penale del fatto, una simile esigenza venga necessariamente ad imporre una serie di « vincoli » e di presupposti ulteriori rispetto a quelli insiti in una pur vigile ed oculata linea di politica criminale, sensibile ai risvolti garantistici delle scelte di tutela di volta in volta effettuate. (31) Cfr. Corte cost., 24 marzo 1988, n. 364, in Foro it., 1988, II, 1385 ss., e spec. 1404 s., con nota di FIANDACA, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge penale: « prima lettura » della sentenza n. 364/1988. Su tale pronuncia si è ormai formata un’ampia letteratura, ricca di indicazioni e di stimoli anche con riguardo alle scelte di riforma penale; cfr. ALESSANDRI, Commento, cit., 97 ss.; AZZALI, La conoscenza della legge penale nella Costituzione della Repubblica, in Studi Vassalli, I, 1991, 123 ss.; CADOPPI, La nuova configurazione dell’art. 5 c.p. ed i reati omissivi propri, in Responsabilità oggettiva, cit., 229 ss.; ID., Il reato omissivo proprio, II, 1988, 1043 ss.; ID., Il ruolo delle Kulturnormen, cit., 301 ss.; CALABRIA, Delitti naturali, delitti artificiali ed ignoranza della legge penale, in Ind. pen., 1991, 35 ss.; CATTANEO, La ratio, cit., 1767 ss.; DONINI, Il delitto, cit., 1 ss., 21 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, P.G., 19953, 353 ss.; FIORE, Diritto penale, cit., 370 ss.; FLORA, La difficile penetrazione del principio di colpevolezza; riflessioni per l’anniversario della sentenza costituzionale sull’art. 5 c.p., in Giur. it., 1989, IV, 337 ss.; GRANDE, La sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale e l’esperienza di « common law »: alcuni possibili significati di una pronuncia in tema di errore di diritto, in Foro it., 1990, I, 415 ss.; JESCHECK, L’errore di diritto nel diritto penale tedesco e italiano, in Ind. pen., 1988, 203 s.; MALINVERNI, L’« inevitabilità » dell’errore, in Responsabilità oggettiva, cit., 200 ss.; MANGIA, Valori e libertà nella giurisprudenza costituzionale: commento a Corte cost. n. 364/1988, in Jus, 1988, 341 ss.; MANTOVANI, Ignorantia legis scusabile ed inescusabile, in questa Rivista,


— 39 — così dire, a collocarsi nell’alveo della tematica delle scelte di criminalizzazione ricostruite alla luce dei principi costituzionali. Ed infatti, se è pur vero che il principio di colpevolezza non si esaurisce certo nell’analisi della problematica della conoscenza (o della conoscibilità) dell’illiceità penale, non è men vero, tuttavia, che il fatto stesso che il termine di riferimento di un simile coefficiente di partecipazione « personale » al comportamento incriminato venga a coinvolgere direttamente la « qualificazione » ad esso attribuita da parte dell’ordinamento penale, è destinata ad implicare inevitabilmente uno stretto rapporto di collegamento proprio con il contenuto e la portata delle scelte di tutela, che un siffatto criterio di qualificazione appare suscettibile, volta per volta, di esprimere e manifestare. Da tale angolo visuale, non può non suscitare, allora, un particolare interesse la circostanza che una parte della dottrina (con il sostegno e l’avallo di un’importante pronuncia della stessa Corte di cassazione) (32) abbia recentemente manifestato alcune perplessità in merito all’idoneità a 1990, 379 ss.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., 95 ss.; PADOVANI, L’ignoranza inevitabile sulla legge penale e la declaratoria d’incostituzionalità parziale dell’art. 5 c.p., in Legislaz. pen., 1988, 449 ss.; PALAZZO, Ignorantia legis, cit., 921 ss.; ID., Ignoranza della legge, cit., 15 ss.; ID., Colpevolezza ed ignorantia legis nel sistema italiano: un binomio in evoluzione, in Studi Dell’Andro, cit., II, 1994, 680 ss.; PARODI GIUSINO, Su alcune conseguenze, cit., 215 ss.; PATRONO, Problematiche attuali dell’errore nel diritto penale dell’economia, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1988, 98 ss.; PETRONE, Il « nuovo » art. 5 c.p.: l’efficacia scusante della ignorantia iuris inevitabile ed i suoi riflessi sulla teoria generale del reato, in Cass. pen., 1990, 697 ss.; PULITANÒ, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1988, 686 ss.; ROMANO, Commentario, cit., 91 ss.; RONCO, voce Ignoranza della legge (dir. pen.), in Enc. giur., XV, 8 ss.; STORTONI, L’introduzione nel sistema dell’errore scusabile di diritto: significati e prospettive, in questa Rivista, 1988, 1313 ss.; VASSALLI, L’inevitabilità dell’ignoranza della legge penale come causa generale di esclusione della colpevolezza, in Giur. cost., 1988, 3 ss., con riferimenti anche all’esperienza comparatistica (sotto quest’ultimo profilo, ed in relazione alla disciplina contenuta nel nuovo codice penale francese, v., in generale, PRADEL, Le nouveau code pénal (P.g.), 1993, 88 ss.). Per ulteriori riflessioni, occasionate da due pronunce della Corte costituzionale in tema di ignoranza di doveri militari (sentenza 6 giugno 1989, n. 325 e sentenza 24 febbraio 1995, n. 61) cfr. PADOVANI, L’ignoranza dei doveri militari al vaglio della Corte costituzionale, in Legislaz. pen., 1989, 641 ss.; PETRONE, L’efficacia scusante dell’ignoranza dei doveri militari, in Giur. cost., 1995, 525 ss.; PULITANÒ, Un nuovo intervento della Corte costituzionale in tema di errore, ivi, 1989, 1501 s. Attentamente analizzate e discusse anche talune vicende della prassi applicativa: cfr., tra gli altri, BELFIORE, Brevi note sul problema della scusabilità dell’ignorantia legis, in Foro it., 1995, II, 154; ID., Nota a Trib. Piacenza, 27 settembre 1994, ivi, 1995, II, 315 ss.; CADOPPI, Orientamenti giurisprudenziali in tema di ignorantia legis, ivi, 1991, II, 415 ss.; GAMBERINI, Il problema dell’ignoranza della legge e della c.d. inesigibilità nei reati a tutela degli interessi collettivi, in Critica dir., 1994, 3, 34 ss. V. anche BRACAGLIA MORANTE, Nota a Pret. Roma 13 gennaio 1994, in Cass. pen., 1995, 421 s. (32) V. Cass., 3 dicembre 1993, in Mass. dec. pen., 1994 (197587). Su tale pronuncia, cfr. i cenni di BUTTI, Art. 5 del codice penale e soggetti particolarmente qualificati, in Dir. pen. e proc., 1995, 77. Successivamente, nello stesso senso, cfr. Cass., 22 marzo 1994,


— 40 — fondare un rimprovero di colpevolezza della (sola) percezione del contrasto di un determinato fatto con i valori dell’ordinamento « genericamente » considerato, laddove il soggetto non abbia avuto (né potesse avere), tuttavia, cognizione alcuna della specifica rilevanza sotto il profilo « penale » del comportamento posto in essere (33). È ben vero, d’altronde, che simili perplessità hanno avuto modo di manifestarsi concretamente soprattutto con riguardo a categorie di illeciti (bensì appartenenti al settore penale, ma) estranei alla sfera tradizionalmente attribuita al c.d. Kernstrafrecht, in quanto tali assai più vicini alle caratteristiche tipiche delle violazioni rientranti nel campo dell’illecito puramente « amministrativo ». E tuttavia, proprio una simile circostanza sembra destinata, a ben guardare, ad offrire alcuni spunti particolarmente significativi per poter individuare i presupposti necessari ai fini di una corretta impostazione dei termini del problema. Dalle osservazioni svolte in proposito per avvalorare la tesi della rilevanza « scusante » dell’errore, è dato ricavare, in primo luogo, la seguente indicazione di carattere generale. Nonostante che (tutte) le sanzioni con contenuto e funzioni lato sensu « punitive » abbiano come scopo essenziale quello di svolgere un ruolo « dissuasivo » rispetto a determinate condotte proprie dei consociati, sarebbe tuttavia eccessivo ritenere che l’ordinamento sia interessato, in pari misura, all’osservanza di tutti i precetti destinati al perseguimento di un simile effetto sul piano generalpreventivo. In altri termini, la circostanza che ad un determinato fatto venga o meno ricollegata una sanzione di natura penale, sarebbe sintomatica di un differente atteggiamento da parte del legislatore in ordine al livello di efficacia concretamente riconosciuta (ed anzi, per così dire, « programmaticamente » attribuita) al relativo precetto normativo; mentre, nel primo caso, al tipo di sanzione comminata, corrisponderebbe l’intento di predisporre un meccanismo generalpreventivo destinato ad operare (data la particolare importanza dei beni in gioco) in termini tendenzialmente assoin Foro it., 1995, II, 498, con nota di VENEZIANI, L’oggetto dell’ignorantia legis rilevante. V. anche Pret. Reggio Emilia, 4 ottobre 1991, in Foro it., 1992, II, 57, con nota di CADOPPI. (33) Sia pur problematicamente, PALAZZO, Ignorantia legis, cit., 947; ID., Ignoranza, cit., 32 s.; ID., Colpevolezza, cit., 699. Assai più nettamente, CADOPPI, Error juris: coscienza dell’antigiuridicità extrapenale e ritardo nel versamento delle ritenute, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1989, 84 ss.; VENEZIANI, L’oggetto, cit., 504. In area tedesca, con riguardo alle ipotesi di supposta rilevanza meramente amministrativa del fatto, cfr. HORN, Verbotsirrtum und Vorwerfbarkeit, 1969, 25 ss.; RUDOLPHI, Unrechtsbewusstsein, Verbotsirrtum und Vermeidbarkeit des Verbotsirrtums, 1969, 88 s.; SCHRÖDER, in LK, I, 198510, par. 17, 102. Come chiarisce PALAZZO, Ignoranza, cit., 32, il problema deve essere necessariamente impostato (ed in tal senso dovrebbero essere interpretate le tendenze più autorevoli della dottrina straniera) nell’ottica della maggiore efficacia « motivante » che il disvalore penale del fatto avrebbe potuto concretamente esplicare, laddove l’agente fosse stato appunto nelle condizioni di percepirne appieno l’integrale portata e significato.


— 41 — luti, nel secondo, viceversa, alla minore gravità della sanzione verrebbe ad accompagnarsi, e sia pure implicitamente, l’attribuzione al relativo comando normativo di un ruolo e di un’efficacia meno intensi nel senso di influenzare e di « motivare » i destinatari del precetto ad un atteggiamento conforme al tenore del « messaggio » ad essi rivolto (34). In effetti, se è pur vero che, come si notava in precedenza, l’elaborazione di un programma di politica criminale volto ad attuare una rigorosa « distribuzione » tra sanzioni penali ed amministrative alla luce dei criteri di « proporzione » e di « sussidiarietà », dovrebbe tendere, in linea di principio, verso la realizzazione di un risultato sul piano generalpreventivo suscettibile di investire entrambe le categorie di illeciti presidiati da tali tipi di sanzione; non è men vero, tuttavia, che, nell’ambito degli illeciti di rilevanza penale, la minaccia edittale risulta idonea ad esplicare un’influenza « motivante » rispetto alle condotte individuali, che — grazie anche alla particolare importanza e significato sotto il profilo « simbolico » che l’oggetto della tutela riveste (o dovrebbe rivestire) all’interno del contesto sociale — è destinata per lo più a rivelarsi di ben maggiore efficacia ed intensità rispetto a quella sottesa alla creazione di precetti volti a distogliere i consociati dalla commissione di illeciti a carattere puramente « amministrativo » (o comunque estranei alla sfera dei comportamenti di contenuto e rilevanza propriamente « criminali »). Rinviando ad un momento successivo per un maggiore approfondimento di simili tematiche, non è possibile negare, d’altronde, come una siffatta prerogativa riconosciuta al comando normativo penale venga ad assumere un ruolo ed un’importanza non trascurabili proprio nell’ottica del perseguimento di un programma di politica criminale particolarmente sensibile alla necessità di salvaguardare le fondamentali esigenze generalpreventive poste alla base dell’ordinamento considerato nel suo complesso; ed invero, se la sanzione penale deve essere riservata — in accordo con l’opinione prevalente — unicamente alle condotte maggiormente « disfunzionali » rispetto alle esigenze di conservazione di un determinato assetto sociale, sembra coerente ritenere che l’obiettivo di impedire la realizzazione di tali comportamenti presenti un’importanza ed un interesse superiori rispetto alla finalità di prevenire e di « dissuadere » i consociati dalla commissione di illeciti incapaci di esprimere un analogo coefficiente di pericolosità e di idoneità offensiva. Simili considerazioni non implicano, beninteso, una visione del significato e del ruolo della minaccia penale destinata comunque a sfociare nell’applicazione della relativa sanzione nei confronti di coloro che non si siano uniformati al modello di condotta posto alla base della più intensa (34) A simili premesse sembra ispirarsi, nella sostanza, la pur sintetica esposizione di SCHRÖDER, in LK, cit., 102.


— 42 — finalità sul piano generalpreventivo perseguita dal precetto penale. Se così fosse, verrebbe meno, in effetti, qualsiasi possibilità di fare ricorso allo stesso principio di colpevolezza allo scopo di impedire, laddove l’autore non risulti « personalmente » rimproverabile, la sottoposizione di quest’ultimo alle conseguenze sanzionatorie astrattamente prefissate nella norma incriminatrice (35). Si vuole invece alludere, come gli svolgimenti che precedono dovrebbero dimostrare, alla circostanza che il contenuto « differenziale » della minaccia penale rispetto a quello proprio di altre categorie di illeciti a carattere « punitivo », in tanto può essere effettivamente riconosciuto e percepito nella sua reale portata, in quanto sia possibile attribuire al relativo precetto normativo un livello di influenza rispetto alle condotte individuali (36) tale da giustificare, laddove ne sussistano i presupposti, una risposta sanzionatoria realmente consentanea al più intenso contenuto di disvalore dei fatti che l’ordinamento penale si propone appunto di scongiurare. Ed è proprio in questa prospettiva che risulta allora possibile, a ben guardare, cogliere la reale portata delle motivazioni sottostanti alla recente tendenza ad attribuire rilevanza scusante all’errore sul divieto penale. Per vero, una volta riconosciuti alla minaccia penale un ruolo ed un’efficacia « dissuasiva » rispetto alle condotte individuali qualitativamente più intensi rispetto a quelli ricollegabili ad altre tecniche di controllo sociale, sarebbe incongruo trascurare del tutto la rilevanza di un simile profilo proprio nel momento in cui si tratti di dover valutare l’atteggiamento sul piano « personale » dell’autore del fatto di fronte alla scelta se orientare o meno il proprio comportamento in senso conforme a quello postulato dal contenuto del precetto. In particolare, non sembra azzardato affermare come il peculiare ruolo e significato sul piano generalpreventivo riconosciuto alla sanzione penale sia destinato a perdere la sua funzione di criterio di orientamento delle condotte individuali — e, conseguentemente, anche la propria capa(35) Per un’analisi approfondita dei rapporti tra esigenze preventive, principio di colpevolezza ed errore sul divieto, cfr. RUDOLPHI, Die Verbotsirrtumsregelung des par. 9 StGB im Widerstreit von Schuld und Prävention, in JBl., 1981, 289 ss.; ID., in SK, cit., par. 17, 93. Sul punto cfr. anche MAURACH-ZIPF, Strafrecht, cit., 502, 511, nonché EUSEBI, La « nuova retribuzione », cit., 1330 s. nota 235, con ulteriori indicazioni. In argomento v. pure KRÜMPELMANN, Dogmatische und empirische Probleme des sozialen Schuldbegriffs, in GA, 1983, 344 ss. Per un’amplissima ed analitica esposizione della tematica dell’errore in rapporto alle funzioni e agli scopi della sanzione penale v. GÖSSEL, Über die Bedeutung des Irrtums im Strafrecht, 1974, 32 ss., 159 ss., 208 ss. (36) In merito ai presupposti necessari affinché tale influenza possa essere attribuita ai contenuti di valore trasfusi nel precetto penale — e per una più precisa individuazione del termine di riferimento rispetto al quale valutare l’esistenza di un coefficiente di « riconoscibilità », idoneo a legittimare l’affermazione di una responsabilità penale in base alla Costituzione — v., infra, i parr. 3 e 4.


— 43 — cità ad offrire una sufficiente base di legittimazione per l’affermazione di una responsabilità di natura « penale » — laddove vengano concretamente a mancare i presupposti per una relazione di integrale « corrispondenza », per così dire, tra il tenore della minaccia edittale e la possibilità di percepirne il significato « motivante » da parte dell’autore del comportamento incriminato; in quelle situazioni, cioè, nelle quali, pur in presenza di un illecito di rilevanza penale, il soggetto agente abbia ritenuto, viceversa, di porre in essere un comportamento inidoneo ad esprimere un contenuto di disvalore corrispondente a quello sotteso al relativo precetto normativo. In presenza di una simile eventualità (e dando per ammesso, secondo quanto si avrà modo di chiarire in seguito, che l’errore dell’agente fosse da considerarsi concretamente inevitabile), l’autore del fatto avrà « personalmente » ricevuto, in effetti, un messaggio « dissuasivo » di tenore differente da quello insito nella funzione attribuita alla minaccia penale, e dovrà essere trattato, pertanto, « come se » il comando normativo fosse risultato privo di un’analoga influenza ed efficacia « motivante » rispetto alla decisione se adeguare o meno il proprio comportamento a quello desumibile dal contenuto del precetto. In sostanza, la rilevanza sotto il profilo penale di un determinato comportamento dovrà esprimersi nella possibilità di formulare un rimprovero nei confronti dell’agente commisurato al rango ed al significato necessari affinché questi possa effettivamente « meritare » di venire sottoposto ad un titolo di « responsabilità » corrispondente al disvalore complessivo (e cioè, sia oggettivo che soggettivo) del fatto concretamente realizzato; soltanto a questa condizione, in effetti, potrà considerarsi integralmente rispettata la ratio della solenne proclamazione costituzionale del principio contenuto nell’art. 27, 1o comma. Per la verità, secondo gli autori propensi, in simili casi, ad ammettere (de iure condito o condendo) la rilevanza « scusante » dell’errore, si dovrebbe far leva esclusivamente sul riferimento al carattere « personale » della responsabilità di cui all’art. 27, 1o comma, Cost.: nel senso, cioè, che, qualora l’errore sul divieto fosse considerato irrilevante, si finirebbe col dar vita ad una forma « occulta » di responsabilità oggettiva (37), in contrasto evidente con la ratio posta a fondamento della norma in questione. Ad un più attento esame, sembra più corretto, tuttavia, valorizzare, all’interno del principio costituzionale, (anche) l’accento posto sul carattere propriamente « penale » della responsabilità colpevole. Invero, limitandosi a far leva sul solo profilo « personale » del rimprovero, si ri(37) La questione viene acutamente tematizzata — e sia pure in termini problematici — soprattutto da PALAZZO, Colpevolezza, cit., 699; ID., Ignoranza, cit., 32 s. Implicitamente, sul tema, v. pure GAMBERINI, Il problema, cit., 39, 41, nonché VENEZIANI, L’oggetto, cit., 503 s.


— 44 — schierebbe, a ben guardare, di ricostruire la ratio del principio costituzionale, trascurandone completamente il fondamentale nesso di collegamento con la particolare natura della responsabilità in cui è destinato ad esprimersi l’addebito rivolto all’autore del comportamento incriminato. Con la conseguenza, in ultima analisi, di postulare, e sia pure implicitamente, l’ammissibilità di un modello di colpevolezza, che, per quanto arricchito di elementi ulteriori rispetto al mero « rapporto psichico » con il fatto (e cioè al dolo o alla colpa), non sarebbe tuttavia idoneo ad esprimere, sul piano teleologico e politico-criminale, quel rapporto di « corrispondenza integrale », per così dire, tra la struttura dell’illecito e le funzioni attribuite alla sanzione, che rappresenta, com’è ben noto, la base ed il fondamento essenziale di legittimazione di un sistema penale assiologicamente orientato in senso conforme alle scelte di valore contenute nella Carta costituzionale. 3. Giunti a questo punto, si deve tuttavia osservare come proprio il richiamo alla dimensione « costituzionale » dei rapporti tra l’illecito ed il ruolo della relativa sanzione sia destinato inevitabilmente a far sorgere la necessità di un approfondimento ulteriore, volto ad individuare la portata ed il significato che il riferimento costituzionale alla categoria della « responsabilità penale » è in grado di esprimere, sia sotto un profilo di carattere generale, sia, in particolare, dall’angolo visuale dell’oggetto e del termine di relazione rispetto al quale valutare la possibilità da parte dell’agente di orientarsi in senso conforme alle esigenze dell’ordinamento penale. Ed invero, è appena il caso di avvertire come, nella ricostruzione del significato di un simile principio, non ci si possa fermare sic et simpliciter alle scelte concretamente operate da parte del legislatore ordinario: alle soluzioni, cioè, positivamente rivolte a qualificare come « penale » una particolare figura di illecito al fine di farne discendere determinate conseguenze sotto il profilo del trattamento sanzionatorio. L’analisi del contenuto di un precetto costituzionale è destinata a richiedere, da parte dell’interprete, un atteggiamento ed uno sforzo ricostruttivo di ben più ampia portata, che non possono certo considerarsi soddisfatti limitandosi semplicemente a riproporre — se non a patto di un’inammissibile « inversione metodologica » — i risultati derivanti dalla ricognizione delle soluzioni concretamente adottate all’interno dell’ordinamento positivo. Da questo angolo visuale, uno spunto particolarmente significativo in tale direzione può essere desunto, a ben guardare, da alcune osservazioni di carattere generale prospettate, più di vent’anni or sono, dallo stesso Franco Bricola nella famosa indagine dedicata alla « teoria generale del reato » (e successivamente ribadite, ed arricchite di ulteriori riflessioni sotto il profilo politico-criminale, nel corso del pregevole studio (38) ricordato in apertura). (38)

Cfr. BRICOLA, Rapporti, cit., 15 ss.


— 45 — Si vuole alludere, più specificamente, alla suggestiva immagine evocata dall’illustre Autore (39) nell’intento di distinguere e di separare nettamente il problema dell’« analisi » del reato — come mera tecnica di identificazione a livello logico-concettuale dei singoli momenti o « gradi » nella costruzione dell’illecito — da quello della « teoria » del reato, intesa invece come espressione di un complesso unitario di principi e di valori direttamente postulati dalla stessa Carta costituzionale: « intendiamo per teoria generale del reato » — osservava l’Autore (40) — « la reductio ad unum, alla luce dei principi costituzionali, di quei dati strutturali dell’illecito penale che vengono in sede analitica notomizzati, nonché il raggiungimento di unità sistematiche e di caratteri essenziali aventi ad oggetto il reato nel suo complesso ». « La teoria generale del reato » — proseguiva ancora l’A. (41) — « realizza una forma di sintesi a priori », volta a permettere « una rivelazione immediata dell’illecito penale nella sua globalità », in modo da poterlo distinguere da altre categorie di illeciti e da giustificare la ratio di fondo del differente trattamento ad esso riservato dalla Carta fondamentale. D’altronde — come avvertiva lo stesso Bricola (42) — tale impostazione nulla aveva in comune con la c.d. concezione « unitaria » elaborata al fine di reagire all’eccessiva « frammentazione » degli elementi del reato derivante dall’opinione contrapposta. La teoria del reato cui egli faceva riferimento andava oltre la disputa metodologica tra tendenze unitarie ed analitiche nella ricostruzione dogmatica della struttura del reato. Essa si poneva, piuttosto, in una prospettiva e in un’ottica di carattere essenzialmente « deontologico », volta a cogliere, cioè, la dimensione propriamente penale di tale forma di illecito alla luce dei contenuti di valore espressi dai principi costituzionali: una dimensione nella quale i connotati essenziali del reato — sia sul piano oggettivo che su quello soggettivo — fossero suscettibili, per l’appunto, di esprimere e di rivelare il senso più profondo delle concezioni penali proprie del legislatore costituente e di inquadrarle in una prospettiva assiologica destinata a riflettersi, in pari misura, su tutti i connotati della categoria che si accingeva ad esaminare. Orbene, sono proprio tali considerazioni — ed in particolare, l’esigenza di valorizzare, a livello costituzionale, una nozione di illecito e di responsabilità personale autenticamente e specificamente « penali » — a suscitare e a stimolare alcune riflessioni ulteriori, volte a sviluppare in tutte le sue implicazioni la postulata esigenza di cogliere e di « rivelare », per l’appunto, i connotati differenziali (sotto il profilo oggettivo e della (39) V. BRICOLA, Teoria, cit., 24 s. (40) Cfr. BRICOLA, Teoria, cit., 24. (41) BRICOLA, Teoria, cit., 24. (42) Cfr. ancora BRICOLA, Teoria, cit., 24.


— 46 — colpevolezza) tra illecito penale ed amministrativo (o comunque extrapenale). In particolare, sembra evidente come la postulata necessità di una relazione (sia pure in chiave « potenziale ») tra il soggetto agente e la rilevanza « penale » del fatto non possa fondarsi, in un’ottica « deontologica », su di una ricostruzione dei contenuti di un simile rapporto alla stregua delle scelte ricavabili dall’ordinamento positivo, ma debba invece — ed ecco il « passaggio » ulteriore suggerito dall’impostazione di Bricola — essere valutata alla luce di ciò che deve essere, per l’appunto, ricondotto alle fondamentali scelte costituzionali in ordine alla dimensione tipicamente « penale » di tale forma di illecito, e della connessa affermazione di una « responsabilità » personale rilevante in base al medesimo titolo. Ed è proprio in questa prospettiva, a ben guardare, che le osservazioni svolte in precedenza circa la necessità di un collegamento tra l’agente e il disvalore « penale » del fatto vengono a mostrare e a rivelare integralmente il loro più profondo significato sul piano teleologico e politico-criminale. Se è vero, infatti, che, nel ricostruire i contenuti qualificanti del principio dell’art. 27, 1o comma, non sembra consentito prescindere dal modo di porsi del soggetto agente rispetto alla dimensione « penale » del fatto realizzato, l’unica soluzione possibile — nel quadro di una ricostruzione in chiave « deontologica » del precetto costituzionale — non può essere che quella di ravvisare, alla base di una simile esigenza, il riconoscimento che l’eventuale conoscenza (o conoscibilità) del disvalore penale sia destinata a rappresentare, per il singolo agente, un motivo più intenso per astenersi dalla realizzazione in concreto del comportamento vietato (e per far apparire giustificata, di conseguenza — laddove abbia commesso l’illecito — l’irrogazione nei suoi confronti di una sanzione destinata a connotarsi in termini di più accentuata gravità). Soltanto questo — e non altro — può essere, invero, il significato di un rimprovero di colpevolezza commisurato alla rilevanza « penale » del fatto commesso. In un’ottica di natura « assiologica », la necessità di collegare l’agente alla dimensione « penale » del proprio comportamento, non può che assumere — in altri termini — il solo significato di postulare, nella minaccia penale, un’efficacia sul piano generalpreventivo qualitativamente superiore, una « forza di richiamo » più intensa e « vincolante » rispetto alle scelte individuali nel momento di decidere se intraprendere o meno la realizzazione del comportamento vietato. Da tale angolo visuale, risulta possibile cogliere, altresì, il nucleo più significativo e qualificante delle tendenze — esaminate in precedenza — volte a ricostruire l’ambito del penalmente rilevante alla stregua di un’offesa di particolare importanza e significato all’interno del contesto sociale. In altri termini — ed ecco il punto di collegamento e di « incontro », per così dire, tra la ratio attribuita all’art. 27, 1o comma e le predette concezioni volte alla ricerea di « vincoli materiali » al potere del legislatore —


— 47 — la più intensa efficacia sul piano « motivante » riconosciuta alla minaccia penale non può che sottintendere, a sua volta, l’elaborazione di una parallela e conforme costruzione in chiave « deontologica » degli stessi contenuti dell’illecito destinato a costituire la « materia » del comando rivolto ai destinatari della norma penale. Per vero, costituisce un dato ormai acquisito all’esperienza penalistica attuale il riconoscimento che l’influenza motivante della minaccia penale è strettamente collegata alla portata ed al significato che il comportamento illecito è in grado di esprimere alla luce degli interessi e dei valori maggiormente diffusi e consolidati all’interno di un determinato contesto sociale (43). Se così non fosse — se, cioè, l’influenza e l’efficacia del messaggio normativo fossero affidati al mero dato « formale » rappresentato dal tipo di conseguenza astrattamente comminata dalla legge — l’effetto generalpreventivo risulterebbe concretamente possibile nei soli casi (assai poco frequenti) nei quali al soggetto fosse dato conoscere l’esistenza e lo specifico significato sul piano « tecnico-giuridico » del comando normativo (ed in particolare, della circostanza (44) — giustamente considerata irrilevante (45) — che quest’ultimo venga a contemplare una condotta formalmente qualificata come « punibile » da parte del legislatore ordinario). Ma non solo. Non appare infondato ritenere come una siffatta conoscenza, per quanto necessaria, non sarebbe tuttavia sufficiente ad assicurare in ogni caso un atteggiamento conforme al comando normativo. In effetti, anche qualora il soggetto fosse a conoscenza della prescrizione normativa in quanto tale, non per questo verrebbe necessariamente a delinearsi una più intensa efficacia « motivante » del precetto penale rispetto alla scelta se tenere o meno la condotta vietata. Ed invero, è appena il caso di sottolineare come, di fronte ad una situazione di palese ed evidente « discrasia », per così dire, tra il disvalore del fatto (supponendo, adesso, che questo venga ad integrare gli estremi di un illecito a contenuto meramente « bagattellare ») e le caratteristiche attribuite alla sanzione (corrispondenti, invece, a quelle tipiche della pena « criminale »), la capacità di « orientamento culturale » propria del sistema repressivo verrebbe a risultarne — come insegnano da tempo i teorici della generalprevenzione (46) — notevolmente (e, nel lungo periodo, irrimediabilmente) pregiudicata; con la conseguenza inevitabile (non già di un rafforzamento, (43) Si rinvia in proposito a quanto ricordato, retro, nella nota 22. (44) Per il richiamo al profilo della punibilità cfr., ad es., SCHRÖDER, in LK, cit., 102, come pure OTTO, Personales Unrecht, Schuld und Strafe, in ZStW, 1975, 595. (45) Cfr., per tutti, PALAZZO, Ignoranza, cit., 26; ID., L’errore sulla legge extrapenale, 1974, 120 s. (46) Nella vastissima letteratura in argomento, sia sufficiente qui rinviare a MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., 47; PADOVANI, L’utopia punitiva, 1981, 255 ss.; PALIERO, Note


— 48 — bensì) di un indebolimento ulteriore della « tenuta » generalpreventiva ricollegabile all’ordinamento complessivamente considerato. In un quadro del genere, la stessa problematica inerente al riconoscimento degli estremi di un « errore sul divieto » sarebbe destinata, a ben guardare, a sfociare in risultati sul piano sistematico e politico-criminale del tutto privi di qualsiasi fondamento razionale. Per comprenderne le ragioni, basti invero ipotizzare il caso in cui, proprio a causa della scarsa « consistenza » sotto il profilo offensivo del comportamento posto in essere (e dato per ammesso che l’autore non fosse comunque a conoscenza della norma « punitiva » in quanto tale), il singolo consociato non venga posto in grado di avvertire l’influenza « motivante » esplicata dalla minaccia penale. In un’ipotesi del genere, un’eventuale scelta volta ad attribuire rilevanza « scusante » all’errore finirebbe col fondarsi, in effetti — e nonostante le contrarie apparenze — su presupposti del tutto privi di qualsiasi razionalità e coerenza con le esigenze sostanziali poste alla base della finalità generalpreventiva attribuita alla minaccia penale. Ed invero, in tanto ha un senso affermare che il soggetto meriti di essere « scusato » a causa dell’errore, in quanto si presupponga che, qualora fosse stato in grado di avvertire la rilevanza penale del fatto, avrebbe potuto ricevere un messaggio « dissuasivo » idoneo a motivarlo più intensamente al rispetto della norma. Una volta che quest’ultima si riveli, al contrario, del tutto inidonea — per le ragioni or ora considerate — a realizzare un simile obiettivo, verrà a mancare, di conseguenza, la stessa base giustificativa della scelta di attribuire rilevanza all’errore sul divieto (penale); in effetti, anche qualora il soggetto fosse stato a conoscenza di un simile divieto, non per questo ne avrebbe tratto particolari motivi per apprezzare il più intenso disvalore del proprio comportamento, e per lasciarsi guidare, pertanto — sulla base di tale valutazione — in senso conforme a quello postulato dalla natura del precetto (47). sulla disciplina dei reati « bagatellari », in questa Rivista, 1979, 930 ss., ed alle ricche indicazioni bibliografiche contenute nelle rispettive opere. (47) Alla stregua di tali considerazioni, è dato cogliere, a ben guardare, il limite intrinseco delle tendenze ad accogliere la c.d. « teoria del dolo » (tra i maggiori sostenitori di tale teoria v., anche in tempi recenti, SCHMIDHÄUSER, Über Aktualität und Potentialität des Unrechtsbewusstseins, in Mayer FS, 1966, 328 ss.; ID., Unrechtsbewusstsein und Schuldgrundsatz, in NJW, 1975, 1807 ss.; ID., Der Verbotsirrtum und das Strafgesetz, in JZ, 1979, 361 ss.; ID., Illusionen in der Normentheorie und das Adressatenproblem im Strafrecht, in JZ, 1989, 424 s. V. anche LANGER, Vorsatztheorie und strafgesetzliche Irrtumsregelung, in GA, 1976, 203, ed, in area spagnola, MIR PUIG, Derecho penal, P.G., 19903, 674, criticato, sul punto, da CEREZO MIR, Die Regelung des Verbotsirrtums im spanischen Strafgesetzbuch, in Arm. Kaufmann GedS, 1989, 481 ss. Per un’analisi del significato di tale teoria cfr., tra gli altri, PADOVANI, In tema di coscienza dell’offesa e teoria del dolo, in Cass. pen., 1979, 321 ss., e, di recente, DONINI, Il delitto, cit., 7 ss. In area tedesca cfr. l’ampio quadro tracciato da KUHLEN, Die Unterscheidung von vorsatzausschliessendem und nichtvorsatzausschliessen-


— 49 — È ben vero, d’altro canto, come — nell’ottica di una coerente valorizzazione del rimprovero di colpevolezza — il verificarsi di una situazione del genere potrebbe anche suggerire l’adozione di una scelta sul piano sistematico suscettibile di condurre a dei risultati di segno esattamente opposto. In particolare, proprio la circostanza che il precetto penale non fosse comunque in grado di orientare la condotta dell’agente potrebbe far apparire giustificata l’esclusione di qualsiasi rimprovero nei suoi confronti per non essersi lasciato « motivare » dal comando normativo. Senonché, non è difficile accorgersi come, ragionando in questi termini, si correrebbe il rischio di arrivare al risultato incongruo di dover ratificare a priori, per così dire, la radicale impossibilità da parte dell’ordinamento di dem Irrtum, 1987, 275 ss. e, per una raffinata tematizzazione del problema in rapporto ai principi costituzionali, l’analisi a suo tempo svolta da SAX, Grundsätze der Strafrechtspflege, in Die Grundrechte, III, 2, 1959, 949 ss. Ulteriori osservazioni in MUÑOZ CONDE, El error en derecho penal, 1989, 25 ss., 42 ss.) nella sfera del diritto penale accessorio (a favore di una simile opzione sistematica cfr., pur nelle notevoli differenze d’impostazione, FIGUEIREDO DIAS, O problema, cit., 394; ID., Schuld und Persönlichkeit, in ZStW, 1983, 246 s.; ID., Der Irrtum als Schuldausschliessungsgrund im portugiesischen Strafrecht, in Rechtfertigung und Entschuldigung, III, 1991, 211; Arth. KAUFMANN, Das Schuldprinzip, cit., 137; ID., Einige Anmerkungen, cit., 190; LANGE, Der Strafgesetzgeber und die Schuldlehre, in JZ, 1956, 73 ss.; NOLL, Tatbestand und Rechtswidrigkeit: die Wertabwägung als Prinzip der Rechtfertigung, in ZStW, 1965, 6; STRATENWERTH, Dolus eventualis und bewusste Fahrlässigkeit, ivi, 1959, 70 s.; TIEDEMANN, Zur legislatorischen Behandlung des Verbotsirrtums im Ordnungswidrigkeiten- und Steuerstrafrecht, ivi, 1969, 884; ID., Sullo stato della teoria dell’errore, con particolare riferimento al diritto penale dell’economia e alle leggi speciali, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, 82 ss., con approfondimenti sotto il profilo costituzionale e della ricerca di momenti di convergenza con opinioni apparentemente diverse; ZIEGERT, Vorsatz, Schuld und Vorverschulden, 1987, 156 ss. In senso contrario cfr. invece JESCHECK, Lehrbuch, cit., 413 s.; MAIWALD, Unrechtskenntnis und Vorsatz im Steuerstrafrecht, 1984, 15 ss., 42 ss.; MAURACH-ZIPF, Strafrecht, cit., 18; ROXIN, Strafrecht, cit., 598 s.; RUDOLPHI, in SK, cit., par. 16, 57; WELZEL, Der Verbotsirrtum im Nebenstrafrecht, in JZ, 1956, 238 ss. Sulla questione, nella dottrina italiana, oltre alla peculiare impostazione di BRICOLA, Dolus in re ipsa, 1960, 127, 134 ss.; cfr. ROMANO, Commentario, cit., 93, nonché, più ampiamente, CADOPPI, Il reato omissivo, II, cit., 1018 ss.; DONINI, Il delitto, cit., 7 ss., 51 ss., con ricca ed analitica esposizione degli specifici orientamenti al riguardo). Si deve infatti osservare come, per quanto indubbiamente ispirata dall’apprezzabile intento di salvaguardare l’effettiva portata del principio di colpevolezza, una simile tendenza finisca col dare per presupposto un profilo di orientamento e di « richiamo » nei confronti delle condotte dei consociati, che non appare, viceversa, necessariamente assicurato dalla coscienza dell’antigiuricità del fatto. La consapevolezza circa l’esistenza del divieto (ed anche a voler supporre che quest’ultimo venga percepito nella sua dimensione penale) potrà invero esplicare, tutt’al più, un effetto di maggiore « intimidazione » nei confronti del potenziale trasgressore, senza tuttavia venire ad implicare quella ulteriore funzione di orientamento culturale, che sola può assicurare un adeguamento ai precetti normativi il più possibile diffuso e generalizzato. Ben diversi, come si vedrà tra breve, sono invece i risultati derivanti dall’attribuzione alla dimensione « penale » del fatto di una caratterizzazione sotto il profilo assiologico realmente conforme all’esigenza costituzionale di orientare le scelte dei consociati secondo uno schema corrispondente a quello che segna la sfera di legittimazione, in termini sostanziali, della possibilità (e dei limiti) del ricorso allo strumento della coercizione penale.


— 50 — far seguire alla minaccia edittale un’effettiva applicazione della sanzione nei confronti dell’autore del comportamento illecito; l’inidoneità del precetto a far sì che i consociati possano avvertire il più intenso disvalore del proprio comportamento finirebbe col risolversi, in ultima analisi, in una sorta di anticipata « franchigia » contro l’addebito di avere disatteso il messaggio normativo derivante dalla minaccia penale. In realtà, non si può fare a meno di ricordare, proprio a questo proposito, che l’intera problematica del c.d. « errore sul precetto » (o, se si vuole, dell’impossibilità da parte dell’agente di percepire il disvalore del proprio comportamento) è destinata — com’è stato recentemente ribadito (48) — ad esprimere ed a rivelare un aspetto, per così dire, « patologico » dell’ordinamento penale. La categoria in questione prospera e si espande in un sistema repressivo incapace di selezionare i fatti realmente meritevoli di essere assoggettati ad una sanzione privativa della libertà personale: un ordinamento, cioè, che non abbia ancora intrapreso una ricognizione accurata e rigorosa dei contenuti di disvalore dei singoli comportamenti antisociali, volta ad attribuire rilevanza penale soltanto a quelli idonei ad esprimere e a rivelare una più intensa capacità ad incidere sulle esigenze di tutela concretamente avvertite in un determinato momento storico. In un simile contesto, non appare, allora, infondato il timore che si possa alla fine addivenire ad una sorta di vera e propria « inversione » (e perversione) della stessa logica generalpreventiva, che, pur nel rispetto del principio di colpevolezza (ed anzi, proprio allo scopo di rendere quest’ultimo conforme al significato ed ai limiti della minaccia penale) dovrebbe presiedere alle finalità perseguite dall’ordinamento nel suo complesso. Ed invero, funzione primaria di un ordinamento penale non può essere, evidentemente, quella di predisporre le condizioni necessarie per poter « scusare » l’autore di un comportamento illecito, bensì, al contrario, quella di creare dei presupposti adeguati a far sì ch’egli sia in grado di apprezzare il disvalore del proprio comportamento, e di astenersi dal porlo in essere. Da questo punto di vista, la stessa categoria della « personalità » della « responsabilità penale » solennemente evocata dall’art. 27, 1o comma non può essere certo ricondotta a quella logica « estrema » della rilevanza di un « errore » di valutazione dovuto all’incapacità da parte del legislatore di predisporre gli strumenti necessari per orientare le condotte dei consociati. Al contrario, in una visione « deontologica » del precetto costituzionale, la « personalità » del rimprovero non può che essere agganciata e commisurata a delle scelte in materia « penale » capaci di esprimere il senso ed il fondamento di un modello di « responsabilità » determinato in (48) 1319 ss.

Al riguardo, si leggano i convincenti rilievi di STORTONI, L’introduzione, cit.,


— 51 — funzione dello sforzo da parte del legislatore di orientare i consociati verso il rispetto del comando normativo. In questa prospettiva, il contenuto del precetto costituzionale non potrà dunque risultare subordinato — è opportuno ribadirlo — ad un’eventuale scelta da parte del legislatore di qualificare come « penale » un determinato comportamento illecito, dovendo invece essere posto in relazione a ciò che deve essere, per l’appunto, ricondotto, in una corretta visione generalpreventiva, alla sfera dei presupposti necessari a giustificare, nei confronti dell’agente, l’affermazione di un rimprovero commisurato alla rilevanza « penale » del fatto in base alla Costituzione. Al dato « formale » della minaccia penale dovrà, insomma, sostituirsi necessariamente il significato sostanziale di ciò che merita di essere qualificato come tale, in conformità al ruolo e alla funzione sotto il profilo teleologico e politicocriminale attribuita dalla Costituzione ad un simile strumento di controllo sociale; con la conseguenza, inoltre, che, nel ricostruire le basi di un rimprovero di colpevolezza in senso « personale », non sarà sufficiente (49) (né, d’altro canto, in alcun modo necessario) richiedere che la fisionomia del precetto venga percepita dall’agente sotto il profilo tecnico-formale del tipo (od entità) della sanzione di volta in volta comminata da parte del legislatore; a tale scopo sarà necessario, piuttosto, come si avrà modo di constatare tra breve, che l’agente venga posto in grado di percepire l’interesse dell’ordinamento al rispetto di quelle medesime esigenze di tutela su cui è destinato a fondarsi, alla luce della Costituzione, il contenuto intrinsecamente « penale » del tipo d’offesa, che simili esigenze sono chiamate, di volta in volta, ad esprimere e a manifestare. 4. Una volta assodato che il principio dell’art. 27, 1o comma è destinato a svolgere un ruolo particolarmente significativo nel senso di sollecitare e stimolare il legislatore a procedere ad una ricognizione rigorosa dei comportamenti meritevoli di una risposta penale, appare, tuttavia, necessario identificare con maggiore precisione le condizioni in presenza delle quali una simile opera di delimitazione dell’intervento penale possa effettivamente conciliarsi con l’esigenza di conferire all’oggetto del divieto una fisionomia corrispondente alla più intensa efficacia sotto il profilo « dis(49) Troppo spesso, si è invero insistito sulla circostanza che sarebbe quanto meno eccessivo richiedere l’esistenza di un rapporto di collegamento con l’antigiuridicità « formale » del comportamento posto in essere (quando non addirittura con la qualificazione sotto il profilo « penale » della condotta incriminata). Più significativo appare invece il problema se un simile rapporto non venga, in realtà, ad esprimere ancora troppo poco per poter fondare e legittimare l’affermazione di una responsabilità commisurata alla rilevanza penale del fatto alla luce della Costituzione. Pur senza procedere ad una ricostruzione in chiave deontogica del tipo di quella suggerita nel testo, ben sottolinea l’insufficienza di un profilo di consapevolezza dell’illecito « positivisticamente » limitato alla percezione del suo rilievo a livello puramente formale RUDOLPHI, Unrechtsbewusstsein, cit., 49 ss., 53 s., 63, 68 s.


— 52 — suasivo » e a livello di c.d. orientamento « socioculturale » costituzionalmente riconosciuta allo strumento generalpreventivo della minaccia penale. In effetti, l’idea di postulare uno stretto collegamento tra l’art. 27, 1o comma, Cost. e le problematiche generali inerenti alle scelte di criminalizzazione, sembra destinata, a ben guardare, a far emergere dei risvolti e delle implicazioni di ben più ampia portata rispetto a quelli sottesi alla ricorrente affermazione secondo la quale il contenuto delle singole incriminazioni dovrebbe ispirarsi alla tutela di interessi di particolare importanza e significato all’interno del contesto sociale. Ed invero, una volta che il problema delle scelte normative in materia penale venga ad essere confrontato e, per così dire, specificamente « commisurato » (anche) alla prospettiva dell’idoneità del messaggio normativo ad essere effettivamente (e « personalmente ») recepito da parte dei destinatari del precetto, la ricerca di limiti all’intervento del legislatore ordinario non potrà non porre di fronte all’esigenza di introdurre dei prosupposti e dei « vincoli » di contenuto di portata ancor più intensa e rigorosa rispetto a quelli postulati da una ricostruzione in chiave esclusivamente obiettiva dei connotati dell’illecito penale: dei presupposti, cioè, in presenza dei quali le esigenze politico-criminali poste alla base del ricorso allo strumento penale possano trovare riscontro nell’effettiva possibilità da parte dei consociati di percepire il significato ed il contenuto essenziale dei valori in cui simili esigenze repressive sono destinate, di volta in volta, ad esprimersi e a manifestarsi. Al fine di poter individuare i presupposti essenziali per una corretta impostazione del problema, sembra, allora, necessario concentrare maggiormente l’attenzione su alcune interessanti indicazioni ricavabili da due fondamentali pronunce della Corte costituzionale, la prima dedicata ai limiti di rilevanza dell’errore sul divieto (50), la seconda, invece, alle prerogative ed ai poteri dello Stato in materia penale in rapporto alla sfera di competenza riconosciuta all’attività normativa propria delle Regioni (51): (50) Si fa riferimento, com’è chiaro, alla fondamentale pronuncia della Corte cost., 24 marzo 1988, n. 364 cit., in merito alla quale rinviamo ai commenti e agli studi menzionati nella nota 31. (51) Cfr. Corte cost., 30 ottobre 1989, n. 487, in questa Rivista, 1990, 1562 ss., con nota di PIERGALLINI, La potestà penale delle Regioni, oggi: approfondimenti, reticenze e suggestioni di una recente sentenza costituzionale. A proposito di tale pronuncia cfr. anche, dello stesso PIERGALLINI, l’analisi in tema di Norma penale e legge regionale: la costruzione del « tipo », in Sulla potestà punitiva dello Stato e delle Regioni, 1994, 115 s., come pure le osservazioni di FIANDACA, in Foro it., 1990, I, 27 s., di MUSCO, Sistema penale e legge regionale, in Giur. cost., 1990, I, 838 ss., e di DI MARTINO, Dalla « campana senza battaglio » al concorso di norme, in questa Rivista, 1992, 1002, 1015 e nota 74. Per alcuni rilievi sintetici in merito alla pronuncia in esame, e per ulteriori svolgimenti circa il significato del principio di riserva di legge in rapporto alle fonti regionali, cfr. il quadro tracciato da PALAZZO, Ancora sulla legalità in materia penale, in Associazione per gli Studi e le Ricerche Parlamentari, Quad. 5 - Seminario 1994, 73 ss. (dell’estratto).


— 53 — entrambe, dovute al contributo decisivo di un grande studioso delle problematiche costituzionali del diritto penale prematuramente scomparso (52). Qualora, infatti, le due pronunce in esame vengano lette — come deve essere — in un rapporto di stretta correlazione tra loro, sarà più agevole ricavarne un fondamentale criterio di orientamento in ordine alla sfera di legittimazione dell’intervento penale, che in questa sede merita di essere ulteriormente sviluppato ed analizzato in tutte le sue implicazioni a livello costituzionale e politico-criminale. Fermandosi a considerare, anzitutto, il contenuto della seconda pronuncia della Corte, non è difficile accorgersi com’essa risulti incentrata sull’affermazione di un principio, la cui importanza e significato sono destinati ad estendersi ben oltre l’oggetto specifico della questione di costituzionalità: le sanzioni di natura penale, pur essendo rivolte alla tutela di determinati beni giuridici, presenterebbero, ad avviso della Corte, il connotato indefettibile di essere preordinate ad assicurare la salvaguardia « dell’intero ordinamento statale in quanto tendente a realizzare una vita in comune democraticamente orientata » (53); ciò comporterebbe, in altri termini, che « anche i singoli beni giuridici, anche i valori costituzionalmente significativi » sarebbero destinati a divenire « mezzi di volta in volta prescelti » (54) allo scopo di garantire, per l’appunto, « la comunità tutta » (55), quale trova espressione nell’assetto complessivo « dell’intero ordinamento statale » (56). A tali affermazioni fanno eco quelle contenute nell’altra pronuncia sopra ricordata; nella quale, prima ancora che i singoli passaggi argomentativi, assumono rilievo, ancora una volta, le coordinate di fondo poste alla base del pensiero della Corte. Da esse, può desumersi, in particolare, lo sforzo di delineare i rapporti tra cittadino e Stato alla stregua di una dimensione dichiaratamente « contrattualistica », secondo il modello illuministico di un « patto » reciproco tra i consociati e coloro che sono chiamati a rappresentarli (e cioè, in buona sostanza, lo Stato stesso) volto a subordinare l’osservanza della legge all’adempimento di doveri di « comunicazione » (del messaggio normativo) da parte di questi ultimi, e di corrispondenti doveri di « informazione » a carico dei primi (57): il tutto, allo scopo di assicurare, come presupposto fondamentale per l’orientamento delle condotte individuali, la possibilità di riconoscere i « valori della con(52) Alludiamo al Prof. Renato Dell’Andro, indimenticato artefice di un profondo rinnovamento del diritto penale alla luce dei principi della Carta costituzionale. (53) Cfr. Corte cost., 30 ottobre 1989, n. 487, cit., 1568. (54) Cfr. sentenza n. 487, cit., 1570. (55) Cfr. sentenza n. 487, cit., 1568, 1570. (56) V. sentenza n. 487, cit., 1567, 1568. (57) Cfr. sentenza n. 364, cit., 1405 s.


— 54 — vivenza » (58) organizzata, quali trovano espressione, ancora una volta, nelle esigenze di tutela poste alla base dell’ordinamento nel suo complesso. Orbene, non è difficile accorgersi come simili affermazioni siano destinate ad offrire alcuni fondamentali criteri di orientamento anche ai fini della soluzione dei problemi che costituiscono l’oggetto della presente indagine. Pare evidente, in primo luogo, come — a voler seguire le linee tracciate dalla Corte — alla base di ogni norma incriminatrice debba potersi ravvisare, in conformità ai principi costituzionali, la protezione di interessi suscettibili di essere valutati (in sé stessi o in determinate forme di aggressione o messa in pericolo) come dei presupposti essenziali per la salvaguardia e la conservazione dell’intero assetto sociale (59). Una simile valutazione, in particolare — pur essendo concretamente devoluta al legislatore ordinario — dovrebbe essere operata alla luce di criteri selettivi conformi alle indicazioni della Carta costituzionale, la quale imporrebbe di limitare la repressione penale ai soli comportamenti realmente « disfunzionali » rispetto alle condizioni di sopravvivenza dell’ordinamento statuale nella sua dimensione complessiva e « globale ». D’altronde, una volta che — alla luce delle stesse indicazioni fornite dalla Corte — siffatti parametri di delimitazione dell’intervento penale vengano ad essere posti in relazione alla capacità da parte dei consociati di percepire appieno le sottostanti scelte di valore, il principio costituzionale della « personalità » della « responsabilità penale » non potrà non implicare, a sua volta, che al singolo agente venga offerta la concreta possibilità di avvertire l’inerenza di tali valori a quelle medesime esigenze di tutela delle condizioni essenziali della convivenza organizzata, cui il legislatore è tenuto ad ispirarsi nel momento di operare le proprie scelte di criminalizzazione. In altri termini, muovendo dal presupposto che le scelte di tutela in materia penale debbano trovare riscontro anche nei coefficienti di rimproverabilità sul piano « personale » di coloro che vengano chiamati a conformarvisi, re(58) V. sentenza n. 364, cit., 1404. (59) È ben vero, d’altro canto, che la Corte cost., 24 marzo 1988, n. 364, cit., pur facendo richiamo alla necessità di ricollegare la tutela penale a valori già profondamente radicati nel contesto sociale (cfr. col. 1405), non manca di avvertire l’esigenza di conciliare i limiti di rilevanza dell’error juris con l’attuale tendenza del diritto penale verso l’introduzione di fattispecie prive di un referente sociale saldamente ancorato a preesistenti Kulturnormen (cfr. col. 1396, 1411). E tuttavia, non è possibile dimenticare come la pronuncia in esame, proprio in quanto rivolta a sindacare la legittimità costituzionale dell’art. 5 c.p., non potesse trascurare di offrire una soluzione adeguata rispetto a tutte le situazioni rilevanti ai fini di un giudizio di colpevolezza commisurato alla particolare problematica dell’ignorantia legis. In questa sede, interessa valorizzare, peraltro, le indicazioni di politica criminale emergenti dal tessuto delle argomentazioni della Corte — e dal collegamento di queste con le affermazioni contenute nell’altra pronuncia sopra ricordata — piuttosto che limitarsi a registrare e ad analizzare le specifiche direttive di volta in volta formulate con riguardo alle singole categorie di fattispecie destinate ad interferire con i criteri di valutazione circa la rilevanza dell’error juris.


— 55 — quisito necessario (e sufficiente) per poter affermare la responsabilità di questi ultimi non potrà essere che quello della capacità di avvertire il significato offensivo del proprio comportamento secondo quel medesimo parametro di valutazione in cui la legittimità di simili scelte è destinata di volta in volta ad esprimersi e ad incarnarsi. Ed è appunto in questa prospettiva, a ben guardare, che la postulata necessità di una ricostruzione in chiave « deontologica » del principio dell’art. 27, 1o comma è in grado di esprimere e di rivelare integralmente il proprio ruolo e significato ai fini di una corretta identificazione dei connotati costitutivi essenziali dell’illecito penale. In una prospettiva di tipo assiologico, elemento qualificante della dimensione « penale » del fatto in base alla Costituzione non potrà essere, evidentemente, quello rappresentato dal mero dato « formale » del tipo di sanzione discrezionalmente attribuita dal legislatore a determinate forme di comportamento illecito; al contrario, la rilevanza sul piano « penale » di determinate condotte non potrà che fondarsi — secondo le indicazioni contenute, e non a caso, proprio nelle suddette pronunce della Corte costituzionale — sul significato ed importanza, sotto il profilo sostanziale, degli stessi « valori » fondamentali destinati a circoscrivere, in chiave teleologica e politico-criminale, l’ambito entro il quale il legislatore ordinario deve ritenersi legittimato a fare ricorso allo strumento della sanzione penale. Soltanto in questa prospettiva, appare possibile, del resto, pervenire ad una corretta impostazione (anche) della problematica concernente il profilo « personale » del rimprovero penale (60). Se, invero, per le ragioni già in precedenza esaminate, sarebbe del tutto incongruo richiedere (o limitarsi a postulare) la possibilità dell’agente di percepire il mero dato formale del tipo di sanzione astrattamente comminata dal legislatore, nessun ostacolo sembra invece frapporsi al riconoscimento della necessità che i (60) L’aggancio delle scelte di criminalizzazione — così come delineate, in particolare, nella pronuncia della Corte cost. n. 487, cit. — anche alla prospettiva della « riconoscibilità » dell’importanza e del significato dei valori tutelati, si rivela, d’altronde, particolarmente opportuno, allo scopo di evitare che il richiamo tout court alla salvaguardia dell’assetto complessivo dell’intera comunità organizzata possa venire interpretato alla stregua di una sorta di « pubblicizzazione » e « funzionalizzazione » agli interessi dello Stato-ordinamento degli stessi beni di natura personale, tale da condurre a snaturarne il contenuto e la fisionomia specifica. In realtà, il riconoscimento che simili beni giuridici — per quanto di natura individuale — si rivelano comunque essenziali per la sopravvivenza del « patto sociale » su cui si regge la convivenza organizzata, è destinato ad assumere particolare significato proprio in vista dell’esigenza di valorizzare il momento della « percezione » a livello sociale dell’importanza di determinati valori, come presupposto per una più efficace azione sotto il profilo generalpreventivo da parte dell’ordinamento penale (sul punto, v. anche, infra, in questo stesso paragrafo e nel successivo). Per un’interessante analisi di simili problematiche, condotta alla luce del parametro dell’« intesa sociale » circa l’importanza di determinate sfere di interessi, sia pure di differente natura, cfr. i rilievi di HASSEMER, Theorie und Soziologie, cit., 232 ss.


— 56 — consociati vengano messi in grado di percepire il significato sostanziale dell’offesa ad interessi suscettibili di esprimere la dimensione intrinsecamente (e, per così dire, « ontologicamente ») penale del fatto in un’ottica di tipo assiologico e politico-criminale; una volta escluso che la mera percezione della « punibilità » del fatto rappresenti di per sé stesso un elemento significativo per poter agganciare il rimprovero penale alla dimensione offensiva dell’illecito in base alla Costituzione, l’unico presupposto idoneo a giustificare un simile rimprovero non potrà che consistere, in effetti, in quel coefficiente di « riconoscibilità » dei valori sottostanti alle scelte di criminalizzazione, sui quali è destinato a fondarsi lo stesso potere attribuito al legislatore di fare ricorso alla misura estrema di una sanzione di contenuto limitativo della libertà personale. Né può dimenticarsi, inoltre, come l’adozione di una simile prospettiva nell’interpretazione del principio costituzionale si presti a realizzare nella maniera più convincente l’esigenza di far corrispondere alla garanzia del carattere autenticamente « personale » della responsabilità penale l’altrettanto importante obiettivo — a questa strettamente connesso — di assicurare un (più) elevato livello di efficacia sul piano generalpreventivo del messaggio sotteso al comando normativo penale; ed invero, è difficile negare come la capacità di orientamento anche (e soprattutto) a livello « socioculturale » insita nel precetto penale sia destinata ad aumentare sensibilmente proprio in funzione della possibilità da parte dei consociati di cogliere il significato e la rilevanza dei valori sottostanti alle scelte di criminalizzazione secondo l’ottica e la dimensione a questi attribuita nelle già ricordate pronunce della Corte costituzionale. Per l’appunto, l’idea stessa che la fisionomia « penale » del fatto in base alla Costituzione debba incentrarsi sull’offesa ad interessi suscettibili di esprimere le condizioni essenziali di sopravvivenza dell’intera comunità sociale, non potrà non rappresentare — nell’ottica di una parallela e conforme « riconoscibilità » da parte dell’agente del carattere fondamentale di simili valori — la base per la costruzione di un modello generalpreventivo tendenzialmente dotato della massima influenza ed efficacia « motivante » rispetto alle scelte individuali nel momento di decidere se intraprendere o meno la realizzazione della condotta vietata. Alla luce di tali considerazioni, è dato comprendere, allora, in tutta la sua reale portata, anche il senso più profondo del rilievo, precedentemente formulato, secondo il quale il riferimento al profilo « personale » della « responsabilità penale » (nella prospettiva di carattere « deontologico » poc’anzi evidenziata) parrebbe destinato a condurre ad un’ulteriore limitazione della sfera dell’intervento penale rispetto a quella generalmente prospettata nell’ambito delle indagini dedicate ai profili costituzionali delle scelte di criminalizzazione. In altri termini, una volta postulata la necessità che i consociati deb-


— 57 — bano poter avvertire l’inerenza di determinati valori alle condizioni essenziali di sopravvivenza dell’intera comunità sociale, la sfera di legittimazione dell’intervento penale tenderà per lo più ad identificarsi — proprio nell’ottica di tipo illuministico-liberale evocata dalla Corte costituzionale — con la tutela di interessi in grado di esprimere un contenuto corrispondente a quello proprio dei beni giuridici di più consolidata e riconosciuta importanza ai fini della salvaguardia dell’assetto complessivo dei rapporti sociali costituiti nello Stato. La sfera dell’intervento penale sembrerebbe dunque destinata, in questa prospettiva, a dover necessariamente riprodurre, almeno in larga prevalenza, quella segnata dalla tutela contro le forme di aggressione tradizionalmente intese e concepite come le manifestazioni più gravi e intollerabili di « rottura » del « patto sociale » su cui è destinata a fondarsi la convivenza organizzata. In pratica, dovrebbero venire nuovamente in considerazione — in guisa di modelli « esclusivi » di legittimazione dell’intervento penale — i comportamenti offensivi di interessi, vuoi di tipo « personale » (come la vita, l’integrità fisica, la libertà, lo stesso patrimonio, almeno contro le forme di aggressione più gravi ed insidiose), vuoi di natura « superindividuale » (come quelli afferenti alla protezione dell’« integrità » dello Stato, o alla tutela delle forme di manifestazione dei suoi poteri fondamentali) quali appaiono riconosciuti e confermati da una tradizione penalistica ormai da lungo tempo consolidata (61), almeno a partire dalla nascita e dallo sviluppo del tipo di ordinamento statuale di derivazione illuministico-liberale. (61) Da tale angolo visuale, sembra quanto meno eccessiva l’idea di equiparare, sotto il comune denominatore di « beni collettivi », i beni giuridici facenti capo allo Stato come espressione della comunità organizzata (ovvero afferenti alle principali forme di estrinsecazione dei relativi poteri) agli interessi diffusi, di cui ci si occuperà tra breve, quali si sono andati affermando soltanto in tempi successivi, sotto l’influenza dell’aumentata complessità dei sistemi sociali e dei compiti assegnati all’attuale forma di Stato (cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., 178). Ed invero, il differente livello di sedimentazione sotto il profilo dell’evoluzione storica e della percezione sul piano politico-sociale della rilevanza degli interessi or ora delineati, sembra impedirne un’assimilazione ed una totale parificazione (anche) nell’ottica della riconoscibilità del carattere assolutamente indefettibile della corrispondente tutela. Sia pure nel contesto di un differente approccio metodologico, si mostra sensibile al problema FORNASARI, Il concetto di economia pubblica nel diritto penale, 1994, 145. Una delimitazione dell’intervento penale particolarmente rigorosa viene poi prospettata, com’è noto, da MUSCO, Bene giuridico, cit., 116 ss., 126 ss., il quale fa leva sul principio dell’art. 27, 3o comma Cost., allo scopo di circoscrivere le scelte di criminalizzazione alla tutela delle sole « condizioni minime della esistenza in comune », sul presupposto che il trattamento rieducativo possa avere di mira il rispetto di quei soli valori, che, alla luce dei principi costituzionali, si pongano in un rapporto di compatibilità con l’assetto pluralistico dell’attuale ordinamento liberaldemocratico. Senonché, di fronte all’obiezione (cfr. FIANDACA, Il bene giuridico, cit., 153; ID., Commento, cit., 253) secondo la quale il concetto di rieducazione è destinato inevitabilmente a postulare un termine di riferimento cui commisurarne il significato teleologico (ed una volta escluso, come riconosce lo stesso MUSCO, Bene giuridico, cit., 127, che possano costituire oggetto di tutela penale tutti gli interessi contemplati


— 58 — È pur vero, d’altronde, che, grazie al progressivo affiorare di nuove esigenze di tutela rispetto a quelle poste a fondamento dei beni giuridici di più consolidata tradizione, non sono pochi oggi coloro (tra i quali lo stesso legislatore) che si mostrano favorevoli all’idea che il diritto penale — anche se ricondotto entro l’alveo di scelte di criminalizzazione sufficientemente rigorose e « selettive » — non possa fare a meno di rivolgersi verso la protezione di una cerchia assai più ampia di interessi e di valori; basti pensare soltanto alla necessità di apprestare una tutela efficace contro gli illeciti connessi all’esercizio dell’impresa, contro quelli volti ad arrecare offesa al bene dell’ambiente, contro gli illeciti di natura finanziaria, contro le violazioni attinenti al rapporto di lavoro (62), e così via dicendo. dalla Carta costituzionale), si renderà pur sempre necessario individuare un criterio ed un « filtro » selettivo idoneo ad orientare le scelte di criminalizzazione, e dal quale lo stesso principio rieducativo possa ricevere, a sua volta, la corrispondente impronta finalistica. (62) Senza alcuna pretesa di completezza, ricordiamo, tra alcune delle più significative elaborazioni in materia di diritto penale dell’impresa, o più in generale dell’economia, PEDRAZZI, voce Economia pubblica (delitti contro la), in Enc. dir., XIV, 278 ss.; ID., Gestione d’impresa e responsabilità penali, in Riv. soc., 1962, 220 ss.; ID., Gli abusi del patrimonio sociale ad opera degli amministratori, in questa Rivista, 1953, 529 ss.; ID., Odierne esigenze economiche e nuove fattispecie penali, ivi, 1975, 1099 ss.; ID., Problemi di tecnica, cit., 17 ss.; ID., L’evoluzione del diritto penale economico, in Studi Vassalli, I, 1991, 611 ss.; ID., La riforma, cit., 350 ss.; ID., Interessi economici, cit., 295 ss.; ID., voce Mercati finanziari (disciplina penale), in Dig. disc. pen., VII, 652 ss.; PEDRAZZI-DI GENNARO (a cura di), Criminalità economica e pubblica opinione, 1982; BRICOLA, Lo statuto dell’impresa: profili penali e costituzionali, in Giur. comm., 1985, I, 709 ss.; ID., Il costo del principio societas delinquere non potest nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in questa Rivista, 1970, 151 ss.; ID., Responsabilità penale per il tipo e per il modo di produzione, in Quest. crim., 1978, 101 ss.; ID., Il diritto penale del mercato finanziario, in Mercato finanziario e disciplina penale, 1993, 27 ss. Ma v. pure ALESSANDRI, I reati societari, in La riforma del diritto penale, cit., 421 ss.; ID., Reati d’impresa e modelli sanzionatori, 1984; AZZALI, L’intermediazione finanziaria, in questa Rivista, 1993, 30 ss.; FLICK, Diritto penale e credito: problemi attuali e prospettive di soluzione, 1988; ID., Diritto penale e credito: « dal pubblico servizio all’impresa banca: ritorno al futuro », 1990; GROSSO, Interessi protetti e tecniche di tutela, in Beni e tecniche, cit., 163 ss.; MARINUCCI, Gestione d’impresa e pubblica amministrazione: nuovi e vecchi profili penalistici, in questa Rivista, 1988, 424 ss.; MAZZACUVA, Problemi attuali del diritto penale societario, 1985; ID., Bene giuridico e tecniche di tutela nel diritto penale societario, in Materiali, cit., 200 ss.; ID., La legislazione penale in materia economica: normativa vigente e prospettive di riforma, in questa Rivista, 1987, 498 ss.; PATALANO, Beni costituzionali e tutela penale degli interessi economici, in Studi Vassalli, I, cit., 631 ss.; ROMANO, Diritto penale in materia economica, riforma del codice, abuso di finanziamenti pubblici, in Comportamenti economici, cit., 183 ss. Interessanti, altresì, le indagini di CADOPPI, Il ruolo delle Kulturnormen, cit., 289 ss; FOFFANI, voce Infedeltà patrimoniale in diritto comparato, in Dig. disc. pen., VI, 398 ss; ID., La tutela della trasparenza della proprietà azionaria come esempio di anticipazione dell’intervento penale nella disciplina del mercato finanziario, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, 21 ss.; ID., Profili penalistici dell’infedeltà patrimoniale nella gestione d’impresa (di prossima pubblicazione); FORNASARI, Il concetto di economia, cit.; MELCHIONDA, voce Mercato dei valori mobiliari (tutela penale del), in Enc. giur., XX, 1 ss.; MEZZETTI, La tutela penale degli interessi finanziari dell’U-


— 59 — Senonché — ed ecco il profilo più delicato della questione — il problema fondamentale che tali esigenze prospettano, consiste appunto nel verificare se ad esse possa accompagnarsi la creazione di presupposti adenione Europea, 1994; MUCCIARELLI, Speculazione mobiliare e diritto penale, 1995; PATRONO, Diritto penale dell’impresa e interessi umani fondamentali, 1993; SEMINARA, Insider trading e diritto penale, 1989. Nella dottrina straniera sono da segnalare le fondamentali indagini di TIEDEMANN, Wirtschaftsstrafrecht, cit., I, A.T., 1976 e II, B.T., 1976; ID., Tatbestandsfunktionen, cit., 54 ss.; ID., Il diritto penale dell’economia: suo ambito e significato per il diritto penale e per l’economia, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1988, 1 ss.; ID., Strafrecht in der Marktwirtschaft, in Stree und Wessels FS, 1993, 527 ss., di DELMAS MARTY, Droit pénal des affaires, I, P.G., 19903, e II, P.S., 19903, e di SCHÜNEMANN, Unternehmenskriminalität und Strafrecht, 1979. Quanto al particolare settore del diritto penale tributario, cfr. CARACCIOLI, Tutela penale del diritto di imposizione fiscale, 1992, 11 ss.; D’AVIRRO, DI NICOLA, FLORA, GROSSO, PADOVANI, Responsabilità e processo penale nei reati tributari, 19922; FIANDACA-MUSCO (a cura di), Diritto penale tributario, 1992, e, per un’ampia riflessione in merito alle esperienze maturate in altri ordinamenti, CADOPPI, Il reato omissivo, cit., II, 1208 ss. Nell’ambito della materia del diritto penale del lavoro, ci si limita a segnalare le indagini di PADOVANI, Diritto penale del lavoro, 19832; ID., voce Reati contro l’attività lavorativa, in Enc. dir., XXXVIII, 1204 ss.; ID., Il nuovo volto del diritto penale del lavoro, Relazione presentata alla Giornata di studi in memoria di Riccardo Bajno dedicata a Il diritto penale accessorio, Pavia, 7 aprile 1995; ID., Commento al D.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758, in Legislaz. pen., 1995, 375 ss.; PULITANÒ, voce Inosservanza di norme di lavoro, in Dig. disc. pen., VII, 64 ss. Di notevole interesse, infine, le elaborazioni in tema di tutela penale dell’ambiente. In argomento, tra gli altri, cfr. BAJNO, La tutela dell’ambiente nel diritto penale, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1990, 341 ss.; FIANDACA-TESSITORE, Diritto penale e tutela dell’ambiente, in Materiali, cit., 25 ss.; FIORELLA, Ambiente e diritto penale in Italia, in Protezione dell’ambiente e diritto penale, 1993, 231 ss.; GRASSO, I rapporti tra la legislazione penale nazionale e la normativa internazionale e comunitaria in materia di tutela delle acque, ivi, 239 ss.; GREGORI-DA COSTA, Problemi generali del diritto penale dell’ambiente, 1992, 37 ss.; PANAGIA, La tutela dell’ambiente naturale nel diritto penale d’impresa, 1993; PATRONO, Inquinamento industriale e tutela penale dell’ambiente, 1980, 39 ss., 118 ss; PEDRAZZI, Profili penalistici di tutela dell’ambiente, in Ind. pen., 1991, 617 ss.; VERGINE, Ambiente nel diritto penale (tutela dell’), in Dig. disc. pen., IX, 755 ss. Particolarmente analitici gli studi di CATENACCI, Appunti sulle tecniche « incrociate » di tutela nel diritto penale dell’ambiente, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1990, 315 ss.; ID., Rapporti tra tecniche penali e amministrative nel sistema italiano di tutela dell’ambiente, in Protezione, cit., 257 ss.; ID., La tutela penale dell’ambiente (di prossima pubblicazione), nonché CATENACCI-HEINE, La tensione tra diritto penale e diritto amministrativo nel sistema tedesco di tutela dell’ambiente, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1990, 921 ss. Di non poco momento anche le elaborazioni della dottrina di lingua tedesca: cfr. BLOY, Die Straftaten gegen die Umwelt im System des Rechtsgüterschutzes, in ZStW, 1988, 485 ss.; HASSEMER, Rasgos y crisis, cit., 241 ss.; HEINE, Zur Rolle des strafrechtlichen Umweltschutzes, in ZStW, 1989, 728 ss.; HOHMANN, Von den Konsequenzen, cit., 76 ss.; RENGIER, Zur Bestimmung und Bedeutung der Rechtsgüter im Umweltstrafrecht, in NJW, 1990, 2506 ss.; ROGALL, Gegenwartsprobleme des Umweltstrafrechts, in Köln FS, 1988, 505 ss.; SAMSON, Kausalitäts- und Zurechnungsprobleme im Umweltstrafrecht, in ZStW, 1987, 617 ss.; STRATENWERTH, Il diritto penale nella crisi della società industriale, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1994, 258 ss.; TIEDEMANN, Die Neuordnung des Umweltstrafrechts, 1980; TRIFFTERER, Umweltstrafrecht, 1980.


— 60 — guati a far sì che simili oggetti di tutela possano aspirare ad imporsi con quell’« evidenza » e « riconoscibilità » immediata dell’importanza e del « rango » dei sottostanti valori, che la stessa esigenza costituzionale di una piena ed integrale partecipazione « personale » alla dimensione penale del fatto (nell’accezione rigorosa più volte evidenziata) sembrerebbe necessariamente esigere e postulare. Di fronte ad un simile interrogativo, si potrebbe invero essere tentati, almeno a prima vista, di assumere una posizione radicalmente negativa circa la concreta possibilità di addivenire ad un’ulteriore estensione dell’area dell’intervento penale. In particolare, il fatto stesso che le predette esigenze di tutela non manifestino ancora — almeno a livello di « percezione sociale » dell’importanza dei relativi valori — un ruolo ed un significato equivalente a quello proprio dei beni giuridici d’impronta più tradizionale, potrebbe suggerire (come viene, del resto, auspicato da una parte della dottrina) (63) l’opportunità di ricondurre i comportamenti offensivi di simili interessi nell’ambito occupato dagli illeciti di contenuto e rilevanza puramente « amministrativa » (o comunque extrapenale). Una posizione del genere, tuttavia, rischierebbe di rivelarsi — di fronte al progressivo diffondersi di nuove forme di criminalità non meno gravi ed insidiose rispetto a quelle precedentemente menzionate — ecces(63) In tale prospettiva, è d’obbligo ricordare le note prese di posizione di HASSEMER, Rasgos, cit., 248 s.; ID., La ciencia, cit., 79 s.; ID., Grundlinien, cit., 93 ss.; ID., in AK-StGB, I, 1990, 84 ss.: insieme alla proposta di affiancare al diritto penale in senso stretto un diritto consistente in un « intervento » di differente natura, e di funzionalizzare, d’altronde, laddove possibile, gli interessi collettivi alla tutela di beni di natura personale. Per un esame critico di tale concezione cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., 186 ss.; PARODI GIUSINO, I reati di pericolo, cit., 82 nota 156, 141 ss. e nota 254; STRATENWERTH, Il diritto penale, cit., 258 ss., nonché CADOPPI, Il reato omissivo, cit., I, 730 ss.; CATENACCI, La tutela penale dell’ambiente, cit., 281 ss., 320 ss. In merito ad ulteriori tendenze limitative dell’intervento penale — quale, ad es., quella autorevolmente impersonata da NAUCKE, Die Wechselwirkung zwischen Strafziel und Verbrechensbegriff, 1985, 35 ss. — v. adesso l’analisi ad ampio raggio di FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione, cit., 46 ss. In una prospettiva radicalmente minimalistica, volta a circoscrivere l’intervento penale alla sola offesa di persone « in carne e ossa », e fortemente permeata da un razionalismo in chiave garantistica contrastante con la stessa possibilità di fare ricorso a strumenti di controllo extrapenale, cfr. inoltre FERRAJOLI, Il diritto penale minimo, in Del. pen., 1985, 493 ss., 518; ID., Diritto e ragione, cit., 325 ss., 481 ss.; ID., Per un programma di diritto penale minimo, in La riforma del diritto penale, cit., 65 ss. In senso critico cfr. FIANDACA, Concezioni e modelli, cit., 38 s., 46 s.; PADOVANI, Un percorso penalistico, in Le ragioni del garantismo, 1993, 317 ss.; PALIERO, Metodologie de lege ferenda: per una riforma non improbabile del sistema sanzionatorio, in questa Rivista, 1992, 513; ZAFFARONI, Alla ricerca delle pene perdute, 1994, 116 ss., sia pure da un diverso angolo visuale. In argomento — e per una puntualizzazione delle differenze di tale concezione rispetto a quella delineata da BARATTA, Principi del diritto penale minimo. Per una teoria dei diritti umani come oggetti e limiti della legge penale, in Del. pen., 1985, 443 ss. — cfr. altresì le osservazioni di EUSEBI, La pena « in crisi », cit., 118 e relativa nota.


— 61 — sivamente restrittiva e, soprattutto, da un punto di vista politico-criminale, francamente insufficiente ed anacronistica (64). In effetti, la stessa Corte costituzionale, nella fondamentale pronuncia in tema di errore sul precetto, non arriva a postulare una limitazione così rigorosa e selettiva dell’area dell’intervento penale. Il compito — ch’essa attribuisce al legislatore — di rendere manifeste le proprie direttive di tutela in materia penale, sembra anzi sottintendere la necessità che i consociati vengano posti in grado di conformarsi a scelte di valore, che, pur non esprimendo degli interessi ormai da tempo radicati, e, per così dire, definitivamente « interiorizzati » all’interno della coscienza ed esperienza collettive, si pongano attualmente come esigenze politico-criminali irrinunciabili nell’ottica della necessità di apprestare una reazione efficace contro la diffusione di nuove (e non meno pericolose) manifestazioni di devianza criminale. Né, d’altro canto, una simile presa di posizione assunta dall’organo di giustizia costituzionale sembra destinata a porsi — com’è stato invece adombrato (65) — in radicale antitesi con la visione illuministico-liberale quale emerge dallo stesso background politico—culturale da cui prende le mosse la motivazione della Corte. Piuttosto, l’esigenza di fondo posta alla base della pronuncia in esame consiste nella ricerca di un punto di collegamento e di « incontro », per così dire, tra la consistenza sul piano « reale » di determinati oggetti di tutela e la possibilità di percepirne, a livello « personale », un corrispondente grado di influenza sulla salvaguardia delle condizioni fondamentali della convivenza organizzata. In effetti, non è azzardato ritenere che la particolare insistenza con la quale la pronuncia in esame sottolinea la necessità di predisporre adeguati strumenti di « comunicazione » del messaggio normativo sia destinata a trovare la sua espressione più significativa e qualificante proprio in quella categoria di interessi, cui la stessa Corte, pur non arrivando a disconoscerne la rilevanza « sociale », attribuisce (né potrebbe essere diversamente) un grado di « penetrazione » e di diffusione nella coscienza e nella sensibilità collettive non ancora idonei ad attingere il livello e l’influenza ricollegabili ai beni giuridici di più antica e consolidata tradizione (66). (64) Cfr., sul punto, SCHÜNEMANN, Kritische Anmerkungen, cit., 207. (65) Cfr. STORTONI, L’introduzione, cit., 1323 ss. (66) In conformità a quanto già osservato (retro, nota 59), preme soprattutto valorizzare l’ispirazione di fondo della pronuncia della Corte (cfr. anche PULITANÒ, Una sentenza, cit., 718 s., 729 s.), piuttosto che soffermarsi a considerare i singoli passaggi in tema di errore rilevante. E da questo punto di vista, non si può escludere, allora, che il senso più profondo di tale pronuncia si orienti verso la ricerca di criteri di adeguamento e di progressivo accostamento dei consociati proprio alla categoria di interessi ricordati nel testo: non soltanto, in effetti, la Corte fa più volte riferimento a valori comunque rilevanti per la « società » (cfr. Corte cost., 24 marzo 1988, n. 364, cit., 1397) o per la « convivenza » (cfr. sentenza n. 364, cit., 1404); essa mostra, altresì, consapevolezza della differenza intercorrente tra reati « sforniti di disvalore sociale » e reati dotati pur sempre di un disvalore sociale, an-


— 62 — In definitiva, l’interrogativo politico-criminale sotteso alla ricostruzione della Corte si esprime essenzialmente nella ricerca delle condizioni necessarie ad evitare che possa eventualmente prodursi un fenomeno di sostanziale « discrasia », per così dire, tra la rilevanza sotto il profilo sociale di determinati interessi e valori, e la possibilità offerta ai consociati di percepirne concretamente il significato e la portata secondo un livello corrispondente al coefficiente di meritevolezza sotto il profilo « penale » ch’essi sono in grado di esprimere nel quadro dei principi costituzionali. Da questo pusto di vista, sarebbe dunque eccessivo affermare che il modello illuministico-liberale posto alla base della pronuncia della Corte venga ad essere, in un momento successivo, sostanzialmente abbandonato e sconfessato nei suoi presupposti fondamentali: anzi, un simile modello parrebbe destinato ad arricchirsi e a consolidarsi ulteriormente nei suoi contenuti, proprio nel momento in cui le condizioni essenziali del « patto » sociale che ne sono alla base, vengano ad estendersi ed a proiettarsi verso la tutela di interessi che — pur se di recente emersione — rivestano attualmente un significato ed una portata non dissimili da quelli dedotti a fondamento del « contratto » originariamente intercorso tra i membri della comunità sociale. Il problema, che viene a questo punto a delinearsi, consiste, tuttavia, nell’individuare i presupposti necessari a far sì che i destinatari del precetto possano effettivamente apprezzare l’importanza ed il significato delle scelte di politica criminale, che l’ordinamento è sollecitato ad adottare sotto la spinta e l’influenza crescente di nuove esigenze di tutela non ancora pienamente radicatesi nella « percezione sociale » della rilevanza sotto il profilo « penale » dei corrispondenti comportamenti illeciti (67). che se « non sempre e dovunque previsti come illeciti penali » (cfr. sentenza n. 364, cit., 1411). In questa prospettiva, risulta inoltre possibile superare le apparenti incongruenze rilevate, ad es., da CALABRIA, Delitti naturali, cit., 45, la quale imputa alla Corte un’aprioristica ed « irrealistica » assimilazione tra le singole categorie di fattispecie penalmente sanzionate. (67) Un’accresciuta consapevolezza in ordine all’esigenza di reprimere determinate condotte afferenti all’ambito degli illeciti economici, può ricavarsi, peraltro, da alcune interessanti indagini demoscopiche; cfr., al riguardo, CORTELLESSA, Atteggiamenti degli italiani adulti nei confronti di alcuni comportamenti illeciti: elaborazione dell’indagine svolta dalla DOXA, in Criminalità economica e pubblica opinione, cit., 87 ss. (e sia pure con rilevanti contraddizioni ed incertezze: cfr. PEDRAZZI, Presentazione, ivi, 6). Ulteriori, interessanti profili di valutazione emergono dalla ricerca di SAVONA, Criminalità o devianza? Confronto tra reazione « ufficiale » e reazione dell’opinione pubblica, in Soc. dir., 1980, 3, 107 ss., 130 s. In merito a simili ricerche, cfr. i rilievi di CADOPPI, Il reato omissivo, cit., I, 702 ss.; ID., Il ruolo delle Kulturnormen, cit., 299 ss., il quale ne trae spunto per sviluppare una proposta di criminalizzazione che, limitando il ruolo e la rilevanza delle stesse indicazioni desumibili dalla Carta costituzionale, venga a tradursi nella punizione delle sole condotte considerate dalla coscienza sociale come degne di una pena detentiva (cfr. ID., Il reato omissivo, cit., 733; ID., Il ruolo, cit., 303; ID., Error juris, cit., 84). La tesi, peraltro, sembra rivelarsi eccessivamente restrittiva, e troppo condizionata da una logica di delimitazione dell’intervento pe-


— 63 — Da tale angolo visuale, le indicazioni fornite dalla pronuncia in esame, pur presentando particolare interesse sotto il profilo della giustificazione a livello costituzionale dei « doveri di comunicazione » posti a carico del legislatore (ricondotti, com’è ben noto, ai principi degli artt. 3, 2o comma, 25, 2o comma e 73, 3o comma, Cost.) (68), non appaiono, viceversa, sufficientemente appaganti nell’ottica dell’individuazione in concreto degli « strumenti » più adeguati ad assicurare un’effettiva « percezione » da parte dell’agente del contenuto offensivo che i predetti comportamenti antisociali sono in grado di esprimere e di rivelare. Per vero, la pur ripetuta affermazione secondo la quale le norme penali devono presentare un contenuto sufficientemente « chiaro e determinato », e devono poter ricevere, inoltre, un’adeguata « diffusione » attraverso il ricorso ad opportuni strumenti di pubblicità legale, è destinata a rivelarsi ancora troppo generica ed approssimativa, per potersi tradurre in una proposta concretamente idonea ad individuare con la dovuta precisione i confini legali delle singole scelte di criminalizzazione e la loro capacità ad imporsi come canoni di orientamento delle condotte individuali. È ragionevole supporre, d’altronde, come alla Corte non potesse comunque richiedersi una puntuale ed analitica indicazione delle singole modalità concrete volte a permettere ai consociati di percepire il contenuto di disvalore sotteso allo schema legale delle singole norme incriminatrici; dati i ben noti connale incentrata sull’« affidamento » tout court ai membri della comunità sociale del compito di indicare le basi delle scelte di criminalizzazione. Anche a voler escludere, come si è giustamente sottolineato (cfr. PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in questa Rivista, 1992, 897 ss.; come pure MUSCO, Consenso e legislazione penale, ivi, 1993, 85 s. In precedenza v. ROMANO, Legislazione penale e consenso sociale, in Jus, 1985, 424 ss.) l’ammissibilità di scelte politico-criminali fondate su di una mera « induzione » di consenso al di fuori dell’individuazione di reali bisogni di tutela (pena il rischio di dar vita ad un modello puramente « simbolico » di diritto penale; in argomento cfr., tra gli altri, FIANDACA, Concezioni e modelli, cit., 17, 21; HASSEMER, Sozialtechnologie und Moral; Symbole und Rechtsgüter, in Recht und Moral, 1991, 331 s.; PALIERO, Consenso, cit., 892 ss.; VOSS, Symbolische Gesetzgebung, 1989, passim) sembra poco consigliabile abbandonare la strada di una necessaria opera di « filtro » e di riflessione critica da parte del legislatore, destinata a tradursi in un (sia pur parzialmente) autonomo progetto di criminalizzazione. L’evolversi dei sistemi sociali verso la ricerca di nuove basi di legittimazione, rese necessarie dal progressivo venir meno del paradigma lineare e « razionalisticamente » conchiuso di un originario patto sociale liberamente stipulato, rende semmai opportuna l’elaborazione di rinnovati modelli di « comunicazione razionale », eventualmente favorita dall’adozione di strumenti legislativi, che — nella formazione e nel risultato finale — si rivelino idonei ad agevolare concretamente lo svolgersi dei necessari processi di verifica e di « apprendimento » circa il significato ed il contenuto dei singoli programmi di tutela. In tale prospettiva, come si vedrà tra breve (cfr., infra, par. 5), sembra destinata, allora, ad assumere un ruolo particolarmente significativo la tendenza verso l’elaborazione e la concreta attuazione di un nuovo progetto di codificazione penale. (68) Cfr. Corte cost., 24 marzo 1988, n. 364, cit., 1404 ss., 1410.


— 64 — fini imposti alle competenze istituzionali proprie della Corte (69), questa non poteva che limitarsi, in effetti, a rivolgere al legislatore alcune direttive di carattere generale, con l’obiettivo di stimolare quest’ultimo ad utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione per rimuovere eventuali ostacoli frapposti ad una piena ed integrale « compenetrazione », per così dire, tra i singoli consociati ed i valori fondamentali posti alla base dell’ordinamento penale. D’altro canto, non è men vero che la stessa dottrina maggiormente consapevole della necessità di porre più rigidi confini alla sfera dell’intervento penale, si è trovata spesse volte di fronte — come si notava in precedenza — alla difficoltà di elaborare dei criteri di criminalizzazione realmente idonei a soddisfare anche l’ulteriore (e non meno importante) esigenza di rendere concretamente « riconoscibile » il contenuto e la portata delle singole condotte penalmente sanzionate. In effetti, soltanto in tempi recenti — e sia pure, come si vedrà tra breve, con esiti sul piano politico-criminale non del tutto condivisibili — una dottrina particolarmente sensibile alla problematica costituzionale delle scelte di criminalizzazione si è sforzata di enucleare i presupposti necessari ad assicurare un’effettiva possibilità di percepire il contenuto di disvalore dei singoli comportamenti meritevoli di una risposta penale (70). In particolare, di fronte alla constatata difficoltà di rendere concretamente « riconoscibile » l’offesa a beni giuridici differenti da quelli ormai da tempo radicati all’interno del contesto sociale, la dottrina in questione si è impegnata nel tentativo di ricondurre le corrispondenti scelte di criminalizzazione ad un’ottica e ad una dimensione non dissimili da quelle proprie degli interessi di natura « personale » originariamente posti a fondamento delle scelte di tutela penale di matrice illuministico-liberale. La via maestra per risolvere il problema dovrebbe essere quella di potenziare e sviluppare l’idea della creazione di fattispecie penali condizionate alla possibilità da parte dell’agente di percepire il disvalore del proprio comportamento nei termini, per l’appunto, di un’offesa arrecata ad una determinata « relazione » di carattere strettamente « interpersonale » (71). In effetti, anche laddove si tratti di interessi che si situano in una dimensione estranea alla tutela stricto sensu della « persona » (o della « proiezione » di quest’ultima su rapporti e situazioni funzionali alla sua « realizzazione » integrale nel contesto sociale, come accade per i beni giuridici di natura economico-patrimoniale), la norma penale dovrebbe fondarsi pur sempre su di una preventiva « tipizzazione » di rapporti e (69) E pur senza dimenticare le, talora eccessive, remore nei confronti dell’esercizio di poteri di sindacato e di valutazione consentanei alle funzioni ad essa spettanti: cfr., al riguardo, i perspicui rilievi di PALAZZO, Ancora sulla legalità, cit. 79 ss. (70) Cfr. PALAZZO, I confini, cit., 463 ss. (71) V. PALAZZO, I confini, cit., 469, 472, 475, 476.


— 65 — sfere di relazione con « soggetti » ed entità giuridiche suscettibili di presentarsi, nei confronti dell’agente, come espressione unitaria di quel fascio di interessi e di valori (anche se di natura superindividuale) per la cui tutela è stata appunto fondata l’« istituzione » destinata di volta in volta a difenderli e a rappresentarli. Così, ad es., l’offesa arrecata ad interessi collegati alla tutela del bene dell’ambiente, ovvero a quelli inerenti al corretto esercizio della funzione creditizia, ovvero, infine, a quelli connessi al regolare svolgimento delle operazioni finanziarie, dovrebbe essere legislativamente configurata in guisa di un’inosservanza a disposizioni, ordini o provvedimenti provenienti da quella specifica « autorità » in cui si incarnano i doveri di vigilanza e di controllo relativi al settore di attività concretamente intrapresa dall’autore del fatto (72). Attraverso l’« istituzionalizzazione », per così dire, dell’interesse tutelato in capo ad uno specifico ente od organo titolare dei poteri di controllo all’interno della singola normativa di settore, si realizzerebbe, in definitiva, anche un processo di corrispondente « personalizzazione » di tale interesse — non in senso, com’è ovvio, puramente fisico-materiale — bensì in quello più ampio e traslato della concretizzazione del bene tutelato in una « struttura » di riferimento suscettibile di essere ricondotta a quella più immediata e « palpabile » relazione a carattere « interpersonale », ritenuta appunto necessaria per consentire all’agente di acquisire un’effettiva consapevolezza del significato offensivo della condotta incriminata. Una siffatta impostazione, tuttavia, per quanto interessante e suggestiva, è destinata, ad un più attento esame, a riproporre nuovamente alcuni delicati interrogativi in merito ai rapporti tra la rilevanza obiettiva del fatto e l’effettiva « riconoscibilità » del suo disvalore (penale). Per vero, sembra di poter affermare ch’essa, mentre da un lato conduce indubbiamente ad « avvicinare », per così dire, il soggetto agente al significato illecito del proprio comportamento, finisce, in realtà, con l’« allontanarlo », ancora una volta, dalla percezione della rilevanza sotto il profilo propriamente « penale » del tipo di offesa con esso concretamente realizzata. In effetti, non è azzardato affermare come la configurazione dell’illecito nei termini di un’alterazione arrecata ad una relazione esclusivamente « interpersonale » conduca a svalutare eccessivamente il significato offensivo della condotta, in rapporto alla sua capacità ad incidere su interessi e valori di ben diversa « consistenza » ed ampiezza sotto il profilo « sociale » e « contenutistico-funzionale ». Circoscrivere l’offesa ad interessi di natura « collettiva » alla pura e semplice inosservanza dei precetti promananti dall’autorità amministrativa preposta al settore significa, in altri termini, legittimare un’occulta degradazione e « contrazione », per così dire, dell’oggetto della tutela, fino ad alterarne completamente l’origi(72)

Cfr., in particolare, PALAZZO, I confini, cit., 472, 475.


— 66 — naria fisionomia di un interesse tipicamente « generale » e « di massa », sia pure emerso solo in tempi recenti sotto l’influenza derivante dalle nuove acquisizioni in campo tecnologico o industriale, ovvero dal progressivo affermarsi di nuovi metodi di gestione delle risorse economico-sociali caratteristiche dell’attuale forma di Stato (73). D’altronde, pare evidente come una siffatta, surrettizia degradazione e « minimizzazione » in chiave « personalistica » dell’interesse tutelato non possa mai arrivare ad esprimere il significato più profondo e genuinamente « personale » dei beni tradizionalmente appartenenti all’individuo, quali la vita, l’incolumità fisica, l’integrità del proprio patrimonio (almeno rispetto alle aggressioni più gravi e socialmente intollerabili). Mentre simili beni, per quanto personali, ricevono da sempre una tutela fondata sul riconoscimento unanime della loro importanza ai fini della sopravvivenza dell’intera comunità sociale, la « personificazione » dell’interesse in capo ad un ente o ad un’istituzione funzionalmente preposta al controllo di determinati settori di attività, è destinata inevitabilmente a sospingere la ratio della tutela verso il piano della protezione dell’istituzione in quanto tale, in quanto, cioè, mero organo « burocratico-amministrativo », dotato di poteri e competenze destinate a svolgersi attraverso procedimenti e schemi operativi rigidamente « formalizzati »; in tali circostanze, più che mai lontana e remota appare, allora, la possibilità di identificare nell’interesse della persona-istituzione quel raccordo e quel collegamento con l’offesa a beni autenticamente « personali » propri dei consociati, cui è destinato per lo più ad accompagnarsi, anche sotto il profilo soggettivo-individuale, il riconoscimento dell’importanza di simili valori ai fini della sopravvivenza degli assetti sociali fondamentali posti alla base della convivenza organizzata. 5. In realtà, rimanendo sul terreno dell’identificazione del modello legale maggiormente idoneo ad esprimere ed a rivelare il significato intrinsecamente « penale » della condotta posta in essere, sembra difficile negare come la soluzione da adottare in proposito non possa che consistere nella configurazione dell’oggetto della tutela secondo criteri di tecnica normativa profondamente differenti rispetto a quelli posti alla base della concezione in esame. Invero, sembra di poter affermare come la capacità (73) Si deve peraltro sottolineare che PALAZZO, I confini, cit., 472, 475, 476, 478 ss., oltre a mostrarsi consapevole delle differenze tra le singole categorie di interessi di natura lato sensu « collettiva » (differenze che potrebbero eventualmente giustificare il ricorso a tecniche alternative di strutturazione delle fattispecie, non sempre direttamente imperniate sul riferimento ad una controparte di natura « istituzionale »), si preoccupa di circondare la propria proposta di requisiti e di « garanzie » ulteriori, volte a subordinare l’intervento penale a riscontri empirici e a connotati di valore idonei ad assicurare un adeguato collegamento della condotta incriminata con un profilo di più accentuato pericolo per gli interessi in gioco.


— 67 — da parte dell’agente di percepire appieno il significato « penale » del proprio comportamento, debba risultare condizionata — non già ad una artificiosa riduzione e « contrazione » in chiave personalistica della tipologia di interessi or ora considerati (74) — bensì, al contrario, alla possibilità di estenderne e « generalizzarne » il significato, fino al punto di poter riconoscere in essi quel rapporto di connessione con le condizioni essenziali della convivenza organizzata, che costituisce, come si è visto, la base « assiologica » fondamentale per poter assicurare un effettivo rapporto tra i singoli consociati ed i valori posti a fondamento dell’ordinamento penale. Da questo punto di vista, non possono non apparire, allora, maggiormente condivisibili le proposte e le sollecitazioni provenienti da quel settore della dottrina (75), che ha trovato in tempi recenti un riconoscimento particolarmente significativo nelle soluzioni concretamente adottate da parte della Commissione ministeriale incaricata di redigere uno « Schema di delega legislativa » per la riforma del codice penale (76). Non è questa la sede più appropriata per un’indagine puntuale ed (74)

Condivisibili, in proposito, i rilievi svolti in linea generale da MARINUCCI-DOL-

CINI, Corso, cit., 191 s. Non altrettanto convincente sembra, tuttavia, la proposta di ridimen-

sionare la distinzione tra « beni » e « funzioni », allo scopo di legittimare una tecnica di configurazione della fattispecie che giunga ad astrarre dal riferimento all’offesa (o al pericolo), ipotizzando eventualmente la sufficienza di una violazione di provvedimenti amministrativi (cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., 178 ss., 183 ss., 186, 189). Ed invero, una simile soluzione, pur muovendo da differenti premesse, rischia alla fine di pervenire a risultati sostanzialmente coincidenti con quelli già presi in considerazione nel paragrafo che precede. Quanto allo specifico settore della tutela dell’ambiente, sottolinea il rischio che si giunga in tal modo a tutelare un’« attività di governo », superando i limiti di una dimensione necessariamente « empirico-fattuale » del momento dell’offesa, CATENACCI, La tutela penale, cit., 111. Non sembra, d’altro canto, sufficiente sottolineare la circostanza che le « funzioni » — e le corrispondenti attività degli organi preposti al governo di determinati settori — configurano pur sempre un quid suscettibile di venire offeso dalla condotta incriminata (cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., 189). La circostanza, in effetti, che una determinata « entità » risulti « offendibile », non conduce necessariamente ad identificare in essa un oggetto meritevole di tutela penale; anche a voler ravvisare in una simile entità i connotati propri di un « bene giuridico », rimarrà pur sempre l’obiezione che questo, nella misura in cui venga configurato come un interesse comunque suscettibile di subire pregiudizio, non rappresenta « una prerogativa esclusiva del diritto penale » (cfr. ROMANO, Consenso, cit., 418; ID., Commentario, cit., 281 s.). Per un opportuno richiamo alla necessità di preservare il ruolo ed il significato del contributo ad una (più) rigorosa limitazione dell’intervento punitivo ricollegabile alle tendenze proprie del c.d. « neo-illuminismo » penale cfr. i rilievi di MUSCO, A proposito del diritto penale « comunque ridotto », in La riforma del diritto penale, cit., 174. (75) Pur non essendo possibile identificare in specifiche prese di posizione da parte di singoli autori una puntuale (ed integrale) corrispondenza con le soluzioni del Progetto ricordato nel testo, non pare arbitrario richiamare in proposito, nonostante le differenze d’impostazione, i contributi, ad es., di BRICOLA, Tecniche di tutela, cit., 62 ss.; ID., Il diritto penale, cit., 39 ss.; FIORE, Principio di tipicità e « concezione realistica del reato », in Problemi generali di diritto penale, 1982, 57 ss.; FIORELLA, Reato, cit., 790 ss., 794 ss.; MAZZACUVA, Il disvalore di evento, cit., 162 ss., 173 ss.; SGUBBI, Il reato, cit., 47 ss. (76) Cfr. in proposito il Quaderno de L’indice penale, n. 9, 1993, dal titolo Per un


— 68 — analitica dei contenuti di un simile elaborato progettuale. È sufficiente, piuttosto, richiamare in proposito alcune scelte fondamentali di tutela penale che interessano più da vicino la categoria di interessi da ultimo sinteticamente delineati. La condizione essenziale perché le norme incriminatrici possano risultare conformi ai principi costituzionali, viene, anzitutto, correttamente identificata nel dovere da parte del legislatore di « descrivere le singole fattispecie delittuose in modo tale che la loro realizzazione assuma una dimensione di concreta lesività o di concreto pericolo per il bene giuridico » (77). La « traduzione » effettiva di un simile postulato nell’ambito delle singole scelte di tutela penale, viene, poi, a rivelarsi e a manifestarsi in forma paradigmatica proprio nell’ambito delle norme penali concernenti categorie di interessi di natura lato sensu « collettiva » o « diffusa » in qualche misura assimilabili a quelli cui si faceva dianzi riferimento. Tre esempi per tutti. La fattispecie fondamentale posta a tutela dell’« ecosistema ambientale » (cfr. art. 102, 1o comma del Progetto); la fattispecie posta a tutela della « produzione » e della « disponibilità di beni sul mercato » (contemplata dal successivo art. 108 n. 2); la fattispecie, infine, volta a colpire l’« omessa osservanza di prescrizioni » dettate da determinati « organi di controllo » (cfr. art. 113 n. 6). Leitmotiv dei tre modelli di incriminazione è quello della ricerca di un adeguato nesso di collegamento e di un profilo di ragionevole « mediazione », per così dire, tra le modalità di estrinsecazione della condotta incriminata (in conformità al noto postulato della configurazione del reato come illecito di « modalità di lesione ») ed il risvolto in concreto dell’offesa (o del pericolo) nei confronti dell’interesse penalmente tutelato. Nel primo caso, un simile risultato viene perseguito punendo colui che, « effettuando scarichi o immissioni di sostanze [...] in violazione dei limiti di nuovo codice penale, ed ivi la sintetica, ma rigorosa Presentazione di VASSALLI, 1 ss. Sulle caratteristiche, in generale, del predetto Schema cfr. PAGLIARO, Valori e principi nella bozza italiana di legge delega per un nuovo codice penale, in Valore e principi, cit., 57 ss.; ID., Verso un nuovo codice penale? Itinerari-problemi-prospettive, in Ind. pen., 1992, 15 ss.; ID., Lo schema di legge delega per un nuovo codice penale; metodo di lavoro e principi ispiratori, in Ind. pen., 1994, 243 ss. (77) Cfr. art. 54 dello Schema, su cui v. la Relazione illustrativa, in Ind. pen., n. 9, cit., 40. La disposizione aggiunge, tuttavia, che la predetta direttiva deve essere osservata « di regola »; tale inciso non viene condiviso da FIORE, Il principio di offensività, cit., 279, 283, che pur valuta positivamente le scelte dell’elaborato, ed in particolare, la previsione dell’art. 4, 1o comma (in proposito v. la Relazione, cit., 12), la quale impone di interpretare la norma « in modo da limitare la punibilità ai fatti offensivi del bene giuridico ». Un interessante coordinamento tra le due previsioni del Progetto viene proposto, tuttavia, da ZAZA, Principio di offensività e reati-ostacolo nel progetto per il nuovo codice penale, in Giust. pen., 1992, II, 562 ss., 567. Quanto al problema della disciplina delle contravvenzioni, cui non sarebbe applicabile il disposto dell’art. 54, si rinvia ai cenni contenuti nella successiva nota 85. In argomento v., peraltro, ancora ZAZA, Principio, cit., 561.


— 69 — accettabilità fissati secondo la legge », « contribuisce a determinare un’alterazione della composizione o dello stato fisico dell’ambiente ». Nel secondo viene invece sanzionato il « danneggiamento della produzione o » la « grave riduzione della disponibilità di beni sul mercato, consistente nell’arrecare grave nocumento all’economia generale », attraverso la distruzione di « materie prime o prodotti agricoli o industriali »; nel terzo, infine, accanto alla condotta consistente nel non osservare « le legittime prescrizioni dell’Autorità preposta al controllo di un’impresa », si richiede altresì che tali prescrizioni si pongano in un rapporto di stretta correlazione con un possibile effetto di superamento dei limiti del « rischio economico » collegato all’attività imprenditoriale. Sia pure attraverso modelli di tecnica normativa volta a volta « commisurati » alla particolare tipologia dei singoli oggetti di tutela, simili scelte repressive (ed altre ancora, di contenuto e di portata sostanzialmente analoga: cfr., ad es., l’art. 112 n. 5 e l’art. 108 n. 1) sono dunque destinate ad assicurare quel rapporto di collegamento tra la condotta incriminata e la consistenza e l’estensione dell’offesa (o del rischio) derivante dall’attività intrapresa, volto appunto ad agevolare un effettivo riconoscimento, (anche) da parte dell’agente, dell’entità sul piano « sociale » (e della corrispondente rilevanza sotto il profilo « penale ») delle conseguenze lesive del comportamento di volta in volta realizzato (78). E non basta. V’è ancora, a ben guardare, un ulteriore profilo, particolarmente significativo, che emerge in forma emblematica dal contenuto e dalla portata di simili proposte di riforma penale. Un profilo che, sia pure in una prospettiva di carattere più generale, è destinato a giocare un ruolo non trascurabile al fine di convalidare e corroborare la fondatezza delle scelte di politica criminale concretamente intraprese mediante l’elaborazione del suddetto progetto di riforma. Invero, se l’analisi e la ricostruzione che precedono sono corrette, pare difficile negare come l’adozione delle scelte di tecnica normativa or ora sinteticamente delineate, per quanto indubbiamente necessaria, non appaia tuttavia sufficiente ad assicurare in ogni caso un adeguato coefficiente di « riconoscibilità » del disvalore sotto il profilo penale del comportamento incriminato. L’offesa ad interessi non ancora definitivamente (78) In merito a tali previsioni, la dottrina ha tuttavia espresso pareri non sempre concordanti. Quanto all’art. 102, accanto ad opinioni favorevoli — come quella, ampiamente argomentata, di CATENACCI, La tutela penale, cit., 324 ss., 328 ss., 332 ss. — si registrano le critiche di ANGIONI, Il principio di offensività, Intervento al Convegno su Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Saint Vincent, 6-8 maggio 1994, 5 ss. (del dattiloscritto) e di VERGINE, Ambiente, cit., 767, fondate entrambe sull’asserita indeterminatezza della formulazione normativa. Quanto all’art. 113, accanto alle delucidazioni in senso adesivo di BRICOLA, Il diritto penale, cit., 43, si ricordano le critiche di FOFFANI, Profili penalistici, cit., 248 s., 268 s., il quale lamenta gli eccessi e le carenze della formula utilizzata.


— 70 — radicati nella coscienza sociale secondo un livello ed un’intensità corrispondenti a quello dei beni giuridici di più consolidata tradizione, sembra esigere, in effetti — per poter essere effettivamente « riconosciuta » e vissuta dall’agente con un analogo coefficiente di « partecipazione » e di adesione « personale » alle sottostanti scelte di valore — un ulteriore, e non meno importante, requisito di « legittimazione » e di conferma dell’importanza e della « dignità » sotto il profilo penale delle sfere di tutela coinvolte dalla commissione del reato. Un requisito, in altri termini, che, oltre a presupporre una selezione accurata e rigorosa dell’area dei comportanenti meritevoli di una risposta penale, si riveli idoneo ad esprimere e ad evidenziare l’appartenenza dei (nuovi) oggetti di tutela (e delle relative forme di aggressione o messa in pericolo) ad una logica repressiva sostanzialmente equivalente a quella posta alla base del « catalogo » dei beni tradizionalmente considerati essenziali per la sopravvivenza degli assetti sociali fondamentali su cui si regge la convivenza organizzata. In tale prospettiva, sembra dunque destinata a riemergere, come essenziale strumento di politica legislativa in materia penale, la necessità di promuovere e di incentivare gli sforzi rivolti in direzione dell’elaborazione e della concreta attuazione di una nuova codificazione penale (79). (79) Sulla necessità e sui limiti di un rinnovato impegno per l’attuazione della riforma del codice penale, la dottrina registra, ancora una volta, opinioni divergenti. V’è chi contesta il metodo di codificazione alla base del Progetto in esame (cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Note sul metodo della codificazione penale, in questa Rivista, 1992, 414 ss.; MUSCO, A proposito del diritto penale, cit., 182) e chi sottolinea l’inopportunità, nell’attuale momento storico, di perseguire un programma di codificazione (cfr. FIANDACA, Relazione introduttiva, in Valore e principi, cit., 35 ss.; ID., Relazione introduttiva, in Verso un nuovo codice, cit., 34 ss.; ID., Concezioni e modelli, cit., 50 ss.; FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione, cit., 62; MUSCO, Consenso, cit., 82 ss., 91 s.), quando non addirittura chi contesta alla radice la stessa opzione di tipo codicistico tramandata dall’esperienza giuridico-penale (cfr. PALIERO, L’autunno del patriarca, cit., 1242 ss.). Si discute altresì se debba considerarsi o meno opportuna la scelta di utilizzare lo strumento del codice per disciplinare determinati settori fino ad ora compresi nell’ambito della legislazione speciale o complementare (in chiave fortemente problematica cfr. PEDRAZZI, La riforma dei reati, cit., 355 s., come pure PALAZZO, Certezza del diritto e codificazione penale, in Pol. dir., 1993, 379 s., nonché FOFFANI, Profili penalistici, cit., 266 ss.; in senso differente v. tuttavia FIORE, Decodificazione e sistematica dei beni giuridici, in Beni e tecniche, cit., 87; FORNASARI, Il concetto di economia, cit., 220; E. GALLO, Una politica per la riforma del codice penale, in Quest. crim., 1981, 64; MOCCIA, Il diritto penale, cit., 177 s., 266 ss., e, da ultimo, CATENACCI, La tutela penale, cit., 312 s. In precedenza, a favore dell’inserimento nel codice del diritto penale ambientale, cfr. FIANDACATESSITORE, Diritto penale, cit., 61 s.). Per la riaffermazione, viceversa, della centralità del ruolo del codice e dell’esigenza di una sua riforma globale cfr., ANGIONI, Contenuto e funzioni, cit., 243; PADOVANI-STORTONI, Diritto penale e fattispecie criminose, 1991, 28 ss.; ROMANO, Commentario, cit., 7 s.; STILE, Prospettive di riforma della commisurazione della pena, in Verso un nuovo codice, cit., 329 s.; ID., Relazione di sintesi, in Valore e principi, cit., 294 s.; STORTONI, Parte speciale del codice e parte speciale del diritto penale, in Verso un nuovo codice, cit., 438 ss. (per tacere, co-


— 71 — Soltanto il codice (80) in cui si situa l’« idea » stessa del diritto penale come strumento di salvaguardia, ad un tempo, delle garanzie fondamentali dell’individuo (81), e delle esigenze di tutela dell’intera comunità m’è ovvio, dei contributi personalmente dedicati al tema della riforma del codice da parte dei componenti della Commissione ministeriale). Notevolmente aperta è anche la discussione sull’importanza e sul ruolo del codice nella dottrina civilistica; in senso problematico cfr. AZZARITI, Codificazione e sistema giuridico, in Pol. dir., 1982, 559 ss.; BRECCIA, L’interprete tra codice e nuove leggi civili, ivi, 584 ss. Per un atteggiamento di favore cfr. invece SACCO, Codificare: modo superato di legiferare?, in Riv. dir. civ., 1983, 121 ss., nonché, sia pure da un differente angolo visuale, MAZZAMUTONIVARRA, Principi generali e legislazione speciale: l’attualità del codice civile italiano, in Riv. crit. dir. priv., 1992, 533 ss. In argomento v. pure REBUFFA, Servono ancora i codici?, in Soc. dir., 1981 (3), 87 ss. Da segnalare l’opinione di IRTI, il quale, dalla posizione assunta, sia pure in chiave prevalentemente descrittiva, ne L’età della decodificazione, 19893, 33 ss., è passato ora a rivalutare il ruolo del codice (cfr. ID., Codice civile e società politica, 1995, 14 ss.) riconoscendo ad esso la funzione di esprimere « una sorta di plusvalore politico », e sottolineando come, di fronte a « leggi speciali spoglie di raccordi e di impulsi costituzionali », il codice sarebbe comunque destinato a riacquistare « l’antico primato » e ad ergersi « come legge stabile e durevole della società civile » (cfr. ID., Codice civile, cit., 9, 16, 17). Vero è, d’altronde, che simile tendenza si accompagnerebbe, secondo l’Autore, al venir meno dell’importanza e del significato dell’originario « patto costituzionale » e della sua carica innovatrice; fenomeno che avrebbe condotto a delegittimare sul piano politico il ruolo delle leggi speciali (cfr. ID., Codice civile, cit., 15 s.). Ma non si può dimenticare come nello stesso settore penale — e sia pure secondo direttrici non omogenee — l’aggancio alla Costituzione abbia rischiato più volte di subire un processo involutivo, a causa della molteplicità delle chiavi di lettura, prescelte non di rado in funzione del perseguimento di obiettivi contingenti, piuttosto che nell’ottica della ricerca di quelle fondamentali e « minime » garanzie a tutela dell’assetto di una società ispirata ai valori liberaldemocratici (sui relativi sviluppi cfr. FIANDACA, Concezioni e modelli, cit., 27 ss.), pur se con le necessarie aperture in senso « sociale ». Nel nostro campo, insomma, l’intrinseca contraddittorietà degli approcci e delle spinte « teleologiche » emergenti dal profluvio delle leggi speciali (si ricordino in proposito gli ammonimenti di BRICOLA, Politica criminale e politica penale dell’ordine pubblico, in Quest. crim., 1975, 235) non sembra suscettibile di essere contrastata in maniera efficace, se non ponendo in primo piano l’obiettivo di una ridefinizione dei confini della tutela penale, tale da consentire l’enucleazione di una tavola di valori idonea ad esprimere, alla luce della Costituzione, le basi essenziali per il ristabilimento di un — sia pur circoscritto — terreno d’intesa e di comune riconoscimento delle esigenze preventive di volta in volta ricollegabili al messaggio normativo penale. (80) Circa il ruolo della codificazione, dal punto di vista storico, cfr. le ricostruzioni di CAVANNA, La codificazione penale in Italia, 1975, 18 ss.; CORRADINI, Garantismo e statualismo, 1986, 12 ss., 29 ss.; FASSÒ, Storia, II, cit., 367 ss.; ID., Storia, III, cit., 12 ss.; GHISALBERTI, Unità nazionale e unificazione giuridica in Italia, 1988, 76 ss.; IRTI, Codice civile, cit., 25 ss., 36 ss.; PADOVANI, Lettura della Leopoldina. Un’analisi strutturale, 1989, 19 ss., 26 (dell’estratto); PIANO MORTARI, voce Codice (storia), in Enc. dir., VII, 232 ss.; R. SCHRÖDER, Die Strafgesetzgebung in Deutschland in der ersten Hälfte des 19. Jahrhunderts, in Gagnér FS, 1991, 416 ss.; TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna, 1976, 25 ss., 31 ss., 35 ss.; WANDRUSZKA, Pietro Leopoldo. Un grande riformatore, 1968, 523 s. Ulteriori rilievi, in un’ottica civilistica, in SALVI, La giusprivatistica fra codice e scienza, in Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, 1990, 234 ss. (81) Per la sottolineatura di questo aspetto cfr. la notissima affermazione di v. LISZT,


— 72 — sociale, potrà invero rappresentare — grazie anche al particolare significato sotto il profilo « simbolico » ch’esso è in grado di sprigionare (82) — la base e lo strumento essenziale per sancire e rendere concretamente « riconoscibile » (83) il senso stesso del progressivo avvicinamento ed « accostamento », per così dire, dei beni giuridici di più recente emersione rispetto a quelli derivanti da una tradizione storica e politico-criminale ormai da lungo tempo consolidata. In effetti, la stessa circostanza che la molteplicità di interessi e di valori cui si è fatto sinora riferimento si trovino ad essere riuniti ed « affiancati » in un medesimo contesto normativo, non potrà non esprimere in forma particolarmente evidente ed emblematica il significato ed il valore più profondo di quella reductio ad unitatem — di quella « tensione » politico-criminale verso lo scopo unico ed essenziale della tutela della convivenza organizzata — così fortemente avvertita e ripetutamente sottolineata nelle stesse pronunce del supremo organo di giustizia costituzionale. Pare evidente, d’altronde, come l’utilizzazione del codice in guisa di strumento idoneo ad agevolare la « riconoscibilità » del disvalore « penale » dell’offesa realizzata, non possa prescindere dall’adozione di opportune tecniche di « comunicazione » e di diffusione del relativo messaggio normativo (84). E tuttavia, è proprio in questa prospettiva, a ben guarin Strafrechtliche Aufsätze und Vorträge, II, 1905, 80: « nach meiner Meinung ist [...] das Strafgesetzbuch die magna charta des Verbrechers ». A tale riconoscimento vien da contrapporre la constatazione che, viceversa, l’imponente sviluppo del diritto penale accessorio ha finito col rappresentare la « Magna Charta » della politica criminale! (82) Al riguardo cfr. PEDRAZZI, La riforma dei reati, cit., 355, nonché ANGIONI, Contenuto e funzioni, cit., 243; FIORE, Prospettive della riforma penale, in Dem. dir., 1977, 689; MOCCIA, Il diritto penale, cit., 177 s. Il riferimento al momento « simbolico » delle scelte di tutela trasfuse nel codice deve essere inteso — è appena il caso di sottolinearlo — nel suo valore positivo di conferma e di asseverazione della legittimità di opzioni repressive ispirate al criterio dell’extrema ratio: in argomento cfr. PALAZZO, Bene giuridico, cit., 80; PEDRAZZI, Diritto penale, cit., 69; STRATENWERTH, Il diritto penale, cit., 262. (83) In tale prospettiva, non pare dunque azzardato affermare come il codice, in guisa di strumento privilegiato di politica legislativa in materia penale, venga attualmente a rivestire un ruolo ed un significato non del tutto coincidente con quello posto alla base dell’originario movimento di codificazione penale; oltre alla funzione di delimitare e di circoscrivere i confini della repressione, allo scopo di impedire il verificarsi di interventi arbitrari nella sfera della libertà individuale, esso è destinato a promuovere e ad agevolare il « riconoscimento » di determinate esigenze di tutela, in maniera tale da creare le basi per una più ampia e diffusa percezione sociale del significato e della portata delle scelte di criminalizzazione. In merito alle differenze tra l’attuale movimento di riforma e l’originaria tendenza alla codificazione cfr., di recente, MILITELLO, Il diritto penale nel tempo della « ricodificazione », 6 ss., 50 ss. (del dattiloscritto). (84) In proposito cfr. gli interessanti rilievi di ANGIONI, Contenuto e funzioni, cit., 243 e nota 28, il quale sottolinea l’opportunità di promuovere e di incentivare la realizzazione di un programma pedagogico volto ad assicurare la conoscenza del codice, sia pure nei suoi principi fondamentali, fin dai tempi della scuola dell’obbligo. Sulle tecniche di comuni-


— 73 — dare, che il codice penale è destinato a mostrare e a rivelare chiaramente la maggiore efficacia del ruolo ch’esso è in grado di esplicare nell’ottica dell’esigenza di rendere appunto « riconoscibile » e concretamente percepibile il disvalore sotto il profilo « penale » della condotta incriminata. Ed invero, pur ammettendo che, di fronte a beni giuridici di più recente emersione, si riveli comunque necessario, perché sia possibile percepirne concretamente i rispettivi contenuti di valore, un collegamento ed una « mediazione » di carattere normativo, pare tuttavia evidente come il codice sia in grado di esplicare una simile funzione in maniera ben diversa (ed assai più intensa e « vincolante », per così dire) rispetto a quella — di cui si è già avuto modo di constatare la sostanziale insufficienza — rappresentata dal puro e semplice riferimento allo schema descrittivo formale delle singole fattispecie incriminatrici e dal tipo di conseguenze sanzionatorie ad esse astrattamente ricollegate. Più esattamente, l’idea stessa che il codice racchiuda gli interessi fondamentali posti alla base della convivenza organizzata — ed, in particolare, tuteli tali interessi contro le sole forme di aggressione realmente adeguate, per entità e « consistenza » sotto il profilo offensivo, ad esprimerne compiutamente il ruolo ed il significato — sembra consentire e rendere concretamente possibile un modello di « comunicazione » del messaggio normativo incentrato essenzialmente, ed in primo luogo, sullo stesso « catalogo » dei beni fondamentali ch’esso è destinato a proteggere e a salvaguardare. I destinatari del precetto dovranno, in altri termini, poter venire a conoscenza del fatto che il codice penale prevede, ad es., le offese concretamente arrecate al bene dell’« ambiente », ovvero quelle destinate a risolversi in un concreto pregiudizio agli « interessi economici » coinvolti nell’esercizio di un’« attività imprenditoriale », ovvero ancora quelle rivolte a danneggiare o a deteriorare il « patrimonio artistico o culturale », e così via dicendo. In tal modo, il singolo consociato, nell’atto di intraprendere un determinato tipo di attività, potrà, conseguentemente, essere posto in grado di domandarsi se questa appaia o meno riconducibile ad un piano di rilevanza corrispondente al « rango » ed all’importanza che simili interessi — presentati appunto in una dimensione consentanea all’accentuato disvalore sotto il profilo sociale che le relative offese sono in grado di esprimere e di rivelare — devono concretamente poter assumere per giustificazione, da un punto di vista sociologico, e con una chiara consapevolezza delle modalità maggiormente idonee ad assicurare una partecipazione ed un coinvolgimento dei destinatari, cfr., recentemente, le riflessioni di MARLETTI, Comunicazione, in Alla ricerca della politica, 1995, 249 ss. Sotto un diverso profilo, un’ampia e documentata esposizione in merito alle tecniche di comunicazione, anche nella prospettiva dell’integrazione tra i sistemi penali, si rinviene nell’importante studio di DELMAS-MARTY, Dal codice penale ai diritti dell’uomo, 1992, 180 ss., 242 s.


— 74 — care e legittimare il loro inserimento nell’apparato normativo del codice penale (85). In questa prospettiva, sarà ben difficile, allora, che il soggetto agente possa eventualmente avvertire l’esistenza di un pericolo concreto — « penalmente » rilevante — per il bene fondamentale dell’« ambiente », laddove, ad es., la propria attività sia destinata ad esaurirsi in un’emissione di scarichi di entità particolarmente modesta, e posta in essere in forma esclusivamente saltuaria od occasionale. Al contrario, la « funzione di richiamo » esplicata dalla tutela codicistica contro le forme di alterazione delle « risorse ambientali » non potrà non manifestarsi nella sua massima efficacia, laddove l’attività concretamente intrapresa appaia suscettibile, viceversa, di dar luogo ad un’immissione massiccia e continuativa di scarichi inquinanti in una zona destinata all’approvvigionamento idrico della popolazione dislocata nell’attiguo territorio. In presenza di tali condizioni, insomma, il codice penale — non più, com’è ovvio, quello tuttora in vigore, bensì una nuova opera di codificazione realmente conforme al « volto » ed ai limiti costituzionali della « responsabilità penale » assiologicamente e teleologicamente configurati — potrà arrivare a porsi come uno strumento di politica criminale particolarmente efficace, e, soprattutto, idoneo ad assolvere anche l’ulteriore ed importante funzione di accentuare e potenziare l’effettiva possibilità di « riconoscere » il disvalore offensivo delle condotte incriminate. E si potrà allora finalmente sperare, sempre alla luce di tali presupposti, ch’esso non venga condannato in un prossimo futuro — com’è stato invece auspicato (86) — a condividere le sorti di un vecchio e stanco « patriarca » ormai avviato verso un inesorabile « autunno »: ma venga invece chiamato e sollecitato, ancora una volta — secondo l’auspicio formulato da un’ampia e qualificata schiera di penalisti sensibili alle ragioni della riforma penale — a rivivere una nuova e promettente stagione di rigogliosa e duratura primavera. GIOVANNANGELO DE FRANCESCO Straordinario di Diritto penale nell’Università di Pisa

(85) In tale prospettiva, dovrebbe, d’altronde, essere ripensato anche il problema del « destino » da riservare alle contravvenzioni (sulla questione, oltre a PADOVANI, Il binomio, cit., 463 s., v., più recentemente, DONINI, Il delitto contravvenzionale, cit., 363 ss.). Qualora si ritenesse, invero, di non poter fare a meno (ed anche se in misura più limitata) del corrispondente « modulo disciplinare », sarebbe consigliabile richiedere pur sempre l’esistenza di un evidente nesso di correlazione teleologica con l’interesse protetto, in modo da evitare il ricorso a tecniche di strutturazione della fattispecie incapaci di reggere alla verifica della concreta « riconoscibilità » del significato sotto il profilo sociale (e penale) del fatto. (86) Cfr. lo stimolante saggio di PALIERO, L’autunno del patriarca, cit., 1242 ss., 1246 ss., il quale non esclude, peraltro, la possibilità di adottare un, sia pur differente, modello di codificazione.


— 75 —

ACCESSO ALL’ATTIVITÀ BANCARIA E STRATEGIE PENALISTICHE DI CONTROLLO

SOMMARIO: I. Premessa. — II. La repressione dell’abusivismo bancario nell’art. 96 L.B. — III. L’evoluzione legislativa successiva (e la proposta di cui alla bozza per un nuovo codice penale). — IV. Le cause dei frequenti mutamenti di disciplina. - a) I fattori esterni. - b) I fattori interni. - c) La funzione promozionale del diritto penale. - d) I fattori contingenti. - e) Modelli di importazione ed esportazione nella genesi normativa. — V. Etica e affari. - a) L’operatore bancario tra obblighi di collaborazione e logica del profitto. — VI. Forme di anticipazione e ratio di tutela: la dimensione costituzionale nella lotta all’abusivismo. — VII. Vecchi e nuovi problemi nell’interpretazione degli artt. 130-132 T.U. a) Tecnica del rinvio e principio di legalità. - b) La semplificazione del Tatbestand come obiettivo processuale. - c) Revoca dell’autorizzazione e liquidazione coatta amministrativa: le interferenze con la ‘‘banca di fatto’’. - 1. Revoca successiva ed integrazione del reato. - 2. Autorizzazione illegittima e disapplicazione del giudice penale. - 3. L’assoggettabilità della ‘‘banca di fatto’’ alla liquidazione coatta amministrativa. - d) La locuzione ‘‘raccolta del risparmio tra il pubblico’’. - e) L’elemento psicologico del reato. — VIII. Incongruenze sistematiche nella repressione dell’abusivismo. — IX. L’esperienza tedesca in tema di accesso all’attività bancaria. — X. Quale bilancio della riforma?. — XI. La dilatazione giurisprudenziale dei confini delle fattispecie incriminatrici come reazione alle discrasie teoria-prassi.

I. Premessa. — Le altalenanti vicende legislative concernenti il c.d. abusivismo bancario rappresentano un punto di osservazione privilegiato — e al contempo necessario — per un’indagine volta a delineare natura e confini della fattispecie. La disorganicità e la frettolosità delle scelte adottate dal legislatore penale, tratti che compendiano in forma emblematica la storia dell’illecito, non sono d’altronde una novità nel panorama normativo generale; l’assenza di ‘‘costanti’’ politico-criminali e l’adozione di programmi contingenti, prodotto delle istanze sociali del momento, costituiscono anzi un topos (negativo) nella strategia dell’intervento penale (1). L’idea di fondo che ispira la repressione dell’esercizio dell’attività bancaria in difetto di autorizzazione è facile da scorgere: l’esigenza di tutelare la corretta gestione dell’impresa bancaria, a sua volta strumento di protezione anticipata del pubblico risparmio. Dove la garanzia del ‘‘filtro (1) Sui compiti della politica criminale cfr. PULITANÒ, (voce) Politica criminale, in Enc. dir., XXXIV, 1985, 73 ss. Riv. ital. dir. proc. penale 1/1996


— 76 — iniziale’’ consiste nella presenza di requisiti formali e sostanziali che legittimano allo svolgimento della raccolta del risparmio e dell’intermediazione creditizia. Un tale obiettivo è stato però sinora perseguito con una tecnica estremamente approssimativa, che il recente Testo Unico del credito si sforza di contrastare attraverso una più puntuale descrizione e razionalizzazione del fatto tipico. Tuttavia, le sbavature ed i difetti di coordinamento persistenti danno implicitamente ragione a quanti lamentano l’inesistenza di un compiuto ‘‘sistema penale degli intermediari bancari e non’’ e, conseguenzialmente, l’impossibilità di elaborare una teoria generale (2). II. La repressione dell’abusivismo bancario nell’art. 96 L.B. — Nella versione originaria della c.d. legge bancaria (un insieme di disposizioni risalenti alla fine degli anni ’30), l’art. 96 comma 1 prescriveva che ‘‘Chiunque svolga l’attività prevista dall’art. 1 per la raccolta del risparmio tra il pubblico sotto ogni forma senza averne ottenuto l’autorizzazione dell’ispettorato.... è punito con un’ammenda da L. 400.000 a L. 4.000.000 (3). La fattispecie contravvenzionale, congegnata sul modello classico dell’incriminazione dell’attività bancaria svolta senza autorizzazione, aveva creato tuttavia non poche difficoltà interpretative. Sebbene la questione abbia perso ogni contenuto di attualità in seguito alle modifiche intervenute, un rapido accenno risulta comunque utile al fine di comprendere la ratio della formulazione vigente. Il rinvio dell’art. 96 all’art. 1 L.B., che riconosceva nella ‘‘raccolta del risparmio fra il pubblico sotto ogni forma’’ e ‘‘nell’esercizio del credito’’ le funzioni (di interesse pubblico) tipiche dell’attività bancaria, assoggettandole al controllo dell’Ispettorato, aveva fatto sorgere il dubbio se la configurabilità del reato fosse vincolata alla contemporanea sussistenza delle due funzioni, o anche alla sola raccolta del risparmio, complice l’equivoca formulazione dell’art. 96, richiamante la mera attività incentrata sul risparmio. (2) Si veda BARTULLI, (voce) Banca (reati in materia bancaria), in Dig. disc. pen., I, 1987, 418 ss.; FLICK, Diritto penale e credito: problemi attuali e prospettive di soluzione, 1988, 250 s.; BRICOLA, Profili penali della disciplina del mercato finanziario, in Banca, borsa 1990, I, 21 s. Un illuminante quadro di sintesi in PEDRAZZI, (voce) Mercati finanziari (disciplina penale), in Dig. disc. pen., VII, 1993, 652 ss. (3) Le funzioni di vigilanza e controllo dell’Ispettorato per la difesa del risparmio e per l’esercizio del credito sono state, come è noto, successivamente trasferite alla Banca d’Italia.


— 77 — Una panoramica, seppure sommaria, delle varie posizioni dottrinali e giurisprudenziali registratesi esula dai confini dell’indagine (4). In estrema sintesi, può dirsi che sul piano strettamente letterale l’interpretazione (estensiva della punibilità) basata sulla sufficienza della raccolta del risparmio appariva aderente al dettato sintattico; sotto il profilo logico-sistematico, confortato anche dall’evoluzione successiva, l’individuazione del Tatbestand nel doppio, congiunto parametro della raccolta del risparmio e della intermediazione creditizia è tuttavia senz’altro preferibile (5). Infatti, l’interesse prioritario del legislatore consiste nell’impedire il fenomeno della banca di fatto, che comprende per l’appunto l’attività incentrata sulla raccolta del risparmio finalizzata all’esercizio del credito. Come si vedrà, le disposizioni del T.U. hanno cercato di porre fine alla querelle sorta. Nel complesso, l’art. 96 L.B., nella versione originaria, sembrava puntare, più che sull’efficacia intimidatrice della sanzione (6), sulla valenza del divieto, in funzione socialmente stabilizzatrice. Non andrebbe peraltro dimenticato che la species ed il quantum della pena, certamente inadeguati nella situazione attuale, riflettevano il minore impatto nella prassi del fenomeno in esame. In sostanza, l’interesse della dottrina e della giurisprudenza verso tale condotta illecita era del tutto sporadico, e rapportato all’esperienza del tempo che non registrava un allarme particolare in ordine all’abusivismo bancario. Tant’è vero che, ad eccezione della famosa vicenda dell’‘‘Anonima banchieri’’ (7), soltanto in epoca recente, con il proliferare delle finanziarie di comodo e del riciclaggio di capitali sporchi, la tutela dell’attività bancaria istituzionalizzata ha acquisito un ruolo prioritario. III. L’evoluzione legislativa successiva (e la proposta di cui alla bozza per un nuovo codice penale). — Un’implicita conferma si ricava del resto dall’evoluzione normativa immediatamente successiva. Per effetto (4) Sul punto, cfr. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale - Leggi complementari, 9a ed., 1994, I, 385 ss. (5) In quest’ultimo senso era schierata l’opinione prevalente. Cfr., per tutti, CRESPI, Attività bancaria e raccolta di risparmio non autorizzata, in Banca, borsa, 1960, I, 494 ss. (6) A carattere pecuniario, e per giunta di trascurabile entità in relazione alla disponibilità economica dei potenziali soggetti attivi. (7) Imponente la letteratura in argomento; si veda per tutti MOLLE, Il ‘‘caso Giuffrè’’ e la legge bancaria, in Banca, borsa, 1960, I, 407 ss.; CRESPI, cit. (nota 5), 489. La ricostruzione dell’episodio e delle connesse vicissitudini giudiziarie si può leggere nella Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso dell’‘‘Anonima Banchieri’’, in questa Rivista, 1959, 102 ss., che tra l’altro si schiera a favore della punibilità dell’abusivismo bancario a condizione della contemporanea presenza dei due requisiti dell’attività bancaria (raccolta del risparmio ed intermediazione creditizia) (124 s.).


— 79 — tesi minore — sotto il profilo delle ripercussioni sul mercato —, quale la raccolta del risparmio in violazione delle disposizioni di legge, si passa alla vera e propria attività bancaria abusiva, sanzionata con maggiore severità. Proprio una simile tecnica normativa, strutturata secondo la formula della progressione per indici di gravità crescenti, esclude il concorso tra le due norme: nel caso di una società finanziaria che ponga in essere un’abusiva raccolta del risparmio, prevarrà l’art. 131 T.U. (10). È piuttosto da notare come l’art. 131 T.U. possa ingenerare equivoci formalistici, specie fermandosi ad una lettura testuale del precetto. La condotta vietata consiste infatti, a rigore, in qualsiasi attività di provvista del risparmio pubblico in violazione dell’art. 11 T.U., accompagnata dall’intermediazione creditizia. Poiché però l’art. 11 T.U., oltre a stabilire il divieto per i soggetti diversi dalle banche di raccogliere risparmio tra il pubblico (comma 2), contiene una serie di prescrizioni regolamentative (e di eccezioni al divieto), il rinvio in toto dell’art. 131 T.U. all’art. 11 T.U. farebbe sospettare la sussistenza del reato anche nel più innocuo caso di un istituto bancario (che per definizione esercita il credito), il quale contravvenga alle disposizioni dell’art. 11 T.U. È chiaro che l’interpretazione logica, e la stessa rubrica dell’art. 131 T.U. (abusiva attività bancaria), depongono inequivocabilmente a favore della limitazione dell’illecito ai soggetti che istituzionalmente non possono svolgere l’attività tipica bancaria, ma forse il riferimento nella norma al difetto di autorizzazione, anziché alla generica trasgressione dell’art. 11 T.U., avrebbe reso in maniera puntuale la ratio di tutela (11). La tormentata evoluzione del reato di abusivismo bancario non accenna peraltro a trovare uno sbocco definitivo. Nello schema di disegno di legge-delega al Governo per un nuovo codice penale (12) si segue infatti una strada parzialmente diversa. L’art. 113, accanto alla repressione in generale dell’abusiva attività imprenditoriale, configura, sotto forma di aggravanti, l’ipotesi della contemporanea raccolta del risparmio o dell’intermediazione finanziaria (13). (10) Conclusioni sottolineate anche nella Relazione al Testo Unico sub art. 130. (11) Si veda Commentario alla nuova legge bancaria, a cura di DONVITO-FERRAJOLIRODDI-SILLA, 1993, 225. (12) Cfr. Per un nuovo codice penale. Schema di disegno di legge-delega al Governo, a cura di PISANI, 1993, 90 s. (13) ‘‘Art. 113 - Prevedere i seguenti delitti: 1) esercizio non autorizzato di impresa, consistente nel fatto di chi intraprende un’attività imprenditoriale senza la prescritta autorizzazione o con autorizzazione illegalmente ottenuta. Prevedere come circostanza aggravante, con aumento di pena in deroga all’art. 20 comma 1, il fatto che l’attività imprenditoriale riguardi la raccolta del risparmio o l’intermediazione finanziaria, esercitata sotto qualsiasi forma;...’’.


— 79 — tesi minore — sotto il profilo delle ripercussioni sul mercato —, quale la raccolta del risparmio in violazione delle disposizioni di legge, si passa alla vera e propria attività bancaria abusiva, sanzionata con maggiore severità. Proprio una simile tecnica normativa, strutturata secondo la formula della progressione per indici di gravità crescenti, esclude il concorso tra le due norme: nel caso di una società finanziaria che ponga in essere un’abusiva raccolta del risparmio, prevarrà l’art. 131 T.U. (10). È piuttosto da notare come l’art. 131 T.U. possa ingenerare equivoci formalistici, specie fermandosi ad una lettura testuale del precetto. La condotta vietata consiste infatti, a rigore, in qualsiasi attività di provvista del risparmio pubblico in violazione dell’art. 11 T.U., accompagnata dall’intermediazione creditizia. Poiché però l’art. 11 T.U., oltre a stabilire il divieto per i soggetti diversi dalle banche di raccogliere risparmio tra il pubblico (comma 2), contiene una serie di prescrizioni regolamentative (e di eccezioni al divieto), il rinvio in toto dell’art. 131 T.U. all’art. 11 T.U. farebbe sospettare la sussistenza del reato anche nel più innocuo caso di un istituto bancario (che per definizione esercita il credito), il quale contravvenga alle disposizioni dell’art. 11 T.U. È chiaro che l’interpretazione logica, e la stessa rubrica dell’art. 131 T.U. (abusiva attività bancaria), depongono inequivocabilmente a favore della limitazione dell’illecito ai soggetti che istituzionalmente non possono svolgere l’attività tipica bancaria, ma forse il riferimento nella norma al difetto di autorizzazione, anziché alla generica trasgressione dell’art. 11 T.U., avrebbe reso in maniera puntuale la ratio di tutela (11). La tormentata evoluzione del reato di abusivismo bancario non accenna peraltro a trovare uno sbocco definitivo. Nello schema di disegno di legge-delega al Governo per un nuovo codice penale (12) si segue infatti una strada parzialmente diversa. L’art. 113, accanto alla repressione in generale dell’abusiva attività imprenditoriale, configura, sotto forma di aggravanti, l’ipotesi della contemporanea raccolta del risparmio o dell’intermediazione finanziaria (13). (10) Conclusioni sottolineate anche nella Relazione al Testo Unico sub art. 130. (11) Si veda Commentario alla nuova legge bancaria, a cura di DONVITO-FERRAJOLIRODDI-SILLA, 1993, 225. (12) Cfr. Per un nuovo codice penale. Schema di disegno di legge-delega al Governo, a cura di PISANI, 1993, 90 s. (13) ‘‘Art. 113 - Prevedere i seguenti delitti: 1) esercizio non autorizzato di impresa, consistente nel fatto di chi intraprende un’attività imprenditoriale senza la prescritta autorizzazione o con autorizzazione illegalmente ottenuta. Prevedere come circostanza aggravante, con aumento di pena in deroga all’art. 20 comma 1, il fatto che l’attività imprenditoriale riguardi la raccolta del risparmio o l’intermediazione finanziaria, esercitata sotto qualsiasi forma;...’’.


— 80 — La formula è suscettibile di ingenerare nuovamente equivoci, in quanto, non menzionandosi l’esercizio del credito, non si riesce a comprendere la portata incriminatrice del divieto e soprattutto il rapporto tra l’aggravante e la rilevanza penale della tipica attività bancaria, come combinato delle due funzioni istituzionali. IV. Le cause dei frequenti mutamenti di disciplina. — I motivi di così rapidi ed incisivi mutamenti normativi nella storia dell’abusivismo bancario si compendiano in tre ordini di fattori: esterni, interni, contingenti, alcuni dei quali già parzialmente illustrati. a) I fattori esterni. — Per fattore esterno deve intendersi sostanzialmente il processo di armonizzazione comunitaria nell’area finanziaria, che ha imposto l’adeguamento del diritto interno alle direttive della Comunità Europea, ed in particolare alla prima, del 12 dicembre 1977 n. 780 ed alla seconda del 15 dicembre 1989 n. 646. In concreto, l’idea di banca pubblicistica e specializzata, per sua natura poco permeabile al dinamismo del mercato, quale emergeva dalla legislazione bancaria degli anni ’30, è apparsa superata di fronte al modello comunitario della banca polifunzionale o despecializzata. Tali profili di inadeguatezza hanno costretto ad un’articolazione diversa del ruolo e della struttura degli istituti di credito, al fine di garantire la dovuta opera di omogeneizzazione. b) I fattori interni. — Ma un peso decisivo — soprattutto per il reato de quo — è toccato ai fattori interni. La crescita esponenziale della criminalità organizzata, la vulnerabilità del sistema finanziario di fronte alle tecniche insidiose di riciclaggio, la necessità di infittire i controlli a monte, onde proteggere il risparmiatore, assicurando nel contempo il rispetto delle regole del gioco, hanno comportato una sensibile reazione dell’ordinamento giuridico. Tant’è vero che l’evoluzione normativa del settore in esame è caratterizzata addirittura da una monotonia d’interventi: capillari obblighi di informazione e comunicazione, segnalazione di operazioni sospette, requisiti di onorabilità professionale. Trasparenza e collaborazione diventano così i capisaldi della strategia anticriminale, in una monocorde sequela di norme che prediligono lo scontato ricorso all’opzione penale. Nello specifico dell’abusivismo bancario, non è difficile scorgere le prove del revirement legislativo: addirittura, come già messo in risalto, la ripenalizzazione della fattispecie viene integrata dall’estensione delle forme di incriminazione, punendosi anche la raccolta abusiva del risparmio. È chiaro pertanto come agli occhi del legislatore l’ingresso nel mer-


— 81 — cato acquisti un ruolo determinante; presidiare mediante la sanzione penale il momento iniziale dell’attività significa assicurare — nei limiti del possibile e grazie ad un esame preventivo — che lo svolgimento delle funzioni bancarie avvenga da parte di soggetti qualificati a garanzia del pubblico dei risparmiatori. c) La funzione promozionale del diritto penale. — Non si tratta del resto di strategie nuove nel panorama giuridico. Anzi, la metodologia adottata si muove su costanti collaudate da tempo. In qualsiasi settore della vita di relazione, intrinsecamente pericoloso o tale per le ripercussioni su terzi che possono scaturirne, l’ordinamento reagisce attraverso uno sbarramento che impedisce l’accesso a chiunque, consistente nel necessario previo conseguimento di un titolo abilitativo all’intromissione. Questo filtro d’ingresso ha ovviamente natura formale (non è detto che il superamento del test ‘‘attitudinale’’ preventivo comporti l’automatica effettiva regolarità dell’attività intrapresa) e sostanziale, rafforzata da ulteriori regole di corretto svolgimento (l’assoggettamento a schemi comportamentali prefissati corrobora la liceità). Gli esempi non mancano: per le attività in sé rischiose, come la circolazione stradale, l’esame di guida (ed il rilascio della patente) assolvono i compiti descritti; e laddove l’attività in sé neutrale può creare problemi ai terzi a contatto con essa, come nel settore finanziario, o nelle professioni, l’istituzione di appositi albi, l’autorizzazione all’esercizio svolgono la medesima funzione. Tornando al mondo bancario, la delicatezza (e la particolare vulnerabilità) degli interessi in gioco, unitamente ai rischi di infiltrazioni criminali, impongono un controllo iniziale severo. Non sono peraltro estranei motivazioni più recondite in una simile scelta di campo: la penalizzazione dell’abusivismo bancario diventa infatti un’utile occasione per rafforzare l’immagine di credibilità del settore, ed implicitamente sponsorizzarne l’affidabilità. La sanzione penale diventa così un mezzo per il raggiungimento di un duplice scopo: accanto alla riaffermazione dell’importanza del bene tutelato sub specie di orientamento culturale, si incentiva l’attività dell’area penalmente disciplinata, garantendone la regolarità. Siamo di fronte ad una funzione propulsiva di indirizzo sociale e di stabilizzazione culturale che andrebbe attentamente vagliata in ogni implicazione e che conferma, d’altronde, le profonde manipolazioni della struttura sociale perseguibili attraverso il diritto penale. Indipendentemente dalla liceità o meno del ricorso a tali tecniche, occorre prendere atto così dell’inattualità del volto classico della teoria generale del reato e di come — specialmente nel campo del penale commerciale lato sensu inteso — le implicazioni anche economiche che l’inter-


— 82 — vento penale automaticamente produce dovrebbero condurre ad una rivisitazione delle concezioni sui rapporti tra diritto punitivo e società (14). d) I fattori contingenti. — Infine, i fattori contingenti di spinta al rinnovamento sono consistiti, essenzialmente, nel fisiologico invecchiamento della legislazione bancaria, non in grado di reggere il passo con i tempi e con le mutate esigenze del mercato. E ciò, nonostante i tentativi giurisprudenziali di legittimare interpretazioni adeguatrici, ai confini del divieto di analogia, che hanno tuttavia alla fine determinato una maggiore insicurezza e accelerato la riforma. e) Modelli di importazione ed esportazione nella genesi normativa. — È interessante notare il diverso ruolo del diritto penale bancario italiano di fronte ai fattori indicati. Con riguardo alle pressioni esterne, ossia alle modifiche sollecitate dalle direttive comunitarie, il diritto interno ha subito un processo di importazione ed assunto un carattere di ricezione passiva. La prospettiva si capovolge analizzando i fattori interni: la peculiarità del quadro italiano in tema di lotta alla criminalità organizzata ha imposto aggiustamenti endogeni, nel contempo favorendo l’esportazione degli schemi normativi adottati e quindi un ruolo attivo. Paradigmatico il caso del reato di riciclaggio, la cui ampiezza di formulazione è stata ripresa con successo in disegni di legge di Paesi limitrofi, sul presupposto scontato della transnazionalità dei fenomeni criminali finanziari e dunque dell’inutilità di misure repressive geograficamente legate al principio di territorialità, non inserite in un programma di collaborazione interstatuale. Il volto bivalente della riforma, con la combinazione di correnti contrapposte, ne costituisce però il limite e spiega implicitamente quei difetti di coordinamento ai quali neppure il Testo Unico si sottrae del tutto. Unitamente peraltro al rischio sempre presente in operazioni di periodico maquillage normativo: la creazione di una legislazione stratificata, additiva, che perda di vista il quadro complessivo e la razionalità d’insieme, in virtù della cristallizzazione in fattispecie incriminatrici di emergenze sociali soltanto temporanee (15). V. Etica e affari. — Gli artt. 130-133 T.U., ricompresi all’interno della Sezione ‘‘Abusivismo bancario e finanziario’’, lasciano trasparire una forma mentis che permea l’intera parte penalistica del Testo Unico; il (14) Sull’inattualità del modello tradizionale cfr. PALIERO, L’autunno del patriarca Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?, in questa Rivista, 1994, 1224 ss. (15) Sulla politica criminale ormai di stampo emergenziale cfr. MOCCIA, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, 1995.


— 83 — tentativo di convertire il sistema bancario e finanziario ad una morale comportamentale rappresenta infatti il collante ideale e la giustificazione intrinseca dell’intervento penale. Etica negli affari e degli affari (16): l’ambizioso obiettivo perseguito dal legislatore riformista si coglie tra le righe nella spinta pedagogica ad orientare i comportamenti secondo canoni di lealtà, trasparenza e sana concorrenza mercantile. Ancora una volta l’interrogativo di fondo riflette non tanto la legittimità tout court di un siffatto schieramento ideologico, quanto il ricorso allo strumento penale per l’attuazione del programma. Che il mercato bancario e finanziario, come del resto qualsiasi altro settore, debba dotarsi di un codice regolamentare interno, è fuori discussione: la creazione di ‘‘regole del gioco’’, e di sanzioni per la loro inosservanza, costituisce un’ontologica proiezione della società civile (17) e se non altro assicura la parità iniziale delle condizioni, ponendosi nella scia attuativa del principio costituzionale di eguaglianza. Il problema sorge però quando simili regole vengono adoperate dal legislatore a scopo eticizzante, ossia per imporre una visuale di riferimento, ed anzi finiscono per essere impiegate come forme intrinseche di lotta alla criminalità economica (18). Spunti simili non mancano nell’impianto del Testo Unico, specialmente laddove le norme penali richiamano disposizioni di carattere amministrativo (ad esempio, l’art. 11 in relazione agli artt. 130-131, l’art. 106 in rapporto all’art. 132). a) L’operatore bancario tra obblighi di collaborazione e logica del profitto. — La pericolosità della strada praticata è tanto più evidente nel caso in esame, poiché sconta una duplice difficoltà di ordine pratico, a prescindere dall’analisi prettamente giuridica. In primo luogo, il programma educativo impone necessariamente la forzata collaborazione dei destinatari (19). L’operazione di bonifica interna passa attraverso la vigilanza affidata agli stessi operatori, chiamati a scoprire eventuali irregolarità. Emblematica l’ipotesi del riciclaggio: la se(16) Per tali considerazioni cfr. CASTALDO, Tecniche di tutela e di intervento nel nuovo diritto penale bancario, in Riv. trim. dir. pen. ecom., 1994, 403 ss. Cfr. inoltre VISENTINI, Tre lezioni. L’evoluzione del sistema finanziario italiano-problemi attuali. La legalità nell’organizzazione dell’economia. Etica e affari, 1995, 101 ss.; DONATO, in Commentario breve al codice civile - Leggi complementari, a cura di ALPA-ZATTI, 2a ed., 1995, 790. (17) I rapporti tra gioco e diritto sono acutamente analizzati da VAN DE KERCHOVEOST, Il diritto ovvero i paradossi del gioco, 1995. (18) Il tema delle strategie extrapenali opponibili alla criminalità economica è oggetto di attenzioni da parte della letteratura penalistica da tempo; si veda il classico studio di SCHÜNEMANN, Alternative Kontrolle der Wirtschaftskriminalität, in Gedächtnisschrift für Arm. Kaufmann, 1989, 629 ss. (19) Sull’interazione comportamenti richiesti - norme penali si veda HASSEMER, Professionelle Adäquanz (Teil 2), in WISTRA, 1995, 86.


— 84 — gnalazione delle operazioni sospette (estremamente farraginosa nel suo iter) è scaricata sul dipendente bancario, senza il cui apporto si rivelerebbe velleitaria ogni possibilità di accertamento. Non solo. Il legislatore finisce infatti col pretendere che i costi necessari a supportare il monitoraggio del sistema vengano scaricati su qualsiasi intraneus, indipendentemente dal carattere lecito o meno della condotta. Il cerchio si chiude: il legislatore introduce norme incriminatrici a carattere preventivo la cui osservanza presuppone un’inclinazione eticizzante; l’affidabilità del programma (quanto a garanzia di riuscita) dipende dalla cooperazione degli interessati; i costi della cooperazione si addossano a questi ultimi. Non si può non cogliere l’aspetto paradossale del passaggio: ed infatti si finisce per colpire economicamente, gravandoli delle spese necessarie a realizzare il programma politico-criminale (ad esempio, dotazione di supporti informatici idonei al controllo delle movimentazioni finanziarie di un certo importo), i soggetti sani del mercato, anziché selezionare i potenziali trasgressori. Probabilmente l’anomalia dipende dalle preoccupazioni di bilancio che pervadono ormai anche il campo penalistico: se non è certo un mistero che le riforme legislative sono — spesso — ispirate e condizionate dalla politica economico-finanziaria, il corollario evidente è che il contenimento dei costi passa attraverso il loro trasferimento a carico dello stesso settore da proteggere. Né va sottovalutato — passando alla seconda difficoltà — che il mercato creditizio possiede una fisionomia particolare che lo rende refrattario alla collaborazione richiesta. L’operatore bancario è in realtà orientato alla logica del profitto, tradizionalmente non collocato ideologicamente, e vive dunque come intrusione degli organismi pubblici le spinte moralizzatrici, specialmente quando provocano costi non assorbiti dallo Stato. Se si pensa infine che la moltiplicazione delle regole e dei controlli, decisivi nell’ottica del legislatore per la trasparenza del sistema, crea un fitto reticolato normativo, il rapporto comunicazionale tra Stato etico e destinatario entra in crisi, in quanto il settore bancario e finanziario resta prigioniero, burocratizzandosi, di minuziosi e talvolta superflui adempimenti che ne sacrificano il naturale dinamismo. VI. Forme di anticipazione e ratio di tutela: la dimensione costituzionale nella lotta all’abusivismo. — La fattispecie dell’abusiva attività bancaria (art. 131 T.U.) e dell’abusiva attività di raccolta del risparmio (art. 130 T.U.) sono costruite secondo la tecnica dell’anticipazione di tutela. In linea astratta, l’esercizio dell’attività in difetto di autorizzazione potrebbe non risultare pericoloso, in quanto di per sé il rilascio dell’atto


— 85 — amministrativo non segna lo spartiacque ontologico tra normalità ed illiceità della condotta. L’arretramento della soglia di punibilità, se ha il vantaggio di assicurare una capillare protezione del bene giuridico esposto, presenta però — com’è noto — lati oscuri (20). Intanto, la soggettivizzazione dell’illecito quale risposta alla carenza di offensività di un comportamento troppo distante — anche ma non solo sotto il profilo della causalità — dalla lesione del bene tutelato. E di conseguenza l’evanescenza dello stesso interesse protetto. In secondo luogo, l’illusione che la protezione non frammentata del bene giuridico sia in grado di garantirne la difesa ottimale trascina con sé il rischio di approntare una legislazione ineffettiva e simbolica, proprio perché troppo estesa e dispersiva, ed incapace di colpire il fenomeno nelle manifestazioni macroscopicamente patologiche. Nel caso dell’abusivismo bancario, la relazione tra Tatbestand (nella sua sintetica descrizione) e oggetto di tutela rivela aspetti interessanti, sui quali sembra opportuno spendere qualche parola. La punizione dell’esercizio abusivo dell’attività bancaria prescinde, come si è accertato, da elementi di violenza o di frode. Il discrimine tra lecito ed illecito viene quindi fissato nel mancato conseguimento del titolo abilitativo: da una prospettiva del genere, la norma ricalca dunque la struttura dell’art. 348 c.p. (abusivo esercizio di una professione) distaccandosene soltanto per la maggiore severità sanzionatoria (21). Quale allora la ratio di tutela? Se si parte dalla constatazione che l’attività bancaria necessita — per la delicatezza della materia — di una rete normativa di sicurezza, il rispetto delle regole del gioco all’interno del settore, obiettivo legislativo perseguito, diventa un riflesso (ed una garanzia) dell’autonomia individuale. L’operatore economico sa, infatti, che, rispettando i presupposti di sbarramento, avrà libero accesso (ed anzi l’autorizzazione non potrà essergli rifiutata). Ma sa anche — ed è questo il punto dotato di maggior pregnanza — che si troverà ad interagire con terzi alle stesse condizioni di partenza. Il carattere di libertà che ne scaturisce è evidente: l’intraneus è garantito nella parità iniziale dalla disciplina regolativa, l’extraneus nella solidità e serietà dell’operatore con cui entrerà in contatto. A ben vedere, si ribadisce così la validità dell’iniziativa economica (20) In argomento, PEDRAZZI, Comportamenti economici e legislazione penale, 1978. (21) La strada seguita nel Progetto di riforma del codice penale (aggravante per l’abusivismo bancario contenuta in calce alla disposizione codicistica relativa alla figura onnicomprensiva della professione non autorizzata) è perciò senz’altro da prediligere, sia pure con alcune correzioni atte ad evitare il ripetersi di equivoci: v. supra, III.


— 86 — privata: l’incentivazione di ogni attività (economica o non) passa infatti attraverso il duplice modello della democraticità e dell’affidabilità sociale, entrambe (tendenzialmente) assicurate da quel filtro consistente nell’autorizzazione iniziale e nei controlli successivi. Oltre alla concretizzazione del dettato costituzionale dell’art. 41, la fissazione di standards di comportamento, identici per tutti, si colloca nell’ottica del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. Il paradigma classico della limitazione della libertà individuale come assicurazione della libertà collettiva trova dunque nel settore bancario un adeguato riconoscimento. Accanto agli artt. 3-41 Cost., la tutela del risparmio (art. 47 Cost.) è egualmente valorizzata. La realizzazione dell’obiettivo si basa sul consueto doppio canale: da una parte, la funzione promozionale (‘‘La Repubblica incoraggia il risparmio’’), dall’altra, la disciplina ed il controllo delle operazioni recettive del risparmio, tra le quali, per l’appunto, l’attività bancaria, al fine di proteggere il soggetto investitore, in posizione debole. Nel decalogo istituzionale di cui all’art. 5 T.U. si ritrova una conferma marcata di tale modus operandi. I poteri di vigilanza delle autorità creditizie sono mirati infatti ad assicurare la ‘‘sana e prudente gestione dei soggetti vigilati’’, la ‘‘stabilità complessiva’’ la ‘‘efficienza’’ e la ‘‘competitività del sistema finanziario’’. Il mercato finanziario viene così rappresentato in una prospettiva statica e dinamica. La razionalizzazione dell’esistente è garantita dal rispetto delle regole e dall’uniformarsi al parametro dell’‘‘operatore economico diligente’’; ma per evitare la burocratizzazione del sistema, e la sua conseguente fame d’aria, si apre ai valori dello sviluppo e della concorrenza leale, per stimolare l’iniziativa economica individuale. Libertà d’impresa, dunque, con il limite bipolare invalicabile della parità iniziale e della tutela del risparmiatore, attraverso un ideale filo comune che lega tra loro gli artt. 3, 41, 47 Cost. VII. Vecchi e nuovi problemi nell’interpretazione degli artt. 130132 T.U.. — Un esame delle fattispecie in tema di abusivismo offre spunti interessanti di analisi critica. Vecchi e nuovi problemi interpretativi confermano la difficoltà cronica della tecnica legislativa adoperata, complice in questo caso anche l’impossibilità di superare gli schemi imposti dalla delega. Il taglio dato al lavoro impedisce una completa disamina; si segnalano pertanto solo alcuni profili, sui quali probabilmente si concentrerà in futuro la dottrina. a) Tecnica del rinvio e principio di legalità. — Gli artt. 130-132 T.U.


— 87 — si caratterizzano unitariamente per il rinvio ad altre disposizioni normative ai fini dell’integrazione del fatto tipico. Così, rispettivamente, la legittimità dell’attività di raccolta del risparmio è sancita dall’esplicito riferimento all’art. 11 T.U. (disciplinante, per l’appunto, la raccolta del risparmio), mentre l’abusivismo finanziario deriva in sostanza dall’inosservanza dell’art. 106 comma 1 T.U., che prevede l’iscrizione in apposito elenco. Di per sé, il metodo del rinvio, usato ed abusato dal legislatore penale, non è astrattamente censurabile, se correttamente dimensionato. Diventa anzi una necessità pressoché irrinunciabile, specie in settori prettamente tecnici, dove la norma-quadro si avvale dell’apporto in funzione di concretizzazione di parametri d’intervento rimessi agli organi amministrativi. Senonché, il rischio di un’eccessiva dilatazione del precetto, e quindi di un’iperpenalizzazione con conseguente smarrimento dei confini del Tatbestand, è ben presente laddove il rinvio operi nei confronti di norme troppo generali. Questo pericolo di sfiorimento del principio di legalità si annida intanto nell’art. 130 T.U. (e — ovviamente — nell’art. 131 T.U.). Qualsiasi violazione dell’art. 11 T.U., almeno apparentemente, stando alla lettera, prefigura il reato di abusivismo. E l’art. 11 T.U. contiene una selva di disposizioni regolative, alcune delle quali sicuramente prive di una diretta valenza offensiva, e viceversa di mero funzionamento pratico. Addirittura accentuata è la tendenza nell’art. 132 T.U., subordinato nella tipicità al requisito formale dell’iscrizione in appositi elenchi (secondo l’estrinsecazione nei confronti o meno del pubblico dell’attività) (22). Considerando che l’art. 11 T.U. riconosce al C.I.C.R. la legittimazione ad intervenire in materia di raccolta del risparmio, e dunque, implicitamente, in tema di confini del Tatbestand, o, analogamente, che l’art. 106 T.U. rinvia al Ministro del Tesoro (che a sua volta si avvale della collaborazione dell’U.I.C.) per la tenuta dell’elenco, le inquietudini in merito alla legittimità costituzionale di simili operazioni aumentano. Perché così facendo si finisce per delegare ad un organo amministrativo il compito di delineare la cornice dell’illecito, a detrimento della riserva di legge. (22) A proposito dell’abusiva attività finanziaria, la formulazione lata di cui all’art. 132 T.U. viene a ricomprendere — e quindi tacitamente ad abrogare — la fattispecie dell’abusivo esercizio di credito al consumo (in quanto species del più ampio genus dell’abusivismo finanziario) prevista all’art. 23 comma 4 L. n. 142/1992. Il rilievo è opportunamente segnalato nella Relazione al Testo Unico, sub art. 132.


— 88 — b) La semplificazione del Tatbestand come obiettivo processuale. — Se da una parte il legislatore si affida consapevolmente alla discrezionalità dell’apparato amministrativo per la penalizzazione della condotta, quest’ultima d’altra parte resta immutata nella struttura, uniformata a parametri di semplicità. Come si è avuto modo di osservare, l’abusivismo si modella sulla mera inesistenza formale dell’autorizzazione, e da tale punto di vista non presenta particolari difficoltà di accertamento. In altre parole, la strada prescelta, che evita di appesantire il fatto tipico di modalità ulteriori o condizioni di punibilità, obbedisce ad uno sforzo di semplificazione. Si tratta di un messaggio destinato a favorire la magistratura sotto il profilo dell’individuazione dell’illecito. Del resto, trovandoci di fronte a fattispecie estremamente tecniche, e tradizionalmente ostiche al giurista classico, l’ispessimento degli elementi costitutivi del tipo avrebbe contribuito alla sostanziale disapplicazione della norma. La tecnica legislativa mira quindi al conseguimento di obiettivi processuali legati all’agevolazione della prova e più consoni al rito inquisitorio. c) Revoca dell’autorizzazione e liquidazione coatta amministrativa: le interferenze con la ‘‘banca di fatto’’. — Di non agevole soluzione si presenta la problematica della revoca dell’autorizzazione, nelle sue diverse implicazioni. Sembra opportuno pertanto partire da un breve riepilogo della normativa attinente. L’autorizzazione all’attività bancaria è concessa dalla Banca d’Italia sussistendo i requisiti di cui all’art. 14 T.U. In particolare, il comma 2 prevede la negazione dell’autorizzazione quando la verifica di detti requisiti conduca ad una prognosi sfavorevole in ordine all’effettivo rispetto della ‘‘sana e prudente gestione’’. Così congegnata, la norma lascia all’ente di controllo una certa discrezionalità in fase di rilascio; ma soprattutto riconferma come la preoccupazione prevalente sia quella di garantire l’affidabilità degli operatori e la trasparenza del mercato, contro possibili forme di inquinamento derivanti dalla criminalità organizzata. Di una revoca dell’autorizzazione, invece, a prescindere da quella inerente al regime delle partecipazioni al capitale (art. 19 T.U.), di competenza della Banca d’Italia, il T.U. se ne occupa soltanto all’art. 80, a proposito della liquidazione coatta amministrativa. Anzi, l’infelice formulazione lessicale, che lega la revoca alla liquidazione (con decreto del Ministro del Tesoro, su proposta della Banca d’Italia) ha fatto sorgere una singolare querelle in merito alla scindibilità o meno dei due atti. Parte della dottrina sostiene così che l’istituto della revoca non di-


— 89 — sponga di una vera autonomia, collocandosi come effetto automatico della liquidazione coatta amministrativa (23), in disaccordo con l’orientamento favorevole all’ammissibilità di una revoca per ragioni di opportunità, non seguita dalla liquidazione (24). La circostanza dell’attribuzione esclusiva in capo al Ministro del potere di revoca, e non all’organo di controllo che rilascia l’autorizzazione, costituisce appiglio per la tesi che unifica — quanto meno funzionalmente — i due atti. Altrimenti si creerebbe l’anomalia, difficilmente giustificabile, di un potere di revoca del Ministro per ragioni di convenienza interferente con quello di sorveglianza e controllo dell’autorità istituzionalmente competente. È chiaro comunque che la revoca comporta conseguenze che si riverberano anche nell’integrazione della fattispecie di abusivismo. 1. Revoca successiva ed integrazione del reato. — Proprio l’unificazione temporale revoca/liquidazione di cui all’art. 80 T.U., almeno nell’interpretazione suggerita, evita soluzioni di continuità nella conduzione dell’impresa bancaria. Poiché il decreto di liquidazione produce i suoi effetti sin dalla data di emanazione, non si verifica in senso giuridico un vuoto di potere. Gli organi della procedura — e segnatamente il o i commissari liquidatori (art. 81 T.U.) — assumono automaticamente i compiti di direzione, sicché non si pone il problema della commissione di atti da parte degli organi revocati e quindi di una loro ipotetica responsabilità penale nell’intervallo connesso al cambio di gestione. Deve peraltro notarsi che il venir meno nel prosieguo dell’attività dei requisiti ai quali è subordinata l’autorizzazione non comporta l’automatica revoca, ma effetti limitati, in base alla patologia intervenuta, che possono consistere nella decadenza, o sospensione degli esponenti aziendali, nell’obbligo di alienazione delle partecipazioni ‘‘esuberanti’’, ecc. Ciò significa, da un lato, che l’ordinamento ha interesse a salvaguardare la vita dell’impresa bancaria, correggendo con interventi ortopedici le anomalie riscontrate, e d’altra parte — conseguenzialmente — che l’assenza ab initio dei requisiti, posteriormente accertata, egualmente non determina la revoca, ma certifica soltanto la natura indebita dell’autorizzazione rilasciata, con obbligo di rientro nell’alveo della legalità secondo le prescrizioni ed i tempi dettati dall’autorità di vigilanza. La ricaduta sotto il profilo penale è intuitiva: il difetto-originario o (23) Cfr. CERULLI IRELLI, Crisi bancarie: i procedimenti amministrativi e i loro effetti, in AA.VV., Il sistema creditizio nella prospettiva del mercato unico europeo, 1990, 172 ss. (24) Sotto il vigore della precedente disciplina, sostanzialmente identica, PORZIO, Il governo del credito, 1966, 116; PATRONI GRIFFI, La concorrenza nel sistema bancario, 1979, 160 ss. Contra, COSTI, L’ordinamento bancario, 2a ed., 1994, 679 ss.


— 90 — acquisito — dei fattori condizionanti l’autorizzazione non provoca la sussistenza della fattispecie di abusivismo, non essendo automatico l’effetto della revoca all’accertamento dell’indebito rilascio, e, quindi, potendo continuare a sopravvivere l’impresa bancaria autorizzata in forma viziata. È naturale peraltro che l’esercizio successivo dell’attività bancaria nonostante il decreto di revoca e liquidazione rientra nella previsione dell’abusivismo bancario. È vero che la norma collega la previsione incriminatrice al difetto ab initio dell’autorizzazione; tuttavia, l’interpretazione estensiva della fattispecie e ragioni di coerenza intrasistematica consigliano di equiparare tale situazione all’ipotesi di intervenuta revoca. 2. Autorizzazione illegittima e disapplicazione del giudice penale. — Diverso discorso concerne il caso dell’autorizzazione giudiziariamente disapplicata. In via puramente speculativa si può pensare all’intervento del giudice penale che, avvalendosi dai poteri incidentali di cognizione, arrivi a ritenere illegittima l’autorizzazione concessa, e dunque tamquam non esset, condannando per il reato di abusivismo bancario. La questione ha conosciuto una certa notorietà soprattutto nell’ambito delle contravvenzioni edilizio-urbanistiche, ove la disapplicazione della concessione edilizia portava alla responsabilità per il reato di realizzazione di opere senza concessione. Nonostante che le Sezioni Unite si fossero pronunciate in senso sfavorevole, isolate prese di posizione dei giudici di merito, debolmente motivate, hanno continuato a resistere, indice di quel mai del tutto sopito anelito a forme di supplenza giudiziaria. Comunque, a prescindere dall’inaccettabile ingerenza del corpo giudiziario in ambiti non di propria competenza, in violazione della separazione dei poteri statuali, la parificazione quoad poenam della condotta di esercizio dell’attività bancaria senza autorizzazione con quella di esercizio in presenza di autorizzazione ritenuta illegittimamente rilasciata realizza una violazione del principio di legalità, essendo anche sul piano dogmatico difficilmente sostenibile un’identità di ratio di tutela tra situazioni oggettivamente e (soprattutto) soggettivamente differenti. 3. L’assoggettabilità della ‘‘banca di fatto’’ alla liquidazione coatta amministrativa. — Un ultimo profilo riguarda i rapporti tra banca di fatto e liquidazione coatta amministrativa; se cioè sia assoggettabile alla procedura l’impresa bancaria non autorizzata. Nuovamente si assiste ad una divaricazione tra interpretazione testuale e di merito. Dal momento che l’art. 80 comma 1 T.U. ricollega la revoca dell’autorizzazione e la sottoponibilità alla liquidazione coatta amministrativa alle sole ‘‘banche’’, le quali, secondo il dettato dell’art. 1 T.U., sono le imprese autorizzate all’esercizio dell’attività bancaria, dovrebbe giocoforza concludersi che, non essendo la banca di fatto autoriz-


— 91 — zata, essa sfugga all’istituto della liquidazione. La giurisprudenza e gran parte della dottrina sono orientate in senso opposto, con argomentazioni condivisibili. Innanzi tutto, la procedura di liquidazione risponde all’esigenza di tutelare il pubblico dei risparmiatori e di assicurare stabilità al mercato: se questa è la funzione, per così dire, istituzionale prefissa, è evidente che va esplicata nei confronti di qualsiasi soggetto, autorizzato e non, svolgente attività bancaria. Anzi, proprio per l’operatore ‘‘irregolare’’ si avverte maggiormente l’esigenza di un controllo e di una procedura di garanzia, a causa dei rischi amplificati di inaffidabilità finanziaria. Se in altre parole le ‘‘attenzioni’’ legislative si concentrano sull’attività bancaria realmente effettuata più che sulla veste formale assunta, il requisito della autorizzazione perde importanza. Ma vi sono ulteriori ragioni. Di armonia complessiva del sistema: le imprese assicurative di fatto, non autorizzate, sono unificate, per espressa previsione normativa, a quelle formalmente esistenti quanto alla procedura di liquidazione. E poi, a fortiori, l’argomento ricavabile dallo stesso T.U., all’art. 105, che prevede l’estensione della disciplina della liquidazione coatta amministrativa nei confronti dei gruppi bancari (25) e ‘‘delle società per i quali, pur non essendo intervenuta l’iscrizione, ricorrono le condizioni per l’inserimento nell’albo previsto dall’art. 64’’. Posto dunque che l’assoggettabilità alla liquidazione si estende al gruppo di fatto, cioè non iscritto all’albo specifico, o alla singola società non compresa nel gruppo iscritto, o ancora a società non esercenti attività bancaria, in stato di insolvenza, qualora appartengono ad un gruppo bancario con capogruppo sottoposta a liquidazione (26), avrebbe poco senso un’interpretazione che negasse per la banca di fatto un’analoga possibilità (27). Del resto, le sparute pronunce in senso contrario all’orientamento consolidato (28) sono costrette a far leva su argomenti extragiuridici, a (25) In proposito, cfr. MILITELLO, Gruppi bancari e responsabilità penale, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, 40 ss. (26) Su tali aspetti cfr. BONFATTI, in Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di CAPRIGLIONE, 1994, 415 ss. (27) Conformemente, COSTI, cit. (nota 24), 683 s. (28) Ad esempio, Cass., SS.UU., 13 marzo 1965, in Banca, borsa 1965, II, 1; Cass. 19 luglio 1974, in Giur. comm., 1975, II, 19; Cass. 11 gennaio 1979, in Banca, borsa, 1980, II, 52; Cass., SS.UU., 9 dicembre 1985, in Giust. civ., 1986, I, 1398; Cass., SS.UU., 10 gennaio 1986, in Giur. comm. 1986, II, 802. Contra, MARTORANO, L’impresa bancaria non autorizzata, in Banca, borsa, 1966, I, 147 ss.


— 92 — contenuto sociale, che dimostrano implicitamente la debolezza della tesi (29). L’ammissibilità dell’impresa bancaria non autorizzata alla procedura prevista per la banca in situazione di crisi fa parte in definitiva della tendenza più ampia, che incontra progressivamente crescenti consensi, della sottoposizione della banca di fatto in generale allo stesso regime delle autorizzate, sul presupposto di impedire una disparità di trattamento incoerente e disfunzionale (30). d) La locuzione ‘‘raccolta del risparmio tra il pubblico’’. — I reati di abusiva attività di raccolta del risparmio e di abusiva attività bancaria richiedono per la loro integrazione che la raccolta del risparmio avvenga nei confronti del pubblico. Sull’esatta nozione e portata del concetto sono sorte, vigente la precedente disciplina, controversie interpretative che rivivono nel testo attuale. Un primo ausilio ermeneutico, per quanto concerne la raccolta del risparmio, è offerto dall’art. 11 comma 1 T.U., che la definisce come ‘‘l’acquisizione di fondi con obbligo di rimborso, sia sotto forma di depositi sia sotto altra forma’’. Resta pertanto esclusa l’attività di raccolta per fini filantropico-assistenziali, e quella contrassegnata dall’aleatorietà dell’investimento (titoli azionari, fondi comuni, ecc.), ove manca il sinallagma del rimborso. Il comma 3 del medesimo articolo sancisce inoltre che sia il C.I.C.R. ad individuare limiti e criteri della raccolta del risparmio presso soci e dipendenti, o società controllanti, controllate o collegate. L’intento risponde al tentativo di definire con maggiore nitidezza lo spartiacque tra raccolta del risparmio lecita ed illecita; e giusta in linea di principio si rivela la delega ad un organo tecnico ministeriale. Senonché, il profilo negativo è ancora una volta l’affidamento a fonti (29) Si veda Trib. Roma 20 febbraio 1992, in Banca, borsa, 1993, II, 69, con note critiche di CAPRIGLIONE, Banca di fatto: nuovo orientamento della giurisprudenza e riflessioni sul ruolo istituzionale delle autorità di controllo bancario, e RATTO, Mancanza di autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria e disciplina dell’insolvenza. La sentenza intende giustificare infatti la non applicabilità degli artt. 80 ss. T.U. alla banca di fatto in omaggio al fenomeno della proliferazione dell’intermediazione finanziaria e ai connessi pericoli di turbativa del mercato. Conformemente, Trib. Avellino 18 maggio 1994, inedita. (30) Espressione di tale percorso Trib.Napoli 24 gennaio 1990, in Banca, borsa, 1993, II, 114 con nota di SPENA, Brevi note in tema di profili normativi dell’ente creditizio non autorizzato, avente ad oggetto l’applicazione di norme A.B.I, e sull’assegno bancario agli istituti privi di autorizzazione. Sempre attuale in argomento lo studio di LIBONATI, Legge bancaria e banca di fatto, in Riv. dir. comm., 1965, II, 95 ss.


— 93 — di produzione subordinate nell’elaborazione del precetto penale, allargando in definitiva la discrezionalità della magistratura giudicante. Quanto alla fondatezza costituzionale del regime, affidato esclusivamente alle banche, di raccolta del risparmio, valgono le considerazioni precedenti in ordine alla tutela dell’art. 47 Cost. Per incidens, va peraltro osservato che dal combinato disposto dagli artt. 11-130 T.U. si ricava l’impressione di una linea legislativa tesa a favorire una certa unificazione — nella disciplina e nel controllo — degli operatori economici, privilegiando il modello sezionale del mondo bancario. Se naturalmente non puo parlarsi di un raggruppamento tra mercato giuridico bancario e mercato mobiliare in un unicum improntato sul tessuto lato sensu finanziario, è però innegabile la centralità del segmento bancario nella regolamentazione dei fenomeni insistenti nell’area finanziaria. Infine, la natura contravvenzionale del reato in questione esclude la punibilità del tentativo, e pertanto la punibilità della sollecitazione al pubblico della raccolta del risparmio. Non minori difficoltà crea la specificazione del pubblico quale destinatario della raccolta tipica. Non si tratta certo di un’innovazione normativa; la formula, al contrario, deriva dalla legge bancaria ed è rimasta immutata nel tempo. Si è già visto come un prezioso aiuto alla qualificazione del concetto derivi dalla direttiva fissata dal C.I.C.R., peraltro con i limiti di dubbia costituzionalità che il procedimento comporta. Nella prassi, vigente la precedente disciplina (ma nulla cambia con l’attuale), la giurisprudenza aveva sposato un orientamento abbastanza rigoristico, teso a riconoscere la raccolta tra il pubblico anche nel caso di raccolta fra soci, ma dal numero potenzialmente indeterminato. Come è facile intuire, siamo di fronte soprattutto a casi di società cooperative, la cui attività di raccolta del risparmio è indirizzata unicamente, in base alle norme statutarie, verso i soci, ma il libero accesso allo status rende di fatto aperto a tutti l’inserimento nella compagine societaria. L’elusione pratica della norma, in bilico tra il rispetto formale della stessa (la raccolta avviene tra i soci, quindi non è pubblica, quindi non è abusiva) e la sua sostanziale trasgressione (socio può divenire chiunque, quindi la raccolta è pubblica ed abusiva) ha provocato la reazione giurisprudenziale, che ha finito per ampliare la nozione di pubblico (31). (31) Cfr. Cass., SS.UU., 25 marzo 1988, in Banca, borsa, 1989, II, 7; App. Ancona 18 dicembre 1991, in Banca, borsa, 1992, II, 660; da ultimo Cass. 8 ottobre 1993, in Cass. pen., 1994, 1341 ss., con nota di AMATO, In tema di esercizio abusivo di attività bancaria (caso in cui unico requisito necessario per diventare socio era il domicilio in Italia).


— 94 — Se sul piano politico-criminale la sovraesposizione del ruolo della magistratura (alla quale si è peraltro abituati) e la tendenziale sostituzione al legislatore nel modellare la risposta punitiva alla fenomenologia sociale in fieri non vanno certamente incoraggiate, sul versante strettamente dommatico l’interpretazione estensiva adottata, seppure al limite, non viola il principio di legalità. In conclusione, sembra preferibile accogliere una nozione di ‘‘pubblico’’ che non si trinceri dietro il paradigma formale, ma si articoli sul doppio parametro qualitativo e quantitativo. Qualitativo, nel senso che la mancanza di un rapporto societario tra operatore bancario e risparmiatore agevolerà la ricerca del carattere pubblico; quantitativo, come fattore controbilanciante, nel senso che la vastità e l’indeterminatezza dei potenziali risparmiatori configureranno la raccolta tra il pubblico. pur trattandosi di soci. Così, tecniche di contrattazione secondo una modulistica impersonale, e secondo forme standardizzate, lasciano presumere una raccolta pubblica, e dunque l’esigenza di tutelare il soggetto debole della catena. e) L’elemento psicologico del reato. — La previsione di una contravvenzione nell’art. 130 T.U. e di un delitto nell’art. 131 T.U. induce a qualche riflessione in ordine all’elemento soggettivo. Il dato di partenza è una constatazione pacifica quanto scontata: le due fattispecie sono in rapporto di minus/malus; l’abusiva attività bancaria è reato logicamente più grave dell’abusiva attività di raccolta del risparmio, che è parte della prima, ed infatti la cornice sanzionatoria rispecchia fedelmente tale stato di cose con una pena severa per l’abusivismo bancario. Senonché, la punibilità a titolo indifferentemente doloso e colposo nell’art. 130 T.U., e solo doloso nel delitto ex art. 131 T.U., solleva il consueto interrogativo della saggezza politico-criminale di un’area di incriminazione tendenzialmente maggiormente estesa sub specie dell’elemento psicologico (dolo e colpa) proprio per i fatti meno pericolosi (abusiva raccolta del risparmio). La contraddizione non è naturalmente problema specifico della materia bancaria, riguardando invece il nodo complessivo della scelta tra delitti e contravvenzioni. Anzi, nel caso in questione, si tratta forse di un rilievo teorico anziché pratico: il reato di abusiva attività di raccolta del risparmio si configura in realtà come contravvenzione ontologicamente dolosa. La raccolta del risparmio effettuata in difetto dell’art. 11 T.U. non è infatti, per così dire, ‘‘improvvisata’’, ma presuppone un’ organizzazione ed un proIn dottrina, A. NUZZO, Raccolta del risparmio fra il pubblico, in Banca, borsa 1987, II, 385 ss.; DONATO, Esercizio abusivo di attività bancaria, disciplina degli intermediari finanziari e giudizio di omologa, in Banca, borsa 1992, II, 672 ss.


— 95 — gramma gestionale strutturato secondo le capacità imprenditoriali dell’ente. Ed è altrettanto chiaro che la consapevolezza delle obbligatorie modalità di raccolta o della previa autorizzazione, quali condizioni dell’esercizio lecito, non può non riverberarsi sul carattere doloso del comportamento, tranne forse romantici casi di scuola di imprudenze professionali ruotanti intorno al paradigma dell’autorizzazione ritenuta erroneamente già rilasciata. VIII. Incongruenze sistematiche nella repressione dell’abusivismo. — Sottili incongruenze si manifestano nel raffronto dell’art. 131 T.U. (abusiva attività bancaria) con l’art. 132 T.U. (abusiva attività finanziaria). La pena è identica (reclusione da sei mesi a quattro anni e multa da lire quattro a lire venti milioni); ma è eguale anche il disvalore del fatto? Sono in altre parole l’abusivismo bancario e l’abusivismo finanziario fenomeni socialmente omologhi e dotati dello stesso coefficiente di pericolosità? In linea di massima, la risposta è positiva: simili sono l’organizzazione e la potenziale indeterminatezza di numero dei soggetti che vi entrano a far parte, così come simile si rileva l’esigenza di tutela del risparmiatore. Anzi, l’unificazione sanzionatoria dei due reati consolida la tendenza legislativa, già sottolineata, a trattare per classi omogenee settore bancario e finanziario, assegnando al primo un ruolo di leadership. Proprio in base a tali considerazioni è perciò difficile salvare la disposizione, inserita nell’art. 132 T.U., che parifica l’abusiva attività finanziaria esercitata nei confronti del pubblico con quella ‘‘non aperta al pubblico’’. Quest’ultima, infatti, per la quale è doverosa l’iscrizione in apposita sezione dell’elenco ex art. 113 T.U., ha un impatto socialmente meno rilevante, essendo confinata in spazi ristretti. Si sarebbe rivelata pertanto preferibile la strada di una differenziazione sanzionatoria, mediante l’articolazione della figura criminosa in due sottofattispecie, oppure inserendo un’attenuante nel caso di attività finanziaria non diretta al pubblico (32). (32) L’art. 132 T.U. prevede invece un’aggravante ‘‘quanda il fatto è commesso adottando modalità operative tipiche delle banche o comunque idonee a trarre in inganno il pubblico circa la legittimazione allo svolgimento dell’attività bancaria’’. Nulla quaestio circa la doverosità dell’intervento: l’inasprimento della pena è giustificato dall’idoneità della condotta ad ingannare il terzo in buona fede. Le perplessità sono semmai legate all’esatto contrario: l’aumento della pena pecuniaria fino al doppio (quindi, da otto a quaranta milioni) è un’arma spuntata quanto a deterrenza nei confronti di gruppi economici tradizionalmente forti. Essa può al limite giocare un ruolo residuale nei termini di effettività indiretta della minaccia in relazione all’istituto della sospensione condizionale, ai fini del calcolo della pena pecuniaria da convertire in detentiva.


— 96 — IX. L’esperienza tedesca in tema di accesso all’attività bancaria. — Nella Repubblica federale tedesca, un Paese che al di là di mode passeggere rappresenta una tappa obbligata di confronto a cagione della serietà complessiva del sistema politico-criminale e della razionalizzazione negli strumenti di lotta alla criminalità economica, la situazione normativa concernente l’accesso all’attività bancaria presenta profonde analogie. La legge creditizia del 10 luglio 1961, entrata in vigore l’1 gennaio 1962, modificata a più riprese anche in virtù delle direttive comunitarie (33), incrimina al § 54 comma 1 n. 2 l’esercizio dell’attività bancaria in assenza dell’autorizzazione prevista al § 32. La procedura è identica alla nostra: viene definita l’attività bancaria ed i negozi giuridici vietati; viene delegato all’autorità di vigilanza, l’ente federale di controllo dell’attività creditizia (Bundesaufsichtsamt für das Kreditwesen), il compito di sorveglianza, così come l’autorizzazione (o il rifiuto) all’espletamento dell’attività, che sancisce la liceità penale dell’iniziativa. Le somiglianze con l’ordinamento italiano si estendono alle funzioni dell’organo di vigilanza, volte tra l’altro a prevenire abusi nel settore creditizio (§ 6 comma 2 KWG), all’inasprimento della pena nel corso del tempo (originariamente, detenzione sino ad un anno o sanzione pecuniaria; attualmente, fino a tre anni), comunque inferiore al massimo edittale di cui all’art. 131 T.U.; viceversa, la normativa tedesca prevede anche l’ipotesi colposa — ovviamente, punita meno afflittivamente (detenzione sino ad un anno o pena pecuniaria) —, esclusa invece per l’art. 131 T.U. e teoricamente ammissibile solo per l’abusiva raccolta del risparmio. La legislazione tedesca di settore si incentra così sul momento iniziale dell’attività: l’ingresso dell’operatore nel mercato, per i rischi che comporta nei confronti del pubblico dei risparmiatori, è adeguatamente presidiato con lo strumento penale. Questa tutela avanzata e rafforzata è anzi in Germania maggiormente messa in risalto, rispetto all’Italia, da un’intelligente politica di centellinamento dell’opzione penale. La legge del ’61 contiene infatti due sole fattispecie penali, pur se ad ampio spettro (e cioè, abusivismo bancario e attività vietate, omessa segnalazione di stati di crisi e di difficoltà finanziaria), ed una serie di illeciti amministrativi minori. Così facendo, si esalta da un lato la centralità del diritto penale ed il ruolo di extrema ratio, e dall’altro si esprime in maniera appropriata, per lo ‘‘stacco’’ in negativo che gli tributa lo stigma penale, il disvalore sociale della condotta di abusivismo. Senza contare che le sanzioni amministrative per gli illeciti ‘‘di contorno’’ risultano in molti casi più praticabili per la loro agilità — e dunque più effettive — delle penali (34). (33) Per una panoramica, cfr. HERBST, Gesetz über das Kreditwesen, 12a ed., 1994. (34) Diversa la situazione in Spagna, ove la tutela del corretto esercizio dell’attività


— 97 — X. Quale bilancio della riforma? — Si può tentare un bilancio — anche sommario — della riforma in materia di abusivismo bancario? Mai come in questo caso le conclusioni si avventurano su congetture friabili, ed esposte ai segni contingenti del tempo. E non tanto per il periodo limitato sotto osservazione (il T.U. è entrato in vigore l’1 gennaio 1994, ma la fattispecie non era sconosciuta alla normativa precedente), quanto per ragioni diverse. Un bilancio critico presuppone due momenti fondamentali: il dato e la lettura valutativa di esso. Riguardo ad entrambi persiste un evidente deficit conoscitivo. Il reato di abusivismo bancario non sfugge alla triste regola di una sostanziale disapplicazione nelle aule giudiziarie. Pur non raggiungendo i vertici di figure misteriose quali l’aggiotaggio bancario, la produzione giurisprudenziale resta modesta, ed anzi caratterizzata da corsi e ricorsi ciclici: ad una stagione di ribalta, conosciuta grazie al famoso caso dell’‘‘Anonima Banchieri’’ è sopraggiunta una fase di letargo, negli ultimi tempi destinata ad un revirement, in virtù fondamentalmente dell’accresciuto ruolo di vigilanza della Banca d’Italia. E si tratta inoltre di una produzione monotematica, concentrata intorno ai soliti punti-chiave del concetto di pubblico, o delle funzioni costitutive dell’attività bancaria. Lo scarso ausilio offerto dalla giurisprudenza non è ovviato del resto neppure da rilevazioni statistiche di supporto. Anzi, è questo l’aspetto più negativo. In una parola, si continua a parlare di una patologia sociale (l’abusivismo bancario, segnatamente quale espressione di micro-finanziarie non in regola operanti nel settore), senza alcun monitoraggio. Manca una qualsiasi analisi economica, pure indispensabile in ipotesi del genere. Una strategia di intervento e di controllo penale brancola così, per definizione, nel buio, non disponendo di alcuna radiografia ragionata. O, se si preferisce: la valutazione del dato è inattendibile, qualora la disponibilità di esso sia del tutto casuale. Questa ascientificità di metodo si conferma pensando al fenomeno della cifra oscura, dove i termini del ragionamento rasentano il paradosso. Infatti, è comune e quasi scontata la premessa dell’esistenza di un bancaria è affidata dall’art. 28.1 L. n. 26/1988 a misure di diritto amministrativo (multa sino a cinque milioni di pesete). Cfr. sul punto SILVA SANCHEZ, Il diritto penale bancario in Spagna, in Riv. trim. dir. pen. econ. 1994, 796 s., in senso critico. Per una panoramica ‘‘allargata’’ sulle soluzioni in altri Paesi (quasi sempre in favore del ricorso allo strumento penale), DOLCINI-PALIERO, Problèmes de droit pénal bancaire: une analyse de droit comparé, in Rev. Scien. Crim. Dr. Pén. Comparé, 1988, 658.


— 98 — grosso scarto tra il numero dei reati commessi e quelli effettivamente accertati dagli organi di polizia giudiziaria. Anche sulle spiegazioni di un’anomalia ormai fisiologica nel panorama del diritto penale commerciale si registra unità di intenti (35), ma singolarmente si glissa sulle metodiche adoperate per dimostrare natura ed estensione della cifra oscura, non essendovi statistiche o un censimento della tipologia e dell’ampiezza assunta dalla raccolta del risparmio, e del suo incanalamento verso operatori ‘‘ufficiali’’. È chiaro allora che il vizio d’origine si trasferisce conseguenzialmente sulle scelte di politica criminale del legislatore, che si accolla così fideisticamente un postulato indimostrato eppure carico di significato. E di fronte al ‘‘sommerso’’, alla presunta diffusa illegalità, la reazione, più giocata sul filo dell’emotività che della razionalità, consiste nuovamente nella dilatazione della sfera di penalizzazione. La tecnica additiva finisce però per rendere un pessimo servizio, e comunque risultati modesti: ciò che infatti serve non è la repressione tout court, bensì la selezione nella repressione. Altrimenti si corre il rischio, rispetto alla molteplicità di obblighi e di sanzioni correlate, di provocare una crisi di rigetto nel destinatario, e quindi una perdita di fiducia verso le istituzioni, incentivando alla lunga quel fenomeno (la cifra oscura) che per l’appunto si voleva combattere. Un duplice esempio pratico può servire ad illustrare i concetti espressi. La decisione nel futuro di impostare la lotta all’abusivismo bancario e finanziario mediante il ricorso al diritto penale o a strumenti alternativi di tutela presuppone ovviamente la mappatura dell’area; di per sé, infatti, il dato della mancanza di precedenti giurisprudenziali è equivoco, in quanto segnala o l’inesistenza di reati oppure l’impossibile loro accertamento. E solo nella prima alternativa diventerà credibile l’opzione extrapenale (36). Secondo caso. Spostandoci dall’an alla species della sanzione e al soggetto attivo, l’effettività della pena potrebbe accrescersi (e la strategia di contrasto alla criminalità affinarsi) mediante l’introduzione della responsabilità penale della persona giuridica (37). (35) Tradizionalmente, si fa riferimento alla mancanza di collaborazione degli operatori bancari, alla sfiducia verso le istituzioni di controllo, alla complessità dei meccanismi di accertamento. Sul punto, criticamente, cfr. CASTALDO, cit. (nota 16), 409 s. La povertà delle pronunce penali si evince dalla semplice consultazione di qualsiasi repertorio giurisprudenziale dedicato alle banche. Ad esempio, si veda Giurisprudenza bancaria (1989-1990), 1994. (36) In argomento, OTTO, Bankentätigkeit und Strafrecht, 1983, 15, che sottolinea il ruolo alternativo nella repressione svolto efficacemente da figure criminose di parte generale quali la truffa o l’infedeltà patrimoniale. (37) Idea sottoposta di recente ad un’inattesa rivitalizzazione. In tema, DE MAGLIE,


— 99 — Ma una qualunque risposta è imprescindibile — nuovamente — dalla conoscenza del fenomeno, anche sotto il profilo delle dimensioni delle imprese coinvolte in tali processi economici. In breve: un bilancio, prim’ancora che prematuro, sarebbe del tutto arbitrario. XI. La dilatazione giurisprudenziale dei confini delle fattispecie incriminatrici come reazione alle discrasie teoria-prassi. — Comunque si valuti la scelta del T.U. di ricorrere allo strumentario penale, ampliando gli spazi di punibilità, non si possono non registrare con inquietudine i primi segnali giurisprudenziali volti a dilatare la latitudine applicativa dei reati presi in considerazione. L’anomalia è addirittura stupefacente: il legislatore introduce nuovi illeciti penali (per colmare evidentemente vuoti di tutela) e la prassi reagisce con interpretazioni estensive delle stesse norme, allargandone i confini attuativi. Così, per restare al reato di abusivismo, si studia la possibilità di incriminare per il reato di abusiva raccolta del risparmio l’usuraio che presti denaro a chiunque, in difficoltà economica, si rivolga a lui, oppure si procede alla contestazione di abusivismo finanziario a carico delle società finanziarie che istruiscono e seguono in tutti i passaggi le pratiche di concessione del credito senza però arrivare alla materiale erogazione. Non interessa qui giudicare la legittimità degli orientamenti descritti, adottati da alcune procure come ipotesi investigative e allo stato non passate al vaglio della magistratura giudicante, anche se appare abbastanza scoperto il ricorso ad un uso surrettizio dell’incriminazione (38). Piuttosto si deve registrare come il legislatore dimostri di non conoscere a fondo il terreno su cui incide e le effettive esigenze di tutela. Cos’è infatti la prima interpretazione giurisprudenziale riferita se non il tentativo di arrivare all’inflizione di una pena nei confronti di un sogSanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa, in questa Rivista, 1995, 88 ss.; FLORA, L’attualità del principio ‘‘societas delinquere non potest’’, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, 11 ss. (38) Nella scia si collocano le istruzioni applicative della Banca d’Italia del 12 dicembre 1994 alla delibera C.I.C.R. del 3 marzo 1994 (pubblicata in G.U. n. 58 dell’11 marzo 1994), in tema di modalità della raccolta tra i soci di società di capitali e di cooperative non finanziarie. Secondo l’organo di controllo, l’inosservanza dell’obbligo graduale — entro il 1997 — di dismissione delle operazioni di raccolta-risparmio presso i soci delle cooperative finanziarie ricade nell’orbita degli artt. 130-131 T.U. Sul punto, DONATO-MASCIANDARO, Economia criminale e intermediazione finanziaria, Profili economici e giuridici, in Banche e banchieri, 1995, 26 s., i quali propongono de iure condendo l’introduzione per i fatti di abusivismo di una pena accessoria a carattere interdittivo (divieto di proseguire nell’attività finanziaria) sulla falsariga dell’art. 26 L. n. 55/1990, in relazione ai reati di riciclaggio.


— 100 — getto (l’usuraio) dal comportamento inquadrabile naturaliter nel delitto di usura, le cui difficoltà probatorie spingono tuttavia alla ricerca di approdi punitivi più tranquilli? Così, il legislatore non è informato sulla realtà e la giurisprudenza s’impadronisce — volentieri, occorrerebbe aggiungere — di quel ruolo di cerniera tra frontiere astratte del diritto ed esperienze quotidiane, nell’intento di abbattere le discrasie esistenti. Il risultato è però deludente: la delega alla magistratura esorcizza i limiti legislativi di inadeguatezza tecnica, ma la supplenza giurisprudenziale confonde i poteri rispettivi (ed i principi democratici sottesi) e legittima la rincorsa a nuovi interventi normativi che certifichino le correzioni di rotta operate nella prassi. Recuperare una logica dei ruoli, dove la creazione di norme (penali) spetti al Parlamento per il raggiungimento di obiettivi prefissati, mentre al giudice sia lasciato il compito di attenta applicazione della norma, e non di finalizzazione funzionale della stessa, rappresenta come sempre la migliore garanzia per un’efficace regolamentazione del diritto penale del credito e per la tutela dei soggetti esposti. ANDREA R. CASTALDO Associato di Diritto Penale Commerciale nell’Università di Urbino


— 101 —

LA TUTELA DI INTERESSI LESI DAL REATO FRA INTERVENTO E COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE

Sono opinioni largamente condivise che il danneggiato dal reato sia una entità diversa dal soggetto passivo o dalla persona offesa (1) e che la legittimazione ad esperire l’azione civile nel processo penale spetti a chiunque abbia subito un pregiudizio economico risarcibile ai sensi dell’art. 185 c.p. (2). Vi sono invece stati, e perdurano tuttora, vivaci contrasti in ordine al (1) Ci sia consentito di rinviare sul tema a GUALTIERI, Soggetto passivo, persona offesa e danneggiato dal reato: Profili differenziali, in questa Rivista, 1995, p. 1071 ss. Cfr. anche AIMONETTO, Persona offesa dal reato, in Enc. dir., vol. XXXIII, Milano, 1983, p. 319; BELLAVISTA, Azione civile nel processo penale, in Noviss. dig. it., vol. II, Torino, 1958, p. 56; CONSO, Istituzioni di diritto processuale penale, Milano, 1969, p. 162; CORDERO, Procedura penale, Milano, 1992, p. 256; DALIA-FERRAIOLI, Corso di diritto processuale penale, Padova, 1992, p. 151; DI LECCE, Persona offesa dal reato e parte civile, in Il nuovo processo penale, a cura di CASTELLI-ICHINO, Milano, 1991, p. 115; DINACCI, Vecchi e nuovi orientamenti sul fondamento giustificativo dell’istituto della parte civile nel processo penale, in Foro it., 1970, V, c. 52 ss.; FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, vol. I, Milano, 1965, p. 113; GIARDA, La persona offesa dal reato nel processo penale, Milano, 1971, p. 24; ICHINO, La parte civile nel processo penale - La legittimazione, Padova, 1989, p. 13; LOZZI, La costituzione di parte civile di un Consiglio dell’ordine in un procedimento per omicidio, in questa Rivista, 1985, p. 836 ss.; ID., Lezioni di procedura penale, Torino, 1994, p. 69; MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, Padova, 1986, p. 249 e 896 ss.; ONDEI, Osservazioni sulla nozione di soggetto passivo del reato, in Riv. pen., 1948, p. 591; PIOLETTI, Parte offesa, in Nuovo dig. it., vol. IX, Torino, 1939, p. 486; PISANI-MOLARI-PERCHINUNNO-CORSO, Appunti di procedura penale, Bologna, 1994, p. 106 ss.; TAORMINA, Diritto processuale e penale, vol. II, Torino, 1995, p. 249 ss.; in giurisprudenza cfr. Cass. 7 marzo 1962, Zullo, in Cass. pen. Mass. annot., 1962, p. 651; Cass. 8 ottobre 1965, Ferretti, in Cass. pen., 1966, p. 417; Corte Cost. 28 dicembre 1971, n. 206, in Giur. Cost., 1971, II, p. 2304; Cass. 1 luglio 1980, Fiori, in Cass. pen., 1981, III, c. 582; Cass. 28 gennaio 1983, Bortolotti, ivi, 1984, p. 1138; Cass. 12 gennaio 1984, Manuzzi, in Giust. pen., 1985, III, c. 225; Cass. 15 novembre 1986, Rosa, in Cass. pen., 1988, p. 1927; Cass. 20 febbraio 1987, Occhipinti, ivi, 1988, p. 852; Cass. 5 giugno 1989, Palerma, ivi, 1991, p. 592; Cass. 8 ottobre 1993, Fornasier, in Giust. pen., 1994, III, c. 496; in senso contrario, vedi però Cass. 3 novembre 1972, Marconi, in Cass. pen., 1974, p. 137. Sulle recenti proposte di ricondurre il danno, specie se non patrimoniale, nell’alveo delle sanzioni penali, cfr., da ultimo, in senso critico, ROMANO, Risarcimento del danno da reato, diritto civile, diritto penale, in questa Rivista, 1993, p. 865 ss. (2) AMODIO, La persona offesa dal reato nel nuovo processo penale, Studi in memoRiv. ital. dir. proc. penale 1/1996


— 102 — riconoscimento del diritto di costituirsi parte civile degli enti rappresentativi di interessi c.d. diffusi. Il dibattito sul punto, spesso connotato da posizioni fortemente caratterizzate sotto il profilo ideologico (3), ha tratto origine dalle denunce di inadeguatezza delle istituzioni, in una società a struttura individualisticoborghese, e della stessa inidoneità dell’ufficio del pubblico ministero, pensato e istituito in ragione del perseguimento di reati tradizionali (4), a far fronte ad urgenti bisogni sociali (quali quelli relativi alla tutela dell’ambiente, del lavoro, dei consumatori), e ha visto su posizioni contrapposte quanti ritenevano già esistenti nel sistema gli strumenti per realizzare tali obiettivi e chi al contrario ribatteva che la vigente legislazione non consentiva l’ingresso come parti civili nel processo penale di enti e associazioni costituiti per il perseguimento degli anzidetti fini sociali (5). ria di Pietro Nuvolone, vol. III, Milano, 1991, p. 8 ss.; BELLAVISTA, op. cit., p. 56; CAPALOZZA, Parte civile, in Noviss. dig. it., vol. XII, Torino, 1965, p. 468; CONSO-GALLO, Legittimazione attiva alla costituzione di parte civile per il risarcimento dei danni cagionati da autocalunnia, in Riv. pen., 1967, I, p. 5; G. CORDERO, La posizione dell’offeso dal reato nel processo penale: una recente riforma della Repubblica federale tedesca ed il nostro nuovo codice, in Cass. pen., 1989, p. 1130; DE MARSICO, Legittimazione attiva e passiva all’esercizio dell’azione civile, in Giust. pen., 1933, II, p. 1521; DINACCI, La parte civile nel processo penale, in Riv. pen., 1966, I, p. 415; FORTUNA, Azione penale e azione risarcitoria, Milano, 1980, p. 193 ss.; FROSALI, Sistema penale italiano, vol. IV, Torino, 1958, p. 239 ss.; GUARNERI, Restituzione e risarcimento del danno da reato, in Noviss. dig. it., vol. XV, Torino, 1968, p. 744 ss.; LOZZI, Lezioni, cit., p. 248 ss.; MALINVERNI, Principi del processo penale, Torino, 1972, p. 242; MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, vol. I, Torino, 1967, p. 371; PETROCELLI, L’appropriazione indebita, Napoli, 1933, note 156 e 228; SABATINI, Soggetto passivo, persona offesa, danneggiato e delitti che comunque offendono il patrimonio, in Giust. pen., 1958, II, c. 110; SAMMARCO, Considerazioni sulla persona offesa dal reato nel nuovo codice di procedura penale, in Giust. pen., 1989, III, c. 734; TAORMINA, op. cit., p. 249; TRANCHINA, Persona offesa dal reato, in Enc. giur., vol. XXIII, Roma, 1990, p. 2. In giurisprudenza cfr. Cass. 5 ottobre 1964, Cominelli e altri, in Cass. pen., 1965, p. 856; Cass. 2 marzo 1981, Brandolini, ivi, 1982, p. 1826; Cass. 12 gennaio 1984, Manuzzi, cit.; Cass. 22 aprile 1985, Aslan, in Cass. pen., 1986, p. 829; Cass. 20 febbraio 1987, Occhipinti, cit.; Cass. 25 giugno 1990, Nassisi, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 465; Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in Doc. giust., marzo 1988, p. 79; cfr. anche l’art. 101 c.p.p. (3) Si vedano, in proposito, SGUBBI, Tutela penale di interessi diffusi, in Quest. crimin., p. 448 ss., il quale colloca gli interessi diffusi fra le ‘‘tendenze antagoniste alle posizioni economico giuridico dominanti’’, prospettandone una tutela in termini di uso alternativo al diritto borghese; cfr. anche, per altri spunti, CAPPELLETTI, Formazioni sociali e interessi di gruppo davanti alla giustizia civile, in Riv. dir. proc., 1975, p. 389 ss.; PIZZORUSSO, Democrazia partecipativa e attività giurisdizionale, in Quale giust., 1975, p. 344; RODOTÀ, Le azioni civilistiche, in AA.VV., Le azioni a tutela di interessi collettivi, Padova, 1976, p. 81 ss. (4) Cfr. BRICOLA, Le azioni a tutela degli interessi collettivi nel processo penale, in AA.VV., Le azioni a tutela degli interessi collettivi, cit., p. 108 ss.; CAPPELLETTI, Appunti sulla tutela giurisdizionale di interessi collettivi e diffusi, in Giur. it., 1975, IV, c. 51. (5) Per la dottrina favorevole a ritenere ammissibile la costituzione di parte civile de-


— 103 — Ad una giurisprudenza di merito incline ad allargare (forse eccessivamente) il concetto di soggetto danneggiato, si è opposta fin quasi al termine degli anni ottanta una interpretazione della Corte di cassazione, secondo la quale legittimato ad esercitare l’azione civile nel processo penale è soltanto chi abbia subito un danno che derivi dal reato in modo diretto e immediato, ragion per cui il risarcimento dovrebbe essere necessariamente correlato alla lesione di un diritto soggettivo e parametro di valutazione dovrebbero essere i principi che regolano la responsabilità civile da fatto illecito (artt. 1223, 2043 e 2056 c.c.) (6). gli enti in questione, oltre agli autori già citati alle note 3 e 4, cfr. per tutti, AMODIO, L’azione penale delle associazioni di consumatori per la repressione delle frodi alimentari, in questa Rivista, 1985, p. 516, il quale sottolinea l’inopportunità di far assumere al giudice il ruolo di difensore dell’interesse collettivo, che potrebbe portare ad uno snaturamento della sentenza fino a farla apparire un atto di vendetta sociale piuttosto che di giustizia; MARCONI, La tutela degli interessi collettivi in ambito penale, in questa Rivista, 1979, p. 1052 ss.; RIVELLO, Sulla legittimazione delle organizzazioni sindacali a costituirsi parte civile in procedimenti di omicidio o lesioni colpose con violazione di norme poste a tutela della salute dei lavoratori, ivi, 1981, p. 1558 ss.; SMURAGLIA, La sicurezza sul lavoro e la sua tutela penale, Milano, 1974, p. 341 ss.; ID., Una sentenza sconcertante, in Riv. giur. lav., 1980, III, p. 170 ss.; TONINI, L’intervento di sindacati e associazioni nel processo penale, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, p. 1476 ss.; ID., Le organizzazioni dei consumatori nel processo penale, in questa Rivista, 1979, p. 156 ss.; VIGORITI, Partecipazione, sindacato, processo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1974, p. 1248 ss. In senso contrario, fra gli altri, FAZZALARI, Istituzioni di diritto processuale, Padova, 1986, p. 243; GALATI, La tutela degli interessi diffusi nel processo penale, in Il Tommaso Natale, Scritti in memoria di Girolamo Bellavista, vol. III, Palermo, 1979, p. 1069 ss.; GROSSO, Enti esponenziali ed esercizio dell’azione civile nel processo penale, in Giust. pen., 1987, III, c. 1 ss.; VIDIRI, Interessi collettivi, sindacato e costituzione di parte civile, ivi, 1985, III, c. 48 ss. Sulla distinzione fra interessi diffusi e interessi collettivi, cfr. BRICOLA, Partecipazione e giustizia penale. Le azioni a tutela degli interessi collettivi, in Quest. crim., 1976, p. 32 ss.; ID., Le azioni a tutela degli interessi collettivi, cit., p. 133 ss.; FEDERICI, Gli interessi diffusi, Padova, 1984, p. 781; MARCONI, op. cit., p. 1062 ss.; NIGRO, Le due facce dell’interesse diffuso: ambiguità di una formula e mediazioni della giurisprudenza, in Foro it., 1987, V, c. 7 ss.; VIGORITI, Interessi collettivi e processo. La legittimazione ad agire, Milano, 1979, p. 59 ss. Si vedano anche, in generale, AA.VV., Le azioni a tutela di interessi collettivi, cit.; BARONE, Enti collettivi e processo penale, Milano, 1989; TROCKER, Gli interessi diffusi nell’opera della giurisprudenza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, p. 1112 ss., nonché gli autori citati in FAZZALARI, Istituzioni di diritto processuale, Padova, 1994, p. 317, nota 25, e 320, nota 26. (6) Su questi tormentati itinerari giurisprudenziali cfr. le ampie rassegne di AIMONETTO, Orientanenti giurisprudenziali in tema di rapporti tra interessi diffusi e costituzione di parte civile, in Giur. it., 1982, II, c. 20 ss. e IACOBONI, Costituzione di parte civile degli enti collettivi e postille in tema di lesione degli interessi superindividuali luce di un decennio di giurisprudenza, in Foro it., 1982, II, c. 184 ss. nonché i riferimenti contenuti in BARONE, Enti collettivi e processo penale, cit., cap. II e III. Si vedano anche, in senso conforme agli indirizzi sopra indicati, Cass. civ. sez. un. 8 maggio 1978, n. 2207, in Giur. it., 1978, I, 1, c. 2128, e n. 208, in Giust. pen., 1978, II, c.


— 104 — La descritta impostazione rigoristica è andata poi attenuandosi (7), forse in dipendenza del naturale avvicendamento presso la Corte di legittimità, ove si sono insediati magistrati che lì hanno trasferito i propri con385, le quali avevano posto l’accento sulla non configurabilità nel nostro sistema giuridico di una tutela giurisdizionale degli interessi diffusi, come principio generale, dimostrata dal fatto che, laddove questa era stata accordata, si erano rese necessarie specifiche previsioni normative: vedi anche Cass. sez. un. 21 aprile 1979, Pelosi e Armellini, in Cass. pen., 1979, p. 1074; Cass. 16 maggio 1980, Di Gregorio e altri, in Cass. pen., 1982, p. 48, che conferma i presupposti sopra indicati; Cass. 27 febbraio 1981, Cortesi e altri, in Giust. pen., 1982, III, c. 146; Cass. 23 febbraio 1982, Sandani, in Cass. pen., 1984, p. 153, con nota di LUCCIOLI, Brevi riflessioni sulla giurisprudenza più recente in tema di costituzione di parte civile delle associazioni sindacali; Cass. 21 giugno 1982, Polenghi, ivi, 1983, p. 8, con nota di FOGLIA, Sindacato e costituzione di parte civile: ancora in discussione la tutela degli interessi collettivi; Cass. 20 marzo 1984, Brigliadori, in Giust. pen., 1985, II, c. 76; Cass. 8 marzo 1985, Bossi, ivi, 1986, III, c. 177; Cass. 13 marzo 1986, Battaglini, ivi, 1987, III, c. 678. Il disfavore del legislatore verso tali partecipazioni era chiarmente manifestato nell’art. 2 disp. att. cod. proc. pen., ove era precisato che anche quando una speciale normativa consentiva ad associazioni ‘‘la facoltà di costituirsi parte civile per determinati reati, tale costituzione non può essere ammessa qualora non concorrano le condizioni stabilite dal codice penale e dal codice di procedura penale per l’esercizio dell’azione civile’’. E nella relazione al Re sulle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale si legge testualmente: ‘‘La semplice violazione della legge penale non può di per sé solo dare diritto alla costituzione di parte civile, ma occorre che l’ente, I’associazione o il privato abbia risentito dal reato di un danno diretto, patrimoniale o non patrimoniale, ovvero abbia da far valere l’azione civile per la restituzione di ciò che gli sia stato eventualmente tolto mediante il reato (art. 185 cod. pen.: 22, 23, 91 cod. proc. pen.). È chiaro che se l’ente, l’associazione o il privato non avesse da esperire alcuna azione civile, la sua costituzione di parte civile nel processo penale non potrebbe avere altra finalità se non quella della repressione del reato. Ma questa è una funzione propria d’un organo specifico dello Stato, cioè del p.m., del quale il nuovo codice di procedura penale ha opportunamente rinvigorito i poteri e aumentato il prestigio. Né in uno Stato bene ordinato può ammettersi la sovrapposizione o la interferenza di elementi diversi in una funzione così delicata ed importante, quale è quella dell’esercizio dell’azione penale...’’. Ed ancora: ‘‘La Commissione parlamentare propose di autorizzare, in via eccezionale, a costituirsi parte civile gli enti che perseguono fini umanitari e sociali (società zoofile e contro l’alcoolismo). Questa proposta, avversata anche in seno alla Commissione stessa, non mi parve meritevole d’accoglimento. Alla preoccupazione, espressa da un commissario, che il p.m. non dia sempre il dovuto peso alle denunce in tale materia (timore d’altronde non giustificato dall’esperienza), si contrappone il timore delle esorbitanze dovute all’eccesso di zelo da cui talvolta sono animati i rappresentanti di tali enti o società, i quali sono spesso portati a considerare la nobilissima attività con criteri troppo unilaterali e soggettivi, e quindi pericolosi per la saggia ed equilibrata amministrazione della giustizia. Ma, a prescindere da ciò, non è opportuno snaturare, per alcuna ragione, il carattere dell’istituto della costituzione di parte civile, e conviene reagire ad ogni tentativo di trasformare l’istituto medesimo in una accusa privata, elemento perturbatore della serenità dei giudizi penali, condannato dall’esperienza e bandito dagli ordinamenti dello Stato moderno. È quindi sufficiente, per l’efficace svolgimento dell’attività dei predetti enti ed associazioni, il diritto di denuncia ad essi spettante, come fu rilevato in seno alla stessa Commissione’’. Nella legislazione precedente non erano però mancati casi nei quali era permessa la costituzione di parte civile di enti e associazioni, fra i quali vanno segnalati: il decreto legisla-


— 105 — vincimenti maturati nell’esercizio delle funzioni di merito, ma anche di iniziative legislative, adottate sulla spinta del consenso politico acquisito dalle varie associazioni c.d. esponenziali, le quali sono state ammesse in misura crescente a presenziare attivamente al processo penale nell’unica forma allora possibile della costituzione di parte civile, attraverso specifiche disposizioni, a volte quanto meno discutibili, che hanno introdotto nel sistema anomale figure di azioni a forma e contenuto risarcitori, ma ‘‘indipendentemente dalla prova di un danno immediato e diretto’’ (8). Con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale sembrava che tali discordanze potessero ritenersi superate in virtù del principio di tendenziale separazione fra azione penale e azione civile e, soprattutto, della precisa individuazione di uno strumento processuale (l’intertivo 12 aprile 1917, n. 729, che conferiva al Ministro dell’Agricoltura il potere di autorizzare le associazioni di viticultori, di produttori o di commercianti di vini, i consorzi agrari, le cooperative di consumo o di produzione ed i circoli enofili, a costituirsi parte civile nei processi relativi alle contravvenzioni al decreto medesimo; la legge 29 giugno 1923, n. 1420, che riconosceva tale diritto alle associazioni di cacciatori nei processi per reati di caccia, previa iscrizione in apposito registro ministeriale; l’art. 46 del r.d.l. 15 ottobre 1925, n. 2033, convertito nella legge 10 marzo 1926, n. 562, che legittimava gli enti e le associazioni agrarie e le altre associazioni interessate, compresi in appositi elenchi approvati con decreto del Ministro per l’economia nazionale, a costituirsi parte civile nei processi instaurati per l’accertamento dei reati ivi previsti. (7) Cass. 1 giugno 1989, Monticelli, in Giust. pen., 1990, II, c. 204, in cui viene consentito tout court all’Associazione Medici Dentisti Italiani, Sezione di Forlì, di costituirsi parte civile in un procedimento penale per esercizio abusivo della professione medica, sul presupposto del radicamento territoriale dell’Associazione stessa: e il concetto è ripreso da Cass. 23 ottobre 1989, Cataldi, ivi, 1991, c. 275; cfr. anche Cass. 19 dicembre 1990, Contento, in Cass. pen., 1991, p. 2016, che ammette la costituzione di parte civile di un’associazione ambientalista affermando che, diversamente, la facoltà di intervento riconosciuta dall’art. 18 cit., resterebbe vuota di significato. Si mantengono invece fedeli alle precedenti e prevalenti impostazioni Cass. sez. un. 21 maggio 1988, Iori e altro, in Giust. pen., 1990, Il, c. 5; Cass. 27 ottobre 1989, Caldini, in Riv. pen., 1991, p. 554; Cass. 27 ottobre 1989, Corradi, in Cass. pen., 1991, p. 1142. Una pronuncia ambigua è offerta da Cass. 16 febbraio 1990, Santacaterina, in Cass. pen., 1992, p. 2429, ove si dichiara ammissibile la costituzione di parte civile di un ente di fatto solo se il danno coincida con la lesione di un diritto soggettivo dell’ente stesso, che, tuttavia, viene identificato nell’interesse statutariamente perseguito. (8) Ci riferiamo in particolare all’art. 8-bis, d.l. 18 giugno 1986, n. 282, convertito nella legge 7 agosto 1986, n. 462, contenente Misure urgenti in materia di prevenzione e repressione delle sofisticazioni alimentari, in forza del quale è stato riconosciuto alle associazioni di produttori e di consumatori nonché alle altre associazioni interessate, il diritto di costituirsi parte civile senza, tuttavia, alcun onere di dimostrare di aver subito, appunto, un ‘‘danno immediato e diretto’’: si veda, altresi, la legge 8 luglio 1986, n. 349, istitutiva del Ministero dell’Ambiente, che all’art. 18 consente la costituzione di parte civile dello Stato e degli enti territoriali per il risarcimento del danno ambientale, e un (allora) non meglio precisato intervento delle associazioni riconosciute dallo stesso Ministro (art. 13 legge cit.). BARONE, op. cit., p. 179 ss., parla di nascita di una figura del tutto nuova di ‘‘azione non risarcitoria’’ assimilabile per finalità all’accusa privata.


— 106 — vento, disciplinato dagli artt. 91 seg. c.p.p.), atto a permettere la partecipazione degli enti rappresentativi di interessi lesi dal reato, nonché del disposto dell’art. 212 disp. att. stesso codice, il quale ha statuito che, allorquando ‘‘leggi o decreti consentono la costituzione di parte civile o l’intervento nel processo penale al di fuori delle ipotesi indicate nell’art. 74 del codice, è consentito solo l’intervento nei limiti e alle condizioni previsti dagli artt. 91, 92, 93 e 94 del codice’’. I contrasti giurisprudenziali non sono però cessati, e accanto a decisioni che confermano gli orientamenti tradizionali, se ne leggono altre che ammettono la costituzione di parte civile degli enti in esame riconoscendogli il potere di richiedere il risarcimento del danno (normalmente, e asseritamente, non patrimoniale) arrecato al loro diritto di personalità e connesso alle specifiche finalità statutarie (9). (9) Vedi, in termini, Cass. 29 settembre 1992, Serlenga, in Cass. pen., 1994, p. 983; Cass. 17 marzo 1992, Ginatta e altri, in Giur. it., 1992, II, c. 465, con nota di AIMONETTO, Le associazioni ambientalistiche parte civile nei processi per danno ambientale?; Cass. 3 marzo 1993, Del Savio, in Arch. nuova proc. pen., 1994, p. 428: contra, vedi invece Cass. 28 ottobre 1993, Benericetti, ibidem, p. 428. Successivamente all’emanazione del nuovo codice di procedura penale, hanno negato l’ammissibilità della costituzione di parte civile degli enti e associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato, BARONE, op. cit., p. 206 ss.; ID., Ancora in tema di costituzione di parte civile dei soggetti collettivi, in Giur. merito, 1993, p. 1634 ss.; FAZZALARI, Istituzioni di diritto processuale, Padova, 1994, p. 295; FOGLIA MANZILLO, La costituzione di parte civile degli enti esponenziali nel processo penale, in Giust. pen., 1991, II, c. 275 ss.; MURONE, Vecchio e nuovo sulla legittimazione degli enti esponenziali a costituirsi parte civile, ivi, 1993, III, c. 491 ss.: NOSENGO, Diritti e facoltà degli enti rappresentativi di interessi lesi dal reato, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da CHIAVARIO, vol. I, Torino, 1989, p. 423; PISANI-MOLARI-PERCHINUNNO-CORSO, Appunti, cit., p. 127 ss. Si sono invece espressi favorevolmente: CIANCI, Tutela degli interessi diffusi, in Giur. merito, 1991, p. 588; MORETTI, Enti esponenziali: costituzione di parte civile o intervento ex artt. 91 ss. nel nuovo codice di procedura penale, in questa Rivista, 1994, p. 1537 ss.; NOVARESE, Gli enti esponenziali di interessi diffusi nel nuovo codice di procedura penale, in Giur. merito, 1991, IV, p. 928 ss. ICHINO, Parte civile, in Commentario al nuovo codice di procedura penale a cura di AMODIO-DOMINIONI, vol. I, Milano, 1989, p. 446, e RIVELLO, Riflessioni sul ruolo ricoperto in ambito processuale dalla persona offesa dal reato e dagli enti esponenziali, in questa Rivista, 1992, p. 630, ritengono ammissibile la costituzione di parte civile degli enti e associazioni ogni qual volta questi abbiano riportato dal reato un danno proprio, patrimoniale o non patrimoniale (perdita di prestigio, turbamento dei fini istituzionali, lesione della reputazione, limitazione alla libera esplicazione dell’attività sociale). Sostanzialmente favorevole appare anche LOZZI, Lezioni, cit., il quale già in passato si era pronunciato nello stesso senso in La costituzione di parte civile di un Consiglio dell’Ordine, cit. Preconizzano uno ‘‘sfondamento’’ dei presupposti per la costituzione di parte civile DI CHIARA, Interessi collettivi e diffusi e tecniche di tutela nell’orizzonte del codice del 1988, in questa Rivista, 1991, p. 447, e ICHINO, op. ult. cit., p. 446. Per una recente rassegna degli indirizzi giurisprudenziali e dottrinari sul tema, vedi MORETTI, op. cit., p. 1533 ss.


— 107 — Lo stesso legislatore ha contribuito a provocare disordine in un sistema a nostro avviso invece ben delineato (10), attraverso vari interventi normativi. Nell’art. 8, comma sesto, della legge 17 maggio 1991, n. 157 (portante Norme relative all’uso di informazioni riservate nelle operazioni in valori mobiliari e alla Commissione nazionale per la società e la borsa) e con riferimento ai procedimenti penali previsti dagli artt. 2 e 5 della stessa legge, la Consob è stata ammessa ad esercitare i diritti e le facoltà attribuiti dal codice di procedura penale alla persona offesa dal reato nonché le facoltà consentite dagli artt. 505 e 511 del codice medesimo agli enti e associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato. La disposizione è tutt’altro che chiara, poiché da un lato, l’espresso richiamo (che, diversamente, non avrebbe senso) dell’esercizio delle facoltà riconosciute nel dibattimento dagli artt. 505 e 511 c.p.p. agli enti e alle associazioni intervenuti nel processo, sembra escludere il potere della Commissione di costituirsi parte civile, ma dall’altro, attribuisce allo stesso organo i diritti e le facoltà concessi alla persona offesa dal reato, così consentendo una sua attiva e diretta partecipazione alla fase delle indagini preliminari, che prescinde dal consenso delle (eventuali) persone offese: la norma, insomma, attua una commistione tra i poteri conferiti dal codice rispettivamente agli enti esponenziali e alla persona offesa. Ma, soprattutto, con totale obliterazione degli indirizzi generali del codice di procedura penale e del contenuto dell’art. 212, disp. att., la legge 9 luglio 1990, n. 188 (sulla Tutela della ceramica artistica e tradizionale e della ceramica italiana di qualità), ha riconosciuto il diritto di costituirsi parte civile, nei procedimenti penali relativi all’uso illegittimo del marchio, ai comitati di disciplina, alle regioni, agli enti locali ed economici della zona o della provincia, ai consorzi o enti di tutela, alle associazioni dei produttori ceramici: e, ancora, la legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), ha attribuito tale potere al difensore civico e all’associazione alla quale risulti iscritta la persona handicappata o un suo familiare, per i delitti di cui agli artt. 519, 520, 521, 522, 523, 527 e 628 c.p., per quelli non colposi contro la persona e per i reati di cui alla legge Sulle problematiche relative alla prestazione del consenso, cfr. DI CHIARA, Interessi collettivi, cit., p. 442 ss.; NOVARESE, Gli enti esponenziali di interessi diffusi nel nuovo codice di procedura penale, cit., p. 926 ss. (10) Cfr. per tutti AMODIO, Persona offesa dal reato, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, cit., vol. I, p. 533 ss.: in senso fortemente critico nei confronti delle scelte legislative, si veda invece GIARDA, L’accusa privata: offeso dal reato e enti collettivi nelle indagini e nel giudizio, in Difesa pen., 1989, p. 21 ss.; ID., Riforma della procedura e riforma del processo penale, in questa Rivista, 1989, p. 1402 ss.


— 108 — 20 febbraio 1958, n. 75, qualora l’offeso dal reato sia una persona handicappata. Le ragioni di queste ultime due scelte non sono facilmente comprensibili, anche se l’ipotesi più probabile sembra quella di lapsus del legislatore: ma, purtroppo, le menzionate disposizioni creano indubbie incongruenze nel sistema e complicano la ricerca di soluzioni armoniche. A nostro parere, non può escludersi in assoluto il diritto di costituzione di parte civile di enti e associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato: il citato art. 212 disp. att. impone, infatti, l’intervento solo ‘‘al di fuori delle ipotesi indicate nell’art. 74 del codice’’, vale a dire se gli enti e associazioni medesime non abbiano subito un danno risarcibile ai sensi dell’art. 185 c.p.; e, in effetti, lo stesso art. 74 e il successivo art. 76, ampliando le previsioni delle corrispondenti norme del codice abrogato, usano i termini soggetto e successori universali, ed estendono così anche agli enti e alle associazioni non riconosciuti e a chiunque subentri nella situazione giuridica del danneggiato, la titolarità dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale (11). Il problema si incentra, quindi, sull’individuazione delle ipotesi nelle quali sia ravvisabile un danno risarcibile in favore degli enti e associazioni in questione. Al riguardo, non ci pare possa dubitarsi che i presupposti per l’esercizio dell’azione civile nel processo penale differiscano da quelli richiesti per la sua proposizione in sede civile unicamente per il fatto che, nel primo caso, deve trattarsi di un danno dipendente dalla commissione del reato (art. 74 c.p.p.): tanto vero che tale azione può essere trasferita nel processo penale fino a quando nel giudizio civile non sia stata pronunciata sentenza di merito e può ivi proseguire se il trasferimento non vi è stato o essa è stata iniziata quando non è più ammessa la costituzione di parte civile (art. 75, primo e secondo comma, c.p.p. ) . Non è, dunque, immaginabile, salvo l’ora enunciata limitazione (vale (11) Si vedano sul punto CONSO-GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, Padova, 1993, p. 70; GHIARA, Parte civile, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da Chiavario, cit., vol. I, p. 365; LOZZI, Lezioni, cit., p. 65; PISANI-MOLARIPERCHINUNNO-CORSO, Appunti, cit., p. 108; cfr. anche la Relazione al Progetto preliminare del codice di procedura penale, cit., p. 58 ss. e in particolare p. 61. Gli artt. 22 e 23 del codice di procedura penale del 1930 riconoscevano la legittimazione ad esercitare l’azione civile nel processo penale per le restituzioni e il risarcimento del danno, attraverso la costituzione di parte civile, alla persona alla quale il reato aveva arrecato danno o a chi la rappresentava per legge: gli artt. 74 e 75 del vigente codice consentono l’esercizio dell’azione civile nel processo penale per le restituzioni e il risarcimento del danno di cui all’art. 185 del codice penale, al soggetto al quale il reato ha recato danno ovvero ai suoi successori universali. Da queste previsioni differenziate, si deduce che la legittimazione a costituirsi parte civile è stata ampliata dalle persone (fisiche e giuridiche) alle associazioni non riconosciute, e dagli eredi a chiunque subentri nella situazione giuridica del danneggiato.


— 109 — a dire la dipendenza da un reato), I’azionabilità nel processo penale di pretese che non siano esperibili anche avanti al giudice civile. Ebbene, requisito indefettibile per essere legittimati ad adire questo giudice è la titolarità di un diritto soggettivo, che si assume leso o posto in pericolo da un comportamento altrui, ragion per cui gli interessi diffusi e collettivi non possono trovare protezione fin tanto che non assurgano a tale rango in forza di legge, e siano così riferibili ad una o più persone. La giustizia civile non è per essi invocabile, poiché la giurisdizione in materia ha, appunto, come presupposto e limite necessari il diritto soggettivo (artt. 24 cost., 2907 c.c. e 99 c.p.c.): ‘‘contro i tentativi di introdurre la tutela di un interesse collettivo in quanto tale, si pongono insolubili problemi in punto di presupposto della misura, di legittimazione ad agire e di efficacia della sentenza... Che estensione e portata potrebbe avere un presupposto non consistente in un diritto soggettivo? Chi potrebbe far valere tale interesse davanti al giudice civile? Nei confronti di chi svolgerebbe effetti la sentenza?’’ (12). Né potrebbe invocarsi, in via generale, l’istituto della legittimazione straordinaria, che, per essere operante in deroga al principio che vuole la partecipazione al giudizio di tutti i destinatari, attivi e passivi, degli effetti del provvedimento richiesto, deve essere espressamente stabilito dalla legge, al fine di evitare che la decisione possa coinvolgere soggetti rimasti estranei al processo: e la norma deve attribuire la rappresentatività e determinare le azioni esperibili, fermo restando che il giudice ordinario può conoscere solo quelle concernenti la violazione di diritti soggettivi (13). Da questi rilievi discende necessariamente l’inammissibilità della co(12) Le espressioni sono di FAZZALARI, Istituzioni, cit., p. 295. Si è in proposito rilevato che non potrebbe parlarsi di vincolatività secundum eventum litis (nel senso che la decisione varrebbe per tutti unicamente se sfavorevole, mentre in caso contrario ciascuno potrebbe instaurare una nuova azione (cfr. DENTI, Le azioni a tutela di interessi collettivi, in Riv. dir. proc., 1974, p. 549), poiché sono evidenti gli effetti perversi nei confronti della parte contrapposta, che si vedrebbe soggetta alla molestia di essere costantemente convenuta in giudizio: cosi GALATI, op. cit., p. 1083; CAPPELLETTI, Appunti sulla tutela giusdizionale di interessi collettivi o diffusi, in AA.VV., Le azioni a tutela di interessi collettivi, cit., p. 205. Secondo LOZZI, Lezioni, cit., p. 68, è invece sufficiente che il danneggiato diverso dal soggetto passivo sia titolare di una situazione soggettiva giuridicamente protetta, lesa dal reato, che non deve necessariamente coincidere con il diritto soggettivo, essendo sufficiente la violazione di un interesse, elevabile o no a questo rango. (13) FAZZALARI, op. ult. cit., p. 316 ss.; conf. MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, vol. I, Torino, 1993, p. 10 e 54 ss., il quale parla di necessità di attribuzione espressa, in ciascun singolo caso, della legittimazione in via straordinaria, che costituisce l’effetto di una valutazione politico-legislativa; TARZIA, Le associazioni di categoria nei processi civili con rilevanza collettiva, in Riv. dir. proc., 1987, p. 798 ss. Sull’argomento, si vedano anche CAPPELLETTI, Appunti sulla tutela giurisdizionale di interessi collettivi o diffusi, cit., p. 199 ss.; CARPI, Cenni sulla tutela degli interessi collettivi, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1974, p. 544 ss.; MARCONI, op. cit., p. 1087 ss.; VIGORITI, Interessi collettivi e processo, cit., p. 150 ss.


— 110 — stituzione di parte civile ove vi sia la lesione di semplici interessi protetti dal reato. Il nuovo codice di procedura penale ha, invero, stabilito uno stretto e indissolubile parallelismo fra la tutela di un interesse collettivo, ottenibile attraverso l’intervento a norma degli artt. 91 ss. (14), e la difesa di diritti soggettivi, da attuarsi mediante la costituzione di parte civile ex artt. 74 ss.: e la previsione dell’art. 212 disp. att. ha chiuso il cerchio, imponendo la trasformazione in intervento del predetto potere di costituzione di parte civile, se in precedenza conferito (15). Tale regolamentazione inibisce, quindi, agli enti e associazioni in esame, pur se sia stata loro riconosciuta in forza di legge finalità di tutela degli interessi lesi dal reato (e, a maggior ragione, se il riconoscimento manchi), di costituirsi parte civile in dipendenza della mera realizzazione di condotte penalmente illecite contrastanti con i loro scopi statutari. Quanto detto vale in modo particolare allorquando si tratti di reati Cfr. anche l’ampia bibliografia citata in FAZZALARI, loc. cit. e gli autori ivi citati alle note 49, 50, 51 e 55. Nello stesso senso del testo, cfr. Cass. civ. sez. un. 8 maggio 1978, n. 2207, in Giur. it., 1978, I, 1, c. 2128; Cass. civ. sez. un. 8 maggio 1978, n. 2208, in Giust. pen., 1978, II, c. 385; Cass. 16 maggio 1980, Di Gregorio, cit.; Cass. 5 dicembre 1980, De Cherchi, in Cass. pen., 1982, p. 1827; Cass. 21 giugno 1982, Polenghi, ivi, 1983, p. 8; Cass. 20 marzo 1984, Brigliadori, cit.; Cass. 8 marzo 1985, Bossi, cit.; Cass. 12 giugno 1987, Muller, in Cass. pen., 1988, p. 1926; Cass. 7 luglio 1992, Giacometti, ivi, 1994, p. 1297; contra vedi però da ultimo Cass. 4 febbraio 1994, De Felici, ivi, 1995, p. 1313. (14) Com’è noto, l’intervento è limitato agli enti e associazioni senza fini di lucro, ai quali, anteriormente alla commissione del fatto per cui si procede, siano state riconosciute, in forza di legge, finalità di tutela degli interessi lesi dal reato, ed è subordinato al consenso della persona offesa, prestabile solo ad uno soltanto degli enti e associazioni (artt. 91 e 92 c.p.p.): sulle finalità della previsione, intesa ad evitare manovre speculative, alterazioni all’ordinato svolgersi del procedimento e strumentalizzazioni della prestazione del consenso, cfr. TAORMINA, op. cit., p. 273 ss. (15) Nella Nota illustrativa all’art. 6 del progetto preliminare delle norme di coordinamento (poi tradottosi, con modifiche, nell’art. 212 del testo definitivo) in CONSO-GREVINEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. VI, tomo II, Padova, 1989, p. 46, si precisa che ‘‘tutte le norme che consentono la costituzione di parte civile a soggetti ai quali il reato non ha recato danno sono in contrasto sia con le direttive, sia con il sistema del nuovo codice e sono state abrogate. In particolare, non potevano restare in vigore le norme di carattere eccezionale che consentono la costituzione di parte civile ad enti o associazioni che si prefiggono la tutela di interessi diffusi (associazioni di consumatori, associazioni ambientalistiche etc.), in quanto la nuova normativa regola ex novo la fattispecie, consentendo l’intervento nel processo solo ove sussistano determinate condizioni, ed entro ben precisi limiti’’. Anche nelle Osservazioni governative all’art. 6 del progetto definitivo delle norme di coordinamento si ribadisce che ‘‘la normativa codicistica in tema di interventi dei c.d. enti esponenziali deve essere applicata senza eccezioni’’ (ancora in CONSO-GREVI-NEPPI MODONA, op. cit.. p. 72). Sull’art. 212 d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271 cfr., in generale, DI RELLA, Norme di coordinamento, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, cit., Appendice, Milano, 1990, p. 44 ss.


— 111 — ambientali, poiché l’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349, riserva la costituzione di parte civile allo stato e agli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo, mentre alle associazioni individuate in base al precedente art. 13 attribuisce solo il potere di ‘‘intervenire’’ nei giudizi per danno ambientale. Vi è, dunque, un trattamento nettamente differenziato fra queste ultime e lo stato, le regioni, le province e i comuni, unici legittimati ad esercitare l’azione di risarcimento. E la terminologia usata, ambigua all’epoca dell’entrata in vigore della disposizione per la già evidenziata inesistenza di partecipazione al processo penale in forme diverse dalla costituzione di parte civile, assume oggi il significato tecnico di necessario raccordo alle ipotesi disciplinate dagli artt. 91 ss. c.p.p., tale da far propendere per un vero e proprio divieto normativo all’esercizio dell’azione civile nel processo penale da parte degli enti esponenziali (16). Si è, in contrario, sostenuto che l’autonomia dell’illecito civile disciplinato dall’art. 185 c.p. giustificherebbe un minor rigore in tema di nesso di causalità e permetterebbe così l’ammissione a risarcimento anche dei danni mediati e indiretti e non derivanti dalla lesione di diritti soggettivi, purché ingiusti. A differenza di quanto prevede l’art. 2043 c.c., che richiede almeno (16) Cfr. GIAMPIETRO, La costituzione di parte civile delle associazioni ambientaliste e la riforma dell’art. 18 della legge n. 349/1986, in Cass. pen., 1991, p. 2017 ss., il quale, richiamando anche la giurisprudenza amministrativa (incline a qualificare come interesse legittimo la situazione sostanziale fatta valere in sede processuale da tali associazioni in forza del riconoscimento ex lege) censura la già citata Cass. 19 dicembre 1990, Contento, e rileva come la soluzione da questa proposta sia apodittica e contraria alla lettera della legge e al contenuto dell’art. 212 disp. att. A questo riguardo va segnalata la sconcertante pronuncia di App. Bologna 22 gennaio 1993, Stupazzoni e altri, in Foro it., 1994, II, c. 361, ove, ignorando totalmente l’art. 212 disp. att., ritenuto evidentemente irrilevante, si afferma che la costituzione di parte civile nei procedimenti penali per danno ambientale di associazioni riconosciute è consentita ai sensi degli artt. 13 e 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349, che, costituendo uno speciale ordinanento processuale di settore (giudizi in tema di ambiente), deroga alle norme generali. Anche Cass. 17 marzo 1992, Ginatta, cit., ammette apoditticamente la costituzione di parte civile delle associazioni ambientalistiche ‘‘dato che è la stessa legge a consentire la partecipazione ai giudizi per danno ambientalistico dei soggetti in parola’’ (sic.!). Corte cost. 30 dicembre 1987, n. 641, in Giur. it., 1988, I, 1, c. 1456 ss., dopo aver sottolineato che il giudice ordinario è ‘‘il giudice dei diritti soggettivi tranne le eccezioni legislativamente previste’’, precisa che la responsabilità per il danno ambientale ha natura patrimoniale e deve essere inserita nell’ambito e nello schema della tutela aquiliana (art. 2043 c.c.): la legittimazione ad agire è attribuita allo stato e agli enti minori e trova fondamento nella loro funzione a tutela della collettività, fermo restando il diritto di agire del privato cittadino, che ha ricevuto nocumento dal danno ambientale (c. 1459 e 1460). Si veda, in generale, sul tema VERARDI, La tutela degli interessi collettivi in campo ambientale nel processo tra l’art. 18 della legge n. 349 del 1986 ed il nuovo codice di procedura penale, in Giur. merito, 1989, p. 1047 ss.


— 112 — la presenza della colpa e si riferisce al solo danno patrimoniale, il citato art. 185 c.p. consentirebbe, infatti, il risarcimento pure in caso di responsabilità oggettiva, estendendolo al danno non patrimoniale (17): e il concetto di ‘‘ingiustizia’’ andrebbe ricostruito, non perseguendo criteri formali di ricerca, ma attraverso una verifica qualitativa e comparativa dei valori coinvolti (18). Orbene, seppure non sia contestabile che la responsabilità civile da reato abbia propri peculiari profili (come, ad esempio, la risarcibilità del danno non patrimoniale), le opinioni ora riferite non paiono affatto condivisibili. Va in proposito osservato che il nostro sistema costituzionale pone a fondamento della responsabilità penale il principio di colpevolezza, inteso come criterio limitativo della potestà punitiva, sia riguardo alla misura della pena, sia con riferimento alla esigenza di assoggettare a sanzione solo le condotte rientranti nella sfera delle possibilità soggettive di controllo, a garanzia della certezza dell’agire individuale, e mette così al bando la responsabilità oggettiva (19): viceversa, è proprio la legislazione civile a contemplare ipotesi di colpa presunta (artt. 2047, 2048, 2049, 2050, 2051, 2052, 2053 e 2054 c.c.). (17) LOZZI, Lezioni, cit., p. 66 ss. (18) ICHINO, Parte civile, cit., p. 443; MARCONI, op. cit., p. 1088 ss.; cfr. anche SALVI, Responsabilità extracontrattuale (dir. vig.), in Enc. dir., vol. XXXIX, Milano, 1988, p. 1186 ss. (19) Cfr. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., vol. XIX, Torino, 1973, p. 54; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, Bologna, 1989, p. 239; GROSSO, Responsabilità penale, in Nov. dig. it., vol. XV, Torino, 1968, p. 707 ss.; PADOVANI, Teoria della colpevolezza e scopi della pena, in questa Rivista, 1987, p. 798 ss.; PULITANÒ, Il principio di colpevolezza, in Jus, 1974, p. 499 ss.; ID., L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, p. 458; ROXIN, Considerazioni di politica criminale sul principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1989, p. 389 ss.; VASSALLI G., Colpevolezza, in Enc. giur. it., vol. VI, Roma, 1988. Si vedano anche gli indirizzi in materia della Corte costituzionale, la quale ha sancito che il principio di colpevolezza è indispensabile ‘‘anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione: per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate... Il principio di colpevolezza, in questo senso, più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio garantistico di legalità, vigente in uno Stato di diritto... Comunque si intenda la funzione rieducativa della pena, essa postula almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie. Non avrebbe senso la ‘‘rieducazione’’ di chi, non essendo almeno ‘‘in colpa’’ (rispetto al fatto) non ha, certo, ‘‘bisogno’’ di essere ‘‘rieducato’’ (Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, in Foro it., 1988, I, c. 1385 ss.): ed ha ancora affermato che, perché ‘‘la responsabilità penale sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili e cioè anche soggettivamente disapprovati’’ (Corte cost. 13 dicembre 1988, n. 1085, ivi, 1989, I, c. 1387).


— 113 — Parimenti, non ci sembra esatto dedurre la inapplicabilità in materia dell’art. 2056 c.c. dal suo mancato richiamo nell’art. 185 c.p. e dalla circostanza che quest’ultima disposizione ammetta il ristoro anche del danno non patrimoniale. Il risarcimento del danno da fatto illecito trova, invero, la sua generale disciplina nel titolo nono del libro quarto del codice civile, di cui fanno parte sia l’art. 2043 (che costituisce il cardine della responsabilità civile extracontrattuale, quale è certamente quella dipendente da un illecito penale), sia l’art. 2059 (riguardante il danno non patrimoniale, senza alcun dubbio riferibile anche, e forse esclusivamente, alle ipotesi di reato), sia l’art. 2056 (che fissa i principi per la valutazione del risarcimento da fatto illecito, e tale è senza dubbio il reato). Le disposizioni citate sono, all’evidenza, collegate sistematicamente fra loro e dettano regole e criteri unitari ai fini della valutazione della sussistenza di tutti i danni da fatto illecito e della loro liquidazione: da ciò discende che l’art. 2056 c.c. è applicabile pure alle ipotesi di responsabilità civile derivanti dalla commissione di un reato e che il suo richiamo nell’art. 185 c.p. sarebbe stato manifestamente inutile. Dal silenzio osservato al riguardo dalla ora menzionata norma non è lecito, dunque, trarre le conclusioni criticate: può, anzi, aggiungersi che, al contrario, solo un’espressa deroga consentirebbe di prescindere dai principi affermati nel codice civile per la materia in esame. Il risarcimento del danno da illecito penale è, pertanto, richiedibile e determinabile ai sensi degli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., vale a dire solo se sia ‘‘conseguenza immediata e diretta’’ del fatto dell’agente e se sia monetizzabile, anche in via equitativa ove non provato nel suo preciso ammontare. D’altro canto, la precisazione contenuta nell’art. 74 c.p.p. che l’azione civile nel processo penale può essere esercitata ‘‘per le restituzioni e per il risarcimento del danno di cui all’art. 185 del codice penale’’, appare indirizzata a restringere, e non certo ad allargare, la categoria dei soggetti danneggiati legittimati a costituirsi parte civile, specie con riguardo agli enti in esame (20), e la derivazione del danno da un reato richiederebbe, (20) Nella Relazione al Progetto preliminare del codice di procedura penale, cit., p. 61, si legge che: ‘‘Alcuni commissari hanno prospettato l’esigenza di sopprimere l’inciso ‘di cui all’art. 185 del codice penale’, adducendo, da un lato, la non sufficiente esaustività del precetto richiamato, derivante dalla sola previsione in esso contenuta dell’obbligo di restituzione o di risarcimento e, dall’altro lato, la conseguente necessità — al fine di individuare il supporto sostanziale dell’art. 73, di fare ricorso anche agli artt. 2043, 2058 e 2059 c.c.. Non si è, però, ritenuto opportuno introdurre ulteriori modificazioni alla disposizione in esame sia per evitare che l’omesso richiamo alla norma di diritto sostanziale potesse ‘squilibrare’ il sistema della legittimazione quale configurato dal Progetto del 1978 sia, soprattutto, perché, facendo riferimento l’art. 185 c.p. anche al responsabile civile ed indirettamente pure al


— 114 — semmai, una più approfondita disamina sul nesso di causalità, sulla scorta dei più rigidi principi che regolano la responsabilità penale. È, tuttavia, opportuno avvertire che in dottrina non manca chi ritiene priva di effettivo rilievo giuridico la distinzione fra danno immediato e diretto e danno mediato e indiretto, rilevando non avere alcuna importanza il numero dei termini intermedi nella serie danno-reato, essendo sufficiente che fra l’uno e l’altro esista un rapporto causale (21). E la stessa giurisprudenza, pur utilizzando spesso le parole contenute nell’art. 1226 c.c. (22), nella sostanza si rifà ai criteri stabiliti dal codice penale e afferma la necessità che fra l’antecedente (comportamento colposo) e il dato conseguenziale (evento dannoso) vi sia un rapporto tale da integrare una sequenza costante, secondo un calcolo di regolarità statistica, per cui l’evento appaia come una conseguenza normale dell’antecedente, richiamando il principio di equivalenza delle cause, salvo il temperamento di cui all’art. 41, capoverso, c.p. (23). A noi sembra che, in effetti, i concetti di immediatezza e diretto coltema della solidarietà fra imputato e responsabile civile, l’eliminazione di ogni rinvio alla norma del codice penale avrebbe potuto provocare l’insorgere di questioni interpretative non facilmente risolubili. Senza contare che la possibilità di intervento nel processo di enti o associazioni titolari di situazioni diverse dal diritto soggettivo (v. art. 90 s.) ha reso necessario richiamare l’art. 185 c.p., nel quale sono puntualmente enucleate le tipologie di posizioni soggettive prospettabili ai fini dell’esercizio dell’azione civile in sede penale’’. Significativamente, lo stesso art. 8-bis del d.l. 18 giugno 1986, n. 282, fa riferimento al concetto di ‘‘danno immediato e diretto’’, sia pure al fine di consentire la costituzione di parte civile indipendentemente dalla prova di esso. (21) Cosi CORDERO, Procedura penale, Milano, 1985, p. 239 ss.; conf. DI CHIARA, op. cit., p. 427 ss.; ID., Salute in fabbrica, rappresentanze dei lavoratori e processo penale: la tutela degli interessi collettivi tra sistema del 1930 e codice del 1988, in Giur. merito, 1992, II, p. 147; GROSSO, Enti esponenziali, cit., c. 6, il quale parla di ‘‘alternativa fittizia’’; LOZZI, Lezioni, cit., p. 66 ss.; MARCONI, op. cit., p. 1090; PENNISI, Parte civile, in Enc. dir., vol. XXXI, Milano, 1981, p. 993 ss.; PISANI-MOLARI-PERCHINUNNO-CORSO, Appunti, cit., p. 107; RIVELLO, op. cit., p. 629 ss.; contra, BIANCA, Diritto civile, vol. V, La responsabilità, Milano, 1994, p. 128 ss.; COSSU, La responsabilità solidale e la valutazione del danno, in La responsabilità civile, diretta da ALPA e BESSONE, vol. V, Torino, 1987, p. 23 ss.; GALATI, op. cit., p. 1089; MURONE, op. cit., c. 498, secondo cui è proprio il requisito del danno diretto a fungere da elemento chiave ai fini dell’esclusione della costituzione di parte civile degli enti esponenziali; TAORMINA, op. cit., p. 250 ss. Si veda, in generale, sul rapporto di causalità nell’illecito civile, CARBONE, Il rapporto di causalità, in La responsabilità civile, cit., vol. I, Torino, 1987, p. 139 ss. con ampia bibliografia. (22) Cfr., al riguardo, le decisioni già citate alla nota 2. (23) Cass. 15 ottobre 1971, n. 2918, in Giust. civ., Mass., 1971, p. 1575; Cass. 3 giugno 1980, n. 3622, ivi, 1980, p. 1569; Cass. 14 giugno 1982, n. 3621, ivi, 1982, p. 1318; Cass. 16 giugno 1984, n. 3609, ivi, 1984, p. 1213; Cass. 20 dicembre 1986, n. 7801, ivi, 1986, p. 2229; Cass. 24 febbraio 1987, n. 1937, in Arch. giur. circ., 1987, p. 471; Cass. 11 febbraio 1988, n. 1473, in Giust. civ., 1989, I, p. 196; Cass. 7 aprile 1988, n. 2737, in Giust. civ., Mass., 1988, p. 671; per la dottrina civilistica si vedano ALIBRANDI, Le norme in materia di nesso di causalità (artt. 40 e 41 c.p.) e la loro applicazione nel settore dell’illecito


— 115 — legamento fra condotta e danno debbano essere interpretati alla stregua dei criteri dettati dal codice penale in tema di nesso di causalità, che forniscono i parametri di valutazione più sicuri al fine di evitare una inopportuna divaricazione fra l’attribuzione di responsabilità extracontrattuale per danni in sede penale o in sede civile. E proprio in applicazione di questi principi sono stati considerati risarcibili quei danni mediati e indiretti che si presentino come effetto normale del fatto illecito, rientrando nella serie delle conseguenze ordinarie cui esso dà origine in base al principio della cosiddetta regolarità causale, ed invece, e conseguentemente, esclusi da riparazione quelli non collegati al fatto stesso dal necessario nesso teleologico, per essere intervenute altre cause o circostanze estrinseche al comportamento dell’autore del fatto illecito e senza le quali il danno non si sarebbe verificato (24). Quanto al requisito dell’ingiustizia, espressamente richiamato dall’art. 2043 c.c. (25), esso è inteso nella duplice accezione di danno prodotto non iure e contra ius; non iure nel senso che il fatto produttivo del danno non possa venire altrimenti giustificato dall’ordinamento giuridico, contra ius, nel senso che il fatto debba ledere una situazione soggettiva riconosciuta e garantita dall’ordinamento medesimo, nella forma del diritto soggettivo (26): così che, anche per questo verso, non trovano fondamento i tentativi di allargare l’ambito della pretesa risarcitoria attraverso una estensione del concetto di ingiustizia del danno. Le considerazioni svolte portano ad ammettere che soggetti titolari di interessi non direttamente tutelati dalla norma penale, ma lesi in un proprio diritto soggettivo (ad esempio, in un procedimento penale per lesioni colpose, il terzo proprietario di un veicolo rimasto danneggiato) (27), poscivile, in Monit. trib., 1973, p. 432 ss.; CORSARO, L’imputazione del fatto illecito, Milano, 1969; FORCHIELLI, Il rapporto di causalità nell’illecito civile, Padova, 1960; GERI, Il rapporto di causalità in diritto civile, in Resp. civ. e prev., 1983, p. 339 ss.; REALMONTE, Il problema del rapporto di causalità nel risarcimento del danno, Milano, 1967; TRIMARCHI, Causalità e danno, Milano, 1967. (24) Cass. 6 giugno 1972, n. 1752, in Giust. civ., Mass., 1972, p. 980; Cass. 14 aprile 1981, n. 2247, ivi, 1981, p. 852; Cass. 20 agosto 1984, n. 4661, in Arch. giur. circ., 1985, p. 1085. (25) Secondo la Relazione al codice civile, questo requisito è stato introdotto nell’art. 2043 c.c. al fine di fare chiarezza sul contenuto dell’art. 1151 del precedente codice, distinguendo fra culpa e iniuria. (26) Cass. 26 gennaio 1971, n. 174, in Giur. it., 1971, I, 1, c. 681; Cass. 23 aprile 1975, n. 1582, in Resp. civ. prev., 1976, p. 616; Cass. 1 aprile 1980, n. 1205, in Arch. giur. circ., 1980, p. 358. (27) Cfr. in dottrina LOZZI, Lezioni, cit., p. 68, e in giurisprudenza, proprio per il caso particolare del terzo proprietario del veicolo, Cass. 8 maggio 1984, Paglino, in Arch. giur. circ., 1985, p. 403; per la legittimazione a costituirsi parte civile del locatario di un bene in leasing, si veda Cass. 5 giugno 1989, Palerma, cit.; e sul principio che tale legittimazione spetti a chiunque abbia riportato un danno eziologicamente riferibile alla azione od


— 116 — sano costituirsi parte civile per ottenere la condanna dell’imputato al risarcimento dei danni subiti e dipendenti causalmente dalla condotta dell’agente, la quale integra, allo stesso tempo, un illecito penale ed uno extracontrattuale civile, valutabili disgiuntamente: il soggetto passivo del reato (28) viene ammesso a richiedere la riparazione anche del danno non patrimoniale, preclusa invece a chi non rivesta tale qualità, legittimato invece ad ottenere il ristoro del solo danno patrimoniale. Si realizza, così, una ipotesi di litisconsorzio facoltativo, simile a quella regolata dall’art. 103 c.p.c. (29): e sarebbe contrario a regole di economia processuale vietare in sede penale un’azione consentita in quella civile. Parimenti, non sembra condivisibile la tesi per cui la violazione di una norma penale provocherebbe un danno non patrimoniale agli enti e alle associazioni costituiti a difesa degli interessi lesi da quel reato, in quanto intaccherebbe il conseguimento dei loro fini istituzionali (30). Al riguardo, si può replicare che proprio la commissione del fatto criminoso potrebbe avvalorare (e non ledere) la necessità e la meritorietà di quelle formazioni sociali, e che, ad accettare questa impostazione, si dovrebbe giungere ad affermare che ogni reato provoca, come tale, un danno risarcibile allo stato, in quanto ne frustra la funzione di garante dell’ordine sociale, il che appare manifestamente insostenibile (31); o addirittura, che in qualsiasi reato, ed in particolare in quelli ove è maggiore l’offesa agli interessi pubblici, vi potrebbe essere una pretesa risarcitoria da parte, non solo di associazioni esponenziali, ma anche di singoli cittadini, avendo tutti gli illeciti penali come oggetto giuridico mediato l’interesse della società civile al rispetto delle regole giuridiche (32). Ma, più in generale, va detto che i tentativi di dare al concetto di omissione del soggetto attivo del reato, Cass. 12 gennaio 1984, Manuzzi, cit.; Cass. 15 novembre 1986, Rosa, cit.; Cass. 25 giugno 1990, Nassisi, cit. Va anche rilevato che il proliferare di costituzioni di parte civile ad opera di enti e associazioni provocherebbe maggiori spese ed intralci ai processi produttivi, con ripercussioni negative sull’economia e, comunque, con il trasferimento di questi oneri aggiuntivi sulla collettività, attraverso l’aumento dei prezzi. (28) Per la relativa definizione cfr. GUALTIERI, Soggetto passivo, cit., p. 1077 ss. (29) Sulle varie ipotesi e sui presupposti del litisconsorzio facoltativo, cfr. FAZZALARI, op. cit., p. 330, e MANDRIOLI, op. cit., p. 320; cfr. anche in generale, TARZIA, Il litisconsorzio facoltativo, Milano, 1972. (30) Si vedano, in proposito, ICHINO, Parte civile, in Commentario, cit., p. 446; MORETTI, op. cit., p. 1539; RIVELLO, op. cit., p. 630; Cass. 1 giugno 1989, Monticelli, cit.; Cass. 19 marzo 1992, Barigazzi, in Cass. pen., 1993, p. 1532; Cass. 29 settembre 1992, Serlenga, cit. (31) Il rilievo è di GROSSO, op. cit., c. 6; contra: CIANCI, Tutela degli interessi diffusi, cit., 1991, p. 588; MORETTI, op. cit., p. 1538 ss. (32) Le espressioni sono mutuate da FOGLIA MANZILLO, op. cit., c. 254, il quale aggiunge che, accettando la avversa tesi, non si potrebbe negare ad un’associazione, avente come scopo statutario la tutela dei diritti dei cittadini, la costituzione di parte civile in un


— 117 — danno non patrimoniale più ampi contenuti non paiono compatibili con il vigente ordinamento. La tendenza a considerarlo più esteso del danno morale (con il quale, tradizionalmente, si allude al dolore, ai patemi d’animo, alle sofferenze spirituali) (33), e a intenderlo come il pregiudizio arrecato ad interessi non economici aventi rilevanza sociale (34) o come conseguenza peggiorativa che non tollera, alla stregua di criteri oggettivi di mercato, una valutazione pecuniaria rigorosa (35), ci pare non tenga nel debito conto che, comunque, il suo ristoro si risolve nella liquidazione di una somma di danaro, che viene determinata in via equitativa ai sensi degli artt. 2056 e 1224 c.c., norme, come si è visto, sicuramente riferibili anche all’art. 2059, collocato nel medesimo titolo riguardante i fatti illeciti. E, in ogni caso, che danno non patrimoniale e danno morale (la c.d. pecunia doloris) si identifichino è tuttora ritenuto da ampia parte della dottrina, soprattutto penalistica (36). La Corte costituzionale ha recentemente riaffermato, all’esito di una attenta e lunga esegesi di carattere storico-sistematico, che, secondo il diritto vivente, l’art. 2059 c.c. pone soltanto una riserva di legge e con la locuzione ‘‘danno non patrimoniale’’ fa riferimento al danno morale subiettivo e risulta applicabile soltanto quando all’illecito civile, costituente anche reato, consegue un siffatto danno (37). Ugualmente, la giurisprudenza di legittimità è orientata ad indicare quali parametri per la sua valutazione le sofferenze subite dalla persona offesa, la gravità dell’illecito penale e tutti gli altri elementi peculiari della fattispecie penale (38). Del resto, il danno non patrimoniale è strettamente correlato alla commissione del reato e il suo riconoscimento dipende in modo inscindibile dall’accertamento dell’effettiva violazione della legge penale, che può processo penale contro pubblici amministratori accusati di reati contro la pubblica amministrazione. (33) BONILINI, Danno morale, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. V, Torino, 1989, p. 85. (34) BIANCA, op. cit., p. 388. (35) BONILINI, Il danno non patrimoniale, Milano, 1983, p. 79 ss.; ID., Il danno non patrimoniale, in La responsabilità civile, cit., vol. V, p. 377 ss.; cfr. anche SCOGNAMIGLIO, Danno morale, in Nov. dig. it., vol. V, Torino, 1960, p. 146 ss.; ID., Appunti sulla nozione di danno, in Studi in onore di G. Scaduto, vol. III, Padova, 1970, p. 207. (36) Cfr. per tutti, in termini, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 1994, p. 770 ss.; FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 648; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 898, il quale include tuttavia nel concetto anche il danno alla salute. (37) Corte cost. 14 luglio 1986, n. 184, in Foro it., 1986, I, c. 2053; si veda anche Corte cost. 27 ottobre 1994, n. 372, ivi, 1994, I, c. 3297. (38) Cfr. Cass. 18 luglio 1972, n. 2473, in Giust. civ., Mass. 1972, p. 1386; Cass. 22 marzo 1979, n. 1646, ivi, 1979, p. 743; Cass. 3 marzo 1981, n. 1228, ivi, 1981, p. 474; Cass. 18 febbraio 1982, n. 1018, ivi, 1982, p. 391; Cass. 1 ottobre 1985, n. 4947, ivi, 1986, p. 1517; Cass. 18 dicembre 1987, n. 9430, ivi, 1987, p. 2582; Cass. sez. un. pen. 21 maggio 1988, Iori e altro, cit.


— 118 — avvenire anche ad opera del giudice civile (39), tanto vero che non può farsi luogo alla sua liquidazione ove la responsabilità del danneggiante venga attribuita in via presuntiva a norma delle leggi civili (artt. 2047 ss. c.c.) (40); esso, inoltre, non è concedibile a chi non sia titolare del bene-interesse prevalente o secondario, tutelato dal reato, e quindi in favore di persone diverse dal soggetto passivo del reato (salvo il discusso caso dei prossimi congiunti) (41). E non pare proprio sostenibile che gli enti e le associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato possano essere ricompresi in questa categoria in riferimento alla mera violazione dell’interesse statutario a prevenire o denunciare determinati comportamenti: ad essi sarà, dunque, consentita la costituzione di parte civile (alla stessa stregua degli altri soggetti pluripersonali) solo se il reato abbia provocato, come sua conseguenza diretta e immediata, un danno risarcibile in violazione di un loro diritto soggettivo (ad esempio, nei casi di reati contro il patrimonio o contro l’onore o, più in generale, se il perseguimento dei fini statutari sia stato impedito o ostacolato da comportamenti criminosi spiegati nei confronti dei legali rappresentanti, dai quali siano derivati danni economicamente determinabili). PIERO GUALTERI Professore di Istituzioni di diritto e procedura penale nell’Università di Urbino

(39) Cass. 18 giugno 1985, n. 3664, in Giur. it., 1986, I, 1, c. 1525; Cass. 9 maggio 1986, n. 3093, in Giust. civ., Mass. 1986, p. 881; Cass. 2 febbraio 1991, n. 1003, in Arch. giur. circ., 1992, p. 69; Cass. 28 aprile 1977, n. 1623, in Giust. civ., Mass. 1977, p. 693 e Cass. 20 novembre 1990, n. 11198, ivi, 1990, p. 1906 precisano che quando la legge subordina la liquidazione del danno non patrimoniale alla sussistenza di un reato, si riferisce alla previsione astratta di un fatto ontologicamente qualificabile come illecito penale, indipendentemente dalla sua punibilità in concreto, per cui tale danno è risarcibile anche quando l’autore del fatto non sia penalmente perseguibile, come nel caso di minore non imputabile. (40) Cass. 6 giugno 1981, n. 3667, in Giust. civ., Mass. 1981, p. 1292; Cass. 17 maggio 1986, n. 3278, in Giur. it., 1987, I, 1, c. 1685; Cass. 9 febbraio 1987, n. 1374, in Giust. civ., Mass. 1987, p. 380; Cass. 7 gennaio 1991, n. 57, in Arch. giur. circ., 1991, p. 305. (41) Per un quadro degli orientamenti dottrinari e giurisprudenziali sul punto, cfr. da ultimo FRANZONI, Il danno alla persona, Milano, 1995, p. 630 ss.


— 119 —

INDAGINI DIFENSIVE ED UTILIZZO DEGLI ELEMENTI PROBATORI ASPETTI DEONTOLOGICI, ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI E DOTTRINARI, NUOVA REGOLAMENTAZIONE NORMATIVA (LEGGE 332/95)

SOMMARIO: 1. Indagine difensiva e ruolo dinamico del difensore nel nuovo processo penale: considerazioni introduttive. — 2. (Segue) Ruolo centrale della deontologia. — 3. (Segue) L’attività di ricerca della prova. — 4. (Segue) Il diritto di documentare. — 5. (Segue) L’esigenza di un esercizio tempestivo della facoltà d’indagine difensiva: gli artt. 18 e 19 della legge 8 agosto 1995 n. 332. — 6. L’introduzione e l’utilizzazione nel processo degli elementi probatori raccolti dalla difesa: premessa. — 7. (Segue) Le nette « chiusure » della giurisprudenza. — 8. (Segue) La revisione dell’art. 38 disp. att.: a) Proposte ed orientamenti tra il 1992 ed il 1995. — 9. (Segue) b) L’art. 22 della legge 8 agosto 1995 n. 332. — 10. Indagine difensiva e misure cautelari personali: prime aperture giurisprudenziali. — 11. (Segue) Le innovazioni introdotte dagli artt. 8, 9, 10, 16 della legge 8 agosto 1995 n. 332. — 12. Impiego ed efficacia delle dichiarazioni scritte raccolte dal difensore: gli orientamenti della dottrina anteriori alla legge 332/95. — 13. (Segue) Principio di oralità ed utilizzo delle dichiarazioni extradibattimentali. — 14. (Segue) La controversa natura documentale delle dichiarazioni scritte rilasciate al difensore. — 15. Il possibile utilizzo nelle differenti fasi procedimentali della documentazione presentata dal difensore.

1. Indagine difensiva e ruolo dinamico del difensore nel nuovo processo penale: considerazioni introduttive. — Con il codice del 1988 il diritto alla prova trova pieno riconoscimento nell’art. 190 che, recependo le direttive n. 3 e n. 52 della legge delega, introduce il principio dispositivo nel processo penale (1). All’interno del quadro normativo fornito da tale articolo, l’indagine della difesa ricopre un ruolo centrale (2), e richiede, quindi, una accurata (1) Sotto il codice del 1930 l’operatività di tale diritto era condizionata da una prassi limitatrice e da un atteggiamento di diffidenza (se non apertamente censorio) da parte della deontologia forense, che giustificava la ferma chiusura verso alcune facoltà del difensore con il richiamo ad eterogenei e generici principi etici: v. C.N.F., 8 gennaio 1976, in Rass. Forense, 1978, 149; id., 17 febbraio 1973, ivi, 1975, 246; id., 29 marzo 1973, ivi, 1975, 247; id., 27 maggio 1978, ivi, 1981, 4; id., 29 giugno 1985, ivi, 1986, 80; significativamente, sul punto, DANOVI, sub art. 45, in Codice deontologico forense, Milano, Giuffrè, 1986, 593. (2) Autorevoli giuristi si sono ampiamente soffermati sulla essenzialità di tale facoltà. In particolare v.: CRISTIANI, Vademecum del difensore nel nuovo processo penale, Torino, Giappichelli, 1994; FREDAS, Il difensore e gli eventuali testimoni nelle indagini preliminari, in Cass. Pen., 1989, 2286; FRIGO, Difensore, in AA.VV., Commentario del nuovo c.p.p., a Riv. ital. dir. proc. penale 1/1996


— 120 — regolamentazione che permetta di superare contrasti ed incompatibilità con normative preesistenti e collaterali (anche di natura deontologica). La risposta del legislatore a tale necessità si è concretizzata in un’unica disposizione, l’art. 38, impropriamente relegata tra le disposizioni di attuazione. La norma, nella sua genericità, non definendo le modalità di condotta consentite, è da sempre fonte di molteplici interrogativi. L’analisi dei lavori preparatori (3) evidenzia come ciò che si va denunciando non sia da addebitare ad una svista del legislatore, ma sia, piuttosto, frutto di una precisa scelta: se, da un lato, si è fornita una precisa legittimazione al diritto alla prova, onde non ne fosse ostacolata la concreta operatività, dall’altro si è volutamente omessa una sua analitica regolamentazione, il che avrebbe incontrato non poche difficoltà e resistenze (4). Si è dovuto attendere fino al 1995 perché il Parlamento, sollecitato dalla dottrina più sensibile e dagli organi forensi, avvertisse l’urgenza di rendere effettiva la « parità delle armi » e di ampliare gli spazi di partecipazione della difesa alla formazione della prova. Così, dopo un sofferto iter di circa tre anni, con la novella dell’agosto del ’95 il legislatore ha introdotto alcune modifiche all’impianto codicistico in tema di misure cautelari e di diritto di difesa (5). cura di Amodio-Dominioni, vol. I, Milano, Giuffrè, 1989; PAGLIUCA, La cosiddetta inchiesta parallela del difensore dell’imputato e limiti deontologici nei rapporti potenziali testimoni, in Giur. it., 1991, IV, 24; PECORELLA, La deontologia del nuovo avvocato: l’inchiesta parallela, in Cass. Pen., 1989, n. 7; RANDAZZO, Le indagini difensive nel sistema normativo, ivi, 1994, 977. (3) Cfr., in particolare: ERCOLANI, L’effettività del diritto alla prova delle parti private nel nuovo processo, in Crit. Pen., 1990; NOBILI, Prove a difesa e investigazioni di parte nell’attuale assetto delle indagini preliminari in questa Rivista, 1994, 398; PANAGIA, Il diritto alla prova della difesa tra norme penali e codice di rito, ivi, 1991, 1249. (4) Il fatto che il legislatore abbia limitato la portata della norma alla sola enunciazione di principio, « riservando ogni futura disciplina sia ad una iniziativa legislativa ad hoc, sia ad interventi integrativi provenienti dagli organi forensi », evidenzia come l’indagine difensiva, già all’indomani della sua legittimazione, faticasse a decollare, sormontata dalle notevoli difficoltà di tipicizzarne il concreto esercizio: cfr. Osservazioni del governo sul prog. def. dell’art. 33 disp. att., in LATTANZI-LUPO, Norme di att., di coord. e trans. del nuovo c.p.p., annotate con le Relazioni e con i Lavori preparatori, Milano, 1990. La formulazione dell’art. 38 disp. att. costituisce il risultato di una resa dei suoi compilatori di fronte alle perplessità ed alle divergenze di opinioni sorte durante la discussione sull’art. 33 prog. prel. disp. att. del progetto predisposto dalla Commissione governativa, che conteneva, al contrario, un tentativo di specificazione delle attività consentite al difensore: così CRISTIANI, op. cit., 56. (5) L’origine del provvedimento può essere ricondotta, nella scorsa legislatura, alla proposta di legge n. 2591/C del 29 aprile 1993 presentata dagli onorevoli Correnti, De Simone e Cesetti, cui fece seguito il disegno di legge n. 1716 « Norme recanti modifiche al c.p.p. in tema di diritto di difesa » presentato il 15 dicembre 1993 dal ministro Conso (in Doc. giust., 1993, 2247). Nella nuova legislatura l’azione di riforma è proseguita con il decreto legge « Biondi »


— 121 — Scorrendo i 28 articoli della legge, si coglie l’intenzione di rafforzare la funzione difensiva attraverso l’introduzione di precise garanzie e l’indicazione di come rendere processualmente utilizzabili le « indagini parallele ». Tuttavia, queste apprezzabili integrazioni della disciplina finora vigente non sono, da sole, in grado di risolvere i molteplici problemi connessi all’indagine difensiva: ciò richiederebbe, da parte del Parlamento, un’ulteriore opera di revisione di certi meccanismi ed istituti che continuano ad ostacolare la parità, anche solo tendenziale, tra le parti (6). 2. (Segue) Ruolo centrale della deontologia. — Il nuovo codice, delineando negli articoli 190 c.p.p. e 38 disp. att. la figura di un avvocato depositario di poteri — ma anche di doveri — in un ambito riservato fino a ieri pressochè solo alla magistratura ed alla polizia giudiziaria, fa sorgere la necessità di guardare con occhi nuovi le norme di comportamento (7). n. 440 del 14 luglio 1994 recante « Modifiche al c.p.p. in tema di semplificazione dei procedimenti, misure cautelari e diritto di difesa » (in Doc. giust., 1994, 1532). Per approfondimenti cfr.: GREVI, Perplessità e riserve di fronte ad una iniziativa legislativa affrettata, in Corr. giur., 1993, 1021 e 1125; CONSO, Le più recenti proposte legislative in tema di custodia cautelare, in AA.VV., Libertà personale e ricerca della prova nell’attuale assetto delle indagini preliminari, Milano, 1995, 79; AA.VV., Modifiche al c.p.p. Nuovi diritti della difesa e riforma della custodia cautelare, Padova, Cedam, 1995. In relazione all’attività in materia svolta dal Parlamento nel corso dell’XI Legislatura, v. il Dossier n. 9 della Camera (collana Documentazione e ricerche) del giugno 1994. (6) Sul punto non si può certo lamentare l’inerzia delle parti interessate: giace da tempo in Parlamento un disegno di legge che ha pienamente recepito un ampio progetto elaborato dall’Unione delle Camere penali e contenente una completa regolamentazione delle investigazioni difensive. In particolare: — a conclusione del Convegno nazionale dell’Unione delle Camere penali sul tema « L’indagine della difesa: proposte per una disciplina normativa », svoltosi a Siracusa nei giorni 10-12 dicembre 1993, venivano predisposte ed approvate le Linee direttive per l’elaborazione di proposte di interventi normativi diretti a completare la disciplina dell’indagine difensiva; — partendo da tale testo l’Unione elaborava la Proposta di legge. Modifiche al c.p.p., alle norme di attuazione ed al c.p. in tema di esercizio della funzione difensiva; — tale progetto veniva riprodotto nella Proposta n. 1016/S presentata dal senatore Lisi il 14 ottobre 1994. Le Linee direttive e la prima bozza della Proposta di legge sono pubblicate in Dif pen., 1993, n. 41, 102 ss. Il testo che verrà più volte richiamato nel presente scritto è relativo alla terza ed ultima bozza della proposta, predisposta dall’Unione il 2 maggio 1994 e, a tutt’oggi, inedita. (7) Sarebbe del tutto anacronistico considerare ancora validi quei divieti deontologici che tanta parte hanno avuto sotto il previgente sistema inquisitorio. Per una disamina delle problematiche deontologiche tra vecchio e nuovo rito cfr. AA.VV., La deontologia nel nuovo processo penale, Atti del Convegno di Erice, 28-30 ottobre 1988, Roma, 1989; AA.VV., La deontologia del nuovo processo penale (a cura di Mor-


— 122 — Mentre, in passato, il limite deontologico era attestato sulla soglia delle possibili iniziative del difensore per la ricerca della prova, oggi si è spostato in avanti, investendo il contenuto, la forma ed il modo di attivarsi dell’avvocato, in iniziative già espressamente contemplate dalla legge (8). Notevoli, tuttavia, sono le difficoltà, posto che il difensore, di fronte al dovere deontologico di attivarsi, si ritrova privo di un qualsiasi imperium. Notevoli, soprattutto, le incertezze ed i dubbi che circondano tale attività. A tutt’oggi, in Italia non esiste un codice deontologico forense (9); inoltre, non tutti gli studiosi che si sono occupati in maniera sistematica della deontologia forense concordano sulla sua necessità (10). Alle nuove regole si richiede di offrire un sicuro punto di riferimento a coloro che svolgono l’indagine difensiva, e di indicare in quale modo possano essere puntualmente tutelati i molteplici interessi in essa coinvolti: si allude al rispetto delle persone, alla genuinità delle informazioni acquisite e, in definitiva, all’osservanza delle elementari regole di correttezza nella conduzione dell’indagine (11). La preparazione professionale dell’avvocato — così richiede il promino, Restivo, Di Benedetto, Di Stefano) Palermo, 1989; PECORELLA, op. cit.; FRIGO, Profili deontologici del nuovo processo penale, in Camere pen., n. 1, gen-mar 1990; D’OVIDIO, Nuovo c.p.p. e deontologia professionale dell’avvocato, in Giust. Pen., 1990, III, 70; LOFFREDO, La deontologia del difensore nell’indagine difensiva, in Giusto Proc., 1990. (8) CRISTIANI, op. cit., 73. (9) Si segnalano solo alcuni documenti, denominati in vario modo, redatti di loro iniziativa da alcuni Consigli dell’ordine. Come noto, l’unico tentativo di predisporre un codice per l’intera classe forense italiana risale al marzo 1984, allorchè Remo DANOVI redasse uno schema formato da 49 articoli relativi ai diversi e spinosi profili della professione: cfr. Codice deontologico forense, Milano, Egea, 1993 e GORLA, Note a margine di un « codice deontologico forense », in Giust. civ., 1984, II, 5. (10) A favore della codificazione cfr. FRIGO, Indagine difensiva per il processo penale e deontologia, in Cass. Pen., 1992, 2234 e RICCIARDI, Lineamenti dell’ordinamento professionale forense, Milano, Giuffrè, 1990; contra, DANOVI, Corso di ordinamento forense e deontologia, Milano, Giuffrè, 1992, 240. Tale disputa tende comunque a perdere il suo valore di fronte ad una chiara ed irreversibile tendenza — non solo nel nostro Paese (cfr. G.C. HAZARD, L’avvocato e l’etica professionale: gli aspetti giuridici, in Foro it., 1992, 216) — a fissare ed a dare certezza alla norma deontologica all’interno di un analitico articolato. (11) Un valido indirizzo è fornito, ad esempio, dal Codice deontologico degli avvocati della Comunità europea, approvato all’unanimità dal Consiglio degli Ordini Forensi CEE a Strasburgo il 28 ottobre 1988: cfr. DANOVI, Il codice di deontologia degli avvocati della Comunità europea, in Foro it., 1989, V, 149 e CAGNANI, Codice deontologico degli avvocati della CEE, in Rass. for., marzo 1989. Non si tratta comunque della sola sollecitazione proveniente da oltre confine: meritano infatti menzione la « Charte International des Droits de la Defense » — presentata dall’Union International des Avocats in occasione del 32o congresso tenutosi in Canada dal 27 agosto al 2 settembre 1987 (in Foro it., 1987, V, 483), e, ancorchè datato ed eccessivamente


— 123 — cesso di parti — deve curare, accanto all’interpretazione delle norme, l’acquisizione di nuove tecniche, ben diverse da quelle tipiche del vecchio rito (12). È quindi opportuno ampliare il nostro campo visivo e studiare regole e principi elaborati e proficuamente sperimentati in altri ordinamenti. È noto come la facoltà per il difensore di compiere autonome indagini e di avere contatti con i testimoni, costituendo un preciso diritto, abbia trovato una soddisfacente disciplina nei paesi di common law, ove il rito accusatorio vede la sua più completa applicazione. Non è un caso che, in quegli stessi paesi, le associazioni forensi si siano date regole sufficientemente precise di autodisciplina, in funzione dell’esigenza di evitare abusi e distorsioni (13). L’utilità delle indicazioni offerte dalla deontologia straniera, non deve peraltro travalicare in una aprioristica ed indiscriminata trasposizione, di metodi ed abitudini affermatisi oltre confine, nel nostro ordinamento processuale, che è sempre stato ben lontano, storicamente e culturalmente, da quello inglese o americano (14). sintetico, il Codice internazionale di deontologia forense, redatto dall’International Bar Association (I.B.A.) ed approvato ad Oslo nel 1956. (12) Utili spunti in FRANCHINI, L’indagine difensiva nel procedimento e nel processo. L’organizzazione degli studi professionali, in Il fisco, 1991, 4289. (13) Negli Stati Uniti regole scritte di comportamento (standards) sono elaborate e formulate dall’American Bar Association ed hanno dato vita al Model Code of Professional Responsibility (1970) ed alle Model Rules of Professional Conduct (1983) che si sono affiancati ai più antichi Canons of Professional Ethics (1908); se ne consultino i relativi testi e commenti in MORGAN-ROTUNDA, Model Code of Professional Responsibility and other Selected Standards on Professional Responsibility, Mineola, New York, 1984. L’American Bar Association è la più grande associazione ad iscrizione facoltativa costituita a livello federale tra professionisti legali negli Stati Uniti: tra i suoi iscritti vi sono giudici, avvocati, rappresentanti dell’accusa, professori di diritto, avvocati dello stato e giuristi specializzati in molti altri settori. In particolare, elabora regole di comportamento indirizzate ai soggetti del processo penale ed utilizzate con frequenza dai giudici nelle loro decisioni (cfr. EPSTEIN e AUSTERN, Uniform rules of criminal procedure. Comparison and analysis. A.B.A. crim. just. sect., 1975, 3). Tali norme deontologiche — messe a punto dalla Sezione della Giustizia Criminale e denominate standards for criminal justice — sono frutto della rilevazione della prassi e del ripensamento critico del ceto forense. Il prestigio di cui l’A.B.A. gode, conferisce loro una forza normativa che, pur inferiore a quella delle rules of court (espressione della pratica dal punto di vista dei giudici) si caratterizza allo stesso modo come espressione dell’efficacia del diritto forense. In relazione all’ordinamento inglese, regole deontologiche sono contenute, da una parte, in The professional conduct of solicitor del 1986 e, dall’altra, nel Code of conduct for the bar of England and Wales, adottato dal Bar Council il 12 novembre 1988; v. BOULTON, Guide to conduct and etiquette at the bar of England and Wales, London, Butterworths, 1975 e MEGARRY R.E., Lawyer and litigant in England, London, Stevens and Sons Ltd, 1962. (14) Una mirabile analisi comparatistica è svolta da CARPONI SCHITTAR, Il rapporto extraprocessuale tra avvocato e testimone nello sviluppo storico della professione e nel co-


— 124 — 3. (Segue) L’attività di ricerca della prova. — Nel processo accusatorio il difensore è chiamato a svolgere un ruolo investigativo. La sua attenzione è rivolta verso alcune precise attività: reperire le persone in grado di fornire elementi utili, scoprire eventuali documenti ed esaminare cose e luoghi che, in qualche modo, hanno un rapporto con il fatto. Lungi dal volerne offrire, in questa sede, una approfondita disamina, è comunque opportuno sintetizzare le problematiche inerenti la ricerca della prova che in questi primi anni di vita del nuovo rito, sono state al centro di dispute de iure condendo. In particolare: a) modalità e mezzi relativi alla ricerca delle fonti di prova; b) momento iniziale (15) e limiti temporali dell’esercizio della facoltà di indagine; c) soggetti dai quali è possibile assumere informazioni, con particolare riferimento al soggetto già escusso dall’organo dell’accusa (o dalla p.g.) ed al coimputato (16); d) soggetti legittimati alla ricerca degli elementi probatori; e) rapporto tra difensore ed investigatore privato (17); f) modalità e luogo del colloquio con la persona informata sui fatti; dice deontologico italiano e in quello francese, inglese e nordamericano, in Giur. Merito, 1984, IV, 244; VASSALLI, La giustizia penale statunitense e la riforma del processo penale italiano, in AA.VV, Il processo penale negli Stati Uniti d’America, Milano, Giuffrè, 1989, 251; AMODIO, Il modello accusatorio statunitense e il nuovo processo penale italiano: miti e realtà della giustizia americana, ivi, VII; COMOGLIO-ZAGREBELSKY, Modello accusatorio e deontologia dei comportamenti processuali nella prospettiva comparatistica, in questa Rivista, 1993, II, 487. (15) V. infra. (16) Censurano l’autonoma acquisizione di notizie da soggetti già sentiti dal p.m. o dalla p.g.: DOMINIONI, Le investigazioni del difensore ed il suo intervento nella fase delle indagini preliminari, in Dif. pen., 1989, n. 25, 28; PAGLIUCA, op. cit., 24 e RANDAZZO, La documentazione dell’attività di indagine da parte dei soggetti della difesa, relazione tenuta al Convegno dell’Unione delle Camere penali, cit., 72. Si sono invece espressi a favore: CRISTIANI, Manuale del nuovo processo penale, Torino, Giappichelli, 1989, 586; FRANCHINI, op. cit., 4289 e PECORELLA, I soggetti dell’attività di indagine della difesa, relazione tenuta al Convegno dell’Unione delle Camere penali, cit., 31; FRIGO, Il difensore, cit., 585. Sul punto v. anche l’art. 2 della Proposta di legge dell’Unione delle Camere penali, cit. ed, in chiave comparatistica, PIZZI, Argomenti etici e pratici relativamente agli interrogatori preprocessuali dei testimoni dell’accusa da parte del consiglio di difesa negli Stati Uniti, in Dif. pen., 1992, n. 34, 101. (17) Per approfondimenti su questa figura v.: AA.VV., L’investigazione privata nel nuovo processo penale, a cura di Tonini, Padova, Cedam, 1989; DE ROSE, L’investigatore privato nel nuovo processo penale, in Riv. pol., 1990, 497; D’AJELLO, L’investigatore privato e la prova testimoniale, in Riv. pen. econ., 1989, nn. 3-4, 168; GANGEMI, L’investigatore privato ed il nuovo codice di procedura penale, in Arch. n. proc. pen., 1991, 165; RUGGERI, Art. 222 disp. coord. c.p.p., in Commentario al nuovo c.p.p., a cura di Amodio-Dominioni, Appendice, Milano, Giuffrè, 1990; STEFANI-DI DONATO, L’investigazione privata nella pratica penale, Milano, Giuffrè, 1991.


— 125 — g) garanzie con cui circondare l’esame delle persone informate (18); h) rimborso alla persona informata delle spese sostenute; i) modalità e mezzi di documentazione delle risultanze delle indagini difensive; l) utilizzazione processuale ed efficacia degli elementi probatori raccolti (19). Allo stato attuale, l’attività di ricerca della prova del difensore può esplicarsi in un campo ristretto ed incontra notevoli difficoltà operative. Alcune limitazioni, se potevano essere il naturale portato del processo inquisitorio, sembrano, oggi, aver perso la loro ragion d’essere. Il pensiero corre, inevitabilmente, al settore delle prove documentali, ed alle difficoltà cui il legale può andare incontro qualora desideri consultare (e magari documentare) una cartella clinica, ovvero atti o registri di una pubblica amministrazione, ovvero documenti bancari, o anche solo il registro delle presenze di un albergo. Ora, se è innegabile che l’attività del difensore non potrà mai avere il grado di penetrazione di quella svolta dalla pubblica autorità, è comunque giustificato precludere alla difesa la conoscenza di determinate notizie? Trovare una soluzione equilibrata non è agevole. Tuttavia i tempi sono maturi per l’attuazione di un concreto potenziamento dei poteri del difensore: in particolare, per legittimarlo ad acquisire, anche presso i pubblici uffici, documenti ed informazioni rilevanti per una adeguata tutela dell’assistito. L’unica apertura è offerta dalla legge sulla trasparenza amministrativa (l. 7 agosto 1990 n. 241) che introduce e regola il diritto di accesso ai documenti amministrativi (20). Tale legislazione, tuttavia, non consente in modo adeguato e tempestivo di soddisfare le esigenze dell’investigazione difensiva. Ciò ha indotto l’Unione delle Camere penali a proporre l’introduzione nel codice di rito di una norma — l’art. 38-bis disp. att. — specificamente volta a disciplinare il « diritto di accesso del difensore ai documenti delle pubbliche amministrazioni » (21). In sintesi, viene dettata una disciplina autonoma che fa riferimento a (18) Con riguardo al dovere per l’avvocato di qualificarsi, di avvertire della facoltà di rifiutare il colloquio o di non rispondere ed alla facoltà di far assistere al colloquio un terzo soggetto imparziale. (19) Su questi ultimi due punti v. infra. (20) La legge 241/90 è, sul punto, molto chiara: gli interessati hanno diritto di accedere ai fascicoli che li riguardano, prendendo appunti, fotocopiando i documenti di maggior rilievo e via dicendo. Cfr. CLARICH, Con « l’ariete » della trasparenza l’avvocato rompe il muro dell’amministrazione, in Guida al diritto - Il Sole 24 Ore, maggio 1995, n. 19, 8. (21) Cfr. l’Art. 2 comma 2 della Proposta di legge, cit.


— 126 — talune soltanto delle disposizioni contenute nella legge 241/1990, allo scopo di individuare alcuni limiti del diritto di accesso ovvero di consentire una impugnazione in via amministrativa dei provvedimenti con cui l’amministrazione intendesse rifiutare, limitare o differire l’accesso medesimo (22). Posto ciò, è evidente che una efficace attività di ricerca probatoria richiede il conferimento di ulteriori facoltà: oltre all’esame di documenti è, ad esempio, necessario regolamentare l’accesso ai luoghi (23). Da ultimo, ci si domanda se il difensore possa decidere di non avvalersi della facoltà di svolgere accertamenti sui fatti oggetto della causa. La risposta è ferma: se per le norme processuali la difesa è un diritto, per le norme deontologiche la difesa è anche un dovere (24). L’attività di orientamento delle scelte dell’assistito deve avere un retroscena in un’attività conoscitiva dispiegata a tutto campo. L’accettazione del mandato di(22) Quanto ai limiti, si distingue tra accesso ai documenti che riguardano direttamente l’assistito e accesso ai documenti che coinvolgono solo indirettamente il medesimo ovvero che riguardano « terzi ». Nel primo caso, il diritto può essere « compresso » solo per i documenti coperti da segreto di stato e nei casi indicati nell’art. 24 comma secondo lettere a) e c) della legge 241/1990. Nel secondo caso, invece, si subordina l’esercizio del diritto all’attestazione che l’accesso è « specificamente » necessario per l’indagine difensiva ed all’impegno ad un uso esclusivo, per fini a questa relativi delle notizie e dei documenti acquisiti. Si prevede, altresì, la possibilità per l’amministrazione di rifiutare, limitare o differire l’accesso medesimo anche quando l’attestazione del difensore circa la sua necessità non appaia sufficiente a giustificare il sacrificio « degli interessi considerati nell’art. 24 comma secondo lett. d) della legge 241/1990 e nell’art. 8 comma 5 lett. d) del D.P.R. 352/1992 ». Si prevede, peraltro, che il provvedimento di rifiuto, limitazione o differimento sia motivato e venga emesso e comunicato entro 15 giorni dalla richiesta; in difetto, questa si intende accolta. Si prevede, altresì, che contro il provvedimento negativo il difensore possa ricorrere al tribunale amministrativo con la procedura « rapida » prevista dalla legge 241. Ma, allo scopo di ottenere, se del caso, una tutela anche più rapida, è previsto inoltre che il difensore possa rivolgersi al giudice (pure nella fase delle indagini preliminari) per chiedere che ordini all’amministrazione l’esibizione del documento o il rilascio della copia. (23) Al riguardo, una via praticabile è quella che consente al difensore, direttamente o a mezzo dei suoi ausiliari, di accedere a luoghi privati o comunque non aperti al pubblico — con esclusione di quelli destinati a privata dimora —, dove si ritiene possa utilmente svolgersi l’attività investigativa. L’accesso verrebbe autorizzato dal giudice con decreto motivato. Sarà questo provvedimento ad impartire tutte le disposizioni necessarie per la tutela dell’integrità delle cose e per il rispetto delle persone. Tale soluzione è stata avanzata, da ultimo, dall’Unione delle Camere penali: cfr. l’art. 2 della Proposta di legge, cit. Si vedano, inoltre, le altre proposte complementari, contenute nel medesimo progetto legislativo, relative all’autorizzazione al consulente tecnico extraperitale ad esaminare le cose sequestrate o l’oggetto di ispezioni (art. 9) ed alla facoltà di esame delle cose sequestrate da parte del difensore (art. 15). (24) Lo ricordava il Consiglio Superiore della Magistratura nel parere espresso sul Progetto preliminare delle norme di attuazione del c.p.p. « Se infatti l’art. 38 si esprime in termini di facoltà e non di dovere è solo perchè la norma che la contempla è inserita in un testo processuale e non in un testo di deontologia forense »: così PECORELLA, ult. op. cit., 22.


— 127 — fensivo trasforma la facoltà di indagine in un dovere deontologico che potremmo definire « procurarsi la conoscenza » (25). Significativa, al riguardo, è l’esperienza del processo americano, all’interno del quale le indagini difensive integrano, per il legale, un vero e proprio dovere — il c.d. duty to investigate — in forza del quale egli deve condurre una tempestiva investigation sulle circostanze del caso ed esplorare tutte le strade che possano condurre ai fatti rilevanti (26). Il punto critico — e la questione si ripropone in termini identici anche nel nostro Paese — concerne l’individuazione della soglia della performance qualificabile come ineffective assistance. Notevoli difficoltà si incontrano al momento di procedere ad una minuziosa catalogazione dei comportamenti difensivi: questi sono infatti il frutto di decisioni e di valutazioni che, per comune ammissione, competono all’avvocato in via esclusiva (27). In conclusione, l’indubbio dovere del legale di attivarsi con scrupolo e tempestività nell’interesse del cliente va contemperato, da un lato, con la libertà decisionale e di azione propria del difensore e, dall’altro, con la realtà pratica in cui il professionista opera. È evidente come il comportamento « ideale » che richiederebbe di esplorare ogni possibile strada non appaia realistico sotto il profilo della limitatezza delle risorse temporali ed economiche disponibili. (25) STEFANI-DI DONATO, La difesa del colpevole e del non colpevole nella fase delle indagini preliminari, Milano, Giuffrè, 1993, 200. Sempre in dottrina si segnala una linea più morbida, volta ad « evitare che un diritto della persona sottoposta alle indagini si traduca automaticamente in un dovere (da parte del difensore) da esercitare sempre e comunque ». Se così fosse, si sottolinea, « il rischio, specialmente in taluni tipi di processo, è quello di consegnare l’avvocato nelle mani del proprio assistito, strumento inconsapevole della volontà (e dei disegni) di quest’ultimo »: così FREDAS, op. cit., 2287. In astratto, ove non ottemperi a questo dovere e cagioni un danno al proprio assistito, il difensore sarebbe passibile: a) di responsabilità civile per il risarcimento, ove abbia cagionato un danno patrimoniale; b) di inchiesta disciplinare, in quanto non ha difeso nel miglior modo possibile il suo assistito; c) di responsabilità penale, se ha agito con dolo, per essersi reso infedele ai suoi doveri professionali arrecando nocumento agli interessi del cliente (art. 380 c.p.). In dottrina, sul punto, v. CALAMANTI, Il diritto di difesa tra favoreggiamento e patrocinio infedele, 1987 e PANAGIA, op. cit., 1249. In giurisprudenza, per tutte, Cass., 2 giugno 1990, in Cass. pen. Mass. ann., 1981, 1652, m. 2401. Il divieto per il professionista di assumere una difesa per la quale sia impreparato non ha origine collegata al nuovo rito processuale. Il Codice deontologico per gli avvocati della Comunità europea (art. 3.1.3) prevede espressamente tale divieto, insieme a quello di assumere un incarico da parte di chi si trovi nell’incapacità di potersene occupare tempestivamente in conseguenza di altri suoi impegni. (26) Per approfondimenti v. FANCHIOTTI, L’indagine della difesa negli Stati Uniti d’America, relazione tenuta al Convegno dell’Unione delle Camere penali, cit., in Cass. Pen., 1995, 430 e COMOGLIO-ZAGREBELSKY, op. cit., 470. (27) Sul punto, dettagliatamente, GAMBINI MUSSO, Diritto di difesa e difensore negli U.S.A., Torino, Giappichelli, 1994, 50 ss.


— 128 — 4. (Segue) Il diritto di documentare. — Il difensore, una volta ricercati i mezzi di prova favorevoli al proprio assistito, ed individuate le persone informate sui fatti, ha la necessità di conservare gli elementi raccolti. Ciò in vista di un loro successivo utilizzo, anche solo a fini di controllo o « contestativi » ovvero di apprezzamento critico della prova assunta in giudizio. La documentazione protegge il difensore da insinuazioni circa raggiri e pressioni verso il teste al momento della sua intervista predibattimentale. Ma non solo: è anche il teste stesso ad essere protetto da un controinterrogatorio condotto sulla base di affermazioni assunte fuori dal loro contesto o ricordate in maniera imprecisa dal legale. Prima della legge 8 agosto 1995 n. 332, si registrava, sul punto, il silenzio dell’art. 38 disp. att., che non contemplava la facoltà, in capo al difensore o ad un suo incaricato, di farsi rilasciare « dichiarazioni scritte » dalla persona in grado di fornire informazioni, contenuta invece nell’art. 33 prog. prel. disp. att. Il silenzio aveva ingenerato una comprensibile incertezza circa modalità e mezzi con cui documentare i risultati delle indagini (ed, in particolare, l’intercorso colloquio con la persona informata). Le questioni più dibattute involgevano: la documentazione scritta delle dichiarazioni raccolte (28), la registrazione delle dichiarazioni su nastro magnetico (29) e la documentazione « qualificata » ad opera di un soggetto terzo (30). Inoltre, era affiorata, in giurisprudenza, una certa titubanza nel riconoscere la stessa facoltà di poter documentare (31). (28) In astratto, le vie praticabili sono diverse: dichiarazioni autografe del teste, verbalizzazione del difensore con sottoscrizione della persona intervistata, verbalizzazione ad opera di terzi qualificati o di terzi semplicemente presenti al colloquio. (29) Tramontato l’orientamento giurisprudenziale che riteneva passibile di sanzione disciplinare una simile condotta (C.N.F., 17 febbraio 1973, cit., 243) ci si chiede se possa ritenersi lecita e deontologicamente legittima la registrazione effettuata dal difensore all’insaputa della persona da lui intervistata. V. per tutti BUZZELLI, Documentazione magnetofonica e testimonianza indiretta nel nuovo processo penale, in Riv. dir. proc., 1990, 941; CAPRIOLI, Intercettazione e registrazione di colloqui tra persone presenti nel passaggio dal vecchio al nuovo codice di proc. pen., in questa Rivista, 1991, 143; RAMAJOLI, Acquisizione ed impiego, da parte del difensore, di informazioni testimoniali raccolte a mezzo di registrazione magnetofonica, in Giust. Pen., 1991, III, 362. (30) Si dibatte circa il ricorso all’istituto anglosassone dell’affidavit, ritenuto, vigente il codice Rocco, in contrasto con l’art. 28 della L. 16 febbraio 1913 n. 89 sull’ordinamento del notariato: cfr. Cass, Sez. III, 13 novembre 1957 n. 4380, in Foro it., 1958, I, 657; Id., Sez. III, 20 aprile 1963 n. 977, in Giust. civ., 1963, 980 e, in dottrina, PROTETTÌ-DI ZENZO, La legge notarile, Milano, Giuffrè, 1987, 174. Alla luce del nuovo disposto dell’art. 38 disp. att. tale ricorso sarebbe ora implicitamente legittimato: in tal senso v. PECORELLA, La deontologia del nuovo avvocato, cit., 1358; TONINI, L’attività di investigazione privata nel nuovo processo penale, in AA.VV., L’investigazione privata nel nuovo processo penale, cit., 306 e LOZZI, Lezioni di procedura penale, II ed., Torino, Giappichelli, 203.


— 129 — L’art. 22 della legge 332/95 fa definitivamente luce sul punto. Nel nuovo comma 2 bis, inserito nell’art. 38 disp. att. c.p.p., si fa esplicito riferimento alla « documentazione » (32) che il difensore della persona sottoposta alle indagini, o della persona offesa, può presentare direttamente al giudice. Ciò consente di affermare che fin dalle indagini preliminari i difensori hanno il pieno diritto di documentare le dichiarazioni rese loro dalle « persone che possono dare informazioni ». La legge, se chiarisce che la documentazione è lecita, tuttavia continua a non indicarne le modalità (33). Sul punto, permangono quindi i dubbi, le incertezze e le diffidenze di cui è costellata la prassi e la giurisprudenza. L’Unione delle Camere penali ha cercato di sopperire al vuoto normativo proponendo l’introduzione, nell’impianto codicistico, di due articoli — il 103 ter ed il 38 ter disp. att — interamente dedicati alla documentazione delle investigazioni del difensore (34). 5. (Segue) L’esigenza di un esercizio tempestivo della facoltà d’indaPer un inquadramento storico di tale istituto cfr. LEFEBVRE-D’OVIDIO, Affidavit, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 668 e RANDEGGER, Affidavit, in Noviss. dig. it., Torino, 1957, 364. (31) V. Gip Milano, 13 novembre 1990, Bentacor, in Crit. dir., 1991, fasc. 3, 31 e Gip Milano, 17 settembre 1990, Giovanni, cit., 362 che recita: « Il difensore non ha potere di documentazione, sotto alcuna forma, compresa quella della registrazione magnetofonica, di dichiarazione resa da persone a conoscenza di circostanze sui fatti ». La dottrina era invece concorde nel ritenere che dal silenzio dell’art. 38 disp. att. non conseguiva alcuna preclusione alla facoltà del difensore di cristallizzare le risultanze delle proprie ricerche: cfr. TONINI, Il valore probatorio dei documenti contenenti dichiarazioni scritte, in Cass. Pen., 1990, 2212; FRANCHINI, op. cit., 4290 e SCELLA, Questioni controverse in tema di informazioni testimoniali raccolte dalla difesa, in questa Rivista, 1993, 1175. (32) Si è sottolineato (TONINI, sub art. 22, in AA.VV., Modifiche al c.p.p., cit., 3O5) come il termine documentazione sia utilizzato in senso atecnico: diversamente — ove fosse inteso nel suo significato tecnico — « dovrebbero ritenersi richiamate tutte le disposizioni che regolano la documentazione degli atti del procedimento (artt. 134-142 c.p.p.); la qual cosa può apparire eccessiva se rapportata all’indagine difensiva ». La stessa dottrina conclude, ad ogni modo, come « qualche cautela è d’obbligo, perchè il risultato dell’indagine sembra avere le caratteristiche che la dottrina individua nell’atto del procedimento. Colui che lo redige è un soggetto e l’attività viene posta in essere per una finalità del procedimento ». (33) « La norma sulle indagini difensive si allontana dalla prospettiva coltivata a partire dal 1992, sembrando riproporre, in un certo qual senso, quella libertà delle forme propria dello schema dell’inchiesta di parte che avrebbe animato la versione originaria del codice »: così VOENA, La « prova privata »: le indagini del difensore e la loro utilizzabilità, relazione svolta all’incontro di studio del C.S.M. sul tema « La prova penale » svoltosi a Frascati in data 6-8 novembre 1995, inedita. (34) Viene, in primo luogo, previsto che il legale possa provvedervi personalmente o avvalendosi della collaborazione di soggetti terzi particolarmente qualificati (c.d. documentazione indiretta). Per quanto concerne invece i mezzi a sua disposizione, è prevista una ampia gamma di possibilità in cui non è facile orientarsi: dichiarazioni autografe o sottoscritte dal dichiarante, redazione di un verbale, registrazione con mezzi meccanici, fonografici o au-


— 130 — gine difensiva: gli artt. 18 e 19 della legge 8 agosto 1995 n. 332. — Da quale momento il difensore è autorizzato ad attivarsi ed è, di conseguenza, protetto dalla norma? La prassi giudiziaria ha evidenziato come la fase delle indagini preliminari sovente si protragga a lungo e consenta alla polizia giudiziaria ed al pubblico ministero tutta una serie di investigazioni all’insaputa dell’interessato. La figura dell’indagato, in questa fase, può non esistere ancora, o profilarsi soltanto come mera ipotesi. Viene quindi naturale chiedersi come dovrà, o potrà, comportarsi un avvocato, al quale una persona si sia rivolta nel timore di trovarsi nella posizione di indagato. Si è sottolineato come il formalizzare, in quello stadio, una nomina a difensore « non avrebbe senso e potrebbe anche essere controproducente » (35). Non può infatti sottovalutarsi il rischio cui andrebbe incontro il legale — che, già in questa fase, si attivasse senza avere ancora assunto formalmente la veste di difensore — di vedersi rivolta l’accusa di favoreggiamento, per aver aiutato il cliente ad eludere le investigazioni dell’autorità. La questione era di stretta attualità soprattutto prima della legge 8 agosto 1995 n. 332. Il regime dell’informazione di garanzia (art. 369 c.p.p.), da un lato, e quello relativo alla comunicazione dell’iscrizione sul registro delle notizie di reato (art. 335 c.p.p.), dall’altro, rendevano del tutto eventuale la conoscenza da parte dell’interessato circa l’avvio di indagini giudiziarie nei suoi confronti. Ciò ostacolava, ed inevitabilmente differiva, l’attivazione del diritto di difesa (36). La novella del ’95 ha cercato di ovviare a siffatti « eccessi inquisitori » modificando l’art. 335 c.p.p. Recependo la proposta di modifica formulata dall’Unione delle Camere penali (37), il legislatore ha reso libero l’accesso (da parte della persona « indagata », del suo difensore e della persona offesa) al registro diovisivi: cfr. Art. 1 della Proposta di legge, cit. All’art. 2 si fa poi riferimento alle « modalità particolari di documentazione ». (35) CRISTIANI, Vademecum, cit., 60. (36) Sul punto v. le notazioni critiche di BARBUTO, Registro delle notizie di reato, informazione di garanzia e diritto di difesa dell’indagato, in Arch. nuova proc. pen., 1991, 501; GIOSTRA, L’informazione di garanzia ha 25 anni e li porta male, in Italia oggi, 22 settembre 1993, 2 e QUAGLIERINI, Profili problematici dell’attività difensiva durante le indagini preliminari, in Cass. pen., 1994, 2283. (37) L’art. 13 della Proposta di legge, cit., formulava in termini simili la sostituzione del comma 3 e l’aggiunta del comma 3 bis dell’art. 335 in quanto « in attesa di una modifica della disciplina dell’informazione di garanzia — così la relazione di accompagnamento — sembra questa la innovazione minima indispensabile per attivare il diritto di difesa nella fase delle indagini preliminari ».


— 131 — delle notizie di reato, salvo che si proceda per determinati reati o sussistano « specifiche esigenze attinenti all’attività d’indagine » (38). Certa dottrina ha lamentato come la norma, nelle intenzioni garantista, sia oggi letta « con notevole rigore dagli addetti alle segreterie di alcune procure, che hanno ricevuto istruzioni più severe di quelle diffuse nel regime normativo ante riforma » (39). Ad ogni buon conto, l’innovazione del 1995, ancorchè non sia sfuggita ad ulteriori rilievi critici e venga da alcuni additata quale « precaria soluzione di compromesso » (40), costituisce un indubbio passo in avanti. È, altresì, vero che l’esigenza di un’attivazione tempestiva della facoltà d’indagine difensiva avrebbe avuto ben altra soddisfazione da una revisione dell’informazione di garanzia, nel senso di congegnarla come informazione sull’indagine e non sul singolo atto « garantito » (41). L’art. 19 della legge n. 332 del 1995 non si è fatto carico di questa esigenza ed ha ristretto ulteriormente l’ambito dell’istituto (42). Le intervenute modifiche offrono, comunque, una maggior tutela a (38) L’art. 18 della legge 332/95 è volto ad attenuare la totale segretezza, anche interna, delle iscrizioni. A tal fine, viene modificato il comma 3 dell’art. 335 c.p.p., viene aggiunto, allo stesso, il comma 3 bis ed introdotto l’articolo 110 bis nelle norme di attuazione. (39) RANDAZZO, Strategie, tattiche, comportamenti, attività delle parti e problemi di deontologia, relazione svolta al Convegno dell’Unione delle Camere penali e dell’Associazione nazionale magistrati sul tema « La nuova disciplina della custodia cautelare » tenutosi ad Ostuni in data 10-12 novembre 1995. « In sostanza — argomenta lo studioso — era prima agevole ottenere almeno la conferma dell’esistenza di un procedimento, il numero di registro generale ed il nome del sostituto competente; non di rado, si apprendeva anche lo stato della pratica. Dopo le migliorie della legge 332, si pretende un’istanza scritta (...), il segretario dovrà investire della richiesta il p.m., che dovrà poi vagliarla, disponendo se del caso la segretazione, e dopo la decisione restituirla alla segreteria, magari attraverso un puntiglioso registro di passaggio, e con buona pace dell’eventuale urgenza ». (40) ORLANDI, sub art. 18, in AA.VV., Modifiche al c.p.p.. Nuovi diritti della difesa e riforma della custodia cautelare, cit., 253. Rilievi critici sono altresì formulati da FRIGO, sub commento all’art. 18 della legge 332/95, in Documenti Italia Oggi, 9 agosto 1995, 31 e PERONI, sub commento all’art. 22 della l. 332/95, in Leg. pen., 1995. Per un quadro delle problematiche relative al registro de quo, anche precedenti alla novella del 1995, cfr. CRISTIANI, Misure cautelari e diritto di difesa, Torino, Giappichelli, 1995, 83 ss. (41) Questa era la ratio originaria dell’istituto, come traspare fin dal progetto Carnelutti del 1962. Più tardi, si suggerì che l’informazione « sulle indagini » avvenisse almeno non oltre un certo termine dall’inizio delle indagini (90 giorni), ma l’indicazione cadde e si approdò alla formulazione dell’art. 369 c.p.p.. Tuttavia l’esigenza di un ridimensionamento dell’istituto non fu mai sopita. Tra le proposte della « Commissione Pisapia », che lavorò nel c.d. triennio di sperimentazione, vi erano proprio quelle di un ripristino, nel senso anzidetto, dell’informazione di garanzia e di una attenuazione della segretezza interna delle iscrizioni nel registro delle notizie di reato. (42) In relazione al nuovo art. 369 c.p.p. v. PERONI, sub art. 18, in AA.VV., Modifiche al c.p.p., cit., 269 ss. e CRISTIANI, che significativamente commenta: « Si tratta, come tutti possono constatare, di una riforma dell’istituto di dimensioni lillipuziane. La sfera dell’obbligo, cronologicamente e funzionalmente condizionata da un avverbio, rimane quella di


— 132 — quell’avvocato serio e corretto che, in seguito a quanto espostogli dal cliente, ritenga di doversi attivare senza ritardo, al fine di poter fruttuosamente contattare le persone informate sui fatti e assicurarsi le eventuali fonti di prova a difesa. Tale esigenza — e torniamo così al quesito di apertura — mette a nudo la fragilità della soluzione di tipo formalistico che vede l’inizio dell’attività lecita dell’avvocato decorrere dal momento dell’assunzione della veste di difensore, conseguente al deposito di un atto di nomina ex art. 96 c.p.p. Questo momento, giova ripeterlo, può essere lontano dal fatto e dalle prime iniziative degli inquirenti: l’eventuale prova favorevole all’imputato potrebbe essere ormai evanescente o di ardua reperibilità. L’indagine difensiva, in tale contesto, non può che risultare tardiva e priva di incisività. Quanto sopra porta quindi a condividere la tesi estensiva: riconoscere il diritto del difensore ad attivarsi nella ricerca delle prove, ai sensi dell’art. 38 disp. att., fin dal momento di assunzione dell’incarico professionale, a livello di rapporto negoziale privatistico di prestazione d’opera intellettuale ai sensi dell’art. 2230 cod. civ. (43). 6. L’introduzione e l’utilizzazione nel processo degli elementi probatori raccolti dalla difesa: premessa. — L’attività difensiva volta alla ricerca ed alla raccolta degli elementi probatori e poi alla loro verifica e documentazione, non è finalizzata ad un uso puramente interno alla difesa delle risultanze di tale indagine « parallela », ma è indissolubilmente connessa alla possibilità di un loro sbocco processuale. prima. La vera riforma, rimasta purtroppo in mente Dei, al fine di impedire che la finalità di garanzia venga trasformata in un effettivo ed inutile pregiudizio, sarebbe consistita o nel sanzionare di nullità gli atti successivi ad un’informazione di garanzia omessa o nel prevedere una sanzione di carattere penale per le informazioni di garanzia emesse, diffuse e comunicate con la pubblicità dei mezzi di informazione estranei alla sfera del soggetto interessato, che ha costituito il triste ed incivile fenomeno degli ultimi tempi » (ult. op. cit., 95). Per una messa a fuoco del rapporto tra gli artt. 335 e 369 c.p.p., in seguito alle modifiche del ’95, cfr. ORLANDI, op. cit., 254 ss. (43) Cfr. CRISTIANI, Vademecum, cit., 52, che osserva come il limite tra il lecito e l’illecito non possa dipendere da un elemento formale (come quello di una nomina a difensore depositata o depositabile), bensì dalla sostanza e dalla natura delle attività investigative svolte. È pur vero — osserva l’autore — che, in tal senso, il momento facultizzante l’esercizio del diritto sfuggirebbe ad una tipicizzazione temporale, ma, d’altro canto, un limite cronologico contrasterebbe con la natura potenziale e meramente ipotetica della situazione stessa di « indagato » che, neppure per gli organi inquirenti, può essere focalizzata nel tempo (Sul momento iniziale delle investigazioni della difesa ai sensi dell’art. 38 disp. att., relazione tenuta al Convegno nazionale dell’Unione delle Camere penali svoltosi a Siracusa il 10-12 dicembre 1993). In favore della tesi estensiva si è espressa l’Unione delle Camere penali: cfr. l’art. 1 della Proposta di legge, cit. Contra, in particolare, VOENA, op. cit..


— 133 — La questione è scottante soprattutto in riferimento al rapporto tra il difensore e il potenziale testimone. È vero che il colloquio con quest’ultimo ha pur sempre una precisa funzione logica, consistente nel saggiarne il tenore delle conoscenze e, conseguentemente, nel valutare l’opportunità di chiederne l’esame nelle dovute sedi (incidente probatorio, udienza preliminare, dibattimento). Ciò, tuttavia, non è sufficiente e sarebbe, per il difensore, quanto mai riduttivo. Sul punto si registra, da sempre, un forte conflitto tra due esigenze contrapposte. Da un lato, un efficace esercizio del diritto di difesa richiede di poter documentare ed utilizzare la prova a discarico sia in vista del dibattimento sia in sede di udienza preliminare sia, non da ultimo, in sede di applicazione delle misure cautelari. Dall’altro lato, si contrappongono forti resistenze, in quanto si tratta di materiale raccolto al di fuori del contraddittorio tra le parti, e senza il controllo giurisdizionale del giudice terzo. Diversi gli interessi in gioco, molteplici i problemi: in questa cornice si radica l’esigenza di delineare alcune direttive sul comportamento professionale che rasserenino l’agire forense e garantiscano serietà e lealtà nella conduzione dell’inchiesta e nella produzione della prova a discarico. La questione ha visto il susseguirsi (ed il sovrapporsi) di tre distinte prese di posizione. Ad una forte chiusura giurisprudenziale verso l’ampliamento dei diritti della difesa — mitigata solo da alcune pronunce in tema di misure cautelari — si è contrapposta una prolifica elaborazione dottrinaria, volta a rintracciare all’interno dell’impianto codicistico gli strumenti in grado di rendere operativo il diritto a « difendersi provando ». La frattura è stata ricomposta dal legislatore con la legge n. 332 del 1995, che, ai fini della nostra analisi, rileva sotto un duplice profilo: introduce precise garanzie e spazi partecipativi per la difesa in relazione al procedimento cautelare e legittima la diretta presentazione al giudice della documentazione dell’indagine difensiva, ampliando il disposto dell’art. 38 disp. att. In particolare, tra le righe dell’art. 22 della legge si affermano due principi di estrema rilevanza che la prassi, però, tendeva a trascurare: anzitutto l’indagine su fatti di reato non è monopolio di nessuno dei soggetti processuali (44), inoltre, il diritto di difendersi provando deve essere riconosciuto al difensore fin dalle indagini preliminari (45). (44) Il p.m. viene infatti ricondotto al ruolo di parte, anche se, trattandosi pur sempre di una parte pubblica, resta soggetto ad obblighi di lealtà; « se un monopolio resta, questo concerne il potere coercitivo, che può essere esercitato sotto il controllo del giudice » (TONINI, ult. op. cit., 301). « In sintesi: ci si allontana dall’anteriore prevalente indirizzo normativo che configurava la fase preliminare come una sorta di regno del pubblico ministero » (NOBILI, La difesa


— 134 — Un’ultima precisazione: nell’affrontare il tema dell’utilizzabilità degli elementi raccolti dalla difesa occorre distinguere il momento dell’introduzione (produzione) della prova a discarico all’interno del procedimento o del processo da quello della valutazione della sua concreta efficacia probatoria e quindi del suo utilizzo. È evidente la differenza che intercorre tra i due momenti, ed è pure evidente che il riformato art. 38 si riferisce solo al primo. Il legislatore ha quindi indicato la via da percorrere per introdurre nel processo gli elementi a discarico, mantenendo invece il più completo silenzio in relazione al valore probatorio che essi possono assumere una volta portati a conoscenza del giudice (46). 7. (Segue) Le nette « chiusure » della giurisprudenza. — Il silenzio dell’originario art. 38 disp. att. in relazione alle modalità ed ai limiti dell’impiego processuale di quanto acquisito dal difensore, aveva, nei fatti, alimentato una situazione di forte incertezza e paralisi, lasciando ampio spazio ad una restaurazione giurisprudenziale di certi equilibri tipici del previgente sistema inquisitorio. Le pronunce sul nuovo rito, se da un lato non negavano la legittimità dell’indagine difensiva, erano, peraltro, tendenzialmente preclusive verso un utilizzo della documentazione raccolta dal difensore all’interno del procedimento: solo in tema di riesame delle ordinanze applicative di una misura coercitiva veniva riconosciuta una immediata incidenza degli elementi probatori a discarico. L’orientamento regressivo prese piede tra il 1990 ed il 1991, attraverso alcune decisioni dei giudici di merito e venne confermato, a partire dal 1992, dalla giurisprudenza di legittimità. « L’art. 38 disp. att. — questo il nocciolo di numerose pronunce — non prevede che i difensori possano produrre i risultati delle loro investigazioni in giudizio. Ne consegue che essi possano fare uso interno all’esercizio della difesa di dette investigazioni per sollecitare l’attività investiganel corso delle indagini preliminari: i rapporti con l’attività del pubblico ministero, relazione svolta al XX « Convegno di studio Enrico De Nicola » su Il diritto di difesa dalle indagini preliminari ai riti alternativi, Cagliari 29 settembre - 1 ottobre 1995, inedito). (45) La necessità di riconoscere e rafforzare l’azione del difensore nelle indagini preliminari aveva condotto certa dottrina ad invocare la cancellazione della premessa dell’art. 38 disp. att. che correla la facoltà investigativa della difesa all’esercizio del diritto alla prova di cui all’art. 190 c.p.p.. Ciò in quanto « tale rinvio si presta ad una interpretazione restrittiva della facoltà di cui sopra, intesa come mera possibilità, per la difesa, di ricercare elementi su cui basare la propria strategia difensiva per il dibattimento. In realtà l’art. 38 ha senso se si ritaglia per il difensore uno spazio di fattiva partecipazione anche nella fase anteriore al dibattimento, momento già avanzato del procedimento ». Così LIBERINI, Le indagini difensive tra giurisprudenza promozionale e vuoti legislativi, in Indice pen., 1994, 335. (46) Per una approfondita analisi sul punto v. infra (paragrafo 5).


— 135 — tiva del p.m. all’acquisizione di elementi di prova, oppure per richiedere, all’uopo, l’intervento del g.i.p. per l’espletamento di un incidente probatorio, salva la facoltà di chiedere prova testimoniale all’udienza preliminare o al dibattimento, ma non possono portare tali acquisizioni alla diretta cognizione del giudice, come è confermato dall’art. 358 e dall’art. 348 » (47). Tutti gli elementi probatori — si aggiungeva — « devono essere canalizzati sul p.m. » dal momento che quest’ultimo, durante le indagini preliminari, « non è parte, bensì l’unico organo preposto, nell’interesse generale, alla raccolta ed al vaglio dei dati positivi e negativi afferenti fatti di possibile rilevanza penale » (48). Le ragioni giuridiche che presiedono alla scelta operata dalla Suprema Corte vanno ricercate nel carattere « informale ed extraprocedimentale » delle ricerche effettuate e delle risultanze acquisite dalla difesa; la prova, viceversa, « per risultare idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti non può prescindere da forme volte a garantire genuinità ed affidabilità sicura » (49). In estrema sintesi, l’art. 38 disp. att. contribuirebbe solo a « formare e definire il thema probandum da sottoporre, da parte della difesa, all’autorità procedente » (50): essa sarebbe stata concepita « al fine di assicurare la liceità deontologica e l’improduttività di conseguenze sull’attendibilità della prova di un’attività difensiva volta a verificare la convenienza della chiamata di un testimone nel processo » (51). Il quadro giurisprudenziale fornito mette in luce come i giudici di le(47) Cass., Sez. I, 31 gennaio 1994, Vincenti, in Giust. Pen., 1994, 223. Nello stesso senso: G.i.p. Trib. Bologna, 8 maggio 1990, Cerri, in Cass. pen., 1990, II, 352, m. 141; G.i.p. Trib. Milano, 17 settembre 1990, Giovanni, in Giust. Pen., 1991, III, 362, con nota di Ramajoli; Trib. Lecce, 29 settembre 1993, Santolla, in Cass. Pen., 1994, 452, m. 321, con nota di Carcano. (48) Cass. Sez. Fer., 18 agosto 1992, Burrafato, in questa Rivista, 1993, 1169, con nota di Scella e in Cass. Pen., 1993, 2306 con nota di Quaglierini. « L’esattezza di siffatta conclusione — si argomentava ancora — trova del resto conferma nell’art. 358 c.p.p. che prevede l’obbligo del p.m. di svolgere altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini, e che, dunque, comporta che gli elementi di prova da utilizzare nella fase delle indagini preliminari, anche ai fini cautelari, debbano essere assunti dal p.m. »: così Cass. Sez. I, 16 marzo 1994, Cagnazzo, in Arch. n. proc. pen., 1994, 364 e in Cass. Pen., 1995, m. 95, con nota di Carcano. (49) Cass. Sez. VI, 1 marzo 1993, Minzolini, in Cass. Pen., 1995, 974, con nota di Jesu. (50) Cass. Sez. VI, 1 marzo 1993, cit. (51) G.i.p. Trib. Milano, 13 novembre 1990, Bentacor, in Crit. dir., 1991, fasc. 3, 31 con nota di Della Sala. Si segnalano altre pronunce volte a precludere, in qualsiasi fase processuale, l’utilizzo delle informazioni raccolte dalla difesa: cfr. Trib. Venezia, 12 novembre 1991, Fabbro, in Dif. pen., 1992, fasc. 36, 105, m. 298; G.i.p. Trib. Treviso, 20 febbraio 1992, Oniga, ivi, m. 299, con nota di Ravagnan; Trib. Torino, III, 9 ottobre 1991, ivi, fasc. 37, 105, m. 330.


— 136 — gittimità e di merito abbiano completamente svilito l’art. 38 disp. att. nel suo significato originario (52). Un simile orientamento, avversato con fermezza dalla dottrina più autorevole (53), offriva lo spunto per ulteriori annotazioni critiche. In primo luogo la figura del p.m. quale « titolare esclusivo delle indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale » non poteva comportare una necessaria paralisi di tutte quelle attività che il codice, e prima ancora la legge delega, consentono al difensore. Inoltre, l’identificazione del p.m. in un soggetto preposto al vaglio delle prove a discarico, generava l’anomalia secondo cui, in un processo di tipo accusatorio, caratterizzato dal principio del contraddittorio e dalla parità fra le parti, una di esse è costretta a rivolgersi all’altra per poter documentare ed utilizzare le risultanze delle proprie indagini (54). Da ultimo, quanto affermato dalla Cassazione non garantiva affatto che il dato di conoscenza favorevole all’indiziato fosse effettivamente immesso nel procedimento: l’obbligo previsto dall’art. 358 c.p.p. risulta privo di sanzione processuale ed il p.m. non è tenuto a rispondere ad eventuali richieste, nè a motivare il diniego di svolgere accertamenti (55). (52) In sintesi, come acutamente osservato (TONINI, ult. op. cit., 298), si può sostenere che l’art. 38 sia stato snaturato ad opera di due correnti giurisprudenziali « opposte ma curiosamente convergenti nel risultato ». In particolare, « da un lato vi è stata una interpretazione che potremmo definire tradizionalista e che riconosceva soltanto al p.m. il potere di svolgere indagini; da un altro lato, ha operato una interpretazione di tipo massimalistico, secondo la quale la prova può essere assunta soltanto in dibattimento e tendenzialmente mai durante le indagini preliminari ». L’effetto « politico » di questa giurisprudenza regressiva fu di ricompattare la gestione dei poteri processuali in ordine alla prova dentro l’apparato giudiziario pubblico, estromettendo la difesa privata, cui residuava, in questa prospettiva, un mero diritto di istanza: così FRIGO, Quale destino per l’indagine difensiva?, in Dif. pen., 1993, n. 41, 47. (53) Cfr.: PISAPIA, Ma Perry Mason non abitò mai qui — Finzione e realtà del processo accusatorio, in Il Sole 24 Ore, 15 settembre 1993, 23; FRIGO, L’indagine difensiva al p.m. ultima offesa all’accusatorio, ivi, 18 novembre 1992, 19; GIAMBRUNO, Il pubblico ministero: un assurdo intermediario tra la difesa ed il giudice, in Cass. Pen., 1994, n. 240, 337. Cfr. anche PECORELLA, Al di là dell’alternativa dipendenza-indipendenza: il p.m. tecnico dell’investigazione, in questa Rivista, 1993, 124. Seguiva invece l’orientamento della giurisprudenza FREDAS, op. cit., 2286. (54) V. la ferma critica mossa da NOBILI, Gli atti a contenuto probatorio nella fase delle indagini preliminari, in Crit. dir., 1991, n. 2, 13 e da PISAPIA, op. cit., 23. (55) Il fatto che le pronunce contengano il riferimento alla « possibilità » che il p.m. raccolga le dichiarazioni, invece di sancire un vero e proprio dovere di acquisizione, dimostrerebbe quanto sia « insufficiente, se non irrisorio, pensare di risolvere i problemi delle indagini e delle prove a difesa tramite un rapporto tra difensore e pubblico ministero: così il diritto alla prova (art. 24 Cost.) risulta degradato a mera eventualità, ossia, per l’appunto (e testualmente), ad una possibilità » (NOBILI, Prove a difesa e investigazioni di parte nell’attuale assetto delle indagini preliminari, cit., 413). La constatazione che l’inosservanza dell’art. 358 non sia fonte di alcuna sanzione processuale ha condotto certa dottrina a ritenere che tale norma esprima essenzialmente un pre-


— 137 — In conclusione, si deve aggiungere come lo sbilanciamento prodotto tra poteri dell’accusa e diritti e facoltà della difesa venisse ulteriormente rafforzato dalle modificazioni apportate nel tessuto codicistico dal congiunto intervento della Corte Costituzionale e della legislazione d’urgenza (56). Non era allora esagerato parlare di una certa nostalgia per il defunto codice Rocco. 8. (Segue) La revisione dell’art. 38 disp. att.: a) Proposte ed orientamenti tra il 1992 ed il 1995. — I due commi aggiunti dalla legge 332/95 all’art. 38 disp. att. sanciscono il diritto per il difensore di presentare direttamente al giudice gli « elementi che egli reputa rilevanti ai fini della decisione da adottare », nonchè l’obbligo di inserire la documentazione delle investigazioni difensive nel fascicolo degli atti di indagine. Trovano così soddisfazione alcune esigenze primarie per l’indagine difensiva e viene definitivamente superata la teoria giurisprudenziale della « canalizzazione » verso il p.m. degli elementi a discarico in mano alla difesa. cetto deontologico: la sanzione andrebbe di conseguenza rintracciata fuori del processo, nell’ambito disciplinare (FRIGO, Indagine difensiva per il processo penale e deontologia, cit.). Sul punto, criticamente, FERRUA, Studi sul processo penale. II, Anamorfosi del processo accusatorio, Torino, Giappichelli, 1992, 146. (56) Si allude, sotto il primo profilo, alle note pronunce del 31 gennaio 1992 n. 24 (in Giur. cost., 1992, 114), del 3 giugno 1992 n. 254 (ivi, 1932) ed, in particolare, del 3 giugno 1992 n. 255 (ivi, 1961, con nota di Illuminati). Sul versante legislativo si rimanda, invece, al d.l. 8 giugno 1992 n. 306 convertito nella l. 7 agosto 1992 n. 356. Numerose le prese di posizione (e le critiche) verso l’operato della Suprema Corte: cfr. IACOVIELLO, Prova e accertamento del fatto nel processo penale riformato dalla Corte Costituzionale, in Cass. Pen., 1992, 2029, m. 1073; DI CHIARA, L’inquisizione come eterno ritorno: tecnica delle contestazioni ed usi dibattimentali delle indagini a seguito della sentenza 255/92 della Corte Costituzionale, in Foro it., 1992, I, 2013; FERRUA, La testimonianza nel nuovo dibattimento: dalla sentenza costituzionale 22/92 alla legge 356/1992, in Dif. pen., 1992, 44; D’ANDRIA, Gli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 195 comma 4 c.p.p., in Cass. Pen., 1992, 925; CHIAVARIO, Il processo penale dopo la nuova decretazione d’emergenza: ancora una volta alla ricerca di una bussola, in Leg. pen., 1993, 339; LATTANZI, Un processo riformato o rivoluzionato?, ivi, 35; LOZZI, op. cit., 270. Un apprezzamento particolare verso la pronuncia è formulato da: MADDALENA, Modifiche al codice di procedura penale: meglio tardi che mai, in Corr. giur., 1992, 927; ZAZA, Prime riflessioni sulla sentenza costituzionale n. 255 del 1992, in Giust. Pen., 1992, I, 242; TONINI, Cade la concezione massimalistica del principio di immediatezza, in questa Rivista, 1992, 1137. In linea con le argomentazioni della sent. 255/92, si colloca una successiva pronuncia della Corte Costituzionale che interviene sul disposto dell’art. 513 c.p.p.: v. sent. 24 febbraio 1995 n. 60, in Cass. Pen., 1995, 1748 con significativa nota di SANTACROCE, Prosegue il ridimensionamento da parte della Corte Costituzionale dell’impianto accusatorio del processo penale: l’interrogatorio delegato della polizia giudiziaria e la sua utilizzabilità probatoria. La sentenza prosegue l’opera di ampliamento dell’area degli atti acquisibili al fascicolo del dibattimento, e quindi utilizzabili in chiave probatoria ai fini del giudizio, quando non sono suscettibili di essere surrogati dalla prova dibattimentale.


— 138 — La svolta operata è, quindi, rilevante anche se, ad onor del vero, il legislatore del 1995 si è limitato a trasfondere in un testo legislativo quella proposta normativa che da tre anni, pressochè immutata nella sua formulazione, si affacciava senza gloria in Parlamento. Fu per prima la Commissione « Pisapia », nel corso del triennio di sperimentazione del corpo codicistico, a redigere una Proposta di nuovo testo dell’art. 38 disp. att. (57). Il progetto contemplava la facoltà del difensore di documentare (o far documentare) le dichiarazioni rilasciate dalle persone informate e di depositare tale documentazione nel fascicolo del p.m. per l’udienza preliminare ovvero per il dibattimento. Veniva quindi delineato un regime di utilizzabilità differenziata a seconda della fase processuale ed in relazione al potere delle parti (58). L’apprezzabile proposta non ebbe seguito e non fu inclusa nel « pacchetto » approntato dalla Commissione nel settembre 1992 (59). Contestualmente, prendeva piede l’orientamento dottrinale volto a rivedere ed a rendere più accessibile l’istituto dell’incidente probatorio, ritenuto da molti inidoneo a garantire il diritto alla prova (60). Un’estensione del suo ambito di esperibilità — si argomentava — consentirebbe alla difesa di acquisire con una certa tempestività i dati in contraddittorio davanti ad un giudice terzo, preservando le fonti di prova da pericoli di dispersione, senza una sostanziale compromissione dell’oralità (61). (57) In relazione a tale proposta cfr. FRIGO, La formazione della prova nel dibattimento: dal modello originario al modello deformato, in Giur. it., 1993, 312. (58) Nell’udienza preliminare il giudice, con il consenso del p.m., avrebbe potuto utilizzare le dichiarazioni scritte per la decisione, mentre, in caso di dissenso, avrebbe potuto utilizzarle soltanto per l’esercizio del potere di integrazione probatoria, previsto dal primo comma dell’art. 422 c.p.p. Nel dibattimento, le parti avrebbero potuto utilizzare la documentazione per le contestazioni ai sensi dei commi 1, 2 e 3 dell’art. 500 c.p.p. (59) « Circolava, ormai, un messaggio di aperta ostilità verso le esigenze di un completamento della disciplina della funzione difensiva, che si diceva essere stata fin troppo soddisfatta da un codice eccessivamente garantista »: così FRIGO, Quale destino per l’indagine difensiva?, cit., 41. (60) A favore del potenziamento dell’istituto si sono espressi: TONINI, Note critiche sull’incidente probatorio, in Giusto proc., 1990, 412; FERRUA, Il giudice per le indagini preliminari, in Riv. dir. proc., 1995, 208; CRISTIANI, La via dell’incidente probatorio scongiura il processo segreto, in Il Sole 24 Ore, 20 giugno 1992, 16; FASSONE, La prova anticipata è genuina se non evita il contraddittorio, ivi, 27 giugno 1992, 16; QUAGLIERINI, op. cit., 2284; DE LALLA, Idee per un completamento istruttorio del giudice nelle indagini preliminari, in questa Rivista, 1994, 74; GIOSTRA, Intervento, in Il pubblico ministero oggi (Atti del 18o convegno di studio « Enrico de Nicola », Saint Vincent, 3-5 giugno 1994), Milano, 1994, 189. (61) Una autorevole ma parziale risposta a queste esigenze veniva fornita dalla Corte costituzionale la quale, come noto, ha esteso all’udienza preliminare l’ambito di applicabilità dell’incidente probatorio, riconoscendo espressamente che il diritto alla prova dev’essere tutelato anche prima del dibattimento: v. la sentenza n. 77 del 1994, in Cass. Pen. 1994, n. 1065, con nota di Macchia. Per un’approfondita analisi della portata di tale pronuncia sull’o-


— 139 — A partire dal 1993, all’interno delle proposte normative involgenti il diritto di difesa, si rafforzava la linea di tendenza volta ad integrare l’art. 38 disp. att. poi definitivamente accolta dal legislatore del 1995: sottrarre al filtro preventivo del p.m. quanto raccolto dal difensore durante le proprie indagini e legittimare la diretta presentazione al giudice dell’elemento a discarico (62). Intorno alla necessità di una inversione di rotta in tal senso si era finalmente formata una matura e produttiva presa di coscienza. L’Associazione Nazionale Magistrati, nel prendere posizione, suggeriva invece un meccanismo in base al quale, nell’ipotesi di rifiuto del p.m. di compiere l’atto richiesto dalla difesa, lo stesso p.m. debba trasmettere gli atti al g.i.p. con parere negativo e questi, ove dissenta, disponga l’effettuazione dell’atto da parte del p.m. ovvero, in alternativa, ammetta l’assunzione davanti a sè, con un procedimento simile a quello dell’incidente probatorio (63). L’idea di una soluzione ai problemi dell’indagine difensiva, attraverso peratività del diritto alla prova, cfr. TONINI, L’incidente probatorio nell’udienza preliminare: nuove prospettive per il diritto di difesa, in Cass. Pen., 1994, n. 1251. La Commissione « Pisapia », nell’ambito delle proposte di revisione del codice presentate nel 1992, suggeriva di modificare la disciplina dell’istituto in una triplice prospettiva: ampliamento dei presupposti applicativi, semplificazione della procedura e riconoscimento della facoltà di potervi fare ricorso anche dopo la chiusura delle indagini preliminari. L’intervento della Corte ha, quindi, risolto il problema dell’accesso alla prova nello spazio temporale che intercorre tra l’esercizio dell’azione penale ed il decreto che dispone il giudizio. Sono però necessarie ulteriori modifiche per rivitalizzare l’istituto: oltre a quelle evidenziate dalla Commissione ministeriale, è necessario consentire l’impugnazione dell’ordinanza con cui viene rigettata la richiesta. (62) Quantomai tormentato fu il susseguirsi di iniziative legislative sul punto: — il ministro Conso, con l’art. 8 del D.D.L. 1716/S presentato il 15 dicembre 1993, proponeva l’ampliamento dell’art. 38 disp. att. con l’aggiunta di due commi del seguente tenore: Il difensore della persona sottoposta alle indagini può presentare direttamente al giudice elementi che egli reputa rilevanti ai fini della decisione da adottare. La documentazione presentata al giudice è inserita nel fascicolo relativo agli atti di indagine in originale o in copia, se la persona sottoposta alle indagini ne richiede la restituzione (il progetto, contenente « Norme recanti modifiche al c.p.p. in tema di diritto di difesa » è pubblicato in Doc. guist., 1993, n. 12, 2247); — la proposta decadeva ma i due commi, pressochè immutati nella loro formulazione, venivano inseriti dal ministro Biondi nell’art. 13 del D.L. n. 440 presentato il 14 luglio 1994 recante « Modifiche al c.p.p. in tema di semplificazione dei procedimenti, misure cautelari e diritto di difesa » (pubblicato in Doc. giust., 1994, 1532); — in seguito alla sua mancata conversione i due commi venivano inseriti nell’art. 13 del D.D.L. presentato alla Camera il 14 luglio 1994 (se ne veda il testo in Doc. giust., 1994, 1531) e definitivamente tradotto in legge l’8 agosto 1995 (v. l’art. 22 della legge 332/95, pubblicata sulla G.U. n. 184 dell’8 agosto). (63) Così il punto 14 (relativo alla proposta di modifica dell’art. 38 disp. att.) del documento elaborato il 2 dicembre 1994 sul testo redatto dal Comitato parlamentare ristretto in materia di custodia cautelare, in La Magistratura, 1994, n. 3-4, inserto III. L’organo della magistratura sottolineava « la giusta esigenza di garantire alla difesa il


— 140 — un potenziamento della figura del g.i.p., trovava credito anche presso la dottrina più attenta (64). La linea di riforma legislativa ormai prevalente riceveva, invece, un pieno appoggio ed un costruttivo contributo da parte dell’Unione delle Camere penali, che predisponeva uno schema di disciplina generale per l’impiego dei risultati dell’investigazione difensiva (65). 9. (Segue) b) L’art. 22 della legge 8 agosto 1995 n. 332. — Senza voler fornire una meticolosa esegesi del riformulato art. 38 disp. att., è tuttavia essenziale metterne a fuoco alcuni aspetti di cui non si è sinora fatto cenno. L’art. 22 della legge 332/95, aggiungendo i commi 2-bis e 2-ter all’art. 38 disp. att. c.p.p., riproduce, con un’unica variante relativa ai titolari del potere di presentare gli elementi difensivi, la corrispondente disposizione novellatrice contemplata dall’art. 8 del già citato D.D.L. 1716/93, presentato nella legislatura precedente. In particolare, il comma 2-bis, innovando rispetto a quel progetto, contiene un espresso riferimento non solo al difensore dell’indagato, ma, altresì, a quello della persona offesa: in tal modo viene rispettata la ratio dell’art. 38 disp. att. che riguarda le facoltà dei difensori in genere. Il comma 2-ter, invece, fa esclusivo riferimento alla sola « persona sottoposta alle indagini », quasi a voler significare che una parte della nuova disciplina non si applichi alla persona offesa: trattasi in realtà — come diritto di far assumere gli elementi che ritiene rilevanti ai fini della decisione », censurando, invece, il modo con cui il legislatore intendeva realizzarla, posto che « la mancanza di garanzie pubblicistiche nell’atto di acquisizione di tali elementi impedisce di attribuire ad essi valenza diversa da quella di stimolo all’attività del p.m. ». (64) V., per tutti, NOBILI, ult. op. cit., 41, che assai efficacemente sintetizza i cinque punti intorno ai quali costruire il « nuovo g.i.p. », ovvero: a) revisione non superficiale dell’assetto complessivo della fase preliminare; b) ridefinizione delle competenze di tale giudice, in modo da dotarlo di poteri adeguati ed effettivamente idonei a soddisfare le varie esigenze probatorie immediate della difesa; c) suo mantenimento come organo destinato ad intervenire solo a domanda di parte, in modo da differenziarsi da un investigatore (e quindi dalla vecchia figura del giudice istruttore); d) riconoscimento del potere di rispondere a tali domande senza essere vincolato ad inconciliabili limiti temporali e di cognizione degli atti; e) chiara distinzione dalla figura del p.m. (65) V. art. 12 della Proposta di legge, cit. V. anche l’art. 19 della Proposta di legge, cit., che rende esplicita la possibilità di usare per le contestazioni (ai sensi dell’art. 500 c.p.p.) le dichiarazioni precedentemente rese dal teste al difensore, nonchè di subordinare la possibilità stessa alla previa discovery nei confronti delle altre parti. A tal fine si prevede l’inserimento della documentazione delle dichiarazioni in parola nel fascicolo del p.m.


— 141 — emerge dai lavori preparatori — solo di un mancato coordinamento formale tra i due commi (66). La parzialità e lacunosità della disciplina dell’indagine difensiva è dimostrata dalle scarne indicazioni fornite dal legislatore sul vero punto critico dell’intera materia: i modi ed i limiti di impiego e di efficacia, nelle diverse fasi del procedimento, della documentazione presentata dal difensore (67). Di conseguenza, gran parte delle questioni sollevate dalla classe forense non trovano certamente la loro soluzione in un testo che « anche per quel poco che dice si caratterizza per la sua opacità semantica » (68). La legge non precisa se gli « elementi » presentati rientrino nella categoria dei « documenti » o, viceversa, in quella degli « atti », ma chiarisce che il giudice li deve in ogni caso valutare. La nuova formulazione dell’art. 38 disp. att. richiede, inoltre, un’attenta valutazione circa la prescritta rilevanza « ai fini della decisione da adottare » degli elementi a discarico che il difensore è legittimato a presentare al giudice. Il punto è delicato. Il destinatario primo di tali elementi è indubbiamente il g.i.p., giudice ad acta chiamato ad intervenire solo su sollecitazione di parte. È altresì evidente l’interesse della difesa a presentare elementi a suo favore indipendentemente da una diretta funzionalità degli stessi ad una specifica decisione. Ci si chiede, quindi, se il testo normativo si presti ad una lettura in tal senso (69) ed, in caso di risposta negativa, (66) Per approfondimenti v. TONINI, sub art. 22, cit., 314. (67) Nei lavori preparatori dell’originario art. 38 disp. att., viceversa, si ritrovano alcuni tentativi di disciplinare la materia e di consentire l’impiego delle dichiarazioni scritte nell’ambito dell’esame dibattimentale di testi, periti, consulenti tecnici e parti. In particolare, si prevedeva che la difesa avrebbe potuto adoperare le menzionate dichiarazioni soltanto per la critica della prova assunta oralmente in giudizio ed a condizione che la relativa documentazione fosse stata depositata nel fascicolo del pubblico ministero, entro un dato termine anteriore all’inizio del dibattimento. Cfr. la proposta avanzata il 5 gennaio 1989 da FRIGO per la Commissione ministeriale in sede di redazione del progetto preliminare, nonchè quella del Consiglio Nazionale Forense datata 15 luglio 1989. La necessità di disciplinare la materia era stata in precedenza evidenziata da AMODIO in una « nota » del 23 dicembre 1988 per la Commissione. I relativi testi sono riportati da ERCOLANI, op. cit., 4, 6 e 17. (68) VOENA, op. cit. « Il vero è — osserva in conclusione l’autore — che, come risulta da più agganci letterali, il legislatore del 1995 mira a rafforzare la difesa nella fase delle indagini preliminari in rapporto all’adozione delle misure cautelari personali, non curandosi degli effetti che la novella è destinata a provocare sul sistema ». (69) In dottrina si tende a sottolineare come il dato letterale non lasci spazio a soluzioni alternative: « la deduzione dell’elemento è ammissibile solo in quanto funzionale ad un provvedimento decisorio prefigurabile e, per conseguenza, diretto ad un giudice investito del medesimo » (VOENA, op. cit.). Di conseguenza il difensore può pretendere che il giudice riceva gli elementi a discarico in sole due ipotesi: a) quando l’ordinamento lo abiliti a sollecitare la giurisdizione di un giudice attivabile all’interno della fase delle indagini preliminari;


— 142 — quale sia la sorte della documentazione comunque presentata, anche al di fuori dei limiti predetti (70). Quanto al destinatario della presentazione degli elementi a discarico, è indubbio che questi possa essere individuato non solo nel giudice, ma, altresì, nel p.m. (come indicato, del resto, dagli artt. 291 comma 1 e 292 comma 2 c.p.p.). La scelta tra i due — sottolinea certa dottrina — è di ordine « tattico » e verrà affrontata dalla difesa alla luce di precise circostanze (71). Alcuni interrogativi si addensano, poi, intorno ai margini di sindacato assegnabili al giudice destinatario degli elementi a discarico. È corretto affermare che l’organo giurisdizionale, in tale contesto, non possa svolgere alcun ruolo di controllo? Non risulta che gli sia consentito, ove la documentazione presentata dalla difesa desti perplessità, sia quanto a contenuto, sia per le modalità con le quali essa è stata formata, disporre ex officio l’assunzione degli elementi di prova ritenuti necessari (72). La verifica in ordine alla provenienza ed alla genuinità della documentazione a contenuto rappresentativo, mediante l’audizione del dichiarante, è contemplata dall’art. 239 c.p.p., norma congegnata per operare in un contesto — quello dibattimentale — funzionalmente aperto alle deposizioni orali e gestito da un giudice dotato di notevole autonomia istruttoria. Il differente ambito nel quale si collocano le facoltà attribuite al difenb) quando il p.m. abbia sollecitato il g.i.p. a prendere una decisione, semprechè alla difesa sia dato uno spazio per interloquire. Per approfondimenti v. anche PERONI, sub commento all’art. 22 della l. 332/95, cit. (70) Per colmare in via di esegesi logica la lacuna normativa, la dottrina più attenta ha suggerito una duplice possibilità: « se la documentazione è presentata dal difensore al giudice, senza alcun riferimento ad una specifica decisione da adottare (e senza che in effetti vi sia una decisione da adottare), essa, in quanto priva di un requisito di ammissibilità, dovrebbe essere restituita; se, viceversa, è presentata con un riferimento di quella specie, potrebbe sostenersi che debba essere trattenuta, in tutti i casi in cui la specifica decisione non sia attualmente da adottare, ma possa essere adottata in seguito, solo che sia avanzata una richiesta, anche se, nel difetto attuale di questa, il procedimento per tale decisione non sia avviato. Si tratterà, semmai, in questo caso di definire, in via di prassi o di disciplina normativa specifica, le modalità formali per rendere possibile il collegamento tra la documentazione presentata dal difensore, per così dire, in anticipo e la richiesta successiva ». Così FRIGO, L’art. 38 disp. att. dopo la legge 332: problemi irrisolti e nuove prospettive per l’indagine difensiva, in Dir. pen. e proc., 1995, n. 11. (71) Cfr. VOENA, op. cit., che individua alcuni fattori in grado di condizionare la scelta: in particolare, « la probabilità che il p.m. assuma l’informazione, la tenuta rispetto all’assunzione di inforrnazioni da parte del medesimo e la volontà di scongiurare la richiesta di applicazione di una misura cautelare ». (72) CONTI, La « radiografia » della nuova normativa su misure cautelari e diritto di difesa, in Guida al diritto-Il Sole 24 Ore, 1995, n. 33, 60.


— 143 — sore dall’art. 38 disp. att. porta ad escludere il ricorso ad una lettura estensiva dell’art. 239 c.p.p. (73). Ad ogni modo, il legislatore, legittimando l’inserimento della documentazione a discarico nel fascicolo relativo agli atti di indagine, ha, una volta per tutte, posto le premesse affinchè un qualche utilizzo processuale vi possa essere. Trattasi di una scelta di « politica processuale » significativa, che determina un ulteriore ridimensionamento dei principi dell’oralità e del contraddittorio. Il Parlarnento, infatti, per garantire una tendenziale simmetria tra poteri dell’accusa e della difesa nella fase delle indagini preliminari, avrebbe ben potuto adottare soluzioni differenti. Una prima strada consisteva nel recupero degli equilibri preesistenti alla l. 356/92 attraverso la revisione della disciplina delle contestazioni contenuta nell’art. 500 c.p.p. e la conseguente riduzione dell’efficacia probatoria degli atti extraprocessuali confezionati dal p.m. In alternativa si suggeriva il potenziamento del contraddittorio e del g.i.p. nella fase delle indagini preliminari: ciò è realizzabile consentendo la comunicazione diretta al giudice dei risultati dell’indagine difensiva, affinchè esso disponga l’assunzione delle prove utilizzabili per la decisione in contraddittorio fra le parti, seguendo, cioè, lo schema previsto per l’incidente probatorio (74). Il legislatore, privilegiando una terza via rispettosa della situazione quo ante, ha invece esteso alle indagini difensive l’efficacia probatoria conferita qualche anno prima agli atti del p.m. (75). Ciò comporta una forzatura della funzione tipica delle indagini preliminari a discapito della centralità del dibattimento quale luogo preposto alla formazione della prova. Si accresce, in tal modo, il numero delle prove formate unilateralmente e si relega il contraddittorio alla critica dei dati ormai cristallizzati (76). Il dibattito dottrinario, relativo alle vie percorribili per « introdurre in (73) Così PERONI, op. cit., che respinge con forza l’idea di un ruolo « meramente notarile » dell’organo giurisdizionale. (74) La via del potenziamento dell’incidente probatorio era caldeggiata da larga parte della dottrina: v. i richiami sub nota 60. (75) V. le modifiche all’art. 500 c.p.p. apportate dalla novella del 1992. Per un approfondimento circa l’efficacia probatoria della documentazione presentata dal difensore v. infra (paragrafo 15). (76) Così FERRUA, ult. op. cit., 206. Lo studioso esprimeva, già alla vigilia della legge 332/95, la sua preoccupazione per soluzioni di questo tipo che se « possono apparire accettabili sotto il profilo etico delle garanzie individuali, in quanto assicurano un certo equilibrio tra accusa e difesa (...), non lo sono sicuramente sotto il profilo epistemologico, perchè raddoppiano anzichè eliminare l’abuso ».


— 144 — aula » le prove raccolte dalla difesa, è sempre stato particolarmente acceso posto che la soluzione giurisprudenziale di ricorrere al « filtro » del p.m. non era risolutiva. Secondo una linea interpretativa (77), già prima della legge 8 agosto 1995 era possibile far confluire i documenti contenenti le dichiarazioni testimoniali raccolte dal difensore nel fascicolo del p.m., in vista di un loro eventuale utilizzo ex art. 500 c.p.p. Ciò alla stregua delle norme che regolano la formazione del fascicolo in oggetto (artt. 431 e 433 c.p.p.) ed, allo stesso tempo, di quelle relative alla produzione dei documenti nelle fasi anteriori al dibattimento (artt. 367 e 419 c.p.p.) (78). Tale interpretazione si esponeva — vista la formulazione dell’art. 367 c.p.p. — al limite temporale costituito dagli atti introduttivi dell’udienza preliminare (o, nel processo pretorile, dalla chiusura delle indagini preliminari), essendo difficile concepire l’inserimento o l’allegazione di alcunchè nel fascicolo del p.m. in un tempo successivo (79). L’art. 22 della legge n. 332 semplifica tutto, disponendo che la documentazione presentata dal difensore al giudice deve essere inserita nel « fascicolo relativo agli atti di indagine ». (77) CRISTIANI, Vademecum, cit., 81; FRIGO, Quale destino per l’indagine difensiva? cit., 37; ILLUMINATI, Giudizio, in AA.VV., Profili del nuovo c.p.p., a cura di Conso-Grevi, II ed., Padova, Cedam, 1991, 427; STEFANI-DI DONATO, L’investigazione privata, cit., 51. (78) L’art. 367 c.p.p. riconosce, infatti, ai difensori la facoltà di presentare al p.m. memorie e richieste scritte, alle quali potrebbero essere allegate dichiarazioni informative, redatte o sottoscritte da terzi, o registrazioni delle medesime; anche il g.i.p., in sede di udienza preliminare, può ricevere dei documenti, che devono essere ammessi prima dell’inizio della discussione (artt. 419, comma secondo e 421 comma terzo c.p.p.). Quanto alla formazione dei fascicoli, si sottolineava la funzione « residuale » di quello del p.m., in virtù del richiamo agli « atti diversi da quelli previsti dall’art. 431 c.c.p. » operato dall’art. 433 c.p.p. Si argomentava, quindi, che il termine « atti » avrebbe un significato lato, comprensivo di tutto ciò che è stato acquisito all’udienza preliminare, e quindi anche dei documenti ai quali si riferiscono espressamente gli artt. 419 comma secondo, 431 comma terzo e 367 c.p.p. E si concludeva affermando la conseguente possibilità di far confluire nel fascicolo del p.m. anche le dichiarazioni, le verbalizzazioni o le registrazioni raccolte dal difensore (a prescindere dalla loro configurabilità come documenti in senso stretto). (79) Questo limite non sembrava pregiudicare in toto la difesa, ove si consideri che neppure il p.m., nell’ambito dell’« attività integrativa di indagine » ex art. 430 c.p.p., potrebbe ricevere dichiarazioni informative da utilizzare per le contestazioni (tale attività essendogli consentita solo « ai fini delle proprie richieste al giudice del dibattimento »). Il condizionale è d’obbligo, di fronte a certe pronunce che, con disinvoltura, mirano al superamento di tale limite (v. Trib. Firenze, 21 dicembre 1993, Carbone, in Arch. n. proc. pen., 1994, 87 con nota di Ammannato). In dottrina si è anche dubitato che dal contemperamento tra gli artt. 367 c.p.p. e 38 disp. att. possa realmente ritenersi operante la preclusione temporale in questione: in tal senso v. RANDAZZO, Le indagini difensive nel sistema normativo, cit., 975. L’Autore invoca una « interpretazione ragionevolmente aperta » dell’art. 367 c.p.p., posto che « l’esegesi di una disposizione normativa deve essere effettuata anche con riguardo al contesto in cui è inserita ».


— 145 — Se, da un lato, trovandosi il fascicolo presso il il p.m., questi verrà inevitabilmente a conoscenza della documentazione presentata, dall’altro, nulla è disposto circa il termine entro cui l’adempimento deve avvenire. Inoltre ci si domanda se il p.m. debba comunque essere avvisato dell’avvenuto deposito presso la cancelleria del giudice. Nonostante le considerazioni in chiave di deontologia professionale svolte da autorevole dottrina (80), l’orientamento prevalente esclude che sul difensore gravi un simile obbligo, fuori dei casi in cui esso è espressamente imposto (come avviene in materia di richiesta di incidente probatorio ex art. 395 c.p.p.). 10. Indagine difensiva e misure cautelari personali: prime aperture giurisprudenziali. — Se la legge 332 del 1995 ha indubbiamente aperto la via per una reale operatività dell’art. 38 disp. att., altrettanto significative sono le innovazioni che la novella ha apportato nel campo delle misure cautelari personali. A ben vedere, però, prima del legislatore, era stata la giurisprudenza di legittimità a cercare di garantire, in tale settore, l’attuazione del diritto di difesa. Con riguardo all’utilizzazione dei frutti delle indagini difensive in sede di riesame delle ordinanze applicative di una misura coercitiva, la Corte di cassazione aveva mostrato come l’art. 38 potesse essere letto in maniera costruttiva e come le indagini difensive potessero avere una concreta valenza probatoria. Le prime pronunce di rilievo, sotto il profilo qui oggetto di analisi, risalgono al maggio del 1991. La Suprema Corte, raccordando il comma 9 con il comma 6 dell’art. 309 c.p.p., che facoltizza il ricorrente ad enunciare motivi nuovi davanti al giudice del riesame fino all’inizio della discussione, ricava il principio secondo cui accusa e difesa possono addurre prove, ivi comprese quelle documentali, nel corso della stessa udienza del riesame, utilizzando elementi acquisiti attraverso la rispettiva attività d’indagine espletata anche dopo l’adozione del provvedimento cautelare (81). « Una diversa impostazione — si legge nella motivazione — preferenziale delle acquisizioni pro(80) TONINI, ult. op. cit., 312: « La logica di un processo fondato sul principio dialettico impone che sia fornita alla controparte la conoscenza degli elementi che una parte presenta al giudice; il principio codificato in relazione ai documenti che sono presentati in dibattimento (art. 495 comma 3 c.p.p.) deve ritenersi esistente anche prima di tale momento quanto meno come norma deontologica che vincola il difensore ». (81) Sez. I, 2 maggio 1991, Mansueto, in Giur. it., 1993, 436 con nota di Barocci; Id., 2 maggio 1991, D’agui, ivi, 436. Nella seconda pronuncia si legge che, per una corretta interpretazione dell’art. 309 c.p.p., « l’intervento della difesa è essenziale al fine di consentire la più ampia ed effettiva possibilità di discolpa e di produzione di ogni atto utile a penalizzare gli elementi valorizzati dall’accusa quoad libertatem, in modo che il Tribunale (...) sia posto in condizione di avva-


— 146 — batorie fornite dal solo p.m., determinerebbe un palese squilibrio fra le parti, un grave pregiudizio per le ragioni difensive (...) e vanificherebbe la ratio del contraddittorio » (82). In questa stessa direzione continua a muoversi l’organo di legittimità, quando, un anno dopo, interviene nuovamente sul tema del materiale probatorio utilizzabile dal giudice del riesame (83). La Cassazione ritiene, infatti, che, a prescindere dalla disputa sulla natura di atti o di documenti, il giudice del riesame debba valutare le dichiarazioni scritte rilasciate dai potenziali testimoni al difensore, perchè le stesse rappresentano pur sempre « elementi » dai quali possono essere dedotte informazioni utili ai fini della decisione (84). Ancorchè limitato al campo delle misure cautelari, detto orientamento ha agito da elemento trainante per il diffondersi di una più matura coscienza delle esigenze che il diritto alla prova comporta. I principi affermati dalla Cassazione, con le decisioni richiamate, rappresentano un momento fondamentale nel difficile cammino verso un pieno e reale riconoscimento del diritto di « difendersi provando » anche nell’ambito delle indagini preliminari. In tal modo si dà atto di come, in ogni fase del procedimento penale, sia possibile e doveroso attuare la parità tra accusa e difesa attraverso un accorto riequilibrio dei rispettivi poteri, senza pretendere un’assoluta uguaglianza degli stessi (85). lersi dell’esito di un contraddittorio pieno e reale e cosi valutare prove rispecchianti al massimo la corrispondenza della realtà processuale a quella storica ». In senso sostanzialmente conforme, v. Sez. fer., 20 agosto 1991, Mercurio, in Cass. Pen. 1992, n. 1648, 3098 e Sez. I, 18 dicembre 1990, Scarcia, ivi, n. 86. Sul punto cfr. anche Sez. I, 29 gennaio 1990, De Ruvo, in Arch. n. proc. pen., 1990, 567. (82) Sez. I, 2 maggio 1991, Mansueto, cit., 436. La stessa Corte, tuttavia, non si è dimostrata del tutto coerente nel seguire la via interpretativa intrapresa con la pronuncia del 1991: tre anni dopo, infatti, pronunciandosi sempre sulla diretta utilizzabilità come prova delle indagini difensive, ha « riabilitato » l’originario orientamento di chiusura, affermando che « gli elementi di prova da utilizzare nella fase delle indagini preliminari, anche ai fini cautelari, devono essere assunti dal p.m. » (Sez. I, 16 marzo 1994, cit.). (83) Sez. I, 5 giugno 1992, Padovani, in Cass. Pen., 1994, 971, con nota di Randazzo. « Il giudizio di riesame — si legge nella sentenza —, proprio perchè predisposto al controllo di merito e di legittimità della custodia cautelare, deve utilizzare tutti gli elementi addotti dalle parti, senza che possa consentirsi interpretazione diversa e restrittiva del più volte citato comma 9 dell’art. 309 ». S’inquadra in questo filone giurisprudenziale un’altra decisione, che correttamente dichiara utilizzabile, in sede di riesame, anche la consulenza tecnica prodotta dalla difesa: v. Sez. I, 11 gennaio 1993, Mauriello, in Cass. Pen., 1994, 968, 566. (84) « Ove dovesse ammettersi che, degli elementi di difesa, possono ottenere valutazione solo quelli inquadrabili nella categoria dei documenti, rimarrebbe fortemente limitata, nella sua significazione tecnico-giuridica, l’espressione ‘elementi’ usata dal legislatore, con l’irragionevole risultato di privilegiare, sul piano dimostrativo della circostanza rappresentata, soltanto quel tipo di prova »: così, Sez. I, 5 giugno 1992, Padovani, cit., 972. (85) Cfr. LIBERINI, op. cit., 327.


— 147 — Il legislatore del 1995 si è, in seguito, reso interprete di simili esigenze, cercando — con i ventotto articoli della legge n. 332 dell’8 agosto — di dare al nostro processo un assetto più equilibrato. 11. (Segue) Le innovazioni introdotte dagli artt. 8, 9, 10, 16 della legge 8 agosto 1995 n. 332. — La Cassazione, pronunciandosi sull’art. 309 c.p.p., ha sottolineato come la condotta e le valutazioni del giudice del riesame, in assenza di precise disposizioni a garanzia dei diritti della difesa, possano vanificare la ricerca e la documentazione della prova a discarico: viene in tal modo messa a nudo quella che, fino al 1995, era una rilevante lacuna della legislazione sulle misure cautelari. La Corte è entrata nel merito dell’art. 309 c.p.p., ma considerazioni analoghe possono essere svolte anche in relazione all’art. 291 c.p.p. In sintesi: la legge non dava garanzia al difensore che il p.m. sottoponesse, all’attenzione del giudice chiamato a pronunciarsi sulla misura cautelare, tutti gli elementi probatori a discarico (anche successivi all’applicazione della misura), fossero questi frutto di accertamenti svolti dal p.m. ex art. 358 c.p.p. ovvero dal difensore ex art. 38 disp. att. La questione è delicata: è evidente come in questa fase, dove è in gioco la libertà personale dell’imputato, la difesa non possa vedersi negato (e neanche limitato) il diritto alla produzione (e, pertanto, alla valutazione da parte del giudice) degli elementi probatori a discarico. La valutazione dei risultati dell’indagine difensiva non è certamente un’attività eventuale o discrezionale. Era necessario, di conseguenza, che questa venisse garantita a livello legislativo, posto che gli interessi in gioco non potevano di certo essere tutelati attraverso una mera esegesi giurisprudenziale, ancorchè evolutiva, delle norme esistenti. Il legislatore del 1995, con la legge n. 332, ha fornito una soluzione alle esigenze evidenziate, in risposta a quanti lamentavano un uso distorto e poco garantito della custodia cautelare: rilevanti, sul punto, sono le modifiche apportate agli artt. 291, 292, 293 e 309 c.p.p. Con la nuova formulazione del primo comma dell’art. 291 c.p.p., si impone al p.m. di trasmettere al giudice, con la richiesta di applicazione di una misura cautelare, non solo gli elementi che ne costituiscono il fondamento, ma anche quelli « a favore dell’imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate » (86). L’art. 8 della legge 332, abrogando altresì il comma 1-bis dell’art. (86) L’art. 2 del D.D.L. 1716/S, presentato il 15 dicembre 1993 dal ministro Conso, riformulava il primo comma dell’art. 291 c.p.p. nei seguenti termini: « Le misure sono disposte su richiesta del p.m., che presenta al giudice competente ogni elemento rilevante ai fini della decisione e le memorie difensive ». Nella Relazione al progetto (in Doc. giust., 1993, n. 12, 2250) si legge: « La scelta adottata, che senz’altro rappresenta solo una delle possibili soluzioni, chiarisce quale sia il dovere di documentazione a carico del pubblico ministero,


— 148 — 291 c.p.p., mira al rafforzamento dei poteri del g.i.p. in materia de libertate, cercando di sottrarlo alla subalternità cognitiva e decisoria verso il p.m. richiedente (87). Come opportunamente sottolineato in dottrina, la piena garanzia in materia di misure restrittive della libertà personale può essere offerta solo da una completa conoscenza, da parte del giudice, degli atti di indagine del p.m., nonchè degli atti e delle ragioni della difesa. Un tale obiettivo comporterebbe un’attenta riscrittura del procedimento incidentale de libertate, anche per limitare l’ormai generalizzato ed incontrollato ricorso al Tribunale del riesame, troppo spesso finalizzato unicamente a costringere il p.m. ad una intempestiva discovery, con il rischio non secondario di pregiudicare l’esito delle indagini (88). Il legislatore non ha optato per questa soluzione, imboccando, invece, la via del compromesso che vede il p.m. chiamato ad un’opera di « selezione » degli elementi probatori da presentare al giudice. L’organo dell’accusa deve quindi adottare criteri e parametri selettivi, la cui individuazione non può certo dirsi agevole. È indubbio che egli possa incontrare non pochi problemi, anche di natura temporale, nel discernere gli elementi a favore dell’imputato, con la prevedibile conseguenza pratica della trasmissione al giudice dell’intero fascicolo delle indagini (89). La nuova formulazione dell’art. 291 c.p.p. richiede, quindi, alcune puntualizzazioni. amplia le teoriche possibilità di contraddittorio (attraverso l’invio delle eventuali memorie difensive) e, in definitiva, rafforza il ruolo del giudice per le indagini preliminari ». Cosi, invece, l’art. 3 del D.L. « Biondi » n. 440 del luglio 1994: « Le misure sono disposte su richiesta del p.m., che presenta al giudice competente gli elementi su cui la richiesta si fonda e le memorie difensive ». (87) Il comma 1-bis dell’art. 291 era stato introdotto dall’art 12 del D. Lgs. 14 gennaio 1991 n. 12, su conforme parere della apposita Commissione bicamerale. Come noto, in virtù di tale disposto, il p.m. aveva il potere di vincolare il g.i.p. alla propria richiesta, impedendogli di disporre misure meno gravi di quella ivi indicata. Questo limite decisorio indeboliva inevitabilmente il significato dell’intervento giurisdizionale: il g.i.p. era posto di fronte all’alternativa secca di applicare la misura richiesta (anche se la riteneva inadeguata per eccesso o sproporzionata) ovvero di non applicare misura alcuna. Si tendeva, in tal modo, a preservare la terzietà del g.i.p., evitando che questi si sentisse impropriamente onerato di compiti istruttori. La disposizione non è stata ritenuta compatibile con la strategia generale della legge 332/95, che persegue il potenziamento e la valorizzazione di questa figura processuale. Il sistema ritorna così ai suoi originari equilibri: il giudice è libero nel decidere l’applicazione della misura cautelare in base ai criteri stabiliti dall’art. 275 c.p.p., con il solo limite, discendente dal principio della domanda, di non poter disporre una misura più grave di quella richiesta. La dottrina ha prontamente sottolineato l’opportunità della modifica apportata dalla legge 332/95: v., per tutti, LOZZI, op. cit., 230. (88) Cfr. GIOSTRA, sub art. 8, in AA.VV., Modifiche al c.p.p., cit., 121. (89) Nella versione originaria dell’art. 8, per il caso di inosservanza anche solo parziale dell’obbligo di trasmissione, era prevista la sanzione della nullità assoluta della richie-


— 149 — A ben vedere, all’interno degli « elementi a favore dell’imputato » vanno ricondotti sia gli elementi a discarico raccolti dal p.m. ai sensi dell’art. 358 c.p.p., sia quelli provenienti direttamente dalla difesa, ancorchè non qualificabili come deduzioni o memorie. Alla luce del nuovo disposto dell’art. 38 disp. att. non si può infatti escludere che al momento di richiedere la misura cautelare il p.m. abbia nel proprio fascicolo atti dell’indagine difensiva, prodotti in vista di qualche precedente decisione giudiziale (incidente probatorio, sequestro ex art. 368 c.p.p., proroga delle indagini, ecc.). In una simile eventualità il p.m. dovrà, ovviamente, allegare anche tali atti alla propria richiesta (90). È poi evidente che la ratio della norma è consentire al giudice di venire a conoscenza di ogni elemento rilevante in ordine alla applicabilità o meno della misura cautelare: tra gli « elementi a favore dell’imputato » è necessario, di conseguenza, considerare non soltanto quelli a discarico, bensì anche quelli che potrebbero indurre il giudice a non disporre la misura richiesta o a disporne una meno grave (91). Pure in questa circostanza non sarà sempre agevole per il p.m. selezionare il materiale da presentare al giudice, molteplici essendo le chiavi di lettura di un medesimo atto: ciò potrebbe nuovamente indurre il p.m. a trasmettere al giudice l’intero fascicolo delle indagini. In conclusione, il novellato art. 291 c.p.p. tende ad offrire garanzie al difensore che può operare nella fase delle indagini preliminari con la consapevolezza che l’eventuale elemento probatorio a discarico, da lui rinvenuto e documentato, sarà presentato dal p.m. al giudice de libertate. Quest’ultimo, dal canto suo, dovrà valutare attentamente gli elementi a difesa: di tale giudizio (e quindi dell’eventuale loro irrilevanza) dovrà poi dar conto nella motivazione del provvedimento che dispone la misura cautelare. L’art. 9 della legge 332/95 ha infatti modificato l’art. 292 c.p.p., introducendo un nuovo requisito per l’ordinanza in oggetto: essa, ai sensi del comma 2 lett. c-bis, deve contenere — « a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio » — « l’esposizione dei motivi per i quali sono stati ritenuti sta. In sede di approvazione, tuttavia, si preferì « sacrificare » tale disposto a vantaggio del comma 2-ter dell’art. 292 c.p.p., relativo all’ordinanza del giudice. (90) In tal senso GIOSTRA, ult. op. cit., 124. (91) È da ritenersi che l’espressione normativa sia non a caso generica, volendo prevedere l’obbligo di portare a conoscenza dell’organo giudicante, oltre ai dati in grado di incidere favorevolmente sul tipo di responsabilità dell’imputato (gravità degli indizi e qualificazione del fatto), tutte quelle informazioni che possono rilevare in ordine all’accertamento delle esigenze cautelari. Quindi anche quegli « atti a carico » che pur dimostrando o aggravando la responsabilità del soggetto, attestano, nel contempo, l’insussistenza o l’attenuazione del periculum libertatis evocato dal p.m. nella richiesta (si pensi a un documento compromettente per l’imputato, ma la cui avvenuta acquisizione esclude ogni possibilità di inquinamento del quadro probatorio da parte di quest’ultimo) » (GIOSTRA, ult. op. cit., 126).


— 150 — non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa, nonchè, in caso di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, l’esposizione delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’art. 274 non possono essere soddisfatte con altre misure » (92). La norma si colloca sulla falsa riga di quanto disposto, con riferimento alla sentenza, dall’art. 546 comma 1 lett. e; la sua ratio è quella di obbligare il giudice a valutare, indicandone per iscritto criteri e risultati, tutti gli elementi a favore dell’imputato che il p.m., ai sensi dell’art. 291 c.p.p., è tenuto a trasmettergli con la richiesta della misura cautelare. Il Parlamento non ha però trasfuso i propri propositi in un disposto normativo coerente. Così la lettera del citato comma 2 lett. c-bis se, da un lato, rafforza il disposto dell’art. 291 c.p.p., dall’altro se ne discosta, in quanto fa menzione dei soli « elementi forniti dalla difesa »: ciò potrebbe indurre l’interprete in errore, in quanto sembrerebbe che non sia richiesto l’obbligo della motivazione in ordine alla rilevanza probatoria degli elementi a favore dell’imputato, eventualmente raccolti dal p.m. e trasmessi al g.i.p. Senonchè, il successivo comma 2-ter fa riferimento alla necessità che nell’ordinanza risulti la valutazione « degli elementi a carico e a favore dell’imputato, di cui all’art. 358, nonchè all’art. 38 disp. att. » (93). L’imprecisione e l’approssimazione del legislatore, distratto evidentemente dall’acceso dibattito politico che ha accompagnato l’intero iter della legge, sono evidenti e riprovevoli (94). (92) Il nuovo art. 292 c.p.p. ha infatti modificato i requisiti dell’ordinanza che dispone la misura cautelare, imponendo al giudice un rigoroso controllo di tutte le condizioni di applicabilità, delle esigenze cautelari, dei principi fondamentali di adeguatezza e proporzionalità; e ciò alla stregua di tutti gli elementi messi a sua disposizione, compresi quelli favorevoli all’imputato. (93) Anche questa disposizione si presta ad alcuni rilievi critici. In primo luogo, il suo contenuto normativo nulla aggiunge a quanto già disposto dalle lettere c) e c-bis) del comma 2 (interpretate seguendo la ratio generale della norma). In secondo luogo, il disattento legislatore ne ha sanzionato l’inosservanza a pena di nullità (pura e semplice), prevedendo invece l’anomala nullità rilevabile d’ufficio per l’inosservanza delle disposizioni di cui al comma 2. Le ripetizioni sostanziali e le incongruenze evidenziate troverebbero « causa » nella fretta e nella necessità di addivenire a certi compromessi che hanno caratterizzato i lavori della Camera: ciò emerge dal confronto delle due diverse stesure dell’articolo in oggetto. Per approfondimenti v. FRIGO, sub commento all’art. 9 della legge 332/95, in Il Sole 24 Ore-La riforma della custodia cautelare, 4 agosto 1995, 10. Cfr., anche, le osservazioni avanzate da LOZZI, op. cit., 231. (94) Il punto è approfondito da GIOSTRA, sub art. 9, in AA.VV., Modifiche al c.p.p., cit., 138: egli conclude sottolineando che « di fronte ad una sintassi giuridica così gravemente scompaginata, al frastornato interprete non resta che cercare di individuare (...) la volontà legislativa (...), conviene evitare di assegnare significato tecnico alle differenze lessicali e contenutistiche riscontrabili nelle due nuove disposizioni, se si vogliono scongiurare effetti di disorientamento applicativo ».


— 151 — Non da ultimo, l’analisi del combinato disposto degli artt. 291 e 292 c.p.p. evidenzia il disinteresse normativo per l’ipotesi di omessa trasmissione al giudice degli elementi a discarico in mano alla pubblica accusa. Così, se da un lato è prevista una espressa sanzione per l’ordinanza cautelare che non contiene la valutazione di anche un solo elemento a favore dell’imputato, dall’altro nulla è disposto ove l’ordinanza sia motivata sulla base dei soli elementi a carico, sebbene il p.m. abbia omesso di allegare tutti quelli a discarico. È inevitabile chiedersi come possa muoversi il difensore di fronte al provvedimento restrittivo disposto dal giudice al quale un p.m., quantomai disinvolto, ha illegittimamente precluso la conoscenza di elementi a discarico. Inopportuna appare quindi la scelta del legislatore di non includere nell’art. 292 c.p.p. quella sanzione processuale viceversa contemplata nelle prime versioni del comma 2-ter presentate in Parlamento (95). È invece apprezzabile la modifica apportata all’articolo 293 comma 3 c.p.p., che consente al difensore una tempestiva conoscenza, non solo, come accadeva sino ad oggi, del provvedimento restrittivo eseguito o notificato, ma, anche degli atti su cui si sorregge la richiesta del p.m. che vanno depositati unitamente ad essa. Solo così risulta pienamente garantito l’esercizio del diritto di difesa ai fini delle eventuali impugnazioni: queste, prima della legge n. 332, erano proposte sulla base della sola ordinanza e spesso, anzi, accadeva che lo fossero « al solo scopo di poter avere cognizione degli atti » (96). A seguito della novella, il difensore può decidere se chiedere o meno il riesame, potendo confrontare il contenuto del provvedimento con gli atti su cui esso si fonda. Ed eccoci all’art. 309 c.p.p. in relazione al quale si erano registrate le prime aperture giurisprudenziali verso un utilizzo, da parte del giudice del riesame, degli elementi a discarico rinvenuti e documentati dalla difesa (97). L’articolo è stato modificato in modo rilevante dalla legge n. 332. (95) La formulazione originaria del comma 2-ter prevedeva la nullità dell’ordinanza cautelare per il caso in cui la richiesta del p.m. non contenesse « gli elementi a favore della persona nei cui confronti essa era disposta indicati nel comma 1 dell’art. 291 ». Il mancato inserimento della sanzione di nullita nel testo definitivo sottrae la scorretta condotta del p.m. a qualsiasi conseguenza processuale. Si potranno eventualmente prospettare conseguenze disciplinari: l’art. 13 del Codice etico della magistratura ordinaria, cit., prevede, infatti, che il p.m. « indirizzi la sua indagine alla ricerca della verità acquisendo anche gli elementi di prova a favore dell’imputato e non taccia al giudice l’esistenza di fatti a vantaggio dell’imputato o dell’indagato ». (96) FRIGO, sub commento all’art. 10 della legge 332/95, in Il Sole 24 Ore-La riforma della custodia cautelare, cit., 12. (97) Per un quadro dei problemi sollevati dalla disciplina dei gravami nei confronti


— 152 — In particolare, e per quel che concerne la nostra analisi, la novella ha individuato gli atti di cui il giudice deve essere in possesso ai fini della decisione ed ha fissato il termine massimo entro il quale la trasmissione degli atti deve essere effettuata (98). È infatti disposto che l’autorità giudiziaria procedente, avvertita dal presidente del Tribunale del riesame, entro il giorno successivo e comunque non oltre il quinto giorno, debba trasmettere gli atti presentati a norma dell’art. 291 c.p.p., nonchè tutti gli elementi sopravvenuti favorevoli alla persona indagata (99). Non viene invece chiarito se il p.m. possa integrare la documentazione d’accusa, non tanto con il materiale sopravvenuto, quanto, piuttosto, con quello preesistente e non introdotto con la richiesta di cui all’art. 291 c.p.p. (100). 12. Impiego ed efficacia delle dichiarazioni scritte raccolte dal difensore: gli orientamenti della dottrina anteriori alla legge 332/95. — L’assenza di una esplicita indicazione normativa circa il valore probatorio delle dichiarazioni scritte raccolte dalla difesa ha comportato il diffondersi di opinioni divergenti. Il dibattito si è sviluppato attorno a due aspetti: la controversa natura documentale delle dichiarazioni de quo ed, in secondo luogo, la loro funzione ed efficacia probatoria. Un primo orientamento considera le dichiarazioni raccolte dalla difesa alla stregua di un qualsiasi altro documento richiamato dall’art. 234 c.p.p. e, di conseguenza, non vede ostacoli ad una loro produzione, acquisizione ed utilizzo nel processo come prova documentale: fatta salva, ovviamente, la facoltà del giudice di verificarne la veridicità e di valutarne l’efficacia ai fini del proprio convincimento (101). Sul versante opposto si schierano coloro che contestano la possibilità dei provvedimenti de libertate v. CERESA GASTALDO, Il riesame delle misure coercitive nel processo penale, Milano, 1993. (98) « Se il tribunale della libertà decide senza previa acquisizione degli atti o in conseguenza di una acquisizione incompleta, deve ritenersi che la decisione sia nulla e che la nullità ravvisabile integri una nullità di tertium genus: la violazione dell’art. 309 comma 5 c.p.p. appare infatti riconducibile all’art. 178 comma 1 lettera c dal momento che la trasmissione completa degli atti è indispensabile per assicurare il diritto di difesa inteso come contraddittorio »: così LOZZI, op. cit., 241. (99) Nel progetto preliminare si prevedeva l’obbligo per l’autorità procedente di trasmettere al Tribunale della libertà tutti gli atti del procedimento: tuttavia tale previsione non venne mantenuta al fine di evitare una anticipata discovery delle indagini preliminari. (100) SPANGHER, sub commento all’art. 16 della legge 332/95, in AA.VV, Modifiche al c.p.p.. cit., 228, al quale si rimanda per un’approfondita analisi delle innovazioni apportate e delle problematiche sollevate dalla norma in questione. (101) La tesi è sostenuta da DOMINIONI, op. cit., 28; FRANCHINI, op. cit., 4291; DELLA SALA, Il potere di indagine preliminare del difensore, in Crit. dir., 1991, fasc. 3, 33 ed ERCO-


— 153 — di introdurre in dibattimento, in qualità di documento, gli scritti contenenti enunciati descrittivi. All’interno di tale orientamento si delineano diverse sfumature. Sulla scia della giurisprudenza maggioritaria in tema di sbocco delle indagini difensive, alcuni negano che le dichiarazioni scritte de quo possano assumere un qualsiasi valore processuale: esse non sarebbero utilizzabili nemmeno ai fini « contestativi » ed avrebbero « natura interna all’attività della difesa quale mera documentazione della stessa » (102). Secondo altra dottrina, i documenti scritti aventi contenuto dichiarativo andrebbero incontro ad un « divieto implicito di acquisizione », che deriverebbe « dal sistema ». Ciò in quanto « non è possibile utilizzare un documento, implicante una dichiarazione di scienza, nel suo contenuto testimoniale (come documento rappresentativo di un fatto), ma è possibile utilizzarlo come evento storico (per dimostrare che un soggetto sapeva scrivere, era in vita, si trovava in una certa città e così via). Quando, invece, assume rilevanza direttamente ed immediatamente l’oggetto della dichiarazione, si esula dall’ambito dell’acquisizione documentale » (103). Si sostiene così che, anche ove si voglia riconoscere alle dichiarazioni un residuo valore dimostrativo per ciò che concerne il fatto estrinseco della dichiarazione, resterebbe comunque escluso un qualsiasi utilizzo per le contestazioni dibattimentali in quanto i documenti in questione non possono essere inseriti nel fascicolo del p.m. LANI, op. cit., 29, secondo cui « la dichiarazione raccolta dalla difesa di una parte privata è

un mero documento (...) che dovrà essere liberamente valutato al pari di qualsiasi altro documento previsto dall’art. 234 c.p.p.; la sua acquisizione non può in alcun modo alterare la centralità del dibattimento ». Contra, Gip Milano, 13 novembre 1990, Bentacor, in Crit. dir., 1991, fasc. 3, 31 che esclude che l’art. 38 disp. att. abbia introdotto il potere, per il difensore, di documentare le dichiarazioni e di introdurle nel processo « per la valutazione del g.i.p. e addirittura, in prospettiva, per il giudizio allo stato degli atti ». (102) FREDAS, op. cit., 228: nel codice — si argomenta — manca una previsione specifica in senso contrario, così come non si rinviene alcun riferimento ad un inserimento delle dichiarazioni nel fascicolo del p.m.; infine, si fa osservare come non sia previsto un fascicolo della difesa. Nello stesso senso: FERRUA, Imputato e difensore nel nuovo processo penale, in Studi sul processo penale. Torino, Giappichelli, 1990, 42; PANAGIA, op. cit., 1251. Alla luce dell’integrazione all’art. 38 disp. att., operata dalla l. 332/95, tale posizione risulta superata. (103) SQUASSONI, sub art. 234 c.p.p., in Commento al nuovo c.p.p., a cura di Chiavario, cit., 647. Nello stesso senso: NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, Milano, Giuffrè, 1995, 263, che ribadisce come « i documenti rappresentativi di dichiarazioni rilasciate ai fini del procedimento non saranno acquisibili, per difetto di rilevanza, dato che potrebbero essere utilizzati soltanto per dimostrare che la dichiarazione vi è stata ». La tesi è contrastata da CALAMANDREI, I documenti in senso stretto nell’ottica del codice del 1988, in Giust. Pen., 1992, III, 477 e da ERCOLANI, op. cit., 28.


— 154 — Quest’ultima conclusione (oggi in contrasto con il nuovo art. 38) è avversata con decisione dalla dottrina maggioritaria la quale, se riconosce che le dichiarazioni documentate dalla difesa non possono fare prova dei fatti rappresentati, legittima, peraltro, un loro utilizzo ai fini contestativi ex art. 500 c.p.p., previo inserimento nel fascicolo del p.m. (104). La dottrina ha poi indicato una seconda strada « intermedia », invocando il ricorso all’integrazione analogica: ciò consentirebbe di estendere alla prova documentale le norme previste per la prova orale, che non siano peculiari di quel mezzo. In assenza di norme che ne limitino espressamente il valore probatorio — questo il punto — la dichiarazione scritta che intenda costituire prova del fatto rappresentato, si presenterebbe nel processo in modo simile ad una testimonianza indiretta (art. 195 c.p.p.), con conseguente assoggettamento, in via analogica, alla medesima disciplina (105). 13. (Segue) Principio di oralità ed utilizzo delle dichiarazioni extradibattimentali. — Come traspare dagli orientamenti dottrinari sopra riferiti, l’eventuale utilizzo nel processo di quanto documentato nel corso delle indagini preliminari pone dei problemi di compatibilità e di adattamento con gli schemi del rito accusatorio, che vede nel dibattimento il luogo naturale per la formazione della prova. Si tratta, quindi, di analizzare come possano conciliarsi all’interno del processo adversary il principio di oralità e la lettura di acquisizioni (104) Propendono per tale soluzione: CRISTIANI, ult. op. cit., 81 e Misure cautelari e diritto di difesa, cit., 118; ILLUMINATI, op. cit., 427; FRIGO, Il difensore, cit., 588; PECORELLA, La deontologia del nuovo avvocato, cit., 1359; LUPO, Il principio della separazione delle fasi, in Cass. pen., 1993, 1576; STEFANI-DI DONATO, ult. op. cit., 47; RANDAZZO, ult. op. cit., 981; PAGLIUCA, op. cit., 21; KOSTORIS, I consulenti tecnici nel processo penale, Milano, 1993, 291; RUGGERI, op. cit., 118; ZANCAN, Problemi della difesa con particolare riferimento ai profili delle investigazioni private, in Quad. C.S.M., 1990, n. 32, 89; AVANZINI, L’esame dibattimentale delle fonti di prova personale, in AA.VV., La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di Ubertis, Milano, 1992, 76; CONSO-GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, Padova, Cedam, 1993, 495; LOZZI, op. cit., 205. (105) In particolare, il documento contenente dichiarazioni scritte sarebbe utilizzabile ove siano rispettate due condizioni: l’autore della dichiarazione è individuabile (art. 195 comma 7) e — dietro richiesta di una parte o su disposizione del giudice d’ufficio (art. 195 comma 1 e 2) — viene chiamato a deporre. « Quando il dichiarante, chiamato a deporre, modifichi la versione dei fatti, quanto è contenuto nel documento scritto ha lo stesso valore della testimonianza indiretta; e cioè vale come prova, non solo della credibilità, ma anche del fatto rappresentato. Spetta al giudice valutare l’attendibilità e credibilità sia della dichiarazione scritta, sia della deposizione orale, sulla base dell’esame incrociato che le parti avranno effettuato » (TONINI, Il valore probatorio, cit., 2218). La tesi è, altresì, sostenuta, con sfumature diverse, da TURCO, Il valore probatorio nel dibattimento dei documenti contenenti dichiarazioni scritte, in Riv. pen., 1992, 819; CALAMANDREI, op. cit., 482; per un inquadramento più ampio v. Ead., La prova documentale, Padova, Cedam, 1995. Contra SCELLA, op. cit., 1179 e LOZZI, op. cit., 204.


— 155 — predibattimentali; come possano convivere la testimonianza resa oralmente in aula nel contraddittorio delle parti, con l’utilizzo delle dichiarazioni raccolte unilateralmente da una parte ai fini del procedimento, ma senza l’assistenza di certe garanzie. Sul punto, un’autorevole dottrina ha sostenuto che i documenti contenenti dichiarazioni potrebbero essere utilizzati soltanto ove non contrastino con il principio di oralità, il che si configurerebbe quando è ancora possibile che nel processo si formi oralmente la dichiarazione, attraverso la deposizione del testimone a viva voce (106). La tesi sembra spingersi troppo avanti, in quanto è bene non esasperare la portata di certe regole sulle quali è incentrato il sistema processuale di stampo accusatorio. Il principio di oralità richiede che il teste sia sentito (ed esaminato dalle parti contrapposte) in dibattimento, ma non può portare a negare rilevanza giuridica a quanto avvenuto in precedenza (107); « l’oralità non può costituire un mito al quale si debbano sacrificare le esigenze della realtà e le necessità di accertamento della verità storica » (108). Ciò non deve creare allarmismi ove si consideri che fu proprio la Corte costituzionale, con le note prese di posizione del 1992, ad evidenziare come tale principio ispiratore dell’adversary sistem non possa essere accolto in modo assoluto (109). Non da ultimo, l’esperienza comparatistica dimostra come il processo penale non possa rinunciare alla utilizzabilità probatoria, sia pure limitata, delle dichiarazioni rese fuori dal dibattimento (110). (106) UBERTIS, Documenti e oralità nel nuovo processo penale, in AA.VV., Studi in onore di Giuliano Vassalli, II, Milano, Giuffrè, 1991. Secondo tale tesi il ricorso ai documenti con contenuto dichiarativo verrebbe circoscritto ai casi in cui le dichiarazioni stesse non siano ripetibili: la funzione da loro svolta sarebbe così autonoma rispetto alla prova orale. (107) L’art. 526 c.p.p., limitando la cognizione del giudice non alle prove assunte oralmente, bensì a quelle « legittimamente acquisite nel dibattimento », evidenzia come i documenti ammessi in giudizio siano compatibili con il principio di oralità. (108) TONINI, ult. op. cit., 2217. In termini analoghi TURCO, op. cit., 820: « la normativa in materia di prova documentale non costituisce deroga al principio dell’oralità, bensì tende a dare completezza al sistema processuale, assegnando rilevanza giuridica a quanto avvenuto prima del dibattimento ». (109) V. le sentenze 24/92, 254/92 e, in particolare, 255/92, che afferma il principio della ricerca della verità materiale, verita che tende « ad inglobare nel conoscere giudiziale ogni informazione disponibile » (IACOVIELLO, Prova e accertamento del fatto nel processo penale riformato dalla Corte costituzionale, in Cass. Pen., 1992, 2029, m. 1073). Per commenti ed osservazioni sulla portata delle sentenze richiamate v. le indicazioni sub nota 56. Del resto, è noto come nessun ordinamento applichi il modello accusatorio in modo rigoroso: sul punto v. ILLUMINATI, Accusatorio ed inquisitorio (sistema), in Enc. giur., vol. I, Roma, 1988, 1. (110) Il contrasto tra il principio di oralità e la lettura delle acquisizioni predibatti-


— 156 — 14. (Segue) La controversa natura documentale delle dichiarazioni scritte rilasciate al difensore. — La dichiarazione scritta rilasciata al difensore dalla persona informata sui fatti, può essere considerata alla stregua di un documento, in quanto rientra nella definizione legislativa, dottrinale e giurisprudenziale che dello stesso è correntemente fornita (111). Dall’art. 234 c.p.p. emerge una nozione estremamente ampia di prova documentale, in quanto la norma fa riferimento alla rappresentazione di « fatti, persone o cose » e ne postula solo l’incorporamento su di una qualsiasi base materiale (112). La Corte costituzionale ha escluso che il codice ponga una qualche distinzione tra documenti dichiarativi e non dichiarativi (113). mentali è particolarmente acceso anche nel sistema processuale statunitense ed in quello inglese. È da questi sistemi che sono state tratte le due regole codificate nell’originario art. 500 del codice Vassalli, a detta del quale le precedenti dichiarazioni contestate al testimone potevano essere utilizzate non come prova del fatto rappresentato, ma come prova della credibilità del dichiarante. Si era ritenuto che, all’interno del processo accusatorio, tali regole fossero irrinunziabili e che dovessero essere applicate senza correttivi. In realtà, il sistema processuale anglo-americano è più flessibile, ogni principio incontra molteplici eccezioni ed è bilanciato da correttivi più o meno palesi: le sue regole, di conseguenza, non possono essere trasferite senza cautele in un sistema di civil law (così TONINI, Cade la concezione massimalistica del principio di immediatezza, cit., 1140). Una dimostrazione di ciò è rinvenibile proprio in materia di utilizzo dibattimentale delle precedenti dichiarazioni rese dal teste: il punto, nei sistemi di common law, è regolato da una precisa norma l’hearsay rule — che vieta, in linea di principio l’introduzione in dibattimento di prove scritte, ma la portata della regola è attenuata da rilevanti eccezioni. In relazione all’ordinamento federale degli Stati Uniti, v., per tutti, FANCHIOTTI, La testimonianza nel processo adversary, Genova, 1988 e Id. L’indagine della difesa negli Stati Uniti d’America, cit., 442 e ss. Per un’analisi dettagliata del sistema inglese cfr.: CALAMANDREI, Appunti sulla prova documentale nel processo penale inglese, in Arch. pen., 1983, 433; Id., Testimonianze extradibattimentali in Inghilterra, in Ind. pen., 1982, 156; FELLI, ll valore delle precedenti dichiarazioni scritte nel processo penale inglese, in Giur. it., 1993, IV, 103; CORDERO, La testimonianza nel diritto inglese, in questa Rivista, 1985, 193. (111) La dottrina penalistica ha definito « documento » la rappresentazione di un contenuto di pensiero, proveniente da un autore, che è incorporata in una base materiale, sia quest’ultima uno scritto, una registrazione magnetofonica o un qualsiasi altro mezzo: così MALINVERNI, Teoria del falso documentale, Milano, Giuffrè, 1958, 19 ss.; ID., Documento (dir. pen.), in Enc. dir., XIII, Milano, Giuffrè, 1964, 623. Tale definizione è generalmente accolta: v., per tutti, NAPPI, Falsità in atti, in Enc. giur. Treccani, XIV, Roma, 1989, 1 ss. Per una nozione processuale penale di documento probatorio v., CALAMANDREI, La prova documentale, cit., 5 ss.: « Documento ai fini del processo penale deve essere considerata ogni rappresentazione (anche non intenzionale) di un contenuto probatorio incorporato (anche non durevolmente) in una base ». (112) Sulla base della disciplina fornita dagli artt. 234 ss. c.p.p., sembrerebbe consentita l’utilizzazione di qualunque documento « che sia comunicazione della memoria di un uomo », nel rispetto dei limiti indicati dal comma 3 dell’art. 234 c.p.p. ed alla condizione che esso non sia anonimo, ove proveniente da persona diversa dall’imputato (art. 240 c.p.p.): così CALAMANDREI, I documenti, cit., 475. (113) La Corte ha rilevato come l’art. 234 c.p.p. « nel consentire l’acquisizione nel


— 157 — In dottrina si è invece sottolineata la differenza che intercorre « tra i documenti in cui l’oggetto della rappresentazione è un fatto storico memorizzato da una macchina ed i documenti nei quali l’oggetto della rappresentazione è la descrizione di un fatto storico quale risulta fissato nella memoria di un uomo » (114). Premesso ciò, si può fondatamente affermare che, il materiale raccolto nel corso dell’indagine difensiva può essere, a pieno titolo, introdotto nel processo sotto le vesti di « documento » (115), a condizione che non si compiano fuorvianti generalizzazioni collegando a tale qualificazione la funzione e l’efficacia propria dei documenti contemplati dal capo VII, titolo II del libro III. Il richiamo a tali disposizioni, quantomai ricorrente in dottrina, non deve, infatti, snaturare la distinzione codicistica tra documenti costituenti di per sè prova e documenti costituenti rappresentazione di prova (116). Gli artt. 234 e ss. c.p.p. (117) ineriscono esclusivamente al primo gruppo, quello dei c.d. documenti in senso lato, utilizzabili dal giudice per la formazione del suo convincimento. A tale disciplina sono estranei i documenti che « riproducono » le attività compiute nel corso dell’indagine, e cioè che mirano alla documentazione degli atti (artt. 357 e 373 c.p.p.). Diversa la loro efficacia in quanto, di regola, rientrano solo indirettamente nel processo di formazione del convincimento del giudice. Le parti li potranno usare per le contestazioni, come strumento di valutazione critica della prova raccolta nel processo. processo come prove documentali di scritti o altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia la fonografia o qualsiasi altro mezzo, identifica e definisce il documento in ragione della sua attitudine a rappresentare (...) senza discriminare tra i diversi mezzi di rappresentazione e le diverse realtà rappresentate e, in particolare, senza operare una distinzione (...) tra rappresentazione di fatti e rappresentazione di dichiarazioni »: cfr. la sentenza n. 142 del 1992, in Cass. Pen., 1992, 2632, con nota di Mazza e in Indice pen., 1992, 432 con nota di Peroni. (114) Rientrano nella prima categoria, le fotografie, le registrazioni fonografiche, i filmati, ove la rappresentazione della realtà non è mediata dalla memoria dell’uomo. Vanno invece ricondotte alla seconda categoria le scritture, « quando la descrizione del fatto storico memorizzato avviene con tale mezzo. Ma niente vieta di immaginare altri strumenti quante sono le possibili forme di comunicazione della memoria, quali, ad esempio, la voce fissata in una registrazione magnetofonica o la compilazione di un disegno »: così CALAMANDREI, La prova documentale, cit., 10. (115) Non mancano visioni differenti: cfr. VOENA, op. cit., secondo cui le indagini difensive assumono natura di atti del procedimento e non già di prova documentale. La predetta qualifica — aggiunge lo studioso — verrebbe assunta al momento della presentazione all’autorità giudiziaria, « al pari di quanto può dirsi a proposito dell’atto di impugnazione; nulla infatti impedisce al difensore di non avvalersi del materiale raccolto ove non lo ritenga utile al fine professionale perseguito ». (116) Sul punto v., LOZZI, op. cit., 203 e PECORELLA, Il difensore nel nuovo processo penale in Lezioni sul nuovo processo penale, Milano, Giuffrè, 1990, 99. (117) Nonchè gli artt. 495 comma 3 e 515 c.p.p..


— 158 — La documentazione raccolta dal difensore va ricondotta a questa seconda categoria. Le difficoltà interpretative derivano dal fatto che il codice contempla la sola verbalizzazione delle dichiarazioni testimoniali compiuta dal p.m. (o dalla p.g.). Il difensore, ai sensi dell’art. 38 disp. att., è invece legittimato a documentare liberamente le dichiarazioni raccolte dalle persone « informate ». Trattasi di atti di natura privata, assunti al di fuori delle garanzie formali e delle regole di obiettività che contraddistinguono l’attività di ogni pubblico ufficiale: ciò porta ad escludere una loro parificazione con quelli assunti dal p.m. (118). 15. Il possibile utilizzo nelle differenti fasi procedimentali della documentazione presentata dal difensore. — Sono stati evidenziati i seguenti punti: a) le dichiarazioni scritte raccolte dal difensore hanno natura documentale; b) siffatti documenti sono cosa ben distinta dai « verbali » relativi alle dichiarazioni raccolte dagli inquirenti; c) non è consentito escluderne ogni valore probatorio posto che l’art. 38 disp. att. ne legittima l’inserimento nel fascicolo del p.m. Alla luce di ciò, quale utilizzo può essere fatto dei risultati dell’indagine difensiva — ed, in particolare, dei documenti contenenti enunciati descrittivi — nelle diverse fasi del procedimento e del processo? Detti documenti, per il loro contenuto solo enunciativo e rappresentativo della materia da provare, non possono costituire elementi di prova diretti di ciò che vi è espresso, a differenza di altre categorie di documenti che hanno anche tale attitudine (fotografie, riprese filmate, ricevute). È quindi corretto vedere nelle dichiarazioni scritte delle persone informate un documento « quanto al fatto storico dell’esistenza del contesto nel quale furono prodotte e quanto alla materiale constatabilità della versione fornita; esse, cioè, hanno rilevanza come fatto rappresentato e non come attestazione di veridicità dei fatti che vi sono dedotti: dimostrano, però, che i fatti esposti sono stati quelli » (119). Premesso ciò, è evidente che la loro utilizzazione deve essere diversificata in ragione della differente natura e struttura delle fasi procedimentali. (118) In tal senso CONTI, op. cit., 61. (119) PAGLIUCA, op. cit., 21, che correttamente argomenta: « Le dichiarazioni raccolte dal difensore, in sè, in quanto attestanti che il soggetto contattato ha, in un certo contesto, riferito quanto risulta esposto, sono certamente dimostratrici di tale fatto rilevante per la difesa (...). Sotto questo profilo la loro acquisizione è da ritenersi sicuramente ammissibile quando il difensore abbia interesse a far risultare che il potenziale teste gli ha in precedenza reso una certa versione, e che tale versione, vera o falsa che sia, è proprio quella incorporata nel documento ».


— 159 — a) Nel corso della fase delle indagini preliminari, fuori dall’eventuale ricorso all’incidente probatorio, il giudice non ha la facoltà di disporre l’escussione dei testimoni, tuttavia egli esercita i suoi pur limitati poteri anche alla luce delle informazioni di natura testimoniale raccolte e documentate dagli inquirenti e, specie dopo le innovazioni della legge 332/95, dalla difesa. Si allude, anzitutto, al procedimento cautelare: come evidenziato in precedenza, l’esigenza difensiva di sottoporre al giudice (g.i.p. o tribunale del riesame) quanto emerso dall’indagine di parte è stata in buona sostanza soddisfatta dalla novella del 1995 che ha introdotto precise garanzie e spazi partecipativi per la difesa (120). b) Quanto poi all’udienza preliminare, la documentazione apprestata dalla difesa, evidenziando l’esistenza di elementi probatori a discarico, potrà convincere il giudice che lo « stato degli atti » non gli consente di procedere e quindi — ove i documenti prodotti appaiano decisivi « ai fini della pronuncia di non luogo a procedere » — a ricorrere all’integrazione probatoria contemplata dall’art. 422 c.p.p. (121). Al riguardo ci si chiede se la segnalazione al giudice dell’esistenza di una prova a discarico debba essere necessariamente documentata o sia sufficiente una enunciazione orale nell’ambito della discussione prevista dall’art. 421 c.p.p. In altri termini, si può sostenere che la discussione costituisca il mezzo per realizzare il diritto alla prova e sia idonea, in alcuni casi, a dimostrare l’insufficienza degli elementi probatori raccolti dal p.m. ai fini della richiesta di rinvio a giudizio? Sembra poco realistico rispondere positivamente e quindi ipotizzare che un giudice decida di non poter provvedere allo stato degli atti soltanto perchè si è sostenuta, senza documentarla, l’esistenza di elementi probatori a difesa (122). In secondo luogo, non è chiaro se il nuovo art. 38 disp. att. consenta (120) Sul punto si rimanda alle osservazioni in precedenza formulate sugli artt. 291, 292 e 309 c.p.p. (121) Sul punto cfr. STEFANI-DI DONATO, ult. op. cit., 57; LOZZI, L’udienza preliminare nel sistema del nuovo processo penale, in questa Rivista, 1991, 1097; ID., Lezioni di procedura penale, cit., 310. « La limitazione stabilita dalla legge in ordine alle prove assumibili nell’udienza preliminare nonchè la connotazione della decisività richiesta per l’ammissione della prova inevitabilmente renderanno limitata l’acquisizione di nuovi elementi probatori nell’udienza preliminare »: così LOZZI, ult. op. cit., 311. (122) In tal senso LOZZI, ult. op. cit., 309 e, da ultimo, Il diritto di difesa nell’udienza preliminare, relazione svolta al convegno Il diritto di difesa dalle indagini preliminari ai riti alternativi (Cagliari 29 settembre-1 ottobre 1995). L’autore sottolinea come la semplice enunciazione non è sufficiente e la prova a discarico deve emergere da quegli « atti e documenti di cui è prevista l’ammissione prima della discussione ex art. 421 comma 3 c.p.p.;


— 160 — di presentare direttamente al giudice dell’udienza preliminare « elementi che egli reputa rilevanti ai fini della decisione da adottare » e di pretendere che la relativa documentazione sia « inserita nel fascicolo relativo agli atti di indagine ». La norma sembrerebbe applicabile solo nel procedimento e non nel processo, posto che attribuisce tale diritto unicamente al difensore « della persona sottoposta alle indagini o della persona offesa » (123). Senonchè, certa dottrina ha opportunamente sottolineato la necessità di interpretare estensivamente l’art. 38 disp. att., norma che è pur sempre estrinsecazione del principio generale del diritto di difesa: il difensore sarebbe quindi legittimato a presentare direttamente, nell’ambito delle produzioni previste già dall’art. 419 c.p.p., gli eventuali elementi a discarico rinvenuti (124). c) Un’ulteriore funzione della documentazione a discarico è ricollegata alla scelta dei riti differenziati. In particolare, nel giudizio abbreviato il consenso del pubblico ministero al rito non dovrebbe prescindere da un’attenta valutazione degli elementi probatori tempestivamente prodotti dalla difesa (125). Posto che il dissenso dell’organo di accusa può essere determinato dall’incompletezza delle indagini preliminari, ben potrà il difensore fornire gli elementi conoscitivi in grado di sopperire a tale carenza, garantendo, così, al proprio assistito un trattamento « premiale ». Non si dimentichi, inoltre, che il difensore sarà indotto a richiedere il rito differenziato qualora i risultati delle indagini autonomamente condotte ne evidenzino la convenienza: della scelta operata dovrà poi dar conto al cliente ed è quindi essenziale che egli possa muoversi forte degli accertamenti effettuati. d) Da ultimo la documentazione raccolta dalla difesa assume una particolare rilevanza ai fini del dibattimento. Poichè l’art. 38 disp. att. ne legittima la presentazione diretta al giudice, che provvede ad inserirla nel fascicolo del p.m., è pacifico l’utilizzo in tal caso, il giudice dovrà completare la prova garantendo così il diritto alla stessa e l’attuazione del contraddittorio ». (123) In tal senso si sono espressi alcuni tra i primi commentatori della legge 332: v., tra gli altri, VOENA, op. cit. e FRIGO, L’art. 38 disp. att. dopo la legge 332, cit. (124) Cfr. FRIGO, ult. op. cit. e LOZZI, ult. op. cit.. È, infatti, evidente — sottolinea il secondo — che il legislatore si è riferito all’ipotesi ordinaria e, cioè, quella di indagini preliminari espletate nel corso del procedimento penale e, quindi, prima dell’acquisizione della qualità di imputato, ma non ha con ciò inteso escludere l’esercizio dell’attività difensiva di ricerca della prova dopo la chiusura delle indagini preliminari. Del resto, l’art. 430 c.p.p. legittima l’antagonista pubblico a svolgere un’attività integrativa di indagine anche dopo la richiesta di rinvio a giudizio. (125) In tal senso si sono espressi: PERONI, op. cit.; FRIGO, Quale destino per l’indagine difensiva?, cit., 56 e LOZZI, ult. op. cit..


— 161 — delle dichiarazioni rese al difensore, nell’ambito dell’indagine di parte, per le contestazioni ai fini della valutazione della credibilità del teste ex art. 500 comma 3 c.p.p. (126). Tale norma non sembra, infatti, porre distinzioni, nel momento in cui considera genericamente le « dichiarazioni precedentemente rese dal testimone », senza peraltro richiedere che esse siano state fornite al pubblico ministero. Ciò ha indotto certa dottrina ad affermare che « nulla può autorizzare, in linea di principio, a dare alla documentazione (del difensore) un valore inferiore a quella raccolta dal p.m. » (127). Sul punto è da condividere l’orientamento che vede l’uso a fini contestativi delle dichiarazioni precedentemente rese riservato a quelle documentate integralmente: ciò supplirebbe in parte alla mancata previsione di forme « garantite » di documentazione (128). Quanto poi all’applicabilità dell’art. 500 commi 4 e 5 c.p.p. — e quindi ad una valutazione come prova piena di quanto « contestato » dal difensore al teste (che, in precedenza, ha reso dichiarazioni difformi) — non sono, a nostro avviso, rintracciabili ostacoli (129), anche se è francamente difficile che il giudice, in sede di valutazione, ritenga di poter motivatamente scavalcare la prova orale per fondare la sua pronuncia anche sulla prova scritta resa in assenza di garanzie. L’escussione orale del testimone consente al giudice di mettere a confronto due tipi di dichiarazioni. Tuttavia, quelle rilasciate al difensore fuori dal dibattimento non sono assistite da una tutela penale altrettanto efficace rispetto a quella predisposta per le dichiarazioni rese in aula, di fronte al giudice e nel contraddittorio delle parti. (126) Pressochè concordi i primi commentatori dell’art. 22 della legge 332: contra CONTI, op. cit., 61. (127) TONINI, sub art. 38, in Italia oggi-La riforma della custodia cautelare, 9 agosto 1995, 38: « La legge non limita il valore probatorio della documentazione presentata dal difensore; poichè la regola generale è quella del libero convincimento (art. 192 c.p.p.), ne deriva che il giudice valuterà la credibilità del dichiarante utilizzando gli ordinari strumenti, e cioè gli elementi di riscontro ». (128) In tal senso, FRIGO, L’art. 38 disp. att. dopo la legge 332, cit.: « Per apprezzare il presupposto della contestazione, cioè una reale difformità tra la deposizione dibattimentale e la dichiarazione resa in precedenza, questa deve risultare da un verbale in forma integrale ». Lo studioso sottolinea infatti come la stessa legge 332 abbia dimostrato una particolare sensibilità sul tema della genuinità della documentazione, introducendo nel codice l’art. 141-bis, che stabilisce, a pena di inutilizzabilità, l’obbligo di verbalizzazione integrale con mezzi di riproduzione fonografica o audiovisiva di ogni interrogatorio di persona che si trovi, a qualsiasi titolo, in stato di detenzione. (129) In dottrina si è suggerito di riservare tale efficacia ulteriore alle dichiarazioni documentate « in una forma più garantita », sulla scia dell’affidavit anglosassone: così FRIGO, Quale destino per l’indagine difensiva?, cit., 56 e VOENA, op. cit.. Quest’ultimo fa espresso riferimento alla fonoregistrazione o meglio alla registrazione audiovisiva, accompagnata da una sorta di verbale debitamente sottoscritto dagli intervenuti.


— 162 — Ne consegue che, in assenza di ulteriori elementi di valutazione, « la bilancia della credibilità penderà a favore delle seconde » (130), cui il giudice tenderà ad attribuire un maggior peso: di ciò renderà poi conto nella motivazione. Il punto è rilevante e richiede alcune considerazioni. Il p.m. ha un dovere di imparzialità che gli deriva dalla natura di organo pubblico e che trova espressa conferma nell’art. 358 c.p.p. In secondo luogo, le dichiarazioni a lui rese dal potenziale teste offrono un certo margine di attendibilità in quanto, ove non veritiere, determinano l’applicazione in capo a chi le ha pronunciate della sanzione penale (art. 371 bis c.p.). Lo stesso non può certo dirsi in relazione alle dichiarazione rese al difensore, inevitabilmente esposto all’eventualità che il soggetto contattato renda in dibattimento una versione di contenuto opposto, screditando, in tal modo, l’intera linea difensiva. La persona informata non ha obbligo alcuno di collaborare con il difensore ed, ove intenda farlo, può impunemente decidere di rendere dichiarazioni di un certo tenore e riservarsi di discostarsi da esse ove successivamente ascoltata dagli inquirenti o chiamata a deporre avanti al giudice (131). In conclusione, le « garanzie » alle quali si è fatto espresso riferimento vengono meno qualora a raccogliere le dichiarazioni dal potenziale teste non sia il p.m. o la p.g., bensì l’avvocato. Quest’ultimo agisce cercando di contemperare due esigenze spesso tra loro in conflitto: il rispetto dei principi deontologici di lealtà, serietà, correttezza, divieto di falsificare l’elemento probatorio e l’interesse a sentire solo alcune persone, a porre solo alcune domande, a ottenere solo alcune risposte, nonchè a produrre solo determinate prove. Il difensore non è tenuto, a differenza del suo antagonista processuale, ad acquisire tutti i risultati delle indagini espletate, nè, tantomeno, a mettere a disposizione (e quindi a rendere conoscibile) un fascicolo di parte (132). (130) CALAMANDREI, I documenti, cit., 481. (131) Al riguardo è stata proposta l’introduzione di nuove ipotesi delittuose, volte anche alla tutela dell’indagine difensiva: cfr. FRIGO, Dalla tutela della prova alla tutela dell’indagine, in Il Sole 24 Ore, 27 maggio 1995, 19. Per un approfondito commento sull’art. 371 bis (come modificato dalla l. 332/95) ed un’analisi delle problematiche ad esso riconducibili, v. VOENA, sub art. 25, in AA.VV., Modifiche al c.p.p. Nuovi diritti della difesa e riforma della custodia cautelare, cit., 338 e ss. Sul punto v. anche le osservazioni di LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., 262, che ricorda come le numerose critiche rivolte a tale articolo avevano condotto la Camera ad abrogarlo, ma il Senato, prontamente, lo reintrodusse. (132) In dottrina è stata ampiamente evidenziata la mancanza di « garanzie » relative al contatto del difensore con il potenziale teste ed alla documentazione delle dichiarazioni rilasciate: cfr. GIOSTRA, Per una migliore disciplina della custodia cautelare, in Dir. pen. e


— 163 — Inoltre, mentre la fedeltà del verbale compilato dal p.m. viene garantita anche da quelle norme che prevedono sanzioni penali (art. 479 c.p.) e disciplinari, per il caso di infedele verbalizzazione dell’atto, nulla del genere è previsto per il difensore, che assume le dichiarazioni senza la presenza della controparte (133). Difficoltà analoghe si presentano ove la dichiarazione documentata dalla difesa divenga successivamente non ripetibile in dibattimento per fatti o circostanze imprevedibili (134). Viene in tal caso meno la « verifica orale » di quelle dichiarazioni e non v’è dubbio che i fatti sopravvenuti priverebbero il processo di un apporto conoscitivo-probatorio che potrebbe rivelarsi determinante per le sorti della difesa. Tuttavia si deve escludere che possa trovare applicazione l’art. 512 c.p.p., norma che pone una distinzione all’interno del fascicolo del p.m., in quanto limita la possibilità di dar lettura — e quindi di utilizzo — ai soli « atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero e dal giudice nel corso dell’udienza preliminare » (135). Resta quindi inibito dal disposto normativo l’utilizzo delle dichiarazioni rese al difensore da quel potenziale testimone che prima di poter deporre in aula muoia ovvero risulti gravemente malato o, ancora, sia irreperibile. proc., 1995, n. 3, 306 e MADDALENA, Il disegno di legge sulla custodia cautelare, in Corr. giur., 1995, n. 4, 401. Così quest’ultimo: « Non importa, infatti, come e perchè il testimone o il coimputato è arrivato nello studio del difensore dell’indagato; non importa se, nei suoi confronti, non sono state rispettate tutte le regole in materia di incompatibilita, facoltà di astensione, diritto al segreto (professionale, di ufficio o di Stato); non importa se le sue dichiarazioni non sono state verbalizzate o registrate integralmente; non importa se, nei confronti dei testimoni, non sono state rispettate le regole che vietano le domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte o quelle suggestive; non importa la presenza o meno di altre persone durante la raccolta delle dichiarazioni ». (133) È vero che il difensore può incorrere nel reato di favoreggiamento personale ove documenti il falso per aiutare l’indagato ad eludere le investigazioni dell’autorità, ma è poco realistico ritenere che tale « deterrente » sia, di per sè, sufficiente a garantire l’attendibilità delle dichiarazioni raccolte. (134) Il quadro si complica, altresì, nel caso in cui il teste in dibattimento rifiuti di rispondere. Stando alla sentenza costituzionale n. 179 del 1994, una simile ipotesi non rientrerebbe nell’ambito dell’art. 500 comma secondo c.p.p., bensì in quello dell’art. 512 c.p.p. (135) Contra STEFANI-DI DONATO, ult. op. cit., 66, favorevoli ad una interpretazione estensiva dell’art. 512 c.p.p., il cui disposto sarebbe quindi applicabile anche alla documentazione raccolta dalla difesa: diversamente — si sostiene — la norma non potrebbe sottrarsi a gravi censure di illegittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. « Sarà comunque la prassi ad eliminare dubbio ed incertezze in ordine alle problematiche sopra esposte anche se appare opportuno un intervento chiarificatore della Corte costituzionale » (op. cit., 67). La medesima dottrina propone, inoltre, di ovviare alla sopravvenuta impossibilità di utilizzazione dell’elemento probatorio a difesa mediante l’escussione, quale teste de-relato, dell’investigatore privato che abbia eventualmente raccolto le dichiarazioni.


— 164 — Il punto si presta ad una considerazione di fondo. Si è visto come il legislatore, riformulando l’art. 38 disp. att., abbia espressamente legittimato l’inserimento degli elementi raccolti dal difensore nel fascicolo del p.m., senza, peraltro, disporre alcunchè in relazione al loro successivo possibile utilizzo ai sensi degli artt. 500 e 512 c.p.p. Da più parti tale mancato coordinamento è stato censurato o, quantomeno, ritenuto poco opportuno: tali norme — si argomenta — erano state scritte allorquando, per le dichiarazioni rese fuori dal dibattimento al difensore dalla persona informata sui fatti, non si ponevano problemi di utilizzo probatorio o « contestativo », in quanto l’accesso al fascicolo del p.m. era, di regola, una prerogativa degli atti d’indagine verbalizzati dall’accusa. Il legislatore del 1995, a differenza di quello del 1992, ha però dato corso ad un’opera di recupero tendenziale della parità tra le parti, nel momento in cui consente che anche quanto documentato dalla difesa possa trovar posto nel fascicolo di parte. Tale circostanza potrebbe indurre a sollecitare una conseguente rivisitazione degli artt. 500 e 512 c.p.p.. A ben vedere, però, il fatto che in sede legislativa non si sia andati oltre in tale « recupero », coordinando l’art. 38 disp. att. con gli articoli sopra richiamati, non è di certo addebitabile ad una svista, quanto, piuttosto, ad una scelta ben precisa: gli articoli in questione non necessitano di coordinamento alcuno! Ecco quindi che l’art. 500 c.p.p. è oggi applicabile anche alle dichiarazioni raccolte dalla difesa: ciò è quanto il dato normativo esprime, nè il legislatore ha dato segni di voler addivenire a conclusione diversa. Lo stesso dicasi per l’art. 512 c.p.p.: il dato letterale, oggi come ieri, esclude in modo netto che possa essere applicato alle dichiarazioni non ripetibili documentate dalla difesa. E la persistenza di tale limite nel sistema processuale non è di certo sfuggita al legislatore: egli, semplicemente, continua a reputarla essenziale. Dott. FABRIZIO BERNARDI


— 165 —

L’ESAME DELL’IMPUTATO NELL’ESPERIENZA COMPARATISTICA: SPUNTI PROBLEMATICI

SOMMARIO: 1. Il contributo dell’imputato alla ricostruzione del fatto tra interrogatorio ed esame. — 2. Diritto al silenzio e obbligo di dire la verità. — 3. La cross-examination. — 4. Momento processuale in cui viene assunto l’esame dell’imputato. — 5. Esame dell’imputato e witnesses of defendant: le differenze tra i due metodi di assunzione del contributo orale dell’imputato.

1. Il contributo dell’imputato alla ricostruzione del fatto tra interrogatorio ed esame. — Pur costituendo sicuramente un dato di fondamentale importanza nella ricostruzione del fatto, il contributo orale dell’imputato può tuttavia comportare taluni risvolti problematici, dal momento che esso si sostanzia in dichiarazioni provenienti da una parte processuale. Se dunque deve essere offerta all’imputato la possibilità di fornire la propria versione dei fatti, spetterà al giudice verificare l’attendibilità delle dichiarazioni rese da un soggetto che certamente è depositario della verità in ordine al reato di cui è accusato, ma che, proprio in virtù della sua qualità di imputato, genera in chi lo ascolta seri dubbi circa la veridicità di quanto afferma. Le modalità con le quali tale contributo viene assunto segnano le diversità tra i modelli processuali. Come giustamente rileva la dottrina, « da un lato, la procedura di ispirazione inquisitoria considera l’imputato, colpevole o innocente, il depositario di una verità assoluta che è tenuto a rivelare; dall’altro, il modello processuale accusatorio appare prescindere dalle eventuali conoscenze del prevenuto, al quale è riconosciuta la garanzia del nemo tenetur se detegere » (1). Inserendo tali considerazioni nella storia del nostro processo penale, si possono analizzare quali siano le differenze tra il codice Rocco e l’attuale codice di procedura penale in relazione alle modalità di acquisizione delle conoscenze dell’imputato. In vigenza del codice di procedura penale del 1930, se l’imputato era presente al dibattimento, l’interrogatorio dello stesso doveva avvenire « a pena di nullità » (art. 441 c.p.p. abr.); altrimenti, qualora egli fosse contumace o assente, l’interrogatorio dibattimentale veniva sostituito dalla let(1) O. MAZZA, Interrogatorio ed esame dell’imputato: identità di natura giuridica e di efficacia probatoria, in questa Rivista, 1994, p. 822. Riv. ital. dir. proc. penale 1/1996


— 166 — tura del verbale dell’interrogatorio e di ogni altra dichiarazione resi nel corso del procedimento (art. 499 c.p.p. abr.), ovvero, nei casi in cui era prevista la rappresentanza a mezzo di procuratore speciale, dall’interrogatorio di quest’ultimo (2) (art. 441 c.p.p. abr.). All’assunzione dell’interrogatorio dibattimentale procedeva il presidente del collegio o il pretore, dopo aver espletato le formalità di apertura del dibattimento e risolte eventuali questioni preliminari (3) (artt. 440-441 c.p.p. abr.). Al di là di tali aspetti tecnici concernenti le modalità di assunzione dell’interrogatorio, la peculiarità che deve essere sottolineata è quella riguardante la finalità di tale strumento. A questo riguardo si sono manifestati in dottrina tre diversi orientamenti (4). Secondo alcuni autori, l’interrogatorio dell’imputato sarebbe stato un mezzo di prova (5); secondo altri, un mezzo di contestazione dell’accusa (6). L’opinione più accreditata nella dottrina formatasi sotto l’abrogato codice riteneva tuttavia che l’interrogatorio dell’imputato fosse un mezzo di difesa: ciò soprattutto in seguito alla l. 5 dicembre 1969 n. 932 che, modificando l’art. 78 c.p.p. abr., aveva previsto l’obbligo di avvertire l’imputato del diritto al silenzio in ogni fase del procedimento (7). Tale diatriba ha trovato il suo epilogo con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale in cui è presente la distinzione tra interrogatorio ed esame dell’imputato (8). Attualmente, l’interrogatorio è pre(2) Cfr. G. FOSCHINI, Dibattimento, in Enc. dir., vol. XII, Milano, 1964, p. 358. (3) Cfr. O. CAMPO, Interrogatorio dell’imputato, in Enc. dir., vol. XXII, Milano, 1972, p. 350. (4) Sull’analisi dei tre orientamenti in questione, si veda M. MAZZANTI, Rilievi sulla natura giuridica dell’interrogatorio dell’imputato, in questa Rivista, 1961, p. 1173 ss. (5) Cfr. G. FOSCHINI, L’imputato - Studi, Milano, 1956, p. 53 ss., il quale motiva il proprio convincimento sostenendo che la natura di mezzo di prova dell’interrogatorio « si evince da numerose disposizioni le quali altrimenti non avrebbero senso ». Inoltre, secondo M. BOSCHI, Interrogatorio - diritto processuale penale, in Enc. Giur. Treccani, vol. XVII, Roma, 1989, p. 2, « il riconoscimento della natura di mezzo processuale di difesa, anzichè escludere, postula l’accentuazione del carattere di mezzo di prova dell’interrogatorio ». (6) Cfr. O. VANNINI-G. COCCIARDI, Manuale di diritto processuale penale italiano, Milano, 1986, p. 248, in cui si annovera l’interrogatorio dell’imputato tra i mezzi di prova, sostenendo tuttavia che esso « più che mezzo di prova debba considerarsi un mezzo di contestazione ». (7) Cfr. E. AMODIO, Diritto al silenzio o dovere di collaborazione?, in Riv. dir. proc., 1974, p. 415, secondo il quale « a seguito della riforma del 1969, l’interrogatorio viene a profilarsi come un tipico mezzo di difesa, tagliando fuori le residue velleità di attribuirgli valore esclusivo di mezzo di prova ». Cfr., inoltre, O. CAMPO, Interrogatorio dell’imputato, cit., p. 335 ss.; A. BUZZELLI, Sull’interrogatorio dell’imputato, in Riv. dir. proc., 1972, p. 464. (8) Al contrario si veda O. MAZZA, Interrogatorio ed esame dell’imputato: identità di natura giuridica e di efficacia probatoria, cit., p. 825, il quale rileva come in realtà tale distinzione sia solo apparente, sostenendo che se « si approfondisce l’analisi delle funzioni concretamente svolte dagli istituti in parola, ci si rende subito conto di come tale sistemazione non possa essere soddisfacente: da un lato, la complessa natura giuridica dell’interro-


— 167 — visto unicamente durante le indagini preliminari (artt. 64-65 c.p.p.) e in udienza preliminare (artt. 421-422 c.p.p.) e dovrebbe, almeno secondo le intenzioni del legislatore, rappresentare lo strumento di difesa (9) per eccellenza concesso alla persona sottoposta alle indagini (ovvero all’imputato nel corso dell’udienza preliminare). In dibattimento, invece, può aver luogo esclusivamente l’esame dell’imputato (art. 503 c.p.p.), che si configura come uno dei molteplici mezzi di prova che il legislatore ha posto a disposizione delle parti. Al fine di sottolineare la portata di tale innovazione occorre notare che, nel passaggio dal codice Rocco al nuovo codice di procedura penale, il tema delle prove ha formato oggetto di un’attenta rivisitazione. Infatti, per attuare « i caratteri del sistema accusatorio » (10) si doveva incentrare la riforma su una diversa concezione della prova, ovvero, più precisamente, su un diverso sistema di acquisizione probatoria. La prova deve essere dunque assunta secondo i principi del contraddittorio, dell’oralità, dell’immediatezza e la sua sede naturale di formazione viene ad essere il dibattimento. Oltre a tale « rivoluzione copernicana », che ha spostato il baricentro dell’istruzione probatoria alla fase del dibattimento, il legislatore ha altresì offerto alle parti la possibilità di avvalersi di una molteplicità di mezzi di prova, tra i quali l’esame dell’imputato (nonchè delle altre parti private) rappresenta un’assoluta novità per il nostro rito. Viene così attribuita rilevanza probatoria alle dichiarazioni provenienti da una parte processuale: tale possibilità deriva dalla interazione di due principi, « vale a dire la predisposizione di un metodo di assunzione della prova che garantisca la possibilità di valutare la credibilità della dichiaragatorio non sembra esaurirsi nella sola connotazione difensiva; dall’altro, l’aver disciplinato espressamente l’esame tra i mezzi di prova non elimina ogni incertezza circa l’efficacia probatoria da attribuire alle dichiarazioni rese dall’imputato, e non esclude che l’istituto possa assolvere anche a finalità difensive ». (9) Secondo la direttiva n. 5 della L. 16 febbraio 1987 n. 81, in G. CONSO-V. GREVIG. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale - dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. III, Padova, 1990, p. 113, dovevano essere disciplinate le « modalità dell’interrogatorio in funzione della sua natura di strumento di difesa ». Sull’interrogatorio come strumento di difesa si veda, inoltre, la Relazione al Progetto definitivo, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale dalle leggi delega ai decreti delegati, cit., vol. V, 1990, p. 575. Secondo A. DIDDI, Varie forme di dichiarazioni dell’indagato o dell’imputato e natura giuridica dell’interrogatorio come atto di indagine preliminare, in Giust. pen., 1993, I, p. 27, occorre distinguere tra interrogatorio assunto dal giudice per le indagini preliminari e quello cui procede il pubblico ministero, dal momento che « può evidenziarsi come in linea di principio sembrino emergere due differenti tipi di interrogatorio giacchè con lo stesso nomen juris il legislatore ha, in realtà, voluto disciplinare due istituti caratterizzati l’uno da una finalità di garanzia e, l’altro, dall’atteggiarsi come atto di indagine accusatoria ». (10) Preambolo dell’art. 2 L. 16 febbraio 1987 n. 81, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale - dalle leggi delega ai decreti delegati, cit., vol. III, cit., p. 63.


— 168 — zione, nonchè la eliminazione di ogni retaggio inquisitorio che possa indurre a ritenere che l’accertamento della verità debba coinvolgere necessariamente ed obbligatoriamente la parte » (11). Nel sistema statunitense si rileva una situazione diversa rispetto al nostro ordinamento. Innanzitutto, è la polizia che procede all’interrogatorio dell’indiziato al quale è garantito il privilege against self-incrimination, che « nasce dalla fusione del right not to be questioned con il diritto a non autoincriminarsi e si configura come un diritto al rifiuto dell’inquisitore, nel senso che l’indiziato deve essere posto a conoscenza dell’innaturalità della situazione in cui si trova a causa della mancanza di un giudice e dell’assunzione di poteri inquisitori da parte del suo contraddittore » (12). Nella fase dibattimentale, contrariamente a quanto accade nel nostro sistema processuale dove vi è la previsione di molteplici mezzi di prova che si differenziano per l’oggetto e le modalità di acquisizione, si è in presenza inoltre di una sorta di reconductio ad unum. Infatti, la prova per antonomasia è la testimonianza, all’interno della quale vengono ricondotti anche l’esame della persona offesa, dell’expert witness e addirittura dell’imputato. Inoltre, dal momento che non esiste un fascicolo predibattimentale, anche la presentazione di documenti ed oggetti in dibattimento avviene « attraverso la testimonianza di uno ‘‘sponsor’’ — custode o possessore — che ‘‘presenta’’ il documento o l’oggetto ‘‘garantendone’’ la provenienza e l’autenticità » (13). L’imputato, che viene dunque ascoltato in qualità di testimone, non può avvalersi della facoltà di non rispondere dal momento che « la presenza del giudice, la garanzia della pubblicità, la piena integrazione del diritto di difesa, escludono la ragion d’essere di un diritto al silenzio che si giustifica essenzialmente come rifiuto della condizione innaturale di un dialogo tra accusatore e imputato in assenza di un organo imparziale » (14). 2. Diritto al silenzio e obbligo di dire la verità. — Nel nuovo codice di procedura penale è dunque offerta all’imputato la libertà di scegliere, in dibattimento, se rimanere in silenzio, offrire dichiarazioni spontanee (15) oppure sottoporsi all’esame (artt. 208 e 503 c.p.p.) e subire, di conseguenza, la cross-examination. Ovviamente l’imputato non può essere co(11) A. DIDDI, Varie forme di dichiarazioni dell’indagato o dell’imputato e natura giuridica dell’interrogatorio come atto di indagine preliminare, cit., p. 13. (12) E. AMODIO, Diritto al silenzio o dovere di collaborazione?, cit., p. 413. (13) V. FANCHIOTTI, La testimonianza nel processo « adversary », Genova, 1988, pag. 253, il quale rileva, inoltre, come in realtà siano previste eccezioni a tale regola. (14) E. AMODIO, Diritto al silenzio o dovere di collaborazione?, cit., p. 414. (15) Secondo l’art. 494 c.p.p. l’imputato può « rendere in ogni stato del dibattimento le dichiarazioni che ritiene opportune, purchè esse si riferiscano all’oggetto dell’imputazione e non intralcino l’istruzione dibattimentale ».


— 169 — stretto a sottoporsi all’esame e, quindi, avrà facoltà di richiederlo, oppure, nel caso in cui la richiesta provenga dal pubblico ministero o da altra parte privata, dovrà necessariamente prestare il proprio consenso affinché l’esame abbia luogo (16). Una prima serie di problemi sui quali è bene soffermarsi per analizzare il modo in cui sono stati affrontati e risolti nei due diversi sistemi processuali, riguarda l’operatività del diritto al silenzio e l’esistenza o meno in capo all’imputato che si sottopone all’esame di un obbligo di dire la verità. Una volta trattati tali argomenti con riguardo al nostro sistema processuale, si opererà un’analisi comparativa con quello statunitense, dopo aver brevemente delineato la storia della graduale affermazione, avvenuta oltreoceano, del diritto dell’imputato a testimoniare a proprio discarico. Il diritto al silenzio è consacrato nel nostro ordinamento dall’art. 64 comma 3 c.p.p. a favore della persona sottoposta alle indagini (17): il problema è quello di valutare se tale diritto vale anche per l’imputato che volontariamente si sottopone all’esame, dal momento che l’art. 61 c.p.p. estende all’indagato i diritti e le garanzie dell’imputato, ma non il contrario. Tuttavia, proprio la presenza e il tenore letterale dell’art. 61 c.p.p. induce a pensare che il legislatore abbia ritenuto di dover compiere una tale estensione in maniera espressa, in considerazione del fatto che sicuramente la persona sottoposta alle indagini risulta tutelata in modo molto meno rigoroso rispetto ad un soggetto nei cui confronti è già stata esercitata l’azione penale. La mancanza di una norma che operi in senso contrario non è dunque una lacuna, bensì una conseguenza insita nella logica del sistema processuale, da cui si deduce che ogni diritto riconosciuto espressamente all’indagato è, innanzitutto, di spettanza dell’imputato, anche se tale riconoscimento esplicito non appare nel testo del codice (18). Sempre per quanto concerne l’operatività del diritto al silenzio, si rileva che que(16) A tale riguardo si veda Corte Cost., 24 maggio 1991 n. 221, in Cass. pen., 1992, 1, p. 5, che dichiara infondata « la questione di legittimità costituzionale degli artt. 567, 208, 503 e 506 c.p.p. sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 3 Cost., nelle parti in cui dette norme prevedono che l’esame dell’imputato nel dibattimento, a richiesta del p.m. o di altra parte privata, sia sottoposto al consenso dello stesso imputato e che il giudice possa rivolgergli domande solo dopo che sia stato già esaminato ». (17) Per un’ampia panoramica sul diritto al silenzio in vigenza del codice Rocco, si veda E. AMODIO, Diritto al silenzio o dovere di collaborazione?, cit., p. 408 ss.; S. BUZZELLI, Diritto al silenzio e dichiarazioni spontanee, in Riv. dir. proc., 1989, p. 795 ss.; A. BUZZELLI, Sull’interrogatorio dell’imputato, cit., p. 464 ss. (18) In merito alla validità del principio del diritto al silenzio durante l’intera istruzione dibattimentale cfr. R. ORLANDI, sub art. 209, in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di M. Chiavario, vol. II, Torino, 1990, p. 506; S. CIANI, L’esame delle parti: profili strutturali e valenza probatoria, in Cass. pen., 1994, 1457, p. 2270; P. FELICIONI, Brevi osservazioni sull’esame dibattimentale dell’imputato: l’operatività del diritto al silenzio, in Cass. pen., 1992, 1, p. 8; S. BUZZELLI, Il contributo dell’imputato alla ricostru-


— 170 — sto trova attuazione solo quando il soggetto è sottoposto ad interrogatorio o ad esame. Qualora invece l’imputato rifiuti di sottoporsi all’esame, tale rifiuto non è da considerare come esplicazione della garanzia sancita dall’art. 64 c.p.p.: in tal caso il giudice può disporre, a richiesta di parte, che sia data lettura delle dichiarazioni rese precedentemente dall’imputato al pubblico ministero, al giudice per le indagini preliminari (art. 513 c.p.p.), ovvero assunte dalla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero (19). Accertata dunque l’operatività del diritto a non rispondere, il problema successivo è quello della valenza probatoria da attribuire al silenzio dell’imputato, posto che l’art. 209 c.p.p., concernente le regole per l’esame, prevede la verbalizzazione del rifiuto della parte di rispondere ad una domanda (20). A tale riguardo si sono manifestati in dottrina molteplici orientamenti interpretativi. Taluni autori, riallacciandosi alla relazione al progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale (21), sostengono che il silenzio dell’imputato deve essere valutato dal giudice come argomento di prova (22). Un’altra parte della dottrina ha negato, invece, l’utilizzazione probatoria del rifiuto di rispondere, poichè in tal modo risulterebbe vanificato il diritto al silenzio dell’imputato; tuttavia, dal momento che il rifiuto di rispondere ad una domanda deve essere comunque verbalizzato, il silenzio dell’imputato sarà utilizzato « al solo scopo di verificare e controllare l’attendibilità delle dichiarazioni rese » (23). zione del fatto, in AA.VV., La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. Ubertis, Milano, 1992, p. 104. (19) V. Corte Cost., 24 febbraio 1995 n. 60, in G.U. 1/3/1995, I Serie speciale - n. 9, p. 58. (20) A tale proposito si rileva che recentemente in Gran Bretagna, con il Criminal Justice and Public Order Act 1994, c. 33, part III, sec. 35, è stato attribuito al giudice o alla giuria il potere di trarre conclusioni circa la colpevolezza dell’imputato anche dal rifiuto immotivato di quest’ultimo di rispondere ad una domanda (« ...(3) Where this subsection applies, the court or jury, in determining whether the accused is guilty of the offence charged, may draw such inferences as appear proper from the failure of the accused to give evidence or his refusal, without good cause, to answer any question »). (21) V. G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale dalle leggi delega ai decreti delegati, cit., vol. IV, 1990, p. 601, in cui si legge che « una volta che una parte ha chiesto l’esame diretto, essa non è più in grado di sottrarsi alle domande che le vengono formulate (e qui sta il fondamento del valore squisitamente probatorio dell’atto) tanto che ogni rifiuto di rispondere — di cui deve farsi menzione nel verbale — assumerà legittimamente il valore di argomento di prova ». (22) Cfr. E. SELVAGGI, Esame diretto e controesame, in Dig. disc. pen., vol. IV, Torino, 1990, p. 283; S. BUZZELLI, Il contributo dell’imputato alla ricostruzione del fatto, cit., p. 104, ove si parla di « significato lato sensu probatorio »; A. NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, Milano, 1989, p. 181; G. CONSO-V. GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, III ed., Padova, 1993, p. 219. (23) R. ORLANDI, sub art. 209, in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura


— 171 — Nell’ottica dell’analisi comparativa che tra breve verrà effettuata, un breve cenno deve essere rivolto al problema della possibile esistenza in capo all’imputato di un obbligo di rispondere secondo verità. Nel nostro ordinamento non è configurabile un simile dovere, dal momento che l’art. 209 c.p.p., dettando le regole per l’esame, richiama espressamente l’art. 198 comma 2 c.p.p. e non anche il precedente comma 1 in cui è fatto obbligo al testimone « di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte ». Analizzando ora il sistema statunitense, si rileva che in tale ordinamento è riconosciuto all’imputato il diritto di presentarsi come teste a proprio discarico: tale diritto, tuttavia, non era previsto dalla common law classica. Nel XVIII secolo in Inghilterra vigeva infatti la regola in base alla quale un imputato non era considerato soggetto capace di rendere testimonianza durante il dibattimento, sul presupposto che una persona così direttamente coinvolta nel caso e portatrice di un interesse personale così rilevante potesse facilmente essere un testimone non attendibile (24). Tale regola inglese è stata ereditata dalla giurisprudenza americana, ma in seguito abbandonata. Infatti, a livello federale, la Corte Suprema inizialmente ha abrogato la regola generale dell’incapacità dell’imputato di testimoniare basata sull’interesse, e successivamente ha riconosciuto il suo diritto a testimoniare in un processo federale (25). Una simile evoluzione si è verificata anche a livello statale, cosicché alla fine del XIX secolo tutti gli Stati (eccetto lo Stato della Georgia) (26) garantivano all’imputato il diritto ad essere sentito come teste a disca-

penale, cit., vol. II, cit., p. 507; cfr. S. CIANI, L’esame delle parti: profili strutturali e valenza probatoria, cit., p. 2271. (24) W.R. LA FAVE-J.H. ISRAEL, Criminal Procedure, 2 ed., West Publishing Company, St. Paul Minnesota, 1992, p. 1034. (25) W.R. LA FAVE-J.H. ISRAEL, Criminal Procedure, cit., p. 1034. Sul diritto dell’imputato a testimoniare « in his own behalf », si veda Wilson v. United States, 149 U.S. 60 (1893). (26) In Ferguson v. Georgia, 365 U.S. 570 (1961) è delineata la storia del graduale affermarsi della regola sulla « competency » dell’imputato quale teste a proprio discarico. Tale regola fu generalmente accettata nei vari Stati dell’Unione, eccetto che in Georgia dove, a partire dal 1868, non era consentito all’imputato testimoniare, ma solo, eventualmente, rendere dichiarazioni senza previo giuramento. Inoltre, sempre in tale caso, la Corte Suprema dichiarò che « in effectuating unsworn-statement statute, Georgia, consistently with Fourteenth Amendment, could not, in context of statute making defendants incompetent to testify under oath on their own behalf, deny defendant the right to have counsel question him to elicit his unsworn statement »; tuttavia la Corte si astenne dall’affrontare il problema del diritto dell’imputato a testimoniare a proprio favore.


— 172 — rico (27). Nel caso Rock v. Arkansas (28) la Corte Suprema, nel sostenere l’esistenza di un diritto « a testimoniare a proprio discarico in un processo penale », ha ritenuto che tale diritto discenda da diversi principi di rango costituzionale. Innanzitutto vi è il principio del due process: infatti, la garanzia del XIV Emendamento secondo la quale nessuno può essere privato della libertà senza un « due process of law », includerebbe anche il diritto di essere ascoltato e di offrire la propria testimonianza (29). In secondo luogo, la Compulsory Process Clause del VI Emendamento, che garantisce all’imputato il diritto di citare testi a proprio favore, permette conseguentemente allo stesso di sedere sul banco dei testimoni (30). Infine, la Corte Suprema ritenne che la facoltà in questione rappresenta un corollario necessario del V Emendamento (31). Sempre nel caso Rock, la Corte ha affrontato l’ulteriore questione dell’esistenza di limiti al diritto dell’imputato di presentarsi come testimone, concludendo nel senso che tale facoltà possa subire delle restrizioni per conciliare altri legittimi interessi presenti all’interno del processo, ma che tali restrizioni non possono essere arbitrarie o sproporzionate (32). Partendo da questa premessa generale, la conclusione cui giunge la Corte è stata quella di ritenere incostituzionale la regola vigente in Arkansas che poneva un limite alla testimonianza, escludendo a priori « all hypnotically refreshed testimony ». Infatti, tale regola violava il diritto dell’imputata di testimoniare a proprio discarico, poichè il fatto che la stessa fosse stata sottoposta a sedute ipnotiche non poteva giustificare di per sè l’inamissibilità della testimonianza « postipnosi »: occorreva valutare caso per caso l’attendibilità di questa particolare forma di testimonianza. Tale conclusione appare in contrasto con il nostro sistema in cui vige la regola secondo la quale è vietata l’utilizzazione, a prescindere dal consenso della persona interessata, di « metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di (27) W.R. LA FAVE-J.H. ISRAEL, Criminal Procedure, cit., p. 1034. In People v. Shapiro, 126 N.E. 2d 559, 561 (N.Y. 1955), la Corte d’Appello di New York sostenne che « defendant, if he chooses, may testify as a witness in his own behalf »; in State v. Rider, 399 P. 2d 564 (Kan 1965), la Corte Suprema del Kansas ritenne che « defendant who took the stand on his own behalf became a witness and was subject to same rules as any other witness ». (28) 483 U.S. 44 (1987). (29) Rock v. Arkansas, cit., p. 51. (30) Rock v. Arkansas, cit., p. 52. (31) Rock v. Arkansas, cit., p. 52. A tale proposito si veda la dissenting opinion del caso Harris v. New York, 401 U.S. 222, 230 (1971), in cui si ritenne che il privilege against self-incrimination è soddisfatto soltanto quando all’imputato è garantito il diritto di rimanere in silenzio a meno che egli liberamente decida di deporre. (32) Rock v. Arkansas, cit., p. 56.


— 173 — autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti » (art. 188 c.p.p.). Se l’esclusione a priori della testimonianza postipnotica rappresenta una restrizione incostituzionale al diritto dell’imputato di testimoniare a proprio discarico, al contrario, un limite a tale diritto è quello relativo al divieto di commettere falsa testimonianza (33): l’imputato, che presta giuramento come qualsiasi altro testimone, è soggetto all’obbligo di rispondere secondo verità. Se dunque l’imputato decide di testimoniare rinuncia al privilege against self-incrimination (34). Secondo tale principio, garantito dal V Emendamento del Bill of Rights, l’imputato non può essere costretto a deporre contro se stesso. Dal privilege in questione discende, come corollario, il divieto per il prosecutor di commentare il rifiuto dell’imputato di testimoniare e il divieto per il giudice, nel momento in cui fornisce le istruzioni alla giuria, di equiparare il silenzio a prova di colpevolezza (35). La rinuncia al privilege non può essere parziale e, quindi, se l’imputato accede al banco dei testimoni, dopo esser stato escusso dal proprio difensore, non potrà sottrarsi alla cross-examination condotta dal prosecutor e alle domande di quest’ultimo tese a minare la sua credibilità (36). Da questa prima analisi emergono discipline opposte nei due ordina(33) In Harris v. New York, cit., p. 225, la Corte Suprema ritenne che « every criminal defendant is privileged to testify in his own defense or to refuse to do so. But that privilege cannot be construed to include the right to commit perjury ». (34) In Harrison v. United States, 392 U.S. 219, 222 (1968), la Corte Suprema sostenne che « a defendant who chooses to testify waives his privilege against compulsory selfincrimination with respect to the testimony he gives, and that waiver is no less effective or complete because the defendant may have motivated to take witness stand in the first place only by reason of the strenght of the lawful evidence adduced against him ». (35) In Wilson v. United States, 149 U.S. 60 (1893), la Corte Suprema annullò il verdetto di una Corte federale di primo grado, poichè il prosecutor durante l’arringa finale davanti alla giuria aveva commentato la mancata richiesta da parte dell’imputato di essere esaminato come teste sostenendo che se egli stesso si fosse trovato nei « panni » di Wilson e, quindi, accusato di un reato, non si sarebbe limitato ad escutere testi che deponessero sul suo « good character », ma avrebbe testimoniato egli stesso sulla sua completa innocenza nel reato ascrittogli. Sempre sul divieto in questione si veda Griffin v. State of California, 380 U.S. 609 (1965) e Chapman v. State of California, 386 U.S. 18 (1967). In Lakeside v. State of Oregon, 435 U.S. 333 (1978) la Corte Suprema ritenne che « (1) the giving by a state trial judge over a criminal defendant’s objection of a cautionary instruction that the jury is not to draw any adverse inference from the defendant’s decision not to testify in his behalf did not violate the privilege against compulsory self-incrimination, and (2) such an instruction did not deprive the objecting defendant of his right to counsel by interfering with his attorney’s trial strategy ». (36) Brown v. United States, 356 U.S. 148 (1958). Interessante è la dissenting opinion di tale caso (tra i giudici dissenzienti vi era anche il Chief Justice Warren) redatta dal Justice Black il quale esordisce sostenendo che « this is another decision by this Court eroding the constitutional privilege against self-incrimination ».


— 174 — menti in esame circa il diritto al silenzio e l’obbligo di dire la verità: infatti, come si è visto, solo nel nostro ordinamento l’imputato può rifiutarsi di rispondere alle domande che gli vengono rivolte nel corso dell’esame, con le conseguenze sopra evidenziate, e « dire cose non vere senza il timore di incorrere in conseguenze penali » (37), mentre negli Stati Uniti l’imputato è, da questo punto di vista, fortemente penalizzato, perché, trattato alla stregua di un qualsiasi testimone, è tenuto all’obbligo della verità, potendo soltanto rifiutarsi di rispondere a domande relative ad una eventuale sua responsabilità in altri reati. 3. La cross-examination. — Vediamo ora cosa prevedono i due ordinamenti in questione in relazione al momento in cui l’imputato si sottopone all’esame o assume la veste di testimone a proprio discarico, analizzando in particolar modo quello che può essere definito il momento clou dell’esame: la cross-examination condotta dal prosecutor o dal pubblico ministero. Si può tranquillamente sostenere, con riferimento al processo con giuria statunitense, che le chances di successo rispettivamente dell’accusa o della difesa, qualora l’imputato decida di testimoniare, dipendono dai risultati di una cross-examination condotta in modo più o meno efficace. Negli Stati Uniti, l’imputato che si presenta a testimoniare può essere controesaminato dal prosecutor allo stesso modo di un qualsiasi altro teste (38). La cross-examination viene condotta su due fronti: appurare fatti che possono essere favorevoli alla tesi dell’accusa e, successivamente, mettere in dubbio la credibilità dell’imputato-testimone e delle dichiarazioni da lui stesso rilasciate in sede di esame diretto (39). Le due fasi del controesame sopraevidenziate offrono lo spunto per l’analisi del problema di quanto può essere estesa la cross-examination e, successivamente, di cosa può essere utilizzato dal prosecutor ai fini dell’impeachment. Il primo quesito comporta l’analisi di due differenti regole: l’English rule e l’American rule. In base alla c.d. English rule durante la cross-examination sono ammesse domande anche su temi diversi da quelli trattati (37) R. Orlandi, sub art. 209, in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., vol. II, cit., p. 503. (38) In Fitzpatrick v. United States, 178 U.S. 304, 315 (1900), la Corte Suprema ritenne che « where an accused party waives his constitutional privilege of silence, takes the stand in his own behalf and makes his own statement, it is clear that the prosecution has a right to cross-examine upon such statement with the same latitude as would be exercised in the case of an ordinary witness, as to the circumstances connecting him with the alleged crime ». V. inoltre, Sawyer v. United States, 202 U.S. 150 (1906); Powers v. United States, 223 U.S. 303 (1912); Raffel v. United States, 271 U.S. 494 (1926). (39) Cfr. V. FANCHIOTTI, La testimonianza nel processo « adversary », cit., p. 282 ss.


— 175 — in sede di direct examination: l’applicazione di tale regola, facente parte della tradizionale law of evidence, « costituisce indubbiamente una semplificazione nell’assunzione della prova testimoniale, sgombrando il campo dalle obiezioni che inevitabilmente l’avversario cercherà di avanzare energicamente per evitare che il cross-examiner invada territori non ancora dotati di sufficienti difese » (40). Al contrario, nelle giurisdizioni in cui vige l’American rule, la cross-examination può vertere unicamente su materie emerse durante la direct examination (41), che potranno, tuttavia, essere approfondite nei dettagli dal prosecutor. La c.d. American rule non trova ovviamente applicazione ai fini dell’impeachment. Una volta conclusa la prima fase della cross-examination, in cui il prosecutor avrà cercato di mettere in luce elementi favorevoli alla tesi dell’accusa, ha luogo l’impeachment « che della cross-examination costituisce la fase più hard ed anche la più difficile da sviluppare » (42). Vi è un’importante differenza tra l’impeachment dell’imputato e quella di un normale testimone: infatti, mentre le domande che tendono a screditare un testimone recano un pregiudizio esclusivamente alla parte che lo ha citato, diminuendo il peso della testimonianza, le domande rivolte dal prosecutor all’imputato hanno come inevitabile effetto quello di danneggiarlo direttamente. Il prosecutor, al fine di minare la credibilità dell’imputato che si presenta a testimoniare in sede dibattimentale, può utilizzare i suoi precedenti penali, il bad character o reputation e i prior inconsistent o contradictory statements resi dall’imputato anteriormente al dibattimento. Un primo metodo consiste dunque nel rivelare le precedenti condanne dell’imputato (43): la Corte Suprema ha ritenuto che la legislazione statale che permette tale sistema non è in contrasto con il dettato della Costituzione degli Stati Uniti (44). A tale proposito occorre osservare che nell’ordinamento statunitense, durante il dibattimento, l’unico modo per(40) V. FANCHIOTTI, La testimonianza nel processo « adversary », cit., p. 283. (41) Grisby v. Commonwealth, 187 S.W. 2d 259 (Ky 1945). La Rule 611 (b) delle Fed. R. Evid. prevede, a tale proposito, che la « cross-examination should be limited to the subject matter of the direct examination and matters affecting the credibility of the witness. The court may, in the exercise of discretion, permit inquiry into additional matters as if on direct examination ». (42) V. FANCHIOTTI, La testimonianza nel processo « adversary », cit., p. 285. (43) Fed. R. Evid., Rule 609. In United States v. Hawley, 554 F. 2d 50 (2nd Cir. 1977), la Corte d’Appello ritenne che « the trial court did not abuse its discretion in denying defendant’s motion to exclude evidence of another crime ». (44) Spencer v. Texas, 385 U.S. 554 (1967), in cui si sostenne che « Texas procedure for enforcing its habitual criminal statutes through allegations in indictment of prior offenses and introduction of proof respecting past convictions with charge by court that such matters are not to be taken into account in assessing defendant’s guilt or innocence under current


— 176 — ché la giuria venga a conoscenza dei precedenti penali dell’imputato è che questi si presenti a testimoniare; in caso contrario, solo il giudice, e soltanto nella fase del sentencing, verrà a conoscenza delle sue vicende penali anteriori. Tale regola non vige nel nostro ordinamento, dove è previsto (artt. 236 e 431 c.p.p.) che all’interno del fascicolo per il dibattimento siano raccolti il certificato generale del casellario giudiziale, la documentazione esistente presso gli uffici del servizio sociale degli enti pubblici e presso gli uffici di sorveglianza, le sentenze irrevocabili di qualunque giudice italiano e le sentenze straniere riconosciute ai fini del giudizio sulla personalità dell’imputato. Appare sicuramente più garantista la regola americana, anche se occorre tener presente l’impatto che i precedenti penali dell’imputato possono avere su una giuria popolare e quindi sul verdetto non motivato che essa emette, a differenza dell’influenza che hanno sul nostro giudice che, ai fini della decisione, può basarsi solo sulle prove « legittimamente acquisite nel dibattimento » (art. 526 c.p.p.) e che è soggetto all’obbligo di motivazione. Tuttavia, la regola statunitense subisce delle eccezioni: in alcune giurisdizioni è infatti inammissibile l’utilizzazione dei precedenti penali ai fini dell’impeachment (45), mentre in altre ciò è consentito, ma limitatamente a determinate condanne. Ad esempio, nell’ordinamento federale, la Rule 609 (a) delle Federal Rules of Evidence prevede che possa essere utilizzata una precedente condanna solo se il reato « ... was punishable by death or imprisonment in excess of one year under the law which... (he) was convicted, and... if the court determines that the probative value of admitting this evidence outweighs its prejudicial effect to the accused ». Il giudice ammetterà, quindi, l’utilizzazione dei precedenti penali dell’imputato solo se si riferiscono a determinati reati e, al contrario, ne escluderà in ogni caso l’ammissibilità, in base alla c.d. prejudice rule, qualora il probative value sia superato dal pregiudizio che può essere recato all’imputato. In ogni caso può essere utilizzata una precedente condanna relativa a « dishonesty or false statement » anche se punito a titolo di misdemeanor (46). Altri parametri che possono aiutare il giudice nel decidere l’ammissibilità o meno di un precedente penale sono: il tempo trascorso dal preceindictment was not rendered unconstitutional under due process clause because of possibility of some collateral prejudice to defendant ». (45) In State v. Gunzelman, 502 P. 2d 705 (Kan 1972), la Corte Suprema del Kansas ritenne che « persistent efforts of county attorney on cross-examination of accused, which advised jury of prior convictions of accused, constituted prejudicial error where accused had not introduced evidence of his own good character or evidence to support his own credibility ». (46) È il c.d. crimen falsi. V. Fed. R. Evid., Rule 609 (a) (2). Cfr. V. FANCHIOTTI, La testimonianza nel processo « adversary », cit., p. 215.


— 177 — dente reato (« recent »), la natura del reato (« not trivial »), l’affinità tra il reato anteriore e quello per il quale è stato instaurato il processo, l’importanza della testimonianza dell’imputato e la centralità « of credibility issue » (47). Nonostante le limitazioni sopra descritte, la possibilità che il prosecutor utilizzi i precedenti penali in sede di impeachment funge spesso da deterrente al « desiderio » dell’imputato di illustrare alla Corte la propria versione dei fatti, considerando l’impatto molto forte e magari determinante, ai fini del verdetto, che tali precedenti possono avere sulla giuria. Sempre ai fini dell’impeachment è opportuno rimarcare che non è tuttavia permesso al prosecutor menzionare precedenti arresti o accuse non sfociate in condanne al solo scopo di minare la credibilità dell’imputato (48). Un altro metodo di impeachment è l’utilizzo del bad character o reputation (49) dell’imputato: le Federal Rules of Evidence lo consentono per dimostrare la disonestà del soggetto, cioè il « character for truthfulness or untruthfulness » (50). Tuttavia, al di fuori di una legge che lo preveda espressamente, è generalmente vietato l’impeachment mediante la prova del « general moral character » (51), dal momento che ciò recherebbe un pregiudizio troppo grave all’imputato. Il prosecutor può inoltre utilizzare, durante la cross-examination, i « prior inconsistent » o « contradictory statements » resi dall’imputato al di fuori del dibattimento. Tra tali dichiarazioni assumono grande importanza quelle rese dall’imputato alla polizia successivamente all’arresto, dopo che al soggetto sono stati letti i « Miranda warnings » (52) e che

(47) Tali fattori sono stati evidenziati in United States v. Hawley, cit., p. 53. (48) In Grisby v. Commonwealth, cit., p. 260, la Corte d’Appello del Kentucky stabilì che « the statute permitting witness to be impeached by evidence of conviction of felony does not permit commonwealth to require accused to admit, or otherwise to prove, that he has been merely charged with some particular crime or has been convicted of or is guilty of misdemeanor ». (49) A tale proposito si veda State v. Bracey, 277 S.E. 2d 390 (NC 1981), in cui la Corte stabilì che la « cross-examination of defendant in a robbery prosecution about his purchase and use of marijuana and drinking of beer after defendant testified he did not have a job between certain dates was relevant (1) to impeach the evidence of good character already in evidence, or (2) to estabilish a pecuniary motive for the robberies ». V., inoltre, State v. Glass, 709 F. 2d 669 (11th Cir. 1983). (50) La Rule 608 (a) prevede tale forma di impeachment con i seguenti limiti: « (1) the evidence may refer only to character for truthfulness or untruthfulness, and (2) evidence of truthful character is admissible only after the character of the witness for truthfulness has been attacked by opinion or reputation evidence or otherwise ». (51) V. FANCHIOTTI, La testimonianza nel processo « adversary », cit., p. 288. (52) Cfr. Miranda v. Arizona, 384 U.S. 436 (1966).


— 178 — quindi possono essere utilizzate dal prosecutor durante la cross-examination (53). Cosa accade se le dichiarazioni dell’imputato sono state rese in violazione delle regole sancite dal caso Miranda? A tale proposito è intervenuta la Corte Suprema nel 1971 con una decisione molto discutibile dal punto di vista delle garanzie dell’imputato e che segna in maniera decisa il distacco tra il nuovo corso intrapreso dal Chief Justice Burger e la cosiddetta « due process revolution » realizzata sotto la presidenza del giudice Warren. Infatti, tale sentenza stabilisce che la confessione, che non può essere utilizzata dal prosecutor come prova di colpevolezza perché l’imputato, prima di renderla, non era stato avvisato del diritto all’assistenza del difensore e del diritto al silenzio, può essere utilizzata ai fini dell’impeachment per mettere in dubbio la credibilità dell’imputato qualora si presenti a testimoniare (54). Si può facilmente immaginare quale sia l’effetto di tale confessione — che, come si è appena visto, è stata raccolta illegittimamente — sulla giuria, la quale difficilmente sarà in grado di utilizzarla al solo scopo di verificare l’attendibilità dell’imputato, evitando di porla come base per un verdetto di colpevolezza. Inoltre, nell’ordinamento federale dal 1975 è prevista l’utilizzazione dei prior inconsistent statements non solo ai fini dell’impeachment, ma a titolo di substantive evidence (55), lasciando libera la giuria di scegliere se credere alle dichiarazioni predibattimentali o a quelle dibattimentali (56). Se dunque le modalità di svolgimento della cross-examination condotta dal prosecutor sono caratterizzate dall’applicazione della c.d. American rule o della c.d. English rule, a seconda delle giurisdizioni, e dalla possibilità di utilizzare ai fini dell’impeachment i precedenti penali, il bad character o reputation e i prior statements dell’imputato, non altrettanto può dirsi in relazione al nostro sistema. Infatti, riprendendo l’analisi dei due profili trattati precedentemente, (53) Anderson v. State, 356 So 2d 382 (Fla 1978). (54) Harris v. New York, cit., p. 222, in cui si legge che « statement which was inadmissible against defendant in prosecution’s case in chief because defendant had not been advised of his rights to counsel and to remain silent prior to making statement but which otherwise satisfied legal standards of trustworthiness was properly usable for impeachment purposes to attack credibility of defendant’s trial testimony ». In linea con il caso Harris è State v. Kelly, 413 A. 2d 300 (NH 198O), in cui si sostiene che non è incompatibile con il diritto dell’imputato di testimoniare la possibilità per il prosecutor di utilizzare ai fini dell’impeachment una confessione ottenuta in violazione dei principi stabiliti dal caso Miranda, e sebbene in tale situazione l’imputato debba spesso scegliere tra due spiacevoli alternative, ciò non è in contrasto con il due process. (55) La Rule 801 (d) (1) delle Fed. R. Evid. prevede tale possibilità per prior inconsistent statements resi sotto giuramento durante « a trial, hearing, or other proceeding, or in a deposition ». (56) Cfr. V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, Torino, 1987, p. 138.


— 179 — e cioè l’ampiezza operativa della cross-examination e il materiale che può essere utilizzato dal pubblico ministero per le contestazioni, al fine di valutare quindi la credibilità dell’imputato che si sottopone all’esame, saranno poste in luce le analogie e le differenze rispetto al sistema statunitense. Nel nostro ordinamento, dal momento che l’area entro cui si deve svolgere il controesame non è stabilita da una particolare norma, « ma è ricavabile, semmai, dalla stretta logica del sistema, è da prevedere una certa larghezza nel consentire l’estensione » (57): è quindi applicabile la c.d. English rule, che permette domande anche su temi diversi da quelli trattati nel corso dell’esame diretto. Come sopra accennato, i precedenti penali dell’imputato entrano in ogni caso a far parte del fascicolo per il dibattimento ed è perciò estraneo alla logica del nostro sistema l’utilizzo degli stessi in sede di contestazioni. Se dunque si vuole operare un parallelismo tra i due sistemi processuali occorre far riferimento all’utilizzazione dei prior statements dell’imputato, i quali, in entrambi gli ordinamenti, sono posti a metà strada tra prove e semplici tests di attendibilità. Si è già visto precedentemente come una confessione resa senza l’osservanza dei « Miranda warnings » ed utilizzata per l’impeachment, non nasconda in realtà l’insidia di essere determinante per l’emanazione di un verdetto di colpevolezza da parte della giuria: da mezzo di valutazione di credibilità, può diventare vera e propria prova, quantomeno a livello inconscio. Nel nostro ordinamento vige la previsione normativa dell’art. 503 c.p.p. che stabilisce quando le dichiarazioni precedentemente rese dall’imputato, se utilizzate per le contestazioni, servono per saggiarne l’attendibilità, ovvero quando vengono acquisite al fascicolo per il dibattimento, diventando prove valutabili dal giudice in sede decisoria. L’art. 503 c.p.p. prevede innanzitutto che, al solo scopo di valutare la credibilità dell’imputato, possono essere utilizzate le sue precedenti dichiarazioni, contenute nel fascicolo del pubblico ministero. A titolo esemplificativo si possono menzionare le dichiarazioni spontanee rilasciate dalla persona sottoposta alle indagini alla polizia giudiziaria a norma dell’art. 350 comma 7 c.p.p., oppure al pubblico ministero a norma dell’art. 374 c.p.p. (presentazione spontanea). Se la regola è quella per cui le dichiarazioni rese in precedenza possono essere utilizzate soltanto come test di attendibilità, l’eccezione è rappresentata dalle dichiarazioni « garantite », cioè da quelle alle quali il difensore aveva diritto di assistere assunte dal pubblico ministero, dalla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero e dal giudice per le indagini preliminari, anche in sede di (57) G. FRIGO, sub art. 498, in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., vol. V, 1991, p. 249.


— 180 — udienza preliminare. Tali dichiarazioni, se utilizzate per le contestazioni, vengono successivamente inserite nel fascicolo per il dibattimento — analogamente a quanto avviene negli Stati Uniti, in ambito federale e nello Stato della California, per i prior inconsistent statements resi sotto giuramento durante un « trial, hearing or other proceeding or in a deposition » — diventando fonte di convincimento per il giudice. Possono essere utilizzati a tale scopo, ad esempio, i verbali dell’interrogatorio assunto dal giudice per le indagini preliminari dalla persona in stato di custodia cautelare (art. 294 c.p.p.), oppure in sede di udienza di convalida dell’arresto o del fermo (art. 391 c.p.p.); ovvero i verbali dell’interrogatorio a cui abbia eventualmente proceduto il pubblico ministero o delle sommarie informazioni assunte dalla polizia giudiziaria a norma dell’art. 350 comma 3 c.p.p. L’istituto delle contestazioni viene perciò ad essere un mezzo per porre sullo stesso piano le prove assunte in dibattimento secondo i principi tipici del rito accusatorio e gli atti assunti, oltre che dal giudice per le indagini preliminari, anche da un soggetto-parte processuale, nel corso della fase procedimentale (58). 4. Momento processuale in cui viene assunto l’esame dell’imputato. — Merita ora un breve cenno la verifica circa il momento processuale in cui viene assunto il contributo orale dell’imputato. Il nostro sistema processuale prevede, ai sensi del combinato disposto degli artt. 503 c.p.p. e 150 disp. att. c.p.p., che tale soggetto sia esaminato non appena terminata l’assunzione delle prove a carico e dopo l’eventuale esame della parte civile, del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria. Negli Stati Uniti, un’interessante analisi di tale questione ci viene offerta dal caso Brooks (59), in cui la Corte Suprema ha dichiarato incostituzionale una legge vigente nello Stato del Tennessee la quale prevedeva che, se l’imputato voleva testimoniare, doveva farlo prima di ogni altro teste della difesa (come avviene nell’ordinamento italiano). Tale regola traeva la propria origine nella prassi secondo la quale i testimoni, prima di rendere la loro testimonianza, non potevano assistere al processo affinché non venissero influenzati dalle altre testimonianze; dal momento che l’imputato aveva diritto ad essere presente al processo, si riteneva opportuno che egli dovesse essere sentito per primo per ridurre al minimo la predetta (58) V. P.P. Rivello, sub art. 503, in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., vol. V, cit., p. 352, secondo il quale « tali contestazioni, in questo caso, finiscono infatti con l’essere un « cavallo di Troia » per attribuire ad atti della fase pre-processuale un valore di prova dibattimentale che in realtà dovrebbe essere loro preclusa ». (59) Brooks v. Tennessee, 406 U.S. 605 (1972). Cfr. W.R. LA FAVE-J.H. ISRAEL, Criminal Procedure, cit., p. 1032.


— 181 — influenza su di lui (60). La prassi in questione ha suscitato nel corso degli anni vivaci critiche perché era considerata come una limitazione sulla libertà di scelta dell’imputato di testimoniare o meno. Si è arrivati così alla decisione del caso Brooks, in cui la Corte Suprema ritenne che l’interesse statuale insito nella legislazione dello Stato del Tennessee teso ad evitare che i testimoni venissero influenzati, non era un interesse sufficiente a privare l’imputato del suo diritto di rimanere in silenzio durante il processo (61). Sempre secondo la Corte, sussisteva comunque il rischio che il soggetto modellasse la propria esposizione in base a ciò che era stato detto dai testimoni, ma spettava poi alla giuria verificare la credibilità dello stesso (62). In seguito a quanto emerso da quest’ultima analisi comparativa appare necessaria una breve considerazione. È giusto che la difesa sia libera non solo di valutare l’opportunità o meno di assumere l’esame dell’imputato, ma anche il momento in cui procedere all’acquisizione di questo mezzo di prova. Tale valutazione rappresenta una scelta strategica che può dipendere dai risultati dell’escussione dei testi a discarico che magari non è andata secondo le aspettative, ma anche dalla semplice volontà dell’imputato il quale, se in un primo momento è contrario all’idea di sedere al banco dei testimoni, deve poter essere sempre in grado, fino al termine dell’istruzione dibattimentale, di cambiare la propria idea. 5. Esame dell’imputato e witnesses of defendant: due differenti modi di assunzione delle conoscenze dell’imputato. — Al termine di questo excursus comparativo sono doverose alcune brevi note conclusive. Innanzitutto è inevitabile chiedersi se veramente il nostro modello processuale ricalchi quello statunitense, oppure se alla base dei due sistemi vi siano delle diversità notevoli che incidono sulla disciplina dei vari istituti. Dal momento che la seconda opzione appare la più accreditata, verranno sottolineate due differenze che sono state precedentemente analizzate e che danno luogo a profonde divergenze nella disciplina dell’esame dell’imputato. In primo luogo troviamo l’equiparazione, compiuta dalla giurisprudenza statunitense, dell’imputato al testimone, nel momento in cui decide di sottoporsi ad esame: la conseguenza di tale scelta comporta per lo stesso l’obbligo di prestare giuramento e, quindi, di dire la verità. Al contrario, il nostro legislatore ha disciplinato in modo distinto l’esame delle parti private rispetto a quello testimoniale, con la conseguenza che l’imputato ha la possibilità di avvalersi della facoltà di non rispondere e anche di mentire durante l’esame. (60) (61) (62)

Brooks v. Tennessee, cit., p. 607. Brooks v. Tennessee, cit., p. 611. Brooks v. Tennessee, cit., p. 611.


— 182 — Una seconda differenza che incide sulla disciplina del mezzo di prova in esame è la presenza o meno della giuria nel processo. Si è visto precedentemente come uno dei metodi più pericolosi di impeachment sia l’utilizzazione da parte del prosecutor dei precedenti penali dell’imputato, contrariamente a quanto avviene nel nostro sistema, dove è previsto che essi vengano inseriti automaticamente nel fascicolo per il dibattimento. Tale diversa disciplina è la logica conseguenza dell’esistenza di un processo con o senza giuria: infatti, la giuria popolare che emette un verdetto immotivato sarà sicuramente influenzata dai precedenti penali dell’imputato, diversamente dal nostro giudice che deve sottostare all’obbligo di motivazione. Si può dunque concludere sottolineando come la presenza nei due ordinamenti di differenze che a prima vista sembrerebbero di marginale importanza, in realtà conduca alla creazione di discipline assai divergenti. Solo avendo ben presenti le radici storiche e i principi di fondo dei due sistemi si riesce ad evitare di compiere una mera equiparazione tra il nostro sistema processuale e quello statunitense. Occorre quindi rivalutare le differenze al fine di cogliere le peculiarità insite nei due ordinamenti, rigettando l’etichetta troppo riduttiva, con la quale spesso si liquida il nostro rito, di « processo all’americana ». MARIUCCIA GIACCA Dottoranda di ricerca in Diritto processuale penale comparato Università di Trento


— 183 —

LA VALUTAZIONE DELLA CHIAMATA IN CORREITÀ AI FINI DELLA SUSSISTENZA DEI « GRAVI INDIZI DI COLPEVOLEZZA » CHE LEGITTIMANO L’ADOZIONE DI UNA MISURA CAUTELARE PERSONALE

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. I « gravi indizi di colpevolezza » come presupposto probatorio delle misure cautelari personali. — 3. La pluralità di significati attribuita al termine « indizio » nel codice 1988 ed il problema dell’operatività in sede cautelare delle disposizioni generali in tema di valutazione della prova. — 4. La chiamata in correità nel sistema delle prove penali: natura giuridica ed efficacia dimostrativa. — 5. La valutazione della chiamata in correità nel procedimento cautelare. — 6. La chiamata in correità de relato: struttura e criteri valutativi ai fini dell’emanazione dei provvedimenti de libertate.

1. Premessa. — In un sistema processuale penale che non riesce, nonostante la sua riforma ed i continui (pur se frammentari, e non di rado contraddittori) aggiustamenti normativi, a garantire una tempestiva (ed efficiente) risposta in termini di accertamento giurisdizionale definitivo, il procedimento applicativo delle misure cautelari personali finisce per assumere inevitabilmente, al di là delle sue finalità tipiche, un ruolo chiave nell’intera dinamica processuale, facendosi persino carico talvolta di assumere de facto funzioni eccentriche rispetto a quelle — eccezionali e strumentali all’esercizio della giurisdizione — istituzionali, compensando emotivamente carenze e disfunzioni nella reazione dell’ordinamento alla violazione delle norme penali sostanziali. È altresì nota la sempre crescente rilevanza che va acquistando, sotto il profilo probatorio, l’istituto della chiamata in correità, e non esclusivamente nel perseguimento dei reati commessi dalla criminalità organizzata — ove la spinta degli incentivi legislativi a collaborare con la giustizia ha certamente conferito una dimensione piu tangibile (ed eclatante) al fenomeno — ma anche nella quotidiana gestione della giustizia penale. Tali sintetici e preliminari rilievi appaiono sufficienti per evidenziare la centralità, nell’odierno assetto del sistema cautelare (e, più in generale, dell’intero processo penale), del delicato e controverso tema della operatività delle regole di valutazione probatoria, tracciate nel titolo I del libro terzo del codice di rito, all’interno del procedimento cautelare; ed in particolare, per le considerazioni appena esposte, nella valutazione delle dichiarazioni rese dal chiamante in correità al fine del concretarsi del preRiv. ital. dir. proc. penale 1/1996


— 184 — supposto dei « gravi indizi di colpevolezza » ex art. 273 comma 1 c.p.p., indispensabile per la sottoposizione a misura cautelare personale (1). Un tema che, come stiamo per vedere, è denso di implicazioni non soltanto sotto il profilo teorico. Sul punto, infatti, innumerevoli sono gli interventi della giurisprudenza di legittimità, riconducibili a due principali (ed antitetici) orientamenti: da un lato, si è sostenuto che le regole probatorie disegnate dall’art. 192 c.p.p. trovano applicazione in ogni segmento dell’iter procedimentale e, dunque, anche ai fini della valutazione dei presupposti della tutela cautelare (2); dall’altro, si è affermata la loro esclusiva operatività in sede di giudizio di merito (rectius, sull’oggetto principale del processo), con la conseguenza di escluderle dall’àmbito delle decisioni de libertate (3). Il discorso, in questa sede, non può ad ogni modo prescindere dal tentativo di dare una puntuale fisionomia al presupposto probatorio ex lege richiesto per l’emanazione di un provvedimento cautelare limitativo della libertà personale: un presupposto ridisegnato dal codice 1988, in attuazione della direttiva n. 59 della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, mediante la sostituzione della « tradizionale formula dei ‘‘sufficienti indizi di colpevolezza’’ » con quella « imperniata sul riferimento all’idea dei ‘‘gravi indizi di colpevolezza’’ », introdotta « non senza la consapevolezza dell’impossibilità di tracciare, in questo campo, linee di demarcazione nettissime », ma con la netta « convinzione che il mutamento abbia egual(1) Sui tratti tipici della tutela cautelare, all’interno del processo penale, si veda G. DI TROCCHIO, Provvedimenti cautelari (dir. proc. pen.), in Enc. dir., vol. XXXVII, 1988, p. 844 s.; M. FERRAIOLI, voce Misure cautelari, in Enc. giur., vol. XX, 1990, p. 1 s. Quanto alla non valutabilità dei « gravi indizi » ai fini dell’applicazione di misure cautelari reali, C. cost., sentenza 17 febbraio 1994, n. 48, in Cass. pen., 1994, p. 1455 s., ha affermato che « la scelta del codice di non riprodurre per le misure cautelari reali i presupposti sanciti dall’art. 273 per le misure cautelari personali non contrasta con l’art. 24 Cost., essendo graduabili fra loro i valori (libertà personale, da un lato, e libera disponibilità dei beni, dall’altro) che l’ordinamento prende in considerazione ». (2) Cfr. Cass., Sez. I, Pirovano, 26 settembre 1990, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 285; nonché infra, sub note 64 e 67. (3) In questa direzione, oltre alle sentenze successivamente richiamate, Cass., Sez. VI, 8 settembre 1992, Sacco, in C.E.D. Cass., n. 192822; Id., Sez. VI, 3 settembre 1992, Oliva, ivi, n. 192269; Id., Sez. II, 5 giugno 1992, Minniti, ivi, n. 190798; Id., Sez. VI, 19 febbraio 1992, Papale, ivi, n. 191251; Id., Sez. VI, 15 gennaio 1991, Dresia, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 628; Id., Sez. V, Covelli, 12 ottobre 1990, ivi, p. 467. La recente sentenza delle Sez. un., 21 aprile 1995, Costantino ed altro, in Cass. pen., 1995, p. 2837 s. (con nota di S. BUZZELLI, Chiamata in correita ed indizi di colpevolezza ai fini delle misure cautelari nell’insegnamento delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, ivi, p. 2842 s.), ha ritenuto l’art. 192 c.p.p. non « applicabile alla fase delle indagini preliminari ed in particolare alle misure cautelari come si ricava oltre che dalla sua rubrica all’esame delle specifiche disposizioni da esso dettate ».


— 185 — mente da esprimere un’indicazione di alto valore e di significato rilevante per gli operatori » (4). Ed il nuovo assetto normativo, difatti, si è subito riverberato sul piano dell’interpretazione giurisprudenziale consentendo di affermare che « il concetto di ‘‘gravità’’ degli indizi non può essere identificato con quello di ‘‘sufficienza’’ », distinguendosi da quest’ultimo sotto il profilo « quantitativo e qualitativo, giacché per la sua integrazione occorre l’obiettiva precisione dei singoli elementi indizianti, che nel loro complesso devono essere convergenti » (5). 2. I « gravi indizi di colpevolezza » come presupposto probatorio delle misure cautelari personali. — I « gravi indizi di colpevolezza » di cui all’art. 273 comma 1 c.p.p. vanno ad integrare il primo dei due fondamentali elementi tradizionalmente costitutivi della fattispecie cautelare — il fumus commissi delicti (6) — la cui sussistenza appare necessaria e preliminare allo stesso periculum libertatis (tratteggiato nel successivo art. 274 c.p.p.) (7) affinché un soggetto possa essere destinatario di un provvedimento che dispone una misura cautelare personale. (4) Così la Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in G.U. 24 ottobre 1988, n. 250, Serie generale, Supplemento ordinario n. 2, p. 71. Nella stessa direzione V. GREVI, Misure cautelari, in AA.VV., Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, 3a ed., 1993, p. 252, che parla di « evidente proposito di accentuare la consistenza della piattaforma indiziaria indispensabile per l’adozione di qualunque misura cautelare personale ». Anche E. ZAPPALÀ, Le misure cautelari, in SIRACUSANO-GALATI-TRANCHINA-ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, vol. I, 1994, p. 453, sottolinea che « è certo lasciata alla discrezionalità del giudice la definizione del concreto livello di consistenza al quale devono pervenire gli elementi di prova per poter fondare il provvedimento cautelare, ma già dallo stesso tipo di formula normativa adottata si coglie il grado di protezione accordata alla situazione di libertà ». Per una efficace sintesi dell’evoluzione normativa sul punto, a partire dal codice 1930, cfr. M. CHIAVARIO, sub art. 273 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. III, 1990, p. 29 s., che sottolinea i passaggi dai « sufficienti indizi » (codice 1930) ai « sufficienti elementi » (legge-delega del 1974 e Progetto preliminare del 1978) fino ai « gravi indizi » (legge-delega del 1987, l. 5 agosto 1988, n. 330, e codice 1988) di colpevolezza. (5) Cass., Sez. I, 2 aprile 1992, Mangone, in C.E.D. Cass., n. 190119. (6) Per quanto concerne più specificamente la caratterizzazione normativa del fumus commissi delicti, cfr. M. CHIAVARIO, sub art. 273, cit., in Commento, cit., vol. III, p. 28 s., che parla di « fondamento primario delle limitazioni processuali di libertà » e di « evidente e voluta assonanza col concetto di fumus boni iuris, di usuale impiego nella tematica cautelare del processo civile »; E. MARZADURI, voce Misure cautelari personali (princìpi generali e disciplina), in Dig. disc. pen., vol. VIII, 1994, p. 64 s. Sul punto v. pure, vigente il codice 1930, V. GREVI, Libertà personale dell’imputato e costituzione, 1974, p. 148 s. (7) La previsione è stata recentemente oggetto di una modifica legislativa, ad opera della l. 8 agosto 1995, n. 332, su cui cfr. A. CRISTIANI, Misure cautelari e diritto di difesa,


— 186 — Detti provvedimenti, di natura interlocutoria (8), hanno funzione meramente endoprocessuale e strumentale alla successiva attuazione dei comandi giuridici ritenuti in sentenza: la loro naturale provvisorietà induce a ricomprenderli nella categoria dei provvedimenti rebus sic stantibus (9), dovendosi ritenere prevalente il carattere della fattispecie decisa — di per sè mutevole ed instabile, ed in quanto tale suscettibile di modificazione ad ogni variazione delle condizioni di fatto e di diritto in base alle quali la decisione è stata resa — rispetto alla tendenziale sommarietà dell’accertamento in essi contenuto: un accertamento, peraltro, destinato ad acquisire una maggiore consistenza (e completezza) (10) a seguito del passaggio attraverso i vari stadi (e gradi) di controllo sui provvedimenti de libertate, essendo la prima delibazione normalmente frutto della prospettiva unilaterale della pubblica accusa, che sollecita all’organo giurisdizionale la pronuncia inaudita altera parte dei provvedimenti in parola (11). Il tutto in un quadro che deve tener conto del momento processuale in cui solitamente sorge l’esigenza di limitare la libertà personale a fini cautelari — le indagini preliminari — che implica di per sé un grado di conoscenza sensibilmente inferiore a quello raggiungibile all’esito del dibattimento: circostanza questa che impone una appropriata differenziazione delle soglie cognitive che legittimano il provvedimento cautelare, rispetto a quelle tipiche del provvedimento terminativo del processo (12). Non 1995, p. 25 s.; G. ILLUMINATI, Commento all’art. 3, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale, 1995, p. 64 s. Sul periculum libertatis cfr., per tutti, M. CHIAVARIO, sub art. 274 c.p.p., in Commento, cit., vol. III, p. 38 s.; E. MARZADURI, voce Misure cautelari personali, cit., in Dig. disc. pen. cit., vol. VIII, p. 70 s.; nonché, vigente il codice Rocco, V. GREVI, Libertà personale dell’imputato, cit., p. 155 s. (8) Sul concetto di « interlocutorietà » cfr., volendo, il nostro Provvedimenti « allo stato degli atti » e processo penale di parti, 1995, p. 108-109. (9) Dello stesso avviso F. PERONI, Chiamate di correo, dichiarazioni de relato e standards di gravità indiziaria nell’adozione di misure cautelari, in Cass. pen., 1994, p. 682, che parla di « fisionomia rebus sic stantibus tipica della delibazione cautelare ». Anche sulla differenziazione concettuale tra provvedimenti « alla stato degli atti » e provvedimenti rebus sic stantibus ci permettiamo di rinviare più diffusamente al nostro Provvedimenti « allo stato degli atti », cit., p. 122-123. (10) Il riferimento alla completezza dell’accertamento è naturalmente da intendersi in senso relativo, tenuto conto del momento processuale in cui questo interviene e del suo particolare oggetto. (11) La Relazione al progetto preliminare, cit., in G.U. 24 ottobre 1988, cit., p. 74, sottolinea che, in attuazione della direttiva n. 59 della legge-delega del 1987, il pubblico ministero « è, sotto questo profilo, soggetto necessariamente ‘‘richiedente’’ senza legittimazione a disporre, mentre, per converso, il giudice è soggetto decidente, ma non ex officio ». Sull’introdotta « dialettica cautelare » cfr., per tutti, F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato, 2a ed., 1992, p. 339. (12) Nella stessa direzione M. CHIAVARIO, sub art. 273, cit., in Commento, cit., vol. III, p. 32-33, secondo il quale certamente, « per fare legittimo uso del potere cautelare, non


— 187 — senza dimenticare, peraltro, che diverso è l’oggetto del provvedimento cautelare (opportunità di preservare persone e cose riferibili all’ipotetico reato in vista dei successivi sviluppi dell’iter procedimentale) rispetto a quello del provvedimento decisorio finale (accertamento della responsabilità dell’imputato). Da qui il divario nascente tra le due delibazioni, dalla giurisprudenza sintetizzato nella contrapposizione tra giudizio di probabilità, nel primo caso, e giudizio di certezza (sia pure in termini relativi), nel secondo. Si è così ritenuto che « gli indizi richiesti dall’art 273 c.p.p. per l’applicazione di una misura cautelare devono essere idonei non a dare la certezza della responsabilità della persona sottoposta ad indagini, bensì a dimostrare semplicemente la ragionevole probabilità — allo stato degli atti — che quella persona abbia commesso un certo reato » (13): affermazione condivisibile, sempre che permangano concettualmente inalterate le profonde c’è bisogno dello stesso genere e dello stesso grado di convinzione che è richiesto per condannare od anche soltanto per mandare a giudizio; ma, perchè l’uso non si trasformi in abuso, occorrerà certamente essere in possesso — e dar conto in motivazione — di un quadro di elementi idonei a sorreggere una più che credibile convinzione di responsabilità a carico di quella persona ». V. altresì G. AMATO, sub art. 273 c.p.p., in Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da E. Amodio e O. Dominioni, vol. III, 2, 1990, p. 16-17; F. PERONI, Chiamate di correo, cit., p. 679, il quale, nel « chiedersi quanto, ad un provvedimento connaturalmente provvisorio ed espressivo di una delibazione incidentale », qual è l’ordinanza che dispone una misura cautelare, « si conformino regole destinate, per contro, ad orientare il procedimento probatorio verso la decisione conclusiva del processo », sottolinea che l’indagine non può « limitarsi al solo piano dell’an circa l’operatività delle disposizioni richiamate », dovendo investire più propriamente anche « il quantum di siffatta operatività, non potendosi all’evidenza esigere, a presupposto della misura de libertate, il grado di certezza necessario per una decisione in ordine alla responsabilità dell’imputato ». (13) Così Cass., Sez. I, 3 marzo 1993, Marras, in Cass. pen., 1994, p. 2166-2167. Cfr. pure, con diverse sfaccettature, Id., Sez. I, 29 aprile 1993, Licciardello, in C.E.D. Cass., n. 194242; Id., Sez I, 23 aprile 1993, Surrenti, ivi, n. 194270; Id., Sez. I, 6 aprile 1993, Cafari ed altri, ivi, n. 193982; Id., Sez. I, 23 novembre 1992, Bottaro, ivi, n. 192659; Id., Sez. I, 7 luglio 1992, Di Pietrangelo, in Cass. pen., 1994, p. 677; Id., Sez. I, 23 aprile 1992, Montebello, ivi, 1993, p. 2348 (con nota di F. LATTANZI, In tema di indizi richiesti per l’applicazione di misure cautelari, ivi, p. 2348 s.); Id., Sez. I, 1o aprile 1992, Genovese, in C.E.D. Cass., n. 190345; Id., Sez. I, 9 marzo 1992, Criscuolo, ivi, n. 191164; Id., Sez. I, 30 maggio 1991, Birra, in Cass. pen., 1992, p. 1279; Id., Sez. I, 27 maggio 1991, Di Mauro, ibidem. Non senza ricordare che, « dietro questa convergenza nella definizione dei ‘‘gravi indizi’’, fanno spicco alcuni contrasti interpretativi a proposito del grado di probabilità che deve essere garantito dai gravi indizi (a seconda delle sentenze, una probabilità non ulteriormente specificata, ovvero ‘‘ragionevole’’, ‘‘apprezzabile’’, ‘‘rilevante’’, ‘‘consistente’’, ‘‘forte’’, ‘‘elevata’’, ‘‘alta’’) » (R. GUARINIELLO, Schede su Corte di cassazione e codice di procedura penale: misure cautelari personali e gravi indizi di colpevolezza, in Foro it., 1992, II, c. 310). Naturalmente non va dimenticato che anche il giudizio relativo all’accertamento della responsabilità è « un giudizio probabilistico, rispetto al quale gli accertamenti sui quali si fondano i provvedimenti cautelari personali permettono di apprezzare solo ‘variazioni di


— 188 — diversità esistenti tra le due situazioni in considerazione dei differenti scopi che le stesse perseguono. La prima, di natura eccezionale, si traduce difatti in una (più o meno ampia) limitazione della libertà personale del soggetto, anteriormente e al di fuori di ogni accurato accertamento sull’oggetto principale del processo, e per ciò solo dovrebbe essere attivata con la massima cautela e con il maggior rigore possibile (come del resto suggerisce il nuovo impianto codicistico, che impone parametri più rigidi per l’applicazione delle misure cautelari, oltre a prospettarne una articolata graduazione, in ragione di più o meno stringenti esigenze cautelari), differenziandosi dalla seconda che rappresenta invece lo sbocco dell’ordinario svolgersi dell’iter procedimentale e presuppone (di regola) la piena esplorazione di tutte le potenzialità processuali, riducendo drasticamente le possibilità di errori o, quantomeno, di valutazioni superficiali (ed incomplete). Tuttavia non di rado accade, e non soltanto nella coscienza comune, che il modo di ‘sentire’ i provvedimenti cautelari subisca una deformazione rispetto alle loro finalità tipiche, acquisendo gli stessi — anche per la naturale lentezza che caratterizza il processo penale italiano — il valore di una sorta di espiazione anticipata delle pene che andranno ad essere (in ipotesi) irrogate con il provvedimento decisorio finale (14). Tale atteggiamento, come stiamo per vedere, non è scevro di conseguenze sul piano della concreta valutazione dei presupposti della tutela cautelare, ed in particolare di quello probatorio dei « gravi indizi di colpevolezza » delineato dall’art. 273 comma 1 c.p.p. 3. La pluralità di significati attribuiti al termine « indizio » nel codice 1988 ed il problema dell’operatività in sede cautelare delle disposizioni generali in tema di valutazione della prova. — Va in primo luogo sottolineato che tale norma, « perpetuando una infelice ambiguità già criticata all’epoca del codice abrogato » (15), utilizza il concetto di « indigrado su una scala sostanzialmente omogenea... non differenze qualitative ed assolute’ » (E. MARZADURI, voce Misure cautelari personali, cit., in Dig. disc. pen., cit., vol. VIII, p. 67). Di « opinabile suddivisione binaria tra giudizio di probabilità e giudizio di certezza » parla S. BUZZELLI, Chiamata in correità ed indizi di colpevolezza, cit., p. 2848. (14) Sul punto si rinvia a L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, 1989, p. 808-809, ad avviso del quale « poliziesche » sono « le due funzioni effettive — di ordine punitivo e processuale — (dalla custodia cautelare) ormai prevalentemente svolte. La prima funzione è quella legata alla sua natura di pena anticipata. Sotto tale aspetto, la cattura dell’imputato sospettato nell’immediatezza del fatto rappresenta indubbiamente la misura di difesa sociale più efficace: prima si punisce e poi si processa, ovvero si punisce processando. La seconda funzione oggi assunta dal carcere preventivo è quella direttamente inquisitoria. Sempre più comunemente la cattura è ordinata, e soprattutto mantenuta, per costringere l’imputato a confessare o a collaborare ». (15) In questi termini V. GREVI, Prove, in Profili, cit., p. 201.


— 189 — zio » in una diversa prospettiva rispetto a quella che sta alla base della tradizionale contrapposizione, nella teoria della prova, tra « prove » ed « indizi », vale a dire tra prova diretta e prova critica indiretta (o indiziaria) (16), che si presentano come portatrici di un tipo di conoscenza strutturalmente (e per alcuni qualitativamente) diversificato (17). F. CORDERO, Procedura penale, 3a ed., 1995, p. 556, osserva che « talvolta ‘‘indizio’’ significa conclusioni più o meno probabili su qualcosa, comunque ottenute: l’art. 2731, a proposito delle misure cautelari sulla persona », mentre nel « significato tecnico moderno ‘‘est signum, argumentum, ‘indizio’, ‘contrassegno’; et occurrit cum genitivo rei, quae indicatur’’; insomma, argomento induttivo o, meglio, il dato sensibile su cui lo formuliamo ». Cfr. pure, da ultimo, T. TREVISSON LUPACCHINI, « Indizio », segno equivoco o plurivoco per forza di connotazione?, in questa Rivista, 1995, p. 309. Sul concetto di indizio v. S.C. DE MICHELE, voce Indizio, in Dig. disc. pen., vol. VI, 1992, p. 380 s.; nonché, da ultimo, S. BATTAGLIO, « Indizio » e « prova indiziaria » nel processo penale, in questa Rivista, 1995, p. 375 s. (16) V. GREVI, Prove, cit., in Profili, cit., p. 200-201, sottolinea che tale classificazione non può ritenersi coincidente con quella tra prova storica (o rappresentativa) e prova critica, « a seconda che il fatto da provare venga descritto o, comunque, riprodotto immediatamente davanti al giudice, ovvero che, invece, si renda necessario l’intervento di inferenza del medesimo giudice, sulla base di un itinerario logico critico », in quanto ispirate da criteri eterogenei, che « possono dar luogo a differenti combinazioni, in ragione del punto di vista adottato »: infatti, mentre per un verso le prove storiche possono « avere ad oggetto anche un fatto diverso rispetto al fatto da provare » e quindi assumere la veste di prove indirette; per un altro, « fermo restando che tutte le prove indirette presentano struttura di prove critiche, non si può escludere che anche una prova riconducibile a quest’ultima categoria possa avere ad oggetto il fatto assunto quale thema probandum, e quindi abbia natura di prova diretta ». F. CORDERO, Il procedimento probatorio, in Tre studi sulle prove penali, 1963, p. 13 s., afferma che nella categoria delle prove critiche « rientrano i casi, in cui la traccia passibile di sensazione non è offerta da un atto o una cosa nata dall’artificio rivolto ad evocare o a fissare l’immagine d’un fatto » (come accade, rispettivamente, nella testimonianza e nel documento), trattandosi di oggetti non destinati originariamente a provare. Purtuttavia, « i fenomeni della natura e i fatti della storia non compongono una costellazione di monadi, ciascuna sorda alle altre; in fondo si coglie un’inesauribile trama di connessioni », e l’esperienza « insegna che, nella misura dell’id quod plerumque fit, le azioni dell’uomo si succedono in un ordine, a intendere il quale giovano le leggi della psicologia, dell’economia e della fisiologia: donde la possibilità, data un’azione, di formulare un giudizio di probabilità su quella che l’ha preceduta e sulle altre che presumibilmente la seguiranno. L’itinerario conoscitivo è scandito in due momenti: il primo mette capo all’individuazione della regola o massima d’esperienza, a cui il caso si presta ad essere ricondotto; il secondo si risolve in un’inferenza: un procedimento sillogistico, al quale si addice la formula ‘‘prova critica’’ ». V. pure G. UBERTIS, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, 1979, p. 110 s., ove dopo aver sottolineato che « l’elemento discretivo tra prova rappresentativa e prova critica » risiede « nel differente rapporto in cui si pongono l’elemento ed il risultato di prova », in quanto « nella prova rappresentativa il primo raffigura lo stesso risultato di prova, tanto che l’inferenza dall’uno all’altro appare ‘‘automatica’’ », mentre nella prova critica « l’elemento di prova delinea qualcosa di diverso dal risultato di prova, cui pertanto si giunge tramite una più manifesta e consapevole mediazione intellettuale », si afferma che « la distinzione tra prova in senso stretto (tanto critica quanto rappresentativa) ed indizio (o presunzione semplice) concerne la modalità logica della conclusione successiva all’inferenza fondata sull’ele-


— 190 — Mentre la prima species probatoria, difatti, ha per oggetto proprio i fatti che si intende provare nella loro storicità, nel caso della prova indiziaria è solo attraverso un articolato processo logico-deduttivo che l’organo giudicante, partendo da un fatto diverso rispetto a quello da provare, perviene alla prova del fatto stesso (rectius, a verificare il giudizio su un determinato fatto): l’indizio, insomma, è un argomento probatorio indiretto, un « fatto dal quale ne inferiamo un altro, un segno che in qualche modo lo indica » (18). mento di prova », in quanto « ambedue vengono impiegati per la verifica di un enunciato fattuale integrativo del thema probandum, ma soltanto nella prima il passaggio dall’elemento al risultato di prova è univocamente determinato »; nonché ID., La prova penale, 1995, p. 44 s. In ordine ai concetti di prova storica e di prova critica, si rinvia più diffusamente alle pagine di F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, vol. I, 1946, p. 214 s.; E. FASSONE, La valutazione della prova, in AA.VV., Manuale pratico dell’inchiesta penale, a cura di L. Violante, 1986, p. 114 s. Sulla distinzione tra prova diretta e prova indiretta, cfr. pure E. FLOa RIAN, Delle prove penali, 3 ed., a cura di P. Fredas, 1961, p. 62; nonché, da ultimo, C. TAORMINA, Diritto processuale penale, vol. II, 1995, p. 65 s. (17) Cfr. in argomento P. FERRUA, Studi sul processo penale, 1990, p. 106-107; A. NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, 4a ed., 1995, p. 152-153; C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. II, p. 75 s.; nonché, in giurisprudenza, Cass., Sez. I, 6 luglio 1992, Russo, in C.E.D. Cass., n. 191509, ove si afferma che, « quanto al concetto di ‘‘indizio’’ in contrapposizione a quello di ‘‘prova’’, deve ritenersi superata la tradizionale distinzione tra la prova rappresentativa e quella critica che viene fatta al fine di una attribuzione di un maggiore o minore valore processuale all’una piuttosto che all’altra. Non può infatti contestarsi che ad alcune prove che rientrano nella categoria di quelle ‘‘indirette’’ o ‘‘critiche’’ deve riconoscersi rilievo di attendibilità superiore rispetto ad altre che pure rientrano in quella delle ‘‘dirette’’ o ‘‘rappresentative’’ e anzi possono valere a verificare queste ultime »; Id., Sez. VI, 20 giugno 1991, Pernice, in Cass. pen., 1992, p. 1849 s., secondo cui, « al di là delle classificazioni teoriche, non è possibile stabilire, nel processo penale, un ordine di precedenza tra prove dirette (o ‘‘storiche’’) e prove indirette (o ‘‘critiche’’), poiché, sia in relazione alle une, che alle altre, resta fondamentale l’attività raziocinante del giudice », che « deve essere documentata nella motivazione per garantire che il ‘‘libero convincimento’’ sia stato raggiunto, dal giudice, attraverso un ‘‘iter’’ logico ineccepibile. È tutt’altro che infrequente, invero, il fatto che, nei congrui casi, una pluralità di indizi può consentire al giudice di raggiungere livelli di ‘‘certezza’’ di gran lunga superiori a quelli resi possibili da una o più prove ‘‘dirette’’ », sempre che gli indizi siano gravi, precisi e concordanti: d’altro canto, « la prova penale non è quasi mai monolitica, ma si ottiene componendo come in un mosaico, i vari frammenti di verità (logica), collocando ciascuno nel posto che gli compete ». Contra, (vigente il codice 1930), G. DI CHIARA, Chiamata di correo, garantismo collettivo e diritto di difesa, in questa rivista, 1987, p. 230, il quale osserva che anche alla luce del principio del libero convincimento, « pur non essendo ‘‘tariffata’’ la forza probante di questo o di quell’elemento, al giudice non è concesso valutare nello stesso modo una prova stricti iuris e un indizio, in quanto essi hanno ontologicamente una efficacia ‘‘persuasiva’’ di livello diverso. Ciò discende dalla stessa elaborazione giuridica della nozione di indizio »; G. LEONE, Manuale di diritto processuale penale, 13a ed., 1988, p. 446, secondo il quale la differenza « tra prove e indizi esiste; ed è immensa ». (18) In questi termini F. CORDERO, Procedura penale, 9a ed., 1987, p. 952, che ricorda pure come « nella lingua civilistica fenomeni del genere sono denominati ‘‘presunzioni


— 191 — Nella sua accezione propria, pertanto, l’indizio si differenzia strutturalmente rispetto alla prova stricto sensu, richiedendo come si è visto un ulteriore passaggio inferenziale, ed è per questo che il codice 1988 predispone una serie di regole valutative particolarmente rigorose da rispettare, affinché gli indizi possano assurgere a dignità di prova. Si spiega così la disposizione contenuta nell’art 192 comma 2 c.p.p. — collocata, non va dimenticato, all’interno del titolo I del libro terzo, recante Disposizioni generali in materia di prove — in base alla quale l’esistenza di un fatto non può essere desunta e provata attraverso indizi, « a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti »: previsione introdotta dal legislatore con il preciso intento di porre un « freno nei confronti degli usi arbitrari e indiscriminati di elementi ai quali, sul piano logico, non è riconosciuta la stessa efficacia persuasiva delle prove » (19). Diverso è il senso che si deve attribuire al termine « indizio » nel contesto dell’art. 273 comma 1 c.p.p. (così come degli artt. 292 comma 2 lett. c) e — per la misura pre-cautelare del fermo — 384 comma 1 c.p.p.), ove si fa riferimento non già ad una particolare tipologia probatoria, ma piuttosto alla peculiare consistenza che di consueto assumono gli elementi conoscitivi su cui si innestano i provvedimenti cautelari, in considerazione del momento processuale in cui più frequentemente gli stessi vengono alla luce (e trovano la loro ragion d’essere) (20). semplici’’, intendendo per tali ‘‘le conseguenze che... il giudice trae da un fatto noto per risalire a uno ignoto’’ ». P. FERRUA, Studi sul processo penale, cit., p. 48, sottolinea che « le prove indiziarie (o critiche) si contrappongono alle c.d. dichiarazioni di prova (o prove storiche) non già per il loro diverso grado di attendibilità, ma per la loro struttura », in quanto « nella prova indiziaria il fatto è indotto da un altro fatto, secondo una regola di implicazione »; D. SIRACUSANO, Le prove, in SIRACUSANO-GALATI-TRANCHINA-ZAPPALÀ, Diritto processuale, cit., vol. I, p. 385, fa presente che nella prova indiretta la prova « non coincide con la conoscenza giudiziale del fatto principale, ma attiene ad un fatto secondario dal quale dovrebbe dedursi la prova del fatto principale » avvalendosi di un procedimento critico; T. TREVISSON LUPACCHINI, « Indizio », segno equivoco o plurivoco, cit., p. 310, ritiene che « gli ‘indizi’, al pari delle ‘prove’ sono ‘strumenti del giudizio storico’ e quelli si oppongono a queste per la struttura, non già per un minor grado di attendibilità ». U. ALOISI, Sentenze di proscioglimento. Prova, indizio e sospetto di reato, in Riv. pen., 1946, p. 627, afferma che « l’indizio ha minore efficacia dimostrativa rispetto alla prova »; E. FLORIAN, Delle prove penali, cit., p. 64, (che peraltro distingue gli indizi dalle presunzioni) evidenzia che gli indizi, « per la loro più remota relazione col tema fondamentale della prova, posseggono un minor grado di attitudine e di efficacia probatoria ». (19) Così la Relazione al progetto preliminare, cit., in G.U. 24 ottobre 1988, cit., p. 61. Di « minor decisività della prova indiziaria rispetto alla prova storica », dovendosi « nel caso della prova critica compiersi due valutazioni », parla G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, 2a ed. agg., 1995, p. 174. (20) Cfr. E. MARZADURI, voce Misure cautelari personali, cit., in Dig. disc. pen., cit., vol. VIII, p. 65; M. NOBILI, La nuova procedura penale, 1989, p. 170, secondo il quale « il


— 192 — L’utilizzazione impropria del concetto di « indizio », pertanto, mira in questa circostanza a sottolineare il carattere tendenzialmente sommario, e comunque incompleto, dell’accertamento posto in essere nella fattilegislatore fa un uso improprio del concetto di ‘‘indizi’’; lo usa per indicare una sorta di ‘‘prova nana’’. Non distingue cioè fra i vari tipi di prova (ossia di strumenti di giudizio), ma allude al ‘‘peso’’, per così dire, degli elementi conoscitivi di cui si dispone a quel punto »; G. UBERTIS, La prova penale, cit., p. 49, ove si afferma che, « in tali evenienze, l’‘‘indizio’’ muta la propria funzione, perché mira a soddisfare esigenze connesse a sviluppi intermedi del procedimento penale senza essere finalizzato alla fissazione del fatto oggetto del medesimo »; G.P. VOENA, Soggetti, in Profili, cit., p. 55, che evidenzia « le interferenze che si creano con la nozione di prova indiziaria scaturente dall’art. 192 » c.p.p., riferendosi il concetto di indizio ex art. 273 comma 1 c.p.p. « ad un risultato conoscitivo indispensabile per adottare alcune misure, anche ad opera del giudice, nel corso della fase delle indagini preliminari » e non già « alle c.d. prove critiche ». S. BATTAGLIO, « Indizio » e « prova indiziaria », cit., p. 375-376, sottolinea che « in quest’ottica l’indizio è inteso non come un qualcosa che dimostra meno della prova, ma semplicemente come una prova piena non ancora completamente verificata, non ponendosi in discussione la sua forza probante bensì l’incidentalità e l’incompiutezza della relativa verifica processuale. L’elemento discriminante non attiene, cioè, alla qualità o alla struttura del dato probatorio ma alla modalità cronologico-funzionale con cui quest’ultimo si inserisce nel processo »; A. BAUDI, Il potere cautelare nel nuovo processo penale, 1990, p. 46, parla di « prova in formazione »; F. ROMANO BAROCCI, La chiamata di correo « de relato » e i « gravi indizi » ex art. 273, 1o comma, c.p.p., in Giur. it., 1994, c. 759, afferma che nella fattispecie « l’uso del termine ‘‘indizio’’ si giustifica con la volontà del legislatore di differenziare lo stadio processuale da quello procedimentale anche con riguardo alle caratteristiche degli elementi probatori propri di ciascun momento. Il fatto che nella disposizione menzionata si parli di indizi anziché di prove sta ad evidenziare il diverso regime di utilizzabilità cui gli elementi conoscitivi sono sottoposti a seconda della fase cui appartengono, nonché la minore efficacia probatoria degli atti di indagine ancora in fieri ritenuta sufficiente ai fini cautelari, indipendentemente dalla loro struttura di prova storica o critica ». O. DOMINIONI, Misure cautelari personali, in Commentario, cit., vol. III, 2, p. 5, ritiene che « indizio qui significa probatio levior, cioè una risultanza probatoria di persuasività inferiore a quella che è necessaria per un giudizio categorico di esistenza del fatto », trattandosi di « materiale probatorio non completo ». Secondo M. DEGANELLO, Chiamata in correità, in Commento, cit., I agg., 1993, p. 522, « postulare una nozione di probatio levior potrebbe rivelarsi appropriato, ma soltanto nella misura in cui risulti chiaro che l’aggettivazione di specie non risponde ad un preteso valore probatorio degli indizi de quibus, bensì ad un regime... rilassato di verifica del fondamento dell’attività — la somministrazione della misura cautelare — al cui soddisfacimento essi sono funzionalmente preordinati ». Ad avviso di S.C. DE MICHELE, voce Indizio, cit., in Dig. disc. pen., cit., vol. VI, p. 386, siamo di fronte ad « una prova piena, colta però in un determinato momento processuale e cioè prima della completa verificazione di ogni suo aspetto secondo le regole del contraddittorio » Nelle stessa direzione E. FASSONE, La valutazione della prova, in Manuale pratico, cit., p. 139. Cfr. pure, in giurisprudenza, Cass., Sez. I, 6 aprile 1993, Cafari ed altri, in C.E.D. Cass., n. 193985, secondo cui « il termine ‘‘indizi’’, adoperato dall’art. 273 comma 1 c.p.p., ha una valenza tutt’affatto diversa da quella che il medesimo termine assume nell’art. 192 comma 2 stesso codice giacché, mentre in tale ultima disposizione la scelta lessicale operata dal legislatore trova la sua evidente ragion d’essere nella esigenza di distinguere tra ‘‘prove’’ e ‘‘indizi’’, soprattutto onde stabilire le condizioni in cui questi ultimi possono, considerati nel loro complesso, assurgere a dignità di ‘‘prova’’ e giustificare, quindi, l’affermazione di


— 193 — specie cautelare (21), ma non è elemento di per sè sufficiente ad escludere in toto l’applicazione delle regole probatorie (rectius, di valutazione probatoria) di carattere e di portata generale, quali appunto quelle disegnate nel titolo I del libro terzo del codice 1988 (22). Una volta verificato che nell’art. 273 comma 1 c.p.p. « il concetto di ‘‘indizio’’ ha un significato non del tutto coincidente con quello in cui esso viene assunto nella normativa generale sulle prove — dove si delicolpevolezza, l’uso del termine ‘‘indizi’’ nell’art. 273 comma 1 c.p.p. non è in alcun modo riconducibile ad una analoga distinzione, ma unicamente alla diversa natura del giudizio che è richiesto ai fini dell’applicazione di una misura cautelare »; nonché Id., Sez. I, 23 novembre 1992, Bottaro, ivi, n. 192657; Id., Sez. I, 18 marzo 1992, Russo, ivi, n. 189992; Id., Sez. I, 15 ottobre 1990, Sepe, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 293, che opportunamente sottolinea come il termine indizio abbia « valore e significato diversi a seconda che con esso si voglia far riferimento agli elementi di prova necessari e sufficienti per affermare la responsabilità di un soggetto in ordine ai reati ascrittigli, ovvero a quelli legittimanti una misura cautelare coercitiva come la custodia in carcere. Nel primo caso, infatti, per indizi s’intendono le prove cosiddette logiche o indirette, attraverso le quali da un fatto certo si risale, per massime di comune esperienza, ad uno incerto, mentre nel secondo caso la parola ‘‘indizi’’ fa riferimento anche alle prove cosiddette dirette le quali, al pari di quelle indirette, debbono essere tali da far apparire probabile la responsabilità dell’indagato in ordine al fatto o ai fatti per i quali si procede »; Id., Sez. I, 21 maggio 1990, Bencini, in Riv. pen., 1991, p. 429. (21) S. BATTAGLIO, « Indizio » e « prova indiziaria », cit., p. 377, sottolinea « i caratteri di ‘‘provvisorietà’’ e di ‘‘incompletezza’’ che le valutazioni probatorie normalmente possiedono nel momento in cui si pone un’esigenza cautelare »; anche E. MARZADURI, voce Misure cautelari personali, cit., in Dig. disc. pen., cit., vol. VIII, p. 65, pone l’accento sui connotati di provvisorietà ed incompletezza dell’accertamento; A. NAPPI, Guida al nuovo codice, cit., p. 522, afferma che « la misura cautelare si fonda su un accertamento sommario, essendo inevitabilmente adottata in un momento in cui la cognizione non è completa. Ed allora soltanto l’integrazione della fattispecie probatoria incompleta con una fattispecie cautelare, cioè con un fatto significativo dell’esigenza di provvedere ai fini di garantire l’effettività della giurisdizione, può legittimare l’adozione della misura cautelare ». (22) Quanto al tema dell’operatività, nel corso delle indagini preliminari, della disciplina generale in materia di prove, cfr. in particolare M. NOBILI, Il ‘‘diritto delle prove’’ ed un rinnovato concetto di prova, in Commento, cit., vol. II, 1990, p. 385 s., che partendo dall’affermazione dell’introdotta concezione « relativistica » della prova, osserva come nel codice 1988 « le norme sulla prova non sono più collocate nella parte dedicata alla fase prodromica, come nel codice anteriore », ma non sono neanche « inserite in quella ‘‘del giudizio’’ »: il libro terzo « è volutamente isolato » e tale scelta sistematica è stata compiuta « proprio per disciplinare in via globale quel fenomeno del conoscere giudiziale che percorre, come una spina dorsale, l’intero procedimento: dalla notitia criminis in poi ». Ne consegue che « le disposizioni sulla prova vanno applicate all’intero arco del procedimento, anche in via analogica, fuorché nei casi in cui norme speciali dettate per le diverse fasi, o peculiari previsioni di legge, non le deroghino ». Si veda altresì G. GARUTI, La gravità degli indizi nei provvedimenti « de libertate », in Giur. it., 1993, II, c. 628-629; V. GREVI, Prove, cit., in Profili, cit., p. 194; E. MARZADURI, voce Misure cautelari personali, cit., in Dig. disc. pen., cit., vol. VIII, p. 66, che fa presente come « la tesi dell’assoluta irrilevanza di tali disposizioni ai fini delle decisioni in materia di misure cautelari personali » sia « fondata sull’indimostrato presupposto che i princìpi valutativi in questione concernerebbero solamente le prove in senso stretto ».


— 194 — mita l’ambito di utilizzabilità della cosiddetta ‘‘prova indiziaria’’ ancorandola a requisiti, non soltanto di ‘‘gravità’’, ma anche di ‘‘precisione’’ e di ‘‘concordanza’’ » (art. 192 comma 2 c.p.p.) e dove è indizio « ciò da cui ‘‘si desume’’ una convinzione, e non ciò che viene usualmente indicato come ‘‘prova diretta’’ » — sarebbe poi « paradossale non attribuire », nel contesto cautelare, « alla ‘‘prova diretta’’ un effetto, quantomeno eguale all’indiretta, a livello di dimostrazione del fumus » (23). Ne consegue che non è condivisibile l’assunto patrocinato in più occasioni dalla Corte di cassazione — frutto della predetta confusione concettuale ed ispirato dalla medesima logica di trasposizione meccanica dei criteri interpretativi adottati per la prova indiziaria dall’art. 192 comma 2 c.p.p. all’indizio quale presupposto della tutela cautelare (24) — secondo cui gli indizi richiesti ai fini dell’emissione di un provvedimento cautelare devono essere contraddistinti « dal requisito della gravità, ma non da quelli della precisione e della concordanza », sulla base della considerazione che « il giudizio di fondatezza dell’accusa non deve essere ancorato a fatti obiettivi rigorosamente accertati, ma semplicemente a circostanze che forniscano una indicazione probatoria tale da far ritenere acquisito un apprezzabile fumus di colpevolezza concretante i ‘‘gravi indizi’’ » (25). Al contrario, la circostanza che l’art. 273 comma 1 c.p.p. non collo(23) M. CHIAVARIO, sub art. 273, cit., in Commento, cit., vol. III, p. 31. Nella stessa direzione S. BATTAGLIO, « Indizio » e « prova indiziaria », cit., p. 381-382; G. GARUTI, La gravità degli indizi, cit., c. 627. In giurisprudenza v. Cass., Sez. I, 28 maggio 1992, Goddi Bachisio, in C.E.D. Cass., n. 190813, secondo cui, « ai fini della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza necessari per l’adozione di una misura cautelare, il termine indizio non è da intendere in contrapposizione a prova diretta, ma sta a significare qualsiasi elemento, di qualunque genere, già acquisito al giudizio, e che diventerà prova. L’indizio è, quindi, un elemento di investigazione in proiezione probatoria, mancante della verifica probatoria, ma convincente come una prova attuale ». (24) Cfr. F. ROMANO BAROCCI, La chiamata di correo « de relato », cit., c. 759, che sottolinea « come non abbia senso trasporre automaticamente alla seconda disposizione i requisiti enunciati dalla prima ». F. PERONI, Chiamate di correo, cit., p. 680, osserva che, « se si può senza imbarazzo convenire con il riferito indirizzo laddove vi si pone in rilievo il significato non coincidente del termine ‘‘indizio’’, nel lessico delle due norme richiamate, non egualmente plausibile è il tentativo di assumere, dall’esegesi in premessa, l’univoco corollario di una pretesa immunità della decisione de libertate ai precetti dell’art. 192 » c.p.p., potendo « il riscontrato, difforme impiego della locuzione ‘‘indizio’’ » consentire « tutt’al più di argomentare una parziale ininfluenza della regola codificata nel comma 2 dell’art. 192 sul piano dei presupposti cautelari ». V. altresì T. TREVISSON LUPACCHINI, « Indizio », segno equivoco o plurivoco, cit., p. 313. (25) Cass., Sez. I, 4 giugno 1992, Pisano, in C.E.D. Cass., n. 191549. Cfr. pure Id., Sez. un., 21 aprile 1995, Costantino ed altro, cit., p. 2840; Id., Sez. fer., 12 agosto 1993, Longo, in Cass. pen., 1994, p. 2493-2494; Id., Sez. II, 8 ottobre 1992, Rizzi, in C.E.D. Cass., n. 193129; Id., Sez. VI, 20 agosto 1992, Panigritti, ivi, n. 192236, ove si afferma che « la valenza probatoria degli indizi è diversa secondo che siano utilizzati durante la fase delle indagini preliminari, per l’applicazione delle misure cautelari personali,


— 195 — chi, al fianco del requisito della « gravità », quelli della « precisione » e della « concordanza » è spiegabile « proprio per la non coincidenza di significati che il concetto di ‘‘indizio’’ assume nei due contesti » (26); senza che, per ciò solo, possa negarsi l’esistenza anche in sede cautelare di elementi conoscitivi (lato sensu probatori) di diversa natura — e consistenza — e dunque escludere apoditticamente qualsivoglia incidenza delle regole di giudizio contenute nell’art. 192 c.p.p. Il recente intervento delle Sezioni unite dela Corte di cassazione, chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale insorto in ordine alla necessità (o meno) di un riscontro sotto il profilo dell’attendibilità estrinseca della chiamata in correità, quando utilizzata per supportare l’adozione di una misura cautelare personale, non ha per la verità contribuito a fare chiarezza sul punto. Con una classica decisione di compromesso — o nel giudizio; certezza, univocità e concordanza sono caratteri necessari affinché gli indizi assurgano a prova di colpevolezza per la pronunzia di una sentenza di condanna, mentre, ai fini cautelari, essi devono considerarsi solo gravi, tali, cioè, che siano dotati di un valore da giustificare il giudizio di apprezzabile colpevolezza della persona indagata »; Id., Sez. I, 18 marzo 1992, Russo, ivi, n. 189993; Id., Sez. II, 3 giugno 1992, La Ganga, in Cass. pen., 1993, p. 2571; Id., Sez. fer., 3 settembre 1991, Tartaglia, in Giur. it., 1992, II, c. 270 s. (con nota di A. SANNA, Parametri di valutazione della prova e riesame delle misure cautelari, ivi, c. 270 s.), secondo cui l’art. 273 comma 1 c.p.p. « richiede la sussistenza non già di ‘‘prove’’, ma solo di indizi che si connotino per gravità, id est per la rilevanza-pertinenza del fatto noto rispetto al thema probandum, senza richiamare i criteri, peraltro alternativi, della necessarietà o della concordanza (esterna) »; Id., Sez. fer., 27 agosto 1991, Gusmerini, in Cass. pen., 1992, p. 698 s. (con nota adesiva di S. RAMAJOLI, I « gravi » indizi di colpevolezza e l’adozione di misure cautelari personali, ivi, p. 700 s.), secondo cui la norma de qua « postula il rilievo di indizi che presentino i requisiti della certezza effettuale e della gravità, id est, della rilevanza-pertinenza del fatto noto rispetto al thema probandum, senza richiedere quelli, propri alla ‘‘prova’’ e per questo esigibili nella fase del giudizio di responsabilità (di merito), della necessità o della concordanza ». Nel senso che i gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 comma 1 c.p.p. « si configurano come prognosi sul merito, al pari del requisito del fumus boni iuris civilistico, e sono costituiti da dati o elementi argomentativi del reato ipotizzato dall’autorità giudiziaria, e non coincidono con i fatti o frammenti di prova ovvero prove da cui detti elementi vengono desunti, come evidenzia la norma dell’art. 292, nel prescrivere — a pena di nullità — che nell’ordinanza cautelare devono essere esposti sia gli indizi sia gli ‘‘elementi di fatto da cui sono desunti’’ », per cui « la relativa nozione si differenzia da quella accolta nell’art. 192 comma 2 c.p.p., secondo la quale gli indizi, aventi funzione meramente probatoria — tanto da doversi caratterizzare come gravi, precisi e concordanti — si configurano come complesso di ‘‘frammenti di prove’’ dalla organizzazione logica dei quali il giudice desume l’esistenza di un fatto, ai fini del giudizio di merito », v. Id., Sez. fer., 3 settembre 1992, Butera, in Cass. pen., 1993, p. 878 s. (26) M. CHIAVARIO, sub art. 273, cit., in Commento, cit., vol. III, p. 32, nota 9. Negli stessi termini S. BATTAGLIO, Misure cautelari personali e valutazione degli indizi, in Giur. it., 1994, II, c. 363. V. altresì la Relazione al progetto preliminare del 1978, in Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, a cura di G. Conso-V. Grevi-G. Neppi Modona, vol. I, 1989, p. 658-659.


— 196 — fra le cui righe si coglie il timore di una presa di posizione più netta — la suprema Corte, pur riconoscendo la necessità che la chiamata in correità debba essere anche in questo caso verificata nella sua attendibilità estrinseca, ha infatti affermato che « la stessa intitolazione del libro III persuade che le norme in esso contenute siano dettate specificamente per il giudizio, quali regole per l’accertamento della responsabilità dell’imputato, essendo noto che nelle indagini preliminari non si ricercano prove, ma soltanto elementi indiziari di tale spessore da rendere utile un rinvio a giudizio nella prospettiva di una condanna », ritenendo al tempo stesso eccessiva la preoccupazione che « l’esclusione in via di principio dell’applicabilità alle indagini preliminari del libro III del codice equivarrebbe a trasformare questa fase ‘‘in una terra di nessuno’’, non regolata in punto di prova » (27). La Corte di cassazione ha dunque ritenuto opportuno privilegiare un approccio esasperatamente formalistico alla questione, conferendo efficacia determinante, sotto il profilo interpretativo, a rilievi di carattere meramente terminologico — che peraltro non tengono conto della disinvoltura con cui il legislatore ha spesso adoperato espressioni tra loro tecnicamente dissimili — e non riuscendo così ad « evitare le suggestioni prodotte dai titoli de libri e dalle rubriche degli articoli », negando che le disposizioni generali contenute nel libro terzo del codice « posseggono una naturale inclinazione, o meglio, una sostanziale adattabilità all’intero arco procedimentale » (28). Un implicito riconoscimento della correttezza dell’impostazione favorevole all’operatività delle regole generali in materia di valutazione probatoria al di fuori della limitata sfera della decisione finale di merito, ed in particolare nel procedimento cautelare, viene del resto da un’altra sentenza della suprema Corte, che nel caratterizzare il presupposto probato(27) Cass., Sez. un., 21 aprile 1995, Costantino ed altro, cit., p. 2840. Critica sul punto S. BUZZELLI, Chiamata in correità ed indizi di colpevolezza, cit., p. 2843, per la quale, pur avendo la sentenza raggiunto « un risultato ragionevole ed equilibrato, qualche perplessità può suscitare, invece, il metodo scelto per impostare l’intero problema », muovendo « da una affermazione alquanto perentoria » e discutibile, in base alla quale « la sedes normativa dell’art. 192 c.p.p. non è di per sè sintomo rilevatore di una possibile estensione della sfera di operatività delle regole disciplinanti la valutazione probatoria alla fase delle indagini preliminari », mentre « l’ampiezza del tema avrebbe richiesto maggiore ponderazione ». (28) In questi termini S. BUZZELLI, Chiamata in correità ed indizi di colpevolezza, cit., p. 2844 s., secondo cui « desta sconcerto l’uso insistente, quasi ossessivo, di un termine (quale ‘ricerca’) che richiama immediatamente alla memoria certe espressioni enfatiche adottate dalla dottrina per sostenere, vigente il codice 1930, l’atipicità della catalogazione probatoria », ed appare criticabile che la suprema Corte non abbia tenuto conto dei « suggerimenti del legislatore delegato, che le avrebbero quanto meno impedito di astenersi dal prendere in considerazione la norma che stabilisce la sorte (id est l’inutilizzabilità) delle prove illegittimamente acquisite ».


— 197 — rio per l’applicazione delle misure cautelari personali — nell’àmbito della contrapposizione prima ricordata tra giudizio di probabilità (ai fini della tutela cautelare) e giudizio di certezza (ai fini della condanna) — ha ritenuto che il giudizio di probabilità possa essere qualificato grave « in quanto capace di resistere ad interpretazioni alternative » (29). Una siffatta lettura dell’art. 273 comma 1 c.p.p. consente evidentemente di ricomprendere nel parametro della « gravità » dell’indizio, quando l’organo giudicante debba valutare elementi di natura indiziaria per verificare la sussistenza del fumus commissi delicti, i requisiti tipici della « gravità », della « precisione » e della « concordanza », essendo piuttosto arduo e contraddittorio considerare eventuali indizi « non consistenti », « vaghi » e « discordanti », come espressione di una situazione probatoria refrattaria ad ogni differente lettura. Devono pertanto ritenersi senz’altro operanti anche nel corso delle indagini preliminari le disposizioni (in materia di prova indiziaria e di chiamata in correità) contenute nell’art. 192 c.p.p. che — come ha puntualmente sottolineato la suprema Corte in una pronuncia che si segnala per la sua peculiare impostazione (oltre che per la diffusa ed analitica motivazione), offrendo una interessante chiave di lettura della problematica in oggetto opportunamente tesa a distinguere i profili inerenti all’art. 192 c.p.p. da quelli relativi all’art. 273 c.p.p. — delinea « un metodo di valutazione della prova, che attiene alla controllabilità razionale delle decisioni », ed in quanto tale è da considerarsi applicabile in ogni fase del procedimento ed a prescindere dallo specifico oggetto della decisione da assumere (30). (29) Cass., Sez. I, 2 aprile 1992, Mangone, cit., n. 190119. Nella stessa direzione E. MARZADURI, voce Misure cautelari personali, cit., in Dig. disc. pen., cit., vol. VIII, p. 66. Quanto alla concreta caratterizzazione dei parametri richiesti dall’art. 192 comma 2 c.p.p., « deve ritenersi che gravi sono gli indizi consistenti, cioè resistenti alle obiezioni, e quindi attendibili e convincenti; precisi sono quelli non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile e, perciò, non equivoci: concordanti sono quelli che non contrastano tra loro e più ancora con altri dati o elementi certi. La precisione dell’indizio, in particolare, ne suppone la certezza, nel senso dell’accertata verificazione storiconaturalistica della circostanza che lo costituisce », con conseguente « esclusione di ogni altra soluzione prospettabile, in termini di equivalenza o di alternatività. Il giudizio conclusivo, in altre parole, deve essere l’unico possibile alla stregua degli elementi disponibili, secondo i criteri di razionalità dettati dall’esperienza umana » (Cass., Sez. I, 24 giugno 1992, Re, in Riv. pen., 1993, p. 579 s.). V. altresì Id., Sez. I, 30 gennaio 1991, Vassallo, in Giust. pen., 1991, III, c. 319. In dottrina v. C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. II, p. 80 s. (30) In questi termini Cass., Sez. V, 24 maggio 1994, Anderlini, in Cass. pen., 1995, p. 638. Contra Cass., Sez. fer., 3 settembre 1991, Tartaglia, cit., c. 270 s.; Id., Sez. fer., 27 agosto 1991, Gusmerini, cit., p. 698 s.; Id., Sez. fer., 20 agosto 1991, Giordano, in Cass.


— 198 — 4. La chiamata in correità nel sistema delle prove penali: natura giuridica ed efficacia dimostrativa. — Una volta riconosciuta, sul piano sistematico, l’operatività della norma de qua anche in sede di delibazione dei presupposti della tutela cautelare, risulta più agevole valutare specificamente l’incidenza della previsione, contenuta nell’art. 192 commi 3 e 4 c.p.p., concernente le « dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell’articolo 12 » c.p.p., cui sono equiparate le « dichiarazioni rese da persona imputata di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso previsto dall’articolo 371 comma 2 lettera b) » c.p.p. Tali dichiarazioni, com’è noto, devono essere « valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità », secondo quanto dispone l’art. 192 comma 3 c.p.p. che ha recepito — nonostante il silenzio in materia della legge-delega del 1987 (31) — le indicazioni emerse dal dibattito sviluppatosi sul punto « negli ultimi anni tra operatori e studiosi del processo che hanno insistito sulla necessità di circondare di maggiori cautele il ricorso ad una prova, come quella proveniente da chi è coinvolto negli stessi fatti addebitati all’imputato o ha comunque legami con lui, alla luce della sua attitudine ad ingenerare un erroneo convincimento giudiziale » (32). Il criterio adottato — sulla scia delle esperienze dei sistemi di common law, in cui « la valutazione della accomplice evidence è accompagnata dalla c.d. corroboration » (33) — ha tenuto altresì conto delle indicazioni giunte dalla giurisprudenza di legittimità già vigente il codice pen., 1992, p. 336 s., ove si afferma che « i criteri, per la valutazione dei fatti processuali, dettati dall’art. 192 del codice di rito in tema di ‘‘valutazione della prova ’’, non sono (integralmente) adattabili (utilizzabili) nel giudizio per l’applicazione di misura cautelare personale ». (31) Cfr., in proposito, V. GREVI, Le « dichiarazioni rese dal coimputato » nel nuovo codice di procedura penale, in AA.VV., Chiamata in correità e psicologia del pentitismo nel nuovo processo penale, a cura di L. de Cataldo Neuburger, 1992, p. 7. (32) Relazione al progetto preliminare, cit., in G.U. 24 ottobre 1988, cit., p. 61. Sottolinea F. CORDERO, Procedura penale, 3a ed., cit., p. 590, che si tratta di « materiale impuro e sospetto, specie quando il confitente lucri favori penali o regoli dei conti ». Non va trascurata del resto la diversa posizione del chiamante in correità che, in ossequio al principio del nemo tenetur se detegere, non è soggetto agli stessi obblighi del testimone il quale, « deponendo sotto il vincolo del giuramento, si esporrebbe a sanzioni penali per falsa testimonianza nel caso di dichiarazioni non rispondenti al vero » e per questo tende di per sé « ad essere veritiero ed obiettivo » (G. DI CHIARA, Chiamata di correo, cit., p. 220). In argomento v. pure, vigente il codice 1930, I. CALAMANDREI, Le dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, in Giust. pen., 1985, III, c. 427 s. (33) Relazione al progetto preliminare, cit., in G.U. 24 ottobre 1988, cit., p. 61. Sul punto v. più diffusamente A. BERNASCONI, La collaborazione processuale, 1995, p. 249 s.


— 199 — 1930 (34) — sintetizzabili nel « principio del necessario riscontro probatorio della chiamata di correo » (35) — senza arrivare alla soluzione estrema di qualificare ex lege come inutilizzabili siffatti elementi probatori (36). Si è in tal modo introdotta « un’accentuazione dell’obbligo di motivazione del convincimento del giudice » (37), dovendo quest’ultimo, « in primo luogo, sciogliere il problema della credibilità del dichiarante (confidente e accusatore) in relazione alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in (34) In giurisprudenza, vigente il codice Rocco, cfr., per tutti, Cass., Sez. I, 3 giugno 1986, Greco e altri, in Foro it., 1986, II, c. 529 s. (con nota di G. FIANDACA, La « chiamata di correo » fra tradizione, emergenza e nuovo garantismo, ivi, c. 530 s.), secondo cui « la chiamata in correità, per assurgere al rango di prova, deve essere suffragata da riscontri obiettivi ad essa estrinseci; deve cioè, come suol dirsi nella pratica forense, essere ‘‘vestita’’ ». (35) In questi termini la Relazione al progetto preliminare, cit., in G.U. 24 ottobre 1988, cit., p. 61. Ad avviso di V. GREVI, Prove, cit., in Profili, cit., p. 211, il codice 1988 « sembra configurare, in sostanza, una sorta di presunzione relativa di inattendibilità delle suddette dichiarazioni, ammettendo che di esse possa tenersi conto unicamente quando siano stati acquisiti altri elementi probatori idonei a comprovarne la credibilità, da soli od anche nell’ambito di una valutazione congiunta di questi ultimi con le prime ». Caustico sulla soluzione legislativa adottata è F. CORDERO, Procedura penale, 3a ed., cit., p. 875, che ritiene l’art. 192 comma 3 c.p.p. una « formula senza contenuto normativo, quindi superflua, e nemmeno utile quale segnale didattico (da intendere così: ‘‘siano cauti i giudici quando valutano gli enunciati narrativi, tanto più dei coimputati; è materia verbale infìda, da collocare nel più ampio specchio critico possibile’’) ». ID., Codice, cit., p. 234-235, afferma trattarsi di « argomento non codificabile » e di « formula malriuscita », atteso che « questioni simili appartengono alla clinica giurisprudenziale e vanno risolte sui dati ». Rilievi « sulla opportunità e sulla stessa utilità di una previsione del genere, che viene ad incidere su una tematica difficilmente codificabile, e che per certi aspetti potrebbe risultare anche pericolosa », vengono altresì formulati da V. GREVI, Le « dichiarazioni rese dal coimputato », cit., p. 32-33. (36) Cfr., sul punto, V. GREVI, Prove, cit., in Profili, cit., p. 212, per il quale la previsione — rispetto alla quale « sono intuibili i condizionamenti che più o meno recenti esperienze giudiziarie possono avere esercitato » — « in definitiva, non esclude la utilizzabilità probatoria delle dichiarazioni rese dal coimputato ‘‘chiamante’’ », ma impone all’organo giudicante « un preciso impegno di verifica ». Ad avviso di G. LOZZI, Lezioni di procedura, cit., p. 177, l’art. 192 comma 3 c.p.p. conferma l’indirizzo giurisprudenziale che, vigente il codice 1930, vedeva la chiamata in correità « degradata sotto il profilo della significanza probatoria ad indizio ». Secondo M. NO BILI, sub art. 192 c.p.p., in Commento, cit., vol. II, p. 418, si configura nella fattispecie un « divieto indiretto ». D. SIRACUSANO, Le prove, in SIRACUSANO-GALATI-TRANCHINA-ZAPPALÀ, Diritto processuale, cit., vol. I, p. 388, sottolinea che « l’attendibilità intrinseca non basta. Il codice pretende di più. L’accomplice evidence richiede la corroboration ». (37) Così F. ROMANO BAROCCI, La chiamata di correo « de relato », cit., c. 760. Ad avviso di F. CORDERO, Procedura penale, 3a ed., cit., p. 593, « è un finto limite: dove il narrante sia creduto, le conferme non mancano mai; sono miriadi i possibili indizi e ne basta uno, anche remoto; non vigono soglie minime, né avrebbe senso imporle, sicché i giudici hanno le mani libere ».


— 200 — correità, e alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione e dell’accusa dei coautori e complici », in secondo luogo verificare l’« intrinseca consistenza » e le « caratteristiche delle sue dichiarazioni, alla luce dei criteri che l’esperienza giurisprudenziale ha individuato, come la precisione, la coerenza, la costanza, la spontaneità e così via » (38), per poi passare a valutare la sussistenza dei c.d. « riscontri estrinseci » (39). Va peraltro detto che rispetto al controverso tema della chiamata in correità ancora oggi non è facile rinvenire posizioni univoche, neanche per quanto concerne la sua definizione (e concreta delimitazione) concettuale. Vi è infatti chi sostiene che la chiamata di correo si sostanzi in una confessione (40) e si contraddistingua per la sua natura di dichiarazione complessa, contenendo in sé una ammissione di responsabilità da parte (38) Così Cass., Sez. un., 21 ottobre 1992, Marino ed altri, in Giur. it., 1993, II, c. 785 s. (con nota di F. CAPRIOLI, Le Sezioni Unite e il caso Calabresi: ancora segnali confusi sul tema dei riscontri alla chiamata in correità, ibidem), ove si precisa pure che « i problemi ora cennati e quelli relativi ai riscontri cosiddetti esterni, concettualmente distinti, possono concretamente intrecciarsi, e tuttavia il giudice deve compiere l’esame seguendo l’ordine logico indicato, perché non si può procedere a una valutazione unitaria della chiamata in correità e degli ‘‘altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità’’, se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sé, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa ». (39) In argomento cfr. più diffusamente A. BEVERE, La chiamata di correo nel nuovo processo penale, 1993, p. 57 s. e 115 s. Ad avviso di F. CORDERO, Procedura penale, 3a ed., cit., p. 590, si tratta di « formula ovvia, se la intendiamo nel senso che esigano vagli particolarmente cauti, estesi a ogni circostanza utile, perché questi narranti non vanno creduti sulla parola; ma è conclusione vaga nel riferimento ai ‘‘riscontri’’; arbitraria dove li postula ‘‘esterni’’, come se l’attendibilità non potesse mai essere inferita da analisi circoscritte alla figura e storia del confitente; e infine pericolosa, dove lascia intravedere pseudocalcoli del genere praticato temporibus illis », secondo cui « la chiamata del correo, più un riscontro cospicuo e n riscontri minori, sommati, ‘‘fanno prova’’ ». (40) V. MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, 6a ed. agg. a cura di G. Conso e G.D. Pisapia, vol. III, 1970, p. 314, afferma che « la così detta chiamata di correo non è che una confessione, oltreché sul fatto proprio, anche su quello altrui, e della confessione conserva i caratteri e la forza probante, che è quella degli indizi e non della testimonianza ». Analogamente G. MONTALBANO, La confessione nel processo penale, 1953, p. 80, secondo cui « la chiamata di correo, giuridicamente, è una vera confessione, oltre che sul fatto proprio, anche sul fatto altrui, e della confessione conserva i caratteri e l’efficacia probatoria ». In giurisprudenza Cass., Sez. I, 9 giugno 1971, Mele e altri, in Cass. pen., 1972, p. 1402-1403, parla di « confessione concernente non solo chi la rende, ma anche altre persone ». Cfr. pure in dottrina, per una ricostruzione analitica sul punto, M. BONETTI, La « chiamata di correo »: rassegna critica, in Ind. pen., 1986, p. 58 s., che sottolinea la natura di « fattispecie certo polimorfa ».


— 201 — dell’imputato in ordine alla commissione di un determinato reato unitamente all’attribuzione ad altri soggetti della paternità del medesimo reato (o di un reato connesso) (41). Secondo altri, viceversa, non è condivisibile l’orientamento che la riconduce alla confessione, in quanto quest’ultima, nella sua tradizionale configurazione di « dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli » (art. 2730 comma 1 c.c.), sarebbe inconciliabile con dichiarazioni che risultino sfavorevoli non soltanto al suo autore, ma anche ad altri soggetti (42). Si è pure parlato di interrogatorio (43) o di testimonianza (44), ritenendo prevalente, rispettivamente, la natura dell’atto formale dal quale scaturisce la chiamata di correo, ovvero quella parte delle dichiarazioni rese dall’imputato avente ad oggetto la responsabilità di terzi. Al di là delle singole posizioni dottrinali e giurisprudenziali, comunque, « l’imprimatur del legislatore ha tolto linfa alle vecchie interminabili dispute dottrinali sulla natura giuridica della ‘‘chiamata’’, sancendone il non più dubitabile ingresso nell’area del diritto probatorio » (45), non essendo oggi certo sostenibile la tesi che attribuiva (vigente il codice 1930) (41) Cfr. A. BEVERE, La chiamata di correo, cit., p. 68, e la giurisprudenza ivi richiamata, secondo cui è chiamata di correo « la confessione con la quale l’imputato ammette, oltre che la propria, anche l’altrui colpevolezza » (Cass., Sez. I, 13 gennaio 1971, Russo e altri, in Cass. pen., 1972, p. 1038-1039). (42) In questa direzione G. DI CHIARA, Chiamata di correo, cit., p. 219. (43) V. Cass., Sez. III, 15 marzo 1982, Vittori, in Riv. pen., 1983, p. 219, secondo cui « le dichiarazioni sul fatto proprio o sul fatto altrui o sul fatto comune rese da un imputato hanno natura d’interrogatorio e non di testimonianza, anche se, sostanzialmente, assumono significato, rispettivamente, di confessione, denuncia o chiamata in correità ». Ad avviso di A. BARGI, Osservazioni sul valore probatorio della chiamata in correità, in Cass. pen., 1991, I, p. 682, la caratterizzazione della chiamata di correo « ‘‘come interrogatorio’’ risulta accentuata in ragione del prevalere dello status di imputato del dichiarante rispetto a quello di testimone, fermo restando — come già in passato — l’inquadramento dell’istituto tra i mezzi di prova ». (44) Secondo Cass., Sez. II, 14 luglio 1989, Cristofari, in Riv. pen., 1991, p. 429, « la chiamata in correità rientra nella categoria delle testimonianze, di cui ha i requisiti sostanziali in quanto contiene, normalmente, una rappresentazione del fatto-reato, oppure una dichiarazione di percezione visiva o uditiva o un dato di conoscenza. Essa costituisce, dunque, una prova rappresentativa o storica, in quanto involge direttamente ed immediatamente il fatto investigato ed ha valore, non solo di notitia criminis, ma anche di indizio di colpevolezza nella fase istruttoria ed, entro certi limiti, di prova in genere ». (45) È l’opinione di G. DI CHIARA, In tema di chiamata di correità, in Foro it., 1993, II, c. 23, il quale ricorda altresì che l’istituto risultava « ubicato — nella vigenza del codice di rito del 1930 — in un insidioso limbo di atipicità, al di fuori di precisi addentellati normativi che ne dimensionassero inequivocamente la portata » (ivi, c. 22). Anche ad avviso di E. SQUARCIA, Brevi note in tema di chiamata di correo riscontrata, in Cass. pen., 1993, p. 135 s., il legislatore del 1988 ha « riconosciuto dignità di prova all’istituto, inteso però come una serie di elementi (dichiarazioni più altri elementi di prova) che vengono a comporlo in un tutto unitario ». V. pure infra, sub nota 47.


— 202 — alla chiamata in correità valore di mero input per le indagini (46). Del resto l’opzione di politica legislativa effettuata dal codice 1988 riflette, a ben vedere, l’esperienza giudiziaria degli ultimi anni, « che ha drammaticamente dimostrato come, piaccia o meno, non è possibile, nell’ottica di una strategia globale di contrasto nei confronti della criminalità organizzata, prescindere dagli apporti conoscitivi dei ‘‘collaboratori della giustizia’’ » (47). Si è già fatto cenno alle specifiche cautele che devono accompagnare l’utilizzazione di una siffatta fonte di conoscenza processuale, in un contesto generale che pure si segnala per « il crescente ricorso ad istituti processuali come strumenti di controllo sociale — nell’àmbito di una diffusa quanto fuorviante tendenza ad utilizzare il processo come risposta generalpreventiva ad esigenze di difesa sociale — », e che ha suscitato inevitabilmente, nella vigenza del codice Rocco, « una corrispondente cultura (46) Cfr., in proposito, M. NOBILI, Il principio del libero convincimento del giudice, 1974, p. 367-368, ove si sottolinea il « valore di semplice denuncia » che « non potrà concorrere alla formazione del convincimento del giudice »; nonché E. FASSONE, La valutazione delle dichiarazioni del coimputato, in Cass. pen., 1986, p. 1896. (47) G. DI CHIARA, In tema di chiamata di correità, cit., c. 23. Nella stessa direzione V. GREVI, Le « dichiarazioni rese dal coimputato », cit., p. 8, secondo il quale « non possono esservi dubbi circa l’intenzione del legislatore di attribuire natura probatoria alle dichiarazioni del coimputato, ricomprendendole come species nella più ampia cornice dei mezzi di prova disciplinati dal libro III del codice ». In ordine alla « esaltazione, anche con tecniche premiali, della chiamata in correità », ed alle risposte, « per lo più in chiave emotiva », agli interrogativi scaturenti da « uno dei più inquietanti fenomeni del processo dei nostri giorni », v. E. FASSONE, La valutazione delle dichiarazioni del coimputato, cit., p. 1893-1894. Cfr. pure A. BARGI, Osservazioni sul valore probatorio della chiamata in correità, cit., p. 678-679, che sottolinea come l’utilizzazione probatoria delle dichiarazioni rese dai c.d. pentiti sia « stato uno dei problemi centrali posti dalla realtà dei maxi-processi, a loro volta causa ed effetto della crescente diffusione del fenomeno della collaborazione con la giustizia », che ha consentito « la disgregazione di talune associazioni criminali » favorendo l’emergere e lo sviluppo di un orientamento giurisprudenziale « sulla definizione e sulla valenza probatoria della chiamata in correità, rispetto alle quali all’indirizzo di rigore che negli anni ’70 richiedeva la presenza inderogabile di requisiti soggettivi di attendibilità, è succeduta, agli inizi degli anni ’80, una concezione completamente rovesciata, che affievoliva la richiesta di tali canoni » affermando « che la chiamata di correo fosse sufficientemente idonea sul piano probatorio purché spontanea e circostanziata, e non inquinata da elementi che ne minassero l’attendibilità intrinseca », disconoscendo « la necessità di riscontri fondati su elementi di natura obiettiva (attendibilità estrinseca) » e permettendo così che la stessa potesse supportare persino quale unico mezzo di prova la decisione del giudice. Si è infatti sostenuto — vigente il codice 1930 — che « la chiamata in correità può essere sufficiente, di per sé sola, per giungere ad una affermazione di colpevolezza, anche in assenza di elementi obiettivi di riscontro » (Cass., Sez. VI, 26 novembre 1986, Calvio, in Riv. pen., 1987, p. 1005; Id., Sez. I, 19 dicembre 1984, Faria, ivi, 1986, p. 216; Id., Sez. I, 4 settembre 1984, Pontieri, ivi, 1985, p. 491), alla luce del « principio del libero convincimento che informa il nostro sistema penale » (Id., Sez. I, 17 giugno 1983, Busciu, ivi, 1984, p. 451; Id., Sez. II, 30 giugno 1982, Masperi, ivi, 1983, p. 728).


— 203 — della prova caratterizzata, tra l’altro, dall’abbassamento del livello di probabilità richiesto per raggiungere la verità processuale, come certezza di tipo storico », con evidenti « implicazioni sul piano della individuazione dei criteri di giustificazione di misure cautelari e della quantità di prova da porre a fondamento del giudizio di responsabilità » (48). L’evoluzione del sistema delle prove, nel suo concreto operare, ha infatti sempre più privilegiato a partire dagli anni ottanta — all’interno « di una caduta generale dei criteri legali di acquisizione della stessa » — la chiamata in correità e la prova indiziaria, pur essendo percepibile una significativa inversione di tendenza (sul piano dei princìpi) posta in essere dal nuovo codice di rito, che ha voluto comunque porre un freno al « sensibile mutamento dei canoni di valutazione » della prova indiziaria stessa, in passato « strumentalmente affrancata dai requisiti minimi di precisione, concordanza e gravità » in nome di « un’aggirante interpretazione del principio del libero convincimento del giudice », resa d’altro canto « possibile grazie all’inesistenza di limiti legali in ordine alla prova » (49). Non è casuale, da questo punto di vista, che la valutazione legale dell’indizio e della chiamata in correità (50) trovi collocazione all’interno del codice 1988 nella stessa norma che al comma 1 ribadisce, precisandolo nel suo contenuto, il principio del libero convincimento quale criterio so(48)

A. BARGI, Osservazioni sul valore probatorio della chiamata in correità, cit., p.

678. V. pure G. DI CHIARA, Chiamata di correo, cit., p. 234-235. (49) A. BARGI, Osservazioni sul valore probatorio della chiamata in correità, cit., p. 678. P. FERRUA, Studi sul processo penale. Anamorfosi del processo accusatorio, vol. II, 1992, p. 113, definisce l’art. 192 commi 3 e 4 c.p.p. « un meandro di significati secondi, di connotazioni polemiche, evidentemente dirette contro l’esasperato rilievo che con la legislazione premiale aveva assunto la chiamata in correità ». Di « sistematico svilimento di tutte le regole di valutazione probatoria », quale « caratteristica strutturale del processo inquisitorio che si basa su un meccanismo di ricerca e produzione della verità incompatibile con qualsiasi forma di limitazione precostituita », parla A.A. SAMMARCO, La chiamata di correo. Profili storici e spunti interpretativi, 1990, p. 24. (50) Osserva F. ROMANO BAROCCI, La chiamata di correo « de relato », cit., c. 760, che alla luce dell’art. 273 comma 1 c.p.p. « è indizio anche la chiamata di correità, che pure ha, solitamente, struttura di prova rappresentativa ». Secondo A. BARGI, Osservazioni sul valore probatorio della chiamata in correità, cit., p. 679, la collocazione sistematica della previsione « indica che il legislatore ha inteso attribuire alle dichiarazioni del coimputato un valore che, pur non potendosi identificare con quello proprio degli indizi, è comunque ad esso molto contiguo ». Ad avviso di V. GREVI, Le « dichiarazioni rese dal coimputato », cit., p. 8, è da considerarsi « superata l’impostazione svalutativa diffusa durante il vigore del vecchio codice secondo cui le dichiarazioni del coimputato volte ad operare una ‘‘chiamata in correità’’, o comunque recanti un contenuto accusatorio specifico (c.d. ‘‘chiamata in reità’’), avrebbero potuto assumere il valore di un mero indizio ».


— 204 — vrano che deve guidare l’organo giudicante nell’operazione decisoria (51): « il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati » (art. 192 comma 1 c.p.p.) (52). Pur consapevoli della differenza strutturale esistente tra dichiarazioni del coimputato ed indizio stricto sensu, rientrando concettualmente le prime, quali « tipiche ‘‘dichiarazioni di prova’’, aventi natura diretta » (53), nell’area della prova storico-rappresentativa piuttosto che in quella della prova critica, è incontestabile infatti che l’accorpamento nella medesima norma mira a sottolineare un dato comune ad entrambe le fattispecie, vale a dire il particolare regime valutativo delle stesse, che si traduce in « un vero e proprio limite legale rispetto alla fisiologia del libero convincimento », imposto nel caso in esame dalla « indubbia peculiarità di queste dichiarazioni, che potrebbero non essere del tutto disinteressate, data la posizione processuale del coimputato dichiarante, ritenuto potenzialmente una fonte ‘‘impura’’ » (54). 5. La valutazione della chiamata in correità nel procedimento cautelare. — Risulta quindi acquisita la consapevolezza della particolare natura (e, dunque, della particolare attenzione che deve circondare l’utilizzazione) della chiamata in correità, e la necessità che la stessa, per poter costituire il fondamento della decisione giurisdizionale (di merito), debba essere supportata da « altri elementi di prova »: l’opzione legislativa, del (51) Cfr., in proposito, V. GREVI, Prove, cit., in Profili, cit., p. 210-211, secondo cui l’art. 192 c.p.p. pone « alcuni limiti di tipo normativo », enunciando « due specifiche regole di giudizio, volte oggettivamente a circoscrivere la sfera di libero apprezzamento probatorio che la medesima disposizione riconosce al giudice per la formazione del proprio convincimento ». Sul principio del libero convincimento v., per tutti, M. NOBILI, Il principio del libero convincimento, cit., passim. (52) Nella Relazione al progetto preliminare, cit., in G.U. 24 ottobre 1988, cit., p. 61, si sottolinea che la norma « conferma la scelta in favore del principio del libero convincimento del giudice di cui offre una formulazione che in parte ricorda il disposto dell’art. 116 c.p.c. », presentando quale elemento innovatore rispetto al passato « il raccordo tra convincimento del giudice e obbligo di motivare ». (53) V. GREVI, Le « dichiarazioni rese dal coimputato », cit., p. 8. Sul punto cfr. altresì E. FASSONE, La valutazione delle dichiarazioni del coimputato, cit., p. 1895, che parla di strumento conoscitivo appartenente « concettualmente alla classe delle prove rappresentative, ed in particolare alla sottoclasse delle testimonianze ». (54) In questi termini V. GREVI, Le « dichiarazioni rese dal coimputato », cit., p. 32 s., che parla di « uno specifico canone valutativo precostituito circa la non idoneità delle dichiarazioni del coimputato a concorrere, di per sé sole, alla decisione giudiziale », di « una regola che (riecheggiando non a caso, fatte le debite differenze, il modello del brocardo ‘‘unus testis, nullus testis’’, tipico delle prove legali) impone al giudice di estromettere dalla piattaforma del proprio convincimento determinate dichiarazioni di prova, in quanto provenienti dal coimputato, tutte le volte in cui esse costituiscono le uniche prove disponibili ». Cfr. pure M. NOBILI, La nuova procedura, cit., p. 174.


— 205 — resto, « presupponendo che le dichiarazioni del coimputato chiamante in correità non possano accantonarsi come elementi probatori ex lege inutilizzabili », presenta l’indubitabile vantaggio di evitare « il rischio della aprioristica esclusione dell’impiego di prove che, in molti casi, l’esperienza ha dimostrato preziose fonti per la conoscenza dei fatti » (55). Per quanto concerne in particolare le dichiarazioni dell’ipotetico reo che affermi la responsabilità di altri soggetti, negando però contestualmente la propria — a rigore escludibili dalla categoria in esame, difettando di uno degli elementi caratterizzanti la chiamatà in correità, vale a dire la dichiarazione autoaccusatoria (56) — va detto che il dato testuale emergente dal codice 1988, il quale genericamente parla di « dichiarazioni (55) V. GREVI, Prove, cit., in Profili, cit., p. 212. Sintomatico di un atteggiamento « sminuente » nei confronti della visione rigoristica dell’istituto è invece l’orientamento giurisprudenziale espresso da Cass., Sez. un., 3 febbraio 1990, Belli, in Cass. pen., 1990, II, p. 37 s., ove si afferma che le dichiarazioni rese dal coimputato « sono annoverate tra le prove e non tra i semplici indizi » (pur riconoscendo che « il giudizio di attendibilità delle stesse necessita di riscontri esterni »), e ribadito in varie pronunce, tra le quali Id., Sez. V, 17 ottobre 1990, Caniggia, ivi, 1993, p. 134-135 (con nota di E. SQUARCIA, Brevi note in tema di chiamata di correo, cit., p. 135 s.), secondo cui alla chiamata di correo ex art. 192 comma 3 c.p.p. « va riconosciuto valore di prova e non di mero indizio, come appare chiaro non solo dai lavori preparatori del codice stesso, ma anche dalla dizione letterale ‘‘altri elementi di prova’’ ». Cfr., in proposito, N. TRIGGIANI, Brevi note sulla chiamata in correità, in Cass. pen., 1994, p. 1018, secondo cui si tratta di argomentazioni niente « affatto decisive per ritenere che la chiamata in correità abbia assunto con il nuovo codice dignità di vera e propria prova; tant’è vero che, basandosi sempre sull’esegesi letterale della norma e sulla sua collocazione sistematica, è possibile sostenere egregiamente la tesi contraria, che si tratti cioè di un semplice indizio », in quanto « il disposto relativo alla ‘‘chiamata’’ segue immediatamente quello relativo alla precisione, concordanza e gravità degli indizi » e, soprattutto, tenuto conto della regola secondo cui « la dichiarazione del ‘‘chiamante’’ deve essere valutata ‘‘unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità’’ ». V. pure, da ultimo, G. TRANCHINA, I canoni di valutazione probatoria della chiamata in correità, in Dir. pen. e proc., 1995, p. 644. (56) Cfr. Cass., Sez. III, I5 marzo 1982, Vittori, cit., p. 219; Id., Sez. I, 5 aprile 1977, Vranich, in Cass. pen., 1978, p. 1443 s. (con nota di A. AVANZINI, Le dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui. Fra interrogatorio e testimonianza, ivi, p. 1445 s.), ove si legge che « la dichiarazione del coimputato, il quale escluda la propria responsabilità ed affermi quella altrui, pur non potendo essere ritenuta una chiamata di correo, rappresenta il contenuto di un interrogatorio in senso tecnico, che è, al tempo stesso, strumento di autodifesa e mezzo di prova ». Di diverso avviso Cass., Sez. I, 13 gennaio 1971, Russo, cit., p. 1038, secondo cui « non può negarsi che in sostanza operi una chiamata in correità l’imputato che dice di essere innocente ». Per la distinzione tra chiamata propria ed impropria, in ragione del riconoscimento o meno della propria responsabilità da parte del chiamante, v. M. PISANI, La tutela penale delle prove formate nel processo, 1959, p. 122-123. A.A. SAMMARCO, La chiamata di correo, cit., p. 4, osserva che « originariamente ‘‘reus’’ significa semplicemente citato in giudizio, accusato », ha un valore « ‘‘neutro’’ corrispondente alla qualifica di imputato » e « perciò il correo è semplicemente il coimputato che


— 206 — rese dal coimputato », induce a ritenere, in linea con l’orientamento giurisprudenziale prevalente (57), la regola di giudizio contenuta nell’art 192 comma 3 c.p.p. « destinata ad operare non solo nei riguardi delle dichiarazioni del coimputato aventi contenuto contra reum, ma anche di quelle potenzialmente dirette a favore dell’imputato » (58). Nello specificare il succitato parametro valutativo si è sostenuto che gli ‘‘altri elementi’’ « non debbono riguardare ogni aspetto, oggettivo e soggettivo, della vicenda, poiché, in tal caso, assurgerebbero al rango di prova piena della colpevolezza dell’imputato » (59), rendendo « ultronea la testimonianza del correo », e devono « consistere in un dato certo che, pur non avendo la capacità di dimostrare la verità del fatto oggetto di dimostrazione, sia tuttavia idoneo ad offrire garanzie obiettive e certe circa l’attendibilità di chi lo ha riferito » (60). Il riferimento ad altri elementi di prova, si badi bene, e non ad altre può essere anche del tutto innocente »: di conseguenza « l’espressione chiamata di correo o in correità ha una rilevanza prettamente processuale, indicando il fenomeno della coimputazione ». (57) Per l’orientamento che avalla la visione più ampia e dilatata dell’istituto v. pure, vigente il codice 1930, Cass., Sez. I, 3 giugno 1986, Greco e altri, cit., c. 537, che ricorda come l’imputato possa « discolpare se stesso ed accusare altri; discolpare se stesso ed altri; accusare se stesso ed altri; accusare se stesso e discolpare altri », e che « ‘‘chiamata di correo’’ in senso classico è solo quella che si sostanzia anche in una ‘‘confessione’’ », mentre « il concetto risulta oggi indiscriminatamente esteso anche all’ipotesi in cui l’imputato discolpa se stesso e accusa gli altri, nell’uno e nell’altro caso postulandosi la formulazione di un’accusa ». (58) Così V. GREVI, Le « dichiarazioni rese dal coimputato », cit., p. 36. Di contrario avviso Cass., Sez. VI, 25 agosto 1992, Lucchese, in C.E.D. Cass., n. 192819, secondo cui « le dichiarazioni accusatorie che non possono essere qualificate chiamate di correo — cioè dichiarazioni autoaccusatorie e insieme accusatorie — non necessitano del riscontro con elementi esterni richiesto dall’art. 192 comma 3 c.p.p. ». (59) Cass., Sez. I, 23 aprile 1992, Sormani, in C.E.D. Cass., n. 190896. Analogamente Id., Sez. IV, 9 dicembre 1992, Burato, in Cass. pen., 1994, p. 701; Id., Sez. I, 21 settembre 1990, Fidenzia, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 466-467, secondo cui detti elementi, « pur dovendo essere significativi, sono normalmente del tutto inidonei a sostenere, per se stessi, la colpevolezza dell’accusato; perché in tal caso la prova sarebbe fondata su tali elementi e non sulla chiamata ». In dottrina cfr. V. GREVI, Le « dichiarazioni rese dal coimputato », cit., p. 38, secondo il quale « non occorre si tratti di elementi probatori autosufficienti, ma di elementi che, raccordandosi con le stesse dichiarazioni, siano in grado di fornire un adeguato supporto a conferma della loro fondatezza ». Ad avviso di M. NOBILI, sub art. 192, cit., in Commento, cit., vol. II, p. 418, nota 15, « l’espressione ‘‘altri elementi di prova’’ ricomprende anche la prova indiziaria, ma, a rigore, esclude meri argomenti logici, ossia privi di elementi di fatto ulteriori, posti a base dell’inferenza indiziaria ». (60) Cass., Sez. VI, 26 marzo 1992, Pellegrini, in C.E.D. Cass., n. 191400. Scettico sul punto F. CORDERO, Procedura penale 3a ed., cit., p. 594, secondo il quale « sono dei passe-partout queste formule, adoperabili nei due sensi, dalla bulimia inquisitoria al garantismo perverso ». P. FERRUA, Studi sul processo penale, cit., vol. II, p. 114, parla di


— 207 — prove, si attaglia del resto ad una lettura di tal genere, risultando decisivo nel caratterizzare la dichiarazione del coimputato non riscontrata come un minus rispetto alla prova piena, un semplice elemento di prova — pur se in una diversa prospettiva rispetto alla distinzione tra prove ed elementi di prova introdotta dal codice 1988 in ossequio alle prescrizioni contenute nella legge-delega (61) — in quanto tale sfornito di una autonoma forza probante e dunque non assimilabile alla prova stricto sensu, che non abbisogna certo di ulteriori elementi di conferma per poter supportare il convincimento del giudice. Non a caso una precedente formulazione della norma delineava gli elementi di riscontro necessari per conferire alle dichiarazioni del coimputato valenza probatoria facendo riferimento alle « prove o agli indizi » (62), rendendo esplicita la volontà del legislatore di « ricomprendere non solo le prove storiche dirette, ma ogni elemento probatorio che possa venire legittimamente recepito nell’ambito di un processo argomentativo giudiziale » (63). Resta da verificare l’effettiva incidenza del parametro de quo con riferimento all’adozione di misure cautelari personali. In proposito si è precisato che, « affinché un provvedimento restrit« evanescenza delle formule legali » tese a dettare criteri valutativi di determinati elementi probatori, che sovente « si risolvono in richiami allusivi e pedagogici ». (61) Sul punto cfr., per tutti, la Relazione al progetto preliminare, cit., in G.U. 24 ottobre 1988, cit., p. 59. La contrapposizione « prove-elementi di prova » riflette com’è noto la dualità tra fase preprocessuale (delle indagini preliminari) e fase processuale (del giudizio): una contrapposizione da non intendersi, peraltro, in maniera assoluta, considerata la « serie di atti di indagine destinati a non esaurire la loro funzione all’interno della fase » preprocessuale (che ha subito un sensibile ampliamento a seguito della novella del 1992), di tal che appare più opportuno « parlare di tendenziale inutilizzabilità probatoria degli atti assunti durante » la fase delle indagini preliminari (G. NEPPI MODONA, Indagini preliminari e udienza preliminare, in Profili, cit., p. 308). Va comunque notato che la legge-delega utilizza l’espressione « elementi di prova » anche in differenti e più ampi contesti, che prescindono dallo stretto legame funzionale con la fase de qua: come ad es. nella direttiva n. 3, quando prospetta la facoltà del pubblico ministero, delle parti private (unitamente ai loro difensori) e della persona offesa « di indicare elementi di prova e di presentare memorie in ogni stato e grado del procedimento ». (62) Si tratta dell’art. 192 del Progetto preliminare, per il cui testo completo si rinvia a Il nuovo codice di procedura penale, cit., vol. IV, 1990, p. 561. In argomento cfr. G. DI CHIARA, In tema di chiamata di correità, cit., c. 24, secondo il quale « la stessa qualifica di ‘‘elemento di prova’’ costituisce l’indice lessicale di una ‘‘parzialità contenutistica’’ »; M. NOBILI, La nuova procedura, cit., p. 174. (63) Così V. GREVI, Le « dichiarazioni rese dal coimputato », cit., p. 37, che parla (con riferimento al testo definitivo della norma) di locuzione « volutamente generica ». Ad avviso di C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. II, p. 101, « forti argomenti depongono per la esclusione di una valenza tecnica del riferimento agli elementi di prova », da intendersi quale « formula omnicomprensiva idonea a designare qualunque tipo di dato probante, diretto o indiretto che sia ».


— 208 — tivo della libertà personale venga legittimamente emesso sulla base di prove logiche, è necessario che queste siano costituite da elementi indiziari gravi, precisi e concordanti » e che, nel caso di dichiarazioni rese dal coimputato (o dal coindagato), « è imprescindibile che esse trovino puntuale riscontro in altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità » (64): perché la chiamata in correità assuma valore probatorio, pur « se al fine di giustificare un giudizio di responsabilità ‘‘allo stato degli atti’’ », occorre dunque che la stessa sia dotata « del requisito dell’attendibilità che deve connotarl(a) sia sotto il profilo oggettivo sia sotto quello soggettivo » (65). Secondo un diverso orientamento, viceversa, è da escludere ai fini dell’art. 273 comma 1 c.p.p., quando si tratti di valutare dichiarazioni accusatorie provenienti da coimputati o coindagati, la necessità di specifici riscontri ab extrinseco, richiesti (soltanto) quando le dichiarazioni in parola debbano essere utilizzate come prova su cui fondare il giudizio di responsabilità: si sostiene infatti che la gravità dell’indizio, in vista « della eventuale adozione di misure cautelari a carico dell’accusato », non può essere negata « sulla base dell’art. 192 commi 3 e 4 c.p.p. (che riguarda soltanto la ‘‘prova indiziaria’’ e non gli ‘‘indizi’’ di cui all’art. 273 c.p.p.), per il solo fatto che manchino i riscontri », dovendosi invece « in ogni caso accertare se, indipendentemente da tale assenza, le dichiarazioni in questione, avuto riguardo ad ogni altro possibile elemento di valutazione e sulla base di un severo e rigoroso vaglio critico, siano o meno da considerare intrinsecamente attendibili » (66). Alla luce delle considerazioni fin qui svolte va senza riserve condivisa (64) In questi termini Cass., Sez. I, 15 ottobre 1990, Chiudamo ed altri, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 466, ove si afferma pure che « il procedimento in virtù del quale, affermata la generale credibilità del chiamante in correità o del dichiarante, se ne faccia discendere il valore probatorio di tutte le dichiarazioni e si considerino, gli accusati, raggiunti da gravi indizi di colpevolezza a prescindere dall’esistenza di obiettivi riscontri delle accuse, non è corretto » e che non risulta « adeguatamente motivato il provvedimento restrittivo della libertà personale di un soggetto, che desuma i gravi indizi di colpevolezza dalle dichiarazioni accusatorie di imputato di reato connesso o collegato, senza controllarne in maniera rigorosa ed analitica la credibilità intrinseca e quella estrinseca, questa ultima attraverso precisi ed utili riscontri obiettivi ». Analogamente Id., Sez. VI, 24 febbraio 1993, Cancemi, in Cass. pen., 1993, p. 2316 s., secondo cui « anche ai fini della adozione di una misura cautelare personale la chiamata di correo deve trovare conferma in altri elementi di prova, a norma dell’art. 192 comma 2 c.p.p. »; Id., Sez. I, 15 ottobre 1990, Lucchese, in Giust. pen., 1991, III, c. 617 s., secondo cui « i criteri di valutazione posti dall’art. 192 c.p.p. in materia di prova indiziaria e dichiarazioni del coimputato (o dell’imputato in procedimento connesso o collegato) sul fatto altrui devono trovare applicazione anche ai fini dell’emissione di provvedimenti restrittivi della libertà personale ». (65) Cass., Sez. I, 20 gennaio 1992, Bernasconi ed altri, in C.E.D. Cass., n. 189276. (66) Cass., Sez. I, 4 novembre 1991, Mazzocchi, in C.E.D. Cass., n. 188666.


— 209 — — dopo aver ribadito che la nozione di indizio accolta dall’art. 273 comma 1 c.p.p. è da considerare « più ampia di quella strettamente tecnica, e tale quindi da comprendere sia le prove c.d. logiche o indirette, sia quelle dirette » — l’opinione secondo cui le dichiarazioni accusatorie rese dal coimputato o dal coindagato devono (anche nell’àmbito cautelare) « comunque essere sottoposte ad un vaglio critico particolarmente rigoroso, alla stregua delle regole di carattere generale dettate in tema di valutazione della prova » dall’art. 192 comma 3 c.p.p., con il conseguente obbligo di verificarle sotto il profilo dell’attendibilità intrinseca come di quella estrinseca, mediante gli opportuni riscontri (67). Il riferimento ad ‘altri’ elementi di prova per la loro valutazione (a fini probatori) impone difatti la necessaria coesistenza di una pluralità di elementi che, andandosi a combinare con le dichiarazioni accusatorie, conferiscano a queste ultime forza probante (nella fattispecie, al fine del concretarsi del presupposto del fumus commissi delicti). Cfr. pure, più recentemente, Id., Sez. V. 1o marzo 1993, Lai, in Cass. pen., 1995, p. 335-336, con nota di E. SQUARCIA, Chiamata in correità ed indizi cautelari, ivi, p. 336 s. Per una posizione intermedia, invece, cfr. Cass., Sez. I, 12 febbraio 1992, Liguori ed altro, in Schede su Corte di cassazione e codice di procedura penale, cit., c. 313, secondo cui nella fattispecie in esame « l’esigenza di riscontri intrinseci ed estrinseci (quindi non necessariamente oggettivi, purché comunque esterni alla stessa fonte di prova e ben distinti da quelli che ne conclamano l’attendibilità soggettiva) non è data dall’art. 192, 3o comma, sia perché tale norma costituisce regola d’interpretazione e valutazione delle fonti di prova per il definitivo giudizio di merito, sia perché con il variare dello spessore probatorio della chiamata in correità, della sua attendibilità e dell’eventuale riscontro esterno, non sempre per ciò solo può ritenersi raggiunta una prova piena. Ciò che è necessario è la gravità dell’indizio, quale altamente significativo di probabile responsabilità; ed a tal fine, al presupposto basilare di attendibilità del soggetto propalante non può non richiedersi anche l’aggiunta di un qualche elemento esterno di conforto e controllo che si riferisca al soggetto incolpato, collegandolo col fatto reato su cui si indaga ». V. altresì, per ulteriori variazioni sul tema, Id., Sez. VI, 25 novembre 1989, Sartori, in Giur. it., 1990, II, c. 310 s., ove si afferma che, « anche a voler ritenere che l’art. 192 c.p.p. 1988 sia applicabile pure all’apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza idonei a giustificare le misure cautelari, deve necessariamente affermarsi che tale norma assume, in questa sede, una portata diversa da quella caratteristica del giudizio di responsabilità dell’imputato ai fini dell’eventuale condanna », dovendo i riscontri estrinseci presentare « solo quella misura di coincidenza, di serietà e di spessore necessari a conferire alla chiamata un rilevante grado di attendibilità complessiva »; nonché Id., Sez. I, 27 marzo 1991, Matina, in Cass. pen., 1992, p. 95, ove dopo aver affermato che l’art. 192 commi 3 e 4 c.p.p. è applicabile, « a rigore, unicamente in materia di valutazione delle ‘‘prove’’ e non degli ‘‘indizi’’, quali, per definizione, sono quelli che debbono essere assunti a base dei provvedimenti applicativi di misure cautelari », si sottolinea come si imponga, « per la natura stessa di siffatte dichiarazioni, indipendentemente dalla previsione normativa, l’esigenza della massima cautela da attuarsi, quando possibile, anche nella ricerca degli elementi di riscontro ». (67) Cass., Sez. I, 23 aprile 1993, Surrenti, cit., n. 194270. Nella stessa direzione, in dottrina, M. DEGANELLO, Chiamata in correità, cit., in Commento, cit., I agg., p. 522-523; E. MARZADURI, voce Misure cautelari personali, cit., in Dig. disc. pen., cit., vol. VIII, p. 67.


— 210 — Il più volte richiamato intervento della Corte di cassazione, a Sezioni unite, si muove in questa direzione, affermando che « l’apprezzamento della chiamata in correità deve svolgersi sotto un duplice profilo », essendo necessario non soltanto che « l’attendibilità dell’accusa venga valutata sotto il profilo intrinseco » — dovendo il giudice « apprezzarne la precisione, la coerenza interna e la ragionevolezza » e determinare « il grado di interesse dell’autore per la specifica accusa, alla stregua della sua personalità e dei motivi che lo hanno indotto a coinvolgere l’indagato » — ma anche, per quanto concerne l’attendibilità estrinseca della chiamata, che l’organo giudicante verifichi « se sussistano, o meno, elementi obiettivi che la smentiscano e se la stessa sia confermata da riscontri esterni di qualsiasi natura rappresentativi o logici, dotati di tale consistenza da resistere agli elementi di segno opposto eventualmente dedotti dall’accusato » (68). 6. La chiamata in correità de relato: struttura e criteri valutativi ai fini dell’emanazione dei provvedimenti de libertate. — Se consistenti appaiono le cautele che devono accompagnare l’utilizzazione processuale della chiamata in correità (e non solo nella fase del giudizio), tanto maggiori devono intuitivamente essere le precauzioni da adottare nel caso di chiamata in correità de relato. Tale species probatoria, difatti, unisce alla specifica conformazione dello strumento di conoscenza processuale finora esaminato l’ulteriore peculiarità derivante dalla circostanza che le dichiarazioni (accusatorie) rese hanno ad oggetto fatti non già percepiti personalmente dal chiamante, ma a questi riferiti da altra persona (69). È noto il particolare valore probatorio attribuito dal codice 1988 alla (68) Cass., Sez. un., 21 aprile 1995, Costantino ed altro, cit., p. 2841, ove si precisa pure, con riferimento alla questione del carattere individualizzante dei riscontri, che gli stessi non devono necessariamente riguardare « in modo specifico la posizione soggettiva del chiamato, poiché l’assenza di questo ulteriore requisito — nell’ipotesi in cui non risultino elementi contrari al coinvolgimento di costui — non esclude, di per sè, anche per la naturale incompletezza delle indagini, l’attendibilità complessiva della chiamata, una volta che la stessa sia stata accertata sia sotto il profilo intrinseco, sia — nei termini anzidetti — sotto quello estrinseco » (ivi, p. 2842). (69) Il vero problema della testimonianza indiretta, si osserva, « scaturisce da una considerazione tanto banale quanto fondamentale: la testimonianza de relato è sostanzialmente la testimonianza processuale di una testimonianza che, pur essendosi esaurita nell’ambito extraprocessuale, finisce per incunearsi nel processo attraverso una sorta di nuntiatio » (E. DOSI, La prova testimoniale. Struttura e funzione, 1974, p. 115). Sul tema della testimonianza indiretta cfr. più diffusamente I. CALAMANDREI, sub art. 195 c.p.p., in Commento, cit., vol. II, p. 429 s., ove tra l’altro si mette in evidenza che, « in stretta coerenza con l’idea per cui testimone di certi fatti è colui il quale li abbia personalmente percepiti, testimonianza è l’atto con il quale il teste, comunicando agli altri le sue percezioni, esplicitamente o implicitamente garantisce l’esistenza dei fatti che le hanno provo-


— 211 — testimonianza indiretta: secondo i canoni generali delineati dall’art. 195 c.p.p. la testimonianza de relato è infatti « acquisibile, ma assume rilievo solo quando » sia nota la fonte da cui il dichiarante ha appreso i fatti e, qualora le parti lo richiedano o il giudice lo disponga ex officio, « sia stato escusso l’ipotetico autore delle dichiarazioni riferite, a meno che risulti impossibile » (per morte, infermità od irreperibilità), ed è « superfluo notare come i ‘‘relata’’ non verificabili siano da pigliare con le molle » (70). Si è opportunamente precisato, già vigente il codice 1930 (il quale pure non conteneva una regolamentazione ad hoc dell’istituto) (71), che cate », per cui a rigor di logica « non potrebbero essere concettualmente ricomprese fra le testimonianze le dichiarazioni con cui si riferiscono percezioni non proprie ». P. FERRUA, Studi sul processo penale cit., vol. II, p. 98-99, ricorda che « vi sarebbe in questa materia una fondamentale regola logica, di per sè sufficiente ad escludere ogni abuso » e che, « senza vietare l’uso della testimonianza indiretta, ne circoscrive l’efficacia probatoria »: l’affermazione di Tizio che Caio ha detto x « serve solo a dimostrare che effettivamente Caio ha detto x, non a provare la verità di x; e, in effetti, l’oggetto della testimonianza di Tizio non è x, ma il fatto che sia stato detto x ». V. MANZINI, Trattato, cit., vol. III, p. 293-294, afferma che « le attestazioni indirette, le cognizioni riflesse, le deposizioni per sentito dire, non hanno carattere di testimonianza, ma possono considerarsi soltanto come elementi non sicuri d’informazione, in base ai quali si può eventalmente risalire alla vera testimonianza. In siffatte deposizioni, invero, la percezione sensoria interessante la prova non è del deponente, ma di colui che la manifestò al deponente stesso. E il confidente, che sarebbe il vero testimonio, quando non sia immaginario, sfugge alla responsabilità di ciò che ha detto, se l’altro non lo riveli, e si sottrae pure alla valutazione della sua credibilità; senza contare che i racconti passati di bocca in bocca si alterano e si deformano per via ». E. DOSI, La prova testimoniale, cit., p. 114, ritiene al contrario che « la testimonianza de relato, lungi dal rivelarsi come una testimonianza indiretta (espressione, quest’ultima, che può stare in piedi soltanto attraverso una contraddizione in termini, posto che testimone di un fatto è soltanto colui che ha stabilito un contatto diretto con quel fatto), si svela come una vera e propria testimonianza (diretta) di ciò che è stato percepito de auditu ». (70) Così F. CORDERO, Procedura penale, 3a ed., cit., p. 617, il quale ricorda pure che « spesso, temporibus illis, testimoni volenterosi riferivano, a beneficio dell’imputato vivo, dichiarazioni liberatorie in articulo mortis del correo, nel confortatorio o sul patibolo ». Osserva E. DOSI, La prova testimoniale, cit., p. 116, che « il giudizio giurisdizionale è una faccenda troppo seria per consentire che ad esso faccia da sfondo una notizia di cui non si sia controllata la credibilità attraverso una verifica della fides del notiziante supposto; rinunciare a valersi sic et simpliciter di una testimonianza de relato è soluzione migliore di quella che può essere offerta attraverso un discorso imperniato sull’opportunità di tener conto di una tale testimonianza al fine di evitare un impedimento alla scoperta della verità ». (71) Sull’« esigenza di un più puntuale assetto normativo della materia », vigente il codice Rocco, cfr. F. PERONI, Brevi appunti in tema di testimonianza de relato, in questa Rivista, 1988, p. 1516-1518, che parla di dato codicistico « lacunoso al riguardo » e perciò fonte di gravi incertezze interpretative, sottolineando la preoccupazione della dottrina « di elaborare un’adeguata razionalizzazione della materia, che fosse in qualche modo utile ad inibire sortite giurisprudenziali eccessivamente disinvolte » ed auspicando la creazione di « uno sbarramento preclusivo analogo a quello della hearsay rule di matrice anglosassone ». Così, secondo M. NOBILI, Il principio del libero convincimento, cit., p. 304-305, una « conseguenza che si vuole trarre, nel nostro ordinamento positivo, dal sistema del libero


— 212 — « in caso di deposizione de relato, attesa la complessità della fattispecie che vede compenetrate, nel medesimo atto, una testimonianza processuale ed una stragiudiziale, la verifica dell’attendibilità che, anche sotto il profilo soggettivo, il giudice di merito è chiamato a compiere a proposito delle dichiarazioni del teste processuale » deve giocoforza « estendersi alla valutazione di attendibilità, anche sotto il profilo soggettivo, della accertata percezione diretta da parte del soggetto estraneo al processo, la quale costituisce l’oggetto della prova » (72): la testimonianza de auditu, insomma, essendo « bisognevole di riscontri specifici a convalida, in via di principio ben può dirsi a rilevanza affievolita rispetto a quella diretta » (73). Se ciò è vero, ed innegabile, non possono essere ignorati i riverberi, sul piano della conoscenza, di tale situazione ogniqualvolta la testimonianza indiretta si vada a combinare con la chiamata di correo, originando convincimento è quella concernente l’ammissibilità delle testimonianze de relato », mentre invece il ricorso a tale genere di testimonianza « dovrebbe essere considerato come eccezionale, ossia esperibile solo ogni volta che sia impossibile per il giudice ottenere una deposizione ‘‘di primo grado’’ »; ad avviso di V. PERCHINUNNO, Limiti soggettivi della testimonianza nel processo penale, 1972, p. 214, « il giudice può, nel suo libero convincimento, valutare la cosiddetta deposizione de relato, e ‘‘porla, ove la ritenga credibile, a fondamento della decisione adottata’’ »· Già nel Progetto preliminare del 1978 faceva la sua comparsa una previsione espressamente dedicata alla testimonianza de relato, l’art. 186, che come osserva la Relazione al progetto preliminare del 1978, cit., in Il nuovo codice di procedura penale, cit., vol. I, p. 530, « si richiama al punto 5 della legge-delega » del 1974 (« adozione del metodo orale ») e « circonda delle dovute cautele la testimonianza indiretta, nella preoccupazione di consentire una così delicata forma di testimonianza solo quando sia reso possibile un qualche controllo sulla fonte della conoscenza ». Sul punto v. pure infra, sub nota 87. (72) Cass., Sez. I, 22 giugno 1987, Falbo, in questa Rivista, 1988, p. 1515 s. Vigente il codice Rocco, cfr. pure Id., Sez. I, 19 aprile 1989, Piromalli, in Cass. pen., 1990, p. 1980-1981, ove si afferma che le testimonianze indirette, « per poter essere poste a base della decisione, devono essere fatte oggetto di indagine sulla attendibilità delle fonti di prova. All’uopo non è sufficiente che il giudizio espresso sul testimone sia formulato in via generale, ma la verifica della prova deve essere estesa alla validità degli strumenti informativi del testimone de relato ». (73) Così A. GAITO, Chiamata di correo « de relato » e controlli in sede di riesame, in Giur. it., 1991, c. 318. Cfr. pure E. DOSI, La prova testimoniale, cit., p. 117, secondo il quale « quando si rileva che la testimonianza de relato può essere inquadrata fra le fonti di convincimento purché risulti ‘‘sottoposta a scrupoloso vaglio critico con l’ausilio di altre circostanze obbiettive di controllo’’, a ben considerare si finisce per valorizzare le ‘‘altre circostanze’’ e, implicitamente, per svalorizzare la testimonianza de relato, la quale, in tal modo, scade ad un rango inferiore a quello che è proprio delle fonti di convincimento »; P. FERRUA, Oralità del giudizio e letture di deposizioni testimoniali, 1981, p. 285. Sulla « necessità logica di ritenere indispensabile l’audizione della persona indicata e di non prendere in considerazione ciò che viene riferito, senza indicare la fonte », v. A. VIVIANI, La chiamata di correo nella giurisprudenza, 1991, p. 338.


— 213 — quella particolare species probatoria che è appunto la chiamata di correo de relato (74). Anche sul punto però la giurisprudenza di legittimità appare nettamente divisa ed estremamente contraddittoria, offrendo una concreta « testimonianza di quanto illusoria possa essere la prevedibilità del diritto » (75), e l’auspicato intervento chiarificatore delle Sezioni unite della suprema Corte ha toccato solo incidentalmente la questione, non andando oltre il riconoscimento che « lo spessore dell’attendibilità intrinseca della chiamata è certamente influenzato dal tipo di conoscenza acquisita dal chiamante, variando a seconda che costui riferisca vicende a cui abbia partecipato o assistito, ovvero che abbia appreso de relato » (76). Per un verso, infatti, si afferma che « la chiamata di correo costituisce una fonte privilegiata sul piano della valenza dimostrativa rispetto all’indizio in senso tecnico », essendo definita esplicitamente dall’art. 192 comma 3 c.p.p. come elemento di prova, con la conseguenza che « i c.d. elementi di riscontro possono esaurirsi nella valorizzazione della intrinseca attendibilità della chiamata ove, tenuto conto della fase procedimentale di adozione della misura, non sia possibile l’acquisizione di ulteriori elementi di conferma », e che nel caso di « notizie ricevute da terzi e non personalmente conosciute dal chiamante » può rappresentare « valida fonte di indizi ai fini dell’applicazione delle misure cautelari, se il giudice, attraverso un apprezzamento di merito ben motivato e logicamente valido e con l’ausilio di elementi di conforto, ritenga che essa sia affidabile » (77), non potendosi negare la potenziale « gravità » (ex art. 273 comma 1 c.p.p.) della chiamata di correo de relato. Un altro gruppo di sentenze della suprema Corte, viceversa, sostiene che « in tema di sottoposizione a misure cautelari personali, alle dichiarazioni accusatorie de relato, da chiunque esse provengano (testimone, coimputato o imputato di un reato connesso), deve riconoscersi il valore (74) Si è a tal proposito affermato in giurisprudenza che, « ai fini della prova, la chiamata di correo de relato non perde, per ciò solo, la sua natura e la sua valenza, ma necessita che la sua valutazione sia compiuta con maggior rigore, dovendo essere controllata non solo con riferimento al suo autore immediato, ma anche in relazione alla fonte originaria dell’accusa, che spesso resta estranea al processo » (Cass., Sez. V, 14 novembre 1992, Madonia, in Cass. pen., 1994, p. 1918). C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. II, p. 106, ricorda che la chiamata in correità de relato costituisce il « pendant della testimonianza indiretta, verso la quale l’ordinamento manifesta notevole prevenzione ». (75) In questi termini F.M. IACOVIELLO, Il diritto imprevedibile: le contraddittorie pronunce della Suprema corte sulla motivazione delle ordinanze cautelari fondate su chiamate in reità de relato, in Cass. pen., 1993, p. 2338. (76) Cass., Sez. un., 21 aprile 1995, Costantino ed altro, cit., p. 2841. (77) Cass., Sez. VI, 18 gennaio 1993, Bono ed altro, in Cass. pen., 1993, p. 2325 s. Analogamente Id., Sez. VI, 5 giugno 1992, Mineo, in C.E.D. Cass., n. 191266.


— 214 — di indizio, se rese da soggetto intrinsecamente attendibile. Alle stesse può, poi, esser attribuito il carattere di gravità, richiesto dall’art. 273 c.p.p., quando trovino il necessario riscontro estrinseco in relazione alla persona incolpata e al fatto che forma oggetto dell’accusa » (78), in quanto « i riferimenti di fatti non percepiti direttamente dal dichiarante, ai fini della loro utilizzabilità per gli effetti di cui al comma 1 dell’art. 273 c.p.p., impongono un controllo della conoscenza allo scopo di stabilirne la verità, per poter poi essere valorizzati in un complessivo quadro indiziario che consenta di pervenire attraverso un ragionamento logico-giuridico a corretta conclusione rivelatrice dell’elevata probabilità dell’esistenza del reato e della sua attribuibilità al soggetto » (79). Talora precisando che tra gli elementi di riscontro è possibile annoverare « anche le dichiarazioni accusatorie che provengano da altri soggetti », ma che è comunque necessario, in detti casi, un controllo « al fine di escludere ipotesi di collusione o di reciproco condizionamento psicologico » (80). Ancora più esplicitamente la Corte di cassazione ha statuito che « alle (78) Cass., Sez. I, 11 marzo 1991, Clemente, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 456. La sentenza si riferisce ad un caso di « chiamata in reità », ma la suprema Corte, nell’affermare il principio in parola, ha precisato incidentalmente che la stessa regola vale — alla luce del disposto dell’art. 192 comma 3 c.p.p. — per la chiamata in correità. Negli stessi termini Id., Sez. I, 5 febbraio 1993, Contrada, inedita; Id., Sez. I, 24 febbraio 1992, Barbieri ed altri, in C.E.D. Cass., n. 190765; Id., Sez. I, 9 aprile 1990, Di Biasi, in Giust. pen., 1991, III, c. 535, secondo cui « una sola chiamata di correo, resa de relato, seppure può valere come indizio, non può tuttavia ritenersi idonea ad integrare gli estremi del grave indizio, tale cioè da ingenerare una rilevante probabilità di colpevolezza, se non sia sorretta da adeguati riscontri », che appaiono certamente « necessari quando non sia possibile ottenere la conferma dell’accusa da parte di colui che l’ha riferita al dichiarante ». (79) Cass., Sez. I, 27 febbraio 1993, Cusimano ed altri, in Cass. pen., 1993, p. 2317 s. (80) Cass., Sez. I, 6 febbraio 1992, Baraldi ed altri, in C.E.D. Cass., n. 189867; Id., Sez. I, 24 febbraio 1992, Barbieri ed altri, cit., n. 190765. V. pure, per il riconoscimento delle « dichiarazioni accusatorie provenienti da altri soggetti imputati e sottoposti ad indagini nello stesso procedimento e in procedimento connesso o collegato, e perfino da soggetti de relato », quale strumento di « severo e rigoroso vaglio critico » della chiamata in correità ai fini della tutela cautelare, Id., Sez. I, 23 aprile 1992, Guglielmi, ivi, n. 190374. Id., Sez. V, 30 giugno 1993, Tornese, ivi, n. 195840, ha statuito che la chiamata di correo de relato « può trovare riscontro anche nelle dichiarazioni di un soggetto che affermi di aver ricevuto dal chiamante la medesima confidenza », tenuto conto « del diverso contesto, specie cronologico, in cui è stata resa, in quanto antecedente di un tempo apprezzabile la chiamata de relato, sì da escludere la ipotizzabilità di collusioni ». Più in generale, sulla mutual corroboration tra dichiarazioni accusatorie, cfr. G. DI CHIARA, In tema di chiamata di correità, cit., c. 28, che mette in guardia contro le « semplicistiche ‘‘tentazioni’’ di appiattimento delle indagini », definendo deprecabile l’eventuale « atteggiamento mentale del magistrato inquirente che, pervenuto ad una pluralità di ‘‘chiamate’’ convergenti in ordine alla medesima ipotesi accusatoria, intendesse a tal punto arrestare le proprie indagini », invece « di muovere alla ricerca di elementi probatori ben più de-


— 215 — dichiarazioni accusatorie de relato può riconoscersi valore di indizio grave ai fini dell’emissione di provvedimenti cautelari nella misura in cui siano rigorosamente ed analiticamente controllate in relazione alla credibilità intrinseca ed estrinseca sia del teste che le ha rese sia della persona dalla quale provengono le notizie riferite » (81). In sostanza si ritiene che anche ai fini dell’applicazione di una misura cautelare personale valgono i criteri particolarmente rigorosi fissati in via generale per la valutazione delle dichiarazioni accusatorie de relato, la cui particolare natura impone non soltanto « un duplice controllo volto ad accertare tanto l’attendibilità intrinseca del dichiarante quanto l’affidabilità ab extrinseco delle accuse formulate, mediante la individuazione e la valutazione di elementi processuali esterni di verifica » (82) — potendo le chiamate in correità « assumere valore probatorio » soltanto in quanto « siano dotate del requisito della attendibilità sia sotto l’aspetto soggettivo che oggettivo » (83) — ma anche una ulteriore e più attenta verifica, da condurre (quando possibile) secondo i precetti dell’art. 195 c.p.p., essendo il valore probatorio delle dichiarazioni de quibus certamente attenuato rispetto alla semplice chiamata in correità. È indubbio infatti — come ha opportunamente precisato in altra circostanza la suprema Corte — che, « quando si tratti di dichiarazioni indirette, più alto è il rischio, non solo della menzogna, essendo due i soggetti cisivi ai fini della successiva prospettazione dell’accusa in giudizio », dovendo le stesse fungere « non da traguardo ideale, ma da semplice tappa verso indagini più vaste e complete ». V. GREVI, Le « dichiarazioni del coimputato », cit., p. 39, sempre con riferimento alla « tecnica del ‘‘riscontro incrociato’’ », sottolinea come non si debba « ignorare il rischio che, in simili eventualità, dietro la convergenza delle dichiarazioni accusatorie provenienti da diversi coimputati possa in realtà nascondersi una trama di mendacio concordato dei ‘‘chiamanti’’ ai danni del ‘‘chiamato’’ ». (81) Cass., Sez. I, 12 luglio 1991, Bruno, in Giur. it., 1993, II, c. 158 s. (con nota di E. GAITO, In tema di « discovery » parziale e controlli sulla testimonianza indiretta nelle decisioni « de libertate »), ove si chiarisce che « il giudizio di valore sulle dichiarazioni di colui che riferisce di fatti appresi da altre persone è operazione estremamente complessa, giacché deve avere ad oggetto una duplice valutazione », e si precisa pure che « siffatto doveroso controllo è da ritenere soltanto apparente ove il p.m., pur sollecitato dalla difesa, abbia rifiutato di esibire il fascicolo degli accertamenti eseguiti dalla polizia giudiziaria ». (82) Cass., Sez. I, 6 febbraio 1992, Baraldi ed altri, cit. n. 189867. (83) Così Cass., Sez. I, 24 febbraio 1992, Barbieri ed altri, cit., n. 190765, che specifica i succitati parametri, affermando che le dichiarazioni de quibus debbono « provenire da soggetti, che conoscano il vero, perché certamente concorsero alla commissione dell’illecito, che si attribuisce all’incolpato; essere spontanee, costanti, disinteressate, dettagliate e coerenti », ed essere di « contenuto altamente verosimile per elementi oggettivi di riscontro », dovendosi escludere che quest’« ultimo requisito possa essere sostituito dalla cosiddetta ‘‘attendibilità generale’’ del chiamante da desumersi dalla autoincolpazione, la quale comporterebbe per il chiamato in correità l’obbligo di fornire la prova dell’innocenza. Il cosiddetto riscontro, pur non dovendo presentare il valore di prova autonoma, deve infatti offrire ampie garanzie in ordine alla veridicità ».


— 216 — sulla cui veridicità bisogna fare affidamento, ma anche dell’errore attribuibile a equivoci o confusioni », per cui la valutazione della chiamata in correità de relato deve essere « particolarmente prudente », anche in sede di tutela cautelare, dovendosi in concreto accertare « per quali ragioni e in quale contesto la notizia fu riferita al dichiarante » (84). Nè può soddisfare l’assunto di chi, facendo leva sul principio del libero convincimento, sostiene che « non ha senso una classificazione dei tipi di prova in base ad una loro asserita, intrinseca idoneità dimostrativa, avulsa dalla specifica realtà processuale », in quanto « dove il convincimento del giudice è libero, non vi può essere una prefissione normativa dell’efficacia della prova », ma soltanto « dei metodi di acquisizione e verifica dei mezzi di prova »; per poi giungere alla conclusione che nel caso in esame « non è necessario acquisire le dichiarazioni del soggetto di riferimento », essendo sufficiente « verificare la credibilità intrinseca del pentito, accertare dove, come e quando avvenne il suo colloquio col soggetto di riferimento » e quali fossero i rapporti intercorrenti tra i due: tutte verifiche per le quali « non è indispensabile sentire la fonte primaria » (85). Non si capisce bene, difatti, perché anche in tale contesto non debba essere sentito il testimone di riferimento — quando ciò sia materialmente possibile — se detta operazione « di controllo sulla fonte della conoscenza » (86) è prevista dalla disciplina generale in tema di testimonianza indiretta dettata dall’art. 195 c.p.p., è nello spirito di tale norma, essendo stata ritenuta (pur se con qualche ambiguità, da taluni giustificata con un inopportuno richiamo ai princìpi di economia e speditezza processuale) (87) dal legislatore fondamentale non soltanto nell’ottica della di(84) Cass., Sez. V, 24 maggio 1994, Anderlini, cit., p. 639. (85) È quanto fa F.M. IACOVIELLO, Il diritto imprevedibile, cit., p. 2340-2341, il quale precisa pure che « il confronto con le dichiarazioni del soggetto di riferimento è solo un modo — non l’unico e neppure da solo sufficiente — per saggiare la veridicità delle dichiarazioni del collaborante ». (86) In questi termini la Relazione al progetto preliminare, cit., in G.U. 24 ottobre 1988, cit., p. 62. (87) Va ricordato infatti che l’art. 186 del Progetto preliminare del 1978 risultava più netto sul punto, imponendo al giudice di disporre anche ex officio l’audizione del teste di riferimento: « Quando il testimone si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice dispone anche d’ufficio che queste siano chiamate a deporre » (art. 186 comma 1), a pena di inutilizzabilità delle « dichiarazioni relative a fatti di cui il testimone abbia avuto conoscenza da altre persone » (art. 186 comma 2). Tale previsione recepiva « il disposto dell’art. 257 comma primo c.p.c. che la Commissione consultiva ha suggerito di seguire nella stesura della norma » — con la precisazione che la norma processualcivilistica utilizza l’espressione « può disporre », delineando quindi una mera facoltà e non un obbligo — allo scopo « di evitare la complessa disciplina prospettata nel testo originariamente proposto » (Relazione al progetto preliminare del 1978, cit., in Il nuovo codice di procedura penale, cit., vol. I, p. 530). Nel Parere formulato sulla norma de qua la Corte di cassazione ha ritenuto che la pre-


— 217 — rettiva n. 2 della legge-delega del 1987, che impone la « adozione del metodo orale » (88), ma anche in ragione della oggettiva minore attendibilità delle dichiarazioni de auditu. D’altro canto aderire alla summenzionata impostazione significherebbe (se si vuole essere coerenti fino in fondo) ritenerla valida anche per il giudizio di merito, contraddicendo la ratio espressa della nuova disciplina che rende piuttosto problematico per l’organo giudicante, « in ottemperanza al duplice vaglio di veridicità che gli è imposto » (89), esimersi dal sentire il testimone di riferimento — la cui citazione è obbligatoria, a pena di inutilizzabilità delle dichiarazioni de relato, quando richiesta dalle parti (art. 195 commi 1 e 3 c.p.p.), e comunque possibile anche ex visione « incide negativamente sulla speditezza del dibattimento. Sembrerebbe, pertanto, opportuno, per limitare l’inconveniente, che il giudice disponga la citazione quando vi sia istanza di parte ed abbia invece la facoltà di disporre d’ufficio la citazione stessa quando tale istanza manchi » (Parere della Corte di cassazione sul progetto preliminare del 1978, ivi, vol. I, p. 532): si tratta della soluzione poi adottata nel codice 1988. (88) G. ILLUMINATI, Il nuovo dibattimento: l’assunzione diretta delle prove, in Foro it., 1988, V, c. 362, sottolinea che la norma in tema di testimonianza indiretta risulta orientata « in una prospettiva tendenzialmente accusatoria », in quanto, « sebbene non arrivi ad escludere la testimonianza de auditu (come pure sarebbe coerente in un processo rigidamente ancorato al principio di oralità), mira a privilegiare l’escussione diretta della fonte originaria ». Con riferimento al testo del Progetto preliminare del 1978 la Commissione consultiva « espresse l’opinione secondo cui il problema della testimonianza indiretta non può porsi in termini di ammissibilità della stessa. Non sussiste, invero, alcun valido motivo per escludere l’audizione di coloro che possono riferire circa fatti appresi da altre persone: dalle loro affermazioni potranno sempre trarsi elementi che il giudice potrà valutare, sia pure con particolare cautela » (Parere della commissione consultiva sul progetto preliminare del 1978, in Il nuovo codice di procedura penale, cit., vol. I, p. 531). Cfr. altresì F. CORDERO, Scrittura e oralità, in Tre studi, cit., p. 221-222 e sub nota 117, il quale dopo aver sottolineato « l’estrema cautela che s’impone nell’apprezzamento di una deposizione de auditu, qualora non sia stata procurata la presenza nel processo di colui, del quale si riferiscono le parole », osserva che « se, pur essendo possibile risalire alla fonte originaria, ci si limitasse a usare quella mediata, nessun sofisma varrebbe a dimostrare la sufficienza d’una testimonianza de auditu » quale strumento persuasivo del giudice. (89) F. PERONI, Brevi appunti in tema di testimonianza de relato, cit., p. 1521. Tutto ciò è naturale conseguenza del fatto che « la testimonianza de relato lascia emergere una duplice dichiarazione o, meglio, un duplice giudizio: il giudizio del testimone cosiddetto supposto in ordine al quid dal medesimo percepito e il giudizio del testimone de relato in ordine alla dichiarazione testimoniale da quest’ultimo percepita » (E. DOSI, La prova testimoniale, cit., p. 114). Ad avviso di L. GIULIANI, Utilizzabilità e valutazione delle dichiarazioni de relato tra principio di oralità e libero convincimento del giudice, in questa rivista, 1995, p. 293 s., alla luce del’attuale disciplina « è da ritenere che l’esame del testimone diretto non costituisca in assoluto un presupposto necessario per l’utilizzabilità delle dichiarazioni di secondo grado », mirando l’art. 195 c.p.p. « non tanto ad escludere che, in effettivo rispetto del principio di oralità, nella valutazione ai fini della decisione siano introdotti elementi non acquisiti dal giudice in dibattimento tramite il contraddittorio delle parti, bensì ad evitare, per quanto possibile, un uso indiscriminato delle dichiarazioni de relato ».


— 218 — officio ai sensi dell’art. 195 comma 2 c.p.p. — in quanto « altro è il sapere di prima mano, altro è l’aver saputo da terzi, con tutto il bagaglio di incertezze e di deresponsabilizzazione che riferimenti del genere comportano » (90): di tal che « la deposizione de relato scadrà fatalmente, in ipotesi di tal genere, a mero mezzo introduttivo della percezione primaria » (91). Senza dire, per passare ad una considerazione di carattere sistematico, che l’intera costruzione del « diritto delle prove », nel codice 1988, esprime la volontà di realizzare (in armonia con i rilievi in passato formulati dalla dottrina) « un equilibrato dosaggio di libertà e legalità » in grado di scalzare il predominio assoluto « del libero convincimento come principio di rango generale invocabile indiscriminatamente in ogni problema attinente all’accertamento dei fatti di reato » (92); per cui invocare il principio de quo a sostegno di una interpretazione riduttiva della normativa in esame significa ignorare consapevolmente questo dato di fondo, che si esprime nei limiti imposti al libero convincimento prima esaminati. Anche l’affermazione secondo cui, in virtù del rinvio operato dall’art. 363 comma 1 c.p.p. all’art. 210 commi 2, 3 e 4 c.p.p., e non anche al comma 5 della stessa previsione che a sua volta richiama gli artt. 194, 195 e 499 c.p.p. (93), l’applicazione della disciplina in tema di testimonianza (90) A. GAITO, Chiamata di correo « de relato » e controlli, cit., c. 317-318. (91) F. PERONI, Brevi appunti in tema di testimonianza de relato, cit., p. 1521. Nella stessa direzione E. DOSI, La prova testimoniale, cit., p. 117, secondo il quale « la testimonianza de relato non può essere che un veicolo per l’introduzione del testimone supposto; al di là essa non può andare ogni qualvolta, per qualsiasi motivo, il testimone supposto resta fuori della scena del processo ». Osserva A. GAITO, Chiamata di correo « de relato » e controlli, cit., c. 317, che « la testimonianza non è mezzo di prova sempre uguale a sé stesso, una sorta di astrazione processuale assistita di per sé ed insopprimibilmente da efficacia probatoria », bensì « una categoria formale nell’ambito della quale è utile e doveroso enucleare distinte tipologie specificamente individuate in riferimento ai dati contenutistici », per cui « nell’ambito della prova testimoniale si è affermata l’esigenza di rispettare una sorta di ‘‘gerarchia delle prove’’, con correlativa specificazione di differenti fenomenologie ciascuna disciplinata con autonome regole di acquisizione, prima, e valutazione, poi »; dovendosi in particolare distinguere, « in rapporto al contenuto delle dichiarazioni, la testimonianza ‘‘diretta’’ (prima species) da quella ‘‘indiretta’’ o de relato (altra species) ». (92) E. AMODIO, Libertà e legalità della prova nella disciplina della testimonianza, in questa rivista, 1973, p. 324. Sulla « sostanziale unitarietà di fondo delle previsioni » in tema di prove, « in vista della costruzione di un vero e proprio sottosistema normativo » che esprime « l’aspirazione legislativa » al « recupero di un quadro di maggior rigore sul piano della legalità della prova », cfr. V. GREVI, Prove, cit., in Profili, cit., p. 190-192. (93) L’assunto è sostenuto da A. BARGI, Osservazioni sul valore probatorio della chiamata in correità, cit., p. 681, il quale afferma che « l’art. 363 c.p.p., quale norma speciale dettata per la fase delle indagini preliminari, deroga alla generale applicabilità delle disposizioni sulla prova », e che la modifica operata rispetto al Progetto preliminare « sembra


— 219 — de relato risulterebbe in tale sede preclusa non appare decisiva, sia perchè l’art. 363 comma 1 c.p.p. si limita ad individuare le forme con cui si procede all’interrogatorio della persona imputata in un procedimento connesso nel corso delle indagini preliminari, e non anche i criteri valutativi degli elementi probatori eventualmente così raccolti, sia perché occorre tener conto della espressa dichiarazione, contenuta nella Relazione al testo definitivo del codice 1988, secondo cui le modifiche apportate nel passaggio dal testo del Progetto preliminare — il cui art. 362 prevedeva un espresso rinvio all’art 210 commi 4 e 5 (94) — sono di mero « coordinamento o dettate da esigenze di maggior chiarezza » e quindi non implicano mutamenti sostanziali della normativa (95). Tantomeno può addursi, a giustificazione di un preteso diverso atteggiamento legislativo, la circostanza della « maggiore elasticità consentita all’organo dell’accusa nell’acquisizione di informazioni provenienti da soggetti collaboranti », quale indice rivelatore di una voluntas legis mirante a tenere il pubblico ministero svincolato dall’onere di ricercare gli opportuni elementi di riscontro, qualora ritenga di dover fondare una richiesta di misura cautelare personale su dette dichiarazioni: spetta corispondere alla finalità di consentire al pubblico ministero di avvalersi di uno strumento di investigazione più agile, malgrado la proiezione dibattimentale dell’atto » così formato, di tal che « la chiamata di correo, se utilizzata nella fase delle indagini preliminari — malgrado i pericoli insiti e i rischi sulla sua attendibilità — può essere posta a base di una misura cautelare, senza la particolare cautela predisposta, invece, in relazione alla sua formazione come mezzo di prova con proiezione dibattimentale ». Ad avviso di F. PERONI, Chiamate di correo, cit., p. 682, la disposizione contenuta nell’art. 195 comma 3 c.p.p. è « costruita in funzione di tutela del contraddittorio dibattimentale, e dunque, a soddisfacimento di esigenze affatto estranee all’ambito cautelare »; pur tuttavia la soluzione « desta notevoli perplessità, non potendosi francamente ammettere che un bene inviolabile quale la libertà personale subisca restrizioni sulla sola base di notizie acquisite da testi de auditu, ancorché in grado di individuare la fonte di riferimento », e che comunque è possibile individuare « un’ulteriore e distinta sfera di interessi, non meno idonea a giustificare la sottoposizione della testimonianza de relato a più rigorosi vincoli di utilizzabilità », da cogliersi « nelle ragioni che, sotto il particolare profilo psicologico, attengono alla intrinseca, minore attendibilità dei contributi probatori di secondo grado »: ne deriva così, « con specifico riguardo alla dinamica cautelare, che gli eventuali relata offerti dall’accusa a conforto di una richiesta di provvedimento restrittivo, potranno validamente giustificare l’adozione della misura solo se corredati dalla necessaria verifica della fonte, sempre che, s’intende, cioè non risulti impossibile ‘‘per morte, infermità o irreperibilità’’ del teste di riferimento ». (94) L’art. 362 del Progetto preliminare, difatti, così recitava: « Le persone imputate dello stesso reato o di un reato connesso a norma dell’art. 12, nei confronti delle quali si procede separatamente, sono interrogate dal pubblico ministero sui fatti per cui si procede nelle forme previste dall’articolo 210 commi 2 e 3. Si osservano le disposizioni dei commi 4 e 5 del medesimo articolo ». L’art. 210 comma 4, a sua volta, prevedeva che « all’esame si applicano le disposizioni previste dagli artt. 195 e 209 ». (95) Relazione al testo definitivo, cit., in G.U. 24 ottobre 1988, cit., p. 187.


— 220 — munque alla pubblica accusa, infatti, « ove si orienti a richiedere una misura restrittiva sulla base di risultanze così ottenute, procurare che esse risultino, al controllo del giudice, debitamente corroborate da ulteriori dati di supporto », coerentemente al « particolare ruolo che all’accusa si assegna nell’ambito della dinamica cautelare (96), e spetta comunque al giudice (per le indagini preliminari, anteriormente all’esercizio dell’azione penale, e al giudice che procede, successivamente), quale filtro giurisdizionale, valutare la sussistenza dei presupposti di legge per l’applicazione di una misura cautelare. Con il che, naturalmente, non si vuole negare l’utilizzabilità in sede cautelare delle dichiarazioni de relato, dato che comunque « la questione concerne non già l’ammissibilità ma la veridicità della prova » (97), bensì privilegiare la verifica da compiersi sul testimone di riferimento e mirante a confermare il contenuto delle dichiarazioni medesime (98). Degna di menzione è pure una diversa (ed intermedia) posizione assunta dalla suprema Corte, che pur negando l’operatività in sede cautelare delle norme di cui agli artt. 187 e s. c.p.p., « da applicare invece in sede di giudizio », sottolinea che « il giudice non può non tenere conto della notevole differenza, psicologica e giuridica, che vi è tra chiamata di correo e dichiarazioni de relato, di tal che, anche se non possono trovare applicazione, nella detta sede, le norme di cui agli artt. 192 comma 3 e 195 c.p.p., ad esse non può non attribuirsi, ivi, una influenza indiretta nel senso che ben più cauta deve essere la valutazione delle dichiarazioni de relato rispetto alla chiamata di correo ai fini dell’adozione di una misura cautelare » (99). Tale asserzione è di estrema importanza, in quanto con(96) Così F. PERONI, Chiamate di correo, cit., p. 681, secondo il quale « resta fermo — quanto alla deliberazione affidata al giudice in sede di adozione di provvedimenti cautelari —, che gli elementi desunti da chiamate in correità dovranno, per poter essere all’uopo utilizzati, subire il necessario filtro dei riscontri prescritti dall’art. 192 » c.p.p.. (97) Così F. CORDERO, Scrittura e oralità, cit., in Tre studi, cit., p. 222, sub nota 117, che sottolinea pure come sia diversa « la soluzione accolta nel processo anglosassone, nel quale, salve alcune eccezioni, non sono ammesse le testimonianze de auditu ». Nella stessa direzione F. PERONI, Brevi appunti in tema di testimonianza de relato, cit., p. 1520. (98) Cfr. Cass. Sez. I, 13 gennaio 1994, Stillitano, in C.E.D. Cass., n. 196397, che comunque ritiene tale forma di controllo alternativa al riscontro estrinseco, affermando che « in tema di applicazione di misure cautelari personali, la dichiarazione de relato può ritenersi idonea ad integrare gli estremi del grave indizio di colpevolezza solo se sorretta da adeguati riscontri o se il suo contenuto sia stato confermato da colui che l’ha resa al dichiarante ». Ad avviso di Id., Sez. I, 3 dicembre 1993, Privitera, in C.E.D. Cass., n. 196236, « in tema di indizi di colpevolezza legittimanti l’adozione di una misura cautelare personale, i riscontri necessari per attribuire rilievo alle dichiarazioni de relato devono essere individualizzanti, e cioè investire specificamente la persona dell’accusato ». (99) Cass., Sez. I, 3 dicembre 1993, Privitera, in C.E.D. Cass., n. 196235.


— 221 — ferma la particolare cautela che deve accompagnare (anche in sede cautelare) la valutazione di siffatti elementi probatori. Da quanto finora esposto si evince dunque che l’orientamento teso a riconoscere l’applicabilità dei criteri valutativi di cui all’art. 192 c.p.p. — e più globalmente, delle disposizioni generali in materia di prove — anche nel procedimento cautelare risulta maggiormente coerente, dal punto di vista sistematico, con il tessuto normativo del codice 1988, che dedica come si è visto un apposito titolo del libro terzo a tali regole. La sfera di incidenza di tali disposizioni, « in quanto espressive di alcune basilari scelte di civiltà giuridica sul terreno probatorio », si estende pertanto all’intero iter procedimentale, con l’esclusione dei soli casi di confliggente (ed espressa) regolamentazione normativa (e con gli inevitabili adeguamenti, quando imposti dalle peculiarità della fase in corso), non essendo plausibile sostenere che le stesse debbano essere bandite dalle « fasi anteriori al dibattimento, con riferimento ai diversi momenti in cui — nell’arco di tali fasi — è previsto l’intervento del giudice, ora in funzione di organo di garanzia, ora in funzione di organo di decisione » (100), a meno di non voler vanificare gli obiettivi perseguiti dal leLa sentenza afferma pure che gli indizi di colpevolezza ex art. 273 c.p.p., per essere « gravi », devono essere « tali da giustificare un giudizio cautamente e seriamente probabilistico in ordine alla colpevolezza della persona indagata ». (100) Così V. GREVI, Prove, cit., in Profili, cit., p. 193 e 195, ad avviso del quale tali disposizioni « costituiscono probabilmente, in assoluto, uno dei settori di più elevato risalto ideologico e culturale dell’intero codice » (ivi, p. 191), ed operano, « salvi i necessari adattamenti, anche riguardo alle ipotesi in cui il giudice sia chiamato ad intervenire, nel corso delle indagini preliminari, nell’adempimento del suo tipico compito di garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali », potendo il giudice per le indagini preliminari utilizzare in questi casi solamente quegli elementi probatori « il cui impiego non sia incoerente con la corrispondente disciplina stabilita in materia di prove ». V. altresì L.P. COMOGLIO, Prove ed accertamento dei fatti nel nuovo c.p.p., in questa Rivista, 1990, p. 144-145, ove si afferma che il giudice, « nel corso delle indagini preliminari, soggiace al vincolo dei principi medesimi, sia pur entro limiti di obiettiva compatibilità, anche quando sia chiamato ad adottare qualsiasi provvedimento cautelare, interdittivo od acquisitivo, sulla scorta degli elementi di prova raccolti dalla p.g. e dal p.m. »; E. MARZADURI, voce Misure cautelari personali, cit., in Dig. disc. pen., cit., vol. VIII, p. 66; G. TRANCHINA, I canoni di valutazione probatoria, cit., p. 646. Nella stessa direzione, esplicitamente, la Relazione al progetto preliminare, cit., in G.U. 24 ottobre 1988, cit., p. 59-60, ove si legge che, tenuto conto della « scelta in favore di una normativa generale sulle prove », operata per sopperire alle carenze ed alle reticenze del codice Rocco, « le disposizioni contenute nel libro III si osservano, in quanto applicabili, in sede di emissione di provvedimenti coercitivi e nell’udienza preliminare, là dove il giudice preposto alla fase anteriore al dibattimento esercita una sorta di semiplena iurisdictio », in quanto « nonostante la giurisdizionalità imperfetta che caratterizza questi momenti, gli strumenti di convincimento del giudice devono rispondere ai parametri fissati nelle disposizioni del libro III »; in particolare poi, per quanto concerne le « disposizioni generali (titolo I), la


— 222 — gislatore, in termini di legalità della prova, facendo venir meno la stessa ragion d’essere di tali norme. SERGIO LORUSSO Istituto di diritto e procedura penale dell’Università di Bari

loro applicabilità alle attività di polizia giudiziaria e del pubblico ministero va verificata tenendo conto della struttura delle singole disposizioni ». Cfr. pure retro, sub nota 22.


— 223 —

ERRORE E DUBBIO DOPO LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE 364/1988 (*)

SOMMARIO: 1. Il principio enunciato dalla sentenza 364/88. — 2. La matrice ideologica della decisione. — 3. Le questioni implicate dal sostanziale accoglimento della Schuldtheorie. — 4. La formula normativa attualmente vigente. — 5. L’errore e l’ignoranza. - 5.1. Il dubbio sul precetto. - 5.1.1. (Segue): e l’errore interpretativo che verte sul precetto. - 5.1.2. Le cause dell’errore interpretativo. — 6. L’errore/dubbio sulla natura, penale o non penale, del precetto. — 7. L’errore su legge penale o su legge diversa da quella penale. — 8. I criteri di valutazione della evitabilità.

1. Trascorsi ormai quasi otto anni dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 364 del 1988, che ha modificato il canone dell’assoluta irrilevanza dell’errore/ignoranza della legge penale, può essere non inopportuno verificare quali esiti concreti abbia avuto una sentenza ben esattamente definita storica, in quanto restauratrice del principio di colpevolezza (1). Sul piano sistematico nessuno può dubitare che la dichiarazione di (parziale) illegittimità dell’art. 5 c.p. abbia rappresentato un significativo punto di svolta, posto l’avvenuto riconoscimento della valenza costituzionale del principio di colpevolezza: di più, lo sforzo argomentativo del giudice delle leggi, se da un lato appare ampiamente impegnato a dar conto delle ragioni fondanti una tanto radicale scelta, dall’altro sembra aprire all’interprete ambiti di riflessione ulteriori, prontamente e nettamente individuati (2). Un intervento di tale portata è fisiologicamente destinato a suscitare dibattito: e in dottrina il dibattito non è certo assente (3) anche se la dif(*) Questo scritto costituisce una parte di un più ampio studio monografico sull’errore di diritto nell’ordinamento italiano. (1) Così la definisce PULITANÒ, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1988, 686 s. (2) PALAZZO, Ignorantia legis: vecchi limiti ed orizzonti nuovi della colpevolezza, in questa Rivista, 1988, 920 s. (3) Anche limitando la ricerca al solo biennio immediatamente successivo alla pronuncia della Corte costituzionale, è agevole registrare la larga messe di contributi sul punto, fra i quali v. FIANDACA, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge penale: ‘‘prima lettura’’ della sentenza n. 364/88, in Foro it., 1988, I, 1385; FUMAGALLI MERAVIGLIA, Riv. ital. dir. proc. penale 1/1996


— 224 — fusa adesione alla Schuldtheorie (4) spiega l’assenza di voci radicalmente

Tre decisioni sulla conoscibilità della legge, in Riv. inter. dir. uomo, 1988, 74; GUARDATA, L’ignoranza della legge penale dopo l’intervento della Corte costituzionale: prime impressioni, in Cass. pen., 1988, 1152; JESCHECK, L’errore di diritto nel diritto penale tedesco e italiano, in Indice pen., 1988, 185; MANGIA, Valori e libertà nella giurisprudenza costituzionale: commento a C. cost. 364/1988, in JuS, 1988, 341; MELCHIONDA, Colpevolezza ed errore nell’attuale sistema del diritto penale tributario, in Dir. prat. trib., 1988, 583; PADOVANI, L’ignoranza inevitabile della legge penale e la declaratoria d’incostituzionalità parziale dell’art. 5 c.p., in Legisl. pen., 1988, 453; PALAZZO, Colpevolezza e ignorantia legis nel pensiero di Francesco Carrara, in Indice pen., 1988, 507; ID., Ignorantia legis, cit.; PULITANÒ, Una sentenza, cit.; STORTONI, L’introduzione nel sistema penale dell’errore scusabile di diritto: significati e prospettive, in questa Rivista, 1988, 1313; VASSALLI, L’inevitabilità dell’ignoranza della legge penale come causa generale di esclusione della colpevolezza, in Giur. cost., 1988, II, 3; CADOPPI, Error iuris: coscienza dell’antigiuridicità extrapenale e ritardo nel versamento delle ritenute, in Riv. pen. economia, 1989, 73; DONINI, Errore sul fatto ed errore sul divieto nello specchio del diritto penale tributario, in Indice pen., 1989, 145; FALZEA, Il principio ignorantia iuris non excusat e il ruolo dell’avvocato nella conoscenza del diritto, in Riv. pen., 1989, I, 3; FLORA, La difficile penetrazione del principio di copevolezza: riflessioni per l’anniversario della sentenza costituzionale sull’art. 5 c.p., in Giur. it., IV, 1989, 337; GROSSO, (voce) Errore (dir. pen.), in Enc. giur., vol. XIII, Roma, 1989; PADOVANI, L’ignoranza dei doveri militari al vaglio della Corte costituzionale, in Legisl. pen., 1989, 641; PATRONO, Problematiche attuali dell’errore nel diritto penale dell’economia, in Riv. dir. pen. econ., 1989, 93; RONCO, (voce) Ignoranza della legge (dir. pen.), in Enc. giur., XV, Roma, 1989; STILE (a cura di), Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, Napoli, 1989 (in particolare v., all’interno dell’opera citata, i saggi di PALAZZO, Ignorantia legis, 149; MALINVERNI, L’‘‘inevitabilità’’ dell’errore, 197; DE FELICE, Giudizio di ‘‘rimproverabilità’’ ex art. 5 c.p. e colpevolezza alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 364/88, 205; PARODI GIUSINO, Su alcune conseguenze, riguardanti i reati di pericolo, dell’applicazione dei principi posti a fondamento della sentenza n. 364/88 della Corte costituzionale, 205; CADOPPI, La nuova configurazione dell’art. 5 c.p. ed i reati omissivi propri, 227; GRANDE, La sentenza n. 364/88 della Corte costituzionale e l’esperienza di ‘‘common law’’: alcuni possibili significati di una sentenza in tema di errore sul diritto, in Foro it., 1990, I, 415; MANTOVANI, Ignorantia legis scusabile ed inescusabile, in questa Rivista, 1990, 379; PETRONE, Il ‘‘nuovo’’ art. 5: l’efficacia scusante dell’ignorantia legis inevitabile e i suoi riflessi sulla teoria generale del reato, in Cass. pen., 1990, 697. Opere cui vanno aggiunte le trattazioni manualistiche comparse nel biennio, e che contengono la trattazione della materia alla luce del riformato art. 5 c.p.: v. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, Padova, 1988; MARINI, Lineamenti di diritto penale, Torino, 1988; FIANDACA-Musco, Diritto penale, parte generale, Bologna, 1989; PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1990. (4) Se il nucleo concettuale originario di tale concezione può essere rintracciato in BINDING, Normen, Bd. II, 1916, 633 s., Bd. III, 1918, 384; ID., Über den Irrtum bei den Delikten im heutigen strafrecht und in dem der Zukunft strafrechtliche und strafprozessuale Abhandlungen, Bd. I, 1915, 403 s., ormai la Schuldtheorie raccoglie un sempre più vasto consenso: cfr. per tutti FIANDACA-Musco, Diritto penale, parte generale, 3a ed., Bologna, 1995, 349 s.; KÜHLEN, Die Unterscheidung von Vorsatzausschliessendem und Nichtvorsatzausschliessendem Irrtum, Francoforte, 1987; ROMANO, Commentario, vol. I, 2a ed., Milano, 1995, 92 s.; ROXIN, Strafrecht, Allgemeiner Teil, I, 2a ed., München, 1994, 765 s.; RUDOLPHI, in RUDOLPHI-HORN-GÜNTHER-SAMSON, Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch, sub § 17, Berlin, 1995, 91 s.; CRAMER in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch, 24a ed., München,


— 225 — dissenzienti (5). A questa ricca messe di contributi, che pure non hanno mancato di approfondire i profili lasciati necessariamente aperti dalla sentenza, si deve ora contrapporre la valutazione del concreto effetto che la pronuncia ha avuto sul piano applicativo (6). Apprezzata come indispensabile e doveroso adeguamento della legislazione nazionale ad un principio di civiltà coessenziale ai valori dello Stato genuinamente liberal-democratico (7), salutata come (pur tardivo) allineamento del nostro sistema a tutti quelli dei paesi di area socioculturale simile (8), intesa come portatrice di implicazioni ulteriori in tema di responsabilità oggettiva (9) (implicazioni accolte nella successiva sentenza costituzionale 13 dicembre 1988, n. 1085 (10)), letta addirittura come 1991, 290 s. In contrario, v. PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, Milano, 1993, 4a ed., 334; SCHMIDHÄUSER, Unrechtsbewusstsein und Schuldgrundsatz, in NJW, 1975, 1807; ID., Der Verbotsirrtum und das Strafgesetz, in JZ, 1979, 361; SCHÜNEMANN, Verbotsirrtum und faktische Verbotskenntnis, in NJW, 1980, 743; SPASARI, Diritto penale e costituzione, Milano, 1966, 84. (5) Evidenziano profili critici e perplessità suscitate dalla sentenza della Corte costituzionale, pur aderendo all’impostazione e alla matrice teorica alla quale la pronunzia si riporta, CALABRIA, Delitti naturali, delitti artificiali ed ignoranza della legge penale, in Indice pen., 1991, fasc. 1-4, 35 e soprattutto STORTONI, L’introduzione, cit., che sottolinea come dietro la formula linguistica della ‘‘oscurità assoluta del testo normativo’’, impiegata dalla Corte costituzionale per individuare un caso di errore inevitabile, si celino in realtà norme costituzionalmente illegittime in quanto non rispettose del principio di determinatezza e tassatività. (6) Per quanto il dato abbia un valore meramente indicativo, mette conto di segnalare che al marzo 1996 risultano edite complessivamente (fra cassazione e merito) 118 pronunzie sulla questione: più precisamente 76 sono le decisioni della corte regolatrice (di cui 57 che affermano la inescusabilità dell’errore e 19 che ne riconoscono la inevitabilità) e 42 quelle di merito (di cui 10 che negano la rilevanza dell’errore e 32 assolutorie). In questo quadro spicca ovviamente la pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 10 giugno 1994, della quale si dirà nel § 7, sebbene fin d’ora sia possibile anticipare la discrasia fra l’enunciazione di un canone interpretativo in termini estremamente rigidi, e la decisione del caso, che sembra ispirata invece ad una lettura del riformato art. 5 c.p. in una chiave più aderente ai suggerimenti rintracciabili nella decisione della Corte costituzionale. (7) In questo senso v. ad es. PULITANÒ, Una sentenza storica, cit.,686; ID., L’ignoranza della legge penale dinanzi alla Corte costituzionale, in Questione giustizia, 1988, 783; ma anche PALAZZO, op. ult. cit.; ID., Colpevolezza ed ignorantia legis nel sistema italiano: un binomio in evoluzione, in Scritti in memoria di R. Dell’Andro, 1994, vol. II, 679 s. (8) Cfr. per tutti, MANTOVANI, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 380; PALAZZO, voce Ignoranza della legge penale, in Dig. disc. pen., vol. VI, Torino, 122; VASSALLI, L’inevitabilità, cit. (9) Cfr. CASTALDO, Responsabilità oggettiva e principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1988, 1119; FIANDACA, Principio di colpevolezza, cit., 1394; FIANDACA-Musco, Diritto penale, cit., 573 s.; GROSSO, Questioni aperte in tema di imputazione del fatto, in questa Rivista, 1993, 21; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, vol. I, Milano, 1995, 96; MANTOVANI, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 388; PADOVANI, L’ignoranza inevitabile, cit., 452; PETRONE, Il ‘‘nuovo’’ art. 5 c.p., cit., 660; PULITANÒ, Una sentenza storica, cit., 669. (10) In questa Rivista, 1990, 289, con nota di VENEZIANI, Furto d’uso e principio di


— 226 — monito forte e inequivoco al legislatore (e forse anche alla Corte stessa) quanto al rispetto del principio di tassatività (11), la sentenza costituzionale 364/1988, con la sua indiscutibile e radicale portata innovativa, non sembra tuttavia aver avuto sul piano applicativo i riflessi che era presumibile attendersi. Distinte questioni si presentano a chi voglia trarre un pur sintetico e provvisorio bilancio degli effetti dell’avvenuta introduzione nell’ordinamento della rilevanza dell’errore/ignoranza sulla legge penale, e cioè sul precetto. Una prima serie di problemi ha riguardo a profili di carattere più generale e, per così dire, teorico: a partire dal fondamento stesso della Schuldtheorie, che in qualche misura finisce con il collegare responsabilità a titolo doloso ad un atteggiamento colposo (12), con l’esigenza di verificare il fondamento fattuale/deontologico del giudizio di colpevolezza, inteso come rimproverabilità della situazione di ignoranza/errore in cui versa l’agente (13) e i criteri elaborati per dare consistenza a tal genere di giudizio (14), in cui trova fondamento la soluzione normativa fatta procolpevolezza, ivi, 299; v. altresì il commento di INGROIA, in Foro It., 1989, I, 1378; esplicitamente ritengono che la sentenza n. 1085/1988 dichiari la illegittimità costituzionale della responsabilità oggettiva, in quanto contrastante con il principio costituzionale della responsabilità penale, MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., p. 97-99; in senso analogo, v. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 576 s. (11) V. in questo senso PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit.; PULITANÒ, Una sentenza storica, cit.; STORTONI, L’introduzione nel diritto penale, cit., 1313. (12) Questo appare essere al fondo lo spunto critico della Vorsatztheorie, che — come noto — colloca la scientia iuris all’interno del dolo: con la implicazione ulteriore che ‘‘solo la effettiva ed attuale conoscenza della norma può essere elemento costitutivo del dolo, mentre l’ignorantia legis, ancorché evitabile, esclude in radice la responsabilità dolosa, lasciando eventualmente sussistere una responsabilità a titolo di colpa’’ (PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 935, che non manca di rilevare come ‘‘in effetti, è difficile negare che la più integrale attuazione del principio di colpevolezza sarebbe meglio garantita dalla Vorsatztheorie, op. loc. ult. cit., nota 39); cfr. DONINI, Delitto contravvenzionale, Milano, 1993, 51 s., in particolare, 294 s.; ID., Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991, passim. Per un sintetico quadro della disputa fra Vorsatztheorie e Schuldtheorie, v. JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts, Allgemeiner Teil, 4a ed., Berlino, 1988, 365 s.; RUDOLPHI, op. loc. cit.. (13) Cfr. per tutti JESCHECK, Lehrbuch, cit., 372; PAGLIARO, Colpevolezza e responsabilità obiettiva: aspetti di politica criminale e di elaborazione dogmatica, in STILE (a cura di) Responsabilità oggettiva, cit., 6 s.; PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 141 s.; RUDOLPHI, Systematischer, cit., 103. (14) Cfr. in argomento KIENAPFEL, Unrechtsbewusstsein und Verbotsirrtum, in ÖJZ, 1976, 113; FIANDACA, Considerazioni su colpevolezza e prevenzione, in questa Rivista, 1987, 836; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 354; FORNASARI, Il principio di inesigibilità in diritto penale, Padova, 1990, 359; HORN, Verbotsirrtum und Vorwerfbarkeit, Berlino, 1969, 60; PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 950; ID., voce Ignoranza, cit., 141; ROMANO, Giustificazione e scusa nella liberazione da particolari situazioni di necessità, in questa Rivista, 1991, 52; RUDOLPHI, Unrechtsbewusstsein, Verbotsirrtum und Vermeidbarkeit des Ver-


— 227 — pria dalla Corte costituzionale. Né sembrano meritevoli di minore attenzione le questioni che discendono dalla equiparazione tra errore ed ignoranza, questioni destinate a mettere in luce, una volta sviluppate, la categoria del dubbio, la cui disciplina, alla luce del riformato art. 5 c.p., è fonte di non lievi perplessità (15); così come i rapporti con l’art. 47 comma 3 c.p. (16) e con l’art. 8 d.l. n. 429/82 (17), norme entrambe che regolano forme particolari di error iuris. Non meno rilevante è però la considerazione delle conseguenze applicative derivate dall’introduzione nell’ordinamento del principio della rilevanza scusante dell’errore/ignoranza inevitabile: l’esame delle pronunzie giurisprudenziali consentirà di valutare quanto le architetture dogmatiche contribuiscano alla soluzione dei problemi posti dal singolo caso, soprattutto con riferimento alla individuazione dei criteri per distinguere l’errore/ignoranza inevitabile da quello inescusabile. Limiti oggettivi rendono comunque provvisorie e incerte le conclusioni in proposito: basti considerare che l’oggetto dell’analisi è necessariamente limitato alle sentenze botsirrtum, Gottinga, 1969, 196; ID., Die Verbotsirrtumregelung des § 9 StGB im Widerstreit von Schuld und Prävention, in JBl,1981, 289; TIMPE, Normatives und Psychisches im Begriff der Vermeidbarkeit eines Verbotsirrtums, in GA, 1984, 51. (15) CRAMER in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch, cit., 290; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 311; JESCHECK, Lehrbuch, cit., 406; FIORE, Diritto penale, parte generale, vol. 1, Torino, 1993, 413; MANTOVANI, ‘‘Ignorantia legis’’, cit.; ID., Diritto penale, Padova, 1992, 3a ed., 363; PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 132; ROXIN, Ungelöste Probleme beim Verbotsirrtum, in Deutsches-Spanisches Strafrechtskolloquium, a cura di H.J. HIRSCH, Baden-Baden, 1987, 81; SCHÜNEMANN, Verbotsirrtum, cit., 735; WARDA, Zur gesetzlichen Regelung des vermeidbaren Verbotsirrtum, in ZstW, 1959, 280; ID., Schuld und Strafe beim Handeln mit bedingtem Unrechtsbewusstsein, in Festschrift für H. Welzel, 1964, 499. (16) Cfr. BELFIORE in nota di commento a Trib. Piacenza 27 settembre 1994, in Foro it., 1995, II, 315; CALABRIA, Delitti naturali, cit., 48; ID., ‘‘Ignorantia legis’’ e parere erroneo del consulente legale, in questa Rivista, 1992, 153; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 333; FLORA, La difficile penetrazione, cit., 337; ID., voce Errore, in Dig. disc. pen., vol. IV, Torino, 1990, 255; GROSSO, voce Errore (dir. pen.), cit., 5; MANTOVANI, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 389; ID., Diritto penale, cit., 373; PADOVANI, L’ignoranza inevitabile, cit., 454; ID., Diritto penale, Milano, 1993, 2a ed., 283; PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, Milano, 1993, 4a ed., 398; PETRONE, Il ‘nuovo’ art. 5 c.p., cit., 700; ROMANO, Commentario, cit., 458; STORTONI, L’introduzione, cit., 1346; VASSALLI, L’inevitabilità, cit. (17) BALZARINI, nota di commento a Cass., Sez. III, 7 dicembre 1991, in Dir. prat. trib., 1992, 628; LANZI, in CARACCIOLI-GIARDA-LANZI, Diritto e procedura penale tributaria, Padova, 1989, 379; DONINI, L’autonomia dell’errore su norme tributarie risolventesi ‘‘sul fatto’’ (art. 8 l. n. 516/1982) rispetto alla disciplina dell’errore ‘‘sul divieto’’ ai sensi dell’art. 5, codice penale riformato, in Rass. trib., 1989, II, 9; ID., Errore sul fatto ed errore sul divieto nello specchio del diritto penale tributario, in Indice pen., 1989, 145; GAMBERINI, L’errore nel diritto penale tributario, in BRICOLA-ZAGREBELSKY, I reati in materia fiscale, Torino, 1990, 387; GROSSO, in D’AVIRRO-DI NICOLA-FLORA-GROSSO-PADOVANI, Responsabilità e processo penale nei reati tributari, Milano, 1992, 2a ed., 7; PATRONO, Problematiche attuali dell’errore nel diritto penale dell’economia, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1988, 87; SEVERINO DI BENEDETTO, L’errore su norme tributarie, in FIANDACA-MUSCO, Diritto penale tributario, Milano, 1992, 2a ed., 247; LANZI-BERSANI, I nuovi reati tributari, Torino, 1995, 141.


— 228 — edite: un campione di cui è impossibile misurare la rappresentatività rispetto al numero (verosimilmente più alto, ma di quanto?) delle pronunzie giurisprudenziali che hanno affrontato la questione. Si tratta tuttavia di una ricerca non inutile, perché, se è vero che una generalizzazione dei risultati appare ardua e comunque approssimativa, non è meno vero che, nella prassi applicativa i precedenti ai quali i giudici si richiamano, finiscono con l’essere, necessariamente, quelli editi. Con la conseguenza che la funzione di fornire le linee interpretative fondamentali (soprattutto di fronte ad una legge di nuovo conio) è svolta da una serie di pronunzie, delle quali è azzardato assumere che rappresentino il quadro fedele dell’opinione giurisprudenziale nel suo complesso. D’altro canto è anche opportuno controllare quale seguito abbiano avuto in giurisprudenza le soluzioni elaborate e suggerite dalla dottrina; e se, riscontrata che sia la modestia o addirittura la irrilevanza del portato dottrinale nel momento cruciale dell’applicazione della norma, l’interprete ha il dovere di interrogarsi sul perché di tale fenomeno, soprattutto quando ci si trova di fronte a questioni di tale generale rilievo. Privata del suo riscontro concreto, la più efficace architettura teorica è infatti destinata a rimanere sterile esercitazione dialettica, incapace di svolgere una qualunque funzione di orientamento della prassi giurisprudenziale, che rimane così affidata alla soltanto apparente logica del caso per caso, esposta al rischio di contraddizioni sistematiche di non lieve momento. Non pare tuttavia revocabile in dubbio — qualunque possa esserne la lettura applicativa — che la sentenza 364/1988 abbia esplicitamente conferito rango costituzionale al principio di colpevolezza attraverso una più ampia e convincente lettura dell’art. 27 comma 1 e comma 3 Cost. (18): da questa collocazione sistematica discende la lettura critica dell’art. 5 c.p., con la seguente declaratoria di illegittimità costituzionale parziale e la riformulazione della norma direttamente dettata dalla sentenza stessa (19). Pacifico che all’interprete si presenta vincolante soltanto questo tratto della sentenza, mentre le cadenze argomentative e, soprattutto, (18) Per tutti ALESSANDRI, Commento all’art. 27 comma 1 Cost., in Commentario della Costituzione, a cura di BRANCA e PIZZORUSSO, 1991, 97; ROMANO, Commentario, cit., 90. Per quanto attiene al profilo connesso al comma 3 dell’art. 27 Cost., è appena il caso di notare che, qualunque sia la funzione da assegnare alla pena (retributiva o rieducativa), appare evidente la maggiore coerenza di un collegamento fondato sulla rimproverabilità personale per il fatto commesso, al quale sia coessenziale la conoscenza/conoscibilità del divieto. Coerenza che non viene meno neppure di fronte ad una concezione della pena in chiave di pura deterrenza: a ben vedere, infatti, la comminatoria della pena criminale svolge il suo effetto massimo se trova giustificazione nell’essere intesa dai consociati come risposta dell’ordinamento ad un fatto colpevole, cioè connotato da un disvalore percepito (o percepibile) dall’agente. (19) Il legislatore non è infatti intervenuto a modificare il testo dell’art. 5 c.p., che ora risulta per così dire ‘‘integrato’’ dall’intervento ‘‘addittivo’’ della Corte costituzionale.


— 229 — le indicazioni ermeneutiche contenute nella motivazione non hanno altro valore se non quello di un autorevolissimo precedente. Tuttavia l’affermazione della natura costituzionale del principio di colpevolezza reca con sé una conseguenza di straordinario peso sul piano applicativo: qualunque serie interpretativa di una qualsiasi norma incriminatrice conduca ad una affermazione di responsabilità senza colpevolezza dovrà perciò essere scartata, in ossequio al canone ermeneutico secondo cui deve essere preferita l’interpretazione che non confligge con il dato costituzionale; sicché, quando non sia possibile una diversa interpretazione della norma, capace di evitare tale conclusione, sarà la disposizione stessa a dover essere sottoposta al vaglio di legittimità della Corte costituzionale. A ben vedere è la portata generalissima del principio accolto dai giudici delle leggi, o, a esser più precisi, la collocazione del principio di colpevolezza (nella lettura propostane) fra quelli di rilievo costituzionale, ad implicare questa sorta d’ipoteca sulle future mosse dell’interprete. Il dictum della Corte costituzionale non poteva ovviamente andare oltre i limiti definiti dal caso dedotto in giudizio, ma non v’è dubbio che — proprio in ragione della natura e dell’ampiezza del principio dal quale la sentenza fa discendere la declaratoria di illegittimità — occorre riconoscere alla pronunzia in discorso una funzione ulteriore, non direttamente connessa al contenuto precettivo proprio del dispositivo. Il nucleo essenziale della decisione, che nel caso fonda la conclusione contenuta nel dispositivo, consiste in ciò: l’affermazione risoluta dei giudici delle leggi secondo cui alla luce del dettato costituzionale, nel nostro ordinamento non ha diritto di cittadinanza l’affermazione della responsabilità penale quando faccia difetto la colpevolezza. L’implicazione appare allora necessaria ed assume la seguente cadenza: in tanto si può assumere l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p. nella parte in cui non prevedeva la scusabilità dell’errore incolpevole, in quanto si accolga la validità (e dunque anche la cogenza) del principio di colpevolezza, come corollario indefettibile del principio di personalità della responsabilità penale, di cui all’art. 27 comma 1 e comma 3 Cost. Ma se così è, e diversamente non pare possibile che sia, allora l’interprete non potrà non tener conto dell’assunto fondante, dal quale deriva la declaratoria di illegittimità costituzionale del ricordato art. 5 c.p.: la pronunzia della Corte costituzionale sembra dunque porre un vincolo ermeneutico di non lieve momento, sia per quanto concerne più direttamente i modi applicativi della norma oggetto dell’intervento della stessa Corte costituzionale, sia per quanto riguarda più in generale l’attività di interpretazione e applicazione della legge penale. Anche sotto quest’ultimo punto di vista può non essere inopportuno verificare se al vincolo posto dalla sentenza si sia informata la giurisprudenza formatasi in questi anni.


— 230 — Per far ciò occorre tuttavia ripercorre brevemente i tratti salienti, e soprattutto, se non esclusivamente, quelli critici, dei presupposti teorici dai quali sembra prendere le mosse la più volte citata pronunzia della Corte costituzionale. 2. Se si può dare per pacificamente acquisito che la matrice teorica, alla quale la sentenza 364/1988 manifestamente si richiama, va individuata nella c.d. teoria della colpevolezza, è, d’altro canto, difficile contestare ai critici della Schuldtheorie che vi sia un nocciolo di verità nell’affermazione secondo cui da un atteggiamento colposo vien fatta discendere una responsabilità a titolo doloso. Ridotta la questione ai suoi termini essenziali, l’enunciato di base della teoria della colpevolezza può infatti schematicamente articolarsi secondo questa struttura concettuale: la possibilità di conoscenza della norma è il presupposto minimo perché vi sia colpevolezza, intesa come requisito (autonomo rispetto al dolo e alla colpa) della punibilità, dove la conoscibilità funge da criterio fondante del giudizio di rimproverabilità giuridica della volontà (20). In sintesi: non sembra lontana dal vero la conclusione che l’ignoranza/errore non scusabile (e dunque quella situazione che non esclude la responsabilità) deriva sostanzialmente da una non adeguata conoscenza delle regole che l’ordinamento pretende siano rispettate in una data situazione: come ognun vede, si tratta di un giudizio normativo, la cui struttura è prossima a quella della valutazione richiesta per accertare la sussistenza della colpa penalmente rilevante (21). Ma questo rilievo critico, che pure coglie senz’altro un limite coessenziale alla teoria della colpevolezza (22), non sembra da solo sufficiente a decretare il fallimento di tale impostazione dogmatica, che, fra le molte, sembra meglio cogliere l’essenza ultima del diritto penale di collegare la reazione sanzionatoria ad un fatto per il quale l’agente sia meritevole di rimprovero (23). Per certo l’assunto di base della Schuldtheorie, che consiste nell’equiparazione fra conoscenza e conoscibilità, sconta uno scarto logico di non lieve momento, poiché colloca su uno stesso piano una situazione ipote(20) Cfr. per tutti PALAZZO, voce Ignoranza, cit.; PADOVANI, Diritto penale, cit., 217; PULITANÒ, Una sentenza storica, cit., 691 - 692; per la dottrina tedesca, v. l’efficace sintesi del dibattito dottrinario in KÜLHEN, op. loc. cit.. (21) Sottolineano nettamente questo aspetto MANTOVANI, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 390-397; PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 947, 962. (22) Cfr. per tutti PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., 335; SCHMIDHÄUSER, Unrechtsbewusstsein, cit., 1807; ID., Der Verbotsirrtum und das Gesetz, in JZ, 1979, 361. (23) V. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 31; HASSEMER, Einführung in die Grundlagen des Strafrechts, Monaco, 1981, 26; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., 148; PADOVANI, Diritto penale, cit., 104.


— 231 — tica (la conoscibilità) ed una situazione reale (la conoscenza), traendo da tali diverse situazioni una medesima conseguenza sul piano degli effetti giuridici per l’agente, di cui è in entrambi i casi predicabile il giudizio di colpevolezza (24). Anche sul versante psicologico questa equiparazione svela la sua intrinseca fragilità, non essendo in alcun modo sostenibile l’identità della condizione di colui che effettivamente conosce il divieto e, malgrado ciò, lo viola, e quella di colui che viola il divieto che avrebbe potuto/dovuto conoscere (25). Anche ad estendere nel massimo grado l’obbligo di ‘‘informarsi prima di agire’’, in modo da riconnettere all’inosservanza di tale dovere il fondamento ultimo del giudizio di colpevolezza, rimane tuttavia profonda e strutturale la differenza delle situazioni psicologiche che la Schuldtheorie pretende di unificare: da un lato vi è l’indiscutibile adesione psicologica del soggetto al fatto vietato e tuttavia realizzato, dall’altro sta non altro se non l’indifferenza ad un precetto generalissimo dell’ordinamento, che appunto pretende che ogni consociato si attenga a determinate regole (che deve conoscere, o di cui deve informarsi) quando agisce. Ma le ricostruzioni teoriche devono essere apprezzate al di là delle forzature alle quali sono inevitabilmente costrette quando la complessità del reale viene ridotta in schemi concettuali astratti, nei quali necessariamente si sfumano e si perdono le articolazioni della realtà fattuale. E questo limite, in qualche misura intrinseco a qualunque tentativo di sussumere sotto leggi i meccanismi del reale, si presenta ancor più notevole nel caso in cui oggetto del pur indispensabile tentativo di unificazione astratta siano comportamenti umani. Al di là della tradizionale, e per certi profili strumentale e discutibile, distinzione fra scienze della natura e scienze dell’uomo, sta il tramonto del sogno cartesiano della mathesis universalis: dal punto di vista del diritto, inteso come sistema dell’organizzazione dei rapporti fra consociati, la ricostruzione sotto concettualizzazioni generali svolge un ruolo ideologico indispensabile per fornire un assetto intrinsecamente coerente al sistema e, nel contempo, per assicurare la presenza di una chiave di lettura delle singole norme tendenzialmente univoca nella cruciale fase della loro applicazione. In questo senso lo schema della Schuldtheorie si presenta senz’altro (24)

GÖSSEL, Über die Bedeutung des Irrtums im Strafrecht, Berlino, 1974, 208; JA-

KOBS, Schuld und Prävention, Tubinga, 1976, 32; ID., Strafrecht - Allgemeiner Teil, Berlino-

New York, 1983, 396; KRÜPELMANN, Dogmatische und empirische Probleme des sozialen Schuldbegriff, in GA, 1983, 337; MOCCIA, Politica criminale e riforma del sistema penale, Napoli, 1984, 91; MONACO, Prospettive dell’idea dello ‘‘scopo’’ nella teoria della pena, Napoli, 1984, 108; OTTO, Personales Unrecht, Schuld und Strafe, in ZStW, 1975, 590; PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 926; ID., voce Ignoranza, cit., 129; ROMANO, Commentario, cit., 91. (25) V. fondamentalmente DONINI, Il delitto contravvenzionale, cit., 290; PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., 335; SCHÜNEMANN, Verbotsirrtum, cit., 743.


— 232 — efficace e plausibile: sul versante ideologico non è difficile rinvenirne il risalente fondamento nella visione deontologica kantiana, che ne offre una robusta giustificazione sul piano dei valori (26); in chiave politica, e forse più propriamente di politica criminale, tale schema di riferimento sembra rappresentare un apprezzabile punto di equilibrio tra l’esigenza di assicurare un accettabile grado di effettività al sistema punitivo nel suo complesso (sia sul piano della prevenzione generale sia su quello della prevenzione speciale) da un lato e, dall’altro, l’esigenza di mantenere sicure garanzie per l’individuo nel delicato momento dell’accertamento e dell’attribuzione della responsabilità penale (27). Mette inoltre conto di osservare che, all’atto pratico, il peso della notazione critica, concernente la equiparazione fra conoscenza e conoscibilità, propria della Schuldtheorie, si rivela, a ben vedere, assai modesto. Si consideri, a tal proposito, la risalente distinzione fra reati c.d. naturali e reati c.d. artificiali: pur dando per pacifico che tale distinzione è concettualmente insostenibile ed errata (28), è tuttavia lecito servirsene (29) per segnalare che all’interno di ogni ordinamento vi sono fattispecie incriminatrici che hanno una collocazione per così dire ‘‘storica’’, nel senso che concernono fatti, il cui assoggettamento a sanzione criminale risale grandemente nel tempo ed è in genere collegato alla protezione di beni essenziali per assicurare le condizioni minimali per la sopravvivenza anche della più elementare e meno strutturata forma di vita asso(26) Come noto, nella Critica della Ragion Pratica, Kant elabora il concetto dell’imperativo non condizionato (o categorico) a partire dall’esigenza di fondare in termini assoluti le ‘‘leggi’’ (distinte dalle ‘‘massime’’, cioè principi validi per un soggetto particolare, ancorché suscettibili di generalizzazione). La dipendenza da tale imperativo non condizionato si esprime propriamente nella forma di un comando, che costituisce il ‘‘fatto’’ della ragione: proprio in ciò starebbe la realtà oggettiva dell’idea di libertà, che non è pensabile né dimostrabile in via speculativa. Sicché la libertà è la ragion d’essere della legge morale e, corrispondentemente, la legge morale è la ratio cognoscendi della libertà, la cui consapevolezza è possibile proprio attraverso il riconoscimento della legge. Né è senza significato che ad uno dei padri fondatori dell’ideologia liberale si colleghi in qualche misura il fondamento della Schuldtheorie: in questo senso cfr. PULITANÒ, Una sentenza storica, cit., 686, che indica nella pronuncia della Corte costituzionale l’emergere dei valori e dei principi di una politica criminale di stampo liberale; nello stesso senso, v. PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 920; ID., voce Ignoranza, cit., 124. (27) Per una attenta valutazione delle esigenze di bilanciamento, v. per tutti PALAZZO, Colpevolezza, cit., 507; ID., ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 920; ID., voce Ignoranza, cit., 124. (28) Cfr. in questo senso MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., 42. (29) A tale distinzione fa ricorso PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 920, specificandone lo scopo strumentale; in questo stesso senso v. SCHICK, Vorwerfbarkeit des Verbotsirrtums bei Handeln auf falschen Rat-Eine Analyse der Vorwerfbarkeitsklausel des § 9 Abs. 2 Stgb, in ÖJZ, 1980, 600; nonché PULITANÒ(L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, 465), che esclude che tale diversità possa giustificare principi e discipline diversi.


— 233 — ciata (30). Considerando che proprio per tali fattispecie è in genere prevista la imputazione soggettiva a titolo doloso, non è azzardato concludere che il problema posto dall’ineliminabile scarto fra conoscenza e conoscibilità finisca in questi casi con l’avere ben modesto rilievo, proprio in ragione della costante presenza nell’ordinamento di tali figure d’incriminazione, situazione dalla quale deriva — sul piano sociologico — una sostanziale conoscenza della illiceità del fatto da parte di ogni consociato (31). E non è certo casuale che le ipotesi di scuola, che vengono prese in esame in relazione a reati del genere di quelli ora richiamati, abbiano riguardo ad una speciale condizione in cui versa il soggetto (analfabetismo, provenienza da stati con ordinamenti giuridici radicalmente diversi, ecc. (32): situazioni queste senz’altro interessanti per saggiare dialetticamente la coerenza delle proposizioni costitutive della teoria anche di fronte a casi limite, ma che certamente hanno un’incidenza men che apprezzabile quando si tratti di impostare la valutazione delle soluzioni proposte da una qualunque ricostruzione teorica sul piano della rispondenza alle più generali esigenze di politica criminale. Fa da contrappunto alle considerazioni fin qui svolte con riferimento ai reati c.d. naturali, che tali sono sol perché riconducibili a modelli d’illecito storicamente dati, il rilievo che per i reati c.d. artificiali (i quali, per la gran parte, nascono con l’ampliarsi delle esigenze di tutela collegate alla sempre maggiore articolazione dei sistemi sociali) il nostro ordinamento prevede nella maggioranza dei casi la punibilità anche a titolo colposo, attraverso la loro costruzione come figure contravvenzionali. Sotto questo punto di vista, si presenta allora meno stridente l’equiparazione fra conoscenza e conoscibilità, che sta alla base della teorica della Schuldtheorie, posto che il titolo dell’imputazione soggettiva sconta già questa stessa equiparazione. Sembra dunque che il criterio della colpevolezza, come requisito fondante e indispensabile per l’affermazione della responsabilità penale, trovi nella formulazione teorica della Schuldtheorie la sua più efficace ed appagante ricostruzione dogmatica. 3. Dal punto di vista della sua collocazione sistematica, il requisito della conoscibilità della legge, pur rientrando a pieno titolo nella categoria della colpevolezza, viene ad occupare un posto affatto diverso da quello (30) V. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 5. (31) V. in questo senso e per tutti, ROMANO, Commentario, cit., 92. Per FIGUEIREDO DIAS, Schuld und Persönlichkeit, in ZStW, 1983, 246, soltanto quando l’errore verte su reati c.d. artificiali vien meno la colpevolezza: nello stesso senso sembra porsi ROXIN, Sul problema del diritto penale della colpevolezza, in questa Rivista, 1984, 32. (32) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 354.


— 234 — che spetta alle due forme che la colpevolezza assume in quanto elemento soggettivo del reato. La valutazione concernente tale requisito sta in un momento logico precedente a quello dell’accertamento della sussistenza del dolo o della colpa, ponendosi piuttosto come pre-condizione del giudizio sulla responsabilità penale. Al pari del giudizio sull’imputabilità dell’agente, che precede qualunque altra considerazione in punto di rimproverabilità penale del fatto commesso, anche la determinazione della conoscibilità della legge si pone come prius rispetto a qualunque altra valutazione (33): d’altronde non pare facilmente superabile l’osservazione che la rimproverabilità in termini penali per il fatto commesso sta o cade con lo stare o il cadere della conoscibilità della norma violata, allo stesso modo che essa sta o cade con lo stare o il cadere della capacità di intendere e volere dell’agente. Se il giudizio sull’imputabilità valorizza l’estremo della capacità di libera autodeterminazione del soggetto, quello sulla conoscibilità della legge mira a stabilire l’esistenza di una pre-condizione oggettiva, alla quale ugualmente è subordinata la possibilità stessa di esprimere un giudizio di disvalore sulla condotta dell’agente (34). Diversamente ragionando, infatti, sarebbe tutt’altro che agevole considerare coerente con il canone indefettibile del principio di personalità, un’affermazione di responsabilità penale in assenza di un preventivo accertamento sulla conoscibilità (da parte dell’agente) delle ‘‘regole del gioco’’ violate: soltanto quando sia integrato tale presupposto si può assumere integrato l’estremo della colpevolezza, inteso come requisito che fonda in termini oggettivi il più articolato giudizio di responsabilità penale. A soddisfare il requisito della colpevolezza viene così ad essere sufficiente la mera conoscibilità della legge, senza che questo giudizio, di carattere eminentemente normativo, incida — in modo altrimenti non del tutto coerente sul versante logico — nel campo del dolo (o comunque dei modi di imputazione soggettiva del fatto costituente reato). Come si è notato in precedenza, collegare concettualmente — quanto meno sul piano dei valori — il dolo con una ricostruzione della colpevolezza in termini rigorosamente normativi sconta difficoltà non banali, posto che il dolo, in quanto espressione di una significativa adesione — in termini di effettività (33) Si intende qui semplicemente segnalare che, sul piano squisitamente logico, l’accertamento della conoscibilità della legge (così come della capacità di intendere e di volere) precede qualunque altra valutazione attinente la colpevolezza, intesa come l’insieme dei fattori che consentono di fondare un rimprovero ‘‘personale’’ all’agente per il fatto materialmente commesso, senza che a questa preliminarietà logica corrisponda una distinta ed autonoma collocazione sistematica della categoria: cfr. sul punto MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., 81. (34) Cfr. per tutti PALAZZO, Colpevolezza e ‘‘ignorantia legis’’, cit., 679.


— 235 — psicologica — del soggetto al fatto, sembra esigere più che una mera conoscibilità della legge, un’effettiva conoscenza (almeno nella parallela sfera laica) della regola del gioco violata (35). Difficoltà di tal genere — che paiono, come si è detto in principio, coessenziali alla stessa Schuldtheorie — possono forse essere superate, o almeno ridotte, se si opera una ben netta distinzione tra il versante della colpevolezza, intesa soltanto come pre-condizione oggettiva dell’imputazione, e quello dell’imputazione soggettiva del fatto costituente reato, che denota il criterio di collegamento sul piano psicologico-individuale tra l’agente e il fatto. Il carattere sostanzialmente deontologico (comunque normativo e non psicologico) del giudizio sulla colpevolezza emerge nettamente dalla stessa struttura di tale requisito: se su ogni consociato grava un generalissimo obbligo di solidarietà, che si esprime (anche) nell’adeguare le proprie azioni ai dettami della legge penale, e se da questo generalissimo dovere discende altresì l’onere di informarsi adeguatamente prima di agire, si deduce agevolmente che il giudizio di colpevolezza consiste essenzialmente nell’apprezzamento della inosservanza di tale dovere di informazione. Corrispondentemente a fondare tale giudizio sta il previo accertamento della conoscibilità della legge penale. Colto questo aspetto della categoria della colpevolezza come un estremo oggettivo, come una pre-condizione della imputazione, esclusivamente consistente nella conoscibilità del divieto, dal contenuto del dolo e, corrispondentemente, dai modi del suo accertamento, sembrano doversi coerentemente escludere i profili connessi alla coscienza della illiceità (penale) del fatto (nelle pur variegate forme definitorie che tale estremo ha assunto) (36). Mette conto di osservare, in questa sommaria rassegna di questioni, che alla dottrina dell’errore finirebbe per competere un duplice e significativo compito: da un lato, dettare i canoni per valutare il profilo che accede al tema della conoscibilità della legge, in quanto pre-condizione og(35) Sono propriamente le difficoltà cui va incontro la Vorsatztheorie. Sulla problematica della coscienza dell’offesa come momento di arricchimento del dolo, cfr. M. GALLO, Il dolo. Oggetto ed accertamento, in Studi Urbinati, 1951-1952, 121; v. anche PADOVANI, In tema di coscienza dell’offesa e teoria del dolo, in Cass. pen., 1979, 320; ID., La coscienza dell’offesa nel delitto di falso: un requisito ‘‘ad pompam’’, ivi, 1981, 1542. (36) Si pensi, ad esempio, alla teoria — seguita dalla dottrina tradizionale — secondo cui per la sussistenza del dolo sarebbe necessaria la consapevolezza del carattere antisociale del fatto (cfr. per tutti ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, 13a ed. a cura di L. CONTI, Milano, 1994, 319;); ovvero alla teoria per la quale il dolo presuppone la coscienza dell’offesa (cfr. M. GALLO, Il dolo, cit., 285; cui adde ID., voce Dolo, in Enc. Dir., XIII, 1964, 784. Per una sintesi storica delle varie posizioni, v. RONCO, voce Ignoranza della legge (dir. pen.), cit., 2.


— 236 — gettiva dell’imputazione; dall’altro determinare i casi in cui l’errore, sia di fatto sia di diritto, incide sulla rappresentazione del fatto costitutivo del reato. Evidente che, rispetto al tema che qui interessa, sarà il primo dei due oggetti della dottrina dell’errore a venire in considerazione, in quanto la formula sintetica ‘‘conoscibilità del divieto’’ comprende necessariamente il riferimento anche alla esatta (si cercherà di mostrare in seguito il senso di tale precisazione) portata del divieto. Che l’inadeguatezza della conoscenza del divieto dipenda da errore o ignoranza non rileva, assumendosi sotto questo profilo l’equivalenza fra le due condizioni in cui può versare l’agente (anche se l’equiparazione nasconde qualche sostanziosa differenza e, quindi, qualche insidia sul piano logico): per fondare il giudizio di rimproverabilità è invece rilevante, alla luce della Schuldtheorie e della lettura che ne dà la Corte costituzionale, valutare se, nella situazione data, l’agente avrebbe potuto acquisire una esatta conoscenza delle regole di comportamento da seguire. Sembra dunque possibile distinguere due situazioni: da un lato la radicale ignoranza del divieto, intesa come non conoscenza dell’esistenza della norma precetto; dall’altro una non esatta conoscenza del contenuto della norma precetto, di cui peraltro l’agente conosce l’esistenza, ma alla quale, sbagliando nell’interpretazione, ritiene di non doversi adeguare. Sebbene nel concreto questa distinzione non si presenti in forma altrettanto chiara e netta, sono tuttavia facilmente riconoscibili i due differenti ambiti di riferimento, rispettivamente ascrivibili all’errore e all’ignoranza, all’interno dei quali, già stando alla esemplificazione alla quale fa riferimento la sentenza della Corte costituzionale, si collocano casi di errore/ignoranza ritenuti inevitabili e quindi scusabili. Se si cercasse di ridurre ad una matrice unitaria la ragione dell’egual trattamento riservato (tanto nel previgente regime di inescusabilità assoluta, quanto in quello attuale) alle diverse condizioni di chi versa in stato di errore e chi invece ignora del tutto il precetto, verrebbe senza dubbio in prima considerazione il tradizionale (pur variamente motivato) rilievo secondo cui lo stato di errore, così come quello di ignoranza incidono sul dolo, escludendolo (37). Seguendo questa impostazione, risulta poi non agevole spiegare come l’effetto scusante si estenda anche ai reati colposi: se infatti la radice della colpa sta nella generica trascuratezza, proprio a tale condizione finisce con il riportarsi l’atteggiamento di chi non si informa prima di agire; il che renderebbe plausibile la sussistenza della colpevolezza intesa come conoscenza/conoscibilità della norma penale nel caso dei reati colposi: nel (37) Cfr. per tutti FLORA, voce Errore, cit., 255; M. GALLO, opp. citt. a nota che precede; GROSSO, voce Errore (dir. pen.), cit., 1.


— 237 — contempo, però, sarebbe tutt’altro che facile ritenere sussistente la colpevolezza nei reati dolosi. Posto che il dolo si evince da un giudizio psicologico e non normativo, ed esprime l’adesione del soggetto al fatto, la categoria della conoscibilità, intesa come possibilità di conoscenza del divieto, non sembra con esso compatibile. In conseguenza non par proprio che il richiamo al venir meno dell’elemento soggettivo tipico (dolo o colpa che sia) rappresenti il denominatore comune, su cui possa fondarsi tale disciplina unitaria: i termini della questione stanno in realtà su piani diversi. Dolo e colpa (e preterintenzione) costituiscono le forme attraverso le quali il fatto viene ascritto all’agente sul piano soggettivo (38); la conoscenza/conoscibilità del divieto (e cioè della antigiuridicità penale del fatto) denota la diversa categoria della rimproverabilità della condotta (39), che, dopo l’intervento della Corte costituzionale, trova riscontro positivo nel riformato art. 5 c.p. Maggiormente plausibile appare piuttosto la conclusione alla quale si perviene inquadrando il requisito della (esatta) conoscibilità della legge come pre-condizione (oggettiva) della imputazione soggettiva, elemento costitutivo della più ampia nozione di colpevolezza (40). Secondo questo punto di vista, tanto l’ignoranza del precetto (intesa come assoluta non conoscenza dell’esistenza della norma), quanto l’errore sul precetto (inteso come conoscenza errata del significato o della portata della disposizione) danno luogo ad un’identica conseguenza: l’impossibilità di muovere all’agente — per la condotta posta in essere — un qualunque rimprovero, per aver violato una norma penale conosciuta, ovvero che avrebbe dovuto essere conosciuta, se fosse stato rispettato il generalissimo obbligo di adeguata informazione, la cui fonte primaria sta nell’art. 2 Cost. secondo la sentenza 364/1988 della Corte costituzionale. Condizioni queste che fanno venir meno il requisito della colpevolezza, al quale accede la personalità della responsabilità penale, intesa come ascrivibilità al soggetto di un rimprovero per aver violato la legge penale (conosciuta o che avrebbe dovuto esserlo con la diligenza dovuta) (41). È appena il caso di notare che, coerentemente alle premesse teoriche della Schuldtheorie, l’accertamento della sussistenza della pre-condizione conseguirebbe esclusivamente ad un giudizio di tipo normativo, e non in chiave psicologica: (38) V. per tutti, MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., 287. (39) V. ancora MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., 292; nonché PALAZZO, voce Ignoranza, 124. (40) La colpevolezza viene colta ormai come una categoria complessa, i cui elementi strutturali vengono così individuati ‘‘dolo o colpa, normalità delle circostanze concomitanti alla commissione del fatto, conoscenza o conoscibilità della norma penale violata, capacità di intendere e di volere’’: così MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., 288; v. anche FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 267; ROMANO, Commentario, cit., 303. (41) V. per tutti MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., 292; PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 124.


— 238 — ciò che meglio si attaglia ad un requisito oggettivo, preliminare e fondante, concernente l’imputazione soggettiva, estremo essenziale per un’affermazione di responsabilità penale rispettosa del canone della personalità. 4. Venendo ora al precipitato nel nostro diritto positivo del dibattito dottrinale, che ha visto sostanzialmente prevalere la Schuldtheorie, vale la pena di notare che la nuova formulazione dell’art. 5 c.p., così come emerge dalla pronuncia della Corte costituzionale, esprime il dato saliente in forma negativa. Il preliminare requisito fondante della colpevolezza consiste infatti nella assenza di una situazione che renda scusabile l’ignoranza/errore: a chi versa in tale condizione il fatto commesso non è rimproverabile, perché fa difetto la colpevolezza. Sul piano processuale la costruzione del requisito in discorso in termini negativi implica che sia l’imputato a dover almeno allegare e dedurre la situazione esimente: in qualche misura, si può forse dire che si è passati da una presunzione assoluta di conoscenza, che sul piano sostanziale significava non necessità della colpevolezza, ad una presunzione hominis tantum (42). Alla non colpevolezza, una volta accolto il canone dell’esatta conoscibilità del divieto, fa da contrappunto un comportamento dell’agente non rimproverabile nella situazione concreta e, dunque rispetto alla norma o alle norme applicabili, ai precetti delle quali l’agente stesso avrebbe dovuto adeguare il proprio comportamento. La valutazione circa l’esatta conoscibilità del divieto (o, più analiticamente, delle regole alle quali conformare la condotta) sembra a questo punto necessariamente riferita alla situazione data (43): diversamente si rischierebbe di far rientrare in questo tipo di accertamento di carattere normativo e preliminare elementi valutativi collegati alla personalità del soggetto, riportando per tal modo alla luce componenti connesse alla figura della responsabilità per condotta di vita o della colpevolezza d’autore (44). D’altro canto, una valutazione in termini astratti ed assoluti della conoscibilità esatta del divieto appare poco plausibile e comunque non compatibile con le esigenze che il rinnovato art. 5 c.p. intende salvaguardare: a tacer di ogni altra considerazione, se si portasse all’estremo, in linea appunto astratta ed assoluta, la valutazione sulla possibilità di co(42) Sul punto cfr. PULITANÒ, Una sentenza storica, cit., 1988, 686. (43) Cfr. BEHRENDT, Das Prinzip der Vermeidbarkeit in Strafrecht, in Festschrift für H.H. Jescheck, Berlino, 1985, 304; FIANDACA, Considerazioni su colpevolezza, cit., 873; FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., 359; HORN, Verbotsirrtum, cit., 60; PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 141; ROMANO, Giustificazione e scusa, cit., 52; RUDOLPHI, Unrechtsbewusstsein, cit., 196; ID., Die Verbotsirrtumregelung, cit., 289; SCHICK, Die Vorwerfbarkeit, cit., 601. (44) Esamina questo profilo, segnalando gli aspetti critici, PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 931. V. GÖSSEL, Über die Bedeutung, cit., 208; OTTO, Personales Unrecht, cit., 590.


— 239 — noscere esattamente il divieto, l’alternativa sarebbe la seguente. O l’assetto normativo è tanto confuso (ad esempio perché dà luogo ad un polisenso, a una proposizione indecidibile, come il paradosso del mentitore di Eubulide) da essere oggettivamente incomprensibile (nel senso che nessuno è in grado di ricostruirne il significato), ed allora a venire in gioco non è tanto il tema della colpevolezza, quanto piuttosto, come è stato efficacemente notato (45), il canone della tassatività, la cui violazione darebbe luogo in simili casi alla illegittimità costituzionale della norma (o delle norme). Oppure — ed è questo il secondo, e più probabile, profilo dell’alternativa — si può sempre immaginare un ulteriore impegno di ricerca e di approfondimento informativo da parte dell’agente, che gli avrebbe consentito, almeno in via meramente congetturale, di attingere alla conoscenza esatta del precetto cui conformare la condotta. Se si considera che in astratto è sempre possibile immaginare uno stadio di informazione successivo e migliore, non è difficile avvedersi che, per questa strada, — come pure è stato esattamente osservato (46) — finirebbe con l’essere svuotata di contenuti la ‘‘restaurazione del principio di colpevolezza’’. Se il dovere generalissimo, che grava su ogni consociato, di ‘‘informarsi (esattamente) prima di agire’’, in modo da non violare la legge penale, trovasse come limite — secondo una tendenza emersa in giurisprudenza (47) — soltanto l’esaurimento di ogni possibile ricerca, destinata a concludersi con l’esatta conoscenza del divieto, si dovrebbe logicamente escludere l’eventualità di un caso di ignoranza/errore scusabile (posto che l’altro profilo dell’alternativa consiste nella oggettiva non conoscibilità della legge). Il giudizio normativo sulla conoscibilità (esatta) della legge si presenta dunque come un giudizio di carattere deontologico-fattuale. Per un versante esso è indissolubilmente legato alla situazione concreta — e dunque al fatto commesso — dovendo riflettere la particolare condizione nella quale viene a trovarsi l’agente e il suo rapporto con il fatto. Per l’altro, in quanto espressione di una valutazione deontologica, tale giudizio non potrà non procedere secondo lo schema generale dei giudizi normativi, che consistono nell’apprezzamento dello scarto esistente fra il modello astratto e la situazione effettiva (nel caso: lo iato fra l’atti(45)

In questo senso per tutti FALZEA, Il principio ‘‘ignorantia iuris’’, cit., 28; STOR-

TONI, L’introduzione, cit., 1313.

(46) In particolare PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 920; ID., voce Ignoranza, 142. (47) Cfr. ad esempio Cass., Sez. un., 10 giugno 1994, in Foro it. , 1995, II, 154, con nota di BELFIORE, secondo cui può parlarsi di errore inevitabile quando il ‘‘comune cittadino’’ abbia assolto secondo il ‘‘criterio della ordinaria diligenza al c.d. ‘dovere di informazione’, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia’’: dove la clausola che richiama ‘‘ogni utile accertamento’’ rischia di portare pressoché all’infinito l’obbligo di ricerca e di accertamento.


— 240 — vità compiuta dall’agente per conoscere il divieto e quella attesa, secondo i criteri di una ragionevole diligenza) (48). La rimproverabilità — momento ultimo che radica la colpevolezza — consiste nell’antidoverosa indifferenza al precetto noto, ovvero nell’altrettanto antidoverosa indifferenza al dovere di informarsi esattamente circa l’esistenza, il significato e la portata del precetto: questo il volto fattualedeontologico della categoria della conoscibilità, che la Schuldtheorie utilizza, attraverso la sua equiparazione alla categoria della conoscenza, per fondare la colpevolezza — presupposto essenziale della imputazione soggettiva — in chiave normativa e non psicologica. Ricostruita in tal modo la categoria della colpevolezza, essa viene a porsi come un requisito preliminare dell’imputazione soggettiva, nel senso che la condotta (dolosa o colposa) dell’agente potrà essergli rimproverata in senso giuridico-penale soltanto se sia possibile affermare che la norma violata era esattamente conosciuta o conoscibile da parte dell’agente. Se si assume come corretto il presupposto iniziale (che cioè il giudizio di rimproverabilità dell’ignoranza/errore consiste e si esaurisce sostanzialmente nella violazione dell’obbligo fondamentale, ex art. 2 Cost., di non ledere interessi e beni altrui e/o sociali) (49), ne segue che è soltanto apparente la prospettata incongruenza di una responsabilità dolosa che in taluni casi procederebbe da una situazione di ignoranza colposa (50). A ben vedere, infatti, il giudizio sulla sussistenza del dolo e quello sulla sussistenza della colpevolezza non solo sono diversi per struttura, ma anche per oggetto. All’accertamento, di natura eminentemente psicologica, dell’(eventuale) adesione del soggetto al fatto, secondo i canoni della rappresentazione e volizione, fa da contrappunto l’apprezzamento, in chiave strettamente normativa, della esatta conoscibilità della norma, alla quale l’agente avrebbe dovuto conformare la propria condotta. Con un’ulteriore implicazione, immediatamente derivante dal diverso oggetto di tali giudizi: che ben può darsi la sussistenza di un fatto doloso (commissione di una condotta rappresentata e voluta) non colpevole, se all’agente non può essere rimproverata l’ignoranza della norma violata, perché non conoscibile. 5. Le due situazioni dalle quali può generarsi il difetto di colpevolezza vengono tanto tradizionalmente quanto correttamente identificate nell’ignoranza e nell’errore (51). L’equiparazione delle stesse sul piano della disciplina, soprattutto (48) PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 953; PULITANÒ, Una sentenza storica, cit., 686. (49) V. per tutti ROMANO, Commentario, cit., 99. (50) V. per tutti ancora ROMANO, Commentario, cit., 99. (51) V. FLORA, voce Errore, cit., 255; GROSSO, voce Errore (dir. pen.), cit., 1; PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 121.


— 241 — sotto la vigenza del principio della loro assoluta irrilevanza sancito dall’art. 5 c.p., aveva una sua fondata ragion d’essere (52), e comportava, fra l’altro, semplificazioni argomentative non disprezzabili. Per vero, già l’esigenza di cogliere appieno il significato della disciplina dell’errore stabilita dall’art. 47 c.p. (53), e segnatamente quella dell’errore su legge diversa da quella penale (54), aveva importato la necessità di distinguere fra queste due situazioni affatto diverse. Il mutato ambito di riferimento normativo sembra imporre all’interprete una considerazione analitica delle due situazioni fondanti l’eventuale difetto di colpevolezza. Sta in principio il rilievo che l’ignoranza della norma si esaurisce essenzialmente nel fatto che l’agente ritiene la propria condotta penalmente lecita. In altri termini: il soggetto ritiene di agire in una condizione di assoluta legittimità, in quanto non si rappresenta neppure l’eventualità che una disposizione di legge proibisca (o in qualche modo disciplini) la sua condotta sotto la comminatoria penale. A stretto rigore l’ignoranza indica una condizione di totale mancanza di conoscenza dell’esistenza del divieto in riferimento alla situazione concreta. Alla medesima condizione giunge chi verte nello stato di errore, essendo tuttavia diverso il punto di partenza. Infatti: chi ritiene per errore sul precetto lecita la propria condotta, in realtà ha scontato l’esistenza di una norma giuridica in astratto applicabile al caso di specie, ma ha tratto l’erronea convinzione che, rispetto al caso concreto, quella stessa, o altre disposizioni non fossero applicabili. Se da un lato è facile notare che la conseguenza finale dell’errore conduce ad una condizione identica a quella in cui versa colui che ignora, per così dire ab origine, l’esistenza (52) V. per tutti FLORA, voce Errore, cit., 255; FROSALI, L’errore nella teoria del diritto penale, Roma, 1933; GROSSO, voce Errore (dir. pen.), cit.; ID., L’errore sulle scriminanti, Milano, 1961; PALAZZO, L’errore sulla legge extrapenale, Milano, 1974; PULITANÒ, L’errore di diritto, cit. (53) Oltre agli autori citati alla nota che precede, v. anche ENGISCH, Tatbestandsirrtum und Verbotsirrtum bei Rechtfertigungsgründen, in ZStW, 1958, 566; GALLO, voce Dolo (dir. pen.), cit., 750; ID., Il dolo, cit., 125; PULITANÒ, voce Ignoranza (dir. pen.), in Enc. dir., XX, 1970, 23; ROMANO, Commentario, cit., 456; STELLA, L’errore sugli elementi specializzanti della fattispecie, in questa Rivista, 1964, 81; WARDA, Die Abgrenzung von Tatbestands - und Verbotsirrtum bei Blankettstrafgesetzen, 1955. (54) Agli autori di cui alle note 52 e 53 adde CARBONI, L’inosservanza dei provvedimenti dell’autorità, Milano, 1970; GRASSO, Considerazioni in tema di errore su legge extrapenale, in questa Rivista, 1976, 138; LANZI, L’errore su legge extrapenale. La giurisprudenza degli ultimi anni e la non applicazione dell’art. 47 ult. comma, c.p., in Indice pen., 1976, 299; MARINUCCI, Fatto e scriminanti, in questa Rivista, 1983, 1190; MAZZACUVA, Le autorizzazioni amministrative e la loro rilevanza penale, in questa Rivista, 1976, 774; PECORAROALBANI, Il reato di costruzione edilizia senza licenza, in particolare dell’errore su legge extrapenale, in Riv. giur. ed., 1959, II, 41; PULITANÒ, Illiceità espressa e illiceità speciale, in questa Rivista, 1967, 65.


— 242 — della norma penale, dall’altro è altrettanto agevole osservare che la categoria della conoscibilità del precetto deve essere arricchita sul piano dei contenuti, quando sia necessario riferirla all’ipotesi dell’errore. Se infatti all’ignoranza, intesa come totale mancanza di conoscenza, ben si attaglia il parametro della mera conoscibilità dell’esistenza della norma, alla valutazione in ordine alla inevitabilità dell’errore interpretativo, in conseguenza del quale l’agente esclude che la norma giuridica sia applicabile, tale parametro di valutazione non sembra di per sé solo sufficiente. A ben vedere, infatti, l’errore, inteso come interpretazione non corretta della norma o delle norme riferibili al caso, presuppone necessariamente la conoscenza dell’esistenza del precetto, o almeno una parallela conoscenza laica dell’esistenza di regole giuridiche in astratto applicabili. D’altro canto, se così non fosse, neppure sarebbe configurabile il caso dell’errore, posto che tale categoria concettuale ha senso in quanto abbia ad oggetto qualcosa di cui si presuppone l’esistenza. Affinando ulteriormente l’analisi, si può ulteriormente precisare la caratteristica saliente dell’errore interpretativo vero e proprio: il soggetto, a conoscenza della norma giuridica applicabile alla fattispecie concreta, ritiene — per una inesatta interpretazione della stessa o di altre norme dell’ordinamento — che la condotta non ricada nell’ambito di disciplina disegnato da quella norma (55). Netta la differenza dall’ignoranza, il cui carattere distintivo essenziale consiste propriamente nella non conoscenza della norma applicabile: e così pure dovrà dirsi di quel tipo di errore che incide sulle fonti di conoscenza della normativa (ma si tratta dei casi di scuola, francamente assai poco interessanti, di errori nella pubblicazione della legge o di mancata distribuzione della gazzetta ufficiale) (56). Ciò che tuttavia preme mettere in luce è che nel caso sicuramente più rilevante dal punto di vista pratico (l’errore d’interpretazione), il ricorso alla categoria della mera conoscibilità del precetto non sembra sufficiente, posto che in tale ipotesi non solo può parlarsi di una astratta conoscibilità della norma, ma addirittura di una conoscenza della stessa da parte del soggetto: ed infatti è solo a cagione dell’errore ermeneutico che l’agente ritiene lecita la propria condotta, giudicando quindi non applicabile la norma. Se a venire in considerazione fosse soltanto la mera conoscibilità del precetto, verrebbero per ciò solo escluse dal novero delle situazioni, che fanno venir meno la colpevolezza, tutte le ipotesi concernenti l’errore d’interpretazione, che attengono alla portata e al significato della norma. (55) Si tratta ovviamente dell’errore intellettivo, per stare alla nota distinzione di Carnelutti fra errore intellettivo ed errore-inabilità (CARNELUTTI, Teoria generale del reato, Padova, 1933, 195). V. per tutti PULITANÒ, L’errore di diritto, cit., 9; ID., voce Ignoranza, cit., 23. (56) Da ultimo e per tutti, PALAZZO, Colpevolezza ed ‘‘ignorantia legis’’, cit., 679.


— 243 — Una conclusione di tal genere appare del tutto inaccettabile, non solo e non tanto perché la sentenza della Corte costituzionale sembra far riferimento soprattutto a siffatte ipotesi (57), ma anche perché contrasterebbe con il restaurato principio di colpevolezza (e quindi di personalità della responsabilità penale) affermare che la colpevolezza stessa sussiste anche quando l’agente ritiene — per un errore interpretativo scusabile — che la sua condotta non è proibita da una norma penalmente sanzionata (58). Se lo statuto dell’ignoranza e dell’errore non può che essere il medesimo quanto a disciplina, occorre allora attribuire al requisito della conoscibilità un più ricco significato: in altri termini sembra necessario introdurre un elemento ulteriore, che caratterizzi questo requisito costitutivo della colpevolezza in modo tale che esso possa valere anche con riferimento al c.d. errore interpretativo. In questo senso sembra possibile far riferimento alla conoscibilità dell’esatto significato e della esatta portata della norma come parametro di valutazione dell’errore interpretativo, posto che solo in ordine a tale estremo fondamentalmente rileva l’errore. Il problema è qui destinato a complicarsi notevolmente, sol che si consideri, assai banalmente, che è frutto di mera convezione assumere per esatto in termini assoluti il significato di una qualunque proposizione (59). Ai più modesti fini che si propone l’interprete di locuzioni giuridiche, può però dirsi, pur in via largamente approssimata, che esiste un ambito interpretativo che può convenzionalmente essere considerato corretto: con la seguente precisazione, che tale correttezza convenzionale è funzione di un giudizio formulato alla stregua dell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria che riguarda le norme in questione. Sicché può assumersi per corretta quella interpretazione che appare maggiormente aderente alla consolidata ermeneutica della norma, tenendo conto che al significato del dato normativo in sé considerato finisce con l’accompagnarsi — in modo quasi indissolubile — il significato che gli attribuisce l’interpretazione (giurisprudenziale e dottrinaria). Lo scostamento da questa interpretazione, assunta come ‘‘esatta allo stato delle conoscenze’’ (id est: secondo dottrina e giurisprudenza), desi(57) Molte delle esemplificazioni richiamate dalla sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale hanno riguardo a fattispecie delle quali è incerta (o comunque discussa) l’interpretazione. (58) Se si ritiene che alla personalità della responsabilità penale acceda anche la rimproverabilità, intesa come violazione di un divieto conosciuto o conoscibile, è giocoforza ammettere la insussistenza di tale requisito, tutte le volte che il precetto sia incolpevolmente violato: cfr. per tutti FIANDACA, Principio di colpevolezza, cit., 1385; PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 935; PULITANÒ, Una sentenza storica, cit., 686. (59) Sul punto per tutti, TARSKI, Il concetto della verità nei linguaggi formalizzati, 1933; ID., La concezione semantica della verità, 1940.


— 244 — gna il margine di errore interpretativo: rispetto al giudizio normativo sulla sussistenza della colpevolezza si tratterà allora di valutare se questo scostamento può essere considerato scusabile, cioè non rimproverabile all’agente, secondo criteri analoghi a quelli necessari per accertare l’eventuale inevitabilità dell’ignoranza (60). Vale la pena di anticipare una considerazione sulla quale si tornerà più avanti: se il fondamento della riprovevolezza, in cui consiste la colpevolezza, risiede nella ostilità/indifferenza al generalissimo principio desumibile dall’art. 2 Cost., l’equiparazione assoluta tra la condizione di chi versa in errore (interpretativo) sul precetto e quella di chi ignora il precetto stesso non sembra rispondere ad una implicazione logica rigorosa e comunque valida (61). Se infatti si possono immaginare dei casi in cui l’errore è dovuto ad una grossolana trascuratezza (sostanzialmente equivalente all’ignoranza dovuta a totale indifferenza alle regole basilari dell’ordinamento, e tralasciando l’ipotesi di errore preordinato), ve ne sono altri in cui l’errore, pur inescusabile, dipende da un’attività interpretativa non particolarmente semplice: sicché il grado di indifferenza (e/o di ostilità) del soggetto al generalissimo dovere di informarsi in modo esatto prima di agire non spicca in maniera netta (62). 5.1. Al tema dell’errore interpretativo si collega un profilo particolare che, sebbene concettualmente autonomo, conviene considerare in connessione alla problematica dell’error iuris. La situazione di dubbio circa l’applicabilità al caso concreto di una determinata norma giuridica sanzionata penalmente dipende, in ultima analisi, da una non corretta interpretazione della norma medesima, del suo significato e del suo ambito applicativo (63). Se infatti si assume convenzionalmente per ‘‘esatta’’ una certa lettura della norma, si deve necessariamente concludere che l’altra (60) Cfr. sul punto PALAZZO voce Ignoranza, cit., 142; ma anche HASSEMER, Vermeidbarkeit des Verbotsirrtum (Anmerkung zu Bay OLG 8.IX.1988), in JuS, 1989, 843; ROXIN, ‘‘Schuld’’ und ‘‘Verantwortlichkeit’’ als strafrechtliche Systemkategorien, in Festschrift für H. Henkel, Berlino - New York, 1974, 185. (61) V. PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 944; ma anche BAUMANN, Zur Teilbarkeit des Unrechtsbewusstsein, in JZ, 1961, 561; SCHRÖDER, in StGB. Leipziger Kommentar, Berlino-New York, 1980, 10a ed., sub § rdn. 17, 102. (62) V. ancora e per tutti PALAZZO, op. ult. cit., cui adde ROMANO, Commentario, cit., 92. (63) Errore e dubbio sono senz’altro categorie concettualmente distinte, ma non si può certo ritenere che colui che versa in stato di dubbio possa essere considerato alla stregua di colui che ha un’esatta rappresentazione della realtà: in questo senso esplicitamente PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 132; WARDA, Schuld und Strafe, cit., 516; cfr. sul punto MAURACH-ZIPF, Strafrecht, Allgemeiner Teil, I, Heidelberg, 1983, 516; più in generale HASSEMER, Principio di colpevolezza e struttura del reato, in Arch. pen., 1982, 60; v. altresì PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 957-958, che nota la circolarità del rapporto fra dubbio ed errore, ri-


— 245 — interpretazione (quella dalla cui contrapposizione con la prima sorge il dubbio) è frutto di errore: conseguentemente non sembra azzardato ritenere che anche lo stato di dubbio, quando verta sul significato e sulla portata della norma, è indissolubilmente legato ad una situazione di errore (64). Comune appare essere la matrice delle ipotesi dell’errore interpretativo e del dubbio sul significato e sull’applicabilità della legge: in entrambi i casi, infatti, la conoscibilità dell’esatta portata e dell’esatto significato del precetto non è predicabile con riguardo all’agente: nell’un caso, perché l’ampiezza dell’errore è tale da inficiare completamente la valutazione, fino a far ritenere insussistente o inapplicabile al caso la norma penalmente sanzionata; nell’altro perché, di fronte ad un errore interpretativo, per così dire, di minore estensione, all’apprezzamento dell’agente si presenta una situazione di incertezza in ordine all’effettiva disciplina giuridica del caso di specie (65). La differenza fra le due condizioni appena sopra descritte consiste dunque in un dato essenzialmente quantitativo, derivando tale differenza da un maggiore o minore scostamento dall’interpretazione del dato normativo convenzionalmente assunta per ‘‘esatta’’, piuttosto che da un qualitativamente diverso rapporto fra il soggetto e la norma contenente il divieto o il precetto. È tuttavia noto che una compiuta elaborazione dottrinale (66) insegna a valutare lo stato di dubbio in termini particolarmente rigorosi: anche a considerare le posizioni più articolate, fra le quali sembra collocarsi il responso del giudici costituzionali (67), infatti, si coglie un dato di levando che nel contempo alla base dell’errore può stare anche la circostanza che ‘‘il soggetto non ha avuto causa di dubitare e quindi di informarsi sull’antigiuridicità del fatto’’. (64) V. gli autori citati alla nota che precede, cui adde DONATSCH, Unrechtsbewusstsein und Verbotsirrtum, in SchwZStr., 1985, 27; GUARDATA, L’ignoranza, cit., 1154; HORN, Verbotsirrtum, cit., 69; KRÜPELMANN, Die strafrechtliche Behandlung des Irrtums, in ZStG, 1978, 6; NAKA, Die Appellfunktion des Tatbestandsvorsatzes, in JZ, 1961, 210; PADOVANI, In tema di coscienza dell’offesa, cit., 326; ROMANO, Commentario, cit., 96; ROXIN, ‘‘Schuld’’, cit., 188; RUDOLPHI, Unrechtsbewusstsein, cit., 206; SCHICK, Die Vorwerfbarkeit, cit., 598; SCHÜNEMANN, Verbotsirrtum, cit., 741; STORTONI, L’introduzione, cit., 1331. (65) V. STORTONI, L’introduzione, cit., 1331. (66) V. per tutti ROMANO, Commentario, cit., 96, ma anche PULITANÒ L’errore di diritto, cit., 516. (67) GUARDATA, L’ignoranza, cit., 1154; PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 132; STORTONI, L’introduzione, cit., 1331. Il richiamo della Corte costituzionale al ‘‘gravemente caotico atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari’’ come fonte di errore inevitabile sembra più correttamente dover essere riportato ad una fattispecie di dubbio invincibile: è stato esattamente notato che tale condizione ‘‘non può non far residuare nell’agente un margine di dubbio sull’erroneità dell’indirizzo che sceglie di seguire in quanto più autorevole o più consolidato: lo stesso è a dirsi nel caso di disposizioni di legge « confuse e indecifrabili », o di disposizioni contrastanti delle pubbliche autorità competenti’’ (così GUARDATA, L’igno-


— 246 — fondo unificante, secondo cui sempre nel caso di dubbio l’agente sconta la probabile illiceità penale del fatto, dovendosi logicamente ammettere in tali ipotesi la conoscibilità dell’esatta portata e significato della norma. Anzi: proprio nel dubitare, nell’incertezza fra due possibili interpretazioni (una delle quali esatta), sta, per così dire, la prova della conoscibilità, se non addirittura della conoscenza (almeno a livello di probabilità) dell’esistenza della norma e del suo esatto ambito applicativo. Con l’ulteriore indefettibile conseguenza che allo stato di dubbio non può mai essere riconosciuta una valenza tale da far venir meno la colpevolezza (68). Si tratta di valutare se una tale conclusione sia compatibile con il restaurato principio di colpevolezza e, segnatamente, al cospetto del canone della personalità della responsabilità penale, che nella lettura dei giudici costituzionali implica la possibilità di formulare un giudizio di riprovevolezza, a sua volta derivante dalla violazione del generalissimo obbligo di informarsi (esattamente) prima di agire. Lo stato di dubbio presuppone infatti nell’agente una precedente valutazione in termini problematici del contesto e della disciplina penale che (eventualmente) lo regola: di fronte alla situazione concreta, le soluzioni appaiono equivalenti, sicché ragioni sostanzialmente analoghe possono motivare l’agente a conformare la propria condotta in un modo piuttosto che in un altro. Se si considera la questione da un altro punto di vista, si può affermare in modo non azzardato che colui che versa in stato di dubbio non mostra affatto un riprovevole disinteresse per le regole fondamentali dell’ordinamento, tanto che, proprio in forza della valutazione compiuta prima di agire, viene a trovarsi nella condizione di incertezza, caratteristica appunto del dubbio. Se il fondamento ultimo e minimale della colpevolezza (intesa in senso normativo) consiste proprio nella inosservanza di obblighi elementari di ogni cittadino, allora l’incertezza, nella quale viene a trovarsi l’agente, non sembra essere una condizione sempre e necessariamente derivante da una colpevole indifferenza. Approfondendo l’analisi, si deve però osservare che il punto cruciale segue logicamente quello descritto, posto che colui che agisce a partire ranza, cit., 1155). V. anche FLORA, La difficile penetrazione, cit., 340; PULITANÒ in Commentario breve al codice penale a cura di CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ, Padova, 2a ed., 1992, sub art. 5, VIII, 16; nonché, con specifico riferimento ai reati omissivi propri, CADOPPI, La nuova configurazione dell’art. 5 c.p., cit., 253. Per una più ampia rilevanza del dubbio, cfr. MANTOVANI, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 12; ROXIN, Ungelöste Probleme, cit., 85. (68) Sembra venir qui in considerazione lo stesso schema interpretativo valevole per il dolo eventuale: cfr. ROMANO, Commentario, cit., 97. V. altresì G.A. DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, in questa Rivista, 1988, 113; EUSEBI, Il dolo come volontà, Milano, 1993, 171; PROSDOCIMI, ‘‘Dolus eventualis’’, Milano, 1993, 3.


— 247 — dallo stato di dubbio invariabilmente sceglie di adeguare la propria condotta ad uno degli estremi dell’alternativa che gli si prospetta. Se si ha riguardo esclusivamente a tale momento, è difficile negare che, quando il soggetto decida di realizzare la condotta progettata, invece di astenersene, egli sconta la probabilità di violare la norma penalmente sanzionata. Sotto questo profilo a venire in considerazione non è tanto la trascuratezza rispetto al generalissimo obbligo di informarsi (esattamente) prima di agire, quanto piuttosto l’accettazione dell’eventualità di infrangere un precetto, di cui è incerta l’applicabilità al caso di specie. Il rigorismo dell’interpretazione comunemente accolta (69) sembra trovare proprio in questo aspetto la giustificazione ed il fondamento più convincenti (70), posto che in linea astratta non si può negare che colui che dubiti della liceità penale della propria azione, e tuttavia la ponga in essere, non manifesti almeno una colpevole indifferenza non tanto nei confronti dell’obbligo di informarsi prima di agire, quanto invece del dovere di non ledere beni o interessi tutelati dalla norma penale. Vero è però che la differenza tra lo stato di dubbio e lo stato di errore si presenta netta soltanto sul piano teorico (71), o nelle esemplificazioni scelte appositamente per sottolinearne gli aspetti diversi. Quando si voglia esaminare più da vicino la realtà delle situazioni offerte al vaglio della giurisprudenza (72), l’evidenza della distinzione sfuma, proprio per la natura quantitativa e non qualitativa della stessa. (69) Espressamente con riferimento alla irrilevanza del dubbio di fronte alla nuova formulazione dell’art. 5 c.p., v. in giurisprudenza Cass., Sez. VI, 27 marzo 1995, Bando, rv. 201518; Cass. Sez. III, 1 giugno 1994, Cherubini, rv. 198383; Cass., Sez. III, 6 maggio 1994, Bonsignore, rv. 198201; Cass., Sez. III, 19 aprile 1994, Del Monte, rv. 197830; Cass., Sez. III, 31 gennaio 1994, Gualdi, rv. 197392; Cass., 15 gennaio 1990, Rizzello, in Giust. pen., 1990, II, 30: secondo la maggior parte delle sentenze citate l’esistenza di oscillazioni giurisprudenziali, ovvero di contrastanti indicazioni provenienti dalla pubblica amministrazione o da fonti private generano sempre uno stato di dubbio, cui consegue l’obbligo di astensione, posto che l’agente è in grado di rappresentarsi la propria condotta come penalmente antigiuridica. (70) Cfr. JESCHECK, Lehrbuch, cit., 409; CRAMER, in SCHÖNKE SCHRÖDER, Strafgesetzbuch, cit., sub § 17; ROMANO, Commentario, cit., 97. (71) Cfr. FLORA, La difficile penetrazione, cit., 340; ID., voce Errore, cit., 255; M. GALLO, voce Dolo, cit., 750. (72) Vale la pena di notare infatti che le pronunzie della giurisprudenza assumono situazioni sostanzialmente analoghe per trarne conclusioni opposte quanto a inevitabilità dell’errore: così in tema di indicazioni provenienti dalla pubblica amministrazione si riscontrano, fra le sentenze edite, 13 pronunzie (7 di Cassazione e 6 di merito) che giudicano inevitabile l’errore per tal modo determinatosi, mentre 8 decisioni della corte regolatrice affermano l’opposto principio; con riguardo al c. d. deficit socioculturale dell’agente 6 sentenze (1 della suprema corte e 5 di giudici di merito) ne ritengono rilevante la presenza ai fini dell’integrazione della clausola modificativa dell’art. 5 c.p., mentre 21 decisioni (17 della Cassazione e 4 di giudici di merito) negano che a tale condizione possa farsi risalire una ignoranza/errore scusabile; allo stesso modo, in tema di contrasto giurisprudenziale, si rilevano


— 248 — Ed infatti: se, per valutare la sussistenza dello stato di errore, si assumono i criteri indicati dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza 364/88 (73), e in genere dalla dottrina (74) e dalla giurisprudenza (75), 10 pronunzie (2 della Corte di legittimità e 8 di merito) che attribuiscono a tale situazione valore scusante, mentre 8 sentenze (tutte della Cassazione) ne escludono la rilevanza; infine 3 decisioni (1 di cassazione e due di merito) attribuiscono valore a indicazioni di fonte privata. Questo variegato atteggiarsi della giurisprudenza indica con tutta evidenza che, affermato il principio in via generale e riconosciuta in astratto la tipologia di potenziali cause di errore/ignoranza inevitabile, il riferimento al caso concreto sfugge ad una classificazione rigida, dovendo la valutazione tener conto di elementi quantitativi (la entità e la complessità del contrasto fra organi giudiziari, la natura della rassicurazione proveniente dalla pubblica amministrazione, ecc.). Si consideri, poi, che le fattispecie incriminatrici, alle quali le citate sentenze hanno riguardo, concernono per la quasi totalità dei casi norme incriminatrici extracodicistiche, mentre ben poche di esse riguardano delitti previsti dal codice penale. A conferma di quanto detto, si noti che ben 25 decisioni (21 della Corte di Cassazione e 4 di giudici di merito) giudicano non diligentemente adempiuto l’obbligo di informarsi, di fronte a situazioni nelle quali o il dato normativo era incerto, o vi erano contrasti giurisprudenziali, ovvero difformi prese di posizione della pubblica amministrazione. (73) Si pensi al riferimento ai casi caratterizzati da un ‘‘gravemente caotico atteggiamento interpretativo degli organi giurisprudenziali’’, situazione, secondo la sentenza costituzionale n. 364/88, costitutiva di un errore inevitabile sul precetto: nel momento stesso in cui si richiama una giurisprudenza contrastante, si riconosce che l’agente conosceva l’altra interpretazione (quella in forza della quale avrebbe dovuto astenersi dall’agire) e che quindi si è trovato in stato di dubbio. (74) V. ad es. PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 940; ROMANO, Commentario, cit., 101. (75) Sul contrasto giurisprudenziale, in senso favorevole alla sua rilevanza cfr. Cass., Sez. III, 4 marzo 1992, Caul, in Cass. pen., 1993, 1721; Cass., Sez. III, 23 gennaio 1992, in Impresa, 1992; Pret. Roma 17 giugno 1994, Guadagno, in Critica diritto, 1994, 3, 54; Pret. Pordenone 25 marzo 1994, Boz, in Giur. ambientale, 1994, 282; Pret. Nardò 18 marzo 1991, Nestola, in Nuovo dir., 1991, 606; Pret. Genova 11 gennaio 1991, Cantale, in Foro it., 1991, II, 732; Pret. Vibo Valentia, 9 luglio 1990, Toma, in Riv. giur. edilizia, 1991, I, 830; Pret. Putignano 13 marzo 1989, Laruccia, in Foro it., 1989, II, 680; Pret. Cingoli 8 giugno 1988, Marchegiani, in Giur. it., 1988, II, 412; Pret. Milano 29 marzo 1988, Bertacin, in Foro it., 1988, II, 291. In senso contrario (in genere perché indice di permanenza di dubbio), oltre alle sentenze citate a nota 69, v. Cass., Sez. III, 14 ottobre 1992, De Rocco, in Nuovo dir. con nota di RAMACCI (ma con riferimento a precedente giurisprudenziale di condanna riguardante lo stesso imputato); Cass., Sez. VI, 14 novembre 1989, Bondoni, rv. 183612. Con riferimento al c.d. deficit socio-culturale, ne affermano la rilevanza, con riguardo a fattispecie extracodicistice,: Cass., Sez. I, 20 marzo 1992, Faicel Ben Kra, rv. 190313; Trib. minorenni Genova 14 novembre 1994, Saurel, in Foro it., 1995, II, 274, con nota di MONTARULI; Trib. minorenni Firenze 27 settembre 1989, Mahgobi, ivi, 1990, II, 192; Trib. Genova 30 maggio 1989, Khedhiri, ivi, 1989, II, 540; Pret. Pescia 21 novembre 1988, Seck, ivi, 1989, II, 248; Pret. Bologna 12 aprile 1988, Ballestri, in Difesa pen., 1988, 19, 61. In senso contrario v. Cass., Sez. III, Sacco, rv. 27 giugno 1995; Cass., Sez. I, 4 maggio 1995, Bindi, rv. 201919; Cass., Sez. III, 26 aprile 1995, De Padua, rv. 201328 (in tema di violazione di obblighi di assistenza familiare); Cass., Sez. III, 7 dicembre 1993, Tabib, rv. 196816 (in tema di violenza carnale a infraquattordicenne da parte di soggetto proveniente da area socio-culturale nella quale sono considerati leciti i rapporti sessuali con minori); Cass., Sez. V, 27 gennaio 1993, Panu, in Mass. cass. pen., 1993, 115; Cass., Sez. I, 14 ottobre 1992, Zen-


— 249 — già a partire da quelli elaborati in relazione alla discutibile teorica della c.d. buona fede nelle contravvenzioni (76), è agevole avvedersi che molti dei casi qualificati come situazione di errore incidente sulla colpevolezza tile, in Giur. it., 1993, II, 850 (che afferma la chiarezza del dato normativo); Cass., Sez. III, 30 settembre 1992, Rigamonti, in Mass. cass. pen., 1993, 2, 113 (che nega la sussistenza dell’estremo, essendo l’agente professionalmente inserito nell’attività regolata); Cass., Sez. I, 28 settembre 1992, Paparo, in Mass. cass. pen., 1993, 4, 20 (che afferma la chiarezza del dato normativo); Cass., Sez. I, 31 marzo 1992, Pagano, rv. 190274 (che afferma la chiarezza del dato normativo); Cass., Sez. VI, 10 dicembre 1992, Signorelli, rv. 189767 (in tema di violazione di obblighi di assistenza familiare); Cass., Sez. I, 28 novembre 1991, Cermikas, rv. 189015; Cass., Sez. I, 1 ottobre 1991, Grassi, in Giust. pen., 1992, II, 203 (che nega la sussistenza dell’estremo, valutando le particolari capacità dell’agente); Cass., Sez. III, 5 luglio 1991, Jeanmonod, rv. 188794 (che deduce la conoscenza/conoscibilità del precetto da precedente condotta dell’agente); Cass., Sez. III, 3 giugno 1991, Giusti, rv. 187980 (che nega la sussistenza dell’estremo per essere l’agente professionalmente inserito nell’attività regolata); Cass., Sez. VI, 22 febbraio 1991, La Porta, rv. 187669; Cass., 23 febbraio 1990, Starace, in Riv. pen., 1991, 557 (che nega la sussistenza dell’estremo per essere l’agente professionalmente inserito nell’attività regolamentata); Cass. 7 dicembre 1989, Izet Elmaz, in Foro. it., 1990, II, 369, con nota di PEZZANO (in tema di riduzione in schiavitù); App. Bologna, 31. 1. 1994, Bartolini, in Foro romagnolo, 1994, 2, 21; Pret. Lucca, Sez. distaccata Pietrasanta, 4 marzo 1991, Modou, in Foro it., 1991, II, 305; Trib. Napoli 8. 7. 1988, Caiazza, in Giur. merito, 1989, 361, con nota di BARBALINARDO; Trib. Cagliari 18 marzo 1988, in Riv. giur. sarda, 1991, 169, con nota di MANCA (in tema di bigamia). Sulle indicazioni provenienti dalla pubblica amministrazione, ne affermano la rilevanza Cass., Sez. I, 1 luglio 1993, Lelli, rv. 197013; Cass., Sez. VI, Gino, rv. 196176; Cass., Sez. III, 31 gennaio 1992, Santori, in Giur. it., 1992, 543; Cass., Sez. I, 26 marzo 1991, Rocco, rv. 187595; Cass., Sez. III, 20 marzo 1990, Arnuzzi, rv. 183869; Cass., Sez. III, 8 marzo 1989, Greco, rv. 181118; Cass. 14 luglio 1988, Poli, in Riv. pen., 1990, 490 (che fa riferimento anche ad un precedente giurisprudenziale favorevole al ricorrente); Pret. Crotone, Sez. distaccata Petilia, 7 aprile 1993, Barbera, in Riv. pen., 1994, 1037, con nota di TRONCONE (che ritiene bastevole anche l’inerzia della p.a.); Pret. Savona, Sez. distaccata di Varazze, 20 novembre 1992, Poggio, in Nuovo dir., 1993, 712, con nota di FRONTINI; Trib. Pescara 10 luglio 1991, Di Carlo, in P.Q.M., 1991, 3, 90; Pret. Lucca, Sez. distaccata di Pietrasanta, 18 marzo 1991, Quadrelli, in Foro it., 1991, II, 305 (che ritiene bastevole anche l’inerzia della p.a.); Pret. Pistoia, 1 giugno 1988, Petrucci, in Foro it., 1989, II, 680; Pret. Feltre, 14 aprile 1988, Dal Castel, in Giur. it., II, 21; in senso contrario, v. Cass., Sez. II, 2 agosto 1994, Silvestri, rv. 198795; Cass., Sez. III, 23 aprile 1993, Vignali, rv. 194726; Cass., Sez. VI, 18 dicembre 1992, Traverso, in Mass. cass. pen., 1993, 8, 15; Cass., Sez. III., 22 marzo 1991, Falbo, in Mass. cass. pen, 1991, 6, 15; Cass., Sez. III, 31 ottobre 1990, Rovegno, rv. 185949; Cass. 19 marzo 1990, Borboglini, in Riv. pen., 1991, 557; Cass., Sez. IV, 3 luglio 1990, Rebattini, rv. 185565. Ammettono la rilevanza di indicazioni provenienti da fonte privata ai fini della scusabilità dell’errore ex art. 5 c.p. Cass., Sez. III, 24 settembre 1990, Monti, in Foro it., 1991, II, 296 (che ha riguardo al parere del consulente); Pret. Cagliari 12 novembre 1991, Ferrari in Riv. giur. sarda, 1993, 807, con nota di RAVENNA (che ha riguardo a inesatte informazioni giornalistiche); Pret. Busto Arsizio 23 settembre 1988, Molina, in Foro it., 1990, II, 85 (che ha riguardo a indicazioni diffuse nell’ambiente professionale). (76) Sulla c.d. buona fede nelle contravvenzioni, v. per tutti, BARTULLI, Errore incolpevole e buona fede nelle contravvenzioni, in questa Rivista, 1962, 1147; FORNASARI, Buona fede e delitti: limiti normativi dell’art. 5 c.p. e criteri di concretizzazione, in questa Rivista,


— 250 — presentano in ultima analisi caratteristiche non dissimili da quelli tipici dello stato di dubbio. Così, ad esempio, l’ipotesi dell’errore cagionato dalla difficoltà interpretativa derivante da un significativo contrasto giurisprudenziale, può forse essere ricondotta alla categoria dell’errore soltanto nella situazione estrema, in cui l’agente sia giunto ad escludere in modo assoluto l’alternativa, propendendo per l’interpretazione che lo facoltizza ad agire. A ben vedere, però, neppure in questo caso può dirsi, in termini rigorosi, che l’agente non sconti la probabilità — seppur di grado estremamente basso — che la condotta posta in essere infranga un precetto penale. L’esistenza di un contrasto giurisprudenziale è infatti e di per sé ragion sufficiente per ammettere l’eventualità che quella certa condotta integri gli estremi di un reato: tradotto in termini deontologico-normativi, ciò significa che in un caso di tal genere è profilabile l’alternativa fra un giudizio di liceità ed un giudizio di illiceità della condotta. E tuttavia, e certo non senza fondata ragione, si afferma che in siffatta situazione fa difetto la colpevolezza, vertendosi in tema di errore rilevante ex art. 5 c.p. (77). Non diverso l’inquadramento dell’ipotesi nella quale l’errore scusante dipende dalla rassicurazione proveniente dalla pubblica amministrazione, eventualità nella quale all’evidenza il privato si è determinato a richiedere il ‘‘parere’’ del pubblico ufficiale proprio perché si trovava in stato di dubbio (78). Fermo restando il caso nel quale la (pur errata) indicazione della pubblica amministrazione sia tale da escludere in radice la componente d’incertezza, residua in tutti gli altri un ineliminabile margine di dubbio (di portata magari ridottissima), al quale accede ugualmente la configurabilità dell’alternativa fra lecito e illecito. 1978, 449; GROSSO, Coscienza e volontà ed errore nelle contravvenzioni, ivi, 1963, 891; LOZZI, Il problema della buona fede determinata da un’errata pronuncia giudiziale, in questa Rivista, 1968, 804; PADOVANI, L’errore su legge penale cagionato da altrui inganno e l’estensione analogica dell’art. 48 c.p., ivi, 1982. Per una completa e ragionata rassegna della giurisprudenza in materia, a partire da Cass., Sez. un., 7 dicembre 1973, in Cass. pen. mass., 1974, 497, m. 835, v. DONINI, Ignoranza ed errore, in Rassegna sistematica di diritto penale, a cura di BRICOLA e ZAGREBELSKY, I, Torino, 1984, 373. Le sentenze richiamate alla nota 75 dimostrano come i criteri di valutazione si siano modellati su quelli elaborati in relazione alla c. d. buona fede nelle contravvenzioni. (77) Questa sembra essere propriamente l’ipotesi alla quale ha riguardo la Corte costituzionale nella sentenza n. 364/88, quando fa riferimento alla situazione di contrasti significativi nell’atteggiamento interpretativo della giurisprudenza. (78) L’ipotesi considerata era una delle più frequentemente richiamate dalla teorica della c.d. buona fede nelle contravvenzioni, ma viene nuovamente in considerazione dopo la riforma dell’art. 5 c.p.: v. per tutti, PULITANÒ, Una sentenza storica, cit., 686; ROMANO, Commentario, cit., 104; STORTONI, L’introduzione, cit., 1313. In giurisprudenza v. sentenze citate a nota 75.


— 251 — Com’è a questo punto evidente, conclusioni analoghe dovrebbero trarsi anche di fronte all’errore indotto da pareri rilasciati da consulenti privati o dal silenzio-condiscendenza della pubblica amministrazione, posto che tali forme di genesi dell’errore possano essere equiparate a quelle tradizionalmente accolte da dottrina e giurisprudenza (79). Per vero maggiormente problematica, ma pur sempre coerente al punto di vista fin qui considerato, l’ipotesi dell’errore derivante da particolare difficoltà d’interpretazione del dato normativo. Conviene preliminarmente osservare che tutte le ‘‘cause’’ di errore precedentemente esaminate a loro volta dipendono proprio da quest’ultima, che in realtà sul piano logico si staglia come la fondamentale. Pur con sfumature diverse, è agevole individuare nella difficoltà d’interpretazione del dato normativo la ragione fondante del diverso atteggiamento della giurisprudenza, dell’esigenza di far ricorso all’assicurazione della pubblica amministrazione, ovvero al parere del consulente privato: a ben vedere l’oscurità del dato normativo genera la difficoltà interpretativa, che si manifesta propriamente nel contrasto giurisprudenziale, nel ricorso al ‘‘parere’’ dell’esperto. Indiscutibile dunque che il problema dell’errore/ignoranza e dell’errore/dubbio vada affrontato a partire da questo punto fermo, che ne costituisce il momento genetico. La stessa pronuncia costituzionale, mentre da un lato assume che il soggetto in stato di dubbio debba astenersi (o compiere l’azione doverosa, se si tratta di reati omissivi) (80), dall’altro indica quali casi di errore ine(79) Quanto alla rilevanza della mera tolleranza da parte della pubblica amministrazione, v. STORTONI, L’introduzione, cit., 1339; per la giurisprudenza, pressoché isolate, Pret. Crotone 7 aprile 1993, cit.,e Pret. Lucca 18 marzo 1991; in termini dubitativi, ROMANO, Commentario, cit., 104; contra PULITANÒ, Una sentenza, cit., 726, nonché la giurisprudenza pressoché unanime: v. per tutte Cass., Sez. II, 2 agosto 1994, cit., nonché le sentenze citate a nota 103 in tema di obbligo di informazione, che richiedono una positiva e attiva condotta dell’agente. Quanto ai pareri di consulenti privati, sotto ben definite condizioni, ne ammettono la rilevanza PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 143; PULITANÒ, in Commentario breve, cit., sub art. 5, 11; in giurisprudenza, esplicitamente, v. Cass. 24 settembre 1990; contra STORTONI, L’introduzione, cit., 1339. Con particolare riferimento alla figura del consulente legale, cfr. CALABRIA, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 149; MANTOVANI, Diritto penale, cit., 309. (80) Cfr. § 28 sentenza n. 364/88 Corte costituzionale, secondo cui ‘‘non può ravvisarsi ignoranza inevitabile della legge penale, essendo il soggetto obbligato a risolvere l’eventuale dubbio attraverso l’esatta e completa conoscenza della (singola) legge penale o, nel caso di soggettiva invincibilità del dubbio, ad astenersi dall’azione (il dubbio oggettivamente irrisolvibile, che esclude la rimproverabilità sia dell’azione sia dell’astensione è soltanto quello in cui, agendo o non agendo, s’incorre, ugualmente, nella sanzione penale)’’: su quest’ultimo profilo, cfr. per tutti PULITANÒ, L’errore di diritto, cit., 516; ID., Una sentenza storica, cit., 727.


— 252 — vitabile situazioni nelle quali appare evidente che all’agente si presenta l’eventuale illiceità della condotta che sta per intraprendere (81). D’altro canto, una volta che il soggetto abbia adempiuto diligentemente all’obbligo di informarsi (esattamente) prima di agire, e tuttavia rimanga nell’incertezza relativa circa la liceità penale della sua condotta, occorre osservare che tale situazione dipende piuttosto dall’incapacità del legislatore di trasmettere in modo corretto il contenuto precettivo della norma (o delle norme) e non invece da una riprovevole trascuratezza dell’agente (o da una sua ribellione alle regole dell’ordinamento) (82). Né sembra seriamente discutibile che, soprattutto di fronte alla inarrestabile ipertrofia del sistema penale, esteso ormai a condotte scarsamente connotate sul piano di un disvalore immediatamente riconoscibile (83), è senz’altro più difficile giungere ad un’esatta conoscenza delle regole che disciplinano una determinata situazione, che non acquisire una precisa informazione sulle circostanze del fatto (84). Se questo rilievo è esatto, non sembra allora del tutto ingiustificato un diverso trattamento fra lo stato di dubbio che incide sul fatto e quello, nel quale versa l’agente dopo che, a seguito di una diligente ricerca al fine di acquisire una corretta conoscenza della legge, sia tuttavia giunto a formarsi un’errata convizione in ordine alla liceità penale della condotta, che — come si è detto — non consente all’agente stesso di escludere la probabilità (con diverse gradazioni) che l’altra interpretazione del dato nor(81) Si pensi, in particolare, alle ipotesi, indicate dalla sentenza della Corte costituzionale, concernenti il ‘‘gravemente caotico (...) atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari’’ e le ‘‘« assicurazioni erronee » di persone istituzionalmente destinate a giudicare sui fatti da realizzare’’ (sentenza § 27), oltre che al rilievo secondo cui ‘‘è (...) almeno possibile (...) che lo Stato non abbia reso obiettivamente riconoscibili (o « prevedibili ») alcune leggi’’ (sentenza § 21): situazioni queste che presuppongono tutte un iniziale stato di dubbio, dal quale l’agente non sembra in grado di uscire giungendo ad una conclusione tale (esatta o errata che sia) da escludere in maniera assoluta e radicale la plausibilità dell’alternativa. Sul punto cfr. per tutti PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 132. (82) Cfr. in questo senso PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 132; H.W. SCHÜNEMANN, Verbotsirrtum, cit., 735. (83) Cfr. in particolare PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 957. In termini problematici KRÜPELMANN, Dogmatische, cit., 360, segnala l’ambiguità di criteri di valutazione generali-obiettivi, quando riferiti a reati c.d. artificiali. Più recisamente FIGUEIREDO DIAS, Schuld und Persönlichkeit, cit., 220, secondo cui l’errore sui reati ‘‘neutrali’’ esclude il dolo. A un modello di disciplina differenziato fra reati c. d. naturali e reati c. d. artificiali rimandano FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 360, che suggeriscono l’accoglimento della c.d. Vorsatztheorie per il diritto penale extracodicistico. Contra, per tutti, ROXIN, ‘‘Schuld’’ und ‘‘Verantwortlichkeit’’, cit., 176; RUDOLPHI, Die Verbotsirrtumregelung, cit., 289; ID., Systematischer Kommentar, cit., 94. (84) In questo senso PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 142; WOLTER, Schuldhafte Verletzung einer Erkundigungspflicht, Typisierung beim Vermeidbarkeitsurteil und qualifizierte Fahrlässigkeit beim Verbotsirrtum, in JuS, 1979, 482.


— 253 — mativo sia esatta (con l’indefettibile conseguenza che la condotta intrapresa possa essere considerata penalmente rilevante) (85). L’incertezza derivante dal dubbio (inevitabile) sul precetto, quando dipenda da cause non riconducibili al soggetto, si differenzia nettamente dall’incertezza sul fatto. Se si assume che il soggetto abbia adempiuto in modo doverosamente diligente all’obbligo di informarsi esattamente prima di agire, ne segue che il persistere dell’alternativa (giudizio di liceità o giudizio di illiceità della condotta) deriva da una situazione obiettiva, che trova il suo fondamento ultimo nell’incertezza stessa del dato normativo (o, più esattamente, nella diversità di significati che viene attribuita dagli interpreti al dato normativo stesso). È stato esattamente rilevato che, oltre alla minor difficoltà che in genere caratterizza l’accertamento del fatto (e quindi il superamento dello stato di dubbio), in tale caso è sempre possibile congetturare una condotta dell’agente idonea a realizzare l’interesse del singolo, senza che questa confligga con interessi o beni altrui (86). Ne emerge quindi uno scarto non piccolo fra la condizione di chi versa in uno stato di dubbio sul fatto e colui che, a partire da un originario stato di dubbio, ha raggiunto una convinzione (errata) sul precetto, che tuttavia lascia aperto un residuale margine di dubbio sulla liceità della condotta, margine che non può essere escluso in termini assoluti. Come si cercherà di illustrare nel paragrafo che segue, la possibilità di individuare i casi nei quali il residuo margine di dubbio merita un trattamento diverso da quello tradizionalmente attribuito alle analoghe ipotesi dubbio sul fatto (attraverso il ricorso alla categoria del dolo eventuale) si concentra essenzialmente su differenze quantitative. D’altro canto la distinzione, pure proposta (87), fra reati omissivi e reati commissivi non riesce sul punto del tutto convincente (88). La circostanza che, di fronte ad un reato omissivo, l’agente in stato di dubbio debba compiere un’azione contraria (ed eventualmente dannosa) ai propri interessi, è da un lato funzione della struttura tipica del reato omissivo e, dall’altro, rende maggiormente evidente il sacrificio degli interessi del privato (che deve compiere un’azione positiva e non solo astenersi dall’agire) in presenza di una situazione di incertezza determinata dalla sostanziale incapacità del legislatore di trasmettere in modo chiaro e percepibile il precetto. (85) Cfr. PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 132, che sottolinea che, una volta accertata la inevitabilità del dubbio, ‘‘non sembra possibile farne dipendere la rilevanza da un accertamento ulteriore’’; in senso analogo v. WARDA, Schuld und Strafe, cit., 525. (86) In questo senso PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 132. (87) Cfr. CADOPPI, La nuova configurazione dell’art. 5 c.p. , cit., 251; FLORA, La difficile penetrazione, cit., 341. (88) cfr. PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 132.


— 254 — A tacer del fatto che è soltanto una notazione statistica quella secondo cui sarebbe più gravoso il sacrificio di colui che deve agire invece che limitarsi all’astensione, sotto un più generale punto di vista non può farsi differenza fra i due casi prospettati: accolto che sia l’argomento che il sacrificio dell’interesse del privato dipenderebbe non da sua riprovevole negligenza nell’accertamento dell’esatto significato e portata della legge, ma da una incapacità (relativa) di quest’ultima a trasmettere il messaggio precettivo, la situazione in cui viene a trovarsi il soggetto viene ad essere caratterizzata proprio da questo estremo, cioè dalla causa che fonda lo stato di incertezza. Si tratta allora di valutare piuttosto la condotta del soggetto sotto il profilo degli accertamenti che egli ha svolto per accertarsi della esatta portata e del significato della legge (89), per decidere se il residuale stato di dubbio non è riferibile in alcun modo al soggetto stesso (rectius: ad una sua riprovevole trascuratezza nell’adempimento del generalissimo obbligo). Quando questo accertamento si concluda in modo favorevole (l’agente ha compiuto quanto ragionevolmente necessario per l’accertamento), è giocoforza ammettere che egli mostra un atteggiamento particolarmente attento nei confronti degli interessi di cui è portatore l’ordinamento, sicché la decisione che egli assume (di agire o di non agire, essendo sotto questo profilo indifferente che si tratti di reati omissivi o di reati commissivi) non può essere considerata come segno di ostilità nei confronti dell’ordinamento, o anche solo come manifestazione di una riprovevole indifferenza (90). Per valutare il significato da attribuire allo stato di dubbio sul piano della colpevolezza, sembra allora necessario e preliminare (ma non sufficiente) decidere delle modalità di adempimento dell’obbligo di informarsi esattamente prima di agire, che — si noti — è lo stesso obbligo al quale è condizionata la sussistenza dell’errore inevitabile, che fa venir meno la colpevolezza. Preliminare e necessario, ma non sufficiente si è detto essere il giudizio sul diligente adempimento dell’obbligo informativo, in quanto la peculiare caratteristica del ‘‘dubbio’’ fa sì che ne debba essere valutato anche il suo aspetto per così dire ‘‘quantitativo’’. Come si cercherà di mostrare nei sottoparagrafi che seguono, il diverso grado di incertezza è funzione esclusiva — a fronte di un eguale livello di diligenza — del diverso grado di chiarezza del dato normativo. Sicché anche il permanere dello stato di dubbio sul precetto può comportare, sotto determinate condizioni, il venir meno della colpevolezza. (89) cfr. per tutti PULITANÒ,Una sentenza, cit., 729. (90) In questo senso PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 132; H.W. SCHÜNEMANN, Verbotsirrtum, cit., 739.


— 255 — A ben vedere che lo stato di dubbio non debba necessariamente portare all’ossequio della interpretazione più rigoristica del dato normativo ben s’inquadra con una visione liberale dei rapporti fra stato e cittadino (91), sebbene un antecedente significativo sia rintracciabile in una esperienza culturale di tutt’altra matrice. È noto che nella teologia morale, a cavallo fra il XVII e il XVIII secolo un ampio dibattito si sviluppò intorno alle modalità sulle quali il soggetto, in caso di dubbio circa la liceità di un atto, poteva fondare una scelta comunque giustificabile. Eccettuato il c.d. tuziorismo (92), secondo cui andava comunque privilegiata l’opzione più sicura, in quanto riconducibile ad una norma, e il c.d. lassismo (93), per il quale doveva comunque essere privilegiata la soluzione suggerita dalla coscienza, quand’anche in contrasto con la legge morale, le altre tre dottrine (probabilismo, equiprobabilismo e probabiliorismo) (94), che si contesero il campo, affrontarono la questione sostanzialmente partendo da una valutazione per così dire ‘‘quantitativa’’. Muovendo dall’assioma ‘‘lex dubia non obligat’’ (95), le tre dottrine, alle quali si è da ultimo fatto riferimento, ammettono la liceità della scelta a favore di una condotta contraria alla legge, quando il dubbio in cui versa il soggetto sia corroborato dall’opinione di uno o più teologi. (91) Non può sfuggire che di fronte alla incapacità statuale di trasmettere in modo corretto il precetto, la pretesa che il cittadino sacrifichi comunque il proprio interesse si inquadra in una visione ideologica che privilegia la volontà statuale: cfr. PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 132; H.W. SCHÜNEMANN, Verbotsirrtum, cit., 739. (92) Se ne considera iniziatore nella prima metà del ’600 J. Sinnich e diviene l’asse portante del pensiero giansenista: in caso di dubbio, anche di fronte ad un’opinione ‘‘molto probabile’’, il tuziorismo raccomanda di seguire quella — eventualmente meno plausibile — prevista o confortata dalla legge. (93) Ne furono iniziatori, agli inizi del XVII secolo, i gesuiti Escobar y Mendoza, Bauny e Filiucci. Criticato da Pascal nelle Lettere provinciali e condannato dal Sant’Uffizio, il lassismo riconosceva il primato della scelta di coscienza, eventualmente in contrasto con la legge morale, indipendentemente dal conforto che tale scelta potesse trovare nelle opinioni di teologi. (94) Il probabilismo, di cui si considera iniziatore il domenicano Medina, ammette che, in caso di dubbio, il soggetto possa discostarsi dalla legge per seguire una scelta probabile, in quanto tale scelta sia sostenuta dall’opinione di almeno un teologo. L’equiprobabilismo fissa un ulteriore limite, ritenendo lecito lo scostamento dalla legge morale soltanto nel caso che la diversa scelta sia egualmente probabile (o quasi egualmente probabile) a quella della legge morale: per il gesuita Rassler, che ne fu il principale esponente, occorreva cioè che l’opinione fosse sostenuta da un consistente numero di teologi, in modo da farla appunto apparire equivalente a quella prescritta dalla legge morale. Con il probabiliorismo, sostenuto dai domenicani Concina e Patuzzi, si assiste nel XVIII secolo alla formulazione di un sistema morale più rigoroso. Riprendendo direttamente l’impostazione di S. Tommaso d’Aquino, per il probabiliorismo la trasgressione alla legge morale è ammissibile solo quando, per raggiungere uno scopo meritevole, l’opinione diversa dalla legge morale si presenta come molto più probabile, sostenuta quindi dall’opinione prevalente dei teologi. (95) S. ALFONSO MARIA DE’ LIGUORI, Istruzione e pratica, 1762, che contribuì grandemente alla diffusione del probabilismo e dell’equiprobabilismo.


— 256 — Se si aggiornano i termini (le diverse opinioni dei teologi non sono forse l’antecedente storico delle differenti interpretazioni proposte dalla giurisprudenza?), non è difficile avvedersi che la questione del ‘‘dubbio’’ in ordine alla liceità dell’azione, e in particolare del dubbio sul precetto, ha storia e soluzioni antiche, non dissimili, pur nella profonda diversità degli ambiti di riferimento culturali. Al dubbio inevitabile sul precetto, che può permanere dopo il compimento di una pur diligente ricerca dell’‘‘esatto’’ significato, sembra conseguire piuttosto il venir meno della rimproverabilità che non il puro e semplice obbligo di astensione (o di agire) (96): ‘‘l’esclusione della colpevolezza dovrebbe conseguire in via generale all’inevitabilità del dubbio, senza distinzioni di sorta’’ (97). 5.1.1. Sul piano squisitamente normativo, la categoria dell’errore d’interpretazione trova una compiuta disciplina negli artt. 5, 47 comma 3 e 59 comma 2 c.p. (98): ma tali disposizioni nulla dicono in ordine alla fattispecie regolata. Sicché tocca all’interprete fissare i limiti della presente categoria concettuale, che da un lato si distingue dall’ignoranza pura e semplice del precetto, e che, in qualche misura, deve pur essere tenuta separata dallo stato di dubbio, nel quale può versare l’agente. Ai fini modesti di questo lavoro, può essere sufficiente una prima sostanziale approssimazione, che vede nell’ignoranza uno stato nel quale manca del tutto la rappresentazione che ad un determinato contesto, nel quale si inserisce l’agire del soggetto, sia applicabile un norma sanzionata penalmente. In altre parole, l’ignoranza sembra attagliarsi a quelle situazioni nelle quali il deficit informativo è tanto grande da non far neppur lontanamente immaginare l’esistenza di un precetto o di un divieto, ai quali deve essere conformata la condotta dell’agente. In termini logici, può dirsi che l’ignoranza corrisponde al grado zero di conoscenza (esatta) della norma e del suo ambito applicativo. L’errore interpretativo presuppone invece, almeno nel momento iniziale, la rappresentazione (in forma quantomeno problematica) (99) dell’esistenza e l’applicabilità al caso di una disposizione sanzionata penalmente (100). A cagione della difficoltà di cogliere l’esatto significato e l’esatta portata del dato normativo, l’agente conclude (erroneamente) per l’i(96) In questo senso per tutti PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 132. (97) Così PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 132. (98) Sul tema cfr. per tutti FLORA, voce Errore, cit., 255; GROSSO, voce Errore, cit., 1; PULITANÒ, L’errore, cit. (99) In questo senso, cfr. HORN, Verbotsirrtum, cit., 69; PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 144; ROXIN, ‘‘Schuld’’, cit., 188. (100) Soltanto a partire da una situazione di incertezza è infatti congetturabile un errore di interpretazione: esso infatti presuppone che il soggetto si sia rappresentata, seppur in


— 257 — nesistenza del precetto, o per la sua inapplicabilità al caso, con la conseguenza che non ritiene di dover conformare la propria condotta a quella regola che, invece, se correttamente interpretata, sarebbe stata giudicata cogente nel contesto. Da questo punto di vista, poco importa sapere se all’erronea conclusione abbia contribuito il parere di un consulente privato, ovvero l’affidamento derivante dal silenzio della pubblica amministrazione, ovvero l’esplicita rassicurazione della stessa, ovvero, infine, il contrasto giurisprudenziale, all’interno del quale si sia preferita la tesi favorevole alla liceità della condotta, tesi poi giudicata inesatta o non applicabile al caso. Mette piuttosto conto di sottolineare che l’errore d’interpretazione, pur prendendo le mosse dalla non chiarezza del dato normativo, produce un effetto non dissimile da quello dell’ignoranza vera e propria: sebbene non a cagione di un deficit informativo assoluto, può ugualmente dirsi che anche l’errore determina un grado di conoscenza (esatta) della norma e del suo ambito applicativo corrispondente a zero, posto che, al pari di colui che versa in stato d’ignoranza, anche chi si trova in stato d’errore ritiene di non dover adeguare la propria condotta ad una determinata regola sanzionata penalmente (101). Conclusione questa che giustifica ampiamente l’equiparazione sul piano della disciplina fra errore ed ignoranza (102). Se si risolve in questi termini e, soprattutto, su questo piano il problema, si rischia però di perdere di vista l’aspetto caratterizzante della condizione di colui che versa in stato di errore: e precisamente la circostanza che la genesi dell’errore consiste in uno stato di dubbio, determinato in genere dalla non chiarezza del dato normativo, e che si risolve in un’errata interpretazione del dato normativo stesso. E se è vero che il soggetto, che è giunto ad una errata conclusione circa l’applicabilità della norma sanzionata penalmente, per ciò solo ha superato l’iniziale stato di dubbio, non è meno vero che l’originaria incertezza implica comunque (magari con un grado di probabilità infimo) che il soggetto non possa escludere la correttezza della contraria interpretazione (quella da lui scartata e che, invece, è quella ‘‘esatta’’ e che comporta l’assoggettabilità a sanzione penale della condotta realizzata). 5.1.2. La delicatezza del problema impone un dettaglio analitico ulteriore in ordine ad alcuni punti specifici: modo impreciso, l’eventualità che la situazione sia regolata da una norma. Cfr. gli autori citati alle note 63 e 64. (101) Per la equiparazione del trattamento di colui che versa in stato di errore con quello di chi ignora l’esistenza del precetto, nozione ormai pacificamente accolta, cfr. per tutti ROMANO, Commentario, cit., 89. (102) V. per tutti PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 122.


— 258 — a) In primo luogo, che cosa debba intendersi con la locuzione ‘difetto di chiarezza del testo normativo’ (ovvero la sua reciproca ‘oscurità della legge’, stando alla formula linguistica ricorrentemente adoperata anche dalla Corte costituzionale nella sentenza 364/88). b) In secondo luogo, quale sia il parametro di riferimento per decidere dell’esattezza di una determinata interpretazione della legge. c) In terzo luogo, infine, quale sia il limite al quale debba essere spinto l’accertamento sull’interpretazione della norma: in altri termini quando si possa dire soddisfatto l’obbligo di esatta informazione, tenendo presente che il venir meno dello stato di dubbio (e quindi, in questo caso, della colpevolezza) dipende proprio dal raggiungimento di questa soglia di doverosa diligenza. a) Quanto alla questione indicata sub a) pare del tutto convincente l’osservazione di chi ha sostenuto che, a stretto rigore, non può mai parlarsi di ‘‘oscurità assoluta’’ del dato normativo, come elemento valevole ad integrare un caso di inevitabilità dell’errore scusante (103). In siffatta ipotesi prima di ogni altro rilievo viene infatti in considerazione il difetto di tassitività della fattispecie, con la conseguenza che la norma o le norme, che danno luogo a questo incolmabile vuoto sul piano della tipicità e della determinatezza, sono per tale ragione costituzionalmente viziate. La plausibilità dell’argomento sul piano generale non sembra essere seriamente discutibile, sol che si consideri che l’assoluta indecidibilità del significato di una norma (o — come è più facilmente ipotizzabile — di più disposizioni fra loro collegate) implica necessariamente l’impossibilità di definire in termini precisi e determinati l’ambito di applicabilità della regola sanzionata penalmente, situazione del tutto incompatibile con il rispetto del principio di tassatività e di determinatezza (104). Non meno esatta la notazione critica secondo cui il riferimento all’assoluta oscurità del dato normativo potrebbe portare ad un ben singolare (e discutibile) aggiustamento prasseologico (105): di fronte ad una disposizione o ad una serie di disposizioni dal significato inafferrabile, e dunque carenti sul piano della tassatività, il giudice potrebbe preferire una soluzione di ‘comodo’, strettamente connessa al caso particolare (assoluzione per difetto di colpevolezza, essendo ampiamente scusabile un errore interpretativo su un dato normativo di tal fatta), piuttosto che denunciare (103) V. per tutti FALZEA, Il principio, cit., 3; FLORA, La difficile penetrazione, cit., 339; PULITANÒ, Una sentenza, cit., 723; STORTONI, L’introduzione, cit., 1318. (104) Con particolare efficacia prefigura questo pericolo STORTONI, L’introduzione, cit., 1324. (105) In questo senso cfr. per tutti STORTONI, L’introduzione, cit., 1313: in sostanza il giudice, piuttosto che denunciare l’eventuale vizio di legittimità costituzionale della norma in punto di tassatività e determinatezza, potrebbe preferire una soluzione meno traumatica sul piano dell’ordinamento, ritenendo ‘‘nel caso’’ inevitabile l’errore sul precetto.


— 259 — l’illegittimità costituzionale delle norme allo scopo di eliminare dal sistema disposizioni che violano il principio di determinatezza (106). Se in termini astratti il problema ha una soluzione esatta ed obbligata, il nitore della questione sfuma quando si debba più da vicino considerare il valore semantico da attribuire alla locuzione ‘oscurità assoluta della legge’, posto che si è di fronte ad un giudizio di valore espresso in relazione ad una formula linguistica (quale è, prima di ogni altra qualificazione, una norma giuridica). Affermare che una o più proposizioni sono affette da un radicale deficit di chiarezza, significa dire che è impossibile attribuire a quelle proposizioni un significato qualunque (o, comunque, compatibile con l’universo di discorso di cui le stesse fanno parte). Sicché, ad essere precisi, in siffatta ipotesi non sarebbe neppure corretto parlare di errore interpretativo, dal momento che nessuna interpretazione è possibile, con la conseguenza che la norma (comunque letta) non può fornire all’agente alcuna indicazione alla quale conformare la condotta (107). Sebbene il legislatore nazionale abbia ripetutamente fornito esempi di pessima redazione di norme, ben difficilmente si è dato il caso di norme (o di contesti di norme) assolutamente oscuri, privi cioè di un significato qualunque, o dotate di un significato radicalmente incompatibile con il contesto (108). Più semplicemente, e più frequentemente, si riscontrano situazioni nelle quali la formulazione tecnica gravemente imprecisa, lacunosa o contraddittoria, apre all’interprete differenti (e fra loro talvolta incompatibili) soluzioni ermeneutiche. A ben vedere questo sembra essere il caso paradigmatico sul quale si interroga la Corte costituzionale (109), e a situazioni simili si riferisce la (106) In questo senso cfr. ancora STORTONI, L’introduzione, cit., 1326. (107) Cfr. ancora STORTONI, L’introduzione, cit., 1324: secondo l’A. alcuni dei criteri indicati dalla sentenza costituzionale 364/88 per individuare la inevitabilità dell’errore (‘‘impossibilità di conoscenza della legge penale da parte di ogni consociato’’ determinata da ‘‘(oggettiva) mancanza di riconoscibilità della disposizione normativa (ad es. assoluta oscurità del testo legislativo oppure gravemente caotico (...) atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari’’, ovvero ‘‘oggettivamente imprevedibile (...) illiceità del fatto’’) corrispondono a situazioni nelle quali ‘‘si è in presenza di un vizio di tassatività della norma e/o di carenza totale di un suo ancoramento alla tutela di un bene costituzionalmente rilevante, posto che a questa fenomenologia non possono non ascriversi rispettivamente le ipotesi di totale e oggettiva inconoscibilità del contenuto della norma e di (totale e oggettiva anch’essa) imprevedibilità dell’illiceità del fatto’’ (STORTONI, L’introduzione, cit., 1324-1325). (108) Ne segnala un esempio STORTONI, L’introduzione, cit., 1320 nota 31, riferendosi all’art. 1 comma 6, d.l. n. 429/82 in materia di reati tributari. A situazioni normative diverse, nelle quali compaiono proposizioni di carattere ideologico-programmatico, più che precettive, ovvero a disposizioni che rinviano piuttosto a tipologie d’autore invece che a comportamenti obiettivamente apprezzabili, fa ulteriore rinvio l’A. (op. loc. cit., note 29 e 30). (109) Si fa riferimento alle indicazioni contenute nel § 27 della sentenza Corte costituzionale n. 364/88.


— 260 — giurisprudenza, quando è stata chiamata a decidere dell’applicabilità del riformato art. 5 c.p. nelle ipotesi in cui era stata dedotta la oscurità della legge (110). Dunque non un’assoluta incomprensibilità della disposizione: piuttosto, il valore incerto del riferimento semantico, il contenuto ambiguo e polisenso, suscettibile di variare in dipendenza del modo interpretativo accolto, la coerenza soltanto parziale con altri dati normativi, emergono e spiccano come elementi significativi e caratterizzanti. Per comodità dialettica potremmo definire una situazione siffatta come ‘oscurità relativa’ del dato normativo, avvertendo che la definizione proposta non implica affatto che una norma affetta da tale vizio sia costituzionalmente legittima al cospetto del principio di tassatività e determinatezza. Ché, anzi, la circostanza che la disposizione si presti a differenti letture, tutte ragionevolmente plausibili, dimostra che la disposizione stessa non è in grado di assolvere al suo compito primario, che consiste appunto nell’indicare in maniera precisa e determinata i confini dell’illecito penale. All’interno delle ipotesi convenzionalmente identificabili come di ‘oscurità relativa’ è possibile riconoscere un tratto unificante rappresentato propriamente dalla pluralità delle interpretazioni possibili (111). Perché possa parlarsi di una situazione rilevante sul piano ermeneutico oc(110) Vale considerare in questo senso che ben 26 pronunzie (22 di Cassazione e 4 di merito) si occupano specificamente dell’obbligo di informarsi esattamente, muovendo dal presupposto che il dato normativo è bensì non chiaro, senza che se ne possa però affermare l’assoluta incomprensibilità: v. Cass., Sez. I, 5 settembre 1995, Nitti, rv. 202541; Cass., Sez. III, 24 aprile 1995, Parussolo; Cass., Sez. un., 10 giugno 1994, Calzetta, cit.; Cass., Sez. I, 25 maggio 1994, Bartolini, rv. 198320; Cass., Sez. III, 18 novembre 1993, Baldassarri, rv. 196483; Cass., Sez. II, 22 ottobre 1993, Lunardi, rv. 197027; Cass., Sez. III, 18 giugno 1993, Santarelli, rv. 195200 (che fra l’altro nega alle notizie giornalistiche la natura di fonte d’informazione rilevante); Cass., Sez. III, 3 giugno 1993, Cardia, rv. 195149; Cass., Sez. IV, 12 marzo 1993, Sicurella, in Giur. it., 1994, II, 753; Cass., Sez. I, 17 giugno 1992, Toia, in Riv. pen., 1993, 583, con nota di ALIBRANDI; Cass., Sez. III, 18 gennaio 1991, Sina, in Comm. trib. centr., 1991, II, 1744; Cass., Sez. III, 21 dicembre 1990, Checchi, rv. 186394; Cass., Sez. III, 28 ottobre 1991, Lisci, rv. 188694; Cass., Sez. III, 24 ottobre 1990, Mora, rv. 185847; Cass., Sez. VI, 25 novembre 1989, Mambelli, rv. 183816; Cass. 16 ottobre 1989, Spiga, in Riv. pen., 1990, 633; Cass., Sez. V, 28 giugno 1989, Bertelli, rv. 182254; Cass., Sez. I, 30 maggio 1989, Calamai, rv. 183438; Cass., Sez. IV, 24 gennaio 1989, Giacomozzi, rv. 180943; Cass., 4 ottobre 1988, Arisi, in Comm. trib. centr., 1989, II, 529; Cass. 2 maggio 1988, Rurali, in Riv. pen., 1989, 413; Cass. 29 marzo 1988, Quintano, in Giust. pen., 1989, II, 449; Pret. Roma 13 gennaio 1994, Occhiena, in Critica diritto, 1994, 3, 58, con nota di BRACAGLIA MORANTE; Pret. Frosinone, Sez. distaccata di Anagni, 15 luglio 1993, in Cass. pen., 1994, 1097; Pret. Belluno 17 giugno 1992, Da Roit, in Riv. giur. edilizia, 1992, I, 1030; Pret. Reggio Emilia 15 maggio 1992, Leuratti, in Giur. merito, 1992, 1314, con nota di BUTTI. (111) È evidente che sul piano astratto è sempre possibile immaginare un’alternativa sul piano dell’interpretazione di un qualunque enunciato: rispetto alla presente questione verrà in considerazione soltanto quella duplicità (o molteplicità) di interpretazioni, ciascuna delle quali sia comunque plausibile: un dato di riscontro in tal senso è oggettivamente indivi-


— 261 — corre ancora che ciascuna delle differenti interpretazioni sia dotata di una sua intrinseca plausibilità e ragionevolezza. Se così non fosse, si dovrebbe giocoforza riconoscere che, mentre una delle interpretazioni è ‘‘esatta’’, l’altra — quella intrinsecamente non plausibile — è frutto di un grossolano ed evidente errore interpretativo. A ben vedere il punto saliente della questione consiste propriamente in ciò: nella necessità di distinguere tre ipotesi, derivanti dal diverso grado di intrinseca ‘oscurità del dato normativo’, che ne è comunque il comune fattore. In questo senso è così configurabile un primo caso (I) nel quale le plurime interpretazioni sono fra loro equivalenti, cioè egualmente plausibili (a questa ipotesi accede ovviamente il più alto grado di oscurità relativa). Nel secondo caso (II) si prospettano bensì differenti interpretazioni, ma soltanto una di esse appare plausibile e corretta, sebbene l’altra o le altre non siano manifestamente inaccettabili (si può quindi ritenere che ciò derivi da un grado di oscurità del dato normativo per così dire intermedio). Da ultimo è possibile identificare ancora una situazione (III) nella quale l’interpretazione diversa da quella corretta è frutto di un evidente abbaglio (e a questo caso fa da contrappunto un grado minimo di oscurità della legge). Alle tre diverse ipotesi qui considerate paiono corrispondere differenti conseguenze. Nel primo caso (I) a subire una lesione sembra essere il principio di tassatività e di determinatezza: se infatti di fronte ad una medesima disposizione (o a più disposizioni fra loro collegate) sono concepibili differenti interpretazioni, fra loro incompatibili e tuttavia intrinsecamente plausibili, è evidente che il dato normativo non è in grado di assolvere correttamente ad una funzione primaria, quella di indicare in modo determinato e preciso il confine del lecito, disegnando in modo inequivoco il proprio ambito applicativo. Ne segue che in tal caso, prima ancora che parlarsi di un errore inevitabile ex art. 5 c.p., viene in gioco il vizio di legittimità costituzionale della norma o delle norme che danno luogo alle plurime interpretazioni. Per certo nel soggetto che pone in essere la condotta (penalmente illecita secondo una certa interpretazione, penalmente lecita secondo un’altra, egualmente plausibile) fa difetto la colpevolezza (essendo ampiamente scusabile l’errore in presenza di tesi equivalenti), ma questo accertamento duabile nella circostanza che tale pluralità di letture del dato normativo trovi riscontro in diversi responsi giurisprudenziali. Cfr. in questo senso ROMANO, Commentario, cit., 103.


— 262 — deve essere preceduto dalla denunzia della illegittimità costituzionale della norma. Vale però la pena di notare come in siffatto caso l’agente si determina a realizzare la condotta (ritenuta lecita) pur in presenza di un’altra interpretazione (anch’essa accettabile e da lui conosciuta o comunque conoscibile), secondo la quale quella stessa condotta sarebbe vietata sotto la comminatoria penale. Per quanto soggettivamente convinto della correttezza del proprio agire, il soggetto si è mosso da uno stato d’incertezza, che ha bensì superato, senza che sia però possibile escludere il persistere di un dubbio sulla liceità penale della condotta posta in essere (112). Tuttavia nessuno nega che in siffatta ipotesi — indipendentemente dalla prevalente illegittimità costituzionale della norma per difetto di determinatezza — manchi l’elemento costitutivo della colpevolezza (113): e ciò perché il dubbio sulla liceità rimane confinato in termini assolutamente marginali, fronteggiato, e in qualche misura sostanzialmente vinto, dalla presenza dell’altra interpretazione (altrettanto plausibile), alla quale l’agente si è adeguato. Poiché è dall’oscurità (relativa) del dato normativo che in ultima analisi deriva la pluralità delle interpretazioni (114), e poiché all’agente non è rimproverabile neppure una minimale trascuratezza rispetto al generalissimo obbligo di informarsi esattamente prima di agire (egli infatti conforma la propria condotta ad una interpretazione plausibile) (115), appare allora del tutto coerente ricondurre il caso ad una situazione di errore non evitabile, che esclude la colpevolezza. Nella seconda (II) fra le ipotesi rammentate, l’interpretazione errata alla quale si adegua l’agente, pur non essendo plausibile come quella che si assume ‘‘esatta’’, non è ictu oculi infondata e inammissibile. Il grado di oscurità del dato normativo non è quindi tale da implicare un vizio di legittimità costituzionale, in quanto può dirsi rispettato il principio di determinatezza e tassatività, tanto che si è in presenza di un’univoca interpretazione plausibile convenzionalmente accettata come ‘‘esatta’’. Secondo la schematizzazione proposta, in questa ipotesi il soggetto versa in errore, derivante in ultima analisi dalla non piena chiarezza della legge: per decidere se lo stato di errore sia inevitabile e come tale idoneo ad escludere la colpevolezza verranno in considerazione criteri di valutazione sostanzial(112) Depone chiaramente in questo senso la pronuncia dei giudici costituzionali (cfr. § 27 sentenza). In questo senso v. per tutti GUARDATA, L’ignoranza, cit., 1154-1155; PULITANÒ, in Commentario breve, loc. cit. (113) Cfr. per tutti PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 132; ROMANO, Commentario, cit., 99. (114) Sul punto, anche per una distinzione fra situazione di vera e propria oscurità oggettiva del dato normativo e caos interpretativo, cfr. ROMANO, Commentario, cit., 99-100. V. altresì PULITANÒ, Una sentenza, cit., 686. (115) Cfr. ROXIN, Strafrecht, cit., 605.


— 263 — mente modellati su quelli che ricorrono per l’accertamento della colpa (116), come meglio si cercherà di mostrare in seguito. Quanto ora interessa è piuttosto il rilievo che anche in questa ipotesi — come e più che nella precedente — l’iniziale stato di dubbio trascorre in uno stato di errore, poiché il soggetto ha superato l’originaria incertezza scegliendo una determinata soluzione (in ipotesi quella ‘‘non esatta’’): con la conseguenza che neppure in tal caso può escludersi il permanere di un pur marginale dubbio sulla liceità della condotta posta in essere. Ma non si può negare che, qualora l’errore interpretativo sia inevitabile, la colpevolezza dovrà essere esclusa, poiché allo stato di incertezza si è sostituita una (pur inesatta) convinzione della liceità della condotta. Il residuale margine di dubbio, di cui non è possibile escludere la sussistenza, non appare tale da modificare la conclusione. Se così non fosse, a far ritenere integrato il requisito della colpevolezza, basterebbe la più congetturale prospettazione della illiceità penale della condotta (117). Con due ulteriori conseguenze: che da un lato la portata del restaurato principio di personalità della responsabilità penale finirebbe con l’essere svuotato dall’interno, posto che sul piano astratto è pressoché impossibile escludere che nel soggetto in stato di errore non permanga comunque una pur marginale perplessità sulla liceità della condotta (sulla quale si è interrogato, giungendo poi ad accogliere l’interpretazione errata). Dall’altro, che per questa strada si finirebbe con l’aprire le porte ad un apprezzamento della colpevolezza in chiave eminentemente psicologica, posto che si tratterebbe di valutare ogni volta in chiave introspettiva il soggettivo stato di ‘‘certezza o di incertezza’’ dell’agente rispetto alla liceità/illiceità della condotta (118). Come si è anticipato, la differenza (di natura quantitativa e non qualitativa) fra lo stato di dubbio e quello di errore — soprattutto in questa particolare ipotesi — presenta confini labili e malcerti. Tuttavia sembra almeno orientativamente possibile stabilire un criterio di valutazione per (116) Al modello dell’homo eiusdem professionis ac condicionis, e cioè ai criteri propri della imputazione colposa, sembra richiamarsi la dottrina maggioritaria: cfr. MANTOVANI, Ignorantia legis, cit., 378; PALAZZO, Ignorantia, cit., 947; ROMANO, Commentario, cit., 102. (117) Secondo uno schema che presenta rilevanti analogie con quello concernente l’accertamento della esatta interpretazione della legge penale, sembra sempre possibile configurare l’eventuale rilevanza penale della condotta, magari collegandola alla più rigoristica e meno plausibile lettura di una norma incriminatrice. (118) Sul punto si consideri l’osservazione secondo cui ‘‘nel caso di dubbio inevitabile non è possibile pretendere che il soggetto anteponga sempre e incondizionatamente ai propri certi ed attuali interessi quelli che l’ordinamento non ha potuto comunicare con certezza al soggetto. Siffatta soluzione sarebbe espressione di un atteggiamento in qualche modo prevaricatore, di una sorta di privilegio incondizionato a favore della volontà statale’’ PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 132. In questo stesso senso, SCHÜNEMANN, Verbotsirrtum, cit., 681.


— 264 — distinguere le situazioni nelle quali è legittimo parlare di stato di errore e non più di dubbio. A tale conclusione si potrà pervenire tutte le volte nelle quali l’errata interpretazione trovi riscontro in precedenti dottrinari e/o giurisprudenziali dotati di un ragionevole grado di plausibilità (119), ovvero in prese di posizione della pubblica amministrazione almeno formalmente corrette e sostanzialmente anch’esse ragionevolmente plausibili (120). Come è facile notare, si tratta delle principali condizioni assunte per valutare della inevitabilità dell’errore (121): d’altro canto queste stesse condizioni, avendo per così dire una valenza oggettiva, consentono di affermare che all’iniziale stato d’incertezza si è sostituita una (pur errata) convinzione circa la liceità della condotta, proprio perché tale convinzione viene a trovar fondamento su riconoscibili ed oggettivi elementi esterni (122). È appena il caso di notare che l’esistenza di una pluralità di interpretazioni (soprattutto nell’ipotesi in cui si tratti di orientamenti contrastanti della giurisprudenza) è indice particolarmente significativo di un dettato normativo tutt’altro che chiaro, e quindi di una situazione che circolarmente riporta a quell’oscurità della legge alla quale la Corte costituzionale riconduce una delle cause paradigmatiche di errore esimente. Viene infine in considerazione l’ultima delle ipotesi (III) più sopra menzionate, che contempla il caso nel quale l’errore dipenda da un grossolano abbaglio interpretativo in ordine al significato e alla portata della norma penale. Alla luce di quanto si è fin qui detto, questa situazione può essere denotata come quella nella quale l’(errata) interpretazione del dato normativo non trova alcun riscontro in precedenti dotati di un ragionevole grado di plausibilità (si pensi, per esemplificare, ad un precedente rappresentato da una remota pronunzia di una magistratura di merito, contraddetta da molteplici decisioni della Corte di Cassazione). In simili casi non v’è spa(119) Mette conto di segnalare che nel giudizio di plausibilità finiscono necessariamente con l’avere maggior rilievo dati estrinseci e in qualche misura formali (ad es. il numero dei precedenti a favore dell’una o dell’altra tesi; l’esistenza di responsi di giudici di livello superiore): pur essendo ragionevole tenere in considerazione anche elementi di merito (legati per così dire alla intrinseca coerenza logica e sistematica delle varie interpretazioni in conflitto), è giocoforza ammettere che sia preferibile attenersi (almeno di regola) a tali elementi formali ed oggettivamente riscontrabili quando si tratta di operare sul piano della valutazione che ne può trarre il soggetto (e sulla quale il giudice è chiamato a misurare il superamento del dubbio e l’evitabilità dell’errore). (120) Evidente che una serie di motivate prese di posizione della pubblica amministrazione competente è destinata a svolgere un significativo ruolo nella economia della valutazione che il soggetto doverosamente diligente compie. (121) Per una sintesi di tale criteriologia, v. per tutti ROMANO, Commentario, cit., 98. In particolare per la valutazione dei responsi giurisprudenziali eventualmente contrastanti v. PULITANÒ, Commentario breve, loc. cit.; ROXIN, Strafrecht, cit., 605. (122) V. per tutti PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 132.


— 265 — zio per ammettere che l’iniziale stato di dubbio sia scomparso per lasciar posto ad una convinzione (seppur sbagliata) circa la liceità della condotta: depone in tal senso il rilievo che all’infondatezza della interpretazione seguita dall’agente fa da contrappunto una diversamente motivata e riconoscibile interpretazione corretta. Anche in questa ipotesi val forse la pena di notare che le stesse ragioni, per le quali si dovrebbe ritenere non superato lo stato d’incertezza, nel contempo fondano un giudizio di inescusabilità dell’errore. Eccettuato il caso di un deficit culturale specifico dell’agente (secondo una casistica che si vedrà in seguito), quand’anche l’agente non si fosse neppur prospettato l’eventuale illiceità penale della condotta posta in essere, la grossolanità dell’errore implicherebbe la non scusabilità dello stesso, tanto più che l’assenza di un serio contrasto interpretativo vale come segno evidente della sufficiente chiarezza del dato normativo (123). Vale la pena di notare come proprio in questo caso prenda piena consistenza l’obbligo di informarsi esattamente prima di agire. A questo estremo dell’esattezza si è già fatto riferimento, ed esso sembra essere completamento, o forse specificazione, dell’obbligo di informarsi prima di agire, che in sintesi designa il fondamento ultimo della colpevolezza, almeno secondo la versione normativa proposta dalla Schuldtheorie, per la quale viene in gioco anche la semplice conoscibilità della norma contenente il precetto sanzionato penalmente. A ben vedere, infatti, che una semplice informazione sull’esistenza, sul significato e sulla portata del divieto sia sufficiente a soddisfare l’obbligo generalissimo alla base del giudizio normativo di colpevolezza, sembra a dir poco riduttivo. Se così fosse, basterebbe una qualunque superficiale e improvvisata ricerca, un qualsiasi parere di un più o meno qualificato (e/o compiacente) consulente ad escludere la violazione del dovere che grava su ogni consociato e in forza del quale la stessa Corte costituzionale riconosce la sussistenza della colpevolezza di fronte alla mera conoscibilità della legge penale (124). Non è dunque sufficiente informarsi, ma occorre informarsi esattamente, nel senso che il giudizio normativo sulla sussistenza della colpevolezza dovrà arricchirsi anche di questo estremo: se cioè il dato normativo era conoscibile in modo esatto, quanto a significato e portata applicativa, ovvero se, per la sua oscurità relativa, esso poteva dar luogo ad un errore interpretativo scusabile. (123) Nel caso verrebbe a mancare il presupposto stesso della scusabilità dell’errore: ciò non toglie che ove il dubbio si mantenesse invincibile, potrebbero ugualmente trovare ingresso le problematiche considerazioni di PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 132. (124) Sul punto STORTONI, L’introduzione, cit., 1339.


— 266 — b) Quanto alla questione indicata sub b) (identificazione dei criteri di riferimento per decidere quale fra molteplici interpretazioni sia quella esatta — e dunque idonea a fungere da metro di paragone per valutare la plausibilità delle altre), valgono molte delle considerazioni viste sub a). Conviene tuttavia premettere che, ai fini del presente lavoro, l’ambito nel quale ci si muove è meramente convenzionale, poiché rileva non tanto l’interpretazione in sé esatta (posto che una simile definizione abbia una ragion d’essere in termini assoluti), quanto piuttosto l’interpretazione della norma che in quel dato momento può essere definita come quella maggiormente accreditata, perché corroborata dal più ampio e convincente conforto di opinioni dottrinarie e giurisprudenziali. Sul punto vale la pena di notare che non è infrequente il caso di un netto contrasto fra l’orientamento preponderante in giurisprudenza e quello prevalente in dottrina: indipendentemente dalla valutazione che in termini ‘‘assoluti’’ potrebbe essere fornita in ordine alla correttezza dell’una o dell’altra interpretazione, non può sfuggire che un atteggiamento prudente implicherebbe la scelta di uniformarsi all’interpretazione giurisprudenziale, essendo la magistratura l’organo istituzionalmente competente ad applicare la legge penale (125). Il che però non esclude che una diversa opzione, soprattutto se in concomitanza con l’esistenza di voci giurisprudenziali dissonanti, possa essere ugualmente giudicata rilevante ai fini della sussistenza di un errore interpretativo scusante. Fissato in tal modo il criterio di riferimento per l’individuazione dell’interpretazione convenzionalmente esatta (o, forse più correttamente, dell’interpretazione allo stato preferibile), è giocoforza riconoscere che ad essa l’agente modello dovrebbe uniformarsi tutte le volte nelle quali versi in una situazione di incertezza in ordine al significato e all’ambito di applicabilità della norma. Sicché lo scostamento da tale interpretazione designa — come s’è detto — il grado di errore, e nel contempo consente di valutarne la scusabilità, che è funzione diretta della maggiore o minore plausibilità della diversa (e in tesi errata) interpretazione scelta. Per certo l’apprezzamento della maggiore o minore plausibilità dell’interpretazione di una norma giuridica non si presta ad essere facilmente ridotto entro schemi rigorosi: in tal senso qualche elemento può tuttavia essere rintracciato. Così, potrebbe valere come sicuro punto di partenza, in siffatta valutazione, la circostanza che l’interpretazione errata (e seguita dall’agente) trovi riscontro in qualche precedente giurisprudenziale non eccessivamente remoto, ovvero in una consistente serie di opinioni dottrinarie (soprattutto se si tratta dell’applicazione di leggi di conio recente, prive quindi di una retrostante consolidata elaborazione giurisprudenziale). (125)

In questo senso ROXIN, Strafrecht, cit., 605.


— 267 — Ancora potrebbe valere il rilievo che l’interpretazione errata sia in qualche modo corroborata da prassi applicative della pubblica amministrazione che ad essa, anche implicitamente, si richiamino. c) Profili di ancor maggiore delicatezza presenta poi la determinazione del momento nel quale può arrestarsi l’indagine sulla interpretazione della norma, in modo che possa dirsi integrata la doverosa diligenza e soddisfatto quindi l’onere di informarsi in modo esatto prima di agire (126). In principio sta la necessità di fissare un limite alla diligenza doverosa che non corrisponda e si appiattisca nell’effettuare ‘‘qualsiasi utile accertamento’’ per l’individuazione della interpretazione corretta (127): se così fosse, essendo sempre possibile ipotizzare, almeno in linea astratta, una ricerca e un approfondimento informativo ulteriori, fino al raggiungimento della comprensione dell’esatta portata e significato della norma, l’effettiva e concreta portata del principio di colpevolezza ne resterebbe irrimediabilmente compromessa (128). Di fronte all’esigenza di accertare il grado della diligenza richiesta, il riferimento d’obbligo va al parametro dell’homo eiusdem condicionis ac professionis, categoria ormai ben dettagliata nel pensiero penalistico moderno (129). E su questo canone, con la ricchezza delle sue articolazioni, anche la valutazione che ora interessa sembra dover essere modulata: non solo il rispetto della coerenza sistematica, che suggerisce l’impiego di medesimi criteri a fronte di situazioni analoghe (o comunque riportabili ad un medesimo oggetto di valutazione: la generale diligenza, intesa come il comportamento che l’ordinamento si attende dal consociato in una situazione data), ma anche, e forse soprattutto, la natura del criterio in discorso. Sotto questo profilo, il parametro dell’homo eiusdem condicionis ac professionis, pur contenendo elementi di flessibilità (130), rende possibile un giudizio tendenzialmente oggettivo e, nel contempo, consente all’agente di individuare un riferimento tendenzialmente preciso con riguardo al limite da raggiungere per poter considerare legittimamente osservato il dovere di informarsi esattamente prima di agire. Com’è evidente, anche dal punto di vista che qui interessa l’ambito della diligenza richiesta verrà a modificarsi, anche significativamente, in (126)

Cfr. per tutti PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 947; ID., voce Ignoranza, cit.,

141. (127) A questo canone sembra riportarsi l’enunciato della Corte di Cassazione, Sez. un., 10 giugno 1994, cit. (128) Evidenzia questo pericolo PALAZZO, opp. locc. ultt. citt.. (129) Sul punto in generale, v. per tutti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 495; ROMANO, Commentario, cit., 426. (130) In questo senso PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 950.


— 268 — dipendenza — sul piano oggettivo — della situazione concreta e della tipologia della condotta che l’agente si propone di realizzare, nonché — sul piano soggettivo — degli eventuali (e non inescusabili) deficit culturali dell’agente stesso (131). Circoscritto all’interno della categoria dei giudizi normativi, questo aspetto della valutazione, che complessivamente presiede al giudizio sulla sussistenza della colpevolezza, permette di decidere secondo i criteri sostanzialmente unitari dell’‘‘agire diligente’’ se il soggetto, soprattutto quando muove da uno stato di dubbio, abbia compiuto una sufficiente ricerca per accertare quale sia l’interpretazione preferibile (convenzionalmente esatta) del dato normativo, allo scopo di uniformare ad essa la propria condotta. 6. Una speciale considerazione merita un caso particolare di errore/dubbio, il cui oggetto non è tanto la conoscenza/conoscibilità della natura genericamente illecita della condotta e dunque del precetto che la proibisce, quanto piuttosto la natura (civile, amministrativa o penale) della conseguenza sanzionatoria prevista per la violazione (132). Ridotto ai suoi tratti essenziali il problema si pone nei seguenti termini: qualora l’agente ritenga la propria condotta bensì illecita, ma, per errore d’interpretazione, penalmente non rilevante, si deve giudicare ugualmente sussistente la colpevolezza, oppure no, posto che, ovviamente, l’errore interpretativo sia inevitabile? Tanto la sentenza 364/88 della Corte costituzionale, quanto parte (minoritaria) della giurisprudenza (133) e parte della dottrina (134) propendono per la prima tesi, sul rilievo che la consapevolezza di una pur generica illiceità del fatto, indipendentemente dalla natura delle conseguenze sanzionatorie, costituisce in sostanza ragion sufficiente per affermare che l’agente si trova in una condizione di contrarietà alle regole dell’ordinamento. La soluzione non riesce del tutto convincente. Prima di esaminare la questione nel suo aspetto teorico e nei riflessi concreti, conviene chiarire l’effetto pratico dell’accoglimento della diversa tesi, per la quale avrebbe efficacia scusante un errore interpretativo (131) Cfr. ancora PALAZZO, op. loc. ult. cit.; cui adde MANTOVANI, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 379. (132) Cfr. PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 135. (133) V. Cass., Sez. III, 7 maggio 1993, Magnani, cit.; ma contra le sentenze citate a nota 133. (134) V. per tutti RUDOLPHI, Systematischer Kommentar, cit., sub § 17, 94. Riepiloga efficacemente la questione PALAZZO, voce Ignoranza, cit. 133.


— 269 — avente ad oggetto esclusivamente la natura penale della sanzione prevista (135). Ammettendo l’efficacia esimente di un errore inevitabile di tal genere, sarebbe logicamente necessario concludere che il fatto (senz’altro illecito e, per di più, come tale percepito dall’agente) resterebbe del tutto impunito: ed infatti, esclusa la colpevolezza, costitutiva della punibilità in sede penale, il fatto è in tesi non sanzionato sul versante amministrativo (ché, anzi, l’errore consiste proprio in ciò: nell’aver ritenuto punibile su quest’ultimo versante un fatto che lo era invece su quello criminale). Di fronte alla delicatezza della conclusione (136), che finirebbe col creare una zona franca per fatti illeciti consapevolmente commessi, si impone un’attenta analisi e verifica delle ragioni che paiono tuttavia sostenerla. Sta dapprima la considerazione che la colpevolezza deve necessariamente esprimere un rapporto di contrarietà fra l’agente e le regole dell’ordinamento penale, poiché solo in tal modo si giustifica la sua funzione di elemento costitutivo dell’illecito criminale, espressione in particolare del principio di personalità della responsabilità penale. Questa notazione sembra da sola idonea a minare il fondamento delle teoriche che, pur con sostanziose varianti sul tema, richiamano il mero disvalore del fatto come oggetto della consapevolezza: se l’antigiuridicità ha la sua ragion d’essere (e si esaurisce) nella connessione critica fra condotta e regola positiva dell’ordinamento (137), ben ardua appare la collocazione al suo interno di una componente eticizzante e indefinibile. Non v’è dubbio che in qualche misura (con differente grado di collegamento a seconda del reato) tutte le fattispecie incriminatrici rimandano ad un preesistente giudizio di disvalore del fatto: diversamente la norma formale, del tutto privata del suo fondamento sostanziale, si ridurrebbe a mera manifestazione d’imperio dello Stato sul cittadino. Ma questa connotazione della disposizione contenente il precetto non è certo idonea a trasformare l’antigiuridicità in un contenitore dai confini sfuggenti, nel quale sarebbero destinati a rientrare tutti i fatti di cui sia possibile predicare la generica contrarietà ai valori sociali dominanti. (135) In questo senso cfr. PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 135; SCHRÖDER, in StGB. Leipziger Kommentar, cit., sub § 17, 102. Nel senso che la erronea consapevolezza che il fatto integri un illecito amministrativo (e non penale) esclude la colpevolezza, v. in giurisprudenza Cass., Sez. III, 22 marzo 1994, Munari, in Foro it., 1995, II, 498, con nota di VENEZIANI; Cass., Sez. III, 3 dicembre 1993, Davoli, rv. 197587; Pret. Reggio Emilia, Sez. distaccata Montecchio, 4 ottobre 1991, Bondovalli, in Foro it., 1992, II, 57; contra Cass., Sez. III, 7 maggio 1993, Magnani, rv. 194572. (136) Sul punto v. per tutti PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 134. (137) Sull’antigiuridicità, v. per tutti MARINUCCI, voce Antigiuridicità, in Dig. disc. pen., I, 1987, 172.


— 270 — A tacer della pratica inafferrabilità di siffatti concetti di genere (138), la irriducibilità di una simile nozione di antigiuridicità entro termini rigorosi implica qualcosa di più della già esattamente rilevata evidente ‘‘difficoltà di un’applicazione esatta e puntuale di tale nozione da parte del cittadino ai fatti concreti che egli decide di intraprendere’’ (139). Perché qualcosa di più che non la difficoltà? Perché, se si eccettua una serie di reati attenenti alla lesione o alla messa in pericolo di valori di rilevanza storica, valori che, proprio per questa ragione, possono dirsi sostanzialmente ‘‘introiettati’’ dall’individuo (140), ‘‘nell’intricato odierno intreccio di vita sociale ed interventismo statale, non è facile che il cittadino possa valutare se il suo fatto è oppur no tra quelli che determinerà una qualsiasi reazione dello Stato o di un organo ufficiale’’ (141). Di più: non soltanto, rispetto al profilo particolare che ora interessa, si tratta di valutare se possa esservi una valutazione in ordine alla punibilità del fatto, ma se, a venire in gioco, sia la reazione penale propriamente detta, cioè la massima fra le reazioni sanzionatorie previste dall’ordinamento. Il giudizio attributivo di disvalore sociale di un fatto dipende infatti da componenti morali, sociali e politiche, che mal si attagliano ad una visione laica e non confessionale del diritto (142), strettamente connessa al ‘‘prosciugamento dello Zuirderzee’’ (143), che sembra essere il compito principale della dottrina del diritto penale, impegnata a valorizzare piuttosto l’ostilità e l’indifferenza agli imperativi giuridici, che non la mancata interiorizzazione e il conseguente adeguamento ai valori morali dominanti. Se si muovesse da questa ottica, la condotta del clochard, senz’altro comportamento deviante rispetto alla maggior parte dei ‘valori’ sociali comunemente accolti, dovrebbe essere considerata comportamento generi(138) In tal senso cfr. MARINUCCI, Antigiuridicità, cit.; cui adde MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., 278. (139) Così PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 944; in senso analogo v. per tutti, JAKOBS, Strafrecht, cit., 454. (140) Questa sembra essere l’unica possibile accezione nella quale intendere la tradizionale e convenzionalmente comoda locuzione di ‘‘delitti naturali’’, non essendo rintracciabile altro criterio definitorio compatibile con le esigenze e i presupposti di libertà di un moderno diritto penale laico e liberale: in questo senso cfr. per tutti MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., 49. (141) Così PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 944. (142) Sulla secolarizzazione del diritto penale, v. FIANDACA, Laicità del diritto penale e laicità dei beni tutelati, in Studi in memoria di P. Nuvolone, Milano, 1991, I, 167; MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, Napoli, 1992, 215; ROMANO, Secolarizzazione, diritto penale moderno e sistema dei reati, in questa Rivista, 1981, 477; STELLA, Laicità dello stato: fede e diritto penale, 1977, ora in MARINUCCI-DOLCINI, Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, 309. (143) Così Freud sintetizzava il compito culturale della psicoanalisi, volto al disvelamento delle istanze inconscie dell’es, per ricondurle sotto il controllo dell’io razionale.


— 271 — camente antigiuridico, piuttosto che supremo atto di libertà individuale. La condivisione di una larga serie di valori morali e sociali è senz’altro un’aspirazione alla quale teleologicamente aspira ogni ordinamento democratico, e perciò solo tollerante, ma, proprio per questo, l’ambito della reazione penale deve necessariamente esser circoscritto alla commissione di fatti pericolosi o lesivi di beni giuridici ritenuti essenziali e fondamentali per la sopravvivenza dell’ordinamento sociale (144). Ricondotto a questo ambito il contenuto dell’antigiuridicità, e dunque, in ultima ed estrema analisi, della colpevolezza, sembra del tutto condivisibile l’idea che alla antigiuridicità deve essere sostituita la nozione della punibilità, intesa come una sorta di antigiuridicità specifica, specificamente attinente alla valutazione della colpevolezza in sede penale. In altri termini: l’ambito della esatta conoscibilità non dovrebbe concernere una generica contraddizione del fatto ai dettami dell’ordinamento morale o sociale, e neppure dell’ordinamento positivo genericamente inteso (145), ma più propriamente la contrarietà del fatto ai canoni della legge penale. D’altronde il dato letterale è sul punto inequivoco, posto che l’art. 5 c.p. indica espressamente e tassativamente come oggetto dell’errore/ignoranza la legge penale e non altro (146). Il riferimento alla punibilità va colto non certo nell’accezione di ‘‘concreta possibilità di irrogazione della pena’’, sebbene in quello di astratta soggezione del fatto alla sanzione penale (147). E questo sembra essere il requisito minimale, necessario e sufficiente, perché possa parlarsi di colpevolezza come condizione della imputazione soggettiva. D’altronde, se davvero le norme incriminatrici rappresentano l’extrema ratio alla quale l’ordinamento ricorre per la tutela dei beni di massimo rilievo, non può sfuggire un’implicazione ulteriore. Oggetto della conoscenza/conoscibilità richiesta dalla colpevolezza non può che essere il contenuto di antigiuridicità penale del fatto: diversamente si introdur(144) Cfr. per tutti, MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., 49. (145) V’è poi da osservare che il canone della conoscenza/conoscibilità della legge sanzionatoria, stabilito dalla Corte costituzionale in riferimento all’art. 5 c.p., deve esattamente ritenersi valevole anche nel settore dell’illecito amministrativo: cfr. in questo senso PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 140; in giurisprudenza, in questo stesso senso, v.: Cass. civ., Sez. I, 18 aprile 1994, n. 3693 soc. La Ticinese farmaceutici - USSL 77 Pavia; Cass. civ., Sez. I, 4 luglio 1992, n. 8180, Ministero dell’Interno Gialdini, in Arch. circolazione, 1992, 811. (146) Testualmente Cass., Sez. III, 3 dicembre 1993, cit., sottolinea che ‘‘l’ignoranza della legge penale che esclude la colpevolezza a norma dell’art. 5 c.p. ha per oggetto l’illecito penale, non l’illecito in genere. Scusa, pertanto, l’ignoranza incolpevole della natura di illecito penale di un determinato fatto, anche se il soggetto sia consapevole che esso integra gli estremi di un illecito amministrativo’’. (147) In questo senso PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 946; ID., voce Ignoranza, cit., 134; cfr. anche SCHRÖDER, StGB. Leipziger Kommentar, cit., 102.


— 272 — rebbe in uno degli elementi costitutivi del reato un fattore per così dire ‘spurio’, in quanto si finirebbe con il ritenere bastevole ad integrare tale elemento la conoscenza/conoscibilità del disvalore generico (sociale, amministrativo, civile) del fatto. A tacere della incoerenza sul piano logico di una tale conclusione, v’è anche da notare che per tal modo si estenderebbe non poco l’ambito della colpevolezza, di cui si dovrebbe affermare la sussistenza in tutti i casi nei quali al soggetto è riferibile una consapevolezza (attuale o potenziale) del disvalore a-specifico (e quindi anche non penale) del fatto. Né, in contrario, sembra valere l’argomento, peraltro già efficacemente contrastato (148), secondo cui un siffatto arricchimento della nozione di antigiuridicità importerebbe una pericolosa compromissione delle esigenze di politica criminale. Sul piano squisitamente logico, un tale rilievo critico ben difficilmente potrebbe essere accolto, posto che si svolge in un ambito di discorso affatto diverso (da un lato l’efficacia della legge penale come strumento concreto di regolazione dei conflitti sociali; dall’altro le regole che presiedono all’accertamento della responsabilità del singolo per il fatto commesso). Ma anche intrinsecamente l’argomento è più di effetto che di sostanza: come è stato esattamente osservato, ‘‘la soluzione della punibilità non comporterebbe risultati diversi per quanto riguarda innanzitutto i reati di pura creazione legislativa, per i quali in effetti la colpevolezza non può che essere relazionata alla norma incriminatrice penale. Per quanto riguarda poi i reati dotati di un originario disvalore etico-sociale e quelli che riflettono un’antigiuridicità anche extrapenale, per lo più amministrativa, non v’è dubbio che il concetto di evitabilità consentirebbe abbastanza agevolmente di trascorrere rispettivamente dalla conoscenza del disvalore etico sociale e dalla conoscenza — nonché dalla conoscibilità — dell’antigiuridicità generica alla conoscibilità della punibilità del fatto’’ (149). Appare dunque coerente con un rigoroso sviluppo delle premesse d’ordine generale della Schuldtheorie ‘‘sostituire, quale oggetto dell’Unrechtsbewusstsein, la generica antigiuridicità con la punibilità’’ (150). Alla luce di questa premessa, altrettanto coerente la risposta alla domanda iniziale di questo paragrafo: se per errore d’interpretazione inevitabile l’agente ritiene che la sua condotta integri esclusivamente un illecito morale, civile o amministrativo (comunque non penale), si dovrà escludere nel (148) PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 947; v. altresì HORN, Verbotsirrtum, cit., 25; RUDOLPHI, Unrechtsbewusstsein, cit., 88; TIEDEMANN, Zur legislatorischen Behandlung des Verbotsirrtum im Ordnungswidrigkeiten - und Steuerstrafrecht, in ZStW, 1969, 869. (149) Così PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 947. (150) V. ancora PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 946.


— 273 — caso la sussistenza della colpevolezza. Il che sembra rispondere anche ad una esigenza di corretto apprezzamento di una realtà psicologica a tutti evidente. Seppur all’interno di un giudizio eminentemente normativo, non può sfuggire il significato dell’atteggiamento soggettivo dell’agente, quando si determini ad agire nella convinzione (erroneamente) fondata di commettere solo un illecito amministrativo, e quindi non un fatto penalmente punibile (151). Se la nozione di colpevolezza incorpora necessariamente un giudizio sulla ostilità/indifferenza ai valori, fondamentali e giuridicamente dati, dell’ordinamento (che sono appunto quelli presidiati dalla comminatoria penale), la decisione di agire nella consapevolezza di violare soltanto norme etiche, civili o amministrative denota necessariamente un atteggiamento diverso, rispetto al quale non può valere l’implicazione che sta alla base del giudizio di colpevolezza come espressione del principio di personalità della responsabilità penale. Ché anzi, prasseologicamente, soprattutto di fronte al sempre più invasivo interventismo statuale e alla miriade di norme sanzionatorie penali e amministrative, dai confini malcerti e approssimati, nelle materie regolate dal c.d. diritto penale accessorio delicata questione consiste nel decidere se il fatto sia lecito, ovvero integri un reato o un semplice illecito amministrativo, ovvero, infine, possa dar luogo ad un’azione risarcitoria. Che in situazioni di tal genere, soprattutto quando rilevanti interessi rendano difficilmente praticabile la strada dell’astensione (152), non debba essere considerato rilevante l’errore di chi, convinto della natura di semplice illecito amministrativo del fatto, ne ignori la punibilità (intesa come antigiuridicità penale dello stesso), appare conclusione troppo drastica per essere condivisa (153). 7. La versione riformata dell’art. 5 c.p. importa anche una riflessione di respiro più ampio di quanto consentano i limiti di questo lavoro, in ordine ai rapporti con la disciplina dell’errore su legge extrapenale in (151) Sul punto v. PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 947; ID., voce Ignoranza, cit., 136. In giurisprudenza v. Cass., Sez. III, 22 marzo 1994, Munari, in Foro it., 1995, II, 498, con nota di VENEZIANI; Cass., Sez. III, 3 dicembre 1993, Davoli, rv. 197587. (152) Torna qui il tema del dubbio e dell’obbligo di astensione, rispetto al quale è stato ben osservato che ‘‘non è possibile pretendere che il soggetto anteponga sempre e incondizionatamente ai propri certi e attuali interessi quelli che l’ordinamento non ha potuto comunicare con certezza al soggetto. Siffatta soluzione sarebbe espressione di un atteggiamento in qualche modo prevaricatore, e di una sorta di privilegio incondizionato a favore della volontà statale’’: così PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 132; v. anche H.W. SCHÜNEMANN, Verbotsirrtum, cit., 739. (153) Nel senso del testo v. HORN, Verbotsirrtum, cit., 25; PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 947; RUDOLPHI, Unrechtsbewusstsein, cit., 88; SCHRÖDER, StGB. Leipziger Kommentar, cit., 102.


— 274 — generale (art. 47 comma 3 c.p.) e su legge (extrapenale) tributaria (art. 8 d.l. n. 429/82). Se in primo luogo si deve convenire sul rilievo che oggetto dell’errore/ignoranza di cui all’art. 5 c.p. è senz’altro la legge penale in quanto tale, cioè la norma proibitiva o prescrittiva, nel contempo è necessario riconoscere che nell’ampia dizione di ‘‘legge diversa dalla legge penale’’ impiegata dall’art. 47 comma 3 c.p. finiscono con il confluire tutti gli elementi normativi del fatto. Impregiudicata allo stato una più analitica distinzione fra i singoli oggetti delle previsioni delle norme richiamate, è fin d’ora possibile osservare che la regola fissata dalla pronunzia della Corte costituzionale modificativa dell’art. 5 c.p. non può non svolgere un effetto di straordinario rilievo anche in relazione al disposto dell’art. 47 comma 3 c.p., o, più esattamente, della sua interpretazione giurisprudenziale, che anzi sul punto meriterebbe una approfondita analisi, che va oltre i limiti del presente lavoro. Infatti, anche dopo la riforma dell’art. 5 c.p., la giurisprudenza della Corte regolatrice sull’art. 47 comma 3 c.p. sembra mantenere le stesse cadenze che avevano portato alla sostanziale abrogazione della norma. E ciò malgrado sia radicalmente mutato il contenuto della disposizione (l’art. 5 c.p. appunto), sotto la cui disciplina la giurisprudenza finiva con il riportare sempre tutti i casi di errore su legge diversa dalla legge penale. Se si riconosce alla disciplina dettata dal riformato art. 5 c.p. il ruolo di regolare la fattispecie della colpevolezza (e quindi di una condizione della imputazione soggettiva) e se all’art. 47 c.p. (nel suo complesso) si attribuisce la funzione di contribuire alla definizione del dolo e del suo oggetto, disciplinando l’errore sul fatto (inteso come fatto tipico, e quindi come errore sugli elementi descrittivi naturalistici [comma 1] o normativi [comma 2]), ne segue tuttavia che al medesimo fenomeno (l’errore/ignoranza) dovrà necessariamente corrispondere un medesimo effetto sul piano del trattamento da parte dell’ordinamento. Mette ancora conto di notare come, nel pur variegato panorama delle interpretazioni dottrinarie dell’art. 47 comma 3 c.p. (154), sia possibile scorgere un tratto unificante, rappresentato dallo sforzo di recuperare spazi di operatività ad una norma alla quale, più o meno dichiaratamente, veniva affidato il compito di mitigare l’assoluto rigore del principio di inescusabilità assoluta dell’ignoranza/errore sulla legge penale (155). (154) V. FLORA, voce Errore, cit., 255; FROSALI, L’errore nella teoria del diritto penale, Roma, 1933; ID., Antigiuridicità speciale, errore, integrazione delle norme, norme inutili e norme dannose, in Arch. pen., 1952, II, 377; GROSSO, voce Errore (dir. pen.), cit., 1; PALAZZO, L’errore sulla legge extrapenale, cit; PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, cit. (155) V. in questo senso per tutti M. GALLO, voce Dolo, cit., 750; GROSSO, L’errore sulle scriminanti, cit.; ID., voce Errore, cit., 1.


— 275 — Ad una simile esigenza si riportava lo sforzo, facilmente rintracciabile in molteplici voci (156), di ridurre nel massimo grado l’ambito definitorio della nozione di legge penale rilevante ai sensi dell’art. 5 c.p., per ricondurre invece sotto la più accettabile disciplina dell’art. 47 comma 3 c.p. una serie di elementi normativi che, pur integrativi della norma penale, e financo della norma incriminatrice in senso stretto, potessero essere considerati estranei al nucleo squisitamente precettivo della stessa (157). Ciò che ora preme di rilevare è però questo: che il canone della inevitabilità, come limite scusante dell’ignoranza/errore, deve valere in modo identico ed unitario tanto per la legge penale quanto per la legge extrapenale, qualunque sia il criterio che si scelga per distinguere fra le due categorie, alle quali si riferiscono rispettivamente l’art. 5 e l’art. 47 comma 3 c.p.. Sotto questo profilo non vengono dunque in considerazione le complesse questioni relative alla collocazione degli elementi normativi descrittivi che denotano la illiceità speciale (158), ovvero quella sorta di macro elemento normativo rappresentato dalla norma che integra le c.d. norme penali in bianco (159), ovvero, infine, per quanto concerne i reati omissivi, la regola che fonda l’obbligo di agire e la posizione di garanzia (160). Né in proposito sembra valere il rilievo che nell’art. 47 comma 3 c.p. viene fissata un’ulteriore condizione per l’efficacia esimente dell’errore su legge extrapenale: che l’errore di diritto determini a sua volta un errore sul fatto costitutivo del reato. Comunque si voglia intendere il significato di tale estremo della fattispecie dell’errore su legge diversa da quella penale (che attiene alla struttura dell’errore) si può immediatamente osservare che esso non può condurre ad una contrazione dell’ambito di operatività della disciplina stabilita dall’art. 47 comma 3 c.p. (161). Se così fosse, si assisterebbe alla inammissibile (e costituzionalmente illegittima) conseguenza che colui che versa in stato di errore/ignoranza sul precetto godrebbe di una condizione migliore di colui che si trova nello stesso stato di errore/ignoranza, riferito però ad elementi normativi della fattispecie. Una tale conclusione, difficilmente contestabile, non sembra consentita dall’attuale assetto normativo, quale risulta a seguito della sentenza della Corte costituzionale. Nella versione originaria l’art. 5 c.p. poneva, come noto, uno sbarramento assoluto alla rilevanza dell’errore incidente sul divieto, sicché coerenza sistematica implicava la mancanza di qualunque previsione regola(156) (157) (158) (159) (160) (161)

Da ultimo in questo senso v. PETRONE, Il ‘‘nuovo’’ art. 5 c.p., cit., 697. In senso critico v. la sintesi in ROMANO, Commentario, cit., 464. Oltre agli autori citati alla nota 153, v. ROMANO, Commentario, cit., 463. Oltre agli autori citati alla nota 153, v. ROMANO, Commentario, cit., 460. Oltre agli autori citati alla nota 153, v. ROMANO, Commentario, cit., 468. V. per tutti FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 333.


— 276 — trice di casi di errore colposo. Nel contempo la disciplina dell’errore sul fatto (sia sugli elementi descrittivi naturalistici sia sugli elementi descrittivi normativi), proprio per il differente oggetto, contemplava il caso dell’errore dovuto a colpa, al quale conseguiva la punibilità del fatto a titolo colposo, sempre che il fatto tipico fosse previsto anche come reato colposo. L’asimmetria delle previsioni trovava quindi una coerente giustificazione nella cornice sistematica previgente. Non altrettanto può dirsi oggi, posto che all’errore inevitabile viene attribuita efficacia scusante, che incontra il solo limite della evitabilità dell’errore medesimo, senza però possibilità di graduazione della responsabilità in dipendenza della causa dell’errore stesso. In altri termini: se l’errore evitabile sul precetto è dovuto a colpa, il silenzio della norma (riformata) non consente all’interprete di apprezzare questo profilo, come invece è non solo possibile, ma addirittura doveroso di fronte alla previsione dell’art. 47 comma 3 con riguardo all’errore sugli elementi normativi. Conseguentemente, accertato che l’errore sul precetto era evitabile, è irrilevante la sua eventuale origine colposa, e l’agente risponderà a titolo doloso, anche nell’ipotesi che il fatto preveda la punibilità anche a titolo di colpa. All’opposto, nel caso di errore sugli elementi normativi, ugualmente cagionato da colpa, all’agente si aprirà l’alternativa della piena impunità, se il reato prescrive il dolo, ovvero della responsabilità a titolo colposo, se la legge prevede anche questa forma di imputazione. Difficile non scorgere nella situazione così delineata un profilo di illegittimità costituzionale, dal momento che il silenzio sul punto dell’art. 5 c.p. è incolmabile in via interpretativa. Né avrebbe potuto ovviarvi la stessa Corte costituzionale con la sentenza 364/88, che pure contiene spunti in proposito. La previsione di un meccanismo di attribuzione di responsabilità a titolo colposo per i casi di errore evitabile dovuto a colpa, seppur perfettamente coerente con l’ordinamento, avrebbe importato il superamento dei limiti stabiliti dall’art. 25 Cost. in tema di riserva di legge: per siffatta strada, infatti, la Corte avrebbe finito con il dar vita a una serie di nuove incriminazioni. Non potrà quindi essere che un intervento del legislatore a rimediare la lacuna. 8. Uno snodo cruciale, non solo sul versante teorico, ma anche, e forse soprattutto, su quello della pratica applicazione della norma ‘riformata’, è rappresentato dal tipo di giudizio a cui ricorrere per decidere della evitabilità dell’errore/ignoranza e, successivamente, dalla individuazione dei criteri attraverso i quali tale giudizio deve essere espresso in relazione al singolo caso concreto.


— 277 — Accolto l’impianto sistematico conseguente alla costituzionalizzazione del principio di colpevolezza, e quindi del canone della conoscenza/conoscibilità della legge penale, non pare seriamente dubitabile che l’unico tipo di giudizio utilizzabile sia quello a struttura deontologiconormativa (162). La natura eminentemente formale di questo tipo di giudizio rischierebbe però di impoverire di troppo il profilo concernente le condizioni concrete nelle quali è collocato l’agente singolo, con il ‘‘conseguente depauperamento psicologico della colpevolezza’’ (163). La categoria della evitabilità rimanda, infatti e necessariamente, alla individuazione di condotte astrattamente idonee a scongiurare l’errore, ovvero a fugare lo stato d’ignoranza, secondo la logica della ricerca della condotta impeditiva dell’‘‘evento’’ (in questo caso lo stato di errore o di ignoranza): ma se questo schema, che implica una valorizzazione della componente ‘‘causale’’ ed oggettiva, costituisce la struttura portante del giudizio, tuttavia proprio tale struttura sembra dover essere arricchita introducendo nell’ambito della valutazione ‘‘un criterio limitativo, che abbia però non già la rigidità attuale della causalità, bensì l’elasticità normativa della ragionevolezza’’ (164). All’esigenza di introdurre un criterio limitativo sembra dare soddisfacente risposta proprio il ricorso al criterio dell’homo eiusdem professionis ac condicionis, come è stato esattamente suggerito (165). Da un lato tale criterio contribuisce senz’altro a segnare il limite oggettivo alla ‘‘innumerevole serie degli ipotetici comportamenti impeditivi individuati sulla base della situazione concreta’’ (166), posto che se non si avesse riguardo al comportamento dell’‘‘agente modello’’ (ovviamente nell’accezione propostane dalla teorica che ha elaborato questo schema di riferimento in relazione ai reati colposi) (167), si potrebbe sempre congetturare un ulteriore controllo o un ulteriore accertamento impeditivo, riconducibile alla dove(162) Soltanto un giudizio che abbia tale struttura è infatti compatibile con il canone della Schuldtheorie, che valorizza, oltre all’estremo della conoscenza della legge, quello della conoscibilità. Esattamente rileva Pulitanò, con riferimento al problema della evitabilità, che non si tratta di ‘‘uno stato psicologico, ma [del]la deviazione da un modello normativo’’: PULITANÒ, Una sentenza storica, cit., 713; v. anche JAKOBS, Strafrecht, cit., 460; RUDOLPHI, Unrechtsbewusstsein, cit.; TIMPE, Normatives und Psychisches, cit., 51. (163) In questo senso, per tutti, PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 947. (164) Così PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 950. (165) Cfr. per tutti, PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 947; ID., voce Ignoranza, 141; PULITANÒ, Una sentenza storica, cit., 714. (166) Così PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 951; cfr. anche ROXIN, ‘‘Schuld’’ und ‘‘Verantwortlichkeit’’, cit., 185; RUDOLPHI, Unrechtsbewusstsein, cit., 206. (167) V. per tutti FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 484; FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990; MANTOVANI, voce Colpa, in Dig. disc. pen., II, Torino, 1988, 229; MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965, 193; ROMANO, Commentario, cit., 423.


— 278 — rosa diligenza che in astratto può essere richiesta. D’altro canto però a questo stesso parametro di giudizio (quello dell’homo eiusdem professionis ac condicionis si potrà fare ricorso per analizzare ‘‘la « componente soggettiva » dell’evitabilità’’, il cui limite specifico sembra doversi rintracciare nel ‘‘bilanciamento tra i « costi » recati dai vari comportamenti impeditivi per le contrastanti esigenze di vita del soggetto da un lato, e i bisogni di tutela come emergono dalla diversa gravità delle fattispecie, dall’altro’’ (168). Stando alle indicazioni ricavabili dalla sentenza della Corte costituzionale, il giudizio sulla evitabilità dell’errore/ignoranza dovrebbe fondarsi eminentemente sugli stessi criteri elaborati dalla giurisprudenza in ordine alla c.d. buona fede nelle contravvenzioni (169). Se si pone a confronto l’impostazione suggerita dalla Corte costituzionale con quella alla quale si è fatto appena sopra riferimento, è possibile individuare alcuni punti di contatto, soprattutto sul versante prasseologico: sul piano sistematico, invece, il riferimento alle categorie argomentative impiegate (e non tematizzate) dalla giurisprudenza a proposito della c.d. buona fede nelle contravvenzioni, lascia spazio a qualche perplessità. A tacer dei rilievi critici che hanno accompagnato la teorica della buona fede nelle contravvenzioni (170), non può sfuggire il rilievo che essa trovava la sua reale motivazione non già in un’argomentazione giuridicamente e logicamente consistente, quanto nell’esigenza (più che rispettabile sul piano dell’equità) di attenuare il cieco rigore dell’assoluta irrilevanza dell’errore-ignoranza: diversamente non si spiegherebbe perché l’effetto scusante della ‘‘buona fede’’ venisse limitato alle sole contravvenzioni (171), cioè ai reati asseritamente ‘‘artificiali’’, considerati come connotati da un disvalore meno percepibile da parte dell’agente. La confusione dei piani di discorso appare invero notevole: ad essere in gioco non è tanto il collegamento del soggetto al fatto, che nel nostro (168) Così PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 951; v. anche RUDOLPHI, Unrechtsbewusstsein, cit., 214. (169) Si tratta delle esemplificazioni richiamate nel § 27 della sentenza n. 364/88 della Corte costituzionale. Per una completa e ragionata rassegna della giurisprudenza in materia di buona fede nelle contravvenzioni, v. DONINI, Ignoranza ed errore, cit., 373. D’altronde la giurisprudenza — di merito come di legittimità — formatasi successivamente alla pronunzia della Corte costituzionale sembra aver recepito tale indicazione: v. sentenze citate alle note 72 e 75. (170) V. per tutti BARTULLI, Errore incolpevole, cit., 1147; FORNASARI, Buona fede e delitti, cit., 449; GROSSO, Coscienza e volontà, cit., 891; LOZZI, Il problema della buona fede, cit., 804; PADOVANI, L’errore su legge penale, cit., 1630. (171) Oltre agli autori di cui alla nota che precede, cui adde NUVOLONE, Il sistema del diritto penale, 1982, 311 e BRICOLA, voce Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. it., Torino, XIX, 1973, 57; v. ROMANO, Commentario, cit., 102, ma soprattutto, ID., Commentario sistematico del codice penale, 1a ed., sub art. 5, § 11.


— 279 — sistema è denotato dalle forme del dolo, della preterintezione e della colpa, quanto una diversa condizione, che esprime la rimproverabilità in termini penali della condotta tenuta dall’agente. Se la condotta non è rimproverabile, perché la legge penale non è neppur conoscibile dall’agente, questi non può risponderne penalmente. L’impasse della teorica della buona fede nelle contravvenzioni di fronte ai delitti (e in particolare ai delitti dolosi) sorgeva proprio dalla circostanza che nel dolo veniva fatto confluire anche il profilo della conoscenza/conoscibilità della legge penale, e più in generale della antidoverosità o della antisocialità del comportamento, profilo rispetto al quale il principio di irrilevanza fissato in via assoluta dall’art. 5 c.p. nella pre-vigente versione operava uno sbarramento insuperabile. Il traballante fondamento teorico dei criteri elaborati dalla giurisprudenza in tema di buona fede nelle contravvenzioni induce alla massima cautela, quando si ritenga di far ricorso ad essi per valutare, in riferimento al caso concreto, la evitabilità dell’errore/ignoranza sulla legge penale. D’altro canto, stando alla giurisprudenza in materia (172), è tutt’altro che azzardato osservare che proprio a tali criteri si è finito con il fare quasi unicamente ricorso anche con riguardo all’applicazione del riformato art. 5 c.p. Ai fini limitati di questo lavoro, poco o nulla importa sapere se questa scelta sia dipesa da una consapevole valutazione di carattere sistematico, fondata sul fatto che alcuni di tali criteri possono ben costituire un parametro su cui misurare l’oscurità del dato normativo, ovvero il grado di diligenza dell’agente rispetto all’obbligo di informarsi prima di agire; o piuttosto se essa sia il frutto di un generalizzato errore prospettico, in forza del quale la modificazione dell’art. 5 c.p. è stata colta come una estensione al dolo, inteso come comprensivo della consapevolezza della illiceità penale del fatto, della situazione scusante dell’ignoranza/errore, già riconosciuta in tema di contravvenzioni secondo la teorica della buona fede. Ciò che preme rilevare è piuttosto questo: che la giurisprudenza, pur variegata nell’approccio e nelle soluzioni (anche rispetto a situazioni quasi identiche), accoglie in modo pressoché univoco i criteri di cui si è detto, recependo tralatiziamente le vecchie categorie dell’affidamento ricavabile dal comportamento positivo della pubblica amministrazione (173), ovvero dal precedente giurisprudenziale (174); dell’oscurità del dato normativo, di cui il contrasto giurisprudenziale costituisce la prova ‘‘regina’’ (175) e, infine, del deficit culturale-informativo incolpevole (176). (172) (173) (174) (175) (176)

V. le sentenze citate alle note 72 e 75. V. ancora le sentenze citate a nota 75. Cfr. le sentenze citate a nota 75. Cfr. le sentenze citate a nota 75. V. le sentenze citate a nota 75.


— 280 — Ancora in via di sintesi è possibile rintracciare nella giurisprudenza successiva alla riforma dell’art. 5 c.p. un tratto unitario, o almeno frequentemente ricorrente, ed al quale si è già fatto cenno. L’apprezzamento dell’ignoranza/errore inevitabile viene fatto coincidere con la mancanza del dolo o della colpa, cioè dell’elemento psicologico del reato, piuttosto che con il difetto della colpevolezza, intesa come rimproverabilità della condotta (177). All’atto pratico la differenza può senz’altro apparire di poco momento, ed essere giudicata dai cultori del diritto vivente unicamente il frutto di una esigenza di sistemazione teorica, irrilevante sul piano della concreta applicazione (giurisprudenziale) del diritto. Il che non è. Alla confusione dei piani del discorso fa da contrappunto una serie di conseguenze di peso non lieve. È facile osservare che le oscillazioni della giurisprudenza (soprattutto di merito, ma anche di legittimità) in tema di reati contravvenzionali finiscono con il dipendere proprio dall’incertezza teorica di cui si è detto. Senza che sia (se non raramente) espresso in modo esplicito, l’iter argomentativo sembra scandito nei seguenti passaggi: accertamento della sussistenza del fatto di reato, valutazione della sussistenza dell’elemento psicologico richiesto (in genere la colpa, trattandosi per la più parte di contravvenzioni) in presenza di una situazione fattuale, dedotta dall’imputato, che giustifica l’ignoranza/errore (178). Impostato il problema in tal modo, le sequenze dell’accertamento finiscono con il valorizzare necessariamente il profilo oggettivo e causalistico della evitabilità, con l’implicazione successiva che l’obbligo di informazione e di ricerca della ‘‘esatta interpretazione’’ della norma viene tendenzialmente spostato all’infinito, essendo sempre immaginabile un ulteriore sforzo d’informazione e ricerca. Questa impostazione ha trovato una significativa ed autorevole conferma nella pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di cassazione (179). Preliminarmente va precisato che il contrasto all’origine dell’intervento delle Sezioni Unite concerneva essenzialmente proprio il limite della diligenza doverosa, sulla quale misurare la evitabilità dell’errore/ignoranza, e che tale contrasto si rilevava, più che da espresse enunciazioni di principio, dalla ratio decidendi sottesa alle pronunzie che, rispetto a casi sostanzialmente analoghi, ammettevano o negavano il carattere ‘‘evitabile’’ o ‘‘inevitabile’’ dell’errore/ignoranza (180). Contenuto in poche sintetiche battute, con una stringatezza del tutto (177) V. per tutte, da ultimo Cass., Sez. I, 27 giugno 1995, cit. (178) La trama argomentativa sintetizzata nel testo è particolarmente evidente in Cass., Sez. I, 20 novembre 1991, cit. (179) Cass. pen., Sez. un., 10 giugno 1994, cit. (180) V. le sentenze citate a nota 103.


— 281 — inusuale, soprattutto in considerazione del tema, il dictum della Corte regolatrice stabilisce drasticamente che la condizione di inevitabilità incolpevole ‘‘per il comune cittadino (...) è sussistente ogniqualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza al c.d. « dovere di informazione », attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia. Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgano professionalmente una determinata attività: costoro rispondono dell’illecito anche in virtù della culpa levis nello svolgimento dell’indagine giuridica’’ (181). Nella pur scarna motivazione della sentenza di legittimità, più sopra integralmente riportata, la questione viene affrontata e risolta secondo un modello ricavato dalla pronuncia della Corte costituzionale, integrato da una fondamentale precisazione. In linea di principio viene infatti accolto lo schema secondo cui, in punto di misura della diligenza doverosa, duplice sarebbe il canone di riferimento, variabile in dipendenza della circostanza che l’agente sia un comune cittadino, ovvero un soggetto che si dedica professionalmente all’attività in relazione alla quale è stata posta in essere la condotta antidoverosa. A questa distinzione, sicuramente fondata nella natura delle cose, la Corte costituzionale aveva fatto ricorso per argomentare che, soprattutto in tema di c.d. reati artificiali, dove più frequentemente (se non esclusivamente) ricorrono casi di ‘‘oscurità del dato normativo’’, il possesso di requisiti specifici di competenza tecnica e professionale rende ‘‘esigibile’’ da parte dell’agente un grado di diligenza superiore a quello altrimenti richiesto al cittadino comune (182). Il richiamo al limite della c.d. culpa levis con riferimento specifico all’errore di diritto suscita tuttavia non lievi perplessità. Se è vero che l’esperienza giurisprudenziale tedesca, dove la questione è dibattuta almeno da un trentennio, riconosce limiti ben più rigorosi nella valutazione dell’errore sul precetto di quanto non avvenga nei casi di errore sul fatto (183), la dottrina maggioritaria nega recisamente la fondatezza di tale scarto (184). È stato d’altronde efficacemente osservato che ‘‘la misura della diligenza richiesta nei confronti (della conoscenza) del diritto (Rechtsorgfalt) non può essere maggiore di quella della diligenza richiesta nei confronti del fatto (Tatsorgfalt). In effetti, non solo niente esclude che spesso l’acquisizione della conoscenza giuridica sia più ardua di quella della conoscenza delle circostanze di fatto, ma soprattutto va considerato (181) Così Cass., Sez. un., 10 giugno 1994, cit. (182) Cfr. sentenza n. 364/88 Cost., § 28: questione ripresa in particolare da PULITANÒ, Una sentenza storica, cit., 719. (183) V. i richiami in ROXIN, Strafrecht, cit., 597; RUDOLPHI, in RUDOPLHI-HORNSAMSON, Systematischer Kommentar, cit., 91. (184) V. gli autori citati alla nota 84.


— 282 — che la diversa valutazione dell’ordinamento nei confronti della « Unrechts- » e della « Tatsunkenntnis » è già abbondantemente riflessa nella ben diversa rilevanza che ad esse accorda la « Schuldtheorie »’’ (185). Sicché il richiamo alla culpa levis, come limite estremo della diligenza doverosa in tema di errore di diritto, è segno inequivoco di una rigidità interpretativa, che introduce nel sistema un vincolo particolarmente severo alla concreta operatività del principio di colpevolezza, restaurato con la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p. Ma se la discutibile evocazione della culpa levis può trovare qualche giustificazione e in precedenti esperienze giurisprudenziali e in riferimenti dottrinari (186), oltre che nell’osservazione (valida più sul piano dell’equità che su quello del diritto) che il limite più rigoroso è stabilito soltanto per i soggetti maggiormente qualificati, ovvero per coloro che professionalmente operano nel settore disciplinato dalla normativa su cui verte l’errore/ignoranza (187), nulla di tutto ciò sembra valere in relazione alla clausola riguardante il comune cittadino. Secondo le Sezioni Unite della Corte di cassazione costui potrebbe validamente invocare a propria scusa l’errore o l’ignoranza della legge soltanto dopo aver dimostrato di aver compiuto ‘‘qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia’’. L’affermazione, limpida nel suo rigore, è gravida di conseguenze rilevanti, che, portate al loro naturale esito, finirebbero col rendere soltanto apparente la storica svolta impressa al nostro ordinamento dalla sentenza 364/1988 della Corte costituzionale. Come si è anticipato, il canone della diligenza doverosa deve necessariamente trovare un limite diverso da quello causalistico, incentrato sulla ipotizzabilità di un ‘‘qualsiasi utile accertamento’’ destinato al raggiungimento dello scopo (esatta conoscenza della legge penale vigente in mate(185) Così PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 142; nello stesso senso, v. JESCHECK, Lehrbuch, cit., 412; SCHRÖDER, in Leipziger Kommentar, cit., 109; SCHÜNEMANN, Verbotsirrtum, cit., 742; WOLTER, Schuldhafte Verletzung einer Erkundigungspflicht, Typisierung beim Vermeidbarkeitsurteil und qualifizierte Fahrlässigkeit beim Verbotsirrtum, in JUS, 1979, 482; in contrario, per tutti CRAMER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, StGB Kommentar, cit., 268; RUDOLPHI, Unrechtsbewusstsein, cit., 216. (186) Sulla questione, con speciale riferimento alla responsabilità per l’attività medico-chirurgica, v. CRESPI, La ‘‘colpa grave’’ nell’esercizio dell’attività medico-chirurgica, in questa Rivista, 1973, 255; ID., voce Medico-chirurgo, in Dig. disc. pen., Torino, VII, 1993, 589. (187) Sull’innalzamento della misura della diligenza dovuta, cfr. ROMANO, Commentario, cit., 427. In particolare ritengono ammissibile tale innalzamento in presenza di particolari migliori conoscenze e capacità del singolo soggetto CRAMER-SCHÖNKE-SCHRÖDER, StGB Kommentar, cit., 256; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 496; MARINUCCI, La colpa per inosservanza, cit., 195; ROXIN, Strafrecht, cit., 693; in senso contrario, ma limitatamente alle sole capacità speciali (e non anche alle conoscenze), cfr. JESCHECK, Lehrbuch, cit., 522; WELa ZEL, Das deutsche Strafrecht, 1967, 10 ed., 127.


— 283 — ria). Se così fosse, essendo sempre congetturabile uno sforzo di ricerca e di informazione ulteriore rispetto al momento nel quale l’agente si è fermato (188), il caso dell’errore/ignoranza non sarebbe mai configurabile, posto che l’ipotesi della oggettiva e assoluta inattingibilità dell’esatta interpretazione del dato normativo implica la violazione del principio di tassatività e di determinatezza. Se si mettono in ordine logico le serie argomentative utilizzate dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, il quadro di riferimento al quale l’interprete dovrebbe adeguarsi è a un dipresso il seguente: il comune cittadino deve effettuare qualunque ricerca utile per accertare in modo esatto la legge vigente, con il solo limite del conseguimento della conoscenza del dato normativo. Se poi l’agente svolge professionalmente l’attività disciplinata dalla legge in questione, allora anche l’errore/ignoranza cagionato da culpa levis nella ricerca ‘‘per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia’’ deve essere giudicato inescusabile. Richiamando criteri di tal genere, parte della giurisprudenza anteriore alla pronunzia delle Sezioni Unite aveva affermato il carattere evitabile dell’errore, anche di fronte a situazioni nelle quali ben difficilmente si sarebbe potuto considerare ragionevole un ulteriore sforzo informativo (189), ovvero in casi nei quali il deficit informativo e culturale dell’agente (di fronte a dati normativi tutt’altro che limpidi o il cui disvalore penale è assai poco percepibile) avrebbe consentito di affermare la scusabilità dell’errore o dell’ignoranza (190). Che a una scelta ermeneutica di tal genere abbiano potuto presiedere timori per la ‘‘tenuta’’ del sistema ed esigenze genericamente generalpreventive, che confluiscono nello sforzo di imporre limiti rigorosi all’interprete, è senz’altro plausibile, così come alcuni commentatori si erano affrettati a sottolineare, anticipando l’impostazione delle Sezioni Unite (191). Che questo percorso argomentativo implichi, se coerentemente svi(188) Aveva esattamente anticipato questo possibile esito interpretativo — mettendone in luce i profili critici — PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 950; ID., voce Ignoranza, cit., 141. (189) Cfr. ancora PALAZZO, voce Ignoranza, cit., 143, secondo cui ‘‘l’esigenza di ragionevolezza, e in sostanza di proporzione tra gli interessi tutelati dalla norma e quelli pregiudicati dall’adempimento di un illimitato dovere informativo, è all’origine di modelli consuetudinari e statistici, nei quali vengono ad essere tipizzati i doveri di informazione rispetto a determinate situazioni di fatto’’. In senso analogo cfr. RUDOLPHI, Unrechtsbewusstsein, cit., 214. (190) Cfr. PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis, cit., 957; v. anche KIENAPFEL, Unrechtsbewusstsein, cit., 117; SCHÜNEMANN, Verbotsirrtum, cit., 740. (191) V. in questo senso UCCELLA, L’ignoranza inevitabile in diritto penale: note minime sulle prime applicazioni della Corte di cassazione, in Cass. pen., 1993, 1722. L’A., annotando Cass. 4 marzo 1992 (che riconosceva l’esistenza di un errore inevitabile derivante dall’‘‘oscurità della disposizione, attestata da oscillanti orientamenti giurisprudenziali che mostrano la mancanza nella norma in questione del requisito della chiarezza’’) ritiene tutta-


— 284 — luppato, lo svuotamento dall’interno del principio di colpevolezza e di personalità della responsabilità penale, è però certo, posto che, facendo sostanzialmente coincidere il limite della diligenza doverosa con l’acquisizione dell’esatta conoscenza della legge, si reintroduce in via interpretativa una presunzione assoluta di conoscenza della legge penale stessa. Non può sfuggire, tuttavia, anche al lettore più distratto della sentenza delle Sezioni Unite, che alla preoccupante affermazione di principio fa da contrappunto una decisione del caso improntata a un canone ermeneutico diverso. I giudici di legittimità, respingendo il ricorso dell’ufficio del pubblico ministero, confermano una sentenza di assoluzione che aveva riconosciuto l’inevitabilità dell’errore in soggetti professionalmente qualificati, che avevano addotto a propria giustificazione l’errore sul precetto derivante dall’esistenza di precedenti giurisprudenziali specifici (pronunzie del giudice amministrativo) e di specifici atti ufficiali delle pubbliche amministrazioni interessate. Elementi questi pienamente idonei a fondare una situazione di errore non evitabile (e per tali riconosciuti da parte della giurisprudenza), ma che mal si conciliano con il dictum delle Sezioni Unite. Se davvero si deve ritenere che l’agente è tenuto all’‘‘espletamento di qualsiasi utile accertamento’’, allora neppure i responsi del giudice amministrativo e gli atti della pubblica amministrazione competente possono bastare ad integrare il doveroso adempimento dell’obbligo di informazione, poiché nel caso di specie si sarebbe dovuto aver riguardo a contrarie pronunzie in materia del giudice penale (e, significativamente, della Corte di cassazione). Ed ancora: trattandosi di soggetti che svolgono professionalmente l’attività disciplinata dalla legge penale in questione, ben sarebbe loro rimproverabile una forma di culpa levis, per non aver tenuto preventivamente conto della contraria interpretazione del dato normativo, interpretazione secondo la quale la condotta realizzata costituisce reato. Situazione, quest’ultima, idonea a costituire l’agente in uno stato di dubbio, con le conseguenze del caso ove l’agente stesso non si astenga dall’agire. Lo stridente contrasto fra principio enunciato e decisione emessa esprime, al di là di ogni altra considerazione, la difficoltà e la delicatezza della questione, e nel contempo consente all’interprete di valorizzare elementi che permettano di fissare altrove i limiti della doverosa diligenza e, conseguentemente, dell’evitabilità dell’errore/ignoranza. via che l’errore inevitabile ‘‘debba individuarsi nella inconoscibilità del dato normativo’’, non avvedendosi che la evocata categoria della ‘‘inconoscibilità’’ è indice sicuro di un deficit di tassatività e determinatezza della fattispecie: sul punto cfr. per tutti STORTONI, L’introduzione, cit., 1313.


— 285 — Il canone dell’homo eiusdem condicionis ac professionis, contenutisticamente arricchito in modo che possa tener conto ‘‘contemporaneamente (di) tutte le condizioni oggettive e soggettive della situazione concreta’’ (192), appare infine lo strumento più adatto per valutare nella fase applicativa il nucleo essenziale del principio di colpevolezza: l’evitabilità/inevitabilità dell’errore/ignoranza. FRANCESCO MUCCIARELLI Professore a contratto di Diritto penale nell’Università Statale di Milano

(192) Così PALAZZO, ‘‘Ignorantia legis’’, cit., 949; in senso analogo, KIENAPFEL, Unrechtsbewusstsein, cit., 117; RUDOLPHI, Die Verbotsirrtumregelung, cit., 295; TRIFFTERER, Österreisches Strafrecht - Allgemeiner Teil, Vienna-New York, 1985, 433.


COMMENTI E DIBATTITI

IL CONTROLLO SULL’AMMISSIBILITÀ DELLA RICHIESTA DI MISURE ‘‘RIEDUCATIVE’’

SOMMARIO: 1. I limiti della disciplina. — 2. La nozione di richiesta. — 3. La richiesta «manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge». — 4. La reiterazione di una richiesta «basata sui medesimi elementi». — 5. La declaratoria di inammissibilità. — 6. L’impugnazione del provvedimento. 1. L’attuale codice di procedura penale ha sottratto la disciplina del procedimento di sorveglianza alla legge di ordinamento penitenziario e ha provveduto ad una regolamentazione congiunta dei riti di esecuzione e di sorveglianza. Con la reductio ad unum, benché «condotta attingendo proprio alla disciplina già prevista nel settore penitenziario» (1), si è rinunciato a tener conto della specificità del secondo procedimento, della sua autonomia e dei suoi connotati essenziali (2). Ciò si avverte anche in materia di inammissibilità (3), dove le peculiarità della giurisdizione rieducativa risultano mortificate, con riguardo sia agli aspetti dell’istituto rimasti immutati sia a quelli modificati. In particolare, più confacente alle esigenze dell’esecuzione in senso stretto appare l’immutata previsione delle cause di inammissibilità (4), già fortemente criticata, in ambito penitenziario, per la sua ambiguità. Così pure la modifica al sistema d’impugnazione della declaratoria d’inammissibilità (art. 666 comma 2 c.p.p.) appare più funzionale al procedimento di esecuzione che non a quello di sorveglianza. Va precisato, tuttavia, che a fronte del processo espansivo del rito di sorveglianza — fe-

(1) R.E. KOSTORIS, Linee di continuità e prospettive di razionalizzazione nella nuova disciplina del procedimento di sorveglianza, in L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, a cura di V. Grevi, Padova 1994, p. 540. Infatti, se il legislatore del 1988 è tornato sui suoi passi rispetto alla scelta operata nel ’75 — poiché dopo vari tentativi di adattare il rito degli incidenti di esecuzione e il processo di sicurezza aveva disegnato un procedimento ad hoc per le nuove misure rieducative — indubbiamente l’attuale disciplina del procedimento di sorveglianza non si discosta troppo dalla configurazione assunta nell’ordinamento penitenziario. (2) In questo senso, F. DELLA CASA, La magistratura di sorveglianza, Torino 1994, 2a ed., p. 93 ss. Sottolinea gli aspetti negativi della subordinazione del rito di sorveglianza al procedimento di esecuzione G. ZAPPA, Il procedimento di sorveglianza nel nuovo codice: prime riflessioni critiche, in Giust. pen. 1990, III, c. 411. (3) La formula dell’art. 71-sexies ord. penit., infatti, è stata recepita, con qualche modifica, dal comma 2 dell’art. 666 c.p.p., cui l’art. 678 comma 1 c.p.p. fa espresso rinvio. (4) Nessuno dubita, difatti, che nelle questioni oggetto del processo di esecuzione, e non in quelle attinenti alla giurisdizione rieducativa in senso stretto, sia prevalente l’incidenza degli aspetti di diritto. Nemmeno è un caso che con tale estensione si sia ratificata «un’interpretazione già accreditatasi»: A. PRESUTTI, La disciplina del procedimento di sorveglianza dalla normativa penitenziaria al nuovo codice di procedura penale, in questa Rivista 1993, p. 160, nt. 85. Riv. ital. dir. proc. penale 1/1996


— 287 — nomeno iniziato subito dopo la sua introduzione nell’ordinamento penitenziario (5) e portato avanti dal legislatore del 1988 (6) — le problematiche concernenti l’ammissibilità della domanda di avvio del procedimento continuano a riguardare soprattutto le misure alternative (7), la remissione del debito e la liberazione condizionale (8), in quanto le stesse conservano un contenuto rieducativo (9). L’individuazione delle cause d’inammissibilità, inoltre, è resa maggiormente difficoltosa dalle numerose articolazioni che le originarie misure penitenziarie hanno assunto nel corso dell’ultimo decennio. Sono così previste più figure di affidamento in prova e di semilibertà, ognuna con requisiti specifici. Di conseguenza, le cause di inammissibilità risultano diverse per la misura «ordinaria» e per le varianti che ad essa si affiancano. 2. L’art. 666 comma 2 c.p.p., parlando di «richiesta», e non di «istanza», come fà invece l’art. 71-sexies ord. penit., ripropone vecchi problemi interpretativi e ne schiude di nuovi. Si è, infatti, accresciuta la ‘‘sfasatura’’, almeno terminologica, tra atti di impulso del procedimento di sorveglianza per la ‘‘concessione’’ delle misure alternative e atti soggetti al giudizio di ammissibilità. Più precisamente, dal combinato disposto dell’art. 678 comma 1 c.p.p. e dell’art. 57 ord. penit., la cui operatività è fatta salva dall’art. 236 comma 2 disp. coord. c.p.p. (10), il procedimento di sorveglianza può iniziare a richiesta dell’interessato

(5) Sull’inutile spreco di garanzie giurisdizionali per materie non caratterizzate da finalità rieducative v. G. GIOSTRA, Il procedimento di sorveglianza, Milano 1983, p. 461 s. (6) L’art. 678 comma 1 c.p.p., nello stabilire l’area di applicazione del procedimento di sorveglianza, determina anche la competenza del tribunale di sorveglianza e del magistrato di sorveglianza, seguendo tecniche di normazione diverse. Per l’organo collegiale opera un generico richiamo ai procedimenti di sorveglianza già attribuiti dalla legge alla «sua competenza», per il giudice monocratico, invece, fornisce un elenco tassativo delle «materie» oggetto di tale giudizio. V’è da notare che la stessa disposizione ricorrendo alla locuzione «nelle materie di sua competenza» non solo ha esteso il procedimento di sorveglianza alle nuove materie attribuite dal codice al tribunale di sorveglianza (es. riabilitazione ex art. 683 c.p.p.), ma ha conferito «al procedimento de quo una ‘‘naturale e illimitata espansività’’, nel senso di ricondurre alla sua disciplina (...) anche quelle ulteriori [materie] che gli fossero attribuite in futuro, salvo espresse previsioni in senso contrario» (R.E. KOSTORIS, Linee di continuità, cit., p. 545 ss. Nello stesso senso A. PRESUTTI, La disciplina del procedimento di sorveglianza, cit., p. 137 ss.). (7) L’espressione ‘‘misure alternative’’, in questo lavoro, viene usata per indicare le misure contemplate nel titolo I capo VI ord. penit., che vengono trattate con il procedimento di sorveglianza, senza alcun riferimento alla loro dibattuta natura giuridica. (8) La presa in considerazione, accanto alle misure alternative contemplate dall’ordinamento penitenziario, della liberazione condizionale (artt. 176-177 c.p. e 682 c.p.p.) si fonda sul fatto che essa è stata recuperata alla logica del trattamento rieducativo già dalla l. 10 ottobre 1986, n. 663. (9) In realtà per talune delle misure introdotte dalla l. 10 ottobre 1986, n. 663 — precisamente l’affidamento in prova «senza osservazione» (art. 47 commi 3 e 4 ord. penit.), la semilibertà «senza espiazione» (art. 50 comma 6 ord. penit.) e la detenzione domiciliare (art. 47-ter ord. penit.) — la finalità risocializzante appare più sfumata rispetto a quella di decarcerazione, e quindi alto il rischio di una loro gestione «in chiave puramente clemenziale» (V. GREVI, Scelte di politica penitenziaria e ideologie del trattamento nella l. 10 ottobre 1986, n. 663, in L’ordinamento penitenziario dopo la riforma, a cura di V. Grevi, Padova 1988, p. 15 ss.). Peraltro, lo scopo di sfoltimento della popolazione detenuta, perseguito a discapito del finalismo rieducativo, ha caratterizzato anche la recente produzione legislativa nei confronti dei condannati per reati diversi da quelli di criminalità organizzata, sottoposti al regime ‘‘ordinario’’: cfr. V. GREVI, Verso un regime penitenziario progressivamente differenziato: tra esigenze di difesa sociale ed incentivi alla collaborazione con la giustizia, in L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, cit., p. 15 ss. (10) L’art. 236 comma 2 disp. coord. c.p.p., con riguardo alle materie di competenza


— 288 — (condannato o internato), dei suoi prossimi congiunti, del difensore, d’ufficio (11), in seguito a proposta del consiglio di disciplina (12), nonché su domanda del tutore o del curatore dell’infermo di mente (13). La richiesta del pubblico ministero, invece, deve ritenersi circoscritta alla sola revoca dei ‘‘benefici’’ concessi (14). Mentre in passato al generico termine di «istanza, usato senz’altro in una accezione atecnica, potevano ricondursi la richiesta dei prossimi congiunti e la proposta del consiglio di disciplina, facendo leva sull’«analogia di ratio» (15), oggi, una lettura estensiva dell’art. 666 comma 2 c.p.p. appare consentita appellandosi all’inesistenza di validi motivi per escludere la proposta del consiglio di disciplina dal vaglio di ammissibilità; proposta, peraltro, indicata nell’art. 677 comma 1 c.p.p (16). Né può sottacersi che l’uso dell’espressione «richiesta» nell’art. 666 comma 2 c.p.p., solleva dubbi persino in ordine alla possibilità di ricomprendervi la domanda del pubblico ministero (17). Infatti, come vedremo meglio in seguito (18), la sottoposizione al controllo di ammissibilità dell’atto in questione appare incongruente con la procedura, prevista nella stessa disposizione, per la relativa declaratoria (19). Lo ‘‘scollamento’’ sottolineato, tuttavia, non va tanto attribuito a disinvolture lessicali del legislatore, e forse nemmeno a difetti di coordinamento con la normativa penitenziaria, bensì piuttosto a quella perdita di identità del procedimento di sorveglianza, accentuata dalla menzionata reductio ad unum, ma già iniziata con la massiccia apertura del rito in esame a materie che prescindono da un’indagine sulla rieducazione del condannato. 3.

Privilegiando evidenti esigenze di economia processuale, il legislatore ha mantenuto

del tribunale di sorveglianza, prevede che continuino «a osservarsi le disposizioni processuali della legge 26 luglio 1975 n. 354 diverse da quelle contenute nel capo II-bis del titolo secondo della stessa legge». (11) A norma dell’art. 91-ter reg. esec. ord. penit., la detenzione domiciliare può essere concessa anche su segnalazione della direzione dell’istituto, nei casi indicati dall’art. 47ter comma 1, nn. 1-2-3 ord. penit. Tale «segnalazione» parrebbe rappresentare «uno dei mezzi per l’attivazione di ufficio del procedimento di sorveglianza», fungendo «da stimolo, da impulso al tribunale»: L. CESARIS, La detenzione domiciliare come modalità alternativa dell’esecuzione penitenziaria, in L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, cit., p. 373. (12) Un’iniziativa del consiglio di disciplina deve riconoscersi anche per la revoca della semilibertà nelle ipotesi contemplate dall’art. 51 commi 2 e 5 ord. penit. (13) Tale legittimazione attualmente appare indiscutibile «in ragione del rinvio dell’art. 678 comma 1 c.p.p. all’art. 666 c.p.p., il cui 8o comma conferisce ai medesimi ‘‘gli stessi diritti dell’interessato’’»: R.E. KOSTORIS, op. cit., p. 554 ss. (14) Di fronte al chiaro disposto dell’art. 678 comma 1 c.p.p., non può disconoscersi un potere di iniziativa del pubblico ministero in ordine alla revoca delle stesse misure. Del resto in favore dell’attribuzione di un tale potere al pubblico ministero, sul presupposto che nell’ipotesi di revoca «si ripropone la logica del fatto negativo addebitato al soggetto», si era già espresso G. GIOSTRA, Il procedimento di sorveglianza, cit., p. 242. In questo senso, ora, R.E. KOSTORIS, op. cit., p. 552; A. PRESUTTI, La disciplina del procedimento di sorveglianza, cit., p. 154. Limita, invece, il potere di iniziativa del pubblico ministero nel settore delle misure rieducative, soltanto ad alcune ipotesi di revoca F. DELLA CASA, La magistratura di sorveglianza, cit., p. 108 ss. (15) Così G. GIOSTRA, Il procedimento di sorveglianza, cit., p. 298 s. (16) In questo senso F. DELLA CASA, La magistratura di sorveglianza, cit., p. 104. (17) La problematica, evidente nel settore della giurisdizione esecutiva, attualmente investe anche quello delle misure rieducative (v. supra nt. 14). (18) V. infra § 5. (19) L’incongruenza, giova anticiparlo, si fonda sul fatto di aver esteso una disciplina nata e quindi modellata per situazioni in cui non era riconosciuto alcun potere d’impulso al pubblico ministero, a situazioni in cui la richiesta del pubblico ministero rappresenta la norma.


— 289 — la pronuncia di inammissibilità allorché la richiesta appaia «manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge»; ha riproposto, cioè, un testo «ai limiti del giuridicamente intelleggibile» (20), e come tale di potenziale pregiudizio per la garanzia del contraddittorio, fondamentale nel complesso giudizio sull’uomo. Solo seguendo criteri ermeneutici rigorosi — del resto già elaborati nell’interpretazione dell’identica formula contenuta nell’art. 71-sexies ord. penit. — è possibile salvaguardare le istanze della giurisdizione rieducativa, altrimenti pesantemente sacrificate da valutazioni anticipate di merito. L’espressione normativa implica due apprezzamenti. Il primo — ‘‘pregiudiziale’’ rispetto al secondo — sulla carenza dei requisiti processuali (‘‘difetto delle condizioni di legge’’) e l’altro sull’infondatezza di palmare evidenza (‘‘manifesta infondatezza’’). In base al primo si delineano le cause di inammissibilità in senso proprio, quelle cioè concernenti la rituale e valida proposizione della domanda. A differenza di quanto avveniva in passato, il riferimento alle condizioni poste dalla «legge» va inteso non solo ai requisiti formali previsti dalla legge di ordinamento penitenziario, bensì esteso anche a quelli enucleati dal codice di procedura penale, dalle disposizioni di attuazione dello stesso (d. lgs. 28 luglio 1989, n. 271) e dal d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (21). Sicuramente rileva, al riguardo, la condizione di tempo stabilita dall’art. 682 comma 2 c.p.p., secondo il quale se non è stata concessa la liberazione condizionale «per difetto del requisito del ravvedimento», la nuova istanza non può essere proposta «prima che siano decorsi sei mesi dal giorno in cui è divenuto irrevocabile il provvedimento di rigetto» (22). Non suscettibile di sindacato preliminare di ammissibilità deve ritenersi, invece, nonostante i dubbi interpretativi cui si presta la previsione, l’omessa indicazione del domicilio dell’interessato nella richiesta dell’affidamento in prova in casi particolari (art. 92 comma 1, seconda parte, d.P.R. 309/90) (23). Alla stessa stregua vanno considerate tutte quelle disposizioni, pur formulate in termini di «dovere», alla cui inosservanza non è espressamente ricondotta l’inammissibilità della domanda (24).

(20) Così si è espresso G. GIOSTRA, Innovazioni sistematiche, adeguamenti normativi e limiti tecnici nella disciplina del procedimento di sorveglianza, in L’ordinamento penitenziario dopo la riforma, cit., p. 388. (21) L’art. 47-bis ord. penit. è stato interamente trasfuso nell’art. 94 del testo unico sugli stupefacenti (d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309). La disciplina dell’istituto si ricava pertanto dalle disposizioni ivi contenute e da quelle degli artt. 91 commi 3 e 4 e 92 commi 1 e 3 del medesimo testo unico. Tali fonti, tuttavia, hanno una loro rilevanza a patto di non condividere la tesi di F. CORBI (L’esecuzione nel processo penale, Torino 1992, p. 392 ss.) secondo cui la regolamentazione dell’affidamento in prova ‘‘terapeutico’’ non ammette alcun controllo di ammissibilità della richiesta. (22) Per brevi riflessioni in merito alla condizione in parola, introdotta dal legislatore del 1988, riproducendo nella sostanza l’abrogata disciplina dell’ultimo comma dell’art. 4 l. 12 febbraio 1975, n. 6, v. L. DE MAESTRI, Commento art. 682 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di M. Chiavario, vol. VI, Torino 1991, p. 614 ss. (23) Se lo scopo della disposizione è quello di subordinare la decisione sulla concessione dell’affidamento in prova particolare alla comparizione obbligatoria in udienza dell’interessato, appare un’indebita estensione del dettato normativo, ricondurre l’inammissibilità della richiesta alla semplice constatazione di effettuare l’avviso della data di trattazione della stessa udienza, nel domicilio del richiedente (cfr. E. FASSONE, Commento art. 4-ter l. 21 giugno 1985 n. 297, in Legisl. pen. 1986, p. 64). Per M. CANEPA-S. MERLO (Manuale di diritto penitenziario, Milano 1993, 3a ed., p. 264 ss.) l’obbligo del soggetto di specificare il proprio domicilio nella richiesta dovrebbe intendersi stabilito a pena di irricevibilità della domanda. (24) L’inosservanza, ad esempio, dell’obbligo di allegare alla domanda di concessione dell’affidamento in prova particolare la certificazione proveniente dalla struttura pubblica (art. 94 comma 1, ult. inciso, d.P.R. n. 309/90), non essendo sanzionato a pena di inammissibilità, produce una semplice irregolarità della richiesta.


— 290 — In mancanza di regole specifiche, dubbi possono sorgere sia in relazione alla forma da adottarsi per la richiesta, sia in ordine alle conseguenze della rinuncia espressa dell’interessato alla domanda già presentata. Nondimeno, il primo va ‘‘sciolto’’ nel senso dell’ammissibilità della richiesta anche orale (25), il secondo nel senso dell’inammissibilità dell’istanza, poiché i contenuti rieducativi delle misure non ammettono imposizioni, ovvero hanno possibilità di realizzarsi solo attraverso la collaborazione del soggetto (26). Sotto il profilo delle cause di inammissibilità in senso proprio, rileva, infine, il presupposto processuale della legittimazione soggettiva (27). Il secondo accertamento implica, invece, un esame ‘‘preliminare’’ nel merito (28). Tuttavia, questo non può riguardare tutte le condizioni, ma soltanto quei requisiti che, in quanto posti direttamente dalla legge, non comportano alcuna valutazione discrezionale (29). Più precisamente, il legislatore ha voluto la preventiva selezione di quelle richieste che risultino prima facie ed in modo incontrovertibile infondate (30). In particolare — come è già stato sottolineato dalla dottrina — «tenuto conto che l’accoglimento della domanda presuppone l’esistenza di determinate condizioni di fatto e di diritto, soltanto riguardo alla sussistenza delle seconde è possibile esperire una ricognizione sommaria, in via preliminare, dei presupposti di merito» (31). Alla luce di questo rilievo, vanno annoverate tra le ipotesi di «manifesta infondatezza», anzitutto, il superamento dei limiti di pena previsti per l’affidamento in prova ‘‘ordinario’’, per l’affidamento in prova ‘‘terapeutico’’ e per la detenzione domiciliare (32), ovvero il mancato decorso del tempo di espiazione delle frazioni di pena prescritte per l’ammissione al regime di semilibertà e alla liberazione condizionale (33), nonché per la liberazione anticipata (34).

(25) La domanda orale può ritenersi sufficiente invocando gli artt. 141 c.p.p. e 35 ord. penit. Propende invece per la necessità della forma scritta ex art. 121 c.p.p. A. GAITO, Esecuzione, in Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, Padova 1993, 3a ed., p. 664 ss. (26) Nello stesso senso, con motivazioni più generiche, M. CANEPA-S. MERLO, Manuale, cit., p. 423 ss. (27) Rispetto al difensore la giurisprudenza ha costantemente ribadito che il mandato conferito per il processo di cognizione non si estende alla fase esecutiva, per cui la legittimazione alla richiesta di procedimento consegue da un’investitura ad hoc (da ultimo Cass. 14 settembre 1992, Marchese, in Cass. pen. 1994, n. 231, p. 327. (28) Non aderenti al dettato legislativo appaiono sia le impostazioni che escludono «ogni valutazione che esorbiti dall’area della correttezza meramente rituale» della richiesta (G. DI CHIARA, Il contraddittorio nei riti camerali, Milano 1994, p. 329 e nello stesso senso A. GAITO, Esecuzione, in Profili, cit., p. 665), sia quelle che ritengono il giudizio sotteso sempre di merito (G. ZAPPA, Il procedimento di sorveglianza, cit., c. 414). (29) Così Cass. 26 febbraio 1991, Manferdin, in Cass. pen. 1992, n. 73, p. 670; Cass. 1o luglio 1993, Nenadovska, in Arch. nuova proc. pen. 1994, p. 101. Sostanzialmente sulla stessa linea Cass. 20 marzo 1992, Migliore, ivi 1992, p. 780. (30) In identici termini si è espresso il S.C., il quale con riferimento al procedimento di esecuzione ha affermato che la declaratoria d’inammissibilità della richiesta per difetto delle condizioni di legge «è legittima solo quando le ragioni dell’inammissibilità siano di palmare evidenza e il loro accertamento non implichi la soluzione di questioni controverse» (Cass. 1o giugno 1990, Delli Ponti, in Arch. nuova proc. pen. 1991, p. 116). (31) G. GIOSTRA, Il procedimento di sorveglianza, cit., p. 309. (32) Nello specifico, quando la pena detentiva inflitta o ancora da scontare è superiore, rispettivamente, a tre anni, a quattro anni, e ancora a tre anni. (33) Rispetto alla semilibertà l’ipotesi ostativa ricorre se: a) il condannato a pena detentiva superiore a sei mesi non abbia espiato almeno metà della medesima (art. 50 comma 2 ord. penit.); b) il condannato per taluno dei delitti di cui all’art. 4-bis comma 1 ord. penit. non abbia espiato almeno i due terzi della pena (art. 50 comma 2 ord. penit.); c) il condannato all’ergastolo non abbia espiato almeno venti anni di pena (art. 50 comma 5 ord. penit.).


— 291 — Ed ancora, condizioni di diritto stabilite a pena di inammissibilità della richiesta di concessione della misura debbono considerarsi: rispetto all’affidamento ex art. 47 ord. penit., il non aver trascorso almeno un mese in istituto, nel caso di soggetto già detenuto; rispetto all’affidamento ex art. 94 d.P.R. 309/90, la fruizione, in due distinte occasioni, della stessa misura; rispetto alla detenzione domiciliare ex art. 47-ter ord. penit., la condanna a pena della reclusione inferiore a tre anni di soggetto già in affidamento in prova al servizio sociale nonché la mancanza dei requisiti soggettivi diversi dalle condizioni di salute, dall’inabilità, e dalle esigenze di studio, di lavoro e di famiglia (35); rispetto alla semilibertà ex art. 50 ord. penit., la condanna a pena dell’arresto o della reclusione inferiore ai sei mesi di chi si trovi in affidamento al servizio sociale. Sia i presupposti per la remissione del debito — «disagiate condizioni economiche» e «regolare condotta» — che tutte le altre condizioni poste dalla legge, in relazione alle misure esaminate, sono condizioni di ‘‘fatto’’ (36), e come tali non possono formare oggetto del giudizio di ammissibilità, ma vanno accertate in udienza. Ad eguale conclusione conduce l’accertamento della «carenza di pericolosità» prevista per la concessione delle misure alternative (37), nei confronti dei condannati per i gravi delitti di criminalità organizzata e terroristica (38). Sia la condizione della prova positiva della

Rispetto alla liberazione condizionale se: a) il condannato non abbia espiato almeno trenta mesi o quel maggior tempo che costituisce metà della pena inflitta o comunque la parte necessaria affinché la pena residua non superi i cinque anni (art. 176 comma 1 c.p.); b) il condannato, recidivo qualificato, non abbia scontato almeno quattro anni di pena e non meno dei tre quarti di sanzione totale (art. 177 comma 2 c.p.); c) il condannato all’ergastolo non abbia scontato almeno ventisei anni di pena (art. 177 comma 3 c.p.); d) il condannato per taluno dei delitti di cui all’art. 4-bis comma 1 ord. penit. non abbia scontato almeno i due terzi della pena temporanea (art. 2 comma 2 d.l. 13 maggio 1991, n. 152 conv. nella l. 12 luglio 1991, n. 203). (34) Introdotta dalla l. 10 ottobre 1986, n. 663 la cd. ‘‘semestralizzazione’’ delle riduzioni di pena, deve ritenersi inammissibile la richiesta del condannato in espiazione di pena da meno di sei mesi. Sono inammissibili anche le richieste di liberazione condizionale per condanne inferiori o pari a trenta mesi e le richieste di liberazione anticipata per condanne inferiori o pari a sei mesi poiché in ambedue i casi l’interessato non potrà maturare il periodo minimo di valutazione o fruire, in concreto, la liberazione. (35) Da tener presente che la Corte costituzionale (sent. 19 novembre 1991, n. 414), nel caso di figli di età inferiore ai cinque anni, ha legittimato anche il padre alla richiesta di detenzione domiciliare. Tuttavia, anche in presenza del requisito dell’età dei figli, la legittimazione del padre è subordinata all’ulteriore condizione della morte della madre o di una sua assoluta impossibilità a dare assistenza alla prole. È chiaro che, in base alle premesse, quest’ultima situazione non può formare oggetto di un esame preliminare. (36) Vanno annoverate, sicuramente, tra le condizioni di fatto, nonostante talune perplessità della giurisprudenza, ad esempio: a) l’osservanza da parte del richiedente non detenuto, di un comportamento in libertà idoneo a consentire il giudizio prognostico positivo di cui al comma 2 dell’art. 47 ord. penit. (art. 47 comma 3 ord. penit.); b) l’idoneità al recupero del programma concordato con la struttura sanitaria pubblica (art. 47-bis comma 1 ord. penit.); c) la verifica di taluni status dell’istante come le condizioni di salute particolarmente gravi, l’inabilità anche parziale, le esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia (art. 47-ter comma 1 ord. penit.); d) l’idoneità dei risultati dell’osservazione, ai fini dell’ammissione al regime di semilibertà anche prima dell’espiazione di metà della pena (art. 50 comma 2 ult. inciso ord. penit.); e) il risarcimento del danno o l’impossibilità di tale adempimento ex art. 176 comma 4 c.p. (37) Per espressa previsione (art. 4-bis comma 1 ord. penit.), non sono oggetto della disciplina restrittiva in tema di criminalità organizzata, oltre alla remissione del debito, la liberazione anticipata. La stessa disciplina, invece, è estesa alla liberazione condizionale dall’art. 2 d.l. 13 maggio 1991, n. 152 conv. nella l. 12 luglio 1991, n. 203. (38) In argomento v. l’approfondita disamina di F. DELLA CASA, Le recenti modifica-


— 292 — non «attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata», posta in via residuale e in presenza di particolari circostanze (39) nei confronti dei condannati per i delitti di cui al primo elenco dell’art. 4-bis comma 1 ord. penit., sia quella della mancanza di «elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata ed eversiva», posta nei confronti dei condannati per i delitti di cui al secondo elenco dello stesso articolo, sono indubbiamente condizioni di fatto. L’accertamento delle quali, oltretutto, richiede un tale bagaglio di conoscenze, che mal si presta ad una valutazione sommaria quale è quella dell’ammissibilità della richiesta. Riguardo poi al requisito della collaborazione con la giustizia — previsto in via generale per l’accesso ai benefici in caso di condanna per i delitti di cui al primo elenco dell’art. 4-bis comma 1 ord. penit. — è l’art. 58-ter comma 2 ord. penit. a stabilire le forme dell’accertamento, anche se finisce per configurare una sorta di sub-procedimento di ammissibilità (40). Anche le condizioni prescritte per la revoca delle misure de quibus debbono considerarsi di fatto. Un’eccezione è rappresentata dalla disposizione dell’art. 47-ter comma 7 ord. penit., secondo cui deve farsi luogo a revoca della detenzione domiciliare, quando vengono a cessare le condizioni indicate dal comma 1 dello stesso articolo. Più precisamente, il sindacato di ammissibilità è esercitabile in relazione alle richieste di revoca fondate sul venir meno dei requisiti di diritto, su cui poggiava la concessione della misura stessa. Tale elencazione, se si accettano le premesse, deve ritenersi tassativa. Dello stesso avviso non sembra, tuttavia, la esigua giurisprudenza di legittimità, la quale, nonostante in linea di principio abbia sempre confermato l’interpretazione qui suggerita, ne ha tratto, però, conseguenze contrastanti nella soluzione di casi concreti (41), aprendo pericolosi varchi a declaratorie di inammissibilità, ‘‘contaminate’’ da apprezzamenti anticipati di merito.

zioni dell’ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», in L’ordinamento penitenziario tra riforma ed emergenza, cit., p. 73 ss. (39) Attualmente le particolari circostanze in questione vanno individuate alla luce delle sentenze costituzionali che hanno dichiarato l’illegittimità dell’art. 4-bis comma 1, secondo periodo, ord. penit. «nella parte in cui non prevede che i benefici di cui al primo periodo del medesimo comma possano essere concessi anche nel caso in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, come accertata nella sentenza di condanna, renda impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, sempreché siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata» (Corte cost. 27 luglio 1994, n. 357) e «nella parte in cui non prevede che i benefici di cui al primo periodo del [presente] comma possano essere concessi anche nel caso in cui l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile renda impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, sempre che siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata» (Corte cost. 1o marzo 1995, n. 68). (40) Sul punto cfr. le critiche di F.M. IOVINO, Legge penitenziaria e lotta alla criminalità organizzata, in Cass. pen. 1992, p. 442 ss. (41) Contraddittorio è, infatti, l’indirizzo del S.C. in relazione alla condizione prevista dal comma 3 dell’art. 47 ord. penit. Invocando il combinato disposto degli artt. 666 comma 2 e 678 c.p.p., in un caso la Corte ha ritenuto legittimo il decreto di inammissibilità del presidente del tribunale di sorveglianza per manifesta infondatezza della domanda di affidamento avanzata da soggetto che, rimasto in stato di libertà successivamente alla commissione del reato per il quale aveva poi riportato la condanna principale, era stato imputato di altri reati (nella specie furti aggravati) (Cass. 12 novembre 1992, Talanca, in Arch. nuova proc. pen. 1993, p. 466); in un altro, al contrario, la stessa ha annullato il decreto con il quale il presidente di un tribunale per i minorenni, in funzione di tribunale di sorveglianza, aveva dichiarato inammissibile una richiesta di affidamento in prova al servizio sociale a causa dell’intervenuto arresto dell’istante per reati commessi successivamente alla richiesta medesima (Cass. 1o luglio 1993, Nenadovska, ivi 1994, p. 101).


— 293 — Va anche segnalato che tra le condizioni sopra enumerate, teoricamente incidenti sull’ammissibilità della richiesta, alcune hanno scarsa rilevanza pratica (42), altre difficilmente appaiono connotabili da un’infondatezza di palmare evidenza. Quest’ultima riflessione riguarda il calcolo dei limiti di pena previsti per alcune misure, il quale, benché di natura aritmetica, talvolta si prospetta non solo macchinoso, ma anche privo del requisito dell’incontrovertibilità (43), soprattutto per l’acceso dibattito, ancora oggi non del tutto sopito, sul significato di «pena inflitta» di cui all’art. 47 ord. penit. (44). La pronuncia per difetto di tale condizione, pertanto, dovrà spesso seguire alla trattazione dell’udienza, e non al vaglio preliminare del presidente, inaudita altera parte. 4. La seconda categoria di cause d’inammissibilità riguarda la domanda costituente «mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi». Il dettato normativo richiede un’interpretazione molto rigorosa, in considerazione della peculiarità che contraddistingue le decisioni conclusive del procedimento di sorveglianza, posto che l’inammissibilità deve ritenersi in tal caso «la sanzione processuale per la trasgressione del ne bis in idem» (45). In particolare, nel settore delle misure rieducative, il provvedimento di rigetto della richiesta produce l’effetto tipico del giudicato, se fondato su elementi storicamente definiti e non suscettibili di modificazione. Produce, invece, un effetto

(42) Ad esempio, la domanda di affidamento al servizio sociale presentata prima che il detenuto abbia trascorso almeno un mese in istituto, o quella di riduzione di pena presentata prima che il soggetto abbia espiato i sei mesi della stessa, nonché quella presentata prima che siano maturati i periodi minimi di espiazione previsti dall’art. 50 ord. penit. e dall’art. 176 c.p., presumibilmente indurranno il presidente del tribunale di sorveglianza a fissare la data dell’udienza alla scadenza dei rispettivi termini, e non a pronunciare l’inammissibilità della richiesta. Senonché, almeno in relazione alla liberazione condizionale, la Cassazione sembra aver escluso tale possibilità, precisando che l’avvenuta espiazione della pena deve essere calcolata con riferimento alla data di presentazione della domanda e non alla data della decisione (Cass., 27 gennaio 1987, in Cass. pen. 1988, n. 380, p. 449). (43) Non sono peraltro da trascurare, sotto questo profilo, le questioni derivanti da regolamentazioni lacunose. Non è chiaro, ad esempio, se ai fini del computo del quantum di pena previsto quale limite oggettivo alla concessione della detenzione domiciliare incidano le riduzioni di pena, posto che l’art. 54 comma 4 ord. penit. non fa alcun riferimento a tale beneficio (v. al riguardo L. CESARIS, La detenzione domiciliare come modalità alternativa, cit., p. 362 ss.). Ugualmente ai fini della liberazione anticipata ci si è chiesti che cosa si dovesse intendere per soggetto in espiazione di pena, anche se attualmente la Cassazione è unanime nel sostenere che non è possibile la riduzione di pena «se non sia già iniziato lo status detentionis in espiazione di pena o se esso non sia in corso» (Cass. 11 maggio 1993, Di Nicola, in Cass. pen. 1994, n. 1228, p. 1946; Cass. 20 marzo 1992, Migliore, ivi 1993, n. 929, p. 1547. Nello stesso senso Cass., sez. un., 18 luglio 1991, Argenti, ivi 1991, n. 1429, p. 1951; Cass., sez. un., 18 luglio 1991, Sacchetto, ivi 1991, n. 1430, p. 1955). Problemi si sono presentati anche in relazione alla liberazione condizionale rispetto al computo della pena complessiva da espiare, sulla quale deve essere verificata l’espiazione della parte prevista dalla legge (v. Cass. 24 settembre 1990, ivi 1992, n. 624, p. 1223). (44) Per fondate critiche all’art. 14-bis l. 7 agosto 1992, n. 356, che offre una ‘‘interpretazione autentica’’ dell’art. 47 ord. penit., al fine di risolvere i noti contrasti delineatisi in giurisprudenza sul significato da attribuire alla formula «pena inflitta» v. L. CESARIS, L’affidamento in prova al servizio sociale tra Cassazione rigorista e legislazione lassista, in Cass. pen. 1993, p. 32 ss.; F. DELLA CASA, I nuovi equilibri dell’art. 47 ord. penit. tra un ‘‘revirement’’ giurisprudenziale e una legge di interpretazione autentica... di non facile interpretazione, in questa Rivista 1993, p. 807 ss. (45) Così G. GIOSTRA, Il procedimento di sorveglianza, cit., p. 309, il quale precisa ancora che l’inammissibilità «deriva dall’infrazione dell’effetto preclusivo esplicato da una precedente pronuncia sul medesimo oggetto».


— 294 — rebus sic stantibus, nel senso che vale «in un dato momento ed in relazione a certe condizioni di fatto, modificate le quali può verificarsi nuova e diversa valutazione giudiziale» (46), se preso in riferimento ad una situazione soggetta ad evoluzione. Nel primo caso la sanzione del ne bis in idem, che si traduce in declaratoria di inammissibilità della richiesta, in quanto reiterativa di una precedente già rigettata, riguarda anzitutto le ipotesi di remissione del debito e di riduzione di pena. La nuova domanda di concessione di tali benefici non può che fondarsi, infatti, «sui medesimi elementi» di quella rigettata, ossia sulla condotta tenuta dal soggetto, rispettivamente, durante l’intero periodo di espiazione della pena (remissione del debito) e durante periodi determinati (i semestri, per le riduzioni di pena) (47). Per quanto concerne la richiesta di revoca, va premesso che essa, in tutte le ipotesi, non può che fondarsi sull’imputazione di un fatto determinato (48). Di conseguenza la preclusione processuale all’esperibilità di un secondo giudizio opera in relazione a domande fondate sullo stesso fatto, non anche su nuovi fatti. Rispetto ai provvedimenti ad effetto preclusivo rebus sic stantibus la giurisprudenza ha precisato che non incorre nella sanzione di inammissibilità la domanda che apporta elementi nuovi, considerati tali non solo quelli sopravvenuti, ma anche quelli preesistenti, di cui non si sia tenuto conto ai fini della decisione anteriore, cioè la domanda relativa allo stesso petitum, basata su elementi diversi da quelli precedentemente valutati (49). Questi criteri, se correttamente applicati alla nuova richiesta di misure rieducative diverse dalla remissione del debito e dalla riduzione di pena, dovrebbero far ritenere la stessa domanda sempre ammissibile. Qualora, infatti, il giudizio negativo in ordine alla concessione di una misura alternativa sia stato espresso in relazione al comportamento del richiedente, tenuto in libertà o in vinculis, può sempre essere proposta nuova domanda, ancorché abbia lo stesso oggetto e la stessa motivazione di quella respinta, poiché inevitabilmente muta l’elemento di fatto su cui essa poggia: appunto, i dati comportamentali durante l’intero periodo considerato (50). Nessuna rilevanza, peraltro, dovrebbe avere l’ampiezza del periodo intercorso tra la pronuncia di rigetto e la presentazione della nuova domanda: il fattore tempo, anche in ragione del trattamento rieducativo, è suscettibile di realizzare una modificazione della personalità del soggetto — elemento incerto ed in continua evoluzione per circostanze imprevedi-

(46) Così M. CANEPA-S. MERLO, Manuale, cit., p. 446. (47) Riguardo alle riduzioni di pena, nello stesso senso, Cass. 2 luglio 1992, Cancilleri, in Cass. pen. 1993, n. 1773, p. 2924; Cass. 27 gennaio 1992, Petillo, ivi 1993, n. 618, p. 938; Cass. 24 febbraio 1989, Rodano, ivi 1990, n. 979, p. 1163. La Cassazione, in proposito, ha affermato che anche l’ordinanza con cui si dispone il rigetto allo stato diviene irrevocabile in relazione al rifiuto di riduzione di pena per i semestri considerati (Cass. 16 febbraio 1990, Frezzolini, ivi 1991, I, n. 735, p. 820). (48) In tema di misure rieducative, un’eccezione alla necessaria determinatezza delle fattispecie di revoca sembrerebbe rappresentata dalla disposizione dell’art. 51 comma 1 ord. penit., secondo cui «il provvedimento di semilibertà può essere in ogni tempo revocato quando il soggetto non si appalesi idoneo al trattamento». Tuttavia, anche se nel caso in esame il legislatore ha usato una formula diversa da quella contenuta nell’art. 47 comma 11 ord. penit., «ha inteso configurare un’ipotesi analoga, in quanto l’inidoneità al trattamento deve essere, evidentemente, desunta da fatti comportamentali» specifici e circoscritti (G. DI GENNARO-M. BONOMO-R. BREDA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano 1991, 4a ed., p. 291). (49) Cass. 14 ottobre 1991, Franceschini, in Cass. pen. 1993, n. 73, p. 94. Sostanzialmente conformi Cass. 19 maggio 1992, Martino, ivi 1993, n. 1544, p. 2556; Cass. 23 maggio 1990, Reccia, in Giur. it. 1991, II, c. 88. (50) Al riguardo non può trascurarsi che «persino la condotta tenuta antecedentemente alla prima domanda potrebbe assumere, riconsiderata alla luce della successiva valutazione, un diverso significato» (G. GIOSTRA, Il procedimento di sorveglianza, cit., p. 320).


— 295 — bili — la cui consistenza ed idoneità ai fini della concessione della misura richiesta deve essere valutata in udienza nel contraddittorio delle parti. Ma anche sotto questo profilo la giurisprudenza di legittimità, forse troppo preoccupata di limitare il fenomeno delle richieste defatigatorie, ha assunto posizioni ambigue. Ha sì affermato il principio di diritto secondo cui «le decisioni emesse in materia di misure alternative alla detenzione, una volta divenute definitive, impediscono di procedere a successivo riesame» soltanto «in relazione alla medesima situazione e alle medesime condizioni già prospettate e decise» (51), ma a fronte, ad esempio, di nuova richiesta di semilibertà ha anche espresso giudizi negativi in ordine alla brevità del periodo interinale (poco più di due mesi), nonché in ordine all’intervenuta concessione di un permesso, sostenendo, con termini alquanto ambigui, che essa non poteva essere considerata «elemento puro» ai fini dell’ammissione al regime di semilibertà precedentemente negata (52). La pericolosità di tesi dirette ad ampliare il concetto di ‘‘mera riproposizione della richiesta’’ è palese: esse, frustrano il diritto dell’interessato ad agire in giudizio per chiedere un immediato adeguamento del regime sanzionatorio al modificarsi del proprio itinerario rieducativo (53). Un cenno merita anche l’interrogativo riguardante la possibilità di riproposizione della domanda dichiarata inammissibile. Nel silenzio della legge, la risposta positiva va subordinata alla sopravvenienza di nuovi elementi di giudizio (54). Non si ravvisano, infatti, ostacoli all’applicazione di questa regola nel settore che ci interessa. Preclusa deve intendersi, invece, la riproponibilità della domanda inammissibile, che sia basata sui «medesimi elementi», se non altro estendendo ad essa il disposto dell’art. 666 comma 2 c.p.p. 5. Di fronte ad una causa di inammissibilità, il giudice o il presidente del collegio, sentito il pubblico ministero e inaudita altera parte, con decreto motivato «che è notificato entro cinque giorni all’interessato», dichiara l’inammissibilità della richiesta e dispone non farsi luogo all’udienza. L’art. 666 comma 2 c.p.p. stabilisce che anche il giudice di sorveglianza debba provvedere alla declaratoria de qua, colmando la lacuna contenuta nell’art. 71-sexies ord. penit., il quale, attraverso il riferimento al solo «presidente», limitava l’esame preliminare sull’ammissibilità dell’istanza ai procedimenti di competenza del tribunale di sorveglianza (55).

(51) Cass. 18 novembre 1992, Fotia, in Cass. pen. 1994, n. 400, p. 660. (52) Cass. 24 settembre 1992, Papalia, in Cass. pen. 1994, n. 402, p. 661. La censurabilità dei pronunciamenti de quibus non sembra smentita dal fatto che nel caso di specie la Corte ha fondato la decisione su altre argomentazioni e cioè: «al fine di valutare la legittimità di una pronuncia ex art. 666 comma 2 c.p.p. (mera riproposizione di una richiesta già rigettata) deve aversi riguardo alla situazione prospettata dall’interessato ed a quella realmente esistente al momento della presentazione della nuova richiesta (...), e non già a quanto successivamente verificatosi o agli altri accertamenti disposti». Per la verità si tratta di un principio poco convincente, in quanto non in linea con la disciplina del procedimento di sorveglianza, la quale non richiede alcun particolare adempimento in relazione alla presentazione della domanda. (53) Pericolose debbono considerarsi anche le interpretazioni che facendo leva su considerazioni di opportunità, quali evitare la riproposizione di istanze subito dopo un precedente rigetto, risolvono la questione attraverso la sbrigativa ed equivoca avvertenza che dovrà prestarsi particolare attenzione nell’«esame del provvedimento negativo già emesso in precedenza» la cui valutazione dovrà essere «in relazione al contenuto della nuova domanda» (M. CANEPA-S. MERLO, Manuale, cit., p. 423). (54) Cfr. per tutti A. GHIARA, Inammissibilità (dir. proc. pen.), in Noviss. dig. it., vol. VIII, Torino 1962, p. 483. (55) Così M. CANEPA-S. MERLO, Manuale, cit., p. 338; G. DI GENNARO-M. BONOMOR. BREDA, Ordinamento penitenziario, cit., p. 401 s. Contra, invece, nel senso che ritene-


— 296 — Nell’ipotesi di richieste proponibili avanti a questo tribunale, il decreto di inammissibilità risulta di esclusiva competenza presidenziale. Il collegio non può, quindi, emettere analogo provvedimento de plano, in mancanza della declaratoria del presidente (56); non lo permette né la lettera della legge, né la ratio della disposizione. Quanto al primo aspetto, l’adozione è confinata nella fase preliminare all’udienza. Quanto al secondo, con l’espletamento delle attività preparatorie dell’udienza si sono vanificate, almeno in parte, le ragioni di economia processuale, cui la declaratoria di inammissibilità è finalizzata. Nonostante la norma in esame non formuli alcuna preclusione oggettiva, il controllo di ammissibilità sembra riguardare la sola richiesta della parte privata. Dall’inequivoca terminologia usata — il decreto è «notificato» all’«interessato» (57) — e, soprattutto, dall’inconferenza di un’obbligatoria audizione del pubblico ministero (58) sull’ammissibilità di una domanda da lui stesso presentata, si desume l’inoperatività del meccanismo in relazione alle richieste provenienti dall’organo dell’accusa. Se così è, la disciplina propone una disparità di trattamento tra parte pubblica e privata, difficilmente superabile in via interpretativa (59). Anzi, pur ad ammettere l’applicabilità della disposizione all’ipotesi di richiesta formulata dal pubblico ministero, il principio della parità di trattamento risulterebbe ugualmente violato, poiché ad essere sentita rimarrebbe in ogni caso la sola parte pubblica (60). Inadeguato, oltreché opinabile, del resto, appare il tentativo di giustificare la diversità di disciplina con la scarsa influenza ai fini della decisione d’inammissibilità del parere richiesto al pubblico ministero (61). Insufficienti sono pure le argomentazioni, fors’anche corrette, fondate sulla funzione della norma: quella di reprimere il «fenomeno piuttosto frequente nella pratica della ripetizione da parte di condannati di istanze già più volte respinte» (62). Riguardo alle misure rieducative potrebbe aggiungersi altresì la marginalità delle richieste del pubblico ministero, considerato l’ampio spazio riservato all’iniziativa d’ufficio in tema di

vano l’argomento letterale non decisivo e di conseguenza applicabile il disposto dell’art. 71sexies ord. penit. in via analogica anche al magistrato di sorveglianza, G. GIOSTRA, Il procedimento di sorveglianza, cit., p. 325; nonché Cass. 11 gennaio 1984, Palmas, in Riv. pen. 1984, p. 846. (56) Così Cass. 7 luglio 1992, Semaria, in Giur. it. 1994, II, c. 38 ss., nella quale si precisa che l’ordinanza d’inammissibilità del collegio, adottata senza l’osservanza di alcuno degli adempimenti indispensabili per instaurare il contraddittorio, è inficiata da nullità assoluta. Contra, però, Cass. 2 novembre 1993, Angelino, in Riv. pen. 1994, p. 798, ed in dottrina P. DI RONZA, Manuale di diritto dell’esecuzione penale, Bologna 1994, 2a ed., p. 352. (57) M. GUARDATA, Commento art. 666 c.p.p., in Commento al nuovo codice, cit., p. 52, il quale sottolinea che il pubblico ministero «non viene mai definito ‘‘interessato’’», e che allo stesso «gli atti del giudice vengono comunicati e non notificati». Nel medesimo senso, anche se in termini più sfumati, A. PRESUTTI, La disciplina del procedimento di sorveglianza, cit., p. 161. (58) Fonda l’obbligo di sentire il pubblico ministero ai fini della declaratoria d’inammissibilità sul carattere giurisdizionale del procedimento di sorveglianza Cass. 8 giugno 1992, Violani, in Cass. pen. 1993, n. 1615, p. 2620. (59) Così G. DI CHIARA, Il contraddittorio, cit., p. 330. (60) Anche per questa ragione la Pretura di Potenza ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 666 comma 2 c.p.p., in riferimento agli artt. 3 comma 2 e 111 comma 2 Cost. (ord. di rinvio 11 dicembre 1993, Caraffa, in Arch. nuova proc. pen. 1994, p. 348 ss.). (61) In proposito F. CORBI, L’esecuzione, cit., p. 205, il quale sottolinea che la richiesta di parere al pubblico ministero avviene «comunicando allo stesso (...) che si versa in una ipotesi di possibile declaratoria di inammissibilità e quindi a delibazione, sul punto, in pratica già avvenuta». (62) G. CATELANI, Manuale dell’esecuzione penale, Milano 1993, 3a ed., p. 223.


— 297 — revoca dei benefici concessi (63). Ma non v’è dubbio che il rispetto del principio costituzionale non si misura in termini quantitativi. Il decreto motivato d’inammissibilità della richiesta è «notificato entro cinque giorni all’interessato». La sbrigativa proposizione di legge abbisogna di un’interpretazione estensiva che permetta di colmare le numerose lacune. A tal fine, in primis, il decreto in questione, secondo l’art. 128 c.p.p., va depositato in cancelleria entro cinque giorni dalla deliberazione. E il giorno del deposito funge da dies a quo per la notifica, posto che tale deposito deve ritenersi «modalità regolare della pubblicazione dei provvedimenti del giudice non pronunciati in pubblica udienza» (64). Il termine di cinque giorni ha carattere ordinatorio, in quanto all’inutile decorso non è collegata alcuna sanzione processuale (65). Ciò consente di superare anche i lamentati disagi inevitabilmente legati alla sua esiguità (66). Soprattutto è l’indicazione del solo interessato quale destinatario della notifica del decreto di inammissibilità che non può ritenersi preclusiva della facoltà del pubblico ministero e del difensore di impugnare, pena la censurabilità della stessa disposizione. Attraverso il rinvio ai principi generali del processo penale, che indubbiamente valgono oltre la fase di cognizione (67), è possibile estendere anche a questi soggetti la legittimazione al ricorso per cassazione e, con priorità funzionale, il diritto di conoscere il provvedimento de quo. Più in specifico, al pubblico ministero spetta ex art. 128 comma 1, seconda parte, c.p.p. la comunicazione del decreto di inammissibilità ed ex art. 568 comma 3 c.p.p. la titolarità ad impugnare la decisione negativa sulla sua richiesta, sempreché la si ritenga — per la verità contro il dettato legislativo — suscettibile del sindacato di cui si discute. Anzi, secondo la Cassazione il pubblico ministero deve considerarsi legittimato ad impugnare anche il decreto che dichiara inammissibile l’istanza del condannato (68). Ma al riguardo, appare quanto meno dubbio che il generico interesse alla «retta applicazione della legge», sempre ravvisabile in capo al pubblico ministero, integri quel requisito di concretezza richiesto dall’art. 568 comma 4 c.p.p. (69). Le disposizioni generali in tema di impugnazione, e in particolare il principio contenuto nell’art. 568 comma 3 c.p.p., soccorrono pure nei confronti del difensore. Tuttavia, non può trascurarsi che la notifica del provvedimento negativo è possibile effettuarla solo se l’interessato abbia in precedenza provveduto di sua iniziativa alla nomina del difensore. Infatti, oggi come in passato, nella fase di delibazione sull’ammissibilità, il richiedente può risultare privo di difensore, posto che la nomina d’ufficio è obbligatoriamente prevista solo in un momento successivo (art. 666 comma 3 c.p.p.). Ancor più che in passato però la menomazione del diritto al difensore nella fase preliminare accentua il rischio di vanificare il diritto al procedimento, poiché, a differenza della ‘‘vecchia’’ opposizione, il ricorso per cassazione risulta di per sé non accessibile all’interessato in quanto tale. 6.

Per potenziare l’effetto dissuasivo di fronte ad iniziative pretestuose o strumentali,

(63) Cfr. A. PRESUTTI, La disciplina del procedimento di sorveglianza, cit., p. 155. L’autore osserva che tali spazi si sono progressivamente estesi fino «a ricomprendere misure alternative di nuovo conio» (ibidem, specialmente nt. 71). (64) F. CORBI, L’esecuzione, cit., p. 206. (65) Cass. 3 luglio 1992, D’Angelo, in Cass. pen. 1994, n. 72, p. 93 e Cass. 14 ottobre 1991, Franceschini, ivi 1993, n. 73, p. 94, dove si precisa che l’inosservanza del termine di cinque giorni per la notifica implica soltanto il mancato o ritardato decorso del termine per impugnare. (66) Cfr. ancora F. CORBI, L’esecuzione, cit., p. 206. (67) Così A. PRESUTTI, Il procedimento di sorveglianza, cit., p. 162; nonché F. CORBI, op. ult. cit., p. 205. (68) Cass. 4 ottobre 1991, Ferraiolo, in Giust. pen. 1992, III, c. 273 ss. (69) In questo senso F. DELLA CASA, La magistratura di sorveglianza, cit., p. 113.


— 298 — il legislatore ha ridimensionato, in senso vistosamente restrittivo, la disciplina dei rimedi avverso il decreto d’inammissibilità. Mentre l’art. 71-sexies ord. penit. stabiliva la possibilità di ‘‘opposizione’’ al giudice di sorveglianza con conseguente instaurazione del procedimento, l’art. 666 comma 3 c.p.p., avverso il provvedimento d’inammissibilità, prevede soltanto il ricorso per cassazione. In altre parole il legislatore ha abolito un grado di giurisdizione per ripristinare la finalità propria della declaratoria d’inammissibilità, seriamente compromessa dall’automaticità del meccanismo di opposizione. La soluzione, sicuramente più razionale ed efficace sotto il profilo dell’economia processuale, desta tuttavia perplessità, qualora la decisione d’inammissibilità attenga alla manifesta infondatezza dell’istanza per difetto delle condizioni di legge. La rinuncia ad un controllo nel merito evidenzia una caduta di garanzie proprio laddove l’accertamento si presenta molto delicato e le conseguenze della pronuncia rilevanti. È vero che, in questo settore, un regime differenziato per le due ipotesi di inammissibilità, così come in precedenza suggerito (70), avrebbe meglio bilanciato le opposte esigenze di un’utile celebrazione dell’udienza e di tutela del diritto al procedimento del condannato, ma è anche vero che tale soluzione si presentava difficilmente praticabile a fronte di una disciplina comune per il procedimento di sorveglianza (peraltro esteso ad istituti fuori dell’area della ‘‘rieducazione’’) e per il procedimento di esecuzione. Se, dunque, la previsione del solo ricorso per cassazione contro il provvedimento in esame è parsa quasi obbligata, il legislatore avrebbe dovuto almeno farsi carico di renderne effettivo l’accesso all’interessato. Invece, ha predisposto una disciplina che rischia di trasformarlo in «rimedio puramente teorico», soprattutto per quei condannati che «avendo formulato la richiesta senza il supporto del difensore, appaiono come i più probabili destinatari del provvedimento emesso in limine iudicii» (71). Né ‘‘assolve’’ il legislatore, del resto, la constatazione che il condannato presumibilmente, il più delle volte, nominerà il difensore proprio al momento di redigere la richiesta di concessione della misura rieducativa. L’ipotesi non risolve il problema, poiché la menomazione del diritto di difesa in questa fase potrebbe, in concreto, vanificare il diritto dell’interessato al procedimento. Meno preoccupazioni desta l’ulteriore silenzio sulle forme e sui termini dell’impugnazione, come pure sulle modalità del relativo giudizio: poiché il ricorso non potrà che svolgersi secondo i princìpi stabiliti dall’art. 666 comma 6 c.p.p. (72), con la precisazione che nell’ipotesi di illegittimità del provvedimento impugnato la Corte di cassazione dovrà annullare senza rinvio, non essendo necessario un secondo vaglio del giudice a quo (73). MARIA GRAZIA COPPETTA Università di Macerata Istituto di Diritto e procedura penale

(70) G. GIOSTRA, (Il procedimento di sorveglianza, cit., p. 327 ss.), aveva proposto di mantenere avverso il decreto d’inammissibilità per manifesta infondatezza l’‘‘opposizione’’ («trattamento a contraddittorio eventuale») e, avverso il decreto d’inammissibilità per mera riproposizione di istanza già respinta, il ricorso per cassazione. (71) Così efficacemente F. DELLA CASA, La magistratura di sorveglianza, cit., p. 114. (72) In pratica il rinvio è alle regole generali previste per il ricorso avverso le decisioni adottate in camera di consiglio, anche se il decreto motivato d’inammissibilità per espressa volontà di legge non è emesso a seguito di camera di consiglio (cfr. sul punto G. ZAPPA, Il procedimento di sorveglianza, cit., p. 414). (73) Cass. 24 febbraio 1993, Messina, in Cass. pen.1994, n. 770, p. 1282.


NOTE DI DIRITTO COMPARATO E STRANIERO

GIURISPRUDENZA CREATIVA NEL PROCESSO PENALE ITALIANO E NELLA COMMON LAW: ABNORMITÀ, INESISTENZA E PLAIN ERROR RULE.

SOMMARIO: 1. La disciplina dell’abnormità e dell’inesistenza: due ipotesi di case law nell’ordinamento processuale penale italiano. — 2. La costruzione giurisprudenziale del concetto di abnormità. — 3. L’inesistenza giuridica dell’atto processuale: genesi ed evoluzione dell’istituto. — 4. La distinzione tra le due categorie. — 5. Analogia tra case law in tema di abnormità ed inesistenza e diritto giudiziario angloamericano sotto il profilo del vincolo al precedente. — 6. Principio di legalità e poteri creativi del giudice: posizione del problema. — 7. Fondamento giusnaturalistico delle categorie giurisprudenziali dell’abnormità e dell’inesistenza. Composizione del conflitto tra esigenze equitative ed esigenze di certezza del diritto. — 8. La ragione come fattore di coesione dell’ordinamento giuridico nei sistemi di common law. Originaria supremazia della natural law nel diritto inglese. Vestigia del concetto di natural law: natural justice e fair trial. - A) Nemo iudex in re sua. - B) Audi alteram partem. - C) Fairness. — 9. Plain error rule: il giusnaturalismo processuale dell’ordinamento statunitense. — 10. L’attività creativa della giurisprudenza tra soluzioni garantiste e manovre eversive del sistema. 1. Anche se il nostro ordinamento, di matrice fondamentalmente legislativa, nega alla giurisprudenza valore di fonte normativa, al precedente giudiziale è da sempre riconosciuta una auctoritas che assume un ruolo rilevante nell’evoluzione del sistema (1). Minor attenzione è stata, invece, finora prestata, almeno nell’ambito degli studi sul pro-

(1) Alla mancanza, nei sistemi di civil law, di un principio del vincolo al precedente analogo alla regola angloamericana dello stare decisis fa riscontro la costante prassi giurisprudenziale di attenersi ai precedenti in materia. Da sempre gli ordinamenti di tradizione romanistica riconoscono, infatti, la forza persuasiva del precedente giudiziale in quanto ‘‘auctoritas rerum perpetuo similiter iudicatarum’’ (v., in ordine alla portata universale del principio relativo all’efficacia persuasiva del precedente, CARDOZO, Il giudice e il diritto, trad. a cura di Gueli, Firenze, 1961, p. 14 ss.). In particolare il notevole sviluppo delle raccolte di giurisprudenza testimonia l’importanza acquisita dal precedente giudiziale come fattore di evoluzione del diritto nei paesi romano-germanici (cfr. DAVID, I grandi sistemi giuridici contemporanei, trad. diretta da Sacco, Padova, 1973, p. 114; R.M. JACKSON, The Machinery of Justice in England, Cambrige, 1977, p. 10; SCHLESINGER, BAADE, DAMASKA, HERZOG, Comparative Law, New York, 1988, p. 597 ss.). D’altra parte nel mondo anglosassone la dottrina del precedente è venuta a perdere il rigore che la caratterizzava inizialmente (v. sul punto, più ampiamente, n. 25). Sfuma, quindi, il confine tra una situazione di autorità persuasiva del precedente in cui questo è pedissequamente osservato ed una situazione di precedente vincolante sistematicamente evaso mediante espedienti quali la fittizia distinzione tra i casi (GORLA, voce Giurisprudenza, in Enc. dir., vol. XIX, Milano, 1969, p. 496). Emerge, sotto questo profilo, una ‘‘tendenza evolutiva di convergenza’’ tra i sistemi di common law e quelli di civil law (v., al riguardo, CAPRiv. ital. dir. proc. penale 1/1996


— 300 — cesso penale, alle ipotesi di vera e propria case law, dovute esclusivamente all’opera creativa della giurisprudenza penale che costruisce nel vuoto normativo istituti mediante una serie incontrastata di pronunce costituenti, di fatto, precedenti vincolanti. Le due figure accomunate da questa genesi extralegislativa sono l’abnormità e l’inesistenza dell’atto processuale. Le categorie in questione si differenziano profondamente quanto a struttura e disciplina, pur traendo alimento dalla medesima ratio di salvaguardare insopprimibili esigenze di giustizia sostanziale. 2. Con riferimento al concetto di abnormità, infatti, ad ispirare lo sforzo creativo della giurisprudenza è stato il proposito, squisitamente equitativo, di assoggettare a gravame provvedimenti giurisdizionali extra ordinem in quanto divergenti, per la singolarità del loro contenuto, non solo da singole norme, ma dall’intero ordinamento processuale e affetti da vizi tanto gravi e grossolani da doversi ritenere assolutamente imprevedibili dal legislatore (2). La questione della impugnabilità oggettiva di questi provvedimenti non previsti dalla

PELLETTI, The Doctrine of Stare Decisis and the Civil Law: A Fundamental Difference - or no Difference at all?, in Fest. Zweighert, Tubingen, 1981, p. 381 ss.). In particolare la posizione della Corte Suprema degli Stati Uniti, da sempre riluttante a riconoscere la vincolatività delle proprie decisioni, non differisce di molto da quella della nostra Corte costituzionale, attenta a giustificare ogni capovolgimento della propria giurisprudenza. La tendenza della Corte ad adeguarsi alle proprie decisioni emerge, infatti, nitida sia dalla prassi di estendere a norme anche di diverso contenuto l’applicazione di principi generali enucleati in precedenza, sia dalla prassi di respingere con ordinanza le questioni relative a norme già esaminate. Il ricorso, in relazione al prevalere di esigenze nuove, a tecniche di evasione del precedente solo superficialmente diverse da quelle sviluppate dalla common law costituisce un’ulteriore riprova della tendenziale vincolatività delle decisioni della Corte, rafforzata dall’efficacia erga omnes delle medesime (cfr., al riguardo, G. TREVES, Il valore del precedente nella giustizia costituzionale italiana, in ID., a cura di, La dottrina del precedente nella giurisprudenza della Corte costituzionale, e ivi, PIZZORUSSO, Stare decisis e Corte costituzionale). Il principio del vincolo al precedente rientra del resto nella logica di un diritto giurisprudenziale quale deve ritenersi, almeno in parte, il diritto costituzionale italiano (v. infra n. 25). (2) V. Cass. sez. I, 8 aprile 1991, Zanetti, in Cass. pen., 1992, 1543, 823; Cass. sez. I, 12 luglio 1991, De Bono, in Cass. pen. 1992, 1296: ‘‘Costituisce provvedimento abnorme quello che, per la singolarità e la stranezza del suo contenuto, sta al di fuori delle norme legislative e dell’intero ordinamento processuale, per cui non rientra nei poteri dell’organo decidente perché incompatibile con i principi generali del sistema’’. Le ipotesi originarie in relazione alle quali la giurisprudenza ha enucleato la nozione di abnormità riguardavano le sentenze di proscioglimento recanti pronunce in contrasto con il loro contenuto: emblematico, al riguardo, il caso della sentenza di proscioglimento contenente la contestuale condanna dell’imputato al risarcimento dei danni a favore della parte civile (v., ad esempio, Cass. sez. II, 7 giugno 1933, Operti, in Giust. pen., 1933, II, 1831; Cass. sez. I, 18 febbraio 1938, Villari e Di Meo, in Giust. pen., 1938, IV, 720). Anche in tema di provvedimenti irrituali di trasmissione degli atti all’organo istruttorio, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha raggiunto un’elaborazione notevole: fin dalla nota sentenza del 25 ottobre 1949 (Cass. sez. II, 25 ottobre 1949, Romualdi, in Giust. pen., 1950, III, 15), è stato, infatti, costantemente affermato il principio per cui le ordinanze dibattimentali che disponevano la restituzione degli atti al giudice istruttore o al pubblico ministero fuori dai casi previsti dalla legge dovevano ritenersi, in ragione della loro abnormità, autonomamente e immediatamente ricorribili per cassazione, in deroga all’art. 200 c.p.p. 1930 (cfr. il corrispondente art. 586 c.p.p.). L’abnormità delle ordinanze in questione, risolventesi, quanto alle conseguenze del vizio, nella loro irreparabilità, discende dalla violazione del principio di progressività processuale, per il quale il processo pervenuto alla fase del giudizio non poteva, di regola, ritornare alla fase istruttoria. V., conformi, ad esempio, Cass. sez. IV, 28 febbraio 1969, Ciufalini, in Giust. pen., 1970, III, 108; Cass. sez. V, 3 aprile 1987, Jannì, in Cass. pen., 1988, p. 1663, m. 1447. In dottrina v., al riguardo, MARIANI, Impugnabilità autonoma delle ordinanze di rin-


— 301 — legge andrebbe risolta, nel silenzio della legge e in virtù del principio di tassatività delle impugnazioni (art. 568 c.p.p.; art. 190 c.p.p. 1930), nel senso della inoppugnabilità. Tuttavia, di fronte all’assurdo di un provvedimento incompatibile con il nostro ordinamento giuridico ma sottratto ad ogni rimedio, esigenze di giustizia sostanziale hanno indotto i giudici a introdurre una deroga alla tassatività dei gravami.

vio degli atti al P.M., in Giust. pen., 1950, III, c. 15; MARUCCI, Alcuni aspetti del rinvio del dibattimento a tempo indeterminato, in Giur. compl. Cass. pen., 1950, II, 87; ID., In tema di provvedimenti abnormi e di libertà personale dell’imputato, in Giur. compl. Cass. pen., 1952, II, 11; SABATINI, Ordinanza di rinvio a tempo indeterminato o sentenza allo stato degli atti?, in Giust. pen., 1951, III, 624; GIAMPAOLI, Sull’impugnabilità immediata dei provvedimenti abnormi, in Foro it., 1952, II, 126; D’AGOSTINO, Impugnazione autonoma di ordinanza dibattimentale di rinvio degli atti al P.M., omessa formulazione della riserva e determinazione del mezzo, in Giust. pen., 1953, III, 48; MANZONI, Sull’impugnabilità in via autonoma di ordinanza c.d. abnorme, in Riv. it. dir. pen., 1957, p. 185; PETRELLA, Le impugnazioni nel processo penale, vol. I, Milano, 1965, p. 107. Il nuovo codice di procedura penale ha visto la scomparsa della fase istruttoria e della figura del giudice istruttore; casi di abnormità analoghi a quelli appena esaminati possono, tuttavia, configurarsi, nell’attuale ordinamento, in relazione alla differenza ontologica tra la fase delle indagini preliminari, affidata all’iniziativa investigativa del P.M., e quella del giudizio, destinata alla formazione della prova nel contraddittorio delle parti dinanzi a un giudice terzo. La questione si è già presentata all’esame della Corte di cassazione che, in applicazione del principio di separazione funzionale delle fasi processuali, ha ritenuto l’abnormità di un’ordinanza dibattimentale con la quale erano stati restituiti gli atti al P.M. in un’ipotesi assolutamente non prevista (cfr. art. 521 c.p.p.), cioè per l’eventuale incriminazione di altre persone neppure indicate. V. Cass. sez. III, 3 marzo 1992, Greco, in Archivio della nuova procedura penale, 1992, 587. In applicazione dello stesso criterio è stata ritenuta abnorme l’ordinanza con la quale il pretore, assumendo la difettosa notificazione all’imputato del decreto di citazione a giudizio, aveva dichiarato la nullità del decreto e restituito gli atti al pubblico ministero. V. Cass. 24 novembre 1993, Merlo. Una significativa applicazione del concetto di abnormità, conseguente all’entrata in vigore del c.d. Statuto dei lavoratori, riguarda le ordinanze pretorili di reintegrazione forzata nel posto di lavoro, ex art. 219 c.p.p. 1930, dei lavoratori illegittimamente licenziati. Si è consolidata, al riguardo, in giurisprudenza, la massima per la quale ‘‘il provvedimento emesso dal giudice penale che preveda un facere a carico dell’imputato riveste carattere di abnormità poiché, secondo il principio generale, nessuno può essere costretto a fare qualche cosa (Cass. sez. VI, 9 dicembre 1982, Schimberni, in Cass. pen., 1983, 327)’’. La Corte di cassazione ha evidenziato un ulteriore profilo di abnormità delle ordinanze in questione, attinente all’illegittima interpretazione da parte dei giudici di merito dell’art. 219 c.p.p. abrogato in termini di norma generale e onnicomprensiva tale da consentire qualsiasi provvedimento idoneo a realizzarne le finalità. Questa interpretazione estensiva della norma in questione, relativa alle funzioni della polizia giudiziaria, è stata duramente condannata dalla Corte di cassazione che ha qualificato l’art. 219 c.p.p. abrogato come ‘‘norma di sintesi la quale, nel richiamare i compiti della polizia giudiziaria, ...si riferisce alle forme di coercizione personale o reale specifiche e predeterminate dalla legge’’ (Cass. sez. VI, 11 dicembre 1981, Fois, in Giust. pen., 1982, III, 193). Anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, la posizione della Corte di cassazione rispetto all’art. 55 c.p.p., corrispondente al vecchio 219, non è mutata: in applicazione dei suesposti principi la Corte ha quindi annullato, ritenendolo abnorme, un provvedimento — rivolto dal pubblico ministero ex artt. 55 e 327 c.p.p. a persona querelata per episodi di ritenuta molestia — di diffida a non perseverare in siffatta condotta. V. Cass. sez. V, Grossi, 14 giugno 1991, in Archivio della nuova procedura penale, 1992, 111. Tra i casi di provvedimento abnorme individuati dalla giurisprudenza formatasi sotto il vigore del codice attuale, si segnalano, inoltre, la revoca del decreto di citazione a giudizio pronunciata fuori dei casi consentiti dalla legge, contrastante con il principio di irretrattabilità dell’azione penale (Cass. sez. VI, 19 ottobre 1990, Sica, in Cass. pen., 1991, II, 93); il decreto di archiviazione emesso dal g.i.p. senza richiesta specifica del P.M., abnorme in rela-


— 302 — Com’è noto, il problema ebbe a manifestarsi all’attenzione della giurisprudenza in seguito all’entrata in vigore del codice Rocco che vide la soppressione di un rimedio, il ricorso nell’interesse della legge, disciplinato nei codici previgenti e idoneo a garantire il sindacato della Corte di cassazione in tutti gli impensabili casi in cui un provvedimento non fosse previsto dalla legge. La giurisprudenza fu posta, dunque, dinanzi a un dilemma: salvare la lettera dell’art. 190 c.p.p., consacrando, così, provvedimenti macroscopicamente illegali, o scongiurare tale risultato incongruo e iniquo, sacrificando la lettera della legge. In questo secondo senso si è orientata, fin dai primi anni di applicazione del codice del 1930, una notevole e coraggiosa giurisprudenza della Corte di cassazione (3) che, nell’enucleare la nozione

zione al sistema di rapporti delineato dal nuovo codice tra il pubblico ministero, cui solo spetta di assumere le determinazioni relative all’esercizio dell’azione penale, e il giudice per le indagini preliminari che, pur essendo investito della funzione di garantire l’osservanza del principio di obbligatorietà dell’azione penale, è tenuto a esercitarla nelle forme consentitegli dalla legge e, in particolare, in quelle previste dall’art. 409 (Cass. sez. V, 11 gennaio 1991, Agnoluci, in Cass. pen., 1992, 599). (3) In particolare, Aloisi, presidente della 1a sezione, propugnò con decisione la tesi dell’impugnabilità oggettiva dei provvedimenti abnormi, evidenziandone il carattere di imprevedibilità da cui scaturiva sia l’inapplicabilità dell’art. 190 c.p.p. 1930 sia la necessità di integrare tale lacuna nella disciplina della impugnabilità oggettiva in base ai principi generali regolatori della materia (analogia iuris). V. ALOISI, Applicazioni giurisprudenziali sui nuovi codici, in Riv. it. dir. pen., 1935, 449; ID., Manuale pratico di procedura penale, Milano, 1952, II, 44. Alle stesse conclusioni di Aloisi pervenne anche ESCOBEDO, Limiti di applicazione e critica dell’art. 190 con particolare riferimento alle sentenze in materia di contravvenzioni alla legge sismica, in Giust. pen., 1935, IV, 81; ID., Atto giudiziale inesistente e amnistia, in Giust. pen., 1938, IV, 577. Per una posizione parzialmente critica v., invece, NUVOLONE, Ricorso inammissibile e sentenza inesistente, in Giur. it., 1946, II, 170; LO CIGNO, Inapplicabilità del concetto di provvedimento abnorme, in Giur. compl. Cass. pen., 1954, IV-V, 46; PETRELLA, Le impugnazioni nel processo penale, vol. I, Milano, 1965, p. 113; DEL POZZO, Legalità e giustizia - A proposito di impugnabilità oggettiva, in Scuola positiva, 1939, II, 84. Le valutazioni critiche originariamente formulate da quest’ultimo autore contribuirono decisamente ad orientare la giurisprudenza della Corte di cassazione, a partire dal 1942 (cfr. Cass. sez. II, 11 marzo 1942, Sinelli, in Annali di dir. e proc. penale, 1942, 669), verso un’interpretazione restrittiva dell’art.190, abbandonata nel 1947 per tornare al pregresso indirizzo liberale cui lo stesso Del Pozzo aderì successivamente. V., al riguardo, DEL POZZO, Le impugnazioni penali - Parte generale, Padova, 1951, p. 226; ID., La disciplina delle impugnazioni di provvedimento abnorme nel nuovo ordinamento processuale, in Giust. pen., 1958, III, 608; ID., voce Impugnazioni (dir. proc. pen.), in Novissimo Digesto italiano, vol. VIII, Torino, 1962, 419. In quest’ultimo senso, v., anche, LEONE, Sistema delle impugnazioni penali, Napoli, 1935, p. 172; DE MARSICO, Dogmatica e politica nella scienza del processo penale, in Nuovi studi di diritto penale, Napoli, 1951, 96; BERNIERI, L’impugnabilità dei provvedimenti cosiddetti abnormi, in Annali di diritto e procedura penale, 1942, 669; GUARNIERI, I provvedimenti abnormi sono ricorribili per cassazione?, in Scuola positiva, 1943, II, 81; TALASSANO, Impugnabilità dei provvedimenti penali abnormi, in Giur. compl. Cass. pen., 1947, I, 40; LOASSES, Delle impugnazioni non stabilite dalla legge, in Giur. compl. Cass. pen., 1949, I, 31; FOSCHINI, La sentenza abnorme, in Riv. it. dir. pen., 1950, 563 e 569; ID., Provvedimenti abnormi e loro impugnabilità, in Riv.it. dir. pen., 1951, 744; DE LEONE, In tema di dispositivo, di cosa giudicata e di sentenza abnorme, in Archivio penale, 1956, II, 122. Nella dottrina più recente, v. BOSCHI, In tema di provvedimenti abnormi, in Foro it., 1965, II, 322; RAMACCI, Orientamenti della dottrina e della giurisprudenza in tema di cosiddetti ‘‘provvedimenti abnormi’’, in Archivio pen., 1964, II, 229; RUSSO, Orientamenti della Cassazione in tema di provvedimenti ‘‘abnormi’’, in Il Tommaso Natale, 1976, 592; ANNUNZIATA, I provvedimenti abnormi nell’elaborazione giurisprudenziale, in Temi napoletana, 1965, II, 212; SANTANGELO, Il concetto di atto abnorme come tutela degli atti extravagantes, in Crit. dir., 1991, 60; SIRACUSANO, Abnormità e ricorribilità per cassazione dei provvedimenti giurisdizionali del pubblico ministero, in questa Rivista, 1963, 315, nonché LOZZI, I


— 303 — di abnormità, le ha consapevolmente attribuito la funzione di legittimare la deroga al principio di tassatività delle impugnazioni e la conseguente ammissibilità del ricorso in cassazione contro i provvedimenti abnormi. L’assetto giurisprudenziale in tema di impugnabilità oggettiva dei provvedimenti abnormi è stato modificato dall’avvento della Costituzione repubblicana che, all’art. 111 comma 2, incorporato nel codice con la novella del 1955 (cfr. art. 190 comma 2 c.p.p. 1930; art. 568 comma 2 c.p.p.), ha reso comunque esperibile il ricorso in cassazione per violazione di legge contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale. In particolare, dopo la riforma del 1955, buona parte della dottrina vide nel testo novellato dell’art. 190 c.p.p. 1930 la consacrazione dell’impugnabilità oggettiva dei provvedimenti abnormi e pervenne alla conclusione che la categoria dell’abnormità fosse, ormai, divenuta irrilevante nei confronti delle sentenze e dei provvedimenti sulla libertà personale, conservando la funzione marginale di legittimare l’impugnabilità di ordinanze e decreti non riguardanti lo status libertatis, con un conseguente notevole ridimensionamento della categoria stessa. Questa impostazione postula necessariamente un’interpretazione dell’art. 190 comma 2 c.p.p. 1930 (e del corrispondente art. 568 comma 2 c.p.p.) secondo la quale le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale sono ricorribili per un vizio di generica violazione di legge, che senz’altro ricomprende l’abnormità (4). Tale interpretazione è, però, contraria sia a considerazioni di opportunità e di politica del diritto sia ad una lettura sistematica dell’art. 190 comma 2 c.p.p. 1930. Le prime attengono al pericolo che la configurazione della generica violazione di legge come autonomo motivo di ricorso conduca ad una dilatazione senza limiti dell’ambito delle impugnazioni. Quanto all’interpretazione sistematica della norma, è di immediata percezione il rapporto intercorrente tra essa e l’art. 524 c.p.p. 1930 (cfr. il corrispondente art. 606 c.p.p.) che evidenzia come nulla sia stato innovato né con la predetta riforma né con altro successivo intervento legislativo in ordine alla disciplina dei motivi di ricorso, il cui perimetro continua a segnare limiti precisi all’esercizio del diritto di impugnazione. Il temperamento apportato al principio di tassatività delle impugnazioni dalla novella del 1955 non autorizza, quindi, a ritenere anacronistica la nozione di abnormità. La categoria in questione, infatti, se con riferimento alle ordinanze e ai decreti non riguardanti la libertà personale continua a svolgere la funzione di legittimare la deroga alla regola della tassatività dei mezzi di gravame, con riferimento alle sentenze e ai provvedimenti sulla libertà

provvedimenti impugnabili del pubblico ministero, in Studi in onore di Francesco Antolisei, vol. III, 1965, 177, favorevoli ad una soluzione positiva del problema, tuttora aperto in giurisprudenza, relativo alla configurabilità di atti abnormi del p.m.; MENCARELLI, Il provvedimento abnorme nella teoria del processo penale, Napoli, 1984, che nel condividere la nozione tradizionale di abnormità aggancia la categoria in questione al principio di non regressione del processo, dalla cui violazione deriverebbe la situazione di abnormità. Sull’utilizzazione del concetto di abnormità nel processo civile, v. DENTI, In tema di provvedimenti giurisprudenziali abnormi, in Giur. it., 1955, I, 2, 532; MANDRIOLI, In tema di invalidazione dei provvedimenti c.d. ‘‘abnormi’’, in Rivista di diritto e procedura civile, 1966, 572. (4) Manca, peraltro, tra i fautori della tesi criticata una chiara consapevolezza di questa inevitabile implicazione e della sua portata. Tacciono, infatti, sul punto, ad esempio: DEL POZZO, voce Impugnazioni, in Novissimo Digesto italiano, vol. VIII, Torino, 1965, 419; CONSO, Questioni nuove di procedura penale, Milano, 1959, 220; PETRELLA, Le impugnazioni nel processo penale, Milano, 1965, I, 106, che si limita a dire: ‘‘La recente riforma ha tolto ogni rilevanza al concetto di sentenza abnorme perché attualmente tutte le sentenze, ad eccezione di quelle di rinvio a giudizio e di quelle sulla competenza che possono dar luogo a conflitto, sono assoggettate ad impugnazione’’. Esplicito, al riguardo, è il solo RANIERI, Manuale di dir. proc. pen., Padova, 1957, 371, per il quale l’impugnazione dei provvedimenti abnormi è proponibile per il vizio di una generica violazione di legge.


— 304 — personale non può dirsi svuotata di ogni significato, pur avendo perso la suddetta funzione, in quanto è venuta ad assumere quella, altrettanto rilevante, di giustificare la deroga all’enumerazione tassativa dei motivi di ricorso, assurgendo essa stessa a motivo di impugnazione, non contemplato dalla legge, ma consacrato dall’elaborazione giurisprudenziale. In entrambi i casi il concetto di abnormità funge da rimedio di chiusura del sistema delle impugnazioni penali. Né i termini della questione sono mutati con l’entrata in vigore del nuovo codice, data l’identità dei parametri normativi di riferimento. La vitalità della costruzione in esame trova ulteriori e decisive conferme nel persistente impiego del concetto di abnormità da parte della giurisprudenza risalente all’ultimo decennio di operatività del codice abrogato, nonché nella sua sopravvivenza nel nuovo sistema come si desume dall’espressa menzione del vizio nella relazione al progetto preliminare del nuovo codice. Quanto al primo punto, la giurisprudenza è venuta gradualmente a conferire una disciplina organica alla materia dell’abnormità delineando il regime di deducibilità del vizio e circoscrivendo l’ambito di operatività della categoria attraverso una chiara identificazione dei presupposti ricorrenti nelle situazioni di abnormità. In particolare la giurisprudenza, nel definire le condizioni per la configurabilità dei provvedimenti abnormi, ha messo in luce l’impossibilità di rimuoverne gli effetti con mezzi diversi dal ricorso per cassazione (5) autoimponendosi, di conseguenza, il rispetto del criterio dell’extrema ratio per l’individuazione delle concrete ipotesi di abnormità. Frutto di un’analoga autoregolamentazione della giurisprudenza è il regime di deducibilità del vizio, desumibile con chiarezza dalla ricorrente affermazione giurisprudenziale per cui l’abnormità può essere fatta valere secondo le regole, le forme e i termini propri del rimedio (ricorso per cassazione) esperibile per denunciarla (6). Più recente è l’affermazione della rilevabilità d’ufficio dell’abnormità nei casi in cui tale vizio incida sul thema decidendum devoluto alla Corte di cassazione, costituendo un passaggio logico essenziale ai fini della decisione (7). Quanto al secondo punto può destare perplessità l’inerzia del legislatore del 1988 che, pur conscio della utilità della costruzione giurisprudenziale in esame, non ha avvertito l’esigenza, da un lato, di prevedere espressamente l’impugnabilità dei provvedimenti abnormi, dall’altro, di configurare l’abnormità come autonomo motivo di ricorso. Tuttavia, ad una più attenta considerazione, l’omissione si rivela opportuna in quanto, a prescindere dall’estrema difficoltà di una definizione esaustiva del concetto di abnormità, qualsiasi classificazione della categoria ne pregiudicherebbe irrimediabilmente la funzione di compendiare tutti gli inimmaginabili casi di provvedimenti giudiziali anomali. Esplicita, al riguardo, la relazione al progetto preliminare del codice che, nel sottolineare ‘‘la rilevante difficoltà di una possibile tipizzazione dell’abnormità e la necessità di lasciare sempre alla giurisprudenza di rilevarne l’esistenza’’ (8), riconosce implicitamente al diritto giurisprudenziale il pregio della flessibilità, intesa come capacità di adattamento a nuove e imprevedibili situazioni, in contrapposizione alla rigida stabilità del diritto codificato.

(5) V., ad esempio, Cass. sez. I, 17 febbraio 1983, Saccà, in Cass. pen., 1984, p. 579; Cass. sez. I, 22 giugno 1985, Aiello: ‘‘Per l’ammissibilità in via eccezionale dell’immediato ricorso per cassazione contro un provvedimento del quale viene dedotta l’abnormità, è necessaria la condizione (negativa essenziale) della non esperibilità di alcun diverso rimedio’’. (6) V., ad esempio, Cass. sez. V, 22 giugno 1983, Podini, in Cass. pen., 1984, p. 2428, m. 1641; Cass. sez. IV, 19 novembre 1983, Gasparri, in Cass. pen., 1985, p. 139, m. 77. Qualche incertezza è riscontrabile, al riguardo, solo in alcune pronunce meno recenti che ritenevano esperibile contro le sentenze abnormi, a seconda del grado di giurisdizione, anche l’appello (Cass. sez. I, 30 marzo 1933, Gentilli, in Giust. pen., 1933, III, 855). (7) V. Cass. sez. VI, 19 ottobre 1990, Sica, cit. (8) Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, 126.


— 305 — 3. Analoghe considerazioni valgono per la nozione di inesistenza che la giurisprudenza penale ha mutuato dalla dottrina processualcivilistica (9), trasferendo sul terreno dello ius conditum una categoria concettuale teorizzata a livello di ius condendum. La categoria dell’inesistenza condivide con quella dell’abnormità la funzionalità a postulati di giustizia sostanziale: il concetto di inesistenza, infatti, ha avuto la sua stagione di fioritura quando erano state soppresse, con il codice del 1930, le nullità assolute e la giurisprudenza aveva dovuto ricorrervi per attenuare l’insopportabile rigore del sistema. La reazione garantistica della giurisprudenza e la conseguente determinazione a eludere il regime delle nullità si è manifestata attraverso l’espediente tecnico di ricomprendere sotto un nomen iuris distinto dalla nullità le situazioni processuali anomale rispetto alle quali apparivano più forti le esigenze di tutela. Per questa via la giurisprudenza pervenne alla pacifica definizione di atto inesistente in termini di ‘‘atto che, per vizio inerente a uno dei suoi elementi essenziali, è assolutamente inidoneo a produrre gli effetti che la legge gli assegna’’ (10). E non essendo idoneo a produrre effetti neppure in forma precaria, l’atto giuridicamente inesistente non ammette sanatorie e, ove si tratti di sentenza, non acquista efficacia di cosa giudicata, non costituisce ostacolo a un nuovo esercizio dell’azione penale, né può essere messo in esecuzione. Ripristinata con la riforma del 1955 la categoria delle nullità assolute (peraltro sanabili dal formarsi della cosa giudicata), la nozione di inesistenza, pur ridimensionata (11), ha continuato a svolgere la funzione di compendiare imperfezioni dell’atto più gravi di quelle causa di nullità assoluta e di legittimare la rilevabilità del relativo vizio in ogni tempo, anche dopo la formazione del giudicato, apparente in caso di sentenza inesistente, in quanto l’atto inesistente si caratterizza proprio per la mancanza degli elementi essenziali per la sua identificazione come atto processuale di una data figura: si pensi al caso emblematico della sentenza resa a non iudice. 4.

Quanto ai rapporti tra abnormità e inesistenza, va rilevato che l’anomalia dell’atto

(9) V., in ordine alla originaria elaborazione della categoria nel processo civile, sull’esempio della dottrina tedesca: CHIOVENDA, Principi di dir. proc. civ. italiano, Roma, 1936, p. 636. Sulla trasposizione del concetto nel campo del processo penale ad opera della giurisprudenza, v. ALOISI, Applicazioni giurisprudenziali sui nuovi codici, in Rivista italiana di diritto penale, 1935, p. 457. (10) Cass. sez. III, 6 maggio 1971, in Giust. pen., 1972, III, 437. Conforme la giurisprudenza successiva. V., ad esempio, Cass. pen. sez. IV, 10 settembre 1985, Costanzo: ‘‘L’inesistenza giuridica dei provvedimenti del giudice o del pubblico ministero è configurabile esclusivamente rispetto a quegli atti che, seppur materialmente esistenti, siano privi dei requisiti minimi (quali la provenienza da un organo giurisdizionale penale o investito dei poteri propri del pubblico ministero, l’adozione nei confronti di persona esistente e assoggettabile alla giurisdizione penale) necessari per poter essere riconosciuti come atti processuali del giudice o del pubblico ministero e, come tali, assolutamente inidonei a produrre gli effetti che la legge ricollega agli atti di questo tipo’’. Sul concetto di inesistenza, v. in dottrina, tra gli altri, PANNAIN, Le sanzioni degli atti processuali penali, Napoli, 1933, p. 341; LEONE, La sentenza penale inesistente, in Riv. it. dir. pen., 1936, 19; BELLAVISTA, Sentenza di cassazione inesistente, in Arch. pen., 1954, 301; NUVOLONE, Ricorso inammissibile e sentenza inesistente, cit.; CONSO, Il concetto e le specie di invalidità, Milano, 1955, p. 97; CORDERO, L’inesistenza della decisione giudiziaria, in Riv. it. dir. pen., 1957, 602; MANCINELLI, L’accertamento dell’inesistenza della sentenza penale, in questa Rivista, 1959, 671; ID., voce Inesistenza degli atti processuali penali, in Novissimo Digesto italiano, vol. VIII, Torino, 1962, 638; PEYRON, voce Invalidità, in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 615. (11) Dopo la riforma del 1955, infatti, molte delle situazioni già configurate quali casi di inesistenza vennero a confluire entro il paradigma delle nullità assolute: così, ad esempio, il caso di sostituzione di uno dei giudici nel corso del dibattimento.


— 306 — processuale differisce profondamente, nelle due ipotesi, per natura e gravità. Mentre l’inesistenza investe il momento formativo dell’atto, l’abnormità, riferibile ai soli provvedimenti, attiene al momento precettivo degli stessi: nel primo caso risulterà viziata la forma dell’atto, nel secondo il suo contenuto dispositivo. In altri termini, mentre l’atto inesistente manca dei requisiti minimi per la sua riconducibilità a un determinato schema di atto processuale, il provvedimento abnorme, pur se caratterizzato da un contenuto macroscopicamente illegale, integra i requisiti di un modello normativo (12). Si parla, infatti, ad esempio, di provvedimenti di archiviazione abnormi, con riferimento al contenuto anomalo di un atto pienamente conforme allo schema legale. Questa differenza di struttura tra gli atti inesistenti e quelli abnormi si riflette nel relativo trattamento, così come delineato dalla giurisprudenza, artefice di entrambe le figure: l’abnormità è sanabile dal formarsi della cosa giudicata, mentre l’inesistenza è deducibile anche dopo il giudicato. La distinzione tra abnormità e inesistenza, nei termini suesposti, rileva anche sul piano sistematico: mentre l’inesistenza è riconducibile alla categoria generale dell’invalidità, riferibile — secondo la dottrina più accreditata (13) — alla difformità dell’atto dal modello legale, il concetto di abnormità trascende quello di invalidità e si traduce in un vizio sui generis degli atti processuali penali. 5. L’esame della costruzione e della disciplina delle categorie giurisprudenziali dell’abnormità e dell’inesistenza evidenzia l’analogia tra i criteri che hanno regolato lo sviluppo della case law italiana e quelli tradizionalmente propri della common law: tanto l’identificazione dei requisiti per la configurabilità dei vizi de quibus quanto la progressiva elaborazione del relativo regime, infatti, si prestano a una lettura in chiave di self restraint giurisprudenziale, ovvero di direttive impartite dal giudice precedente al giudice successivo. Ne consegue che, pur non operando, né potendo operare, nel nostro ordinamento, la regola stare decisis (14), propria dei sistemi di common law, la prassi di seguire i precedenti si è manifestata, nel campo oggetto di indagine, in forma singolarmente costante e uniforme. Anche il metodo di applicazione del diritto giudiziario in questione ricalca, nel delimi-

(12) In particolare, nel caso specifico della pronuncia inesistente in quanto resa a non iudice, si evidenzia una carenza di titolo autoritativo dell’organo che la emana, mentre l’abnormità del provvedimento presuppone, comunque, un’investitura, una capacità potestativa dell’organo che lo adotta per quanto in maniera aberrante. Cfr. SANTUCCI, Abnormità o inesistenza di un provvedimento?, in Giur. compl. Cass. pen., 1953, VI, 98. V., anche, MANZINI, Sentenze abnormi e sentenze inesistenti, in Giur. compl. Cass. pen., 1950, I, 130; FRISOLI, Incertezze giurisprudenziali in tema di sentenza inesistente, in Riv. it. dir. pen., 1952, 798. Sulla distinzione tra abnormità e inesistenza cfr. in giurisprudenza Cass. sez. un., 3 giugno 1950, Mancuso, in Giust. pen., 1950, III, 321; Cass. sez. I, 25 giugno 1975, Francia, in Cass. pen., 1976, 166. (13) V. CONSO, Il concetto di invalidità, cit.; ID., I fatti giuridici processuali penali, Milano, 1955, che definisce l’invalidità in termini di ‘‘imperfetta integrazione di un atto giuridico lecito’’. (14) Nell’interpretazione attenuata del principio accolta dalla moderna giurisprudenza angloamericana che ha riconosciuto ai giudici di vertice il potere di recedere dalle proprie precedenti decisioni, ove ritengano che considerazioni pressanti lo richiedano nell’interesse della giustizia (c.d. power to overrule). In particolare la House of Lords, nel 1966, con una dichiarazione solenne (v., 1966, I, V.L.R. 1234) resa dal Lord Chancellor al di fuori di ogni controversia, si è attribuita il potere di mutare la propria giurisprudenza. V., al riguardo, CROSS, Precedent in English Law, London, 1968; R.M. JACKSON, The Machinery of Justice in England, Cambridge, 1977, p. 10, p. 476; MANDELLI, Recenti sviluppi del principio dello stare decisis in Inghilterra e in America, in Riv. dir. proc., 1979, 661; WALKER and WALKER, The English Legal System, London, 1980, p. 128 ss. In ordine al valore del precedente giudiziario negli Stati Uniti d’America, dove la dottrina dello stare decisis ha storica-


— 307 — tare reciprocamente il campo dell’abnormità e dell’inesistenza in relazione a fattispecie apparentemente analoghe, la nota tecnica angloamericana del distinguishing, idonea a mediare le contrapposte esigenze di evoluzione del sistema e di certezza del diritto. L’analogia riscontrata tra i fenomeni considerati consente l’inferenza che l’attribuzione — anzi, l’autoattribuzione — di poteri creativi alla giurisprudenza esige per sua natura la previsione di un meccanismo di controllo idoneo a prevenirne la degenerazione nell’arbitrio, con l’ulteriore conclusione che la tendenziale vincolatività del precedente costituisce il contrappeso fisiologico dei poteri creativi del giudice. 6. Se le linee di sviluppo delle ipotesi italiane di case law sono parallele a quelle proprie dei Paesi di common law, le differenze tra i rispettivi ordinamenti riemergono prepotentemente ove si passi a considerare la giustificazione dei poteri creativi del giudice. Il problema relativo, infatti, mentre semplicemente non si pone nei sistemi angloamericani, di matrice squisitamente giurisprudenziale, riveste un ruolo di imponderabile rilievo in un sistema continentale tradizionalmente di diritto codificato, quale quello italiano, in cui le fonti del diritto sono specificamente predeterminate dal legislatore ovviamente senza includervi la giurisprudenza. L’usurpazione delle funzioni legislative ad opera della giurisprudenza, quindi, da un lato viola il principio di legalità, dall’altro è suscettibile di produrre effetti dirompenti sia in ordine ai rapporti tra produzione e applicazione delle norme giuridiche, tra ‘‘giudice’’ e ‘‘legge’’, quale fonte privilegiata del diritto, sia in ordine a quella che si può definire la ‘‘dialettica interna della giurisprudenza’’ (15), concernente i rapporti tra le diverse pronunce giudiziali e, in particolare, l’autorità del precedente. Le implicazioni insite nell’orientamento assunto dalla giurisprudenza in tema di abnormità e di inesistenza non sfuggirono del resto neppure ai suoi primi fautori: per giustificare l’impugnabilità dei provvedimenti abnormi le prime pronunce in materia fanno, infatti, significativamente riferimento a criteri ermeneutici consacrati nell’espressa previsione legislativa, quali l’analogia legis e l’analogia iuris (16). Questa dissimulazione dell’attività creativa del giudice trova un sorprendente riscontro nella concezione tradizionale inglese circa la natura meramente dichiarativa, ossia rivelatrice di un diritto preesistente allo stato di custom, della decisione giudiziale, dottrina ormai superata dall’aperto riconoscimento della natura creativa della funzione giudiziaria (17).

mente ricevuto un’applicazione particolarmente flessibile, cfr. W. FRIEDMANN, Legal Theory, New York, 1967, p. 344, che sottolinea l’incompatibilità della tradizionale doctrine of precedent con il rapido ritmo di sviluppo della società americana; FARNSWORTH, Introduzione al sistema giuridico degli Stati Uniti d’America, trad. di Clarizia, Milano, 1979, p. 60 ss.; MATTEI, Stare decisis, Milano, 1988. (15) GINO GORLA, voce Giurisprudenza, in Enc. dir., XIX, Milano, 1969, 492. (16) Cfr., quanto all’analogia legis, Cass. sez. I, 20 marzo 1933, Lo Cascio, in Giust. pen., 1933, II, 1829: ‘‘Se il ricorrente aveva diritto di proporre appello contro la sentenza che lo avesse assolto per insufficienza di prove, a maggior ragione quel diritto è d’uopo riconoscergli di fronte a una sentenza che, pur esimendolo da pena, lo dichiari colpevole’’. Per un’applicazione del criterio dell’analogia iuris, v. Cass. sez. I, 30 marzo 1933, Gentilli, cit.. Né sono mancati, in dottrina, i tentativi di integrare l’abnormità rispetto al sistema processuale, recuperando gli atti abnormi al sistema dei provvedimenti tipici (v. SABATINI, Amnistia, competenza funzionale, provvedimenti abnormi e impugnazioni, in Giust. pen., 1947, III, 321; PIERRO, Appunti per una teoria generale dell’abnormità nel processo penale, in Giust. pen., 1968, III, 321). (17) Cfr. Jones v. Secretary of State for Social Services, 1972, AC 944, per Lord Simon: ‘‘In questo paese è stato ritenuto per lungo tempo che i giudici non fossero creatori di diritto ma semplici scopritori ed espositori di esso. La teoria era che ogni caso fosse già previsto da un’apposita regola di diritto, esistente da qualche parte e in qualche modo rinvenibile, purché all’uopo si fossero impiegati sufficiente esperienza e rigore intellettuale. Tutta-


— 308 — Allo stesso modo le argomentazioni addotte in ordine alla impugnabilità delle decisioni abnormi manifestano, ad un vaglio appena approfondito, la loro natura di finzione giuridica: in relazione alle ipotesi tassative previste dall’art. 606 (18), infatti, l’estensione analogica delle norme relative al ricorso per cassazione si presenta addirittura contra legem; quanto all’analogia iuris, tale criterio può orientare l’interprete nella scelta razionale tra più soluzioni egualmente possibili e coerenti con il dato normativo, ma non lo autorizza a prescindere da quest’ultimo quando l’interpretazione della norma, nel senso, nel nostro caso, dell’inoppugnabilità dei provvedimenti abnormi, sia univoca e incontrovertibile. 7. Il riconoscimento della natura creativa dell’opera della giurisprudenza in tema di abnormità e di inesistenza è emerso, peraltro, molto presto dalle pronunce in materia (19) che, nell’interrogarsi circa la proponibilità di isolate ipotesi di diritto giudiziario in un ordinamento caratterizzato dall’assoluta prevalenza delle fonti autoritative del diritto, hanno paradossalmente ravvisato nell’esigenza di riportare il procedimento sui binari della legalità la superiore giustificazione delle costruzioni in questione e della conseguente violazione del principio di legalità rigorosamente inteso. Come si è già accennato più sopra, infatti, l’elaborazione delle categorie de quibus fu promossa all’insegna di postulati imperativi di giustizia sostanziale, così da uscire dagli stretti confini del diritto positivo per ridurre lo scarto tra essere e dover essere dell’ordinamento giuridico, nel dichiarato intento di ripristinare un ordine superiore violato. Tali considerazioni non valgono, tuttavia, a confinare nel campo dell’etica o di un diritto naturale scritto ‘‘putacaso sulle stelle’’ i concetti di abnormità e di inesistenza, la cui giuridicità scaturisce, anzi, proprio dalla positività del sistema con cui essi, nelle loro estrinsecazioni concrete, si pongono in contrasto. L’equilibrio stesso dell’ordinamento giuridico, infatti, non può prescindere dalle categorie in questione, in quanto se il nostro sistema consentisse in qualche modo la sopravvivenza, al suo interno, di provvedimenti a sé estranei (inesistenti) ovvero incompatibili con i suoi principi fondamentali (abnormi), arriverebbe a perdere la capacità di esprimere principi univoci e, in definitiva, ad autodistruggersi. La logica interna dell’ordinamento giuridico impone, quindi, per non comprometterne la sopravvivenza, l’esclusione di qualsiasi manifestazione aberrante. Di qui il ricorso all’extrema ratio delle nozioni in questione per salvare l’intima coerenza del sistema. Proprio tale carattere di necessarietà dell’abnormità e della inesistenza quali correttivi alle contraddizioni del sistema processuale penale induce a scorgervi un fondamento giusnaturalistico (20). Il

via, non era infrequente che, una volta scoperta tale regola, di fatto si rinunziasse alla pretesa di riconoscerla come preesistente... Ma la vera, seppur limitata, natura creativa della funzione giudiziaria (judicial law-making) è stata ammessa più apertamente in anni recenti’’. (18) Cfr. l’analogo art. 524 c.p.p. 1930. (19) Emblematico, al riguardo, lo schietto esordio della nota sentenza 18 febbraio 1938, VILLARI e DI MEO, cit., in tema di abnormità: ‘‘Il ricorso in esame dovrebbe, a rigore, essere dichiarato inammissibile’’. La Corte, quindi, nell’esporre le ragioni militanti a favore dell’impugnabilità dei provvedimenti abnormi, pone l’accento sull’esigenza di espellere dal sistema processuale ogni atto macroscopicamente illegale: ‘‘Talmente evidente è l’illegalità della pronuncia impugnata... e l’opportunità che vi si ponga riparo anche in questa sede che la Corte n’è indotta a persistere nell’indirizzo a favore dell’ammissibilità del ricorso... indirizzo perfettamente conforme ai compiti istituzionali della Corte’’. (20) In tal senso va inteso il richiamo al principio di non contraddizione quale fondamento del concetto di abnormità contenuto in una delle prime opere a sostegno dell’impugnabilità dei provvedimenti abnormi (ESCOBEDO, Atto giudiziale inesistente e amnistia, in Giust. pen., 1938, IV, 577 ss.). Escobedo riporta, al riguardo, le affermazioni di Niccolini: ‘‘I casi delle rescissioni furono determinati a tre in tre leggi dal titolo delle pandette quae sententiae sine appellatione rescindantur. Il principio generale di essi è quello che alcuni nostri antichi metafisici stabilivano per principio conoscitivo di ogni diritto, anzi di ogni verità, il principio di contraddizione. Tutto ciò che era in conflitto contraddizione o con la natura o


— 309 — concetto di diritto naturale si salda, così, con la tutela dei valori fondamentali dell’ordinamento da esso ispirati. Si disgrega, quindi, la concezione mitologica del diritto naturale inteso come visione inerte di valori elevati alle rarefatte sfere del trascendente e intraducibili nell’esperienza storica. Il diritto naturale, al contrario, si cala nella realtà storica come presenza operosa di principi a un tempo direttivi ed esplicativi del diritto vigente: tali principi non si pongono come assiomi assoluti ed immutabili, se non in senso formale, ma esprimono valori tendenziali cui l’ordinamento normativo non può aderire se non per gradi successivi di approssimazione. Non sono posizioni di riposo, ma di battaglia, conquiste permanenti e a un tempo attuali: ‘‘I diritti all’integrità morale e fisica, alla difesa legale, alla libertà, all’autonomia, sotto un principio superiore di solidarietà fra eguali, sono diritti di natura e insieme codificati, storici e razionali, costanti e certi come dev’essere la legge, in pieno continuo svolgimento e sviluppo come la vita stessa e la storia’’ (21). Il moderno giusnaturalismo rivendica, quindi, al diritto naturale la capacità di adattarsi ai tempi, senza corrompere la sua natura, al fine di mantenere sempre vivi ed attuali gli ideali a cui si ispira. Nel caso in questione la vitalità del diritto naturale trova, poi, una particolare conferma nella adattabilità di un concetto di chiara ispirazione giusnaturalistica, quale l’abnormità, alle nuove situazioni processuali determinatesi con l’applicazione del codice del 1989: si pensi all’uso della nozione di abnormità in chiave di tutela del principio innovatore della separazione dei ruoli degli operatori processuali (22). La flessibilità della categoria in questione destituisce di fondamento una delle critiche più insidiose mosse dai positivisti (23) agli istituti di matrice giusnaturalistica, relativa alla pretesa funzione conservatrice di questi ultimi, finalizzati ad assumere la razionalità del reale, prospettando una legittimazione trascendente del sistema esistente. L’esperienza storica dimostra invece, nel caso di specie, come l’originaria funzionalità del concetto di abnormità alla tutela dei valori ispiratori del sistema previgente non è valsa a garantirne surretti-

con la giurisdizione o con il testo espresso o sia senso letterale della legge, si distrugge da se stesso e in conseguenza era rescisso senza bisogno di appellazione. Si è fatto un giudicato a cui per la natura stessa delle cose non può obbedirsi? È la prima di tutte le nullità: non potest idem simul esse et non esse. Si è giudicato da parte di chi non aveva la facoltà o non poteva averla? La nullità è di ordine pubblico: egli è un giudice non giudice; la sua sentenza è nulla ipso iure. Si è giudicato contro l’espressa e letterale disposizione della legge, come contro l’espresso patto che forma legge tra i litiganti? La decisione è incompatibile con la legge: il principio di contraddizione l’annulla’’ (NICCOLINI, Della procedura penale nel Regno delle due Sicilie, Napoli, 1828, I, p. 446). Sulla rispondenza tra il concetto, di schietta matrice giusnaturalistica, di ‘‘natura delle cose’’ e quello di ‘‘reason of the thing’’, ricorrente nella giurisprudenza inglese, v. infra, par. 3. (21) PERTICONE, voce Diritto naturale (teoria moderna), in Novissimo Digesto italiano, V, Torino, 1960, p. 956. Per una rivalutazione critica del concetto di diritto naturale, v. anche, BARBERO, Rivalutazione del diritto naturale, in Ius, 1952, 491 ss.; PASSERIN D’ENTRÈVES, La dottrina del diritto naturale, Milano, 1954; FROSINI, L’attualità del diritto naturale, in Riv. intern. fil. dir., 1961, 519; ROMMEN, L’eterno ritorno del diritto naturale, trad. di Ambrosetti, Roma, 1965; FASSÒ, La legge della ragione, Bologna, 1966. (22) È emblematica, al riguardo, la sentenza 11 gennaio 1991, Agnolucci, in Cass. pen., 1992, 599, 200, che pone in luce il rapporto intercorrente tra l’impianto accusatorio del nuovo processo penale e l’abnormità dell’archiviazione pronunciata dal g.i.p. senza richiesta specifica del P.M. Con il nuovo codice è, infatti, mutato, per spirito e contenuti, il quadro normativo generale cui va rapportata ‘‘l’estraneità’’ del provvedimento abnorme e ciò non ha mancato di ripercuotersi sulla tipologia dei provvedimenti in questione. (23) Sulla distinzione tra un giusnaturalismo conservatore e uno rivoluzionario, cfr. KELSEN, La dottrina del diritto naturale e il positivismo giuridico (1928), in appendice a Teoria generale del diritto e dello Stato, trad. it., Milano, 1952, p. 422 ss.


— 310 — ziamente la perpetuazione, né a precludere la sopravvivenza dell’istituto al contesto nel quale si era formato. L’attualità della costruzione in esame trova, al riguardo, un significativo riscontro nell’espressa menzione dell’abnormità contenuta nella relazione al progetto preliminare del nuovo codice e suscettibile di una lettura in chiave di implicita ratifica dell’operato creativo della giurisprudenza, nel presumibile intento di risolvere i relativi dubbi di legalità. Alla base di tale presa di posizione del legislatore vi è la consapevolezza dell’inidoneità di una fonte autoritativa a disciplinare una materia la cui fluidità rende impossibile una sistemazione codicistica dell’istituto. L’unica alternativa praticabile è rappresentata, per ammissione dello stesso legislatore, da una regolamentazione flessibile della categoria in questione ad opera della giurisprudenza. Del resto la giurisprudenza, nel dare vita alle categorie dell’abnormità e dell’inesistenza, si è fatta portatrice, fino alle estreme conseguenze, delle medesime istanze alla base della revisione del concetto positivistico di interpretazione quale procedimento meramente sillogistico. Anche i moderni positivisti (24), infatti, hanno abbandonato la concezione della giurisprudenza teorica quale conoscenza neutrale del diritto esistente e riconoscono che l’interpretazione giurisprudenziale non ha un carattere agnostico e meccanicistico, ma creativo rispetto al testo normativo (25). Accanto ai margini di discrezionalità fisiologici rispetto all’attività interpretativa e con-

(24) V. KELSEN, La dottrina pura del diritto, trad. di M.G. Losano, Torino, 1966, p. 381. (25) Il dichiarato intento del positivismo legalista di ridurre il procedimento di applicazione della legge a una serie di operazioni logiche ripetibili e controllabili si è infatti rivelato impraticabile, così come ha esaurito ogni attrattiva il mito rousseauiano della santità della legge quale espressione della sovranità popolare. La conseguente rivolta contro il formalismo (cfr. WITHE, Social Thought in America: The Revolt against Formalism, New York, 1949, passim) fu condotta da varie correnti di pensiero quali la sociological jurisprudence ed il legal realism in America, la Interessenjurisprudenz e la Freirechtsschule in Germania, la scuola della libre recherche scientifique di Gény in Francia. L’accentuazione del carattere creativo dell’attività giurisprudenziale che le accomuna si spiega con la trasformazione, propria della nostra epoca, del ruolo dello stato e del diritto, connessa allo sviluppo del welfare state e della conseguente legislazione sociale (cfr. CAPPELLETTI, Giudici legislatori?, Milano, 1984, passim). Si pensi, in particolare, all’attività svolta dalla giurisprudenza per colmare le lacune esistenti nel nostro ordinamento in tema di disciplina dello sciopero (v., al riguardo, TARELLO, Teorie e ideologie del diritto sindacale, Milano, 1967, p. 7 ss.; GHEZZI, Diritto di sciopero e attività creativa dei suoi interpreti, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1968, 24 ss.). D’altra parte la celerità di sviluppo del sistema tecnologico fa ricadere necessariamente sul giudice la responsabilità, anche politica, del continuo aggiornamento normativo, minando alle basi il monopolio statale delle fonti del diritto (cfr. COTTA, La sfida tecnologica, Bologna, 1968, p. 180 ss.). Né può seriamente contestarsi l’influenza dei giudizi di valore sulle scelte dell’interprete nell’ambito delle soluzioni non contrastanti con il testo legislativo: è ricorrente, da Bartolo in poi, la considerazione che, nel concreto procedimento interpretativo, l’intuizione del risultato, o l’opzione politica in favore di esso precedono la ricerca di appigli legislativi a sua giustificazione (cfr., al riguardo, CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1954; CERRI, Il giudice e le ideologie, in Crit. dir., 1991, 20). In ordine ai poteri creativi della giurisprudenza v., anche, l’opera storica ed analitica di LOMBARDI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1967, nonché CALAMANDREI, La funzione della giurisprudenza nel tempo presente, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1955, spec. 253255; TORRENTE, Il giudice e il diritto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1962, 1261; FOSCHINI, Il giudice senza idee, in Archivio pen., 1968, 397; R. TREVES, Giustizia e giudici nella società italiana, Bari, 1972. Nella dottrina meno recente v. PACCHIONI, I poteri creativi della giurisprudenza, in Riv. dir. comm., 1912, I, 40; RADULESCU, La giurisprudenza quale fonte del diritto, in Riv. intern. fil. dir., 1933, 469 ss. Tra i fattori dell’accresciuta creatività giurisprudenziale dell’epoca attuale, vanno annoverate anche la nascita, in Europa, di una nuova funzione giurisdizionale, consistente nel


— 311 — nessi alla scontata presenza di lacune nell’ordinamento e di zone d’ombra intorno alla formulazione delle norme, assumono rilievo, nell’orientare l’interpretazione del giudice, criteri più marcatamente politici attinenti a considerazioni equitative o alla valutazione degli interessi in gioco: si parla, al riguardo, di giurisprudenza degli interessi, di giurisprudenza teleologica, di giurisprudenza evolutiva, con riferimento ai diversi giudizi di valore sottesi alla soluzione accolta dal giudice. L’interpretazione creativa, ispirata da esigenze equitative, incontra, però, un limite nella compatibilità con il testo di legge, in ossequio alla esigenza, tendenzialmente prioritaria in quanto diretta espressione del principio di legalità, di assicurare l’uniformità, la prevedibilità e la coerenza delle decisioni giudiziarie (certezza del diritto) (26). Le costruzioni dell’abnormità e dell’inesistenza, oltrepassando chiaramente tale limite, costituiscono l’espressione più pura del diritto naturale vigente: è stato del resto autorevolmente affermato che ‘‘il nuovo giusnaturalismo ha ben poco in comune con il giusnaturalismo classico e piuttosto che un diritto naturale ci propone un diritto giudiziario’’ (27). È evidente come la tensione tra esigenze equitative ed esigenze di certezza del diritto nonché di razionalità dello stesso si acuisca in relazione a ipotesi di case law. Tuttavia, come abbiamo già accennato, l’atteggiamento di self-restraint assunto dalla giurisprudenza in materia risponde proprio all’intento di controbilanciare il deterioramento dell’ideale di certezza del diritto derivante dall’esercizio del potere creativo del giudice. Più in generale, le costruzioni in tema di abnormità e di inesistenza testimoniano sia la funzionalità della naturalis ra-

controllo di costituzionalita della legge, e la correlativa istituzione di speciali Corti costituzionali, cui demandare il predetto controllo (v., al riguardo, CAPPELLETTI, Il controllo di costituzionalità delle leggi nel diritto comparato, Milano, 1968). La maggior attitudine creativa della Corte costituzionale rispetto ai giudici ordinari è, in una certa misura, fisiologica in quanto dipende dalla natura spesso politico-programmatica delle norme da attuare nonché dal duplice oggetto dell’attività ermeneutica delle Corti: il testo costituzionale e il testo legislativo sottoposto al vaglio di costituzionalità (v. sul punto, CHIARELLI, Processo costituzionale e teoria dell’interpretazione, in Foro it., 1967, V, 29). La creatività della giurisprudenza costituzionale italiana è stata enormemente rafforzata da un fattore politico contingente — l’esigenza di supplire alla colpevole inerzia del legislatore nel colmare le lacune dell’ordinamento — così che la Corte costituzionale, forgiata una serie di strumenti decisori (sentenze additive, sostitutive, interpretative di rigetto) idonei a incidere positivamente sull’ordinamento, è venuta ad assumere una funzione di codeterminazione dell’indirizzo politico legislativo. Il diritto costituzionale italiano, plasmato dalla Corte, si è trasformato in una ‘‘judgemade law’’ (G. TREVES, op. cit., p. 5). V. anche MODUGNO, Ancora sui controversi rapporti tra Corte costituzionale e potere legislativo, in Giur. cost., 1988, 22. Denunciano l’arbitrario sconfinamento nella sfera di discrezionalità del legislatore, ZAGREBELSKY, La Corte costituzionale e il legislatore, in Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo in Italia, a cura di P. Barile, E. Cheli e S. Grassi, Bologna, 1984, p. 127 ss.; ID., La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, p. 268 ss.; SILVESTRI, Le sentenze normative della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1981, I, 1684. Sul punto v. anche COLAPIETRO, Le sentenze additive e sostitutive della Corte costituzionale, Ospedaletti, 1990, passim; PUGIOTTO, Dottrina del diritto vivente e ridefinizione delle sentenze additive, in Giur. cost., 1993, 3672. (26) I termini del contrasto sono puntualmente delineati da GHIARA, Equità e legalità negli orientamenti della giurisprudenza, Milano, 1970, con riferimento al contrasto insorto tra giudici di merito e cassazione in ordine ai rapporti tra declaratoria di fallimento e giudizio di bancarotta per omissione dei libri contabili. La soluzione della questione — ammonisce l’autore — non è univoca, ma dipende, di volta in volta, dalla forza persuasiva delle esigenze equitative del caso specifico, in rapporto alla concreta rilevanza dell’esigenza di certezza del diritto. V. anche, al riguardo, BASILE, L’equità e la certezza del diritto, in La cultura, 1966, 537 ss.; LOMBARDI, op. cit., p. 568 ss.; PACCHIONI, Diritto e equità nell’amministrazione della giustizia inglese e nell’ordinamento giuridico degli Stati contimentali, in Giur. del lavoro, 1926, 433 ss. (27) SCARPELLI, L’educazione del giurista, in Riv. dir. proc., 1968, p. 11.


— 312 — tio alla coerenza del sistema sia la possibilità di un’armonica integrazione tra diritto e equità ove la dialettica tra i due termini evolva da un rapporto di opposizione a uno di pacifica convivenza realizzando, così, una felice mediazione tra le suddette esigenze conflittuali (28). A fugare il dubbio di uno scadimento della razionalità del diritto è sufficiente il rilievo che è possibile concepire tanto una giurisprudenza insieme rigorosa (rispetto al metodo e all’oggettività dei risultati) e creativa, che è poi il modello della common law e quello giusnaturalistico relativo all’abnormità e all’inesistenza, quanto una giurisprudenza non rigorosa e dichiarativa, che è poi il modello tradizionale del giurista puro interprete (29). La tutela dell’ideale di certezza del diritto è, inoltre, assicurata dalle finalità garantistiche, rispetto ai principi informatori del sistema processuale penale, delle costruzioni giurisprudenziali de quibus. 8. L’operatività della ragione immanente al diritto naturale quale insostituibile fattore di coesione dell’ordinamento costituisce un dato acquisito alla cultura giuridica non solo continentale. Con particolare riguardo all’ordinamento inglese, infatti, il processo di costruzione della common law è consistito proprio nell’elaborazione di un diritto giurisprudenziale fondato sulla ragione, che ha soppiantato il diritto consuetudinario dell’epoca anglosassone (30). Primarie istanze di natural justice si rinvengono, altresì, all’origine di quella struttura dualistica (common law-equity) del diritto inglese che valse ad assicurare la coerenza del sistema giuridico (31). Più in generale, il ricorso al concetto di ‘‘natural law’’ quale criterio di adeguamento delle norme giuridiche a postulati di giustizia sostanziale costituisce prassi abituale nella giurisprudenza inglese meno recente, così come l’annullamento delle decisioni against reason. Il ruolo prioritario attribuito alla natural law è evidenziato dalla frequenza con la quale una legge ad essa contraria, ritenuta ipso facto invalida, è stata disapplicata. Già nel Dr. Bonham’s case, deciso nel 1610, si legge, infatti: ‘‘...when an Act of Parliament is against common right and reason or repugnant or impossible to be performed the common law will control it, and adjudge such Act to be void’’. L’assoluta supremazia della natural law, erosa dalla crescente autorità del parlamento, va incontro, a partire dal XVIII secolo, a un lento declino (32): anche la terminologia — na-

(28) Per un excursus storico-comparatistico sui rapporti tra diritto e equità, cfr. BROGGINI, Riflessioni sull’equità, in Ius, 1975, 40 ss. (29) BOBBIO, Scienza giuridica tra essere e dover essere, in Riv. intern. di fil. del dir., 1968, p. 480. (30) L’idea di una consuetudine generale immemorabile del regno (general custom of the realm), accolta dalla dottrina ufficiale inglese del secolo scorso, è, infatti, una mera finzione, in quanto le sole consuetudini esistenti nell’Inghilterra del XII-XIII secolo, epoca di formazione della common law, erano quelle locali. V. DAVID, I grandi sistemi giuridici contemporanei, 4a ed., trad. diretta da R. Sacco, Padova, 1973. (31) L’equity presenta, infatti, storicamente, le caratteristiche di una giurisdizione equitativa fondata sulla buona fede (good conscience) e sui doveri morali, destinata a correggere i rigori e a supplire alle carenze della common law. V., al riguardo, WALKER and WALKER, The English Legal System, p. 41 ss.; R.M. JACKSON, The Machinery of Justice in England, p. 7; SERENI, L’Equity negli Stati Uniti, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1952, 330. Meno frequente, ma altrettanto significativo, il ricorso al concetto di ‘‘reason of the thing’’ per giustificare la scelta di una soluzione equitativa del caso. V., ad esempio, in giurisprudenza, Donoghue v. Stevenson 1932 S.C. (H.L.) 31. In dottrina, cfr. J. STONE, Human Law and Human Justice, 1965, p. 207. (32) V., al riguardo, H.H. MARSHALL, Natural Justice, London, 1959, p. 13 ss., che riporta la lapidaria affermazione di Lord Justice Holker: ‘‘Acts of Parliament are omnipotent...’’ (in Gibbs v. Guild, 1882, 9 Q.B.D. 74).


— 313 — tural law, law of God, law of nature —, ritenuta ampollosa e altisonante, è progressivamente abbandonata dalla giurisprudenza in favore di formule più dimesse, quali ‘‘just and reasonable’’ o ‘‘common sense and decency’’. Sopravvivono al crepuscolo della natural law le istanze, ad essa sottese, di razionalità del sistema giuridico che richiedono, a livello sostanziale, l’interpretazione delle norme in relazione ai principi fondamentali dell’ordinamento (33), a livello processuale, l’osservanza di uno standard generale di correttezza nel processo. Sotto il primo profilo, la natural justice opera come parametro di controllo del contenuto delle norme, sotto il secondo ne assicura la corretta applicazione, a prescindere dal contenuto (34). Correntemente intesa in quest’ultimo senso, l’espressione natural justice costituisce una delle poche inconfondibili vestigia del concetto di natural law. Il termine, inizialmente usato come sinonimo di natural law, ha successivamente acquistato un significato più ristretto, venendo a indicare, con espressione di sintesi, i requisiti essenziali di un processo equo (essential requirements of a fair hearing), tradizionalmente identificati nel dovere di imparzialità del giudice (nemo iudex in causa sua) e nel diritto di ciascuna parte di esporre il proprio caso (audi alteram partem). I principi in questione, che trovano significativo riscontro in numerose convenzioni internazionali (35), appartengono più alla comune coscienza dell’umanità che alla scienza giuridica (36): le rules of natural justice, infatti, sono così vitali ‘‘to the due performance of the office of the judge that without them the judge is no judge at all’’ (37), con la conseguenza che una decisione emessa in violazione di tali principi sarà in ogni caso considerata invalida. Il fondamento giusnaturalistico dei principi in esame ne giustifica l’ampio raggio di operatività: essi, infatti, si applicano, pur con qualche correttivo, anche alle decisioni arbitrali, dei domestic tribunals, di clubs e associazioni, nonché alle pronunce degli administrative tribunals e a quelle degli organi amministrativi che agiscono in via ‘‘quasi-judicial’’ (38). Sotto quest’ultimo profilo, il concetto di natural justice assolve a una funzione di garanzia dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione, del tutto analoga a quella svolta, negli Stati Uniti, dalla ‘‘due process clause’’. In questa prospettiva deve essere inquadrata la proposta del Committee on Ministers’ Powers (39) di affiancare alle tradizionali rules of natural justice due ulteriori principi operanti nei processi sia ordinari sia amministrativi e consistenti

(33) V., al riguardo, PERELMAN, Logica giuridica - Nuova retorica, a cura di Crifò, Milano, 1979. (34) Sulla duplice accezione di ‘‘natural justice’’, v. P. JACKSON, Natural Justice, London, 1979, ch. I. Sulla nozione di giustizia naturale quale criterio per garantire la correttezza del processo, v. STEIN and SHAND, Legal Values in Western Society, trad. it., Milano, 1981, p. 114. (35) Cfr. l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1950); l’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966); v. anche l’art. 6 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948). (36) Cfr. DEL VECCHIO, La giustizia, Roma, 1951. (37) H.H. MARSHALL, op. cit., p. 184. (38) Già nel 1874 emerge nella giurisprudenza inglese la consapevolezza che il principio del contraddittorio ‘‘is not confined to the conduct of strictly legal tribunals but is applicable to every tribunal or body of persons invested with authority to adjudicate upon matters involving civil consequences to individuals’’ (Wood v. Woad). V. in dottrina, al riguardo, H.H. MARSHALL, Natural Justice, cit., p. 61 ss., che sottolinea, tuttavia, la riluttanza di organi giudicanti diversi dalle Corti ordinarie ad applicare i principi in questione. In particolare, circa l’estensione all’attività amministrativa delle rules of natural justice, v. VARANO, Organizzazione e garanzie della giustizia civile nell’Inghilterra moderna, Milano, 1973, p. 285. (39) C.d. Donoughmore Report (1932).


— 314 — nel diritto delle parti di conoscere le ragioni delle decisioni e di prendere visione della relazione conclusiva di un’inchiesta pubblica condotta da un ispettore. Questi principi hanno, però, ricevuto, nella prassi giurisprudenziale, un’applicazione discontinua che non consente di ricomprenderli nel concetto di ‘‘natural justice’’ (40). Né può riconoscersi portata universale alle regole procedurali relative, ad esempio, alla pubblicità delle udienze, all’assistenza difensiva, al diritto di appellare le sentenze, cui sporadiche decisioni hanno attribuito un fondamento giusnaturalistico, riferibile, quindi, con sicurezza solo ai due principi già menzionati (41). A) Il principio ‘‘nemo iudex in re sua’’, di chiara matrice giusnaturalistica, coinvolge anche motivazioni di public policy. La ratio della massima risiede, infatti, nel duplice intento di scongiurare il rischio di parzialità (bias) nei giudizi e di promuovere la fiducia dei cittadini nella retta amministrazione della giustizia, presupposto indispensabile della sicurezza e dell’ordine sociale (42). La ‘‘rule against bias’’, quindi, mira a garantire non solo l’imparzialità del giudizio, ma anche la credibilità, al di sopra di ogni sospetto, degli organi giudicanti, secondo la nota massima espressa da Lord Herward: ‘‘Is of fundamental importance that justice should not be only done, but should manifestly and undoubtedly be seen to be done’’ (43). Coerentemente con la ratio della massima in esame, la giurisprudenza inglese si è costantemente orientata verso un’interpretazione rigorosa della stessa. Le decisioni emesse dai giudici interessati all’esito della causa sono, infatti, ipso facto annullate, in quanto inficiate da grave sospetto di parzialità, nel caso di interesse economico, anche di lieve entità (pecuniary interest), a prescindere da qualsiasi verifica circa la correttezza, in concreto, della condotta del giudice. Così la Camera dei Lords annullò un’ordinanza dello stesso Lord Chancellor, con la motivazione che questi aveva un interesse economico in una società che era parte del processo (44). La rule against bias non comporta l’automatica disqualification del giudice, regolata invece dal criterio convenzionale del ‘‘real likelihood of bias’’, nella diversa ipotesi in cui l’interesse del giudice all’esito della causa non sia fondato su fattori economici (c.d. favour o non pecuniary bias): rientrano in questo ambito le ipotesi di parentela tra il giudice e una delle parti o dei difensori, nonché di sua partecipazione a un precedente grado dello stesso processo in qualità di giudice o di difensore. Anche nel caso di favour l’operatività del test of real likelihood of bias rende irrilevante l’effettività della gestione parziale del processo. B) Il principio ‘‘audi alteram partem’’, altra significativa applicazione del concetto di natural justice, costituisce, sotto un diverso profilo, un portato del modello processuale ad-

(40) I due tradizionali principi di natural justice possono, invece, essere elusi solo nei casi espressamente previsti dalla legge (c.d. statutory authority) e nelle ipotesi eccezionali di deroga alla rule against bias riconducibili a esigenze di opportunità pratica (mancanza di un foro alternativo: c.d. necessity) o di economia processuale. Queste ultime precludono, infatti, alle parti la possibilità di eccepire la violazione della rule in questione dopo la pronuncia della decisione di merito. (41) Sottolinea i rischi connessi a un’eccessiva estensione del concetto di natural justice Lord Denning: ‘‘The rules of natural justice must not be stretched too far. Only too often the people who have done wrong seek to invoke the rules of natural justice so as to avoid the consequences’’. (R. v. Secretary of State for the Home Department, 1974). (42) Cfr., al riguardo, MARSHALL, op. cit., p. 29 e, ivi cit., Lush J. in Serjeant v. Dale, 1877, 2 Q.B.D. 588, 567 : ‘‘The law in laying down this strict rule, has regard, not so much perhaps to the motives which might be supposed to bias the judge, as to the susceptibilities of the litigant parties. One important object, at all events, is to clear away everything which might engender suspicion and distrust of the tribunal’’. (43) R. v. Sussex Justices, 1924, I K.B. 256, 259. (44) Dimes v. Grand Junction Canal Proprietors (1852) 3 H.L. cas. 759.


— 315 — versary, basato su un metodo dialettico di accertamento dei fatti ritenuto epistemologicamente superiore al metodo monologante di stampo inquisitorio (45). Al right to be heard — e all’ideologia liberale ad esso sottesa — è tradizionalmente attribuito un ruolo di grande rilievo nei sistemi di common law. Rivendicano un fondamento divino al principio in esame alcune delle pronunce più antiche: nel noto caso del 1723 R.v. University of Cambridge, in cui la Corte del King’s Bench reintegrò il Dr. Bentley nel titolo di Doctor of Divinity da cui era stato sospeso dal tribunale dell’Università senza essere sentito, Lord Pratt affermò: ‘‘The laws of God and man both give the party an opportunity to make his defence, if he has any’’. Il principio in esame, nell’esigere la valida instaurazione del contraddittorio, presenta, accanto a un nucleo centrale di significato sicuro, un’ampia zona di indeterminatezza. Il principio del contraddittorio sicuramente attribuisce a ciascuno il diritto di avere notizia dei procedimenti a suo carico e della natura dell’imputazione in tempo utile per preparare la difesa, il diritto di esporla adeguatamente, nonché quello di conoscere le prove a suo carico. È dubbio, peraltro, se il mancato rispetto delle rules of evidence produca, di per sé, un ‘‘breach of natural justice’’. C) In situazioni di incerta applicabilità dei principi di natural justice, nonché nelle ipotesi eccezionali di deroga agli stessi, l’osservanza di un minimum di garanzie procedurali è assicurata dal criterio della fairness, concetto empirico emerso sul terreno della prassi in risposta all’esigenza delle corti di riferirsi a uno standard generale di corretto esercizio della funzione giurisdizionale. Così il concetto di fairness (46), inteso quale standard minore rispetto alla natural justice, è usato per assicurare la correttezza dei procedimenti ex parte. Peraltro, sotto il profilo del ‘‘duty to act fairly’’ del giudice può essere recuperato il prin-

(45)

In ordine alla distinzione tra sistema accusatorio e sistema inquisitorio, v. AMO-

DIO, Il modello accusatorio statunitense e il nuovo processo penale italiano: miti e realtà

della giustizia americana, XXI, in Il processo penale negli Stati Uniti d’America, a cura di Amodio e Bassiouni, Milano, 1988; ILLUMINATI, Accusatorio e inquisitorio (sistema), in Enciclopedia giuridica Treccani, I, Roma, 1988; DAMASKA, The Face of Justice and State Authority, trad. it., Bologna, 1991, p. 73 ss.; PACKER, I limiti della sanzione penale, trad. it., Milano 1978, p. 153 ss. (46) Al concetto di fair procedure corrisponde, nell’ordinamento nordamericano, il principio del ‘‘due process’’ espressamente sancito dal V e dal XIV emendamento della Costituzione federale, per cui nessuno può essere privato della vita, della libertà o della proprietà ‘‘without due process of law’’. Il concetto di ‘‘due process’’ non costituisce una mera enunciazione del principio di legalità, ma traduce a livello di diritto positivo l’obbligo morale di assicurare la concreta attuazione nel processo di immutabili principi di natural law. Da un lato le idee di Locke, Paine e Rousseau hanno influenzato i contenuti della Dichiarazione di indipendenza e della Costituzione federale; dall’altro la generica formulazione degli enunciati costituzionali si prestava facilmente all’interpretazione in chiave giusnaturalistica. È emblematica, al riguardo, la tendenza della Corte Suprema a utilizzare le ‘‘due process clauses’’ del V e del XIV emendamento quali strumenti di manipolazione del diritto sostanziale, piegato, attraverso una ‘‘natural law interpretation’’ della Costituzione, alla tutela dei valori ritenuti di volta in volta prevalenti: la libertà economica individuale in un primo tempo, le civil liberties in epoca più recente (c.d. substantive due process). Cfr. FRIEDMANN, op. cit., pp. 138, 411. In ordine al fondamento giusnaturalistico del concetto di due process, v. anche, tra i tanti, CORWIN, The Higher Background of American Constitutional Law, in Harvard Law Review, 42 (1928-1929), 149 ss.; GRANT, The Natural Law Background of Due Process, in Columbia Law Review, 31 (1931) 56. Nella nostra dottrina, v. VIGORITI, Garanzie costituzionali del processo civile. Due process of law e art. 24 Cost., Milano, 1973; BRUNI ROCCIA, La dottrina del diritto naturale in America, Milano, 1950. Il principio del due process informa la struttura basilare del processo penale nordamericano. Regole processuali riconosciute come fondamentali dalla giurisprudenza statunitense, quali la presunzione di innocenza dell’imputato e il conseguente burden of persuasion a carico dell’accusa non trovano espressa sanzione nella Costituzione federale, ma si basano


— 316 — cipio, estraneo ai contenuti della natural justice, relativo al diritto delle parti a un giudizio motivato. Al contenuto garantistico minimo del concetto di fairness fa dunque riscontro l’esteso ambito di applicabilità. Il concetto di fairness riveste, quindi, un ruolo complementare rispetto a quello di natural justice, in ordine all’esigenza di garantire la razionalità dell’ordinamento attraverso l’eliminazione di ogni decisione aberrante, assolvendo a una funzione di ‘‘valvola di sicurezza’’ del sistema del tutto analoga a quella svolta dalle categorie italiane dell’abnormità e dell’inesistenza. 9. Le medesime finalità di tutela della razionalità del sistema sottese alla elaborazione del concetto di abnormità giustificano la formulazione, ad opera della giurisprudenza degli Stati Uniti, della c.d. ‘‘plain error rule’’ che consente al giudice dell’impugnazione di rilevare, d’ufficio o su istanza dell’imputato, vizi non dedotti in sede di post-trial motions. A livello federale, la plain error doctrine è stata incorporata nella Rule 52 (b) delle Federal Rules of Criminal Procedure, meramente ricognitiva del diritto giudiziario preesistente (47):

direttamente sui contenuti delle due process clauses, così come interpretate dalla Corte Suprema. Il concetto di ‘‘due process’’ assurge, quindi, a principio informatore del sistema processuale penale nordamericano e i valori sottesi all’ideologia liberale che lo ispira costituiscono le fondamenta del ‘‘due process model’’, paradigma di un criminal justice system portatore di istanze antiautoritarie. La celebre affermazione del giudice Frankfulter ‘‘la storia della libertà è stata in gran parte la storia del rispetto delle garanzie procedurali’’ (Mc. Nabb v. United States, 318 U.S. 332, 1943) evidenzia la centralità del principio del due process nell’ordinamento statunitense. Sulla contrapposizione tra un modello garantista (c.d. due process model) e un modello efficientista, dalle caratteristiche repressive (c.d. crime control model), v. PACKER, op. cit., p. 153 ss. L’importanza del ruolo rivestito dal principio del due process nell’evoluzione del processo statunitense trova la conferma più significativa nell’opera della Warren Court (c.d. due process revolution) che, attraverso la ‘‘selective incorporation interpretation’’ del XIV emendamento, ha esteso a livello statale le più importanti garanzie processuali riconosciute dal Bill of Rights. Cfr., al riguardo, tra i tanti, LEWIS, Earl Warren, in FRIEDMAN and ISRAEL, The Justices of the United States Supreme Court, Their Lives and MaJor Opinions, IV, 1969, p. 2721; PYE, The Warren Court and Criminal Procedure, in Michigan Law Review, 19681969, p. 249; BERGER, Government by Judiciary: the Transformation of the Fourteenth Amendment, Cambridge, 1977. Pur non potendosi ignorare, al riguardo, il più recente orientamento della Corte Suprema volto a contenere gli effetti della due process revolution (v., al riguardo, nella nostra dottrina, FERRARI, La Corte Rehnquist (1991-1993). Orientamenti giurisprudenziali e linee di tendenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, in Giur. cost., 1993, 3208) è innegabile la persistente caratterizzazione del sistema in senso marcatamente garantista. (47) Per la prima affermazione della plain error rule, v. Wiborg v. United States, 163 U.S. 632 (1896). Cfr. anche, nella giurisprudenza anteriore all’entrata in vigore delle Federal Rules of Criminal Procedure, Claytt v. United States, 197 U.S. 207 (1905); Crawford v. United States, 212 U.S. 183 (1909); Weems v. United States, 217 U.S. 349 (1910); Brasfield v. United States, 272 U.S. 448 (1926); United States v. Aktinson, 297 U.S. 157 (1936) che testimonia il primo tentativo di pervenire a una chiara definizione di plain error in termini di errore ‘‘obvious’’ o ‘‘seriously affecting fairness, integrity or public reputation of judicial proceedings’’. Conforme la definizione di plain error adottata dalla giurisprudenza più recente: ‘‘Plain errors are those seriously affecting fairness, integrity or public reputation of judicial proceedings and must be both obvious and substantial’’. U.S. v. Salomon, 856 F2d 1572 (1988). V. anche, nello stesso senso, U.S. v. Wallace, 848 F2d 1464 (1988); U.S. v. Sanchez, 901 F2d 1013 (1990); U.S. v. Hope, 914 F2d 1355 (1990); U.S. v. Wright, 921 F2d 42 (1990); U.S. v. Blanco 920 F2d 844 (1991). In ordine al concetto di plain error, v. anche, in dottrina, WRIGHT, Federal Practice and Procedure, St. Paul, 1982, IIIA, 335; LAFAVE, voce Appeal, in Encyclopedia of Crime and Ju-


— 317 — ‘‘Plain errors or defects affecting substantial rights may be noticed although they were not brought to the attention of the court’’. Numerosi ordinamenti statali prevedono disposizioni analoghe, altri fondano la plain error rule sul consolidato orientamento giurisprudenziale. Nella quasi totalità delle giurisdizioni statali e in quella federale il principio generale per cui gli errori di diritto non dedotti nell’ambito del giudizio di primo grado si considerano sanati subisce, quindi, una notevole eccezione in forza del carattere evidente (plain) del vizio. Analogamente al concetto di abnormità, la categoria dei plain errors è stata, dunque, consapevolmente enucleata al fine di legittimare la deroga al regime ordinario di impugnabilità delle decisioni. Tuttavia la giurisprudenza statunitense, nel formulare, fin dal secolo scorso, la plain error rule non ha incontrato le obiezioni incentrate sul principio di legalità sollevate contro la costruzione parallela dell’abnormità, inconcepibili in un sistema di schietto diritto giudiziario, ma ha dovuto superare la comprensibile resistenza all’introduzione di un criterio confliggente con i principi informatori dell’adversary system. Il potere conferito dalla plain error doctrine al giudice d’appello è, infatti, difficilmente inquadrabile, per il suo carattere officioso, nella struttura accusatoria del processo statunitense che, nel demandare alle parti ogni iniziativa processuale, attribuisce loro la responsabilità di verificare tempestivamente il corretto svolgimento del processo con particolare riferimento all’onere dell’imputato di pretendere un’efficace assistenza difensiva, subendo altrimenti le conseguenze dell’inerzia del difensore. Al tramonto della concezione del giudice quale mero arbitro del conflitto tra le parti, implicita nell’ormai logora sporting theory of justice, ha fatto, però, riscontro l’affermazione, ricorrente nella giurisprudenza più recente, dell’obbligo del giudice di attivarsi, supplendo all’inerzia della parte, in presenza di errori ‘‘così fondamentali e pregiudizievoli che l’esito del giudizio viola elementari principi di giustizia’’ (48). La deviazione dal modello accusatorio puro provocata dall’applicazione della plain error rule si giustifica, quindi, sulla base del fondamento giusnaturalistico dell’istituto, finalizzato alla tutela di insopprimibili esigenze di giustizia. La matrice giusnaturalistica del concetto di plain error ne accentua l’analogia con la costruzione italiana dell’abnormità, così come la definizione del vizio in termini di errore ‘‘obvious (manifesto) and substantial’’ (fondamentale): immediato il riferimento al carattere macroscopicamente illegale dei provvedimenti abnormi costantemente sottolineato dalla nostra giurisprudenza in materia. Tuttavia, mentre la giurisprudenza italiana si è soffermata sulla identificazione degli elementi costitutivi del concetto di abnormità, l’approccio pragmatico della giurisprudenza statunitense si è tradotto, a livello definitorio, nella maggior attenzione prestata agli effetti pregiudizievoli del plain error in ordine al right to a fair trial dell’imputato e alla ‘‘reputazione pubblica’’ del processo, considerati sotto il risvolto pratico dell’influenza del vizio sulla decisione dei giurati: ‘‘plain error is error which not only affects substantial rights but has unfair prejudicial impact on jury deliberations; it is found only when error is kind of error which affects fairness, integrity, or public reputation of judicial proceedings’’ (49). Questa e altre simili definizioni di plain error in termini di ‘‘serious and prejudicial error’’ (50) o di ‘‘serious and manifest error’’ (51) contengono, tuttavia, un limite

stice, a cura di KADISH, New York, 1983, I, p. 66; PAULING, The Cumulative-Effect Approach to Plain Error Analysis. Shmunk v. State, 714 P2d 724 (Wyo 1986) in Land and Water Law Review, XXII, 1987, 585; Black’s Law Dictionary, St. Paul, 1990, 1161; BAUER, Il regime delle impugnazioni, in AMODIO e BASSIOUNI, a cura di, Il processo penale negli Stati Uniti d’America, cit., p. 235; LAFAVE and ISRAEL, Modern Criminal Procedure, St. Paul, 1992, p. 1159. Nella nostra dottrina v. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, Torino, 1988, p. 158. (48) U.S. v. Birdsell, 775 F2d 645 (1985). (49) U.S. v. Wright, cit. V. anche U.S. v. Parker, 877 F2d 327 (1989). (50) U.S. v. Lechuga, 888 F2d 1472 (1989). (51) Fentralle v. U.S. 209 F2d 159 (1954).


— 318 — intrinseco, comune ai tentativi di definire l’abnormità, e costituito dall’impossibilità di un’enunciazione rigorosa del carattere aberrante proprio del vizio in esame. Lo sforzo di pervenire a una definizione di plain error riflette, sotto un diverso profilo, la preoccupazione della giurisprudenza di prevenire abusi dello strumento in esame (52) circoscrivendone l’area di applicabilità attraverso la chiara identificazione dei relativi presupposti. Emblematica, al riguardo, la tendenza di certa giurisprudenza federale a limitare l’applicazione della plain errror doctrine ai soli casi di manifesto errore giudiziario (miscarriage of justice) (53), precludendo di conseguenza l’annullamento per plain error in caso di colpevolezza dell’imputato, cioè, in concreto, in tutte le ipotesi di guilty plea comunque viziato (54). Questa interpretazione restrittiva contrasta sia con il disposto della Rule 52 (b) che non contiene alcuna analoga limitazione sia con la finalità della plain error doctrine, che, come già accennato, non si esaurisce nella tutela dell’imputato, ma coinvolge l’esigenza di garantire l’integrità del processo: ‘‘it is not a miscarriage of justice to convict a guilty man, but if he is convicted in a way inconsistent with the fairness and integrity of judicial proceedings, then the courts should invoke the plain error rule in order to protect their own public reputation’’ (55). È comunque innegabile l’atteggiamento di self-restraint assunto dalle appellate courts nell’esercizio del potere ad esse riconosciuto dalla plain error rule (56). La concreta individuazione delle ipotesi di plain error e delle situazioni di abnormità è, dunque, similmente governata dal criterio dell’extrema ratio coessenziale alla funzione di chiusura del sistema delle impugnazioni penali rivestita da entrambe le categorie. Coerentemente al fondamento giusnaturalistico dell’istituto, criteri equitativi contribuiscono a orientare le appellate courts nel cauto esercizio del potere in esame, come testimonia la prassi diffusa della giurisprudenza statunitense di considerare l’insieme delle circostanze del caso. Costituisce uno sviluppo del predetto orientamento giurisprudenziale il c.d. cumulative-effect approach che riconduce la produzione degli effetti tipici del plain error al combinato operare di più vizi di per sé non decisivi. L’applicazione del cumulative-effect approach non costituisce un espediente per elevare al rango di plain error la somma di più harmless errors (vizi innocui), ma si basa sull’analisi del procedimento decisorio che scaturisce nel verdetto: la giuria nel deliberare il verdetto valuta, infatti, ogni fattore a tal fine rilevante in relazione a tutti gli altri, con la conseguenza che ogni vizio processuale contribuisce ad aggravare l’effetto degli altri sulla deliberazione della giuria, ‘‘in the gradual growth of prejudice’’ (57).

(52) ‘‘Plain error rule should not be used to provide second bite at the apple for defendant whose deliberate trial strategy has failed’’ U.S. v. Valencia-Lucena, 925 F2d 506 (1991). (53) Cfr. U.S. v. Ward, 914 F2d 1340 (1990): ‘‘Reversal of criminal conviction on basis of plain error is exceptional remedy, which court should invoke only when it appears necessary to prevent miscarriage of justice’’. V. anche U.S. v. Staller, 616 F2d 1074 (1980); U.S. v. Lopez, 923 F2d 47 (1991). (54) Non mancano, peraltro, decisioni favorevoli all’ammissibilità dell’annullamento per plain error della condanna dell’imputato pleaded guilty. V.,in tal senso, U.S. v. Adams, 634 F2d 830 (1981), che ha ravvisato gli estremi del plain error nella partecipazione del giudice alla procedura del plea bargaining. (55) WRIGHT, Federal Practice and Procedure, cit., p. 341. (56) Cfr. U.S. v. Gerald, 624 F2d 1291 (1980): ‘‘The plain error rule is not a run-ofthe-mill remedy. The intention of the rule is to serve the ends of justice; therefore it is invoked only in exceptional circumstances’’. V. anche U.S. v. Frady, 456 U.S. 152 (1982). (57) PAULING, op. cit., 588. Nella giurisprudenza federale, v. U.S. v. Wallace, cit., che fa riferimento, per l’applicazione della plain error rule, all’effetto pregiudizievole congiuntamente prodotto dalla violazione del Jencks Act, dall’assunzione di prove inammissibili e dall’‘‘improper vouching’’ del prosecutor.


— 319 — Più in generale, le appellate courts degli Stati Uniti mostrano una particolare propensione a rilevare l’esistenza di un plain error quando manchino schiaccianti (overwhelming) prove a carico, quando l’imputato sia condannato a morte, non abbia usufruito di un’efficace assistenza difensiva o giustifichi l’omissione della tempestiva eccezione. In particolare, poi, l’impossibilità per il giudice del dibattimento di correggere l’errore, quand’anche la questione fosse stata sollevata tempestivamente, determina quasi automaticamente, ove riconosciuta dalla Corte, il reversal per plain error. Quest’ultimo criterio si applica soprattutto quando l’effetto pregiudizievole del plain error non avrebbe potuto essere rimosso da un’adeguata instruction impartita dal giudice dibattimentale alla giuria, con particolare riguardo al caso di inammissibili affermazioni del prosecutor (58). Al di fuori di tali ipotesi, tuttavia, la valutazione del vizio alla luce del record del dibattimento nel suo insieme, con particolare riguardo al complessivo quadro probatorio, induce di regola la Corte a escludere la sussistenza del carattere plain dell’errore (59). Lo stesso atteggiamento di self-restraint fonda il rifiuto della Corte Suprema Federale di estendere l’applicazione della plain error rule a giudizi di impugnazione diversi dall’appeal: l’ammissibilità della deduzione, in sede di collateral attack, di errori non dedotti in precedenza è, infatti, soggetta al più rigoroso criterio della ‘‘cause and actual prejudice’’ (60). Il regime di deducibilità del plain error, rilevabile anche d’ufficio fino al formarsi del giudicato, è, dunque, del tutto analogo a quello dell’abnormità, così come la funzionalità del rimedio alla tutela nel processo di superiori principi di giustizia sostanziale. Tuttavia, nonostante il comune fondamento giusnaturalistico degli istituti, la fenomenologia del plain error non può non risentire delle diverse caratteristiche strutturali del sistema processuale nordamericano: in particolare la presenza della giuria come giudice del fatto pone l’imprescindibile esigenza di prevenirne l’erroneo convincimento in considerazione della sua proverbiale influenzabilità emotiva. Di conseguenza, la maggioranza delle ipotesi di plain error individuate dalla giurisprudenza statunitense riguarda vizi nella formulazione delle instructions del giudice dibattimentale alla giuria (61) o casi di improper vouching (62) del prosecutor che trova nella giuria il suo naturale destinatario.

(58) Provocatorio, al riguardo, il rilievo contenuto in Garza, 608 F2d 659 (1979): ‘‘If you throw a skunk into the jury box, you can’t instruct the jury not to smell it’’. (59) In considerazione della forza delle prove a carico, la Corte Suprema federale ha escluso il carattere plain del vizio, in ordine al comportamento del prosecutor, scorretto nel qualificare ‘‘garbage’’ le argomentazioni della difesa, U.S. v. Parker, cit. In applicazione dello stesso criterio, è stata ritenuta harmless la violazione dell’opinion rule nel corso dell’esame testimoniale. V. U.S. v. Lechuga, cit. (60) Il criterio della ‘‘cause and actual prejudice’’, enunciato per la prima volta in relazione alla 2255 motion in Wainwright v. Sykes, 433 U.S. 72 (1977), attribuisce all’imputato il duplice onere di giustificare l’omissione di una precedente eccezione (cause) e di provare l’effettivo pregiudizio conseguente all’errore denunciato (actual prejudice). V. anche U.S. v. Addonizio, 442 U.S. 178 (1979). (61) In particolare, la Corte Suprema Federale ha ravvisato gli estremi del plain error nell’omissione, da parte del giudice del trial, della cautionary accomplice instruction, relativa al limitato valore dell’accomplice evidence, in situazioni in cui l’imputato aveva diritto all’instruction e la testimonianza del coimputato era uncorroborated e contraddetta da altre prove. V., al riguardo, U.S. v. McCabe, 720 F2d 951 (1983); U.S. v. Bernal, 814 F2d 175 (1987). Nella nostra dottrina v. AMODIO, I pentiti nella common law, in questa Rivista, 1986, 991. (62) La formula ‘‘improper vouching’’ ricomprende sia le ipotesi in cui il prosecutor, in sede di closing arguments, garantisce personalmente per l’integrità dei testi a carico (c.d. bolstering. Cfr. GARZA, cit., 664: ‘‘I think their motives are pure as the driven snow’’) sia quelle in cui sfrutta indebitamente agli occhi della giuria il prestigio del proprio status di


— 320 — 10. L’identità di valori garantistici alla base dei concetti di abnormità, inesistenza e plain error evidenzia il comune fondamento giusnaturalistico dei rimedi in esame, elaborati dalla giurisprudenza con l’intento di giustificare la deroga al regime ordinario delle impugnazioni resa necessaria dalla ineludibile esigenza di riportare sui binari della legalità un procedimento penale gravemente compromesso nel suo regolare andamento. Lo sviluppo, all’interno di sistemi processuali profondamente diversi per struttura e tradizione, di categorie giurisprudenziali di identica matrice, attestando la funzionalità della naturalis ratio alla coerenza del sistema, consente di affermare che l’equilibrio di ogni ordinamento giuridico dipende dall’operatività di criteri di adeguamento delle norme a postulati di giustizia sostanziale, con l’ulteriore corollario che l’esercizio di poteri creativi da parte della giurisprudenza costituisce lo strumento più sensibile ed efficace per rilevare e correggere le anomalie del sistema. Anche con riferimento agli ordinamenti continentali, infatti, fallito il tentativo di spostare la rilevanza dei valori equitativi dal piano decisorio a quello della politica legislativa, la responsabilità della razionale evoluzione del sistema viene a ricadere, almeno in parte, sulla giurisprudenza. L’inevitabile impatto sul principio di certezza del diritto prodotto da un’accentuata creatività giurisprudenziale è attutito, nel caso di specie, dalla spontanea adozione, da parte della giurisprudenza italiana e statunitense, del criterio della extrema ratio nella utilizzazione dei rimedi in esame. In particolare, la compatibilità di istituti di creazione giudiziaria, quali l’abnormità e l’inesistenza, con un sistema di diritto codificato è assicurata dalle finalità garantistiche delle categorie rispetto alla coerenza dell’ordinamento processuale e al rigore nell’amministrazione della giustizia. Il rischio di un’evoluzione patologica dei poteri creativi del giudice appare, infatti, più agevolmente connesso ad un uso degli stessi in chiave di rottura con il sistema processuale vigente. La probabilità di abusi, puramente teorica nel quadro di un sistema ormai radicato nella tradizione giuridica e assimilato dagli operatori processuali, acquista concretezza se rapportata al diffuso disorientamento provocato dall’introduzione di un modello profondamente innovatore rispetto al vecchio rito. L’attività creativa della giurisprudenza costituisce, infatti, nella prima ipotesi, un fattore di stabilità e di razionalizzazione dell’ordinamento processuale, assolvendo alla funzione di tutela dei valori fondamentali dello stesso, di agevole e sicura identificazione. Nella fase di sperimentazione di un nuovo modello processuale, invece, l’assenza di consolidate griglie interpretative espone fatalmente al pullulare delle interpretazioni contrastanti anche la normativa più chiara e lineare. Analogamente, l’assetto e l’efficacia dei singoli istituti dipendono, in larga misura, dai modi della loro concreta applicazione. La vulnerabilità alle aggressioni della prassi di un nuovo modello processuale non rappresenta, tuttavia, di per sé, un fattore distorsivo del sistema. La verifica, sul terreno della effettiva esperienza processuale, della praticabilità del modello costruito in vitro dal legislatore costituisce, al contrario, l’indice più credibile della coerenza generale del sistema. La sperimentazione del nuovo modello processuale assolve, quindi, a una funzione di catarsi dello stesso, inducendo l’affiorare di antinomie e lacune spesso ricomposte tramite oculate tecniche interpretative.

rappresentante del Governo a sostegno della credibilità della tesi dell’accusa (v. GARZA, cit., 664: ‘‘If I ever thought that I had framed an innocent man and sent him to the penitentiary, I would quit’’). La giurisprudenza stigmatizza, inoltre, con particolare severità, il ricorso del prosecutor ad allusioni relative all’esistenza di ulteriori prove a carico non presentate in dibattimento. Cfr. U.S. v. Davis, 831 F2d 63 (1987); U.S. v. Young, 470 U.S. 1 (1985). Tra le altre ipotesi di plain error riconosciute dalla giurisprudenza statunitense vengono in rilievo l’assunzione di prove inammissibili (v., al riguardo, U.S. v. Freeman, 514 F2d 1314, 1973; U.S. v. Parker, 604 F2d 1327, 1979) e la violazione dei diritti costituzionali dell’imputato (v., con riferimento alla ‘‘double jeopardy clause’’, U.S. v. Gunter, 546 F2d 861, 1976; in ordine al right to a jury trial, v. U.S. v. Miller, 468 F2d 1041, 1972).


— 321 — La accresciuta creatività giurisprudenziale, naturalmente correlata alla fase sperimentale di un modello processuale, può, quindi, innescare un circolo virtuoso di riforme legislative e giurisprudenziali funzionali alla stabilità del sistema senza comprometterne la struttura portante. Il lineare svolgimento della fase di sperimentazione di un modello processuale presuppone, però, la sostanziale condivisione dello stesso da parte della giurisprudenza, rectius, della magistratura. Quando questo consenso venga a mancare, la fisiologica instabilità del nuovo paradigma si presta facilmente a manovre eversive dei suoi principi informatori: emblematiche, al riguardo, le vicende del vigente codice di procedura penale che evidenziano il ruolo decisivo ricoperto, nell’erosione dell’originale modello accusatorio, dalla giurisprudenza creativa della Corte costituzionale, il cui esame esula, però, dai limiti del presente studio. ELENA MARIA CATALANO Dottoranda di ricerca in diritto processuale penale comparato Università di Milano


GIURISPRUDENZA

B) Giudizi di Cassazione

CASSAZIONE PENALE — Sez II — 19 marzo 1992 (dep. 12 maggio 1992) Pres. Adami — Rel. Nardi — P.M. Tranfo (concl. parz. diff). Ric. Merli Concorso di persone nel reato — Art. 117 c.p. — Conoscenza della qualifica da parte dell’estraneo — Necessità. Concorso di persone nel reato — Art. 117 c.p. — Rapporto tra azione tipica e intraneo — Necessità che il concorrente qualificato agisca da autore. Concorso di persone nel reato — Correità e complicità — Distinzione — Dominio finalistico sul fatto — Necessità. Nozione di dominio finalistico sul fatto — Controllo della volontà sulla realizzazione del reato concertato — Assunzione della decisione comune di commettere il reato — Necessità — Intervento nella fase di esecuzione dell’illecito — Irrilevanza — Conseguenze in tema di dolo. Concorso di persone — Mutamento del titolo del reato per taluno dei concorrenti — Art. 117 ultima parte c.p. — Circostanza attenuante — Concessione — Possibilità limitata soltanto ai complici accessori. Il disposto dell’art. 117 c.p. altro non è che l’applicazione di un principio generale, per il quale anche gli ‘‘estranei’’ concorrono in un reato proprio quando conoscano che altro partecipe si trova in condizione da determinare il mutamento del reato o, addirittura l’incriminazione ex novo dell’azione collettiva altrimenti lecita (1). Il richiamo operato dall’art. 117 c.p. alle condizioni o qualità personali del colpevole o ai suoi rapporti con l’offeso non si riferisce ad uno qualsiasi dei concorrenti, ma ad un concorrente che agisca in maniera analoga a quella che, nei casi di esecuzione monosoggettiva dell’illecito, contraddistingue l’autore. Tra le persone che concorrono nel reato occorre perciò operare una distinzione a seconda che si tratti di concorrenti che agiscono da (co)autori ovvero di concorrenti che restano in una posizione subordinata ed accessoria: se l’intraneo rientra nella prima categoria, si ha mutamento del titolo del reato: altrimenti la qualità di intraneo non determina alcuna modificazione sulla qualificazione giuridica del fatto (2). Contrariamente alle intenzioni dei compilatori del codice del 1930, la distinzione tra attività di correità ed atti di mera complicità (materiale o morale) non è stata né soppressa, né abolita, ma continua a costituire la base dell’intera disciplina dell’istituto del concorso di persone nel reato: il correo si differenzia dal Riv. ital. dir. proc. penale 1/1996


— 323 — complice non per l’aspetto esteriore del suo comportamento, ma perché, a differenza del complice, (com)possiede il dominio finalistico sull’intero fatto criminoso (3). Il dominio sull’intera azione si ricollega direttamente al contenuto della volontà del singolo compartecipe: correo è colui che con la sua volontà controlla realmente la realizzazione del reato concertato o comunque deciso insieme agli altri correi, anche se si astiene dall’intervenire nella fase esecutiva. A differenza del correo, il semplice partecipe non com-possiede la signoria finalistica sull’intero fatto perché la decisione comune di agire non gli appartiene. Il complice tende anch’egli finalisticamente alla realizzazione dell’evento criminoso, ma il contenuto immediato della sua volontà è quello di sollecitare in altre persone (l’autore o i co-autori) la risoluzione criminosa (istigazione) oppure di facilitarne l’attuazione (agevolazione). Ne deriva un precisa diversità nel contenuto della volontà dei singoli concorrenti: il dolo del complice ha di mira la realizzazione della fattispecie criminosa decisa da altri, ma dominus dell’azione resta sempre e soltanto l’autore (o i correi) perché a lui è concesso di rifiutarsi sin dall’inizio all’istigazione o di cambiare in seguito la propria decisione (4). La diminuzione di pena di cui all’ultima parte dell’art. 117 c.p. si applica ai concorrenti non qualificati che abbiano agito da semplici partecipi (5). (Omissis). — 2. Ammissibile e fondato è invece il ricorso della parte civile, con il quale si denuncia violazione di legge in merito all’assoluzione del Ganora per non aver commesso il fatto del reato di cui all’art. 2621 c.c. Si deduce che anche se costui in ipotesi non ricopriva all’epoca dei fatti alcuna carica sociale, ciò nondimeno la sua responsabilità doveva essere esaminata e ritenuta sotto il profilo del concorso; che non sussistono dubbi sulla falsificazione dei bilanci in quanto in essi non apparivano le operazioni, pur rilevanti economicamente, effettuate dalla società; in particolare non appariva la vendita di un terreno al Ganora e ciò costituì grave danno per la Caracciolo che si vide costretta a subire un processo civile con esito negativo per il trasferimento a favore del predetto del terreno in questione; che ciò costituì un ulteriore inganno operato dagli imputati nei confronti della Caracciolo inganno assai utile per il Ganora che, con pochi soldi, tra l’altro rateizzati, aveva tutto l’interesse a non fare apparire in bilancio un acquisto particolarmente a lui favorevole; che dunque il Ganora, del resto per sua stessa ammissione, non era estraneo a tutte le operazioni della società, ben sapeva per esempio, che i bilanci venivano approvati in assemblee inesistenti in quanto a dette assemblee partecipavano come ‘‘teste di legno’’ i suoi familiari, e dunque non solo era consapevole ma certamente correo in quanto aveva interesse alla falsificazione dei bilanci; che essendo tutto ciò pacifico sul piano dei fatti rimane il quesito giuridico se possa essere punito il concorso di persona estranea alle cariche sociali al reato di cui all’art. 2621 cit; che rappresenterebbe una deroga ai principi generali di diritto escludere la punibilità di chi collabori all’azione sia con partecipazione materiale che con partecipazione psicologica; che non potendosi escludere la punibilità di chi abbia rafforzato con ogni mezzo la volontà dell’agente, il problema della responsabilità dell’estraneus in rapporto all’intraneus andava risolto con adeguata motivazione del tutto mancante nella sentenza impugnata.


— 324 — 3. In effetti è mancata nella sentenza impugnata una disamina della posizione del Ganora sotto il profilo dell’art. 117 c.p. il cui disposto (che trova un precedente legislativo nell’art. 66 del codice Zanardelli) altro non è, secondo autorevole dottrina che l’applicazione di un principio generale, per il quale anche gli ‘‘estranei’’ concorrono in un reato proprio quando conoscano che altro compartecipe si trova in condizione da determinare il mutamento del reato o, addirittura l’incriminazione ex novo dell’azione collettiva altrimenti lecita. Ci si chiede se sia sufficiente che il soggetto qualificato concorra in una maniera qualsiasi nell’illecito o sia invece necessario che la sua condotta abbia determinati caratteri nella struttura dell’azione collettiva. Ebbene, un primo orientamento dottrinale limita l’ipotesi di cui all’art. 117 al solo caso in cui è direttamente l’intraneo ad eseguire il reato, perché solo allora costui, trovandosi con un interesse protetto nella posizione voluta e qualificata dalla legge, realizza colpevolmente l’atto tipico e viene così a violare il dovere particolare di astenersi dalla perpetrazione del fatto delittuoso. Un diverso indirizzo sostiene invece che è sufficiente che uno qualsiasi dei compartecipi sia in possesso della qualità di intraneo, nulla importando se sia egli o altri a commettere l’azione criminosa. Entrambe queste concezioni prescindono dalla considerazione dell’elemento psicologico con cui opera il concorrente che possiede la qualità personale o si trova nelle condizioni richieste dalla legge per l’incriminazione a titolo di reato proprio; ma per questa visione parziale del fenomeno della compartecipazione, esse non riescono a raggiungere un criterio di certezza per la soluzione dei casi più delicati che si presentano allorché l’intraneo non interviene di persona nell’attività di esecuzione del reato. La norma dell’art. 117, in realtà, non specifica quali sono le circostanze in cui, per le condizioni o le qualità personali del colpevole o per i suoi rapporti con l’offeso, ha luogo il mutamento del titolo del reato. Si è autorizzati a pensare perciò che su questo punto detto articolo rinvii alle disposizioni della parte speciale. Se ne deduce che, per aversi, in caso di concorso, il mutamento del titolo del reato, occorre che l’intraneo abbia nella fattispecie di concorso lo stesso ruolo che, nella corrispondente ipotesi di reità individuale, è necessario alla sussistenza del reato proprio. Quando la legge fa richiamo, nell’art. 117, alle condizioni o qualità personali del colpevole o ai suoi rapporti con l’offeso non si riferisce dunque ad uno qualsiasi dei concorrenti, ma ad un concorrente che agisca in maniera analoga a quella che, nei casi di esecuzione monosoggettiva dell’illecito, contraddistingue l’autore. Tra le persone che concorrono nel reato occorre operare così una precisa distinzione a seconda che si tratti di concorrenti che, restano invece in una posizione subordinata ed accessoria: se l’intraneo rientra nella prima categoria, si ha mutamento del titolo del reato: altrimenti la qualità di intraneo non determina alcuna modificazione sulla qualificazione giuridica del fatto. Ritorna in tal modo il vecchio problema della distinzione dei concorrenti in concorrenti principali (correi o co-autori) e concorrenti secondari (meri partecipi o complici). Ed è particolarmente significativo che la questione venga riproposta dall’analisi delle disposizioni codicistiche. Nella seconda parte dell’art. 117 è prevista infatti la possibilità per il giudice di diminuire la pena per coloro che sono sforniti della qualità di intraneo; il carattere discrezionale di questa diminuzione di pena induce a ritenere infondate alcune spiegazioni fornite dalla dottrina per giustificare la disposizione. In particolare, non ritiene il Collegio condivisibile la tesi secondo cui la riduzione di pena compete a coloro che ignoravano la presenza di un intraneo tra i concorrenti: tale opinione oltre ad


— 325 — incorrere nei rilievi critici fatti a proposito della necessità che ciascun concorrente ‘‘estraneo’’ conosca la sussistenza di specialità che comporta il mutamento del titolo del reato, non riesce a spiegare perché mai l’ignoranza o l’errore sulle condizioni, sulle qualità personali dell’intraneo o sui suoi rapporti con l’offeso abbia per i concorrenti estranei soltanto l’effetto di ridurre la pena, là dove nelle stesse circostanze al concorrente qualificato si applica la disciplina (certamente più favorevole) dell’errore. Ugualmente inaccettabile risulta, del resto, l’opinione che riporta la ragione d’essere della diminuzione di pena di cui all’art. 117 alla minore gravità della condotta dei concorrenti sforniti di qualifica rispetto alla condotta dell’intraneo: anche in questo caso non si riesce a giustificare il carattere discrezionale della riduzione di pena, giacché questa, per coerenza con la premessa, dovrebbe competere a tutti i concorrenti sforniti di qualifica e non ad alcuni soltanto, così come è previsto invece nell’ultima parte dell’art. 117. La verità è che il significato di questa disposizione può essere ricostruito, solo facendo riferimento alla distinzione dei concorrenti in correi o meri complici: in tal modo si dà ragione sia del carattere discrezionale della diminuzione di pena, sia del divieto di concedere tale beneficio al concorrente qualificato. La ratio di quest’ultima esclusione è data dal fatto che, per l’applicazione della prima parte dell’art. 117, occorre — come si è detto — che l’intraneo agisca da (co)autore; di conseguenza egli, proprio per il suo ruolo di concorrente principale, non può in nessun caso godere della diminuzione di pena riservata ai soli complici accessori. I concorrenti non qualificati, invece, possono agire (nell’ipotesi di cui alla prima parte dell’articolo) tanto da coautori quanto da semplici partecipi e qui, a seconda della qualità delle loro opere, essere esclusi oppure fruire della diminuzione di pena di cui agli art. 117 seconda parte. La distinzione ontologica dei compartecipi in correi e meri complici rappresenta dunque il criterio che il giudice deve seguire nella concessione dell’attenuante discrezionale prevista nell’ultima parte dell’art. 117. L’interpretazione del diritto positivo porta così alla conclusione che, contrariamente alle intenzioni dei compilatori del codice del 1930, la distinzione tra attività di correità ed atti di mera complicità (materiale o morale) non è stata né soppressa né abolita, ma continua a costituire la base dell’intera disciplina dell’istituto del concorso di persone nel reato. Vari criteri sono stati suggeriti in dottrina per stabilire quando un concorrente agisce da correo e quando invece da semplice partecipe. Respinta sia la dottrina che richiamava la distinzione tra atti preparatori ed atti di esecuzione, si è venuta affermando la teoria secondo la quale sia indispensabile per garantire la certezza e l’obiettività del giudizio tener presente il contenuto della volontà dei concorrenti come fattore oggettivo di tipicità degli atti; quello che sarebbe decisivo per riconoscere nelle situazioni concrete la correità, e per distinguerla dalle ipotesi, oggettivamente identiche, di mera partecipazione sarebbe infatti il diverso contenuto della volontà dei singoli compartecipi. Il correo si differenzierebbe dal mero partecipe non per l’aspetto esteriore del suo comportamento, ma perché, a differenza del complice, (com)possiede il dominio finalistico sull’intero fatto criminoso. Questo dominio sull’intera azione si ricollegherebbe direttamente al contenuto concreto della volontà del singolo compartecipe. Correo sarebbe, dunque, colui che con la sua volontà controlla realmente la realizzazione del reato concertato o comunque deciso insieme agli altri correi, anche se si astiene dall’intervenire nell’attività di esecuzione dell’illecito. Ciò che conta sarebbe, in altri termini, secondo questo indirizzo interpreta-


— 326 — tivo cui il Collegio ritiene di aderire, non la partecipazione materiale del concorrente all’attività di esecuzione del reato (così come sosteneva la vecchia concezione formale-oggettiva, identificando arbitrariamente la problematica del concorso con quella profondamente diversa, del tentativo punibile), ma il fatto oggettivo che la decisione di commettere il reato sia stata presa direttamente anche dal correo. Il contento della volontà del correo deve avere, dunque, il significato obiettivo dell’intero fatto: questo si verifica quando l’azione è retta, anche nei contributi dati dagli altri concorrenti, dalla decisione di agire presa in comune, per cui l’opera di ciascun correo — sia essa attività di esecuzione in senso tecnico o sia invece attività di semplice preparazione — altro non è che l’attuazione concreta della decisione presa in comune da tutti. L’intero fatto criminoso è così la realizzazione di una volontà comune alla cui formazione ciascun correo ha contribuito in maniera diretta. A differenza del correo, il semplice partecipe non com-possiede la signoria finalistica sull’intero fatto perché la decisione comune di agire non gli appartiene. Il complice tende anch’egli finalisticamente alla realizzazione dell’evento criminoso, ma il contenuto immediato della sua volontà è quello di sollecitare in altre persone (l’autore o i co-autori) la risoluzione criminosa (istigazione) oppure di facilitarne l’attuazione (agevolazione). Sotto questo aspetto la partecipazione, morale o materiale, rivela chiaramente la sua natura di concorso ‘‘accessorio’’ ad un fatto altrui. Ne deriva una precisa diversità nel contenuto della volontà dei singoli concorrenti: il dolo del complice ha di mira la realizzazione della fattispecie criminosa decisa da altri, ma dominus dell’azione resta sempre e soltanto l’autore (o i correi) perché a lui è concesso di rifiutarsi sin dall’inizio all’istigazione o di cambiare in seguito la propria decisione. 4. Premesso quanto sopra è indubitabile che nel caso di specie: a) furono appositamente falsificati i bilanci negativi mostrati alla Caracciolo al fine di farle apparire conveniente l’acquisto delle quote della s.r.l. ‘‘La Perla del Vermicino’’; b) furono ricostruiti libri sociali ad hoc in sostituzione di quelli veri mai trafugati ed in possesso dello Sciarretta; c) in tal modo la Caracciolo non poté avere conoscenza che nell’anno 1977 la Società aveva venduto una villa a Ganora Adriano e Voluti Annamaria, e che il relativo ricavo non era stato indicato nel bilancio annuale di competenza né dichiarato agli effetti dell’IRPEG e dell’ILOR per l’anno 1977 essendo stata omessa la relativa denuncia; di conseguenza, l’ufficio II.DD. di Roma notificava alla Società, quando già la Caracciolo ne era socia ed amministratrice, un accertamento per IRPEG ed ILOR relative all’anno 1977, irrogando le sanzioni per omessa dichiarazione ed applicando gli interessi moratori; d) fu ancora taciuta alla Caracciolo e non fu comunque fatta figurare nei libri contabili della società la promessa di vendita al Ganora delle particelle di terreno n. 484 e 485 non comprese nel rogito Parisi, e per le quali il Ganora aveva già pagato il corrispettivo così costringendo la Caracciolo a resistere nel giudizio promosso dal Ganora contro la Società per l’adempimento delle promesse di vendita, della quale ella sconosceva l’esistenza non avendola rinvenuta nei documenti della società né avendone potuto rilevare le tracce perché non le erano stati mostrati i veri libri sociali.


— 327 — Accertato in punto di fatto l’occultamento della reale situazione debitoria della Società, soprattutto nei confronti del fisco, attraverso la fraudolenta falsificazione dei bilanci e libri sociali, correttamente la Corte del merito, riformando la sentenza di assoluzione con formula piena, pronunciata in primo grado in base a veri e propri travisamenti delle risultanze processuali, ha ritenuto provati i reati di truffa e di falso in bilancio come contestati agli imputati Merli e Sciarretta anche se poi ha dovuto dichiararli prescritti perché anteriori al 1981. L’errore in cui invece la Corte è incorsa è — come si è già accennato — l’assoluzione del Ganora dalla imputazione di concorso in falso in bilancio come a lui contestata, per non avere egli mai ricoperto cariche sociali, qualità indispensabile per l’addebito del reato ex art. 2621 c.c. Che detto reato sia da qualificare ‘‘proprio’’ è fuori discussione, ma ciò che è sfuggito al giudice di appello è stata l’intera problematica afferente al concorso di persone nel reato, ed in particolare la tematica dianzi esposta riguardante l’ipotesi prevista dall’art. 117 cit., e quindi la responsabilità penale del Ganora per avere egli, quale partecipe e non correo (secondo la distinzione innanzi delineata), rafforzato la risoluzione criminosa dei co-autori della falsificazione dei bilanci e libri sociali e facilitatane l’attuazione, attraverso l’acquisto di un cespite della società, dal notevole valore economico, del quale trasferimento veniva omessa ogni menzione nei bilanci della società dal 1977 al 1980, sì da fornire un quadro della situazione patrimoniale della stessa difforme dal vero. Doveva pertanto essere riconosciuta la responsabilità penale del Ganora a titolo di concorso nel reato ex art. 2621 cit., contestatogli al capo b) del proc n. 8713/84. Ne consegue l’annullamento della sentenza impugnata, limitatamente alla statuizione di assoluzione del predetto imputato per non aver commesso il fatto dal reato ex art. 2621, ascrittogli in concorso al capo suindicato. Annullamento senza rinvio, ai sensi dell’art. 539 n. 1 codice di rito abrogato, dovendo ritenersi prescritto anche nei confronti del Ganora il reato in questione, trattandosi di fatti accaduti anteriormente al 1981 e non potendo non estendersi anche al predetto imputato le attenuanti generiche prevalenti concesse ai coimputati Merli e Sciarretta per lo stesso reato, tenuto conto delle modalità dell’azione e della loro personalità. L’annullamento va pronunciato in accoglimento del ricorso dalla parte civile, proposto ai sensi dell’art. 195 detto codice, nel testo risultante dalle sentenze n. 1 del 15 gennaio 1970 e n. 29 del 17 febbraio 1972 della Corte costituzionale (che hanno reso possibile il ricorso per Cassazione della parte civile tutte le volte in cui la formula di assoluzione pregiudica i suoi interessi). 5. Per le considerazioni suesposte riguardo ai ricorsi proposti nell’interesse di Merli Silvana e Freda Riccardo, costoro vanno condannati al pagamento in solido delle spese del procedimento, e ciascuno alla somma di lire cinquecentomila alla cassa delle ammende (art. 549 c.p.p. previgente). Gli stessi vanno altresì condannati in solido alla rifusione in favore della costituita parte civile delle spese di giudizio, liquidate in complessive lire due milioni, ivi comprese lire un milione per onorari difensivi.


— 328 — (1-5)

Consapevolezza della qualifica dell’intraneus e dominio finalistico sul fatto nella disciplina del mutamento del titolo di reato.

SOMMARIO: 1. Considerazioni preliminari. — 2. I destinatari del precetto ed i rispettivi ambiti di applicazione degli artt. 110 e 117 c.p. — 3. La conoscenza della qualifica dell’intraneus quale presupposto di applicazione dell’art. 110 c.p. — 4. Necessità della conoscenza della qualifica dell’intraneus nell’applicazione dell’art. 117 c.p.: critica. — 5. Il requisito del dominio finalistico sul fatto in capo all’intraneus. — 6. La teoria soggettiva (Dolus-Theorie e Interessentheorie). — 7. La Tatherrschaftstheorie e le teorie soggettive ristrette — 8. L’applicazione dei criteri soggettivi nella sentenza. — 9. Inaccoglibilità della Tatherrschaft e del Täterwillen quali requisiti essenziali per l’identificazione dell’autore e per l’applicazione dell’art. 117 c.p. — 10. La disciplina del concorso di persone nei reati propri nell’ordinamento tedesco: spunti di riflessione. — 11. La rilevanza della condotta dell’intraneus. — 12. L’attenuante discrezionale.

1. La sentenza che si annota affronta la disciplina del concorso di persone nel reato proprio ed in particolare dell’art. 117 c.p., in un’ottica profondamente innovativa rispetto agli orientamenti giurisprudenziali prevalenti. Infatti, la Corte di Cassazione inserisce due elementi che riducono la portata applicativa del mutamento del titolo di reato: da un lato, l’estraneo deve avere la consapevolezza che un concorrente si trovi in condizione di determinare tale mutamento; dall’altro lato, richiede che il concorrente qualificato abbia il compossesso del dominio finalistico sull’intero fatto criminoso, inteso come potere effettivo di controllo sulla realizzazione del reato concertato, pur in assenza di un qualsiasi intervento nella fase di esecuzione dell’illecito. Queste considerazioni offrono alla sentenza lo spunto per andare oltre i limiti ermeneutici dell’art. 117 c.p., assumendo il dominio finalistico sullo svolgimento del fatto a criterio discretivo tra le figure di autore, che tale signoria possiede, e di complice, cui manca un tale potere di controllo. Le cadenze argomentative della sentenza, inconsuete nel panorama giurisprudenziale, sono state in verità da tempo proposte da una parte della dottrina che ha recepito le elaborazioni a cui era giunta l’esperienza tedesca. Senonché, desta forti perplessità la trasposizione nell’ordinamento italiano, ed in particolare in una decisione del massimo organo giurisdizionale, di figure giuridiche pensate con riferimento ad un ordinamento straniero in cui opera una disciplina del concorso di persone affatto diversa. Tuttavia, prima di esprimere una valutazione complessiva sull’interpretazione offerta, è necessario affrontare da vicino i problemi giuridici che la motivazione della sentenza pone all’attenzione del lettore. 2. L’analisi delle fattispecie di parte speciale rivela che alcuni reati non possono essere perpetrati da chiunque, ma solo da una determinata cerchia di soggetti che si caratterizzano per la presenza di una determinata qualità. La tassatività del tipo descrittivo non consente di configurare come autore individuale un soggetto sfornito della qualifica richiesta dalla legge (c.d. estraneus), in quanto solo il soggetto qualificato (c.d. intraneus) si trova nei confronti del bene tutelato in una posizione tale da consentirne la lesione o la messa in pericolo secondo le modalità di lesione previste dalla fattispecie di riferimento (ad esempio, solo il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio possono ledere gli interessi specifici di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, così come tipizzati nelle fattispecie contenute nel titolo II, libro II c.p.). Posizione giuridica del soggetto e bene tutelato sono collegati da un rapporto inscindibile, in quanto la particolare qualifica soggettiva esprime la ‘‘posizione nella quale il soggetto attivo


— 329 — si trova nei confronti di un bene o di un interesse tutelato’’ (1). Tuttavia, se questa qualifica è elemento fondante della responsabilità penale nei casi di esecuzione monosoggettiva, nessuno dubita che il terzo possa concorrere nell’esecuzione di un reato proprio: a prescindere dalla implicita ammissione ricavabile dall’art. 117 c.p., le lacune di tutela che si verrebbero a creare in caso contrario limiterebbero la responsabilità ai soli soggetti rivestiti della qualifica necessaria (2). Infatti, un comportamento sfornito di tipicità con riferimento alle fattispecie che descrivono reati propri, può essere tipico rispetto alla norma secondaria del concorso di persone nel reato (3), o meglio alla fattispecie plurisoggettiva eventuale che scaturisce dal combinato disposto delle fattispecie di parte speciale con l’art. 110 c.p., alla cui sola stregua deve essere valutato il comportamento concorsuale (4): destinatari del comando penale sono, nell’esecuzione monosoggettiva, esclusivamente coloro che rispetto al soggetto passivo o al bene tutelato si trovano nella posizione voluta dalla legge; nel secondo caso, anche i soggetti che, pur estranei ad un tale rapporto, sono comunque tenuti ad astenersi dalla cooperazione con l’intraneo nella realizzazione del reato (5). Anche costoro, infatti, cooperano all’offesa del bene giuridico (6). Queste considerazioni, se fondano l’an della tutela penale, nulla dicono sul quantum, sui limiti entro cui la stessa può essere ammessa in forza della disciplina normativa, perché se è ammesso il concorso dell’estraneo nei reati propri, nondimeno la specificità di queste fattispecie impone alcune delimitazioni. In questa direzione, va innanzittutto chiarito il rapporto tra gli artt. 110 e 117 c.p. La sentenza annotata richiama l’art. 117 per decidere un fatto di false comunicazioni sociali, in cui la qualifica giuridica non determina una incriminazione ex

(1) BETTIOL, Sul reato proprio, in Scritti giuridici, I, Padova, 1966, p. 420: ‘‘Non tutti i consociati si trovano, invero, nei rispetti dei beni giuridicamente tutelati sullo stesso piano, perché talvolta solo a certe categorie di individui in ragione della loro posizione è data la possibilità di raggiungere e ledere gli interessi protetti, o solo da alcune categorie di persone il legislatore esige, in vista del raggiungimento dei suoi scopi particolari, il compimento di determinate azioni e quindi — attraverso l’omissione — riconosce loro indirettamente la possibilità della lesione di certi beni tutelati’’; PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, Palermo, 1952, p. 15. (2) BETTIOL, op. cit., p. 451: MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1986, p. 541; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Bologna, 1989, p. 382; RANIERI, Manuale di diritto penale, I, Parte generale, Padova, 1968, p. 426; SPIZUOCO, Il concorso di persone nei reati previsti dagli artt. 707 e 708, in Riv. pen., 1969, p. 432. Conforme la giurisprudenza. Cass., 7 giugno 1968, in Riv. pen., 1968, II, p. 687; Cass., 13 aprile 1981, in Giust. pen., 1982, c. 91, m. 90; Cass., 18 dicembre 1990 in Foro amm., 1991, c. 1675; Cass., 26 maggio 1986, in Riv. pen., 1987, p. 890. Contra, sebbene con argomentazioni non convincenti, con riferimento ad una fattispecie specifica, FAVINO, Il concorso dell’incensurato nei reati di mero sospetto, in Arch. pen., 1971, p. 48 ss. (3) BETTIOL, op. cit., p. 451. (4) Sulla teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale, vd. DELL’ANDRO, La fattispecie plurisoggettiva in diritto penale, Milano, 1956, p. 15 ss.; SAMMARCO, Le condotte di partecipazione al reato, Napoli, 1979, p. 150 ss.; MARINI, Lineamenti del sistema penale, Torino, 1993, p. 739 ss. (5) Esistono differenti impostazioni dogmatiche sulla individuazione della fonte del comando penale nei reati propri: alcuni, infatti, ritengono che il precetto penale in questa specie di reati presenti una efficacia primaria nei confronti del soggetto qualificato, ed una efficacia secondaria nei confronti dei terzi affinché non collaborino con il primo (in tal senso BETTIOL, op. cit., pp. 413 e 454; RICCIO, L’autore mediato, Napoli, 1939, p. 84; ALLEGRA, Norme penali speciali e reati speciali, in Annali, 1939, pp. 107-108; ID., Sulla rilevanza giuridica della posizione del soggetto attivo del reato, in Riv. it. dir. pen., 1936, p. 511 ss. ed ivi, 1937, pp. 18 ss. e 255 ss.); altri, presupponendo che nel concorso di persone nel reato entrino in gioco le fattispecie plurisoggettive eventuali, fanno derivare da queste ultime un nuovo precetto con duplice destinazione (DELL’ANDRO, op. cit., p. 30 ss.). (6) Cass., 5 maggio 1986, in Cass. pen., 1987, p. 1722, m. 1418; Cass., 15 novembre 1983, ivi, 1985, p. 347, m. 173, in cui si afferma la responsabilità concorsuale di coloro che ‘‘abbiano agito per il medesimo fine, sia intervenendo all’atto e firmando fuori della presenza del notaio, sia istigando quest’ultimo o rafforzandone il proposito delittuoso’’. Giustifica la punizione dell’estraneo, in quanto abbia previsto e deliberato la violazione del rapporto qualificante, Cass., 17 giugno 1982, in Giust. pen., 1982, II, c. 677 ss.


— 330 — novo: propende, quindi, per ritenere disciplinate da quest’ultima norma tutte le ipotesi di concorso di persone nel reato proprio, non solo i casi in cui vi sia mutamento del titolo di reato (7). Questa interpretazione, che si discosta dall’orientamento dominante, deve essere disattesa, in quanto, al pari di tutte le altre fattispecie, anche nei reati propri il riferimento normativo della disciplina del concorso è dato dall’art. 110 c.p.: sono i principi generali che, come già precisato, consentono il concorso dell’estraneo. Non c’è, dunque, ragione alcuna per ritenere che nei reati propri debba farsi eccezione alla disciplina di riferimento. L’art. 117 c.p., al pari di tutte le altre disposizioni che seguono l’art. 110 c.p., presuppone una situazione di concorso in cui l’estraneo è consapevole di concorrere con altri in un fatto di reato, ma disciplina una ipotesi particolare in cui, per le condizioni o le qualità personali del colpevole o per i rapporti fra il colpevole e l’offeso, muta il titolo del reato (8). È possibile così tracciare una prima linea di demarcazione tra gli ambiti di applicazione delle due norme, prescindendo al momento da qualsiasi ulteriore considerazione in merito all’elemento soggettivo: elemento fondamentale e connotante l’art. 117 c.p. è sempre la sussistenza di un mutamento nel tilolo di reato per effetto delle condizioni personali di un concorrente o del rapporto tra concorrente e soggetto passivo, che determinano non l’incriminazione ex novo di un fatto altrimenti lecito (es. art. 242 c.p.), ma il cambiamento della qualificazione giuridica di un fatto, che anche in assenza di quelle condizioni o di quel rapporto non perde la propria illiceità penale (come nell’esempio ricorrente della trasformazione dell’appropriazione indebita nel più grave delitto di peculato per la qualifica pubblicistica rivestita da uno dei concorrenti) (9). Questa precisazione è necessaria, per evitare il pericolo di facili commistioni e di estensioni indebite di principi validi semmai nei rispettivi ambiti di applicazione delle due norme. Essa consente di trarre una prima conclusione: avere riportato correttamente il concorso di persone nel reato proprio nell’ambito dell’art. 110 c.p., permette di applicare, salvo deroghe specifiche, i principi generali che governano la partecipazione di più soggetti al fatto criminoso: in particolare, con riferimento ai profili di commento che interessano la presente nota, assumono importanza l’elemento soggettivo ed il ruolo rivestito dai concorrenti. 3. Iniziando dal primo elemento, il concorso di persone nel reato richiede che i concorrenti abbiano la consapevolezza di cooperare con altri nella realizza-

(7) In tal senso, in dottrina, MAGGIORE, Diritto penale, I, Parte generale, Bologna, 1951, p. 575. Ciò comporta l’estensione di alcune considerazioni svolte in merito all’art. 117 a tutti i casi di concorso nel reato proprio. (8) INSOLERA, voce Concorso di persone nel reato, in Dig. disc. pen., II, 1988, p. 492; SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano, 1987, p. 395; ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, II, Milano, 1990, p. 209; FIORELLA, L’errore sugli elementi differenziali del reato, Milano, 1979, p. 94; NUVOLONE, Il sistema del diritto penale, Padova, 1982, p. 404; GALLI, Osservazioni sull’art. 117 c.p., in Giust. pen., 1949, II, c. 481; SPIZUOCO, op. cit., p. 431. (9) ROMANO-GRASSO, op. cit., p. 213; GALLO, Le forme del reato, Torino, 1974, p. 127; PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte generale, Milano, 1993, p. 569; RANIERI, Il concorso di più persone in un reato, Milano, 1949, p. 125 e Manuale, cit., p. 426; PADOVANI, Le ipotesi speciali di concorso nel reato, Milano, 1973, p. 110; FROSALI, Il concorso di persone nei ‘‘reati propri’’ e nei ‘‘reati di attuazione personale’’, in Sc. pos., 1949, p. 28; SPIZUOCO, op. cit., p. 431; MANZINI, Manuale di diritto penale italiano, II, edizione aggiornata da Nuvolone e Pisapia, Torino, 1981, p. 608; NUVOLONE, op. cit., p. 404; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale italiano, Parte generale, Milano, 1995, p. 527. Per BETTIOL, op. cit., p. 450, il mutamento del titolo di reato non comporta solamente la variazione della qualificazione giuridica, ma la stessa modificazione del fatto, sul presupposto che la qualifica soggettiva che si collega alla particolare posizione del soggetto attivo si rifletta necessariamente sul fatto (conf. GALLI, op. cit., c. 481). In giurisprudenza: Cass., 22 aprile 1989, in Cass. pen., 1991, p. 61, m. 22; Cass., 11 maggio 1983, ivi, 1985, p. 71; Corte Assise Vibo Valentia, 17 ottobre 1939, in Rep. foro it., 1940, c. 283, m. 22-23; Cass., 25 febbraio 1972, in Rep. foro it., 1973, c. 570, m. 54 a 56.


— 331 — zione del fatto tipico, in uno con la rappresentazione e volizione del fatto, necessarie per la configurazione di un reato doloso (10). L’applicazione di questi principi generali al reato proprio comporta che la dolosa partecipazione dell’extraneus presupponga necessariamente la conoscenza della qualifica soggettiva dell’intraneus, la quale rientra nell’oggetto del dolo, nei limiti in cui si riverbera sul fatto di reato di cui contribuisce a caratterizzare lo specifico disvalore penale: in tal caso la sua partecipazione è piena e perfetta e risponde per effetto dell’art. 110 c.p. (11). A supporto dell’affermazione valga il riferimento normativo all’art. 1081, comma 1 c.nav., a tenore del quale, ‘‘... quando per l’esistenza di un reato previsto dal presente codice è richiesta una particolare qualità personale, coloro che, senza rivestire tale qualità, sono concorsi nel reato, ne rispondono se hanno avuto conoscenza della qualità personale inerente al colpevole’’: da questa disposizione è lecito desumere che la conoscenza della qualifica soggettiva è imprescindibile per la punibilità a titolo di concorso doloso (12), con l’ovvia precisazione che la conoscenza richiesta per la sussistenza del dolo non deve avere ad oggetto l’astratta qualificazione giuridico-penale di cui il soggetto è portatore, in quanto a questa conclusione osterebbe l’art. 5 c.p., ma esclusivamente i substrati di fatto della qualifica soggettiva (13). 4. La particolare connotazione dell’elemento soggettivo connessa alla qualifica voluta dalla legge per l’autore del reato proprio è stata estesa dalla sentenza qui annotata anche alle ipotesi di cui all’art 117 c.p.: nel caso di mutamento del titolo di reato, gli estranei rispondono del reato proprio, ‘‘quando conoscano che altro compartecipe si trova in condizione di determinare il mutamento del titolo di reato’’. Questa interpretazione dell’art. 117 c.p. riprende la tesi di una autorevole dottrina che ha proposto l’adeguamento della norma al principio di soggettività della responsabilità penale. Partendo dal presupposto che ‘‘il riferimento al contenuto della volontà costituisce la regola costante nell’interpretazione delle disposizioni che disciplinano la

(10) Cass., 24 aprile 1952, in Rep. foro it., 1952, c. 496, m. 18; Cass., 11 febbraio 1983, ivi, 1984, II, c. 154, m. 152; Cass., 5 luglio 1990, ivi, 1991, II, c. 295, m. 265; Cass., 1 giugno 1989, ivi, 1991, c. 214; Cass., 3 dicembre 1982, in Rep. foro it., 1983, c. 562, m. 13; Cass., 18 dicembre 1985, in Riv. pen., 1987, p. 263; Cass., 6 novembre 1984, in Giust. pen., 1985, II, c. 620, m. 667; Cass., 9 febbraio 1987, ivi, 1988, II, c. 215, m. 229; Cass., 1 giugno 1989, in Cass. pen., 1991, p. 1360, m. 1036; Cass., 20 dicembre 1989, ivi, p. 1769, m. 1318; Cass., 9 novembre 1987, ivi, 1989, p. 985, m. 877; Cass., 7 aprile 1986, ivi, 1987, p. 1107, m. 877. (11) Sulla applicazione dell’art. 110 e non dell’art. 117 in questi casi, Cass., 1 luglio 1964, in Rep. foro it., 1964, c. 608, m. 35; vd. altresì analoga sentenza della Cassazione in stessa data, pubblicata in Riv. pen., 1965, II, p. 1255. (12) ROMANO-GRASSO, op. cit., p. 209; GALLO, op. cit., p. 127; PADOVANI, op. cit., p. 109; MORSELLI, Note critiche sulla normativa del concorso di persone nel reato, in questa Rivista, 1983, p. 426; LEVI, I delitti contro la pubblica amministrazione nel diritto vigente e nel progetto, Roma, 1930, p. 102; INSOLERA, op. cit., p. 492; SEMINARA, op. cit., p. 395; NUVOLONE, op. cit., p. 404; FIORELLA, op. cit., p. 94; GROSSO, Lineamenti dell’interesse privato in atti d’ufficio, Milano, 1966, p. 205; FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 269; contra PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte generale, Milano, 1993, pp. 457-458, sul presupposto che le qualifiche soggettive personali esulino dall’oggetto del dolo: tuttavia, qualora la qualifica si rifletta sugli elementi del fatto, rientrando così nell’oggetto del dolo, si applicherà l’art. 116 e non l’art. 117 c.p. (13) FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 269; BETTIOL, op. cit., p. 433, il quale distingue tra posizione e qualificazione giuridica della posizione: ‘‘Mentre la prima rientra nella sfera naturalistica del fatto, la seconda incide sul mondo del diritto in quanto ha riferimento alla antigiuridicità del fatto, per cui un errore o la ignoranza della qualificazione medesima non si risolve a vantaggio dell’agente così come non ridonda a suo favore la ignoranza della norma penale o della norma giuridica in genere. Così chi ignora di avere la qualifica di pubblico ufficiale, in un reato proprio non potrà andare esente da pena, perché tale qualifica fa parte della norma penale ed è nozione di diritto penale, laddove se crede di non trovarsi più nella posizione che la legge qualifica di pubblico ufficiale non potrà aver luogo alcuna punizione, perché questo errore si risolve sempre in un errore sul fatto costitutivo del reato’’.


— 332 — compartecipazione criminosa’’ (14), la conoscenza della qualifica da parte dei concorrenti estranei è stata desunta dalla applicazione dei principi generali in materia di elemento soggettivo (art. 42 c.p.), da richiamare integralmente nei casi disciplinati dall’art. 117 c.p., che non detta alcuna disposizione in senso contrario (15). Questa conclusione sarebbe supportata da una interpretazione storico-sistematica, che individua il precedente legislativo della disposizione nell’art. 66 cod. Zanardelli a norma del quale ‘‘le circostanze materiali che aggravano la pena, ancorché facciano mutare il titolo del reato, stanno a carico anche di coloro che le conoscevano al momento in cui sono incorsi nel reato’’, mentre ai sensi dell’art. 65 dello stesso codice ‘‘le circostanze o le qualità inerenti alla persona, permanenti o accidentali, per le quali si aggrava la pena di alcuno di quelli che sono concorsi nel reato, ove abbiano servito ad agevolare l’esecuzione, stanno a carico anche di coloro che le conoscevano nel momento in cui vi sono concorsi’’, con possibilità per il giudice di diminuire la pena. Il codice del 1930, seguendo ad una esperienza legislativa in cui ogni aggravamento di pena veniva subordinato alla conoscenza da parte di ciascun concorrente dell’elemento circostanziale o costitutivo di un reato autonomo, ha riservato alle circostanze in senso tecnico un regime di imputazione oggettiva (art. 118, nella formulazione prima della riforma del 1990); mentre nell’art. 117, relativo agli elementi che comportano mutamento del titolo di reato, l’assenza di indicazioni sull’elemento psicologico starebbe a significare l’implicita assunzione nella disciplina di questo articolo dei principi generali in tema di elemento soggettivo: risponderebbe del reato proprio solo l’estraneo consapevole della qualifica, mentre in mancanza di tale conoscenza troverebbe applicazione il reato comune, ai sensi dell’art. 47 comma 2 c.p. (16). In caso contrario si verrebbe a creare ‘‘una grave disparità di trattamento tra il soggetto qualificato e i concorrenti ‘estranei’. Se per incriminare questi ultimi a titolo di concorso nel reato proprio non fosse richiesto il requisito psicologico della conoscenza delle condizioni, qualità personali e rapporti con l’offeso del concorrente ‘intraneo’, si avrebbe che, mentre per quest’ultimo continuerebbero a valere i principi generali in tema di dolo e colpa — sì che egli potrebbe invocare a propria scusa l’ignoranza o l’errore in ordine alle sua qualità o condizioni —, tali principi non troverebbero applicazione per i concorrenti non qualificati i quali risponderebbero dunque in via puramente oggettiva’’ (17). L’art. 117 c.p. diventa di conseguenza applicazione di un principio di ordine generale, secondo cui i soggetti estranei rispondono del reato proprio se hanno conoscenza della qualifica dell’intraneo, sia nelle ipotesi di incriminazione ex novo, sia in presenza di mutamento del titolo di reato: le due situazioni, dunque, non differirebbero sotto il profilo dell’elemento psicologico. L’incongruenza del legislatore di aver espresso nell’art. 117 solo i casi di mutamento del titolo di reato si spiegherebbe con la derivazione dell’art. 117 dall’art. 66 del codice Zanardelli (18). L’interpretazione fatta propria dalla sentenza e sviluppata in dottrina nelle argomentazioni qui esposte, sebbene si proponga significativamente di arricchire di un contenuto soggettivo la disciplina dell’art. 117 c.p., non è accoglibile allo stato attuale della legislazione, se non forzando il dato normativo confermato dalla costante interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, secondo la quale l’art. 117

(14) LATAGLIATA, I principi del concorso di persone nel reato, Napoli, 1964, p. 214. Questo autore attribuisce all’elemento soggettivo un ruolo tipizzante nella struttura del reato (p. 86), la volontà dei soggetti tiene unite tra loro le varie condotte nelle ipotesi di esecuzione frazionata (p. 93) ed è essenziale nel determinare la rilevanza penale delle condotte di partecipazione atipica (p. 156). (15) LATAGLIATA, op. cit., p. 215; FIORE, Diritto penale, Parte generale, II, Torino, 1955, p. 123. (16) LATAGLIATA, op. cit., p. 216; FIORELLA, op. cit., p. 91. (17) LATAGLIATA, op. cit., p. 217 ss.; FIORE, op. cit., p. 123. (18) LATAGLIATA, op. cit., p. 220.


— 333 — non disciplina i casi in cui l’extraneus è a conoscenza della qualifica soggettiva del concorrente (ipotesi comprese nella disciplina generale dell’art. 110 c.p.), ma i casi in cui tale conoscenza manchi: anche in tal caso l’extraneus risponde del reato proprio a condizione che si abbia non una incriminazione ex novo per effetto della qualifica, ma solamente il mutamento del titolo di reato. Sotto questo profilo si precisa ulteriormente la linea discretiva tra i rispettivi ambiti di applicazione degli artt. 110 e 117 c.p.: il primo è connotato dalla conoscenza delle condizioni o qualità personali volute dalla legge, a prescindere dall’efficacia svolta da queste ultime sulla qualificazione giuridica del fatto (incriminazione ex novo o mutamento del titolo); il secondo presuppone che l’extraneus non conosca la qualifica soggettiva del concorrente e ne limita la responsabilità ai casi di mutamento del titolo di reato (19). Ciò significa che l’art. 117 presuppone in ogni caso che l’estraneo sia in dolo rispetto al reato comune, il cui titolo muta per effetto della qualifica dell’intraneus, in quanto la deroga introdotta in materia di dolo concerne solamente la qualifica soggettiva e nessun altro elemento di fattispecie (20). Nondimeno si tratta di una ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto il fatto viene imputato al concorrente pur in assenza della rappresentazione di un elemento del fatto che costituisce reato (21). All’accoglimento dell’interpretazione che presuppone nell’art. 117 c.p. la conoscenza della qualifica dell’intraneus, per quanto ispirata dall’intento di sottrarre la disposizione ai veteri principi della responsabilità oggettiva, ostano molteplici ragioni. Innanzitutto, non è probante l’argomento tratto dalla derivazione storica dall’art. 66 codice Zanardelli (argomentazione ripresa dalla sentenza di Cassazione). Infatti, la norma invocata nulla dice a proposito delle qualifiche soggettive che determinano il mutamento del titolo di reato, essendo incentrata sulle ‘‘circostanze materiali che aggravano la pena, ancorché facciano mutare il titolo del reato’’ (22), che nel codice vigente si sono trasfuse nell’art. 116 c.p.; anche l’art. 56 codice Zanardelli offre pochi spunti, a tale proposito, in quanto si riferisce alle cir-

(19) ANTOLISEI, op. cit., p. 527; MANTOVANI, op. cit., p. 543; ROMANO-GRASSO, op. cit., p. 212; GALLO, op. cit., p. 127; BETTIOL, op. cit., p. 450; NUVOLONE, op. cit., p. 404; CARACCIOLI, Profili del concorso di persone nelle contravvenzioni, in questa Rivista, 1971, p. 952; BOSCARELLI, Contributo alla teoria del ‘‘concorso di persone nel reato’’, Padova, 1958, p. 99 (pur nell’ambito di una ricostruzione dell’istituto concorsuale come illeciti di concorso); PADOVANI, op. cit., p. 111; VANNINI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Firenze, 1947, p. 219; GALLI, op. cit., c. 481; FROSALI, Principi di diritto penale, Firenze, 1957, p. 370; SANTORO, Manuale di diritto penale, I, Torino, 1958, p. 508; RANIERI, Manuale, cit., p. 426; MANZINI, op. cit., p. 609. In giurisprudenza: Cass., 3 giugno 1967, in Foro it., 1968, II, c. 247 e sentenze riportate alla nt. 11; contra, nel senso che l’applicazione dell’art. 117 c.p. presuppone solamente il mutamento del titolo di reato a prescindere dalla conoscenza della qualifica soggettiva, Cass., 22 dicembre 1965, in Foro it., 1966, II, c. 186 ss.; Trib. Crema, 18 giugno 1982, in Giur. mer., 1983, p. 990, con nota di MANNA, Incongruenze nell’adeguamento della giurisprudenza di merito ai dettami della Corte di Cassazione in tema di banche. (20) ROMANO-GRASSO, op. cit., p. 213; BETTIOL, op. cit., p. 454; BOSCARELLI, op. cit., p. 99. (21) In tal senso, INSOLERA, op. cit., p. 493, il quale distingue sotto questo profilo la responsabilità oggettiva prevista dall’art. 116 e dall’art. 117: nella prima norma manca la volontà del fatto, nella seconda manca la conoscenza di un elemento del reato; MARINI, Lineamenti, cit., pp. 775-776, per il quale l’irrilevanza della mancata rappresentazione rientra ex art. 117, nell’ambito dell’art. 5 c.p. Si rinvia inoltre agli autori citati alla nt. 19 (in posizione differenziata si pone GALLO, op. cit., p. 127, per il quale si configurerebbe una ipotesi di dolus generalis, nel cui oggetto mancano tutte le note che si riferiscono ad una determinata figura di reato). Non è corretto, pertanto, negare, sulla scorta dell’opinione espressa nei lavori preparatori, la responsabilità oggettiva, in quanto il fatto nell’ipotesi disciplinata dall’art. 117 rimarrebbe identico per tutti i concorrenti, pur essendone variata la qualificazione giuridica (RANIERI, Il concorso, cit., p. 125). (22) MAJNO, Commento al codice penale italiano, I, Torino, 1922, p. 228 ss., il quale riporta come esempi lo scasso o l’uso di chiavi false o grimaldelli nel delitto di furto; l’omicidio consumato da uno dei ladri a danno del proprietario di casa, che abbia inaspettatamente intralciato l’azione criminosa; la trasformazione del furto in rapina; le violenze o lesioni personali degenerate in stupro.


— 334 — costanze in senso tecnico. Alla argomentazione di tipo storico potrebbe essere attribuita importanza solo qualora nei lavori preparatori del codice penale fosse dato rinvenire traccia del continuum di disciplina tra gli artt. 56 e 66 del codice del 1889 e l’attuale art. 117: ma nei lavori preparatori non si rinvengono elementi a supporto di un simile sviluppo delle norme, anzi trova conferma l’interpretazione oggettiva qui sostenuta. Peraltro, se fosse decisivo questo argomento, l’art. 117 perderebbe ogni significato, diventando un inutile doppione dell’art. 110 c.p. (23): è questa, infatti, la conclusione a cui conduce il riconoscimento che la disposizione in esame riafferma i principi generali in tema di dolo. Sarebbero state allora sufficienti le regole contenute nell’art. 42 c.p. Se con l’art. 117 si fosse voluto condizionare la responsabilità penale dell’estraneo alla conoscenza della qualifica richiesta dalla legge, non è chiaro per quale ragione non si sia espressa in modo inequivoco la necessità di questo elemento soggettivo, tenuto conto che il codice Zanardelli non aveva lesinato a richiederlo per l’imputazione delle circostanze inerenti la persona del concorrente. Non si può inoltre trascurare il riferimento normativo contenuto nell’art. 1081 comma 1 c. nav., in precedenza riportato, che prevede una clausola di sussidiarietà espressa (‘‘fuori del caso regolato nell’art. 117 del codice penale,...’’). L’esclusione dei casi disciplinati dall’art. 117, in un contesto in cui si richiede la conoscenza della qualifica dell’intraneo da parte del soggetto estraneo affinché costui risponda del reato proprio, conferma che nella norma del codice penale si prescinde da tale conoscenza (24). Depone a favore di questa interpretazione anche l’analisi letterale dell’art. 117. Questa, infatti, delinea tre tipologie di concorrenti ben caratterizzate: il ‘‘colpevole’’ possiede determinate qualità o rapporti con l’offeso; di conseguenza muta innanzitutto il titolo di reato ‘‘per taluno di coloro che vi sono concorsi’’, infine, ‘‘anche gli altri rispondono dello stesso reato’’. Si tratta di tre soggetti diversi. Con l’espressione ‘‘colpevole’’ si presuppone che il soggetto qualificato abbia agito con dolo rispetto alla propria qualifica soggettiva: non è infatti sufficiente il dolo di un qualsiasi concorrente, anche non qualificato, in relazione alla qualifica da altri posseduta (25): se l’intraneus non ha la conoscenza di quest’ultima (o meglio, dei substrati di fatto che alla stessa attengono, come dinnanzi precisato) o, più genericamente, non agisce colpevolmente, non opera il meccanismo di imputazione oggettiva del mutamento del titolo di reato (26).

(23) PADOVANI, op. cit., p. 112; SEMINARA, op. cit., p. 397; INSOLERA, op. cit., p. 492; FIORELLA, op. cit., p. 93, il quale tuttavia deriva dai principi generali la necessità di un Schuldprinzip nel concorso nei reati propri. (24) Contro questo argomento, si è sostenuto che la predetta riserva non presuppone un rapporto da regola ad eccezione tra l’art. 1081 c. nav. e art. 117 c.p., ma che ha solo la funzione di estendere espressamente alle ipotesi di incriminazione ex novo una disciplina che il codice penale detta espressamente per le ipotesi di mutamento del titolo di reato (LATAGLIATA, op. cit., p. 219, nt. 123; FIORELLA, op. cit., p. 92). A questa conclusione si può obiettare che per i casi di incriminazione ex novo non era necessario estendere la disciplina prevista dall’art. 117, poiché in questa specie di reati nessuno ha mai dubitato della necessità che la qualifica fosse conosciuta dal terzo estraneo; inoltre, se l’interpretazione qui non accolta priva di ogni autonomo significato l’art. 117 rispetto all’art. 110, tanto più svilisce il significato dell’art. 1081 c. nav.: se anche questa disposizione riconferma un principio generale, in ogni caso applicabile, non si comprende la ragione di tanta solerte attività legislativa. Di fronte alla disciplina eccezionale dell’art. 117 in ordine all’elemento soggettivo, l’art. 1081, nel prevederne l’applicazione anche alle fattispecie previste nel codice della navigazione, ne circoscrive l’ambito di applicazione alle sole ipotesi di mutamento del titolo di reato, puntualizzando la validà dei principi generali in tema di imputazione oggettiva per le restanti ipotesi di incriminazione ex novo dell’estraneo. (25) In tal senso, invece, PADOVANI, op. cit., p. 110. (26) ROMANO-GRASSO, op. cit., p. 24; DE MARSICO, Diritto penale, Parte generale, Napoli, 1937, p. 237. Contra PADOVANI, op. cit., pp. 110-111, il quale, sul presupposto del principio della esecuzione frazionata, ritiene sufficiente il dolo di un qualsiasi concorrente in ordine alla qualifica dell’intraneo, ad ecce-


— 335 — In secondo luogo, vengono in considerazione ‘‘taluni di coloro’’ che sono concorsi nel reato, per i quali muta il titolo di reato del quale devono rispondere: non solo il soggetto qualificato che agisce colpevolmente, ma soprattutto tutti i concorrenti estranei, che, pur privi delle condizioni o qualità personali richieste dalla legge, sanno tuttavia che queste sono presenti in capo ad un concorrente: per costoro si ha effettivamente il mutamento del titolo di reato, poiché la mancanza della qualifica necessaria non consente loro di accedere al particolare disvalore insito nel reato proprio, se non fornendo un contributo necessario alla realizzazione del fatto in concorso con un soggetto portatore della qualifica mancante. Infine, l’art. 117 c.p. introduce un’altra categoria di soggetti: se il titolo di reato muta per taluni di coloro che sono concorsi nel reato, ‘‘anche gli altri rispondono dello stesso reato’’, ossia coloro che non hanno la conoscenza della qualifica richiesta dalla legge. Solo presupponendo che i soggetti per i quali in prima battuta vale il mutamento del titolo di reato siano coloro che (estranei o intranei) abbiano conoscenza della qualifica soggettiva richiesta dalla legge, si dà ragione della parte dispositiva dell’art. 117 che estende il medesimo titolo di responsabilità a tutti ‘‘gli altri’’ concorrenti non consapevoli della qualifica. In tal modo il legislatore ha assicurato il rispetto del principio della unitarietà del reato nella disciplina del concorso di persone, di cui l’art. 117 c.p. è una delle espressioni più tangibili (27). Allo stato attuale della disciplina legislativa sembra pertanto preferibile attenersi alla interpretazione tradizionale dell’art. 117 c.p., che consente, in caso di mutamento del titolo di reato, di estendere la responsabilità (per il reato tipizzato in relazione a particolari condizioni, qualità o rapporti dell’autore) anche a carico di quei concorrenti estranei che hanno apportato il loro contributo in assenza della consapevolezza in ordine alla qualifica richiesta dalla legge. La previsione di una imputazione oggettiva del reato proprio vale a riaffermare il principio generale della unitarietà del reato, da cui discende l’unità della qualificazione giuridica del fatto, che sarebbe stata compromessa dalla ammissibilità di responsabilità per titoli diversi di reato in capo ai diversi concorrenti (28). L’interpretazione correttiva proposta, che presuppone la conoscenza indefet-

zione dei casi in cui ad integrare l’offesa tipica sia necessario il dolo del soggetto qualificato. Esula, pertanto, dall’ambito di applicazione dell’art. 117 c.p. la complessa problematica attinente la disciplina generale del concorso di persone nel reato proprio nei casi in cui il soggetto qualificato agisca senza colpevolezza. Per le differenti impostazioni, si rinvia a GALLO, op. cit., p. 108; DELL’ANDRO, op. cit., pp. 29 e 133 ss.; ROMANO-GRASSO, op. cit., p. 210; MAGGIORE, op. cit., p. 574; MANZINI, op. cit., p. 610; SEMINARA, op. cit., p. 402 ss.; INSOLERA, op. cit., p. 493; MANTOVANI, op. cit., p. 542; PADOVANI, op. cit., p. 114; BETTIOL, op. cit., p. 457; RICCIO, op. cit., p. 82. Sulla impossibilità di configurare in questi casi un’ipotesi di concorso o di autore mediato nell’ordinamento tedesco, ove vige il principio di accessorietà, vd. BOCKELMANN, Strafrecht, Allgemeiner Teil, München, 1979, pp. 183-184; MAURACH, Deutsches Strafrecht, Allgemeiner Teil, Karlsruhe, 1965, p. 210. Per una diversa impostazione del problema, ROXIN, Täterschaft und Tatherrschaft, Berlin, 1975, p. 365 ss. (27) Dall’unitarietà del reato dipende, infatti, l’unità della qualificazione giuridica: ROMANO, op. cit., p. 212; ANTOLISEI, op. cit., p. 526; INSOLERA, op. cit., p. 492; PATERNITI, voce Concorso di persone nel reato, in Enc. giur., 1988, p. 5; MAGGIORE, op. cit., p. 573; SANTORO, op. cit., p. 508; GUARNERI, Il concorso di più persone nel reato secondo le dottrine della causalità e dell’accessorietà, in Sc. pos., 1936, I, p. 175. Contra: PEDRAZZI, op. cit., p. 31 ss.; BOSCARELLI, passim; PAGLIARO, op. cit., p. 568; MORSELLI, Note, cit., p. 419, pur con talune limitazioni. (28) In dottrina: ROMANO-GRASSO, op. cit., p. 212; GUARNERI, op. cit., p. 175; MAGGIORE, op. cit., p. 573; SANTORO, op. cit., p. 508; LATAGLIATA, op. cit., pp. 214 e 264 (pur con differenti presupposti); PATERNITI, op. cit., p. 5; INSOLERA, op. cit., p. 492; ANTOLISEI, op. cit., p. 526; RANIERI, Il concorso, cit., p. 124; SALTELLI-ROMANO DI FALCO, Commento teorico-pratico del nuovo codice penale, I, parte II (artt. 85240 c.p.), Roma, 1930, p. 600. In giurisprudenza sulla teoria monistica o unitaria del concorso: Cass., 2 maggio 1983, in Giust. pen., 1984, II, c. 351, m. 373; Cass., 11 febbraio 1983, ivi, 1984, II, c. 154, m. 152; Cass., 26 giugno 1981, ivi, 1982, II, c. 301, m. 293; Cass., 12 gennaio 1990, ivi, 1990, II, c. 545, m. 534; Cass., 6 aprile 1987, ivi, 1988, II, c. 97, m. 88; Cass., 21 maggio 1986, in Riv. pen., 1987, p. 780; Cass., 3 ottobre 1984, in Giust. pen., 1985, II, c. 620, m. 669; Cass., 18 maggio 1982, ivi, 1983, II, c.


— 336 — tibile delle condizioni, qualità o rapporti tra colpevole ed offeso, in conformità ai principi di responsabilità dell’illecito penale, diventa invece essenziale in una prospettiva di riforma, in cui non potrebbe trovare spazio una norma analoga a quella contenuta nell’art. 117 c.p. 5. Analoghe riserve suscita l’altro presupposto, relativo al ruolo del soggetto qualificato, al cui accertamento la sentenza subordina l’applicazione dell’art. 117 c.p., in concomitanza alla presenza della consapevolezza in ordine alle condizioni, qualità o rapporti con l’offeso. Ci si chiede, infatti, se il contributo dell’intraneus possa essere di qualsiasi tipo oppure se debba presentare caratteri determinati nell’ambito dell’azione concorsuale. Precisa la sentenza: ‘‘la norma dell’art. 117, in realtà, non specifica quali sono le circostanze in cui, per le condizioni o le qualità personali del colpevole o per i suoi rapporti con l’offeso, ha luogo il mutamento del titolo del reato. Si è autorizzati a pensare perciò che su questo punto detto articolo rinvii alle disposizioni della parte speciale. Se ne deduce che, per aversi, in caso di concorso, il mutamento del titolo del reato, occorre che l’intraneo abbia nella fattispecie di concorso lo stesso ruolo che, nella corrispondente ipotesi di reità individuale, è necessario alla sussistenza del reato proprio. Quando la legge fa richiamo, nell’art. 117, alle condizioni o qualità personali del colpevole o ai suoi rapporti con l’offeso non si riferisce dunque ad uno qualsiasi dei concorrenti, ma ad un concorrente che agisce in maniera analoga a quella che, nei casi di esecuzione monosoggettiva dell’illecito, contraddistingue l’autore’’. La sentenza ripropone così nell’ambito di applicazione della disciplina del concorso di persone nel reato proprio il problema della distinzione tra correi e complici, risolto in base al ‘‘contenuto della volontà dei concorrenti come fattore oggettivo di tipicità degli atti’’. Infatti, in presenza di contributi oggettivamente identici, il correo si contraddistingue per il possesso del dominio finalistico sull’intero fatto criminoso, che si esprime nel contenuto di una volontà che controlla la realizzazione del reato concertato. Diventa essenziale, ‘‘non la partecipazione materiale del concorrente all’attività di esecuzione del reato..., ma il fatto oggettivo che la decisione di commettere il reato sia stata presa direttamente anche dal correo. In presenza della decisione comune, non è necessario l’intervento nella fase esecutiva dell’illecito. Al contrario, il complice ‘‘non compossiede la signoria finalistica sull’intero fatto perché la decisione comune di agire non gli appartiene’’. La sua volontà si limita, pur nella direzione alla realizzazione dell’evento lesivo, a sollecitare in altri la risoluzione criminosa o a facilitarne l’attuazione. In conclusione: ‘‘il dolo del complice ha di mira la realizzazione della fattispecie criminosa decisa da altri, ma dominus dell’azione resta sempre e soltanto l’autore (o i correi) perché a lui è concesso di rifiutarsi sin dall’inizio all’istigazione o di cambiare in seguito la propria decisione’’. Riportati nei termini esposti i passi salienti della motivazione, non può non lasciare perplessi la conclusione sulla necessità che l’intraneus, nello specifico ambito di applicazione dell’art. 117 c.p., e l’autore, contrapposto al complice nella disciplina concorsuale, posseggano il dominio finalistico sul fatto. Tale criterio, pur richiamato da una parte della dottrina italiana (29), di cui la sentenza ripercorre in modo pressoché identico le cadenze argomentative, risente delle discus-

488, m. 511; Cass., 25 gennaio 1990, in Cass. pen., 1992, p. 305, m. 179. In particolare, sulla derivazione dell’art. 117 c.p. da tale principio, Cass., 1 luglio 1964, in Rep. foro it., 1964, c. 608, m. 35; Cass., 22 dicembre 1965, in Foro it., 1966, II, c. 186; Cass., 27 giugno 1972, in Rep. foro it., 1975, c. 533, m. 9. (29) LATAGLIATA, op. cit., p. 222 ss., che ricorre al dominio finalistico sul fatto per interpretare l’art. 117 c.p. e per distinguere l’autore dal complice. In tal senso, più recentemente, FIORE, Diritto pe-


— 337 — sioni che si svolgono nell’ordinamento tedesco a proposito della distinzione tra autore e complice. Queste elaborazioni, tuttavia, sono fortemente influenzate dalla relativa disciplina del concorso di persone nel reato che vige in tale paese, comportando problemi di trasposizione nel nostro ordinamento retto da principi profondamente diversi. A tale proposito, è pertanto necessario considerare con attenzione i criteri a cui si è ricorso in Germania per differenziare il ruolo di autore da quello di complice, in quanto la Cassazione fa proprio un orientamento dottrinale che a quei criteri comunque rinvia. Solo una analisi comparata consente di mettere in luce le difficoltà a cui va incontro la soluzione prospettata nella sentenza in commento. 6. Il codice penale tedesco disciplina il concorso di persone nel reato, differenziando tra loro le figure di concorrenti ed accogliendo il principio della accessorietà delle forme di partecipazione atipica (Teilnahme). Si individuano innanzitutto tre forme di autoria (Täterschaft): l’autore immediato, che realizza il fatto individualmente ed autonomamente (unmittelbarer Täter); l’autore mediato, che commette il fatto per mezzo di un’altra persona (mittelbarer Täter); il coautore, che presuppone l’esecuzione in comune del reato (Mittäter) (§ 25 StGB). Le forme di partecipazione atipica comprendono l’istigatore (Anstifter), punito con la stessa pena prevista per l’autore (‘‘chi ha dolosamente determinato taluno alla commissione dolosa di un fatto antigiuridico’’: § 26 StGB) ed il complice (Gehilfe), a cui si applica una riduzione obbligatoria della pena (‘‘chi ha dolosamente prestato aiuto a taluno per la commissione di un fatto doloso antigiuridico’’: § 27 StGB) (30). Il presupposto normativo da cui si sviluppa l’analisi dell’istituto del concorso di persone è, dunque, sostanzialmente differente dalla disciplina contenuta negli artt. 110 ss. del codice penale italiano, per il quale è sufficiente un qualsiasi tipo di contributo causale alla realizzazione della fattispecie (31). In assenza di precise indicazioni legislative, dottrina e giurisprudenza tedesche hanno compiuto un intenso sforzo ermeneutico volto ad individuare i connotati caratterizzanti le differenti figure di concorrenti. La teoria formale-oggettiva considera autore chi tiene in tutto o in parte la condotta esecutiva descritta nella fattispecie legale e complice chi contribuisce con una condotta preparatoria o di appoggio all’attività dell’autore (Vorbereitung-Unterstutzungshandlung) (32). Le critiche che unanimemente sono state mosse, in specie a partire dagli anni Trenta, a questa impostazione non toccano, si badi, il

nale, Parte generale, II, Torino, 1995, p. 96 ss., e, con esclusivo riferimento all’interpretazione dell’art. 117 c.p., FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 383. (30) Si riportano per comodità del lettore il testo delle norme richiamate del capitolo terzo del codice penale tedesco (Täterschaft und Teilnahme): § 25: ‘‘Täterschaft. (1) Als Täter wird bestraft, wer die Straftat selbst oder durch einem anderen begeht. (2) Begehen mehrere die Straftat gemeinschaftlich, so wird jeder als Täter bestraft (Mittäter)’’. § 26: ‘‘Anstiftung. Als Anstifter wird gleich einem Täter bestraft, wer vorsätzlich einem anderen zu dessen vorsätzlich begangener rechtswidriger Tat bestimmt hat’’. § 27: ‘‘Beihilfe. (1) Als Gehilfe wird bestraft, wer vorsätzlich einem anderen zu dessen vorsätzlich begangener rechtswidriger Tat Hilfe geleistet hat. (2) Die Strafe für den Gehilfen richtet sich nach der Strafdrohung für den Täter. Sie ist nach § 49 Abs. 1 zu mildern’’. (31) La dottrina tedesca critica l’Einheitstäterprinzip, in quanto lo ritiene incompatibile con il diritto penale a causa della sua eccessiva elasticità (WESSELS, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Heildelberg, 1989, p. 147; JAKOBS, Strafrecht, Allgemeiner Teil. Die Grundlagen und die Zurechnungslehre, Berlin, 1991, p. 595), dell’ampiezza dell’ambito di punibilità che verrebbe esteso al tentativo di partecipazione (JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts, Allgemeiner Teil, Berlin, 1978, p. 525; JAKOBS, op. ult. loc. cit.), dell’ampliamento della misura della pena (JESCHECK, op. ult. loc. cit., il quale sottolinea altresì che la prevalenza accordata al principio di causalità svaluta lo specifico disvalore d’azione: conf. SAMMARCO, op. cit., p. 77). L’Einheitstäterprinzip è tuttavia applicata nelle Ordnungswidrigkeiten. (32) GRUNHUT, Grenzen strafbarer Täterschaft und Teilnahme, in JW, 1932, p. 366. Sulle diffe-


— 338 — principio di tipicità della fattispecie nei casi di esecuzione monosoggettiva dell’illecito. In questo ambito, non vi è dubbio che la qualifica di autore spetta a chi realizza gli elementi formali del tipo descrittivo (33). Le obiezioni rivolte a questa impostazione hanno invece interessato la disciplina del concorso di persone, in quanto, in un contesto normativo di rigida previsione di figure fisse di concorrenti ancorate a determinate pene, l’applicazione di criteri oggettivi di individuazione dell’autore comporta, si è osservato, il rischio di generare situazioni di ingiustizia sostanziale (si dovrebbe punire come semplice Gehilfe, con obbligatoria riduzione della pena, il capo del sodalizio criminoso, che ha organizzato l’intera attività, e come autore il gregario che si è limitato alla condotta esecutiva) (34). Per garantire flessibilità al sistema, la teoria soggettiva (Animus-Theorie o Dolus-Theorie), presupponendo l’impossibilità di differenziare sul piano oggettivo i contributi causali dei concorrenti (35), si collega alla direzione della volontà ed alla posizione interiore del concorrente rispetto al fatto: Täter è chi agisce con volontà d’autore o animus auctoris (Täterwillen) e vuole il fatto come proprio (als eigene), mero complice chi agisce con volontà di complice o animus socii (Teilnehmerwillen) e vuole istigare o agevolare il fatto come fatto a lui estraneo (als fremde). L’uno è autonomo, l’altro è dipendente dal volere del soggetto che fa proprio il fatto: ‘‘il complice vuole l’evento solo se l’autore lo vuole e nel caso in cui l’autore non lo voglia, anche lui non lo vuole. La decisione di realizzare l’evento deve essere rimessa all’autore’’ (36). A questi criteri di distinzione ricorre ancora oggi la giurisprudenza, la quale ha attribuito sempre maggiore importanza all’interesse perseguito dal concorrente (Interessentheorie), come indizio per la distinzione in chiave soggettiva tra autore e complice, in quanto solo il primo è portatore di un proprio autonomo interesse alla realizzazione del reato: ‘‘se qualcuno non ha alcun interesse alla esecuzione di un fatto, allora si può supporre, sino a prova contraria, che rimetta la sua esecuzione ad un altro, che sia al fatto effettivamente interessato’’ (37). Tuttavia, proprio queste esigenze di maggiore flessibilità della pena sottese alla teoria soggettiva hanno a poco a poco svuotato le nozioni di Täterschaft e Teilnahme, divenute tra loro intercambiabili in ragione delle maggiori o minori esigenze di repressione, laddove sarebbe stato necessario garantire massima cer-

renti impostazioni della teoria oggettiva (Notwendigkeitstheorie, Gleichzeitigkeitstheorie, physisch und psychisch vermittelte Kausalität, Überordnungstheorie) si rinvia a ROXIN, op. cit., p. 38 ss. (33) La nuova formulazione del § 25 StGB, a tale proposito, non lascia adito a dubbi. (34) BAUMANN-WEBER, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Bielefeld, 1985, p. 530; ESER, Strafrecht, II, München, 1976, p. 144; JESCHECK, op. cit., p. 528; WESSELS, op. cit., p. 150. Si fa inoltre rilevare che la teoria oggettiva non è in grado di spiegare l’inclusione del mittelbarer Täter tra le forme di autoria, come prevede il § 25 StGB: in tal senso WELZEL, Das deutsche Strafrecht, Berlin, 1969, p. 99 (ed in generale sulla dottrina finalistica dell’azione, ID., Das neue Bild des Strafrechtssystems. Eine Einführung in der finalen Handlungslehre, Göttingen, 1957, passim); JESCHECK, op. cit., p. 528; ROXIN, op. cit., p. 35; ESER, op. cit., p. 144; WESSELS, op. cit., p. 150; SAMSON in RUDOLPHI - HORN - SAMSON, Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch, I, Allgemeiner Teil, Berlin, 1993, p. 5. (35) GALLAS, Die moderne Entwicklung der Begriffe Täterschaft und Teilnahme im Strafrecht, Gutachten für den VII. internationalen Strafrechtskongreß in Athen, in Beiträge zur Verbrechenslehre, Berlin, 1968, p. 132; BAUMANN-WEBER, op. cit.. p. 531; JESCHECK, op. cit., p. 529; BOCKELMANN, op. cit., p. 176; MAURACH, op. cit., p. 552; JAKOBS, op. cit., p. 608. Contra SEMINARA, op. cit., p. 110 ss., per il quale la teoria soggettiva va fatta risalire alla scuola penalistica hegeliana. (36) VON BURI, Über Kausalität und ihre strafrechtlichen Beziehungen, 1873, p. 41, citato in ROXIN, op. cit., p. 52 ss., cui si rinvia per un approfondimento delle differenti posizioni assunte dalla teoria oggettiva. (37) Così, a commento della teoria soggettiva, ROXIN, op. cit., p. 56, il quale rivaluta l’importanza dell’elemento dell’interesse come indizio tangibile del Täter- o Teilnehmerwillen. In dottrina si sottolinea l’inutilità del criterio dell’interesse ad offrire un indizio sul contenuto della volontà nelle fattispecie in cui è tipizzata una motivazione altruistica, SAMSON, op. cit., p. 10; JESCHECK, op. cit., p. 530; BOCKELMANN, op. cit., p. 177; MAURACH, op. cit., p. 554; contra, JAKOBS, op. cit., p. 610.


— 339 — tezza (38): l’autoria perde il proprio fondamento legale attraverso lo scollamento del volere dell’autore dalla fattispecie (39) e si elabora un criterio non accertabile e di difficile applicazione (40), che dà alla teoria una ‘‘arbitrarietà costituzionale’’ (41), in quanto l’espressione, di cui la giurisprudenza abusa, di aver voluto il fatto come proprio o come altrui, perde di significato. 7. La necessità di ristabilire nella nozione di autore un legame con la fattispecie ha indotto la dottrina a desumere i criteri di identificazione direttamente dalla tipicità delle singole fattispecie: è autore chi realizza un comportamento conforme alla fattispecie legale (tatbestandsbezogener Täterbegriff) (42). Nel caso di esecuzione plurisoggettiva, però, le fattispecie di parte speciale vanno interpretate non nel senso formale che deriva loro dallo stretto significato delle parole, ma in modo tale da ritenere autore in senso materiale (in einer materiellen Weise) non solo chi tiene una condotta conforme alla fattispecie in senso formale (im formellen Sinn), bensì anche chi si comporta in modo equivalente dal punto di vista del valore (wertmäßig das gleiche tun) (43). Il superamento del dato strettamente letterale del tipo descrittivo viene proposto dai sostenitori della dottrina finalistica dell’azione, che individuano la qualità di autore in chi possiede il dominio (o codominio) sullo svolgimento del fatto concreto: con felice allitterazione, Täterschaft = Tatherrschaft, che arricchisce la tipicità formale del controllo sostanziale della vicenda (44). Questa teoria, che esprime in ambito concorsuale la finale Handlungslehre (45) ad una analisi più attenta presenta difficoltà di applicazione, evidenziate dall’ampia discussione in seno alla dottrina tedesca (46). Nella sua prima formulazione (Welzel), autore è solo chi ha il dominio finalistico sul fatto (finale Tatherrschaft), ossia chi conforma, in relazione allo scopo, il fatto, nella sua esistenza e modalità, mentre i complici posseggono la signoria esclusivamente sul loro atto di partecipazione: ‘‘signore sul fatto è chi lo esegue in vista dello scopo sulla base della decisione della volontà. La conformazione del fatto attraverso la volontà di realizzazione guidata da un piano programmato rende l’autore signore del fatto. Per questo motivo il volere finalisticamente orientato alla realizzazione (il dolo della fattispecie) rappresenta il momento centrale del dominio sul fatto’’ (47). In realtà, pur con queste precisazioni, la definizione data non fa molti passi avanti rispetto alla teoria soggettiva nell’offrire maggiori garanzie, in quanto ne rappresenta un semplice sviluppo, riducendo la Tather-

(38) WESSELS, op. cit., p. 150. (39) WESSELS, op. cit., p. 151. (40) JESCHECK, op. cit., p. 530; ROXIN, op. cit., p. 53; ESER, op. cit., p. 145. (41) JAKOBS, op. cit., p. 611: ‘‘das Willkürlichkeit ist bei der subjectiven Theorie kostitutionell’’. Conf. SEMINARA, op. cit., p. 149. (42) WELZEL, op. cit., p. 98; GALLAS, op. cit., p. 132; BLEI, Strafrecht, I, Allgemeiner Teil, München, 1977, p. 224; MAURACH, op. cit., p. 529; CRAMER, op. cit., p. 355; WESSELS, op. cit., p. 147. (43) JESCHECK, op. cit., p. 531; GALLAS, op. cit. pp. 141-142. (44) SAMMARCO, op. cit., p. 120. (45) Lo riconoscono espressamente, CRAMER, op. cit., p. 366; MAURACH, op. cit., pp. 532 e 557. Individua nella Überordnungstheorie di DAHM (Täterschaft und Teilnahme, 1926, p. 43) e SCHMIDT (Grundriß des Deutschen Strafrechts, 1931, p. 161) il diretto precursore della Tatherrschaft, ROXIN, op. cit., p. 50. (46) Sullo sviluppo di questa teoria, vd. l’ampia monografia di ROXIN, op. cit., p. 60 ss., il quale individua in HEGLER (Merkmale des Verbrechens, in ZStW, 1915, pp. 19-44, 184-232) l’autore che per primo ha utilizzato l’espressione Tatherrschaft, sebbene per indicare i presupposti della colpa penale (imputabilità, dolo o colpa e assenza di cause di liceità). (47) WELZEL, Das deutsche Strafrecht, cit., p. 100 (vd. altresì, ID., Studien zum System des Strafrechts, in ZStW, 1939, p. 491 ss.).


— 340 — rschaft all’agire con dolo senza costrizioni (48). In definitiva questo approccio esclusivamente finalistico rischia di giungere allo stesso effetto del principio condizionalistico di causalità, di non consentire la distinzione dei ruoli (49). Una seconda impostazione (Gallas), partendo dalla concezione restrittiva di autore come esecutore della condotta conforme alla fattispecie (50), propone di cogliere il significato ‘‘umano’’ del disvalore dell’azione, ‘‘come fatto, nel quale il processo causale non si svolge in modo cieco, ma piuttosto è posto in azione e guidato da una volontà umana verso uno scopo programmato’’ (51). Ciò consente di affermare che la conformità della condotta a quella descritta dal legislatore è data, non tanto dalla causazione dell’evento tipico, ma, in quanto comportamento umano (menschliches Tun), dalla ‘‘attuazione di un volere rivolto ad uno scopo attraverso l’apprestamento di mezzi adeguati’’ (52). L’elemento di connotazione dell’autore diventa la Tatherrschaft, intesa come ‘‘il rapporto del soggetto agente con il decorso dell’accadimento e con il relativo evento, che fa apparire l’intera vicenda come fatto ‘suo proprio’, l’evento come opera ‘sua’. Ma un tale rapporto sussiste solo allorquando chi opera ‘ha in mano’ (in der Hand hat) il fatto attraverso la predisposizione programmata di mezzi idonei (adeguati alla produzione dell’evento), ‘domina’ (beherrscht) il decorso dell’avvenimento fino all’evento, sia direttamente in prima persona, sia servendosi di un terzo come mero suo strumento’’ (53). Anche questa impostazione, per quanto abbia cercato di oggettivizzare la Tatherrschaft, richiedendo la idoneità dei mezzi rispetto alla produzione dell’evento programmato, presta il fianco a critiche nei casi di coautoria, in cui nessuno dei correi ha il fatto nelle sue mani come se fosse suo (54). Particolare attenzione all’accadimento oggettivo presta chi, come Maurach, individua l’autore sulla base dei rapporti di forza che si pongono nel caso concreto: per Tatherrschaft si intende ‘‘il dominio sul decorso del fatto, che si riflette come contenuto del dolo (das vom Vorsatz umfaßte In-den-Händen-Halten des tatbestandsmäßigen Geschehensablaufs). Possiede la Tatherrschaft ogni coagente che secondo il suo volere può ostacolare o consentire lo svolgimento del fatto... è decisiva non la volontà di dominio (Wille zur Tatherrschaft) — che si tradurrebbe alla fine in un modo diverso di esprimere la volontà di autore —, bensì la conformazione oggettiva del fatto diretta dalla volontà’’ (55). Questa interpretazione è stata criticata, da un lato, per l’eccessiva ampiezza della figura dell’autore, in quanto anche un complice necessario può impedire l’evento rifiutando il proprio contributo (56); dall’altro lato, perché appare troppo ristretta, in quanto nella organizzazione della esecuzione del reato attraverso la divisione dei ruoli il singolo concorrente non può mai da solo fare decorrere il fatto per mancanza di sufficiente capacità (57). Di fronte alle difficoltà di applicazione delle tradizionali definizioni di dominio finalistico del fatto, la dottrina ha elaborato impostazioni che integrano la Tatherrschaft con criteri soggettivi di valutazione, tra loro variamente commisti e su-

(48) ROXIN, op. cit., p. 68; JAKOBS, op. cit., p. 612. (49) BOCKELMANN, op. cit., p. 186. (50) GALLAS, op. cit., p. 137. (51) GALLAS, op. cit., p. 136. (52) GALLAS, op. cit., p. 137. (53) GALLAS, op. cit., p. 139. (54) In tal senso, JAKOBS, op. cit., p. 612. (55) MAURACH, op. cit., p. 559. Accolgono questa definizione anche WESSELS, op. cit., p. 150, ed ESER, op. cit., p. 145. (56) JAKOBS, op. cit., p 612; BAUMANN, op. cit., p. 534; BOCKELMANN, op. cit., p. 186. (57) JAKOBS, op. cit., p. 612.


— 341 — scettibili di differente apprezzamento. Si è così affermato che il fatto deve apparire come ‘‘l’opera di una volontà che guida l’accadimento. Ma è decisiva per l’autoria non solo la volontà che dirige, bensì anche il peso oggettivo dei singoli contributi’’ (58); altri ritiene che la Tatherrschaft possa essere utilizzata nei soli casi di effettivo ruolo dominante, mentre si riconosce al criterio soggettivo la capacità di risolvere i casi meno chiari (59); oppure si ricorre più genericamente alla commistione di criteri soggettivi e oggettivi (60), sino ad affermare che complice e autore non sono concetti definitori, ma solo empirici, che si contraddistinguono sulla base di elementi ora oggettivi, ora soggettivi (c.d. Ganzheitstheorie) (61). La necessità di mantenere costante il riferimento al dato normativo, ha portato la più recente dottrina a negare validità ad un tipo di approccio unitario ed a scindere l’autoria nelle tre forme in cui attualmente si presenta nel § 25 StGB: nell’autore immediato si presenta come dominio sull’azione (Handlungsherrschaft), nell’autore mediato come dominio sulla volontà (Willensherrschaft des Hintermannes), nei coautori come dominio funzionale (funktionelle Tatherrschaft) (62). La tripartizione, sebbene consenta una analisi più rigorosa, differenziando i problemi che le tre forme di autoria comportano, non rappresenta di certo la panacea per la soluzione delle questioni sollevate dalle singole forme di Tatherrschaft, come si vedrà a proposito del coautore. Se di fronte al naufragio dei tentativi di definizione del dominio finalistico sul fatto si sono sviluppati indirizzi ermeneutici volti ad integrare la Tatherrschaft con criteri soggettivi di valutazione, si assiste parimenti al riemergere di impostazioni soggettive interpretate in modo ristretto. La giurisprudenza arricchisce così l’elemento volontaristico del ‘‘volere di dominio sul fatto’’ (Willen zur Tatherrschaft) e richiede un riscontro oggettivo sulla entità della partecipazione (63). Questa specificazione del contenuto della volontà viene da taluno integrato con l’ulteriore elemento dell’interesse (64). Altri richiede che la volontà di dominio, non identificandosi nel semplice desiderio, trovi precisi elementi di riscontro oggettivi, che si manifestino nella esecuzione comune del reato (65). Pur con questi temperamenti, rimane immutato il fondamento soggettivo di questa interpretazione, che non si sottrae alle critiche in antecedenza esposte (66). 8. Il rapido excursus sulla disciplina del concorso di persone nel reato nell’ordinamento tedesco consente ora di avere strumenti più precisi per la valuta-

(58) JESCHECK, op. cit., p. 531. (59) BLEI, op. cit., p. 226 ss. (60) BOCKELMANN, op. cit., p. 186 ss.; CRAMER, op. cit., p. 367. (61) SCHMIDTHÄUSER, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Tübingen, 1975, p. 500. (62) Introduce una ripartizione in tal senso ROXIN, op. cit., p 127 ss., ripresa, anche a soli fini sistematici, dalla dottrina più recente: tra gli altri, WESSELS, op. cit. p. 150; JAKOBS, op. cit., p. 613, il quale espressamente distingue tra formelle, tatbestandgebundene Tatherrschaft, materielle Tatherrschaft als Entscheidungsherrschaft e materielle Tatherrschaft als Gestaltungsherrschaft. (63) Sugli orientamenti della giurisprudenza, vd. WESSELS, op. cit., pp. 152-153; SAMSON, op. cit., p. 10; JAKOBS, op. cit., p. 611. (64) BAUMANN-WEBER, op. cit., p. 537 ss. (65) LANGER, Das Sonderverbrechen, Berlin, 1972, pp. 464-465, per il quale il Täterwillen non si identifica nel desiderio: il desiderio di essere subordinati ad altri non rende necessariamente un Täterwillen un Teilnehmerwillen, né il desiderio di contribuire al fatto in un ruolo da autore non indica di per sé solo Täterwillen, se non si è tradotto nell’attività esecutiva del reato. (66) BOCKELMANN, op. cit., p. 178; va rilevato che, sebbene accolgano presupposti dogmatici differenti, il temperamento delle opposte teorie della volontà e della Tatherrschaft converge nella adozione di criteri oggettivi e soggettivi di valutazione, che conducono spesso a risolvere in modo identico i casi concreti: in tal senso, MAURACH, op. cit., p. 557, il quale tuttavia ritiene che la teoria soggettiva non soddisfi da un punto di vista dottrinario. Analogamente CRAMER, op. cit., p. 367, sostenitore della teoria mista, ritiene che la Ganzheitstheorie di SCHMIDTHÄUSER conduca agli stessi risultati delle altre teorie.


— 342 — zione della sentenza in commento. Questa, come già in precedenza chiarito, ha accolto le conclusioni a cui era giunta in Italia una autorevole dottrina che ha condiviso le elaborazioni dei giuristi tedeschi. Per la Corte di Cassazione ‘‘il correo si differenzierebbe dal mero partecipe non per l’aspetto esteriore del suo comportamento, ma perché, a differenza del complice, (com)possiede il dominio finalistico sull’intero fatto criminoso’’: si può, quindi, affermare che abbia fatto propria la teoria della Tatherrschaft nella versione filtrata in Italia (67). Questa prima constatazione, che emerge dalla lettura della sentenza, richiede un profondo vaglio critico sullo specifico contenuto attribuito all’espressione ‘‘dominio finalistico sul fatto’’, alla quale, come è emerso dall’indagine condotta, non si riconosce significato univoco. È allora necessario un raffronto puntuale delle argomentazioni sviluppate in motivazione con i risultati a cui è giunta la dottrina che ha da tempo approfondito in questa prospettiva di analisi il concorso di persone nel reato, essendo così possibile comprendere la portata e la praticabilità della teoria accolta. La sentenza ritiene che tra autore e complice intercorra ‘‘una diversità di natura oggettiva’’, rinvenuta rispettivamente nel possesso ovvero nell’assenza del dominio finalistico sul fatto (68), ricollega, però, tale dominio ‘‘direttamente al contenuto della volontà’’ (69), precisando che si tratta di ‘‘un dato obiettivo che trascende l’ambito della pura subbiettività di chi agisce...: correo è, dunque, colui che con la sua volontà controlla realmente la realizzazione del reato concertato o comunque deciso insieme agli altri correi’’ (70). Orbene, se si confrontano queste argomentazioni con le differenti accezioni di Tatherrschaft in precedenza esposte, emerge ad evidenza la assimilazione alla impostazione welzeliana, che interpreta la signoria sul fatto in chiave essenzialmente volontaristica, al punto che ad essa si muove l’obiezione di essere un semplice sviluppo della applicazione di criteri soggettivi (71). Infatti, secondo entrambe, la pretesa oggettivizzazione del giudizio di signoria sul fatto si limita a rigettare, quale criterio di accertamento del Täterwillen, il mero desiderio, la semplice disposizione sentimentale del concorrente, ma è pur sempre (e solo) il contenuto della volontà del singolo concorrente a consentire l’individuazione dell’autore, indipendentemente dall’oggettiva conformazione dell’atto di partecipazione. Ma così intesa, la Tatherrschaft non sembra introdurre gli asseriti criteri oggettivi di valutazione. Al contempo, la motivazione della sentenza presenta molteplici affinità con le impostazioni soggettive ‘‘ristrette’’, a cui prima si accennava, che richiedono una volontà di dominio sul fatto (Willen zur Tatherrschaft) con precisi elementi oggettivi di riscontro. Permane, dunque, il fondamento soggettivo dell’interpretazione proposta dalla sentenza, in quanto, in ultima istanza, di fronte a condotte oggettivamente identiche, è decisiva la volontà del singolo concorrente: secondo la Cassazione, anche il complice tende finalisticamente alla realizzazione dell’evento criminoso, ‘‘ma il contenuto immediato della sua volontà è quello di sollecitare in altre persone (l’autore o i coautori) la risoluzione criminosa (istigazione)...: il dolo del complice ha di mira la realizzazione della fattispecie criminosa decisa da altri, ma dominus dell’azione resta sempre e soltanto l’autore (o i correi), perché a lui è

(67) tenza. (68) (69) (70) (71)

II riferimento è a LATAGLIATA, op. cit., p. 238, che si esprime negli stessi termini della senIn tal senso anche LATAGLIATA, op. cit., p. 238. Così anche LATAGLIATA, op. ult. loc. cit. Conforme LATAGLIATA, op. cit., p. 239. Sul punto, vedi retro § 7.


— 343 — concesso di rifiutarsi sin dall’inizio all’istigazione o di cambiare in seguito la propria decisione’’ (72). 9. La conferma dell’interpretazione in chiave essenzialmente soggettiva del dominio finalistico sul fatto da parte della sentenza è data dalla assunzione della volontà a strumento di controllo effettivo sulla realizzazione del reato concertato, anche in assenza di intervento nella fase di esecuzione dell’illecito: condizione necessaria e sufficiente per essere autore è ‘‘che la decisione di commettere il reato sia stata presa direttamente anche dal correo’’ (73). L’importanza assunta dalla decisione di commettere il reato e, nel contempo, la svalutazione del dato oggettivo di intervento nella fase esecutiva sono presenti in alcune posizioni assunte in merito alla coautoria (Mittäterschaft), in cui più soggetti concorrono alla produzione di un fatto unitario, di cui ognuno risponde, sia per la parte che ha posto in essere, sia per la parte realizzata dagli altri sulla base di una decisione comune (74). Il presupposto di imputazione del fatto concorsuale al coautore è individuato nella ‘‘comunitarietà della decisione’’ (Gemeinsamkeit des Tatentschlusses) di commettere il reato, attraverso la predisposizione di una ‘‘divisione dei compiti’’ tra i concorrenti (Aufgabenverteilung) e di ‘‘attuazione delle relative conseguenze’’ (Verwirklichung ihrer Folgen) (75). La specificità della coautoria sta nel fatto che ognuno dei concorrenti da solo non ha la signoria sull’intero fatto (76), né questa si limita al singolo atto di partecipazione posto in essere: ‘‘c’è il dominio completo nelle mani di più persone, in modo tale che queste possono agire solo insieme, ma ugualmente tramite l’azione comune ognuno ha nelle mani il destino dell’intero fatto’’ (77). Si tratta di funktionelle Tatherrschaft, ‘‘nel senso che la cosignoria dei singoli emerge in tal caso dalla loro funzione nell’ambito del piano complessivo’’ (78). Alcuni autori riconoscono rilievo sia alla attività esecutiva, sia a qualsiasi condotta preparatoria o di appoggio alla condotta esecutiva, controbilanciata dal peso assunto nella pianificazione concorsuale della decisione comune di commettere il reato (79). Diventa essenziale nell’individuazione e qualificazione giuridica della condotta concorsuale la Gemeinsamkeit des Tatentschlusses, a cui non va disgiunta la percezione soggettiva che il singolo concorrente ha del proprio ruolo (80). In questa stessa direzione si muove la sentenza in commento: diventa essenziale la decisione di agire presa in comune, alla quale ciascun correo contribuisce in maniera diretta, a differenza del semplice partecipe, cui tale decisione non appartiene. Questo presupposto si riflette sulla volontà del singolo concorrente, che vorrà il fatto, nel primo caso, come ‘‘fatto proprio’’, avendo contribuito alla sua decisione, nel secondo caso, come ‘‘fatto altrui’’, limitandosi a sollecitare in altri la risoluzione criminosa o a facilitarne l’attuazione. Polarizzata l’attenzione sull’elemento volontaristico, il significato oggettivo dell’atto di partecipazione coglie, tutt’al più, il valore sintomatico di una volontà finalisticamente orientata: anche l’in-

(72) Identica considerazione in LATAGLIATA, op. cit., p. 239. (73) Stessa considerazione in LATAGLIATA, op. cit., p. 242. (74) SAMSON, op. cit., p. 31; WESSELS, op. cit., p. 153. (75) ROXIN, op. cit., p. 285; JESCHECK, op. cit., p. 532; SCHMIDTHÄUSER, op. cit., p. 504; BLEI, op. cit., p. 247; BOCKELMANN, op. cit., p. 187. (76) In tal senso si era espresso WELZEL, Das deutsche Strafrecht, cit., p. 107. (77) ROXIN, op. cit., p. 277. Conf. SAMSON, op. cit., p. 31; BLEI, op. cit., p. 249. (78) ROXIN, op. cit., p. 280. (79) BOCKELMANN, op. cit., p. 188; CRAMER, op. cit., p. 384; WESSELS, op. cit., p 154. (80) Su questa percezione soggettiva insiste CRAMER, op. cit., p. 369, in posizione critica rispetto a ROXIN, cui rimprovera l’impossibilità di accertare l’autore sulla base di criteri oggettivi.


— 344 — tervento in una attività meramente preparatoria, purché compensato dalla partecipazione alla decisione comune di commettere il reato, basta per attribuire la qualità di autore. Qui sta la vera antinomia logica del ragionamento sviluppato dalla sentenza: non si comprende, infatti, come sia possibile derivare dalla decisione comune di commettere un reato il dominio finalistico sull’accadimento, anche da parte di chi si sia limitato ad intervenire nella fase preparatoria in assenza di un contributo nella fase esecutiva: una effettiva signoria sullo svolgimento concreto dell’accadimento è in capo solo a chi pone in essere quantomeno una parte della condotta esecutiva, con la quale può concretamente condizionare la consumazione del reato: è irrilevante l’intensità della partecipazione nella fase preparatoria, in quanto un eventuale dominio su quest’ultima non fonda alcun dominio sul fatto (81). È, dunque, esclusivamente l’esecuzione del fatto che può connotare in senso oggettivo la Tatherrschaft, rivalutandone il significato di controllo effettivo sulla realizzazione dell’illecito. Interpretato però in tal modo, il dominio finalistico sul fatto si riporta alla distinzione tra autore e complice fondata sul criterio formale del comportamento esecutivo conforme alla fattispecie legale astratta o, quantomeno, ad un suo elemento. Al contrario, se si amplia per l’autore il novero oggettivo delle condotte rilevanti, sia preparatorie sia esecutive e, quindi, più genericamente causali rispetto alla consumazione del reato, riemergono quali unici criteri distintivi tra Täter e Teilnehmer gli approcci di tipo soggettivo, che ripropongono le difficoltà di accertamento ed i rischi di indeterminatezza ed arbitrarietà nei termini in precedenza esposti. Queste obiezioni valgono anche rispetto alla sentenza in commento, che, pretendendo di rigettare i criteri soggettivi di distinzione del ruolo dei concorrenti, li reintroduce nella successiva esplicazione del contenuto attribuito alla signoria sul fatto. Le considerazioni espresse in sentenza portano alla conseguenza di ritenere autori del reato coloro che hanno assunto la decisione di commettere il reato e meri complici coloro che materialmente sono intervenuti nell’attività esecutiva, senza partecipare alla decisione presa da altri: autore di un reato può, quindi, essere anche chi ha posto in essere un comportamento in nulla conforme ai requisiti della fattispecie legale ed allo stesso tempo essere complice chi ha realizzato il fatto tipico (82). Il rischio di soluzioni di questo tipo non può essere sottovalutato, in quanto sono ormai note le conseguenze estreme a cui, talvolta, è giunta la giurisprudenza tedesca nell’assunzione di criteri soggettivi di valutazione: nel c.d. caso Staschynskij il Bundesgerichtshof, in relazione ad un omicidio commissionato ad un agente

(81) ROXIN, op. cit., p. 294; GALLAS, op. cit., p. 142; SCHMIDTHÄUSER, op. cit., p. 504; JESCHECK, op. cit., p. 532, il quale afferma che solo con una condotta esecutiva si apporta un contributo significativo per la realizzazione dell’evento nell’ambito della divisione del lavoro. Non mancano in dottrina posizioni intermedie, tra quella di chi ritiene necessario l’intervento nella fase esecutiva e chi ritiene sufficiente un contributo apportato nella preparazione del reato. Una prima elaborazione, più elastica, richiede che l’autore apporti un contributo necessario al piano generale, che pur non potendo consistere in una condotta preparatoria, non necessita della presenza sul luogo del fatto (così, SAMSON, op. cit., p. 31, il quale qualifica Täter il capo dell’organizzazione che ha predisposto il piano ed organizzato l’esecuzione guidando gli esecutori materiali). Secondo un’interpretazione più ampia Mittäter è anche chi pone in essere una condotta esterna alla fattispecie, ma ad essa così strettamente collegata da apparire come condotta esecutiva (BLEI, op. cit., p. 249). Tuttavia, poiché nei casi dubbi si deve prestare attenzione alla Willensrichtung (BLEI, op. cit., pp. 250-251), anche questa impostazione finisce per aprire la breccia ai criteri soggettivi di valutazione. (82) Analogamente, applicando l’Interessentheorie, si considera complice chi ha realizzato oggettivamente e soggettivamente un fatto, ma nell’interesse di un’altra persona: critici, GALLAS, op. cit., p. 134; JESCHECK, op. cit., p. 530; ROXIN, op. cit., p. 55; ESER, op. cit., p. 145.


— 345 — russo dalle autorità del KGB che avevano deciso e previsto nei minimi dettagli le modalità esecutive dell’azione, ha punito l’esecutore materiale come complice, in considerazione del fatto che, non avendo preso parte all’organizzazione del piano criminoso e trovandosi in posizione subordinata rispetto alle autorità dei servizi segreti, non aveva un proprio interesse, di natura né pecuniaria né politica, alla esecuzione del fatto (83). È soprattutto questa assenza di considerazione degli elementi oggettivi dell’accadimento concreto a suscitare le maggiori riserve sull’accoglimento di una distinzione soggettiva tra Täter e Gehilfe, in quanto si tratta di approccio che contrasta con il diritto penale del fatto (84) ed apre la strada ad un Gesinnungsstrafrecht, nel momento in cui si attenziona l’analisi sul contenuto della volontà del concorrente rispetto alla realizzazione del fatto: il pericolo in cui si incorre è di differenziare le due figure di autore e complice in forza della maggiore o minore pericolosità, di cui il comportamento è sintomatico (85). Emergono, quindi, molteplici ragioni che consigliano di non accogliere criteri essenzialmente soggettivi per distinguere l’autore dal complice, non solo per le difficoltà di definizione e di applicazione che essi possono incontrare, come dimostra l’analisi comparata, ma altresì per una ragione che sta a monte del discorso sin qui sviluppato. Infatti, l’opportunità di esaminare il modello tedesco per trarre utili indicazioni in vista di una rimeditazione complessiva della disciplina del concorso di persone (86), non può indurre a forzare i limiti di istituti e figure che trovano un loro significato nell’ordinamento in cui sono stati elaborati (87). Se si considera che alla base della discussione sui criteri distintivi tra Täter e Teilnehmer stanno esigenze di tipo sanzionatorio collegate, da un lato, alla individuazione legislativa di tali figure di concorrenti e, dall’altro, alla adozione del principio di accessorietà, ne deriva nell’attuale disciplina di cui agli artt. 110 ss. c.p. l’irrilevanza di ogni distinzione tra autore e partecipe, come figure caratterizzate da un preciso contenuto (88), rimanendo impregiudicata qualunque considerazione de iure condendo sulla opportunità di introdurre un sistema di responsabilità differenziata (89). Alcune delle soluzioni estreme a cui sono giunti i giudici tedeschi (Staschynskij-Fall, Badewannenfall) esprimono precise scelte ermeneutiche finalizzate a mitigare il rigido e severo trattamento sanzionatorio (ergastolo) previsto dal § 211 StGB per

(83) BGHSt 18, 87 del 19 ottobre 1962, in NJW, 1963, p. 355, ampiamente commentata da ESER, op. cit., p. 41 ss. Altro esempio significativo è costituito dal c.d. ‘‘caso della vasca da bagno’’ (Badewannenfall), in cui un neonato illegittimo era stato affogato dalla sorella della madre su richiesta di quest’ultima: sebbene la sorella avesse da sola eseguito l’omicidio, fu punita come semplice Gehilfe e si riconobbe alla madre il ruolo di autore, poiché ‘‘lei aveva il maggiore interesse alla repressione del figlio, in quanto avrebbe dovuto sopportare la deplorazione del marito ed il biasimo dell’opinione pubblica per essere stata una madre infedele’’ (RGSt 74, 84, riportata da ESER, op. cit., p. 144; su questa sentenza, si veda altresì SAMSON, op. cit., p. 9; BOCKELMANN, op. cit., p. 175). (84) ROXIN, op. cit., p. 55; JESCHECK, op. cit., p. 530; MAURACH, op. cit., p. 555; JAKOBS, op. cit., p. 610. (85) Queste considerazioni vengono solitamente rivolte dai sostenitori della Tatherrschaft alla teoria soggettiva (in tal senso si sono espressi: GALLAS, op. cit., p. 135; WELZEL, op. cit., p. 106; ROXIN, op. cit., p. 54; JESCHECK, op. cit., p. 530; MAURACH, op. cit., p. 554). (86) In tal senso SAMMARCO, op. cit., p. 105. (87) Nella dottrina italiana sono state espresse aspre critiche alla teoria della Tatherrscahft con differenti motivazioni che si richiamano a quelle prospettate dagli autori tedeschi: SEMINARA, op. cit., p. 131; STORTONI, op. cit., p. 45; PADOVANI, op. cit., pp. 43-44; SAMMARCO, op. cit., p. 143. (88) SAMMARCO, op. cit., p. 154. (89) Si concorda tuttavia con chi avanza seri dubbi sulla adozione di un modello di disciplina sull’esempio tedesco (in tal senso, SEMINARA, op. cit., p. 263; PAZIENZA, Le fattispecie plurisoggettive di apparente partecipazione, Padova, 1988, p. 15; MORSELLI, Note, cit., p. 418).


— 346 — i casi più gravi di omicidio (Mord) (90): il che conferma ancora una volta la costante ricerca di criteri di maggiore flessibilità della pena. Ma nel nostro ordinamento non serve a questi fini una distinzione dei ruoli tra autore e complice, in quanto le esigenze di commisurazione della pena in relazione all’importanza del ruolo del concorrente sono soddisfatte da un sistema di circostanze che ne prende in considerazione gli aspetti oggettivi e soggettivi (91). Rimane piuttosto da verificare se la distinzione proposta dalla sentenza in commento conservi validità nell’ambito di applicazione della disciplina dell’art. 117 c.p., ossia se debba condizionarsi il mutamento del titolo di reato alla sussistenza in capo all’intraneus di un dominio finalistico sull’intero fatto criminoso, come espressione del contenuto di una volontà che in quel fatto tende a realizzarsi (92). Anche a questi pur limitati fini, la soluzione deve essere rigettata: permangono, infatti, le stesse ragioni di incertezza che sono di ostacolo all’accoglimento, a livello più generale, delle teorie dell’Animus e della Tatherrschaft. Peraltro, da una stessa più attenta considerazione della disciplina che in Germania è assicurata al concorso di persone nel reato proprio, è possibile trarre ulteriori ragioni che confortano nel rigetto delle predette teorie. Una breve disamina di alcune questioni chiarirà l’assunto. 10. In via preliminare, si osservi che alla soluzione dei problemi della partecipazione dell’estraneo alla esecuzione di un Sonderdelikt è di solito estranea ogni considerazione attinente al dominio finalistico sul fatto: quando la legge richiede la sussistenza di una particolare qualifica per l’esistenza del reato, è sempre Täter chi possiede la qualifica soggettiva, indipendentemente dal ruolo svolto nell’impresa criminosa. Infatti, con una vera e propria inversione dei ruoli (93), anche qualora l’extraneus esegua autonomamente e dolosamente il reato proprio, su istigazione del pubblico ufficiale, quest’ultimo è autore per quanto non possieda la signoria sul fatto, sottratto ad ogni suo potere di controllo e rimesso alla esecuzione dell’extraneus, cui spetta la qualifica di Teilnehmer. In queste ipotesi si ricorre in tali casi alla figura del mittelbarer Täter, riducendo a ‘‘strumento doloso privo di qualifica’’ (qualificationsloses doloses Werkzeug) l’estraneo che esegue la fattispecie: spetta alla qualifica soggettiva fondare la Tatherrschaft (94). Una parte della dottrina si è dimostrata refrattaria a ritenere il soggetto qualificato, per ciò solo, autore, nel senso di signore dell’accadimento, in quanto secondo la teoria della Tatherrschaft tale ruolo dipende esclusivamente dal ‘‘maggiore o minore influsso sul fatto penale e con ciò sulla conformazione dell’accadimento esterno alla condotta... Non è consentito dire che taluno domina un fatto concreto solo perché possiede la qualifica soggettiva d’autore’’ (95). Piuttosto si deve riconoscere che la Tatherrschaft è un criterio normativo, utilizzabile per fondare la nozione di autore nei limiti in cui il legislatore vi faccia riferimento (96): questo richiamo manca nei Sonderdelikte, perché la descrizione della fattispecie attribuisce solo all’intraneus il ruolo di autore del reato proprio. In questi casi l’autore è connotato non tanto dal possesso della qualifica soggettiva, quanto piut-

(90) Così espressamente CRAMER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuchkommentar, München, 1988, p. 364. (91) SAMMARCO, op. cit., p. 144 ss. (92) Sulla necessità del dominio finalistico da parte dell’intraneus, LATAGLIATA, op. cit., p. 222 ss.; FIORE, op. cit., p. 124; FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 309. (93) Così PADOVANI, op. cit., p. 49. (94) WELZEL, op. cit., p. 104, che a tale proposito parla di soziale Tatherrschaft; LANGER, op. cit., p. 118; MAURACH, op. cit., p. 533. (95) ROXIN, op. cit., pp. 257-258. (96) ROXIN, op. cit., p. 257.


— 347 — tosto dalla lesione di un dovere, che deriva all’intraneus dalla qualifica, che gli attribuisce una determinata posizione nei confronti del bene giuridico di riferimento; al contrario, ‘‘chi non è portatore di questo dovere, anche se domina lo svolgimento del fatto, viene in considerazione solo come complice’’ (97). I Sonderdelikte sono dunque Pflichtdelikte, perché comportano la lesione di un dovere extrapenale che incombe sull’intraneus (c.d. der Sonderpflichtige) in forza del particolare rapporto che lo lega al bene protetto (98). In questi reati le aspettative da parte dell’ordinamento di un comportamento conforme al diritto sono in primis rivolte nei confronti del soggetto qualificato, al quale incombe sempre la qualifica di autore del reato proprio, a prescindere dalla importanza del contributo prestato alla realizzazione del fatto, poiché anche un apporto causale minimo implica lesione dello specifico dovere di tutela del bene che gli deriva dalla qualifica tipizzata nella fattispecie; in seconda linea, nei confronti dei soggetti non obbligati (nicht Verpflichtete) che sono sempre responsabili, ma limitatamente al ruolo di complici (99). La presenza del dovere svolge, dunque, una funzione estensiva della punibilità. L’indagine sviluppata in questa direzione richiede una considerazione specifica delle singole fattispecie. La sufficienza di un contributo causale qualsiasi da parte dell’intraneus alla realizzazione del fatto vale senza dubbio in quelle fattispecie descritte in modo tale che la lesione del dovere (Pflichtverletzung) possa essere procurata con una condotta qualsiasi. Invece, nel caso in cui la legge imponga che la lesione del dovere si realizzi attraverso una determinata condotta del soggetto obbligato, si considera autore solamente il soggetto qualificato in possesso della Tatherrschaft: in questa ipotesi, alla funzione estensiva delle condotte penalmente rilevanti in forza del dovere, si contrappone una limitazione dello spettro di rilevanza penale in connessione con la particolare struttura della fattispecie. Esempio di fattispecie appartenente al primo gruppo, è l’abuso di fiducia (Untreue, § 266 StGB), in cui i doveri di custodia e corretta amministrazione possono essere lesi da un qualsiasi comportamento dell’amministratore del patrimonio, il quale potrà porre in essere direttamente la condotta o istigare un terzo non obbligato a sottrarre parte del patrimonio. All’altro gruppo di fattispecie appartiene, invece, il delitto di falso in atto pubblico commesso dal pubblico ufficiale (Falschbeurkundung im Amt, § 348 StGB), in quanto solo costui può formare un documento pubblico (un terzo estraneo porrebbe in essere solo un documento apparente) (100). 11. A conclusioni non dissimili giunge la nostra dottrina. Sul presupposto dell’esecuzione frazionata, si ritiene sufficiente, a configurare il concorso nel reato proprio, un qualsiasi contributo fornito dall’intraneus (101). Non può infatti es-

(97) ROXIN, op. cit., p. 353, il quale propone la distinzione tra Herrschaftsdelikte, in cui la distinzione tra autore e complice è fondata sul possesso o meno della Tatherrschaft, e Pflichtdelikte, nei quali la distinzione si fonda sulla specifica posizione di dovere; concordano su tale distinzione CRAMER, op. cit., p 365; JAKOBS, op. cit., p. 593. (98) ROXIN, op. cit., p. 354; CRAMER, op. cit., p 365; JAKOBS, op. cit., p. 687. (99) JAKOBS, op. cit., p. 687, per il quale si evitano in tal modo i problemi che si vengono a creare nei casi in cui il qualifizierter Hintermann è Teilnehmer secondo le regole generali (ossia per mancanza di Tatherrschaft): in tali casi, infatti, poiché l’intraneus per essere Teilnehmer necessita di un Haupttat, a cui accedere, la mancanza di un Haupttat, perché l’estraneo, che agisce con Tatherrschaft non possiede la qualifica richiesta dalla legge per essere autore, può lasciare lacune di tutela (JAKOBS, op. cit., p. 650). (100) SAMSON, op. cit., p. 28; BOCKELMANN, op. cit., p. 180; CRAMER, op. cit., p. 377. (101) ROMANO-GRASSO, op. cit., p. 210; GALLO, op. cit., p. 108; MANTOVANI, op. cit., p. 542; INSOLERA, op. cit., p. 493; FROSALI, Il concorso di persone, cit., p. 28; MANZINI, op. cit., p. 608. Ricorrono in tali casi alla figura dell’autore mediato, RICCIO, op. cit., p. 82; SANTORO, op. cit., p. 509; MORSELLI, Note, cit., p. 422; in giurisprudenza: Cass., 30 aprile 1991, in Giur. compl. cass. pen., 1991, m. 187.201, per la


— 348 — sere accolta l’impostazione di chi richiede che il soggetto qualificato realizzi direttamente l’azione tipica, in quanto si restringerebbe eccessivamente lo spazio della tutela (102). Per lo stesso motivo la censura va rivolta anche alla sentenza in esame, che presuppone nell’intraneus un comportamento, o meglio, un atteggiamento psicologico da autore come dominio della volontà sul decorso dell’intero fatto: l’obbligo specifico di protezione del bene tutelato nei reati propri attribuisce rilevanza ai sensi della fattispecie plurisoggettiva eventuale ad un contributo anche minimo da parte del soggetto qualificato (103). Non aver considerato nei reati propri questo aspetto, ha indotto le interpretazioni restrittive qui criticate: d’altra parte, se queste fossero seguite, si avrebbe una inammissibile disparità di trattamento nella estensione dei comportamenti penalmente rilevanti in caso di concorso in un reato comune o in un reato proprio, bastando a fondare la responsabilità ai sensi dell’art. 110 c.p., nel primo, un contributo causale qualsiasi da parte di un qualunque concorrente, mentre nel secondo si pretenderebbe un comportamento qualificato dal dominio sul fatto, proprio in capo al soggetto che ha un particolare vincolo di protezione nei confronti del bene tutelato. Questa interpretazione diventa tanto più inaccoglibile, quanto più si ponga attenzione al fatto che la sentenza presenta il dominio finalistico da parte dell’intraneo come requisito indefettibile in ogni ipotesi di concorso di persone nel reato proprio, che la sentenza accomuna nella disciplina dell’art. 117 c.p. La Tatherrschaft è dunque richiesta, secondo l’interpretazione che si ricava dalla lettura della motivazione, sia nei casi in cui si abbia un effettivo mutamento del titolo di reato, che senza la qualifica costituirebbe reato comune, sia nei casi di liceità del fatto in assenza della qualifica: in questo secondo caso si avrebbe una effettiva riduzione della sfera di rilevanza penale della fattispecie concorsuale, mentre nel primo caso la mancanza di dominio finalistico da parte del soggetto qualificato escluderebbe la responsabilità a titolo di reato proprio, lasciando impregiudicata la responsabilità per il reato comune. Nell’una e nell’altra ipotesi, gli effetti giuridici deriverebbero dalla introduzione di un elemento non previsto, né ricavabile per via interpretativa dalle norme del codice penale italiano. Tuttavia, introdotta la regola generale della sufficienza di un qualsiasi contributo dell’intraneo nella preparazione o esecuzione del reato proprio, se ne deve ammettere la deroga in particolari ipotesi, quando la legge stessa richieda che sia il soggetto qualificato a realizzare uno o più elementi della fattispecie, che pongono l’intraneus in posizione di trasgressione rispetto al particolare dovere di protezione nei confronti dello specifico bene considerato dalla fattispecie: in tali casi è

quale non è necessario che ‘‘l’intraneo sia l’esecutore dell’azione tipica, che può materialmente essere realizzata da altro concorrente, puché quello qualificato dia, secondo le regole generali, il suo contributo efficiente, in qualsiasi forma, compresa, quindi, quella omissiva della volontaria e concertata astensione dall’obbligo di impedire l’evento’’; Cass., 29 novembre 1990, in Giust. pen., 1991, II, c. 645, cui si rinvia alla nota redazionale n. 4, ivi, c. 646, per ulteriori riferimenti a precedenti giurisprudenziali. La dottrina italiana è orientata in prevalenza a negare la legittimità del ricorso alla figura dell’autore mediato, in quanto sono sufficienti le disposizioni sul concorso di persone nel reato: DELL’ANDRO, op. cit., pp. 120 e 135; MAGGIORE, op. cit., p. 566; RANIERI, Manuale, cit., p. 435; BETTIOL, op. cit., p. 448; GALLO, op. cit., p. 107; PADOVANI, op. cit., p. 51 ss.; SINISCALCO, voce Autore mediato, in Enc. dir., IV, 1959, p. 443 ss.; MARINI, op. cit., p. 743. (102) Adotta tale soluzione BETTIOL, op. cit., p. 457, ad eccezione dei casi in cui sia la legge a prevedere espressamente la possibilità che sia l’extraneus a tenere la condotta tipica (come nell’abrogato art. 324 c.p.). In tal senso sembra orientata una parte della giurisprudenza, Cass., 26 settembre 1983, in Giust. pen., 1984, II, c. 419, m. 447; Cass., 5 luglio 1990, in Giust. pen., 1991, II, c. 294, m. 265; Cass., 22 aprile 1989, in Riv. pen., 1990, p. 774. (103) Sulla partecipazione dell’intraneus a mezzo di omissione, cfr. VINCIGUERRA, Sulla partecipazione atipica mediante omissione a reato proprio (in tema di concorso del custode alla sottrazione di cose pignorate commessa dal proprietario), in questa Rivista, 1967, p. 307 ss.


— 349 — indispensabile ‘‘alla lesione non solo la qualifica del soggetto ed un determinato elemento formale, disgiuntamente fra loro, ma proprio entrambi nella posizione d’unione’’ (104). La conclusione a cui giunge la dottrina italiana differisce, quindi, dalla interpretazione offerta dai giuristi tedeschi solo con riferimento all’elemento della Tatherrschaft sostituito con la necessità che l’intraneus realizzi uno o più elementi conformi alla fattispecie legale. Solo un esame delle singole fattispecie di parte speciale consente di individuare la presenza del nesso di necessaria offensività tra condotta del soggetto qualificato e determinati elementi del tipo. Così, ad esempio, nel peculato non è previsto un legame necessario tra pubblico ufficiale e condotta appropriativa, in quanto la lesione dell’interesse patrimoniale e del buon andamento della pubblica amministrazione si realizza con l’apporto di un qualsiasi contributo causale da parte del funzionario nella sottrazione di beni pubblici concordata con altri; è indissolubile, invece, il legame tra pubblico ufficiale e possesso del bene per ragioni di ufficio, che caratterizza l’oggetto materiale del reato (105). Pertanto, nel caso di pubblico ufficiale, che sfruttando la conoscenza di informazioni a lui note in forza della sua posizione di possesso qualificato in ordine a determinati beni mobili della pubblica amministrazione da cui dipende, istighi un terzo a sottrarre il bene, non potrà essere escluso il delitto di peculato. Alla stessa conclusione si deve giungere nel caso in cui l’apporto del pubblico ufficiale alla sottrazione del bene si limiti alla guida dell’automobile con cui siano trafugati i beni, di cui il pubblico ufficiale ha ordinariamente il possesso o la disponibilità per ragioni di ufficio o servizio (106). Ricorre, invece, l’ipotesi di furto aggravato dalla qualifica di pubblico ufficiale, nei casi in cui il bene sottratto non rientri tra quelli in suo possesso in relazione alle proprie competenze. Si tratta, dunque, di un problema interpretativo che inerisce alle singole fattispecie, dalle quali potranno essere tratti elementi a favore della necessaria realiz-

(104) DELL’ANDRO, op. cit., p. 133; STORTONI, Agevolazione e concorso di persone nel reato, Padova, 1981, p. 108. A conclusioni sostanzialmente analoghe giunge INSOLERA, op. cit., p. 494, il quale, pur riconoscendo l’ammissibilità del concorso in presenza di una atipicità del contributo promanante dal soggetto qualificato, ritiene tuttavia necessario che ‘‘l’apporto, pure atipico, abbia un significato organizzativo consono alla qualifica soggettiva rivestita dal partecipe e quindi esprima il profilo offensivo del reato proprio’’; in senso sostanzialmente analogo, con specifico riferimento all’abrogato art. 324 c.p., GROSSO, Lineamenti, cit., p. 211 ss. (105) STORTONI, op. cit., p. 109. Ad una diversa conclusione giunge INSOLERA, op. cit., p. 495. (106) Contra, seppur con qualche perplessità, INSOLERA, op. cit., p. 495. Non può, invece, essere accolta la soluzione dell’esempio proposto da LATAGLIATA, op. cit., p. 283, che richiama la nozione di dominio finalistico sul fatto: ‘‘Se il tesoriere di una pubblica amministrazione consiglia ad un suo amico che si trova in difficoltà finanziarie di sottrarre furtivamente il denaro custodito nella cassa dell’ufficio e magari, per facilitargli l’impresa delittuosa, lascia intenzionalmente aperta la cassaforte, il solo fatto di aver partecipato, con un’attività di istigazione o di agevolazione alla sottrazione del pubblico denaro, che però un altro deve decidere se commettere o non, non è ancora sufficiente ad inquadrare l’azione collettiva nello schema di un delitto di peculato. Infatti, se l’ ‘intraneo’ lascia all’esecutore la decisione de ‘se’ e del ‘come’ dell’azione, vale a dire la disponibilità finalistica della realizzazione collettiva, si configura l’ipotesi di un furto aggravato e non il fatto diverso del peculato; qualora invece l’ ‘intraneo’ prenda insieme al suo complice la decisione dell’azione, qualora cioè la sottrazione del pubblico denaro dipenda congiuntamente dalla volontà di entrambi che si assumono insieme il dominio finalistico del fatto, allora si configura il modello legale del delitto di peculato nonostante che ad eseguire materialmente il reato sia solo il concorrente ‘estraneo’ ’’. Nel primo esempio, non si vede come non configurare un peculato in presenza di un evidente abuso della posizione soggettiva qualificata, facilitando la stessa impresa criminosa nel lasciare la cassaforte aperta (è netta la violazione del dovere incombente sul pubblico ufficiale in relazione alle ragioni di ufficio o servizio per cui ha il bene: la soluzione a cui giunge l’Autore può essere accolta, a prescindere dall’avvenuta abrogazione del peculato per distrazione, solo a condizione che non si tratti di una cassaforte di cui il funzionario ha il possesso in relazione alle proprie competenze). Con riferimento al secondo esempio, non si vede quale dominio effettivo sul decorso del fatto possa sortire la decisione presa in comune, se poi l’esecuzione del reato è completamente rimessa all’extraneus, il quale può in qualunque momento decidere se continuare o interrompere l’impresa criminosa.


— 350 — zazione materiale di uno o più elementi tipizzati nella fattispecie, dovendo in caso contrario riconoscersi la rilevanza di un qualsiasi contributo prestato dal soggetto qualificato alla realizzazione del reato. 12. Dal mancato accoglimento del dominio finalistico del fatto come elemento di caratterizzazione dell’autore e dell’intraneus, deriva l’impossibilità di utilizzare tale criterio nell’applicazione della circostanza attenuante facoltativa prevista nella seconda parte dell’art. 117 c.p., in caso di reato più grave, ‘‘rispetto a coloro per i quali non sussistono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti’’. La Corte di Cassazione applica l’attenuante solo ai concorrenti non qualificati, che abbiano agito come complici, senza la signoria sul fatto; la esclude a favore del soggetto qualificato, a causa del ruolo di concorrente principale, ed ai concorrenti che abbiano di fatto svolto un ruolo da (co)autori, secondo il principio del dominio finalistico sul fatto (107). Sono già state esposte a sufficienza le ragioni che si oppongono ad una tale soluzione, strettamente legata al principio di accessorietà del concorso di persone. Ugualmente non può essere accolta l’opinione di chi applica l’attenuante a tutti i soggetti sforniti della qualifica o del particolare rapporto con il soggetto passivo (108), perché altrimenti non si giustificherebbe la discrezionalità nella riduzione della pena (109). La soluzione che necessariamente deriva dall’interpretazione qui accolta della disciplina dell’art. 117 c.p., consente di ritenere applicabile l’attenuante nei casi in cui i soggetti estranei non conoscano la qualifica soggettiva dell’intraneus (110): in tal modo la riduzione di pena viene in parte a compensare la responsabilità oggettiva prevista dalla norma. Si giustifica allo stesso tempo la sua facoltatività, perché impone al giudice l’accertamento sulla conoscenza o meno delle condizioni personali o dei particolari rapporti con l’offeso. Non merita, infatti, un trattamento sanzionatorio mitigato chi, essendo portatore della particolare qualità o condizione richiesta dalla legge, abbia in ogni caso consapevolmente contribuito alla realizzazione del risultato lesivo in concorso con il soggetto qualificato, destinatario primario del dovere di non lesione: come si è precisato all’inizio di questa nota, trova applicazione l’art. 110 c.p., che sottopone ciascun concorrente alla pena prevista per il reato proprio. Parrebbe, dunque, inutile la previsione di una discrezionalità nella riduzione della pena, in quanto la parte dispositiva dell’art. 117 c.p. ha esclusivo riguardo ai soggetti non qualificati che non sono consapevoli di concorrere con un intraneus. In realtà la scelta terminologica utilizzata dal legislatore è necessaria, in quanto l’art. 117 c.p. riferisce l’attenuante a tutti ‘‘coloro per i quali non sussistono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti’’: come è stato innanzi precisato, poiché la prima parte dell’articolo considera quali presupposti per l’imputazione oggettiva del reato proprio non solo l’intraneus colpevole, ma eventuali altri soggetti, ossia non qualificati, per i quali muta il titolo di reato

(107) In dottrina seguono questa interpretazione LATAGLIATA, op. cit., p. 227 e FIORE, op. cit., p. 125; più genericamente ha fatto riferimento al criterio soggettivo una non recente sentenza, Cass., 27 giugno 1941, in Giust. pen., 1941, II, c. 791, m. 1009: ‘‘Della diminuente prevista dall’art. 117 c.p. la legge non fornisce alcuna nozione, rimettendone l’applicazione al prudenziale criterio del giudice, il quale può, ma non deve, concederla qualora si convinca che il dolo dei partecipanti sia minore di quello che animò il concorrente, rispetto al quale, per circostanze personali, muta il titolo del reato’’. (108) PAGLIARO, Principi, cit., p. 568; SANTORO, op. cit., p. 508; FROSALI, Principi, cit., p. 370; SPIZUOCO, op. cit., p. 432; Cass., 22 dicembre 1965, in Foro it., 1966, c. 186 ss.; Cass., 27 giugno 1972, in Rep. foro it., 1975, c. 534, m. 10. (109) LATAGLIATA, op. cit., p. 226. (110) ROMANO-GRASSO, op. cit., p. 214; MANTOVANI, op. cit., p. 544; RANIERI, Manuale, cit., p. 426; INSOLERA, op. cit., p. 492; MAGGIORE, op. cit., p. 574; GALLI, op. cit., c. 482.; Cass., 1 luglio 1964, in Riv. pen., 1965, II, p. 1255.


— 351 — in forza della consapevolezza che essi abbiano della qualifica dell’intraneus (‘‘... muta il titolo del reato per taluno di coloro che vi sono concorsi...’’), la previsione di una attenuante obbligatoria, analoga a quella prevista dall’art. 116 c.p., avrebbe potuto indurne l’applicazione anche ai soggetti consapevoli della qualifica. Questo effetto, però, in un regime di imputazione oggettiva del titolo di reato proprio all’extraneus, creerebbe una disparità di trattamento tra soggetto pienamente consapevole della lesione arrecata e soggetto privo di una tale consapevolezza, in quanto ad entrambi si dovrebbe riconoscere l’attenuante. Al contrario, in un diverso contesto di disciplina legislativa in cui fosse sempre necessaria, per rispondere del reato proprio, la conoscenza della qualifica anche da parte dell’extraneus, si potrebbe giustificare una riduzione obbligatoria di pena per tutti i soggetti non qualificati, in quanto costoro, anche se perfettamente consapevoli delle particolari condizioni o qualità, non violerebbero lo specifico dovere che incombe esclusivamente sull’intraneus (111). In questa direzione, de iure condendo, è auspicabile che sia valorizzato il momento attinente alla posizione che assume il titolare della qualifica, non solo sotto il profilo psicologico della conoscenza della qualifica da parte dell’estraneus, bensì anche come elemento di disvalore oggettivo che assume rilevanza nella disciplina legislativa in relazione alla presenza o alla assenza della qualifica (112). MARCO PELISSERO Dottore di Ricerca in diritto penale Università di Torino (111)

Critico sul fatto che non sia considerato il disvalore della condotta, SEMINARA, op. cit., p.

396. (112) Può essere a questi fini utile un confronto con la disciplina del codice penale tedesco. Va innanzitutto precisato che ogni concorrente è punito in base alla sua colpevolezza, senza riguardo a quella degli altri (§ 29 StGB), con la conseguenza che è sempre necessaria la conoscenza della qualifica soggettiva da parte dei complici (al momento della Schuld la dottrina riconduce le regole generali in materia di colpevolezza, come l’errore, lo stato di incapacità, l’eccesso non colposo nella legittima difesa: SAMSON, op. cit., p. 64; CRAMER, op. cit., p. 400). Al § 28 StGB si prevede che, se nel complice (istigatore o ausiliatore) mancano particolari elementi personali (besondere persönliche Merkmale) che sono costitutivi della punibilità dell’autore, la pena deve essere diminuita per i complici. Tali elementi sono tutti quelli che hanno in qualche modo un legame con l’autore (SAMSON, op. cit., p. 67; CRAMER, op. cit., p. 402; JESCHECK, op. cit., p. 535, il quale parla di elementi dal carattere personalissimo) ed ai sensi del § 14 StGB possono riguardare elementi essenziali della persona (Eigenschaften), particolari rapporti (Verhältnisse) o determinate circostanze (Umstände). Vi rientrano anche le qualifiche soggettive pubblicistiche, che taluni fanno rientrare nelle Eigenschaften (BAUMANN-WEBER, op. cit., p. 581), altri tra i Verhältnisse, sottolineando così il rapporto che intercorre tra il funzionario e l’ente di appartenenza (ESER, op. cit., p. 176; CRAMER, op. cit., p. 402; BOCKELMANN, op. cit., p. 198, sottolinea la difficoltà di distinguere con precisione le due categorie, anche se prive di rilevanza pratica in considerazione dell’identica disciplina). Appartengono alle fattispecie disciplinate dal § 28 StGB i c.d. reati propri effettivi (echte Sonderverbrechen), in cui l’assenza della qualifica soggettiva implica la liceità del comportamento (l’elemento personale è costitutivo della punibilità: strafbegründende persönliche Merkmale): in questo caso non si ha, utilizzando la terminologia italiana, alcun mutamento del titolo di reato. Per questa ragione vale il principio di accessorietà ed il complice privo di qualifica risponde dello stesso reato di cui risponde l’autore, ma la pena viene ridotta: si ponga attenzione al fatto che l’attenuante viene concessa non in considerazione della mancata conoscenza della qualifica soggettiva, perchè la responsabilità del complice presuppone necessariamente la sussistenza di tale conoscenza (§ 29 StGB), bensì per il solo fatto che il Teilnehmer non possiede la qualifica (momento oggettivo di valutazione). Ad una differente regolamentazione sono sottoposti i reati in cui i besondere persönliche Merkmale sono solo modificativi della pena (strafmodifizierende Merkmale), in quanto la aggravano, la riducono o la escludono (manca a tali fini ogni distinzione tra elementi costitutivi o circostanziali del reato): vi appartengono i c.d. reati propri apparenti (unechte Sonderverbrechen), nei quali per effetto della qualifica soggettiva si ha solo un mutamento del titolo di reato. In questi casi si assiste alla rottura del principio di accessorietà, in quanto i diversi concorrenti rispondono ognuno del reato di cui posseggono l’elemento personale (c.d. slittamento di fattispecie, Tatbestandsverschiebung: sul punto ESER, op. cit., p. 178). Sugli aspetti complessi che comporta questa disciplina, in particolare sulle difficoltà di distinzione tra strafbegründende e strafmodifizierende Merkmale, si rinvia a SAMSON, op. cit., p. 68 ss.; CRAMER, op. cit., p. 405; BLEI, op. cit., p. 241 ss.; JESCHECK, op. cit., p. 536 ss.; ESER, op. cit., p. 177; BOCKELMANN, op. cit., p. 197.


— 352 — CASSAZIONE PENALE — Sez. IV — 16 aprile 1993 Pres. La Coco — Rel. Golia P.M. (concl. diff.) — Ric. Puskas Reati contro la persona — Delitti contro la vita e l’incolumità individuale — Omicidio colposo — Responsabilità del produttore — Difetto di fabbricazione — Responsabilità del vertice aziendale — Configurabilità — Limiti — Accertamento della posizione di ciascun componente nella compagine societaria. Reati contro la persona — Delitti contro la vita e l’incolumità individuale — Omicidio colposo — Paracadute — Vizio di fabbricazione di una bretella — Mancata rilevazione per carenza di controllo del produttore — Difettosa apertura della velatura principale — Omessa attivazione della velatura secondaria da parte del paracadutista — Morte del paracadutista — Responsabilità del produttore — Esclusione — Ragioni — Fattispecie. In tema di responsabilità penale del produttore, il difetto di fabbricazione del prodotto non rilevato per mancanza di controllo va imputato al vertice aziendale nel cui ambito debbono essere dimostrate le posizioni e le cariche rivestite dai singoli componenti (1). Il produttore di un paracadute rivelatosi difettoso in una sua componente non è responsabile della morte di un paracadutista quando l’evento lesivo poteva essere evitato con l’attivazione del paracadute di sicurezza da parte della vittima (fattispecie relativa alla morte di un esperto paracadutista conseguente a un vizio di fabbricazione di una bretella del paracadute e senza che la vittima avesse provveduto all’apertura del paracadute secondario) (2). SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. — Con sentenza 12 dicembre 1991 il Tribunale di La Spezia condannava Puskas Elek, Presidente della società Paraflyte Incorporated, alla pena di otto mesi di reclusione, con i doppi benefici di legge, per avere fornito all’Esercito Italiano un paracadute difettoso, che, spezzandosi nella bretella destra durante la caduta libera del paracadutista Sessa Salvatore, si sbilanciava, dopo l’apertura normale, ed aumentava la velocità di caduta, ponendosi a bandiera, tanto che il Sessa, non avendo l’opportunità di aprire il paracadute di riserva, precipitava ed impattava sul suolo, decedendo sul colpo. Su impugnazione dell’imputato la Corte d’appello di Genova, con sentenza 16 settembre 1992, ha confermato la sentenza del Tribunale. Il Puskas è ricorso per Cassazione deducendo la nullità della sentenza di secondo grado per violazione di legge e per non corrispondenza tra il fatto ritenuto in sentenza e l’accusa contestata. MOTIVI DELLA DECISIONE. — La Corte genovese ha premesso che il Sessa era un paracadutista esperto, con oltre 600 lanci effettuati, che doveva provare il tipo di paracadute acquistato dalla Paraflyte, la quale era tenuta a garantire la sua perfetta funzionalità, per espresso obbligo assunto. Ha precisato che il pezzo difettoso (la bretella destra mal cucita o meglio apparentemente cucita) era stato garantito alla Paraflyte dalla soc. Annex che lo aveva costruito, per cui il certificato di ispezione, rilasciato dall’imputato all’Esercito Italiano, avrebbe dovuto comRiv. ital. dir. proc. penale 1/1996


— 353 — prendere il tutto, anche il pezzo risultato difettoso, la cui importanza nel funzionamento era essenziale nell’uso del paracadute. La mancata specifica ispezione del pezzo da parte della Paraflyte, non risultando eseguito un controllo di qualità da parte della soc. Annex, denunziava la negligenza dell’imputato e l’imprudenza nella vendita del paracadute senza accertarne le caratteristiche di sicurezza, accertamento che avrebbe potuto essere eseguito mediante una prova di carico e di sforzo a terra (come affermato dal perito), onde non poteva negarsi l’affermazione della sua responsabilità. L’omessa apertura del paracadute di riserva da parte del Sessa, poi, era stata spiegata con lo sconcerto da cui quello era stato assalito, dopo di aver notato l’apertura regolare del paracadute, il suo sbilanciamento e la ripresa della caduta libera, non più frenata, senza spiegarsene il motivo; d’altra parte, data la velocità di caduta, il fatto si limitava a pochissimi secondi. Il ricorrente ha sostenuto che, nella specie, doveva escludersi la sua responsabilità, giacché: a) trattavasi chiaramente di un vizio occulto, ascrivibile non alla sua ditta ma a quella costruttrice del pezzo difettoso e la stessa legislazione americana in materia prevedeva non un obbligo di specifico collaudo, ma un’ispezione visiva e dimensionale, e questa era stata fatta come dal relativo certificato; b) la soc. Annex era del tutto affidabile e, per il passato, non aveva mai dato luogo a lamentele sulla bontà dei prodotti per cui, nel caso, si era trattato chiaramente di un fatto eccezionale e del quale, comunque, non la sua ditta avrebbe dovuto rispondere; c) poiché la sua ditta si componeva di altri soci, l’imputazione de qua contestata soltanto ad esso, si risolveva in un’affermazione di responsabilità obiettiva penale, principio assolutamente escluso dal vigente sistema penale; d) mentre gli era stato contestato l’omesso collaudo specifico del paracadute, era stato poi condannato per l’omesso collaudo a terra dello stesso; e) il Sessa, come anche riconosciuto nella sentenza impugnata, era un espertissimo paracadutista per cui l’omesso azionamento del paracadute di riserva (perfettamente funzionante) era da imputarsi allo stesso, indipendentemente da qualsiasi causa psicologica. Il ricorso è, in buona parte, fondato. Infatti: A) nella premessa in fatto della sentenza impugnata si riferisce che il perito aveva asserito che il distacco della bretella destra dell’imbragatura del paracadute era dovuto a un vizio di costruzione non rilevabile con un esame semplicemente visivo e, nella parte motiva, si sostiene che l’ispezione della soc. Paraflyte, di cui al menzionato certificato, avrebbe dovuto estendersi anche, e soprattutto, al pezzo difettoso. La considerazione è esatta ma cessa di essere rigorosamente logica quando intende restringere al solo imputato la responsabilità dell’omesso esame specifico o collaudo del pezzo. In effetti lo stesso giudice di appello riconosce che, in pratica, l’imputato non è il presidente della Paraflyte e che la competenza-responsabilità dell’assemblaggio rimane al vertice aziendale, ma erra nel circoscrivere al solo imputato tale co-responsabilità, dal momento che non dimostra neppure l’esatta posizione del Puskas nella società ed erra ancora nel fargli carico di non aver prodotto l’organigramma della società stessa in quanto, a parte la nessuna motivazione sul punto, di nessun onere del genere poteva farsi carico (a meno di una spontanea produzione del documento-prova) all’imputato la cui ritenuta responsabilità, in proposito, andava adeguatamente dimostrata; B) il nesso di causalità tra la morte del Sessa ed il suo mancato azionamento del secondo paracadute, correlato allo « sconcerto » per lo strano funzionamento del paracadute che stava provando, non pare, invero, adeguatamente valutato e


— 354 — motivato, giacché trattasi, in sostanza, di una pura e semplice congettura, mancante di qualsiasi elemento obiettivo su cui fondarla. Nemmeno il perito ha spiegato il fatto, ipotizzando soltanto un’errata valutazione della quota raggiunta e del tempo trascorso da parte del Sessa, giacché la sua provata esperienza e particolare abilità in fatto di lanci liberi (era stato proprio esso chiamato a provare quel nuovo tipo di paracadute e si era determinato al lancio, dopo di averlo esaminato particolarmente e di avere scambiato impressione con i tecnici) sono risultate come una premessa obiettivamente scontata, un’indubbia qualità dello stesso e, pertanto, tale elemento obiettivo non si pone in logica relazione con lo stesso « sconcerto » ritenuto nella sentenza impugnata, mancando, sul punto, una convincente ed esauriente motivazione e difettando, invero, elementi logici atti a contrastare validamente la concreta osservazione del ricorrente per il quale: se il Sessa avesse usato, e ne aveva la piena possibilità ed il tempo, il paracadute di riserva, avrebbe certamente avuto un atterraggio sicuro e normale — come risultato in perizia — e non sarebbe avvenuto il fatto de quo. Pertanto la sentenza deve essere annullata ed il giudizio rinviato, per nuovo esame, ad altra sezione della stessa Corte di appello di Genova. P.Q.M. — La Corte, letti gli artt. 537 e 543 c.p.p., annulla la sentenza impugnata con rinvio del giudizio, per nuovo esame, ad altra Sezione della stessa Corte di appello di Genova.

——————— (1-2) La responsabilità del produttore: avamposto o Sackgasse del diritto penale? 1. Il propagarsi di danni connessi al processo produttivo costituisce un fenomeno tipico delle società opulente a capitalismo avanzato. Sono danni espressivi di un rischio che può comportare alti costi sociali per i soggetti che ne subiscono gli effetti (prestatori di lavoro, consumatori, « ambiente »): i fenomeni di mass production — è sotto gli occhi di tutti — espongono il pubblico a rischi sempre più gravi, riconducibili ad errori tecnici di progettazione e di design ovvero a defaillance del processo produttivo; tutti fattori, questi, variamente imputabili all’organizzazione del processo produttivo stesso. Non è un caso che la « scoperta del consumatore » (1) coincida proprio con la diffusione di danni da prodotti difettosi, autentico volano degli studi di consumerism e di analisi economico-giuridica impegnati ad individuare sistemi di tutela compatibili con una razionale distribuzione sociale dei costi di siffatta fenomenologia dannosa. La letteratura in argomento ha ormai assunto vaste proporzioni ed è stata caratterizzata dal connubio (spesso felice e ben espresso dalla formula « economic analysis of law ») (2) tra teorie economiche e studi giuridici. Esem-

(1) In argomento v. ALPA, Responsabilità dell’impresa e tutela del consumatore, Milano, 1985, 461 ss.; ID., Il diritto dei consumatori, Bari, 1995, 3 ss. (2) Con tale espressione si allude a una metodologia di studio di fenomeni giuridici avviata intorno agli anni ’60 negli Stati Uniti: per un quadro generale di tale forma di interpretazione del diritto, v. POSNER, Economic Analysis of Law, Boston-Toronto, 1986; ALPA, Interpretazione economica del diritto (« Economic Analysis of Law »), in Nss. D.I., Torino, Appendice, IV, 1983, 315 ss.; BECKER, Crime and Punishment: An Economic Approach, in J. Pol. Econ., 1968, 169 ss.


— 355 — plare, in proposito, è stato il rinnovamento del sapere giuridico relativo alla responsabilità civile, per indagare i meccanismi di distribuzione dell’incidenza dei danni in una società capitalistica (3). È stato proprio il sistema della responsabilità civile a farsi carico della disciplina del fenomeno del danno da prodotto, attraverso la configurazione di nuovi equilibri nell’ambito delle tradizionali funzioni di compensation e deterrence (4). Attraverso una costante opera di erosione del principio di imputazione per colpa, accompagnata da una progressiva accentuazione della dimensione probabilistica del nesso causale, la dottrina e la giurisprudenza civilistiche hanno favorito l’affermazione della regola della responsabilità oggettiva del produttore, che ha infine trovato consacrazione normativa con il D.P.R. n. 224/1988, attuativo della direttiva CEE 85/374 (5). Si può ben dire, pertanto, che la responsabilità civile ha acquisito un « ruolo centrale » nella disciplina del danno da prodotti difettosi. « Centrale » ma anche « assorbente »: il tema, infatti, è rimasto sostanzialmente inesplorato sul versante della tutela penalistica (6). Il diritto penale, quale strumento di prevenzione e controllo sociale, ha sinora manifestato una sorta di impermeabilità rispetto alle esigenze di tutela sottese al danno da prodotto. Il problema della responsabilità penale del produttore ha avuto così un’emersione esclusivamente prasseologica: si è cioè manifestato solo in presenza di macroviolazioni, produttive di estese e gravi lesioni a beni giuridici di natura individuale e collettiva. I casi Contergan e Seveso (7) ne rappresentano i più dramma-

(3) Fondamentale, in proposito, CALABRESI, Costo degli incidenti e responsabilità civile, Milano, 1975; cfr. pure TRIMARCHI, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961; CASSOTTANA, Responsabilità del produttore ed analisi economica del diritto, in Resp. civ. prev., 1979, 132 ss. (4) Per una lucida analisi degli sviluppi della responsabilità civile v. PONZANELLI, La responsabilità civile. Profili di diritto comparato, Bologna, 1992. Come è noto l’istituto della responsabilità civile ha attirato l’attenzione e suscitato l’impegno dei civilisti italiani, che si sono variamente prodigati a descriverne le traiettorie; per un’analisi di questo fenomeno è d’obbligo il rinvio ai saggi di: BUSNELLI, Nuove frontiere della reponsabilità civile, in Ius, 1976, 41 ss.; SALVI, Il paradosso della responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv., 1983, 123 ss.; RODOTÀ, Modelli e funzioni della responsabilità civile, ivi, 1984, 595 ss.; BUSNELLI, La parabola della responsabilità civile, ivi, 1988, 643 ss. (5) È stata soprattutto l’esperienza di common law a restituirci l’immagine di una incessante evoluzione di principi, sviluppati dalle Corti e da celebrati professori impegnati in un moderno lavoro di ingegneria sociale, infine approdato al principio della responsabilità oggettiva del produttore: sul punto, cfr. PONZANELLI, La responsabilità, cit., 49 ss.; ALPA-BESSONE, La responsabilità del produttore, Milano, 1987, 213 ss. Nella giurisprudenza italiana, l’erosione del principio di imputazione per colpa ha avuto inizio con il caso dei biscotti SAIWA avariati: v. Cass. 25 maggio 1964 n. 1270, in Foro it., 1965, I, 108 ss., con nota di MARTORANO, Sulla responsabilità del fabbricante per la messa in commercio di prodotti dannosi, ivi, 1966, V, 13 ss. In dottrina, sulla responsabilità civile del produttore cfr. GHIDINI, La responsabilità del produttore di beni di consumo. Profili precontrattuali, Milano, 1970; ALPA, Responsabilità dell’impresa, cit.; CARNEVALI, La responsabilità del produttore, Milano, 1979 (rist.); CASTRONOVO, Problema e sistema del danno da prodotto, Milano, 1979; RUFFOLO, La tutela individuale e collettiva del consumatore, Milano, 1979; ALPA-BIN-CENDON (a cura di), La responsabilità del produttore, in Trattato di dir. com. e di dir. pubbl. dell’econ., diretto da Galgano, XIII, Padova, 1989; PATTI (a cura di), Il danno da prodotto, Padova, 1990; ALPA-CARNEVALI-DI GIOVANNI-GHIDINI-RUFFOLO-VERARDI, La responsabilità per danno da prodotti difettosi, Milano, 1990; SARAVALLE, Responsabilità del produttore e diritto internazionale privato, Padova, 1991. (6) Proprio di recente, peraltro, il tema ha formato oggetto di alcune stimolanti considerazioni per opera di PALIERO, L’autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?, in questa Rivista, 1994, 1239 ss. In passato, aveva affrontato, con la consueta lucidità, il problema della responsabilità penale relativo alle attività produttive ad altissimo grado di pericolosità (con esclusione di ogni riferimento ai danni derivanti da prodotti difettosi): BRICOLA, Responsabilità penale per il tipo e il modo di produzione, in Quest. crim., 1978, 101 ss. Cfr. inoltre il saggio di AZZALI, La responsabilità penale del produttore per danni alla salute, in Riv. trim. dir. pen. economia, 1991, 850 ss., in cui vengono, tra l’altro, sottoposte ad accurato esame le norme penali del codice relative alla tutela della salute pubblica. (7) Sul caso Contergan, relativo alla messa in commercio di un preparato (talidomide) ingerito da


— 356 — tici, ma isolati esempi. E una disamina, anche superficiale, di tali precedenti giudiziari consente di svelare con immediatezza le difficoltà dei modelli tradizionali di responsabilità penale a proiettarsi sopra questi fenomeni così dannosi, ma pure così complessi. La sentenza in commento rappresenta perciò una preziosa occasione per una prima, sommaria visualizzazione dei principali nodi problematici in tema di responsabilità penale per lesioni di beni giuridici provocate dalla produzione industriale. A tal proposito, si può sin da ora anticipare che la sostanziale pigrizia argomentativa, che contrassegna la decisione della Suprema Corte, costituisce la spia di un grave disagio nel maneggiare le categorie penalistiche immediatamente coinvolte. Di qui, la necessità di verificare se questo disagio si traduca in un difetto di consapevolezza « dei propri mezzi » da parte del sistema penale (superabile con una maggiore attenzione e con un progressivo affinamento degli istituti tradizionali); o se, piuttosto, si sia in presenza di una vera e propria « crisi » del sistema penale stesso, dovuta all’insufficienza operativa delle « classiche » categorie sistematiche che orientano i criteri di imputazione dell’illecito (8). 2. La sentenza che si annota si occupa, per vero, di un fatto di responsabilità del produttore abbastanza chiaro nel suo sviluppo eziologico. Un esperto militare paracadutista della Marina aveva utilizzato per il lancio un paracadute che presentava un difetto di fabbricazione (9) consistente nella mancata cucitura di un’asola destinata a contenere una funicella che aveva la funzione di tenere uniti i tre anelli della bretella del paracadute sull’imbragatura. La componente difettosa era stata fornita alla società venditrice (la Paraflyte, del cui vertice faceva parte l’imputato) da una diversa ditta (la Annex Inc.), e il vizio di costruzione non era percepibile a un’ispezione esterna (pure garantita dalla Paraflyte), ma era rilevabile solo attraverso una prova di carico a terra (peraltro mai eseguita dalla Paraflyte, che non la prevedeva come forma contrattualmente garantita di controllo). Dall’insieme delle testimonianze raccolte era emerso che, dopo l’apertura difettosa della velatura (che si poneva « a bandiera »), la vittima aveva sganciato la velatura stessa a 600 metri di quota e, dopo aver ripreso la posizione stabilizzata (cd. « a tridente »), aveva provato ad azionare, a 200/250 metri dal suolo, il comando del paracadute ausiliario, senza peraltro riuscirvi, benché il comando fosse risultato ex post perfettamente funzionante. Questi i fatti.

donne gestanti che poi partorirono, in gran parte, figli con malformazioni congenite, v. la sentenza del LG Aachen, in JZ, 1971, 507 ss. e il commento di ARMIN KAUFMANN, Tatbestandsmäßigkeit und Verursachung im Contergan-Verfahren, ivi, 569 ss. Quanto alla nota vicenda di Seveso, v. le sentenze che se ne occuparono: Trib. di Monza, 24 settembre 1983, von Zwehl e altri, in Riv. giur. lav., 1983, IV, 458 ss.; Corte d’appello di Milano, 14 maggio 1985, in Giust. pen., 1986, II, 171 ss.; Cass. 23 maggio 1986, in Cass. pen. Mass. ann., 1988, 1250 ss.; per un acuto esame dei problemi dommatici e politico-criminali sollevati dal caso Seveso, v. BRICOLA, Responsabilità penale, cit., 101 ss. (8) In argomento, v. lo stimolante lavoro di HASSEMER, Produktverantwortung im modernen Strafrecht, Heidelberg, 1994, 25 ss. Si interroga sul ruolo e sulla crisi di legittimazione del diritto penale dinanzi alle evoluzioni legislative di questi ultimi anni, anche con riguardo al problema della responsabilità del produttore, PALIERO, L’autunno del patriarca,, cit., 1920 ss. (9) Sulla tipologia dei difetti del prodotto v. CARNEVALI, La responsabilità, cit., 237 ss. il quale denomina: a) difetti di costruzione quelli che colpiscono l’intera serie prodotta e dipendono da errata progettazione o scelta dei materiali o di tecniche produttive, ovvero da insufficiente sperimentazione o confezionamento; b) difetti di fabbricazione quelli che colpiscono uno o più elementi della serie, per il resto regolare e dipendono da difetti tipici dei moderni sistemi produttivi: defaillance di una macchina o dell’uomo; c) difetti di informazione quelli che riguardano un’errata o incompleta informazione sulle caratteristiche e le modalità d’uso del prodotto; d) difetti da rischio di sviluppo quelli che al momento della produzione e della messa in circolazione del prodotto non potevano essere riconosciuti in base allo stato della scienza e della tecnica.


— 357 — In punto di diritto, i giudici di merito (10) avevano riconosciuto la penale responsabilità dell’imputato, affermando in particolare l’esistenza del nesso causale fra l’evento e la mancata effettuazione di una « prova di carico » a terra, che avrebbe consentito di svelare l’anomalia della componente assemblata. Era stata inoltre sottolineata l’eccezionalità del difetto, mai presentatosi prima in Italia e non contemplato nel programma addestrativo della Scuola Militare di Paracadutismo: la difficile interpretazione del difetto rendeva perciò giustificabili il ritardo con il quale la vittima percepì l’origine del malfunzionamento e il suo disorientamento nella valutazione dell’avvicinamento al suolo. Da ciò derivava — secondo i giudici di appello — l’impossibilità di conferire esclusivo rilievo causale, rispetto alla verificazione dell’evento, alla mancata attivazione del paracadute di sicurezza da parte della vittima. Quanto all’individuazione del soggetto responsabile, la Corte di merito aveva imperniato il fulcro della responsabilità sull’imputato perché rivestiva la qualifica di membro del Consiglio di Presidenza della società Paraflyte e di dirigente del settore marketing, ricerca e sviluppo. Dal canto suo, la Cassazione ha censurato le decisioni dei giudici di merito sotto un duplice aspetto riguardante: a) il nesso di causalità e b) i profili soggettivi del giudizio di imputazione della responsabilità. a) Sulla questione del nesso causale, la Suprema Corte ha reputato non corretto riconoscere una decisiva efficacia eziologica al difetto di costruzione del paracadute principale, poiché la vittima avrebbe avuto il tempo materiale di azionare il paracadute ausiliario di sicurezza, la cui apertura avrebbe evitato l’evento lesivo. L’estromissione di questa condotta della vittima dalla ricostruzione del nesso causale non poteva — ad avviso del Collegio — essere giustificata dallo « sconcerto » provocato sul militare dallo « strano » funzionamento del paracadute principale, che gli avrebbe impedito di cogliere in tempo la situazione di pericolo. La circostanza che si fosse in presenza di un paracadutista di provata esperienza si poneva in contraddizione — secondo la Corte — con il riferito sconcerto e rendeva impossibile pertanto contrastare l’assunto che l’uso tempestivo del paracadute di riserva avrebbe certamente consentito un atterraggio sicuro. b) Le censure della Cassazione si sono estese anche alla parte in cui è stata riconosciuta la responsabilità penale dell’imputato, per omesso controllo sul pezzo difettoso, in considerazione della sua qualità di membro del Consiglio di Presidenza della società e di dirigente del settore marketing, ricerca e sviluppo. A parere dei giudici di legittimità, la responsabilità penale non poteva abbracciare il solo imputato, sia perché non rivestiva la carica di Presidente della società, sia per la mancata individuazione della posizione dell’imputato nella struttura sociale, ai cui vertici doveva comunque essere ricondotta l’omissione di controllo penalmente rilevante. 3. Già ad un primo superficiale esame, non è difficile scorgere l’evidente fragilità dommatica insita nelle conclusioni della Suprema Corte. Forti perplessità solleva in particolare l’attribuzione di un’efficacia eziologica autonoma ed esclusiva all’omissione della vittima. Questa conclusione — come vedremo meglio appresso — tradisce anzitutto una « confusione » — purtroppo non inconsueta nella prassi — fra i problemi propri della causalità e quelli pertinenti al terreno della colpa. Ma qui c’è un passaggio (un salto logico?) ulteriore. La forte sottolineatura della condizione professionale della vittima (« esperto paracadutista ») costituisce il fulcro dell’imputazione di un obbligo di impedire l’evento in

(10) Cfr. la sentenza impugnata: Corte di appello di Genova, 16 settembre 1992, Puskas, inedita.


— 358 — capo alla stessa vittima. Da questa premessa deriva la tesi che un esperto paracadutista deve saper fronteggiare i rischi connessi all’esercizio della professione ed è perciò gravato dall’obbligo di impedire eventi lesivi per se stesso oltre che per altri. La violazione della diligenza dovuta si sarebbe consumata, secondo la Corte, nella mancata, tempestiva apertura del paracadute di sicurezza, di un apparato, cioè, deputato ad « estinguere » ogni rischio inerente al cattivo funzionamento delle singole componenti del paracadute « principale ». La configurazione di questo obbligo di « neutralizzazione » del rischio finisce per condizionare poi, a rebours, in modo quasi ineluttabile, il giudizio sul nesso di causalità e l’arbitraria anticipazione della criteriologia colposa nel giudizio di causalità porta, come vedremo, a corrive conseguenze su quest’ultimo, delicato terreno. Del resto, la circostanza che un aspetto dommatico così rilevante sia stato affrontato con una motivazione palesemente sbrigativa costituisce la migliore conferma del disagio della Cassazione dinanzi alle emergenze poste da una problematica, sostanzialmente inesplorata, come quella della responsabilità del produttore. 4. Problematica che, al contrario, sta prendendo sempre più corpo nella prassi e nella letteratura della Repubblica Federale Tedesca, dove la responsabilità del produttore è stata riconosciuta in alcuni casi giudiziari caratterizzati da una complessità di gran lunga più elevata rispetto alla decisione in commento e che hanno sottoposto alcuni istituti della dommatica penalistica a significative turbolenze sistematiche. Pare allora interessante, oltre che utile ai fini della nostra analisi, proiettare, sia pure brevemente, lo sguardo verso l’esperienza giuridica d’oltralpe, allo scopo di individuare da quale genere di torsioni siano state investite — in questo settore — le tradizionali figure concettuali del diritto penale. La giurisprudenza penale tedesca ha avuto modo di occuparsi della materia dei danni da produzione in tre procedimenti contrassegnati da notevoli difficoltà, sia in punto di ricostruzione dell’eziologia del fatto, sia per quanto concerne l’individuazione dei soggetti responsabili. Il riferimento riguarda i casi « Contergan », « Holzschutzmittel » e « Lederspray ». Quanto al primo, ormai notissimo per la larga eco che suscitò, si trattava della commercializzazione di un preparato farmaceutico (il talidomide) che fu ingerito anche da numerose donne gestanti che poi partorirono, in massima parte, figli con malformazioni congenite (11). Circa i casi relativi al lucido per mobili ed allo spray detergente, essi erano relativi a danni alla salute (edemi polmonari) provocati ai consumatori dall’uso, peraltro conforme alle istruzioni fornite dalle ditte costruttrici, di prodotti rispettivamente destinati alla protezione del legno (Holzschutzmittel) e alla pulizia delle pelli (Lederspray) (12).

(11) Sul caso Contergan, v. il commento di ARMIN KAUFMANN, Tatbestandsmäßigkeit, cit., 569 ss.; nella letteratura italiana il caso è stato approfonditamente illustrato da STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1975, 22 ss. (12) La sentenza sul Lederspray, la cui vicenda viene descritta nel testo, ha formato oggetto di numerosi commenti: v. KUHLEN, Strafhaftung bei unterlassenem Rückruf gesundheitsgefährdender Produkte (zugleich Urteilsanmerkung « Lederspray » Entscheidung), in NStZ, 1990, 566 ss.; SCHMIDT-SALZER, Strafrechtliche Produktverantwortung. Das Lederspray-Urteil des BGH, in NJW, 1990, 2966 ss.; BRAMSEN, Kausalitäts- und Täterschaftsfragen bei Produktfehlern, in Jura, 1991, 533 ss.; SAMSON, Probleme Strafrechtlicher Produkthaftung, in StrV, 1991, 184 ss.; PUPPE, Zur Kausalitätsproblematik bei der Strafrechtlichen Produkthaftung, in JZ, 1992, 30 ss. Quanto al caso Holzschutzmittel, si trattava di un prodotto destinato alla protezione dei mobili in legno, sospettato di aver provocato danni alla salute dei consumatori e degli operai che lavoravano alla sua preparazione, a causa del suo contenuto di Pentaclorofenolo (PCP) e Lindan. I soggetti danneggiati agirono in sede civile per ottenere il risarcimento del danno, ma i procedimenti furono sospesi, in via pre-


— 359 — La nota comune a questi procedimenti era rappresentata dalla carenza di puntuali conoscenze scientifiche sul « fattore nocivo » risultato ex post produttivo del danno. Peraltro, mentre nell’ambito del processo Contergan risultava assodato, sulla base di indagini statistiche, che l’ingestione di talidomide durante il cd. periodo critico della gravidanza era seguito da malformazioni del feto, negli altri due procedimenti i periti non furono in grado di isolare con scientifica plausibilità (sia pure di tipo statistico) la causa del danno. Il diverso problema dell’individuazione dei soggetti responsabili ha poi trovato una peculiare soluzione nella sentenza sul Lederspray. I responsabili dell’azienda furono condannati per il reato di lesioni colpose (§ 230 StGB) con riguardo ai danni alla salute di quattro consumatori verificatisi subito dopo la messa in commercio del prodotto; la sentenza di condanna raggiunse l’intero vertice aziendale anche per il reato di lesioni volontarie pericolose (§ 230 aStGB), in considerazione del mancato ritiro del prodotto dal mercato, dopo che una modifica nella composizione dello stesso non aveva impedito che trentotto consumatori risentissero di danni alla salute. La decisione di non disporre il ritiro del prodotto era stata adottata all’unanimità, sul presupposto che non fosse ancora chiaro il meccanismo di causazione del danno (13). Questa breve illustrazione del contenuto dei casi affrontati dalla giurisprudenza tedesca è comunque sufficiente a percepire come alcuni istituti della dogmatica penalistica, di derivazione illuministica, siano stati messi alla frusta in almeno tre aspetti centrali: a) in primo luogo la causalità: pur in presenza di un deficit conoscitivo su quale fosse stato il meccanismo tossicologico collegabile eziologicamente al danno, la giurisprudenza ha elaborato un modello di spiegazione incentrato sul rischio: ogni qualvolta l’evento finale appaia concretizzare il rischio connesso all’esercizio dell’attività industriale e sussista altresì il convincimento che fra i due estremi vi sia un collegamento causale (magari suggerito dalla mera connessione temporale tra l’evento e l’utilizzazione del prodotto), ebbene in presenza di questi presupposti l’evento lesivo potrà essere legittimamente imputato all’azione del prodotto difettoso (14). Si delinea, in tal modo, come è stato suggestivamente proposto, un nuovo concetto di causalità generale (Generelle Kausalität) fondata sulla costruzione della black box: « si sa che il prodotto (...) ha un nesso con determinati danni, si sa che non vi sono fattori estranei di causazione del danno, ma non si conosce quale è il fattore dannoso all’interno del prodotto dannoso » (15). Non è difficile rilevare come una simile ricostruzione di un concetto generale di causalità enfatizzi, oltre misura, la dimensione stocastica del giudizio sul nesso causale, facendo venir meno la tradizionale funzione esplicativa dell’accertamento causale, a tutto vantaggio di una configurazione che punta ad esaltare quei fattori

giudiziale, in attesa della definizione delle inchieste penali, avviate, in gran parte, dalla Procura di Francoforte. Per un riepilogo di questa vicenda giudiziaria, v. MICKLITZ, Holzschutzmittelprozesse: Stand der Rechtsprechung, in NJW, 1989, 1076 ss.; cfr., altresì HASSEMER, Produktverantwortung, cit., 34-36. Nella dottrina d’oltralpe, il tema della responsabilità del produttore è oggetto di sempre maggiore attenzione: cfr. i lavori di KUHLEN, Fragen einer strafrechtlichen Produkthaftung, Heidelberg, 1989; HILGENDORF, Strafrechtliche Produzentenhaftung in der « Risikogesellschaft », Berlin, 1993; HASSEMER, Produktverantwortung, cit. Per una rassegna della giurisprudenza, v. SCHMIDT-SALZER, Entscheidungssammlung zur Produkthaftung, Band II-Strafrecht, 1989. (13) V. HASSEMER, Produktverantwortung, cit., 53-54. (14) V., in particolare, la decisione sul Lederspray: BGH, in NJW, cit., 2560-2562. (15) La costruzione è opera di HASSEMER, Produktverantwortung, cit., 33, 38 ss. Ritiene, per contro, che la carenza di leggi di « copertura » non pregiudichi la possibilità di riconoscere l’esistenza del nesso causale, KUHLEN, Fragen, cit., 63 ss.; ID., Strafhaftung, cit., 566 ss.


— 360 — che manifestano una propensione verso un determinato risultato lesivo (16). Questa matrice « deformalizzata » della causalità rischia poi un’autentica sovraesposizione, se solo si pensa che la maggior parte dei casi di responsabilità del produttore riguarda ipotesi di causalità omissiva, ove all’accertamento del nesso eziologico è già di per sé connaturata una componente probabilistica, di tipo appunto congetturale (17). Ben poco rimane allora del modello condizionalistico calato in una cornice nomologica: esso svapora in un indistinto e spesso « cieco » modello probabilistico, dove il rischio esternato dalla condotta racchiude ed esaurisce il disvalore penale dell’illecito; b) in secondo luogo, la struttura del tipo: le pronunce giurisprudenziali sopra descritte, oltre a disegnare una sorta di fungibilità fra condotta attiva e condotta omissiva, concentrano la loro attenzione sulla struttura del reato omissivo improprio e sui contenuti della posizione di garanzia che costituisce, come noto, il presupposto di questa forma di responsabilità. I punti di crisi emergono proprio in quelle ipotesi, in verità piuttosto frequenti, in cui la pericolosità del prodotto si manifesta lentamente, magari accompagnata da informazioni non del tutto attendibili o addirittura contrarie (volte cioè a rassicurare i consumatori) (18). L’accertamento definitivo della pericolosità del prodotto può pertanto essere raggiunto solo quando una parte dei beni è già stata immessa in circolazione. La giurisprudenza tedesca prefigura in questi casi una posizione di garanzia c.d. « da ingerenza » (ex Ingerenz) in cui la responsabilità per omissione deriva da un’azione precedente (la produzione e la messa in circolazione di prodotti-fonte di pericolo) (19). Il « comportamento pregiudiziale » (Vorverhalten) che fa sorgere il rischio incardina l’obbligo di intervenire sui prodotti insicuri, attraverso il loro ritiro dal commercio (20). Anche questa costruzione poggia, a ben vedere, su una deformalizzazione della posizione di garanzia. Se, infatti, il produttore aveva realizzato il manufatto secondo i dettami della migliore tecnica e in forza delle conoscenze scientifiche disponibili, non aveva certo la possibilità di riconoscere la pericolosità della sua condotta, manifestatasi solo successivamente. La riconoscibilità presuppone che, all’atto della messa in circolazione, fossero già noti gli effetti pericolosi del prodotto (21). Ma se si oltrepassano questi limiti, relativi al contenuto degli obblighi

(16) Sull’interpretazione della « probabilità » come una proprietà fisica, a carattere disposizionale, che orienta la causalità non in termini esplicativi bensì come propensione ad esibire, in determinate condizioni, un risultato di un certo tipo: v. GALAVOTTI, Spiegazione probabilistica e causalità, in GALAVOTTIGAMBETTA (a cura di), Causalità e modelli probabilistici, Bologna, 1983, 37 ss; PIZZI, Teorie della probabilità e teorie della causa, Bologna, 1983, 31 ss. Per un’interessante analisi delle difficoltà metodologiche introdotte dalla crisi del concetto tradizionale di causalità nell’ambito della scienza medica, a cui si contrappone, in particolare nel settore epidemiologico, l’emersione di un modello di tipo « osservativo » che intende la causalità come una « rete di cause » che vede l’interazione di diversi agenti: cfr. VINEIS, Modelli di rischio. Epidemiologia e causalità, Torino, 1990. (17) Sulla struttura del nesso causale nei reati omissivi impropri, v. GRASSO, Il reato omissivo improprio. La struttura obbiettiva della fattispecie, Milano, 1983, 385 ss.; STELLA, La nozione penalmente rilevante di causa: la condizione necessaria, in questa Rivista, 1988, 1249 ss.; PALIERO, La causalità nell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Riv. it. med. leg., 1992, 821 ss. (18) V. in proposito HASSEMER, op. cit., 51-52 ss. (19) Per un esame di questa posizione di garanzia v. GRASSO, Il reato omissivo, cit., 277 ss. Un discutibile riconoscimento della posizione di garanzia ex Ingerenz è stato operato dal Tribunale di Monza (sent. 12 dicembre 1988) e dalla Corte di appello di Milano (sent. 16 ottobre 1990) — decisioni inedite — nei confronti dell’amministratrice di una società che non si era attivata per ritirare dal commercio spine elettriche non rispettose dalla normativa di settore, poste peraltro in commercio dal precedente amministratore. In conseguenza dell’omesso ritiro del prodotto veniva a morte l’utilizzatore di una spina, in parte manomessa dalla stessa vittima. (20) Sul punto, cfr. HASSEMER, op. cit., 52 ss. (21) V., per una corretta sistemazione del requisito della riconoscibilità all’interno del fatto colposo, FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, 219 ss.


— 361 — e alla riconoscibilità del pericolo, la posizione di garanzia si esaurisce in un vago obbligo generale di prevenzione del danno, che tende a coinvolgere nella responsabilità tutti coloro che sono intervenuti nel processo di produzione o di commercializzazione del bene. Il garante, in definitiva, « risponde non per il mancato controllo di una ben individuata fonte di pericolo, ma solo per l’aumento del (generale) rischio della produzione » (22). c) si pone, infine, il problema della responsabilità plurisoggettiva che, nella materia in esame, denota un’accentuata complessità, riconducibile alla frammentazione dei centri decisionali e del processo di formazione della volontà sociale. La Corte Federale, con la decisione sul Lederspray, ha disegnato un concetto di « responsabilità collettiva della direzione aziendale » (Generalverantwortung der Geschäftsleitung) (23), attraverso la quale ha incanalato verso l’alto la responsabilità penale. La responsabilità dei dirigenti è stata immediatamente ricavata dalla loro posizione di amministratori, in capo ai quali vigeva l’obbligo di provvedere a che i consumatori fossero salvaguardati dai danni alla salute che minacciavano di verificarsi a causa del prodotto. Il generale, collaudato principio che collega la posizione di garanzia al ramo di azienda posto sotto il controllo di un amministratore è destinato a cedere il passo al diverso principio della responsabilità generale e della competenza totale che interviene quando, in situazioni aziendali di crisi, l’impresa è chiamata ad agire nella sua interezza. Questo modo di ricostruire la fattispecie plurisoggettiva avviene però secondo schemi che si distaccano sensibilmente dai criteri tradizionali. Questi ultimi, ispirati alla logica di un diritto penale del fatto, muovono dalle figure oggettivamente più vicine al danno (alla lesione), per poi intraprendere un percorso ascensionale sino ai centri della responsabilità, ma solo attraverso l’individuazione delle diverse posizioni funzionali (di organizzazione, di controllo, etc.) (24). Nell’ambito della responsabilità del produttore, pare, invece, affermarsi un criterio di ascrizione collegato alla ripartizione dei doveri prestabilita dal diritto societario. Se la pericolosità del prodotto può determinare un grave fenomeno di crisi aziendale, si dissolvono, in questo caso, le delimitazioni di competenza funzionale: l’emergenza fa sì che la responsabilità non debba più seguire le traiettorie delle diverse posizioni organizzative e/o di controllo, ma coinvolga direttamente ogni singolo componente del vertice aziendale, dando così forma a una responsabilità collettiva di tipo « generale ». 5. Se provassimo a tirare le fila delle considerazioni svolte, non potremmo che mettere in risalto come il tentativo di disciplinare la responsabilità del produttore nell’esperienza giuridica tedesca si sia sviluppato attraverso una penetrante flessibilizzazione (« Flexibierung ») delle tradizionali strutture dogmatiche. Un’operazione interpretativa, questa, che lascia intravvedere la nascita di un modello di responsabilità incentrato sulla omessa minimizzazione del rischio e perciò espressivo di una finalità di prevenzione non solo e non tanto « generale », quanto « generalizzata » (25). È tuttavia innegabile che la natura innovativa e per certi versi « pionieristica » (26) delle decisioni della Corte Federale tedesca si salda immediatamente

(22) Così PALIERO, L’autunno del patriarca, cit., 1241. (23) Sul punto, v. HASSEMER, Produktverantwortung, cit., 62-63. (24) Cfr. sul punto, BRICOLA, Responsabilità per il tipo, cit., 111 ss.; PALIERO, L’autunno, cit., 1242. (25) Cfr. PALIERO, L’autunno, cit., 1240. (26) Così ha espressamente qualificato la sentenza sul Lederspray, VOLK, Introduzione al diritto penale tedesco, Padova, 1993, 54.


— 362 — con la complessità dei casi esaminati, esemplarmente evocativi di tutte le asperità che contrassegnano il tema della responsabilità per danno da prodotto. A tal proposito, va dato atto ai giudici d’oltralpe di un non comune sforzo interpretativo che, al di là dell’estrema opinabilità dell’esito decisorio, ha comunque preso di petto i delicati problemi posti sul tappeto. E l’intensità di questo sforzo meglio risalta se si prova ad accostarlo alle scarne e titubanti argomentazione che la nostra Corte Suprema ha posto a fondamento della decisione che si annota. La denunciata fragilità dogmatica della decisione della Cassazione non sembra infatti poter trovare appiglio nella dinamica del fatto lesivo che, contrariamente alla fenomenologie dannose verificatesi in Germania, non presenta particolari caratteristiche di complessità. Purtuttavia, la sentenza risulta comunque significativa laddove, da un lato apre uno squarcio su un tema sinora noto solo alla dottrina e alla giurisprudenza civilistica; dall’altro lato, ricalca una trama argomentativa per così dire « classica », ancorata ai topoi di teoria generale che tutti conosciamo. 6. Come si ricorderà, la Suprema Corte ha reputato non corretto riconoscere una decisiva efficacia eziologica al difetto di costruzione del paracadute principale, poiché la vittima, in ragione della sua notevole esperienza professionale, avrebbe avuto il tempo materiale di azionare il paracadute di sicurezza, la cui apertura avrebbe evitato l’evento lesivo. In definitiva, ad avviso del Collegio, in capo alla vittima incombeva un obbligo di impedire l’evento, alla stregua di un principio di « autoresponsabilità » del soggetto passivo, fondato sulla forte sottolineatura della condizione professionale dello stesso. Proprio la configurazione di questo obbligo di « neutralizzazione » di ogni rischio, inerente al cattivo funzionamento delle singole parti del paracadute, appare però produttivo di vistosi fraintendimenti: in primis, perché sovrappone i criteri di imputazione per colpa all’accertamento del nesso causale. La Corte ricava infatti il ruolo esclusivo, nell’efficienza causale, dell’omessa azione impeditiva da una mera correlazione spazio-temporale: il fatto, cioè, che l’omessa attivazione del paracadute ausiliario ha rappresentato la condizione « più vicina » all’evento lesivo, rispetto all’omesso controllo della componente rivelatasi difettosa. La « prossimità » all’evento e la funzione di « neutralizzazione » della regola cautelare violata determinerebbero così l’estromissione della condotta omissiva, ascrivibile alla ditta produttrice, dalla ricostruzione del nesso causale. Un esame più attento consente però di svelare l’insostenibilità di questo assunto. a) Il primo fraintendimento investe la problematica della valutazione del fatto (colposo) della vittima quale causa sufficiente a produrre l’evento, ex art. 41 cpv c.p., una volta che sia intervenuta dopo la realizzazione del fatto lesivo da parte del soggetto attivo del reato (che costituirebbe una mera « concausa » dell’evento). La Suprema Corte sembra ignorare, in proposito, che al soggetto passivo del reato l’ordinamento penale non assegna alcuna posizione di garante rispetto alla neutralizzazione dell’offesa penale, « tale da consentire di fare affidamento sulla sua ‘‘diligenza’’ o ‘‘perizia’’ nell’eliminare gli effetti del danno ricevuto, e al punto di attrarre a sé la spiegazione esclusiva (nonché l’imputazione) di un mancato, colposo salvataggio del bene di sua appartenenza » (27). Prova ne sia che il codice penale prefigura una mera circostanza attenuante (art. 62 n. 5 c.p.) per l’ipotesi in cui abbia concorso a determinare l’evento, in-

(27)

Così, DONINI, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991, 381.


— 363 — sieme con l’azione o l’omissione del colpevole, il fatto doloso della persona offesa (28). Ne deriva, a fortiori, che la condotta colposa della vittima non potrà certo pregiudicare la protezione penale che l’ordinamento le accorda. Detto ciò è pur vero che l’individuazione di una piena protezione della vittima non è priva di limiti, ma è condizionata dal superiore principio della personalità della responsabilità penale, che la Corte costituzionale ha imposto di rileggere come espressivo del principio di colpevolezza (nullum crimen sine culpa) (29). Nell’attuale stagione dommatica sembrerebbe che una puntuale concretizzazione di questa dialettica di principi possa essere raggiunta solo a patto di individuare con precisione la sfera del rischio penalmente rilevante (30). In particolare, appare decisiva la valutazione del quesito relativo alla copertura del rischio tipico: e a questo proposito, occorre distinguere tra i rischi derivanti dalla condotta del soggetto attivo e quelli scaturiti dal fatto (attivo o omissivo) della vittima. Si deve, cioè, instaurare un rapporto di tensione dialettica tra la condotta e l’evento per verificare anzitutto se quest’ultimo risulti espressivo proprio di quel rischio creato dalla violazione della regola cautelare e « se esso fosse uno di quelli che la condotta cautelare (...) mirava a prevenire (o a rendere meno probabile) » (31). Questo tema è stato ignorato nella sentenza, anche se dall’esito decisorio si ricava la conclusione che alla condotta omissiva della vittima è stato riconosciuto un rilievo decisivo nella produzione dell’evento in considerazione dell’assorbente funzione assegnata al paracadute ausiliario, di neutralizzazione di ogni rischio « da discesa ». 7. In realtà, un più attento esame di quali rischi si fossero concretizzati nell’evento avrebbe condotto a una ben diversa soluzione. Vediamo come. A) La condotta del soggetto attivo del reato secondo l’originaria imputazione si è materializzata nell’omesso controllo sulla funzionalità del paracadute principale: nel mancato esperimento, cioè, di una « prova di carico » che avrebbe consentito di scoprire il difetto di fabbricazione. La ditta produttrice aveva l’obbligo di vendere il paracadute in perfette condizioni di funzionalità, privo di difetti di costruzione e/o di fabbricazione che accrescessero il rischio di base connaturato all’attività di lancio. Sotto questo aspetto, non ci può essere dubbio alcuno che: (a) la mancata rilevazione del difetto sia stata condizione dell’evento, secondo il normale paradigma nomologico che costantemente rappresenta, anche nella nostra giurisprudenza, la spina dorsale della condicio sine qua non; e che: (b) l’evento stesso risulti espressivo proprio di quel rischio (il rischio tipico!) che il ricorso a un adeguato sistema di controllo « alla fonte » sul prodotto avrebbe scongiurato. B) Viceversa, la disposizione, a fianco del paracadute principale, di un para-

(28) La presenza di un fatto colposo della vittima, pur non potendo dar luogo alla diminuzione di pena di cui all’art. 62 n. 5 c.p. (che riguarda il solo fatto doloso), potrà tuttavia esplicare effetto in sede di commisurazione della pena, segnatamente ai sensi dell’art. 133 comma primo n. 2 c.p., che impone al giudice di valutare anche l’aspetto obbiettivo del reato, da considerare meno grave quando alla produzione dell’evento abbia contribuito il comportamento colposo della vittima. Sull’argomento v. PADOVANI, Il grado della colpa, in questa Rivista, 1969, 839. (29) V. Corte Cost. 23-24 marzo 1988 n. 364, in questa Rivista, 1988, 686 ss. con nota di PULITANÒ (Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza). (30) Sul criterio del « rischio » come fondamento generale di imputazione della responsabilità penale, v. FRISCH, Tätbestandsmässiges Verhalten und Zurechnung des Erfolgs, Heidelberg, 1988; ID., Vorsatz und Risiko, Köln-Berlin-Bonn-München, 1983; MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988. (31) Così FORTI, Colpa, cit., 649-650.


— 364 — cadute ausiliario, non è funzionale alla « copertura » dei rischi derivanti dalla difettosa fabbricazione del paracadute principale. Piuttosto, la velatura ausiliaria copre una sfera di rischio del tutto diversa, tendenzialmente coincidente con il « caso fortuito », cioè con quella sfera di eventi imponderabili ed ex ante imprevedibili nella loro totalità, che comunque, per l’altissimo rischio della situazione in sé, possono risultare decisivi per la produzione di eventi letali. Il paracadute ausiliario serve, perciò, ad « estinguere » i rischi ambientali (ad esempio, le condizioni atmosferiche incidenti sul funzionamento della velatura principale); quelli connessi all’improvviso deterioramento dei materiali, dovuto ad effetti straordinari (ad esempio per sbalzi termici improvvisi o per difetti di manutenzione); il rischio, infine, rappresentato da un puro e semplice inceppamento del meccanismo di apertura del paracadute principale. In una parola, i rischi residuali che comunque sopravvivono alla sfera di rischio per così dire principale coperto da un paracadute costruito a regola d’arte. Pertanto, l’attivazione del paracadute ausiliario da parte della vittima non corrisponde alla condotta tipica espressiva della regola di diligenza positivizzata per prevenire l’evento lesivo verificatosi hic et nunc (32): il paracadute di sicurezza copre i rischi residuati ad una pur perfetta azione del paracadute principale, ma non ne surroga affatto la funzione, giacché il rischio tipico su cui è orientata la regola che prevede la dotazione di un paracadute di riserva non è certamente quello di un produttore disonesto! In conclusione, l’evento occorso non può essere considerato la realizzazione di quello specifico rischio contrastato dal paracadute ausiliario. Sarebbe,infatti, impensabile assegnare una funzione preventiva « assorbente » al paracadute secondario, liberando così da ogni responsabilità il produttore per quanto concerne la scelta dei materiali, le tecniche costruttive e la predisposizione di idonei sistemi di controllo. Le gravi conseguenze politico-criminali di una simile scelta sono di intuitiva evidenza. Basti pensare all’ipotesi di un sabotatore che provveda a scucire proprio quell’asola posta sulla bretella della velatura principale che, nel caso affrontato dalla Suprema Corte, derivava, come noto, da un vizio di fabbricazione. Solo la corretta individuazione della sfera del rischio penalmente rilevante consentirebbe, in questo caso, di evitare l’esito davvero paradossale di mandare assolto il sabotatore a causa dell’imperizia dimostrata dalla propria vittima! Esce così rafforzata l’idea secondo la quale il paracadute di riserva serve a fronteggiare solo gli eventi imprevedibili, mentre l’uso della migliore tecnica costruttiva e la previsione di adeguati controlli rimangono invece obblighi ineludibili nella formazione del prodotto. A ciò si aggiunga che la stessa conformazione del paracadute ausiliario (di più ridotte dimensioni) evoca immediatamente la natura residuale della sua operatività: esso si pone come extrema ratio, dato che si tratta di uno strumento che pur sempre aumenta il rischio della discesa rispetto al paracadute principale. 8. Le riflessioni sin qui svolte consentono di prospettare alcune conclusioni, rilevanti sotto il profilo dommatico. a) La mancata rilevazione del difetto di fabbricazione del paracadute principale, dovuta alla carenza di un adeguato sistema di controllo da parte della ditta produttrice, ha accresciuto il rischio di base insito nell’attività di lancio e l’evento verificatosi è risultato espressivo proprio di quel rischio che il ricorso ad un’efficiente azione di controllo avrebbe potuto scongiurare.

(32) Sui temi della descrizione dell’evento e della spiegazione del nesso causale, v. STELLA, La « descrizione » dell’evento. L’offesa. Il nesso causale, Milano, 1970; ID., Leggi scientifiche, cit., Milano, 1975; ID., La nozione penalmente rilevante di causa, cit., 1217 ss.


— 365 — b) La descritta condotta di omesso controllo è da reputare corrispondente alla condotta tipica disegnata dalle regole di diligenza positivizzate per prevenire una classe di pericoli e l’evento lesivo va considerato la realizzazione di quel rischio che la norma cautelare violata mirava ad evitare. Nell’ambito di queste affermazioni, risulta agevole scorgere come la descritta necessità di individuare con cura la classe di rischi sottostante alla norma cautelare si snodi attraverso un lessico caro alla teoria della c.d. imputazione oggettiva dell’evento (33). Questa, secondo la versione più accreditata, esige per l’imputazione dell’evento che l’agente, oltre ad aver posto in essere un’azione causale, alla stregua degli schemi della tradizionale impostazione condizionalistica, abbia determinato un « pericolo giuridicamente riprovato » e che questo pericolo si sia « realizzato » nell’evento tipico (34). Le conclusioni poco sopra formulate si coniugano, con indiscutibile evidenza, con i postulati di questo indirizzo dogmatico che, di recente, ha ottenuto significative adesioni anche da una parte della giurisprudenza (35). Non ci si può nascondere, tuttavia, che il tentativo di fondare una separazione concettuale fra « imputazione causale » e « imputazione normativa », che costituisce il dichiarato obbiettivo della teoria in questione, è stato sottoposto a penetranti critiche (36). Di particolare spicco ed intensità sono quelle mosse da un’autorevole dottrina che reputa la teoria dell’« imputazione oggettiva » un’inutile duplicazione concettuale dei legami fra evento e colpa che la dottrina italiana aveva già da tempo messo in luce (37). In quest’ottica, l’evento, nel reato colposo, deve essere ricondotto alle norme di diligenza cioè a quella classe di pericoli che quelle norme tendono a contrastare; inoltre è necessario accertare la effettiva prevenibilità (o evitabilità) dell’evento a seguito della condotta richiesta dalla norma di diligenza (38). In definitiva, per poter affermare che nell’evento si è concretizzato il pericolo descritto nella norma di diligenza, bisogna accertare se il fatto verificatosi nella realtà fosse « prevedibile » secondo il punto di vista della regola

(33) La letteratura in argomento è particolarmente vasta: cfr. il saggio del « padre » della teoria, ROXIN, Gedanken zur Problematik der Zurechnung im Strafrecht, in Festschrift für Honig, 1970, 133 ss.; nella dottrina italiana si segnalano: DONINI, Lettura sistematica della teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento, in questa Rivista, 1989, 588 ss.; CASTALDO, L’imputazione oggettiva dell’evento nel delitto colposo d’evento, Napoli, 1989; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 1995, art. 41, 374 ss. (34) Cfr. ROMANO, Loco ult. cit. (35) È il tema della responsabilità del medico per errore diagnostico il settore in cui una parte della giurisprudenza fa ricorso al paradigma dell’aumento del rischio, in chiave stocastica-disposizionale, per affermare la responsabilità del sanitario: v. Cass. 19 aprile 1983, in Riv. it. med. leg., 1984, 480; Id. 8 giugno 1988, in Riv. pen., 1989, 424; Pretura Ivrea 5 giugno 1989, in Foro it., 1989, 601. In questi casi, tuttavia, il ricorso al paradigma dell’aumento del rischio finisce con il sostituirsi al modello nomologico della condicio sine qua non e di conseguenza l’illecito pare consistere non tanto nella morte del paziente, quanto nell’aver diminuito le sue possibilità di sopravvivenza. In dottrina, sull’argomento, v. PALIERO, La causalità dell’omissione, cit., 821 ss.; ZENO-ZENCOVICH, La sorte del paziente, Padova, 1994, 44 ss. Merita, infine, di essere segnalata la recentissima sentenza del Pretore di Torino relativa al decesso, per cancro al polmone, di un operaio (avvenuto nel 1992) che negli anni sessanta aveva utilizzato durante l’attività lavorativa un prodotto a base di amianto, senza alcuna protezione; la sentenza si occupa, con buona consapevolezza, della teoria dell’aumento del rischio e compie un’approfondita disamina di tutti i problemi concernenti l’esistenza del nesso causale e l’imputazione dell’evento: v. Pretura Torino 9 febbraio 1995, Beraud, in Guida al Diritto - Il Sole 24 Ore, 17 giugno 1995, 68 ss. Sulla crisi del concetto tradizionale di causalità nella scienza medica, specie nell’ambito della epidemiologia, v. VINEIS, Modelli di rischio, cit.; ID, La prova in medicina, in Quad. storici, 1994, 75 ss. (36) Per un quadro completo, v. MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa. Morte della « imputazione oggettiva dell’evento » e trasfigurazione nella colpevolezza?, in questa Rivista, 1991, 3 ss. (37) Il riferimento è all’incisivo saggio di MARINUCCI, Non c’e dolo, cit., 18 ss.; alle stesse conclusioni perviene FORTI, Colpa, cit., 392, 418 ss. (38) Cfr. MARINUCCI, Non c’è dolo, cit., 14 ss.; ID., La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965, 261 ss.; FORTI, Colpa, cit., 359 ss., 441 ss.; GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Padova, 1993, 169 ss., 384 ss.


— 366 — cautelare; una volta assodata la prevedibilità dell’evento, dovrà seguire il distinto controllo sulla sua effettiva prevenibilità, che impone una verifica sulle possibilità di impedimento dell’evento da parte di un’ipotetica condotta conforme a diligenza (39). Non è certo questa la sede per discutere le indicate, contrastanti impostazioni dommatiche. Quel che preme rilevare è che, anche alla luce di quest’ultima ricostruzione, l’evento lesivo occorso all’esperto militare paracadutista è certamente da imputare, a titolo di colpa, alla ditta produttrice del paracadute: nell’evento lesivo si è, infatti, materializzata l’inosservanza della regola cautelare (relativa alla necessità di controllare « alla fonte » il prodotto) diretta a prevenire, tra gli altri, proprio l’evento (letale) verificatosi. 9. Ma anche a voler seguire le orme della Suprema Corte nell’arbitraria invasione dei terreni della colpa, le insufficienze argomentative della sentenza non sembrano circoscritte al solo tema dell’identificazione della sfera del rischio. Nella ricostruzione del presunto dovere di impedire l’evento da parte del soggetto passivo, la Cassazione privilegia la valutazione del solo metro obbiettivo: il « rimprovero » che consente di fatto alla Corte di imputare l’evento in capo alla vittima viene direttamente dedotto dal parametro oggettivo e generalizzante dello status professionale del soggetto (homo eiusdem professionis), dal quale era lecito attendersi, per la sua esperienza, la previsione e la neutralizzazione (per quanto evitabile) dell’evento (40). Nell’ambito del rapporto tra « dovere » e « potere », che incardina la c.d. doppia misura della colpa (41), l’attenzione dei giudici si è concentrata sulla sola struttura oggettiva e ha prodotto un duplice errore nella costruzione dell’azione impeditiva. In primo luogo, risalta il rovesciamento nell’iter della ricostruzione: invece di accertare dapprima l’esistenza e il contenuto della posizione di garanzia, per poi procedere all’esame del dovere di diligenza (riconoscibilità ed evitabilità dell’evento) (42), la Corte fa sostanzialmente coincidere l’obbligo giuridico di evitare l’evento con la presenza di un dovere di diligenza. La corretta, prioritaria verifica sull’esistenza della posizione di garanzia avrebbe consentito alla Corte di escludere che nel caso di specie potesse ricorrere un obbligo di autosalvataggio in capo alla vittima: come si è visto, infatti, l’ordinamento non contempla una simile posizione di dovere. In secondo luogo, appare ingiustificata la carenza di ogni valutazione della misura soggettiva della colpa, relativa al grado di « potere » della vittima nella situazione concreta in cui ha operato (43). In proposito, la Cassazione ha asserito che la provata esperienza della vittima costituisce un elemento obbiettivo che non si pone in logica relazione con lo « sconcerto » che avrebbe potuto assalire il soggetto passivo quando si è accorto del malfunzionamento della velatura principale. Una così lapidaria affermazione desta il sospetto di una frettolosa lettura delle motivazioni della decisione dei giudici di secondo grado. Questi avevano convenientemente illustrato l’eccezionalità del difetto, mai presentatosi prima in Italia e

(39) Il controllo sull’evitabilità (o prevenibilità) dell’evento in presenza di un comportamento conforme al dovere concerne la rilevanza del cd. comportamento alternativo lecito: in proposito, cfr. FORTI, Colpa, cit., 445 ss., 659 ss.; GIUNTA, Illiceità, cit., 384 ss. (40) Sul punto, v. FORTI, Colpa, cit., 237 ss.; G.V. DE FRANCESCO, Sulla misura soggettiva della colpa, in Studi Urbinati, 1977, 298 ss.; GIUNTA, Illiceità, cit., 110 ss. (41) Cfr. ancora G.V. DE FRANCESCO, Sulla misura, cit., 275 ss. (42) Sul tema del rapporto fra posizione di garanzia e obbligo di diligenza, v. GRASSO, Il reato omissivo, cit., 372; FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979, 106; MARINUCCI, La colpa, cit., 103; PALIERO, La causalità, cit., 821 ss. (43) Cfr. G.V. DE FRANCESCO, op. cit., 312 ss.


— 367 — non contemplato nel programma addestrativo della Scuola Militare di Paracadutismo. Il difetto, inoltre, non aveva impedito il dispiegamento della velatura principale (che in caso di mancata apertura avrebbe indotto il militare ad azionare subito il paracadute di sicurezza), ma aveva fatto sì che la velatura assumesse una posizione irrituale (« a bandiera »), difficile da interpretare per il paracadutista stesso. Queste circostanze, secondo i giudici di appello, rendevano giustificabile il ritardo con il quale la vittima percepì l’origine del malfunzionamento, così da perdere, nell’inevitabile disorientamento, l’esatta percezione del veloce avvicinamento al suolo. Emerge allora, con sufficiente chiarezza, come la vittima venne a trovarsi in una situazione eccezionale suscettibile di vanificare concretamente il potere di adempiere all’obbligo di diligenza, esigibile da un soggetto di provata esperienza. La sua condotta, in ultima analisi, non avrebbe potuto formare oggetto di rimprovero, alla stregua del metro soggettivo di valutazione della colpa. Desta allora stupore il rigore applicato dalla Suprema Corte nei confronti del comportamento della vittima, alla quale si è fatto carico persino della comprensibile, e per certi aspetti inevitabile, incapacità di fronteggiare, in pochi secondi, una situazione di pericolo del tutto anomala e, perciò, difficilmente decifrabile. Stupore destinato ad accentuarsi ove si rifletta sugli argomenti, blandi e dommaticamente scorretti, viceversa adoperati per elidere la rilevanza penale della condotta del soggetto attivo del reato. 10. Le considerazioni sin qui svolte permettono ora di precisare alcune importanti conclusioni sulla dinamica del fatto lesivo. Va, in primo luogo, decisamente esclusa la possibilità di qualificare come « causa sufficiente e autonoma » (ai sensi dell’art. 41, terzo comma c.p.) per la produzione dell’evento il comportamento della vittima. L’evento finale è, in realtà, conseguenza dell’azione del soggetto attivo del reato (consegna di un paracadute difettoso), sia pure con la mediazione della condotta del soggetto passivo (omessa apertura del paracadute di sicurezza) che, tuttavia, non ha operato come causa « interruttiva » o « sorpassante »: non ha cioè « neutralizzato » l’efficienza causale dell’azione lesiva del soggetto attivo (44). In secondo luogo, la riconducibilità dell’evento al comportamento illecito dell’imputato non potrà neppure essere esclusa invocando la ricorrenza di un fenomeno di « causalità alternativa ipotetica » (hypothetischer Erfolgsursachen), cioè la presenza di circostanze, la cui efficacia causale è rimasta ipotetica ma che, in assenza della condotta illecita, avrebbero sicuramente determinato il verificarsi dell’evento (45). A questa stregua si potrebbe sostenere che, pur in presenza del fatto lesivo provocato dall’imputato, quello stesso evento si sarebbe comunque verificato perché la vittima, pur potendo, non avrebbe azionato il paracadute ausiliario, idoneo ad impedire il danno. In realtà, sotto questo profilo, il caso al nostro esame difetta di un requisito strutturale che inibisce ogni rinvio alla tematica dei fattori sostitutivi ipotetici. Questi ultimi si fondano sulla rilevanza di una serie causale che non ha raggiunto l’evento e che, proprio per questo, è rimasta ipotetica (si pensi al noto esempio del « boia » (Hinrichtungs-Fall: l’azione omicida del padre

(44)

Sull’argomento, v. STELLA, La descrizione, cit., 82 ss.; ROMANO, Commentario, cit., art. 40,

349. (45) In tema di « causalità alternativa ipotetica », v. ARTHUR KAUFMANN, Die Bedeutung hypothetischer Erfolgsursachen im Strafrecht, in Festschrift für Eb. Schmidt, 1961, 200 ss.; STELLA, La descrizione, cit., 82 ss., 183 ss.; ROMANO, Commentario, cit., art. 40, 347 ss.


— 368 — avviene qualche istante prima che il boia proceda all’esecuzione) (46). Viceversa, nel fatto lesivo in commento, la condotta omissiva della vittima non è affatto rimasta ipotetica, ma ha effettivamente operato, congiuntamente a quella dell’imputato, sino a raggiungere l’evento finale (47). L’assenza del contrassegno dell’ipoteticità nel comportamento della vittima svela, perciò, con evidenza, l’impraticabilità del riferimento alla categoria delle cause sostitutive ipotetiche. a) Ecco allora, conclusivamente, come la dinamica e il nesso di imputazione dell’evento lesivo occorso al Militare paracadutista debbono essere ricostruiti: — alla domanda su come si fosse verificato l’evento (ridescritto hic et nunc) era agevole rispondere che era dipeso dalla non corretta apertura del paracadute principale (primo anello intermedio del meccanismo di produzione causale) e dalla mancata attivazione del paracadute di sicurezza (secondo anello intermedio); — all’ulteriore quesito relativo alle ragioni che avevano determinato la produzione dei due descritti « sottoeventi », era possibile rispondere che il primo « sottoevento » era derivato dall’omesso controllo su un difetto di fabbricazione di una componente del paracadute, mentre il secondo dipendeva dalla mancata apertura del paracadute ausiliario da parte della vittima. L’evento dannoso fu, dunque, sotto il profilo condizionalistico, la conseguenza di una pluralità di « sotto-eventi » intermedi: con la rilevazione, in sede di controllo, del difetto del paracadute principale l’evento non si sarebbe verificato; come pure sarebbe stato impedito dalla sollecita apertura del paracadute secondario. b) Sul distinto versante del criterio di « copertura » e di « realizzazione » del rischio: — l’evento lesivo risultava espressivo proprio di quel rischio che il ricorso ad un adeguato sistema di controllo sul prodotto avrebbe potuto scongiurare; — l’attivazione del paracadute di sicurezza era invece preordinata alla neutralizzazione di una diversa sfera di rischio, grosso modo individuabile nelle ipotesi di caso fortuito; di conseguenza, l’evento verificatosi non era riconducibile a quella cornice di rischio al cui controllo era deputato il paracadute ausiliario. 11. La decisione della Corte di Cassazione non ha investito il solo profilo dei rapporti fra causalità e colpa. Le censure alla sentenza di merito si sono estese anche alla parte in cui è stata riconosciuta la responsabilità penale dell’imputato, per omesso controllo sul pezzo difettoso, in considerazione della sua qualità di membro del Consiglio di Presidenza della società e di dirigente del settore marketing, ricerca e sviluppo. Ad avviso dei giudici di legittimità, la responsabilità penale non poteva abbracciare il solo imputato, sia perché non rivestiva la carica di Presidente della società, sia per la mancata individuazione della posizione dell’imputato nella struttura sociale, ai cui vertici doveva essere comunque ricondotta l’omissione di controllo penalmente rilevante. A un primo sguardo, l’esito decisorio ora delineato può essere condiviso, anche se pare sorretto da una motivazione non proprio lineare. Colpisce, in primo luogo, la contraddizione insita nel ritenere comunque corretto il riferimento della responsabilità al vertice aziendale, ma non adeguatamente dimostrata la posizione dell’imputato nella società. Come si è visto, l’imputato era uno dei membri del Consiglio di Presidenza della società e dirigeva il settore marketing, ricerca e sviluppo: di conseguenza, la sua appartenenza al vertice aziendale non poteva for-

(46) Sull’esempio del « boia », v. ARTHUR KAUFMANN, Die Bedeutung, cit., 226. (47) Così STELLA, La descrizione, cit., 87.


— 369 — mare oggetto di dubbio. In realtà, i giudici di merito, e ancor prima l’organo requirente, non avevano sufficientemente esaminato se e come il vertice aziendale avesse deciso di affrontare la questione relativa alla sicurezza dei componenti del paracadute (che non veniva venduto già assemblato). In proposito, vale la pena di precisare che la ditta Paraflyte operava con un sistema produttivo integrato (48), nel senso che il prodotto finito incorporava una o più parti fabbricate da un altro imprenditore. Il pezzo difettoso era stato fornito dalla ditta Annex Inc. e nessuna indagine fu svolta per comprendere quali fossero i sistemi produttivi e di controllo eseguiti dalla ditta fornitrice, come pure non si appurò se la società destinataria del prodotto intermedio si fosse attivata per accertare la « buona tecnica » costruttiva del fornitore o se avesse imposto determinati controlli di qualità. Un’ulteriore e grave lacuna dell’indagine riguardava la mancata acquisizione dell’organigramma della società Paraflyte, che avrebbe potuto consentire di prendere esatta visione del riparto di competenze funzionali: ove detto organigramma fosse stato predisposto dal vertice sociale, sarebbe stata agevole la verifica dell’esistenza di una delega delle funzioni relative alla sicurezza e alla qualità del prodotto. In definitiva, i giudici di merito, in presenza di un prodotto difettoso derivante da un sistema produttivo integrato, hanno sposato una filosofia di channeling della responsabilità, cioè l’idea di concentrare la responsabilità su uno solo dei diversi soggetti intervenuti nel processo produttivo, quale componente del vertice aziendale della ditta venditrice (49). L’impraticabilità di una simile tecnica di ascrizione dell’illecito era sin troppo evidente e la Suprema Corte ha avuto buon gioco nel censurarla. E, tuttavia, la tesi di riferire la responsabilità ai vertici aziendali può essere ritenuta corretta: solo che si accerti l’inesistenza di qualsiasi distinta posizione di controllo sul processo produttivo in capo a soggetti preposti a tale funzione. È meglio muovere prima dal difetto, dunque, e dai soggetti più vicini alla sfera del rischio; per poi risalire, in una fase successiva, ai vertici aziendali e alla distribuzione dei compiti sociali. Il diritto penale, per quanto possibile, deve operare con criteri riferibili al fatto, cioè prossimi alle modalità di sviluppo dell’azione lesiva e alle relative sfere di controllo sulla stessa (50). 12. Le osservazioni sinora sviluppate rendono ormai possibile una definitiva valutazione della sentenza che si annota. Pur in presenza di un fatto lesivo sufficientemente chiaro nel suo sviluppo causale e perciò « spiegabile » con il ricorso agli istituti classici della dommatica penalistica, la Corte di Cassazione è incorsa in un abbaglio nella ricostruzione del nesso di causalità, mentre ha adottato una motivazione in parte contraddittoria in punto di individuazione dei soggetti responsabili. Mentre, da un lato, l’errata ricostruzione del profilo causale appare il sintomo di un difetto di consapevolezza nel padroneggiare e affinare istituti tradizionali del diritto penale, determinato da un percepibile disagio nell’affrontare un tema in larga misura sconosciuto, dall’altro lato, le denunciate contraddizioni in punto di focalizzazione della responsabilità paiono tutto sommato giustificabili. Infatti, « nella responsabilità del produttore (...) la partecipazione plurisoggettiva è di re-

(48) L’integrazione produttiva può essere di tipo orizzontale, quando a una impresa « terzista » si demanda un’operazione attraverso la quale il prodotto deve passare durante il processo di fabbricazione, ma che non implica di per sé la produzione di un bene (seppure destinato all’incorporazione in un altro); ovvero di tipo verticale, quando il decentramento produttivo implica la produzione di un bene. Per questi aspetti, v. BIN, Il produttore, in La responsabilità del produttore, cit., 58 ss. (49) Non furono infatti svolte indagini nei confronti della ditta subfornitrice Annex, che pure aveva ceduto il pezzo rivelatosi difettoso. (50) Sul punto cfr. HASSEMER, Produktverantwortung, cit., 64.


— 370 — gola complessa, nel senso che si possono riscontrare frammentazioni nell’individuazione dei centri decisionali e perciò una parcellizzazione della volontà degli organi sociali » (51). La decisione di appuntare la responsabilità verso « l’alto » riflette appieno la difficoltà di « contenere » un fenomeno così articolato, sotto il versante della partecipazione plurisoggettiva, attraverso il ricorso ai collaudati schemi di distinzione dei ruoli concorsuali propri del diritto penale (52). Si coglie così un primo, significativo, elemento di disfunzionalità fra la fenomenologia del danno da prodotto e l’istituto e della partecipazione plurisoggettiva. Peraltro, la sintetica panoramica dell’esperienza giuridica d’oltralpe ha consentito di porre in evidenza problemi di ben più grave spessore. La breve ricognizione eseguita ha dimostrato come alcuni istituti penalistici di parte generale (la causalità, la struttura del « tipo ») siano stati investiti da una marcata « deformalizzazione » (Entformalisierung) delle garanzie sostanziali e processuali proprie dello Stato di diritto (53). Con un singolare percorso interattivo, il diritto penale sembra così ambire a fronteggiare le sfere di rischio presenti nella moderna società capitalistica. Non è certo questa la sede per esprimere valutazioni definitive su questo processo. L’unica conclusione che si può trarre riguarda i cospicui costi che una simile trasformazione comporta sul terreno delle garanzie. Tutta da verificare — per contro — è l’efficacia preventiva del « nuovo » modello che emerge dalla giurisprudenza tedesca: l’aspirazione al « contenimento » e alla « minimizzazione » del rischio derivante dalle attività produttive sembra non potersi agevolmente armonizzare con l’inevitabile ruolo complementare che residua al diritto penale, la cui risposta sarà quasi sempre tardiva, destinata, cioè, a seguire più che a precedere la lesione di un bene giuridico (54). Di conseguenza, l’eventuale approfondimento del descritto processo di deformalizzazione e generalizzazione delle principali categorie penalistiche potrebbe assumere una valenza meramente « simbolica », che lascia intravvedere un esito in qualche misura paradossale: nella costellazione del danno da prodotto, il diritto penale potrebbe diventare esso stesso un incontrollabile fattore di rischio (55), finendo così col sommarsi ai « costi sociali » tipici della fenomenologia dannosa che pretende di contenere. CARLO PIERGALLINI Professore a contratto di Diritto penale dell’ambiente nell’Università di Macerata

(51) Così PALIERO, L’autunno del patriarca, cit., 1242. (52) Per una interessante tipicizzazione delle figure concorsuali: v. SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano, 1987. (53) Cfr. HASSEMER, Produktverantwortung, cit., 25. (54) Cfr. HASSEMER, Produktverantwortung, cit., 76. (55) Sull’argomento, v. SGUBBI, Il reato come rischio sociale, Bologna, 1990.


— 371 — CASSAZIONE — Sez. I — Ud. 4 febbraio 1994 (dep. 31 marzo 1994) Pres. Pirozzi — Rel. Sabatini — P.M. Fraticelli (concl. diff.) De Felice Parte civile — Legittimazione — Omicidio volontario — Legittimazione del convivente di fatto della vittima a costituirsi parte civile — Sussistenza — Condizioni (C.p. artt. 185, 575; C.p.p. artt. 74, 76; C.c. 2043). Agli effetti della legitimatio ad causam del soggetto, convivente di fatto della vittima dell’azione omicidiaria di un terzo, viene in considerazione non già il rapporto interno tra i conviventi, bensì l’aggressione che tale rapporto ha subito ad opera del terzo. Conseguentemente, mentre è giuridicamente irrilevante che il rapporto interno non sia disciplinato dalla legge, l’aggressione ad opera del terzo legittima il convivente a costituirsi parte civile, essendo questi leso nel proprio diritto di libertà, nascente direttamente dalla Costituzione, alla continuazione del rapporto, diritto assoluto, e tutelabile erga omnes, senza, perciò, interferenze da parte di terzi. Tuttavia, non ogni convivenza, anche soltanto occasionale, può ritenersi sufficiente a fondare un’azione risarcitoria, consistendo il danno patrimoniale risarcibile nel venir meno degli incrementi patrimoniali che il convivente di fatto era indotto ad attendersi dal protrarsi nel tempo del rapporto; esso in tanto può essere risarcito in quanto la convivenza abbia avuto un carattere di stabilità tale da far ragionevolmente ritenere che, ove non fosse intervenuta l’azione omicidiaria del terzo, la convivenza sarebbe continuata nel tempo (1). (Omissis). — Osserva la Corte che la questione della legittimazione, alla costituzione di parte civile, del convivente della vittima dell’azione di un terzo, omicidiaria o lesiva della integrità fisica — dolosa o colposa — ha dato luogo, in dottrina ed in giurisprudenza, in Italia e fuori d’Italia (vedasi, per la Francia, la sentenza in data 27 febbraio 1970 di quella Corte di Cassazione — in Foro it., 1970, IV, p. 140 — la quale ebbe a riconoscere il diritto al risarcimento del danno a favore del convivente more uxorio, se la convivenza non era delittuosa) a contrastanti soluzioni. In particolare, la giurisprudenza italiana, dopo aver riconosciuto, già sotto il vigore del c.c. del 1865 (Cass. Roma, 19 maggio 1917, Foro it., 1911, I, p. 798, la quale rilevò essere la convivenza ‘‘uno stato di fatto non dissimile da quello di una famiglia legittima e che niuno aveva il diritto di scompaginare’’) tale legittimazione, purché, tuttavia, si fosse trattato di convivenza fondata su matrimonio soltanto canonico (affermazione, quest’ultima, che parte della dottrina ha rilevato ispirata solo al favor Ecclesiae), successivamente, e già a partire dalla fine degli anni trenta, è pervenuta — non senza divergenze e perplessità, negli ultimi anni accentuatesi, soprattutto nelle sedi di merito — alla opposta conclusione. Alle tesi in contrasto, le quali rispettivamente ammettono e negano la costituzione, se ne aggiungono altre, per così dire intermedie: così, quella favorevole alla tutela dei soli diritti non patrimoniali e quella, singolarmente prospettata in dottrina (e non priva di qualche eco anche in giurisprudenza), la quale, muovendo dalla premessa della risarcibilità del danno conseguente alla lesione del credito, auspica un maggior ricorso, da parte dei conviventi, alla conclusione di apposite Riv. ital. dir. proc. penale 1/1996


— 372 — pattuizioni, che determinino qualità e quantità delle prestazioni, da ciascuno dovute. La soluzione radicalmente negativa muove dal rilievo che, essendo la condotta lesiva, disciplinata, in sede civile, dall’art 2043 c.c., e richiedendo detta norma il requisito della ingiustizia del danno, perché questo possa essere risarcito, ‘‘la morte di una persona (derivata da illecito) può essere fonte di risarcimento a favore di un terzo... solo se abbia provocato la lesione, non solo di un interesse, ma di un diritto, altresì, del terzo, collegato alla sopravvivenza della vittima; solo in tal caso, solo se l’illecito abbia provocato, con la morte di un soggetto, la lesione di un diritto di un altro soggetto, questi può agire per chiedere il risarcimento del danno, che da tale lesione gli sia derivato. Né ha rilievo la natura, patrimoniale o non patrimonuale, di tal danno, perché, comé è stato sostenuto da autorevole dottrina e, recentemente, è stato affermato da questa Corte Suprema (sez. III civ., 21 maggio 1976, n. 1345), il criterio discretivo per la risarcibilità o meno, anche del solo danno non patrimoniale, va individuato pur sempre nella ingiustizia di tal danno; sì che legittimati all’azione sono solo i prossimi congiunti, legati alla vittima da un vincolo non meramente affettivo, ma affettivo-giuridico’’ (così sez. IV, 21 settembre 1981, De Cherchi, in Riv. pen., 1982, p. 240). Con la conseguenza — prosegue la stessa sentenza — che ‘‘deve essere negato che la convivente more uxorio abbia diritto a risarcimento di danni, in caso di morte dell’uomo, con cui conviveva, perché tale pretesa non ha fondamento giuridico nella legge’’. Ritiene la Corte che, ferma la premessa, a ragione fondata sul requisito della ingiustizia del danno, di cui alla espressa previsione dell’art. 2043 c.c., la conclusione, alla quale la menzionata decisione ha ritenuto di pervenire, debba essere riconsiderata. È nota, anzitutto, la rilevante evoluzione verificatasi, negli ultimi decenni e sul piano del costume, nell’àmbito della famiglia, evoluzione legata alla trasformazione della società da agricola ad industriale, alle conseguenti tensioni e conflitti, al nuovo, più incisivo e più consapevole ruolo assunto dalla donna, non più paga di una posizione di marginalità o subalternità, e ciò anche per effetto dello svolgimento di attività lavorativa, al di fuori dell’àmbito strettamente familiare, in dimensioni qualitative e quantitative formalmente paritarie rispetto all’uomo, e, di fatto, tali tendenzialmente. A tale evoluzione hanno fatto seguito, ed in qualche misura l’hanno a loro volta favorita ed agevolata, i rilevanti mutamenti intervenuti sul piano strettamente giuridico: dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt. 559 e 560 c.c., che punivano rispettivamente l’adulterio ed il concubinato (sentenze 19 dicembre 1968, n. 126 e 3 dicembre 1969, n. 147 della Corte Costituzionale), all’introduzione del divorzio (L. 1o dicembre 1970, n. 898, modificata con L. 6 marzo 1987, n. 74, la quale, tra l’altro, ha ridotto a tre anni, a far tempo dalla comparizione dei coniugi dinanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale, il termine per la proponibilità della domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio), alla modifica del diritto di famiglia (L. 19 maggio 1975, n. 151), alle nuove disposizioni in tema di aborto (L. 22 maggio 1978, n. 194), all’accordo del 1984 — modificativo del Concordato del 1929 — tra Santa Sede e Repubblica Italiana (L. 25 marzo 1985, n. 121: riguardo alla quale è sorta questione se, per i matrimoni concordatari, permanga o meno la


— 373 — riserva di giurisdizione a favore dei tribunali ecclesiastici, come hanno rispettivamente affermato la Corte Costituzionale con sentenza 1o dicembre 1993, n. 421 e le Sezioni unite civili di questa Corte Suprema con sentenza del 13 febbraio 1993, n. 1824). È ben vero che, a parte sporadiche disposizioni (tra le altre, l’art. 317-bis, comma 2 c.c. stabilisce che, in caso di riconoscimento del figlio naturale da parte di entrambi i genitori, l’esercizio della potestà spetta loro congiuntamente, se conviventi; a sua volta, la Corte Costituzionale, con sentenza del 7 aprile 1988, n. 404, ha dichiarato illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 2 Cost., tra gli altri, l’art. 6, comma 1, L. 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui non prevede, tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio; vedasi anche Corte Cost., 20 dicembre 1989, n. 559), manca tuttora — nonostante le iniziative assunte in tal senso anche in sede parlamentare, e delle quali tuttavia da più parti si è contestata l’opportunità — un’organica disciplina legislativa della famiglia di fatto: disciplina che, in autorevoli sedi anche istituzionali, si è auspicato vedere allargata perfino a convivenze omosessuali, con proposta che ha peraltro suscitato vivaci dissensi. E tuttavia, ai fini in esame, tutto ciò assume un rilievo secondario, posto che, a tali fini, vengono in considerazioni non già il rapporto interno tra i conviventi, sibbene le aggressioni che esso subisca, dall’esterno, ad opera di terzi. Sotto tale aspetto, non può non osservarsi che, una volta cadute, per effetto delle citate sentenze costituzionali del 1968 e 1969, le conseguenze penali, previste dalla legge, la convivenza di fatto costituisce esercizio di un diritto di libertà, attribuito direttamente dalla Costituzione, e come tale di carattere assoluto e tutelabile erga omnes. Vengono, al riguardo, in considerazione gli artt. 2 (il quale stabilisce che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo anche nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità), 18 (il quale garantisce il diritto di associazione per fini non vietati dalla legge penale) e 29 (‘‘la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio’’) della Carta Costituzionale, dal cui combinato disposto si desume che, nonostante il rilievo preminente, che al matrimonio il legislatore costituzionale ha inteso conservare (donde la legittimità costituzionale dell’art. 649 n. 1 c.p., ancorché esso non preveda l’estensione della disciplina della non punibilità dei reati patrimoniali commessi in danno del coniuge non legalmente separato anche ai fatti commessi in danno del convivente more uxorio: Corte Cost., 7 aprile 1988, n. 423; basata sul favor matrimonii è anche la norma che ha come sopra ridotto il termine di proponibilità dell’azione per lo scioglimento o cessazione degli effetti civili del precedente matrimonio, al fine evidente di consentire a ciascun ex coniuge, una volta intervenuta la sentenza, di poter contrarre in tempi brevi nuovo matrimonio), anche la convivenza di fatto costituisce manifestazione di quella stessa libertà che, sul piano naturalistico, è alla base anche del matrimonio (libertà che, nella convivenza, ha anzi un rilievo maggiore, dal momento che esige il suo quotidiano rinnovarsi), e che nessuna norma costituzionale assegna, peraltro, carattere di esclusività al regime matrimoniale. Va al riguardo richiamata la sentenza del 18 dicembre 1987, n. 561 della Corte Costituzionale (Giur. it., 1988, I, 1, p. 1921) la quale rilevò che ‘‘essendo la sessualità uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, il diritto di disporne liberamente è senza dubbio un diritto


— 374 — soggettivo assoluto (come tale tutelabile erga omnes, come la stessa Corte aveva affermato già con sentenza del 9 luglio 1970, n. 122), che va compreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2 Cost. impone di garantire’’: affermazione, questa, che da un lato si ricollega alla interpretazione dei diritti inviolabili, quali enunciati nel citato art. 2, come ‘‘fattispecie aperta’’, in una visione giusnaturalistica della problematica, e che, dall’altro ben si presta, nella medesima prospettiva, a far ritenere soggetto danneggiato, nell’àmbito del rapporto di coppia, ordinaria manifestazione della sessualità, anche colui il quale, ancorché non direttamente colpito dall’altrui azione lesiva, da questa venga egualmente danneggiato nella sfera patrimoniale e/o morale. Talché, se, all’interno del rapporto di convivenza, ciascun convivente non ha diritto — in difetto di disposizioni normative in tal senso — alla continuazione del rapporto (la convivenza more uxorio è invero ‘‘fondata sulla affectio quotidiana — liberamente ed in ogni istante revocabile — di ciascuna delle parti’’, come ebbe efficacemente e sinteticamente ad osservare la Corte Costituzionale nella citata sentenza n. 423 del 1988), lo stesso convivente, in caso di attentati posti in essere da terzi — che, in caso di omicidio, interrompano perciò il rapporto — non può non considerarsi leso nel proprio diritto di libertà, e come tale avente diritto, ai sensi dell’art. 2043 c.c., al risarcimento del danno, perciò ingiusto, che abbia subito: danno che, nel caso in cui dalla convivenza siano nati figli, ed essi abbiano ancora diritto al mantenimento, è quanto meno corrispondente alla quota del contributo patrimoniale, che sarebbe stata a carico del convivente deceduto, e che tale evento trasferisce perciò al superstite. E proprio perché esercizio dello stesso diritto di libertà, non può — parimenti — non considerarsi titolare dello jus excludendi, agli effetti dell’art. 614 c.p. ed in assenza del titolare, anche il convivente di fatto: il cui domicilio non può essere indebitamente violato da terzi, tenuti, altrimenti anche al risarcimento dei danni che abbiano arrecato. Da quanto esposto emergono altresì i limiti entro i quali va riconosciuto il diritto al risarcimento del danno. Invero, non ogni e qualsivoglia convivenza, anche soltanto occasionale, può ritenersi sufficiente a fondare un’azione risarcitoria: consistendo, infatti, il danno patrimoniale risarcibile nel venir meno degli incrementi che il convivente di fatto era indotto ad attendersi dal protrarsi nel tempo del rapporto, invece interrotto per fatto del terzo in caso, come nella specie, di condotta omicidiaria, esso in tanto può essere effettivamente risarcito, in quanto la convivenza abbia avuto un carattere di stabilità tale, da far ragionevolmente ritenere che, ove tale condotta non fosse intervenuta, la convivenza sarebbe continuata nel tempo. Nella specie, deve ritenersi già accertata dai giudici di merito la stabilità del rapporto tra la Urrico ed il Pietracamela data la sua durata e la circostanza dell’avvenuta nascita di una figlia: legittimamente, pertanto, il Pietracamela si è costituito parte civile per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non, conseguenti alla uccisione della predetta, e ciò trattandosi di fatto potenzialmente produttivo di danno, e, come tale, suffciente a fondare una sentenza di mero accertamento, qual è la impugnata decisione nella parte in cui investe l’azione civile esercitata dal Pietracamela. Il relativo motivo di ricorso va pertanto respinto. — (Omissis).


— 375 — (1)

Sulla legittimazione del convivente di fatto a costituirsi parte civile in caso di omicidio.

1. La sentenza che si annota è in contrasto con l’orientamento dominante della Cassazione, di recente ribadito in numerose decisioni tanto da indurre a ritenerlo superato, che considera legittimati a costituirsi parte civile solo i prossimi congiunti, legati alla vittima da un vincolo non meramente affettivo ma affettivogiuridico, poiché fondato su reciproci diritti-doveri sanciti e tutelati dal nostro ordinamento, riconoscendo tale legittimazione a soggetti diversi dai prossimi congiunti nel solo caso che dimostrino che la vittima del reato fosse tenuta, per legge o per contratto, ad una qualsiasi prestazione di carattere economico nei loro confronti (1). Il tema della legittimazione alla costituzione di parte civile del convivente della vittima dell’azione di un terzo, omicidiaria o lesiva dell’integrità fisica, ha dato luogo in dottrina e in giurisprudenza, in Italia e all’estero (2), ad un ampio dibattito conclusosi per lo più in senso negativo. Si è passati, infatti, dall’affermazione della risarcibilità del danno soltanto a favore degli stretti parenti ‘‘che avrebbero potuto, in concreto e non in astratto, vantare nei confronti dell’ucciso, se fosse rimasto in vita, il diritto al mantenimento o un diritto alimentare’’ (3) o, comunque, di quei parenti che potessero nutrire legittime aspettative nell’ambito del nucleo familiare, all’affermazione della risarcibilità del danno ‘‘subito da qualsiasi parente od affine, indipendentemente dal grado di parentela o affinità e dalla sussistenza in concreto di un diritto alimentare o di mantenimento, quando lo stesso si traduca nella perdita di aspettative ragionevoli e concrete’’ (4). In tale ipotesi il danno potrebbe profilarsi come derivante non tanto dalle aspettative meramente aleatorie, quanto dalla rottura del vincolo familiare, dalla lesione cioè della persona, nel suo status attuale, alterato dall’omicidio del congiunto (5). Tale apertura della giurisprudenza ha spinto parte della dottrina a riconoscere rilevanza alla famiglia di fatto nella qualificazione di ‘‘congiunti’’, purché il familiare di fatto (e tra questi il convivente more uxorio) non intrattenesse una relazione tale da violare disposizioni punitive, imperative e inderogabili, a tutela della

(1) Vedi in tal senso Cass., sez. IV, 5 dicembre 1990, Cherchi; Cass., sez. IV, 8 luglio 1980, Fabbri, ivi, 1980, 849, m. 791; Cass., sez. IV, 21 settembre 1981, n. 8209; Assise di Roma, 24 ottobre 1984, in Foro it., 1986, Il, 621; Cass., sez. IV, 24 aprile 1987, in Cass. pen., 1988, 1927; Cass., 12 giugno 1987, in Riv. pen., 1988, 630; Cass., sez. IV, 27 agosto 1987, n. 9424, in Arch. giur. circ. sin. strad., 1988, 630; Cass. pen., sez. I, 7 luglio 1992, in Cass. pen., 1994, 1298; Corte d’Appello di Milano, 16 novembre 1993, in Foro it., 1994, I, 3212. In dottrina su questo argomento vedi: BRANCA, Morte di chi convive more uxorio e risarcimento, in Foro it., 1970, IV, 142; GERI, Perdita delle aspettative legittime e risarcimento per morte di un convivente da fatto illecito, in Resp. civ. e prev., 1967, 259; LUCCIOLI, Brevi note in tema di risarcimento del danno patrimoniale per morte di un congiunto, in Cass. pen., Mass. ann., 1981, 850; SBISÀ, Risarcimento dei danni in seguito a morte di un familiare di fatto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1965, 1254. ‘‘Nei confronti della semplice convivenza more uxorio... la giurisprudenza si è fatta guidare, più che da principi giuridici, da motivi etici. Infatti... si riscontrano nelle motivazioni considerazioni estranee alla ratio decidendi formalmente accolta e volte a mettere in luce che gli interessi fatti valere non sono meritevoli di tutela, perché collegati a situazioni da fatto riprovate dall’ordinamento giuridico’’. (2) A tale proposito la Corte riporta la sentenza 27 febbraio 1970 della Corte di Cassazione (in Foro it., 1970, IV, 140) che riconobbe il diritto al risarcimento del danno a favore del convivente more uxorio, se la convivenza non era delittuosa. (3) Vedi Cass., 11 febbraio 1946, n. 117; GERI, in Resp. civ. prev., 1967, p. 263. (4) Ibidem. (5) GERI, op. cit., in nota a Cass. civ., 16 febbraio 1966, n. 2951.


— 376 — famiglia legittima o della società e fosse tanto forte da far sorgere un ‘‘possesso di stato’’ (6). La giurisprudenza, tuttavia, rigetta le richieste risarcitorie sorrette da un’autorevole dottrina e da decisioni positive di organi giurisprudenziali europei (7). Una soluzione interessante, in conformità con un particolare indirizzo giurisprudenziale della nostra Corte di Cassazione, è offerta dalla tesi per cui sussiste ‘‘un dovere di assistenza reciproca tra i familiari di fatto, sostanzialmente analogo a quello esistente tra i coniugi, anche con la corresponsione di somme di danaro, quale adempimento di un’obbligazione naturale’’ (8). Secondo tale orientamento la convivenza di fatto diventa compatibile con il nostro ordinamento giuridico, pur non essendo ancora contemplata una normativa al riguardo. La Cassazione afferma, infatti, che sussiste un obbligo reciproco di assistenza tra i coniugi che costituisce un’obbligazione naturale e come tale garantita dalla soluti retentio (9). Ne deriva la possibilità di inquadrare la convivenza di fatto come ‘‘potenziale luogo di arricchimento della personalità, volto quindi a scopi socialmente utili e meritevoli di protezione (e sostanzialmente analoghi a quelli della famiglia fondata sul matrimonio) (10). Il tutto in coerenza con lo spirito della riforma del diritto di famiglia ex lege 19 maggio 1975, n. 151, con la quale alla prevalenza del vincolo formale del matrimonio, come fondamento esclusivo della famiglia, si è sostituito l’elemento della stabilità dei sentimenti e degli interessi che legano i membri della famiglia stessa’’. In una posizione intermedia si colloca la tesi favorevole alla tutela dei soli diritti non patrimoniali (11), nonché quella, prospettata da una dottrina isolata, che, partendo dal presupposto della risarcibilità del danno conseguente alla lesione di un diritto di credito, auspica un maggior ricorso da parte del convivente alla stipulazione di apposite pattuizioni che stabiliscano, di volta in volta, la qualità e la quantità delle prestazioni da ciascuno dovute. La soluzione radicalmente negativa muove dal rilievo che, essendo la condotta lesiva regolata, in sede civile, dall’art. 2043 c.c. e richiedendo tale norma l’elemento dell’ingiustizia del danno, la morte di una persona per omicidio o, più in generale, per fatto illecito, è fonte di risarcimento a favore di un terzo soltanto nel caso in cui il danno suddetto sia conseguente alla violazione di un diritto soggettivo, sia esso fondato sulla legge, sia su contratto, non ritenendosi suscettibile di

(6) GERI, op. cit.; SBISÀ, Risarcimento dei danni in seguito a morte di un familiare di fatto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1965, 1254; BRANCA, Morte di chi convive more uxorio e risarcimento, in Foro it., 1970, IV, 40. (7) Vedi Corte di Cass. di Francia, 27 febbraio 1970, in Foro it., 1970, IV, 140; Corte di Cass. di Francia, 19 giugno 1975, in Foro it., 1976, IV, 62, con cui si affermava: ‘‘Nel diritto francese, l’agente che abbia colposamente provocato la morte di una persona non può avvalersi del carattere di illiceità che connotava la convivenza di questo con altri, per esimersi dal risarcire il danno ai componenti della ‘famiglia naturale’ della vittima’’. (8) Vedi Cass., 15 gennaio 1969, n. 60, in Foro it., 1969, I, 1512; Cass., 8 febbraio 1977, n. 556, in Giur. it., 1980, I, 346. (9) DOGLIOTTI, in Giur. it., 1980, I, 351. (10) DOGLIOTTI, op. cit.. (11) Vedi Assise Genova, 24 ottobre 1984, in Foro it., 1986, II, 621, nota di ALBEGGIANI, secondo cui il convivente more uxorio della vittima di un omicidio non può chiedere in sede di costituzione di parte civile il risarcimento del danno patrimoniale perché il vincolo della convivenza, in quanto tale, non attribuisce nell’ordinamento vigente un diritto soggettivo a specifiche prestazioni a carattere patrimoniale; può invece chiedere il risarcimento del danno non patrimoniale, nel quale tale tipo di danno postula esclusivamente la lesione di una situazione giuridicamente protetta, e tale può considerarsi oggi la convivenza more uxorio, a causa dei molteplici effetti giuridici riconosciuti ad essa dall’ordinamento giuridico, Trib. Verona, 3 dicembre 1980, in Riv. pen., 1981, 127. Ancora recentemente vedi Corte d’Appello di Milano, 16 novembre 1993, in Foro it., 1994, I, 3212.


— 377 — ristoro il pregiudizio provocato dalla lesione di un mero interesse o anche di un interesse legittimo (12). Chi nutre un’aspirazione al risarcimento deve aver subito un danno immediato e diretto dall’azione del soggetto attivo del reato: ‘‘Non costituisce danno il pregiudizio economico del quale viene negato il risarcimento sotto tale formula, perché manca la lesione di interessi giuridicamente tutelati, ossia dell’asserito ‘diritto’ ’’ (13). Né ha rilievo la natura patrimoniale o meno di tale danno poiché, a tale proposito, un’autorevole dottrina nonché questa Corte Suprema (14), hanno affermato che il criterio discretivo per la risarcibilità o meno, anche del solo danno non patrimoniale, va individuata sempre nell’ingiustizia dello stesso; cosicché sono legittimati ad agire solo i prossimi congiunti legati alla vittima da un rapporto non meramente affettivo ma affettivo-giuridico (15). Con la conseguente esclusione della legitimatio ad causam del convivente di fatto della vittima della condotta illecita del terzo, ‘‘... non essendo sufficiente che chi ha agito fosse legato al defunto da un rapporto di amicizia, di affetto, di amore (e che avesse, quindi, un umano interesse a conservare le manifestazioni di tali reciproci sentimenti da parte del defunto) a legittimare l’azione per il pretium doloris, ma è necessario che il vincolo derivasse da un rapporto previsto e tutelato dall’ordinamento giuridico’’ (si pensi, a tale proposito, alle norme degli artt. 143, 147, 261, 315 c.c.). Ancora si sostiene (16) che la titolarità del diritto soggettivo al risarcimento dei danni conseguenti alla morte di un individuo è riconosciuta dall’ordinamento soltanto a coloro che erano legati a lui da un vincolo previsto e tutelato espressamente e specificamente dalla legge: si pensi, per esempio a quello di coniugio (art. 143 c.c.) o di filiazione (art. 147 c.c.) o di paternità (art. 261 c.c.). Al contrario, la convivenza, sia pure more uxorio, non è direttamente tutelata (17) perché tale situazione non corrisponde ad una di quelle che la legge considera produttive di diritto soggettivo (18). Infine si afferma che l’art. 29 della Costituzione tutela la famiglia fondata sul matrimonio. Soltanto questa ha le caratteristiche di certezza e di stabilità che la rendono meritevole di riconoscimento di particolari diritti; mentre la coabitazione e la stessa convivenza possono cessare in qualsiasi momento e anche unilateralmente. Di conseguenza, ogni altro aggregato, pur socialmente apprezzabile, e tuttavia diverso dal modello del rapporto coniugale, rimane estraneo al contenuto delle garanzie dell’ordinamento (19), salve diverse previsioni disciplinate in leggi speciali.

(12) Tali orientamenti rivelano una tenace e radicata ostilità verso la famiglia non consacrata dal matrimonio, ostilità conseguente a valutazioni etiche, religiose e sociali improntate ad uno spirito conservatore. (13) CORDERO, Procedura penale, Milano, Giuffrè, 1974. (14) Cass., sez. III, 21 maggio 1976, n. 1845, in Giust. civ., 1976, 1652. (15) Così Cass., sez. IV, 21 settembre 1981, De Cherchi, in Riv. pen., 1982, p. 240. (16) Cass., sez. IV, 21 settembre 1981, n. 8209, in Riv. pen., 1982, p. 240. (17) Vedi Cass., 5 dicembre 1980, n. 8209. (18) La Corte, dopo aver premesso che non si tratta di ‘‘difetto di legittimazione attiva, ma di mancanza di giuridico fondamento della pretesa avanzata’’ dalla convivente della vittima, precisa che ‘‘danno risarcibile è quello che si verifica per lesione di un diritto e, pertanto, chi pretende di essere risarcito del danno derivatogli dalla morte della persona con la quale conviveva e dalla quale riceveva mantenimento o altri vantaggi o prestazioni, ...deve anzitutto dimostrare il suo diritto alle prestazioni della persona che non è più, diritto che può discendere dalla legge, come può avere il suo titolo in una particolare convenzione. Ma non è chi non vede come nessuna delle predette due ipotesi possa ravvisarsi nel caso della convivenza more uxorio trattandosi di una situazione che, in se stessa, l’ordinamento giuridico non prende in considerazione; né, per ragioni di carattere etico, sociale e di ordine pubblico, delle quali, per contro, lo stesso ordinamento tiene conto, può formare, per se stessa, oggetto di convenzione’’. (19) Corte Cost., 18 novembre 1986, n. 237.


— 378 — Tutte le sentenze qui riportate si inseriscono nel solco di quell’orientamento giurisprudenziale che continua, in forza di una concezione astratta ed etico-sociale ormai superata, a privilegiare la famiglia legittima su quella di fatto. Ma la Corte, fermo restando il requisito essenziale dell’ingiustizia del danno, ha ritenuto di dover riconsiderare tale orientamento, dimostrando in tal modo di dar conto della rilevante evoluzione verificatasi negli ultimi decenni, anche sul piano dei costumi, nell’ambito della famiglia, evoluzione, dice la Corte, legata alla trasformazione della società da agricola ad industriale, alle conseguenti tensioni e conflitti, al nuovo, incisivo e più consapevole, ruolo assunto dalla donna che, non più paga di una posizione marginale e subalterna, anche grazie alla sua affermazione professionale, esce dall’ambito strettamente familiare, per entrare in dimensioni qualitative e quantitative almeno formalmente paritarie all’uomo. Tale evoluzione è stata accompagnata da numerosi interventi giurisprudenziali che hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 559 e 560 del codice civile che punivano rispettivamente l’adulterio e il concubinato (20), dall’introduzione del divorzio (L. 22 maggio 1970, n. 898, modificata dalla L. 6 marzo 1987, n.74), dalla modifica del diritto di famiglia (L. 19 maggio 1975, n. 151), dalle nuove disposizioni in tema di aborto (L. 22 maggio 1978, n. 194), dall’accordo del 1984, modificativo degli accordi tra Santa Sede e Repubblica Italiana (L. 25 marzo 1985, n. 121). Con specifico riguardo alla legge di riforma del diritto di famiglia, occorre osservare che l’art. 317-bis, il quale attribuisce ai genitori conviventi la potestà sul figlio naturale riconosciuto, rappresenta un’ipotesi di convivenza mora uxorio cui la legge riconosce effetti giuridici (21). Altrettanto si può dire per l’art. 433 che estende l’obbligo degli alimenti ai figli ed ai genitori naturali, nonché per l’art. 1188 secondo cui, se i genitori non hanno mezzi sufficienti per mantenere, istruire ed educare i figli, debbono provvedere economicamente gli ascendenti legittimi o naturali. Va precisato tuttavia che, a parte sporadiche disposizioni, la mancanza di una disciplina organica della famiglia di fatto, con conseguente vischiosità del sistema, ha cagionato per troppo tempo l’arroccamento su posizioni antiche, non più confacenti alla realtà sociale contemporanea. Contro tali tesi si è sostenuto (22), infatti, che la legge del 19 maggio 1975 sulla riforma del diritto di famiglia e quella del 1o dicembre 1970, n. 897 sulla disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, non prevedono alcun riconoscimento della famiglia di fatto che giovi ad attribuire ai soggetti conviventi ex lege, i diritti e gli obblighi dei coniugi. L’interpretazione sociologica, infine, fondata sull’evoluzione del costume e del modo di sentire, è possibile e necessaria per l’applicazione delle norme che si riferiscono a un giudizio di valore, non per quelle relative alla titolarità e all’esercizio del diritto di azione. Al contrario la sentenza che si annota, così come emerge dalla motivazione,

(20) Vedi le sentenze della Corte Cost., 19 dicembre 1968, n. 126 e 3 dicembre 1969, n. 147. (21) La Suprema Corte, con la sentenza 8 febbraio 1977, n. 556, in Foro it., 1977, I, 2268, ritenne che ‘‘la cosiddetta famiglia di fatto (costituita dalla convivenza di due persone non legate tra loro da vincolo matrimoniale, ed eventualmente da figli da essi procreati, e qualificata, nonostante l’assenza di siffatto vincolo, da connotati sostanzialmente tipici del rapporto matrimoniale), rimasta in passato fuori dall’area del diritto ed al limite della tutela giuridica, sembra aver acquistato rilevanza sul piano giuridico attraverso la statuizione dell’art. 317-bis, comma I, codice civile, introdotto con l’art. 139, L. 19 maggio 1975, n. 151, sulla Riforma del diritto di famiglia, il quale, attribuendo, nell’ipotesi di riconoscimento del figlio naturale da parte di due genitori conviventi, la potestà sul figlio ad entrambi i genitori, ha assunto per la prima volta la convivenza more uxorio a base di un rapporto giuridico avente un preciso contenuto personale e patrimoniale’’. Vedi anche Pret. Sampierdarena, 20 ottobre 1979, in Foro it., 1980, I, 1214. (22) Vedi Cass., sez. IV, 21 settembre 1981, n. 8209, in Riv. pen., 1981, 240.


— 379 — dimostra di aver sostanzialmente recepito nuovi criteri di valutazione, dando valore giuridico alle relazioni di fatto tra soggetti che, sebbene non legati da vincoli di parentela e di coniugio, rechino un apporto stabile alle esigenze del gruppo domestico. La moderna dottrina ha accantonato da tempo la posizione che relegava in una zona grigia, ai confini o addirittura nell’ambito dell’illecito in caso di relazione adulterina, le unioni prive del crisma della legalità, riconoscendo che, cadute le conseguenze penali previste dalla legge, la convivenza di fatto rappresenta un libero esercizio del diritto di libertà, conferito direttamente dalla Costituzione e pertanto di carattere assoluto e con efficacia erga omnes. A tale proposito assumono rilievo l’art. 2 della Costituzione che sancisce il dovere di solidarietà nelle formazioni sociali, l’art. 18 che garantisce il diritto di associarsi liberamente per fini non vietati dalla legge penale e l’art. 29 per il quale ‘‘la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio’’, dal cui combinato disposto si desume che, nonostante la posizione preminente che il nostro legislatore costituzionale ha riservato al matrimonio, anche la famiglia di fatto costituisce manifestazione di quella libertà che, sul piano naturalistico, è alla base anche del matrimonio. Anzi, sottolinea la Corte, tale libertà, nella convivenza di fatto, ha un rilievo maggiore perché esige il suo quotidiano rinnovarsi. A ragione viene sottolineata l’importanza della sentenza della Corte Costituzionale del 18 dicembre 1987, n. 561 (23), la quale precisò che ‘‘essendo la sessualità uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, il diritto di disporne liberamente è senza dubbio un diritto soggettivo assoluto (come tale tutelabile erga omnes) che va compreso tra le posizioni soggettive direttamente disciplinate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2 Cost. impone di garantire’’. Si tratta di una dichiarazione che, nell’ambito della materia della famiglia di fatto, ben si presta a far ritenere soggetto danneggiato, all’interno del rapporto di coppia, ordinaria manifestazione della sessualità, anche colui il quale, ancorché non direttamente colpito dall’altrui azione lesiva, da questa venga egualmente danneggiato nella sfera patrimoniale o morale. La nuova impostazione della problematica, ammonisce la Corte, non deve tuttavia perdere di vista i limiti all’interno dei quali va riconosciuto il diritto al risarcimento del danno. Infatti, l’azione risarcitoria non si può fondare su ogni e qualsivoglia convivenza, anche soltanto occasionale; il danno patrimoniale, in tanto può ritenersi effettivamente risarcito, in quanto la convivenza abbia un carattere di stabilità tale che, qualora non fosse intervenuto il fatto lesivo, essa sarebbe continuata nel tempo. Va attribuita rilevanza, pertanto, a tutte quelle relazioni che si concretino in apporti sostanziali alle esigenze del gruppo familiare a condizione, naturalmente, che tali rapporti siano connotati di serietà e continuità e non si risolvano, al contrario, in forme di contributo del tutto saltuarie e imprevedibili. Nell’ipotesi, invece, di una convivenza che non presenti suddetti caratteri di stabilità, apparendo provvisoria, aleatoria, di scarsa serietà e fondatezza, dovrà negarsi la risarcibilità del danno, poiché l’aspettativa che i benefici conseguiti durante tale breve periodo di convivenza si sarebbero protratti in futuro risulta incerta ed improbabile. In tale prospettiva viene a completarsi quel processo di sganciamento da una rigida gerarchia di valori economici e dunque giuridici, tanto auspicata dalla giuri-

(23)

In Giur. it. 1988, I, p 1921.


— 380 — sprudenza, ma nella pratica attuata solo in parte: l’art. 2043 c.c. finisce con l’assumere il carattere di clausola generale nei confronti di ogni posizione soggettiva comunque protetta dall’ordinamento e di garanzia di rispetto di tutte le condizioni necessarie affinché la stessa sia soddisfatta (24). Da tali considerazioni deriva che il giudizio sull’ingiustizia del danno deve fondarsi su parametri ricavabili dall’ordinamento giuridico complessivamente considerato, con riferimento cioè non solo alla lesione di diritti soggettivi, ma anche al pregiudizio arrecato a quelle differenti situazioni di vantaggio o di godimento di un bene, o di titolarità di un’aspettativa alle quali il sistema giuridico, in considerazione della loro peculiarità e del loro emergere come valori socialmente rilevanti, accorda protezione (25). Si tratta in ogni caso di un cammino da percorrere con estrema cautela al fine di evitare sia un incontrollato ampliamento della sfera dei diritti risarcibili, sia di una proliferazione eccessiva di soggetti legittimati a pretenderli, nel quale viene spesso posta la distinzione tra aspettativa semplice e quindi giuridicamente irrilevante e aspettativa legittima, rispetto ai principi costituzionali e ai principi fondamentali dell’ordinamento. È dunque compito dell’operatore di diritto compiere una scelta dei criteri di valutazione e selezionare gli interessi meritevoli di tutela nei vari settori. 2. L’orientamento della Corte deve essere inserito nell’ambito dell’ampio dibattito sul tema della risarcibilità della lesione di un diritto di credito, che ha costituito oggetto di approfondita evoluzione giurisprudenziale ed elaborazione dottrinale in sede civilistica (26). Al requisito della ‘‘ingiustizia’’ del danno e dunque alla possibilità risarcitoria, i giudici hanno dato in passato una interpretazione molto restrittiva. Si riteneva ingiusto solo il danno consistente nella lesione di un diritto assoluto, sia esso un diritto della personalità oppure diritto reale, o nella lesione di un diritto inerente a rapporti di famiglia (27). Con la sentenza della Cassazione a sezioni unite, n. 174 del 25 gennaio 1971, concernente l’ormai celebre caso ‘‘Meroni’’, la Cassazione sembra propendere anche per la lesione di diritti relativi ed in particolare di diritti di credito, dovendosi intendere ‘‘l’ingiustizia’’, quale elemento essenziale della fattispecie di responsabilità civile, ‘‘nella duplice accezione di danno prodotto non iure e contra ius: non iure, nel senso che il fatto produttivo del danno non debba essere altrimenti giustificato dall’ordinamento; contra ius, nel senso che il fatto debba ledere una situazione soggettiva riconosciuta e garantita dall’ordinamento giuridico nella forma di diritto soggettivo’’ (28), senza dare la possibilità di distinguere le due categorie di diritti, per garantire gli uni e negare agli altri la tutela aquiliana. Tale impostazione, pur dimostrando la sua portata innovativa e aprendo una

(24) LUCCIOLI, nota cit. (25) BUSNELLI, op. cit. (26) BUSNELLI, op. cit.; DE CUPIS, Il danno - Teoria generale della responsabilità civile, vol. I, 1966; MAIORCA, voce Colpa civile (Teoria generale), in Enc. dir., vol. VII, p 534; NATOLI, La proprietà, 1976, p. 25; RODOTÀ, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964; TRIMARCHI, Istituzioni di diritto privato, 1977, p. 131. In senso contrario vedi SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, 1977, p. 81. (27) Si pensi, a tale proposito alla sentenza pronunciata, alla fine degli anni Quaranta, in occasione della caduta di un aereo sul colle di Superga che determinò la morte di tutti i componenti della squadra del Torino. La società calcistica non ottenne il risarcimento del danno preteso nei confronti della compagnia aerea, poiché le si oppose che il diritto, del quale lamentava la lesione, era un diritto relativo, non già assoluto. Vedi Trib. Torino, 19 settembre 1950, in Foro it., 1950, I, 1231; App. Torino, 23 gennaio 1952, ivi, 1952, I, 219; Cass., 3 luglio 1953, n. 2085, ivi, 1953, 1, 1087 e in Giur. it., 1953, I, 1, 828. (28) In Giust. civ., 1971, I, 199, nota di SANTUOSOSSO; Foro it., 1971, Il, 342, 1284, nota di JEMOLO e BUSNELLI; Dir. lav., 1972, II, 77, nota di NICOLINI; Riv. circol. trasp., 1972, 410, nota di ROVELLI;


— 381 — breccia nella tesi tradizionale della risarcibilità della lesione dei soli diritti assoluti, rivelò ben presto i suoi limiti, derivanti dalla sua impostazione prettamente formale e privatistica: l’elemento del diritto soggettivo divenne infatti assolutamente inadeguato a costituire il fondamento della responsabilità aquiliana rispetto a circostanze sempre nuove e mutevoli, considerate rilevanti dalla coscienza sociale (29). La celebre pronuncia, infatti, nell’affermare che la posizione del congiunto merita tutela ‘‘nella misura in cui il pregiudizio patrimoniale lamentato, pur tenuto conto della sua normale proiezione nel futuro e del criterio di probabilità che essa implica, sia, tuttavia, riconducibile alla lesione di un diritto, sia esso quello agli alimenti ovvero quello, di contenuto più ampio, al mantenimento’’, implica in ogni caso la necessità della lesione di un diritto soggettivo, dimostrando un arretramento rispetto al filone giurisprudenziale innanzi ricordato. La giurisprudenza successiva si è data immediato carico di tale restrizione della tutela, superando la coincidenza tra responsabilità extracontrattuale e la lesione di un diritto soggettivo, nonché riconoscendo uno spazio di risarcibilità alla lesione di interessi altamente protetti (30). Si è così continuato a considerare risarcibile il danno subito dai genitori nell’eventuale perdita del contributo personale del minore ad un’attività di tipo esclusivamente o prevalentemente familiare (31), sulla base che detta risarcibilità deriva dall’accertamento che i congiunti ‘‘siano stati privati di utilità economiche di cui già beneficiavano e di cui, presumibilmente, avrebbero continuato a fruire in futuro’’ (32). Secondo tale orientamento rilevano tutte quelle relazioni che si concretino in apporti stabili, fondamentali per le esigenze ed i bisogni del nucleo familiare sempre che detti apporti si distinguano per serietà e continuità. Con riguardo alla sentenza che si esamina, è opportuno ricordare alcuni interventi giurisprudenziali della Cassazione che, con l’obbiettivo di risolvere in modo equo il conflitto sorto per l’improvvisa scomparsa di un componente del gruppo familiare, aveva ammesso la risarcibilità del danno derivante dalla morte di un congiunto per il venir meno di un’aspettativa di prestazioni future, indipendentemente dalla sussistenza o meno di un obbligo alimentare o di un contratto (33). Ancora è opportuno rilevare che, con riguardo alla lesione di interessi diffusi, una rilevantissima giurisprudenza, fiorita intorno agli anni Settanta, introdusse nel processo penale comunità intermedie di ogni tipo, dal sindacato al partito, al comitato di quartiere, alle associazioni femministe, sintomi tutti del disagio di circoscrivere la risarcibilità del danno nell’ambito della lesione del diritto e ‘‘di un ripensamento in atto della responsabilità aquiliana, volto ad ancorare il concetto di ingiustizia del danno ad un parametro più ampio e pregnante’’ (34). È proprio a questo riguardo che la dottrina ha evidenziato la crisi della nozione di diritto soggettivo, provocata dalla nuova concezione del diritto come fat-

Assicurazioni, 1971, II, 242, nota di BERNARDINI; Giur. it., 1971, II, I, 679, nota di VISENTINI; Arch. resp. civ., 1972, 495, nota di BERNARDINI. (29) BUSNELLI, Un clamoroso revirement della Cassazione dalla questione di Superga al caso Meroni, in Foro it., 1971, I, c. 1286. (30) LUCCIOLI, nota cit. (31) Vedi Cass., 13 giugno 1977, n. 2449, in Giust. civ., 1977, I, p. 167. (32) Vedi Cass., 23 maggio 1975, n. 2063, in Giust. civ. Mass., 1975, 946. (33) Vedi Cass., 10 dicembre 1969, n. 3929, Giust. civ. Mass., 1969, 1972; Cass., 29 marzo 1969, n. 1035, ivi, 1969, 523; Cass., 14 marzo 1969, n. 814, ivi, 1969, 412; Cass., 28 novembre 1968, n. 3842, ivi, 1968, 3842; Cass., 15 dicembre 1966, n. 2951, Giust. civ., 1967, I, 115, nota di GERI; Cass., 7 ottobre 1966, n. 2412, ivi Mass., 1966, 1387. (34) LUCCIOLI, op.cit.


— 382 — tore istituzionale di un mutato assetto sociale, evidenziando la diversa nozione di ‘‘situazione giuridica soggettiva’’, come qualsiasi interesse che trovi rilevanza nell’ordinamento giuridico (35). D’altra parte è interessante analizzare il revirement giurisprudenziale in ordine alla materia della responsabilità civile che identifica il principio del neminem laedere con il dovere di solidarietà sociale sancito dalla Costituzione all’art. 2, grazie al quale, proprio sulla scorta della Carta Costituzionale, si supera l’impostazione prettamente privatistica dell’istituto sostituendola con la creazione di un ‘‘sistema di risarcimento’’ che vede le questioni più rilevanti non nella qualificazione delle posizioni soggettive del danneggiato, ma nei problemi sociali riguardanti la natura dei danni da risarcire e dei costi politici da valutare (36). L’art. 2043 c.c. viene in tal modo a perdere l’aspetto di norma di sintesi dei doveri specifici già contenuti nelle singole disposizioni di illecito, per acquistare il valore di principio che stabilisce il dovere di solidarietà dei cittadini in qualità di membri (37). Nasce dunque un sistema aperto di responsabilità che privilegia gli aspetti di atipicità dell’illecito. Da ciò deriva che l’equazione ingiustizia del danno = lesione di un diritto soggettivo è e deve essere in ogni modo superata. L’ambito degli interessi giuridici rilevanti si espande e la tutela aquiliana viene estesa ad interessi che esulano dall’area tradizionale: l’atto è illecito in senso extragiudiziale quando viola i doveri generali di correttezza che rappresentano il fondamento minimo per una serena convivenza sociale. È in questo senso che si pone la sentenza della Cass., sez. III, del 24 ottobre 1978 (38), la quale ha abbandonato la tesi tradizionale che individuava il diritto soggettivo come fondamento della responsabilità aquiliana: da qui l’art. 185 c.p., richiamando genericamente le leggi civili, non ha posto una fonte di obbligazione extracontrattuale diversa né scollegata dalla normativa civilistica, ma è proprio ad essa che si è riferita tutelando anche, nel caso del fatto del terzo, situazioni atipiche non ascrivibili alla categoria dei diritti soggettivi. Nello stesso senso si pone la recente sentenza, sez. III, del 25 luglio 1981, n. 4137 (39) che, sostenendo che il raggiungimento della maggiore età da parte dei figli o dell’idoneità all’attività produttiva non costituisce un limite invalicabile alla risarcibilità del danno cagionato dalla morte del genitore, ha riconosciuto la tutela anche dell’aspettativa a beneficiare di risparmi eventuali che la vittima avrebbe creato, accantonandoli da redditi professionali. La questione della legitimatio o meno del convivente deve pertanto trovare una soluzione affermativa, alla stregua dei criteri che legittimano la costituzione di parte civile e dei principi generali del nostro ordinamento giuridico alla luce delle nuove tendenze evolutive. La Repubblica ‘‘riconosce’’, infatti, ‘‘i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio’’. Dal fatto che il legislatore qualifichi la famiglia come ‘‘società naturale’’ prima che come ‘‘fondata sul matrimonio’’ deriva che per la nostra Costituzione i rapporti che rientrano nel concetto di ‘‘famiglia’’ assumono rilievo e richiedono tutela da parte dell’ordinamento per il loro esistere di

(35) Vedi ALPA e BESSONE, Atipicità dell’illecito, 1980, p. 68 ss. (36) Vedi ALPA e BESSONE, op. cit., 438 ss. (37) RODOTÀ, Il problema della responsabilità civile, 1967, pag. 84 e ss.; contra vedi DE CUPIS, Problemi e tendenze attuali nella responsabilità civile, in Riv. dir. comm., 1971, 97 ss. (38) In Giust. pen., 1980, III, 14. (39) In Giust civ., 1980, 2213, nota di ALPA.


— 383 — fatto prima che per effetto delle sanzioni previste per essi attraverso gli istituti a ciò previsti, primo fra i quali il matrimonio. Su questa linea sembra essersi mosso il legislatore con la recente riforma del diritto di famiglia, equiparando quasi totalmente, a quasi tutti gli effetti, i figli naturali ai figli legittimi. Il nostro ordinamento, dunque, nel campo della famiglia tende a riconoscere e a tutelare la sostanza e l’effettività dei rapporti indipendentemente dalla veste giuridico-legale che essi assumono, privilegiando talvolta la realtà naturale su quella legalmente sanzionata. Alla luce delle considerazioni fatte deriva che la convivenza more uxorio, dando luogo, soprattutto nel caso in cui dall’unione nascano dei figli, ad una vera e propria famiglia di fatto, e rappresentando un fenomeno sempre più diffuso nella società odierna, non possa essere ignorata e restare priva di conseguenze sul piano del diritto. Dott.ssa FRANCESCA PEYRON


DOTTRINA

IL « GIUDICE NATURALE » E LA SUA INDIVIDUAZIONE PER IL CASO CONCRETO (*) OSSERVAZIONI COMPARATISTICHE E RIFLESSIONI DI POLITICA DEL DIRITTO SULLA RIPARTIZIONE DELLE CAUSE ALL’INTERNO DEGLI ORGANI GIUDIZIARI (**)

I.

Origini storico-giuridiche e fondamenti costituzionali

1. Il principio del giudice naturale, così come si trova incarnato nelle due stringate frasi dell’art. 101 comma 1 della Costituzione Tedesca [« Grundgesetz », qui di seguito abbreviata come GG] « Non sono ammissibili organi giudiziari straordinari. Nessuno può essere sottratto al suo giudice naturale » (1), non risulta nell’attuale ordinamento giudiziario e (*) Traduzione, approvata dall’Autore, a cura di ELEONORA SANTINI. (**) Questo lavoro, pubblicato in Germania in Festschrift für Hannskarl Salger, Carl Heymanns Verlag KG, 1994, deve la propria origine ad uno stimolo di HANNSKARL SALGER: come Presidente del Kuratorium del Max - Planck - Institut für ausländisches und internationales Strafrecht di Friburgo egli aveva più volte richiamato l’attenzione su tale questione: in quale modo e per decisione di chi un giudice viene chiamato a partecipare ad una determinata decisione; e aveva manifestato uno spiccato interesse per le relative esperienze di altri paesi. Offrire una simile comparazione in maniera più solida e soprattutto più attenta anche alle esperienze pratiche presupporrebbe naturalmente un lavoro preparatorio più ampio di quello che è possibile in un breve tempo. Tuttavia già alcune osservazioni comparatistiche finalizzate a una discussione di politica del diritto, che possono essere utili anche con riguardo alle attuali controversie ai più alti livelli giudiziari, possono pur sempre dare una prima idea sul modo in cui questa problematica è trattata all’estero. In questo interesse io spero soprattutto da parte di HANNSKARL SALGER, al quale questo lavoro è dedicato in occasione del suo sessantacinquesimo compleanno, e al quale sono profondamente grato per la sua pluriennale impegnata collaborazione nel Kuratorium del nostro Istituto. — Al Signor NORBERT VOSSLER, uditore giudiziario, sono particolarmente obbligato per la raccolta del materiale e per la stesura di un primo abbozzo del lavoro. Nota del traduttore. Il lavoro tratta del « gesetzlicher Richter », che si è scelto di tradurre come « giudice naturale »: l’aggettivo « gesetzlich » significa, letteralmente, « legale », e lo si sarebbe potuto anche tradurre come « stabilito dalla legge », o « stabilito per legge », o « determinato dalla legge ». Si è ritenuto, tuttavia, con piccolo atto di arbitrio, di impiegare l’aggettivo « naturale », in conformità ad una qualificazione per noi tradizionale. (1) Il divieto di organi giudiziari straordinari contenuto nella prima frase della disposizione configura, considerato dal punto di vista sistematico, solo un’ipotesi particolare,


— 386 — processuale sopravvalutato nel suo significato. Come elemento classico dei principi dello stato di diritto e dei diritti fondamentali nell’amministrazione della giustizia (2), il « giudice naturale » ha conosciuto, in un processo giurisprudenziale non ancora concluso, in particolare da parte del Bundesverfassungsgericht, uno sviluppo talmente esteso ed intenso, che — come già osservato da BETTERMANN nel 1969 tra i lamenti degli uffici giudiziari e delle amministrazioni dei servizi giudiziari — difficilmente i padri della Costituzione se ne sarebbero potuti fare un’idea (3). Le discussioni che ne vengono hanno trovato per ora il loro culmine in una controversia insorta negli ultimi tempi — anche al di fuori del campo specialistico giuridico (4) — circa la ripartizione delle cause all’interno delle sezioni (5) presso le corti superiori della federazione (6), e in una conseguente decisione della X sezione civile (7) di sottoporre la questione alle Sezioni Riunite del Bundesgerichtshof (8). Prima, tuttavia, di occuparsi di tale controversa questione, appare opespressamente posta in rilievo per ragioni storiche, del divieto di sottrazione al proprio giudice contenuto nella seconda frase: cfr. MAUNZ/DÜRIG, Kommentar zum Grundgesetz, Loseblattsammlung, Stand 1993, Art. 101, n. 4; SCHMIDT - BLEIBTREU/KLEIN, Kommentar zum Grundgesetz, VII ediz., 1990, Art. 101, n. 2. (2) Così BETTERMANN, Der gesetzliche Richter in der Rechtsprechung des Bundesverfassungsgerichts, AöR (1969), p. 263-312, spec. p. 263. (3) BETTERMANN (cit. nota 2), p. 263. Analogamente critici: BOHLMANN, Der « gesetzliche Richter » in der Praxis, DRIZ 1965, p. 149-152, spec. p. 149; BRUNS, Zur Auslegung des Art. 101 Abs. 1 Satz 2 GG, NJW, 1964, p. 1884-1888, spec. p. 1887 s.; DINSLAGE, Zur « Überbesetzung » der Gerichte - Perfektionismus oder Praktikabilität? DRIZ, 1965, p. 1215, spec. p. 14 s. (4) Cfr. soltanto: KERSCHER, Gesucht: der gesetzliche Richter am BGH, Süddeutsche Zeitung, 1992, n. 83 dell’8 aprile 1992, p. 12; Der Spiegel, Vertrauen ist besser, 1992, n. 15, p. 57-62; WASSERMANN, Die obersten Gerichte und die Einteilung ihrer Richter, Die Welt, 1992, n. 94 del 22 aprile 1992, p. 2. (5) Nota del traduttore. Con il termine « sezione », ad indicare le suddivisioni all’interno degli organi giudiziari, si è scelto di tradurre il vocabolo tedesco « Senat ». (6) Cfr. in proposito, esemplarmente, nella sterminata messe dei contributi apparsi su questa tematica: FELIX, Materiell fehlerhafter Geschäftsverteilungsplan des Bundesfinanzhofs?, BB, 1991, p. 2193-2194; ID., Der gesetzliche Beschluß-Richter des Bundesfinanzhofs, BB, 1991, p. 2413-2418; ID., Der gesetzliche Richter in der Praxis des Bundesfinanzhofs, BB, 1992, p. 1001-1008; ID., Der gesetzliche Urteils-Richter des Bundesfinanzhofs, NJW, 1992, p. 217-219; ID., Die Strafsenate des BGH und der gesetzliche Richter, NJW, 1992, p. 1607-1608; KATHOLNIGG, Zur Geschäftsverteilung bei obersten Gerichtshöfen des Bundes und innerhalb ihrer Senate, NJW, 1992, p. 2256-2260; KISSEL, Gerichtsverfassungsgesetz, II ediz., 1994, § 21g, n. 4; QUACK, Geschäftsverteilungspläne und gesetzlicher Richter, BB, 1992, p. 1; WIEBEL, Die senatsinterne Geschäftsverteilung beim Bundesgerichtshof (Zivilsenate), BB, 1992, p. 573. (7) BGH NJW 1993, 1596, con nota FELIX, ZIP, 1993, p. 617-619. (8) Sulla decisione delle Sezioni Riunite del Bundesgerichtshof del 5 maggio 1994 (VGS 1-4/93, NJW, 1994, 1735), emanata dopo la consegna del manoscritto, si può qui dar conto purtroppo solo sommariamente: cfr. infra, II.4 (ultimo periodo) e IV.2 (ultimo periodo).


— 387 — portuna una riflessione retrospettiva sull’origine e gli sfondi di questo principio costituzionale sulla giurisdizione. L’attuale art. 101 comma 1 GG notoriamente riproduce pressoché letteralmente l’art. 105 della Costituzione di Weimar (9), la quale a sua volta lo aveva ripreso alla lettera dal § 16 della legge sull’ordinamento giudiziario in vigore dal 1879. Ma lo sviluppo si lascia ricostruire ancora più lontano, vale a dire dall’art. X § 175 comma 2 della Frankfurter Paulskirchenverfassung del 1848, fino agli inizi del Diciannovesimo secolo, quando, sulla base del modello della Costituzione francese del 1791 (10), analoghe disposizioni vennero inserite nelle Costituzioni della maggior parte dei singoli stati tedeschi (11). Dal punto di vista della storia delle idee, il principio del giudice naturale, inteso come tratto caratteristico della giustizia nello stato di diritto (12), costituisce un risultato della contrapposizione del liberalismo alla « Kabinettsjustiz » propria dell’assolutismo (13). Non stupisce, perciò, che in origine la finalità di questo principio sia stata vista unicamente nella protezione del potere giurisdizionale contro influenze estranee da parte dell’Esecutivo (14). Tuttavia esso non rimase in questa prospettiva unilaterale; poiché dal momento in cui fu garantito nella Costituzione di Weimar, al principio del giudice naturale venne riconosciuta efficacia anche nei confronti del potere legislativo (15): il legislatore dunque deve assicurare, tramite la posizione di opportune norme, che per ogni singolo caso sia predeterminato

(9) Là si diceva, senza un’evidente reale differenza, per quanto riguarda i giudici straordinari, che sono « vietati » (« unstatthaft ») anziché « inammissibili » (« unzulässig »: così nell’odierna Costituzione); cfr. MAUNZ/DÜRIG (cit. nota 1), Art. 101, n. 1. Di fondamentale importanza sullo sviluppo del principio dal punto di vista storico-giuridico, KERN, Der gesetzliche Richter, 1927 p. 54 ss. (10) La quale così recitava: « Les citoyens ne peuvent être distraits des juges que la loi leur assigne par aucune commission ni par d’autres attributions et évocations que celles qui sont determinées à la loi ». (11) KERN (cit. nota 9), p. 114 ss. (12) Cfr. E. SCHMIDT, Lehrkommentar zur StPO und zum GVG, parte I, II ediz., 1964, n. 560 a. (13) KERN (cit. nota 9), p. 111 ss.; MAUNZ/DÜRIG (cit. nota 1), Art. 101, n. 1; SCHMIDT (cit. nota 12), n. 560a; cfr. tuttavia anche OEHLER, Der gesetzliche Richter und die Zuständigkeit in Strafsachen, ZStW 64 (1952), p. 292-305, spec. p. 297 ss., che ritiene si possano far risalire le origini del principio fino al diritto romano e germanico. (14) KERN (cit. nota 9), p. 149 ss.; MAUNZ/DÜRIG (cit. nota 1), Art. 101, n. 1; RINCK, Gesetzlicher Richter, Ausnahmegericht und Willkürverbot, NJW, 1964, p. 1649-1653, spec. p. 1649. (15) BVerfGE 19, 52, 59s; 40, 356, 360s; ANSCHÜTZ, WeimRV, XIV ediz., 1933, Art. 105, annotaz. 1; KUNIG, in VON MÜNCH, Grundgesetz-Kommentar, vol. III, II ediz., 1983, Art. 101, n. 1; WOLF, Gerichtsverfassungsrecht, VI ediz., 1987, p. 73.


— 388 — quale organo giudiziario, quale collegio giudicante e quale giudice vengono chiamati a decidere nel caso concreto (16). Ma anche nei confronti e all’interno del potere giudiziario stesso il principio del giudice naturale iniziò a spiegare efficacia (17); in quanto, ove inteso come diritto fondamentale (18) o comunque come diritto similare ai diritti fondamentali (19), il diritto soggettivo dell’individuo che ne consegue deve essere tutelato nei confronti di ogni tipo di atti del potere pubblico, e dunque anche nei confronti di pregiudizi derivanti da provvedimenti giudiziari (20). Parallelamente a questa estensione dell’ambito dei destinatari, si ebbe anche un’intensificazione dal punto di vista del contenuto dell’efficacia connessa al principio del giudice naturale. Secondo la giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht, la garanzia del giudice naturale non si limita, cioè, alla garanzia formale che il giudice competente per il caso singolo risulti da una legge astratta e generale; ma anzi, questo principio comprende anche le caratteristiche materiali dell’attività giudiziale connesse alla figura del giudice come disegnata dalla Costituzione, e in particolare la sua indipendenza e imparzialità (art. 97 GG) (21). Questo ampliamento dell’area di tutela dell’art. 101 GG al di là del mero punto di vista della competenza incontra tuttavia in dottrina non soltanto consensi (22), ma anche da qualche parte veementi critiche (23) (24). Non ci si può tuttavia in questa sede occupare ulteriormente delle componenti materiali del principio del giudice naturale (25). (16) BVerfGE 3, 359, 364; 29, 45, 48; 40, 356, 360s; KERN (cit. nota 9), p. 191. (17) Cfr. BVerfGE 3, 359, 364; 29, 45, 48; 40, 356, 360s; MAUNZ/DÜRIG (cit. nota 1), Art. 101, n. 42; SCHMIDT-BLEIBTREU/KLEIN (cit. nota 1), art. 101, n. 11; WOLF (cit. nota 15), p. 73; di diversa opinione ancora, ove si abbia riguardo alla stessa corte giudicante, BGHZ 6, 178, 182. (18) Così ARNDT, Rechtsprechende Gewalt und Strafkompetenz, in Festschrift für C. Schmid, 1962, p. 5 ss.; HAMAN/LENZ, Grundgesetz, III ediz., 1970, Art. 101, annotaz. A4. (19) MAUNZ/DÜRIG (cit. nota 1), Art. 101, n. 6; STERN, Das Staatsrecht der BRD, vol. II, 1980, p. 916. (20) WOLF (cit. nota 15), p. 73; SCHILKEN, Gerichtsverfassungsrecht, II ediz., 1994, n. 281. (21) BVerfGE 10, 200, 213; 21, 139, 145; 27, 312, 319. (22) ARNDT (cit. nota 18), p. 5 ss.; MAUNZ/DÜRIG (cit. nota 1), Art. 101, n. 13; TRÄGER, Der gesetzliche Richter, in Festschrift für Zeidler, 1987, p. 123-145, spec. 125 s. (23) BETTERMANN (cit. nota 2), p. 264 ss.; HENKEL, Der gesetzliche Richter, Diss., 1968, p. 12, 164 ss.; WIPFELDER, Die Rechtsprechung des BVerfGE zu Art. 101 Abs. 1 Satz 2 GG, VBIBW, 1982, p. 33-43, spec. p. 41. (24) Questa controversia riveste particolare significato per l’ammissibilità dei ricorsi di costituzionalità, in quanto l’art. 93 comma 1 n. 4a GG dichiara soggetti a ricorso, fra le disposizioni che riguardano la giurisdizione, solo gli artt. 19 comma 4, 101, 103, 104, ma non, ad esempio, l’art. 97 GG; cfr. BETTERMANN (cit. nota 2), p. 264. (25) Cfr. in proposito — fra gli altri — specialmente TRÄGER (cit. nota 22), p. 126 ss.; WOLF (cit. nota 15), p. 71 s.


— 389 — Piuttosto, le considerazioni che seguono devono concentrarsi — non da ultimo per la sua particolare attualità — sull’esigenza di carattere formale che il giudice competente per il caso singolo risulti da norme astratte e generali, le quali da parte loro debbono fondarsi su di una legge formale. In relazione a ciò si deve soprattutto approfondire la questione sollevata in principio, se le severe esigenze, così come vengono poste da una parte della giurisprudenza e della dottrina, circa la determinatezza di simili norme — e in particolare per quanto riguarda la assegnazione delle cause all’interno dei collegi giudicanti — siano veramente da dedursi come cogenti dall’art. 101 GG o forse non appaiano esagerate. La questione deve essere esaminata in tre passi: innanzitutto appare opportuno un sintetico sguardo sull’elaborazione del principio del giudice naturale nel vigente diritto tedesco (II). Poi si dovrà dare uno sguardo d’insieme alla applicazione di questo istituto giuridico negli ordinamenti esteri (III). In un panorama riassuntivo si dovrà infine considerare la questione al fine di trarne conclusioni di politica del diritto (IV). II.

Caratteristiche fondamentali del « giudice naturale » nel diritto tedesco

1.

Esigenze della formale predeterminazione del giudice competente.

Vi è comunque accordo sul fatto che il giudice naturale trova la propria concretizzazione attraverso le regole legali di competenza in connessione con i programmi di ripartizione delle cause formati presso le corti (26). Poiché sotto il nome di « giudice naturale » si intende il singolo titolare dell’ufficio, che decide, da solo o con altri, in una causa concreta, questo giudice singolo — e non solo l’autorità giudiziaria o il collegio giudicante — deve, in linea di principio attraverso una legge formale (27), essere predeterminato quanto più possibile univocamente fin dall’inizio per tutte le cause che possono sopravvenire (28). Se anche questa conclusione non si ricava espressamente dal testo dell’art. 101 comma 1 seconda frase GG, discende comunque plausibilmente dalla considerazione che timori di manipolazioni possono sussistere proprio nei confronti della concreta persona di un giudice, soprattutto quando eventualmente si sappia (26) Cfr. WOLF (cit. nota 15), p. 59. (27) Sulla determinazione della competenza per mezzo di programmi di ripartizione delle cause, cfr. infra, II.3. (28) BVerfGE, 17, 294, 298 s.; 40, 352, 360 s.; SCHÄFER, in Löwe/Rosenberg, XXIV ediz., 1990, § 16 GVG, n. 11; WOLF, in Münchener Kommentar zur ZPO, 1992, § 16 GVG, n. 20; KISSEL (cit. nota 6), § 16 GVG, n. 10.


— 390 — che questi sostiene determinati punti di vista (29). Al fine di prevenire efficacemente ciò, il precetto del giudice naturale esige un ordinamento di competenze standardizzato, che inizia dalla determinazione della via giudiziaria, della competenza per territorio e per materia, proseguendo con la ripartizione delle cause presso l’autorità giudiziaria di volta in volta competente, fino, da ultimo, alla determinazione delle attribuzioni del singolo giudice all’interno di un collegio giudicante (30). Se si prende sul serio l’esclusione dell’arbitrio individuale, appare in linea di principio necessaria, in relazione a tutti e tre i livelli di competenza, una sistemazione astratta e generale delle competenze, che si fondi su una legge formale, dalla quale consegua per così dire « ciecamente » il giudice chiamato a decidere nel caso concreto (31). È tuttavia problematico se quella predeterminazione astratta e generale si applichi con estremo rigore, o se piuttosto, sulla base di considerazioni pratiche, come anche a salvaguardia di altre equilibrate esigenze dello stato di diritto, non siano inevitabili certe limitazioni. Anche il Bundesverfassungsgericht non ha potuto chiudere gli occhi davanti a questa necessità (32); poiché non soltanto non tutti i provvedimenti che possono incidere sulla competenza di un giudice sono suscettibili di regolazione astratta e generale attraverso legge formale (33), ma, anzi, possono opporsi ad una rigida determinazione formale della competenza anche ragioni di giustizia sostanziale o di funzionalità e di efficacia dell’amministrazione della giustizia. Perciò il Bundesverfassungsgericht ritiene già sufficientemente soddisfatto il precetto dell’art. 101 GG quando il giudice competente nel caso singolo risulta da una norma generale « nel modo più chiaro possibile » (34). 2.

Competenza per territorio e per materia.

Dunque, casi in cui è ammesso un alleggerimento della rigorosa predeterminazione formale del giudice di volta in volta competente sono normativamente previsti per le corti penali sul piano della competenza per (29) BVerfGE, 17, 294, 298 s.; WOLF (cit. nota 15), p. 64. (30) Cfr. WOLF (cit. nota 15), p. 64. (31) BVerfGE 82, 286, 298; BVerwG, NJW, 1988, p. 1339; OVG Hamburg, NJW, 1994, p. 274; MAUNZ/DÜRIG (cit. nota 1), Art. 101, n. 43; KISSEL (cit. nota 6), § 16, n. 11. (32) Cfr. in proposito, già BVerfGE 9, 223, 226 s; 17, 294, 298 ss.; inoltre SCHÄFER, in Löwe/Rosenberg, XXIV ediz., 1990, § 16 GVG n. 6. (33) Si pensi, ad esempio, a misure individuali relative al personale nell’ambito dell’amministrazione della giustizia. (34) BVerfGE 17, 294, 300; 22, 254, 258; 30, 149, 152; 40, 356, 360: PFEIFFER, in Karlsruher Kommentar zur stPO und GVG, III ediz., 1993, § 16 GVG, n. 5; SCHÄFER, in Löwe/Rosenberg (cit. nota 32), § 16 GVG, n. 6.


— 391 — materia nella forma delle cosiddette « competenze mobili » (35). Si tratta di casi come quelli regolati nei §§ 24 comma 1 nn. 2, 3 e 74 comma 1 della legge sull’ordinamento giudiziario [« Gerichtsverfassungsgesetz », qui di seguito abbreviata come GVG] (36), nei quali la legge affida innanzitutto al pubblico ministero di esercitare l’azione dinnanzi all’Amtsgericht [pretura] o al Landgericht [tribunale], sulla base di una decisione prognostica (« la pena che ci si attende ») oppure mediante adeguato riempimento di una nozione giuridica indeterminata (« la particolare importanza del caso »). Sebbene in tal modo si decida provvisoriamente sulla investitura o l’esclusione di un determinato giudice, tali regole non violano, secondo l’opinione dominante, la norma costituzionale del giudice naturale, nella misura in cui sono necessarie al fine di garantire la soddisfazione di equilibrate esigenze dello stato di diritto, come, nell’esempio proposto, l’efficienza e la funzionalità dell’amministrazione della giustizia penale o esigenze di giustizia sostanziale (37). 3.

La ripartizione delle cause all’interno dell’organo giudiziario. Su questo piano, nel quale si tratta dell’assegnazione di una causa ad

(35) Per una critica all’introduzione di tale espressione, cfr. BETTERMANN (cit. nota 2), p. 295, il quale avverte che il concetto della « competenza mobile » indica una determinazione del giudice caso per caso, proprio ciò che l’art. 101 GG non ammette. (36) Altri esempi si trovano nei §§ 25 n. 3 vecchio testo, 74a comma 2, 120 comma 2, 142a comma 4 GVG. (37) BVerfGE 9, 223, 226 ss.; KISSEL (cit. nota 6), § 24, n. 9; KLEINKNECHT/MEYERGOSSNER, XLI ediz., 1993, § 24 GVG, n. 5; SCHÄFER, in Löwe/Rosenberg (cit. nota 32), § 16 GVG, n. 10; di altra opinione tuttavia BETTERMANN (cit. nota 2), p. 294 ss.; critico verso l’opinione dominante anche ACHENBACH, Staatsanwalt und gesetzlicher Richter - ein vergessenes Problem?, in Festschrift für Wassermann, 1985, p. 849-860, spec. 850 ss.; ROXIN, Strafverfahrensrecht, XXIII ediz., 1993, § 7, n. 10 s. In ogni modo, anche secondo l’opinione dominante, al pubblico ministero con tali competenze mobili — diversamente da quanto avviene con riguardo alla competenza per territorio (cfr. in proposito MÜLLER/SAX/PAULUS, KMR-Kommentar zur StPO, appendice GVG, VII ediz., 1981, § 16, n. 3; SCHÄFER, in Löwe/Rosenberg (cit. nota 32), § 16 GVG, n. 10a, con ulteriori rinvii; criticamente in argomento ACHENBACH, p. 855, con ulteriori rinvii) — non può essere riconosciuta una vera e propria attività discrezionale. Perciò nel caso tipico il § 24 comma 1 n. 3 GVG deve essere interpretato nel senso che il pubblico ministero deve esercitare l’azione davanti al Landgericht quando riconosca debitamente provata la particolare importanza del caso (BVerfGE 9, 225, 228 s.; KLEINKNECHT/MEYER-GOßNER, § 24 GVG, n. 5). Inoltre nella valutazione di questa disciplina dal punto di vista costituzionale è da considerare che la valutazione del pubblico ministero soggiace in pieno al controllo giudiziale (BVerfGE 9, 225, 229 s.; KISSEL (cit. nota 6), § 24, n. 10, con ulteriori rinvii). Se perciò la corte perviene ad una valutazione divergente da quella del pubblico ministero, deve nel caso, ai sensi del § 209 comma 1 del codice di procedura penale [« Strafprozeßordnung », qui di seguito abbreviato come StPO] instaurare il giudizio innanzi al giudice competente di capacità inferiore, oppure, ai sensi del § 209 comma 2 StPO, sottoporre l’accusa al giudice competente di più alta capacità.


— 392 — uno dei diversi collegi giudicanti di un organo giudiziario, si devono soprattutto constatare, riguardo alla predeterminazione del giudice tramite una legge formale, notevoli limitazioni alla norma del « giudice naturale ». Ciò in quanto, in considerazione della pluralità e varietà dei giudici esistenti, già per motivi pratici il legislatore non si trova in grado di compiere egli stesso l’assegnazione ai singoli organi giudicanti (38). Perciò la competenza di un giudice, fondata su di una legge formale, deve essere integrata, per quanto riguarda l’assegnazione a un determinato collegio giudicante, da programmi di ripartizione delle cause all’interno dell’organo giudiziario (39), per la formazione dei quali, ai sensi del § 21e comma 1 GVG, è competente la rispettiva presidenza (40). Quindi la precostituzione del « giudice naturale » ad opera del legislatore finisce, in pratica, con un provvedimento autorizzativo delle presidenze per l’ulteriore ripartizione degli affari all’interno dell’organo giudicante. Il legislatore deve tuttavia pur sempre porre le fondamentali regole di competenza (41). Anche per quanto riguarda la ripartizione delle cause all’interno degli organi giudiziari, dell’esigenza di una predeterminazione generale ed astratta dei collegi giudicanti non si tiene conto con totale rigore, a ciò ostando vincoli e necessità della pratica attività giudiziaria. Così, la prassi giudiziaria quotidiana deve adattarsi al fatto che né il numero dei collegi né il numero dei giudici resta uguale, così come il volume delle cause muta, e il rendimento dei giudici è differente; inoltre si deve sempre tener conto anche del caso di rimozione, malattia, impedimento o ferie di uno o anche di più giudici (42). Di conseguenza sono possibili, per la sussistenza di motivi cogenti (§ 21e comma 3 GVG) (43), variazioni del programma di ripartizione delle cause al di fuori dei turni prestabiliti, così come eventualmente anche la nomina di un supplente temporaneo tramite una decisione di urgenza del presidente della corte (§ 21i comma 2

(38) BVerfGE 2, 307, 320; 17, 294, 299; 19, 56, 60; MAUNZ/DÜRIG (cit. nota 1), Art. 101, n. 43. (39) Sulla cui controversa natura giuridica cfr. SCHILKEN (cit. nota 20), n. 371, con ulteriori rinvii. (40) Dettagliatamente sulla posizione giuridica della presidenza dell’ufficio giudiziario come organo dell’autonomia giudiziaria e sulla procedura da osservare nella formazione dei programmi per la ripartizione delle cause, KISSEL (cit. nota 6), § 21e, n. 1 ss.; SCHILKEN (cit. nota 20), n. 364 ss. (41) BVerfGE 19, 56, 60; GLORIA, Verfassungsrechtliche Anforderungen an die Geschäftsverteilungspläne, DÖV, 1988, p. 849-858, spec. p. 852. (42) BVerfGE 17, 294, 300; SCHÄFER, in Löwe/Rosenberg (cit. nota 32), § 16 GVG, n. 11a; WOLF (cit. nota 15), p. 70. (43) Cfr. in proposito KATHOLNIGG, Strafgerichtsverfassungsrecht, 1990, § 21e GVG, n. 9, con ulteriori rinvii.


— 393 — GVG) (44), e ciò è ancora ritenuto compatibile con la garanzia del giudice naturale (45). Ma per il resto il programma di ripartizione delle cause non concederà alcuna evitabile libertà nell’individuazione di un collegio o di un singolo giudice per la decisione di una causa e in tal modo non potrà consentire alcuna superflua indeterminatezza per quanto riguarda il giudice naturale (46) 4.

Ripartizione degli affari all’interno dei collegi giudicanti.

Su questo piano la garanzia della predeterminazione del giudice in via astratta e generale può dar luogo a problemi solo quando si tratti della divisione dei compiti all’interno di un collegio di giudici: se si prescinde qui dal caso consueto della nomina di un giudice relatore (47), risultano nevralgici i casi in cui il collegio giudicante competente è composto da un numero di giudici superiore a quello previsto della legge (48), o quando determinate decisioni devono prendersi con una composizione numericamente ridotta (49). Al fine di escludere il più possibile in situazioni del genere immaginabili manipolazioni, il Bundesverfassungsgericht ammette simili casi di sovrannumero solo con limitazioni (50): così, un sovrannumero è fin dall’inizio ammissibile soltanto se viene ritenuto inevitabile dalla presidenza dell’organo dopo debita verifica, al fine di soddisfare le esigenze pratiche dell’attività giudiziaria (51) e di rendere possibile un’ordinata amministrazione della giustizia (52), e inoltre l’ampiezza di un eventuale sovrannumero va limitata nella misura dell’inevitabile (53). Il Bundesverfassungsgericht considera questi limiti al sovrannumero supe(44) BGHSt 21, 40, 43; SCHÄFER, in Löwe/Rosenberg (cit. nota 32), § 16, n. 11a. (45) Cfr. SCHMIDT-BLEIBTREU/KLEIN (cit. nota 1), Art. 101, n. 12, con ulteriori rinvii. (46) BVerfGE 17, 294, 300; RINCK (cit. nota 14), NJW, 1964, p. 1651. (47) A tal proposito non viene toccata, secondo l’opinione dominante, la zona di protezione dell’art. 101 comma 1 seconda frase GG, poiché il giudice relatore entra in attività solo a fini preparatori; cfr. KISSEL (cit. nota 6), § 21g, n. 14, con ulteriori indicazioni; di altro avviso è tuttavia KATHOLNIGG (cit. nota 42), § 21g, n. 1, facendo presente il notevole peso che di fatto ha la persona del giudice relatore per la formazione dell’opinione del collegio. (48) Problema dei cosiddetti « collegi in soprannumero »; cfr. in proposito particolarmente KISSEL (cit. nota 6), § 21e, n. 113 ss.; § 21g, n. 3 ss. (49) Come ad esempio nei casi dei §§ 76 comma 2 nuovo testo, 78b comma 1 n. 2, 139 comma 2 GVG; cfr. in proposito KISSEL (cit. nota 6), § 21g, n. 20, nonché, ampiamente, KATHOLNIGG (cit. nota 6), NJW, 1992, p. 2259 s., SCHLOTHAUER, Verfahrens - und Besetzungsfragen bei Hauptverhandlungen vor der reduzierten Strafkammer nach dem Rechtspflegeentlastungsgesetz, StV, 1993, p. 147-150, come pure SEIDE, Der gesetzliche Richter bei Reduzierung der Richterbank, NJW, 1973, p. 265-268, spec. p. 266 ss. (50) Cfr. BVerfGE 17, 294, 298 ss.; 18, 345, 349 ss.; 19, 145, 147; MAUNZ/DÜRIG (cit. nota 1), Art. 101, n. 45; SCHMIDT-BLEIBTREU/KLEIN (cit. nota 1), Art. 101, n. 13. (51) Cfr. in proposito supra, sub II.3. (52) BVerfGE 18, 344, 349 s.; 22, 282, 286. (53) BVerfGE 17, 294, 300 s.; 19, 65, 69 s; cfr. per tutto anche MAUNZ/DÜRIG (cit. nota 1), Art. 101, n. 45, con ulteriori rinvii.


— 394 — rati quando il numero dei membri titolari consente ad un collegio giudicante di poter amministrare giustizia in due gruppi composti da persone diverse, o al presidente di costituire tre collegi ciascuno con differenti giudici a latere (54). Ma per quanto ora siano stabiliti questi limiti al sovrannumero, per il resto viene affidato dal legislatore al presidente di ripartire, all’interno di un collegio di cui fanno parte parecchi giudici, gli affari fra i membri (§ 21g comma 1 GVG), e quindi in sostanza di stabilire il giudice chiamato a decidere nel caso singolo (55). Ciò solleva naturalmente la questione, fino a che punto tali disposizioni del presidente debbano dal canto loro essere predeterminate. A tal proposito è di particolare interesse, specialmente con riguardo alle attuali controversie sulla divisione degli affari all’interno delle sezioni presso le corti superiori della federazione (56), se al presidente della sezione possa essere permesso, attraverso la designazione di un determinato relatore oppure tramite la fissazione di un termine per la trattazione della causa, di determinare indirettamente la composizione del seggio giudicante (57), o se ciò debba rimanere riservato ad una regola generale. Non da ultimo, al fine di sondare lo spazio per possibili alternative all’attuale assetto, si dovrà decidere, in ordine alle esigenze della ripartizione delle cause all’interno dei collegi giudicanti, fra quelle che devono farsi derivare dalla norma costituzionale del giudice naturale, e quelle che scaturiscono soltanto dalla regola legislativa ordinaria del § 21g GVG; poiché a tale riguardo non sussiste necessariamente totale coincidenza (58). Per quanto riguarda gli aspetti costituzionali della competenza del presidente nella assegnazione delle cause, la giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht offre un quadro che non è immune da contraddizioni (59). Da un lato, secondo diverse pronunce della Seconda Sezione, in base all’art. 101 comma 1 seconda frase GG non è necessario che sia stabilito anticipatamente quali giudici di una sezione in sovrannumero debbano prendere parte alle singole procedure, purché il presidente eser(54) BVerfGE 17, 294, 301; 18, 344, 351. Per determinate eccezioni in casi di sovrannumero dovuti alla presenza di un professore universitario oppure di giudici chiamati nominativamente per particolari incarichi, cfr. SCHÄFER, in Löwe/Rosenberg (cit. nota 32), § 21f GVG, n. 7. (55) Cfr. SCHILKEN (cit. nota 20), n. 376, con ulteriori rinvii. (56) Cfr. indicazioni nelle note 6-8. (57) Cfr. per precisazioni KATHOLNIGG (cit. nota 6), NJW, 1992, p. 2258 s.; nonché FELIX (cit. nota 6), BB, 1992, p. 1005 ss. (58) Così, esattamente, KATHOLNIGG (cit. nota 6), NJW, 1992, p. 2258. (59) Cfr. anche KATHOLNIGG (cit. nota 6), NJW, 1992, p. 2258; MAUNZ/DÜRIG (cit. nota 1), Art. 101, n. 46; SCHORN/STANICKI, Die Präsidialverfassung der Gerichte aller Rechtswege, II ediz., 1975, p. 181 ss.


— 395 — citi correttamente il potere discrezionale a lui commesso (60). D’altro canto la Prima Sezione in una recente decisione ritiene — per quanto senza aperto contrasto con la divergente pronuncia della Seconda Sezione e senza chiarire i caratteri minimi della propria affermazione — che il principio costituzionale del giudice naturale sia soddisfatto (soltanto?) quando la presenza di elementi legali e di formazione giurisprudenziale escluda l’intervento arbitrario sul seggio giudicante (61), dove con « arbitrario » si intende, nel contesto in questione, una determinazione di competenza caso per caso, a differenza di una predeterminazione normativa astratta e generale del giudice (62). Per quanto riguarda, sul piano della legge ordinaria, l’interpretazione del § 21g GVG (63), la giurisprudenza in materia fino ad oggi ha essenzialmente seguito la più permissiva linea della Seconda Sezione del Bundesverfassungsgericht, secondo cui la formazione del seggio giudicante all’interno di un collegio in sovrannumero non necessita di essere anticipatamente determinata (64). Si ritiene di poter motivare questa interpretazione tanto sulla base del tenore letterale della norma, quanto con considerazioni pratiche: sotto il primo aspetto, il fatto che nel § 21g comma 2 GVG — a differenza che nel § 21e GVG, che regola l’assegnazione delle cause all’interno di una autorità giudiziaria — si parla soltanto della fissazione da parte del presidente di « principi », secondo i quali i membri del collegio giudicante debbono essere chiamati a prendere parte ai procedimenti; e dunque ciò indicherebbe che al presidente resti concessa ancora una discrezionalità per il caso singolo (65). Per quanto riguarda il secondo aspetto, per ragioni di svolgimento del lavoro sarebbe necessario, per la ripartizione degli affari all’interno di un collegio giudicante, un grado di flessibilità più alto che nel caso della assegnazione delle cause fra diversi collegi giudicanti all’interno di un’autorità giudiziaria (66). Questa giurisprudenza che accorda al presidente un certo potere discrezionale ha tuttavia incontrato in dottrina crescente critica — fino a un oramai quasi unanime rifiuto (67). Per lo più si stabilisce già dal punto di (60) BVerfGE 18, 334, 352; 22, 282, 286; 69, 112, 120 s. (61) BVerfGE 82, 286, 301 s. (62) BVerfGE 82, 286, 298. Cfr. tuttavia anche infra, nota 119. (63) Oppure del suo predecessore, nel § 69 GVG, vecchio testo, che è stato sostituito con il § 21g GVG, invariato quanto al contenuto, dalla legge del 26 maggio 1972 sul mutamento della qualifica dei giudici e dei giudici onorari e sull’ordinamento della presidenza delle corti; cfr., dettagliatamente, sulla genesi della norma, SCHÄFER, in Löwe/Rosenberg (cit. nota 32), § 21g, prima del n. 1. (64) BGHSt 21, 250; BGHSt 29, 162; BFH NJW, 1992, p. 1061; BFH NJW, 1992, p. 1062; BVerwGE 24, 315. V. già, tuttavia, diversamente BVerwG NJW, 1968, p. 811. (65) Cfr. BGHSt 21, 250, 253 s.; BVerwGE 24, 315, 317. (66) Cfr. BGHSt 21, 250, 254 s.; BGHSt 29, 162; BFH NJW 1992, p. 1064. (67) Così soprattutto da parte di ALBERS, in BAUMBACH/LAUTERBACH, Zivilprozeßord-


— 396 — vista costituzionale, inteso il § 21g GVG come necessaria concretizzazione del « giudice naturale », e interpretando questo principio in tale senso, che la divisione dei compiti all’interno del collegio — paragonabile alla ripartizione delle cause all’interno di una corte — debba avvenire per quanto più possibile esclusivamente secondo regole astratte e generali, al fine di escludere una evitabile indeterminatezza del giudice naturale (68). Ove ciò non fosse, l’esigenza della predeterminazione dei giudici che prendono parte a un procedimento risulterebbe sviata quantomeno dalla regola di legge ordinaria del § 21g GVG (69); poiché anche se il comma 2 di tale norma parla soltanto dei « principi » che il presidente deve stabilire, ci si può accontentare di una disciplina meno dettagliata rispetto a quella relativa alla ripartizione delle cause ex § 21e GVG, che scende fin nei minimi particolari; ma in nessun caso ci si potrebbe limitare ad una sostanziale rinuncia all’esigenza di una fissazione della competenza in via astratta e generale (70). A questa rigorosa opinione ha aderito anche la Decima Sezione civile del Bundesgerichtshof, dichiarando incompatibili con la norma costituzionale del giudice naturale ex art. 101 comma 1 GG, come anche con il § 21g GVG (71), i principi in base ai quali il presidente della sezione, attraverso la fissazione del termine per una causa, può indirettamente determinare anche la composizione del seggio giudicante (72). Poiché tuttavia essa si è vista impedita in una propria decisione da meno rigorose decinung, LI ediz., 1993, § 21g, n. 4; FELIX (cfr. le indicazioni in nota 6); GUMMER, in ZÖLLER, Zivilprozeßordnung, XVIII ediz., 1993, § 21g GVG, n. 4a (per una diversa opinione v. l’edizione precedente); KATHOLNIGG (cit. nota 6), NJW, 1992, p. 2258 s.; KISSEL (cit. nota 6), § 21g, n. 4; KOPP, Verwaltungsgerichtsordnung, IX ediz., 1992, § 4, n. 21; MAUNZ/DÜRIG (cit. nota 1), Art. 101, n. 47, 49; QUACK (cit. nota 6), BB, 1992, 1; SCHILKEN (cit. nota 20), n. 376; SCHLOTHAUER (cit. nota 49), StV, 1993, p. 148 s.; SCHORN/STANICKI (cit.nota 59), p. 184 s.; SEIDE (cit. nota 49), NJW, 1973, p. 268; WIEBEL (cit. nota 6), BB, 1992, p. 573; WOLF, in Münchener Kommentar (cit. nota 28), § 21g GVG, n. 2; THOMAS/PUTZO, Zivilprozeßordnung, XVIII ediz., 1993, § 21g GVG, annotaz. B. Prevalentemente in senso adesivo, invece, come già in precedenza, i commenti all’ordinamento giudiziario penale: KMRMÜLLER/SAX/PAULUS (cit. nota 37), § 21g, n. 2; MAYR, in Karlsruher Kommentar (cit. nota 34), § 21g GVG, n. 5; SCHÄFER, in Löwe/Rosenberg (cit. nota 32), § 21g, GVG, n. 5. (68) Cfr. in particolare KISSEL (cit. nota 6), § 21g, n. 4, 12; MAUNZ/DÜRIG (cit. nota 1), Art. 101, n. 47; SCHILKEN (cit. nota 20), n. 376, con ulteriori indicazioni. (69) Cfr. soprattutto KATHOLNIGG (cit. nota 6), NJW, 1992, p. 2258 s.; SCHLOTHAUER (cit. nota 48), StV, p. 149. (70) KATHOLNIGG (cit. nota 6), NJW, 1992, p. 2258 s. Ancora più oltre SCHLOTHAUER (cit. nota 49), StV, 1993, p. 149, il quale sulla base di considerazioni sistematiche e della genesi della norma sostiene un’interpretazione della disposizione corrispondente alle esigenze del § 21e GVG. (71) BGH NJW, 1993, 1596, con nota di FELIX, ZIP, p. 617-619. (72) Cfr. per precisazioni KATHOLNIGG (cit. nota 6), NJW, 1992, p. 2258 s., nonché FELIX (cit. nota 6), BB, 1992, p. 1005 ss.


— 397 — sioni pregiudiziali della Prima e della Quarta Sezione penale (73), non le è rimasto null’altro da fare se non l’assai inusuale passo di una sottoposizione della questione alle Sezioni Riunite del Bundesgerichtshof, ai sensi del § 132 GVG. Ma anche dopo che questa suprema istanza della giurisdizione ordinaria ha ormai deciso (v. la pronuncia in NJW, 1994, 1735) — e ha deciso secondo una linea moderata, nel senso che debbano essere fissati per iscritto i principi per la chiamata dei giudici a partecipare alle procedure, con un certo margine di discrezionalità per le singole decisioni — le discussioni non sono tuttavia ancora finite; poiché contemporaneamente anche il Bundesfinanzhof, che per costante giurisprudenza pure sostiene una più largheggiante gestione della ripartizione degli affari all’interno delle sezioni (74), si vede esposto a diversi ricorsi di costituzionalità (75). E per quanto questi ricorsi debbano pur sempre essere decisi dal Bundesverfassungsgericht, rimane la questione di una via costituzionalmente ammissibile e insieme ragionevole dal punto di vista della politica del diritto. Abbandonando a questo punto vie prefissate, e per ampliare i materiali che possono essere utili a una soluzione, non è male gettare almeno un breve sguardo al di là dei confini. III.

Una panoramica sul « giudice naturale » all’estero

Onde evitare conclusioni affrettate, si deve essere naturalmente sin da principio consapevoli, nella comparazione con e fra altri paesi, che una questione quale quella del giudice naturale non può in sostanza essere presa in esame senza inquadrarla nei rispettivi sistemi processuali e giudiziari — un compito, certo, che nei limiti di questo lavoro non si può affrontare. Si può nondimeno dare un limitato sguardo alla questione, se e in quale misura negli altri paesi si dia in genere una garanzia di un giudice determinato in anticipo, e in che modo si cerchi di assicurare tale garanzia, per dare almeno un’idea di quale importanza si attribuisca a questa esigenza, e quali ragioni rivestano in relazione a ciò un ruolo determinante. Se si volge lo sguardo in questa prospettiva ai vicini paesi europei e si comprendono anche alcuni altri paesi, che o — come il Giappone e la Turchia - in parte hanno recepito il diritto tedesco, o, inversamente — come gli Stati Uniti d’America e i paesi già socialisti — sono estranei alla tradizione giuridica tedesca (76), è proponibile — semplificando per (73) Rispettivamente BGHSt 21, 250, 253 ss. e BGHSt 29, 162. (74) BFH NJW, 1992, p. 1061: BFH NJW, 1992, p. 1062, entrambe con ulteriori indicazioni. (75) Cfr. KISSEL (cit. nota 6), § 21g, n. 4 in fine. (76) Si comprendono dunque nel presente panorama comparatistico i seguenti paesi:


— 398 — grandi linee — una suddivisione in tre differenti modelli di disciplina. Per una prima categoria è caratteristica la mancanza di qualsiasi garanzia costituzionale del giudice competente, dato che in questi ordinamenti giuridici già il concetto del « giudice naturale » è ignoto (1). A fronte di ciò si incontra, in un secondo gruppo di paesi, una elaborazione del principio del « giudice naturale » che corrisponde a quella del diritto costituzionale e dell’ordinamento giudiziario tedesco o che, sotto taluni aspetti, va anche oltre (2). Costituiscono, da ultimo, una categoria situata fra questi estremi quei paesi nei quali è vero che il principio del « giudice naturale » è assicurato nelle rispettive costituzioni, ma da ciò si fanno derivare, circa la formale predeterminazione del giudice competente, esigenze assai meno rigorose di quanto non avvenga qui da noi, e si può quindi semmai parlare di una garanzia dell’« ufficio giudiziario prestabilito per legge » (3). 1.

Ordinamenti giuridici senza la garanzia del « giudice naturale ».

Una simile garanzia manca, in particolare, nelle costituzioni scritte (oppure nel diritto costituzionale non scritto) della Francia, dell’Inghilterra, degli Stati Uniti d’America, della Svezia, della Danimarca, del Giappone, come pure nei paesi ex socialisti. Particolarmente degno di nota è il caso della Francia, nella cui costituzione del 3 settembre 1791 il divieto di sottrazione al proprio giudice fu postulato per la prima volta in forma moderna, e venne in seguito recepito dagli ordinamenti giuridici tedeschi come anche dagli altri ordinamenti europei, nella misura in cui conoscono il principio del giudice naturale (77). Per quanto sarebbe sicuramente interessante approfondire lo studio delle ragioni che proprio nella sua madrepatria francese hanno fatto cadere nell’oblio il postulato del giudice naturale, nel presente contesto vi si deve rinunciare, ed è perciò soltanto il caso di ricordare che del principio del giudice naturale non si parla oggi in Francia né con riguardo al diritto costituzionale, né, sul piano della legge ordinaria, con riguardo all’ordinamento giudiziario (78). Belgio, Danimarca, Inghilterra, Francia, Italia, Olanda, Austria, Portogallo, Svezia, Svizzera, Spagna, e ulteriormente Turchia, Giappone e Stati Uniti d’America, nonché i paesi dell’ex blocco dell’Est. Per la raccolta del materiale, in parte solo difficilmente attingibile e non di rado acquisibile soltanto tramite informazioni orali, della cui completezza e attualità non si può perciò assumere garanzia, sono obbligato ai collaboratori e alle collaboratrici del MaxPlanck-Institut di volta in volta competenti. (77) Cfr. supra, I. (78) Cfr. ad esempio ARDANT, Institutions politiques & droit constitutionnel, II ediz., 1990; CADART, Institutions politiques & droit constitutionnel, II ediz., 1979; PERROT, Institutions Judiciares, III ediz., 1989; RASSAT, Procédure pénale, 1990. Soltanto con riguardo al principio di uguaglianza (Preambolo alla Costituzione del 1958 in collegamento con la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen) la giurisprudenza, e sulle sue orme la dottrina, ha ravvisato una violazione della Costituzione nel caso in cui sia lasciato al solo presi-


— 399 — Su questo sfondo è dunque tanto più sorprendente il fatto che l’ordinamento processuale penale francese — a differenza della corrispondente normativa nell’ordinamento giudiziario tedesco — preveda nell’ambito della competenza per materia una disciplina che non lascia al pubblico ministero alcun margine di discrezionalità o di valutazione, ma predetermina univocamente secondo criteri obiettivi il giudice di volta in volta competente (79). Nella misura in cui, invece, al di là dell’astratta e generale competenza dell’ufficio giudiziario, si tratta della ripartizione degli affari all’interno dell’organo giudiziario e dei collegi giudicanti, si fa notare con evidenza la mancanza di una garanzia costituzionale del giudice naturale; ciò in quanto manca in proposito ogni disciplina di legge ordinaria, ed anche la giurisprudenza non ha ancora formulato chiaramente, a quanto è dato di rilevare, alcun principio al riguardo. In pratica anzi la ripartizione degli affari è compiuta dal presidente dell’ufficio giudiziario o del collegio giudicante, senza che costui debba ritenersi vincolato da un’astratta disciplina (80). Uno scenario simile si offre negli altri paesi da annoverare in questa categoria, in relazione ai quali — e in tal modo ancor più allontanandosi dall’idea del « giudice naturale » — va ancora aggiunto che al pubblico ministero nell’ambito della competenza per territorio e per materia è accordato un ulteriore spazio di discrezionalità nella determinazione del giudice competente (81). Se ci si mette alla ricerca di affinità dello sfondo giuridico-culturale che potrebbero accomunare i paesi rappresentati in questo gruppo, ci si imbatte quasi senza eccezioni (82) nel fenomeno di una quasi illimitata fiducia del popolo, consolidatasi attraverso lunga consuetudine, nell’onestà dente dell’ufficio giudiziario di decidere se l’organo giudicante sia composto di uno o di tre giudici. Cfr. Conseil Constitutionnel, 23 luglio 1975, JCP, 1975, II, 18200, con nota FRANCK = D 1977, J, 629, con nota HAMON/LEVASSEUR; LUCHAIRE, La Protection constitutionnelle des droits et libertés, 1987, p. 243. (79) Cfr. art. 521, 381, 231 Code de procédure pénale; STEFANI/LEVASSEUR/BOULOC, Procédure pénale, XV ediz., 1993, n. 405 ss; PRADEL, Procédure pénale, VI ediz., 1992, n. 58 ss. (80) TRIBILLAC - AGUITON, Encyclopedie Dalloz, voce « Tribunaux », 1969, n. 2, 31, 47, 60. (81) Cfr. ad esempio per l’lnghilterra HENKEL, England - Rechtsstaat ohne gesetzlichen Richter, 1971, p. 13 ss. (82) Diversamente vale, com’è ovvio, per i paesi dell’ex blocco dell’Est, che si trovano a tale riguardo in una eccezionale situazione di rivolgimento. Cfr., sugli svolgimenti che si hanno in quei paesi con riguardo al principio del giudice naturale, LAMMICH, Polen - Das neue Gerichtsverfassungsrecht, Jahrbuch für Ostrecht, 1991, p. 415-461, spec. p. 417; ID., Das neue Tschechoslowakische Gerichtsverfassungsrecht von 1991, WGO (Monatshefte für osteuropäisches Recht), 1992, p. 15-42, spec. p. 19; ID., Das neue Gerichtsverfassungsrecht und das neue Anwaltgesetz der Republik Estland, WGO, 1992, p. 289-304.


— 400 — della giustizia e dei suoi organi (83). Ciò potrebbe comunque costituire una spiegazione per il fatto che in questi stati non vengono evidentemente reputate necessarie particolari misure contro manipolazioni all’interno dell’amministrazione della giustizia. 2.

Ordinamenti giuridici con predeterminazione schematica del « giudice naturale ».

In stridente contrasto con la situazione giuridica dei paesi di cui sopra si è detto sta l’impronta del giudice naturale in Belgio, Italia, Austria, e — con alcune limitazioni — anche in Spagna. In questi paesi — in modo simile a quanto avviene in Germania — si fa discendere dalla norma del giudice naturale, avente fondamento costituzionale (84), l’esigenza di una predeterminazione per così dire schematica del giudice competente secondo regole astratte, in base alla legge e a programmi di ripartizione degli affari giudiziari (85). Che ci si debba comunque guardare, anche all’interno di questo gruppo, da frettolosi appiattimenti, è dimostrato dalla Spagna e dall’Austria: se da un lato la Spagna può ricondursi solo con limitazioni a questo modello di disciplina, ciò che importa è che là si postula da parte della giurisprudenza costituzionale (86) e della dottrina (87) anche la predeterminazione della competenza di un determinato collegio giudicante come necessità che scaturisce dal principio del giudice naturale, ma tuttavia manca una disciplina legale dei criteri di determinatezza da valere per la ripartizione delle cause (88). D’altro canto l’Austria va ancora oltre rispetto alle esigenze del giudice naturale in Germania, in quanto tale principio è applicato anche alle decisioni dell’autorità amministrativa (89), e inoltre l’esigenza di una predeterminata ripartizione delle cause presso le corti è espressamente assicurata a livello costituzionale (90). (83) Cfr. in particolare, per quanto riguarda l’Inghilterra, HENKEL (cit. nota 81), p. 68 ss. (84) Cfr. artt. 8 e 94 Costituzione belga; art. 25 comma 1 Costituzione italiana; art. 83 comma 2 Costituzione federale austriaca; art. 24 comma 2 Costituzione spagnola. (85) Cfr. per l’Austria WALTER, Die Geschäftsverteilung und das Recht auf das Verfahren vor dem gesetzlichen Richter, Juristische Blätter, 1964, p. 173-180, spec. p. 173. (86) Sentencia 47/1983, 101/1984, 95/1988 BCJ. (87) RAMOS MENDEZ, El proceso penal, II ediz., 1991, p. 71; RUIZ RUIZ, El derecho al juez ordinario en la C.E., 1991, p. 151 ss. (88) Cfr. OLIVA SANTOS, Los verdaderos tribunales en España: Legalidad y derecho al juez predeterminado por la ley, 1992, p. 29 ss., che vede in ciò una violazione costituzionale del principio del giudice naturale. (89) Cfr. BERCHTOLD, Das Recht auf ein Verfahren vor dem gesetzlichen Richter, EuGRZ, 1982, p. 246-256, spec. p. 250 ss. (90) Art. 87 comma 3 Costituzione federale austriaca: « Le cause devono essere ripartite anticipatamente fra i giudici di un organo giudiziario, nei tempi stabiliti dall’ordina-


— 401 — Per il resto le regole per la precostituzione del giudice in questo gruppo di paesi sono paragonabili a quelle vigenti nel diritto tedesco. Per quanto attiene alla competenza per materia e per territorio, le regole per la spettanza delle cause sono almeno tendenzialmente tanto determinate quanto nell’ordinamento giudiziario e processuale penale tedesco. Anche per la ripartizione delle cause all’interno degli organi giudiziari valgono naturalmente, data la concorde formale idea di fondo del « giudice naturale », discipline simili a quella che vige in Germania. Ad esempio in Italia la ripartizione degli affari giudiziari avviene per mezzo di tabelle approntate dal presidente dell’ufficio giudiziario e approvate dal Consiglio giudiziario, paragonabili ai programmi per la ripartizione degli affari giudiziari in uso in Germania (91). Nella misura in cui in questo gruppo di paesi è ammissibile e normale un sovrannumero di giudici nei collegi, il seggio giudicante chiamato a decidere nel caso singolo deve comunque — per quanto si può ritenere — risultare da regole astratte prestabilite. In questo senso ad esempio in Austria si sostiene l’opinione che la designazione di un seggio giudicante debba avvenire sulla base del generale programma di distribuzione degli affari che vale anche per l’assegnazione delle cause alle singole sezioni (92). Se si va alla ricerca, all’interno di questo gruppo di paesi, di possibili parallelismi nel loro sviluppo storico-giuridico o politico, si rileva come tratto comune il fatto che questi paesi — con l’eccezione del Belgio — hanno attraversato nel loro recente passato un periodo di regime dispotico, caratterizzato anche e proprio dall’abuso della giustizia come strumento di repressione (93). Ciò lascia spazio alla supposizione che nella minuziosa elaborazione del principio del « giudice naturale » si manifesti una subliminale diffidenza verso la purezza della giustizia, e che le rigorose esigenze connesse a questo istituto giuridico si spieghino — quantomeno — come reazione a quell’esperienza storica (94).

mento giudiziario. Una causa spettante a un giudice a seguito di tale ripartizione può essergli sottratta con provvedimento dell’amministrazione giudiziaria solo in caso di suo impedimento ». (91) Cfr. art. 7-ter del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (introdotto dall’art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 449). (92) BRÖLL, Das Prinzip der festen Geschäftsverteilung nach Art. 87 Abs. 3 B-VG, Österreichische Richterzeitung, 1988 p. 230-231. (93) Per quanto riguarda la Germania, cfr. KISSEL (cit.nota 6), § 1, n. 79, ed ampiamente KERN, Geschichte des Gerichtsverfassungsrechts, 1954, p. 197 ss. (94) In tal senso anche RINCK (cit. nota 14), NJW, 1964, p. 1649, con riferimento a KERN (cit. nota 9).


— 402 — 3.

Ordinamenti giuridici con la garanzia (soltanto) dell’« organo giudiziario predeterminato dalla legge ».

Restano infine, fra i paesi qui considerati, l’Olanda e la Svizzera, come il Portogallo e la Turchia, che possono essere accomunati in una terza categoria: essi si caratterizzano per il fatto che il principio del « giudice naturale » è espressamente assicurato nelle rispettive costituzioni (95), ma tuttavia da tale garanzia costituzionale si fanno discendere conseguenze assai meno rigorose circa la formale predeterminazione del giudice competente di quanto si è illustrato per il gruppo di paesi di cui si è trattato in precedenza. Ciò vale non tanto in riferimento alla determinazione della competenza per territorio e per materia, dove vigono determinate discipline senz’altro paragonabili alle precedenti, quanto piuttosto con riguardo alla composizione interna dell’organo giudicante. Quest’ambito — e con ciò anche la suddivisione delle singole cause fra i diversi collegi competenti per materia — è, nei paesi in questione, regolato in genere in modo solo incompleto e vago, e comunque non regolato secondo criteri di ripartizione astratti e generali da valere senza eccezioni. Così ad esempio in Portogallo non si rinvengono disposizioni legislative per la ripartizione degli affari giudiziari, né nel diritto processuale penale né nell’ordinamento giudiziario. Oppure in Turchia, è vero che in parte — e specialmente presso gli uffici giudiziari superiori — la competenza di sezioni specializzate per particolari materie è determinata in forza della legge; ma per il resto l’assegnazione di un procedimento ai singoli collegi avviene da parte di una camera di natura amministrativa. Ancora, in Svizzera è sì prevista nella maggior parte delle leggi cantonali sull’ordinamento giudiziario la necessità di un regolamento che disciplini la ripartizione delle cause presso gli organi giudiziari; ma per il resto ordinariamente non vi è alcuna disposizione circa il contenuto di simili « programmi di ripartizione degli affari giudiziari » (96), e manca in particolare anche una disciplina legale che determini la procedura della assegnazione. Dunque corrisponde in generale all’uso giudiziario consolidatosi negli anni che il presidente dell’ufficio giudiziario — che muta per rotazione annuale — assegni ad personam ai suoi colleghi i procedimenti pendenti secondo una discrezionalità non libera, e si orienti sulla base di criteri come il carico di lavoro, le cause in precedenza trattate, particolari conoscenze, esperienze et similia, rimanendo il controllo giudiziale di questa decisione discrezionale limitato ai casi di abuso (97). (95) Cfr. art. 17 Costituzione olandese; art. 58 Costituzione federale svizzera; art. 32 comma 7 Costituzione portoghese; artt. 37 e 142 Costituzione turca. (96) Cfr. ad esempio § 18 GOG Basel-Stadt. (97) Cfr. Schweizerisches Bundesgericht, BGE 105 Ia 173, 179 s.


— 403 — Nella misura in cui gli ordinamenti di cui si tratta ammettono un sovrannumero nei collegi giudicanti, valgono per la divisione del lavoro all’interno dell’organo giudiziario — per quanto si può ritenere — principi simili ai nostri: ciò significa in pratica che l’assegnazione dei compiti avviene in linea di principio da parte del presidente ad hoc e ad personam. Il tratto caratteristico di questo modello di disciplina è dunque da ravvisare in ciò, che certamente dalla garanzia costituzionale del giudice naturale si fa discendere in linea di massima — vale a dire con le limitazioni che attengono anche al modello di disciplina illustrato in precedenza — la necessità della predeterminazione della competenza per materia e per territorio attraverso regole astratte e generali; ma che d’altro canto si rinuncia all’esigenza di una predeterminazione schematica del singolo giudice, chiamato a decidere nel caso concreto, all’interno dell’organo giudiziario di volta in volta competente. Si potrebbe quindi, impiegando una formula abbreviata, dire che in questi ordinamenti il principio del « giudice naturale » si attua solamente come garanzia dell’« organo giudiziario naturale ». Se si cerca di esplorare più a fondo come si possa spiegare questa restrittiva applicazione del principio del giudice naturale, si rende possibile un’ulteriore differenziazione all’interno del gruppo di paesi di cui si tratta: in paesi come il Portogallo e la Turchia il poco ampio sviluppo delle esigenze del giudice naturale potrebbe semplicemente farsi risalire al fatto che gli ordinamenti processuali di questi paesi non hanno ancora raggiunto quel grado di complessità che si incontra in Germania e negli altri paesi il cui tipo di disciplina è stato in precedenza trattato; a tale riguardo questi paesi potrebbero difficilmente servire da modello. Diversamente invece — e perciò anche dal punto di vista della Germania in modo molto più interessante — stanno le cose nel caso della Svizzera e anche dell’Olanda. In questi paesi infatti si è manifestata apertamente — ed anche proprio in considerazione dello standard richiesto dalla giurisprudenza e dalla dottrina tedesche (98) — una consapevole presa di posizione contro una rigorosa applicazione del principio della formale predeterminazione e della limitazione, ad esso connessa, della flessibilità ed efficienza dell’organizzazione interna degli uffici giudiziari. Così lo Schweizerisches Bundesgericht [il Tribunale federale svizzero] riconosce che l’assegnazione « cieca » del singolo processo ai diversi collegi giudicanti e ai diversi giudici relatori, che la dottrina tedesca esige, risponde a un concetto teorico di ideale amministrazione della giustizia; ma tuttavia a fronte di ciò starebbero da un punto di vista pratico seri inconvenienti. Così, in base a una consequenziale applicazione di questo concetto non sarebbe più pos(98)

Cfr. Schweizerisches Bundesgericht, BGE 105 Ia 173, 178 ss.


— 404 — sibile utilizzare al meglio particolari esperienze di singoli giudici, acquisite extraprofessionalmente o nell’esercizio della funzione giudiziaria; in tal modo si prolungherebbe anche la durata dei processi e peggiorerebbe la qualità delle sentenze. Per il resto, un simile « schematismo » nella composizione del seggio giudicante e nell’assegnazione delle cause neppure corrisponderebbe al sentimento di giustizia svizzero (99). Che in questo contesto venga scomodato il « sentimento di giustizia svizzero », è da intendere come un segnale del fatto che la magistratura svizzera rivendica — sulla base delle particolari strutture e tradizioni della confederazione elvetica, anche senza le tanto rigorose garanzie formali tipiche dello stato di diritto che sono consuete in stati come quelli della Repubblica federale tedesca — di avere nel tempo amministrato la giustizia in conformità allo stato di diritto. Se si cerca anche qui di riassumere i possibili motivi delle più moderate esigenze inerenti il principio — qui operante in misura limitata — a garanzia del « giudice naturale », si può concludere nel modo che segue: con una consapevole decisione contraria agli inconvenienti connessi ad una rigida ripartizione degli affari giudiziari, si vuole preservare l’amministrazione della giustizia da una sorta di autostrangolamento; e pare che ciò sia possibile in quanto sussiste una particolare fiducia, consolidata attraverso la tradizione, nella legittimità delle decisioni e dei provvedimenti della giustizia. IV. 1.

Considerazioni conclusive di politica del diritto Punto di partenza: una garanzia « a doppia funzione », per una determinazione del giudice quanto più possibile libera da influenze ed una giurisprudenza quanto più possibile competente nella materia.

Proprio i principi giuridici fondamentali corrono facilmente il rischio, se presi in sé e per sé, di vedere eccessivamente accentuato il proprio lato formale-concettuale, e per ciò di essere applicati senza riguardo alla loro origine e alla loro obiettiva finalità. Per prevenire con riguardo al futuro il pericolo di eccessi controproducenti, a cui anche il principio del « giudice naturale » si vede esposto, è necessario ricordare le ragioni per cui una garanzia come quella del « giudice naturale » si è sviluppata. Prendendo le mosse dalla protezione del potere giudiziario contro influenze esterne da parte dell’esecutivo, e procedendo nella garanzia di questo obiettivo mediante un’adeguata disciplina da parte del potere legislativo, essa spiega infine efficacia anche all’interno del potere giurisdizionale stesso, al fine di prevenire possibili arbitri mediante l’assegnazione di una causa ad un determinato giudice, selezionato in maniera finalizzata al (99)

Cfr. Schweizerisches Bundesgericht, loc. ult. cit..


— 405 — caso singolo; venendo in gioco, non da ultimo, anche la fiducia di coloro che si rivolgono alla giustizia e del pubblico nella imparzialità ed obiettività dell’amministrazione della giustizia. Con la posizione di tale sbarramento ad una scelta del giudice compiuta in considerazione del caso singolo, non si intendeva tuttavia evidentemente, mai e poi mai, peggiorare ad un tempo la qualità dell’amministrazione della giustizia, che si può non da ultimo conseguire mediante la regolare utilizzazione di diversi collegi, particolari cognizioni di un singolo giudice, oppure tramite una consolidata esperienza derivante al magistrato da precedenti trattazioni della materia; piuttosto, perdite in termini di flessibilità ed efficienza dell’amministrazione della giustizia, potenzialmente connesse ad una predeterminazione schematica del giudice, sono semmai da accettarsi come inevitabili effetti collaterali, quando non sia possibile in altro modo ovviare al timore di manipolazioni nell’assegnazione delle cause ai giudici. Dunque, nelle remore che si sono dovute rilevare così nella giurisprudenza tedesca come in quella straniera nei riguardi di una predeterminazione astratta e generale, condotta alle estreme conseguenze, del singolo giudice, con esclusione di ogni concreta discrezionalità nella assegnazione della causa per il caso singolo, non è da ravvisarsi alcun piatto pragmatismo privo di principi, bensì un correttivo immanente ad una sorta di « principio materiale di amministrazione della giustizia »: nel senso, cioè, di una pratica armonizzazione da un lato della massima possibile neutralità del giudice chiamato a decidere, senza riguardo alla persona o alla causa, e dall’altro della più elevata qualità possibile della giurisprudenza, che possa avvalersi della particolare completenza ed esperienza del giudice stesso. Se si accetta questo punto di partenza relativo, per così dire, a una « doppia funzione », può oramai solo interessare, con riguardo alle ulteriori controversie sulla ripartizione degli affari all’interno dei collegi giudicanti — ciò che costituisce il punto centrale delle nostre riflessioni — come — da un punto di vista più formale — si possano evitare arbitrarie influenze sulla designazione di un determinato giudice per la decisione di una determinata causa, senza con ciò lasciare inutilizzata una competenza acquisita nella materia e/o senza rinunciare ad una uniforme ripartizione del carico di lavoro; o come — da un punto di vista più materiale — escludendo nel modo più ampio discrezionalità estranee nella scelta del giudice, le competenze acquisite in un dato campo possano essere impiegate al meglio, con una ripartizione la più razionale possibile del carico di lavoro. 2.

Il problematico ruolo del presidente nella ripartizione degli affari all’interno degli uffici giudiziari.

Se si indaga sul punto nevralgico in relazione al quale divampano le attuali controversie sul giudice naturale, non si tratta del fatto che se-


— 406 — condo l’attuale ordinamento giudiziario e processuale risultino possibili influenze mirate sulla designazione di un determinato collegio giudicante e/o di un giudice alla trattazione di una determinata causa; infatti, dal momento che e finché è possibile cambiare la distribuzione dei collegi e variare i programmi di assegnazione delle cause secondo il turno o anche al di fuori dei turni previsti, come è consentito dall’attuale § 21e GVG, non è da escludere che i giudici partecipanti alla ripartizione delle cause possano da ciò essere indotti — dichiaratamente o meno — ad escludere un determinato magistrato dalla decisione di una determinata causa o inversamente a lasciare che questa « finisca » proprio a lui. Volendosi prevenire con efficacia simili possibilità di manovre, la composizione dei collegi giudicanti come anche le assegnazioni ai collegi dovrebbero aver luogo in modo puramente meccanico secondo predeterminati criteri astratti e generali — e cioè senza alcuna decisione della presidenza dell’ufficio giudiziario — o perlomeno eventuali decisioni della presidenza circa la composizione dei collegi o l’assegnazione delle cause dovrebbero prendersi con tale anticipo che distribuzioni mirate sarebbero da escludere con probabilità statistica, e in tal modo non potrebbe che prevalere il caso. Dato che tuttavia evidentemente nessuno — a quanto risulta — intende spingere a tal punto la predeterminazione astratta e generale del giudice naturale, rimane come punto nevralgico il potere discrezionale riconosciuto al presidente dell’ufficio giudiziario nel § 21g GVG; poiché, nella misura in cui tale potere deve essere esercitato secondo determinati « principi » e l’osservanza degli stessi deve essere controllabile (100), al presidente risulta accordata già con l’enunciazione dei propri principi una posizione di preminenza nei confronti degli altri giudici, così come un certo potenziale di comando. Al di là della questione di diritto costituzionale relativa al come questo particolare potere di designazione dei giudici spettante al presidente sia compatibile in particolare con la garanzia del « giudice naturale » — una questione a cui i costituzionalisti sono chiamati a dare una risposta, rimane il problema di politica del diritto: fino a che punto una tale posizione di preminenza del presidente in ordine alla designazione dei giudici sia compatibile con un’immagine del giudice che non si appaga soltanto dell’osservanza dei caratteri formali dello stato di diritto, ma che si sa impegnata anche alla ricerca della più ampia parità fra coloro che prendono decisioni giudiziali, al più ampio controllo del loro potere di decisione, e con ciò, in fondo, anche al consolidamento della generale fiducia nel loro ruolo. Se si considerano in questo senso possibili interazioni fra la riparti(100) Cfr. in proposito KATHOLNIGG (cit. nota 42), § 21e, n. 15, § 21g, n. 3; KISSEL (cit. nota 5), § 21g, n. 15, 21.


— 407 — zione degli affari giudiziari da parte del presidente e la sua posizione funzionale all’interno del collegio dei giudici (101), la posizione del presidente di un organo giudiziario collegiale si mostra caratterizzata da una compresenza di elementi tanto di sovraordinazione quanto di equiordinazione (102). Così, il vigente ordinamento giudiziario e processuale per un verso riconosce al presidente l’esclusivo potere decisionale per quanto riguarda la direzione del dibattimento (103) come anche per alcune altre questioni di natura più organizzativa (104); ma per altro verso nella vera e propria attività giudicante nel caso concreto tutti i membri del collegio giudicante sono in posizione di piena parità (105). Nella misura in cui il Bundesgerichtshof riconosce al presidente il diritto e il dovere di avere un’autorità orientativa sulla giurisprudenza del suo collegio (106), in ciò non è da ravvisare una sorta di dirigismo o di dominio, ma semplicemente un’influenza che il presidente è in grado di esercitare per forza di persuasione intellettuale in virtù della sua competenza, della sua esperienza e della sua conoscenza degli uomini (107). Sulla base della cooperazione, possibile a queste condizioni, di tutti i giudicanti alla formazione della decisione con parità di diritti, si rende idealmente possibile una « discussione » ampiamente « libera da posizioni dominanti », che può valere come ottimale premessa per una giurisprudenza democraticamente legittimata ed elevata dal punto di vista qualitativo (108). (101) Hanno già richiamato l’attenzione su questo aspetto SCHORN/STANICKI (cit. nota 59), p. 180, parlando in tale contesto di un conflitto fra principio di autorità e principio di collegialità. (102) Cfr. sulla posizione del presidente soprattutto SARSTEDT, Der Vorsitzende des Kollegialgerichts, in Juristen-Jahrbuch 8 (1967/68), p. 105-119. (103) Nel processo penale questo potere è peraltro limitato dal concorrente potere degli altri partecipanti al collegio di contribuire ad una decisione giudiziale ai sensi del § 238 comma 2 StPo, anche se l’ampiezza del loro diritto di critica nei singoli casi è controversa; cfr. sullo stato della controversia TREIER, in Karlsruher Kommentar (cit. nota 34), § 238, n. 6, con ulteriori rinvii. (104) Per il processo penale cfr. ad esempio i §§ 141 comma 4, 142 comma 1 StPO (Nomina e scelta di un difensore d’ufficio), il § 213 StPO (Fissazione del termine per il dibattimento), nonché il § 220 comma 1 primo periodo StPo (Citazione di testimoni e periti per il dibattimento). (105) BVerfGE 26, 72, 76; MEYKE, Entscheidungsfindung mit « Richtungsweisendem » Vorsitzenden, DRiZ, 1990, p. 287-290, spec. p. 287. (106) Cfr. BGHZ 37, 210, 212 s.; BGH NJW, 1992, p. 46, con ulteriori indicazioni; cfr. anche la critica a questa giurisprudenza di WIEBEL (cit. nota 5), BB, 1992, p. 573, che parla di un « culto del presidente ». (107) BGHZ 37, 210, 212 s. (108) Cfr. LAUTMANN, Hierarchie im Richterkollegium, ZRP, 1972, p. 129-132, spec. p. 131 s.; MEIKE (cit. nota 104), DRiZ, 1990, p. 288, nonché in particolare KAUFMANN, in JUNG/MÜLLER-DIETZ, Dogmatik und Praxis des Strafverfahrens, 1988, p. 15-24, spec. p. 19; sulla « teoria della discussione » in generale, cfr. HABERMAS, Vorstudien und Ergänzungen zur Theorie des kommunikativen Handelns, 1984, p. 127 ss.


— 408 — Se tuttavia, andando oltre, si riconosce al presidente — come corrisponde alla prassi delle corti superiori della federazione con l’eccezione del Bundesverfassungsgericht (109) — la possibilità di stabilire ad hoc con ampia discrezionalità la composizione personale dei collegi di volta in volta chiamati alla decisione, ne può derivare come possibile — quando non addirittura come necessaria — conseguenza un sensibile turbamento del delicato equilibrio di autorità e competenza all’interno di un collegio. A causa di simili poteri accessori a carattere organizzatorio del presidente, infatti, cambia naturalmente la struttura della sezione: in primo luogo si offre al presidente della sezione la possibilità, meno per cognizione di causa e per forza di persuasione che per misure di tipo dirigistico, di conseguire una maggiore influenza sulla giurisprudenza della sezione stessa (110). Inoltre al rafforzamento della posizione del presidente è inevitabilmente connesso un indebolimento dei giudici a latere, che può eventualmente giungere a porre in serio pericolo la loro indipendenza (111). E comunque una ripartizione delle cause all’interno delle sezioni concepita secondo un « sistema » (temperato) « imperniato sul capo dell’ufficio » in modo tale che un « superiore » assegna i compiti e forma i gruppi di lavoro per la loro esecuzione, appare non solo inadeguata per una corte superiore costituita come giudice collegiale (112), ma anche difficilmente compatibile con l’immagine del giudice che si ricava dalla Costituzione (113). I difensori della prassi durata fino ad ora potranno difficilmente confutare queste considerazioni con un richiamo all’integrità personale del presidente e con l’appello ad un minimo di fiducia nell’onestà della giustizia (114). Poiché far prevalere la propria opinione ritenendola giusta è una premura ovvia — né assolutamente da biasimare — un presidente è naturalmente esposto in modo speciale alla costante tentazione di appro(109) Cfr. per i particolari FELIX (cit. nota 6), BB, 1992, p. 1005 ss.; KATHOLNIGG (cit. nota 6), NJW, 1992, p. 2258 s.; nonché WIEBEL (cit. nota 6), BB, 1992, p. 573. (110) Cfr. anche WIEBEL (cit. nota 6), BB, 1992, p. 573 s., il quale, sulla scorta dello svolgimento pratico di un procedimento di revisione presso una sezione civile del Bundesgerichtshof, illustra nei particolari come per mezzo di un’abile direzione del procedimento da parte del presidente questo effetto sia ulteriormente rafforzato. (111) La questione se l’art. 97 GG tuteli l’indipendenza del giudice anche contro influenze provenienti da altri soggetti titolari di potere giurisdizionale è controversa, ma da un corretto punto di vista è il caso di rispondere affermativamente. Cfr. per i particolari HERZOG, in MAUNZ/DÜRIG (cit. nota 1), Art. 97, n. 33 s., con ulteriori indicazioni sullo stato della controversia. (112) Così QUACK (cit. nota 6), BB, 1992, p. 1. (113) Cfr. in proposito soprattutto BETTERMANN, Die Unabhängigkeit der Gerichte und der gesetzliche Richter, in BETTERMANN/NIPPERDEY/SCHEUNER, Die Grundrechte, 1959, Vol. III 2, p. 523-642, spec. p. 628 ss. (114) Per tali argomentazioni cfr. ad esempio BFH NJW, 1992, p. 1062, 1064; BOHLMANN (cit. nota 3), DRiZ, 1965, p. 151; DINSLAGE (cit. nota 3), DRiz, 1965, p. 15.


— 409 — fittare della propria posizione di rilievo per aumentare il proprio influsso sull’attività giudicante, soprattutto quando in tal modo egli ritiene di agire solo disinteressatamente, al fine dell’attuazione del diritto — effettivamente o anche solo a suo modo di vedere — « più giusto » (115). Se anche tuttavia egli dovesse rimanere immune dalla tentazione di influenzare in un determinato modo le decisioni nel caso singolo — o anche soltanto di introdurre pregiudizi — mediante una composizione ad hoc del seggio giudicante, pericoli del genere sono da prevenirsi soltanto con precise strutture decisionali all’interno del collegio giudicante e con una chiara delimitazione delle competenze del presidente. Che questo obiettivo si possa conseguire in modo soddisfacente con la prassi seguita fino ad oggi circa la divisione delle cause all’interno delle sezioni presso le corti superiori della federazione, è stato significativamente posto in dubbio proprio da giudici federali (116). Ricapitolando, sulla base di questo sfondo, la controversia sull’interpretazione del § 21g GVG, la competenza per la ripartizione degli affari giudiziari riconosciuta al momento al presidente, e allo stesso in sostanza mantenuta anche dalla più recente decisione delle Sezioni Riunite del Bundesgerichtshof (NJW 1994, 1735) — nella misura in cui si ritenga costituzionalmente accettabile — difficilmente può essere considerata dal punto di vista della politica del diritto come un modello giudiziale per il futuro. 3.

Trasferimento al collegio della competenza per la ripartizione delle cause.

Criticare l’attuale competenza del presidente per l’assegnazione delle cause non significa comunque necessariamente essere a favore di una predeterminazione schematica del singolo giudice per mezzo di criteri astratti e generali da valere fino alla ripartizione degli affari all’interno dei collegi giudicanti. Infatti, a fianco della preoccupazione di escludere nomine dei giudici manovrate resta anche come valore egualmente prezioso la tutela dell’effettività e della qualità dell’amministrazione della giustizia (117). Perciò l’esclusione di manovre si dovrebbe perseguire, piuttosto che attraverso una più spinta schematizzazione dei meccanismi di predeterminazione del giudice, attraverso il reciproco controllo e il bilanciamento di diversi punti di vista, tipici anche degli organi giudiziari collegiali, e precisamente con il trasferimento della competenza in tema di distribuzione (115) Cfr. anche MEYKE (cit. nota 105), DRiZ, 1990, p. 289, e WIEBEL (cit. nota 6), BB, 1992, p. 574. (116) Cfr. in particolare QUACK (cit. nota 6), BB, 1992, p. 1; WIEBEL (cit. nota 6), BB, 1992, p. 575. (117) In proposito cfr. supra, IV.1.


— 410 — delle cause all’interno dei collegi giudicanti dal presidente al collegio stesso. A questa condizione si potrebbe anche benissimo rinunciare ad una astratta e generale, senza eccezioni, ripartizione dei compiti all’interno dell’ufficio giudiziario, poiché nel caso di decisione plenaria da parte del collegio il pericolo di influenze manipolatorie sull’assegnazione delle cause si riduce sensibilmente, quando addirittura non resti del tutto escluso. Nell’attuazione pratica, peraltro, ciò non significa certo che necessariamente ogni singola assegnazione debba compiersi da parte del collegio. Piuttosto, una simile disciplina potrebbe ad esempio essere concepita in modo tale che all’inizio dell’anno giudiziario vengano stabiliti dal collegio dei giudici, su proposta del presidente, principi generali per il lavoro in comune, dai quali ci si potrebbe d’altra parte discostare — ove ciò si dimostrasse necessario o utile nel caso singolo — solo tramite una nuova decisione plenaria del collegio. In questo modo potrebbero fra l’altro essere corrette anche certe contraddizioni interne nell’attuale sistema complessivo dell’organizzazione interna degli organi giudiziari: come sul piano della divisione delle cause a norma del § 21e comma 1 GVG la formazione del programma per la ripartizione degli affari è affidata alla presidenza nel suo complesso — e non al solo presidente dell’ufficio giudiziario (118) —, i poteri risulterebbero ripartiti in modo corrispondente anche per quanto riguarda la suddivisione del lavoro all’interno della sezione giudicante ai sensi del § 21g GVG. Un trasferimento della competenza per la ripartizione delle cause all’interno del collegio giudicante dal presidente al collegio si presenterebbe quindi in sostanza solo come una coerente conseguenza del principio dell’autonomia dei giudici (119). Anche dal punto di vista costituzionale non potrebbero sussistere seri dubbi nei confronti di tale trasferimento dal presidente al collegio (120). Anzi, ci sarebbe persino da chiedersi se l’attuale disciplina del § 21g GVG (118) SCHILKEN (cit. nota 20), n. 376; SCHORN/STANICKI (cit. nota 58), p. 179, 187. (119) Sul principio della ripartizione degli affari giudiziari come prerogativa connessa all’autonomia dei giudici, cfr. KISSEL (cit. nota 6), § 1, n. 35 ss., § 12, n. 40. (120) Per quanto riguarda la giurisprudenza della Seconda Sezione del Bundesverfassungsgericht, ciò non abbisogna di alcuna più dettagliata motivazione, avendo questa sezione finora ritenuto imposta una predeterminazione del giudice naturale solo « nel modo più chiaro possibile » (cfr. supra, II.1, al richiamo della nota 34, nonché II.4, al richiamo della nota 60). Ma anche la più severa interpretazione della Prima Sezione del Bundesverfassungsgericht non dovrebbe condurre a diversa valutazione. Nella decisione di tale organo si afferma che il precetto costituzionale del giudice naturale è soddisfatto quando la presenza di elementi legali e di formazione giurisprudenziale escluda l’intervento arbitrario sul seggio giudicante (BVerfGE 82, 286, 301 s.; cfr. anche supra, II.4, al richiamo della nota 61). Di fronte a tali apparentemente avanzate esigenze, si deve tuttavia considerare che la decisione aveva ad oggetto il caso particolare della composizione di uno Staatsgerichtshof (della Saarland), e che inoltre manca ogni aperta presa di posizione nei confronti della divergente decisione della Seconda Sezione. Si aggiunga che all’esito i ricorsi vennero rigettati come immo-


— 411 — non sia da interpretarsi e applicarsi nel senso che il presidente debba stabilire i « principi » che deve osservare sulla base di una decisione collegiale, e che non possa da essi discostarsi senza una nuova deliberazione del collegio. Una tale interpretazione del § 21g GVG sarebbe in particolare da prendere in considerazione se si dovesse dimostrare che l’attuale prassi relativa alla ripartizione delle cause all’interno dei collegi giudicanti è incompatibile con il principio del « giudice naturale »: anziché dichiarare, nel caso, incostituzionale il § 21g GVG, si dovrebbe prendere in considerazione, a guisa di meno drastico rimedio, una opportuna « interpretazione conforme alla Costituzione ». Dovesse tuttavia questa strada risultare non praticabile, il trasferimento di competenza qui proposto dovrebbe attuarsi mediante opportune modifiche legislative. Non si tratterebbe del resto di un tentativo di riforma del tutto nuovo, poiché già era previsto nel progetto governativo della legge di semplificazione dell’amministrazione della giustizia di modificare il § 21g GVG nel senso che in futuro l’assegnazione delle cause ai singoli giudici di una sezione civile non dovesse più aver luogo da parte del presidente, ma restasse riservata ad una deliberazione della sezione stessa (121). Che questa proposta di legge sia stata ritirata su iniziativa del Bundesrat [Consiglio federale], sulla scorta di considerazioni più che altro inerenti all’organizzazione giudiziaria (122), non dovrebbe ostare ad un nuovo — e, sulla base delle esperienze nel frattempo maturate, anche più ampio ed energico — tentativo di riforma. ALBIN ESER Direttore del Max-Planck-Institut für ausländisches und internationales Strafrecht di Freiburg im Breisgau

tivati, cosicché la Sezione neppure ebbe modo di occuparsi della questione se il precetto del giudice naturale possa considerarsi rispettato anche in altra maniera che mediante una predeterminazione schematica dei giudici partecipanti a un procedimento. (121) Cfr. BT-Drucks, 11/3621, art. 2 comma 2. Il previsto nuovo testo del § 21g comma 3 GVG doveva quindi avere la seguente formulazione: « Per i casi in cui secondo le disposizioni del codice di procedura civile la sezione civile può affidare il procedimento a uno dei suoi membri come giudice singolo, i suoi membri stabiliscono, all’inizio dell’anno giudiziario e per la durata di questo, secondo quali principi il singolo giudice debba essere determinato. Queste disposizioni possono essere modificate soltanto se ciò si renda necessario a causa di sovraccarico, insufficiente utilizzazione o perdurante impedimento di un membro del collegio. In caso di parità di voti è decisivo il voto del presidente ». (122) Cfr., dettagliatamente, BR-Drucks, 400/88, Stellungnahme zum Regierungsentwurf, p. 16.


LE FATTISPECIE ASSOCIATIVE: PROBLEMI DOMMATICI E DI POLITICA CRIMINALE (*)

1. L’oggetto della relazione che mi è stata affidata richiama le fattispecie associative sia sotto il profilo dei problemi di dommatica giuridica sia sotto quello dei problemi di politica criminale. Un tema amplissimo, che non può essere affrontato in questa sede nella sua completezza e complessità, e che mi limiterò pertanto a trattare facendo riferimento ad alcuni aspetti significativi. Come è noto, le fattispecie associative sono reati previsti allo scopo di fornire una tutela avanzata della società contro le manifestazioni della criminalità organizzata, comune o politica. Esse puniscono infatti l’organizzazione criminale di per sé, indipendentemente dalla commissione dei reati a realizzare i quali la associazione è stata costituita, in quanto la loro stessa esistenza costituisce un pericolo per la vita sociale. A seconda della loro valenza sul terreno della criminalità comune ovvero su quello della criminalità politica esse sono state d’altronde classificate come delitti contro l’ordine pubblico ovvero come delitti contro lo Stato. I problemi che esse suscitano sono numerosi. De iure condendo taluno sostiene la loro sostanziale inutilità, ed afferma la opportunità politico-criminale di eliminarle (eventualmente considerando la esistenza della associazione criminosa come una semplice circostanza aggravante dei reati scopo). La maggioranza degli studiosi, convinta della loro efficacia, o comunque preoccupata da una prospettiva che rischierebbe di indebolire l’idea di una repressione forte della criminalità organizzata, si limita a prospettare i problemi dipendenti dalla loro attuale configurazione, sostenendo la opportunità di mantenere la loro previsione normativa ma affermando la necessità di procedere ad una profonda modificazione del loro attuale assetto sia sul terreno della loro struttura sia su quello della semplificazione del loro numero. Quali i problemi fondamentali oggetto di dibattito? Innanzitutto si pone un problema di tipicità delle fattispecie. La for(*) Lezione tenuta il 14 marzo 1995 presso la Facoltà di giurisprudenza della Università di Salerno nel quadro di un seminario di diritto penale su ‘‘Criminalità organizzata e risposte ordinamentali’’, organizzato dal Prof. Sergio Moccia.


— 413 — mulazione normalmente usata per definirle, che fa capo al solo doppio elemento della associazione di più persone (tre, o anche due o più se trattasi di delitti politici) e dello scopo di commettere una pluralità di delitti (anche uno soltanto in taluni casi di delitti contro lo Stato), non pare la più idonea a salvaguardare il requisito della tipicità, tanto che alcuni studiosi si sono seriamente interrogati sulla compatibilità della maggior parte delle fattispecie associative previste dall’ ordinamento italiano con il principio di tassatività di cui all’art. 25 Cost. In secondo luogo si pone il nodo della loro offensività giuridica. Concetti quali ordine pubblico e Stato, soprattutto il primo, oscillante fra una nozione di ordine pubblico ideale ed una nozione di ordine pubblico materiale, presentano ampi margini di indeterminatezza, e sono pertanto inidonei a costituire di per sé un punto di riferimento sicuro attorno al quale costruire la ratio della tutela penale. Tanto che, specie con riferimento ai reati associativi contro l’ordine pubblico, dottrina e giurisprudenza hanno talvolta teso a proiettare nell’ambito della tutela penale delle fattispecie associative, sotto il profilo del pericolo, gli stessi interessi privati e pubblici che possono essere offesi dalla realizzazione dei reati scopo. Secondo la formulazione del codice penale del 1930 i reati associativi sono costruiti come reati a pericolosità rigorosamente astratta, nel senso che è prevista la punibilità di una pluralità di persone che si associano per un fine delittuoso senza che si richieda nessun accertamento in ordine alla idoneità della organizzazione a delinquere a realizzare gli obbiettivi criminali proposti. Nel quadro di un più vasto movimento di pensiero diretto a trasformare i delitti a pericolosità astratta in delitti a pericolosità concreta, dottrina e giurisprudenza hanno tuttavia ritenuto di potere introdurre in via interpretativa nella struttura delle fattispecie associative elementi in grado di rendere punibili soltanto le organizzazioini criminali dotate di mezzi, strutture e uomini idonei a realizzare i reati scopo della associazione. In questo modo si è posta la premessa per potere affermare che la fattispecie associativa è punibile nella misura in cui la sua organizzazione rappresenti un pericolo concreto in ordine alla commissione dei reati scopo, e pertanto della realizzazione delle offese che questi ultimi tendono a prevenire. Se la tutela dell’ordine pubblico in questa nuova prospettiva continua a costituire il punto di riferimento formale delle fattispecie previste nel titolo V, libro II, c.p., nel senso che una associazione a delinquere per il solo fatto di esistere turba la tranquillità della gente e crea allarme sociale, il cardine della ratio della incriminazione viene tuttavia a spostarsi sul terreno della tutela, sia pure mediata, degli interessi offesi dalla (potenziale) realizzazione dei reati scopo. Il che apre delicate questioni di determinazione dell’oggetto reale della tutela penale, nonché di rapporti con istituti generali del sistema penale quali il tentativo punibile.


— 414 — A fianco di queste problematiche di carattere generale si pongono questioni più settoriali, ma non per questo meno rilevanti agli effetti dei risvolti pratici e delle prassi giudiziarie. Una riguarda ad esempio un problema annoso, ma che in questi ultimi tempi è stato al centro di un dibattito particolarmente serrato sia in giurisprudenza che in dottrina con riferimento ai temi della criminalità mafiosa: se sia individuabile una figura autonoma di concorrente esterno alla associazione criminosa, ovvero se ogni concorrente in tale tipo di reato debba essere necessariamente considerato normale concorrente (interno) nel reato associativo. La recente vicenda giudiziaria che ha coinvolto in Sicilia l’on. Andreotti, inizialmente indagato per concorso esterno in associazione di tipo mafioso, ma successivamente trasformato in imputato per associazione di tipo mafioso, la dice lunga sulla importanza non soltanto teorica di tale problema. Atteggiamenti giudiziari emersi di recente in talune fra le più rilevanti inchieste giudiziarie condotte nel nostro Paese sollevano d’altronde ulteriori ragioni di riflessione. Alludo alle inchieste milanesi di manipulite. Le vicende accertate, quantomeno nelle loro linee essenziali, sono ampiamente note. In Italia si era radicata una vera e propria organizzazione sistematica della corruzione finalizzata al finanziamento della politica ed alla utilità delle imprese tramite il controllo e la gestione addomesticata degli appalti pubblici, alla quale partecipavano politici ed imprenditori. Le modalità di questa articolazione della delinquenza — organizzazione di persone e di mezzi allo scopo di realizzare obbiettivi criminosi — doveva indurre immediatamente a pensare alla realizzazione di una pluralità di reati associativi. La Procura della Repubblica di Milano si è invece ben guardata dal contestare, a fianco delle corruzioni, la associazione a delinquere. Questo atteggiamento, forse spiegabile alla luce di esigenze pratiche e di ragioni di opportunità o prudenza politica, ma inaccettabile sul piano di una rigorosa applicazione dei principi giuridici, proprio per questa ragione solleva interrogativi rilevanti di politica criminale, e ripropone il tema del mantenimento nel nostro ordinamento delle fattispecie associative. Così tratteggiato un quadro di possibili problemi di dommatica giuridica e di politica criminale che si pongono in materia di reati associativi, vediamo di entrare più a fondo nel merito di taluni di essi. 2. Come ho accennato, nella dottrina italiana si è progressivamente manifestata la tendenza a trasformare i numerosi reati a pericolosità astratta previsti nel codice penale del 1930 in reati a pericolosità concreta. Questo atteggiamento ha costituito il riflesso specifico nei confronti dei reati di pericolo di un più generalizzato atteggiamento culturale volto a sostenere che non può esistere punibilità per chi, pur avendo posto in essere un fatto riproducente gli estremi tipici di un reato, con quel fatto non ha offeso l’interesse che la norma penale mirava a proteggere.


— 415 — Enunciato il dato politico-criminale secondo cui in un sistema penale liberaldemocratico la funzione del diritto penale deve essere, e soltanto, quella di predisporre una tutela forte di interessi che si giudicano per la loro importanza meritevoli di una protezione particolare, e che, pertanto, non si possono concepire reati senza offesa degli interessi protetti, la dottrina italiana ha cercato gli argomenti tecnici per sostenere che il principio di necessaria offensività dei reati costituisce una realtà già nel diritto positivo vigente. Le strade percorse per dimostrarlo sono state, come è noto, diverse. Una parte della dottrina ha, ad esempio, elaborato una sofisticata interpretazione dell’art. 49 comma 2 c.p. nella parte in cui prevede il reato impossibile per inidoneità della azione, per sostenere che costituisce appunto reato impossibile, e pertanto non reato, il fatto tipico la cui realizzazione non è accompagnata dalla offesa dell’interesse protetto; e di qui ha ricavato la non punibilità dei fatti tipici inoffensivi. Altra parte della dottrina ha ritenuto di potere fare riferimento ad un complesso di disposizioni costituzionali — art. 25 comma 2, soprattutto art. 27 comma 3 — per sostenere che il sistema costituzionale ha consacrato il principio secondo cui reato è inevitabilmente fatto offensivo degli interessi protetti. Altri studiosi hanno rifiutato queste ricostruzioni della necessaria offensività del reato, ma hanno comunque finito per sostenere la necessità di ancorare la punibilità dei fatti preveduti dalla legge come reato alla realizzazione di momenti di disvalore sostanziale. Ed è un fatto che sia il progetto di riforma della parte generale del codice penale approvato da un ramo del Parlamento agli inizi degli anni settanta, sia la più recente elaborazione di un testo di legge-delega da parte di una Commissione insediata alla fine degli anni ottanta dal Ministro Vassalli, hanno tenuto presente l’esigenza di subordinare alla realizzazione della offesa dell’interesse protetto la rilevanza penale dei fatti di reato. Per parte sua la giurisprudenza, sia pure in decisioni sporadiche, non ha mancato di giudicare non punibile l’autore di un fatto di reato che non ha offeso l’interesse protetto. Come dicevo, con riferimento ai reati di pericolo enunciare il principio di necessaria offensività dei reati ha significato trasformare le fattispecie a pericolosità astratta in fattispecie a pericolosità concreta. Poiché in assenza di pericolo concreto, si è rilevato, si finisce per punire il soggetto senza che l’interesse protetto dalla norma penale incriminatrice sia stato offeso, affermare il principio di necessaria offensività significa richiedere comunque, agli effetti della punibilità del soggetto, la realizzazione della offesa di pericolo che costituisce la ratio della incriminazione. Questa operazione, ampiamente sostenuta dalla dottrina, ha trovato riscontro puntuale nella giurisprudenza della Corte costituzionale proprio con riferimento a taluni delitti contro l’ordine pubblico (sentenza n. 65/70 che ha stabilito che l’apologia punibile ai sensi dell’art. 414 c.p. è quella che, per le sue modalità, integra un comportamento concretamente idoneo a pro-


— 416 — vocare la commissione di delitti, trascendendo la pura e semplice manifestazione del pensiero; sentenza n. 108/74, che ha dichiarato incostituzionale il delitto di istigazione all’odio fra le classi sociali nella parte in cui non specifica che l’istigazione all’odio fra le classi sociali deve essere attuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità). E potrebbe trovare analogo riscontro con riferimento ai reati associativi tuttora formalmente previsti come reati a pericolosità astratta. Per altro verso non si può fare a meno di rilevare che la forma della pericolosità astratta, sottraendo il giudice all’onere di provare il pericolo concreto, costituisce strumento più incisivo contro le manifestazioni della criminalità, e potrebbe pertanto essere particolarmente adatta ad esprimere le esigenze di tutela forte che si manifestano nei confronti della criminalità organizzata. Questa ‘doppia prospettiva’, di maggiore efficacia preventiva contro la maggiore rispondenza alle esigenze di un diritto penale liberalgarantistico, è stata d’altronde puntualmente avvertita dalla dottrina più attenta alla complessità della fenomenologia penalistica. Proprio con riferimento al problema della utilizzazione del modello dei reati a pericolo astratto c’è stato ad esempio chi non ha esitato ad affermare che la necessaria trasformazione del pericolo astratto in pericolo concreto si impone nei casi in cui sono in gioco limitazioni di diritti di libertà riconosciuti dalla Costituzione (ad esempio, nei delitti di opinione, che incidono sul diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, sarebbe giocoforza circoscrivere la legittimità dell’intervento penale alle manifestazioni del pensiero che pongono concretamente in pericolo gli interessi dei soggetti passivi); non altrettanto dovrebbe invece necessariamente accadere nei casi in cui la tutela costituzionale non riguarda la condotta criminosa, bensì l’oggetto giuridico del reato (ad esempio, nella rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni del lavoro, dove la tutela costituzionale concerne l’integrità fisica e la salute sul posto di lavoro, bene si potrebbe mantenere il modello del reato a pericolo astratto). Analogo discorso potrebbe essere prospettato nei confronti delle fattispecie di associazione a delinquere, dove la sopramenzionata grande pericolosità delle articolazioni della criminalità organizzata potrebbe indurre a mantenere il modello originario configurato dal codice penale del 1930, tanto più che la stessa Costituzione all’art. 18 tutela il diritto di associazione alla condizione che non si tratti di associazioni costituite per fini vietati ai singoli dalla legge penale, ovvero di associazioni segrete o che perseguono scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare. Comunque sia di questi discorsi emersi a livello di dibattito dottrinale, è un fatto che in materia di reati di associazione la giurisprudenza, senza porsi questioni di carattere generale, ed affrontando il problema più che sul terreno della specificazione della tipologia dell’interesse protetto su quello della struttura della fattispecie criminosa, ha progressivamente


— 417 — arricchito le fattispecie associative di elementi non indicati esplicitamente dalle norme penali incriminatrici, funzionali ad orientare verso orizzonti di pericolosità concreta l’ambito della rilevanza penale. È sufficiente sfogliare un qualunque massimario di giurisprudenza per rilevare il progressivo affermarsi della tesi secondo cui non ogni associazione che ha come obbiettivo la realizzazione di reati merita punizione, ma soltanto quella che è dotata di un minimo di organizzazione di uomini e mezzi adeguati alla realizzazione del piano criminoso. L’organizzazione adeguata alla realizzazione dei reati scopo è cioè venuta pian piano affermandosi come requisito, non scritto, ma in ogni caso essenziale, per la rilevanza penale di un fenomeno associativo criminoso. La introduzione di questo requisito oggettivo, non determinabile in termini precisi atteso che lo stesso suo punto di riferimento soggettivo costituito dal piano dei reati scopo può non essere dettagliato in maniera specifica, ha sollevato interrogativi con riferimento al tema della tassatività delle fattispecie a causa del margine di discrezionalità che assegna al giudice nella rilevazione dei fatti penalmente rilevanti. Specifica comunque, come accennavo, le fattipecie associative in modo da renderle orientate verso la pericolosità concreta, ed in questa prospettiva si è rivelato strumento fecondo di profonda trasformazione delle incriminazioni delle quali stiamo discutendo. Ove si arrivasse a considerare veramente come reati associativi punibili soltanto le articolazioni della criminalità associata concretamente idonee a realizzare il progetto criminoso che costituisce l’obbiettivo della associazione, il tema dell’interesse protetto dalla norma penale incriminatrice verrebbe d’altronde ad arricchirsi di nuovi problemi. Con riferimento ai reati previsti sotto il profilo dei delitti contro l’ordine pubblico si dovrebbe affrontare un nodo centrale: se la turbativa dell’ordine pubblico continui a costituire davvero il punto di riferimento specifico delle fattispecie associative sul terreno dell’interesse tutelato, o se nello spettro dell’oggettività giuridica non si profilino piuttosto, come oggetto di pericolo, gli interessi protetti dai reati per realizzare i quali la associazione è stata costituita. Ma se davvero questa diventasse prospettiva proponibile, quantomeno la fattispecie base di associazione a delinquere rischierebbe di perdere la sua specificità di singola fattispecie delittuosa per acquistare il significato di modello generale utilizzabile nei confronti dei più disparati ambiti di tutela penale (vita, integrità fisica, patrimonio, economia pubblica, ecc.). Il discorso potrebbe presentarsi invece in termini meno netti con riferimento alle fattispecie associative politiche, nelle quali è comunque in gioco, in ultima analisi, la salvaguardia dello Stato e del suo assetto costituzionale, alla luce della quale potrebbe apparire utile mantenere (semplificandola) la tipicizzazione delle singole fattispecie di reato (cospirazione, banda armata, associazione con finalità di terrorismo e di eversione del-


— 418 — l’ordinamento democratico, ecc.). La tutela del bene-finale Stato anche in questi casi passerebbe comunque attraverso la tutela dei beni (incolumità pubblica, vita ed integrità fisica delle persone, vita ed integrità fisica di determinate cariche dello Stato, beni economici, ecc.) tramite la cui offesa potrebbe essere raggiunto l’obbiettivo della eversione politica. Come caso a sé stante, data la specificità della sua costruzione su modelli sociologici, e la particolare finalità della sua previsione normativa, continuerebbe comunque a presentarsi il delitto di associazione di tipo mafioso. Qui la specificazione come singola fattispecie di reato, in deroga all’istituto generale della associazione a delinquere, potrebbe trovare giustificazione nella connotazione affatto particolare della fattispecie oggettiva di reato, e negli scopi in parte diversi da quelli usuali delle associazioni per delinquere specificamente indicati dal legislatore nell’identificare le situazioni penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 416 bis c.p. In questa sede non è possibile andare oltre queste rapide considerazioni di insieme e di dettaglio dei singoli problemi accennati. Un dato mi sembra emergere comunque con forza da quanto osservato: che gli obbiettivi di politica criminale di strutturare le fattispecie associative sul modello dei reati a pericolosità concreta si sono saldamente intrecciati, nella faticosa quotidiana elaborazione giurisprudenziale delle fattispecie associative, con il problema tecnico-giuridico della architettura della fattispecie criminosa. Nella specie, il passaggio dal reato a pericolosità astratta a quello a pericolosità (tendenzialmente) concreta è avvenuto attraverso una progressiva opera di ricostruzione della struttura oggettiva della fattispecie delittuosa, nella quale elemento dominante, a fianco della pluralità delle persone e della finalità di commettere una pluralità di reati, è diventato il requisito, non scritto dalla legge, della organizzazione idonea alla realizzazione del piano criminoso. Ancora una volta dommatica giuridica e politica criminale si sono trovate saldamente intrecciate nel realizzare l’obbiettivo della trasformazione della originaria configurazione di un istituto giuridico, la prima al servizio della seconda. 3. Dommatica giuridica e politica criminale hanno trovato, per altro verso, un terreno fecondo di verifica con riferimento al problema più settoriale, ma non per questo meno importante, della configurabilità del concorso esterno nei reati associativi. I termini della questione sono ormai notissimi, in quanto in questi ultimi anni dottrina e giurisprudenza si sono ripetutamente soffermate sul problema, risolvendolo in modi diversi. Anche qui la dommatica giuridica ha fatto la sua parte. Alcuni giovani commentatori si sono ad esempio cimentati in pregevoli e talvolta raffinate disquisizioni giuridiche per sostenere che, nonostante una ampia dottrina penalistica e una radicata giurisprudenza autorevolmente avallata dalle Sezioni Unite della Cassazione


— 419 — siano favorevoli alla configurabilità dell’istituto, esso non ha in realtà spazio: delle due infatti l’una, si sostiene, o il soggetto concorre alla attività della associazione, ma allora deve essere considerato a tutti gli effetti concorrente, o non concorre sotto nessun profilo nella stessa. Ridotto all’osso il ragionamento è il seguente. Si ha concorrenza nel reato associativo quantevolte un soggetto apporta un contributo causale alla attività, al funzionamento o alle esigenze della organizzazione criminale; ma allora non è possibile distinguere un concorrente che, agli effetti della qualificazione della sua posizione giuridica, è più concorrente degli altri: integrato il requisito minimo della concorrenza, e cioè l’apporto causale alla associazione, egli non può che essere considerato concorrente nella stessa e basta. In senso contrario pesa tuttavia una rilevante istanza di politica criminale. Soprattutto con riferimento alle associazioni di tipo mafioso, la rilevazione sociologica e la storia dei processi penali hanno fatto emergere posizioni sfumate all’interno di quel groviglio di rapporti che legano le associazioni criminali radicate sul territorio ed il mondo circostante, non associato, che in qualche modo le aiuta a conseguire taluno dei suoi obbiettivi o comunque a mantenere o rafforzare la efficacia della sua azione. Si tratta di persone che non condividono i fini della organizzazione, che non necessariamente sono costantemente a disposizione per il conseguimento degli stessi, che certamente non sono parte organica della associazione, ma che di volta in volta si prestano a fornire, dall’esterno, contributi utili per il rafforzamento o almeno per il mantenimento della organizzazione criminale, comportamenti che a causa di questo risultato posseggono una forte carica di dannosità sociale. Questo fenomeno, si badi, non ha d’altronde un rilievo marginale; coinvolge settori importanti di dirigenza politica, professionale ed imprenditoriale. I tempi di questa relazione non consentono di approfondire adeguatamente il discorso, che ho sviluppato più ampiamente in altra sede. Mi limito a ricordare la posizione dei politici che avendo accettato i voti della mafia sono a disposizione per favori di contraccambio e costituiscono pertanto un punto di riferimento importante per l’organizzazione criminale, quella dei professionisti che si prestano a compiere attività professionale a rischio a favore dei mafiosi, quella dei medici compiacenti nelle visite e nelle perizie, quella degli imprenditori che, magari pressati dalla attività estorsiva della mafia, intrecciano con la stessa rapporti ambigui che finiscono per fornirle un supporto nel quadro di favori reciproci. Ragionando in termini sociologici, nei confronti di queste persone si è parlato di posizioni di ‘contiguità mafiosa’. Ma davvero con riferimento a questi soggetti, passando dal piano della sociologia a quello del diritto, si può parlare a pieno titolo, sempre, di associati a delinquere? E non c’è il rischio che negando la esistenza di una configurazione giuridica che riesca a cogliere la peculiarità della loro posizione e del loro contributo alla


— 420 — vita della associazione a delinquere, alla resa dei conti processuali si finisca per ritenere il loro contributo penalmente irrilevante, o rilevante tutt’al più, se ne esistono gli estremi, sotto il profilo di qualche reato specifico (favoreggiamento, ecc.), in un quadro del tutto inidoneo a rappresentare la fortissima carica di pericolo sociale che la loro equivoca attività comporta in un contesto in cui la mafia non può fare a meno di tessere rapporti ed ottenere favori e coperture anche dal mondo a lei esterno? Muovendo da questi interrogativi, e dalle corrispondenti istanze di politica criminale, buona parte della dottrina e della giurisprudenza ha elaborato gli argomenti tecnico-giuridici (argomenti giuridici seri, che si contrappongono seriamente a quelli avanzati dai sostenitori della opposta opinione) per sostenere la possibilità di distinguere anche sul terreno del diritto la posizione di chi è entrato a tutto tondo a fare parte della associazione a delinquere accettando e condividendo i suoi fini, e di chi, pur senza condividerne i fini, e senza farne parte organicamente, ha apportato dall’esterno contributi idonei a garantire il suo rafforzamento o quantomeno il suo mantenimento. La dommatica giuridica, quindi, è stata ancora una volta utilizzata al servizio degli obbettivi di politica criminale, in un contesto in cui era particolarmente importante fornire alla magistratura impegnata nella repressione dei fenomeni mafiosi uno strumento duttile che non la impegnasse a dimostrare la esistenza di un rapporto organico con la mafia, difficile da provare in chi esercita, o apparentemente si limita ad esercitare, una libera professione od una attività imprenditoriale o politica. Una obbiezione di fondo a questa ricostruzione è stata, per altro verso, prospettata sul terreno del garantismo. Si è osservato da taluno che la configurazione sociologica della contiguità mafiosa, e la corrispondente configurazione giuridica del concorrente esterno nel reato associativo, introducono sul terreno della repressione penale elementi di valutazione talmente discrezionali da intaccare quella esigenza di certezza giuridica che costituisce uno dei fondamenti del sistema penale liberaldemocratico. L’ obiezione a mio avviso non è fondata, o quantomeno non è fondata nella misura in cui non si ritenga di potere contemporaneamente imboccare la strada che riduca drasticamente il tasso complessivo degli istituti giuridici con margini di elasticità. Oggi individuare un concorrente esterno nel reato associativo in chi apporta dall’esterno un contributo causale al mantenimento o al rafforzamento della associazione non comporta di per sé una discrezionalità maggiore di quanto può comportarla, ad esempio, la esigenza di accertare il rapporto causale agli effetti della individuazione di una posizione di concorrente interno nel reato associativo, o una realizzazione di condotta idonea ed univoca agli effetti del tentativo, o ricostruire i presupposti delle singole responsabilità colpose individuali nel quadro dell’esercizio di attività complesse, o ricostruire i presupposti della perico-


— 421 — losità sociale dell’autore di un reato, e via dicendo. Quella della configurabilità della concorrenza esterna in reato associativo, è pertanto una operazione dommatico-interpretativa sicuramente compatibile con gli standard attuali, riconosciuti legittimi de iure condito anche se sovente criticati de iure condendo, dei margini di determinatezza ed elasticità degli istituti giuridico-penali previsti dal nostro ordinamento, e che entro questi limiti può essere considerata praticabile. Altro discorso è quello (doveroso) della rimeditazione complessiva degli standard di compatibilità degli istituti giuridico penali con il principio di determinatezza delle fattispecie di responsabilità nel quadro di una riforma altrettanto complessiva del sistema penale. Su questo piano più generale il discorso non può riguardare tuttavia, singolarmente, specifici istituti di diritto penale quali il concorso esterno nel reato associativo, ma deve valutare l’insieme degli istituti penalistici, e stabilire quanto nel dosaggio fra le contrapposte esigenze delle garanzie individuali e della difesa sociale deve o può essere concesso ad una rigorosa applicazione del principio di tassatività. 4. L’ultima riflessione sulla quale intendo soffermarmi in questa rapida carrellata su taluni problemi di dommatica e di politica criminale in materia di reati associativi concerne specificamente profili di politica giudiziaria. L’istituto del concorso esterno in reato associativo è stato utilizzato ampiamente dalla magistratura, sopratutto da quella operante in territori di mafia, per incidere nei confronti delle contiguità mafiose. Lo stesso istituto del reato associativo è stato invece completamente ignorato da altre Procure della Repubblica nella conduzione di inchieste rilevantissime. È stato totalmente ignorato, in particolare, dalla Procura della Repubblica di Milano nella inchiesta manipulite. Da manipulite è emerso che secondo prassi consolidate politici, funzionari pubblici, boiardi di stato, grandi, medi e piccoli imprenditori, hanno stipulato intese durature per spartire appalti pubblici secondo criteri concordati e per procurare vantaggi imprenditoriali indebiti dietro il pagamento di tangenti, e che ciò è diventato addirittura sistema di gestione politica e di economia di impresa. A fronte di situazioni di questo tipo la realizzazione di associazioni a delinquere non pare seriamente contestabile: attraverso intese ben congegnate, tre o più persone si sono infatti organizzate per compiere una pluralità di delitti (art. 416 c.p.). Eppure la realizzazione del delitto previsto dall’art. 416 c.p. non è stata contestata agli indagati dai magistrati milanesi. Qui, forse, politica giudiziaria, o politica tout court, hanno prevalso sulle ragioni del diritto. Per spiegare questa apparentemente inspiegabile antinomia fra prassi e diritto (l’obbligatorietà della azione penale costituisce ancora principio scritto a tutte lettere nella Costituzione), credo sia giocoforza fare riferi-


— 422 — mento ai principi non scritti della opportunità e della prudenza che non possono non connotare le grandi inchieste della magistratura. Non conosco quali sono state veramente le ragioni che hanno indotto i magistrati di manipulite ad attestare la loro linea di indagine all’interno dei più tranquilli (si fa per dire) confini dei delitti contro la pubblica amministrazione, del finanziamento illecito dei partiti o di singoli reati economici, ed a non avventurarsi lungo la strada del reato associativo. Posso tuttavia provare ad immaginarlo. Possono esserci state, soprattutto all’inizio, ragioni di opportunità pratica. Possono esserci stati timori di perdere una competenza che avrebbe rischiato di trasferire le inchieste a Procure della Repubblica giudicate meno affidabili. Possono esserci state, infine, ragioni gravi di opportunità politica generale. Sul primo terreno si può osservare che la contestazione della associazione a delinquere avrebbe comportato incombenze investigative complesse (definizione del quadro degli associati, definizione del quadro delle diverse associazioni a delinquere, difficoltà legate alla pluralità dei livelli orizzontali e verticali inevitabilmente coinvolti in organizzazioni del tipo di quelle oggetto di indagine, ecc) che male si conciliavano con lo straripare degli eventi, e con la già grave difficoltà pratica di gestire le indagini concernenti i soli delitti contro la pubblica amministrazione. Sul secondo può avere giocato il timore che l’organizzazione centralistica dei partiti avrebbe rischiato di fare individuare commessi in Roma i più importanti reati associativi (ed i reati scopo), con il rischio conseguente di conflitti di competenza con la Procura della Repubblica di quella città. Sul terzo si può osservare che può avere giocato la preoccupazione che contestare associazioni a delinquere delle quali avrebbero fatto sicuramente parte esponenti di primo piano di alcuni dei principali partiti politici avrebbe rischiato di innescare meccanismi di criminalizzazione in sé dei partiti politici e di loro identificazione con le associazioni di malfattori, con contraccolpi gravissimi sulla immagine e sulla conseguente tenuta delle istituzioni. Atteggiamento condivisibile, atteggiamento non condivisibile? Più che esprimere valutazioni, ritengo sia importante rendersi conto di ciò che è avvenuto e di ciò che avviene, per comprendere che la interpretazione e la applicazione pratica del diritto, al di là del dato tecnico, è realtà complessa, sovente opinabile, che non può essere semplificata nei discorsi della dommatica giuridica. Le ragioni della politica criminale condizionano spesso il discorso tecnico. Ma non solo. Le ragioni della politica giudiziaria rendono talvolta ancora più incerto il difficile cammino del giurista fra norme, prassi giudiziarie, interpretazioni teoriche e applicazioni pratiche delle norme. Il tema dei reati associativi, alla luce di quanto ho cercato di osservare in questo mio sia pure rapido intervento, mi sembra particolarmente illuminante di questa complessità di prospettive. CARLO FEDERICO GROSSO


POLITICA CRIMINALE E CODIFICAZIONE DEL PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA (*)

1. Premessa. — L’incipit di ogni pensabile codificazione del diritto penale può essere compendiato nell’insegnamento lasciatoci da Delitala alle soglie del codice del ’30: « Il compito più importante di un buon legislatore penale è quello di darci una precisa regolamentazione giuridica degli elementi costitutivi del reato. In tale regolamentazione si contiene inevitabilmente la soluzione del più alto problema di politica criminale, ... che è di sapere quando si debba punire e quando no » (1). A questa esigenza di una precisa regolamentazione legislativa non si sottrae nessun elemento costitutivo del reato, poco importa se ubicato nella parte ‘‘generale’’ o nella parte ‘‘speciale’’ del diritto penale. Sempre e dappertutto è infatti in gioco « il più alto problema di politica criminale » — « sapere quando punire e quando no » —, ed è un problema eccezionalmente arduo quando in gioco è la scelta e la definizione dei connotati che, in una data codificazione, andranno ad incarnare il principio di colpevolezza. La complessa dimensione politico-criminale del principio di colpevolezza, e della sua traduzione in norme, talvolta sfugge all’attenzione dello studioso: lo si pensa come un qualche principio etico, che nella storia di questo o quel Paese si invera o viene calpestato, ma alla cui elaborazione legislativa sarebbe estranea ogni riflessione e scelta politico-criminale sul « quando punire o quando no ». Così non è, come ci ha ricordato limpidamente anni fa Stratenwerth (2). Stanno a mostrarlo, fra i tanti, due cruciali e dibattutissimi problemi: l’errore sul precetto penale (la più evoluta conquista storico-legislativa del principio di colpevolezza) e l’erronea supposizione di commettere il fatto in presenza di una causa di giustificazione prevista dall’ordinamento. (*) Il testo riproduce, con lievi modificazioni ed aggiornamenti bibliografici, la relazione tenuta al XIX Convegno Enrico De Nicola, dedicato a: « Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali » (St. Vincent, 6-8 maggio 1994). (1) DELITALA, Le dottrine generali del reato nel progetto Rocco, 1927, ora in Diritto penale. Raccolta degli scritti, I, 1976, p. 280 s. (2) STRATENWERTH, Die Zukunft des strafrechtlichen Schuldprinzips, 1977, p. 12 ss. Nella letteratura italiana cfr. G.V. DE FRANCESCO, Sulla misura soggettiva della colpa, in Studi Urbinati, 1977-78, p. 275 ss.


— 424 — a) In Italia, dando spazio scusante all’errore non colposo sul precetto, la rivoluzionaria sentenza n. 364/88 della Corte costituzionale ha gettato luce soprattutto sulla dimensione politico-istituzionale del principio di colpevolezza, incarnato nell’art. 27 comma 1o Cost.: principio di garanzia per libere scelte d’azione (« il secondo aspetto del principio garantistico di legalità ») e, quindi, limite invalicabile all’intervento punitivo dello Stato (3). Ma quel principio aveva ed ha un’altra faccia più schiettamente politico-criminale (4). Il tema dell’errore sul precetto pone infatti il legislatore dinnanzi a un bivio: personalizzare al massimo la responsabilità penale, ovvero personalizzarla senza aprire vuoti di punibilità. Ed è proprio (anche se non solo) su questo terreno di scontro fra opposte scelte punitive che si è svolta una lunga partita fra opposte ‘‘teorie’’ (Vorsatztheorie e Schuldtheorie, secondo l’infelice linguaggio coniato nel secondo dopoguerra): fra chi richiedeva l’effettiva conoscenza dell’illiceità del fatto, e chi invece si accontentava che l’illiceità fosse conoscibile impiegando la dovuta diligenza (5). I reali termini di questo contrasto politico-criminale spesso sono rimasti celati allo sguardo di chi ha pensato e pensa a un duello nel cielo della controversia dommatica sulla collocazione del dolo e della colpa: dentro o fuori i confini della colpevolezza. La verità è ben diversa, come sapevano i grandi duellanti del passato. Contro la c.d. Vorsatztheorie parlano, in ultima analisi, non argomenti dommatici, bensì timori interamente politico-criminali. Li evocava con nettezza persino Welzel — il dommatico per eccellenza, capofila della c.d. Schuldtheorie — quando additava l’aprirsi di « insopportabili lacune di punibilità » (6): chi si difenda con successo invocando di aver ignorato l’illiceità del proprio fatto, andrebbe assolto non solo a titolo di dolo, ma anche a titolo di colpa, perché, quand’anche la sua ignoranza sia dovuta a colpa, spessissimo non lo si potrebbe punire, mancando nella maggior parte dei casi più gravi un crimen culposum sotto cui ricondurre il suo fatto (7). Inaccettabili apparivano d’altra parte a Welzel (come a tanti altri (3) Corte cost. 24 marzo 1988 n. 364, in questa Rivista, 1988, p. 686 ss. Il nesso tra principio di colpevolezza e principi dello Stato di diritto era stato messo in luce da PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, 1976, p. 98 ss., sviluppando alcuni spunti in Hart e Roxin. Per la letteratura sulla sentenza della Corte costituzionale cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, I, 1995, p. 95 nota 44. (4) Cfr., per un preciso accenno a questo profilo, PULITANÒ, Appunti sulla disciplina dell’imputazione soggettiva nello schema di proposta di legge delega, p. 12 del dattiloscritto. (5) Cfr., per tutti, il quadro delle opinioni delineato in MAURACH-ZIPF, Strafrecht. A.T. Teitband I, sesta edizione, 1983, p. 483 ss. (6) WELZEL, Das deutsche Strafrecht, undicesima edizione, 1969, p. 162. (7) WELZEL (nota 6), pp. 162-163.


— 425 — prima e dopo di lui (8)) le due principali vie d’uscita suggerite da fautori della Vorsatztheorie, proprio per colmare quelle « insopportabili lacune di punibilità »: affiancare ad ogni ipotesi dolosa altrettante ipotesi colpose, ovvero tornare a prevedere un unico onnicomprensivo crimen culpae; entrambe le proposte andavano respinte, perchè avrebbero comportato, manifestamente, il rovesciamento della tendenza politico-criminale, consolidata in tutti gli ordinamenti, a rendere sempre più frammentaria e selettiva la punizione della colpa (9). Breve. Il successo della Schuldtheorie in tema di errore sulla legge penale è stato decretato non dalla vittoria della dommatica c.d. moderna (« il dolo, come la colpa, non appartiene alla colpevolezza ») sulla dommatica c.d. tradizionale (« dolo e colpa come elementi della colpevolezza »), bensì dal prevalere di una scelta politico-criminale caldeggiata — non sarà inutile ricordarlo — almeno dai tempi di Hippel (10). Una scelta fra opposte esigenze (massima personalizzazione della responsabilità penale, da un lato; la preoccupazione di non creare lacune punitive per l’assenza di ipotesi colpose, dall’altro lato), il cui punto di equilibrio — la rilevanza dell’errore sul precetto solo se non colposo — è stato fissato e tradotto negli ultimi decenni in Europa, ad es. dai legislatori tedesco, austriaco e portoghese, in norme che consentono al giudice (con formulazione precisa la norma austriaca, assai meno precisa la tedesca e la portoghese (11)) di sapere « quando punire e quando no ». b) Lo stesso horror vacui provocato dall’assenza di norme incriminatrici di moltissimi comportamenti colposi ha influenzato — spesso però senza far breccia — anche il dibattito internazionale sull’erronea colposa supposizione della presenza di cause di giustificazione. Fuori d’Europa, negli Usa — mai sfiorati dal dubbio dommatico che dolo, recklessness e colpa giacciano fuori della colpevolezza (12) — il timore di vuoti di punizione (« solo pochi reati sono puniti se commessi (8) Cfr., anche per le citazioni, Arth. KAUFMANN, Das Unrechtsbewusstsein in der Schuldlehre des Strafrechts, 1949, p. 71 ss. e, da ultimo, il quadro tracciato da FRISCH, Der Irrtum als Unrechts- und/oder Schuldausschluss, in ESER-PERON, Rechtfertigung und Entschuldigung, II, 1991, pp. 225 e 242 ss. (9) Tra i fautori della Schuldtheorie cfr., per tutti, WELZEL (nota 6), pp. 161 e 163. (10) Per le citazioni dei lavori di Hippel, dagl’inizi del secolo al « Lehrbuch » del ’32, cfr. Arth. KAUFMANN (nota 7), p. 75 nota 23. (11) Il codice austriaco si sforza di precisare, al § 9 comma 2o, le ipotesi in cui è riprovevole l’errore sull’illiceità (« L’errore di diritto è riprovevole, se l’illiceità era facilmente riconoscibile dall’agente come da qualunque altra persona ovvero quando l’agente non si è informato del contenuto delle norme in questione, benché lo obbligassero la sua professione, il suo impiego e tutte le altre circostanze del caso »). Per contro i codici tedesco e portoghese si limitano a dire — rispettivamente — che l’errore sull’illiceità è incolpevole « quando l’agente non poteva evitarlo » (§ 17 DStGB) e « quando non è censurabile » (art. 17 cod. pen. port. del 1995). (12) Cfr. LaFAVE-SCOTT, Criminal Law, Second Edition, 1986, p. 242 ss.


— 426 — colposamente » (13)) ha prevalso in alcuni Stati spingendo i legislatori a non rompere con la tradizione, dando così spazio all’erronea supposizione della presenza di una causa di giustificazione solo se inescusabile (14), mentre non ha trovato udienza in altri Stati, le cui recenti codificazioni (15) hanno accolto l’innovatrice proposta del Model Penal Code, secondo cui è punibile il fatto commesso nell’erronea colposa supposizione della presenza di una causa di giustificazione sempreché vi sia una corrispondente fattispecie legale colposa (16). In Europa, l’orientamento è invece uniforme: quel timore di esigenze punitive inappagate non ha avuto minimamente la prevalenza. In Italia — oggi, come nel progettato domani — il fatto commesso nell’erronea supposizione, dovuta a colpa, della presenza di una causa di giustificazione prevista dall’ordinamento attirerà la punizione per colpa, solo se esiste una corrispondente figura criminosa colposa. La stessa soluzione è stata accolta anche nella codificazione portoghese (17), e da tempo è unanimemente accettata in Svizzera (18). Né le cose vanno diversamente nei Paesi dove è nata e si è sviluppata la Schuldtheorie, portatrice — soprattutto su questo terreno — della preoccupazione per le « gravi lacune punitive » (19) e le « fatali conseguenze sociali e giuridiche » (20) dovute all’assenza di crimina culposa. È rimasta infatti soccombente in Germania come in Austria: anche negli ordinamenti di quei Paesi il fatto commesso nell’erronea colposa supposizione della presenza di una causa di giustificazione riceverà la punizione per colpa — e non per dolo, come vorrebbe la Schuldtheorie —, purché si tratti di un fatto espressamente previsto anche nella versione colposa. Per inciso, va osservato che il legislatore austriaco ha compiuto questa scelta adempiendo al meglio al suo più alto compito di politica criminale: ha scritto chiaro e tondo « quando punire e quando no » (21). Il legislatore tedesco non ha invece preso sul serio i suoi doveri. Non ha (13) FLETCHER, A Crime of Self-Defense, 1988, p. 55 (tradotto in italiano con il titolo: Eccesso di difesa, 1995, p. 70). (14) Cfr., per le citazioni, Model Penal Code and Commentaries, I, 1985, p. 153 s., nota 12. (15) Cfr. Model Penal Code and Commentaries (nota 14), p. 153 nota 11. (16) §§ 3.02 (2) e 3.09 (3). Critici LaFAVE-SCOTT (nota 12), p. 449 s.; ROBINSON, Criminal Law Defences, II, 1984, p. 35 ss. (17) Art. 16 (2) e (3). (18) Cfr. TRECHSEL-NOLL, Schweizerische Strafrecht. A.T., I, 1994, p. 97. (19) WELZEL, Diskussionbemerkungen zum Thema « Die Irrtumsregelung im Entwurf », in ZStW, 1964, p. 619. (20) HIRSCH, Der Streit um Handlung- und Unrechtslehre, in ZStW, 1982, p. 260 e 265: ivi, a nota 164, la citazione degli autori che paventano o negano l’importanza di quelle « lacune punitive ». (21) Dispone il § 8 dell’OStGB che « chiunque supponga erroneamente uno stato di cose, che escluderebbe l’antigiuridicità del fatto, non è punibile per aver commesso il fatto


— 427 — scritto una norma vaga, come in tema di errore sul precetto: ha taciuto del tutto, delegando interamente il suo più alto compito politico-criminale alla « elaborazione » della giurisprudenza e della dottrina. L’orientamento oggi dominante in Germania, respinge, è vero, le pretese e i timori della Schuldtheorie (22). Ma del domani non v’è certezza. L’odierno orientamento poggia infatti su gambe normative assai malferme (nella migliore delle soluzioni, l’estensione analogica della norma relativa all’errore sul fatto (23)); d’altro canto, la Schuldtheorie — tuttora autorevolmente rappresentata (24) — potrebbe benissimo diventare la nuova teoria dominante, se un domani diventasse impellente il bisogno di acquetare il timore collettivo provocato dai ben noti « vuoti di punibilità ». Morale: la tradizionale propensione del legislatore tedesco (criticata in profondità da Forti (25)) ad abdicare ai propri doveri definitori di basilari elementi della colpevolezza, apre la strada solo all’arbitrio politico-criminale dei singoli giudici, lasciati liberi di decidere — come legislatori del caso per caso — « quando punire e quando no »; e si segnala perciò al comparatista e al legislatore di altri Paesi solo come un modello di codificazione da non seguire. c) Potremmo continuare nell’esemplificazione dei tanti altri luoghi (imputabilità, inesigibilità, erronea supposizione delle scusanti, responsabilità penale delle persone giuridiche, ecc.) in cui il principio di colpevolezza — cioè l’esigenza della massima personalizzazione della responsabilità penale — deve confrontarsi con le più disparate istanze politico-criminali, costringendo ogni legislatore a difficili mediazioni e ad adempiere al suo più alto compito di politica criminale definendo tutto il definibile, perché si sappia sempre « quando punire e quando no ». Qui non possiamo neppure sfiorare quei tanti temi. Ci basta aver aperto la strada per esaminare, sottoponendole al banco di prova della chiarezza e coerenza politico-criminale, le principali soluzioni del ‘‘Progetto 1992’’ dichiaratamente finalizzate a dare attuazione al principio di colpevolezza. 2. I principi del ‘‘Progetto 1992’’ in tema di colpevolezza: tre interrogativi. — Il ‘‘Progetto 1992’’ persegue dichiaratamente lo scopo di « escludere qualsiasi forma di responsabilità incolpevole » (art. 12), fissando due principi-cardine: con dolo. Sarà punito per commissione colposa, se l’errore è dovuto a colpa e la commissione per colpa è passibile di pena ». (22) Cfr., per tutti, JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts. A.T., quinta edizione, 1996, p. 461 s.; ROXIN, Strafrecht. A.T., I, 1992, p. 389. (23) Cfr. JESCHECK-WEIGEND (nota 22), p. 464; ROXIN (nota 22), p. 387. (24) Cfr. gli Aa. citati da JESCHECK (nota 22), p. 463 s. nota 50. (25) FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, 1990, p. 63 ss.


— 428 — — « il dolo e la colpa » come le « due sole forme di imputazione » del fatto antigiuridico (art. 12, n. 1); — « la non punibilità nel caso di errore invincibile sul precetto » (art. 15, n. 1). Con questi due principi, non si può non essere d’accordo. Accogliendo la lettura del comma 1o dell’art. 27 Cost. fornita dalla prevalente dottrina, due storiche sentenze della Corte costituzionale — nn. 364/88 e 1085/88 — hanno finalmente ‘‘visto’’ il principio di colpevolezza consacrato dalla Costituzione nel carattere « personale » della responsabilità penale; coerentemente, hanno sradicato due vetuste regole incompatibili con quel principio: l’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale e — quel che più ci preme sottolineare in questa sede — la logica, pervasiva come una metastasi, del versari in re illicita (26). D’ora in poi non vi è quindi più posto per forme aperte o mascherate di responsabilità in tutto o in parte plasmate dal versari: il dolo o, almeno, la colpa — come ha scritto la Corte costituzionale e come si legge anche nel ‘‘Progetto 1992’’ — sono « le due sole forme di imputazione » del fatto antigiuridico; e fuori dell’area del dolo e della colpa restano « soltanto » (lo ha precisato la Corte costituzionale) « gli elementi estranei alla materia del divieto, come le condizioni estrinseche di punibilità » (27). Con queste statuizioni la Corte costituzionale ha tracciato solo la cornice: tocca ora al legislatore scegliere i colori e schizzare le linee che andranno a comporre il quadro. Nell’esaminare il ‘‘Progetto 1992’’ dobbiamo perciò saggiarne i contenuti — i colori e le linee —, sottoponendolo a una serie di interrogativi: 1. Il progetto ha definito con precisione i connotati che in forma positiva o negativa fondano l’attribuzione soggettiva del fatto antigiuridico, offrendo una disciplina idonea a vincolare l’operato dei giudici? 2. Il progetto ha fatto tesoro dell’esperienza giudiziaria, cercando di evitare il ritorno a occulte forme di responsabilità fondate sul versari in re illicita? 3. Il progetto ha scelto in modo plausibile e ben fondato — sui concorrenti piani della compatibilità con i principi di colpevolezza, proporzione e sussidiarietà — l’area della responsabilità penale per colpa? Con l’aiuto di queste tre pietre di paragone in forma di interrogativi, passiamo ora ad enunciare e sviluppare altrettante tesi, contenenti rilievi critici alle proposte del progetto. 3.

Prima tesi: il ‘‘Progetto 1992’’ non contiene definizione alcuna

(26) Per un esame della portata e delle ripercussioni delle due sentenze, in particolare della seconda, che « bandisce » la responsabilità senza dolo e senza colpa, cfr. MARINUCCI-DOLCINI (nota 3), p. 95 ss. (27) Corte cost. 13 dicembre 1988 n. 1085, in questa Rivista, 1990, p. 297.


— 429 — del dolo, sottraendo al legislatore una primordiale e non delegabile scelta politico-criminale’’. — Questa tesi si lascia corroborare agevolmente muovendo dal testo del progetto. Contiene la proposta di trasferire al potere esecutivo delegato, oltre al compito di « formulare la definizione del dolo », anche il peso di una formulazione « univocamente comprensiva del dolo eventuale » (art. 12, n. 1). Gravosissimo peso: molte e diversissime sono in effetti, come tutti sanno, le configurazioni del dolo eventuale (28); ed anche alcuni autori del progetto si dividono, nei loro lavori scientifici, patrocinando differenti ‘‘idee’’ di dolo eventuale (29). Qui, però, non abbiamo bisogno di passare in rassegna la lunghissima lista di quelle configurazioni, per vedere quale sia stata accolta « univocamente » dal progetto, per la perentoria ragione che il progetto non ne contiene alcuna: ha rilasciato al potere esecutivo una cambiale totalmente in bianco. Lo ha ammesso Franco Bricola — uno degli autori del ‘‘Progetto 1992’’ — lasciandoci in eredità un ultimo documento della sua lucida onestà intellettuale: « quando ci siamo trovati di fronte alle singole definizioni, abbiamo creato delle definizioni che indubbiamente non individuano un criterio di disciplina » e « in effetti, esprimendo la necessità di definire il dolo eventuale e di inglobare la definizione del dolo eventuale nel contesto più generale del dolo, non si dà il criterio di disciplina al dolo eventuale » (30). Il silenzio del progetto sulla struttura del dolo eventuale è, d’altra parte, rumorosamente inquietante. Dappertutto, e da lungo tempo, la (28) Cfr. l’ampia e approfondita analisi compiuta da PROSDOCIMI, Dolus eventualis. Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, 1993. Una lista delle sempre più varie configurazioni del dolo eventuale in Germania ed Austria si può leggere in MAURACH-ZIPF (nota 4), p. 296 ss.; per l’Austria cfr. altresì NOWAKOWSKI, Wiener Kommentar zum Strafgesetzbuch, § 5, 1984, p. 90 ss. (29) PADOVANI, Diritto penale, seconda edizione, 1993, p. 252, sembra aderire alla teoria dell’« accettazione del rischio » del verificarsi dell’evento, ritenendo però che l’accettazione possa considerarsi « accertata » — vi sia cioè « in re ipsa » — quando l’evento sia stato « previsto » come « conseguenza possibile in concreto », avvicinandosi così a quella teoria della « rappresentazione » (patrocinata da Schmidhauser e in Italia da Romano) che, eliminando dal dolo eventuale ogni componente volitiva o emozionale (come l’accettazione del rischio), lo riduce per l’appunto alla « rappresentazione del pericolo concreto della realizzazione del fatto ». MANTOVANI, Diritto penale. P.G., terza edizione, 1992, aderisce alla teoria dell’« accettazione dell’evento » (p. 320), anche se ritiene provata « l’accettazione » quando l’evento concreto sia stato previsto come conseguenza « altamente probabile » (p. 330), avvicinandosi così a una delle versioni della « teoria della probabilità ». PAGLIARO, Principi di diritto penale. P.G., quinta edizione, 1995, sostiene invece che « nel dolo eventuale » « deve esservi qualcosa in più della pura e semplice accettazione del rischio » di un evento (p. 279), e lo indica in « un atteggiamento di disprezzo » verso il bene offeso dall’evento (p. 281). (30) BRICOLA, Le definizioni normative nell’esperienza dei codici penali contemporanei e nel progetto di legge delega italiano, in CADOPPI (a cura di), Omnis definitio in iure periculosa? Il problema delle definizioni legali nel diritto penale, 1966, p. 184.


— 430 — prassi giurisprudenziale (in altri Paesi con l’avallo di parte della dottrina) (31)) ha infatti trasformato il dolo eventuale da forma marginale in prototipo del dolo, facendone lo spartiacque non già — come si ripete scolasticamente — con la colpa cosciente, bensì, spessissimo, con l’impunità totale, mancando spessissimo, si sa, un’ipotesi delittuosa colposa applicabile al caso concreto. Definire con precisione il dolo eventuale sarebbe quindi stato, all’evidenza, l’adempimento di un dovere politico-criminale di primaria grandezza, non delegabile dal legislatore, che sarebbe valso a « troncare » — come già notava Delitala a proposito del silenzio del progetto Rocco (32) — ogni discussione sui suoi controversi contorni, che spessissimo è discussione sul « se punire ». Si aggiunga che il progetto non ci informa neppure intorno alla soluzione del problema, meritoriamente evocato da Marcello Gallo, della eventuale insufficienza del dolo eventuale (comunque lo si configuri) rispetto anche a un solo elemento di questo o quel reato, come accade oggi, ad es., per l’elemento dell’« innocenza » nella calunnia e del « reato non avvenuto, o commesso da altri » nell’autocalunnia. È un difetto d’informazione che ovviamente impedisce ogni discussione di merito, ma che non si può certo rimproverare agli autori del progetto: chiunque imbocchi la strada della progettazione di una legge-delega, si trova necessariamente preclusa la possibilità di descrivere con precisione i singoli reati (altrimenti, che legge-delega sarebbe?), e quindi non potrà precisare quali siano quei reati rispetto ai quali il dolo non può atteggiarsi, anche solo in parte, nella forma del dolo eventuale. Gli odierni compiti politico-criminali non delegabili dal legislatore non si esauriscono, d’altro canto, nella definizione — la più netta possibile — del dolo in tutte le sue forme, e neppure nella specificazione, in sede di parte speciale, dei reati che richiedono peculiari forme di dolo. Oggi si tratta altresì di perseguire, con ogni mezzo, l’obbiettivo di ostacolare quella sciatta prassi giurisprudenziale che spesso e volentieri fonda ‘‘l’effettiva’’ conoscenza degli elementi del fatto, richiesta dal dolo, sulla loro ‘‘possibilità’’ di conoscerli — sul « dover conoscere » —, trasformando così la prova del dolo in prova della colpa. E si badi: con l’aiuto di questa prassi, la giurisprudenza sconvolge — letteralmente — le scelte politico-criminali del legislatore: punisce a titolo di dolo, e quindi molto più gravemente, fatti commessi solo per colpa; e li punisce persino quando sarebbero in toto penalmente irrilevanti, non essendovi una fattispecie legale colposa sotto cui ricondurli. (31) Cfr. l’esame critico condotto da EUSEBI, Il dolo come volontà, 1993, p. 61 ss. In Italia patrocina l’innalzamento del dolo eventuale al rango di ‘‘prototipo’’ G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, in questa Rivista, 1988, p. 149 s. (32) DELITALA (nota 1), p. 327.


— 431 — Le cose non andavano diversamente, è vero, ai tempi di Bartolo, quando si consideravano equivalenti prevedibilità e previsione (aut ipse scivit, aut scire debuit): si diceva che la prevedibilità era in fondo la prova, o meglio, la presunzione di un’effettiva previsione, perché le conseguenze generalmente prevedibili sono generalmente previste. Ma ai tempi di Bartolo — come ammoniva già Delitala (33) — dominava il principio delle prove oggettive. Era ancora lontano l’avvento del libero convincimento del giudice: l’epoca in cui la ricerca giudiziaria, anche dei fatti psichici, non incontra limiti probatori, non soggiacendo a presunzioni di sorta. E allora? Com’è possibile che oggi non si inveri nella prassi giurisprudenziale quel che è acquisito da più di due secoli, e cioè che non scire quod scire debemus et possumus, culpa est — e non dolo (34)? Se si vuole affrontare davvero questo problema, la cui capitale importanza politico-criminale non ha bisogno di sottolineature, bisogna collocarlo sul terreno che gli è proprio: il regime delle prove. È ovviamente inutile rivolgere appelli alle Sezioni unite della Corte di cassazione, seguendo l’inane esempio di un analogo appello rivolto in Germania, sul finire del secolo scorso, dal grande e già autorevole v. Liszt (35). Il rovesciamento di sciatte prassi giurisprudenziali può essere infatti imposto solo dal legislatore. E cosa vieta che ad occuparsene sia il codice penale? Dopo tutto, già il codice penale vigente contiene una molteplicità di istituti processuali, e il progetto non si discosta da questa scelta, accentuandola anzi sul terreno dell’esercizio del potere discrezionale del giudice. Nulla perciò vieta che si inizi a pensare ad una regola sulla prova del dolo, che impedisca — con la forza vincolante della legge — l’adozione di altre regole probatorie da parte della giurisprudenza, che quotidianamente ci fanno regredire ai tempi di Bartolo. Si potrebbe pensare, ad es., al modello di regola probatoria coniata dal legislatore inglese, sin dal 1967, per contrastare un’analoga patologia regressiva (36). Oggi, però, non è possibile aprire una discussione sul me(33) DELITALA, Dolo eventuale e colpa cosciente, 1932, ora in Diritto penale (nota 1), p. 436; e vedi ora EUSEBI (nota 29), p. 111 s. (34) È la domanda che già alla fine dell’800, si poneva v. LISZT, Die Behandlung des dolus eventualis im Strafrecht und Strafprozess, 1899, in Strafrechtliche Aufsätze und Vorträge, II, 1905, pp. 254 e 270, rammentando il perduto insegnamento di un giurista del ’700, Nettelbladt, e biasimando lo svuotamento del momento rappresentativo del dolo da parte della giurisprudenza. (35) V. LISZT (nota 34), pp. 282-283. (36) Cfr. G. WILLIAMS, Textbook of Criminal Law, Second Edition, 1983, p. 80 s. In una decisione del 1961, che consacrava un indirizzo pressochè costante, la House of Lords enunciò un principio così compendiato da Glanwille Williams (p. 81): « membri della giuria, nel decidere se un imputato ha preso di mira l’evento, dovete tener conto solo del fatto se un uomo ragionevole lo avrebbe previsto come probabile » Per rovesciare questa regola giurisprudenziale, fu necessario un intervento legislativo; il Criminal Justice Act del 1967, Sec-


— 432 — rito di quel modello, o su altre pensabili vie d’uscita: potremmo farlo se avessimo di fronte un progetto — diverso da quello che stiamo esaminando — che, definendo il dolo, offrisse la piattaforma indispensabile per porsi i relativi problemi probatori. Nell’attesa di un altro progetto, conviene perciò passare ad altro. 4. Seconda tesi: il ‘‘Progetto 1992’’ non contiene alcuna definizione della colpa e non argina il pericolo che nella responsabilità per colpa si annidi la responsabilità oggettiva. — a) Quanto alla definizione della colpa, il progetto si esprime in modo tutt’altro che preciso. Vi si legge che « la definizione di colpa » andrà formulata « in modo che in tutte le forme di essa l’imputazione si fondi su un criterio strettamente personale » (art. 12, n. 1); e si potrebbe supporre che — sull’esempio di altre legislazioni — si parli di « criterio strettamente personale », per imporre che la misura della diligenza vada sempre commisurata alle capacità e cognizioni del singolo agente. Ma, se così fosse, bisognava rispondere esplicitamente almeno a un interrogativo, sollevato da Engisch più di sessant’anni fa di fronte a quel tipo di formule legislative (37), e riproposto da Gennaro Vittorio De Francesco analizzando il progetto in esame in un saggio ancora inedito. Si tratta di questo: quando si parla di caratteristiche « strettamente personali », le si vuole valorizzare solo in bonam partem — tenendo conto dei deficit di conoscenze e/o di capacità del singolo —, o anche in malam partem, commisurando i doveri di diligenza del singolo anche alle sue maggiori capacità e/o cognizioni rispetto a quelle del ‘‘modello’’ di agente a lui più vicino? Come tutti sanno, è in gioco una complessa scelta politico-criminale (« sapere quando punire e quando no »), che divide aspramente, da sempre, gli interpreti degli ordinamenti che, parlando genericamente di caratteristiche « personali » dell’agente, lasciano alla quotidiana arbitraria politica criminale dei singoli giudici — caso per caso — la risposta a quell’interrogativo primordiale; per tacere di una serie di ulteriori e ben noti interrogativi: rilevano in bonam partem solo i deficit fisici del singolo agente o anche quelli psichici, senza distinzioni? e rilevano in malam par-

tion 8, stabilì che « una corte, o una giuria, nell’accertare se una persona ha commesso un reato - (a) non è obbligata dalla legge ad inferire che l’imputato ha preso di mira o ha previsto un risultato della sua azione solo perchè si tratta di una conseguenza probabile di quella azione; ma (b) deve decidere se l’imputato ha preso di mira o ha previsto quel risultato tenendo conto di tutte le prove, traendo una tale inferenza dalle prove che appaiono più aderenti alle circostanze del caso ». (37) ENGISCH, Untersuchungen über Vorsatz und Fahrlässigkeit im Strafrecht, 1930, p. 349 ss.; cfr. altresì MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, 1965, p. 195 s.


— 433 — tem solo le sue superiori conoscenze di fatto e/o nomologiche, ovvero anche le superiori abilità e/o le superiori capacità psicofisiche (38)? Quale sia la scelta del progetto in ordine ai tanti problemi evocati dalla formula « criterio strettamente personale », ovviamente non ci è dato saperlo. Non ci viene alcun lume neppure dalla ‘‘Relazione’’ al progetto, che, in verità, è spessissimo avara di chiarimenti su molti problemi di fondo. Un aiuto, o meglio: una diversissima chiave di lettura della formula « criterio strettamente personale » la si trova uno scritto, ancora in bozze, dell’amico Pagliaro, che ha avuto la cortesia di inviarmi (39). Vi si legge che la « dizione » del Progetto — « criterio strettamente personale » — « serve ad evitare il pericolo che la colpa per inosservanza di regole giuridiche possa essere — di fatto — trasformata in una colpa presunta e, quindi, in una forma mascherata di responsabilità obiettiva » (40). Ora, che quel pericolo esista, sia gravissimo, e cresca ogni giorno, mi sembra più che evidente. È perciò lodevolissimo l’intento di porvi un freno. Riesce tuttavia difficile comprendere come una definizione della colpa fondata « su un criterio strettamente personale » possa arginare i pericoli di trasformazione della colpa per inosservanza di norme giuridiche in forma occulta di responsabilità oggettiva. Quel pericolo ieri come oggi (basta leggere la recente giurisprudenza della Cassazione in tema di ‘‘omicidio preterintenzionale’’ e di ‘‘morte o lesioni come conseguenza di altro delitto’’ (41)) discende infatti notoriamente (lo sappiamo almeno dai tempi del ‘‘duello’’ tra De Marsico e Leone) da una dilatazione del novero delle norme giuridiche la cui inosservanza potrebbe dar vita a colpa (42). Abbraccerebbero non le sole norme giuridiche che « cristallizzano », per dirla con Pagliaro, « le regole sociali di diligenza, prudenza e perizia » « al fine di dettare nel modo più preciso quali siano i comportamenti da tenere per prevenire le lesioni a beni socialmente rilevanti » (43), ma anche le norme penali sorte per reprimere le offese inferte dolosamente ai beni giuridici con questo o quel fatto: con un autentico salto mortale, quest’ultime norme vengono arricchite dell’ulteriore finalità di prevenire che dai fatti dolosi repressi deri(38) Cfr. PULITANÒ, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ (a cura di), Commentario breve al codice penale, sub art. 43, 1992, p. 138 s., per un quadro essenziale delle posizioni sostenute in Italia da Marinucci, G.V. De Francesco e Romano. (39) Lo scritto è ora pubblicato: PAGLIARO, Valori e principi nella bozza italiana di legge delega per un nuovo codice penale, in questa Rivista, 1994, p. 374 ss. (40) PAGLIARO (nota 39), p. 385. (41) Cfr. PISA, Giurisprudenza commentata di diritto penale, I, seconda edizione, 1995, pp. 50 ss. e 83 ss. (42) Cfr. MARINUCCI (nota 37), p. 219 ss. (43) PAGLIARO (nota 29), p. 300.


— 434 — vino ulteriori eventi dannosi o pericolosi (44). Stando però così le cose, è possibile evitare quella assurda dilatazione — « la » causa della trasformazione occulta della colpa per inosservanza di norme giuridiche in responsabilità oggettiva — solo combattendola a viso aperto: ridefinendo cioè la colpa in modo da includere, esplicitamente, le sole norme giuridiche che, vietando o imponendo determinate condotte, mirino esclusivamente a prevenire che da quelle condotte derivino eventi dannosi o pericolosi. Pagliaro, ripeto, ha avuto l’indubbio merito di aver richiamato l’attenzione di tutti sul pericolo, tuttora vivo, che la logica del versari in re illicita — la responsabilità obiettiva — si annidi « occultamente » nella colpa per inosservanza di norme giuridiche, per effetto dell’accennata manipolazione giurisprudenziale (non scalfita da più di cinquant’anni di critiche dottrinali) del novero delle norme giuridiche la cui « inosservanza » rileva ai fini della colpa. Purtroppo il « Progetto 1992 » parla d’altro (e in modo impreciso) quando evoca una ridefinizione della colpa che si fondi « su un criterio strettamente personale », e, d’altro canto, non contiene nessuna ridefinizione della colpa « per inosservanza di norme giuridiche » che tenda a porre un freno a quella manipolazione biasimata anche da Pagliaro. È quindi impossibile ogni discussione di merito. Dovremo perciò attendere un altro progetto. b) Il ‘‘Progetto 1992’’ non dice, peraltro, neppure quel che gli vorrebbe far dire Pagliaro nello scritto citato, quando sostiene che « il Progetto prevede due diverse figure di colpa: la colpa tradizionale, consistente nella violazione di regole cautelari nell’ambito di un’attività-base lecita, e una forma nuova, che sostituisce le forme attualmente etichettate come di responsabilità obiettiva », e che Pagliaro denomina « responsabilità da rischio totalmente illecito » (45). Non ci è dato sapere se queste « due » figure di colpa, strutturalmente « diverse », fossero nelle ‘‘intenzioni’’ di tutti gli autori del progetto, oltreché negli intenti di Pagliaro, da tempo sostenitore, già de jure condito, di una tesi del genere (46). Sta di fatto che non vi è traccia nel Progetto di « due » figure di colpa, e, tantomeno, di « quelle » due forme evocate da Pagliaro: la forma « tradizionale » e la forma « nuova ». Si direbbe, anzi, che è tassativamente escluso che vi possano essere. L’art. 12, n. 1 recita infatti che si prevederanno « due sole forme di (44) Criticano questa dilatazione, oltre a Pagliaro, tutti i più reputati studiosi: nella manualistica, cfr., ad es., ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. P.G., dodicesima edizione, 1991, pp. 331 e 344; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. P.G., terza edizione, 1995, p. 493; FIORE, Diritto penale. P.G., I, 1993, p. 252; MANTOVANI (nota 29), p. 348 s.; PADOVANI (nota 29), p. 271; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, seconda edizione, 1995, p. 430. (45) PAGLIARO (nota 39), p. 385. (46) Cfr., PAGLIARO (nota 29), p. 321 ss. e i precedenti lavori ivi citati.


— 435 — imputazione: il dolo e la colpa »; una terza forma di imputazione è quindi rimasta nella penna e nelle intenzioni di Pagliaro, senza trapelare neppure nella ‘‘Relazione’’, dove si legge — a commento del testo dell’art. 12 — che « senza dolo né colpa non può esservi responsabilità penale »: dolo o colpa — tertium non datur. Nell’assoluto silenzio del Progetto, non entro perciò nel merito di quella terza forma di responsabilità — accanto al dolo e alla colpa —, che, dice Pagliaro, « sostituisce le forme attualmente etichettate come di responsabilità obiettiva » (47). Mi limito solo ad osservare che, se il Progetto l’avesse proposta, saremmo sì in presenza di una rilevante scelta politico-criminale, ma in aperto contrasto con la Costituzione: si regredirebbe verso una versione edulcorata del versari in re illicita, già bollata come tale quando nel ’58 la propose in Germania Schweickert (48). Pagliaro altrove sostiene, è vero, che non sarebbe esatta la tesi di quanti ritengono « che nell’art. 27 comma 1o Cost. ‘‘responsabilità personale’’ voglia dire ‘‘responsabilità per dolo o per colpa’’ », muovendo dal presupposto, respinto da Pagliaro, che « ‘‘personale’’ sarebbe solo la responsabilità ‘‘colpevole’’ e, a sua volta, ‘‘colpevolezza’’ significherebbe ‘‘dolo o colpa’’ » (49). Senonché Pagliaro critica questa tesi attribuendone la paternità alla « dottrina », dimenticando che è stata la Corte costituzionale, già nella storica sentenza n. 364/88, a considerare la responsabilità « personale », di cui parla l’art. 27 Cost., sinonimo di responsabilità « colpevole » (50); e dimenticando inoltre che in una successiva sentenza dello stesso anno — la n. 1085 del 13 dicembre 1988 (51), giustamente e magnificamente celebrata da Carlo Fiore e Angioni (52) — la Corte ha affermato proprio quel che Pagliaro nega nei suoi « Principi », ancora nel 1995. Scrive infatti Pagliaro: « non è affatto detto che la responsabilità penale debba richiedere almeno la colpa » (53); senonché è proprio quello che ha detto la Corte costituzionale: sin dal dicembre del 1988 ha infatti statuito, con tutta la chiarezza desiderabile, che « dal comma 1o dell’art. 27 Cost. (...) risulta indispensabile (...) il collegamento (almeno nella forma della colpa) tra soggetto agente e fatto » (54). (47) PAGLIARO (nota 39), p. 385. (48) Arth. KAUFMANN, Das Schuldprinzip, seconda edizione, 1976, p. 146 s.; PAGLIARO (nota 29), p. 331, nota 93, rinvia, espressamente, al lavoro di SCHWEICKERT, Strafrechtlichen Haftung für riskante Verhalten, in ZStW, 1958, p. 394 ss. E cfr. pure MARINUCCIDOLCINI (nota 3), p. 98 s. nota 55. (49) PAGLIARO (nota 29), p. 326. (50) Cfr. supra nota 3. (51) Cfr. supra nota 27. (52) C. FIORE (nota 44), p. 361 s.; ANGIONI, Condizioni di punibilità e principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1989, p. 1440 ss. (53) PAGLIARO (nota 29), p. 317. (54) Corte cost. 13 dicembre 1988 n. 1085 (nota 26), p. 297.


— 436 — Richiedere meno della colpa — la « responsabilità da rischio totalmente illecito » patrocinata in Italia da Pagliaro — significherebbe, perciò, disattendere la Costituzione; ma non essendo quel che ha richiesto il Progetto in esame, possiamo passare ad altro tema. c) Quando Pagliaro suggerisce la sua « terza » forma di « responsabilità da rischio totalmente illecito », pensa dichiaratamente, come si sa, alle ipotesi di responsabilità oggettiva, paventando — si suppone — effetti indesiderati sul terreno politico-criminale derivanti dall’apposizione del limite della colpa « tradizionale » ai casi di eventi causati da « condotte illecite rischiose » (delitti aggravati dall’evento, delitti preterintenzionali, ecc.). Si tratta — purtroppo — di una paura infondata. L’esperienza della Germania e dell’Austria sta a mostrare che il limite della colpa (« almeno per colpa »), codificato dopo averlo richiesto insistentemente per decenni, non è affatto in grado — come Dolcini segnalò già nel 1979 (55) — di apporre un vero limite alla responsabilità oggettiva: si ritiene infatti che la commissione di un fatto-base pericoloso dia vita, eo ipso, a una condotta colposa rispetto all’evento ulteriore causato da quel fatto. Talvolta — in Austria — oggi si attenua quell’automatismo, dicendo che solo « di regola » vi è colpa; si ammette però che è alquanto problematico lo spazio « pratico » per le « eccezioni » (56). In Germania — come ha testimoniato da noi Paeffgen a Siracusa (57), e come si può leggere in tutti i manuali — le cose non vanno diversamente: il limite della colpa è solo apparente, e quindi solo apparente è il rispetto del principio di colpevolezza. Si cercano perciò vie d’uscita o nella sostituzione dalla colpa « tradizionale » con la colpa « grave » (continuando nella strada talvolta percorsa dal legislatore), o nella eliminazione totale dei « delitti qualificati dall’evento » (58). Di tutto ciò non v’è la minima eco nel progetto, benché proclami che bisognerà « escludere qualsiasi forma di responsabilità incolpevole » (art. 12, n. 1). È quindi impossibile ogni discussione di merito. Nell’attesa di un altro progetto, possiamo enunciare un’ultima tesi. 5. Terza tesi: il ‘‘Progetto 1992’’ viola i principi costituzionali di sussidiarietà, proporzione e colpevolezza ampliando a dismisura l’area (55) DOLCINI, L’imputazione dell’evento aggravante. Un contributo di diritto comparato, in questa Rivista 1979, p. 814 ss. (56) BURGSTALLER, Spezielle Fragen der Erfolgszurechnung und der obiektiven Sorgfaltswidrigkeit, in Festschrift für Pallin, 1989, p. 55 s. ed ivi le citazioni essenziali, anche di precedenti lavori dello stesso autore. (57) PAEFFGEN, Soluzioni e problemi dell’imputazione dell’evento in rapporto ai delitti aggravati dall’evento nel diritto tedesco, in STILE (a cura di), Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, 1989, p. 87 ss. (58) Per tutti cfr. ROXIN (nota 22), p. 206 ss.


— 437 — della responsabilità per colpa. — Tralascio di commentare diffusamente, come meriterebbe, la formula utilizzata nell’art. 27 del Progetto — sotto la rubrica « concorso nei delitti colposi e nelle contravvenzioni » — che recita così: « considerare l’opportunità di ammettere un concorso colposo in fatto doloso ». Basterà un solo commento: affidare al potere esecutivo le valutazioni di « opportunità » sulla delimitazione dell’area della responsabilità colposa sul terreno del concorso, vuol dire rilasciargli una vera e propria cambiale in bianco in ordine a scelte schiettamente politico-criminali. Per inciso: questa delega in bianco fa il paio con quella contenuta nella formula impiegata all’art. 10 in tema di rapporto di causalità: « se necessario — si dice testualmente — individuare altri criteri oggettivi di imputazione ». Due domande retoriche: « se necessario », ma agli occhi di chi? e quali sono, e chi ci dirà quali sono questi « altri » criteri oggettivi di imputazione? Non è invece retorico chiedersi — come han già chiesto Grosso e, in altra sede, Pulitanò —, se sia razionale e ben motivata la scelta contenuta nell’art. 29. Affrontando il problema della responsabilità del concorrente per il reato diverso da quello voluto, il progetto ha ritenuto di risolverlo adottando dichiaratamente il modello dei reati di « agevolazione colposa a un fatto doloso ». Si tratta, come sappiamo, di un modello da tempo presente nel nostro ordinamento; e da buoni dommatici, potremmo ritenerci paghi di questa constatazione, e concludere: nulla di nuovo sotto il sole. Senonché, qui non siamo in veste di classificatori delle norme penali esistenti. Siamo chiamati a discutere di una progettata nuova scelta politico-criminale che, se codificata, avrebbe una portata dirompente, perché dilaterebbe a dismisura l’area della responsabilità colposa — chiunque risponderebbe per aver agevolato, per colpa, la commissione di qualunque reato doloso. Con questo bilancio finale: a fianco degli attuali e futuri delitti dolosi, si creerebbero altrettante « forme di manifestazione » colpose — altrettante nuove ipotesi di responsabilità per colpa. Una simile proposta, si noti, fa a pugni proprio con la logica politicocriminale sottostante all’adozione da parte del legislatore del modello dei reati di agevolazione colposa. Sono pochissimi reati — una decina (59) — e tutti frutto di scelte ponderate, selettive, finalizzate alla tutela di beni di grandissima rilevanza, la cui salvaguardia è letteralmente nelle mani di persone sulle quali incombono, per la loro posizione fattuale o giuridica, speciali doveri di garanzia e di vigilanza. Si tratta infatti, come ha mostrato benissimo Albeggiani, di (pochissimi) reati propri, nei quali in gioco (59) ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, 1984, pp. 4-6 nota 5, menziona tre ipotesi previste nel codice penale comune (artt. 254, 259 e 350), due ipotesi previste nel codice penale militare di pace (artt. 97 e 109) e tre nel codice penale militare di guerra (artt. 55, 71 e 74).


— 438 — sono beni istituzionali di alto o altissimo rango (come l’integrità delle opere militari, la segretezza degli atti e delle notizie concernenti la sicurezza militare e politica dello Stato, l’integrità dei sigilli, delle navi e degli aeromobili militari); beni che, agli occhi del legislatore, hanno bisogno di essere protetti con un’alta e larga muraglia: non solo dagli assalti di chi li offenda dolosamente, ma anche dalla negligenza o imprudenza di quella ristretta cerchia di « garanti » (custodi, possessori, preposti alla vigilanza, depositari dei segreti ecc.) che, non adempiendo ai loro doveri di protezione, ne agevolano per colpa l’altrui aggressione dolosa (60). Alla stessa logica obbediva anche la proposta — che con Romano ho avanzato più di vent’anni fa incontrando qualche seguito (61) — di creare un’ipotesi di agevolazione colposa, da parte dei sindaci, dei reati dolosi commessi dagli amministratori nella gestione sociale. Probabilmente quella proposta andrebbe ripensata, alla luce della sempre più evanescente funzione di controllo dei sindaci, e comunque integrata includendo gli ‘‘agenti’’ delle società di revisione nel novero dei garanti e, conseguentemente, dei potenziali responsabili di agevolazione colposa. In ogni caso, si tratterebbe di un’ulteriore isolata ipotesi di agevolazione colposa del reato doloso altrui, caratterizzata — come le esistenti — da una mirata valutazione del bisogno di tutela di taluni beni importanti — come quelli coinvolti dalla gestione degli enti economici — non solo nei confronti di chi li aggredisca volontariamente, ma anche di chi agevoli quell’aggressione, venendo meno, per negligenza imprudenza o imperizia, ai propri doveri istituzionali di garanzia e protezione. Morale: de jure condito come de jure condendo, quando si utilizza lo schema dell’« agevolazione colposa di un delitto doloso », si obbedisce sempre al principio di sussidiarietà — oggi principio costituzionale (62) —, che è all’origine del resto della consolidata tendenza politico-criminale, rammentata fin dagl’inizi, a punire solo in via d’eccezione i fatti delittuosi commessi per colpa. Il ‘‘Progetto 1992’’ utilizza invece il modello dell’agevolazione colposa per far diventare ‘‘regola’’ l’eccezione. Né si tratta di un risultato involontario: « la responsabilità (per colpa) — si legge infatti nella Relazione — viene estesa a tutte le fattispecie ». Così proponendo, però, si mette letteralmente tra parentesi il principio costituzionale di sussidiarietà. La proposta del ‘‘Progetto 1992’’ ignora anche il principio di proporzione tra pena edittale e grado della colpevolezza. Il legislatore l’ha sem(60) Cfr. ALBEGGIANI (nota 59), pp. 7, 15 ss. (61) MARINUCCI-ROMANO, Tecniche normative nella repressione penale degli abusi degli amministratori di società per azioni, in Il diritto penale delle società commerciali, 1972, p. 111. Per le citazioni degli autori che hanno raccolto quella proposta cfr. ALBEGGIANI (nota 59), p. 226 ss., ed ivi altre « proposte di politica legislativa ». (62) Cfr. MARINUCCI-DOLCINI (nota 3), p. 139 s.


— 439 — pre rispettato, anche quando non era un vincolante principio costituzionale. Basterebbe evocare l’omicidio doloso e l’omicidio colposo: l’enorme differenza di pena edittale che li separa (21 anni di reclusione la pena minima dell’omicidio doloso; 5 anni la pena massima dell’omicidio colposo) rispecchia manifestamente l’enorme ‘‘differenza di colpevolezza’’ che corre, ceteris paribus, tra il ‘‘grado’’ del dolo e quello della colpa. Se ne può trovare la conferma, del resto, proprio nelle ipotesi di « agevolazione colposa » selezionate nella parte speciale del codice penale comune e dei codici penali militari (di pace e di guerra). La loro pena minima è, perlopiù, da 5 a 20 volte inferiore alla pena minima dei corrispondenti reati dolosi « agevolati per colpa », e lo scarto tra le rispettive pene massime non raggiunge quelle misure, solo perché nel nostro sistema la pena detentiva temporanea non può superare, salvo deroghe, i ventiquattro anni di reclusione (63). Si legga ora l’onnicomprensiva figura di agevolazione colposa delineata nel Progetto e si vedrà che ignora il principio di proporzione tra misura della pena e grado della colpevolezza: la pena da « comminare » — recita infatti l’art. 129 — è quella « stabilita per il reato (doloso) commesso », « diminuita » (non già 5, 8, 10 volte, bensì solo) « da un terzo alla metà »! Era impossibile risolvere in altro modo il problema del « reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti »? Grosso ci ha ricordato che dobbiamo riconquistare al nostro sistema le regole dello Stato liberale anche in materia di colpevolezza, arricchite — s’intende — da quella crescita culturale che accompagna, da sempre, la storia del principio di colpevolezza, e il cui frutto più maturo è la riconosciuta rilevanza dell’errore inevitabile sulla legge penale. Più indietro delle conquiste dello Stato liberale non è però lecito andare, a meno che non premano — in modo irresistibile e persuasivo — dichiarate controindicazioni politico-criminali. La ‘‘Relazione’’ che accompagna il ‘‘Progetto 1992’’ non accenna minimamente a controindicazioni del genere. Anzi, dice espressamente, e soltanto, che « la nuova disciplina della c.d. responsabilità anomala (attuale art. 116) » « si segnala sul piano dell’adeguamento della normativa al principio di colpevolezza ». Si vede, però, che il ‘‘Progetto 1992’’ ha del principio di colpevolezza — come principio che mira a personalizzare al massimo la responsabilità penale — una visione più arretrata di quella difesa nel ’30 dalla Commissione parlamentare, i cui membri (o la loro maggioranza) erano ancora fedeli alla loro formazione culturale liberale. Tentando (inutilmente!) di impedire il varo dell’art. 120 del Progetto Rocco (l’attuale art. 116), la Commissione parlamentare lo bollò come « un caso di responsabilità oggettiva », senza andare alla ricerca di soluzioni di com(63)

Cfr. il quadro normativo tracciato da ALBEGGIANI (nota 59), p. 4 ss.


— 440 — promesso, che avrebbero comportato compromessi sui principi: la Commissione infatti propose, senza alternative, di « rivedere l’articolo, sembrando che il reato diverso, se non voluto da taluno dei concorrenti, non debba essere a suo carico » (64). Allora, impunità? Sì, se davvero — come afferma la ‘‘Relazione’’ al progetto in esame — si vuole « adeguare la normativa al principio di colpevolezza », quale lo intendevano almeno i giuristi dell’Italia liberale. Per tutti, lasciamo parlare Manzini, grande interprete di quella Italia, prima di diventare l’interprete ufficiale dell’Italia fascista. Nell’edizione del 1920 del suo « Trattato » insegnava: « Se l’esecutore commette un reato diverso da quello voluto e supposto dal complice, questi non può imputarsi di ciò che non volle e non seppe, ancorché l’opera sua possa essere stata giovevole all’altro. Codesta regola — concludeva icasticamente Manzini — discende dal principio della personalità dell’imputabilità » (65). 6. Una postilla sul metodo della codificazione e sulla legittimità costituzionale della delegazione al governo dell’esercizio della funzione legislativa nella materia penale. — Sul metodo della codificazione, non aggiungo nullo a quanto Dolcini ed io abbiamo scritto con acribia fin eccessiva (66). Mi limito solo a commentare due asserzioni di Pagliaro, per richiamare l’attenzione di noi tutti sugli inavvertiti eccessi polemici cui può arrivare il nostro dibattito, se ci sfugge di mano. Le due asserzioni di Pagliaro muovono da una premessa di storia costituzionale: « l’istituto del Parlamento — dice Pagliaro — non è pensato, in una democrazia liberale, allo scopo di approvare codici » (67). Ora, è vero, il Parlamento dell’Italia liberale, ad esempio, non aveva una legittimazione « democratica », essendo l’espressione di un suffragio non universale, ma Pagliaro pensa a un’inettitudine del Parlamento, comunque eletto, ad essere il luogo in cui si possa elaborare un’opera tanto complessa qual è sicuramente un nuovo codice penale. Contro questa asserzione parlano però i fatti: basta sfogliare i mirabili volumi di Crivellari, per toccare con mano il lavoro dei tanti (oscuri o notissimi) parlamentari della fine ’800 che, esaminando in un ventennio numerosi progetti governativi, vararono alfine il codice Zanardelli. Rinvio al citato lavoro sul metodo della codificazione per maggiori dettagli, anche in relazione al lavoro dei Parlamenti dei tanti Stati degli Usa che negli ultimi decenni si sono (64) Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, IV, 1930, p. 655. (65) MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, II, seconda edizione, 1920, p. 344. (66) MARINUCCI-DOLCINI, Note sul metodo della codificazione penale, in questa Rivista, 1992, p. 385 ss. (67) PAGLIARO (nota 39), p. 375.


— 441 — dati nuovi codici penali (68). E vengo alle due asserzioni di Pagliaro evocato poc’anzi. La prima è la seguente: « è inutile — scrive Pagliaro — stare a gingillarsi(!) menzionando parziali leggi di riforma del codice penale approvate direttamente dal Parlamento in altri Paesi (Germania ed Austria) » (69). « Gingillarsi »? Non mi sembra che Pagliaro renda giustizia al gran peso che, anche nei suoi tanti e importanti lavori, ha sempre riconosciuto alla cultura penalistica di quei Paesi; anche se è un peso che non va esagerato: ripeto ad nauseam che è fuorviante lo « spirito di Lourdes » che anima i giovani quando vanno in quei Paesi, quasi fossero luoghi in cui si apprende, miracolosamente, « il » diritto penale. Banditi perciò tutti gli eccessi, e passando al merito dell’asserzione di Pagliaro, è semplicemente inesatto che il codice penale austriaco del ’74 sia una « parziale » legge di riforma: è stata scritta ex novo sia la parte generale che la parte speciale, innovando radicalmente il codice del 1852, che era vecchissimo non solo per l’anno di nascita (70). Quanto alla Germania, la riforma del codice si è arenata nel ’75 alla « parte generale », non perché il Parlamento fosse congenitamente inidoneo ad affrontare organicamente i temi di « parte speciale », bensì perché il mutare del quadro politico — la fine della « grande coalizione » — ha impedito di sciogliere i tanti nodi politici e culturali che aggrovigliano soprattutto la parte speciale. Cionondimeno, negli anni successivi alla riforma della « parte generale » il codice penale è stato innovato in settori cruciali della « parte speciale », come il diritto penale dell’economia, dell’ambiente, della libertà sessuale, del sentimento religioso e dell’interruzione della gravidanza, per tacere delle tante nuove norme in materia di criminalità organizzata e di terrorismo (71). Poca (68) MARINUCCI-DOLCINI (nota 66), p. 387 ss. (per il codice Zanardelli) e p. 403 ss. (per le codificazioni statunitensi). Si legge, o si sente dire, che il codice Zandarelli è stato emanato « a mezzo di legge delega » e, quindi, che la sua elaborazione non fu frutto del lavoro e del voto del Parlamento. Ora, è vero che il codice Zanardelli venne emanato con un decreto reale (30 giugno 1889), ma — come recitava il decreto in premessa — sulla base della « legge 22 novembre 1889, numero 5801 (serie 3), con la quale il Governo del Re fu autorizzato a pubblicare il Codice penale per il Regno d’Italia allegato alla legge stessa, introducendo nel testo quelle modificazioni che, tenuto conto dei voti del Parlamento, ravvisasse necessarie per emendarne le disposizioni e coordinarle tra loro e con quelle di altri codici e leggi ». Il codice fu dunque emanazione del Parlamento, che lo approvò con legge 22 ottobre 1888, e il ruolo del Governo, delegato a pubblicarlo, fu di introdurvi le « modificazioni » richieste « dal Parlamento » per « eemandare» talune disposizioni. La modestissima portata di quelle modificazioni può essere verificata esaminando — oltre ai volumi del Crivellari — il prezioso « Codice penale del Regno d’Italia-Testo ufficiale. Raffronti, commenti articolo per articolo, atti preparatori, relazione ministeriale, indici », ed. Vallardi, Milano, 1889. (69) PAGLIARO (nota 39), p. 376. (70) Cfr. MARINUCCI-DOLCINI (nota 64), p. 399 ss. (71) Per un elenco delle principali innovazioni cfr. ROXIN (nota 22), p. 58 s. e JE-


— 442 — cosa? Lasciamo il giudizio a Jescheck: « il riassetto della parte speciale è progredito in modo molto ampio... Resta ancora aperta la riforma dei delitti contro la vita » (72). Breve: parziale — anche se molto ampia — è stata la riforma del codice penale tedesco, perché un nuovo codice penale non « salta su » come Minerva dalla testa di Giove: la sua gestazione è necessariamente lunga e non potrà mai evitare le doglie del parto. D’altra parte, i parlamentari tedeschi hanno avuto la fortuna di avere a disposizione due grandi e analitiche progettazioni della ‘‘parte speciale’’ — quella governativa del ’62 e i tanti progetti settoriali del gruppo dell’AE — da utilizzare come base di partenza per altre riforme della « parte speciale »: una fortuna che ai parlamentari italiani e a noi è stata negata di recente, quando il governo, anziché redigere o far redigere un dettagliato progetto di nuovo codice, ha imboccato la strada del progetto di legge-delega, che è congenitamente inidoneo, per la sua vaghezza, a fornire al Parlamento una verificabile base di discussione per dire « sì » o « no », al momento di varare la pur sempre necessaria legge di delegazione. Frutto di un involontario equivoco è poi l’altra affermazione di Pagliaro riferita all’esperienza francese: starebbe a confermare « la pratica impossibilità che un Parlamento si occupi direttamente della stesura di un intero codice penale ». « In Francia — dice Pagliaro — per riformare largamente il codice penale sono state emanate quattro leggi (...) », e « ognuna di queste leggi consta di un solo brevissimo articolo, il quale si limita ad indicare che le nuove norme penali ‘‘sont fixéés par le livre... (I, II, III e IV) annexé a la presente loi’’ » (73). Orbene, l’equivoco sta in ciò: leggendo verosimilmente su qualche edizione privata (Dalloz?) il nuovo codice, Pagliaro ha creduto che non sia stato il Parlamento a elaborare e redigere i quattro libri del codice, « annessi » ai quattro articoli delle leggi nn. 92-683, 92-684, 92-685, 92-686 del 22 luglio 1992. Si sarebbe ovviamente ricreduto, se avesse avuto la buona ventura (che mi è capitata seguendo una tesi di laurea sulla codificazione francese) di avere fra le mani gli amplissimi « Travaux préparatoires » delle quattro leggi, i quali raccolgono i progetti, i rapporti dei parlamentari rappresentanti delle ‘‘Commissioni giustizia’’ del Senato e dell’Assemblea Nazionale e della ‘‘Commissione mista paritaria’’ composta da membri del Senato e dell’Assemblea Nazionale, le discussioni in Commissione e in aula, e, infine, le approvazioni di quei quattro libri da parte dei due rami del Parlamento francese, il cui intenso lavoro triennale fu così esaltato da Michelle Vauzelle, guardaSCHECK,

Einführung allo Strafgesetzbuch pubblicato dalla casa editrice Beck, 1993, pp. XXIV-XXXI. (72) JESCHECK (nota 71), p. XXXI. (73) PAGLIARO (nota 39), p. 376 nota 2.


— 443 — sigilli in carica nel luglio del ’92: « Sarà prima volta nella storia della Repubblica che un codice penale sarà adottato democraticamente dal Parlamento...; senatori e deputati hanno attivamente partecipato, per tre anni, a un immenso lavoro legislativo, esaminando successivamente i quattro progetti di legge, nel corso di dibattiti talvolta appassionati, ma sempre di altissimo livello giuridico » (74) (75). Nella comparazione con altri ordinamenti, va da sé, capita a tutti — (74) Cfr. seduta del 7 luglio 1992, in Journal officiel de la République Française, Débat Parlamentaires, Sénat, 8 luglio 1992, p. 2547 e 2548. (75) I passaggi e le citazioni essenziali si possono così compendiare. Per evitare l’allungamento dei tempi di esame, nel febbraio 1989 il nuovo guardasigilli, Arpaillange, a nome del primo ministro Rocard, scrive una « lettera rettificatrice » nella quale annuncia che le due assemblee esamineranno separatamente e alternativamente il progetto Badinter diviso in altrettanti libri, quante sono le parti del nuovo codice, iniziando dal primo libro; « ci fermeremo sistematicamente — dichiarò in Senato Rocard dall’inizio dei lavori — prima della lettura definitiva, in modo che tutte le promulgazioni siano fatte nello stesso momento, al termine della procedura, e che l’insieme del nuovo codice penale entri in vigore alla stessa data » (Cfr. Débats Parlamentaires. Journal Officiel de la République Française, Sénat — d’ora in poi: JO.S. e JO.AN., per gli atti dell’Assemblea Nazionale —, CR n. 18 del 10 maggio 1989, p. 550). Quanto al metodo di lavoro, basterà ricordare che i testi dei progetti vennero esaminati e discussi dalle Commissioni permanenti « de Lois constitutionnelles, de législation, du suffrage universel, du règlement e d’administration générale » sia del Senato che dell’Assemblea Nazionale, composte (rispettivamente) di 42 e 70 membri (con qualche variazione nel corso degli anni), i cui risultati (con l’indicazione degli emendamenti non approvati) furono compendiati nei « rapporti » dei parlamentari incaricati, per essere poi discussi in Aula, per l’approvazione del testo dei vari libri, in prima e seconda lettura. La composizione della disparità di vedute tra le due assemblee venne affidata ad una « Commissione mista paritaria », designata ai sensi dell’art. 45 Cost., composta da sette senatori e sette deputati, le cui proposte vennero approvate dall’Assemblea Nazionale e, successivamente, dal Senato. Questo, in sintesi, lo svolgimento dei lavori: LIBRO I: Senato: Progetto di legge n. 300 (1985-1986) e lettera di rettificazione n. 213 (1988-1989); Rapporto Rudloff, in due tomi, (documento n. 271) a nome della Commissione legislativa, annesso al verbale del 27 aprile 1989; Sedute di discussione del 9, 10, 11, 16, 17 e 18 maggio 1989 e adozione del testo nella seduta del 18 maggio 1989 (JO.S. del 10, 11, 12, 17, 18 e 19 maggio 1989); Assemblea Nazionale: Progetto di legge adottato dal Senato (documento n. 693); Rapporto Marchand (documento n. 896) a nome della Commissione legislativa, annesso al verbale della seduta del 2 ottobre 1989; Sedute di discussione del 10, 11 e 12 ottobre 1989 e adozione del testo nella seduta del 12 ottobre 1989 (JO.AN. dell’11, 12 e 13 ottobre); Senato: Progetto di legge, modificato in prima lettura dall’Assemblea Nazionale (documento n. 15), annesso al verbale della seduta del 18 ottobre 1989; Rapporto di Rudloff (documento n. 199), annesso al verbale della seduta del 2 aprile 1990; Sedute di discussione del 10 e 11 aprile 1990 e adozione del testo nella seduta dell’11 aprile 1990 (JO.S. dell’11 e 12 aprile 1989); Assemblea Nazionale: Progetto di legge, adottato con modifiche dal Senato in seconda lettura (documento n. 1275), annesso al verbale della seduta del 12 aprile 1990; Rapporto Marchand (documento n. 1345), annesso al verbale della seduta del 10 maggio 1989; Discussione e adozione del testo nella seduta del 17 maggio 1990 (JO.AN. del 18 maggio 1990); Assemblea Nazionale: Rapporto Sapin (n. 1945), a nome della Commissione mista paritaria (documento n. 1945), annesso al verbale della seduta del 2 aprile 1991; Discussione e adozione del testo nella seduta del 2 luglio 1992 (JO.AN. del 3 luglio 1992); Senato: Progetto di legge n. 308; Rapporto Rudloff, a nome


— 444 — anche a seri studiosi stranieri quando parlano del nostro ordinamento — di fraintendere il reale stato delle cose, tratti in inganno magari da pur accreditati manuali, commentari, edizioni non ufficiali dei testi legislativi. della Commissione mista paritaria (documento n. 256), annesso al verbale della seduta del 3 aprile 1991; Discussione e adozione del testo nella seduta del 7 luglio 1992 (JO.S. dell’8 luglio 1992); Promulgazione legge n. 92-683 del 22 luglio 1992; LIBRO II: Senato: Progetto di legge n. 214; Rapporto Jolibois, a nome della Commissione legislativa (documento n. 295); Sedute di discussione del 23, 24, 25, 30 aprile, 14 e 22 maggio 1991 e adozione del testo nella seduta del 22 maggio 1991 (JO.S. del 24, 25, 26, 30 aprile, 15 e 23 maggio 1991); Assemblea Nazionale: Progetto di legge adottato in prima lettura dal Senato (documento n. 2061), registrato alla Presidenza dell’Assemblea Nazionale il 23 maggio 1991; Rapporto Pezet, a nome della Commissione legislativa (documento n. 2121), registrato il 13 giugno 1991; Discussione nelle sedute del 20 e 21 giugno 1991 e adozione del testo nella seduta del 21 giugno 1991 (JO.A. del 21 e 22 giugno 1991); Senato: Progetto di legge adottato con modifiche dall’Assemblea Nazionale in prima lettura (documento n. 411), annesso al verbale della seduta del 24 giugno 1991; Rapporto Jolibois (documento n. 485), annesso al verbale della seduta del 5 luglio 1991; Discussione nelle sedute del 2 e 3 ottobre 1991 e adozione del testo nella seduta del 3 ottobre 1991 (JO.S. del 3 e 4 ottobre 1991); Assemblea Nazionale: Progetto di legge adottato con modifiche dal Senato (documento n. 2251), registrato alla Presidenza il 4 ottobre 1991; Rapporto Pezet a nome della Commissione legislativa (documento n. 2392); Discussione e adozione del testo nella seduta del 2 dicembre 1991 (JO.AN. del 3 dicembre 1991); Assemblea Nazionale: Rapporto Pezet a nome della Commissione paritaria mista (documento n. 2879); Discussione e adozione nella seduta del 1o luglio 1992 (JO.AN. del 3 luglio 1992); Senato: Progetto di legge n. 120; Rapporto Jolibois a nome della Commissione mista paritaria (documento n. 477); Discussione e adozione del testo nella seduta del 7 luglio 1992 (JO.S. dell’8 luglio 1992); Promulgazione legge n. 92-683 del 22 luglio 1992; LIBRO III: Senato: Progetto di legge n. 215; Rapporto Rudloff, a nome della Commissione legislativa (documento n. 54), annesso al verbale della seduta del 23 ottobre 1991; Discussione nelle sedute del 29 e 30 ottobre 1991 e adozione del testo nella seduta del 30 ottobre 1991 (JO.S. del 30 e 31 ottobre 1991); Assemblea Nazionale: Progetto di legge, adottato dal Senato (documento n. 2309), registatto alla Presidenza dell’Assemblea Nazionale il 31 ottobre 1991; Rapporto Hyest, a nome della Commissione legislativa (documento n. 2468); Discussione e adozione del testo nella seduta del 17 dicembre 1991 (JO.AN. del 18 dicembre 1991); Senato: Progetto di legge adottato con modifiche dall’Assemblea Nazionale in prima lettura (documento n. 212), annesso al verbale della seduta del 28 dicembre 1991; Rapporto Thyraud, a nome della Commissione legislativa (documento n. 261); Discussione e adozione del testo nella seduta del 22 aprile 1992 (JO.S. del 23 aprile 1992); Assemblea Nazionale: Progetto di legge adottato con modifiche dal Senato in seconda lettura (documento n. 2626); Rapporto Hyest, a nome della Commissione legislativa (documento n. 2706); Discussione e adozione del testo nella seduta del 21 maggio 1992 (JO.AN. del 22 maggio 1992); Assemblea Nazionale: Rapporto Hyest, a nome della Commissione paritaria mista (documento n. 2874); Discussione e adozione nella seduta del 2 luglio 1992 (JO.AN. del 3 luglio 1992); Senato: Rapporto Thyraud, a nome della Commissione mista paritaria (documento n. 475); Discussione e adozione del testo nella seduta del 7 luglio 1992 (JO.S. dell’8 luglio 1992); Promulgazione legge n. 92-685 del 22 luglio 1992; LIBRO IV: Assemblea Nazionale: Progetto di legge n. 2083; Rapporto Colcombet, a nome della Commissione legislativa, con annesso parere del deputato Paecht, a nome della Commissione difesa (documento n. 2244); Discussione nelle sedute del 7 e 8 ottobre 1991 e adozione del testo nella seduta dell’8 ottobre 1991 (JO.AN. dell’8 e 9 ottobre 1991); Senato:


— 445 — Sta di fatto, comunque, che l’esperienza francese — come quella di tanti altri ordinamenti, europei ed extraeuropei — mostra quel che Pagliaro nega: cioè che è « praticamente possibile » discutere ed approvare in Parlamento un nuovo codice, rispettando così il monopolio costituzionale del potere legislativo nella produzione delle norme penali. Non posso certo affrontare — in chiusura — il difficilissimo problema, sollevato anni fa da Carboni e Bricola, della compatibilità dell’intervento del potere esecutivo, nella forma del decreto delegato, con la ratio politica della riserva di legge nella materia penale: cioè la separazione dei poteri statuali, e l’attribuzione della potestà punitiva al Parlamento, espressione della sovranità popolare, a tutela del cittadino dagli abusi del potere esecutivo, oltreché del potere giudiziario. Mi limito a formulare due osservazioni. Mi chiedo: se si ritiene (con alcuni autori del Progetto) che contrastino con la ratio politica della riserva di legge le norme legislative che, per descrivere il precetto penale, rinviano in funzione integrativa a provvedimenti dell’esecutivo (come i regolamenti) caratterizzati da « generalità e astrattezza », e se è questa generalità e astrattezza la ragione della loro incompatibilità con l’art. 25 Cost., non si comprende perché non contrastino con l’art. 25 Cost. le norme legislative che facciano rinvio, in funzione largamente integratrice, a tipici provvedimenti dell’esecuProgetto di legge, adottato dall’Assemblea Nazionale in prima lettura (documento n. 13); Rapporto Masson, a nome della Commissione legislativa (documento n. 274); Discussione nelle sedute del 22 e 23 aprile 1992 e adozione del testo nella seduta del 23 aprile 1992 (JO.S. del 23 e 24 aprile 1992); Assemblea Nazionale: Progetto di legge adottato con modifiche dal Senato in prima lettura (documento n. 2631); Rapporto Colcombet (documento n. 2697); Discussione e adozione del testo nella seduta del 21 maggio 1992 (JO.AN. del 22 maggio 1992); Senato: Progetto di legge adottato con modifiche dall’Assemblea Nazionale in seconda lettura (documento n. 361); Rapporto Masson (documento n. 436); Discussione e adozione nella seduta del 24 giugno 1992 (JO.S. del 25 giugno 1992); Assemblea Nazionale: Progetto di legge adottato con modifiche dal Senato in seconda lettura (documento n. 2825); Rapporto Colcombet, a nome della Commissione mista paritaria (documento n. 2851); Discussione e adozione del testo nella seduta del 2 luglio 1992 (JO.AN. del 3 luglio 1992); Senato: Rapporto Masson, a nome della Commissione mista paritaria (documento n. 466); Discussione e approvazione del testo nella seduta del 7 luglio 1992 (JO.S. dell’8 luglio 1992); Promulgazione legge n. 96-686 del 22 luglio 1992. Quanto al sostegno politico del nuovo codice penale, i verbali documentato il voto a favore del gruppo socialista, l’astensione dei gruppi di centro destra, il voto contrario del gruppo comunista. Schieramenti parzialmente diversi in talune votazioni, come quella relativa all’approvazione finale del libro II, per la presenza della norma che incrimina « l’autoaborto » della donna. Nella Assemblea Nazionale, il dissenso di 15 socialisti (tra i quali il relatore supplente della commissione mista paritaria, Alain Vidalies) si è tradotto nella non partecipazione al voto (cfr. seduta del 2 luglio 1992, in JO.AN. del 3 luglio 1992, n. 56(2), pp. 3129, 3130 e 3203). In Senato, per contro, proprio la presenza dell’incriminazione dell’« auto-aborto » ha garantito l’approvazione finale del libro II — nel testo adottato dall’Assemblea Nazionale cinque giorni prima — anche da parte dei gruppi di centro-destra: contrario il solo gruppo comunista (cfr. seduta del 7 luglio 1992, n. 62, JO.S., 8 luglio 1992, p. 2505).


— 446 — tivo « generali e astratti » quali sono, per eccellenza, i « decreti legislativi » (76). Le cose non vanno diversamente, in termini di frontale contrasto con la ratio politica della riserva di legge, quando ci si collochi dall’angolo visuale di Pagliaro: da un lato premette con vigore che « la storia del principio di legalità » e del « suo significato politico (...) è stata ed è quella di salvaguardare il cittadino dai possibili abusi del potere esecutivo » (77), e dall’altro lato, non potendo non avere dinnanzi agli occhi i « possibili abusi del potere esecutivo » nell’esercizio della funzione legislativa delegata dal Parlamento — massime quando si deleghi al Governo la redazione di un intero codice penale —, si trova costretto a rinnegare di fatto quella premessa, scrivendo che « le leggi delegate » possono essere sì ricondotte sotto l’art. 25 Cost., facendo però « subire » (!!) all’art. 25 « un’interpretazione estensiva » (!) (78). Seconda ed ultima osservazione. Anche ammesso — ma è proprio difficile ammetterlo — che le scelte politico-criminali dal lato del precetto possano essere trasferite dal Parlamento al Governo, e che l’analitica descrizione dei reati possa perciò essere confezionata dal potere esecutivo con buona pace del nullum crimen sine lege, sembra comunque costituzionalmente illegittimo che sia il potere esecutivo a scegliere per questo o per quel reato, ad libitum, il tipo e il dosaggio della pena. Il nulla poena sine lege viene infatti interpretato rigorosamente anche da chi, dal lato del precetto, sembra lasciare spazio all’intervento del potere esecutivo (79). E in effetti: come è pensabile che a fissare uno, due, cinque, dieci, venti n anni di reclusione sia non il popolo sovrano, attraverso i suoi rappresentanti in Parlamento, ma il potere esecutivo, per mano di una Commissione di « esperti », che potrebbe comprendere anche il mio nome? Pagliaro ha detto: la pena dell’ergastolo verrà riservata ai « delitti più atroci » (80): ma chi stabilirà quali sono questi delitti « atroci » che meritano il carcere a vita? È mai pensabile che noi giuristi presentiamo al Parlamento, perché ce lo approvi, un progetto nel quale nulla si dice — e nulla si può pur(76) Cfr. MARINUCCI, Gestione d’impresa e pubblica amministrazione: nuovi e vecchi profili penalistici, in questa Rivista, 1988, p. 430, nota 11. (77) PAGLIARO (nota 29), p. 42. (78) PAGLIARO (nota 29), p. 44. (79) Cfr. PULITANÒ, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ (a cura di), Commentario breve al codice penale, sub art. 1 (nota 36), p. 9. (80) PAGLIARO (nota 39), p. 394. Per alcune ipotesi, come l’omicidio doloso aggravato (art. 59, comma 1) e la strage aggravata (art. 99, comma 1), il Progetto prevede espressamente che venga comminata la pena dell’ergastolo. Non si tratta, però, di un numero chiuso, perché il Progetto — come si legge nella Relazione — sembra aver lasciato mano libera al potere esecutivo, avendo « ritenuto più opportuno lasciare al legislatore delegato l’importantissimo compito di soppesare la esatta proporzione tra il disvalore di ciascun tipo di illecito e la misura della pena ».


— 447 — troppo dire — in ordine alla quantità di pena — di dolore — che viene minacciato e che verrà inflitto agli autori di questo o quel reato? Sono scelte terribili: scelte politico-criminali che incidono sui beni più preziosi del popolo, e che possono essere compiute solo dal Parlamento, unico rappresentante dell’intero popolo: unico luogo di dibattito e di confronto garantito tra maggioranza e minoranza, tra punti di vista eventualmente contrapposti sul « quando punire e quando no » e sul « quanto e come punire ». * * * Dobbiamo senz’altro discutere delle difficoltà che incontra l’elaborazione del codice penale percorrendo la strada della legislazione ordinaria, e del modo migliore per superarle, traendo ammaestramenti dall’esperienza di altri Paesi; la futura elaborazione non potrà d’altra parte non tener conto dei tanti notevoli contributi di riflessioni e proposte contenuti nel ‘‘Progetto 1992’’; ma una cosa mi sembra certa: le scorciatoie sono strade da non percorrere per arrivare al risultato che tutti vogliamo — un nuovo codice penale, che sia il codice della Repubblica, e che rispecchi i principi di garanzia e i valori fondanti della Costituzione repubblicana. GIORGIO MARINUCCI


IL PROBLEMA « TANGENTOPOLI » TRA NORMALITÀ DELL’EMERGENZA ED EMERGENZA DELLA NORMALITÀ (*)

SOMMARIO: 1. Introduzione: il problema « Tangentopoli » come emergenza processuale, punitiva e politica. — 2. Il profilo dell’emergenza processuale. — 3. Il profilo dell’emergenza punitiva. — 4. Il profilo dell’emergenza politica. Corruzione e concussione come fattispecie di riferimento: la crisi della distinzione in rapporto alla struttura dei tipi legali. — 5. (Segue) I nuovi assetti della corruzione sistemica. — 6. (Segue) Corruzione e concussione, e « natura delle cose ». — 7. Dimensione politica e valutazione normativa. — 8. Conclusione.

1. La parafrasi di un celebre inizio sembra suggerire che uno spettro s’aggiri per l’Italia; lo spettro di Tangentopoli. Da questo spettro, che (a seconda dei casi e delle prospettive) turba i sonni o inquieta le coscienze, occorre — si dice — liberarsi o liberare la comunità civile. La questione è stabilire come. In realtà, quando si cerca di risolvere un problema, la soluzione sta nel porlo correttamente; ma per porlo correttamente, è necessario definire con rigore i termini che lo costituiscono: nel nostro caso l’idea stessa di « Tangentopoli », espressione suggestiva coniata dalla fantasia giornalistica e invalsa ormai per designare un fenomeno complesso. In « Tangentopoli » ricorre innanzitutto un giudizio di fatto, che si riferisce alla prassi criminosa instaurata nel funzionamento dei nostri apparati politico-amministrativi (sistema degli appalti; finanziamento dei partiti; conseguenti rapporti fra imprenditori e politici; degenerazione clientelare delle istituzioni amministrative, e così via dicendo); ma ricorre altresì un giudizio di valore, che, nell’esprimere un’esigenza di distacco e di ripulsa da tale prassi, sottolinea il significato positivo delle iniziative giudiziarie che ne hanno determinato la scoperta « ufficiale » e ne hanno provocato la repressione. Tangentopoli è quindi, ad un tempo, la città del vizio ed il campo di battaglia dove il bene è chiamato a fronteggiare il male. A questi due significati si aggiunge però un metasignificato. L’emergere di Tangentopoli e l’attivarsi della sua repressione costituirebbero di per sé un fat(*) Testo della relazione tenuta a Siracusa il 21 ottobre 1995 in occasione del Seminario su « Il problema ‘Tangentopoli’ nell’attuale stato di disfunzione dell’amministrazione della giustizia », organizzato dall’Istituto Superiore di Scienze Criminali.


— 449 — tore di destabilizzazione dell’ordinamento: sul versante giudiziario, perché alle energie profuse per la persecuzione dei fenomeni criminosi non potrebbe corrispondere un risultato finale consentaneo alle premesse (impossibilità di celebrare i processi e di farli giungere al loro epilogo naturale) e perché l’accertamento dell’intero fenomeno risulterebbe di fatto fuori portata rispetto alle iniziative di persecuzione concretamente attivabili (impossibilità di scoprire e colpire tutti i reati commessi nella città del vizio); sul versante politico, perché l’ipoteca giudiziaria sempre iscritta su vicende del passato più o meno recente ostacolerebbe la formazione di una nuova classe politica libera da ombre e da sospetti; sul versante economico, perché il rischio penale, continuando a gravare su un ceto imprenditoriale i cui trascorsi periclitano tra la vis cui resisti non potest, il coactus tamen voluit, la vis haud ingrata puellis, ed il volenti non fit iniuria, renderebbe precario il suo reinserimento in una dimensione produttiva ispirata alle nuove esigenze di correttezza, trasparenza, autonomia dal mondo politico. Il « significato oltre il significato » di Tangentopoli ne delinea quindi il problema, o, per meglio dire, i problemi. A seconda che l’uno o l’altro aspetto del metasignificato venga accentuato, il problema finisce con l’acquistare una diversa prospettiva e con l’assumere una portata peculiare. In sintesi, sembra che le sue forme, presentate in una sorta di progressione ascendente, si possano ridurre a tre. La prima vede Tangentopoli quale emergenza processuale, il cui orizzonte è tracciato in funzione dell’esigenza di dipanare la matassa giudiziaria. La seconda considera Tangentopoli come un’emergenza punitiva (e cioè del sistema punitivo), nel senso che si tratta essenzialmente di accertare compiutamente il fenomeno, con mezzi inevitabilmente diversi da quelli ordinari, per sottoporlo poi ad un trattamento altrettanto diverso. La terza ravvisa in Tangentopoli un’emergenza politica, che, avendo inciso in modo devastante sui rapporti fra Stato e società civile, esige un’opera ricostruttiva di valore specularmente corrispondente all’entità dei guasti provocati. La terapia è naturalmente in funzione della diagnosi: l’emergenza processuale invoca l’uscita da Tangentopoli; quella punitiva aspira alla liberazione da Tangentopoli; quella politica propugna la vittoria su Tangentopoli. Si tratta allora di valutare innanzitutto la « tenuta » concettuale di ciascuna di queste prospettive, e la congruità, in termini politico-criminali, delle soluzioni relative. 2. Presentando Tangentopoli come un’emergenza processuale, si pone l’accento sulle difficoltà insite nella regolare celebrazione di tutti i processi attivati in seguito alla scoperta del fenomeno ed alla sua persecuzione. Tale è la massa di iniziative giudiziarie assunte per reprimere il profluvio di reati emergenti, che, alla fine, si profilerebbe concretamente il ri-


— 450 — schio di un « colpo di spugna » surrettizio ed occulto, attraverso i meccanismi della prescrizione che prima o poi finirebbero col vanificare gran parte delle attività di accertamento sin qui compiute, distribuendo « a pioggia » un’impunità tanto irragionevole quanto sperequata. Meglio dunque acconciarsi alla ricerca di strumenti eccezionali, volti ad accelerare la conclusione dei processi in forma variamente « patteggiata »: lo Stato rinuncia all’esercizio di una potestà punitiva integrale ed assoluta, ma ottiene comunque una pronuncia di condanna; gli imputati evitano il rischio maggiore e chiudono definitivamente la loro partita giudiziaria. La premessa lascia perplessi. L’emergenza processuale è un dato costante e generalizzato: celebrare con regolarità e con (almeno relativa) tempestività i processi rappresenta una mèta che sempre di più s’allontana, e non per questa o quella categoria di reati, ma per la totalità degli illeciti penali riversati sui tavoli delle procure. In che cosa dovrebbe allora consistere la ratio distinguendi per i reati di Tangentopoli? Forse che, in termini di accertamento probatorio, essi risultano più ardui, difficili ed elaborati di altri? Non sembra davvero: spesso i loro protagonisti sono rei confessi, o sono comunque raggiunti da elementi consistenti di colpevolezza. Certo non si tratta di ipotesi le cui difficoltà probatorie raggiungano la complessità dei processi alla criminalità organizzata o, più modestamente, di tanti processi per bancarotta o per reati societari. Né si può supporre che per perseguire i reati di Tangentopoli si esiga un dispendio di energie processuali (in termini organizzativi) superiore a quella di un gran numero di altri procedimenti per i quali nessuno pensa a soluzioni di corto circuito in varia guisa privilegiato. Il « trionfo dell’oblio » incombe su questi processi non meno che su altri; anzi, forse più su altri che su questi: basterebbe pensare ai termini prescrizionali della concussione, che rappresenta — com’è noto — una figura criminosa ricorrente in questo ambito. Perciò, se si deve parlare di emergenza processuale, se ne deve parlare come fenomeno di portata generale, legato al funzionamento degli apparati giudiziari. Si tratta di rispondere alla domanda: « perché non si fanno i processi? » rispetto a tutti i processi, e non solo rispetto a quelli di Tangentopoli. Il cahier de doléances è antico e perfettamente noto. Esso gravita ad un tempo sul versante sostanziale e su quello processuale. Su quello sostanziale si rileva che i reati commessi e accertati sono troppi (eccesso di devianza criminale), e, più a monte, i reati previsti sono troppi (eccesso di penalizzazione, che dà la stura alla c.d. funzione criminogenetica delle leggi penali, già stigmatizzata da Francesco Carrara quando censurava la « mania di tutto governare col mezzo di criminali giudizi »). Sul versante processuale, si additano le deficienze dipendenti dall’ordinamento giudiziario (i giudici sono pochi e mal distribuiti); dalla disciplina normativa del processo, che non assicurerebbero una soddisfacente capacità gestio-


— 451 — nale del sistema (donde la necessità di riti alternativi e di procedure semplificate); i mezzi sono scarsi, in termini di sedi, di sussidi tecnologici e di personale ausiliario. Ciascuno di questi punti di crisi è senza dubbio fondato, anche se l’identificazione del suo peso specifico apre poi la porta a diatribe infinite; e finisce peraltro col riconnettersi quasi perversamente ad un altro, attivando un circolo che rischia presto di diventare vizioso. I reati commessi e accertati sono troppi, ma il loro numero è così consistente anche perché il sistema repressivo è inefficiente; se tale non fosse, la funzione di prevenzione generale correlata all’esercizio di una repressione equa e regolare ne conterrebbe il numero. D’altra parte, giudici e regole processuali potrebbero risultare adeguati, se il numero dei reati fosse ridimensionato: condizione che, assumendo come dato fisso gli attuali, smisurati orizzonti della penalizzazione normativa, finisce tuttavia con l’apparire impossibile. È alla depenalizzazione che si affida allora il bandolo partendo dal quale si dovrebbe cominciare a sbrogliare la matassa. Ridurre l’area del penalmente rilevante è l’imperativo dominante; la trasformazione degli illeciti penali « minori » in violazioni amministrative (o, in taluni casi, la pura e semplice decriminalizzazione) costituisce il demiurgo cui affidare le sorti del sistema e in cui riconoscere la panacea di molti suoi mali. Va detto però che la depenalizzazione, se gravata di aspettative salvifiche, costituisce un autentico mito, o, più semplicemente, una favola raccontata a veglia. Due sono gli ostacoli, pressoché insormontabili, che si frappongono al cammino della depenalizzazione. Il primo consiste nel fatto che, rispetto alla tutela di beni, la distinzione in termini di rilevanza offensiva passa per lo più all’interno delle fattispecie, e dipende quindi da una valutazione in concreto: la dimensione bagattellare di un illecito coesiste spesso con l’ipotesi di una realizzazione macrolesiva, per la quale l’idea della depenalizzazione risulta improponibile. Il secondo ostacolo, riferito alle norme penali poste a presidio di funzioni, è rappresentato dalla circostanza che le più significative violazioni concernono aree « nevralgiche » (ad es. urbanistica, ambiente, salute) nelle quali rimettere alla P.A. in esclusiva una potestà sanzionatoria non è realisticamente prospettabile, per ragioni tanto ovvie da non dover nemmeno essere richiamate: si tratta di settori normativi in cui il potere giudiziario esercita di fatto una funzione di supplenza rispetto alle deficienze ed alle disfunzioni dell’amministrazione; i motivi per cui tale supplenza si è affermata, sviluppata e consolidata sono gli stessi che impediscono di pensare ad una depenalizzazione in termini quantitativi veramente significativi. D’altro canto, ad espandere l’area del penalmente rilevante concorrono due tragici fenomeni derivati dall’evoluzione del potere giudiziario dalla « supplenza » all’onnipotenza »: l’inventio delictorum e i nomina delicta. L’inventio delictorum è la spinta al parossismo di un congegno puni-


— 452 — tivo tipico della normazione più recente, che è caratterizzato dalla pubblicizzazione del potere cui si contrappone la privatizzazione delle responsabilità: i poteri sono pubblici; le responsabilità sono private. Basta pensare alla materia dei rifiuti, a quella edilizia, a quella ambientale per rendersi conto che la P.A. è investita di enormi poteri di intervento, di programmazione, di organizzazione, di predisposizione di mezzi idonei a « facilitare » l’adempimento delle prescrizioni e a garantirne il controllo. Il corretto e tempestivo esercizio di tali poteri finirebbe col ridurre a zero (o col ridimensionare in misura drastica) l’entità e il numero dei comportamenti devianti. Così non è: la spendita di tali poteri è oppressa da mille difficoltà, dispersa in mille canali, neutralizzata da mille lacci. Ma, a fronte di una simile desolazione pubblica si erge il capro espiatorio della responsabilità del privato, il quale non può, a propria scusa, invocare gli inadempimenti dell’Amministrazione, né tanto meno riferire ad essi la causa prima della sua scelta deviante. Se il depuratore non è stato costruito, la discarica non è stata attivata, il piano particolareggiato non è conforme al piano regolatore ma la concessione gli è stata ugualmente rilasciata, il privato che ha superato i limiti tabellari, ha trasportato i rifiuti in una discarica avventurosa, ha edificato in base ad una concessione illegittima, imputet sibi. La tecnica applicativa utilizzata consente di scaricare le disfunzioni degli apparati pubblici sulle spalle dei privati; ma la strada percorsa è, per così dire, spianata da un sostanziale abuso del legislatore che per un verso delinea il migliore dei mondi possibili sul piano dell’azione amministrativa e sanziona per un altro le condotte perturbatrici di tale mondo, senza curarsi del fatto che il migliore dei mondi continua a restare nell’iperuranio, mentre le sanzioni volano sulla terra con tetragona indifferenza. Il gioco degli specchi, che nella legge riflette immagini armonicamente speculari, si infrange nella realtà, dove i poteri latitano ma le responsabilità incombono. Il sistema si atteggia così a parafrasi della tirannide, se è vero — come è vero — che è tirannico ogni sistema che sconta come normale la punizione sistematica dell’inesigibilità. I nomina delicta costituiscono un tragico recupero di tecniche repressive proprie dell’ancien régime. Essi esprimono la crisi (o meglio, la dissoluzione) del concetto di fattispecie tipica, che non rappresenta più, in alcuni settori, alcun baluardo al procedimento di sussunzione degli elementi materiali che caratterizzano una situazione « disfunzionale ». Il modulo applicativo si ispira piuttosto all’individuazione di un corpus delicti suscettibile di legittimare un’inquisitio generalis. Così, ad es., un atto amministrativo che abbia determinato una scelta (fatalmente a favore di qualcuno e in danno di qualcun altro), rappresenta già di per sé la materializzazione di un sospetto sul quale deve svolgersi un’indagine. Scavando nei reticoli di un’azione amministrativa periclitante tra conflitti di parte e in-


— 453 — flazione di regole, non sarà difficile selezionare un elemento distonico, al quale riferire la fattispecie di abuso, moderna conversione di ogni illegittimità amministrativa debordante in conflitto (e tanto più debordante quanto maggiori sono le possibilità di questa conversione). Tutto il resto segue con progressione lineare giocata a suon di presunzioni che dalla stessa situazione conflittuale traggono sostegno ed alimento. Il criterio di selezione del penalmente rilevante non risiede più nella fattispecie: sta altrove, ed alla fattispecie ritorna soltanto per reperire un aggancio punitivo sufficiente a giustificare la condanna. In presenza di fenomeni siffatti, parlare di depenalizzazione significa voler conversare con la luna, confidandole i tormenti del penalista afflitto dal numero dei reati; e mentre questi s’arrovella per eliminare qualche tacca dell’area penale, un fiume impetuoso la dilata e la espande in un moto inarrestabile. Le difficoltà di governare questa massa informe di illeciti brulicanti si scaricano sul versante processuale, attivando la spirale dei riti alternativi, variamente accelerati e semplificati. Essa attesta peraltro un’ulteriore forma di regressione verso moduli repressivi di carattere medioevale. La tecnica premiale legata alla scelta del rito prospetta — piaccia o non piaccia — una strumentalità del diritto penale rispetto al processo: è per l’appunto la concezione giuridica medievale che propone il diritto penale come ammennicolo del processo, privo di quella « dignità », e cioè di quel valore che solo l’Illuminismo saprà riconoscergli « inventandolo » come disciplina giuridica realmente autonoma, basata su principi, regole di funzionamento, e finalità immanenti non riducibili (e talvolta antagonistiche) rispetto alle esigenze di controllo sociale diffuso e flessibile. Il diritto penale diviene così, da strumento del controllo esercitato attraverso il processo, limite e garanzia contro il controllo sociale: delineando (sia pure in termini negativi) il fronte ed il fondamento della libertà, assume addirittura una valenza costituzionale. Lentamente (ma non troppo) si sta compiendo il cammino inverso: l’intreccio e la commistione tra le categorie sostanziali e quelle processuali ripropone in termini solo apparentemente nuovi l’antica dipendenza del reato e della pena dallo strumentario processuale. 3. Sul piano dell’emergenza processuale i fenomeni criminosi legati a Tangentopoli non assumono dunque alcuna rilevanza autonoma e peculiare che ne consenta il trattamento in varia guisa « differenziato ». L’analisi deve tuttavia procedere sul piano del sistema punitivo, rispetto al quale Tangentopoli si profilerebbe come emergenza per il fatto che gli illeciti relativi, oltre ad essere estremamente diffusi, sono anche estremamente radicati nel (mal)costume, al punto da attingere i livelli della consuetudo contra legem. Gli illeciti in questione assumono carattere sistemico, in quanto interagiscono stabilmente con le regole di funzionamento


— 454 — di apparati burocratici e di strutture sociali, divenendone « parte » costitutiva ed integrante. Di fronte a questa realtà si profilano due esigenze, distinte ma complementari. La prima deriva dalla necessità di assicurare una perequazione « cognitiva », e cioè un accertamento tendenzialmente integrale: se è il sistema ad essere coinvolto, è il sistema che deve emergere; diversamente si rischia la formazione del capro espiatorio ed una distribuzione odiosa dei « sommersi » e dei « salvati ». Ma, di fatto, Tangentopoli appare come terra solo in parte esplorata, e non sempre in profondità. Le indagini giudiziarie, procedendo a pelle di leopardo, hanno determinato la formazione di grandi sacche immuni da accertamenti e da persecuzioni. In queste nicchie, timorose ma intatte, l’impunità è più che una speranza. Si tratta allora di escogitare misure appropriate per far emergere il fenomeno nella sua globalità sistemica, stimolando sapientemente l’impulso a confessare: il baratto si profila tra l’insicurezza ed il rischio da un lato, e la mitezza certa della risposta punitiva dall’altro. S’apre così lo scenario dei trattamenti differenziati per chi abbia cooperato a squadernare il fenomeno (esigenza complementare all’accertamento diffuso): patteggiamenti allargati; interdizioni ad hoc; risarcimenti; amnistie variamente condizionate: la fantasia può galoppare. La prospettiva così delineata non è immune da suggestioni, ma non sembra resistere ad un vaglio critico. Innanzitutto, se non tutti i reati commessi sono di fatto perseguiti (circostanza nota da sempre alla riflessione penalistica), ciò non può certo impedire che siano perseguiti quelli accertati. D’altro canto, una « cifra oscura » coinvolge, sia pure in misura diversa, tutti i settori della criminalità, senza che questo autorizzi, di per sé, il ricorso a strumenti straordinari di « accertamento » e a meccanismi punitivi conseguentemente privilegiati. Ora, non sembra agevole scorgere il fondamento di simili congegni di ingegneria penitenziale e la ragione del loro utilizzo settoriale. Per giustificare una soluzione « eccezionale » si potrebbe argomentare che i reati tipici di Tangentopoli (corruzione; concussione; finanziamento illecito ai partiti) sono sostanzialmente inadeguati a cogliere la natura del fenomeno cui vengono riferiti. Nella loro applicazione si coglie una crasi tra antigiuridicità formale e disvalore sostanziale. Quest’ultimo evidenzia infatti l’assoluta precarietà della linea di demarcazione tra corruzione da un lato e concussione dall’altro: la dimensione sistemica degli illeciti ne evidenzia una « regolarità » nella quale corruzione e concussione sembrano paradossalmente coesistere in un continuum mobile che nessuna delle due fattispecie può infrangere in termini sicuri. L’incertezza è resa più precaria dalla difficoltà di cogliere, nelle singole vicende, una signoria sul fatto, una Tatherrschaft, che sembra di volta in volta dislocarsi altrove: ciascun partner degli illeciti di Tangentopoli si prospetta come in-


— 455 — granaggio di un meccanismo, il cui manovratore si colloca su un altro versante. Ognuno prova a ritagliare per sé uno spazio marginale (chi ha preso, ha preso per il partito; se ha ricevuto, ha ricevuto per amicizia; se ha dato, doveva pur lavorare; chi ha dato, ha voluto dare). In un sistema organizzato, si è sempre in buona compagnia, e con « ottime » ragioni per fare esattamente quel che si è fatto, o per ignorare quel che è accaduto. La diffusione e la regolarità dell’illecito, il suo radicamento nel sistema paiono disperdere le colpe individuali nel mare magnum di una responsabilità collettiva indistinta e confusa. Non v’è dubbio che il rilievo circa l’« inadeguatezza » delle fattispecie di concussione e di corruzione (nonché di illecito finanziamento dei partiti) a tradurre in termini normativi il disvalore dei fenomeni di Tangentopoli sia in larga parte fondato. La circostanza trascende tuttavia la prospettiva « intrasistematica » (e cioè legata al sistema punitivo in quanto tale), per proporsi piuttosto nel contesto di una valutazione politica, nella quale sarà necessario tornare (infra, 4 ss.). Infatti, se il ricorso alle figure della concussione, della corruzione e dell’illecito finanziamento dovesse risultare davvero inadeguato, tale resterebbe anche quando si proponesse di « chiudere la partita » mantenendo la rilevanza del fenomeno nei termini sin qui seguiti. Rimanendo nel contesto del sistema punitivo, v’è piuttosto da osservare che l’idea di un auto-da-fé collettivo si tradurrebbe in meccanismi di « ingegneria penitenziale » squisitamente cattolici, e forse per questo corrispondenti al Volksgeist di un paese sensibile alle suggestioni del circuito « confessione-pentimento-penitenza-perdono-salvezza ». Ma si può davvero pensare di settorializzare un tale circuito per specifiche categorie di rei, autori di delitti cui si attribuisce addirittura la tabe della comunità? Il privilegio che ha accompagnato e favorito la commissione di tali reati parrebbe tradursi in un ulteriore, ancor più odioso favore. Ma al di là di queste ragioni, legate ad un principio di uguaglianza che nessun ordinamento liberale e democratico può violare senza contraddire se stesso, v’è da chiedersi se questi congegni di « ingegneria penitenziale » siano davvero praticabili in rapporto allo scopo perseguito. In effetti, se è vero (come è vero) che Tangentopoli rappresenta ancora un continente in buona parte non esplorato, ciò significa che il rischio di accertamento giudiziario è modesto, e sempre più modesto a mano a mano che la polvere del tempo sommerge le rovine del presente. Ma se il rischio è così basso, perché qualcuno dovrebbe uscire alla luce e confessare i propri antichi delitti? La piena impunità sarà sempre più allettante di una pena anche solo simbolica; e, d’altra parte, qui non si tratta davvero di pecorelle smarrite ansiose di ritrovare il buon pastore. Se poi si volesse supporre che il rischio di persecuzione sia elevato, per lo meno in talune frange del fenomeno complessivo, a che pro prevedere facilitazioni ed in-


— 456 — centivi per sollecitare un risultato che, in ipotesi, sarebbe a portata di mano? Ma il guasto provocato dai congegni di « ingegneria penitenziale » non si risolverebbe soltanto in una sorta di « lucro cessante », inteso come mancato raggiungimento dell’obiettivo; esso finirebbe col tradursi in un pesante « danno emergente », determinato dal fatto che, al fallimento della palingenesi, si abbinerebbe l’ardua necessità di gestire il solo passato « emerso » con criteri di assurdo privilegio. 4. L’approccio più persuasivo per comprendere la reale portata dei fenomeni di Tangentopoli resta senza dubbio quello dell’emergenza politica. Nelle Note illustrative alle proposte in materia di prevenzione della corruzione e dell’illecito finanziamento dei partiti (v. il testo in Riv. dir. pen. econ. 1994, p. 919 ss.) l’analisi condotta su questo piano è, pur nella sintesi, di una completezza esauriente. I fatti di corruzione — si osserva — hanno assunto un contenuto offensivo multiforme, investendo l’integrità dell’economia nazionale, il corretto funzionamento del mercato, la tenuta stessa della compagine istituzionale, con « effetti dirompenti sulla ‘‘tenuta’’ del patto sociale: ad essere messa in crisi è la stessa fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nelle regole della civile convivenza, fino ad intaccare le condizioni dell’osservanza della legge da parte di tutti ». Si tratta in sostanza di un quadro di macrolesioni il cui carattere sistemico ha finito col distorcere addirittura l’assetto costituzionale della Repubblica. La soluzione che le Proposte avanzano consiste, in estrema sintesi, nell’assorbimento della concussione nella corruzione, unificate così in una sola fattispecie, il cui trattamento sanzionatorio di base corrisponderebbe a quello attualmente previsto per la concussione, e nella previsione di una speciale causa di non punibilità in favore sia del corruttore che del corrotto, qualora uno di essi denunzi tempestivamente il fatto, mettendo a disposizione dell’autorità giudiziaria la somma rispettivamente versata o ricevuta. In via transitoria, e con opportuni adattamenti, viene ipotizzata la retroattività del meccanismo delineato, sì da utilizzarlo come strumento di « chiusura dei conti » con il passato. All’analisi di Tangentopoli come emergenza politica corrisponde quindi un progetto destinato a costituire il primo, essenziale passo verso l’edificazione di una città nuova: come puntualizzano le Note alle proposte, è « di vitale importanza per la salvezza stessa delle istituzioni democratiche e del patto sociale, apprestare elementi normativi che per il futuro — a partire da oggi — rafforzino la lotta al cancro della corruzione che ha corroso le istituzioni e la vita del nostro paese ». Il « primo pilastro » delle Proposte, e cioè l’unificazione delle figure della corruzione e della concussione muove dall’idea, certamente condivisibile in linea di principio, che le due fattispecie appaiono inadeguate a


— 457 — « comprendere » i fenomeni di Tangentopoli e ad evidenziarne la dimensione offensiva. Riferite a tali fenomeni esse si presentano del tutto incapaci di cogliere una rilevanza penale persuasiva rispetto alla struttura dei tipi legali e coerente rispetto alla natura delle cose, e cioè rispetto al « referente criminologico » cui le fattispecie stesse debbono applicarsi. Rispetto alla struttura dei tipi legali, l’inadeguatezza trova il suo retroterra « storico » nel carattere problematico-conflittuale che da sempre affligge i rapporti applicativi della corruzione e della concussione. Una semplice rassegna sommaria degli sforzi compiuti nei secoli per tracciare i confini delle due figure criminose, non sul piano ermeneutico (dove esse risultano distinte in termini di radicale alternatività), ma su quello dell’applicazione concreta, dimostra la insormontabile difficoltà dell’impresa. La formula oggi ricorrente del metus publicae protestatis (presente nella concussione a differenza che nella corruzione) non rappresenta, a ben vedere, nemmeno un criterio, ma solo una metafora della concussione, essendo evidente che tale metus può consistere solo nell’esser stato costretto o indotto a dare o promettere in conseguenza dell’abuso della qualità o delle funzioni del pubblico ufficiale. Risalendo a ritroso nel tempo, il metus veniva individuato (o negato) in base all’iniziativa (del privato nella corruzione, del pubblico ufficiale nella concussione): criterio di risibile inconsistenza, essendo evidente che l’iniziativa del privato può essere determinata da un univoco atteggiamento del pubblico ufficiale o da una precisa situazione « ambientale » mentre, per converso, quella del pubblico ufficiale può esercitarsi in forma « collaborativa » o addirittura supplice. Del resto, il criterio dell’iniziativa rappresenta la caricatura moderna di un criterio ottocentesco, basato sugli « antecedenti », e cioè dalla presenza di un pubblico ufficiale integro, oppure già aduso al mercimonio dell’ufficio. Nel primo caso si dovrebbe parlare di corruzione, nel secondo di concussione. A prescindere dal rilievo che in tal modo l’oggetto giuridico della corruzione diviene la mera fedeltà del pubblico ufficiale, resta il fatto che — come notava Carrara — un ladro resta un ladro anche se ruba spesso, e non per questo si trasforma in rapinatore. In ogni caso, la corruzione mira a salvaguardare la gratuità della funzione (o i limiti di onerosità stabiliti dal diritto pubblico), non l’integrità del funzionario. Il baricentro si sposta allora sulla prestazione: nella corruzione il privato certat de lucro captando, nella concussione de damno vitando. Un criterio, questo, che, in realtà, non è mai stato sostenuto da alcuno, ma solo riportato come idolo polemico per sostenerne l’inconsistenza: il privato può ben corrompere per scansare un pregiudizio che, in base alla legge, egli dovrebbe subire; e viceversa può essere concusso in riferimento all’acquisizione di un vantaggio che gli competerebbe ottenere. Il criterio si affina perciò con la qualificazione di ingiustizia del lucro (nella corruzione propria) e del danno (nella concussione). La via, percorsa anche da


— 458 — qualche codice, è in realtà impervia: di fronte al potere discrezionale del pubblico ufficiale gli attributi di « giusto » o « ingiusto » non possono essere distribuiti a priori, come qualifiche inerenti al danno o al vantaggio, ma riflettono piuttosto la complessità del rapporto tra privato e pubblica amministrazione, le cui modalità di sviluppo finiscono col condizionare la valutazione dell’esito. Se una gara d’appalto è truccata nelle sue varie fasi per effetto di una tangente, è difficile sostenere che il vantaggio ottenuto dal vincitore designato risulta « giusto » perché egli avrebbe vinto comunque: storicamente, ha vinto perché ha pagato. Resta la conclusione scettica di Francesco Carrara: spetta alla « prudenza » dei giudici ricercare nella concretezza del caso sottoposto a giudizio le circostanze rilevanti per attribuire il fatto all’una o all’altra fattispecie. « Ma quante volte apparisca loro in qualche modo dubbiosa la pravità d’intenzione nel privato, adottino pure con coraggio il titolo di concussione a preferenza di quello di corruzione, serbino la severità loro contro la perfidia dell’ufficiale e la loro pietà verso il privato, e vivano sicuri che la pubblica opinione renderà omaggio alla loro giustizia ». Questa conclusione, francamente curiosa, si giustifica con la « rarità » delle accuse di concussione: « io stesso — nota Carrara — in quarantaquattro anni di esercizio della difesa criminale mentre ho patrocinato accusati di ogni genere di delitto non ho veduto che un solo caso di concussione ». Ma, al di là di un tale riferimento all’esperienza (oggi certo non più proponibile), resta il fatto che l’appello al giudice finisce col riportare il problema della distinzione applicativa nell’arena processuale, e in una dimensione squisitamente probatoria. E quando l’identificazione delle categorie sostanziali è posta su questo terreno, il rovesciamento concettuale è garantito: esse non sono più oggetto, ma strumento di prova. È precisamente quel che è avvenuto per la corruzione e la concussione: nella prima vi sono due rei, ma ben raramente un corpus delicti; nella seconda un solo reo, ma un corpus delicti assicurato dalla parola del teste. Il privato è allora come il soldato di Napoleone: porta nello zaino il bastone di maresciallo (cioè quello di concusso); sta a lui saperlo estrarre. 5. D’altra parte, bisogna pur riconoscere che questa polemica, annosa e faticosa, ha un senso in dipendenza di un assetto strutturale definito; essa è cioè resa intelligibile per il fatto che le due fattispecie rappresentano, per così dire, copioni di una commedia i cui protagonisti assumono ruoli ben chiari: le dramatis personae ricevono collocazioni funzionali e intrattengono relazioni in un contesto scenografico preciso. I protagonisti sono fondamentalmente due: il pubblico ufficiale detentore del potere ed il privato verso cui tale potere si orienta. Il loro rapporto potrà essere « paritario », e di carattere « contrattualistico » (secondo il canovaccio della corruzione), oppure « non paritario », e inclinato verso la sogge-


— 459 — zione del secondo al primo (secondo il canovaccio della concussione); ma resta comunque un rapporto bilaterale. Corrispondentemente, la dinamica del loro rapporto si esprime in termini di connessione funzionale tra l’attività del pubblico ufficiale e la prestazione del privato: connessione « bilanciata » a guisa di compravendita (nel caso della corruzione) e connessione « sbilanciata » per effetto della costrizione o dell’induzione (nel caso della concussione). Nella fenomenologia della criminalità politico-amministrativa emersa dalla recente esperienza, queste « costanti » sceniche sono saltate: il copione che si recita è un altro. In effetti, tale criminalità assume come precedente storico (e logico) una imponente dislocazione del potere politicoamministrativo che, dalle sedi istituzionali proprie, è « transitato » in sedi private: congreghe partitiche; lobbies; centri direzionali infiltrati, e così via. Ad un potere « visibile » si è così contrapposto un potere « invisibile »: sempre più evanescente il primo, sempre più incombente il secondo, tanto che, alla fine, le sedi del potere istituzionale « visibile » (ma in realtà solo « apparente ») si sono ridotte a camere passive di registrazione della volontà (di indirizzo politico e di azione amministrativa) maturata altrove. Questa degenerazione, autentico cancro del regime democratico, che è per antonomasia basato su un potere reale « visibile », e solo su di esso, ha determinato una divaricazione vistosa del rapporto tra pubblico ufficiale (e, in generale, pubblica amministrazione) e privato. L’originaria bilateralità è stata spezzata dall’intervento di un terzo soggetto: il mediatore politico-affaristico, figura camaleontica la cui matrice può essere la congrega politica di riferimento per il « controllo » dell’apparato di potere « visibile » o anche la lobby economica interessata a tale « controllo ». Tale soggetto assume un ruolo centrale nella nuova commedia, ridefinendo obiettivamente quelli del pubblico ufficiale e del privato. Il primo tende a divenire un ingranaggio attivabile a piacimento dal mediatore (e dalle forze ch’egli rappresenta); la « signoria del fatto » (corruttivo o concussivo, non fa alcuna differenza) è comunque spostata in mani diverse da quelle « pubbliche ». Corrispondentemente, il privato non ha più nulla da comprare direttamente dal pubblico ufficiale, e nulla da temere direttamente da lui: deve comprare da chi può su di lui, deve temere chi su di lui esercita una nuova, antica manus. In questo contesto, la tensione applicativa cui risultano sottoposte le fattispecie di corruzione e di concussione supera il limite di rottura: tutte le multiformi varietà del « traffico d’influenza » nelle quali non sia riconoscibile un atto dell’ufficio o l’intervento del pubblico ufficiale, ma che pure hanno riversato i loro esiziali effetti sull’andamento dell’azione amministrativa, sono state calate a forza nel quadro tipico della corruzione o della concussione, determinando lo stravolgimento di ruoli e l’inversione


— 460 — dei rapporti. La scena originaria dell’attor giovine che seduce la bella si è grottescamente trasformata in quella della mezzana che introduce un turpe vecchio al bordello; ma, si è preteso che la commedia fosse sempre la stessa. Il « tipo », più che lacerato, è andato distrutto. 6. Dal piano della struttura delle fattispecie trascorriamo a quella della « natura delle cose », e cioè al referente criminologico che costituisce, per così dire, l’ancoraggio della fattispecie normativa ad un dato ontologico reale. Su tale piano, l’entrata in scena delle figure di corruzione e di concussione appare, se possibile, ancor più stralunato, e ancor più artificiosa la recita loro imposta. In primo luogo, si deve osservare come il volano che ha alimentato la nuova criminalità politico-amministrativa non sia costituito né dal semplice intento di acquistare un atto amministrativo (come nel teatrino della corruzione), né dal timore di una pubblica potestà (come in quello della concussione). Si tratta piuttosto della consapevolezza, vie più diffusa, di non poter contare su alcuna publica potestas e di essere anzi alla mercè di un diverso potere, occulto, insidioso, occhiuto, insaziabile. Ciò che spinge sulla soglia non è più comprare questo o quel favore, ma acquisire uno status, definire un’appartenenza, diventare cittadini della repubblica dei malfattori. Ascritti al libro degli ottimati di tale repubblica, se ne acquisiscono i vantaggi: appalti sicuri, con spartizione preventiva e garanzia di vittoria; profitti maggiori attraverso i meccanismi perversi della revisione prezzi; assenza di controlli, e quindi gestione dell’affare svincolata dall’impegno di una publica potestas, con ulteriori vantaggi economici. Sul piano dei doveri, occorre però assicurare un prelievo « fiscale » pronto e sicuro, assecondare richieste clientelari, garantire obbedienza. 7. A questo punto, non è difficile concludere che la dimensione offensiva dei nuovi fenomeni di criminalità politico-amministrativa non è in alcun modo riducibile al buon andamento ed all’efficienza della pubblica amministrazione, tradizionali interessi categoriali sottesi ai reati del Titolo II del libro II c.p. Si è trattato di qualcosa di ben diverso, e di molto superiore. La dislocazione del potere politico-amministrativo tratteggia una gigantesca usurpazione di potere politico, sottratto alle sedi istituzionali proprie e trasferito in centri occulti, mentre lo stabilirsi di un sistema persistente di illegalità, volto a riconoscere « cittadinanze », a distribuire risorse pubbliche, ad attribuire indebiti privilegi, ad attuare una parafiscalità criminosa e a risolvere conflitti in forma illecita, delinea i termini di un evidente attentato alla Costituzione, letteralmente sovvertita da un ordinamento giuridico di tipo delittuoso.


— 461 — Per questo corruzione e concussione finiscono col risultare contenitori angusti e inadeguati, « irreali » nella loro manifesta sproporzione valutativa; sarebbe come voler ridurre una devastazione alla somma di tanti piccoli danneggiamenti, come triturare un saccheggio in una miriade di furtarelli. Ciò che è accaduto è qualcosa di più e qualcosa di diverso; si è trattato di reati politici: obiettivamente tali perché hanno colpito non questo o quell’aspetto della pubblica amministrazione, ma la stessa esistenza di una « pubblica » amministrazione; subiettivamente tali perché diretti ad alimentare un partito-apparato ed a formare e consolidare il consenso intorno a partiti-clientela. Le parole per dirlo stavano nel Titolo I del Libro II; ma si trattava di parole impronunciabili. Per applicare fattispecie di delitto politico ad una criminalità intranea ai meccanismi di potere, e di questa portata quantitativa, è sempre necessaria una legittimazione politica « forte »: quella che i vincitori hanno sui vinti. Ma in Italia una tale legittimazione è mancata del tutto: nessun potere politico legittimo, sostituito alla repubblica dei malfattori, ha potuto rivendicare a sé il compito di ripulire le fogne del paese. Né si può pensare di costruire una tale legittimazione politica mediante lo strumentario del diritto penale. Soltanto nella patologia di un delirio d’onnipotenza si può attribuire al diritto penale la funzione di strumento prioritario di controllo sociale: ad esso si deve essenzialmente riconoscere soprattutto una funzione di limite contro le esigenze, potenzialmente infinite, della politica criminale, la natura e la consistenza di una garanzia contro l’arbitrio del potere punitivo. Come strumento di controllo sociale, vale assai poco: è il più rozzo, il più doloroso, il più costoso e il meno efficace degli strumenti che una comunità civile può mettere in campo per orientare le condotte; proprio per questo la sua utilizzazione si uniforma (o dovrebbe uniformarsi) al canone della extrema ratio, e cioè al riconoscimento dell’ineluttabilità priva di ragionevoli alternative: il diritto penale è un diritto che aspira a non essere e, quando è, a non apparire (assicurando la spontanea osservanza dei precetti col solo ministero della prevenzione generale dissuasiva e persuasiva). Non è dunque pensabile di riedificare la società civile a partire dagli strumenti offerti dal diritto penale: questo può fungere da notaio dei patti sociali, attribuendo loro la « pubblica fede », e cioè il crisma dell’effettività garantita, ma non può concorrere a stipularli. Se è vero (come è vero) che la corruzione infesta tutte le sedi sociali, non sarà certo armeggiando coi bastoni e con le carote che si potrà avviare alcun tipo di risanamento. I rimedi, se ci sono, stanno altrove: una saggia riforma degli appalti val più di mille inasprimenti sanzionatori; un nuovo assetto dei rapporti politici è infinitamente più efficace di qualsiasi espediente di ingegneria premiale. D’altra parte, anche volendo prescindere da questa censura di fondo, non si può non rilevare che le Proposte, trasformando la corruzione in un


— 462 — delitto gigantesco, finiscono con l’adeguare il futuro al passato, e cioè col costruire un assetto normativo nuovo sulla falsariga di fenomeni in cui si è realizzato peraltro — come poc’anzi si è osservato — ben più che una pur cospicua serie di delitti contro la pubblica amministrazione. Ma non sembra politica saggia quella di supplire alla deformazione ottica deformando l’oggetto anziché correggendo la visione. Quanto alla causa di non punibilità che dovrebbe spezzare il patto d’omertà fra corruttore e corrotto, essa appartiene al regno delle illusioni: inevitabilmente sottoposta ad un termine finale di efficacia, finirebbe con l’atteggiarsi, per gli autori del pactum sceleris, come una sorta di condizione sospensiva « legalmente » imposta, destinata soltanto a moltiplicare le garanzie di reciproca « fedeltà » ed a rafforzare quindi il vincolo contrattuale. 8. La conclusione è la mancanza di una conclusione: i mezzi per uscire da Tangentopoli sono gli stessi che sono serviti per penetrarvi. Ogni percorso alternativo sarà solo un sentiero nel bosco, che, interrompendosi, svia. TULLIO PADOVANI


IL RITORNO ALLA LEGALITÀ COME CONDIZIONE PER USCIRE A TESTA ALTA DA TANGENTOPOLI

1. I fatti di tangentopoli per la prima volta hanno consentito l’intervento penale in ambiti considerati tradizionalmente quasi ex lege: ceto politico-amministrativo ed imprenditoriale anche di altissimo livello. Ciò è stata la conseguenza dell’esplodere di una lunga e rilevante crisi politicoistituzionale che negli ultimi anni ha raggiunto l’apice con una vera e propria perversione del sistema a tutti i livelli. Si è avuto, infatti, un crescente affermarsi di logiche di lottizzazione privatistica e di clientela nella gestione della cosa pubblica, con un progressivo venir meno di un efficace sistema di controllo per la tendenziale concentrazione del potere e la sua dislocazione in sedi tutt’altro che trasparenti (1). Si è trattato di un vero e proprio svuotamento del potere legale per un’interna corruzione, che ha dato vita ad una forte crisi di legalità: essa ha investito vasti settori del sistema e la sua ampiezza ha ancora contorni sfumati, come testimonia la successiva esplosione dello scandalo degli affitti di favore e delle tangenti nell’esercito. Siamo di fronte a fenomeni che hanno avuto effetti devastanti per le istituzioni e la vita stessa del nostro Paese. Ciò significa che, più che la mera repressione di un pur grave fenomeno criminale, importa rimettere in piedi la stessa legalità e con essa la certezza del diritto, restituire ai cittadini la fiducia nelle istituzioni, nello stato di diritto. Ciò implica anche l’assoluta necessità di processare — nei limiti del possibile e di tutte le garanzie dello stato di diritto — coloro che a vari livelli ed a vario titolo, politici, imprenditori, amministratori, hanno concorso a creare quell’insopportabile clima di corruttela. Da più parti, invece, vengono avanzate proposte, più o meno estese, di condono, variamente condizionato, che lasciano fortemente perplessi. È bene precisare che, in via di principio, in un sistema penale coerentemente orientato agli scopi ed ai valori dello stato sociale di diritto, non sembra (1)

Per un’efficace ricostruzione della crisi istituzionale di questi ultimi anni cfr. CAS-

SESE, Maladministration e rimedi, in Foro it. 1992, IV, 243 ss.; ZANCHETTA, Tangentopoli tra

prospettive politiche e soluzioni giudiziarie, in Quest. giust. 1994, 479; ALBANO, Tangentopoli o la « soave rivoluzione », in Crit. dir. 1995, 42 ss.


— 464 — trovare alcuno spazio un potere di tipo indulgenziale, che non sia orientato alle stesse ragioni di politica criminale che fondano le singole scelte incriminatrici, prime fra tutte quelle relative a meritevolezza e bisogno di pena. Diversamente, ogni istituto clemenziale affidato a valutazioni di mera opportunità politica e/o a semplicistiche convenienze di diverso genere integrerebbe una forma di arbitrium principis, di evidente impronta premoderna, deleteria per l’efficacia motivante delle scelte ordinamentali. L’impegno alla difesa di beni giuridici si risolverebbe, infatti, in una promessa irrimediabilmente viziata da un difetto di credibilità, riconducibile alla semplice possibilità di provvedimenti di remissione sanzionatoria poco ‘razionali’ rispetto agli scopi ed ai valori fondamentali dell’ordinamento. Ma, anche le fasi della concreta irrogazione giudiziale della pena e della sua esecuzione sarebbero irrimediabilmente compromesse nella loro funzione di conferimento di effettività alla minaccia sanzionatoria, da un lato, e di integrazione sociale del reo per la riduzione del rischio di recidiva, dall’altro. 2. Una delle proposte (2) che, negli ultimi tempi, hanno fatto particolarmente discutere è quella cosiddetta di « mani pulite », redatta da Di Pietro insieme con altri pubblici ministeri ed alcuni autorevoli giuristi. Tra le varie innovazioni individuabili in questo progetto ve ne sono alcune — come l’eliminazione del delitto di concussione; il forte inasprimento delle pene principali per i delitti di corruzione e di estorsione aggravata e l’elevato limite edittale per la nuova figura del « vantato credito »; la previsione dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici per tutti i casi di corruzione passiva; le sanzioni pecuniarie « assolutamente senza precedenti » (3); una allargata possibilità di utilizzazione della custodia cautelare in carcere — che danno l’impressione di una esaltazione della funzione intimidativo-deterrente, ma anche simbolico-espressiva del diritto penale (4), confermata, ci sembra, proprio dalla previsione di una (2) Cfr. Proposte in materia di prevenzione della corruzione e dell’illecito finanziamento dei partiti, in Cass. pen. 1994, 2348 ss.; Note illustrative di proposte in materia di corruzione e illecito finanziamento di partiti, in Riv. trim. dir. pen. ec. 1994, 920; INSOLERA, Le proposte per uscire da Tangentopoli, in Crit. dir. 1995, 17 ss. (3) Testualmente GROSSO, L’iniziativa Di Pietro su Tangentopoli. Il progetto anticorruzione di manipulite fra utopia punitiva e suggestione premiale, in Cass. pen. 1994, 2341 ss. (4) Sul punto, GROSSO, L’iniziativa Di Pietro su Tangentopoli cit., 2341 ss.; ZAGREBELSKY, Dopo « Mani Pulite » tanti interrogativi, in Cass. pen. 1994, 508; ID., L’iniziativa Di Pietro su Tangentopoli. Non tutto ciò che è lecito è anche opportuno, ivi, 2337; PULITANÒ, Alcune risposte alle critiche verso la proposta, in Riv. trim. dir. pen. ec. 1994, 956; STELLA, La « filosofia » della proposta anticorruzione, ivi, 935; SGUBBI, Considerazioni critiche sulla proposta anticorruzione, ivi, 941.


— 465 — causa di non punibilità per chi, entro un certo termine, abbia tenuto spontaneamente determinati comportamenti di collaborazione, con eccezionale previsione di un termine di sanatoria anche con riguardo al passato (5). Infatti, non può non concordarsi con quella autorevole dottrina (6) che, alla luce di quest’ultima disposizione, pone in rilievo come si tratti di una somma di misure di carattere preventivo e repressivo di gravità complessiva inusitata, che, più che avere una sua giustificazione in sé, trova la sua spiegazione alla luce dell’incentivo al pentimento perseguito attraverso l’introduzione della causa speciale di non punibilità di cui all’art. 10 del progetto. Quanto più elevati sono, infatti, i rischi di carcerazione e di sanzioni limitative della libertà personale, interdittive e pecuniarie, tanto più elevata diventa, almeno in teoria (7), la possibilità che uno dei protagonisti della corruzione, entro i tre mesi contemplati dal progetto, si determini a collaborare con il pubblico ministero. Si tratta di una proposta che, al di là della discutibilità di singole soluzioni avanzate — come l’unificazione di condotte assolutamente eterogenee quali quelle di corruzione e concussione, tanto per citarne una —, nella sua stessa impostazione risulta poco compatibile con lo stato di diritto. Si tratta, infatti, di un impianto tutto sommato di tipo poliziesco, secondo un orientamento panpenalistico, tendente all’esaltazione contestuale di rigore repressivo delle sanzioni ed indulgenzialismo esasperato di istituti premiali (8). Essi non rispecchiano la tradizione garantistica del diritto penale del fatto e pongono gravi problemi di uguaglianza, nonché di rispetto sostanziale dell’obbligatorietà dell’azione penale: in una parola, allontanano l’accertamento dei fatti dal momento del giudizio (9). Non solo, ma anche la previsione dell’obbligatorietà della custodia cautelare, a prescindere, quindi, da valutazioni di ordine garantistico relative alla singola, concreta esperienza individuale, la dice lunga sulla volontà di ‘legalizzare’, in qualche modo, a posteriori, quel ‘rito ambrosiano’ che, in materia di custodia cautelare, ha rappresentato una delle pagine meno nobili della nostra giurisprudenza. Questa impostazione risulta, a nostro avviso, anche estranea all’idea (5) Così PULITANÒ, Alcune risposte alle critiche verso la proposta, cit., 948. (6) Sul punto cfr. GROSSO, L’iniziativa Di Pietro su Tangentopoli, cit., 2344. (7) In proposito sono state diffusamente ed autorevolmente espresse notevoli perplessità intorno alla disciplina premiale del progetto « mani pulite » nell’ambito della discussione svoltasi durante il Seminario su Il problema « Tangentopoli » nell’attuale stato di disfunzione dell’amministrazione della giustizia, svoltosi a Siracusa, 20-22 ottobre 1995, a cura dell’lSISC. (8) Cfr., tra gli altri, INSOLERA, Le proposte per uscire da Tangentopoli, cit., 25-26; GROSSO, L’iniziativa Di Pietro su Tangentopoli. Il progetto anticorruzione di manipulite fra utopia punitiva e suggestione premiale, cit., 2344. (9) Cfr. ARDIZZONE, La proposta di semplificazione in tema di corruzione ed i rischi di erosione della concezione del diritto penale del fatto, in Riv. trim. dir. pen. ec. 1995, 1 ss.


— 466 — della sussidiarietà dell’intervento penale: quest’ultima esige, ben al di là del privilegio di soluzioni eccentriche rispetto alla tradizione dello stato di diritto, la ricerca di funzionali meccanismi di controllo extrapenale, che rilevano non solo sul piano delle garanzie, ma anche su quello dell’effettività. Si tratta, in sostanza, per questa delicata materia, della ricerca di affidabili controlli incrociati, interni sia ai meccanismi della pubblica amministrazione che a quelli delle società, in un contesto di ampia semplificazione delle procedure e di trasparenza delle istituzioni. Ma ciò, evidentemente, non sembra stare molto a cuore agli estensori del progetto. 2.1. Di respiro più ridotto è la proposta di Flick che può riassumersi in tre punti fondamentali: a) il reato e la pena vengono estinti; b) chi ha pagato tangenti deve versare una tassa sui profitti di regime; c) chi ha incassato indebitamente danaro non potrà più esercitare una carica pubblica o politica. Quali misure a sostegno di questa ‘amnistia condizionata’ come egli stesso la definisce, Flick propone di prevedere — per recuperare il ‘maltolto’ ed evitare il ripetersi del fenomeno — « un meccanismo che faccia pagare una tassa per i corrotti », « l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e dalla politica » e, infine, « un’anagrafe patrimoniale per i politici ed i pubblici dipendenti ». Questa proposta di amnistia — o, come si è preferito definirla, di « soluzione politica » — non ha ricevuto vasti consensi. Essa, sostanzialmente, era originata dal timore per la prescrizione dei reati, infatti, a parere di Flick, la prescrizione per il finanziamento illecito ai partiti o per la corruzione dell’incaricato di pubblico servizio matura in cinque anni dall’ultimo episodio accertato, o in sette anni e mezzo, se interrotta da eventuali interventi del pubblico ministero o del giudice (10). Per la corruzione del pubblico ufficiale e per l’abuso di ufficio, il termine è lo stesso, se al colpevole vengono concesse le attenuanti generiche, solitamente riconosciute agli incensurati, che d’altronde non sarebbe giusto negare a chi dovesse meritarle, solo per sfuggire alla minaccia della prescrizione (11). A tale preoccupazione sembra rispondere una statistica recentemente pubblicata (12). Dal prospetto riassuntivo si evince, certo, il dato dell’esistenza di poche sentenze definitive, per un totale di 420 imputati e 518 anni di carcere, ma, per quanto riguarda la prescrizione, risulta che essa ha prodotto i suoi effetti solo in una ventina di casi. (10) Cfr. GAMBERINI, La giustizia penale nella politica, in Crit. dir. 1994, spec. 15. (11) Così FLICK, Amnistia (senza amnesie), in Il Sole 24 ore, 18 agosto 1995, p. 6. Dello stesso Autore cfr. Come uscire da Tangentopoli: ritorno al futuro o cronicizzazione dell’emergenza?, in Riv. trim. dir. pen. ec. 1994, 943; Responsabilità penali dell’imprenditore indagato per tangenti nell’ottica dei reati societari e fallimentari, in questa Rivista, 1994, 1449 ss. (12) Cfr. Il Sole 24 ore, 30 agosto 1995, p. 19.


— 467 — 2.2. Un provvedimento di condono, per così dire secco, è auspicato da Coppi (13). Egli è dell’opinione che i protagonisti del sistema illegale che si è dissolto sono tutti lontani dalla politica e perseguirli penalmente non servirebbe; pertanto sarebbe possibile una vera e propria amnistia, istituto previsto dal nostro ordinamento, che nella sua realtà e nelle sue ragioni etiche ispiratrici è un atto con cui lo Stato riconosce non esserci più ragioni di pretesa punitiva. Inoltre, per corroborare la sua proposta, Coppi afferma che ci sono « imprese su cui riposa l’economia italiana i cui vertici potrebbero essere azzerati per fatti certamente riprovevoli, ma avvenuti in un determinato momento storico, nel quale vi erano purtroppo le condizioni perché questo avvenisse e nel quale forse il confine tra il bene ed il male era meno sentito di come oggi non venga percepito con lucidità ». 2.3. Infine, si registra la proposta di Taormina, che si sviluppa, sostanzialmente, intorno a tre direttive. La prima consiste nell’introdurre un processo semplificato, da svolgersi davanti al giudice per le indagini preliminari, a richiesta dell’imputato, non opponibile dal pubblico ministero, che, in ipotesi di affermazione di responsabilità, comporti il dimezzamento della pena e, eventualmente, altre riduzioni di pena collegate a vari altri comportamenti del condannato (risarcimento del danno, restituzione dell’illecito profitto, confessione, etc.). La seconda consiste nell’introduzione di una norma penale, che permetta di fare chiarezza sulle reali responsabilità degli imputati di tangentopoli. Infatti, secondo Taormina, nella maggioranza dei casi sarebbero avvenute, a fini di finanziamento dei partiti, consegne di danaro nella più perfetta regolarità delle procedure di appalto o di altro tipo, che, quindi, non potrebbero costituire ipotesi di concussione o corruzione e per le quali sarebbe necessario che il legislatore chiarisse che queste qualificazioni giuridiche sono errate o non adeguate (14). La terza direttiva si concreta nella previsione di un condono esteso a tutti i reati — tuttavia, pur sempre occasionata dalla ricerca di una « soluzione politica » per tangentopoli —, compresi quelli di terrorismo, poiché pensare ad una soluzione per i soli fatti di tangentopoli comporterebbe la violazione del principio di uguaglianza e l’attivazione di una spirale di violenza e di protesta nelle carceri, stracolme di detenuti in attesa di giudizio. In realtà, a parere di Taormina, è necessario che la giustizia faccia il suo corso in maniera rapida ed efficace, in funzione di una pacificazione sociale « come risultanza di una consapevolezza che il passato ha pure le sue ragioni e che il futuro sia costruito senza la palla al piede di tangentopoli ». (13) (14)

Cfr. Il Corriere della sera, 2 settembre 1995, p. 9. Cfr. Il Corriere della sera, 20 agosto 1995, p. 2.


— 468 — 3. Gli argomenti su cui paiono fondarsi queste proposte riguardano, grosso modo: 1) la necessità di ‘pacificazione’, 2) il pericolo di prescrizione, 3) l’esigenza di rimuovere dei freni all’economia, bloccata da tangentopoli. A noi sembra che, al di là della necessità di rimettere in piedi la legalità, che passa — senza ulteriori mediazioni — attraverso la celebrazione dei processi, quelle stesse esigenze poste alla base delle varie proposte di sanatoria sarebbero tutt’altro che soddisfatte da forme, ingiustificate, di indulgenzialismo. 3.1. Prima di affrontare i vari punti, vorremmo porre in rilievo un aspetto poco rassicurante, comune a quasi tutte le varie proposte, che le rende, in via pregiudiziale, poco compatibili con un impianto normativo ed una cultura da stato di diritto. Infatti, a ben vedere, un tratto che finisce per legare le varie proposte — tranne, ovviamente, l’amnistia ‘secca’, discutibile per altri versi — è quello di un ridimensionamento del valore del fatto di reato, intorno al quale dovrebbero ruotare le valutazioni del sistema, a favore della condotta successiva dell’autore. La gran parte delle soluzioni proposte, in effetti, si appiattisce sulle indagini preliminari, assecondando quella tendenza, perniciosa per lo stato di diritto, che finisce per rendere, sempre più, il pubblico ministero protagonista principe del rapporto processuale. In realtà, si sposta il luogo centrale in cui si decide il destino dell’imputato dal dibattimento alla fase delle indagini preliminari. E ciò accade in perfetta coerenza con quell’inquietante orientamento che ha finito per spostare la funzione di controllo sociale dalla sanzione penale verso il processo penale di per sé solo considerato, se non addirittura verso le prime fasi del processo stesso, con l’impropria esaltazione, in chiave repressivodeterrente, dell’avviso di garanzia e di meri istituti cautelari quali la carcerazione preventiva (15). È chiarissimo il valore puramente simbolico di autorappresentazione statuale che, come di consueto, sta alle spalle di opzioni di marca generalpreventiva nel senso della intimidazione. Sono evidenti, allora, i pericoli per la legalità complessiva, legati, da un lato, all’inequivocabile squalifica di regole di garanzia, che un modello di tipo lato sensu poliziesco, come quello delineato, reca con sé, e, dall’altro, al diffondersi di una forma mentis di possibile impunità, che avrebbe effetti sconvolgenti in rapporto alle esigenze di un corretto vivere civile. 3.2.

Per quel che concerne la ‘pacificazione’ sociale, da soddisfare

(15) Sull’argomento, tra gli altri, DI CHIARA, Il carcere come « extrema ratio »: emergenze normative, emergenze giurisprudenziali e recenti polemiche, in Foro it. 1992, II, 1 ss.; CERESA GASTALDO, Diritto al silenzio, aspettative di « collaborazione » dell’imputato e controlli sull’impiego della custodia cautelare, nota a Cass. pen. sez. VI, 9 luglio 1992, in questa Rivista 1993, 1153.


— 469 — con un colpo di spugna, questo sembra l’argomento meno fondato. Come già si è posto in rilievo, è di evidenza intuitiva, infatti, l’effetto di totale disaggregazione di consensi intorno ad ordinamento ed istituzioni, che scatenerebbe qualsiasi condono di fatti gravi, odiosi e diffusi. Piuttosto, questo dato indiscutibile non autorizza affatto ad un’attenuazione delle garanzie o alla creazione di qualsiasi sorta di corsia accelerata per la repressione di tali reati; ciò finirebbe per assumere la forma di una ‘giustizia speciale’ che risulta lontanissima dalle pretese dello stato di diritto. In altri termini, non si serve il ripristino della legalità violando la stessa; non risultano, infatti, mai ed in alcun modo giustificate le violazioni dei diritti fondamentali, che pur ci sono state, specialmente in materia di custodia cautelare per finalità di confessione e/o di collaborazione, così come le violazioni sistematiche del segreto istruttorio, anche se esse, da un lato, hanno sicuramente facilitato il chiarimento di molti casi e, dall’altro, hanno reso facilmente percepibile all’opinione pubblica lo stato delle cose. Ciò, tuttavia, ha dato vita ad un’inquietante campagna di law and order, che ha finito con l’attribuire alla giustizia una fisionomia particolare, ben diversa da quella che caratterizza lo stato di diritto. Essa ha determinato preoccupanti tentativi di commistione di ruoli, di anticipazioni di pena, di concerto con i mass-media, con il risultato di realizzare irrituali processi sommari ed extra-istituzionali, con l’immancabile corollario della poena extraordinaria della gogna. Non è certo questo il modello di giustizia a cui facciamo riferimento quando chiediamo i processi; pensiamo, invece, ad una giustizia che, fuori dei clamori, con pacatezza e serietà, applichi inflessibilmente le regole, quelle favorevoli e quelle contrarie al reo. 3.3. Per quel che concerne il riferimento al rischio della prescrizione, va subito detto che si tratta di un’ipotesi tutt’altro che infondata, ma non riguarda solo i fatti di tangentopoli, bensì tutti i reati. Esso è legato fondamentalmente a due fattori: il cattivo funzionamento dell’amministrazione della giustizia — un male ormai endemico — e l’ipertrofia del sistema penale — altro male non meno endemico —, ingolfato dalla presenza di un numero insopportabile di figure di reato, delle quali non si avverte alcuna necessità; esse potrebbero essere tranquillamente cancellate dal novero degli illeciti o, comunque, adeguatamente degradate, a seconda dei casi, ad ipotesi di illecito amministrativo, civilistico o disciplinare (16). Basti solo considerare il massiccio impiego della giustizia penale nei settori tributario ed urbanistico, che potrebbero, invece, garantire al loro interno soluzioni appaganti per un gran numero di casi, sempre che, naturalmente, ci si impegni ad un ripensamento nel senso della razio(16) Per alcuni esempi di possibile depenalizzazione differenziata ci sia consentito il rinvio al nostro Il diritto penale tra essere e valore, Napoli 1992, pp. 235-237, 243, 258 ss., 281-283.


— 470 — nalità e dell’efficienza dell’intera organizzazione giudiziaria. E già alla luce di queste considerazioni il discorso della depenalizzazione mantiene quella significatività che non sempre viene ad essere riconosciuta. L’ipertrofia del controllo penale serve, infatti, soltanto a favorire un’utilizzazione meramente simbolica e, quindi, distorta del diritto penale, e ciò è testimoniato proprio dal fatto che il sistema penale è strutturalmente incapace di rispondere ai fatti per il controllo dei quali è teoricamente predisposto, dato che, in realtà, risponde a questi in misura veramente irrisoria. Il problema, dunque, non è legato all’‘emergenza tangentopoli’, ma è di tipo strutturale, e, se vanno sperimentate su larga scala forme di controllo diverse da quello penale, ciò non appare necessario, né fondato da un punto di vista politico-criminale, per i reati di tangentopoli. Sembra, infatti, quanto meno opportuno continuare ad affidare alla normativa tradizionale la disciplina di questi illeciti, la cui gravità è, d’altra parte, efficacemente dimostrata da un danno sociale che — per quanto concerne il bene protetto, solitamente individuato nel buon andamento della pubblica amministrazione — ha finito, secondo opinione unanime e diffusa, con il travolgere l’intero sistema politico ed istituzionale della cosiddetta prima Repubblica. Appare evidente, dunque, come siano ben altre le ipotesi di reato suscettibili di depenalizzazione. La diminuzione del numero dei processi, che conseguirebbe allo sfoltimento della normativa, farebbe sì che quelli che dovessero celebrarsi sarebbero in grado di assicurare la realizzazione delle due esigenze fondamentali della giustizia penale: conseguimento di effettività e rispetto delle garanzie. Va considerato che la ragione di fondo del diffuso, scarso favore di cui godono le garanzie, consiste nel pensare che esse risultino di impaccio alla giustizia. È ovvio che i processi condotti seriamente richiedono un tempo maggiore degli altri, ma questo viene, per lo più, imputato al rispetto delle forme dispregiativamente inteso come sinonimo di garanzia, di cui viene rappresentata, con inquietante superficialità, sempre più una funzione quasi di supporto alla criminalità (17). È chiaro che, in presenza di difficoltà di organico, o meglio di organizzazione giudiziaria, e con un ordinamento penale inflazionato di fattispecie bagatellari, il pericolo della prescrizione dei reati è presente; non appare, tuttavia, giustificata una sua ipervalutazione per i fatti di tangentopoli. Nel momento in cui si procede alla verifica dell’opportunità e della possibilità di una soluzione di tipo legislativo, si tratta innanzitutto di (17) Si vedano in proposito le magistrali considerazioni svolte da NOBILI, Cosa si può rispondere all’invettiva di Robespierre contenuta nel discorso per la condanna a morte del Re: « Voi invocate le forme perchè non avete principi? », in Crit. dir. 1994, 66 ss.; ID., Principio di legalità e processo penale (in ricordo di Franco Bricola), in questa Rivista, 1995, 652 ss.


— 471 — sgombrare il campo da messaggi, più o meno occulti, che, comprensibili tutt’al più nel momento di una divulgazione di dubbia imparzialità, una volta che siano recuperati a dignità scientifica, finiscono per presentare la prescrizione in termini di equivalente dell’abolitio criminis. Tra le cause di estinzione del reato, va, infatti, riconosciuto proprio alla prescrizione il pregio di non coinvolgere e nemmeno sfiorare il disvalore espresso dalla norma incriminatrice, come, invece, accadrebbe inevitabilmente con qualsiasi altro intervento di natura legislativa, per quanto eccezionale possa essere, come, per esempio, un provvedimento di amnistia. Anche l’istituto della prescrizione va ricondotto ad una dimensione politico-criminale, relativa alle funzioni di prevenzione positiva, generale e speciale, legate alla applicazione della sanzione penale. A tali funzioni non è ritenuta affatto estranea la pacificazione sociale che, per altra via, si intende realizzare con i provvedimenti recentemente proposti; resta da chiedersi cosa accadrebbe, invece, con una riforma legislativa che non potrebbe non apparire, agli occhi dell’opinione pubblica, come un vero e proprio colpo di spugna. Sotto questo profilo, va riconosciuto all’istituto della prescrizione il notevole pregio della piena rispondenza alla normale evoluzione fisiologica della realtà sociale, che permette il raggiungimento degli stessi scopi perseguiti dalle proposte di riforma senza il ricorso a strumenti che, per loro stessa natura, appaiono espressione di una patologia più o meno grave del sistema, e, per ciò solo, quanto meno sospetti sotto il profilo dello stato di diritto. 3.3.1. Ma non solo. È, a nostro avviso, tutta da verificare anche l’affermazione secondo cui l’allarme sociale provocato dai reati di tangentopoli sarebbe tale da far ritenere intollerabili i normali tempi della prescrizione, che, quindi, non sarebbero adeguati alla gravità del tutto eccezionale dell’attuale fenomeno criminoso. In particolare, si tratta di verificare i tempi della prescrizione dei reati più ricorrenti nell’ambito di tangentopoli. Emerge, allora, che i tempi normali di prescrizione ammontano a 15 anni per la concussione di cui all’art. 317 c.p. (art. 157 comma 1 n. 2 c.p.), 5 anni per la corruzione impropria antecedente di cui all’art. 318 comma 1 c.p. e per la corruzione di incaricato di pubblico servizio di cui all’art. 320 comma 1 prima proposizione c.p. (art. 157 comma 1 n. 4 c.p.), 10 anni per la corruzione propria di cui all’art. 319 c.p. (art. 157 comma 1 n. 3 c.p.), 5 anni per le violazioni delle norme sul finanziamento dei partiti politici di cui all’art. 7 comma 3 della l. 2 maggio 1974 n. 195 e all’art. 4 comma 6, l 18 novembre 1981 n. 659 come modificato dall’art. 4 della l. 8 agosto 1985 n. 413 (art. 157 comma 1 n. 4 c.p.). Va, inoltre, considerato che per i reati di tangentopoli appare quanto meno probabile l’intervento di almeno uno degli atti interruttivi indicati dall’art. 160 comma 1 e 2 c.p., per i quali i termini di prescrizione, decor-


— 472 — rendo ex novo, non potranno comunque essere prolungati oltre la metà; di conseguenza, gli stessi si prolungheranno a 22 anni e 6 mesi per la concussione, 7 anni e 6 mesi per la corruzione impropria antecedente e per la corruzione di incaricato di pubblico servizio, 15 anni per la corruzione propria, 7 anni e 6 mesi per le violazioni delle norme sul finanziamento dei partiti politici. 3.3.2. È, tuttavia, anche vero che non può essere ignorato il ruolo di eventuali circostanze. In proposito, vengono in considerazione, innanzitutto, le attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis c.p., la cui irrilevanza ai fini della prescrizione è sostenuta solo da una parte minoritaria della dottrina (18), mentre appare del tutto esclusa nella giurisprudenza (19). L’ipotesi, comunque, è rilevante unicamente in relazione a quelle fattispecie di reato il cui massimo edittale si colloca sui confini tra le varie classi di delitti individuate dall’art. 157 c.p. Tra i reati prima citati, il problema concerne la sola corruzione propria, che l’art. 319 c.p. punisce con una pena che nel massimo è prevista in 5 anni; la diminuzione minima conseguente al riconoscimento delle attenuanti generiche sposta, allora, l’ipotesi dal n. 3 al n. 4 del primo comma dell’art. 157 c.p.: i termini di prescrizione diventano di 5 anni, oppure di 7 anni e 6 mesi nel caso in cui intervenga un atto interruttivo. Anche per quest’ipotesi, comunque del tutto particolare, va, tuttavia, considerato che gli effetti delle attenuanti generiche possono essere comunque vanificati dal riconoscimento di una o più aggravanti; per i fatti di tangentopoli appare possibile l’applicazione alla corruzione propria dell’aggravante prevista all’art. 319-bis c.p. per l’ipotesi in cui il fine del delitto sia « il conferimento di pubblici impieghi o stipendi o pensioni o la stipulazione di contratti nei quali sia interessata la pubblica amministrazione alla quale il pubblico ufficiale appartiene »; d’altra parte, la giurisprudenza ritiene applicabili a corruzione e concussione le aggravanti per i delitti contro il patrimonio di cui al n. 7 dell’art. 61 c.p., la cui considerazione nella prospettiva dell’economia pubblica appare, per i fatti di tangentopoli, tutt’altro che infondata. Alla luce dei vincoli che l’art. 157 comma 2 c.p. pone alla discrezionalità del giudice nella valutazione di attenuanti ed aggravanti, un giudizio di equivalenza nel concorso eterogeneo di circostanze appare pressoché inevitabile, qualora — ipotesi a nostro avviso molto più probabile — (18) Cfr. VANNINI, In materia di circostanze attenuanti, in Arch. pen. 1945, I, 483 ss. (19) Le sentenze contrarie alla rilevanza delle attenuanti generiche sono sempre più rare: tra le più note, l’ultima risale ormai al 1958: v. Tribunale di Roma, 8 febbraio 1958, in questa Rivista 1958, 824 ss., con nota critica di CORDERO, Circostanze e termine di prescrizione. L’orientamento dominante della Cassazione è attualmente favorevole alla rilevanza delle attenuanti generiche: v., per tutte, Cass. 18 dicembre 1991, in Cass. pen. 1993, 834.


— 473 — non dovesse concludersi per la prevalenza delle aggravanti, che prolungherebbe ulteriormente alcuni dei termini di prescrizione. Altre considerazioni valgono, invece, per l’applicazione delle attenuanti generiche che, talvolta, gli stessi organi deputati alle indagini richiedono, al solo fine di anticipare una prescrizione comunque inevitabile nelle fasi successive del procedimento penale. Il discorso, qui, ritorna sui tempi normali della prescrizione, magari prolungati a seguito di interruzione, rapportati a quelli di durata media dei procedimenti penali, che, per i reati contro la pubblica amministrazione, l’ISTAT (20) indica per il 1993 in 60 mesi fino alla conclusione del ricorso per Cassazione: sessanta mesi equivalgono esattamente a 5 anni ovvero al termine comunque minimo di prescrizione previsto per i delitti. 3.3.3. Ma, ad allontanare ancor più il rischio della prescrizione, viene in considerazione l’istituto del reato continuato, che consente una punizione, anche particolarmente severa, già sulla base dell’accertamento di un numero relativamente basso di reati, senza che il sistema perda di credibilità e di efficacia con il ricorso ad ingiustificate sanatorie. È indubbio, infatti, che i reati di tangentopoli, quando siano più di uno, siano stati commessi dall’autore « in esecuzione di un medesimo disegno criminoso »: l’illecito arricchimento. Risulta, allora, applicabile il regime sanzionatorio del reato continuato e, quindi, basta l’accertamento di un numero esiguo di reati, perché la pena sia quella prevista per il reato più grave aumentata sino al triplo (art. 81 comma 2 c.p.). Ad esempio, nell’ipotesi dell’accertamento di un unico fatto di concussione accompagnato da quello di due soli episodi di illecito finanziamento ai partiti, è possibile, in teoria, irrogare la sanzione di venti anni di reclusione: e non sono certamente pochi! Inoltre, la presenza del vincolo della continuazione sposta di molto in avanti i termini di prescrizione dei singoli reati, che, in tal caso, decorrono dal giorno in cui è cessata la continuazione (art. 151 comma 1 c.p.); è possibile, quindi, una punizione di fatti lievi di illecito finanziamento risalenti nel tempo, se connessi nel vincolo della continuazione ad un solo episodio più recente dello stesso tipo: un’ipotesi tutt’altro che improbabile. L’attuale disciplina della prescrizione permette, dunque, di ridimensionare fortemente il pericolo dell’estinzione dei reati di tangentopoli, che, invece, diventerebbe certa con le soluzioni recentemente proposte. D’altra parte, la migliore conferma dell’esiguità del rischio è fornita, ancora una volta, dai dati diffusi dall’ISTAT (21), che indicava in 1070 i proscioglimenti per prescrizione pronunciati nel 1993 contro i 2227 del 1989. (20) SISTEMA STATISTICO NAZIONALE - ISTITUTO NAZIONALE DI STATISTICA, Statistiche giudiziarie penali, anno 1993, Annuario n. 2, edizione 1994, Roma 1994, p. 214, tavola 4.5. (21) SISTEMA STATISTICO NAZIONALE - ISTITUTO NAZIONALE DI STATISTICA, Statistiche giudiziarie penali, anno 1993, cit., p. 36, tavola 1.8.


— 474 — 3.4. Per quel che concerne i vantaggi che l’economia ricaverebbe dal colpo di spugna, va subito detto che appare inaccettabile una riabilitazione dei vertici di talune imprese che avrebbero perpetrato fatti riprovevolissimi sulla base di una loro presunta insostituibilità, tutta da dimostrare, e del dato che essi non percepissero, in precedenza, con lucidità, la distinzione tra il bene ed il male. Com’è noto, l’incapacità di distinguere tra il bene ed il male è causa di irresponsabilità, ed allora è preferibile sbarazzarsi di una classe dirigente di ‘irresponsabili’, anziché varare un discutibilissimo provvedimento di amnistia che dovrebbe servire, paradossalmente, proprio a mantenere ai loro posti dirigenziali degli irresponsabili. Si potrà obiettare che, in fondo, ci si riferisce ad un settore, lato sensu, economico, però andrebbe sempre spiegato perché in economia si possa andare al di là del bene e del male. A noi pare proprio il contrario: è stata la mancanza di riferimenti morali elementari in economia, come in politica, che ha contribuito non poco a che nascesse tangentopoli; d’altronde, per quanto riguarda una rinnovata lucidità in rapporto ad una riassunzione di valori etici da parte di queste classi dirigenziali, o meglio dei singoli individui, non ci pare affatto che vi siano le condizioni. Una scelta per il bene non sarebbe assunta da costoro per una decisione in termini di autonomia, ma sotto la ben eteronoma prospettiva di parecchi anni di galera. La scelta dunque, risulta sospetta di convenienza più che di catarsi. La vetusta, ma ancora attuale lezione etica di Kant, relativa all’assoluta necessità di una spontanea adesione alla legge morale (22), pare proprio che mantenga intatto il suo valore, specialmente in un’epoca di anassiologico, disinvolto pragmatismo di tipo post-moderno. 4. Un ultimo problema riguarda la diffusa esigenza di recupero del maltolto, e su questo punto siamo molto scettici sulle possibilità di risultati soddisfacenti. In ogni caso, riteniamo che la via giudiziaria ‘ordinaria’ offra maggiori garanzie di effettività. Infatti, di fronte alla prospettiva di una condanna che, come abbiamo visto, può essere anche severissima, potrebbe risultare per il reo molto conveniente l’applicazione dell’attenuante della riparazione del danno (art. 62 n. 6 c.p.), che ha l’effetto di ridurre di un terzo la pena. Non solo, ma ben più affidabile di qualsiasi forma, più o meno stragiudiziale, di remissione ‘spontanea’ caldeggiata nelle varie proposte di sanatoria, risulta l’obbligo alla restituzione ed al risarcimento (art. 185 c.p.) che, unitamente alla possibilità di confisca « delle cose che sono il prodotto ed il profitto del reato » (art. 240 c.p.), segue di norma alla sentenza di condanna. Tanto per capirci, ci sembra del tutto mistificatorio far passare per presunti gesti di buona volontà, se non di ravvedi(22) Cfr. KANT, Fondazione della metafìsica dei costumi (1797), trad. it. P. Chiodi, in Scritti morali, Torino 1970, p. 74.


— 475 — mento, l’eventuale restituzione di quel che è stato illecitamente acquisito, quando tutto ciò è previsto in via di principio dall’ordinamento vigente. D’altronde, il ricorso, in questo campo, a « tasse sui profitti di regime » o a confische allargate sarebbe sproporzionato per eccesso, finendo per esporsi a rilievi analoghi a quelli opponibili all’art. 12-sexies della l. n. 356/1992 (23), e relativi ad inversioni dell’onere della prova incompatibili con la presunzione di non colpevolezza (art. 27 comma 2 cost.). L’eventuale previsione del consenso dell’imputato non risolverebbe il problema, attesa la dubbia libertà di un consenso prestato al fine di evitare una condanna assai più grave. Quanto, poi, alla rinuncia ad aspirare alle cariche pubbliche, avanzata anch’essa come condizione per ottenere il beneficio dell’impunità, neppure questa può essere considerata una soluzione di particolare pregio, degna di dare un qualche fondamento alla premialità. Essa è già prevista nel nostro codice penale, come interdizione temporanea o perpetua, dai pubblici uffici, quale pena accessoria per condanne superiori rispettivamente ai tre o ai cinque anni di reclusione (art. 29 comma 1 c.p.). È necessario, dunque, ripristinare la legalità e con essa la certezza del diritto; questo significa, ripetiamo, celebrazione dei processi ‘ordinari’ con il pieno rispetto di tutte le garanzie. Qualsiasi trattamento preferenziale farà perdere di legittimazione lo Stato, la sua giustizia di fronte ai consociati, onesti o meno. Difficilmente, infatti, sarà ipotizzabile l’integrazione sociale di un autore di altre tipologie di reati, a contenuto di disvalore inferiore o equivalente, in rapporto al quale, per essere egli estraneo ai ‘circuiti che contano’, non ci si è preoccupati di trovare una ‘soluzione politica’ o di soddisfare ‘istanze di pacificazione’. Questo non vuol dire affatto, e lo ribadiamo con fermezza, abbracciare fedi ‘giustizialiste’, perniciose per lo stato di diritto, tutt’altro: significa soltanto auspicare un’applicazione delle leggi ed un’amministrazione della giustizia serena, corretta. Certo, c’è il pericolo che qualche fatto, qualche autore sfugga dalla rete; ma questo è un problema che vale per tutti i tipi di reato ed è legato alle disfunzioni del sistema penale nel suo complesso, a cui si dovrà pur, quanto prima, porre rimedio, per evitare i guasti della giustizia a campione e la riduzione del reato ad un mero rischio sociale (24). Ecco una materia di cui potrebbe proficuamente occuparsi un legislatore meno disattento ed ondivago. SERGIO MOCCIA Straordinario di Diritto penale nell’Università di Salerno (23) In proposito, ci sia consentito il rinvio al nostro La perenne emergenza, Napoli 1995, p. 57. (24) Secondo la felice terminologia proposta da SGUBBI, Il reato come rischio sociale, Bologna 1990, p. 7 ss.


L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DELLA ‘‘TANGENTE AMBIENTALE’’: INATTUALITÀ DI DISCIPLINA E DISAGI APPLICATIVI NEL RAPPORTO CORRUZIONE-CONCUSSIONE (*)

SOMMARIO: 1. Il problema della corruzione come terreno di ‘‘discrasia’’ tra teoria e prassi? Appunti di metodo. — 2. Alcune essenziali coordinate empirico-criminologiche atte a definire le forme di manifestazione della corruzione italiana. Corruzione e criminalità economica. — 3. La distinzione tra corruzione e concussione. L’individuazione dell’atto d’ufficio nelle fattispecie di corruzione. — 4. Una ricognizione nel diritto comparato. — 5. Rilievi conclusivi.

1. È passato poco più di un anno da quando, nell’Università Statale di Milano, ci siamo incontrati per dibattere del problema di ‘‘Tangentopoli’’ e in particolare di quella che qui ho sentito ripetutamente chiamare la ‘‘proposta di Cernobbio’’ (1). Ricordo che uno dei momenti più accesi di quell’incontro nacque a seguito dell’intervento del pubblico ministero Davigo, il quale, circa con le stesse parole che vedo ora scritte in un suo articolo (2), ebbe a osservare come, al cospetto della massa di illeciti con cui la Procura di Milano ha dovuto confrontarsi in questi ultimi tre anni, gran parte del contenzioso — e quindi delle risorse giudiziarie — sia stato assorbito non già dalla ricostruzione dei fatti di reato o dalla loro attribuzione a questo o a quel personaggio (operazioni ritenute in sé agevoli), bensì dalla qualificazione giuridica di tali fatti e, massimamente, dalla tormentosa scelta di ricondurli alla fattispecie di concussione o a quella di corruzione. (*) Testo riveduto della relazione presentata al Seminario Nazionale I.S.I.S.C. sul tema, ‘‘Il problema ‘Tangentopoli’ nell’attuale stato di disfunzione dell’amministrazione della giustizia’’, Siracusa, 20-22 ottobre 1995. (1) Cfr. la Proposta di legge in materia di corruzione, avanzata da un gruppo di magistrati e docenti universitari e presentata ufficialmente il 14 settembre 1994 all’Università Statale di Milano. Il testo integrale della proposta, già pubblicato tempestivamente e nella sua integrità da organi di stampa (v. ad es. Il Sole-24 Ore, 7 settembre 1994, p. 3), può ora essere consultato, nella versione definitiva risultante da varie correzioni del testo originariamente formulato, in varie riviste giuridiche, tra cui questa Rivista, 1994, p. 1025 ss. (2) Cfr. P. DAVIGO, I limiti del controllo penale e la crescita del ricorso alla repressione penale, in M. D’ALBERTI-R. FINOCCHI (a cura di), Corruzione e sistema istituzionale, Bologna, 1994, p. 41 ss., spec. p. 46 s.


— 477 — Riprendo questa battuta di Davigo perché forse vi si potrebbe leggere una risposta — una delle risposte — della magistratura, all’aporìa che costituisce il tema del presente seminario: ‘‘Il problema ‘Tangentopoli’ nell’attuale stato di disfunzione dell’amministrazione della giustizia’’. Un tema che evidentemente si propone di collocare l’analisi scientifica della corruzione in un contesto attento soprattutto alle esigenze di una prassi che si trova impacciata non solo dalle endemiche e ben note carenze strutturali, ma anche, come qui mi accingo ad esaminare, da una serie di referenti normativi e interpretativi, rispetto ai quali le parole del magistrato milanese, ancorché un po’ ruvide alle nostre orecchie, sembrerebbero esprimere un’esigenza di semplificazione e razionalizzazione, dettata proprio da ragioni di funzionalità. Essendo scoccata in una rara e per questo tanto più significativa occasione d’incontro tra mondo scientifico e mondo giudiziario, quella scintilla polemica poteva peraltro apparire anche come un’efficace figurazione delle proverbiali ‘‘discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale’’, cui un altro pregevole seminario organizzato proprio qui a Siracusa non molti anni fa aveva dedicato i suoi lavori (3). A Milano, almeno per un attimo, quelle discrasie si materializzarono nel percepibilissimo ‘‘scandalo’’ suscitato dalla frase di Davigo tra alcuni esponenti della dottrina che, animati da una spiccata avversione per la ‘‘proposta’’ allora in discussione, ritennero di leggere nell’uscita del magistrato un’ulteriore conferma dell’aspirazione dell’ordine giudiziario a ‘‘tagliar corto’’, ad ‘‘avere mano libera’’, a esautorare insomma difensori e studiosi del diritto penale di un ruolo giuocato proprio sul delicato terreno della qualificazione giuridica di fatti più o meno controversi. Nelle ‘‘conclusioni’’ del seminario siracusano, formulate allora da Alfonso Stile, si sintetizzava il senso delle ‘‘discrasie tra dottrina e giurisprudenza’’ nel fatto ‘‘che posta dinanzi alla realtà e concretezza del caso specifico, la giurisprudenza tende a volte ad assumersi il compito della difesa dei cittadini e dello Stato (anziché quello della mediazione dei conflitti secondo la legge), in una prospettiva che vede il diritto penale come strumento di difesa sociale. In questa ottica viene posta più attenzione alle (ritenute) conseguenze della decisione che al rigoroso rispetto dei princìpi costituzionali’’. ‘‘Viceversa, nella dottrina italiana, già da qualche generazione, prevale nettamente una tendenza liberal-garantista orientata ai valori costituzionali... e non importa se c’è un prezzo da pagare in termini

(3) Cfr. A. STILE (a cura di), Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, Napoli, 1991, Atti del seminario organizzato dall’I.S.I.S.C. a Siracusa l’11-13 ottobre 1990.


— 478 — di tutela di interessi rilevanti: la frammentarietà da caratteristica dell’ordinamento penale è diventata principio’’ (4). Ai fini del superamento della incomunicabilità tra teoria e prassi, Stile suggeriva soprattutto il sollecito adeguamento del sistema positivo al quadro costituzionale, attraverso un lavoro di riforma che segnasse ‘‘l’affermazione più chiara dei princìpi fondamentali e quindi l’abbandono definitivo delle posizioni interpretative e dommatiche con essi incompatibili’’, nonché ‘‘la convalida di quelle che già oggi, sia pure superando inevitabili difficoltà, cercano di adeguarvisi’’ (5). Un’indicazione che resta fondamentale e che coglie quella verità difficilmente controvertibile, additata anche in altri contesti, secondo cui molte delle ragioni di incomprensione tra dottrina e giurisprudenza si annidano nei testi normativi e dunque sono da addebitare più al legislatore che a una cattiva volontà dei due ‘‘versanti’’, contrapposti, loro malgrado, da un diritto positivo inadeguato a indirizzare in modo corretto ed equilibrato verso reali soluzioni dei problemi sul tappeto. Un’indicazione, peraltro, che, essendo formulata da un autorevole esponente della dottrina, giocoforza risultava tendenzialmente contrassegnata da un’opzione a favore delle istanze dottrinarie, se è vero che l’adeguamento al quadro costituzionale non può che tendenzialmente tradursi in una più stretta riconduzione del diritto positivo a quelle ‘‘garanzie’’ di cui la dottrina suole farsi giustamente custode. Senonché, una ragione non secondaria all’origine delle ‘‘discrasie’’ di cui dicevo sopra è costituita — lo ricordava ancora Stile con riferimento ad alcune problematiche specifiche, in particolare all’applicazione dell’ultimo comma dell’art. 47 c.p. — dalla preoccupazione della giurisprudenza di soddisfare anche ‘‘esigenze di semplificazione probatoria’’ (6). Una preoccupazione su cui la stessa prospettiva scientifica tende talora a trasvolare, ma che soprattutto è pressoché sistematicamente disattesa nelle scelte legislative. C’è un noto scritto di Marinucci il quale, richiamandosi a Feuerbach, ammonisce sull’insufficienza di una traduzione, da parte del legislatore, in parole precise del ‘‘senso concettualmente afferrabile delle sue scelte punitive, se poi il loro contenuto resta campato in aria, non rispecchiando una fenomenologia verificabile con massime di esperienza e/o con leggi scientifiche sul banco delle prove esperibili in giudizio’’ (7). Confrontarsi con un tale arduo banco di prova non significa voler ‘‘tagliar corto’’ a dispetto delle garanzie — anche se tutti noi sappiamo (4) (5) (6) (7)

Op. ult. cit., p. 287 s. Op. ult. cit., p. 296 s. Op. ult. cit., p. 290. Cfr. G. MARINUCCI, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in G. MARINUCCI-E. DOLCINI (a cura di), Il diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, p. 196.


— 479 — quanto il difficile lavoro quotidiano dei magistrati sia spesso insidiato da siffatte ‘‘tagliole’’ — ma prendere atto di una più o meno estesa artificialità, almeno rispetto al mutevole dato effettuale, sia del quadro normativo, sia anche di certe costruzioni dogmatiche edificate su tale dato e fuorviate da esso. Acquisire prontamente questa consapevolezza significa al contempo porsi già sulla buona strada per impostare concretamente quel rapporto tra diritto penale e conoscenze empirico-criminologiche segnato, certo, dall’alternanza, come si ricordava in un fondamentale scritto sull’argomento (8), di frustrazioni e spinte all’ammodernamento e tuttavia, tra le molte asperità e limiti, assolutamente necessario. A dispetto dell’iniziale smarrimento o addirittura dell’indignazione suscitati dal loro timbro talvolta rudemente semplificatorio, le ‘‘voci’’ provenienti dalla prassi non possono venire disattese troppo sbrigativamente dalla prospettiva scientifica. Appunto in quanto ‘‘scientifica’’, essa, pur senza dismettere in alcun modo il proprio bagaglio di strumenti critici, dovrebbe seriamente confrontarsi con tutte le principali coordinate atte a definire la ‘‘realtà e concretezza’’ dei casi specifici e dunque anche con i disagi applicativi vissuti dall’esperienza giudiziale al loro cospetto. Ad onta di una ‘‘situazione spirituale’’ della dottrina penalistica italiana che proprio in questi ultimissimi anni ha visto allargarsi e approfondirsi in modo allarmante (quale che sia il ‘‘versante’’ cui un tale stato di cose risulti maggiormente addebitabile) il proprio senso di estraniazione nei confronti dell’operari della magistratura, un genuino ‘‘spirito scientifico’’ (9), ossia una razionalità che, emancipata dall’immediatezza e dalle emotività del momento, cerchi di spiegare e spiegarsi anche i toni all’apparenza più alieni e sospetti, può forse servire a ristabilire qualche prezioso canale di comunicazione tra i due mondi e con ciò a impostare soluzioni in grado di fronteggiare degnamente i molti, ormai ineludibili, problemi che gravano sulla vita civile del nostro paese. ‘‘Apertura all’empiria’’, per il penalista, può insomma voler dire anche semplicemente scoperchiare e mettere il naso nella pentola ribollente e, talvolta, maleodorante del come e perché il magistrato perviene alle sue scelte in quanto condizionato o fuorviato da una fatale inattualità del diritto positivo rispetto alle nuove forme di emersione di determinate condotte criminose o, come più spesso accade, rispetto al diverso significato,

(8) Cfr. L. MONACO, Su teoria e prassi del rapporto tra diritto penale e criminologia, in Studi urbinati, 1980-81, p. 399 ss. (9) A proposito dello ‘‘spirito scientifico’’, si veda ad es. il classico volume di Gaston Bachelard, recentemente ripubblicato: La formazione dello spirito scientifico, a cura di Enrico Castelli Gattinara, Milano, 1995.


— 480 — empirico-sociale e culturale, che i fenomeni criminali sono venuti assumendo dopo che il legislatore ha operato le sue scelte normative (10). Proprio con riguardo all’annosa discussione in merito ai rapporti tra corruzione e concussione, che ha trovato soluzioni almeno prima facie abbastanza convincenti dal punto di vista teorico, ma che ha dato luogo a esiti estremamente controversi sul terreno della prassi (11), può quanto meno nutrirsi il sospetto che le ‘‘sofferenze’’ applicative siano da ricondurre almeno in parte a un’artificialità dei dati testuali con i quali la giurisprudenza è costretta a confrontarsi. Un’artificialità che in questo caso, come in molti casi, non pare nascere tanto da un’inettitudine originaria a raccogliere ‘‘con mano pigra, tra le onde della vita quotidiana’’ — per riprendere la nota frase di Binding (12) — ‘‘ed elevare a fattispecie delittuose’’ le azioni più intollerabili, le ‘‘forme di manifestazione più grossolane’’, bensì, continuando nella parafrasi, nel rifiutarsi di percepire che quanto all’inizio era ‘‘più sofisticato e raro’’, non solo ha assunto ‘‘un contenuto illecito più grave di quanto precedentemente sanzionato’’, ma è diventato di per sé proprio la ‘‘forma di manifestazione più grossolana’’ del delitto disciplinato. Quello dei rapporti tra corruzione e concussione è un tema troppo importante e difficile, troppo dissodato, per consentire qui una trattazione esauriente o per ammettere la possibilità di una soluzione di qualche originalità nel breve spazio di un intervento, per quanto stimolato da un’oc(10) Una sintetica ma puntuale rassegna degli attriti che hanno caratterizzato e caratterizzano la ‘‘gestione’’ dei problemi di Tangentopoli a causa dell’inadeguatezza degli strumenti normativi vigenti può trarsi dallo scritto già citato di Davigo (ivi, p. 45 ss.), dove si fa riferimento tra l’altro, oltre che al difficile rapporto corruzione-concussione: all’eccessiva ‘‘frammentazione’’ delle fattispecie penali in materia; alle difficoltà applicative delle qualifiche di pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio; ai bassi livelli sanzionatori previsti per le forme meno gravi di corruzione; al fatto che spesso il soggetto pubblico ‘‘venga remunerato non già per il compimento o l’omissione di determinati atti d’ufficio o contrari ai doveri d’ufficio, ma che riceva denaro (a volte con cadenza periodica ovvero in misura forfettaria)’’ per assicurarsi la sua generica disponibilità (sul problema della individuazione dell’atto d’ufficio, v. infra, il § 3); alla sovente impossibilità di riscontrare negli illeciti il ‘‘classico schema binario’’ e ci si trovi invece di fronte a uno ‘‘schema ternario’’, in cui ‘‘un privato paga un altro soggetto... perché questi influisca su altre persone che svolgono pubbliche funzioni o che sono incaricate di un pubblico servizio, o addirittura a ‘‘sistemi illegali cui partecipano numerosissimi soggetti’’. Si rileva infine che ‘‘la solidarietà tra corrotto e corruttore (di solito gli unici a conoscenza della commissione del reato) tende ad assicurare un vincolo di omertà molto difficile da spezzare, la cui forza è ampliata dai labili confini fra le varie ipotesi di reato che rendono incerta la valutazione della propria posizione anche da parte di chi potrebbe andare esente da pena’’. (11) Vedi in questo senso PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte speciale. Delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, 7a ed., Milano, 1995, p. 162. (12) K. BINDING, Lehrbuch des Gemeinen Deutschen Strafrechts, Besonderer Teil, Bd. I, 2. Aufl., Leipzig, 1902, p. 20. Riprendo la traduzione in G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, 3a ed., Bologna, 1995, p. 31 s.


— 481 — casione così prestigiosa. Mi accontenterò dunque di spendere poche parole utili, spero, ad ‘‘attualizzare’’ questo tradizionale groviglio dommatico in alcune delle sue più significative articolazioni. A tal fine vorrei procedere innanzi tutto all’individuazione delle ‘‘grandezze’’ atte a definire il ‘‘campo di forze’’ empirico-criminologico e politico-criminale della corruzione, quali la prassi — e che prassi — ha sospinto prepotentemente all’attenzione non solo di tutti noi, ma perfino, ormai, di quella tarda e pigra del nostro legislatore. 2. In estrema sintesi, quali variabili messe in luce dalla recentissima esperienza italiana paiono assumere maggiore interesse in vista dell’esigenza di impostare strategie de lege ferenda, ma anche di illuminare possibili tracciati interpretativi suscettibili di ricadute proprio sulla tortuosa linea di confine tra corruzione e concussione? Direi, prima di tutto, il legame stretto tra Economia, Politica e Amministrazione. Siamo tutti d’accordo che la fattispecie di corruzione possa essere integrata anche dalla semplice condotta del privato cittadino che, per ottenere più rapidamente un certificato o qualche altro atto della pubblica amministrazione, allunghi una somma di denaro all’impiegato statale o comunale. Ma non è certo questo lo stampo dei fatti che ha caratterizzato Tangentopoli, per quanto a lungo si sia discusso della direzione ‘‘ascensionale’’ — dal basso verso l’alto — o ‘‘discensionale’’ — dall’alto verso il basso — delle dinamiche diffusive della corruzione (con ciò peraltro sottolineando anche la fondamentale commensurabilità criminologica delle piccole e delle grandi corruzioni) (13). La fenomenologia davvero degna di attenzione, sia per la sua diffusione, sia per la sua gravità, è quella che ha fatto rilevare a non pochi osservatori come, almeno a Milano, non si sia potuto registrare alcun caso di corruzione grave che non affondasse le proprie radici in un pregresso o concomitante quadro collusivo. La fenomenologia, in sostanza, definita dall’interazione di ben precisi soggetti, nitidamente localizzabili nella fascia alta o medio-alta della vita economica e politico-amministrativa del paese. Una ‘‘interazione’’, peraltro, ben presto degenerata in una totale confusione di ruoli, già favorita del resto dal massiccio intervento dello Stato nell’economia, non solo per la commistione tra sfera amministrativa ed economica — di per sé foriera di gravi occasioni di corruttela (14) — che (13) Cfr. D. DELLA PORTA-A. VANNUCCI, Corruzione politica e amministrazione pubblica, Bologna, 1994, p. 461 ss. (14) Un aspetto, come noto, energicamente stigmatizzato da un cospicuo filone della teoria economica ostile ai burocratismi e dirigismi di mercato, il quale ravvisa nella ingerenza dello Stato nella conduzione delle imprese un importante terreno di coltura della corruzione oltre che dell’inefficienza produttiva. Cfr. ad es., a titolo meramente orientativo, il classico lavoro di L. von MISES, Bureaucracy, tr. it., Milano, 1991, p. 94 ss., il quale così sin-


— 482 — questo ha generato, ma, prima ancora, per l’offuscamento di un distinto ‘‘statuto’’ della pubblica amministrazione, sempre meno stagliata nel suo profilo pubblico rispetto al ruolo di ‘‘attore’’ risolutamente assunto nei processi economici (15). Correlate a siffatte caratteristiche ‘‘soggettive’’ della corruzione in Italia sono ulteriori coordinate che assumono estremo interesse per la prospettiva del penalista. La continuità dei rapporti tra soggetti pubblici e privati, innanzi tutto. Per una serie di ragioni che non ho il tempo di esplicitare, peraltro ben note a tutti i presenti, tali rapporti hanno registrato una tenacissima saldatura grazie al decisivo ruolo di collante tra pubblica amministrazione e imprenditoria esercitato dalla ‘‘mediazione’’ politica (16). Insomma, l’etetizza ‘‘l’esperienza di uomini d’affari americani’’ venuti a contatto con le ‘‘condizioni economiche nell’Europa del Sud e dell’Est’’: ‘‘gli imprenditori di questi Paesi non si preoccupano del rendimento della produzione, e i governi sono nelle mani di cricche corrotte’’. Situazione che il von Mises spiega proprio con la totale dipendenza dell’impresa privata dalla discrezionalità dell’amministrazione statale. ‘‘In un ambiente del genere l’imprenditore deve ricorrere a due mezzi: alla diplomazia e alla corruzione. Egli deve usare questi mezzi non soltanto nei riguardi dei partiti al potere, ma anche nei confronti dei gruppi di opposizione messi fuori legge e perseguitati, i quali un giorno potrebbero riprendere in mano le redini del potere. Si tratta di una specie di pericoloso doppio gioco; unicamente uomini senza paura e privi di scrupoli possono resistere in questo ambiente putrefatto. Uomini d’affari cresciuti nelle condizioni di un’epoca più liberale devono abbandonare ed essere sostituiti da avventurieri. Gli imprenditori venuti dall’Europa occidentale e dall’America, abituati in un ambiente di legalità e di correttezza, sono spacciati qualora non si assicurino i servizi degli agenti del luogo... Sarebbe un errore dare la colpa di questa corruzione al sistema dell’intervento governativo nell’economia e nella burocrazia in quanto tali. La colpa è della burocrazia degenerata in gangsterismo nelle mani di politici depravati. E, tuttavia, dobbiamo renderci conto che questi Paesi avrebbero evitato il male se non avessero abbandonato il sistema della libera impresa. In questi Paesi, la ricostruzione economica postbellica dovrà prendere l’avvio da un mutamento radicale delle loro politiche’’. È significativo ricordare del resto come uno dei padri riconosciuti dell’economia classica, Adam Smith, attribuisse al libero mercato addirittura un effetto di contrasto nei confronti del crimine più incisivo di quello prodotto dai meccanismi repressivi: ‘‘...non è la polizia che impedisce i delitti; ma il fatto che ci siano poche persone che vivono a spese di altri. Niente corrompe gli uomini più che la condizione servile, mentre l’indipendenza fa aumentare l’onestà del popolo; la formazione del commercio e dell’industria che deriva da questa indipendenza è la migliore polizia per prevenire i delitti’’ (A. SMITH, Lectures on Justice, Police, Revenue and Arms, Oxford, 1896, tr. it., Lezioni di Glasgow, in La morale dei sentimenti e la ricchezza delle nazioni, Napoli, 1974, p. 222). Per una recente valorizzazione del pensiero di Adam Smith proprio con riguardo al problema della corruzione, si veda P. SYLOS-LABINI, Adamo Smith e l’etica, in L. BARCA-S. TRENTO (a cura di), L’economia della corruzione, Bari, 1994, p. 159 ss. (15) Cfr. ad es. A. BECCHI-G.M. REY, L’economia criminale, Roma-Bari, 1994, p. 42. (16) Per uno tra gli innumerevoli esempi di tale attività di intermediazione svolta da personaggi politici al fine di assicurare al privato — professionista o imprenditore — la benevolenza della pubblica amministrazione, tratto dalla recente giurisprudenza di merito, v. Trib. Vercelli, 2 febbraio 1995, in Foro it., 1995, II, c. 365 e la relativa nota di M. TESAURO, ‘‘Meglio prevenire che curare’’: la c.d. estorsione ambientale al vaglio della giurisprudenza


— 483 — satta antitesi di un modello weberiano di amministrazione caratterizzato dalla divisione di compiti tra la classe dei burocrati e quella dei politici professionisti (17). Efficacemente questa è stata detta una corruzione sistemica, ben distinta dalla c.d. corruzione pulviscolare (18) che, con tutto l’aggio concesso al pur rilevantissimo dato della cifra oscura, è invece caratteristica di altri paesi indiscutibilmente dotati di una più salda ‘‘cultura civica’’ (19). Paesi nei quali la società ha raggiunto uno stadio evolutivo che, superato il livello centrato sui sistemi tradizionali a base familiare (dove prevale l’obbligo di lealtà nei confronti della famiglia nucleare) e, successivamente, quello basato sul rapporto protettore-cliente (dove i legami con un protettore potente prevalgono su quelli nei confronti della comunità nel suo complesso) (20), risulta caratterizzato dall’appropriazione da parte delle relative componenti di una serie di regole, scritte e non scritte: la percezione del carattere oggettivo di tali regole è in grado di conferire a individui e gruppi un’identità indipendente dal riconoscimento e dalla ‘‘protezione’’ elargiti dai detentori del potere e dunque assicura un rapporto con il mondo politico ragionevolmente libero da sudditanze (21). Un secondo aspetto — connesso alla durata, sistematicità e ripetitività dei rapporti di corruzione — è costituito dagli elevatissimi livelli di sofisticazione raggiunti dalla prassi dei pagamenti illeciti. Un effetto non secondario dell’enorme diffusione nel tempo e nello spazio di questi crimini è stato infatti di innescare formidabili automatismi nell’esecuzione delle transazioni illecite, e formidabili coperture. Ciò si è riflesso necessariamente sui rilevanti ostacoli che si frappongono al loro perseguimento e, con essi, sull’ingente dato del campo oscuro che, credo, proprio nessuno, di merito. La sentenza si segnala peraltro, come rilevato nella nota citata (c. 368), per la discutibile valorizzazione della ‘‘significativa contiguità esistente fra estorsione e concussione, esportando la formula del condizionamento ambientale al di fuori del particolare ambito dei delitti contro la pubblica amministrazione nel quale era originariamente maturata’’. (17) M. WEBER, Politik als Beruf, München-Leipzig, 1919, tr. it. Il lavoro intellettuale come professione, Torino, 1966, p. 47 ss., richiamato anche recentemente da DELLA PORTA-VANNUCCI, op. cit., p. 253. (18) Cfr., per questi concetti, DELLA PORTA-VANNUCCI, op. cit., p. 255 ss. (19) V., per tutti, A.J. HEIDENHEIMER, Introduction, in A.J. HEIDENHEIMER (a cura di), Political Corruption. Readings in Comparative Analysis, New Brunswick, New Jersey, 1978, p. 19 ss. (20) Cfr. HEIDENHEIMER, op. loc. ult. cit. (21) Cfr. G. SAPELLI, Cleptocrazia. Il ‘‘meccanismo unico’’ della corruzione tra economia e politica, Milano, 1994, p. 148 (anche con riferimento alle ridotte capacità aggregative del sistema politico italiano contemporaneo, sottolineate da D. HINE, Governing Italy. The Politics of Bargained Pluralism, Oxford, 1993), che identifica nella ‘‘incapacità di costruire regole istituzionali’’, ‘‘il tratto fondamentale della classe politica e più in generale della classe dirigente italiana’’, caratterizzata da una ‘‘vocazione storica al particolarismo e alla frammentazione personalistica, con scarsa incentivazione alla creazione di sistemi di ruoli e di procedure’’ e con l’effetto che ‘‘alla frammentazione partitica si combina la disgregazione della rappresentanza degli interessi’’.


— 484 — qui, abbia l’ingenuità di pensare sia stato definitivamente o integralmente rischiarato dai fuochi delle inchieste di ‘‘mani pulite’’. Il collocarsi del fenomeno nel cruciale snodo dei rapporti tra i ‘‘piani alti’’ dell’Economia e della Politica ha finito inoltre per riflettersi su un’altra grandezza di rilievo estremo: le dimensioni e la natura del danno prodotto da questi fatti, non più ristretto alle un po’ logore categorie del ‘‘buon andamento’’ e dell’ ‘‘imparzialità’’ della pubblica amministrazione, ma esteso all’integrità dell’economia nazionale, alle regole della concorrenza e allo stesso funzionamento delle istituzioni democratiche. Più ancora, le dimensioni enormi e profonde di questo danno sono risultate inscindibili dalla natura diffusiva e ‘‘replicante’’ dei fatti di corruzione, che determina una vicendevole stimolazione della domanda e dell’offerta di tangenti, con l’esito di un’uscita degli onesti dal sistema (22): ‘‘la perdita di fiducia nell’imparzialità dell’amministrazione della cosa pubblica mina le basi etiche della convivenza civile e incentiva la defezione dagli obblighi del patto sociale’’; ‘‘l’esistenza di un mercato illegale nel quale acquistare i benefici pubblici diminuisce gli incentivi a sviluppare una reputazione di onestà nel commercio’’ (23). A illustrazione di questo enunciato, che sottolinea il grave effetto destabilizzante prodotto dalla corruzione diffusa, basterebbe del resto ricordare quanto da tempo rilevato dalla letteratura sociologica ed economica americane, particolarmente sensibili al problema del danno derivante alla società da tale crimine (24). Si afferma che la corruzione tende ad autoalimentarsi e a erodere il coraggio necessario per aderire a più elevati standard di correttezza. Una volta percepita nella sua esistenza e diffusione dalla collettività, essa riduce il rispetto per l’autorità costituita e mina la fiducia della popolazione nel fatto che l’amministrazione agisce equamente. I politici, si dice, costituiscono o dovrebbero pur sempre costituire un’élite; se questa viene giudicata corrotta, l’uomo della strada non vedrà alcuna ragione per non perseguire il proprio interesse particolare. Gli stessi soggetti pubblici vedranno indebolito il coraggio di adottare provvedimenti impopolari (ad es. fiscali), tenderanno a sottrarsi alle proprie responsabilità e ai propri doveri e aumenterà tra loro e con il resto della società il livello dei conflitti e della litigiosità (25). (22) A. VANNUCCI, Fenomenologia della tangente: la razionalità degli scambi occulti, in Etica degli affari e delle professioni, 1993, p. 31. (23) A. VANNUCCI, op. cit., p. 40 s. (24) Cfr. spec. D.H. BAYLEY, The Effects of Corruption in a Developing Nation, in A.J. HEIDENHEIMER, op. cit., p. 521 ss.; G. MYRDAL, Corruption: Its Causes and Effects, ivi, p. 540 ss. (25) Su vari ‘‘circoli viziosi’’ caratteristici della dinamica della corruzione — in particolare tra corruzione in sé, malamministrazione, clientelismo e criminalità organizzata — v. DELLA PORTA-VANNUCCI, op. cit., p. 461 ss.


— 485 — Se noi consideriamo congiuntamente il quadro delle variabili qui solo sommariamente prospettate, ci renderemo conto di come ad esse competa l’attitudine a determinare un deciso spostamento dei fatti di corruzione quanto meno verso quell’area definita in criminologia come la ‘‘criminalità economica’’ (26). Intendo dire che in relazione ai fenomeni in questione tendono a manifestarsi gran parte dei connotati sulla base dei quali la letteratura criminologica è pervenuta a isolare, e quindi a studiare autonomamente, un’area abbastanza definita di criminalità, caratterizzata, tra l’altro: da elevatissimi livelli di pericolosità e dannosità incidenti sia sull’‘‘ordine economico’’ in sé, sia sulla fiducia collettiva nella quale tale ordine trova il proprio fondamento (27), a fronte del numero relativamente ristretto degli autori dei reati (28); dal tipo di vantaggio, economico appunto — non solo in senso immediatamente patrimoniale, ma, non di rado, nella forma di una posizione preferenziale sul terreno competitivo — acquisito dai protagonisti degli illeciti (29); dalla caratteristica diffusiva ‘‘a risucchio’’ o ‘‘a spirale’’ (Sog- und Spiralwirkung) dei reati (30); dalle enormi difficoltà di rilevamento e repressione, sia per la complessità e sofisticazione delle pratiche illecite, sia per il carattere collettivo o superindividuale dei beni colpiti, tale da determinare una ‘‘volatilizzazione della qualità di vittima’’, nonché una ‘‘anonimità delle strutture comunicative’’ e, con esse, uno sfumare o annullarsi del tutto delle occasioni o degli incentivi alla denuncia (31); sia infine, e soprattutto, proprio (26) Cfr. R. SCHÖNHERR, Vorteilsgewährung und Bestechung als Wirtschaftsstraftaten, Freiburg, 1985, passim. Non trascurabile in vista di un tale ‘‘spostamento’’ è la stretta connessione delle corruzioni con la perpetrazione di reati squisitamente economici (falsi in bilancio, evasioni fiscali, ecc.); un profilo, quest’ultimo, esemplarmente emerso in recentissime vicende giudiziarie. Nella sentenza di primo grado pronunciata nel processo a carico di Sergio Cusani (Trib. Milano, 28 aprile 1994, in Foro it., 1995, II, c. 24 ss.), ad esempio, la stretta correlazione tra criminalità politico-amministativa e illeciti societari o fiscali non solo è emersa dai fatti ricostruiti, ma si è riflessa anche in alcuni snodi dell’argomentare in diritto, come ad esempio nella discussione sulla rilevanza del principio del nemo se detegere ‘‘sostanziale’’, addotto dalla difesa per escludere la punibilità dei reati realizzati attraverso mancate registrazioni contabili funzionali alla commissione degli illeciti amministrativi. Principio la cui applicazione è stata peraltro esclusa dalla sentenza in esame, sul rilievo che nel caso di specie gli imputati non avevano inteso nascondere un provento illecito, bensì un versamento in denaro lecito da utilizzare, solo successivamente, per fini illeciti. Sul punto v. F.M. AMATO, Il processo Cusani: profili penali-sostanziali, in Foro it., 1995, II, in particolare c. 43. Sui rapporti tra reati di corruzione e reati economici, si veda anche L. FOFFANI, Lotta alla corruzione e rapporti con la disciplina penale societaria, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1994, p. 958 ss. (27) Cfr. W. ZIRPINS-O. TERSTEGEN, Wirtschaftskriminalität. Erscheinungsformen und ihre Bekämpfung, Lübeck, 1963, p. 34. (28) V. per tutti G. KAISER, Kriminologie, Heidelberg, 1989, p. 460. (29) Cfr. SCHÖNHERR, op. cit., p. 43 s. (30) Cfr. ZIRPINS-TERSTEGEN, op. cit., p. 98 s.; SCHÖNHERR, op. cit., p. 271. (31) G. KAISER, op. cit., p. 432.


— 486 — dal radicarsi delle relative condotte nelle sfere alte del mondo economico, anche nel senso di una ‘‘contiguità’’ di ‘‘orizzonti culturali’’ tra autori degli illeciti e soggetti istituzionali, con un ‘‘collateralismo delle classi dirigenti’’ che è tale da affievolire o ‘‘neutralizzare’’ la ‘‘potenziale valenza criminosa’’ dei reati perpetrati (32). La predetta riconduzione della fenomenologia delittuosa in esame alla categoria della ‘‘criminalità economica’’, nonché la sua peculiare connotazione ‘‘etico-culturale’’ (33), sotto il profilo tanto del danno prodotto quanto dell’eziologia criminale, non hanno un valore meramente classificatorio, ma comportano implicazioni o, almeno, sollecitazioni innanzi tutto sul terreno politico-criminale. L’impostazione di qualsiasi strategia di lotta e prevenzione, pur nella consapevolezza dell’insufficienza degli strumenti giuridici in generale e di quelli penali in particolare, a sradicare il fenomeno, dovrebbe in primo luogo tener conto della necessità di sormontare almeno in parte quei fattori che determinano la ben nota e conclamata ineffettività dei mezzi di intervento nel settore della criminalità economica in generale (34) e in quello della criminalità politico-amministrativa in particolare. A tal fine le norme penali dovrebbero risultare nel loro assetto sia formale sia sostanziale coerenti o almeno non in patente contraddizione con un quadro di rapporti Stato-cittadino caratterizzato da una relativa o comunque maggiore immunità da corruzione rispetto a quanto emerso nelle esperienze del passato; relativa immunità che, come detto, appare ravvisabile in società caratterizzate da una cultura civica e, dunque, dalla (32) Cfr. G. FIANDACA, La contiguità mafiosa degli imprenditori tra rilevanza penale e stereotipo criminale, in Foro it., 1991, II, c. 472 ss., e spec. c. 477, anche per i significativi e acuti riferimenti a E. SUTHERLAND, White Collar Crime. The Uncut Version, tr. it., Il crimine dei colletti bianchi, Milano, 1987. (33) In Gran Bretagna è stato recentemente pubblicato il ‘‘rapporto Nolan’’ (M.P. NOLAN, Standards in public Life: First Report of the Commission on Standards in Public Life, London, 1995), nel quale sono confluiti i risultati di un’inchiesta sugli standard di comportamento invalsi nella pubblica amministrazione britannica, con un occhio attento anche alle esigenze di prevenzione dei fenomeni corruttivi e di conflitto di interessi. Nell’‘‘Introduzione’’ al Rapporto si raccomandano ‘‘procedure e istituzioni che scoraggino e permettano di scoprire gli illeciti’’, si auspica un ristabilimento ‘‘dei valori etici inerenti all’idea di pubblica amministrazione’’ e si rileva anche che ‘‘le procedure legali possono servire, ma in definitiva ciò che conta è la coscienza degli individui’’. ‘‘Prima di tutto qui in Gran Bretagna’’, continua il rapporto, ‘‘abbiamo ragione di essere orgogliosi dei livelli di correttezza della maggior parte dei nostri pubblici amministratori; questo orgoglio deve essere ristabilito. In secondo luogo, altrove l’esperienza insegna che se non si preservano e, se del caso, non si ristabiliscono i più rigorosi standard di onestà, gli illeciti possono diventare parte di un sistema di vita’’ (p. 16 s.). (34) Sui fattori che ostacolano un controllo efficace della criminalità economica esiste una sterminata letteratura. Cfr., da ultimo, D. NELKEN, White Collar Crime, in M. MAGUIRE-R. MORGAN-R. REINER, The Oxford Handbook of Criminology, Oxford, 1994, p. 355 ss. e spec. p. 377 ss., con gli ulteriori riferimenti.


— 487 — vigenza e percezione di regole oggettive in grado di conferire ai soggetti privati una certa indipendenza rispetto al ‘‘riconoscimento’’ pubblico. Inoltre, la natura degli interessi coinvolti, ma soprattutto la tendenza intrinsecamente espansiva dei fatti di corruzione, non consentono di affrontare questi problemi sul piano penale prescindendo dalla necessità di preservare una forte e, soprattutto, coerente disapprovazione sociale nei loro confronti, attenta alle specificità di questa fenomenologia criminosa e quindi all’imperativo di evitarne ogni anche indiretta ‘‘omologazione’’ o ‘‘assimilazione’’ rispetto a tipologie delittuose di portata aggressiva assai meno conclamata. Infine, gli interventi preventivi e repressivi dovrebbero comunque caratterizzarsi per una decisa centralità conferita agli strumenti in grado di erodere la ‘‘scarsa visibilità’’ propria dei fatti di corruzione, non meno che dei fatti di criminalità economica in generale. A questo riguardo non dovrebbe essere persa di vista l’esigenza di evitare una palese dissonanza tra le modalità per ‘‘uscire’’ dalla Tangentopoli di ieri (o di oggi) e il contenuto delle scelte legislative, ormai ineludibili, per la prevenzione delle possibili Tangentopoli di domani ossia di preservare una stretta continuità, se non unità, tra il prima e il dopo della reazione sociale alla corruzione. In caso contrario, verrebbe trasmesso innanzi tutto alla società un messaggio ambiguo e contradditorio rispetto a quella legittimità e coerenza del sistema normativo che, come tutti sappiamo, è indispensabile per assicurare efficacia generalpreventiva alla sanzione penale. La necessità di tenere ben ferma la continuità tra il passato e il futuro della lotta alla corruzione risulta del resto suggerita anche dalla ‘‘dinamica circolare’’ di questo tipo di criminalità, il cui effetto primo e più distruttivo è di produrre, almeno fino al raggiungimento di quello che gli economisti chiamano il ‘‘punto di equilibrio’’, ancora nuova criminalità, attraverso una progressiva disgregazione della fiducia nell’osservanza delle regole, siano esse leggi o regole-base di un mercato aperto. 3. Delineata la cornice criminologica e politico-criminale del problema della corruzione in senso lato, vorrei ora soffermarmi su quello che all’inizio del mio intervento ho individuato come il tema principale di analisi: la questione dei rapporti tra corruzione e concussione. Il privilegio di avere di fronte un pubblico così qualificato mi alleggerisce del compito di ripercorrere anche soltanto per sommi capi l’evoluzione del tormentato dibattito in materia e, con esso, le varie teorie più o meno vetuste inanellate in tale ambito (35). Mi limiterò ad alcune osservazioni riepilogative. È ben noto come l’‘‘area di crisi’’ nel rapporto tra le due fattispecie (35) Per queste può utilmente consultarsi l’ampia disamina di PAGLIARO, op. cit., p. 162 ss.


— 488 — sia in larga misura alimentata dal carattere evanescente della c.d. concussione per induzione, una delle due forme con cui questo delitto può essere realizzato secondo la previsione, mantenuta dalla riforma del 1990, dell’art. 317 c.p. Il significato della concussione mediante ‘‘induzione’’ risultava peraltro altamente controverso, ben prima dell’èra di Tangentopoli, sia in dottrina sia nella giurisprudenza, oscillante minoritariamente tra l’idea che anche in relazione all’induzione fosse richiesto in capo all’extraneus il metus (sicché era necessaria la consapevolezza del carattere indebito della dazione o promessa) e quella invece maggioritaria, tendente a configurarla in presenza già solo della frode o inganno, con gravi problemi di delimitazione rispetto alla truffa aggravata (36). Nel corso dei lavori di riforma sfociati nella legge n. 86 del 1990, vari progetti avevano del resto prospettato l’eliminazione di questa figura. Tra essi, il progetto di legge Azzaro del 31 maggio 1984 (37), noto per avere proposto l’introduzione di una ipotesi di non punibilità per chi avesse denunciato tempestivamente i fatti di corruzione di cui fosse partecipe, dove si rilevava l’insufficienza della previsione di esclusioni di pena ‘‘premiali’’ per spezzare la solidarietà tra corrotto e corruttore e si riteneva necessaria ‘‘una razionalizzazione del sistema’’, il cui elemento qualificante veniva considerato proprio il rifluire, nell’unica figura della corruzione, di ‘‘tutti quei casi di concussione che possono dar luogo a confusione e che in sostanza si identificano in quella particolare fattispecie che è rappresentata dalla concussione per induzione’’. La concussione veniva così limitata all’ipotesi in cui il p.u. costringa il privato, con atti espliciti di intimidazione o di violenza, a dargli denaro o altra utilità, facendo rientrare le dubbie ipotesi di concussione per induzione nel delitto di corruzione (38). Questa cospicua ‘‘area di crisi’’ tra le due fattispecie non solo non è stata minimamente erosa dalla riforma del 1990, ma anzi, all’indomani dell’introduzione della l. n. 86, è risultata dilatata e approfondita. Come tutti sappiamo, la riforma non solo ha infatti adottato la scelta, di per sé criticabile, di mantenere l’‘‘induzione’’ nel testo dell’art. 317 c.p. (39), ma ha complicato il quadro di riferimento dell’interprete con la contestuale introduzione della ‘‘istigazione alla corruzione passiva’’ di cui all’art. 322 (36) Per questa e altre sintesi degli orientamenti giurisprudenziali in materia, v. S. SEMINARA, in A. CRESPI-F. STELLA-G. ZUCCALÀ (a cura di), Commentario breve al codice penale, Padova, 1992, sub art. 317, IV. (37) Se ne veda il testo in Quaderni della Giustizia, n. 45, p. 65 ss.: ‘‘Nuova disciplina dei delitti di concussione e corruzione’’. Analoga scelta sul punto era espressa dal progetto Andò e altri, n. 1219 del 27 luglio 1987. (38) Già nel 1968, del resto, un disegno di legge dell’allora ministro Reale aveva contemplato una causa di non punibilità per il corruttore che denunciasse il fatto entro tre mesi. (39) In senso critico su tale scelta si esprime tra gli altri L. STORTONI, La nuova disciplina dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A.: profili generali e spunti problematici, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1990, p. 721.


— 489 — c.p. la quale, punendo il p.u. e l’incaricato di p.s. che ‘‘sollecita una dazione o promessa di denaro od altra utilità da parte del privato’’, ha reso delicatissima la distinzione tra tentativo di concussione e tentativo di corruzione passiva (40). Questa innovazione legislativa è stata peraltro letta dalla dottrina come una conferma dell’esigenza di ricostruire un disvalore unitario delle due ipotesi di concussione, visto che l’induzione ‘‘non presenta in sé alcuna nota qualificante in grado di caratterizzarla rispetto alla ‘sollecitazione’ di cui all’art. 322’’: disvalore da rinvenirsi nella ‘‘prevaricazione realizzata dal funzionario in danno del privato’’, il che ‘‘suppone uno specifico e consapevole stato di soggezione della vittima’’ (41). Quanto alle soluzioni prospettate per dirimere le aree di pertinenza delle due fattispecie, esse risultano contrassegnate da un dualismo, che spesso ha assunto la forma di una pendolare alternanza, di criteri soggettivi e oggettivi. Lo stato di soggezione psicologica del privato, il metus o quant’altro, da una parte, con tutte le incertezze di una ricostruzione di modulazioni psicologiche; dall’altra: criteri più afferrabili anche se meno flessibili, quali la contrarietà dell’atto ai doveri d’ufficio, il vantaggio conseguito dal privato o l’‘‘iniziativa’’ assunta da una delle parti (42), talvolta utilizzati isolatamente, talaltra come ausilio probatorio per la ricostruzione dei coefficienti soggettivi. Un groviglio di parametri fittamente intrecciati, non sempre facile da districare. Come tutti sappiamo, questa pendolarità risultava comunque, alla vigilia di Tangentopoli, decisamente orientata verso il versante ‘‘soggettivo’’, specie dopo la sentenza a sez. unite della Cassazione che ha inteso fare giustizia di una certa rigidità dei criteri oggettivi e porre l’accento su coefficienti quali, ad es., ‘‘la turbata ed intimorita volizione della vittima’’, effetto della ‘‘preminenza prevaricatrice del pubblico ufficiale’’ (43). Che la zona di confine tra corruzione e concussione sia caratterizzata da una preoccupante nebulosità è noto a tutti e ciò a dispetto dei poderosi e qualificati sforzi in corso da anni per approdare a una più precisa delimitazione tra le due fattispecie (44). Ciò non significa, peraltro, che ci si (40) Cfr. SEMINARA, op. cit., sub art. 318, XIII. (41) Cfr. SEMINARA, op. cit., sub art. 317, IV. Cfr. anche STORTONI, op. cit., p. 721. (42) Si tratta del criterio rivelatosi più caduco, ancorché qualche autore (v., infra, nel testo) vi faccia ricorso con riguardo alla sola ipotesi della distinzione tra concussione e corruzione impropria. Sul punto, v. da ultimo, Cass. 8 settembre 1992, in Giur. it., 1994, II, c. 90. (43) Cfr. Cass. s.u. 27 novembre 1982, in Giust. pen., 1983, II, c. 257. (44) Tende a stemperare la ‘‘drammaticità’’ del problema (ritenuto critico nella sola ipotesi di accettazione dell’utilità o della promessa in cambio di un atto di ufficio) la recente analisi di A. PAGLIARO, Per una modifica delle norme in tema di corruzione e concussione, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, p. 55 ss. Tale scritto si segnala peraltro (al pari della 7a, più recente, edizione dei Princìpi, cit., del medesimo chiaro autore, su cui v. amplius, infra), per


— 490 — trovi di fronte a un problema attinente a una fascia di situazioni meramente liminari o, come si dice, borderline. Certo, il problema non si pone in quelle ipotesi nelle quali ‘‘il pubblico ufficiale vince la resistenza al sopruso’’ (45) con una condotta caratterizzata dalla strumentalizzazione della posizione per piegare la volontà della vittima, dove sussisterà senz’altro la concussione, né laddove il pagamento del pubblico ufficiale si radichi su un chiaro ‘‘accordo criminoso realizzato in vista di un illecito vantaggio perseguito dal privato’’, dove si avrà certamente corruzione (46). Ma tutto ciò che ‘‘residua’’ rispetto a queste situazioni è una massa cospicua di ipotesi concrete che, probabilmente tutt’altro che marginali già all’epoca dell’entrata in vigore del codice Rocco, sono diventate ancora più invadenti e ingombranti in questi ultimi anni o mesi. Credo possa in generale convenirsi sul dato globale che l’esperienza di Tangentopoli abbia reso ancora più dolente, sia in termini quantitativi, sia in termini qualitativi, la problematica dei rapporti tra corruzione e concussione. Basterebbe del resto a testimoniarlo la massa di progetti di legge giacenti in Parlamento, noti e meno noti, caratterizzati per lo più da una revisione di queste fattispecie (47). Una tale riacutizzazione del problema costituisce, a mio modo di vedere, il prodotto di una doppia spinta emergente dal dato effettuale — che potrei definire al contempo centripeta e centrifuga sulla dinamica dei rapporti tra corruzione e concussione — sullo spazio dommatico interstiziale esistente tra le due fattispecie. Per un verso si è infatti determinato un tendenziale ridimensionamento degli spazi applicativi riservati alla concussione. Scegliendo tra i molti fattori di questo effetto, potrei ricordare come nella maggior parte dei casi al vaglio di procure e giudici sia riscontrabile un ‘‘vantaggio’’, spesso assai corposo, conseguito dal privato-imprenditore. Varie analisi in argomento non hanno del resto mancato di sottolineare, l’ho già ricordato, come la maggior parte degli illeciti si caratterizzasse ‘‘a monte’’ per una previa collusione tra gli imprenditori-corruttori. E l’area ritenuta più problematica è proprio quella nella quale il privato abbia comunque conseguito un vantaggio dalla transazione illecita (48), tanto se il vantaggio sia derivato dal compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o dal un parziale mutamento di opinione sui criteri distintivi tra le due fattispecie, dato peraltro di per sé rivelatore delle difficoltà che tale questione ancora comporta, dopo molti anni di intense analisi da parte della dottrina più qualificata. (45) E. PALOMBI, Il delitto di concussione nelle prospettive di riforma, in A. STILE (a cura di), La riforma dei delitti contro la Pubblica Amministrazione, Napoli, 1987, p. 275. (46) PALOMBI, op. loc. ult. cit. (47) Se ne veda una recente rassegna in Riv. trim. dir. pen. econ., 1994, pp. 616 ss., 1074 ss. (48) Cfr. SEMINARA, op. cit., sub art. 318, XIII.


— 491 — mancato compimento di un atto conforme ai doveri d’ufficio (corruzione propria), quanto se esso sia stato conseguito in relazione al compimento da parte del p.u. di un atto dell’ufficio (corruzione impropria). Se il piano dei rapporti sostanziali tra i protagonisti dell’illecito finiva per apprestare un piano di scivolamento della casistica inclinato fortemente verso un’applicazione delle fattispecie di corruzione sempre più ampia, a scapito della concussione, il quadro normativo e le esigenze di politica giudiziaria tendevano però a privilegiare un’applicazione di quest’ultima figura di reato. Alla base di una tale spinta, antagonistica rispetto a quella cui ho accennato in precedenza, ma di momento assai più poderoso, credo sia da ravvisare una maggiore attitudine della fattispecie di concussione a scontare un’altra delle caratteristiche salienti degli illeciti di Tangentopoli, ossia il loro radicamento in un rapporto di scambio tra pubblico e privato caratterizzato da stabilità e continuità nel tempo; in una parola: dalla natura sistemica e diffusa degli illeciti. Corruzione sistemica è stata detta ‘‘una situazione in cui l’illecito è divenuto una norma e... la corruzione è divenuta così regolarizzata e istituzionalizzata che l’organizzazione premia coloro che agiscono illecitamente e di fatto penalizza coloro che accettano le vecchie norme’’ (49). Una siffatta ‘‘regolarizzazione’’ e ‘‘istituzionalizzazione’’ dei rapporti tra i partner dello scambio illecito non si è peraltro tradotta in un allargamento degli spazi della fattispecie di corruzione. È vero infatti che tale caratteristica risulta perfettamente conciliabile con uno stato di soggezione del privato; non a caso, del resto, in presenza di relazioni molto consolidate tra soggetti pubblici e privati si è sempre parlato di ‘‘concussione (e non di corruzione) ambientale’’. Il nascere di creature giuridiche o metagiuridiche come la ‘‘concussione ambientale’’, che a un certo punto si insediano nella discussione con finalità critica rispetto all’assetto normativo o all’elaborazione dommatica e poi, superata questa soglia di iniziale criticità rispetto all’esistente assurgono a componente quasi scontata delle analisi in materia, fino a sfociare in proposte di riforma o in indirizzi interpretativi, deriva, a mio giudizio, non tanto dalla pressione del dato fenomenologico in sé su un quadro di riferimento legislativo ritenuto inadeguato, quanto dal tentativo, sì di venire incontro alle esigenze della prassi, ma in un modo che risulta già condizionato e in quanto tale fuorviato dall’‘‘inattuale’’ assetto normativo vigente. La concussione ambientale nasce, certo, con l’intento di scavalcare l’impaccio rappresentato dal requisito di fattispecie dell’‘‘induzione’’ da parte del pubblico ufficiale, in un contesto caratterizzato, come ben sap(49) G.E. CAIDEN-N.J. CAIDEN, Administrative Corruption, in Public Administration Review, 37, 1977, p. 306, ripreso da DELLA PORTA-VANNUCCI, op. cit., p. 463.


— 492 — piamo, da un malcostume così diffuso e radicato che il pagamento del soggetto pubblico avviene in modo automatico, sulla base della pressione complessiva esercitata implicitamente dall’intero sistema, segnato dalla saldatura tra classe politica e amministrazione pubblica; e tutto ciò in assenza perfino di una implicita sollecitazione da parte del pubblico ufficiale diretta a ‘‘richiamare’’ tale pressione nel rapporto concreto con l’extraneus (50): la tangente costituisce una semplice ‘‘tassa di iscrizione al sistema di erogazione delle risorse pubbliche’’ (51). E tuttavia, alla base delle proposte volte a introdurre questa figura come fattispecie autonoma, credo si rinvenga anche la preoccupazione di aggirare un requisito fondamentale della corruzione, ossia la necessità, comunque denominata, di identificare un rapporto tra prestazione del privato e controprestazione del soggetto pubblico e con essa, di individuare un’atto pertinente all’ufficio che possa equilibrare l’altro piatto della bilancia, gravato dal pagamento passato o futuro da parte dell’extraneus. Alla necessità di individuare un atto dell’ufficio sembrerebbe insomma condurre non solo il riscontro dell’assunzione in sé di tale atto come requisito di fattispecie, ancorché nell’economia della norma esso rivesta il ruolo di oggetto di un ‘‘dolo specifico’’, senza dunque che sia necessaria una sua realizzazione ai fini della consumazione della fattispecie (52), ma altresì quella caratteristica di ‘‘sinallagmaticità’’, di proporzione, di retributività della prestazione del privato che, ne convengo (53), dovrebbe fungere da requisito non solo della corruzione impropria — dove l’elemento della ‘‘retribuzione’’ è espressamente enunciato — ma anche della corruzione propria (54). Come è stato scritto, ‘‘nei delitti di corruzione, l’atto di ufficio deve essere un atto concreto o, per meglio dire, individuato o individuabile: diversamente, verrebbe meno il rapporto di retribuzione’’ (55). Qualche parola, per inciso, anche su questo aspetto assai delicato. L’esigenza di individuazione dell’atto d’ufficio mi sembra da assumere comunque in termini alquanto elastici, non foss’altro perché è impossibile ignorare, nel definirne la portata, una serie di assunti che mi paiono abbastanza incontroversi. Tra questi, innanzi tutto, il rilievo se(50) V., indicativamente, G. CASTELLUCCI, Per una nuova configurazione dei reati in materia di pubblica amministrazione, in D’ALBERTI-FINOCCHI, op. cit., p. 238 ss. (51) VANNUCCI, op. cit., p. 32. (52) Cfr. per tutti, PAGLIARO, Princìpi, cit., p. 187; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte speciale, vol. I, Bologna, 1988, p. 165; SEMINARA, op. cit., sub art. 318, VIII. (53) Cfr. in questo senso PAGLIARO, op. ult. cit., p. 169 ss. (54) Cfr. PAGLIARO, op. ult. cit., p. 170: ‘‘Vi deve essere, in altri termini, non solo la possibilità di individuare la prestazione di una parte e la controprestazione dell’altra parte; ma deve esistere una certa quale proporzione o equivalenza tra l’una e l’altra. Questo significa, in primo luogo, che l’atto di ufficio deve essere individuato o almeno individuabile’’. (55) PAGLIARO, op. ult. cit., p. 183.


— 493 — condo cui è necessario prescindere dalla nozione di atto amministrativo in senso tecnico, visto che la prospettiva della corruzione è diversa da quella del diritto amministrativo (56), sì da abbracciare ogni esplicazione dei ‘‘poteri inerenti all’ufficio’’(57) e quindi anche i semplici pareri, le proposte, gli atti dovuti, i comportamenti materiali (ad es. la sostituzione di una pratica) (58), gli atti di diritto privato e, dunque, ‘‘quei comportamenti che soltanto in connessione con altri, dello stesso o di diverso oggetto, formano un quid unico e rilevante per il diritto amministrativo’’ (59). Si potrà discutere sulla eccessiva latitudine di una siffatta nozione di atto dell’ufficio e vi si potrà anche ravvisare un altro, ennesimo, terreno di discrasia tra dottrina e giurisprudenza. Mi sembra peraltro che la dilatazione della tipologia di condotte del p.u. riconducibili alla nozione di atto dell’ufficio operata dalla giurisprudenza non possa che riflettersi anche sui requisiti di individuabilità di tale atto. Requisiti che del resto la stessa giurisprudenza (ma anche autorevole dottrina) mostra di tracciare in modo assai sfumato. La S.C. ha così asserito, anche di recente, che ‘‘la mancata individuazione in concreto del singolo ‘atto’ che avrebbe dovuto essere omesso, ritardato o compiuto dal pubblico ufficiale... non fa venir meno il delitto di cui all’art. 319 c.p. ove venga accertato che la consegna del denaro al pubblico ufficiale venne effettuata in ragione delle funzioni dallo stesso esercitate e per retribuirne i favori’’ (60). Analogamente in dottrina si è ravvisata la sufficienza di un’individuazione anche soltanto ‘‘per genere’’, in quanto la indicazione del genere comporta altresì l’individuazione di tutti i concreti atti di ufficio che, come species, vi rientrano, nonché in via ‘‘indiretta’’, ‘‘nel senso che il pubblico ufficiale si impegni a compiere gli atti che saranno determinati in una maniera prefissata e, in (56) Così PAGLIARO, op. ult. cit., p. 182 s. (57) Cfr. SEMINARA, in Commentario, cit., sub art. 318, IV; art. 319, II, V; Cass. 26 marzo 1993, in Giust. pen., 1994, II, c. 27; Cass. 23 giugno 1989, in Riv. pen., 1991, p. 43; Trib. Milano, 15 ottobre 1985, in Giur. mer., 1987, p. 733. (58) Cfr. Cass. 15 marzo 1993, in Giur. it., 1994, II, 580. (59) Cfr. Cass. 13 ottobre 1982, in Cass. pen., 1984, p. 280. All’ampliamento della nozione di atto dell’ufficio in sé concorre anche la larghezza con la quale la giurisprudenza assume, ad es., il requisito della violazione dei doveri d’ufficio, per il quale si ritiene sufficiente la violazione di un generico dovere di fedeltà, obbedienza, segretezza, imparzialità, onestà, vigilanza, con esclusione della sola contrarietà al dovere di correttezza (così ad es. Cass. 20 maggio 1993, in Riv. pen., 1994, p. 28; conf. Cass. 25 gennaio 1982, in Cass. pen., 1983, 1966, con nota di A. FERRARO, Brevi note in tema di corruzione; Cass. 21 aprile 1978, in Mass. Cass. pen., 1980, 1265; Cass. 7 giugno 1969, ivi, 1970, 1140). (60) Cass. 26 giugno 1993, cit. Espressione del medesimo orientamento è altresì l’ancora inedita Cass. Sez. VI, 14 marzo 1996 n. 1968, che ha affermato come, per la sussistenza del reato di cui all’art. 319 c.p., sia sufficiente accertare che ‘‘la consegna del denaro al pubblico ufficiale venne effettuata in ragione delle funzioni dallo stesso esercitate e per retribuirne i favori’’ (cfr. Il Sole-24 Ore, 29 marzo 1996, p. 23). V. anche Cass. 13 giugno 1985, in Riv. pen., 1986, p. 828.


— 494 — particolare, persino attraverso successive manifestazioni di volontà del privato’’ (61). Un tale orientamento, peraltro non del tutto pacifico nella giurisprudenza italiana (62), trova riscontro anche nell’esperienza di altri paesi, apparentemente non travolti dalla marea delle corruzioni ‘‘sistemiche’’. Penso alla Germania, in particolare, dove si è asserita, anche in dottrina, la sufficienza, per configurare il reato, dell’esistenza di un accordo tra le parti circa la corresponsione di un vantaggio come contropartita di un’‘‘attività’’ ricadente nell’ambito di competenza del soggetto pubblico, purché sia chiara la direzione verso la quale la condotta omissiva o commissiva ‘‘retribuita’’ dovesse indirizzarsi (63). Più precisamente si è affermato: ‘‘l’atto dell’ufficio deve essere determinato, se non nei particolari, almeno in modo che sia possibile riconoscerne il carattere conforme o contrario ai doveri...; è sufficiente che si sia convenuto che il pubblico funzionario agisca in una certa direzione nell’ambito di determinate competenze o circoli di rapporti, dal che deriverà una riconoscibilità e determinabilità almeno a grandi linee del contenuto sostanziale dell’atto...; per l’esistenza dell’accordo illecito non sarà pertanto ancora sufficiente il generale riscontro di una promessa di disponibilità da parte del pubblico funzionario, a meno che dall’ambito delle competenze del pubblico ufficiale e dall’attività professionale o imprenditoriale del privato risultino collegamenti materiali o punti di contatto, che consentano di inferire il tipo di atto d’ufficio oggetto di mercimonio’’ (64). Analoga la posizione della giurisprudenza austriaca, circa la sufficienza di una determinazione ‘‘di genere’’ dell’atto dell’ufficio, ‘‘nel quadro di una competenza del funzionario pubblico concreta e attuale in rapporto al privato’’ (65). Pur negandosi in dottrina la possibilità di ravvisare ipotesi di corruzione nella dazione di un’utilità in cambio di una ‘‘generale

(61) PAGLIARO, op. ult. cit., p. 170. (62) V., per una diversa prospettiva, Cass. 7 giugno 1991, in Cass. pen., 1992, p. 3037. (63) Cfr. CRAMER in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch. Kommentar24, München, 1991, § 331, 31. (64) Cfr. DREHER-TRÖNDLE, Strafgesetzbuch und Nebengesetze45, München, 1991, § 331, 17, con riferimento alla pronuncia BGH 32, 292. Si veda l’applicazione di questo criterio al caso discusso in Kriminalistik, 1991, p. 317 ss. Contraria a questo orientamento è tuttavia la posizione di H.H. JESCHECK in Strafgesetzbuch. Leipziger Kommentar10, 7. Band, Berlin-New York, 1988, § 331, 13, secondo il quale l’atto dell’ufficio deve essere ‘‘sufficientemente determinato’’ nell’accordo illecito, se non in tutti i particolari, almeno ‘‘nel suo contenuto materiale’’. (65) ÖJZ-LSK 1984/32, cit. in LEUKAUF-STEININGER, Kommentar zum Strafgesetzbuch3, Eisenstadt, 1992, § 304, 8.


— 495 — benevolenza’’ del funzionario (66), si è peraltro asserito che non dovrebbe comunque escludersi la rilevanza di tutti quei casi nei quali il pagamento del soggetto pubblico avvenga non già in relazione a un determinato atto di questi, bensì per ottenerne una ‘‘collaborazione’’ in tutte le situazioni nelle quali il privato entrerà in contatto con lui (67). In questa estensione della nozione di ‘‘atto d’ufficio’’ e, soprattutto, nelle larghe maglie concesse dalla prassi per la sua ‘‘individuazione’’, qualcuno potrebbe scorgere ‘‘quella prospettiva che vede il diritto penale come strumento di difesa sociale’’ che ho menzionato all’inizio di questo mio intervento come connotato della ‘‘diversità’’ della giurisprudenza rispetto agli orientamenti dottrinali. Peraltro, sarebbe difficile confutare l’asserzione che solo una siffatta estensione possa evitare ‘‘l’inconveniente — che si verificherebbe nel caso di una incontrollata accettazione del principio che la corruzione si può delineare solo in rapporto a un atto concreto — di lasciare impuniti proprio i casi più gravi, cioè quelli in cui il privato riesce a controllare tutta l’attività del pubblico ufficiale’’ (68). ‘‘Casi più gravi’’ che peraltro, come abbiamo visto, sostanziano l’impatto anche quantitativamente più significativo (69). Non si può del resto nemmeno trascurare quanto risulta conosciuto in merito ai rapporti tra criminalità organizzata e corruzione, dove il mafioso offre spesso i propri servigi in assenza di una contropartita immediata, a futura memoria, perché sa che prima o poi tornerà utile rivolgersi al funzionario che deve sdebitarsi (70). La fenomenologia di Tangentopoli ci ha dimostrato l’importanza del fattore ‘‘stabilità’’, già noto del resto ad ogni teoria della corruzione. L’aspettativa da parte dei protagonisti di ‘‘un’elevata continuità’’, è stato scritto, ‘‘offre maggiori garanzie di adempiere agli accordi proseguendo la relazione nel lungo periodo, garantisce una maggiore affidabilità e consente scambi differiti nel tempo’’; ‘‘al crescere delle relazioni fiduciarie interne al gruppo, diventa possibile comminare sanzioni (o trasmettere avvertimenti) con maggiore forza e credibilità’’; ‘‘un potente lubrificante de(66) In tal senso vari autori austriaci citati da BERTEL in FOREGGER-NOWAKOWSKI, Kommentar zum Strafgesetzbuch, Wien, 1988, § 304, 6. (67) BERTEL, op. loc. cit. (68) PAGLIARO, op. ult. cit., p. 170, n. 68. (69) Cfr. DAVIGO, op. cit., p. 47, che ricorda come la remunerazione al p.u. (a volte con cadenza periodica e forfettaria) non avvenga in relazione a un atto dell’ufficio o contrario al dovere d’ufficio, ma ‘‘affinché si renda disponibile al compimento o all’omissione di qualsiasi atto utile al corruttore, che dovesse rendersi necessario o anche solo opportuno nell’interesse dell’erogante’’; anche se l’atto oggetto del mercimonio non viene individuato, la disponibilità del p.u., con il suo inserimento nel ‘‘libro paga’’, determina una potenziale disparità di trattamento a favore del corruttore, tale da far desistere i controinteressati dal partecipare a una gara d’appalto. (70) Cfr. L. VIOLANTE, Corruzione e mafia, in D’ALBERTI-FINOCCHI, op. cit., p. 69 ss.


— 496 — gli scambi illeciti è infatti costituito dalla presenza della fiducia’’, quest’ultima definita ‘‘come la soglia di probabilità soggettiva oltre la quale si realizza un’aspettativa di azione cooperativa da parte di un altro attore sufficiente a indurre la cooperazione’’ (71). In presenza di queste caratteristiche di continuità del rapporto di scambio, una sanzione per il mancato rispetto degli accordi può semplicemente consistere nell’esclusione della controparte dagli scambi futuri (72). La correlazione tra ‘‘ambientalità della tangente’’ e graduale sfumare dell’elemento della corrispettività in rapporto a individuabili ‘‘prestazioni’’ del soggetto pubblico emerge dalle deposizioni dei protagonisti della Tangentopoli milanese. Dichiarava ad esempio un imprenditore: ‘‘Io non ho mai saputo a quale esponente istituzionale sia andata a finire la tangente. Sarebbe stato un atto di grave scortesia da parte mia chiedere spiegazioni alla ditta capo commessa. Certamente non si trattava di millantato credito di qualcuno, perché ormai si è creata nel sistema degli appalti pubblici una ‘ambientalità’ della tangente’’ (73). Da tale dichiarazione risulta come la tangente assurgesse a ‘‘ ‘legge non scritta’ o ’regola comune’ di cui tutti sono a conoscenza, sfuma in secondo piano la sua dimensione di corrispettivo economico. Essa assume un valore simbolico, come riaffermazione di un rapporto di sudditanza. In questi casi la degenerazione del sistema ha raggiunto la fase estrema’’ (74). Quale che sia la posizione da assumere con riguardo a tale delicata problematica — su cui ho indugiato incidenter tantum — e a prescindere dalle soluzioni adottate nella prassi, resta il fatto che anche sotto questo profilo le fattispecie di corruzione manifestano, nel loro assetto formale, una linea di maggior resistenza rispetto alle esigenza di far fronte alla concreta fenomenologia di illeciti massivamente riversata sull’amministrazione della giustizia. Il dettato normativo riguardante la concussione offre una latitudine ben più ampia e sorprende che, ad esempio, la sentenza di primo grado del processo Cusani (75) abbia escluso la configurabilità dei reati di concussione, oltre che di corruzione, in base all’asserita impossibilità di individuare un preciso atto che il pubblico ufficiale dovesse compiere od omettere in cambio della prestazione in denaro. In realtà la fattispecie di concussione, secondo la Cassazione — ma qui è di per sé il dato normativo a esprimersi eloquentemente — prescinde da una anche generica individuabilità di atti d’ufficio, atteso che per tale reato ‘‘assume esclusivo rilievo non l’atto in se stesso, ma solo l’abuso delle qualità o (71) VANNUCCI, op. cit., p. 36. (72) Ibidem. (73) Cfr. A. CARLUCCI, Tangentomani, Milano, 1992, p. 45. Il brano è ripreso da VANNUCCI, op. cit., p. 39. (74) VANNUCCI, op. cit., p. 39. (75) Si veda il testo integrale della sentenza Trib. Milano, 28 aprile 1994, cit.


— 497 — delle funzioni’’, da parte del pubblico ufficiale’’ (76). Per la Suprema Corte l’innovazione legislativa, con la sostituzione del termine ‘‘poteri’’ a ‘‘funzioni’’, avrebbe anzi accentuato l’ampiezza applicativa della fattispecie, permettendo di distinguere i fatti di costrizione e induzione che si sostanzino nell’uso del potere attraverso atti rientranti nella competenza del funzionario, dai fatti che, derivando dal mero sfruttamento della qualità, risultino sganciati dall’adozione di atti ben definiti (77). La concussione, in sostanza, gravitando sul concetto di abuso, postula una visione complessiva, protratta nel tempo, del rapporto tra soggetto pubblico e soggetto privato, rispecchia e aderisce alla continuità dei rapporti caratteristica dell’universo ‘‘Tangentopoli’’. Viceversa, lo scambio illecito, lo scambio occulto che caratterizza la corruzione secondo il dettato normativo, tende comunque a isolare un segmento, più o meno esteso, nel continuum dei rapporti tra sfera pubblica e sfera privata, rispetto al quale devono essere necessariamente rapportati i coefficienti psicologici dei protagonisti: l’atto rispettivamente conforme o contrario ai doveri d’ufficio. Esiste poi un’altra ragione alla base della tendenza espansiva della concussione in generale e della c.d. concussione ambientale in particolare. Una ragione che si ricollega a ben precise esigenze di politica giudiziaria. Come è stato rilevato, la ‘‘concussione ambientale’’, prima ancora che dalla dottrina e dai lavori di riforma, è stata innanzi tutto escogitata dalla giurisprudenza al fine di munirsi di un comodo espediente atto ad agevolare la collaborazione del privato. In altri termini, la stessa prassi applicativa, per un lungo passato, ha dato segno di avvantaggiarsi della nebulosità della distinzione tra corruzione e concussione ‘‘per esigenze di repressione’’. ‘‘La collusione tra corrotto e corruttore, il pactum sceleris che li lega indissolubilmente, comportano insormontabili difficoltà di provare l’illecito e quindi, nel dubbio, si preferisce optare per la concussione nella quale l’extraneus, non essendo punibile, può liberamente fornire la prova del fatto’’ (78). Un’esigenza, quella di ‘‘spezzare il bozzolo’’ omertoso tra i protagonisti dello scambio illecito che, evidentemente non da oggi, assilla la prassi giudiziaria. Anche questo fattore di espansione delle fortune applicative dell’art. 317 c.p. risulta peraltro condizionato da una certa artificialità dei referenti normativi di questa materia e, in quanto tale, non esprime una tensione volta a ridurre la distanza dalle concretezze della realtà effettuale, ma anzi, a mio parere, si traduce, proprio per il suo effetto di enfatizzazione del ruolo della concussione, in una ulterio(76) Cass. 16 giugno 1986, A.A., Foro it., Rep. 1987, voce Concussione, n. 7. (77) Cfr. Cass. 3 febbraio 1991, Chiminello, in Cass. pen., 1992, p. 635, con nota di De Liguori. V. in proposito AMATO, op. cit., p. 28 ss. (78) PALOMBI, Una nuova figura di concussione, in I delitti contro la Pubblica Amministrazione, Napoli, 1989, p. 79.


— 498 — re alienazione rispetto alla fenomenologia criminale che dovrebbe affrontare (79). 4. A corredo di queste riflessioni, può essere utile una breve ricognizione nel terreno sempre illuminante — tanto più illuminante in questa materia — del diritto comparato. (79) A ulteriore illustrazione del peso intollerabile esercitato dal dato testuale sugli sforzi della dottrina di far fronte al fenomeno dell’‘‘ambientalità’’ della tangente, sotto forma di una spinta all’applicazione della fattispecie di concussione a un quadro di riferimento sostanzialmente ‘‘corruttivo’’, può essere utile soffermarsi su una recente presa di posizione in argomento. L’ultimo aggiornamento di un noto manuale di diritto penale (A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, 7a ed., cit., p. 164 ss.) si segnala per sostanziali modifiche rispetto alle edizioni precedenti (v. A. PAGLIARO, Princìpi di diritto penale, 6a ed., Milano, 1994, p. 162 ss.), proprio con riguardo alla distinzione tra corruzione e concussione. Detta distinzione viene affrontata in modo differenziato rispetto alla corruzione propria e alla corruzione impropria. La novità della nuova edizione è costituita dalla possibilità di configurare un’ipotesi di concussione anche nel caso di atto contrario ai doveri d’ufficio. In precedenza era stata sostenuta la ravvisabilità, in caso di violazione dei doveri del p.u., ‘‘quasi sempre’’ di una corruzione propria; si diceva infatti che ‘‘il fatto stesso che si raggiunga un accordo per retribuire il pubblico ufficiale in ordine a un comportamento contrario ai doveri d’ufficio dimostra, infatti, che vi è una condotta illecita del privato. E poiché il principale punto di emergenza pratica della distinzione tra corruzione e concussione sta, appunto, nella punibilità del privato, sembra indubbio che, in casi del genere, si debba riconoscere sempre un reato di corruzione propria (a meno che il privato, per qualche verso, sia costretto ad aderire alla richiesta del pubblico ufficiale)’’ (PAGLIARO, Principi, cit., 6a ed., p. 163). Attualmente in una tale ipotesi si ammette invece la configurabilità della corruzione propria o della concussione e il criterio distintivo viene fondato sulla verifica del danno del privato. Si afferma infatti che ‘‘nella concussione il prospettare il compimento dell’atto deve potere costituire un mezzo per costringere il privato a dare o a promettere indebitamente l’utilità’’. Dunque: se l’atto è dannoso si avrà concussione; se è favorevole, corruzione. Una valutazione di danno o vantaggio, peraltro, che viene detta relativa, ossia da condurre rispetto all’atto conforme ai doveri d’ufficio (si dovrebbe operare, cioè, una sorta di eliminazione mentale confrontando la situazione del privato rispettivamente senza e con l’atto o l’omissione del pubblico ufficiale), ma comunque oggettiva, che prescinde quindi dalla ricerca di quei classici coefficienti psicologici costituiti dal metus publicae potestatis ovvero dal certari de damno vitando o de lucro captando e bada al ‘‘risultato’’ della transazione illecita. Altrettanto interessante è la discussione, operata nello stesso manuale, di un’obiezione mossa a questa prospettiva. Obiezione centrata sul rilievo secondo cui ‘‘alle volte il privato accetta di retribuire l’atto contrario ai doveri d’ufficio, ma a lui favorevole (per esempio un accertamento tributario per un valore inferiore a quello reale), perché comprende che, se non addivenisse alle pretese del pubblico ufficiale, questi compirebbe altri atti, anch’essi contrari al dovere d’ufficio, ma stavolta gravemente dannosi per il privato (per esempio il p.u. compirebbe accertamenti tributari sproporzionatamente approfonditi e ripetuti, tali da mettere in crisi la gestione stessa dell’azienda)’’; si rileva allora la necessità di ravvisare in queste ipotesi non già un caso di corruzione, come sostenuto nel manuale in questione, bensì di concussione (v. PAGLIARO, Principi, 7a ed., cit., p. 165, che riferisce la posizione di PALOMBI, Il delitto di concussione, cit., p. 287). Nella sua replica, Pagliaro afferma di concordare con questa soluzione, che peraltro non viene reputata in contrasto con il principio enunciato, trattandosi di una ‘‘situazione mista’’: ‘‘il privato, infatti, accetta in un tutto inscindibile, l’atto contrario ai doveri d’ufficio che gli è favorevole e il non compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio che per lui sarebbero dannosi e che sono prospettati al fine di costringerlo’’ e suddetta situazione mi-


— 499 — Il proposito di attingere dall’esperienza di altri paesi elementi ispiratori per una possibile regolazione del difficile rapporto tra corruzione e concussione deve primariamente fare i conti con un dato macroscopico: tutti i principali ordinamenti occidentali o, come anche si usa dire, dei ‘‘paesi avanzati’’, si segnalano per l’assenza di una fattispecie autonoma di concussione. Non esiste in effetti in Germania, in Austria, in Spagna, in Portogallo, in Gran Bretagna o negli Stati Uniti una figura distinta di reato avente come soggetto attivo un pubblico ufficiale che, abusando di qualità o poteri, estorca denaro o altra utilità a un privato (80). sta viene inquadrata da Pagliaro come tale da configurare certamente in capo al p.u. il reato di concussione mentre, in capo al privato, alternativamente, una posizione di vittima della concussione o di responsabile di corruzione attiva ‘‘diretta a ottenere gli atti conformi ai doveri d’ufficio’’, da risolvere sulla base dell’ulteriore criterio prospettato dallo stesso autore e fondato sull’elemento dell’iniziativa; ‘‘alla iniziativa del pubblico ufficiale corrisponderà, di regola, il delitto di concussione; alla iniziativa del privato, di regola il delitto di corruzione’’. Lo stesso autore (op. ult. cit., p. 167 s.) ha peraltro cura di precisare che il concetto di ‘‘iniziativa’’ dovrebbe essere assunto in un senso non esteriore e formalistico, ma ‘‘conforme alla realtà della vita’’, rientrandovi anche il comportamento ostruzionistico del pubblico ufficiale in conseguenza del quale sia il privato ad offrire al soggetto pubblico il denaro o l’utilità, in quanto tale offerta non rappresenta ‘‘l’atto iniziale bensì il logico sbocco di una situazione gradatamente creatasi anche attraverso allusioni o maliziose prospettazioni di danni, che possono consistere anche nella pratica impossibilità di lavorare nel settore pubblico, ovvero nella prospettiva di essere esclusi dagli appalti pubblici in favore di altre imprese’’. Occorre peraltro rilevare che anche a questa regola la dottrina in esame è costretta a porre una seria limitazione: si ammette infatti la configurabilità della corruzione perfino in caso di iniziativa del p.u. allorché il privato conti su una possibile disponibilità futura del pubblico ufficiale in ordine al compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio. È chiaro allora — si dice — che ‘‘egli vuole cattivarsi in modo indebito la benevolenza del pubblico ufficiale’’ (PAGLIARO, op. cit., p. 166 s.). Credo che da questo breve ‘‘spaccato’’ su un significativo aspetto della discussione dommatica relativa ai rapporti tra corruzione e concussione siano emersi, oltre all’estrema, perdurante difficoltà della questione, due elementi abbastanza emblematici: la riprova di come uno dei fattori che maggiormente concorrono a rendere nebulosa la linea divisoria tra le due fattispecie, costringendo all’inserzione di una serie di distinguo rispetto ai criteri generali, sia la difficoltà di isolare un segmento di quel continuum che normalmente caratterizza il rapporto tra privato e pubblico ufficiale e sul quale viene a innestarsi lo scambio illecito; inoltre, una spiccata proiezione della dottrina a ricercare l’aggancio con grandezze ‘‘oggettive’’, non solo con una rivitalizzazione dell’esangue parametro dell’iniziativa, ma soprattutto con una decisa valorizzazione della dimensione ‘‘economica’’ del fatto di corruzione, ossia, del tipo ed entità del danno o del tipo ed entità di vantaggio rispettivamente subito o captato dal privato. (80) Esistono a ben vedere in alcuni ordinamenti fattispecie denominate concussione o concussion, che però hanno ben poco a che vedere con la concussione italiana prevedendo, come nel caso della Svizzera, all’art. 313, il fatto del ‘‘funzionario che per fine di lucro riscuote tasse, emolumenti od indennità non dovuti o eccedenti la tariffa legale’’. Un’ipotesi che non reca menzione alcuna dei classici caratteri della concussione: la costrizione, l’induzione, la prevaricazione insomma. Analoga la situazione in Francia, dove la c.d. concussion, di cui all’art. 432-10 del nuovo Code pénal, consiste essenzialmente nella percezione di imposte e diritti non dovuti; manca anche in questa fattispecie il connotato della costrizione, centrale alla concussione dell’ordinamento italiano, e non a caso la fattispecie risulta punita in misura molto più ridotta rispetto alla corruzione.


— 500 — Una prima implicazione di questa vistosa differenza rispetto all’ordinamento italiano è che per lo più in quei paesi le ipotesi equivalenti alla ‘‘concussione’’ per induzione saranno ricondotte alle forme di corruzione caratterizzate da una richiesta della utilità da parte del pubblico amministratore, distinte da quelle in cui il p.u. si sia limitato ad accettare o a farsi promettere dal privato il compenso. Così, ad esempio, nell’ordinamento tedesco la nostra concussione ‘‘per induzione’’ appare inquadrabile nella forme di corruzione, propria e impropria (§§ 331 e 332 StGB), che vedano il pubblico amministratore sollecitare (‘‘fordern’’) la dazione, mentre la concussione ‘‘per costrizione’’ sarà piuttosto sussumibile entro figure criminose estranee all’ambito dei delitti contro la pubblica amministrazione, quali l’estorsione (81), con situazioni, semmai, di concorso di reati (82), nelle quali peraltro tenderà a prevalere per lo più quest’ultima fattispecie in ragione della sua maggiore gravità rispetto alla corruzione (83). Senonché, ben può immaginarsi che in quegli ordinamenti la questione che tanto affatica dottrina e giurisprudenza italiane sia almeno in parte trasmigrata sul terreno dei rapporti tra estorsione e corruzione. Il problema risulta peraltro affrontato marginalmente nella dottrina tedesca e la cosa non stupisce se si considera che nell’ordinamento tedesco la fattispecie di Erpressung si stacca nettamente da quelle di corruzione per il connotato della ‘‘violenza o minaccia di un grave male’’, nonché della ‘‘costrizione’’ (84). Ben più delicata e dibattuta si presenta invece la questione nell’espe(81) Cfr. il § 253 StGB, che prevede la figura dell’Erpressung: ‘‘(1) Wer einen anderen rechtswidrig mit Gewalt oder durch Drohung mit einem empfindlichen Übel zu einer Handlung, Duldung oder Unterlassung nötigt und dadurch dem Vermögen des Genötigten oder eines anderen Nachteil zufügt, um sich oder einen Dritten zu Unrecht zu bereichern, wird mit Freiheitsstrafe bis zu fünf Jahren oder mit Geldstrafe, in besonders schweren Fällen mit Freiheitsstrafe nicht unter einem Jahr bestraft. (2) Rechtswidrig ist die Tat, wenn die Anwendung der Gewalt oder die Androhung des Übels zu dem angestrebten Zweck als verwerflich anzusehen ist’’, (82) Si tratterà di ipotesi di Idealkonkurrenz, previste e disciplinate dal § 52 StGB. Cfr. DREHER-TRÖNDLE, Strafgesetzbuch und Nebengesetze, cit., § 331, 26; § 332, 13; RUDOLPHI in RUDOLPHI-HORN-SAMSON (a cura di), Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch. Band II. Besonderer Teil4, 29. Lfg., Frankfurt a. Main, 1991, § 331, 54; § 332, 21. (83) V. anche P. KLEINER, Bestechung. Eine theologisch - ethische Untersuchung, Bern - Frankfurt a.M. - New York - Paris - Wien, 1992, p. 61s., che identifica sostanzialmente nell’elemento dell’iniziativa il ‘‘criterio euristico’’ per distinguere tra corruzione ed estorsione, visto che nella prima è presente un’induzione alla ‘‘violazione della fiducia’’ (Vertrauensbruch) (v. ivi, p. 57), assente invece nella seconda, dove l’intraneus agisce di propria iniziativa e, certo, non ‘‘indotto’’ dal soggetto estorto. (84) § 253 StGB: ‘‘(1) Wer einen anderen rechtswidrig mit Gewalt oder durch Drohung mit einem empfindlichen Übel zu einer Handlung, Duldung oder Unterlassung nötigt...’’.


— 501 — rienza americana (85), dove la discussione dei rapporti tra extortion e bribery vanta una lunga tradizione (86) e risulta particolarmente complicata dal fatto che in quell’ordinamento è prevista una forma di estorsione che, con qualche libertà, potremmo definire ‘‘abusiva’’: la legge americana che disciplina questo reato (87) contempla infatti, oltre all’estorsione caratterizzata dalla violenza o minaccia indebite, altresì una forma di estorsione consistente nel conseguimento di un vantaggio da parte del soggetto pubblico semplicemente ‘‘under color of official right’’, ossia ‘‘con l’abuso (lett. il pretesto) di poteri dell’ufficio’’, ‘‘strumentalizzando’’ la propria appartenenza all’amministrazione (88). La questione è stata di recente vivacizzata, oltre che da una serie di esperienze applicative connesse al grande tema della corruzione del funzionario straniero (89), dagli scritti di uno studioso dell’Università del Connecticut, James Lindgren, nei quali si prende decisamente posizione a favore della impraticabilità di una reale distinzione tra corruzione ed estorsione, per ragioni teoriche, pragmatiche e storiche e si asserisce che i due reati si sovrapporrebbero non marginalmente, in aree c.d. borderline, ma nel loro nucleo centrale. Tesi che trova conforto nell’importante sentenza della Corte Suprema, pronunciata nel 1992 sul caso Evans, ove si è affermato che per l’esistenza del reato di estorsione in capo al pubblico (85) Sul punto, v. ora ampiamente: J. LINDGREN, The theory, history, and practice of the bribery-extortion distinction, in University of Pennsylvania Law Review, 141, 1993, p. 1695 ss. e, già, ID., The elusive distinction between bribery and extortion: from the common law to the Hobbs Act, in UCLA Law Review, 35, 1988, p. 815 ss. (86) Per un quadro dello sviluppo assunto dai rapporti tra bribery ed extortion nella giurisprudenza americana, si veda la monumentale opera: J.T. NOONAN, Bribes, New YorkLondon, 1984, p. 584 ss. (87) Si tratta dell’Hobbs Act, in 18 United States Code § 1951 (1982). (88) § 1951: (a) Whoever in any way or degree obstructs, delays, or affects commerce... by robbery or extortion or attempts or conspires so to do... shall be fined not more than 10.000 or imprisoned not more than twenty years, or both. (b) As used in this section... (2) The term ‘‘extortion’’ means the obtaining of property from another, with his consent, induced by wrongful use of actual or threatened force, violence, or fear, or under color of official right. (89) Cfr. N.H. JACOBY-P. NEHEMKIS-R. EELLS, Bribery and Extortion in World Business, New York-London, 1977, p. 90 s.: nell’esempio del pagamento di un funzionario doganale, ove questo sia reso per un servizio particolarmente rapido, si tratterebbe di corruzione; nel caso invece in cui il funzionario abbia lasciato intendere che in mancanza del pagamento la pratica verrebbe dilazionata, si avrebbe estorsione. Secondo tale ricostruzione, la distinzione dovrebbe essere tendenzialmente basata sul riscontro se il pagamento sia fatto per ottenere un trattamento di favore oppure semplicemente per evitare che il pubblico ufficiale non adempia i propri doveri. Una situazione intermedia tra l’estorsione e la corruzione viene definita quella della ‘‘sollecitazione di un pagamento corrotto’’ (solicitation of a bribe). Significativa in proposito l’osservazione secondo cui la difficoltà di accertamento deriverebbe dal fatto che ci si trova di fronte a rapporti di corruzione costituiti da lungo tempo (ivi, p. 176 s.).


— 502 — ufficiale è sufficiente provare che questi abbia ‘‘conseguito una dazione indebita, nella consapevolezza che tale dazione è stata prestata in relazione ad atti dell’ufficio’’ (90). Vediamo di percorrere sinteticamente le articolazioni di questo orientamento, non privo di interesse anche con riferimento alla disciplina italiana. Esso viene sostenuto soprattutto in base al riscontro della storia delle figure di reato in questione, tradizionalmente caratterizzata da una coincidenza tra le stesse, almeno fino al diciannovesimo secolo, quando le corti hanno cercato di operarne una separazione, senza peraltro che siano venuti meno anche in questo lasso di tempo i casi nei quali si è condannato contemporaneamente per entrambi gli illeciti (91). Tale coincidenza è stata poi riconosciuta apertamente dalla giurisprudenza intervenuta sulla base dell’Hobbs Act (92): ‘‘extortion ‘under color of official right’ equals the knowing receipt of bribes’’ (93). Esclusa ogni rilevanza, ai fini della distinzione tra i due reati, del criterio della ‘‘iniziativa’’ (94), nonché della contrarietà o conformità ai doveri d’ufficio della condotta del pubblico funzionario (95), si afferma che extortion under color of office è di per sé ‘‘la richiesta o accettazione di un pagamento corrotto da parte di un pubblico ufficiale... a causa dell’ufficio o in ragione della capacità di influenzare l’attività pubblica’’ e che la responsabilità per questo reato in capo al soggetto pubblico è del tutto compatibile con un’eventuale responsabilità in capo al privato per il reato di corruzione o bribery, che sussisterà tutte le volte in cui sia dato riscontrare un ‘‘beneficio corrotto dato o ricevuto per influenzare l’attività pubblica al fine di acquisire un indebito trattamento di favore’’ (96). Così ad (90) LINDGREN, The theory, cit., p. 1738 s. (91) Cfr. LINDGREN, The theory, cit., p. 1697. (92) 18 U.S.C. § 1951 (1988). (93) United States vs. Holzer, 840 F.2d 1343 (7th Cir.), cert. denied, 486 U.S. 1035 (1988), cit. da LINDGREN, The theory, cit., p. 1697. (94) V. LINDGREN, The theory, cit., p. 1702 s.: l’estorsione può essere su iniziativa del privato, ove questi anticipi che non potrà ottenere un trattamento equo senza pagare la tangente e viceversa la corruzione potrebbe sussistere in presenza di una richiesta o sollecitazione da parte del p.u. (95) Cfr. LINDGREN, The theory, cit., p. 1704 s. che rileva la marginalità, nella tradizione giuridica anglosassone, del fatto che il p.u. agisca in modo contrario all’ufficio, assumendo esclusivo rilievo la considerazione che egli abbia sfruttato l’ufficio a scopi di arricchimento personale. (96) LINDGREN, The theory, cit., p. 1696. Cfr. anche N.H. JACOBY-P. NEHEMKIS-R. EELLS, op. cit., p. 90 che riprendono le definizioni del Black’s Law Dictionary, di ‘‘bribe’’: ‘‘any valuable thing given or promised, or any preferment, advantage, privilege or emolument, given or promised corruptly and against law as an inducement to any person acting in an official or public capacity to violate or forebear from his duty, or to improperly influence his behavior in the performance of his duty’’; di ‘‘extort’’: ‘‘to compel payments by means of threats of injury to person, property or reputation’’ oppure ‘‘the corrupt demanding or recei-


— 503 — es., in un appalto, si avrebbe bribery, con extortion, se il concorrente che non ne avrebbe il diritto paga per ottenere l’appalto; extortion senza bribery nel caso che a pagare sia il concorrente che ha vinto la gara (97). Questo quadro di rapporti tra le due fattispecie determina in sostanza una scissione delle posizioni individuali dei protagonisti della vicenda corruttiva, nel senso che la richiesta della tangente da parte del funzionario pubblico risulta regolarmente qualificata come ‘‘estorsione’’, mentre la posizione del privato lascia aperta la seguente alternativa: responsabilità per corruzione, qualora il pagamento sia stato corrisposto al fine di avvantaggiarsi indebitamente, di acquisire un trattamento di favore e, dunque, di conseguire una posizione migliore di quella cui si avrebbe avuto diritto senza la tangente; esclusione della responsabilità per corruzione, quando si sia pagato per avere il dovuto: in tal caso il fatto assumerebbe rilevanza esclusivamente come extortion e solo il p.u. verrà punito (98). Peraltro ‘‘il livello di sofisticazione’’ raggiunto dalla prassi dei pagamenti illeciti (99) viene ritenuto così elevato che non sempre risulta agevole stabilire se il privato avesse effettivamente il diritto di beneficiare di un certo vantaggio. La situazione è ben nota all’esperienza italiana: se non si paga, non si ottiene il dovuto; se si paga, non solo ci si sottrae a una conseguenza pregiudizievole, ma si consegue una posizione di spiccato vantaggio rispetto a chi si è astenuto dalla tangente (100). Afferma allora questo filone della dottrina americana che, in mancanza di una disciplina espressa, ‘‘non c’è motivo di lasciare impunito chi ha pagato, solo perché è stato anche vittima di un’estorsione. Se non lo si punisse, potrebbe continuare a frodare il pubblico e altri concorrenti, a meno che si sapesse che ving by a person in office of a fee for services which should be performed gratuitously; or, where compensation is permissable, of a larger fee than the law justified, or of a fee not due’’. (97) LINDGREN, The theory, cit., p. 1699 s. In un altro scritto, questo autore rileva che l’extortion si sovrapporrebbe alla bribery anche nella sola forma della costrizione in due ipotesi: ‘‘prima di tutto qualora il pubblico ufficiale minacci di riservare al privato che corrisponde l’utilità un trattamento più sfavorevole di quanto gli spetti (extortion), mentre il privato miri a conseguire un trattamento preferenziale (bribery)’’; una seconda ipotesi di sovrapposizione si avrebbe allorché il p.u. minacci di peggiorare la situazione in cui si trova il privato in modo però conforme alla legge (ad es. il p.u. che si faccia pagare per omettere una denuncia) (LINDGREN, The elusive distinction, cit., p. 908 s.). (98) In senso contrario alla non punibilità del privato in questi casi si esprime peraltro nettamente il Model Penal Code, § 240.1 cmt. 2 (1980). (99) Così C.F.C. RUFF, Federal Prosecution of Local Corruption: A Case Study in the Making of Law Enforcement Policy, in Georgia Law Journal, 1977, p. 1177. V. anche H.J. STERN, Prosecutions of Local Political Corruption Under the Hobbs Act: The Unnecessary Distinction Between Bribery and Extortion, Seton Hall L. Rev. 1, 1971, p. 6, cit. da LINDGREN, op. ult. cit., p. 1700: a proposito della ben nota situazione per cui ‘‘un funzionario locale può non avere nemmeno bisogno di sollecitare o tanto meno pretendere il pagamento della tangente’’. (100) Cfr. analogamente LINDGREN, The theory, cit., p. 1700.


— 504 — il funzionario pubblico sia così corrotto da rifiutare l’atto dovuto perfino in assenza di una tangente’’ (101). La discussione del problema in seno alla dottrina americana si caratterizza per altri snodi interessanti, in cui si potrebbero agevolmente discernere i toni di controversie ben note anche alla dottrina italiana, ma su cui non ho qui il tempo di soffermarmi. Penso all’affermazione tratta dalla già citata sentenza Evans (102) secondo cui alla figura dell’estorsione che ho definito ‘‘abusiva’’ sarebbe estraneo il requisito dell’induzione (inducement) (103) o comunque che per la sua sussistenza ci si potrebbe appagare di un’‘‘induzione ambientale’’ (situational inducement), bastando che il p.u. riceva il pagamento nella consapevolezza che esso gli è prestato a cagione del suo ufficio (104). Penso anche alla tesi assai controversa, sostenuta dal giudice Thomas della Corte Suprema, secondo cui, contrariamente alla prospettiva esposta in precedenza, corruzione ed estorsione dovrebbero essere nettamente separate facendo leva su un’interpretazione del concetto di ‘‘under color of office’’, da intendere nella accezione di inganno (105): tesi che sembra manifestare non poche affinità con un orientamento ben noto della Corte di Cassazione italiana nell’interpretazione del concetto di induzione nella fattispecie di concussione. Un ulteriore aspetto meritevole di attenzione in questa prospettiva è la stretta correlazione che nella dottrina d’oltreatlantico tende a manifestarsi tra la questione dei rapporti tra concussione e corruzione e il requisito della individuazione dell’atto d’ufficio o almeno il profilo in qualche modo pregiudiziale rispetto a tale requisito, che è l’identificazione di una pattuizione nella quale le parti abbiano concordato il contenuto delle rispettive prestazioni (il c.d. quid pro quo requirement). È significativo rile(101) LINDGREN, The theory, cit., p. 1700 s. Si veda anche l’ulteriore caso di sovrapposizione tra le due figure in presenza della minaccia di una denuncia di reato effettivamente commesso: qui sussisterebbe extortion (perché si minaccia di mettere il privato in una condizione peggiore di quella in cui attualmente si trova), ma anche bribery, perché il privato paga per ottenere un trattamento preferenziale. (102) Cfr. LINDGREN, op. cit., p. 1712 ss. (103) Secondo l’opinione dei giudici ‘‘dissenzienti’’, espressa nella medesima sentenza, il requisito dell’inducement si applicherebbe invece a tutte e due le forme di extortion, sia la c.d. coercive, sia la c.d. official. Nello stesso senso, LINDGREN, The theory, cit., p. 1715. (104) Cfr. LINDGREN, The theory, cit., p. 1716: a questa conclusione si arriverebbe attraverso una lettura congiunta del concetto di inducement e di under color of official right; ‘‘I agree... that the word ‘induced’ adds nothing to the other elements required for extortion’’. (105) La tesi, riferita da LINDGREN (The theory, cit., p. 1721 ss.), assume il requisito in parola come equivalente a ‘‘under pretense that the officer was entitled thereto by virtue of his office’’, ma si espone alla critica, esposta da questo autore, di una virtuale equiparazione dell’extortion alla truffa, inconciliabile con la casistica più comune, visto che ben difficilmente si potrebbe sostenere che un p.u. riceva del denaro per non compiere un atto doveroso a causa della falsa rappresentazione in capo al privato che il pagamento sia dovuto.


— 505 — vare come i sostenitori della tesi in merito alla sostanziale sovrapponibilità di corruzione e concussione nel medesimo fatto (Lindgren e i giudici del caso Evans), condividano anche l’orientamento, avversato da chi non aderisce a tale tesi, che prescinde dalla necessità di un’esplicita identificazione delle prestazioni in gioco da parte dei protagonisti, sul rilievo — un po’ troppo pragmatico, a dire il vero — che in caso contrario verrebbe frustrata l’efficacia della legge (106), non foss’altro perché qualsiasi corruttore per esperienza sa bene di poter solo guadagnare dal fatto di non rendere esplicite le proprie intenzioni (107). 5. Nell’avviarmi alla conclusione, vorrei cercare di tirare le fila delle riflessioni sviluppate fin qui. I disagi applicativi che tradizionalmente hanno attanagliato la distinzione tra corruzione e concussione, nell’èra di ‘‘Tangentopoli’’ sono stati acutizzati dalla pressione di due spinte contraddittorie. Una artificiosa dilatazione dell’ambito applicativo della concussione, generata, come spero di avere adeguatamente illustrato, da un dettato normativo tale da rendere questa fattispecie tendenzialmente più ‘‘servibile’’ sul piano formale, sia in rapporto a precise finalità di politica giudiziaria, ma sia anche per la sua maggiore attitudine ad appiattirsi sul continuum della ‘‘tangente ambientale’’. Sull’altro versante: l’impatto di una fenomenologia di illeciti palesemente riconducibile ai connotati classici della criminalità economica, e quindi caratterizzata da una maggiore aggressività del soggetto privato (108), nonché dal perseguimento da parte dell’extraneus alla pubblica amministrazione di un rilevante vantaggio economico attraverso lo ‘‘scambio’’ con il soggetto pubblico. Ciò ha prodotto l’effetto di un naturale scivolamento sostanziale, invece, verso la fattispecie di corruzione, destinato però a scontrarsi se non ad arrestarsi del tutto di fronte alla maggiore asperità, alla minore flessibilità dei dati testuali propri di quest’ultima figura di reato. Credo che da questo stato di cose emerga una palese inattualità del quadro normativo, letteralmente accasciato dall’‘‘insostenibile pesantezza’’ di dati effettuali che le inchieste giudiziarie, comunque le si voglia valutare, hanno riversato sulla riflessione dommatica. Di qui l’estrema urgenza di una riforma che, a prescindere dalle scelte specifiche che vorranno adottarsi, dovrà soprattutto munire le fattispecie di corruzione di una previsione atta a meglio rispecchiare la nuova o nuovamente risco(106) V. l’opinione del giudice Kennedy, riferita da LINDGREN, The theory, cit., p. 1733 s. (107) ‘‘Dealing with intelligent donees, the donor may reasonsably expect a better return if he is not specific’’ (NOONAN, op. cit., p. 687). (108) Cfr. SCHÖNHERR, op. cit., p. 281.


— 506 — perta realtà criminale che è sotto gli occhi di tutti noi. Quanto meno, occorrerà scontare nella previsione normativa il condivisibile rilievo secondo cui ‘‘la corruzione non può essere riduttivamente considerata in riferimento esclusivo al pericolo che il singolo accadimento storico rappresenta per il successivo operato del funzionario: al contrario, essa si pone come un reato di pericolo astratto volto a tutelare anche la correttezza dei rapporti tra i consociati e la pubblica Amministrazione’’ (109). Sulla strada della riforma, l’unificazione delle fattispecie di corruzione e concussione, suggerita dalla c.d. proposta di Cernobbio, resta comunque, a mio giudizio, la strada più convincente (110). Si tratta di una modifica che comporterebbe, certo, un profondo ripensamento dei rapporti tra cittadino e autorità, tra exraneus e intraneus alla pubblica amministrazione: non verrebbe più attribuita rilevanza a una soggezione del privato al pubblico ufficiale che non sia il risultato dell’effettivo esercizio di un costringimento, di una violenza o minaccia esercitata nei suoi confronti, come tale da ricondurre a una forma di estorsione aggravata, nella quale il soggetto pubblico non potrebbe che sopportare il carico esclusivo del rimprovero penale (111). Un tale ripensamento rispecchierebbe peraltro l’accennata opportunità di considerare l’intervento penale in questa materia in modo non contraddittorio rispetto a quel clima di ‘‘cultura civica’’ — antitetico all’humus familistico-clientelare — che costituisce la premessa per una ragionevole immunizzazione della vita pubblica dall’attacco della corruzione e alla cui creazione dovrebbe indirizzarsi un ventaglio assai ampio e diversificato di interventi — istituzionali, legislativi ed educativi — auspicabilmente corredati dalla costituzione di un organo specializzato nella lotta alla corruzione, comunque lo si voglia atteggiare (servizio, authority, commissione indipendente, ecc.) (112), sul modello (109) SEMINARA, Gli interessi tutelati nei reati di corruzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, p. 979. Corsivi nostri. (110) Sull’ ipotizzabilità di una unificazione tra le due fattispecie, cfr. da ultimo CASTELLUCCI, op. cit., p. 240. (111) Nel contesto della c.d. proposta di Cernobbio, l’eliminazione di una fattispecie autonoma di concussione sembrerebbe ben conciliarsi con l’introduzione della causa di non punibilità di cui all’art. 10 del progetto; una fascia consistente di condotte che in precedenza potevano essere ricondotte nell’alveo della concussione e dunque determinavano l’impunità del privato, che in quanto tale diveniva ‘‘vittima’’ della prevaricazione, ora vedrebbero sì concorrere nella responsabilità l’extraneus, ma gli offrirebbero comunque la possibilità di un ripensamento, di un superamento della iniziale soggezione nei confronti del pubblico amministratore: la denuncia cui egli entro tre mesi si induca e che determinerà la sua impunità nello stesso modo in cui precedentemente la determinava una qualificazione giuridica del fatto come concussione, con la differenza che spesso un tale esito doveva comunque sottostare al trauma e alla sofferenza di una vicenda giudiziaria giocata sul filo sottilissimo, per non dire impercettibile, del noto dilemma: de damno vitando o de lucro captando? (112) Per una proposta recente di istituzione in Italia di un’authority anticorruzione, si veda: A. FIORITTO-M. GRILLO-L. SACCONI-M. ZANCHETTI, Il superamento della collusione:


— 507 — sperimentato con ragionevole successo in altri sistemi (113). Un clima consono ai dettami di quella ‘‘democrazia matura’’ — evocata dalla recente sentenza della Corte costituzionale in materia di oltraggio (114) — che abbia superato la ‘‘concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini... estranea alla coscienza democratica instaurata dalla costituzione repubblicana, per la quale il rapporto tra amministrazione e società non è un rapporto d’imperio, ma un rapporto strumentale alla cura degli interessi di quest’ultima’’. Un clima, appunto, congeniale alla vigenza e percezione di regole oggettive in grado di conferire ai soggetti privati una certa indipendenza rispetto al ‘‘riconoscimento’’ pubblico dal quale, come detto, dipendono le condizioni per una ragionevole immunità da quell’appiattimento e confusione di ruoli che costituisce il terreno di coltura più propizio della corruzione sistemica. Un clima, dunque e soprattutto, che permetta di sottrarre alle ‘‘vittime’’ di asserite prevaricazioni le comode ‘‘grucce’’ di una fattispecie di concussione che non trova riscontro nelle maggiori democrazie occidentali, forse perché queste appaiono meno inclini della nostra ad elargire il riconoscimento di ‘‘finte invalidità’’ al cospetto della pubblica amministrazione. Medio tempore, dovendo fare i conti con i limiti dell’attuale disciplina, credo che una credibile linea di confine tra le due figure di reato possa scaturire da un complessivo ripensamento dogmatico di questa materia, che peraltro dovrebbe soprattutto passare attraverso l’acquisizione di una prospettiva del tutto nuova circa l’oggettività giuridica della corruzione. In particolare, come ho rilevato, dovrebbe trarsi tutto il succo teleologico possibile dagli indicatori — ampiamente rinvenibili nei fatti passati al vaglio delle inchieste giudiziarie — che segnalano una appartenenza o quanto meno una forte omologabilità della corruzione alla criminalità economica, secondo i connotati essenziali che questa nozione assume sul piano criminologico: caratteristiche dei soggetti attivi, modalità di condotta, natura del danno criminale, scarsa visibilità delle pratiche illecite anche per il loro radicarsi su rapporti risalenti nel tempo, effetto diffusivo c.d. ‘‘a spirale e a risucchio’’, ecc. una proposta nella prospettiva delle scelte pubbliche, testo presentato al Convegno: ‘‘Quale via d’uscita da Tangentopoli? Strategie etiche, economiche e giuridiche contro la corruzione’’, Fondazione Centro S. Raffaele, Milano, 3 aprile 1995. (113) Tra i modelli più significativi di organi specializzati nella lotta alla corruzione ricordo l’ICAC (Independent Commission against Corruption), istituita in Australia con omonima legge nel 1988 la cui azione è stata paragonata a un ‘‘tridente’’, in grado di incidere ugualmente sul piano operativo, quanto su quello della prevenzione-consulenza e dell’educazione-informazione. (114) Corte cost. 19-25 luglio 1994 n. 341 (se ne veda il testo ad es. in Riv. pen. econ., 1995, n. 1, p. 48 ss., insieme al commento di M. DEL GAUDIO, La difesa del principio di autorità nell’ordinamento democratico attraverso l’oltraggio, ivi, p. 53 ss.).


— 508 — Sostenuta da un impianto teorico che finalmente consenta di far confluire efficacemente nella elaborazione dommatica una tale acquisizione ‘‘criminologicamente orientata’’(115), questa constatazione dovrebbe, come detto, ripercuotersi sulla ricostruzione del bene giuridico. Si potrebbe pensare innanzi tutto a un inserimento tout court dell’‘‘economia nazionale’’, della fiducia nella correttezza del sistema economico, o di concetti omologhi, nell’orbita del bene giuridico tutelato dai reati corruzione. Non credo che il ridimensionamento dell’‘‘imparzialità e del buon andamento’’ della pubblica amministrazione faranno versare copiose lacrime dommatiche, visto che ben pochi si nascondono l’insoddisfazione che queste categorie suscitano, almeno in rapporto all’attuale quadro di disciplina dei reati di corruzione (116); ad esse potrebbe comunque competere un ruolo centrale come oggetto di tutela della fattispecie di concussione. Un’altra strada, forse più praticabile, potrebbe consistere nel prospettare per la corruzione una sorta di oggettività giuridica ‘‘ad assetto variabile’’, caratterizzata da un involucro di ‘‘imparzialità e/o buon andamento della pubblica amministrazione’’, che però venga riempito di un secondo livello di interessi, da individuare di volta in volta in rapporto al tipo di attività della pubblica amministrazione coinvolta dai fatti di corruzione. È chiaro comunque che anche in questa ricostruzione ‘‘modulare’’ del bene giuridico tutelato dalle fattispecie di corruzione un peso preminente finirebbe tendenzialmente per competere a interessi lato sensu ‘‘economici’’, non foss’altro, come detto, per la centralità e ampiezza quantitativa con cui la lesione di questi interessi tende a emergere nelle pratiche corrotte dotate di maggiore rilievo. L’assorbimento dell’economia, comunque atteggiata, nella sfera dei beni aggrediti dai fatti di corruzione e, quindi, tutelati dalla relativa fattispecie, non resterebbe senza effetto, a mio giudizio, sul terreno dei rapporti con la concussione. Tale opzione dommatica orienterebbe innanzi tutto verso la scelta di un criterio differenziale tra le due fattispecie basato in modo preminente sulla posizione del privato, con l’effetto di valorizzare il parametro del vantaggio economico conseguito da questi e, soprattutto, il rapporto di proporzione o adeguatezza, secondo la terminologia della dottrina tedesca, tra lo stesso e i benefici conseguiti dal p.u. (117). (115) Cfr. MONACO, op. cit., p. 460 s., a proposito della necessità, per una critica al diritto vigente nella prospettiva delle scienze sociali ‘‘seriamente impostata’’, di ‘‘una struttura teorica ed argomentativa capace di dar lumi circa il come ed il quando determinate acquisizioni delle scienze empiriche possano essere elaborate all’interno di scelte normative’’. (116) Si veda in tal senso l’analisi di SEMINARA, op. ult. cit., pp. 951 ss. e spec. p. 974 ss. (117) Per un esplicito apprezzamento di orientamenti giurisprudenziali volti a ‘‘oggettivizzare’’ il criterio discretivo tra le due fattispecie valorizzando l’elemento del ‘‘sinallag-


— 509 — Da tale preminenza deriverebbe altresì un’indicazione favorevole allo sganciamento della qualificazione della condotta del privato come ‘‘corruzione’’ dall’avvenuto riscontro di elementi ‘‘concussivi’’ o ‘‘estorsivi’’ nella condotta del pubblico ufficiale, secondo le linee di quella dottrina e giurisprudenza americane su cui mi sono brevemente soffermato; linee di cui peraltro possono rinvenirsi significative corrispondenze nella costruzione autonoma della corruzione attiva e della corruzione passiva operata da certa dottrina italiana (118), ad onta di un prevalenente orientamento che configura invece la corruzione come reato plurisoggettivo a struttura bilaterale (119). Secondo tale prospettiva, si avrebbe allora tendenzialmente anche corruzione a carico del privato, oltre che concussione a carico del pubblico ufficiale, in caso di preminenza del vantaggio conseguito dall’extraneus; solo concussione a carico del soggetto pubblico nel caso in cui tale vantaggio risulti del tutto inadeguato rispetto ‘‘al costo’’ che la transazione corrotta ha comportato per il privato ovvero qualora questa non abbia posto il privato stesso in una condizione di vantaggio maggiore rispetto a quella cui avrebbe avuto diritto senza il pagamento del pubblico ufficiale. Con l’avvertenza che la ponderazione di tali variabili dovrebbe scontare anche una disponibilità protratta nel tempo da parte di quest’ultimo, indiziata dalla prossimità tra le competenze del soggetto pubblico e il tipo di attività del privato che è stata l’occasione per stabilire il contatto illecito con la controparte. Un’ulteriore indicazione interpretativa ricavabile da una siffatta rimeditazione dell’oggettività giuridica dei reati di corruzione consisterebbe infatti nell’assumere il requisito dell’‘‘atto d’ufficio’’ non in senso formale, bensì come rispecchiamento dell’interesse del privato a stabilire un rapporto di scambio con il pubblico ufficiale (120), tale dunque da riflettere ma’’ tra la prestazione del p.u. e la dazione o promessa del privato, cfr. E. PALOMBI, Ancora sulla distinzione tra concussione e corruzione, in Riv. pen. econ., 1992, p. 110 ss. (118) Cfr. PAGLIARO, Princìpi, cit., p. 153 ss. (119) Cfr., per tale orientamento, ANTOLISEI, Manuale di Diritto Penale, Parte speciale, vol. II, Milano, 1995, p. 302; FIANDACA MUSCO, Diritto penale, parte speciale, vol. I, cit., p. 159. Il principale argomento a sostegno di questo filone di pensiero fa leva sull’asserita superfluità, che deriverebbe da una costruzione della dazione e della promessa come autonomi titoli di reato, dell’art. 322 c.p., visto che la punibilità del comportamento quivi sanzionato sarebbe la conseguenza dell’applicazione dei princípi generali. Confuta il pregio di un tale argomento, PAGLIARO, Princìpi, cit., p. 154 s., n. 29. (120) Che la problematica dei requisiti di ‘‘individuabilità’’ dell’atto d’ufficio sia tra le più sensibili alla prospettiva del bene giuridico e quindi particolarmente reattiva a ogni ripensamento che investa tale profilo emerge tra l’altro dalle prese di posizioni della dottrina, dove ad esempio, in relazione alla fattispecie di corruzione propria, si asserisce che la contrarietà ai doveri d’ufficio deve essere accertata ‘‘con riguardo ai beni del buon funzionamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione’’ e dunque che ‘‘la valutazione dell’atto non può che essere fatta se non in relazione ai singoli e specifici doveri dell’ufficio (e


— 510 — quella continuità nel tempo e quella interscambiabilità delle parti (121) che, come si è visto, costituisce uno dei connotati salienti sia della c.d criminalità economica, sia della criminalità politico-amministrativa nell’èra di ‘‘Tangentopoli’’. GABRIO FORTI Straordinario di Diritto penale commerciale nell’Università degli Studi di Sassari

non già con riferimento ai doveri generici di comportamento del pubblico ufficiale)’’ (G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, parte speciale, vol. I, cit., p. 165). (121) Cfr. SCHÖNHERR, op. cit., p. 280.


‘‘IL PASSO ALLA DEPENALIZZAZIONE SINO ALLA MAGGIORE ETÀ’’ (*)

SOMMARIO: 1. L’imputabilità a sedici anni: due significati alternativi. — 2. La ‘‘fuga dalla punizione’’ e la ‘‘fuga dal processo’’. — 3. L’esclusione dell’imputabilità fino a sedici anni: disamina di motivazioni. — 4. L’art. 86 del disegno di legge n. 2038 (Riz e altri) presentato al Senato il 2 giugno 1995. — 5. Conclusioni: maturazione e capacità di intendere e di volere del minore infradiciottenne.

1. L’imputabilità a sedici anni: due significati alternativi. — ‘‘In un campo delicatissimo, qual è quello di previsioni penali destinate a incidere sulla libertà personale del minore, [...] una categoria unitaria degli infradiciottenni, così come ancora oggi disciplinata dall’art. 98 c.p., non può che creare disagi e perplessità’’ (1). ‘‘Si estende genericamente la medesima disciplina normativa a tutto un periodo che comprende una varietà di cambiamenti considerevoli, fra i quali emergono con prepotenza quelli del sedicesimo anno [... talché] l’imputabilità del soggetto fra i sedici e i diciotto anni dovrebbe essere sempre riconosciuta — quando non resti esclusa da altra causa diversa dall’età —, fatte salve le diminuzioni di pena peraltro già previste dall’art. 98 c.p. [...]. Si darebbe, altresì, un concreto impulso allo snellimento degli affari giudiziari, se si considera che quasi sempre i giudizi vengono formulati non più nei confronti di un minore, ma nei confronti di un ex minore, del quale è davvero probatio diabolica accertare la sussistenza della capacità d’intendere e di volere al momento della commissione del fatto, in un tempo, cioè, spesso abbastanza prossimo al compimento della maggiore età: sicché non sembra azzardato affermare che abbia molte minori probabilità di errare il legislatore che presuma imputabile chi abbia compiuto gli anni sedici, ma non ancora i diciotto, di quante attualmente ne abbia il giudice che a soggetti della medesima area di età deve applicare il disposto dell’art. 98 c.p.’’ (2). Espressioni ampiamente illustrate in pagine che la patina del tempo (*) Il titolo riprende testualmente un brano di M. PORTIGLIATTI BARBOS, da chi scrive più ampiamente riportato già in altra sede oltre che nel corso di queste pagine (v. infra, n. 4 e ivi, nt. 47), delle quali sottolinea e sintetizza efficacemente gli spunti. (1) F. PAZIENZA, In margine a due criteri per la modifica del processo a carico di imputati minorenni, in Ind. pen., 1984, 254. (2) Ibid., 260-261.


— 512 — andava ormai ricoprendo quasi del tutto, ma che qui si ripropongono testualmente per una sorta di rivitalizzazione — forse solo di breve durata, come si noterà —, effetto di un’iniziativa autorevole per provenienza e altrettanto significante per sede e destinazione. E valga il vero: nominato (21 dicembre 1994, 7 febbraio 1995), nell’ambito della Commissione Giustizia del Senato, il ‘‘Comitato per la riforma del codice penale’’ con ‘‘il compito di valutare le possibili iniziative legislative da varare in materia di diritto penale, sia per quanto attiene alla parte generale, che alla parte speciale’’, il suo Presidente ha elaborato una prima relazione di articolate proposte e ipotesi di lavoro (3). Ed è appunto in essa (nn. 10.7-10.9) (4) che, nell’affrontare il tema dell’imputabilità, le problematiche concernenti la minore età ricevono specifico approfondimento, con la formulazione di rilevanti suggerimenti in ordine al riconoscimento della valenza e del significato da attribuire in ambito penale al limite dei sedici anni. Si auspica di introdurre nel nostro codice penale la regola secondo cui è imputabile chi ha compiuto gli anni sedici, salvo che ne sia accertata l’incapacità di intendere o di volere (5). Nondimeno, per chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i sedici anni, ma non ancora i diciotto, la pena è diminuita e alla condanna non conseguono pene accessorie (6). Se si operasse una scelta del genere, nel senso che ‘‘convenga alzare il limite di età, dichiarando che non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i sedici anni’’ (7), immediate e tangibili ne sarebbero le risultanze positive, come non manca di sottolineare la relazione in discorso. Per un verso, infatti, ‘‘il legislatore in tal modo si avvicinerebbe anche alla realtà processuale, visto che i giudici, giustamente, sono restii ad applicare pene detentive a giovani quattordicenni o quindicenni’’ (8); per altro verso ‘‘si potrebbe eliminare del tutto (3) R. RIZ, Per un nuovo codice penale: problemi e itinerari, in Ind. pen., 1995, 5 ss. (4) Ibid., 44-45. (5) Ibid., 45, cit.; il corsivo riporta un’ipotesi di testo normativo fedelmente echeggiante il tenore del n. 10.9 della relazione in discorso, se si eccettua la locuzione ‘‘di intendere o di volere’’, in cui si è appunto preferita la congiunzione ‘‘o’’ al posto della ‘‘e’’ presente nell’originale. Ed infatti — nonostante la diversa opinione dei cultori di altre discipline e in particolare dei teorici della moderna psicologia — anche nel contesto del diritto positivo vigente si è dimostrato che ‘‘ben può aversi, negli imputati infradiciottenni, la capacità di intendere senza che vi sia quella di volere’’ (M.G. DOMANICO, Minori ultraquattordicenni tra esperienze recenti e mutazioni sociali, in Dir. pen. e proc., 1995, 761). (6) V. supra, nt. 5. (7) RIZ, op. cit., 44, cit., n. 10.7. (8) Ibid. Come meglio si mostrerà in seguito, nella più adeguata connotazione della proposta, l’avverbio ‘‘giustamente’’ conferisce un ruolo di rilievo al brano testuale sopra riportato.


— 513 — quel sistema farraginoso che —in forza dell’art. 98 del codice penale vigente — viene praticato nei confronti di quei giovani che pur avendo compiuto il quattordicesimo anno, non abbiano superato il diciottesimo’’ (9). Eppure, le due posizioni — quella a suo tempo formulata da chi scrive e quella prospettata al ‘‘Comitato per la riforma del Codice penale’’ dal suo presidente — non possono considerarsi sovrapponibili, nonostante talune indubbie coincidenze. Al lettore della relazione in discorso non sfugge, infatti, che la proposta di riforma offerta all’esame del comitato deve intendersi nel senso di un innalzamento del limite della minore età e non già nell’anticipazione di quella in cui ogni persona deve presumersi imputabile, fatta salva la prova dell’incapacità di intendere o di volere. L’intento, cioè, è quello di guadagnare all’area della non imputabilità l’ampia e significativa fascia di giovani fra i quattordici e i sedici anni, in esplicita adesione a quel sempre incombente e ancor troppo diffuso indirizzo giurisprudenziale che per essi disconosce in materia penale il valore pedagogico del castigo (10). 2. La ‘‘fuga dalla punizione’’ e la ‘‘fuga dal processo’’. — Punire non è certo una comoda alternativa a educare (sarebbe dissennato); ne costituisce, invece, soltanto una delle molteplici forme strumentali di realizzazione — talvolta la più efficace, se non l’unica percorribile —; in altri termini, ‘‘anche le pene tendono alla rieducazione, non soltanto le misure liberatorie’’, come ha sottolineato la Corte costituzionale nella sentenza n. 295 del 1986, allorché non ha escluso che la stessa pena detentiva possa svolgere un ruolo rieducativo nei confronti del minore. Al fine dichiarato di adeguare il sistema sanzionatorio alle particolari esigenze psicologiche e alle specifiche finalità educative del minore, si è nondimeno operata una vera e propria ‘‘fuga dalla punizione’’ (11) con la più disinvolta e dilatata utilizzazione di tutte le potenziali opportunità offerte dalla legislazione (12). Poco importa se, in quest’atteggiamento, da un canto si lascia la società ampiamente sguarnita sul non trascurabile (9) Ibid., 44, cit., n. 10.8, laddove, tuttavia, non si precisa se si tratta di conseguenza dell’opera del legislatore o, come opina chi scrive, di quella degli interpreti. (10) V. supra, nt. 8. Per considerazioni su di un recente diverso atteggiamento, v. infra, nt. 13. (11) Locuzione di L. FADIGA, Il giudice minorile non è abituato a punire, in Punire perché, a cura di M. CAVALLO, Milano, 1993, 240. (12) Ma una pena solo minacciata e non attuata (cfr. D. PALERMO, Il carcere tra utopia e quotidiano, in Punire perché, cit., 273) finisce per convincere il minore ‘‘di poter delinquere impunemente’’ (F. MAZZA GALANTI, Quando i giudici puniscono, in Punire perché, cit., 223): meglio allora non prevederla affatto, come appunto viene suggerito per gli infrasedicenni, in vista di un nuovo libro primo del codice penale.


— 514 — fronte della criminalità giovanile (13) e dall’altro si abbandonano a se stessi — di fatto senza possibilità di reinserimento positivo — soggetti che, invece, risultano i più sensibili a trattamenti di recupero adeguatamente impostati, ancorché di carattere restrittivo (14). È pur vero, però, che, nella perennemente conflittuale relazione forma concettuale astratta-forma operativa concreta, gli insuccessi e le inadeguatezze di questa assai di rado ne determinano quegli aggiustamenti che consentirebbero la migliore estrinsecazione del primo termine del rapporto: per costume diffusissimo e inveterato, si adattano i significati alle espressioni e non viceversa (15), come pur dovrebbe per quella sequenza logica ormai troppo frequentemente disattesa, se non arditamente screditata. Nella specie — pur in presenza di un contesto normativo che continua a riconoscere alla pena rilievo e significato per le esigenze di rieducazione e di risocializzazione dell’ultraquattordicenne che abbia posto in essere fatti considerati dalla legge come reato — la persistente inadeguatezza del sistema sanzionatorio alle peculiari specificità della criminalità minorile ha essenzialmente condotto a ricercare la più ampia disapplicazione di soluzioni dal benché minimo contenuto di afflittività o, comunque, a privilegiare quelle improntate al minor grado di severità, anzi, alla massima indulgenza. Ne è così rimasta di fatto conculcata un’equilibrata evoluzione del diritto positivo in materia (16), surrogata da interventi settoriali di un legislatore evidentemente privo di una visione unitaria e organica. Significativa la mancata promulgazione di quell’‘‘apposita legge’’ per i minori, che (13) Comunque — e non solo in ambito minorile — deprecabili, contrarie a principi consolidati della nostra civiltà giuridica, né giustificabili con carenze e lacune dell’ordinamento, forme di reazione poste in essere con l’utilizzazione in chiave repressiva di strumenti cautelari di tipico stampo processuale. In tal senso, sull’onda di un montante allarme sociale, è stato letto, da ultimo, il d.lgs. 14 gennaio 1991, n. 12, che ha nuovamente esteso l’ambito di applicabilità ai minori della custodia cautelare. Ne è stata paradossalmente rafforzata la tesi di coloro i quali, contando artatamente sul riconoscimento dell’incapacità di intendere o di volere e sulla concessione del perdono giudiziale senza alcuna difficoltà, possono ancora appellarsi all’incongrua possibilità di far scontare anticipatamente una pena che, altrimenti, non potrebbe mai trovar esecuzione o dalla quale risulterebbe opportuno astenersi. (14) ‘‘Si tratta non tanto di affrontare, sulla scia di recenti movimenti del pendolo culturale, nuove vie di neoclassicismo (che potrebbero portare ad una accentuazione della repressione nei confronti dei giovani), quanto di non esser sordi a richiami etico-giuridici di responsabilità e responsabilizzazione’’ (M. PORTIGLIATTI BARBOS, Saper punire, in Punire perché, cit., 166-167). (15) Mal vezzo ben noto ed efficacemente descritto già in Tucidide (III 82, 4-5). (16) Forse sull’abbrivo delle indicazioni emergenti dalle nuove disposizioni sul processo penale minorile solo pochi mesi innanzi promulgate, la Corte costituzionale, con sentenza n. 78 del 1989, ha, invece, osservato che ‘‘il diritto penale minorile, dal 1934 ad oggi, si è evoluto in modo tale da costituire ormai un complesso organico di norme’’.


— 515 — da un ventennio l’art. 79 dell’ordinamento penitenziario invano continua a preannunciare (16-bis) e a fronte della quale previsioni come quelle degli artt. 11 ss. e 24 del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 272, nonché dell’art. 4, comma 4, del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in l. 12 luglio 1991, n. 203, rappresentano manifestazioni meramente occasionali ed episodiche della parcellizzazione infinitesimale di una disciplina normativa che, forse più di ogni altra, trova, invece, significato ed efficacia proprio nell’unitarietà e organicità di impostazione. Come, dalla constatazione che con l’attuale disciplina la detenzione non risponde alle peculiari esigenze di rieducazione e risocializzazione del minore, sia derivata l’affermazione che la detenzione tout court non risponde alle peculiari esigenze di rieducazione e risocializzazione del minore (e non la disciplina della detenzione deve essere resa rispondente alle peculiari esigenze di rieducazione e risocializzazione del minore) si comprende, dunque, agevolmente. Dalla necessità di evitare al giovane l’esperienza desocializzante del carcere all’affermazione dell’opportunità di sottrarlo anche a quel processo appositamente rivisitato per imputati minorenni e pur tuttavia ritenuto stigmatizzante e deleterio, il passo è poi stato indubbiamente breve (17). Considerandosi — nonostante la riforma — tuttora inadeguato il settore specificamente minorile del nostro ordinamento di rito, per lo stesso redattore delle nuove disposizioni l’impasse andrebbe cioè superato non già affinando ulteriormente, ma rendendo esplicitamente eludibili quelle norme e così anticipando la ‘‘fuga dalla punizione’’ (18) in una preventiva ‘‘fuga dal processo’’ (19). Tant’è che si è potuto incisivamente scrivere che alle ‘‘riforme processuali penali e (surrettiziamente) penali sostanziali in campo minorile del 1988, [...] si accompagnano scelte di disciplina (o di... non disciplina) che pongono addirittura in forse, per ciò che attiene alla materia che ne interessa, la stessa pensabilità come tale dell’ordinamento penale allorché ci si riferisca ai (16-bis) Quando questo scritto stava per andare in macchina, ampiamente in tal senso G. LA GRECA, Bisognosa di adeguamento la disciplina penitenziaria minorile dopo più di un ventennio, in Dir. pen. e proc., 1996, 768 ss. (17) ‘‘In quest’ottica, acquistano particolare significato i nuovi istituti dell’irrilevanza del fatto e della sospensione del processo con messa alla prova’’ (M. PERUCCI, Bambini ed adolescenti di fronte alla legge, Ancona, 1994, 325). (18) V. supra, nt. 11. (19) V. supra, nt. 17. Qui non sembra del tutto fuor di luogo, invece, l’introduzione di riti differenziati, con il pieno riconoscimento, anche sul piano del processo, di quella realtà alla quale il legislatore comincia a dimostrarsi sensibile nel diritto penale sostanziale, con l’affermazione determinante del limite del sedicesimo anno di età. Così troverebbe, crediamo, ampia soddisfazione quella necessità, posta in rilievo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 140 del 1993, di ‘‘un sistema punitivo che per il minore risulti sempre più diversificato, sia sul piano sostanziale che su quello processuale’’.


— 516 — fatti commessi dai minori’’ (20); sembrerebbe emergere, infatti, un sistema che ‘‘parrebbe aver abbandonato le regole di tipicità, determinatezza, inderogabilità della sanzione, tradizionale o di sicurezza, a favore di un meccanismo operativo ibrido’’ (21). D’altro canto, in quest’ordine di idee, il giudice specializzato ha già da tempo abdicato in favore dello specializzato (o, se si vuole, specialista) giudice (22): ma, forse, è stata usurpazione lenta e inesorabile che ha determinato un inevitabile mutamento di prospettiva nella gestione di affari per i quali, trattandosi pur sempre di sede giudiziaria, doveva restare nettamente percepibile il momento del giudizio come tale (23) e delle sue conseguenze favorevoli o sfavorevoli. Innegabili, invece, gli improvvidi effetti neutralizzanti di confusioni e commistioni con altrettanto indispensabili finalità e iniziative di sostegno e di assistenza (24), nelle quali ovviamente si privilegia l’aspetto psicologico e quello sociologico (25), che spesso neppur trovano esplicazione plausibile per organizzazione, qualificazione ed efficienza. È così che l’imputato minorenne si persuade che nel processo viene celebrata una vuota forma rituale in cui si compiace e di cui si soddisfa una società imbelle — e per ciò solo spietata, a cui nulla è dovuto, ma da cui tutto può pretendersi —, incapace persino di assicurargli un giudizio vero, dal quale riemergere con credibile dignità ovvero ricevere quel rim(20) G. MARINI, Minori ed operatori del servizio sociale nell’esecuzione penale, in Riv. pol., 1995, 371. (21) Ibid., 372. (22) Formula decisamente inelegante ma certamente efficace nella delineazione di un fenomeno troppo frequente e diffuso anche in altre istituzioni rivolte al minore. (23) Come sottolineano le ‘‘Note introduttive’’ di F. OCCHIOGROSSO a Decreto legislativo n. 272/1989. Commento (in Esperienze di giustizia minorile, 1994, 1-2), 12, che l’attività giudiziaria minorile — nonostante le sue peculiarità — ‘‘costituisca a pieno titolo esercizio della giurisdizione ordinaria’’ è idea che solo di recente e assai lentamente si va facendo strada. (24) ‘‘L’esito processuale come luogo d’incontro delle contraddizioni fondamentali della giustizia minorile’’ trova pregevole messa a fuoco nel contributo di E. ROLI, La pena tra modello giuridico e modello pedagogico, in Punire perché, cit., 153 ss. (25) « Le categorie giuridiche, sociologiche, psicologiche, criminologiche ecc. sono ‘‘modelli interpretativi con percorsi culturali e storici, costrutti concettuali, corpi disciplinari, prassi istituzionali, procedimenti metodologici e di ricerca decisamente diversificati’’ » (v. F. PAZIENZA, op. cit., 255, nt. 23, che richiama M.P. CUOMO, Introduzione alla 1a parte, in Giudici, psicologi e delinquenza giovanile, a cura di M.P. CUOMO e altri, Milano, 1982, 3). « Con ciò, naturalmente, non si vuole e non si può affermare l’assoluta estraneità al diritto penale dei portati e delle risultanze tipiche di altre scienze, quali la sociologia, la psicologia, la criminologia ecc., ma solo ribadire ulteriormente che le affermazioni e le acquisizioni valide nell’una non possono e non devono necessariamente rappresentare punti fermi e insormontabili per ognuna delle altre, sol perché ciascuna di esse pone a proprio oggetto di indagine, se non addirittura a propria ragion d’essere, una medesima entità, l’uomo nel suo profilo comportamentale » (ibid., 255, cit.).


— 517 — provero che conduce a recuperare il senso della colpa mai conosciuto prima o soltanto temporaneamente smarrito, cui corrisponde inesorabile un intimo bisogno di pena (26). In tal modo risvegliato nel giovane o, comunque, spontaneamente affacciatosi un sentimento del genere — già sappiamo — è per lo più destinato a restare dolorosamente inesaudito: così — se può ancora affermarsi che ‘‘le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità’’ — non sembri stravaganza osservare che è davvero inumano negare programmaticamente esigenze del profondo che, attraverso la sofferenza, anela a rigenerarsi (27). 3. L’esclusione dell’imputabilità fino a sedici anni: disamina di motivazioni. — Questo, dunque, lo scenario di fondo in cui può inquadrarsi l’auspicato innalzamento a sedici anni del limite di età che esclude iuris et de iure l’imputabilità. Ci si domanda, innanzi tutto, ‘‘se sia sensato applicare ai giovani che rientrano nella fascia dei quattordicenni e dei quindicenni prima la pena detentiva e poi — dopo l’esecuzione della pena — il ricovero in un riformatorio giudiziario (in forza dell’art. 225 c.p.)’’ (28). Rara avis per verità, come anche mostrano le stesse parole dell’estensore della proposta in discorso, allorché non manca di porre in evidenza (26) Bisogno per il quale, in talune personalità — e l’osservazione davvero non soffre il limite dell’ambito minorile —, potrebbe anche risultare sufficiente l’afflizione cagionata da un contatto significativo con la realtà giudiziaria, con i suoi simbolismi e con il clamore che inesorabile vi si accompagna, ad onta di ogni cautela: certo, intensità ed efficacia della reazione punitiva non vanno necessariamente correlate. Nell’ottica del testo, perciò, ben si inquadrano sia l’istituto del perdono — se correttamente adoperato — (cfr. F. OCCHIOGROSSO, Il primato della punizione, in Punire perché, cit., 299), sia, sull’opposto versante, l’inapplicabilità — finalmente sancita — dell’ergastolo ai minori. Con sentenza n. 168 del 1994 la Corte costituzionale ha, infatti, dichiarato illegittimi gli artt. 17 e 22 c.p. ‘‘nella parte in cui non escludono l’applicazione della pena dell’ergastolo al minore imputabile’’ (v. la nota di M. RUOTOLO, Illegittimità costituzionale della pena dell’ergastolo nei confronti di un minore: un segno di civiltà giuridica, in Giur. it., 1995, I, 358 ss., con ampie digressioni rivolte alla riapertura del dibattito sulla tematica dell’ergastolo in generale). (27) Con espressioni che, quindi, non possono affatto considerarsi mere provocazioni di un integralismo confessionale, così R. DELL’ANDRO, I diritti del condannato, in Iustitia, 1963, 263: ‘‘La pena è, dunque, in questa prospettiva, misura di pietà per il condannato; pietà che ricorda tutta la verità dell’esperienza giuridica’’. Si tratta, invece, di un’elaborazione concettuale sorretta da una ben nota e magistrale sensibilità giuridica, affiancata da squisita profondità psicologica e attitudini di fine empatia, con cui l’A. fa eco a parole ancor più remote e, pertanto, portatrici di una ancor più avanzata apertura di idee. Nel Discorso del Sommo Pontefice Pio XII ai partecipanti al VI Convegno Nazionale di studio dell’Unione Giuristi cattolici italiani, in Rass. studi penit., 1955, 18, fra l’altro, si legge infatti: ‘‘Non prendere, per principio, in considerazione la volontà del reo di dare soddisfazione in ciò che il sano senso giuridico e la violata giustizia richiedono è una mancanza ed una lacuna a colmare la quale vivamente esorta l’interesse della dottrina e della fedeltà ai principi fondamentali del diritto penale’’. (28) R. RIZ, op. cit., 44, cit., n. 10.7, cit.


— 518 — quanto riluttanti siano i giudici rispetto all’applicazione di pene detentive a giovani appartenenti a tale fascia di età (29). Nel nostro ordinamento, per i soggetti imputabili, comunque, né l’applicazione di una misura di sicurezza realizza un’ineluttabile conseguenza sanzionatoria ulteriore, né la sequenza prevista con l’esecuzione prima della pena detentiva e poi della misura è tipica ed esclusiva del regime penale minorile: si tratta, invece, di regola generale che può dirsi coinvolga l’in sé della presenza stessa delle misure di sicurezza nel codice Rocco e, di certo, esorbita dalla definizione di problematiche specifiche in tema di minore età. Il deprecato accidente (30), per il quale l’infrasedicenne prima debba scontare una pena detentiva e poi essere ricoverato in un riformatorio giudiziario, non sembra, quindi, adeguata giustificazione per un intervento tanto incisivo, con il quale si intenderebbe elevare di ben due anni il limite attuale previsto dall’art. 97 c.p. per l’età dei minori non imputabili. Così come non ne spiega l’effettiva necessità il richiamo all’esigenza di eliminare un sistema che si vuole complesso e insicuro, come quello che il cit. art. 98 c.p. prevede per chi, avendo compiuto i quattordici anni, non abbia superato i diciotto (31): tale risultato — è intuitivo — potrebbe agevolmente raggiungersi anche senza stravolgere i confini delle fasce di età nelle quali si articola la disciplina vigente in materia di imputabilità. Il vero è che — così come formulato il suggerimento portato all’attenzione del comitato da parte del suo presidente — solo se si riconosce chiaramente la necessità di smembrare l’ampia categoria degli infradiciottenni contemplata dall’art. 98 c.p., riconducendo finalmente tra i soggetti imputabili anche coloro che abbiano compiuto il sedicesimo anno di età — non più adolescenti, ma giovani adulti (32) —, può risultare sopportabile lo scotto che, se la proposta fosse accolta (33), si pagherebbe con una (29) V. supra, nt. 8. (30) Accidente che, ovviamente, non potrebbe verificarsi, ove risultasse definitivamente accolta l’opzione di politica criminale della regola che limita l’applicazione delle misure di sicurezza soltanto a persone non imputabili, dichiarate nel contempo socialmente pericolose. Regola cui si perviene dal disegno di legge n. 2038 presentato al Senato dal ‘‘Comitato per la riforma del Codice penale’’ il 2 agosto 1995 (v. infra, n. 4 e ivi, nt. 37); analog. lo schema di delega legislativa per la riforma del codice, precedentemente elaborato dalla commissione Pagliaro-Vassalli (al riguardo v. A. MANNA, Imputabilità, pericolosità e misure di sicurezza: verso quale riforma?, in questa Rivista, 1994, 1324 ss.). (31) V. supra, nt. 9. (32) Più giovani che adulti, perché l’affermazione non appaia eccessivamente debordante ai cultori delle scienze umane, com’è noto avvezzi a individuare con tale espressione soggetti di età ben più avanzata. (33) ‘‘Può anche darsi che prima della fine della legislatura il Comitato non possa arrivare ad una conclusione dei suoi lavori’’ (R. RIZ, op. cit., 7, n. 2.3). Come è noto, le successive vicende politico-parlamentari hanno confermato l’ipotesi sin dall’inizio paventata dal presidente del comitato, che — a seguito dello scioglimento anticipato delle Camere — non ha potuto presentare anche il testo di una nuova parte speciale del codice. Nondimeno l’in-


— 519 — massa di minori, non imputabili ex lege, enormemente accresciuta non già per il numero, ma certo per potenzialità. Per i quindicenni, per i quattordicenni e, magari, anche per i tredicenni — i quali, come la quotidiana esperienza mostra, ben possono assimilarsi alle prime due categorie di giovani appena indicate (34) — si potrebbe conservare, poi, la medesima disciplina attualmente prevista anche per i sedicenni e i diciassettenni. La lettura che ordinariamente si dà in dottrina e in giurisprudenza dell’art. 98 c.p., tale che assai difficilmente si perviene in concreto all’affermazione dell’imputabilità del soggetto, consente a chi scrive di continuare a prediligere siffatta opzione, che non esclude a priori ogni ipotesi di punibilità del minore (35). 4. L’art. 86 del disegno di legge n. 2038 (Riz e altri) presentato al Senato il 2 agosto 1995. — Sotto il titolo Un progetto di riforma del codice penale che punta alla razionalizzazione del sistema, a pag. 10 del n. 34 (2 settembre 1995) del settimanale di documentazione giuridica ‘‘Guida al diritto’’ de Il Sole-24 ore, il senatore prof. R. Riz rendeva noto che « il 2 agosto 1995 il ‘‘Comitato per la riforma del codice penale’’ ha presentato al Senato il disegno di legge n. 2038 relativo alla parte generale del codice ». Nella sintetica presentazione del progetto, il breve cenno al tema della imputabilità nulla dice, tuttavia, delle risultanze alle quali si perviene in ordine all’incapacità di intendere e di volere dovuta alla minore età. È d’uopo, pertanto, — dopo tutto ciò che sopra si è detto — verificare già in questa sede (36) quanto delle idee in proposito, del presidente del comitato, sia stato trasfuso, al termine dei lavori, nel testo del disegno di legge (37) e quanto effettivamente riconducibile agli asseriti intenti di razionalizzazione del sistema risulti la disciplina dettata per i minori da dubbia serietà e l’impegno, con cui è stata portata a termine la riscrittura della parte generale (infra, n. 4 e ivi, nt. 37), giustificano la persistente attualità di queste brevi note in vista della sicura riapertura — nel corso della tredicesima legislatura — del dibattito parlamentare sull’improcrastinabile riforma del codice penale. (34) ‘‘Oggi l’età dei giovani deviati si è abbassata’’, conferma F. IMPOSIMATO, Un impegno forte per una realtà difficile, in Le nuove criminalità, cit., 71. Anche in considerazione di tutto quanto già detto sopra (specie nella precedente nt. 14), non del tutto fuor di luogo — anzi dotato di sorprendente lungimiranza — appare, quindi, ‘‘il disegno qualche anno addietro enunciato dal Ministro degli Interni, di proporre l’abbassamento da quattordici anni a dodici della soglia di età prevista dall’art. 98 c.p.’’ (disegno ricordato, invece, con ironico disappunto da G. SCIDÀ, La prevenzione non basta più, in Punire perché, cit., 42). (35) Cfr. supra, nt. 8. (36) Per una conferma ulteriore dell’opportunità dell’indagine, v. supra, nt. 33. (37) Con una breve nota introduttiva di G. MARINUCCI e E. DOLCINI, relazione e testo degli articoli sono stati tempestivamente pubblicati in questa Rivista, 1995, 927 ss. e 973 ss.


— 520 — quell’art. 86, anche perché neppure la relazione che ne accompagna il testo si mostra più esauriente (38). Ebbene, sin dal primo contatto con il dato testuale si resta perplessi per la distribuzione sistematica della materia nei cinque commi di detto articolo. Al primo e al quarto comma si ribadiscono sì le medesime fasce di età oggi contemplate dagli artt. 97 e 98 c.p., ma non si comprende perché mai la previsione che individua la classe unitaria degli infradiciottenni sia stata collocata nel bel mezzo di quelle che ne disciplinano il regime sanzionatorio. Il secondo e il terzo comma, infatti, dettano regole per adeguare la durata delle pene detentive alle diverse età dei giovani considerati, laddove il quinto comma concerne una pur necessaria previsione di favore in ordine all’applicazione di pene accessorie. Cosicché il lettore dell’art. 86 di quest’ultimo progetto di riforma potrebbe, a prima vista, essere addirittura indotto a supporre che il secondo e il terzo comma — andando ben oltre o, ad avviso di chi scrive, contraddicendo la proposta iniziale del presidente del comitato — configurino la piena imputabilità di tutti coloro che abbiano compiuto il quattordicesimo anno di età e dettino semplicemente regole per diminuzioni differenziate di pena nei confronti dei minori degli anni diciotto: supposizione senz’altro rafforzata dalla lettura del corrispondente brano della già richiamata relazione che illustra il progetto (39). Finalmente tutto si chiarisce solo al quarto comma che, con espressioni altrettanto scarne quanto quelle adoperate dall’art. 98 c.p. (40), impone di ricondurre quelle previsioni alla disciplina di una fascia unitaria di minori che abbiano compiuto i quattordici anni ma non ancora i diciotto, per i quali in ordine all’imputabilità si richiede un apposito accertamento caso per caso. « Il Comitato ha [tuttavia] affidato al giudice l’accertamento in positivo della condizione di ‘‘immaturità’’ del minore e le sue conseguenze » (41), talché l’esito negativo dell’indagine dovrebbe comportarne la punibilità (42). Ma inesorabile scatterà la trappola dello specialista giudice (43), con i suoi modelli interpretativi, con i suoi percorsi culturali e costrutti concettuali, con i suoi procedimenti metodologici e con le sue (38) Ibid., 961, nn. 10.6-10.8. (39) Ibid., 961, cit., n. 10.7. (40) Cfr. R. RIZ, Per un nuovo codice penale, cit., 44, cit., n. 10.8, cit. (41) V. il n. 10.8 della relazione che accompagna il disegno di legge n. 2038 in oggetto, in questa Rivista, 1995, 961. (42) Solo se così intesa — e riprendendo quanto sopra si è accennato nel n. 2 in ordine al bisogno di pena del minore delinquente — l’innovazione appare ‘‘di notevole portata umana [... e...] passo importante della riforma’’ (ibid.). (43) V. supra, nt. 22.


— 521 — prassi consolidate, aduso a ricondurre alla maturità la condizione di capacità di intendere e di volere su cui l’art. 98 c.p. fonda l’imputabilità dell’infradiciottenne. In altre parole, la nuova formula si limita ad un mero capovolgimento di quella attualmente in vigore e, soltanto invertita l’indicazione vettoriale dell’indagine, non ne possono mutare le risultanze applicative se per l’interprete non cambia il parametro di riferimento. Sotto questo profilo, anzi, egli trova esplicita conferma di quella ormai inveterata lettura nel testo approvato dal comitato che richiede, appunto, l’accertamento dell’‘‘incapacità di intendere o di volere per immaturità’’ (44). Se l’infradiciottenne, a cui sia l’art. 98 c.p. sia l’art. 86 del progetto si richiamano, deve, quindi, identificarsi con l’adolescente degli studiosi dell’età evolutiva — periodo indefinito e indefinibile, del quale, fra l’altro, è assai difficile stabilire scientificamente la conclusione, ma del quale solo al termine può porsi la condizione di maturità, concetto anch’esso a dir il vero chimerico — e se, pertanto, l’adolescente in quanto tale non ha percorso tutte le tappe del complesso e delicatissimo processo, che lo condurrà al raggiungimento di quel personale grado di maturità che ne caratterizzerà l’età adulta, l’immaturità è, dunque, condizione psicosociale tipicamente evolutiva e, perciò, immanente anche a tale fascia di minori (45). Se per essa il soggetto è poi portato a delinquere (46), non può che ripetersi anche qui quanto a suo tempo autorevolmente paventato: ‘‘il passo alla depenalizzazione sino alla maggiore età è breve e può essere proposto come fatto scontato’’ (47). Ed è appunto questo, nonostante innegabili sussulti, l’esito cui di massima fino ad oggi si perviene per interpretazioni vuoi ideologicamente impegnate vuoi tralaticiamente assuefatte, tutte comunque subornate da scienze dell’uomo eccessivamente invasive e pervasive (48); ma, se il nuovo testo — con il suo esplicito richiamarsi all’im(44) V. supra, nt. 37. (45) Cfr. F. PAZIENZA, op. cit., 256 e AA. ivi citati. (46) Se si tratta, cioè, di una ‘‘normale, fisiologica delittuosità degli adolescenti come categoria in fase di sviluppo, e quindi come tale soggetta a variazioni umorali, caratteriali, e quindi ad un tasso fisiologico di trasgressività’’ (ancora di recente così F. PALOMBA, Le politiche del punire, in Punire perché, cit., 52). (47) M. PORTIGLIATTI BARBOS, Età minore e imputabilità. Indagine sulle sentenze del tribunale per i minorenni di Torino nel periodo 1968-1978, in Criminologia e politica sociale. Prospettive nel campo della delinquenza colposa e della devianza minorile, a cura di G. CANEPA, M.I. MARUGO, Padova, 1987, 158 (contributo al Seminario su ‘‘Criminologia e politica sociale. Prospettive nel campo della delinquenza colposa e della devianza minorile’’, Siracusa 1-4 novembre 1982, ampiamente richiamato, con il titolo originario Il problema dell’imputabilità nell’età minore della stesura dattiloscritta, in F. PAZIENZA, op. cit., 254 cit. ss. e spec. nt. 19) così prosegue: ‘‘A mio avviso, non è però un passo ma un salto. Se lo fa il legislatore bene quidem; eseguo l’ordine’’. Ma — vien da chiedersi — quid iuris se, invece, lo fa il giudice? (48) Significative ad es. le conclusioni alle quali ancora di recente si perviene da F. MAZZA GALANTI, op. cit., 227: ‘‘potrebbe assumere un forte significato il riproporre de iure


— 522 — maturità — entrasse effettivamente in vigore (49), il medesimo risultato si raggiungerebbe molto più agevolmente nel rassicurante assoluto rispetto della lettera di una norma, nella sostanza avviata, invece, ad un’applicazione costantemente, se non definitivamente, abrogans. 5. Conclusioni: maturazione e capacità di intendere e di volere del minore infradiciottenne. — A tali previsioni — per concludere, comunque, costruttivamente — un auspicio qui si vuol, tuttavia, contrapporre, in vista di lavori parlamentari che, nel corso della nuova legislatura, raccolgano l’eredità del comitato Riz (50). Perché l’art. 86 in oggetto risulti significativamente innovativo, la nozione di ‘‘immaturità’’ alla quale il suo quarto comma si richiama non dovrà in alcun caso leggersi nel senso di mancato raggiungimento di quella condizione di maturità per definizione tipica di un soggetto in età adulta. Ebbene, per ciò che « riguarda il dato naturalistico fondante la ‘‘non imputabilità’’ del minore, [...] in relazione al collegamento effettuato sic et simpliciter dal legislatore tra ‘‘età minore’’ (condizione presupposta) ed eventuale mancato raggiungimento della soglia di capacità naturalistica necessaria ai fini dell’attribuzione della qualifica di imputabile ad un soggetto, deve ritenersi che il vigente codice penale ha inteso, con l’art. 98 [e ciò deve evidentemente valere ancor più per la disposizione che lo sostituisce in quest’ultimo disegno di libro primo per un nuovo codice penale], richiamare l’attenzione dell’interprete su un requisito implicito nella capacità naturalistica, vale a dire sull’avvenuta maturazione mentale del soggetto minore fra i quattordici ed i diciotto anni » (51). « Un siffatto accertamento deve essere condotto caso per caso, con criteri relativi e non assoluti, escludendo il ricorso a presunzioni e muovendo dalla constatazione della sussistenza di una proporzione tra lo sviluppo psichico del minore e la sua età fisica alla stregua dei dati risultanti dalla media dei consociati, con specifico riferimento ai coetanei » (52). Maturazione e non maturità, dunque, opzione di certo non ispirata a condendo gli orientamenti critici della moderna criminologia relativi all’attuale disciplina in tema di imputabilità. Tenuto conto della persistente situazione di immaturità fino al diciottesimo anno, potrebbe essere proposta l’elevazione del limite della incapacità penale dal 14o al 18o anno, mentre a partire dalla maggiore età fino al termine dell’età cosiddetta evolutiva (21-25 anni), potendosi ancora verificare situazioni di immaturità, potrebbe ipotizzarsi l’imputabilità dei soggetti previa verifica di una reale maturità (accertando cioè l’esistenza della capacità di intendere e di volere), prevedendosi o meno una diminuzione di pena’’. (49) V. supra, nt. 33. (50) V. supra, nt. 33. (51) G. MARINI, op. cit., 369; v. anche ID., Lineamenti del sistema penale, Torino, 1993, 835 ss. (52) G. MARINI, Minori, cit., 370.


— 523 — imperscrutabili canoni linguistici (53), ma qui dettata dall’esigenza di una locuzione più pregnante e duttile, nell’intento di meglio individuare quel diverso parametro di riferimento che consenta all’interprete dell’art. 98 c.p. — come dell’art. 86 del disegno di legge n. 2038 cit. — quel mutamento di risultanze applicative altrimenti inattingibile (54). Maturazione e non maturità, quindi, e cioè non più condizione risolutiva di un processo evolutivo, bensì processo stesso che normalmente si sviluppa per gradi con (si badi, non per) il progredire delle diverse fasce di età del soggetto (55). E il grado che, ai fini della sottoponibilità alla pena, nel caso concreto consente al minore di rendersi conto del valore e del significato della propria condotta, di essere capace di valutarne le conseguenze e di autodeterminarsi — per il legislatore penale italiano, anche in quest’ultima prospettiva di riforma — ben potrebbe raggiungersi dal quattordicenne normoevoluto. È appunto quel che il giudice di volta in volta è chiamato ad accertare, laddove siffatto grado di maturazione, ovviamente, ben può presumersi raggiunto in soggetti che abbiano compiuto gli anni diciotto, fatta questa volta salva la dimostrazione del contrario per ragioni diverse da quelle connesse al decorso del tempo. La capacità di intendere e di volere, nel senso di capacità di valutare e di normalmente volere le proprie azioni, perciò, coinvolge tempi, percorsi, criteri e finalità niente affatto coincidenti con quelli sperimentati dalle scienze dell’uomo in relazione alla maturità, la quale, pertanto, non può identificare né comunque spiegare compiutamente una categoria che il diritto specificamente colloca ed utilizza nel proprio ambito (56). Sicché, in definitiva — se non si vuol continuare a rischiare di incorrere in quella pressoché generalizzata esclusione dell’imputabilità per gli infradiciottenni, sopra paventata (57) —, per ‘‘immaturità’’, di cui al citato quarto comma dell’art. 86 del disegno di legge, dovrà intendersi il mancato raggiungimento da parte del minore in detta fascia d’età di quel grado intermedio del processo di maturazione, che nel caso concreto lo renderebbe capace di intendere e di volere (58), e quindi penalmente im(53) La precisazione era pur necessaria, se si considera che per maturazione deve intendersi il maturare, processo che reca in sé — al culmine del suo svolgersi — anche l’esser maturo, di cui tuttavia si specifica essenzialmente la nozione di maturità. Accade così che con agile sineddoche il termine ‘‘maturazione’’ ben rappresenti un’alternativa stilistica consueta del lemma ‘‘maturità’’; nessun rapporto di contiguità quantitativa tra le due espressioni se, invece, si individua il processo di maturazione nel suo pieno divenire, in un momento, cioè, senz’altro antecedente a quello della maturità. (54) V. supra, n. 4. (55) Cfr. supra, nt. 53. (56) V. anche supra, nt. 25. (57) V. supra, n. 4 e ivi, nt. 47. (58) Pur se riferita al soggetto che, al momento del commesso reato, non abbia compiuto il quattordicesimo anno, in tal senso potrebbe leggersi anche la locuzione ‘‘mancata


— 524 — putabile, pur se non ancora in possesso di quella sua personale maturità che egli potrà raggiungere soltanto nell’età adulta, così pure giustificandosi un trattamento sanzionatorio ampiamente più favorevole. FRANCESCO PAZIENZA Associato di Diritto penale nell’Università di Bari

maturazione connessa alla minore età’’, di cui al cit. n. 10.6 della relazione che illustra il progetto (v. supra, nt. 37).


CONSIDERAZIONI SULLA RIFORMA DEL DIRITTO PENALE IN ITALIA (*)

SOMMARIO: 1. Il disegno di legge delega al Governo per l’emanazione di un nuovo codice penale, del 1992. — 2. Critiche alla scelta dello strumento della legge di delega al Governo. — 3. Profili di riforma della Parte Generale. — 4. Il problema delle sanzioni. — 5. La pericolosità e le misure di sicurezza. — 6. Profili di riforma della Parte Speciale. - a) I problemi posti dalla bozza di delega in materia di identità genetica. - b) La tutela dell’onore nella bozza di delega. - c) Cenni in materia di reati fallimentari. — 7. Il programma di riforma presentato dalle forze di coalizione dell’‘‘Ulivo’’, del 1995. — 8. Conclusioni.

1. Il disegno di legge delega al Governo per l’emanazione di un nuovo codice penale, del 1992. — Gli obiettivi precipui cui risponde la necessità di emanare un nuovo codice penale italiano, risiedono nelle molteplici esigenze di tutela giuridica, di certezza e uguaglianza, di riduzione delle fattispecie incriminatrici nonché di migliore adeguamento delle sanzioni penali alle singole fattispecie. Il nostro attuale sistema penale, infatti, è ipertrofico. Esso cioè pretende di sanzionare un numero eccessivo di infrazioni, anche di minima gravità, nelle materie più disparate. Questa penalizzazione irrazionale contribuisce a indebolire la funzione di prevenzione generale per cui un sistema punitivo che minaccia troppo spesso blande sanzioni, finisce col perdere sia la funzione di deterrenza, che quella di orientamento culturale. La crescente espansione della normazione speciale ha infatti provocato l’emersione di beni giuridici (ambiente, assetto urbanistico del territorio) cui è stata accordata tutela, sia pure extra-codicem, ed inoltre talune tradizionali materie, una volta rientranti nel codice, (droga, prostituzione, armi) sono state trasferite in leggi speciali. Il codice ha perso così la sua funzione tipica di « catalogo » delle più gravi forme di aggressione ai beni di maggior spicco. Restituire al sistema penale coerenza e razionalità, comporta pertanto una profonda e attenta revisione dell’attuale normativa, scegliendo e bilanciando tra valori, ai fini della ridefinizione dei beni tutelabili e fissando (*) Testo, con l’aggiunta delle note, della conferenza tenuta all’Università tecnica di Dresda, il 10 aprile 1996, su invito del prof. Guenter Heine, nell’ambito di un ciclo di conferenze su: « L’evoluzione del diritto penale in Europa ».


— 526 — principi-guida dell’imputazione penale, determinandone gli scopi e le tecniche sanzionatorie. La nuova codificazione dovrebbe servire, quantomeno negli intenti, a raccordare la dottrina, destinata ad elaborare modelli di carattere generale, alla giurisprudenza, il che è necessario per un confronto dialettico fra le due istanze, ma anche per un più adeguato vaglio del sistema, così elaborato, nella prassi giudiziaria (1). L’esigenza di un confronto aperto non si limita ai rapporti tra prassi e dottrina, ma affiora ancor più nelle prospettive di un’adeguata pubblicizzazione esterna del lavoro della Commissione, affinché il nuovo codice poggi su di un diffuso consenso sociale (2). La linearità dello Schema di delega ha comunque l’indubbio pregio di razionalizzare il coacervo di norme esistenti e di considerare nuove fattispecie di illecito, come andremo meglio a verificare nel prosieguo. 2. Critiche alla scelta dello strumento della legge di delega al Governo. — Prima delle considerazioni di carattere prettamente contenutistico, va però innanzitutto segnalata una fondamentale riserva, espressa da autorevoli esponenti della dottrina, in ordine all’opportunità di delineare un nuovo codice penale, attraverso lo strumento della legge di delega al Governo (3). La predisposizione di direttive generali, secondo la funzione tipica della legge di delega, urterebbe infatti, secondo tale prospettiva, soprattutto contro l’esigenza di descrivere dettagliatamente le singole fattispecie incriminatrici. Se l’illecito penale si connota come illecito di modalità di lesione e deve, dunque, uniformarsi al criterio di tassatività, è evidente come il volto del singolo fatto non risulta sufficientemente definito nella sua struttura, qualora venga adottato lo strumento della legge di delega al Governo, che infatti lascia ampia discrezionalità al potere esecutivo, con gravi rischi per il principio di legalità, nel senso che il potere di legiferare (1) In argomento STILE (a cura di), Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, Napoli, 1991. (2) Sono già stati, comunque, organizzati diversi Convegni in argomento, fra cui si segnalano quelli i cui atti sono già pubblicati: AA.VV., Verso un nuovo codice penale — Itinerari — Problemi — Prospettive, Milano, 1993; AA.VV., Valore e principi della codificazione penale: le esperienze italiana, spagnola e francese a confronto, Padova, 1995; CADOPPI (coord. da), Omnis definitio in iure periculosa? Il problema delle definizioni legali nel diritto penale, Padova, 1996. Per ulteriori notizie al riguardo, v. ora MILITELLO, Il diritto penale nel tempo della « ricodificazione » — Progetti e nuovi codici penali in Francia, Italia, Spagna, Inghilterra, in questa Rivista, 1995, 758 ss., e, quivi, 776. Il testo della Bozza di delega trovasi pubblicato in Documenti Giustizia, 1992, n. 3, 305 ss. (3) Così, in particolare, MARINUCCI-DOLCINI, Note sul metodo della codificazione penale, in questa Rivista, 1992, 406 ss., e, quivi, 416; per la replica, PAGLIARO, Verso un nuovo codice penale? Itinerari — Problemi — Prospettive, in Indice pen., 1992, 18 ss.


— 527 — viene in sostanza « espropriato » al Parlamento, a cui resta solo l’elaborazione dei principi-guida. A tale proposito, si obietta, infatti, come sussistano esempi ben noti di riforme codicistiche, affidate non già a commissioni di esperti di nomina governativa, bensì parlamentare (4). La Commissione Ministeriale appositamente costituita nel febbraio 1988 per la predisposizione di un disegno di legge-delega al Governo italiano per l’emanazione di un nuovo codice penale, ha comunque elaborato un modello organizzativo del sistema penale orientato in primo luogo, non più al primato dello Stato (come vige nell’attuale codice), bensì della persona umana nelle sue molteplici dimensioni: si passa infatti dai reati lesivi della persona come individuo a quelli lesivi della persona come soggetto sociale (cosiddetti reati contro i rapporti civili, sociali ed economici), inoltre a quelli offensivi della comunità sociale, ed infine ai reati che aggrediscono le istituzioni repubblicane (5). Taluni hanno però, avanzato giustificate riserve, in ordine alla possibile ricomprensione di alcune tipologie delittuose nell’ambito di queste classificazioni, in particolare rilevando l’inopportunità di ricomprendere i reati contro la libertà religiosa, tra quelli contro i rapporti civili, sociali ed economici, quando invece appare decisamente più corretta la loro classificazione tra quelli contro la persona (6). 3. Profili di riforma della parte generale. — Circa i principi-guida che dovrebbero presiedere alla riforma della parte generale del codice penale, intendiamo soffermarci in particolare su due, che caratterizzano, a nostro giudizio, sia pure sotto diversi profili l’intero Progetto di codificazione. Un’attenta analisi di alcune delle fattispecie di reato « ridisegnate » dallo Schema del Progetto del nuovo codice, fa infatti emergere in primo luogo, almeno a nostro giudizio, l’eccessivo sbilanciamento della Commissione verso un profilo di danno e di pericolo concreto, in settori invece attinenti ai beni giuridici di carattere meta-individuale, come soprattutto quello della tutela dell’ambiente, ove si parla per esempio, all’art. 108 comma 1 di « danneggiamento delle risorse economiche ambientali, tali (4)

Fra i quali spicca proprio la riforma del c.p. tedesco, su cui cfr. MARINUCCI-DOL-

CINI, op. loc. ult. cit.

(5) Si è mostrato favorevole a tale nuovo approccio sistematico, già ROMANO, Legislazione penale e tutela della persona umana (contributo alla revisione del titolo XII del codice penale), in questa Rivista, 1989, 53 ss.; talune riserve su tale ordine sono però avanzate da VASSALLI, Presentazione, in PISANI (a cura di), Per un nuovo codice penale. Schema di Disegno di legge-delega al Governo, Padova, 1993, 6. (6) Così FIANDACA, Relazione introduttiva, in Verso un nuovo codice penale, ecc., cit., 3 ss., e, quivi, 22; sul tema, in generale, SIRACUSANO, I delitti in materia di religione. Beni giuridici e limiti dell’intervento penale, Milano, 1983.


— 528 — da pregiudicare l’utilizzo da parte della collettività » o di « alterazione dell’ecosistema, tale da determinare l’alterazione dello stato fisico dell’ambiente », all’art. 102 (6-bis). Ciò è ravvisabile, sia pure in modo forse meno evidente e macroscopico, anche nel settore della criminalità economica, in cui, a proposito della nuova fattispecie di « infedeltà patrimoniale » si richiede l’aver cagionato all’impresa (...), un non meglio specificato « danno patrimoniale », senza, invece, come appariva preferibile, incentrare la fattispecie sul c.d. conflitto d’interessi (7) (art. 112 comma 2), oppure, nei reati in materia di fallimento, ove, a proposito della bancarotta fraudolenta patrimoniale, si richiede che la condotta abbia contribuito a « causare o aggravare con frode il dissesto » (art. 117) ove l’esclusivo orientamento al danno rischia di lasciare in ombra il profilo, altrettanto importante, anche a livello di delimitazione della fattispecie, delle modalità della condotta (8). L’orientamento del nuovo codice, così chiaramente ispirato al c.d. principio di offensività (9), non si pone però in alcun modo il problema di evidenziare quale sia il criterio da seguire per individuare, a livello probatorio, in cosa consista, per esempio, un danno cagionato all’ecosistema. In tal modo si finisce col rendere assai difficoltoso stabilire non solo la gravità dell’offesa, ma anche la modalità con cui essa viene arrecata, evidentemente sottovalutando il fatto che, proprio a tutela di beni giuridici collettivi, da tempo la dottrina ha suggerito l’utilizzazione, sia pure con opportuni correttivi, quali soprattutto una c.d. clausola di riserva (10), del modello del pericolo astratto (11). (6-bis) In materia, da ultimo, CATENACCI, La tutela generale dell’ambiente, Padova, 1996. (7) In tale ultimo senso, autorevolmente, PEDRAZZI, La riforma dei reati contro il patrimonio e contro l’economia, in Verso un nuovo codice, ecc., cit., 350 ss., e, quivi, 358; sul tema, da ultimo, FOFFANI, L’infedeltà patrimoniale: verso una nuova fattispecie penale? in Riv. trim. dir. pen. ec., 1995, 457 ss. (8) Analogamente, FLORA, Intervento preordinato, al XIX Convegno del CNPDS su « Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali », St. Vincent, 6-8 maggio 1994 (atti in corso di pubbl.). (9) Su cui v., per due autorevoli ricostruzioni, MANTOVANI, Il principio di offensività del reato nella Costituzione, in Scritti Mortati, IV, 1977, 477 ss.; VASSALLI, Considerazioni sul principio di offensività, in Studi Pioletti, 1982, 617 ss. (10) Come esisteva nell’AE e come, in fondo, può fungere anche la previsione, nel c.p. italiano, del c.d. reato impossibile: per tale prospettiva, di recente, pure FIORE C., Il principio di offensività, Relazione al XIX Convegno del CNPDS, ecc., cit. ed ora in Indice pen., 1994, 275 ss.; nonché sia consentito il rinvio già al nostro Beni della personalità e limiti della protezione penale, Padova, 1989, 149 ss. (11) In tal senso, com’è ormai noto, FIANDACA, Note sui reati di pericolo, in Il Tommaso Natale, 1977, 1-3, 173 ss.; ID., La tipizzazione del pericolo, in AA.VV., Beni e tecniche della tutela penale, Milano, 1987, 49 ss.; MARINUCCI, Relazione di sintesi, in STILE, (a cura di), Bene giuridico e riforma della parte speciale, Napoli, 1985, 350 ss.; GRASSO, L’anticipazione della tutela penale: i reati di pericolo e i reati di attentato, in questa Rivista, 1986, 689 ss.


— 529 — In secondo luogo, si assiste ad un’ampia affermazione del principio di colpevolezza quale indefettibile presupposto dell’illecito penale, e della commisurazione della pena. Da ciò discende l’imprescindibile esigenza di rivedere tutte le forme di responsabilità oggettiva, preterintenzionale, il reato aberrante, i reati aggravati dall’evento, la responsabilità del concorrente per il reato diverso da quello voluto. La Commissione, ha inteso escludere qualsiasi forma di imputazione incolpevole del fatto, orientandosi verso l’esclusione di quelle norme dal futuro codice penale, che lascino spazi di responsabilità penale non coperta dalla colpevolezza. In tale prospettiva, è scomparso ogni riferimento alla preterintenzione, alla responsabilità oggettiva e ai delitti aggravati dall’evento, mentre per l’aberratio ictus e delicti dovrebbero valere i principi costituzionali della responsabilità penale, orientati, cioè, alla colpa (12). In verità, non sembra però sufficiente interpretare ad esempio il delitto preterintenzionale, in chiave di colpevolezza, poiché in primis ciò non risolve il problema della più elevata sanzione da applicare, rispetto al modello del concorso di reati, e poi, perché già la riforma dei reati aggravati dall’evento, operata sin dal ’52 dal legislatore tedesco sulla stessa falsariga, non ha, come noto, risolto tutti i problemi (13). Per evitare dunque forme di responsabilità oggettiva « occulta » (14), appare più opportuno riconoscere finalmente sia nei delitti preterintenzionali, sia in quelli aggravati dall’evento, che si tratta di una artificiosa unificazione legislativa, dettata soprattutto da ragioni di carattere sanzionatorio, di distinte ipotesi criminose (15). Lo Schema di Delega, invece, al posto dell’omicidio preterintenzionale, configura quale aggravante dell’omicidio colposo e delle lesioni colpose, la condotta violenta e dolosa contro la persona (art. 59, n. 5 lett. c). In verità, tale scelta appare opinabile poiché comporta, più in generale, ancora il mantenimento della figura delle circostanze del reato. È stata avanzata invece da più parti la proposta di abolire la figura (12) Affermati, di recente, pure dalla Corte costituzionale, con la famosa sentenza n. 364/1988, sull’error iuris, in questa Rivista, 1988, 686 ss., con nota di PULITANÒ, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza. (13) In argomento, PAEFFGEN, Soluzioni e problemi dell’imputazione dell’evento in rapporto ai delitti aggravati dall’evento nel diritto tedesco, in STILE (a cura di), Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, Napoli, 1989, 87 ss. (14) Per riprendere la nota espressione di MANTOVANI, Responsabilità oggettiva espressa e responsabilità oggettiva occulta, in questa Rivista, 1981, 456 ss. (15) Per tale prospettiva, sia consentito, anche per maggiori approfondimenti, il rinvio a MANNA, voce Circostanze del reato, in Enc. Giur. Treccani, VI, Roma, 1994, 1 ss., e, quivi, 10.


— 530 — delle circostanze che, infatti, non esistono né nell’ordinamento tedesco, se si eccettui l’ipotesi delle c.d. circostanze indefinite, né in quello francese, ove le circostanze sono elementi costitutivi di reati autonomi (16). Sembrerebbe preferibile allora, soprattutto nella prospettiva di una nuova codificazione, che modifichi in chiave essenzialmente costituzionale, la cornice edittale delle pene, che il giudice irroghi la sanzione nell’ambito della pena edittale, rinunciando così all’alterazione della cornice sanzionatoria dovuta all’applicazione delle circostanze. Va a ciò aggiunto, come la riforma del 1990 in tema di imputazione delle circostanze aggravanti, non più oggettiva, bensì soggettiva, nel senso, ovviamente, del dolo o della colpa, ha sostanzialmente assimilato le circostanze agli elementi costitutivi del reato, per cui v’è da chiedersi se non sarebbe stato più opportuno far rifluire l’istituto delle circostanze del reato, a seconda dei casi, o in reati autonomi, oppure nei tradizionali indici di commisurazione della pena (17). Lo stesso Schema di legge-delega ha, per di più, eliminato le circostanze attenuanti generiche, sebbene il problema della commisurazione della pena per quelle fattispecie prive di una sanzione elastica, non sia stato del tutto risolto. Lo Schema di legge-delega, ha inoltre mantenuto, all’art. 13, la figura delle condizioni obiettive di punibilità, sia pure limitandole alle condizioni c.d. estrinseche. Da taluno si è però obiettato come sarebbe stato più opportuno eliminare del tutto dal nuovo codice, tale figura, che è sempre stata al centro di vivaci diatribe interpretative, per la difficoltà di distinguerla dalle condizioni di procedibilità e per la non infrequente confusione con gli elementi essenziali di reato (18), anche se va aggiunto che, almeno a nostro giudizio, tale ultimo rilievo riguarda soprattutto le condizioni di punibilità c.d. intrinseche. Sempre nel rispetto maggiore del principio di tipicità, e di quello di colpevolezza, di un altro fondamentale istituto, la Commissione prospetta una nuova disciplina, cioè del concorso di persone nel reato, ispirata al criterio della responsabilità differenziata per i partecipi, in rapporto però (16) Per una proposta siffatta, tendente a far confluire le attuali circostanze del reato o in titoli autonomi, oppure in indici di commisurazione della pena, DE VERO, Circostanze del reato e commisurazione della pena, Milano, 1983, spec. 248 ss.; nonché MANNA, voce Circostanze, ecc., cit., 15-16. (17) Sulla riforma del ‘90, v. ora la monografia di MARCONI, Il nuovo regime d’imputazione delle circostanze aggravanti - La struttura soggettiva, Milano, 1993. (18) Così GROSSO, Il principio di colpevolezza nello Schema di Delega Legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, in Cass. pen., 1995, 3125 ss., e, quivi, 3131; sul tema v. anche, in generale, per i suoi rapporti con la colpevolezza, ANGIONI, Condizioni di punibilità e principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1989, 733 ss.


— 531 — all’effettivo contributo concreto di ciascuno, proposta che raccoglie così i suggerimenti della eleborazione dottrinale più recente (19), anche se rischia di aumentare il tasso di discrezionalità giudiziaria. 4. Il problema delle sanzioni. — Un’attenzione particolare merita il settore relativo alle sanzioni, che attualmente versa in uno stato assai precario per cause sia strutturali, che legate all’involuzione generale del sistema. La pena è diventata sempre più incerta e teorica perché una volta irrogata, si frammenta in varie alternative sia a livello giudiziario, che esecutivo. Le conseguenze negative sono intuibili: viene compromessa l’efficacia del trattamento punitivo e lo scopo general-preventivo preso di mira. La recente normativa a livello processuale ha vieppiù complicato il quadro. Si fa riferimento ai riti alternativi (in particolar modo applicazione della pena su richiesta e giudizio abbreviato) concepiti a fini di deflazione processuale, ma di dubbia compatibilità con la funzione di prevenzione, generale e soprattutto speciale. A tale proposito autorevole dottrina già si è giustamente posta il problema di stabilire la congruità tra gli scopi sostanziali di prevenzione e i mezzi processuali adottati per conseguirli (20). La Commissione, in tema di sanzioni, dunque, auspica in primo luogo l’introduzione di un modello di pena pecuniaria a tassi giornalieri (21); inoltre una disciplina più razionale della sospensione condizionale della pena, delle sanzioni sostitutive, e, soprattutto, il recupero del principio di giusta proporzione tra sanzione e fatto di reato. L’introduzione della sola pena pecuniaria a tassi giornalieri non sembra tuttavia sufficiente a configurare la pena detentiva davvero come extrema ratio, ma sembrerebbe opportuno aggiungervi, quali sanzioni autonome, anche nel diritto penale, e in funzione « sostitutiva » soprattutto delle pene detentive brevi, anche la restituzione ed il risarcimento del danno (22). In primis, per tutelare la vittima del reato, oltre che sul piano proces(19) In argomento, anche per una efficace ricostruzione comparatistica del problema, SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano, 1987, cui si rinvia pure per le ulteriori citazioni bibliografiche. (20) BRICOLA, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, in Indice pen., 1989, 313 ss.; PADOVANI, Il nuovo codice di procedura penale e la riforma del codice penale, in questa Rivista, 1989, 916 ss. (21) Su cui v., per un ampio panorama comparatistico, JESCHECK-GREBING, Die Geldstrafe im deutschen und ausländischen Recht, Baden Baden, 1978; nella dottrina italiana, MOLINARI, La pena pecuniaria, Verona, 1983; MUSCO, La pena pecuniaria, Catania, 1984. (22) Sul punto, sia consentito il rinvio a MANNA, Le nuove prospettive sanzionatorie a tutela della vittima nel diritto penale, in Scritti in memoria di Renato Dell’Andro, Bari, 1994, I, 495 ss., con, ivi, ulteriori riferimenti bibliografici.


— 532 — suale, anche su quello del diritto penale sostanziale, e, secondariamente, per adeguare il sistema italiano, al movimento internazionale di riforma, già operante in molti ordinamenti di Common Law e continentali, che efficacemente hanno sostituito alla pena detentiva (specie per la microcriminalità economica, nonché per i delitti che offendono beni della personalità), le restituzioni e il risarcimento del danno, come da ultimo ha disposto la riforma del par. 46 del codice penale tedesco (23). La principale obiezione, per cui in tal modo si rischia una pericolosa commistione tra diritto civile e diritto penale, col conseguente ulteriore pericolo di far perdere alla pena il suo significato di stigmatizzazione etico-sociale (24), non appare fondata, soprattutto in una moderna prospettiva di « laicizzazione » del diritto penale. Vi sono comunque già state ipotesi di commistione tra diversi rami del diritto, che non hanno provocato guasti irreparabili, anche se hanno da noi suscitato qualche riserva, ma solo in ordine alla efficacia, come testimonia l’esperienza dell’illecito amministrativo depenalizzato, introdotto in Italia con la legge generale 689 del 1981 (25). Non vanno poi sottovalutati gli importanti effetti sia general- che special-preventivi, ottenibili, come noto, col meccanismo risarcitorio (26). Oltre a ciò val bene ricordare che soprattutto per i reati di corruzione e concussione, oltre che per le ipotesi criminose ad essi collegate, di recente è stata avanzata la proposta di sostituire alla pena detentiva, la restituzione del cosiddetto « maltolto », segno evidente della opportunità, anche in tale delicato settore, di questa nuova prospettiva di politica criminale (27). I problemi che si pongono in definitiva sono due: o stabilire quali siano i reati la cui pena possa essere sostituita col risarcimento, come nel (23) Che ha chiaramente tenuto conto dei risultati raggiunti dall’AE-WGM, München, 1992, a sua volta ispirato dai lavori di ROXIN, Risarcimento del danno e fini della pena, in questa Rivista, 1987, 3 ss.; nonché, più di recente, ID., Wiedergutmachung als einer « dritten Spur » in Sanktionensystem, in Festschrift für Baumann, 1992, 243 ss. (24) Per tale obiezione, HIRSCH, Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto penale sostanziale, in Studi in memoria di Pietro Nuvolone, I, Milano, 1991, 275 ss.; ROMANO, Risarcimento del danno da reato, diritto civile, diritto penale, in questa Rivista, 1993, 865 ss. (25) Su tale, fondamentale legge, cfr. DOLCINI-GIARDA-MUCCIARELLI-PALIERO-RIVA CRUGNOLA, Commentario delle « Modifiche al sistema penale », Milano, 1982; circa le riserve sul piano del pratico funzionamento, MANTOVANI, Le « modifiche al sistema penale » del 1981: risultati e indicazioni di una ricerca empirica, in Indice pen., 1986, 443 ss. (26) Su cui v. l’ampia ricerca di FREHSEE, Schadenswiedergutmachung als Instrument strafrechtlicher Sozialkontrolle, Berlin, 1987. (27) Cfr. L’iniziativa Di Pietro su Tangentopoli - Proposta in materia di prevenzione della corruzione e dell’illecito finanziamento di partiti, in Cass. pen., 1994, 2348 ss.


— 533 — diritto penale austriaco (28), oppure prevedere livelli generali di pena, al di sotto dei quali è possibile la sostituzione, come è stato disposto nel par. 46a del codice penale tedesco. Quest’ultima soluzione, sembrerebbe la più corretta soprattutto in ragione del rispetto del principio di uguaglianza. Va però segnalato come lo Schema di legge-delega abbia scartato l’ipotesi di introdurre sanzioni diverse dalla pena detentiva e pecuniaria (29). In tal modo, nonostante le affermazioni di principio, secondo cui il ricorso alla pena detentiva dovrebbe costituire l’extrema ratio, a causa della anzidetta manchevolezza, a cui può aggiungersi il fatto che non sono previsti nello Schema i limiti di sospendibilità della pena detentiva medesima (30), l’apparato sanzionatorio elaborato dalla Commissione risulta ancora dominato da tale tipo di sanzione, che, pertanto, continua a permanere, come è stato giustamente osservato, la « prima ratio » di tutela (31). 5. La pericolosità e le misure di sicurezza. — Un cenno merita da ultimo il problema relativo alla pericolosità ed alle misure di sicurezza, di cui è necessaria una seria e ponderata revisione. Innanzitutto, per evitare l’iniquo cumulo, esistente tuttora, di pena e misura di sicurezza, per gli imputabili ed i semi-imputabili pericolosi (32), e inoltre per riflettere sulla opportunità di mantenere misure che appaiono desuete, tant’è che per gli infermi di mente ci si è addirittura chiesti se non sia più opportuno affidarli ad un sistema terapeutico, da organizzare però al di fuori del diritto penale (33). Anche il concetto di pericolosità sociale, abolite le ipotesi c.d. di peri(28) Cfr. HÖPFEL, Die strafbefreiende tätige Reue und verwandte Einrichtung des österreichischen Rechts, in ESER-KAISER-MADLENER (Hrsg.), Neue Wege der Wiedergutmachung im Strafrecht, Freiburg i.Br., 1990, 171 ss. (29) Sullo Schema di Delega, cfr., in generale, di recente, l’autorevole commento del Presidente della Commissione, PAGLIARO, Valori e principi nella bozza italiana di legge-delega per un nuovo codice penale, in questa Rivista, 1994, 374 ss. (30) Così, in particolare, LARIZZA, Intervento al 3o Congresso nazionale di diritto penale, Cagliari, 17-20 dicembre 1992 (atti in corso di pubbl.). (31) In generale sulla « sorta di trasformazione fattuale del ruolo del diritto penale, che da extrema ratio rischia concretamente di divenire la tecnica normale di governo e di controllo di qualsivoglia fenomeno sociale », MUSCO, Consenso e legislazione penale, in Verso un nuovo codice, ecc., cit. 151 ss. e, quivi, 157; in particolare, sul ruolo ancora dominante della pena detentiva nel « Progetto Pagliaro », NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio: considerazioni in margine ad un recente Schema di riforma, in questa Rivista, 1995, 315 ss. (32) Già stigmatizzato da MUSCO, Misure di sicurezza e pericolosità: profili di riforma, in VASSALLI (a cura di), Problemi generali di diritto penale, Milano, 1982, 173 ss., e, spec., 178. (33) Per tale prospettiva, GROSSO, Questioni aperte in tema di imputazione del fatto, in Verso un nuovo codice, ecc., cit., 249 ss., e, quivi, 257.


— 534 — colosità presunta (34), ha mostrato più chiaramente tutta la sua indeterminatezza e, dunque, la sua « manipolabilità » (35), tanto da diventare vero e proprio terreno di scontro tra periti e giudici in quanto i primi lamentano giustamente di essere richiesti dai secondi di pronunciarsi anche sulla sussistenza, in concreto, di un siffatto presupposto, per l’applicazione delle misure, che tuttavia non è di natura medica, bensì giuridica. Da ciò l’insorgere di seri dubbi sulla perdurante validità di tale concetto all’interno del sistema penale, di cui si contesta, infatti, anche la sua « verificabilità empirica ». Va inoltre segnalata la necessità di un salutare confronto con i modelli delle misure di sicurezza, adottati in altri paesi Europei ed Extraeuropei, per evitare che il giudice penale, soprattutto nei casi di sussistenza soltanto di disturbi della personalità, non equiparabili alla nozione tradizionale di malattia mentale, applichi « surrettizziamente » la pena anche per l’assenza di valide alternative ad essa (36). Quanto allo Schema di Delega, esso ha molto opportunamente eliminato il cosiddetto doppio binario, tra pena e misura di sicurezza, che si connotava per l’assenza di concreti contenuti rieducativi e di risocializzazione, ed ha previsto l’applicabilità delle misure di sicurezza solo per i non imputabili. Manca tuttavia l’introduzione di nuove misure di sicurezza, come per esempio gli istituti di terapia sociale (37), già sperimentati in vari Paesi, che potrebbero costituire una valida alternativa alle tradizionali « strutture psichiatriche » sia esse giudiziarie, che civili, previste invece dallo Schema di Delega, sia pure in alternativa con l’opportuna previsione del trattamento ambulatoriale (38). 6.

Profili di riforma della parte speciale.

a) I problemi posti dalla bozza di delega in materia di identità genetica. — Quanto alla parte speciale, ha in primo luogo suscitato condivisibili riserve l’introduzione, nell’ambito del Progetto di riforma, della nuova (34) Mediante vari interventi della Corte costituzionale, e, definitivamente, con la c.d. legge Gozzini, del 10 ottobre 1986, n. 663. (35) Definiscono, giustamente, in tal senso la « pericolosità sociale », MARINUCCIDOLCINI, Corso di diritto penale, 1, Nozione, struttura e sistematica del reato, Milano, 1995, 58. (36) In argomento, sia consentito il rinvio a MANNA, Il « diritto giurisprudenziale » nel sistema penale: il caso dell’infermità di mente, Intervento programmato al Convegno « Il diritto giurisprudenziale in Italia e nel mondo », Cagliari/Chia, 15-17 giugno 1995 (atti in corso di pubbl.). (37) Su cui v., diffusamente, nella dottrina italiana, BERTOLINO, L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Milano, 1990, spec. 317 ss. (38) Mutuata, chiaramente, dalla riforma del 1983 del codice penale spagnolo, su cui v. QUINTERO OLIVARES-MUÑOZ CONDE, La reforma penal de 1983, Barcelona, 1983, 71 ss.


— 535 — categoria dei reati contro la cosiddetta identità genetica (alterazione della struttura genetica, ibridazione, clonazione ecc.), che ricomprendono quelle condotte manipolative, rese possibili dalla evoluzione scientifica, che tuttavia comportano lesioni della « dignità umana », sino, addirittura, a giungere alla programmazione biologica della intiera personalità. Le riserve espresse dalla dottrina in ordine alla introduzione di questa categoria di reati, nell’ambito di un nuovo codice penale riguardano infatti soprattutto l’opportunità di ricomprendere in un codice penale non aggressioni a beni già consolidati nel contesto sociale, bensì, come nel caso di specie, quelli a beni dai contorni ancora assai incerti, quale la c.d. identità genetica (39). Sotto questo profilo i reati de quo avrebbero, allora, trovato semmai migliore collocazione in una legge speciale, come è avvenuto, ad esempio, nell’ordinamento tedesco (40). b) La tutela dell’onore nella bozza di delega. — « L’onore è il bene più difficile da afferrare con i guanti di legno del diritto penale e pertanto quello tutelato meno efficacemente »: così, com’è noto, affermava Maurach (41). Tale bene, così « inafferrabile » nei suoi contenuti e confini, ha pertanto condotto la dottrina ad elaborare concezioni differenti circa gli strumenti di tutela. La dottrina tradizionale, anche di recente ripresa (42), ricostruisce l’onore come un bene giuridico personalissimo afferente all’uomo come essere in sé e come soggetto proiettato nella vita di relazione. L’onore così inteso si adatterebbe meglio ad un tipo di tutela di carattere penale, in quanto l’orientamento personalistico di tale bene costituirebbe già criterio sufficiente per la sua considerazione penalistica, anche se, in tal modo, si rischia di scivolare verso « obblighi costituzionali di tutela penale » (43), cui si giunge inevitabilmente se il principio di proporzione non è collegato con quello di sussidiarietà. Più recenti orientamenti (44), partono proprio dall’accertata scarsa efficacia preventiva della tutela penalistica, per suggerire, in una prospettiva « depenalizzatrice », di rimpiazzare la tutela penale con una forma di (39) Per tali rilievi critici, FIANDACA, Relazione introduttiva, ecc., cit., 22 ss. (40) Sulla legislazione tedesca in materia, cfr., nella dottrina italiana, MANNA, Tutela degli embrioni e diritto penale, in Pol. dir., 1990, 693 ss. (41) MAURACH, Deutsches Strafrecht, Bes. Teil, Hannover, 1952, 100. (42) Cfr. SIRACUSANO, Problemi e prospettive della tutela penale dell’onore, in Verso un nuovo codice, ecc., cit., 333 ss. (43) Su cui v. le giuste riserve di PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in questa Rivista, 1983, 484 ss. (44) MUSCO, Onore formale ed onore reale come oggetto di tutela, in AA.VV., Tutela dell’onore e mezzi di comunicazione di massa, Milano, 1979, 97 ss.; MANNA, Beni della personalità e limiti della protezione penale, Padova, 1989, spec. 651 ss.


— 536 — tutela civilistica basata sul risarcimento del danno, come in vari Paesi va orientandosi anche la prassi giudiziaria. Lo Schema di legge-delega, si situa a metà strada tra le due tendenze, nel senso che l’ingiuria e la diffamazione restano pur sempre reati, ma, nelle ipotesi perseguibili a querela, sarebbe consentito al giudice, nei casi meno gravi, applicare, in luogo della pena, il risarcimento del danno (45). c) Cenni in materia di reati fallimentari. — Meritano da ultimo un breve cenno anche i reati fallimentari che, come già avviene nel codice penale tedesco, verrebbero ricompresi nel nuovo codice penale italiano, abbandonando così la legislazione speciale. Uno fra i principali problemi, che comunque tuttora divide la dottrina a proposito dei reati fallimentari, è se sia o no, preferibile rinunciare alla dichiarazione di fallimento, attribuendo così al giudice penale sia l’accertamento dello stato di insolvenza, che di tutti gli ulteriori requisiti necessari per l’affermazione della penale responsabilità. Parte della dottrina (46), infatti, non ritiene che la punibilità della bancarotta sia da collegare alla dichiarazione di fallimento, perché essa costituirebbe solo un requisito di natura processuale, che starebbe ad indicare che il reato può essere accertato solo se l’imprenditore versa in uno stato d’insolvenza. In tale prospettiva, la dichiarazione di fallimento non costituirebbe elemento utile per l’applicazione della pena, per cui il giudizio sull’insolvenza non potrebbe che essere affidato al giudice che è chiamato a decidere sulla sanzione, cioè il giudice penale. Le teorie più tradizionali (47), muovono invece dall’assunto che la dichiarazione di fallimento, in quanto provvedimento giurisdizionale con valore costitutivo, non può essere surrogata dall’accertamento dei suoi presupposti, quali lo stato di insolvenza, da parte del giudice penale. Il bancarottiere è punito per avere pregiudicato la garanzia dei creditori, ma solo se sopravviene il fallimento, perché con esso l’offesa dei diritti dei creditori, contenuta nelle violazioni degli obblighi imposti all’imprenditore, diviene effettiva. Lo Schema di legge-delega, continua a richiedere l’apertura di una procedura concorsuale per la punibilità del reato, per non turbare la vita (45) Cfr. art. 80, n.7 dello Schema di Delega, in Per un nuovo codice penale ecc., cit. 78. (46) MANGANO, Dichiarazione di fallimento o accertamento dell’insolvenza, in Verso un nuovo, ecc., cit., 498 ss. (47) DELITALA, Contributo alla determinazione giuridica del reato di bancarotta (1926), ora in ID., Diritto penale, Raccolta degli Scritti, Milano, 1976, II, 701 ss.; ID., Studi sulla bancarotta (1935), in ibid., 849 ss., e, quivi, 871; in argomento, v. anche, di recente, PEDRAZZI-SGUBBI, Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persona diversa dal fallito, Bologna-Roma, 1995, 17.


— 537 — dell’impresa con interventi punitivi intempestivi, dando dunque per scontata l’efficacia e la rilevanza, ai fini della punibilità, della dichiarazione di fallimento da parte del giudice civile. Se la preoccupazione di evitare interventi punitivi intempestivi, è senza dubbio fondata, va però di contro osservato che ancorare la punibilità dei reati di bancarotta alla dichiarazione di fallimento non elimina del tutto tale preoccupazione, giacché in tal modo si giunge a punire fattispecie che possono essere state commesse anche molto prima della dichiarazione di fallimento, e, dunque, sicuramente al di fuori della c.d. zona di rischio penale (48), che, nella specie, non puo’ non consistere nello stato d’insolvenza. Va inoltre aggiunto che subordinare la punibilità di tali reati ad un previo intervento del giudice fallimentare, rischia di consentire l’intervento del giudice penale spesso molto tempo dopo la commissione del fatto, con evidenti rischi non solo di prescrizione, ma anche in ordine alla stessa efficacia dell’intervento penale medesimo. Ciò spiega perché in settori sotto certi profili, simili, come l’illecito penale fiscale, la legge dell’82 ha abolito la c.d. pregiudiziale tributaria (49), anticipando, però, la tutela penale a livello del pericolo astratto. Per altro verso non può però essere sottaciuto il fatto che ancorare la punibilità dei reati di bancarotta alla dichiarazione di fallimento comporta maggiore « certezza », rispetto all’affidare al giudice penale l’individuazione, nel caso concreto, dello stato d’insolvenza. In conclusione, l’idea di un nuovo codice ha sicuramente entusiasmato quanti di coloro prospettavano una sistemazione della legislazione penale più confacente alle esigenze di una società in continua evoluzione. Va però, di contro, sottolineato che ciò ha provocato anche in altri settori un certo grado di scetticismo e disincanto, nell’accogliere cioè l’idea di un nuovo codice penale, in piena età di cosiddetta « decodificazione » con riferimento, come già ribadito, allo spazio occupato dalle norme penali contenute in leggi particolari, rispetto a quelle contenute nella parte speciale del codice, tanto che la legislazione extracodicistica si è appropriata della disciplina penale di interi settori originariamente appartenenti al codice stesso. A fronte, dunque, di un certo pessimismo circa la possibilità che un opera di revisione globale del codice penale possa essere attuata quantomeno in tempi brevi, le forze di coalizione della Sinistra italiana hanno ri(48) Su cui v. limpidamente NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano, 1955, 23 ss. (49) Su cui in particolare v. di nuovo, NUVOLONE, L’abolizione della pregiudiziale tributaria, (1982), ora in ID., Ultimi scritti (1981-1985), (a cura di PISANI), Padova, 1987, 252 ss.; da ultimo, sul tema, in generale, GROSSO, Quale diritto penale tributario per gli anni novanta, in questa Rivista, 1995, 1003 ss.


— 538 — tenuto più razionale e organico, proporre spunti di riforma legati ad argomenti specifici, auspicando, cioè, la modifica solo di determinati settori del codice penale, particolarmente meritevoli di revisione (50). 7. Il programma di riforma presentato dalle forze di coalizione dell’‘‘Ulivo’’, del 1995. — Il problema della giustizia e delle sue disfunzioni è problema di ordine politico che necessita preliminarmente di individuare gli obiettivi e poi gli strumenti tecnici più adatti per conseguirli. In tale prospettiva le forze di coalizione dell’Ulivo hanno presentato il 22 settembre 1995 degli « Appunti per un dialogo sulla Giustizia con gli utenti e gli operatori » (51), evidenziando le disfunzioni del sistema giustizia, e concretizzando gli obiettivi di riforma indicati in sede politica. Circa i profili di riforma della parte generale del codice penale, che vengono considerati come maggiormente urgenti e che ritroviamo anche nello Schema di legge-delega, vi sono: il recupero del principio di personalità della responsabilità penale, ex art. 27, comma 1, della Costituzione, riconoscendo così la centralità del principio di colpevolezza; una maggiore specificazione della disciplina del concorso di persone nel reato, per quanto in particolare concerne la distinzione tra concorso nel reato e reato associativo; introduzione di sanzioni alternative alla pena detentiva, considerata come extrema ratio; possibilità di introdurre la responsabilità penale della persona giuridica. Circa quest’ultimo punto, nell’ambito del diritto penale economico, va vista con favore la proposta d’introduzione di una responsabilità diretta della persona giuridica, di cui però va stabilito se debba avere la forma di una responsabilità penale, o soltanto amministrativa, o addirittura un tertium genus, nel senso cioè, di un c.d. diritto punitivo, sui generis (52). Il progetto dell’Ulivo, però, nell’ambito di tale settore, lascia anche una zona d’ombra, costituita dalla mancata proposta d’introduzione della cosiddetta « infedeltà patrimoniale », che punisca gli abusi del patrimonio sociale. (50) Su cui v. il celebre volume di IRTI, L’età della decodificazione, 3a, Milano, 1989. (51) Cui è seguito, il 10 ottobre, Coalizione dell’Ulivo, Indicazioni per un programma di riforme della Giustizia, raccolte ed elaborate a cura di FLICK, Roma, 1985, ed ora anche in ID., Giustizia vera per un paese civile, Casale Monferrato, 1996. (52) In argomento, da ultimo ed autorevolmente TIEDEMANN, La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto comparato, in questa Rivista, 1995, 615 ss.; nonché HEINE, Die Strafrechtliche Verantwortlichkeit von Unternehmen, Baden-Baden, 1995; va, infine, segnalato il recentissimo Convegno italo-francese su « La responsabilità penale delle persone giuridiche », Siena, 25-26 maggio 1996 (atti in corso di pubbl.), in cui si è discussa, in particolare, la scelta, operata dal nuovo c.p. francese del ’94, di prevedere, accanto alla responsabilità delle singole persone fisiche, anche una responsabilità penale diretta della persona giuridica. Circa questo problema nel diritto statunitense, v. DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa, in questa Rivista, 1995, 88 ss.


— 539 — Le indubbie difficoltà di tipizzare una fattispecie di infedeltà (53), non possono però far tralasciare del tutto l’opportunità di prospettare l’introduzione anche in Italia di una norma, che, al pari del par. 266 del codice penale tedesco (54), preveda la punibilità degli amministratori societari, che abusano del patrimonio sociale, al di fuori dell’appropriazione indebita. Circa ulteriori settori della parte speciale, le riforme più urgenti, per il programma dell’Ulivo, riguardano la disciplina dei reati contro la Pubblica Amministrazione. Emerge in primo luogo il reato di abuso di ufficio, che il Progetto dell’Ulivo ritiene urgente riformare, nella prospettiva di una distinzione tra illecito solo amministrativo, ed abuso penalmente rilevante; distinzione che non va affidata solo alla valutazione dell’elemento soggettivo, come purtroppo oggi in realtà avviene (55). Il nuovo delitto di abuso ricomprende infatti attualmente anche il vecchio (e solo « formalmente » abrogato) peculato per distrazione, in relazione al quale si poneva il problema della rilevanza di condotte « distrattive » che creavano profitti a terzi, senza tuttavia danneggiare la Pubblica Amministrazione. Rischiano, pertanto, di risultare ancora punibili, dunque, sia pure sotto la specie del delitto di cui all’art. 323 c.p., anche quelle forme di abuso in cui il realizzarsi dell’ingiusto profitto a vantaggio di terzi, non risulti pregiudizievole per la Pubblica Amministrazione. La riformulazione del delitto di abuso, comporta inoltre l’indubbio problema di continuare a sanzionare, penalmente, un illecito di chiara matrice amministrativistica, ad onta del consolidato rifiuto del c.d. carattere sanzionatorio del diritto penale (56). Due sono allora le strade percorribili: o eliminare del tutto il delitto di abuso dal novero dei reati contro la Pubblica Amministrazione, concentrando le risposte penali solo su fattispecie quali il peculato per appropriazione e le varie forme di corruzione, come proposto anche in un recente progetto di legge (57), oppure, meno radicalmente, restringere comunque l’ambito del delitto in questione, magari aggiungendo l’estremo del danno alla P.A., come era nella originaria formulazione progettuale della norma in questione, anche se va replicato come un tale estremo, potendosi risol(53) Segnalate, in particolare, da FLICK, Dal pubblico servizio all’impresa banca: ritorno al futuro, in Riv. soc., 1987, 273 ss., e, quivi, 345 ss. (54) Su cui V., di recente, WEGENAST, Mißbrauch und Treubruch, Berlin, 1994. (55) Così, quasi testualmente, Coalizione dell’Ulivo, op. cit., 52. (56) Su cui v. già le critiche di ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, 7a, Milano, 1975, 35 ss. (57) Presentato alla Camera dei deputati alla fine del 1995 dall’On. Novelli.


— 540 — vere in un c.d. danno funzionale, non risulta di facile accertamento probatorio (58). A tal proposito un più interessante modello potrebbe invece essere costituito dalla corrispondente fattispecie del codice penale tedesco, ove risulta con chiarezza la lesione al bene dell’imparzialità della Pubblica Amministrazione, e quindi assai più « determinata » l’ipotesi criminosa. La condotta di abuso, infatti, che può essere commessa, oltre che genericamente da un pubblico funzionario, anche da un giudice o da un arbitro, assume penale rilevanza solo se ciò avviene « nel trattare o nel decidere una questione giuridica » (59). L’ipotesi codicistica tedesca, sicuramente più ristretta e determinata di quella italiana, offre pertanto un orientamento di sicuro interesse, sempre se si voglia evitare la prospettiva abolizionista, che infatti potrebbe suscitare qualche perplessità a livello di tenuta general-preventiva del sistema (59-bis). L’Ulivo propone inoltre, da un lato, l’introduzione della c.d. « concussione ambientale », dall’altro di abolire completamente il delitto di concussione, per far rientrare la relativa fattispecie nell’estorsione, aggravata dalla qualifica pubblicistica. La proposta appare però per certi versi intimamente contraddittoria. Non si può infatti contemporaneamente sostenere il binomio « concussione ambientale », — eliminazione della concussione, a favore dell’estorsione, poiché, ad un’attenta analisi critica, si evince che, perseguendo la (58) Nello stesso senso anche PALAZZO, La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali: un primo sguardo di insieme, in questa Rivista, 1990, 815 ss., e, quivi, 832 ss. (59) In argomento in generale, MAIWALD, Die Amtsdelikte. Probleme der Neuregelung des 28. Abschnitts des StGB, in JS, 1957, 353 ss.; WAGNER, Amtsverbrechen, Berlin, 1975. (59-bis) Al momento di licenziare l’articolo per la stampa, è stata approvata dalla Commissione Giustizia del Senato, in sede deliberante, la riforma dell’abuso d’ufficio. Di essa è sicuramente da salutare con favore sia la delimitazione soltanto all’abuso che provochi un vantaggio patrimoniale, che la conseguente orientazione del reato nel senso dell’offesa, sulla falsa riga, del resto dell’originario Progetto di legge, che successivamente diede luogo alla riforma del ’90 eliminandosi così il riferimento al dolo specifico, che tante discussioni aveva suscitato. Restano, però, talune perplessità, che ci si augura possano essere tenute presenti alla Camera, che sono riassumibili in: a) il riferimento anche alla violazione di norme regolamentari, tenendo conto che può trattarsi anche di meri regolamenti interni; b) la previsione dell’omessa astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto già autonomamente sanzionata dal T.U. in materia comunale e provinciale, e che già sotto il vigore dell’art. 324 c.p. era notoriamente contestato che avesse pure penale rilevanza; c) la sola parziale depenalizzazione dell’abuso di ufficio con finalità non patrimoniali, atteso che la previsione, alternativa al procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale, dell’aver arrecato ad altri un danno ingiusto, sembra mantenere la rilevanza penale anche a quelle forme di abuso, magari dettate da uno scopo di trarre un vantaggio non patrimoniale, che tuttavia arrecano ad altri un danno ingiusto; d) la previsione, infine, di una c.d. aggravante indefinita, che si verifica nei casi in cui il vantaggio e il danno hanno un carattere di ‘‘rilevante gravità’’.


— 541 — via della concussione ambientale, si incentra solo sul pubblico funzionario l’intiero disvalore penale, liberando così il privato proprio nelle ipotesi attualmente piu dubbie di concussione, ovverosia quelle per induzione (60). Con la proposta, invece, di eliminare la concussione a favore dell’estorsione si raggiunge il diverso obiettivo di punire soltanto il pubblico funzionario, laddove abbia agito sul privato con violenza o minaccia, mentre nelle altre ipotesi, comprese, quindi, quelle c.d. di concussione ambientale, dovranno essere applicate le norme sulla corruzione (61). Questa seconda soluzione appare decisamente preferibile, in quanto consente una più equa distribuzione della responsabilità penale, tra pubblico funzionario e privato. 8. Conclusioni. — Al termine di questa breve esposizione di alcune delle questioni nodali relative alla riforma del diritto penale italiano, è opportuno concludere domandandosi perché sino ad oggi la riforma del codice è rimasta ancora sulla carta. Le motivazioni che hanno determinato i riformatori verso la strada di un nuovo codice sono comunque di indubbio rilievo. Va infatti ricordato che a fronte di interventi legislativi sollecitati il più delle volte dall’emergenza criminale, è sempre mancato un organico spirito riformatore. Anche le riforme che hanno creato per lungo tempo dibattiti, come quella riguardante i reati contro la libertà sessuale (62), non sono quasi mai state inquadrate nell’ambito di riflessioni più ampie su tutto il sistema penale, come invece era auspicabile. Le più recenti riforme, sia in campo penale, che processuale, sono poi state quelle riguardanti la lotta alla criminalità organizzata, dunque di nuovo caratterizzate dall’emergenza e da gravi situazioni di degenerazione sociale (63). Il coacervo di disposizioni penali, fra norme vecchie e nuove, a volte (60) Si mostra, invece, favorevole a tale soluzione, CONTENTO, La riforma ‘‘minima’’ della concussione e della corruzione, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1995, 726 ss. (61) In tal senso FORTI, La corruzione del pubblico amministratore, Milano, 1992; e L’iniziativa Di Pietro su Tangentopoli, ecc., cit. Bisognerà comunque attendere anche gli esiti cui perverrà la Commissione ministeriale, insediata per studiare le linee più appropriate di riforma del delitto di cui all’art. 323 c.p. (62) Recentemente, e finalmente, nel 1996 diventata legge: sul tema, in generale, sia pure pre-riforma, cfr. BERTOLINO, Libertà sessuale e tutela penale, Milano, 1993. (63) Culminate com’è noto, nel 1982 con l’introduzione, nel codice penale, dell’art. 416-bis, cioè l’associazione di tipo mafioso, su cui v. ad es., SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, 4a, Padova, 1993, dalla quale è seguita un’ulteriore legislazione, sia in campo penale, che processuale, che in materia di misure di prevenzione, fra cui spicca la recente l. 7 agosto 1992, n. 356.


— 542 — in palese antinomia tra loro (64), rendeva dunque necessaria una codificazione organica. Da qui il recente tentativo, che, in realtà, è l’ultimo in ordine di tempo (65), di elaborare un progetto di nuovo codice penale. Esso quindi, pur con i suoi limiti, non può che considerarsi comunque un utile punto di partenza, nella prospettiva, forse troppo ambiziosa, ma sicuramente più coerente, di costruire un nuovo volto all’intiero diritto penale, di una società democratica. L’alternativa a questa tendenza generale di politica criminale, è, come si è visto, quella invece di intervenire « per settori »: quest’ultima ha il pregio sicuro di una maggiore possibilità di incidere, anche in tempi brevi, sulla legislazione, anche se, per altro verso, presenta il limite di una conseguenziale mancanza di organicità. Quale di codeste due opzioni di politica criminale debba avere il sopravvento, è difficile a dirsi da un punto di vista rigorosamente scientifico, giacché qui influiscono anche fattori esterni, quali, soprattutto, la stabilità, o meno, del quadro politico di riferimento, di cui il giurista non può non tener conto ed esserne, a sua volta, influenzato, anche nella elaborazione delle nuove strategie di politica penale. ADELMO MANNA Associato di Istituzioni di diritto e procedura penale nell’Università di Bari

(64) Tanto che giustamente si è parlato talvolta di politica criminale « schizofrenica ». In generale, sul tema, PULITANÒ, voce Politica criminale, in Enc. dir., XXXIV, 1985, 73 ss. (65) Per la « storia » dei precedenti tentativi di riforma del c.p. italiano, v. ora VASSALLI, Presentazione, ecc., cit., 1 ss. Va, infine, rilevato che il « Progetto Pagliaro » ha costituito la base per l’elaborazione di un autonomo Disegno di Legge, il n. 2038, del 1995, redatto dai membri del « Comitato per la riforma del codice penale », istituito presso la Commissione Giustizia del Senato nel dicembre del 1994. Tale Disegno di Legge, che in alcune parti, diverge dal precedente « Progetto Pagliaro », ed è limitato alla riforma della sola Parte generale del codice penale, presenta, però un’importante novità: si è abbandonata la strada del Disegno di legge-delega, superando, così, le riserve che abbiamo in precedenza riscontrato, per percorrere quella del procedimento legislativo ordinario, come segnalano MARINUCCI e DOLCINI nella nota di presentazione. Il testo del Disegno di Legge trovasi ora pubblicato in questa Rivista, 1985, 927 ss., con, appunto, nota di presentazione di MARINUCCI e DOLCINI.


L’ERRORE DEL NON IMPUTABILE FRA ESEGESI, DOGMATICA E POLITICA CRIMINALE (*)

SOMMARIO: 1. L’occasione per la riconsiderazione dell’argomento ed i suoi motivi di interesse vecchi e nuovi. — 2. I termini del problema nell’ordinamento italiano. — 3. Il confronto con la soluzione tedesca. — 4. La recente teorizzazione dell’unitarietà della dogmatica penalistica al di là dei singoli ordinamenti positivi: considerazioni critiche. — 5. Una rilettura del fatto del non imputabile. — 6. L’intervento di un altro soggetto nella determinazione o nello sfruttamento dell’errore del non imputabile. — 7. Prospettive di politica criminale.

1. Nell’ampia e stimolante produzione dell’insigne Maestro che commemoriamo, tanti e di tale momento sono i motivi di riflessione, da rendere, oltre che ardua, davvero riduttiva la scelta di un argomento per uno studio, che ne segnali la vitalità dell’apporto per le nostre discipline. Ho allora ritenuto preferibile prendere spunto dall’occasione di più diretto incontro personale, quando mi invitò a trattare il tema dell’imputabilità in relazione al consumo di stupefacenti (1). Nel prepararmi a quell’incontro, di grande stimolo fu la sua monografia su « Fatto del non imputabile e pericolosità », tutta sorretta da un vibrante appello ad una dogmatica non « formalistica », ma piuttosto ancorata ai problemi sostanziali ed alle esigenze di contenuto, e dunque non appiattita sulla mera esegesi (2). A rileggerlo oggi, quello studio si segnala per un profilo ulteriore, vale a dire l’attenzione per un esame comparatistico dei problemi, che ap(*) Comunicazione presentata al Convegno « Il diritto penale degli anni ‘90 — In ricordo di Franco Bricola » (Università degli Studi di Bologna, 18-20 maggio 1995), i cui atti sono in corso di pubblicazione. (1) Il seminario si inseriva nel quadro di un più ampio ciclo di incontri sulla nuova legge in materia, che il prof. Bricola aveva organizzato con una tempestività proporzionale alla sua sempre viva curiosità intellettuale. I lavori, svoltisi presso l’Istituto di applicazione forense di Bologna, sono stati raccolti in La riforma della legislazione penale in materia di stupefacenti, BRICOLA/INSOLERA (cur.), Padova, 1991. (2) BRICOLA, Fatto del non imputabile e pericolosità, Milano, 1961, 4 s. Già nel 1961 affioravano dunque alcuni filoni di pensiero, che avrebbero poi trovato la loro piena espressione nella fondamentale voce sul reato del 1973 (Nov. dig. it., vol. XIX, 7 s.) e nel più recente contributo sui rapporti fra dogmatica e politica criminale (in questa Rivista, 1988, 3 s.). Da segnalare pure che il primo studio ricordato anticipava motivi di crisi della dogmatica tradizionale che sarebbero poi « esplosi » un decennio dopo: cfr. nel dibattito internazionale


— 544 — pare ancora esemplare sul piano metodologico: l’ampia panoramica sulla ricca elaborazione teorica tedesca è infatti collegata alla preventiva indicazione della differente soluzione normativa, contenuta nel codice penale tedesco in materia di presupposti per l’applicabilità delle misure di sicurezza. Di particolare interesse è risultato il confronto concernente un argomento problematico per entrambi gli ordinamenti: la rilevanza dell’errore del non imputabile. Proprio a tale tema non sembra superfluo dedicare una ulteriore attenzione, non solo per l’interesse che esso continua a rivestire sul piano della disciplina giuridica e della struttura stessa del reato, ma anche in relazione ad alcune questioni di ancor più vasto respiro e di recente emersione. Sullo sfondo del particolare problema non è difficile scorgere l’impegnativo dilemma fra naturalismo e normativismo nella costruzione degli istituti penalistici (3); ma anche un interrogativo in qualche modo radicale, in quanto relativo al senso ed ai limiti della stessa dogmatica penale: si tratta davvero di una disciplina pur sempre ancorata alla particolarità dei singoli sistemi giuridici nazionali o essa va piuttosto (ri)pensata come una categoria del pensiero scientifico che travalica i confini dei molteplici ordinamenti positivi? Il quesito è sempre stato connesso alla fondamentale e sempre aperta problematica concernente i caratteri tipici della scienza penalistica (4). Esso tuttavia rappresenta oggi il punto di emersione più evidente del tendenziale contrasto fra due forze compresenti: per un verso, la radicata visione della dogmatica come scienza che si sviluppa per successive astrazioni dalle norme positive di un particolare ordinamento (5), e, per altro verso, l’attuale intensificarsi delle occasioni di incontro e di scambio culturale fra studiosi diversi per provenienza geografica, formazione scientifica ed orientamento di pensiero, dove sempre più si avverte l’esigenza di delineare un comune quadro di riferimento teorico (6). ROXIN, Kriminalpolitik und Strafrechtsreform (1970), tr. it. (di MOCCIA) sulla ed. 1973, Politica criminale e riforma del diritto penale, Napoli, 1986; e GIMBERNAT ORDEIG, Hat die Strafrechtsdogmatik eine Zukunft?, in ZStW, 1970, 379 s. (3) Per una recente riconsiderazione del problema, in relazione al punto chiave della causalità, v. PUPPE, Naturalismus und Normativismus in der modernen Strafrechtsdogmatik, in GA, 1994, 297 s. Cfr. anche PAGLIARO, Imputazione oggettiva dell’evento, in questa Rivista, 1992, 784 s. Si tratta peraltro di un nodo teorico risalente: cfr. ad es. THIERFELDER, Normativität und Wert in der Strafrechtswissenschaft unserer Tage, 1934. (4) Non a caso, la problematica affiora più volte nel lucido saggio di PULITANÒ, Quale scienza del diritto penale?, in questa Rivista, 1993, 1210 s. (5) Cfr. per esempio PARESCE, Dogmatica giuridica, Enc. dir., VI, 1964, 678 s. Fra i penalisti, e sempre a titolo esemplificativo, MAGGIORE, Principi di diritto penale, P.G., Bologna, 19372, 43 s.; JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts, A.T., Berlin, 19884, 36. (6) È significativo che l’idea del carattere unitario della dogmatica penale sia stata teorizzata in occasione di importanti colloqui internazionali: v., ancora in forma implicita, HIRSCH, Die Entwicklung der Strafrechtsdogmatik in der Bundesrepublik Deutschland in


— 545 — I fattori che alimentano l’interesse della questione non sono del resto esclusivamente riconducibili ad una particolare « temperie spirituale », in quanto la tendenza delle molteplici teorie penalistiche a divenire sempre più omologhe ad un modello dominante è sorretta da molteplici spinte, di diversa natura ed operanti a vari livelli. Per accennare solo alle principali, si pensi in primo luogo al contesto complessivo dei nostri sistemi giuridici, avviati, sia pur fra non poche difficoltà ed incertezze, verso una progressiva armonizzazione giuridica a livello europeo, il che al contempo accresce l’interesse a porre le basi all’idea di un futuro, comune diritto penale (7); inoltre, l’indicato orientamento non può non risentire della tradizionale attenzione all’elaborazione teorica tedesca, che ha gradualmente assunto un ruolo guida nella dogmatica penalistica (8); e non ultima, vi è pure l’irrisolta questione degli spazi da riconoscere alle nozioni ontologicamente fondate, da cui si fanno derivare categorie dogmatiche definite o in modo affatto indipendente dai contesti normativi di riferimento (9), o grundsatzlicher Sicht, in Strafrecht und Kriminalpolitik in Japan und Deutschland, HIRSCH/WEIGEND (Hrsg.), Berlin, 1989, 74; più nettamente, ID., Die Stellung von Rechtfertigung und Entschuldigung im Verbrechensystem aus deutscher Sicht, in Rechtfertigung und Entschuldigung, III, ESER/PERRON (Hrsg.), Freiburg, 1991, 54 (ed in trad. it. di FORNASARI, La posizione di giustificazione e scusa nel sistema del reato, in questa Rivista, 1991, 785). Criticamente, invece, ad es. MARINUCCI, Rechtfertigung und Entschuldigung im italienischen Strafrecht, in Rechtfertigung und Entschuldigung, cit., 67; e MAIWALD, in SIEGMANN, Diskussionsbericht, ivi, 384. Di quest’ultimo autore v. anche ora Criteri-guida per una teoria generale del reato, 7 s. (datt.), relazione al Convegno internazionale per il quale il presente contributo è stato preparato. Un punto di vista intermedio è stato espresso da ESER, Zusammenfassende Betrachtungen, in Rechtfertigung und Entschuldigung. Ostasiatisch-deutsches Strafrechtskolloquium Tokio 1993, IV, ESER/NISHIHARA (Hrsg.), Freiburg, 1995, 445 s. (7) Da ultimi DANNECKER, Strafrecht der europäischen Gemeinschaft, in Strafrechtsentwicklung in Europa 4, ESER/HUBER (Hrsg.), Freiburg, 1995, 1990 s.; VÖGEL, Wege zu europäisch-einheitlichen Regelungen im allgemeinen Teil des Strafrechts, in JZ, 1995, 331; TSOLKA, Der allgemeine Teil des europäischen supranationalen Strafrecht, Frankfurt a. M. u. a., 1995; Europäische Einigung und Europäisches Strafrecht, SIEBER (Hrsg.), Köln, 1993; TIEDEMANN, Europäisches Gemeinschaftsrecht und Strafrecht, in NJW, 1993, 23. Sullo stato di realizzazione di un diritto penale europeo, fondato sulle comuni matrici culturali, cfr. da noi PAGLIARO, Limiti all’unificazione del diritto penale europeo, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1993, 199 s. (8) Il dato può considerarsi notorio; cfr. comunque, ad es. GIMBERNAT ORDEIG, Hat die Strafrechtsdogmatik eine Zukunft?, cit., 382, 406; LAHTI, Criminal Sciences and the Finnish Criminal Code Reform - Die Kriminalwissenschaften und die Gesamtreform des finnischen StGB, in Criminal Law Theory in Transition - Strafrechtstheorie in Umbruch, LAHTI/NUOTIO (Edts.) Helsinki, 1992, 8 s.; e da noi VASSALLI, Diritto penale, in Cinquant’anni di esperienza giuridica in Italia, Milano, 1982, 439 s. (9) Nel modo più chiaro HIRSCH, Gibt es eine national unabhängige Strafrechtswissenschaft?, in Festschrift für Spendel, Berlin - New York, 1992, 43 s. Cfr. anche ARM. KAUFMANN, Das Übernationale und Überpositive in der Strafrechtswissenschaft, in Gedächtnisschrift für Tjong, Tokio, 1985, 100 s.; KÜPPER, Grenzen der normativierenden Strafrechtsdogmatik, Berlin, 1990, 34 s., 44 s.


— 546 — comunque pur sempre condizionate dalla « natura delle cose », quale metalivello preordinato rispetto alla dimensione strettamente positiva (10). Per ciascuna di queste componenti occorrerebbe verificare analiticamente le rispettive cause, considerare il particolare grado di resistenza ai vincoli positivi di un concreto ordinamento, prevedere i possibili sviluppi futuri. Qui dovremo tuttavia limitarci a concentrare l’attenzione su un solo elemento di riflessione, invero illuminante per l’intera questione: proprio un corretto impiego del metodo comparatistico può costituire un forte antidoto contro le surricordate tendenze, che non sembrano affrancarsi dal rischio di scambiare il diritto vigente con quello ideale, rinnovando così la risalente inversione metodologica di matrice giusnaturalistica (11). La fruttuosità dell’apporto comparatistico sarà verificata proprio in relazione alla specifica problematica dell’errore del non imputabile, pur senza trascurare i più ampi significati teorici accennati. 2. La rilevanza dell’errore in relazione ai soggetti non imputabili è un tema che, se non può fregiarsi del carattere della novità, mantiene, come si accennava all’inizio, un sicuro interesse teorico, anche per i riflessi sulla più generale sistematica del reato. Esso infatti è necessariamente connesso alla relazione che si instaura fra il requisito dell’imputabilità e le altri componenti del reato, in specie la colpevolezza, ma ancor prima la stessa tipicità soggettiva delle varie fattispecie. Per di più, benché la problematica sia stata prevalentemente considerata con riguardo alla rilevanza dell’errore di fatto del soggetto non imputabile, non va trascurato che possono pure verificarsi situazioni in cui l’errore del non imputabile (10) Anche un sostenitore dell’indirizzo, che, in critica a quello richiamato nella nota precedente, si appella « neo-normativistico » e si richiama ad un sistema penale fondato sulla « razionalità di scopo » dei valori propri del sistema penale, individua nel sistema concettuale della dogmatica tedesca uno dei più importanti « beni d’esportazione » della scienza giuridica tedesca: SCHÜNEMANN, Einführung in das strafrechtliche Systemdenken, in Grundfragen des modernen Strafrechtssystems, SCHÜNEMANN (Hrsg.), Berlin, 1984, 1. Lo stesso autore ha specificato che l’indirizzo teorico al quale si richiama non intende trascurare la dimensione ontologica delle nozioni penalistiche, in quanto, secondo la prospettiva neokantiana, le questioni valorative possono porsi solo all’interno di tale contesto di fondo: ID., Strafrechtssystem und Kriminalpolitik, in Festschrift für R. Schmitt, Tübingen, 1992, 117 s., 131. In un analogo ordine di idee v. da ultimo SILVA SANCHEZ, Sobre la posibilidades y límites de una dogmática supranacional del derecho penal, in Fundamentos de un sistema europeo del derecho penal, SILVA SANCHEZ (ed. esp.) SCHÜNEMANN/ DE FIGUEIREDO DIAS (coords.), Bosch, 1995, 15. (11) Contro una passiva « recezione della dogmatica tedesca », anche in relazione ad una corretta apertura comparatistica dei nostri studi, cfr. PEDRAZZI, L’apporto della comparazione alle discipline penalistiche, in L’apporto della comparazione alle scienze giuridiche, Milano, 1980, 173 s. Per un tentativo specifico di ricorrere al metodo comparatistico al fine di contrastare i rischi per un verso di formalismo e per altro verso di mera importazione di modelli stranieri, sia consentito richiamare le pagine iniziali del mio studio, La responsabilità penale dello spacciatore per la morte del tossicodipendente, Milano, 1984.


— 547 — concerne cause di esclusione della punibilità: si tratta dunque di precisare la portata non solo dell’art. 47 c.p., ma anche dell’art. 59 ult. comma c.p., quando sia non imputabile il soggetto che si trova nelle situazioni rispettivamente contemplate dalle due norme. I termini della questione nel diritto italiano sono noti e per brevità basterà sintetizzarli in due contrastanti impostazioni. Per la prima, la distinta collocazione sistematica dell’imputabilità operata dal codice penale vigente, e specialmente i riferimenti alla qualificazione come doloso, colposo o contravvenzionale del fatto commesso dal non imputabile, contenuti negli art. 222 e 224 c.p. per l’applicabilità delle misure di sicurezza, ostacolano la considerazione dell’imputabilità come concetto di specie rispetto a quello generale di reato, e dunque come presupposto o elemento, la cui presenza sia necessaria per l’integrazione di quest’ultimo (12). Una volta sganciato il requisito della capacità di intendere e di volere dalla struttura del reato, per collocarlo fra gli status personali del soggetto al fine di indicarne la capacità di pena, non si vedono ostacoli a considerare l’erronea rappresentazione della situazione in cui il soggetto ha agito come un generale fattore di esclusione della responsabilità ai sensi dell’art. 47, il cui disposto si applica così indistintamente tanto al soggetto imputabile quanto a quello non imputabile (13). Da ciò consegue, in primo luogo, la limitazione della responsabilità ai soli casi in cui il reato è punibile a titolo di colpa, in virtù della norma prevista dal secondo comma dello stesso articolo, ed inoltre l’inapplicabilità della misura di sicurezza, pur in presenza di pericolosità sociale del non imputabile; residuerebbe unicamente l’obbligo di comunicare all’Autorità di pubblica sicurezza la relativa sentenza di proscioglimento, dovuta alla causa di non imputabilità (art. 222). Si rileva, di contro, che tale impostazione trascura indebitamente lo stretto nesso sostanziale fra imputabilità e rimprovero soggettivo per il fatto compiuto, in virtù del quale invece l’imputabilità non può che essere un requisito interno alla colpevolezza (14) o, anche se solo in termini di presupposto di quest’ultima, un elemento comunque attinente al reato (15). In specie, a meno di calpestare lo « stretto legame fra dato on(12) Per tale posizione, fra i molti, cfr. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, P.G., Conti (cur.), 199413, 296 s. (13) Così ad es. CRESPI, Imputabilità, Enc. dir., XX, 1970, 769. In giurisprudenza, Cass. 9 novembre 1967, in Foro it., 1968, II, 233. (14) Secondo la « classica » concezione normativa della colpevolezza, a partire da FRANK, Über den Aufbau des Schuldbegriffs, Giessen, 1907, 9. Da noi ad es. MUSOTTO, Colpevolezza dolo e colpa, Palermo, 1939, 158 s.; e più di recente DOLCINI, La commisurazione della pena. La pena detentiva, Padova, 1979, 262 s.; PADOVANI, Diritto penale, Milano, 19953, 228, 232 s. (15) Fra i diversi sostenitori dell’imputabilità come presupposto della colpevolezza


— 548 — tologico e normativo » (16), si deve riconoscere che un soggetto non imputabile non potrebbe mai realizzare il fatto con il dolo e la colpa propri di colui che sia invece capace di intendere e di volere. Se riferiti agli incapaci, quegli stati soggettivi non sarebbero più espressione di riprovevolezza, in quanto la situazione di non imputabilità li sottoporrebbe ad una sorta di « cura dimagrante », svuotandoli del significato di volontaria aggressione ai beni tutelati o, almeno, di trascuratezza nei confronti degli stessi. Residuerebbero così nozioni da intendere sul piano meramente naturalistico, in termini di direzione delle proprie forze verso un determinato risultato o, rispettivamente, come semplice deviazione obiettiva dallo standard di diligenza (17). In tale, più ristretta, versione, gli elementi in questione sarebbero comunque sufficienti ad integrare i requisiti posti dai ricordati art. 222-224 per l’applicabilità delle misure di sicurezza rispettivamente previste dalle due norme. In relazione alla specifica questione dell’errore del non imputabile, per la concezione ora in esame esso rileva solo in quanto sia indipendente dalla causa di non imputabilità, e dunque avrebbe potuto verificarsi ove nelle stesse circostanze avesse agito un soggetto capace; invece, quando fra le due cause di esclusione della responsabilità penale è dato accertare un nesso di derivazione funzionale, la mancanza del « fatto previsto come reato » doloso o colposo, in presenza dello stato di errore sul fatto ex art. 47, lascerebbe intatta la pericolosità sociale indiziata dal compimento dell’atto illecito, con la conseguente possibilità di applicare le misure di sicurezza adeguate. In altre parole, qui lo stato di non imputabilità prevale sulla disciplina dell’errore, la cui rilevanza si considera assorbita dal primo (18). cfr. SCARANO, La non esigibilità nel diritto penale, Milano, 1948, 45; MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1979, 263, NUVOLONE, La concezione giuridica italiana della colpevolezza, in questa Rivista, 1976, 5; PETROCELLI, La colpevolezza, Padova, 19953, 19 s. (16) BRICOLA, Fatto del non imputabile, cit., 6, che, a proposito dell’altro orientamento, parla di « attaccamento feticistico alla lettera della legge ». Secondo MARINUCCI, Il reato come azione. Critica di un dogma, Milano, 1971, 165 nota 109, (pur propugnatore in generale di una « sistematica teleologica »: 164 s.) l’argomentazione « formalista » dell’unicità delle nozioni di dolo e di colpa non sarebbe priva di profili sostanziali, in quanto considererebbe comunque lo scopo delle misure di sicurezza. L’applicabilità di queste è infatti ancorata alla esistenza di un pericolosità non solo oggettiva, per tipologie di reato, ma anche ad indici soggettivi, quali appunto il dolo e la colpa. (17) Oltre a BRICOLA, op. cit., 109 s., specie 113, 116, 183 s., v. anche ad es. PETROCELLI, op. cit., 20; SANTAMARIA, Colpevolezza, Enc. dir., VII, 1961, 656. Più di recente DOLCINI, La commisurazione, cit., 264 s.; E. GALLO, Concorso di persone e reati associativi, in Rass. giust. mil., 1983, 15 s.; PADOVANI, Diritto penale, cit., 233. (18) In tal senso ROMANO, in ROMANO/GRASSO, Commentario sistematico al cod. pen., II, Milano, 1991, pre art. 85 n. 3, 6, 7-11, p. 2 s.; BERTOLINO, L’imputabilità ed il vizio di mente nel sistema penale, Milano, 1990, 562; FIORE, Diritto penale, P.G. 1, Torino, 1993, 396 s. (limitatamente però ai soli fatti incriminati anche nella forma colposa).


— 549 — Come esempi dei due tipi di errore si può pensare all’infermo di mente che spari su un altro, scambiandolo nel primo caso per un robot in procinto di assalirlo, e nel secondo ritenendo invece, nel corso di una battuta di caccia, di sparare contro un capo di selvaggina, senza peraltro che l’infermità interferisca su tale errore di esecuzione (19). Evidenti sono nei due orientamenti ricordati i significati più generali: il primo si attiene rigorosamente ad una lettura testuale delle norme richiamate, soprattutto l’art. 47 e gli art. 222, 224, oltre che l’art. 203 con il suo generale riferimento al fatto preveduto dalla legge come reato quale requisito, accanto alla pericolosità sociale, per l’applicabilità delle misure di sicurezza. Il secondo, nel denunciare il formalismo dell’altra impostazione, fa valere invece l’esigenza sostanziale di rispettare il necessario substrato naturalistico delle nozioni di dolo e di colpa, il cui disvalore verrebbe svuotato in mancanza della capacità del soggetto agente di apprezzare il disvalore della condotta tenuta. Si fa inoltre valere l’argomento teleologico, secondo cui la ratio stessa della norma disposta dall’art. 222 sarebbe vanificata, ove nella prima situazione il soggetto potesse sfuggire al ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, adducendo l’errore come causa di incompletezza del reato presupposto. Sarebbe però erroneo fermarsi a tale contrapposizione e ritenere che l’opposizione fra normativismo e naturalismo si rifletta rigidamente nella divisione dei due campi teorici ricordati. Con riguardo infatti alla disciplina dell’errore, proprio la sua differenziata rilevanza in relazione al nesso con la causa di imputabilità non può considerarsi mero riflesso di una realtà naturalistica, risultando piuttosto da considerazioni di natura normativa, e specificamente di razionalità politico-criminale. Ciò risalta soprattutto quando l’errore sia stato condizionato non da una qualsiasi causa di esclusione dell’imputabilità, ma più in particolare dall’assunzione di sostanze alcooliche o stupefacenti: in tali casi, la rilevanza dell’errore per escludere la stessa responsabilità penale si fa dipendere da una indagine specifica. Oltre al normale accertamento del collegamento con la causa di imputabilità, si tratta infatti di verificare se il soggetto avrebbe potuto evitare la precedente assunzione delle sostanze che gli hanno poi falsato la rappresentazione del mondo circostante. Quando tale precedente momento non sia dunque ascrivibile al fortuito o comunque inevitabile, le esigenze teleologiche che inducono a considerare esistente la capacità d’intendere e di volere, nonostante la contrarietà al dato naturalistico, A conclusioni non dissimili perveniva l’opinione, che considerando l’imputabilità un antecedente logico della responsabilità, negava ogni autonoma rilevanza all’errore del non imputabile: FROSALI, L’errore nella teoria del reato, Roma, 1933, 242 s., 433 s. Cfr. pure SANTUCCI, Errore (dir. pen.), Enc.dir., XV, 1966, 280. (19) Esemplificazione in PAGLIARO, Principi di diritto penale, P.G., Milano, 19934, 397 s.


— 550 — si riverberano sullo stesso dolo, non riconoscendosi alcun effetto discolpante alla situazione di travisamento della realtà in cui versi l’assuntore della sostanza. Si svela così che la « finzione » di imputabilità, come è usualmente considerata la pur contrastata disciplina dell’art. 92 c.p. (20), alla luce delle sue ragioni sostanziali si configura quale eccezione al generale principio di contemporaneità fra componenti soggettive dell’illecito e sua realizzazione materiale; e ciò, come si è visto, con riguardo non solo alla capacità d’intendere e di volere, ma allo stesso dolo. Analogamente, anche la colpa è interessata dalla segnalata anticipazione del momento di rilevanza: più che il momento della materiale presa di contatto con il bene offeso, rileva piuttosto quello a partire dal quale si è creato un rischio non adeguato alle caratteristiche della particolare condotta rispetto al verificarsi dell’evento (21). Come ben esemplificato dalla specifica problematica dell’errore cagionato da situazioni di incapacità autoprocurata, non si tratta dunque di privilegiare unilateralmente l’una o l’altra delle due visuali, naturalistica o normativa, quanto piuttosto di trovare il contemperamento migliore di quei due punti di vista. Tale obiettivo tuttavia assume un diverso significato in relazione agli ambiti in cui è posto: rispetto al quadro positivo, si tratta di mettere a fuoco la soluzione che soddisfi al meglio il substrato naturalistico delle nozioni implicate dal testo delle norme, compatibilmente al perseguimento delle esigenze teleologiche in esse obiettivate (22). Altra ricerca è invece quella concernente la prospettazione di una migliore soluzione normativa al problema specifico dell’errore del non imputabile e più in generale ai rapporti fra imputabilità e colpevolezza. Qui in effetti, più che da una dogmatica costruita sviluppando considerazioni generali su un modello normativo ideale, ad assumere rilievo prevalente devono essere le considerazioni di politica criminale. Proprio in tale non facile opera di valutazione un contributo insostituibile è offerto dall’esperienza di altri sistemi penali, le cui soluzioni a problemi analoghi costitui(20) Su tale qualificazione v. sopratutto CRESPI, Il problema della colpevolezza nell’ubriachezza volontaria e colposa, in Riv. it. dir. pen., 1950, 744; BRICOLA, Finzione di imputabilità ed elemento soggettivo nell’art. 92 primo comma c.p., in questa Rivista, 1961, 486 s. (21) Per un approfondimento di questa prospettiva sia consentito rinviare ad un precedente lavoro: MILITELLO, Modelli di responsabilità per incapacità procurata e principio di colpevolezza, in Responsabilità obiettiva e giudizio di colpevolezza, STILE (cur.), Napoli, 1989, 483. In particolare, sulla rilevanza del momento di superamento del rischio adeguato ai fini del giudizio di colpa cfr. ID., Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988, 156 s. (22) Su tale canone metodologico cfr. amplius, MILITELLO, Imputabilità ed assunzione di sostanze stupefacenti, in La riforma della legislazione penale in materia di stupefacenti, BRICOLA/INSOLERA (cur.), cit., 139 s. In una prospettiva non dissimile cfr. pure BALBI, Infermità di mente ed imputabilità, in questa Rivista, 1991, 847 s., 860 s.


— 551 — scono un indubbio arricchimento degli strumenti teorici e legislativi utilizzabili dal giurista abituato a non guardare oltre la siepe dei propri confini normativi. Occorre certo aver cura di adottare le opportune cautele contro i rischi di una comparazione giuridica solo astratta, cioè appiattita esclusivamente sulla riflessione teorica e la costruzione dei concetti dogmatici (23). A chi però non trascura la complessità dell’esperienza giuridica, con le reciproche interrelazioni fra le sue diverse dimensioni, non può sfuggire che le soluzioni sperimentate in altri ordinamenti, se possono evitare di seguire false piste, prospettando riforme che già altrove hanno manifestato limiti teorici e difficoltà applicative, costituiscono d’altronde uno stimolo a riformare l’ordinamento positivo secondo contenuti che già altrove hanno superato una verifica di concretizzazione. Con riferimento al tema qui considerato, il confronto con l’ordinamento tedesco appare di particolare interesse, in quanto è notoriamente in tale contesto che si è affermata quella concezione normativa della colpevolezza, la quale attribuisce all’imputabilità un preciso ruolo all’interno della struttura del reato ed in particolare della colpevolezza, intesa appunto come concetto normativo. Volgiamo dunque brevemente l’attenzione alla soluzione tedesca del problema. 3. L’ordinamento tedesco ha sempre differenziato il presupposto oggettivo per l’applicabilità delle misure di sicurezza rispetto al reato commesso dal soggetto imputabile. La legge del 1933 sui delinquenti abituali pericolosi e sulle misure di sicurezza, richiedeva una « azione minacciata da pena » tanto nel par. 42 b StGB, come presupposto per l’internamento nella casa di cura e di custodia, quanto nel par. 330 a StGB, come condizione per la rilevanza delittuosa della stessa assunzione di sostanze inebrianti (alcool e stupefacenti). Con la riforma entrata in vigore nel 1975, in entrambe le norme il riferimento è mutato: un « fatto antigiuridico » è ora il presupposto della misura di sicurezza e della pena rispettivamente previste dagli attuali par. 63 e 323 a StGB. Tale ancoraggio consente una più netta definizione degli elementi che devono essere integrati dalla condotta del soggetto non imputabile: nello schema tripartito, tipicità del fatto e sua contrarietà all’ordinamento. Peraltro la diffusione di costruzioni del reato in cui la tipicità non è integrata dalla conformità ai soli elementi oggettivi e materiali dell’incriminazione, ma richiede anche il corrispondente atteggiamento soggettivo, almeno nei suoi profili essenziali e costitutivi del particolare reato considerato (24), ripropone la questione dell’errore del non imputabile, pur nel (23) Contro tali rischi cfr. di recente MAIWALD, L’evoluzione del sistema penale tedesco in un confronto con il sistema penale italiano, MILITELLO (cur.), Torino, 1993, 11. (24) Sull’affermazione nel secondo dopoguerra della concezione, di origine welze-


— 552 — diverso quadro normativo delineato dal vigente codice tedesco. Se infatti l’errore esclude il dolo, sarà di conseguenza impedita la sussistenza di quei profili di tipicità soggettiva, necessari ad integrare quel « fatto antigiuridico » richiesto dalle ricordate norme. Di fronte a tale difficoltà anche la dottrina tedesca si divide secondo linee teoriche, che, se non seguono le stesse argomentazioni sviluppate nel contesto italiano, sono comunque largamente convergenti nelle conclusioni. Un primo orientamento riconosce la prevalenza della norma sull’errore e dunque, in caso di errore del non imputabile sul fatto, esclude in generale la responsabilità dolosa, indipendentemente da qualsiasi suo collegamento con la causa di non imputabilità (25). Altri invece affermano la necessità di verificare se l’errore sia o meno condizionato dalla causa di non imputabilità, e nel caso di risposta positiva, negano autonoma rilevanza all’errore, che si innesta su una personalità che non esprime alcun atteggiamento di contrarietà al diritto, ma può solo essere pericolosa rispetto a future offese ai beni penalmente protetti; per tale motivo si giustifica l’applicazione della misura di sicurezza prevista dal par. 63 StGB (26). 4. A tirare le somme del pur rapido confronto fra i due ordinamenti considerati, il dato che colpisce maggiormente è una sorta di preminenza della dogmatica sulle scelte positive compiute dai due differenti legislatori. Tanto la posizione più risalente dei penalisti italiani, che per di più si caratterizza per una particolare fedeltà alle norme del codice Rocco, quanto la dottrina tedesca, che fa rilevare il dolo già in sede di fatto tipico, giungono sostanzialmente alla stessa conclusione: in presenza di un errore, anche se commesso da un soggetto non imputabile, manca un elemento essenziale del reato e non può applicarsi neppure la misura di sicurezza. Sembrerebbe così confermata quell’opinione richiamata inizialmente, secondo la quale non dovrebbe concedersi alcuno spazio ad una pluralità liana, del c.d. « illecito personale », cfr. i lucidi quadri, pur da prospettive diverse, di HIRSCH, Die Entwicklung der Strafrechtsdogmatik, cit., 65 s.; e di SCHÜNEMANN, Einführung in das strafrechtliche Systemdenken, cit., 37 s. (25) Cfr. BLEI, Strafrecht, AT, München, 197516, 385 s.; DREHER/TRÖNDLE, StGBKommentar, München 199546, 454 s.; HORN, in RUDOLPHI/SAMSON/HORN, Systematischer Kommentar zum StGB, Neuwied 19936, 63 n. 4. Anche JESCHECK, Lehrbuch, cit., 729, condivide questa posizione, specificando però che la conclusione deve essere diversa — e dunque si può applicare la misura di sicurezza — nei casi in cui l’errore del soggetto non imputabile sia caduto sulle scriminanti e sulle cause di esclusione della colpevolezza: ciò però non in quanto « condizionato » dalla causa di infermità, ma piuttosto perché qui si è in presenza della componente dolosa del fatto tipico e di alcuni elementi soggettivi dell’illecito. (26) Così STREE, in SCHÖNKE/SCHRÖDER, StGB-Kommentar, München, 199124, par. 63 n. 7; HANACK, Leipz. Kommentar zum StGB, par. 63 n. 223 s.; BOCKELMANN/VOLK, Strafrecht, AT, München, 19874, 284.


— 553 — di costruzioni teoriche particolari, esistendo piuttosto solo una dogmatica penale vera o falsa (27). Secondo tale concezione, il mutevole dato positivo potrebbe al più fornire una indicazione, ma non certo decidere le sorti della nozione di reato, le quali sarebbero già ricavabili in via deduttiva da principi ontologici, a loro volta indifferentemente di natura logica o normativa. Non ritengo fondata una tale impostazione metodologica, e ciò per molteplici motivi. Da questi escluderei subito i rischi di colonialismo culturale connessi al modello unificante di dogmatica penale: una denuncia siffatta potrebbe a sua volta denotare una sorta di « provincialismo », se proveniente dallo stesso ambiente teorico che trascura la specifica dimensione positiva in cui è inserito (28). Il motivo principale proviene piuttosto dal primato della fonte normativa su quello dell’elaborazione teorica, tanto più evidente nella materia penale per il peculiare ruolo che vi gioca il principio di legalità (29). Nonostante un retroterra sostanziale talmente saldo, non si può trascurare la permanenza di un’atteggiamento di radicata diffidenza nei confronti del suddetto primato, che lo considera espressione di « un’idea davvero rispettabile, ma anche un pò bugiarda » (30) e finisce per tacciarlo di formalismo: così, al canone metodologico della rilevanza giuridica per la configurazione delle categorie dogmatiche si rimprovera una cieca subordinazione alla legge ed, al pari del più ortodosso positivismo giuridico, non si perdona una inguaribile cecità rispetto alle ragioni sostanziali ed ai valori che animano le norme (31). La critica non sembra tuttavia fondata nella materia qui considerata, (27) È questa l’opinione di HIRSCH, nei contributi richiamati supra note 6 e 9. (28) E che come tale rischia di essere rimandata al mittente: ad esempio, ai penalisti asiatici che si interrogavano sull’opportunità o meno di avere importato la dogmatica tedesca (cfr., a proposito del Giappone, NISHIHARA, Die Rezeption des deutschen Strafrechts durch Japan in historischer Sicht, in Strafrecht und Kriminalpolitik in Japan und Deutschland, cit., 13 s.; e FUKUDA, Die Beziehungen zwischen der deutschen und der japanischen Strafrechtswissenschaft. Eine historische Studie, ivi, 57 s.), ESER, Zusammenfassende Betrachtungen, cit., 445, chiede conto del « perché » essi si siano lasciati colonizzare in tale direzione. (29) La particolare rigidità del vincolo alla legge per la dogmatica penale è ad esempio rilevata da MAIWALD, Dogmatik und Gesetzgebung im Strafrecht der Gegenwart, in Gesetzgebung und Dogmatik, BEHRENDS/HENKEL (Hrsg.), Göttingen, 1985, 122. (30) Così, icasticamente, DONINI, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991, 366. (31) In un analogo ordine concettuale si è recentemente avanzato lo sferzante rilievo secondo cui « il penalista che si abbandoni al positivismo penale si trasforma in un ingegnere a difesa dello stato »: così NAUCKE, Die Aushöhlung der strafrechtlichen Gesetzlichkeit durch den relativistischen, politisch aufgeladenen strafrechtlichen Positivismus, in Vom unmöglichen Zustand des Strafrechts, ALBRECHT et al., Frankfurt, 1995, 494. Più in generale, sull’accusa di formalismo scientifico nei confronti della dogmatica di impronta positivistica cfr. ad es. BOBBIO, Il positivismo giuridico, Torino, 1979, 260 s.


— 554 — in quanto la ricordata preminenza delle scelte obiettivate nella legge rispetto alle particolari costruzioni teoriche si fonda proprio su un argomento sostanziale: la diversa legittimazione che, in uno stato a democrazia rappresentativa, compete rispettivamente alle fonti normative ed alla scienza giuridica. Le prime sono espressione, diretta o indiretta, della sovranità popolare e per questo possono rappresentare le esigenze della collettività associata nella massima misura, che un sistema giuridico può ancora attualmente assicurare (32). Su tale fondamento si comprende come il « governo della legge » rappresenti una delle c.d. « massime di giustizia » che qualificano un ordinamento giuridico (33), senza peraltro che ciò escluda del tutto la possibilità di un abuso dello stesso strumento legale. Da questa fondamentale opzione teorica si dipartono numerose conseguenze in varie direzioni; ne segnalo di seguito quattro per la loro importanza. In primo luogo, il primato della legalità non equivale a trascurare le garanzie del singolo individuo, abbandonandole alla disponibilità del legislatore, sino al limite dell’arbitrio: ormai da tempo in tutti gli ordinamenti liberaldemocratici occidentali esiste una fonte primaria in cui sono statuiti i principi fondamentali che, a pena di invalidità costituzionale, le molteplici norme del sistema positivo devono rispettare (34). Può considerarsi ormai acquisito che fra i compiti di una accorta dogmatica — non solo penale, ma specialmente se tale — non può mancare la selezione e l’elaborazione dei suddetti principi e la verifica costante della loro realizzazione nella disciplina positiva ordinaria (35). Sulla base di questo primo chiarimento risulta più facile intendersi (32) Evidenzia ora molto bene questa matrice del principio di legalità in diritto penale W. FRISCH, Wesentliche Strafbarkeitsvoraussetzungen einer modernen Strafgesetzgebung, in Von totalitärem zu rechtsstaatlichem Strafrecht, ESER/KAISER/WEIGEND (Hrsg.), Freiburg, 1994, 249. V. anche BAUMANN, Dogmatik und Gesetzgeber. Vier Beispiele, in Festschrift für Jescheck, I, Berlin - New York, 1995, 177 s. Una eco da noi, in relazione ai rapporti fra dogmatica e politica criminale, in PAGLIARO, Principi, cit., 103. Allo stesso riguardo v. anche ID., Imputazione oggettiva dell’evento, cit., 786; ID., Sullo schema di legge delega per un nuovo codice penale, in Giust. pen., 1993, 176. (33) Per questa prospettazione, anche con specifico riferimento al principio di legalità in diritto penale ed alle sue implicazioni, cfr. ampiamente RAWLS, A Theory of Justice (1971), trad. it. (di SALVINI) Una teoria della giustizia, Milano, 1984, 202 s. (34) Avere intuito e valorizzato questo punto di vista « esterno » alla normazione positiva ordinaria, ma al contempo pur sempre « interno » all’ordinamento giuridico di uno stato di diritto, rappresenta un merito storico del pensiero del prof. Bricola, la cui eco non a caso ha travalicato i confini stessi della scienza penalistica italiana: cfr. ad es. TIEDEMANN, Verfassungsrecht und Strafrecht, Heidelberg, 1991, 4 s. La tendenza alla costituzionalizzazione del diritto penale costituisce ormai un dato centrale in sede di macrocomparazione: PRADEL, Droit pénal comparé, Paris, 1995, 49 s. (35) Così, su un piano generale, BEHRENDS, Das Bündnis zwischen Gesetz und Dogmatik und die Frage der dogmatischen Rangstufen, in Gesetzgebung und Dogmatik, BEHRENDS/HENKEL (Hrsg.), cit., 10. Con specifico riferimento alla nostra dottrina penali-


— 555 — sui limiti della segnalata varietà di dogmatiche in relazione alle particolarità delle concrete realtà positive. Nessuno può seriamente dubitare che, ad un certo livello di astrazione concettuale, la nozione di reato ricavabile da un largo numero di ordinamenti positivi possa essere fondamentalmente comune. Così, in tutti quei sistemi giuridici che condividono una particolare visione del rapporto fra la persona umana ed il diritto, e che largamente coincidono con quelli vigenti nei moderni stati democratici occidentali, il reato si potrà considerare un fatto umano al quale è collegata una sanzione penale nelle forme del « dovere essere giuridico ». Il valore sul piano speculativo di una tale « teoria generale del reato » è certo incontestabile; se però si cercano di individuare gli elementi costitutivi di quella stessa nozione, che condizionano i limiti in cui un particolare accadimento integra il « dovere essere giuridico » della sanzione penale, non si può che fare i conti con la dimensione positiva delle scelte normative, potenzialmente variabili nei diversi ordinamenti (36). Certo, definire quanto di comune ed indipendente dai concreti contesti positivi e d’altra parte quanto di mutevole e normativamente condizionato vi sia o vi debba essere nella dogmatica penale, può essere un’opera non facile, specie di fronte alla compresenza di elementi contrastanti: si pensi ad esempio per un verso ai fattori, richiamati inizialmente, che denotano una tendenza all’armonizzazione dei contesti positivi, quantomeno all’interno di una certa area giuridica; per altro verso, all’acquisita consapevolezza che determinate figure dogmatiche, lungi dal muoversi in un indistinto « cielo dei concetti giuridici », nascono da precise esigenze poste dalla configurazione dei particolari sistemi positivi (37). La decisione in merito al particolare punto di equilibrio fra i due estremi indicati, lungi dall’essere una questione neutrale rispetto ai valori affermati dall’ordinamento giuridico, non può trascurare che il diritto penale non è separabile dalla cultura di una determinata società (38). Ciò stica, la diffusione del metodo indicato è comprovato dalla più recente manualistica: FLORA, Il rilievo dei principi costituzionali nei manuali di diritto penale, in questa Rivista, 1991, 187 s. (36) Sottolineava già la duplicità di piani logici fra nozione e struttura del reato, segnalando che solo la seconda dipendesse dai singoli ordinamenti positivi, PAGLIARO, Il fatto di reato, Palermo, 1960, 92. (37) Paradigmatica in proposito appare ad esempio la costruzione tedesca dell’« autore mediato »: cfr. PADOVANI, Le ipotesi speciali di concorso nel reato, Milano, 1973, 50 s.; PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, Palermo, 1952, 35; SINISCALCO, Autore mediato (dir. pen.), Enc. dir., IV, 1959, 445; WELZEL, Das deutsche Strafrecht, Berlin - New York, 196911, 101. (38) Solo a titolo esemplificativo, sul punto basti richiamare le concordi opinioni di autori di diversa provenienza culturale: KADISH, Complicity; Cause and Blame: A Study in the Interpretation of the Doctrine, in Rechtfertigung und Entschuldigung, II, ESER/FLETCHER (Hrsg.), Freiburg, 1988, 1326; NAUCKE, Die Aushöhlung der strafrechtlichen Gesetzlichkeit,


— 556 — per un verso aiuta a comprendere le ragioni dell’orientamento ad una costruzione teorica non limitata dalle barriere nazionali ed ordinamentali: il nucleo di verità di tale tendenza deriva dalla diffusione in tutti i paesi di una larga tavola di valori, i quali trovano sovente un riconoscimento normativo nei già ricordati principi costituzionali. Per altro verso però si svelano anche i limiti quantomeno attuali di quella prospettiva: in primo luogo, le realtà particolari dei diversi ordinamenti presentano ancora elementi di differenza, che non possono essere trascurati senza rischiare di formulare teorie condannate in partenza a restare improduttive. Inoltre, i principi comuni presentano un livello di generalità tale da risultare compatibili con un numero davvero elevato di possibili concretizzazioni normative e di connesse sistemazioni teoriche. Per individuare allora la ricercata risposta sui punti di comunione della teoria penalistica non rimane che sfruttare al meglio la duplicità di funzioni attribuibili alla dogmatica: sistematica, in quanto essa ordini il materiale normativo esistente in modo da assicurare certezza applicativa e razionalità nelle applicazioni giudiziarie, e d’altra parte critica, ogni volta in cui emerga che la dimensione positiva non appare adeguata alla dogmatica « vera » (39). Alla luce di ciò, rispetto alla ricordata sottolineatura recente del carattere fondamentalmente unitario della dogmatica penale (40), non è forse inutile ribadire la permanente vitalità della funzione sistematica e garantistica della stessa disciplina, che al contempo la collega necessariamente alla realtà positiva dei particolari ordinamenti, almeno come punto di partenza dell’elaborazione teorica (41). Si può a questo punto precisare un terzo punto. Quanto fin qui affercit., 485, 495; SILVA SANCHEZ, Sobre la posibilidades y límites de una dogmática supranacional, cit., 13. Non sembra dunque condivisibile la recisa negazione che le diversità culturali e di visione del mondo influiscano sulla « elaborazione scientifica delle teorie generali del fatto di reato » (così invece ancora HIRSCH, Gibt es eine national unabhängige Strafrechtswissenschaft?, cit., 53). (39) Segnala tale duplicità di funzioni MAIWALD, Dogmatik und Gesetzgebung im Strafrecht der Gegenwart, cit., 121. (40) Cfr. ancora HIRSCH, nei contributi richiamati supra note 6 e 9. (41) Sottolinea con vigore tale contributo di garanzia GIMBERNAT ORDEIG, Hat die Strafrechtsdogmatik eine Zukunft?, cit., 405 s. Cfr. pure ZIPF, Kriminalpolitik (19802), trad. it. (di BAZZONI), Politica criminale, Milano, 1989, 20. Un elemento di differenza pare segnato dall’assumere come punto di partenza della dogmatica non le norme positive — e solo per tale tramite gli scopi che sono in esse obiettivati, ma anche inevitabilmente filtrati dalla formulazione legale — ma un continuum fra la « determinazione degli scopi politici ultimi » l’articolarsi di questi « nel sistema legale » ed infine il « concretizzarsi nella qualificazione giuridico-penale dei casi di specie »: per tale concezione cfr. PULITANÒ, Politica criminale (1983), anche in Diritto penale in trasformazione, MARINUCCI/DOLCINI (cur.), Milano, 1985, 37. Se bene intendo questa integrazione di momenti, ne deriva una possibilità di azione della dogmatica che rischia di legittimare una diretta scelta di fini politici ultimi da parte dell’interprete, almeno ogni volta che la relativa concretizzazione legislativa sia (reputata come) insufficiente o inadeguata alla qualificazio-


— 557 — mato permette di comprendere come mai una teoria elaborata a partire da un determinato contesto positivo possa servire anche a spiegare problemi analoghi in ordinamenti diversi: la costruzione teorica è tale in quanto tende ad una generalizzazione della propria portata applicativa, che superi il contingente ed il limitato. Se, come è noto, ciò non può essere spinto sino ad operare forzature nella lettura di norme interne, riconducendole artatamente a logiche precostituite per altri istituti, non meno da evitare è l’impiego di teorie inadeguate al tessuto positivo di un ordinamento diverso da quello d’origine. Davvero dunque l’alternativa fondamentale deve porsi fra « falsa » e « vera » dogmatica; solo che i contenuti di questa opposizione non presuppongono, ma anzi in principio escludono, l’assunzione di un identico modello concettuale, insensibile ai concreti contesti positivi. Infine e soprattutto le osservazioni sin qui svolte non impediscono di riconoscere che uno stesso contesto normativo possa essere compatibile con diverse letture dogmatiche. Queste hanno in via di principio una pari legittimità, almeno fino a quando non si scontrano con specifiche norme del particolare ordinamento considerato e con le rispettive conseguenze giuridiche (42). La preferenza potrà essere accordata all’una o all’altra in relazione alla loro maggiore capacità argomentativa, e in questa valutazione influiranno fattori diversi: ad es. il grado di aderenza ai principi costituzionali, la capacità esplicativa dei problemi giuridici posti dalle norme positive, la razionalità logica dei rispettivi assunti, ecc. Non va poi trascurato che l’indicato carattere relativo della dogmatica vale anche per quella eventualmente adottata dallo stesso legislatore: infatti la sua particolare legittimazione investe solo la posizione di norme, cioè il collegamento ai fatti descritti di determinate conseguenze, e non si estende invece alle particolari concezioni sistematiche del reato alle quali si voglia ispirare (43). Così, ad esempio la collocazione dell’imputabilità in un gruppo di ne del caso concreto. In tali condizioni, la necessità di integrare la considerazione teleogica delle norme all’elaborazione dogmatica mi sembrerebbe ottenuta a costo di una insopportabile subordinazione della fondamentale funzione di garanzia che compete a quest’ultima. (42) La coesistenza di diversi sistemi concettuali in seno alla scienza penalistica è in generale riconosciuta da PULITANÒ, Quale scienza del diritto penale, cit., 1222. Per la « convenzionalità » delle ricostruzioni possibili in tema di struttura del reato cfr. pure FIAN3 DACA/MUSCO, Diritto penale, P.G., Bologna, 1995 , 150. Ciò peraltro non legittima una sorta di « intercambiabilità a piacere » delle categorie dogmatiche, contro i cui rischi cfr. MARINUCCI, Fatto e scriminanti. Note dogmatiche e politico-criminali (1983), anche in Diritto penale in trasformazione, cit., 182 s. (43) Coglieva con precisione tale insuperabile limite alla forza vincolante delle « classificazioni e denominazioni legislative » PETROCELLI, Reato e punibilità (1960), anche in Saggi di diritto penale, II serie, Padova, 1965, 34. L’argomento viene anche utilizzato per confutare il peso determinante delle espressioni impiegate nello stesso codice penale tedesco riformato, nonostante la cura che lo caratterizza nell’impiego di nozioni concernenti la struttura del reato: cfr. ad esempio, con riguardo alla importante innovazione del par. 35 (stato


— 558 — norme riferite al reo e non direttamente al fatto di reato non può fornire alcun argomento in merito alla riconducibilità o meno agli elementi del reato della capacità d’intendere e di volere. Se questo è vero, è ben possibile che anche nel nostro ordinamento la graduale penetrazione della nozione normativa di colpevolezza, in cui l’imputabilità gioca un ruolo di elemento primario, o anche la progressiva accettazione di un momento tipicizzante nel dolo e nella colpa, conducano ad escludere che in presenza di una causa di non imputabilità il fatto di reato possa considerarsi completo in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi. Fin quando infatti tali costruzioni teoriche non sono incompatibili con uno o più dati positivi, esse possono benissimo soppiantare altre concezioni precedentemente accolte, pur nel medesimo tessuto normativo. L’eventuale limite posto da una o più norme positive, che dispongano conseguenze giuridiche non accordabili con un auspicato quadro teorico, potrà invece essere superato solo mediante le fonti di produzione ammesse dall’ordinamento. Una decisione in tal senso non dovrà peraltro trascurare che razionalità ed economia nel ricorso agli strumenti normativi consigliano di impiegarli solo per fronteggiare esigenze di diversa disciplina, e non invece quando si intendano adeguare le norme a particolari concezioni sistematiche e dogmatiche. 5. Rispetto al quadro positivo italiano, al di fuori delle importanti, ma circoscritte ipotesi previste dagli artt. 49 e 115 c.p., per l’applicabilità di una misura di sicurezza è richiesto, fra l’altro, un fatto previsto come reato, come indicano in modo netto gli artt. 202 e 203 c.p. Per intendere tale locuzione la strada da percorrere non sembra quella di accreditarne una nozione più o meno ampia in relazione alla costruzione teorica del reato, in quanto quest’ultima è comunque modellata sulla condotta illecita di un soggetto pienamente capace di intendere e di volere. Un presupposto la cui mancanza nel caso di non imputabilità non può restare senza conseguenze per la configurazione dei modelli del relativo illecito penale (44). Sembra invece preferibile ricercare lo scopo del riferimento contenuto negli articoli citati in relazione al particolare sottosistema penale in di necessità scusante), JESCHECK, Lehrbuch, cit., 432 nota 3, per contrastare il rilievo esclusivo del riferimento testuale alla mancanza di colpevolezza, sottolineato invece per individuare il fondamento della previsione da ACHENBACH, Wiederbelebung der allgemeinen Nichtzumutbarkeitsklausel im Strafrecht?, in JR, 1975, 494. (44) Non è da trascurare che un identico presupposto vale anche rispetto alle ipotesi di c.d. quasi-reato, previste dai ricordati artt. 49 e 115. Per tale motivo, l’autonoma previsione, come possibili requisiti per l’applicabilità delle misure di sicurezza, dei fatti che non sono previsti dalla legge come reato (secondo la formula indicata nello stesso art. 202 c. 2 e nell’art. 229 n. 2), non altera l’esigenza di analizzare il diverso atteggiarsi del fatto commesso dal non imputabile quando esso rileva ai fini dell’applicabilità delle stesse misure.


— 559 — cui si inserisce la suddetta espressione. Si trova così che nel contesto degli artt. 202 e 203 la nozione di fatto preveduto come reato non è assunta in modo isolato quale presupposto delle misure di sicurezza, ma è necessariamente connessa anche al requisito della pericolosità sociale. Ad essere rigorosi, è anzi quest’ultima nozione a rivestire un ruolo primario, perché del fatto previsto come reato si fa a meno nelle pur limitate ipotesi previste dagli artt. 49 e 115. Per di più, l’ordinamento penale si è notoriamente evoluto verso un crescente rilievo dell’effettiva pericolosità sociale dell’autore del fatto, con il graduale smantellamento ed infine la definitiva abolizione delle numerose presunzioni originariamente previste nel codice del 1930 (45). Si tratta dunque di valorizzare la nozione di pericolosità sociale, la quale è rivolta ad accertare la probabilità che in futuro l’autore dell’illecito compia ulteriori offese ai beni penalmente rilevanti. Quale che sia il destino che il futuro riserva ad un simile giudizio probabilistico, del quale sovente si rileva la problematica verificabilità empirica (46), esso assume ancora attualmente un rilievo positivo affatto centrale rispetto al sistema sanzionatorio per i soggetti incapaci d’intendere e di volere; ruolo dunque non trascurabile da una dogmatica che, secondo quanto si è tentato prima di ribadire, sviluppi le proprie costruzioni teoriche prendendo le mosse dal quadro normativo vigente. In tale prospettiva, si comprende che dal concetto di fatto preveduto come reato, rilevante per accertare la pericolosità sociale del suo autore, non devono restare estranee tutte quelle componenti che possono fornire indicazioni per la formulazione di tale giudizio. Di conseguenza, quando la concreta realizzazione della condotta non esprime alcun sintomo di pericolosità futura, non si può considerare integrato quel requisito oggettivo, che è richiesto per l’applicabilità delle misure riservate al non imputabile, solo in virtù dell’identità terminologica con il concetto di fatto di reato, a sua volta modellato invece a misura dei soggetti capaci di intendere e di volere. Una diversa conclusione, che segnali cioè la validità generalizzata di una nozione unica di fatto, non solo appare discutibile già su un piano di principio (47), ma sopratutto trascurerebbe la necessità di colmare la conoscenza del singolo dato linguistico con lo specifico conte(45) Una sintesi di tale faticoso cammino in GRASSO, in ROMANO/GRASSO/PADOVANI, Commentario sistematico al cod. pen., III, Milano, 1994, pre art. 199, nn. 40-54, p. 368 s. (46) Per richiami in proposito cfr. CALABRIA, Sul problema dell’accertamento della pericolosità sociale, in questa Rivista, 1990, 782; FORNARI, Misure di sicurezza e doppio binario: un declino inarrestabile?, ivi, 1993, 582 s. (47) Ad esempio, per il particolare — ma significativo — settore del concorso di persone, si è da tempo segnalata la necessità che la nozione di reato non sia « assunta a priori secondo un concetto fisso », ma venga « ricostruita attraverso un’interpretazione che elabori l’effettivo significato che la locuzione assume, di volta in volta, sul piano normativo »: così PADOVANI, Le ipotesi speciali di concorso nel reato, cit., 198.


— 560 — sto espressivo in cui esso è calato, anche alla luce degli scopi perseguiti dall’ordinamento mediante il settore particolare delle misure per i soggetti incapaci di intendere e di volere (48). È in tale ottica generale che va riletta la specifica problematica dell’errore del soggetto non imputabile: lo stato di falsa rappresentazione della realtà priverà il fatto commesso del suddetto valore sintomatico ogni volta che dalle circostanze concomitanti all’azione e dalle modalità di questa si possa dedurre che un errore analogo sarebbe stato verosimilmente commesso anche da un soggetto accorto posto nella stessa situazione del non imputabile. Così, anche l’errore sulla sussistenza di una causa di giustificazione e non solo l’errore sul fatto potrà denotare l’anomala condizione del soggetto agente, che ad esempio a causa di una mania di persecuzione nei confronti di tutti gli uomini in divisa, ritiene di doversi difendere dal vigile che gli ha intimato di mostrare i documenti di riconoscimento. Non è che l’errore diventi irrilevante rispetto allo stato di non imputabilità del soggetto, né sembra opportuno affermare che l’errore venga da questo « assorbito »; al contrario, è proprio il fatto commesso in situazione di errore che nei suddetti casi esprime quel valore sintomatico di pericolosità, richiesto in generale nel nostro ordinamento positivo per l’applicazione delle misure di sicurezza. Se si conviene con quanto fin qui messo a fuoco sul piano della disciplina giuridica, non dovrebbero porsi seri ostacoli a svilupparne la conseguenza dogmatica in relazione alla collocazione sistematica della imputabilità nella generale struttura del reato. Se l’errore derivante dalla causa di non imputabilità non esclude che il fatto possa comunque considerarsi realizzato, come richiesto dagli artt. 202 e 203 c.p., non si può confinare la rilevanza dell’imputabilità ad un momento separato ed ulteriore ri(48) Nonostante che la dottrina abbia sin dall’inizio colto la qualità di sintomo che il requisito del « fatto preveduto come reato » deve avere rispetto alla pericolosità sociale (cfr. già ROCCO, Le misure di sicurezza e gli altri mezzi di tutela giuridica, in Opere giuridiche, Roma, 1933, 738) è prevalsa una interpretazione dello stesso del tutto scissa da tale collegamento (cfr. ad es. FIANDACA/MUSCO, Diritto penale, cit., 769 s.; RUGGIERO, Punibilità, Enc. dir., XXXVII, 1988, 1129). In giurisprudenza, la considerazione unitaria del fatto commesso, al di là della imputabilità o meno del soggetto, finisce per alterare lo stesso valore talvolta riconosciuto a tale nozione ai fini del giudizio di pericolosità. Esemplare in proposito Cass. 4 giugno 1992, CED n. 191307: « Il fatto reato attribuito a soggetto risultato non imputabile per vizio totale di mente va nondimeno considerato, nella sua obiettività, come se fosse stato commesso da persona capace di intendere e di volere, e quindi discernendo non soltanto gli elementi per la qualificazione del dolo o della colpa, ma anche tutte le circostanze aggravanti o attenuanti che abbiano incidenza sull’entità del reato stesso e, quindi, sulla pericolosità del soggetto; ciò anche al fine di stabilire la durata minima della eventuale misura di sicurezza ». Da ciò si fa discendere la legittimità di considerare l’« aggravante della premeditazione, in sè e per sè non strettamente incompatibile con il vizio di mente, ai fini della determinazione della durata minima del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario ».


— 561 — spetto all’integrazione di tutti gli elementi del reato, oggettivi e soggettivi, positivi e negativi. Non si comprenderebbe altrimenti come mai la non completezza del reato, dipendente dalla rilevanza dell’errore, dovrebbe farsi condizionare proprio dall’elemento dell’imputabilità, una volta che questo si voglia riscontrare solo in un momento successivo. In tale tempus il reato sarebbe infatti già perfetto nei suoi elementi costitutivi e residuerebbe la questione di imputarlo ad un soggetto, verificando se questi sia o meno capace di essere assoggettato a sanzioni penali per il fatto commesso. Per rendere compatibile tale costruzione con la teoria generale del diritto si dovrebbe tuttavia ricorrere ad una conclusione artificiosa, ritenendo che l’accertamento della causa di non imputabilità operi come condizione sospensiva per la rilevanza dell’errore. Resterebbe comunque una impressione di formalizzazione eccessiva di tale costruzione teorica, perché essa contraddirebbe vistosamente il dato non solo empirico, ma anche come si è sottolineato normativo, secondo cui l’errore, per indicare la pericolosità del soggetto, deve trovare la propria causa, e dunque la propria origine, nella particolare situazione di non imputabilità. Si deve allora preferire una considerazione del fatto del non imputabile che permetta di comprendervi anche l’accertamento del nesso fra la causa di incapacità di intendere e/o di volere e l’eventuale errore. In presenza di tale collegamento, è anche integrato quel fatto richiesto dai ricordati artt. 202 e 203 accanto ed in connessione con la pericolosità del soggetto. Ove invece manchi il suddetto collegamento, l’errore fa venire meno la stessa tipicità soggettiva del fatto e non arriva ad assumere rilevanza autonoma la situazione di non imputabilità che esclude la colpevolezza. Poiché la relativa causa di non imputabilità non si è manifestata in un fatto connotato specificamente dalla pericolosità del soggetto, rimane dunque inapplicabile la misura di sicurezza ai sensi delle suddette norme. Alla luce di ciò, l’indagine sulla non imputabilità comporta anche un ampliamento della tipicità, dovendosi verificare l’eventuale collegamento fra la relativa causa e l’errore commesso dal soggetto: si tratta dunque non di un momento di negazione rispetto ad un elemento già integrato, ma piuttosto di un tassello di base per le ulteriori verifiche degli elementi del reato. Solo alla luce di tale priorità logica, prima ancora che temporale, si può spiegare come mai l’elemento soggettivo del fatto del non imputabile non è quel dolo e quella colpa che sarebbero altrimenti necessari nel reato commesso dal soggetto normalmente capace d’intendere e di volere, ma è piuttosto una particolare situazione soggettiva che si limita ad una generica direzione della volontà del soggetto inimputabile all’offesa del bene tutelato o comunque alla violazione del dovere oggettivo di diligenza (49). (49)

Riserve in proposito in CASTALDO, Der durch Geisteskrankeit bedingte Irrtum:


— 562 — 6. Degno di interesse appare pure un fascio di situazioni, che invero non sempre viene adeguatamente considerato in relazione alla problematica in esame: sono i casi in cui la falsa rappresentazione della realtà del non imputabile, che ha determinato la commissione di un reato, sia stata direttamente o indirettamente influenzata da un diverso soggetto. Si possono distinguere due principali configurazioni: nella prima, un soggetto provoca lo stesso stato di non imputabilità in un altro, il quale in conseguenza di ciò commette poi un reato; nella seconda, un soggetto si serve di un altro, che versi già in una condizione personale di non imputabilità, per fare commettere a quest’ultimo un reato. A loro volta le due situazioni principali possono essere ulteriormente analizzate: quanto alla prima, sono individuabili due alternative, a seconda che la commissione dell’ulteriore reato da parte del soggetto reso incapace fosse o meno proprio la finalità dell’altro che ha cagionato tale stato. Anche l’altra tipologia fondamentale può concretizzarsi in due diverse relazioni, questa volta a seconda che l’errore commesso dal soggetto non imputabile sia stato propriamente indotto o semplicemente sfruttato dall’altro soggetto. In questa sede, non interessa approfondire il profilo della responsabilità di colui che determina l’altrui stato di non imputabilità o sfrutta il conseguente errore sul fatto (50), quanto piuttosto considerare le conseguenze di questo intervento esterno sulla posizione del soggetto non imputabile, che abbia commesso per errore un reato. A tal fine, non è più sufficiente limitarsi a verificare se l’errore del soggetto reso incapace sia stato naturalisticamente condizionato o meno dalla particolare causa di non imputabilità. Occorrerà piuttosto formulare un più ampio giudizio che tenga conto della genesi del fatto commesso dal non imputabile; solo alla luce del risultato così raggiunto si potrà quindi valutare se vi sia una corresponsabilità di tale soggetto nel reato realizzato o comunque questo possa rappresentare una manifestazione della sua pericolosità. ein ungelöstes Problem, in ESER/PERRON (Hrsg.), Rechtfertigung, cit., 346 s., che tuttavia non sembra proporre soluzioni alternative convincenti. (50) Restano pure fuori dalla questione qui considerata quegli altri casi, di per sè invero non meno problematici, che sono di errore sulla altrui imputabilità. Anche qui sono possibili due alternative: il soggetto può istigare un altro a commettere un reato, confidando sulla non imputabilità di quest’ultimo, che invece è in realtà capace di intendere e di volere; oppure l’opposta situazione in cui si ritenga di partecipare con un altro soggetto imputabile alla realizzazione del reato, ma quest’ultimo manchi della necessaria capacità d’intendere e di volere ed è dunque solo uno « strumento » nelle mani del primo soggetto. Non è difficile rilevare la differenza fra i casi di errore del non imputabile e le due ipotesi ora accennate: in queste ultime è un soggetto imputabile a versare in errore e tale falsa rappresentazione ha solo per oggetto la capacità di intendere e di volere del concorrente. La relativa problematica va dunque ricondotta alla disciplina in tema di partecipazione al reato, almeno se si concorda sulla possibilità nel nostro contesto positivo di una differenziazione nelle posizioni di responsabilità dei vari concorrenti nel reato: in proposito, cfr. PADOVANI, Le ipotesi speciali, cit., 51 s. e nota 74, 99 s.


— 563 — Ciò è in primo luogo da escludere nei casi in cui la situazione di non imputabilità di un soggetto sia stata determinata da un estraneo proprio al fine di fare commettere un reato al primo, almeno finché per tale situazione non possa muoversi alcun rimprovero al soggetto reso incapace. Con riguardo alla causa di esclusione dell’imputabilità in cui una tale « induzione dall’esterno » appare effettivamente concretizzabile (51), si può formulare l’esempio di Tizio che, ad insaputa di Caio, gli versa nel bicchiere un potente allucinogeno al fine di fare poi uccidere un cameriere, in particolare confidando che, non appena questi si avvicinerà al tavolo dei due, lo stato di travisamento della realtà indotto dalla sostanza farà sì che Caio lo scambi per un essere mostruoso da cui difendersi a tutti i costi. In un caso siffatto, dall’avvenuto omicidio non si potrà risalire ad alcuna pericolosità di Caio, il quale senza sua colpa è stato strumentalizzato dall’altro soggetto. Del reato così commesso risponderà dunque in primo luogo colui che ha congegnato l’intera complessa esecuzione: ciò secondo il disposto del nostro art. 86 c.p., e tale responsabilità sarà per di più aggravata, o in virtù dell’art. 111 c.p. o per la concorrente applicabilità dell’art. 613 c.p. (52). Approfondendo invece la posizione del soggetto reso incapace di intendere e di volere, occorre preliminarmente chiarire la distinzione con le situazioni in cui questi abbia consentito a porsi nel suddetto stato al fine di commettere il reato: queste sono infatti riconducibili pienamente allo schema dell’actio libera in causa ed al disposto dell’art. 87 c.p. Quando invece lo stato di incapacità è stato provocato da altri all’insaputa del soggetto che ha poi commesso il reato, va esclusa una responsabilità di quest’ultimo. Ciò salvo che un rimprovero di colpa non possa muoversi al soggetto in relazione all’insorgenza stessa dello stato di incapacità, ad esempio quando egli avrebbe potuto evitarla con maggiore prudenza o diligenza nell’accettare da altri sostanze di incerta composizione, e sempreché il reato commesso in tale stato sia punibile anche nella forma colposa di realizzazione (53). Poiché dunque non rileva la possibile natura colposa della (51) Come ha dimostrato PADOVANI, op. ult. cit., 79 s. (52) Per le due diverse forme di aggravamento della responsabilità del determinatore cfr. rispettivamente PADOVANI, op. ult. cit., 64 s., 212; e ROMANO, in ROMANO/GRASSO, Commentario sistematico al cod. pen., II, art. 86 n. 4, p. 19. (53) Per tale possibilità cfr. ancora ROMANO, op. ult. cit., art. 86 nn. 6, 7, 12, p. 20 s., che peraltro ammette una responsabilità del soggetto reso da altri incapace, anche quando il primo pur non avendo consentito alla realizzazione della finalità criminosa di quest’ultimo, fosse in dolo anche solo eventuale rispetto al reato commesso. Poiché però tale dolo va ricercato nel tempo in cui il soggetto non era ancora in stato di incapacità sarà difficile distinguerlo dal requisito del consenso allo scopo illecito, che fa rientrare pienamente l’ipotesi nella portata dell’art. 87. In mancanza di preordinazione al reato dello stato di incapacità, sembra dunque residuare solo lo spazio per una responsabilità colposa di colui che, essendo


— 564 — successiva condotta, in quanto realizzata quando ormai l’incapacità si era prodotta, un errore commesso dal soggetto in tale stato non potrà essere assunto come indizio di pericolosità del soggetto reso non imputabile ai fini del giudizio di cui all’art. 202. Poiché questi è certo autore di un fatto illecito, risulta confermata la necessità di una interpretazione non meramente testuale, ma sistematica e teleologica della espressione impiegata nella norma citata (e richiamata dal successivo art. 203 per la nozione di pericolosità sociale) di « fatto preveduto dalla legge come reato ». D’altra parte nelle stesse situazioni surricordate, in cui si riscontri invece una responsabilità concorrente per colpa del soggetto incapace, questa si fonderà sulle finzioni di imputabilità di cui agli art. 92 e 93, cosicché resterà per altra via sbarrata la possibilità di ricavare una pericolosità sociale del soggetto dall’errore nel quale sia incorso in conseguenza dello stato di incapacità naturalistica di intendere e di volere. L’impossibilità di riconoscere una tale pericolosità in colui che ha commesso il fatto di reato dovrà anche essere affermata nell’altra possibile situazione di determinazione da parte di un altro soggetto dello stato di non imputabilità, quando cioè manchi in quest’ultimo una ulteriore volontà criminosa da realizzare sfruttando l’altrui persona. Infatti anche in presenza di un errore del soggetto condizionato dalla particolare causa di non imputabilità, il fatto commesso non può essere espressione di una sua pericolosità, derivando piuttosto dalla altrui determinazione dello stato di incapacità. Residua solo la possibilità, al pari dell’ipotesi già considerata e nei limiti pure precisati, di muovere un rimprovero di colpa a colui il quale non ha adeguatamente vigilato nei confronti di interventi esterni che possano fargli perdere le proprie capacità. Anche nei confronti dell’estraneo potrà del resto configurarsi una responsabilità per il reato commesso da colui che è stato reso incapace, quando una tale ulteriore realizzazione poteva essere prevista al momento in cui si poneva l’altro in tale stato: non dunque in virtù dell’art. 86, del quale mancano i requisiti costitutivi, ma adattando le generali regole della responsabilità per colpa alla particolare situazione considerata. Il giudizio sulla pericolosità va invece differenziato rispetto all’altro gruppo di situazioni inizialmente considerate, in cui il soggetto che commette il fatto è già non imputabile e l’estraneo lo induca in un errore determinante rispetto all’esecuzione del reato o, ancor più limitatamente, non vada oltre il semplice sfruttamento di un tale errore. Con riguardo alla prima configurazione, è evidente che l’errore, in quanto indotto dall’estraneo, non potrà dirsi propriamente « condizionato » dallo stato di non imputabilità; sarà dunque normalmente esclusa la possibilità di assustato reso incapace da un intervento di un altro soggetto, abbia in conseguenza di ciò commesso un reato, e sempreché questo sia punibile a titolo di colpa.


— 565 — mere il fatto di reato conseguentemente commesso come elemento dal quale ricavare una pericolosità del suo autore materiale rispetto a futuri illeciti penali. Ad una diversa conclusione potrebbe solo pervenirsi nei limiti segnati dal richiamo implicito dell’art. 47 secondo comma da parte dell’art. 48, che chiama a rispondere del reato commesso colui che ha cagionato l’errore. Anche però ad ammettere che nelle situazioni qui in esame possa riscontrarsi la responsabilità per colpa ammessa in via residua dal richiamato art. 47 secondo comma, difficilmente da tale giudizio di colpa potrà dedursi una pericolosità dell’autore materiale del reato: non è infatti per lo più possibile sapere se questi lo avrebbe compiuto in mancanza dell’etero-induzione in errore. Solo scambiando il reato commesso per una necessaria manifestazione della particolare causa di non imputabilità in cui versa l’agente potrebbe concludersi diversamente. Si tratterebbe però di un equivoco, reso possibile ancora una volta da una considerazione esclusivamente limitata al requisito formale del fatto previsto come reato, considerato sul piano solo lessicale e senza alcuna considerazione degli scopi per cui esso è richiesto nel settore delle misure di sicurezza. A diversa conclusione, infine, si dovrà pervenire quando sia lo stato di non imputabilità, sia lo stato di errore che ha portato alla realizzazione criminosa, sussistevano anteriormente all’intervento dall’esterno: qui si tratterà di verificare, secondo la regola generale, se l’errore sia condizionato o meno dalla causa di non imputabilità. Il dato che un errore di un tale soggetto venga da altri sfruttato per compiere un fatto di reato potrà valere per fondare la responsabilità ulteriore dell’estraneo, ma non invece per escludere il particolare valore sintomatico dell’errore rispetto alla pericolosità del soggetto non imputabile. Solo procedendo dunque ad una attenta differenziazione delle situazioni possibili in caso di errore del non imputabile connesso all’intervento di altri soggetti, e soprattutto valutando come dare conto delle esigenze normative che si presentano di volta in volta, si riesce a prospettare soluzioni adeguate. Un risultato che sarebbe invece pregiudicato ove ci si affidasse al dato formale della realizzazione del fatto di reato commesso dal soggetto non imputabile. Risulta così ulteriormente confermata la più volte segnalata esigenza di una considerazione integrata delle esigenze normative rispetto al sostrato naturalistico delle nozioni implicate. 7. Le considerazioni dogmatiche fin qui sviluppate alla luce dei dati positivi vigenti nel nostro sistema penale, non impediscono che in una prospettiva di riforma si possa preferire una dizione più specifica del presupposto per l’applicabilità della misura di sicurezza. In specie, il riferimento ad un fatto tipico ed antigiuridico, che si è visto proprio della soluzione tedesca, potrebbe apportare un contributo di chiarezza all’intera


— 566 — problematica qui considerata. Peraltro, la reale vita giuridica dimostra che anche in quel sistema non tutti i dubbi sono svaniti con la formula ricordata. Il nodo cruciale rimane pur sempre quello di individuare una soluzione che contemperi caratteristiche naturalistiche ed esigenze normative: degna di considerazione appare in tale direzione la formula proposta dal Progetto 1992 (54), che limita la pericolosità sociale ai soli casi di più reati o di un reato di particolare gravità, che siano in ogni caso « manifestazione », cioè diretta espressione, « della particolare causa di non imputabilità » (art. 36) (55). Per di più, con l’espressa limitazione del giudizio di pericolosità sociale ai soli soggetti totalmente non imputabili, si supera l’attuale possibilità di applicazione congiunta delle pene e delle misure di sicurezza ai soggetti imputabili o semimputabili ed anche socialmente pericolosi, delineandosi al contempo un sistema sanzionatorio a doppio binario che riflette, in modo più coerente di quello vigente, la necessaria

(54) Si tratta del noto Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, pubblicato, con la relazione, per la prima volta su Documenti della Giustizia, 1992, n. 3, 305 s. Per notizie più dettagliate ed una considerazione complessiva di tale importante documento, nel quadro di altre recenti esperienze di ricodificazione, sia consentito rinviare a MILITELLO, Il diritto penale nel tempo della ricodificazione. Progetti e nuovi codici penali in Italia, Francia, Spagna, Inghilterra, in questa Rivista, 1995, 758 s. (55) I primi commenti sul punto evidenziano favorevolmente che tale modifica ben si inserisce nelle linee evolutive già segnate da altri sistemi giuridici: cfr. FORNARI, Misure di sicurezza e doppio binario, cit., 636; v. anche GRASSO, in ROMANO/GRASSO/PADOVANI, Commentario, cit., pre art. 199, n. 4, p. 377; GUERRA, Le misure di sicurezza personali nel progetto di legge delega per la riforma del codice penale, in questa Rivista, 1994, 970; MANNA, Imputabilità, pericolosità e misure di sicurezza: verso quale riforma?, ivi, 1994, 1325 s. Anche alla luce di ciò, appare invece un passo indietro la formula adottata in materia di pericolosità sociale nel recentissimo disegno di legge sul libro primo del codice penale, apparso nelle more della pubblicazione del presente contributo (Atti Senato, XII legislatura, n. 2038, comunicato alla Presidenza il 2 agosto 1995). Secondo l’art. 162 di tale documento, un presupposto per la dichiarazione di persona socialmente pericolosa è la commissione di uno o più fatti di particolare gravità preveduti dalla legge come reato. Analogamente a quanto previsto sul punto dal vigente codice penale, si disperde in tal modo l’ancoraggio del giudizio di pericolosità ad un elemento — la causa di non imputabilità manifestatasi nella commissione del reato — che è invece richiesto, come si è ricordato nel testo, dal Progetto 1992 e che sembra meglio esprimere la probabilità di ulteriori manifestazioni criminose del soggetto. Quel giudizio rimane invece affidato ad indici più generici, che possono arrivare a comprendere elementi anche esterni ai fatti commessi dal non imputabile: così lo stesso art. 162 del citato d.d.l. richiama le circostanze indicate dall’art. 112 dello stesso documento, fra cui la condotta susseguente al reato o il modo di vita del reo. Per di più, tale previsione, secondo il progetto ricordato, fa riferimento ad elementi che devono riflettersi nella colpevolezza (art. 112 comma 1 e 2) o che possono operare solo a favore del reo (art. 112 comma 3): in entrambi i casi, dunque, inadatti ad un giudizio volto ad applicare una misura di sicurezza ad un soggetto non imputabile.


— 567 — connessione fra la realizzazione del fatto, le caratteristiche soggettive del suo autore e le rispettive conseguenze sanzionatorie (56). In tale progettato insieme normativo la problematica dell’errore del non imputabile finisce per svuotarsi di pratica rilevanza, perché il collegamento fra causa di non imputabilità e fatto di reato commesso, che si è visto costituire la chiave di lettura che meglio consente di rispondere alle diverse esigenze connesse all’errore del non imputabile, lungi dall’essere richiesto solo per la particolare situazione qui considerata, è finalmente assunto ad espresso requisito costitutivo della stessa pericolosità sociale ed a sua volta si rispecchia nelle conseguenze sanzionatorie specifiche. Alla luce del contributo dato dal prof. Bricola al Progetto 1992, parrebbe dunque essersi avverato l’auspicio con cui trenta anni prima chiudeva la propria indagine sul « fatto del non imputabile »: avere posto alcune premesse alla « costruzione delle norme future », vale a dire alla « vera scienza giuridica », di cui « l’esegesi e la dogmatica non sono che il vestibolo » (57). VINCENZO MILITELLO Associato di Diritto penale comparato nell’Università di Palermo

(56) Considera il riferimento della pericolosità sociale ai soli soggetti non imputabili la novità qualificante del Progetto 1992 rispetto al sistema vigente in materia, GUERRA, Le misure di sicurezza personali, cit., 980. (57) BRICOLA, Fatto, cit., 302 e nota 535.


INCHIESTE PREPARATORIE NEI PROCEDIMENTI DI CRIMINALITÀ ORGANIZZATA: UNA RIEDIZIONE DELL’INQUISITIO GENERALIS? (*)

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Cenni al binomio inquisitio generalis e inquisitio specialis. — 3. Superamento della distinzione. — 4. ...Sue persistenti tracce nella struttura del processo penale italiano e nel lessico dottrinale. — 5. Contesto normativo attuale e riemergere della antica distinzione in rapporto a taluni tipi di criminalità. — 6. L’inchiesta preparatoria come nuova versione della inquisitio generalis. — 7. L’indagine preliminare come nuova inquisitio specialis. — 8. Considerazioni conclusive.

1. Premessa. — La riforma processuale del 1989 è stata ripetutamente presentata come passo significativo verso la costruzione di un sistema accusatorio. In realtà l’assunto appare discutibile e non solo a causa delle note vicende normative (1) che hanno indubbiamente attenuato le connotazioni accusatorie del nostro modello processuale. Già all’epoca dell’entrata in vigore del nuovo codice, e comunque prima della ventata controriformistica risalente al 1992, era possibile sospettare dell’intima e perdurante caratterizzazione inquisitoria del sistema (2). L’iconoclastica soppressione del giudice istruttore poteva apparire come la necessaria premessa di un mutamento radicale. Essa apriva però un serio problema di equilibri di potere all’interno della dinamica processuale. Era chiaro che tutto dipendeva dal modo in cui si sarebbe posto il rapporto fra indagine preliminare e dibattimento. Se si fosse risolto in un rapporto di continuità anziché di cesura, la posizione del pubblico ministero ne sarebbe uscita ingigantita. Il giudice per le indagini preliminari — caricato di una notevole quantità di funzioni, ma sfornito di efficaci strumenti di controllo — (*) Questo lavoro si inserisce in una ricerca italo-tedesca a carattere interdisciplinare (Programma Vigoni) in tema di criminalità organizzata. (1) Principalmente Corte cost. nn. 24, 254 e 255 del 1992, nonché d.l. 8 giugno 1492, n. 306. (2) Pur rare, non mancarono le voci critiche rispetto all’assunto inizialmente condiviso dalla generalità degli studiosi; voci che intravedevano anzi nel nuovo assetto le premesse di un preoccupante potenziamento della pubblica accusa e di una corrispondente compressione delle garanzie individuali: cfr. M. NOBILI, I rischi del nuovo modello processuale, in La nuova procedura penale, Bologna 1989, 349 ss.; P. FERRUA, Scelte accusatorie e reviviscenze inquisitorie nel nuovo processo penale, in Difesa penale, 1989,35 ss.


— 569 — appariva infatti inadeguato al compito di frenare i possibili eccessi dell’accusatore. Si sa come sono poi andate le cose: supremazia indiscussa del pubblico ministero nell’indagine preliminare, crisi del giudice per le indagini preliminari e posizione marginale della difesa nella fase più delicata e importante dell’intero procedimento. Anni di violente tensioni (nella pratica giudiziaria) e di estenuanti dibattiti accademici sono sfociati in una legge di evidente ispirazione garantista, contenente, a quanto pare, la buona ricetta per riequilibrare le posizioni dei soggetti che partecipano alla fase preliminare del procedimento (3). In realtà, nemmeno questo, pur importante, provvedimento normativo sembra destinato ad avere l’esito che molti auspicano. Verosimilmente l’autorità investigativa (pubblico ministero, ma anche polizia) avrà nelle mani, pure in futuro, poteri vastissimi e difficilmente controllabili. Occorre innanzitutto denunciare un possibile equivoco. Precisamente quello di ritenere che il potere dell’accusatore dipenda soltanto dall’astratta configurazione di compiti, funzioni, facoltà di intervento che la legge processuale ripartisce fra i vari soggetti della vicenda giudiziaria. Di grande importanza sono anche i vincoli che all’accusatore derivano dalla legge penale sostanziale e dal verificarsi di quell’evento che l’ordinamento assume quale « presupposto di fatto (4) » del procedimento penale: vale a dire, la notizia di reato. Si sa che l’indagine può essere intrapresa solo a fronte di fatti dei quali la legge predichi l’illiceità, quando di essi risulti notizia. Si suppone naturalmente che il fatto sia facilmente sussumibile — sia pur in via ipotetica — sotto una determinata fattispecie criminosa. E si suppone altresì che il pubblico ministero avvii l’indagine solo dopo aver conosciuto — solitamente ab extra — l’esistenza di un possibile reato (5). Queste condizioni non caratterizzano tuttavia alla stessa maniera l’inizio di ogni procedimento penale. La pratica giudiziaria degli ultimi (3) L. 8 agosto 1995, n. 332. (4) A scanso di equivoci, l’espressione « presupposto di fatto » non significa qui « presupposto fattuale », bensì presupposto che, dal punto di vista processuale, viene in considerazione esclusivamente come un fatto giuridico e non come atto. Su tale distinzione cfr. G. CONSO, I fatti giuridici processuali penali. Perfezione ed efficacia, Milano 1955, 55 ss. (5) È vero che l’art. 330 attribuisce anche al pubblico ministero il potere di muovere alla ricerca di notizie di reato; ciò non autorizza però a ritenere che tale ricerca possa essere intrapresa « al buio », avvalendosi di strumenti processuali (quelli appunto dell’indagine) il cui uso presuppone, per l’appunto, una notizia di reato. Così anche Cass. Sez. I, 29 ottobre 1993, Lenzi, in Cass. pen. 1995, m. 124, p. 134, dove perquisizioni e sequestri disposti in base a semplici sospetti e finalizzati alla ricerca della notitia criminis sono considerati illegittimi. Analoga opinione è espressa — sia pur con riferimento ad altro contesto normativo — da M. NOBILI, Il magistrato in funzione di polizia tributaria: una ulteriore « supplenza » conforme alle norme vigenti?, in LP, 1986, 325. L’argomento sarà ripreso infra, § 4.


— 570 — tempi mostra anzi un numero crescente di procedimenti penali intrapresi in mancanza di una o di entrambe le dette condizioni. Quando la norma incriminatrice difetta di determinatezza (ad esempio, l’art. 416-bis), si allarga in misura considerevole l’area dei comportamenti sussumibili sotto una data fattispecie. Talune condotte (ad esempio quelle collegate ad attività imprenditoriali), lecite se considerate isolatamente, potrebbero connotarsi come illecite, se analizzate alla luce di un avvolgente contesto criminoso. L’organo incaricato dell’accusa deve in questi casi affrontare un compito che — stando all’ordinamento — gli sarebbe estraneo: prima di avviare l’indagine preliminare, egli deve delimitare il campo della propria futura attività, selezionando preliminarmente i fatti da investigare. In altre parole, egli deve supplire al difetto di determinatezza della fattispecie normativa. Vero è che il classico schema previsione legale/attuazione giudiziale risulta formalmente rispettato: in fondo si tratta pur sempre di una (concreta) sussunzione di fatti sotto una disposizione legale, generale ed astratta. È tuttavia innegabile che quanto più la fattispecie legale risulta riferibile a una serie indefinita di comportamenti, tanto più cresce la discrezionalità dell’organo incaricato di agire secundum legem (in questo caso, il pubblico ministero). Quanto poi alla notizia di reato, quando questa riguarda fenomeni criminosi caratterizzati da una certa continuità nel termpo (tipico esempio: le forme di delinquenza organizzata e associata), si può dire che il pubblico ministero si trova di fronte a una notizia che ne vale cento: una sorta di notizia permanente (o generica) di reato (6). In altre parole, l’avvio di un’indagine in ordine a quella notizia, apre indefinite possibilità di ulteriori investigazioni in ordine alle notizie riguardanti i singoli associati e i reati-scopo via via compiuti dall’organizzazione. Anche qui, comprensibilmente, si pone un serio problema di delimitazione del campo investigativo che spetta al pubblico ministero risolvere. Inoltre, in questo quadro, un ruolo di considerevole importanza è svolto dalla polizia (non solo quella giudiziaria), alla quale spetta pressoché esclusivamente il compito di formare (più che di ricercare (7)) la notizia generica di reato. In questa fase iniziale dell’indagine preliminare (o — come si dirà — addirittura in momenti anteriori all’inizio della vera e propria indagine) si (6) Nella pratica si danno molteplici casi di procedimenti innestati su una notizia « permanente » di reato: non solo quelli riguardanti la criminalità di tipo mafioso, ma altresì quelli concernenti diffusi fenomeni di corruzione, di riciclaggio, di traffico di droga. (7) Diciamo subito che il termine « ricerca » è fuorviante, in quanto rinvia all’idea di un fatto contrassegnato in rerum natura dallo stigma dell’illiceità. A fronte di molti, odierni fenomeni criminosi (ad esempio, di criminalità economica) la « ricerca della notizia » si traduce in realtà in una collezione di fatti dalla connotazione spesso ambigua, destinati ad assumere significato in relazione ad altri fatti: ciò che richiede un atteggiamento « costruttivo » e non semplicemente « recettivo » da parte dell’organo inquirente.


— 571 — concentra un notevole potenziale di attività investigative, il cui buon uso dipende essenzialmente dalla capacità di autocontrollo dell’organo procedente. Detto altrimenti, polizia e pubblico ministero operano qui con ampia discrezionalità e normalmente fuori dal controllo di altri soggetti processuali. Tuttavia la duplice circostanza che questo loro agire discrezionale si situi al di fuori del procedimento penale e che sia comunque soggetto a regole legali, ha finito col relegare la questione fra quelle processualmente insignificanti (8). La problematica concernente la ricerca e la formazione della notizia di reato occupa in effetti un posto piuttosto marginale nella letteratura processualpenalistica (9). Inquadrata in questi termini, l’odierna posizione degli organi investigativi ricorda per certi versi quella dell’inquisitore all’epoca in cui non si erano ancora affermati i principi di tassatività e determinatezza della fattispecie penale. Risale a quel periodo una distinzione che merita di essere rivisitata: quella fra inquisitio generalis e inquisitio specialis. Da tempo caduta in disuso, essa può fornire utili spunti di riflessione anche al giurista odierno, per ridiscutere i delicati problemi connessi alla formazione della notizia di reato e alla elaborazione dell’accusa; per analizzare talune norme che disciplinano speciali poteri degli organi investigativi; nonché per penetrare il significato delle corrispondenti prassi giudiziarie e di polizia. L’esame sarà condotto con particolare riferimento ai procedimenti contro la criminalità organizzata, perché è lì che attualmente la distinzione sembra trovare più immediato riscontro. Le possibili implicazioni teoriche e pratiche di un simile approccio sono sin d’ora immaginabili: vi risultano coinvolti temi fondamentali quali quelli connessi all’esigenza di delimitare il potere di formazione dell’accusa; quelli concernenti il rapporto fra magistratura e polizia, o, per meglio dire, fra magistratura e potere esecutivo; e, ancora, la nozione di notizia di reato e la connessa questione riguardante il momento di inizio del procedimento penale. Temi ampi e impegnativi, che servono da spunto (8) Esemplare, in tal senso, l’argomentazione di Corte cost. n. 300 del 1974 in tema di anonimi: vi si afferma che il documento anonimo può costituire la premessa per una attività di indagine volta alla ricerca della notitia criminis senza che ciò comporti riconoscimenti in termini di garanzie difensive alla persona « denunciata » nell’anonimo. Conseguentemente — questa l’implicita constatazione della Corte — una simile attività resta fuori del procedimento penale. (9) Fra i rari esempi si possono citare taluni contributi in tema di anonimi (P.M. CORSO, Notizie anonime e processo penale, Padova 1977, 223 ss.) nonché la discussione sui poteri del pubblico ministero di muovere autonomamente alla ricerca della notizia di reato (cfr. le prese di posizione di P. FERRUA, L’iniziativa del pubblico ministero nella ricerca della notitia criminis, in LP, 1986, 313 ss.; M. NOBILI, Il magistrato in funzione di polizia tributaria: una ulteriore « supplenza » conforme alle norme vigenti?, ivi, 322 ss. e G. TRANCHINA, Il pubblico ministero « ricercatore » di notizie di reati: una figura poco rassicurante per il nostro sistema, ivi, 330 ss.).


— 572 — per taluni ripensamenti generali: l’intenzione non è, in altre parole, di intraprendere qui una minuta esegesi delle norme che disciplinano l’attività investigativa contro il crimine organizzato; si tratta invece di gettare uno sguardo d’insieme su alcune di quelle norme e sulla loro applicazione, nel tentativo di cogliere, per così dire, da lontano, e da una angolazione forse insolita, aspetti del fenomeno processuale meritevoli di essere problematizzati. 2. Cenni al binomio inquisitio generalis/inquisitio specialis. — Non si tratta qui di analizzare la plurisecolare evoluzione cui è stata soggetta la distinzione fra inquisitio generalis e inquisitio specialis (10), né di esaminarne le molteplici sfaccettature. Al fine di comprendere le ragioni del nuovo interesse che essa suscita, sarà sufficiente dar brevemente conto del fondamento della distinzione stessa (11) e del progressivo tramonto della sua pratica utilità. Inquisitio generalis era chiamata la prima fase dell’indagine volta ad appurare l’esistenza del reato nella sua palpabile oggettività. Muovendo dal presupposto che l’azione criminosa era destinata a lasciare una traccia sensibile nel mondo esterno, si riteneva che il primo compito dell’inquisitore consistesse nel ricercare la veritas criminis, o, secondo analoghe espressioni, il corpus delicti o il constare de delicto (12). Nessuno, ad (10) Ci si limiterà a qualche suggerimento bibliografico. Non più di qualche cenno si trova in G. SALVIOLI, Storia della procedura civile e criminale, in Storia del diritto italiano, diretta da P. DEL GIUDICE (Milano 1927), Firenze 1969 (ristampa), vol. III, parte II, 364 ss., nonché nella monografia di E. DEZZA, Accusa e inquisizione. Dal diritto comune ai codici moderni, Milano 1989, 27 ss., raccomandabile per la ricchezza di informazioni bibliografiche sui caratteri del processo inquisitorio. Ben più numerosi e interessanti sono gli specifici contributi offerti dalla dottrina tedesca sulla distinzione evocata nel testo, a partire dallo studio di K.A. HALL, Die Lehre vom corpus delicti. Eine dogmatische Quellenexegese zur Theorie des gemeinen deutschen Inquisitionsprozesses, Stuttgart 1933. Si vedano inoltre F.A. BIENER, Beiträge zur Geschichte des Inquisitionsprozesses und der Geschworenengerichte, (Leipzig 1827), Aalen 1965, 182 ss.; H. KANTOROWICZ, Studien zum altitalienischen Strafprozeß, in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft, 1924, 97 ss.; R. SCHMIDT, Die Herkunft des Inquisitionsprozesses, Freiburg im Br. - Leipzig 1902, 65 ss. (11) Esaminata qui con particolare riferimento all’ultimo stadio del suo sviluppo storico e, precisamente, al periodo delle « pratiche criminali » elaborate da giuristi tedeschi quali CARPZOV e BRUNNEMANN (XVII sec.), sulla falsariga di giuristi italiani come GIULIO CLARO e PROSPERO FARINACIO (XVI sec.). Per una illustrazione di queste influenze, proprio con riguardo alla distinzione fra inquisitio generalis e inquisitio specialis, si rinvia a K.A. HALL, Die Lehre vom corpus delicti, cit., 34 ss. (12) Tali espressioni presenti già nelle opere dei glossatori (ALBERTO GANDINO) e dei postglossatori (BALDO degli UBALDI, BARTOLO da SASSOFERRATO), recepite dai giuristi italiani del ’500 (IPPOLITO DE MARSILIIS, CLARO e FARINACIO), entrano nel lessico dei giuristi tedeschi a partire dai primi commenti alla Halsgerichtsordnung di Carlo V (Constitutio Criminalis Carolina): cfr. K.A. HALL, Die Lehre von corpus delicti, cit., 12 ss., nonché H. LUDEN, Ueber den Thatbestand des Verbrechens nach gemeinem teutschen Rechte, Göttingen 1840, 16 ss.


— 573 — esempio, poteva essere accusato di omicidio, in assenza del cadavere dell’assassinato; né di furto, se non fossero state visibili le tracce di uno scasso o di un’aggressione fisica al derubato. Anche in presenza di un sospettato, l’inquisitio generalis era ufficialmente diretta contro ignoti (13). Classico mezzo di prova che caratterizzava questa fase del processo era l’ispezione oculare del giudice. Questi doveva essere posto in condizione di percepire direttamente le tracce sensibili del delitto e solo eccezionalmente il corpus delicti poteva essere provato per testimoni. Naturalmente ogni tipo di delitto aveva le proprie possibili manifestazioni esteriori. Alcuni non lasciavano traccia alcuna; altri lasciavano tracce effimere; altri infine tracce più durature. Si avvertì quindi l’esigenza di distinguere i delicta facti permanentis, suscettibili di ispezione oculare da parte del giudice, dai delicta facti transeuntis, la cui sussistenza poteva essere provata anche in via congetturale o ricorrendo a testimoni (14). Questi ultimi, di regola, erano sentiti in modo informale, vale a dire, senza previo giuramento. Lo stesso sospettato doveva essere sentito informalmente come teste, giacché questa prima fase del processo non era diretta ad accertare la sua responsabilità, ma soltanto la sussistenza del reato. Infine, l’inquisitio generalis si concludeva solitamente con una sentenza (sia pur a contenuto processuale); ciò che ne rimarcava il carattere di parziale autonomia rispetto alla fase successiva (15). Accertata la natura criminosa del fatto, si realizzava il presupposto per accedere alla seconda fase del processo (16): l’inquisitio specialis, essenzialmente finalizzata a far luce sull’autore del reato (certitudo auctoris delicti). Essa si apriva con il formale interrogatorio dell’inquisito, articolato su specifici punti individuati alla luce degli esiti dell’inquisitio generalis; proseguiva secondo una sequenza istruttoria scandita da rigorose regole probatorie con l’assunzione di altre prove non esclusa la tortura del (13) K.A. HALL, Die Lehre von corpus delicti, cit., 3. (14) K.A. HALL, Die Lehre von corpus delicti, 29, cita a questo riguardo un significativo aneddoto riferito da IPPOLITO DE MARSILIIS, il quale racconta di uno studente bolognese che era stato derubato di una consistente somma di danaro chiusa a chiave in uno stipo. Il ladro era riuscito a introdursi clandestinamente nell’abitazione dello studente e, con una sorta di passe-partout, aveva prelevato il danaro, richiudendo poi lo stipo. Non essendovi tracce di scasso, il constare de furto non poteva essere provato in base alle rigorose regole che disciplinavano l’inquisitio generalis, benché molti amici dello studente fossero disposti a testimoniare in suo favore. Richiesto di un consiglio, IPPOLITO ritenne che in casi come questo si potesse fare a meno dell’ispezione oculare: i delitti commessi clandestinamente e che non lasciano tracce sono difficili da provare; pertanto, in simili circostanze admittitur probatio per coniecturas. (15) F.A. BIENER, Beiträge zur Geschichte, 182. (16) L’inquisitio generalis poteva peraltro essere omessa o accorciata quando l’identificazione dell’autore del reato fosse parsa evidente: ad esempio, in caso di scoperta in flagranza (cfr. F.A. BIENER, Beiträge zur Geschichte, 182).


— 574 — sospettato (solitamente privato della libertà) e si chiudeva con la sentenza di condanna solo se l’inquisito confessava (17). Lentamente la distinzione è andata relativizzandosi e il confine fra le due fasi processuali è divenuto confuso. Tale confusione appare evidente quando verso — l’inizio del XVIII secolo — si ritiene di dover collocare l’interrogatorio del sospettato nella fase conclusiva dell’inquisitio generalis. Un interrogatorio « sommario », preparatorio di quello formale che avrebbe introdotto la fase successiva (18). Col tempo però esso si trasformò in un vero e proprio atto di inquisitio specialis incastonato nella generalis (19), tanto da apparire un doppione dell’interrogatorio formale. Il che contribuì oltre tutto a rafforzare l’opinione che anche altri atti dell’inquisitio specialis (come ad esempio le testimonianze) rappresentassero una dispendiosa ripetizione di analoghi atti già compiuti nell’inquisitio generalis. Benché di fatto superata grazie alle segnalate, progressive contaminazioni, la distinzione fu mantenuta per circa un secolo (20), giacché erano ancora presenti le ragioni profonde che ne costituivano il fondamento. A ben vedere, tali ragioni si collegavano a una duplice esigenza. Innanzitutto un’esigenza di carattere logico. L’accertamento penale doveva seguire l’ordo naturalis degli accadimenti: dal fatto criminoso si risale alla responsabilità dell’autore. Accertare preliminarmente quest’ultima sarebbe stata fatica sprecata, se poi fosse risultato che il fatto non sussisteva o che non costituiva reato. Ma anche iniziare contemporaneamente la ricerca sui due fronti sarebbe parso illogico, finché il reato era concepita in senso naturalistico, vale a dire come azione che provoca un mutamento nel mondo esterno. V’era poi un’esigenza di carattere politico-costituzionale. Il formidabile potere dell’inquisitore rischiava di trasmodare in inquietante arbitrio se avesse potuto dirigersi immediatamente verso un determinato soggetto. La necessità di provare la veritas criminis o, se si preferisce, il corpus delicti rappresentava dunque un limite e un freno a possibili intemperanze (17) F.A. BIENER, Beiträge zur Geschichte, 182-183. (18) F.A. BIENER, Beiträge zur Geschichte, 184, nonché K.A. HALL, Die Lehre vom corpus delicti, cit., 7. (19) Né mancavano argomenti suggestivi a favore di una simile soluzione: anticipare l’interrogatorio collocandolo nella inquisitio generalis consentiva di evitare l’odiosa inquisitio specialis nelle questioni di scarsa importanza. Cfr. F.A. BIENER, Beiträge zur Geschichte, 186. Ma — come capita anche oggi per molte regole processuali — una volta affermata in relazione a un ristretto gruppo di reati, la regola dell’interrogatorio sommario si è estesa fino a diventare comune a ogni procedura. (20) Qualcuno propose di sostituire il binomio generalis/specialis con una distinzione a tre termini: praeparatoria, summaria, specialis (così C.G. BIENER, citato in F.A. BIENER, Beiträge zur Geschichte, 189); ma, ancora all’inizio dell’ottocento, la maggior parte degli autori tedeschi si attenevano alla vecchia distinzione.


— 575 — del giudice, il quale doveva giustificare l’uso del tremendo potere di cui era investito. L’inquisitio specialis doveva insomma essere legittimata in base agli accertamenti condotti nella precedente inquisitio generalis. Solo con l’affermarsi di una diversa concezione del reato, vale a dire con l’individuazione di un nuovo strumento atto a limitare l’esercizio del potere giudiziale, si sarebbero poste le premesse per un radicale superamento di quel binomio. 3. Superamento della distinzione. — L’abbandono della concezione naturalistica del reato rende obsoleta la distinzione fra inquisitio generalis e inquisitio specialis (21). Ciò, in particolare, con riguardo al citato fondamento « politico-costituzionale » della distinzione stessa. In estrema sintesi, quando condotta criminosa e colpevolezza cessano di essere considerati come concreti fenomeni rispettivamente fisici e psicologici, vale a dire, quando si afferma la nozione astratta di fattispecie penale (22) e quella normativa di colpevolezza (23), non c’è più bisogno dell’inquisitio generalis per delimitare i poteri investigativi dell’autorità giudiziaria. L’accento si sposta dal mondo dei fatti concreti al mondo dei valori, dei quali — secondo la visione politica dell’Ottocento — diventa arbitro il legislatore. La condotta criminosa non è più vista come causa di un mutamento fisico, bensì in relazione al fatto descritto in una norma (Rechtswidrigkeit); la colpevolezza non è attiva volontà, movimento muscolare o nervoso, bensì disobbedienza intenzionale o colposa a un precetto (schuldhafte Rechtswidrigkeit) (24). Detto in breve, il nuovo corpus delicti si identifica con la colpevole condotta criminosa qualificata alla luce di una astratta fattispecie penale. Tale mutamento di paradigma è gravido di conseguenze per la giustizia penale. La « distillazione » degli elementi astratti del reato costituisce l’oggetto di una apposita disciplina — il diritto penale sostanziale — e (21) Questa la convincente conclusione cui approda K.A. HALL, Die Lehre vom corpus delicti, cit., 143 ss. (22) Portata a compimento all’inizio del XX sec. (al riguardo si è soliti citare lo studio di E. BELING, Die Lehre vom Verbrechen, Tübingen, 1906), tale evoluzione trova riscontro già nell’importante monografia di H. LUDEN, Ueber den Thatbestand des Verbrechens, cit., risalente alla prima metà del XIX sec. (23) Da presupposto processuale, il corpus delicti diventa oggetto di previsione legale: idea espressa con chiarezza, nei suoi termini essenziali, già da H. LUDEN, Ueber den Thatbestand des Verbrechens, cit., 61: « das corpus delicti ist, wenn man der historischen Bedeutung des Begriffes getreu bleiben will, die durch eine rechtswidrige, entweder dolose, oder culpose Handlung hervorgebrachte verbrecherische Erscheinung ». (24) La concezione normativa della colpevolezza porta a termine il processo di normativizzazione dell’illecito penale. Espressione di questa nuova consapevolezza dogmatica è il saggio di R. FRANK, Über den Aufbau des Schuldbegriffs, in Festschrift für die juristische Fakultät Giessen, Giessen 1907, 521 ss.


— 576 — pone le basi per una sua separazione dal diritto processuale. Essa inoltre favorisce — in armonia con le evoluzioni politiche successive alla rivoluzione francese — una divisione dei compiti fra legislatore (cui spettano le scelte di valore da introdurre nelle fattispecie penali) e giudice, il quale deve limitarsi ad applicare la legge. Proprio in questo rapporto di subordinazione dell’autorità giudiziaria alla legge penale si realizza la possibilità di un nuovo limite al potere giurisdizionale. Principalmente, il limite al potere di investigazione e accertamento penale va ricavato dal mondo delle norme. Dell’antica dipendenza dell’inquisitore dal mondo dei fatti resta peraltro una significativa (anche se sempre più labile) traccia nella notizia di reato, che infatti viene tradizionalmente considerata un presupposto di fatto del processo e non un atto dello stesso (25). Il potere giurisdizionale reca quindi in sé — almeno teoricamente — i confini tracciati dalla norma penale sostanziale. Sappiamo però che, in concreto, le norme sono esposte all’interpretazione del magistrato. Pertanto, solo se tassative e determinate possono fungere efficacemente da limite al potere di quest’ultimo. Determinatezza, tassatività della fattispecie penale e controllo di legittimità sugli errores in iudicando, sono i capisaldi di un nuovo equilibrio istituzionale, di un nuovo modo di intendere la giurisdizione penale. Soddisfatte quelle condizioni, si capisce che la norma penale sostanziale può adempiere alla funzione politico-costituzionale prima garantita dalle regole che disciplinavano l’inquisitio generalis. Analoghe considerazioni valgono per la funzione logica della inquisitio generalis. La concezione normativa del reato e la connessa autonomia del diritto penale sostanziale rispetto al diritto processuale forniscono al legislatore uno strumento molto versatile per creare nuove, inedite fattispecie criminose. Questa tendenza dottrinale è a sua volta in armonia con coeve concezioni politiche e, in particolare, con le incipienti esperienze dello stato totalitario da una parte e dello stato sociale dall’altra. Nel primo come nel secondo, la ragnatela di obblighi che avvolge il cittadino, ha quale immediata conseguenza un’imponente crescita dei delitti omissivi propri: reati di mera disobbedienza senza evento naturalistico e, per di più, caratterizzati da un elemento soggettivo che tende sempre più a volatilizzarsi; fattispecie facilmente plasmabili, destinate a mutare secondo i desiderata del legislatore di turno (26). È chiaro che, con la com(25) Sulla estraneità della notizia di reato agli atti del processo cfr. G. CONSO, Atti processuali penali, in Enc. dir., Milano 1959, vol. IV, 150 e, più recentemente, F. CORDERO, Procedura penale, Milano 1993, II ed., 680, il quale, significativamente, evoca il collegamento fra notizia di reato e inquisitiones generales. (26) Già E. WOLF, Die Typen der Tatbestandsmässigkeit. Vorstudien zur allgemeinen Lehre vom besonderen Teil des Strafrechts, Breslau 1931, 48, osservava come le « fattispecie mobili » (bewegliche Deliktstypen) rappresentassero l’ideale penalistico sia dello stato totalitario sia dello stato sociale.


— 577 — parsa di questa nuova tipologia di reati, l’accertamento penale non può articolarsi secondo il binomio sopra esaminato: qui manca il presupposto elementare di una inquisitio generalis, vale a dire la traccia sensibile tramite la quale risalire all’autore del reato. In tali casi, fatto e autore debbono essere oggetto di un accertamento simultaneo. 4. ...Sue persistenti tracce nella struttura del processo penale italiano e nel lessico dottrinale. — Benché tramontata come principio equilibratore della giurisdizione penale, la distinzione fra inquisitio generalis e inquisitio specialis sembra tuttavia sopravvivere — sia pur in forme atrofiche — nel nostro diritto processuale penale (27). Si è già visto come la notizia di reato sia in qualche modo imparentata con la antica inquisitio generalis. Sta di fatto che essa si configura a sua volta come limite (sia pur occasionale) al possibile esercizio del potere giurisdizionale. Da questo punto di vista sono comprensibili le reazioni di sconcerto della dottrina di fronte a un magistrato che muove spontaneamente alla ricerca della notizia di reato: subito si ha l’impressione del travalicamento di un limite considerato naturale all’epoca dell’inquisitio generalis (28). E persino oggi, che la legge processuale attribuisce espressamente al pubblico ministero il potere di cercare di propria iniziativa le notizie di reato (art. 330), è lecito nutrire dubbi sulla effettiva compatibilità di tale norma con la posizione istituzionale del nostro pubblico ministero (29). (27) II discorso vale — come si vedrà — sia per il diritto processuale ora in vigore, sia per quello previgente. (28) Eloquenti, in tal senso, le riflessioni condotte da M. NOBILI, Il magistrato in funzione di polizia tributaria, cit., 322: la lamentata « supplenza » del pubblico ministero è in realtà denuncia del superamento di un limite intrinseco alle funzioni del magistrato inquirente; un limite che questi deve rispettare, onde evitare mosse arbitrarie o anche soltanto l’apparenza di un agire arbitrario. Si veda altresì l’osservazione contenuta nella nt. seguente. (29) Forse la norma contenuta nell’art. 330 c.p.p. (come altre norme del nostro codice) è frutto dell’equivoco che trae la sua origine dalla natura ibrida del pubblico ministero: nella convinzione di costruire un sistema autenticamente accusatorio si è accentuato il ruolo di parte di tale soggetto; da questo punto di vista, la facoltà riconosciuta dall’art. 330 sembra cosa ovvia. Se però si considera che il pubblico ministero è un magistrato con aspirazioni di imparzialità, dotato di penetranti poteri istruttori, l’attribuzione allo stesso di funzioni investigative preliminari alla notizia di reato viene percepita come una nota stonata. Si suole ripetere che — sotto questo profilo — l’imparzialità del pubblico ministero è sufficientemente garantita dall’art. 112 cost. Tuttavia questo è solo un lato del problema. Ben che vada, l’art. 112 garantisce (in linea astratta) l’imparzialità del pubblico ministero, stabilendo la dipendenza di tale soggetto dal « mondo delle norme ». Ma per allontanare il sospetto di condotte arbitrarie, il pubblico ministero deve accettare di dipendere anche dal « mondo dei fatti » e tale dipendenza può essere assicurata solo facendo di tale organo un recettore (magari occasionale, ma pur sempre) passivo della notizia di reato. Che — anche in base all’attuale legge processuale — sia possibile interpretare il citato art. 330 in modo da rispettare l’esigenza or ora segnalata, è già stato osservato supra, nt. 5.


— 578 — A ben considerare, talune persistenti tracce della distinzione in parola sono riconoscibili anche negli ordinamenti processuali moderni. Colata nelle forme del cosiddetto sistema misto affermatosi nell’Europa continentale del XIX secolo sulla scia del code d’instruction criminelle, l’inquisitio generalis sembra infatti sopravvivere nelle fasi pre-istruttoria e istruttoria del procedimento penale. Non si vuol con questo alludere all’improbabile parallelismo del binomio inquisitio generalis/inquisitio specialis con la coppia istruttoria/dibattimento, quasi che quest’ultima altro non fosse che una variante nominalistica del primo. Ci si limita a considerare che talune, significative « figure » di inquisitio generalis trovano corrispondenza in atti, o pratiche della fase istruttoria. Il pensiero va, ad esempio, all’atto conclusivo dell’istruzione formale, che — come si sa — nelle codificazioni processuali anteriori alla attuale rivestiva la forma della sentenza (30). Perché mai — è lecito chiedersi — una forma così solenne per una decisione a contenuto processuale, che dovrebbe segnare semplicemente il passaggio da una fase all’altra della sequenza procedurale? Alla domanda si può rispondere ipotizzando che nella sentenza istruttoria rivivesse la decisione conclusiva dell’inquisitio generalis. In qualche modo, la forma di quell’atto avvertiva che a quella decisione ineriva anche un contenuto di merito, in quanto accertava, in termini positivi o negativi, il constare de delicto (31). Una approfondita ricerca delle accennate corrispondenze che potrebbe condurre a scoperte di notevole interesse per il processualista odierno travalica i limiti di questo breve saggio, nel quale non si può offrire che una asciutta lista di temi e argomenti più o meno suggestivi. Ad esempio, ancora con riferimento alla chiusura dell’istruzione formale, è significativo che il vecchio codice prevedesse espressamente la sentenza di proscioglimento contro ignoti (32): anche l’istruzione — come già l’inquisitio generalis — poteva quindi essere diretta in incertam personam. Con riguardo poi ai soggetti processuali, è degna di nota l’omogeneità degli organi responsabili delle due principali fasi processuali: nell’istruzione come nel giudizio troviamo un giudice. Ciò che — sul piano degli atti — contribuisce a rafforzare l’idea che la conoscenza acquisita nella fase preliminare del processo, possa (30) Di proscioglimento (art. 378 c.p.p. 1930) o di rinvio a giudizio (art. 374 c.p.p. 1930). Solo in epoca relativamente recente è stata imposta la forma dell’ordinanza per il provvedimento di rinvio a giudizio (art. 5, l. 15 dicembre 1972, n. 773). (31) Non certo in modo vincolante per il giudice del dibattimento, il quale poteva ovviamente prosciogliere l’imputato per qualsiasi causa. In questo, il parallelo suggerito nel testo sembra trovare conferma solo parziale: la decisione conclusiva della inquisitio generalis era invece vincolante per il giudice della inquisitio specialis, sia pur con riferimento alla sola questione del constare de delicto. Allusioni in tal senso in K.A. HALL, Die Lehre vom corpus delicti, cit., 5. (32) Art. 378 comma 3 c.p.p. 1930.


— 579 — valere, faute de mieux, anche nel giudizio: il concetto di atto ripetibile era già noto all’epoca del binomio inquisitio generalis/inquisitio specialis (33). Inoltre, è facile constatare come la vecchia istruzione (sia formale, sia sommaria) si caratterizzasse quale fase tesa innanzitutto a procacciare la veritas criminis. Taluni atti sono concepibili pressoché esclusivamente come atti di istruzione: basti pensare al sequestro probatorio, alle perquisizioni e, più tardi, alle intercettazioni telefoniche (34); più in generale a tutti quei mezzi volti a procacciare l’oggetto di una possibile diretta inspicio giudiziale. Infine, il corpo del reato (traccia evidente dell’antico corpus delicti) può — ancora oggi — essere inseguito ovunque si trovi: non importa se presso difensori e consulenti tecnici (35), o se incorporato in uno scritto anonimo (36). Proprio queste ultime osservazioni consentono di individuare una delle ragioni che giustificano il parallelo qui ipotizzato fra inquisitio generalis e vecchia istruzione. Se qualche traccia delle antiche regole è rimasta, ciò si deve soprattutto al fatto che in molti processi (precisamente quelli concernenti reati ad evento naturalistico) la segnalata esigenza logica di appurare la veritas criminis prima di muovere alla ricerca dell’eventuale autore, è avvertita ora come lo era allora. Una conferma a questo assunto viene anche dall’esame del lessico dottrinale. Nella dottrina italiana, la distinzione fra inquisitio generalis e inquisitio specialis si riflette esattamente — almeno in un primo momento — nella risalente distinzione fra prova generica (o ingenere del reato) e prova specifica (37). Lentamente, anche in Italia il superamento della nozione processuale di corpus delicti finisce però con lo svuotare la distin(33) Almeno nell’ultimo periodo di sua vigenza, quando la generalis si è andata fondendo con la specialis: riferimenti in F.A. BIENER, Beiträge zur Geschichte, 186. (34) Anche il codice previgente (come l’attuale) subordinava tali operazioni al presupposto oggettivo dei « seri e concreti indizi di reato » prescindendo quindi da « indizi di colpevolezza » (art. 226-ter). Di qui la possibilità di piegare tale strumento investigativo ad esigenze di indagine generica su fenomeni criminosi: possibilità che risulterebbe invece esclusa in sistemi — come quello statunitense — dove l’intercettazione può essere effettuata solo sulla scorta di un « mandato giudiziale specifico e particolareggiato »: al riguardo cfr. G. ILLUMINATI, La disciplina processuale delle intercettazioni, Milano 1982, 17. (35) Art. 341 c.p.p. 1930. (36) Art. 141 c.p.p. 1930. (37) Ciò è evidentissimo in un autore come N. NICOLINI, Della procedura penale nel regno delle due Sicilie, Livorno 1843, vol. I, parte II, 463 ss., il quale tratteggia le nozioni di prova generica e prova specifica in maniera del tutto analoga alle elaborazioni dei criminalisti tedeschi del Settecento. Sotto tale profilo appare comunque impressionante il divario fra l’opera di questo autore (interamente e acriticamente calata nel vecchio contesto teorico del corpus delicti) e la coeva (anzi di qualche anno anteriore) opera di H. LUDEN, Ueber den Thatbestand des Verbrechens, cit., già così decisamente proiettata verso quella concezione normativa dell’illecito penale che — come si è detto — avrebbe determinato un nuovo modo di concepire la giurisdizione penale.


— 580 — zione del suo originario contenuto. La terminologia rimane, ma il significato muta sensibilmente. Nella manualistica degli inizi del secolo XX, l’espressione prova generica non allude tanto a una fase del processo. L’accento cade piuttosto sui mezzi di prova che, nel caso della prova generica, sono quelli a carattere ispettivo, basati sulla possibilità di una percezione diretta del fatto ad opera del giudice o di un suo ausiliario (perito); l’espressione « prova specifica » designa invece le prove che consentono al giudice di conoscere il fatto per mezzo di percezioni altrui: si tratta quindi di prove a contenuto narrativo o, lato sensu, testimoniale (38). 5. Contesto normativo attuale e riemergere della antica distinzione in rapporto a taluni tipi di criminalità. — Quel che in precedenza si è detto circa le fasi pre-istruttoria e istruttoria del sistema misto, parrebbe quindi calzare anche a proposito dell’attuale indagine preliminare. È constatazione ormai generalmente condivisa che — a dispetto di talune ingannevoli apparenze — il codice di procedura penale del 1989 non ha affatto introdotto nel nostro sistema la molto decantata inchiesta di parte. Basti dire che l’indagine preliminare è iniziata d’ufficio e diretta da un soggetto appartenente all’ordine giudiziario, i cui atti hanno buone prospettive di essere utilizzati come prove (sia pur in via ‘‘eccezionale’’ e surrogatoria) nel giudizio di merito. Inoltre, nell’indagine preliminare sono solitamente (38) Questa, ad esempio, l’impostazione di P. TUOZZI, Principii del procedimento penale italiano, Torino 1911, 168, nonché, successivamente, MASSARI, Il processo penale nella nuova legislazione italiana, Napoli 1935, 357. Ancora legato alla nozione processualistica di corpus delicti è invece un autore come L. LUCCHINI, Elementi di procedura penale, Firenze 1905, III ed., 152. Nel significato da ultimo illustrato nel testo, la distinzione fra prova generica e prova specifica compare anche in alcune recenti trattazioni: cfr. G. LEONE, Manuale di diritto processuale penale, Napoli 1986, XII ed., 443 e, con riferimento all’attuale contesto normativo, C. TAORMINA, Diritto processuale penale, vol. II, Torino 1995, 54. Da notare, infine, il sostanziale parallelismo fra la distinzione in parola e quella, riscontrabile nella dottrina tedesca della seconda metà dell’ottocento (ad esempio HEUSLER A., Die Grundlagen des Beweisrechtes, in Archiv für die civilistische Praxis, LXII (1879), 209), basata sulla percezione (immediata o mediata) del fatto ad opera del giudice. Muovendo da quest’ultima, F. CARNELUTTI (La prova civile, (1915) Roma 1947, 63 ss.) propone la distinzione fra prova diretta e indiretta, che, a sua volta, sembra trapassare nella distinzione proposta da F. CORDERO (Procedura penale, II ed., Milano 1993, 536) fra prova critica (o artificiale) e prova rappresentativa (o storica). Ad evitare fraintendimenti, è opportuno precisare che molti autori odierni chiamano « indirette » le prove indiziarie e « dirette » le altre prove: in questo senso la distinzione compare già in P. ELLERO, Della critica criminale, in Trattati criminali, Bologna 1875, 135. Singolare la posizione di G. FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, II ed., Milano 1965, vol. I, 430, il quale, rifacendosi alla distinzione fra prova generica e prova specifica, osserva che « tutte le prove salvo il grado, sono storiche e sono critiche... Ia vera differenza riposa invece nel fatto che la rappresentazione in alcune riguarda la ‘‘specie’’ costituente il tema di prova ed in altre invece il ‘‘genere’’ da cui la specie resta da ricavare ».


— 581 — compiuti quegli atti che puntano prevalentemente ad accertare il constare de delicto (39), quali ispezioni, perquisizioni e sequestri. Occorre però ammettere che, nelle procedure concernenti certe forme di criminalità, una sorta di inquisitio generalis si manifesta in forma inedita e spesso anticipata rispetto allo stesso inizio dell’indagine preliminare. Lo si nota in particolare nelle investigazioni riguardanti fenomeni di criminalità (in senso lato) organizzata. Sempre più la prassi evidenzia un tratto caratteristico di queste investigazioni: l’esistenza di un comun denominatore che determina una stretta concatenazione fra molte di esse. Ad esempio, un medesimo sodalizio mafioso è presupposto di una serie di specifici comportamenti criminosi (estorsioni, omicidi, traffici illeciti). Nel nostro ordinamento l’associazione mafiosa è, in sé presa, un reato suscettibile di autonoma indagine (art. 416-bis c.p.): ma — dal punto di vista dell’organo incaricato di indagare — essa costituisce altresì un « fatto complesso » idoneo a fungere da presupposto per una serie indeterminata di investigazioni concernenti diversi reati-scopo. Questo spiega, fra l’altro, l’adeguamento organizzativo in senso centralistico che si è imposto tanto per le forze di polizia (40), quanto per l’ufficio del pubblico ministero (41). E spiega altresì la comparsa, nella prassi, di inchieste conoscitive preliminari alla stessa indagine preliminare. In altre parole, grazie al suo carattere per così dire trasversale, il fatto ambientale (ad esempio il traffico di droga, l’attività di riciclaggio) si presta ad essere l’oggetto di una indagine a sua volta trasversale, tesa cioè innanzitutto a delimitare consistenza e ampiezza del fenomeno criminoso. Questo tipo di indagine si pone su un livello diverso dall’indagine preliminare quale risulta regolata negli artt. 326 ss. del codice. Ufficialmente essa si colloca quindi fuori del procedimento penale. Il materiale in questa raccolta costituirà la base conoscitiva comune di una serie indefinita di indagini preliminari soggettivamente orientate. Si delinea così una sorta di (39) Da questo punto di vista è certo singolare e degno di nota che il provvedimento di rinvio a giudizio (quello cioè nel quale si condensa una valutazione positiva circa il constare de delicto) rivesta la forma del semplice decreto non motivato (art. 429). Una scelta tecnica che — nel tentativo di sancire una soluzione di continuità fra fase preliminare del processo e dibattimento — è certo sintomatica dell’intenzione di caratterizzare in senso accusatorio il nuovo modello processuale. È tuttavia significativo che la prassi, col rifiutarsi di ravvisare una causa di invalidità nell’eventuale motivazione del decreto che dispone il giudizio, tenda a rigettare nella sostanza tale scelta legislativa. Cfr. Ass. Firenze, ord. 19 aprile 1994, Pacciani, in Foro it., 1995, II, 166, nonché Trib. Bologna, ord. 15 giugno 1995, Caprara, ibidem, 167 annotate da A. CAMON. (40) Prima con l’istituzione di servizi centrali e interprovinciali (art. 12 d.l. 13 maggio 1991, n. 152), poi con la creazione della Direzione investigativa antimafia (art. 3 d.l. 29 ottobre 1991, n. 345). (41) Con l’istituzione delle Procure distrettuali antimafia e della Procura nazionale antimafia (art. 70-bis e art. 76-bis O.G., novellati rispettivamente da art. 5 e art. 6 d.l. 20 novembre 1991, n. 367).


— 582 — « super indagine » volta a raggiungere — vale la pena ribadire — cognizioni generali su un fenomeno criminoso che si suppone radicato nel territorio, nonché duraturo nel tempo (42); inoltre ad essa corrisponde solitamente la formazione di un fascicolo extra o superprocedimentale (43). Nelle indagini riguardanti la criminalità organizzata si nota insomma una divaricazione fra notitia criminis e notitia auctoris delicti. Si sarà portati a pensare che questa evoluzione della fase preliminare del processo è una caratteristica particolare del sistema italiano, spiegabile con l’eccezionale contingenza che ha visto e vede tutt’ora la nostra magistratura impegnata in difficili indagini contro la criminalità mafiosa e contro la corruzione politica. Ma le segnalate tendenze non riguardano solo la realtà italiana. Analoghi adattamenti alle esigenze della lotta contro il crimine organizzato si possono notare nelle pratiche investigative e processuali di altri paesi europei (44). Si riscontra insomma in molti ordina(42) Appare significativo in tal senso il concetto di « indagine patrimoniale concatenata » illustrato da G. TURONE, Le tecniche di contrasto del riciclaggio, in Cass. pen. 1993, 2952. Evidente nell’impostazione di questo autore-magistrato il duplice livello (« alto » e « basso ») che dovrebbe caratterizzare l’indagine giudiziaria nel campo del riciclaggio: « ...l’indagine patrimoniale deve essere saldamente ancorata, in basso, ad uno o più fatti criminosi specifici e ad un quadro probatorio che consenta di ritenere la sussistenza di un sodalizio imprenditorial-criminale; e deve poi svilupparsi come una catena, nella quale ogni singolo accertamento è un anello che si aggancia all’accertamento precedente e che costituisce la premessa dell’accertamento successivo ». Da un altro magistrato viene la proposta di istituire una autorità centrale con funzioni di tutela dell’ordine pubblico economico e dotata di una speciale organizzazione di polizia dedita esclusivamente ad indagini patrimoniali da condurre prima e separatamente dalle indagini sui singoli autori dei reati: cfr. C. NUNZIATA, Italia: frode fiscale e riciclaggio nell’esperienza legislativa e giudiziaria, in Rass. trib., 1992, 122. (43) « Fascicolo virtuale » è, ad esempio, l’espressione coniata nella pratica dei procedimenti riguardanti l’inchiesta « Mani pulite ». Conviene riferire testualmente il passo della requisitoria dove il pubblico ministero illustra il significato dell’espressione: « Per fascicolo virtuale abbiamo inteso un insieme, o meglio, la valutazione di tutti i fascicoli riferenti fatti di malcostume politico-amministrativo nel territorio e cioè tutti i fascicoli sono rimasti processualmente distinti fra di loro ma tutti insieme sono stati convogliati in un’unica bancadati affinché fossero fatte interrelazioni fra gli stessi per capire dove più si annidavano i fenomeni di malcostume, la degenerazione del sistema degli appalti, la degenerazione delle commesse pubbliche » (dalla requisitoria del pubblico ministero all’udienza dibattimentale del 17 febbraio 1993 presso il Trib. di Milano (imp. Armanini), pubblicata nell’inserto redazionale il di Pietro pensiero dal settimanale Panorama, Milano febbraio 1993, 59-60). (44) « Vorfeldermittlungen » (vale a dire, « investigazioni in campo neutro ») sono chiamate nella letteratura tedesca le indagini volte ad acquisire elementi conoscitivi generici su determinati ambienti criminosi. Diversamente che in Italia, tuttavia, in Germania il concetto è stato oggetto di discussioni dottrinali (si veda in particolare la monografia di E. WEßLAU, Vorfeldermittlungen, Berlin 1989) che hanno contribuito a far ricomprendere quelle operazioni investigative nell’orizzonte del procedimento penale, favorendo così una loro disciplina legislativa (ci si riferisce soprattutto alle leggi volte a disciplinare speciali poteri di polizia nelle indagini di criminalità organizzata e, precisamente, quella del 15 luglio 1992, nonché quella del 28 ottobre 1994).


— 583 — menti giuridici, una sincronica tendenza a dotare gli organi inquirenti (ivi compresa la polizia) di speciali poteri investigativi in vista della repressione del crimine organizzato: ciò che, detto in breve, si risolve nel consentire l’espletamento di inchieste volte a conoscere l’ambiente criminoso, preparatorie di successive indagini preliminari soggettivamente orientate (45). « Inchiesta preparatoria » sarà qui denominata, d’ora in poi, l’attività investigativa antecedente alla vera e propria indagine preliminare (46). 6. L’inchiesta preparatoria come nuova versione della inquisitio generalis. — Conoscere un ambiente criminoso è lo scopo dell’inchiesta preparatoria. Come questa abbia inizio e si svolga, quali soggetti vi intervengano, di quali attività e operazioni consti, quali problemi giuridici ponga, sono tutte questioni inedite che solo in uno studio monografico potrebbero essere affrontate nel dettaglio. In questa sede sarà sufficiente dar conto sommariamente dei principali aspetti problematici che vengono alla mente quando si pensa a questa fase prodromica dell’indagine preliminare. Cominciamo col constatare che l’inchiesta preparatoria — solitamente attività (per lo più occasionale) di polizia (47) — è progressivamente attratta nella sfera di attribuzioni del pubblico ministero. Ciò che sembra trovar spiegazione in un duplice ordine di motivi. Innanzitutto (45) Un esplicito invito ad introdurre speciali tecniche di indagine è contenuto nell’art. 4 della Convenzione sul riciclaggio, fatta a Strasburgo l’8 novembre 1990 e ratificata dall’Italia con l. 9 agosto 1993, n. 328. Per una panoramica sui principali paesi europei (nonché sugli U.S.A.) circa il problema delle speciali indagini contro lo criminalità organizzata si rinvia al volume curato da W. GROPP, Besondere Ermittlungsmaßnahmen zur Bekämpfung der Organisierten Kriminalität, Freiburg im Breisgau, 1993. (46) Non si vuol con questo sostenere che ad ogni indagine preliminare corrisponda sempre una inchiesta preparatoria. Spesso l’esigenza di raccogliere informazioni generali su ambienti o fenomeni criminosi viene soddisfatta all’interno di un’indagine preliminare già soggettivamente orientata, la quale spesso ben si presta ad essere contemporaneamente la sede per investigazioni ad ampio raggio, orientate in senso oggettivo. Sembrano funzionali all’attuazione di un simile programma le norme dettate per i procedimenti di criminalità organizzata, tese a mantener riservata la notizia dell’indagine in corso: ad esempio, artt. 335 comma 3 prima parte e 406 comma 5-bis c.p.p.; art. 12-quater commi 2 e 3 d.l. 8 giugno 1992, n. 306; art. 10 l. 18 febbraio 1992, n. 172; art. 98 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309. Anche l’indagine contro ignoti può essere sfruttata « a fini orientativi », vale a dire per costituire quella base conoscitiva indispensabile a ricostruire il quadro delle responsabilità individuali. (47) Nessuno si sorprende se l’autorità di polizia (in funzione preventiva) raccoglie informazioni su ambienti criminosi prima che sia iniziata l’indagine preliminare. In realtà però, ciò che si ritiene normale è che l’attività preventiva fornisca (occasionalmente) informazioni rilevanti ai fini dell’attività repressiva. Quando invece viene sistematicamente posta in essere in vista di indagini penali, quella stessa attività preventiva si salda funzionalmente all’attività repressiva mutando così la propria natura.


— 584 — nella collocazione istituzionale di quest’organo: magistrato che si pretende autonomo dal potere esecutivo, il pubblico ministero tende a sottrarre il proprio operato a qualsiasi dipendenza dalla polizia. Quando l’attività preventiva di quest’ultima si trasforma in prodromica della attività repressiva, appare insufficiente la garanzia offerta dall’art. 109 cost. (48). Per tutelare compiutamente la propria autonomia il pubblico ministero finisce, a sua volta, con l’intraprendere l’attività preventiva in funzione repressiva. In ciò egli, fra l’altro, è agevolato dalla coeva trasformazione che ha investito in questi anni il procedimento di prevenzione. Ed è questo il secondo motivo al quale poco fa si accennava. Specialmente nella lotta contro il crimine organizzato, molte attività qualificate come « preventive » sono, con tutta evidenza, piegate a scopi repressivi, giacché sono compiute sul presupposto che una condotta penale sia stata posta in essere o, quanto meno, sia in corso. Non solo: alcune di esse prevedono un intervento del magistrato in quanto comportano una compressione di diritti fondamentali della persona. Si pensi alle perquisizioni di interi edifici o blocchi di edifici (49), alle intercettazioni preventive (50), ai colloqui investigativi con detenuti disposti a collaborare (51). Altre si identificano con le numerose attività di carattere informale (pedinamenti, osservazione mirata su certi ambienti, scambio di informazioni con altri uffici pubblici) che mettono capo alla raccolta e alla elaborazione di dati utili anche in funzione repressiva (52). La modificazione del rapporto fra attività preventiva e attività repressiva merita particolare attenzione, poiché rappresenta uno snodo essenziale del nostro discorso. Ancora una volta, a fronte di un tema tanto vasto, occorre limitarsi a notazioni sommarie. È peraltro sufficiente un rapido sguardo anche da lontano per cogliere l’intima commistione che si è (48) La disponibilità della polizia giudiziaria (a partire quindi dall’emergere della notitia criminis) serve a poco se, a monte, l’autorità di polizia ha già impostato autonomamente la successiva indagine penale. Ciò, ad esempio, spiega perché l’istituzione della Direzione investigativa antimafia (l. n. 410 del 1991) sia stata subito seguita da quella della Procura nazionale antimafia (l. n. 8 del 1992). (49) Alla ricerca di « armi, munizioni o esplosivi » ovvero per rintracciare « un latitante o un evaso in relazione a taluno dei delitti indicati nell’art. 51 comma 3-bis »: art. 25bis d.l. n. 306 del 1992. (50) « ...necessarie per l’attività di prevenzione e di informazione in ordine ai delitti indicati nell’art. 51 comma 3-bis c.p.p.... »: art. 25-ter d.l. n. 306 del 1992. (51) Art. 1-bis l. 26 luglio 1975, n. 354. (52) È bene precisare che le norme sul procedimento di prevenzione contenute nella l. 31 maggio 1965, n. 575 non si applicano solo ai sospettati di appartenere ad associazioni mafiose. L’art. 14 l. 19 marzo 1990, n. 55 le estende alle persone sospettate di appartenere ad associazioni dedite al traffico di droga nonché a quelle sospettate di vivere, anche in parte, dei proventi di attività di riciclaggio, estorsive o di sequestro di persona a scopo di estorsione.


— 585 — venuta istituendo fra i due poli di quel rapporto (53). Da un lato, siamo ormai abituati a ritenere compatibili con l’attività processuale (repressiva) il perseguimento di finalità preventive: bastino gli esempi delle misure cautelari personali (art. 274 lett. c) c.p.p.) e reali (art. 321 c.p.p.), nonché le norme volte a incentivare rapporti di sinergia fra procedimento penale e procedimento di prevenzione (54). Dall’altro — come già detto — talune attività preventive sono esperibili sul presupposto di un ipotizzato accadimento criminoso e rivelano pertanto una indubbia vocazione repressiva. L’apparente paradosso si spiega se si pensa che una medesima attività può caratterizzarsi come repressiva rispetto a un certo reato e come preventiva rispetto a un altro tipo di reato. Ciò che puntualmente accade nei procedimenti riguardanti la criminalità organizzata. Limitiamoci qui a considerare la realtà del procedimento di prevenzione antimafia (55). Tale procedimento si colloca sempre in una posizione (temporalmente) intermedia fra un reato già commesso o in corso di compimento (vale a dire, l’associazione di stampo mafioso) e la costellazione dei reati-scopo che potrebbero trarre origine dal sodalizio criminoso. È chiaro che le informazioni raccolte per prevenire questi ultimi, possono servire a impostare una attività repressiva con riferimento al reato-presupposto. Proprio l’aver messo l’accento su questa relazione causale fra reati-presupposto e reati-scopo ha contribuito a relativizzare la distinzione fra attività preventiva e attività repressiva (56). In definitiva, il procedimento di prevenzione rappresenta, sia per la polizia, sia per il pubblico ministero, una comoda occasione per condurre inchieste preparatorie, finalizzate alla conoscenza di determinati ambienti criminosi, quali l’ambiente mafioso, l’ambiente dello spaccio di stupefacenti, l’ambiente del riciclaggio, l’ambiente dei sequestri di persona, l’ambiente del terrorismo politico (57). (53) In argomento si vedano anche le osservazioni svolte nel precedente studio, R. ORLANDI, II procedimento penale per fatti di criminalità organizzata: dal maxi processo al « grande processo », in AA.VV., Lotta alla criminalità organizzata: gli strumenti normativi, Milano 1995, 92 ss. (54) Art. 23-bis l. 13 settembre 1982, n. 646. (55) La cui disciplina è disseminata in una serie di leggi speciali fra le quali vanno soprattutto ricordate la l. n. 575 del 1965; la n. 726 del 1982; la n. 646 del 1982; la n. 55 del 1990; la n. 152 del 1991; la n. 345 del 1991; la n. 419 del 1991; la n. 356 del 1992. (56) A ben vedere, quel che si è osservato per il procedimento di prevenzione vale anche per il procedimento penale: quest’ultimo è avviato sul presupposto che un reato sia stato compiuto; tuttavia, ad evitare che possa essere proseguita la condotta criminosa in ordine alla quale si sta procedendo, la legge processuale predispone strumenti di carattere preventivo. (57) La pratica tende peraltro ad estendersi al di là dei casi di criminalità organizzata in senso stretto quando, ad esempio, l’inchiesta preparatoria viene intrapresa per raccogliere informazioni sull’ambiente della corruzione, dell’immigrazione clandestina, della prostituzione e l’elencazione potrebbe continuare. Verosimilmente collegata a questa modalità della


— 586 — Nell’impostare l’inchiesta preparatoria su simili ambienti, il soggetto agente (polizia o pubblico ministero) usufruisce di una amplissima discrezionalità. È vero che la sua attività deve pur sempre orientarsi alle norme del diritto penale sostanziale, le quali rappresentano un limite necessario anche ad evitare possibili arbitrii investigativi. Tuttavia, la scarsa determinatezza che sovente caratterizza le fattispecie di reati associativi (tipico il caso dell’art. 416-bis c.p. (58)) rende incerti i confini del fatto penalmente rilevante (59). A tracciarli ci deve intanto pensare chi intraprende l’inchiesta preparatoria, la quale — per quanto si prospetti ampia — va sapientemente circoscritta, per essere concretamente intrapresa, ma anche, semplicemente, per poter dare buoni esiti. Qui l’investigatore si trova in una posizione non molto dissimile da quella che occupava il giudice nella vecchia inquisitio generalis. Ora come allora, l’individuazione dei fatti penalmente rilevanti è operata in concreto, alla stregua di vaghe indicazioni normative (adesso, approssimativamente fissate in una formula legale; anticamente, riprodotte nelle ordinanze criminali, negli editti del sovrano o desumibili da princìpi etici per lo più di origine religiosa). Ora come allora, l’accusa va costruita anche sulla base di presupposti extra normativi. Infatti certi comportamenti apparentemente « neutri » possono assumere una coloritura criminosa, se guardati alla luce di determinate conoscenze sociologiche o criminologiche. Di qui la tendenza degli investigatori (e addirittura dei magistrati giudicanti) a procedere da « teoremi »: nel che si coglie, per lo più e di solito polemicamente, un eccesso di soggettivismo da parte dell’investigatore e, quindi, un lato discutibile dell’attività giudiziaria. Ma il « teorema » rappresenta spesso una premessa necessaria dell’indagine, poiché fornisce un criterio per riconoscere le condotte penalmente rilevanti all’intemo di una quantità indifferenziata di condotte potenzialmente lecite. Anche il « teorema » insomma contribuisce alla scoperta della veritas criminis, qualificandosi così come atto di moderna inquisitio generalis. procedura investigativa è l’organizzazione « per campagne » dell’attività repressiva. ogni inchiesta preparatoria — se ben condotta — fornisce infatti notizie di reato in notevole quantità e può quindi sfociare in una serie assai numerosa di indagini preliminari. (58) Quali siano, ad esempio, i fatti nei quali si ravvisa l’intento del sodalizio mafioso di « acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche » è questione che l’investigatore deve risolvere indagando su un determinato segmento spazio-temporale dell’attività economica, dove potrebbero esser inclusi fatti equivocamente leciti e risultare esclusi fatti illeciti pur collegati al contesto ambientale posto sotto osservazione. Lamenta la generica tecnica di tipizzazione usata dal legislatore nella formulazione della fattispecie criminosa in parola G. FIANDACA, Commento all’art. 1 l. 13 settembre 1982, n. 646, in LP 1983, 263. (59) Si pensi anche al ricorso, molto frequente in giurisprudenza, del concorso eventuale esterno in associazione mafiosa; un vero e proprio strumento di dilatazione del tipo penalmente rilevante: cfr., da ultimo, sez. un. 5 ottobre 1994, Demitry, in Cass. pen. 1995, p. 842, m. 529.


— 587 — L’avvio dell’inchiesta preparatoria si sottrae poi a un altro, classico presupposto idoneo a fungere da limite per l’organo investigativo: la constatata esistenza di sufficienti indizi, solitamente attestata da una notizia di reato. Da un mero sospetto si muove alla scoperta di informazioni penali soggettivamente determinate (60). In altre parole, la vera notizia di reato non è il presupposto ma il fine dell’inchiesta preparatoria. Col che viene in evidenza un ulteriore tratto di analogia rispetto alla vecchia inquisitio generalis: anche l’inchiesta preparatoria può trarre spunto da qualsiasi motivo di sospetto, non importa se ricavato da un documento anonimo, da un incrocio di dati, da un’indagine statistica (61) o se altrimenti partorito da una fertile fantasia investigativa. Si consideri infine che l’inchiesta preparatoria è condotta nella pressoché totale segretezza, all’insaputa cioè delle persone che saranno eventualmente coinvolte nelle successive indagini preliminari. Trattandosi di fase ufficialmente esterna al procedimento penale, le attività in essa compiute non ricadono ovviamente nella sfera di garanzia dell’art. 24 comma 2 cost. I privati interessati, pur se destinati a rivestire i panni degli indiziati nelle successive indagini preliminari, non possono pretendere — in sede di inchiesta preparatoria — di avvalersi dei diritti che la legge processuale riconosce alla parte (art. 61 c.p.p.). Proprio come nell’inquisitio generalis, dove il futuro inquisito non aveva titolo per intervenire come parte, fino a che l’investigazione non avesse sciolto i dubbi circa il constare de delicto (62). 7. L’indagine preliminare come nuova inquisitio specialis. — Le informazioni raccolte nell’inchiesta preparatoria possono costituire un’efficace base conoscitiva per la successiva indagine preliminare. Quest’ultima, specie nei procedimenti di criminalità organizzata, tende quindi a caratterizzarsi come nuova inquisitio specialis. L’interrogatorio dell’indiziato è il clou non solo dell’indagine, ma si può ben dire, dell’intero procedimento penale: una confessione strappata all’indiziato segna le sorti del (60) Si può affermare che sia la legislazione sia la prassi giudiziaria hanno imboccato una strada diversa da quella auspicata da F. BRICOLA, Premessa, in Commento alla l. 13 settembre 1982, n. 646, in LP, 1983, 239: non il sospetto di mafiosità come presupposto di un procedimento sanzionatorio amministrativo, bensì come prodromo di una vera indagine penale. (61) Ad esempio, quella compiuta dall’Ufficio italiano dei cambi, allo scopo di « far emergere fenomeni di riciclaggio nell’ambito di determinate zone territoriali » (art. 5 comma 10 l. 5 luglio 1991, n. 197): il pubblico ministero, avuta conoscenza dei dati aggregati forniti dall’U.I.C., potrà impostare un’attività di prevenzione nella zona segnalata, mettendo sotto osservazione talune persone ritenute sospette. (62) Sembrano ispirarsi a questa logica di segretezza le norme che consentono di ritardare l’esecuzione di provvedimenti cautelari. Cfr. art. 98 d.P.R. n. 309 del 1990, nonché art. 10 l. 18 febbraio 1992, n. 172.


— 588 — processo. L’esistenza, a monte, di una vasta inchiesta preparatoria determina inoltre una notevole asimmetria di posizioni fra i soggetti dell’indagine: il pubblico ministero è solitamente in grado di sfruttare conoscenze accumulate in anni di investigazioni e ordinate in una complessa (spesso convincente) trama storica che difficilmente l’interrogato può mettere in discussione (63). Confermano l’assunto la stessa crisi dell’udienza preliminare e la progressiva attrazione di tale segmento procedurale nell’orbita del giudizio di merito. Il parallelo con l’inquisitio specialis trova inoltre un significativo punto di corrispondenza nell’uso inquisitorio, nonché sostanzialmente sanzionatorio, delle misure cautelari durante l’indagine preliminare (64). Da anni, l’accennata disparità di posizioni nella fase preliminare del processo è motivo di acutissimi scontri tra classe forense e ordine giudiziario. Al fine di allentare la tensione si è perseguita una riforma delle indagini preliminari che accrescesse le facoltà difensive, rafforzasse la posizione neutrale dell’organo giurisdizionale, ridimensionando al contempo il ruolo del pubblico ministero (65). Di questo passo però si corre il rischio di legittimare ulteriormente la fase preliminare del processo come inquisitio specialis: le più robuste garanzie difensive risultano infatti inserite in una fase (l’indagine preliminare) che, nei casi di criminalità organizzata, nasce già soggettivamente orientata e che di solito è pesantemente condizionata da una precedente inchiesta preparatoria. È quindi lecito supporre che questa riforma contribuirà ad aumentare ancor più l’importanza dell’udienza preliminare. Giudizio abbreviato e patteggiamento saranno poi (63) In queste circostanze, opporre il silenzio o un pervicace diniego serve a poco e, alle volte, è addirittura controproducente, perché non fa che rafforzare nel magistrato interrogante l’idea che l’interrogato sia colpevole; considerato alla luce delle conoscenze già acquisite nella inchiesta preparatoria, l’atteggiamento non collaborativo di quest’ultimo appare come istintivo e ingenuo desiderio di sottrarsi alla responsabilità penale. « Indubbiamente il diniego, abilmente sostenuto, ha dalla sua l’assoluto della propria forma e basta alla difesa del criminale; ma è in un certo senso un’armatura che diventa una trappola quando il pugnale dell’interrogatorio vi trova una articolazione. Dal momento in cui il diniego diventa insufficiente contro l’evidenza di certi fatti, l’imputato si trova alla mercé del giudice ». (BALZAC, Splendori e miserie delle cortigiane, Milano 1986, Garzanti, 365). (64) Il peso condizionante dell’inchiesta preparatoria sull’interrogatorio dell’indiziato, può contribuire a spiegare le disfunzioni verificatesi anche recentemente nella prassi giudiziaria italiana in tema di custodia cautelare. Quando le « prove a carico » si collegano a un complesso intreccio storico — magari confortato da una considerevole quantità di dati e fatti noti all’opinione pubblica — l’indiziato viene percepito anche in sede giudiziaria più come protagonista (reo) di quella storia, che come parte interessata all’accertamento della verità. In altre parole, quando l’interrogante dispone di abbondante materiale « a carico », l’interrogatorio si trasforma fatalmente in strumento per ottenere una confessione, il cui contenuto è già scontato. Per questo il silenzio opposto dall’interrogato si presta ad essere « utilizzato » contro di lui: mentre egli tace, la ricostruzione storica ordita dall’accusa « parla » continuamente in suo sfavore. (65) Riforma realizzata con la già citata l. n. 332 del 1995.


— 589 — soluzioni pressoché obbligate per l’imputato che ha confessato (66); mentre il dibattimento — se mai ci si arriverà — si trasformerà in una sorta di appello sugli esiti della fase preliminare del processo. 8. Considerazioni conclusive. — Le osservazioni sin qui svolte, benché sommarie, sono già sufficienti per formulare qualche rilievo conclusivo. Una prima considerazione riguarda i compiti della dottrina. Se è vero che nei procedimenti penali contro la criminalità organizzata, l’inizio dell’attività repressiva precede di regola l’avvio dell’indagine preliminare, la fase sopra convenzionalmente denominata « inchiesta preparatoria » rientra a pieno titolo nel campo di osservazione del processualpenalista. La notizia di reato (specie quella soggettivamente qualificata) cessa di essere un mero presupposto di fatto del procedimento penale; essa si configura piuttosto come atto conclusivo dell’inchiesta preparatoria, la quale a sua volta scaturisce da un sospetto orientato verso un ambiente criminoso. Una riedizione della inquisitio generalis che attende di essere studiata e analizzata come segmento iniziale del procedimento. Un’ulteriore considerazione si impone con riguardo alle prospettive future della normativa processuale. Appare infatti del tutto insufficiente l’attuale regolamentazione della cosiddetta inchiesta preparatoria, in buona parte camuffata nella normativa sul procedimento di prevenzione. Ma se è vero che detta inchiesta rappresenta il vero incipit della procedura criminale, occorrerà regolarla come una fase a sé. Ciò non deve indurre ad una anticipazione delle garanzie difensive, come sarebbe portato a pensare chi interpretasse in senso (forse eccessivamente) lato il termine « procedimento » nell’art. 24 comma 2 cost. Ammettiamo pure che tali inchieste siano condotte su ambienti criminosi e, quindi, in incertam personam: l’essenziale è che autorità giudiziaria e polizia non vi agiscano soltanto in base a clausole generali, ma trovino nella legge i limiti predeterminati del proprio operare. Si è osservato che il diritto penale sostanziale — a causa della indeterminatezza di talune fattispecie criminose — non è più adatto, da solo, ad assolvere questa funzione di limite. Converrà dunque intervenire con disposizioni legislative tese a circoscrivere preventivamente l’uso di dati e informazioni a fini di ricerca o, più esattamente, di ricostruzione di una notitia criminis in certam personam. Il rilievo vale a maggior ragione oggi, se si pensa alla materiale possibilità che gli attuali mezzi informatici offrono di tenere in archivio, selezionare, scambiare con estrema rapidità dati personali in notevole quantità; e se si pensa altresì che in Italia manca una normativa volta a tutelare adeguatamente la per(66) A meno che esigenze di spettacolarità non « richiedano » l’ostensione pubblica dell’imputato in dibattimento.


— 590 — sona contro i possibili abusi di informazioni nominative in mano pubblica (67). A questo proposito, appare di notevole interesse, per il giurista italiano, la discussione sviluppatasi in Germania intorno al diritto alla « autodeterminazione informativa » quale diritto fondamentale della persona (68), idoneo a giustificare l’imposizione di limiti all’uso di dati personali per finalità investigative di carattere sia preventivo sia repressivo (69). Quel che si è detto nei paragrafi precedenti induce a considerazioni di notevole portata sull’attività del pubblico ministero e sulla organizzazione del relativo ufficio. Qui si impone una riflessione tanto difficile, delicata e coraggiosa, quanto ormai indifferibile. La accennata, scarsa determinatezza delle fattispecie incriminatrici e l’anticipazione del procedimento di costruzione dell’accusa (la cosiddetta inchiesta preparatoria) fanno venir meno i presupposti elementari che giustificano il principio di obbligatorietà dell’azione penale sotto il profilo del pari trattamento dei cittadini di fronte alla legge. Si ammetterà che, se davvero il diritto penale non è più sufficiente, da solo, a fungere da limite all’intervento giudizia(67) Le uniche disposizioni legislative in vigore sono quelle contenute negli artt. 8-10 l. 1o aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza) e nel relativo decreto delegato di attuazione (d.P.R. 3 maggio 1982, n. 378). In tali provvedimenti normativi la tutela della persona è subordinata alla conoscenza occasionale di un uso giudiziario di dati erronei, incompleti o illegittimamente raccolti (art. 10 comma 2 l. n. 121 del 1981). (68) « Recht auf informationelle Selbstbestimmung »; questo principio (elaborato dalla giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht: sentenza del 15 dicembre 1983, in Neue Juristische Wochenschrift 1984, 419) ha avuto e ha tuttora un forte impatto sulla normativa e sulla prassi processuale penale germanica: per ulteriori informazioni sull’argomento si rinvia al precedente studio, R. ORLANDI, Atti e informazioni amministrative nel processo penale, Milano 1992, 85-86. Un diritto alla ‘‘autodeterminazione dei dati personali’’, analogo a quello sintetizzato dalla giurisprudenza costituzionale tedesca, dovrebbe peraltro essere riconosciuto anche dall’ordinamento italiano, in attuazione dell’accordo di Schengen: al riguardo si veda L.S. ROSSI, La protezione dei dati personali negli accordi di Schengen alla luce degli standards fissati dal Consiglio di Europa e dalla Comunità europea, in AA.VV., Da Schengen a Maastricht, a cura di B. NASCIMBENE, Milano, 1995, 173 ss. (69) Da un lato, c’è chi — trattando tali dati alla stessa stregua di fotografie o impronte digitali riconducibili all’imputato (§ 81b StPO) — considera il loro uso soggetto alla clausola generale che attribuisce alla polizia il potere di ricercare le notizie di reato (§ 163 StPo): a rimediare l’eventuale arbitrio poliziesco l’interessato può far intervenire il giudice amministrativo, al quale spetta quindi l’ultima parola circa la conservazione di dati personale a fini preventivi e repressivi: così, ad esempio, Verwaltungsgerichtshof Mannheim, 18 maggio 1987, in Neue Juristische Wochenschrift 1987, 3022. Chi invece ritiene che tali dati ricadano nella sfera di influenza del cosiddetto diritto all’autodeterminazione informativa, considera indispensabile una specifica regolamentazione legale del potere di polizia in questo campo: la legge dovrebbe cioè stabilire in anticipo sia i presupposti, sia i limiti temporali della conservazione di dati personali a fini preventivi e repressivi: così, Verwaltungsgericht Frankfurt, 18 febbraio 1987, ibidem, 2248.


— 591 — rio, la « supplenza » giudiziaria cessa di essere patologia e diventa elemento fisiologico del sistema (70). Conseguentemente, l’attività di costruzione dell’accusa apparirà non già come automatica traduzione di un comando legale, bensì come frutto di scelte soggettive che — orientate alle fattispecie criminose indeterminate della legge penale integrate da assunti sociologici o criminologici — si colorano necessariamente di arbitrario. Sarà allora necessario ripensare radicalmente la collocazione istituzionale del pubblico accusatore, onde evitare l’impressione di parzialità e partigianeria del suo operare (71). Detto in breve: anche in epoche lontane si è avvertita l’esigenza di limitare l’uso del potere giudiziario di punire. Ai tempi dell’inquisizione il limite discendeva prevalentemente dal mondo dei fatti: il giudice doveva giustificare l’uso del proprio potere punitivo nei confronti di una persona determinata, provando il constare de delicto; la distinzione fra inquisitio generalis e inquisitio specialis garantiva — come si è accennato — il rispetto di un limite politico-costituzionale. L’abbandono della concezione naturalistica del reato e l’affermarsi di una concezione normativa hanno reso parzialmente obsoleta quella distinzione: il limite al dovere giudiziario di punire lo si è fatto derivare prevalentemente dalle fattispecie incriminatrici di formazione legale e solo in via residuale dal mondo dei fatti o, meglio, delle conoscenze intorno ai fatti (notizia di reato). La crisi di questo modello — osservabile soprattutto nella scarsa determinatezza di talune fattispecie criminose riguardanti la criminalità organizzata e nel simultaneo, tendenziale superamento della notizia di reato come presupposto di fatto dell’indagine penale — si annuncia come la versione rinnovata di un problema antico. Si tratta, in particolare, di tracciare i confini della nuova inquisitio generalis, attraverso una regolamentazione normativa dell’accresciuto strumentario investigativo e del relativo uso ad opera della polizia e del pubblico ministero. Scopo del presente studio era appunto richiamare l’attenzione su questo lento, ma deciso, evolversi del nostro sistema penale verso forme di intervento poliziesco e giudiziario parzialmente svincolate da parametri legali; su questo lento rifluire del corpus delicti dal diritto penale sostan(70) In base alla elementare constatazione che il magistrato deve riempire volta per volta di contenuto concreto, ciò che la legge non è in grado di prefigurare in modo determinato. (71) La semplice separazione delle carriere requirente e giudicante sarebbe rimedio del tutto inadeguato allo scopo. Non è detto (né sembra auspicabile) che la soluzione al problema consista in un assoggettamento del pubblico ministero all’esecutivo. Certo è tuttavia che — se le osservazioni svolte nel testo rispondono al vero — l’attività preparatoria dell’accusa comporta scelte di opportunità: in quanto tale essa reca in sé una ineludibile valenza politica e dev’essere pertanto resa suscettibile di controllo in sede politica.


— 592 — ziale verso l’antico alveo del processo (72). È peraltro un fatto contingente che simile, significativo mutamento nell’esercizio della giurisdizione penale sia osservabile soprattutto nelle indagini contro la criminalità organizzata. Come spesso accade nel campo delle condotte processuali, un metodo utilizzato « con successo » in relazione a talune forme di criminalità, si candida ad essere adottato ben oltre la tipologia dei casi che ne hanno occasionato la sperimentazione. RENZO ORLANDI Associato di Procedura penale nell’Università di Camerino

(72) Questo spostamento del confine fra diritto penale e processo è lucidamente denunciato da G. HEINE, Beweislastumkehr im Strafverfahren?, in Juristenzeitung 1995, 651 ss. Compito attuale del diritto penale (soprattutto nel campo dell’economia, dell’ambiente e della criminalità organizzata) sarebbe di ridurre una serie di futuri pericoli attraverso l’imposizione, a singoli e società, di doveri di controllo e vigilanza tesi a governare le corrispondenti situazioni di rischio (ivi, 652). Proiettandosi nel futuro, la norma penale fornisce prognosi ottimali di comportamento, ma perde in determinatezza. Quale sia la condotta conforme a diritto è questione da risolvere caso per caso. Conseguentemente, princípi fondamentali del processo quali la presunzione di innocenza perdono il loro usuale significato. Di notevole interesse anche le osservazioni svolte con riferimento alla singolare fattispecie di « frode postale » nel sistema statunitense da M. PAPA, Il reato di mail fraud nel diriffo federale statunitense: spunti sui presupposti della responsabilità penale tra previsione legale dell’illecito e prassi applicativa, in Diritto penale in transizione, a cura di G. FIANDACA, in corso di pubblicazione presso Cedam, Padova.


NOTE SULL’ELEMENTO SOGGETTIVO NEL REATO DI STREGONERIA NEL DIRITTO COMUNE

La proposta per un esame dell’elemento soggettivo nel reato di stregoneria nasce dalla lettura e dalla trascrizione di un processo, ancora inedito, celebrato nel Ducato di Urbino dai primi giorni del mese di agosto del 1587 alla fine del mese di gennaio del 1588 (1), in un momento in cui una importante costituzione pontificia in materia, decisamente repressiva nei suoi contenuti, è stata pubblicata da poco più di un anno (2), e in cui la dottrina dominante sui malefici, attribuiti alle streghe, ha ormai offerto (1) È conservato presso la Biblioteca Universitaria di Urbino, Archivio Congregazione Pian di Mercato, Biblioteca Universitaria di Urbino: MS., Busta 39, fasc. 1: Lamiarum. Casa Vincenzi. Processi a streghe ed ai bestemmiatori. 1587. Atti giudiziari diversi e carte relative. N. 1. Il manoscritto è stato recentemente restaurato e, in quella occasione, sono state spostate due carte che non erano impaginate. (2) È la notissima costituzione Coeli et terrae Creator del pontefice Sisto V del 5 gennaio 1586, il cui testo può essere agevolmente consultato, p.e., in L. FERRARIS, Prompta bibliotheca canonica, iuridica, moralis, theologica, tom. VII (S-Z), ed. Venetiis 1777, pp. 297300. Nelle carte del processo esiste un preciso riferimento a questa costituzione fatto dall’accusata, ma cfr. f. 25v - f. 26r: ‘‘Et in hoc dicente dimovebat se in aliam partem se vertendo, et subiunxit item ex se: ‘‘Quando sono le rede piccole amalate chi fa un remedio, et chi un altro; et io, quando sono state male i miei, gli ho fatto qualche remediuccio, che mi son state così insignate da altri’’. Et dicente domino que, respondit: ‘‘Qualche volta, quando uno sta male, si toglie, et l’ho tolto ancor io, signor Vicario, un pignatto di herba, si bolle et si lava la creatura amalata; et tra quella et la grazia di Dio in prima, guariscono, se bene delle volte ne morano. Et io ho adesso una mamolucia, figlia della Giovanna mia figlia, che ha le gambe tantine — ostendente digitum auricularum — et è più di un anno che non li fanno niente, che doppo venuto questi concilii io non fo più cosa veruna’’. Interrogata a quanto tempore citra languentibus curatione huiusmodi non adhibuerit, respondit: ‘‘Quanto a me, penso che siano da quattro o cinque anni che non ho fatto niente’’. Et sepius, inter depponendum, suspiravit. Interrogata an sciat quid sit istud concilium et <a> de quo inteligat et quando fuerit publicatum, respondit: ‘‘Io non so che se vogli mo dire questo concilio, intendo che, doppo che si è fatto questo papa da Fosse che ci ha messa la scomunica sopra queste cose, non ho fatto più niente, né ho lavato più nisuno’’’’. Il rinvio è comunque da intendersi anche nei confronti dell’altra notissima costituzione pontificia Immensa aeterni Dei del 22 gennaio 1587, ove Sisto V confermava ogni competenza per la materia della eresia alla Congregazione dell’Inquisizione, ma cfr. C.HENNER, Beiträge zur Organisation und Competenz der päpstlichen Ketzergericthe, Leipzig 1890, pp. 308-310. Sembrerebbe però che gli atti del processo si riferiscano ad una costituzione di papa Sisto V meno recente, quale può essere solo la Coeli et terrae Creator.


— 594 — contributi, che sul piano giuridico devono ritenersi essenziali. In particolare ci si vuole riferire al consilium in materia, erroneamente attribuito a Bartolo da Sassoferrato (3), al trattato De Lamiis di Giovanni Francesco Ponzinibi (4), ad un passo dei Parerga di Andrea Alciato (5). Esaminando la dottrina non si possono però trascurare i sei libri delle Disquisitiones magicae di Martino del Rio (6), anche se l’opera è soltanto di qualche decennio più tarda, rispetto agli atti del processo urbinate. Le Disquisitiones rappresentano infatti un contributo ineludibile per la definitiva sistemazione di tutte le concezioni sulla stregoneria, giuridiche e teologiche, diffuse nel secolo, ma che hanno meritato anche tarde riedizioni (7). Una corretta ancorché sommaria informazione sul problema obbliga comunque a passare in rassegna la disputa sul Canon episcopi presso i giuristi e teologi (8) e sulla autorità che a tale antica fonte è stata riconosciuta in quella discussione. La negazione di alcune realtà legate al sabba e l’atteggiamento piuttosto mite delle autorità cattoliche in materia di superstizione e specificatamente in tema di stregoneria, sono ormai considerati momenti essenziali del problema, acquisiti alla più recente storiogra(3) Cfr. BARTOLUS A SAXOFERRATO, cons. Mulier striga, de qua agitur, sive latine loquendo lamia, debet tradi ultimo supplicio et igne cremari, in Consiliorum seu responsorum ad causas criminales [...] tomus primus, Venetiis 1566, f. 5va-Uh. (4) Cfr. JOANNES FRANCISCUS PONZINIBIUS, Tractatus [..] de lamiis et excellentia utriusque iuris, cum nonnullis conclusionibus ad materiam heresis in practica utilibus, in Tractatus e variis iuris interpretibus collecti, ed. Lugduni 1544, XII, 45v-51r, ristampato anche nel Volumen [...] omnium tractatuum criminalium, ed. Venetiis 1570, f. 88r-99v, nonché in T.U.I., XII, I, ff. 350r-356r. Secondo la scheda di G. BOSCO, in Bibliotheca lamiarum. Documenti e immagini della stregoneria dal Medioevo all’Età Moderna, Pisa 1994, p. 120-121, il tractatus ha sicuramente circolato già nel 1520, per essere noto a Silvestro Mazzolini (1460 ca.-1523) nel suo De strigimagarum demonumque libri tres, ed. Romae 1521. (5) È il cap. XXII del Libro VII, cfr. A. ALCIATUS, Operum tomus tertius, coll. 660661, 104-106). (6) MARTINUS DEL RIO, Disquisitionum magicarum libri sex, quibus continetur accurata curiosarum artium et vanarum superstitionum confutatio, ed. Colonial Agrippinae, 1679. (7) Mi riferisco all’edizione veneziana del 1746 che ha provocato la pronta reazione di G. TARTAROTTI (1706-1761) nella sua opera Del congresso notturno delle lammie libri tre [...]. S’aggiungono due dissertazioni epistolari sopra l’arte magica [...] stampato a Rovereto nel 1749 dall’editore G. Pasquali. Nella stessa edizione compaiono anche la Risposta [...], alla lettera intorno all’origine e falsità della dottrina de’ maghi e delle streghe del sig. Conte Gio. Rinaldo Carli, pp. 351-451, sempre del Tartarotti. Per una esatta informazione sulla polemica rinvierei alle schede di G. BOSCO, Catalogo. I. Documenti, in Bibliotheca lamiarum, cit. p. 169 e pp. 201-202. (8) Il testo è edito da REGINO ABBAS PRUNENSIS (✝915), nei sui Libri duo de ecclesiasticis disciplinis et religione christiana [...] S. BALUZIUS [...] emendavit, [...] edidit et notis illustravit, ed. Parisis 1671, al lib. II, cap. 364. È una fonte di probabile origine carolingia, che è poi confluita nel Decretum di Graziano, C. XXVI, q. 5, attraverso le raccolte canonistiche di Burcardo di Worm — che erroneamente lo attribuisce al Concilio di Ancira del 314 e con l’introduzione di alcune contaminazioni — e di Ivo di Chartres.


— 595 — fia (9). Il documento più importante, punto di arrivo di una tale tendenza, è l’Instructio pro formandis processibus in causis strigum et maleficiorum, scritto nell’ambiente della Congregazione del Sant’Uffizio e che ha circolato anonimo dal 1624 in poi (10). Resta comunque fermo il fenomeno della repressione, che non sempre sembra corrispondere ad un mero processo di derubricazione del reato, ma discende direttamente dalle concezioni sociali imperanti nel tempo. Ritengo che il tentativo di identificare in un processo di derubricazione il diverso atteggiamento di alcuni dottori giuristi e teologi, sia da considerare giuridicamente brillante (11) e stimoli proprio la ricerca verso l’applicazione dei modelli giuridici attuali, quale è l’elemento soggettivo, all’interno della complessa problematica storica del reato di superstizione e della sua devastante dogmatica. L’identificazione del reato di stregoneria, o più genericamente di superstizione, è un problema che i giuristi non hanno potuto ignorare, davanti a comportamenti che tutte le classi sociali ritenevano comunque antigiuridici. Era inevitabile che un reato come quello dell’eresia delle streghe, così avversato e combattuto ideologicamente nei secoli di mezzo, potesse essere eluso dal ceto forense. Il fenomeno è quanto mai interessante, perché si dipana in tutte le sue complicazioni repressive all’interno del sistema di diritto comune e in epoca anteriore all’età delle codificazioni, quando il giurista è ancora in grado di potere influenzare ideologicamente le fonti in modo sicuramente decisivo. Il risultato è che il reato di superstizione non è individuato dai giuristi nel credere o non credere all’esistenza delle streghe o stregoni, ma piuttosto nella antisocialità, che i comportamenti, posti in essere durante i riti demoniaci, trovano presso le classi dominanti. Ritengo che proporre una lettura dei soli aspetti giuridici del processo urbinate, può sembrare una indagine limitata (12). Ma è come voler esplorare quel versante al quale, in un campo così delicato, si dovevano attenere i pratici (13). Tralascio infatti il contributo, oggi riconosciuto al(9) Mutuo il giudizio dal lavoro di A. PROSPERI, Credere alle streghe: inquisitori e confessori davanti alla ‘‘superstizione’’, in Bibliotheca lamiarum cit., p. 17, che rinvia a J. TEDESCHI, Inquisitorial Law and the Witch, in Early Modern European Witchcraft. Centres and Peripheries a cura di B. Ankarloo e G. Hennigen, Oxford 1990, pp. 83-118. (10) Per le indicazioni essenziali su tale importante documento cfr. G. BOSCO, op. cit., pp. 176-177. (11) È proposto da A. PROSPERI, op. cit., p. 17. (12) Il problema del reato di stregoneria ha aspetti abbastanza vasti e deve essere correttamente collocato nella formazione e nello sviluppo del diritto penale sacrale che, nell’età del diritto comune, fiorisce accanto al diritto penale. Il diritto penale sacrale individua figure nuove, come i reati contro la religione, il culto, la verità e la fede e le leggi della Chiesa. Ma cfr. O. RUFFINO, Il crimen haereseos nei glossatori, in Rivista di Storia del diritto italiano, 1973-1974, p. 73. (13) Ben poco infatti si potrebbe trarre sul comportamento processuale degli inquisi-


— 596 — l’intervento dell’Inquisizione, che ha imposto ‘‘il modello semplificante della stregoneria’’, o meglio ‘‘l’elaborazione di una lettura unitaria di un mondo vario e disperso, strano e incomprensibile’’, ‘‘il fascino della grande semplificazione’’ (14), e mi riferisco unicamente all’opera di quegli inquisitori più o meno brillanti, occasionali o di carriera, che intorno ai fatti che vanno a contestare alle streghe, devono costruire accuse per reprimere alcuni comportamenti, valutati ideologicamente come palesemente antisociali (15), e quindi anche antigiuridici, come da sempre ci si propone in un giudizio penale. Secondo le prescrizioni originarie del Canon Episcopi le donne malefiche, perché ormai possedute da Satana, erano vittime di illusioni diaboliche, nelle quali erano convinte di cavalcare di notte su demoni, trasformati in bestie, spostandosi su larghi spazi, agli ordini di Diana, dea pagana. I vescovi e il clero minore erano sollecitati a sradicare questi culti, senza prescrizione di pene esemplari, per certi aspetti come se si fosse in presenza di una norma penale in bianco. Graziano, che aderisce a questa iniziale concezione, nei quattordici canoni della quaestio quinta, posta tori da trattazioni, che hanno circolato sul tema con finalità, che oggi potremmo definire divulgative, come i capitoli VI (De malefici e streghe), VII (Della negromanzia), VIII (Che la negromanzia sia stata anticamente nel mondo), IX (Del desiderio, che il diavolo ha di nuocere all’uomo), X (Che i malefici possano per mezo de’ loro malefizi nuocere a gl’uomini, animali e possessioni), XI (Se i malefici possano ancora turbare gli elementi), XII (Degl’incanti fatti ad amore et odio), scritti da O.C. COSPI nella sua opera Il giudice criminalista [...] dove con dottrina teologica, canonica, civile, filosofica, medica, storica e poetica si discorre di tutte le cose, che al giudice delle cause criminali possono avvenire, stampato in Venezia nel 1681. L’interesse per tali testimonianze può soltanto rivolgersi alla ricchezza delle fonti ivi richiamate e per il rilievo sociale dei comportamenti. Tale letteratura è poi una ulteriore non secondaria testimonianza dell’‘‘elaborazione di una lettura unitaria di un mondo vario e disperso, strano e incomprensibile [quale] è il lavoro a cui si dedicarono gli inquisitori’’, come afferma A. PROSPERI, op. cit., p. 21. (14) Cfr. A. PROSPERI, op. cit., p. 21. (15) È il problema della superstizione, che, come è altrimenti noto, è fortemente avversata sul piano sociale presso le classi dominanti nell’età del diritto comune. Per una completa classificazione della superstitio e per le varie sottospeci nella quale si articola vedi, p.e., L. FERRARIS, Prompta bibliotheca cit., Tom. VII (S-Z), ed. Venetiis 1777, pp. 295-296, nu. 1-35. Secondo questa classificazione le pratiche poste in essere dalla accusata costituirebbero magia, nelle sue fattispeci, naturali o superstiosa seu diabolica. La prima è definita come ‘‘ratio qaedam operandi mira per vires rerum naturalium occultas absque ope daemonis; et hac non est superstitionis pecies, quamvis tamen ut periculosam ex eo, quod Diabolus facile se immisceat, adeoque sensim ad superstitionem manuducentem diligenter cavendam esse merito censeant graviores, sanioresque doctore’’ (cfr. p. 296, nu. 10). La seconda invece è definita come ‘‘ratio quedam, seu facultas operandi mira, ope, et ministerio Daemonum per signa ab ipsis instituta. [...] Magia superstitiosa est ex genere suo peccatum mortale gravissimum, quia continet expressam, vel tacitam Daemonis invocationem, ac proinde benevolentiam erga ipsum, et confaederationem, ac societatem cum ipso: est autem Deo summe iniuriosum, quod ipso relicto ad Daemonem perpetuum eius hostem recurrant, et cum eo societas ineatur’’.


— 597 — alla ventiseiesima causa della terza parte del Decreto, passa in rassegna tutti i testi che condannavano la superstizione, ma che in definitiva prescrivevano soltanto che ‘‘sortilegam et magicam artem episcopi omnibus modis eliminare studeant’’ (16). La recezione del Canon Episcopi e di altre disposizioni provenienti da concili o da altri testi nel Decretum da parte del grande canonista Graziano, sicuramente esprime sul tema della stregoneria la posizione ufficiale della Chiesa (17): la glossa ordinaria ai passi recepiti dal Decreto, costituisce però il primo nucleo della dottrina del diritto comune intorno a cui si andrà elaborando un diritto penale sacrale, che sviluppa il crimen haereseos indipendentemente dalle ricerche dei dottori legisti intorno ai testi della grande compilazione giustinianea (18), anzi rivendicando una autonomia e un primato dell’uno sull’altro (19). È proprio contro tale equilibrata e mite posizione ufficiale, condivisa anche da giuristi di grandissima fama, che reagiranno gli inquisitori del secolo XV, fino ad elaborare una lunga serie di argomenti contrari, anche attraverso nuove tecniche esegetiche. Sono esemplificanti in proposito alcuni strumenti interpretativi tipici degli inizi della culta giurisprudenza che, per superare fonti più antiche, acquisite al sistema dello ius commune, e favorire così lo ius proprium, individuato nella nuova produzione legislativa del princeps, tendono sempre ad avanzare forti dubbi sull’origine di tutti i testi ritenuti scomodi. È infatti Bartolomeo Spina (20), che negli ultimi anni del XIV secolo, discute intorno all’autorevolezza del testo del Canon episcopi, dubitando sulla sua origine incerta e insinuando che, alla formazione del testo di legge, ‘‘non siano stati estranei movimenti ereticali e scismatici’’ (21). Certamente su una così forte inversione di tendenza, che disattende in forme palesi il diritto positivo individuato nelle disposizioni canoniche, ha influito in modo decisivo la bolla Summis desiderantes affectibus di Innocenzo VIII, del 5 dicembre 1484, i cui devastanti effetti sulla dottrina, sui processi e sulle valutazioni sociali, non meritano neanche un ulteriore commento (22). (16) Cfr. Decretum Grat. C. XXVI, q. 5. (17) In questo senso è da sottoscrivere ampiamente l’affermazione di G. BOSCO alla Scheda n. 4. Graziano (sec. XII) in Bibliotheca lamiarum, cit. pp. 91-92, proprio per l’importanza che ha il Decretum, che, come è universalmente noto, costituisce proprio la prima parte del Corpus iuris canonici. Attraverso tutte le successive schede l’A. segue costantemente le posizioni dei singoli Autori sul Canon Episcopi. La rassegna della dottrina su un punto così delicato è interessantissima, per il modo agile con cui è condotta. (18) Cfr. O. RUFFINO, op. cit., p. 73. (19) Sarà poi l’argomento principale della terza parte del Malleus maleficarum di Heinrich Kramer e Jacobus Springer. (20) Cfr. BARTHOLOMAEUS DE SPINA (1475 ca.-1546), De Strigibus. Striges ad Ludum diabolicum corporaliter [...] amplissima questione deffinitur, ed. Venetiis 1535. (21) Cfr. per la conclusione G. BOSCO, op. cit., p. 122. (22) Ebbe larghissima diffusione perché i due inquisitori, nominati in quel testo, Hei-


— 598 — Il consilium, pubblicato dallo Ziletti nella sua nota raccolta, si colloca così sulla linea ufficiale, che non vede applicabile se non la clemenza: per gli aspetti che qui interessano non entra in polemica con quanto il diritto canonico aveva ormai recepito da un paio di secoli accogliendo il Canon episcopi nelle raccolte. Non contraddicono poi il dettato repressivo del Canon episcopi autori come Johann Nider (23), Alfonso Tostado Ribera (24), Mariano Socini (25), Martin de Arles (26). Una considerazione particolare va invece avanzata per Girolamo Visconti, che è ancora ossequioso alle disposizioni del canone, ma testimonia per primo, a mio sommesso avviso, un nuovo importante argomento critico sulla sua vigenza, affermando come tutte le cose che le streghe dicono di porre in essere siano immaginarie, ma soprattutto da loro stesse ritenute vere (27). È proprio qui, che viene individuata, credo per la prima volta, la giustificazione, oserei dire addirittura la ratio, della durissima repressione, nella coscienza che comunque le malefiche realizzino atti e fatti antisociali. Contro tali posizioni che scivolano verso forme meno problematiche e più decise, un posto particolare va invece dato al frate minorita osservante Samuele da Cassine, per la certezza con cui, dopo la pubblicazione del Malleus maleficarum nel 1487, nega qualsiasi veridicità alle fantasie di quelle donne che considera ‘‘ignobiles vetulae, aut personae idiotae atque semplices’’ (28), dimostrando qualche sensibilità per un altro versante del problema. nrich Kramer (1430 ca.-1505) e Jacob Sprenger (1436/1438-1495), la premisero al testo della loro opera Malleus maleficarum, edito per la prima volta due anni dopo nel 1487 da Peter Drach, tipografo di Spira. Per la fama che ebbe tale summa diabolica cfr. la rassegna di G. BOSCO, op. cit., pp. 108-110, che segnala l’ultima edizione, stampata a Lione nel 1669. (23) Cfr. JOHANES NIDER (1380 ca.-1438), Formicarius, ed. Augsburg ca. 1484, ma vedi G. BOSCO, op. cit., p. 100. Afferma comunque la realtà della stregoneria, ma cfr. P. CASTELLI, ‘‘Donnaiole, amiche de li sogni’’, ovvero i sogni delle streghe, in Bibliotheca lamiarum, cit., pp. 40-41. (24) Cfr. ALFONSO TOSTADO RIBEIRA (1400 ca.-1455), Commentaria in primam partem Matthei, ed. Venetiis 1615, c. IV, q. XLVII e vedi la rassegna di G. BOSCO, op. cit., p. 101. (25) Cfr. G. BOSCO, op. cit., p. 102, che segnala le opinioni del giurista senese Mariano Socino (1397-1497) per l’equilibrio e la tolleranza nel suo Liber de sortilegis, nel Ms 619.1, ff. 45r-45v. della Biblioteca Casanatense di Roma. (26) Cfr. MARTINUS DE ARLES, Tractatus de superstitionibus contra maleficia seu sortilegia quae hodie vigent in orbe terrarum, in Tractatus e variis iuris interpretibus, ed. Lugduni 1549, 1, 233r-238v e in T.U.I., tom. XI (II), ff. 405v-411r, ma vedi la scheda di G. BOSCO, op. cit., p. 104. (27) Cfr. G. BOSCO, op. cit., p. 107. L’opera del Visconti (✝ 1478 ca.) è Lamiarum sive striarum opuscola, edito a Milano nel 1490. Sulle posizioni del Visconti, ma sempre sulla realtà dei sogni delle streghe e sul valore di una tale testimonianza che dimostra la diffusione dei temi discussi nella sua opera cfr. P. CASTELLI, op. cit., p. 41. (28) Sull’opera di SAMUELE DA CASSINE, Questione de le strie. Questiones lamearum, edito a Pavia nel 1505, rinvio alla scheda preparata nella sua rassegna di documenti da G. BOSCO, op. cit., pp. 114-115.


— 599 — Ma è sull’opera del Ponzinibi che deve essere portata l’attenzione. Il dibattito della realtà del sabba trova in questo giurista un momento altamente polemico, sia per le reazioni alle quali ha dato luogo il suo tractatus, sia per la rivendicazione che il giurista piacentino avanza sull’argomento: spetta alla autorità dei giuristi e del diritto civile discutere sul tema, non riconoscendo in materia la supremazia vantata dai canonisti e teologi e la specificità in proposito del diritto canonico in generale (29). Contro tali affermazioni risponderà ancora una volta Bartolomeo Spina rivendicando ai teologi ogni competenza (30). Un esame attento di questa disputa, dai forti contenuti ideologici, porta direttamente alla radice della distinzione tra il diritto penale sacrale e il diritto penale ordinario e sulle origini del problema, che restano ancora tutte da indagare. Infine va ricordato l’Alciato, che sul Canon episcopi non ha condiviso l’opinione di coloro che ormai sempre più diffusamente sostenevano la realtà delle illusorie pratiche notturne poste in essere dalle malefiche (31). Il contributo del grande giurista non si è limitato soltanto a queste affermazioni di principio, che per l’età in cui vengono pronunciate, sul piano ideologico sono anche una scelta di campo. Con sorprendente decisione si oppose alle condanne per eresia delle streghe, quando vengono pronunciate attraverso indizi o testimonianze non sempre formalmente idonee (32). Nella seconda metà del XVI secolo — gli anni nei quali si costruisce il processo urbinate — le tendenze principali della dottrina ormai si possono ritenere ben definite: ad un rigore repressivo, che fonda ogni sua ratio sul disvalore sociale delle opere poste in essere dalle streghe, si contrappone un atteggiamento più comprensivo del fenomeno sociale, sicuramente più problematico. L’inquisitore del processo urbinate dimostra di conoscere i problemi e si muove all’interno delle figure di reato e delle forme processuali con sicura dottrina, lasciandoci una testimonianza di interesse non trascurabile. Ma la sua scelta ideologica verso le nuove e più dure tendenze repressive, che percorrono il suo secolo, non trova sufficienti argomenti per potere essere smentita. Le carte messe insieme da due ignoti notai urbinati raccolgono quasi tutti gli atti del processo, e in gran parte sono costituite da verbali di interrogatorio dei testimoni e della principale accusata, redatti in latino (29) Cfr. G. BOSCO, op. cit., pp. 120-121. (30) La tesi è sostenuta nell’opera Tractatus de preeminentia sacrae Theologiae, e soprattutto nelle quattro Apologiae in Ponzinibium de lamiis, dove il giurista piacentino è ritenuto un ‘‘haereticorum fauctorem’’. (31) Cfr. ANDREAS ALCIATUS, op. cit., coll. 661. (32) È segnalato sempre da G. BOSCO, op. cit., p. 124 e la testimonianza è tratta da A. ALCIATUS, Commentaria in Decretales Gregorii IX, in Operum, to. III, ed. Basiliae 1582, coll. 660-661 e 104-106.


— 600 — nelle domande dell’autorità che inquisisce e in volgare, anzi spesso anche in dialetto, nelle risposte. Corrono poi a margine e all’interno di queste carte tutta una serie di annotazioni, scritte dalla mano dall’inquisitore, e che costituiscono un vero e proprio commento, che insegue costantemente il comportamento della imputata e dei testimoni. Anche il notaio, per parte sua, tiene in gran conto questi aspetti, perché annota scrupolosamente tutte le reazioni della povera accusata (33) e dei testimoni, i momenti di disagio, le reazioni improvvise, le indecisioni, i rossori. Il prendere in particolare considerazione da parte dell’inquisitore questi atteggiamenti è prassi risalente quando compare in atti (34), ma non quando è annotata a margine degli atti stessi dall’inquisitore, e consente invece di concludere che i comportamenti esteriori dell’accusata sono ritenuti rilevanti, non solo ai fini processuali, ma per formulare in primo luogo quelle che costituiscono le tavole di accusa del reato di stregoneria e poi anche ai fini del giudizio definitivo. È vero che è un modo come un altro per raccogliere prove della colpevolezza della persona accusata, perché alcune annotazioni di per sé si collocano nella grande teoria degli indizi, elaborata dalla dottrina del diritto comune (35), ma questo è soltanto un aspetto che connota l’attività inquisitiva (36). (33) Oltre quelli che si leggono alla nota 2, supra, p. 593, ricordo solo alcuni esempi: al f. 23r ‘‘Et cum hec depponerit frequenter suspirabat’’. Al f. 23v ‘‘Idque iterrum repphetit’’. Al f. 24r ‘‘Et hec depposuit post multa verborum et excusationum in verbera’’. Al f. 25r ‘‘Postea dixit ex se’’. Al f. 26r ‘‘Et sepius, inter depponendum, suspiravit’’. Al f. 28r ‘‘id sepius repetendo ‘che stava male’’’. Al f. 29r ‘‘et hoc sepius replicavit’’. Al f. 31r ‘‘Postea ellevando manum dexteram camminando, dixit semel atque iterum: ‘Se io ne campo, se io ne campo!’’’. Al f. 33v: ‘‘id sepius repetens, addens ex se’’. (34) Si deve avvertire che esiste una fonte da cui discende tale attività processuale che incombe al giudice, che nella dottrina è stata intesa ai soli fini dell’applicazione della tortura. Al passo D.48.18.10.5 era prescritto che ‘‘plurium quoque in excutienda veritate etiam vox ipsa et cognitionis suptilis diligentia adfert: nam et ex sermone et ex eo, qua quis constantia, qua trepidatione quid diceret, vel cuius estimationis quisque in civitate sua est, quedam ad inluminandam veritatem in lucem emergunt’’. (35) Cfr. P. FIORELLI, La tortura giudiziaria nel diritto comune [= Ius Nostrum. Studi e testi pubblicati dall’Istituto di Storia del diritto italiano dell’Università di Roma, 2], Milano 1953-54. (36) Per definire bene tale attività dell’inquisitore e i suoi limiti, si deve citare la dottrina, cfr., p.e., BARTOLUS A SAXOFERRATO, In secondam Digesti Novi partem commentaria, tit. De quaestionibus (48, 18), l. De minore (10), § Plurium (5), (ed. Augustea Taurinorum 1589, ff. 236vb-237ra, nu. 3-4) che afferma ‘‘Item sequitur, qua quis constantia et trepidatione loquitur. Et sic vides, quod constantia et trepidatio indicant aliquid iudici. Et hoc dicit Innocentius, Extra, de probationibus, c. quoniam contra (Extra, 4.6.11) quod ille qui examinat testes, hoc debet facere scribi in actis: hoc dicebat trepidando et balbutiendo et similia. Item tenet Speculator in tit. de teste. non recordor in quo § [recte nunc tractandum, versi. hoc autem scias] Et ex hoc etiam habes quod etiam ubi alia indicia extrinseca non proce-


— 601 — E poi in ogni caso i rilievi processuali di tale natura possono apparire anche del tutto pacifici, perché è noto, anzi direi che è un luogo comune, fino a costituire un pregiudizio, purtroppo valido anche oggi, ritenere che il disagio dell’imputata, p.e., possa costituire un indizio di colpevolezza. In questo processo inquisitorio però la valutazione dei comportamenti dell’imputata durante la sua inquisizione e un aspetto non secondario, che non si colloca nel rito soltanto come un elemento che forma il processo stesso, ma costituisce anche il risultato delle riflessioni dell’inquisitore, la sua ricerca verso la colpevolezza dell’accusata. È pertanto il riflesso che tali annotazioni hanno sugli aspetti sostanziali, sull’apprezzamento della natura del fatto antisociale, che si vuole punire e quindi anche sul reato, che deve essere preso in considerazione. Perché se dalle semplici annotazioni, che non costituiscono soltanto un semplice indizio, si passa ad un comportamento generalizzato dell’inquisitore, che invece vuole indagare atteggiamenti più intimi, convinzioni più nascoste, allora l’indagine si sposta procedendo da punti di vista, che oggi noi definiamo soggettivi e che costituiscono, ormai, un elemento essenziale del fatto che si intende reprimere, un elemento dello stesso reato. Anche se questa particolare attività di introspezione continua, che l’inquisitore lascia in larghe tracce nelle carte processuali, può ritenersi del tutto normale per il suo secolo, sembra possibile ripercorrere momenti di qualche rilievo, per capire non tanto la natura dei fatti che si contestavano a quella sventurata donna, ma la rilevanza penale che veniva attribuita a tali fatti. Diciamo che la vicenda processuale nasce da una vera e propria denunzia a seguito di una visita pastorale in una parrocchia del contado, e procede immediatamente con una rituale informativa, dove in pratica vengono ascoltati tutti gli abitanti di una piccola villa al fine di accertare il ripetersi di pratiche magiche. Questa prima parte introduttiva del processo, definita negli atti come examen et testificatio (37), costituisce l’indagine informativa ed è condunt, ex eo quod reus facit coram se loquendo trepide pavendo, et variando, potest iudex habere indicia sufficentia ad torturam. Ita vides hic. Et ideo debet iudex examinator esse cautus, ut faciat dicta eius sic varia, et diversa scribi in actis, et faciat scribere trepidationem et similia ne ei possit dici quod fecit poni ad torturam, non precedentibus indiciis’’. A parte la risalente tradizione di una tale prassi che procede dall’insegnamento di Sinibaldo de Fieschi, poi Innocenzo IV, e da Guglielmo Durante, la logica di un tale comportamento processuale dell’inquisitore è quindi da inquadrare nella teoria degli indizi che sfociano poi in quel mezzo processuale che è la tortura. Nei processi per stregoneria — sicuramente in quello urbinate — tale prassi sembra invece assumere un più vasto significato di introspezione del soggetto accusato, allargandosi dai verbali redatti dal notaio alle note poste a margine dalla mano dell’inquisitore. E proprio qui l’indagine si rivolge agli elementi soggettivi del comportamento antigiuridico della strega. (37) Ma vedi al f. 1r ‘‘Hoc est examen et testificatio quorundam testium examinatorum


— 602 — dotta da un semplice examinator per ordine del Vicario inquisitore. Si procede alla presenza di un testimonio qualificato, un abitante, chiamato ad asseverare come auditor tutte le attestazioni e le deposizioni rese dai testimoni. Subito però si comincia a costruire l’imputazione, perché tutti i testimoni ascoltati fondando le loro attestazioni su fatti, che sono ritenuti di publica vox et fama (38): raccontano dapprima come nel piccolo centro abitato ci fosse una donna sospetta, poi affermano come lei venisse normalmente vocata ad exhibendum medicamina contro alcuni malefici posti in atto dalle streghe (39) e infine, stretti ormai dall’incalzante e abilissimo esame inquisitorio, che non consente mai di negare le affermazioni generali già rilasciate, per timore di non essere tacciati quanto meno di falsità, se non addirittura chiamati come complici, tutti devono rispondere affermativamente alla domanda come quei medicamina, quibus usa fuit, sint superstitiosa (40). Questo è il modello di attestazione che si ripete in tutte le testimoper Reverendum dominum Marcum Seraphinum Vicarium forensem huius nostrae classis pro informatione Curiae Archiepiscopalis Civitatis Urbini ex precepto et mandato sibi facto per Reverendissimum dominum Paulum Paganum Vicarium Apostolicum eiusdem civitatis, scriptum autentice et rogatum per me dominum Horatium Vagninum, notarium publicum Urbini, presente etiam domino Federico Leonio de Castro Farnetae, teste spetialiter vocato per prefatum dominum Marcum ad audiendum dicta et attestationes prefatorum testium’’. (38) Vedi sempre al f. 1r: ‘‘Io l’ho inteso dire da altri, et in tutti li miei giorni l’ho intesa nominare per tale et per tale è tenuta e nominata da tutti quelli che la conoscono: e questo è publica voce e fama’’. Va qui annotato che negli atti processuali il discorso è diventato tecnico e traspare chiaramente l’influenza e il mestiere dell’inquisitore, che costruisce l’accusa. La fama è tecnicamente una prova processualmente valida e giuridicamente rilevante, così definita presso autori che nelle loro opere si sono proposti scopi soprattutto divulgativi: ‘‘est communis opinio voce manifestata ex suspicione proveniens, et grosso modo dicitur Vox populi, et in vulgari dicimus Vox populi, Vox Dei, in qua omnes concurrunt, vel maior pars, praesumitur se habere rationem [...]. Fama est vulgi, loci, seu maioris partis vehemens opinio rei, de qua quaeritur consentientes ut colligitur ex cap. Inquisitionis 21. in fine de accusationibus (Extra, 5.1.21), cap. Litteris, 12. et cap. Tertio loco 13. de praesumptionibus (Extra, 2.23.12 e 13)’’. Le autorità richiamate in questo passo sono la Lectura di Bartolo da Sassoferrato a D. 48.18.10.5, e la Lectura di Baldo degli Ubaldi a Extra, 4.6.11 e a Extra, 3.2.7, e sempre su quest’ultimo passo, le Lecturae di Prospero Fragnani e Giovanni Calderini, ma cfr. la voce Fama in L. FERRARIS, Prompta bibliotheca, cit., tomus tertius, ed. Venetiis 1777, pp. 364-365, nu. 3. Una sola annotazione, per dimostrare la persistenza nella dottrina di opinioni risalenti: Bartolo nella sua Lectura non ha affermazioni che si possono ritenere originali, ma riporta le opinioni del notissimo Tractatus de fama di Tommaso da Piperata. (39) Ancora al f. 1v ‘‘Item interrogatus an sciret quod ipsa domina Laura fuerit vocata ad exhibendum medicamina, seu aliqualia remedia pueris oppressis, vel ut dicitur suspectis ‘di esser sorbiti dalle streghe’ et an medicamina, quibus usa fuit, sint superstitiosa’’. (40) La domanda dell’inquisitore diventa subito tipica, ma cfr. f. 2r ‘‘Item interrogata an sciat ipsam dominam Lauram exhibuisse aliqua medicamina superstitiosa, pro reddenda sanitate pueris suspectis ut supra’’.


— 603 — nianze raccolte durante l’informativa, ma è anche la prima costruzione del capo di accusa, l’esser ‘‘stata chiamata — come dice un teste — a dar rimedi a molte creature infirmate et in suspetto d’esser opprisse et tolte o sorbiti dalle streghe’’ (41). Così i testimoni più compromessi nei fatti accaduti, collaborano con l’inquisitore per non essere coinvolti nei crimina e perciò vedersi chiamati a rispondere della stessa accusa. Ed è anche a questo punto che tutti i testimoni hanno ormai ben chiaro — naturalmente per quel timore, che nasce dalla dura repressione — che le pratiche magiche loro insegnate non devono essere seguite ‘‘dicendo conoscere questa essere una mera superstitione’’ (42). Individuata dunque la strega nella persona di una donna anziana — ha sicuramente più di settanta anni —, abitante della villa, segue poi l’inquisitio vera e propria, questa volta davanti al Vicario in persona. Prende le mosse dall’interrogatorio della accusata, con la rituale contestazione del reato, non tanto come pactum cum demone factum, ma nei suoi più intimi legami soggettivi. Come delitto, che deve essere punito, alla donna non vengono contestate tanto le sue pratiche malefiche o benefiche, ma piuttosto la circostanza di ritenersi l’intermediaria, anzi l’elemento umano, il soggetto, che è in grado di provocare tali fatti. L’affermazione finale, alla quale l’imputata è irrimediabilmente astretta dall’inquisitore, è significativa in questo senso, perché rappresenta la confessione tanto ricercata, processualmente decisiva per formulare l’imputazione, ‘‘io non so mo come se sieno sanate quelle creature che ho detto che gl’ho fatto i remedi, so bene questo, che io no mi sono data alli demoni’’ (43). La contestazione nasce infatti, dopo che le è stato formalmente ri(41) È il primo testimone ascoltato Franciscus quondam Baptistae Antoni de Castro Farnetae comitatus Urbini. (42) Lo riferisce la seconda testimone Domina Iulia, filia quondam Mei Sbrache, et uxor supradicti Francisci, che appunto depone come ‘‘E conferendo io questo con mio marito, non volse ch’io lo facessi, dicendo conoscere questa essere una mera superstitione’’ ff. 2v-3r. (43) Cfr. f. 50r-50v: ‘‘Et cum vere dicta constituta ostenderet se de his penitus ignaram et fere stupidam dominus noluit amplius de his que ad fidem pertinent etiam interrogare. Quare istis ommissis eamdem. Interrogavit an ipsa pactum aliquod expressum sive taccitum fecerit cum demone ut sibi in maleficiis assisteret ac faveret, respondit: ‘‘Signor no’’. Et dicente domino quid operationes iste sanitatum quas rettulit fiunt virtute demonum non ante illarum rerum quas adhibuit pro medicamine ac remedio pueris infirmantibus, quare bene cogitet dicere veritatem quia praesumitur inter ipsam et omnes alias maleficas talia exercentes et demonem foedus ac pactum aliquod innitum esse alias demon sanitates et operationes supradictas non faceret, respondit: ‘‘Io non so mo come se sieno sanate quelle creature che ho detto che gl’ho fatto i remedii, so bene questo, che io no mi son data alli demonii’’. Qui Reverendissimus dominus Vicarius, aliis occupatus negotiis, pro nunc dimmisit examen animo etc. et mandavit dictam constitutam reduci ad locum suum omni meliori etc.’’.


— 604 — chiesto ‘‘quid credat de [...] remediis an sanitas proveniat ex aliqua virtute naturali [...] an ex alia causa puta quia sumitur ex ecclesia et tempore divinorum vel quid simile’’ (44), oppure se la virtus sanandi delle sue pratiche derivi ‘‘ex virtute naturali vel alia a Deo [...] sibi elargita’’, dove la risposta, quasi ovvia della imputata, è ‘‘che la virtù gli la dii Dio et che queste cose non l’abbino da sé’’ (45). La domanda e la risposta devono infatti leggersi come un unico contesto, e realizzano così la comunicazione formale del reato alla accusata. Il reato é ben individuato nei suoi contenuti, perché è costituito da aliquae superstitiones, per aver voluto ‘‘exercere aliqua medicamina, pro reddenda sanitate pueris et quod a pluribus nocetur pro tali opere’’ (46). La proposta da verificare è di applicare alla situazione di colpevolezza, che durante il processo l’inquisitore va creando quasi dal nulla, o (44) Cfr. f. 62r-62.v :‘‘Interrogata quam virtutem habet ista terra sepulcrorum ut si quis eam commedat liberetur ea infirmitate terram commedendi nonne est eadem terram respondit: ‘‘E una medesima terra, ma che volete voi che sappia io, non so mo altro se non che a Buldrino mio figliuolo giovò’’. Interrogata quid credat de huiusmodi remediis an sanitas proveniat ex aliqua virtute naturali ipsius terrae que commeditur ablata a sepulcris mortuorum an ex alia causa puta quia sumitur ex ecclesia et tempore divinorum vel quid simile, respondit: ‘‘Che volete mo ch’io sappia, io penso che sia che Giesù Cristo voglia che si guarischi’’. Et dicente domino nonne potest dominus noster Iesus Cristus sanitatem restituere infirmantibus absque eo quod terram commedant desumptam a sepulcris, respondit: ‘‘Che volete mo che sappia, io non lo so’’. Interrogata an umquam docuerit modum alicui puelle strigem evadendi, respondit: ‘‘Hoimé, signor vicario, — volvens se in alteram partem — che volete che io sappi io di queste cose che non l’ho mai più intese’’. Interrogata an saltem ab aliqua audiverit qua ratione mulieres seu etiam viri efficiuntur striges, respondit: ‘‘Io non ho inteso questo, ho ben inteso’’. (45) Cfr. ff. 63v-64r : ‘‘Interrogata an remedia quibus constituta ipsa usa fuit docuerit etiam Iohannam filiam suam, respondit: ‘‘Una volta gli lavai un mamoluccio che lei lo vidde, et poi mai più gl’ho insegnato covello, covello, covello. Et s’io fossi strega non harei tanta turba de figliuoli perché me gl’harei bevuti come fanno le streghe’’. Interrogata an ipsa credat palmam benedictam, candelas benedictas, et thus benedictum, haec omnia admixta superstitionibus et eorum alteram virtutem habere pueros et languidos sanandi vel ex virtute naturali vel alia a Deo omnipotenti benedicto sibi elargita, respondit: ‘‘Credo che la virtù gli la dii Dio et che queste cose non l’habbino da sè’’. Interrogata an credat ea que instituta sunt a Deo ad salutem animarum vel etiam corporum si eo modo fiant quo instituta sunt et ea qua decet reverentia ac pietate sanitatem operantur pro eis quibus a maleficiis impiis observationibus ac a Deo prohibitis applicantur, respondit: ‘‘Io non so rispondere a queste cose perché non me n’intendo, credo tutto quello che commanda la santa madre Chiesa’’. Et monita ut tandem veritatem fateatur an expresse cum demone pactum inierit, an pueros interfecerit, an carnis purcitias cum demonibus exercuerit quia violentissime adsunt presumptiones contra ipsam tum ex fama publica quid lamia sit, tum etiam quia ab omnibus timetur in Villa Sancte Crucis Castellaris et Farneti augere etiam suspitio ex remediis per ipsam adhibitis et confessis ex variatione titubatione mendaciis, et aliis que multa sunt, quare disponat se ad veritatem dicendam, alias contra eam devenietur ad opportuna iuris remedia, respondit: ‘‘Fate pure quello che volete, et fate di me tutti i strazi che volete, che quello che ho fatto io l’ho detto et non posso dire altro’’.’’ (46) Cfr. f. 14r.


— 605 — perlomeno procedendo dall’esame di semplici riti di mera superstizione contadina, il modello della ricerca nel soggetto inquisito della coscienza e volontà nel porre in essere le pratiche tipiche della strega. E procedendo attraverso l’accertamento della coscienza e della volontà (47) con cui queste pratiche vengono poste in essere, ritenere un tale comportamento come decisamente antisociale per i tempi in cui é posto in essere e pertanto anche antigiuridico. Il duro atteggiamento repressivo che ne scaturisce diventa pertanto una conseguenza normale, soprattutto in quel sistema processuale inquisitorio, che non ha ancora neppure individuato forme diverse di apprezzamento o di sola comprensione di tali fatti. È proprio la convinzione che la donna denunciata ha di non applicare arti naturali, ma di costituire invece il tramite necessario attraverso cui si realizzano quegli avvenimenti, che potrebbe essere letto come l’elemento soggettivo del reato di stregoneria. Per dimostrare che il problema si pone in termini abbastanza complessi, sicuramente incerti, basterebbe ricordare come le pratiche mediche, considerate superstiziose, non vengono automaticamente e agevolmente inquadrate nella notissima legge contro le pozioni amatorie ed abortive del diritto romano giustinianeo (48), con una facile interpretazione analogica (49). È questo un sintomo di un fenomeno molto impor(47) Il problema della colpevolezza è ben diverso dall’indagine sulla semplice volontà, cui accenna O. RUFFINO, op. cit., p. 81. Non sono dunque sufficienti le affermazioni dei decretisti, che nel reato di eresia per la punibilità sia sufficiente la sola volontà, in contraddizione al principio romanistico che nessuno subisce la pena per il solo pensiero. Segnalo che l’affermazione nuova sul crimen haereseos è piuttosto risalente perché è attribuibile a Lorenzo Ispano da una sua glossa a Decretum Grat., De poenit. D.1.c.4. (48) Sui pocula abortionis et amatoria cfr. D.48.19.38.5: ‘‘Qui abortionis aut amatorium poculum dant, etsi dolo non faciant, tamen quia mali exempli res est, humiliores in metallum, honestiores in insulam amissa parte bonorum relegantur. Quod si eo mulier aut homo perierit, summo suplicio adficiuntur’’. (49) L’affermazione non deve meravigliare se solo si tiene conto che la prova della fama o l’indizio del comportamento indagato da Bartolo (vedi supra p. 600, n. 36), ma ovviamente noto a tutta la dottrina del diritto comune, procede da un passo che, secondo i criteri esegetici attuali e il divieto dell’interpretazione analogica in diritto penale, sarebbe applicabile solo e soltanto al minore, senza alcuna possibilità di generalizzazione. Ricordo in proposito l’esempio dello Statutum Reipublicae Sancti Marini del XVII secolo, che è statuto dotto, perché recepisce problematiche note alla dottrina (cfr. P. PERUZZI, Gli atti esecutivi in pendenza di restitutio in integrum nel diritto sammarinese. Note critiche intorno all’istituto tra ius proprium e ius commune, in Miscellanea dell’Istituto Giuridico Sammarinese, 1991, pp. 118-119), dove alla Rub. XII — De electione Dominorum Capitaneorum Reipublicae et perpetuae libertatis Terrae Sancti Marini et eorum officio, iurisdictione ac salario - del Libro primo (ed. Florentiae 1895, p. 12) è detto: ‘‘Capitanei praedicti [...] poenas quoque imponere possint secundum formam statutorum et reformationum praedictatrum, et ubi statuta et reformationes non provideant, de similibus ad similia procede possint, et condemnare, adaptantes casus occurentes determinatis prout melius adaptari potuerunt et ubi similitudo non reperiretur, iuxta formam iuris communis, vel eorum arbitrio iuxta formam statuti de


— 606 — tante nell’evoluzione del diritto penale, che vede il diritto penale sacrale costruire le sue ipotesi di reato indipendentemente dalle fonti romanistiche (50). A questo proposito invece bisogna far rilevare subito quegli spunti non secondari, che le fonti romanistiche sottoponevano all’attenzione dei dottori. I pocula abortionis et amatoria del diritto romano sono espressamente ricordati come mala exempla (51), e quindi come una categoria di fatti nella quale genericamente si stigmatizzano i comportamenti da reprimere, come quei comportamenti che oggi chiamiamo antisociali, e che riteniamo antigiuridici per l’ordinamento e pertanto penalmente perseguibili, proprio perché giuridicamente rilevanti. La dottrina del sistema di diritto comune invece aveva già offerto consistenti spunti per percorrere la strada che portava all’indagine degli aspetti più interiori, all’elemento psicologico del maleficio e di qui alla colpevolezza: lo pseudo Bartolo ha espresso qualche dubbio sugli effetti concreti delle pratiche delle streghe, il Ponzinibi giudica del tutto improbabile, che i fatti raccontati avvenissero veramente, mentre annota come le lamie, le streghe coltivassero la ferma ed intima convinzione, che gli avvenimenti fossero realmente accaduti. Ed é su questo punto che l’autore pone l’accento, quasi avesse individuato il fatto giuridico — il malum exemplum, per restare nella terminologia romanistica —, che ne giustifica la repressione. Per arrivare però all’esame della ‘‘coscienza dell’evento malvagio’’ o della ‘‘coscienza del male compiuto’’ da un lato e della ‘‘volontà consapevole’’ dall’altro, come prime categorie per un indagine sull’elemento soggettivo o psicologico in diritto penale, quali ce la rappresenta per la prima volta Antonius Matthaei da Herborn nei suoi Prolegomena al Tractatus de criminibus edito ad Utrech nel 1644, sembra quasi necessario che si sia dovuti passare, come tappa, oserei dire obbligata, attraverso le indagini inquisitorie di un reato, tutto ideologico nei suoi contenuti, quale è stato quello con il quale viene duramente repressa la stregoneria nel diritto intermedio, ridotta solo in termini di mera superstizione. Le teoriche del grande autore olandese, che attraverso un rescritto dell’Imperatore Adriano — ‘‘nei delitti si deve considerare la volontà non poenis arbitrariis loquentis’’. L’applicazione dell’analogia è qui perfettamente descritta e prescritta in un sistema che è quello tipico dell’età del diritto comune. (50) Cfr. O. RUFFINO, op. cit., p. 73. (51) Sull’importanza del malum exemplum indicato dalle fonti, come concezione che giustifica la repressione, ricorderei anche il frammento a D.48.8.3.2, che nuovamente insiste sulla punizione delle pozioni abortive: ‘‘sed ex senatus consulto relegari iussa est ea, quae non quidem malo animo, sed malo exemplo medicamentum ad conceptionem dedit, ex quo ea acceperat decesserit’’. Tra le due fonti esiste un collegamento più che evidente: la glossa ordinaria comunque lo segnala attraverso un reciproco rinvio.


— 607 — l’evento’’ (52) — recupera la distinzione delle azioni umane in volontarie, involontarie e miste, proposta da Aristotele nell’Etica (53), sono da ritenersi decisive in questo senso, perché, dopo i Prolegomena, il principio, che alla responsabilità penale dell’imputato si devono ascrivere solo fatti consapevoli, è ormai definitivamente acquisito alle concezioni del diritto penale. Non deve quindi suscitare meraviglia, anzi devono essere presi in seria considerazione tutti gli sforzi per una ricerca del nesso psichico, nel quale si intrattiene l’inquisitore, che si distinguono dagli indizi che avrebbero potuto portare alla tortura. Le sue domande così divengono anche più incalzanti per la denunciata, nelle intimazioni di attenersi alla sincerità nelle risposte, nel domandare se conosce la ragione per cui è stata tratta davanti al giudice. Ma è soprattutto l’enunciazione del principio che l’ignorantia non cadit in facto proprio (54), contestato alla imputata dall’inquisitore (55), che lascia intendere come l’indagine si sforzasse di capire come il nesso psichico doveva essere ricercato tra l’agente — la strega e i fatti, rilevanti per il loro contenuto psicologico, perché, come insinua quella parte della dottrina, che non sembra proprio voler contribuire al formarsi di un diritto penale sacrale, le pratiche superstiziose non trovavano molta probabilità di realizzarsi. Il principio enunciato è dunque inteso come canone per individuare non tanto la responsabilità colpevole, quanto la responsabilità personale della strega, nella ricerca, quasi impossibile, di chiamarla a rispondere per fatti propri, che nulla hanno di materiale, in quanto sono a lei attribuibili solo psicologicamente, perché posti in essere con dolo nelle due ipotesi di (52) Cfr. D.48.8.14: è un frammento di Callistrato che appunto recita ‘‘Divus Hadrianus in haec verba rescripsit: ‘in maleficiis voluntas spectatur, non exitus’’’. (53) ARISTOTELE, Etica, II.3 e X.5. (54) È proprio Antonius Mattheus che nell’esaminare i fatti dolosi commessi in preda all’impeto finisce per collocare tali fatti nelle azioni miste, cioé in parte volontarie ed in parte involontarie, evidenziandone lo stato d’animo. Ma soprattutto sono interessanti le sue conclusioni, quando afferma che è evidente come esse siano soprattutto di carattere volontario, dato che il principio dell’azione si trova nell’agente ed egli non ignora il complesso delle circostanze dell’azione stessa o, se la ignora, tale ignoranza è il più delle volte procurata o ricercata. Dunque quanto è esaminato dal grande giurista olandese è proprio l’enuciazione del principio che l’ignorantia non cadit in facto proprio, che l’inquisitore contesta alla accusata. (55) La contestazione è al f. 54v ‘‘Io non so chi si sia, non mi riccordo, né quelli che domandano che se la benedica, né manco so chi siano quei sacerdoti che le benedicano queste cose’’. Et monitus ut veritatem dicat qui sunt isti, respondit: ‘‘Io non so che non me ne riccordo’’. Et dicente domino ut caveat a mendaciis quia non est hoc verisimile ipsum nescium saltem personas que a se petunt ut supradicta benedicat quia ignorantia non cadit in facto proprio et videtur ipsum velle rem occultare, respondit: ‘‘Fate conto che io se me ne riccordassi che io ve lo direi’’.


— 608 — una superstizione che venga individuata come magia naturalis, o ritenuta magia diabolica (56). Le carte processuali da questo punto di vista non consentono ulteriori indagini per accertare se poi la struttura del dolo si é già evoluta verso la sola intenzione, come vorrebbe il Mattheus (57), oppure è ancora legata alle nozioni di inganno o di malizia, di chiara provenienza civilistica. È la continua stringente ricerca dell’inquisitore di voler dimostrare che la strega conosce perfettamente il c.d. disvalore dei comportamenti che persegue, che culmina nel costante rimprovero di aver posto in essere atteggiamenti, che in assoluto non deve né volere né produrre, in quanto sa che quel modo di agire è antidoveroso, riprovevole, che lascia intravedere le reali tendenze valutative dell’inquisitore. Ed è sulla coscienza di questo disvalore, che in quella età è il presupposto, se non dell’antigiuridicità, certamente dell’antisocialità, dell’offensività dei comportamenti superstiziosi, che si indagano i nessi soggettivi, psicologici, nella incrollabile certezza, naturalmente posseduta e duramente proclamata dal ceto che l’inquisitore rappresenta, che, nella superstizione e nel suo esercizio, esista una piena corrispondenza tra illiceità reale e illiceità legale. Tra questi atteggiamenti giuridicamente ancora molto confusi, dato che a volte perseguono soltanto fini repressivi, in forme pesantissime, proprio perché si indaga su un fatto quale é la superstizione, tutto ideologico nel suo contenuto e nelle sue forme — sono i mala exempla delle fonti romanistiche —, sembra intravvedersi un sicuro interesse verso la colpevolezza per quel fatto, che era costituito solo dalla convinzione di porre in essere pratiche magiche. Se il modello che si propone fornisce una qualche chiave di lettura alle carte dei processi di stregoneria, allora ricerche di questo tipo rappresentano anche un tentativo per proporre non solo i modelli giuridici più evoluti, ma anche per capire che questo tipo di processo può aver rappresentato una tappa, mi si perdoni l’espressione, quasi obbligata, nello sviluppo del diritto penale, soprattutto nella individuazione delle teoriche sulla colpevolezza. Concludendo devo appropriarmi delle parole di un Maestro ‘‘pur se (56) Cfr. L. FERRARIS, Prompta bibliotheca cit., Tom. VII (S-Z), ed. Venetiis 1777, p. 296, nu. 10 e 11. (57) La concezione di Antonius Mattheus, è che ‘‘il reato si commette con dolo, intenzione e il pieno possesso delle proprie facoltà al punto che la Legge Cornelia sui sicari non equiparava al dolo neppure la colpa grave’’. Il riferimento essenziale è dunque a D.49.8.7 ‘‘In lege Cornelia dolus pro facto accipitur, neque in hac lege culpa lata pro dolo accipitur. Quare si quis alto se precipitaverit et super alium venerit eumque occiderit, aut putator, ex arbore cum ramum deiceret, non praeclamaverit et praetereuntem occiderit, ad huius legis coercitionem non pertinet’’.


— 609 — depurato dagli astrattismi egualitari fuori della realtà umana, la colpevolezza è principio di civiltà giuridica, assurto a pilastro dei moderni sistemi penali, anche se il suo contenuto e funzione costituiscono oggetto di rinnovato e vivace dibattito’’ (58). Voglio dire in conclusione che a questo dibattito, che ha scoperto ed ha affermato valori generali di civiltà, hanno partecipato con larghi meriti anche le streghe. PIERGIORGIO PERUZZI Associato di Diritto comune presso la Facoltà di Giurisprudenza nell’Università di Urbino

(58)

Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova 1988, p. 280.


L’EVOLUZIONE STORICO-DOMMATICA DELLE CONDIZIONI OBIETTIVE DI PUNIBILITÀ

SOMMARIO: 1. Posizione del problema e linee di sviluppo della ricerca. — 2. Il differimento della punizione all’interno del Codice Zanardelli. — 3. L’art. 47 del Progetto Preliminare ed il dibattito all’interno dei Lavori Preparatori. — 4. Prime conclusioni. — PARTE I. La dottrina tradizionale. — 1. Il punto d’avvio del dibattito dottrinale. — 2. L’inversione metodologica dell’Alimena: la ricerca della natura e funzione del fenomeno condizionale. — PARTE II. Lo stato attuale del problema. — 1. Premessa. — 2. La natura processuale dell’istituto: le condizioni di punibilità non concorrono all’integrazione del reato. — 3. Condizioni di punibilità e principio di colpevolezza. — 4. Le condizioni di punibilità come soluzione di tecnica normativa per la codificazione di particolari esigenze di opportunità e buon senso. — 5. L’art. 13 della bozza di delega al Governo per la modifica del codice penale: spunti per una ricodificazione dell’istituto.

1. Posizione del problema e linee di sviluppo della ricerca. — Una ricerca sulle condizioni di punibilità rischia di esporsi oggi all’obiezione — difficile da superare — della non attualità. La disposizione di cui all’art. 44 c.p. (1), infatti, è stata nel corso degli anni al centro di un acceso dibattito culturale e, pertanto, la quantità e la qualità dei contributi prodotti autorizzano a ritenere già esplorate le problematiche di maggiore rilievo. Conviene, dunque, sottolineare preliminarmente che il presente la(1) La letteratura è ovviamente vastissima indichiamo, pertanto, in questa sede solo la bibliografia essenziale: cfr., ALIMENA, Le condizioni di punibilità, Milano, 1938; BRICOLA, voce Punibilità (condizioni di), in NDI, vol. XIV, Torino, 1967, pag. 588; ANGIONI, Condizioni di punibilità e principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1989, pag. 1440; AZZALI, Le condizioni di punibilità, Pavia, 1956; DONINI, Le condizioni di punibilità, in BRICOLA-ZAGREBELSKY, Giurisprudenza sistematica di diritto penale, Parte generale, vol. I, Torino, 1984, pag. 467; GIULIANI, Il problema giuridico delle condizioni di punibilità, Padova, 1966; NEPPIMODONA, Concezione realistica del reato e condizioni di punibilità, in questa Rivista, 1971, pag. 184; RAMACCI, Le condizioni obiettive di punibilità, Napoli, 1971; MUSOTTO, Le condizioni di punibilità nella teoria generale del reato, Palermo, 1936; CURATOLA, Condizioni di punibilità, voce in Enc. dir., vol. VII, Milano, 1966, pag. 809; DI LORENZO, Le condizioni di punibilità nella sistematica del reato, in questa Rivista, 1955, pag. 414; VENEZIANI, Spunti per una teoria del reato condizionato, Padova, 1992; ZANOTTI, Condizioni di punibilità e responsabilità oggettiva, in Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, Napoli, 1989, pag. 343; nonché dello stesso A., voce Punibilità (condizioni di), in Digesto discipline penalistiche, vol. X, Torino, 1995, pag. 534.


— 611 — voro non vuole essere una nuova e più originale presa di posizione rispetto alle tematiche di fondo sulle quali si è sviluppata la produzione scientifica sulle condizioni di punibilità. Si intende, invece, condurre un’analisi del fenomeno condizionale, attraverso l’esame complessivo delle differenti posizioni di pensiero manifestatesi nel corso degli anni e, ponendosi all’interno dei modelli culturali che via via si enucleeranno, controllarne l’evoluzione storico-dommatica sino alla recente proposta contenuta nell’art. 13 della bozza di delega al Governo per le modifiche al codice penale. Delimitata la prospettiva di indagine si procederà, pertanto, alla verifica del fenomeno condizionale all’interno del Codice Zanardelli ove, pur non esistendo una espressa previsione normativa, l’istituto era, comunque, presente, per poi passare, attraverso l’esame dei Lavori Preparatori e della dottrina tradizionale, sino a quella moderna. 2. Il differimento della punizione all’interno del Codice Zanardelli. — Come abbiamo già avuto modo di accennare all’interno del Codice Zanardelli il fenomeno condizionale non era previsto da una autonoma disposizione di legge, ciononostante si rinvengono numerose fattispecie nelle quali la punibilità è, di fatto, subordinata al verificarsi di un accadimento futuro ovvero incerto. Basterà ricordare che l’art. 484 dell’abrogato Codice Zanardelli recita: « Chiunque in luogo pubblico o aperto al pubblico tiene un giuoco d’azzardo o presta all’uopo il proprio locale, è punito con l’arresto... ». Nello stesso senso la disposizione di cui all’art. 459 sanzionava « l’uso di qualsiasi impostura atta ad abusare della credulità popolare, in modo che possa recare pregiudizio altrui o turbare l’ordine pubblico » (2); e con analoga tecnica legislativa era costruita anche la disposizione che prevedeva il reato di incesto. Anche qui, infatti, la sussistenza della fattispecie era subordinata al verificarsi « dell’estremo dello scandalo, vale a dire che la turpissima tresca non sia più un mistero celato nell’intimità della famiglia, ma abbia acquistato obbrobriosa notorietà » (3). Stesso ordine di considerazioni era, infine, possibile effettuare anche per gli artt. 153, 485, 486, 487, 246 e 338. (2) Secondo il MAJNO, Commento al codice penale italiano, Torino, 1924, vol IV, pag. 281, che riporta un passo della Relazione della Commissione della Camera sul progetto, 1887, n. CCLVI, « il Legislatore non può certamente spingere la tutela del diritto dei cittadini al punto di garantirli da tutte le frodi o male arti che essi volontariamente subiscono e spesso ricercano da se medesimi: ma quando ciò avviene nei luoghi pubblici o aperti al pubblico dove l’autorità esercita più spiccatamente la sua tutela essa non può restare indifferente a quei fatti e deve mercè le sanzioni penali prevenirli proibirli e punirli ». (3) Osserva sul punto il MAJNO, op. cit., pag. 280, « non deve in una società seria e civile andare impunita quest’arte di ingannare gli uomini e permettersi che falsi indovini, interpreti di sogni scopritori di pretesi tesori nascosti finti estatici o spacciatori di miracoli, ed


— 612 — 3. L’art. 47 del Progetto Preliminare ed il dibattito all’interno dei Lavori Preparatori. — La norma che prevedeva la condizione di punibilità nel Progetto Preliminare era, invece, sostanzialmente diversa rispetto all’art. 44 del codice penale vigente (4). Essa non ebbe vita facile, però, già in seno alla Commissione, poiché il Cavaglià, al suo primo intervento ne propose immediatamente l’abrogazione (5) sostenendo, con il consenso del Longhi, dell’Albertini e del Manzini, che le definizioni legali in quanto teoriche sono inutili all’interno di una codificazione (6). Sottolineò, al contrario, l’opportunità di mantenere la norma di cui all’art. 47 del Progetto il Massari secondo il quale era necessario distinguere « le condizioni che attengono all’esistenza del reato, nel qual caso il reato non si perfeziona se non attraverso il verificarsi di esse, dalle altre per cui si versa in condizioni di punibilità e per cui il reato si perfeziona anche prima del loro verificarsi, per tutti gli effetti giuridici, che attengono alla determinazione del momento consumativo » (7). L’opinione, tuttavia, non superò l’obiezione di fondo di rendere in concreto impercettibile il confine fra gli elementi essenziali del reato e le condizioni di punibilità (8) e i compilaaltri simili impostori facciano un mestiere della vergogna e così traggano un guadagno dalla credulità del volgo ignorante. Qui si tenta di porre un argine a tutta quella miriade di piccole frodi di truffe, di scroccherie, di ciurmerie, che si usano da coloro che mercè imposture, arti fraudolente, simulate prescrizioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, recano pregiudizio altrui o possono compromettere l’ordine pubblico ». (4) L’art. 47 del Progetto recitava, infatti: « Quando la legge richiede per l’esistenza del reato o per la sua punibilità il verificarsi di una condizione il colpevole risponde del reato ancorché l’evento da cui dipende il verificarsi della condizione non sia da lui voluto » Un’ampia analisi dei Lavori Preparatori è condotta da RAMACCI, op. cit., pagg. 10-33. (5) Cfr. Lavori Preparatori, cit., pag. 147. (6) Secondo il LONGHI (cfr. Lav. prep., cit., pag. 130), infatti, « finora simili definizioni non hanno trovato posto nei codici e non si sono verificati inconvenienti » ed in ogni caso « si possono dare nozioni senza imprimere alle norme il carattere di definizioni ». In relazione all’abbondante presenza di definizioni all’interno del Codice Rocco si vedano i chiari rilievi di DOLCINI, Codice penale, ora in MARINUCCI-DOLCINI, Studi di diritto penale, Milano, 1991, pag. 21; nonché di FIANDACA, Il Codice Rocco e la tesi della continuità istituzionale in materia penale, in Quest. crim., 1981, pag. 71. Una recente e molto ampia illustrazione del tema con ampi riferimenti di diritto comparato è, infine, contenuta in CADOPPI, Il problema delle definizioni legali in diritto penale, Padova, 1996. (7) Così MASSARI, Lav. prep., cit., pag. 147. (8) La critica fu operata essenzialmente dal Pres. APPIANI, cfr. Lav. prep., cit., pag. 147. Al MASSARI fu obiettato che nelle ipotesi delittuose indicate a sostegno del proprio convincimento ci si trovava di fronte ad elementi essenziali del reato e non a condizioni. L’A. in replica osservò: « debbo ancora ripetere che per i reati dolosi è comune investire tutti gli elementi compresi almeno di regola quelli accidentali e quindi non si potrebbe parlare di parricidio se Tizio uccidesse un individuo ignorando che sia suo padre. Ma il problema che sorge è questo: il concetto che il dolo debba investire tutti gli elementi del reato sussiste anche in rapporto alle condizioni? Se si sopprime l’art. 47 tale problema resta insoluto, poiché l’articolo vuole stabilire che per tali condizioni e precisamente per quelle che hanno carattere obiettivo si devia dal principio generale. In ciò l’importanza di questa disposizione ».


— 613 — tori optarono, comunque, per l’abrogazione dell’art. 47 del Progetto Preliminare (9). Ma il Guardasigilli si schierò, invece, a favore dell’inserimento nella parte generale della norma de qua, sostenendo la necessità di una disposizione che prevedesse espressamente l’eccezione alla regola secondo la quale il dolo deve investire tutti gli elementi della fattispecie. Nel pensiero del Ministro « l’analisi del reato, rivela, infatti, l’innegabile esistenza di alcuni reati nei quali la punibilità dipende dal verificarsi di un avvenimento che sta al di fuori del processo esecutivo del reato e si differenzia nettamente dall’evento criminoso » (10); e nella Relazione al Re, poi, tale posizione fu ripresa osservandosi che, « la legge esige che, per la punizione di determinati fatti, si verifichino determinate condizioni senza le quali si ritiene non necessaria la punizione » (11). L’argomento risultò decisivo: la tesi del Guardasigilli prevalse ed il testo dell’art. 47 del Progetto Preliminare con talune modifiche andò a costituire l’art. 44 del Codice Rocco. 4. Prime conclusioni. — Per l’ulteriore prosieguo dell’indagine occorre tirare brevemente le fila del discorso sin qui svolto, il reale valore dei dati sin qui raccolti, in relazione alla sintesi storica del fenomeno condizionale apparirà più chiaro. In breve: nel Codice Zanardelli mancava una norma di parte generale che prevedesse e disciplinasse il fenomeno condizionale; anche se è possibile individuare la presenza di non poche fattispecie nelle quali la punibilità era di fatto subordinata al verificarsi di particolari accadimenti. Ed è interessante notare, a questo punto, che in mancanza di una norma ad hoc e, sebbene la dottrina e la giurisprudenza dell’epoca assegnassero qualificazioni differenti al fenomeno condizionale (apprezzamenti di fatto, circostanze, condizioni), valutandone la portata al pari di tutti gli altri elementi costitutivi del reato (12), era comunque avvertita l’esigenza di subordinare la punibilità di determinati fatti al verificarsi di determinati accadimenti. Non diversamente nei Lavori Preparatori al Codice Rocco ancorché si possa cogliere la presenza di gravi contrasti (ma esclusivamente sulla formulazione del testo normativo e sulla opportunità di prevedere una disposizione ad hoc di parte generale) l’esigenza di subordinare la pretesa puni(9) Particolarmente efficace fu la critica del MANZINI, (cfr. Lav. prep.) secondo il quale occorreva distinguere le ipotesi di « esistenza » del reato da quelle di « perseguibilità ». (10) Cfr. Lav. prep., cit., pag. 101. (11) Cfr. Lav. prep., cit., Relazione al progetto definitivo, pag. 69. (12) Il MAJNO, ad es., qualifica « il luogo pubblico » come « apprezzamento di fatto » nella disposizione di cui all’art. 338 (cfr. vol. III, pag. 203) e come « circostanza » nell’art. 459 (cfr. vol. IV, pag. 281); mentre « il pubblico scandalo » ex art. 337 viene ritenuto una « condizione di punibilità » (cfr. vol. III, pag. 197).


— 614 — tiva di fatti di minore o particolare incidenza era avvertita in termini di assoluta uniformità e, come abbiamo avuto modo di vedere, costituì l’argomento decisivo a favore della definitiva introduzione dell’attuale art. 44 c.p. Sul punto è stato osservato da una parte della dottrina (13) che l’impostazione di fondo del Codice Rocco ancorato al doppio binario dei principi di stretta legalità e di obbligatorietà dell’azione penale, non poteva non comportare sul piano della tecnica-legislativa la necessità di prevedere tassativamente tutti i requisiti che concorrono ad individuare l’interesse oggetto di tutela costruito come elemento costitutivo del fatto di reato (14). Le scelte di valore e gli interessi che il Legislatore intendeva tutelare dovevano essere necessariamente inseriti sotto forma di elementi di fattispecie, all’interno del modello legale della norma, per poter essere imputati psicologicamente e/o materialmente al soggetto agente, poiché si riteneva fosse questo l’unico criterio che da un lato permetteva un effettivo controllo sulle scelte di politica-legislativa, dall’altro consentiva, unitamente al principio di obbligatorietà dell’azione penale, di escludere qualsiasi arbitrio e discrezionalità dalle concrete applicazioni della norma. Ne consegue che, mentre in epoca precedente alla riforma liberale, la punizione dei fatti di minore incidenza era direttamente affidata all’apprezzamento discrezionale del Giudice cui spettava anche l’accertamento in concreto delle esigenze di buon senso ed opportunità, (allarme sociale, gravità del danno, pericolosità del reo), con l’introduzione del principio di stretta legalità e di obbligatorietà dell’azione penale si impose l’esigenza di avere un sistema normativo, che, in antitesi alle istanze dell’Ancien Regime, contenesse regole predeterminate e fosse in grado di assicurare certezza attraverso l’analitica individuazione di tutti gli elementi che concorrono a formare la fattispecie. Ciò comportava, evidentemente, che le norme fossero formulate (almeno nelle intenzioni!) in modo chiaro e conciso e, soprattutto, che si attribuissero « ben definiti diritti-predicati a ben definiti soggetti giuridico-grammaticali e che fossero formulati tutti i principi generali » (15). Quelle stesse esigenze di opportunità e buon senso garantite in passato dalla discrezionale valutazione dei dati di fattispecie sopra evidenziati, dovevano essere, ora, « previste e tipizzate una volta per tutte ed in via astratta dal Legislatore sotto forma di condizioni di pu(13) Cfr. NEPPI-MODONA, op. cit., pag. 189. (14) Cfr. sul punto VASSALLI, Nullum crimen sine lege, in NssDi, vol. XI, 1965, pag. 493; nonché RONCO, Il principio di tipicità della fattispecie penale, Torino, 1979, pag. 79, secondo il quale « tali principi costituiscono dall’epoca della loro costituzione la trama su cui è stato costituito il diritto penale moderno: la legalità sulla tensione tra la scelta per l’assolutezza dell’atto d’imperio (...); e la tipicità come principio direttivo di ricostruzione degli istituti penali intorno alla creazione del bene giuridico ». (15) Così TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione, Padova, 198, pag. 139.


— 615 — nibilità » (16). La necessità, insomma, di subordinare la punibilità di particolari ipotesi rappresenterebbe una esigenza di politica-criminale avvertita da entrambe le codificazioni e, tuttavia, differenziata nel Codice Rocco esclusivamente per la previsione nella parte generale dell’art. 44 c.p., quale traduzione normativa di istanze post-illuministiche di garantismo borghese, secondo le quali lo schema normativo costituente l’incriminazione deve rispondere ad esigenze di certezza e determinatezza (17). La critica avanzata è, tuttavia, stringente: « l’ipotesi storica delle cdp come portato moderno sia del principio di stretta legalità che dell’idea dell’extrema ratio è falsa perché contraddetta dalle ricerche storiografiche » (18). Diversamente da quanto sin qui sostenuto, l’istituto proprio per la sua « vaghezza concettuale » (19) rappresenterebbe, invece, lo strumento normativo con il quale aggirare, all’occorrenza, il principio di obbligatorietà dell’azione penale, mentre il carattere obbiettivo si presterebbe ad un utilizzo per finalità di prevenzione generale. Il divario delle posizioni è, dunque, radicale. Per potere, perciò, prendere posizione sul punto occorre procedere all’individuazione dei filoni di pensiero più significativi stratificatisi all’interno della cultura giuridica italiana, all’indomani dell’entrata in vigore del Codice Rocco. PARTE I.

La dottrina tradizionale

1. Il punto di avvio del dibattito dottrinale: l’esigenza di sistemazione dommatica dell’istituto. — Il quadro delle posizioni dottrinali immediatamente successive al Codice Rocco è ampio e, nella sua eterogeneità, notevolmente complesso. Il tentativo di confrontare, con la naturale sintesi imposta dalla natura della presente ricerca, le diverse opinioni non si presenta agevole, attesocché non sempre si rinvengono orientamenti nettamente distinti ed originali e talune soluzioni, almeno parzialmente, tra loro si sovrappongono; consegue che può fondatamente sostenersi che, più che indirizzi di scuola congruamente differenziati, sono presenti due distinti atteggiamenti politico-culturali. (16) Così NEPPI-MODONA, op. cit., pag. 189. (17) Osserva il TARELLO, op. cit., pag. 387, che « l’altra ideologia penalistica che attraversa il secolo XVIII è quella della umanità » o « dolcezza » o « mitezza » della pena. (...) Un elemento di affinità tra la concezione retributivistica della pena e le dottrine razionalistiche era indubbiamente costituito dall’esigenza di certezza del diritto: se la pena è retribuzione (esatta) essa è e deve essere stabilita precisamente per ogni reato e non è nel potere del giudice di modificarla; mentre l’utilità e la mitezza possono suggerire di attenuare o inasprire la pena ». (18) Così ANGIONI, op. cit., pag. 1488-1489; nonché nello stesso senso, FIANDACAMUSCO, Diritto penale, Parte generale, III ed., Bologna, 1995, pag. 726. (19) Così ANGIONI, op. cit., pag. 1487.


— 616 — Nel primo che come avremo modo di vedere è il più diffuso, è possibile percepire lo sforzo di sistemazione dommatica, all’interno della struttura del reato, delle cdp; nel secondo, riconducibile sostanzialmente alla elaborazione scientifica di un solo A. emerge, invece, l’esigenza di un’analisi volta all’individuazione della natura e funzione dell’istituto. Il punto di avvio del dibattito è sicuramente rappresentato da un fondamentale lavoro del Delitala (20), che sembra rilevante almeno per due ordini di considerazioni: perché rappresenta la prima presa di posizione sul problema già sorto in seno ai Lavori Preparatori relativo all’inserimento ed all’adozione nel Codice Rocco delle c.d. definizioni legali; ed al tempo stesso perché costituisce indubbiamente il primo autorevole ed originale contributo alla sistemazione dogmatica delle cdp. La selezione della prospettiva dommatico-esegetico si manifesta sin nelle prime battute allorché si osserva che per la « sicurezza del diritto è necessario che il Legislatore preveda una precisa regolamentazione giuridica degli elementi costitutivi del reato » (21); mentre le divergenze di opinioni che sul punto si segnalano, sono riconducibili solo ed esclusivamente al fatto che non si è « preventivamente d’accordo sulla estensione del concetto di fatto » (22). È ben evidente, dunque, che il primo ed al tempo stesso più importante risultato che per tale via si consegue è quello di limitare il numero delle cdp escludendo quegli elementi, tradizionalmente indicati come condizioni di maggiore punibilità, che vengono, ora, ricondotti correttamente nell’alveo dei c.d. eventi preterintenzionali (23). (20) Cfr. DELITALA, Le dottrine generali del reato, ora in Diritto penale, Raccolta degli scritti, vol. I, Milano, 1976, pag. 3. (21) Così DELITALA, op. cit., pag. 63. Come esattamente rilevato dal RAMACCI (Le condizioni, cit., pag. 37), tale rilievo « costituisce il leit Motiv dell’intera opera al punto che nel pensiero del DELITALA la necessità delle definizioni legali è imposta dalla considerazione che nel silenzio della legge la pratica le ha mutuate dalla dottrina o più spesso ancora dalla Giurisprudenza della S.C. di talché in assenza di una formulazione legislativa se ne è avuta una giurisprudenziale ». (22) Così DELITALA, op. cit., pag. 77. Muove da qui anche la critica che l’illustre A. svolge alla tesi del Vannini (Cfr. VANNINI, Le condizioni estrinseche di punibilità nella struttura del reato, Raccolta di alcuni scritti minori, Milano, 1953, pag. 45-46), che sosteneva essere l’evento del delitto colposo un caso di cdp sul rilievo che « le relazioni che possono intercorrere tra l’agente ed il fatto sono due: una oggettiva e l’altra soggettiva la colpevolezza e la causalità; perché una data circostanza possa considerarsi come una condizione estrinseca di punibilità occorre che tra essa e l’azione delittuosa non sussista nessuna di queste relazioni » (Cfr., DELITALA, op. cit., pag. 97). (23) Secondo il DELITALA, op. cit., pag. 98 « l’unica differenza tra questi casi ed il reato preterintenzionale in senso stretto consiste in ciò, che nel reato preterintenzionale si ha un unico evento, ma maggiore di quello cui era diretta l’azione delittuosa, laddove nei reati qualificati dall’esito si hanno, invece, due eventi uno dei quali intenzionale e l’altro preterintenzionale. Nulla impedisce, però, di usare il concetto di preterintenzionalità in senso più lato di quello consueto, in modo da abbracciare tutti i casi in cui l’azione delittuosa tiene dietro vuoi un maggiore evento o vuoi pure un secondo evento non intenzionale, ma del


— 617 — L’importanza delle conclusioni sopra ricordate è di tutta evidenza: propugnando una inversione metodologica rispetto alla concezione tradizionale che agganciava il fatto alla volontà, al fenomeno condizionale viene ritagliato, per la prima volta, un ruolo preciso nella struttura del reato ed un ambito concettuale rigorosamente definito. Ed era quindi naturale che la prospettiva di indagine aperta da tali riflessioni dovesse continuare ad interessare ancora la dottrina coeva. Operando, tuttavia, un netto distacco rispetto all’elaborazione del Delitala, e focalizzando l’attenzione direttamente sui rapporti tra l’art. 44 c.p. e l’elemento psicologico del reato, altra parte della dottrina (24) rilevò che le incertezze, soprattutto applicative, che si registravano in ordine alla distinzione tra le cdp ed i presupposti del fatto, derivavano proprio dal ruolo residuale che l’istituto aveva assunto rispetto alla nozione di fatto, e le stesse discrasie relative all’ampiezza del primo si riflettevano inesorabilmente sulla delimitazione concettuale degli altri elementi della fattispecie. L’elemento di novità inserito con l’art. 44 c.p. doveva costituire, allora, un’eccezione alle regole generali in tema di oggetto del dolo ed il reato condizionale doveva essere inteso come una norma « alla cui perfezione giuridica concorrono, in uno con gli elementi volontari, alcuni altri elementi oggettivi, considerati, cioè, indipendenti dalla volontà del soggetto attivo » (25). L’art. 44 c.p. diventa, dunque, una norma di sbarramento, che accanto all’art. 42 c.p., consente di operare un differimento della tutela di particolari beni rispetto al momento della realizzazione effettiva della lesione, indipendentemente dall’accertamento del coefficiente psicologico (26). quale l’agente è tenuto a rispondere ». La dottrina moderna è concordemente attestata nel senso di ritenere che tale locuzione « non individua alcuna categoria dommatica autonoma » (così VENEZIANI, op. cit., pag. 58). Secondo ARDIZZONE, I delitti aggravati dall’evento, Milano, 1984, pag. 41, « la stessa possibilità di formulare il concetto di condizione di maggiore punibilità, con lo scopo di designare un elemento del reato, trova forti resistenze e decisivi disconoscimenti nella dottrina italiana. Solo in taluni limitatissimi casi (si pensi ad es. all’art. 310 c.p.) si riconosce (cfr. CONTENTO, Introduzione allo studio delle circostanze del reato, Napoli, 1963, pag. 164; GROSSO, Struttura e sistematica dei delitti c.d. aggravati dall’evento, in Riv. it. dir. proc. pen., 1963, pag. 443; ZUCCALÀ, Il delitto preterintenzionale, Palermo, 1952, pag. 754; TAGLIARINI, I delitti aggravati dall’evento, Padova, 1979, pag. 157-158) l’esistenza di fattori che condizionano l’applicazione di una circostanza aggravante relegando in questa categoria i casi di condizioni di maggiore punibilità ». (24) Cfr. DELOGU, Il reato condizionale, in Studi Cagliari, Milano, 1934. (25) Così, DELOGU, op. cit., pag. 60. (26) Sul punto è stato esattamente rilevato dal RAMACCI, op. cit., pag. 107, nota 85, che il Delogu accoglie pressocché completamente le obiezioni sollevate dal SABATINI (cfr., Principi di scienza del diritto penale, Catanzaro, 1921, vol II, pag. 43). Deve tuttavia porsi in risalto che l’intera costruzione non convince attesocché come è facile notare la definizione di reato condizionale cui si perviene è più ampia rispetto al modello del Delitala, ed indusse lo stesso A. ad operare una distinzione per molti aspetti artificiosa tra le condizioni oggettive del reato e le cdp, identificate nella querela istanza e richiesta e fondata sul presupposto che le ultime a differenza delle condizioni oggettive del reato, sono estranee al momento consumativo del reato e rientrano all’interno dell’antigiuridicità.


— 618 — Ma l’espressione forse più completa dell’evoluzione dell’opera di sistemazione dommatica delle cdp all’interno del reato deve ascriversi a quella dottrina (27) che preliminarmente e lucidamente individua i problemi sottesi alla ricostruzione dell’istituto nella « determinazione della nozione di condizione di punibilità e del posto che ad essa spetta nella struttura del reato » (28), osservando, altresì, che la condizione assume rilevanza in una duplice prospettiva: come condizione di punibilità dell’azione ovvero come condizione di perseguibilità dell’azione stessa; e mentre la prima condiziona l’esistenza del reato, la seconda, invece, inerisce all’esercizio dell’azione penale essendo il reato già completo in tutti i suoi elementi costitutivi (29). Così impostato il tema, viene meno innanzitutto la ricorrente confusione terminologica che si era determinata in relazione al coordinamento tra le condizioni del reato (30), le cdp e le condizioni di (27) Cfr. MUSOTTO, Le condizioni di punibilità nella teoria generale del reato, Palermo, 1936. All’interno del filone di pensiero che stiamo esaminando è possibile individuare un tratto comune nell’elaborazione di due AA. i quali pur non avendo dedicato all’argomento una specifica trattazione monografica, hanno comunque offerto un contributo originale alla dogmatica dell’istituto. L’elemento che collega, infatti, all’inizio il pensiero del CARNELUTTI (cfr., Teoria generale del reato, Padova, 1933) a quello del SABATINI (cfr., Il reato condizionale nella dottrina e nella legislazione vigente, in Scritti teorico-pratici sulla nuova legislazione penale italiana, I, Bologna, 1933) è il ricorso da parte di entrambi al concetto civilistico di condizione. Il primo A. muove dalla tradizionale distinzione dei fatti giuridici in modificativi, estintivi e costitutivi per arrivare, poi, a sostenere che il reato rappresenta l’unico fatto giuridico costitutivo poiché ad esso segue la punizione come effetto giuridico. Esistono, cioè, una serie di fatti « diversi dal reato dal quale si distaccano logicamente o almeno giuridicamente » (così CARNELUTTI, op. cit., pag. 47) che rientrano, appunto, in quest’ultima categoria, attesocché concorrono a determinare unicamente la punibilità del fatto. Tali rilievi, tuttavia, non appaiono irresistibili poiché si arrestano ad una generalissima distinzione degli istituti insufficiente rispetto al complesso dei problemi che il tema solleva. Senza adeguato approfondimento resta, in verità, il profilo della distinzione tra le cdp, le condizioni di esistenza del reato e le condizioni di procedibilità. L’adesione del criterio civilistico è, tuttavia, più evidente nel pensiero del Sabatini secondo il quale la condizione è « un avvenimento futuro, incerto ed estrinseco agli elementi costitutivi ed essenziali del reato, al cui verificarsi la legge subordina la punibilità » (così SABATINI, op. cit., pag. 21). La fattispecie condizionale è pertanto composta dal complesso degli elementi costitutivi ad essa tipici a cui si affianca la condizione che subordina esclusivamente la punibilità. L’adozione del criterio civilistico appare, dunque, più calzante e rende più praticabile la distinzione tra l’evento del reato e la cdp anche se l’intera costruzione perde di lucidità allorché, tra le ipotesi di evento condizione, si fanno rientrare le condizioni di procedibilità. (28) Così MUSOTTO, op. cit., pag. 15. (29) Rileva il MUSOTTO, op. cit., pag. 26, « a noi pare che la distinzione possa essere posta nei seguenti termini: le condizioni di punibilità attengono alla essenza del reato, la cui esistenza dipende dal verificarsi di esse. Le condizioni di procedibilità afferiscono semplicemente all’esercizio dell’azione penale e prima ancora del verificarsi di esse il reato è già realizzato in tutti i suoi elementi. Le prime hanno efficacia costitutiva, le seconde rimuovono soltanto un ostacolo, un impedimento all’esercizio dell’azione penale ». (30) Secondo il MUSOTTO, op. cit., pag. 36, infatti, « non è possibile distinguere le


— 619 — procedibilità riproponendosi, invece, in aperta critica rispetto al Massari, la sola distinzione con le condizioni di procedibilità (31) e la stessa distinzione tra le cdp, l’evento colposo, i presupposti del reato e l’evento preterintenzionale (32) acquista la sua definitiva intrinseca coerenza. 2. L’inversione metodologica dell’Alimena: la natura e funzione del fenomeno condizionale. — Segnalate le principali conclusioni di quelle posizioni di pensiero che hanno studiato il tema privilegiando l’esigenza di sistemazione dommatica dell’istituto, si rende, ora, necessario controllare, con la stessa sintesi, l’opinione di chi, invece, a quel filone non aderì (33). La netta, anche se isolata, inversione nella prospettiva di analisi sino a quel momento seguita dalla dottrina e l’intento di privilegiare un diverso ambito di analisi è dichiarato già nella prefazione, ove si osserva che al Legislatore va ascritto il merito di avere dato « ingresso nel codice all’esigenza politica che consiglia, in taluni casi, di non applicare la pena se oltre il reato, non si sia verificato un quid pluris » (34), La norma penale si comporrebbe di un precetto primario che descrive la condotta costituente il reato e di un precetto secondario che contiene le sanzioni; questi due momenti sono strettamente connessi tra loro nel senso che gli obblighi del precetto secondario presuppongono sempre la violazione di quelli contenuti nel precetto primario (35). Il rigore di questa affermazione di principio, però, può subire attenuazioni nel momento in cui l’esperienza dimocondizioni di punibilità e le condizioni del reato, salvo che con l’espressione condizione di punibilità non si voglia esprimere in contrapposto alle condizioni del reato quelle che noi abbiamo chiamato di procedibilità ». (31) Rileva il MUSOTTO, op. e loc. cit., « il Massari pare che voglia considerare le condizioni del reato e le condizioni di punibilità dal punto di vista sostanziale perché fa rientrare tanto le une quanto le altre tra gli elementi del reato. Ma poi nel definire le condizioni di punibilità specifica che esse presuppongono che il reato sia perfetto. Ed allora se il reato è perfetto ciò che dipende dalla presenza delle condizioni di punibilità non può essere altro che l’applicazione della sanzione e non la punibilità come il Massari sostiene. Sicché vien fatto di pensare che egli abbia assunto il termine condizione del reato per designare propriamente le condizioni di punibilità e l’espressione condizioni di punibilità per designare quelle di procedibilità ». (32) Secondo il MUSOTTO, op. cit., pag. 22-23, « al concetto di evento risultato è essenziale la connessione causale con l’azione. Non lo è, invece, al concetto di evento condizione. I due eventi si distinguono ancora perché l’evento risultato è elemento costitutivo del fatto, mentre l’evento condizione vi è estraneo ». (33) Cfr. ALIMENA, op. cit., pag. 3. (34) Così ALIMENA, op. cit., prefazione. (35) Così ALIMENA, op. cit., pag. 4, secondo cui « un precetto primario che non sia accompagnato da un precetto secondario, un ordine, cioè, di tenere un determinato contegno senza essere punto accompagnato dalla minaccia di una pena sarebbe come un cannone che pur essendo a difesa di un valico alpino, non facesse fuoco anche se i nemici tentassero di superare il valico ».


— 620 — stra che, alcune volte, « gli interessi della collettività, esigono che non si proceda all’applicazione della sanzione penale pur essendo avvenuto il reato; e ciò perché dall’applicazione della sanzione penale deriverebbe in alcuni casi più male che bene per la società » (36). Ebbene gli strumenti di tecnica normativa attraverso i quali assicurare il rispetto di tali esigenze sono proprio le cause estintive e le cdp. Le prime operano ex post, successivamente, cioè, alla realizzazione del reato e, limitando il legame che normalmente collega in maniera indissolubile, il reato alla pena, confermano la presenza di casi nei quali lo Stato, o non ha interesse all’applicazione della sanzione, ovvero ritiene opportuno prevederne una meno rigorosa. Le cdp, invece, sono elementi della fattispecie la cui funzione è quella di condizionare l’applicabilità della sanzione rispetto a taluni casi particolari, nei quali si e già verificata la violazione del precetto primario penale così producendo, come nelle cause estintive, una eccezione al principio del nullum crimen sine poena: esistono, cioè, fatti che « debbono vietarsi ma non debbono poi essere repressi se non in casi determinati » (37). Emerge, dunque, per la prima volta lo sforzo di (pre) comprensione della funzione politica delle cdp, per cui esse rappresenterebbero una soluzione di tecnica normativa con cui limitare la punizione di particolari fatti illeciti all’accertamento del verificarsi di particolari accadimenti e da meramente esegetico il problema viene per la prima volta riguardato in una prospettiva di politica criminale. PARTE II. Lo stato attuale del problema 1. Premessa. — Il dibattito culturale moderno sulle condizioni di punibilità, invece, prende le mosse agli inizi degli anni Sessanta sviluppandosi, come nella dottrina tradizionale, in due direzioni ora, però, nettamente e consapevolmente distinte: l’una più ampiamente frequentata di impronta dommatico-esegetica; l’altra di impostazione più politica e meno tecnica. Diversamente, tuttavia, da quanto abbiamo avuto modo di apprezzare nelle pagine precedenti, all’interno della prima posizione di pen(36) Così ALIMENA, op. cit., pag. 8. (37) Così ALIMENA, op. cit., pag. 17. Osserva l’A. che il fenomeno si verifica anche nel diritto privato ed a sostegno della propria opinione indica l’art. 450 del Codice di Commercio: « è risaputo che sia in base alla legge sia in base a quanto ordinariamente si statuisce nelle polizze di assicurazione, le compagnie assicuratrici hanno l’obbligo di pagare la somma assicurata al beneficiario, allorché la morte sia avvenuta per suicidio. Ma in qualche singolo caso la compagnia assicuratrice può trovare conveniente di pagare la somma assicurata nonostante che la morte sia avvenuta per suicidio e ciò quando ritiene che il danno che subisce pagando un’indennità non dovuta, sia inferiore al danno che subirebbe qualora per il mancato pagamento dovesse nel pubblico diffondersi che la compagnia in caso di sinistri fa cavilli per non pagare le somme assicurate ».


— 621 — siero, il tradizionale dibattito sulla collocazione sistematica dell’istituto cede il campo alla disputa relativa alla natura sostanziale ovvero processuale dell’istituto. Gli sforzi della dottrina tradizionale di sistemazione dommatica delle cdp apparivano, in verità, di tutto rilievo e tali, in ogni caso, da non suscitare al momento ulteriori motivi di interesse; laddove la verifica dell’istituto de quo con le condizioni di procedibilità, che pure, come abbiamo avuto modo di verificare, era stata già affrontata meritava di essere condotta più a fondo. Solo in epoca più recente, infine, all’interno della medesima posizione di pensiero, gli interessi si rivolgeranno, anche in seguito alla nota sentenza della Corte Costituzionale (38), verso l’esame della compatibilità delle cdp con il principio di colpevolezza divenendo tale prospettiva di indagine predominante. Le premesse e gli sviluppi della seconda posizione di pensiero, invece, sottendono la consapevolezza critica del rischio immanente ad una prospettiva di studio che affronti il tema focalizzando l’attenzione esclusivamente all’esegesi del dato normativo. Dalla natura, dunque, alla funzione si sposta l’oggetto degli studi di questo secondo orientamento che, proprio nel metodo, piuttosto che nelle conclusioni si distingue dal primo indirizzo. Ed infatti se una parte della dottrina giunge a definire poco rilevante l’indagine sulla natura e funzione delle cdp, valorizzando tale profilo si è al contrario osservato che esse hanno natura di « strumento di tecnica legislativa nato per investire della garanzia della stretta legalità anche le imprescindibili esigenze di convenienza ed opportunità una volta demandate alla discrezionalità del giudice » (39). Si impone, dunque, a questo punto della ricerca, la necessità di verificare le cadenze logico-argomentative di tali posizioni di pensiero preliminarmente alle altre opinioni proposte dalla moderna dottrina. 2. La natura processuale dell’istituto: le condizioni di punibilità non concorrono all’integrazione del reato. — All’interno della prima posizione di pensiero, l’opinione di chi ha sviluppato il tema della natura processuale delle cdp, è fortemente condizionata dalla lucida percezione dell’inaccettabilità dei risultati che si ottengono allorché si tenta di definire il reato al di fuori della sua indefettibile correlazione con la punibilità. Tale considerazione è corroborata da una fitta serie di argomentazioni che vale la pena qui di seguito brevemente richiamare: aa) la locuzione « quando per la punibilità del reato la legge richiede il verificarsi della condizione » (40) contenuta nell’art. 44 c.p., di(38) Ci riferiamo alla Sent. n. 364, del 24 marzo 1988. (39) Così NEPPI-MODONA, op. cit., pag. 199. (40) Così GIULIANI, op. cit., pag. 4. È un argomento di stampo logico-formale che però non va sottovalutato. Proprio con riguardo alle cdp, nel senso di escluderne la perti-


— 622 — mostra come il Legislatore abbia nettamente contrapposto la condizione al reato. Ciò trova, peraltro, conferma « in un caso pressocché indiscusso di condizione di punibilità la flagranza del reato, che di per sé dimostra l’estraneità delle condizioni all’illecito penale » (41); bb) il verificarsi della condizione è considerato rilevante di per sé, a prescindere dall’operatività di qualsiasi scriminante (42); cc) la costruzione delle cdp come elementi del reato non si coordina con il disposto dell’art. 6 c.p., in cui il luogo ed il tempo del commesso reato è fissato nella condotta e/o nell’evento e mai nella condizione (43); dd) se le condizioni non fossero esterne al fatto, l’art. 61 n. 2 c.p. non sarebbe applicabile a carico di chi agisca per impedire che si verifichi la condizione e garantirsi, quindi, l’impunità del reato (44). Si è inteso esporre sinteticamente le linee di fondo della posizione di pensiero de qua solo perché meglio emergesse il contributo più significativo di essa: « la tesi per cui le cdp non concorrono all’integrazione del reato » (45); anche se le ulteriori conclusioni non appaiono, ad avviso di chi scrive, altrettanto condivisibili. Dopo aver, infatti, efficacemente criticato l’opinione della dottrina prevalente, si osserva che « sembrerebbe perciò impossibile conciliare le conseguenze con le premesse e parrebbe, pertanto, che si debba scegliere fra l’abbandono dell’unica nozione logica ed ammissibile di reato e l’accettazione di corollari aberranti » (46). Ragionamento quest’ultimo ancora una volta chiaro e lucido che sarebbe ineccepibile se, invece, l’unica nozione logica di reato propugnata nel testo, non meritasse affatto il monopolio logico ed ontologico del Tatbestand. La presa di posizione secondo cui non si può distinguere tra fatto giuridico di reato e fattispecie penale appare, infatti, poco corroborata da adeguati riferimenti logici e normativi rispetto all’ulteriore sviluppo del lavoro nella direzione della natura processuale delle condizioni. Non è affatto insormontabile la critica che « o si rinuncia a definire il reato o lo si deve definire come fatto punibile » (47) perché gli stessi assertori della distinzione tra fatto e fattispecie riconoscono che gli elementi di quest’ulnenza al reato, si è rilevato (cfr. CONTENTO, Corso, cit., pag. 443.) che « il Codice Rocco — cui molte censure possono muoversi ma non certo quella di essere formulato con pressapochismo di linguaggio — non ignora la distinzione fra l’espressione fatto e l’espressione reato e quando (ad es. negli artt. 50, 51, 52, 53, 54, c.p. etc.) si esprime dicendo che il fatto non è punibile, in dette situazioni non parla a caso ». (41) Così GIULIANI, op. cit., pag. 4. (42) Cfr. GIULIANI, op. cit., pag. 9. (43) Cfr. GIULIANI, op. cit., pag. 21. (44) Così GIULIANI, op. cit., pag. 25. Secondo l’A. lo stesso ragionamento vale per gli artt. 61 n. 8 e 62 n. 6 c.p. (45) Cfr. GIULIANI, op. cit., pag. 52. (46) Cfr. GIULIANI, op. cit., pag. 14. (47) Così GIULIANI, op. cit., pag. 36.


— 623 — tima non fanno parte del reato, al quale, anzi, accedono collocandosi in posizione collaterale (48). Né è condivisibile il rilievo secondo il quale la scienza penalistica non è riuscita ancora oggi ad indicare una differenza qualitativa tra reato ed illecito civile. Al contrario è ormai largamente condivisa l’obiezione che si solleva alla considerazione meramente formale del reato: « che il reato sia un fatto illecito non c’è bisogno naturalmente di chiarire ma poiché non tutti i fatti illeciti costituiscono reato è ovvio che si deve tentare di spiegare perché solo a taluni di essi si attribuisce la qualità di illeciti penali » (49). Il che vuol dire, in altri termini, interrogarsi sui motivi che inducono il Legislatore a punire taluni illeciti con la pena. Sacrificare, pertanto, in nome di un preteso rigore logico (50) quell’insieme di coefficienti oggettivi e soggettivi della fattispecie che saldano il bisogno di pena alla meritevolezza di pena potrebbe, peraltro, rivelarsi operazione intimamente contraddittoria (51). Per tale via si rischia, infatti, un decadimento dello stesso concetto di sanzione penale che rende inidonea la distinzione tra reato ed illecito civile proprio sul piano formale; e ciò proprio ora che il Legislatore ha previsto ipotesi di illecito civile nelle quali il profilo sanzionatorio prevale nettamente su quello riparatorio (52). Avvertito, dunque, il rischio del concettualismo sotteso a questa im(48) Così CONTENTO, Corso, cit., pag. 442. (49) Così CONTENTO, Corso, cit., pag. 5 e PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, Milano, 1979, pag. 208, secondo il quale tale definizione potrebbe sembrare tautologica e frutto, comunque, di un circolo vizioso. Secondo MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, I, Milano, 1995, pag. 4, « un fatto costituisce reato solo quando la legge gli ricollega una pena. È dunque solo in base ad un criterio nominalistico che i reati si identificano e si distinguono dalle altre categorie di illeciti ». Condividono questa posizione anche ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, Milano, 1987, pag. 172; PADOVANI, Diritto penale, III ed., Milano, 1995, pag. 89; FIORE, Diritto penale, Parte generale, vol. I, Torino, 1993, pag. 2. Sostengono invece, che il concetto formale di reato discenderebbe anche dal complesso dei principi che la Costituzione prevede come tipici della materia penale, MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, III ed., Padova, 1992, pag. 58 e FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., pag. 129-132. Su posizioni sostanzialmente differenti MARINI, (voce) Reato, in Enc. giur., vol. XXII, Roma, 1990, pag. 6, secondo il quale non è possibile « offrire una nozione sostanziale del reato senza correre il rischio di incorrere in antinomie e comunque senza correre il rischio di offrire una nozione o contrastante con il sistema giuridico studiato o tautologica rispetto a questa e ai suoi contenuti ». (50) Secondo CONTENTO, Limiti della norma e fattispecie non punibili, in Arch. pen., 1965, pag. 33, « l’idea che il fatto non punibile possa essere un illecito e più ancora l’idea che la sua non punibilità possa dipendere proprio da ciò può apparire a prima vista paradossale. Ma a ben guardare essa è invece la sola soluzione logica del problema della non punibilità ». (51) Cfr. sul punto PAGLIARO, Fatto, condotta illecita e responsabilità obiettiva nella teoria del reato, in questa Rivista, 1985, pag. 635. (52) Cfr. BIGLIAZZI-GERI, L’art. 18 della legge n. 349 del 1986, in relazione agli artt. 2043 e ss. c.c., in RTA, 1987, pag. 1157.


— 624 — postazione che definiremmo meccanicistica, si profila, anche, la contraddizione nella quale essa, ad avviso di chi scrive, cade. Ed invero non si poteva imboccare la strada della natura processuale delle condizioni, se non in forza di un’adesione all’opinione secondo la quale non possono esistere reati non punibili; che non si può distinguere tra reato e fattispecie penale e che, infine, « una volta riconosciuto che la condizione non influisce sull’integrazione dell’illecito penale occorre essere conseguenti e collocare le condizioni al di fuori della fattispecie penale » (53). E poiché è quanto meno dubbio che questa sia l’unica definizione del reato accettabile dal punto di vista logico e normativo, la stessa natura processuale delle condizioni si indebolisce notevolmente. Ma a questi rilievi altri è possibile proporne. Escludere la natura sostanziale della cdp, infatti, non basta a superare le già gravi difficoltà rilevate in precedenza. Posto che le cdp non sono elementi del reato perché il reato è il fatto punibile e quindi non vi può essere un reato non punibile, resta da spiegare perché esso, in assenza del verificarsi della condizione, non sia assoggettabile a pena. L’equivoco di fondo a base della tradizionale nozione sostanziale delle condizioni, si anniderebbe proprio nella concezione unitaria della punibilità; viceversa la tesi da ultimo esaminata finisce col postulare la distinzione, all’interno della punibilità, di due aspetti nettamente distinti: l’uno afferente alla punibilità c.d. stretta, l’altro della punibilità in senso normativo che, invece, spiega come avvenga che « dopo che è stato realizzato un fatto punibile la punibilità intesa come concreta possibilità di applicare la pena può venir meno per svariati motivi » (54). In altri termini: in astratto non vi può essere un reato senza pena ma in concreto ciò è possibile (55). Ed a sostegno di tale ultima posizione si allegano ulteriori rilievi che, tuttavia, convalidano soltanto la già ampiamente comprovata tesi, secondo la quale le condizioni non possono essere elementi costitutivi del reato (56). Di più tali considerazioni non suggeriscono, tanto è vero che l’ultimo e decisivo argomento, in realtà non è che la premessa di ciò che si è già esposto in precedenza, allorché è stata condotta la critica alla teoria tradizionale. Sostenere, cioè, che « una rinunzia al diritto di querela anteriore alla condizione può essere efficace » (57), non convince al pari della stessa opportunità di riconoscere il diritto al risarcimento dei danni morali, prima ancora del verificarsi della lesione del diritto. Nonostante le cautele lessicali, la distinzione tra punibilità in senso lato e normativo rievoca, in definitiva, una concezione non moderna del rapporto tra legge penale, Stato e (53) Così GIULIANI, op. cit., pag. 3. (54) Così GIULIANI, op. cit., pag. 40. (55) Su questi temi cfr. ampiamente STORTONI, Profili costituzionali della non punibilità, in questa Rivista, 1984, pag. 626. (56) Cfr. GIULIANI, op. cit., pag. 41-42. (57) Cfr. GIULIANI, op. cit., pag. 47.


— 625 — cittadino, fondata sulla contrapposizione tra momento della punibilità antecedente e successivo e corrispondente al diritto di punire ed al rapporto punitivo. Cosicché è evidente che il tentativo di inquadrare fuori della fattispecie penale le condizioni, ad un esame più attento, non regge al pari della stessa tesi che tenta di riunirle in un’unica categoria insieme alle condizioni di procedibilità. Sotto un primo ordine di idee la tesi della doppia natura della querela oltre ad essere intimamente contraddittoria non è sostenibile e l’A. individua all’uopo argomenti fondamentali che vale la pena di richiamare: aa) l’assenza di una condizione di procedibilità inficia ogni atto del procedimento mentre l’assenza di un elemento sostanziale vizia solo la sentenza di condanna (58); bb) diritto processuale e diritto sostanziale hanno una diversa disciplina della successione delle leggi nel tempo (59). Di contro si è, tuttavia, rilevato il vizio metodologico che inficia la conclusione esposta, stigmatizzato nell’osservazione che le cdp si caratterizzano funzionalmente per il fatto di fondare, a differenza delle condizioni di procedibilità, l’obbligo del giudice di punire (60), il difetto di una condizione di punibilità equivale, dunque, sul piano sostanziale al difetto di una condizione di procedibilità sul piano processuale; cosicché intanto si può operare una reductio ad unum tra le due categorie allorché si dimostri la medesima natura e funzione di entrambe. Non è legittimo, invece, operare in senso inverso; e tale osservazione trova oggi, ad avviso di chi scrive, ulteriore riscontro per la presenza dell’art. 529 c.p.p. che fa espresso riferimento alle condizioni di procedibilità prescrivendo, per il caso che esse manchino ovvero ne sia incerta l’esistenza, l’assoluzione per non doversi procedere. 3. Condizioni di punibilità e principio di colpevolezza. — All’interno del medesimo filone culturale l’attenzione è stata recentemente rivolta alla messa a fuoco in termini, occorre sottolinearlo chiarissimi, dei rapporti tra le cdp ed il principio di colpevolezza (61). Il punto di par(58) Così GIULIANI, op. cit., pag. 66. (59) Così GIULIANI, op. cit., pag. 67. (60) Cfr. sul punto ZANOTTI, op. cit., pag. 347. (61) Ci riferiamo al citato lavoro di ANGIONI. Il tema è, peraltro riemerso in seguito alla nota sent. n. 364/88 e molto acutamente il PULITANÒ (cfr. Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1988, pag. 702) osserva che essa segna il destino di numerosi istituti tra i quali in particolare le cdp. Ed il PEDRAZZI (Incostituzionali le fattispecie di bancarotta? in questa Rivista, 1989, pag. 898) rileva con la consueta chiarezza che « la forza innovativa della sentenza n. 364/88, più che dall’impatto pratico prevedibilmente marginale della parziale invalidazione dell’art. 5 c.p., è misurata dall’attitudine espansiva dell’interpretazione radicale dell’art. 27, comma 1o Cost., cui la Corte perviene alla luce di un più ampio quadro garantistico ». Applicando le indicazioni della Corte alle fatti-


— 626 — tenza è rappresentato dall’osservazione che se con la disposizione de qua il Legislatore avesse voluto riferirsi a condizioni esterne al reato, riguardanti, cioè, una fattispecie già completa di tutti i suoi elementi costitutivi, non avrebbe inserito l’art. 44 c.p. proprio tra quelle disposizioni che descrivono tali elementi. Quando si passa, poi, a tratteggiare i confini esterni e a mettere a fuoco quelli interni (62), si segue un criterio assiologico-teleologico, ponendosi subito in evidenza che esistono nel sistema fattispecie nelle quali il c.d. evento aggiuntivo concorre con « il disvalore globale della fattispecie ed altre, all’opposto, in cui la situazione aggiuntiva non ha alcuna influenza su tale disvalore » (63). Nel trarre questa conclusione non si svaluta la consapevolezza delle gravi incertezze sulla difficoltà di individuare, all’interno della singola fattispecie l’offesa marginale da quella principale ed il criterio da adottare; né che non può ricavarsi un concreto ausilio dal criterio strutturale, che fa leva sul collegamento causale. Si ritorna, pertanto, al criterio assiologico, secondo il quale l’offesa, per essere giudicata principale, deve investire necessariamente beni di rilievo costituzionale, rilevando che non è necessario che il disvalore secondario (quello peculiare dell’evento cdp) attinga un bene di rilievo costituzionale. Per tale via non si va, però, molto più in là posto che gli eventi aggiuntivi qualificabili cdp consistono, in genere, anch’essi come gli eventi principali, in offese a beni costituzionali (64); ed è chiaro che considerata l’eterogeneità dei rispettivi beni giuridici offesi ed il valore costituzionale di ciascuno di essi, non sempre è individuabile, sulla base del solo criterio assiologico, se l’offesa sia marginale oppure essenziale ed entrambe le soluzioni appaiono sostenibili proprio dal punto di vista assiologico (65). La scelta, tuttavia, cade su quest’ultima opzione fondamentalmente per due motivi: il primo dipendente direttamente dall’evoluzione storica dell’istituto, da cui si può trarre il convincimento che esso sia stato creato e mantenuto, nonostante la sua indefinitezza concettuale, anzi forse proprio per specie di bancarotta l’illustre A. osserva (pag. 915) che « maggiore consistenza dimostra il sospetto di incostituzionalità ex art. 27, comma 1o con riguardo alla seconda ipotesi dell’art. 223, comma 2o, n. 2. L’espressione operazioni dolose sembra denotare la gestione infedele degli organi societari (dolosa in quanto asservita a interessi confliggenti con l’interesse sociale): la quale viene assimilata alla bancarotta fraudolenta quando ne consegua il fallimento della società, evento lesivo più grave di quello voluto. In sostanza una figura di bancarotta preterintenzionale che ci riporta alla problematica della responsabilità oggettiva ». (62) Cfr. ANGIONI, op. cit., rispettivamente pag. 1453, per la distinzione delle cdp dagli ecr secondo criteri esegetico-sintattici; pag. 1454, per il riferimento ai criteri sistematici; e pag. 1473, infine, per la distinzione tra le cdp e le cond. di proc. (63) Tale premessa implicita nelle prime pagine del più volte citato lavoro di ANGIONI (pag. 1454), viene espressamente e chiaramente esplicitata nelle battute finali (cfr. pag. 1491). (64) Così ANGIONI, op. cit., pag. 1462. (65) Cfr. ANGIONI, op. cit., pag. 1464, ed in particolare i riferimenti bibliografici contenuti nella nota 88.


— 627 — questa, per la sua intrinseca duttilità a « fungere da passepartout tutte le volte in cui per motivi di prevenzione generale o di praticabilità si voglia escludere qualche elemento pur partecipe della offensività del reato, dall’ambito della colpevolezza » (66). Il secondo che tutte le volte in cui nella « teoria dell’interpretazione il metodo teleologico e assiologico non risolve l’adozione di un costrutto sintattico comprendente proposizioni condizionali è sempre indice indiscutibile di rilevanza meramente oggettiva, sia che si tratti di ipotesi di responsabilità oggettiva sia che si tratti di delimitazione interna fra tipi di reato » (67). Le conclusioni dell’importante studio suggeriscono, tuttavia, talune riflessioni: aa) non distinguere tra fatto e fattispecie ripropone ad es. il problema della distinzione tra colpevolezza ed imputabilità; bb) il modello normativo della colpa, cui si fa riferimento nell’opera de qua, non è applicabile alle cdp perché altrimenti la colpa consisterebbe essa stessa nella violazione della legge penale o, comunque, nella condotta che ha prodotto la maggiore offesa: tornando al brocardo qui in re illicita versatur tenetur etiam pro casu, l’intera costruzione non sarebbe più sostenibile. Si impone, allora, il ricorso o meglio il ritorno alla teoria della prevedibilità i cui limiti sono, però, ormai noti; né varrebbe replicare, richiamando la recente affermazione del carattere analogico della colpa. Come è stato acutamente rilevato, infatti, « la dipendenza contenutistica del concetto di colpa dai singoli crimina culposa » (68) vale in relazione alle fattispecie di parte speciale e non avrebbe senso estenderla alla parte generale, perché in tal modo l’art. 44 c.p. direbbe sulla definizione di colpa più di quanto non dice l’art. 43 c.p. cc) Quand’anche tale operazione si conquistasse una sua legittimità teorica si dovrebbe prestare molta attenzione ai suoi risvolti giurispruden(66) Occorre sottolineare che proprio da tale considerazione il citato A. (cfr. pag. 1487) trae spunto per contestare la funzione di norma garantista dell’art. 449 c.p. Si sostiene, infatti, che questa constatazione suona in direzione opposta a quella prescelta dai sostenitori dell’origine garantista delle cdp secondo cui esse, nate dopo l’introduzione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, avrebbero la funzione di canonizzazione ed irregimentazione di quelle ipotesi che prima erano oggetto di discrezionalità nel promovimento (o non promovimento) della stessa. Senonché, « si badi: se effettivamente la ragion d’essere della creazione delle cdp fosse stata quella di sottrarre spazio all’inquirente, tali condizioni sarebbero state costruite in termini massimamente delineati, con concetti il più possibile rigorosi e puntuali, proprio, cioè, il contrario di ciò che è avvenuto. Piuttosto le cdp, descritte elasticamente è verosimile che servissero perfettamente al regime politico che ufficialmente le introdusse: da una parte, con la regola della loro imputazione oggettiva non lasciando spazio all’elemento soggettivo ed all’errore su di esse, assolvevano a compiti politico-criminali di prevenzione generale; dall’altra, con il loro contenuto generico e vago, consentivano alle Procure del Re l’esercizio di una discrezionalità di fatto in astratto preclusa dal principio di obbligatorietà ». (Così ANGIONI, op. cit., pag. 1488). (67) Così ANGIONI, op. cit., pag. 1465. (68) Cfr. FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, pag. 67.


— 628 — ziali: il rischio è, evidentemente, quello di fornire un ulteriore argomento alla costruzione di numerose ipotesi di dolus in re ipsa. Sempre sul piano dell’opportunità va rilevato, ancora, che la costituzionalizzazione delle cdp fa insorgere il rischio della dilatazione dei « confini laddove la linea di tendenza è nel senso della definitiva estinzione dell’istituto » (69). dd) Da ultimo deve convenirsi che la proposta soggettivazione delle cdp cela una vistosa incongruenza superabile solo con un pericoloso stravolgimento dei consolidati rapporti fra componenti soggettive ed oggettive del reato (70). Ed invero se lo scopo dell’art. 44 c.p. non fosse quello di disciplinare le cdp, in modo diverso dagli altri elementi del reato non avrebbe senso la sua presenza proprio nel titolo del codice che, invece, espressamente li prevede. Ciò posto però si pone il problema di individuare quale sia la differenza delle cdp dagli altri elementi del reato. Escluso, infatti, che la ricerca vada svolta sul terreno dei requisiti dell’imputazione soggettiva, si deve necessariamente fare riferimento ai criteri che reggono l’imputazione oggettiva. E così come il discrimine non può riguardare la sfera dell’offensività, parimenti non può interessare la condotta, perché l’art. 44 c.p. parla di reato; può concernere, invece, la sfera della causalità: è legittima l’imputazione delle cdp anche se non collegate alla condotta? E qui forse emerge meglio la preannunciata incongruenza. Se non è necessario il nesso di causalità fra condotta ed evento condizionale, consegue che questo può anche essere determinato da caso fortuito o da comportamenti umani assolutamente indipendenti rispetto all’attività del reo. Se si richiede la prevedibilità soggettiva dell’evento o, in sostanza si perviene ad un’abrogazione dell’art. 44 c.p., ristabilendo il nesso tra imputazione soggettiva ed oggettiva, oppure si riconosce che si possono imputare all’agente eventi prevedibili soggettivamente, ma oggettivamente non riconducibili alla sua condotta. Il che vorrebbe dire, in definitiva, stravolgere il postulato che in un sistema penale fondato sulla legalità formale coniuga il principio della responsabilità personale con quello di tassatività, assegnando a quest’ultimo il compito di delimitare la sfera del primo. 4. Le condizioni di punibilità come soluzione di tecnica normativa per la codificazione di particolari esigenze di opportunità e buon senso. — L’inversione metodologica proposta, invece, allo studio delle cdp si coglie chiarissima, come abbiamo già segnalato, sin dalla impostazione preliminare e programmatica della ricerca: « le linee di fondo di un sistema pe(69) Così ZANOTTI, Condizioni di punibilità e responsabilità oggettiva, cit., pag. 359. (70) Si vedano sul punto gli efficaci rilievi di DE SIMONE, Sentenza dichiarativa di fallimento, condizioni di punibilità e nullun crimen sine culpa, in questa Rivista, 1992, pag. 1156-1157.


— 629 — nale basato come quello italiano sui principi della stretta legalità e della concezione realistica del reato, si traduce sul terreno della tecnica legislativa di formulazione delle singole fattispecie incriminatrici nell’esigenza di prevedere tutti i requisiti che concorrono ad individuare l’interesse oggetto di tutela sotto forma di elementi costitutivi del fatto di reato » (71). L’origine storica ed al tempo stesso la funzione assolta nel sistema dalla cdp si rinviene, dunque, nella necessità di individuare, alla luce, però, dei postulati di garantismo illuministico borghese, un punto di incontro codificato tra esigenze di opportunità e buon senso da un lato e istanze generali di repressione di particolari fattispecie dall’altro (72). Da questa premessa, tuttavia, seguono, ad avviso di chi scrive, conseguenze notevoli innanzitutto in ordine al rapporto tra colpa e cdp; colpa ed elementi costitutivi del reato; nonché, infine, tra funzione e natura dell’istituto (73). aa) Le cdp si differenziano dalle condizioni di procedibilità perché come è già stato sostenuto, esse partecipano della fattispecie penale e non si « limitano semplicemente a condizionare la punibilità del reato » (74). bb) I problemi relativi alla natura delle cdp ed al rapporto con gli elementi costitutivi del reato possono trovare adeguata soluzione solo se le prime vengono considerate estranee all’interesse del reato. Sostenere il contrario significherebbe fare rivivere, sia pure in un contesto di probabile maggiore garantismo, una nozione di interesse individuata da elementi estranei all’offesa del bene tutelato. L’estraneità della condizione rispetto all’interesse protetto o, meglio, l’operare degli interessi sottostanti alla condizione su un piano qualitativamente diverso, che non va confuso con quello dell’offesa contenuto del reato, troverebbe, poi, ulteriore conferma all’interno della c.d. concezione realistica dell’illecito. Assegnata, dunque alla cdp la funzione di concorrere alla definizione dell’interesse unitario e globale della fattispecie rispetto all’oggettività giuridica così ricostruita, dovrebbe potersi far luogo, come nelle ipotesi nelle quali l’interesse tutelato è descritto dai soli elementi costitutivi del reato, al medesimo giudizio sull’effettiva lesività del fatto ai sensi dell’art. (71) Così NEPPI-MODONA, op. cit., pag. 184. (72) Cfr. NEPPI-MODONA, op. cit., pag. 187. Osserva con molta chiarezza ZAGREBELSKY, Obbligatorietà dell’azione penale e ruolo del pubblico ministero, in Pubblico ministero e accusa penale, Bologna, 1979, pag. 7, che « è frequentissima l’impressione che certi procedimenti, con tutto il loro impiego di mezzi e di persone, con il conseguente non lieve costo per la comunità e per gli individui, vengano portati avanti esclusivamente perché l’azione penale è obbligatoria ed il giudice non può rifiutare di valutarne la fondatezza; l’irrilevanza del fatto, gli avvenimenti successivi ad esso o altre considerazioni rendono spesso persino imbarazzante per giudici e pubblico ministero l’adempimento del loro dovere ». (73) Molto chiari sono i rilievi di DURIGATO, Ancora un interrogativo sulle condizioni di punibilità, in Ind. pen., 1989, pag. 736-737, in relazione ai problemi che tale costruzione pone rispetto alla distinzione tra condizioni intrinseche ed estrinseche. (74) Cfr. NEPPI-MODONA, op. cit., pag. 191.


— 630 — 49 comma 2o c.p. (75). Non c’è dubbio, però, che proprio questi rilievi autorizzerebbero a ritenere acquisito anche un modello di distinzione operante sul terreno degli interessi (76) per separare le cdp dagli elementi costitutivi del reato; cosicché ogni qual volta si rinviene la presenza di elementi inseriti all’interno del modello legale della norma essi dovrebbero delineare un « piano di interessi non solo esterno ma anche qualitativamente diverso rispetto all’offesa contenuto del reato » (77). Attraverso questa soluzione di tecnica normativa, infine, e costruito l’evento di danno e/o di pericolo come cdp piuttosto che come elemento costitutivo, si possono superare le altrimenti insormontabili difficoltà di accertamento dell’evento c.d. più grave. Il risultato che da questa costruzione si ottiene è quello di non sanzionare la mera condotta dell’agente e di non rendere praticamente impossibile l’accertamento del dolo costruendo come evento costitutivo di talune fattispecie il danno o il pericolo in qualche modo ricollegabile al fatto di reato (78). Se, tuttavia, convince la collocazione all’interno delle fattispecie del fenomeno condizionale, proprio quest’ultima conclusione, invece, non ci trova consenzienti. È stato, infatti, correttamente osservato che « postulare una simile libertà significa all’evidenza considerare come non scritto l’art. 27 comma 1o Cost. » (79). Né tale costruzione appare, a nostro sommesso avviso, in linea con le recenti modifiche del sistema di imputazione delle circostanze (80) per cui non è più sostenibile che un elemento dell’offesa possa essere ascritto oggettivamente al colpevole. 5. L’art 13 della bozza di delega al Governo per la modifica del codice penale: spunti per una ricodificazione dell’istituto. — L’opzione interpretativa più coerente alle linee evolutive del sistema penale sembrerebbe, allo stato e sulla base dell’intera sintesi storico-dommatica dell’istituto sin qui operata, proprio quella contenuta nell’art. 13 della bozza di legge-delega al Governo per la modifica del codice penale: « prevedere come cdp operanti oggettivamente solo accadimenti estranei all’offesa tipica del reato ». Di essa, dunque, ci si deve, a questo punto, più da vicino conclusivamente interessare. (75) Così NEPPI-MODONA, op. cit., pag. 199. (76) Osserva con chiarezza STORTONI, Profili costituzionali della non punibilità, in questa Rivista, 1984, pag. 667 che « lo schema risponde al consueto modulo: si è in presenza di un fatto meritevole di per sé di repressione penale alla luce dei principi generali e la cui concreta punizione è impedita per soddisfare un diverso interesse meritevole anch’esso di riconoscimento. L’avverarsi della condizione altro non è che il segno del venir meno di siffatto interesse e, quindi di ogni ragione di rinuncia alla punizione ». (77) Così NEPPI-MODONA, op. cit., pag. 201. (78) Così NEPPI-MODONA, op. cit., pag. 204. (79) Così ZANOTTI, op. cit., pag. 349. (80) Si vedano in subjecta materia i rilievi di MELCHIONDA, La nuova disciplina di valutazione delle circostanze del reato, in questa Rivista, 1990, pag. 1433.


— 631 — Preliminarmente, tuttavia, occorre fissare alcuni punti fermi, in base ai quali tentare di esaminare la proposta di (re) interpretazione dell’istituto di recente elaborata in sede di ius condendum. aa) Le cdp hanno natura sostanziale; bb) alle cdp non è estensibile il meccanismo di imputazione soggettiva proprio degli elementi del reato in senso stretto; cc) le cdp sono elementi della fattispecie in quanto anch’essi, nella misura in cui comunque condizionano l’irrogazione della pena, devono essere soggetti a tutti i principi che governano la legge penale: tassatività, prevalenza della norma incriminatrice più favorevole, irretroattività; dd) le cdp in quanto insuscettibili di imputazione soggettiva devono riferirsi ad eventi estranei all’offesa. In relazione a questi dati, dunque, ma soprattutto alle riflessioni già svolte nei paragrafi precedenti, la formula dell’art. 13 dello schema del disegno di legge-delega al Governo, appare, forse, de iure condendo, l’opzione più coerente alle linee evolutive di un sistema penale che dovrebbe (sempre di più) essere espressione di principi costituzionali. Con questa enunciazione, però, escludendo definitivamente le cdp dal novero degli elementi costitutivi del fatto di reato e da ognuno dei momenti del disvalore materiale del reato, la Commissione Pagliaro ha in modo netto, seppure implicito, preso posizione su alcuni temi (81) di teoria generale del diritto tutt’altro che pacifici. Segnatamente, la definizione contenuta nella proposta di legge delega attribuisce un punto decisivo a favore della norma penale come (o anche come) giudizio. Se all’interno della fattispecie, infatti, vengono accolti elementi che condizionano la pena ma che non sono suscettibili di formare oggetto del precetto, né del rimprovero, né dell’imputazione soggettiva, non v’è dubbio che si consacra sul piano legislativo una componente solo valutativa del precetto che sfugge anche all’equazione secondo cui ogni comando è una valutazione e viceversa. La formula citata, inoltre, convive anche con la tesi che descrive il fatto di reato come un cerchio concentrico compreso dalla fattispecie e che quindi nega che esso stesso sia sempre e comunque sufficiente ad attivare le conseguenze giuridiche del reato, dall’esercizio dell’azione penale fino alla pena. Quest’ultime notazioni, ancora, implicano, per un verso, (anche) una posizione negativa nei confronti delle teorie (82) monistiche sulla (81) Si domanda, infatti, GROSSO, Il principio di colpevolezza nello schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, in Cass. pen. Mass. ann., 1995, pag. 3131, « quid iuris nel caso in cui dovesse emergere che il legislatore delegato, nel trattare la parte speciale, ha costruito come condizioni di punibilità elementi che in realtà condizionano l’offesa tipica? Si tratterebbe di una normativa illegittima costituzionalmente perché in contrasto con la delega, ovvero l’interprete potrebbe recuperare sul piano ermeneutico la compatibilità con gli enunciati costituzionali affermando che si tratta, in realtà, di elemento intrinseco al reato? ». (82) Un quadro chiarissimo delle teorie stratificatesi nel corso degli anni in subjecta materia è offerto da ROMANO, op. cit., pag. 12-16.


— 632 — funzione della pena ed in particolare su quella retributiva; per altro verso una costruzione come quella patrocinata nel progetto delega comporta, infine, l’adesione ad una concezione dei rapporti tra meritevolezza di pena e bisogno di pena che assegna a questi due termini un ruolo ed un significato autonomo e distinto anche se intimamente connesso (83). Ed invero, la tesi che opera una reductio ad unum delle due categorie citate si fonda sulla ferrea adesione a due princìpi che possiamo sinteticamente compendiare nei brocardi nullum crimen sine iniuria e nullum crimen sine poena, ovvero (ma è lo stesso) nulla iniuria sine poena. In questo ordine di idee « ciò che è autenticamente bisognoso di pena lo è in quanto meritevole di pena; ciò che è autenticamente meritevole di pena lo è in quanto bisognoso di pena » (84), Di contro se le cdp sono elementi della fattispecie estranei all’offesa resta valido il primo brocardo nullum crimen sine iniuria, ma viene falsificato il secondo nulla iniuria sine poena. Se, cioè, la consumazione del disvalore del reato non comporta indefettibilmente la sanzione penale, perché quest’ultima può dipendere anche da un elemento estraneo all’offesa, vuol dire, allora, che bisogno di pena e meritevolezza di pena non si implicano sempre a vicenda. In questo contesto lo stesso ricorso alla funzione politico-criminale delle cdp si delinea in modo piuttosto chiaro (85). Ed in modo altrettanto chiaro si profila, ad avviso di chi scrive, anche, l’allineamento, sul piano della tecnica-legislativa, del progetto di delega alla più recente codificazione processuale. Assegnato, infatti, definitivamente e legittimamente alla cdp anche la (83) Secondo FERRAJOLI, Diritto e ragione, teoria del garantismo penale, Bari, 1989, pag. 153, esistono dei casi in cui ci si trova al cospetto di una « autonomia del giudice, chiamato ad integrare dopo il fatto la fattispecie legale con valutazioni etico-politiche di natura discrezionale ». (84) Così ROMANO, Meritevolezza di pena e teoria del reato, in questa Rivista, 1992, pag. 40. Sul punto si rimanda, altresì, ad ANGIONI, Contenuto e funzione del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, pag. 215; MARINUCCI, L’abbandono del Codice Rocco: tra rassegnazione ed utopia, in Quest. crim., 1981, pag. 306; PULITANÒ, voce Politica criminale, in Enc. dir., vol. XXXIV, Milano, 1985, pag. 89 e FIANDACA, Il bene giuridico come problema teorico e come criterio di politica criminale, in questa Rivista, 1982, pag. 42. (85) Come la querela, dunque, che non aggiunge o toglie niente all’offesa del reato ma ne condiziona l’accertamento selezionando i fatti procedibili, le cdp all’interno della fattispecie selezionerebbero tra i fatti costituenti reato quelli e solo quelli che effettivamente bisognano della sanzione penale, sulla base di una valutazione svolta una volta per tutte dal Legislatore. Secondo il GROSSO, (op. cit., pag. 3131) invece, lavorando sul testo della delega si potrebbe giungere ad eliminare la figura delle cdp, poiché o esse descrivono un elemento che è « sicuramente estrinseco alla sfera di interessi tutelati dalla norma penale, ed allora potrebbe essere considerato un mero ostacolo processuale all’inizio dell’azione penale (condizione di procedibilità), o non possiede questa sicura estraneità alla sfera degli interessi, ed allora deve essere considerato tout court elemento essenziale del reato, come tale partecipe dell’oggetto della volontà colpevole ». Per tale via, secondo l’illustre A. si risolverebbe da un lato alla radice il difficile problema della distinzione tra cdp e condizioni di procedibilità; dall’altro si rafforzerebbe « la realizzazione del principio di colpevolezza ».


— 633 — funzione di garantire una controllata quanto indispensabile deflazione rispetto (almeno) a particolari tipi di illeciti (86), non può non convenirsi che essa operi ad es., sul piano sostanziale, alla stessa stregua dell’art. 27 del procedimento minorile (87), che come è noto, prevede che « durante le indagini preliminari, se risulta la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento, il P.M. chiede al Giudice sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto » (88); e nella Relazione illustrativa delle disposizioni sul processo minorile, si osserva che « il meccanismo processuale prescelto non incide sulla fattispecie sostanziale del reato, ma si limita a consentire l’anticipata conclusione del processo con una pronuncia fondata sulla valutazione comparativa degli effetti positivi e negativi dello svolgimento dell’iter processuale in considerazione delle concrete caratteristiche del fatto (89). Stesso ordine di idee è possibile, altresì, svolgere per l’art. 125 delle disposizioni di attuazione che rappresenta « in senso concreto una delibazione della fondatezza della pretesa punitiva » (90). In conclusione: le cdp quale strumento di deflazione? Forse. Allo stato può solo prendersi atto che, anche in questa prospettiva, l’art. 13 dello schema di legge-delega rappresenta la soluzione più moderna se mai nuove norme avrà il codice penale. VITO MORMANDO Professore a contratto di Diritto penale commerciale nell’Università di Bari

(86) Nella consapevolezza che il tema meriterebbe un approfondimento incompatibile con la natura della presente ricerca rinviamo al fondamentale lavoro monografico di PALIERO, Minima non curat praetor, ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, Padova, 1985, pagg. 326-331. (87) La bibliografia esistente sull’istituto è particolarmente ampia; in particolare si segnalano i lavori di PEPINO, Sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, in Commento al codice di procedura penale, Il processo minorile, vol. I, Torino, 1994, pag. 280; PALOMBA, Il sistema del nuovo processo penale minorile, Milano, 1991, pag. 370; LARIZZA, Criminalità minorile e ruolo residuale del diritto penale, Pavia, 1991, pag. 27; ZANCHETTA, L’irrilevanza del fatto come strumento deflattivo: una via praticabile?, in Quest. giust., 1990, pag. 107; RUGGIERI, Diversion: dall’utopia sociologica al pragmatismo processuale, in Cass. pen. Mass. ann., 1985, pag. 539; UBERTIS, Obbligatorietà dell’azione e diversion nel sistema penale italiano, in questa Rivista, 1982, pag. 494. (88) È stato giustamente osservato, (cfr. PALOMBA, op. cit., pag. 370) che « la finalità dell’istituto è duplice decongestionare il sistema processuale minorile per garantire la concentrazione delle risorse sui casi più meritevoli di attenzione; realizzare il principio di minima offensività del processo che va condotto e concluso, anche a costo del carico di sofferenza che comporta, solo quando vi sia interesse a farlo ». (89) Cfr. CONSO-GREVI-NEPPI-MODONA, Il nuovo codice di procedura penale dalle leggi-delega ai decreti delegati, Padova, 1990, vol. VII, pag. 353. (90) Così TURONE, Obbligatorietà e discrezionalità dell’azione penale, in Quest. giust., 1989, pag. 901.


DIVERSITÀ DEL FATTO E MODIFICA DELL’IMPUTAZIONE NEL CODICE DI PROCEDURA PENALE DEL 1988

SOMMARIO: 1. Il passaggio dalla precedente all’attuale disciplina. — 2. Il fatto diverso nel c.p.p. 1930: il travaglio della dottrina. — 3. La giurisprudenza tra la disciplina abrogata e quella vigente. — 4. La nozione di fatto diverso nell’art. 516 c.p.p. — 5. Definizione del processo e ne bis in idem. — 6. Modifica dell’imputazione e diversa qualificazione giuridica del fatto. — 7. Le conseguenze dell’inosservanza delle disposizioni.

1. L’art. 516 c.p.p. conferisce al pubblico ministero il potere-dovere di modificare l’imputazione e di procedere alla relativa contestazione in dibattimento, qualora risulti dall’istruttoria ivi condotta che il fatto è diverso da come è stato descritto nel decreto che dispone il giudizio. Il codice di procedura penale del 1930, invece, non prevedeva la possibilità di modificare l’imputazione in dibattimento, fuori dei casi contemplati dall’art. 445 (1). Il secondo comma dell’art. 477 c.p.p. abrogato imponeva, poi, al giudice di disporre con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero, qualora fosse risultato dal dibattimento un fatto diverso da quello enunciato nell’ordinanza di rinvio a giudizio (emessa a conclusione dell’istruzione formale), nella corrispondente richiesta (al termine dell’istruttoria sommaria), o nel decreto di citazione pretorile. La dottrina che si era pronunciata sulla passata disciplina ne aveva indicata la ratio in modo vario, individuandola nella tutela del diritto dell’accusato di difendersi (2); oppure nel rispetto della prerogativa del pub(1) Tale norma imponeva al presidente di contestare in aula, a richiesta del pubblico ministero, il reato concorrente, la continuazione di reato o una circostanza, non menzionati negli atti conclusivi delle diverse fasi istruttorie praticabili, ricordati sopra nel testo, purché la cognizione non appartenesse alla competenza di un giudice superiore. Il pretore poteva provvedere anche d’ufficio. (2) Così esplicitamente V. MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, IV, Utet, Torino, 1932, 307, e poi G. FOSCHINI, Giurisprudenza degli interessi e relazione della sentenza con l’accusa, in Riv. dir. pen., 1951, 220; A. SANTORO, Imputazione (dir proc. pen.), in Nss. dig it., VIII, Utet, Torino, 1962, 464. V. anche F. CORDERO, Considerazioni sul principio d’identità del fatto, in questa Rivista, 1958, 942, che afferma l’irrilevanza del criterio della lesione dei diritti della difesa (o anche dell’accusa), non per negare la loro validità come ratio del divieto di cui all’art. 477 c.p.p. 1930, ma per sottolineare l’importanza di individuare un criterio obiettivo e neutrale per l’interpretazione di tale norma, al di là degli in-


— 635 — blico ministero di esercitare adeguatamente l’azione penale (3); od anche nella necessità di assicurare l’ordinario, doppio, accertamento della verità (4), istruttorio e dibattimentale. In relazione a quest’ultimo assunto, il legislatore del 1988 esplicitamente (5) ha affermato che la negazione della logica che lo giustificava, e la conseguente incompletezza dell’indagine preliminare, importano il superamento del principio della tendenziale immutabilità dell’imputazione in dibattimento: anche in tale sede, dunque, la contestazione deve restare fluida, perché è solo dopo l’acquisizione delle prove che il pubblico ministero si trova in grado di confermare definitivamente l’accusa o di modificarla (6). teressi contingenti di cui sono portatrici le parti nella vicenda agonistica del processo, e contrastare, così, la tendenza della giurisprudenza a negare la violazione del ricordato art. 477.2 c.p.p. 1930 ogni volta che avesse ritenuto che, in concreto, tali diritti non erano stati compressi. In genere, però, seppure non affermata esplicitamente, o seppure accompagnata dall’accentuazione di altri criteri (v. G. LEONE, Trattato di diritto processuale penale, II, Jovene, Napoli, 1961, 397, che parla di applicazione dell’art. 477.2 c.p.p. 1930 ogni volta che i mutamenti del fatto assumano particolare rilevanza in concreto ai fini dell’indagine processuale), l’idea che la norma ricordata serva alla difesa si ritrova in tutti gli Autori che si sono occupati dell’argomento. (3) E. LEMMO, L’accusa suppletiva nel dibattimento penale, Giuffrè, Milano, 1972, 42, che afferma che il ritorno del processo allo stato della preistruzione, ai sensi dell’art. 477.2 c.p.p. 1930, ha lo scopo precipuo di dar modo all’organo titolare dell’azione penale di adeguare l’accusa al fatto emerso nel dibattimento. (4) Cfr. F. CARNELUTTI, Rapporto della decisione penale con l’imputazione, in Riv. dir. proc., 1961, 159 (criticato espressamente da G. LEONE, Trattato, cit., 393, nota 16); L. SANSÒ, La correlazione tra imputazione contestata e sentenza, Giuffrè, Milano, 1971, 433; G. SPANGHER, Fatto e qualifica giuridica nell’imputazione per reato colposo, in Riv. dir. proc., 1970, 297. Da ultimo, con un’ampia panoramica delle diverse opinioni della dottrina in proposito, v. A. GIARDA, Sul principio di correlazione dell’accusa con la sentenza fra presente e futuro del processo penale, in questa Rivista, 1976, 572; ID., sub art. 477 c.p.p. (1930), in Commentario breve al codice di procedura penale (a cura di G. CONSO e V. GREVI), Cedam, Padova, 1987, 1274. (5) V. la Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in Gazz. Uff., 24 ottobre 1988, n. 250, suppl. ord. n. 2, 118 (non modificata, sul punto, dalla Relazione al testo definitivo, ibidem, 193), dove si dice che la contestazione nel dibattimento resta fluida, essendo l’indagine preliminare volutamente incompleta, mentre, dopo l’escussione delle prove, il pubblico ministero è in grado di confermare definitivamente l’accusa o modificarla. L’affermazione riecheggia la tesi della dottrina, pronunciatasi nel vigore della passata disciplina (v. A. GIARDA, sub art. 477 c.p.p., cit., 1276), ed è accolta dai primi commentatori del codice di procedura penale del 1988 (cfr. per tutti L. MARINI, sub art. 516 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di M. CHIAVARIO, V, Utet, Torino, 1991, 449). (6) Anche a tralasciare ogni considerazione sulla validità della premessa (incompletezza delle indagini preliminari), che può essere fondatamente contestata, la duplicazione dell’accertamento (istruttorio e dibattimentale) non può essere considerato come un bene in sé, ma solo come un mezzo affinché il generale e generico fine della giustizia venga realizzato attraverso il rispetto degli interessi delle parti. E, dunque, disconoscere l’uno (come ha


— 636 — Gli artt. 516 e ss. c.p.p riecheggiano la normativa contenuta nel Progetto preliminare del codice di procedura penale del 1978, riguardo ai

fatto l’attuale legislatore) non comporta necessariamente il venir meno dei rimanenti. In altre parole l’interesse delle parti, e dell’imputato, in particolare, ad una contestazione immutevole non può ritenersi implicitamente caducato dalla ritenuta inidoneità della doppia istruttoria a trovare la verità. Infatti il fondamento di tale interesse deve essere individuato non solo nella possibilità di discutere con precisione sull’addebito, ma anche nella facoltà, riconosciuta dal nuovo codice ai soggetti privati, con l’art. 38 disp. att., di ricercare gli elementi di prova utilizzabili, facoltà il cui concreto esercizio verrebbe messo a dura prova dalla fluidità di un’imputazione, modificabile nel corso dell’intero dibattito. Ad ogni modo esiste nell’ordinamento una norma, l’art. 493 c.p.p., che subordina l’ammissione nel dibattimento di prove non previste nella lista di cui all’art. 468 c.p.p. alla dimostrazione da parte del richiedente dell’impossibilità della loro tempestiva indicazione; cosa, questa, che dimostra come, anche nella versione originaria del codice, nelle intenzioni del legislatore la fase delle indagini preliminari doveva essere tendenzialmente esauriente. Comunque, in relazione al tema, qui affrontato, il carattere di prevalente accusatorietà (quale, peraltro, è lecito dubitare che abbia il sistema italiano, soprattutto in seguito alle modifiche apportate nel 1992 all’impianto originario del codice del 1988, ma anche prima: in questo senso v. esplicitamente M. NOBILI, La nuova procedura penale, Clueb, Bologna, 1989, 344) non offre soluzioni unidirezionali. In Inghilterra, infatti, è prevalente l’orientamento di permettere ampie modificazioni all’atto di accusa (indictment), con il solo limite di non apportare pregiudizio alla difesa (cfr. ARCHBOLD, Criminal pleading, evidence and practice, Sweet and Maxwell, I — ristampa —, 1995, p. 87, par. 1-162). Scorrendo la giurisprudenza riportata in ARCHBOLD, cit., p. 88 e ss., par. 1-163 e ss., si vede poi che tale pregiudizio viene negato quando è stata offerta all’imputato ampia possibilità di difendersi, non solo discutendo i risultati del materiale probatorio acquisito (v. R. v. Newington, 91 Cr. App. R. 247, CA., ivi, p. 90, par. 1-165), ma anche producendo prove. Si è ritenuto esistente un’eccessiva compressione di tale facoltà qualora la modifica non sia avvenuta tempestivamente. Questo è accaduto quando, per esempio, l’emendamento è stato apportato dopo l’inizio del sum up, cioè dopo l’inizio del riassunto della causa fatto dal giudice alla giuria (v. R. v. Bonner (1974), ibidem); ma è stato ritenuto troppo avanzato (v. R v. Thomas (1983), ibidem) anche il momento in cui l’accusa ha terminato di esporre le proprie prove. In America, invece, si tende a negare la possibilità di contestare reati nuovi e diversi. Le modifiche sono consentite purché non vengano pregiudicati i diritti sostanziali dell’accusato (v. WHARTON’S, Criminal procedure, II, Lawyers Cooperative Publishing, Rochester, New York, 1990, 148). In questo ordine di idee sono sempre stati consentiti i cambiamenti dei particolari, che servono a completare un indictment, quali il nome dell’imputato o della vittima; la loro descrizione; il nome del bene rubato o in discussione; l’intento o la colpevole conoscenza; le precedenti condanne, erroneamente attribuite. Per quanto riguarda il tempo del commesso reato, la variazione è in genere consentita quando non è importante. Non è quindi ammessa quando modifichi il reato contestato o ne aggiunga un altro. Analogo discorso viene fatto per il luogo, che, però, a giudizio di molte Corti, non può essere cambiato quando comporti un mutamento della competenza territoriale. Dato il potere della giuria di condannare per il reato contestato o per uno minore, ma non per un’accusa maggiore (v. ARCHBOLD, cit., p. 631 e ss., par. 4 - 462 e ss., per l’Inghilterra; v. WHARTON’S, cit., 175, per l’America), c’è un interesse della difesa ad emendamenti riduttivi dell’accusa. Anche in tal caso, però, la Corte deve valutare se la difesa ha subito pregiudizio: se tale


— 637 — quali la Relazione (7) precisava che per fatto diverso da come descritto nell’ordinanza di giudizio immediato o di rinvio a giudizio doveva essere inteso il fatto che muta, pur rimanendo inalterato nel suo nucleo essenziale, mentre le modifiche più radicali comportavano la configurazione di un fatto nuovo, addebitabile secondo le regole per questo previste. Sulle difficoltà di stabilire quando le variazioni emerse in dibattimento in relazione al fatto contestato comportassero una semplice modifica dello stesso fatto, e quando invece implicassero la configurazione di un fatto nuovo, la Commissione Consultiva aveva messo in guardia i redattori del Progetto preliminare del 1978 (8). Ribadiva in seguito le critiche nel proprio Parere (9), là dove sottolineava l’impossibilità logica di una precisa distinzione tra le varie ipotesi di diversità del fatto, di fronte alla quale neppure un prolungamento dei termini a difesa sarebbe bastato ad escludere il pericolo che venissero violate le garanzie del contraddittorio e della difesa. Tale pericolo avrebbe riguardato poi non solo l’imputato, ma anche altri soggetti, come la persona offesa, che, a seguito del mutamento del fatto, avrebbe potuto non essere più la stessa. Tuttavia nei componenti la commissione redigente il Progetto preliminare del 1978 prevalse la considerazione che un regresso del processo alle fasi anteriori, sulla falsariga di quanto, in situazione analoga, prevedeva il codice di procedura penale del 1930, non avrebbe apportato nessun vantaggio né ai fini dell’accertamento né ai fini della garanzia difensiva (10) poiché prima del dibattimento c’erano limitatissime possibilità emendamento, infatti, come è successo in Inghilterra in R. v. Newington, cit., viene apportato durante il riassunto finale, si è ritenuto che il difensore dell’accusato sia stato inevitabilmente privato dell’opportunità di indirizzare i giurati sulle implicazioni dell’emendamento. È stato, inoltre, notato che il giudice, a causa della fretta, può non avere la capacità di operare un adeguato aggiustamento del riassunto. In definitiva, però, qualunque siano state le ragioni che hanno portato a modificare la disciplina in tema di contestazione del fatto diverso, anche qualora se ne critichi la necessaria conseguenzialità, è tuttavia compito dell’interprete precisare l’ambito di operatività della nuova normativa: cosa, questa, che si è cercato di fare, sopra, nel testo. (7) Si tratta della Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, Roma, Istituto poligrafico e zecca dello Stato, 1978, 420 e ss. (8) Questi ne davano atto nella Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale (1978), cit., 420, in cui, a commento dell’art. 489, che regolava in maniera non dissimile dall’attuale la contestazione del fatto diverso, si diceva che la norma rifletteva una scelta raggiunta non senza dissensi in seno alla Commissione, parte della quale si era espressa per il mantenimento della disciplina contenuta nel codice di procedura penale del 1930, così come suggerito dalla Commissione consultiva. (9) Cfr. il Parere sul progetto preliminare del codice di procedura penale, Roma, Istituto poligrafico e zecca dello Stato, 1979, 375. (10) Cfr. sul punto la diversa opinione della Commissione Consultiva, che nel suo Parere, cit., 375, osservava che in determinati casi e soprattutto in quelli più complessi e delicati, potrebbe riuscire difficile, senza un ritorno alle fasi anteriori, precisare la nuova imputazione in termini tali di stabilità da renderla insuscettibile di ulteriori modificazioni; la qual


— 638 — di acquisire materiale probatorio, mentre in quella fase era assicurato alla difesa un concreto potere di intervento. 2. Già in passato la dottrina aveva cercato di stabilire quando la variazione degli elementi costituenti il fatto imponessero la restituzione degli atti al pubblico ministero, secondo quanto disposto dal secondo comma del ricordato art. 477 c.p.p. 1930, e, quando, invece, gli eventuali mutamenti risultassero ininfluenti ai fini del rispetto del principio della necessaria correlazione fra la sentenza e l’accusa contestata, affermato dal primo comma dello stesso articolo (11). Nonostante la varietà delle opinioni espresse (12), si può affermare cosa, sottolineava, era fondamentale in un processo come il nuovo, tutto imperniato sul dibattimento. (11) Nella sentenza — diceva il primo comma dell’art. 477 c.p.p. 1930 — il giudice può dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’ordinanza di rinvio a giudizio, nella richiesta o nel decreto di citazione, infliggere le pene corrispondenti, quantunque più gravi, e applicare le misure di sicurezza, purché la cognizione del reato non appartenga alla competenza di un giudice superiore o speciale. (12) Cfr. G. BETTIOL, La correlazione fra accusa e sentenza nel processo penale, Giuffrè, Milano, 1936, 81, per cui fatto diverso, ai fini dell’applicazione dell’art. 477.2 c.p.p. 1930, è quello che si stacca nettamente dal fatto originario per la diversità totale degli elementi formalistici o per la diversità dell’interesse leso; F. CORDERO, Procedura penale, 9a ed., Giuffrè, Milano, 1987, 436, per cui la norma considerata svela le due ipotesi della diversa descrizione di un medesimo avvenimento (per cui quel fatto non può essere avvenuto il giorno x, ma il giorno y), e dell’avvenimento nuovo (per cui quel fatto non è mai avvenuto, e ne è avvenuto un altro); G. DE LUCA, Considerazioni intorno all’art. 477 c.p.p. (1930), in Scuola pos., 1964, 238, che ritiene che debbano essere oggetto di contestazione tutti gli elementi del fatto, nessuno escluso, per modo che il giudice non debba tener conto dei fatti diversi, sopravvenuti in un momento successivo, che non siano stati oggetto di nuove contestazioni, nelle forme ed entro i termini previsti dalla legge; O. DOMINIONI, Imputazione (dir. proc. pen.), in Enc. dir., XX, Giuffrè, Milano, 1970, 833, per cui alla previsione dell’art. 477.2 c.p.p. 1930 è riconducibile la sola ipotesi della diversa rappresentazione del medesimo fatto; G. FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, I, 2a ed., Giuffrè, Milano, 1965, 52, che vede mutata la fattispecie che perda quei caratteri essenziali in funzione dei quali essa possa ritenersi contenuta già nell’ipotesi così come formulata nell’imputazione contestata; A. GIARDA, sub art. 477 c.p.p. (1930), cit., 1270, che afferma che per sapere se ci si trova di fronte allo stesso fatto o ad un fatto diverso bisogna considerare non solo gli elementi costitutivi di un reato (quali sono l’azione o l’omissione, il rapporto di causalità, l’elemento soggettivo, le eventuali condizioni soggettive od oggettive di punibilità), ma anche quei caratteri (come il tempo, il luogo, lo strumento, l’oggetto materiale) in base ai quali l’asserito fatto è individuato nell’atto conclusivo del procedimento istruttorio; G. LEONE, Manuale di diritto processuale penale, 12a ed., Jovene, Napoli, 1986, 566; ID., Trattato, cit., 393 e ss., per cui correlazione fra accusa e sentenza si ha quando né l’elemento materiale (azione od omissione, evento, rapporto di causalità), né l’elemento psicologico, né le circostanze, né le condizioni di punibiltà subiscono modificazioni: i punti secondari o marginali, concernenti i punti principali (p. 567) non sono soggetti alla regola dell’immutabilità, purché non assumano una particolare rilevanza in concreto e non costituiscano momenti di particolare puntualizzazione dell’indagine processuale; V. MANZINI, Trattato di diritto proces-


— 639 — che si era raggiunto il consenso sulla tesi di utilizzare nell’ambito del processo penale una nozione di fatto mutuata da quella elaborata dagli studiosi del diritto sostanziale, ma con essa non necessariamente coincidente (13). Quasi tutti gli autori individuavano, poi, nella previsione del secondo comma dell’art. 477 c.p.p. 1930, due situazioni (14). In una prima ipotesi, in seguito alle risultanze probatorie, si constatava che l’enunciazione del fatto, così come formulata negli atti richiamati dalla suddetta norma, era per alcuni suoi profili erronea, ed andava pertanto corretta. In una seconda ipotesi si rilevava che ciò di cui si doveva far carico all’imputato non era il fatto originariamente addebitatogli, ma un altro fatto. Le divergenze si manifestavano, però, sia nel momento in cui si trattava di stabilire quando la variazione degli elementi emergenti dalle prove dibattimentali concretizzasse la prima e quando la seconda delle situasuale penale italiano, IV, 6a ed., Utet, Torino, 1972, 397, per cui si ha mutamento essenziale del fatto quando gli elementi materiali, o anche solo psichici che costituiscono il reato, e che devono essere giuridicamente valutati, sono diversi e più gravi di quelli specificati nell’imputazione; A. PAGLIARO, Fatto (dir. proc. pen.), in Enc. dir., cit., XVI, 1967, 963, che specifica che fatto, ai fini della correlazione fra imputazione e sentenza, è il fatto concreto, al completo degli elementi soggettivi ed oggettivi, richiesti dal diritto sostanziale per l’esistenza del reato, mentre sono ininfluenti le variazioni del fatto storico che sono irrilevanti per il diritto sostanziale; V. PERCHINUNNO, Imputazione (capo di), in Enc. giur. Treccani, XVI, Roma, 1989, 7, che ritiene che ci si trovi di fronte ad un fatto diverso qualora gli elementi di accusa definitivamente contestati subiscano una trasformazione, sostituzione o variazione tale da incidere sul diritto di difesa; L. SANSÒ, La correlazione, cit., 431, per cui l’art. 477.2 c.p.p. 1930 non riguarda né fatti nuovi, né fatti diversi, costituenti, per se stessi, un reato autonomo, né i fatti nuovi e diversi di cui agli artt. 445 e 444 dello stesso codice, ma nuovi elementi che danno luogo ad una situazione di fatto che, considerata nel suo complesso, sia significativamente diversa da quella contestata; A. SANTORO, Imputazione (dir. proc. pen.), in Nss. dig. it., VIII, Utet, Torino, 1962, 463, per cui fatto è tutto quanto concorre a costituire un determinato reato, comprensivo, quindi, dell’elemento psicologico, e, quando siano rilevanti per il reato, dei motivi e delle finalità, della qualità del soggetto attivo e passivo, del tempo e del luogo del commesso reato; G. SPANGHER, Fatto e qualifica giuridica nell’imputazione per reato colposo, cit., 304, per cui non esiste una fattispecie concreta in cui il mutamento di un elemento non possa non provocare l’individuazione e la determinazione di una fattispecie oggettivamente diversa: perché (p. 310) nel fatto di cui parla l’art. 477.2 c.p.p. 1930 confluiscono, oltre le note della fattispecie normativa (azione, evento, atteggiamento psicologico), tutti quegli aspetti peculiari del fatto storico (tempo, luogo, modalità), il cui accertamento rappresenta la condicio per cogliere l’avvenimento nella sua tipicità e le cui modificazioni possono rivelarsi decisive per la determinazione della rilevanza giuridica della diversità del fatto. (13) Così esplicitamente G. BETTIOL, La correlazione, cit., 76; F. CORDERO, Considerazioni, cit., 939; A. SANTORO, Imputazione, cit., 463; G. SPANGHER, Fatto e qualifica giuridica nell’imputazione per reato colposo, cit., 310; ma l’affermazione è implicita in tutta quella dottrina (per cui v. nota precedente) che, per definire la nozione di fatto ai fini dell’applicazione dell’art. 477.2 c.p.p. 1930, pur partendo dalla definizione datane dai penalisti, poi se ne distacca. In senso contrario si pronuncia apertamente A. PAGLIARO, Fatto, cit., 963. (14) Cfr. O. DOMINIONI, Imputazione, cit., 832.


— 640 — zioni ipotizzate; sia in relazione alle conseguenze del verificarsi dell’una o dell’altra (15). Le opinioni (16) spaziavano dalla tesi, estremamente riduttiva, della giurisprudenza (che negava il rinvio degli atti al pubblico ministero in presenza di mutamenti anche corposi del fatto, che non avessero sostanzialmente compresso il diritto dell’imputato di difendersi), fino a quella molto rigorosa di una certa dottrina (17), che tendeva a ricondurre alla disciplina dettata dal secondo comma dell’art. 477 c.p.p. 1930 la sola ipotesi della diversa rappresentazione dello stesso fatto, richiamando, per il caso di un fatto così diverso da poter essere considerato altro o nuovo, quella dettata dall’art. 444 c.p.p. 1930 (instaurazione di un nuovo procedimento, per quest’ultimo, e conseguente, necessaria chiusura del precedente con una sentenza di proscioglimento, per quello inizialmente contestato). Si andava intanto specificando, sia pure allo scopo di delimitare l’ambito di applicazione del principio del ne bis in idem, enunciato dall’art. 90 c.p.p. 1930, che gli elementi minimi che caratterizzano un fatto, distinguendolo dagli altri, dovevano essere individuati nella condotta (18). Ma con ciò le difficoltà non si esaurivano, perché la condotta poteva essere considerata sia in senso naturalistico, come un certo segmento della (15) Emblematiche, al riguardo, le posizioni di F. CORDERO, Procedura penale (1987), cit., 436 (che le riconduceva entrambe alla previsione dell’art. 477.2 c.p.p. 1930, pur ritenendo, nella seconda ipotesi, che la trasmissione degli atti al pubblico ministero dovesse essere preceduta da un provvedimento di assoluzione per il fatto imputato); e di O. DOMINIONI, Imputazione, cit., 833 (il quale vedeva solo la prima rientrare nell’ambito della norma considerata, mentre in relazione all’altra disponeva l’art. 444 c.p.p. 1930, che regolava la sostituzione di un fatto ad un altro). (16) Per le variegate affermazioni della dottrina cfr., supra, in particolare la nota 12; per la posizione della giurisprudenza v., più dettagliatamente, infra, nel testo, il par. 3 e le relative note. (17) O. DOMINIONI, Imputazione, cit., 833. (18) F. CORDERO, Considerazioni sul principio di identità del fatto, cit., 943; ID., Procedura penale (1987), cit., 1061, che, però, aggiungeva che tale requisito, nei reati di evento, trovava il suo naturale complemento nell’oggetto materiale della condotta. Quest’ultima affermazione veniva criticata da G. LOZZI, Profili di una indagine sui rapporti tra ne bis in idem e concorso formale di reati, Giuffrè, Milano, 1974, 54 (ma v. ID., Giudicato (dir. pen.), in Enc. dir., cit., XVIII, 1969, 921), per cui il verificarsi dell’evento in senso naturalistico non rende diversa la condotta. G. GUARNERI, Regiudicata (dir. proc. pen.), in Nss. dig. it., XV, Utet, Torino, 1989, 231, ritiene che anche l’evento e il rapporto causale rientrino nella nozione di fatto, di cui all’art. 90 c.p.p. 1930 (analogamente a quanto afferma la giurisprudenza assolutamente prevalente: cfr. M.G. AIMONETTO, sub art. 90 c.p.p. (1930), in Commentario breve al codice di procedura penale (a cura di G. CONSO e V. GREVI), Cedam, Padova, 1987, 364), a meno che il giudice del primo giudizio si sia limitato ad esaminare la semplice condotta, a prescindere da qualsiasi relazione col suo oggetto materiale. Per una panoramica delle diverse posizioni in materia della dottrina e della giurisprudenza sotto il codice di procedura penale abrogato, cfr. G.P. VOENA, « Ne bis in idem » e concorso formale di reati, in Giur. it., 1976, II, 321.


— 641 — realtà; sia in quanto elemento della fattispecie giudiziale (19). In tal caso condotta è quella che il giudice ricostruisce, utilizzando, fra i vari esistenti, solo i dati necessari e sufficienti ad integrare la fattispecie astratta descritta dal diritto sostanziale; con la conseguenza che il segmento di realtà considerato (condotta in senso naturale) ben poteva realizzare diversi reati, differenti essendo le fattispecie, penalmente rilevanti, da esso concretate. Nella pratica l’adozione dell’una o dell’altra teoria portava a risultati molto diversi: la considerazione della condotta in senso naturale ampliava l’efficacia del principio di cui si tratta, di contro all’altra, che ne comportava un ambito di applicazione più ristretto (20). 3. La giurisprudenza aveva interpretato la disciplina di cui si parla in maniera strettamente funzionale allo scopo (tutela del principio del contraddittorio) per cui, secondo l’indirizzo dominante, era stata prevista. Tuttavia tale richiamo veniva avanzato per negare quella trasmissione degli atti al pubblico ministero che il secondo comma dell’art. 477 c p.p. 1930 imponeva, qualora il fatto fosse risultato in dibattimento diverso da come era stato contestato, ogniqualvolta l’imputato avesse avuto la possibilità di difendersi (21). Per considerare realizzato questo fine si era addirittura arrivati ad affermare che la conoscenza dell’addebito non doveva (19) Cfr. G. DE LUCA, Giudicato (dir. proc. pen.), in Enc. giur. Treccani, XV, Roma, Istituto poligrafico e zecca dello Stato, 1989, 10; G. LOZZI, Legittimità costituzionale del ne bis in idem, in Giur. cost., 1976, 1596; ID., Profili di una indagine, cit., 41; G. SPANGHER, Fatto, cit., 302. Per una più ampia sintesi delle diverse posizioni in materia cfr. M.G. AIMONETTO, sub art. 90 c.p.p. (1930), cit., 364. (20) Così, per esempio, nell’ipotesi di concorso formale, la considerazione della condotta in senso giudiziale porta a considerare diverse le fattispecie, a cui nei due distinti procedimenti il giudice fa riferimento. Perciò il principio del ne bis in idem non vi troverà applicazione (così G. LOZZI, Legittimità costituzionale, cit., 1596), dato che non ci sono interferenze, diversamente da quanto succederebbe qualora, invece, si considerasse la condotta in senso naturalistico (v. F. CORDERO, Procedura penale (1987), cit., 1069, per cui, nel concorso formale eterogeneo, il giudicato su di un fatto impedirebbe il processo sull’altro, perché la sua rilevanza penalistica è consumata dalla prima sentenza: unico rimedio rimarrebbe la possibilità, offerta dall’art. 445.1 c.p.p. 1930, di integrare l’imputazione in primo grado, aggiungendo il nuovo addebito nel processo già iniziato per l’altro. Da ricordare, però, che, secondo la tesi dell’Autore, per cui il requisito della condotta deve essere completato, nei reati di evento, dal suo oggetto materiale — v. nota 18 — l’omissione x, contemplata in se stessa e l’omissione x, quale antecedente causale dell’evento y, configurano fatti distinti, distintamente perseguibili). Per un inquadramento delle diverse questioni cfr. G.P. VOENA, « Ne bis in idem », cit., 323. (21) Così, per es., Cass., IV, 1 giugno 1990, Spiteri, in Riv. pen., 1991, 431; Cass., I, 15 maggio 1990, Conte, in Riv. pen., 1991, 332; Cass., IV, 9 febbraio 1990, Ria, in Riv. pen., 1990, 1084; Cass., I, 17 novembre 1989, Leghissa, in Riv. pen., 1990, 796. Nel senso che il mutamento della data del fatto comporta l’applicazione dell’art. 477 c.p.p. 1930 solo quando implica un cambiamento sostanziale dell’accusa: Cass., I, 27 giugno 1989, Agostani, in Riv. pen., 1990, 398.


— 642 — necessariamente derivare da un formale atto di contestazione, essendo sufficiente che i fatti posti a carico dell’accusato risultassero comunque dal processo (22). La giurisprudenza che si va formando in relazione al codice di procedura penale del 1988 tende a perpetuare le medesime posizioni, come si può constatare dalla lettura delle prime massime, che si limitano a rienunciare gli stessi principi precedentemente elaborati. Salvo qualche rara eccezione (23), quando si deve valutare se esista correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza, non si distinguono le varie ipotesi (regolate dagli artt. 516, 517, 518.2 c.p.p.), esplicitamente menzionate dal secondo comma dell’art. 521 c.p.p., che le accomuna nella relativa disciplina, ma si dice che la diversità del fatto, constatata dal giudice in sentenza, che provoca il ritorno degli atti al pubblico ministero, non è dissimile da quella che, nel vigore del codice precedente, provocava gli stessi effetti, a norma del secondo comma dell’art. 477: c’è dunque violazione del principio di cui si tratta solo quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità (22) Cfr., da ultimo, Cass., IV, 20 maggio 1989, Bascelli, in Riv. pen., 1990, 302; Cass., 23 novembre 1990, Corzani, in Riv. pen., 1991, 877; Cass., III, 5 dicembre 1990, Buzzoni, in Riv. pen., 1991, 877; Cass., I, 6 ottobre 1993, Maggi ed altri, in Riv. pen., 1994, 1014; Cass., VI, 8 febbraio 1994, Bollettino, in Arch. nuova proc. pen., 1994, 596. Nel senso che un’aggravante si intende contestata non solo quando vi fa riferimento il capo di imputazione concernente il reato, cui l’aggravante inerisce, ma un altro capo di imputazione, da cui l’imputato sia stato prosciolto, v. Cass., V, 17 giugno 1992, Cascone ed altri, in Riv. pen., 1993, 523. (23) Cfr. Cass., III, 14 marzo 1994, Mangiapia, in Giust. pen., 1994, III, 327, n. 86, in cui si afferma che la nozione di fatto diverso, di cui all’art. 516 c.p.p., deve essere intesa in senso materiale e naturalistico e più ampio di quanto ritenuto dalla precedente normativa. Non del tutto soddisfacenti risultano, però, le precisazioni successive, per cui diverso deve considerarsi il fatto che abbia connotati materiali difformi da quelli descritti nel decreto che dispone il giudizio, senza che sia meglio specificato in cosa possa consistere tale diversità. Diverso è detto anche il fatto storico che integra una differente imputazione (ma, secondo il punto di vista di chi scrive, in tal caso ci si troverebbe più semplicemente di fronte ad una diversa qualificazione giuridica dello stesso fatto, permessa dal primo comma dell’art. 521 c.p.p.). Nella stessa sentenza si precisa, poi, che esistono due nozioni di fatto nuovo, costituito sia dall’accadimento del tutto difforme per le modalità essenziali dell’azione o per l’evento, sia dall’accadimento del tutto diverso da quello contestato. Cass., III, 2 luglio 1994, Rispoli, in Arch. nuova proc. pen., 1995, 522, aggiunge (senza distinguere fra le varie ipotesi contemplate dagli artt. 521 e 522 c.p.p.) che la violazione del principio di correlazione fra sentenza ed accusa postula una modificazione — nei suoi elementi essenziali — del fatto, inteso come accadimento di ordine naturale. Cass., III, 7 marzo 1994, Farolli, in Giust. pen., 1995, III, 168, n. 72, precisa che nella diversità del fatto di cui all’art. 516 c.p.p. rientra certamente la diversità temporale della condotta commissiva ed omissiva, e poi precisa che questo si verifica quando un reato risulta permanente, anziché istantaneo (fattispecie in tema di inottemperanza alle disposizioni impartite dall’ispettore del lavoro).


— 643 — (trasformazione, sostituzione e variazione dei contenuti essenziali) (24). Riaffiora l’idea che la conoscenza dell’addebito possa derivare anche da fonti diverse dall’atto di contestazione formale (25), sulla base della ricorrente affermazione della necessità di interpretare la normativa in discorso in funzione dello scopo (tutela del diritto di difesa) per cui è stata predisposta (26). 4. La tendenza di cui si parla deve essere contrastata. Si deve, in primo luogo, rilevare che una interpretazione non rigorosa dell’attuale disciplina sarebbe estremamente pregiudizievole per le parti in causa. Infatti l’immediata contestazione in aula del fatto diverso a norma dell’art. 516 c.p.p. potrebbe essere sfavorevole per la difesa, che non può interloquire in proposito, nonostante i diritti, che le sono riconosciuti dal secondo comma dell’art. 519 c.p.p., di ottenere la sospensione (27) del dibattimento e di portare prove. Difficoltà possono essere incontrate anche (24) Così, per esempio, Cass., VI, 5 marzo 1992, Pesce ed altri, in Riv. pen., 1993, 139; Cass., I, 8 ottobre 1992, Raciti, in Riv. pen., 1993, 892; Cass., III, 13 novembre 1992, Jocher, in Riv. pen., 1993, 971; Cass., I, 26 maggio 1993, Salvo, in Riv. pen., 1995, 350; Cass., VI, 8 febbraio 1994, Bollettino, in Riv. pen., 1994, 1148; Cass., II, 23 maggio 1994, De Vecchi ed altri, in Arch. nuova proc. pen., 1994, 744; Cass., IV, 29 luglio 1994, Antonini, in Arch. nuova proc. pen., 1995, 522; Cass., VI, 17 novembre 1994, Peri, in Arch. nuova proc. pen., 1995, 717; Cass., I, 11 marzo 1995, Di Raimondo, ibidem. Cass., III, 23 maggio 1994, Proietti, in Riv. pen., 1995, 415, accerta la diversità del fatto, nell’ipotesi esaminata (contestata l’illegale gestione di discarica dei rifiuti, prevista dall’art. 25.2 d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, c’era stata una condanna per il reato di illegale scarico di sostanze nelle acque, punito dall’art. 21 l. 10 maggio 1976, n. 319), facendola conseguire dalla diversità dell’oggetto giuridico dei reati, dagli elementi costitutivi del fatto e dalla diversità del provvedimento (autorizzazione amministrativa) idonea ad escluderne l’antigiuridicità. (25) V. Cass., I, 26 maggio 1993, Ceraso, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 817; Cass., V, 28 luglio 1992, Chirico, in Riv. pen., 1993, 780. (26) Oltre la giurisprudenza ricordata nelle note precedenti, cfr. Cass., III, 3 aprile 1992, Nesti ed altri, in Arch. nuova proc. pen., 1992, 626; Cass., V, 17 novembre 1992, Storace, in Riv. pen., 1993, 1069; Cass., I, 21 aprile 1994, Rampinelli, in Riv. pen., 1995, 695; Cass., I, 1 luglio 1994, Coturri, in Arch. nuova proc. pen., 1995, 157; Cass., VI, 22 dicembre 1994, Armanini, in Arch. nuova proc. pen., 1995, 66; Cass., I, 10 gennaio 1995, Pregnolato, in Arch. nuova proc. pen., 1995, 718. (27) Secondo quanto disposto dall’art. 519.2 c.p.p. a richiesta dell’imputato (che deve essere informato dal giudice di questo suo diritto: art. 519.1 c.p.p.) il presidente sospende il dibattimento per un termine non inferiore a 20 giorni (art. 429.3 c.p.p., espressamente richiamato dall’art. 519.2 c.p.p.), ma non superiore a quaranta. Si deve ricordare che, in seguito all’intervento della Corte costituzionale, anche al pubblico ministero e alle parti private è attribuita la facoltà, precedentemente riservata al solo imputato, di chiedere l’ammissione delle prove, quando l’imputazione venga modificata a norma dell’art. 516 c.p.p (sentenza n. 241 del 1992) o a norma dell’art. 517 c.p.p. (sentenza n. 50 del 1995). È poi caduto l’inciso dell’art. 519.2 c.p.p. che restringeva l’ammissibilità di tali prove alla condizione (dell’assoluta necessità) dettata dall’art. 507 c.p.p. (sentenza n. 241 del 1992).


— 644 — dalle altre parti, alle quali non è neppure riconosciuto il potere di chiedere il termine a difesa, attribuito dalla norma ricordata al solo imputato. La normativa di cui si parla potrebbe creare problemi perfino al pubblico ministero, cui pure non è riconosciuto il diritto di chiedere il rinvio del processo, di contro all’onere che gli incombe di contestare immediatamente la diversità, pena il rinvio degli atti al suo ufficio (art. 521.2 c.p.p.) ad opera del giudice che, in sede di decisione, rilevi il mancato adeguamento dell’imputazione; o, in difetto, la preclusione di un secondo, più preciso, giudizio in materia (art. 649.1 c.p.p.). Tutto ciò costituisce di per sé motivo sufficiente per accogliere un’interpretazione dell’art. 516 c.p.p., che ne riduca la portata, a prescindere da ogni considerazione sulla perdurante validità della premessa (28) posta a giustificazione della nuova disciplina. Per quanto le Relazioni al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale del 1988 tacciano sul punto, questa era l’idea del legislatore del 1978 (29), cui il nuovo codice è largamente ispirato; ad essa porta il lungo travaglio (28) Si ricorda che, secondo il legislatore (cfr. supra, par. 1), il presupposto della nuova disciplina in tema di mutamento dell’imputazione nell’ambito del dibattimento era costituito dalla limitatissima rilevanza riconosciuta in tale sede al materiale dimostrativo acquisito nella fase delle indagini preliminari. L’assunto non è più valido: in proposito, oltre alle disposizioni in materia, contenute nel d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (convertito, con modificazioni, in l. 7 agosto 1992, n. 356), e nella l. 8 agosto 1995, n. 332, v. la sentenza della Corte costituzionale n. 255 del 1992 (la quale, fra l’altro, ha dichiarato l’illegittimità del terzo comma dell’art. 500 c.p.p. e del quarto, nella parte in cui non prevedeva l’acquisizione nel fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero, utilizzate per le contestazioni); la sentenza n. 254 del 1992 (che ha dichiarato incostituzionale il secondo comma dell’art. 513 c.p.p., nella parte in cui non prevedeva la possibilità di recuperare in dibattimento le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p., che si fossero avvalse della facoltà di non rispondere), la sentenza n. 60 del 1995 (che ha permesso l’utilizzazione come prova delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, che agisca per delega del pubblico ministero, dall’imputato contumace, assente, o che comunque rifiuti di sottoporsi all’esame). Tuttavia l’affermazione per cui la fluidità dell’addebito in giudizio dipende dal principio della dibattimentalità della prova non pare esatta, come si è già notato supra, in nota 6: l’imputazione, infatti, almeno nella sua portata massima, più che dalla ritualità dell’acquisizione del materiale probatorio, dipende dalla completezza delle indagini, completezza tendenzialmente imposta dal terzo comma dell’art. 493 c.p.p., già esistente, nella sua attuale formulazione, nella disciplina originaria del codice: secondo questa norma, infatti, l’acquisizione in dibattimento di prove non indicate nella lista prevista dall’art. 468 c.p.p. è ammessa solo quando la parte istante dimostri (ora, come allora) di non aver potuto fare tempestivamente la richiesta. Pertanto la necessità di una interpretazione restrittiva dell’art. 516 c.p.p. era già insita nel sistema delineato nel 1988, ed è stata resa solo più pressante dalla svolta in senso inquisitorio assunta dal processo in seguito agli interventi, or ora ricordati, della Corte costituzionale e del legislatore. (29) Cfr., supra, il par. 2, e, in particolare, la nota 7.


— 645 — della dottrina e della giurisprudenza formatesi in materia sotto la passata disciplina (30); questa è la tesi adombrata da alcuni dei primi commentatori (31) della nuova normativa. Si deve, dunque, ritenere che, nelle sue linee essenziali, il sistema preveda un dibattimento imperniato su un’accusa immutabile, nella sua sostanza, in cui gli elementi del fatto, non essenziali, ma purtuttavia rilevanti, non possano variare senza che il pubblico ministero manifesti in aula che la materia del contendere è cambiata. In sentenza il giudice potrà ricostruire quel fatto in maniera diversa da come era stato descritto nell’imputazione, ma non in modo difforme da come si è andato precisando nel dibattimento, secondo quanto constatato dall’accusa attraverso le sue successive, puntuali, contestazioni; mancando le quali il ritorno del processo alla fase delle indagini preliminari si impone (art. 521.2 c.p.p.). Analogo epilogo è previsto nel caso in cui emergano gli elementi costitutivi di un ulteriore fatto, oppure mutino gli elementi essenziali dell’oggetto del giudizio, a meno che le volontà convergenti dei protagonisti del processo (accusa, difesa e giudice) non permettano l’immediato proseguimento della trattazione (artt. 518 e 521.2 c.p.p.). Volendo, poi, precisare quando i mutamenti del fatto, non essendo essenziali, possono essere contestati a norma dell’art. 516 c.p.p., e quando invece la diversità è tale da imporre la procedura più garantita di cui all’art. 518.1 e 2 c.p.p., non sembra irragionevole utilizzare le conclusioni cui è arrivata la dottrina quando ha dovuto definire la nozione di (30) V. supra, par. 2 e 3. (31) Cfr. F. CORDERO, Codice di procedura penale, 2a ed., Utet, Torino, 1992, 620; ID., Procedura penale, 3a ed., Giuffrè, Milano, 1995, 436; A.A. DALIA e M. FERRAIOLI, Corso di diritto processuale penale, Cedam, Padova, 1992, 501; G. ILLUMINATI, Giudizio, in AA.VV., Profili del nuovo codice di procedura penale (a cura di G. CONSO e V. GREVI), 3a ed., Cedam, Padova, 1993, 507; R. LI VECCHI, Modifica dell’imputazione nel dibattimento: privilegiata l’accusa e vanificata la difesa, in Riv. pen., 1995, 547; S. RAMAJOLI, Il dibattimento nel nuovo rito penale, Cedam, Padova, 1994, 151; C. TAORMINA, Diritto processuale penale, II, Giappichelli, Torino, 1995, 475; G. UBERTIS, Sisifo e Penelope (Il nuovo codice di procedura penale dal progetto preliminare alla ricostruzione del sistema), Giappichelli, Torino, 1993, 214. G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, Giappichelli, Torino, 1994, 274, e A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, 4a ed., Giuffrè, Milano, 1995, 379, precisano che l’art. 516 c.p.p. agisce in tutti i casi in cui nel passato codice di procedura penale operava l’art. 477.2 c.p.p.; la qual cosa contrasta, o meno, con la tesi sostenuta nel testo, a seconda dell’interpretazione che di tale norma si faceva nella trascorsa disciplina (cfr. supra, il par. 2, in particolare, la nota 12). In senso difforme, D. SIRACUSANO, Il giudizio, in AA.VV., Diritto processuale penale, II, Giuffrè, Milano, 1995, 285, che vede mutare il fatto quando risultano modificati l’azione o l’omissione, l’evento, il rapporto di causalità, l’elemento psicologico, le circostanze aggravanti, in modo tale che fra i due fatti (quello precedentemente contestato e quello oggetto della successiva contestazione) sia venuta a determinarsi una vera e propria incompatibilità, che abbia reso impossibile l’abbinata considerazione degli stessi nel corpo dell’imputazione.


— 646 — fatto utile per delimitare l’ambito di applicazione della garanzia del ne bis in idem, dal momento che qui, in tema di correlazione fra accusa e sentenza (come là, in materia di divieto di un secondo giudizio sul medesimo oggetto) si parla di un fatto la cui connotazione impone (o non preclude) di esercitare una nuova azione penale: dunque non è illogico pensare che quel quid che individua un procedimento, impedendo la reiterazione della pretesa punitiva, sia anche ciò che non può cambiare, nell’ambito di uno stesso processo. Se questo è vero, la procedura di cui all’art. 518 c.p.p. (da applicarsi solo quando l’oggetto del giudizio è da considerarsi radicalmente mutato) dovrà essere seguita quando i fatti dimostrati in dibattimento concretizzino una condotta diversa da quella contestata. Negli altri casi sarà opportuno seguire la normativa più snella dettata dall’art. 516 c.p.p. (32). In questo disegno non trovano posto le contestazioni implicite, cioè quelle variazioni del fatto deducibili dagli atti, ma non espressamente e formalmente rilevate dal pubblico ministero (33). Perciò, esemplificando sulla base di decisioni emesse dalla Cassazione, non si potrà avere mutamento del titolo della colpa (da generica a specifica, o da specifica a speci-

(32) In dottrina non mancano delle prese di posizione in tal senso: v. F. CORDERO, Procedura penale (1995), cit., 436; ID., Codice di procedura penale, cit., 620), per cui le variazioni contestabili a norma dell’art. 516 c.p.p. non possono toccare il nucleo del fatto, costituito dalla condotta, e, nei reati di evento, anche dall’oggetto differente (o ulteriore) di essa. Si deve inoltre notare che, per questo Autore, il mutamento di uno qualunque degli elementi che non costituiscono il nucleo essenziale del fatto, pur andando ad integrare la fattispecie, comporta la necessità, per il pubblico ministero, di modificare l’imputazione e di procedere alla relativa contestazione in aula a norma dell’art. 516 c.p.p. Secondo altri, invece, la diversità del fatto di cui parla l’art. 521.1 c.p.p. (quindi non solo, ma certamente anche quella che impone il rispetto della procedura ora descritta) risulterà ravvisabile allorquando il confronto fra la sentenza ed il decreto che aveva disposto il giudizio manifesti delle variazioni di uno o più elementi della fattispecie giudiziale (non contestate a norma degli artt. 516, 517 e 518.2 c.p.p.) che siano idonee ad influire sull’accertamento della responsabilità (così G. LOZZI, Lezioni di diritto processuale penale, cit., 275). Nello stesso ordine di idee C. TAORMINA, Diritto processuale penale, cit., 475, che afferma che le variazioni non essenziali del fatto devono essere contestate a norma dell’art. 516 c.p.p. solo quando siano rilevanti: il rispetto del diritto al contraddittorio, ragione prima, se non unica, del principio dell’immutabilità della contestazione dibattimentale, si riafferma con rinnovato vigore. (33) Così inequivocabilmente Cass., V, 28 luglio 1992, Chirico ed altri, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 178, che afferma che non sussiste violazione dell’art. 477 c.p.p. previgente, né dell’art. 521 del codice attuale, quando la sentenza si riferisca ad un episodio che, anche se non contenuto nel capo d’imputazione, abbia però costituito oggetto di interrogatorio reso dall’imputato. Sul punto la giurisprudenza è costante: cfr., da ultimo, Cass., VI, 22 dicembre 1994, Armanini, in Arch. nuova proc. pen., 1995, 66. In senso critico, sotto la passata disciplina, cfr. per tutti V. PERCHINUNNO, Imputazione, cit., 8.


— 647 — fica) (34) per variazione dei fatti che la determinano (35), non esplicitamente contestati dall’accusa, a norma dell’art. 516 c.p.p.; non si potrà ritenere responsabile a titolo di concorso chi è stato rinviato a giudizio come unico autore di un reato (36), senza che i fatti che giustificano il mutamento siano stati formalmente portati a conoscenza della difesa, con la medesima procedura. Tenuto conto delle finalità della disciplina commentata (tendente, in particolar modo, a tutelare il contraddittorio della difesa), si potrebbe affermare che le variazioni del fatto che necessitano di contestazione, a norma dell’art. 516 c.p.p. (sanzionate a norma del secondo comma dell’art. 521 c.p.p.), siano quelle che comportano un aggravio degli elementi della fattispecie giudiziale, e non una loro diminuzione, come si verificherebbe, per esempio, nel caso di contestazione di un delitto doloso, ritenuto poi, in sentenza, semplicemente colposo (37). (34) L’affermazione della responsabilità dell’imputato per un’ipotesi di colpa diversa da quella specifica contestata, a fronte di un’accusa che contemplava anche elementi generici di colpa, era ricorrente nella giurisprudenza sul codice di procedura penale del 1930: cfr., da ultimo (e con riferimento alla normativa — art. 521 — attualmente vigente), Cass., I, 26 marzo 1992, Ceccon, in Riv. pen., 1993, 138; Cass., IV, 13 settembre 1994, Cortese, in Arch. nuova proc. pen., 1995, 522. (35) Diverso è il caso di una differente valutazione degli elementi già contestati: v. L. SANSÒ, La correlazione, cit., 490. Cass., VI, 14 novembre 1991, Casanova, in Cass. pen., 1993, 653, ripetendo una giurisprudenza più volte affermata sotto il regime del codice abrogato (richiamata in nota), ha ritenuto che non dovesse considerarsi mutato il fatto (applicando, quindi, la disciplina di cui all’art. 516 c.p.p.) nel caso in cui il giudice di merito, apprezzando in modo diverso il numero delle dosi ricavabili dalle quantità di stupefacente detenuto, avesse ravvisato nei fatti il delitto di cui al comma 1 dell’art. 71 l. n. 685 del 1975 e non la contestata fattispecie più lieve prevista dal comma 1 del successivo art. 72. (36) Contra, da ultimo, v. Cass., I, 26 maggio 1993, Ceraso, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 817. Diverso è il caso di ritenuto concorso morale, a fronte di una contestazione di concorso materiale, in quanto l’uno (il concorso materiale) ricomprende l’altro (il primo): così, esattamente, Cass., I, 31 marzo 1994, Tiozzo, in Arch. nuova proc. pen., 1995, 326. In generale (sulla non necessità di mutamento della contestazione nel caso in cui fra il fatto contestato e quello ritenuto ci sia rapporto di continenza) cfr. Cass., III, 31 ottobre 1992, Cipriano, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 335, che opportunamente, però, specifica che il fatto contenuto non deve presentare, rispetto al contenente, alcun elemento di novità, che ne alteri la struttura. Nel senso che si può passare da un’accusa di concorso nel reato ad una condanna quale unico autore Cass., I, 8 ottobre 1992, Raciti, in Riv. pen., 1993, 892; e, contestato un reato doloso, a ritenere l’esistenza di un fatto colposo, Cass., I, 5 maggio 1994, Cotuzzi, in Giust. pen., 1995, III, 168, n. 71, Cass., I, 1 luglio 1994, Coturri, in Riv. pen., 1995, 695. (37) Cfr. nota precedente. Il discorso vale anche per le variazioni degli elementi che mutano il fatto imputato, quelle, per intendersi, che, ricorrendone i presupposti, possono essere contestate in aula a norma dell’art. 518 c.p.p.: così, per esempio, mancando la prova dell’esistenza della violenza, nella sottrazione del bene mobile altrui, non occorre emendare l’imputazione, rile-


— 648 — La tesi potrebbe suscitare delle perplessità alla luce delle recenti sentenze della Corte costituzionale (38), che hanno riconosciuto all’imputato la facoltà di richiedere al giudice del dibattimento il patteggiamento o l’oblazione, in seguito al mutamento dell’addebito realizzato a norma delvando formalmente la mancanza di tale elemento, per poter arrivare, nella sentenza, ad una condanna di furto al posto di quella, richiesta, per rapina. In questo senso si erano pronunciati, vigente la passata disciplina, V. MANZINI, Trattato, cit., 396 e ss.; G. LEONE, Manuale, cit., 566; ID., Trattato, cit., 392; A. PAGLIARO, Fatto, cit., 963; V. PERCHINUNNO, Imputazione, cit., 7. Ma esattamente L. SANSÒ, La correlazione, cit., 440, precisava che il rinvio degli atti al pubblico ministero per mutamento del fatto si evitava non in ogni caso di riduzione dell’imputazione, ma solo quando la concreta situazione di fatto comprendeva espressamente tutti, nessuno eccettuato, gli elementi della concreta situazione di fatto risultante dal dibattimento. Sotto l’attuale disciplina, per un’affermazione esplicita in tal senso, v. D. SIRACUSANO, Giudizio, cit., 290. In giurisprudenza, Cass., III, 31 ottobre 1992, Cipriano, in Riv. pen., 1993, 706, negato che ci sia mutamento dell’accusa quando i due fatti (quello contestato e quello ritenuto) si trovino in rapporto di continenza, specifica che il maggiore deve comprendere quello minore. Quest’ultimo, quindi, non deve presentare l’aggiunta di alcun elemento nuovo, che ne alteri la struttura. Esemplificando, Cass., VI, 3 aprile 1989, Bernando, in Riv. pen., 1990, 189, afferma che tra il delitto di concussione e quello dell’allora esistente interesse privato in atti di ufficio non può sussistere in astratto, e non sussiste in concreto, una relazione di tale natura. (38) Cfr. la sentenza della Corte costituzionale n. 265 del 1994, la quale ha, fra l’altro, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 c.p.p., nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 c.p.p., relativamente al fatto diverso addebitato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerna un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale ovvero quando l’imputato abbia tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta di applicazione di pena in ordine alle originarie imputazioni. In tal modo il Supremo Giudice delle leggi ha permesso la concessione del patteggiamento in seguito alla modifica dell’imputazione operata a norma dell’art. 516 c.p.p. (ma anche secondo quanto disposto dall’art. 517 c.p.p., sia pure limitatamente all’ipotesi della contestazione del reato concorrente, e non anche delle circostanze aggravanti), allo scopo dichiarato di evitare abusi di potere da parte del pubblico ministero (erroneità e incompletezza dell’imputazione, risultante dagli atti di indagine), e salva l’applicazione dell’art. 448.1, ultimo periodo, c.p.p. Con sentenza n. 98 del 1996 (che ha dichiarato infondata, nei sensi di cui in motivazione, una questione concernente gli artt. 79 e 519 c.p.p.) la Corte Costituzionale ha poi precisato che la persona offesa può costituirsi parte civile nel corso del dibattimento, in seguito a contestazione suppletiva, e questo indipendentemente dal fatto che tale contestazione riguardi un fatto di reato già risultante dagli atti prima dell’inizio del dibattimento o al momento dell’esercizio dell’azione penale, oppure un fatto emerso successivamente, nel corso dell’istruzione dibattimentale. In relazione all’oblazione, la Corte (sentenza n. 530 del 1995) ha esteso d’ufficio la possibilità di proporre tardivamente la relativa domanda (richiesta solo riguardo al reato concorrente contestato in dibattimento, secondo quanto disposto dall’art. 517 c.p.p.) all’ipotesi della modifica dell’imputazione a norma dell’art. 516 c.p.p., a seguito della quale il reato sia divenuto suscettibile di estinzione per oblazione, ritenendo tale scelta una modalità di esercizio del diritto di difesa. Per quanto riguarda il giudizio abbreviato cfr. nota seguente.


— 649 — l’art. 516 c.p.p. Vi sarebbe quindi un interesse dell’imputato a vedersi contestata in tale sede la riduzione dell’imputazione, per poter usufruire di quei riti semplificati. L’esigenza è reale: ma l’adesione alla tesi per cui il fatto ritenuto in sentenza non deve discostarsi da quello contestato, neppure per variazioni che per l’imputato sarebbero migliorative, finirebbe, in pratica, per operare contro di lui. Si impongono, pertanto, all’interprete, cautele nel richiedere anche in questo caso una rigorosa applicazione del secondo comma dell’art. 521 c.p.p., in nome di quel diritto alla difesa che, dall’interpretazione contestata, risulterebbe poi grandemente pregiudicato. D’altra parte il sistema non esclude totalmente la possibilità per l’imputato di ottenere la riduzione di pena consentita dal patteggiamento e dall’oblazione anche in tali situazioni: il giudice, infatti, potrà (a norma dell’art. 448.1 c.p.p.) applicare la sanzione diminuita tempestivamente richiesta dall’imputato, qualora emerga dal dibattimento che il dissenso del pubblico ministero era ingiustificato (39). Analogamente (art. 604.7 c.p.p.) è consentito al giudice di appello di concedere l’oblazione, erroneamente rifiutata in primo grado. Inoltre la domanda di oblazione, ritualmente presentata, per le contravvenzioni punite con pene alternative, e respinta dal giudice a norma dell’art. 162-bis, quarto comma, c.p., può essere riproposta fino all’inizio della discussione finale del dibattimento di primo grado (art. 162-bis, quinto comma, c.p.). 5. Come si è visto, dunque, secondo l’interpretazione scelta, dovranno essere contestate a norma dell’art. 516 c.p.p. tutte quelle variazioni che non implicano un mutamento radicale del fatto, pur apportando modifiche non marginali ai fini dell’accertamento della responsabilità (40). Soltanto i cambiamenti che concretizzano una condotta diffe(39) Il rimedio enunciato nel testo accoglie il suggerimento, proposto dalla Corte costituzionale, in risposta alle istanze, da essa respinte, di coloro che volevano che fosse possibile richiedere il giudizio abbreviato, nel corso del dibattimento, in presenza di una modifica dell’imputazione operata a norma dell’art. 516 c.p.p. Ponendosi sulla scia della pronuncia n. 129 del 1993 (commentata da L. CREMONESI, Compatibilità tra le contestazioni suppletive dopo l’apertura del dibattimento e l’adozione dei riti speciali, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 228), i Giudici Costituzionali ribadiscono (sentenza n. 265 del 1994) che le eventuali soluzioni rientrano nella discrezionalità del legislatore, e non possono quindi essere risolte da un loro intervento. Tuttavia esplicitamente affermano che sono fatte salve le pronunce — nn. 66 e 183 del 1990; n. 81 del 1991 e n. 23 del 1992 — con le quali risulta affidato al giudice del dibattimento la verifica dell’eventuale lesione dell’aspettativa dell’imputato in ordine a tale rito che, ove accertata, fa conseguire la diminuzione della pena nel caso di condanna. (40) Per quest’ultima precisazione cfr. G. LOZZI, Lezioni di diritto processuale penale, cit., 391, il quale, affermando che il giudice dovrà disporre con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero, a norma del secondo comma dell’art. 521 c.p.p., ogniqualvolta la variazione di uno o più elementi della fattispecie giudiziale appaia idonea ad influire sull’accertamento della responsabilità, applica il criterio a tutti i casi previsti dalla norma ricordata. Nel testo, invece, è sembrato preferibile circoscriverne la rilevanza all’ipo-


— 650 — rente impongono un nuovo processo, eventualmente attivato nel rispetto delle disposizioni dettate dal secondo comma dell’art. 518 c.p.p. Ci si deve ora chiedere quale conclusione potrà avere il procedimento instaurato sull’imputazione originaria, ricordando che, a seconda delle soluzioni scelte, si può incorrere nel pericolo, evidenziato dalla Relazione (41), di vedersi precluso il nuovo procedimento, a norma dell’art. 649.1 c.p.p. La soluzione, adombrata dagli studiosi (42), di concludere il processo erroneamente instaurato con un formale atto di proscioglimento quando, in seguito alle modifiche, oggetto dell’imputazione risulti essere non lo stesso, ma un nuovo fatto, non può essere accettata indiscriminatamente perché le conseguenze sopra denunciate possono verificarsi in tutte le ipotesi in cui vi sia una qualche interferenza fra la condotta contestata e quella ritenuta. Tenendo presente la casistica esaminata dalla dottrina che ha affrontato il problema dei limiti dell’operatività del principio del ne bis in idem, si vede che la questione si pone in relazione al reato complesso, formato da due parti, delle quali una, o anche entrambe, integranti autonome figure di reato. In questo caso è evidente che, contestato inizialmente un tesi (disciplinata dall’art. 516 c.p.p., pure richiamato dall’art. 521.2 c.p.p.) in cui la variazione degli elementi dell’imputazione non comportino un mutamento sostanziale del fatto: solo in quest’ultimo caso, infatti, (e non nelle ipotesi di novità — art. 518 c.p.p. — o di elementi emergenti a norma dell’art. 517 c.p.p.) si pone il problema dell’opportunità di un ritorno del processo alla fase delle indagini preliminari a fronte della variazione di un qualsiasi elemento contestato, che sia in pratica ininfluente. (41) Cfr. la Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale del 1988, cit., 119, in cui si spiega perché il giudice che accerta la diversità del fatto restituisce gli atti al pubblico ministero, senza emettere sentenza di proscioglimento, come invece si affermava dovesse fare nella Relazione al Progetto del 1978. Secondo il legislatore delegato del 1988, infatti, quest’ultima soluzione « sarebbe adeguata nel caso di fatto nuovo, ma porterebbe a conseguenze eccessive nel caso di fatto diverso, poiché la sentenza sarebbe destinata a passare in giudicato e quindi a precludere una nuova azione penale ». Nella Relazione del 1988 si affronta la questione quando l’erroneità dell’imputazione è rilevata dal giudice al momento dell’emissione della sentenza, ma il problema è generale e si pone all’organo giudicante anche nel caso in cui, emendato correttamente l’addebito, nel corso del giudizio, ad opera del pubblico ministero, si debba poi decidere cosa disporre in ordine all’imputazione originaria. (42) Cfr. G. ILLUMINATI, Giudizio, cit., 509; G. UBERTIS, Sisifo e Penelope, cit., 214. Nello stesso ordine di idee P. BRUNO, Dubbi di costituzionalità in tema di fatto nuovo o diverso contestato in dibattimento e conseguenti poteri officiosi di iniziativa istruttoria, in Nuovo dir., 1992, 151; R. LI VECCHI, Modifica dell’imputazione, cit., 547. Contra v. G. LOZZI, Lezioni, cit., 277, il quale nega che il provvedimento menzionato nell’art. 521.1 c.p.p. abbia la natura complessa di una sentenza di assoluzione e di un’ordinanza di rinvio a giudizio, perché il passaggio in giudicato della sentenza precluderebbe il procedimento conseguente alla trasmissione degli atti al pubblico ministero ogniqualvolta la diversità del fatto ravvisata ai sensi dell’art. 521.2 c.p.p. fosse una diversità che, a norma dell’art. 649 c.p.p., non consente l’instaurazione di un nuovo processo penale.


— 651 — elemento, non si potrà poi addebitare il fatto nuovo e più consistente (43), emettendo un formale provvedimento di assoluzione per la prima imputazione, perché, secondo la dottrina (44), su di essa si formerebbe l’effetto preclusivo del giudicato. Perciò, se tale strada fosse seguita, impedita l’azione per la fattispecie composta, rimarrebbe la possibilità di agire per la sola condotta non contestata, in quanto costituisca un’autonoma figura di reato (45). L’assurdità del risultato può essere evitata dal giudice che, qualora non si verifichino le condizioni di cui all’art. 518 c.p.p. per procedere in aula, disponga il rinvio degli atti al pubblico ministero, senza emettere una sentenza conclusiva del giudizio in corso. In tal senso dispone l’art. 521.2 e 3 c.p.p., per l’ipotesi in cui la novità dell’addebito sia constatata dal giudice al termine del dibattimento (46). I canoni dell’interpretazione analogica permettono di estendere la soluzione al caso, non esplicitamente regolato dalla legge, in cui il novum sia rilevato nel corso del giudizio, quelli dell’interpretazione sistematica di immaginare come possibile la conclusione con sentenza dell’azione erroneamente iniziata, quando non siano possibili interferenze di condotta con il fatto nuovo per cui il processo prosegue. (43) Nessun problema si avrebbe, però, nel caso di riduzione dell’imputazione, purché tutti gli elementi del nuovo fatto ritenuto siano stati contestati. Sul punto cfr. più dettagliatamente il paragrafo precedente. (44) Cfr. F. CORDERO, Procedura penale (1995), cit., 1053; G. LOZZI, Lezioni, cit., 396. Nella dottrina formatasi sotto la passata disciplina, oltre ai due Autori ricordati (F. CORDERO, Procedura penale (1987), cit., 1066; G. LOZZI, Giudicato (dir. pen.), in Enc. dir., cit., XVIII, 1969, 922), v. M.G. AIMONETTO, sub art. 90 c.p.p. (1930), in Commentario breve, cit., 367 e dottrina ivi richiamata. Effetti ancor più drastici sono previsti da chi (cfr. G. DE LUCA, Giudicato, cit., 11, e dottrina ivi citata) ritiene che il giudicato, intervenuto su un reato incorporato, impedisca un nuovo giudizio su altra parte del fatto, negando, così, per esempio, la possibilità di un successivo processo non per rapina, ma anche solo per violenza privata, dopo la formazione del giudicato su un’ipotesi di furto. C. TAORMINA, Diritto processuale penale, cit., 486, nega, invece, che si verifichi l’effetto preclusivo del giudicato qualora non sussista identità di condotta tra il reato ritenuto originariamente e quello contestato a norma dell’art. 518 c.p.p., come succede (l’Autore esemplifica), nel caso di furto aggravato che diviene rapina. (45) Così, per esempio, qualora, in un processo in cui sia stata contestata la sottrazione di cosa mobile altrui, emerga che l’impossessamento è avvenuto con l’uso di violenza, la chiusura del primo procedimento, imperniato sull’imputazione di furto (art. 624 c.p.), con una sentenza di assoluzione non permetterebbe poi un nuovo procedimento per l’imputazione di rapina (art. 628 c.p.), ma solamente (e non per tutti: v. nota antecedente) per violenza (art. 610 c.p.). (46) Sul punto v. la Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale del 1988, cit., 119, che, a proposito del fatto nuovo erroneamente contestato, nel testo definitivo del codice regolato dal terzo comma dell’art. 521 c.p.p., precisava che il giudice non poteva decidere né sul fatto vecchio, né su quello nuovo (« salvo l’eventuale proscioglimento dall’accusa originaria, ma questo è un problema la cui soluzione deve essere rimessa all’interprete »), con ciò facendo ritenere possibili soluzioni differenziate a seconda dei casi.


— 652 — Per quanto riguarda le condotte che possono integrare più reati previsti dalla stessa disposizione di legge (dando luogo al c.d. concorso formale omogeneo) o da diverse disposizioni di legge (realizzando il c.d. concorso formale eterogeneo) dispone l’art. 517 c.p.p., che prevede per l’accusa l’obbligo di completare l’imputazione in aula. Eventuali lacune potrebbero essere rilevate dal pubblico ministero in altra sede, ma il provvedimento che conclude il primo processo farà incorrere il seguente negli effetti preclusivi del giudicato, qualora si ritenga che il primo comma dell’art. 649 c.p.p. esplichi la sua azione pure in questo caso (47). L’art. 517 prevede l’integrazione dell’imputazione anche in relazione ad episodi emergenti che, insieme ai fatti già contestati, possano considerarsi esecutivi di un medesimo disegno criminoso (48). In tal caso, però, il giudicato formatosi sugli uni non precluderebbe il separato giudizio sugli altri (49). In relazione al reato abituale, poiché, secondo l’opinione della dottrina (50), la reiterazione dei diversi episodi, di cui esso si sostanzia, integra per il legislatore un’unica condotta criminosa, è necessario contestare, a norma dell’art. 516 c.p.p., le diverse frazioni emergenti, le quali, aggiungendosi, arricchiscono il fatto già imputato, che nella sostanza non muta. La finzione di cui si parla (e cioè, la considerazione unitaria ad opera del (47) Sull’argomento v. F. CORDERO, Procedura penale (1995), cit., 1051, che ritiene che il giudicato esplichi i suoi effetti preclusivi nel concorso formale eterogeneo, quando i reati concorrenti siano reati di pura condotta; di contro a G. LOZZI, Lezioni, cit., 395, che afferma che nel concorso formale, omogeneo o eterogeneo che sia, il principio del ne bis in idem non opera, essendo diverse le fattispecie giudiziali, dal momento che non tutti gli elementi e i requisiti della situazione storica sono presi in considerazione da entrambi gli schemi legali. Allo stesso risultato è pervenuta la giurisprudenza, che però ha percorso vie diverse, limitando l’operatività del principio di cui si tratta alle sole ipotesi caratterizzate dalla coincidenza dell’intera materialità del reato nei suoi tre elementi della condotta, dell’evento e del nesso causale (in proposito v. P.P. RIVELLO, sub art. 649 c.p.p., in Commento, cit., VI, 1991, 429). Per una panoramica della situazione della dottrina e della giurisprudenza sotto la trascorsa disciplina cfr. M.G. AIMONETTO, sub art. 90 c.p.p. (1930), cit., 362 e ss. (48) È questo l’effetto del mutamento di disciplina operato dall’art. 1 d.l. 20 novembre 1991, n. 367, convertito, con modificazioni, in l. 20 gennaio 1992, n. 8, che ha introdotto il reato continuato fra le ipotesi di connessione elencate nell’art. 12.1, lett. b, c.p.p., genericamente richiamato dall’art. 517 c.p.p. (49) Qualora si procedesse separatamente, l’art. 671 c.p.p., che opera in relazione al reato continuato e al concorso formale dei reati (sia pure, in quest’ultima ipotesi, se e nei casi in cui si ritenga possibile il processo disgiunto: v. nota 46), permetterebbe di ridurre la pena complessiva, secondo quanto disposto dall’art. 81 c.p. (50) V., per tutti, F. MANTOVANI, Diritto penale, 3a ed., Cedam, Padova, 1992, 482, il quale osserva (non solo in relazione al reato abituale, di cui ci si sta occupando, ma anche al reato complesso e al reato continuato) che il legislatore unifica in una fattispecie autonoma e sottopone ad autonoma pena dei fatti che, altrimenti, avrebbero dato luogo ad una pluralità di reati.


— 653 — legislatore delle diverse condotte che integrano il reato abituale) non può protrarsi indefinitamente nel tempo: in caso contrario la realizzazione di un numero di condotte sufficienti a configurare il reato abituale si trasformerebbe in una sorta di immunità per i fatti futuri. Se, però, si individua il termine finale nel giudicato, bisogna ritenere che l’effetto preclusivo del ne bis in idem riguardi tutti gli episodi posti in essere prima di esso, e non solo quelli considerati in precedenti giudizi (51), perché anche i fatti non contestati sono elementi integrativi della stessa fattispecie. Era compito del pubblico ministero individuarli tutti e perseguirli unitariamente: in mancanza, le conseguenze negative devono essere subite dall’accusa, e non dal condannato. Aderendo alla tesi contestata, si arriverebbe poi a riconoscere all’organo requirente il potere di considerare separatamente gruppi di fatti diversi, ognuno dei quali suffciente a configurare il reato abituale, moltiplicando le imputazioni a suo arbitrio. Ad ogni modo, con la precisazione di cui sopra, la teoria che individua nel giudicato l’interruzione della considerazione unitaria della condotta, nel reato abituale, provoca degli inconvenienti, in quanto fornisce al responsabile una sorta di immunità per i fatti non contestati posti in essere sino al giudicato, dal momento che tali fatti (addebitabili a norma dell’art. 516 c.p.p.) andrebbero ad integrare l’unica condotta imputabile, sia pure aggravandola. Poiché l’opinione di cui si parla non trova nella legge argomenti indiscutibili, si può avanzare l’idea che la considerazione unitaria dei diversi episodi che integrano il reato abituale non sia imposta dal legislatore per un tempo così dilatato, ma in un termine più ristretto, e cioè sino all’inizio del processo, vale a dire sino al momento in cui comincia l’esercizio dell’azione penale, la quale, per definizione, non può essere rivolta al futuro, ma deve avere per oggetto fatti già verificatisi. Niente vieta, però, qualora i nuovi episodi maturati dopo la formulazione dell’imputazione integrino un ulteriore reato abituale, che questo venga perseguito come un fatto nuovo, sia pure legato al precedente dal vincolo della continuazione, e quindi contestabile in aula a norma dell’art. 517 c.p.p. Analoghe considerazioni si possono fare in relazione alla condotta nel reato permanente (52), di cui si può constatare una diversa, più lunga, durata con la procedura dell’art. 516 c.p.p., considerandola elemento di (51) Ritiene, invece, che i fatti che non siano stati oggetto di un precedente giudizio, chiuso con sentenza irrevocabile, possano venire giudicati in un diverso procedimento, senza fare distinzioni in ordine al momento in cui tali episodi siano posti in essere, G. LOZZI, Lezioni, cit., 396. (52) Sul punto v. l’ultima versione (la terza, ed. 1995, p. 1054) della Procedura penale di F. CORDERO, il quale afferma che, a fronte di un’imputazione per un reato permanente, « diventa giudicato quanto risulta dall’accusa (eventualmente accresciuta al dibattimento: art. 518 c.p.p.) ». Gli sviluppi posteriori — prosegue l’Autore — costituiscono una storia nuova aperta al futuro giudiziario », altrimenti « l’intervallo accusa-condanna sarebbe un limbo penale ».


— 654 — un fatto immutato, purché protrattasi prima dell’inizio del processo; mentre il comportamento tenuto dopo tale momento integrerebbe un fatto nuovo, eventualmente legato al primo dal vincolo della continuazione. Questa interpretazione, che certamente costituisce un incentivo a far cessare la permanenza di un’attività criminosa perseguita, ma non ancora interrotta, presenta, però, l’inconveniente di far subire pene differenti, per uno stesso comportamento, ai concorrenti di un identico reato individuati in tempi distinti. Per questa ragione, tenendo presente che, nel reato permanente (diversamente da quello che succede nel reato abituale), la condotta può essere considerata naturalmente unica, senza necessità di finzioni legislative, non si può considerare priva di suggestioni la soluzione indicata in dottrina (53), di individuare nel momento in cui la sentenza diviene definitiva il termine iniziale di un nuovo reato, anche se commesso in prosecuzione del fatto precedente. 6. In sede di decisione il giudice può dare una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione (art. 521.1 c.p.p.) agli elementi di fatto contestati. Alla luce di quanto detto nei paragrafi precedenti, questo potrà succedere esclusivamente quando ci sia stato un errore nella loro qualificazione giuridica: non potrà esserci, invece, una modifica dell’addebito, per mutamento dei fatti che lo giustificano, senza il rispetto delle norme contenute negli artt. 516 e ss. c.p.p. (54). Se questo è vero, la precisazione, contenuta nell’ultima parte del primo comma dell’art. 521 c.p.p., per cui la diversa qualificazione giuri(53) Cfr. G. LOZZI, Lezioni, cit., 397. In giurisprudenza, Cass., Sez. un., 11 novembre 1994, P.M. in c. Polizzi, (annotata da G. DE ROBERTO, Reato permanente e contestazione dell’accusa, in Giur. it., 1995, II, 517), afferma che la considerazione unitaria della condotta nel reato permanente non si protrae oltre la sentenza penale di primo grado, distinguendo, poi, a seconda che nel capo di imputazione sia indicata o no la cessazione della permanenza. Nel primo caso, si dice, il giudice del dibattimento deve valorizzare, ai fini della condanna o comunque di ogni effetto penale, anche la persistenza della condotta, emersa dall’istruttoria dibattimentale, senza che sia necessaria un’ulteriore specifica contestazione. Nello stesso modo, si aggiunge, il giudice deve procedere qualora la data indicata sia quella dell’accertamento, ove appuri che questo riguardi una fattispecie concreta, la quale, così come descritta, concerna una condotta ancora in atto. Nel secondo caso, invece, (e, cioè, quando nell’atto di imputazione venga indicata la data di cessazione della permanenza; così come quando l’accertamento si riferisca ad una fattispecie già esaurita prima o contestualmente all’accertamento medesimo), l’imputato potrà essere chiamato a rispondere dell’eventuale protrazione della permanenza solo ove si proceda a modifica dell’imputazione a norma dell’art. 516 c.p.p. (54) La dottrina non ha mai dubitato che la diversa definizione giuridica non possa servire a coprire mutamenti surrettizi del fatto. Cfr. per tutti, sotto la passata disciplina, V. MANZINI, Trattato, cit., 398; G. BETTIOL, La correlazione, cit., 85; in relazione al nuovo codice v. M. NOBILI, La nuova procedura penale, cit., 334; D. SIRACUSANO, Il giudizio, cit., 290.


— 655 — dica è possibile a condizione che il reato non ecceda la competenza dell’organo giudicante, non è indispensabile: ed infatti tale limite deriverebbe dalle norme che disciplinano la competenza per materia, sicuramente applicabili anche nel caso di variazione degli elementi essenziali del fatto contestato, seppure non richiamate in modo espresso dall’art 518.2 c.p.p., in modo differente da quanto avviene, nell’art. 516 c.p.p, in tema di mutamento di elementi non essenziali del reato (55). La dottrina, in genere, non assume un atteggiamento critico nei confronti della disciplina in discorso (56), anche se non è mancato chi (57) ha messo in rilievo il disagio che un imputato deve subire, quando gli venga contestato un giudizio di disvalore, che poi il giudice ritiene inadeguato, senza che, nel corso del procedimento, sia stato dato in alcun modo rilievo alla circostanza. In un sistema del genere la difesa si trova nell’alternativa di essere pregiudicata o da una sua carenza nell’argomentare (qualora, limitandosi a confutare l’addebito, lasci zone inesplorate nella discussione); oppure da una sua eccessiva diligenza (che, portandola a più ampie disquisizioni, apra orizzonti impensati, suggerendo al giudice, sia pure al fine di negarla, una responsabilità diversa e più grave di quella contestata). Per questa ragione si sarebbe dovuto guardare con favore una disci(55) Ed infatti: poiché l’art. 518.1 c.p.p., enunciando la regola, dispone che, in presenza di un fatto nuovo, il pubblico ministero proceda nelle forme ordinarie, non c’è ragione di ritenere che tali forme non debbano essere rispettate anche nell’eccezione, disciplinata dal secondo comma. (56) V. in particolare F. CORDERO, Procedura penale (1995), cit., 439. La normativa, peraltro, è analoga a quella contenuta nel primo comma dell’art. 477 c.p.p. 1930. Sul punto la Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale del 1988, 119, dice che è stato espressamente riconfermato il potere del giudice di modificare nella sentenza la qualificazione giuridica del fatto, potere che nel progetto del 1978 era rimasto solo sottinteso (sul punto v. il parere critico della Corte d’appello di Napoli, riportato ne Il nuovo codice di procedura penale dalle leggi delega ai decreti delegati, a cura di G. CONSO, V. GREVI, G. NEPPI MODONA, I — La legge delega del 1974 e il progetto preliminare del 1978 —, Cedam, Padova, 1989, 1148), anche se ciò indubbiamente sacrifica in qualche misura le esigenze della difesa, in particolare per il caso che la diversa qualificazione giuridica implichi una pena più grave. (57) Così esplicitamente e con forza, nella passata disciplina, G. DE LUCA, Considerazioni intorno all’art. 477 c.p.p. (1930), cit., 241, che afferma che l’esigenza della difesa dell’imputato, che costituisce la proiezione, sul piano individuale, della più vasta esigenza della certezza del diritto, in tanto è soddisfatta, in quanto egli sia in grado di conoscere preventivamente e tempestivamente non solo i fatti, ma le valutazioni che il giudice o il pubblico ministero emette sui medesimi. Nello stesso ordine di idee G. LEONE, Trattato, cit., 391, che, in nota 15, afferma che de jure condendo bisognerebbe tener conto del fatto che anche la diversa qualificazione giuridica del fatto riguarda i diritti della difesa. In relazione alla nuova disciplina ha preso posizione in tal senso G. ILLUMINATI, Giudizio, cit., 511, che, rilevato che la modifica in peggio della qualificazione giuridica non è affatto irrilevante, dal punto di vista della difesa, afferma che non sarebbe stato inopportuno assoggettarla a garanzie analoghe a quelle previste per la modifica del fatto.


— 656 — plina che impedisse un peggioramento della qualificazione giuridica dei fatti addebitati non preceduto dal relativo avvertimento. Qualora, attribuendo il relativo compito esclusivamente al pubblico ministero, si fosse ritenuto inopportuno il riconoscimento a tale organo di una facoltà che, aggiungendosi alle altre, avrebbe reso troppo ampi i suoi poteri, si sarebbe potuto assegnare tale incombenza al giudice, con una soluzione che, pur avendo degli inconvenienti (58), tuttavia non avrebbe presentato anomalie maggiori di quelle attuali. 7. L’art. 522 c.p.p. prevede la nullità come conseguenza dell’inosservanza delle disposizioni che regolano la modifica dell’imputazione, senza però distinguere le varie ipotesi e fare precisazioni in ordine al regime sanzionatorio. A tale scopo non sono di aiuto gli artt. 521 e 604 c.p.p., che si limitano a regolare un aspetto di tale regime, quello concernente la regressione del processo, mentre l’individuazione della tipologia delle nullità nei differenti casi servirebbe a stabilire l’ultimo termine utile per la rilevazione del vizio. Considerando le finalità delle discipline previste per la contestazione della diversità del fatto e del fatto nuovo, non è irragionevole pensare che la violazione dell’art. 518 c.p.p. dia luogo ad una nullità assoluta. Si può dubitare, invece, che questo accada in relazione all’art. 516 c.p.p., che si deve ritenere assistito solo da una nullità a regime intermedio (59). (58) Il giudice, infatti, apparirebbe coinvolto nell’attività repressiva, mentre sarebbe meglio che tale compito (e la relativa responsabilità) venisse lasciata al pubblico ministero. La Commissione redigente il codice di procedura penale del 1988 (v. la Relazione al progetto preliminare, cit., 119) non aveva ignorata la questione, ma, prospettandosela, aveva indicato due possibili alternative: una disciplina costruita in modo analogo a quella concernente la contestazione del fatto diverso (iniziativa del pubblico ministero, termine a difesa, eventuale trasmissione degli atti), oppure la previsione di un dovere del giudice di rendere nota preventivamente la decisione di modificare la qualificazione giuridica, consentendo la discussione sul punto. Entrambe le soluzioni però erano state scartate perché avrebbero comportato un dispendio di attività probabilmente eccessivo, e il rischio, in pratica, di indurre il giudice a conformarsi in ogni caso al nomen juris. (59) La dottrina che si è occupata dell’argomento, non distinguendo, in genere, all’interno delle nullità previste dall’art. 522 c.p.p., quelle derivanti dalla trasgressione degli artt. 518 e 517 c.p.p. da quelle che conseguono al mancato rispetto dell’art. 516 c.p.p., le riporta indifferenziatamente alle nullità generali, ricordando che danno luogo alla nullità assoluta quelle il cui rispetto è imposto a tutela dell’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale. Sul punto si sono pronunciati, sia pure marginalmente, e con differenti sfumature, O. DOMINIONI, sub art. 179 c.p.p., in Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di E. AMODIO e O. DOMINIONI, II, Giuffrè, Milano, 1989, 276; G. ILLUMINATI, Giudizio, cit., 510; M. NOBILI, La nuova procedura penale, cit., 318; C. TAORMINA, Diritto processuale penale, cit., 430; G. UBERTIS, Sisifo e Penelope, cit., 220. Ricollega al mancato contraddittorio (art. 178, lett. c, c.p.p.) il fatto che l’accusa e la condanna descrivano diversamente lo stesso avvenimento F. CORDERO, Procedura penale (1995), cit., 1027.


— 657 — Entrambe le norme, infatti, tutelando il contraddittorio, rientrano nell’ambito di azione dell’art. 178 c.p.p., che prevede la nullità di ordine generale per l’inosservanza delle disposizioni concernenti la partecipazione al procedimento del pubblico ministero (art. 178.1, lett. b, c.p.p.) e l’intervento dell’imputato e delle altre parti private (art. 178.1, lett. c, c.p.p.). La contestazione di un fatto nuovo, però, concretizza sicuramente un aspetto di quel potere di iniziativa del pubblico ministero, il cui corretto esercizio, a norma dell’art. 179 c.p.p., è sanzionato più rigorosamente: pertanto la mancata osservanza delle disposizioni dettate dall’art. 518 c.p.p. potrà essere rilevata in ogni stadio del processo, fino al giudicato (art. 179.1 c.p.p.), fatta salva la disposizione contenuta nel quarto comma dell’art. 627 c.p.p., in tema di giudizio di rinvio dopo l’annullamento della Corte di cassazione. In relazione all’art. 516 c.p.p., invece, è preferibile optare per una nullità a regime intermedio, perché la sua finalità è non tanto quella di impedire al giudice di procedere ex officio, ribadendo l’inderogabile compito del pubblico ministero di prendere l’iniziativa in materia di repressione penale, quanto l’altra, di non lasciare zone oscure al contraddittorio nel campo già delimitato dall’organo d’accusa nelle sue linee essenziali. Perciò le parti, secondo quanto dispone l’art. 180 c.p.p., non potranno denunciare per la prima volta l’inosservanza della disposizione di cui si parla dopo che sia stata deliberata la sentenza del successivo grado di giudizio. dott. IOLANDA CALAMANDREI

Distingue fra l’inosservanza di norme che attengono all’iniziativa del pubblico ministero (qual’è l’art. 518 c.p.p.), che provoca la nullità assoluta, e l’inosservanza di norme che attengono alla prosecuzione dell’azione penale (quali sono gli artt. 516 e 517.1 c.p.p.), che comporta una nullità intermedia, G.P. VOENA, Atti, in AA.VV., Profili del nuovo codice di procedura penale (a cura di G. CONSO e V. GREVI), 3a ed., Cedam, Padova, 1993, 178 e 182. Sulla falsariga di quanto affermato dalla giurisprudenza, S. RAMAJOLI, Il dibattimento nel nuovo rito penale, Cedam, Padova, 1994, 157, sostiene che la nullità derivante da una mancata relazione tra fatto e sentenza è qualificabile come una forma di nullità relativa: cfr., da ultimo, Cass., II, 18 novembre 1992, Campagna, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 476; e, in relazione alla disciplina trascorsa, Cass., V, 3 luglio 1989, Broussard, in Cass. pen., 1991, 610, m. 551, con nota di precedenti conformi. Ma, in senso più rigoroso, v. Cass., I, 4 dicembre 1992, Barrago, in Cass. pen., 1995, 364, m. 292, con nota di G. DEAN, Brevi note su un caso di nullità della sentenza per difetto di contestazione, ibidem, che afferma che la nullità comminata espressamente dall’art. 522 c.p.p., riguardante la sentenza di condanna nella parte relativa al fatto nuovo rispetto a quello contestato, è assoluta ed insanabile; Cass., I, 23 settembre 1993, Papallo, in Arch. nuova proc. pen., 1994, 137, per cui il difetto di correlazione tra imputazione contestata e sentenza comporta una nullità di ordine generale, e, quindi, assoluta, se riferita al pubblico ministero, e intermedia, nei confronti dell’imputato.


I FATTI DI ILLECITO FINANZIAMENTO AI PARTITI POLITICI: PROSPETTIVE DOMMATICHE E DI POLITICA CRIMINALE

SOMMARIO: 1. Le norme. — 2. Le figure di reato. — 3. Ratio di tutela e bene giuridico della fattispecie di illecito finanziamento pubblico. - 3.1. Il bene giuridico tutelato dalla fattispecie di illecito finanziamento societario privato. - 3.2. L’oggetto di tutela dell’omessa o infedele dichiarazione alla Presidenza della Camera dei deputati. — 4. Gli esiti dell’indagine. — 5. Prospettive de lege ferenda.

1. La normativa che disciplina la materia dell’illecito finanziamento ai partiti non rappresenta un modello di chiarezza e, quindi, di funzionalità. Essa anzi, secondo moduli purtroppo frequenti nell’esperienza legislativa italiana, si sostanzia, sotto il profilo formale, in un coacervo stratificato di disposizioni di difficile lettura, a cui fa da pendant un oggetto di tutela non facilmente riconoscibile. In tal senso risulta possibile individuare nella legislazione in questione alcuni dei caratteri che contrassegneranno stabilmente la ben poco appagante legislazione emergenziale (1). (1) Sul rapporto fra una legislazione repressivo-emergenziale ed i principi garantistici posti a tutela dello stato liberale di diritto cfr. RICCIO, Politica penale dell’emergenza e costituzione, Napoli, 1982, p. 46 e ss.; KRATZSCH, Verhaltenssteuerung und Organisation im Strafrecht. Ansätze zur Reform des strafrechtlichen Unrechtsbegriffs und der Regeln der Gesetzesanwendung, Berlin, 1985, passim; NUVOLONE, L’opzione penale, in Ind. pen., 1985, 245; PALAZZO, La recente legislazione penale, Padova, 1985, p. 15 e ss.; ALBRECHT, Das Strafrecht auf dem Weg vom liberalen Rechtsstaat zum sozialen Interventionsstaat, in KritV, 1988, 188 e ss.; ID., Erosionen des rechtsstaatlichen Strafrechts, in KritV, 1993, 163; HASSEMER, Symbolisches Strafrecht und Rechtsgüterschutz, in NStZ, 1989, 553 e s.; ID., Kennzeichen und Krise des modernen Strafrechts, in ZRP, 1992, 381; VOß, Symbolische Gesetzgebung, Ebelsbach, 1989, passim; BARATTA, Funzioni strumentali e funzioni simboliche del diritto penale. Lineamenti di una teoria del bene giuridico, in Studi in memoria di G. Tatarello, vol. II, Milano, 1990, p. 94 ss.; PALAZZO, I confini della tutela penale; selezione dei beni e criteri di criminalizzazione, in questa Rivista, 1992, 453 e ss.; PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in questa Rivista, 1992, 891 e ss.; MUSCO, Consenso e legislazione penale, in questa Rivista, 1993, 80 e ss.; ROXIN, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Band I, II Auflage, München, 1994, p. 18 e ss.; MOCCIA, Dalla tutela dei beni alla tutela di funzioni: tra il-


— 659 — Il primo degli interventi legislativi in tema di finanziamento ai partiti politici (2) è rappresentato dalla legge 2 maggio 1974 n. 195 (diretta emanazione della proposta di legge presentata dagli onorevoli Piccoli, Mariotti, Cariglia e Reale) (3). Detta legge, dopo aver disciplinato, nei primi tre articoli, le modalità e la misura di erogazione dei contributi statali, per le spese elettorali e per l’esplicazione delle attività funzionali dei relativi partiti, ha individuato, nel disposto normativo dell’art. 7, i contributi ed i finanziamenti vietati, sanzionandone penalmente la corresponsione come la riscossione. A tal fine l’art. 7, al primo comma, sancisce il divieto di erogazione, ‘‘sotto qualsiasi forma ed in qualsiasi modo’’, di ‘‘finanziamenti o contributi... da parte di organi della Pubblica Amministrazione, di enti pubblici, di società con capitale pubblico superiore al 20% o di società controllate da queste ultime, ferma restando la loro natura privatistica, a favore di partiti o loro articolazioni politico-amministrative e di gruppi parlamentari’’. L’ambito di applicazione della norma viene poi ampliato nel secondo lusioni postmoderne e riflussi illiberali, in questa Rivista, 1995; ID., La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli, 1995, pp. 10 e ss., 19, 27 e ss. (2) Sulla specifica questione della natura giuridica dei partiti politici cfr. BOBBIO, voce Pluralismo, in Dizionario della politica, Torino, 1976, p. 715 e ss.; GIANNINI, Finanziamento pubblico ai partiti politici e destinazione dei fondi, in Giur. it., 1984, 12, 357 e ss.; OPPO, Finanziamento dei partiti e diritto privato, in Riv. dir. civ., 1974, II, 574 e ss.; RIDOLA, voce Partiti politici, in Enc. dir., XXXII, 1982, p. 66 e ss.; SPAGNOLO, I reati di illegale finanziamento dei partiti politici, Padova, 1990, p. 5 e ss. (3) Rispetto al finanziamento pubblico ai partiti, la proposta di legge Piccoli giunse dopo che già vi erano state altre iniziative: prima, in ordine di tempo, fu la proposta di legge, presentata nel 1958 dal sen. Luigi Sturzo, intitolata ‘‘Disposizioni riguardanti i partiti politici e i candidati alle elezioni politiche e amministrative’’. Tale progetto fu ripresentato, nel 1961 dal sen. Ambrosio, sempre con poca fortuna. Successivamente giunse la innovativa proposta dell’On. Bertoldi che, presentata nel 1971 e nella successiva legislatura, prevedeva il riconoscimento della personalità giuridica ai partiti, al momento stesso della concessione del contributo. Questa impostazione, mai più ripresa, si segnalò per la coerenza giuridica e per la previsione di una serie di controlli ‘‘sulla gestione finanziaria delle contribuzioni’’. Al contrario, la proposta Piccoli si caratterizzava per la mancata definizione della qualificazione giuridica del partito politico e per una serie di controlli sui finanziamenti pubblici, manifestamente lacunosi ed insufficienti. Si passò così, per riprendere una felice espressione, ‘‘dall’idea originaria di una regolamentazione dei partiti senza finanziamento pubblico ad un finanziamento senza regolamentazione’’; così SPAGNOLO, Partiti politici (finanziamenti illeciti), in Dig. pen., vol. IX, 1995, p. 251 e ss. Per una più ampia considerazione dei presupposti della legislazione in materia cfr. Il diritto dei partiti in Italia (1945-1970), Roma, 1971, p. 369 ss.; CRISAFULLI, I partiti nella Costituzione italiana, in La Costituzione italiana - Saggi, Padova, 1954; FERRI, Studi sui partiti politici, Roma, 1950, p. 138 e ss.; PERTICONE, Partito politico, in Noviss. dig. it., XII, 1965, p. 519 e ss.; SPAGNOLO, I reati di illegale finanziamento dei partiti politici, cit., p. 1 e ss.


— 660 — comma dello stesso art. 7, che così dispone: ‘‘sono vietati altresì i finanziamenti o i contributi sotto qualsiasi forma, diretta o indiretta, da parte di società non comprese tra quelle previste nel comma precedente... salvo che tali finanziamenti o contributi siano stati deliberati dall’organo sociale competente e regolarmente iscritti in bilancio e sempre che non siano comunque vietati dalla legge’’. La violazione di tali divieti è sanzionata, ‘‘per ciò solo’’, con la reclusione da sei mesi a quattro anni e la multa sino al triplo delle somme che risultano essere state versate (4). Le figure di illegale finanziamento ai partiti politici, di cui all’art. 7 della legge n. 195/1974, sono state in seguito modificate ed integrate dalla successione di quattro leggi: 8 agosto 1980 n. 422, 18 novembre 1981 n. 659, 27 gennaio 1982 n. 22, 10 dicembre 1993 n. 515. Particolare rilievo riveste la legge n. 659/1981, intitolata ‘‘Modifiche ed integrazioni alla legge... sul contributo dello stato al finanziamento dei partiti politici’’, ed in particolare il disposto dell’art. 4, che precisa ed amplia i destinatari dei divieti di cui all’art. 7 della legge n. 195/1974, estendendoli ai ‘‘membri del Parlamento nazionale’’ ed europeo, a ‘‘coloro che rivestono nei partiti politici cariche di presidenza, di segreteria e di direzione politica e ammistrativa a livello regionale, provinciale e comunale’’. Interesse anche maggiore suscitano il terzo, il quarto, il quinto ed il sesto comma dello stesso articolo che così recitano: ‘‘Nel caso di erogazione di finanziamenti o contributi ai soggetti indicati nell’art. 7 della legge 2 maggio n. 195, e nel primo comma del presente articolo, per un importo che nell’anno superi i cinque milioni di lire, (somma da intendersi rivalutata nel tempo secondo gli indici Istat dei prezzi all’ingrosso), sotto qualsiasi forma, compresa la messa a disposizione di servizi, il soggetto che li eroga ed il soggetto che li riceve sono tenuti a farne dichiarazione congiunta, sottoscrivendo un unico documento, depositato presso la Presidenza della Camera dei deputati (ovvero a questa indirizzato con raccomandata con avviso di ricevimento. Tali finanziamenti o contributi o servizi, per quanto riguarda la campagna elettorale, possono anche essere dichiarati a mezzo di autocertificazione dei candidati). La disposizione non si applica ai finanziamenti concessi da istituti di credito o aziende bancarie, alle condizioni fissate negli accordi interbancari. Nell’ipotesi di contributi o finanziamenti di provenienza straniera l’obbligo della dichiarazione è posto a carico del solo soggetto che li percepisce. (4) Tale normativa ha seguito un iter legislativo complesso, cfr. per tutti SPAGNOLO, I reati di illegale finanziamento, cit., p. 20 e ss.


— 661 — L’obbligo di cui al terzo e quarto comma deve essere adempiuto entro tre mesi dalla percezione del contributo o finanziamento. Nel caso di contributi o finanziamenti erogati dallo stesso soggetto, che soltanto nella loro somma annuale superino l’ammontare predetto, l’obbligo deve essere adempiuto entro il mese di marzo dell’anno successivo. Chiunque non adempie agli obblighi di cui al terzo, quarto e quinto comma ovvero dichiara somme o valori inferiori al vero è punito con la multa da due a sei volte l’ammontare non dichiarato e con la pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici prevista nel terzo comma dell’art. 28 del codice penale’’ (5). A completare siffatta normativa, è poi intervenuta la legge n. 22/1982, ed in particolare l’art. 3 di tale legge, che ha esteso il divieto dell’art. 7 della legge n. 195/1974 a coloro che nei partiti politici rivestono cariche di presidenza, di segreteria amministrativa e di direzione politica ‘‘a livello nazionale’’. In tal modo è stata corretta, doverosamente, quella che vorremmo potere definire una mera dimenticanza del legislatore del 1981 il quale, riconducendo i divieti e le sanzioni di cui all’art. 7 della legge del 1974 ai dirigenti regionali, provinciali e comunali dei partiti, ometteva ogni riferimento ai detentori nazionali delle medesime cariche. La normativa sul finanziamento pubblico dei partiti è stata recentemente abrogata dal Referendum del 18 aprile del 1993, indetto con il D.P.R. 5 giugno 1993 n. 173, che ha espressamente eliminato gli artt. 3 e 9 della legge n. 195/1974, regolanti la misura del contributo annuo ai partiti politici ed ai gruppi parlamentari. Il lungo e farraginoso percorso legislativo si è quindi definitivamente stabilizzato con la legge n. 515/1993. Ad essa, in questa sede si deve guardare soltanto marginalmente, quale opera normativa resa necessaria dall’intervento del Referendum abrogativo: una volta eliminato il finanziamento pubblico dei partiti, era infatti necessario disciplinare ex novo il sistema dei contributi elettorali (6). Parte minoritaria della dottrina ha tuttavia ritenuto di dovere attribuire alla legge n. 515/1993 una capacità di incidenza ancora maggiore, quale disciplina in grado di depenalizzare l’intera materia dell’illecito finanziamento (7). (5) La normativa in parentesi è quella modificata dall’art. 7 della legge n. 515/1993. (6) Sull’argomento cfr. TAORMINA, Finanziamento illecito dei partiti e depenalizzazione, in Giust. pen., 1994, II, 353; cfr. pure BALICE, I reati di illecito finanziamento ai partiti. Depenalizzazione, referendum abrogativo e nuova disciplina delle campagne elettorali, in Riv. pen. dell’economia, 1994, 362 e ss. (7) Così TAORMINA in Finanziamento illecito dei partiti e depenalizzazione, op. cit., 353 e ss.


— 662 — Un tale orientamento non può essere condiviso. Deve invece rilevarsi, con la prevalente dottrina e l’unanime giurisprudenza, che non sussiste abrogazione espressa delle disposizioni penali dettate dalle leggi n. 195/1974 e n. 659/1981, perché le norme contenute nella legge n. 515/1993 nulla dicono a proposito ed anzi, introducendo modifiche alle leggi precedenti, ne confermano la vigenza. In questo senso dev’esser visto l’art. 7, quinto comma della legge n. 515/1993 che apporta modifiche all’art. 4, terzo comma, della legge n. 659/1981. Non sussiste, d’altronde, neppure abrogazione tacita perché la nuova legge ha un ambito di tutela alquanto limitato e dal punto di vista oggettivo che da quello soggettivo. Sotto il primo profilo, essa si riferisce alla raccolta di contributi erogati soltanto dal giorno successivo all’indizione dell’elezioni politiche; in secondo luogo, essa si indirizza ai soli candidati alle elezioni. D’altronde, la legge n. 515/1993 prescinde dal sanzionare quelle modalità di finanziamento lesive di interessi relativi all’imparzialità della Pubblica Amministrazione e alla trasparenza delle comunicazioni sociali che, come vedremo, la legge n. 195/1974 ha specificamente regolato. Non appare, quindi, fondata l’ipotesi di abrogazione dei reati considerati: la normativa del 1993 disciplina unicamente la propaganda elettorale, controllando le spese dei singoli candidati. Penetra dunque, soltanto marginalmente nel più ampio terreno regolato dall’illecito finanziamento (8). 2. Partendo dal caotico quadro normativo delineato, interessa preliminarmente evidenziare, attraverso un’operazione di semplice esegesi, le differenze strutturali che lasciano configurare una triplice strutturazione del reato di finanziamento ai partiti (9), distinguendosi la fattispecie di il(8) Cfr. NAPPI, Nessuna depenalizzazione del finanziamento illecito dei partiti, in Cass. pen., 1994, 247. (9) La prevalente dottrina, nell’ambito dei reati di finanziamento ai partiti politici, segue questa tripartizione. Cfr. per tutti SPAGNOLO, I reati di illegale finanziamento, cit., p. 31 ss. Per una visione d’insieme delle posizioni giurisprudenziali, vedi Trib. Milano, III sez. pen., 8 febbraio 1993 n. 477; Corte d’appello di Milano, IV sez. pen., 8 ottobre 1993 n. 3768; imputato Armanini. In particolare per l’approfondimento della distinzione tra il finanziamento illegale pubblico, di cui al primo comma dell’art. 7 della legge n. 195/1974, e il finanziamento societario occulto, di cui al secondo comma dello stesso articolo, cfr. OPPO, Finanziamento dei partiti e diritto privato, cit., 574 ss.; ALAGNA, Finanziamento dei partiti politici e contratti bancari, in Giur. it., 1980, IV, 377; MAZZARELLI, Contributi e finanziamenti occulti ai partiti. Limiti del divieto, in Temi romana, 1981, 1 ss.; LOZZI, L’ambito di operatività del divieto di finanziamenti ai partiti, in questa Rivista, 1985, 356; TAORMINA, Finanziamento illecito dei partiti, cit., 353 e s.


— 663 — lecito finanziamento pubblico, quella di finanziamento societario occulto, quella di omessa o non veritiera dichiarazione di contribuzioni alla Presidenza della Camera (reato depenalizzato dall’art. 32 della legge n. 689/1981) (10). Il reato di finanziamento pubblico, delineato nel primo comma dell’art. 7, si caratterizza per essere forgiato su di un divieto, assoluto ed incondizionato all’erogazione di finanzamenti, riferito a soggetti giuridici, determinati dal legislatore preventivamente ed in maniera tassativa: si tratta degli ‘‘organi della Pubblica Amministrazione’’, degli ‘‘enti pubblici’’, delle ‘‘società con partecipazione di capitale pubblico superiore al 20% o di società controllate da queste ultime’’. Ad un tale divieto di erogazione si affianca un divieto di ricezione destinato, nella formulazione originaria della legge, ai ‘‘partiti, loro articolazioni politiche-amministrative’’ e ‘‘gruppi parlamentari’’ (11). Il ventaglio dei potenziali soggetti attivi del reato è tanto accuratamente determinato, sia dal lato del soggetto che ‘‘corrisponde’’ che da quello del soggetto che ‘‘riceve’’, da non lasciare incertezze circa la tassatività della elencazione soggettiva dei possibili trasgressori del divieto (12). Tralasciando per ora un commento sulla composizione strutturale del divieto di ricezione, ci pare invece opportuno polarizzare l’attenzione sulla qualificazione ‘‘pubblica’’ dei destinatari del divieto di corresponsione di finanziamenti ai partiti politici. La necessità di una tale operazione emerge infatti, non appena si vada a comparare il disposto normativo del primo comma con quello del secondo comma dello stesso art. 7 della legge n. 195/1974. È, infatti, nel passaggio dall’una all’altra fattispecie che si materializza una sorta di metamorfosi della composizione strutturale del divieto di erogazione che, nel momento stesso in cui va ad incunearsi sul differente terreno dei soggetti giuridici privati (passando cioè a riflettersi dai soggetti giuridici gravitanti nell’orbita del settore pubblico, di cui al primo comma, ai soggetti che rientrano nel settore privato, di cui al secondo comma), si sdoppia e si snatura. (10) Il reato di cui al terzo comma e ss. dell’art. 4 della legge n. 659/1981 è stato depenalizzato in meno di una settimana dall’ art. 32 della legge n. 1981 n. 689. Sul punto CONCAS, Un caso singolare di depenalizzazione: il reato di omessa o infedele denunzia dei finanziamenti privati previsti dalla normativa sul finanziamento dei partiti politici, in Riv. giur. sarda, 1991, 207; TAORMINA, Finanziamento illecito dei partiti, cit., p. 353 e ss.; SPAGNOLO, Partiti politici (finanziamenti illeciti), cit., p. 251 e ss.; ID., I reati di illegale finanziamento, cit., p. 79 e ss. (11) La portata di tale divieto è stata specificata ed ampliata, come già visto, dalle leggi n. 422/1980, n. 659/1981 e n. 22/1982. (12) Ciò ha portato ragionevolmente a ritenere il reato di finanziamento pubblico come reato proprio: così esplicitamente TAORMINA, Finanziamento illecito dei partiti, cit., 353 e ss.; concorde G. SPAGNOLO, I reati di illegale finanziamento, cit., p. 63 e ss.


— 664 — Si sdoppia, perché il divieto assoluto ed incondizionato di corresponsione di finanziamenti ai partiti da parte di ‘‘organi pubblici’’, previsto nel primo comma, diviene il divieto formale e condizionato di erogazione di contributi da parte di società private, di cui al secondo comma. Si snatura, perché il quid essendi della proibizione va a sfumare in un ambito di esistenza condizionata, così come sottoposto a due specifiche clausole di salvezza quali l’obbligo di deliberazione dell’organo sociale competente e l’obbligo di iscrizione nel bilancio sociale (13). La tecnica legislativa adoperata per la determinazione del precetto del secondo comma si differenzia, quindi, da quella usata nel primo in quanto dà luogo ad una fattispecie a forma vincolata: l’erogazione e l’accettazione del finanziamento non sono sanzionati in qualsiasi modo avvengano, ma soltanto se ad un tale comportamento segua, come fatto ulteriore, la mancata loro pubblicizzazione. La regola accolta dal secondo comma dell’art. 7 è, dunque, quella della sostanziale liceità del finanziamento, dal momento che illecita è solo la contribuzione non esteriorizzata. Una tale caratterizzazione della fattispecie in questione va, invero, a riverberarsi sullo stesso nomen iuris dell’illecito, oltre che sulla configurazione della sua struttura oggettivo-materiale. È infatti utile evidenziare come la dottrina e la giurisprudenza abbiano definito la figura, piuttosto che reato di finanziamento societario ai partiti politici, reato di occulto finanziamento societario. L’attributo occulto assume quindi rilievo sintomatico, indicando che l’elemento oggettivo-materiale del reato in esame ingloba, quale sua componente costitutiva, la condotta di mancata pubblicizzazione del finanziamento. Il legislatore ha dunque preteso una particolare modalità di accettazione del finanziamento societario, la accettazione senza contabilizzazione, per sanzionarlo. Ciò, peraltro, non autorizza a lasciar convergere il disvalore penale del fatto sulla mancata deliberazione e registrazione del finanziamento, più che sulla sua erogazione e sulla sua accettazione. Slegare la condotta di mancata osservanza delle condizioni di liceità della contribuzione dalla condotta di erogazione ed accettazione di finanziamento, sino a lasciare configurare soltanto il primo momento come espressivo di un disvalore penalmente significativo, significherebbe infatti non cogliere la linea di continuità che lega la fattispecie di illecito finanziamento pubblico alla figura di occulto finanziamento societario privato. (13) Recentemente la giurisprudenza ha posto il problema della cumulabilità o della alternatività della presenza di siffatte condizioni. Cfr. al proposito Cass., sez. II, 15 dicembre 1993, in Giust. pen., 1994, II, 353.


— 665 — È chiaro, allora, che il comportamento omissivo non può completare ed esaurire la fattispecie oggettiva del reato in considerazione, ma deve invece, necessariamente rapportarsi, in termini logico-strutturali, al comportamento commissivo, integrativo l’erogazione e l’accettazione delle contribuzioni. L’atto di corrispondere e di ricevere finanziamenti si pone dunque, quale ineliminabile trait d’union tra la fattispecie di illegale finanziamento e le autonome figure delittuose integrate dal mancato compimento della deliberazione del finanziamento e della sua contabilizzazione. Se, allora, la condotta di erogazione di finanziamenti resta, anche rispetto alle società private, piattaforma oggettiva necessaria per la configurazione di una responsabilità penale, deve altresì sottolinearsi che tale comportamento diviene dato empirico sufficiente, oltre che necessario, al raggiungimento della soglia della punibilità, soltanto con il mancato rispetto di meri obblighi pubblicitari (14). In altri termini, il rispetto della condizione di salvezza è sufficiente a rendere il finanziamento partitico, proveniente da società private, sostanzialmente lecito. Se ne deve allora desumere che la regola, accolta dal secondo comma dell’art. 7 e riferita ai finanziamenti di società private, è quella della liceità, perché di illiceità è incongruo parlare anche laddove la liceità di un comportamento risulta essere condizionata o meglio, presidiata da una norma, che controluce resta di comando, seppure vestita da norma di divieto. La tecnica normativa adottata dal legislatore nel secondo comma dell’art. 7, lascia infatti spazio all’equivoco di considerare la previsione come tipica norma penale di divieto, di proibizione laddove, nella sostanza, si comanda l’esplicazione di formalità pubblicitarie specificamente indicate, e tali obblighi sono pretesi a pena di illiceità della condotta (15). (14) Viene opportunamente sottolineato a tale proposito come la pubblicità ‘‘possa rappresentare una remora ed una base di controllo (soprattutto politica), non certo un limite’’. Vedi OPPO, Finanziamento dei partiti, cit., p. 577. (15) Una maggiore chiarezza nella struttura della norma fu del resto reclamata, nell’intervento dell’on. Brosio, al Senato nella seduta del 17 Aprile 1974: ‘‘riguardo al secondo comma dell’art. 7 del disegno di legge (si tratta dello stesso art. 7 della legge definitiva) non siamo contrari nella sostanza di quell’articolo ma riteniamo che la formulazione della norma debba essere in parte rovesciata, in parte corretta. Per le società private come per gli individui il principio da affermare è quello della liceità dei finanziamenti, beninteso nei limiti delle leggi civili e penali, non quello della illiceità. D’altra parte ci sembra assurdo condizionare la liceità di tali finanziamenti alla loro previa iscrizione nei bilanci delle società...’’ pertanto ‘‘l’art. 7, secondo comma, dovrebbe essere capovolto e rettificato... nel criterio ispiratore e nella forma e dichiarare che i finanziamenti e i contributi da parte di società private sono leciti purché... deliberati... contabilizzati e pubblicati secondo le norme di legge in vigore per ciascun tipo di società’’. Cfr. Resoconto stenografico della seduta del 17 aprile 1974, Senato della Repubblica, VI legislatura, p. 13621.


— 666 — Resta ora da esaminare la fattispecie di ‘‘omessa o infedele dichiarazione alla Presidenza della Camera di contribuzioni individuali o di provenienza estera’’, di cui all’art. 4 della legge n. 659/1981. A tale norma va anzitutto riconosciuto il merito di aver colmato un vuoto di tutela, vistoso quanto inopportuno: nella composizione normativa delle figure delittuose recepite dall’art. 7 della legge n. 195/1974, il legislatore evitava, infatti, ogni riferimento alle persone fisiche ed alle entità soggettive straniere (16), di guisa che non pareva neppure possibile immaginare un reato di illecito finanziamento imputabile al soggetto individuale o ad una persona, fisica o giuridica, estera. Ciò perché si disse che la scelta stessa di una forma ‘‘integrativa e non esclusiva’’ di finanziamento pubblico ai partiti, giustificava pienamente la liceità delle contribuzioni private. Una tale impostazione non può, invero, essere contestata: effettivamente mai nessuno ha ritenuto che l’intera attività partitica si dovesse sostenere sul contributo pubblico, né il legislatore del 1974 aveva prospettato una simile ipotesi. Fatto sta che l’indulgenza mostrata sul punto dei contributi individuali ai partiti è apparsa eccessiva, in aperto contrasto col fine programmatico della legge di moralizzare la vita pubblica, a cui era certo strumentale l’eliminazione di ogni varco in cui potesse insinuarsi un collegamento tra il sistema economico e quello politico. Non a torto si reclamò una soluzione giuridica diversa, imperniata ‘‘sul contenimento’’ del finanziamento privato ‘‘nei limiti dei contributi ordinari e straordinari degli associati’’, laddove tali limiti tuttora non esistono o sembrano evanescenti (17). Se, d’altronde, il lassismo legislativo prevaleva, con una qualche giustificazione, rispetto al finanziamento privato individuale, il medesimo atteggiamento veniva assunto nei confronti dei finanziamenti qualificati dal dato di ordine spaziale della provenienza estera. Una tale ‘‘dimenticanza’’ era talmente grave ed evidente, da apparire subito come rappresentativa di una precisa scelta politica. (16) Abbiamo già rilevato come la formulazione dell’art. 7, con il duplice, specifico richiamo alla qualificazione soggettiva del soggetto che corrisponde e del soggetto che accetta il finanziamento, è stata evidentemente preferita per evitare dubbi all’interprete relativamente all’ambito soggettivo di applicazione del divieto. ‘‘D’altra parte il reato di illecito finanziamento è necessariamente plurisoggettivo sicché sembrerebbe per lo meno’’ buona norma di tecnica legislativa... ‘‘indicare la punibilità di tutti i concorrenti che non si vuole vengano esentati da pena’’. Così SPAGNOLO, I reati di illegale finanziamento, cit., p. 71. Conformemente, sul piano generale dei principi cfr., per tutti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, Bologna, 1993, p. 356 ss.; MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, Padova, 1994, p. 524; FIORE, Diritto penale, parte generale, II, Torino, 1995, p. 78 e ss. (17) Così OPPO, op. cit., p. 578.


— 667 — Ciò fu confermato dal fatto che la grave lacuna, non solo sopravvisse ad un emendamento all’art. 7 della legge n. 195/1974 (18), mai approvato al Senato, ma persistette, per ben sette anni successivi alla legge n. 195/1974. Finalmente nel 1981 la legge n. 659 sembrerebbe porre fine al problema. Sembrerebbe, perché la legge n. 689/1981, introdotta appena sei giorni dopo la legge n. 659, ha, con tempestività inconsueta al nostro sistema legislativo, depenalizzato il reato di ‘‘omessa o infedele dichiarazione alla Presidenza della Camera’’ (19). Il finanziamento erogato dal singolo privato cittadino e quello estero risultano, pertanto, illeciti amministrativi. Già prima dell’intervento della legge di depenalizzazione, del resto, essi restavano confinati in una sfera di liceità, salva la sottoposizione a particolari condizioni. Il legislatore infatti, ha fatto coincidere la liceità dell’erogazione con una dichiarazione congiunta, del soggetto ‘‘che eroga’’ e di quello ‘‘che riceve’’ nel caso di erogazione di finanziamenti o contributi.. per un importo che nell’anno superi i 5 milioni di lire’’ (cifra rivalutata nel tempo secondo gli indici Istat), ammettendo la mera autocertificazione dei finanziamenti inerenti alla campagna elettorale; con una dichiarazione ‘‘disgiunta’’, proveniente dal solo soggetto ‘‘che percepisce’’, nel caso di contributi esteri. Se allora, il corrispondere e il ricevere finanziamenti costituiva, di per sé, condotta tipica del reato di illegale finanziamento pubblico, anche nell’ambito delle fattispecie recepite dal terzo e quarto comma dell’art. 4 legge n. 659/1981, analogamente a quanto già rilevato per il finanzia(18) L’ emendamento in questione fu presentato nella seduta del Senato del 17 aprile del 1974, lo stesso senatore Brosio, con i senatori Valitutti, Bergamasco, Premoli: si sarebbe dovuto inserire tra il primo e il secondo comma all’art. 7 della legge n. 195. Questo il testo: ‘‘Sono pure vietati i finanziamenti e i contributi, sotto qualsiasi forma, diretta o indiretta da parte di governi, amministrazioni pubbliche, società o privati di nazionalità straniera, o di società nazionali da essi controllate a favore di partiti...’’. Cfr. Resoconto stenografico della seduta del 17 aprile 1974, Senato della Repubblica, VI legislatura, p. 13621. (19) Le figure recepite dall’art. 4 della legge n. 659, ai sensi dell’art. 32 della legge n. 689/1981, non possono più configurarsi fattispecie delittuose perché, essendo ‘‘violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa’’, ‘‘non costituiscono reato e sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di danaro’’. Per approfondire le caratteristiche della legge n. 689/1981 e la nuova struttura dell’illecito amministrativo si rimanda, per tutti, a DOLCINI-GIARDA-MUCCIARELLI-PALIERO-RIVA CRUGNOLA, Commentario alle modifiche del sistema penale, Milano, 1982, passim; SGUBBI, Depenalizzazione e principi dell’illecito amministrativo, in Ind. pen., 1983, 261; PALIEROTRAVI, La sanzione amministrativa, Milano, 1988, passim; PEPE, Illecito e sanzione amministrativa, Padova, 1990, passim.


— 668 — mento privato societario, si qualifica come comportamento penalmente irrilevante e sostanzialmente lecito. La rilevanza penale delle condotte in esame viene infatti, in entrambi i casi, posticipata alla presenza di ulteriori eventi costruiti come condizioni di punibilità (20), cioè di avvenimenti futuri ed incerti che fanno parte della fattispecie astratta, ma che sono estranei al fatto materiale di erogare e ricevere contribuzioni (21). Le condotte di finanziamento pertanto, rilevano quale mero antecedente, necessario e indispensabile, della omissione integrativa dei delitti di finanziamento societario occulto e della fattispecie di cui all’art. 4, terzo e quarto comma, della legge n. 659/1981. Quale presupposto di una condotta criminosa autonoma, futura ed eventuale, costituita, rispettivamente, dalla mancata delibera e mancata iscrizione a bilancio (art. 7, secondo comma, legge n. 195/1974) e dalla mancata dichiarazione delle contribuzioni alla Presidenza della Camera nei termini previsti (art. 4 della legge n. 659/1981), l’erogazione e la ricezione di ‘‘contributi’’ può esser fatta rientrare, rispetto alle figure considerate, nella categoria della condizioni preventive essenziali per l’esistenza del reato (22), che bene esemplifica il dato di una rilevanza penale che non brilla di luce propria, ma di luce riflessa. In proposito, preme anzitutto evidenziare come il legislatore abbia costruito la normativa penale in esame, attuando una progressiva attenuazione della forza e della tenuta del divieto di finanziamento proporzionale all’avvicinamento, della paternità della erogazione, a soggetti privati. La particolare qualifica normativa del ‘‘soggetto erogatore’’ acquista pertanto una posizione assorbente rispetto al fatto materiale, tale da vanificare e stravolgere la valutazione sull’autonomo disvalore fattuale (23) delle condotte di corresponsione e ricezione del finanziamento, recepita dalla norma in tema di illecito finanziamento pubblico. Ciò conduce inevi(20) Tali condizioni di punibilità operano obiettivamente per il rappresentante del partito politico; egli andrà infatti a rispondere del reato di cui al secondo comma dell’art. 7 della legge n. 195/1974 a prescindere dalla presenza di un elemento soggettivo, doloso o colposo: non sarà infatti a lui imputatabile soggettivamente la condizione della omessa iscrizione in bilancio della delibera del finanziamento, regolarmente approvato, che si verificherà in un momento successivo rispetto all’accettazione della contribuzione. Si tratterà pertanto di una condizione obiettiva di punibilità, prescindente dalla presenza di un nesso psichico. (21) Contro l’idea delle condizioni di punibilità come ‘‘incarnazione di interessi esterni al reato’’ cfr. DELITALA, Il fatto nella teoria generale del reato, Padova, 1930, in Diritto penale. Raccolta degli scritti, vol. I, Milano, 1976, p. 386 ss.; M. GALLO, Il concetto unitario di colpevolezza, 1951, p. 24-25. (22) La classificazione è di PANNAIN, Manuale di diritto penale, 2a ed., Torino, 1950, p. 192. (23) Sul punto vedi FIORELLA, Sui rapporti tra il bene giuridico e le particolari condizioni personali, in AA.VV., Bene giuridico e riforma della parte speciale, a cura di STILE, 1985, p. 193 e ss.


— 669 — tabilmente ad una svalutazione del dato dell’offesa reale (24), inopinatamente rimossa dalla naturale ed imprescindibile sede della condotta e dell’evento (25), e confinata sul terreno della posizione di uno dei soggetti attivi del reato, in un rapporto di stretta, asfissiante dipendenza con la cangiante qualifica giuridica dell’erogatore. Un’offesa dunque equivalente per modalità ed entità, uguale è infatti la condotta di erogazione e ricezione di finanziamento come uguali sono le conseguenze potenziali dell’erogazione, viene tipizzata e sanzionata come entità camaleontica a seconda dell’abito di chi la pone in essere. La seconda considerazione verte sulla prevalenza, endemica alla normativa in questione, della posizione di ‘‘chi dà’’ rispetto a quella di ‘‘chi riceve’’: impostazione che porta, una seconda volta, a svuotare di contenuti lo stesso divieto di ricezione, sino a far ritenere che ‘‘un divieto autonomo di ricevere non c’è: c’è solo il pericolo di ricevere da chi non può dare’’ (26). Dobbiamo pertanto approfondire le ragioni di questa disparità nella valutazione di comportamenti potenzialmente idonei, in misura uguale, ad offendere la funzione istituzionale dei partiti politici; disparità basata sul dato della qualificazione collettiva o individuale, pubblica o privata del soggetto a cui è imputabile la condotta e, prima ancora, individuare i motivi in forza dei quali il legislatore attribuisce maggiore rilievo alla posizione del soggetto che dà, operando in seno ad esso una serie di distinzioni, piuttosto che a quella del soggetto che riceve. La preliminare concentrazione dello sforzo interpretativo sulla determinazione della sfera dei soggetti a cui fa riferimento la norma, più che (24) Sorge pertanto il problema della ricerca e dell’eventuale identificazione di questo requisito dell’offesa. Il rischio è che il fatto tipizzato non risulti direttamente o mediatamente offensivo ma si risolva in una mera disobbedienza, con un disvalore interamente spostato sull’atteggiamento interiore e slegato dalle conseguenze materiali del reato. Per una puntuale analisi delle conseguenze, sul piano delle garanzie, di una ‘‘disciplina penale meramente dirigistica’’ cfr. MOCCIA, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, cit., p. 10 e ss. Al riguardo vedi pure PALIERO, Minima non curat praetor. Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, Padova, 1984, p. 99 e ss. (25) Sul rapporto intercorrente fra azione, evento ed offesa penalmente rilevante vedi fra gli altri GALLAS, Zum gegenwärtigen Stand der Lehre vom Verbrechen, in ZStW, Bd. 67, 1955, 1 ss.; SANTAMARIA, voce Evento (diritto penale), in Enc. dir., 1967, p. 118; MARINUCCI, Il reato come azione, Milano, 1970; STELLA, La descrizione dell’evento, I, Milano, 1970, p. 45 e ss.; BRICOLA, voce Teoria generale del reato, in Nov. dig. it., 1973, p. 72 e ss.; ANGIONI, Contenuto e funzioni, cit., p. 163 e ss.; MAZZACUVA, Il disvalore d’evento nell’illecito penale. L’illecito commissivo doloso e colposo, Milano, 1983; FIORELLA, voce Reato in generale, in Enc. dir., 1987, p. 793 e ss.; MANTOVANI, Il principio di offensività del reato nella Costituzione, in Scritti Mortati, vol. IV, Milano, p. 477; MAZZACUVA, voce Evento, in Dig. disc. pen., 1990, p. 445 e ss. (26) Il quesito è stato sollevato da OPPO, op. cit., p. 577.


— 670 — sull’intrinseco disvalore della condotta, è allora giustificata, perché da tale punto deve partirsi per addivenire ad una ricostruzione soddisfacente della ratio legis sottesa alle previsione di fattispecie delittuose nell’ambito della legge sul finanziamento pubblico. 3. La differenza strutturale tra le fattispecie analizzate sembrerebbe implicare la presenza di differenti beni giuridici protetti dal divieto assoluto di finanziamenti provenienti da organi pubblici, rispetto a quelli, salvaguardati da divieti parziali di contribuzioni, erogate da società private, singoli cittadini, paesi stranieri. Una tale distinzione pare tuttavia collidere con la voluntas legis che, espressa nelle dichiarazioni programmatiche delle forze politiche della maggioranza, sembrava voler riportare la legge ad un fondamento unitario, inquadrabile nell’ambito dell’attuazione dell’art. 49 della Costituzione. In sintesi, poiché tale articolo garantisce a ‘‘tutti i cittadini il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale’’, si disse che esclusivamente in tale ambito era ‘‘possibile valutare la opportunità politica di intervenire con provvedimenti di finanziamento dei partiti’’. Ciò perché ‘‘solo attraverso il finanziamento pubblico, i partiti possono espletare la loro fondamentale ed essenziale funzione’’ (27) politica e democratica. Conseguenziale a tale visione era il fatto che il finanziamento illecito andasse a violare il principio costituzionale contenuto nell’art. 49 perché alterava ‘‘il libero concorso dei cittadini a determinare la politica nazionale... nella misura in cui i gruppi di pressione pubblica o privata... divengono determinanti, o comunque concorrono a determinare le scelte dei partiti sulla politica nazionale’’. Il divieto di cui all’art. 7 sarebbe dunque posto, secondo le indicazioni emergenti dai lavori preparatori della legge del 1974, a tutela del ‘‘principio fondamentale democratico del pluralismo dei partiti’’ (28) che, diversamente, sarebbe messo in pericolo dall’intervento di ‘‘gruppi di pressione pubblica e privata’’ idonei ad orientare le scelte dei partiti. Se, però, si fosse inteso abbracciare questa impostazione, assumendo la tutela della pluralistica composizione del sistema politico come unico bene salvaguardato dalle disposizioni in esame, si sarebbe dovuto tener fede alle premesse programmatiche e difendere tale sistema da ogni con(27) Vedi intervento del relatore on. Galloni in Atti parlamentari, Camera dei deputati, VI legislatura, Discussioni della seduta del 9 aprile 1974, p. 14196 e ss. (28) Vedi Atti parlamentari, Camera dei deputati, VI legislatura, disegni e proposte di legge n. 2860-39 A, p. 8. Cfr. pure intervento del relatore on. Galloni in Atti parlamentari, Camera dei deputati, VI legislatura, Discussioni, seduta del 9 aprile 1974, p. 14200 e ss.


— 671 — dotta distorsiva, proveniente da qualsivoglia gruppo di pressione; non rilevando tanto la qualifica soggettiva della fonte di provenienza del condizionamento, quanto piuttosto l’idoneità della condotta ad orientare e a condizionare i comportamenti degli elettori. In altri termini, postulando l’equivalenza estensiva della gravità dell’offesa, in quanto concernente beni giuridici della stessa specie (29), il principio da adottare, rispetto ad una stessa condotta di finanziamento condizionante, cioè ad un modello di offesa del bene in questione analogo anche sotto il profilo quantitativo dell’intensità (30), sarebbe dovuto essere quello di equivalenza sul piano della risposta sanzionatoria. E se il modo e l’entità della offesa, dunque lo stesso disvalore fattuale, restano, in alcuni casi, pure condizionati dalla particolare posizione del soggetto agente (31), coerenza avrebbe preteso che si fosse almeno accertato questo surplus di vulnerabilità del bene rispetto a differenti fonti erogative. Ciò sarebbe risultato possibile adottando, a livello normativo, un criterio attraverso cui fosse risultato possibile misurare il quantum di offensività connesso a determinate entità giuridiche. Un criterio che avrebbe dovuto valutare, a priori, il grado di influenza dei gruppi di pressione basandosi su una analisi, qualitativa e quantificativa, dei mezzi e della organizzazione a loro disposizione. Non è stata questa la via intrapresa dal legislatore che, pervicacemente, decideva di graduare l’incidenza della risposta sanzionatoria su medesime condotte, rifugiandosi in un dato, quello della qualifica soggettiva dell’autore, adottato piuttosto acriticamente. Se ‘‘infatti è vero... che il legislatore ha voluto colpire l’indebita ingerenza della burocrazia pubblica e parapubblica nel gioco del pluralismo dei partiti e nella libertà di scelta politica..., prevedendo la illiceità di ogni tipo di contribuzione di enti pubblici e parapubblici, è pur vero che non minore appare il pericolo di collusioni tra partiti politici e società pri(29) Cfr. ANGIONI, op. cit., p. 166 e ss. (30) Per quanto riguarda l’intensità dell’offesa, laddove l’evento dannoso consista in una disfunzione del bene (come ad esempio nei casi di reati contro la Pubblica Amministrazione), più grave sarà tale disfunzione se interverrà nella fase realizzativa di compiti istituzionali, meno grave se si limiti a danneggiare la fase puramente organizzativa. Ecco che risulta essenziale ‘‘la distinzione tra atti doverosi delle persone fisiche che esauriscono la loro rilevanza all’interno dell’amministrazione e quegli atti amministrativi interni che viceversa possono avere una rilevanza esterna rispetto all’ufficio che deve porli in essere. I primi restano atti di ufficio delle persone fisiche che non si traducono in un atto dell’ufficio’’. Così testualmente STILE, Omissione rifiuto e ritardo di atti di ufficio, Napoli, 1974, p. 97. (31) Cfr. a proposito FIORELLA, Sui rapporti tra il bene giuridico e le particolari condizioni personali, cit., p. 193 e ss.


— 672 — vate... spinte a concedere finanziamenti e sovvenzioni per fini esclusivamente privati’’ (32). Né tali società private possono ritenersi entità strutturalmente inidonee al condizionamento ed alla distorsione del pluralismo partitico o incapaci di indurre deviazioni dagli interessi pubblici per interessi particolari: basti pensare al peso politico ed alla forza persuasiva dei grandi gruppi industriali, delle potenti multinazionali, delle holdings. Naufragati dunque i tentativi di giustificazione dello sdoppiamento del divieto di finanziamento sulla base di una differenza quantitativa dell’offesa, così come graduata e filtrata dalla posizione del soggetto attivo, si deve allora approdare ad una distinzione di ordine qualitativo, che parta dalla differente determinazione del bene tutelato nelle figure in questione. Tale distinzione è stata da qualcuno ricercata non nell’ambito di chi eroga, ma ‘‘sul versante opposto, nella sfera dei soggetti che ricevono le sovvenzioni vietate’’. Una tale scelta viene giustificata, affermando che ‘‘il patrimonio pubblico, la imparzialità e la correttezza della azione della pubblica amministrazione trovano ben più rigorosa tutela nel titolo II, del libro II del codice penale, tra i delitti contro la P.A.’’ e dunque tali interessi non possono ‘‘che essere un effetto riflesso ed indiretto della normativa (sul finanziamento), ma non certamente lo scopo diretto e principale’’. Analoga posizione viene assunta rispetto ‘‘alla fattispecie di illegale finanziamento da parte di società private..., che certo non è stata introdotta a tutela del patrimonio sociale o della regolarità della vita del sodalizio o degli interessi dei soci o dei creditori. Altre norme, altre disposizioni penali provvedono a tanto’’ (33). Una simile impostazione, invero, non appare condivisibile: guardare ai divieti contenuti nell’art. 7 dall’ottica del soggetto che riceve, significa voler trascurare la differente disciplina recepita dal primo comma rispetto al secondo o, comunque, non spiegarla in termini convincenti, dal momento che, scegliendo una tale angolazione, non si capirebbero le ragioni per le quali il legislatore abbia deciso di disciplinare in maniera differente uguali comportamenti, imputabili ad un soggetto, quello che riceve, delineato e qualificato negli stessi termini al primo come al secondo comma dell’art. 7. Il nodo interpretativo insito in tale distinzione deve, invece, sciogliersi, a nostro avviso, partendo dalla direzione opposta, dalla sfera del soggetto ‘‘che dà’’. D’altronde, se alla qualificazione normativa dell’erogatore e non a quella del ricevente il legislatore ha affidato il compito di orientare il (32) Così ALAGNA, op. cit., p. 379. (33) Su tale impostazione e relativa argomentazione cfr. SPAGNOLO, op. cit., p. 34.


— 673 — grado di incidenza e la estensione sanzionatoria del divieto di finanziamento, appare del tutto coerente ed opportuno privilegiare, nel quadro di una ricostruzione dommatico-funzionale, la posizione di ‘‘chi dà’’, piuttosto che quella di chi riceve. È infatti chiaro che il divieto del primo comma dell’art. 7 deve presidiare un bene giuridico, attinente alla sfera dell’erogatore, ritenuto dal legislatore di rilievo superiore rispetto ad altri, potenzialmente riportabili alla sfera del soggetto che riceve: è il mutamento qualitativo dell’oggetto della tutela a giustificare il mutamento della costruzione del divieto. E tale mutamento qualitativo non può che discendere dall’unico elemento di distinzione tra le figure di illecito finanziamento pubblico ed illecito finanziamento privato, costituito appunto dalla qualificazione pubblica di uno dei concorrenti necessari. Tale qualificazione dovrebbe allora riguardare tutti i soggetti erogatori considerati dal primo comma dell’art. 7: dunque, oltre gli organi ed enti pubblici (di cui è palese la natura pubblicistica), le società a partecipazione pubblica. Senonché tali società, dal punto di vista formale, non rientrano nella sfera pubblica, poiché la rilevanza della partecipazione pubblica è ‘‘stabilita con un criterio assoluto e matematico che tuttavia non garantisce il controllo pubblicistico: più del 20% del capitale’’. Ciò potrebbe, a prima vista, far dubitare della congruità della nostra ricostruzione, come imperniata sulla posizione pubblica di ‘‘chi dà’’. Deve tuttavia considerarsi che ‘‘per tutte le società a partecipazione pubblica superiore al 20 per cento del capitale, dunque anche per le società a partecipazione pubblica maggioritaria o totalitaria, la legge si preoccupa di evitare che l’equiparazione, ai fini del divieto delle contribuzioni, a organi o enti pubblici possa condurre ad illazioni sulla natura di tali società’’. Tale è infatti il significato da attribuirsi all’espressione ‘‘resta ferma la loro natura privatistica’’ (34). Il legislatore ha quindi voluto evitare che la partecipazione ed il controllo pubblico siano ritenuti, sul piano interpretativo, come incompatibili con la ‘‘natura privatistica’’ delle società suddette. Si comprende allora che, alla base di una tale scelta legislativa, vi è la volontà di superare la definizione formale-concettuale delle ‘‘società a partecipazione pubblica’’ per giungere ad una più soddisfacente regolamentazione del problema sostanziale del coinvolgimento del danaro pubblico nell’approvvigionamento dei partiti politici. Coerentemente a questa impostazione, viene esteso l’ambito applicativo e l’incidenza della norma, riferendo il divieto di cui al primo comma (34)

Così OPPO, op. cit., p. 578 e ss.


— 674 — dell’art. 7 non soltanto agli ‘‘organi della Pubblica Amministrazione’’ e agli ‘‘enti pubblici’’ ma a tutte quelle società, pure di natura privatistica, che abbiano tuttavia ingenti immissioni di danaro pubblico nel capitale sociale. L’allargamento del divieto assoluto di finanziamento pubblico a società formalmente qualificabili come private è soltanto in apparenza improprio: in realtà l’estensione del divieto risponde ad un accorto criterio legislativo di chiusura. Si è voluto infatti evitare che società, formalmente private ma sostanzialmente riconducibili all’area pubblica attraverso il coinvolgimento nel capitale sociale di danaro pubblico, potessero devolvere danaro o altre utilità ai partiti. Se allora la fattispecie in questione è indirizzata ad evitare ogni forma di coinvolgimento del capitale pubblico (‘‘inteso in senso lato’’) nella situazione patrimoniale dei partiti, ciò rafforza e non indebolisce la nostra ipotesi ricostruttiva, basata sulla posizione pubblica (in senso ampio) del soggetto ‘‘che dà’’. D’altro canto, se cercassimo il bene oggetto di tutela dall’ottica del soggetto che riceve, cioè dei partiti politici, si dovrebbe giungere alla idea di un divieto volto, nell’illecito finanziamento pubblico, alla protezione del sistema democratico del pluralismo dei partiti e, nell’illecito finanziamento privato, alla trasparenza dei bilanci dei partiti e delle contribuzioni erogate dalle società private (35). Beni giuridici parzialmente coincidenti e, come tali, inidonei a spiegare la forte discriminazione del trattamento delle varie condotte di finanziamento. È quindi necessario riconoscere nel divieto assoluto di contribuzione pubblica ai partiti, una forma di tutela normativa qualificata e valorizzata dalla posizione dell’erogatore e dal conseguente spostamento dello stesso oggetto della tutela nella sfera pubblica: il bene oggetto di tutela resta, secondo questa impostazione, strettamente legato alla particolare qualifica dell’erogatore, come portatrice di una maggiore carica di offensività della condotta. La volontà legislativa di presidiare e tutelare un interesse, se non esclusivo, adiacente alla sfera pubblica, vale, in secondo luogo, ad attenuare il contrasto, altrimenti perdurante ed irrisolto, tra divieto assoluto di contribuzioni pubbliche ai partiti e liceità ‘‘condizionata’’ dei finanziamenti privati. La legge n. 195/1974 dunque, non tanto ha inteso escludere la liceità di ogni forma di contribuzione politica, quanto ha voluto evitare, al di là dei limiti del finanziamento ordinario, ogni forma di coinvolgimento del (35) Queste sono le conclusioni cui giunge la posizione, divergente da quella qui sostenuta, di SPAGNOLO, op. cit., p. 33 e ss.


— 675 — capitale pubblico, inteso in senso lato, nella situazione patrimoniale dei partiti. Tale ratio legis assume particolare rilevanza nello specifico ambito della Pubblica Amministrazione. Ciò perché il rischio, strutturale all’azione amministrativa, di deviazione dagli scopi istituzionali per l’influenza di interessi privati estranei, diviene particolarmente elevato laddove si penetri nell’area di potere gestita dai partiti politici e dai gruppi di pressione ad essi collegati. Il binomio Pubblica Amministrazione-partiti politici determina allora un tale innalzamento del margine del rischio di collusioni e deviazioni dagli interessi pubblici, da giustificare una tutela particolareggiata, e come vedremo anticipata, dell’integrità del patrimonio pubblico. Una tutela rafforzata che deve vedersi anche nell’ottica del buon andamento e della imparzialità della Pubblica Amministrazione, in conformità ad una lettura dell’art. 97 della Costituzione che miri ad attribuire ad esso il ruolo di una disposizione precettiva, atta a fissare i criteri informatori dell’azione amministrativa, piuttosto che quello di una mera affermazione programmatica (36). La norma costituzionale così intesa non può allora limitarsi ad incidere sulla mera ‘‘fase organizzativa iniziale della Pubblica Amministrazione’’, dovendo piuttosto investire il funzionamento della stessa ‘‘nel suo complesso’’ (37). Le finalità di buon andamento ed imparzialità non vanno pertanto perseguite all’interno dell’amministrazione medesima, ma acquistano rilevanza giuridica nel più ampio spazio dell’ordinamento generale (38), ed in tale ambito determinano doveri pubblici funzionali (39). (36) La stessa Corte costituzionale ha più volte ribadito che la norma in esame non costituisce un’affermazione programmatica astratta, ma una disposizione precettiva che pone un obbligo primario attuativo per il legislatore e per la Pubblica Amministrazione stessa. Così la sentenza della Corte costituzionale del 12 marzo 1962 n. 14, in Giur. cost., 1962, p. 146. Sul punto SPERANZA, Il principio di buon andamento-imparzialità della amministrazione nell’art. 97 della Costituzione, in Foro amm., 1972, II, 83; ALLEGRETTI, Corte costituzionale e pubblica amministrazione, in BARILE-CHELI-GRASSI, Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo in Italia, Bologna, 1982, passim; ANDREANI, Il principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione, Padova, 1982, passim; S. STAMMATI, Il buon andamento dell’amministrazione, in Studi Giannini, 1988, passim; SATTA, Il principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione nella giurisprudenza costituzionale, in Droit social, 1988. (37) Cfr. la sentenza della Corte costituzionale 10 marzo 1966 n. 22, in Giur. cost., 1966, 223. (38) ‘‘La stessa rilevanza di interessi sostanziali autonomi è filtrata da modelli di buon funzionamento (di cui è classico esempio l’art. 97 della Costituzione) che non il diritto penale, ma il diritto pubblico o privato hanno regolato, e che al diritto penale si propongono ad un tempo come oggetto di tutela e come luogo di possibili offese ad altri beni’’. Così PULITANÒ, La formulazione delle fattispecie di reato: oggetti e tecniche, in AA.VV., Beni e tecniche della tutela penale, 1987, p. 34 e ss.


— 676 — Riferendo tale impostazione al concetto di imparzialità, una volta rilevato che ‘‘statuire l’imparzialità vuol dire descrivere e stabilire esaurientemente il ruolo dell’amministrazione rispetto agli altri soggetti e alle altre attività’’ (40), si deve porre in evidenza come un tale principio miri, nel suo significato più autentico, ‘‘alla diminuzione della c.d. politicità indotta dell’amministrazione’’. L’imparzialità della P.A. diviene così ‘‘principio che esclude le determinanti politiche nell’uso del potere discrezionale’’ (41). Ciò perché la politica, quale sfera di signoria dei partiti, si pone in un rapporto antitetico rispetto ai valori dell’imparzialità amministrativa ‘‘spingendo gli uomini alla unilateralità, abituando gli spiriti alla parzialità, inducendo a formare patronati e clientele per colmare di favori gli amici propri’’, in una parola lottizzando (42). Si arriva in questo modo a tutelare l’imparzialità della P.A. dalle influenze politiche di partito o dagli odierni gruppi di pressione, in quanto entità in grado di introdurre interessi indebiti ed estranei alla Pubblica Amministrazione e dunque, per la loro stessa composizione, idonee a viziare l’esercizio del potere discrezionale ad essa connesso. Di qui, il surplus di offensività connesso alla posizione pubblica del soggetto erogatore e la funzione della tipizzazione dell’offesa secondo lo schema del reato proprio (43). L’impostazione seguita intende, dunque, pure reagire a quella visione riduttiva dell’amministrazione pubblica, coincidente col mero adempimento dei doveri funzionali del pubblico ufficiale, ed a quella situazione di sostanziale vuoto dei fini dell’attività amministrativa che, emblematicamente rappresentata dalla ‘‘sintetica’’ definizione del relativo oggetto della tutela, tanti danni ha portato nella sua proiezione penalistica. E questo, dal momento che proprio tale visione ‘‘minimalistica della (39) Cfr. SANDULLI, Governo e amministrazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1966, 366; SPERANZA, Governo e pubblica amministrazione nel sistema costituzionale italiano, 1971, 97. Diversa la posizione di NIGRO, Studi sulla funzione organizzatrice della Pubblica Amministrazione, Milano, 1966, p. 7. (40) Cfr. SPERANZA, Il principio di buon andamento-imparzialità dell’amministrazione nell’art. 97 della Costituzione, cit., 80; ANDREANI, Il principio costituzionale di buon andamento della Pubblica Amministrazione, cit., p. 51 e ss.; RAMPIONI, Bene giuridico e delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., Milano, 1984, p. 94. (41) In questi termini si esprimeva già MINGHETTI, I partiti politici e l’ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione, 1944, p. 25 e ss.; CERRI, Imparzialità e indirizzo politico nella pubblica amministrazione, Padova, 1973; CARLASSARE, Amministrazione e potere politico, Padova, 1974; cfr. pure ALLEGRETTI, Pubblica Amministrazione e ordinamento democratico, in Foro it., 1984; RAMPIONI, Bene giuridico e delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., cit., p. 96. (42) Così GIANNINI, Corso di diritto amministrativo, Milano, 1965, p. 98. (43) V. sul punto FIORELLA, Sui rapporti tra il bene giuridico e le particolari condizioni personali, cit., p. 193 e ss.


— 677 — P.A.’’ è sfociata in una disciplina penale di tipo meramente dirigistico (44), tesa alla criminalizzazione di comportamenti inosservanti di regole interne al funzionamento dell’amministrazione, con la conseguente svalutazione del dato dell’offesa reale, come collegata alla realizzazione di fatti socialmente dannosi, piuttosto che all’inosservanza di norme organizzative (45). Ostinandosi a percorrere questa strada accidentata, non si farebbe altro che avallare quell’orientamento che affida alla sanzione penale una funzione meramente sanzionatoria, in un’ottica di violazione dell’obbligo, circoscritta ad un tipo d’autore (pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio), ‘‘che apre ad un inquietante ridimensionamento dello stesso diritto penale del fatto’’ (46). Per ovviare a questi inconvenienti è dunque decisiva una lettura estensiva dell’art. 97, come norma che indirizzi il legislatore penale all’assolvimento di un duplice compito: quello di definire e tutelare i beni-interessi propri dell’amministrazione e, stante la loro accentuata significatività, eventualmente predisporre forme di tutela anticipata (47) che prendano in considerazione forme prodromiche alla lesione del bene (48). (44) ‘‘La pertinenza di momenti istituzionali alla stessa costituzione degli oggetti di tutela, espone infatti al rischio di risolvere il bene tutelato in una mera forma — un assetto formale di competenze — e l’illecito penale in illecito di mera disobbedienza’’. Cfr. PULITANÒ, La formulazione delle fattispecie di reato: oggetti e tecniche, in AA.VV., Beni e tecniche della tutela penale, cit., p. 40. (45) Una tale impostazione trova la sua realizzazione pratica nella costruzione della fattispecie secondo il modello del pericolo astratto, cfr. FIORE, Funzionalità e correttezza della pubblica amministrazione-controllo penale e alternative, Atti del Convegno di Studi, in Giust. e cost., 1977, 166 e ss. Si arriva così ad una visione accessoria del diritto penale ed a una concezione formalistica dei delitti in esame che porta alla attenuazione della linea di confine tra illecito penale e illecito amministrativo per l’assimilazione dei due differenti piani d’indagine, vedi STILE, Funzionalità e correttezza della pubblica amministrazione-controllo penale e alternative, in Giust. e cost., 1977, 199 e ss. (46) Così S. MOCCIA, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli, 1995, p. 11. Per un approfondimento ed una soluzione vedi STILE, Omissione rifiuto e ritardo di atti di ufficio, Napoli, 1974, p. 80. (47) Accettando la distinzione fra bene giuridico mezzo e bene giuridico fine, il duplice compito potrebbe scindersi, nella definizione e nella tutela dei valori fine a cui l’amministrazione deve tendere (compito sanzionatorio della norma penale), e nel determinare i valori mezzo che, a monte, devono inderogabilmente essere predisposti alla realizzazione dei primi (compito propulsivo della stessa). Tali beni mezzo vengono analizzati e definiti ‘‘beni intermedi a carattere immateriale’’ da SCHÜNEMANN, Moderne Tendenzen in der Dogmatik der Fahrlässigkeits- und Gefährdungsdelikte, in Juristische Arbeitsblätter, 1975, 76 e ss. (48) Sul punto RAMPIONI, Bene giuridico e delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., cit., p. 261; TAGLIARINI, Il concetto di pubblica amministrazione nel codice penale, 1973, p. 141. Tale impostazione è avallata da autorevole dottrina che, partendo da una prospettiva della norma penale costituzionalmente orientata, si è mossa verso una concezione promozionale e propulsiva del diritto penale. Vedi per tutti NEPPI MODONA, Tecnicismo e scelte politiche nella riforma del codice penale, in Dem. e dir., 1977, 682.


— 678 — Ecco che, mentre i beni-interessi quali l’integrità del patrimonio pubblico, l’imparzialità e la correttezza dell’azione della Pubblica Amministrazione trovano sufficiente tutela nel titolo II, del libro II del codice penale, nei delitti contro la P.A. (49), le forme prodromiche di aggressione devono essere diversamente tipizzate e sanzionate. La fattispecie di illecito finanziamento pubblico deve essere appunto vista in quest’ ottica di anticipazione della tutela (50), come strumentale al raggiungimento dei beni verso cui tende la funzione amministrativa. Coerentemente a questa impostazione, muta la tecnica di tipizzazione del fatto offensivo, la cui rilevanza viene spostata temporalmente a ritroso, secondo il noto paradigma della anticipazione della tutela (51), ed il livello (49) Cfr., fra gli altri, BRICOLA, Tutela penale della pubblica amministrazione e principi costituzionali, in Studi in onore di S. Passarelli, vol. VI, 1972, p. 134; AA.VV., Funzionalità e correttezza della pubblica amministrazione-controllo penale e alternative, in Giust. e cost., 1975, p. 5 e ss., 1977, p. 1 e ss.; RAMPIONI, Bene giuridico e delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., op. cit., p. 261; SEVERINO DI BENEDETTO, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Le qualifiche soggettive, Milano, 1983; STILE, Amministrazione pubblica (delitti contro la), in Dig. pen., 1985, p. 129 e ss.; TAGLIARINI, Il concetto di pubblica amministrazione nel codice penale, cit., p. 141. (50) Forme di tutela anticipata di un bene giuridico, ‘‘eventuale bene mezzo’’, restano comunque legate alla valutazione della singola condotta idealmente lesiva di esso quale portatrice di un disvalore plausibile e, comunque, sufficiente a giustificare l’incriminazione. Cfr. FIANDACA, La tipizzazione del pericolo, in AA.VV., Beni e tecniche della tutela penale, cit. p. 61; SCHÜNEMANN, Moderne Tendenzen in der Dogmatik der Fahlässigkeits- und Gefährdungsdelikte, cit., p. 81 e ss. (51) Sulla scelta legislativa di anticipazione della tutela ‘‘il principio di proporzione esplica i suoi effetti nel senso intuitivo che tanto più importante — secondo la costituzione — è il bene offendibile dal reato, tanto più è legittimamente anticipabile la sua tutela e viceversa’’. Così ANGIONI, Contenuto e funzioni..., op. cit., p. 176, 206; cfr. anche FIANDACA, Il bene giuridico come problema teorico e come criterio di politica criminale, in Riv. it., 1982, p. 77. Un rapporto di proporzionalità intercorre dunque tra rango del bene giuridico e soglia legittima di punibilità del fatto: quanto più è elevato il rango del bene, tanto più si tende a penalizzare condotte preparatorie, orientandosi il legislatore a sanzionare la probabilità, piuttosto che la certezza, di lesione. In questo senso quindi si disperde l’idea liberale del bene giuridico, ciò dal momento che esso da criterio ‘‘delimitativo’’ della punibilità, diviene invece criterio estensivo della stessa. Cfr. al riguardo LUHMANN, Soziologische Aufklärung. Aufsätze zur Theorie sozialer Systeme, Opladen, 1974; BARATTA, La teoria della integrazione-prevenzione, una nuova fondazione della pena all’interno della teoria sistemica, in Dei delitti e delle pene, 1984, 1, 6 e ss.; KRATZSCH, Verhaltenssteuerung und Organisation im Strafrecht, cit., passim; ALBRECHT, Das Strafrecht auf dem Weg vom liberalen Rechtsstaat zum sozialen Interventionsstaat, cit., 188 e ss.; ID., Erosionen des rechtsstaatlichen Strafrechts, cit., 163; BARATTA, Funzioni strumentali e funzioni simboliche del diritto penale. Lineamenti di una teoria del bene giuridico, in Studi in memoria di G. Tatarello, vol. II, Milano 1990, p. 94 ss.; HASSEMER, Kennzeichen und Krise des modernen Strafrechts, in ZRP, 1992, 381; KINDHÄUSER, Sicherheitsstrafrecht. Gefahren des Strafrechts in der Risikogesellschaft, in Universitas, 1992, 227; PALAZZO, I confini della tutela penale; selezione dei beni e criteri di criminalizzazione, in questa Rivi-


— 679 — di concretizzazione dello stesso bene oggetto di protezione, il quale non è più sospeso nell’impalpabile sfera dell’apparato istituzionale Pubblica Amministrazione, ma individuato nel più delimitato ambito del partito politico, quale entità direttamente collegata ed ingerente nella burocrazia pubblica e parapubblica (52). Nello sforzo interpretativo teso alla migliore specificazione del bene protetto dal divieto di finanziamento pubblico, si deve anche sottolineare come il legislatore abbia voluto evitare che posizioni di potere negli enti pubblici o nelle società a prevalente partecipazione pubblica siano lottizzate, dagli stessi partiti, in funzione di un accaparramento di risorse pubbliche sotto forma di illecito finanziamento (53). Seguendo questa precisazione è ancora più evidente l’idea che la volontà legislativa abbia voluto colpire una ingerenza indebita ed eccessiva dei partiti nella ‘‘burocrazia pubblica e parapubblica’’ (54) ed evitare, quindi, che ‘‘posizioni di potere, negli enti pubblici o nelle società a prevalente partecipazione pubblica siano appetite, attribuite ed utilizzate in funzione di prospettive di illegale finanziamento’’ (55). Si può allora concludere che, la norma sull’illecito finanziamento pubblico va intesa come disciplina ostativa rispetto a fenomeni di lottizzazione partitica di enti pubblici e parapubblici, indirizzandosi pure ad una tutela prodromica della imparzialità della funzione amministrativa (56). Tale scelta interpretativa, del resto, giustifica anche sul piano del principio di extrema ratio, la fattispecie dell’illecito finanziamento pubblico, quale puntuale proiezione in campo penale del disposto dell’art. 98 della Costituzione (oltre che dell’art. 97) nella parte in cui afferma ‘‘I pubblici ufficiali sono al servizio esclusivo della Nazione’’ (primo comma) e, nella parte in cui (terzo comma), pone limitazioni al diritto di iscriversi sta, 1992, 453 e ss.; ROXIN, Strafrecht, Allgemeiner Teil, cit., p. 18 e ss.; MOCCIA, Dalla tutela dei beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, in questa Rivista, 1995; ID., La perenne emergenza, cit., p. 10. (52) Si reagisce in questo modo, ed è uno dei pochi positivi elementi di novità della legge, alla cosiddetta ‘‘volatilizzazione’’ del bene giuridico derivante dalla trasformazione dell’illecito di valore e di lesione, in un illecito di funzione. Cfr. STILE, Omissione rifiuto e ritardo di atti di ufficio, Napoli, 1974, p. 97; MARINUCCI, Relazione di sintesi, in AA.VV., Bene giuridico e riforma della parte speciale, a cura di STILE, Napoli, 1985, p. 360 e ss.; MOCCIA, Dalla tutela dei beni alla tutela di funzioni, cit. Vedi pure FIANDACA, La tipizzazione del pericolo, in Dei delitti e delle pene, 1984, p. 461. (53) In tali termini si esprime OPPO, op. cit., 577. (54) Così ALAGNA, op. cit., 379. (55) Cfr. SPAGNOLO, op. cit., p. 35 n. 2; ALAGNA, op. cit., 379; OPPO, op. cit., 577. (56) La tesi che la legge sull’illecito finanziamento pubblico vada a tutelare ‘‘da modalità di finanziamento lesive di interessi relativi all’imparzialità della pubblica amministrazione’’ trova puntuale riscontro in giurisprudenza. Cfr. per tutti Trib. Milano 28 aprile 1994, imp. Cusani.


— 680 — a partiti politici, derogando a quanto stabilito dall’art. 49 della Costituzione (57). È pure da rilevare che le analogie tra il reato di illecito finanziamento pubblico ai partiti e i delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione non si fermano al dato del bene oggetto di tutela, ma emergono con chiarezza anche sotto il profilo strutturale (58), come fu evidenziato nei lavori preparatori della legge sull’illecito finanziamento (59). Si porrebbe allora il problema della configurabilità di un concorso apparente di norme oppure di un concorso formale di reati tra le due figure criminose; la questione, rilevante, non può essere in questa sede trattata (60). 3.1. Giunti dunque all’individuazione dell’oggetto di tutela del reato di illegale finanziamento pubblico, cerchiamo ora di individuare il bene protetto dalla norma indirizzata alla repressione di finanziamenti non pubblicizzati provenienti da società private. La legge del 1974 ha ritenuto, come abbiamo visto, le sovvenzioni delle società private ai partiti lecite, purché deliberate dall’organo sociale competente ed iscritte in bilancio; la legge n. 659/1981 ha altresì considerate legittime le contribuzioni provenienti dal privato individualmente purché, se superiori a 5 milioni, dichiarate, congiuntamente al soggetto beneficiario, alla Presidenza della Camera dei deputati. Che l’atteggiamento del legislatore rispetto ai finanziamenti privati sia stato improntato ad una indulgenza eccessiva ed inopportuna, è involontariamente evidenziato da un’affermazione dell’on. Galloni, recepita nella Relazione della prima commissione permanente: ‘‘il finanziamento (57) Per un’analisi approfondita sull’art. 49 della Costituzione v. PASQUINO, in Commentario alla costituzione italiana, a cura di SCIALOJA, BRANCA, Bologna, 1992, II, p. 2 e ss. (58) Per una visione d’insieme del rapporto fra illegale finanziamento e delitti contro la pubblica amministrazione si rimanda a SPAGNOLO, op. cit., p. 87 e ss. (59) Al riguardo è di grande interesse la lettura del disegno di legge n. 1133 del 1981, d’iniziativa dei senatori Stanziani Ghedini e Spadaccia, e del suo titolo V, intitolato: ‘‘Finanziamento dei partiti e delle formazioni politiche: divieti obblighi e sanzioni’’. Tale titolo contiene un articolo, l’art. 25, che dopo avere ripetuto la formulazione descrittivo-normativa del primo comma dell’art. 7, presenta un’interessantissima novità sanzionatoria laddove recita, al terzo comma: ‘‘Chiunque corrisponde finanziamenti o contributi vietati dal precedente comma è punito con la pena prevista dall’art. 314 del c.p. Alla condanna consegue la interdizione perpetua dai pubblici uffici. Chiunque riceve finanziamenti o contributi vietati dal precedente comma è punito con la pena prevista dall’art. 314 del c.p.’’. Un tale puntuale riferimento alla previsione sanzionatoria dell’art. 314 non deve stupire dal momento che l’attività di sovvenzionamento ai partiti politici da parte di enti pubblici, comporta di fatto una distrazione di danaro pubblico a favore di soggetti esterni, realizzando così il delitto di peculato per distrazione. (60) Sul punto v. comunque LOZZI, L’ambito di operatività del divieto di finanziamento ai partiti, cit., 356 e ss.; SPAGNOLO, op. cit., p. 87 e ss.; TAORMINA, op. cit., p. 353.


— 681 — da parte delle società private è ammissibile solo quando sia pubblico e dichiarato... e pertanto non possa essere erogato per scopi di condizionamento dei partiti politici (61).’’ Da una tale dichiarazione emerge, invero, la confusione di piani in cui è incorso il legislatore, intendendo il mero obbligo di pubblicità del finanziamento come funzionale a garantire il non condizionamento delle scelte politiche di colui che lo accetta, quasi come se il chiedere la trasparenza di una contribuzione equivalesse ad inibirne la corresponsione. È chiara, invece, la necessità di distinguere il dovere di dichiarare i finanziamenti erogati e raccolti, sufficiente da solo a garantire la repressione di movimenti finanziari occulti, dall’inibizione di ricevere e di elargire finanziamenti, idonea a prevenire ogni commistione indebita tra potentati economici e potere politico. D’altra parte il secondo comma dell’art. 7 non pone alcun limite quantitativo alla contribuzione privata, limitandosi a chiederne l’esteriorizzazione attraverso il mezzo pubblicitario: dunque, è da considerarsi pienamente legittima la corresponsione, da parte di società private a partiti, di grosse somme, astrattamente idonee ad influenzare significativamente le scelte politiche di quel determinato partito, purché tali somme siano iscritte in bilancio e l’erogazione sia stata correttamente deliberata da organi sociali. Il finanziamento condizionante, proveniente da società private, è dunque valutato dal legislatore come ‘‘un modo legittimo di concorrere a determinare la politica nazionale’’, pertanto non contrastante con ‘‘il principio del pluralismo dei partiti’’ (62). Si deve invece ribadire che una compiuta tutela della pluralistica composizione del nostro sistema politico avrebbe imposto una limitazione qualitativa o, almeno quantitativa, anche dei finanziamenti privati, come del resto è avvenuto in altri ordinamenti (63). (61) Cfr. anche intervento del relatore on. Galloni in Atti parlamentari, Camera dei deputati, VI legislatura, Discussioni, seduta del 9 aprile 1974, p. 14200 e ss. (62) Cfr. SPAGNOLO, op. cit., p. 36 e ss. (63) La Repubblica Federale di Germania, che è stata uno dei primi paesi ad aver introdotto un sistema di sovvenzioni pubbliche ai partiti, con la ‘‘Legge sui partiti politici’’ del 24 luglio 1967, così come modificata dalle leggi 25 giugno 1969, 22 luglio 1969, 21 dicembre 1979, 22 dicembre 1983 e 22 dicembre 1988, vieta al primo comma dell’art. 25 alcune categorie di finanziamenti privati: le elargizioni provenienti da fondazioni politiche, quelle poste in essere da organizzazioni che perseguano scopi di pubblica utilità, caritatevoli o religiosi, qualunque ne sia la natura giuridica, le donazioni di ammontare superiori ai 1000 marchi di cui non sia accertabile il nome del donatore o effettuate per conto di terzi non individuabili. Ma il divieto di finanziamento privato più significativo è quello riferito alle donazioni che vengono ‘‘riconoscibilmente effettuate nell’aspettativa di un determinato vantaggio economico o politico’’.


— 682 — Dobbiamo, allora, constatare nuovamente il divario esistente tra le indicazioni programmatiche dei lavori preparatori e la concreta costruzione della legge che, ad onta di ogni scopo preventivo-sanzionatorio di comportamenti tesi al sovvertimento del criterio della libertà e democraticità della scelta politica, legittima ‘‘il finanziamento regolarmente approvato ed iscritto in bilancio, anche se corrisposto allo scopo di condizionare le scelte politiche’’, e punisce come illecito ‘‘il finanziamento disinteressato’’ ed esiguo, nel caso in cui non sia stato regolarmente deliberato o non risulti iscritto in bilancio (64). Lo scopo della norma non è dunque, e non potrebbe d’altronde essere, quello di eliminare tassativamente ogni tipo di contribuzioni e di finanziamenti esterni al partito politico, ma, soltanto quello di evitare che tali erogazioni private siano poste in essere occultamente, vale a dire senza manifestarsi all’esterno, e pertanto in grado di nascondere ‘‘secondi fini’’. La ratio legis è dunque quella di tutelare la trasparenza dei finanziamenti delle società private ai partiti, garantendo così l’informazione dei cittadini e, indirettamente, rendendoli più consapevoli e più responsabili delle scelte politiche maturate. Ciò che si vuole evitare è, pertanto, solo il finanziamento occulto, non il finanziamento condizionante (65). In questo senso il legislatore ha inteso, garantendo all’opinione pubblica la corretta e precisa conoscenza di interferenze economiche all’inInvero una norma di tal genere bene si adatterebbe alla disciplina di divieti recepita dal legislatore italiano. In particolare a quella prevista dal secondo comma dell’art. 7, che, a differenza del terzo comma dell’art. 4 della legge n. 659/1981 non pone alcun limite quantitativo alla contribuzione privata . L’inopportunità di una siffatta impostazione possono chiaramente percepirsi, non appena si consideri che, ai sensi del secondo comma dell’art. 7, risulta pienamente legittima la corresponsione, da parte di società private a partiti, di grosse somme, astrattamente idonee ad influenzare significativamente le scelte politiche di quel determinato partito, purché la erogazione di tali somme sia stata correttamente deliberata da organi sociali ed iscritta in bilancio. Meglio sarebbe stato, costruire fattispecie qualificate dallo scopo, presumibilmente perseguito dall’erogatore delle contribuzioni (appunto il vantaggio economico o politico), ricostruito attraverso parametri imperniati sul quantum della contribuzione. Cfr. H.H. VON ARNIM, Parteienfinanzierung, Wiesbaden, 1982, p. 13 e ss.; DINGELDEY, Strafrechtliche Konsequenzen einer etwaigen Nichtigkeitserklärung des Parteienfinanzierungsgesetzes durch das BVerG, in NStZ, 1985, 33 e ss.; VOLK, Die ParteispendenProblematik- Materielles Steuerstrafrecht nach geltendem Recht, in wistra, 1983, 219 e ss. Per uno sguardo d’insieme sulla riforma della normativa tedesca sul finanziamento ai partiti, avvenuta con la legge 28 gennaio 1994 vedi per tutti BARTON, Der Tatbestand der Abgeordnetenbestechung (§ 108 e StGB), in NJW, 1994, 1098 e ss. (64) Così SPAGNOLO, op. cit., p. 37. (65) Il finanziamento condizionante resta tuttavia perseguibile attraverso la locuzione finale della condizione di salvezza del secondo comma: ‘‘sempre che non siano comunque vietati dalla legge’’.


— 683 — terno delle strutture politiche, evidenziare e, quindi, prevenire eventuali intrecci tra politica ed affari. Se il bene oggetto di tutela della norma di cui all’art. 7, secondo comma, può individuarsi nella trasparenza delle contribuzioni private, sembra opportuno estendere tale conclusione alla figura dell’illegale finanziamento individuale, di cui all’art. 4 della legge n. 659/1981. Non si può, infatti, dubitare che la previsione della dichiarazione congiunta, del soggetto erogatore e del soggetto beneficiario, alla Presidenza della Camera si risolva in una forma di pubblicità interna, tendente a perseguire le medesime finalità di trasparenza delle contribuzioni private indirizzate ai partiti politici. Si dovrebbe allora rilevare la convergenza di entrambe le fattispecie sul punto del bene oggetto di tutela, individuato nella trasparenza dei finanziamenti e delle contribuzioni erogati ai partiti politici. Una simile conclusione, prima di essere accolta, deve tuttavia fare i conti con la maggiore gravità della sanzione penale rispetto a quella amministrativa (66), in quanto significativa di un più accentuato disvalore, di azione e/o di evento, della fattispecie di finanziamento occulto societario rispetto a quella di omessa dichiarazione di finanziamenti alla Presidenza della Camera. In tale ottica non si può prescindere dalla ricerca di un elemento distintivo della fattispecie più duramente sanzionata sotto il profilo di una più forte o più estesa carica di offensività, manifestata nei confronti di uno stesso bene giuridico, o di una stessa carica di offensività riferita, tuttavia, a beni giuridici di differente valore o ampiezza. È del resto il principio di proporzione della tutela ad imporre che il bene giuridico offeso dal reato, in relazione alle modalità della azione incriminata, sia di valore pari o proporzionato a quello colpito dalla pena; tale principio risulterebbe violato laddove il legislatore sanzionasse diversamente comportamenti, astrattamente offensivi in uguale misura, di uno stesso bene giuridico. È stato pure messo in evidenza come la estremizzazione del concetto di bene giuridico, come unico parametro di riferimento della carica di offensività, possa condurre alla c.d. concezione sanzionatoria del diritto penale. Per evitare questi rischi deve sempre porsi attenzione alla ‘‘modalità (66) Una tale impostazione riceve, come acutamente osserva un illustre studioso, ‘‘fondamento teleologico nella stessa costituzione, la quale — nei limiti della sua sinteticità — disciplina diffusamente con intenti garantistici la pena, e non invece la sanzione amministrativa, riconoscendo così implicitamente la maggiore gravità e afflittività della pena, e dunque anche della pena pecuniaria rispetto alla sanzione amministrativa’’. Così ANGIONI, op. cit., p. 172.


— 684 — della condotta’’, dato indispensabile per una esatta e puntuale ricostruzione della fattispecie (67). In tale chiave problematica è opportuno esaminare la tesi su cui si fonda la teoria dell’equivalenza teleologica delle figure considerate: quella cioè che le fattispecie esaminate vadano a presidiare uno stesso bene giuridico, la trasparenza dei finanziamenti privati ai partiti, al fine di garantire ad uno stesso soggetto, il corpo elettorale, un medesimo diritto, la conoscenza delle fonti private di finanziamento dei partiti. Per confutare una tale affermazione occorre anzitutto osservare, allargando l’orizzonte del nostro studio ad una prospettiva logico-sistematica, che il mancato rispetto degli oneri pubblicitari, specificati al secondo comma dell’art. 7, oltre al diritto di informazione politica del cittadino elettore, va a coinvolgere interessi di società commerciali, presentando il reato di occulto finanziamento societario notevoli punti di convergenza strutturale con i reati di cui all’art. 2623 n. 3 e 2621 n. 1 c.c. L’art. 2623, al n. 3, punisce gli amministratori di società soggette a registrazione, che ‘‘impediscono il controllo della gestione sociale’’ ai soci o al collegio sindacale; a tale fattispecie, invero, deve rapportarsi la mancata deliberazione dei finanziamenti da parte dell’organo sociale competente, prevista dal secondo comma dell’art. 7 della legge n. 195/1974, laddove tale omissione dipenda dal rifiuto degli amministratori di fornire informazioni societarie, dall’occultamento di tali informazioni all’organo assembleare (68). L’art. 2621 del codice civile, sanziona con la reclusione da 1 a 5 anni e con la multa da lire due milioni a venti milioni, la condotta di promotori, amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori, i quali ‘‘nelle relazioni, nei bilanci o in altre comunicazioni sociali espongono fatti non rispondenti al vero... sulle condizioni economiche della società o nascondono in tutto o in parte fatti concernenti le condizioni medesime’’ (69). (67) La ‘‘modalità della condotta’’ viene, da parte di autorevole dottrina, considerata come ‘‘il dato penalistico di maggior rilievo’’. V., per tutti, DELITALA, Il fatto nella teoria generale del reato, cit., p. 386. (68) Tali comportamenti, d’altronde, esulano da un ostacolo frapposto alla mera attività di controllo, ‘‘integrando il delitto di false comunicazioni sociali che presenta un bene giuridico certamente più ampio e comunque più avanzato rispetto a quello considerato dall’art. 2623 n. 3 c.c.’’. Su tale punto cfr. pure MAZZACUVA, I reati societari, in Trattato di diritto penale dell’impresa, diretto da A. DI AMATO, Padova, 1992, p. 307. (69) Per un’analisi sulle problematiche che pone il reato in questione cfr., fra gli altri, ZUCCALÀ, Il delitto di false comunicazioni sociali, Padova, 1954, passim; VINCIGUERRA, Rilievi sul concetto di false comunicazioni sociali, in questa Rivista, 1967, 950 e ss.; PEDRAZZI, Un concetto controverso: le comunicazioni sociali, in questa Rivista, 1977, 1565 ss.; BARTULLI, Tre studi sul falso in bilancio, Milano, 1980, p. 12 e ss; NUVOLONE, Il bilancio delle società di fronte alla legge penale, in Studi in onore di P. Onida, Milano, 1981, p. 648 ss.; ZUCCALÀ, Le false comunicazioni sociali: problemi antichi e nuovi, in questa Rivista,


— 685 — È evidente come nei ‘‘fatti concernenti le condizioni economiche della società’’ potrebbero rientrare quei fatti in cui si concreta un finanziamento, ed è pure da sottolineare come la mancata iscrizione nel bilancio societario di finanziamenti erogati dalla società stessa possa determinare la commissione del delitto di falso in bilancio (70). Un tale rapporto di interferenza strutturale tra il secondo comma dell’art. 7 della legge n. 195/1974 e i reati societari considerati non può non riverberarsi sull’analisi teleologica della fattispecie del finanziamento occulto. È necessario allora, volgere la nostra attenzione sulla figura di false comunicazioni sociali, accantonando il reato di violazioni di obblighi incombenti agli amministratori; ciò sul presupposto che si ‘‘deve ritenere esclusa, in base al principio di specialità in concreto o di ne bis in idem sostanziale la possibilità di concorso formale del delitto in esame con la fattispecie prevista nell’art. 2621 n. 1 c.c.: tra le due norme esiste, infatti, un rapporto di specialità ‘‘bilaterale’’ o ‘‘reciproca’’, per cui, se l’impedimento derivi soltanto dalla falsa od omessa comunicazione sociale sulle condizioni economiche dell’ente, deve ritenersi applicabile, considerato il maggiore carico sanzionatorio, soltanto l’art. 2621 n. 1 c.c.’’ (71). Sembra pertanto opportuno addivenire, brevemente, all’individuazione del bene giuridico presidiato dalla fattispecie di false comunicazioni sociali. In tal senso dobbiamo rilevare come, secondo il prevalente orientamento, esso avrebbe natura plurioffensiva, dal momento che pregiudiche1989, 717; MAZZACUVA, La tutela penale dell’informazione societaria, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, diretta da BRICOLA-ZAGREBELSKY, Torino, 1990, p. 61 e ss.; AZZALI, Caratteri e problemi del delitto di false comunicazioni sociali, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1991, 365; NAPOLEONI, Valutazioni di bilancio e false comunicazioni sociali: lineamenti di un’indagine dopo l’attuazione della IV direttiva CEE, in Cass. pen., 1994, 42. (70) L’analogia strutturale e teleologica tra le figure del reato di finanziamento occulto di società private e delle false comunicazioni sociali è messa in evidenza pure dal disegno di legge n. 1133/1981, d’iniziativa dei senatori Stanziani Ghedini e Spadaccia, e dal suo titolo V: ‘‘Finanziamento dei partiti e delle formazioni politiche: divieti obblighi e sanzioni’’, che all’art. 25 fa esplicito riferimento ai ‘‘comportamenti recepiti dal testo dal secondo comma dell’art. 7, sanzionandoli con il doppio della pena prevista dall’art. 2621 del codice civile’’ e specificando che ‘‘si applica la disposizione dell’art. 2641 del codice civile’’. La previsione di una pena raddoppiata per le violazioni degli obblighi di cui al secondo comma dell’art. 7, rispetto alla fattispecie del 2621, deve rapportarsi alla differente estensione del bene tutelato dalle due norme più che a differenze di ordine strutturale. La fattispecie di illegale finanziamento privato ai partiti non può infatti, come vedremo, ridursi a tutelare il patrimonio sociale, il regolare funzionamento delle società commerciali o gli interessi dei soci e dei terzi (direttamente presidiati dalla norma civilistica dell’art. 2621 del codice civile), dovendosi invece la sua funzione rapportarsi al presidio di beni giuridici ben più estesi e ben più rilevanti. (71) Per un riepilogo dei rapporti tra le due figure cfr. MAZZACUVA, I reati societari, in Trattato di diritto penale dell’impresa, cit., p. 310 e ss.


— 686 — rebbe l’interesse generale al regolare funzionamento delle società commerciali e l’ordinato sviluppo dell’economia pubblica (72), oltre all’interesse dei soci al controllo dell’attività degli amministratori e agli interessi patrimoniali degli stessi soci e dei terzi interessati alle vicende societarie (73). Ad una tale soluzione, francamente dispersiva, sembra tuttavia doversi opporre che il funzionamento delle società e, in particolare modo, l’economia nazionale risultano protetti solo indirettamente dalla fattispecie di false comunicazioni sociali, in quanto beni giuridici di ‘‘generalissimo’’ rilievo presidiati da ‘‘tutte le norme incriminatrici del settore’’ (74). Oggetto di tutela della figura in esame può essere, invece, considerato l’interesse alla veridicità e completezza dell’informazione societaria, o più in particolare, l’interesse dei soci e dei terzi ad una ‘‘leale e fedele rappresentazione della situazione economica dell’azienda’’. In questo modo resta comunque affermata, in via generale, la natura collettiva del bene giuridico protetto, che non può invero ritenersi patrimonio esclusivo dei soci e del collegio sindacale, e, nello stesso tempo, si riduce ragionevolmente l’ambito di operatività del reato di false comunicazioni sociali. Così inteso l’interesse tutelato dal reato di cui all’art. 2621 c.c., possiamo definitivamente trasporre sul piano teleologico la già accennata interferenza strutturale del reato in questione con la figura di cui all’art. 7 della legge n. 195/1974. Sebbene infatti il secondo comma dell’art. 7 potrà tutelare, solo eventualmente, e sempre in via indiretta e mediata, la trasparenza della gestione sociale, è innegabile che il legislatore ha strutturato la fattispecie di finanziamento occulto in modo da estendere la sua operatività all’ambito (72) Il regolare funzionamento delle società commerciale e l’ordinato sviluppo dell’economia nazionale vanno ricondotti alla categoria dei cd. ‘‘beni prestazione’’ cioè quei beni rappresentati dalle ‘‘disponibilità economico-finanziarie, senza le quali è impossibile l’assolvimento delle funzioni tipiche di uno stato sociale di diritto... L’oggetto della tutela appare qui essere sul piano strutturale, qualcosa di simile all’ordine pubblico ideale, più che un interesse di tipo patrimoniale economico. Al pari dell’ordine pubblico tali beni non sembra possano essere ridotti ad oggetti di tutela...: in realtà essi sono rationes di tutela’’. Così MOCCIA, Dalla tutela dei beni alla tutela di funzioni, cit., p. 351. Sul punto cfr. pure ROMANO, Diritto penale in materia economica, riforma del codice, abuso di finanziamenti, in AA.VV., Comportamenti economici e legislazione penale, a cura di PEDRAZZI e COCO, Milano, 1979, p. 189; PEDRAZZI, Interessi economici e tutela penale, in AA.VV., Bene giuridico e riforma della parte speciale, a cura di STILE, Napoli 1985, p. 304. (73) Orientamento condiviso dalla giurisprudenza. Per un quadro generale dei vari orientamenti giurisprudenziali cfr. MAZZACUVA, I reati societari, in Trattato di diritto penale dell’impresa, cit., p. 40 ss. (74) Così E. GALLO, Forma dei reati e funzione del danno in talune norme penali societarie, in Ind. pen., 1971, 391.


— 687 — economico-societario, non limitandosi a garantire, come nell’art. 4 della legge n. 659/1981, un mero diritto di conoscenza e di informazione del corpo elettorale rispetto ai flussi finanziari diretti ai partiti. È questa una conclusione di fondamentale importanza, in quanto permette di colorare di nuove, rilevanti sfumature l’interesse della trasparenza delle contribuzioni, che abbiamo già visto essere tutelato dalla fattispecie di finanziamento societario occulto. L’ampia estensione della tutela apprestata al generico bene trasparenza dalla fattispecie può, del resto, essere facilmente ed esattamente percepita non appena la nostra analisi cerchi sostegno nella legge costituzionale; ciò dal momento che, proprio nella prospettiva costituzionale, l’individuazione degli oggetti tutelati dalla legge ordinaria riceve funzione dommatica, poiché solo in tale ambito è possibile ricavare i ‘‘criteri generali atti a individuare i singoli oggetti tutelabili’’ (75). Assunto allora il terreno costituzionale a piattaforma d’indagine, si rileva anzitutto come la fattispecie di finanziamento societario riverberi la sua azione protettiva su categorie di beni che, nel sistema costituzionale, risultano compresi in zone topograficamente distinte, riferendosi ad interessi presidiati nel titolo III (‘‘rapporti economici’’) e nel titolo successivo (‘‘rapporti politici’’), della parte prima. Il reato in questione va ad incriminare, infatti, comportamenti lesivi dei valori espressi nel secondo comma dell’art. 41 e nell’art. 49 della Costituzione, vale a dire il principio per cui ‘‘l’iniziativa economica privata... non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale’’, inteso in senso lato (76), e quello per cui ‘‘tutti i cittadini hanno il diritto... di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale’’. La scelta di una tutela congiunta, anziché isolata, dei due principi costituzionali è, d’altronde, funzionale ad una più completa ed efficace protezione del valore giuridico della trasparenza e limpidezza dei flussi finanziari posti in essere da società commerciali a vantaggio di associazioni politiche, cioè alla ratio alla base della fattispecie criminosa. (75) Così ANGIONI, op. cit., p. 153 s. Lo stesso Autore rileva che ‘‘l’approccio costituzionale’’, nella prospettiva individuativa del bene giuridico, ‘‘presenta una virtù essenziale: ... batte la strada della funzione critica, ma resta nel contempo sul terreno del diritto positivo e dunque vincolante’’. (76) L’‘‘utilità sociale’’ di cui parla il legislatore costituzionale è certamente intesa come funzionale ad una piena tutela dei diritti dei lavoratori, ma può allargarsi sino a ricomprendere i diritti della collettività. D’altronde, l’occultamento di informazioni societarie è ‘‘in contrasto con l’utilità sociale’’ intesa anche nella prima accezione rigoristica; i lavoratori e le organizzazioni sindacali rientrano, infatti, nel novero dei terzi interessati alla veridicità e completezza dell’informazione societaria. Sul punto cfr. GALGANO, Informazione societaria e programmazione economica, in AA.VV., L’informazione societaria, II, Milano 1982, p. 863; GUERRINI, La tutela penale del diritto di informazione sindacale, in Riv. giur. lav., 1983, IV, 655; PEDRAZZI, Profili problematici del diritto penale dell’impresa, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1988, 126.


— 688 — 3.2. Diversa è, invece, l’estensione garantita allo stesso bene giuridico dalla fattispecie di omessa dichiarazione alla Presidenza della Camera dei finanziamenti leciti. In tale ambito, invero, il comportamento incriminato risulta offensivo di una trasparenza che è in funzione unicamente del diritto del cittadino di informare l’esercizio delle proprie preferenze politiche ad una conoscenza piena e consapevole, estesa anche alle fonti di finanziamento dei partiti. Il legislatore, infatti, nella composizione testuale dell’art. 4 della legge n. 659/1981, non ha in alcun modo manifestato l’intenzione di prendere in considerazione aspetti o interessi economici legati all’erogazione del finanziamento; inequivocabile è, in tal senso, l’elezione, quale destinatatario delle dichiarazioni e titolare del controllo relativo, della Presidenza della Camera dei deputati, vale a dire un organismo caratterizzato da una connotazione eminentemente politica. Di contro, la strutturazione del secondo comma dell’art. 7 della legge n. 195/1974 si pone come funzionale ad una maggiore estensione dei controlli, poiché le condizioni di liceità di finanziamento ivi previste (deliberazione della contribuzione ed iscrizione a bilancio), rientrano in quei fatti inerenti all’amministrazione della società, che attengono al diligente adempimento dei doveri degli amministratori, di cui all’art. 2392 c.c., e dei sindaci, di cui all’art. 2407 c.c. Il rispetto di tali condizioni è dunque autonomamente tutelato e garantito da una serie di norme del codice civile (77) che attribuiscono all’autorità giudiziaria (78) e agli aventi diritto poteri di controllo e di azione. Si comprende allora, che il valore della ‘‘trasparenza’’ sia tutelato, dal secondo comma dell’art. 7 della legge n. 195/1974, in un’accezione particolarmente ampia: estesa cioè ai rapporti politici, ed in particolare alla ga(77) In chiave esemplificativa ricordiamo l’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori (art. 2393 c.c.), l’azione dei creditori sociali contro gli amministratori (art. 2394 c.c.), l’azione individuale del socio e del terzo (art. 2395 c.c.), l’azione di responsabilità contro i sindaci (art. 2407), la denunzia al collegio sindacale (art. 2408 c.c.), la denunzia al tribunale (art. 2409), il potere di controllo individuale del socio (art. 2489 c.c.). In particolare, il potere di denuncia di una minoranza qualificata e del pubblico ministero, ai sensi dell’art. 2409 c.c., può esercitarsi qualora il mancato rispetto delle condizioni di liceità del finanziamento integri una violazione di obblighi di amministratori e sindaci particolarmente grave e, tuttavia, le irregolarità non trovino una qualche repressione da parte della maggioranza dei soci. (78) Dal fatto che il potere di denuncia è stato attribuito al pubblico ministero, oltre che ad una minoranza qualificata di soci, si è dedotto che l’art. 2409 c.c., assoggetta l’amministrazione della società ad un controllo da parte dell’autorità giudiziaria a tutela di un pubblico interesse. In senso contrario FERRI, Diritto commerciale, 7a edizione, Torino, 1989, p. 426 e ss.


— 689 — ranzia di un’informazione strumentale alla correttezza delle relazioni tra partiti politici, ed ai rapporti economici, rafforzando e specificando il principio di chiarezza e completezza delle comunicazioni interne ed esterne alla società commerciale. Possiamo, invece, individuare il dato peculiare della fattispecie di omessa dichiarazione delle contribuzioni alla Presidenza della Camera in una forma alternativa di tutela preventiva del valore trasparenza, che si manifesta nel comando di dichiarare contribuzioni private lecitamente erogate ai partiti, e dunque in una funzione ampliativa e diversificativa dell’ambito soggettivo di applicazione delle norme recepite dal secondo comma dell’art. 7. A questo ultimo proposito, si deve rilevare che tutti i soggetti erogatori, qualificabili ‘‘privati’’ e non compresi dal disposto normativo del secondo comma dell’art. 7, troveranno collocazione nell’art. 4 della legge n. 659/1981. Può allora definirsi di rilievo alternativo-residuale l’ambito soggettivo di applicazione della norma rispetto all’illegale finanziamento pubblico dei partiti politici, previsto dal primo comma dell’art. 7, ed al finanziamento occulto societario dei partiti politici, di cui al secondo comma dello stesso articolo. Le considerazioni svolte circa la ricostruzione del bene giuridico oggetto di tutela degli illeciti in esame, si ripercuotono anche sul piano della configurazione della condotta incriminata nel reato di finanziamento occulto societario: posto infatti che, come si è già detto, il legislatore ha inteso caratterizzare la tipicità del fatto previsto dal secondo comma dell’art. 7 della legge n. 195/1974, sotto il profilo di una attitudine ad offendere, contestualmente, gli interessi politici ed economici delineati sopra, è chiaro che l’illecito si configurerà quale reato plurioffensivo. Tali conclusioni non sono, evidentemente, da estendersi alla fattispecie di omessa o infedele dichiarazione alla Presidenza della Camera, la cui condotta tipica va a pregiudicare solo un interesse politico-informativo del cittadino. Differenti saranno, dunque, pure i soggetti passivi dei due reati, dal momento che il comportamento incriminato dal reato di finanziamento occulto societario, oltre a ledere quella fascia indeterminata di soggetti astrattamente titolari del diritto di informazione politica, coinvolti anche dalla violazione della norma del terzo comma dell’art. 4 della legge n. 659/1981, potrà eventualmente ripercuotersi sull’interesse alla corretta informazione, o sull’interesse patrimoniale, dei soci e dei terzi coinvolti nelle vicende societarie. 4. Dopo aver individuato i beni giuridici di riferimento della normativa sul finanziamento illecito, conviene ora tracciare un sintetico quadro della struttura e dei limiti della legge in questione, prospettando anche


— 690 — possibili percorsi alternativi ai modelli di intervento penale sinora utilizzati. Partiamo dai presupposti della normativa, ricostruibili in due ordini di finalità. Innanzitutto, la pressante, emotiva esigenza di un’estensione dell’intervento penale a fronte di un degenerato sistema politico-istituzionale, dominato da perverse ‘‘logiche di lottizzazione privatistica e di clientela nella gestione della cosa pubblica...’’. In secondo luogo, l’incapacità di adoperare strumenti giuridici di minor costo sociale rispetto al penale, e ‘‘comunque l’assoluta inefficienza delle strutture istituzionali, nel garantire i controlli politico-amministrativi delle attività’’ considerate (79). Da queste premesse nasce la norma lacunosa e confusa dell’art. 7, legge n. 195/1974 che, differenziando ipotesi di reato potenzialmente di uguale allarme sociale o meglio, non riuscendo a definire il distinto ‘‘disvalore d’evento’’ alla base della figura dell’illecito finanziamento pubblico rispetto all’occulto finanziamento societario, ripiegava sul terreno della mera violazione d’obbligo. L’adozione di questa prospettiva se, da un lato, valeva a distinguere le due fattispecie, dall’altro, esaltando le componenti formalistiche di disvalore dell’illecito a scapito di quelle sostanziali, in un’aberrante quanto paradossale inversione della metodologia liberale, legittimava il finanziamento ‘‘condizionante’’ di importo rilevante, purché regolarmente approvato ed iscritto in bilancio (ecco gli obblighi), per sanzionare il finanziamento disinteressato ed esiguo, nel caso in cui non fossero state rispettati gli obblighi prescritti. Ben più opportuno sarebbe stato, se il legislatore, affinando le tecniche di tipizzazione delle fattispecie incriminatrici, avesse ‘‘inserito nei modelli criminosi elementi o modalità di realizzazione del fatto capaci di riflettere una plausibile minaccia al bene protetto’’ (80). Si sarebbe, ad esempio, potuto subordinare la punibilità, nel caso del finanziamento di società private, alla condizione che il finanziamento fosse di un determinato importo, definito a livello normativo, ed erogato da persone appartenenti a strutture organizzative complesse, cioè dotate di mezzi adeguati di aggressione, mezzi in grado di condizionare scelte politiche-partitiche secondo logiche di lottizzazione. In questo senso, ci si sarebbe allontanati dall’impostazione formalistica della violazione dell’obbligo, ponendo alla base dell’incriminazione dati concreti, percepibili in termini di accentuata offensività della condotta rispetto ai beni giuridici di riferimento. (79) MOCCIA, La perenne emergenza, cit., p. 1 e ss. (80) Cfr. FIANDACA, La tipizzazione del pericolo, in AA.VV., Beni e tecniche della tutela penale, cit., p. 61 e ss.


— 691 — Si sarebbe in tal modo rispettato, nel senso dell’effettività sostanziale, il principio di tassatività-determinatezza della fattispecie, dal momento che ‘‘quanti più dati empirici si hanno, tanto più si riduce lo spazio della libera decisione sui valori’’ e dunque l’arbitrio e la discrezionalità del potere giudiziario (81). Non va in questa direzione la tecnica normativa adoperata nel caso specifico che, allo sforzo di tutelare beni ‘‘superindividuali dai contorni indefiniti’’, come la democraticità del sistema politico e la trasparenza della contabilità societaria, non accompagna neppure una precisa e ragionata delimitazione della condotta offensiva di riferimento. La coincidenza di questi due dati (bene giuridico indefinito e condotta non tipizzata in termini di disvalore improntati all’offensività dell’azione rispetto al bene), porta evidentemente ad un modello di tipizzazione astratto, che finisce per complicare e sviare la norma, riducendone la funzionalità in termini di efficacia (82). L’idea di fare affidamento sulla trasparenza dei bilanci o sulle correttezza dei rapporti sociali (si veda, ad esempio, la condizione della delibera societaria del finanziamento) porta, infatti, ad una tutela dei c.d. ‘‘beni prestazione’’, cioè entità inafferrabili, che più che oggetti di tutela rappresentano rationes di tutela (83). È il distacco da ogni parametro empirico a cui rapportare l’offensività della condotta e, dunque, la rinunzia a misurare il disvalore di evento connesso a determinate condotte di erogazione di finanziamenti. In questo senso non è casuale l’inglobamento, nella condotta sanzionata dal reato di finanziamento societario occulto, di una fattispecie oggettivo-materiale a dolo specifico quale le false comunicazioni sociali. Se, infatti, è indubitabile che il dolo di frode costituisce ‘‘l’unico criterio che consenta bene o male di distinguere le false comunicazioni di rilevanza penale dalla più vasta area delle violazioni della disciplina civilistica del bilancio’’ (84), risulta altresì chiaro che il carattere distintivo dell’illecito penale, confinato sul piano dell’elemento soggettivo, non corrisponde a specifiche modalità di offensività desumibili dalla condotta. Non è più il comportamento lesivo o pericoloso ad essere penalizzato, quanto ‘‘il comportamento atto ad ingannare’’, cioè il comporta(81) Così NOLL, Strafrechtswissenschaft und Gesetzgebung, in ZStW, 1980, p. 366. (82) Cfr. HERZOG, Gesellschaftliche Unsicherheit und strafrechtliche Daseinsvorsorge, Heidelberg, 1991, p. 109 e ss. (83) Sul punto vedi MOCCIA, Dalla tutela dei beni alla tutela di funzioni, cit., p. 350 e ss. (84) Cfr. PULITANÒ, La formulazione delle fattispecie di reato: oggetti e tecniche, cit., p. 41 e ss.


— 692 — mento astrattamente pericoloso nel senso di una utilizzazione più spinta della tecnica di anticipazione della tutela (85). Ciò significa che, per quanto concerne la struttura oggettivo-materiale della condotta e dell’evento, il tipo di reato non è ritenuto all’altezza della sua funzione selettiva di specifiche forme di offesa a beni giuridici’’ (86). ‘‘La fuga nel soggettivo si accompagna pertanto, quale unico correttivo, ad una incontrollata sovrapposizione dell’illecito penale a discipline extrapenali, in chiave meramente sanzionatoria’’ (87). Emblematica, in tal senso, è pure la scelta di porre la qualifica normativa dei concorrenti necessari (erogatore e recettore), quale pietra angolare delle figure considerate. Scelta che, indubbiamente, contribuisce a potenziare la sottovalutazione del dato disvalorativo di evento, evocando il paradigma dei reati di posizione e quindi del diritto penale d’autore. Quest’ultima opzione legislativa vale a completare la costruzione della fattispecie di occulto finanziamento societario privato quale illecito di ‘‘mera trasgressione’’, ricalcando, a distanza di mezzo secolo, i moduli del tecnicismo formalistico di derivazione positivistica. A questo quadro è necessario aggiungere la lacunosità originaria della norma (prolungatasi per oltre sette anni) rispetto al centrale problema del finanziamento straniero e del finanziamento del singolo cittadino (che tardivamente penalizzati dalla legge n. 659/1981, in meno di una settimana, risultarono depenalizzati dalla legge n. 689/1981); la riproposizione di ipotesi di reato già presenti nel sistema, ampliate ed intrecciate fra loro (così il reato di occulto finanziamento societario, che risulta composto dall’illecito finanziamento pubblico, una forma anticipata di delitto contro la Pubblica Amministrazione, e dal falso in bilancio); la difficile riconoscibilità dei soggetti attivi dei reati attraverso una serie di riferimenti ad elementi normativi; la costruzione di una fattispecie (la omessa dichiarazione alla Presidenza della Camera) ricca di definizioni tecnico-amministrative (norma penale in bianco). Tutto ciò, oltre a minare la stessa determinatezza della fattispecie penale, conduce ad un modello di appesantimento e di amministrativizzazione della tutela penale inaccettabile quanto inefficace. L’uso dello strumento penalistico va, infatti, ad interferire nella disciplina preventiva già strutturata dal diritto privato o dal diritto amministrativo’’ (si vedano, ad esempio, le norme interne della P.A., gli statuti degli enti pubblici, i rego(85) Vedi FIANDACA, La tipizzazione del pericolo, cit., p. 60. (86) Così PULITANÒ, La formulazione delle fattispecie di reato: oggetti e tecniche, cit., p. 43. (87) Così PULITANÒ, La formulazione delle fattispecie di reato: oggetti e tecniche, cit., p. 43.


— 693 — lamenti della Camera, la disciplina civilistica in tema di trasparenza societaria), andando a sanzionare, come è stato più volte evidenziato, la inosservanza di norme organizzative piuttosto che la realizzazione di fatti socialmente dannosi. Il conseguente spostamento del nucleo costitutivo del reato dall’offesa del bene alla violazione del dovere, va ad affermare una concezione autoritaria del diritto penale che nega il principio di sussidiarietà (88). Si ritorna, per questa via, ad affidare allo strumento penale una funzione meramente sanzionatoria (89). Il prezzo che la norma paga ad una siffatta costruzione formalista è la lacunosità, di qui una tendenza alla moltiplicazione e ‘‘alla proliferazione delle fattispecie penali in funzione preventiva, caratterizzata, per lo più da ridondanze casistiche ai limiti del paradosso’’ (90), emblematicamente rappresentate dalle condizioni di liceità presenti nella fattispecie di illecito finanziamento societario occulto. Alla fattispecie di illecito finanziamento pubblico e a quella di occulto finanziamento societario, la legge n. 659/1981 ha così aggiunto l’ibrida figura di omessa o infedele dichiarazione alla Presidenza della Camera di finanziamenti esteri o erogati dal singolo cittadino. Tutta la disciplina è stata poi integrata, ampliata, modificata dalle leggi n. 22/1982, n. 515/1993. Come può rilevarsi, si tratta di un circolo vizioso, di una spirale perversa: quanto più si è penalizzato, tanto più si è dovuto penalizzare, salvo poi a ripensarci e a depenalizzare, come nel caso dell’art. 4 della legge n. 659/1981. Si assiste insomma al trionfo della caoticità legislatica e, soprattutto, di quell’ipertrofia penalistica, additata come una delle cause principali dell’inefficienza del nostro sistema giudiziario. L’esperienza di tangentopoli ha invece evidenziato come, attraverso una penalizzazione indiscriminata, non possa esser costruito un efficace piano di tutela dei variegati interessi (politici, economici ed amministrativi) sul tappeto e come, ‘‘in mancanza di una adeguata disciplina in grado di assicurare le condizioni di efficienza e di moralità politico-amministrativa, qualsiasi modello di legge penale sia destinato miseramente a fallire’’ (91). Si comprende, del resto, facilmente che la complessità e l’eteroge(88) Sul punto vedi ALBRECHT, Strafrecht - ultima ratio, Frankfurt, 1992, passim; ID., Erosionen des rechtsstaatlichen Strafrechts, in KritV, 1993, p. 163 e ss.; HASSEMER, Kennzeichen und Krise des modernen Strafrechts, cit., 378 e ss. (89) Vedi MOCCIA, La perenne emergenza, cit., p. 11 e ss. (90) Cfr. MOCCIA, op. ult. cit., p. 10, 11 e 12. (91) Così PULITANÒ, La formulazione delle fattispecie di reato: oggetti e tecniche, cit., p. 44 e ss.


— 694 — neità dei beni giuridici protetti dalle norme sull’illecito finanziamento, necessita anzitutto di una sapiente opera di ‘‘concretizzazione normativa dei modelli di organizzazione e di controllo delle attività inerenti’’ (92). Di qui la priorità — rispetto all’eventuale tutela penale — di modelli di governo degli interessi in gioco che diano concretezza sociale agli oggetti stessi della tutela (93). Su questo terreno va, altresì, rimarcata l’insufficienza e l’inidoneità dello strumento penale a determinare la qualità di un modello positivo delle attività pertinenti, laddove la sua funzione può essere circoscritta ad assicurare la complessiva tenuta del sistema quale sanzione di chiusura, in ottemperanza al principio di extrema ratio, vale a dire nella misura in cui ciò sia necessario a reprimere comportamenti incompatibili con il modello programmato e delineato a livello civilistico ed amministrativo (94). 5. I rilievi mossi precedentemente, devono essere posti come premessa ad un’analisi politico-criminale della legge sull’illecito finanziamento che affronti due significative questioni. La prima concerne la tecnica di normazione adoperata dal legislatore; al riguardo deve stabilirsi, se essa sia adeguata alla volontà di costruire un efficace scudo ai condizionamenti del sistema democratico provenienti dalla dazione di finanziamenti, o, piuttosto, nasconda il malcelato intento di aprire consistenti varchi di elusione dei divieti. La seconda è inerente alla funzione effettiva di una legge che, da un punto di vista strettamente tecnico, si limita a recepire ed ad ampliare figure di reati già esistenti. Sotto il primo profilo, si deve anzitutto rimarcare quanto già è stato osservato circa la lacunosità delle fattispecie di illecito finanziamento privato, quali delitti costruiti su divieti condizionati, strutturalmente inidonei a prevenire il fenomeno di criminale commistione tra politica e impresa. In questa sede appare tuttavia opportuno qualche approfondimento, impostando un’indagine relativa ai presupposti dei divieti. (92) Sul piano generale di una efficace tutela degli interessi diffusi risulta ormai imprescindibile esigenza la loro definizione e determinazione. ‘‘Non è infatti consentita la tutela di condotte o principi ‘freischwebenden’ (letteralmente: sospesi in aria), con la cui offesa il bene giuridico non ha alcuna relazione. In questi casi la espansione del diritto penale nel concetto di pericolo non è sicura, conducendo, attraverso una protratta criminalizzazione preventiva ad una tutela di un bene giuridico impalpabile’’. Così ROXIN, Strafrecht, cit., p. 19. Cfr. pure ALBRECHT, Das Strafrecht auf dem Weg vom liberalen Rechtsstaat zum sozialen Interventionsstaat, cit., 182 e ss.; HERZOG, Gesellschaftliche Unsicherheit und strafrechtliche Daseinsvorsorge, cit., p. 70 e ss. (93) Sul punto cfr. MOCCIA, Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni, cit., p. 346. (94) Vedi PULITANÒ, La formulazione delle fattispecie di reato: oggetti e tecniche, cit., p. 38.


— 695 — Partiamo dalle parole del legislatore: ‘‘Esiste una parte dei finanziamenti che rimane libera. Non era possibile fare diversamente. Il contributo dei soci di un partito non solo non può essere vietato ma è l’elemento fondamentale, principale del finanziamento dei partiti dal punto di vista qualitativo... perché se lo trascurassimo, trasformeremmo i partiti da strutture associative — come essi sono e devono essere — in strutture istituzionali. I partiti devono avere i contributi primi da parte dei loro soci. E se questo è vero, non possiamo impedire il contributo volontario di tutti i privati che vogliano contribuire ad un partito, purché si assumano la responsabilità di dichiarare apertamente che intendono partecipare finanziariamente alla vita del partito’’ (95). Un tale assunto, apparentemente ineceppibile, tradisce invero l’oscillante ed equivoco atteggiamento del legislatore: non si riesce infatti a comprendere come, per consentire alle strutture partitiche di accedere al finanziamento statale, se ne sottolinea il rango di associazioni riconosciute e previste costituzionalmente, per poi definirle strutture associative non istituzionalizzate, allo scopo di limitare la recezione, come sarebbe stato coerente, di contribuzioni private. Né sembra potersi conciliare la pretesa di fare convivere una legge, tendente alla regolamentazione del finanziamento ai partiti attraverso contributi statali e dunque ad eliminare ogni, o almeno buona parte dei finanziamenti cd. ‘‘condizionanti’’, con la pressocché totale libertà di contribuzione ai partiti dei privati. A questa costruzione, già di per sé contraddittoria, basta aggiungere la evanescenza del sistema di controllo dei bilanci dei partiti, di matrice prettamente politica, nei termini in cui è stato affidato ai Presidenti della Camera e del Senato (96). Il combinarsi di queste aporìe non poteva che condurre ad una normativa farraginosa e caotica: ‘‘la legge n. 195/1974 aveva infatti lasciato aperti troppi varchi allo svilupparsi dei fenomeni di corruzione e di confusione tra il pubblico ed il privato, tra politica e amministrazione, tra attività di partito ed attività di governo’’ (97). Tali rilievi, sommati alle ambiguità, alle incongruità di redazione, alla lacunosità, alla complessiva inadeguatezza della normativa penale di chiusura, conducono ad abbandonare l’ottica di una ratio legis giustificata da motivi prevalentemente giuridici. Il riferimento insistente del legislatore ai valori costituzionali tutelati (95) Vedi intervento del relatore on. Galloni in Atti parlamentari, Camera dei deputati, VI legislatura, Discussioni della seduta del 9 aprile 1974, p. 14196 e ss. (96) ‘‘Sistema che già prima dell’approvazione della legge n. 195/1974 era stato giudicato ‘mistificatorio’ e tale da far derivare una perdita di credibilità all’intera legge’’ Cfr. SPAGNOLO, op. cit., p. 27. (97) Così SPAGNOLO, op. cit., p. 27.


— 696 — dall’art. 49, trova, infatti, plausibile giustificazione, non tanto nella volontà di eliminare, tramite lo strumento giuridico, lottizzazioni politiche negli enti pubblici ed amministrativi ed interferenze economiche nella sfera politico-partitica, quanto nel dato che solo in tale contesto risultava ‘‘possibile valutare l’opportunità politica di intervenire con provvedimenti di finanziamento dei partiti’’ (98). È allora necessario isolare la locuzione ‘‘opportunità politica’’, per rilevare che fu indubbiamente politica la spinta all’emanazione della legge, politica la decisione di stanziare fondi statali manifestatamente insufficienti a garantire la vita dei partiti, politica la scelta di rendere inizialmente vaghi i termini di imputazione del divieto indirizzato a ‘‘chi riceve’’, di delimitare la cerchia dei soggetti che non possono dare, di non considerare neppure i finanziamenti esteri, di non prevedere un efficace sistema di controllo contabile sui bilanci dei partiti. Fu la stessa ratio politica a determinare la configurazione del partito come monstrum giuridico, riconoscendo ad esso un rilievo costituzionale tale da legittimarne il finanziamento pubblico e, nello stesso tempo, qualificandolo associazione non riconosciuta a carattere privatistico. Si privilegiava così, la prima configurazione, per liberalizzare e garantire il forte approvigionamento privato, ma si sceglieva pure la seconda, in modo da finanziare statualmente la attività ordinaria dei partiti. Certo, la formula dell’associazione non riconosciuta mira a garantire l’indipendenza e la libertà delle scelte politico-partitiche, tutelate a livello costituzionale; è pur vero, tuttavia, che tale indipendenza era incompatibile con un sistema di finanziamento statale. Dunque ‘‘opportunità politica’’ è la parola chiave per comprendere le contraddizioni, la inadeguatezza, la frammentarietà e parzialità di una legge che, nata in un clima di indignazione dell’opinione pubblica ed all’indomani di una serie di scandali (99), ci appare come prodotto emozionale (100), fortemente permeata di contenuti simbolici (101). (98) Vedi Atti parlamentari, Camera dei deputati, VI legislatura, disegni e proposte di legge n. 2860-39 A, p. 8. (99) Emblematici furono lo scandalo dei ‘‘petroli’’ e lo scandalo Ingic legato agli appalti dell’imposta di consumo. Cfr. CRESPI, Il peculato per distrazione nella ‘‘giurisprudenza’’ del Senato della Repubblica, in questa Rivista, 1973, p. 418 e ss.; SPAGNOLO, op. cit., p. 6 n. 7. (100) Sulla genesi emozionale della legislazione simbolico-emergenziale cfr. RICCIO, Politica penale dell’emergenza e costituzione, cit., p. 46 e ss.; NUVOLONE, L’opzione penale, in Ind. pen., 1985, 245 ss.; PALAZZO, La recente legislazione penale, Padova, 1985, p. 15 e ss. (101) Per legislazione ‘‘simbolica in senso stretto’’ o ‘‘simbolica tout court’’ si intende ‘‘quel tipo di legislazione penale prodotta a scopo meramente placativo, per dare messaggi rassicuranti sull’effettività della tutela, nella consapevolezza della sua ineffettività. È una legislazione che potrebbe anche essere definita ‘‘pseudo-strumentale’’ ed a ‘‘carattere di-


— 697 — Quest’ultimo aspetto emerse in modo palese dal dibattito parlamentare che condusse alla legge del 1974 (102), come nelle discussioni inerenti alle leggi successive. Nella seduta del 27 luglio del 1981, il sottosegretario di Stato per la grazia e la giustizia, on. Gargani, affermava che la normativa sul finanziamento (precisamente la legge n. 659/1981) si inseriva ‘‘in una strategia complessiva volta a restituire credibilità alle istituzioni democratiche..., di cui i partiti sono certamente una componente essenziale’’; le medesime parole venivano profferite dal relatore on. Gitti (103). Ecco che si evidenzia, dagli stessi lavori preparatori, come la legge sul finanziamento illecito sia riportabile ad una ‘‘strategia di recupero della credibilità’’ (104). Tale dato, unito ai già considerati aspetti di inefficienza della legge, fa emergere in maniera inequivoca la funzione formale e strumentale della norma (105), riportabile per più versi alla cosidetta categoria ‘‘simbolico-espressiva’’ (106), a cui avevamo già fatto riferimento per definire la norma contenuta nel secondo comma dell’art. 7 della legge n. 195/1974. Ora, seppure risulta evidente che ogni legge, specie nel settore penale, trasuda di politicità, resta ferma l’esigenza di bilanciare le finalità fensivo’’... il dato caratterizzante è che si tratta di legislazione sostanzialmente innocua sotto il profilo della criminalizzazione secondaria: da questo tipo di leggi non vengono prodotte ‘‘vittime della politica criminale’’. Così PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in questa Rivista, 1992, 891 e ss. Per approfondire il concetto di legislazione simbolica vedi BARATTA, La teoria della integrazione-prevenzione, cit., p. 6 e ss.; HASSEMER, Symbolisches Strafrecht und Rechtsgüterschutz, in NStZ, 1989, 553 e s.; VOß, Symbolische Gesetzgebung, cit., 1989, passim; MUSCO, Consenso e legislazione penale, in questa Rivista, 1993, 80 e ss.; MOCCIA, La perenne emergenza, cit., p. 19, 27 e ss. (102) Vedi intervento del relatore on. Galloni in Atti parlamentari, Camera dei deputati, VI legislatura, Discussioni, seduta del 9 aprile 1974, p. 14200 e ss. (103) V. Atti parlamentari, Camera dei deputati, VIII legislatura, Discussione, seduta del 27 luglio 1981, p. 31854. (104) Nella seduta del 24 luglio 1981 alla Camera, nell’intervento dell’on. Perantuono si legge: ‘‘Ma insomma, veramente si può dire che, in virtù delle norme previste dal progetto di legge n. 451, combinate con quelle di cui alla legge n. 195/1974, la trasparenza è garantita ed il controllo è possibile? Il collega Gitti dice di sì, ma temo che si tratti solo di un fatto strumentale, di una strategia di recupero della credibilità come egli dice. Queste strategie di recupero della credibilità hanno un evidente carattere di strumentalità’’ V. Atti parlamentari, Camera dei deputati, VIII legislatura, Discussione, seduta del 27 luglio 1981, p. 31792. (105) Nella stessa seduta del 24 luglio 1981 alla Camera, l’on. Minervini afferma, parlando del disegno di legge n. 2452, relativo alla istituzione della ‘‘anagrafe patrimoniale’’ ‘‘Qui il fine strategico, cioè il carattere strumentale della normativa è più appariscente...’’, e riferendosi all’intero disegno di legge dice, ‘‘è tutto volto, nonostante ogni affermazione in senso contrario, al recupero della credibilità degli uomini di partito’’. V. Atti parlamentari, Camera dei deputati, VIII legislatura, Discussione, seduta del 27 luglio 1981, p. 31797. (106) Cfr. PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, cit., 891.


— 698 — politiche, tese all’integrazione sociale, con le esigenze giuridiche di efficienza e di efficacia degli strumenti adoperati (107). Il legislatore deve, invero, tenere sempre presente questa prospettiva di bilanciamento, come l’unica in grado di ‘‘superare l’ottica deformante con la quale si è tradizionalmente posto, in termini di aprioristica antitesi, il tema dei rapporti tra amministrazione della giustizia e potere politico’’. Soltanto questa impostazione ricompone tale dialettica e la indirizza ‘‘in termini di raffrontabilità’’ (108), conducendo infine verso quella ‘‘ricerca di un equilibrio dinamico dei poteri, che sembra l’espressione più caratteristica della funzione dinamica del nostro Stato costituzionale’’ (109). In altri termini, si tratta di scegliere ‘‘tra un impiego del diritto penale come razionale e controllabile strumento di politica criminale’’ o, viceversa, ‘‘come strumento di politica generale’’, svincolato dai legittimi obiettivi politico-criminali ed elettivamente destinato a placare momentanee insicurezze collettive e bisogni emotivi di penalizzazione (110). Quest’alternativa è soltanto apparentemente dagli esiti scontati; soprattutto laddove la tendenziale predilezione dello stato liberale di diritto per l’uso razionale dello strumento penale, che in termini di politica criminale significa ‘‘l’adozione di strategie di controllo di fatti socialmente dannosi... contestualmente ispirata a criteri di garanzie ed efficienza’’ (111), si trovi a fare i conti, come è accaduto nella vita politico-amministrativa del nostro paese, con il passaggio da ‘‘uno stadio di eccezionalità ad una fase di generalità’’ di specifiche ipotesi delittuose (112). Questo fenomeno di ‘‘gigantismo’’ criminale (113) è infatti apparso (114), e appare tuttora (115) idoneo ad innestare un’antitesi incolmabile tra garanzie individuali ed efficienza dello strumento penale, determinando una sostanziale modifica in senso repressivo delle tecniche di tutela. Ciò perché nel momento emergenziale, la componente politico-legislativa (c.d. attore del consenso) tende a massimizzare, attraverso l’i(107) Al riguardo, v. per tutti, MOCCIA, La perenne emergenza, cit., p. 10 e ss. (108) Così CARULLI, Amministrazione della giustizia e potere politico, in Giust. pen., 1979, III, 621. (109) Così si esprime RICCIO, Politica penale dell’emergenza e costituzione, cit. p. 16. (110) Cfr. MARINUCCI, Profili di una riforma del diritto penale, cit., p. 20 e ss. (111) Cfr. MOCCIA, La perenne emergenza, cit., p. 1 e ss. (112) Cfr. RICCIO, Politica penale dell’emergenza e costituzione, cit., p. 21. (113) La delinquenza diviene, in tal senso, ‘‘non problema inerente al tessuto sociale’’ ma connotata da ‘‘struttura ed organizzazione tali da costituire un pericolo per l’esistenza stessa della società, un vero e proprio nemico interno’’. Così RICCIO, op. cit., p. 21. (114) Al riguardo vedi, per tutti, RICCIO, op. cit., p. 46 e ss. (115) Basti pensare al recente decreto Scotti-Martelli in tema di criminalità organizzata. Sull’argomento si rinvia, per tutti, AA.VV., Mafia e criminalità organizzata, a cura di CORSO, INSOLERA, STORTONI, Torino, 1995, passim.


— 699 — stanza di criminalizzazione, il ‘‘consenso sociale’’, facendosi ‘‘collettore di vere e proprie domande di pena collegate a bisogni di pena collettivi’’ (116). Penetrato così nell’irrazionale dimensione dello Strafbedürfnis, il legislatore dà luogo ad un fenomeno di crescente ‘‘dilatazione ed enfatizzazione dell’oggetto della tutela’’, all’introduzione di nuove fattispecie criminose, a forme di anticipazione della soglia della punibilità (117), ad un inasprimento delle sanzioni. Sino ad arrivare all’uso coordinato di disposizioni penali, processuali e di misure di prevenzione, che subiscono una sorta di assemblaggio, nell’ambito di un’unica e ben definita scelta di politica-criminale, quali ‘‘strumenti di controllo sociale’’ (118). La legge n. 195/1974 presenta proprio alcuni dei tratti caratteristici di questa impostazione, tipicamente emergenziale. Abbiamo già sottolineato come la spinta all’emanazione della legge fu di tipo emozionale, in quanto scaturita dal clima di forte allarme sociale sorto nell’opinione pubblica all’indomani di fatti di corruzione. Abbiamo pure rilevato l’adozione della tecnica dell’anticipazione della tutela, la presenza nella legge di consistenti ‘‘tracce della funzione simbolica’’, anch’essa caratteristica delle fattispecie penali dell’emergenza, tendenti allo ‘‘scopo di confermare l’impegno delle forze politico-istituzionali sulle tematiche della criminalità, con il risultato di tranquillizzare l’opinione pubblica e di svolgere una prevenzione generale sotto forma di ‘orientamento culturale’ ossia di stigmatizzazione del fenomeno e delle sue estrinsecazioni’’ (119). Si tratta, allora, di meglio disegnare i contorni dell’involuzione, in senso repressivo-emergenziale, del sistema e gli effetti ad essa connessi. Va detto che i rischi legati a questo tipo di intervento sono riassumibili in due distinte situazioni: il sacrificio delle garanzie poste a tutela del reo (in questo caso, affermandosi una logica di supervalutazione dell’efficienza a scapito delle garanzie, non è in gioco la convenienza dello scopo ma la conformità dei mezzi adoperati) (120) oppure un potenziamento (116) ‘‘La valorizzazione dei soggetti — qualificati come attori — dell’agire sociale è propria del c.d. ‘‘Interazionismo simbolico’’. Così PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, cit., p. 867 n. 72. Sul punto vedi pure ROTTLEUTHNER, Einführung in die Rechtssoziologie, Darmstadt, 1987, p. 46. (117) Cfr. RICCIO, op. cit., p. 65 e ss. (118) V. MOCCIA, La perenne emergenza, cit., p. 27 e ss. (119) Sul punto AMELUNG, Rechtsgüterschutz und Schutz der Gesellschaft, Frankfurt, 1972, p. 346 e ss.; BARATTA, La teoria della integrazione-prevenzione, cit., p. 6 e ss.; LUHMANN, Soziologische Aufklärung. Aufsätze zur Theorie sozialer Systeme, Opladen, 1974; JAKOBS, Strafrecht, Berlin-New York, 1991, p. 6 e ss. (120) ‘‘In questi casi ‘offerta’ indiscriminata di pena (da parte di uno stato-attore emotivo e frastornato) e ‘domanda’ esasperata di pena (da parte dell’opinione pubblica) si


— 700 — soltanto apparente della tutela penale di determinati beni, con una caduta in termini di efficienza del sistema: la sperequazione tra forme e contenuti della norma, in questo caso, porta infatti alla irrimediabile elusione dello stesso Zweckgedanke. È la seconda ipotesi, quella che pare meglio adattarsi alla normativa penale sul finanziamento ai partiti. L’opportunità di dare un segnale della volontà istituzionale di eliminare il fenomeno delle contribuzioni clandestine ai partiti politici, per acquetare momentanee insicurezze collettive assurge infatti, nel caso in questione, al ruolo di presupposto sufficiente, oltre che necessario, alla promulgazione della norma penale. Si ritorna, così, al problema centrale del rapporto fra politica e diritto: la alternativa fra diritto penale ‘‘legittimazione’’ e diritto penale ‘‘limitazione’’ della politica è quindi stata risolta a favore della prima ipotesi (121). Ciò significa legittimare la disponibilità dello strumento penale rispetto a qualsiasi scopo politico prescelto dal legislatore: la ricerca e la manipolazione del consenso politico-sociale raggiunge dunque un rilievo assolutamente prioritario, sovrastando ogni interrogativo sui valori di politica criminale. Ora, è chiaro che una tale impostazione, a monte dell’opera di legislazione, penetra nella fase di costruzione e concretizzazione dei modelli di intervento penale. La fattispecie penale infatti, così strettamente asservita a logiche politiche di rassicurazione dell’opinione pubblica, rinuncia sin dall’inizio ad una sostanziale ed autonoma funzione di tutela di beni giuridici rilevanti, riducendosi ad una dimensione puramente ‘‘ideologica’’, ‘‘dove la tutela si identifica a priori con la stessa legge proibitiva’’, a prescindere da considerazioni d’efficienza complessiva del sistema (122). ‘‘La astrazione della validità formale del diritto dai contenuti...delle singole norme raggiunge le sue estreme conseguenze’’; ‘‘la violazione della norma è ritenuta socialmente disfunzionale, non perché sono lesi interessi e beni giuridici ma perché è messa in discussione la norma stessa in incontrano su un fronte posto ben al di là dei bastioni del garantismo penale’’. Così PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, cit., p. 874. (121) Sul punto vedi PULITANÒ, Politica criminale, in AA.VV., Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, p. 15 e ss. (122) A proposito del rapporto fra bene giuridico e consenso, un illustre studioso ritiene che ‘‘la verifica orientata sul consenso sociale può costituire il catalizzatore di cui la teoria del bene giuridico ha attualmente bisogno per riattivare i suoi processi speculativi’’. Così PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, cit., 886. Sul punto cfr. PULITANÒ, Politica criminale, cit., p. 14 e 15.


— 701 — quanto orientamento dell’azione e, in conseguenza è scossa la fiducia istituzionale dei consociati’’ (123). Il reato, in questa prospettiva, non è più sanzionato in quanto minaccia o lede beni giuridici, ma in quanto ‘‘espressione simbolica della mancanza di fedeltà al diritto’’ (124). È la trasformazione, o meglio la degenerazione, dell’illecito di valore e di lesione, nell’illecito di ‘‘funzione’’ (125). Di qui alla costruzione di modelli imperniati sulla mera trasgressione il passo è consequenziale: ecco che, nella fattispecie di illecito finanziamento societario occulto, è sanzionata l’inosservanza di norme organizzative e non la realizzazione di fatti socialmente dannosi, mentre nell’illecito finanziamento pubblico, allo scopo di apprestare ‘‘una surrettizia utilizzazione dell’intervento penale per la tutela della funzionalità dei meccanismi della Pubblica Amministrazione e delle società a partecipazione pubblica’’, il legislatore è costretto a creare ‘‘artificiosi beni giuridici di riferimento, al duplice scopo di aggirare difficoltà di redazione della fattispecie e di superare, disinvoltamente, problemi di prova’’ (126). È chiaro, allora, che siamo in presenza di figure criminose che non tendono alla tutela di beni giurici, quanto alla difesa di una funzione, ‘‘la funzione simbolica dell’ordinamento normativo come strumento di orientamento e istituzione di fiducia’’ (127). Si deve allora dire, conclusivamente, che la normativa dell’illecito finanziamento ai partiti rappresenta il primo esempio di quel progetto di politica criminale dell’emergenza, che assumerà piena compiutezza e contorni più accentuatamente repressivi con l’emanazione della legge Reale (128). Non è del resto un caso che la legge n. 195/1974 in tema di ‘‘illecito finanziamento’’ nasce dalla proposta di legge presentata, fra gli altri, proprio dall’on. Reale da cui prenderà nome la legge 22 maggio 1975 in tema di terrorismo ed ordine pubblico. Deve comunque evidenziarsi la profonda differenza che separa la legge n. 195/1974 dalla successiva legge Reale. Entrambe leggi dell’emer(123) Cfr. BARATTA, La teoria della integrazione-prevenzione, cit., p. 6 e ss.; LUHMANN, Soziologische Aufklärung. Aufsätze zur Theorie sozialer Systeme, cit., 1974; ID., Rechtssoziologie, 1983, p. 53 e ss.; JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 28 e ss. (124) Cfr. AMELUNG, Rechtsgüterschutz und Schutz der Gesellschaft, cit., p. 346 e ss.; BARATTA, La teoria della integrazione-prevenzione, cit., p. 6 e ss.; LUHMANN, Rechtssoziologie, cit., p. 66 e ss.; JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 6 e ss.; OTTO, Personales Unrecht, Schuld und Strafe, in ZStW, 1975, 539 e ss. (125) Cfr. MOCCIA, Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni, cit., p. 347 e ss. (126) Cfr. MOCCIA, op. ult. cit., p. 346. (127) Cfr. BARATTA, La teoria della integrazione-prevenzione, cit., p. 15; LUHMANN, Rechtssoziologie, cit., p. 66 e ss.; JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 7; WELZEL, Das deutsche Strafrecht, 1969, Berlin-New York, p. 2 e ss. (128) Vedi al riguardo RICCIO, op. cit., p. 75 e ss.


— 702 — genza e miranti alla ‘‘tutela dei gangli essenziali del potere della classe borghese’’ (129), si ponevano, tuttavia, in rapporto completamente opposto rispetto alle rispettive problematiche di politica criminale. Se infatti, la legge penale sul finanziamento appare normativa simbolica dell’inefficacia, certamente inadeguata a combattere la criminalità del ceto politico-amministrativo, dunque norma ‘‘pseudo-strumentale’’ a carattere difensivo dello status quo (legge simbolica tout court); la legge Reale, caratterizzata da un’intollerabile innalzamento del tasso repressivo, è norma simbolica dell’efficienza, incline a rinunziare alle garanzie piuttosto che all’efficacia. Dunque norma ‘‘distorsivo-strumentale’’, improntata ad un modello offensivo di legislazione, perché tesa al ‘‘riconoscimento di valori controversi attraverso la stigmatizzazione sociale (mediante pena) di precise classi di comportamenti e di soggetti’’ (legge espressiva) (130). Si rinnova in questo modo la concezione del diritto penale come strumento di ‘‘rielaborazione di conflitti sociali’’ (131), nel cui quadro si pone la separazione fra l’illegalismo dei beni e l’illegalismo dei diritti. Illegalismo dei beni che, incorporando la lesione o messa in pericolo di beni individuali (quali ad esempio patrimonio, libertà personale, vita del singolo), tende ad evidenziare ‘‘una forma di criminalità più accessibile alle classi popolari’’. Illegalismo dei diritti che si identifica con la capacità delle classi egemoni, portatrici della Herrschaft (132), ‘‘di giocare con i propri regolamenti e le proprie leggi’’, assicurando copertura ad un immenso settore di criminalità economica in stretta connessione col potere politico-amministrativo. Settore, riconducibile alla criminalità dei colletti bianchi, che viene tenuto ai margini della legislazione o comunque, soltanto se esigenze di manipolazione del consenso lo esigono, fatto oggetto di normative farraginose, poco funzionali, la cui peculiarità consiste nell’adozione di moduli penali spiccatamente repressivi ma sostanzialmente inefficaci (133). (129) Cfr. BRICOLA, Politica criminale e politica criminale dell’ordine pubblico, in Quest. crim., 1975, 224; RICCIO, op. cit., p. 24. (130) Per un’analisi più puntuale e una più precisa distinzione dei concetti di legislazione strumentale, simbolica, espressiva vedi PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, cit., 890 e ss. (131) Cfr. HASSEMER, Strafrechtsdogmatik und Kriminalpolitik, Hamburg, 1974, p. 142 e ss. (132) Cfr. HAFERKAMP-LAUTMANN, Zur Genese kriminalisierender Normen, in KrimJ, 1975, 245 e ss.; STANGL, Staatliche Normgenese und symbolischer Interaktionismus, in KrimJ, 1, 1986, 123 e ss. Per una visione completa del problema vedi PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, cit., 859 e s. (133) Vedi in via esemplificativa la critica alla costruzione di alcune disposizioni in materia penale-tributario di MOCCIA, La perenne emergenza, cit., p. 12; ID., Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni, cit., 358 e ss.


— 703 — E questa grande ridistribuzione dell’illegalismo si traduce in una specializzazione dei circuiti giudiziari: per l’illegalismo dei beni — furti, rapine ecc. — alle leggi efficaci seguono tribunali ordinari e castighi; per l’illegalismo dei diritti — frodi, evasioni irregolari, operazioni commerciali irregolari ecc. — alle leggi farraginose corrispondono giurisdizioni speciali con transazioni, accomodazioni, ammende. ‘‘La borghesia, e con essa tutta la classe dirigente, si è riservata il dominio fecondo sull’illegalismo dei diritti’’ (134). In questo conflitto predeterminato nelle premesse e nelle soluzioni da fattori esterni rispetto a modelli razionali di politica criminale, la norma penale perde la sua dimensione assiologica (i valori) e teleologico-funzionale (gli scopi) di imparzialità, offrendo la apparente e simbolica ‘‘sicurezza di tutti, in cambio del potere decisionale e di influenza di pochi’’. Ecco che normazione penale e consenso sociale divengono due circuiti che, non solo si alimentano vicendevolmente, ma addirittura si integrano sino all’identificazione’’ (135). Questa spirale perversa di emergenzialità e simbolicità ha attanagliato ab origine la legislazione sull’illecito finanziamento ai partiti politici, rendendola proiezione di scelte di politica generale, piuttosto che di politica criminale, perché mero strumento ‘‘di stabilizzazione del sistema sociale, di orientamento dell’azione dei consociati e di istituzionalizzazione delle aspettative’’. In questo contesto la sanzione penale diviene, a sua volta, espressione simbolica, contraddittoria rispetto a quella rappresentata dal reato (136) e, arricchita a dismisura di contenuti positivi di generalprevenzione (137), perde ogni funzione specialpreventiva e rieducativa. Vanno, d’altra parte, rimarcate le incongruenze di redazione della normativa in questione che, per la confusa commistione di eterogenee figure criminose, elementi normativi ricostruttivi dei soggetti attivi, definizioni amministrative, risulta largamente deficitaria anche sotto il profilo della tassatività-determinatezza. D’altronde questa erosione dei criteri di determinatezza della fattispecie corrisponde a quell’‘‘uso politico’’ del livello tecnico-giuridico indi(134) Così FOUCAULT, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, 1976, p. 95. (135) Così PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, cit., 856. (136) BARATTA, La teoria della integrazione-prevenzione, cit., p. 7; JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 7. (137) In questo senso la simbolicità porta alla concezione della pena come integrazione prevenzione. Sul tema vedi BARATTA, La teoria della integrazione-prevenzione, cit., p. 6 e ss.; JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 7 e ss.; OTTO, Personales Unrecht, Schuld und Strafe, cit., p. 539 e ss. WELZEL, Das deutsche Strafrecht, cit., p. 2 e ss.


— 704 — spensabile alla concreta attuazione di un progetto legislativo della simbolicità (138). Soltanto la norma poco chiara e farraginosa è, infatti, in grado di generare quell’incolmabile distacco fra forma e contenuti, idoneo ad ingenerare la ‘‘sensazione che una serie di interessi della collettività non resteranno più sguarniti’’, pur essendo concepita ‘‘in modo tale da conservare intatta la libertà d’azione dei componenti dei gruppi egemoni’’ (139). Ecco la funzione dei vari accorgimenti di tecnica legislativa, condizionanti la struttura endemica della fattispecie (così l’inserzione delle clausole di salvezza nell’illecito finanziamento societario occulto, vere e proprie ‘‘clausole di aggiramento’’ o la previsione, nella stessa fattispecie, ‘‘di superflui doli specifici che rendono i fatti di ardua provabilità)’’ (140), oppure tesi ad intaccare la funzionalità e dunque l’efficacia della norma (così l’impiego di fattispecie penali parzialmente in bianco nella figura di ‘‘omessa o infedele dichiarazione di finanziamenti alla Presidenza della Camera’’, di cui all’art. 4 della legge n. 659/1981, da riempirsi ad opera di un organo politico quale la Presidenza della Camera, che di fatto mai ha effettivamente adempiuto alla sua funzione di controllo) (141). Il combinarsi di tutti questi ingredienti negativi non poteva che condurre ad un prodotto legislativo di scarsa affidabilità, un monumento alla penalizzazione dell’inefficienza, ispirato alla ‘‘disciplina penale gattopardesca’’ (142) del ‘‘si cambia tutto per non cambiare niente’’. Dott. FRANCESCO FORZATI Dottorando di ricerca in Diritto penale presso l’Università di Napoli (138) Cfr. SGUBBI, Meccanismi di aggiramento della legalità e della tassatività nel codice Rocco, in Quest. crim., 1981, 319 e ss. (139) Sul punto vedi PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, cit., 876 ss. (140) Così PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, op. cit., 878. (141) La ‘‘assoluta inadeguatezza del sistema scelto dal legislatore per assicurare la trasparenza e la pubblicità delle contribuzioni private’’ è chiaramente emersa da un’indagine effettuata presso la Presidenza della Camera dei deputati, effettuata prima dell’inizio di tangentopoli. Gli esiti di tale indagine sono addirittura ‘‘sconcertanti’’, per almeno due ordini di motivi. Innanzitutto ‘‘La mancanza di un’organizzazione adeguata a soddisfare l’esigenza di pubblicità e trasparenza crea di fatto ostacoli insormontabili all’elettore che voglia sapere quali finanziamenti privati superiori ai 5 milioni abbia ricevuto un determinato politico’’. In secondo luogo, ‘‘Il numero delle dichiarazioni presentate alla Camera è incredibilmente modesto:... sembra addirittura che non siano mai pervenute dichiarazioni di finanziamenti ai singoli beneficiari. Tutto ciò rende legittimo il sospetto di una violazione generalizzata degli obblighi stabiliti dall’art. 4 della legge n. 659/1981, che rende ancora più anomala la scarsità delle iniziative giudiziarie’’ (ripetiamo che l’analisi è del 1991 dunque anteriore a tangentopoli). Per una completa visione del problema rimandiamo a SPAGNOLO, op. cit., p. 84 e ss. (142) La suggestiva espressione è di PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, cit., p. 878.


LA « CONTIGUITÀ » ALLA MAFIA FRA ‘PREVENZIONE’ E ‘REPRESSIONE’: TECNICHE NORMATIVE E CATEGORIE DOGMATICHE

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Tecniche normative e opzioni di politica criminale. — 3. Il « contributo agevolatore » fra rilevanza penale e preventiva: un’irrazionalità non vista. — 4. La « contiguità » quale « area di rischio giuridicamente rilevante ». — 5. Incentivi alla collaborazione e prospettive ‘‘premiali’’. — 6. Profili di incostituzionalità. Conclusioni.

1. Premessa. — Una recente sentenza della Corte costituzionale — la n. 487 dell’8/20 novembre 1995 (*) — resa in materia di misure di prevenzione patrimoniale, ci fornisce lo spunto per mettere a fuoco alcuni aspetti che caratterizzano l’attuale produzione legislativa in materia di criminalità organizzata (1). Come è noto, la crescente attenzione che si è concentrata sui temi (*) Pubblicata in Gazzetta Ufficiale, 1o serie speciale, del 29 novembre 1995, n. 49, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 quinquies, secondo comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), nella parte in cui non prevede che avverso il provvedimento di confisca possano proporsi le impugnazioni previste e con gli effetti indicati nell’art. 3 ter, secondo comma della stessa legge; ha altresì dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 quinquies della medesima legge n. 575 del 1965, sollevata in riferimento all’art. 27, primo comma, della Costituzione, dalla Corte d’Appello di Palermo con ordinanza emessa il 21 marzo 1995, n. 424, Agnello più altri, pubblicata in Gazzetta Ufficiale, 1o serie speciale, 12 luglio 1995, n. 29. (1) Si tratta degli artt. 3 quater e 3 quinquies inseriti dal D. L. n. 306/1992 (convertito nella L. n. 356/92) nel testo della legge n. 575/65, che per comodità del lettore si riportano nelle parti che qui rilevano. Art. 3 quater, comma 1o: « Quando, a seguito degli accertamenti di cui all’art. 2 bis o di quelli compiuti per verificare i pericoli di infiltrazione da parte della delinquenza di tipo mafioso, ricorrono sufficienti indizi per ritenere che l’esercizio di determinate attività economiche, comprese quelle imprenditoriali, sia direttamente o indirettamente sottoposto alle condizioni di intimidazione o di assoggettamento previste dall’art. 416 bis del codice penale o che possa, comunque, agevolare l’attività delle persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata una delle misure di prevenzione di cui all’art. 2, ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei delitti previsti dagli artt. 416 bis, 629, 630, 648 bis e 648 ter del codice penale, e non ricorrono i presupposti per l’applicazione delle misure di prevenzione di cui all’art. 2, il procuratore della Repubblica o il questore possono richiedere al tribunale competente per l’applicazione delle misure di prevenzione nei confronti delle persone sopraindicate, di disporre ulteriori indagini e verifiche, da compiersi anche a


— 706 — dell’economia illecita è sfociata in una serie di provvedimenti legislativi che non hanno tardato a rivelarsi problematici, sotto l’aspetto dogmatico oltre che sotto il profilo della compatibilità ai principi costituzionali. Anzi, come da più parti si viene ormai evidenziando, tale legislazione porta con sé i sintomi di un mutamento complessivo delle funzioni e dei dogmi del diritto penale ‘‘classico’’ (2). In questo contesto si inserisce il presente lavoro, il cui obiettivo è quello di focalizzare le caratteristiche della « tecnica normativa » che contrassegna, tra gli strumenti normativi antimafia, la misura di prevenzione della sospensione temporanea dall’amministrazione dei beni aziendali. Peraltro, la nostra analisi risulta ancor più doverosa se, come sembra, simile tecnica (o meglio: il suo prodotto) ha meritato l’avallo della Corte costituzionale. 2. Tecniche normative e opzioni di politica criminale. — La sospensione temporanea appare strutturata, già a prima vista, in termini del tutto peculiari rispetto a quelli caratterizzanti il ‘‘ceppo tradizionale’’ delle misure preventive reali (3). La ragione di ciò sta nelle esigenze politico crimezzo della Guardia di finanza o della polizia giudiziaria, sulle predette attività, nonché l’obbligo, nei confronti di chi ha la proprietà o la disponibilità, a qualsiasi titolo, di beni o altre utilità di valore non proporzionato al proprio reddito o alla propria capacità economica, di giustificarne la legittima provenienza ». Art. 3 quater, comma 2o: « Quando ricorrono sufficienti elementi per ritenere che il libero esercizio delle attività economiche di cui al comma 1o agevoli l’attività delle persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata una delle misure di prevenzione di cui all’art. 2, ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei delitti previsti dagli artt. 416 bis, 629, 630, 648 bis e 648 ter del codice penale, il tribunale dispone la sospensione temporanea dall’amministrazione dei beni utilizzabili, direttamente o indirettamente, per lo svolgimento delle predette attività ». Art. 3 quinquies, comma 2o: « Entro i quindici giorni antecedenti la data di scadenza della sospensione provvisoria dall’amministrazione dei beni o del sequestro, il tribunale, qualora non disponga il rinnovo del provvedimento, delibera in camera di consiglio ... la revoca della misura disposta, ovvero la confisca dei beni che si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego ». (2) Queste tematiche sono state poste al centro delle riflessioni della dottrina più recente, cfr. MUSCO, Funzioni e limiti del sistema penale, in Riv. guardia fin., 1996, 35 ss.; FIANDACA, Relazione introduttiva, in AA. VV., Valori e principi della codificazione penale: le esperienze italiana, spagnola e francese a confronto, Padova, 1995, 15 ss. e spec. 38; FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in questa Rivista 1994, 23 ss.; PALIERO, L’autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?, ivi, 1994, 1220 ss.; MOSCONI, Bene giuridico e silenzio del sociale. Proposte di intervento, in AA. VV., Funzioni e limiti del diritto penale, Padova, 1984, 171 ss. Sulla tendenza della legislazione cd. antimafia a strutturarsi quale ‘‘sottosistema autonomo’’, sia consentito rinviare a MANGIONE, Le misure di prevenzione patrimoniale. Profili dogmatici e di politica criminale, Catania, 1995, 193 ss. (3) Per un’esposizione ragionata di dottrina e giurisprudenza sulla misura in oggetto


— 707 — minali a cui essa è chiamata a rispondere: far luce nel ‘‘sottobosco’’ della « contiguità » (4) fra ambienti dell’economia e criminalità organizzata. Le note tipologiche che dovrebbero fornire, sul piano della tipicità, il ‘‘substrato materiale’’ di siffatta nozione appaiono tuttavia sfuggenti. Ciò contribuisce a spiegare perché, al riguardo, i tradizionali modelli di intervento penale hanno sinora mostrato tutti i loro limiti (5). Per l’appunto, se da un canto, ci si orienta nell’inquadrare le condotte di tipo collusivo lungo il controverso schema del « concorso eventuale » nel reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, dall’altro, emergono difficoltà e perplessità interpretative di non poco spessore, come del resto ci ha inequivocabilmente attestato, in questi anni, proprio il movimento pendolare che la giurisprudenza ha seguito sul punto, ora escludendo ora ammettendo il concorso esterno (6). A tale quadro, incentrato sulla repressione, fa da contr’altare l’elaborazione di un diverso meccanismo di intervento, in chiave, questa volta, preventiva: quello di cui agli artt. 3 quater e 3 quinquies della legge 31 maggio 1965, n. 575, disciplinanti la sospensione temporanea (7). Con questa scelta, però, si riconferma indirettamente quella che sembra essere ormai una ‘‘costante’’ dell’esperienza delle misure ante delictum: il loro essere perennemente in bilico, innanzi a fatti obiettivamente identici, fra due poli attrattivi e cioè fra quello dell’accertamento di responsabilità penali e quello dell’applicazione di misure di prevenzione, col pericolo di continue sovrapposizioni e con una ricaduta negativa in termini di raziovedi MOLINARI-PAPADIA, Le misure di prevenzione nella legge fondamentale e nelle leggi antimafia, Milano, 1994, 520 ss. (4) Sul concetto, oggi molto in voga, di « contiguità » vedi GROSSO, Le contiguità alla mafia tra partecipazione, concorso in associazione mafiosa ed irrilevanza penale, in AA. VV., La Mafia, Le Mafie, a cura di Fiandaca e Costantino, Bari, 1994, 192 ss.; FIANDACA, La contiguità mafiosa degli imprenditori tra rilevanza penale e stereotipo criminale, in Foro it., 1991, II, 472 ss. (5) Sulle molteplici ragioni dell’insufficienza delle due soluzioni — ‘‘partecipazione’’ o ‘‘concorso’’ nel reato associativo — vedi per tutti DE FRANCESCO, Dogmatica e politica criminale nei rapporti tra concorso di persone ed interventi normativi contro il crimine organizzato, in questa Rivista, 1994, 1266 ss. (6) Tale problema divide sia la dottrina che la giurisprudenza; per la prima cfr. MANNA, L’ammissibilità di un cd. concorso « esterno » nel reato associativo, in questa Rivista, 1994, 1189; VISCONTI, Il tormentato cammino del « concorso esterno » nel reato associativo, in Foro it., 1994, II, 561. Per la giurisprudenza, cfr. Cass., 18 maggio 1994, ivi, secondo la quale va esclusa l’ammissibilità del concorso eventuale. Contra però Cass., Sez. un., 5 ottobre 1994, in Cass. pen., 1995, 858, con osservazioni di IACOVIELLO. (7) A dire il vero, non si tratta di un istituto del tutto nuovo nell’esperienza legislativa italiana, poiché l’art. 22 della legge Reale (n. 152/75) prevedeva già una misura per qualche verso similare la quale, tuttavia, non ha mai avuto alcuna applicazione in ragione dei limiti operativi da cui era condizionata: non poteva applicarsi ai ‘‘beni personali’’, cioè a quelli destinati ad attività produttive e professionali, nonché alla vasta congerie di beni indicati dall’art. 46 della legge fallimentare.


— 708 — nalità e coerenza del sistema. Il rischio è, allora, che il discrimen fra le due forme di intervento venga dato dalla qualità del patrimonio probatorio in atto disponibile, onde per cui la misura di prevenzione finirebbe col rivelare — come è stato detto — la reale funzione di politica criminale ad essa sottesa, cioè di « surrogato di una repressione penale inattuabile per mancanza dei normali presupposti probatori ». La particolare tecnica normativa che il legislatore ha utilizzato nella descrizione della fattispecie preventiva riflette quindi precise opzioni di politica criminale (8) e pone sul tappeto serie perplessità di natura dogmatica. Deve invero osservarsi che le misure di prevenzione patrimoniale, inserite da una caotica legislazione ‘‘a strati’’ nel corpo della legge n. 575/65, si basano su due requisiti, l’uno soggettivo e l’altro oggettivo; e cioè l’indizio di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso e gli indizi dell’illecita provenienza del patrimonio, i quali debbono sussistere entrambi in capo all’interessato. All’inverso, gli artt. 3 quater e 3 quinquies si discostano dal modello generale e presentano delle interessanti particolarità. Evidente è la mancanza della connotazione criminologica subiettiva e cioè dell’indizio di « appartenenza alla mafia » che — pur con tutti i suoi limiti strutturali e probatori — collegandosi concettualmente ad una fattispecie delittuosa ben definita, esprime comunque una situazione di pericolo. Nel caso in esame, di contro, la norma segue una tecnica descrittiva diversa: da un lato, e cioè sul piano soggettivo, la qualità indiziante non è modellata sul diretto interessato, bensì su terzi quali i sottoposti o proposti per l’applicazione di una misura di prevenzione ovvero, indagati o imputati per alcuni gravi delitti; dall’altro lato, v’è una « tipologia ambientale », la cui ambiguità di fondo è resa dalla formula dell’« esercizio delle attività economiche in condizioni di assoggettamento o di intimidazione » e comunque col risultato di « agevolare » l’attività di determinati criminali. Tuttavia, l’esercizio di un’attività produttiva a vantaggio anche indiretto di terzi, di per sé, non costituisce neppure alla lontana né una fonte di ‘‘rischio’’ né un illecito: anzi rientra pienamente nell’alveo delle libertà costituzionalmente garantite; e neppure nell’ipotesi in cui l’esercizio dell’attività avvenga in condizioni di assoggettamento, in effetti, può attribuirsi un addebito in capo a chi subìsce passivamente le azioni altrui. Piuttosto, ciò che vale a trasporre su un piano di pericolosità o illiceità una situazione altrimenti neutra è la « qualità soggettiva » dei destinatari (8) Sul concetto di « politica criminale » si veda quantomeno ZIPF, Politica criminale, trad. it., Milano, 1989; BRICOLA, Rapporti tra dommatica e politica criminale, in questa Rivista, 1988, 3 ss.; PULITANÒ, voce Politica criminale, in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, 73 ss.


— 709 — del vantaggio. Ma tale qualità, che nell’ottica del legislatore dovrebbe esprimere appieno il ‘‘rischio’’ della fattispecie, è invero evanescente e gravata ontologicamente dall’incertezza, in quanto viene espressa attraverso il ricorso ad uno status processuale instabile. Invero, si tratta di agevolare « l’attività delle persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata una delle misure di prevenzione ... ovvero di persone sottoposte a procedimento penale ... ». Orbene, sul piano dell’imputazione di responsabilità penali tale fattispecie si rivelerebbe senz’altro inaccettabile, perché il « disvalore » (9) verrebbe reso dall’aggancio ad un elemento normativo — lo status di proposto o sottoposto a misura di prevenzione, ovvero di indagato o imputato — che è ben lontano dall’assumere quel livello di certezza ed affidabilità che dovrebbe essere il requisito minimo di ogni componente del « fatto tipico » (10). Sulla scorta di queste (ed altre) considerazioni, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 48 del 9/17 febbraio 1994, ha caducato l’art. 12 quinquies della legge n. 356/92 (11). Tuttavia, nella stessa decisione si precisa chiaramente la portata di tali rilievi, e cioè che essi sono fondati in quanto riferiti ad una fattispecie incriminatrice — qual era per l’appunto l’art. 12 quinquies — che il legislatore aveva tentato di strutturare secondo la tecnica propria delle misure di prevenzione: « se, infatti, può ritenersi non in contrasto con i principi costituzionali una norma che, al limitato fine di attivare misure di tipo preventivo, desume dalla qualità di indiziato per taluni reati il sospetto che la sproporzione tra beni posseduti e reddito dichiarato possa esser frutto di illecita attività, altrettanto non (9) In tema, per tutti MAZZACUVA, Il disvalore di evento nell’illecito penale, Milano, 1983. (10) Sul ruolo e sul concetto di « fatto tipico » si rinvia a FIANDACA, voce Fatto nel diritto penale, in Dig. disc. pen., V, Torino, 1992, 152 ss.; VASSALLI, voce Tipicità (diritto penale), in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 535 ss.; PALAZZO, Orientamenti dottrinali ed effettività giurisprudenziale del principio di determinatezza-tassatività in materia penale, in questa Rivista, 1991, 327; SPASARI, Fatto e reato nella dommatica del codice e della Costituzione, ivi, 1991, 1104 ss.; MARINUCCI, Fatto e scriminanti. Note dogmatiche e politico-criminali, ivi, 1983, 1190 ss.; RONCO, Il principio di tipicità della fattispecie penale nell’ordinamento vigente, Torino, 1979. Per la dottrina tedesca v. SCHMIDHÄUSER, Strafgesetzliche Bestimmtheit: eine rechtsstaatliche Utopie, in Gedächtnisschrift für W. Martens, Berlin-New York, 1987, 231; LEENEN, Typus und Rechtsfindung, Berlin, 1971; LEMMEL, Unbestimme Strafbarkeitsvoraussetzungen im Besonderen Teil des Stafrechts und der Grundsatz nullum crimen sine lege, Berlin, 1970; HASSEMER, Tatbestand und Typus, Köln-Berlin-Bonn-München, 1968. (11) In proposito, cfr. FORNASARI, Strategie sanzionatorie e lotta alla criminalità organizzata in Germania e in Italia, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1994, 743 ss., spec. 757 ss.; DI GIOVINE, Antichi schemi e nuove prospettive nella lotta alla criminalità organizzata. Dall’art. 708 c.p. all’art. 12-quinquies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in questa Rivista, 1994, 117 ss.; INSOLERA, Nota a Trib. Macerata 30.9.1993, in Critica dir., 1994, 152 ss.; MUCCIARELLI, Commento all’art. 12-quinquies d.l. 8.6.1992, n. 306, in Legisl. pen., 1993, 158 ss.


— 710 — può dirsi ove l’analoga situazione venga ricondotta all’interno di una previsione incriminatrice » (12). Il che, tradotto diversamente, vuol dire che i profili di tassatività, e quindi il principio di legalità, assumono un ruolo ed un contenuto quantitativamente e qualitativamente differenti a seconda che rilevino in sede penale o di prevenzione (13). Non a caso, allora, il legislatore ha scelto di descrivere i fenomeni di ‘‘collusione’’ nell’ambito delle misure di prevenzione. Senonché, tale convincimento di fondo — che è presente anche nella decisione n. 487/95 — non appare accoglibile. Piuttosto, le stesse conseguenze a cui esso conduce, sul duplice piano delle garanzie e della logica giuridica, lasciano residuare perplessità. In linea di principio — ed a parte il fatto che la compatibilità a Costituzione dell’odierno modello di prevenzione è più asserita che dimostrata — si può osservare che le cd. misure ante delictum hanno ben poco di genuinamente special-preventivo, e perseguono invece l’obiettivo politico criminale di ‘‘incapacitare’’, sotto il versante sia patrimoniale che personale, particolari categorie soggettive (14). Il fine a cui tendono è l’estromissione dell’individuo dal circuito sociale, a tempo più o meno definito e senza alcuna prospettiva di recupero; sicché poco importa che la sua emarginazione si traduca in una ‘‘condanna alla recidiva’’ (15). Inoltre, la tassatività della fattispecie, lungi dall’essere un ‘‘lusso’’ da circoscrivere alla pena in senso stretto, è comunque una garanzia per coloro che non appartengono al mondo della criminalità organizzata, sia essa comune o mafiosa. In proposito, infatti, basti solo sottolineare che le misure preventive di tipo patrimoniale — sia quelle definitive che quelle cautelari — incidono pesantemente, oltre che sulla libertà d’iniziativa economica, anche sulla tutela del lavoro (art. 35 Cost.) e della famiglia (art. (12) Così Corte cost., 9/17 febbraio 1994, n. 48, considerazioni in diritto, par. 4. (13) NUVOLONE, voce Misure di prevenzione e misure di sicurezza, in Enc. dir., XXVI, Milano, 1976, 633 ss. (14) Al riguardo, si rinvia a BRICOLA, Forme di tutela « ante delictum » e profili costituzionali della prevenzione, in AA. VV., Le misure di prevenzione, Milano, 1975, 29 ss.; cfr. pure TAGLIARINI, Le misure di prevenzione contro la mafia, ivi, 363 ss.; GALLO E., voce Misure di prevenzione, in Enc. giur. Treccani, XX, Roma, 1990; BARGI, L’accertamento della pericolosità nelle misure di prevenzione, Napoli, 1988, 15 ss. Da ultimo vedi PETRINI, La prevenzione inutile, Napoli, 1996. (15) Invero, tale ‘‘rigore’’, che si estende a tutto campo, assume anche il diverso significato — in un delicato gioco di pesi e contrappesi — di incentivazione alla collaborazione con lo Stato; cfr. GREVI, Verso un regime penitenziario progressivamente differenziato: tra esigenze di difesa sociale ed incentivi alla collaborazione con la giustizia, in AA. VV., L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, Padova, 1994, 3 ss. Più in generale vedi MUSCO, La premialità nel diritto penale, in Ind. pen., 1986, 591 ss.; BRICOLA, Funzione promozionale, tecnica premiale e diritto penale, in Quest. crim., 1981, 445 ss.; PISANI, Diritto premiale e sistema penale: rapporti e intersezioni, in Ind. pen., 1981, 212 ss.


— 711 — 31 Cost.), ed in definitiva ostacolano seriamente il libero estrinsecarsi della personalità umana, sia nella sua singolarità che in tutte le formazioni sociali a cui partecipa (artt. 2 e 3 Cost.) (16). Tali strumenti, dunque, anche alla luce dell’attuale scala di valori sociali — sempre più orientati al profitto e dominati da una visione « estetica » della vita — rischiano di assumere un ruolo che consente di paralizzare tutta l’attività del soggetto, sia essa ‘‘in atto’’ che ‘‘in potenza’’, nella misura in cui inibiscono il mantenimento degli impegni assunti, lo sfruttamento delle opportunità presenti nonché delle chances future (17). Ma un siffatto carico lesivo di beni fondamentali, in un diritto penale costituzionalmente orientato, dovrebbe passare attraverso l’accertamento della responsabilità penale. Questa, infatti, sul piano processuale offre adeguate garanzie ed in particolare una soglia probatoria di un certo spessore; mentre sul piano sostanziale, presuppone la violazione di un bene, se non di pari rango, quantomeno esplicitamente o implicitamente tutelato a livello costituzionale (18). All’inverso, il procedimento di prevenzione non risulta munito di garanzie in tal senso adeguate, ed inoltre le prospettive di afflizione ad ampio raggio cui esso tende, appaiono forse sbilanciate per eccesso laddove si rifletta sui relativi presupposti concettuali, che di certo sono di rango e valore diversi rispetto a quelli propri della pena. (16) Sul ruolo centrale e fondante dell’ordinamento giuridico che deve riconoscersi all’unicità della persona v. MESSINETTI, voce Personalità (diritti della), in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, 355 ss.; BARBERA, Sub art. 2, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca, (Principi fondamentali, artt. 1-12), Bologna, 1975, 50 ss. Anche nella dottrina tedesca si è posto l’accento sulle potenzialità afflittive che le misure patrimoniali, recentemente introdotte dalla OrgKG del 1992, hanno sulla dignità e sulle condizioni di vita della persona, così vedi KREY-DIERLAMM, Gewinnabschöpfung und Geldwäsche. Kritische Stellungnahme zu den materiell-rechtlichen Vorschriften des Entwurfs eines Gesetzes zur Bekämpfung des illegalen Rauschgifthandels und anderer Erscheinungsformen der Organisierten Kriminalität (OrgKG), in JR, 1992, 357 ss. (17) Inoltre, le misure cautelari — e quindi anche la sospensione temporanea — comportano che complessi patrimoniali, spesso ingenti, vengano affidati a gestioni per forza di cose non redditizie, con ulteriori pregiudizi per l’interessato così come per una vasta cerchia di terzi. D’altronde, si tenga pure presente che solo una percentuale estremamente modesta dei provvedimenti cautelari viene tramutata in confisca, con la conseguenza che i relativi danni rimangono irreparabili. Al riguardo, dati recenti si possono leggere in CENTORRINO, Economia assistita da mafia, Messina, 1995, Appendice. (18) In tema, sia pure sotto diverse prospettive, cfr. PALAZZO, Valori costituzionali e diritto penale (un contributo comparatistico allo studio del tema), in AA. VV., L’influenza dei valori costituzionali sui sistemi giuridici contemporanei, Milano, I, 1985, 531 ss.; MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, spec. 111 ss.; BRICOLA, voce Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., XIX, Torino, 1973. Di recente v. MOCCIA, Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflessi illiberali, in questa Rivista, 1995, 343 ss.; DOLCINI-MARINUCCI, Costituzione e politica dei beni giuridici, ivi, 1994, 333 ss.


— 712 — Il ragionamento seguito dalla Corte costituzionale — nella decisione n. 48/1994 — sul contenuto del principio di legalità, assume in questa sede una significativa importanza, in quanto consente di poter ulteriormente sviluppare alcune riflessioni sul rapporto fra esigenze di legalità e tecniche normative adottate. Infatti, è ben vero che la Corte accoglie l’accennata distinzione fra legalità repressiva e preventiva, ed è altresì vero che la qualità soggettiva laddove sia agganciata agli stati processuali indicati può validamente inserirsi, con valore indiziante, soltanto nella struttura di una misura di prevenzione. Ma è ancor più vero, e lo si deduce dal tenore delle argomentazioni ivi svolte dal giudice costituzionale, che tutto ciò è ammissibile nei limiti in cui la predetta qualità indiziante ricada sul destinatario della misura. È questo lo schema — per dir così — ‘‘classico’’ delle misure di prevenzione del sequestro e della confisca di cui all’art. 2 ter della legge n. 575: infatti, ai sensi dell’art. 1 della medesima legge, esse richiedono che l’interessato sia indiziato di appartenenza ad associazioni mafiose. Quindi, è la sussistenza della qualità soggettiva, sia pure ritenuta indiziariamente, ad attribuire alla situazione descritta una certa pregnanza. Non altrettanto avviene sul versante dei presupposti della sospensione temporanea: qui si prescinde per definizione dall’esistenza degli indizi di appartenenza, in quanto si vuole incidere proprio su coloro che rimangono del tutto esterni, in una situazione, per l’appunto, di « contiguità ». In tal modo, tuttavia, si abbassa ulteriormente il ‘‘tasso di costituzionalità’’ di un sistema già di per sé « ai limiti » dei principi fondamentali di uno Stato di diritto. Nell’economia della fattispecie non è indifferente che il diretto interessato sia raggiunto da indizi significativi, ovvero che questi ricadano su altri, cioè i destinatari del vantaggio. Le conseguenze di ordine dogmatico che ne derivano sono peraltro evidenti. In primo luogo, aumenta l’evanescenza della misura e se ne dilata l’ambito di applicazione in maniera oltremodo eccessiva, sino a ricomprendere — come si vedrà oltre — situazioni del tutto disomogenee fra loro. In secondo luogo, il ‘‘punto focale’’ della fattispecie, quello cioè che in sede di sanzione penale ne esprime il « disvalore » ed in sede di prevenzione concretizza il ‘‘rischio’’, si sposta sul versante della qualifica del terzo. Al riguardo, sarebbe stato preferibile agganciare tale qualità quanto meno a quel livello di certezza che può riconoscersi ad una sentenza di condanna (19). Ma così, ad ogni buon conto, non è stato. (19) Così adottando il medesimo accorgimento al quale è ricorso il legislatore — in seguito alla sentenza della Corte costituzionale n. 48/1994 che aveva caducato l’art. 12 quinquies 2o comma — con la nuova fattispecie di cui all’art. 12 sexies, inserito dal decreto legge n. 399/94 nella legge n. 356/92.


— 713 — Infine, l’estremo della « sproporzione » fra reddito e patrimonio (20) non riesce più ad esprimere alcun collegamento causale con la presunta origine illecita e il correlativo ricorso all’« obbligo di giustificazione » appare del tutto inammissibile. In effetti, un complesso di beni di notevoli dimensioni, sproporzionate alla capacità di reddito, può voler dire, al contempo, tutto ed il contrario di tutto; esso, al limite, può indicare — ma mai provare — una non oculata gestione delle proprie finanze, ovvero un fenomeno di evasione fiscale; ed è sintomatico che, a tale specifico riguardo, la sproporzione, laddove non sia supportata da ulteriori elementi, non è neppure sufficiente ad esprimere un nesso rilevante ai fini fiscali. Non si capisce, quindi, come il predetto estremo — che è riferito al presunto colluso — possa acquistare un valore negativo, legittimante l’incapacitazione patrimoniale, in virtù del solo fatto che « altri » — e non l’interessato — rientrino (rectius: siano indiziati di rientrare) in una particolare tipologia d’autore. A ben vedere, v’è un ‘‘salto logico’’ dalle inammissibili proporzioni il quale, da un canto, priva di ogni serio fondamento l’« obbligo di giustificazione » e, dall’altro, evidenzia in tutta la sua gravità l’« inversione dell’onere della prova » a cui la norma costringe l’interessato. 3. Il « contributo agevolatore » fra rilevanza penale e preventiva: un’irrazionalità non vista. — La struttura della fattispecie sospensiva prevede, inoltre, che l’attività economica dell’interessato si concretizzi in un « contributo agevolatore ». In proposito, il legislatore utilizza una formula complessa la quale, tuttavia, accomuna due ipotesi nettamente distinte fra loro: l’esercizio dell’attività, sia pure indirettamente, in « condizioni di intimidazione o assoggettamento » e l’esercizio « che possa, comunque, agevolare l’attività delle persone » indiziate di particolari fatti. Il punto è invero delicato, poiché è quello sul quale si addensano i maggiori dubbi di costituzionalità; occorre, quindi, mettere in chiaro cosa debba intendersi per « agevolazione ». Il termine, di per sé preso, risulta alquanto generico e tale da consentire ampia discrezionalità all’interprete (21). Tuttavia se, come pare doveroso, si propende per un’interpretazione di tipo sistematico e si valorizza (20) In proposito, cfr. FALLONE, Luci ed ombre del ‘‘procedimento di prevenzione’’, in Riv. guardia fin., 1996, 77 ss.; NANULA, Riciclaggio di proventi illeciti: il parametro del patrimonio ingiustificato, in Il fisco, 1995, 4606 ss.; ID., Il problema della prova della provenienza illecita dei beni, ivi, 1993, 10117; TAORMINA, Il procedimento di prevenzione nella legislazione antimafia, Milano, 1988, 241 ss. La giurisprudenza, tuttavia, tende ad attribuirvi notevole peso, vedi per un’esemplificazione Cass., 2 giugno 1994, n. 2104, in C.E.D., n. 198059. (21) Paradigmatica in tal senso è l’opinione di NANULA, Contiguità con mafiosi, cit., secondo il quale « la mancanza di una qualunque specificazione consente di ritenere che non


— 714 — quindi il contesto normativo in cui la disposizione è inserita, ne consegue la necessità di accogliere una lettura più ristretta ma perciò stesso preferibile alla luce delle caratteristiche strutturali sinora viste. Il collegamento finalistico con le condotte tipizzate dagli artt. 416 bis, 629, 630, 648 bis e 648 ter c.p., svolge un duplice ruolo: per un verso, restringe il campo ad alcune figure criminose; per altro verso, esprime un legame significativo con specifiche tipologie, le quali trovano un comune denominatore nella ‘‘dimensione lucrativa’’ che fornisce gli inputs criminogeni. Inoltre, la particolare sede della prevenzione patrimoniale, nonché il riferimento normativo all’attività imprenditoriale dell’interessato, rendono evidente che l’agevolazione rilevante è quella che si esprime sul piano prettamente economico, con esclusione di ogni altro tipo di contributo (22). Tuttavia, anche limitando l’apprezzamento del « contributo agevolatore » ad un contesto esclusivamente economico (23), rimane la circostanza che la prassi giudiziaria considera i medesimi fatti di agevolazione sufficienti per rilevare ai sensi degli artt. 110 e 416 bis del codice penale (24). In tal modo, però, il sistema entra in contraddizione: la misura della sospensione — che pur ha come presupposto caratterizzante la non riconducibilità dell’interessato all’associazione mafiosa — attrae nella sua orbita quei fatti materiali che, giustificando l’imputazione ex art. 110 c.p., riconducono il soggetto nell’alveo dell’art. 1 della legge n. 575/65, cioè a dire in seno agli indiziati di « appartenenza » all’organizzazione. Ciò in quanto, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, l’« appartenenza » rilevante ai fini delle misure di prevenzione ha una portata ben più ampia di quella di cui all’art. 416 bis c.p. (25): essa è infatti tale da consentire l’adozione delle misure ante delictum — del ‘‘sequestro/confidebba necessariamente riferirsi ad un loro comportamento operativo, sibbene alla loro semplice posizione, ai loro interessi, alle loro condizioni di vita ». (22) Esemplificando, si pensi all’affitto di appartamenti a canone decisamente inferiore a quello di mercato; alla pratica di prezzi notevolmente vantaggiosi per la vendita di materiali prodotti dall’impresa ed acquistati dai membri dell’associazione; alla concessione di mutui a tassi di favore, ovvero all’acquisto coatto di forniture presso le imprese segnalate dall’associazione mafiosa; all’assunzione di manodopera imposta; all’affidamento coatto dei sub appalti, dei lavori di sbancamento, movimentazione terra e trasporto dei materiali, ecc. (23) Altra questione, sulla quale in questa sede si può dedicare non più che un semplice accenno, è quella dell’« efficienza causale » del contributo agevolatore; problema che è qui ulteriormente aggravato dal livello prettamente indiziario che sorregge gli accertamenti. (24) Di recente v. Gip. Trib. Catania, ord. 13 luglio 1995, Aiello più altri, inedita. (25) Per la giurisprudenza cfr. Cass., 23 novembre 1993, in Cass. pen., 1995, 161; Trib. Lecce, 9 novembre 1990, in Riv. pen., 1991, 184. In dottrina vedi GUGLIELMUCCI, Nozione di indiziato di appartenenza ad associazioni mafiose e di indiziato di misure di prevenzione, in Cass. pen. Mass. ann., 1987, 1669; DE LIGUORI, Fattispecie preventiva ed associazione mafiosa: realtà e simbolismo della nuova emergenza, ivi, 1990, 687.


— 715 — sca’’ ex art. 2 ter — non solo in capo ai « partecipi » ma anche ai « concorrenti » (26). In buona sostanza, si hanno due modelli di intervento in chiave preventiva, i cui presupposti sono rigidamente diversificati: l’uno — ‘‘sospensione temporanea/confisca’’ (artt. 3 quater e 3 quinquies) — che pretende la non sussistenza degli indizi di appartenenza, e l’altro — ‘‘sequestro/confisca’’ (art. 2 ter) — che invece pretende i detti indizi. Entrambi i modelli però finiscono coll’incidere sulla medesima base fenomenologica, con ciò creando un’irrazionalità che va oltre il piano della dogmatica, per aprire un problema di costituzionalità. 4. La « contiguità » quale « area di rischio giuridicamente rilevante ». — Il profilo di incostituzionalità che non è stato colto nella sentenza n. 487/1995, e che d’altronde non era stato esplicitamente denunciato nell’ordinanza di rimessione (27), si colloca nell’indistinto trattamento che gli artt. 3 quater e 3 quinquies riservano a situazioni oggettiva(26) Tale soluzione è imposta dalla duplice constatazione dell’« attualità » della pericolosità sociale in capo a simili soggetti — per tutte vedi Cass., 17 gennaio 1995, inedita; Cass., 28 giugno 1993, in C.E.D.n. 194847 — e dall’« autonomia » concettuale del procedimento di prevenzione, così vedi Trib. Lecce, 4 novembre 1989, in Cass. pen., 1990, 687, laddove si afferma che « il concetto di appartenenza si differenzia da quello di partecipazione ad associazione mafiosa, per cui i rispettivi procedimenti trovano la loro autonomia proprio rispetto all’oggetto della indagine che, in un caso, mira all’accertamento di situazioni di contiguità rispetto al sodalizio criminoso, nell’altro di un vero e proprio ruolo organico ivi svolto dal soggetto ». (27) Al riguardo è forse opportuno osservare che se è vero che il giudizio sulla costituzionalità delle leggi — in base al principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato — si svolge nei limiti e nei termini in cui è sollevata l’eccezione, è anche vero che la Corte costituzionale, sol che l’abbia voluto, è sinora riuscita ad allentare la tendenziale rigidità di tale principio, creando ed utilizzando la (contestata) categoria delle « sentenze interpretative ». Nella sentenza n. 487/1995, il giudizio di costituzionalità per violazione dell’art. 27 comma 1o Cost., si era incentrato esclusivamente sul provvedimento finale (la confisca) e non, come invece sarebbe stato corretto, su quello cautelare (la sospensione) — invero direttamente ed immediatamente confliggente col principio personalistico. Pertanto la Corte, tenuto conto — in generale — delle peculiari esigenze che connotano la materia penalistica e che rendono problematico il ricorso alle « pronuncie manipolative », ed altresì tenuto conto — in particolare — del fatto che l’oggetto del giudizio andava ‘‘riorientato’’ dalla confisca alla sospensione, avrebbe potuto rendere una sentenza « additiva di principio ». In tal modo, dopo aver « reinterpretato » la norma denunciata, piuttosto che dettare ‘‘la regola compiuta’’ (manipolativa ‘‘pura’’) avrebbe potuto esprimere il ‘‘principio generale’’ da tener presente ai fini dell’applicazione della norma. Sulle sentenze « additive di principio », vedi ANZON, Nuove tecniche decisorie della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1992, 3199 ss. Più in generale, e per gli ulteriori risvolti cfr. SPADARO, Limiti del giudizio di costituzionalità in via incidentale e ruolo dei giudici, Napoli, 1990; CERVATI, Tipi di sentenze e tipi di motivazioni nel giudizio incidentale di costituzionalità delle leggi, in AA. VV., Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, Milano, 1988, 125 ss.; ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988. Per la dottrina penalistica, vedi per tutti ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, 2o ed., Milano, 1995, Sub Pre-Art. 1/48.


— 716 — mente differenti. La norma, infatti, prende in considerazione due ipotesi: a) l’esercizio di attività economiche in condizioni di assoggettamento o di intimidazione; b) l’esercizio di attività economiche finalizzate all’agevolazione di terzi qualificati. A prima vista, non residuano dubbi sul fatto che le situazioni sub a) e sub b) si traducono in un vantaggio: tanto che la prestazione ‘‘x’’ sia il frutto — ad esempio — di un’estorsione, quanto che sia dettata da una scelta di reciproco tornaconto, entrambe posseggono, agli occhi dell’associazione criminosa, la medesima capacità di profitto. Nell’uno e nell’altro caso, dunque, l’associazione trae l’agevolazione ricercata e ciò è apparso sufficiente per legittimare l’intervento preventivo. Simile ragionamento, però, non risulta più convincente allorquando si focalizzi l’attenzione sul « destinatario » della prevenzione, piuttosto che sull’asettico estremo del vantaggio. Invero, poiché la sospensione e la confisca incidono — per definizione — sui beni del ‘‘non mafioso’’ è logico che sia la sua posizione a costituire il ‘‘punto focale’’ dell’analisi giuridica. A latere subiecti, allora, si coglie l’errore di prospettiva in cui è caduto il legislatore: nell’impellenza di recidere quel fascio di rapporti da cui trae alimento la « contiguità », non ha tenuto conto della significativa differenza che separa chi subìsce l’intimidazione mafiosa (a) da chi invece vi ricava un vantaggio (b) (28). È seriamente discutibile che entrambi i soggetti possano rientrare nell’alveo della collusione e sopportare le conseguenziali reazioni dell’ordinamento. La « contiguità » è, all’evidenza, un paradigma di genere, evanescente nei suoi contorni e dal contenuto ricco di sfumature; appartiene infatti a quella classe di concetti che si rivelano — e non solo all’atto pratico — dei ‘‘vuoti contenitori’’ buoni per tutte le esigenze. Se è vero che essa, (28) Tutto ciò, a tacer d’altro, denota una qual certa ‘‘superficialità’’ nell’(ab)uso delle categorie della scienza della legislazione. La letteratura esistente su tali temi è copiosissima, pertanto, in ambito strettamente penalistico ci si limita a segnalare PALAZZO, Orientamenti, loc. cit.; MUSCO, Diritto penale e politica: conflitto, coesistenza o cooperazione?, in Nomos, 1989, 73 ss. Più in generale, cfr. AA. VV., Nomografia. Linguaggio e redazione delle leggi, a cura di Di Lucia, Milano, 1994; RESCIGNO G.U., voce Tecnica legislativa, in Enc. giur. Treccani, XXX, Roma, 1993; CASSESE S., Introduzione allo studio della normazione, in Riv. trim. dir. pubb., 1992, 307; LA SPINA, La decisione legislativa. Lineamenti di una teoria, Milano, 1989; AA. VV., L’educazione giuridica. Modelli di legislatore e scienza della legislazione, V, t. 3o, Napoli, 1988; FROSINI, Il messaggio legislativo: tecnica ed interpretazione, in AA. VV., Normative europee sulla tecnica legislativa, I, Roma, 1988, 3 ss.; nonché RICCA M., Legge e intesa con le confessioni religiose. Sul dualismo Tipicità/Atipicità nella dinamica delle fonti, Torino, 1996, 164 ss. Per la letteratura straniera vedi SCHAUER, Playing by the rules. A Philosophical Examination of Rule-Based Decision-Making in Law and in life, Oxford, 1991; MUELLER, Essais zur Theorie von Recht und Verfassung, Berlin, 1990; KUBES, Theorie der Gesetzgebung, Wien-New York, 1987; KARPEN, Zum gegenwärtigen Stand der Gesetzgebungslehre in der Bundesrepublik Deutschland, in Zeitschrift für Gesetzgebung, 1986, 5; WROBLESKY, A Model of Rational Law Making, in ARSP, 2, 1979, 199.


— 717 — come formula linguistica, non risulta positivizzata in alcun testo di legge — giacché inevitabilmente inserirebbe nella fattispecie un’inaccettabile deficit di tassatività —, è ancor più vero che il suo valore semantico è comunque reso, sul piano della prevenzione, dall’art. 3 quater della legge n. 575, e sul piano della repressione, dallo schema del concorso esterno nell’associazione criminale. Quest’ultima strada, tuttavia, è senz’altro quella maggiormente problematica, giacché incontra i limiti e le perplessità della ‘‘opzione concorsuale’’; inoltre alla mancata tipizzazione delle condotte dei concorrenti si aggiunge l’indeterminatezza ontologica dell’estremo della « contiguità ». Essa, in effetti, vuole dare conto di un’ampia quanto astratta molteplicità di ‘‘contatti’’, di ‘‘fasci di relazioni’’ fra ambienti economici e criminalità organizzata, i quali peraltro traducono la loro ambiguità nell’impossibilità di essere fissati e descritti, una volta per tutte, in una norma. Del resto, la relazione che dovrebbe legare le condotte collusive alla lesione dell’interesse tutelato è chiamata a snodarsi lungo un paradigma eziologico che, seppur inteso a sfondo probabilistico (29), rimane tendenzialmente rigido ed incapace di esprimere tali rapporti. Tutto ciò fa supporre che la legislazione antimafia abbia finito col creare una « area di rischio » (30) giuridicamente rilevante per quei soggetti economici che operano in determinate realtà sociali. È come se a fronte dell’impossibilità di descrivere con la dovuta precisione le condotte di collusione, fissando i limiti e stabilendo ciò che è meritevole di sanzione, si sia preferito circoscrivere una ‘‘zona’’ con l’implicita convinzione che tutto ciò che vi accade debba essere sol perciò ricondotto entro le maglie della « contiguità ». Tale quadro d’insieme evoca delle assonanze col paradigma del Risiko, il quale — nonostante i propri limiti — appare maggiormente in (29) Sul rapporto di causalità, di recente cfr. LICCI, Teorie causali e rapporto di imputazione, Napoli, 1996; AZZALI, Il problema della causalità nel diritto penale, in Ind. pen., 1993, 249 ss.; AA. VV., La causalità tra diritto e medicina, a cura di Buzzi e Danesino, Pavia, 1992; PALIERO, La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Riv. it. med. leg., 1992, 821 ss.; STELLA, voce Rapporto di causalità, in Enc. giur. Treccani, XXV, Roma, 1991; ID., Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1975; LAMPE, Die Kausalität und ihre strafrechtlichen Funktion, in Gedächtnisschrift für Armin Kaufmann, Köln, 1989, 189 ss. Per la manualistica vedi FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p. gen., 3o ed., Bologna, 1995, 196 ss. In giurisprudenza v. Cass., 18 febbraio 1994, n. 196, inedita; Cass., 6 dicembre 1990, in Foro it., 1992, II, 36 ss. (30) Sul paradigma del Risiko, in generale, cfr. KHULEN, Zum Strafrecht der Risikogesellschaft, in GA, 1994, 347 ss.; HILGENDORF, Gibt es ein ‘‘Strafrecht der Risikogesellschaft?’’, in NStZ, 1993, 11 ss.; KINDHÄUSER, Sicherheitsstrafecht. Gefahren des Strafrechts in der Risikogesellschaft, in Universitas, 1992, 227 ss.; MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988. Per i contributi della letteratura anglo-americana vedi FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, 407 ss. Da ultimo v. CASTALDO, La concretizzazione del « rischio giuridicamente rilevante », in questa Rivista, 1995, 1096 ss.


— 718 — grado di apprezzare le « situazioni comportamentali » ed il milieu che fanno da sfondo al concetto in esame. Peraltro, la mancata distinzione fra le due situazioni a) e b) smaschera il ricorso ad una presunzione di collusione, atta a nascondere la realtà di un’imputazione che, essendo condizionata all’assunzione di una mera « posizione », avviene in via prettamente « oggettiva ». Sicuramente, si tratta di un’imputazione sui generis: non di responsabilità penali infatti, ma neppure di pericolosità sociale atteso il fatto che nel sistema della prevenzione cd. antimafia tale qualità non è il risultato di un giudizio prognostico — quantomeno paragonabile a quello che funge da presupposto delle misure di sicurezza — bensì è il frutto di un sillogismo tecnico in cui il giudice è chiamato ad accertare, ex art. 1 della legge n. 575, solo e soltanto l’« appartenenza » del soggetto ad un’associazione di stampo mafioso — in ciò esaurendosi la pretesa prognosi di pericolosità (31). L’imputazione della ‘‘sospensione/confisca’’, col suo carico afflittivo, in base al principio personalistico che governa l’intero giure penale, non sembra potersi accontentare della casualità della « posizione » assunta dal soggetto. Piuttosto, una maggiore adesione a tale principio potrebbe garantirsi valorizzando un ‘‘presupposto’’ ben più significativo, qual è quello eventualmente individuabile sul piano soggettivo: la finalizzazione della condotta di collusione in previsione di un obiettivo ben preciso, orientato all’interesse reciproco. Ciò è quanto si verifica qualora la « contiguità » sia il frutto di una « scelta consapevole » ed « interessata », perché dal colluso preordinata al proprio vantaggio. In un’ottica di tipo sinallagmatico, quindi, dominata dal ‘‘do ut des’’ ed in cui la collusione si alimenta nella circolarità del ritorno di utilità reciproche fra impresa e criminalità organizzata, sarebbe possibile apprezzare la differenza fra vittima e colluso (32). Innanzi ad una situazione caratterizzata dalla previsione e volontà di ottenere delle condizioni di vantaggio, v’è senz’altro un disvalore ed un rischio da stigmatizzare, giacché essi danno conto di un atteggiamento e di una scelta relazionale ben precisi, i quali, tra l’altro, si riflettono negativamente sull’intero mercato alterandone gli equilibri e falsandone i meccanismi. Qui allora, c’è una « situazione di rischio » accettata o cercata — giammai subìta però (33) — dall’agente in tutti i suoi termini e della quale egli si rappresenta tutti i ‘‘fattori di incremento’’ insiti nella scelta di (31) Non è ovviamente possibile dar conto, in questa sede, delle problematiche sottese al giudizio di pericolosità sociale nell’ambito della prevenzione antimafia; sul punto ci si permetta il rinvio a MANGIONE, Le misure di prevenzione patrimoniale, cit., 168 ss. (32) Nel senso del testo vedi pure GROSSO, Le contiguità alla mafia, cit., 209, spec. nt. 46. (33) In tal caso, infatti, l’agente non potrebbe far riferimento né allo stato di necessità, né all’inesigibilità della condotta di collusione. In tema vedi rispettivamente FIANDACA,


— 719 — assumerla e gestirla (34). La pericolosità dunque troverebbe un ben diverso ancoraggio e non sarebbe più il frutto di un’indebita attrazione che, dalle qualifiche soggettive dei terzi (presunti socialmente pericolosi ex art. 1 legge n. 575), si estende sino all’interessato dalla misura sospensiva, quasi che fosse una sorta di ‘‘pericolosità per fatto altrui’’. La debita valorizzazione dei profili finalistici della condotta comporta la ‘‘smaterializzazione’’ del disvalore e del rischio, poiché questi tendono ad abbandonare quei fatti in cui, secondo la previsione dell’art. 3 quater — e cioè l’esercizio dell’attività in condizioni di assoggettamento o di intimidazione — si dovrebbe apprezzare il ‘‘contatto’’ giuridicamente rilevante fra impresa e associazione criminale, per trasmigrare sul piano squisitamente soggettivo dello specifico atteggiamento psicologico assunto nei confronti della situazione di rischio. Peraltro, il ‘‘recupero’’ dell’elemento soggettivo quale discrimen concettuale fra due situazioni normativamente — ma erroneamente — indistinte non sembra condurre ai rischi insiti in un’eccessiva psicologicizzazione della fattispecie, poiché « riequilibra » una norma piuttosto mal strutturata sul piano dell’elemento materiale. D’altronde, và da sé che tale distinzione di ruoli — vittima/colluso — non si esaurisce sul piano psicologico, ma si apprezza sul terreno dei fatti attraverso la debita e attenta valorizzazione di quel complesso di dati concretamente sintomatici di una situazione di vantaggio reciproco. Soltanto entro un siffatto contesto, in cui è possibile cogliere i tratti salienti della contiguità, risulta pienamente condivisibile l’assunto del giudice costituzionale espresso nella sentenza n. 487/1995: « ben si spiega ... la legittimità del provvedimento ablatorio, giacché gli effetti che ne scaturiscono si riflettono sui beni di un soggetto certamente non estraneo nel quadro della complessa gestione del patrimonio mafioso »; in quanto « alla scelta ... di svolgere un’attività che presenta le connotazioni agevolative ... logicamente si sovrappone la consapevolezza delle conseguenze » e ciò esclude « quella situazione soggettiva di ‘‘sostanziale incolpevolezza’’ » (il corsivo è nostro). Il punctum dolens, pertanto, sta nel fatto che la Corte non ha ritenuto di dover separare le due posizioni — vittima/colluso — rendendo, piuttosto, un giudizio di ‘‘sostanziale colpevolezza’’ che, nella sua valenza onnicomprensiva, finisce coll’assorbire ed annullare ogni differenza. 5. Incentivi alla collaborazione e prospettive ‘‘premiali’’. — La disciplina della sospensione temporanea dall’amministrazione dei beni svela La contiguità, cit., 472 ss.; FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990. (34) Sui problemi relativi alla conoscibilità delle componenti di rischio e sui paradigmi del relativo accertamento — se ex ante o ex post — cfr. MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, cit., 24 ss.


— 720 — un ulteriore aspetto di cui è pervasa la legislazione antimafia. Si allude alle componenti pedagogiche ed utilitaristiche che animano il diritto penale dell’emergenza mafiosa, le quali, inoltre, possono contribuire ad illuminare il retroterra politico criminale che ha condotto alla positivizzazione di un concetto così ampio di contiguità giuridicamente rilevante. Un riscontro decisivo lo si trae dall’analisi della disciplina di cui al decreto legge n. 491/91, convertito nella legge n. 172/92, la quale mira a fornire un sostegno economico alle vittime delle richieste di natura estorsiva. L’art. 1, al riguardo, stabilisce una duplice e rigorosa condizione onde ottenere il ristoro dei danni subìti: per un verso, le richieste estorsive debbono rimanere inevase; per altro verso, si richiede che la vittima denunci prontamente, e senza reticenze di sorta, tutti i fatti delittuosi verificatisi. Al di là della specifica e contingente esigenza a cui la norma vuole dare una risposta, rimane l’impressione di una propensione pedagogica e simbolica della medesima. Invero — come essa dettagliatamente richiede — l’aver « opposto un rifiuto » o il non aver aderito a simili richieste criminali; il non aver concorso nel fatto delittuoso o nei reati connessi; il non essere — infine — soggetto a procedimento di prevenzione delineano senz’altro un ‘‘modello comportamentale’’ ben preciso: un modello di resistenza sociale che il cittadino esposto ai contatti con ambienti criminali è tenuto ad assumere. Un modello che passa attraverso il netto rifiuto di ‘‘comodi discessi’’, ma anche attraverso la puntuale attivazione dei canali istituzionalmente preposti alla repressione del fenomeno. V’è, quindi, una stigmatizzazione di alcuni atteggiamenti, fra i tanti possibili in astratto, nei confronti della criminalità organizzata. È sin quasi esplicita la riprovazione morale per chi, subendo specifiche condotte criminose, non si determina ad agire nella direzione tracciata. Ancor più evidente è la tendenza ad un approccio utilitaristico da parte delle tecniche di tutela penalistiche, le quali appaiono sempre più orientate alla decisione, all’utilità pratica intesa come rapida ed efficace « soluzione » del problema di turno. La complessità del sistema penale rende difficoltosa e non priva di ostacoli la celerità dei processi di soluzione (35). Si impone, allora, la necessità di una « semplificazione » delle procedure finalizzate alla soluzione del problema criminalità organizzata. È quanto avviene con la legislazione antimafia, tendenzialmente insofferente alle istanze di garanzia nella misura in cui rischiano di porsi quali farraginosi ostacoli per la realizzazione dell’obiettivo politico criminale cui essa mira. Tutto ciò — come è stato autorevolmente segnalato — inevitabil(35) Al riguardo, cfr. LUHMANN, Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, trad. it., Milano, 1995; ID., La differenziazione del diritto, trad. it., Bologna, 1990, 180 ss.


— 721 — mente si riflette in un mutamento dei paradigmi classici di riferimento, mentre il diritto penale dismette le vesti illuministe di mezzo di « tutela della libertà del cittadino », per assumere quelle di strumento « di prevenzione illimitata dei comportamenti » in un’ottica di « governo della società » (36). I fattori sintomatici di tale evoluzione (o involuzione?) abbondano; si pensi, per un verso, al predominio assoluto delle istanze di « difesa sociale » ed all’ispessimento delle componenti afflittive della risposta sanzionatoria e, per altro verso, alla preponderante emersione del « principio di opportunità » che ispira la cd. legislazione premiale ad un triplice livello: sostanziale, penitenziario e processuale (37). In questo contesto ‘‘culturale’’, allora, risulta comprensibile perché gli artt. 3 quater e 3 quinquies della legge n. 575/65, non distinguono fra vittima e colluso: nella ‘‘situazione ambientale’’ prevista da queste disposizioni, invero, si esula dal modello etico—sociale di resistenza civile prefigurato dalla legislazione antimafia. Non è pertanto sufficiente limitarsi a subìre l’aggressione mafiosa; piuttosto è necessario dar seguito agli obblighi di collaborazione con le istituzioni. Tant’è che il terzo comma dell’art. 1 del d.l. n. 419/91, stabilisce che non si tiene conto della eventuale condizione di sottoposto a misura di prevenzione, che ordinariamente impedirebbe alla vittima di usufruire del ristoro dei danni, soltanto nell’esclusiva ipotesi in cui essa fornisca « un rilevante contributo all’autorità di polizia o all’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori del reato dal quale è derivato il danno o di reati con questo connessi ». 6. Profili di incostituzionalità. Conclusioni. — Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, dovrebbe risultare chiaro perché la tecnica normativa adottata per la misura della sospensione dall’amministrazione dei beni non è esente da censure di incostituzionalità. Le ragioni che al riguardo fondano tale giudizio sono già state anticipate ed essenzialmente possono ricondursi al mancato rispetto dei principi di cui agli artt. 25 comma 2o, 27 commi 1o e 3o Cost., con evidenti ricadute negative sui valori di cui agli artt. 2, 3, 31, 35 e 41 della carta fondamentale. Si è visto infatti, che l’art. 3 quater della legge n. 575/65, non distingue la vittima dal colluso e prevede irragionevolmente per entrambi il medesimo trattamento giuridico, così violando il fondamentale principio d’eguaglianza. La Corte costituzionale, dal canto suo, non ha colto la differenza fra le due categorie soggettive, perché nella decisione n. 487/95 ha seguito un ragionamento francamente non condivisibile: dato che la confi(36) FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione, cit., 29. (37) Vedi PALIERO, L’autunno del patriarca, cit., 1231; nonché gli Autori citati retro in nota 15.


— 722 — sca di cui all’art. 3 quinquies della legge n. 575, si fonda sulla mancata giustificazione della legittimità dell’origine dei beni sospesi — o eventualmente già sequestrati —, ne consegue che, laddove l’interessato non riesca a dare la detta dimostrazione, le sue ricchezze sono riconducibili all’organizzazione mafiosa. In realtà, simile impostazione è fuorviante perché, in effetti, sposta l’attenzione esclusivamente sul provvedimento finale, quello ablativo, non curandosi del fatto che la lesione dei beni e dei principi costituzionalmente sanciti avviene già a monte, con l’adozione della sospensione e/o del sequestro: queste misure infatti sono strumentali al provvedimento finale, del quale anticipano tutti gli effetti di ‘‘incapacitazione’’ (38). L’errore di prospettiva appare ancor più grave, in quanto anche per questa misura si riscontra l’operatività del controverso istituto dell’inversione dell’onere della prova. Questo, se è dall’art. 2 ter innalzato a vero e proprio principio di ordine generale del sistema di prevenzione patrimoniale, è espressamente ribadito per la sospensione temporanea dall’art. 3 quinquies, comma 2o. È noto come l’illegittimità di tale regola sia stata, dai più, esclusa facendo ricorso alla ‘‘formuletta pigra’’ dell’« onere di allegazione » a carico della parte: l’interessato, innanzi agli indizi contestati, ha l’onere di dimostrare la legittimità delle proprie possidenze laddove intenda ottenere la revoca della sospensione e/o del sequestro, poiché nel caso contrario andrà incontro alla confisca (39). In realtà, il meccanismo normativo è tale per cui l’accusa può ben attestarsi sugli indizi già raccolti in sede di sospensione ed attendere l’allegazione difensiva. Laddove questa non si riveli efficace, ne consegue — de plano — che il medesimo ‘‘pacchetto’’ di indizi acquista quella sufficienza che consente di emanare il provvedimento ablativo. Ma se questa è la (38) ALESSANDRI, voce Confisca nel diritto penale, in Dig. disc. pen., III, Torino, 1989, 50 ss.; TAORMINA, op. cit., 294 ss.; MONTELEONE, Effetti ultra partes delle misure patrimoniali antimafia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, 574 ss. In giurisprudenza vedi Cass., 15 febbraio 1988, in Giust. pen., 1988, III, 360; Cass., 11 gennaio 1988, ivi, III, 331. Inoltre, si rammenti il fatto che solo il 5% circa dei provvedimenti cautelari viene tramutato in confisca, con la conseguenza di lasciare a carico dell’interessato i danni non più riparabili, (vedi retro nota 17). (39) È giurisprudenza del tutto ‘‘monolitica’’, fra le tante vedi Cass., 16 febbraio 1994, n. 502, inedita; Cass., 21 gennaio 1991, in Cass. pen., 1992, 1326; Cass., 4 febbraio 1992, in Riv. pen. econ., 1992, 161. La dottrina avalla tale lettura, anche se si sforza, con dovizia di considerazioni, di ‘‘arricchirla’’ onde ridurre gli spazi all’arbitrio applicativo, cfr. FIANDACA, voce Misure di prevenzione (profili sostanziali), in Dig. disc. pen., VIII, Torino, 1994, 123; CARDONE, La prevenzione antimafia. Le misure patrimoniali, in Giur. mer., 1994, IV, 773; RUSSO, voce Processo di prevenzione, in Enc. giur. Treccani, XXIV, Roma, 1991; VINCENTI, Problemi probatori, diritti dei terzi, rapporti tra confisca e fallimento, in AA. VV., La legge antimafia tre anni dopo, a cura di Fiandaca e Costantino, Milano, 1986, 89 ss.


— 723 — prassi, sul piano prettamente concettuale deve osservarsi che il detto livello indiziario può legittimare solo e soltanto una misura di natura cautelare, laddove i provvedimenti definitivi — ed in primis la confisca di prevenzione — invece abbisognano di un grado di certezza probatoria che la giurisprudenza della Cassazione non esita, spesso, ad attestare entro la soglia della ‘‘prova’’ vera e propria (40). Quest’irrazionalità dell’ordito normativo pertanto dovrebbe già rilevare ex art. 3 Cost., oltre che dar luogo ad una violazione del principio di cui all’art. 24 Cost. Tuttavia, questi profili di illegittimità, più volte avanzati, non sono stati accolti ed è scontato prevedere che tale atteggiamento di chiusura sia destinato a procrastinarsi a lungo (41). L’equiparazione fra vittima e colluso può creare un problema anche sub art. 27 comma 1o Cost. In proposito, è pur vero che non si tratta di fattispecie incriminatrice, ma è ancor più vero che il principio personalistico va occupando una posizione di centralità all’interno dell’intera materia penalistica, senza che possa essere più concesso — in alcun settore — sminuirne la portata e l’importanza (42). Pertanto, qualsiasi imputazione di reazioni giuridico-penali dovrebbe indefettibilmente porsi lungo il solco di questo principio, il quale non a torto rappresenta la pietra angolare di un diritto penale realmente « moderno » (43). D’altronde, soltanto per tal (40) Fra le tante, vedi Cass., 9 dicembre 1988, in Cass. pen., 1990, 940; Cass., 9 maggio 1988, ivi, 1989, 672. Al riguardo cfr. TAORMINA, Il procedimento di prevenzione, cit., 421 ss. (41) Infatti, la giurisprudenza ordinaria ha esteso un vero e proprio ‘‘filtro’’ dichiarando manifestamente infondate le questioni sollevate, cfr. Cass., 18 maggio 1992, in Cass. pen., 1993, 2377; Cass., 30 giugno 1987, in Riv. pen., 1988, 506; Cass., 29 aprile 1986, ivi, 1987, 181. (42) Ulteriore fonte di perplessità si incentra sul terzo comma dell’art. 3 quinquies, il quale nel caso di revoca della sospensione consente al Tribunale la facoltà di imporre all’interessato una vasta serie di obblighi di comunicazione inerenti gli atti dispositivi del patrimonio. In primo luogo, detta misura appare inutilmente vessatoria giacché o si accerta la contiguità del soggetto e quindi si perviene alla confisca ovvero la si esclude; ma in questo caso non si capisce sulla base di quali ragioni si possano imporre tali ulteriori obblighi. La norma, piuttosto, sembra prevedere un novello genus di ‘‘indizio di prevenzione’’ col risultato di dar vita a qualcosa di ancor più inafferrabile e misterioso, che finisce coll’avere l’unico obiettivo di rendere insondabile la discrezionalità giudiziaria. In secondo luogo, l’effettività di codesta imposizione è garantita dal ricorso alla sanzione penale, e col che si è creato un « reato proprio » per omessa ottemperanza ad un comando dell’autorità. In terzo ed ultimo luogo, la norma pone un duplice termine di comunicazione — 10 giorni e comunque entro il 31 gennaio — con la conseguenza che tale dilatazione vanifica l’obiettivo di monitorare in tempo reale l’evoluzione finanziaria del complesso patrimoniale del soggetto. Cfr. DI CHIARA, Commenti, d.l. 8/6/92 n. 306, art. 24, in Legisl. pen., 1993, 244 ss. (43) Anche se, con tutta probabilità, gli analizzati tratti caratteristici della normativa de qua contribuiscono ad avvalorare l’acuta diagnosi di un diritto penale « postmoderno »: cfr. FIANDACA, Relazione introduttiva, cit., 22 ss.; FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione, cit., 23 ss.


— 724 — via si apprezza il richiamo di fondo e si valorizzano appieno gli spunti espressi dalla ‘‘storica’’ sentenza n. 364/1988 (44). Tale prospettiva — come si è visto — non è stata seguita dalla normativa in esame. Che anzi, le esigenze di politica criminale connesse al fenomeno mafioso hanno vieppiù allontanato la recente produzione normativa da tale piano di valori. In questo contesto operativo, la sospensione dall’amministrazione dei beni aziendali sconta diverse incongruenze: infatti, nel voler tener fede all’obiettivo di incidere nel ‘‘sottobosco’’ della « contiguità » fra mafia e impresa, la misura apre un sottile ma deciso conflitto — che la Corte costituzionale ha ritenuto di non dover affrontare — con quei principi della dogmatica penale le cui radici e ragioni affondano nella carta fondamentale. In particolare, basti ricordare che l’elemento della « sproporzione » fra beni e capacità di reddito laddove non sia legato alla qualità indiziante dell’interessato, non è logicamente utilizzabile; diverso è il caso in cui vi siano indizi di appartenenza ad organizzazioni criminali convergenti sull’interessato: in tal ipotesi, infatti, l’estremo della « sproporzione » potrebbe esprimere un valore ricco di significati ai fini della prevenzione. Per tal modo il giudizio di pericolosità sociale conserverebbe intatto il suo aggancio al principio personalistico, poiché, da un lato, la prognosi rimarrebbe ancorata alla persona e, dall’altro, si estenderebbe alla valutazione della « relazione tra l’indiziato e la res sospetta ». Sicché la pericolosità, lungi dall’essere una caratteristica intrinseca di un oggetto, sarebbe il frutto di un giudizio relazionale atto a prevedere le « possibilità d’uso » che di quel bene può fare un determinato individuo. Un paradigma di segno inverso, invece, è quello che anima la sospensione dall’amministrazione dei beni. Infatti, essa prescinde volutamente da un giudizio di pericolosità personale (45) e perviene alla confisca di beni sul presupposto dogmatico della pericolosità « reale » degli stessi. Così facendo si è però fuori dall’art. 27 comma 1o Cost., giacché la pericolosità reale è l’equivalente della responsabilità oggettiva, in quanto il carico afflittivo che si produce è riversato su una persona della quale non si accerta la pericolosità. Ma col che, oltre a tradirsi lo stesso concetto di pe(44) Impossibile citare tutta la letteratura di commento alla indicata pronuncia, ci si limita quindi a segnalare le note di FIANDACA, in Foro it., 1988, I, 1385 ss; di PULITANÒ, in questa Rivista, 1988, 686 ss.; di VASSALLI, in Giur. cost., 1988, II, 3 ss.; cfr. pure le riflessioni di JESCHEK, L’errore di diritto nel diritto penale tedesco e italiano, in Ind. pen., 1988, 185 ss. Successivamente la Corte costituzionale è ritornata sul fondamento costituzionale dell’illecito penale, ribadendo — quale obiter dictum — la validità di detta impostazione, con la pronuncia n. 487/1989, annotata da MUSCO, in Giur. cost., 1990, 838. Nella manualistica più recente cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p. gen., cit., 349 ss.; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, cit., Sub Art. 5. (45) Altrimenti, come si è già detto, si ricadrebbe nell’alveo degli artt. 1 e 2 ter della legge n. 575/65.


— 725 — ricolosità, quale prognosi in concreto che come tale bandisce il ricorso ad ogni presunzione, si segna un distacco sempre più sensibile dal principio personalistico. Da questo punto di vista, piuttosto, lo strumento in esame getta un ponte verso un modello radicalmente diverso di prevenzione reale; modello a gran voce invocato da alcuni e che consiste nello ‘‘scorporo’’, concettuale e normativo, delle misure di tipo patrimoniale da quelle di tipo personale, rendendo le prime autonome dalle seconde e quindi applicabili persino a prescindere dalla stessa permanenza in vita dell’individuo (46). Sicché il centro di imputazione del sistema di prevenzione verrebbe a subìre una trasformazione decisiva: gli indizi di appartenenza alla mafia, tradizionalmente incentrati sulla persona, verrebbero più ‘‘modernamente’’ a gravare sul nuovo ‘‘soggetto’’: il complesso patrimoniale di turno. Fortunatamente, la Corte costituzionale ha sinora respinto tutti i tentativi che, attraverso una serie di ordinanze di rimessione, sono stati fatti in questa direzione (47); anche se non è da escludere che tale ‘‘epocale’’ inversione di rotta possa essere in futuro attuata per mano legislativa. Sul piano della « tipicità », infine, la giurisprudenza costituzionale accoglie la tesi dominante — anche se riduttiva — che mira a distinguere fra « legalità repressiva » e « legalità preventiva ». È ben vero, al riguardo, che la tipizzazione di una fattispecie di sospetto presenta difficoltà superiori a quelle che si pongono in tema di incriminazione. Tuttavia, quest’indiscussa constatazione non può fungere da sommessa giustificazione per un livello descrittivo la cui qualità non appare francamente adeguata (48). (46) È questa la via seguita da Trib. Catania, 9 febbraio 1996, Graci, inedita, il quale innanzi al sequestro di un colossale patrimonio di beni riconducibile ad uno dei più noti ‘‘cavalieri del lavoro’’ siciliani — indiziato di appartenenza alla mafia ed imputato per ‘‘concorso esterno’’ nell’art. 416 bis c.p., con provvedimento di prevenzione adottato quindi ex art. 2 ter — e dovendo far fronte al sopravvenuto decesso del sottoposto, ha revocato il predetto sequestro per applicare contestualmente l’art. 3 quater, cioè la sospensione temporanea. (47) Corte cost., 17/28 dicembre 1993, n. 465; Corte cost., 23 giugno 1988, n. 721. (48) Ad esempio, le formule « frutto » o « reimpiego » a cui il legislatore ha fatto ricorso nell’art. 3 quinquies si rivelano così elastiche da assumere una portata ed una libertà d’applicazione senza pari. Basti, per rendersene conto, operare un veloce raffronto con le diverse espressioni che contrassegnano l’art. 416 bis, comma 7o c.p., l’art. 240 c.p. (confisca delle cose che « servirono o furono destinate a commettere il reato o delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o ne costituiscono l’impiego »), nonché l’art. 253, comma 1o c.p.p. (sequestro penale del « corpo del reato » e delle « cose pertinenti al reato »). Siffatte formule posseggono una portata semantica che impone l’accertamento del ‘‘rapporto causale’’ col fatto illecito di produzione del bene — cfr. per tutti GRASSO, Sub Art. 240, in ROMANO-GRASSO-PADOVANI, Commentario sistematico del codice penale, III, Milano, 1994, 526 ss. — all’inverso, il « frutto » ed il « reimpiego » non pretendono simile rapporto di causalità diretta con l’antecedente criminoso. Il problema definitorio non è privo di rilevanza pratica. Infatti quid iuris nel caso di una società commerciale che venga intrapresa con un capitale


— 726 — Piuttosto è vero esattamente l’inverso e cioè che, a fronte di tali difficoltà, la cura e l’attenzione descrittiva dovrebbero essere senz’altro maggiori. In particolare, la categoria del « sospetto » dovrebbe quantomeno essere circoscritta attraverso l’uso di tecniche di normazione che impongano la necessità dell’accertamento della concretezza della pericolosità e l’univocità delle condotte sintomatiche: accorgimenti atti a ridurre — per quanto possibile — lo svuotamento del principio di legalità. Un richiamo in tal senso viene, da ultimo, dallo schema di legge delega per un nuovo codice penale, i cui artt. 54 e 4 appaiono alquanto significativi al riguardo (49). Il primo, infatti, impone — sul piano della normazione — l’adozione di tecniche descrittive adeguate al fine di garantire il necessario accertamento in concreto della lesività e/o della pericolosità del fatto commesso; mentre sul piano dell’interpretazione, l’art. 4 ne comprime la libertà quel tanto che basta per circoscrivere la punibilità al solo fatto concretamente offensivo del bene tutelato (50). Il principio di legalità, dunque, pretende il massimo rispetto in qualunque settore dell’ordinamento penale. La dimensione e la valenza in cui esso opera è infatti più ampia di quel che una lettura ‘‘solipsistica’’ o ‘‘minimalistica’’ dell’art. 25 comma 2o Cost. possa far credere. La sua ratio garantista, invero, si collega intimamente al primato della persona umana come « valore etico » in sé, non « strumentalizzabile per alcune finalità extrapersonali, neppure di politica criminale, sia esso soggetto attivo o iniziale ‘‘pulito’’, per essere in seguito proseguita con metodi mafiosi: saranno confiscabili le quote e le azioni inizialmente acquistate? In giurisprudenza, si sono sostenute le due contrapposte tesi: a) le quote e le azioni avrebbero perso il candore d’origine perché risulterebbero ‘‘frutto’’ nella loro dimensione attuale di un’attività illecita, così Trib. Napoli, 14 marzo 1986, in Foro it., 1987, II, 365; b) l’origine lecita non viene meno per il sopraggiungere di una scelta di vita imprenditoriale di tipo mafioso: è necessario dimostrare che quei titoli sono stati specificamente generati da un’attività illecita (frutto), ovvero rappresentano il risultato di un’operazione di riciclaggio (reimpiego), così App. Napoli, 7 gennaio 1987, in Foro it., 1987, II, 359, entrambe con osservazioni di FIANDACA. A tacer d’altro, la sostenibilità, innanzi alla medesima lettera, di due interpretazioni radicalmente contrapposte, ma entrambe logicamente adottabili, pone più di un dubbio sul (mancato) rispetto del principio di tassatività, in quanto per tale via si pongono le premesse affinché la discrezionalità giudiziaria trapassi nell’arbitrio. Sullo scottante tema si veda per tutti, BARAK, La discrezionalità del giudice, trad. it., Milano, 1995. (49) Cfr. PAGLIARO, Valori e principi nella bozza italiana di legge delega per un nuovo codice penale, in AA. VV., Valori e principi della codificazione penale, cit., 57 ss.; CONTENTO, Clausole generali e regole di interpretazione come « principi di codificazione », ivi, 111 ss.; MILITELLO, Il diritto penale nel tempo della ‘‘ricodificazione’’. Progetti e nuovi codici penali in Francia, Italia, Spagna, Inghilterra, in questa Rivista, 1995, 774 ss. (50) Sul principio di « offensività » nel diritto penale, per tutti vedi FIORE C., Il principio di offensività, in Ind. pen., 1994, 275 ss.


— 727 — passivo, vittima o reo » (51). In quest’ottica, che è quella più aderente alle istanze ed alle scelte espresse in Costituzione, deve quindi rivalutarsi il ruolo di tale principio, soprattutto nello scivoloso e tormentato terreno delle misure di prevenzione. Indubbiamente, tecniche normative come quella in esame sono il riflesso di « logiche emergenziali », come tali emozionali e figlie di una politica criminale per molti versi orientata a privilegiare il significato fortemente ‘‘simbolico’’ che accompagna lo strumento penale, specie innanzi a recrudescenze criminali particolarmente efferate. Il ‘‘simbolismo’’, si sa, ottiene un risultato immediato presso l’opinione pubblica e cioè la interiorizzazione di un ‘‘messaggio rassicurante’’, oltre tutto spendibile in sede di ricerca del consenso (52). Ma questa, che è la « magìa » del ‘‘simbolismo’’ (53), è destinata a rivelarsi per ben altro, non appena si rivolge l’attenzione sulla qualità della produzione normativa. Essa appare, allora, scarsamente ponderata, gravida di presagi liberticidi e financo dogmaticamente provocatoria: paradigmatica è la vicenda inerente al ‘‘vecchio’’ art. 12 quinquies e al ‘‘nuovo’’ art. 12 sexies. Ma d’altronde, ciò è connaturale al fatto che si tratta di norme di creazione governativa, adottate facendo spesso un uso — a dir poco — smodato del decreto legge e, dunque, con ulteriore svuotamento delle prerogative e delle garanzie sottese al principio di legalità (54). dott. ANGELO MANGIONE Borsista di Diritto penale « Fondazione Giovanni e Francesca Falcone » Palermo

(51) Così MANTOVANI, Sulla perenne esigenza della codificazione, in AA. VV., Valori e principi della codificazione penale, cit., 241; MILITELLO, Il diritto penale nel tempo della ‘‘ricodificiazione’’, cit., 790 ss. Più in generale, vedi il saggio di FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 1989. (52) Sulle dinamiche che si instaurano fra diritto penale e consenso sociale si vedano MUSCO, Consenso sociale e legislazione penale, in questa Rivista, 1993, 80 ss.; PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, ivi, 1992, 849 ss., spec. 904 ss. (53) A questo specifico riguardo, cfr. DELMAS-MARTY, Dal codice penale ai diritti dell’uomo, trad. it., Milano, 1992, 35 ss.; VOSS, La funciòn simbòlica del Derecho penal, in Pena y Estado, 1991, 186 ss.; ID., Symbolische Gesetzgebung, Ebelsbach, 1989; CREMERSCHÄFER-STEINERT, Symbolische und instrumentelle Funktionen des Strafrechts, in NKP, 1989, 27 ss. (54) In proposito vedi FIANDACA, Relazione introduttiva, cit., 22 ss.


— 728 —

LA RICOGNIZIONE PERSONALE: STRUTTURA ED EFFICACIA

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Gli atti preliminari alla ricognizione personale. — 3. Svolgimento della ricognizione. — 4. I poteri coercitivi del giudice. — 5. La ricognizione plurima. — 6. Documentazione. — 7. Sanzioni processuali. — 8. La ricognizione ‘‘urgente’’. — 9. Rapporti tra individuazione e ricognizione di persona. — 10. Il ‘‘riconoscimento informale’’ dell’imputato all’udienza dibattimentale.

1. Premessa. — L’esperienza giudiziaria e la ricerca psicologica hanno da tempo evidenziato che la ricognizione di persona, fondandosi essenzialmente ‘‘su basi particolarmente magmatiche quali la memoria — il ricordo — l’evocazione’’, è, forse, tra i mezzi di prova, quello che ‘‘fornisce il maggior numero di errori’’ (1). Del resto, il riconoscimento personale, in ultima analisi, esprime sempre ‘‘una valutazione del ricognitore, il quale richiama alla memoria il complesso delle impressioni visive nel suo ricordo, lo pone a confronto con le sembianze della persona da riconoscere ed esprime un giudizio di corrispondenza o meno tra questa e quella vista in precedenza’’ (2). Si comprende bene, quindi, come, rispetto alla figura (generale) della testimonianza — della quale può considerarsi ‘‘una filiazione’’ (3) —, la rico(1) Così C. PANSERI, La ricognizione di persona: aspetti psicologici e giuridici, in Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, a cura di G. Gulotta, Milano, Giuffrè, 1987, p. 553; nello stesso senso, v., tra gli altri, H.A. HAMMELMANN-W. GLANVILLE, Le ricognizioni, trad. it. a cura di F. Cordero, in Jus, 1964, p. 191. Tra i più recenti studi di psicologia giudiziaria sul tema, cfr. pure O. ANDREANI, Il contributo della psicologia sperimentale alla prova testimoniale, in Psicologia e processo: lo scenario di nuovi equilibri, a cura di L. de Cataldo Neuberger, Padova, Cedam, 1989, p. 225 ss.; O. ANDREANI-L. VECCHIO, Attendibilità della testimonianza oculare: risultati della ricerca in psicologia sperimentale, in Ind. pen., 1991, spec. p. 207 ss.; F. GUERRINI, La prova nel nuovo processo penale. Cenni di psicologia giudiziaria, in L’investigazione privata nel nuovo processo penale, a cura di P. Tonini, Padova, Cedam, 1989, p. 243 ss.; G. GULOTTA, Psicologia della testimonianza, in Trattato di psicologia, cit., spec. p. 501. (2) Cfr. Trib. S. Maria Capua Vetere, 7 gennaio 1992, Amore, in Nuovo dir., 1994, II, p. 409, con nota adesiva di M. CUSATTI, I rapporti tra individuazione e ricognizione di persona. (3) Così M. NOBILI, La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Bologna, Clueb, 1989, p. 218. Sull’affinità, sotto il profilo contenutistico, tra la ricognizione e la testi-


— 729 — gnizione personale comporti ‘‘una ben maggiore aleatorietà per la inevitabile presenza perturbatrice di fattori emotivi e per la sua non agevole verificabilità, in assenza di un costrutto logico narrativo’’ (quale si ravvisa, per l’appunto, nella testimonianza) (4). Ciononostante, è indubbio che tale mezzo probatorio sia ‘‘dotato di una grandissima forza impressionistica’’ (5): i giudici — soprattutto i giudici non togati — ‘‘sono generalmente inconsapevoli delle insidie e della monianza, cfr.: F. CORDERO, Procedura penale, 3a ed., Milano, Giuffrè, 1995, p. 660, il quale rileva come gli atti ricognitivi abbiano in comune con l’enunciato testimoniale ‘‘lo sfondo’’ (‘‘memorie empiriche; i testimoni le rievocano; i ricognitori operano più laboriosamente’’); A.A. DALIA-M. FERRAIOLI, Corso di diritto processuale penale, Padova, Cedam, 1992, p. 172, secondo i quali il soggetto chiamato al riconoscimento è ‘‘niente più che un testimone de visu’’; A. GIARDA, sub art. 213, in Codice di procedura penale - Commentario, coordinato da A. Giarda, vol. II, Milano, Ipsoa, 1990, per il quale la ricognizione di persona ‘‘altro non è che una forma del tutto particolare di testimonianza’’; A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, 4a ed., Milano, Giuffrè, 1995, p. 348 s., che definisce la ricognizione ‘‘la particolare testimonianza di colui che viene richiesto di identificare una persona’’, dichiarando se la persona presentatagli dal giudice con opportune cautele sia la stessa ‘‘di cui egli ha parlato allorché ha riferito una sua passata esperienza’’; V. PERCHINUNNO, Le prove, in M. PISANI - A. MOLARI - V. PERCHINUNNO - P. CORSO, Appunti di procedura penale, 2a ed., Bologna, Monduzzi, 1994, p. 236, il quale sottolinea che la ricognizione viene ‘‘sempre effettuata da un testimone, con il rispetto di determinate forme’’; nonché D. SIRACUSANO, Le prove, in D. SIRACUSANO - A. GALATI - G. TRANCHINA - E. ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, vol. I, Milano, Giuffrè, 1994, p. 409. (4) Cfr. Trib. S. Maria Capua Vetere, 7 gennaio 1992, Amore, cit. In dottrina, in senso conforme, v. F. CORDERO, Procedura, cit., p. 664, il quale sottolinea come la ricognizione risulti ‘‘alquanto più fallibile’’ della testimonianza. ‘‘Chi evoca dei fatti’’ — osserva, con la consueta incisività, l’illustre Autore — ‘‘usa griglie sintattiche (‘prima-dopo’, sincronìa, causa-effetto): e le percezioni d’avvenimenti umani compongono quadri tipologicamente definibili (ad esempio, quei due conversano amabilmente, negoziano, giocano o uno comanda e l’altro riceve ordini); talvolta i testimoni percepiscono male o fraintendono, ma fino a un dato punto le reminiscenze microstoriche risultano verificabili. Il ricognitore, invece, al momento culminante lavora su materia alogica, nel corto circuito delle ‘sensazioni’: ‘déjà-vu’ è fra le meno esplorabili; gli risulta noto un viso a proposito del quale non rammenta niente; e subisce forti variabili emotive. Pure impressioni visive, poi, durano meno della memoria storicamente elaborata: ricordiamo gli avvenimenti quando i visi sono già svaniti; meccanismo rimemorante e curve dell’oblio differiscono nettamente nei due casi. Infine, il chiamato a riconoscere sente i fattori ambientali più che se narrasse’’. Analogamente, v. A. GIARDA, sub art. 213, in Codice, cit, vol. II, cit., il quale rileva come le riserve che possono in generale avanzarsi circa l’attendibilità della testimonianza devono essere accentuate per la ricognizione, ‘‘giacché lo sforzo mnemonico non è lasciato solamente agli impulsi intellettivi e volitivi del soggetto di prova, ma viene sollecitato nella premessa, secondo schemi di approssimazione operativa, da una messa in scena che per forza di cose risulta arbitraria’’; nonché A. NAPPI, Guida, cit., p. 349, secondo il quale la complessità e il rigore del procedimento previsto dal legislatore per la ricognizione trovano giustificazione proprio nella minore affidabilità di questo mezzo di prova rispetto alla ‘‘testimonianza tipica’’. (5) Così C. TAORMINA, Diritto processuale penale, vol. II, Torino, Giappichelli, 1995, p. 543.


— 730 — estrema delicatezza’’ dell’atto ricognitivo (6), risultando profondamente influenzati dall’esito positivo della ricognizione (7), la quale, d’altronde, per alcuni reati (come, ad esempio, la rapina) costituisce spesso la prova principe, se non esclusiva (8). Orbene, il legislatore del 1988 si è mostrato ben consapevole di questa realtà: la ‘‘marcata diffidenza verso l’attendibilità dei risultati di questo mezzo di prova e l’esigenza di assicurare nella maggior misura possibile il rispetto di regole dirette ad evitare esiti influenzati e precostituiti’’ — si legge nella Relazione al progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale — lo hanno indotto ‘‘ad accentuare una regolamentazione minuziosa delle attività preliminari alla ricognizione vera e propria e dello svolgimento di questa’’(9). Lo sforzo del legislatore — il quale ha, altresì, finalmente dato una (6) C. PANSERI, op. cit., p. 561. Sul punto cfr., altresì, F. CORDERO, in La psicologia per un nuovo processo penale, a cura di L. de Cataldo Neuberger, Padova, Cedam, 1987, p. 160, ove si osserva che ‘‘indubbiamente il profilo psicologico dell’operazione intesa a riconoscere qualcuno è importante’’, ma ‘‘ancora più importante sarebbe che penetrasse nello scibile giudiziario una precettistica o una casistica adeguatamente elaborata dagli intenditori di questa materia’’. La realizzazione di ‘‘ricerche sul campo’’, condotte con la collaborazione di giuristi e psicologi, allo scopo di ‘‘individuare le variabili veramente rilevanti’’ nell’esecuzione delle ricognizioni e di ‘‘fornire dei criteri per valutare l’attendibilità’’ dei riconoscimenti, è auspicata pure da O. ANDREANI-L. VECCHIO, op. cit., p. 217. (7) Per avere la misura dell’incidenza di una identificazione positiva sul convincimento giudiziale, è illuminante la lettura dei risultati di un esperimento condotto nel 1980 da una ricercatrice americana, E.F. Loftus, riportati da C. PANSERI, op. cit., p. 561 s. Sul punto, v. pure H.A. HAMMELMANN-W. GLANVILLE, op. cit., p. 206, i quali sottolineano la propensione dei giudici ad accettare acriticamente il risultato positivo della ricognizione, evidenziando l’‘‘apparenza di obiettività’’ di cui tale mezzo di prova è rivestito: ‘‘il fatto che il testimone abbia identificato l’imputato tra molti altri accredita la deposizione, senza peraltro accrescerne il valore di veridicità’’. (8) Osserva efficacemente G. FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, vol. II, 1, La istruzione, Milano, Giuffrè, 1961, p. 79, che la ricognizione è un atto ‘‘di straordinaria importanza (corsivo nostro), poiché da esso può dipendere la prova decisiva della colpevolezza dell’indiziato o addirittura la stessa sua individuazione’’, ma anche ‘‘di straordinaria delicatezza (corsivo nostro), per il pericolo di errore che è grave da una parte per le facili suggestioni di cui può essere vittima la persona che deve operare la ricognizione e dall’altra per la istintiva fede che si è spontaneamente portati a dare al fatto stesso dell’avvenuto riconoscimento’’. (9) Così, testualmente, la Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in G.U., 24 ottobre 1988, n. 250, serie generale, supplemento ordinario n. 2, p. 64, la quale — nota D. SIRACUSANO, Le prove, cit., p. 408 — ‘‘ha colto nel migliore dei modi l’essenza del problema’’. Sul punto, cfr., altresì, A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. II, Torino, Utet, 1990, p. 537, il quale rileva ‘‘come nella previsione delle ricognizioni il legislatore si sia fatto carico di scrupolose innovazioni (corsivo nostro) che meglio ne affinano il congegno di formazione’’; ID., voce Ricognizione (dir. proc. pen.), in Enc. dir., vol. XL, Milano, Giuffrè, 1989, p. 544.


— 731 — nuova collocazione topografica alla materia, interrompendo una secolare tradizione sistematica, per la quale l’istituto delle ricognizioni era disciplinato in un unico ‘‘capo’’ assieme ai confronti (10) — appare, nel complesso, apprezzabile, anche se, ovviamente, gli adempimenti prescritti, pur essenziali e indispensabili, sono ‘‘insufficienti, da soli, ad assicurare piena attendibilità’’ al mezzo di prova in esame (11). 2.

Gli atti preliminari alla ricognizione personale. — Al pari di

(10) Va rilevato che nel gergo comune e degli organi di informazione la ricognizione di persona è denominata ‘‘confronto all’americana’’: definizione che sembra essere ‘‘effetto di disinformazione cinematografica’’ — osserva A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 548, nota 1 — dal momento che l’istituto processuale in esame non è stato certo importato d’oltre oceano nel nostro ordinamento, nel quale era già presente nei codici preunitari. Quanto alla nuova collocazione dei confronti e delle ricognizioni in capi distinti — rispettivamente, capo III e capo IV del titolo II, libro III c.p.p. —, essa ha ovviamente lo scopo di ‘‘evidenziare l’autonomia sul piano sistematico dei diversi mezzi probatori’’: così V. GREVI, Libro III - Prove, in Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, 3a ed., Padova, Cedam, 1993, p. 222. Cfr. pure la Relazione al progetto preliminare, cit., p. 64, la quale giustifica l’autonoma collocazione attribuita ai confronti nella mancanza di ‘‘serie ragioni per il mantenimento’’ della relativa disciplina ‘‘nel medesimo capo inerente le ricognizioni’’, mentre la ‘‘diversa natura dei due mezzi di prova’’ in discorso è posta in luce nella Relazione al testo definitivo del codice di procedura penale, in G.U., 24 ottobre 1988, cit., p. 181. La ragione dell’accostamento legislativo delle ricognizioni ai confronti — risalente al c.p.p. 1865 — era, peraltro, evidente, rappresentando entrambi gli atti ‘‘un mezzo specifico di risoluzione di situazioni dubbie, sulla base peraltro di nozioni parzialmente già note’’ (così A. MELCHIONDA, voce Ricognizione (dir. proc. pen.), cit., p. 530). La finalità comune — tuttora — ai due istituti di eliminare residue persistenti incertezze è ben evidenziata da V. PERCHINUNNO, Le prove, cit., p. 236: ‘‘Mentre il confronto in senso tecnico ha lo scopo di verificare quale di due o più dichiarazioni rese sia quella più veritiera, o comunque la più attendibile, la ricognizione serve invece al riconoscimento di una persona... Ciò significa che, quando sorgono dubbi (corsivo nostro) in ordine alla individuazione di una determinata persona’’, il giudice ‘‘può procedere a questo mezzo di prova’’. Per un’approfondita analisi della nuova disciplina dei confronti, v. A. MELCHIONDA, sub artt. 211-212, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 525 ss. Sul tema, cfr. altresì F. CORa DERO, Procedura, cit., p. 654 ss.; ID., Codice di procedura penale commentato, 2 ed., Torino, Utet, 1992, p. 260; A. CRISTIANI, Manuale del nuovo processo penale, 2a ed., Torino, Giappichelli, 1991, p. 208 s.; E. FORTUNA-S. DRAGONE, Le prove, in E. FORTUNA - S. DRAGONE - E. FASSONE - R. GIUSTOZZI - A. PIGNATELLI, Manuale pratico del nuovo processo penale, 4a ed., Padova, Cedam, 1995, p. 367; A. GIARDA, sub artt. 211-212, in Codice, cit., vol. II, cit.; A. NAPPI, Guida, cit., p. 348; S. RAMAJOLI, La prova nel processo penale, Padova, Cedam, 1995, p. 135 ss.; D. SIRACUSANO, Le prove, cit., p. 407 s.; C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. II, cit., p. 539 ss. In considerazione della sostanziale identità dell’istituto, rispetto al c.p.p. 1930, può essere utile consultare pure G. BELLAVISTA, voce Confronto (dir. proc. pen.), in Enc. dir., cit., vol. VIII, 1961, p. 1043 ss.; D. MANZIONE, voce Confronto, in Dig. disc. pen., vol. III, Torino, Utet, 1989, p. 57 ss.; A. SANTORO, voce Ricognizioni e confronti, in Noviss. Dig. it., vol. XV, Torino, Utet, 1968, p. 959 s. (11) A precisarlo è la stessa Relazione al progetto preliminare, cit., p. 64.


— 732 — quanto avviene per i confronti, il legislatore, ferma restando la esperibilità della ricognizione solo su iniziativa di parte (12) — salvo il caso previsto dall’art. 507 c.p.p. (13) — non ne consente la gestione alle parti, ‘‘prefe(12) Sul ‘‘diritto alla prova’’ ex art. 190 c.p.p., cfr., tra gli altri: M. CHIAVARIO, La riforma del processo penale. Appunti sul nuovo codice, 2a ed., Torino, Utet, 1990, p. 129 s.; G. CONSO-M. BARGIS, voce Prove, in Glossario della nuova procedura penale, Milano, Giuffrè, 1992, p. 568 ss.; F. CORDERO, Codice, cit., p. 231 s.; ID., Procedura, cit., p. 580 ss.; P. CORVI, sub art. 190, in Codice, cit., vol. II, cit.; A.A. DALIA-M. FERRAIOLI, op. cit., p. 158 ss.; E. FORTUNA-S. DRAGONE, Le prove, cit., p. 338 ss.; V. GAROFOLI, Le parti e il procedimento probatorio (dall’‘‘onere’’ al ‘‘diritto’’ alla prova), in Studi in memoria di P. Nuvolone, vol. III, Milano, Giuffrè, 1991, p. 259 ss.; V. GREVI, Libro III - Prove, cit., p. 203 ss.; G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, Giappichelli, 1994, p. 177 s.; A. NAPPI, Guida, cit., p. 80 ss.; M. NOBILI, sub art. 190, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 400 ss.; V. PERCHINUNNO, Le prove, cit., p. 218 ss.; S. RAMAJOLI, La prova, cit., p. 13 ss.; D. SIRACUSANO, Le prove, cit., p. 359 ss.; G. UBERTIS, La prova penale. Profili giuridici ed epistemologici, Torino, Utet, 1995, p. 67 ss.; nonché, volendo, N. TRIGGIANI, Il ‘‘diritto alla prova’’ nel nuovo codice di procedura penale, in Arch. n. proc. pen., 1991, p. 667 ss. (13) Sull’assunzione di ufficio di nuovi mezzi di prova, qualora ciò risulti ‘‘assolutamente necessario’’ ex art. 507 c.p.p., cfr.: A. BASSI, Principio dispositivo e principio di ricerca della verità materiale: due realtà di fondo del nuovo processo penale, in Cass. pen., 1993, p. 1370 ss.; C. CARRERI, Sull’interpretazione dell’art. 507 c.p.p., ivi, 1992, p. 2320 ss.; P. CATARINELLA, Ancora sui poteri istruttori del giudice del dibattimento dopo le sentenze delle Sezioni Unite penali, 6 novembre 1992, Martin, e di Corte cost. n. 111 del 1993, in Giur. merito, 1995, II, p. 578 ss.; F. CORDERO, Codice, cit., p. 611 s.; ID., Procedura, cit., p. 806 ss.; A.A. DALIA-M. FERRAIOLI, op. cit., p. 510 ss.; E. FASSONE, Il giudizio, in E. FORTUNA - S. DRAGONE - E. FASSONE - R. GIUSTOZZI - A. PIGNATELLI, Manuale, cit., p. 835 ss.; R. FORNELLI, La dimostrazione implicita della ‘‘necessarietà assoluta’’ dell’esercizio del potere probatorio giudiziale di cui all’art. 507 c.p.p.: verso un’incontrollabile discrezionalità del giudice dibattimentale, in Cass. pen., 1995, p. 1877 ss.; F. M. IACOVIELLO, Processo di parti e poteri probatori del giudice, ivi, 1993, p. 286 ss.; G. ILLUMINATI, Libro VII - Giudizio, in Profili del nuovo codice, cit., p. 503 ss.; G. LOZZI, op. cit., p. 263 ss.; D. MANZIONE, sub artt. 506-507, in Commento, cit., vol. V, 1991, p. 377 ss.; L. MARAFIOTI, L’art. 507 c.p.p. al vaglio delle Sezioni unite: un addio al processo accusatorio e all’imparzialità del giudice dibattimentale, in questa Rivista, 1993, p. 829 ss.; A. NAPPI, Guida, cit., p. 388 ss.; ID., L’art. 507 c.p.p.: un eccessivo self restraint giurisprudenziale, in Cass. pen., 1991, II, p. 773 ss.; V. PERCHINUNNO, Il giudizio, in M. PISANI - A. MOLARI - V. PERCHINUNNO - P. CORSO, Appunti, cit., p. 471 s.; F. PLOTINO, Il dibattimento nel nuovo codice di procedura penale, 2a ed., Milano, Giuffrè, 1994, p. 131 ss.; S. RAMAJOLI, Il dibattimento nel nuovo rito penale, Padova, Cedam, 1993, p. 119 ss.; E. RANDAZZO, L’assunzione di nuove prove e le integrazioni inquisitorie del giudice dibattimentale, in Cass. pen., 1991, p. 1690 ss.; ID., L’interpretazione dell’art. 507 c.p.p. dopo le decisioni delle Sezioni unite e della Corte costituzionale, ivi, 1993, p. 2235 ss.; P.P. RIVELLO, Giudizio ordinario di primo grado, in Commento, cit., Primo aggiornamento, 1993, p. 770 ss.; F. ROMANO BAROCCI, L’art. 507 c.p.p. nell’interpretazione delle Sezioni unite, in Giur. it., 1994, II, c. 17 ss.; M. ROSSI, ‘‘Potestà suppletiva’’ del giudice e ‘‘diritto alla prova’’ delle parti. Riflessioni a margine della sentenza costituzionale n. 111 del 1993, in Giust. pen., 1993, III, c. 367 ss.; A. SCELLA, I residuali poteri di iniziativa probatoria del giudice dibattimentale, in questa Rivista, 1992, p. 1210 ss.; D. SIRACUSANO, Il giudizio, in D. SIRACUSANO - A. GALATI - G. TRANCHINA - E. ZAPPALÀ, Diritto processuale, cit., vol. II, 1995, p. 357; C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. II, cit., p. 635 ss.; T.


— 733 — rendo la concentrazione di ogni potere nelle mani dell’organo giurisdizionale’’ (14). Il giudice deve preliminarmente procedere a verificare il grado di attendibilità del soggetto chiamato a effettuare la ricognizione personale: a tal fine, è necessario assumere dallo stesso ricognitore una serie di informazioni, secondo i passaggi cadenzati dall’art. 213 comma 1 c.p.p. (15). Il soggetto attivo della prova è anzitutto invitato a descrivere la persona da riconoscere (16), ‘‘indicando tutti i particolari che ricorda’’ (17) TREVISSON LUPACCHINI, Sul potere del giudice di disporre anche di ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova, in Giur. it., 1992, II, c. 583 ss. (14) C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. II, cit., p. 542 s. Sul punto cfr., altresì, A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 543, il quale rileva che ‘‘per l’espletamento delle ricognizioni unico ‘conduttore’ dovrà essere il giudice’’, cui le parti dovranno direttamente rivolgersi per avanzare ‘‘richieste particolari, suggerimenti, domande’’; nonché D. SIRACUSANO, Le prove, cit., p. 408, ove si sottolinea che la ricognizione è ‘‘disposta e controllata dal giudice’’. (15) Cfr. A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 544 s. Per G. P. VOENA, Libro II - Atti, in Profili del nuovo codice, cit., p. 107, non è chiaro se la tutela apprestata per il cittadino italiano alloglotto dall’art. 109 comma 2 c.p.p. operi per le dichiarazioni rese nel corso delle ricognizioni e delle altre prove diverse dall’esame: ciò in quanto la dizione legislativa attiene al diritto di essere ‘‘interrogato o esaminato’’ nella madrelingua. In senso positivo sembra orientato E. LUPO, sub art. 109, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 25, per il quale la dizione letterale dell’art. 109 comma 2 c.p.p. — molto ristretta — può ‘‘estendersi analogicamente sino a comprendere ogni dichiarazione resa dalla parte o dal teste (per esempio in sede di confronto o di altro atto probatorio al quale il soggetto partecipi)’’. Sulla tutela processuale delle minoranze linguistiche, in generale, cfr. pure G. BEVILACQUA, L’ art. 109 del nuovo codice di procedura penale e le ‘‘minoranze linguistiche riconosciute’’, in Giur. it., 1989, IV, c. 320 ss.; D. BONAMORE, L’art. 109 c.p.p. causa ed effetto per il riconoscimento di una ‘‘comunità linguistica diversa’’ (art. 2 e 6 Cost.), in Cass. pen., 1994, p. 2241 ss.; ID., L’ art. 109 c.p.p. e le ‘‘minoranze linguistiche riconosciute’’, ivi, 1992, p. 1915 ss.; ID., La tutela processuale delle minoranze linguistiche (art. 109 c.p.p.) tra sofismi e sciovinismi, ivi, 1993, p. 1236 ss.; G. UBERTIS, sub art. 109, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da E. Amodio e O. Dominioni, vol. II, Milano, Giuffrè, 1989, p. 4 ss. Quanto, poi, all’ipotesi in cui il ricognitore sia sordo, muto o sordomuto, occorre fare riferimento alla disciplina generale che l’art. 119 c.p.p. detta per il soggetto affetto da tale menomazione che ‘‘vuole o deve fare una dichiarazione’’. Sul tema, cfr. E. LUPO, sub art. 119, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 72 ss.; G. UBERTIS, sub art. 119, in Commentario, cit., vol. II, cit., p. 54 ss. (16) Come ricorda G. PANSINI, Le ricognizioni nel processo penale, in Arch. pen., 1983, p. 639 s., tale prescrizione — assente nel c.p.p. 1865 e nel c.p.p. 1913 (il quale ultimo prevedeva la preventiva descrizione solo per la ricognizione di cose, all’art. 257) — venne inserita nel c.p.p. 1930 solo in sede di redazione del testo definitivo, ‘‘sottolineandosi semplicemente che tale aggiunta alla norma avrebbe costituito una maggiore garanzia della ‘ricognizione’ ’’. (17) Questa ulteriore precisazione, assente nel codice di procedura penale previgente, evidentemente non ha ‘‘fine diverso da quello di fornire al giudice uno strumento di controllo sulla esattezza del riconoscimento’’: così G. PANSINI, Le ricognizioni, cit., p. 694.


— 734 — (sesso, razza, statura, corporatura, colore dei capelli, età apparente, segni e modi di fare particolari, ecc.) (18): ‘‘è importante che il fantasma mnemonico diventi immagine verbale’’ (19), dal momento che la ‘‘messa in scena’’ in cui si sostanzia la ricognizione vera e propria ‘‘potrebbe far sorgere parvenze di ricordo, mentre contano prima di tutto i ricordi reali’’ (20). La descrizione deve, insomma, servire a verificare se la persona chiamata a eseguire il riconoscimento ‘‘nella sua dichiarazione fa effettivamente riferimento alla persona da riconoscere’’ (21) e, più in generale, a ‘‘saggiare le capacità mnemoniche e di percezione’’ del ricognitore, le quali costituiscono il fulcro del mezzo di prova in esame (22). Ovviamente, le descrizioni saranno ‘‘tanto meno complete ed esatte quanto più brevi siano stati i tempi della percezione’’ (23). In ogni caso, occorre considerare che i reati ‘‘generalmente vengono consumati in condizioni del tutto particolari, cariche di stress per l’osservatore, che diminuiscono la sua possibilità di percepire correttamente ciò che sta accadendo, anche perché i movimenti si svolgono rapidamente’’ ed è possibile ‘‘percepire solo immagini frammentarie e pochi particolari’’ (24). Il volto — che ‘‘costituisce la ‘chiave’ più attendibile per il riconoscimento’’ (25) — è ‘‘solitamente percepito in movimento, in un contesto specifico e ricco di emozioni che esso stesso contribuisce a comunicare attraverso espres(18) In dottrina si è sottolineata l’opportunità che la descrizione delle caratteristiche fisiche della persona da riconoscere venga integrata dalla esposizione dei particolari relativi alle circostanze e alle condizioni in cui tale persona sarebbe stata vista, affinché tali condizioni possano essere utilmente riprodotte nell’esecuzione della ricognizione (in tal senso, cfr., tra gli altri, E. ALTAVILLA, Il riconoscimento e la ricognizione delle persone e delle cose, Roma, Società editrice del ‘‘Foro Italiano’’, 1934, p. 196; A. LI DONNI, Le indagini di polizia, Imola, Editrice Galeati, 1964, p. 331). Secondo C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. II, cit., p. 542, peraltro, pur ‘‘non essendo infrequente che la descrizione si avvantaggi della rappresentazione dell’azione e delle condizioni ambientali’’, occorre ribadire che la ricognizione è ‘‘un atto che ha ragione di esistere in autonomia, solo in quanto abbia come obietto la descrizione’’ della persona da riconoscere ‘‘proprio in quanto integralmente avulsa dal contesto in cui sia inserita’’. (19) F. CORDERO, Codice, cit., p. 261 s. (20) Così A. GIARDA, sub art. 213, in Codice, cit., vol. II, cit. (21) Così V. PERCHINUNNO, Le prove, cit., p. 236. Cfr. altresì C. CANTARANO, voce Ricognizioni e confronti (dir. proc. pen.), in Enc. for., vol. VI, Milano, Vallardi, 1961, p. 475, per il quale la preventiva descrizione mira ad accertare ‘‘lo stato di conoscenza’’, in colui che deve eseguire la ricognizione, della persona da riconoscere; nonché A. SANTORO, op. cit., p. 959, ove si osserva che, attraverso la descrizione, ‘‘mentre evoca il ricordo, il soggetto dimostra di conoscere nei tratti fisici colui che deve essere riconosciuto’’. (22) Cfr. C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. II, cit., p. 543. (23) F. CORDERO, Procedura, cit., p. 664. Osserva in proposito O. ANDREANI, op. cit., p. 229, che se il ‘‘tempo di esposizione’’ è ‘‘troppo breve (meno di 20’’), gli stimoli percepiti vengono facilmente omessi o deformati’’. (24) C. PANSERI, op. cit., p. 558. Cfr., altresì, O. ANDREANI-L. VECCHIO, op. cit., p. 203 s. (25) O. ANDREANI-L. VECCHIO, op. cit., p. 207.


— 735 — sioni particolari o sguardi sui quali si concentra l’attenzione dell’osservatore’’ (26). Anche la descrizione più accurata, del resto, ‘‘può originare informazioni inesatte in quanto l’idea che si trasmette è sempre molto approssimativa’’: si comprende bene, infatti, come sia estremamente difficile ‘‘servirsi di parole per dare l’idea di uno sguardo, per descrivere la forma di un viso’’ (27). Senza dire, poi, che la ricerca psicologica sembra smentire la maggiore credibilità che si è portati naturalmente ad attribuire a un riconoscimento operato da chi in precedenza ha saputo fornire una descrizione dettagliata della persona da riconoscere. Non è detto, infatti, che chi sa ben descrivere sappia altrettanto ben riconoscere: ‘‘queste due attività sono molto dissimili tra loro e coinvolgono fenomeni del tutto indipendenti’’ (28). Per contro, ‘‘l’errore della descrizione o anche l’assoluta incapacità a descrivere qualsiasi connotato non implica che non si possa esattamente (26) Così C. PANSERI, op. cit., p. 559, la quale ricorda altresì che le ricerche hanno dimostrato che l’attenzione cade di preferenza su alcuni particolari (nell’ordine, gli occhi, il naso, la bocca) e che in generale ‘‘si ritiene che la parte superiore del viso fornisca più informazioni utili al riconoscimento e che la descrizione di questi particolari sia da ritenersi più attendibile’’, dal momento che l’espressione ‘‘gioca un ruolo importante e gli occhi sono forse la principale fonte di tale espressione’’. Sul punto cfr. pure G. GULOTTA, op. cit., p. 507, ove si sottolinea che ‘‘l’osservatore il più delle volte, trattiene nella memoria in immagazzinamento solo una certa espressione di un viso o una certa postura, che sono quelle che ha potuto vedere, cosicché è poi ben più difficile ricostruire un’immagine del soggetto più ‘tipica e generalizzata’ ’’; nonché F. GUERRINI, op. cit., p. 244. In generale, sulle difficoltà che il ‘‘riconoscimento di facce’’ comporta, v. O. ANDREANI-L. VECCHIO, op. cit., p. 207 ss., i quali evidenziano come le facce costituiscano ‘‘un pattern omogeneo, la cui scriminabilità si basa su sottili differenze’’ e come risulti ‘‘più difficile discriminare tra facce di individui di razza diversa dalla nostra di quanto accada con persone della propria razza’’. Su quest’ultimo aspetto, v., altresì, O. ANDREANI, op. cit., p. 227 e, in giurisprudenza, Trib. Ferrara, 17 marzo 1990, in Commentario breve al nuovo codice di procedura penale. Complemento giurisprudenziale, 2a ed., a cura di V. Grevi, Padova, Cedam, 1994, p. 296. (27) C. PANSERI, op. cit., p. 559 s. Nello stesso senso, v. E. ALTAVILLA, Il riconoscimento, cit., p. 207 s., il quale osserva che ‘‘fare verbalmente il ritratto di una persona è estremamente difficile perché implica una ricchezza di dizionario ed una precisa conoscenza di parole che possono, con lievi variazioni, dare impressioni essenzialmente diverse’’; nonché F. CORDERO, Procedura, cit., p. 664, per il quale la descrizione della persona da riconoscere è ‘‘una performance a stento esigibile dai virtuosi della parola’’. (28) C. PANSERI, op. cit., p. 559. La possibilità di non riconoscere la persona esattamente descritta era già stata profilata da C. MUSATTI, Elementi di psicologia della testimonianza, Padova, Cedam, 1931, p. 12. Contra, E. ALTAVILLA, Il riconoscimento, cit., p. 41 s., per il quale ‘‘una precisa descrizione della persona che si è chiamati a riconoscere è una prova rassicurante della esattezza del riconoscimento posteriore’’, precisando peraltro che la ‘‘descrizione ha valore soltanto quando riesca a darci dettagli precisi che riescano a fissare una nota di differenziazione’’.


— 736 — riconoscere’’ (29). Infatti, non è sufficiente ‘‘conservare una immagine, bisogna evocarla mentalmente per poterla descrivere’’ (30), e pochi individui dispongono di tale capacità rievocativa (31). Dopo aver descritto la persona da riconoscere, il soggetto attivo della prova è chiamato a rispondere ad alcune domande rivoltegli dal giudice: domande tutte dirette ad accertare se qualche percezione intermedia si sia frapposta tra quella originaria e l’atto di ricognizione (32) e dunque volte a scongiurare ‘‘il pericolo di ricognizioni illusorie, per dati fisionomici già noti’’ al ricognitore (33). Il giudice deve, in primo luogo, domandargli ‘‘se sia stato in precedenza chiamato a eseguire il riconoscimento’’, nel procedimento pendente o in altro procedimento. Occorre, in proposito, ricordare che, ‘‘quando è necessario per l’immediata prosecuzione delle indagini’’ preliminari, il pubblico ministero — ex art. 361 c.p.p. — può procedere alla ‘‘individuazione di persone’’, esibendole direttamente o sottoponendole ‘‘in immagine’’ a chi deve eseguire l’identificazione. Orbene, dei rapporti tra individuazione e ricognizione di persona ci occuperemo più diffusamente in seguito (v. infra, par. 9). È necessario tuttavia evidenziare già ora come assuma fondamentale importanza per il giudice sapere se il pubblico ministero abbia allestito in precedenza una individuazione: è infatti concreto il rischio che la preventiva identificazione — effettuata senza formalità — possa falsare il successivo riconoscimento, sovrapponendosi una ulteriore immagine al ricordo della precedente (34). Successivamente, il giudice deve domandare al soggetto chiamato a (29) E. ALTAVILLA, Il riconoscimento, cit., p. 41. (30) E. ALTAVILLA, Il riconoscimento, cit., p. 43. (31) Cfr. D. VIGONI, La ricognizione personale, in questa Rivista, 1985, p. 174. In senso conforme, in giurisprudenza, v. Cass., Sez. III, 12 febbraio 1965, Egidi, in Cass. pen., 1965, p. 1082, secondo cui ‘‘mentre il riconoscimento delle persone non presenta di regola difficoltà perché se ne conserva un sufficiente ricordo complessivo, che è poi risvegliato nel rivederle, è invece difficile, in loro assenza, ricordarne con precisione i particolari somatici e riferirli analiticamente, onde il riconoscimento a vista può essere attendibile ancorché non sia esatta la descrizione analitica, fatta anteriormente, della persona da riconoscere’’. (32) Cfr., sul punto, E. ALTAVILLA, Il riconoscimento, cit., p. 180 ss.; C. CANTARANO, op. cit., p. 475; F. GORPHE, Analyses d’erreurs de reconnaissances d’identité et leçons à en tirer, in Giust. pen., 1937, IV, c. 233 ss.; C. MUSATTI, op. cit., p. 188; nonché G. PANSINI, Le ricognizioni, cit., p. 694 ss., il quale, sottolineando l’‘‘indiscutibile opportunità’’ di tali interpelli del giudice — formulati nell’art. 360 comma 1 c.p.p. 1930 con un testo assai simile a quello dell’art. 213 comma 1 c.p.p. —, per impedire che il riconoscimento sia il risultato di convincimenti preformati, ricorda come tali prescrizioni non fossero previste né nel c.p.p. 1865, né nel c.p.p. 1913, essendo invece contemplate dall’art. 95 del codice di procedura penale per il Regno delle Due Sicilie del 1819. (33) A. CRISTIANI, Manuale, cit., p. 209. (34) L’ ‘‘antico ricordo della persona si integra nell’immagine successiva, che lo ricopre, ed è su questo ricordo rinnovato che fa leva il riconoscimento, quando colui che do-


— 737 — effettuare la ricognizione ‘‘se prima e dopo il fatto per cui si procede abbia visto, anche se riprodotta in fotografia o altrimenti, la persona da riconoscere’’. In dottrina si è al riguardo esattamente osservato come appaia incongrua la congiunzione ‘‘e’’ che lega i due avverbi ‘‘prima’’-‘‘dopo’’, apparendo opportuno sostituirla con la particella disgiuntiva ‘‘o’’ (35). Il soggetto attivo della prova deve dunque riferire di eventuali ‘‘altre occasioni di incontri o di contatti, anche meramente fotografici, con la persona descritta’’ (36), sia precedenti che successivi al fatto per cui si procede. È evidente, infatti, come anche tali ‘‘incontri’’ possano influenzare, in misura più o meno determinante, l’esito del riconoscimento: si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui chi deve compiere la ricognizione abbia visto una fotografia della persona da riconoscere pubblicata su un giornale (37) ovvero al caso in cui il ricognitore sia riuscito a scorgere l’imputato detenuto mentre questi viene tradotto all’udienza per essere sottoposto alla ricognizione (38). L’ulteriore passaggio del dialogo giudice-ricognitore mira ad accertare se la persona da riconoscere ‘‘sia stata indicata o descritta’’ da altri al soggetto chiamato a effettuare il riconoscimento. Anche questa è una cautela apprezzabile, ‘‘dal momento che l’intrusione di messaggi informativi di terzi potrebbe alterare la genuinità dell’esperienza da riprodurre’’. Non va dimenticato che ‘‘la codificazione mnemonica dei messaggi che provengono dall’esterno non sempre avviene secondo chiari sistemi di covrebbe operarlo è messo al cospetto della persona da riconoscere: la impressione del ‘già visto’ e la memoria rischiano di essere il prodotto del ricordo della seconda immagine piuttosto che quello della prima’’ (così G. PANSINI, Le ricognizioni, cit., p. 695 s.). (35) In questi termini, F. CORDERO, Codice, cit., p. 262; ID., Procedura, cit., p. 664 s. L’incongruenza è sottolineata pure da G. ESPOSITO, Le prove, in N. CARULLI - C. MASSA - G. ESPOSITO - A. PALUMBO, Lineamenti del nuovo processo penale. Dai soggetti al giudizio di primo grado, 2a ed., Napoli, Jovene, 1993, p. 131. In senso conforme, v., altresì, AA. DALIAM. FERRAIOLI, op. cit., p. 172; E. FORTUNA-S. DRAGONE, Le prove, cit., p. 369; G. LOZZI, op. cit., p. 128; P. MOSCARINI, voce Ricognizione (proc. pen.), in Enc. giur., vol. XXVII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1991, p. 3. (36) A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 545. (37) Osserva A. GIARDA, sub art. 213, in Codice, cit., vol. II, cit., che ‘‘opportunamente il codice ha dato per scontato la possibilità che l’esperienza visiva possa essere avvenuta anche ‘altrimenti’ rispetto all’esame di una fotografia. Facile il riferimento: soprattutto negli ultimi anni è diventata sempre più diffusa la pratica della registrazione televisiva, la quale consente una ripetizione praticamente indefinita di immagini che possono colpire e resistere alla labilità del ricordo’’. (38) Sul punto cfr. F. PLOTINO, op. cit., p. 130 s., il quale, trattando delle ricognizioni eseguite in dibattimento, sottolinea la ‘‘particolare cura’’ che dovà essere posta ‘‘per evitare che la persona chiamata al riconoscimento e quella da riconoscere si incontrino prima del compimento dell’atto’’.


— 738 — dificazione; d’altro verso, la decodificazione soggettiva è ancora più condizionata dal sovrapporsi di continui messaggi interferenti’’ (39). Con una opportuna norma di chiusura, il legislatore ha altresì previsto che — dopo queste domande rivolte ad accertare se il soggetto attivo abbia già avuto modo di vedere il soggetto passivo della ricognizione prima della commissione del fatto per cui si procede ovvero se il ricordo della persona da riconoscere sia stato in qualsivoglia modo ‘‘sollecitato’’ successivamente al fatto de quo — il giudice, ‘‘avvalendosi della propria sensibilità e della propria capacità introspettiva’’ (40), sia libero di acclarare ‘‘altre circostanze che possano influire sull’attendibilità del riconoscimento’’, come ‘‘l’interesse a coprire il vero responsabile o la esistenza di motivi di rancore ovvero caratteristiche della persona che deve procedere al riconoscimento che mettano in dubbio la possibilità di percezione sensoriale ovvero della rappresentazione descrittiva’’ (41). Si è affermato in dottrina che l’esito del saggio di attendibilità del ricognitore dovrebbe anche, a determinate condizioni, rendere superflua la prosecuzione dell’esperimento: ‘‘se tutti i parametri descritti lasciassero chiaramente intendere o che il soggetto attivo sta riferendosi a persona completamente diversa dal soggetto passivo, o che la sua credibilità è insanabilmente compromessa’’, non avrebbe senso proseguire il meccanismo ricognitorio (42). Anche alla luce di quanto precedentemente esposto circa i rapporti tra descrizione e riconoscimento, appare preferibile ritenere che le circostanze rilevanti sull’attendibilità non influiscano sull’ammissibilità e sull’utilizzabilità dell’atto probatorio, incidendo, peraltro, necessariamente sul convincimento del giudice. Del resto, la dizione dell’art. 213 c.p.p. sembra escludere che la ricognizione sia preclusa dalla circostanza che il soggetto chiamato a eseguirla abbia potuto percepire — direttamente o indirettamente — le caratteristiche della persona da riconoscere (43), imponendo solo l’obbligo di verba(39) A. GIARDA, sub art. 213, in Codice, cit., vol. II, cit. In generale, sulle modificazioni che il ricordo subisce durante la fase di ritenzione a causa delle c.d. informazioni postevento, v. O. ANDREANI, op. cit., p. 230 ss.; O. ANDREANI-L. VECCHIO, op. cit., p. 204 ss. (40) A. GIARDA, sub art. 213, in Codice, cit., vol. II, cit. (41) C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. II, cit., p. 543. F. CORDERO, Procedura, cit., p. 665, puntualizza come il ricognitore debba segnalare ‘‘tutto quanto può influire sull’operazione sminuendone l’attendibilità’’, qualunque sia l’esito, anche negativo, sebbene nel testo dell’art. 213 comma 1 c.p.p. sia detto ‘‘riconoscimento’’. (42) Così A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 545. Cfr. pure ID., voce Ricognizione (dir. proc. pen.), cit., p. 533. (43) In tal senso, v. , tra gli altri, G. DI CHIARA, Individuazione fotografica e ricognizione di persona: profili problematici ed aspetti interpretativi tra l’eredità del codice Rocco e il dibattito de iure condendo, in Dir. famiglia, 1993, p. 621; E. FORTUNA-S. DRAGONE, Le


— 739 — lizzare tale eventualità; è evidente, tuttavia, che l’efficacia probatoria dell’atto ricognitivo ‘‘dipenderà inevitabilmente dalla misura in cui risulterà la capacità del dichiarante di sottrarsi a fenomeni di auto o eterosuggestione’’ (44). Non può assolutamente condividersi, pertanto, l’orientamento giurisprudenziale consolidatosi durante la vigenza del codice abrogato, il quale riteneva che la valenza probatoria della ricognizione non fosse in alcun modo sminuita da un eventuale pregresso riconoscimento (45): sulla base delle considerazioni fin qui svolte, sembra, infatti, chiaro come l’efficacia probatoria della ricognizione possa essere frustrata — anche in maniera assai rilevante — nell’ipotesi in cui il ricordo della persona da riconoscere sia stato in qualsiasi modo influenzato. Lo stesso legislatore, d’altronde, laddove autorizza il giudice ad accertare se vi siano ‘‘altre circostanze che possano influire sull’attendibilità del riconoscimento’’, lascia chiaramente intendere che qualora si sia verificata una delle circostanze precedentemente analizzate, il riconoscimento può risultarne profondamente condizionato (46). Una volta esauriti gli adempimenti preliminari, il giudice deve dunque — in ogni caso — allestire il ‘‘palcoscenico’’ per l’esecuzione della ricognizione. Prima di passare alle modalità di svolgimento dell’atto ricognitivo, è necessario precisare che il codice non pone alcuna limitazione riguardo al novero dei soggetti abilitati a compiere la ricognizione. L’art. 213 comma 1 c.p.p. parla infatti genericamente di ‘‘chi deve eseguirla’’ e una locuzione pressoché identica (‘‘colui che deve eseguire la ricognizione’’) si ritrova nell’art. 214 comma 1 c.p.p., il quale utilizza anche l’espressione ‘‘persona chiamata alla ricognizione’’; quest’ultima dizione ritorna nell’art. 214 comma 2 c.p.p. e, al plurale, nell’art. 217 comma 1 c.p.p. Dunque, soggetto attivo della ricognizione può essere non solo un testimone (terzo estraneo o persona offesa) (47) — come peraltro nella prove, cit., p. 368; S. RAMAJOLI, La prova, cit., p. 36 s.; G. SALVI, sub art. 361, in Commento, cit., vol. IV, 1990, p. 212; C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. II, cit., p. 543. (44) E. FORTUNA-S. DRAGONE, Le prove, cit., p. 369. In senso conforme, v. C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. II, cit., p. 543. (45) Cfr., tra le tante, Cass., Sez. II, 9 luglio 1987, Fiore, in Riv. pen., 1988, p. 360; Cass., Sez. II, 20 dicembre 1982, Gaglio, in Cass. pen., 1984, p. 1498, n. 1026; Cass., Sez. I, 12 novembre 1981, Iacono, ivi, 1983, p. 137; Cass., Sez. I, 30 maggio 1980, Milan, ivi, 1981, p. 2085, n. 1815. (46) Ancora più esplicito era il testo della corrispondente disposizione del c.p.p. 1930 (art. 360 comma 1), laddove prescriveva che il giudice dovesse chiedere alla persona chiamata a eseguire la ricognizione se non si trovasse ‘‘in altre condizioni atte a prevenire il riconoscimento’’. (47) Cfr. Trib. Torino, Sez. V, 11 aprile 1991, in Dif. pen., 1992, f. 34, p. 84, n. 243, per la quale ‘‘la qualifica soggettiva della persona chiamata ad effettuare una ricognizione


— 740 — prassi generalmente avviene — ma anche un coimputato del medesimo reato ovvero un imputato in un procedimento connesso ex art. 12 c.p.p. o per un reato collegato ex art. 371 comma 2 lett. b) c.p.p. (48), non essendo certamente estensibile alla ricognizione personale l’incompatibilità

può consistere esclusivamente in una delle qualifiche espressamente previste dall’ordinamento processualpenalistico. Qualora tale persona rivesta la qualifica di testimone, non rientrando in alcuna diversa categoria tra quelle espressamente previste, si applicano ad essa le regole proprie dello status di teste non espressamente derogate dalla disciplina della ricognizione’’. Va ricordato, in proposito, che l’art. 363 c.p.p. 1930 prevedeva che, qualora la persona chiamata a compiere la ricognizione avesse già assunto ‘‘la qualità di testimonio’’, dovesse — prima delle dichiarazioni e dell’esperimento della prova — prestare giuramento, ex art. 449 c.p.p. abr., a pena di nullità. Il codice vigente non contempla una norma corrispondente: di qui le perplessità della dottrina circa la necessità che il testimone debba rendere la dichiarazione di impegno ‘‘a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto’’ a sua conoscenza ex art. 497 comma 2 c.p.p. (sull’impegno de quo, v. T. TREVISSON LUPACCHINI, Dal ‘‘giuramento’’ all’‘‘impegno’’ dei testimoni nel processo penale, in Giur. it., 1992, II, c. 367 ss.; più in generale, sugli atti preliminari all’esame dei testimoni, cfr. G. FRIGO, sub art. 467, in Commento, cit., vol. V, cit., p. 211 ss.). Secondo alcuni Autori, deve ritenersi ‘‘senz’altro encomiabile’’ la soppressione del giuramento, trattandosi di una formalità ‘‘superflua e discriminante’’ oltreché ‘‘equivoca, giacché adombrava una ipoteca di efficacia probatoria vincolante’’ (così A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 547, il quale tuttavia sottolinea (p. 550) che si deve ‘‘dare per scontato un dovere di verità, ancorché non espressamente sanzionato in sede penale’’; in tal senso, cfr., altresì, P. MOSCARINI, voce Ricognizione (proc. pen.), cit., p. 3). Secondo altri, al contrario, ‘‘benché non sia espressamente previsto’’, è da ritenere che la ricognizione effettuata da un testimone debba essere preceduta dalla dichiarazione solenne di veridicità prevista dall’art. 497 c.p.p.: ciò in quanto la ricognizione costituirebbe ‘‘mera integrazione di una precedente dichiarazione, al cui regime processuale deve uniformarsi’’ (A. NAPPI, Guida, cit., p. 350; in senso sostanzialmente conforme, v. F. CORDERO, Codice, cit., p. 262, per il quale, anche se l’attuale testo non contiene una regola corrispondente all’art. 363 codice Rocco essa deve ritenersi ‘‘sottintesa’’; nonché ID., Procedura, cit., p. 665, ove si osserva che del resto ‘‘è improbabile’’ che il testimone ‘‘non venga poi escusso’’. (48) A conclusioni identiche era pervenuta la dottrina durante la vigenza del c.p.p. 1930, facendo leva sia sulla dizione letterale dell’art. 360 che — come gli attuali artt. 213 e 214 c.p.p. — identificava il soggetto attivo della ricognizione attraverso le locuzioni ‘‘chi deve eseguirla’’ e ‘‘persona chiamata per la ricognizione’’, sia, e soprattutto, sull’art. 363 che — come si è accennato supra, nota 47 — prevedeva che il ricognitore dovesse prestare giuramento solo qualora avesse ‘‘la qualità di testimonio’’: da tale disposizione, indirettamente, si ricavava che ricognitore potesse essere anche un non-testimone e, dunque, pure un coimputato o un imputato in un procedimento connesso. Cfr. G. BONETTO, sub art. 360 e sub art. 363, in Commentario breve al codice di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, Padova, Cedam, 1987, p. 1049 e p. 1051 s.; E. FLORIAN, Delle prove penali, 3a ed., a cura di P. Fredas, Istituto Editoriale Cisalpino, 1961, p. 614; A. MELCHIONDA, voce Ricognizione (dir. proc. pen.), cit., p. 533 ss.; P. MOSCARINI, op. cit., p. 1; A. SANTORO, op. cit., p. 957 s.; D. VIGONI, op. cit., p. 173.


— 741 — prevista relativamente alla testimonianza dall’art. 197 lett. a) e b) c.p.p. (49). La Corte costituzionale, con la sentenza 30 giugno 1994, n. 267, ha puntualizzato che l’atto dichiarativo di ricognizione proveniente da un coimputato o da un imputato in un procedimento connesso è assimilabile all’esame ex artt. 208 e 210 c.p.p. (50). Pertanto, respingendo le censure di illegittimità costituzionale dell’art. 213 c.p.p., sollevate in riferimento agli artt. 3 e 24 comma 2 Cost. (51), la Corte ha osservato — in conformità a una pronuncia di poco antecedente della Corte di cassazione (52) (49) Cfr. Cass., Sez. I, 17 febbraio 1994, Bontempo, in Giust. pen., 1995, III, c. 292, la quale rileva che la disciplina della ricognizione non richiama i limiti previsti dall’art. 197 c.p.p. per la testimonianza, ‘‘coerentemente con la diversa natura dei due mezzi di prova, che trovano collocazione in capi differenti del codice di procedura penale’’. Cfr. altresì ord. G.i.p. Pret. Macerata, 16 settembre 1993, in Arch. n. proc. pen., 1994, p. 38, la quale sottolinea come l’art. 197 sia insuscettibile di estensione analogica, trattandosi di norma ‘‘di natura eccezionale rispetto alla regola generale per cui ogni persona ha la capacità di testimoniare (art. 196 c.p.p. )’’; e, in dottrina, F. CORDERO, Procedura, cit., p. 663. Sull’incompatibilità a testimoniare, fondamentale resta lo studio di V. PERCHINUNNO, Limiti soggettivi della testimonianza nel processo penale, Milano, Giuffrè, 1972, p. 47 ss. In argomento cfr. pure M. BARGIS, Incompatibilità a testimoniare e connessione di reati, Milano, Giuffrè, 1980; V. GAROFOLI, voce Prova testimoniale (dir. proc. pen.), in Enc. dir., cit., vol. XXXVII, 1988, p. 764 ss.; G. PAOLOZZI, Dei testimoni, Padova, Cedam, 1984, p. 28 ss. Con riferimento alla disciplina ex art. 197 c.p.p., v. A. PERDUCA, sub art. 197, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 444 ss. (50) Sull’esame delle parti, cfr., tra gli altri, M. BARGIS, voce Esame di persona imputata in un procedimento connesso, in Dig. disc. pen., cit., vol. IV, 1990, p. 275 ss.; S. CIANI, L’esame delle parti: profili strutturali e valenza probatoria, in Cass. pen., 1994, p. 2264 ss.; F. CORDERO, Procedura, cit., p. 643 ss.; L. D’AMBROSIO, sub art. 210, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 508 ss.; V. GREVI, Libro III - Prove, cit., p. 218 ss.; A. NAPPI, Guida, cit., p. 345 ss.; R. ORLANDI, sub artt. 208-209, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 489 ss.; V. PERCHINUNNO, Le prove, cit., p. 234 s.; ID., Il giudizio, cit., p. 406 s.; S. RAMAJOLI, La prova, cit., p. 127 ss.; C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. II, cit., p. 536 ss. (51) Il giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 213 c.p.p. è stato promosso con ord. G.i.p. Pret. Macerata, 16 settembre 1993, cit. (52) Cfr. Cass., Sez. VI, 18 febbraio 1994, Goddi, in Giust. pen., 1995, III, c. 144 con motivazione integrale e in questa Rivista, 1995, p. 256 con nota di M. CERESA GASTALDO, La ricognizione personale ‘‘attiva’’ all’esame della Corte costituzionale: facoltà di astensione o incompatibilità del coimputato? Con tale decisione, la suprema Corte ha ritenuto che ‘‘dalla natura dichiarativa dell’atto di ricognizione discende la sicura applicabilità delle regole previste dall’art. 210 c.p.p. e la conseguente necessità che sia formalizzato nei confronti del soggetto attivo della ricognizione stessa, quando rivesta la qualità di coimputato o di imputato in separato procedimento connesso, l’avviso della facoltà di tacere’’. La Corte ha altresì considerato implicita nel rifiuto di sottoporsi all’esame dibattimentale la volontà di sottrarsi all’attività ricognitiva, osservando che, ‘‘qualora l’imputato rifiuti di sottoporsi all’esame dibattimentale, appare assolutamente ultroneo — se non addirittura contraddittorio — disporre la ricognizione, rivolgendogli l’avvertimento circa la facoltà di non rispondere’’ (sull’avvertimento della facoltà di non rispondere e, più in generale, sulla natura e la funzione degli ‘‘avvertimenti’’ nel processo penale, v. V. GAROFOLI, Gli avvertimenti processuali come strumento di tutela, Milano, Giuffrè, 1983).


— 742 — — che tali soggetti sono assistiti dal ‘‘diritto al silenzio’’ (53), il cui esercizio ‘‘impedisce di fatto l’espletamento dell’atto de quo’’ (54). Quindi, senza rinunciare aprioristicamente all’eventuale contributo che i soggetti ora ricordati potrebbero fornire (55), si attribuisce loro, in sostanza, il ‘‘diritto di astenersi’’ dalla ricognizione attiva, in ossequio al principio ‘‘nemo tenetur se detegere’’. Parimenti indeterminato è l’ambito delle persone assoggettabili a ricognizione: il legislatore parla genericamente di ‘‘persona da riconoscere’’ (art. 213 comma 1 c.p.p.) ovvero di persona ‘‘sottoposta a ricognizione’’ (art. 214 commi 1 e 2 c.p.p.) (56). Se, dunque, nella maggioranza dei casi, il soggetto passivo è l’indagato-imputato, nulla vieta che possa trat-

(53) Com’è noto, il principio del diritto al silenzio è stato introdotto nel nostro sistema processuale con la legge 5 dicembre 1969, n. 932, la quale modificò l’art. 78 comma 3 c.p.p. 1930. Sull’argomento, cfr. il fondamentale studio di V. GREVI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano, Giuffrè, 1972. Cfr. pure Corte cost., 4 aprile 1973, n. 34 (in Giur. cost., 1973, p. 341, con nota di V. GREVI, Insegnamenti, moniti e silenzi della Corte costituzionale in tema di intercettazioni telefoniche) — espressamente richiamata da Cass., Sez. VI, 18 febbraio 1994, Goddi, cit. — la quale, precisando la portata del principio in esame, ebbe ad affermare che esso trova applicazione in ogni ipotesi ‘‘in cui l’inquisito viene posto a diretto contatto con l’autorità procedente’’, essendo stato introdotto per sollevare l’imputato ‘‘dallo stato di soggezione psicologica in cui possa venire a trovarsi a cospetto dell’autorità e per porlo a riparo da eventuali pressioni che su di lui possano essere esercitate’’. (54) Cfr. Corte cost., 30 giugno 1994, n. 267, in Giur. cost., 1994, p. 2177, con nota di A. MELCHIONDA, Il diritto dell’indagato-imputato di astenersi dalla ‘‘ricognizione attiva’’, e in questa Rivista, 1995, p. 256, con nota di M. CERESA GASTALDO, La ricognizione personale ‘‘attiva’’ all’esame della Corte costituzionale, cit. Invero, già durante la vigenza del codice Rocco, in dottrina si era sostenuto che, qualora soggetto attivo della ricognizione fosse un imputato o un coimputato, dovesse ritenersi assente un ‘‘dovere di collaborazione e di verità’’, non essendo pertanto perseguibile l’imputato che avesse rifiutato di procedere a una ricognizione o avesse optato per la reticenza (cfr. A. MELCHIONDA, voce Ricognizione (dir. proc. pen.), cit., p. 535; contra, G. BONETTO, sub art. 360 c.p.p., in Commentario breve al codice di procedura penale, cit., p. 1049, il quale riteneva che solo il testimone, ricorrendone i presupposti, avrebbe potuto astenersi dalla ricognizione, così come dalla testimonianza). (55) Cfr. A. MELCHIONDA, Il diritto dell’indagato-imputato di astenersi dalla ‘‘ricognizione attiva’’, cit., p. 2186, ove si sottolinea come sia ‘‘questione scontata, addirittura ovvia’’ che ‘‘nella valutazione di siffatte fonti probatorie il giudice debba usare il massimo di prudenza, di saggezza, di esperienza’’. L’Autore sottolinea altresì (p. 2187) come sia ben possibile che, anche nel procedimento con un solo indagato o imputato, questi possa assumere la qualità di soggetto attivo della ricognizione: si pensi, ad esempio all’ipotesi della persona indiziata perché vista sul luogo del reato, a sua volta in grado, invece, di indicare e riconoscere il vero colpevole. (56) Analoghe erano le formule utilizzate dal c.p.p. 1930 (art. 360): ‘‘persona da riconoscere’’ e ‘‘persona oggetto dell’esperimento’’.


— 743 — tarsi di un testimone, dell’offeso dal reato, del querelante o del denunziante (57). 3. Svolgimento della ricognizione. — Come già accennato (v. supra, par. 1), la diffidenza che il legislatore giustamente nutre per il mezzo di prova in esame emerge pure dalla disciplina — altrettanto accurata e analitica — dettata dall’art. 214 commi 1 e 2 c.p.p. per le modalità di svolgimento dell’attività ricognitiva vera e propria. L’art. 214 comma 1 c.p.p. prescrive, innanzitutto, che — opportunamente allontanato il ricognitore dal luogo dove deve svolgersi la ricognizione — il giudice debba procurare la presenza di ‘‘almeno due persone’’ somiglianti a quella sottoposta alla ricognizione. Si tratta di una disposizione ricorrente nei testi legislativi precedenti (58); tuttavia, a differenza dell’art. 360 comma 2 c.p.p. 1930, che — conservando la dizione dei precedenti codici — si accontentava di ‘‘qualche somiglianza’’, la nuova disciplina esige che le ‘‘comparse’’ siano ‘‘il più possibile somiglianti’’ al soggetto passivo della ricognizione (59). In dottrina si è efficacemente rilevato che si tratta comunque di ‘‘direttive approssimative’’: il giudice — si è osservato — ‘‘non è un mago dell’illusione teatrale e adopera i mannequins che ha’’ a disposizione (60). (57) In tal senso, v. A. MELCHIONDA, sub art. 214, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 548. Con riferimento al c.p.p. abrogato, cfr. E. FLORIAN, op. cit., p. 614; A. MELCHIONDA, voce Ricognizione (dir. proc. pen.), cit., p. 530 e 535 s.; P. MOSCARINI, op. cit., p. 1; A. SANTORO, op. cit., p. 957; D. VIGONI, op. cit., p. 173. Non appare superfluo, d’altro canto, ricordare che, qualora sia richiesta l’autorizzazione a procedere, è fatto divieto di sottoporre a ricognizione (o a individuazione) la persona rispetto alla quale è prevista l’autorizzazione, fino a quando la medesima non sia stata concessa (cfr. l’art. 343 comma 2 c.p.p. e le deroghe di cui al successivo comma 3). Sull’autorizzazione a procedere, in generale, cfr., per tutti, R. ORLANDI, Aspetti processuali dell’autorizzazione a procedere, Torino, Giappichelli, 1994. (58) Cfr. art. 215 codice di procedura penale del Regno Italico del 1807, il quale — come ricorda F. CORDERO, Procedura, cit., p. 665 s. — più cautamente richiedeva che almeno tre fossero ‘‘le persone approssimativamente consimili’’ da schierare; art. 95 codice di procedura penale per il Regno delle Due Sicilie del 1819; art. 207 § 1 codice criminale estense del 1855; art. 241 c.p.p. 1865; art. 257 c.p.p. 1913; art. 360 comma 2 c.p.p. 1930. (59) Nel senso che le persone somiglianti a quella da riconoscere possono considerarsi ‘‘testimoni ad atti del procedimento’’, cfr. A. GIARDA, Appunti sulla figura del ‘testimonio ad atti processuali penali’, in questa Rivista, 1968, p. 412; A. MELCHIONDA, voce Ricognizione (dir. proc. pen.), cit., p. 535; A. SANTORO, op. cit., p. 958 s. In generale, sulla c.d. testimonianza impropria ex art. 120 c.p.p., cfr. G. CONSO-M. BARGIS, voce Testimonianza ad atti del procedimento, in Glossario, cit., p. 719 s.; P. CORVI, sub art. 120, in Codice, cit., vol. II, cit.; E. LUPO, sub art. 120, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 74 ss.; M. PISANI, Gli atti, in M. PISANI - A. MOLARI - V. PERCHINUNNO - P. CORSO, Appunti, cit., p. 156; G. UBERTIS, sub art. 120, in Commentario, cit., vol. II, cit., p. 56 ss.; G.P. VOENA, Libro II - Atti, in Profili del nuovo codice, cit., p. 120 s. (60) Così F. CORDERO, Codice, cit., p. 263. Sul punto cfr., altresì, E. ALTAVILLA, Il ri-


— 744 — La ‘‘raccomandazione’’ del legislatore, a ogni modo, non è di scarso rilievo, essendo altresì rafforzata dalla prescrizione relativa alla somiglianza ‘‘anche nell’abbigliamento’’ (61): il legislatore tende a ottenere ‘‘un esercizio della rappresentazione nelle condizioni quanto più possibile difficili per la presenza di elementi che ne possono determinare una crisi, il cui superamento non può non ridondare a vantaggio dell’attendibilità’’ (62), e a tutelare, nel contempo, la persona sottoposta a ricognizione, facendo sì che l’attenzione del soggetto attivo della prova non sia attratta in modo particolare su di essa (63). Appare dunque chiaro che solo se appartengono al ‘‘modello’’ preventivamente descritto dal ricognitore, ‘‘i termini comparativi stimolano sforzi selettivi’’; evidentemente, ‘‘i diversi deviano artificiosamente l’attenzione sulla persona da riconoscere’’ (64). Lo stesso dicasi per l’abbigliamento, che dovrebbe essere per tutti il medesimo preventivamente descritto dal ricognitore (65). L’inosservanza della prescrizione per cui il giudice deve procurare la presenza di persone ‘‘il più possibile somiglianti’’ al soggetto passivo della ricognizione non comporta tuttavia l’invalidità dell’atto, integrando una mera irregolarità ex art. 124 c.p.p. (66). E se ne comprende del resto ageconoscimento, cit., p. 190, nonché A. MELCHIONDA, voce Ricognizione (dir. proc. pen.), cit., p. 533, il quale sottolinea ‘‘quanto sia aleatoria e al tempo stesso fondamentale questa fase dell’operazione di ricognizione’’. (61) Già E. ALTAVILLA, Il riconoscimento, cit., p. 177, comparando il c.p.p. 1930 e il codice messicano annoverava tra i pregi di quest’ultimo ‘‘la preoccupazione di una somiglianza anche negli abbigliamenti’’ tra la persona da riconoscere e le persone che le somigliano, sottolineando ‘‘quanta importanza può avere, anche a determinare errori giudiziari, il vestito’’. (62) Così C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. II, cit., p. 543 s., il quale osserva altresì che il rapporto di massima somiglianza possibile tra il soggetto passivo e le persone che lo affiancano durante lo svolgimento della ricognizione ‘‘vale proprio a far sì che si possa essere costretti a sforzi mnemonici che attingono ai particolari e che rafforzano il contenuto della ricognizione’’ stessa. (63) Cfr. D. VIGONI, op. cit., p. 176. (64) F. CORDERO, Procedura, cit., p. 665. Nello stesso senso, v. H.A. HAMMELMANNW. GLANVILLE, op. cit., p. 200, i quali rilevano che, nell’ipotesi in cui siano sottoposte a ‘‘esperimento’’ persone aventi caratteristiche somatiche differenti, l’atto ‘‘fatalmente (corsivo nostro) si risolve a danno’’ della persona da riconoscere; nonché C. PANSERI, op. cit., p. 555. (65) In tal senso, v. A. MELCHIONDA, sub art. 214, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 548, il quale peraltro rileva che sfugge ‘‘la fonte del potere, in capo al giudice, di imporre, se non spontaneamente accettata, una vestizione omogenea al riconoscendo e ai due o più soggetti della comparazione’’. Sulla somiglianza ‘‘anche nell’abbigliamento’’, v. pure F. CORDERO, Codice, cit., p. 263, ove si osserva che se il soggetto da riconoscere ‘‘era scamiciato, non ha senso mettere tuba e stifelius alle comparse; e meno ancora giocare sui contrasti, vestendone uno da ussaro, l’altro sotto panni monacali e via seguitando’’. (66) In questi termini, cfr., in dottrina, N. GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Padova, Cedam, 1992, p. 355. In giurisprudenza, v. Cass., Sez. I, 15


— 745 — volmente la ragione: sarebbe improbo ‘‘misurare’’ le somiglianze; ‘‘né possiamo esigere dei sosia’’ (67). La necessità di adottare particolari cautele nella scelta dei partecipanti all’atto ricognitivo va comunque rimarcata: se è vero, come è vero, che caratteristica peculiare della ricognizione è ‘‘un esame comparativo complesso non soltanto tra due percezioni avute in momenti diversi, ma anche tra la prima e più percezioni contemporanee provocate durante il compimento dell’atto processuale’’ (68), appare evidente che ‘‘sarebbe tanto assurdo quanto inutile ingenerare una situazione che di oggettivamente comparativo non presenti assolutamente nulla’’ (69). Sarebbe, altresì, quanto mai opportuno accertare preventivamente che le ‘‘comparse’’ siano del tutto sconosciute al soggetto attivo della prova: ciò — evidentemente — allo scopo di evitare un riconoscimento ‘‘per esclusione’’, scontato, ma anch’esso del tutto inutile (70). giugno 1994, Sannino, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 518, per la quale ‘‘è irrilevante la circostanza che, nel corso della ricognizione di persona, l’indagato venga collocato fra due persone con caratteristiche fisiche completamente diverse, atteso che le prescrizioni di cui agli artt. 213 e 214 non sono stabilite a pena di nullità e che i risultati della ricognizione possono essere utilizzati per la formazione del convincimento del giudice sulla base del suo prudente apprezzamento’’; in senso conforme, v. Cass., Sez. II, 21 febbraio 1986, Grieco, in Cass. pen., 1987, p. 1624, n. 1343; Cass., Sez. II, 10 febbraio 1983, Fleris, ivi, 1984, p. 2249, n. 1546; Cass., Sez. II, 15 maggio 1981, Olivieri, ivi, 1982, p. 2052, n. 1834, la quale sottolinea che l’inosservanza della prescrizione circa la somiglianza può ‘‘avere incidenza soltanto sul giudizio discrezionale di attendibilità della ricognizione’’; Cass., Sez. I, 13 maggio 1980, Passariello, ivi, 1981, p. 1843, n. 1641; Cass., Sez. I, 1o luglio 1966, Fenaroli, ivi, 1967, p. 1055, n. 1629, per la quale la valutazione del requisito della somiglianza ‘‘è affidata al potere discrezionale del giudice’’. (67) Così F. CORDERO, Procedura, cit., p. 668. (68) C. CANTARANO, op. cit., p. 475. Negli stessi termini, v. G. BELLAVISTA-G. TRANCHINA, Lezioni di diritto processuale penale, Milano, Giuffrè, 1987, p. 326, i quali sottolineano come la ricognizione comporti ‘‘la possibilità di un giudizio, di una scelta de similibus ad similia, secondo la regola logica della prevalenza delle note morfologiche comuni o differenziali’’; G. BONETTO, sub art. 360, in Commentario breve, cit., p. 1049; E. FLORIAN, op. cit., p. 610; G. FOSCHINI, op. cit., vol. II, 1, cit., p. 91; V. MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, 6a ed., a cura di G. Conso e G. D. Pisapia, vol. IV, Torino, Utet, 1972, p. 217. In giurisprudenza, nel senso che gli atti di ricognizione ‘‘hanno come elemento caratteristico l’esame critico della persona’’, v., per tutte, Cass., Sez. III, 28 giugno 1971, Giannini, in Cass. pen., 1972, p. 1766, n. 2558. (69) A. MELCHIONDA, voce Ricognizione (dir. proc. pen.), cit., p. 533. (70) Cfr. A. MELCHIONDA, sub art. 214, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 549. Nello stesso senso, v. H.A. HAMMELMANN-W GLANVILLE, op. cit., p. 201; V. MANZINI, Trattato di diritto processuale, cit., vol. IV, cit., p. 222; G. PANSINI, Le ricognizioni, cit., p. 699; D. VIGONI, op. cit., p. 178. Tali Autori hanno stigmatizzato la prassi invalsa in passato di affiancare alla persona da riconoscere agenti di polizia giudiziaria, ben potendo la loro fisionomia essere nota al ricognitore. Sull’opportunità di evitare, altresì, che le ‘‘comparse’’ conoscano il soggetto passivo della ricognizione — in quanto, ostentatamente o con un atteggiamento involontario, potreb-


— 746 — L’art. 214 comma 1 c.p.p. prosegue prescrivendo che il giudice debba invitare la persona sottoposta a ricognizione a scegliere liberamente il proprio posto accanto o in mezzo alle altre scelte per l’esecuzione dell’atto e quindi allineate. Si tratta di una ‘‘cautela elementare’’ (71), anch’essa di antica origine (72), che consente al soggetto passivo della ricognizione di svolgere un’attività nel proprio interesse, la quale, essendo volta a impedire che l’attenzione del ricognitore sia attratta su di lui a causa della posizione occupata, ‘‘è finalisticamente tesa, altresì, più in generale, alla genuinità dell’atto processuale’’ (73). L’art. 214 comma 1 c.p.p. esorta quindi il giudice procedente ad avere cura che la persona sottoposta a ricognizione ‘‘si presenti, sin dove è possibile, nelle stesse condizioni nelle quali sarebbe stata vista dalla persona chiamata alla ricognizione’’. La ratio di tale disposizione è quella di stimolare la evocazione del ricordo attraverso ‘‘una sorta di riproduzione del già visto’’ (74), al fine di ‘‘evitare che il mancato o l’erroneo riconoscimento sia causato dalle differenti condizioni in cui la persona da riconoscere era apparsa in origine’’ (75). In proposito, occorre precisare che — benché non sia stata accolta la proposta della Commissione parlamentare tesa a estendere la prescrizione in esame anche alle persone somiglianti a quella sottoposta a ricognizione (76) — è ovvio che le ricordate condizioni debbano essere riprodotte per tutti i partecipanti all’atto ricognitivo (77), come del resto la dottrina più attenta non aveva mancato di sottolineare durante la vigenza bero suggerirne l’identificazione al ricognitore — v. E. ALTAVILLA, Il riconoscimento, cit., p. 189; H.A. HAMMELMANN-W. GLANVILLE, op. cit., p. 202; D. VIGONI, op. cit., p. 178. (71) Così F. CORDERO, Codice, cit., p. 263, il quale osserva altresì come ‘‘varrebbe poco se l’atto fosse affatturato: né esistono garanzie formali assolute; a un dato punto bisogna fidarsi’’. (72) Cfr. art. 213 codice di procedura penale del Regno Italico del 1807; art. 95 codice di procedura penale per il Regno delle Due Sicilie del 1819; art. 207 § 1 codice criminale estense del 1855; art. 241 c.p.p. 1865; art. 257 c.p.p. 1913; art. 360 comma 2 c.p.p. 1930. (73) Cfr. G. PANSINI, Le ricognizioni, cit., p. 698; D. VIGONI, op. cit., p. 179. (74) Così G. PANSINI, Le ricognizioni, cit., p. 700 s., il quale precisa che la prescrizione in oggetto ha anche il fine di richiamare alla mente del ricognitore ‘‘l’immagine che ha visto nel momento che rileva a fini probatori, e non in momenti successivi o comunque diversi (ancorché egli non se ne ricordi e quindi non possa aver operato una dichiarazione in tal senso) con il che si sarebbe potuto determinare quella sovrapposizione di immagini che il legislatore ha voluto evitare’’. (75) D. VIGONI, op. cit., p. 178. (76) Il parere della Commissione parlamentare sul punto può leggersi in G. CONSO V. GREVI - G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. IV, Padova, Cedam, 1990, p. 610. (77) Cfr. F. CORDERO, Procedura, cit., p. 666; E. FORTUNA-S. DRAGONE, Le prove, cit., p. 369.


— 747 — del c.p.p. 1930 (78). Diversamente, ‘‘si avrebbe per altra via quella attrazione dell’attenzione su una sola persona che tutto il complesso delle disposizioni già esaminate tende viceversa ad escludere’’ (79). La formula utilizzata dal legislatore — ‘‘stesse condizioni’’ — è peraltro ‘‘vaga’’ (80): oltreché, ovviamente, all’abbigliamento e alle altre caratteristiche personali (ad es. la pettinatura), sembra corretto riferirla alla posa (ritti, seduti, in ginocchio, supini, e così via) e alla posizione rispetto al ricognitore (frontale, obliqua, laterale, di spalle) (81). Non è stato, invece, accolto il suggerimento della Commissione parlamentare di dover specificare che il giudice deve riprodurre anche le condizioni ‘‘di tempo e di luogo’’ nelle quali la persona da riconoscere sarebbe stata vista (82): ciò — secondo la Relazione al testo definitivo del c.p.p. — in quanto la specificazione è stata ritenuta superflua, essendo ‘‘implicitamente già contenuta nelle parole ‘stesse condizioni’ che, insieme con tutte le altre, comprendono le condizioni di tempo e di luogo’’ (83). In realtà — com’è stato acutamente osservato in dottrina — tale giustificazione sembra celare la difficoltà, se non l’impossibilità, nella stragrande maggioranza dei casi, di ‘‘ricostruire le stesse condizioni di luogo dove sarebbe avvenuta l’esperienza visiva da evocare nell’atto della ricognizione’’, non essendo certo possibile ‘‘l’inserimento di scenografie riproducenti le condizioni ambientali di cui si è detto’’ (84). Dopo i preparativi descritti, colui che deve eseguire la ricognizione è nuovamente introdotto alla presenza del giudice (85). Questi deve, peral(78) Cfr. C. CANTARANO, op. cit., p. 475; G. PANSINI, Le ricognizioni, cit., p. 701; D. VIGONI, op. cit., p. 178. (79) G. PANSINI, Le ricognizioni, cit., p. 701. (80) Così F. CORDERO, Procedura, cit., p. 666. (81) In tal senso, v. F. CORDERO, Procedura, cit., p. 666, il quale sottolinea pure come esistano dei limiti al coercibile, essendo l’esperimento ricognitorio ‘‘teatro fino a un dato punto; nessuno può esigere da quel tale che rida, pianga, digrigni i denti, soffi, ululi, e via seguitando’’. (82) Cfr. il parere della Commissione parlamentare, in G. CONSO - V. GREVI - G. NEPPI MODONA, op. cit., vol. IV, cit., p. 610. L’importanza delle condizioni ambientali per l’esattezza del riconoscimento è stata evidenziata efficacemente già da E. ALTAVILLA, Il riconoscimento, cit., p. 194: ‘‘Il nostro ricordo non enuclea, nel suo processo di fissazione, una figura umana, ma la fonde nella complessità dell’ambiente in cui è stata scorta. Porre perciò una persona nella stessa condizione in cui fu vista significa evocare tutta una scena complessa nella quale noi ci accorgiamo se la persona chiamata a riconoscere si armonizza’’. (83) Relazione al testo definitivo del codice di procedura penale, cit., p. 181. (84) Cfr. A. GIARDA, sub art. 214, in Codice, cit., vol. II, cit. (85) Merita di essere segnalato che l’art. 205 c.p.p. — recante la disciplina della testimonianza del Presidente della Repubblica e dei c.d. grandi ufficiali dello Stato — prescrive, al comma 3, che, qualora sia indispensabile la comparizione di una delle persone indicate nel comma 2 (Presidenti delle Camere, Presidente del Consiglio dei Ministri, Presidente della Corte costituzionale) per eseguire un atto di ricognizione (o di confronto o per


— 748 — tro, preliminarmente accertarsi se non vi sia ‘‘fondata ragione di ritenere che la persona chiamata alla ricognizione possa subire intimidazioni o altra influenza dalla presenza di quella sottoposta a ricognizione’’. Qualora ricorra tale eventualità, ‘‘il giudice dispone che l’atto sia compiuto senza che quest’ultima possa vedere la prima’’ (art. 214 comma 2 c.p.p.), utilizzando particolari accorgimenti all’uopo predisposti (86). La Relazione al progetto preliminare sottolinea come tale cautela sia applicabile anche nel dibattimento, non essendo stato riprodotto il relativo divieto previsto dall’art. 360 comma 3 c.p.p. 1930 (87). La più avveduta dottrina, tuttavia, ha messo in luce come la cautela in oggetto — ‘‘così aliena dallo stile accusatorio, notoriamente poco adatto ai pusillanimi’’ — appaia difficilmente compatibile con le strutture giudiziarie destinate al dibattimento, oltreché inutile, nell’ipotesi in cui il ricognitore debba successivamente essere sottoposto a esame incrociato (88). Va, peraltro, osservato che la disposizione sulla ricognizione ‘‘schermata’’, sebbene volta direttamente a tutelare il soggetto attivo della prova — ponendolo ‘‘nella miglior condizione per esprimersi liberamente e per sondare nei meandri della propria memoria la percezione visiva che sta alla base dell’esperimento del mezzo di prova di cui si tratta’’ (89) — può consentire allo stesso soggetto passivo e alle persone che lo affiancano durante la ricognizione un comportamento più naturale rispetto a quello che altra necessità), debba procedersi nelle forme ordinarie, in deroga alla disposizione che consente a tali soggetti di ‘‘chiedere di essere esaminati nella sede in cui esercitano il loro ufficio, al fine di garantire la continuità e la regolarità delle funzioni cui sono preposti’’. Analogamente, l’art. 206 comma 1 c.p.p. dispone che si proceda nelle forme ordinarie qualora sia indispensabile — per le stesse ragioni — la comparizione di un agente diplomatico o di un incaricato di una missione diplomatica all’estero e questi sia assente dal territorio dello Stato: ciò in deroga alla norma che ne prevede l’esame da parte dell’autorità consolare del luogo. Sul tema, cfr., tra gli altri, F. CORDERO, Codice, cit., p. 253 s.; ID., Procedura, cit., p. 632 s.; A. GIARDA, sub artt. 205-206, in Codice, cit., vol. II, cit.; A. PERDUCA, sub artt. 205206, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 479 ss. (86) I sistemi che possono essere impiegati per attuare una ‘‘ricognizione celata’’ sono diversi, come ricorda D. VIGONI, op. cit., p. 181. Quello attualmente più usato prevede ‘‘l’utilizzo di due stanze adiacenti, collegate da uno specchio unidirezionale, ossia da uno schermo che da una parte appare simile a uno specchio, dall’altra invece è trasparente e permette una chiara visione dei soggetti sottoposti all’esperimento’’. L’ altro sistema consiste nel dividere ‘‘una stanza in due parti con una rete che cade dal soffitto; mentre la parte in cui stanno le persone sottoposte all’esperimento è fortemente illuminata, l’altra parte rimane al buio permettendo, così, di osservare, senza essere visti, ciò che accade nell’altro settore’’. Il sistema più semplice, infine, prevede l’utilizzo di uno spioncino nel pannello della porta della stanza nella quale sono disposti il riconoscendo e le ‘‘comparse’’. (87) V. Relazione al progetto preliminare, cit., p. 64. (88) Cfr. F. CORDERO, Codice, cit., p. 263 s.; ID., Procedura, cit., p. 666. (89) A. GIARDA, sub art. 214, in Codice, cit., vol. II, cit.


— 749 — assumerebbero in presenza del chiamato al riconoscimento (90): il che non può non giovare all’atto ricognitivo (91). Posta, dunque, la persona chiamata a espletare la ricognizione a contatto visivo — diretto o schermato che sia — con gli altri soggetti, il giudice deve domandarle se riconosca taluno dei presenti, invitandola, in caso affermativo, ‘‘a indicare chi abbia riconosciuto e a precisare se ne sia certa’’ (art. 214 comma 2, secondo periodo, c.p.p.). L’eventuale indicazione presuppone, naturalmente, che il ricognitore abbia osservato attentamente tutti i soggetti, essendovi, se necessario, esortato dal giudice (92). Occorre sottolineare che la risposta all’interpello del giudice può essere influenzata dalle stesse modalità del procedimento di ricognizione ora descritte: il ricognitore è infatti indotto a ritenere che tra i soggetti sottoposti all’atto ricognitivo si trovi necessariamente la persona da riconoscere. Di conseguenza, ‘‘sentendosi impegnato a riconoscere, in base all’erroneo presupposto che ciò costituisce un’attesa forma di collaborazione con la giustizia, il soggetto attivo si sforzerà di ricordare ed inconsciamente tenterà di ricercare possibili somiglianze tra la persona presentata e l’individuo che ricorda di aver visto’’ (93). Evidentemente, la ricognizione potrà avere esito negativo, qualora la (90)

Cfr. H.A. HAMMELMANN-W. GLANVILLE, op. cit., p. 202 s.; D. VIGONI, op. cit., p.

181. (91) Espressamente diretta a tutelare il soggetto passivo della prova — sotto un profilo affatto diverso — è invece la cautela dettata dal d.lgs. 29 marzo 1993, n. 119 (recante la disciplina del cambiamento delle generalità per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia) all’art. 6 comma 9: vi si prevede che ‘‘quando nel dibattimento occorra procedere a ricognizione della persona protetta’’, durante ‘‘tutto il tempo in cui la persona è presente nell’aula di udienza, il dibattimento si svolge a porte chiuse a norma del primo periodo del comma 2 dell’art. 473’’ c.p.p. Sul dibattimento ‘‘a porte chiuse’’, in generale, cfr., per tutti, D. MANZIONE, sub artt. 472-473, in Commento, cit., vol. V, cit., p. 64 s. Sui sistemi di protezione dei collaboratori di giustizia, in generale, cfr., tra gli altri, A. BERNASCONI, La collaborazione processuale. Incentivi, protezione e strumenti di garanzia a confronto con l’esperienza statunitense, Milano, Giuffrè, 1995, p. 187 ss.; G.C. CASELLI-A. INGROIA, Normativa premiale e strumenti di protezione per i collaboratori della giustizia: tra inerzia legislativa e soluzioni d’emergenza, in Processo penale e criminalità organizzata, a cura di V. Grevi, Bari, Laterza, 1993, p. 219 ss.; M. LAUDI, Imputati pentiti (sistema di protezione), in Dig. disc. pen., cit., vol. VI, 1992, p. 272 ss.; B. SICLARI, La cosiddetta ‘‘gestione dei pentiti’’, in Una nuova giustizia per la nuova Repubblica, Atti del XI Convegno nazionale ‘‘Due giorni giuridica’’, Bari 24-25 giugno 1994, a cura di A.D. De Palma, Bari, Arti Grafiche Europee, 1995, p. 63 ss. (92) Cfr. F. CORDERO, Procedura, cit., p. 666. (93) Così D. VIGONI, op. cit., p. 172 s., nota 6. In senso conforme, v. E. ALTAVILLA, Il riconoscimento, cit., p. 188, il quale osserva efficacemente che il testimone si trova ‘‘non in un’atmosfera di serena attesa, ma di sicura attesa che egli riconoscerà’’; F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, vol. IV, Milano, Giuffrè, 1949, p. 32 s.; H.A. HAMMELMANN-W. GLANVILLE, op. cit., p. 199; C. PANSERI, op. cit., p. 556, la quale sottolinea che la suggestione è ‘‘anche determinata dalla preoccupazione del teste che spesso non vuole apparire inferiore


— 750 — persona chiamata ad eseguirla escluda di riconoscere qualcuno dei presenti, ovvero esito positivo, qualora il ricognitore dichiari di riconoscere uno di essi. Tuttavia, mentre il codice previgente sembrava ammettere questa unica alternativa, laddove prescriveva che il giudice dovesse invitare il ricognitore a dichiarare se avesse riconosciuto ‘‘con sicurezza’’ la persona sottoposta a ricognizione (94), la formula utilizzata dall’art. 214 comma 2 c.p.p. — vale a dire l’invito al ricognitore a precisare ‘‘se sia certo’’ del riconoscimento effettuato — ammette espressamente la possibilità di un riconoscimento ‘‘dubbioso’’ (95), e quindi il riconoscimento ‘‘per percentuale’’ (peraltro già ampiamente accolto nella prassi) (96). È necessario, d’altronde, puntualizzare che, anche nell’ipotesi in cui il ricognitore si dica ‘‘certo’’ del riconoscimento operato, tale giudizio ‘‘egualmente non potrà dirsi, per ciò solo, assolutamente attendibile e vincolante’’ (97): troppe sono le variabili che — come si è cercato fin qui di alle attese di colui che lo interroga’’ e che ‘‘i testimoni sembrano incapaci, quando il loro ricordo è insufficiente a determinare un riconoscimento, di ammettere questa loro incapacità’’. (94) In tal senso, v. A. LI DONNI, op. cit., p. 336; M. MINALE, in La psicologia per un nuovo processo penale, cit., p. 128. (95) In tal senso, cfr. V. PERCHINUNNO, Le prove, cit., p. 237; D. SIRACUSANO, Le prove, cit., p. 409 s. (96) Cfr. A. MELCHIONDA, sub art. 214, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 549. Sul punto, v., altresì, A. GIARDA, sub art. 214, in Codice, cit., vol. II, cit., secondo il quale, anche se l’art. 214 c.p.p. non lo precisa, ‘‘non pare irragionevole sostenere che se il ricognitore esprime apprezzamenti o valutazioni sul grado della propria certezza, sull’origine del proprio convincimento, sui riferimenti dell’opinione espressa, anche questi elementi non devono essere abbandonati e relegati nel novero degli accidenti processuali inutili e quindi trascurati. Anche di essi deve restare traccia formale’’. Nel senso che il riconoscimento per percentuale fosse ‘‘una figura certamente non prevista dal codice’’ Rocco, v. M. MINALE, in La psicologia per un nuovo processo penale, cit., p. 129. (97) Così E. FORTUNA-S. DRAGONE, Le prove, cit., p. 368. In senso conforme, v. A. SANTORO, op. cit., p. 957, ove si osserva che anche un riconoscimento compiuto con sicurezza ‘‘non sfugge al libero apprezzamento del giudice, al quale è consentito di valutare tutte le sfumature dell’operazione’’, tenendo conto, in particolare, delle ‘‘condizioni personali ed obiettive nelle quali il riconoscimento, se è stato positivo, è stato compiuto’’. Sul punto, cfr. pure H.A. HAMMELMANN-W. GLANVILLE, op. cit., p. 209, i quali osservano efficacemente che ‘‘non si dovrebbe attribuire un rilievo decisivo al fatto puro e semplice che un testimonio — e, in specie, l’offeso — non abbia mai nutrito il minimo dubbio sull’identità del reo e, in effetti, lo abbia riconosciuto senza apparente esitazione, soprattutto quando i suoi ricordi si riferiscono a una percezione fuggevole e talvolta viziata dalla tensione emotiva. È risaputo che l’eccesso di confidenza nei propri poteri mnemonici spesso è ingannevole: e questo è uno dei molti equivoci nell’identificazione di persona’’. Nel senso che la ‘‘certezza’’ con cui il riconoscimento viene operato sia più funzione della personalità del ricognitore che della correttezza del riconoscimento, v. E. ALTAVILLA, Il riconoscimento, cit., p. 186, il quale rileva che ‘‘vi sono degli uomini che arrivano con facilità all’immobilità di un sicuro convincimento, vi sono altri che sono corrosi da un perenne dubbio che può arrivare a delle vere forme di angoscia’’: i primi, ‘‘appena credono di avere riconosciuto, si rinchiudono nella loro sicurezza, senza più sottoporre ad una critica il loro


— 751 — evidenziare — possono determinare un riconoscimento errato, in perfetta buona fede. Pertanto, sembra corretto ritenere che, in generale, un atto ricognitivo, il quale abbia avuto esito positivo, ‘‘potrà considerarsi prova sufficiente per l’affermazione di responsabilità dell’imputato solo se suffragato da eventuali elementi di riscontro, anche negativi, che confermino il riconoscimento’’ (98). 4. I poteri coercitivi del giudice. — Al fine di assicurare l’effettivo svolgimento dell’atto di ricognizione, il giudice procedente può avvalersi dei poteri coercitivi attribuitigli dall’art. 131 c.p.p. e, in particolare, può disporre — con decreto motivato — l’accompagnamento coattivo dell’imputato o ‘‘indagato’’ da sottoporre a ricognizione. In proposito, va ricordato che l’art. 132 c.p.p., dettando la disciplina generale dell’accompagnamento coattivo, si limita a far rinvio, quanto ai presupposti, ai ‘‘casi previsti dalla legge’’. Ora, sotto il profilo che qui rileva, il rinvio deve ritenersi riferito all’art. 399 c.p.p. e all’art. 490 c.p.p.: il primo prevede la misura de qua qualora la persona sottoposta alle indagini — la cui presenza sia necessaria ‘‘per compiere un atto da assumere con l’incidente probatorio’’ (come appunto la ricognizione di persona, ex art. 392 comma 1 lett. g c.p.p.) — non sia comparsa, senza addurre alcun legittimo impedimento; il secondo contempla la possibilità di disporre l’accompagnamento coattivo dell’imputato assente o contumace, qualora la sua presenza sia necessaria ‘‘per l’assunzione di una prova diversa dall’esame’’ (dunque, anche per una ricognizione di persona). Interpretando estensivamente l’art. 133 c.p.p., che consente l’accompagnamento coattivo del ‘‘testimone’’ — qualora, regolarmente citato o convocato, ometta, senza un legittimo impedimento, di comparire nel convincimento ed appaiono così sicuri da rasserenare il magistrato; i secondi da qualsiasi osservazione traggono elementi di preoccupazione e possono apparire incerti e qualche volta mendaci’’. Analogamente, v. O. ANDREANI, op. cit., p. 233; O. ANDREANI-L. VECCHIO, op. cit., p. 209 (‘‘non vi è relazione tra l’accuratezza del ricordo e la certezza soggettiva di ricordare bene’’) e p. 216. (98) Trib. S. Maria Capua Vetere, 7 gennaio 1992, Amore, cit. In dottrina, in senso conforme, v., tra gli altri, O. ANDREANI, op. cit., p. 228, la quale rileva che ‘‘il riconoscimento da solo non può bastare per dimostrare la colpevolezza, se non è sorretto da una serie di altri indizi: non a caso la storia è così ricca di esempi di errori giudiziari dovuti a falsi riconoscimenti compiuti anche da testimoni in buona fede’’; G. ESPOSITO, Le prove, cit., p. 132, secondo cui ‘‘esempi più o meno recenti di clamorosi errori dovrebbero sempre portarci ad un approccio assai prudente’’ rispetto all’attività di ricognizione; V. MANZINI, Trattato di diritto processuale, cit., vol. IV, cit., p. 220, il quale sottolinea che i risultati delle ricognizioni ‘‘sono, per se soli (corsivo nostro) scarsamente attendibili’’. La stessa Relazione al progetto preliminare, cit., p. 64, del resto, precisa — come già si è avuto occasione di ricordare (v. supra, par. 1) — che i rigorosi adempimenti precritti dagli artt. 213 e 214 c.p.p. sono ‘‘insufficienti da soli ad assicurare piena attendibilità’’ alla ricognizione.


— 752 — luogo, giorno e ora stabiliti —, deve altresì ritenersi passibile di accompagnamento il soggetto attivo della ricognizione (99). Dicevamo poc’anzi che il giudice può avvalersi dei poteri coercitivi ex art. 131 c.p.p.: in giurisprudenza al riguardo si è affermato che al giudice procedente va riconosciuto il potere (che è anche un dovere) di ‘‘usare tutti i mezzi necessari all’espletamento della prova tipica in questione, compreso quello di fare abbassare coattivamente all’imputato le mani con le quali egli copra il proprio volto’’. Ciò in considerazione del fatto che, quando deve procedersi a ricognizione personale — così come nelle ipotesi di perquisizione e ispezione personale — ‘‘l’imputato si trasforma in ‘oggetto di prova’ e non può impedire, con un atteggiamento ostruzionistico, il ricorso al predetto mezzo’’ (100). Invero, già durante la vigenza del codice Rocco la giurisprudenza di legittimità aveva dato soluzione positiva alla questione relativa all’ammissibilità di una ricognizione di persona effettuata contro la volontà dell’imputato, ritenendosi che il diritto di questi di non collaborare con gli organi (99) Sul punto, cfr. A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 544, ove si osserva che, qualora la partecipazione dei vari soggetti necessari per lo svolgimento della ricognizione — ivi comprese le ‘‘comparse’’ — fosse rimessa esclusivamente alla loro spontanea disponibilità, ‘‘la realizzazione di una ricognizione di persona sarebbe quanto mai difficile, se non impossibile’’. Sui poteri coercitivi del giudice e sull’accompagnamento coattivo, in generale, cfr. L.D. CERQUA, sub artt. 131-133, in Codice, cit., vol. II, cit.; G. CONSO-M. BARGIS, voce Accompagnamento coattivo, in Glossario, cit., p. 2 ss.; F. CORDERO, Codice, cit., p. 157 ss.; P. DUBOLINO - T. BAGLIONE - F. BARTOLINI, Il nuovo codice di procedura penale illustrato per articolo, 3a ed., Piacenza, La Tribuna, 1992, p. 383 ss.; A. GALATI, Gli atti, in D. SIRACUSANO A. GALATI - G. TRANCHINA - E. ZAPPALÀ, Diritto processuale, cit., vol. I, cit., p. 283 s.; A. GIANNONE, sub artt. 132-133, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 138 ss.; A. JAZZETTI, L’atto processuale, in A. JAZZETTI-M. PACINI, La disciplina degli atti nel nuovo processo penale, Milano, Giuffrè, 1993, p. 56 ss.; M. PISANI, Gli atti, cit., p. 167 ss.; P.P. RIVELLO, Alcune brevi osservazioni in tema di accompagnamento coattivo, in Cass. pen., 1990, I, p. 1840 ss.; R. SANLORENZO-F. LA MARCA, voce Accompagnamento coattivo, in Dig. disc. pen., cit., vol. VI, (App.), 1990, p. 468 s.; S. SORRENTI, sub art. 131, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 134 ss.; M.T. STURLA, sub artt. 131-133, in Commentario, cit., vol. II, cit., p. 108 ss.; G.P. VOENA, Libro II - Atti, cit., p. 136 ss. Sull’accompagnamento coattivo per l’incidente probatorio, in particolare, cfr., tra gli altri, P.L. VIGNA, sub art. 399, in Commento, cit., vol. IV, cit., p. 496 s. Quanto, poi, all’accompagnamento coattivo dell’imputato assente o contumace, cfr., per tutti, A. MELCHIONDA, sub art. 490, in Commento, cit., vol. V, cit., p. 168 ss.; in giurisprudenza, con specifico riferimento alla ricognizione personale, v. Pret. Saluzzo, 18 dicembre 1990, in Dif. pen., 1991, f. 31, p. 89, n. 198. (100) V. Trib. Piacenza, 13 dicembre 1991, Quirci, in Cass. pen., 1993, p. 448, n. 292, con nota adesiva di P. VENTURATI, Ricognizione di persona e poteri coercitivi del giudice. Sulla circostanza che l’imputato, in sede di ricognizione, sia mero ‘‘oggetto di prova’’, cfr. O. DOMINIONI, voce Imputato, in Enc. dir., cit., vol. XX, 1970, p. 813; in senso conforme, v. A. MELCHIONDA, voce Ricognizione (dir. proc. pen.), cit., p. 535, il quale sottolinea la ‘‘inerte partecipazione’’ del soggetto passivo della ricognizione.


— 753 — inquirenti ex art. 78 comma 3 c.p.p. 1930 non potesse estendersi anche ‘‘all’ipotesi in cui non si richieda all’imputato un comportamento attivo, un ‘facere’, ma esso rappresenti unicamente il soggetto passivo di accertamenti che vengono eseguiti da altri e di cui egli non è attivo protagonista’’(101). Tali argomentazioni — difficilmente contestabili — debbono ritenersi valide anche alla luce della nuova normativa (102) e sono state, difatti, sostanzialmente riprodotte dalla interessante decisione di merito sopra ricordata, la quale ha ritenuto legittimo l’ordine dato dal presidente del col(101) Cfr. Cass., Sez. II, 18 maggio 1987, Pino, in Giur. it., 1988, II, c. 373, con nota di G. DE ROBERTO, e in Cass. pen., 1990, p. 651, n. 602, con nota adesiva di P. FERRUA, Sulla legittimità della ricognizione compiuta contro la volontà dell’imputato, il quale osserva che ‘‘benché nessuna norma la autorizza esplicitamente, l’esecuzione in forma coatta di una ricognizione non sembra contrastare coi principi generali del nostro processo, dove l’imputato figura come ‘soggetto’ nella piena ambivalenza del termine: soggetto del processo, ma anche soggetto al processo’’. Invero, l’ammissibilità della ricognizione coattiva era stata già riconosciuta da G. I. Trib. Torino, 17 ottobre 1978, Alunni (in questa Rivista, 1980, p. 326, con nota critica di C. PIACENTINI, In tema di rifiuto dell’imputato a sottostare alla ricognizione personale), la quale — avendo sollevato conflitto con G. I. Trib. Roma per la mancata evasione, da parte di quest’ultimo, della richiesta di procedere a ricognizione di persona — affermava che quando l’imputato rifiuti di sottostare alla ricognizione e ‘‘non sia possibile procedere a riconoscerlo a sua insaputa, il giudice deve tentare l’esperimento della prova con diverse modalità, non escluso il compimento coattivo dell’atto’’. Dal canto suo, la Cassazione (Sez. I, 29 marzo 1979, Alunni, in Giur. it., 1980, II, c. 147) — nel dichiarare l’improponibilità del conflitto — confermava implicitamente la legittimità dell’atto ricognitivo eseguito coattivamente, pur paventando il rischio che l’atto così compiuto degradasse a ‘‘semplice identificazione’’. In ordine a queste prime pronunce giurisprudenziali non erano tuttavia mancate obiezioni e riserve: cfr. D. MANZIONE, voce Ricognizione e confronti, in Noviss. dig. it., cit., App., vol. VI, 1986, p. 740, per il quale più che il ricorso al compimento coattivo dell’atto ‘‘appare legittimo attribuire rilevanza probatoria allo stesso comportamento processuale dell’imputato’’ — di opposizione o di ostruzionismo — ‘‘in perfetta analogia con quanto avviene in tema di rilascio di saggio grafico onde poter procedere a perizia calligrafica’’; A. MELCHIONDA, voce Ricognizione (dir. proc. pen.), cit., p. 536 secondo cui deve ritenersi prevalente ‘‘il diritto alla non collaborazione, tanto da legittimare il dubbio anche in ordine alla liceità di un coattivo accompagnamento dell’imputato nel luogo predisposto alla ricognizione’’; C. PIACENTINI, op. cit., p. 335, per il quale la coazione suscita ‘‘il sospetto che un mezzo di prova così acquisito implichi una retrocessione delle garanzie difensive troppo costosa’’. (102) In tal senso, cfr. N. GALANTINI, L’inutilizzabilità, cit., p. 356, nota 252, la quale rileva che ‘‘non esiste alcun divieto circa l’esecuzione coattiva dell’ atto’’ e che ‘‘l’atto così compiuto non implica necessariamente l’inosservanza delle forme previste ex lege’’; P. FERRUA, op. cit., p. 653, il quale osserva, tra l’altro, che se è vero che l’art. 13 comma 2 Cost. ammette restrizioni della libertà personale solo ‘‘per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge’’, è altrettanto vero che ‘‘la coercibilità di posizioni passive, come essere riconosciuto o ispezionato, risulta dalle norme che consentono a tali fini l’accompagnamento coattivo dell’imputato’’; nonché S. RAMAJOLI, La prova, cit., p. 140 ss.


— 754 — legio alla forza pubblica di togliere coattivamente dal viso le mani che l’imputato si poneva per sottrarsi alla ricognizione. A sostegno della soluzione adottata, nella motivazione della pronuncia de qua si è sottolineato che ‘‘non avrebbe alcun senso disporre l’accompagnamento coattivo di un imputato’’ se poi ‘‘si permettesse a costui di vanificare con atteggiamenti ostruzionistici l’assunzione delle prove’’ per le quali tale misura è consentita (103); e si è altresì correttamente richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 54 del 1986, la quale — ritenendo costituzionalmente legittimo il prelievo ematico coatto — ha stabilito che il giudice non potrebbe disporre mezzi istruttori coercitivi nei confronti dell’imputato solo qualora essi ‘‘mettessero in pericolo la vita o l’incolumità o risultassero lesivi della dignità della persona o invasivi dell’intimo della sua psiche’’ (104). Sotto quest’ultimo profilo, si è pure puntualizzato che la ricognizione coattiva non trova ostacolo nell’art. 188 c.p.p. che ‘‘vieta il ricorso a metodi o tecniche capaci di influire su un comportamento attivo della persona, ma non certo il ricorso a tutti quegli espedienti necessari (eventualmente anche l’uso della forza) per l’espletamento di un mezzo istruttorio cui l’imputato è obbligato a sottoporsi’’ (105). Orbene, se — anche alla luce di tali considerazioni — la ricognizione coattiva deve egualmente ritenersi legittimamente acquisita, non si può peraltro fare a meno di sottolineare che tali ‘‘anomale’’ modalità di svolgimento possono compromettere irrimediabilmente l’attendibilità dell’atto ricognitivo. Infatti, come si è già ricordato (v. supra, par. 3), la genuinità dell’atto processuale in discorso ‘‘ha come presupposto l’assenza assoluta di ogni possibilità di richiamo dell’attenzione su una delle persone’’ che partecipano all’esperimento (106). Sarà pertanto compito del giudice ‘‘valutare, secondo la propria esperienza, la prova acquisita, il risultato in (103) Cfr. Trib. Piacenza, 13 dicembre 1991, Quirci, cit. (104) Nel senso che la ratio decidendi di Corte cost., 24 marzo 1986, n. 54 (in Giur. cost., 1986, p. 387) dovesse indurre, a fortiori, a ritenere la legittimità della ricognizione coattiva si era già espresso G. DE ROBERTO, op. cit., c. 374. (105) V. Trib. Piacenza, 13 dicembre 1991, Quirci, cit. Sulla tutela della libertà morale nell’assunzione della prova, in generale, cfr., tra gli altri, F. CORDERO, Codice, cit., p. 229; ID., Procedura, cit., p. 584 s.; P. CORVI, sub art. 188, in Codice, cit., vol. II, cit.; M. NOBILI, sub art. 188, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 395 ss.; S. RAMAJOLI, La prova, cit., p. 8 ss.; C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. II, cit., p. 453 ss. Per un’analisi dei metodi e delle tecniche ‘‘idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti’’, e, pertanto, ora vietati dall’art. 188 c.p.p., cfr. I. RAMPOLDI, Mezzi atipici di ricerca della verità attraverso l’individuo: ammissibilità ed attendibilità, in Trattato di psicologia giudiziaria, cit., p. 579 ss.; E. ZAPPALÀ, Il principio di tassatività dei mezzi di prova, Milano, Giuffrè, 1982, p. 137 ss. (106) G. PANSINI, Le ricognizioni, cit., p. 698.


— 755 — concreto raggiunto, prendendo anche eventualmente atto che l’esperimento è fallito’’ (107). 5. La ricognizione plurima. — Può accadere che più soggetti siano chiamati a riconoscere la medesima persona (pluralità dal lato attivo) ovvero che uno stesso soggetto sia chiamato a riconoscere più persone (pluralità dal lato passivo) (108). Riproducendo pedissequamente l’art. 362 c.p.p. 1930 — salvo alcune varianti lessicali —, l’art. 217 c.p.p. dispone che, in entrambe le ipotesi, il riconoscimento debba essere eseguito separatamente. La struttura del procedimento, dunque, resta invariata anche nell’ipotesi di complessità soggettiva od oggettiva della ricognizione (109), prevedendo il legislatore ulteriori cautele tese ad assicurare la genuinità della prova (110). In particolare, qualora più persone siano chiamate a espletare la ricognizione della medesima persona, il giudice deve impedire ‘‘ogni comunicazione tra chi ha compiuto la ricognizione e coloro che devono ancora eseguirla’’ (art. 217 comma 1 c.p.p.). La norma mira, evidentemente, a scongiurare il pericolo di reciproca suggestione fra coloro che sono chiamati a operare la ricognizione (111). Si pensi, ad esempio, all’eventualità che chi ha già eseguito la ricognizione indichi o descriva a coloro che devono ancora compierla i soggetti utilizzati per la ‘‘messa in scena’’ dell’atto ricognitivo: ‘‘una simile informazione potrebbe pregiudicare senza scampo l’esito genuino della ricognizione’’ (112). Ovviamente — come si è affermato in giurisprudenza — in presenza di ricognizioni plurime tutte convergenti (e ‘‘genuine’’), ben maggiore (107) P. VENTURATI, op. cit., p. 455. (108) Cfr. A. SANTORO, op. cit., p. 958, il quale sottolinea che, ovviamente, nello stesso tempo, vi possono essere più persone identificatrici e più persone da identificare. (109) Cfr. E. FLORIAN, op. cit., p. 617. (110) Secondo A. MELCHIONDA, sub art. 217, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 556, tali prescrizioni sono, tutto sommato, superflue: ‘‘il giudice, pensoso del buon risultato di eventuali ricognizioni plurime, si atterrebbe ai criteri descritti dall’art. 217 c.p.p. ‘‘anche se il legislatore avesse al riguardo taciuto’’. (111) Cfr. E. ALTAVILLA, Il riconoscimento, cit., p. 203, il quale sottolinea che evitare la suggestione reciproca dei ricognitori ‘‘significa dare la possibilità all’uno di rettificare l’errore dell’altro’’. L’Autore, peraltro, evidenzia le difficoltà pratiche di attuazione di questa cautela, dovendosi isolare ogni ricognitore fino alla conclusione dell’operazione ricognitiva. Nello stesso senso, cfr., altresì, D. VIGONI, op. cit., p. 180 s., la quale ricorda come la cautela in esame — prevista sia dal c.p.p. 1865 (art. 243) che dal c.p.p. 1913 (art. 258) — fosse già contemplata nelle legislazioni preunitarie (v. art. 95 codice di procedura penale per il Regno delle Due Sicilie del 1819 e art. 208 § 1 codice criminale estense del 1855). Sul tema, v. pure H.A. HAMMELMANN-W. GLANVILLE, op. cit., p. 198 s. (112) Così A. GIARDA, sub art. 217, in Codice, cit., vol. II, cit., il quale rileva altresì che ‘‘purtroppo non è prevista alcuna cautela’’ per ‘‘scongiurare eventuali ‘accordi’ preventivi tra coloro che saranno chiamati alla ricognizione e colui che vi sarà sottoposto oppure tra gli stessi chiamati a riconoscere una medesima persona’’.


— 756 — sarà il grado di attendibilità delle stesse, ‘‘sempreché non siano dubbiose e perplesse: ché in tal caso la sommatoria di elementi omologhi, tutti di debole significato probatorio, non produrrebbe un risultato di maggiore probabilità’’ (113). Quanto all’ipotesi inversa in cui una medesima persona sia chiamata a riconoscere più persone (art. 217 comma 2 c.p.p.), il giudice deve provvedere in modo che, per ogni atto, il soggetto passivo della ricognizione sia collocato tra persone diverse (ovviamente, nel rispetto dei criteri fissati dall’art. 214 comma 1 c.p.p.). Anche questa cautela riveste importanza capitale (114), vi sia stato o meno riconoscimento: ‘‘i ripresentati è chiaro che siano finte ‘persone’ ’’ (115). L’art. 217 comma 3 c.p.p. dispone che alle ricognizioni plurime ‘‘si applicano le disposizioni degli articoli precedenti’’; ma — com’è stato esattamente osservato — la norma appare superflua, giacché la disciplina ora esaminata ‘‘non aggiunge un’altra species del genus ricognizione’’ (116). È evidente, dunque, che restino ‘‘immutati presupposti, iter di svolgimento, documentazione, sanzioni’’ (117). 6. Documentazione. — L’art. 213 comma 2 c.p.p. prescrive che nel verbale sia fatta menzione — a pena di nullità della ricognizione — degli adempimenti previsti dall’art. 213 comma 1 e delle dichiarazioni rese dal soggetto attivo della prova; a sua volta, l’art. 214 comma 3 c.p.p. richiede che nel verbale sia fatta menzione — sempre a pena di nullità — delle modalità di svolgimento dell’operazione ricognitiva (118). (113) Così Trib. S. Maria Capua Vetere, 7 gennaio 1992, Amore, cit., secondo cui ‘‘la valenza probatoria di una ricognizione personale, anche se promanante da più soggetti tra loro concordi, postula l’assenza di elementi idonei a rendere altamente probabile l’erroneità del riconoscimento — quale, ad esempio, l’accertata esistenza di un sosia ricollegabile ai medesimi fatti’’. (114) Come ricorda D. VIGONI, op. cit., p. 181, la cautela in oggetto era già presente nel c.p.p. 1865 (art. 244) e nel codice criminale estense del 1855 (art. 209). (115) F. CORDERO, Procedura, cit., p. 667. Peraltro, la sostituzione delle persone presentate quali termini comparativi non può impedire che il precedente atto di riconoscimento abbia ‘‘una certa importanza suggestiva, come quando si sapesse che tra due persone si ritiene che debba essere necessariamente il colpevole, ed allora il mancato riconoscimento della prima può, per via di esclusione, persuadere che la seconda sia la colpevole ed influire sulla ricognizione’’ (così E. ALTAVILLA, Il riconoscimento, cit., p. 202). (116) Così A. GIARDA, sub art. 217, in Codice, cit., vol. II, cit. Dello stesso avviso è F. CORDERO, Codice, cit., p. 265. (117) A. GIARDA, sub art. 217, in Codice, cit., vol. II, cit. (118) La necessità di un’accurata verbalizzazione di tutto il procedimento di ricognizione era già stata evidenziata da E. ALTAVILLA, Il riconoscimento, cit., p. 203 ss. Sul verbale e sulle altre forme di documentazione degli atti del procedimento, in generale, cfr. S. BERSANO BEGEY, sub artt. 139-142, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 161 ss.; M. BOUCHARD, sub artt. 134-138, ivi, p. 147 ss.; F. CERVETTI, voce Verbale (dir. proc. pen.),


— 757 — Per ciò che concerne gli atti preliminari alla ricognizione — da menzionare ‘‘possibilmente secondo l’ordine stabilito’’ (119) — ben si comprende come le difficoltà ricordate (v. supra, par. 2) in ordine alla descrizione della persona da riconoscere si ripercuotano sulla relativa verbalizzazione (120). Quanto allo svolgimento della ricognizione vera e propria, va rilevato che, durante la vigenza del codice Rocco, la prassi ometteva a volte perfino di indicare le generalità e le caratteristiche somatiche delle persone somiglianti a quella da riconoscere (121): il che rendeva praticamente impossibile la verifica dell’attendibilità della ricognizione al momento della valutazione della prova. Opportunamente, dunque, il codice vigente prescrive la puntuale verbalizzazione dell’intera operazione ricognitiva: è necessario pertanto indicare, tra l’altro, il numero e le generalità delle persone presenti, il loro abbigliamento, la collocazione del soggetto passivo della ricognizione, se la persona chiamata a riconoscere sia o meno visibile da parte del soggetto passivo, la risposta del ricognitore alla domanda se sia certo del riconoscimento compiuto, eventuali incidenti occorsi durante l’esecuzione dell’atto. Non è superfluo precisare che, nell’ipotesi di pluralità di ricognizioni, dal momento che i singoli atti di ricognizione restano giuridicamente distinti, per ognuno di essi andrà redatto un separato verbale (122). in Enc. dir., cit., vol. XLVI, 1993, p. 614 ss.; G. CONSO-M. BARGIS, voce Documentazione degli atti, in Glossario, cit., p. 166 ss.; F. CORDERO, Codice, cit., p. 158 ss.; ID., Procedura, cit., p. 320 ss.; P. CORVI, sub artt. 134-142, in Codice, cit., vol. II, cit.; G. DI FEDERICOA. NICOLÌ, voce Verbalizzazione (dir. proc. pen.), in Enc. giur., cit., vol. XXXII, 1994, p. 1 ss.; P. DUBOLINO - T. BAGLIONE - F. BARTOLINI, op. cit., p. 386 ss.; E. FORTUNA, Gli atti, in E. FORTUNA - S. DRAGONE - E. FASSONE - R. GIUSTOZZI - A. PIGNATELLI, Manuale, cit., p. 291 ss.; N. GALANTINI, sub artt. 134-142, in Commentario, cit., vol. II, p. 121 ss.; A. NAPPI, voce Documentazione degli atti, in Dig. disc. pen., cit., vol. IV, 1990, p. 163 ss.; M. PISANI, Gli atti, cit., p. 171 ss.; L. RIELLO, Appunti in tema di documentazione degli atti nel nuovo codice di rito penale, in Arch. n. proc. pen., 1991, p. 685 ss., e in Nuovo dir., 1991, p. 355 ss.; G.P. VOENA, Libro II - Atti, cit., p. 138 ss. (119) Così A. GIARDA, sub art. 213, in Codice, cit., vol. II, cit., il quale osserva altresì che i commi 2 e 3 dell’art. 213 c.p.p. costituiscono due distinte previsioni di un unico intento: ‘‘rendere obbligatoria in modo tassativo l’osservanza della sequela procedimentale fissata’’ nell’art. 213 comma 1 c.p.p. (120) ‘‘L’ atto più difficile a verbalizzarsi e per il quale occorrerebbe trascrivere integralmente le parole’’ del ricognitore ‘‘è la descrizione, perché una semplice variante verbale potrebbe determinare i maggiori equivoci’’: così E. ALTAVILLA, Psicologia giudiziaria, 4a ed., vol. II, Torino, Utet, 1955, p. 995. (121) Nel senso che — non essendo prevista a pena di nullità — non fosse richiesta l’indicazione delle generalità delle persone ‘‘somiglianti’’ intervenute alla ricognizione, v. Cass., Sez. I, 13 maggio 1980, Passariello, cit. Contra, nel senso che l’omissione delle generalità delle ‘‘comparse’’ configurasse una nullità relativa, v. Cass., Sez. I, 10 aprile 1979, Del Giudice, in Cass. pen., 1980, p. 1392, n. 1393. (122) In tal senso — con riferimento al c.p.p. 1930 — v. G. BONETTO, sub art. 362, in Commentario breve, cit., p. 1051.


— 758 — L’‘‘arnese letterario’’, peraltro, appare inadeguato alla funzione descrittiva, ‘‘considerati anche i limiti dello stile cancellieresco’’ (123). Al fine di ‘‘rendere possibile una più precisa ricostruzione delle modalità di svolgimento quando occorre avvalersi dei risultati della ricognizione in sede decisoria’’ — si legge nella Relazione al progetto preliminare (124) —, l’art. 214 comma 3 c.p.p. autorizza pertanto il giudice a utilizzare per la documentazione — a sua discrezione — ‘‘rilevazioni fotografiche o cinematografiche’’ ovvero ‘‘altri strumenti o procedimenti’’ (125). Si tratta di un’innovazione di rilevante portata (126), che consente appunto anche in momenti successivi, e pur lontani nel tempo, di ‘‘concretamente apprezzare e più consapevolmente valutare sia le modalità di svolgimento dell’operazione sia il grado di attendibilità del risultato’’ (127). Ovviamente, tra le possibili alternative rimesse alla discrezionalità del giudice, appare senz’altro preferibile una ripresa audiovisiva (128). 7. Sanzioni processuali. — La ricognizione personale può essere colpita da nullità (129) nell’ipotesi in cui le espresse modalità concernenti gli atti preliminari, individuate dall’art. 213 comma 1 c.p.p., non vengano (123) Cfr. F. CORDERO, Procedura, cit., p. 668; ID., Codice, cit., p. 264, ove si osserva che ‘‘costano fatica letteraria le ricognizioni personali a chi le documenta (ossia al giudice, sotto la cui dettatura presumibilmente scrive l’ausiliario, se non ha talenti narrativi fuori del comune) e che ‘‘nemmeno Balzac garantirebbe referti adeguati’’. (124) Relazione al progetto preliminare, cit., p. 64. (125) Non è stato accolto il parere del Consiglio dell’ordine degli avvocati e procuratori di Prato (in G. CONSO - V. GREVI - G. NEPPI MODONA, op. cit., vol. IV, cit., p. 610), secondo cui il giudice avrebbe dovuto necessariamente disporre la documentazione con tali modalità in presenza di una richiesta di parte. (126) Cfr. A. MELCHIONDA, sub art. 214, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 550, il quale auspica che tale novità ‘‘si traduca in consuetudine certa’’. La possibilità per il giudice di documentare l’attività svolta con mezzi diversi dal consueto verbale è sottolineata altresì da G. ESPOSITO, Le prove, cit., p. 132; P. MOSCARINI, op. cit., p. 3; A. NAPPI, Guida, cit., p. 350. Per P. DUBOLINO - T. BAGLIONE - F. BARTOLINI, op. cit., p. 607, l’innovazione de qua, peraltro, ‘‘non fa che esplicitare quanto doveva implicitamente ritenersi consentito, in assenza di specifici divieti, anche sotto l’impero del vecchio codice’’. Va rilevato che l’utilità della documentazione fotografica dell’operazione ricognitiva era già stata segnalata in dottrina: v., tra gli altri, H.A. HAMMELMANN-W. GLANVILLE, op. cit., p. 208; G. PANSINI, Le ricognizioni, cit., p. 699 s. (127) A. MELCHIONDA, sub art. 214, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 550. (128) In tal senso, v. F. CORDERO, Codice, cit., p. 264; ID., Procedura, cit., p. 668. Sulla riproduzione audiovisiva ex art. 139 c.p.p., oltre agli Autori citati retro, sub nota 118, cfr., per interessanti profili comparatistici, G. D’AIETTI, Tecniche di registrazione video e audio nel processo penale, in Doc. giustizia, 1988, n. 11, p. 75 ss.; A. MESTITZ, La documentazione nel processo penale e la videoregistrazione: esperienze e ricerche, ivi, 1992, n. 6, p. 635 ss. (129) Sulla disciplina delle nullità nel c.p.p. 1988, in generale, cfr., E. BASSO, sub artt. 185-186, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 365 ss; V. CAVALLARI, sub artt. 177-181, ivi, p. 277 ss.; E. CIABATTI, sub artt. 182-184, ivi, p. 344 ss.; ID., Nullità, in Commento, cit.,


— 759 — ottemperate oppure — come si è accennato poc’anzi trattando della documentazione (v. supra par. 6) — qualora delle medesime e delle dichiarazioni rese dal ricognitore non sia fatta menzione nel verbale (art. 213 comma 3 c.p.p.). La stessa sanzione è comminata — come pure si è ricordato — in caso di mancata indicazione nel verbale delle specifiche modalità di esecuzione esplicitate dall’art. 214 commi 1 e 2 c.p.p. (v. art. 214 comma 3 c.p.p.) (130). Da un esame comparativo con le corrispondenti norme del codice previgente, emerge un’accentuazione delle previsioni di nullità (131), Primo aggiornamento, 1993, p. 479 ss.; G. CONSO-M. BARGIS, voce Nullità, in Glossario, cit., p. 432 ss.; F. CORDERO, Codice, cit., p. 204 ss.; ID., Procedura, cit., p. 1022 ss.; P. CORVI, sub artt. 177-186, in Codice, cit., vol. II, cit.; A.A. DALIA-R. NORMANDO, voce Nullità degli atti processuali (dir. proc. pen.), in Enc. giur., cit., vol. XXI, 1990, p. 23 ss.; O. DOMINIONI, sub artt. 177-186, in Commentario, cit., vol. II, cit., p. 257 ss.; A. JAZZETTI, La nullità, in A. JAZZETTI-M. PACINI, La disciplina degli atti, cit., p. 229 ss.; A. GALATI, Gli atti, cit., p. 324 ss.; G. LOZZI, op. cit., p. 90 ss.; G. MARABOTTO, voce Nullità nel processo penale, in Dig. disc. pen., cit., vol. VIII, 1994, p. 268 ss.; A. NAPPI, Guida, cit., p. 115 ss.; M. PISANI, Gli atti, cit., p. 203 ss.; C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. II, cit., p. 405 ss.; G.P. VOENA, Libro II - Atti, cit., p. 170 ss. (130) Secondo A. CAMPO, Appunti in tema di ricognizione e ‘‘ravvisamento’’, in Cass. pen., 1994, p. 131, ‘‘appare almeno singolare’’ che la nullità sia ricollegata, ex art. 214 comma 3 c.p.p., a una verbalizzazione incompleta delle modalità di svolgimento dell’atto ricognitivo e non sia espressamente prevista anche ‘‘nel caso in cui siano trasgredite le modalità stesse’’. E la ‘‘dimenticanza’’ nella quale sembra essere incorso il legislatore del 1988 risulta tanto più sorprendente ‘‘allorché si vada a confrontare il testo dell’odierno art. 214 c.p.p. con quello del correlativo art. 204 del progetto preliminare del 1978, il quale contemplava espressamente quale causa di nullità della ricognizione anche l’inosservanza delle modalità di svolgimento di essa, e sopra tutto allorché si constati che non vi è nei lavori preparatori e nella relazione indicazione delle ragioni che hanno indotto a discostarsi dal ‘modello’ ’’. Per analoghe riserve sulla tecnica di previsione della nullità contemplata dall’art. 214 comma 3 c.p.p., v. A. GIARDA, sub art. 214, in Codice, cit., vol. II, cit. (131) Cfr. la Relazione al progetto preliminare, cit., p. 64, ove si osserva che l’essenzialità degli adempimenti prescritti — sia con riferimento agli atti preliminari alla ricognizione vera e propria che alla esecuzione di questa — ‘‘ha imposto negli artt. 213 e 214 la previsione della sanzione di nullità, anche soltanto per la mancata menzione in verbale del loro svolgimento’’. In proposito, va rilevato che l’art. 142 c.p.p., individuando le cause di nullità del verbale nella ‘‘incertezza assoluta sulle persone intervenute’’ e nella mancanza della ‘‘sottoscrizione del pubblico ufficiale che lo ha redatto’’, nel suo esordio fa salve ‘‘particolari disposizioni di legge’’. Ebbene, la clausola di salvezza attiene proprio alla materia delle ricognizioni: la documentazione è infatti prevista ‘‘a pena di nullità’’ soltanto per questo mezzo di prova. Si tratta di un caso in cui ‘‘la documentazione dell’atto funge da condizione di validità del suo contenuto’’: così G.P. VOENA, Libro II - Atti, cit., p. 144 s. (v. pure p. 122, ove si osserva che ‘‘non solo la forma intesa come struttura dell’atto risulta minuziosamente prescritta, ma su questa reagisce anche la forma quale modo della documentazione’’). Nel senso che dovesse ritenersi ‘‘eccessiva’’ la previsione della sanzione di nullità ‘‘per mancata menzione nel relativo verbale anche di uno solo degli adempimenti preliminari con-


— 760 — quale sanzione per l’inosservanza di prescrizioni di tenore formale: il legislatore delegato ‘‘ha in effetti seguito, in tema di ricognizione, la filosofia iniziale di ricondurre alla nullità l’inosservanza delle forme degli atti a natura probatoria’’ (132). Sorprende, peraltro, che le importanti regole dettate dall’art. 217 c.p.p. per la ricognizione plurima non siano previste a pena di nullità (133). Vero è che il comma 3 richiama le ‘‘disposizioni degli articoli precedenti’’; tuttavia tale rinvio non sembra comportare la nullità della prova in caso di inosservanza delle peculiari cautele contemplate dall’art. 217 c.p.p. Dunque, l’atto ricognitivo sarebbe valido anche se le operazioni venissero cumulate o se i soggetti da riconoscere fossero successivamente presentati allo stesso ricognitore fra le identiche persone o ancora nell’ipotesi in cui chi ha già eseguito il riconoscimento comunichi con chi deve ancora effettuarlo (134). Per quanto concerne la qualificazione delle nullità comminate dagli artt. 213 e 214 c.p.p., si tratta, evidentemente, di nullità relative, sottopo-

templati nel comma 1’’ dell’art. 213 c.p.p., cfr. il parere espresso dalla Corte di cassazione (in G. CONSO - V. GREVI - G. NEPPI MODONA, op. cit., vol. IV, cit., p. 609), la quale aveva pertanto proposto di ‘‘limitare il richiamo’’ dell’art. 213 comma 3 c.p.p. ‘‘al comma 2 e alla omessa menzione delle dichiarazioni rese da chi deve eseguire la ricognizione’’. (132) Così N. GALANTINI, L’inutilizzabilità, cit., p. 352; nello stesso senso, v. M. NOBILI, La nuova procedura, cit., p. 153. Cfr. pure la Relazione al progetto preliminare, cit., p. 61, la quale chiarisce come l’inutilizzabilità si contrapponga alla nullità, ‘‘riservata alla violazione delle forme degli atti processuali’’. Non è superfluo ricordare che, in base al disposto dell’art. 185 comma 4 c.p.p., il principio di regressione del procedimento allo stato o grado in cui è stato compiuto l’atto nullo ‘‘non si applica alle nullità concernenti le prove’’. Dunque, la ricognizione dovrà essere rinnovata dallo stesso giudice che ha dichiarato la nullità (tralasciamo qui le riserve sull’efficacia dell’atto di ricognizione, se ripetuto). (133) L’incongruenza è sottolineata da F. CORDERO, Procedura, cit., p. 668; cfr. pure ID., Codice, cit., p. 265. (134) In senso difforme sembra orientato A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 545, affermando che ‘‘tutte e ciascuna le disposizioni riguardanti le ricognizioni contengono la sanzione della nullità a garanzia della loro osservanza’’; nonché A. GIARDA, sub art. 217, in Codice, cit., vol. II, cit., il quale propende, peraltro, per la configurabilità dell’inutilizzabilità, sulla base del rilievo che la mancata attuazione delle suddette precauzioni — dettate per garantire la genuinità dell’atto ricognitivo — ‘‘orienta a ritenere inaccettabili i risultati’’, per cui tanto varrebbe ‘‘escluderli a priori, con la previsione legale oggettiva dell’inutilizzabilità’’. In giurisprudenza, cfr., da ultimo, Trib. Piacenza, 19 settembre 1994, Ferrari, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 285, secondo la quale ‘‘la violazione delle norme contenute nell’art. 217 comma 2 c.p.p. per l’ipotesi di pluralità di ricognizioni — pur privando la ricognizione del valore di piena prova nell’eventuale successivo dibattimento — non priva comunque la ricognizione del valore di indizio grave, che legittima — stante il ricorso degli ulteriori presupposti di legge — l’applicazione della misura cautelare’’.


— 761 — ste quindi al regime di deducibilità e alle sanatorie di cui agli artt. 181 e 182 c.p.p. (135). Peraltro, in occasione di una ricognizione può eventualmente verificarsi anche una nullità assoluta o a regime intermedio (nel qual caso occorre naturalmente riferirsi al regime ex artt. 178, 179, 180 c.p.p.): si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui sia assente il difensore dell’imputato in dibattimento ovvero alla mancata partecipazione del pubblico ministero. Dalle considerazioni fin qui espresse, emerge dunque che ‘‘l’inutilizzabilità non gode di spazi operativi concreti’’ (136), salvo quanto previsto dall’art. 343 comma 4 c.p.p. (ove si prevede l’inutilizzabilità di una serie di atti, tra cui la ricognizione, compiuti prima della concessione dell’autorizzazione a procedere oppure in violazione dell’art. 343 comma 3 c.p.p.) e dall’art. 403 c.p.p. (secondo cui nel dibattimento le prove assunte nell’incidente probatorio — e dunque anche la ricognizione — non possono essere utilizzate nei confronti degli imputati i cui difensori non abbiano partecipato alla relativa assunzione) (137). 8. La ricognizione ‘‘urgente’’. — Come ogni altro mezzo di prova, la ricognizione personale dovrebbe essere ordinariamente assunta nel corso dell’istruzione dibattimentale, su richiesta delle parti ex art. 493 c.p.p., e previa ammissione ex art. 495 c.p.p. Inscenare in sede dibattimentale una ricognizione di persona secondo le complesse cadenze e modalità di cui agli artt. 213-214 (ed, eventual(135) Sul punto, cfr. A. GIARDA, sub art. 213, in Codice, cit., vol. II, cit., il quale osserva che la previsione della nullità relativa ‘‘a ben vedere, finisce per scolorire la portata delle previsioni contenute nell’art. 213, se è vero che sarebbe bastato non prevedere la nullità per costituire la premessa del sorgere di un altro caso di inutilizzabilità dell’atto probatorio’’; nonché A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 546, il quale, sottolineando come nulla sia sostanzialmente mutato rispetto al sistema previgente, auspica ‘‘che non si abusi in superficialità o, peggio, in invenzioni di metodi abnormi, confidandosi che... qualche santo aiuti a far passare le irregolarità (in omaggio, cioè, alla discutibile teoria della ‘conservazione degli atti’, anche se e quando viziati)’’. (136) Così N. GALANTINI, L’inutilizzabilità, cit., p. 356; in senso conforme, v. G. LOZZI, op. cit., p. 99; D. SIRACUSANO, Le prove, cit., p. 377 s. Sulla inutilizzabilità, in generale, cfr. pure G. ARICÒ, Riflessioni in tema di inutilizzabilità della prova nel nuovo processo penale, in Annali dell’Istituto di diritto e procedura penale dell’Università di Salerno, 1993, n. 1-2, p. 11 ss.; G. CONSO-M. BARGIS, voce Inutilizzabilità, in Glossario, cit., p. 345 ss.; F.M. GRIFANTINI, voce Inutilizzabilità, in Dig. disc. pen., cit., vol. VII, 1993, p. 242 ss.; V. GREVI, Libro III - Prove, cit., p. 207 ss.; M. NOBILI, sub art. 191, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 408 ss.; ID., Divieti probatori e sanzioni, in Giust. pen., 1991, III, c. 641 ss.; G. PIERRO, Una nuova specie d’invalidità: l’inutilizzabilità degli atti processuali penali, Napoli, Esi, 1992; S. RAMAJOLI, La prova, cit., p. 20 ss.; A. SCELLA, L’inutilizzabilità della prova nel sistema del processo penale, in questa Rivista, 1992, p. 203 ss.; D. SIRACUSANO, Le prove, cit., p. 375 ss. (137) Su quest’ultimo punto, cfr. N. GALANTINI, L’inutilizzabilità, cit., p. 358; nonché A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 546, il quale esprime ‘‘qualche riserva in ordine a così singolare regime’’.


— 762 — mente, 217) c.p.p. può risultare, peraltro, in concreto, assai difficile (138). A prescindere, comunque, dalle oggettive difficoltà pratiche, ‘‘è intuitivo che quanto maggiore è il lasso di tempo trascorso dall’episodio oggetto dell’imputazione, tanto più sarà svanita, e quindi inattendibile, la residuale impressione mnemonica del soggetto attivo della ricognizione’’ (139). In dottrina si è pertanto sostenuto — anche autorevolmente — che la ‘‘sede tipica’’ per l’assunzione della ricognizione personale debba essere l’incidente probatorio (140). Vero è — si è osservato — che la dizione letterale dell’art. 392 (138) Cfr. A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 540. (139) A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 540. (140) Cfr. F. CORDERO, Procedura, cit., p. 661; G. DE ROBERTO, voce Incidente probatorio, in Enc. giur., cit., vol. XVI, 1989, p. 9; A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento, cit., vol. II, cit. p. 540; P. MOSCARINI, op. cit., p. 3. In giurisprudenza, v. Trib. S. Maria Capua Vetere, 7 gennaio 1992, Amore, cit. Sull’incidente probatorio, in generale, v., tra gli altri, M. BARGIS, voce Incidente probatorio, in Dig. disc. pen., cit., vol. VI, 1992, p. 347 ss.; F. CORDERO, Procedura, cit., p. 748 ss.; G. ESPOSITO, Contributo allo studio dell’incidente probatorio, Napoli, Jovene, 1989; A. MOLARI, L’incidente probatorio, in Ind. pen., 1989, p. 563 ss. e in Studi in memoria di P. Nuvolone, cit., vol. III, cit., p. 327 ss.; A. NAPPI, Guida, cit., p. 268 ss.; G. PAOLOZZI, L’incidente probatorio, in Giust. pen., 1990, III, c. 1 ss.; C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. I, 1995, p. 521 ss.; P.L. VIGNA, sub artt. 392-404, in Commento, cit., vol. IV, 1990, p. 457 ss. Come è noto, Corte cost., 10 marzo 1994, n. 77 (in Giur. cost., 1994, p. 776, con nota di G. DEAN, Nuovi limiti cronologici dell’incidente probatorio; in Cass. pen., 1994, p. 1778, con nota di A. MACCHIA, Incidente probatorio e udienza preliminare: un matrimonio con qualche ombra; in Giust. pen., 1994, I, c. 129, con nota di A. VIRGILIO, Proponibilità dell’incidente probatorio nell’udienza preliminare: riflessioni) ha dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 392 e 393 c.p.p. nella parte in cui non consentono che, nei casi previsti dalla prima di tali disposizioni, l’incidente probatorio possa essere richiesto ed eseguito anche nella fase dell’udienza preliminare. Sul punto, cfr. pure A. CASELLI LAPESCHI, L’incidente probatorio nell’udienza preliminare: un’opinione critica sull’‘‘apertura’’ della Corte costituzionale, in Leg. pen., 1995, p. 97 ss.; P. TONINI, L’incidente probatorio nell’udienza preliminare: nuove prospettive per il diritto di difesa, in Cass. pen., 1994, p. 1995 ss. Non appare superfluo ricordare che la ricognizione rientra anche nell’ambito degli ‘‘atti urgenti’’ ex art. 467 c.p.p.: nell’ipotesi prevista dall’art. 392 comma 1 lett. g) c.p.p., il presidente del tribunale o della corte d’assise potrà, dunque, sempre a richiesta di parte, disporne l’assunzione, osservando le forme previste per il dibattimento. Particolarmente favorevole all’adozione della procedura ex art. 467 c.p.p. è S. RAMAJOLI, Il dibattimento, cit., p. 10 s. Dopo aver osservato che le cautele fissate dalla legge ‘‘a garanzia dell’espletamento dell’atto ricognitivo, molteplici e tra loro funzionalmente concatenate, ben difficilmente potrebbero osservarsi nella fase dibattimentale’’, l’Autore sottolinea come, utilizzando la procedura dell’atto urgente, ‘‘si instaurerebbe un anticipato mini-dibattimento circoscritto all’atto ricognitivo, per cui la serie degli incombenti imposti dall’art. 214 potrebbe essere salvaguardata da misure di maggiore riserbo che dovrebbero presidiare la validità della ricognizione’’. Sugli ‘‘atti urgenti’’, in generale, v., per tutti, G. BONETTO, sub art. 467, in Commento, cit., vol. V, cit., p. 38 ss.


— 763 — comma 1 lett. g) c.p.p. sembra consentire l’assunzione anticipata della prova in questione unicamente ‘‘quando particolari ragioni d’urgenza non consentono di rinviare l’atto al dibattimento’’. Ma, a ben riflettere, tale urgenza sussiste in re ipsa nella maggior parte dei casi di ricognizione, data la necessità, per l’appunto, di evitare la dispersione del ricordo del ricognitore (141). Dal canto suo, la giurisprudenza di merito si è orientata in tal senso già all’indomani dell’entrata in vigore del nuovo codice, affermando precisamente che ‘‘i riflessi che il decorrere del tempo potrebbe produrre sulla memoria del soggetto chiamato ad effettuare la ricognizione sono sufficienti ad integrare il presupposto dell’urgenza cui la legge subordina lo svolgimento dell’atto in sede di incidente probatorio’’ (142). In ordine a tale soluzione interpretativa non sono peraltro mancate le perplessità di altra parte della dottrina. Proprio in base alla considerazione che il periculum in mora è insito nella natura della ricognizione personale, si è infatti obiettato che le ‘‘particolari ragioni di urgenza’’ ex art. 392 comma 1 lett. g) c.p.p. ‘‘non possono mai attenere al pericolo che si perda la freschezza e la precisione del ricordo’’, essendo questa ‘‘l’ordina(141) In tal senso, v. F. CORDERO, Codice, cit., p. 468, il quale osserva incisivamente che ‘‘quanto più tempo passa dall’evento percepito, tanto meno sicuri risultano i giudizi ricognitivi’’, essendo ‘‘volatili e deformabili i fantasmi della memoria’’; ID., Procedura, cit., p. 661 e p. 751; G. DE ROBERTO, voce Incidente probatorio, cit., p. 9, per il quale ‘‘il ricorso all’incidente probatorio sembra risultare, di norma, indispensabile per la ricognizione, giacché è la stessa tipologia dell’atto’’ a richiedere ‘‘una pronta memorizzazione della persona’’, senza la quale ‘‘l’atto risulterebbe inevitabilmente privo di ogni valore probatorio ovvero risulterebbe dotato di valore probatorio grandemente ridotto’’; E. LE DONNE, L’incidente probario, in Giust. pen., 1990, III, c. 493, secondo cui la ricognizione personale ‘‘è quasi sempre urgente’’, poiché — a parte il fatto che col passare del tempo i ricordi si affievoliscono ed è estremamente difficile che la persona chiamata a riconoscere conservi memoria precisa dei tratti somatici di altro individuo’’ — è evidente ‘‘come proprio il trascorrere del tempo potrebbe favorire il crearsi di quelle circostanze che possono influire sul riconoscimento’’; M. MADDALENA, L’incidente probatorio, in Profili del nuovo processo penale, coordinati da M. Garavoglia, Padova, Cedam, 1988, p. 111, secondo cui ‘‘qualsiasi ritardo non può che essere fonte di pericolo per l’attendibilità della prova’’; A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 540; nonché G. TRANCHINA, L’intervento dell’organo giurisdizionale durante lo svolgimento delle attività investigative, in D. SIRACUSANO - A. GALATI - G. TRANCHINA - E. ZAPPALÀ, Diritto processuale, cit., vol. II, 1995, p. 169, secondo il quale ‘‘l’anticipata acquisizione tende a salvare un elemento di prova per sua natura labile perché legato a ricostruzioni mnemoniche che il trascorrere del tempo può rendere difficoltose’’. (142) G.i.p. Trib. Cagliari, 9 novembre 1989, in questa Rivista, 1990, p. 1669, con nota di A. SANNA, In tema di ricognizione personale mediante incidente probatorio; in senso conforme, v. G.i.p. Trib. Genova, 9 marzo 1990, Montaldo, in Dif. pen., 1990, f. 27, p. 80, secondo la quale ‘‘poiché la ricognizione di persona è atto da compiere nel momento più vicino possibile alla commissione del reato e ritenuto che se il compimento di tale atto fosse rinviato nel tempo e compiuto al dibattimento il trascorrere dell’ulteriore tempo potrebbe non consentire alla parte lesa l’eventuale identificazione, si ritengono sussistere le particolari condizioni di urgenza di cui all’art. 392, lett. g) c.p.p. al fine di disporre incidente probatorio’’.


— 764 — ria conseguenza che si determina sempre per il trascorrere del tempo’’ (143). ‘‘Se così non fosse’’ — si è ancora osservato —, ‘‘a fronte della costante e naturale indifferibilità dell’atto ricognitivo, il legislatore si sarebbe limitato a prevedere nell’art. 392 c.p.p. la possibilità di ricorrere all’incidente probatorio per l’assunzione di una ricognizione, sic et simpliciter, senza effettuare ulteriori precisazioni’’ (144). Di conseguenza, i presupposti che legittimano il ricorso all’incidente probatorio per la ricognizione di persona dovrebbero essere ricercati altrove, e precisamente nelle situazioni tipizzate alle lett. a) e b) dell’art. 392 comma 1 c.p.p. (rischio di infermità, di offerte di danaro o di violenze nei confronti del ricognitore) (145). Tali argomentazioni — che fanno leva, essenzialmente, sul dato letterale offerto dall’art. 392 comma 1 lett. g) c.p.p. — non sembrano, peraltro, irresistibili; tanto più che la tesi secondo cui la labilità della memoria del soggetto chiamato a effettuare il riconoscimento sarebbe sufficiente a giustificare il ricorso al meccanismo dell’incidente probatorio sembra trovare conforto dalla lettura dei lavori preparatori. Va in proposito ricordato che l’art. 390 del progetto preliminare del 1988 (corrispondente all’attuale art. 392 c.p.p.) prevedeva l’incidente probatorio, per la ricognizione, quando ricorresse una delle circostanze fissate per le altre prove: impossibilità di assunzione al dibattimento; pericolo di inquinamento; (143) Così R. DELL’ANNO, Osservazioni in tema di individuazione e ricognizione di persona nel nuovo codice di procedura penale, in Cass. pen., 1991, p. 1900. L’Autore, peraltro, considerato che ‘‘il trascorrere anche di pochi mesi può compromettere definitivamente le capacità mnemoniche del soggetto e portare alla perdita definitiva di un risultato probatorio’’, auspica ‘‘l’eliminazione dell’inciso di cui alla lett. g) dell’art. 392, che impone di rinviare l’atto al dibattimento nella generalità dei casi, sì che la ricognizione di persona possa trovare ordinaria collocazione nella fase delle indagini preliminari’’. Nel senso che i riflessi che il decorso del tempo esercita sulla memoria del ricognitore sono insufficienti a integrare il presupposto della particolare urgenza che legittima il ricorso all’incidente probatorio, v. pure M. BOSCO, Incidente probatorio per una ricognizione a rischio, in Giur. it., 1993, II, c. 674; S. RAMAJOLI, Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, Padova, Cedam, 1992, p. 116; A. SANNA, op. cit., p. 1675. (144) Così M. BOSCO, op. cit., c. 674; in senso conforme, cfr. S. RAMAJOLI, Chiusura delle indagini, cit., p. 116; A. SANNA, op. cit., p. 1675; nonché P.L. VIGNA, sub art. 392, in Commento, cit., vol. IV, cit., p. 470, il quale — pur evidenziando che ‘‘la ricognizione è un atto la cui efficacia probatoria dipende dalla immediatezza con la quale viene compiuto’’ — sostiene che con la formula adottata il legislatore abbia ritenuto ‘‘di dover comunque ‘oggettivare’ la necessità dell’immediatezza della ricognizione, poiché, altrimenti, l’atto avrebbe dovuto inevitabilmente formare oggetto di incidente probatorio’’. (145) In tal senso, cfr. M. BOSCO, op. cit., c. 673 s.; A.A. DALIA-M. FERRAIOLI, op. cit., p. 409 s., per i quali sembra ‘‘necessario agganciare questo mezzo di prova alle circostanze, che fungono da condizioni generali di adottabilità del rimedio, elencate nelle lett. a) e b) dell’art. 392 comma 1, allo scopo di procedere coerentemente nel rispetto dell’unica esigenza del periculum in mora, giustificativa di ogni pre-assunzione probatoria’’; R. DELL’ANNO, op. cit., p. 1900; A. SANNA, op. cit., la quale richiama pure la lett. f) dell’art. 392 comma 1 c.p.p.


— 765 — modificazioni inevitabili dell’oggetto della prova. La Commissione parlamentare proponeva, invece, il meccanismo dell’incidente ‘‘ogniqualvolta la immediatezza ne appaia particolarmente necessaria’’, rilevando che ‘‘la ricognizione è atto che assai sovente, per essere utilmente espletato, richiede l’immediatezza e come tale non è rinviabile al dibattimento’’ (146). Orbene, la circostanza che, in sede di progetto definitivo, la proposta della Commissione parlamentare sia stata sostanzialmente accolta induce fondatamente a ritenere che il legislatore abbia voluto tenere nel debito conto la particolare natura dell’atto ricognitivo (147): il richiamo alle ‘‘particolari’’ ragioni d’urgenza sembra, in effetti, assolvere ‘‘al solo scopo di ‘sistema’ di mantenere ferma la centralità del dibattimento per l’acquisizione probatoria insieme alla riaffermazione della integralità della sua idoneità allo svolgimento di tale funzione’’ (148). Ovviamente, se l’esigenza di prevenire la probabile dispersione del ricordo del ricognitore è da ritenersi sufficiente — per quanto ora detto — a legittimare il ricorso all’incidente probatorio, nulla esclude che a fondamento della richiesta possano addursi le peculiari situazioni di cui alle lett. a) e b) dell’art. 392 comma 1 c.p.p. La generica formula utilizzata dal legislatore sembra, infatti, senz’altro idonea a ricomprendere anche queste ipotesi, come ha avuto occasione di affermare — con specifico riferimento alla lett. b) — la Corte di cassazione (149). (146) Il testo dell’art. 390 del progetto preliminare del 1988 e il parere della Commissione parlamentare sul punto possono leggersi in G. CONSO - V. GREVI - G. NEPPI MODONA, op. cit., vol. IV, cit., p. 912 s. L’opportunità di ampliare l’esperibilità dell’incidente ‘‘alle ipotesi in cui una ricognizione, indipendentemente dalle circostanze sub lett. a), b), e), appaia particolarmente necessaria e indifferibile’’ era stata già segnalata pure nel parere della Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pavia (ivi, p. 920). (147) Cfr. la Relazione al testo definitivo, cit., p. 188, ove, illustrando le modifiche apportate nel progetto definitivo, si sottolinea che la ricognizione è ‘‘atto che spesso si connota di assoluta urgenza e per ciò stesso non può — pena la frustrazione del mezzo di prova — essere rinviato al dibattimento’’. (148) Così C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. I, cit., p. 531, il quale rileva che tuttavia ‘‘la forza delle cose non può non prevalere sulle esigenze di euritmia’’. E poiché ‘‘il ritardo anche di un giorno nell’espletamento di una ricognizione di persona può essere di gravissimo pregiudizio per la formazione della prova’’, ‘‘l’utilizzazione del parametro rappresentato dai tempi di prevedibile celebrazione del dibattimento riveste scarsissimo, se non nessuno significato dispositivo’’. Contra, nel senso che il ricorso all’incidente probatorio per evitare la dispersione del ricordo del ricognitore potrebbe essere giustificato solo qualora sia probabile che il dibattimento debba svolgersi a notevole distanza di tempo, G. ICHINO, Gli atti irripetibili e la loro utilizzabilità dibattimentale, in La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. Ubertis, Milano, Giuffrè, 1992, p. 163; P.L. VIGNA, sub art. 392, in Commento, cit., vol. IV, cit., p. 470. (149) Cfr. Cass., Sez. I, 11 giugno, 1992, Lo Giudice, in Giur. it., 1993, II, c. 672, secondo cui ‘‘le ragioni di urgenza che, ai sensi della lett. g) dell’art. 392 c.p.p., determinano l’anticipazione della ricognizione non possono non ricomprendere, per l’eadem ratio, quel pericolo di interferenze fuorvianti che la norma esplicita nella lett. b) per la testimonianza,


— 766 — Risulta, invece, più arduo ipotizzare un parallelo con la lett. f) dell’art. 392 comma 1 c.p.p.: ‘‘il tempo che può trascorrere fino al dibattimento’’ — è stato esattamente osservato — ‘‘non è così lungo da consentire cambiamenti determinati dall’invecchiamento delle persone, mentre altre modifiche (foggia dei capelli, taglio di barba e baffi), in quanto possono realizzarsi in brevissimo tempo, non sono comunque evitabili’’ (150). 9. Rapporti tra individuazione e ricognizione di persona. — Si è già ricordato (v. supra, par. 2) che l’art. 361 c.p.p. prevede quale atto tipico del pubblico ministero — delegabile alla polizia giudiziaria ex art. 370 comma 1 c.p.p. — l’‘‘individuazione di persone’’, disponendo (comma 2) che la persona da individuare sia presentata direttamente ovvero sottoposta ‘‘in immagine’’ (151) a chi deve eseguire la individuazione e richiamando espressamente (soltanto) le cautele previste dall’art. 214 comma 2 c.p.p. Orbene, nelle intenzioni del legislatore l’atto in questione avrebbe dovuto avere una destinazione squisitamente investigativa, potendo il pubblico ministero procedervi solo qualora esso sia ‘‘necessario per la immediata prosecuzione delle indagini’’ (come precisa, inequivocabilmente, lo stesso art. 361 comma 1 c.p.p.) (152). E proprio la funzione meramente ma che non sono meno congetturabili quanto alla ricognizione, atteso il rilevante e spesso determinante valore che questa può assumere nella formazione della prova’’. In senso conforme, in dottrina, v. M. BOSCO, op. cit., c. 673 s.; F. CORDERO, Procedura, cit., p. 751; G. ICHINO, op. cit., p. 163; A. NAPPI, Guida, cit., p. 269; C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. I, cit., p. 270; P.L. VIGNA, sub art. 392, in Commento, cit., vol. IV, cit., p. 470. (150) Così R. DELL’ANNO, op. cit., p. 1900; in senso conforme, v. M. BOSCO, op. cit., c. 674. (151) Come sottolinea la Relazione al progetto preliminare, cit., p. 91, — non essendo stata operata alcuna distinzione in riferimento all’individuazione fotografica — deve ritenersi consentita non soltanto l’individuazione fotografica ‘‘occasionale’’ (vale a dire quella effettuata da chi, esaminando una raccolta di foto segnaletiche di pregiudicati, riconosce in una di esse la persona da individuare), ma anche quella ‘‘provocata’’, caratterizzata dalla presentazione alla persona chiamata all’individuazione di una sola fotografia. Nel senso che vada esclusa ‘‘qualsiasi irritualità del riconoscimento fotografico per il fatto che la individuazione sia avvenuta sulla base di una sola, e non di una pluralità di fotografie’’, cfr. Cass., Sez. II, 1o aprile 1993, Caliò, in R. GUARINIELLO, Il processo penale nella giurisprudenza della Corte di cassazione, Torino, Utet, 1994, p. 25; Cass., Sez. II, 11 novembre 1992, D’ Amato, ivi, p. 24. Osserva in proposito C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. I, cit., p. 269, come l’esperienza pratica abbia dimostrato la insidiosità delle individuazioni effettuate sulla base di materiale fotografico o, più in generale, di immagini comunque realizzate, in quanto su di esse può esercitarsi ‘‘minore capacità critica’’. (152) Cfr. la Relazione al progetto preliminare, cit., p. 64: ‘‘Dalla ricognizione come mezzo di prova va tenuta distinta l’individuazione di persone’’ disciplinata dall’art. 361 c.p.p. ‘‘con riguardo alle sole indagini del p.m., in attuazione della direttiva 37 della leggedelega. La diversa efficacia della ‘individuazione’ rispetto alla ‘ricognizione’ è messa in luce


— 767 — endoprocedimentale dell’individuazione — finalizzata ‘‘ad orientare l’investigazione, ma non ad ottenere la prova’’ — spiega l’assoluta informalità dell’atto, la documentazione in forma semplicemente riassuntiva ex art. 373 comma 3 c.p.p. e, soprattutto, l’assenza di garanzie difensive: l’individuazione non rientra, infatti, tra gli atti ‘‘garantiti’’ ex artt. 364365 c.p.p. (153). Il legislatore — come emerge dalla Relazione al progetto preliminare — appariva peraltro ben consapevole della delicatezza del rapporto tra l’atto di indagine ‘‘individuazione’’ e il mezzo di prova ‘‘ricognizione’’, auspicando pertanto una utilizzazione assai limitata dell’atto di individuazione (154): auspicio questo pienamente condiviso dalla dottrina, la quale, sottolineando come una preventiva individuazione possa compromettere irrimediabilmente l’attendibilità dell’eventuale, successiva ricognizione (155), ha evidenziato come la ‘‘prudenza’’ suggerisca che ‘‘l’indagadalla formula ‘per la immediata prosecuzione delle indagini’, che compare nell’esordio dell’art. 361’’. (153) Cfr. Corte cost., 12 giugno 1991, n. 265, in Giur. cost., 1991, p. 2136, la quale ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 364 c.p.p. — denunciato nella parte in cui non prevede che la disciplina ivi prevista si applichi anche all’individuazione cui debba partecipare l’‘‘indagato’’ — considerando appunto che ‘‘gli atti compiuti dal pubblico ministero hanno una funzione meramente endoprocessuale’’ (rectius, endoprocedimentale) ‘‘e che, in particolare, l’individuazione è un puro atto di indagine, finalizzato ad orientare l’investigazione, ma non ad ottenere la prova’’. Sugli atti c.d. garantiti, cfr. G. SALVI, sub art. 364 e sub art. 365, in Commento, cit., vol. IV, cit., p. 233 ss. e p. 248 ss. (154) V. Relazione al progetto preliminare, cit., p. 91: ‘‘È prevedibile che il pubblico ministero si avvalga dell’art. 361 solo nella prima fase delle indagini ad evitare che la necessità di compimento dell’atto possa incidere sul convincimento del giudice in occasione della valutazione degli esiti della eventuale, successiva ricognizione’’. Cfr. pure il parere sul punto della Corte di cassazione, in G. CONSO - V. GREVI - G. NEPPI MODONA, op. cit., vol. IV, cit., p. 859: ‘‘La individuazione di persone, specie attraverso la diretta presentazione, pregiudica la genuinità e quindi l’attendibilità di una successiva ricognizione, sia in sede di incidente probatorio sia a maggior ragione nel dibattimento... Sarebbe perciò opportuno... ridurre allo stretto necessario il ricorso all’individuazione’’. (155) Cfr. C. CESARI, Individuazione e dibattimento: limiti e rischi dell’uso a fini contestativi di un atto di indagine, in Crit. dir., 1995, n. 2, p. 145 s.; G. COLOMBO, L’acquisizione degli elementi di prova nelle indagini preliminari, in questa Rivista, 1992, p. 1312; G. CONSO-M. BARGIS, voce Individuazione di persone o cose, in Glossario, cit., p. 331; F. CORDERO, Codice, cit., p. 432 e p. 468; ID., Procedura, cit., p. 661, ove si osserva incisivamente che gli atti di individuazione, ‘‘consumato l’effetto psicologico, svuotano l’eventuale messinscena allestita poi’’; P. CORSO, Le indagini preliminari, in M. PISANI - A. MOLARI - V. PERCHINUNNO - P. CORSO, Appunti, cit., p. 338; G. CONTI-A. MACCHIA, voce Indagini preliminari, in Enc. giur., cit., vol. XVII, 1989, p. 7; S. DRAGONE, Le indagini preliminari e l’udienza preliminare, in E. FORTUNA - S. DRAGONE - E. FASSONE - R. GIUSTOZZI - A. PIGNATELLI, Manuale, cit., p. 555; A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 541 s.; F. PAOLA, voce Individuazione di persone e di cose, in Dig. disc. pen., cit., vol. VI, 1992, p. 378; G. PANSINI, Identificazione, individuazione e ricognizione di persona, in Arch. pen., 1992, p. 164; G. TRANCHINA, Le attività del pubblico ministero nel procedimento per le


— 768 — tore non bruci, per ottenere una rapida indicazione della identità della persona, la possibilità di acquisire quello che costituisce il solo mezzo di prova valutabile dal giudice’’ (156). Nella prassi si è, al contrario, assistito — con l’avallo della giurisprudenza sia di merito che di legittimità — a un uso piuttosto ‘‘disinvolto’’ dell’atto in questione da parte dei pubblici ministeri: del resto, il requisito della ‘‘necessità’’ per ‘‘la immediata prosecuzione delle indagini’’ è troppo vago per vincolare la scelta discrezionale del pubblico ministero; né è prevista alcuna sanzione nell’ipotesi di trasgressione (157). Escludendosi — peraltro correttamente, atteso il tenore letterale dell’art. 213 c.p.p. (v. supra, par. 3) — ‘‘l’esistenza di un rapporto di alternatività tra individuazione e ricognizione, cosicché, una volta disposta la prima, non potrebbe mai procedersi alla seconda’’, in giurisprudenza si è, al contrario, ritenuto che ‘‘la presenza di una precedente individuazione rende di norma necessaria una successiva ricognizione nella sede dibattimentale (o dell’incidente probatorio)’’ (158). E, ribadendo sostanzialmente l’orientamento consolidatosi durante la vigenza del codice Rocco, indagini preliminari, in D. SIRACUSANO - A. GALATI - G. TRANCHINA - E. ZAPPALÀ, Diritto processuale, cit., vol. II, cit., p. 129. (156) Così G. PANSINI, Identificazione, cit., p. 164. Nello stesso senso, v. G. CONTIA. MACCHIA, op. cit., p. 7; A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 542; A. NAPPI, Guida, cit., p. 210 s.; G. SALVI, sub art. 361, in Commento, cit. vol. IV, cit., p. 208 s. (157) Sul punto, cfr. F. CORDERO, Procedura, cit., p. 707; A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 541 (‘‘chi, se non il solo pubblico ministero, deciderà della improseguibilità delle indagini senza ricorrere a quelle ‘individuazioni’?’’); F. PAOLA, op. cit., p. 374; G. SALVI, sub art. 361, in Commento, cit., vol. IV, cit., p. 208 s. (158) Così Cass., Sez. VI, 18 febbraio 1994, Goddi, cit., secondo cui, ove si seguisse una diversa linea interpretativa, ‘‘si sovrapporrebbero surrettiziamente le nozioni di atto non rinviabile e di atto non ripetibile, risultando l’individuazione, come tale sempre ripetibile (salvo che l’oggetto di essa sia nel frattempo venuto meno) attraverso il ‘mezzo di prova’ della ricognizione’’. A dimostrazione dell’assunto, la suprema Corte ha richiamato Cass., Sez. VI, 18 dicembre 1992, Messina (in Cass. pen., 1994, p. 2483, n. 1538), la quale ha così statuito: ‘‘Il valore della ricognizione fotografica eseguita dalla polizia giudiziaria, per sé meramente indiziario, viene totalmente meno ove la ricognizione di persona, successivamente eseguita in sede di incidente probatorio — e che ha validità di prova piena — dia esito negativo. Soltanto la dimostrazione che tale esito negativo sia l’effetto di un mendacio potrebbe conservare valore indiziario al riconoscimento fotografico’’. In senso conforme, v. pure Cass., Sez. II, 9 febbraio 1993, Gallo, in R. GUARINIELLO, op. cit., p. 24. In dottrina, nel senso che l’‘‘iter logico che dovrebbe normalmente seguirsi è costituito da una prima individuazione, fotografica o personale, nel corso delle indagini, a seguito del cui esito positivo il p.m. dovrebbe ottenere il rinvio a giudizio dell’imputato e chiedere, in sede dibattimentale, la sua ricognizione personale ad opera del medesimo teste’’, v. M. CUSATTI, op. cit., p. 417; nonché E. FORTUNA-S. DRAGONE, Le prove, cit. p. 368 s., secondo i quali il compimento positivo di una individuazione rende ‘‘di norma necessaria la successiva ricognizione dibattimentale’’.


— 769 — si è sostenuto che il valore probatorio della ricognizione formale non sia affatto sminuito da una preventiva individuazione (159). Di più: si è cercato in vario modo di attribuire valenza probatoria allo stesso atto di individuazione. Si è così affermato che ‘‘il giudice del dibattimento deve disporre l’allegazione al fascicolo per il dibattimento’’ dell’atto di individuazione, presentando esso ‘‘carattere di atto irripetibile’’ (160); ovvero che i risultati dell’attività di individuazione, ‘‘integrando nella sostanza sommarie informazioni assunte dal p.m.’’, possano ‘‘essere introdotti nell’istruzione dibattimentale con la procedura delle contestazioni nell’esame testimoniale’’ (161). Ora, se è indubitabile che ‘‘l’atto ricognitorio psicologicamente autentico avviene una sola volta’’ (162), in quanto ‘‘alla seconda volta si possono sovrapporre i ricordi dell’esperienza reale con quelli dell’esperienza giudiziale’’ (163), non può assolutamente condividersi che l’atto di individuazione — assunto, giova ripeterlo, senza la partecipazione del difensore della persona sottoposta alle indagini e senza osservare tutte le cautele rigorosamente prescritte dagli artt. 213-214 (le quali pure, come (159) V., da ultimo, Trib. Padova, 6 ottobre 1994, Ciaramella, in Foro it., 1995, II, c. 571; nonché, tra le altre, Trib. min. L’Aquila, 12 marzo 1992, in Dir. famiglia, 1993, p. 613 (con nota di G. DI CHIARA, Individuazione fotografica, cit.), secondo cui ‘‘la circostanza che la ricognizione formale sia stata preceduta dai riconoscimenti fotografici innanzi gli organi di polizia non preclude, né diminuisce il suo valore probatorio, e la riprova ne è che proprio l’art. 213 prevede che alla ricognizione formale possa essere chiamato anche chi, in precedenza, ha avuto occasione di vedere la persona da riconoscere, anche riprodotta in fotografia’’. In senso conforme, con riguardo alla disciplina del c.p.p. 1930, cfr., tra le altre, Cass., Sez. I, 25 marzo 1991, Piccolo, in Cass. pen., 1992, p. 2800, n. 1489, secondo la quale ‘‘la precedente ricognizione atipica effettuata in fotografia dinanzi agli organi di polizia non costituisce un pregiudizio legale alla eseguibilità e validità probatoria della ricognizione personale, essendo solo richiesto che del precedente si dia atto ai fini delle valutazioni di merito sull’attendibilità del risultato del mezzo di prova’’; Cass., Sez. III, 1o febbraio 1991, De Leo, in Riv. pen., 1991, p. 705; Cass., Sez. VI, 9 gennaio 1990, Orsini, ivi, 1991, p. 216. (160) Così Pret. Torino, 16 marzo 1990, Prono, in Giur. it., 1990, II, c. 232, con nota critica di G. DE ROBERTO, Prime riflessioni sull’assunzione della prova in sede dibattimentale. In senso conforme, v. Pret. Torino, 20 marzo 1990, ivi, c. 232 e in Giur. merito, 1991, II, p. 827, con nota critica di S. GIAMBRUNO, Questioni in tema di prove nel nuovo processo penale. (161) In tal senso v., tra le altre, Cass., Sez. I, 15 giugno 1994, Sannino, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 497; Cass., Sez. fer., 2 agosto 1993, Beltrame, in Cass. pen., 1994, p. 2482, n. 1537; Cass., Sez. III, 18 maggio 1993, Lipani, in R. GUARINIELLO, op. cit., p. 79. (162) F. CORDERO, Procedura, cit., p. 664. Cfr. pure G. PANSINI, Le ricognizioni, cit., p. 696, per il quale l’esperimento ricognitivo rappresenterebbe l’‘‘unico caso di atto assolutamente irripetibile’’ nell’ambito del processo penale. (163) A. GIARDA, sub art. 213, in Codice, cit., vol. II, cit. Nello stesso senso, v., tra gli altri, A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 544, ove si osserva che ‘‘ciò che ha valore è, quando possibile, il primo ed unico impatto’’ visivo — successivo al fatto principale —, ‘‘esattamente come se si trattasse del negativo di una pellicola fotografica che, esposta alla luce, perde le immagini impresse nel momento della ripresa.


— 770 — si è visto, non assicurano la piena attendibilità della ricognizione) — possa assumere valenza probatoria, attraverso l’allegazione al fascicolo per il dibattimento ex art. 431 lett. b) o c) c.p.p. e la conseguente utilizzazione ai fini della decisione dibattimentale (164). Quanto alla tesi giurisprudenziale che ammette la possibilità di un recupero probatorio dell’individuazione tramite le contestazioni dibattimentali, anch’essa pare difficilmente conciliabile con la lettera dell’art. 361 c.p.p. — che, come si è più volte ricordato, limita espressamente la sfera di operatività dell’istituto alla necessità ‘‘per la immediata prosecuzione delle indagini’’ — e con l’interpretazione che ne ha offerto la Corte costituzionale con la sentenza 12 giugno 1991, n. 265, laddove ha ribadito che si tratta di un ‘‘puro atto di indagine’’, che esaurisce ‘‘i suoi effetti all’interno della fase in cui viene compiuto’’ (165). Non sembra, insomma, corretto ‘‘aggirare’’ — sostanzialmente — la minuziosa disciplina dettata per la ricognizione utilizzando a fini contestativi l’esito degli atti di individuazione (166). E neppure appare corretto ri(164) Nel senso che non possono considerarsi irripetibili, ai sensi e per gli effetti dell’art. 431 c.p.p., gli atti di individuazione fotografica o personale compiuti nel corso delle indagini preliminari, v. Cass., Sez. I, 15 giugno 1994, Sannino, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 498; nonché Trib. S. Maria Capua Vetere, 7 gennaio 1992, Amore, cit. Sul concetto di ‘‘irripetibilità’’ e, in genere, sugli atti irripetibili, v., in dottrina, tra gli altri, A. BRACAGLIA MORANTE, Sul concetto di atto non ripetibile, in Cass. pen., 1992, p. 2479 ss.; M. D’ANDRIA, Un tentativo di definizione degli atti non ripetibili, ivi, 1992, p. 740 ss.; G. FRIGO, sub art. 431, in Commento, cit., vol. IV, cit., p. 722 ss.; G. ICHINO, op. cit., p. 109 ss.; M. ROSSI, La nozione giuridica dell’irripetibilità, in Arch. n. proc. pen., 1993, p. 5 ss.; G. SANTALUCIA, Appunti in tema di atto irripetibile, in Giust. pen., 1990, III, c. 574 ss. (165) Cfr. Corte cost., 12 giugno 1991, n. 265, cit. (166) In tal senso, cfr. App. Bologna, 15 febbraio 1993, Balsano, in Giust. pen., 1993, III, c. 432, la quale ha, per l’appunto, ritenuto che ‘‘il mancato esperimento della ricognizione non può, giammai, essere ‘aggirato’ o supplito dalla contestazione al testimone in dibattimento dell’atto di ‘individuazione di persona’ con conseguente acquisizione al fascicolo dell’atto stesso ed il conseguimento di effetti che sono propri della ricognizione’’, potendo essere oggetto di contestazione dibattimentale ‘‘solo le dichiarazioni rese dal testimone in sede di sommarie informazioni ex art. 362 c.p.p.’’. Nel senso che l’individuazione non può formare oggetto di prova testimoniale, v. già Pret. Saluzzo, 18 dicembre 1990, cit.; Pret. Torino, 16 marzo 1990, Prono, cit. La dottrina prevalente è peraltro orientata nel senso della ‘‘inevitabile’’ utilizzabilità a fini contestativi degli esiti dell’atto di individuazione, alla luce dell’art. 500 c.p.p.: cfr. tra gli altri, F. CORDERO, Codice, cit., p. 432 s.; ID., Procedura, cit., p. 661; R. DELL’ANNO, op. cit., p. 1899; S. DRAGONE, Le indagini preliminari e l’udienza preliminare, cit., p. 550; A. MELCHIONDA, sub art. 213, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 541; A. NAPPI, Guida, cit;, p. 211; F. PAOLA, op. cit., p. 376. Sulle contestazioni nell’esame testimoniale, in generale, cfr., tra gli altri, F. CORDERO, Procedura, cit., p. 635 ss.; L. CREMONESI, La contestazione nella testimonianza, in Riv. pen., 1992, p. 97 ss.; G. ILLUMINATI, Libro VII - Giudizio, cit., p. 491 ss.; G. LOZZI, op. cit., p. 266 ss.; D. MANZIONE, sub art. 500, in Commento, cit., vol. V, cit., p. 283 ss.; A. NAPPI, Considerazioni in tema di contestazioni nel corso dell’esame dei testimoni o delle parti private, in Cass. pen., 1992, p. 2485 ss.; V. PERCHINUNNO, Il giudizio, cit., p. 467 s.; F. PLOTINO, op.


— 771 — tenere — come affermato da alcuni giudici di merito — che, delle dichiarazioni rese dal testimone al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria, siano utilizzabili, ai sensi e per le finalità dell’art. 500 c.p.p., ‘‘le sole eventuali dichiarazioni meramente narrative dei fatti e quelle descrittive delle caratteristiche somatiche del soggetto da individuare’’ e ‘‘non anche le dichiarazioni individuative in senso proprio, costituenti il risultato dell’attività prevista dall’art. 361 c.p.p.’’ (167). Non si vede, infatti, come si possa tracciare tale linea di demarcazione: ‘‘la mancanza di forme imposte e di garanzie riguarda il complesso dell’atto e tutte le sue risultanze, non solo quello che viene definito ‘esito finale’, ossia il ‘nudo’ riconoscimento’’ (168). Per ovviare a tali prassi interpretative degenerative, e sul presupposto che a volte è davvero assolutamente indispensabile — proprio per la immediata prosecuzione delle indagini — far effettuare un riconoscimento di persona, in dottrina sono state proposte due diverse soluzioni, degne entrambe della massima considerazione, affinché tale riconoscimento possa poi essere utilizzato come prova. La prima soluzione, di carattere ermeneutico, comporta che la ‘‘particolare urgenza’’ di cui all’art. 392 comma 1 lett. g) c.p.p. debba essere intesa non soltanto, riduttivamente, come una urgenza di salvaguardia della prova, ma anche, in senso più dilatato, come una ‘‘urgenza endoprocessuale’’. Vale a dire che quando, per le esigenze delle indagini, sia necessario procedere al riconoscimento di una persona, e tale riconoscimento debba, poi, essere utilizzato anche a fini probatori, occorrerebbe assumere l’atto nelle forme dell’incidente probatorio, salvaguardando così il contraddittorio. In tal modo, l’atto di individuazione sarebbe davvero effettuato solo ‘‘ai fini dell’immediata prosecuzione delle indagini’’, nelle sole ipotesi cioè in cui il pubblico ministero ‘‘sia certo di non avere a doversi servire a fini probatori della individuazione’’ (169). cit., p. 102 ss.; S. RAMAJOLI, Il dibattimento, cit., p. 92 ss.; G. RICCIO, Apatie interpretative e procedimento probatorio. A proposito dell’art. 500 c.p.p., in Cass. pen., 1995, p. 203 ss.; P.P. RIVELLO, sub art. 500, in Commento, cit., Secondo aggiornamento, 1993, p. 243 ss.; D. SIRACUSANO, Il giudizio, cit., p. 351 ss.; C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. II, cit., p. 606 ss.; M. TORNATORE, Primi orientamenti sul ‘‘nuovo’’ art. 500 c.p.p., in Cass. pen., 1994, p. 1323 ss. (167) Così Trib. Firenze, 3 novembre 1992, De Lucia, in Cass. pen., 1993, p. 957, n. 632. In senso conforme, v., da ultimo, Trib. S. Maria Capua Vetere, 17 novembre 1994 , Zampella, in Crit. dir., 1995, n. 2, p. 138 e Trib. S. Maria Capua Vetere, 15 luglio 1994, Spada, ivi, p. 135, con nota di C. CESARI, Individuazione e dibattimento, cit. (168) C. CESARI, op. cit., p. 143 s. (169) In questi termini, G. PANSINI, Identificazione, cit., p. 165. In senso sostanzialmente conforme, v. F. CORDERO, Procedura, cit., p. 751, ove si osserva che ‘‘l’intervento tempestivo del giudice’’ nelle forme dell’incidente probatorio potrebbe anche rimediare alla ‘‘stortura normativa’’ ex art. 361 c.p.p.; O. DOMINIONI, Le indagini preliminari, in AA.VV., Lezioni sul nuovo processo penale, Milano, Giuffrè, 1990, p. 28; S. DRAGONE, Le indagini


— 772 — L’altra soluzione, di tipo legislativo, prevede, per lo svolgimento delle individuazioni di persona, una disciplina analoga a quella prevista per gli accertamenti tecnici non ripetibili, garantendo così sia la presenza del difensore che la possibilità, per la persona sottoposta alle indagini, di formulare riserva di incidente probatorio (170). 10. Il ‘‘riconoscimento informale’’ dell’imputato all’udienza dibattimentale. — Come abbiamo più volte sottolineato, ‘‘proprio per meglio garantire l’esito della prova ed evitare quindi, in particolare, che essa finisca per rivelarsi pregiudizievole ad una persona erroneamente riconosciuta’’ (171), il legislatore del 1988 ha previsto per la ricognizione personale una disciplina ancora più rigorosa di quella dettata dal c.p.p. 1930. Ciononostante, la giurisprudenza di legittimità, come con il codice previgente, è orientata a ritenere che la ricognizione ‘‘effettuata senza il rispetto delle formalità previste dalla legge può essere utilizzata per la formazione del convincimento del giudice’’ (172). ‘‘Se è vero che le norme generali degli artt. 213-217 c.p.p. prevedono una forma vincolata per la ricognizione, nel senso di un suo caratteristico allestimento formale con conseguente nullità per l’inosservanza di tali formalità’’ — si è affermato —, ‘‘ciò non significa affatto, tuttavia, che nel preliminari e l’udienza preliminare, cit., p. 549 s., secondo il quale, per il pubblico ministero, la scelta fra richiedere l’incidente probatorio e procedere a un atto di individuazione ‘‘avverrà con opzione per il primo se le indagini già consentono la formulazione di un giudizio di probabilità della identità, se l’atto può avere importanza decisiva nell’economia delle indagini, e l’accusa non possa rinunciare al dibattimento agli eventuali effetti positivi’’; nonché G. ICHINO, op. cit., p. 163, per la quale nella previsione ex art. 392 comma 1 lett. g) c.p.p. ‘‘può rientrare anche l’esigenza di prosecuzione delle indagini in una determinata direzione, senza correre il rischio che l’espletamento di un atto di individuazione possa interferire negativamente sulla attendibilità della successiva ricognizione’’. (170) In tal senso, v. G. CONSO-M. BARGIS, voce Individuazione, cit., in Glossario, cit., p. 331; G. NEPPI MODONA, Libro V - Indagini preliminari e udienza preliminare, in Profili del nuovo codice, cit., p. 338 s.; nonché G. PANSINI, Identificazione, cit., p. 164 s., il quale sottolinea che naturalmente ‘‘occorrerà prevedere modalità d’instaurazione del contraddittorio’’ in un momento ‘‘nel quale spesso non vi è nemmeno un ipotizzabile indagato (si pensi alla prassi di sottoporre all’esame del teste i volumi contenenti foto segnaletiche di tutti i pregiudicati per reati analoghi): ed a tal proposito, la figura del difensore dell’indagato ignoto si avvicinerebbe a quella figura di difensore-garante che qualcuno ebbe ad immaginare all’epoca della polemica sulla obbligatorietà e rinunciabilità della difesa di ufficio, negli anni dei processi ai terroristi’’. Sugli accertamenti tecnici non ripetibili, in generale, cfr., tra gli altri, L. D’AMBROSIO, sub artt. 359-360, in Commento, cit., vol. IV, cit., p. 174 ss.; S. DRAGONE, Le indagini preliminari e l’udienza preliminare, cit., p. 556 ss.; A. NAPPI, Guida, cit., p. 206 ss.; C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. I, cit., p. 254 ss.; G. TRANCHINA, Le attività del pubblico ministero nel procedimento per le indagini preliminari, cit., p. 136 ss. (171) V. PERCHINUNNO, Le prove, cit., p. 236. (172) Cfr. Cass., Sez. I, 19 giugno 1992, Timpani, in Cass. pen., 1994, p. 1037, n. 602.


— 773 — dibattimento la ricognizione sia possibile solo ed esclusivamente nella suddetta forma vincolata’’. Pertanto, si è ritenuto ‘‘valido e processualmente utilizzabile il riconoscimento operato in udienza dalla persona offesa, nel corso dell’esame testimoniale, nei confronti dell’imputato presente’’, in quanto anche nella vigenza del nuovo codice conserverebbe validità il principio secondo cui ‘‘siffatti riconoscimenti vanno tenuti distinti dalle ricognizioni vere e proprie, costituendo essi atti di identificazione diretta effettuati mediante dichiarazioni orali non richiedenti l’osservanza delle formalità prescritte per le dette ricognizioni’’ (173). Riguardo al fondamento del riconosciuto valore probatorio di tali ‘‘riconoscimenti informali’’ nell’aula di udienza sono emerse due tesi: secondo la prima — che conferma la linea interpretativa consolidatasi durante la vigenza del codice Rocco — esso risiederebbe nel principio di non tassatività dei mezzi di prova, ora espressamente sancito dall’art. 189 c.p.p., e in quello del libero convincimento del giudice (174); secondo l’altra opinione, invece, il riconoscimento informale rientrerebbe nell’oggetto dell’ordinaria prova testimoniale ex art. 194 c.p.p. In base a tale norma — si è osservato — ‘‘il testimone ‘è esaminato sui fatti che costituiscono oggetto di prova’ e tra ‘i fatti che si riferiscono all’imputazione e alla punibilità’ ’’, e che l’art. 187 c.p.p. considera tra quelli ‘‘oggetto di prova’’, andrebbe ricompreso senz’altro ‘‘anche quello costituito dall’avere il teste avuto occasione di rivedere e riconoscere, successivamente alla commissione del reato, il soggetto da lui stesso in precedenza indicato come autore del medesimo’’ (175). L’ammissibilità e l’utilizzabilità di riconoscimenti ‘‘a forma libera’’ — (173) Così Cass., Sez. II, 11 novembre 1992, D’ Amato, in Arch. n. proc. pen., 1993, p. 812; in senso conforme, v., tra le altre, Cass., Sez. I, 11 maggio 1992, Cannarozzo, in Cass. pen., 1994, p. 125, con nota di A. CAMPO, Appunti in tema di ricognizione, cit. Cfr. pure Cass., Sez. VI, 19 febbraio 1992, Papale, in Arch. n. proc. pen., 1993, p. 172, secondo la quale la ricognizione disciplinata dal codice ‘‘è solo quella disposta dall’autorità giudiziaria con atto di imperio, non già quella che è frutto di mera casualità o conseguenza dell’iniziativa assunta da parte del teste o della stessa vittima del reato’’. La giurisprudenza affermatasi durante la vigenza del c.p.p. 1930 era costante nel qualificare la diretta indicazione dell’imputato da parte del testimone nel dibattimento come un ‘‘mero accertamento di fatto’’ ovvero una ‘‘mera identificazione’’, cui non erano applicabili le formalità richieste dall’art. 360 c.p.p. abr. Cfr., tra le tante, Cass., Sez. II, 2 giugno 1989, Verdiani, in Riv. pen., 1991, p. 561; Cass., Sez. II, 14 dicembre 1987, Cherchi, in Cass. pen., 1989, p. 871, n. 789; Cass., Sez. I, 24 novembre 1986, Pravatà, ivi, 1987, p. 1790, n. 1513; Cass., Sez. II, 23 gennaio 1985, Annatelli, ivi, 1987, p. 174, n. 111; Cass., Sez. II, 25 novembre 1981, Spampinato, ivi, 1983, p. 1838, n. 1391; Cass., Sez. I, 2 marzo 1978, Marchese, ivi, 1980, p. 500, n. 495. Tale prassi è stata aspramente criticata dalla più avveduta dottrina: cfr., in particolare, G. PANSINI, Le ricognizioni, cit., p. 679 ss. (174) In tal senso, v. Cass., Sez. I, 22 aprile 1993, Novembrini, in Cass. pen., 1995, p. 1944, n. 1202; Cass., Sez. I, 4 febbraio 1993, Maria, in Arch. n. proc. pen., 1993, p. 282. (175) Così Cass., Sez. I, 11 maggio 1992, Cannarozzo, cit. (la quale peraltro ha pun-


— 774 — sostenuta pure da autorevole dottrina (176) e ‘‘giustificata’’ da alcuni Autori in considerazione delle (innegabili) difficoltà connesse all’allestimento in dibattimento di una ricognizione ‘‘formale’’ (177) — suscita peraltro molte perplessità. In primo luogo, se è indubbiamente vero che il codice vigente ha rifiutato il principio di tassatività delle prove, consentendo l’assunzione di ‘‘prove non disciplinate dalla legge’’ (art. 189 c.p.p.) (178), ciò non significa che il giudice sia libero di ‘‘qualificare come ‘diversa’ la prova in realtà disciplinata dal legislatore ma assunta contra legem’’ (179): in altre parole, il giudice non può ‘‘modificare il modello predisposto dal legislatore per assumere una determinata prova e, di conseguenza, qualificare l’atto come atipico’’ (180). Nella specie, qualificare ‘‘atto di identificazione diretta’’ un atto ricognitivo effettuato in dibattimento senza rispettualizzato — incidentalmente — che il c.p.p. 1988 non ha recepito il principio di tassatività dei mezzi di prova). In senso sostanzialmente conforme, v. pure Cass., Sez. II, 21 maggio 1993, Corciani, in Arch. n. proc. pen., 1994, p. 292, secondo cui ‘‘la ricognizione di persona svolta in dibattimento in forma diversa da quella indicata nell’art. 214 comma 1 vale come testimonianza’’. (176) Cfr. F. CORDERO, Procedura, cit., p. 659, ove si osserva che ‘‘gli artt. 213-17 non impongono un modello tassativo, nel senso che i riconoscimenti possano avvenire solo così’’, e p. 662; ID., Codice, cit., p. 261. L’illustre Autore, peraltro, puntualizza (Procedura, cit., p. 662) che l’‘‘ipotesi lassistica’’, secondo la quale ‘‘la ricognizione comunque eseguita (anche se nulla) fornisca materia al cosiddetto libero convincimento’’ viola ‘‘elementari regole sintattiche: se l’atto nullo equivalesse al valido, sarebbe parola vuota ‘nullità’; ovvio, quindi che sia ignorato dal giudice’’. Sulla validità dei ‘‘riconoscimenti informali’’ ai fini della formazione del convincimento del giudice si sono espressi altresì P. DUBOLINO - T. BAGLIONE - F. BARTOLINI, op. cit., p. 607 s.; E. FORTUNA-S. DRAGONE, Le prove, cit., p. 368; F. PAOLA, op. cit., p. 376. (177) Cfr. R. DELL’ANNO, op. cit., p. 1901; F. PLOTINO, op. cit., p. 131; nonché, con riferimento al c.p.p. 1930, E. FLORIAN, op. cit., p. 618; P. MOSCARINI, op. cit., p. 2; D. VIGONI, op. cit., p. 183. (178) Sulle prove ‘‘atipiche’’, in generale, cfr., tra gli altri, F. CORDERO, Procedura, cit., p. 584; V. GREVI, Libro III - Prove, cit., p. 201 ss.; M. NOBILI, sub art. 189, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 397 ss.; V. PERCHINUNNO, Le prove, cit., p. 220 s.; D. SIRACUSANO, Le prove, cit., p. 355 ss.; C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. II, cit., p. 451 ss. (179) Così M. NOBILI, sub art. 189, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 398. (180) Così V. GALBUSERA, Note sul riconoscimento informale all’udienza dibattimentale, in Giust. pen., 1995, III, c. 464; nel medesimo senso, v. M. NOBILI, sub art. 189, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 398 s. Apprezzabile appare, pertanto, la più sensibile giurisprudenza di merito, secondo cui la ricognizione di persona da espletarsi nel dibattimento deve svolgersi necessariamente nel rispetto delle norme dettate dagli artt. 213 e 214 c.p.p., sicché ‘‘il riconoscimento effettuato da un testimone al quale nel corso dell’esame il pubblico ministero abbia chiesto di guardare tra gli imputati e dichiarare se ne riconosca taluno, non soddisfa tali requisiti ed è conseguentemente nullo’’: così Trib. Torino, Sez. IV, 5 marzo 1991, in Dif. pen., 1992, f. 34, p. 87, n. 251. In senso conforme, v. Pret. Saluzzo, 18 dicembre 1990, cit., secondo cui ‘‘per stabilire se gli imputati si identificano con gli autori del reato non si può utilizzare che la ricognizione prevista dagli artt. 213 e 214’’; e, proprio perché è imprescindibile il rispetto


— 775 — tare le formalità di cui agli artt. 213 ss. c.p.p. non è altro che un escamotage, un mero espediente lessicale per ‘‘aggirare’’ la disciplina prevista dal legislatore e per giustificare, quindi, la prova irritualmente acquisita (181). Insomma, ‘‘la prova contra legem non può mai diventare atipica: neppure attraverso il comodo espediente del libero convincimento del giudice’’ (182). Del resto, — com’è stato puntualmente osservato (183) — anche a voler sussumere il ‘‘riconoscimento diretto’’ tra le prove atipiche, ‘‘risulta comunque difficile riconoscergli il requisito di idoneità ad assicurare l’accertamento dei fatti, espressamente richiesto dall’art. 189 c.p.p. affinché la prova atipica possa essere assunta dal giudice’’. La ricognizione, infatti, è un mezzo di prova che, pur se assunto nel rispetto di tutte le cautele previste dalla legge, presenta ineliminabili rischi di errore: si comprende bene, quindi, come il riconoscimento operato in udienza nei confronti dell’imputato presente comporti ‘‘un’alea tale da pregiudicare in modo irreversibile l’idoneità della prova in oggetto ad assicurare l’accertamento dei fatti’’ (184). Quanto, poi, alla tesi che riconduce il ‘‘riconoscimento diretto’’ nell’‘‘oggetto dell’ordinaria prova testimoniale’’, anch’essa non appare persuasiva. Se è vero, infatti, che tra testimonianza e ricognizione esistono dei punti di contatto (185), ‘‘in quanto l’una e l’altra richiamano in forma rievocativa una trascorsa percezione del soggetto chiamato a rendere la prima o a procedere alla seconda’’, è però altrettanto vero che ‘‘equiparare tout court l’indicazione di una persona presente ad opera del testimone ad una dichiarazione testimoniale significa obliterare la differenza specifica tra i due atti i quali sottostanno entrambi ad una propria disciplina normativa che tiene conto del loro diverso valore conoscitivo’’ e, in delle forme previste dal codice, in caso di assenza degli imputati, ‘‘deve disporsi il loro accompagnamento coattivo’’. (181) In questi termini, v. M. NOBILI, sub art. 189, in Commento, cit., vol. II, cit., p. 398 s. Sul punto, cfr., altresì, A. CAMPO, op. cit., p. 133, nota 7, il quale sottolinea ‘‘la refrattarietà della giurisprudenza a distinguere, così come stabilisce il codice del 1988, la prova non disciplinata dalla legge da quella illegittimamente acquisita e la corrispondente inclinazione ad espandere il principio della libera valutazione della prova al momento della sua formazione la quale, invece, è ispirata al principio di legalità temperato dal disposto dell’art. 189 c.p.p.’’; nonché C. CESARI, op. cit., p. 143, secondo la quale ‘‘non si può non concordare sull’impossibilità di fare dell’art. 189 c.p.p. il grimaldello per inserire tra le prove utilizzabili per la decisione anche quelle irritualmente formate’’. (182) Così D. SIRACUSANO, Le prove, cit., p. 356. (183) Cfr. V. GALBUSERA, op. cit., c. 464. (184) Così V. GALBUSERA, op. cit., c. 464. Di avviso contrario è R. DELL’ANNO, op. cit., p. 1901, per il quale ‘‘potrà discutersi della forza risolutiva di tale individuazione, ma non certo della sua idoneità’’ ad assicurare l’accertamento dei fatti. (185) Cfr. supra, par. 1 e spec. nota 3.


— 776 — definitiva, affermare la superfluità delle norme dettate per la ricognizione (186). Senza dire che, quand’anche il ‘‘riconoscimento diretto’’ fosse realmente riconducibile alle norme sulla testimonianza, la dichiarazione del testimone di riconoscere l’imputato non potrebbe comunque essere utilizzata. L’art. 499 comma 3 c.p.p. vieta, infatti, nell’esame condotto dalla parte che ha chiesto la citazione del testimone e da quella che ha un interesse comune ‘‘le domande che tendono a suggerire le risposte’’. Ebbene, ‘‘non pare si possa contestare che chiedere al testimone se riconosce o meno in una persona presente, il più delle volte seduta bene in evidenza sul banco degli imputati’’ — o addirittura chiusa in una ‘‘gabbia’’ — ‘‘l’autore del fatto di reato, abbia una tale carica suggestiva da rientrare nella regola di esclusione di cui al citato comma 3’’ dell’art. 499 c.p.p. (187). Sembra, dunque, corretto ritenere che, anche in dibattimento, ‘‘quando occorre procedere a ricognizione personale’’ — come recita l’art. 213 c.p.p. nel suo esordio — il giudice ‘‘sia tenuto a disporla secondo le modalità appositamente prefissate dal legislatore, essendogli preclusa la facoltà di fare effettuare un semplice riconoscimento’’ (188). dott. NICOLA TRIGGIANI Istituto di diritto e procedura penale dell’Università di Bari

(186)

In questi termini, v. A. CAMPO, op. cit., p. 128; in senso conforme, v. V. GAL-

BUSERA, op. cit., c. 461.

(187) Sul divieto di domande ‘‘suggestive’’ e, più in generale, sull’esame incrociato, v., tra gli altri, C. BOVIO, Immagini e deontologia della cross-examination, in Arch. n. proc. pen., 1992, p. 161 ss.; D. CARPONI SCHITTAR, Esame diretto e controesame nel processo accusatorio, Padova, Cedam, 1989; D. CARPONI SCHITTAR-L. ARVEY CARPONI SCHITTAR, Modi dell’esame e del controesame, Milano, Giuffrè, 1992; F. CORDERO, Procedura, cit., p. 611 ss.; G. FRIGO, sub artt. 498-499, in Commento, cit., vol. V, cit., p. 219 ss.; G. ILLUMINATI, Libro VII - Giudizio, cit., p. 500 ss.; D. MANZIONE, Le nuove ‘‘regole’’ per l’esame testimoniale (a proposito dell’art. 499 c.p.p.), in Cass. pen., 1991, p. 1479 ss.; V. PERCHINUNNO, Il giudizio, cit., p. 464 ss.; F. PLOTINO, Il dibattimento, cit., p. 99 ss.; S. RAMAJOLI, Il dibattimento, cit., p. 87 ss; E. SELVAGGI, voce Esame diretto e controesame, in Dig. disc. pen., cit., vol. IV, 1989, p. 280 ss.; D. SIRACUSANO, Il giudizio, cit., p. 344 ss.; F. SPACCASASSI, Considerazioni in tema di esame testimoniale, in Arch. n. proc. pen., 1991, p. 493 ss.; C. TAORMINA, Diritto processuale, cit., vol. II, cit., p. 572 ss. (188) Cfr. A. CAMPO, op. cit., p. 130 e, nel medesimo senso, V. GALBUSERA, op. cit., c. 463.


COMMENTI E DIBATTITI

IL DIRITTO PENALE TRA ‘‘ESSERE’’ E ‘‘VALORE’’. A PROPOSITO DI UN RECENTE CONTRIBUTO ALLA TEORIA DELLA PENA

1. Non è esagerato affermare che ‘‘Il diritto penale tra essere e valore’’ costituisce, nel panorama scientifico italiano, una novità assoluta. Al di fuori di trattazioni manualistiche, infatti, non si rinviene un’opera che, come quest’ultimo lavoro di Sergio Moccia, rappresenti l’esposizione compiuta di un modello di diritto penale. Se poi, insieme alla peculiarità dei contenuti, si considera l’originalità del metodo, allora si comprende l’interesse suscitato dal volume ed il facile pronostico di successo che, già oggi, si può azzardare a proposito di questo contributo all’elaborazione di temi fondamentali, dibattuti dalla dottrina contemporanea. Di questo lavoro si potrebbe dire che ‘‘realizza un’aspirazione antica della scienza penalistica: la costruzione di un sistema teleologico’’. Auspicio, più che costatazione, che lo stesso Moccia volle riservare aI celeberrimo ‘‘Kriminalpolitik und Strafrechtssystem’’ di C. Roxin, in occasione della prefazione all’edizione italiana. Eppure nella monografia di Moccia, in quest’ultimo lavoro come in tutta la sua opera scientifica, l’utilizzazione del metodo teleologico acquista una pregnanza di risultati particolarmente felice per la valorizzazione che deriva da referenti normativi di rango costituzionale: dati che, sotto la forma vincolante del loro carattere giuridico, riaffermano contenuti assiologici risalenti al filone umanistico-liberale della tradizione illuministica. Ne ‘‘Il diritto penale tra essere e valore’’ il metodo teleologico consente all’A. di impostare in chiave dicotomica due operazioni, distinte e tuttavia complementari, entrambe significativamente riflesse nel titolo: da un lato la considerazione di un modello di diritto penale coerente con le premesse normative dell’umanesimo liberale, dall’altro una ricognizione del diritto penale ‘‘qual è’’ e quale vive. Il modello di diritto penale conforme ‘‘al valore’’ viene delineandosi in questo volume dopo che l’A. ha puntualizzato, con ricchezza di informazioni e con originalità di soluzioni, una serie di passaggi culturali che la dottrina tradizionale non sempre ha colto con la dovuta precisione, determinando così fraintendimenti ed equivoci che hanno avuto non poca responsabilità nella mancata elaborazione di un sistema penale nel quale possa riconoscersi la generalità dei consociati. 2. Il volume di S. Moccia, pur se profondamente ispirato al pensiero di C. Roxin, tuttavia non si risolve in una trascrizione acritica del pensiero dell’insigne giurista tedesco, nella prospettiva del sistema italiano. Anzi, sotto taluni aspetti, tutto il contributo scientifico del nostro A., e segnatamente quest’ultimo lavoro, rappresentano un tentativo di evoluzione, se non addirittura di superamento del pensiero roxiniano. L’originalità dell’impostazione di Moccia si coglie, a nostro avviso, soprattutto nel modello di pena che egli è venuto elaborando. Come noto Roxin ha sottoposto a critica serrata le dottrine penali c.d. ’’pure’’, proponendo di sostituire ad esse una concezione eclettica secondo la quale, in ciascuna delle tre fasi nelle quali si riconosce l’esercizio del diritto di punire, si fa concretamente operare una specifica finalità. In particolare, Roxin assegna al momento della posizione della norma penale incriminatrice da parte del legislatore, una funzione di prevenzione generale; al mo-


— 778 — mento della commisurazione giudiziale della pena, una funzione che ispirandosi ad un criterio di proporzione recupera aspetti retributivi; infine al momento esecutivo, lo scopo di prevenzione speciale che si esprime nell’istanza di recupero, come finalità tendenziale dell’esecuzione della pena. Moccia, invece, propone un modello funzionale di tipo dialettico secondo il quale, in ciascuno dei tre momenti nei quali si articola il diritto punitivo, le tre finalità della prevenzione generale, della retribuzione e della prevenzione speciale sono egualmente presenti, in una felice sintesi che l’A. indica col concetto unitario di ‘‘integrazione sociale’’. Le implicazioni di teoria della pena, nella prospettiva dell’integrazione sociale, svolgono un ruolo determinante sul piano della fattispecie sia nei suoi aspetti sostanziali: selezione dei beni da proteggere e delle tecniche di tutela normativa, del tipo e della misura della sanzione da irrogare; sia sul piano formale relativo al rispetto delle esigenze di tassatività. Notevoli e significativi riflessi delle implicazioni delle finalità della pena vengono in risalto, inoltre, nei profili dell’imputazione, e segnatamente nella prospettiva della tipicità e della responsabilità. Riservandoci di tornare di qui a poco su questi problemi, è opportuno sottolineare come il concetto dell’integrazione sociale potrebbe costituire un utile criterio legislativo di orientamento anche per la soluzione di questioni endoprocessuali. Si pensi al problema della punibilità ‘‘a querela’’ o ‘‘ex officio’’ per taluni reati. Tolti alcuni casi nei quali la punibilità a querela è una scelta lasciata all’offeso perché — nel proprio interesse — valuti l’opportunità dell’intervento penale, in molti altri casi il criterio seguito dal legislatore resta ancorato ad una valutazione dell’aggressione al bene che tiene conto della gravità dell’attacco, e corrispettivamente della meritevolezza della pena per le finalità che a questa si assegnano. Si è resa ben conto di quest’esigenza la Commissione di studio, presieduta dal Prof. Pagliaro, che di recente ha presentato una proposta di schema per un disegno di legge delega per un nuovo codice penale. Proponendo di reintrodurre la punibilità d’ufficio per le lesioni gravissime, la Commissione ha osservato, fra l’altro, che ‘‘costituisce errore di politica criminale, nella nostra epoca caratterizzata dalla perdita del senso della intangibilità della vita e della integrità fisica, degradare così gravi attentati al bene primario dell’integrità fisica ad un fatto pressocché privato, perché non sanzionato né penalmente, in caso di mancanza di querela, né civilmente, se le conseguenze civili sono scaricabili, come avviene nel caso di assicurazione obbligatoria, sull’assicuratore’’. Le finalità dell’integrazione sociale — che si concretizza nell’idoneità delle norme dell’ordinamento giuridico a svolgere una funzione di orientamento delle condotte sociali, realizzata attraverso l’aggregazione del consenso, come del resto sempre avviene per le implicazioni della teoria della pena, finiscono così per condizionare scelte di diritto penale sostanziale e di diritto processuale penale. E qui il discorso potrebbe condurci lontano. Fermiamoci alla considerazione che anche scelte fondamentali sul rito penale non possono essere assunte autonomamente, prescindendo cioè dal fondamentale punto di riferimento di ogni modello processuale: di essere funzionale cioè ad un determinato sistema penale, alle scelte ideologiche che lo ispirano, alle finalità che intende perseguire. Di qui — a nostro avviso — l’assurdo di aver posto mano ad una riforma del processo penale prima che fossero chiari i termini di una riforma del sistema penale sostanziale. 3. Dopo aver rilevato che i nessi tra principio di legalità e funzione della pena furono posti a base del sistema penalistico di Feuerbach, Moccia osserva che il rispetto del principio di legalità finisce per soddisfare non solo esigenze di tipo garantistico-formale, ma anche esigenze di tipo teleologico-funzionale. La previa conoscenza della legge penale si rivela strumentale all’orientamento della condotta sociale. Norme oscure, o di difficile lettura, infatti, non consentirebbero un’aggregazione di consensi, mentre, sul piano individuale, risulterebbe impossibile la percezione del


— 779 — disvalore insito nella norma penale, condizione questa irrinunciabile perché l’intervento punitivo statuale risulti accettabile. In tal modo ‘‘l’accurata tipicizzazione si conferma come strettamente connessa, oltre che con la finalità politico-generale della difesa della libertà, con quella della realizzazione della finalità politico-criminale relativa alla funzione della pena, intesa in termini di integrazione sociale’’. In questa prospettiva, anche le problematiche dell’imputazione oggettiva e soggettiva, nel concorrere a delimitare l’ambito del fatto illecito, acquistano un particolare significato in termini di teoria della pena, attraverso il duplice riferimento alla legalità ed alla personalità come caratteri imprescindibili della responsabilità penale. Ai fini di una corretta tipicizzazione del fatto, l’A. ritiene estremamente opportuna la scelta sistematica di inserire dolo e colpa all’interno della struttura della fattispecie. ‘‘Dolo e colpa sono essenziali per la tipicità, perché senza di essi la descrizione legale del reato non può realizzarsi nella forma tassativa richiesta dallo stato di diritto’’. ‘‘L’anticipazione di dolo e colpa nell’ambito del Tatbestand, è bene ribadirlo — sottolinea Moccia — aggiunge un ulteriore elemento a garanzia dell’esatta individuazione del fatto tipico, favorendo, così, maggiormente, rispetto ad una costruzione meramente oggettiva del Tatbestand, il rispetto di esigenze di certezza e, quindi, di tutela della libertà’’. La critica alla concezione causale dell’azione, questo ‘‘spettro esangue’’ fortemente condizionato da connotazioni naturalistiche, trova qui una sua essenziale e convincente spiegazione sistematica nella valorizzazione non soltanto dei caratteri della tipicità della condotta ma anche del suo significato sociale. L’individuazione degli elementi soggettivi dell’illecito, oltre a risolvere i problemi della tipicità, consente di fondare anche la responsabilità su dati personalistici, garantendo così il soddisfacimento di un’esigenza duplice di garanzia: quella che si riconduce al principio di legalità e quella che si riconnette al principio della personalità della responsabilità penale. H. Welzel, ‘‘il cui pensiero è stato sovente oggetto di fraintendimenti’’, rileva Moccia, ‘‘portò esemplarmente a compimento quel processo, iniziatosi con i penalisti di estrazione neoKantiana, di individuazione degli elementi soggettivi dell’illecito, elaborando una sistematizzazione (...) di dolo e colpa quali elementi strutturali del fatto tipico, assegnando ad essi l’ulteriore funzione di oggetto del giudizio di colpevolezza’’. Ovviamente — nonostante la collocazione di dolo e colpa all’interno del Tatbestand — le differenze rispetto alla teoria finalistica dell’azione sono numerose e rilevanti, e Moccia ne è pienamente consapevole. ‘‘La correttezza, nei risultati, della dommatica welzeliana del fatto, è bene ribadirlo — avverte Moccia — non implica l’accettazione della sua discutibile ontologia in guisa di presupposto’’. La costruzione dell’illecito in chiave personalistica, sembra osservare Moccia con Mezger, non può fondarsi su strutture ontologiche, ma deve trarre dal diritto positivo ben più solide basi come ad esempio la regola enunciata dalla nostra Costituzione della personalità della responsabilità penale ‘‘che si inserisce armonicamente nel più ampio contesto normativo imperniato sull’esaltazione del valore della persona, considerata nella sua integralità fisica e morale’’. Nel quadro della funzionalizzazione delle categorie del reato alle esigenze di politica criminale, ancorata alla problematica delle sanzioni, va vista la critica alle posizioni tradizionali sulla causalità ed il ricorso ai c.d. criteri di imputazione oggettiva. Ed anche qui è la necessità di assicurare il rispetto del principio di determinatezza ad ispirare soluzioni nuove al problema, sempre attuale, di precisare le condizioni in base alle quali un dato evento derivante dalla condotta di un soggetto sia a questi imputabile secondo criteri giuridici, e non empirici. Di qui la necessità di abbandonare parametri naturalistico-causali e sostituirli con criteri valutativi di tipo giuridico, in virtù dei quali sia possibile stabilire se l’imputazione dell’evento ad una determinata condotta sia conforme o meno alle funzioni di prevenzione (generale o speciale) della pena. 4. L’individuazione di una fattispecie soggettiva accanto ad una fattispecie oggettiva, e quindi la ricostruzione dell’illecito in termini personalistici, nel senso che si risponde per


— 780 — fatto ‘‘proprio’’ soltanto quando questo sia attribuibile al soggetto sia sotto il profilo materiale che sotto quello psicologico, induce a concludere per la necessità di porre al bando la responsabilità oggettiva. Ed infatti — sottolinea Moccia — ‘‘perché un individuo possa essere chiamato a responsabilità penale per un determinato fatto, questo deve poter essergli imputato dal punto di vista della causazione materiale — imputazione oggettiva — e dal punto di vista della attribuibilità psicologica — imputazione soggettiva —’’. Si scoprono così le notevolissime implicazioni tra teoria della pena e principio di responsabilità. Ed infatti ‘‘soltanto in rapporto ad un fatto che sia ‘proprio’ di un soggetto, tale da poter essere avvertito come integrale espressione della persona, può legittimamente, ed eventualmente con proficuità, essere intrapresa un’azione di (ri)socializzazione o confidarsi in una non (ulteriore) desocializzazione’’. Fuori di questi parametri l’irrogazione della pena risulta arbitraria, illegittima e sotto molti aspetti incostituzionale. Ed incostituzionali sono da ritenersi tutte quelle ipotesi nelle quali la responsabilità sia riconducibile solo oggettivamente al soggetto. E in contrasto col principio della personalità della responsabilità penale devono ritenersi sia le ipotesi di responsabilità per fatto altrui, che quelle ‘‘di responsabilità meramente oggettiva che, in quanto fondata sulla sola causazione fisica dell’evento — con esclusione quindi dell’accertamento della partecipazione psicologica — non considera indispensabile la piena riconducibilità di questa alla personalità del soggetto, con ciò ponendosi in contrasto non solo con la norma dell’art. 27 Cost.’’, ma anche con i principi che, in positivo o in negativo, regolano la funzione della pena nel nostro ordinamento. E soprattutto mortificano scelte di integrazione sociale. Moccia, quindi, nella prospettiva costituzionale, ed in sintonia con le posizioni elaborate a proposito della teoria della pena, conclude per la radicale illegittimità costituzionale di tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva: sia quelle caratterizzate dalla mera imputazione oggettiva di un evento o di un reato diverso, sia quelle costruite facendo riferimento allo schema dei cd. delitti aggravati dall’evento o dei delitti preterintenzionali. Ed il vizio di incostituzionalità è così radicale ed insanabile che alla soluzione del problema, secondo l’A., non giovano neanche i risultati di quella tendenza interpretativa nel senso della Costituzione che richiede la ‘‘prevedibilità’’ dell’evento come coefficiente minimo per tutte le ipotesi di responsabilità penale, e quindi anche per la configurabilità di reati preterintenzionali e persino per i delitti aggravati dall’evento. A proposito della preterintenzione e dell’omicidio punito nell’art. 584 c.p. — ad esempio — Moccia rileva come sia estremamente difficile desumere dalla lettera della norma incriminatrice che la ‘‘prevedibilità’’ dell’evento sia un requisito di tipicità effettivamente richiesto dal legislatore. E l’obiezione potrebbe cogliere anche nel segno se non vi fosse l’esigenza pratica di evitare che venga inflitta la reclusione da dieci a diciotto anni a chi, agitando un bastone, rincorra minacciosamente una persona che poi trovi la morte perché, per sfuggire all’aggressore, ponga incautamente un piede in fallo e precipiti in un burrone. È di fronte a queste aberranti applicazioni dell’art. 584 c.p. che la giurisprudenza quotidianamente offre, che l’interprete, con senso di responsabilità, ha il dovere di far ricorso a tutti i mezzi interpretativi che la propria cultura ed esperienza gli offrono, per evitare simili assurdità. E sarebbe interessante vedere se quello dell’integrazione sociale non possa funzionare anche come criterio interpretativo, e se non sia possibile risolvere questi problemi ricorrendo a questo criterio, e soprattutto a quelli della imputazione oggettiva. Diverso il piano delle proposte de iure condendo. Qui non soltanto è lecito, ma direi addirittura doveroso, pretendere che figure ambigue come la preterintenzione vengano ricondotte nell’alveo della responsabilità per colpa alla quale, peraltro, l’avvicinano significativamente la struttura del fatto ed il suo coefficiente psichico. In entrambe le ipotesi (della colpa e della preterintenzione), infatti, si verifica una divergenza sul piano dei risultati intenzionalmente perseguiti dall’agente. In altri termini, per riprendere l’espressione dell’art. 43 c.p., sia che l’evento si verifichi ‘‘contro’’ l’intenzione, sia che si verifichi ‘‘oltre’’ questa, è certo che si tratta di un risultato divergente rispetto al contenuto dell’intenzionalità dell’agente. E que-


— 781 — sto accomuna sul piano strutturale le due figure, consentendo di auspicare che, anche sul piano legislativo, vengano trattate in maniera omogenea. 5. In un intervento di questo tipo, come ovvio, non si possono esaminare tutte le molteplici implicazioni che l’integrazione sociale suggerisce all’A. ed al lettore. Ci si deve limitare solo a richiamare l’attenzione su due temi fondamentali che trovano adeguata collocazione nel quadro sistematico che Moccia viene offrendo nel corso della trattazione: quello relativo al rapporto tra funzioni della pena e oggetto di tutela, e quello che riguarda la relazione tra funzioni della pena ed antigiuridicità. E soprattutto quest’ultimo punto ci è parso interessante, ricco di soluzioni originali e di osservazioni stimolanti. In contrasto con la prevalente dottrina, infatti, Moccia ritiene che per la giustificazione di un fatto tipico sia necessaria la presenza di requisiti soggettivi anche nelle scriminanti. Requisiti soggettivi che vanno intesi sia come conoscenza dei presupposti della giustificazione, che come intenzionale realizzazione da parte del soggetto della finalità richiesta dalla norma autorizzativa. Ciò, ad avviso dell’A., si impone sia per le esigenze strutturali che per le esigenze funzionali. Dal punto di vista strutturale, infatti, una volta che si sia individuata ai fini della tipicità la necessità della compresenza di una fattispecie oggettiva e di una soggettiva, discende che la medesima struttura deve caratterizzare la fattispecie che giustifica il fatto tipico. Lo scopo di difesa, questo profilo soggettivo che fa ritenere necessaria la reazione all’aggressione, è assolutamente indispensabile per la configurabilità della causa di giustificazione. Come ai fini della tipicità il fatto deve esprimere un disvalore di evento ed un disvalore di azione, così, perché la situazione di antigiuridicità risulti neutralizzata, è necessario che concorrano elementi di valore sia oggettivo che soggettivo. ‘‘Per la giustificazione di un fatto tipico — viene osservato — è necessaria la presenza di requisiti soggettivi anche nelle scriminanti, intesi sia come conoscenza dei presupposti della giustificazione che come realizzazione della finalità richiesta dalla norma autorizzativa’’. E la posizione critica, assunta rispetto ad una parte della dottrina che viceversa ritiene che le cause di giustificazione operino soltanto oggettivamente, riceve conforto ulteriore dalla considerazione che un fatto può risultare conforme al diritto ‘‘solo se vengano a cadere disvalore di evento e disvalore di azione; la sola presenza dell’elemento oggettivo giustificante non elide il disvalore di azione’’. Ma la verità è anche un’altra. Nella prospettiva della funzione della pena è indispensabile accertare che il soggetto intendeva realizzare un risultato conforme al diritto, o quanto meno tollerato in quanto inevitabile. Ecco perché, anche da questo punto di vista, è indispensabile che il soggetto abbia agito con la consapevolezza di trovarsi in una delle situazioni che giustificano il fatto, e che abbia agito proprio allo scopo di attuare la difesa o di esercitare un diritto. Ed infatti, nella prospettiva della funzione della pena, non può essere sufficiente la sola presenza di presupposti oggettivi delle scriminanti: il soggetto deve aver consapevolezza della situazione che giustifica la reazione. ‘‘Se sono presenti circostanze oggettivamente giustificanti, ma l’agente non ne è a conoscenza, egli agisce per la realizzazione di un evento che, nella situazione da lui prevista, è disapprovata dal diritto’’. Decisiva quindi si rivela l’indagine sulla conoscenza sia della situazione di fatto che dell’orientamento finalistico della condotta da parte dell’agente verso lo scopo socialmente apprezzato. È la sussistenza di questa situazione che consente la mancata applicazione della pena che, in questi casi, non avrebbe finalità di risocializzazione da realizzare. La ricostruzione si conclude con la considerazione che nemmeno la recente riformulazione dell’art. 59 c.p., operata dalla legge del febbraio 1990, può valere ad escludere ‘‘la necessità della presenza degli elementi soggettivi al fine della tipicità delle fattispecie scriminanti’’. Ad avviso dell’A. infatti l’art. 59 c.p. vale a ribadire l’irrilevanza del ‘‘putativo’’, quando potrebbe ridondare in malam partem. 6.

Ancora ci sarebbe da dire del problema della funzione della pena rispetto alle scelte


— 782 — di parte speciale che è poi la parte conclusiva di questo lavoro tutto teso a sperimentare l’idea della integrazione sociale, come sintesi dei caratteri fondamentali della pena, in relazione agli elementi strutturali del reato. E tuttavia priveremmo il lettore del piacere di scoprire come il rispetto dei diritti fondamentali della persona, l’esistenza di differenti concezioni morali, il riconoscimento costituzionale della libertà di opinione e di religione sono situazioni che, tutte allo stesso modo, rendono inammissibile il ricorso alla sanzione penale in nome della tutela di taluni principi morali autoritativamente individuati. L’idea della pena come integrazione sociale, infatti, non consente criminalizzazioni volte ad imporre un certo ordine morale o un determinato credo religioso. Si tratta della parte certamente più stimolante e problematica dell’intero lavoro. Un punto senza dubbio di grande rilievo e che, per il suo implicito contenuto propositivo, non mancherà di ‘‘fruttificare’’, nel senso che suggerirà (almeno c’è da augurarselo) ulteriori contributi ad interventi sulla parte speciale. VINCENZO PATALANO Ordinario di Diritto penale nell’Università di Napoli


GIURISPRUDENZA

A) Giurisprudenza costituzionale

CORTE COSTITUZIONALE — 19-25 luglio 1994, n. 341 Pres. Casavola — Rel. Spagnoli (G.U. 1a serie speciale, n. 32 del 3 agosto 1994) Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale — Reato in genere — Oltraggio a pubblico ufficiale — Minimo edittale della pena (mesi sei) — Sproporzione ed eccessività anche in rapporto all’assai più ridotto minimo di pena applicabile per il reato di ingiuria — Irragionevole bilanciamento tra la tutela della pubblica amministrazione e il valore della libertà personale — Lesione del principio di finalità rieducativa della pena — Illegittimità costituzionale parziale — Assorbimento di ulteriore profilo — Possibilità per il legislatore di stabilire un diverso trattamento sanzionatorio, purché conforme ai principi surrichiamati (Cost. artt. 3, 27, terzo comma, e 97; c.p. art. 341, primo comma). L’art. 341, primo comma, del codice penale deve essere dichiarato incostituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, nella parte in cui prevede come minimo edittale la reclusione per mesi sei. La rigidità e severità del minimo edittale previsto dal legislatore del 1930 è frutto di un bilanciamento ormai manifestatamente irragionevole tra la tutela dell’amministrazione e del pubblico ufficiale e il valore della libertà personale (1). (Omissis). — RITENUTO DI FATTO. — 1. All’esito dell’istruttoria dibattimentale a carico di un imputato del reato di oltraggio a pubblico ufficiale, il Pretore di Padova ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma e 97, primo comma, della Costituzione, dell’art. 341 del codice penale, « nella parte in cui prevede il limite minimo edittale di sei mesi di reclusione ». Secondo il Pretore, tale pena minima appare, per il radicale mutamento dei valori morali e giuridici prodottosi nel lungo tempo trascorso dall’entrata in vigore del codice penale, e in relazione al quadro delineato dalla Costituzione, assolutamente sproporzionata in eccesso. L’oltraggio, osserva il remittente, è in realtà un’ingiuria aggravata ai sensi dell’art. 61 n. 10 c.p. differendo da questa solo per il diverso oggetto giuridico, il quale tuttavia non giustifica la rilevante differenza di trattamento sanzionatorio tra le due fattispecie criminose.


— 784 — L’elevato livello del minimo edittale, comportando l’irrogazione di pene sproporzionate al grado di disvalore sociale dei fatti, spesso di lieve entità, in cui si concreta il reato in questione, contrasterebbe, ad avviso del Pretore, in primo luogo con l’art. 27, terzo comma, della Costituzione, essendo compromessa la finalità rieducativa della pena. Sarebbe poi violato l’art. 97, primo comma, della Costituzione, perché la gravità della pena, non consentendo l’applicabilità di sanzioni sostitutive pecuniarie, ed ostacolando comunque la definibilità del procedimento in sede predibattimentale, rende inevitabili istruttorie dibattimentali « da assise », così da determinare costi processuali rilevanti e « l’inutile ‘‘occupazione’’ di una struttura delicatissima già di per sé quasi moribonda ». Infine, secondo il giudice a quo, sarebbe leso anche l’art. 3 della Costituzione, per la differenza di trattamento sanzionatorio tra la fattispecie di cui all’art. 341 c.p. e quella di cui agli artt. 594 e 61 n. 10 c.p., che non trova adeguata giustificazione razionale nella sola diversità del bene giuridico tutelato, considerato anche che l’esigenza di differenziazione tra le due ipotesi criminose riceve già una significativa realizzazione, sul piano processuale, nella procedibilità d’ufficio per il primo reato. Il sollecitato intervento di eliminazione del minimo edittale, oltre a risolvere i riferiti problemi di costituzionalità, si configurerebbe, secondo il Pretore, come una scelta non interferente con la sfera di discrezionalità legislativa, rinvenendosi nello stesso sistema, in virtù della generale previsione dell’art. 23, primo comma, c.p. (limite generale di quindici giorni di reclusione) l’individuazione del trattamento sanzionatorio minimo. CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. Il giudice a quo dubita che l’art. 341 c.p., nella parte in cui prevede, per il reato di oltraggio, il limite minimo edittale di sei mesi di reclusione, si ponga in contrasto con gli artt. 3, 27, terzo comma, e 97, primo comma, della Costituzione. Secondo il Pretore tale pena minima sarebbe attualmente, in presenza di un mutamento rilevantissimo dei valori morali e giuridici, o meglio della loro scala gerarchica, assolutamente sperequata in eccesso: di qui, in primo luogo, il sospetto di una violazione dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione, poiché l’irrogazione di pene sproporzionate al grado di effettivo disvalore dei fatti, spesso di lieve entità, in cui si concreta il reato di oltraggio, comprometterebbe la finalità rieducativa della pena. In secondo luogo, la norma impugnata si porrebbe in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, perché la rilevante differenza del trattamento sanzionatorio minimo ivi previsto rispetto a quello di cui agli artt. 594 e 61 n. 10 c.p. (ingiuria aggravata) non troverebbe adeguata giustificazione nella diversità del bene giuridico tutelato. Infine, la previsione contestata violerebbe l’art. 97, primo comma, della Costituzione, perché la gravità della pena, precludendo la possibilità di definire i procedimenti in fase predibattimentale, determinerebbe costi processuali rilevantissimi. La questione sollevata dunque ha ad oggetto soltanto il minimo edittale. Essa non concerne pertanto né la previsione del limite massimo della pena, né le rimanenti disposizioni dell’art. 341 c.p. 2.

Questa Corte ha già avuto occasione di esaminare problemi analoghi a


— 785 — quelli posti dalla questione attuale. In passato, respingendo questioni di legittimità costituzionale formulate con esclusivo riferimento all’art. 3 della Costituzione — per via dell’asserita arbitraria diversificazione, dal punto di vista del trattamento sanzionatorio, tra il reato di oltraggio e quello di ingiuria — la Corte dava conto del fatto che la norma impugnata appariva espressione di una concezione autoritaria, ma affermava che la sua eventuale modifica competeva al legislatore (sentenze nn. 109 del 1968, 165 del 1972, 51 del 1980). In seguito, pronunziandosi su una questione analoga, con la quale però si contestava anche e specificamente la eccessiva sproporzione del minimo edittale per l’oltraggio in riferimento alla finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, la Corte, rigettata la censura relativa all’art. 3 della Costituzione, ammetteva che « rimane sicuramente, specie in talune ipotesi di fatto, una effettiva sproporzione fra sanzione comminata e disvalore del fatto », ma ribadiva nuovamente che ogni iniziativa in proposito competeva al legislatore (ordinanza n. 323 del 1988). Successivamente, esaminando un’altra questione, formulata in termini pressoché identici a quella presente, la Corte ne pronunziava la manifesta infondatezza, da un lato, ribadendo ancora una volta la spettanza al legislatore del giudizio sulla congruenza della pena rispetto al fatto-reato anche in relazione alla mutata coscienza sociale e ai principi costituzionali; dall’altro, sottolineando come l’art. 27, terzo comma, della Costituzione non fosse invocabile nel caso di specie poiché il fine rieducativo della pena andava riferito esclusivamente alla fase di esecuzione di essa (ordinanza n. 127 del 1989). In ordine a questo complessivo orientamento si può osservare in primo luogo come il principio secondo cui appartiene alla discrezionalità del legislatore la determinazione della quantità e qualità della sanzione penale costituisce un dato costante della giurisprudenza costituzionale che deve essere riconfermato: non spetta infatti alla Corte rimodulare le scelte punitive effettuate dal legislatore, né stabilire quantificazioni sanzionatorie. Tuttavia, come è stato sottolineato soprattutto nella giurisprudenza più recente, alla Corte rimane il compito di verificare che l’uso della discrezionalità legislativa in materia rispetti il limite della ragionevolezza. In particolare, con la sentenza n. 409 del 1989 la Corte ha definitivamente chiarito che « il principio di uguaglianza, di cui all’art. 3, primo comma, della Costituzione, esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali; ... le valutazioni all’uopo necessarie rientrano nell’ambito del potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio può essere censurato, sotto il profilo della legittimità costituzionale, soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza » (v. pure nello stesso senso sentenze nn. 343 e 422 del 1993). Infatti, più in generale, « il principio di proporzionalità ... nel campo del diritto penale equivale a negare legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all’individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni » (sentenza n. 409 del 1989). In altre recenti decisioni, inoltre, la Corte ha maturato la convinzione che la finalità rieducativa della pena non sia limitata alla sola fase dell’esecuzione, ma costituisca « una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel


— 786 — suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue »: tale finalità rieducativa implica pertanto un costante « principio di proporzione » tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra (sentenza n. 313 del 1990; v. pure sentenza n. 343 del 1993, confermata dalla sentenza n. 422 del 1993). In applicazione di questi principi le sentenze da ultimo ricordate sono giunte a dichiarare costituzionalmente illegittime, come palesemente irragionevoli, diverse previsioni di sanzioni penali giudicando che la loro manifesta mancanza di proporzionalità rispetto ai fatti-reato si traduceva in arbitrarie e ingiustificate disparità di trattamento, o in violazioni dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione. In particolare la sentenza n. 343 del 1993 ha affermato che « la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale » provocata dalla previsione di una sanzione penale manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell’illecito « produce ... una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione, che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione ». 3. Al fine di valutare la rispondenza della previsione oggi contestata ai ricordati criteri di giudizio, e segnatamente al principio di proporzionalità, si può iniziare con l’osservare che in altri Paesi europei di democrazia matura non solo non esistono, per le ipotesi corrispondenti, pene così severe, ma è quasi sempre ignorato lo stesso reato di oltraggio: al di là di ipotesi particolari, riguardanti i membri del Parlamento o i soggetti che partecipano alla vita politica, le ingiurie e le diffamazioni nei confronti dei pubblici ufficiali sono infatti normalmente colpite nello stesso modo con cui sono punite quelle rivolte ai privati cittadini. D’altra parte, nello stesso ordinamento italiano, la sanzione per l’oltraggio prevista nel codice penale del i889 era assai più lieve di quella odierna, essendo limitata alla reclusione sino a sei mesi, o alla multa. Si può dunque affermare che la previsione di sei mesi di reclusione come minimo della pena e quindi come pena inevitabile anche per le più modeste infrazioni non è consona alla tradizione liberale italiana né a quella europea. Questo unicum, generato dal codice penale del 1930, appare piuttosto come il prodotto della concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini tipica di quell’epoca storica e discendente dalla matrice ideologica allora dominante, concezione che è estranea alla coscienza democratica instaurata dalla Costituzione repubblicana, per la quale il rapporto tra amministrazione e società non è un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale alla cura degli interessi di quest’ultima. Il necessario e ragionevole bilanciamento di interessi che presiede alla determinazione della misura della pena non può, nel caso presente, non tenere conto del mutato assetto di questo rapporto. Già questa prima, più generale, considerazione induce dunque a ritenere che la rigidità e severità del minimo edittale previsto dal legislatore del 1930 e ancora vigente sia frutto di un bilanciamento ormai manifestamente irragionevole tra tutela dell’onore e del prestigio del pubblico ufficiale (e del buon andamento dell’amministrazione) anche nei casi di minima entità, e quello della libertà personale del soggetto agente. Ulteriore sintomo della definitiva affermazione, nella coscienza sociale, della


— 787 — convinzione della palese incongruenza della previsione sanzionatoria impugnata è dato dall’atteggiamento dei giudici di merito che, nel ritenere la norma incriminatrice dell’oltraggio volta a colpire una gamma estremamente vasta di comportamenti, compresi quelli di tenue o minima offensività, per di più in riferimento ad una platea notevolmente estesa di soggetti passivi, hanno continuato ad avvertire il disagio di essere tenuti a dare risposte sanzionatorie manifestamente eccessive, tanto da continuare a investire questa Corte di ripetute questioni di costituzionalità. Simile situazione di disagio nei giudici e nella società, d’altra parte, è stata aggravata, fino a superare ogni limite di ragionevole tollerabilità dal fatto che, nonostante i ripetuti inviti rivoltigli da questa Corte perché provvedesse ad adeguare la disciplina in oggetto ai principi costituzionali, il legislatore non è intervenuto, non essendo state mai portate a compimento le varie iniziative di riforma avanzate nel corso degli anni. A quanto detto finora si può aggiungere che la manifesta irragionevolezza della norma impugnata emerge anche dal raffronto con il trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 594 del codice penale. La plurioffensività del reato di oltraggio rende certamente ragionevole un trattamento sanzionatorio più grave di quello riservato all’ingiuria, in relazione alla protezione di un interesse che supera quello della persona fisica e investe il prestigio e quindi il buon andamento della pubblica amministrazione. Ciò non toglie però che nei casi più lievi, il prestigio e il buon andamento della pubblica amministrazione, scalfiti da ben altri comportamenti, appaiono colpiti in modo così irrisorio da non giustificare che la pena minima debba necessariamente essere dodici volte superiore a quella prevista per il reato di ingiuria. Anzi in questi casi è più che mai evidente l’irragionevole bilanciamento tra la tutela dell’amministrazione e del pubblico ufficiale e il valore della libertà personale. Il giudizio sulla irragionevolezza della norma in esame trova indiretta ma significativa conferma nella disciplina proposta, nel 1992, dalla Commissione ministeriale per la riforma del codice penale. Con essa si prevede che l’offesa all’onore e al prestigio del pubblico ufficiale non costituisce più una figura autonoma di reato, ma solo una aggravante del reato di ingiuria (in questo caso perseguibile d’ufficio). Una riforma che, secondo la relazione, vuole essere « in armonia con una visuale democratica dei rapporti tra pubblica amministrazione e cittadini » e che fa seguito alle numerose proposte di modifica che si sono succedute dal 1945 (dopo che era stata ripristinata con l’art. 4 del decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288 l’esimente del fatto arbitrario del pubblico ufficiale) tutte dirette ad attenuare il trattamento sanzionatorio minimo previsto nel reato di oltraggio. In conclusione l’art. 341, primo comma, del codice penale deve, con riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, essere dichiarato incostituzionale nella parte in cui prevede come minimo edittale la reclusione per mesi sei, rimanendo assorbita la censura relativa all’art. 97 della Costituzione. Venuto meno così il limite censurato, è possibile individuare la pena minima da applicare per il reato in questione facendo riferimento al limite di quindici giorni fissato in via generale per la pena della reclusione dall’art. 23 c.p., senza con ciò effettuare alcuna opzione invasiva della discrezionalità del legislatore, il quale peraltro resta libero di stabilire, per il reato medesimo, un diverso trattamento sanzionatorio, purché ragionevole nei sensi e secondo i principi illustrati nella presente pronunzia.


— 788 — P.Q.M. — La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 341, primo comma, del codice penale nella parte in cui prevede come minimo edittale la reclusione per mesi sei. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, 19 luglio 1994.

——————— (1)

Disvalore dell’oltraggio e comminatoria edittale della pena.

SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — 2. I precedenti giurisprudenziali in tema di legittimità dell’oltraggio. — 3. Il disvalore dell’oltraggio e la commisurazione edittale della pena. La problematica del rapporto tra posizione costituzionale del bene giuridico, scala dei giudizi di valore dominante e graduazione delle sanzioni. — 4. Il controllo sul contenuto e la struttura del precetto: proiezione del principio di proporzione sulla tecnica di struttura della fattispecie. — 5. Il controllo mediante il raffronto tra le pene previste per reati diversi e la significatività degli interessi: il principio di proporzione come esigenza di armonia architettonica del sistema penale. — 6. Considerazioni conclusive. Il principio di proporzione come criterio guida per limitare la discrezionalità legislativa nella statuizione edittale della pena.

1. Considerazioni introduttive. — Il controllo di legittimità sulla ragionevolezza della pena edittale, sempre ribadito dalla Corte costituzionale in linea di principio, si è finalmente tradotto in una censura effettiva con l’innovativa sentenza n. 341 del 1994 (1). Tale sentenza, in modo del tutto rivoluzionario, ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 341, primo comma, c.p., nella parte in cui prevede come minimo edittale la reclusione per sei mesi. La possibilità di un sindacato sulla misura edittale della pena coinvolge due diversi ordini di considerazioni: politiche da un lato, in quanto rimane pur sempre da sciogliere l’interrogativo fondamentale se il legislatore sia libero di determinare a sua discrezione l’entità della pena comminata per un certo reato, o invece incontri limiti imposti da superiori principi alla cui stregua le sanzioni edittali possano essere controllate (2); tecniche dall’altro, in quanto per un verso non si può prescindere dalla natura delle comminatorie edittali, difficilmente decodificabile e ontologicamente dotata di un’insopprimibile componente valutativa, per altro verso occorre però individuare i parametri costituzionali alla cui stregua poter compiere detto sindacato. A nostro avviso proprio la distonia, nelle valutazioni della Corte, tra aspetti

(1) Cfr. C. cost., sen. 25 luglio 1994, in G.U. 1a serie speciale, agosto 1994, 101; ordinanza Pret. Padova, 29 marzo 1993. (2) Cfr. PAPA, Considerazioni sul controllo di costituzionalità relativo alla misura edittale delle pene in Italia e negli U.S.A., in L’influenza dei valori costituzionali sui sistemi giuridici contemporanei a cura di Pizzorusso e Varano, Milano 1985, 619-620; PADOVANI, La questione di legittimità della pena del furto aggravato, in Studi per Graziani, Pisa 1973, 448; PIACENTINI, Reati di insubordinazione militare; diversità delle fattispecie e congruità delle pene, in Giur. cost. 1981, I, 269; PIZZORUSSO, Le norme sulla misura delle pene e il controllo della ragionevolezza, in Giur. it. 1971, IV, 192; ROSSETTI, Controllo di ragionevolezza e oggettività giuridica dei reati di insubordinazione, in questa Rivista 1980, 200; SPATOLISANO, Ragionevolezza costituzionale della pena per il furto aggravato, in Quale giustizia 1979, 116 ss.; VENDITTI, In materia di reato militare di insubordinazione, in Giur. cost. 1972, I, 289 ss.; PALAZZO, Valori costituzionali e Diritto penale. Un contributo comparatistico sul tema, in L’influenza dei valori cost., cit., 603-611; MAIZZI, Limiti edittali della pena e principio di legalità: a proposito dell’illegittimità costituzionale dell’art. 122 c.p.m.p., in Giur. cost. 1992, 4430.


— 789 — considerati solo genuinamente politici e aspetti considerati tecnici (3), e come tali sindacabili, ha per lungo tempo precluso pronunce di fondatezza. Infatti, la Corte, fino alla sentenza in esame, ha considerato precluso toutcourt ogni intervento sulla scelta di valore concernente il significato attribuito all’offesa, e si è sforzata di incidere solo sulla congruità tecnico-legislativa delle comminatorie; tant’è che le censure di incostituzionalità hanno assunto come principale parametro le norme costituzionali che consentivano un controllo circa la « ragionevolezza » delle disparità di trattamento (art. 3 Cost.) (4). Orbene, anche per questa via, la struttura stessa del sindacato di costituzionalità ha portato quasi sempre a pronunce di infondatezza, pur ammettendosi tale controllo: veniva dedotta una violazione del principio di eguaglianza derivante dal fatto, che la norma impugnata stabilisse la misura della pena (soprattutto nel minimo edittale) in modo ingiustificatamente elevato rispetto ad un’altra distinta norma penale, regolatrice di una fattispecie analoga o comunque compatibile con quella in esame. È chiaro poi che la comparazione da compiere ai fini del controllo di ragionevolezza fosse esterna alla disposizione impugnata, implicando l’esame di altro materiale utilizzabile per la costituzione delle norme. A tale stregua ne derivava una distinzione tra ipotesi di irragionevolezza macroscopica e microscopica, cui corrispondeva la sussistenza o meno del potere della Corte di controllare la ragionevolezza delle norme che fissano la misura della pena. In sintesi, quindi, finché le pronunce della Corte costituzionale principalmente si sono imperneate sull’asserita sperequazione delle pene assai scarse o nulle sono state le pronunce di fondatezza, giudicando la Corte per lo più che la differenza di trattamento sanzionatorio non fosse del tutto ingiustificata e tale, quindi, da non uscire dal campo della politica legislativa per entrare nella zona soggetta al sindacato di legittimità costituzionale (5). Affrontare dunque il problema di costituzionalità delle leggi dal punto di vista della « ragionevolezza » delle stesse, significava inserire il problema relativo alla misura delle pene, nella generale ricerca di proporzionalità e intima armonia del sistema giuridico. L’entità della pena, esprimendo in termini numerici l’ordine dei rapporti tra le varie fattispecie incriminatrici costituiva quasi esclusivamente il riferimento per verificare l’osservanza dei canoni — per così dire — architettonici, delle regulae, che avrebbero dovuto guidare il legislatore nel costruire il sistema dei reati (6).

(3) Per approfonditi riferimenti sull’emblematicità del delitto di oltraggio come punto di evidente collegamento tra diritto penale e regime politico, cfr. PALAZZO, Ingiuria, oltraggio ed eguaglianza dei cittadini, in Giur. pen. 1971, II, 21 ss. Più in generale sulla difficoltà di compiere valutazioni critiche sulle comminatorie cfr. PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in questa Rivista 1992, 437-438. (4) Vd. in argomento CERRI, Sindacato di costituzionalità alla stregua del principio di eguaglianza: criteri generali ed ipotesi specifica di pari normazione in ordine a situazioni diverse, in Giur. cost. 1974, 2160 ss.; LATAGLIATA, Principio di eguaglianza davanti alla legge ed equiparazione di condotte « diverse » sotto un unico titolo di reato, in Giur. Merito 1971, II, 94 ss.; PADOVANI, La questione di legittimità, cit., 489; PIZZORUSSO, Le norme sulla misura, cit., 200; VENDITTI, op. cit., 289. Sull’irragionevolezza come vizio d’incostituzionalità per violazione dell’art. 3, 1o comma, Cost. vd. PALAZZO, Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova 1979, 80; LAVAGNA, Ragionevolezza e legittimità costituzionale, in Studi in memoria di C.Esposito, II, Padova 1974; ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna 1977, 26 ss. Sulla giurisprudenza della Corte vd. CERRI, L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Milano 1976, 53 ss. (5) Cfr. però C. cost., sen. 139/89 in Foro it. 1989, I, 2399 ss. In essa è ravvisabile un primo timido superamento del principio dell’intangibilità della scelta politica in tema di congruenza tra pene edittali e singole fattispecie. (6) Cfr. PAPA, cit., 620.


— 790 — Occorreva dunque dotare il principio di proporzionalità di un quid pluris che permettesse di raffigurarlo non solo come limite esterno del sistema ma come principio ricco di maggiore informatività. Il problema, a nostro avviso, era quello di elaborare un principio in grado di conferire carattere, almeno in parte, giuridico a decisioni politiche: tale cioè da offrire parametri precisi e alla cui stregua concretizzare il significato attribuito all’offesa. Si deve quindi ritenere che nella sentenza in esame vi sia la prima utilizzazione del principio di proporzionalità non più solo come mero criterio di politica criminale ma come criterio le cui valenze si riverberano sulla tecnica di strutturazione della fattispecie. A nostro avviso, infatti, la Corte ha in esso ricompreso il rango che il bene giuridico, tutelato dalla norma, occupa nel sistema dei valori costituzionali, nonché la gravità e intensità dell’offesa al bene, implicitamente costituzionalizzando poi il principio di proporzionalità così inteso, cioè come criterio regolativo del rapporto illecito-pena incidente sulla fattispecie, sulla base dell’unico parametro costituzionale che lo consentisse: l’art. 27 Cost. In estrema sintesi si può dunque affermare che la verifica di costituzionalità compiuta nella sen. 341/94 consente di mettere in luce tre aspetti fondamentali, finora trascurati o perlomeno presi in considerazione sotto profili differenti dalla pregressa giurisprudenza. A) Innanzitutto, in tale sentenza, ben emergono i rapporti tra la rilevanza costituzionale del bene giuridico protetto e la misura della pena (7). Quasi sempre in passato, la via tradizionalmente percorsa per giungere al riconoscimento di illegittimità era la mancanza di qualsivoglia motivazione giuridica e razionale a fondamento della scelta legislativa, partendo dal presupposto che le scelte del Codice Rocco, in quanto pur sempre di valore, non potevano essere censurabili sul piano della comminatoria, o meglio potevano esserlo solo in caso di macroscopica irragionevolezza (8). In questa sentenza invece la Corte pare essersi ispirata alla dottrina (9) che ritiene proprio la significatività costituzionale del valore tutelato elemento condizionante la misura astratta della pena criminale. In essa, infatti, è giudicato troppo elevato proprio il limite minimo edittale previsto per il reato di oltraggio; ed è proprio tale limite che sancisce la collocazione gerarchica del bene tutelato nella Costituzione (10). Tale limite viene inoltre giudicato troppo elevato anche rispetto all’evoluzione della coscienza sociale, in questo modo implicitamente la Corte riconosce il ruolo del consenso, inteso come scala dei giudizi di valore dominante tra i consociati,

(7) Cfr. C. cost., sen. 26/79. In essa, nonostante il sindacato fosse rimasto imperneato sul mero raffronto tra i beni tutelati, i giudici riconobbero comunque l’esistenza di una scala di valori desumibile dalla Costituzione e vincolante l’attività legislativa. Così BRICOLA, Art. 25, 2o e 3o comma, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca, Bologna-Roma 1981, 280; PAPA, op. cit., 693 ss. (8) Proprio la prima sentenza in materia di oltraggio distingue tra mascroscopica e microscopica irragionevolezza, riconoscendo la sindacabilità solo della prima: C. cost., sen. 109/68 in Giur. cost. 1968, 1697. (9) Cfr. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. it., XIX, Torino 1973; ID., in Commentario, cit., 273-280; altresì ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano 1983, 152; MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano 1975, 123 ss. Diversamente NUVOLONE, Il sistema del diritto penale, Padova 1982, 51 ss.; PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano 1993, 216 ss.; MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova 1992, 215, 216. (10) Così ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, II, (artt. 85-149), Milano 1990, sub artt. 132 e 133; PADOVANI, La disintegrazione, cit., 451.


— 791 — per quanto riguarda non solo la fattispecie incriminatrice e il bene giuridico da essa protetto ma anche la sanzione (11). B) In secondo luogo novità assoluta è che per la prima volta la Corte costituzionale pare affermare che il principio di legalità, sotto l’aspetto di determinatezza del fatto di reato, debba incidere direttamente sulla quantificazione sanzionatoria (12). I pochi cenni in argomento, che ci riserviamo di sviluppare nel proseguo, sono articolabili in due punti essenziali: 1) nella sentenza in esame vi è il primo riconoscimento che il principio di legalità della pena deve concretarsi in una sostanziale congruenza tra fatto e pena. 2) in essa altresì nuovo risulta il profilo alla luce del quale viene analizzato il problema delle norme non sufficientemente determinate per ciò che riguarda la gravità della offesa: a venire in considerazione non è l’eccessivo spazio tra minimo e massimo edittali, bensì l’eccessiva elevatezza del minimo edittale. Per quanto concerne il primo punto si può dire che l’« apertura » della Corte segue la prevalente tesi in dottrina (13), secondo la quale l’art. 25, secondo comma, Cost., a causa di un’esigenza logica legata all’imprescindibile correlazione tra il momento precettivo e quello sanzionatorio deve assicurare non solo che il fatto ma anche la pena sia tipizzata in maniera non indifferenziata, di modo che si adatti al tipo di lesione posto in essere da un certo soggetto agente. L’art. 341 c.p. può essere considerato una « norma composta di più sottofattispecie » dotate di un diverso, anche se non eterogeneo, significato di disvalore: il momento precettivo risulta alquanto complesso, poiché esso può articolarsi in più fattispecie che presentano un diverso grado di offensività. Si pone dunque un problema di compatibilità con l’art. 3 Cost., poiché la Corte, per la prima volta, ha ritenuto che l’eterogeneità delle condotte da esso potenzialmente contemplate esiga una loro distinta valutazione normativa o quantomeno una non cumulabilità in un minimo di pena eccessivo. Si deve notare fin da ora come la Corte, ancorché si sia servita dell’art. 3 Cost. come parametro formale per la dichiarazione d’illegittimità, abbia sotteso a tale operazione in qualità di tertium comparationis l’art. 25 Cost.: infatti il contrasto con l’art. 3 è motivato con l’identico trattamento di casi diversi che nella medesima fattispecie possono confluire, anche casi di gravità lieve o tenue a tale stregua erano puniti nel minimo con sei mesi di reclusione. Sotto il secondo profilo si deve notare come in questa sentenza la Corte abbia sindacato la ragionevolezza di una risposta sanzionatoria ritenuta manifestatamente eccessiva nel minimo edittale. Avendo il giudice a quo impostato il problema dal punto di vista dell’eccessiva elevatezza del minimo edittale, ha costretto a riconoscere che la reclusione minima di sei mesi costituisce una risposta sanzionatoria che colpisce in modo identico una gamma estremamente vasta di comportamenti, compresi quelli di tenue o minima offensività.

(11)

Cfr. a riguardo MUSCO, Legislazione penale e consenso, in questa Rivista 1993, 80 ss.; PA-

LIERO, Consenso sociale e diritto penale, ivi, 1992, 902; ROMANO, Legislazione penale e consenso sociale,

in Jus 1983, 420; ID., Commentario, cit., sub Pre art. 39, 264 ss. (12) Fino ad ora la Corte costituzionale non aveva mai accolto considerazioni attinenti alla struttura del fatto di reato, pur presenti in qualche ordinanza di remissione. Così l’ordinanza del G.I.P. del Tribunale di Padova, in relazione all’art. 25, comma 2, Cost., che ha poi dato luogo alla sen. 299/1992, in Giur. cost. 1992, 2257. (13) ESPOSITO, Irretroattività e legalità della pena nella nuova Costituzione, in La Costituzione italiana, Saggi, Padova 1954, 87 ss.; BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, Milano 1965, 330; MANTOVANI, Dir. pen., cit., 751 ss.; PAGLIARO, Legge penale, Enc. dir., XXIII, Milano 1973, 1052-1053; contra GRASSO, Il principio nullum crimen sine lege nella Costituzione italiana, Milano, 1972, 222.


— 792 — Il ragionamento, del tutto innovativo, sotteso a tale tipo di conclusione, a nostro avviso, può essere scandito in due tappe fondamentali, ancorché non esplicitate dalla Corte: 1) le norme composte di più sottofattispecie, per la loro stessa struttura « aperta », comprendono le modalità di condotta penalmente rilevanti che devono evidenziare il relativo disvalore di azione; 2) quindi l’equiparazione delle fattispecie a livello sanzionatorio (es. sei mesi) presuppone una sostanziale omogeneità del disvalore complessivo del fatto (comprensivo dei disvalori di azione ed evento): in altri termini, a fronte di un disvalore di evento unico, le diverse modalità di condotta, accorpate potenzialmente dalla norma, dovranno esprimere un disvalore riducibile a tendenziale unità e ciò si deve riverberare nella sanzione. A tale stregua è ben evidente che la reclusione minima di sei mesi non corrisponde a livello normativo al principio, appena delineato, secondo cui le modalità di azione potenzialmente configurabili devono coprire, in termini di disvalore, tutto lo spazio del minimo edittale: questo certamente non poteva essere punendo con sei mesi di reclusione anche comportamenti di tenue o minima offensività. C) Infine è da notare come il sindacato di legittimità dei limiti edittali sia stato effettuato alla luce delle finalità che la Costituzione assegna alla pena (14). Ciò che risulta essere assolutamente nuovo è il fine per cui la Corte costituzionale utilizza come parametro l’art. 27, terzo comma, Cost. (15): delineare un principio di proporzione ex se, inteso come proporzione della pena al disvalore del fatto commesso. L’unica via percorribile dalla Corte per delineare una proporzione intesa come incidente sulla strutturazione della fattispecie e non più solo come canone di ragionevolezza, era proprio appellarsi a criteri alla cui stregua considerare « vincolata » l’attività legislativa: primo tra i quali le scelte in ordine alla funzione della pena che determinano il quantum di essa; infatti una pena per essere rieducativa non può che essere proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso. 2. I precedenti giurisprudenziali in tema di legittimità dell’oltraggio. — Il reato di oltraggio, e più particolarmente le fattispecie di oltraggio c.d. individuale, è stato fatto oggetto di questione di legittimità costituzionale in misura quanto mai intensa (16). Sotto un profilo strettamente metodologico, le numerose ordinanze di remissione alla Corte possono essere divise in due gruppi, perlomeno fino alla sentenza in esame che sotto più punti di vista costituisce un unicum. A nostro avviso nel primo gruppo si possono far confluire tanto le censure di incostituzionalità che ritengono la tutela privilegiata conferita dall’art. 341 c.p. al pubblico ufficiale rispetto al privato cittadino contrastante col principio di eguaglianza e di pari dignità sociale (art. 3 Cost.) (17); tanto quelle che colpiscono detto reato, da un lato facendo riferimento ai principi in materia di organizzazione

(14) Per rilievi in tal senso PAPA, op. cit., 688. (15) Per una diversa utilizzazione dell’art. 27, 3o comma, Cost. cfr. C. cost., sen. 343/93 in G.U. 1a serie speciale, 1992. (16) PIZZORUSSO, Attacco in massa contro il reato di oltraggio, in Quale Giustizia 1971, 92; PALAZZO, voce Oltraggio, in Enc. dir., XXIX, Milano 1979, 865; ID., Questioni di costituzionalità in tema di oltraggio a pubblico ufficiale, in Giur. cost. 1980, 1309 ss. (17) Hanno fatto esclusivo riferimento all’art. 3 Cost. le seguenti ordinanze di rinvio: Pret. Bologna 13 maggio 1970, in Giur. cost. 1970, 1256; Pret. Carpi 22 giugno 1971, ivi, 1971, 2359; Trib. Cassino 19 novembre 1971, ivi, 1972, 428; Trib. Torino 24 novembre 1971, ivi, 1972, 426; Pret. Livorno 11 gennaio 1972, ivi, 1972, 149; Pret. Pisa 10 febbraio 1972, ivi, 1972, 1651; Pret. Alba 1 marzo 1972, ivi, 1973, 1962; Pret. Avigliana 18 marzo 1972, ivi, 1973, 145.


— 793 — e funzionamento della pubblica amministrazione (art. 97 e 98 Cost.) al fine di contestare la tutela privilegiata dei soggetti della pubblica amministrazione (18), dall’altro contestando che il prestigio della Pubblica amministrazione, nel quale quasi unanimemente si individua il bene giuridico protetto della norma, abbia rilievo costituzionale (19). La differenza qualitativa delle ordinanze che mettono in luce il problema di costituzionalità dell’oggetto giuridico della norma deve essere ravvisato nel fatto che in esse ben emerge la consapevolezza che la differenza di trattamento riservata ai cittadini altro non è che il riflesso del diverso valore attribuito al bene giuridico protetto (20). All’interno invece del secondo gruppo assumono rilievo preminente quelle ordinanze che, sottolineata l’elevatezza del minimo edittale e la mancata previsione della pena pecuniaria in alternativa a quella detentiva, eccepiscono che ciò non consentirebbe al giudice di adeguare la pena in concreto alla reale gravità dei fatti oltraggiosi che, pur conformi alla fattispecie di cui all’art. 341 c.p., si rivelino in concreto di un tenue disvalore (21); con la consapevolezza che fatti sostanzialmente diversi quanto alla loro gravità verrebbero trattati in modo egualmente grave. Questo genere di ordinanze sono particolarmente importanti, perché rappresentano il tentativo di spostare il nucleo centrale del problema di costituzionalità, tradizionalmente impostato nei termini di sperequazione delle pene (tra l’art. 341 e 594 c.p.) (22). In esse infatti non si pone più in discussione il fondamento giustificativo di una diversità di disciplina tra due fattispecie che si assumono sostanzialmente equivalenti. A tale stregua, stante la consolidata giurisprudenza della Corte sarebbe stata preclusa ogni possibilità di successo: la determinazione della pena riguardante un certo bene giuridico viene considerata di esclusiva competenza del legislatore che procede alla sua fissazione con criteri eminentemente politici. È ben vero che nella sua valutazione dovrà tener presente, data l’affinità del fatto, la pena stabilita dall’art. 594 c.p., ma anche tale confronto viene considerato un criterio di valutazione politica. Ergo la Corte può pronunciarsi sulla misura della pena solo quando sia talmente sproporzionata da superare ogni limite di ragionevolezza. La sentenza 341/94 segna una svolta fondamentale poiché in essa assume rilievo preminente il bene giuridico considerato sotto il duplice profilo: 1) del grado di valore attribuibile ad esso e in base alla sua collocazione gerarchica in seno alla Costituzione, e in base all’effettiva percezione che di esso hanno i consociati; 2) della traduzione del valore del bene giuridico in termini di strutturazione della fattispecie. A nostro avviso cioè, la Corte da un lato, per non compiere un’opzione invasiva della discrezionalità del legislatore, coerentemente con la giurisprudenza pregressa, non ha impostato la questione in termini di raffronto tra i differenti beni

(18) Esse per la verità sono assimilabili a quelle che si riferiscono all’art. 3 Trib. Venezia 17 febbraio 1970, in Giur. cost. 1970, 1257; Pret. Montebelluna 24 febbraio 1970, ivi, 1972, 423; Pret. Padova 25 ottobre 1971, ivi, 1972, 1647; Pret. Conegliano 15 gennaio 1972, ivi, 1972, 1664; Pret. Massa 20 aprile 1972, ivi, 1972, 1647. (19) Pret. Caltanisetta 13 marzo 1970, in Giur. cost. 1970, 1727; Pret. Carrù 11 luglio 1970, ivi, 1970, 2297; Pret. Bassano del Grappa 25 giugno 1971, ivi, 1971, 2353. (20) Cfr. FLORA, Il problema della costituzionalità del reato di oltraggio a pubblico ufficiale, in Archivio giuridico Serafini 1976, 22. Diversamente PALAZZO, Ingiuria, oltraggio, cit., 54; ID., Questioni di costituzionalità, cit., 1327. (21) Pret. Fiorenzuola d’Adda 4 giugno 1973, in Giur. cost. 1973, 1911; Pret. Gubbio 25 ottobre 1973, ivi, 1974, 328; vd. anche Pret. Langhirano 23 maggio 1975, ivi, 1975, 2298. (22) Vd. soprattutto ordinanze della Pretura di Francavilla al Mare del 1966, in Giur. cost. 1967, 375.


— 794 — giuridici tutelati dagli artt. 341 e 594 c.p., anzi sotto questo profilo stante la plurioffensività del reato di oltraggio (23), ha ritenuto giustificata la diversificazione sanzionatoria; dall’altro però, per giustificare l’eliminazione del minimo edittale previsto per l’oltraggio si è richiamata ad un concetto di proporzione, pure embrionale (24), traducibile nel binomio bene giuridico — pena. 3. Il disvalore dell’oltraggio e la commisurazione edittale della pena. La problematica del rapporto tra posizione costituzionale del bene giuridico, scala dei giudizi di valore dominante e graduazione delle sanzioni. — La semplicità strutturale del binomio bene giuridico — pena non deve trarre in inganno; infatti le molteplici valutazioni da compiere, per creare precise connessioni tra l’importanza del bene tutelato e la graduazione della sanzione, devono vertere: a) sulla natura del bene tutelato; b) sulle corresponsioni tra contenuto dei precetti, dosaggio delle sanzioni e scala dei giudizi di valore dominante tra i consociati; c) sulla concreta offensività che tale bene può assumere. Per quanto riguarda il primo profilo bisogna prendere le mosse dalla tesi, più diffusa in dottrina, che individua il bene protetto dal reato di oltraggio nel prestigio della Pubblica Amministrazione (25). Accettato che esso non è un bene costituzionalmente garantito, le considerazioni che seguono devono articolarsi in due punti essenziali: 1) la legittimità costituzionale o meno di una tutela penale accordata a valori che non trovano riconoscimento nella Costituzione (26); 2) le implicazioni dell’eliminazione del limite minimo edittale, individuabili da un lato nel « riposizionamento » di tale bene nella gerarchia di valori, con conseguente delineazione di una nuova gerarchia, e dall’altro nel riconoscimento al bene giuridico di una funzione intrasistematica, nel senso che il rango del bene offeso deve riverberasi sulla quantificazione sanzionatoria. Sul primo punto ci limiteremo a pochi cenni essenziali concernenti il presupposto teorico sulla base del quale, quasi unanimemente, è stata riconosciuta la legittimità di una simile tutela. Ritenere infatti che talune materie che non attengono alla struttura portante della Costituzione possano essere oggetto della legislazione ordinaria non incide minimamente su quella che può essere definita come legittimazione positiva della tutela sulla base dei beni giuridici costituzionalmente orientati. Essa, a nostro avviso, non può essere considerata esclusiva (27): in primo

(23) Vd. PAGLIARO, Oltraggio a un pubblico ufficiale, in Enc. giur. Treccani, XXI, Roma, 1990, 2. (24) Sulla semplicità strutturale del principio di proporzione cfr. EUSEBI, La « nuova » retribuzione, in questa Rivista 1983, 921 e in ispecie nota 16 di p. 919 ove si cita MULLER-DIETZ, Strafbellgriff und Strafrechtspflege, Berlin 1968, 22. (25) Vd. per tutti PALAZZO, Ingiuria, oltraggio, cit., 25; diversamente PAGLIARO, Oltraggio, cit., 2. In quest’ultimo senso parte della dottrina penalistica meno recente: RICCIO, Amministrazione pubblica (delitti contro l’), in Noviss. Dig. it., I, Torino 1964, 570. (26) Specificatamente per quanto riguarda l’oltraggio PALAZZO, op. ult. cit., 25. Sull’argomento più in generale vd. invece: BRICOLA, Tecniche di tutela penale e tecniche alternative di tutela, in Funzioni e limiti del diritto penale, a cura di De Acutis e Palombarini, Padova 1984, 18 ss.; ID., Carattere sussidiario del diritto penale e oggetto di tutela, in Studi in memoria di G. Delitala, vol. I, Milano 1984, 114 ss.; ID., Legalità e crisi, cit., 228; FIANDACA, « Il bene giuridico » come problema teorico e come problema di politica criminale, in questa Rivista 1982, 53 ss. (27) Per la verità, da un punto di vista sostanziale, convergono tanto le tesi dei sostenitori del cosiddetto modello costituzionale « forte » (BRICOLA, Tecniche di tutela penale, cit., 18 ss.), poiché introducono dei correttivi come il riconoscimento implicito di determinati beni che pur non previsti in Costituzione, fungono da presupposto essenziale di altri valori ivi riconosciuti, tanto tesi « intermedie » che già nella formulazione teorica richiedono altre valutazioni che affianchino la rilevanza costituzionale del bene oggetto di protezione (FIANDACA, Concezione e modelli di diritto penale tra legislazione, prassi giudiziaria e dottrina, in La riforma del diritto penale. Garanzie ed effettività delle tecniche di tutela, a cura di Pepino, Milano 1993, 35 ss.).


— 795 — luogo perché la peculiarità dell’oggetto di tutela, pur muovendo da premesse costituzionali circa la politica dei beni, non sottolinea in modo radicale simile delimitazione, tanto più valido poi è questo ragionamento in relazione alla norma sull’oltraggio che ha come oggetto giuridico il prestigio della Pubblica Amministrazione, ma che è orientata finalisticamente verso la realizzazione di interessi costituzionalmente rilevanti. In secondo luogo perché si deve riconoscere un ruolo attivo del consenso, a livello comunque subordinato, nelle scelte di criminalizzazione o anche, a voler disconoscere ciò, si deve ritagliare la concreta dimensione sociale che il bene ha assunto all’atto di selezionarlo quale oggetto di tutela. Il secondo dei punti sopra menzionati può essere introdotto proprio sulla scia di queste considerazioni. Una delle valutazioni principali in forza delle quali la Corte costituzionale è giunta all’eliminazione del minimo edittale previsto per il reato di oltraggio è quella giusta la quale detto reato, così come strutturato, appare il prodotto della concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici uffici e cittadini, tipica dell’epoca storica in cui esso fu previsto e discendente dalla matrice ideologica allora dominante, estranea invece alla Costituzione repubblicana, per la quale il rapporto tra amministrazione e società non è un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale alla cura degli interessi di quest’ultima (28). Ciò vuol dire che la Corte sicuramente ha riconosciuto che il bene giuridico costituzionalmente orientato predispone direttive programmatiche di tutela potenzialmente vincolanti, il che ai fini che rilevano significa, innanzitutto individuazione dei contenuti tutelati dalla norma penale sulla base di una ricostruzione gerarchica di beni, anche se non perfettamente compiuta (29) e poi, riconoscimento al bene giuridico di una funzione, non solo e non tanto incidente sul piano schiettamente politico delle scelte di criminalizzazione, ma per così dire « intrasistemica »: una pena quantitativamente alta dovrebbe essere giustificata perlomeno dalla rilevanza costituzionale del bene giuridico protetto. In ispecie per quanto riguarda il reato di oltraggio il minimo edittale originariamente previsto (sei mesi di reclusione) sanciva, in modo coerente con la funzione ad esso assegnata, la collocazione gerarchica dell’interesse protetto e contrassegnava dunque l’ultimo gradino al di sotto del quale non poteva spingersi la tutela giuridico-penale per il prestigio della pubblica amministrazione. Nella struttura originaria della fattispecie, infatti, rilievo preminente assumeva il profilo offensivo pubblicistico, in quanto l’offesa all’onore e al prestigio delle persone fisiche veniva del tutto subordinata alla tutela del pubblico ufficiale, che in quanto al servizio della pubblica amministrazione e quindi dello Stato, meritava una tutela più accentuata. Prova ne sia che il reato di ingiuria, che presenta caratteristiche strutturali comuni all’oltraggio per ciò che concerne invece il profilo offensivo privatistico, veniva e viene punito nel massimo edittale con sei mesi di reclusione. L’eliminazione del minimo di pena, prevista per il reato di oltraggio, da parte della Corte e la conseguente individuazione della pena minima da applicare per il reato in questione, facendo riferimento al limite di quindici giorni fissato in via generale per la pena della reclusione dall’art. 23 c.p., comporta un ridimensionamento e una ricollocazione nella gerarchia di valori dei cosiddetti beni « istituzionali » (30) da subordinare senz’altro ai beni personali. Specificando si potrebbe

(28) Per una brillante dimostrazione della disarmonia del reato di oltraggio, per il suo carattere di privilegio, con i principi che la nostra Costituzione detta relativamente al rapporto stato-cittadini, si rinvia a FLORA, op. cit., 42 ss. (29) Sulla difficile ricostruibilità di una scala gerarchica di valori all’interno della Costitituzione, vd. FIANDACA, op. ult. cit., 55. (30) Per una chiara delineazione dei beni riconducibili all’ampio genus degli interessi c.d. stru-


— 796 — dire che i beni che pertengono a complessi organizzativi di persone e mezzi, cui è affidata la cura di altri interessi « finali », ma che sono direttamente tutelati nella loro esistenza organizzativa e nel loro funzionamento, ben possono continuare ad essere tutelati purché detta tutela sia giustificata dalla presenza nella fattispecie di un contenuto offensivo tipico effettivamente lesivo di quel bene giuridico. In questo modo, da un lato l’abbassamento del minimo edittale pone il prestigio della pubblica amministrazione nella posizione ridimensionata che le compete rispetto a prioritari interessi costituzionali (es. beni personali), dall’altro, stante la plurioffensività del reato di oltraggio, esso continua a mantenere una pena più elevata rispetto all’ingiuria ma nel massimo edittale che funzionalmente risponde all’esigenza di assicurare una tutela efficace. Il secondo profilo all’inizio prospettato, e che pure trapela nelle considerazione della Corte, riguarda invece la definitiva affermazione, anche nella coscienza sociale, della convinzione della palese incongruenza della previsione sanzionatoria dell’art. 341 c.p. Ancorché tale tipo di motivazione sia solo fugacemente menzionata dalla Corte, essa comunque ci offre lo spunto, pur con la necessaria brevità con la quale dobbiamo affrontare il problema, per considerazioni ulteriori concernenti il ruolo del consenso, inteso come scala dei giudizi di valore dominante tra i consociati per quanto riguarda il precetto e la sanzione. Esse sono articolabili in tre punti: a) il ruolo sussidiario del consenso rispetto alla costruzione di un sistema penale fondato pur sempre sulla « protezione dei beni giuridici »; b) le modalità attraverso cui il consenso può influire sulle comminatorie di pena; c) le connessioni tra consenso ed effettività, intese come giudizio critico condotto sulla valutazione delle capacità del legislatore di regolamentare bene i fenomeni e quindi effettuato in termini di razionalità e congruità allo scopo. Per quanto concerne il primo punto una premessa si impone. La centralità del consenso si raccorda direttamente alla funzione che il sistema penale svolge nel suo complesso: quanto più il diritto penale pretende di dettare le linee di confine tra ciò che è lecito e ciò che invece è dannoso allo svolgimento della vita sociale, tanto più le scelte abbisognano di essere largamente sostenute dall’approvazione dei destinatari dei relativi precetti. Con questo non si vuole certo dire che il consenso si autolegittima, o sanziona la legittimità della norma. Esso aiuta per quanto riguarda le modalità di tutela dei valori da proteggere, ponendosi al contempo come criterio ed oggetto di verifica, in quanto uno — ma solo uno dei vari — fattori contingenti che condizionano il processo di criminalizzazione; ne va quantificata la dimensione e interpretato il significato partitamente all’interno di ogni singola opzione incriminatrice (31). Questa prospettiva fa sì che il consenso trovi un proprio ruolo sussidiario, o se si vuole un’efficacia euristica, ai fini di una ricostruzione del sistema penale che resti ancorata al paradigma garantista della « protezione dei beni giuridici » (32): insomma la teoria del bene giuridico può solo essere rinforzata, e non sostituita, dal fatto che l’opzione penale richieda anche una contestuale verifica dell’aggregazione del consenso intorno, sia al bene che la norma penale sarebbe destinata a

mentali (beni istituzionali, funzioni, interessi strumentali in senso stretto) si rinvia a PALAZZO, I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di criminalizzazione, in questa Rivista 1992, 469 ss. (31) Cfr. PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, cit., 902; MUSCO, Legislazione penale, cit., 80 ss. (32) PALIERO, op. ult. cit., p. 903. Pare troppo estrema la tesi di ROMANO, Legislazione penale, cit., 420 e ID., Comment. sist., cit., 264 ss., secondo il quale a ben vedere, I’unica ratio delle scelte di criminalizzazione sarebbe data dall’accettazione sociale delle norme penali.


— 797 — proteggere, sia alle forme di comportamento che si intenderebbero assoggettare alla sanzione criminale. Tali considerazioni risultano essere quanto mai proprie per il reato di oltraggio. Infatti l’« onore e prestigio » del pubblico ufficiale rimandano ai giudizi di valore da effettuare alla stregua di parametri extragiuridici di tipo essenzialmente sociale, a dire cioè che nei delitti di oltraggio il risultato, che serve a rendere tipica la condotta, ha la peculiarità di essere determinabile solo attraverso la nota di disvalore sociale che gli si incorpora (33). Il secondo punto concerne la verifica di come il consenso possa contribuire ad assicurare la legittimità del ricorso alla pena. Il ragionamento può essere così riassunto: il consenso è uno dei criteri alla stregua dei quali verificare il bene oggetto di tutela, esso altresì deve incidere sul dosaggio sanzionatorio relativo al precetto, sortendo l’effetto di « limitare », sia pure in linea tendenziale, la discrezionalità legislativa attraverso una legittimazione di pena che proviene « dal basso ». Il discorso però è destinato a divenire più complicato, bisogna infatti inserire un passaggio intermedio. Poiché non ogni consenso sociale legittima di per sé l’opzione incriminatrice relativa al modello comportamentale da tale consenso supportato, bisogna tener conto di criteri di selettività (34) dell’« offerta di pena » orientata dal consenso sociale. Essi possono essere individuati per esempio nei principi di sussidiarietà, offensività. Da notare è comunque che tali filtri, imposti dai criteri di selettività, ben possono essere recepiti già nelle valutazioni sociali: non per nulla nella sen. 341/94 si legge che il senso di disagio dei consociati per la palese incongruenza sanzionatoria dell’art. 341 c.p. è anche dato dal fatto che la norma incriminatrice dell’oltraggio colpisce una gamma estremamente vasta di comportamenti, compresi quelli di tenue o minima offensività, e quindi proprio su tale situazione si fonda la richiesta di abbassamento della pena. Una considerazione conclusiva sui primi due punti ci permetterà di introdurre il terzo. Il fatto che il contenuto dei precetti e il dosaggio delle sanzioni minacciate siano il più possibile in armonia con la scala dei giudizi di valore dominante tra i consociati potenzia la funzione di prevenzione generale assolta dalla norma in fase di minaccia, intesa detta prevenzione come effettiva capacità di orientamento e di guida dell’intero sistema dei precetti penali. Solo un’ordinamento penale sentito come giusto nel suo insieme può infatti portare la generalità dei destinatari ad una obbedienza giuridica volontaria mentre se si avverte che i beni primordiali sono già in astratto privi di tutela o di tutela adeguata mentre altri beni di rango assai inferiore formano invece oggetto di una protezione « oltranzista » (es. oltraggio rispetto all’ingiuria) allora l’intero sistema penale perde la sua capacità di orientamento e di guida e qualcuno aggiunge « si pervertisce fino a diventare uno dei principali fattori criminogeni » (35). Sul filo della connessione intercorrente tra efficacia « generalpreventiva » della pena ed « effettività », siamo così giunti al terzo problematico punto. Esiste cioè un nesso di interdipendenza tra idoneità della pena a porsi come guida del comportamento umano e funzione deterrente della minaccia penale; ciò può essere solo in quanto la pena sia sentita come giusta dai consociati. Ne consegue che, nel dar vita ad una nuova incriminazione, il legislatore penale deve preoc-

(33) Vd. PAGLIARO, Oltraggio, cit., 3. (34) Parla di « criteriologia della selettività » PALIERO, op. ult. cit., 910. (35) Così MARINUCCI, Politica criminale e riforma del diritto penale, in Democrazia e Diritto 1975, 85 ss.; FIANDACA, Il bene giuridico, cit., 80-81.


— 798 — cuparsi di tener conto dei fattori che ne condizionano l’efficacia pratica, in primo luogo quindi, perlomeno secondo taluni, delle aspettative sociali concernenti la pena e la misura della stessa. Queste ultime diverrebbero così un parametro alla stregua del quale compiere il giudizio di razionalità e congruità allo scopo (effettività del sistema penale) che è condicio di ogni previsione legale. Rimane da sottolineare che tali considerazioni, che a nostro avviso svolgono un’importantissima funzione orientativa e in qualche misura limitativa delle scelte legislative, sono di assai scarsa utilità per la dichiarazione d’illegittimità delle norme penali (36). Infatti le scelte concernenti l’opportunità di una tutela penale effettiva e i limiti della stessa, implicando il riscontro pur necessario di intese e comprensioni sociali, non si possono tradurre in parametri formali di raffronto per la dichiarazione d’illegittimità di norme penali. Il terzo profilo della nostra indagine riguarda il problema della maggiore specificazione delle modalità offensive attraverso cui la condotta, descritta in astratto, cagiona una lesione all’interesse protetto. L’individuazione generica del valore tutelato infatti (anche se ritagliato nella concreta dimensione sociale che esso assume) risulta essere di scarsa utilità; la fattispecie dovrebbe esprimere quantomeno uno specifico disvalore dell’evento che, indicando quale tipo di offesa si produce, fornisca gli strumenti per valutare la proporzionalità del trattamento sanzionatorio disposto (37). In particolare si possono ipotizzare delle specificazioni che da un lato, meglio evidenzino il disvalore del fatto insito nella norma e dall’altro, valgano come criteri « vincolanti » l’attività legislativa; ci riferiamo all’univoca coerenza delle condotte vietate rispetto alla protezione di un particolare bene giuridico (ad es. la protezione del prestigio della pubblica amministrazione non giustifica l’egual tutela di condotte diverse nel minimo edittale, anche di quelle caratterizzate da tenue disvalore), all’identica rilevanza dei fatti incriminati rispetto alle finalità di tutela programmate, alle scelte in ordine alla funzione della pena che determinano il quantum di pena (38). Si realizza così un’ampliamento del controllo di legittimità, che deve essere inteso in un senso assai preciso. Postulando infatti una gerarchia di beni da tutelare in misura corrispondente alla significatività degli stessi, e richiedendo una certa coerenza delle condotte rispetto al bene tutelato, si può ipotizzare un sindacato che vada oltre al confronto con le pene relative ad altri reati, per vagliare invece il quomodo della fattispecie (39). Con la fondamentale conseguenza che tale controllo creerà, prima ancora che un’armonia normativa, un equilibrio intraneo alla norma stessa. 4. Il controllo sul contenuto e la struttura del precetto: proiezione del principio di proporzione sulla tecnica di struttura della fattispecie. — Uno dei meriti principali ascrivibili alla sentenza che qui si commenta è il tentativo di creare delle precise corrispondenze tra giudizio normativo di disvalore e strutture empiricofattuali della fattispecie. Due, a nostro avviso, sono state le vie percorse per raggiungere tale scopo: da un lato, l’adozione di un concetto di legalità della pena, inteso come correlazione tra fatto e pena; dall’altro, la specificazione del principio di

(36) Per ampie considerazioni in materia si rimanda a ROMANO, Comment. sist., cit., sub Pre art. 1, 22. (37) Tale suggestiva interpretazione è di MAZZACUVA, Il disvalore di evento nell’illecito penale, Milano 1983, 118 ss. (38) In senso simile cfr. PAPA, op. cit., 697. (39) Già prospettava la possibilità di un sindacato che concernesse l’an della incriminazione e il quomodo della fattispecie, PAPA, op. cit., 699.


— 799 — proporzionalità, mai delineato in modo così nitido come chiave di volta della comminatoria edittale (40), nel senso di un rapporto di adeguatezza e congruità tra momento precettivo e sanzionatorio. Per quanto concerne il primo profilo nella sentenza si può leggere un prudente riconoscimento del fatto che il principio di legalità della pena non può limitarsi ad assicurare la precisazione dei limiti edittali, ma deve concretarsi in una sostanziale congruenza tra fatto e pena. Mentre l’applicazione del principio di legalità ha condotto a riconoscere, quasi de plano, l’incostituzionalità di una norma in cui la pena edittale per un fatto delineato in modo puntuale fosse stabilita con un’escursione spropositata tra il minimo e il massimo (41), più difficile è stato l’iter attraverso cui giungere a stabilire che la carente determinatezza di formulazione della fattispecie, portando all’incriminazione di condotte in concreto diversissime, si dovesse riverberare sulla sanzione. La Corte costituzionale, nella sentenza 341/94, infatti non ha dichiarato l’illegittimità assumendo come parametro di riferimento l’art. 25, secondo comma, Cost.: ciò è abbastanza comprensibile ove si tenga conto delle cause del bilancio « negativo » che da sempre hanno caratterizzato l’intervento della Corte a garanzia della tassatività. Tale giudizio infatti solo apparentemente concerne l’aspetto linguistico o di sufficiente precisione sanzionatoria, esso il più delle volte si estende alla sostanza e al contenuto offensivo della fattispecie con valutazione a carattere lato sensu politico (42). Nella sentenza in esame invece la Corte ha compiuto, a nostro avviso, un’operazione molto sottile. Infatti ha utilizzato l’art. 25 Cost. solo in qualità di tertium comparationis, affermando in linea teorica una volta di più l’insindacabilità delle valutazioni di politica criminale discrezionalmente operate dal legislatore e servendosi poi dell’art. 3 Cost. come parametro formale per la dichiarazione di illegittimità. Ancorché le argomentazioni della Corte per giustificare l’incostituzionalità del minimo edittale previsto dall’art. 341 C.p. sulla base dell’art. 3 non siano affatto chiare e richiamino profili assai eterogenei, a nostro avviso, esse possono essere ricondotte a due ordini di ragioni, entrambi presenti nella sentenza: uno solo però di questi profili di incostituzionalità risulta assolutamente nuovo, essendo stato in precedenza abbozzato solo da alcune ordinanze di remissione (43), e interessa ai fini qui in esame. Il contrasto con l’art. 3 Cost. può essere prospettato in primo luogo per ragioni di ordine sistematico: la pena prevista dall’art. 341 risulta di gran lunga superiore rispetto a quella comminata dall’art. 594, dando così luogo ad una sperequazione irragionevole che non può certo trovare giustificazione nella solo diversità del bene giuridico tutelato. Tale tipo di argomentazioni sono tutt’altro che nuove, avendo esse costituito lo schema consolidato attraverso cui si è sempre sottoposto alla Corte il problema di costituzionalità circa la misura delle pene, anche se per la verità fatte proprie dalla Corte solo nei casi di macroscopica irragionevolezza.

(40) In questo senso FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari 1989, 395; PADOVANI, La disintegrazione, cit., 443 ss. (41) Cfr. C. cost. sen. 299/92. (42) Circa le ragioni del prudente atteggiamento della Corte vd. NUVOLONE, Norme penali e principi costituzionali, 1956, in Trent’anni di diritto e procedura penale 1977, I, 434; PALAZZO, Il principio di determinatezza, cit., 401; BRICOLA, Legalità e crisi, cit., 220. (43) Cfr. C. cost., sen. 102/85 in Giur. cost. 1985, 630 ss.; ord. 901 del 1988, ivi, 1988.


— 800 — In secondo luogo la violazione dell’art. 3 Cost. potrebbe essere giustificata con la motivazione che l’identico trattamento di casi tra loro profondamente diversi, unificati in una medesima fattispecie, avrebbero meritato una distinta considerazione ed un trattamento sanzionatorio modulato in funzione della loro diversa gravità. Ove il riferimento all’art. 3 fosse inteso in questi termini si sarebbe compiuto un enorme progresso: si sarebbe cioè delineata una via « tecnica » per la limitazione della discrezionalità del legislatore; questi infatti dovrebbe individuare il disvalore oggettivo dei fatti-reato tipici, e quindi il diverso grado di offensività delle condotte che potrebbero confluirvi, sulla base di un rapporto, appunto la tipicità, che postula connessioni con un’adeguata articolazione dei trattamenti sanzionatori (44). Ne deriva che l’equiparazione a livello sanzionatorio delle modalità di condotta penalmente rilevanti è necessario presupponga una sostanziale omogeneità del disvalore complessivo del fatto: perciò esse dovranno esprimere un disvalore riducibile a tendenziale unità, nel senso che tutto lo spazio compreso tra i limiti edittali o tutto lo spazio del minimo edittale dovrà essere coperto da queste in termini di disvalore. Quindi, a livello di strutturazione della fattispecie, non si possono cumulare indifferentemente comportamenti di offensività tenue e più rilevante, vuoi tout-court prevedendo per entrambi una pena eccessiva (caso del minimo edittale), vuoi comprendendoli in un’escursione edittale eccessiva che finirebbe col far scivolare sul giudice il peso delle scelte di incriminazione. Il secondo profilo, prospettato all’inizio del paragrafo, concerne l’utilizzazione da parte della Corte costituzionale del principio di proporzionalità non più come mero criterio di politica criminale, ma come criterio le cui valenze si riverberano sulla tecnica di strutturazione della fattispecie. Da sempre il principio di proporzionalità è stato inteso dalla Corte costituzionale, nonché dalla più parte della dottrina (45), come criterio generale di congruenza degli strumenti normativi rispetto alle finalità da perseguire, e quindi di misura tra gravità del fatto commesso e reazione dell’ordinamento, considerando l’implicazione in esso di valutazioni che per la genericità e/o opinabilità del riscontro dei presupposti di fatto contingenti erano inevitabilmente e tipicamente politiche. A tale stregua esso non poteva che essere considerato criterio informatore e direttivo nell’adozione, da parte del legislatore, di scelte penali, sindacabili solo nei (modesti) limiti della ragionevolezza. Formulato in questi termini, pure ripresi anche dalla sen. 341/94 e a nostro avviso soprattutto recepiti come formula tralatizia dalle sentenze precedenti, il principio di proporzionalità risulta essere di scarsa informatività, bisognerebbe piuttosto a livello teorico individuare i parametri che ad esso diano concretezza. Secondo l’impostazione per noi più corretta, a tale fine un ruolo decisivo deve riconoscersi — 1. al rango del bene aggredito nel sistema dei valori costituzionali,

(44) In tal senso troverebbero motivo di revisione le conclusioni della dottrina (BRICOLA, La discrezionalità, cit., 390) che riteneva improponibile la questione di costituzionalità fondata sul rapporto fatto-pena perché « mentre a riguardo della fattispecie è agevole fissare il punto a partire dal quale la prevenzione generale non opera solo come Nebenwirkung, altrettanto non può dirsi per il quantum di sanzione penale ». (45) Cfr. ANGIONI, Contenuto e funzioni, cit., 163 ss.; DOLCINI, Sanzione penale o sanzione amministrativa: problemi di scienza della legislazione, in questa Rivista 1984, 609 ss.; ROMANO, Comment. sist., cit., sub Pre art. 1, 23.


— 801 — o quantomeno rispetto ad essi — 2. alla gravità e intensità dell’offesa recata al bene (46) — 3. alla imputazione soggettiva dell’offesa posta in essere (47). Per quanto concerne gli ultimi due profili si impone una premessa di carattere metodologico. Il principio di proporzione, nel valutare la meritevolezza di pena, si deve estendere e proiettare sul terreno di strutturazione della fattispecie (48); a dire insomma che l’individuazione dei contenuti tutelati deve avvenire coll’assistenza decisiva di criteri o canoni scientifico-razionali interni al sistema, questi a loro volta potranno fornire indicazioni, perlomeno di massima, sulla quantità delle sanzioni. Gravità dell’offesa e colpevolezza sono parametri del principio di proporzione ma essi sono altresì principi di strutturazione della fattispecie, ergo il principio di proporzione si deve confrontare con le tecniche di strutturazione della fattispecie. Se però a livello dogmatico non risulta essere particolarmente problematica l’attribuzione al principio di proporzione di una plusvalenza che lo trasformi da canone materiale di politica criminale a criterio di strutturazione della fattispecie, a livello giurisprudenziale, con particolare riferimento ai limiti che la Corte incontra, questa operazione è di notevole difficoltà. E tali difficoltà sussistono indipendentemente dall’ovvia considerazione giusta la quale, esaminando l’operato della Corte al più si può giungere a ritenere implicitamente costituzionalizzato il principio di proporzionalità nella valenza che a noi interessa, cioè come criterio regolativo incidente sulla fattispecie del rapporto illecito-pena, ma non si può certo giungere all’enucleazione dei parametri sopraccitati. Tale operazione rimane di esclusiva competenza dell’interprete. Tutt’altro che facile è stato l’iter con cui la Corte è giunta ad individuare un parametro costituzionale, più espressivo del criterio di ragionevolezza, tale da agganciare il principio di proporzionalità alla Costituzione e renderlo effettivamente operativo nel senso cioè di vincolare il legislatore a rendere congrua la quantità della sanzione alla struttura della fattispecie. Appellarsi al principio di rieducatività della pena, art. 27, terzo comma, Cost., è stato in questo senso risolutivo: la finalità rieducativa implica una costante proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altro poiché essa è stata considerata « una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue » (49). Per far risultare quindi l’art. 27, terzo comma, Cost. decisivo nella configurazione di un principio di proporzione ex se, intraneo cioè al sistema, occorre intendere la rieducatività non solo e non tanto come finalità sanzionatoria indicata

(46) Attribuisce rilevanza all’uno e all’altro aspetto nella selezione dei comportamenti meritevoli di repressione penale, nel codice e nella legislazione speciale (sia pure senza ancorare specificamente l’importanza del bene al sistema costituzionale e valorizzando prevalentemente il profilo della gravità dell’offesa), FIORE, Prospettive della riforma penale. Il ruolo della legislazione speciale, in Dem. dir. 1977, 692; su questa linea vd. anche MARINUCCI, Bene giuridico e riforma della parte speciale, cit., 29; ancora DOLCINI, op. ult. cit., 613 il quale attribuisce al principio di proporzionalità, nel quadro della politica criminale, un ruolo concorrente rispetto al principio di colpevolezza (conseguentemente la colpevolezza non è inclusa tra i parametri che concretizzano tale principio). (47) Per la colpevolezza come contenuto essenziale del principio di proporzionalità vd. HASSEMER, Principio di colpevolezza e struttura del reato, in Archivio Penale 1982, 52 ss.; cfr. anche PADOVANI, op. cit., 447. (48) In senso parzialmente simile, PALAZZO, Bene giuridico e tipi di sanzioni, in Garanzie ed effettività, cit., 73. (49) Così C. cost., sen. 313/90.


— 802 — come legittima alla luce della Costituzione quanto piuttosto come criterio regolatore della responsabilità penale (50). In questo modo si crea un effetto vincolante nei confronti del legislatore — più ampio sicuramente di quello consentito alla rieducatività intesa come fine della pena — che si manifesta attraverso l’imposizione di una certa selezione degli interessi aggrediti, e una conseguente corrispondenza tra le modalità offensive di quei beni e le relative previsioni sanzionatorie (51). 5. Il controllo mediante il raffronto tra le pene previste per reati diversi e la significatività degli interessi: il principio di proporzione come esigenza di armonia architettonica del sistema penale. — La forma di controllo posta in essere dalla Corte costituzionale con la sentenza 341/94 vive di strane e interessanti compenetrazioni tra vecchio e nuovo. È ben vero infatti che la dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 341 c.p. nella parte in cui prevedeva come minimo edittale la reclusione per sei mesi, è avvenuta sulla base dell’art. 27, terzo comma, Cost., e a nostro avviso, il principio di proporzione è stato così inteso in termini intrasistematici di congruità tra pena e struttura della fattispecie; ma è altresì vero che l’altro parametro costituzionale assunto come riferimento è stato l’art. 3 Cost. e da questo punto di vista, per un certo verso, si fa riferimento a procedimenti argomentativi tutt’altro che nuovi. In termini generali la violazione del criterio di ragionevolezza comporta intendere il principio di proporzionalità come limite esterno del sistema: il che vuol dire, da un lato servirsi di tale principio solo per negare legittimità alle incriminazioni che producono attraverso la pena, determinata in un certo quantum, danni all’individuo e alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti da quest’ultima con la tutela dei beni offesi dalle predette incriminazioni; dall’altro riferirsi ai rapporti di proporzionalità tra i limiti edittali dell’intero sistema penale, censurando come irrazionale disparità di trattamento il fatto che talune norme prevedano pene più elevate, per quantità, di quelle previste da altre disposizioni concernenti ipotesi di reato ritenute meno gravi (52). Per quanto concerne il primo profilo, anche nella sentenza in esame, la Corte non pare avere rinunciato all’idea, sostenuta da autorevole dottrina (53), in un’ottica che a noi pare un pò riduttiva ma parzialmente espressa anche dalla Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 1983, giusta la quale le finalità politico-criminali perseguite attraverso le comminatorie di pena, o meglio i prevedibili effetti « positivi » prodotti dalla incriminazione, siano comparati dal legislatore con il sacrificio imposto ai diritti fondamentali dell’agente: privazione della libertà personale in primo luogo. Inteso in questi termini il principio di proporzione è posto a difesa delle istanze di difesa sociale, preoccupazione sempre molto presente nelle argomentazioni della Corte (54), imponendo un limite generale alla tendenza dello Stato « a comportamenti puramente razionali rispetto ai fini ».

(50) In tal senso BRICOLA, Tecniche di tutela, cit., 46 e ss. (51) In senso parzialmente simile ROMANO, op. ult. cit., 164; MARINUCCI, Politica criminale, cit., 85. Da notare è che la Corte costituzionale implicitamente ritenendo costituzionalizzato il principio di proporzionalità sulla base dell’art. 27, 3o comma, Cost. segue perfettamente le indicazioni della Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri 19 dicembre 1983 (in Cassazione penale 1986, 642 ss.). (52) Rimandiamo a PIZZORUSSO, Le norme sulle misure delle pene, cit., 192 ss.; PAPA, op. cit., 703 ss. (53) ANGIONI, Contenuto e funzioni, cit., 152 ss., 163 ss.; BRICOLA, Teoria generale, cit., 15 ss.; cfr. inoltre FIANDACA, Il « bene giuridico », cit., 45 ss.; in senso da ultimo non dissimile PAPA, op. cit., 701. Vd. inoltre C. cost., sen. 343/93. (54) Cfr. C. cost., sen. 402/89.


— 803 — Ne deriva quindi una circoscrizione nella scelta degli strumenti, ai quali di volta in volta lo Stato può fare ricorso per il perseguimento dei propri fini, e un conseguente assoggettamento di essa a considerazioni « razionali » rispetto ai valori. A tale stregua il principio di proporzione viene in considerazione quale criterio orientatore nella delimitazione dell’area dell’illecito penale. Nel caso di specie la Corte pare avere compiuto un ragionamento articolabile in questi termini: a - dapprima essa ha riconosciuto implicitamente che i beni costituzionali devono essere tutelati in misura corrispondente al loro rapporto di gerarchia; b - in secondo luogo ha preso atto che la tutela, di per sé, non necessariamente deve essere circoscritta a quei valori, infatti l’ordine in questione può non essere travolto quando si permette la protezione di beni ad esso estranei; c - da ultimo è giunta alla conclusione che solo riconoscendo il preminente valore della libertà personale e ritenendo che questo possa essere compromesso solo per tutelare interessi di uguale rango si possa ricavare un preciso fondamento e un criterio sufficientemente rigoroso non solo per operare una restrizione degli illeciti criminali, ma anche per compiere una razionalizzazione degli illeciti già previsti per quanto riguarda la quantificazione sanzionatoria. Infatti l’eliminazione del minimo edittale previsto dal legislatore del 1930 per il reato di oltraggio è giustificata sulla base del fatto che tale minimo è il frutto di un bilanciamento ormai manifestatamente irragionevole tra tutela dell’onore e del prestigio del pubblico ufficiale e quella della libertà personale del soggetto agente. Per quanto concerne il secondo profilo, risolvere il problema di costituzionalità relativo alla misura delle pena sulla base dell’art. 3 Cost. significa, per parte nostra, appellarsi a un principio di proporzionalità inteso come necessità di armonia del sistema giuridico. A tale stregua l’entità della pena, esprimendo in termini numerici l’ordine dei rapporti tra le varie fattispecie incriminatrici, costituirebbe il riferimento per verificare l’osservanza dei canoni architettonici, delle regulae, che dovrebbero guidare il legislatore nella costruzione del sistema penale (55). Proprio sulla scia di queste considerazioni volte ad evidenziare come le censure di incostituzionalità basate sull’art. 3 concretizzino un principio di proporzionalità inteso come ricerca, non già di un utopistico livello di razionalità assoluta dell’ordinamento positivo, ma quantomeno di un minimum di giustizia nella legislazione, si possono meglio comprendere le affermazioni di quanti vedono (56) nell’art. 3 il parametro generale cui rapportare « la logicità dell’attività discrezionale del legislatore ». Conseguentemente, il principio di uguaglianza, risultando violato quando si ravvisi un’ingiustificata differenza di trattamento di situazioni omologhe o un’irrazionale equiparazione di situazioni diverse, si porrebbe come « valore amplissimo quasi di sfondo e di chiusura rispetto a tutti gli altri articoli della Costituzione » (57). Al riguardo, però, la giurisprudenza costituzionale, pur ammettendo la competenza della Corte al sindacato di ragionevolezza, ha finito in concreto con limitarla ai casi di sperequazione particolarmente grave ed evidente (58), e a quelli di

(55) A livello dottrinale intende il principio di proporzionalità in senso « matematico », DOLCINI, La commisurazione della pena, Padova 1979, 131 ss. Rilievi critici in EUSEBI, La nuova retribuzione, cit., 929-930. (56) PIZZORUSSO, Le norme sulla misura delle pene, cit., 203. (57) Cfr. AGRÒ, Contributo ad uno studio sui limiti della funzione legislativa in base alla giurisprudenza sul principio costituzionale di eguaglianza, in Giur. cost. 1967, 900. (58) In questi termini PIZZORUSSO, Le norme sulle misure delle pene, cit., 198, con riferimento al principio espressamente enunciato dalla Corte costituzionale nella sen. 109/68.


— 804 — insufficiente ponderazione della materia da parte del legislatore (59), affermando altrimenti l’insindacabilità della discrezionalità del legislatore. L’adozione altresì di un simile self restraint può essere giustificato dalla considerazione che, sebbene il controllo in termini di ragionevolezza sia astrattamente configurabile come sindacato di mera legittimità, in pratica risulta difficile individuare il limite rispetto a quello di merito. Tutto ciò induce a una prima conclusione: finché il controllo sui limiti edittali delle diverse fattispecie, sulla base del canone di ragionevolezza, si è tradotto in un mero controllo della coerenza delle norme alla luce delle finalità proprie della singola legge ordinaria, esso ha comportato altrettante pronunce di manifesta infondatezza. Per delineare un sensibile mutamento nella fisionomia del sindacato della Corte (60) è stato necessario assumere come parametro per i giudizi di ragionevolezza ex art. 3, primo comma, Cost. altri principi desunti dalla Costituzione. Le ampliate prospettive del controllo sui limiti edittali nella sentenza in esame, a nostro avviso, sono riconducibili: in primo luogo al fatto che la Corte ha proceduto (sia pure implicitamente), sulla base del parametro costituzionale, ad un diretto raffronto tra i beni tutelati postulando una gerarchia di beni da tutelare in misura corrispondente alla significatività degli stessi e in secondo luogo al fatto che l’attenzione è stata posta sul disvalore della singola fattispecie, riconoscendo che anche la tipologia delle forme di aggressione deve essere fronteggiabile con il rispetto dei principi costituzionali che governano le tecniche di tutela penale (ad es. rispetto del principio di determinatezza) (61). La compenetrazione di questi due aspetti offre interessanti indicazioni per il superamento delle difficoltà che in modo particolare si evidenziano per il raffronto tra le pene previste per reati diversi (62). In tal caso infatti non basta verificare se due reati che presentano pene differenti avrebbero meritato un’uguale sanzione; si ipotizza, invece, la necessità di una maggiore, minore o reciprocamente invertita (63) disparità delle pene rispetto a quelle esistenti. Dapprima bisognerà quindi stabilire se il grado di divergenza nel trattamento sanzionatorio corrisponda o meno ad un’alterazione dei rapporti costituzionali tra i beni giuridici. Da notare a riguardo è che quando il sindacato viene effettuato con riferimento alla gerarchia costituzionale dei beni, questo può costituire il parametro per raffrontare fattispecie poste a tutela di valori diversi, ad esempio l’una di beni costituzionali e l’altra no (come nel caso di specie), esprimendo in termini di significatività costituzionale la rilevanza degli interessi tutelati e valutando quindi i rapporti di priorità tra gli stessi. In secondo luogo, anche in questo caso, non si potrà rinunciare ad un minimo di omogeneità tra i termini da porre a confronto. Non pare infatti corretto, dopo aver individuato i beni « genericamente » sottostanti alle norme in esame, e dopo averne stabilito le relazioni di prevalenza, mettere a paragone livelli di gravità diversi di offese a quei beni (64). Per utilizzare quindi, fruttuosamente, il criterio del raffronto tra i valori bisognerà considerare una serie aggiuntiva di fattori quali: la radicale diversa struttura delle norme, la pluralità degli interessi tutelati, il differente livello di gravità dell’offesa ai rispettivi beni; tutti parametri questi che con-

(59) Cfr. CERRI, Sindacato di costituzionalità, cit., 2160 ss. (60) Cfr. C. cost. 26/79 ove per la prima volta si è evidenziato il rapporto tra rilevanza costituzionale del bene giuridico protetto e misura della pena. (61) Cfr. BRICOLA, Tecniche di tutela, cit., 20 ss. (62) È noto infatti che l’ammissibilità del sindacato sulle differenziazioni di trattamento supposte irragionevoli è stata riconosciuta dalla Corte solo dopo un lungo iter di pronunce negative. (63) PIZZORUSSO, op. cit., 197; SPATOLISANO, « Ragionevolezza » della pena, cit., 117 ss. (64) Ad esempio il furto pluriaggravato e le lesioni « lievi » non aggravate; cfr. PADOVANI, La questione di legittimità della pena, cit., 509 ss.


— 805 — sentono di concretizzare il « disvalore » della singola fattispecie rispetto al « valore » del bene giuridico in sé e per sé considerato (65). Sulla scorta di quanto detto si può quindi affermare che, pur rimanendo il parametro formale per la dichiarazione di incostituzionalità l’art. 3 Cost., la Corte ha cercato di affrontare il problema delle pene diverse ipotizzate « irragionevoli », non dal punto di vista dell’irragionevole sperequazione delle stesse, che in fondo sempre comporta il riferimento a criteri eminentemente politici, ma assumendo come concretizzazione dell’art. 3 Cost. altri principi costituzionali intranei alla natura dell’illecito e della sanzione, come: il bilanciamento tra bene tutelato e libertà personale sacrificata, l’esistenza di un ordine di priorità tra gli interessi costituzionali, e l’applicazione del principio di determinatezza alla concreta articolazione delle modalità offensive. In tal senso l’aggancio all’art. 3 Cost. può essere necessario al fine di superare le perplessità che la Corte dimostra da sempre nei confronti di un giudizio di legittimità non impostato con riferimento ad una norma costituzionale esplicita e permette altresì la configurazione, pure necessaria, di un principio di proporzionalità come limite esterno che consenta la razionalizzazione delle scelte legislative per quanto riguarda la costruzione dell’intero sistema penale. La configurazione di tale principio, nell’accezione appena precisata, risulta assai importante perché essa non è compiuta dalla Corte sulla base di una generica esigenza di giustizia, che comporterebbe valutazioni assai discrezionali, ma sulla base di principi generali desunti e conformi alla Costituzione Repubblicana. 6. Considerazioni conclusive. Il principio di proporzione come criterio guida per limitare la discrezionalità legislativa nella statuizione edittale della pena. — A nostro avviso uno dei meriti più importanti ascrivibili alla sentenza in esame è di aver cercato parametri e principi alla cui stregua limitare la predeterminazione legislativa della pena (66). Il problema « politico » della discrezionalità legislativa nella statuizione edittale della pena infatti è assai arduo, in considerazione soprattutto dell’importanza degli interessi in gioco nel campo penale, e per giunta negletto dalla penalistica italiana (67). Le radici di un simile atteggiamento sono tutt’affatto comprensibili: è impossibile sopprimere quel margine di discrezionalità, che taluno chiama un problema di legittimazione esterna (68), connaturato alla natura stessa della coercizione, che è quella di problema aperto politicamente e razionalmente. Tuttavia ciò non esime l’interprete dal cercare criteri e principi alla cui stregua prevedere i limiti edittali di pena dei singoli reati in modo da proporzionarli al disvalore complessivo del fatto, riducendo i livelli, spesso eccessivi, del codice attuale e restringendo il divario tra minimo e massimo edittali, così da rendere più circoscritta e significativa la scelta legislativa. Secondo l’interpretazione da noi proposta, in questa sede solo fugacemente prospettabile per ragioni di brevità, potremmo immaginare la discrezionalità legislativa come lo scarto tra una cosiddetta legittimazione positiva della tutela coercitiva, data dai beni giuridici costituzionalmente orientati, e una serie di principi costituzionali (colpevolezza, rieducatività, sussidiarietà, frammentarietà, proporzione) che influenzano le scelte metodologiche del legislatore.

(65) Sulla distinzione tra valore del bene e disvalore della fattispecie si rimanda a PAPA, op. cit., 705-706. (66) Più attenti invece all’aspetto politologico la stampa e i mezzi d’informazione, vd. ad esempio CARPEGGIANI, Quando la Corte costituzionale espropria il Parlamento, in Italia oggi, 26 agosto 1994. (67) Vd. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., 453. (68) FERRAJOLI, op. ult. cit., 404.


— 806 — In riguardo a quest’ultimo profilo va infatti chiarito come l’ordinamento costituzionale possa fornire indicazioni, non solo in riguardo a quelli che, in modo incontroverso, sono i requisiti strutturali dell’offensività dell’evento, della materialità dell’azione, della responsabilità penale, che vincolano negativamente la potestà proibitiva e corrispondono tutti ad altrettante garanzie, ovvero a condizioni di legittimità delle proibizioni legali; ma altresì dalla Costituzione sono desumibili vincoli, lato sensu intesi, di carattere metodologico. Questi ultimi non solo forniscono indicazioni per l’individuazione dell’area penalmente rilevante ma talora (es. frammentarietà; proporzione) possono proiettarsi sul terreno di strutturazione della fattispecie, a tale stregua traducendosi in un sistema di corrispondenze tra bene giuridico — fattispecie — sanzione difficilmente eludibile da parte del legislatore. Il principio di frammentarietà (69), ad esempio, si attua attraverso la formulazione per « tipi » delle fattispecie, esse cioè devono corrispondere a tipologie aggressive omogenee e ben stagliate che sicuramente consentono al legislatore di focalizzare meglio la quantità della sanzione. Così nella truffa e nell’estorsione è ben vero che è presente l’elemento comune del danno patrimoniale, ma mentre nell’estorsione è presente come elemento tipico caratterizzante la minaccia o la violenza, nella truffa tale elemento è costituito dall’uso di artifici o raggiri, con una falsa rappresentazione della realtà. Per parte sua, poi, il principio di proporzionalità implica necessariamente una valutazione della meritevolezza di pena, estesa fino alla fattispecie e non limitata dunque al bene giuridico in sè considerato. Esso cioè fornisce precise indicazioni non solo per quanto riguarda le scelte di politica criminale ma anche per quanto riguarda la tecnica di strutturazione della fattispecie. Tale principio consta infatti di tre parametri: importanza del bene tutelato; gravità e intensità dell’offesa; gravità soggettiva dell’offesa. Mentre dalla ricostruibilità di una gerarchia di beni da tutelare si può trarre un contributo per le scelte di criminalizzazione, tracciando il confine esterno dell’area penalmente tutelabile (70), nonché una prima indicazione intrasistematica: alla maggiore importanza del bene, infatti dovrebbe corrispondere una sanzione quantitativamente più alta; al di qua di questo confine le astratte categorie strutturali della fattispecie (del danno/pericolo; il pericolo astratto/concreto; della condotta/evento; del dolo/colpa) possono fornire indicazioni ulteriori per modellare su di esse le sanzioni (71). Gli autorevoli sforzi, fino ad ora compiuti, di costituzionalizzare il principio di proporzione ex artt. 13 e 27, terzo comma, Cost., a nostro avviso, hanno finito col ridurre la portata dello stesso (72). Infatti le indicazioni che se ne possono ricavare sono solo di segno negativo: il principio di proporzione non è principio che consenta una comminatoria di pena alta per beni non primari; non è principio che consenta di comminare una pena che sortisca effetti sociali devastanti.

(69) Sul principio di frammentarietà, vd. per tutti FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, Parte Generale, Bologna 1989, 43, ss.; PALIERO, Minima non curat praetor, Padova 1985, 159 ss.; ID., Il principio di effettività del diritto penale: profili politico-criminali in L’influenza dei valori costituzionali, cit., 429 ss.; inoltre PEDRAZZI, Diritto penale, in Dig. disc. pen., IV, Torino 1990, 64 ss.; PALAZZO, Principi costituzionali, beni giuridici e scelte di criminalizzazione, in Studi in memoria di P.Nuvolone, I, Milano 1991, 369; ID., I confini della tutela penale, cit., 456; BRICOLA, Tecniche di tutela penale, cit., 1. (70) Con toni diversi PALAZZO, Bene giuridico e tipi di sanzione, cit., 76; e PULITANÒ, « Obblighi costituzionali di tutela penale? », in questa Rivista, 1983, 498. (71) Vd. PALAZZO, op. ult. cit., 73. (72) DOLCINI, Sanzione penale o amministrativa, cit., 612-613; PADOVANI, La problematica del bene giuridico e la scelta delle sanzioni, in Dei delitti e delle pene 1984, 114 ss.; ANGIONI, op. cit., 164, ritiene invece il principio di proporzionalità di rango costituzionale, in senso mediato, in quanto coessenziale a tutte le funzioni che la Costituzione assegna alla pena.


— 807 — Tale principio dovrebbe invece esprimere significati più pregnanti: esso infatti, per parte nostra, è l’unico che consenta di individuare valide coordinate di riferimento, per il legislatore, nella determinazione della pena edittale o quantomeno in riguardo alla restrizione della forbice edittale. Il ragionamento da noi proposto, e che configura una sorta di costituzionalizzazione a fortiori, è assai semplice: a) Il principio di proporzione ha come parametri che lo concretizzano, oltre alla importanza del bene tutelato, i principi di offensività e colpevolezza; b) In modo unanime tali principi sono ritenuti costituzionalizzati (rispettivamente ex comb. disp. artt. 25-27 Cost., ed ex art. 27, primo comma, Cost.); c) Ergo anche il principio di proporzione può ritenersi costituzionalizzato. dott. MICHELA VECCHI dell’Università di Ferrara


— 808 — CORTE COSTITUZIONALE — 24 febbraio 1995, n. 59 Pres. Spagnoli — Rel. Ferri Interv. Pres. Cons. Procedimento penale — Atti del procedimento penale — Pubblicazione degli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento — Divieto di pubblicazione — Possibilità di pubblicazione del contenuto di atti non coperti da segreto — Indeterminatezza della distinzione — Contrasto con la direttiva n. 71 dell’art. 2 legge delega 16 febbraio 1987, n. 81 — Illegittimità costituzionale (Cost., artt. 3, 21 e 76; c.p.p., art. 114, 3o comma). È costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 76 Cost. l’art. 114, 3o comma, c.p.p., nella parte in cui vieta la pubblicazione degli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento fino a che non sia stata pronunciata sentenza di primo grado (1). (Omissis). — DIRITTO. — 1. Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Siracusa solleva, in riferimento agli artt. 3, 21 e 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 114, 3o comma, c.p.p., nella parte in cui vieta la pubblicazione — anche parziale — degli atti del fascicolo per il dibattimento fino alla pronuncia della sentenza di primo grado. 2. Il remittente, dopo aver premesso che a fronte del detto divieto l’ultimo comma del medesimo art. 114 dispone che « è sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti da segreto », ritiene che il citato 3o comma, oltre a porre una irragionevole ed ontologicamente incerta distinzione tra « pubblicazione di atti » (vietata) e « pubblicazione del contenuto di atti » (lecita), realizzi una ingiustificata disparità di trattamento tra due situazioni, sostanzialmente assimilabili, violi il principio della libertà di stampa sancito dall’art. 21 della Costituzione e, infine, si ponga in contrasto con la direttiva n. 71 dell’art. 2 della legge di delega 16 febbraio 1987, n. 81, la quale non prevede alcun divieto di pubblicazione degli atti del fascicolo per il dibattimento. 3. Sotto quest’ultimo ed assorbente profilo la questione è fondata. Nel dare riconoscimento alle esigenze di trasparenza e di controllo sociale sullo svolgimento della vicenda processuale, e quindi nel contemperare interessi di giustizia ed interessi dell’informazione — entrambi costituzionalmente rilevanti — il legislatore delegante ha operato una scelta ben precisa. I primi due periodi della direttiva n. 71 delineano un sistema in cui « su tutti gli atti compiuti dalla polizia giudiziaria e dal Pubblico ministero » è posto sia l’obbligo del segreto che il divieto di pubblicazione fino a quando i medesimi « non possono essere conosciuti dall’imputato » (recte: indagato). Da questa chiara enunciazione può evincersi che, nell’intento del legislatore delegante, i limiti alla divulgabilità degli atti di indagine preliminare si collegano inequivocabilmente alle esigenze investigative, operando al fine di scongiurare ogni possibile pregiudizio alle indagini a causa di una anticipata conoscenza delle stesse da parte della persona indagata.


— 809 — Dal terzo periodo della citata direttiva può trarsi la conferma di tale obiettivo nelle intenzioni del legislatore delegante; viene, infatti, riconosciuto al Pubblico ministero l’ulteriore potere di vietare « la pubblicazione di atti non più coperti dal segreto... », ma detto potere è vincolato al « tempo strettamente necessario ad evitare pregiudizio per lo svolgimento delle stesse [indagini] ». 4. Ciò posto, è evidente che tali divieti di divulgazione, in quanto funzionalmente riferiti alle indagini preliminari, non possono che essere rivolti agli atti nella disponibilità del Pubblico ministero per l’ovvio motivo che non esiste un fascicolo per il dibattimento fintantoché non si sarà deciso se il dibattimento dovrà o meno essere celebrato. Non solo: in nessun punto della direttiva n. 71 è contemplato un divieto di pubblicazione di quanto contenuto nel fascicolo per il dibattimento; anzi, proprio ove la direttiva considera esplicitamente il meccanismo del doppio fascicolo (parte quarta), è previsto un divieto di pubblicazione per i soli « atti depositati a norma del numero 58 », cioè per quelli contenuti nel fascicolo del Pubblico ministero. 5. Gli stessi compilatori del codice riconoscono il riferimento esclusivo della delega al fascicolo del Pubblico ministero (v. Relazione al progetto preliminare), ma osservano che soltanto alla fine delle indagini preliminari si ha la formazione del fascicolo del Pubblico ministero e che pertanto « non è facile, né opportuno operare distinzioni rispetto al divieto di pubblicazione nell’ambito degli atti delle indagini preliminari ». L’argomento ha scarso rilievo non solo perché — come si è visto — la delega distingue, imponendo il divieto di pubblicazione soltanto sugli atti del fascicolo del Pubblico ministero, ma, perché, in ogni caso, può valere solamente riguardo alla fase delle indagini preliminari, non certo per il dibattimento, fase durante la quale sono ormai esaurite quelle esigenze di tutela delle indagini che giustificavano il divieto stesso. E infatti il protrarre il divieto di pubblicazione del fascicolo del Pubblico ministero anche oltre il termine delle indagini, durante il dibattimento, ha, nei principi fondamentali dettati dalla legge di delega, ben altro fondamento, in quanto è funzionale ad evitare una distorsione delle regole dibattimentali, ove il giudice formasse il suo convincimento sulla base di atti che dovrebbero essergli noti, ma che, in mancanza del suddetto divieto, potrebbe conoscere completamente per via extraprocessuale attraverso i mezzi d’informazione. 6. Ma se questa è la ratio del divieto relativo alla divulgabilità degli atti contenuti nel fascicolo del Pubblico ministero, pur dopo che ne è cessato l’obbligo del segreto, ne consegue la sua totale inapplicabilità a quanto contenuto nel fascicolo per il dibattimento, per definizione concernente gli atti che il giudice deve — invece — conoscere. Non si può, evidentemente, sostenere che la pubblicabilità di un atto viene esclusa per evitare che, attraverso mezzi di informazione, giunga a conoscenza del giudice nel cui fascicolo processuale l’atto è inserito. Come in dottrina è stato osservato, se si considera che nel fascicolo per il dibattimento sono inseriti anche gli atti di prova non rinviabili, ed assunti nella fase


— 810 — predibattimentale ex art. 467 c.p.p., si arriva all’assurdo di un divieto di pubblicazione diretto ad evitare che il giudice conosca atti da lui stesso compiuti. 7. In conclusione: in raffronto a quanto contemplato nella direttiva n. 71 della legge di delega, il legislatore delegato ha certamente introdotto al 3o comma dell’art. 114 un ulteriore divieto (riferito al fascicolo per il dibattimento), rispetto a quello relativo al fascicolo del Pubblico ministero. L’analiticità con cui il delegante ha inteso precisare i casi di divieto di pubblicazione degli atti — evidentemente indicativa del rifiuto di introdurne ulteriori, in rispetto del principio sancito dall’art. 21 della Costituzione — impedisce che in sede di attuazione il legislatore delegato possa pervenire a tale risultato, tanto più ove si consideri che le motivazioni addotte per giustificarlo (corretta formazione del convincimento del giudice) non possono ragionevolmente riferirsi alla pubblicazione di quanto contenuto nel fascicolo per il dibattimento, concernente, per definizione, gli atti che il giudice deve conoscere. Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 114, 3o comma, c.p.p. nella parte in cui non consente la pubblicazione degli atti del fascicolo per il dibattimento anteriormente alla pronuncia della sentenza di primo grado. P.Q.M. — La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 114, 3o comma, c.p.p., limitatamente alle parole: « del fascicolo per il dibattimento, se non dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, e di quelli ». — (omissis).

——————— (1)

Sulla illegittimità costituzionale del divieto di pubblicazione degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento.

1. La sentenza annotata fornisce lo spunto per qualche ulteriore riflessione in tema di rapporti tra processo penale e informazione. Dichiarando l’illegittimità del terzo comma dell’art. 114 c.p.p. nella parte in cui non consente la pubblicazione degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento anteriormente alla pronuncia della sentenza di primo grado, la Corte pare avere eliminato una palese antinomia del sistema, « un divieto dall’incomprensibile ratio e dall’impossibile applicazione » (1). Com’è noto, il legislatore del 1988 ha completamente ridisegnato il regime di pubblicazione degli atti processuali, prevedendo una disciplina modellata sui principi e sulle cadenze del processo di tipo accusatorio, in modo da far sì che il di-

(1) Si veda, G. GIOSTRA, Alt al divieto di pubblicare gli atti del fascicolo per il dibattimento, in Dir. pen. e proc., 1995, p. 659; nonché, S. CAVINI, È incostituzionale il divieto di pubblicare gli atti del fascicolo per il dibattimento, in Cass. pen., 1995, p. 2450, n. 1468; E. LUPO, La pubblicabilità degli atti di indagine preliminare: la Corte costituzionale amplia i limiti legislativi, in Legisl. pen., 1995, p. 499 e ss. Già in tal senso, G. UBERTIS, Segreto investigativo, divieto di pubblicazione e nuovo processo penale, in Studi in memoria di P. Nuvolone, vol. III, Milano, 1991, p. 524. In senso critico, invece, F. CORDERO, Procedura penale, III ed., Milano, 1995, p. 342, secondo il quale, fin tanto che si svolge l’istruzione dibattimentale esiste la possibilità che venga disposta la chiusura delle porte, la quale potrebbe essere vanificata da una « liberalizzazione » della pubblicabilità degli atti in questione.


— 811 — vieto in parola sia circoscritto al massimo possibile e venga meno mano a mano che, in relazione allo svolgersi del procedimento, esso non abbia più ragion d’essere. Si è cioè cercato di eliminare gli inconvenienti relativi alla normativa previgente, laddove la previsione di un’area eccessivamente ampia di notizie processuali sottratte alla pubblicazione aveva finito per determinare, nella prassi, la generalizzata disapplicazione delle relative prescrizioni (2). La scelta di fondo operata dal codice attuale, in stretta aderenza alla legge delega, è nel senso che il divieto di pubblicazione degli atti d’indagine del pubblico ministero e della polizia giudiziaria operi sino a quando l’atto sia coperto dal segreto interno (3) (artt. 114 e 329, comma 1). Il divieto è assoluto: gli atti non conosciuti o non conoscibili dall’imputato (4), non possono essere pubblicati né in se stessi né nel loro contenuto, anche in forma parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di diffusione. La ratio è evidente: si vuole in tal modo scongiurare il pericolo di un pregiudizio alle indagini, derivante dalla conoscenza anticipata, da parte dell’imputato, delle investigazioni che si stanno compiendo nei suoi confronti. Una volta venuta meno la segretezza interna, con la conoscenza o la possibile conoscenza degli atti da parte dell’imputato (5), cade l’interesse alla riservatezza « istruttoria » ed il divieto si affievolisce a relativo. Esso permane nei confronti dell’atto (« è vietata, la pubblicazione, anche parziale degli atti non più coperti da segreto, fino a che non siano concluse le indagini preliminari, ovvero fino al termine dell’udienza preliminare »: art. 114, comma 2, c.p.p.), mentre è consentita,

(2) Sulla vistosa estensione del fenomeno disapplicativo all’epoca del c.p.p. 1930, v., tra i tanti, P. BARILE, Libertà di manifestazione del pensiero, in Enc. dir., vol. XXIV, 1974, p. 474 s.; G. GALLI, Riservatezza e cronaca giudiziaria, in PALLADINO - DE MATTIA - GALLI, Il diritto alla riservatezza, Milano, 1963, p. 171; G. GIOSTRA, Processo penale e informazione, II ed., Milano, 1989, pp. 231 ss.; M. PISANI, La tutela penale della « riservatezza »: aspetti processuali, in questa Rivista, 1967, p. 801; G.P. VOENA, Cronaca giudiziaria, cronaca nera e rispettivi limiti di liceità, in Giur. it., 1976, III, c. 303, s. (3) Ci si riferisce alla fondamentale distinzione operata dalla dottrina tra segreto interno e segreto esterno. Il divieto viene definito « interno » quando consiste nel limite alla conoscibilità di atti o fatti « da parte di determinati soggetti », e cioè delle parti private e dei loro difensori; viene definito « esterno » quando si concreta nel divieto di pubblicazione di determinati atti « senza che, peraltro, questi debbano restare necessariamente segreti anche per le parti » (G.D. PISAPIA, Il segreto istruttorio nel processo penale, Milano, 1963, p. 43). (4) Precisando che sono coperti dal segreto « gli atti d’indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria » il primo comma dell’art. 329 c.p.p. esclude che siano segreti e, perciò, non pubblicabili gli atti compiuti dal giudice per le indagini preliminari. Così, esemplificativamente, si deve ritenere pubblicabile la notizia del provvedimento che dispone una misura cautelare (art. 292 c.p.p.), dell’interrogatorio compiuto ai sensi dell’art. 294 c.p.p., dell’autorizzazione all’intercettazione di comunicazioni o conversazioni (art. 267 c.p.p.), dell’autorizzazione all’accompagnamento coattivo (art. 376 c.p.p.), dell’assunzione di un incidente probatorio (art. 398 c.p.p.). A fortiori, si deve dedurre che sono pubblicabili le risultanze investigative compiute da qualsiasi altro soggetto processuale (si pensi ad un’indagine difensiva) o da soggetti estranei al procedimento (si pensi ad un’inchiesta giornalistica). L’art. 329, inoltre fa riferimento ad « atti d’indagine », cioè ad atti che, propriamente parlando, rappresentano una grande parte dell’attività compiuta dal p.m. o dalla p.g., ma non la esauriscono: il ricevere notizie di reato (art. 330 c.p.p.); l’invio alla persona nei cui confronti sono svolte le indagini e alla persona offesa di una informazione di garanzia (art. 369 c.p.p.); l’arresto in flagranza (artt. 380-381 c.p.p.); la richiesta di autorizzazione a disporre l’accompagnamento coattivo della persona sottoposta alle indagini (art. 376 c.p.p.), sono, ad esempio, tutti atti della fase delle indagini preliminari che non possono tecnicamente qualificarsi come atti d’indagine, cioè come atti diretti al reperimento e all’assicurazione delle fonti di prova. Si veda, sul punto, G. GIOSTRA, Processo penale e informazione, cit., p. 301 s. (5) Salvo il potere del pubblico ministero di eliminare anticipatamente il segreto ovvero di prolungarlo, nelle due diverse ipotesi disciplinate dall’art. 329 c.p.p.. È questa una scelta legislativa importante ed inedita. Per la prima volta, infatti viene riconosciuto al pubblico ministero il potere sia di consentire la pubblicazione di un atto di indagine per legge non pubblicabile (art. 329, comma 2, c.p.p.), sia di disporre il divieto di pubblicare il contenuto di atti di indagine non più coperti dal segreto (art. 329, comma 3, c.p.p.), qualora, in entrambi i casi, le deroghe alla regola ordinaria siano ritenute necessarie « per la prosecuzione delle indagini ».


— 812 — ai sensi del comma 7, la pubblicazione del suo contenuto, inteso dal legislatore delegato come « qualcosa » di diverso dall’esatta riproduzione dell’atto o di una sua parte e riconducibile alla situazione cui allude l’art. 684 c.p. con la locuzione « pubblicazione..... per riassunto o a guisa d’informazione » (6). Seguendo lo sviluppo del procedimento ordinario, occorre distinguere le ipotesi in cui non si proceda a dibattimento dalle altre. Nel primo caso, il divieto di pubblicazione degli atti delle indagini e dell’udienza preliminare cessa con l’emissione dei provvedimenti che escludono la instaurazione del processo (decreto di archiviazione), o lo concludono anticipatamente (sentenza di non luogo a procedere, sentenza che applica la pena su richiesta, sentenza di merito nell’udienza preliminare). Qualora, invece, si giunga a dibattimento, la scelta del legislatore è stata quella di operare sul meccanismo del « doppio fascicolo ». Tale istituto costituisce una delle espressioni più significative e qualificanti del nuovo rito, il quale vorrebbe nettamente distinto il momento delle indagini preliminari — essenzialmente preordinate alle determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale (ed i cui atti, dunque, dovrebbero avere in linea di massima un’efficacia probatoria limitata ed interna alla fase stessa) — dal dibattimento, sede privilegiata di formazione della prova in contraddittorio tra le parti, di fronte ad un giudice non influenzato dall’attività precedentemente compiuta (7). Oltre a precludere ab origine al giudice del dibattimento la materiale disponibilità, e quindi la conoscenza della maggior parte degli atti d’indagine, la formazione dei due fascicoli assume significato in rapporto alla destinazione e, quindi, alla diversa rilevanza probatoria cui essi sono destinati nella fase del giudizio. Mentre gli atti raccolti nel fascicolo per il dibattimento sono suscettibili di lettura in sede dibattimentale (art. 511 c.p.p.), anche ad iniziativa dello stesso giudice, acquistando così valore di prova ai fini della decisione, gli atti inclusi nel fascicolo del pubblico ministero sono utilizzabili dalle parti ai fini della ricostruzione dei fatti e della strategia processuale, ma non sono, almeno di regola, acquisibili al dibattimento. Il terzo comma dell’art. 114 c.p.p. ricollega la cessazione del divieto di pub-

(6) Per la verità, la dottrina non è concorde sul significato da attribuire all’espressione « contenuto di atti ». Un primo orientamento interpreta l’espressione in senso letterale e ritiene che essa comprenda tutte le informazioni contenute nell’atto, purché quest’ultimo non venga riprodotto integralmente o parzialmente (G. GIOSTRA, op. ult. cit., p. 350; in senso analogo, M. CHIAVARIO, La riforma del processo penale, Torino, II ed., 1990, p. 240, secondo il quale « non è di per sé proibita la pubblicazione di notizie relative alle indagini, purché esse non pretendano di appoggiarsi su basi documentali provenienti da fonti ufficiali »). Un indirizzo più restrittivo, invece, introduce limitazioni alla possibilità di pubblicare tutte le informazioni desumibili dall’atto: si dovrebbe cioè escludere la pubblicazione dei risultati delle indagini e delle fonti di prova. Così, ad esempio, si ritiene che si possa pubblicare la notizia dell’avvenuta perquisizione, ma non si debba descrivere l’oggetto rinvenuto (in tal senso, F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato, Torino, 1990, p. 138; P. TONINI, Segreto investigativo, in Enc. giur., vol. XXVIII, Roma, 1992, p. 4; A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, IV ed., Milano, 1995, p. 64). In giurisprudenza, cfr. Cass. 11 luglio 1994, Leonelli, in Cass. pen., 1995, p. 2164, n. 1322, con nota di R. ADORNO, Sulla pubblicazione del contenuto di atti d’indagine coperti dal segreto. Sulla difficoltà di operare una netta distinzione tra atto e contenuto, cfr. P.P. RIVELLO, Prevedibili incertezze della distinzione ex art. 114 c.p.p., tra l’atto e il suo contenuto, in questa Rivista, 1990, p. 36. (7) L’art. 431 c.p.p. prevede che a seguito dell’emissione del decreto che dispone il giudizio, la cancelleria del giudice, su indicazione di quest’ultimo, formi il fascicolo per il dibattimento. Fra gli atti di indagine preliminare sono inseriti solamente quelli relativi alla procedibilità e all’esercizio dell’azione civile, quelli non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero, quelli assunti nell’incidente probatorio, il certificato generale del casellario giudiziale, gli altri documenti indicati nell’art. 236, il corpo del reato e le cose pertinenti al reato. Gli atti diversi da quelli indicati nell’art. 431 confluiscono nel fascicolo del pubblico ministero (art. 433 c.p.p.): oltre agli atti relativi alle indagini preliminari non compresi nel fascicolo per il dibattimento, sono inseriti quelli acquisiti all’udienza preliminare e quelli concernenti le indagini compiute dal pubblico ministero dopo la richiesta di rinvio a giudizio (art. 419, comma 3, comma 3, c.p.p.), nonché la documentazione dell’attività integrativa d’indagine (art. 430 c.p.p.) dopo che si siano verificate le condizioni di cui all’art. 433, comma 3.


— 813 — blicazione a momenti diversi, a seconda che si tratti di atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento o di atti del fascicolo del pubblico ministero. La pubblicazione, anche parziale, degli atti che risultano inseriti nel fascicolo per il dibattimento non è (rectius: era) consentita se non dopo la pronuncia della sentenza di primo grado; mentre la pubblicazione degli atti che risultano inclusi nel fascicolo del pubblico ministero non è consentita se non dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello (8). Tuttavia, sono sempre pubblicabili gli atti contenuti in tale ultimo fascicolo, utilizzati per le contestazioni nel dibattimento ex art. 500 c.p.p.. Si è voluto in tal modo evitare — come si legge nella Relazione al progetto preliminare — una distorsione della regola processuale secondo cui il giudice deve formare il proprio convincimento solo sulla base delle prove legittimamente acquisite in dibattimento, senza essere influenzato dal contenuto di atti conosciuti per via extraprocessuale attraverso i mezzi d’informazione. Ora se tale obiettivo deve essere assicurato in relazione al fascicolo del pubblico ministero, non altrettanto può dirsi per il fascicolo del dibattimento, al quale afferiscono atti che il giudice può e deve conoscere. L’indifendibilità logica del divieto originariamente previsto — si afferma (9) — risulta dalla stessa norma che lo prevede. Proprio nel terzo comma dell’art. 114, infatti, si precisa che « è sempre consentita la pubblicazione degli atti utilizzati per le contestazioni », sull’implicito assunto che non avrebbe senso impedire la diffusione di atti di cui il giudice ha avuto notizia processuale. La contraddizione emergerebbe pure dalla considerazione che sono inseriti nel fascicolo del dibattimento, e quindi soggetti al divieto di pubblicazione, anche gli atti di prova non rinviabili assunti nella fase predibattimentale a norma dell’art. 467 c.p.p.: è infatti assurdo un divieto di pubblicazione diretto ad evitare che il giudice del dibattimento conosca atti da lui stesso disposti. Sulla base di queste premesse — già sottolineate dalla dottrina fin dai primi tempi dall’entrata in vigore del codice (10) — la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità ex artt. 76 e 77 Cost. dell’art. 114, comma 3 c.p.p., limitatamente alle parole « degli atti del fascicolo per il dibattimento, se non dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, e di quelli ». Dopo avere ricordato che il legislatore delegante ricollega i limiti alla divulgabilità degli atti d’indagine preliminare alla tutela di due soli interessi — la segretezza investigativa e la corretta formazione del convincimento giudiziale (la quale, per i motivi già esposti, non può ragionevolmente riferirsi alla pubblicazione di quanto contenuto nel fascicolo per il dibattimento) — la Corte rileva che in nessun punto della direttiva n. 71 della legge delega del 1987 è contemplato un divieto di pubblicazione di quanto contenuto nel fascicolo del dibattimento, anzi, proprio quando sembra esplicitamente considerare il meccanismo del doppio fascicolo, la parte quarta della direttiva 71 prevede un divieto di pubblicazione per i soli « atti depositati a norma del numero 58 », cioè per quelli inseriti nel fascicolo del pubblico ministero, specificatamente indicati dall’art. 433 c.p.p.. L’analiticità con cui il delegante ha inteso precisare i casi di divieto di pubblicazione degli atti — prosegue il giudice costituzionale — è indicativa del rifiuto di introdurne ulteriori, e impedisce, in ossequio al principio

(8) Tale limite temporale è ispirato dalla preoccupazione di evitare ogni irregolarità nell’eventuale rinnovazione del dibattimento in appello (cfr. Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in Gazz. uff., 24 ottobre 1988 n. 250, suppl. ord. n. 2, pp. 97-98). A rigore, però, il rischio di influenzare il giudice attraverso la pubblicazione di atti che dovrebbero rimanergli ignoti viene corso pure dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello, qualora si verifichi l’ipotesi di accoglimento di un ricorso per cassazione con successiva ripetizione della fase dibattimentale (così G. UBERTIS, cit., p. 526). (9) G. GIOSTRA, Alt al divieto di pubblicare, cit., p. 660. (10) Cfr. G. GIOSTRA, Processo penale e informazione, cit., p. 345; G. UBERTIS, op. loc. cit..


— 814 — sancito dall’art. 21 Cost., che in sede di attuazione il legislatore delegato possa pervenire a tale risultato. 2. Due, quindi, i punti di debolezza individuati nella disposizione in esame — l’illogicità del divieto e la non stretta aderenza alla legge delega — e due le conclusioni che se ne traggono: a) gli atti inseriti nel fascicolo per il dibattimento sono liberamente pubblicabili (in forma integrale o parziale, in forma testuale o riassuntiva) a partire dal momento in cui questo viene formato, e quindi, non più al termine della celebrazione del giudizio, ma anteriormente ad esso; b) la direttiva n. 71 della legge-delega indica il « tributo » massimo, in termini di sacrificio del diritto costituzionale di cronaca che il legislatore delegato è « autorizzato » a pagare per la tutela di interessi processuali o extraprocessuali pregiudicati dalla libera divulgabilità delle informazioni relative al procedimento (11). Con riguardo a quest’ultimo aspetto, si è rilevato che il divieto de quo è la più appariscente, ma non l’unica « ipertrofia codicistica » rispetto alla direttiva n. 71: in « odore » di incostituzionalità vi sarebbe anche il secondo comma dell’art. 114 c.p.p.. Questa disposizione interdice la pubblicazione degli atti del procedimento per un arco di tempo (che va dalla cessazione della segretezza interna sino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero sino al termine dell’udienza preliminare) che nella delega non risulta coperto dal divieto in parola (12). Ora, se in relazione agli atti destinati ad essere inseriti nel fascicolo del pubblico ministero la scelta codicistica sembra coerente alla necessità di assicurare una più efficace tutela all’interesse, individuato dallo stesso delegante, che il giudice del dibattimento non venga a conoscenza per via mediata delle risultanze investigative diverse da quelle contenute nel suo fascicolo, certamente meno difendibile appare il divieto di pubblicare atti non più segreti destinati al fascicolo dibattimentale (13). Queste considerazioni ci portano a riflettere sulla reale portata della declaratoria di illegittimità costituzionale in epigrafe. L’aver anticipato la pubblicazione degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento dalla pronuncia della sentenza di primo grado al termine dell’udienza preliminare (momento in cui la cancelleria del giudice forma il relativo fascicolo) non è certo priva di implicazioni. In particolare, ci sembra che a fronte di un riconoscimento via via più esteso del diritto di cronaca, rimanga in ombra il profilo relativo alla posizione dell’imputato il quale può essere danneggiato dalla divulgazione di atti la cui attinenza al processo penale deve ancora essere riconosciuta. Una cosa è la pubblicazione di atti che sono passati attraverso il vaglio del dibattimento e sono stati acquisiti nelle forme stabilite dalla legge, un’altra, invece, è la pubblicazione di atti che non avendo ancora subito questo passaggio, non è detto che siano effettivamente destinati a rimanere in quel fascicolo ed essere utilizzati dal giudice ai fini della decisione.

(11) Così, testualmente, G. GIOSTRA, op. ult. cit., p. 286. (12) La direttiva n. 71, prevedendo il « divieto di pubblicazione degli atti depositati a norma del n. 58 », va intesa nel senso che gli atti diventano non pubblicabili dal momento del loro deposito nell’ufficio del pubblico ministero, dopo l’emissione del decreto che dispone il rinvio a giudizio. Nella visione del delegante, vi è, quindi, un lasso di tempo, tra la cessazione della segretezza interna e tale deposito, in cui l’atto è legittimamente pubblicabile. Tant’è vero che nella stessa direttiva n. 71 è previsto il potere del pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari di vietare « la pubblicazione di atti non più coperti dal segreto »: una previsione inutile se si intendesse che il divieto di pubblicazione opera senza soluzione di continuità. Il legislatore delegato, invece, ha fatto in modo di evitare qualsiasi interruzione nell’operatività del divieto di pubblicazione dell’atto, dalla sua formazione sino alla sua utilizzazione per le contestazioni ovvero sino alla sentenza di secondo grado. (13) È quanto osserva G. GIOSTRA, Alt al divieto, cit., p. 662.


— 815 — L’individuazione degli atti da inserire nel fascicolo per il dibattimento, e quindi suscettibili di pubblicazione, avviene inaudita altera parte, ovvero pressoché senza alcuna possibilità per l’interessato di interloquire (14). Come si è già avuto modo di ricordare, è la cancelleria del giudice dell’udienza preliminare a formare, su indicazione di quest’ultimo, il fascicolo per il dibattimento. Si tratta di un’attività particolarmente delicata che, per quanto esercitata con oculatezza, non esclude che possano essere commessi errori di valutazione. Ci si riferisce, in primis, all’individuazione degli atti irripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero: si tratta di una categoria concettuale dai confini sfumati, posto che il codice non contiene un’elencazione tassativa, né fornisce una definizione (15). Accanto infatti alle ipotesi tipiche di ripetibilità (16) o di irripetibilità originaria dell’atto (17), possono porsi casi di incerta natura. L’ispezione, ad esempio, non può qualificarsi come atto necessariamente irripetibile ed è pertanto passibile di errore la valutazione del giudice in ordine all’inclusione o meno nel fascicolo del relativo verbale. Il pensiero va anche alle ipotesi in cui confluiscono nel suddetto fascicolo verbali di atti che in sede dibattimentale si rivelino o non attinenti all’oggetto di prova, o, addirittura, compiuti in violazione dei divieti stabiliti dalla legge. E il pericolo di « errori » si accentua nell’ipotesi di procedimento pretorile, dove la formazione del fascicolo non avviene ad opera della cancelleria e sotto il controllo dell’organo giurisdizionale, essendo stabilito che ad esso vi provveda il pubblico ministero (art. 558, comma 1, c.p.p.). La scelta — probabilmente determinata da ragioni di speditezza — di affidare alle valutazioni autonome e solitarie del giudice dell’udienza preliminare o, addirittura, di una parte, il pubblico ministero, la selezione degli atti da inserire nel fascicolo per il dibattimento, si giustifica in base alla considerazione secondo cui tale « materiale » non viene di per ciò stesso ad assumere piena rilevanza probatoria ai fini della decisione finale (18), ed è comunque ammesso un contraddittorio differito sul contenuto di quel fascicolo (artt. 491, commi 2 e 4, e 495 c.p.p.).

(14) Si deve tuttavia ritenere che l’art. 121 c.p.p. — dettato con ampia previsione per « ogni stato ... del procedimento » consenta alle parti di richiedere al g.i.p. l’inclusione o l’esclusione di atti relativi al fascicolo per il dibattimento: tale possibilità, peraltro, non realizza un contestuale, vero e pieno contraddittorio (Cfr., sul punto, M. NOBILI, Preparazione dell’udienza dibattimentale e presentazione delle eccezioni di inutilizzabilità delle prove a carico, in La dif. pen., 1989, p. 107). (15) Come risulta dal testo della Relazione al progetto preliminare, nel corso dei lavori preparatori al c.p.p. « era stata prospettata l’esigenza di elencare tassativamente, nell’ambito dell’attività del pubblico ministero, gli atti che appaiono subito non ripetibili e che come tali vengono compiuti dallo stesso pubblico ministero, in modo da poter stabilire, preventivamente, per tali atti non ripetibili, una disciplina comune con specifico riguardo alle garanzie ed alle forme di documentazione ». Ma — prosegue la Relazione — « al riguardo si è ritenuto di non introdurre elencazioni tassative di atti non ripetibili, per il rilievo che deve essere riconosciuta al giudice per il dibattimento la valutazione circa l’effettiva non ripetibilità degli atti in concreto, tanto più che la distinzione tra atti ripetibili e non ripetibili sembra legata anche al divenire dell’esperienza teorica e pratica » (Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, cit. p. 89-90). (16) Tale è il caso, ad esempio, della « testimonianza » assunta ex art. 362 c.p.p.. (17) La dottrina ha distinto gli atti irripetibili in due categorie. Le diverse denominazioni utilizzate (irripetibilità originaria o sopravvenuta: irripetibilità strutturalmente congenita verificabile ex ante, o successiva, verificabile ex post), mirano nella sostanza a distinguere l’irripetibilità che caratterizza l’atto fin dalla sua nascita da quella sopravvenuta per il verificarsi di particolari situazioni. È questo il caso dell’art. 512 c.p.p. che consente la lettura degli atti diventati irripetibili « per fatti o circostanze imprevedibili ». L’irripetibilità ex art. 431 c.p.p. attiene invece ad un connotato originale dell’atto. In questo senso, tipici atti irripetibili sono considerati i c.d. atti a sorpresa (le perquisizioni e i sequestri di polizia giudiziaria e del pubblico ministero, e le intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni). (18) Ciò che può dirsi è che la legittima inserzione di un atto nel fascicolo per il dibattimento lo rende suscettibile di quella efficacia, la quale, peraltro, si realizza solo subordinatamente alle previste specifiche forme di effettiva acquisizione probatoria dibattimentale, e cioè o attraverso la lettura dell’atto stesso (art. 511, comma 1), o attraverso la indicazione di utilizzabilità (art. 511, comma 5). Né, d’altra


— 816 — Tuttavia, la circostanza che nel corso del dibattimento determinati atti possano essere stralciati (19) non elimina il grave pregiudizio che l’imputato possa comunque aver subito a causa della loro precedente divulgazione. È quanto si può facilmente riscontrare nel caso in cui i verbali in questione riguardino intercettazioni di conversazioni o comunicazioni ovvero perquisizioni domiciliari. Si tratta di mezzi di ricerca della prova disciplinati con particolare attenzione da parte del legislatore a causa della loro incidenza su beni di rilevanza costituzionale, quale il diritto alla riservatezza. È evidente come tale diritto venga pregiudicato non solo attraverso l’illegittima esecuzione di tali attività, ma anche attraverso la pubblicazione dei relativi verbali. 3. Queste brevi note ci inducono a esprimere qualche riserva circa la declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 114, comma 3, c.p.p. per due ordini di considerazioni. Innanzitutto perché — come si è visto — il divieto di pubblicazione degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento, anteriormente alla pronuncia di primo grado, contribuiva in qualche misura a tutelare l’interesse individuale a vedere rispettato il proprio onore, la propria reputazione e la propria sfera di riservatezza personale: beni che debbono trovare adeguata garanzia almeno fino a che il materiale investigativo non sia stato « vagliato » e legittimamente acquisito al dibattimento. Si tratta di un interesse da sempre considerato meritevole di tutela, come conferma la stessa origine ed evoluzione storica del divieto di pubblicazione degli atti processuali. Introdotto al precipuo scopo di prevenire le influenze della stampa sui giudici popolari (20), il divieto de quo venne successivamente esteso dalla legge 6 maggio 1877, n. 3814 a tutti i procedimenti penali anche non di competenza della giuria. L’art. 49 di detta legge prevedeva il divieto di pubblicazione di tutti gli atti « della procedura scritta, delle sentenze, e degli atti d’accusa fino a che il processo non sia chiuso o col pubblico dibattimento, o con la pronunzia di non farsi luogo a procedimento penale ». Particolarmente significativa è la motivazione del divieto, in base alla quale gli atti istruttori, in quanto compiuti in segreto, avrebbero dato luogo a « risultati non ancora completi e veri » (21). Era dunque la mancanza del contraddittorio in istruzione che giustificava il divieto di pubblicare gli atti anteriori al dibattimento. Nel vigore del codice del 1913, in dottrina si sottolineava che la pubblicazione degli atti istruttori prima della celebrazione del giudizio oltre a « danneggiare l’istruttoria », avrebbe potuto « nuocere ingiustamente alla fama dell’imputato » (22). Anche l’art. 164 del c.p.p del 1930 faceva leva sull’esigenza di tutela della ri-

parte, può essere affermata una sorta, per così dire di progressione automatica necessaria tra inserzione nel fascicolo e acquisizione probatoria: non solo perché questa riguarda soltanto gli atti o le parti di atti che, per iniziativa di parte o d’ufficio, siano effettivamente oggetto di lettura o di indicazione di utilizzabilità (nei tempi e soprattutto con le procedure prescritte: cfr., ad esempio, le disposizioni dei commi 2 e 3 dell’art. 511), ma anche perché la preclusione dell’art. 491, comma 1, concerne le sole questioni circa il contenuto (iniziale) del fascicolo per il dibattimento, mentre l’utilizzazione probatoria degli atti di questo resta poi sempre controvertibile (Così, G. FRIGO, Commento all’art. 431, in M. CHIAVARIO, Commento al nuovo codice di procedura penale, vol. V, Torino, 1990, p. 733; nonché, M. NOBILI, Commento all’art. 511, in M. CHIAVARIO, cit., vol. VI, Torino, 1991, p. 423 s.). (19) In base all’art. 148 disp. att., gli atti del fascicolo per il dibattimento dei quali il giudice ha disposto la eliminazione a norma dell’art. 491, comma 4o c.p.p. sono restituiti al pubblico ministero. (20) Si tratta della legge 8 giugno 1874, n. 1937. Sul punto, cfr. P. TONINI, Profili storici del divieto di pubblicazione degli atti istruttori del processo penale, in Riv. it. dir. proc., 1974, p. 608 s. (21) Così la Relazione ministeriale, in Riv. pen., vol. VII, 1877, p. 106. (22) V. MANZINI, Manuale di diritto processuale penale italiano, Torino, 1912, p. 423.


— 817 — servatezza delle persone coinvolte in un procedimento penale, oltreché delle indagini stesse, ma solo apparentemente riprendeva la disciplina previgente. Infatti, I’oggetto del divieto non riguardava soltanto la divulgazione ma si estendeva al contenuto di qualunque documento o atto, scritto o orale relativo alla fase istruttoria e al giudizio tenuto a porte chiuse. Di tale contenuto non poteva essere data notizia alcuna, « totale o parziale, anche per riassunto o a guisa d’informazione ». È evidente come in questo modo si cercasse, in realtà, di sottrarre l’operato della magistratura a qualsiasi forma di controllo sociale. Con l’entrata in vigore della Costituzione, tale disciplina veniva fortemente censurata: essa, infatti, imponeva un sacrificio del tutto sproporzionato al diritto di cronaca giudiziaria, inteso come tipica forma di manifestazione del pensiero e quindi come strumento indispensabile ai fini di un effettivo controllo dell’opinione pubblica sul corretto funzionamento della giustizia (artt. 21 e 101 Cost.) (23). Questo non significa tuttavia che il divieto di pubblicazione degli atti processuali, e quindi la tutela della riservatezza, debba ritenersi del tutto incompatibile con il diritto di cronaca giudiziaria, ma si deve cercare un giusto contemperamento tra le opposte esigenze. Come la stessa Corte costituzionale ha avuto modo di affermare, la tutela costituzionale dei diritti incontra un limite « nell’esigenza insuperabile che nell’esercizio di essi non siano violati bene egualmente garantiti dalla Costituzione » (24). Ed è decisiva, a questo proposito, la circostanza che, rispetto al diritto di cronaca e di critica giudiziaria, la Corte abbia segnalato la sussistenza di più limiti, tra i quali, oltre all’esigenza di assicurare la « realizzazione della giustizia », di perseguire la « ricerca della verità » e tutelare la « serenità ed indipendenza del giudice », proprio quella di salvaguardare la « dignità e la reputazione di tutti coloro che partecipano al processo » (25). Un’esigenza, questa, che trova espresso riconoscimento non solo in una pluralità di norme costituzionali (artt. 2, 3, 14, 15, 27 e 32 Cost.), ma anche nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e nella Convenzione europea (26). La declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 114, comma 3 c.p.p pone poi un inquietante interrogativo sul piano degli effetti pratici perseguiti.

(23) Cfr., ampiamente sul punto, G. GIOSTRA, Processo penale e informazione, cit., pp. 63 e ss. (24) Così, Corte cost., 10 febbraio 1981, n. 16, in Cass. pen., 1981, p. 987 s. (25) Corte cost., 10 marzo 1966, n. 18, in Giur. cost., 1966, p. 174 (con nota critica di V. BAROSIO, Il divieto di pubblicare atti e documenti relativi ad una istruzione penale e la sua compatibilità con gli artt. 3 e 21 Cost.). In linea con l’orientamento della Corte, v., fra gli altri, M. MASSA, Sulla legittimità costituzionale degli artt. 684 c.p. e 164 c.p.p., in questa Rivista, 1964, p. 300 e ss. Di particolare interesse è l’indagine che l’Autore compie per precisare il concetto di « riservatezza », giungendo poi all’esatta conclusione che « ciò che viene riconosciuto degno di tutela dalle norme che prevedono il divieto di pubblicazione non è l’interesse dei soggetti processuali al silenzio intorno ai fatti che li riguardano, ma l’interesse al silenzio intorno ai fatti dei quali non si può sapere ancora se avranno o non avranno rilevanza, se saranno utilizzati oppure no, se serviranno o non serviranno al giudizio ». Si veda, altresì, V. GREVI, Segreto istruttorio e stampa, in Quad. giust., 1982, n. 6, p. 4; F. MANTOVANI, I limiti della libertà di manifestazione del pensiero in materia di fatti criminosi con particolare riguardo alle due sentenze della Corte Costituzionale sul divieto di pubblicazione di determinati atti processuali, in questa Rivista, 1966, p. 658 s.; A. MELCHIONDA, Segreto istruttorio, mezzi di divulgazione, tutela della riservatezza, in Crit. pen., 1981, p. 38; R. PANNAIN, Pubblicazione della sentenza di rinvio a giudizio, in Arch. pen., 1952, II, p. 528; V. PERCHINUNNO, Fondamento e legittimità costituzionale del divieto di pubblicazione di determinati atti del procedimento penale, in Arch. pen., 1967, p. 260 e ss.; G.D. PISAPIA, Limiti processuali alla libertà di manifestazione del pensiero, in questa Rivista, 1966, p. 419 e ss. (26) Com’è noto, l’art. 12 della Dichiarazione universale così recita: « Nessun individuo può essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua corrispondenza, né a lesioni del suo onore o della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze »; e l’art. 8 della Convenzione europea dispone: « ogni individuo ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza ». V. sul punto, G. CONSO, Libertà di stampa e cronaca giudiziaria, in Riv. pen., 1968, I, p. 668.


— 818 — Se all’informazione giudiziaria non può certo essere negato il ruolo primario di garantire un effettivo controllo dell’opinione pubblica sulla corretta amministrazione della giustizia, va anche detto che il vero problema, oggi, non è tanto quello di sottrarre territori al segreto, proclamando la pubblicabilità degli atti processuali penali, quanto piuttosto quello di evitare un’informazione parcellizzata e quindi distorta: il vero antidoto al segreto — è stato giustamente osservato — non è la notizia, ma la conoscenza come visione globale, organica e critica di un determinato fenomeno (27). Ora, è noto che il legislatore del 1988 ha introdotto una rinnovata « cultura della prova » la cui essenza risiede in una concezione etica e logica dell’accertamento processuale, non più fondata sulla libera ricerca della verità da parte del giudice, bensì sulla legalità del procedimento probatorio (28). Pertanto, in un sistema processuale il cui il fine sia il raggiungimento di una verità ottenuta attraverso un procedimento di ricerca in contraddittorio, basato necessariamente su criteri di ammissione e di esclusione, ci si deve chiedere se il consentire la diffusione di atti i cui risultati devono ancora essere « vagliati » da tale metodo di accertamento, più che garantire il diritto di cronaca non rischi di aggravare ulteriormente il problema della « disinformazione giudiziaria ». FRANCESCA MARIA MOLINARI Dottoranda in Procedura penale nell’Università di Ferrara

(27) G. GIOSTRA, Disinformazione giudiziaria: cause, effetti, rimedi, in Dir. pen. e proc., 1995, pp. 390-391. (28) Cfr. G. DE LUCA, Cultura della prova e nuovo costume giudiziario, in AA.VV., Il nuovo processo penale dalla codificazione all’attuazione, Milano, 1991, p. 19 e ss.; G. ILLUMINATI, Il nuovo dibattimento: l’assunzione diretta delle prove, in Foro it., 1988, V, c. 365; M. NOBILI, Il « diritto delle prove » ed un rinnovato concetto di prova, in M. CHIAVARIO, Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., vol. III, Torino, 1989, p. 381.


— 819 — CORTE COSTITUZIONALE — 18 ottobre 1995, n. 440 Pres. Caianiello — Rel. Zagrebelsky Reati in genere — Bestemmia — Trattamento sanzionatorio penale — Cessazione della religione cattolica quale sola religione dello Stato italiano — Presunta indeterminatezza della fattispecie penale — Richiamo alla sentenza della Corte n. 925 del 1988 — Differenziazione della tutela penale del sentimento religioso individuale a seconda della fede professata — Violazione del principio di eguaglianza — Illegittimità costituzionale. Giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 724 del codice penale promosso con ordinanza emessa il 14 novembre 1991 dal Tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di Onesti Fabio, iscritta al n. 457 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 1995 (1). (Omissis). — RITENUTO IN FATTO. — 1. Nel corso di un giudizio penale, il Tribunale di Milano, con ordinanza del 14 novembre 1991 (pervenuta alla Corte costituzionale il 3 luglio 1995), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 724, primo comma, del codice penale, in riferimento agli artt. 3, 8 e 25, secondo comma, della Costituzione. Si sostiene nell’ordinanza di rinvio che, poiché la norma impugnata sanziona con l’ammenda la condotta di chi pubblicamente « bestemmia, con invettive o parole oltraggiose, contro la Divinità o i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato », e poiché il Protocollo addizionale all’Accordo di modifica del Concordato lateranense, recepito con l. 25 marzo 1985, n. 121, al punto 1, prevede testualmente il venir meno della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano, ne conseguirebbe, in violazione dell’art. 25, secondo comma, della Costituzione, la indeterminatezza della fattispecie penale di cui all’art. 724 del codice penale, che « ancora » esplicitamente la sussistenza del reato all’offesa alla religione, appunto, di Stato. Né la censura potrebbe superarsi ritenendo che la norma denunciata continui a riguardare la religione cattolica come confessione religiosa più diffusa del Paese — mutuando l’espressione dalla sent. n. 14 del 1973 della Corte costituzionale — poiché non verrebbe ora in discussione la ratio della norma incriminatrice, bensì la sua (sopravvenuta) incompatibilità con il principio di tassatività. Nemmeno potrebbe ritenersi rispettato tale ultimo principio opinando che l’art. 724 del codice penale tuteli la religione cattolica « in quanto già religione di Stato » — così potendosi individuare la condotta sanzionata secondo le affermazioni contenute nella sent. n. 925 del 1988 della Corte costituzionale — perché nella norma predetta non è contenuto alcun riferimento alla religione cattolica, essendo questa oggetto di tutela solo indiretta, per il fatto della sua qualificazione come religione di Stato. 2. Qualora invece si volesse ritenere che la stessa norma contenga un riferimento univoco alla religione cattolica, essa, ad avviso del giudice rimettente, violerebbe gli artt. 3 e 8 della Costituzione. A sostegno della censura, nell’ordinanza si


— 820 — riportano brani di precedenti pronunce di questa Corte che sono consistiti in espressi inviti al legislatore, non ancora accolti, per una revisione della disciplina in vista dell’attuazione del principio costituzionale della libertà di religione, dal momento che « la limitazione della previsione legislativa alle offese contro la religione cattolica non può continuare a giustificarsi con l’appartenenza ad essa della quasi totalità dei cittadini italiani ». CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. L’ordinanza del Tribunale di Milano ripropone la questione di legittimità costituzionale del reato di bestemmia, previsto dal primo comma dell’art. 724 del codice penale sotto il duplice profilo della violazione del principio di determinatezza della fattispecie penale (art. 25, secondo comma, della Costituzione) e della violazione del principio di uguaglianza in materia di religione (artt. 3 e 8, primo comma, della Costituzione). 2.1. L’art. 724, primo comma, del codice penale punisce a titolo contravvenzionale la condotta di chi « pubblicamente bestemmia, con invettive o parole oltraggiose, contro la Divinità o i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato ». La prima prospettazione della questione si incentra sulle conseguenze che — ad avviso del Tribunale rimettente — deriverebbero dall’espunzione dal vigente ordinamento della nozione di « religione dello Stato ». Di tale nozione, enunciata nell’art. 1 dello Statuto albertino, ribadita nell’art. 1 del Trattato del 1929 tra la Santa Sede e l’Italia e largamente utilizzata dal codice penale vigente, ma incompatibile con il principio costituzionale fondamentale di laicità dello Stato (sentt. nn. 203 del 1989 e 149 del 1995), il Protocollo addizionale all’Accordo di modifica del Concordato lateranense, recepito nell’ordinamento italiano con legge 25 marzo 1985, n. 121, ha constatato (al punto 1) il superamento: « Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano ». Da questa caducazione, secondo il Tribunale rimettente, deriverebbe l’indeterminatezza della fattispecie dell’art. 724, primo comma, del codice penale e quindi la violazione dell’art. 25, secondo comma, della Costituzione, in quanto ora non sarebbe più individuabile la religione destinataria delle invettive e delle parole oltraggiose costitutive dell’elemento materiale del reato di bestemmia. La questione, così delineata, è già stata esaminata e respinta da questa Corte con sent. n. 925 del 1988. La formula dell’art. 724, primo comma, del codice penale, dopo la scomparsa dall’ordinamento giuridico della nozione di « religione dello Stato », non contempla alcuna nozione generica e quindi non giustifica la censura di indeterminatezza. Semplicemente, si apre un’alternativa tra due possibilità, entrambe determinate: o ritenere che l’eliminazione della nozione di « religione dello Stato » abbia fatto venire meno la fattispecie dell’art. 724, primo comma, del codice penale e l’abbia così privata di contenuto normativo; oppure, ritenere che quell’espressione sia semplicemente il tramite linguistico per mezzo del quale, ora come allora, viene indicata la religione cattolica. Si tratta di una scelta interpretativa dipendente da una presa di posizione in ordine al « perché » della volontà del legislatore espressa nell’art. 724 (la religione cattolica in quanto religione dello Stato ovvero la religione dello Stato in quanto religione cattolica). La giurisprudenza penale ha seguito ora il primo, ora il secondo orientamento e quest’ultimo ha finito per preva-


— 821 — lere con l’avallo di questa Corte, la quale ha affermato che « l’innegabile venir meno del significato originario dell’espressione ‘‘religione dello Stato’’ non esclude che, entro il contesto dell’art. 724 del codice penale, essa ne abbia acquistato uno diverso, ma sempre sufficientemente determinabile...: cioè, il significato di ‘‘religione cattolica’’, in quanto già religione dello Stato » (sent. n. 925 del 1988 e ord. n. 52 del 1989). 2.2. Riaffermata così la sopravvivenza dell’incriminazione penale della bestemmia in relazione alla « religione dello Stato », formula da intendersi — nei limiti che saranno appresso precisati — senza possibilità di dubbio o oscillazione come religione cattolica, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 724, primo comma, del codice penale deve essere esaminata rispetto agli altri parametri costituzionali invocati. 3.1. L’esame della legittimità costituzionale del reato di bestemmia previsto dall’art. 724, primo comma, del codice penale, con riferimento al principio di uguaglianza senza distinzione di religione (art. 3 della Costituzione) e al principio di uguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8, primo comma, della Costituzione) presuppone la ricostruzione del bene giuridico protetto dalla norma oggetto di sindacato, a partire dalla concezione originaria del legislatore penale del 1930. Il riferimento alla religione dello Stato-religione cattolica è il primo elemento di questa ricostruzione. Tale riferimento è generale nelle fattispecie dei reati attinenti alla religione (artt. 402-404: vilipendi variamente caratterizzati, e 724: bestemmia) e si spiega per il rilievo che, nelle concezioni politiche dell’epoca, era riconosciuto il sentimento religioso collettivo cattolico quale fattore di unità morale della nazione. Lo Stato, espressione e garante di tale unità, aveva, comprensibilmente, la « sua » religione ed era interessato a sostenerla e difenderla. Il secondo elemento — che si somma al precedente, senza escluderlo — è rappresentato dalla configurazione del reato di bestemmia congiuntamente alle manifestazioni oltraggiose verso i defunti e dalla sua collocazione nel « titolo » quanto mai eterogeneo delle « Contravvenzioni concernenti la polizia dei costumi », collocazione che giustifica anche per la bestemmia (come per il gioco d’azzardo, gli atti contrari alla pubblica decenza, il turpiloquio, ecc.) una configurazione più riduttiva, come atto di malcostume. 3.2. In prosieguo, anche in conseguenza dei nuovi principi costituzionali di libertà e di uguaglianza dei cittadini e di laicità dello Stato, il reato di bestemmia è stato sottoposto a una riconsiderazione, i cui punti fondamentali sono rappresentati da altrettante pronunce della Corte costituzionale. Nella sent. n. 79 del 1958 viene operata una prima conversione del bene giuridico protetto. La religione cattolica è configurata non più come la religione dello Stato in quanto organizzazione politica, ma dello Stato in quanto società: la protezione speciale della « religione dello Stato » si giustificherebbe per « la rilevanza che ha avuto ed ha la religione cattolica in ragione della antica ininterrotta tradizione del popolo italiano, la quasi totalità del quale ad essa sempre appartiene... La norma dell’art. 724 cod. pen., come altre dello stesso codice..., si riferisce alla ‘‘religione dello Stato’’ dando rilevanza non già a una qualificazione formale della religione cattolica, bensì alla cir-


— 822 — costanza che questa è professata nello Stato italiano dalla quasi totalità dei suoi cittadini, e come tale è meritevole di particolare tutela penale, per la maggior ampiezza e intensità delle reazioni sociali naturalmente suscitate dalle offese ad essa dirette ». Successivamente, con la sent. n. 14 del 1973, la giurisprudenza della Corte costituzionale va oltre e la religione cattolica come religione della « quasi totalità » degli italiani viene sostituita — come oggetto della tutela penale — dal « sentimento religioso », elemento base della libertà di religione che la Costituzione riconosce a tutti. Si apre così, attraverso il riferimento al concetto di sentimento religioso, una prospettiva che investe l’atteggiamento dell’ordinamento verso tutte le religioni e i rispettivi credenti e va quindi al di là del riferimento alla sola religione cattolica. Tuttavia l’espressa limitazione della previsione legislativa alle offese contro la sola religione cattolica è ritenuta dalla Corte, in tale sentenza, ancora giustificata, data « l’ampiezza delle reazioni sociali... della maggior parte della popolazione italiana », ma viene aggiunto un richiamo: che, « per una piena attuazione del principio costituzionale della libertà di religione, il legislatore debba provvedere a una revisione della norma, nel senso di estendere la tutela penale contro le offese del sentimento religioso di individui appartenenti a confessioni diverse da quella cattolica ». Da ultimo, la sent. n. 925 del 1988, che rappresenta il punto di partenza per l’esame della questione ora riproposta alla Corte costituzionale, dichiara non fondato il dubbio di costituzionalità sulla vigente disciplina della bestemmia, ma in base a diverse affermazioni di principio che accantonano l’argomento numerico, sul quale fino ad allora si era motivato per escludere la violazione del principio di uguaglianza: « ‘‘la limitazione della previsione legislativa alle offese contro la religione cattolica’’ non può continuare a giustificarsi con l’appartenenza ad essa della ‘‘quasi totalità’’ dei cittadini italiani... e nemmeno con l’esigenza di tutelare il sentimento religioso della ‘‘maggior parte della popolazione italiana’’...: non tanto vi si oppongono ragioni di ordine statistico (comunque sia la religione cattolica resta la più seguita in Italia), quanto ragioni di ordine normativo. Il superamento della contrapposizione fra la religione cattolica, ‘‘sola religione dello Stato’’, e gli altri culti ‘‘ammessi’’, sancito dal punto 1 del Protocollo del 1984, renderebbe, infatti, ormai inaccettabile ogni tipo di discriminazione che si basasse soltanto sul maggiore o minore numero degli appartenenti alle varie confessioni religiose ». L’abbandono del criterio quantitativo, così argomentato dalla Corte, significa che in materia di religione, non valendo il numero, si impone ormai la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza. Il primo comma dell’art. 8 della Costituzione trova così la sua piena valorizzazione. Il riconoscimento da parte della sent. n. 925 del 1988 della disparità di disciplina, derivante dalla « perdurante limitazione insita nel dettato dell’art. 724 », è dunque inevitabile, ma si afferma che la norma « possa trovare tuttora un qualche fondamento nella constatazione, sociologicamente rilevante, che il tipo di comportamento vietato dalla norma impugnata concerne un fenomeno di malcostume divenuto da gran tempo cattiva abitudine per molti », aggiungendosi peraltro che incombe sul legislatore « l’obbligo di addivenire ad una revisione della fattispecie ». La Corte costituzionale ha così nuovamente definito i beni protetti dalla norma del codice penale (beni attinenti l’uno alla religione e l’altro al buon costume) e ha ri-


— 823 — tenuto, per il momento e in attesa dell’intervento del legislatore, che le esigenze di tutela del secondo bene portassero ad escludere la declaratoria di incostituzionalità della norma, pur difettosa sul piano della tutela del primo, in ragione dell’imperativo di uguaglianza. 3.3. Nella riconsiderazione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 724, primo comma, del codice penale cui l’ordinanza del Tribunale di Milano chiama la Corte costituzionale, devono essere tenuti fermi due punti essenziali, affermati nell’ultima giurisprudenza ora richiamata: l’irrilevanza del criterio numerico nelle valutazioni costituzionali in nome dell’uguaglianza di religione e l’appartenenza della norma sanzionatrice della bestemmia (anche) all’ambito dei reati che attengono alla religione. In particolare, non può essere condivisa la tendenza — risultante da alcune pronunce della giurisdizione penale di legittimità e di merito — volta ad attrarre senza residui la norma dell’art. 724 del codice penale solo all’ambito dei reati di malcostume. Di tale norma, infatti, si perderebbe la ragione d’essere caratteristica — cioè la sua attinenza alla protezione della sfera della religione — una volta che la si volesse intendere nell’ambito esclusivo della maleducazione verbale. Contro, stanno la sua origine, il riferimento testuale alla « religione dello Stato », poi mutato in riferimento alla religione cattolica, e la sua collocazione sistematica accanto alla disposizione che punisce il turpiloquio non ulteriormente qualificato (art. 726, secondo comma, del codice penale). Si potrà dire che la bestemmia — anche per la nostra legislazione — è un atto di inciviltà nei rapporti della vita sociale che non colpisce necessariamente soltanto i credenti, ma non si può trascurare che esso è caratterizzato dal suo attenere alla sfera della religione. La religione e i credenti sono pur sempre cose diverse dalla buona creanza e dagli uomini di buona creanza. Per questa ragione, i parametri costituzionali invocati — l’uguaglianza di fronte alla legge senza discriminazioni di religione (art. 3) e l’uguale libertà di tutti i culti (art. 8, primo comma) — sono pertinenti. Da essi deve trarsi ora la conseguenza della declaratoria d’incostituzionalità della norma che punisce la bestemmia, in quanto differenzia la tutela penale del sentimento religioso individuale a seconda della fede professata. A tale declaratoria, la sent. n. 925 del 1988 non era per il momento pervenuta, in attesa di un intervento del legislatore penale (già auspicato fin dalla sent. n. 14 del 1973) che valesse a sanare la discriminazione tra fedeli di diverse confessioni religiose. La perdurante inerzia del legislatore non consente — dopo sette anni dall’ultima sentenza, ribadita nei suoi contenuti dall’ord. n. 52 del 1989 — di protrarre ulteriormente l’accertata discriminazione, dovendosi affermare la preminenza del principio costituzionale di uguaglianza in materia di religione su altre esigenze — come quella del buon costume tutelato dall’art. 724 — pur apprezzabili ma di valore non comparabile. 3.4. La dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 724, primo comma, del codice penale deve tuttavia essere circoscritta alla sola parte nella quale esso comporta effettivamente una lesione del principio di uguaglianza. La fattispecie dell’art. 724, primo comma, del codice penale è scindibile in due parti: una prima, riguardante la bestemmia contro la Divinità, indicata senza ulteriori specificazioni e con un termine astratto, ricomprendente sia le espressioni verbali sia i segni rap-


— 824 — presentativi della Divinità stessa, il cui contenuto si presta a essere individuato in relazione alle concezioni delle diverse religioni; una seconda, riguardante la bestemmia contro i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato. La bestemmia contro la Divinità, come anche la dottrina e la giurisprudenza hanno talora riconosciuto, a differenza della bestemmia contro i Simboli e le Persone, si può considerare punita indipendentemente dalla riconducibilità della Divinità stessa a questa o a quella religione, sottraendosi così alla censura d’incostituzionalità. Del resto, dal punto di vista puramente testuale, ancorché la formula dell’art. 724 possa indurre alla riconduzione unitaria delle nozioni di Divinità, Simboli e Persone nella tutela penalistica accordata alla sola « religione dello Stato », è da notarsi che, in senso stretto, il termine « venerati », impiegato nell’art. 724, è propriamente riferibile ai soli Simboli e Persone. Cosicché, dovendosi ritenere che il legislatore abbia fatto uso preciso e consapevole delle espressioni impiegate, il riferimento alla « religione dello Stato » può valere soltanto per i Simboli e le Persone. La norma impugnata si presta così ad essere divisa in due parti. Una parte — esclusa restando ogni valenza additiva della presente pronuncia, di per sé preclusa dalla particolare riserva di legge in materia di reati e di pene — si sottrae alla censura di incostituzionalità, riguardando la bestemmia contro la Divinità in genere e così proteggendo già ora dalle invettive e dalle espressioni oltraggiose tutti i credenti e tutte le fedi religiose, senza distinzioni o discriminazioni, nell’ambito — beninteso — del concetto costituzionale di buon costume (artt. 19 e 21, sesto comma, della Costituzione). L’altra parte della norma dell’art. 724 considera invece la bestemmia contro i Simboli e le Persone con riferimento esclusivo alla religione cattolica, con conseguente violazione del principio di uguaglianza. Per questa parte, delle due possibilità di superamento del vizio rilevato: l’annullamento della norma incostituzionale per difetto di generalità e l’estensione della stessa alle fedi religiose escluse, alla Corte costituzionale è data soltanto la prima, a causa del predetto divieto di decisioni additive in materia penale. La scelta attuale del legislatore di punire la bestemmia, una volta depurata del suo riferimento ad una sola fede religiosa, non è dunque di per sé in contrasto con i principi costituzionali, tutelando in modo non discriminatorio un bene che è comune a tutte le religioni che caratterizzano oggi la nostra comunità nazionale, nella quale hanno da convivere fedi, culture e tradizioni diverse. P.Q.M. — La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 724, primo comma, del codice penale, limitatamente alle parole: « o i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato ». — (Omissis). ——————— (1)

La bestemmia al vaglio della Corte costituzionale: sui difficili rapporti tra Consulta e legge penale (*). 1.

Non molto tempo addietro, veniva ancora autorevolmente ribadito dalla

(*) Quando il presente lavoro era già in bozze di stampa, a commento di questa stessa sentenza, venivano pubblicati COLAIANNI, La bestemmia ridotta e il diritto penale laico, in Foro it., 1996, I, cc. 30 ss.; PALAZZO, La tutela della religione tra eguaglianza e secolarizzazione (a proposito della dichiarazione di incostituzionalità della bestemmia), in Cass. pen., 1996, p. 47 ss., ai quali, pertanto, con rammarico, non si può fare riferimento.


— 825 — dottrina uno dei pochi punti fermi in materia di rapporti tra Corte costituzionale e legislatore penale (1). Si rilevava cioè il ruolo meramente orientativo che nella scelta dei beni giuridici possiede la Costituzione, anche laddove essa sembra espressamente prevedere l’intervento del legislatore in chiave penale (2). Ed infatti: o il legislatore ha completamente omesso di dare attuazione alla previsione costituzionale (ed allora — è normale — non potrà individuarsi la norma della quale denunciare l’illegittimità), ovvero « l’obbligo costituzionale espresso di incriminazione » ha trovato « nella legislazione ordinaria una attuazione solo parziale [...]. Orbene, in casi del genere sarebbe senz’altro possibile individuare una o più norme incriminatrici delle quali eccepire l’illegittimità costituzionale, sotto il profilo della irragionevole esclusione di ipotesi ‘‘uguali’’ a quelle previste nella (o nelle) norme. Senonché » — si proseguiva — « mentre nell’ordinamento tedesco la Corte costituzionale ha il potere di dichiarare l’illegittimità e al contempo emanare una disciplina penale di carattere provvisorio in armonia con l’obbligo costituzionale di incriminazione, nell’ordinamento italiano la Corte costituzionale non può colmare i vuoti della legislazione penale ordinaria. Vi si oppongono infatti i principi costituzionali dell’irretroattività e della riserva di legge in materia penale (art. 25 Cost.): l’espansione della norma incriminatrice comporterebbe nel giudizio a quo l’affermazione della responsabilità penale per un fatto che non era previsto come reato secondo la legge del tempo in cui era stato commesso; inoltre, quell’espansione sarebbe frutto di una potestà punitiva che la Costituzione riserva alla legge » (3). Nello stesso senso, altri rilevava che « il reiterato richiamo [nelle sentenze della Consulta]... alla discrezionalità legislativa garantita dalla riserva di legge o di atto di pari grado, conferma il radicato convincimento della Corte circa l’impossibilità di annoverare le proprie sentenze di accoglimento — anche se manipolative — tra le fonti del diritto gerarchicamente pariordinate agli atti legislativi. Sotto questo profilo, la giurisprudenza costituzionale appena ricordata si accompagna ad altre decisioni della Consulta — recenti quando non recentissime — egualmente convergenti nel negare natura di fonti alle pronunce d’illegittimità delle leggi » (4). Invero, questa stessa dottrina si è spinta anche oltre. Tralasciando nella sede attuale ogni verifica in ordine alla bontà di questa tesi (5), essa ha rinvenuto il fondamento teorico della prudenza mostrata in campo penale dalla Consulta, non solo e non tanto nell’art. 25 Cost., essendo oramai ampiamente riconosciuto che il vero significato della riserva di legge e degli altri corollari del principio di stretta legalità risiede nel c.d. favor libertatis, di talché le restrizioni che da essi discendono avrebbero ragion d’essere solo ed esclusivamente laddove si incida sulla libertà personale, restringendola, piuttosto che nel caso inverso, in cui se ne amplino gli spazi di tutela. Detto fondamento è stato

(1) MARINUCCI-DOLCINI, Costituzione e politica dei beni giuridici, in questa Rivista, 1994, p. 354 s. (2) Come nel caso dell’art. 13, quarto comma, della Costituzione. MARINUCCI-DOLCINI, Ibidem, p. 350. Sul tema, già PALAZZO, Valori costituzionali e diritto penale (un contributo comparatistico allo studio del tema), in L’influenza dei valori costituzionali sui sistemi giuridici contemporanei, Milano, 1985, p. 600 ss. (3) MARINUCCI-DOLCINI, Ibidem, p. 355. Il corsivo è nostro. (4) PUGIOTTO, Sentenze normative. Legalità delle pene e dei reati e controllo sulla tassatività della fattispecie, in Giur. cost., 1994, p. 4210. Aggiungiamo che la « ritrosa » modestia della Corte nel definire il suo ruolo non trova rispondenza nella sempre maggiore incisività che esso va assumendo e che — come noto — ha presto portato a ritenere l’attività della Consulta solo formalmente giurisdizionale, ma sostanzialmente legislativa. Per tutti, SILVESTRI, Le sentenze normative della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1981, p. 1684 ss. (5) Come si avrà modo di osservare, del tutto irrilevante con riferimento alla sentenza annotata.


— 826 — invece ricondotto alla natura stessa del diritto penale, necessariamente frammentario, e dunque per vocazione frutto di scelte politiche del tutto discrezionali (6). Proseguendo in questa direzione, non si è mancato di elogiare il self restraint della Corte costituzionale, quale emerge dal tenore di molte sue pronunce le quali contengono l’espresso riconoscimento del monopolio del Legislatore, unico legittimo depositario della potestà normativa, ogni qual volta tale esclusiva sia suggerita dalla natura squisitamente politica delle scelte da operare (7). Questo, appunto, sarebbe il caso dell’intervento in sede penale, non solo in malam, bensì anche in bonam partem (8). In particolare, un riscontro puntuale a tale idea, lo si è desunto dalla stessa giurisprudenza costituzionale (quale più autorevole fonte?), e specificamente dalla nota pronuncia in materia di oltraggio (9). È stato infatti osservato che la Consulta, « escludendo addirittura un intervento sostitutivo in bonam partem, finisce per sottolineare come il principio di stretta legalità delle pene (e dei reati) presupponga comunque e necessariamente una scelta in sede legislativa ». Seguiva immeditatamente un auspicio, carico di speranza: « se confermata in futuro, si tratterebbe di una novità capace finalmente di giustificare in modo adeguato i limiti particolarmente stringenti che le operazioni manipolative della Corte incontrano nella materia dei reati e delle pene » (10). 2. Tali aspettative sono state troppo presto frustrate. Naturalmente condivisibile nelle finalità, la sent. n. 440 del 18 ottobre 1995 in materia di bestemmia, rappresenta, tecnicamente, il sovvertimento del tanto lodato self restraint del giudice di legittimità (11). Nel dichiarare infatti « l’illegittimità costituzionale dell’art. 724, primo comma, del codice penale, limitatamente alle parole ‘‘o i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato’’ », essa finisce infatti con l’estendere la punibilità

(6) Di talché — si avverte — « è la stessa natura ‘‘frammentaria’’ della parte speciale del diritto penale a rendere altamente improbabile la sussistenza del presupposto stesso per l’adozione del criterio dell’unicità di soluzione costituzionalmente imposta ». PALAZZO, Legge penale, voce Digesto scienze pen., 1993, p. 350. Sul punto, infra, § 3. Perplessità in ordine ad eventuali « affermazioni di rango costituzionale (...) sull’antisocialità di determinati tipi comportamentali » da parte della Corte, nonché in ordine alla valutazione che la stessa faccia sulla « diversa efficacia delle varie sanzioni potenzialmente utilizzabili » erano già state espresse dallo stesso Autore in Valori costituzionali cit., p. 609 e s. Nel senso dell’inammissibilità di qualunque intervento, anche in bonam partem, da parte della Consulta, già da tempo, PEDRAZZI, Sentenze « manipolative » in materia penale?, in questa Rivista, 1974, p. 446, per il quale « la ratio della riserva non va individuata in una generica garanzia di certezza e conoscibilità della norma incriminatrice, ma nell’esigenza di affidare la delimitazione tra il lecito e l’illecito all’Organo costituzionale che più direttamente esprime la sovranità popolare ». IDEM, Inefficaci le sentenze manipolative in materia penale?, in questa Rivista, 1975, p. 651 s. (7) Sul passaggio dalla dimensione formale dell’inammissibilità per irrilevanza, alla valutazione nel merito della infondatezza, vd. BRANCA, Norme penali di favore: dall’irrilevanza al rifiuto della sentenza-legge, nota a sent. Corte cost. 7 maggio-25 giugno 1981, n. 108, in Giur. cost., 1981, p. 908 ss. (8) PUGIOTTO, op. cit., p. 4212 s. (9) Corte cost. 25 luglio 1994, n. 341, in Cass. pen., 1995, p. 25 ss., con nota di ARIOLLI, Il delitto di oltraggio tra principio di ragionevolezza e finalità rieducativa della pena. (10) PUGIOTTO, Ibidem. A rigore, la sentenza non ha suscitato unanimi consensi. V’è stato infatti chi ha lamentato un mancato rispetto dei « limiti intrinseci al sindacato di costituzionalità. Ci si riferisce, com’è ovvio, specie a quelle parti in cui la Corte si appella alla generica coscienza sociale e adotta parametri di valutazione politico-criminale sulla cui base nella sostanza anticipa modelli di disciplina de iure condendo, interferendo nell’autonomia valutativa del legislatore: la quale in campo penale si esprime non solo nella scelta delle tecniche di conformazione strutturale della fattispecie incriminatrice, ma anche (se non prima di tutto) nella fissazione dei livelli sanzionatori ». FIANDACA, nota red. a sent. 25 luglio 1994, n. 341, in Foro it., 1994, I, c. 2588. (11) In senso favorevole a quello che era l’orientamento tradizionalmente rigoroso della Corte in materia penale, tra gli altri, PALADIN, Corte costituzionale e principio generale d’eguaglianza, in Giur. cost., 1984, p. 253 s.; VASSALLI, I principi generali del diritto nell’esperienza penalistica, in E.N.P.D.E.P., 1992, p. 752.


— 827 — della contravvenzione a « chiunque pubblicamente bestemmia, con invettive o parole oltraggiose, contro la Divinità », chiaramente ora intendendosi per tale, ogni Divinità, e non già più soltanto quella della religione dello Stato. Le esigenze in risposta delle quali la Consulta ha agito stanno evidentemente nella mancata attuazione, a tutt’oggi, del dato costituzionale di cui all’art. 8 (12), che afferma l’eguaglianza delle religioni, ed in relazione al quale la stessa Corte ricorda di aver già lanciato vari moniti (evidentemente rimasti disattesi) al legislatore (sent. n. 14 del 1973 e sent. n. 925 del 1988). Una grave inerzia legislativa, non sopperibile, tuttavia, dalla Corte costituzionale, se non a costo di gravemente travalicare i limiti della sua funzione. Alla luce di quanto introduttivamente riportato, infatti, non potendosi configurare obblighi costituzionali di tutela penale, è chiaro che ogni sindacato, il quale abbia come effetto quello di estendere i confini dell’illecito penale deve essere come tale deplorato. E non è chi non veda che, nel caso in esame, la Corte costituzionale ha per l’appunto finito con l’ampliare l’area del penalmente rilevante, palesemente infrangendo i limiti (da essa stessa delineati) in relazione alla mera discrezionalità delle scelte legislative: ed addirittura — nel caso in esame — la stessa riserva di legge in materia penale; violazione tanto più grave in quanto sottratta ad ogni controllo, e dunque rimedio. A nulla valgono, infatti, le (assai poco consolanti) dichiarazioni contenute nella sentenza stessa, volte a fugare ogni dubbio sulla « valenza additiva della pronuncia » (che espressamente l’organo esclude!) laddove, in un estremo tentativo di salvare almeno le apparenze, il giudice delle leggi si inerpica su un pericoloso terreno interpretativo e scompone la norma in due parti. « La bestemmia contro la Divinità, come anche la dottrina e la giurisprudenza hanno talora riconosciuto, a differenza della bestemmia contro i Simboli e le Persone, si può considerare punita indipendentemente dalla riconducibilità della Divinità stessa a questa o a quella religione sottraendosi così alla censura d’incostituzionalità. Del resto, dal punto di vista puramente testuale, ancorché la formula dell’art. 724 possa indurre alla riconduzione unitaria delle nozioni di Divinità, Simboli e Persone nella tutela penalistica accordata alla sola ‘‘religione dello Stato’’, è da notarsi che, in senso stretto, il termine ‘‘venerati’’, impiegato nell’art. 724, è propriamente riferibile ai soli Simboli e Persone. Cosicché, dovendosi ritenere che il legislatore abbia fatto un uso preciso e consapevole delle espressioni impiegate, il riferimento alla ‘‘religione dello Stato’’ può valere soltanto per i Simboli e le Persone ». Al di là invero del sommesso uso dell’avverbio « talora », che tradisce la consapevolezza di un orientamento tutt’altro che unanime; ed anche a voler ammettere che questa (artificiosa) interpretazione fosse già univocamente recepita, il ragionamento della Corte nulla toglie alla lesione — se non della riserva di legge in materia penale — per lo meno del principio di determinatezza, il quale — come noto — si impone in primis al legislatore, sotto la veste di c.d. tipicità; e solo di riflesso, in un secondo momento, all’interprete, in chiave, questa volta, di tassatività del precetto penale. Cosicché, anche solo il rischio di una prima, non conforme interpretazione verrebbe ad incidere irrimediabilmente sul favor libertatis di cui all’art. 25 Cost. (13).

(12) Oltre che, ovviamente, dell’art. 3 Cost., inteso peraltro nella sua accezione « prima » di eguaglianza, e non di ragionevolezza. (13) Analogamente, PUGIOTTO, op. cit., p. 4222 ss. « Di più: anche ipotizzando un diritto vivente giurisprudenziale formatosi fin da subito, in modo inequivoco e senza contrasto alcuno sulla disposizione penale, questa potrebbe egualmente essere indeterminata, qualora quel significato — pur definito — non


— 828 — 3. È ormai nota la posizione di chi ritiene l’ammissibilità teorica anche di interventi in malam partem in materia penale (14) (a condizione che la Corte costituzionale operi scelte necessitate, secondo l’ormai noto schema crisafulliano della normazione a rime obbligate). Premessa la preclusione processuale derivante dal combinarsi del requisito della rilevanza con la non retroattività di cui all’art. 2 cod. pen., non esisterebbe cioè alcun limite d’ordine sostanziale che impedisca alla Corte di fare uso, in materia penalistica, di un potere normativo analogo a quello dalla stessa impiegato in altre branche o settori del diritto, ivi compresi quelli parimenti caratterizzati dall’incidenza di una riserva di legge. È stato in altri termini osservato che « se la ratio della riserva di legge in questione (la quale si differenzierebbe in ciò da tutte le altre) fosse davvero quella di pretendere che il Parlamento, ed il Parlamento solo, possa maneggiare i delicati strumenti della repressione penale, tale riserva dovrebbe valere — oltre che, come è pacifico, nei confronti delle fonti secondarie — nei confronti di tutte le fonti primarie consistenti in atti di soggetti diversi dal Parlamento » (15). Ed infatti pare che le cose stiano esattamente in questi termini. La stessa dottrina ammette che la non inclusione della materia penalistica tra quelle per le quali, ai sensi dell’art. 75, secondo comma, Cost., è vietato il referendum, può ben trovare la sua ragion d’essere nella (ancora maggiore) rappresentatività del corpo elettorale (rispetto al Parlamento). Omette volutamente, invece, laddove estende il ragionamento alla normazione primaria dell’Esecutivo attraverso decreto legge e decreto legislativo. Si dice: se è oramai pacifica la legiferazione in materia penale del Governo, perché escludere quella — di pari grado — della Corte costituzionale? È però evidente che il Governo in tanto è ammesso a vestire i panni del legislatore penale in quanto, sia nel caso del decreto legislativo, sia nel caso del decreto legge, al Parlamento è

sia davvero riconducibile al materiale linguistico adoperato dal legislatore, gravando solamente su di esso l’obbligo costituzionale di formulare la fattispecie incriminatrice » (PUGIOTTO, Ibidem, p. 4223). (14) PIZZORUSSO, Sui limiti della potestà normativa della Corte costituzionale, nota a sent. 3 aprile-26 maggio 1981, n. 73, in questa Rivista, 1982, p. 305 ss. Precisamente, a p. 308 si trova affermato che « ... è soltanto un ostacolo di ordine processuale che impedisce il controllo di questo tipo [che ridondi in malam partem] di disposizioni o norme da parte della Corte e che nulla impedirebbe alla Corte di esercitarlo ove fosse adottata una diversa disciplina dell’accesso a questa giurisdizione ». In senso sostanzialmente analogo, MARZIALE, Proprio inammissibili le sentenze « additive » in materia penale?, in Cass. pen., 1979, p. 48 ss.; DUNI, L’oggetto dei giudizi di costituzionalità e la problematica dei dispositivi additivi. Additività testuale e additività normativa, in Riv. circ. trasp., 1976, p. 575 ss.; LATTANZI, La non punibilità dei componenti del Consiglio superiore al vaglio della Corte costituzionale, nota a sent. 2 giugno3 giugno 1983, n. 148, in Cass. pen., 1983, p. 1916 ss. Una posizione originale, volta a negare l’ammissibilità di obblighi positivi di tutela penale desumibili dalla Costituzione, ma propensa ad ammettere (in termini peraltro sufficientemente ampi) il sindacato della Consulta su cause di non punibilità (e scriminanti) è assunta da STORTONI, Profili costituzionali della non punibilità, in questa Rivista, 1984, p. 626 ss. (in particolare, vd. p. 643 ss.). Avvertono il rischio che un troppo spinto ricorso allo schermo dell’inammissibilità ricrei « zone franche » dal sindacato della Corte, tra gli altri, BRANCA, Norme penali di favore: dall’irrilevanza al rifiuto della sentenza-legge, nota a sent. 7 maggio-25 giugno 1981, n. 108, in Giur. cost., 1981, p. 913 ss.; FELICETTI, In tema di sentenze « additive » e d’inammissibilità di questioni di legittimità costituzionale, in Cass. pen., 1984, p. 2111; CARLASSARE, Le decisioni d’inammissibilità e di manifesta infondatezza della Corte costituzionale, in Foro it., 1986, c. 300. Ci pare tuttavia questa l’occasione per ricordare quanto già osservava il DOGLIANI a proposito dell’uso dell’art. 23 l. n. 87 del 1953, da parte della Corte costituzionale: « Il giorno in cui essa [...] decidesse di entrare nel merito di una questione senza arroccarsi dietro ad una pur esistente irrilevanza, e disattendendo quindi il dettato dell’art. 23, potrà pur sempre dire, con il giudice Marshall: ‘‘Ma chi casserà le mie sentenze?’’ » (DOGLIANI, Irrilevanza « necessaria » della quaestio relativa a norme penali di favore, in Giur. cost., 1976, p. 587). Contrari a qualunque intervento manipolativo su legge penale, anche se in bonam partem, della Corte costituzionale, oltre ai già citati Autori, D’ALESSIO, nota redaz. a sent. 6 luglio-18 luglio 1989, n. 409, in Giur. cost., 1989, p. 1923; D’AMICO, Sulla « costituzionalità » delle decisioni manipolative in materia penale, in Giur. it., 1990, cc. 254 ss. (in particolare, c. 274 s.). (15) PIZZORUSSO, Ibidem, p. 308.


— 829 — sempre assicurato un controllo: ex ante, nella prima ipotesi (attraverso la legge delega, contenente i principi base della disciplina); a posteriori, nella seconda ipotesi (attraverso la conversione in legge, ai sensi dell’art. 77 Cost.). Controllo del Parlamento che — evidentemente — non si esplica sulle sentenze normative della Corte costituzionale. Infine, il medesimo autore, quale argomento a sostegno della sua tesi, si richiama alla potestà normativa delle Regioni in materia penale, escludendola non già in virtù di una specifica riserva di legge, bensì in considerazione dei vigenti « criteri generali di ripartizione » (16). Orbene, al di là del fatto che tale preclusione deriva — come noto — più che dall’art. 117 Cost. (ben potrebbe la Regione normare in una delle materie di cui alla norma in esame servendosi dello strumento penalistico), dagli artt. 3 e 5 della Costituzione (17), giova appena ricordare che le ragioni della riserva non verrebbero certo vanificate quando a normare fosse un organo dotato di un elevato grado di rappresentatività e politicamente responsabile, quale la Regione (18). Su di un punto riteniamo invece di dover convenire con l’autore (e la sentenza annotata ne dà atto): appare senz’altro aprioristico ed inopportuno distinguere tra sentenze additive e sentenze di accoglimento parziale (consentendo alle seconde e negando legittimazione alle prime), ben potendo le sentenze di accoglimento parziale (19) esplicare una potenzialità normogena in malam partem pari, se non superiore, a quella delle altre (20). In tale ipotesi, tuttavia (21), ci sembra che l’unica soluzione percorribile da parte della Corte sia (e nel caso de quo avrebbe dovuto essere) quella della radicale eliminazione della norma stessa (22). Con la conseguenza che deve ritenersi precluso alla Corte ogni intervento che possa incidere — con effetti sfavorevoli per il reo — sull’esercizio di un potere tipicamente discrezionale quale è senz’altro quello legislativo in materia penale. Giova forse ancora una volta sottolineare, con riguardo alla materia penalistica, che « il primato della legge non è fondato sulla stantia ripetizione della versione più banale del principio della separazione dei poteri, bensì sull’insopprimibile esigenza che in un ordinamento democratico ad ogni scelta politica si accom-

(16) PIZZORUSSO, Ibidem, p. 309. (17) Per tutti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 54 s., i quali aggiungono altresì un richiamo all’art. 120 Cost. (18) Contra, PALAZZO, il quale ritiene che siano « il rango e la natura degli interessi sostanziali coinvolti nelle opzioni di tutela penale ad escludere che tale delicatissimo compito di ponderazione e componimento possa essere affidato ad organi diversi dal Parlamento nazionale nel necessario rispetto dei principi di proporzione, sussidiarietà e frammentarietà » (PALAZZO, Legge penale, cit. p. 347). (19) Di per sé, come noto, ritenute ammissibili, in virtù del testo dell’art. 136 che si riferisce testualmente ad « una norma di legge »..., lasciando intendere la possibilità di una dichiarazione di illegittimità che cada su un solo articolo, comma, o parte di comma della legge. PIZZORUSSO, Commento all’art. 136, in Commentario della Costituzione, Bologna, 1981, p. 176. (20) PIZZORUSSO, Sui limiti, cit., p. 311. Quest’ultimo, appunto, il caso della sentenza in esame e quanto sovente si verificherebbe in materia penale, essendo le fattispecie incriminatrici formulate in termini positivi (è punito chiunque...), piuttosto che negativi (è vietato...). Per cui, in altre parole, « occorre... valutare gli effetti normativi che si determinano per stabilire la portata negativa o innovativa-positiva di una pronuncia. D’altra parte, per apprezzare il senso della distinzione, non è possibile fare completo affidamento sul modo in cui la decisione è formulata: la differenza tra decisioni negative e positiveinnovative è spesso contestabile soltanto con criteri di ordine essenzialmente politico. La caducazione di una parte della portata normativa di una disposizione voluta dal legislatore come un tutto inscindibile potrebbe a tal punto modificarne il senso politico che la decisione di incostituzionalità, per quanto costruita in termini soltanto negativi, apparirebbe una decisione sostanzialmente paralegislativa, sovrapponentesi alla inscindibile volontà legislativa » ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna, 1977, p. 156. (21) A differenza di quanto ritiene l’Autore, il quale inferisce l’ammissibilità di entrambe, sebbene nei limiti della ormai nota « normazione a rime obbligate ». (22) In questo senso, ci pare, ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 1995, p. 25.


— 830 — pagni una responsabilita » (23). Per cui, in sintesi, in un parallelismo a contrario con l’attività dei giudici ordinari, « la mancanza di legittimazione democratica dei giudici è compensata dall’efficacia limitata delle loro sentenze » (24), efficacia limitata per l’appunto estranea alle pronunce della Corte costituzionale. 4. Ed allora, concludendo, non resta che chiudere il cerchio e tornare alle affermazioni iniziali. A quanti ritengono incongruo rinvenire il fondamento del divieto di normazione da parte della Consulta in considerazioni generali intorno alla natura meramente politica della scelta legislativa (considerazioni — come detto — ispirate alla particolare qualità dell’organo parlamentare, massimamente rappresentativo e politicamente responsabile), perché attagliabili anche a diverse ipotesi di riserva di legge, in relazione alle quali, eppure, la Corte costituzionale non ha mai risparmiato il suo sindacato anche nella forma di sentenze c.d. manipolative, sembra opportuno replicare ricordando ancora i principi che reggono più da vicino la materia penalistica. In particolare, valga per tutti il richiamo al carattere frammentario del diritto penale, irrinunciabile nel nostro Stato di diritto; carattere che molti ritengono spesso posposto dalla Corte all’esigenza di sopperire all’inerzia legislativa. E non sarà mai ripetuto a sufficienza come, alla luce di esso, quelle che potrebbero apparire « lacune di tutela », lungi dall’ingenerare il paventato horror vacui, altro non costituiscono se non ineliminabili e fisiologici spazi di libertà, nell’ambito dei quali sono ritagliate le aree del penalmente rilevante, in un sistema costituzionale in cui — peraltro — la libertà non può che rappresentare la regola e la punibilità, l’eccezione (25). Ma allora, ecco che « anche se solitamente tali lacune — all’origine delle eccezioni di incostituzionalità — traggono origine non già da un puro vuoto di tutela ma da un’incongruenza (art. 3 Cost.) omissiva riscontrabile nel tessuto di una più articolata disciplina di una certa materia, ciò non toglie che — salvo casi rarissimi — l’intrinseca frammentarietà del diritto penale attribuisce alle presunte ‘‘lacune’’ carattere in ogni caso ‘‘politico’’ e non già solamente tecnico » (26). E questo discorso — lo sottolineamo una volta ancora — deve valere in ogni caso: compresa l’ipotesi — come quella in esame — in cui i beni che (non) vengono (presi) in considerazione ricevano una tutela costituzionale in forma espressa; dal momento che, come si ricordava all’inizio, la dottrina è oramai unanimemente orientata (27) nell’attribuire alla Costituzione (addirittura nelle ipotesi di esplicita previsione in termini di obbligo di penalizzazione) una funzione meramente orientativa delle scelte legislative in materia penale.

(23) SILVESTRI, op. cit., p. 1714. (24) SILVESTRI, op. cit., ibidem (il corsivo è dell’autore). (25) In tal senso, per tutti, PALAZZO, Ibidem, p. 350. Sul c.d. principio di frammentarietà del diritto penale, per tutti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 31 ss. (26) PALAZZO, Ibidem, sempre p. 350, dove richiama CONTENTO, il quale, in relazione ad altro tipico meccanismo di integrazione dell’ordinamento penale, avverte: « E, si badi bene, finanche nei sistemi in cui non sussiste il divieto di analogia [...], in realtà non si riesce ad abbandonare l’idea che il diritto penale, con la sua immancabile frammentarietà, non possa mai consentire un uso meramente logico dell’analogia (basato, cioè, sul semplice presupposto della simiglianza dei casi). II riferimento, infatti, che in quei sistemi viene fatto a concetti-guida di ordine superiore (sano sentimento del popolo, nel diritto nazista; coscienza giuridica socialista, nel diritto sovietico staliniano) serve, di fatto, a limitare inevitabilmente l’impiego del procedimento analogico ai soli casi in cui esso corrisponde a precise necessità politiche del regime ». CONTENTO, Corsi di diritto penale, Bari, 1989, p. 54 s. (27) Non altrettanto, evidentemente, la giurisprudenza. Per tutti, PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in questa Rivista, 1983, p. 484 ss. e, di recente, MARINUCCI-DOLCINI, op. cit., p. 333 ss. In dottrina, si veda anche FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in questa Rivista, 1994, p. 38 ss.


— 831 — Pertanto, se è così — e non potrebbe essere diversamente — non potrà ammettersi neanche in questi casi alcuna forma di normazione da parte della Consulta — per quanto « a rime obbligate » — che si risolva in malam partem, dovendosi lasciare al solo legislatore la scelta se intervenire o meno in una determinata materia e — in caso positivo — altresì l’individuazione delle forme e dei modi dell’eventuale intervento, nell’esercizio di un potere che qui più che altrove si atteggia come ineludibilmente, squisitamente discrezionale. OMBRETTA DI GIOVINE Borsista di Diritto penale presso la facoltà di Giurisprudenza della LUISS Guido Carli


— 832 — CORTE COSTITUZIONALE — 23 novembre 1995, n. 497 Pres. e Red. Ferri Decreto di citazione a giudizio — Cause di nullità — Omesso o insufficiente avviso all’imputato circa la possibilità di adire riti alternativi — Omessa previsione — Violazione del diritto di difesa — Illegittimità costituzionale. L’art. 555, secondo comma, del codice di procedura penale deve essere dichiarato incostituzionale, in riferimento all’art. 24, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede la nullità del decreto di citazione a giudizio per mancanza o insufficiente indicazione del requisito previsto dal comma 1, lettera e) (1). (Omissis). — RITENUTO IN FATTO. — 1. Il Pretore di Milano ha ritenuto rilevante, e non manifestamente infondata in relazione agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma e 97, primo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 555, comma 2, del codice di procedura penale, « nella parte in cui non commina la nullità per mancanza degli avvisi prescritti dalla precedente lettera e) ». 2. Nel corso di un procedimento penale, il Pretore di Milano ha riscontrato che, nel decreto di citazione a giudizio, il pubblico ministero, in violazione del disposto di cui all’art. 555 comma 1 lettera e) del codice di procedura penale, non ha indicato all’imputato la facoltà di chiedere il giudizio abbreviato ovvero l’applicazione della pena, né ha constatato che tale avvertimento sia stato fatto dal pubblico ministero in altro, separato o precedente atto; nondimeno — ha rilevato il giudice a quo — l’omissione dell’avviso in parola non è sanzionata da alcuna nullità. Osserva il remittente che in un procedimento come quello pretorile, in cui non vi è udienza preliminare, verrebbe così ad essere leso, in una delle possibili manifestazioni, il diritto di difesa di cui all’art. 24, secondo comma, della Costituzione. Inoltre, in assenza di una specifica sanzione, verrebbe reso vano l’intendimento legislativo di « deflazionare » il dibattimento incentivando l’imputato ad accedere ai riti alternativi, con gravi implicazioni organizzative e ritardi della fase dibattimentale, resa così non obbligatoria, ma quasi inevitabile: di qui, ad avviso del remittente, un secondo profilo di incostituzionalità per violazione di quei criteri di efficienza, enunciati all’art. 97 della Costituzione, cui deve essere improntata ogni attività pubblica. Infine, conclude il Pretore, è implicito che per scelta discrezionale del pubblico ministero verrebbe ad essere violata anche la parità di trattamento dei cittadini ex art. 3 della Costituzione. 3. È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità, e comunque per l’infondatezza, della questione. In primo luogo la difesa del Governo rileva che, per quanto attiene al profilo


— 833 — dell’assunta violazione dell’art. 3 della Costituzione, questa Corte ha più volte ribadito la necessità di una « esplicita » indicazione delle ragioni a sostegno della non manifesta infondatezza mentre sul punto il remittente si limita ad una laconica affermazione di principio. Sul punto dovrebbe, pertanto, concludersi per una declaratoria di inammissibilità. Destituita di fondamento dovrebbe poi ritenersi la questione della asserita violazione del diritto di difesa che, invece, appare assicurata nel momento in cui viene posta, a condizione di nullità, la norma di cui alla lettera f) che garantisce l’imputato circa una assistenza difensiva tecnica. È, appunto, grazie a quest’ultima sostiene l’Avvocatura che egli potrà essere edotto circa la possibilità di adire riti alternativi e in ordine a tutti gli altri diritti difensivi che gli spettano. In definitiva, prosegue l’Avvocatura, la scelta legislativa di sanzionare con la nullità solo la mancata indicazione dei requisiti di cui alle lettere c), d) ed f) appare del tutto ragionevole anche sotto un profilo di funzionalità del sistema. Diversamente opinando, si dovrebbe giungere ad ipotizzare, non solo per l’ipotesi di cui alla lettera e), ma anche per le altre prescrizioni dello stesso e di altri articoli, l’obbligo di una « esposizione anticipata e dettagliata » di tutte le possibilità difensive che spettano all’imputato, con il rischio di trasformare i provvedimenti come il decreto di citazione in una sorta di piccoli « breviari ». Parimenti infondato risulterebbe il richiamo all’art. 97 della Costituzione in quanto, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, detta disposizione, pur potendo riferirsi anche agli organi dell’amministrazione della giustizia, « attiene esclusivamente alle leggi concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari e al loro funzionamento sotto l’aspetto amministrativo, mentre è del tutto estranea al tema dell’esercizio della funzione giurisdizionale, nel suo complesso e in relazione ai diversi provvedimenti che costituiscono espressione di tale esercizio ». CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. Il Pretore di Milano dubita, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma e 97, primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 555, comma 2, del codice di procedura penale, « nella parte in cui non commina la nullità per mancanza degli avvisi prescritti alla precedente lettera e) ». 2. In sintesi, il giudice remittente ritiene che la disciplina risultante dalla norma impugnata, in quanto non prevede la nullità del decreto di citazione a giudizio nel caso di mancato avviso all’imputato della facoltà di richiedere riti alternativi, ovvero di presentare domanda di oblazione, contrasti: — con l’art. 3 della Costituzione: perché rimetterebbe ad una scelta discrezionale del pubblico ministero l’avviso di cui alla lettera e) del cit. art. 555; — con l’art. 97 della Costituzione: per violazione dei criteri di efficienza cui deve essere improntata ogni attività pubblica, in quanto, in mancanza dell’avviso, l’imputato non viene incentivato ad accedere ai riti alternativi, con gravi implicazioni organizzative e ritardi della fase dibattimentale; — con l’art. 24 della Costituzione: per lesione del diritto di difesa, in quanto, non essendo prevista nel procedimento pretorile la fase dell’udienza preliminare, l’imputato può venire a conoscenza della facoltà di richiedere riti alter-


— 834 — nativi solo al momento del dibattimento, quando cioè il termine per richiedere il rito abbreviato è già decorso. 3. Va preliminarmente esaminata l’eccezione di inammissibilità, per genericità e mancanza di motivazione, dedotta dalla difesa del Presidente del Consiglio relativamente al profilo di illegittimità costituzionale sollevato dal remittente in riferimento all’art. 3 della Costituzione. L’eccezione non può essere accolta. Pur se fornito di assai scarna motivazione, nondimeno dal contesto del provvedimento di rimessione emerge con sufficiente chiarezza che il giudice remittente ha inteso censurare l’asserita discrezionalità con la quale, a suo avviso, il pubblico ministero può, in difetto di alcuna sanzione, inserire o meno l’avviso previsto dalla lettera e) del citato art. 555, e, conseguentemente, ha inteso indicare una possibile violazione dell’art. 3 della Costituzione sotto il profilo di una irragionevole disparità di trattamento tra imputati ai quali il decreto di citazione a giudizio sia stato notificato in forma completa, e imputati il cui decreto di citazione contenga tale omissione. 4. Nel merito, la questione è fondata in riferimento all’art. 24 della Costituzione. Come può evincersi dalla Relazione al progetto preliminare del codice, il decreto di citazione a giudizio, il cui contenuto è disciplinato dalla norma impugnata, è strutturato come un « atto complesso » con il quale si intendono ottenere due effetti: « sollecitare l’imputato ad avvalersi di un rito abbreviato e contestualmente citarlo per il giudizio, ove tale sollecitazione non venga accolta ». Tale impostazione costituisce, come già questa Corte ha avuto modo di rilevare (v. ordinanza n. 208 del 1991), espressione del favor per i riti differenziati — alternativi al dibattimento — la cui incentivazione mira in definitiva a perseguire quegli obiettivi di massima semplificazione e di « deflazione » del dibattimento stesso, più volte sottolineati dal legislatore. Proprio a tal fine la disciplina posta dall’art. 555, nell’enunciare il contenuto del decreto di citazione a giudizio formato dal pubblico ministero, prevede esplicitamente, alla lettera e), l’avviso all’imputato della facoltà di ricorrere ai riti alternativi o di presentare domanda di oblazione. Si è quindi in presenza di una norma che, da un lato, assicura una garanzia essenziale per il godimento di un diritto della difesa, dall’altro, non prevede alcuna conseguenza (rectius: alcuna tutela) nel caso in cui tale avviso venga omesso, pur essendo del tutto evidente che la norma stessa pone comunque un obbligo, e non una mera indicazione di principio, al pubblico ministero. Un tale assetto normativo, oltre che irragionevole per l’assenza assoluta di un qualsiasi motivo apprezzabile di pubblico interesse (ove invece le esigenze di deflazione del dibattimento e comunque di celerità del processo spingerebbero in senso contrario), è in realtà suscettibile di diminuire le potenzialità difensive dell’imputato, al quale, pur essendo attribuito, nel giudizio pretorile, uno spatium deliberandi di 15 gg. per l’eventuale scelta di riti alternativi, può accadere, in mancanza di una tempestiva conoscenza, di trovarsi decaduto dalla facoltà di richiedere quantomeno il giudizio abbreviato. Sulla base del medesimo rilievo, inoltre, può escludersi che la garanzia della


— 835 — difesa tecnica, sancita alla lettera f) della norma, sia previsione di per sé sufficiente a scongiurare tale evenienza; è del tutto evidente che, nell’ambito dei 45 giorni indicati dall’ultimo comma del citato art. 555 quale minimo intervallo temporale prima della celebrazione del giudizio, ben può accadere che l’imputato prenda contatto con il suo difensore oltre il 15o giorno dalla notifica del decreto di citazione, e cioè tempestivamente per l’esercizio dei suoi diritti di difesa in dibattimento ma irrimediabilmente tardi ai fini della previsione in esame. Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 555, comma 2, del codice di procedura penale, in riferimento all’art. 24, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede la nullità del decreto di citazione a giudizio per mancanza o insufficiente indicazione del requisito previsto dal comma 1, lettera e). I profili di illegittimità costituzionale sollevati in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione restano assorbiti. P.Q.M. — La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 555, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la nullità del decreto di citazione a giudizio per mancanza o insufficiente indicazione del requisito previsto dal comma 1, lettera e).

——————— (1)

Omesso avvertimento ex art. 555 comma 2o c.p.p. e suoi riverberi sulle potenzialità difensive dell’imputato.

1. La Corte costituzionale nella sentenza n. 497 del 1995 dichiarando la illegittimità costituzionale dell’art. 555 comma 2o c.p.p. (con riferimento al parametro di cui all’art. 24 comma 2o Cost.) nella parte in cui non prevede la nullità del decreto di citazione a giudizio per mancanza o insufficiente indicazione del requisito previsto dal comma 1o, lett. e), afferma che si è in presenza di « una norma che se per un verso assicura una garanzia essenziale per il godimento di un diritto della difesa, dall’altro, non prevede alcuna garanzia (rectius: alcuna tutela) nel caso in cui tale avviso venga omesso, pur essendo del tutto evidente che la norma stessa pone comunque un obbligo, e non una mera indicazione di principio al pubblico ministero ». E si aggiunge che un tale « assetto normativo, oltre che irragionevole per l’assenza assoluta di un qualsiasi motivo apprezzabile di pubblico interesse (ove invece le esigenze di deflazione del dibattimento e comunque di celerità del processo spingerebbero in senso contrario), è in realtà suscettibile di diminuire le potenzialità difensive dell’imputato ». Pure apprezzando con entusiasmo la particolare sensibilità della Corte in tema di tutela della « scientia iuris dell’imputato » finalizzata all’esercizio del diritto di difesa nella forma dell’intervento attivo e consapevole al dibattimento ovvero all’opzione per un rito alternativo al dibattimento medesimo — facendo leva su uno strumento processuale vale a dire l’avvertimento, (continueremo a chiamarlo così e non avviso — in quanto si tratta di avvertimento e non di avviso — come invece si ritiene sia in numerosissime norme del codice, sia in altrettanto numerose decisioni della Corte medesima) che notoriamente assolve ad una precisa funzione di garanzia, rappresentando l’esistenza di situazioni giuridiche che un


— 836 — soggetto normalmente sfornito di cognizioni tecnico-giuridiche altrimenti non sarebbe in grado di conoscere e di esercitare: esigenza difficilmente contestabile sul piano del « rispetto delle regole minime, dell’effettività del contraddittorio e dell’esercizio del diritto di difesa » (1) — non si può non considerare, per un verso, che la mancanza di tutela denunciata dalla Corte a proposito dell’art. 555 comma 2o c.p.p. non è l’unica riscontrabile nel codice vigente (si pensi ad es. all’art. 64 comma 3o c.p.p.; all’art. 245 comma 1o c.p.p.; all’art. 350 comma 2o c.p.p.; all’art. 351 comma 1o bis c.p.p. nonché allo stesso art. 555 comma 1o lett. g) c.p.p.) e per altro verso che alla succitata mancanza di tutela si possono ricollegare ipotesi di invalidità anche quando il legislatore, pure valutando il « vizio di un atto », non lo indica come nullo (s’intende nelle tre specie in cui la nullità di volta in volta può configurarsi). 2. Ebbene approfondendo le censure della Corte costituzionale relativamente al primo dei due problemi or ora evidenziati (mancanza di un’adeguata tutela per non aver inserito la lettera e) dell’art. 555 c.p.p. tra quelle richiamate dal comma 2o dello stesso articolo ove, invece, è sancita la nullità del decreto di citazione a giudizio « se l’imputato non è identificato in modo certo ovvero se manca o è insufficiente l’indicazione di uno dei requisiti previsti dal comma 1o lett. c), d), f) »), c’è da aggiungere che il decreto di citazione a giudizio ex art. 555 c.p.p., in generale, assolve alle fondamentali esigenze del contraddittorio, consentendo l’intervento consapevole delle parti e dei rispettivi difensori al dibattimento, nonché della difesa facilitandone l’esercizio effettivo; in particolare, poi, di sollecitare l’imputato ad avvalersi di un rito abbreviato in omaggio al favor per i riti differenziati la cui « incentivazione » — afferma la Corte — « mira in definitiva a perseguire quegli obiettivi di massima semplificazione e di ‘‘deflazione’’ del dibattimento, più volte sottolineati dal legislatore ».

(1) Legislatore e giudice hanno idee confuse in ordine al significato prima semantico, poi normativo dei termini avviso e avvertimento. La voce avviso, nella sua climax lessicale, si struttura come « informazione, comunicazione destinata al pubblico », sostenuta da « un modo soggettivo di considerare o di vedere », funzionale al « mettere in guardia, all’allertare » i soggetti destinatari di quanto ivi contenuto. La matrice linguistica evidenzia, in tal senso, una sorta di sottile, martellante « invadenza » nella sfera volitivo-determinativa dell’avvisato. Per contro, se all’apparenza, l’avvertimento attiene ad un meccanismo di consapevole « monito », di fatto, con esso si sottopone « all’attenzione, alla riflessione, al giudizio » dell’avvertito una determinata situazione senza incidere sulla sua libertà di decisione e « senza intaccare la sua sfera di determinazione » (cfr., volendo, il nostro, Gli avvertimenti processuali come strumento di tutela, Milano, 1983, p. 1). La scelta locutiva di un lessema presuppone non soltanto la previsione locutiva dell’interpretazione del termine considerato, ma soprattutto la previsione perlocutiva degli effetti che questa interpretazione produrrà. L’indicazione di psicolinguistica — illustrativa del progetto perlocutivo del linguaggio (per determinare qual è il senso locutivo di un enunciato, si devono valutare in primo luogo gli effetti perlocutivi che esso può avere) — fornita da J.L. AUSTIN, How to do things with words, Harvard University Press, 1962, nel caso di specie, implica il ricorso al termine avvertimento (e non avviso), quale indicativo dell’elemento costitutivo del decreto di citazione a giudizio, di cui all’art. 555, comma 1o lett. e). Nei riti in pretura, « dove non esiste udienza preliminare », il « quasi imputato », vocatus in iudicium « dall’attore pubblico », viene avvertito (e non avvisato), qualora ne ricorrano i requisiti, della possibilità di chiedere il giudizio abbreviato o l’applicazione della pena o di presentare domanda di oblazione, entro quindici giorni dalla notificazione. Il tutto nella più libera ed autonoma facoltà di autodeterminazione (CORDERO, Procedura penale, 3a ed., Milano, 1995, p. 931, identifica come avvertimento « l’avviso » ex art. 555 comma 1o, lett. e)). Altra parte autorevole della dottrina ripropone le indicazioni legislativo-giurisprudenziali: NEPPI MOa DONA, Procedimento davanti al pretore, in CONSO-GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, 3 ed., Padova, 1993, p. 540; DALIA-FERRAIOLI, Corso di diritto processuale penale, Padova, 1992, p. 478; D’ANDRIA, sub art. 555, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da Chiavario, Torino, vol. V, 1991, p. 650; LOZZI, Lezioni di procedura penale, 2a ed., Torino, 1995, p. 416; TRANCHINA, Il procedimento avanti al pretore, in SIRACUSANO-GALATI-TRANCHINA-ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, Milano, vol. II, 1995, p. 407.


— 837 — Ciò premesso occorre chiedersi se l’avvertimento di cui all’art. 555 comma 1o lett. e) c.p.p. assolva all’esigenza del contraddittorio ovvero a quella del diritto di difesa al fine di individuare la specie di invalidità — violazione del contraddittorio oppure del diritto di difesa — ricollegabile all’omissione dell’avvertimento de quo atteso che avverso l’omissione in parola non è stata predisposta nessuna cautela dall’art. 555 comma 2o c.p.p. (2). Diciamo subito, allora, che contraddittorio e diritto di difesa non si identificano anzi, a ben guardare, è il primo che « può servire alla difesa e non viceversa » (3). Se contraddittorio vuole dire contrapposizione dialettica delle parti, non v’è dubbio che tale contrapposizione permanga anche quando l’imputato non partecipi al dibattimento. D’altra parte, il contraddittorio medesimo non comporta per l’imputato un obbligo ad essere presente e a contraddire o a difendere, ma soltanto che esso debba « essere posto nella condizione di farlo ogniqualvòlta lo ritenga opportuno » (4). A conferma dell’assunto, basti considerare che l’art. 178 comma 1o c.p.p. non sancisce per l’imputato l’obbligo di intervenire in ogni fase del processo, ma si limita a sancire la nullità per l’inosservanza delle disposizioni concernenti « l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza » dell’imputato medesimo (lett. c)). Ne deriva che, implicitamente rinunzia alla garanzia del contraddittorio l’imputato contumace: in forza, cioè, di una sua volontaria scelta sul piano della comparizione al

(2) La produzione giurisprudenziale in ordine alla mancata predisposizione di sanzione in ipotesi di omesso avvertimento, ex art. 555 comma 2o c.p.p., è del tutto inesistente. Anzi si afferma che « nel procedimento davanti al pretore, il decreto è nullo se manca uno dei requisiti previsti dal primo comma dell’art. 555 alle lettere c), d) ed f), e non anche se manca l’avviso (previsto dalla lettera e)) che qualora ne ricorrano i presupposti l’imputato possa chiedere il giudizio abbreviato ovvero l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 » (Cass., sez. IV, 22 novembre 1993, in GUARINIELLO, Il processo penale nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, Torino, 1994, p.449-450). Si sostiene, inoltre, che la previsione del suddetto « avviso » tra gli elementi necessari del decreto di citazione a giudizio davanti al pretore, « non è una previsione normativa che imponga un termine perentorio all’imputato, e che sia prescritta a pena di nullità (comma 2o), tanto che l’art. 563, comma 4o, prevede che se la richiesta è formulata dopo la scadenza del termine, indicato nel citato art. 555 è competente a decidere il giudice del dibattimento, il che non sarebbe possibile se il termine predetto avesse il carattere della perentorietà, e non un carattere meramente ordinativo, a fini di semplificazione processuale » (Cass., sez. V, 21 dicembre 1993, in GUARINIELLO, Il processo penale, cit., p. 449). (3) « Certo difesa e contraddittorio non sono termini equipollenti: sia perché il secondo concerne anche il polo dell’accusa, sia perché non sempre nel corso del processo la difesa può esprimersi nel contraddittorio visto dal polo difensivo, il contraddittorio si stempera in una serie di garanzie di diritti il cui numero e contenuto non è definibile a priori segnando all’interno del medesimo modello (quello triadico, senza il quale è inattuabile il contraddittorio), l’individualità della singola disciplina legale o codicistica » (specificatamente sul tema, FERRUA, Difesa (diritto di), in Dig. disc. pen., Torino, 1988, vol. III, p. 469, che rimanda all’‘elenco’ delle « pretese strumentali » garantite all’imputato dall’art. 24 comma 2o Cost., elenco non completo e non definitivo, di cui ampiamente tratta SCAPARONE, Evoluzione ed involuzione del diritto di difesa, Milano, 1980, p. 21). (4) « Esistono, pertanto, due dimensioni della partecipazione del soggetto al procedimento penale: il contraddittorio nel processo — nel quale è assicurata la par condicio tra pubblico ministero e imputato, di fronte al giudice — e diritto di difesa, eventuale, nel procedimento per le indagini preliminari, riconosciuto all’interessato, se chiamato a collaborare, in sede ricostruttiva, con il pubblico ministero » (così DALIA-FERRAIOLI, Corso di diritto processuale penale, cit., p. 120, dove si argomenta la distinzione fra diritto al contraddittorio e diritto alla difesa esclusivamente « su un fattore di ordine temporale », per cui se « nell’ambito del procedimento penale si assumono atti con la forma e le garanzie della giurisdizione, il soggetto viene equiparato all’imputato ed il contraddittorio deve essere necessariamente instaurato », mentre per le attività « che trascendono i fini della fase procedimentale perché compiute ‘in vista’ del processo, al soggetto va riconosciuto solo il diritto alla difesa »; nonché CONSO, Considerazioni in tema di contraddittorio nel processo penale italiano, in questa Rivista, 1966, p. 417; ID., Riformare la difesa d’ufficio, in Arch. pen., 1969, I, p. 256. Contra, FERRUA, Studi sul processo penale, Torino, 1990, p. 24 s., per cui il contraddittorio, distinto e contraddistinto dal diritto di difesa, si articola in varie « costanti, fondamentali garanzie »: conoscenza dell’accusa, riconoscimento del potere di ricercare le fonti di prova alle sole parti, partecipazione delle parti al procedimento probatorio su basi di parità).


— 838 — dibattimento, l’imputato non oppone un rifiuto di collaborare con il giudice, proprio perché a tale collaborazione non è tenuto tanto che « non rileva che egli lo voglia o meno quando, presentandosi, la attua materialmente » (5). In altri termini, per fare salvo il principio del contraddittorio non occorre la materiale presenza dell’imputato; conta, invece, che l’imputato citato a giudizio, venga messo al corrente della propria posizione processuale attraverso l’avvertimento di rito e sia posto in grado di decidere consapevolmente se sia o no il caso di ricorrere ai riti alternativi o di presentare domanda di oblazione ovvero di partecipare al dibattimento (art. 555 comma 1o lett. e) c.p.p.). Così ragionando, ne deriva, innanzi tutto, che l’imputato è sempre in grado di intervenire al dibattimento — s’intende sino a che non sia concluso e nello ‘stato’ cui è giunto — facendo salva quella contrapposizione dialettica tipica del contraddittorio e, in secondo luogo, che quell’autonomia del contraddittorio medesimo, rispetto al diritto di difesa, da concettuale diventa giuridica. L’intervento dell’imputato, infatti, non coincide con l’esercizio del suo diritto di difesa e tanto meno è predisposto per assolvere a questo tant’è che anche quando l’imputato medesimo — come nel caso estremo della contumacia — non compaia, il suo diritto di difesa resta ugualmente impregiudicato sia sotto il profilo della difesa materiale (nella particolare forma di esercizio che è il « non esercizio ») (6), sia soprattutto, sotto il profilo della difesa tecnica (il difensore ha l’obbligo di svolgere quella difesa cui l’imputato ha diritto) (7). L’art. 24 comma 2o Cost. conferendo in ogni stato e grado il diritto di potersi difendere davanti all’autorità giudiziaria (8) non pone tuttavia a carico dell’imputato l’obbligo di difendersi. Un tale obbligo, del resto, sarebbe incontrollabile in quanto non si può certo costringere l’imputato a difendersi in ogni caso (9); si tratterebbe invero, qualora si volesse a tutti i costi ipotizzare l’obbligo, non di un obbligo di difendersi ‘effettivamente’ e ‘validamente’ bensì di un obbligo così va-

(5) « La partecipazione dell’imputato al giudizio è affidata ad una sua scelta difensiva. Ma perché questa libertà di scelta sia effettiva, è necessario che l’imputato sia stato idoneamente informato della celebrazione del processo » (così NAPPI, Contumacia nel diritto processuale penale, in Dig. disc. pen., Torino, 1989, vol. III, p. 146; nonché PANSINI, La contumacia nel diritto processuale penale, Napoli, 1963, p. 32). (6) Così PANSINI, La contumacia, cit., p. 49-50. Sulla correlazione tra diritto di difesa e tutela della non collaborazione dell’imputato nella duplice fattispecie di diritto al silenzio e di diritto a non presenziare al dibattimento, cfr. GREVI, « Nemo tenetur se detegere ». Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano, 1972, passim; KOSTORIS, sub art. 64, in Commento al nuovo codice, cit., vol. I, 1989, p. 329 s.; NAPPI, Contumacia nel diritto processuale penale, cit., p. 145 s. (7) Per controbattere « sui temi dell’accusa e per denunciare eventuali vizi nello svolgimento del processo occorrono nozioni tecnico-giuridiche delle quali non si può supporre che l’imputato sia in possesso; per di più egli non disporrebbe della freddezza e lucidità necessarie per elaborare la linea difensiva più vantaggiosa » (così FERRUA, Studi sul processo penale, cit., p. 30, a sottolineare le variegate sfumature dell’accezione difensiva. Sul punto della difesa tecnica, si veda, anche, in generale, D’AMBROSIO, Difensore e garanzie difensive nelle indagini preliminari, in Giust. pen., 1990, III, p. 405; FRIGO, La posizione del difensore nel nuovo processo penale, ivi, 1988, I, p. 556; ID., Difensore, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di Amodio-Dominioni, Milano, vol. I, 1989, p. 606 s.; in particolare, con riferimento al procedimento pretorile, RANDAZZO, Gli intralci all’attività del difensore nel procedimento pretorile, in Arch. n. proc. pen., 1991, p. 673 s., ove emergono, con forte carica polemica, le gravi disfunzioni formali e sostanziali della difesa, celate da quella « brama di snellire e accelerare », di cui all’erronea interpretazione della direttiva 103 della legge delega). (8) In tema di diritto di difesa, inteso come diritto soggettivo inviolabile, come garanzia oggettiva, analizzato nell’astratta indeterminata, ambigua formula costituzionale, cfr. per tutti FERRUA, La difesa nel processo penale, Torino, 1988, passim. (9) Tra i paradossi (logici) del diritto di difesa, si consideri « un senso nobile che implica libertà di scelte e un senso degenerato che reca in sé l’idea della costrizione ». Ciò può comportare la rinuncia all’assistenza tecnica e l’espansione dell’autodifesa, per consapevole e spontanea determinazione dell’imputato, informato delle conseguenze a cui si espone; questo è detto per confutare le giustificazioni alla « trasformazione del diritto all’assistenza in un obbligo destinato ad imporsi indiscriminatamente, anche contro la volontà dell’imputato stesso » (sono considerazioni di FERRUA, Studi sul processo penale, cit., p. 35).


— 839 — gamente delineato da non giustificare più l’utilità del ricorso a siffatta figura giuridica (10). Se si considera, poi, che non sempre per la difesa è necessaria l’opera del difensore e soprattutto non si confonde l’istituto della difesa con quello del difensore dell’imputato (11), appare evidente che, all’art. 24 Cost. succitato, si sia fatto riferimento alla difesa come diritto dell’individuo « in proprio », come diritto cioè, di essere presente con le proprie eccezioni ogniqualvòlta lo si accusi o si agisca contro di lui in un determinato procedimento salvo ad esercitare anche il diritto di avere un difensore (12). 3. Muovendo da tale prospettiva e considerando il secondo problema (quello, cioè, relativo alla mancanza di tutela e alla ricollegabilità ad essa di ipotesi di invalidità nonostante il silenzio del legislatore), appare subito evidente che nella complessa fattispecie della citazione a giudizio risultante dalle diverse componenti — tra l’altro la formulazione dell’imputazione; l’indicazione del pretore competente per il giudizio; nonché l’indicazione del luogo e del giorno, e dell’ora della comparizione; l’avvertimento che entro quindici giorni dalla notificazione del decreto l’imputato potrà chiedere, qualora ne ricorrano i presupposti (da individuarsi nel caso concreto ex art. 159 comma 1o disp. att.), il giudizio abbreviato, ovvero l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 c.p.p., ovvero presentare domanda di oblazione — l’avvertimento di cui all’art. 555 comma 1o lett. e) c.p.p. si configura come uno dei requisiti del decreto di citazione funzionali all’adesione dell’imputato ai suddetti riti alternativi ovvero al dibattimento (13). Ne deriva, allora, innanzi tutto, che l’omissione dell’avvertimento de quo può essere compresa nell’area di « vigenza della nullità assoluta » (14) e, inoltre, consi-

(10) Molto spesso « la presenza del difensore è soprattutto un alibi che maschera l’assenza del contraddittorio » e l’imputato è imbrigliato « nei lacci del paternalismo giudiziario », prima di potersi « direttamente contrapporre all’accusatore nella sua piena qualità di parte processuale » (FERRUA, Studi sul processo penale, cit., p. 35). (11) « È evidente che dal punto di vista dell’autodifesa (ossia del difendersi) nulla può imporsi all’imputato. Per quanto concerne il profilo della difesa tecnica (ossia dell’essere difeso) diverse soluzioni sono astrattamente ipotizzabili: assecondare la volontà dell’imputato, escludendo il difensore, oppure imporre la presenza del difensore d’ufficio, con una pluralità di soluzioni intermedie » (sempre FERRUA, Studi sul processo penale, cit., p. 34). Senza per questo realizzare uno snaturamento del diritto di difesa, nel momento in cui si ammetta una disciplina articolata « in modo conflittuale rispetto agli interessi della parte privata »: così COPPI, Difesa d’ufficio e autodifesa, in Temi romana, 1985, fasc. 11, p. 22. Inoltre, sul tema nel nostro sistema processuale, cfr. AA.VV., Il problema dell’autodifesa nel processo penale, a cura di Grevi, Bologna, 1977, passim; CHIAVARIO, Autodifesa: questione aperta, Pisa, 1979, passim. (12) Ciò è « espressione di una scelta potestativa dell’imputato »: così MARABOTTO, Nullità nel processo penale, in Dig. disc. pen., Torino, 1994, vol. VIII, p. 269. Inoltre nell’adversary system « più intense si presentano da un lato l’esigenza di superare la logica di un diritto alla difesa ‘burocraticamente’ inteso come mera necessità di attenersi alle norme che prevedono la presenza del difensore nelle varie fasi del procedimento, dall’altro l’esigenza di accentuare e valorizzare al massimo i profili più propri della difesa ‘tecnica’ nell’accezione elaborata dalla dottrina processual-penalistica e dalla costante giurisprudenza costituzionale » (MOSER, Accesso ai riti alternativi nel procedimento pretorile: compressione del diritto di difesa?, in Critica del diritto, 1991, fasc. 1/2, p. 51 s. Sul punto, cfr., altresì, Corte cost. sent. n. 149, 1983, in Giur. cost., 1983, I, p. 860; Id., sent. n. 188, 1980, in Foro it., 1981, I, p. 318; Id., sent. n. 125, 1979, in Giur. cost., 1979, I, p. 852). (13) Sui requisiti funzionali del decreto di citazione a giudizio si veda per la precisione terminologica, CORDERO, Codice di procedura penale commentato, Torino, 1990, p. 623 s. Più diffusamente sul procedimento pretorile nella sua articolazione fisiologica e patologica, BERETTA, Il dibattimento penale in pretura: un tentativo di razionalizzazione, in Ind. pen., 1994, p. 336 s.; DEVOTO, Per un nuovo processo penale in pretura, in Cass. pen., 1995, p. 2353; DI RUZZA, Il nuovo processo penale in pretura, Padova, 1990, passim; GALASSO, Il Pretore nel nuovo codice di procedura penale, Milano, 1991, passim; SELVAGGI, Giudizio pretorile, in Quaderni del C.S.M., 1989, vol. II, p. 457 s.; ID., Il procedimento davanti al pretore: un’ipotesi di nuova riforma, in Cass. pen., 1991, p. 1526. (14) Così DOMINIONI, Il nuovo sistema delle nullità, in AMODIO-DOMINIONI-GALLI, Nuove norme sul processo penale e sull’ordine pubblico. Le leggi dell’8 agosto 1977, Milano, 1978, p. 72 s., ove si ri-


— 840 — derato il reale significato dell’art. 555 c.p.p. in questione rivolto com’è ad assicurare all’imputato la conoscenza dei diritti che gli competono in relazione ad un tipico atto che lo vede « protagonista della propria autodifesa » (15), e in linea del resto, con la funzione garantista con cui gli avvertimenti sono preordinati nel quadro del sistema (16), risulta agevole il collegamento della statuizione di cui all’art. 555 comma 1o lett. e) c.p.p. alla partecipazione attiva dell’imputato con le sue opzioni dirette ad avvalersi di un rito abbreviato, di presentare domanda di oblazione, ovvero di andare al dibattimento. Se così è, si realizza automaticamente il riferimento della disposizione in esame all’ambito di operatività dell’art. 179 comma 1o c.p.p. ove, con riferimento all’imputato sono evidenziate due ‘species’ (omessa citazione e assenza del suo difensore) del ‘genus’ intervento, assistenza e rappresentanza ex art. 178 comma 1o lett. c) c.p.p. (17). Più specificamente, se è vero che il decreto di citazione a giudizio è organizzato dalla disciplina degli artt. 555 e seguenti c.p.p. in modo che assolva alle finalità succitate, è altrettanto vero che le finalità in questione non contrastano con la locuzione di cui all’art. 179 comma 1o c.p.p. interessata soltanto al « fenomeno della vocatio in iudicium » (18). A questo punto pure in perfetta sintonia con la decisione della Corte che pone in risalto come non si possa non considerare che una disposizione senza adeguata sanzione è una disposizione imperfetta, « talmente imperfetta da snaturarsi al rango di non disposizione, o perlomeno, di disposizione non processuale » (19), tuttavia non si può fare a meno di evidenziare che la Corte con una ricostruzione sistematica delle norme in questione avrebbe ben potuto raggiungere un risultato meno drastico e più utile da un punto di vista di politica processuale. A questa conclusione, del resto, si perviene considerando la sanzione un « quid che si aggiunge come reazione ad un comportamento valutato sfavorevolmente, anzi vietato dall’ordinamento », o, più precisamente l’« effetto tipico » ri-

leva che « tra le cause di nullità del decreto di citazione a giudizio, alcune attengono ai requisiti che sono funzionali non già alla vocatio in iudicium ma alle determinazioni delle condizioni necessarie perché la difesa possa esercitarsi in modo proficuo ». Per un recente aggiornamento in tema di nullità, si veda MARABOTTO, Nullità nel processo penale, cit., p. 268 s. Per un’incalzante fenomenologia della invalidità, CORDERO, Procedura penale, cit., p. 1029 ss. (15) L’espressione è di GREVI, « Nemo tenetur », cit., p. 116, nota 142. È solo con la conoscenza garantita dei diritti processuali che si espande « proporzionalmente il raggio operativo dell’autodifesa » (così FERRUA, Studi sul processo penale, cit., p. 34). (16) GREVI, « Nemo tenetur », cit., p. 320. Funzione destinata « a realizzare proprio quel collegamento, indispensabile in uno stato di diritto, tra la previsione astratta di certi diritti o di certi doveri e l’esercizio in concreto attraverso la conoscenza dei medesimi da parte dei soggetti titolari delle rispettive situazioni soggettive » (così GAROFOLI, Gli avvertimenti processuali, cit., p. 3). (17) Sulla interpretazione dell’art. 178 lett. c) c.p.p., con relativo « meccanismo di parziale estrapolazione », riferito all’art. 179 c.p.p., si legga TAORMINA, Diritto processuale penale, vol. II, Torino, 1995, p. 433, che considera come « l’omissione della citazione non concerne ovviamente solo il caso di scuola della materiale mancanza, bensì tutti i vizi dell’atto e della sua notificazione, con riferimento, peraltro, alla sola vocatio in iudicium ». Nello stesso senso NEPPI MODONA, Procedimento davanti al pretore, cit., p. 179, ove si afferma che « naturalmente la protezione della vocatio in iudicium investe tutti gli atti che compongono tale fattispecie complessa recettizia, ivi compresa la notificazione ». (18) Così DOMINIONI, Il nuovo sistema, cit., p. 73, nota 49. In giurisprudenza, cfr. Cass. sez. V, 13 gennaio 1994; Id., sez. 14 ottobre 1993; Id., sez. III, 9 gennaio 1992, in GUARINIELLO, Il processo penale nella giurisprudenza, cit., p. 446 s. (19) Così CONSO, Rimeditare le nullità, in Giust. pen., 1976, fasc. speciale in memoria di Giuseppe Sabatini, c. 153. Sul punto, cfr., di contrario avviso, CREMONESI, Le sanatorie generali degli atti processuali penali nulli, in Giust. pen., 1994, III, p. 84 s., che ricostruisce in funzione prospettica e con ricchi riferimenti bibliografici, matrice, struttura e funzione dell’istituto; ID., La sanatoria delle nullità del decreto di citazione a giudizio per effetto della comparizione dell’imputato, in Giust. pen., 1994, III, p. 633 s. Senza mai tralasciare, sul punto, le considerazioni di CORDERO, Sanatorie e vizi innocui, in Ideologie del processo penale, Milano, 1966, p. 31 s.


— 841 — collegato « all’integrazione degli schemi di illecito » — senza dire che azzardare un avvicinamento tra l’inosservanza dell’obbligo e il non assolvimento dell’onere sul piano effettuale, « ravvisando nell’invalidità e in ciascuna delle sue forme una sanzione, costituisce non soltanto uno svisamento del concetto di sanzione, ma soprattutto una confusione tra due piani del tutto diversi » (20) — con la conseguenza che è possibile rintracciare ipotesi di invalidità anche nei casi in cui il legislatore, pure valutando il « vizio di un atto » non lo indica come nullo, né annullabile. E questa, del resto, è la conseguenza più rilevante collegata al peso « di per sé non decisivo delle qualifiche usate dal legislatore » anche se queste ultime non possono essere disattese dall’interprete qualora non « esprimano una sua opinione dottrinale, ma si presentino indicative di un tipo di disciplina » (21). Ma v’è di più: individuata una corrispondenza di trattamento tra l’atto in questione e altri atti « qualificati come nulli » anche quell’atto è riconducibile nella stessa categoria (22). Né varrebbe obiettare, all’adeguamento in parola, il principio di tassatività delle nullità (art. 177 c.p.p.) che correttamente interpretato, mira non certo a restringere l’ambito delle nullità, semmai ad estenderlo a tutte le ipotesi in cui il legislatore processuale penale sottopone un vizio al « trattamento » tipico della nullità (23). Così inteso il principio di tassatività delle nullità, ne deriva che quelle norme, come l’art. 606 comma 1o lett. c) c.p.p., che riguardano disposizioni previste a pena di nullità, di inammissibilità, decadenza, ricomprendono nell’ambito della propria previsione anche le disposizioni la cui inosservanza, « pur non ricevendo una esplicita qualifica in termini di nullità, inammissibilità, decadenza », appaia, poi, inequivocabilmente « trattata » alla stessa maniera dei casi espressamente indicati come nullità, inammissibilità o decadenza (24). VINCENZO GAROFOLI Straordinario di Procedura penale nell’Università di Bari

(20) Così CONSO, Il concetto e le specie di invalidità, Milano, 1955, p. 63-64, ove si sostiene: « l’atto illecito realizza una fattispecie, l’atto invalido non realizza alcuna fattispecie, anzi è invalido proprio per questa ragione ». (21) CONSO, Il concetto e le specie, cit., p. 86. (22) « Se il trattamento a cui l’atto viene sottoposto corrisponde, ad esempio, al trattamento previsto per gli altri atti qualificati come nulli, non vi è ragione alcuna per non ricondurre nella stessa categoria pure quell’atto » (CONSO, Il concetto e le specie, cit., p. 84). (23) CONSO, Il concetto e le specie, cit., p. 84. (24) CONSO, Il concetto e le specie, cit., p. 85, nota 50, ove compiutamente (e razionalmente) si specificano decadenza, nullità, inammissibilità; anche se CORDERO, Procedura penale, cit., p. 991, nel disegnare i vitia in procedendo, di cui alla formulazione dell’art. 606 comma 1o lett. c), ironizza su come « i nomi accresc(a)no ancora salendo rumorosamente a quattro: ‘‘ nullità, inutilizzabilità, inammissibilità, decadenza’’, ma le idee rest(i)no due ».


— 842 — CORTE COSTITUZIONALE — 22 febbraio 1996, n. 60 Pres. e Red. Ferri Costituzione di parte civile — Inammissibilità nel procedimento penale militare — Illegittimità costituzionale. L’esclusione della parte civile dal processo penale militare impedisce, senza alcun ragionevole motivo, l’esercizio del diritto di agire in giudizio, non solo in quanto divieto di partecipare attivamente all’accertamento dei fatti in sede penale, ma anche come impossibilità di iniziare immediatamente l’azione per le restituzioni ed il risarcimento del danno. È pertanto costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione, l’art. 270 del codice penale militare di pace. La dichiarazione di illegittimità di tale norma comporta, in virtù del rinvio esplicitamente operato dall’art. 261 c.p.m.p. alle disposizioni del c.p.p., l’automatica applicazione nel processo penale militare delle corrispondenti norme di diritto comune sulla partecipazione della parte civile, e sui suoi diritti, nel giudizio penale, nonché sui rapporti tra azione civile e azione penale (1). (Omissis). — RITENUTO IN FATTO. — 1. Con ordinanza emessa il 7 dicembre 1995 nel procedimento penale a carico di Erich Priebke, imputato del reato di concorso in violenza con omicidio continuato in danno di cittadini italiani (artt. 13 e 185, primo e secondo comma, del codice penale militare di guerra, in relazione agli artt. 81, 110, 575, 577, nn. 3 e 4, e 61, n. 4, del codice penale), il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 270, primo comma, del codice penale militare di pace, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione. 2. Premette il remittente che in sede di udienza preliminare sono state presentate dalle persone alle quali il reato ha recato danno (ovvero dai loro successori universali) dichiarazioni di costituzione di parte civile, ai sensi degli artt. 74 e ss. del codice di procedura penale. Posto che sulla base del primo comma dell’art. 270 del codice penale militare di pace « l’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno non può essere proposta davanti ai tribunali militari », il giudice a quo osserva che dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale molto si è discusso sulla perdurante vigenza di questa disposizione, negata da numerosi organi giudiziari militari. Detto contrasto giurisprudenziale è stato risolto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, le quali, confermandone la vigenza, hanno ribadito l’inammissibilità della costituzione di parte civile nel procedimento penale militare; da qui la rilevanza della questione, dato che, proprio in applicazione della norma impugnata, dovrebbe esser dichiarata l’inammissibilità dei detti atti di costituzione. 3. Sottolinea il giudice militare che, successivamente alla sentenza n. 78 del 1989, con la quale questa Corte ha dichiarato non fondata la medesima questione, il contesto normativo è mutato con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, uno dei cui obiettivi è costituito proprio dalla tutela della posizione della persona offesa dal reato.


— 843 — Osserva al riguardo il remittente che la contemporanea vigenza, per il processo penale militare, delle norme riguardanti i diritti di iniziativa e di intervento della persona offesa (o dei prossimi congiunti di essa) e della norma preclusiva impugnata conduce alla situazione paradossale che, mentre alla persona offesa sono riconosciuti specifici poteri nella fase delle indagini preliminari, la stessa, nelle fasi successive, può esercitare esclusivamente, o quasi, i diritti previsti in generale dall’art. 90 del codice di procedura penale. Si rileva, inoltre, che nel processo penale militare non appare precluso l’intervento degli enti, o delle associazioni, rappresentativi di interessi lesi dal reato. Ciò in quanto la disposizione di cui al citato art. 270 non può, ad avviso del remittente, ritenersi suscettibile di una interpretazione analogica tale da implicare, oltre al divieto di costituzione di parte civile, anche il divieto di intervento di detti enti e associazioni. Ne consegue che, mentre nel processo penale comune si è voluto differenziare la posizione degli enti e delle associazioni, riconoscendo ad essi poteri meno incisivi di quelli attribuiti alla parte civile, nel processo penale militare, al contrario, data l’impossibilità per la persona offesa dal reato di costituirsi parte civile, l’ente o l’associazione usufruirebbero di strumenti di intervento addirittura più ampi di quelli della stessa persona offesa (cfr. artt. 505 e 511, sesto comma, del codice di procedura penale). La compressione dei diritti di azione e di difesa della persona danneggiata dal reato nel processo penale militare ed il suo deteriore trattamento appaiono, pertanto, irragionevoli, anche perchè non fondati sulla esigenza di tutela di interessi meritevoli di preminente considerazione. Inoltre, prosegue il giudice a quo, dopo la riforma della giustizia militare, avvenuta a partire dal 1981, risulterebbe chiaramente inattuale uno dei principali motivi che avevano portato il legislatore, nel 1941, a stabilire la regola di cui all’art. 270: vale a dire che i tribunali militari si configurano prevalentemente come giudici del fatto, non idonei, in quanto tali, a valutare questioni di carattere patrimoniale. La situazione normativa è oggi ben diversa essendo state eliminate alcune delle principali diversità del diritto penale sostanziale militare, ed ancor più significative sono le modifiche intervenute nel processo penale militare; processo in cui trovano oggi applicazione le norme del codice di procedura penale ispirate a principi fondamentali del nuovo modello processuale, quali, ad esempio, quelle in tema di misure cautelari. A ciò può aggiungersi, ad avviso del remittente, il fatto che la Corte costituzionale a partire dal 1989 ha dichiarato l’illegittimità di tutte le norme speciali del processo penale militare che sono state sottoposte al suo esame, così che l’art. 270 rimane in sostanza l’unica norma contenente una significativa deroga alla procedura penale comune. 4. La disparità di trattamento nel diritto di difesa della persona danneggiata dal reato appare poi prosegue il giudice a quo particolarmente evidente in ordine ai delitti, come quello contestato nel presente procedimento, che sono specificamente lesivi di interessi della persona piuttosto che di interessi attinenti il servizio e la disciplina militare. Il reato previsto dall’art. 185 del codice penale militare di guerra è infatti caratterizzato dalla « non estraneità alla guerra » delle cause che hanno determinato


— 844 — l’atto di violenza contro persone civili che non prendono parte alle operazioni militari. Ciò comporta la qualificazione del fatto come « crimine di guerra » e l’applicazione delle norme, sostanziali e di giurisdizione, previste per i reati militari. Non sembra tuttavia, ad avviso del remittente, specificatamente nei casi in cui la violenza consiste nell’omicidio, che il bene sostanzialmente protetto sia individuabile in un interesse militare, piuttosto che nella vita e nei diritti inviolabili dell’individuo. In conclusione, il giudice a quo ritiene che si ponga in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza e di inviolabilità del diritto di difesa la disposizione secondo cui il soggetto che subisce un danno a beni della persona in conseguenza di un reato militare non può esercitare nel processo penale dinanzi al giudice militare i medesimi diritti riconosciutigli nel processo penale, primo fra tutti quello, che appare il più significativo, di costituirsi parte civile. 5. Si è costituito in giudizio Erich Priebke, imputato nel giudizio a quo, il quale ha concluso per la manifesta infondatezza della questione, richiamando in proposito gli argomenti posti a base delle sentenze nn. 78 del 1989 e 106 del 1977 di questa Corte. 6. Si sono altresì costituiti nel presente giudizio Anna Rivalta, Nicoletta Leoni, Giuseppe Nobili e Roberto Massari, familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine, nonché l’A.N.F.I.M., la Provincia di Roma e il Comune di Roma, tutti concludendo per la declaratoria di illegittimità dell’art. 270, primo comma, sulla base dei medesimi motivi espressi dal giudice a quo, e sottolineando, in particolare, che per effetto della denunciata disposizione viene impedito alla persona danneggiata dal reato di partecipare all’accertamento del fatto storico che è fonte e presupposto del suo diritto al risarcimento dei danni, non potendo concorrere né portare il suo contributo di conoscenza e di prove alla formazione del convincimento del giudice in ordine alla responsabilità dell’imputato. 7. È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata fondata. Premette la difesa del Presidente del Consiglio che la norma impugnata deve senz’altro ritenersi vigente alla luce della corrente interpretazione giurisprudenziale, per cui la questione sollevata può trovare soluzione solo in sede di giudizio di costituzionalità. Nel merito, l’Avvocatura sottolinea che, pur essendosi la Corte costituzionale già pronunciata sulla medesima questione, la disamina allora compiuta si era polarizzata sulla portata della norma in relazione agli aspetti salienti emersi in quel contesto; mentre ora sembra necessaria una radicale reductio ad unitatem dell’istituto che superi la logica istituzionalistica dell’ordinamento militare (come la sentenza n. 278 del 1987 di questa Corte aveva osservato), riconducendolo nell’ambito dell’ordinamento generale dello Stato, garante dei diritti sostanziali e processuali di tutti i cittadini. Non i soli fatti costituenti illeciti penali militari, osserva l’Avvocatura, ma tutti gli illeciti penali offendono, prima ancora che i singoli e specifici beni, l’intera collettività.


— 845 — Circa il contrasto tra la norma impugnata e l’art. 3 della Costituzione, l’Avvocatura rileva che non può negarsi il trattamento fortemente discriminatorio tra il danneggiato dal reato comune ed il danneggiato dal reato militare; disparità di trattamento le cui ragioni giustificatrici non possono più ritenersi valide, sia per i mutamenti del panorama normativo che per i plurimi interventi « demolitori » di questa Corte, per effetto dei quali la norma in questione viene di fatto a restare l’ultimo significativo aspetto di differenziazione tra i due processi. Condividendo le motivazioni addotte dal giudice a quo a sostegno del progressivo venir meno del carattere di « specialità » del processo militare rispetto e quello comune, e del positivo contributo che la partecipazione della parte civile può dare per giungere celermente all’accertamento della verità processuale, la difesa del Presidente del Consiglio valuta come argomento di scarso pregio l’ulteriore tesi della inidoneità dei tribunali militari, per la presenza di militari di carriera nei collegi, a valutare i fatti nella loro valenza di illeciti civili. Detta presenza, infatti, per effetto della legge n. 180 del 1981, è divenuta ormai minoritaria, per cui, volendo ancora sostenere l’inidoneità di tale collegio, si dovrebbe — a fortiori — negare ingresso all’azione civile anche nei giudizi davanti alla corte d’assise, collegio in cui la presenza di componenti non togati è nettamente maggioritaria. Se, quindi, non sembra potersi negare — nel complessivo contesto dell’istituto e della sua ratio — che la norma in esame confligga con l’art. 3 della Costituzione, non minore, ad avviso dell’Avvocatura, sembra il suo contrasto con l’art. 24 della Costituzione. Infatti, non potrebbe più ritenersi decisiva la considerazione, svolta nelle citate precedenti decisioni di questa Corte, per cui la limitazione del diritto di azione del danneggiato è di ordine meramente temporale, sostanziandosi nella mera sospensione del giudizio civile, sino alla definizione del processo penale, stabilita dal secondo comma del cit. art. 270. Basterebbe osservare che una più coerente ed adeguata evoluzione dell’istituto sposta il suo fulcro dal petitum (liquidazione del danno) alla causa petendi (accertamento dell’illecito), sicché la ratio della possibilità di costituirsi parte civile nel processo penale finisce per risiedere non più nel principio di economia processuale o di unità della giurisdizione, ma nell’interesse della parte lesa ad essere presente ed a cooperare nell’accertamento del reato. 8. Hanno depositato memorie aggiuntive Erich Priebke, Anna Rivalta, Giuseppe Nobili e l’Avvocatura generale dello Stato, ribadendo le argomentazioni già svolte ed insistendo nelle conclusioni già formulate. La difesa di Erich Priebke, in particolare, ribadisce quanto già esposto nell’atto di costituzione, sostenendo che, dal punto di vista costituzionale, qualunque regime giuridico in tema di rapporti tra azione civile e azione penale è legittimo; la scelta, pertanto, è di esclusiva competenza del legislatore, come si evincerebbe anche dal fatto che la sola dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 270 lascerebbe privo di regolamentazione l’istituto della costituzione di parte civile nel processo penale militare. La medesima difesa insiste, infine, sulla « specialità » del diritto penale militare; specialità che attiene all’aspetto sostanziale della res iudicanda, rappresentato dalla tutela della disciplina e del servizio militare.


— 846 — CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 270, primo comma, del codice penale militare di pace, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione. Ad avviso del remittente la norma impugnata, secondo cui « nei procedimenti di competenza del giudice militare, l’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno non può essere proposta davanti ai tribunali militari », si pone in contrasto: — con l’art. 3 della Costituzione, in quanto il trattamento deteriore della persona danneggiata dal reato nel processo penale militare, a fronte dell’inesistenza di un analogo divieto nel processo penale ordinario, risulta, nell’attuale contesto normativo, non fondato sull’esigenza di tutela di specifici e preminenti interessi, e quindi privo di razionale giustificazione; — con l’art. 24 della Costituzione, poiché la denunciata preclusione è suscettibile di comprimere illegittimamente il diritto del danneggiato di agire in giudizio per la tutela delle proprie ragioni. 2. Questa Corte, dunque, è chiamata a decidere se, ai sensi degli artt. 3 e 24 della Costituzione, possa ritenersi legittima l’attuale diversità di disciplina tra processo penale militare e processo penale ordinario in ordine alla possibilità di esercitare l’azione civile per le restituzioni ed il risarcimento del danno. La persona danneggiata dal reato, infatti, ove il presunto responsabile sia sottoposto a processo militare, non può in alcun modo esercitare l’azione civile prima che quel processo sia definito, né in sede penale — stante il divieto in esame — né in sede civile, a causa della sospensione obbligatoria del giudizio civile fino all’esito del giudizio penale, disposta dal secondo comma del medesimo art. 270. Il termine di raffronto costituito dalla disciplina di diritto comune esprime, invece, un principio del tutto opposto, in base al quale il danneggiato dal reato può usufruire subito della scelta tra entrambe le vie, ciascuna delle quali consente l’esercizio immediato del diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri interessi. È in questi termini, pertanto, che la questione va sostanzialmente esaminata: e cioè in quanto investe il divieto di costituzione di parte civile nel processo penale militare, sotto il duplice significato che tale divieto, nel sistema complessivamente delineato dal codice penale militare di pace, assume in raffronto alle corrispondenti norme di diritto comune; da un lato, quindi, come regola di esclusione del diritto di agire immediatamente in giudizio, dall’altro, come divieto di partecipare attivamente all’accertamento dei fatti in sede penale (se non con i più limitati poteri riconosciuti alla persona offesa), con conseguente impossibilità di avvalersi dei mezzi di prova propri di tale procedimento. Nella delineata differenza di disciplina i parametri costituzionali invocati assumono entrambi rilievo, e vanno, quindi, esaminati congiuntamente. 3. La questione è fondata. Invero, la medesima questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 del codice penale militare di pace è già stata sottoposta, in passato, all’esame di questa Corte (v. sentt. n. 106 del 1977 e, in particolare, n. 78 del 1989), la quale, ritenendo che la legittimità della singola norma che ammette od esclude l’esperibi-


— 847 — lità dell’azione civile nel giudizio penale fosse da valutare « anche e soprattutto in relazione al generale quadro dei rapporti tra le giurisdizioni delineato dal legislatore ordinario » (cfr. cit. sent. n. 78 del 1989), era allora pervenuta a decisioni di non fondatezza. Sulla base del medesimo criterio, in riferimento al mutamento del quadro normativo a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, ed alla luce dei principi successivamente affermati dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di armonizzazione fra diritto penale militare e diritto comune, si deve ora giungere a conclusioni diverse. 4. Occorre innanzitutto riaffermare il principio in forza del quale, con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, viene superata radicalmente la logica istituzionalistica dell’ordinamento militare, ricondotto nell’ambito del generale ordinamento dello Stato, rispettoso e garante dei diritti sostanziali e processuali di tutti i cittadini, militari oppure no, di guisa che il diritto penale militare di pace, « non solo non può più ritenersi ‘avulso’ dal sistema generale garantistico dello Stato, ma non va più esaltato come posto a tutela di beni e valori di tale particolare importanza da superare, nella gerarchia dei valori garantiti, tutti gli altri » (v. sent. n. 278 del 1987). Da un lato, quindi, non può essere impedito, per principio, alla giurisdizione ordinaria di assumere la cognizione di reati militari allorché esistano preminenti ragioni d’interesse generale, dall’altro occorre di volta in volta stabilire se particolari esigenze, beni o valori possano essere considerati preminenti, o sottordinati, rispetto ad esigenze, beni o valori tutelati attraverso la speciale giurisdizione dei tribunali militari di pace (sul punto, v. citt. sentt. n. 278 del 1987 e n. 78 del 1989). In applicazione di tale principio, questa Corte è intervenuta più volte per armonizzare con i valori costituzionali, in relazione al tertium comparationis costituito dalle disposizioni del diritto penale sostanziale e processuale comune, il processo penale militare e le stesse sanzioni stabilite per alcune fattispecie di reato (cfr. sentt. n. 298 del 1995, nonché n. 49 del 1995, n. 429 del 1992, n. 469 e n. 274 del 1990, n. 503 e n. 49 del 1989). Ora, ai fini che qui interessano, occorre considerare che, se da un lato la garanzia di poter agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, sancita dall’art. 24 della Costituzione, non eleva a regola costituzionale quella del simultaneus processus, dall’altro, l’intervento della parte civile nel processo penale trova giustificazione, oltre che nella necessità di tutelare un legittimo interesse della persona danneggiata dal reato, nell’unicità del fatto storico valutabile sotto il duplice profilo dell’illiceità penale e dell’illiceità civile (v. sent. n. 532 del 1995); si deve rilevare, inoltre, che la salvaguardia della posizione del danneggiato costituisce uno specifico obiettivo del nuovo codice di procedura penale, previsto dal legislatore nella legge di delega 16 febbraio 1987, n. 81 (cfr. art. 2, direttive da n. 20 a n. 28). Pertanto, la disposizione di cui al primo comma dell’art. 270 del codice penale militare di pace (la quale, giova ripetere, pone un divieto derogatorio del principio generale di diritto comune) potrebbe essere ritenuta legittima solo ove si riconoscesse una ragionevole giustificazione nella natura propria del procedimento militare, ovvero nella tutela di interessi considerati preminenti (così come, ad


— 848 — esempio, avviene in ordine all’esclusione della parte civile nel processo penale minorile, che ha una sua significativa motivazione nel tutelare « la personalità del minore dalle tensioni che può sviluppare la presenza dell’accusa privata »: v. relazione al progetto preliminare delle disposizioni sul processo penale minorile). 5. Come si è già detto, nel contesto delineato dal nuovo codice di procedura penale (diversamente da quanto avveniva nel codice previgente, cui è riferita la cit. sent. n. 78 del 1989), ed in coerenza con la recente giurisprudenza di questa Corte, tale disparità di trattamento non può oggi ritenersi sorretta da ragionevole ed adeguata giustificazione. Sono venute meno, infatti, le ragioni che sostenevano la tesi (posta a base della cit. sent. n. 78 del 1989) secondo cui la giurisdizione militare, istituita esclusivamente per la tutela della disciplina e del servizio militare, non avrebbe né motivo né capacità per l’apprezzamento di questioni di carattere patrimoniale, in quanto i tribunali militari si configurerebbero come « giudici prevalentemente di fatto ». Sul punto questa Corte ha già avuto occasione di affermare che l’evoluzione complessiva dell’ordinamento giudiziario militare di pace è diretta a perseguire l’equiparazione della magistratura militare a quella ordinaria; pertanto, essendo la condizione dei magistrati militari oggi del tutto assimilata, per stato giuridico, garanzie di indipendenza ed articolazione di carriera, a quella dei magistrati ordinari (v. sent. n. 71 del 1995), non è più possibile porre in dubbio l’idoneità del giudice militare — il quale nella sua attuale composizione collegiale è formato da una maggioranza di magistrati di carriera — a conoscere degli interessi civili nascenti da reato. 6. In assenza, quindi, di speciali o preminenti ragioni che giustifichino la disciplina in esame, l’attuale differenziazione, nel processo militare, delle modalità di esercizio del diritto di azione e del diritto di difesa non può che ritenersi lesiva degli artt. 3 e 24 della Costituzione. La citata decisione n. 78 del 1989 aveva affermato: « nessuna limitazione, se non temporale, del diritto d’azione subisce il danneggiato da reato militare ». Ma se detta « limitazione temporale » era coerente al sistema sotto la vigenza del vecchio codice di procedura penale, il quale anche prevedeva, all’art. 24, la sospensione dell’azione civile fino al definitivo accertamento dei fatti in sede penale, non è più possibile ritenerla legittima ora che il termine di raffronto è costituito dall’attuale codice di procedura penale, il cui art. 75, secondo comma, consente l’esercizio immediato dell’azione civile nella sede propria, senza alcuna sospensione sino all’esito del giudizio penale. Fin dalla sent. n. 55 del 1971, questa Corte ha riconosciuto come componente essenziale del diritto di difesa la disponibilità della prova dei fatti ritenuti idonei a far risultare la fondatezza delle proprie ragioni. In coerenza con tale principio il legislatore ha mantenuto, anche nel nuovo processo penale, la possibilità di esercitare l’azione civile in sede penale; rimettendo in tal modo allo stesso danneggiato la scelta sull’opportunità di avvalersi degli strumenti di indagine e dei mezzi di acquisizione delle prove propri di questo processo, ovvero di utilizzare, in sede civile, le presunzioni probatorie stabilite dalla legge in determinate materie. Non solo, ma in conseguenza della radicale in-


— 849 — novazione consistente nello svolgimento autonomo dei due giudizi, prospettato come regola (e quindi, nella eliminazione della pregiudizialità necessaria del procedimento penale rispetto a quello civile di danno), il legislatore ha ora reso possibile l’esercizio dell’azione civile, immediatamente, sia nel giudizio penale che in quello civile. 7. In conclusione, in raffronto a tali principi, che nel processo penale ordinario consentono la più ampia tutela della persona danneggiata dal reato, l’esclusione della parte civile dal processo penale militare impedisce, senza alcun ragionevole motivo, l’esercizio del diritto di agire in giudizio, non solo in quanto divieto di partecipare attivamente all’accertamento dei fatti in sede penale, ma anche come impossibilità di iniziare immediatamente l’azione per le restituzioni ed il risarcimento del danno. Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 270, primo comma, del codice penale militare di pace. 8. Ai sensi dell’art. 27 della l. 11 marzo 1953 n. 87, poiché parte della medesima regula iuris ora dichiarata illegittima è contenuta anche nel secondo comma del medesimo art. 270, il quale — disponendo la sospensione obbligatoria del giudizio civile fino all’esito di quello penale militare — impedisce anch’esso l’immediato esercizio dell’azione civile, e realizza la medesima ingiustificata disparità di trattamento in raffronto alla corrispondente disciplina vigente nel processo penale ordinario (v. cit. art. 75, secondo comma), la dichiarazione d’illegittimità costituzionale va estesa al secondo comma dello stesso art. 270. 9. È appena il caso di sottolineare, infine, che, in virtù del rinvio esplicitamente operato dall’art. 261 del codice penale militare di pace alle disposizioni del codice di procedura penale, la dichiarazione d’illegittimità costituzionale della norma impugnata comporta l’automatica applicazione nel processo penale militare delle corrispondenti norme di diritto comune sulla partecipazione della parte civile, e sui suoi diritti, nel giudizio penale, nonché sui rapporti tra azione civile e azione penale. P.Q.M. — la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 270, primo comma, del codice penale militare di pace; dichiara, ai sensi dell’art. 27 della l. 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 270, secondo comma, del codice penale militare di pace. (Omissis).

——————— (1)

La funzione di integrazione dell’art. 261 c.p.m.p. e i suoi « effetti distorsivi » alla luce del nuovo codice di procedura penale. A proposito della parte civile nel processo militare.

1. Con ordinanza del 7 dicembre 1995 il GIP del Tribunale militare di Roma (1), nel procedimento a carico di Erich Priebke, promuoveva il giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.p.m.p. (1)

G.U. n. 52, I serie speciale, 1995, p. 83 ss.


— 850 — L’intervento della Corte costituzionale ha finalmente reso possibile dinanzi ai tribunali militari la costituzione di parte civile, con ciò contribuendo a realizzare la quasi totale applicabilità della disciplina contenuta nel nuovo codice di procedura penale al processo penale militare (2). Senza voler in alcun modo sminuire la portata della decisione della Corte ci sia consentito esprimere, preliminarmente, un leggero rammarico in ordine all’innegabile spinta che l’emergenza ha dovuto dare, anche in questa vicenda giuridica, alla soluzione raggiunta. Non può che lasciare inappagati, infatti, la considerazione che, ancora una volta, si debba registrare un successo settoriale e circoscritto alla sola ammissibilità della costituzione di parte civile, piuttosto che prendere atto di una situazione di globale « intollerabilità » delle deroghe processuali tuttora contenute nel codice penale militare di pace rispetto al nuovo sistema delineato dal codice di procedura penale (3). La pronuncia in esame rappresenta, tuttavia, senza alcun dubbio, un fondamentale momento di rottura tra la cultura della « specialità » della giustizia militare — tale anche perché ancorata al permanere di alcune importanti differenze procedurali - e quel processo di irrinunciabile adeguamento ai valori costituzionali, avviatosi ormai da alcuni anni anche in questo campo (4). A risultati non diversi, ma di certo più immediati, si sarebbe forse giunti, aderendo alla convinzione di molti (5) in ordine alla integrale applicabilità della disciplina contenuta nel codice di procedura penale al processo militare in forza di quanto disposto dall’art. 1 c.p.p. e dall’art. 207 disp. coord. c.p.p., abbandonando così, definitivamente, il timore di snaturare un sistema, che non rinviene di certo le ragioni della sua « specialità » in irrazionali ed ormai tramontate peculiarità procedurali. Non è, quindi, da ritenersi, neanche oggi, superata l’esigenza di ricondurre il

(2) Per una panoramica sugli aspetti più salienti del processo penale militare si rinvia alle trattazioni di ordine generale. Vedi, a tal proposito, in particolare STELLACCI, Giurisdizione penale militare, in Nss. Dig. it., vol. VII, 1968, p. 1073 ss.; ID., Sanzione penale militare, in Enc. giur. Treccani, 1991, vol. XXVIII; MAGGIORE, voce Giurisdizione penale militare, in Enc. dir., vol. XIX, 1970, p. 405; VENDITTI, Legge penale militare, in Enc. dir., vol. XXIII, 1973, p. 1077 ss.; GARINO, Giurisdizione penale militare, in Nss. Dig. it., app. III, 1982, p. 1055; ONIDA, Giurisdizione speciale, in Nss. Dig. it., app. III, 1982, p. 1064; SCANDURRA, Pena (diritto penale militare), in Nss. Dig. it., app. V, 1984; MALIZIA, Processo penale (dir. pen. mil.), in Enc. dir., vol. XXXVI, 1987, p. 414 ss.; MAFFEI, Diritto penale militare, in Dig. disc. pen., vol. IV, 1990, p. 106 ss.; DELLI PAOLI, Processo penale militare, in Enc. giur. Treccani, vol. XXIV, 1991; nonché di recente BRUNELLI, Legge penale militare, in Dig. disc. pen., vol. VII, 1993 p. 370 ss. (3) Per i caratteri delle riforme organiche, quali quelle attuate mediante l’emanazione di nuovi codici, e per i loro effetti sulle leggi complementari si rinvia a PALAZZO, La recente legislazione penale, Padova, 1982, p. 11 ss. (4) Una testimonianza di questa tendenza è rappresentata dalle numerose iniziative legislative degli ultimi anni, quasi tutte nel senso della « ordinarizzazione » della giustizia militare. Vedi di recente il disegno di legge costituzionale n. 441, d’iniziativa del Sen. COSSIGA, comunicato alla Presidenza del Senato il 20 giugno 1994; la proposta di legge n. 2136, d’iniziativa dei deputati DORIGO ed altri, del 2 marzo 1995; il disegno di l. n. 2041, d’iniziativa dei Sen. MANIS ed altri, comunicato alla Presidenza del Senato il 2 agosto 1995; la proposta di l. n. 3222, d’iniziativa dei deputati NERI ed altri, del 5 ottobre 1995; nonché da ultimo la proposta di l. n. 3611, d’iniziativa dei deputati DOTTI ed altri, del 22 dicembre 1995. In dottrina, inoltre, nell’ottica di un indispensabile adeguamento del complesso della legislazione penale militare ai principi costituzionali, attraverso la massima omogeneizzazione possibile della magistratura militare a quella ordinaria vedi, GROSSO, Prospettive di riforma dei codici penali militari, in questa Rivista, 1992, p. 735. ss. (5) Cfr. in dottrina DI MOLFETTA, Nuovo codice di procedura penale e processo penale militare: prime riflessioni, in Camere penali, 1990, p. 15; REBECCHI, Giustizia militare e nuovo codice di procedura penale, in Rass. giust. mil., 1991, p. 65 ss.; DELLI PAOLI, Processo, cit.; MOLINARI, Brevi note sui rapporti tra le norme di coordinamento del nuovo codice di procedura penale ed i procedimenti militari, in Cass. pen., 1992, p. 1007; BRUNELLI-MAZZI, Diritto penale militare, Milano, 1994, p. 571 ss.; nonché di recente MAZZI, Processo penale militare e « principi fondamentali » della procedura penale: un intervento « destabilizzante » delle Sezioni unite, in Cass. pen., 1995, p. 1808.


— 851 — problema in termini più generali nel tentativo di cercare per il futuro una soluzione che lasci poco spazio a problemi di interpretazione (6). 2. Nella esclusione della parte civile dal processo militare si è rinvenuto per lungo tempo, come è noto, un motivo di diversità, più o meno esplicitamente riconosciuto, delle esigenze sottese alla giustizia militare rispetto al sistema comune (7). La originaria disciplina delineata dal c.p.m.p. è stata sottoposta, negli anni, ad un’opera di progressiva demolizione (8) da parte della Corte costituzionale, che, in quest’ultima decisione, ha contribuito a ridurre ulteriormente le distanze con la procedura penale comune. L’innegabile peso della decisione in esame, a fronte di una totale inerzia del legislatore, ha reso finalmente possibile in sede penale la tutela dei diritti di natura civilistica anche a persone danneggiate da reati militari, riconoscendo, perciò, che « la disparità di trattamento non può oggi ritenersi sorretta da ragionevole ed adeguata giustificazione » (9). Come si è ricordato i principali argomenti a favore della opportunità del di-

(6) Si ricorderà che dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale in giurisprudenza si era venuto a creare un notevole contrasto tra coloro che ammettevano nel processo militare la costituzione di parte civile, ritenendo che il divieto sancito all’art. 270 c.p.m.p. dovesse ritenersi abrogato, in virtù dell’art. 207 disp. coord. c.p.p., e coloro che ne negavano, invece, l’ammissibilità, confermando la vigenza di tale divieto. Questo contrasto giurisprudenziale aveva poi trovato composizione con la sentenza a Sezioni unite della Corte di cassazione del 14 dicembre 1994 che ne aveva confermato, naturalmente, l’inammissibilità. La sentenza è pubblicata per esteso in Cass. pen., 1995, p. 1169 ss.; cfr. inoltre, le osservazioni di MAZZI, Processo penale militare, cit., p. 1808 ss. Nel senso della impossibilità della costituzione di parte civile avanti al tribunale militare può citarsi, per tutte, Corte mil. App. di Roma 5 Giugno 1991 — imp. Ferrazzano — in Rass. giust. mil., 1992, p. 270 ss., nella quale testualmente si legge: « l’art. 270 c.p.m.p., che pone il divieto della proposizione dell’azione civile nel processo militare non risulta essere stato implicitamente abrogato dagli artt. 1 e 207, rispettivamente del c.p.p. del 1988 e delle relative disposizioni di coordinamento ». Nel senso opposto, anche se non in considerazione del particolare profilo della costituzione di parte civile, ma, più in generale, sul tema dei rapporti tra codice di procedura penale e processo penale militare, vedi Trib. mil. La Spezia, 17 ottobre 1990 — imp. Esposito — in Rass. giust. mil., 1991, fasc. 5-6, p. 299 ss. (7) Diversità legata a temi, anche politici, di grande respiro (sui quali faremo innanzi dei cenni) che si traduceva talora in una disciplina del tutto peculiare ed inspiegabile come rammenta SANTORO, La Consulta elimina una disparità di trattamento non più giustificabile con il nuovo codice di rito, in Guida al diritto, n. 15, 1996, p. 67, a proposito del fatto che il giudice militare aveva l’obbligo di « condannare l’imputato, dichiarato colpevole, alle restituzioni ed al risarcimento del danno (art. 373, primo comma c.p.m.p.) » mentre dall’altra parte, vigeva l’inammissibilità della costituzione di parte civile ex art. 270 c.p.m.p. (8) In particolare, in materia di parte civile, la Corte costituzionale con sent. 3 marzo 1989, n. 78, in Cass. pen., 1989, p. 953 ss., ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 373, primo comma, c.p.m.p. e — in applicazione dell’art. 27 l. 23 marzo 1953, n. 87 — dell’art. 373 secondo comma, c.p.m.p., nella parte in cui non prevedeva che, dinanzi al giudice civile competente venisse proposta la domanda relativa alle restituzioni ed al risarcimento del danno. Con la stessa sentenza, inoltre, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 373, terzo e quarto comma, c.p.m.p., nonché non fondata quella di cui all’art. 270 c.p.m.p. In motivazione la Corte ha chiarito che « l’illegittimità del primo comma dell’art. 373 consiste nell’aver previsto la condanna, da parte del giudice penale militare, alle restituzioni ed al risarcimento dei danni senza proposizione della relativa azione civile ». Si ricorda, inoltre, che già nel 1977 la Corte era intervenuta in merito alla legittimità costituzionale del divieto di cui all’art. 270 c.p.m.p., ravvisando una sufficiente ragionevolezza nella diversità di trattamento riservato al danneggiato da reato militare da rinvenirsi « nell’esigenza di assicurare con celerità la tutela della disciplina e del servizio militare », nonché riguardo alla possibile violazione del contenuto di cui all’art. 24 cost. affermò che « la possibilità di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi non eleva a regola costituzionale quella del simultaneus processus, ma lascia al legislatore ampia discrezionalità quanto ai tempi e alle modalità di azione » (quest’ultimo passo è testualmente riportato anche nella sentenza che si commenta giungendo, come è noto, a conclusioni del tutto diverse). C. cost. del 2 giugno 1977, n. 106, in Giur. cost., 1977, I, 812, con nota di VENDITTI, Azione civile e processo penale militare, ivi, p. 1274. (9) Infra p. 7.


— 852 — vieto di costituzione di parte civile nel rito militare si muovevano su un terreno strettamente connesso alla specialità della giurisdizione militare; specialità che, può dirsi sinteticamente, si risolveva sul piano procedurale « nella necessità di non appesantire il giudizio penale militare » (10) e nella presunta incapacità del giudice militare a conoscere delle questioni civili di carattere patrimoniale (11). Che queste motivazioni, di antica ascendenza e intimamente legate ad una idea della giustizia militare intesa come « giustizia dei capi » (12), siano da considerare già da tempo ampiamente superate è espressamente riconosciuto dalla stessa Corte, anche in precedenti pronunce (13), e trova una ulteriore conferma, se ve ne fosse bisogno, nella piena equiparazione legislativa dei giudici militari a quelli ordinari (14). Talché, in definitiva, può dirsi che, nell’attuale contesto storico-giuridico, l’unico momento di reale novità, per una rilettura circa la illegittima esclusione della parte civile, è rappresentato dalla disciplina delineata dal codice di procedura penale e, più in particolare, dall’affermazione di nuovi principi in relazione ai rapporti tra azione penale e civile (15). Al riguardo non è privo di significato ricordare che la precedente decisione della Corte (16) in ordine a questo tema, di poco anteriore all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, aveva concluso nel senso della non fondatezza della questione, ritenendo che il divieto di costituzione di parte civile nel processo militare rientrasse, a pieno titolo, in quell’ambito di discrezionalità del legislatore che si sottrae alla censura dell’irragionevolezza. Nella pronuncia in esame la Corte giunge, invece, a dichiararne l’incostituzionalità in rapporto al c.d. tertium comparationis caratterizzato proprio dalle disposizioni processuali comuni (17). In altri termini la Corte opera un bilanciamento tra la regola generale dell’ammissibilità della costituzione di parte civile, stabilita nell’ambito processuale

(10) La frase mutuata dalla Rel. Com. Ass. Leg. al c.p.m.p. del 1941, pag. 616 è riportata in motivazione nella sentenza della Corte mil. app. di Roma del 5 giugno 1991, cit., p. 275. (11) Cfr. in dottrina, in senso critico, sul punto MALIZIA, Processo, cit., p. 420; VENDITTI, Il processo penale militare e il nuovo codice di procedura penale, Milano, 1993, p. 53, dove l’autore conclude che il divieto di costituzione di parte civile « sembra avere la sua sola reale ragione nella pretesa dell’istituzione militare di non consentire ad estranei di penetrare all’interno del processo penale militare e di avervi os ad loquendum »; BRUNELLI-MAZZI, Diritto penale militare, Milano, 1994, p. 598; RIVELLO, Profili di procedura penale, Torino, 1995, p. 79; nonché in senso favorevole di recente la sentenza della C. cost. n. 78 del 22 febbraio 1989, cit., p. 952. (12) Facendo un notevole salto indietro negli anni riportiamo un brano della dottrina dell’epoca, che, a dire il vero, condiziona ancora, almeno nella sua essenza, l’attuale sistema della giustizia militare: « La giurisdizione militare è la potestà conferita dalla legge ai capi militari di giudicare fatti lesivi del servizio o della disciplina... La giurisdizione penale militare è il complemento dei mezzi di disciplina: la continuazione di quella potestà disciplinare di cui i capi militari sono già investiti » (il corsivo è nostro). VICO, Diritto penale formale militare, Milano, 1917, p. 102 ss., il brano è riportato da RIVELLO, Spunti per un’analisi: i componenti « non togati » dei tribunali militari, in Rass. giust. mil., 1991, p. 9. (13) Vedi in particolare, sul punto, di recente C. cost n. 278 del 1987 e n. 78 del 1989. (14) Sulla riforma dell’ordinamento giudiziario militare vedi in particolare VENDITTI, l. 7 maggio 1981, n. 180. Modifiche all’ordinamento giudiziario di pace, in Leg. pen, 1981, n. 3, p. 357; ID., Il processo penale militare secondo la l. 7 maggio 1981, n. 180, Milano, 1982; SCANDURRA, Ordinamento Giudiziario militare, in Nss. Dig. it., app. V, 1984, p. 550 ss.; RICCIO, Ordinamento militare e processo penale. Natura e limiti della giurisdizione, Napoli, 1988; nonché di recente MAZZI, Ordinamento giudiziario militare, in Enc. giur. Treccani, vol. XXI, 1990. (15) Cfr. la legge-delega ai punti che vanno dal n. 20 al n. 28 dell’art. 2 della l. 16 febbraio 1987, n. 81, in Suppl. Ord. Gazz. Uff. del 16 marzo 1987, n. 62.; vedi inoltre gli artt. 74 ss. c.p.p. (16) C. cost. del 22 febbraio 1989 n. 78., in Cass. pen., 1989, p. 952 ss. (17) Di recente, nella letteratura penalistica, per una attenta analisi del costante ricorso della Corte costituzionale al c.d. criterio di ragionevolezza in merito alla soluzione di questioni di legittimità costituzionale si vedano le osservazioni di DI GIOVINE, Sul c.d. controllo di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale in materia penale. « A proposito del rifiuto totale di prestare il servizio militare », in questa Rivista, 1995, p. 159 ss. ed ivi ampia bibliografia.


— 853 — comune e la mancanza, in sede costituzionale, di interessi peculiari riferibili al procedimento militare, tali da considerarsi preminenti rispetto al principio espresso dal diritto comune e che ne giustifichino, quindi, la deroga. È agevole, a fronte di ciò, intuire che rimangono ben pochi i casi nei quali sia possibile rinvenire interessi propri del processo militare — del quale si disconosce ormai quasi unanimemente l’esigenza di peculiarità — che diano luogo a deroghe normativamente previste, sorrette ancora da ragionevole giustificazione, che non rischino di rimanere travolte da pronunce caducatorie (18). Se si considerano legittimi (19) gli interventi della Corte volti ad armonizzare ai valori costituzionali determinate disposizioni procedurali alla luce del tertium comparationis — con ciò restringendo sensibilmente il campo di discrezionalità del legislatore — è innegabile, che venute meno le ragioni della specialità procedurale della giurisdizione militare, si sia implicitamente « garantita » la piena applicabilità al processo militare delle regole del codice di procedura penale, anche se mediata da un giudizio di ragionevolezza. La Corte, però, sembra dimenticare nella motivazione che anche sotto la vigenza del precedente codice di procedura penale si veniva a creare la stessa ingiustificata disparità di trattamento tra il danneggiato da reato militare e quello da reato comune e che, nonostante già all’epoca della precedente pronuncia fossero venuti meno gli ostacoli, per lo meno giuridici, all’affermazione della competenza in materia civile del giudice militare, si fosse ribadita, invece, la vigenza della norma di cui all’art. 270 c.p.m.p., a causa, forse, della difficoltà di sradicare taluni pregiudizi di natura culturale (20). Se, allora, ci si ferma a riflettere, un istante, sul contenuto delle disposizioni in materia di costituzione di parte civile — senza cioè considerare le prodromiche innovazioni sul tema della tutela della persona offesa stabilite dal nuovo codice di procedura penale (21) — non ci si può non avvedere che l’unica novità rispetto al codice previgente riguarda il sistema delle pregiudizialità, nel senso, cioè, della almeno tendenziale autonomia dei due giudizi; sicché a rigore il problema di illegittimità costituzionale avrebbe dovuto investire il solo capoverso dell’art. 270 c.p.m.p., che prevedeva appunto la sospensione del giudizio civile fino alla definizione di quello penale militare. È di certo irragionevole e lesivo del diritto di difesa ritenere immediatamente esperibile in sede civile l’azione per le restituzioni ed il risarcimento del danno in

(18) Per uno specifico contributo alle problematiche inerenti alle norme derogatorie ancora contenute nel codice penale militare di pace si rinvia a MAZZI, Processo penale militare, cit., p. 1812-1813. (19) Da ultimo vedi NOBILI, Principio di legalità e processo penale, in questa Rivista, 1995, p. 648 ss.; nonché diffusamente, anche se con particolare riferimento al diritto penale militare sostanziale, GALLO, Principi costituzionali di legalità e di offensività nel sistema penale militare, in Notiziario C.M.M., Suppl., 1994, p.13 ss. (20) L’indubbia influenza di retaggi culturali è ancora di capillare evidenza nella sentenza della C. cost. n. 78 del 1989, in Cass. pen., 1989, p. 952 ss., nonostante le intervenute modifiche legislative della l. 180/81. In motivazione la Corte continua a ritenere valide, infatti, ai fini della legittimità della esclusione della parte civile dal processo militare, le osservazioni contenute nei lavori preparatori, circa la natura dei tribunali militari che considera « giudici prevalentemente di fatto ». Ed ancora soprattutto a proposito dei loro possibili margini di arbitrarietà in ordine alle questioni civili « ...L’aver chiamato a far parte dei collegi giudicanti, anche non appartenenti all’ordine giudiziario militare (non richiedendo, per i medesimi, la conoscenza di nozioni giuridiche) consente di ritenere che i tribunali militari furono costituiti per decidere, in maniera idonea alle esigenze e finalità dell’ordinamento penale militare, i fatti commessi nell’ambito militare e violativi di norme speciali (...). Né sarebbe, forse, convenientemente garantita la terzietà dei militari-giudici (che vivono nello stesso ambiente dei giudicanti): essi, infatti, a seconda delle concezioni dello stile di vita del militare che accolgono, possono almeno tendenzialmente, mostrarsi particolarmente rigorosi o all’opposto, particolarmente benevoli in relazione alle violazioni extrapenali dei fatti lesivi dell’ordine militare » (il corsivo è nostro). (21) Vedi la direttiva n. 51 della legge-delega, cit., nonché gli artt. 90 ss. c.p.p.


— 854 — un sistema che ammette la costituzione di parte civile e, viceversa, imporre una limitazione temporale del diritto di agire in un processo penale come quello militare che ne impedisce la costituzione. Queste osservazioni ci spingono a far rilevare come le vere motivazioni della indubbia irrazionale disparità di trattamento del danneggiato dal reato nel processo comune e in quello militare vadano senz’altro ricercate altrove, o meglio, emergano, a tutta evidenza, dallo stesso sistema. A ben vedere, infatti, è proprio il quadro complessivo di tutela assicurato alla persona offesa dal reato, che in virtù del c.d. principio di complementarità — contenuto all’art. 261 c.p.m.p. (22) — si applica anche al rito militare, a determinare irragionevoli effetti distorsivi, se posto in relazione alla esclusione della parte civile dal processo militare. In altre parole è evidente — ed è puntualmente messo in luce nell’ordinanza di rimessione alla Corte del GIP del Tribunale militare di Roma — che la previsione di specifici poteri in capo alla persona offesa durante la fase delle indagini preliminari è finalizzata alla possibilità della stessa di far parte, a pieno titolo, del futuro processo ed è per questa ragione che diviene illogico nel processo militare (ove alla persona offesa sono consentiti tali poteri di iniziativa in virtù del sistema di integrazione tra i due codici) impedirle poi in concreto di partecipare all’accertamento del fatto in sede penale. Sempre in forza del rinvio di cui all’art. 261 c.p.m.p. si veniva, inoltre, a determinare il potenziamento — contrariamente a quanto delineato dalla normativa processuale comune ove, se ne ricorrono i presupposti, la persona offesa può costituirsi parte civile — della posizione degli enti e delle associazioni rappresentative di interessi lesi dal reato a fronte di ben più limitati poteri attribuiti alla persona direttamente danneggiata dal reato militare (23); ulteriore conferma della opportunità della pronuncia caducatoria. È chiaro, allora, come, forse, non sia più sufficiente continuare a stimolare l’intervento della Corte (24) affinché rimuova le poche, ma ancora significative,

(22) Ove è stabilito che « Salvo che la legge disponga diversamente, le disposizioni del codice di procedura penale si osservano anche per i procedimenti davanti ai tribunali militari ». (23) L’irragionevole situazione che si veniva a creare nel processo penale militare è ben delineata nell’ordinanza del giudice a quo, cit., p. 84 dove si legge « A conferma della sopravvenuta incongruità della disposizione contenuta nell’art. 270 c.p.m.p. va inoltre sottolineato che nel processo penale militare non appare precluso l’intervento degli enti e delle associazioni rappresentative di interessi lesi dal reato. Anche nel caso, infatti, che i rapporti tra processo penale militare e processo penale comune si ritengano ancora disciplinati dall’art. 261 c.p.m.p. — piuttosto che dall’art. 207 disp. coord. c.p.p. — non è rinvenibile nel codice penale militare alcuna disposizione da cui potersi desumere l’inapplicabilità degli artt. 91 e segg. c.p.p. (il corsivo è nostro). La disposizione di cui al citato art. 270 c.p.m.p., in particolare, non appare assolutamente suscettibile di una interpretazione analogica tale da implicare, oltre al divieto di costituzione di parte civile, anche il divieto di intervento di enti o associazioni rappresentative degli interessi lesi dal reato. Di conseguenza, all’ente o all’associazione intervenuto nel procedimento penale militare sono riconosciuti, oltre all’esercizio dei diritti e delle facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato (art. 91 c.p.p.), specifici poteri (cfr. art. 505 e art. 511, sesto comma, c.p.p.). In sostanza, mentre nel processo penale comune si è voluto differenziare la posizione degli enti e associazioni riconoscendo a questi poteri meno incisivi di quelli attribuiti alla parte civile, nel processo penale militare, data l’inammissibilità della costituzione di parte civile, l’ente o associazione usufruisce di strumenti di intervento più ampi di quelli della stessa persona offesa (ciò nel caso di specie non costituisce affermazione teorica ma è coerente con la situazione processuale effettivamente determinatasi) ». Si deve sottolineare che la Corte nella sua motivazione prescinde del tutto da queste argomentazioni, che sono a nostro avviso decisive, limitandosi ad affermare che la disparità di trattamento della persona offesa nel processo militare non può più ritenersi giustificata. È un vero peccato che la Corte si sia sottratta allo spunto, offertogli abilmente dal GIP, per risolvere definitivamente la questione della diretta applicabilità del c.p.p. anche al rito militare, visto che anche con questa pronuncia ci si avvia inevitabilmente, solo con maggiore artificiosità, in quella direzione. (24) Vedi da ultimo, nel senso della opportunità di un continuo ricorso alla Corte costituzionale come soluzione per armonizzare il c.p.m.p. ai principi del processo penale, SPANGHER, Principi fondamen-


— 855 — deroghe contenute nel c.p.m.p. (25), alla luce della loro irragionevole vigenza ex art. 3 Cost.; ma, al contrario, si renda necessario prendere definitivamente atto della importanza di una crisi intrinseca allo stesso sistema della complementarità (26). La Corte, invece, ci fornisce un’indicazione opposta, facendo un espresso rinvio all’art. 261 del c.p.m.p. al fine di garantire, a seguito della pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 270 c.p.m.p., la automatica applicabilità della disciplina concernente la parte civile al rito militare. Le prime conclusioni che possono trarsi, allora, in merito alla indubbia e confermata vigenza del c.d. principio di complementarità sono tutt’altro che confortanti. Ci pare proprio, infatti, che sia lo stesso carattere complementare della legge processuale militare sancito dal codice del 1941 a risultare non più sorretto da alcuna esigenza né sostanziale né procedurale; il che è implicitamente avvalorato dalle innumerevoli pronunce della Corte costituzionale nella direzione della illegittimità di quasi tutte le disposizioni derogatorie del processo militare. In altre parole: è l’esistenza stessa del titolo III del c.p.m.p., relativo alla procedura penale, che non è più giustificato. Inevitabilmente ci si interroga, allora, su quanto residui di quel pregiudizio culturale che teme di veder svanire ogni specialità della giurisdizione militare nel sancire la piena applicabilità al processo militare della procedura penale comune e che si accontenta di una soluzione di compromesso nell’esigenza, ormai costante, di veder ritoccato il rito militare (27) — pur se privo ormai di una qualunque autonoma significatività — per armonizzarlo più che ai principi costituzionali a quelli di diritto comune. Da qui le riserve avanzate già in premessa circa la effettiva portata innovatrice della decisione in esame, che, pur dando un notevole contributo nel far cadere uno dei più antichi baluardi della logica istituzionalistica dell’ordinamento militare, affermando la competenza dei giudici militari anche in campo civile, nega in conclusione, richiamando l’art. 261, la avvenuta abrogazione dell’intero titolo III del c.p.m.p. a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale. 3. Il tema, così come sinteticamente lo abbiamo scandito, suggerisce, allora, di richiamare, pur se solo nelle linee essenziali, la ormai nota questione relativa alla integrale applicabilità del codice di procedura penale al processo penale militare, allo scopo di verificare se sia davvero indispensabile il ricorso all’art. 261 c.p.m.p., per consentire l’ingresso della legge processuale comune nel processo militare (28).

tali del nuovo codice di procedura penale militare non derogabili nel procedimento penale militare, in Atti dell’incontro di studio dei magistrati militari, 23-24 Marzo 1996 (in corso di stampa). (25) Infra, nota 18. (26) Cfr. di recente, per l’accezione di complementarità di cui nel testo BRUNELLI-MAZZI (BRUNELLI), Diritto penale, cit., p. 13 ss.; sul c.d. principio di complementarità in generale, si rinvia a VENDITTI, Il diritto penale militare nel sistema penale italiano, Milano, 1978, ed a DE LALLA, Saggio sulla specialità penale militare, Napoli, 1990; per una corretta definizione di legge complementare cfr. ROMANO, Commentario sistematico al c.p., art. 16, Milano, 1995. (27) Per le più recenti pronunce della Corte costituzionale in materia di diritto penale militare si rinvia a Il diritto penale militare (nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Suprema Corte di cassazione 1980-1992), a cura di SCANDURRA, Milano, 1993; ID., (1993-1994), Milano, 1995. (28) In tal senso in dottrina cfr. LEMMO, I problemi delle norme di coordinamento, Introduzione alle norme di coordinamento e transitorie, in Il nuovo codice di procedura penale, a cura di Conso-GreviNeppi Modona, vol. VI, tomo II, Padova, 1989, p. 13 ss.; DE LALLA, Saggio, cit., p. 53 ss.; RIVELLO, Il processo penale militare nell’impatto con il codice del 1988, in Giustizia penale, 1990, p. III, c. 614; ID.,


— 856 — Vale la pena — per poter riassumere adeguatamente il nucleo fondamentale del discorso, senza ripercorrerne tutti i passaggi — prendere le mosse dalle conclusioni raggiunte dalla Corte di cassazione a Sezioni unite (29), circa l’attuale vigenza dell’art. 261 c.p.m.p. (ribadita, giova ripeterlo, anche dalla Corte costituzionale in questa sentenza), nonché della funzione che è stata assegnata all’art. 207 disp. coord. del c.p.p. Sempre in termini di sintesi, l’alternativa poteva risolversi in due prospettive contrapposte: la piena applicabilità dell’art. 207 disp. coord., collegato alla previsione di cui all’art. 1 c.p.p., anche ai procedimenti in materia di reati militari, con l’ovvia conseguenza di ritenere abrogato tutto il titolo III del c.p.m.p., compresa la norma di cui all’art. 261; oppure la non riferibilità della norma di coordinamento al rito militare con la necessità, dunque, di polarizzare l’attenzione sul rinvio di cui all’art. 261 c.p.m.p. al fine di assicurare l’applicazione della legge processuale comune a quanto non disposto in quel codice. Tuttavia, subendo la tentazione di voler trovare, a tutti i costi, una via mediana tra le due tesi contrapposte le Sezioni unite sono giunte, con una notevole agilità interpretativa, ad affermare la contemporanea vigenza di entrambe le disposizioni e a far salve, quindi, grazie al meccanismo di integrazione previsto all’art. 261, le deroghe ancora contenute nel c.p.m.p. purché — sarebbe questa la lettura interpretativa dell’art. 207 disp. coord. c.p.p. — « non si pongano in radicale contrasto con i principi fondamentali ai quali risulta ispirato il nuovo sistema processuale » (30). L’intransigenza di chi (31) riteneva la totale estraneità di quanto disposto all’art. 1 c.p.p e all’art. 207 disp. coord. al procedimento militare potrebbe conside-

Profili di procedura penale militare, Torino, 1995, p. 33; GARINO, I tribunali militari e il nuovo codice di procedura penale, in Riv. Guardia di finanza, 1990, p. 45 ss.; RICCIO, Premesse metodologiche e linee di indirizzo per l’applicazione e la riforma della legge processuale penale militare, in Rass. giust. mil., 1991, p. 165 ss.; MARZADURI, Commento all’art. 207 disp. coord. c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da Chiavario, La normativa complementare, vol. II, Norme di coordinamento e transitorie, Torino, 1992, p. 19; VENDITTI, Il processo penale militare e il nuovo codice di procedura penale, Milano, 1993 p. 39 ss. (29) La sentenza a cui si fa riferimento nel testo è quella del 14 febbraio 1994, in Cass. pen., 1995 p. 1169 ss.; si rinvia, inoltre per il commento, nella stessa rivista, alle osservazioni di MAZZI, Processo penale, cit., p. 1809 ss. (30) Cass. Sez. un., cit., p. 1172. (31) VENDITTI, Il processo penale, cit., p. 39; MARZADURI, Commento, cit., p. 19; RIVELLO, Profili, cit., p. 33; ID., Il processo penale, cit., c. 617-618; GARINO, I tribunali, cit., p. 47; RICCIO, Premesse metodologiche, cit., p. 169; DE LALLA, Saggio, cit., p. 53; nonché nello stesso senso da ultimo SPANGHER, Principi fondamentali del nuovo codice di procedura penale non derogabili nel procedimento penale militare, cit. Senza avere la pretesa di riuscire a riassumere, in poche battute, le compiute argomentazioni di chi ritiene la totale estraneità del c.p.p. al rito militare, si ricorda che un tratto comune alle diverse prospettazioni può essere colto, in particolare, da quanto è stato sostenuto dal presidente dell’apposita Commissione ministeriale per la redazione delle disposizioni di coordinamento e transitorie al c.p.p., secondo il quale la Commissione « ...non ha ritenuto di occuparsi in alcun modo delle disposizioni dei codici penali militari, sia perché è sembrato che la legge delega non autorizzasse una diversa determinazione, sia perché al Parlamento pendono disegni di riforma globale dei codici medesimi’’ (LEMMO, op. cit., p. 13). Tale ultima argomentazione, a dire il vero, sembra meglio ricollegarsi ad una ragione, per così dire di opportunità, che avrebbe fatto propendere i compilatori, in sede di elaborazione del nuovo c.p.p., a non occuparsi in modo « espresso » del c.p.m.p., dato il clima di incertezza che caratterizza da un po’ di anni tale sistema; pare, in altri termini, null’altro che una preoccupazione circa la possibile precarietà di un intervento specifico in tale materia; si deve convenire, allora, che questa « intenzione » non può di certo valere ad escludere l’applicabilità del c.p.p. anche al processo militare a fronte di un sicuro dato testuale come quello di cui agli artt. 1 c.p.p. e 207 disp. coord. Il rapporto ben noto tra testo normativo e volontà del legislatore, viene ricordato, per l’appunto, con riferimento al nostro caso, ancora di recente dalla Corte Militare Appello di Roma 5 Giugno 1991 — imp. Ferrazzano —, in Rass. giust. mil., 1992, p. 270. In questa decisione, che fonda l’inammissibilità della costituzione di parte civile sull’assunto della non riferibilità della disposizione di coordinamento dell’art. 207 c.p.p. ai procedimenti innanzi ai tribunali militari, si sottolinea — anche se l’argomento è usato dalla Corte nel senso opposto — il peso che devono avere in sede interpretativa i lavori preparatori. « Vero è che ad essi — che pure forniscono il materiale per la c.d. inter-


— 857 — rarsi, quindi, verosimilmente superata, almeno in sede di interpretazione giurisprudenziale, dopo l’intervento sul punto delle Sezioni unite. Vero è che ci troviamo dinanzi ad una evidente forzatura interpretativa dell’art. 207 disp. coord., il cui effetto naturale, a seguito dell’espresso riconoscimento della sua estensione applicativa anche ai procedimenti innanzi ai tribunali militari, non poteva che essere quello della abrogazione dell’intero titolo III del c.p.m.p.; tuttavia le perplessità che necessariamente residuano non recidono ancora del tutto la speranza di poter giungere allo stesso risultato sulla scia di quanto affermato, di certo inconsapevolmente, dalla stessa Corte di cassazione. Se è vero, dunque, che l’art. 207 consente — nelle conclusioni a cui pervengono le Sezioni unite — l’estensione al processo militare di quelle disposizioni che sono espressione dei principi fondamentali, anche in presenza di norme derogatorie, ciò significa, in altri termini, che esso ha la forza di porre nel nulla tutte le previsioni che risultino incompatibili con il nuovo disegno delineato dal legislatore. Ed, allora, diviene inevitabile domandarsi se la stessa previsione di salvaguardia delle norme derogatorie, posta dall’art. 261 c.p.m.p. possa ritenersi, oggi, alla luce di quanto detto, ancora compatibile con il nuovo sistema processuale. 4. A questo punto si impone, tuttavia, una precisazione, con specifico riferimento alla sentenza della Corte da cui abbiamo preso le mosse per riconsiderare in termini più generali i rapporti tra il c.p.m.p. e il nuovo codice di diritto processuale penale. Se è indubbio, infatti, che, nel richiamare l’art. 261 c.p.m.p., al fine di permettere l’applicazione della disciplina della parte civile al processo militare, la Corte ha in parte deluso l’aspettativa circa la totale applicabilità del c.p.p. al processo militare, è pur vero che tale soluzione è, forse, stata determinata dalla necessità di non lasciare prive di disciplina alcune peculiari situazioni regolate dal c.p.m.p., che non avrebbero più trovato una corrispondente previsione nel codice di procedura penale (32). In altri termini: la Corte costituzionale, in questi anni, si è, in realtà, vista costretta ad assicurare quei necessari meccanismi di integrazione che, forse, avrebbero dovuto garantire proprio le disposizioni di coordinamento del c.p.p.; cioè a dover assolvere il compito di conservare quelle poche disposizioni del c.p.m.p. che devono ritenersi ancora ragionevolmente speciali, anche se solo perché non previste in sede processuale comune (33). Non si può, allora, negare, in conclusione, che la lunga e tormentata esperienza che il codice penale militare ha dovuto sopportare per raggiungere una sufficiente armonia, oramai più che con i principi co-

pretazione storica — non bisogna dare soverchia importanza, giacché dovendo essere accertata la sola volontà della legge, e non già quella di coloro che materialmente concorsero a formularla, occorre sempre procedere con estrema cautela e vigilanza critica: ma è innegabile, in primo luogo ed in via di principio, che l’opinione in essi espressa non deve essere trascurata, in ordine alla interpretazione da adottare, quando non sia in aperto contrasto con il relativo testo normativo » (il corsivo è nostro). Per quel che riguarda, poi, l’affermazione dei compilatori circa il fatto che, ad occuparsi delle disposizioni del c.p.m.p., si sarebbe rischiato l’eccesso di delega, va ricordato, come, per la verità, l’art. 6 della legge delega nell’autorizzare il Governo ad emanare le norme di coordinamento, facesse riferimento espresso a « tutte le leggi dello Stato », dalle quali non può di certo ritenersi escluso il codice penale militare. (32) A titolo di esempio può ricordarsi l’art. 331 c.p.m.p., ove è stabilito che « oltre i casi di incompatibilità o di incapacità del perito e del consulente tecnico, stabiliti dal codice di procedura penale, non può prestare ufficio di perito o consulente tecnico l’ufficiale che ha compilato il rapporto o la denuncia, o che ha proceduto ad atti preliminari all’(istruzione) ». (33) A ben vedere, dunque, le numerose pronunce caducatorie della Corte costituzionale delle disposizioni del c.p.m.p. non vanno lette nel senso della implicita conferma dell’estraneità di quanto previsto all’art. 207 disp. coord. c.p.p. ai procedimenti davanti ai tribunali militari, ma al contrario come insufficienza delle norme di coordinamento rispetto ad alcune esigenze, per lo più funzionali, del processo penale militare. In senso contrario vedi da ultimo SPANGHER, Principi fondamentali, cit.


— 858 — stituzionali con quelli di diritto comune, si lega, ancora una volta, ad una disattenzione legislativa (34). 5. Una osservazione finale. Se è indubbia la rilevanza strumentale del diritto processuale penale, non è altrettanto scontato ritenere, invece, che esso manchi di una sua autonoma caratterizzazione funzionale, adatta a tutelare proprie esclusive necessità. Vi sono, infatti, delle regole del processo che si riconnettono ad esigenze basilari, il cui rispetto garantisce, cioè, « la libertà dell’uomo piuttosto che la difesa della società » (35), e anche per questo si può dire che « la legge del processo penale e il modo di applicarla » costituiscono l’« indizio migliore per misurare il grado di civiltà di un popolo » (36). Non vi è più alcuna ragione per ritenere, allora, che il processo penale militare debba rimanerne ancora estraneo, visto, fra l’altro, che la natura (costituzionalmente garantita) dell’organo giudicante e della res sostanziale valgono a garantirne già appieno la sua specialità. MARIA NOVELLA MASULLO Titolare di contributo di ricerca in Diritto penale - LUISS

(34) Basti pensare, fra l’altro, anche alla tradizionale inerzia del legislatore speciale che ancora nel 1993 aveva avuto la possibilità di riformare il c.p.m.p. in base ad una bozza di disegno di legge-delega predisposta dalla Commissione Zappalà. (35) Così BETTIOL, ricordato da TRANCHINA, Il diritto processuale penale e il processo penale, in AA.VV., Diritto processuale penale, Milano, 1994, p. 9. (36) CORDERO, Procedura penale, Milano, 1985, p. 17.


B) Giudizi di Cassazione

CASSAZIONE PENALE — SEZIONE V, 2 dicembre 1993 Pres. Archidiacono — Rel. Cognetti P.M. Albano (concl. conf.) — Ric. Berdelli Dibattimento — Lettura consentita — Atti non ripetibili — Atti « assunti » dalla polizia giudiziaria — Processo verbale di ricezione della querela — È tale (C.p.p. art. 512; d.l. 8 giugno 1992, n. 306, art. 8, conv. dalla l. 7 agosto 1992, n. 356, art. 11, con modificazioni). Quando per fatti o circostanze imprevedibili risulti impossibile la ripetizione del contenuto dell’atto di querela, da parte del suo autore, deve trovare applicazione l’art. 512 c.p.p., così come modificato dall’art. 8 d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. dalla l. 7 agosto 1992, n. 356, che consente la lettura, a richiesta di parte, degli atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal p.m. e dal giudice nel corso dell’udienza preliminare, laddove per « assunti » devono intendersi non solo gli atti formati a seguito di attività diretta della predetta autorità, ma anche gli atti semplicemente ricevuti dalle stesse, quale è appunto una spontanea dichiarazione di querela. (1). (Omissis). — Con sentenza in data 4 marzo 1993, il Pretore di Aosta assolveva Berdelli Giorgio dal reato di cui all’art. 612 c.p., perché il fatto non sussiste. All’imputato veniva addebitato di aver minacciato Casanova Sergio, dicendogli che gli avrebbe spaccato le gambe costringendolo a rimanere su una sedia a rotelle, ma il Pretore riteneva che nessuna prova era stata fornita in ordine all’assunto accusatorio con la conseguenza che l’imputato, che rendendo dichiarazioni spontanee aveva negato l’addebito, doveva essere assolto per insussistenza del fatto. Avverso la suddetta sentenza, ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso la Pretura Circondariale, denunciando inosservanza di norme processuali, stabilite a pena di inutilizzabilità (art. 606 lett c) c.p.p.) e, conseguentemente, mancata assunzione di prova decisiva e tempestivamente richiesta dal p.m. (art. 606 lett. d) c.p.p.). Assume il ricorrente che il Pretore ha erroneamente assolto l’imputato, sul rilievo che la lettura delle dichiarazioni orali di querela sarebbe consentita ai soli fini di valutare l’esistenza della condizione di procedibilità, secondo quanto previsto dall’art. 511, comma 4, c.p.p., mentre avrebbe dovuto considerare che se è pur vero che la lettura-contestazione, ai sensi dell’art. 511, comma 2, c.p.p. è possibile


— 860 — solo dopo l’esame della persona che quelle dichiarazioni abbia reso, al contrario, quando la persona risulta, per circostanze imprevedibili e sopravvenute, come nel caso di specie, non più reperibile, deve trovare applicazione l’art. 512 c.p.p., nella parte in cui consente, nella impossibilità di ripetizione, l’acquisizione al fascicolo del dibattimento del verbale espositivo raccolto e assunto dalla polizia giudiziaria. Conclude, pertanto, il ricorrente, per sentire annullare con rinvio l’impugnata decisione. MOTIVI DELLA DECISIONE. — Il ricorso merita accoglimento. Premesso che in tema di querela deve distinguersi l’atto formale, diretto ad instaurare il rapporto processuale, dal contenuto del medesimo, costituito dalla dichiarazione con cui la parte offesa di un fatto-reato invoca il processo, occorre rilevare che il legislatore, nel consentire all’art. 511, comma 4, c.p.p., la possibilità di dare lettura dei verbali delle dichiarazioni orali di querela ai soli fini dell’accertamento della esistenza della condizione di procedibilità, ha preso in considerazione l’atto di querela esclusivamente sotto il suo aspetto formale e cioé quale presupposto di validità del rapporto processuale, intendendo con ciò salvaguardare il principio dell’oralità del dibattimento, con l’impedire la possibilità di dare lettura del contenuto dell’atto prima dell’esame, quale teste-parte offesa, del querelante, così come previsto dall’art. 511, comma 2, c.p.p. Peraltro, quando per fatti o circostanze imprevedibili risulti impossibile la ripetizione del contenuto dell’atto di querela, da parte del suo autore, deve trovare applicazione l’art. 512 c.p.p., così come modificato dalla l. 7 agosto 1992 n. 356, che consente la lettura, a richiesta di parte, degli atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero e dal giudice nel corso dell’udienza preliminare (cfr. in questo senso: Cass. Sez. V, 18 maggio 1993 n. 6837), laddove per « assunti » devono intendersi non soltanto gli atti formati a seguito di attività diretta delle predette autorità, ma anche gli atti semplicemente ricevuti dalle stesse, quale è appunto una spontanea dichiarazione di querela. Potrebbe obbiettarsi, invero, che la tesi suddetta contrasta con il principio dell’oralità del dibattimento, ma a questo proposito può facilmente opporsi che è proprio il legislatore che ha previsto una deroga siffatta, al fine di evitare la dispersione di elementi probatori utili all’accertamento della verità, dapprima con il testo originario dell’art. 512 c.p.p., che prevedeva la possibilità di dare lettura di atti divenuti irripetibi per circostanze imprevedibili, purché assunti dal pubblico ministero o dal giudice, nel corso dell’udienza preliminare, estendendo poi, con la modifica apportata all’art. 512 c.p.p. con la l. 7 agosto 1992 n. 356, tale possibilità anche agli atti assunti dalla polizia giudiziaria, ritenendo tale modifica tanto più necessaria a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 31 gennaio 1992 n. 24, che ha dichiarato illegittimo il divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria (cfr. relazione al disegno di legge, atto n. 328, XI legislatura, Senato della Repubblica). Ciò posto, a fronte della formale richiesta del p.m. di dare lettura del verbale di denuncia-querela sottoscritto dal querelante dinanzi ai Carabinieri di Aosta, di cui era stata accertata la irripetibilità per cause sopraggiunte e imprevedibili, essendosi il querelante reso irreperibile, il Pretore non poteva opporre il divieto di cui all’art. 511, comma 4, c.p.p., risultando questo derogato, nella fattispecie in esame, dal disposto di cui all’art. 512 c.p.p.


— 861 — L’impugnata sentenza, risultando perciò viziata da mancata assunzione di una prova decisiva, deve essere annullata, con rinvio alla Pretura di Aosta per nuovo giudizio. — (Omissis).

—————— (1)

Utilizzabilità delle dichiarazioni orali di querela.

1. La sentenza in epigrafe muove dal presupposto che in tema di querela si deve distinguere tra atto formale e contenuto: il legislatore, nel consentire la lettura dei verbali delle dichiarazioni orali di querela per accertare la procedibilità dell’azione penale (art. 511, comma 4, c.p.p.), avrebbe inteso riferirsi al solo aspetto formale dell’atto. In linea con una precedente decisione (1) viene poi ribadito il potere del giudice di ammettere la lettura delle dichiarazioni in parola, ove, per fatti o circostanze imprevedibili, ne risulti impossibile la ripetizione da parte del suo autore. La Corte ritiene, infatti, che — ai sensi dell’art. 512 c. p. p. — sia consentita anche la lettura degli atti ricevuti dalla polizia giudiziaria, come appunto una dichiarazione di querela. Il limite all’utilizzazione probatoria del contenuto della querela, fissato nell’art. 511, comma 4, c.p.p., cederebbe, dunque, al principio generale di « non dispersione degli elementi di prova divenuti irripetibili al dibattimento » (art. 512 c.p.p.). L’impostazione richiamata, anche se appare discutibile sia sotto il profilo dell’interpretazione normativa sia come scelta di politica giudiziaria, offre l’occasione per una rimeditazione del tema, da anni oggetto di contrasto in dottrina e giurisprudenza, circa il valore della lettura degli scritti in cui si documenta la notizia di reato (2). Nel codice previgente l’art. 466 (« Lettura di rapporti, referti, denunce, querele ed altri atti ») conferiva al presidente o al pretore la facoltà di ordinare, anche d’ufficio, la lettura di determinati atti processuali, tra i quali la querela. Giurisprudenza (3) e parte della dottrina (4), seguendo una tradizione risalente al secolo scorso (5), ritenevano che la lettura di questi scritti non integrasse una acquisizione probatoria in senso proprio, ma adempisse soltanto ad una semplice funzione di comunicazione e pubblicizzazione della denuncia, in ossequio ad una esigenza di civiltà che esclude dal processo le denunce anonime. Tale soluzione, tuttavia, non risultava appagante. Secondo un’autorevole opinione (6), infatti, se ne

(1) Cfr. Cass., 18 maggio 1993, Vitalini, in Mass. dec. pen., 194362, richiamata in motivazione; nonché, di recente, v. anche Corte cost., ord. 12 aprile 1996, in Gazz. Uff., 17 aprile 1996, 1a serie spec., n. 16, 28 ss. (2) Per una disamina delle posizioni assunte da dottrina e giurisprudenza sotto il c.p.p. 1930, con particolare riferimento al principio del libero convincimento del giudice, v. NOBILI, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano,1974, 418. (3) Cfr. Cass., 10 gennaio 1950, Liardo, in Giust. pen., 1950, III, 409; ID., 15 luglio 1940, Zuccherich, in Riv. pen. Mass., 1940, 807; ID., 18 dicembre 1939, Saporito, ibidem, 154; ID., 12 maggio 1939, Gallo, in Giust. pen., 1939, IV, 487. (4) V. F. CORDERO, Procedura penale, IX ed., Milano, 1987, 713 e nota 11; ID., Scrittura e oralità, in Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, 222; ID., Linee di un processo di parti, in Ideologie del processo di parti, Milano, 1966, 175; FOSCHINI, Il dibattimento, Milano, 1956, 133; FULCI, La istruzione dibattimentale, Milano, 1959, 104. (5) FRAMARINO dei MALATESTA, La logica delle prove in criminale, II, Torino, 1912, 28 spiegava che al dibattimento la lettura della notizia di reato va disposta « perché si sappia donde si piglia le mosse nella causa che è sub judice »; chiarendo altresì che « la querela e la denuncia non potranno essere lette che in quanto si mantengano nei limiti della loro natura speciale ». (6) V. NOBILI, op. cit., 421.


— 862 — doveva negare la fondatezza per due ordini di motivi. Innanzitutto — si sosteneva — la lettura, volta esclusivamente a pubblicizzare il contenuto della notitia criminis, non avrebbe avuto alcuna utilità ove quest’ultimo fosse già stato conosciuto in un momento processuale precedente (es. comunicazione giudiziaria, interrogatorio, deposito degli atti in cancelleria). Inoltre, se lo scopo fosse stato quello indicato, la lettura avrebbe assunto i connotati di un « atto doveroso », in contrasto con il dettato dell’art. 466 c.p.p. 1930 che alludeva ad una facoltà del presidente o del pretore. Il codice vigente, all’art. 511, conferisce al giudice il potere di dare lettura degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento (art. 431 c.p.p.). Pur essendo patrimonio conoscitivo comune alle parti ed allo stesso giudice, l’adempimento di tale formalità è condizione necessaria alla utilizzazione degli atti medesimi ai fini della decisione (7). Trattandosi di verbali di dichiarazioni, la lettura deve avere luogo soltanto dopo l’esame della persona che le ha rese, salvo che questo non si compia (art. 511, comma 2, c.p.p.) (8). Ai sensi dell’art. 511, comma 4, c.p.p., tuttavia, la lettura dei verbali relativi alle dichiarazioni orali di querela o di istanza, inseriti nel fascicolo del dibattimento (art. 431, comma 1, lett. a), c.p.p.), adempie all’unico scopo di pubblicizzare l’esistenza della condizione di procedibilità. Quanto agli atti inseriti nel fascicolo del pubblico ministero (art. 433 c.p.p.), divenuti irripetibili per fatti o circostanze sopravvenute, l’art. 512 c.p.p., nella sua formulazione originaria, stabiliva che fosse data lettura, a richiesta di parte, di quelli assunti dalla pubblica accusa e dal giudice nel corso dell’udienza preliminare. Anche in relazione a questi atti, la lettura funge da strumento acquisitivo. A seguito della modifica introdotta con la l. 7 agosto 1992, n. 356 (9), la disciplina prevista dall’art. 512 c.p.p. è stata estesa all’attività di polizia giudiziaria. 2. Per una corretta analisi della sentenza, occorre verificare entro quali limiti le dichiarazioni orali di querela raccolte dalla polizia giudiziaria possano essere utilizzate dal giudice, ove ne risulti impossibile la ripetizione. Ci si deve, cioé, chiedere se lo scritto in cui si documenta la querela sia recuperabile anche mediante la procedura di cui all’art. 512 c.p.p., espressamente prevista per gli atti assunti prima del dibattimento, ovvero, sempre e soltanto mediante quella specifica di cui all’art. 511, comma 4, c.p.p. La prima ipotesi condurrebbe ad utilizzare le dichiarazioni orali contenute nella notizia di reato alla stregua di elementi probatori; la seconda, unicamente per accertare l’esistenza della condizione di procedibilità. Una corretta impostazione del problema deve tuttavia muovere dalla considerazione secondo cui querela (e notizia di reato in generale) e prova del reato

(7) Accanto alla lettura, l’art. 511 c.p.p. prevede, quale modalità alternativa di acquisizione della prova, l’istituto dell’indicazione degli atti. Viene tuttavia sancita l’impraticabilità di tale metodo alternativo quando la lettura sia richiesta da una parte e verta su verbali di dichiarazioni oppure, « se si tratta di altri atti... (sussista) un serio disaccordo sul contenuto di essi » (comma 5). In tema di lettura ed indicazione degli atti, v. AMODIO, Il dibattimento, in AMODIO-DOMINIONIGREVI-NEPPI MODONA-VIGNA, Il nuovo processo penale dalle indagini preliminari al dibattimento, Milano, 1989, 81; ILLUMINATI, Il nuovo dibattimento: l’assunzione diretta delle prove, in AA.VV., Le nuove disposizioni sul processo penale, Atti del convegno, Perugia, 14-16 aprile 1988, a cura di A. Gaito, Padova, 1989, 77; D. SIRACUSANO, voce Dibattimento: I) dibattimento penale, in Enc. giur., X, Roma, 1988, 1; UBERTIS, voce Giudizio di primo grado (disciplina del) nel diritto processuale penale, in Dig. pen., IV ed., V, Torino, 1991, 535. (8) Per l’acquisizione al dibattimento delle relazioni peritali, v. art. 511, comma 3, c.p.p. il quale recita: « La lettura della relazione peritale è disposta solo dopo l’esame del perito ». (9) La l. 7 agosto 1992, n. 356 ha convertito in legge, con modificazioni, il d. l. 8 giugno 1992, n. 306 recante modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa.


— 863 — sono entità distinte, contribuendo la prima a determinare l’oggetto della seconda (10). La notitia criminis, infatti, permette al pubblico ministero di formulare, fin dall’inizio delle indagini, quella « imputazione preliminare » (11), idonea, per sua natura, a consentire ed imporre la diagnosi di pertinenza-rilevanza stabilita dall’art. 187 c.p.p. (12). Sulla base di questa premessa, l’affermazione di principio contenuta nella sentenza in esame, volta ad offrire una lettura molto ampia dell’art. 512, appare in contrasto con gli intendimenti del legislatore del 1988. La formulazione originaria della norma in epigrafe — come si è visto — non comprendeva gli atti assunti dalla polizia giudiziaria divenuti irripetibili per fatti o circostanze imprevedibili. Questi atti, dunque, non erano « recuperabili » al dibattimento per alcuna ragione, a differenza di quelli originariamente non ripetibili, richiamati dall’art. 431, comma 1, lett. b), idonei ad essere letti ed utilizzati dal giudice ai fini della decisione (13). Le dichiarazioni orali di querela ricevute a verbale dalla polizia giudiziaria, potevano invece — secondo quanto già ricordato — essere lette unicamente per verificare l’esistenza della condizione di procedibilità (art. 511, comma 4, c.p.p.). Insomma, col nuovo codice sembrava diventato certo quanto ancora dubbio presso quello superato: le dichiarazioni orali di querela raccolte a verbale dalla polizia giudiziaria non assumevano valore probatorio anche se divenute irripetibili in giudizio (14). Tuttavia, nell’ambito degli atti ad irripetibilità sopravvenuta, si era creata una disparità di trattamento difficilmente giustificabile: da un lato — come già detto — era consentito l’utilizzo ai fini del giudizio di quelli assunti dal pubblico ministero (15), mentre, dall’altro, era escluso l’impiego dei risultati dell’attività di polizia giudiziaria. In particolare, al giudice non era permesso di valutare le dichiarazioni rese ai sensi dell’art. 351 c.p.p. (« Altre sommarie informazioni ») da soggetti che, per fatti o circostanze imprevedibili all’epoca delle indagini, non potevano essere escussi in dibattimento. Nella realtà, il quadro normativo descritto aveva indotto la giurisprudenza ad elaborare soluzioni interpretative che permettessero l’utilizzo in dibattimento delle dichiarazioni raccolte dalla polizia giudiziaria, divenute successivamente irripeti-

(10) Così F. CORDERO, Procedura penale, cit., 713. (11) Per il concetto di « imputazione preliminare », v. NOBILI, La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Bologna, 1989, 85, 89, 111, 115, 183. (12) In questi termini NOBILI, sub art. 187 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da Chiavario, II, Torino, 1990, 393. (13) Dal tenore delle direttive e della disciplina delegata relative al fascicolo del dibattimento, risulta evidente la scelta del legislatore di evitare una indicazione degli « atti non ripetibili » e di demandare all’interprete la loro individuazione. Il tentativo di elencare in modo tassativo gli atti di indagine che appaiono fin dall’inizio non ripetibili è stato subito respinto per ragioni collegate rispettivamente: alle « esigenze di coerenza con l’impostazione generale del codice », alla necessità di riconoscere al giudice del dibattimento il potere di « valutare in concreto l’effettiva non ripetibilità degli atti », all’opportunità di consentire un eventuale adeguamento del criterio della non ripetibilità « al divenire della esperienza teorica e pratica ». In questi termini cfr. Relaz. prog. prelim. c.p.p., in Gazz. Uff., 24 ottobre 1988, n. 250, (Suppl. ord. n. 2), 90. Sul dibattito scaturito intorno al concetto di « non ripetibilità degli atti », v. ICHINO, Gli atti irripetibili e la loro utilizzabilità dibattimentale, in AA.VV., La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di Ubertis, Milano, 1992, 111. In via puramente esemplificativa, senza alcuna pretesa di completezza, gli atti non ripetibili che rientrano nella categoria di cui all’art. 431, comma 1, lett. b), c.p.p. sono quelli previsti dagli artt. 352, 353, 354 c.p.p. e 223 disp. att. c.p.p. (14) Così NOBILI, Concetto di prova e regime di utilizzazione degli atti nel nuovo codice di procedura penale, in Foro it., 1989, V, 281. (15) A tali atti, tuttavia, vanno aggiunti, ai sensi dell’art. 512 c.p.p., quelli formati dal giudice nel corso dell’udienza preliminare.


— 864 — bili (16). Simili accorgimenti apparivano inaccettabili, poiché l’art. 431 c.p.p., pur facendo riferimento generico agli atti irripetibili, lascia intendere — come peraltro ritiene pacificamente la dottrina — che rientrino nella sua previsione solo quelli che appaiano tali in origine, sulla base, cioé, di una loro intrinseca connotazione (17). Traspariva comunque, da questa impostazione giurisprudenziale, un comprensibile imbarazzo, determinato dalla circostanza che soltanto una interpretazione forzata della norma avrebbe permesso di compiere un accertamento completo dei fatti (18). In tale contesto, il legislatore è stato indotto a modificare l’art. 512 c.p.p., nel senso sopra indicato, da due ordini di motivi: la necessità di non disperdere elementi conoscitivi raccolti dalla polizia giudiziaria nel corso della investigazione, e l’esigenza di abbandonare impostazioni caratterizzate da eccessive prevenzioni e discriminazioni nei confronti della stessa polizia giudiziaria (19). Tale riforma, pur apparendo necessaria ai fini di una più equilibrata impostazione del sistema probatorio, ha lasciato invariato il rapporto esistente tra l’art. 511, comma 4, c.p.p. e l’art. 512 c.p.p. Più precisamente, non sembra che l’attuale contenuto della seconda disposizione debba incidere sul principio fissato dall’art. 511, comma 4, c.p.p. Innanzitutto, gli articoli in esame, anche se riferibili entrambi al regime delle letture, continuano ad avere ambiti di applicazione tassativamente distinti. L’art. 511 c.p.p. si riferisce ai verbali degli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento, mentre l’art. 512 c.p.p. è stato dettato per i verbali di atti contenuti comunque in quello del pubblico ministero. Già tale separazione — a nostro parere — fa dubitare che il verbale contenente le dichiarazioni orali di querela raccolto dalla polizia giudiziaria possa essere letto, a seconda della reperibilità o meno del suo autore, come prova della procedibilità dell’azione e/o come prova dei fatti in esso narrati.

(16) Così Trib. Milano, 27 ottobre 1990, Miacola, in Arch. nuova proc. pen., 1991, 266; Trib. Torino, 15 giugno 1990, Migliari, in Cass. pen., 1990, 348. (17) Tale conclusione trova conferma non solo nella diversa qualificazione utilizzata (l’art. 512 c.p.p. parla di « impossibile ripetizione »; l’art. 431 c.p.p. parla di « atti non ripetibili »), ma anche nel fatto che, in caso di irripetibilità sopravvenuta, l’allegazione dei verbali al fascicolo dibattimentale è condizionata — ai sensi dell’art. 515 c.p.p. — dalla lettura, la quale può essere disposta soltanto dal giudice del dibattimento, a richiesta di parte, e previa verifica sia dell’impossibilità di ripetizione dell’atto, sia della natura imprevedibile dei fatti e delle circostanze che l’hanno determinata. A ciò si aggiunga un argomento di carattere sistematico, rappresentato dal contenuto dell’art. 512 c.p.p., che prevede un apposito congegno di recupero ex post per gli atti di indagine divenuti irripetibili in un momento successivo alla loro assunzione. Sul punto la dottrina è pressoché concorde: AMODIO, Fascicolo processuale ed utilizzabilità degli atti, in AA.VV., Lezioni sul nuovo processo penale, Milano, 1990, 179; CHIAVARIO, La riforma del processo penale, II ed., Torino, 1990, 136; F. CORDERO, sub artt. 431-432 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, II ed., Torino, 1992, 516; DOMINIONI, Chiusura delle indagini ed udienza preliminare, in AMODIO-DOMINIONI-GREVI-NEPPI MODONA-VIGNA, Il nuovo processo penale, cit., 78; FERRUA, Il ruolo del giudice nel controllo delle indagini preliminari e nell’udienza preliminare, in Studi in memoria di Pietro Nuvolone, III, Il nuovo processo penale. Studi di diritto straniero e comparato, Milano, 1991, 61; D. GROSSO, L’udienza preliminare, Milano, 1991, rist. in., 265; R.E. KOSTORIS, sub artt. 429-433 c.p.p., in Codice di procedura penale - Commentario, coordinato da Giarda, III, Milano, 1991, 8; LOZZI, Indagini preliminari, incidenti probatori, udienza preliminare, in questa Rivista, 1989, 241; NOBILI, La nuova procedura penale, cit., 241; PERONI, La testimonianza indiretta della polizia giudiziaria al vaglio della Corte Costituzionale, nota a Corte Cost., 31 gennaio 1992, n. 24, in questa Rivista, 1992, 690; SANTALUCIA, Appunti in tema di atto irripetibile, in Giust. pen., 1990, II, 575. (18) Così D’ONOFRIO, Brevi note sulla sopravvenuta irripetibilità di atti di assunzione di sommarie informazioni da parte della p.g. e sulla utilizzabilità di essi in dibattimento, nota a Trib. Piacenza, 11 aprile 1991, Baletta, in Arch. nuova proc. pen., 1991, 262. (19) Sull’argomento, v. PERONI, op. cit., 696, 697, il quale osserva che « nessun fondamento potrebbe rinvenirsi in una presunta, inferiore attendibilità dell’atto di polizia, quale conseguenza di un minor grado di affidabilità di quest’ultima rispetto all’autorità giudiziaria inquirente, sul piano del rispetto delle forme di legge... una volta operata la scelta nel senso di consentire l’accesso al dibattimento di atti divenuti ex post irripetibili, tale opzione dovrebbe coerentemente estendersi anche ai risultati delle indagini di polizia ».


— 865 — In tal modo, il principio fissato dall’art. 511, comma 4, c.p.p. verrebbe derogato da quello stabilito all’art. 512 c.p.p. Bisognerebbe insomma pensare ad una sopravvenuta incompatibilità tra due norme ed ipotizzare, nella stessa fase processuale (dibattimento) ed in relazione al medesimo atto, una duplice procedura di acquisizione con finalità distinte. Una prima lettura, mirabilmente definita lettura-controllo (20), ordinata dal giudice ai sensi dell’art. 511, comma 4, c.p.p. per accertare l’esistenza di una condizione di procedibilità; una seconda, detta lettura-acquisizione, esercitata in virtù dell’art 512 c.p.p. per acquisire un elemento probatorio valutabile ai fini della decisione. In sostanza, un medesimo atto verrebbe sottoposto a due livelli di utilizzabilità nella medesima fase processuale; soluzione che — dall’analisi del sistema — non sembra coincidere con l’intendimento del legislatore. Il c.p.p. 1988, anche se disciplina in modo estremamente complesso e variegato l’utilizzabilità degli atti conformi al modello legale, non prevede tuttavia un meccanismo riconducibile a quello ritenuto dalla sentenza in esame. Sono previste ipotesi in cui un atto ha efficacia in certi processi e non in altri; in certe fasi di uno stesso procedimento e non in altre; soltanto per talune decisioni pur di una medesima fase; per un solo tipo di « uso gnoseologico », ovvero, in riferimento soltanto a determinate persone (c.d. utilizzabilità ad personam) (21). Va perciò detto che mediante la lettura ai sensi dell’art. 511, comma 4, c.p.p., l’atto in cui sono riportate le dichiarazioni orali di querela esaurisce i propri effetti. Questa limitazione tende ad assicurare che le dichiarazioni del querelante, fondamentali ai fini della ricostruzione del fatto di reato, siano assunte nel pieno contraddittorio delle parti e non sostituite — mediante la c.d. lettura acquisizione (art. 512 c.p.p.) — da quelle contenute nella notitia criminis, volte a rimuovere la condizione di procedibilità (art. 336 c.p.p.). Risulta pertanto indifferente che tali ultime dichiarazioni siano divenute irripetibili per circostanze sopravvenute, non potendo comunque — a nostro parere — essere considerate ai fini della decisione dibattimentale. Quanto affermato, tuttavia, lascia aperto l’interrogativo se la querela, fondandosi sulla enunciazione di un fatto previsto dalla legge come reato, costituisca pur sempre un atto dichiarativo del quale il giudice possa tenere conto in una fase diversa dal dibattimento. Occorre insomma chiedersi se, mancando una disposizione omologa all’art. 511, comma 4, c.p.p. per le fasi predibattimentali, le dichiarazioni orali di querela rilasciate alla polizia giudiziaria (e la querela in generale (22)) siano utilizzabili per le decisioni assunte nell’ambito dei giudizi anticipati, dell’udienza preliminare e di ogni provvedimento giurisdizionale adottabile nel corso delle indagini (es. artt. 291; 406; 408 c.p.p.). A nostro parere, le soluzioni teoricamente ipotizzabili sono due. Sulla base dell’impostazione seguita fino ad ora, volta a considerare querela e prova del reato entità distinte (23), si dovrebbe negare alle predette dichiarazioni il valore di elementi conoscitivi utilizzabili per decisioni giurisdizionali predibattimentali. Secondo una diversa interpretazione, invece, il giudice per le indagini preliminari potrebbe servirsi di tali dichiarazioni per l’emissione dei provvedimenti di sua com-

(20) Cfr. NOBILI, La nuova procedura penale, cit., 226. (21) Cfr. NOBILI, Il « diritto delle prove » ed un rinnovato concetto di prova, in Commento, cit., II, cit., 383. (22) In proposito, v. NOBILI, La nuova procedura penale, cit., 226, 264 ove si afferma, trattando dell’art. 511, comma 4, c.p.p., che « la norma è dettata in termini parziali, ossia con riguardo alle dichiarazioni orali, ma è inequivocabile che abbia valore generale... la ratio è esclusivamente quella di verificare l’esistenza della condizione di procedibilità. La stessa procedura di controllo e la stessa limitazione di uso risultano perciò da applicare anche alla querela o istanza presentata in forma scritta ». (23) V. retro nota 10.


— 866 — petenza. Infatti, pur mancando esplicite previsioni, esistono nel codice alcune norme dalle quali evincere una scelta di fondo così orientata. Gli artt. 406 c.p.p. (« Proroga dei termini »), 408 c.p.p. (« Richiesta di archiviazione per infondatezza della notizia di reato »), 416, comma 2, c.p.p. (« Presentazione della richiesta del pubblico ministero ») e 454, comma 2, c.p.p. (« Presentazione della richiesta del pubblico ministero » in relazione al provvedimento di ammissibilità del rito), nel disciplinare il contenuto di richieste volte a provocare interventi giurisdizionali, includono la notizia di reato tra gli elementi « conoscibili » ed « utilizzabili » dal giudice per la decisione. Tali norme, inserite in un contesto processuale (fase predibattimentale) caratterizzato dall’assenza di una prescrizione analoga a quella dell’art. 511, comma 4, c.p.p., inducono a ritenere che il giudice non sia vincolato ad utilizzare il contenuto delle notizie di reato soltanto per accertare l’esistenza della procedibilità dell’azione (24). Anche se non risulta espressamente dalla lettera del codice, sembra corretto estendere l’interpretazione segnalata ad ogni provvedimento assunto prima del giudizio, e quindi anche alle decisioni inerenti le misure cautelari. In quest’ottica, è verosimile ritenere che nell’ambito del procedimento applicativo (art. 291 c.p.p.), tra « gli elementi su cui la richiesta (di una misura) si fonda », possa essere incluso il verbale di querela. Volgendo ora l’attenzione ai riti speciali, va subito detto che soltanto l’immediato (art. 453 c.p.p.) ed il direttissimo (art. 449 c.p.p.), celebrandosi secondo le forme del dibattimento, sembrano incontrare il limite fissato dall’art. 511, comma 4, c.p.p. (25). Gli altri procedimenti (abbreviato; applicazione della pena su richiesta; procedimento per decreto), invece, obbligano il giudice a decidere sulla base delle prove raccolte con le forme dell’incidente probatorio (art. 392 c.p.p.) e degli atti di indagine preliminare del pubblico ministero e della polizia giudiziaria. Nell’ambito di questi ultimi — in forza di una interpretazione volta a far rientrare nel concetto di « atti assunti » sia quelli compiuti sia quelli ricevuti dall’autorità (26) — sembrano compresi anche i verbali contenenti le dichiarazioni orali di querela rilasciate alla polizia giudiziaria. Si potrebbe dunque concludere nel senso che la richiesta o il consenso dell’imputato ad una chiusura anticipata del processo permettano il superamento dei divieti che sanciscono la separazione probatoria tra le fasi. In sostanza, la volontà del reo autorizzerebbe l’impiego, ai fini della decisione, di atti altrimenti privi di valore probatorio, formati da pubblico ministero e polizia giudiziaria nel corso delle indagini (27). Tale conclusione emerge dal ri-

(24) Sul punto, v. Corte Cost., 9 marzo 1992, n. 91, in Cass. Pen., 1992, 1749, ove, in riferimento ad una presunta questione di illegittimità costituzionale dell’art. 469 c.p.p., si afferma che « ...la querela, fondandosi sulla enunciazione di un fatto previsto dalla legge come reato, costituisce pur sempre un atto dichiarativo del quale il giudice può tener conto a fini diversi da quelli di cui innanzi si è detto (art. 511, comma 4, c.p.p.). Se, pertanto, la querela prospetta elementi o circostanze di fatto che rendono sotto qualsiasi profilo dubbia l’estinzione del reato, al giudice è certamente consentito « conoscere » e « utilizzare » quegli elementi, al fine di stabilire se sia necessario procedere al dibattimento per accertare l’effettiva esistenza della causa estintiva ». (25) Il problema, sotto il profilo delle dichiarazioni orali di querela, non si presenta per il procedimento per decreto, essendo tale rito previsto esclusivamente per i reati perseguibili d’ufficio (art. 459, comma 1, c.p.p.). (26) Cfr. BASSI, Alcune riflessioni in materia di atti irripetibili alla luce della novella n. 356/92, in Cass. pen., 1994, 2115. (27) In questo senso AMODIO, Fascicolo processuale ed utilizzabilità degli atti, cit., 177; PAOLOZZI, Il giudizio abbreviato, nel passaggio dal modello « tipo » al modello pretorile, Padova, 1991, 82; VOENA, Attività investigativa e indagini preliminari, in Le nuove disposizioni sul processo penale, cit., 45.


— 867 — lievo che la manifestazione di volontà dell’imputato integra una rinuncia all’esercizio del diritto di difesa nella sua pienezza (28). Simile soluzione, tuttavia, non risulta appagante (29). Infatti, altro è il consenso dell’imputato che di fatto si concretizzi in una rinuncia al contraddittorio per la formazione della prova (30); altro è il consenso dell’imputato che trasformi un atto processuale, per sua stessa natura non valutabile ai fini di una sentenza, in valutabile. Sembra allora possibile ritenere che il legislatore, nella materia che ci occupa, abbia voluto imporre regole diverse a seconda che la decisione coinvolga o meno l’applicazione di una pena. Ciò comporta che i verbali delle dichiarazioni orali di querela assunte dalla polizia giudiziaria, potranno essere considerati — come già ipotizzato — soltanto ai fini di provvedimenti giurisdizionali relativi alle indagini preliminari ed alla loro conclusione, nonché per i provvedimenti afflittivi di misure cautelari disposte in qualsiasi fase del processo. 3. Il quadro tracciato risulterebbe incompleto ove non si valutassero le conseguenze di una eventuale violazione del limite fissato nell’art. 511, comma 4, c.p.p. Mancando una previsione espressa di inutilizzabilità, si deve accertare se l’inosservanza del disposto sia riconducibile alla disciplina dell’art. 191 c.p.p. (« Prove illegittimamente acquisite »). Più precisamente, bisogna verificare se il limite di cui all’art. 511, comma 4, c.p.p. rientri nella categoria dei c.d. « divieti probatori », la cui inosservanza è sanzionata, appunto, dall’art. 191 c.p.p. Una corretta impostazione del problema impone alcune considerazioni preliminari. Innanzitutto, il dubbio circa l’attribuzione del carattere di divieto ad una determinata prescrizione in materia probatoria nasce soltanto nei casi di inutilizzabilità generale, dovendosi presumere che il legislatore abbia costruito le inutilizzabilità speciali (31), previste in apposite norme, come conseguenza immediata dell’inosservanza di divieti sia espliciti, sia indiretti. Tra i primi rientrano, ad esempio, i divieti previsti dall’art. 63, comma 1 e 2, c.p.p. in tema di dichiarazioni indizianti, dall’art. 103, comma 7, c.p.p. in tema di garanzie del difensore, ovvero dall’art. 271, comma 1, c.p.p. in tema di intercettazioni telefoniche. Tra i secondi, invece, si inserisce il divieto fissato all’art. 228, comma 3, c.p.p. che nega l’utilizzazione, per fini diversi dall’accertamento peritale, di notizie richieste dal perito all’imputato. Il divieto ivi sottinteso è quello fissato dall’art. 62 c.p.p. relativo alla testimonianza sulle dichiarazioni rese dall’imputato. In secondo luogo, occorre sottolineare che non possono essere assimilate a divieti, le prescrizioni fissate dal giudice soltanto per limitare l’efficacia della prova. Intendiamo riferirci a quelle statuizioni giudiziali finalizzate ad attribuire valore agli atti compiuti dal giudice astenutosi o ricusato (art. 42, comma 2, c.p.p.) ov-

(28) In questi termini, v. LOZZI, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, in I riti differenziati nel nuovo processo penale, Atti del Convegno presso l’Università di Salerno, 30 settembre — 2 ottobre 1988, Milano, 1990, 57. (29) Perplessità in tal senso sono esposte anche da chi ha elaborato questa soluzione, cfr. NOBILI, La nuova procedura penale, cit., 225. (30) In questo senso, cfr. GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Padova, 1992, 179; PAOLOZZI, op. cit., 81, 82. (31) Circa il qualificarsi dell’inutilizzabilità come generale o speciale, a seconda che la sua individuazione possa avvenire a mezzo del riferimento alla norma di genus che detta la connotazione della sanzione (art. 191 c.p.p.) oppure a singole disposizioni, v. GREVI, Prove, in GAITO-ILLUMINATI-LEMMO-NEPPI MODONA-RICCIO-SPANGHER-VOENA, Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di Conso-Grevi, III ed., Padova, 1993, 207; NOBILI, La nuova procedura penale, cit., 149; ID., sub art. 191 c.p.p., in Commento, cit., II, cit., 410. Sull’argomento, in relazione a problemi più specifici, v. GALANTINI, op. cit., 98.


— 868 — vero dal giudice del processo per il quale è stata disposta la rimessione (art. 48, comma 3, c.p.p.). Tali previsioni, pur rappresentando limiti all’utilizzazione dell’atto, non generano divieti probatori in senso proprio, poiché non derivano dalla volontà del legislatore, ma bensì da quella del giudice (32). Simile affermazione pare confermata, ad esempio, dalla circostanza che l’omessa dichiarazione relativa all’efficacia degli atti di cui all’art. 48, comma 3, c.p.p., non ne esclude la validità (33). Infine — pur in presenza di opinioni parzialmente contrarie (34) — bisogna precisare che l’art. 191, comma 1, c.p.p., mediante la locuzione « divieti stabiliti dalla legge », sembra riferirsi soltanto ai divieti fissati in norme processuali e non a quelli espressi in norme penali sostanziali o extrapenali (35). La violazione di questi ultimi (illiceità) potrà produrre effetti sanzionatori ai sensi dell’art. 191 c.p.p. soltanto nei casi in cui si converta in illegittimità processuale (36). Ad esempio, la prova assunta contravvenendo al disposto fissato nell’art. 188 c.p.p. (« Libertà morale della persona nell’assunzione della prova ») risulta nel contempo illecita ed illegittima, e viene dunque estromessa dal processo poiché la sua seconda connotazione rientra nell’ambito applicativo dell’art. 191 c.p.p. Va pure sottolineato che la legge (processuale) fonte del divieto, sembra riferirsi non solo alle disposizioni del codice, ma anche a quelle contenute in leggi speciali (37). Tra queste, in via puramente esemplificativa, si può richiamare l’art. 1, l. 5 dicembre 1987, n. 507 e l’art. 120, comma 7, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 i quali ammettono l’applicabilità del segreto professionale rispettivamente ai dottori commercialisti ed ai dipendenti del servizio pubblico per le tossicodipendenze. Tanto premesso, l’obiettivo si appunta ora sull’esame dei criteri idonei all’individuazione dei divieti probatori onde verificare l’appartenenza o meno dell’art. 511, comma 4, c.p.p. a tale categoria. Ciò — atteso che i divieti non sono sempre espressamente previsti nelle norme sulle singole prove (38) — ha dato adito alla elaborazione di criteri differenti basati su presupposti che, pur non essendo alternativi, solo in parte consentono di giungere alle medesime conclusioni. Alcuni autori hanno sostenuto che il riconoscimento delle regole di esclusione debba avvenire mediante un parametro di ordine formale, facendo cioé capo alle locuzioni impiegate dal legislatore (39). Questo criterio — sicuramente agevole in presenza di formule normative esplicite che rivelino l’esistenza del divieto (es.

(32) In tal senso GALANTINI, op. cit., 111, 112. (33) Cfr. Relaz. prog. prelim., cit., 22. (34) Cfr. NOBILI, La nuova procedura penale, cit., 157, il quale, in relazione al contenuto dell’art. 191 c.p.p., sostiene: « Non so quale fosse l’intenzione dei compilatori; tuttavia l’espressione testuale mi pare ricomprenda anche la violazione della legge penale sostanziale. Non sta scritto: « divieti stabiliti dalla legge procedurale » e mi pare che non sia affatto improprio qualificare come divieto anche la norma penale incriminatrice »; lo stesso A., tuttavia, in uno scritto successivo (sub art. 191 c.p.p., in Commento, cit., II, cit., 413) sembra sostenere le proprie convinzioni in modo più sfumato. Egli, infatti, afferma: « la violazione di un precetto di diritto sostanziale — pur restando ovviamente sanzionato penalmente — non comporta di per sé violazione anche della norma processuale, né determina in via automatica sanzioni (invalidità) su quest’ultimo piano; occorre una disposizione processuale che « trasformi » la prova illecita (altresì) in prova invalida... La nuova sanzione è ivi sancita in via generale... Ed almeno sul piano dell’esegesi testuale, si rileva come anche la fattispecie sostanziale incriminatrice sia una « legge » che « vieta »; nonché D. SIRACUSANO, Le prove, in D. SIRACUSANO-GALATI-TRANCHINA-ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, II ed., I, Milano, 1996, 364. (35) Cfr. F. CORDERO, Procedura penale, 1991, 564; nonché BARGI, Procedimento probatorio e giusto processo, Napoli, 1990, 257 e nota 109; GALANTINI, op. cit., 205. (36) In tal senso GALANTINI, op. loc. cit.; nonché retro nota 34 laddove sono riportate le affermazioni di Nobili. (37) Così BARGI, op. cit., 109; GALANTINI, op. cit., 113, 114. (38) Così F. CORDERO, Procedura penale, cit., 505. (39) Così NOBILI, sub art. 191 c.p.p., in Commento, cit., II, cit., 411; nonché BARGI, Procedimento probatorio, cit., 1990, 255.


— 869 — artt. 197-240 c.p.p.) — provoca incertezze di fronte ad un dato testuale costruito in modo ambiguo. In tali casi, infatti, l’interprete dovrà ricorrere ad altre forme di individuazione: sarà ad esempio opportuno effettuare un riscontro sulla norma, volto ad accertare se essa contenga un « elenco tassativo oppure esemplificativo di casi. Se l’elenco risult(erà) tassativo, al di fuori di esso oper(erà) un divieto » (40). Ragionando in questo modo, si viene a creare quella che è stata definita « sottocategoria » del divieto probatorio, composta da norme di esclusione formulate in maniera indiretta o mediante permissione (41). Simile orientamento, tuttavia, rischia di dilatare eccessivamente l’ambito dell’inutilizzabilità e di colpire situazioni che non meritano epiloghi così drastici (42). Accanto al criterio formale, altra parte della dottrina ha elaborato un metodo di stampo sostanzialistico, volto a costruire i divieti probatori in base all’interesse, sostanziale o processuale, tutelato dalla disposizione (43). Questa opinione — sul presupposto che le regole di esclusione integrano vere e proprie norme di garanzia — individua un sistema nel quale vengono protetti interessi endoprocessuali ed extraprocessuali, vale a dire finalità collegate alla logica dell’indagine e diritti riconosciuti indipendentemente dal processo (44). Si delineano quindi divieti desumibili sia da fattispecie di natura processuale sia da principi costituzionali. È allora possibile rinvenire disposizioni che garantiscono la validità gnoseologica dell’accertamento, l’organizzazione dell’attività di ricerca della prova e di raccolta delle prove precostituite, il diritto alla riservatezza, il diritto di difesa (45). Appare evidente che — rispetto a quanto prospettato utilizzando il criterio formale — il metodo volto ad identificare la ratio sottesa alla norma che disciplina i fenomeni probatori, consente soluzioni più celeri e corrette. Soltanto la norma collocata a supporto di uno specifico interesse bisognoso di tutela può integrare una regola di esclusione, indipendentemente dai casi in cui sia lo stesso legislatore a prevederla espressamente (46).

(40) Cfr. NOBILI, La nuova procedura penale, cit., 150. (41) Così NOBILI, op. ult. cit., 157. (42) Critica nei confronti del metodo formalistico si rivela GALANTINI, op. cit., 136, la quale ritiene che, ad esempio, il divieto contenuto nell’art. 251, comma 1, c.p.p. non debba essere sanzionato, ove violato, con l’inutilizzabilità. In senso contrario, v. BASSO, sub art. 252 c.p.p., in Commento, cit., II, cit., 730. La stessa dottrina che ha elaborato la teoria formalistica, riconosce la possibilità dell’emergere di incertezze interpretative, cfr. NOBILI, op. ult. cit., 151. (43) Cfr. AMODIO, Modalità di prelevamento di campioni e diritto di difesa nel processo per frodi alimentari, in questa Rivista, 1970, 97; GALANTINI, op. cit., 139. (44) Il criterio di stampo sostanzialistico, fondato sulla ratio del divieto, riprende il sistema delle exclusionary rules, tipico del processo penale statunitense, ove risulta fondamentale la distinzione tra divieti posti a tutela dell’attendibilità dell’accertamento (intrinsic policy) e divieti cui è affidata la protezione di diritti individuali riconosciuti dal Bill of Rights o dalla common law (extrinsic policy). Nel primo gruppo rientrano diversi tipi di norme: relative alla capacità di testimoniare; che impongono la diretta conoscenza dei fatti da parte del teste; che proibiscono a quest’ultimo di esprimere apprezzamenti personali; relative ai modi di escussione della testimonianza; concernenti la prova reale ed il divieto della testimonianza indiretta. Del secondo gruppo, invece, fanno parte tutte quelle norme che sanciscono i privilegi (es. privilegio coniugale; privilegio per le consultazioni mediche). In questi termini, nella dottrina italiana, cfr. COMOGLIO, Il problema delle prove illecite nella esperienza anglo-americana e germanica, Padova, 1966, 279; PAPA, Contributo allo studio delle exclusionary rules nel processo penale statunitense, in Ind. Pen., 1987, 304; nella dottrina statunitense, v. MCCORMICK, Handbook of the Law of Evidence, II ed., aggiornamento a cura di Cleary, St. Paul, Minn.., 1972, 151 ss.; WIGMORE, Evidence in Trials at Common Law, II, III ed., Boston, 1940, 856 ss. (45) Per una trattazione maggiormente esaustiva dell’argomento, si rinvia a GALANTINI, op. cit., 139. (46) In proposito, v. GALANTINI, op. cit., 147, la quale giunge a questa conclusione operando un parallelo tra l’art. 343, comma 4, c.p.p. e l’art. 346 c.p.p. Entrambe le disposizioni sono caratterizzate dall’assenza di una condizione di procedibilità, la quale, tuttavia, crea situazioni di « difetto di potere con valenze diverse che si specificano soltanto se rapportate all’oggetto di protezione voluto dal legislatore ». L’art. 343 c.p.p. racchiude in sé l’esigenza di tutela di un interesse specifico extraprocessuale (sul punto v.


— 870 — Al di là del richiamo ai diversi criteri elaborati dalla dottrina, risulta comunque ragionevole collocare il limite fissato dall’art. 511, comma 4, c.p.p. nella categoria dei c.d. divieti probatori. Seguendo il criterio formale, la disposizione in esame sembra esprimere un divieto formulato in maniera indiretta (47). Sotto il profilo sostanzialistico invece (48), l’art. 511, comma 4, c.p.p. — sia che tenda alla salvaguardia dei princìpi dell’oralità e del contraddittorio (49), sia che miri soltanto a pubblicizzare le denunce per escludere dal processo quelle segrete (50) — si colloca tra le situazioni soggettive che generano fattispecie di natura processuale meritevoli di tutela. L’aver ritenuto fin dall’inizio che una eventuale violazione del limite fissato nell’art. 511, comma 4, c.p.p. dovesse essere sanzionata ai sensi dell’art. 191 c.p.p., non ci esime dal dovere di giustificare l’omessa applicazione dell’art. 526 c.p.p., secondo il quale il giudice non può tenere conto — ai fini della deliberazione — di prove diverse da quelle acquisite nel corso del giudizio, in violazione di divieti e prescrizioni di legge (es. art. 498 c.p.p.). A tal proposito, va sottolineato che tra le due norme esiste un rapporto complesso. Da un lato, il concetto di divieto (art. 191 c.p.p.) — pur da estendere ai modi di acquisizione/formazione della prova — è più ristretto rispetto a quello di illegittimità (art. 526 c.p.p.); dall’altro, l’art. 191 c.p.p. presenta una portata più ampia rispetto a quella dell’art. 526 c.p.p., applicandosi anche agli atti di indagine preliminare (51). Tuttavia, l’art. 526 c.p.p. — benché il suo raggio di azione risulti molto esteso — non ricomprende ogni ipotesi di inutilizzabilità relativa al dibattimento. Esso infatti — strutturato con riguardo al solo momento decisorio finale (sentenza) — non trova applicazione nei confronti degli altri provvedimenti emessi dal giudice nel corso dell’udienza (es. ordinanze in tema di misure cautelari). Questi ultimi risultano sanzionabili ai sensi dell’art. 191 c.p.p. soltanto laddove si fondino su elementi conoscitivi acquisiti in violazione di divieti probatori. Esulano inoltre dall’ambito dell’art. 526 c.p.p. i casi in cui i divieti intervengano al di fuori del momento di acquisizione dibattimentale (52). Pertanto, le dichiarazioni contenute nei verbali di querela ritualmente lette — come la legge consente ai sensi dell’art. 511, comma 4, c.p.p. — possono considerarsi legittimamente acquisite al dibattimento (53). Tuttavia — come abbiamo già detto — esse sono valutabili soltanto per accertare l’esistenza di una condizione di procedibilità; un loro diverso impiego — ponendosi in contrasto con un divieto processuale — verrebbe dunque sanzionato ai sensi dell’art. 191 c.p.p. A tale conclusione la dottrina è giunta adducendo argomentazioni diverse. Alcuni autori ritengono che il termine « acquisizione », contenuto nell’art. 191 c.p.p., non debba essere usato in senso selettivo, ma riferito all’intero procedimento probatorio, composto da ammissione, formazione e valuta-

ORLANDI, sub art. 343 c.p.p., in Commento, cit., IV, Torino, 1990, 75), mentre l’art. 346 c.p.p. è volto a garantire un interesse interno al processo (sull’argomento, v. ORLANDI, sub art. 346 c.p.p., Commento, cit., IV, cit., 104). (47) V. retro nota 41. (48) V. retro nota 43. (49) Così BASSI, op. cit., 2116. (50) Per questa teoria v. retro note 3 e 4. (51) In questi termini, cfr. per tutti, NOBILI, sub art. 191 c.p.p., in Commento, cit., II, cit., 410, il quale sostiene che la disposizione contenuta nell’art. 191 c.p.p. « s’applica all’intero arco del procedimento (dalla notitia criminis in poi) »; contra, D. SIRACUSANO, La « polivalenza » delle indagini preliminari, in D. SIRACUSANO-GALATI-TRANCHINA-ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, II ed., II, Milano, 1995, 14, il quale afferma testualmente: « La sanzione ex art. 191 afferisce, insomma, al diritto probatorio e la fase delle indagini preliminari non è destinata (o non dovrebbe essere destinata, secondo il disegno originario del codice) all’elaborazione della prova. Nella fase delle indagini preliminari può operare, invece, l’istituto più generale della nullità... ». (52) Così NOBILI, Divieti probatori e sanzioni, in Giust. pen., 1991, III, 641 ss. (53) In questi termini NOBILI, La nuova procedura penale, cit., 152.


— 871 — zione della prova (54). Ciò comporta un collegamento tra il divieto contenuto nell’art. 511, comma 4, c.p.p., riferibile sicuramente alla fase valutativa, e la previsione fissata dall’art. 191 c.p.p. Altri invece hanno escluso l’esistenza di divieti concernenti la fase valutativa della prova in favore di divieti ricollegabili soltanto all’ammissione ed alla formazione della stessa (55). L’art. 511, comma 4, c.p.p., pertanto, disciplinando una specifica previsione di inammissibilità, rientrerebbe nel gruppo dei divieti probatori dettati a tutela del procedimento di ammissione. GIULIO GARUTI Ricercatore di procedura penale nell’Università di Modena

(54) In tal senso, v. NOBILI, op. loc. ult. cit. (55) Così GALANTINI, op. cit., 105 nota 33.


C) Giudizi di merito

CORTE DI APPELLO DI TORINO — Sez. IV — ud. 1 febbraio 1995 (dep. 6 febbraio 1995) Pres. Est. Witzel — Imp. Gullotta Reati finanziari — Depenalizzazione ex art. 2 legge n. 562/1993 — Possibilità di applicazione della deroga alla ultrattività per effetto del disposto dell’art. 40 legge n. 689/1981 — Operatività (L. 28 dicembre 1993 n. 562, art. 2; l. 24 novembre 1981 n. 689, artt. 39, 40; l. 7 gennaio 1929 n. 4, art. 20; D.P.R. 29 gennaio 1973 n. 43, art. 292, 296). Reati finanziari — Reati puniti con pena pecuniaria per i quali sia prevista nelle ipotesi aggravate anche la pena detentiva — Depenalizzazione — Operatività (L. 28 dicembre 1993 n. 562, art. 2; l. 24 novembre 1981 n. 689, artt. 32, 39; D.P.R. 29 gennaio 1973 n. 43, artt. 292, 296). La depenalizzazione di cui all’art. 2 legge 28 dicembre 1993 n. 562, applicabile ai reati finanziari per cui sia prevista la pena della multa, si estende anche agli illeciti commessi prima dell’entrata in vigore della predetta legge, poiché il principio dell’ultrattività di cui alla legge 7 gennaio 1929 n. 4 é da ritenersi definitivamente derogato dall’art. 40 legge 24 novembre 1981 n. 689 (1). (Omissis). — RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO. — Imputato del reato di cui in epigrafe, Gullotta Lorenzo veniva giudicato con rito abbreviato dal G.I.P. presso il Tribunale di Torino e con sentenza 23 novembre 1993 veniva condannato nei sensi su riportati in rubrica. Avverso tale sentenza proponeva appello l’imputato lamentando l’eccessività della pena e chiedendo che la stessa venisse « contenuta nei minimi assoluti, atteso il giudizio di prevalenza delle concesse attenuanti generiche, in modo da consentire una riduzione congrua e contenere pertanto la pena nel minimo ». All’odierna udienza, svoltasi in camera di consiglio a norma degli art. 443, comma 4o e 599 c.p.p. in assenza dell’imputato, ritualmente citato, e dei suoi difensori, regolarmente avvisati, il P.G. ha concluso per la conferma dell’impugnata sentenza. La Corte osserva quanto segue. Successivamente alla pronuncia qui impugnata è entrata in vigore la legge 28 dicembre 1993 n. 562 che, all’art. 2, ha parzialmente modificato l’art. 39 comma 1o legge n. 689/81, estendendo la depenalizzazione — da questo articolo originariamente prevista per le violazioni finanziarie punite con la sola ammenda — anche a quelle punite con la sola multa.


— 873 — La circostanza che nella specie fosse contestata un’ipotesi aggravata comportante una pena detentiva, non esclude il fatto dalla suddetta depenalizzazione. Invero, già con riferimento all’originaria formulazione del citato art. 39 la giurisprudenza aveva affermato che ‘‘la rilevanza penale delle violazioni finanziarie, punite con la sola ammenda, è stata eliminata — anche se nell’ipotesi aggravata sia prevista la detenzione — dalla norma di cui all’art. 39 legge 24 novembre 1981 n. 689, che ha stabilito essere — siffatte violazioni — soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro’’ La S.C. aveva in particolare osservato che ‘‘tale disposizione, non rinviando all’art 32 della legge, ha carattere di specialità rispetto a quest’ultima; specialità che non consente di accogliere la distinzione disciplinata dal citato art. 32, secondo cui la depenalizzazione non si applica ai reati che, nelle ipotesi aggravate, siano puniti con la pena detentiva, anche se alternativa a quella pecuniaria’’. In tal senso v. Cass. sez. III, 14 febbraio 1989 (in Giust. pen. 1990, II, 26), Cass. sez. III, 14 dicembre 1985 (in Rass. trib. 1987, II, 1003), Cass. sez. III, 14 ottobre 1985 (in Cass. pen. 1987, 421). Ad avviso di questa Corte i medesimi principi sono applicabili anche al caso — introdotto col citato art. 2 legge 28 dicembre 1993 n. 562 — delle violazioni finanziarie punite con la multa, ancorché nell’ipotesi aggravata sia prevista la reclusione; inoltre, nella specifica materia non trova applicazione il principio della ultrattività delle leggi penali finanziarie sancito dall’art. 20 legge 7 gennaio 1929 n. 4, giacché detto principio è espressamente derogato dall’art. 40 legge n. 689/81. Infatti, pur non ignorando l’esistenza di un contrario orientamento giurisprudenziale, questa Corte ritiene più conforme alla lettera ed allo spirito delle norme in questione l’insegnamento — al quale aderisce — di Cass. sez. III, sent. n. 7582 del 6 luglio 1994 (ud. 30 marzo 1994), secondo cui: « Devono ritenersi depenalizzati ai sensi dell’art. 39 legge 24 novembre 1981 n. 689, come modificato dall’art. 2 legge 28 dicembre 1993 n. 562, i delitti di contrabbando puniti con la sola multa, nonostante sia per essi prevista, nelle ipotesi aggravate (art. 295 D.P.R. 23 gennaio 1973 n. 43), anche la pena detentiva; né osta alla (subentrata) previsione del fatto come illecito amministrativo la circostanza che sia stata eventualmente contestata all’imputato la speciale recidiva di cui all’art. 296 del suddetto D.P.R., che aggrava la sanzione con la previsione della reclusione congiunta alla multa, in quanto, attesa la generale depenalizzazione dei delitti predetti, tale recidiva non è più configurabile, né nell’ipotesi di recidiva semplice (comma 1o) né in quella di recidiva reiterata (comma 2o), entrambe collegate alla commissione ‘‘di un altro delitto di contrabbando per il quale la legge stabilisce la sola multa’’, vale a dire ad un fatto che ora non è più previsto come reato. Non si applica alla depenalizzazione delle violazioni finanziarie, anche in base al nuovo testo dell’art. 39 legge 24 novembre 1981 n. 689, come risultante dalla modifica apportata con la legge 28 dicembre 1993 n. 562, la limitazione prevista dall’art. 32, comma 2o, della predetta legge n. 689/81, secondo il quale la sostituzione della sanzione amministrativa alla multa o alla ammenda non si estende ai reati che, nelle ipotesi aggravate, siano puniti con pena detentiva, anche se alternativa a quella pecuniaria; la disciplina posta all’art. 39, infatti, resiste alla subentrata coincidenza dell’area della depenalizzazione dei reati finanziari, estesa ora anche ai delitti, con l’area della depenalizzazione degli altri reati, e ciò non solo per la clausola di salvezza contenuta nel comma 1o del suddetto art. 32, ma anche


— 874 — e soprattutto perché detta disciplina, volta espressamente alle violazioni finanziarie, è complessivamente informata a principio (commi 3o e 4o) che, derogando alle disposizioni che la precedono, come quelle di cui agli artt. 22 e 23 in tema di opposizione alle ordinanze di ingiunzione di pagamento di sanzioni amministrative, la caratterizzano ancora come autonoma se non speciale. Ai reati finanziari puniti con la sola multa e depenalizzati dall’art. 2 legge 28 dicembre 1993 n. 562, non si applica il principio dell’ultrattività delle disposizioni penali finanziarie di cui all’art. 20 legge 7 gennaio 1929 n. 4, poiché tale principio è derogato espressamente dalle disposizioni transitorie della legge 24 novembre 1981 n. 689 (artt. 40, 41), nel cui corpo la norma che ha introdotto la predetta depenalizzazione è stata inserita mediante lo strumento della modifica dell’art. 39 ». Pertanto, occorre pregiudizialmente rilevare d’ufficio, ex art. 129 c.p.p., che il fatto ascritto al Gullotta non è più preveduto dalla legge come reato, essendo invece soggetto ad una sanzione amministrativa — per la cui applicazione si deve, a norma dell’art. 41 legge n. 689/81, disporre la trasmissione degli atti alla competente autorità (Intendenza di Finanza di Torino, ora Direzione Generale delle Entrate, Sezione di Torino). Con che restano assorbiti i motivi di gravame proposti dall’imputato. (Omissis).

——————— (1)

Brevi considerazioni in merito al principio di ultrattività in materia di reati finanziari.

La legge 7 gennaio 1929 n. 4 (che detta le norme generali per la repressione delle violazioni finanziarie) all’art. 20 stabilisce che ‘‘le disposizioni penali delle leggi finanziarie e quelle che prevedono ogni altra violazione di dette leggi si applicano ai fatti commessi quando tali disposizioni erano in vigore, ancorché le disposizioni medesime siano abrogate o modificate al tempo della loro applicazione’’, sancendo quello che comunemente, anche se impropriamente (1), viene definito principio dell’ultrattività (2).

(1) L’improprietà consiste nel fatto che una norma realmente ultrattiva sarebbe quella che trova applicazione in relazione a fatti commessi dopo la sua abrogazione. L’art. 20 quindi, più che di una vera e propria ultrattività, altro non è che operatività rigorosa del criterio tempus regit actum al quale il diritto penale generalmente deroga per il disposto dell’art. 2 comma 2o c.p. Del medesimo avviso anche TRAPANI, L’art. 20 della legge 7 gennaio 1929 n. 4 e la c.d. ultrattività delle norme penali tributarie, in questa Rivista, 1982, pag. 203; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 10a ed., 1985, pag. 95; SINISCALCO, Irretroattività delle leggi in materia penale, 1969, pag. 144. (2) Storicamente la categoria delle norme penali finanziarie deve la propria elaborazione per opera della giurisprudenza la quale, sotto il regime del codice Zanardelli, che all’art. 2 non prevedeva alcuna eccezione al principio della retroattività della legge penale più favorevole all’imputato, sostenne l’esistenza di una deroga implicita al predetto principio, nel caso di leggi temporanee ed eccezionali (Cass. pen. sez. I, 8 novembre 1920, in Giust. pen. 1921, 557; Cass. pen. sez. Un., 16 luglio 1921, in Giust. pen. 1922, 396; Cass. pen. sez. I, 9 gennaio 1922, in Giust. pen. 1922, 484). Ben presto la categoria delle disposizioni non soggette al principio della retroattività della legge più favorevole all’imputato venne estesa a tutte le ‘‘leggi contingenti’’, intese dapprima come quelle ‘‘emanate in occasione di un avvenimento che esce dall’ambito dell’attività ordinaria di una nazione giunta al grado di civiltà attuale, come la guerra’’ (Cass. pen. sez. I, 17 giugno 1921, in Giur. it. 1921, 11, 369), ma, successivamente, ampliate nella loro


— 875 — Con questa disposizione il legislatore ha inteso sottoporre l’intera materia dei reati fiscali ad una disciplina più rigorosa rispetto a quella prevista dal codice penale, derogando espressamente al principio generale della retroattività della legge penale più favorevole all’imputato (3). Le motivazioni di questa scelta legislativa sono state oggetto di grande attenzione da parte sia della dottrina che della giurisprudenza. Prima di occuparci della tematica é opportuno sgomberare subito il campo dai dubbi relativi all’efficacia della norma, poiché in passato una autorevole dottrina (4) ha sostenuto che l’art. 20 dovesse considerarsi implicitamente abrogato dall’art. 2 c.p., inteso come lex posterior, il quale, come noto, recita nel suo terzo comma che ‘‘se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile’’. Tale abrogazione implicita per incompatibilità tra le due norme non può ravvisarsi innanzitutto perché essendo la legge n. 4/1929 e il codice penale Rocco entrati in vigore lo stesso giorno, il 1 luglio 1931, non si vede come stabilire quale delle due disposizioni in esame sia successiva nel tempo e, in secondo luogo, anche a voler ammettere che il codice penale sia posteriore alla legge n. 4/1929, l’evidente rapporto di specialità tra i citati articoli 20 legge n. 4/1929 e 2 c.p. renderebbe operativa la regola per la quale lex posterior generalis non derogat priori specialis. Ed é proprio a ragione del carattere speciale dell’art. 20 cit. rispetto alla generale regola della retroattività della legge penale più favorevole all’imputato di cui all’art. 2 c.p., che il principio dell’ultrattività é comunemente considerato di stretta interpretazione, per cui oggi si ritiene che esso trovi applicazione nei soli casi di successione tra leggi finanziarie o nell’altro caso — in realtà piuttosto scolastico — in cui una legge comune succeda ad una finanziaria. Tornando all’analisi della ratio del principio di ultrattività v’è da dire dell’esistenza di una dottrina che, pervenuta alla conclusione per cui ‘‘l’unico vero motivo dell’art. 20 di cui si tratta sta in un pregiudizio storico, un tempo ricollegato alla ragion fiscale come potere preminente dei re ed ora dell’amministrazione finanziaria: un autentico mito che privilegia l’interesse del fisco alla riscossione del tributo e che appare difficilmente concepibile in un regime democratico’’ (5), ha ritenuto il principio in questione non conforme ai dettami della Costituzione. Chiamata ad esprimersi in materia più volte, la Corte Costituzionale ha escluso ogni divergenza tra l’art. 20 legge n. 4/1929 e il principio costituzionale di

nozione, ed intese come tutte quelle leggi finalizzate alla soddisfazione dei bisogni che, per loro natura, sono frequentemente modificabili nel tempo, anche al di là dei casi di straordinarietà (Cass. pen. sez. I, 7 aprile 1922, in Giust. pen. 1922, 600; Cass. pen. sez. I, 22 novembre 1929, in Giust. pen. 1930, II, 223). All’interno di tale categoria di leggi, rigidamente ancorate al principio del tempus regit actum la giurisprudenza era solita far rientrare anche le leggi in materia di violazioni finanziarie. A partire da questa giurisprudenza cominciò a delinearsi la distinzione tra le leggi eccezionali e temporanee e quelle in materia finanziaria che vennero dunque considerate speciali rispetto alla normativa penale ordinaria. Ed è questa la ragione per cui nell’art. 2, 4o comma c.p., che prevede una deroga al principio di retroattività della legge più favorevole all’imputato per le leggi (penali) eccezionali e temporanee, non v’è alcuna menzione delle leggi (penali) finanziarie, la cui disciplina, in materia di successione di leggi penali nel tempo, è pertanto da ricercarsi nel combinato disposto dell’art. 16 c.p. e art. 20 legge n. 4/1929. (3) II principio di ultrattività di cui all’art. 20 legge n. 4/1929 si estende all’intero ambito delle violazioni finanziarie e non solo a quelle aventi rilevanza penale. (4) MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, 1950, 3a ed. vol. I, pag. 340. (5) ANTOLISEI, Manuale, cit. Leggi complementari, Milano, 6a ed., 1987, 340. Nello stesso senso MANZINI, Trattato..., cit., I, 356, per il quale l’art. 20 è ‘‘una delle tante disposizioni incoerenti del diritto penale finanziario, sulle quali è vano discutere dato che vengono giustificate col criterio della necessità fiscale’’.


— 876 — legalità, in considerazione del fatto che la regola della retroattività della norma più favorevole — il c.d. principio del favor rei — non può ritenersi costituzionalizzato ai sensi dell’art. 20 comma 2o cost., il quale ‘‘...in tema di successione di leggi penali nel tempo vieta esclusivamente la retroattività di nuove norme incriminatrici, in armonia con un principio universalmente riconosciuto’’ (6). Anche sotto il profilo della presunta violazione del principio di uguaglianza la Corte Costituzionale, con un ragionamento tutto imperniato sulla ratio dell’ultrattività, ha escluso ogni contrasto tra l’art. 20 legge n. 4/1929 e l’art. 3 cost. Infatti il trattamento meno favorevole riservato agli autori di reati finanziari risultante dall’ultrattività é stato ritenuto non difforme ai dettami costituzionali giacché ‘‘...tende a meglio garantire il puntuale assolvimento degli obblighi tributari, ai quali i cittadini sono tenuti in adempimento di uno dei doveri inderogabili di solidarietà nazionale che ad essi competono e dai quali dipende, in misura crescente, l’operatività e l’esistenza stessa dello Stato moderno’’ (7) e perché il principio di ultrattività si pone come una ‘‘...norma diretta a garantire che la spinta psicologica all’osservanza della legge fiscale non sia sminuita nemmeno dalla speranza di mutamenti di legislazione’’ (8). Questa interpretazione, che trova un riscontro oggettivo nella particolare attenzione dedicata alla materia tributaria dalla nostra Carta Costituzionale (si pensi all’obbligo contributivo e alla c.d. progressività fiscale di cui all’art. 53, o al divieto di referendum per le leggi tributarie e di bilancio di cui all’art. 75 2o comma), assegna al principio di ultrattività una funzione ‘‘responsabilizzante’’ nei confronti dei cittadini, i quali dovrebbero sentirsi maggiormente determinati all’osservanza del precetto penale finanziario, proprio a ragione del maggiore rigore sanzionatorio dettato per i reati finanziari (9). In realtà è già stato ampiamente dimostrato che l’art. 20 legge n. 4/1929 è ‘‘...una norma dotata di efficacia più apparente che reale, e che non è servita ad intimorire il cittadino italiano facendogli balenare i rischi di un trattamento pesante’’ (10), rendendo quindi vana quella funzione responsabilizzante che, nelle intenzioni del legislatore del 1929, avrebbe dovuto costituire il fondamento del principio di ultrattività. Daltronde l’intero sistema sanzionatorio previsto dalla legge n. 4/1929 si é rivelato contraddittorio (11) poiché al fianco di norme di maggior rigore punitivo, ve ne sono altre che esprimono un orientamento di segno opposto: si pensi, per fare un esempio, al beneficio della continuazione (art. 8) che, se concesso (poiché a differenza di quanto stabilito per i reati non finanziari dall’art. 81 c.p., il giudice ha ampio potere discrezionale in ordine alla concessione del beneficio), comporta un aumento della pena fino alla metà e non, come previsto dall’art. 81 c.p., fino al triplo, o si pensi all’ormai superata disciplina dell’oblazione che, per effetto

(6) Corte cost. 16 gennaio 1978 n. 6 cit. (7) Ibidem. (8) Corte cost. 6 giugno 1974 n. 165 cit. (9) Cfr. GALLO, La legge penale. Appunti di diritto penale, CLUT Torino, 1965, pag. 60 ss.; GROSSO, L’evasione fiscale, Torino, 1980, pag.30; e Osservazioni sui principi generali del diritto penale tributario dopo l’entrata in vigore della legge 7 agosto 1982 n. 516, in questa Rivista, 1984, pag. 35 ss.; TRAPANI, op. cit., pag. 229. (10) GROSSO, Sanzioni penali e sanzioni non penali nell’illecito fiscale, in questa Rivista, 1978, pag. 1177. (11) Del medesimo avviso anche GROSSO, Sanzioni penali..., cit. pag. 1186, per il quale ‘‘...è necessario abrogare la legge 7 gennaio. Essa corrisponde infatti ad una ideologia della infrazione fiscale che dovrebbe aver fatto il suo tempo, ed enuncia una serie di principi ‘eccezionali’ che non ha senso (deroga alla retroattività, regime della continuazione, oblazione ecc.)... mantenere’’.


— 877 — delle varie depenalizzazioni degli ultimi anni, opera unicamente per le violazioni finanziarie aventi natura amministrativa. (2)

L’ambito di operatività della depenalizzazione del contrabbando in relazione al principio di ultrattività.

La depenalizzazione prevista dall’art. 39 della legge 24 novembre 1981 n. 689, originariamente limitata alle sole violazioni finanziarie punite con l’ammenda, è oggi estesa, per effetto dell’art. 2 legge 28 dicembre 1993 n. 562 (che conferisce al governo la delega ‘‘per la riforma della disciplina sanzionatoria contenuta nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e delle disposizioni ad esso connesse o complementari’’), anche ai delitti in materia finanziaria per cui sia prevista la pena della multa. Infatti a seguito della riforma del 1993, il nuovo testo dell’art. 39 legge n. 689/1981 stabilisce che ‘‘non costituiscono reato e sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro, le violazioni previste in materia finanziaria punite solo con la multa o con l’ammenda’’. Recenti contrasti giurisprudenziali (12) hanno messo in luce la problematica relativa al rapporto tra il principio di ultrattività (di cui già si é detto) e l’ambito di operatività della depenalizzazione prevista, per i reati finanziari, dall’art. 39 citato. Si tratta in altri termini di stabilire se la sostituzione della pena con la sanzione amministrativa, vale a dire la depenalizzazione, operi anche per i reati puniti con la pena della multa e commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 562 citata ovvero debba, a ragione del principio di ultrattività, valere esclusivamente per il futuro. La Corte di Appello di Torino, con la sentenza che si annota, ha affrontato la questione in relazione alla depenalizzazione del reato di contrabbando (13) previsto dagli artt. 292 e 296 D.P.R. 29 gennaio 1973 n. 43, limitandosi a poche righe per assumere che ‘‘...nella specifica materia non trova applicazione il principio dell’ultrattività delle leggi penali finanziarie sancito dall’art. 20 legge 7 gennaio 1929 n. 4 giacché detto principio é espressamente derogato dall’art. 40 legge n. 689/81’’ il quale, ricordiamo, stabilisce che le disposizioni della legge n. 689 ‘‘...si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore della presente legge che le ha depenalizzate, quando il relativo procedimento penale non sia stato definito’’. Il fatto è però che, a nostro sommesso avviso, la problematica avrebbe meritato un maggiore approfondimento, poiché intendere l’art. 40 legge n. 689/81 come norma a tutt’oggi derogatoria del principio di ultrattività non é compito agevole. Infatti, sebbene non vi sia alcun dubbio sul fatto che l’art. 40 deroghi al principio di ultrattività, non può non rilevarsi che la norma in questione abbia natura

(12) Mi riferisco in particolare alle decisioni della Cass. pen. sez. III, 19 gennaio 1994, in Cass. pen. 1994, 1446, pag. 2222 e sez. III, 30 marzo 1994, in Foro it. 1994, II, pag. 627. (13) L’art. 292 D.P.R. n. 43/1973 punisce con la pena della multa la condotta di chi ‘‘sottrae merci al pagamento dei diritti di confine’’, l’art. 295 prevede, come ipotesi aggravata punita anche con la reclusione, il fatto che il contrabbando sia compiuto con particolari modalità, e cioè, a mano armata, o da più persone riunite ovvero in condizioni tali da frapporre ostacoli, o in connessione con delitti contro la fede pubblica o la P.A., ovvero, infine, quando sia commesso da un appartenente ad una associazione finalizzata al contrabbando. L’art. 296 prevede la pena della multa e della reclusione per il fatto commesso dal recidivo specifico.


— 878 — transitoria (14), che si tratti cioè di una disposizione finalizzata a regolare i rapporti giuridici sottoposti al trapasso di legislazione e quindi, come tale, difficilmente estendibile oltre i suoi confini cronologici naturali. In altre parole l’art. 40 è sì una disposizione derogatoria del principio di ultrattività, ma solo ed esclusivamente per quelle violazioni che siano state commesse prima dell’entrata in vigore della legge n. 689/1981 (e per le quali sia prevista la pena della sola ammenda) e i cui procedimenti penali non siano definiti. Oltre che dalla littera legis, l’efficacia transitoria della norma di cui si tratta risulta anche da un’interpretazione sistematica: poiché l’effetto retroattivo della depenalizzazione dei reati non fiscali deriva dai principi comuni in materia di successione di leggi penali nel tempo, di cui all’art. 2 c.p., ne consegue che il citato art. 40 può intendersi come norma dettata a ragione del principio di ultrattività, anzi, unicamente finalizzata ad assimilare il regime transitorio della depenalizzazione dei reati in materia finanziaria a quello di tutti gli altri illeciti penali, in deroga a quanto stabilito dall’art. 20 legge n. 4/1929. Per di più si osservi che anche il già citato art. 39 legge n. 689/1981, al 3o comma stabilisce che ‘‘alle violazioni previste nel 1o comma (e cioè quelle in materia finanziaria) si applicano le disposizioni della legge 7 gennaio 1929 n. 4, e successive modificazioni, salvo che sia diversamente stabilito da leggi speciali’’, ad ulteriore dimostrazione del fatto che il legislatore non ha mai inteso derogare in via definitiva al disposto dell’art. 20 legge n. 4/1929. Fatte queste considerazioni può facilmente comprendersi come la giurisprudenza della sentenza annotata, mossa forse da ragioni di equità sostanziale o, come pare più probabile, da una comprensibile avversione contro un principio ormai vetusto e illogico, qual’é quello dell’ultrattività, abbia operato una vera e propria ‘‘forzatura’’ interpretativa estendendo eccessivamente l’ambito di operatività di una norma transitoria con modalità difficilmente conciliabili con la realtà legislativa esistente a tutt’oggi. D’altra parte ogni tentativo finalizzato a considerare depenalizzati i reati di contrabbando commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 562/1993 sembra contrastare con i principi generali in materia di successione di leggi penali nel tempo. È il caso di quella dottrina (15) per la quale essendo la depenalizzazione delle violazioni finanziarie la conseguenza della modifica di una previgente norma della legge n. 689/1981, tale (nuova) depenalizzazione sarebbe assoggettata al regime transitorio della stessa legge n. 689. In altri termini, poiché con l’art. 2 legge n. 562/1993 ‘‘...si é supplito ad un’originaria lacuna della norma (l’art. 39 legge n. 689/1981) che non prevedeva la depenalizzazione dei delitti puniti con la sola multa...’’ tale nuova depenalizzazione si estenderà unicamente ai ‘‘...soli reati previsti da norme vigenti al momento dell’entrata in vigore della legge n. 689/1981’’ (16). Il punto che non convince di questa interpretazione è la presunzione che ogni disposizione che modifica o integra una normativa previgente sia dotata di un’effi-

(14) Non a caso l’art. 40 apre la sez. IV del Capo I della legge n. 689/1981, rubricata, per l’appunto: ‘‘Disposizioni transitorie e finali’’. Sulla natura transitoria della norma in questione cfr.: SINISCALCO, Depenalizzazione e garanzia, Bologna, 1983, pag. 78; CIPOLLA, La depenalizzazione del contrabbando ed il principio di ultrattività delle leggi penali finanziarie, in Riv. dir. trib. 1994, II, 665; Cass. pen. sez. III, 19 gennaio 1994, cit. (15) IZZO, Iva all’importazione e contrabbando su merci provenienti dalla Confederazione Svizzera, in Il Fisco1994, 7201. (16) Ibidem.


— 879 — cacia retroattiva, in quanto incorporata o ‘‘coagulata’’ (17) a quest’ultima: in realtà ci sembra che, in assenza di una specifica indicazione del Legislatore, anche le disposizioni modificatrici o integratrici di altre norme siano soggette alle regole generali sulla successione di leggi nel tempo e quindi, in relazione ai reati finanziari, al disposto dell’art. 20 legge n. 4/1929. In conclusione, per quanto attiene al rapporto tra la depenalizzazione dei delitti in materia finanziaria di cui alla legge n. 562/1993 ed il principio di ultrattività riteniamo, al contrario della giurisprudenza espressa dalla sentenza annotata, che, in assenza di una specifica disposizione legislativa contraria, debba a tutt’oggi prevalere la regola espressa dall’art. 20 legge n. 4/1929 la quale, quindi, non può considerarsi definitivamente superata dalla normativa transitoria della legge n. 689/1981. dott. DANIELE ZANIOLO

(17)

BARTOLINI, Codice della depenalizzazione, 1985, pag. 179.


— 880 — I TRIBUNALE DI CATANIA — 16 ottobre 1992 Pres. ed Est. Testa — Imp. Rodolico e altro Abuso d’ufficio — Svolgimento di attività professionale c.d. extramuraria — Esclusione — Peculato — Sfruttamento dell’attività lavorativa di un dipendente pubblico a fini privati — Insussistenza. Non commette abuso d’ufficio il Rettore che svolge attività professionale c.d. extramuraria. Con tale comportamento, censurabile dal punto di vista disciplinare, il soggetto agente non danneggia il buon andamento, la credibilità e imparzialità della Pubblica Amministrazione, oggetto della tutela penale dell’art. 323 c.p., perché non distorce a proprio od altrui vantaggio l’esercizio delle sue funzioni, ma semplicemente viola le norme che regolano il suo rapporto organico con la P.A. (Università) ‘‘indifferente’’ a tale violazione. Non costituisce peculato il fatto del Rettore di utilizzare, a fini privati, l’energia lavorativa di un dipendente dell’Università, per la considerazione che le energie lavorative non rientrano nel concetto di ‘‘cosa mobile’’ cui si riferisce l’art. 314 c.p. (1).

II CORTE D’APPELLO DI CATANIA — 8 febbraio 1994 Pres. Migliorisi — Est. Russo — Imp. Rodolico Abuso d’ufficio — Violazione della disciplina sulle incompatibilità — Sussistenza — Peculato — Sfruttamento dell’attività lavorativa di un dipendente pubblico per fini privati — Insussistenza. Commette abuso d’ufficio il Rettore di un ateneo che viola la disciplina sulle incompatibilità nascenti dall’opzione per il tempo pieno dei sanitari universitari, approfittando del fatto che egli, ed egli soltanto, ha il potere-dovere di vigilare affinché sia puntualmente osservata tale disciplina e di promuovere il relativo procedimento disciplinare ove abbia rilevato qualche violazione. Non è configurabile il delitto di peculato nel fatto del Rettore che utilizza per scopi privati l’attività lavorativa del pubblico dipendente a lui gerarchicamente subordinato, inducendolo a tale comportamento con un ordine illegittimo (2).

I (Omissis). — FATTO E DIRITTO. — Il P.M., svolte le indagini preliminari, ha chiesto al G.U.P. l’emissione del decreto che dispone il giudizio nei confronti di Rodolico Gaspare, Rettore dell’Università degli Studi di Catania oltre che Direttore della 1a Clinica chirurgica universitaria, e di Guglielmo Alessandro, agente so-


— 881 — cio sanitario con mansioni di segretario dipendente della stessa Università degli Studi. — (Omissis). Il Tribunale osserva: la presente vicenda giudiziaria trae origine dal fatto che il Rettore dell’Università degli Studi di Catania, prof. Gaspare Rodolico, ha esercitato, per alcuni anni, attività libero-professionale fuori dalla struttura universitaria e della U.S.L. 35 in cui è compreso il presidio ospedaliero S. Marta Villermosa, dove ha sede la 1a Clinica chirurgica universitaria, da lui diretta, nonostante l’esercizio di tale attività gli fosse vietato dalle norme riguardanti lo stato giuridico del personale delle UU.SS.LL. (D.P.R. n. 761 del 1979) ed il riordino della docenza universitaria (D.P.R. n. 382 del 1980). Questa attività libero-professionale — definita extramuraria — costituisce, infatti, il punto di forza dell’intera accusa dappoiché da essa procedono le accuse di peculato a carico degli imputati e di abuso d’ufficio a carico dei componenti il Comitato di Gestione della U.S.L. 35. In sostanza, posto che il rapporto di lavoro del personale medico delle unità sanitarie locali e dei docenti universitari può essere ‘‘a tempo pieno’’ o ‘‘a tempo definito’’ (v. art. 35 D.P.R. n. 761 del 1979 ed art. 11 D.P.R. n. 382 del 1980); che ‘‘il regime a tempo definito è incompatibile con le funzioni di Rettore’’ e che quello ‘‘a tempo pieno’’ è incompatibile con lo svolgimento di qualsiasi attività professionale e di consulenza esterna e con l’assunzione di qualsiasi incarico retribuito, salve talune deroghe che esulano dalla fattispecie, come dispone l’art. 11, comma 4o e 5o D.P.R. 11 luglio 1980 n. 382, l’accusa sostiene che il Rodolico ha violato il divieto legislativo di prestare attività libero-professionale extramuraria sancito dalla citata norma abusando delle sue funzioni. Per la difesa, invece, la posizione giuridica del personale medico universitario è da considerarsi equiparata a quella dei medici ospedalieri dal momento che ‘‘il personale docente universitario e i ricercatori che esplicano attività assistenziale presso le cliniche e gli istituti universitari di ricovero e cura anche se gestiti direttamente dalle Università, convenzionati ai sensi dell’art. 39 l. 23 dicembre 1978 (legge istitutiva del servizio sanitario nazionale) assumono per quanto concerne l’assistenza i diritti e i doveri previsti per il personale di corrispondente qualifica’’ dipendente dalle unità sanitarie locali, e che allo stesso personale medico universitario ‘‘è assicurata l’equiparazione del trattamento economico complessivo corrispondente a quello del personale delle unità sanitarie locali di pari funzione, mansione ed anzianità’’ — come previsto all’art. 102, comma 1o e 2o D.P.R. n. 382 del 1980; inoltre questa stessa norma al comma 8o nel distinguere il rapporto a tempo definito e a tempo pieno richiama le disposizioni del citato art. 35 D.P.R. n. 761 del 1979; pertanto, il Rodolico ha agito legittimamente essendo la Clinica Gibiino convenzionata con la Regione Sicilia. Il P.M. replica che siffatta pretesa equiparazione non discrimina per nulla la responsabilità del Rodolico, giacché l’incompatibilità del regime di prestazione lavorativa a tempo pieno con lo svolgimento di qualsiasi altra attività libero-professionale prevista dall’art. 11, comma 5o, lett. a) D.P.R. n. 382 del 1980 non ammette deroghe come si evince dal tenore del successivo art. 102, comma 8o che fa ‘‘salvo quanto previsto’’ appunto circa la detta incompatibilità. Del resto le disposizioni dell’art. 35 D.P.R. n. 761 del 1979 si applicano ai medici universitari per la parte compatibile, come si legge nel comma 9o di questa norma che incontra un limite nella previsione dell’art. 11, comma 5o più volte citato. La difesa, infine, esclude che nella fattispecie possano ravvisarsi gli elementi essenziali del delitto di abuso d’ufficio, trattandosi, semmai, di inosservanza di regole o norme di carattere amministrativo penalmente irrilevante. Queste, in breve, le tesi che si conten-


— 882 — dono il campo. E il campo va, subito, liberato da quella secondo cui la facoltà di esercitare la libera professione al di fuori delle strutture pubbliche spetta ugualmente alle due categorie di sanitari: ospedalieri e universitari in virtù delle corrispondenze funzionali e della parità di trattamento economico, perché così prospettata, essendo oggetto dell’accusa appunto l’attività libero-professionale, travisa il fatto determinando una certa confusione. Al riguardo, premesso che la bipartizione del rapporto d’impiego a ‘‘tempo pieno’’ e a ‘‘tempo definito’’ trova il suo precedente legislativo nel D.P.R. 27 marzo 1969 n. 130 (Stato giuridico dei dipendenti degli enti ospedalieri; v. art. 24, comma 3o che prevede la ‘‘rinuncia all’attività libero-professionale extraospedaliera’’ per i sanitari a tempo pieno; v. art. 47 che autorizza i medici ‘‘all’esercizio della libera professione nell’ambito dell’ospedale’’ tenuto ad approntare, a tal fine, ‘‘sale separate’’ ed a rendere noto il tariffario con l’indicazione della quota parte di onorario dovuta all’ente ospedaliero), il Collegio, nell’intento di chiarire questo punto, rileva che secondo l’art. 35, comma 2o, lett. c) e d) D.P.R. n. 761 del 1979 i medici ospedalieri che prestano servizio a tempo pieno hanno ‘‘diritto all’attività libero-professionale al di fuori dei servizi e delle strutture della unità sanitaria locale, limitatamente a consulti e a consulenze, non continuativi’’ (lett. c)), mentre possono esercitare attività libero-professionale ‘‘nell’ambito dei servizi, presidi e strutture della unità sanitaria locale’’; lo stesso articolo, poi, al comma 6o indica lo scopo della deroga: ‘‘favorire esperienze di pratica professionale’’ e al comma 7o specifica le condizioni alle quali è subordinato l’esercizio dell’attività libero-professionale: a) ‘‘in costanza di ricovero’’; b) ‘‘in regime ambulatoriale con utilizzo delle relative strutture’’. Appare evidente, pertanto, che la normativa di cui al D.P.R. n. 761 del 1979 non autorizza affatto il medico ospedaliero all’esercizio, pieno, dell’attività liberoprofessionale al di fuori della struttura ospedaliera, consentendola soltanto nell’ambito di essa, compresi s’intende ‘‘i presidi’’ convenzionati e alle condizioni anzidette. Ciò in quanto il medico ospedaliero assume la ‘‘condizione’’ (qualifica) di ‘‘dipendente’’ del servizio sanitario nazionale tant’è che l’art. 83 — norma di rinvio — del medesimo D.P.R. n. 761 così dispone: ‘‘per quanto non espressamente disciplinato dal presente decreto si applicano per la parte compatibile, le disposizioni’’, cioè le disposizioni del T.U. concernenti lo Statuto degli impiegati civili dello Stato. Ne deriva che la tesi in esame (perequazione) non è attinente alla fattispecie o meglio alla imputazione oggetto della quale è la violazione del divieto di esercitare la libera professione ai sanitari vincolati dal rapporto di pubblico impiego in regime di tempo pieno. — (Omissis). Il Rodolico, pertanto, ha svolto attività di libero professionista contro il divieto legislativo che non poteva, né può, affatto considerarsi superato od aggirato dalla deliberazione n. 1780 del Comitato di Gestione della U.S.L. 35 adottata il 25 ottobre 1983; deliberazione, peraltro, manifestamente illegittima per violazione di legge prima ancora che per difetto di motivazione, nonché altrettanto manifestamente ‘‘inutile’’ trattandosi di attività prevista e disciplinata dalla legge. Appare necessario, una volta accertato il divieto di esercitare attività liberoprofessionale presso strutture diverse (‘‘esterne’’) dalla unità sanitaria locale e da quelle con questa ‘‘convenzionata’’, nonché l’attribuzione, al medico ospedaliero, della qualifica di ‘‘impiegato pubblico’’ dipendente dal servizio sanitario nazionale — come s’è visto — rilevare, inoltre, come per ‘‘attività intramuraria’’ non possa intendersi altro che l’esercizio della libera professione nell’ambito della struttura


— 883 — pubblica — presidio ospedaliero retto dalla U.S.L., e per ‘‘attività extramuraria’’ quella, analoga, esercitata in strutture che funzionano da ‘‘supporto’’ alla U.S.L., in caso di insufficienza — cui ‘‘aderiscono’’ in virtù d’un vincolo contrattuale: convenzione. Giova rilevare, ancora, sulla scorta delle osservazioni del P.M., e sia pure per amore di compiutezza, che mentre l’art. 35 D.P.R. n. 761 del 1979 prevede, per il medico ospedaliero, ‘‘il diritto all’attività libero-professionale al di fuori dei servizi e delle strutture delle unità sanitarie locali...’’ e ‘‘nell’ambito dei servizi, presidi e struttura dell’unità sanitaria locale... nei limiti di cui al comma 2o, lett. c) e d)’’, l’art. 11 D.P.R. n. 382 del 1980 non crea alcun diritto per il sanitario universitario, ma dispone che ‘‘il regime a tempo pieno è incompatibile con lo svolgimento di qualsiasi attività professionale e di consulenza esterna’’ (v. comma 5o, lett. a)); questa norma sancisce quindi un divieto senza prevedere alcuna deroga. Del resto l’incompatibilità in quanto condizione di contrasto fra due situazioni (l’inconciliabilità) di per sé non subisce deroghe che nel caso non possono trarsi da una normativa predisposta per disciplinare un particolare rapporto pubblico, e per giunta anteriore, e senza che in quella posteriore vi sia una norma di rinvio (sostanziale o formale) alla precedente. Rafforza questo convincimento non solo il contenuto dell’art. 102, comma 8o del D.P.R. n. 382 del 1980 che richiamando l’art. 35 D.P.R. n. 761 del 1979 per quanto attiene alla suddivisione del rapporto a tempo pieno e a tempo definito, fa ‘‘salvo quanto previsto dal precedente art. 11, comma 4o, lett. a) del presente decreto’’ (cioè l’incompatibilità di chi sceglie il regime a tempo definito di assumere le funzioni di Rettore), ma anche l’art. 35 ora citato (D.P.R. n. 761) il quale al comma 11o dispone che ‘‘per i medici universitari in considerazione delle altre attività rientranti nei loro compiti istituzionali, la opzione per il tempo pieno è reversibile in relazione a motivate esigenze didattiche e di ricerca’’. La stessa legge, dunque, riconosce che il medico universitario dovendo curare principalmente l’attività di insegnamento, e di ricerca scientifica, è chiamato a svolgere compiti più estesi che coincidono solo in parte con le prestazioni dovute dal medico ospedaliero; la qual cosa per un verso smentisce l’asserito criterio perequativo (così come formulato), a nulla rilevando, al riguardo, la parità di trattamento economico e l’assunzione, da parte dei professori universitari, degli stessi ‘‘diritti e doveri’’ previsti per il personale medico ospedaliero limitatamente a ‘‘quanto concerne l’assistenza’’ (v. art. 102, comma 1o D.P.R. n. 382 del 1980); per altro verso conferma che la prevista ‘‘incompatibilità’’, attesa la peculiarità del rapporto cui attiene, non subisce deroghe. Sotto questo profilo, fra l’altro, giova ripetere che la Clinica ‘‘Gibiino’’ ha natura di ‘‘azienda privata’’ (art. 2555 c.c.) non legata da alcun rapporto con le strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale, né con l’Università degli Studi di Catania, sicché in ogni caso il Rodolico ha violato la regola della incompatibilità impostagli dalla legge, venendo meno, così ai suoi doveri. — (Omissis). Tuttavia accertata la inosservanza di una norma che disciplina il rapporto di pubblico impiego avente ad oggetto la docenza universitaria, come nel caso, è necessario verificare soprattutto, se, nel contempo, tale inosservanza viola un precetto penale, vale a dire se in essa è configurabile il delitto di abuso d’ufficio aggravato, come vuole l’accusa. — (Omissis). Esaminando, ora, il caso concreto, non sembra, alla luce dei concetti suesposti, che l’accusa sia fondata in diritto. Non è stata prodotta, ne si trae aliunde, prova alcuna che il Rodolico per svolgere l’attività denunziata abbia abusato delle


— 884 — funzioni di Rettore dell’Università nel senso avanti specificato; l’esercizio della libera professione presso la Clinica privata di Gibiino, infatti, non trae origine e trova causa od autorizzazione in un atto amministrativo da lui compiuto servendosi delle funzioni o potestà inerenti alla carica di cui è investito e quindi nella veste di pubblico ufficiale e neppure in un comportamento materiale connesso o ricollegabile alle funzioni di Rettore. Il Rodolico, anche se il suo comportamento è censurabile, non ha danneggiato il buon andamento, la credibilità e imparzialità della P.A., oggetto della tutela penale, perché non ha distorto a proprio od altrui vantaggio l’esercizio delle sue funzioni, ma semplicemente ha violato le norme che regolano il suo rapporto organico con la P.A. (Università) ‘‘indifferente’’ a tale violazione. — (Omissis). Ad avviso del Collegio, pertanto: al professore ordinario della facoltà di medicina impegnato a tempo pieno anche se esplica attività assistenziale presso una clinica o istituto universitario di ricovero e cura convenzionato col servizio sanitario nazionale ai sensi dell’art. 39 l. 23 dicembre 1978 n. 833, non è consentito svolgere attività di libero professionista né assumere qualsiasi incarico retribuito, come prevede l’art. 11, comma 5o, lett. a) del D.P.R. n. 382 del 1980, e la violazione della regola della incompatibilità, sancita dalla norma ora citata, dà luogo ad eventuale azione disciplinare in base al disposto dell’art. 15 dello stesso D.P.R. n. 382 del 1980, non ad azione penale in quanto il fatto non è previsto dalla legge come reato. Esula quindi dalla fattispecie il delitto di cui all’art. 323, comma 2o c.p. dal quale il Rodolico va prosciolto con formula adeguata. Quanto all’accusa di peculato che si contesta al Rodolico e ad Alessandro Guglielmino, si rileva, anzitutto, che la prova del fatto non è sicura ed univoca. Se è provato, infatti, con sufficiente certezza che il Rodolico nell’espletamento dell’attività libero-professionale — almeno due giorni la settimana — presso la clinica privata Gibiino, di cui si è detto, si serviva dell’opera di Guglielmino che in funzione di segretario provvedeva, tra l’altro, alla riscossione degli onorari ed al rilascio delle quietanze, non per questo può dirsi dimostrata con altrettanta certezza che quell’attività venisse svolta, con regolarità, nelle ore della mattina, ossia nelle ore in cui gli imputati erano tenuti ad osservare l’orario normale di servizio, essendo l’uno Rettore e l’altro dipendente dell’Università. — (Omissis). Comunque anche ad ammettere che in qualche caso il Guglielmino ha prestato assistenza al Rodolico nelle ore di servizio e senza il c.d. ‘‘recupero’’, nel fatto il Collegio non ritiene di dover ravvisare gli estremi del delitto di peculato per la considerazione che le energie lavorative non rientrano nel concetto di ‘‘cosa mobile’’ cui si riferisce l’art. 314 c.p. Questo Collegio non ignora che una parte della giurisprudenza e della dottrina hanno affermato, in fattispecie analoghe, la sussistenza del delitto di peculato, tuttavia, a suo avviso, poiché ‘‘possesso’’ e ‘‘disponibilità’’ per ragioni di ufficio attengono, in concreto, al rapporto di fatto o relazione diretta tra il soggetto che possiede e la cosa posseduta di cui va garantita la destinazione, se riferiti alla ‘‘persona del lavoratore’’ (impiegato) sia pure in considerazione dell’oggetto della prestazione dovuta, non possono e non debbono, avere la stessa portata o contenuto che normalmente si ritiene per il possesso di un ‘‘oggetto’’; a meno che non si voglia ricorrere ad un abnorme e non consentita ‘‘dilatazione’’ del concetto di ‘‘cosa mobile’’. Il rapporto di lavoro subordinato, pubblico o privato, giuridicamente è un contratto sinallagmatico (prestazione - e compenso) stipulato anche intuitu personae (apprezzamento delle capacità lavorative mediante concorso o conoscenza per altra via) non può quindi assimilarsi alla


— 885 — utilità o servizio reso per esempio da un mezzo di trasporto che può essere usato momentaneamente (art. 314 cpv. c.p.) laddove l’uso momentaneo non sembra configurabile con riferimento alla prestazione del lavoratore dipendente e non solo per rispetto alla dignità dell’uomo. In sostanza la prestazione di lavoro non è una ‘‘cosa’’ suscettibile di separazione dal ‘‘soggetto’’ che la rende. D’altra parte se si considera che l’agente approfittando della sua funzione gerarchicamente sovraordinata, utilizza un impiegato dipendente distraendolo dal normale servizio, a proprio profitto, in realtà egli ‘‘sfrutta’’ quel dipendente ma non può dirsi che si ‘‘appropri’’ delle prestazioni dovute alla P.A. Piuttosto, forse più correttamente, sussistendone gli elementi, si potrebbe configurare il delitto di abuso di ufficio (non contestato) previsto dall’art. 323 c.p. che, se accertato, comporta anche l’obbligo dell’agente di risarcire il danno economico che la sua azione abbia eventualmente arrecato alla P.A. Da questa imputazione, pertanto, il Rodolico e il Guglielmino si assolvono perché il fatto non costituisce reato. — (Omissis).

II (Omissis). — Tutte le considerazioni svolte dal Tribunale per pervenire all’assoluzione del Rodolico sono perfettamente legittime ed inconfutabili se riferite ad un qualsiasi docente universitario medico, ma diverso dal Rettore dell’Università. Con riferimento al quisque, infatti, la garanzia dell’osservanza delle disposizioni sul tempo pieno è affidata, per l’appunto, alla previsione del dovere di vigilanza a carico del Rettore, con conseguente rischio del procedimento disciplinare, secondo le modalità sopra riassunte. Senonché, nel caso in esame non viene in rilievo l’inosservanza di quelle norme da parte di un qualsiasi docente universitario, sibbene la trasgressione delle stesse norme da parte della persona fisica obbligata per legge, siccome rappresentante della massima autorità universitaria, al controllo del loro esatto adempimento: il Rettore, per l’appunto. Il Tribunale non ha dato il giusto rilievo a tale singolare, e preoccupante, circostanza, sebbene specificatamente contestata nel capo di imputazione: nella misura in cui l’appellata sentenza sostiene che la violazione delle disposizioni sul tempo pieno integra in sé e per sé un illecito (non penale, sibbene) disciplinare, non poteva sfuggirgli che, nell’ipotesi che ci occupa, non v’era alcuno che potesse promuovere l’irrogazione di tale sanzione, per la ragione, tanto decisiva quanto ovvia, che il soggetto tenuto alla vigilanza sulle incompatibilità ed a promuovere eventualmente il relativo procedimento disciplinare si identificava con l’accertato trasgressore. Va detto ancora di più: nella sua materialità, circostanza siffatta non è affatto sfuggita al Tribunale, se è dato leggere nell’appellata sentenza (pag. 12) ‘‘non è certo circostanza esimente il fatto che il Rettore Rodolico non era tenuto ad accusarsi od a proporre la sanzione della decadenza a suo carico, anche se è chiamato per funzione a reprimere lo stesso comportamento nei confronti di eventuali trasgressori; è vero, invece, che secondo un corretto costume deontologico egli non avrebbe dovuto commettere quella violazione’’. Siccome la violazione, tuttavia, è stata commessa, e ripetutamente, proprio dal Rodolico, è necessario rendersi conto che la riscontrata identità, del trasgressore con il pubblico ufficiale tenuto ad evitare ed a reprimere la trasgressione, non può essere priva di rilievo; e ciò sia sul piano amministrativo, sia sul piano penale.


— 886 — Dal primo punto di vista, il Rodolico, nella sua veste di Rettore e così di pubblico ufficiale, non aveva soltanto il dovere giuridico di rispettare, al pari degli altri medici universitari, le norme disciplinatrici del rapporto a tempo pieno sul piano amministrativo, ma anche quello di farle rispettare. (...) Qui basterà considerare che, trovandosi il Rettore al vertice dell’amministrazione universitaria, è evidente che l’osservanza, da parte del Rodolico, delle disposizioni sul tempo pieno era sostanzialmente autogarantita dallo stesso Rodolico; come autogarantita era parimenti l’osservanza, da parte del Rodolico, del dovere di vigilare sulle incompatibilità: all’interno dell’Università non v’era, infatti, altri che, in virtù di uno specifico potere gerarchicamente sovraordinato, potesse controllare il Rodolico. E’ ben chiaro — come esattamente rilevato ancora una volta dal giudice di primo grado — che in questa situazione nessuno pretende che il Rodolico, deciso a tenere in non cale l’incompatibilità di legge, si... autodenunciasse al Ministro e chiedesse la propria decadenza; ovvio, infatti, che per il Rodolico soltanto una era l’alternativa: o rispettare le norme sull’incompatibilità ovvero violarle. E ciò — è il caso di precisare — non tanto in applicazione della regola nemo tenetur se detegere, quanto piuttosto — più banalmente ma anche più concretamente — perché è inimmaginabile in rerum natura che un soggetto, dopo avere posto in essere l’attività vietata, si attivi per l’applicazione della sanzione al riguardo prevista in suo danno. Resta il fatto che già sul piano amministrativo un conto è che la trasgressione del dovere sia commessa da un quisque tenuto alla sua osservanza; un conto è che essa sia commessa dall’unico soggetto che, nello stesso tempo, ricopre la carica che comprende tra i suoi poteri quello specifico di impedire la trasgressione. Sicché si avverte subito che in diritto positivo è certamente dotata di una maggiore dose di illegittimità la trasgressione di colui che è tenuto per legge ad impedirla. Ed è dotata di una maggiore dose di illegittimità non solo, o non tanto, perché in tal guisa il ‘‘controllore’’ viola due ‘‘doveri’’ (non solo il dovere che faceva capo al ‘‘controllato’’ ma anche quello che lo investe nella sua qualità di ‘‘controllore’’); quanto, piuttosto, perché, se il ‘‘controllore’’ arriva al segno di violare egli stesso il dovere che è tenuto a fare rispettare, viene a mancare del tutto l’unica garanzia su cui poggia il sistema delle incompatibilità previsto dalla legge. Qualunque ordinamento, e così anche quello amministrativo, deve necessariamente fare affidamento sulla osservanza dei doveri strumentali di controllo, se non vuole incappare in un circolo vizioso; espresso, da quando sono nati gli ordinamenti amministrativi, nella tremenda domanda: quis custodiet custodes? Il Rodolico, dunque, violando il dovere di vigilare (sulle incompatibilità) che faceva capo a lui siccome Rettore, era in condizione di violare (come medico universitario) le incompatibilità derivanti dal tempo pieno, senza concreto timore di subire le sanzioni disciplinari previste per i trasgressori: questo è quello che è avvenuto obiettivamente. Questo aspetto della fattispecie, del tutto negletto dall’appellata sentenza, non può certo essere privo di conseguenze sul piano penale. È di tutta evidenza, ben vero, che commette interesse privato ed abuso d’ufficio il pubblico ufficiale che, profittando della funzione di impedire la violazione di alcuni doveri attribuitagli in via esclusiva dall’ordinamento, li trasgredisca egli stesso. Questa volta, infatti, diventa assolutamente decisiva la considerazione della violazione non soltanto del dovere di base (in questo caso quello di rispettare le disposizioni sul tempo pieno), quanto, e soprattutto, del più importante e fondamentale dovere di controllo (quello di vigilare sul rispetto del dovere di base). Mentre la


— 887 — violazione del dovere di base si esaurisce (come non si è mancato di notare) in una valutazione di inadempimento (addebitabile soltanto alla persona fisica del dipendente inadempiente, ma non riferibile all’ente), cui dovrebbe conseguire fisiologicamente la sanzione disciplinare (ad opera della stessa P.A. da cui dipende il trasgressore), la violazione del dovere di vigilanza costituisce illegittimo uso (o non uso) del potere autoritativo affidato alla cura del Rettore, come tale riferibile all’Università: ci si avvede allora che, mentre il divieto delle incompatibilità fa capo ad un mero dovere giuridico, quello che, per semplicità (e per amore di simmetria), si è fin qui chiamato dovere di vigilanza costituisce invece potestà o funzione amministrativa. E ciò risulta tanto vero, alla prova dei fatti, che nessuno avrebbe dubitato: della sussistenza del reato di cui all’art. 328 c.p. (previgente) se il Rettore avesse omesso di segnalare al Ministro competente la violazione dei doveri derivanti dall’opzione per il tempo pieno, commessa da qualunque sanitario universitario catanese; della sussistenza del reato di interesse privato ovvero di abuso innominato di ufficio, se si fosse comprovato che l’omissione del Rettore era dettata dall’esigenza di favorire il trasgressore; della sussistenza del reato di corruzione propria, se, per non rilevare l’inosservanza della disciplina sul tempo pieno commessa da qualunque altro universitario sanitario, il Rettore (per mera ipotesi dialettica) avesse chiesto ed ottenuto una somma di denaro. Orbene, proprio perché il reato di interesse privato non è altro, secondo autorevole dottrina, che un’autocorruzione propria, sembra inaudito che esuli il reato allorché sia stato lo stesso Rettore a trasgredire le disposizioni sul tempo pieno. Si comprende a questo punto che, a volere analizzare (come è avvenuto in prima istanza) la fattispecie soltanto in rapporto alla violazione della disciplina del tempo pieno, si corre il rischio di perdere la visione complessiva della vicenda, che invece va riguardata unitariamente, come sopra si è cercato di fare. E ci si avvede, in conclusione, che soltanto in siffatta globale considerazione si apprezza la sussistenza di quel ‘‘quid giuridicamente rilevante nella sua riferibilità alla P.A., capace di produrre conseguenze giuridiche’’, che è necessario per la sussistenza del reato di interesse privato. È conveniente, a questo punto, riprendere le fila del discorso fin qui svolto per evidenziare che sussistono i presupposti tanto del depennato delitto di interesse privato quanto del delitto previsto dal vigente art. 323 c.p. Nella mancata rilevazione dell’incompatibilità, che (anche secondo il Tribunale) avrebbe dovuto indurre il Rodolico ad astenersi dal compiere attività liberoprofessionale in contrasto con il regime del tempo pieno, viene in rilievo la qualità e l’ufficio del Rettore, che è certamente un pubblico ufficiale (nella previgente come nella vigente accezione: art. 357 c.p.) sia in relazione alla somma dei poteri conferitigli, sia con riferimento alla specifica funzione di vigilanza sul tempo pieno dei medici universitari nonché di attivazione del procedimento disciplinare. Il Rodolico ha preso interesse privato, e cioè ha sfruttato l’ufficio, nel senso che ha violato le norme che regolavano il tempo pieno approfittando del fatto che egli, ed egli soltanto, aveva il potere-dovere di vigilare affinché fossero osservate puntualmente quelle norme e di promuovere il procedimento disciplinare ove avesse rilevato qualche violazione. Ha preso interesse privato in un atto d’imperio, e precisamente nello svolgimento dell’attività di controllo, assegnatagli espressamente dall’ordinamento in via esclusiva ed imputabile alla Università. Nella suddetta condotta del Rodolico si riscontra facilmente non solo la presa


— 888 — di interesse privato (art. 324 previgente c.p.), ma anche l’abuso dell’ufficio (art. 323 vigente c.p.), giacché, come si è già chiarito, l’imputato, cui l’ordinamento assegnava il potere di vigilare sulle incompatibilità derivanti dal tempo pieno, le ha trasgredite personalmente, così violando ad un tempo i divieti a carico del personale medico universitario a tempo pieno, ma anche abusando dei poteri di controllo e di vigilanza che facevano capo a lui, siccome Rettore. (Omissis). — Orbene, la condotta del Rodolico si può ritenere meramente omissiva soltanto se la si consideri superficialmente, e sopratutto se i segmenti che la compongono vengano arbitrariamente frazionati. È vero, infatti, che egli non ha certamente fatto uso del potere di diffida e di promovimento dell’azione disciplinare: nel che, di per sé, è individuabile una condotta meramente omissiva. Senonché, in realtà, è con l’esercizio dell’attività libero-professionale, e perciò con una condotta commissiva, cui ha fatto da supporto l’abnorme ricordata delibera della U.S.L. n. 35 emessa su esplicita richiesta proprio del Rodolico, che egli ha violato sia i doveri che derivavano dalla disciplina del tempo pieno, sia quelli connessi al potere di vigilanza. O, per dirla in altri termini, la trasgressione dei doveri derivanti dall’opzione per il tempo pieno e la correlativa (ed a quel punto coerente) mancata attivazione del potere disciplinare — condotte entrambe ‘‘sorrette’’ dalle ricordate delibere della U.S.L. n. 35 (richieste dal Rodolico) — hanno creato un quid che, considerato nella sua intrinseca unitarietà funzionale (se non addirittura naturalistica), integra il reato contestato, perché non è dubitabile che così facendo il Rodolico ha sviato dai suoi obiettivi istituzionali la pubblica funzione (quella attinente al potere di vigilare sulla corretta applicazione del tempo pieno), proprio al fine di conseguire l’interesse patrimoniale perseguito mediante la violazione delle disposizioni sul tempo pieno. Siamo in presenza, cioè, di un pubblico ufficiale che, anziché astenersi dal violare una normativa sulla cui osservanza è tenuto a vigilare in prima persona, non solo la viola personalmente, ma si adopera financo per cercare (con modalità, risultati e provvedimenti abnormi) di fare apparire ‘‘autorizzata’’ la propria condotta illecita. Senza dire, a volere considerare la condotta del prevenuto nel suo complesso, che egli, per svolgere attività libero professionale, si avvaleva arbitrariamente anche della collaborazione di un dipendente dell’Università. Presa di interesse privato ed abuso d’ufficio sono stati finalizzati al conseguimento di un interesse personale patrimoniale, corrispondente ai notevoli emolumenti percepiti dal Rodolico con la sua illecita attività libero-professionale. Resta così integrato non solo il reato abrogato di interesse privato, ma anche quello di abuso d’ufficio a fini patrimoniali (art. 323, comma 2o vigente c.p.). Con le descritte violazioni, il Rodolico ha, dunque, pregiudicato l’esigenza di imparzialità della P.A.: in ragione dell’identità del soggetto ‘‘controllato’’ con il suo ‘‘controllore’’, l’imputato ha goduto di una situazione privilegiata rispetto agli altri medici universitari a tempo pieno. In definitiva, allora, deve concludersi nel senso che la condotta incriminata integra il reato di interesse privato, previsto dal codice abrogato, nonché il reato previsto dal vigente art. 323, comma 2o c.p.; reati che, in forza dell’art. 2 c.p., comportano la sanzione prevista dall’art. 324 c.p. (Omissis). — Come si è sopra ricordato lo stesso Guglielmino, impiegato dell’Università con la qualifica di ‘‘agente socio sanitario’’, ha ammesso che, pur essendo impegnato a svolgere il suo orario di ufficio (dalle ore 8 alle ore 14, oltre il


— 889 — lavoro straordinario prestato una o due volte la settimana), accompagnava il Rodolico, quando egli visitava ed operava presso la Clinica Gibiino, sia di mattina sia dopo le ore 14; e lo accompagnava, su sua richiesta, per aiutarlo ‘‘in tutto quello che egli avrebbe potuto avere di bisogno nel campo amministrativo’’ (...): risulta pacifico, siccome ammesso dallo stesso Rodolico e dal Guglielmino (allora coimputato del Rodolico), che il primo accompagnava il secondo presso la Clinica Gibiino anche di mattina, proprio nelle ore che il Guglielmino avrebbe dovuto destinare ai compiti d’ufficio. (Omissis). — Qualificare in termini penalistici la menzionata condotta significa affrontare in apicibus il tema della rilevanza penalistica dell’utilizzo privato di attività lavorative di pubblici dipendenti (...). In primo luogo, allora, converrà chiarire che anche la fattispecie concreta generalmente sottesa al tema qui discusso necessita di non poche né irrilevanti puntualizzazioni. In realtà in rerum natura si possono enucleare (e non banalmente) due evenienze ben diverse l’una dall’altra: può avvenire, innanzi tutto, che il dipendente pubblico volontariamente (e per sua autonoma decisione), ma illegalmente, si sottragga al lavoro d’ufficio e destini le sue energie lavorative ad altri soggetti estranei alla P.A.; può avvenire, invece, che, essendo indifferente per il pubblico dipendente il beneficiario delle sue energie lavorative sottratte al pubblico impiego (e quindi con il consenso del dipendente stesso), tale ‘‘sottrazione’’ sia disposta (illegittimamente) da organo a lui gerarchicamente sovraordinato ed a beneficio del soggetto che impersona quell’organo. Dacché il giudizio e (anche) ars distinguendi, l’ovvia diversificazione sopra enucleata consente di delimitare adeguatamente, insieme al caso su cui si devono operare le pertinenti qualificazioni giuridiche, anche i termini del problema generale qui passato al vaglio. Posto che, infatti, delle due ipotesi fattuali sopra formulate soltanto la seconda corrisponde alla condotta imputata sub B al Rodolico, è opportuno disarticolarne le caratteristiche: il pubblico dipendente sottrae le proprie energie all’ufficio in cui è incardinato perché vi è indotto, se non costretto, da un ordine gerarchico; si deve convenire che tale ordine gerarchico è sicuramente illegittimo (...); l’ordine illegittimo è tale anche perché con esso, e soltanto con esso, il superiore gerarchico volge a suo profitto le energie lavorative che altrimenti dovrebbero essere destinate alla res pubblica; al vantaggio che ne scaturisce per la persona fisica autrice dell’ordine corrisponde un corrispondente danno della P.A., siccome fisiologica destinataria delle energie per tal via sviate e ‘‘privatizzate’’; lo sviamento avviene sostituendo apparentemente, per l’appunto, il destinatario illegale (il P.U. autore dell’ordine) a quello legale (la P.A.) nel rapporto che vede come elemento fisso il prestatore delle energie lavorative; ma, ad un successivo approfondimento, si scorge che in realtà non si assiste ad alcuna sostituzione in senso proprio, perché, mentre l’ordine illegittimo sopra menzionato vale soltanto ad interrompere (illegittimamente) la prestazione lavorativa del dipendente nei confronti dell’ente pubblico, tra il pubblico ufficiale autore dell’ordine illegittimo e dipendente si viene a costituire un autonomo rapporto di lavoro, che può essere a sua volta autonomo o dipendente (sicché l’ordine illegittimo vale soltanto a rendere possibile la costituzione di tale rapporto di lavoro): con l’ovvio corollario che tale rapporto sarà regolato dalle disposizioni privatistiche;


— 890 — può anche ipotizzarsi che (come è avvenuto nel caso in esame), essendo indifferente per il dipendente impiegare le energie di lavoro al servizio dell’ente pubblico ovvero per la persona del suo superiore gerarchico, egli non chieda alcun compenso per la sua prestazione, e tale è l’ipotesi ricorrente secondo l’id quod plerumque accidit (giacché altrimenti verrebbe meno l’interesse del pubblico ufficiale gerarchicamente sovraordinato); ma non è a priori escluso che il dipendente, invece, pretenda la controprestazione cui ha diritto secondo il diritto comune. (Omissis). — È il caso, a questo punto, di approfondire (...) il reato di peculato. È noto che, se primo a nascere in una civiltà dominata dalla proprietà contadina (a sua volta, inizialmente di natura più mobiliare che immobiliare), dovette essere il furto, il concetto di appropriazione servì a completare la tutela delle ragioni proprietarie mobiliari, nei casi in cui il diritto del dominus non veniva attaccata dalla mera (e primordiale) sottrazione. Tale essendo il livello di difesa della proprietà privata, su di essa si modellò anche la tutela penalistica di quella pubblica: è stato correttamente ritenuto di grande significato il fatto che all’origine del (significato linguistico, non meno che del reato di) peculato si collochi il furto, e poi l’appropriazione, del bestiame (pecus) appartenente al popolus romanus e poi, per connessa estensione semantica (in una società che, con l’invenzione della moneta, aveva superato la fase del baratto), del denaro (pecunia da pecus) pubblico; il peculato nasce, cioè, come furto, e poi, come appropriazione del denaro pubblico, o, per meglio dire (alla stregua di strumenti linguistici attuali), dei mezzi economici mobiliari di scambio pubblici: in una parola, come appropriazione delle risorse mobiliari pubbliche. Tutto ciò è di immediata rilevanza con riferimento al problema passato qui al vaglio, perché ci offre la possibilità di verificare l’estensibilità logica, ma anche storico-pragmatica, del concetto normativo di peculato. Ben vero, se si guarda alla genesi della fattispecie criminosa positiva, non può sfuggire che essa (nella formulazione anteriore e successiva alla l. n. 86 del 1990, ma anche nel codice previgente) delinea una condotta di appropriazione che ha per oggetto soltanto il denaro od altra cosa mobile. Orbene, è vero che il concetto di appropriazione (non a caso sorto dall’esigenza di superare i limiti obiettivi della sottrazione furtiva) è delimitato soltanto dalla volontà di appropriarsi, essendo sul piano obiettivo scarsamente selettivo, proprio perché la volontà di rendere proprio si può realizzare con una serie di comportamenti, definita soltanto dalla tensione soggettiva. Ma, per ragioni storiche che qui si possono soltanto lasciare intuire, fin dall’inizio tale direzione del volere (l’appropriarsi per l’appunto) è stata pensata, e si è normativamente oggettivata, soltanto su cose mobili. Si dirà, dunque, che amplissima è l’estensione delle condotte riconducibili al concetto normativo di appropriazione, ma senza passare sotto silenzio che, se si volge in forma transitiva (fare proprio) l’apparente verbo riflessivo (appropriarsi), si scopre che esso ha come punto di riferimento (e cioè come suo obietto) soltanto un bene mobile (derivato dall’antico pecus). Ne consegue ulteriormente che non solo il peculato non comprende tutte le ipotesi in cui viene pregiudicato (anche gravemente) l’interesse patrimoniale della P.A., giacché tale area di tutela è condivisa da altri reati, ma anche, e correlativamente, che la sua sfera di operatività è limitata proprio dal suo peculiare oggetto mobiliare: un sistema questo — si badi — che non aspira ad essere logicamente necessario, ma che è storicamente e positivamente determinato dalla nozione di cosa mobile. In fondo, l’analogia con il sistema dei delitti contro il


— 891 — patrimonio (privato) ci viene ancora in soccorso per comprendere la struttura della tutela penalistica del patrimonio pubblico: come nel primo settore ai delitti contro il patrimonio (privato) mediante violenza si contrappongono i reati contro il patrimonio mediante frode, in guisa concettualmente paragonabile i delitti contro il patrimonio (pubblico) possono essere commessi dai pubblici ufficiali sia con una condotta di appropriazione di cose mobili sia con altri tipi di condotte. Dunque, come avviene nel furto e nell’appropriazione indebita, così anche nel peculato l’oggetto materiale del reato è qualificato dall’incidenza, reale ed immediata, dell’attività del colpevole sul denaro o sulla cosa mobile. Ed è allora evidente che, accertata l’elasticità omnicomprensiva del termine ‘‘appropriarsi’’, la latitudine concettuale del peculato è direttamente proporzionale a quella di cosa mobile. In altri termini, se l’espressione linguistica ‘‘appropriarsi’’ sottende un concetto di genere, che in quanto tale può correttamente essere usato per indicare l’utilizzo a fini personali del lavoro del dipendente, non è affatto detto che si possa usare altrettanto ortodossamente la medesima espressione verbale nel significato (settoriale) con cui essa viene adoperata dall’art. 314 c.p. Come in diritto amministrativo l’espropriazione stricto sensu non è che una delle varie articolazioni dei provvedimenti ablatori (distinti in personali, reali, obbligatori), e segnatamente quella caratterizzata dalla realtà, così nell’ambito delle condotte latamente pregiudizievoli per il patrimonio pubblico, quella descritta in termini di peculato ne rappresenta il tipo qualificato dalla sopra menzionata incidenza reale ed immediata su un bene mobile. Orbene, per quanti sforzi siano stati tentati, resta ancora troppo agevole confutare l’assimilazione, nell’ambito dell’ ordinamento giuridico attuale, ad una cosa mobile (art. 812 c.c.), ed anche alle energie (art. 624, comma 2o c.p. ed art. 814 c.c.), della prestazione lavorativa del dipendente, di cui ‘‘si appropria’’ (in senso linguisticamente corretto, ma penalisticamente non ortodosso) il suo superiore, nella fattispecie che ha reso necessaria l’indagine in corso. Se si prescinde dai sistemi incentrati sulla schiavitù (in cui, tuttavia, l’inseparabilità delle energie lavorative dalla persona rifluiva concettualmente nella considerazione dello schiavo come oggetto di diritti, ma giammai delle sue energie lavorative), appare dotata di immediata evidenza logica la considerazione per cui tutto lo sviluppo del diritto del lavoro (ed anzi la sua stessa ragion d’essere) ruota attorno all’idea, in una prima fase (e cioè nell’ottica del diritto ottocentesco), di inserire nella tematica negoziale la prestazione del lavoratore subordinato (non a caso considerata come uno dei fattori della produzione, al pari del capitale e delle materie prime); ed, in una successiva e meno mistificante evoluzione, di tutelare adeguatamente il lavoratore all’interno ed al di là del rapporto negoziale, riconoscendogli allora la sua sostanziale soggezione rispetto al datore di lavoro. Se a ciò si aggiunge che il diritto moderno si è sempre ben guardato dal ‘‘mercificare’’ sia la prestazione di lavoro subordinato sia quella del lavoratore autonomo, si può allora facilmente concludere che l’assimilazione delle energie lavorative ai beni mobili è fieramente contrastata da tutte le tendenze (ed anche da quelle meno progressiste) del sistema giuridico positivo. Il quale prevede e disciplina contratti e rapporti di lavoro, anche in ambito aziendale; ma a cui rimane tecnicamente estranea la possibilità che un soggetto si appropri a danno di altri delle energie lavorative espletate da un lavoratore, proprio perché la prestazione di lavoro viene considerata non alla stregua di una res, ma come prestazione di un facere all’interno di uno speci-


— 892 — fico rapporto negoziale, che vede quali soggetti il datore ed il prestatore di lavoro. D’altra parte, se si guarda al modo in cui viene intesa la cosa mobile nei reati contro il patrimonio (privato), è evidente che giammai sarà considerata appropriazione indebita la condotta dell’imprenditore, che utilizzando per gentile e precaria concessione una squadra di operai messagli a disposizione da altra ditta, si rifiutasse di ‘‘restituirla’’ nonostante l’esplicita richiesta della ditta concedente. In altre parole, il concetto giuridico di cosa mobile e di energie non può tecnicamente estendersi alle energie lavorative (del lavoratore subordinato, ma anche di quello autonomo), sicché, per necessaria conseguenza, diventa improprio il riferimento al peculato per qualificare la fattispecie sopra scomposta. (Omissis). — Non viene meno, tuttavia, il dovere di verificare se (nei limiti della contestazione) siano configurabili altre ipotesi criminose. Difatti, se, a questo punto, si riconsiderano le componenti della fattispecie sopra disarticolta, appare di tutta evidenza che ricorrono tutti gli elementi del reato previsto e punito dall’abrogato art. 324 c.p. e dal vigente art. 323 c.p.; un risultato questo su cui concorda tutta la dottrina, quasi unanimemente schierata contro la tesi del peculato (fatta propria dalla S.C. in alcune decisioni). — (Omissis). L’ordine con cui il Guglielmino, volta per volta, veniva distolto dal suo ufficio per potere collaborare con il Rodolico veniva dato da costui nella sua qualità di Rettore, e quindi di pubblico ufficiale. Impartendo tale ordine amministrativo il Rodolico certamente prendeva un interesse privato in un atto d’ufficio, atteso che proprio tale atto consentiva al Guglielmino di assentarsi dall’ufficio per collaborare il Rodolico nella sua attività libero-professionale: difatti, senza tale ordine, il Rodolico non avrebbe potuto avvalersi come privato dell’attività lavorativa del Guglielmino. Vero è che tale ordine era, ed è, gravemente illegittimo, siccome affetto da violazione di legge ed eccesso di potere, ma questa era vicenda normale nel campo del delitto di interesse privato: ovvio, infatti, che nella maggior parte dei casi tale reato si commette mediante l’emissione di un provvedimento viziato e, quindi, annullabile. Né sembra corretto ipotizzare (come talora si è proposto in giurisprudenza) che in questo caso l’ordine sia (per così dire) talmente illegittimo da non essere addirittura riferibile alla P.A.: infatti, checché se ne possa pensare, in diritto amministrativo un ordine siffatto, tecnicamente esistente come provvedimento amministrativo riferibile alla P.A., è soltanto annullabile. D’altronde, se si ipotizza che l’atto amministrativo non sia giuridicamente imputabile alla P.A. ogni qual volta il P.U. emetta atti amministrativi troppo vistosamente illegittimi in situazioni che integrano (per altro verso) il reato di interesse privato, ci si avviluppa in una petizione di principio; il cui unico corollario sarà che, mentre l’atto in questione resterà meramente annullabile (ma esistente) alla stregua del diritto amministrativo, verrà esclusa la sua rilevanza penale come interesse privato, pur in situazioni che funzionalmente ed ontologicamente ne richiamano i presupposti: un risultato questo davvero inaccettabile. L’atto illegittimo predetto costituisce anche abuso della funzione, quale richiesto dalla nuova configurazione dell’art. 323 c.p. Con tale atto illegittimo il Rodolico intendeva conseguire, ed ha conseguito, un vantaggio patrimoniale (pari nella specie alla somma risparmiata, ‘‘utilizzando’’ gratuitamente la collaborazione del Guglielmino), come previsto dal vigente art. 323, comma 2o c.p.


— 893 — Con le descritte violazioni, il Rodolico ha, dunque, pregiudicato l’esigenza di imparzialità della P.A. In definitiva, allora, deve concludersi nel senso che anche la condotta descritta al capo B integra il reato di interesse privato, previsto dal codice abrogato, nonché il reato previsto dal vigente art. 323, comma 2o c.p.; reati che, in forza dell’art. 2 c.p., comportano la sanzione prevista dall’art. 324 c.p. — (Omissis).

——————— (1-2)

L’abuso d’ufficio per omissione del controllo e dell’iniziativa disciplinare: il caso del Rettore di un’Università.

1. Lo svolgimento di attività professionale, in dispregio della normativa che regola la prestazione di lavoro a tempo pieno dei medici cattedratici, ha o non ha rilevanza penale ‘‘generale’’? E il medesimo fatto del Rettore acquista o non acquista un connotato ‘‘speciale’’ di illiceità? Le pronunce dei giudici di Catania si dividono sulla seconda risposta, mentre muovono entrambi dall’assunto che l’irregolare attività professionale c.d. ‘‘extramuraria’’ integra gli estremi dell’illecito disciplinare, vuoi del medico ospedaliero, vuoi del docente universitario a tempo pieno, non già gli estremi dell’illecito penale. Sicché la questione della rilevanza penale, per dir così ‘‘aggiuntiva’’, della condotta ‘‘indisciplinata’’ del Rettore riposa per intero sulla qualifica soggettiva dell’agente. Che questa posizione di preminenza del Rettore nell’ambito della pubblica Amministrazione universitaria alteri il quadro di riferimento al punto da giustificare (ovvero non giustificare) la violazione dell’astratta par condicio civium è appunto la materia del contendere (1). L’orientamento del Tribunale, secondo cui il fatto del Rettore non costituisce reato, si basa, a nostro avviso, su una concezione ‘‘imbalsamata’’ e ‘‘liturgica’’ della par condicio; l’opposto orientamento della Corte d’Appello evidenzia, invece, con consapevolezza e rigore argomentativo, le ragioni di una difforme responsabilità giuridica del Rettore, rispetto al comune docente universitario, sul fondamento di una difforme attribuzione di poteri e correlativi doveri. E vediamo perché. Innanzitutto non può dubitarsi dell’irregolarità dell’attività extramuraria del medico ospedaliero o del docente universitario equiparato, non espressamente autorizzata. La ratio legis del D.P.R. n. 761 del 1979 e del D.P.R. n. 382 del 1980 consiste nel restringere le prestazioni professionali private del docente universitario a tempo pieno entro i limiti della coincidenza con l’‘‘interesse pubblico’’. Per quella parte di prestazione privata che può insieme servire alla formazione professionale del docente e all’economia dell’università (o dell’ospedale) è necessaria un’apposita convenzione. Al di fuori di questa convenzione (e nel caso di specie l’autorizzazione di un soggetto assolutamente incompetente, anzi privo di ‘‘attribuzione’’— comitato di gestione dell’U.S.L. —, è tamquam non esset e non può dar luogo ad alcuna convenzione) l’attività professionale privata del docente a

(1) Si prende qui in considerazione la par condicio dei cittadini nei confronti dell’autorità giudiziaria, non già nei confronti dell’autorità amministrativa; si tratta ovviamente di due aspetti della medesima posizione di ‘‘uguaglianza’’ di fronte alla legge. La par condicio civium viene in rilievo soprattutto come oggetto giuridico dell’abrogato interesse privato in atti d’ufficio (cfr. SANTAMARIA, La condotta punibile nell’interesse privato in atti d’ufficio, Napoli, 1965, p. 143) e dell’odierno abuso d’ufficio (cfr. FIANDACAMUSCO, Diritto penale, parte speciale, appendice La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica Amministrazione, Bologna, 1991, p. 28).


— 894 — tempo pieno è certamente irregolare. E tuttavia quest’irregolarità non integra gli estremi dell’abuso d’ufficio. L’irregolarità è una condizione necessaria, ma non sufficiente, del verificarsi dell’abuso (2): se il reato di cui all’art. 323 c.p. suppone necessariamente un atto irregolare, non tutte le irregolarità danno luogo all’abuso. Il reato consiste nell’abuso delle facoltà inerenti all’ufficio e perciò consiste nella formazione di un atto irregolare (ovvero una serie irregolare), che sia espressione dell’autorità amministrativa (3). Il soggetto agente, nell’abusare, distorce e ‘‘svia’’ gli atti della pubblica Amministrazione; e in tanto li piega a finalità non conformi all’interesse pubblico e dunque ‘‘abusa’’, in quanto gli atti siano imputabili alla pubblica Amministrazione e perciò dotati degli attributi ‘‘autoritativi’’ della potestà pubblica (4). Per contro, l’attività professionale privata è, in virtù della stessa definizione, l’oggetto di un diritto della persona; fa nascere rapporti di diritto privato e non già rapporti di diritto pubblico. Nell’esercizio del diritto individuale alla libera attività professionale non può vedersi in nessun caso l’espressione dell’autorità pubblica; il privato esercita quel diritto senza vestirsi di alcuna ‘‘autorità’’ e, nell’esercitare questo diritto, fa valere le sue eventuali pretese contro la pubblica Amministrazione. Sicché l’irregolare attività professionale viene a incidere sulla posizione del privato nei confronti della pubblica Amministrazione, non già sulla posizione della pubblica Amministrazione nei confronti del privato. In ragione di ciò, l’irregolare attività professionale del docente universitario a tempo pieno non può dar luogo all’abuso d’ufficio, la cui precipua tipicità risiede nella formazione irregolare di atti che si imputano alla pubblica Amministrazione. Quest’attività irregolare dà luogo dunque ad un mero illecito disciplinare, suscettivo di sanzione secondo le regole della procedura amministrativa, come correttamente ritenuto nelle due sentenze in commento. L’illecito disciplinare, com’è ovvio, origina dal rapporto di lavoro di diritto

(2) La sussistenza dell’abuso dà luogo, sempre e necessariamente, ad un atto illegittimo, in quanto affetto dal vizio dello ‘‘sviamento di potere’’. In questo senso CONTIERI, voce Abuso innominato di ufficio, in Enc. dir., p. 188; PADOVANI, La riforma dell’abuso innominato e dell’interesse privato in atti d’ufficio, in Riv. it. dir. proc. pen., 1986, p. 1048; PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte speciale, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1994, p. 236; STORTONI, L’abuso di potere nel diritto penale, Milano, 1976, p. 260 ss. È chiaro tuttavia che l’illegittimità dell’atto è un sintomo dell’abuso, non si identifica con esso; è una condizione necessaria, ma non sufficiente, dell’abuso (‘‘In pratica, se l’illegittimità dell’atto, riscontrabile a priori, può rappresentare un primo indizio di abuso di potere, l’accertamento dell’abuso di potere conduce sempre a riscontare l’illegittimità dell’atto.’’ PADOVANI, op. cit., p. 1056). (3) È controverso se l’abuso d’ufficio postuli necessariamente il compimento di un atto amministrativo ovvero postuli soltanto la mera sussistenza di un’attività materiale. La tesi restrittiva si collega agli approdi della dottrina in tema di interesse privato in atti d’ufficio, per le inevitabili connessioni interpretative con l’odierno abuso; vedasi BARTULLI, L’interesse privato in atti di ufficio, Milano, 1974, p. 102 ss.; BRICOLA, voce Interesse privato in atti di ufficio, in Enc. dir., p. 83 ss. La tesi estensiva è sostenuta dalla prevalente dottrina: GROSSO, L’abuso di ufficio, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, p. 320; PALAZZO, La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali: un primo sguardo d’insieme, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, p. 829; PAGLIARO, op. cit., p. 238; SEGRETO-DE LUCA, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica Amministrazione, Milano, 1991, p. 488; in questo senso anche la giurisprudenza (vedasi Cass., sez. VI, 1 febbraio 1990, n. 1467; Cass., sez. VI, 30 aprile 1991, C.E.D. Cass., n. 191976; Cass., sez. VI, 5 febbraio 1991, C.E.D. Cass., n. 187441). Tuttavia ciò che veramente importa ai nostri fini è che l’abuso d’ufficio si configura come abuso dei poteri inerenti all’ufficio, non già come abuso della qualità o posizione (in questo senso PAGLIARO, op. cit., p. 232; STORTONI, op. cit., p. 14 ss., 40 ss.). Pertanto deve estrinsecarsi in un’attività (in senso lato) imputabile all’ufficio, non già in un’attività imputabile alla persona fisica del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio; sul punto PALAZZO, op. cit., p. 830. (4) Qui l’‘‘autoritarietà’’ non deve intendersi in senso stretto, ma come meramente significativa del rapporto di imputazione che lega l’atto all’autorità amministrativa. Sulla configurabilità dell’abuso non solo negli atti d’imperio, ma anche negli atti di gestione sussistono pochi dubbi in dottrina, cfr. SEGRETO-DE LUCA, op. cit., p. 489.


— 895 — pubblico che lega il docente all’Università, non origina sic et simpliciter dall’attività professionale privata. Questa viene in considerazione, in quanto altera le condizioni dell’‘‘esclusività’’ del rapporto pubblico e pertanto, in via mediata, incide sul rapporto pubblico; decisiva è tuttavia l’incidenza sulla posizione del privato (nei confronti della pubblica Amministrazione) e non già sugli atti della pubblica Amministrazione. Ben diversa è la responsabilità del Rettore che omette il controllo doveroso sul rispetto della normativa che regola il rapporto di lavoro a tempo pieno dei docenti universitari. Il potere di controllo e di iniziativa disciplinare dell’organo posto al vertice della gerarchia amministrativa è una delle espressioni più ‘‘visibili’’ dell’autoritarietà della pubblica Amministrazione e, ovviamente, gli atti di controllo e disciplinari si imputano direttamente alla pubblica Amministrazione. L’esercizio di questo potere di controllo e di iniziativa disciplinare si realizza, dunque, mediante atti della pubblica Amministrazione che, potestativamente, modificano la posizione giuridica dei privati. Orbene, nel mancato esercizio di questo potere di controllo risiede l’abuso d’ufficio del Rettore di Catania, come ha giustamente ritenuto il giudice d’appello. L’autoritarietà si manifesta tanto nell’esercizio del potere quanto nel mancato esercizio del potere, per la semplice ragione che il mancato esercizio del potere nasce dalla ‘‘titolarità’’ stessa del potere, non già dalla mancanza del potere. Se manca il potere, non ha senso parlare di ‘‘mancanza d’esercizio’’, giacché non si può esercitare ciò di cui non si ha la titolarità e pertanto ‘‘il mancato esercizio di un potere inesistente’’ non ha senso alcuno. Se poi l’esercizio del potere è doveroso, è ulteriormente evidente che il mancato esercizio esprime la titolarità del potere, giacché emerge nitidamente la manifestazione di volontà connessa alla violazione del dovere. E dunque l’esercizio e il mancato esercizio (tanto più se doveroso) sono entrambi espressione di una medesima potestà pubblica, sicché la descritta deviazione degli atti amministrativi, in che si concreta l’abuso d’ufficio, può aversi sia con l’esercizio positivo sia con l’esercizio negativo (antidoveroso) della potestà pubblica (5). Nel caso di specie, l’esercizio del potere di controllo e di iniziativa disciplinare del Rettore è sicuramente doveroso, in virtù della sua stessa natura. Si controlla l’attività dei docenti e si reprimono gli eventuali illeciti disciplinari; e la sanzione disciplinare è obbligatoria, come tutte le sanzioni giuridiche. L’an della sanzione trova il suo fondamento nell’illecito, non già nel paternalistico ‘‘arbitrio’’ del superiore gerarchico: se l’illecito disciplinare sussiste, la sanzione deve essere. Ne consegue che l’esercizio del potere di controllo e di iniziativa disciplinare del Rettore nei confronti dei docenti universitari è un ufficio doveroso e nella violazione di questo dovere risiede, per l’appunto, l’abuso. S’intende che la coincidenza del controllando e del controllore, messa lucidamente in evidenza dal giudice d’appello nella pregevolissima motivazione, è sintomatica della doverosità dell’esercizio del potere, la cui corrispondente omissione dà luogo all’abuso. Il Rettore conosce l’irregolarità disciplinare da lui stesso commessa e, poiché conosce, deve attivarsi per rimuoverla. Senza la conoscenza dell’illecito disciplinare, il dovere non sorge e l’abuso non può sussistere; nel caso di specie, la conoscenza è in re ipsa e dunque l’abuso sussiste. È il caso di evidenziare tuttavia che l’abuso d’ufficio sussisterebbe ugual-

(5) La prevalente dottrina riconosce la configurabilità dell’abuso mediante omissione, nei limiti in cui il fatto non costituisca omissione di atti d’ufficio; MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. V, Torino, 1962, p. 257; PAGLIARO, op. cit., p. 238; con qualche riserva anche FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 32. Contra SEGRETO-DE LUCA, op. cit., p. 486; anche un indirizzo giurisprudenziale richiede la positività della condotta, Cass., sez. V, C.E.D. Cass. n. 160497 dell’83.


— 896 — mente nell’ipotesi in cui il Rettore omettesse l’intervento doveroso per ‘‘coprire’’ un amico, ovvero, a maggior ragione, una persona a lui legata da vincoli di cointeressenza economica. Ne arguiamo che il fatto del Rettore pregno di disvalore penale consiste unicamente nell’omissione dell’esercizio doveroso di una potestà pubblica, non già nell’irregolare attività professionale extramuraria. Insomma il fatto d’abuso del Rettore ha natura omissiva, anche se in concreto si connette col comportamento commissivo dell’attività professionale privata (6). L’attività commissiva, e cioè l’esercizio positivo dell’attività lavorativa non autorizzata, è posta in essere iure privatorum ed ha rilevanza meramente disciplinare; non forma oggetto di un atto amministrativo, semmai può considerarsi il presupposto dell’atto autoritativo doveroso, la cui omissione si configura come abuso. L’illecito penale consiste unicamente nell’abuso delle prerogative connesse all’ufficio dunque non può che risiedere nel mancato esercizio di una potestà pubblica. La coincidenza personale del controllando e del controllore fa sì che l’attività professionale del controllando si immedesimi, da un punto di vista fenomenologico, con l’omissione del controllo doveroso da parte del controllore, ma non ci impedisce di distinguere, da un punto di vista giuridico, tra presupposto e condotta tipica. Il presupposto attiene alla posizione del controllando, la condotta tipica attiene esclusivamente alla posizione del controllore. E come il controllando e il controllore possono non coincidere (anzi l’avventurosa coincidenza del controllore e del controllando è un capriccio del caso) e come l’abuso sussisterebbe ugualmente quand’anche il controllando fosse una persona diversa dal controllore, così deve ritenersi che l’illecito penale del Rettore consiste unicamente nell’omissione dei doveri inerenti alla posizione di controllo. E sulla natura omissiva di questo fatto verte l’unico dissenso rispetto alla motivazione della sentenza d’appello, che ci pare ineccepibile per tutti gli altri versi. Questa sentenza, ben argomentata come raramente è dato rilevare, ha il merito di farci intendere che la singolarità della posizione di preminenza, nell’ambito della struttura gerarchica dell’Università, si riverbera sui poteri e sui doveri del Rettore e dunque sull’uso di quei poteri e sul rispetto di quei doveri. Per questa via si dissimula l’apparenza della par condicio civium, invocata dal giudice di primo grado, come identità della posizione di tutti i docenti a tempo pieno. La diversa ‘‘attribuzione’’ del Rettore e l’insieme delle sue prerogative fanno mutare il comportamento giuridicamente ‘‘esigibile’’, sicché la ‘‘singolarità’’ della rilevanza penale del suo omesso controllo non è lesiva della par condicio civium. A ben vedere, la par condicio può essere unicamente invocata sotto il profilo dell’irrilevanza penale dell’irregolare attività professionale privata di tutti i docenti universitari a tempo pieno; ma non può essere invocata, ovviamente, come identità della potestà di controllo. E poiché proprio nella violazione dei doveri inerenti alla potestà di controllo consiste l’abuso d’ufficio, è evidente che il dictum della Corte d’Appello non è lesivo della par condicio civium. 2. Da ultimo, rimane aperta la questione se l’irregolare utilizzo dell’energia lavorativa di un dipendente dell’Università possa integrare gli estremi del peculato (7). Entrambi i giudici hanno optato per la risposta negativa e riteniamo giustamente.

(6) Questo fatto omissivo integra gli estremi dell’abuso d’uffico, per ciò stesso che non integra gli estremi dell’art. 328 c.p. (né l’estremo del rifiuto né l’estremo del ritardo). Sulla ristretta formulazione del tipo dell’omissione di atti d’ufficio cfr. per tutti FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 35 ss. (7) Ad avviso di PADOVANI, il c.d. peculato di energie lavorative è una delle nuove, e più insidiose, forme di criminalità amministrativa, che lo ‘‘statuto’’ penale della pubblica amministrazione non è in grado di fronteggiare efficacemente (op. cit., p. 1043).


— 897 — Il Tribunale ha negato l’assimilabilità dell’energia lavorativa alla ‘‘cosa’’. La nozione di ‘‘cosa’’ designa perfino un quid fisicamente indeterminato come l’energia, ma designa pur sempre alcunché suscettivo di essere individuato e isolato nel tempo e nello spazio. L’energia lavorativa al contrario è immedesimata nel soggetto che la possiede, è un attributo della persona umana e non può distaccarsene. Al di fuori della persona l’energia lavorativa non è; e perciò non ha alcuna individualità propria; non può essere ‘‘isolata’’ come tale e pertanto non può formare oggetto di apprensione, di amotio, di presa di possesso etc. L’immedesimazione dell’energia lavorativa col soggetto impedisce dunque di ravvisarla come ‘‘cosa’’, per quanto la nozione di cosa possa ricomprendere oggetti immateriali (8). La Corte d’Appello ha supportato l’identico avviso, che nella specie non sia configurabile il delitto di cui all’art. 314 c.p., di preziose e dotte considerazioni relative all’origine storica del peculato. Se il peculato ha la sua scaturigine linguistica nel pecus, che designa in senso stretto l’ovino, ma in senso lato la merce di scambio, la moneta e tutto ciò al quale si collega un valore di mercato, è ben evidente che il suo oggetto deve possedere, in qualche modo, una ‘‘materialità-patrimonialità’’ necessaria. Se ne argomenta che l’energia lavorativa, sprovvista della rilevanza fenomenica del pecus, non può formare oggetto del peculato. E dunque, anche il giudice d’appello, sebbene per altra via, esclude la configurabilità del peculato argomentando intorno all’oggetto. A nostro avviso, non solo sul versante dell’oggetto, ma anche sul versante della condotta emerge l’impossibilità di configurare il peculato. La condotta del peculato consiste nell’appropriazione. A ben vedere, l’‘‘appropriazione’’ non designa qualunque forma di realizzazione del dominio o presa di possesso, ma designa una modalità della presa di possesso: designa quella modalità contra ius, realizzata invito domino. A questa conclusione si perviene sia sulla base della considerazione dommatica che il reato si caratterizza per essere un ‘‘illecito a modalità di lesione’’, sia sulla base della considerazione esegetica che i reati similari, il furto e l’appropriazione indebita, realizzano una presa di possesso (ovvero un’interversio possessionis) invito domino. Il carattere antigiuridico del dominio sulla cosa, che il furto e l’appropriazione indebita realizzano, consiste nella contraria volontà dell’avente diritto. E non potrebbe non essere così anche nel peculato, giacché l’‘‘appropriazione’’ designa l’interezza della condotta tipica; l’appropriazione è l’in sé della condotta illecita e dunque non può designare una modalità comportamentale neutra, una presa di possesso che non sia pregna di disvalore giuridico; sicché designa inevitabilmente un impossessamento invito domino (9). In ragione di ciò, l’‘‘appropriazione’’ non può riguardare, a nostro avviso, l’energia lavorativa, in quanto l’energia lavorativa è prestata col consenso del soggetto che la possiede. Per questa via, il convincimento dei giudici di Catania trova un’ulteriore conferma. MICHELE GELARDI Ricercatore confermato presso l’Università degli Studi ‘‘La Sapienza’’ di Roma (8) La spossessabilità è uno dei requisiti della cosa; pertanto l’inseparabilità dalla fonte non consente di ritenere ‘‘cosa’’ l’energia animale e quella umana; in questo senso MANTOVANI, Diritto penale, parte speciale, Delitti contro il patrimonio, Padova, 1989, p. 22; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte speciale, Delitti contro il patrimonio, Bologna, 1992, p. 24. (9) E infatti il peculato può assimilarsi ad un reato (contro il patrimonio) ‘‘di aggressione unilaterale’’, non già ad un reato ‘‘di cooperazione artificiosa’’. Sul punto vedasi PEDRAZZI, Inganno ed errore nei delitti contro il patrimonio, Milano 1955, p. 39 ss.; MANTOVANI, Contributo allo studio della condotta nei delitti contro il patrimonio, Milano, 1961, p. 57; FIANDACA-MUSCO, op. ult. cit., p. 14 ss.


DOTTRINA

AFFERMAZIONI E SCONFITTE DELLA CULTURA DEI GIURISTI NELLA ELABORAZIONE DEL NUOVO CODICE DI PROCEDURA PENALE (*) SOMMARIO: 1. La cultura processualpenalistica e il codice del 1988: l’impatto e i suoi effetti. — 2. La posizione di primo piano dei giuristi nel processo di produzione della normativa codicistica. — 3. La dinamica dei rapporti tra accademici, magistrati-giuristi e apparati ministeriali nella attività di elaborazione legislativa. — 4. Il contributo della dottrina alla definizione delle linee del modello accusatorio. — 5. Gli istituti pensati o elaborati dai « giuristi del codice ». — 6. Affermazioni e sconfitte della cultura dei professori: dal primato alla « perdita di potere » conseguente all’entrata in vigore del codice.

1. La cultura processualpenalistica e il codice del 1988: l’impatto e i suoi effetti. — Per lo studioso di diritto processuale penale la scelta del terreno di indagine è quasi obbligata: la riflessione sul grado di incidenza che la cultura giuridica del dopoguerra ha avuto sulla normativa concernente il processo penale impone di concentrare l’attenzione sui contenuti del nuovo codice e sull’iter che ha contrassegnato la sua nascita. Si tratta di un banco di prova ideale per misurare l’apporto dei giuristi alla produzione legislativa: la codificazione del 1988 è un corpus normativo imponente che ben si presta a rivelare l’eco o la recezione diretta di linee di politica processuale elaborate dalla dottrina giuridica. Essa, inoltre, contiene un radicale mutamento di sistema che offre lo spunto per scoprire le radici culturali da cui è scaturito il superamento del rito inquisitorio. È necessaria in via preliminare una messa a punto del metodo. Il tema del Convegno sollecita indubbiamente a far uso degli strumenti della ricerca storica per far emergere i possibili legami o le dirette influenze percepibili, nell’arco di tempo che va dalla metà degli anni Sessanta alla fine degli anni Ottanta, nell’ambito dei rapporti tra cultura processualpenalistica e organi istituzionali cui è imputabile la formazione delle norme del nuovo codice. D’altra parte, però, sia la necessità di riflettere su vicende che sono a noi cronologicamente assai vicine, sia l’esperienza diretta vissuta da chi scrive all’interno del processo di elaborazione del co(*) Testo della relazione svolta all’Incontro di studio, tenutosi a Firenze nei giorni 2628 settembre 1996, sul tema « Giuristi e legislatori. Pensiero giuridico e innovazione legislativa nel processo di produzione del diritto ».


— 900 — dice, suggeriscono di avvalersi anche di una visuale sociologica, così da svolgere l’indagine con metodo storico-sociologico (Friedman, 1989, 18). Proprio dalla elaborazione teorica compiuta dalla sociologia del diritto si possono anzitutto desumere alcuni concetti-chiave utili a definire i confini della ricerca. Si può infatti parlare di impatto per denotare l’area della codificazione che, nella sua architettura o nei singoli istituti, manifesta i segni della recezione di stimoli, proposte o elaborazioni provenienti dai giuristi. La nozione implica un punto di vista meramente descrittivo, da tenere distinto da quello valutativo che è invece sotteso al criterioguida che concerne gli effetti dell’apporto degli studiosi di procedura penale. Ed invero una volta che si sia accertata l’influenza della dottrina sul codice del 1988, ci si può domandare quali effetti siano derivati dall’impatto culturale sui testi normativi tanto dal punto di vista della efficienza del lavoro legislativo, quanto di quello della qualità del prodotto normativo: in termini di razionalità sistematica ovvero sotto il profilo del maggior o minor grado di accettazione della norma da parte degli operatori del processo. Impatto della dottrina sul nuovo codice ed effetti, in termini di costi e benefici, della mediazione culturale sono i due poli attorno ai quali ruota la presente indagine. Su un piano diverso si colloca invece la problematica concernente le reazioni della magistratura, ordinaria e costituzionale, e del ceto forense di fronte alla nuova codificazione. Qui il punto di vista privilegiato è quello della attuazione pratica della normativa codicistica. Al riguardo, discutere di consensi e dissensi rispetto al nuovo codice ovvero di idoneità o meno del sistema ad interpretare i bisogni di efficienza e tutela dei diritti individuali espressi dagli operatori della giustizia può essere giustificato solo nei limiti in cui si voglia capire quale incidenza ha avuto la mediazione culturale dei giuristi rispetto ai destini del prodotto legislativo, almeno nella parte in cui esso risulta influenzato o ispirato dal pensiero processualpenalistico. Nel quadro dei temi di indagine così definiti, si possono ora individuare le aree più specifiche sulle quali conviene accentrare l’attenzione. Va anzitutto chiarito il ruolo che i giuristi hanno avuto nell’iter legislativo dal quale è scaturito il codice di procedura penale del 1988. Qui l’interesse è focalizzato sulla codificazione come processo e non come prodotto, cioè come risultato finale racchiuso in un definito corpus normativo (Varga, 262). Si tratta cioè di capire in che modo gli esponenti della cultura processualpenalistica abbiano fatto sentire la loro voce nelle sedi della elaborazione legislativa: se nella veste di suggeritori o stimolatori dall’esterno di scelte tutte compiute nel contesto politico-istituzionale ovvero come veri e propri attori del processo legislativo. In questo ambito è pure necessario far luce sulle dinamiche dei rap-


— 901 — porti tra i giuristi impegnati nel lavoro legislativo come tecnici della procedura penale e, da un lato, i politici coinvolti nella elaborazione normativa quali parlamentari, dall’altro, gli apparati costituiti dai magistrati-funzionari addetti al Ministero della giustizia. Al di là di questo terreno, per quanto attiene all’estensione dell’impatto dottrinale, conviene distinguere due filoni: il primo riguarda l’incidenza della cultura accademica sulla scelta del modello del nuovo processo e sulla architettura complessiva del codice; il secondo investe l’apporto dei giuristi alla costruzione dei singoli istituti. Risulta così delineata nella sua completezza l’intelaiatura logica della presente relazione. Il criterio dell’impatto sollecita a definire il ruolo dei giuristi nel processo di creazione delle norme codicistiche e a misurare l’influenza del loro pensiero sia sul piano dell’opzione del sistema processuale, sia sotto il profilo delle innovazioni trasfuse nelle diverse parti della codificazione. Indagando sugli effetti si cercherà invece di stabilire se il contributo degli studiosi abbia procurato al nuovo codice di procedura penale il beneficio di una maggior qualità del dettato normativo ovvero abbia fatto ricadere sullo stesso i costi derivanti da precostituite ideologie o astratte ingegnerie processuali lontane dai bisogni della prassi. 2. La posizione di primo piano dei giuristi nel processo di produzione della normativa codicistica. — È ben noto che per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale ci si è avvalsi, in ossequio ad una tradizione risalente nel nostro sistema costituzionale, del congegno della legge delega. Ne è scaturita una divisione del lavoro tra la sede parlamentare, nella quale sono stati fissati i principi e i criteri direttivi per la redazione del codice (art. 2 l. 16 febbraio 1987, n. 81), e quella governativa, in cui ha trovato collocazione, ai fini dell’esercizio della delega, una Commissione incaricata di redigere il Progetto preliminare. La Commissione, costituita presso il Ministero della giustizia e presieduta dal prof. Gian Domenico Pisapia, era composta da otto professori universitari, otto magistrati e un avvocato. Secondo quanto prescritto dall’iter fissato dalla legge delega, il Progetto preliminare è stato sottoposto poi all’esame di una Commissione parlamentare bicamerale che ha controllato la conformità del testo ai principi stabiliti dal Parlamento. Lo schema operativo desumibile da questo percorso sembra attribuire ai giuristi un ruolo marginale o comunque meramente esecutivo nel procedimento di formazione delle norme: dalla sede politica che ha elaborato il modello del nuovo processo, la riforma è passata all’altra sede pure politica in cui il Governo, con l’apporto all’apparenza puramente tecnico dei giuristi della Commissione Pisapia, ha preparato il Progetto preliminare sottoposto infine al filtro, anch’esso di natura politica, della Commis-


— 902 — sione parlamentare. Ne viene l’idea del prevalere delle istanze degli organi istituzionali cui è attribuita la funzione legislativa rispetto a collaboratori esterni chiamati come tecnici a coadiuvare il Governo. La realtà è invece ben diversa. Se ne ha una conferma quando si prende atto dell’estensione e della analiticità davvero inconsuete che contrassegnano la legge n. 81/1987 (v. Lattanzi, 182; Chiavario, 89), la delega sulla base della quale è stata costruita la nuova codificazione. Una buona parte dei 105 criteri direttivi rivela una struttura assai lontana da quella tipica delle disposizioni di principio destinate ad attivare la legislazione delegata: sono testi normativi che anticipano una disciplina minuta delle condotte processuali, talvolta riproposta poi in una formulazione letterale pressoché identica negli articoli del codice (v. ad es. direttiva n. 31 in relazione agli artt. 55, 347 e seguenti c.p.p.; direttiva n. 73 e 75 in relazione agli artt. 499, 500 e 511 comma 1 c.p.p.). Questa ipertrofia non scaturisce dalla vocazione del Parlamento a scrivere parti del codice. Essa si spiega alla luce della storia della riforma. La delega del 1987 è lo sbocco finale di un lunghissimo lavoro proiettato verso il nuovo processo penale, un lavoro che ha avuto inizio sul piano legislativo alla metà degli anni Sessanta, con la presentazione di un disegno di legge delega che è giunto al traguardo della approvazione parlamentare solo nel 1974. Di qui è scaturito, nel 1978, il Progetto preliminare di un nuovo codice redatto dalla Commissione ministeriale presieduta da Gian Domenico Pisapia e composta dallo stesso nucleo di giuristi che sarebbero poi stati chiamati a dare il loro contributo alla stesura delle norme sulla base della legge delega del 1987. Anche se il Progetto del 1978 non è mai stato varato dal Governo per il sopravvenire dei gravi problemi posti dalla lotta al terrorismo politico, la sua articolata struttura, pur sottoposta alla revisione critica del modello incentrato sulla sopravvivenza del giudice istruttore, ha continuato ad avere un peso determinante nella storia della riforma. Anche dopo il 1978, una parte dei giuristi già inseriti nella Commissione Pisapia che aveva lavorato negli anni Settanta ha continuato ad operare all’interno del Ministero della giustizia alla ricerca di spunti per rielaborare il modello di processo penale delineato dalla delega del 1974. Prima, nel 1982, un gruppo di lavoro coordinato da chi scrive e poi, nel 1983, una Commissione allargata istituita dal Ministro Martinazzoli hanno fornito al Governo contributi per coadiuvare il Parlamento nella stesura di una seconda legge delega che sapesse, ad un tempo, recuperare le innovazioni già acquisite con la delega del 1974 e il Progetto del 1978 e far progredire la riforma verso nuovi orizzonti, soprattutto sul terreno dei meccanismi indispensabili a realizzare la speditezza del processo e il contenimento del carico di lavoro dibattimentale. L’estensione e la analiticità della delega del 1987 hanno, dunque, le


— 903 — loro radici nella eredità di un fervore di iniziative e di risultati raggiunti nell’attività legislativa volta a dar vita al codice. I contenuti della seconda delega testimoniano di una vicenda che sta agli antipodi di quella che sembrerebbe a prima vista potersi ricavare dalla ricchezza del testo normativo elaborato dal Parlamento. La sede politica ha largamente recepito i risultati di un lavoro messo a punto dagli esponenti della cultura processualpenalistica prima all’interno della Commissione ministeriale redigente degli anni Settanta e, poi, nelle diverse commissioni incaricate di fornire contributi al Governo ai fini della elaborazione dei nuovi criteri direttivi. Appare chiaro, a questo punto, quale sia stato il ruolo dei giuristi nell’iter di formazione del codice. Essi non hanno dialogato con gli organi legislativi dall’esterno e a distanza dalle sedi istituzionali, come era accaduto invece da noi in passato, quando nel 1963 Francesco Carnelutti aveva redatto una bozza di codice nell’ambito di una Commissione Ministeriale investita di un compito consultivo e propositivo, o in Francia dove la « Commission Justice pénale et Droits de l’homme », presieduta da Mireille Delmas Marty, è stata incaricata di formulare un progetto di riforma parziale del codice di procedura penale sottoposto poi al vaglio degli organi istituzionali (Chiavario, 313). I processualpenalisti italiani hanno assunto la veste di attori del processo di creazione delle norme sotto un duplice profilo che costituisce un unicum nel panorama delle esperienze fin qui conosciute. Essi hanno prima redatto il Progetto del 1978, come tecnici incaricati di fornire al Governo l’assistenza necessaria a predisporre il testo del codice sulla base della delega del 1974. Poi, nei primi anni Ottanta, hanno cooperato con il Ministro della giustizia fornendo le linee di una nuova delega da far approvare dal Parlamento, impegnandosi così in un lavoro proteso a plasmare il modello del nuovo processo. Infine, si sono dedicati alla stesura delle norme sulla base di quella legge delega del 1987 che essi stessi avevano in larga parte contribuito a far nascere attraverso le proposte fatte dal Governo in Parlamento sulla base dei loro emendamenti ovvero mediante il recupero dei contenuti normativi del progetto del 1978. Se si guarda al di là degli schemi formali, si può dunque a buon diritto parlare di un codice dei professori, tanto incisivo ed esteso è stato l’apporto degli accademici al processo di produzione normativa. La continuità dello stesso nucleo di giuristi guidati da Gian Domenico Pisapia nell’arco di tempo che va dal 1974 al 1988 ha reso particolarmente forti, per esperienza e ricchezza del patrimonio concettuale accumulato nel tempo, gli esterni all’apparato istituzionale cui era demandata la responsabilità politica della riforma. Senza voler togliere nulla alla supremazia del Parlamento (v. Chiavario, 1994, 125), è peraltro di tutta evidenza che solo coloro che, nell’arco di tempo di quattordici anni, si erano continuativamente impegnati a forgiare un sistema quale andava delineandosi tra


— 904 — oscillazioni e ripensamenti, potevano rivendicare e gestire di fatto un primato nelle scelte legislative. Del resto, se è vero che i giuristi chiamati ad operare nelle Commissioni ministeriali costituiscono una sorta di « milizia dell’amministrazione », in quanto creano un ponte tra lo Stato e la società civile (Mader, 134), non può certo apparire anomalo che i professori del codice, in quanto esponenti di una cultura allineata ai valori espressi dagli organi parlamentari, si siano trasformati in protagonisti del processo di produzione normativa (v., invece, in senso tendenzialmente contrario, Chiavario, 1994, 125-126). 3. La dinamica dei rapporti tra accademici, magistrati-giuristi e apparati ministeriali nella attività di elaborazione legislativa. — Può essere di qualche interesse cercare di ricostruire l’interazione tra i diversi gruppi impegnati nell’attività legislativa che ha dato vita al codice di procedura penale. Affermare, come si è fatto più sopra, che i professori si sono conquistati di fatto un primato nel processo di produzione normativa non significa affatto abbandonarsi ad una rappresentazione oleografica o trionfalistica che neghi gli aspetti problematici della posizione dei tecnici all’interno di apparati istituzionali abituati a dominare piuttosto che a subire l’input culturale. Senza cadere nella cronaca spicciola da memoires d’un pétit nomothéte tenterò di delineare qui il quadro dei diversi attori dello scenario legislativo, con le peculiarità che hanno contrassegnato i rispettivi contributi. Quelli che ho fin qui chiamato ellitticamente « giuristi », « professori » o « esponenti della cultura processualpenalistica » sono i componenti di estrazione universitaria della prima (1974-1977) e della seconda Commissione Pisapia (1987-1988), nonché delle Commissioni costituite in vista della redazione della legge delega del 1987. Essi hanno portato nel lavoro legislativo l’ideologia e il patrimonio concettuale di una materia, quale la procedura penale, che solo all’inizio degli anni Sessanta aveva acquisito una posizione di primo piano, sulla scia della giurisprudenza costituzionale demolitrice delle norme più autoritarie del codice Rocco, e che, proprio in quel tempo, era anche divenuta più robusta nel panorama accademico grazie ad una ritrovata dignità scientifica assicurata dal fiorire degli studi promossi da Giovanni Conso. I professori reclutati dalle università in veste di collaboratori del legislatore avevano dunque una forte motivazione a costruire un nuovo ordinamento capace di ribaltare interamente l’impianto del codice del 1930, dando attuazione ai principi garantistici della Costituzione e rendendo finalmente possibile l’edificazione di un sistema processuale coerente, tale da soppiantare un tessuto normativo ormai troppo frammentario e incongruente per consentire proficue ricostruzioni dogmatiche.


— 905 — Accanto agli accademici puri — la definizione va tenuta ferma anche se alcuni, a cominciare dal Presidente, portavano nel lavoro legislativo pure la loro esperienza di avvocati — vanno collocati in posizione autonoma i « magistrati-giuristi ». All’interno delle Commissioni ministeriali hanno operato infatti alcuni magistrati qualificati non solo da una grande esperienza nell’attività giudiziaria, ma anche da una solida preparazione scientifica attestata anche da pubblicazioni nel settore processualpenalistico. Pur rappresentando un gruppo con il quale gli accademici hanno sempre avuto una grande facilità di dialogo, nelle loro scelte i « magistrati-giuristi » si sono rivelati solidamente legati alle ideologie della magistratura e molto attenti alle istanze di efficienza della macchina giudiziaria. In uno status ancor più marcatamente autonomo e del tutto staccato da quello dei professori, sono intervenuti nel lavoro di produzione normativa codicistica i magistrati-funzionari degli uffici ministeriali. Questi operatori, anch’essi solidali per formazione al quadro dei valori propri della magistratura, si sono manifestati sensibili ai problemi organizzativi e talvolta persino alle esigenze di raccordo con altri organi dell’esecutivo, come il Ministero degli interni per quanto riguarda i problemi della polizia giudiziaria, così da far apparire il loro ruolo pienamente integrato nel quadro dell’apparato amministrativo. Proprio con riguardo al gruppo dei magistrati-funzionari sono sorti per i professori delle Commissioni problemi di inserimento nell’ambiente del Ministero della giustizia. Nel 1974-1975, all’inizio dei lavori per l’attuazione della prima legge delega, lo sbarco dei giuristi in via Arenula è stato visto come un’invasione dell’area delle competenze istituzionali facenti capo all’Ufficio legislativo. Così i più giovani accademici cui era stato assegnato il compito di coordinare i lavori di redazione dei testi normativi nella prima Commissione Pisapia (Mario Chiavario e chi scrive), venivano indicati dai ministeriali come i « professorini », portatori di istanze libresche, sorde rispetto ai « reali bisogni della pratica giudiziaria e dell’amministrazione della giustizia » di cui erano sicuri conoscitori gli esperti magistrati del Ministero. Queste resistenze sono poi venute meno man mano che si è creata una solidarietà tra professori e magistrati, maturata nel comune e assai impegnativo lavoro di stesura delle norme e della Relazione al Progetto preliminare del 1978. Un conflitto di tipo diverso si è invece manifestato solo molto più tardi, alla fine della stesura del Progetto del 1988, quando, ormai sfaldatosi per varie ragioni il nucleo storico dei giuristi che avevano costituito la struttura di base della Commissione Pisapia, i componenti dell’Ufficio legislativo del Ministero, presenti a vario titolo nella Commissione redigente, hanno preso le redini della produzione normativa garantendo di fatto quella continuità operativa che era stata nel passato assicurata dagli accademici più giovani impegnati a tempo pieno nella elaborazione delle norme.


— 906 — Individuati così, con una semplificazione che mi auguro immune da risvolti deformanti, gli attori sociali del processo di elaborazione del codice, diventa agevole qualificare i criteri che ne hanno ispirato i comportamenti decisori alla luce della teoria sociologica della attività legislativa (La Spina, 57). Gli accademici puri hanno improntato il loro contributo ad una razionalità formale, volta a far sì che il dettato legislativo fosse coniato in modo da costruire un sistema coerente, concettualmente trasparente e applicabile in modo uniforme. Essi hanno operato cercando di seguire anche il diverso criterio della razionalità rispetto al valore, sforzandosi così di creare norme aderenti ai principi costituzionali e allineate alle prescrizioni internazionali sui diritti dell’uomo, così come del resto imponeva espressamente la stessa legge delega. I magistrati-giuristi e i componenti degli apparati ministeriali si sono invece mostrati attenti anche ad una razionalità rispetto allo scopo, incentrata sul valore della efficienza che « richiede un impiego calcolato, economico dei mezzi in modo da garantire il controllo degli effetti del provvedimento e la loro finalizzazione al raggiungimento efficace del risultato desiderato » (La Spina, 57). Peraltro, gli stessi magistrati hanno altresì improntato il loro lavoro al criterio della razionalità rispetto allo scopo, applicato per riaffermare il primato della magistratura all’interno del sistema di giustizia penale. Così, ad esempio, si deve alla « componente togata » della Commissione Pisapia la norma che ha imposto al Gip di fissare, con il decreto che dispone il giudizio, la data della udienza dibattimentale (art. 429 c.p.p.), così da evitare i tempi morti del passaggio del fascicolo dall’udienza preliminare alla cancelleria del giudice dibattimentale. Analogamente, è stato un magistrato a proporre la riduzione della competenza della Corte d’assise, in omaggio ad una visuale che considera la partecipazione popolare non solo un istituto che riduce in qualche modo la centralità della magistratura togata nell’esercizio della giurisdizione, ma rappresenta altresì un appesantimento organizzativo per le complicazioni richieste dal reclutamento dei giudici popolari. Infine, in omaggio ad istanze di efficienza, ma anche con il proposito di riaffermare la supremazia del pubblico ministero rispetto alla polizia giudiziaria, i magistrati della Commissione hanno ridotto gli spazi investigativi autonomi degli ausiliari dell’organo dell’accusa, varando norme così punitive per la polizia da suscitare quella reazione che ha condotto a modificare ben presto gli artt. 347 e 348 c.p.p. con la legge n. 356/1992. Nel raffronto tra le due anime della Commissione ministeriale, ci si può chiedere se si siano dimostrati più conservatori i giuristi o i magistrati. Già notava Bentham nell’Ottocento, riferendosi agli avvocati inglesi, che sono i pratici a rivelare il maggior attaccamento alle procedure


— 907 — che vivono quotidianamente, così da sbarrare le strade delle riforme. Del resto, anche recentemente si è affermato che « il processo offre il più alto grado di resistenza ad ogni tentativo di riforme » (Giuliani, 83). Non c’è quindi da meravigliarsi se anche l’esperienza fatta da chi scrive all’interno delle Commissioni ministeriali induce a ritenere che il coraggio di realizzare una svolta così traumatica come quella del totale ribaltamento del vecchio sistema processuale sia venuto proprio da quei giovani giuristi che, proprio per non aver assorbito le consuetudini e le remore tipiche della pratica giudiziaria e per essere immuni dalle suggestioni derivanti da istanze degli apparati istituzionali o da reazioni emotive dell’opinione pubblica, potevano decidere in base agli ideali e ai principi posti dalla carta costituzionale e in nome di un garantismo maturato come antidoto rispetto ai valori del vecchio rito inquisitorio. 4. Il contributo della dottrina nella definizione delle linee del modello accusatorio. — Dovrebbe essere ormai chiaro quale estensione abbia assunto l’impatto della cultura processualpenalistica sul codice del 1988. I giuristi hanno dato un decisivo contributo all’abbattimento del rito inquisitorio perseguendo tre distinti obiettivi: superare ogni residua manifestazione dell’autoritarismo del Codice Rocco, « il più fascista dei codici » secondo la definizione dei giuristi del regime; dare attuazione ai principi costituzionali che tutelano i diritti di libertà e di difesa nel processo penale; costruire un sistema normativo liberato finalmente dalle antinomie di un ordinamento improntato a un « garantismo inquisitorio », cioè ad una struttura intrinsecamente autoritaria corretta solo in facciata dalla concessione di alcune garanzie. Un simile programma non rappresenta certamente un contributo originale dei « giuristi del codice », ma è solo il recupero di un retroterra riformistico ben diffuso nel nostro Paese ancor prima dell’entrata in vigore della Costituzione. Si è giustamente ricordato che, in materia di procedura penale, « l’esigenza di riforma era stata avvertita subito dopo il ripristino delle libertà democratiche » (Pisapia, 3). Né si può dire che il semplice ripudio dei vecchi arnesi processuali di Alfredo Rocco e il richiamo ai principi costituzionali possano di per sè significare adesione ad un modello accusatorio. Infatti la legge delega del 1974, pur decisamente protesa a sradicare il vecchio sistema manteneva ancora la figura del giudice istruttore come magistrato investigatore, pur riducendone l’ambito di operatività. A traguardi più avanzati erano a dire il vero pervenuti, ancor prima del 1974, alcuni giuristi come Francesco Carnelutti e Franco Cordero. Essi avevano prefigurato un modello di processo senza istruzione analogo a quello ora vigente, imperniato su una inchiesta del pubblico ministero, inidonea a formare la prova, e dunque assai vicino allo schema accusato-


— 908 — rio radicato nei sistemi di common law. Ma tanto Carnelutti, quanto Cordero si erano proposti alla comunità giuridica nella veste di maestri solitari, impegnati ad elaborare norme o congegni processuali come credenziali della loro maturità scientifica. Di qui la sterilità di questi messaggi che non hanno saputo far avanzare l’ideale del rito accusatorio, nonostante la completezza e l’incisività delle proposte. Per approdare ad un sistema processuale veramente nuovo, c’era bisogno di metabolizzare la delega del 1974 mediante la stesura del Progetto del 1978. Dalla sperimentazione legislativa dei limiti derivanti dalla sopravvivenza del giudice istruttore e dalla monoliticità dello schema processuale, insensibile alla volontà delle parti e alle possibilità di semplificazione del rito, si è pervenuti a delineare la fisionomia del nuovo processo in quasi dieci anni di dibattito (1978-1987) che ha sempre avuto come centro del laboratorio riformistico le Commissioni costituite all’interno del Ministero della giustizia. Ecco allora penetrare nel tessuto del lavoro parlamentare, mediato dagli emendamenti presentati dal Governo ai vari disegni di legge delega degli anni Ottanta, i pilastri su cui si regge il processo di parti: indagini preliminari affidate ad un pubblico ministero privato dei poteri coercitivi e della potestà di formare la prova; ruolo incidentale di controllo delle iniziative dell’accusa affidato ad un giudice-terzo, spogliato di poteri investigativi; udienza preliminare come filtro di garanzia rispetto alle imputazioni azzardate; riti differenziati in funzione di snellimento del carico di lavoro del giudice dibattimentale; dibattimento come luogo privilegiato per l’assunzione della prova, senza l’ipoteca della preventiva conoscenza dei verbali contenenti le dichiarazioni extradibattimentali e del potere di farne un uso illimitato. Anche se è innegabile l’eco di istituti radicati nel processo anglo-americano, l’incontro dei « giuristi del codice » con quella cultura è derivato da una convergenza frutto di autocritica sui contenuti del Progetto del 1978 piuttosto che dalla importazione diretta del prodotto estero. La comparazione ha, insomma, rivestito un ruolo marginale nella messa a punto del modello, mentre ha offerto utili spunti per plasmare alcuni istituti. A ben vedere, dunque, l’ideale del processo accusatorio per i giuristi del codice, così come per tutti gli altri attori del processo di produzione legislativa, si traduceva essenzialmente in due obiettivi legati al superamento del vecchio rito piuttosto che ad astratte tipologie. Si voleva nel dibattimento un giudice meno attivo, veramente imparziale anche nella fase della assunzione della prova; si puntava su un organo giurisdizionale ancor più decisamente schierato nella veste di arbitro nella fase delle indagini preliminari; si aspirava a creare una netta cesura tra il dibattimento e la fase ad esso antecedente per ridare al giudice che si pronuncia sul merito dell’imputazione il primato nell’accertamento della verità.


— 909 — Proprio perché la logica che ha ispirato la scelta del modello è stata quella della reazione ad un passato da cancellare, i « giuristi del codice » si sono spinti talvolta fino al punto di creare norme con una funzione di mero ripudio degli istituti del vecchio sistema o con portata precipuamente demolitoria di concetti ritenuti ideologicamente inquinanti. Prigionieri di una sorta di horror hereditatis rispetto al giudice istruttore, gli estensori del Progetto hanno delineato una figura di Gip totalmente asettica, tanto da consentirgli di prosciogliere l’imputato in udienza preliminare solo in caso di evidenza della prova circa l’insussistenza o la non commissione del fatto (art. 425 c.p.p., ora modificato dalla legge n. 105/1993). Analogamente, volendo bandire l’idea di un giudice autorizzato ad accertare il fatto anche al di là dei limiti posti dalle regole probatorie e con poteri del tutto autonomi rispetto alle iniziative delle parti, gli autori del Progetto del nuovo codice hanno eliminato qualsiasi riferimento all’accertamento della verità, proprio perché questa funzione era divenuta l’emblema del rito inquisitorio nel vecchio sistema processuale. Da questi eccessi di zelo ideologico, concretamente percepibili nel dettato normativo, sono scaturite reazioni che non hanno tardato a manifestarsi. Oggi si lamenta, infatti, la paralisi di poteri di cui soffre il Gip rispetto al debordante gigantismo dell’organo dell’accusa. E il legislatore ha dovuto correre ai ripari, da un lato, rendendo meno iugulatoria la regola di giudizio nell’udienza preliminare (l. n. 105/1993), dall’altro, cominciando ad attribuire al Gip più frequenti occasioni di controllo dell’operato del pubblico ministero, soprattutto in materia di libertà personale (art. 299 c.p.p. modificato dalla legge n. 332/1995). Quanto alla ideologia del diritto delle prove penali, non si può certo far discendere dalla soppressione della formula « accertamento della verità » la reazione che ha condotto la Corte costituzionale a reintrodurre il potere inquisitorio del giudice sotto le spoglie di un inedito « principio di non dispersione della prova » (Corte cost. n. 111/1993). È peraltro comprensibile che, pressati dal grido di dolore di magistrati che lamentavano la perdita di poteri, i Giudici della Consulta, educati ad una cultura che fa del giudice penale il dominus della prova, siano rimasti quanto meno fuorviati dall’idea che i giuristi della Commissione ministeriale avessero voluto veramente costruire un processo in cui non si accerta la verità. Anche gli eccessi di pulizia linguistica dettati da furori ideologici possono, dunque, creare problemi nell’interpretazione di un nuovo sistema normativo. 5. Gli istituti pensati o elaborati dai « giuristi del codice ». — « Il primo codice interamente riformato dopo l’avvento della Repubblica » (Vassalli, Premessa al Progetto preliminare, 1988) reca dunque i segni di


— 910 — un apporto culturale che ne ha plasmato l’architettura complessiva, dando vita ad un modello originale di processo accusatorio. Ancor più nitida è però la manifestazione del contributo dei professori se si guarda agli istituti e alle norme che racchiudono la disciplina dei singoli profili dell’edificio processuale. Non essendo possibile in questa sede svolgere una rassegna analitica di tutte le aree normative frutto della elaborazione dei giuristi delle Commissioni ministeriali, basterà segnalare alcune materie sulle quali ha avuto modo di manifestarsi l’influenza del loro pensiero. Emblematico è il caso del corpus normativo dedicato alla prova. Negli 85 criteri dettati dalla legge delega del 1974, così come nei 105 principi contenuti in quella del 1987, non c’è alcun riferimento alla necessità di disciplinare in modo autonomo il procedimento probatorio. Il codice contiene invece un intero libro, il terzo, dedicato a questa materia così da dar vita, per la prima volta in un ordinamento processuale dell’area continentale, ad un vero e proprio « diritto delle prove penali », collocato all’interno del sistema in posizione autonoma. Dopo quasi due secoli in cui la procedura penale di stampo francese era stata dominata dal principio del libero convincimento del giudice che aveva sottratto il fenomeno probatorio a qualsiasi regolamentazione normativa, nel nuovo codice ha trovato posto, sulla traccia di quanto già elaborato nel Progetto del 1978, una sorta di law of evidence organicamente concepita e sistematicamente ordinata in due titoli, rispettivamente dedicati ai « mezzi di prova » e ai « mezzi di ricerca della prova ». Essi sono saldati assieme da un gruppo di disposizioni generali che tracciano i fondamenti del procedimento probatorio. Le regole in tema di ammissione, assunzione e valutazione della prova — disperse e confuse, e persino omesse nel tessuto del codice del 1930 — sono ora ricondotte ad una trama unitaria finalizzata a far intendere che la prova è il cuore del processo. Del tutto originale, e destinata ad avere una grande fortuna nel lessico della delega del 1987 e nel testo del codice, è poi la sanzione di inutilizzabilità, creata già all’interno del Progetto del 1978 per colpire il fenomeno della trasgressione dei divieti probatori. Un grandissimo rilievo ha infine la regola secondo cui « le prove sono ammesse a richiesta di parte », fuori dei casi in cui la legge stabilisce che sono ammesse di ufficio (art. 190 c.p.p.). È questa la norma madre del processo di parti, dettata da una « esigenza di moralità processuale » (De Luca, 25), contro la quale si sono schierati subito gli avversari del rito accusatorio, riuscendo purtroppo a farla sgretolare recentemente sotto i colpi inferti dalla Corte costituzionale con la sentenza che ha allargato a dismisura la sfera operativa dei poteri probatori d’ufficio (sent. n. 111/1993). Un simile traguardo non sarebbe mai stato raggiunto se i giuristi del


— 911 — codice non avessero avuto alle loro spalle una cospicua letteratura che, a partire dai saggi di Franco Cordero per passare ai contributi di Giuliano Vassalli e Massimo Nobili, non avesse rivolto una penetrante critica agli arbìtri conoscitivi resi possibili dalle maglie larghissime del libero convincimento, patrocinando un ritorno alla legalità probatoria. Un corpus normativo altrettanto autonomo è stato creato in materia di libertà personale. Anche qui la avanzata elaborazione scientifica della materia ha consentito di mettere a punto un gruppo di disposizioni generali che, persino nella loro formulazione letterale, riecheggiano le norme costituzionali o di fonte internazionale da cui sono ricavate (art. 273: « nessuno può essere sottoposto a misure cautelari... »; « nessuna misura può essere applicata... »). La previsione di regole generali in tema di proporzionalità e di gradualità nella scelta delle misure e la sistematica fondata sulla summa divisio tra misure coercitive e misure interdittive sono il sintomo di una cultura raffinata che ha nutrito il dettato normativo, grazie ad un retroterra di studi condotti con grande attenzione ai principi costituzionali. I segni dell’innovazione alimentata dal pensiero dei giuristi si colgono marcatamente anche nella disciplina dei cosiddetti riti differenziati. Su questo terreno, a dire il vero, mancava, al tempo della stesura del Progetto del 1988, una letteratura scientifica capace di offrire una base adeguata ai fini della elaborazione legislativa. Giudizio abbreviato e patteggiamento, le vere grandi novità del capitolo dei procedimenti speciali, sono istituti cui si è perciò riusciti a dare una fisionomia dibattendosi in gravi incertezze, nel tentativo di esaltare le esigenze di speditezza senza mortificare le garanzie dell’imputato. Su questi temi è stato assai fecondo, all’interno delle Commissioni ministeriali, il dialogo tra accademici e magistrati dalla cui esperienza sono venute utili indicazioni soprattutto per costruire un congegno, come il giudizio abbreviato, che non aveva alcun background nella nostra tradizione e poteva vantare solo una lontanissima parentela con il summary trial inglese. Nella specificità dei diversi settori della codificazione sono poi numerosissime le norme che rivelano l’originalità di apporti dottrinali del tutto indipendenti sia dai modelli processuali dei codici previgenti, sia da precise direttive della legge delega che è stata interpretata sul piano sistematico. Si pensi ai rapporti tra azione civile risarcitoria e azione penale, disciplinati in modo da spingere il danneggiato a scegliere la sede civile (art. 75 c.p.p.). Del tutto nuovi sono pure il sequestro preventivo (art. 321 c.p.p.), la motivazione contestuale al dispositivo (art. 544 c.p.p.) e la limitazione del controllo della cassazione alla sola mancanza o illogicità manifesta della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato (art. 606 lett. e, c.p.p.). Accanto a queste innovazioni frutto della cultura dei professori


— 912 — vanno registrati gli sbocchi legislativi che riflettono l’impegno ideologico e la sensibilità dei magistrati delle Commissioni ministeriali. Si è già detto più sopra di alcuni istituti riconducibili alla filosofia dell’efficienza, congeniale a chi vive l’esperienza giudiziaria in presa diretta (fissazione della data dell’udienza dibattimentale da parte del Gip; riduzione della competenza della Corte d’assise; restrizione dell’area operativa della polizia giudiziaria: v. supra § 3). Sulla stessa linea si collocano istituti come il collegamento delle indagini tra diversi uffici del pubblico ministero (art. 371 c.p.p.) e il patteggiamento in appello (art. 599 comma 4 c.p.p.), ideati da magistrati delle Commissioni ministeriali prendendo spunto dall’esperienza acquisita sul campo. È dovuta a un magistrato anche la proposta di creare un congegno idoneo a incentivare l’archiviazione della notizia di reato per insufficienza del supporto probatorio tale da consentire di sostenere l’accusa in giudizio. La norma, trasfusa nell’art. 125 disp. att. c.p.p., è stata elaborata dai giuristi della Commissione ministeriale, ma ha la sua matrice nel pensiero di chi, giustamente preoccupato dell’efficienza del sistema, aveva a cuore la predisposizione di un filtro ancor più efficace di quello costituito dall’udienza preliminare. È curioso che questa disposizione, ideata da un magistrato, sia stata poi osteggiata, nei dibattiti che hanno fatto seguito all’approvazione del codice, proprio da altri magistrati, nel timore che la regola di giudizio per l’archiviazione finisse per consacrare una discrezionalità mascherata dall’azione penale, incompatibile con la norma costituzionale dell’art. 112 Cost. oltre che con le tradizioni del nostro ordinamento. La verità è che l’atteggiamento ostile degli esponenti della magistratura contrari all’art. 125 disp. att. c.p.p. derivava dal proposito di non rendere in qualche modo visibile, mediante una esplicita proposizione normativa, una gestione dell’azione penale che le Procure realizzano con estesa flessibilità, imposta dagli enormi carichi del lavoro giudiziario. Va infine ricordato che, grazie all’apporto di una cultura tutta esterna agli accademici puri, ma ancorata all’esperienza degli avvocati, si è dato nel codice uno sbocco concreto all’esigenza di rendere il difensore protagonista di autonome attività investigative parallele a quelle del pubblico ministero. Con l’art. 38 disp. att. c.p.p. è stata così infranta una radicata regola deontologica che faceva divieto ai difensori di avere contatti con i testimoni. 6. Affermazioni e sconfitte della cultura dei professori: dal primato alla « perdita di potere » conseguente all’entrata in vigore del codice. — Definito così l’impatto che la cultura processualpenalistica ha avuto sulla elaborazione del codice del 1988, va ora compiuta la diversa riflessione, già più sopra anticipata (cfr. § 1), a proposito degli effetti che sono deri-


— 913 — vati dall’inserimento esteso ed attivo dei giuristi nel processo di produzione legislativa. Una prima considerazione investe il profilo operativo esterno ai contenuti della riforma. La presenza di un nucleo omogeneo di studiosi che per circa quattordici anni ha operato come costante punto di riferimento del lavoro per il nuovo codice, al di là dei mutamenti dell’assetto politico parlamentare o di governo, ha rappresentato il vero fattore di forza dei tecnici rispetto alle istanze politiche. Ne è scaturito, di fatto, un primato che ha consentito ai giuristi del codice di spingere la riforma verso contenuti radicalmente innovativi rispetto al vecchio sistema, che non si sarebbero certamente conquistati con il solo apporto delle forze politiche. La presenza di un gruppo compatto, ma pur sempre articolato per le peculiarità culturali dei componenti e per la dialettica inevitabilmente sviluppatasi nei rapporti con i magistrati, ha dato però origine agli inconvenienti dell’opera collettiva. Certo, un modello di one man code, come il Codice Rocco, redatto dal solo Vincenzo Manzini, o la bozza approntata dalla penna solitaria di Francesco Carnelutti, garantisce una maggior omogeneità stilistica e una perfetta coerenza sistematica. D’altra parte, però, quando ad operare è un gruppo di qualificati studiosi, ciascuno dei quali porta il patrimonio scientifico derivante da studi approfonditi nei singoli settori della disciplina, il prodotto finale può esibire qualche disomogeneità o smagliatura, ma assicura che nel testo normativo si possa concentrare il massimo delle potenzialità applicative. Ci si può domandare se il costo derivante dal reclutamento del giurista-legislatore non sia per caso rappresentato anche dalla sua tendenza ad indulgere in « astratte modellistiche » (cfr. Corte cost. n. 111/1993 e su ciò Giarda, 889). Al riguardo si è parlato di « fallacia tecnocratica » per definire l’atteggiamento del giurista convinto che tutto possa risolversi nella redazione della norma, senza tener conto dei problemi posti dalla applicazione pratica del dettato legislativo (Friedman, 18). Certo, da un simile vizio non sembra possa ritenersi del tutto immune, come si è già anticipato (v. supra § 3), pure il gruppo dei giuristi del codice. Indubbiamente, la fiducia riposta nel giudice delle indagini preliminari, un garante delle libertà dell’indagato privo di effettivi poteri di controllo sull’operato del pubblico ministero, e l’attribuzione a quest’ultimo di una libertà di indagare talora sottratta persino al rigore delle forme, sono sintomi di un candore illuministico che ha impedito di scorgere le possibili degenerazioni. L’antidoto a queste visuali ideologiche poteva però essere rappresentato solo da una incisiva riforma di ordinamento giudiziario che gli autori del codice non erano in grado di mettere in cantiere: non solo perché la delega autorizzava unicamente piccoli ritocchi dell’ordinamento giudiziario, ma soprattutto perché qualsiasi tentativo di intervenire in questa tematica finisce per scontrarsi con le chiusure corporative dei magistrati.


— 914 — Il vero limite connesso all’apporto dei giuristi in sede legislativa si è però manifestato, nel caso della nuova procedura penale, quando il Progetto preliminare è stato approvato dal Governo. Da quel momento i giuristi del codice hanno perso la legittimazione ad interloquire con le istituzioni: è venuta meno l’originaria posizione di attori del processo di riforma. La fase post codicem è stata dominata dagli apparati ministeriali, senza la mediazione dei giuristi: gli interessi primari erano, da un lato, quello amministrativo al funzionamento della nuova macchina processuale, dall’altro, quello politico a gestire i rapporti con gli operatori della giustizia e a studiare la risposta adeguata rispetto ai problemi quotidiani posti dalle esigenze di repressione della criminalità. È significativo, al riguardo, che pur essendo stata costituita a norma dell’art. 7 della legge delega una Commissione composta pressoché interamente dagli stessi estensori del codice, con l’incarico di proporre disposizioni integrative e correttive del nuovo sistema normativo nel rispetto della stessa legge delega, i risultati di questo lavoro siano stati assai modesti. L’attuazione del codice era ormai rientrata pienamente nella sfera politico-amministrativa. La cesura tra fase redigente, caratterizzata dalla forza, e fase attuativa, contrassegnata da una intrinseca debolezza degli accademici, assai vicina ad una emarginazione, può anche essere stata causata da un atteggiamento di rifiuto dei giuristi di affrontare i problemi di applicazione delle norme, nella convinzione che « dopo che la legge è stata approvata, non c’è più spazio per il ‘lavoro giuridico’ » (Mader, X). Può avere avuto altresì un qualche rilievo l’idea, dettata dalla prudenza degli studiosi, che era opportuno attendere le « risposte » derivanti dalla applicazione pratica prima di rimettere le mani al neonato sistema. Del resto, la provvisorietà riconosciuta alla nuova normativa dalla delega stessa, là dove prevedeva successive integrazioni e correzioni, dava lo spunto per ritenere che il codice fosse sottoposto a una sorta di sperimentazione e per ciò stesso lo indeboliva agli occhi dei destinatari delle norme e forse anche di fronte a coloro che le avevano elaborate (Mader, 48 e 126). Questa « perdita di potere » dei giuristi nella fase successiva all’entrata in vigore delle norme ha evidentemente reso più agevole l’irrobustirsi del fronte dei nostalgici del rito inquisitorio, rappresentato soprattutto dagli esponenti della magistratura che hanno visto negli equilibri instaurati tra accusa e difesa dal nuovo sistema una sorta di inconcepibile estromissione dalla gestione della prova in sede dibattimentale. Di qui l’estendersi degli incidenti di legittimità costituzionale mirati a colpire il diritto delle prove penali, la parte più qualificante sul piano della caratterizzazione del processo in senso accusatorio. Purtroppo la Corte costituzionale non è rimasta insensibile al grido di dolore dei magistrati italiani e ha progressivamente restituito al pubblico ministero e al giudice


— 915 — del dibattimento quei poteri di utilizzazione delle dichiarazioni extradibattimentali e di acquisizione delle prove d’ufficio che erano stati aboliti per garantire il valore costituzionale della terzietà del giudice (sent. n. 255/1992 e 111/1993). Sull’onda emotiva di una revisione del codice in senso regressivo qualche interprete è arrivato persino a sostenere che la Costituzione ha incorporato lo spirito del codice Rocco poiché essa « contiene — lo si voglia o no — tracce dell’impianto inquisitorio del codice di allora » (Giarda, 901). Un simile modo di ragionare sembra viziato da quella che è stata definita la « fallacia sociologica », consistente nel ritenere che qualsiasi riforma è impossibile perché ogni parte del sistema ha radici storiche e sociali che ne impediscono il mutamento (Friedman, 18). È quindi evidente il paradosso che si è venuto a delineare in conseguenza del movimento di revisione inaugurato dalle pronunce della Consulta: il codice del 1988 è stato creato per dare attuazione ai valori della Costituzione; in nome degli stessi valori esso viene ora demolito nelle sue parti più vitali. Il destino dei giuristi del codice appare dunque ben singolare: la loro cultura di matrice costituzionale si afferma nella elaborazione delle norme, ma viene sconfitta nella attuazione del sistema da una ideologia di segno opposto che assume di trarre alimento dalla stessa tavola di valori. ENNIO AMODIO Ordinario di Procedura penale nell’Università degli Studi di Milano BIBLIOGRAFIA CHIAVARIO, La riforma del processo penale. Appunti sul nuovo codice, 2a ed., Torino, 1990. CHIAVARIO, Procedura penale. Un codice tra storia e cronaca, Torino, 1994. CHIAVARIO, La soppressione del Juge d’instruction nel Progetto DelmasMarty, in Ind. pen., 1993. DE LUCA, Cultura della prova e nuovo costume giudiziario, in Il nuovo processo penale dalla codificazione alla attuazione, Milano, 1991. L.M. FRIEDMAN, Sociology of Law and Legal History, in Soc. dir., 1989, n. 2, 7. GIARDA, « Astratte modellistiche » e principi costituzionali del processo penale, in questa Rivista 1993, 889. GIULIANI, Ordine isonomico ed ordine asimmetrico: nuova retorica e teoria del processo, in Soc. dir., 1986, n. 2-3, 81.


— 916 — LA SPINA, I costi della decisione. Per una sociologia dell’attività legislativa, in Soc. dir., 1987, n. 3, 49. L. MADER, L’évaluation législative. Pour une analyse empirique des effets de la législation, Lousanne, 1985. PISAPIA, Lineamenti del nuovo processo penale, 2a ed., Padova, 1989. D. SIRACUSANO, Introduzione allo studio del nuovo processo penale, Milano, 1989. C. VARGA, Codification as a Socio-historical Phenomenon, Budapest, 1991.


L’INCOMPATIBILITÀ A TESTIMONIARE DEI MAGISTRATI E DEI LORO AUSILIARI: PROFILI SISTEMATICI ED ASPETTI APPLICATIVI

SOMMARIO: 1. Profili sistematici della disciplina dell’incompatibilità a testimoniare. — 1.1. La regola di esclusione probatoria ex art. 197, comma 1, lett. d), c.p.p. nel quadro della disciplina dell’incompatibilità a testimoniare. — 1.2. La ratio dell’esclusione probatoria. — 1.2.1. La teoria del « teste inattendibile »: critica. — 1.2.2. L’attuazione del principio nemo tenetur se detegere. — 1.2.3. La ratio dell’incompatibilità dei magistrati e dei loro ausiliari: la tutela del sereno svolgimento della funzione giudiziaria. — 1.2.4. La garanzia della prosecuzione della funzione « tipica ». — 1.3. Conseguenze sul piano esegetico del diverso fondamento giuridico delle singole fattispecie. — 1.3.1. In generale: il problema della portata del divieto di applicazione analogica. — 1.3.2. In particolare: i canoni applicabili alle ipotesi di incompatibilità a testimoniare. — 2. Aspetti applicativi della disciplina ex art. 197, comma 1, lett. d), c.p.p. — 2.1. Il problema dell’individuazione del limite oggettivo della norma. — 2.1.1. « Procedimento » e « processo ». — 2.1.2. Il « medesimo » procedimento. — 2.2. Attualità delle funzioni e limite temporale della fattispecie. — 2.2.1. Premessa. — 2.2.2. In particolare: la testimonianza del giudice sostituito. — 2.2.3. La testimonianza del pubblico ministero e della polizia giudiziaria. — 2.3. Conclusioni.

1. Profili sistematici della disciplina dell’incompatibilità a testimoniare. — 1.1. La regola di esclusione probatoria ex art. 197, comma 1, lett. d), c.p.p. nel quadro della disciplina dell’incompatibilità a testimoniare. — Tra le norme dettate dal codice in tema di incompatibilità a testimoniare, quella riferita a chi, nel medesimo procedimento, svolge o ha svolto la funzione di giudice, pubblico ministero o loro ausiliario, presenta — sotto il profilo della ratio cui risponde, non meno che dal punto di vista applicativo — aspetti peculiari che la rendono sensibilmente differente rispetto alle altre. Cogliere questa specificità consente, come si vedrà meglio in seguito, di poter disporre di una chiave di lettura utile per risolvere talune incertezze interpretative che la disciplina, nonostante gli « aggiustamenti » registrati nel passaggio tra le diverse edizioni (1), ancora solleva. (1) Per un raffronto tra la disciplina dell’art. 450, comma 2, c.p.p. 1930 e quella ex art. 398, comma 2, c.p.p. 1913, cfr. V. PERCHINUNNO, Limiti soggettivi della testimonianza nel processo penale, Milano, 1972, 51.


— 918 — A questo fine pare opportuno un esame, sia pure a grandi linee, del complesso normativo alla luce dei principi che lo sostengono. Merita innanzitutto ricordare che l’istituto si configura come deroga al principio generale del libero convincimento del giudice e della libera valutazione delle prove (2), e trova qui giustificazione proprio (e solo) in ragione delle specifiche finalità assegnate alla norma eccezionale. Mentre l’affermazione della generale capacità ad assumere la qualità di testimone, espressione della fondamentale esigenza di ogni ordinamento di fissare i requisiti soggettivi necessari per attribuire ad un soggetto l’attitudine a diventare centro di imputazione dei rapporti giuridici e delle fattispecie previste e regolate nel suo ambito, riflette apertamente la scelta del legislatore processuale di ripudiare il sistema delle « prove legali » (3), appare evidente come l’istituto dell’incompatibilità tenda a riprodurre all’interno del meccanismo probatorio una serie di sbarramenti, operati attraverso valutazioni presuntive, alla possibilità di utilizzare qualsiasi apporto dimostrativo per la ricostruzione del fatto (4). Riconducibili lato sensu alla necessità di porre « garanzie idonee ad assicurare la lealtà dell’esame, la genuinità delle risposte, la pertinenza al giudizio e il rispetto della persona » (5), i divieti in parola sono strutturati come tipiche regole di esclusione probatoria (6), dalla cui violazione di(2) In proposito si rinvia, anche per gli ulteriori riferimenti dottrinali, agli studi di M. NOBILI, voce Libero convincimento (proc. pen.), in Enc. giur. Treccani, vol. XVIII, Roma, 1990, 1; ID., Il « diritto delle prove » ed un rinnovato concetto di prova e, particolarmente, Commento agli artt. 190-193 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. II, Torino, 1990, 381; ID., Letture testimoniali consentite al dibattimento e libero convincimento del giudice, in questa Rivista, 1974, 139; nonché, per un’ampia ed approfondita trattazione del problema, ID., Il principio del libero convincimento del giudice nel processo penale, Milano, 1975, 304. (3) V., in merito al dibattito sviluppatosi sui rapporti tra capacità a testimoniare, principio del « libero convincimento », e sistema delle « prove legali », E. AMODIO, Prove legali, legalità probatoria e politica processuale, in questa Rivista, 1974, 375; ID., Libertà e legalità della prova nella disciplina della testimonianza, ivi, 1973, 310; M. CAPPELLETTI, Ritorno al sistema della prova legale?, ivi, 1974, 139; E. DOSI, La prova testimoniale, Milano, 1974, 138; ID., Sul principio del libero convincimento del giudice nel diritto processuale penale, Milano, 1957; M. NOBILI, Letture testimonali, loc. cit.; R. PANNAIN, La certezza della prova, in Riv. pen., 1959, 29; E. ZAPPALÀ, Il principio di tassatività dei mezzi di prova nel processo penale, Milano, 1982. (4) Secondo V. CAVALLARI, Incapacità e incompatibilità a testimoniare, in La testimonianza nel processo penale, Atti dell’VIII Convegno « Enrico De Nicola », 1974, 122, queste ipotesi manifestano un « evidente collegamento al sistema delle prove legali ». (5) Così recita l’art. 2, direttiva n. 73, della l. 16 febbraio 1987, n. 81, contenente la delega al Governo per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale. (6) Cfr. M. BARGIS, Incompatibilità a testimoniare e connessione di reati, Milano, 1980, 9; V. CAVALLARI, op. cit., 129; E. DOSI, Limiti soggettivi in tema di prova testimoniale, in Studi in onore di F. Antolisei, vol. I, Milano, 1965, 460; A. GALATI, Divieto di deporre e falsa testimonianza, in questa Rivista, 1970, 425; G. GALLI, L’inammissibilità dell’atto processuale penale, Milano, 1968, 1632; V. PERCHINUNNO, op. cit., 82; G. PAOLOZZI,


— 919 — scende l’inutilizzabilità dell’acquisizione (7): i soggetti indicati « non possono essere assunti come testimoni ». Regole, queste, che intervengono non già sul piano della capacità della persona a prestare l’ufficio (8), quanto su quello della validità e dell’ammissibilità (9) della testimonianza, escludendo « a priori che questa, Dei testimoni, Padova, 1984, 24; M. PISANI, La tutela penale delle prove formate nel processo, Milano, 1959, 203. (7) È la stessa Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in G.U. 24 ottobre 1988, n. 250, suppl. ord. n. 2, 61, a chiarire in proposito che « anche quando le norme di parte speciale non prevedono espressamente alcuna sanzione, l’inutilizzabilità può desumersi dall’art. 191 comma 1 là dove sono configurabili veri e propri divieti probatori. A titolo d’esempio si possono ricordare l’art. 197, in materia di incompatibilità a testimoniare, e l’art. 234 comma 3, concernente documenti su voci correnti del pubblico. Al di là della diversa espressione adottata (« non possono essere assunti come testimoni »; « è vietato ») ricorre in entrambi i casi un divieto probatorio, trasgredito il quale scatta la sanzione prevista dall’art. 191 comma 1: i risultati della prova non sono in alcun modo utilizzabili in ogni stato e grado del procedimento, quale che sia il comportamento della parte interessata a far rilevare la violazione ». In giurisprudenza, sullo specifico punto, cfr. C. cass., sez. VI, 3 maggio 1993, Gnani, in Cass. pen., 1995, 1338; nello stresso senso, ID., sez. VI, 20 marzo 1991, Santeramo, in Arch. n. proc. pen., 1992, 75. Per un panorama delle posizioni dottrinali sul tema v. N. GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Padova, 1992; V. GAROFOLI, L’introduzione della prova testimoniale nel nuovo processo penale, Milano, 1992, 159; F.M. GRIFANTINI, voce Inutilizzabilità, in Dig. pen., vol. VII, Torino, 1993, 242; A. SCELLA, L’inutilizzabilità della prova nel sistema del processo penale, in questa Rivista, 1992, 203. (8) Riconosciuta ad « ogni persona » dall’ampia formula di cui all’art. 196, comma 1, c.p.p. Sottolinea « il sostanziale divario che intercorre fra il concetto d’incapacità e quello di incompatibilità » V. CAVALLARI, op. cit., 122, che esclude che l’incompatibilità sia disposta « perché la legge ritenga una data persona inidonea ad assumere in genere una certa posizione o a svolgere una determinata attività processuale »; nello stesso senso V. PERCHINUNNO, op. cit., 8; M. BARGIS, op. cit., 154; V. GAROFOLI, voce, Prova testimoniale, in Enc. giur., vol. XXVII, Milano, 1988, 762; parla in proposito di limiti alla capacità giuridica di testimoniare A. PERDUCA, Commento all’art. 197 c.p.p., Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di M. Chiavario, vol. II, Torino, 1990, 445. In generale, sul concetto di capacità, v. G. CONSO, voce Capacità processuale penale, in Enc. dir., vol. VI, Milano, 1960, 134; A. FALZEA, voce Capacità (teoria generale), ivi, 46. (9) Si tratta, come afferma F. CORDERO, Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, 76, di « un vero e proprio divieto di ammissione »; « un limite statuito in considerazione della persona che si dovrebbe escutere; le ragioni politiche sono disparate quanto intuibili; la norma vieta d’inscenare il procedimento probatorio ». Rileva, in merito all’analoga formulazione dell’art. 450, comma 2, c.p.p. 1930, C. cass., sez. III, 29 ottobre 1963, Bignardi, in Foro it., 1964, II, 141, come « la sanzione per la violazione del divieto stabilito dalla norma in esame, non può essere inquadrata né tra le nullità, onde l’impossibilità di far ricorso all’art. 184 c.p.p., per il quale la inosservanza delle forme prescritte per gli atti processuali è causa di nullità soltanto nei casi in cui questa è comminata dalla legge, né tra i casi di inesistenza giuridica dell’atto; ... trattasi, invece, di un caso di inammissibilità dell’atto ». Premesso che « l’inammissibilità non costituisce un rafforzamento delle altre sanzioni comminate dal sistema processuale penale a tutela della osser-


— 920 — nei casi previsti espressamente, possa rientrare fra gli elementi idonei ad incidere sul libero convincimento del giudice » (10). In termini generali, l’incompatibilità trae fondamento, come si è accennato, da un apprezzamento presuntivo, d’ordine negativo, circa l’opportunità di instaurare con il medesimo soggetto un duplice rapporto all’interno del procedimento; come insegna una autorevole dottrina, « la precedente o concomitante assunzione di un’altra posizione o il precedente o concomitante esercizio di un’altra attività processuale induce il legislatore a considerare non opportuno che la stessa persona sia chiamata ad assumere una nuova posizione o a svolgere una nuova attività nel corso del medesimo procedimento » (11). Si tratta, dunque, di un limite di carattere soggettivo, correlato cioè al verificarsi di cause relative esclusivamente a qualità personali (12), del tutto indipendenti dal rapporto con l’oggetto della prova (13), proprio perché derivano dal contrasto « che si determina in capo allo stesso soggetto per il fatto di cumulare in sé più posizioni processuali » (14). 1.2. L’analisi della ratio dell’esclusione probatoria. — 1.2.1. La teoria del « teste inattendibile »: critica. — Questo lo sfondo, comune a tutte le fattispecie previste, sul quale è disegnato l’istituto. Ma per ricostruire le ragioni sottese alla scelta politico legislativa operata nell’individuare le singole presunzioni legali e nell’escluderne altre (pur astrattamente riconducibili allo stesso schema valutativo), occorre approfondire ulteriormente l’analisi. In linea di prima approssimazione può osservarsi come il giudizio di opportunità posto alla base della regola di sbarramento si fondi sulla ritenuta inattendibilità delle dichiarazioni di chi, partecipando sotto altra veste al procedimento, risulti portatore di un interesse nei riguardi del vanza di norme e termini stabiliti per gli atti processuali, ma è una sanzione a sé stante, con contenuto proprio », il supremo Collegio giudicava « irrilevante l’osservazione che nella fattispecie dell’art. 450 la legge non stabilisce espressamente la sanzione dell’inammissibilità, perché quando esistono cause generali di inammissibilità le stesse debbono essere rilevate, anche quando il legislatore espressamente non lo dica ». Per l’approfondimento del tema si rinvia soprattutto a G. CONSO, Il concetto e le specie d’invalidità, Milano, 1955, 64; F. CORDERO, Le situazioni soggettive nel processo penale, Milano, 1957, 89. (10) V. CAVALLARI, op. cit., 122. (11) G. CONSO, voce Capacità processuale penale, cit., 138. (12) Cfr. M. BARGIS, Profili sistematici della testimonianza penale, Milano, 1984, 155, che rileva come l’incompatibilità « è sempre collegata al contrasto che si determina in capo allo stesso soggetto per il fatto di cumulare due distinte posizioni processuali ». (13) Tanto è vero, come rileva E. FLORIAN, Sulla incompatibilità, quali testimoni, dei funzionari dell’ordine giudiziario, che parteciparono come tali al procedimento, in Scuola pos., 1927, II, 385, che sullo stesso oggetto potrebbero deporre altri testi. (14) Così V. PERCHINUNNO, op. cit., 48.


— 921 — thema decidendum o comunque non sia, rispetto a quello, in posizione di neutralità. In questo senso il meccanismo, facendo sopravvivere il canone di prova legale secondo cui nullus idoneus in re sua intelligitur, opererebbe essenzialmente come garanzia della genuinità della prova, precludendo l’accesso al mezzo ogniqualvolta ci si trovi di fronte ad una posizione funzionalmente non estranea all’esito del procedimento od alla valutazione del fatto oggetto di prova. Va però subito notato come una simile lettura dell’istituto, sostenuta in dottrina (15) ed avallata, per un certo periodo, dalla stessa Corte costituzionale (16), oltre a porsi troppo apertamente in contrasto con il principio del libero convincimento del giudice (la cui più rilevante esplicazione, in tema di prova orale rappresentativa, è costituita proprio dal giudizio di attendibilità affidato al giudice) (17), non pare trovare piena rispondenza nel testo normativo. È agevole, infatti, constatare come la casistica codificata sia tutt’altro che esaustiva del novero delle situazioni effettivamente ricollegabili all’evidenziato criterio distintivo, nel cui ambito viene pertanto a determinarsi, sotto il profilo che qui rileva, una differenziazione di trattamento a prima vista non giustificabile alla luce di quella ratio. L’art. 197 c.p.p., con il quale « si è inteso porre una normativa precisa » delle ipotesi in questione, cui il codice abrogato non riservava « esplicita ed organica disciplina » (18), prevede in proposito quattro distinte fattispecie. Accanto all’ipotesi di « coloro che nel medesimo procedimento svolgono o hanno svolto la funzione di giudice, pubblico ministero o loro ausiliario » (comma 1, lett. d), vengono in rilievo le differenti situazioni soggettive dei « coimputati nel medesimo reato » e delle « persone imputate in un procedimento connesso a norma dell’articolo 12, anche se nei loro (15) A. MALINVERNI, Relazione orale, in La testimonianza, cit., 278. Nel senso che l’incompatibilità deriverebbe dalla posizione di parte nel processo M. PISANI, La tutela delle prove formate nel processo, Milano, 1959, 202. (16) V. C. Cost. 21 novembre 1973, n. 154, in Giur. cost., 1973, con nota di M. NOBILI, Davvero costituzionale il regime delle letture dibattimentali consentite?, e C. cost. 4 luglio 1974, n. 201, ivi, 1974, 1687, con nota di V. PERCHINUNNO, Sulla legittimità costituzionale dell’incompatibilità a testimoniare del coimputato prosciolto o condannato (ivi, 2119). (17) C. DI MARTINO, voce Prova testimoniale, in Enc. giur. Treccani, vol. XXV, Roma, 1990, 5, osserva a questo riguardo che se l’incompatibilità, almeno con riferimento all’ipotesi ex art. 197, lett. a), c.p.p., « avesse davvero il fondamento che le si vuole assegnare, essa sarebbe del tutto superflua, in quanto a scongiurare il pericolo di una prova falsa basterebbe già il potere del giudice di valutare la credibilità del singolo teste ». Sul tema, per alcuni interessanti spunti di carattere generale, v. C. cass. sez. I, 24 settembre 1981, Mancini, in Giust. pen., 1981, III, 269, con nota di T. PROCACCIANTI, Libertà di valutazione della testimonianza e rilevanza del fatto notorio riferito dal teste. (18) In questi termini la Relazione al progetto preliminare, cit., 62.


— 922 — confronti sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere, di proscioglimento o di condanna, salvo che la sentenza di proscioglimento sia divenuta irrevocabile » (comma 1, lett. a); delle « persone imputate di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso previsto dall’articolo 371, comma 2, lettera b) » (comma 1, lett. b); del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria (comma 1, lett. c). Non ricevono, invece, espressa menzione al riguardo altre posizioni funzionali quali quelle del perito e dell’interprete (19), del consulente tecnico (20) e del difensore (21); così come, d’altra parte, non è stato sancito il divieto testimoniale della persona offesa dal reato (22), dei prossimi (19) « In sede di disciplina della testimonianza — si legge nella Relazione, loc. cit. — non si è fatto alcun cenno al perito e all’interprete: si è ritenuto che rispetto a queste funzioni debba considerarsi prevalente quella di testimone e che perciò, salvo a risolvere in via interpretativa gli specifici casi che si dovessero presentare, l’unica norma che si deve affermare è nel senso dell’ostacolo a nominare perito od interprete chi debba essere chiamato a deporre come testimone ». Ed infatti v., in tema di incapacità e incompatibilità alla funzione di perito ed interprete, gli artt. 222, lett. d) e 144, lett. d), c.p.p. (20) Il legislatore ha ritenuto, qui, « che a tale qualifica, risalente ad un atto di parte, non possa essere attribuito alcun rilievo nella materia in esame » (Relazione, loc. cit.), a differenza di quanto avveniva sotto la vigenza del codice del 1930, che all’art. 323, comma 3, poneva una esplicita incompatibilità alla nomina per la persona « chiamata a deporre come testimonio ». (21) « Quanto al difensore — si legge ancora nella Relazione, loc. cit. — si è ritenuto che la disciplina dell’incompatibilità trovi la propria sede normativa nell’ordinamento forense, essendo in gioco anche profili di deontologia professionale che non possono trovare regolamentazione nel codice di procedura penale ». Secondo Trib. Macerata, 10 dicembre 1992, Falcetelli, in Giur. it., 1992, II, 756, con nota di F.M. GRIFANTINI, L’incompatibilità a testimoniare del difensore nel nuovo sistema processuale penale, « poiché la legge non prevede una incompatibilità tra la funzione difensiva e la funzione testimoniale, il difensore può deporre secondo l’art. 200 c.p.p. in ordine ai fatti percepiti dopo il conferimento dell’incarico, mentre è obbligato a testimoniare sui fatti percepiti prima di tale momento; dall’eventuale deposizione, però, non consegue l’impossibilità di proseguire il mandato difensivo, ma, eventualmente, un conflitto interiore di doveri che spetta al difensore di risolvere ». (22) Ancorché, nel caso di riunione dei processi disposto ex art. 17, comma 1, lett. c), c.p.p., ossia nell’ipotesi di reato commesso da più persone in danno reciproco le une delle altre, l’incompatibilità possa oggi ritenersi estesa anche alla figura dell’imputato-persona offesa: v., infra, nota 26 e, più diffusamente, § 4. Al contrario, in vigenza dell’abrogato codice la giurisprudenza riteneva che, « pur dovendosi riconoscere che il divieto stabilito dall’art. 348, comma 3, c.p.p. costituisce una norma di carattere generale », la regola dovesse « cedere di fronte alla necessità di escutere la persona offesa del reato, anche quando questa abbia nello stesso processo assunto la veste di imputato, affinché possa deporre sui fatti commessi in suo danno »: così C. cass., sez. I, 14 ottobre 1974, Sacco, in Cass. pen., 1975, 541. Sul problema v., specificamente, A. GIARDA, La testimonianza della parte offesa e della parte civile, in La testimonianza, cit., 152.


— 923 — congiunti dell’imputato (23), o della parte civile (24), pur in presenza di un palese interesse di costoro all’esito del procedimento. Né, del resto, viene dato ingresso al contributo probatorio proveniente dalla persona nei cui confronti è stata emessa sentenza di non luogo a procedere per evidente estraneità dai fatti, mentre è consentito quello, certo più sospetto, della persona prosciolta per estinzione del reato commesso (25). 1.2.2. L’attuazione del principio nemo tenetur se detegere. — Queste contraddizioni, irrisolvibili con l’ausilio del solo riferimento al criterio di tutela dell’affidabilità del mezzo di prova, trovano invece composizione sol che si osservi come il precetto assegni prevalenza ad obiettivi diversi. È, del resto, lo stesso legislatore delegato a sottolineare « che l’interesse di un soggetto in ordine all’oggetto del processo non deve essere di per sé motivo di esclusione della sua testimonianza, ma può solo costituire uno dei tanti elementi di giudizio di cui il giudice si deve avvalere nell’apprezzare l’attendibilità della prova » (26). La ragione posta alla base di taluna delle preclusioni testimoniali enumerate dall’art. 197 c.p.p. può, invece, essere ravvisata nella garanzia (23) Per i quali ultimi, come è noto, l’ordinamento prevede soltanto la facoltà di astensione, salvo che abbiano presentato denuncia, querela o istanza, ovvero siano offesi dal reato, nei quali casi sono invece tenuti a prestare l’ufficio: v. art. 199 c.p.p. (24) La Corte costituzionale, con l’ordinanza 19 marzo 1992, n. 115 (in Cass. pen. 1992, 2294, con nota di C. QUAGLIERINI, Brevi osservazioni sulla testimonianza della parte civile), ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 197, comma 1, lett. c), c.p.p., sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., sulla base dell’osservazione (già sostenuta da C. Cost. 30 settembre 1971, n. 190, in Giur. cost., 1971, 2227, con nota di G.C. MELLI, Il principio del « libero convincimento del giudice » ed il sapere delle parti nel processo penale, e da C. cost. 1 febbraio 1973, n. 2, ivi, 1973, 4) secondo cui « la subordinazione della disciplina dell’azione civile alle esigenze connesse all’accertamento dei reati è riconosciuta nel nostro ordinamento, per effetto di una scelta legislativa non irrazionale, quale corollario dell’interesse pubblico a tale accertamento; interesse preminente su quello collegato alla risoluzione delle liti civili, specie quando il medesimo fatto risulti configurabile nel contempo come illecito penale ed illecito civile e si prospetti quindi l’opportunità di evitare contrasti di giudicati ». La Corte ha peraltro ribadito, in quell’occasione che « la deposizione della persona offesa dal reato, costituitasi parte civile, deve essere valutata dal giudice con prudente apprezzamento e spirito critico, non potendosi essa equiparare puramente e semplicemente a quella del testimone, immune dal sospetto di un interesse all’esito della causa ». Sul tema, oltre allo studio di O. DOMINIONI, La testimonianza della parte civile, Milano, 1974, v. M.G. AIMONETTO, Parte civile e persona offesa dal reato nella disciplina della testimonianza, in questa Rivista, 1978, 576; A. GIARDA, op. cit., 151; P. TONINI, L’oggetto della testimonianza della parte civile e della persona offesa dal reato, ivi, 1970, 1250. In termini analoghi C. cost. 22 dicembre 1992, n. 477, in Giur. cost., 1992, 4336, con nota di M.G. AIMONETTO, Sull’incompatibilità a testimoniare del responsabile civile — parte. (25) Fa notare questa circostanza G. GIOSTRA, Sull’incompatibilità a testimoniare anche dopo il provvedimento di archiviazione, in Giur. cost., 1992, 991. (26) Relazione al progetto perliminare, loc. ult. cit.


— 924 — della persona contro il rischio di arrecare pregiudizio alla propria posizione processuale. Così è certamente per le esenzioni prefigurate dalle lett. a) e b) della norma: appare evidente come la formula sia, in questi casi, espressione del diritto di non collaborazione con gli organi inquirenti da parte del soggetto passivo dell’accertamento penale; diritto espressamente codificato, sul piano generale, all’art. 64, comma 3, c.p.p. con il riconoscimento della facoltà per l’interessato di non rispondere (27), e spinto, qui, sino all’estrema conseguenza del divieto di compimento dell’atto. All’obiezione secondo cui proprio la prevista possibilità di astensione darebbe a questo corollario del diritto di difesa idonea ed adeguata copertura, è del resto sufficiente replicare che il precetto dell’incompatibilità racchiude in sé una garanzia di grado decisamente più elevato di quello offerto dall’altro disposto, dal momento che preclude ogni possibilità di valutazione, da parte del giudice, in ordine al comportamento della persona chiamata ad assumere l’ufficio (28). Ampiamente analizzata in letteratura (29), questa prospettiva esegetica ha ricevuto infine conferma dalla stessa Corte costituzionale, che ha riconosciuto che « la ratio del divieto di testimoniare previsto per i soggetti indicati nelle lett. a) e b) dell’art. 197 va individuata nell’incompatibilità tra l’ufficio di testimone e la situazione di colui che, per l’esistenza di un’interdipendenza tra la posizione dell’imputato e la propria, nello stesso o in altro procedimento collegato, è portatore di un interesse che (27) Nel codice abrogato la formula aveva trovato ingresso con la l. 5 dicembre 1969, n. 932, che modificava l’art. 78, comma 3, c.p.p. 1993. Interessante, per comprendere le ragioni della riforma, la Relazione Vassalli alla Commissione giustizia della Camera dei Deputati, in questa Rivista, 1969, 927. Per una penetrante analisi del tema e per l’approfondita ricostruzione del contesto normativo e culturale in cui la novella si inseriva, resta fondamentale l’opera di V. GREVI, « Nemo tenetur se detegere ». Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano, 1972. Sull’argomento v. già G. CONSO, Giustizia penale e diritti dell’uomo, in Ind. pen. 1969, 12. (28) Evidenziano questa differenza G. CONSO e M. BARGIS, Glossario della nuova procedura penale, Milano, 1992, 178; S. BUZZELLI, Il contributo dell’imputato alla ricostruzione del fatto, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, 906; P. FERRUA, La formazione delle prove nel nuovo dibattimento: limiti all’oralità e al contraddittorio, in Studi sul processo penale, Torino, 1990, 96; R. ORLANDI, Commento all’art. 208 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. II, Torino, 1990, 490. (29) Cfr., in particolare, M. BARGIS, Incompatibilità a testimoniare, cit., 13; V. CAVALLARI, loc. ult. cit.; V. GREVI, Le dichiarazioni rese dal coimputato nel nuovo codice di procedura penale, in questa Rivista, 1991, 1154; G. PAOLOZZI, op. cit., 29; V. PERCHINUNNO, Limiti soggettivi, cit., 83; ID., Sulla legittimità, cit., 2122; da ultimo, D. DAWAN, Sull’incompatibilità a testimoniare dell’imputato di un reato collegato, in Cass. pen., 1996, fasc. 9. Ma v. già, prima ancora della novella del 1969, L. PALADIN, Autoincriminazioni e diritto di difesa, in Giur. cost., 1965, 308; G. VASSALLI, Il diritto alla prova nel processo penale, in questa Rivista, 1968, 12.


— 925 — può contrastare con il dovere di rispondere secondo verità (30); interesse riconosciuto e garantito dall’ordinamento sulla base del principio nemo tenetur se detegere » (31). E lo stesso sembra potersi affermare, mutatis mutandis, per il responsabile civile e per la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, le cui dichiarazioni il legislatore sottrae alla valutazione del giudice non tanto perché potenzialmente inattendibili, quanto perché provenienti da chi si trova fisiologicamente schierato sul fronte di resistenza all’accusa (32), e, di conseguenza, non può essere assoggettato al dovere — penalmente sanzionato — di rispondere secondo verità. 1.2.3. La ratio dell’incompatibilità dei magistrati e dei loro ausiliari: la tutela del sereno svolgimento della funzione giudiziaria. — A ragioni evidentemente diverse risponde, invece, l’ipotesi di incompatibilità dettata all’art. 197, comma 1, lett. d), c.p.p. Si tratta, come è noto, di una previsione che ha radici remote nell’ordinamento processuale penale. L’attuale disposizione, infatti, riproduce — ancorché rimaneggiata, rispetto alle precedenti edizioni, con una serie di interventi correttivi volti a risolvere talune incertezze applicative (33) — il divieto testimoniale sancito dall’art. 450, comma 2, c.p.p 1930 (34), a sua volta mutuato dall’a(30) E questo spiega perché il legislatore abbia previsto che il divieto testimoniale perduri, per i coimputati dello stesso reato o di un reato connesso a norma dell’art. 12 c.p.p., solo sino a che questi conservino tale loro qualità: « oltre questo limite — si legge nella Relazione al progetto preliminare, loc. ult. cit. — contrassegnato dalla pronuncia della sentenza irrevocabile di proscioglimento, assoluzione o condanna, si è ritenuto che la persistenza dell’incompatibilità a testimoniare per tali soggetti non sarebbe giustificata da ragioni di tutela contro autoincriminazioni (già apprestata in via generale dall’art. 198 comma 2) e sottrarrebbe inopportunamente una fonte probatoria alla libera valutazione del giudice, ledendo il diritto alla prova degli altri imputati, che dal persistere della limitazione si vedrebbero privati di un mezzo probatorio talora non altrimenti sostituibile ». In merito al problema della durata processuale dell’incompatibilità (rispettivamente per le ipotesi di cui alle lett. a) e b) dell’art. 197 c.p.p.), cfr. C. cass. sez. VI, 11 aprile 1995, Bianchi e altri, in Guida dir., 1995, 82, con nota di A. BASSI, Chi è imputato di un reato collegato non può essere testimone nel processo; a commento v. altresì D. DAWAN, op. loc. cit. (31) C. Cost. 18 marzo 1992, n. 109, in Giur. Cost., 1992, 996, con nota di M. SCAPARONE, Incompatibilità a testimoniare e discrezionalità legislativa. Anche la Corte di cassazione si era dichiarata a favore di questa lettura dell’istituto: cfr., ad esempio, C. cass., sez. I, 19 maggio 1978, Lupino, in Giust. pen., 1979, III, 616. (32) L’espressione è di A. PERDUCA, op. cit., 447; nel senso che « la qualità di parte nel procedimento giustifica la previsione dell’incompatibilità a testimoniare del responsabile civile e del civilmente obbligato per la pena pecuniaria » C. DI MARTINO, op. cit., 7; v., in tema, V. PERCHINUNNO, op. ult. cit., 95. (33) Per alcuni cenni v. infra § 2.1.1., 2.1.2, 2.2.1. (34) Secondo cui « non possono essere assunti come testimoni » « i giudici, i magistrati del pubblico ministero, i cancellieri e i segretari, anche se appartenenti a giurisdizioni speciali, i quali hanno avuto parte per ragione del loro ufficio negli atti del procedimento ».


— 926 — nalogo disposto dell’art. 398, comma 2, c.p.p. 1913 (35) con il quale, innovando rispetto al codice del 1865, si introduceva lo specifico divieto. Sin dall’origine, la norma manifesta la sua chiara finalità: escludere la possibilità di condizionamenti, derivanti dal dovere testimoniale, nei confronti dei soggetti che prendono parte al procedimento svolgendo funzioni giudiziarie; soggetti che il legislatore vuole tutelare anche sotto il profilo del « decoro e della dignità » (36), inibendo « il malvezzo », prima ricorrente, di chiamare a deporre il magistrato per giustificare i provvedimenti adottati (37). Anche qui, dunque, più che una garanzia contro apporti probatori inficiati di parzialità (perché provenienti da chi ha contribuito a dirigere o gestire il processo), si ravviserebbe nel precetto una forma di tutela riservata ad una particolare posizione processuale (38). Questo aspetto merita di essere sottolineato. Anche a prescindere, per ora, dalla necessaria e più approfondita analisi della norma, si può agevolmente individuare, in negativo, un preciso limite finalistico connaturato alla specifica deroga: si deve, cioè, escludere che la regola si fondi sull’esigenza di sottrarre all’apprezzamento del giudice dichiarazioni non attendibili, da un lato, o non obiettive, dall’altro. Con riguardo al primo profilo risulta, infatti, evidente che, al contrario, si tratterebbe di testimoni particolarmente qualificati, dotati di speci(35) La norma precludeva l’assunzione dell’ufficio testimoniale ai « funzionari dell’ordine giudiziario », per tali dovendosi intendere, ai sensi dell’art. 6 l. 6 dicembre 1865, n. 2626, « gli uditori, i conciliatori, i pretori, i vicepretori mandamentali e comunali, gli aggiunti giudiziari, i giudici di ogni grado dei Tribunali e delle Corti, i membri del pubblico ministero, i cancellieri e vice-cancellieri aggiunti, i segretari, i loro sostituti ed aggiunti ». (36) La Relazione della Commissione speciale del Senato sul progetto preliminare per il codice di procedura penale del 1913, in Scuola pos., 1912, III, 163, fa esplicito riferimento a queste motivazioni: « a proposito di testimoni, reputasi infine conveniente una nuova disposizione la quale inibisca di ascoltare a qualsiasi titolo, in pubblica udienza, i magistrati e funzionari del pubblico ministero relativamente a fatti che attengono all’ufficio giudiziario da loro adempiuto nella causa e per la causa. Credesi superfluo svolgere la proposta con molte parole; esempi nuovi e antichi dimostrano più eloquentemente di ogni discorso come il decoro e la dignità della magistratura esigano codesto salutare provvedimento ». (37) In questi termini la Relazione del Ministro Guardasigilli al Re per l’approvazione del codice di procedura penale del 1913, ove si legge: « nel primo capoverso dell’art. 398 ho inteso contrastare un malvezzo che non ridonda a decoro e rispetto della magistratura, vietando espressamente che i funzionari dell’ordine giudiziario, i quali hanno avuto parte, per ragione del loro ufficio, negli atti del procedimento, siano sentiti come testimoni. Questi funzionari nessun contributo possono portare che non sia già consacrato negli atti ». (38) In questo senso M. BARGIS, Profili sistematici, cit., 156; V. CAVALLARI, op. cit., 134; V. GAROFOLI, op. cit., 765; V. PERCHINUNNO, op. ult. cit., 51; nel senso, invece, che prevarrebbe nella norma la presunzione di inattendibilità della fonte, C. DI MARTINO, op. cit., 7; A. PERDUCA, op. cit., 450.


— 927 — fica professionalità e particolare esperienza (39); in merito al secondo, poi, è più che intuitivo osservare che una siffatta ragione significherebbe, per assurdo, dover presupporre l’inassoggettabilità di magistrati ed ausiliari al dovere di deporre secondo verità. Non si vuol certo negare che, almeno in alcuni casi (si pensi soprattutto alla deposizione magistrato del pubblico ministero), la particolare posizione funzionale del soggetto potrebbe portare a ricostruzioni del fatto anche solo inconsciamente condizionate da valutazioni tendenziose; ciò che si deve sottolineare è che non può essere questa la finalità preventiva sottesa alla norma di specie (40). Tuttavia, fermo restando che, per questa come per le altre ancor più evidenti ipotesi prima ricordate, si porrebbe la necessità di una particolare attenzione nell’esame del teste e nell’apprezzamento delle sue dichiarazioni, devesi rilevare che in tanto ha significato escludere dall’obbligo testimoniale il soggetto « interessato » in quanto l’alternativa al silenzio comporti il rischio, non ammesso dall’ordinamento, di conseguenze negative sul piano incriminatorio. Quando, cioè, non resti a costui altra scelta che quella tra l’aggravamento della sua posizione processuale, dicendo la verità, e la commissione del reato di falsa testimonianza, difendendosi affermando il falso, negando il vero, ovvero tacendo, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali è interrogato (art. 372 c.p.). E non v’è chi non veda come una simile situazione nulla abbia a che vedere (fatte salve le ipotesi limite in cui i soggetti in questione partecipino al procedimento in qualità di indiziati o imputati) (41) con quella descritta dalla fattispecie normativa in discorso. (39) L’osservazione è di S. CAVINI, L’incompatibilità a testimoniare dell’ausiliario, in Cass. pen., 1995, 1951. (40) Viceversa, che l’obiettivo di assicurare l’imparzialità del testimone non rappresenti il fondamento dell’ipotesi di esclusione probatoria (anche con riferimento all’art. 197, comma 1, lett. d), c.p.p.) risulta indirettamente dimostrato dalle conclusioni cui perviene la Corte costituzionale nella sentenza 31 gennaio 1992, n. 24 (in Cass. pen., 1992, 917, con nota di M. D’ANDRIA, Gli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 195, comma 4, c.p.p.) in tema di testimonianza della polizia giudiziaria, là dove ammette che un soggetto, tutt’altro che estraneo al procedimento, possa deporre sia in via diretta che de relato. La Consulta, invero, si spinge in questa occasione sino all’eccesso di negare che i soggetti in questione « siano da ritenersi meno affidabili del testimone comune; a prescindere dalla palese assurdità di una ipotesi siffatta, essa risulterebbe poi in insanabile contraddizione col ruolo e la funzione che la legge attribuisce alla polizia giudiziaria » (loc. cit.); quand’è, invece, evidente — come sottolinea P. FERRUA, Anamorfosi del processo accusatorio, cit., 159, cui si rinvia soprattutto per una efficace analisi critica della sentenza richiamata, oltre che per gli ulteriori riferimenti bilbliografici — che si tratta di « organi che, nel delicato colloquio con i testimoni, non offrono le stesse garanzie di un magistrato ». (41) È il caso considerato dall’ordinanza Trib. Brescia, 20 aprile 1995, Cerciello ed altri, in Dir. pen. e proc., 1995, 710, con nota di G. SPANGHER, Quando il pubblico ministero è persona indagata per un reato collegato.


— 928 — 1.2.4. La garanzia della prosecuzione della funzione « tipica ». — Il motivo dell’incompatibilità sembra, dunque, trovare giustificazione alla luce di un diverso obiettivo, ravvisabile, almeno in sede di prima verifica, nella necessità di assicurare, agli interessati, il sereno svolgimento della loro funzione (42). Senonché, ad una più attenta analisi, ci si accorge che anche questa chiave di lettura risulta inadeguata a sorreggere coerentemente la disciplina disegnata dal codice. Basti osservare che l’esclusione testimoniale imposta dall’art. 197, comma 1, lett. d), c.p.p., non è certamente configurata in termini di « esenzione » di carattere assoluto: tanto è vero (e su questo aspetto si tornerà più diffusamente tra breve) che la regola opera esclusivamente all’interno del « medesimo procedimento » (43), ben potendo (ed anzi dovendo) il magistrato, il cancelliere od il segretario testimoniare in un processo diverso da quello cui partecipa in ragione del suo ufficio. Ciò, ad avviso di chi scrive, induce ad affermare che la tutela perseguita dalla norma non operi tanto sul piano strettamente soggettivo — in questo senso la garanzia riservata alla specifica qualifica funzionale non sembrerebbe consentire distinzioni basate sull’identità o meno del procedimento, almeno nei casi in cui la deposizione dovesse riguardare fatti appresi nell’esercizio delle specifiche funzioni — quanto piuttosto su quello procedimentale. Vista nell’ottica dei suoi effetti, la regola dell’incompatibilità testimoniale de qua sembra, infatti, assumere un più chiaro significato sotto il profilo (genericamente inteso) della garanzia del regolare svolgimento del singolo processo. Più precisamente, può osservarsi come la norma miri in sostanza ad evitare che, in determinate circostanze, si verifichino preclusioni soggettive alla prosecuzione dell’esercizio della funzione giudiziaria, inevitabili con l’assunzione dell’ufficio testimoniale. Del resto, nella stessa intenzione del legislatore è ravvisabile la funzione in un certo senso complementare assolta dall’enunciato in esame rispetto alla disciplina in tema di incompatibilità ad assumere una determinata funzione giudiziaria: qui, si legge nella Relazione al progetto preliminare del codice, « è previsto che chi svolge o ha svolto determinate funzioni (giudice, pubblico ministero, segretario) non possa assumere la qualità di testimone, mentre è lasciato alle norme relative alle specifiche fun(42) Osserva V. CAVALLARI, loc. ult. cit.: « la norma vuole evidentemente escludere l’eventualità che il magistrato o i funzionari cui si riferisce si sentano condizionati, nella deposizione, dall’atteggiamento assunto e dagli atti compiuti per ragioni del loro ufficio nel medesimo processo ». (43) Sul punto v. specificamente infra, §§ 2.1.1 e 2.1.2.


— 929 — zioni di regolare i casi ed i limiti in cui del loro esercizio non si debba investire chi abbia deposto come testimone nello stesso processo » (44). Ed allora, nel momento in cui queste ultime norme dovessero prefigurare (come in realtà prefigurano) una preclusione all’esercizio dell’attività « tipica » del soggetto in ragione dell’espletamento dell’ufficio testimoniale, la prescrizione ex art. 197, comma 1, lett. d), c.p.p. finirebbe inevitabilmente per agire, più che a tutela dello status personale del soggetto, come garanzia della prosecuzione della funzione avviata dal soggetto nel procedimento, impedendo a priori il verificarsi della condizione ostativa. Ciò è particolarmente evidente a proposito del giudice: posto che, per espressa previsione dell’art. 34, comma 3 c.p.p., « chi ha esercitato funzioni di ... testimone ... non può esercitare nel medesimo procedimento l’ufficio di giudice » (45), può agevolmente osservarsi come l’eventuale assenza dell’esclusione probatoria in discorso finirebbe per lasciare spazio a gravi interferenze e addirittura consentire, in ipotesi non necessariamente al limite della fenomenologia giudiziaria, impieghi strumentali della prima norma, volti a mettere « fuori gioco » il magistrato in quella fase o grado del processo. Ma anche per il pubblico ministero, nei cui confronti, è ben vero, non può mai verificarsi una ipotesi di ricusazione (46), una siffatta evenienza finirebbe per creare una situazione difficilmente risolvibile senza il ricorso alla (pur facoltativa) astensione ex art. 52, comma 1, c.p.p.: ove avesse reso in precedenza testimonianza sui fatti oggetto di accertamento il p.m. si troverebbe di fronte ad una di quelle « gravi ragioni di convenienza » che consiglierebbero l’abbandono della causa (47). Quando, poi, l’escussione dovesse intervenire contestualmente allo svolgimento dell’attività requirente, quella scelta non potrebbe che tradursi in una sostanziale necessità, essendo ictu oculi insostenibile la si(44) Relazione al progetto preliminare, loc. cit. (45) Secondo GIUS. SABATINI, Trattato dei procedimentio incidentali nel processo penale, Torino, 1953, 217, il testimonio non è idoneo a svolgere le funzioni di giudice, posto che da quest’ultimo soggetto si esige « una posizione psicologica così libera da poter accogliere e valutare obiettivamente e complessivamente tutte le varie esperienze processuali »; sul tema, analogamente, E. RUBIOLA, Commento all’art. 61 c.p.p. 1930, in G. CONSO e V. GREVI, Commentario breve al codice di procedura penale, Padova, 1987, 301. (46) Né, a questo riguardo, sembra potersi ipotizzare un caso di sostituzione ex art. 53 c.p.p. (47) Ancorché, come nota V. PERCHINUNNO, op. ult. cit., 63, « una situazione del genere, pur creando contrasto tra le due funzioni — rientrante in quelle ‘gravi ragioni di convenienza’ che dovrebbero scaturire nell’astensione — non legittima la parte ad alcun mezzo processuale per evitare la situazione di incompatibilità, mancando un’espressa disposizione legislativa ».


— 930 — multaneità degli uffici (48), non foss’altro perché verrebbe a mancare, in quel momento, la partecipazione al procedimento da parte dell’organo dell’accusa. Analoghe considerazioni — quantomeno sotto quest’ultimo profilo — valgono, naturalmente, per gli organi ausiliari (49). In questo senso, dunque, sembra potersi affermare che l’incompatibilità a testimoniare dei soggetti in questione è preordinata a prevenire queste patologie, assegnando a priori prevalenza, nell’ambito del singolo procedimento, alla funzione giudiziaria rispetto a quella testimoniale (50). Vero è che, a seconda di come si misuri l’ambito di operatività della disposizione, ci si potrebbe trovare di fronte ad una perfetta coincidenza delle fattispecie con l’obiettivo indicato, ovvero ad una serie di casi in cui gli effetti considerati non si produrrebbero comunque, indipendentemente dall’applicazione della norma di specie. È chiaro, infatti, che i problemi evidenziati non si verificano nei confronti dei soggetti che abbiano definitivamente esaurito, nel « procedimento », l’esercizio delle specifiche funzioni prima che sorga l’eventuale esigenza testimoniale (51); ed è altrettanto evidente che, ove il limite oggettivo della norma dovesse ritenersi esteso anche a questi casi, la ragione dell’esclusione testimoniale perderebbe valore sotto il profilo appena esaminato. L’individuazione di quel limite richiede un approfondimento che non è il caso di anticipare in questo momento; va però evidenziata subito una contraddizione logica implicita nella lettura estensiva della disposizione, che finirebbe ancora per assoggettare al divieto situazioni tra loro del tutto assimilabili ad altre non rientranti nella disciplina, introducendo un regime ingiustificatamente differenziato proprio sotto il profilo prima illustrato della tutela riservata alla qualifica personale del soggetto. E proprio questa apparente sperequazione, inspiegabile alla luce della sola guarentigia di tipo « personale », indurrebbe a ritenere che la regola non sia in realtà disancorabile da ragioni di garanzia incidenti sul piano del funzionamento del procedimento. (48) Osserva E. FLORIAN, Delle prove penali, 3a ed., Milano, 1961, 357, come questa conclusione debba trarsi proprio « dalla rispettiva posizione del p.m. e del teste: essa è così evidente che dovrebbe affermarsi anche se non fosse fissata dalla legge ». (49) Peraltro, la giurisprudenza tende a restringere, in tema di incompatibilità degli organi ausiliari, l’ambito di applicazione della fattispecie: sul punto si rinvia, più specificamente, a quanto si dirà infra, § 2.2.3. (50) Nel rispetto del generale assunto secondo cui « chiunque partecipa al processo in una posizione tipica, qualunque essa sia, svolge una funzione alla quale deve restare fedele e non può assumerne un’altra senza necessariamente contraddire la prima »: S. SATTA, Il giudice testimone, in Giur. it., 1950, I, 465. (51) Si pensi, ad esempio, alla ipotetica testimonianza, nel giudizio di secondo grado, del giudice o del pubblico ministero che ha partecipato al primo.


— 931 — 1.3. Conseguenze sul piano esegetico del diverso fondamento giuridico delle singole fattispecie. — 1.3.1. In generale: il problema della portata del divieto di applicazione analogica. — Dalle osservazioni appena svolte emergono elementi utili per inquadrare con maggiore precisione la portata derogatoria delle diverse ipotesi previste dall’art. 197 c.p.p. rispetto al ricordato principio del libero convincimento del giudice. La netta distinzione, sotto il profilo finalistico, delle fattispecie di cui alle lett. a), b) e c) della norma rispetto a quella descritta alla lett. d) consente, infatti, di trarre significative conclusioni sul piano della individuazione dei corretti canoni interpretativi applicabili alle enunciazioni in esame. Appare chiaro che, per le posizioni giuridiche contemplate dalle prime tre proposizioni, alla norma eccezionale è sottesa l’applicazione di una regola (il canone del nemo tenetur se detegere) avente, a sua volta, carattere generale: la deroga risulta, cioè, stabilita in ragione della necessità di disciplinare più situazioni per le quali ricorre una eadem ratio, corrispondente ad un principio sovraordinato rispetto a quello nei cui confronti si pone in conflitto. Si tratta di circostanza non indifferente sul piano dell’operatività del precetto, posto che proprio dalla riconducibilità (o meno) della norma eccezionale ad un dictum d’ordine generale può dipendere (o meno) la possibilità per l’interprete — almeno ove si concordi sul fatto che il divieto di applicazione analogica fissato, per le norme eccezionali, dall’art. 14 disp. prel. (52), non ha valore assoluto (53) — di ricorrere a strumenti di integrazione per superare le eventuali contraddizioni o le apparenti lacune dello specifico sistema. La questione, rivestendo caratteri di evidente delicatezza, merita qualche ulteriore approfondimento, sia pure nei limiti consentiti dall’oggetto della presente trattazione. Devesi preliminarmente osservare che la « irriducibile relatività » del concetto di legge eccezionale, nonché la sua natura « indeterminata » (54), non consentono, come è noto, una univoca definizione ed una puntuale individuazione della categoria. Tuttavia, partendo dalla constatazione (che sembra incontrovertibile) (52) Secondo cui « le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati ». (53) Per un efficace quadro sull’ampio dibattito sviluppatosi in dottrina sul significato, l’attualità e la portata del divieto, le sue giustificazioni sul piano logico, giuridico e politico v. soprattutto L. CAIANI, voce Analogia (teoria generale), in Enc. dir., vol. II, Milano, 1959, 348, cui adde R. GUASTINI, voce Analogia, in Dizionario critico del diritto, a cura di C. Donati, Milano, 1980, 45; per una indagine aggiornata v. G. CARCATERRA, voce Analogia (teoria generale), in Enc. giur. Treccani, vol. II, Roma, 1988, 1. (54) G. ZAGREBELSKY, Il sistema costituzionale delle fonti del diritto, Milano, 1980, 78; R. GUASTINI, Produzione di norme a mezzo di norme, in Inform. e dir., 1985, 99.


— 932 — secondo cui la norma eccezionale introduce — per un fine pur sempre compatibile con i principi e valori fondamentali dell’ordinamento — un elemento di diseguaglianza nel trattamento di coloro che altrimenti sarebbero destinatari della norma generale (55), può giungersi ad una classificazione del contenuto specifico della singola proposizione sulla base dell’analisi della ratio che giustifica la disciplina differenziata (56). Ci si potrà, allora, trovare di fronte a deroghe di tipo « strutturale » e ad altre di tipo « congiunturale » (57), ossia a norme eccezionali riconducibili a loro volta ad un « sistema » e a norme che, al contrario, non rappresentano l’applicazione di un principio confliggente con quello derogato. Se così è — e se è vero che l’apposizione del divieto di analogia « riposa sostanzialmente sul principio generico dell’uguaglianza e su quello specifico della coerenza, unità e organicità dell’ordinamento » (58) — dovrà riconoscersi che « anche le norme cosiddette eccezionali, in quanto aventi ratio o principio e in quanto riconducibili a sistema, sono passibili di estensione analogica mediante il ricorso ai principi del sistema particolare in cui rientrano, e le sole norme per le quali il divieto di analogia può avere un significato sono quelle che, come il privilegio o le norme a fattispecie esclusiva, non lo consentono per una loro intrinseca condizione di limitatezza logico-strutturale » (59). Il che significa che vi sono statuizioni a fattispecie « esclusiva » (60), per le quali risulta impossibile, ove non si riesca a trarre da una particolare norma la regolamentazione di un caso, ricorrere alla disciplina previ(55) A. PUGIOTTO, Commento all’art. 14 disp. prel., in G. CIAN e A. TRABUCCHI, Commentario breve al codice civile, 4a ed., Padova, 1992, 34. (56) Secondo F. CORDERO, Procedura penale, 3a ed., Milano, 1995, 15, « ‘eccezione’ è parola da intendere nel senso più forte: non basta a costruirla un rapporto da specie a genere; data una previsione speciale, va stabilito se sia omogenea al contesto (tale appare, ad esempio, l’esenzione da pena disposta dall’art. 649 c.p. a favore del congiunto, nei reati non violenti contro il patrimonio) o vi immetta un’anomalia (a prima vista, l’unica sicuramente diagnosticabile sta nei pivilegi accordati a determinate persone: immunità et similia) ». (57) R. GUASTINI, op. loc. cit. (58) Osserva, sul piano generale, L. CAIANI, op. cit., 368, che mentre esiste « un valore o una esigenza generica, da cui dipende la posizione del divieto », ravvisabile « in sostanza nella accentuazione o nella preferenza accordate, in ordine a tali categorie di norme, ai principi della certezza e della staticità dell’ordinamento rispetto a quelli dell’equità e del rinnovamento » (e, in particolare, per le norme eccezionali questo valore « riposa sostanzialmente sul principio generico dell’uguaglianza e su quello specifico della coerenza, unità e organicità dell’ordinamento »), ciò non toglie, però, « che storicamente tali norme eccezionali possano trasformarsi in speciali e quindi in normali, e che esse non abbiano una loro ratio, non possano ricondursi a dei principi e ridurre a sistema ». (59) L. CAIANI, op. loc. cit. (60) Per una ricostruzione del concetto di « privilegio » e di « norma a fattispecie esclusiva » v. N. BOBBIO, voce Analogia, in Nov.mo dig. it., vol. I, Torino, 1957, 695; ID., L’analogia e il diritto penale, in Riv. pen., 1938, 139; ID., L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, 170; M.S. GIANNINI, L’analogia giuridica, in Jus, 1942, 67.


— 933 — sta da altre disposizioni per casi analoghi, e norme (pur eccezionali) che viceversa, di fronte a lacune dell’ordinamento, ammettono l’« autointegrazione » (61), purché, beninteso, all’interno (e nel rispetto) del sistema cui la deroga risponde (62). Queste ultime sono, appunto, quelle che è possibile riportare ad un principio che le giustifica e a cui esse fanno capo (63); principio al quale risalire non solo (come è comunemente riconosciuto) per ricondurre nell’ambito di applicazione della norma quei casi che solo apparentemente ne sembrano esclusi, ma che in realtà il legislatore — stando all’obiettiva ratio della disposizione — ha inteso ricomprendere (64), ma per « ricavare conseguenze giuridiche valide anche per casi espressamente non previsti » (65). 1.3.2. In particolare: i canoni applicabili alle ipotesi di incompatibilità a testimoniare ex art. 197, comma 1, lett. a), b) e c), c.p.p. — Orbene, che le previsioni ex art. 197, comma 1, lett. a), b) e c), c.p.p. risentano di questa possibilità espansiva (66) è stato in più occasioni riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale. (61) Secondo la terminologia proposta da F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, Roma, 1951, 89, l’ordinamento procede in questi casi ad « autointegrazione », ossia al proprio completamento senza ricorrere a fonti che non siano quelle (norme simili, o analoghe e principi) implicite nella stessa legge. (62) L. CAIANI, op. cit., 349. È bene peraltro sottolineare come il problema della individuazione di quel « sistema » presenti aspetti di grande delicatezza: il rischio, dal quale mette in guardia P. FERRUA, op. ult. cit., 164, nel condurre una penetrante analisi della sentenza della Corte costituzionale n. 255 del 1992, è che, in operazioni del genere, si produca « un doppio movimento, ascendente, poi discendente, per effetto del quale le eccezioni, convertendosi in principi fondamentali, infrangono le regole ». Il caso esaminato dall’A. è emblematico: nel valutare la legittimità costituzionale dell’art. 500, comma 3, c.p.p., « dalle deroghe la Corte estrae, per amplificazione, un generalissimo principio, che battezza della ‘non dispersione dei mezzi di prova’. Principio dal nome molto suggestivo, di sicura ascendenza inquisitoria, che nessuno si meraviglierebbe di trovare nel Malleus di Sprenger; e di cui, però, non v’è traccia nella Costituzione. Ma poco importa, giacché la Corte afferma che esso ‘è presente nel nuovo sistema processuale’, accanto al principio dell’oralità; e funge da parametro per la ‘ragionevolezza’ delle singole disposizioni ». (63) La possibilità di estensione analogica è, peraltro, ammessa in dottrina anche in campo penale sostanziale, con riferimento alle norme non incriminatrici: cfr., oltre al fondamentale studio di G. VASSALLI, Limiti al divieto di analogia in materia penale, Milano, 1942, 92; G. BETTIOL, Diritto penale, 3a ed., Palermo, 1955, 113. (64) A. PUGIOTTO, op. loc. cit. (65) La definizione è tratta, ancora, da L. CAIANI, op. cit., 375, cui si rinvia anche per l’indicazione dell’ampia bibliografia sul tema. (66) Negata, sul piano generale, sotto la vigenza del codice del 1930: v. C. cass. 14 aprile 1983, Pongiluppi, in Riv. pen., 1984, 88, secondo cui « la disposizione dell’art. 348, 3o comma c.p.p. (incompatibilità a testimoniare degli imputati di un reato connesso) per la sua


— 934 — Con la sentenza n. 108 del 1992 (67) il supremo Giudice ha affermato che « la norma di garanzia contenuta nell’art. 197, comma 1, lett. a), c.p.p. deve essere applicata alla persona sottoposta alle indagini preliminari così come essa viene applicata all’imputato » (68); conseguenza, natura di eccezionale limitazione della generale capacità di testimoniare, deve essere interpretata restrittivamente e non oltre i casi e i tempi specificamente indicati ». (67) C. cost. 18 marzo 1992, n. 115, in Giur. cost., 1992, 984, con nota di G. GIOSTRA, op. cit. Con l’ord. Trib. Milano, 19 marzo 1991, in G.U., 1a serie spec., 17 luglio 1991, n. 28, 51, il giudice di merito aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale, con riferimento all’art. 76 Cost., dell’art. 197, comma 1, lett. a), c.p.p. nella parte in cui consente l’assunzione come teste della persona già sottoposta alle indagini, la cui posizione sia stata archiviata. (68) Nonostante la chiara presa di posizione della Corte costituzionale, in giurisprudenza il concetto ha stentato ad affermarsi: v., ad esempio, C. cass., sez. I, 28 settembre 1992, Perruzzo, in cass. pen., 1994, 1618, con nota di M. VESSICHELLI, In tema di incompatibilità con l’ufficio di testimone; la Corte, in quell’occasione, ammetteva una interpretazione della norma strettamente legata al significato del contenuto letterale della norma, limitandosi ad ossevare come « l’art. 197 c.p.p., che disciplina l’incompatibilità con l’ufficio del testimone, ha natura di norma eccezionale perché il suo contenuto pone specifiche eccezioni al dovere generale di rendere testimonianza, fissato dalla legge, e reso, vieppiù, imperativo dalla previsione della sanzione penale (art. 372 c.p.) », e concludendo nel senso che « devesi, quindi, fondatamente dedurre che il legislatore ha inteso limitare l’incompatibilità soltanto nei confronti di chi ha realmente e formalmente assunto la posizione di imputato, con esclusione di qualunque diversa posizione processuale, donde l’impossibilità giuridica di estendere il disposto legislativo all’indagato e la conseguenza che la norma dell’art. 61, comma 2, c.p.p. non è riferibile anche a tale disposizione ». Analogamente, Trib. Marsala, 21 dicembre 1992, Alfano e altri, in Foro it., 1992, II, 672. Apertamente contraria all’assunto della Consulta (ed anzi deciso ad opporvi un netto rifiuto, sostenendo che « la citata sentenza costituzionale, essendo di mero rigetto e dunque neanche interpretativa di rigetto, ‘esplica effetti solo se condivisa dall’interprete’ »), Pret. Macerata, 25 giugno 1993, Renzi, in Giur. it., 1995, II, 69, il cui unico argomento (trascurando gli altri che, ad avviso di chi scrive rivestono carattere meramente apodittico) sembra essere quello secondo cui « l’esigenza di evitare dichiarazioni autoindizianti viene comunque tutelata dal dettato generale dell’art. 198, comma 2, c.p.p. ». Nel senso che « se è possibile assumere in qualità di testimone colui che è stato prosciolto con sentenza definitiva, a maggior ragione deve poter testimoniare colui nei confronti del quale è stato emesso decreto di archiviazione, in quanto si tratta di persona che non ha mai acquisito la qualifica di imputato », si esprime nella nota di commento A. PORRAS GONZALES, Dubbi in via di superamento in tema di incompatibilità a testimoniare. Secondo Ass. Locri, 28 dicembre 1992, Pregnolato, in Giust. pen., 1993, III, 267, l’incompatibilità « non si estende a quei soggetti che, pur sottoposti alle indagini preliminari, non abbiano mai assunto la qualità formale di imputato; detta incompatibilità si estende, viceversa, a quei soggetti che, per essere stati sottoposti a misura cautelare, abbiano assunto la qualità di imputato in senso sostanziale ». Più di recente, in senso contrario, C. cass., sez. VI, 17 aprile 1994, Curatola, in Cass. pen., 1995, 665, ha invece riconosciuto che l’incompatibilità « non è limitata all’assunta qualità di imputato, ma va estesa, in forza dell’art. 61, comma 1, c.p.p., alle persone sottoposte alle indagini preliminari anche se nei loro confronti sia stato pronunciato decreto di archiviazione ». Alla stessa conclusione perveniva già Trib. Pistoia, 24 aprile 1992, La Franca, in Arch. n. proc. pen., 1992, 415, equiparando la posizione della persona nei cui confronti


— 935 — questa, « assolutamente coerente al sistema, dato che la ratio su cui si fonda l’esclusione dall’ufficio di testimone dell’imputato nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere, quella cioè del rispetto del principio secondo cui nemo tenetur se detegere (in quanto l’obbligo di rispondere secondo verità potrebbe comportare il rischio di revoca della sentenza ai sensi dell’art. 434), vale anche per la persona sottoposta alle indagini preliminari nei cui confronti sia stato pronunciato decreto di archiviazione, essendo prevista per questa la possibilità di riapertura delle indagini (art. 414 c.p.p.) » (69). Con la successiva sentenza n. 109 del 1992 (70) la Consulta, chiamata a valutare la legittimità costituzionale dell’omessa previsione, all’art. 197 c.p.p., dell’incompatibilità con l’ufficio di testimone dell’imputato in processo riunito ex art. 17, comma 1, lett. c), c.p.p. (71), ha ancora sostenuto l’estensibilità dell’ambito operativo della disciplina in esame, riconoscendo al giudice il potere di riscontrare l’incompatibilità anche al di fuori dei casi espressamente menzionati dalla norma, « ove in concreto ... rilevi l’esistenza di una vera e propria interferenza sul piano probatorio tra due procedimenti » (72). sia stata disposta l’archiviazione a quella dell’imputato nei cui confronti non sia stata emessa sentenza di proscioglimento irrevocabile. (69) In proposito sottolinea condivisibilmente G. GIOSTRA, op. cit., 991, come pur rappresentando l’ipotesi ex art. 197, comma 1, lett. a), c.p.p. una fattispecie eccezionale, « ciò non toglie, peraltro, che l’interprete possa, anzi debba andare al di là del tenore letterale della disposizione, per conferirle senso normativo compiuto », osservando come « ad esempio, se ci si fermasse acriticamente al dato testuale, atteso che l’art. 197 lett. a) non fa cenno al decreto penale di condanna, dovremmo inaccettabilmente inferirne che un soggetto possa o non possa essere sentito come testimone nel procedimento connesso, a seconda che sia stato condannato, rispettivamente, con decreto o con sentenza ». (70) C. cost. 18 marzo 1992, n. 109, cit. Identica questione — sollevata rispettivamente da Pret. Pescara, 17 ottobre 1991, Berghella (in Arch. n. proc. pen., 1992, 369), e da Pret. Vasto 3 febbraio 1992, Stellato e altri, in G.U., 1a serie spec., 30 maggio 1992, n. 22) — è stata affrontata e risolta dalla Consulta con le ordinanze 8 giugno 1992, n. 262, in Arch. n. proc. pen., 1992, 499 e 6 aprile 1993, n. 144, in Cass. pen., 1993, 1922. (71) Nei casi, cioè, di « reati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre ». Viceversa, non sussisterebbe « alcuna incompatibilità a testimoniare — secondo C. cass., sez. VI, 12 settembre 1991, Santeramo, in Arch. n. proc. pen., 1992, 75 — da parte di soggetto che abbia reso dichiarazioni sulla cui base siano stati formulati distinti addebiti a carico, rispettivamente, del medesimo soggetto e di altri, quando tali addebiti non siano tra loro connessi ai sensi dell’art. 12 c.p.p. né collegati ai sensi dell’art. 371, comma 2, lett. b) dello stesso codice, verificandosi in detta ipotesi soltanto l’ulteriore ipotesi di collegamento prevista dalla lett. c) del citato art. 371, comma 2; ipotesi non compresa, però, tra quelle cui si richiama l’art. 197 c.p.p. ». (72) La Corte costituzionale giunge a questa conclusione osservando che, « ferme restando le ragioni di tutela contro la possibilità di autoincriminazioni (apprestata in via generale dall’art. 198, comma 2), il criterio posto a base della norma impugnata in ordine al di-


— 936 — Segno evidente che il principio sotteso alla norma eccezionale può e deve trovare applicazione anche in casi analoghi non espressamente previsti dalla norma derogatoria (73). Fermo restando, peraltro, che laddove il precetto sia suscettibile di applicazioni analogiche di senso opposto, ossia che restringono l’ambito di operatività della deroga, queste risulteranno ammissibili (74), a condizione — ovviamente — che l’operazione intrepretativa non porti a sua volta ad un conflitto con la specifica ratio della fattispecie eccezionale. vieto di essere assunto come testimone è quello dell’esistenza di un vincolo probatorio tra i procedimenti nei quali il medesimo soggetto si troverebbe ad assumere rispettivamente la veste di imputato e di testimone »; vincolo che sussiste sempre nei casi indicati dall’art. 197, comma 1, lett. a), c.p.p. (coimputati dello stesso reato o imputati di reati connessi a norma dell’art. 12 c.p.p.), ma che è solo eventuale — e, dunque, rilevabile dal giudice caso per caso — nell’ipotesi di procedimenti riuniti ex art. 17, lett. c), c.p.p. Sull’argomento, anche per un’ampia disamina delle posizioni dottrinali e giurisprudenziali formatesi sotto l’imperio dell’abrogato codice, cfr. M. BARGIS, op. ult. cit., 181; V. PERCHINUNNO, La testimonianza del coimputato, in La testimonianza nel processo penale, cit., 141; per un quadro aggiornato v. A. SANNA, Il contributo dell’imputato in un diverso procedimento: forme acquisitive e garanzie di attendibilità, in questa Rivista, 1995, 490. (73) Lo stesso criterio esegetico, ancorché riferito ad altro mezzo di prova ad identico contenuto dichiarativo (l’esame ex art. 210 c.p.p.), è stato di recente adottato dal Giudice costituzionale nel valutare la posizione del coimputato (o imputato in separato procedimento connesso) rispetto alla ricognizione personale attiva, deducendo, anche qui, una dilatazione del diritto al silenzio sino a configurare una ulteriore deroga, non scritta ma ritenuta implicita, al principio del libero convincimento del giudice: cfr. C. cost. 30 giugno 1994, n. 267, in questa Rivista, 1995, 256, con nota di chi scrive La ricognizione personale « attiva » all’esame della Corte costituzionale: facoltà di astensione o incompatibilità dell’imputato? (74) È il caso affrontato da C. cass. sez. VI, 11 aprile 1995, Bianchi ed altri, cit., secondo cui l’assoluzione dell’imputato di reato collegato non consente, sinché la relativa sentenza non diviene irrevocabile, il recupero del ruolo di testimone, giusta l’applicazione al caso (art. 197, comma 1, lett. b), c.p.p.) dello specifico vincolo posto (con riferimento a caso analogo) dall’art. 197, comma 1, lett. a), c.p.p. Secondo A. BASSI, op. loc. cit., che pure perviene per diversa via alla stessa conclusione, « alla stregua dell’impianto normativo in materia di testimonianza appare ... più corretto escludere l’applicazione analogica del disposto della lettera a) e ritenere che il divieto de quo permanga fino al venir meno dello status di imputato di reato collegato. Invero, l’articolo 197 del Cpp ha natura di norma eccezionale, prevedendo specifiche eccezioni al dovere generale di rendere testimonianza fissato dalla legge e reso imperativo dalla previsione della sanzione penale di cui all’articolo 372 del Cp. In quanto tale, deve essere interpretato in senso strettamente aderente al significato del suo contesto letterale e non può tollerare applicazioni analogiche, ai sensi dell’articolo 14 delle preleggi ». Invita a « intendersi su quale sia l’ambito di operatività dell’eccezione, fin dove la stessa si spinga, che cosa debba ritenersi in essa compreso » D. DAWAN, op. loc. cit., « al fine di stabilire quale parte della norma sarebbe oggetto di estensione analogica e, quindi, su quale parte cadrebbe il relativo divieto: se sulla fattispecie dell’incompatibilità a rendere testimonianza o, piuttosto, sul ripristino, date certe condizioni, della regola generale che è quella dell’obbligo testimoniale »; in proposito, l’A. rileva come « non sembra dubbio che l’analogia operi, per l’appunto, sul ripristino della regola generale », posto che, nel caso di specie, la clausola « non si pone su un piano di continuità con l’eccezione ma, al contrario, rappresenta la restaurazione della regola generale, come tale non soggetta ai limiti di cui all’art. 14 delle preleggi ».


— 937 — 1.3.3. Il divieto di interpretazione analogica dell’art. 197, comma 1, lett. d), c.p.p. — Tutt’altra conclusione sembra, invece, doversi accogliere con riguardo al caso previsto dall’art. 197, comma 1, lett. d), c.p.p. A questo proposito, le considerazioni sopra svolte consentono di pervenire alla convinzione che la scelta di opportunità compiuta dal legislatore nell’escludere dal dovere testimoniale i soggetti ivi indicati abbia una portata palesemente limitata al contesto cui è riferita: l’interesse pubblico all’accertamento dei fatti (ed il corollario del generale dovere testimoniale), così come il principio della libera valutazione delle prove, vengono qui derogati in una prospettiva meramente strumentale alla tutela — nel senso prima precisato — della posizione dei singoli soggetti nell’ambito dello specifico contesto in cui esercitano le rispettive funzioni. Questa « intrinseca condizione di limitatezza logico-strutturale » (75) porta ad escludere che possa ravvisarsi nel dictum normativo una ratio legis di carattere generale (76), utilizzabile per regolamentare nello stesso modo casi non previsti dalla specifica formula legislativa. Cosicché può al riguardo affermarsi con sicurezza che l’eccezione di che trattasi, proprio perché configurabile come fattispecie di tipo « esclusivo », non solo risulta insuscettibile di applicazione analogica, ma non potrà neppure essere oggetto di una lettura estensiva che vada oltre lo stretto significato letterale della norma (77). 2. Aspetti applicativi della disciplina ex art. 197, comma 1, lett. d), c.p.p. — 2.1. Il problema dell’individuazione del limite oggettivo della norma. — 2.1.1. « Procedimento » e « processo ». — Acclarato, dunque, che nella lettura della regola di esclusione testimoniale riferita ai magistrati ed ai loro ausiliari ci si deve rigorosamente attenere (a differenza di quanto, come si è visto, può valere per le altre ipotesi) al criterio dell’interpretazione restrittiva, è opportuno soffermarsi sull’analisi della specifica disciplina. (75)

Così descrive la peculiarità delle norme a fattispecie esclusiva L. CAIANI, op. cit.,

368. (76) Ciò non significa, ovviamente, che la norma non sia riconducibile ad una sua ratio; ma ciò, come osserva L. CAIANI, loc. ult. cit., è condizione comune a tutte le fattispecie eccezionali, che in senso lato « hanno sempre una propria razionalità, dei propri principi, e possono costituirsi a sistema (e di ciò è prova lo stesso continuo processo di trasformazione del diritto eccezionale in diritto speciale) ». Il problema è, invece, determinare la portata (generale o meno) della ragione ispiratrice della singola fattispecie eccezionale, posto che il passaggio dal caso regolato a quello non regolato sarà possibile solo ove la norma si ponga « in rapporto di specie a genere rispetto ad altre norme che valgano come principi immediatamente superiori »: così M.S. GIANNINI, op. loc. cit. (77) Mette in guardia, del resto, dalla pericolosità sul piano pratico della distinzione tra analogia (vietata) e lettura estensiva (ammessa), F. CORDERO, op. loc. ult. cit.


— 938 — Un primo aspetto di indagine riguarda il limite fissato dalla norma nel circoscrivere il divieto testimoniale a coloro che esercitano od hanno esercitato le funzioni di giudice, pubblico ministero od ausiliario nel « medesimo procedimento ». Sul piano dell’indagine strettamente letterale ci si potrebbe innanzitutto interrogare circa l’effettiva portata del termine « procedimento », per verificare se l’espressione utilizzata dal legislatore non obblighi ad una distinzione, rilevante sul piano dell’applicazione della specifica regola, rispetto al termine alternativo (ma non coincidente) « processo ». Appare evidente, a questo proposito, che ove fosse da ritenere esatto l’impiego della parola « processo » per descrivere l’intera sequenza dell’accertamento giurisdizionale, e quello della parola « procedimento » per indicare solo una componente di quella serie (78), la lettura della disposizione in argomento non potrebbe che subire vistose limitazioni: non si potrebbe, ad esempio, ritenere sussistente l’incompatibilità a testimoniare, nel giudizio di primo grado, del giudice per le indagini preliminari o del giudice che ha concorso a pronunciare l’ordinanza di riesame. Una simile conclusione non sembra, a prima vista, confortata dall’analisi testuale della legge: è agevole constatare, infatti, come nel lessico adottato dal codificatore questa differenziazione concettuale finisca, in realtà, per perdere significato, posto che, spesso, i due vocaboli vengono usati, per quanto impropriamente, quali sinonimi. Non mancano, poi, esempi che dimostrano come i termini in questione assumano addirittura significato rispettivamente opposto, come nel caso degli artt. 20 e 21 c.p.p. (79), dove per « procedimento » sembra intendersi proprio il complesso « di indagini preliminari eventualmente seguite dal processo, quest’ultimo incluso » (80). Ed anzi, alcuni passaggi della Relazione al progetto definitivo del codice avvalorano proprio quest’ultima accezione, lasciando chiaramente intendere che il legislatore qualificherebbe come « processo » le sole attività successive all’esercizio dell’azione penale (81). (78) Come insegna F. CORDERO, op. ult. cit., 360, secondo cui « ogni processo implica uno o più procedimenti (ad esempio, le sequele dall’imputazione all’epilogo dell’udienza preliminare, poi dalla vocatio in iudicuim alla sentenza, indi appello e via seguitando) ». (79) Il primo dispone che « il difetto di giurisdizione è rilevato, anche di ufficio, in ogni stato e grado del procedimento »; il secondo, in tema di incompetenza, consente la rilevazione « anche di ufficio, in ogni stato e grado del processo ». (80) Così F. CORDERO, op. ult. cit., 361, che critica la correttezza terminologica della scelta. (81) Cfr. Relazione al progetto definitivo del codice di procedura penale, in G.U., 24 ottobre 1988, n. 250, suppl. ord. n. 2, 167: « nella considerazione che una riunione o una separazione in senso tecnico non possa essere disposta nel corso delle indagini preliminari, occorrendo, al riguardo, che l’azione penale sia stata esercitata, si è provveduto, in sede di pas-


— 939 — 2.1.2. Il « medesimo » procedimento. — Peraltro, se il termine « procedimento » non offre la possibilità di operare distinzioni significative dal punto di vista applicativo, l’aggettivo abbinato — il « medesimo » procedimento — consente almeno di individuare con sufficiente precisione il limite oggettivo « minimo » della norma, che esclude che l’incompatibilità possa valere in procedimenti diversi da quello in cui il soggetto svolge od ha svolto le sue funzioni. In vigenza della formula (non speculare) utilizzata all’art. 450, comma 2, c.p.p. 1930 (82) si arrivò — per la verità, in un caso che risulta isolato (83) — a sostenere una lettura estensiva della norma, sino a vietare la testimonianza ai magistrati che avessero partecipato a procedimenti « presupposti » o « pregiudiziali » rispetto a quello in cui avrebbero dovuto rendere la loro deposizione. Questa esegesi, che contrasterebbe apertamente, oggi, con il chiaro significato della norma (84), pare comunque criticabile anche alla luce della normativa di allora, proprio perché fondata, nella sostanza, sulla negazione (resa esplicita dallo stesso giudice) (85) del carattere eccezionale della disposizione. Ed infatti, anche con riferimento alla versione abrogata, si poteva affermare — e la dottrina più attenta si esprime in questo senso — ciò che ora la norma puntualizza, ossia che « in ogni caso deve trattarsi di un contrasto di posizioni nel medesimo processo, qualunque sia l’importanza degli atti compiuti » (86). saggio al testo definitivo, a sostituire nell’intitolazione del capo III, nonché nella rubrica e nel testo degli artt. 17, 18 e 19 la parola ‘processo’ alla parola ‘procedimento’ ». Allo stesso modo, più oltre (ibidem), si legge: « in tema di difetto di giurisdizione, disciplinato dall’art. 20, ... si è sostituita all’espressione ‘processo’ l’espressione ‘procedimento’, in modo da consentire di rilevare il difetto di giurisdizione anche durante le indagini preliminari ». (82) Nella quale non compariva l’aggettivo: la norma si riferiva, invece, agli « atti del procedimento ». (83) In questi termini si esprimeva Trib. Roma 23 giugno 1971, Siani ed altri, in Giur. merito, 1972. (84) Peraltro, l’argomento logico-letterale su cui quella tesi si fondava appare oggi superato anche in ragione della soppressione, nella versione attuale, del riferimento ai magistrati appartenenti a giurisdizioni speciali: il Collegio riteneva, infatti, la soluzione adottata « imposta dal tenore stesso della norma in esame, che estende espressamente l’incompatibilità ai magistrati appartenenti a giurisdizioni speciali, i quali, proprio per la loro posizione istituzionale — di giudici non ordinari — non possono mai ‘per ragione del loro ufficio’ aver partecipato ad atti del procedimento ordinario regolato dal codice di procedura penale, ma invece ben possono essersi trovati a prender parte ad atti di procedimenti pregiudiziali a quelli ordinari ». (85) Secondo Trib. Roma, 23 giugno 1971, Siani e altri, cit., può procedersi, nel caso di specie, ad interpretazione analogica, « pienamente ammissibile in relazione alle norme processuali, tranne che queste debbano considerarsi eccezionali rispetto alle direttive dell’ordinamento (art. 14 disp. prel.), come certo non è la norma in esame ». (86) Così V. PERCHINUNNO, Limiti soggettivi, cit., 49, che condivisibilmente nega che


— 940 — Resta, dunque, quantomai attuale il remoto precedente della Corte di legittimità che precisa, in negativo, i contenuti della regola: « di incompatibilità non può parlarsi quando il procedimento nel quale il giudice è chiamato a testimoniare sia diverso da quello nel quale ebbe parte, onde la identità del procedimento costituisce il limite della norma » (87). Così, ad esempio, « il giudice che viene offeso nell’esercizio delle sue funzioni, può ben essere assunto come testimone nel procedimento a carico dell’offensore, perché, pur trattandosi di imputazione elevata con riferimento ad una attività compiuta dal giudice, il procedimento è diverso, anche se occasionato dalla attività medesima »; ed ancora, « negata la veridicità di un processo verbale, il giudice, che ha partecipato all’atto documentato non può essere assunto come testimone in quel procedimento, ma ben potrà essere assunto come teste nel procedimento instaurato a seguito della impugnazione di falso di quel processo verbale » (88). Sin qui, nulla quaestio: la conclusione sembra, del resto, coerente non solo con l’evidenziata necessità di sbarrare la via ad espansioni non consentite dalla natura eccezionale (nei termini sopra puntualizzati) della norma, ma con la stessa ratio del diposto, che mira, come si è visto, ad evitare interferenze all’esercizio dell’attività « tipica » del soggetto tutelato; interferenze che, ovviamente, non possono verificarsi in procedimenti dove lo stesso soggetto non svolge quelle funzioni. 2.2. Attualità delle funzioni e limite temporale della fattispecie. — 2.2.1. Premessa. — È lecito, tuttavia, domandarsi se sul piano interpretativo non siano consentite ulteriori restrizioni. Una lettura rigorosamente fedele alla ratio appena evidenziata imporrebbe, infatti, di ritenere limitata l’operatività del disposto ai soli casi in cui le funzioni giudiziarie svolte dai potenziali testimoni non siano ancora esaurite nell’arco del procedimento, dovendosi viceversa riconoscere la possibilità (rectius, l’obbligo) di deporre quando tali funzioni non siano più assolte in quel processo dalla stessa persona, non dissimilmente da quanto avviene per chi, pur avendo assistito ad un fatto processualmente rilevante nell’esercizio delle sue funzioni, viene chiamato a deporre in un altro procedimento. Questa, ad avviso di chi scrive, appare la soluzione preferibile, non foss’altro perché consente di evitare che situazioni sostanzialmente identiche siano assoggettate ad una disciplina ingiustificatamente differenziata. Non sfuggirà, d’altro canto, l’osservazione secondo cui la deroga al possa ritenersi operante la preclusione all’« assunzione della qualità di testimone nel procedimento principale da parte di chi sia stato o sia giudice in un procedimento pregiudiziale civile o penale oppure in un procedimento di prevenzione criminale ». (87) C. cass., sez. III, 29 ottobre 1963, Bignardi, cit., 143. (88) C. cass., sez. III, 29 ottobre 1963, Bignardi, loc. cit.


— 941 — principio della libera disponibilità della prova non troverebbe, in questi casi, altro fondamento che una generica quanto discutibile presunzione di inaffidabilità del teste: una presunzione che, come si è visto, oltre a non sembrare ammissibile in via generale, viene comunque palesemente contraddetta dalla stessa norma, nel momento in cui, appunto, consente l’esame degli stessi soggetti in procedimenti diversi. Va però notato che la formulazione del testo di legge sembrerebbe, al contrario, avallare la soluzione opposta. Riferendo la preclusione non soltanto a colui che è giudice, pubblico ministero od ausiliario nel momento in cui sorge l’eventuale esigenza testimoniale (o che potrebbe riassumere in seguito quella posizione), ma anche a chi « ha svolto » quell’attività in fasi precedenti, la norma finisce per escludere rilevanza all’aspetto relativo all’« attualità » (nel senso appena precisato) dell’esercizio della funzione; con ciò producendo un ampliamento della deroga al principio del libero convincimento del giudice che si estende sino a ricomprendere situazioni palesemente non sorrette dalla necessità di assicurare la prosecuzione della funzione assunta nel processo. Del resto, la modifica introdotta nel 1988 rispetto alla versione previgente è motivata, qui, proprio con riguardo alla volontà di dilatare l’ambito di applicazione del precetto: è la stessa Relazione al Progetto Preliminare del codice a chiarire l’intenzione di raggiungere quell’obiettivo « generalizzando espressamente all’intero arco del procedimento la norma [...] posta dall’art. 450, comma 2, c.p.p. in relazione alla fase dibattimentale » (89). Vero è, peraltro, che la discussione sorta in vigenza dell’abrogata disciplina verteva più sull’applicabilità del disposto nella fase istruttoria (nel senso che era dubbio se, in quell’ambito, potesse raccogliersi il contributo probatorio da parte del giudice istruttore, del pretore, del pubblico ministero o degli ausiliari), che sull’aspetto relativo alla permanenza del divieto, chiusa l’istruttoria, nei confronti dei medesimi soggetti. In altri termini, il problema che si poneva, in considerazione della particolare collocazione sistematica dell’art. 450 c.p.p. 1930, non riguardava tanto l’estensibilità della previsione al soggetto che avesse, nel frattempo, esaurito la sua funzione, quanto l’utilizzabilità o meno della regola nelle diverse fasi del procedimento e, in particolare, al di fuori della sede dibattimentale (90). E se pure si è esplicitamente negata la necessità della « coincidenza temporale della posizione di testimone con un’altra funzione o una posizione di parte », affermandosi che può « l’incompatibilità sussistere anche se l’altra funzione o qualità di parte si sia esaurita o sopraggiunga in un (89) Relazione al Progetto preliminare del codice di procedura penale, loc. cit. (90) V., ad esempio, V. PERCHINUNNO, op. ult. cit., 55.


— 942 — momento successivo » (91), va anche detto che in letteratura si è sempre dato per scontato che la norma potesse restare fedele alla sua ratio originaria, consistente nella guarentigia offerta ai magistrati (specie quelli del pubblico ministero) contro la pratica « indecorosa » che li obbligava a render conto in udienza del loro operato (92); una ratio che, probabilmente, mostrava già i segni del tempo al momento del varo del codice Rocco. Ad ogni modo, il fatto che il codice abbia riferito il divieto probatorio a coloro che « svolgono o hanno svolto » funzioni giudiziarie nel « medesimo procedimento » — anche ad ammettere che la traduzione dell’intenzione del legislatore nella formula di legge vada al di là del risultato voluto — rende quantomai problematica, oggi, l’ipotizzata restrizione dell’ambito applicativo del disposto. Con tutti i dubbi che ne possono conseguire, ad avviso di chi scrive, anche sul piano della compatibilità della norma con il dettato costituzionale. 2.2.2. In particolare: la testimonianza del giudice sostituito. — V’è, tuttavia, una serie di situazioni (non necessariamente al limite della fenomenologia giudiziaria) in cui appare evidente come una interpretazione eccessivamente vincolata al dato letterale condurrebbe a conclusioni decisamente inaccettabili. Si pensi, innanzitutto, ai casi di astensione o ricusazione del giudice: una volta accolta la dichiarazione ed operata la sostituzione ex art. 43 c.p.p., può fondatamente sostenersi l’incompatibilità a testimoniare, in quel procedimento, del magistrato? Se, ad esempio, l’astensione (o la ricusazione) è derivata dall’aver proposto denuncia per un reato rilevato nell’esercizio delle proprie funzioni ai sensi dell’art. 331 c.p.p. (93), si deve ritenere inammissibile l’apporto probatorio, in ipotesi essenziale ai fini dell’accertamento, posto che il giudice « ha svolto », prima di uscire di scena, una qualche attività nel processo? La soluzione affermativa sembrerebbe risultare inspiegabile: acclarata (91) Così V. PERCHINUNNO, op. ult. cit., 51, secondo cui, nell’ultima ipotesi « data l’obbligatorietà dell’ufficio di testimone ..., resterà impedita l’‘altra’ funzione o la posizione di parte, mentre nel caso che l’’altra’ funzione o la posizione di parte sia già esaurita a restare impedita sarà la funzione di testimone ». (92) Cfr. il passo della Relazione della Commissione speciale del Senato sul progetto preliminare per il codice del 1913, cit. alla nota 36. (93) Mentre l’art. 43, comma 3, c.p.p. statuisce che « chi ha .. proposto denuncia ... non può esercitare nel medesimo procedimento funzione di giudice », l’art. 331, comma 1, c.p.p. impone l’obbligo di denuncia ai « pubblici ufficiali » e, dunque, anche ai giudici, « che, nell’esercizio o a causa delle loro funzioni ..., hanno notizia di un reato perseguibile di ufficio ».


— 943 — la ragionevolezza della previsione che impedisce al « giudice denunciante » (proprio perché « testimone » del fatto sul quale si procede) di decidere sulla stessa questione (94), ad impedire l’assunzione del testimone finirebbe per essere un aspetto patologico del procedimento (l’avere lo stesso magistrato svolto temporaneamente le sue funzioni in violazione dell’art. 34 c.p.p.), difficilmente riconducibile ad una qualsiasi logica regolatrice del meccanismo in esame. Se, poi, si dovesse accedere all’interpretazione dell’art. 34, comma 3, c.p.p. — laddove inibisce l’assolvimento della funzione giudiziaria a chi « ha prestato l’ufficio di testimone » — nel senso dell’applicabilità degli artt. 36 e 37 c.p.p. solo nel caso in cui vi sia stata materialmente la deposizione e non già ove risulti che il giudice è stato « testimone » del fatto — il combinato disposto di quella regola e dell’art. 197 c.p.p. verrebbe a produrre lo sconcertante effetto di consentire ad un giudice non obiettivo, perché palesemente condizionato dalla personale elaborazione dell’accaduto, di decidere sulla causa. Con un paradosso di macroscopiche proporzioni: quelle stesse ragioni che il legislatore dimostra qui di ritenere sufficienti per sbarrare la via alla testimonianza, non sarebbero invece giuridicamente rilevanti ai fini dell’osservanza delle prescrizioni specificamente mirate a garantire l’imparzialità del giudice. 2.2.3. La testimonianza del pubblico ministero e della polizia giudiziaria. — Non meno problematica (e certo destinata a trovare, nella pratica, più frequente ricorso) appare l’applicazione del disposto, privo di un margine volto a delimitarne quantomeno l’ambito temporale, con riguardo alle funzioni, specie quelle relative all’attività di indagine, svolte dal pubblico ministero. Posto che il magistrato del p.m. svolge personalmente quelle attività (e, si noti, può agire non solo a seguito del ricevimento della notitia criminis, ma anche prima, ossia muovendosi autonomamente alla ricerca della (94) C. cost. 22 giugno 1992, n. 292, in Cass. pen., 1992, 2921, ha ritenuto non fondata — in riferimento agli artt. 25, 76 e 101 Cost. — la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 3, c.p.p. nella parte in cui prevede l’incompatibilità al giudizio del giudice che ha proposto denuncia per un reato rilevato nell’esercizio delle proprie funzioni ai sensi dell’art. 331 c.p.p. La Consulta ha affermato, al proposito, che « la configurazione della denuncia obbligatoria come causa di incompatibilità », trattandosi di attività in sostanza sostitutiva di quella rientrante nel potere-dovere d’iniziativa del pubblico ministero, risulta « coerente con un sistema processuale ispirato alla necessaria distinzione tra funzioni requirenti e giudicanti », e « non può, di conseguenza, considerarsi né irragionevole — e perciò lesiva dell’art. 101 Cost. — né contraddittoria con principio di naturalità del giudice, dato che questo non è violato in caso di predeterminazione legale di spostamenti di competenza ritenuti necessari ad assicurare il rispetto di altri principi costituzionali, quali quello dell’imparzialità del giudice ».


— 944 — notizia stessa) (95) è tutt’altro che improbabile non solo che venga in diretto contatto con fatti e circostanze rilevanti per l’accertamento delle responsabilità penali, ma che assista personalmente alla commissione del reato. Lo stesso vale, naturalmente, per la polizia giudiziaria. Tuttavia, mentre per quest’ultima la deposizione, tutt’altro che impedita dalla preclusione imposta all’« ausiliario » dall’art. 197, comma 1, lett. d), c.p.p. (96), è viceversa ammessa addirittura in via indiretta (97), per il p.m. scatterebbe l’incompatibilità a testimoniare. Orbene, ove ci si trovasse ancora nella fase antecedente al formale inizio del procedimento (98), la soluzione più ragionevole non potrebbe che (95) Sull’argomento, ancorché nel contesto di un quadro normativo meno chiaro, sul punto, di quello attuale, v. gli interessanti ed approfonditi rilievi svolti da P. FERRUA, L’iniziativa del pubblico ministero nella ricerca della notitia criminis, in Legisl. pen., 1986, 316, che concludeva nel senso che « non si può ritenere vietato al pubblico ministero di muovere, anche di propria iniziativa, alla ricerca della notitia criminis (salva, ovviamente, l’esigenza di individuare la natura e il contenuto degli atti a tal fine esperibili) »; in termini problematici, con specifico riferimento al particolare caso oggetto del dibattito promosso dalla Rivista, M. NOBILI, Il magistrato in funzione di polizia tributaria: una ulteriore « supplenza » conforme alle norme vigenti? (ivi, 322) e G. TRANCHINA, Il pubblico ministero « ricercatore » di notizie di reati: una figura poco rassicurante per il nostro sistema (ivi, 330). (96) La giurisprudenza di legittimità esclude, infatti, che la preclusione riferita al soggetto in parola possa ritenersi un’ipotesi di incompatibilità assoluta a testimoniare: riferita alle attività svolte dagli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, la norma, secondo C. cass., sez. VI, 17 gennaio 1994, Tigani, in Cass. pen., 1995, 1946 (con nota di S. CAVINI, L’incompatibilità, cit.) si applica alla sola attività di verbalizzazione ex art. 373 c.p.p.; l’incompatibilità, ad avviso del Collegio, « preclude soltanto che tali soggetti possano essere assunti sulle conoscenze relative a fatti e circostanze di cui si debba acquisire la prova in giudizio, apprese nello svolgimento della funzione di ausiliario relativamente alla redazione degli atti di cui all’art. 373 c.p.p. ». Analogamente C. cass., sez. VI, 16 marzo 1995, p.g. in proc. Albero, in Arch. n. proc. pen., 1995, 932; Id., sez. II, 10 maggio 1994, Matrone, ivi, 1995, 155; Id., sez. I, 21 luglio 1993, Maiorano, ivi, 1994, 135; con riguardo agli artt. 156 e 450 c.p.p. 1930, v. Id. sez. VI, 5 dicembre 1986, Ceccarini, in Cass. pen., 1988, 121. Contra, nel senso che « l’art. 197, lett. d), c.p.p. dispone che non possono essere assunti come testimoni coloro che nel procedimento hanno svolto o svolgono la funzione di ausiliario del giudice o del p.m. senza prevedere alcuna limitazione sui fatti relativamente ai quali l’incapacità dovrebbe operare » e che, pertanto, si debba ritenere che « la predetta incapacità sia di carattere generale e si estenda, quindi, a tutti i fatti del procedimento, dal momento che essa, nella sua ratio è rivolta anche ad assicurare la genuinità e la spontaneità della fonte testimoniale per preservarla dal pericolo che colui che depone rappresenti i fatti secondo una sua elaborazione soggettiva influenzata dall’opinione che si sia fatta presenziando e contribuendo dall’interno direttamente alla formazione di uno o più atti processuali » Ass. Locri, ord. 21 luglio 1993, Pelle, in Arch. n. proc. pen., 1993, 595. (97) È la Corte costituzionale (con la nota sentenza con la quale dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 195, comma 4, c.p.p. e 2, n.ro 31, secondo periodo, l. 16 febbraio 1987, n. 81: C. cost. 31 gennaio 1992, n. 24, cit.) a sottolineare la piena compatibilità a testimoniare degli appartenenti alla polizia giudiziaria sui fatti appresi nell’esercizio delle loro funzioni. (98) Sull’incertezza circa la durata di tale fase, il cui termine (coincidente con l’iscri-


— 945 — essere quella dell’assegnazione dell’affare, da parte del dirigente dell’ufficio di procura, ad altro sostituto (99); cosicché il primo, non trovandosi nelle condizioni di aver svolto funzioni nel « procedimento » (giacché l’attività compiuta si colloca in fase pre-procedimentale) ben potrebbe apportare al giudizio il proprio contributo probatorio. Quid iuris, invece, nell’ipotesi in cui il p.m. sia testimone del fatto dopo l’avvenuto adempimento ex art. 335 c.p.p.? Se nel momento dell’operazione investigativa era presente anche un ufficiale od un agente di polizia giudiziaria, sarà quest’ultimo a deporre sul fatto. Ma, al di fuori di siffatta (a questo punto, non solo auspicabile ma raccomandabile) evenienza legata alle modalità comportamentali dell’ufficio inquirente, neppure l’eventuale astensione dall’incarico del magistrato consentirebbe l’assunzione del testimone: il p.m., infatti, ancorché sostituito, non potrebbe comunque assumere quell’ufficio, avendo, appunto, in questo caso svolto la funzione « tipica » nel « medesimo procedimento ». Si potrebbe obiettare che, in realtà, l’apporto probatorio non verrebbe « disperso », potendo trovare ingresso nel giudizio per altra via: inteso come atto non ripetibile, quale « diretta cognizione di fatti, situazioni o comportamenti umani dotati di una qualsivoglia rilevanza penale e suscettibili, per loro stessa natura, di subire modificazioni o, addirittura, di scomparire in tempi più o meno brevi » (100), la relativa verbalizzazione zione della notitia criminis nell’apposito registro) non risulta facilmente individuabile nonostante l’obbligo di « immediato » adempimento imposto al p.m. dall’art. 335, comma 1, c.p.p., v., anche per ulteriori riferimenti bibliografici e giurisprudenziali, D. CURTOTTI, Sul dies a quo del termine di durata delle indagini preliminari, in Cass. pen., 1995, 633, a commento di C. cass., sez. V, 18 ottobre 1993, Croci, ivi, 631. (99) Soluzione convenientemente applicabile ai sensi dell’art. 51 c.p.p. (cui fanno riferimento gli artt. 3 att. e 70 ord. giud.), ma certo non obbligata: v., in merito alla corrispondente previsione del codice abrogato, C. cass., sez. I, 5 luglio 1979, Noto, in Riv. pen., 1980, 296, secondo cui, anche se il vigente ordinamento giudiziario dispone che i dirigenti degli uffici di procura hanno, tra l’altro, il potere di distribuire gli affari tra i sostituti, non è possibile ritenere che i singoli magistrati del p.m. ripetano i loro poteri dal capo dell’ufficio con la conseguente nullità degli atti dai medesimi compiuti in difetto di delega del dirigente. Invero, la posizione del p.m. è quella di magistrato e, come tale, il punto di riferimento è sempre la legge, come prova il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, ond’è che le anzidette esigenze di coordinamento organizzativo dell’ufficio hanno carattere interno e non possono incidere sulla regolarità dell’iniziativa del singolo magistrato del p.m. provocandone la invalidazione ». (100) Secondo C. cass., sez. 14 giugno 1993, Delle Fave, in Cass. pen., 1994, 2144, con nota di G. PIZIALI, Spunti critici in tema di atti irripetibili », questi atti rientrano, appunto, « e ne costituiscono, anzi, il nucleo essenziale » nella categoria degli atti non ripetibili, posto che l’irripetibilità « non può che attenere alla natura e alle caratteristiche peculiari dell’‘atto’ che viene compiuto e non alla sua documentazione, che ne costituisce un momento logicamente e cronologicamente distinto »; nello stesso senso Id., sez. V, 11 settembre 1991, Bombini, in Arch. n. proc. pen., 1993, 143.


— 946 — potrebbe essere raccolta nel fascicolo per il dibattimento ex art. 431, comma 1, lett. c), c.p.p. Se così fosse, verrebbe alla luce proprio l’aspetto più discutibile dell’intero meccanismo, consistente nella negazione (discendente non già da cause « naturali » bensì da una preclusione normativa) del diritto della parte privata ad ottenere l’esame dell’autore dell’atto documentato; atto che, peraltro, non verrebbe sottratto alla cognizione del giudice pur essendosi formato unilateralmente. Vero è che una più rigorosa ricostruzione della categoria degli « atti irripetibili » potrebbe portare ad escludere la possibilità di una « introduzione surrettizia, in un verbale destinato a riprodurre l’atto irripetibile e null’altro, di dichiarazioni in sè perfettamente ripetibili » (101). Ma va da sè che la pur doverosa distinzione tra parte meramente ricognitiva e parte valutativa dell’atto, che dovrebbe imporre al giudice dell’udienza preliminare di stralciare le « informazioni ultronee » confluite nel verbale « dal contenuto sovrabbondante » (102) è in molti casi tutt’altro che agevole (103). Non a caso la giurisprudenza di legittimità non ha esitato a shierarsi, in proposito, a favore di una sorta di totale traslazione dell’irripetibilità dall’atto alla dichiarazione, giungendo ad affermare che « il giudice può legittimamente utilizzare come prova il contenuto del documento in tutta la sua estensione e con riferimento sia alla individuazione dello stato dei luoghi e delle cose, sia delle dichiarazioni rese » (104). 2.3. Conclusioni. — Le riflessioni sin qui condotte, e in specie gli ultimi rilievi, consentono di svolgere alcune considerazioni conclusive. In dottrina v., sul tema, oltre agli Autori citati alla nota 7, M. CHIAVARIO, La riforma del processo penale, 2a ed., Torino, 1990, 216; P. FERRUA, Studi sul processo penale, Torino, 1990, 94; G. FRIGO, Commento all’art. 431 c.p.p., in Commento al codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. IV, Torino, 1990, 723; G. ICHINO, Gli atti irripetibili e la loro utilizzabilità dibattimentale, in AA.VV., La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. Ubertis, Milano, 1992, 155; M. NOBILI, Concetto di prova e regime di utilizzazione degli atti nel nuovo codice di procedura penale, in Foro it., 1989, V, 280. (101) Si sforza lodevolmente di tracciare una distinzione in tal senso, Pret. Roma, 13 aprile 1992, Cizmic, in Cass. pen., 1992, 2479; analogamente Id., 2 agosto 1992, Mustafà Moussaid, ivi, 1992, 2475, con nota di A. BRACAGLIA MORANTE, Sul concetto di atto non ripetibile; Id., 30 gennaio 1992, Svezia, ivi, 1992, 1349. (102) In questi termini O. DOMINIONI, Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, in AA.VV., Il nuovo processo penale, dalle indagini preliminari al dibattimento, Milano, 1989, 78. (103) Ritiene condivisibilmente rilevante « l’esigenza di distinguere all’interno dell’atto ricognitivo ‘irripetibile’ gli elementi puramente descrittivi dagli elementi valutativi, sottraendo ... questi ultimi alla cognizione del giudice del dibattimento, in quanto sicuramente ripetibili » G. PIZIALI, op. cit., 2148. (104) Così, in tema di verbale di sequestro, C. cass., sez. III, 13 novembre 1992, Milo, in C.E.D. Cass., n. 192191.


— 947 — L’istituto dell’incompatibilità a testimoniare dei magistrati e dei loro ausiliari, nell’attuale formulazione normativa, non sembra risultare esente da critiche in ordine agli effetti che il precetto produce sui due distinti piani del danno all’accertamento e della violazione delle garanzie individuali. Il primo profilo, invero connaturale alla stessa essenza dell’esclusione probatoria e, dunque, nella sostanza ineliminabile, appare in realtà assumere connotazioni problematiche in una circoscritta serie di ipotesi, in cui la ratio della preclusione parrebbe porsi in aperta contraddizione con l’eccessiva estensione della formula legale che, come si è visto, difetta di un esplicito limite temporale atto a delimitare i casi di effettiva interferenza tra le distinte funzioni. Interferenza che, ad avviso di chi scrive, non va vista tanto sul piano dell’imparzialità del teste o della sua attendibilità (a porre rimedio a questo inconveniente è preposto proprio lo strumento dell’esame incrociato, attraverso il quale potranno mettersi in luce tutti gli elementi idonei a fornire al giudice validi elementi anche per ponderare l’affidabilità del testimone), quanto su quello della concreta sovrapponibilità dei diversi uffici. Pare del resto evidente che se la regola fosse, al contrario, costruita esclusivamente per predeterminare (assolvendo così alla tipica funzione del sistema delle « prove legali ») i casi di presunta inattendibilità del soggetto, la casistica considerata dall’art. 197, comma 1, lett. d), c.p.p. finirebbe inevitabilmente non solo per porsi in aperta contraddizione con le altre fattispecie disciplinate dalla norma (che palesemente non sottintendono affatto questo pregiudizio), ma per perdere coerenza anche al suo interno, ove una siffatta presunzione trova in molti casi difficile spiegazione. Ancor più incidente appare, poi, il secondo aspetto, relativo all’evidenziato rischio che quegli stessi elementi di prova che il legislatore sottrae alla regola dell’assunzione secondo il sistema ordinario dell’esame del testimone trovino comunque surrettiziamente ingresso nel giudizio attraverso la verbalizzazione dell’« atto non ripetibile ». Il problema, probabilmente, si poneva in termini meno evidenti al momento del varo del codice, la cui struttura appariva chiaramente costruita sulla netta prevalenza assegnata alla formazione in dibattimento della prova, con le garanzie del contradditorio e dell’oralità. Ma, visto che una norma non è mai indifferente al contesto nel quale è inserita, la progressiva trasformazione del modello originario, cui hanno contribuito in termini certamente non marginali le sentenze n.ro 24⁄1992 e 255⁄1992 della Corte costituzionale (ed in specie quest’ultima, che in nome di un inedito principio di « non dispersione dei mezzi di prova » ha


— 948 — assestato un durissimo colpo a quelle fondamentali garanzie) (105), fa sì che anche gli effetti della regola in esame siano ineluttabilmente destinati ad amplificarsi in questa direzione. Risulta, allora, ancor più urgente un intervento correttivo del legislatore, volto non solo a contenere la regola, sotto il profilo dei suoi limiti oggetti, entro i limiti fisiologici giustificabili dalla necessità di precludere un uso strumentale dell’esame del soggetto, ma soprattutto ad evitare che la cognizione del giudice possa fondarsi su prove formate unilateralmente e sottratte al legittimo potere di verifica della parte antagonista. dott. MASSIMO CERESA-GASTALDO

(105) A commento v. soprattutto P. FERRUA, Anamorfosi del processo accusatorio, cit. 162; nonché, dello stesso A., Declino del contraddittorio e garantismo reattivo: la difficile ricerca di nuovi equilibri processuali, in Quest. giust., 1995, 425.


IL NUOVO SISTEMA SANZIONATORIO IN MATERIA DI SICUREZZA ED IGIENE DEL LAVORO E LE RESPONSABILITÀ PENALI IN CASO DI ATTIVITÀ DATE IN APPALTO

SOMMARIO: 1. Individuazione dell’area dei precetti prevenzionali la cui violazione è soggetta a sanzione. — 2. I soggetti responsabili, la nozione di datore di lavoro e i problemi della delega dopo le modifiche del decreto correttivo della legge n. 626/94. — 3. Le responsabilità per i lavori in appalto. — 4. Il nuovo regime sanzionatorio in materia prevenzionale risultante dal d.lgs. n. 758/94.

1. Individuazione dell’area dei precetti prevenzionali la cui violazione è soggetta a sanzione. — Il d.lgs. 19 settembre 1994 n. 626, nell’operare, come è noto, il più profondo rivolgimento di metodo che la disciplina prevenzionistica italiana abbia mai conosciuto da quando è sorta, non ha provveduto a rimodellare il sistema ex novo, sostituendolo interamente a quello precedente, ma ha preferito seguire un percorso, solo in apparenza più rapido e sbrigativo, basato sull’integrazione ed il completamento dei precetti in vigore, attraverso l’aggiunta di altri obblighi, di contenuto in tutto o in parte diverso, agganciati a quelli di prima in un complicato gioco ad incastro il cui meccanismo spesso è fonte di notevoli perplessità ed incertezze. Il primo esame, dunque, che deve proporsi l’interprete è quello diretto ad accertare quale tipo di relazione esista fra le norme generali introdotte dal nuovo testo legislativo, oggi modificato dal recentissimo decreto di correzione 19 marzo 1996 n. 242 (pubblicato su G.U. 6 maggio 1996 n. 75) e le norme generali e specifiche contenute nella disciplina precedente, stabilendo conseguentemente in che misura esse possano coesistere con le disposizioni prevenzionali prescritte dal d.lgs. n. 626/94 e a quali, quindi, occorra concretamente rifarsi in sede applicativa. Per risolvere questi fondamentali quesiti, il legislatore del 1994 ha ritenuto sufficiente indicare un solo criterio di massima, contenuto nella norma finale e transitoria dell’art. 98, la cui formulazione però, lungi dall’aiutare a trovare agevolmente la via d’uscita, sembra destinata a suscitare molti più dubbi ed incertezze di quelli che avrebbe dovuto fugare. Dispone, infatti, lapidariamente tale articolo: ‘‘Restano in vigore, in


— 950 — quanto non specificatamente modificate dal presente decreto, le disposizioni vigenti in materia di prevenzione degli infortuni ed igiene del lavoro’’. Orbene, ad una prima lettura, esso sembrerebbe voler dire, come è testualmente scritto, che di tutte le disposizioni della normativa precedente in materia di sicurezza rimangono abrogate, in quanto sostituite dalle nuove, solo quelle che il d.lgs. n. 626/94 ha ‘‘specificatamente modificato’’ e, cioè, unicamente quelle che ha indicato in modo espresso nel corpo dell’intero testo. Queste, però, sono in tutto diciannove norme, dieci del d.P.R. 547/55 (e per la precisione gli artt. 8, 11, 13, 14, 52, 53, 374, 393, 394 e 395) e nove del d.P.R. 303/56 (artt. 6, 7, 9, 10, 11, 14, 37, 39 e 40), giusto quanto esplicitato dagli artt. 26, 33 e 36. A rigore, dunque, le numerose altre, ovunque collocate, dovrebbero ritenersi contemporaneamente in vigore, a prescindere dal loro contenuto precettivo e dal fatto, quindi, di regolare, in modo consimile o diverso, la stessa materia, come avviene, tanto per fare un esempio eclatante, con l’art. 4, la cui violazione è assistita da sanzioni penali e amministrative e che enumera gli obblighi prevenzionali gravanti su datori di lavoro, dirigenti e preposti in un ordine, secondo una distribuzione di responsabilità e con accentuazioni tutt’affatto differenti rispetto ai corrispondenti artt. 4 dei d.P.R. 27 aprile 1955 n. 547 e 19 marzo 1956 n. 303, anch’essi dedicati al medesimo oggetto. È evidente, pertanto, che una tale conclusione restrittiva si appalesa assolutamente inaccettabile, perché darebbe luogo ad incongruenze ed attriti insormontabili, generando una confusione di concetti ed un contrasto di disposizioni, al limite dell’assurdo e dagli effetti sicuramente paralizzanti. Per uscire, allora, da questo impasse, altrimenti insuperabile, non si vede altra strada che quella di intendere il menzionato art. 98, al di là del suo dato meramente letterale, per quello che risulta essere realmente e, cioè, un’inutile e sovrabbondante riaffermazione del noto e scontato principio di diritto, secondo cui le norme sopravvenute, qualora non sia stata prevista un’abrogazione esplicita, comportano comunque l’abrogazione tacita di quelle precedenti, qualora appaiono con le stesse incompatibili (1). (1) L’esattezza di questa impostazione risulta confermata anche dalle direttive emanate dal Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale con la circolare esplicativa n. 102 del 7 agosto 1995 (pubblicata su G.U. 21 agosto 1995 n. 194) nella quale, a proposito dei collegamenti del d.lgs. n. 626/94 con la normativa previgente, sia pure per incidens, si rileva che ‘‘La legislazione precedente pertanto rimane in vigore, salvo i casi di espressa o tacita abrogazione, quale termine obbligatorio di riferimento per l’attuazione delle specifiche misure di sicurezza’’.


— 951 — La verità è che il legislatore, probabilmente per la fretta con cui all’ultimo momento, essendo vicinissima la scadenza del termine, è stato approntato il testo di recepimento della direttiva-quadro 391/89, non ha avuto modo e tempo di rendersi conto dei gravi dubbi interpretativi che suscitava il fatto stesso di riconfermare, senza che ve ne fosse necessità, il pacifico e lapalissiano postulato, secondo cui, in difetto di esplicite abrogazioni, le norme di legge precedenti rimangono in vigore, in quanto non modificate dalle successive (2). Alla stregua, pertanto, delle brevi considerazioni che precedono, ci sembra di poter senz’altro escludere che il predetto art. 98 costituisca una deroga limitativa ai principi generali di diritto contenuti nelle preleggi. Quindi, anche nel nostro campo, debbono ritenersi pienamente valide ed operanti sia la regola dell’abrogazione tacita delle norme precedenti per incompatibilità con quelle sopravvenute di eguale contenuto, sia l’altra, di diverso profilo, consacrata nell’art. 15 c.p., secondo cui ‘‘quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito’’. Il riferimento a questo secondo importante criterio ermeneutico, che va sotto il nome di ‘‘principio di specialità’’ assume, proprio nel settore in esame, un ruolo fondamentale e decisivo, perché nell’intricato intreccio dell’attuale normativa prevenzionale, formatosi per effetto del grossolano e sommario innesto del nuovo sul vecchio, rappresenta la sola ed indispensabile bussola di orientamento che permetta di individuare quali siano esattamente i precetti applicabili, in quale contesto legislativo siano rinvenibili e come districarsi correttamente nel difficile gioco di incastro delle disposizioni sopravvenute con quelle preesistenti. Sotto tale aspetto, infatti, la situazione venutasi a creare, in mancanza di esplicite norme di raccordo e di chiarimento, è fra le più singolari e complesse, soprattutto per quanto riguarda le misure oggettive di prevenzione, che il d.lgs. n. 626/94 ha preferito prescrivere, facendo essenzialmente ricorso a norme di contenuto molto ampio e generico. Una chiara dimostrazione di ciò è offerta, ad esempio, dal comma 1 dell’art. 35 che, occupandosi delle attrezzature di lavoro, e cioè, secondo la definizione datane dal precedente art. 34, del ‘‘complesso delle macchine, degli apparecchi, degli utensili e degli impianti destinati ad essere usati durante l’attività lavorativa’’, impone al datore di lavoro l’obbligo generico di mettere a disposizione dei propri dipendenti strutture e strumentazioni ‘‘adeguate al lavoro da svolgere, ovvero adatte a tali scopi ed (2) Un’occasione per fare chiarezza sul punto poteva essere offerta dalla recentissima approvazione delle norme di modifica del d.lgs. n. 626/94, ma il legislatore, preso da altre preoccupazioni, se l’è lasciata ancora una volta sfuggire.


— 952 — idonee ai fini della sicurezza e della salute’’, riprendendo così, anche se con lievi differenze terminologiche, l’analoga formulazione adoperata in un’altra norma generica che si trova, invece, enunciata nel comma 2 dell’art. 374 del d.P.R. 547/55. Orbene, si ponga il caso che una macchina o un impianto di produzione risulti non conforme ad una o più disposizioni prevenzionali specifiche previste dal richiamato d.P.R. 547/55, la cui applicabilità è espressamente fatta salva dall’art. 36 del d.lgs. n. 626/94 (3). Non v’è dubbio che tali riscontrate carenze dei sistemi di protezione renderebbero per ciò stesso la macchina o l’impianto in questione qualificabile come ‘‘inidoneo ai fini della sicurezza’’, comportando conseguentemente la teorica assoggettabilità del datore di lavoro responsabile alla sanzione penale, comminata dall’art. 89, comma 2, lett. a) per la violazione appunto del suddetto art. 35, ma, contemporaneamente, ed in sostanza per il medesimo comportamento, egli potrebbe risultare inoltre imputabile anche delle contravvenzioni alle norme specifiche previste dal suddetto d.P.R. 547/55. Ed allora, di fronte a questa evidente duplicazione di addebiti, vien fatto di chiedersi di quali violazioni costui effettivamente debba rispondere: di quell’unica, onnicomprensiva, prevista dall’art. 35 d.lgs. n. 626/94, o, alternativamente delle diverse, specificamente contemplate dalle disposizioni previgenti, ovvero, cumulativamente, dell’una e delle altre insieme? A sciogliere il quesito, fortunatamente soccorre il richiamato principio di specialità, il quale, se correttamente inteso, conduce senz’altro a concludere che, sulla norma a contenuto generico di cui al citato art. 35, debbano ritenersi prevalenti le disposizioni specifiche, salvo che per quella parte di essa che prescrive un comportamento non rientrante in nessuno dei precetti precedenti. Si può, dunque, affermare in via generale — e l’enunciazione assume per l’interprete un rilievo veramente importante che trascende il caso considerato, perché rappresenta una linea-guida da seguire costantemente — che, di fronte ad un’omissione prevenzionale costituita dalla violazione di più precetti specifici della vecchia e della nuova normativa (ad es., utilizzazione di un impianto privo di dispositivi di protezione degli organi lavoratori accessibili, di carter delle catene di trasmissione del moto, di adeguata messa a terra, ecc., ed installato, putacaso, in difformità delle istruzioni del fabbricante (art. 35, comma 4, lett. a) o affidato, malgrado l’esistenza di rischi specifici, a lavoratori generici (art. 35, comma 5, lett. a)), (3) Al comma 1 è detto infatti testualmente ‘‘Le attrezzature di lavoro messe a disposizione dei lavoratori devono soddisfare alle disposizioni legislative e regolamentari in materia di tutela della sicurezza e salute dei lavoratori stessi ad esse applicabili’’.


— 953 — il datore di lavoro e/o i dirigenti saranno chiamati a rispondere contemporaneamente sia delle singole ipotesi contravvenzionali previste dal d.P.R. 547/55 che di quelle particolari contemplate dal d.lgs. n. 626/94, ad eccezione però della violazione generica onnicomprensiva su cui prevalgono le disposizioni speciali, ancorché anteriori ad essa. Si tratterà certamente di distinguere, di volta in volta, per vari tipi di norme, i contenuti generici da quelli specifici ma, pur se non sempre sarà facile operare questa ricognizione, non esiste tuttavia altro modo corretto di risolvere il problema, dal momento che, purtroppo, il legislatore ancora una volta ha negligentemente trascurato di eseguire i necessari raccordi fra le nuove e le vecchie norme, scaricando di conseguenza sull’interprete tale ingrato compito, senza peraltro indicargli espressamente le coordinate e le direttive di massima per poterlo assolvere in maniera corretta e lineare. L’unico criterio, dunque, che discende direttamente da un’applicazione puntuale dei principi generali dell’ordinamento, è quello che, a buon diritto, può definirsi della specialità reciproca, nel senso che, sulle norme più generali dovranno prevalere sempre quelle a contenuto specifico, indipendentemente dal contesto, antecedente o posteriore, in cui risultano inserite, mentre, nel caso in cui due o più disposizioni presentino eguale estensione ed identico oggetto, saranno ovviamente applicabili solo quelle sopravvenute, in quanto tacitamente abrogative delle preesistenti. Il risultato che ne consegue è che quasi tutti i precetti della vecchia disciplina sopravvivono nella nuova, intrecciandosi intimamente con essa ed assumendo, perciò stesso, una dimensione più ampia ed un respiro diverso. Con l’introduzione del d.lgs. n. 626/94 non si è prodotta nessuna soluzione di continuità nella disciplina, ma solo un ampliamento ed un potenziamento degli obblighi precedenti, in dipendenza della loro mutata collocazione in un quadro nuovo e certamente più consono alle esigenze di una moderna attività prevenzionale, in linea con quella ormai praticata da quasi tutti gli altri Stati della CEE (4). Come è stato giustamente osservato (5), appaiono, pertanto, assolu(4) Gli stessi concetti si trovano praticamente esposti nella circolare ministeriale n. 102/95 citata nella nota a pag. 4, che, al riguardo, così si esprime: ‘‘Preliminarmente occorre rammentare che il decreto legislativo nel suo complesso non comporta che modifiche limitate alla precedente normativa, in quanto è soprattutto mirato ad una diversa impostazione del modo di affrontare le problematiche della sicurezza sul lavoro. Le innovazioni tendono infatti ad istituire nell’azienda un sistema di gestione permanente ed organico diretto all’individuazione, valutazione, riduzione e controllo costante dei fattori di rischio per la salute e la sicurezza dei lavoratori...’’. (5) Si veda in proposito l’interessante articolo di V. COTTINELLI, Prime osservazioni sul d.lgs n. 626/94. Entrata in vigore, obblighi, valutazione che si trova inserito nel Manuale sul predetto d.lgs. n. 626/94, pubblicato dall’Associazione Ambiente e Lavoro nel numero


— 954 — tamente fuor di luogo immotivati atteggiamenti ‘‘da anno zero’’ di quanti si ostinano a coltivare l’illusione che, in pendenza dei termini stabiliti dal nuovo disposto per l’entrata in vigore di alcune sue norme (ed oggi ulteriormente prorogati dal decreto di modifica), si sia determinata una sorta di vacatio legis e, quindi, per i destinatari dei precetti, una specie di ‘‘zona franca’’, da sfruttare per mettersi in regola, al riparo da ogni conseguenza di carattere penale (6). Di scarso aiuto si rivela, invece, il principio di specialità per risolvere il problema, che pure emerge ad un’attenta analisi del testo del d.lgs. n. 626/94, della singolare reiterazione in esso di certi obblighi aventi contenuto a volte perfettamente identico ed altre volte leggermente diversificato solo per alcune particolarità e connotazioni specifiche, come avviene, per esempio, con l’art. 4, comma 5, lett. a) il quale prescrive che il datore di lavoro, ‘‘designa preventivamente i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei lavoratori in caso di pericolo grave ed immediato, di salvataggio, di pronto soccorso e, comunque, di gestione dell’emergenza’’ (7) e con il successivo art. 12, comma 1, lett. b), che stranamente torna a ribadire il medesimo precetto, disponendo che il datore di lavoro ‘‘designa i lavoratori incaricati di attuare le misure di cui all’art. 4, comma 5, lett. a)’’. Di casi simili ve ne sono diversi, disseminati in tutto il testo del provvedimento legislativo in esame e la spiegazione più logica che se ne può dare è che esso, essendo composto praticamente da un collage di una direttiva quadro e di sette direttive particolari, non è stato opportunamente emendato dalle inevitabili ripetizioni di norme, derivanti dalla stessa impostazione prevenzionale diversificata in relazione alle singole situazioni di rischio e ai distinti settori regolamentati. L’inconveniente però ha ormai scarsa rilevanza pratica, dando luogo soltanto ad innocue sovrabbondanze pleonastiche, giacché con le modifiche recentemente introdotte al sistema sanzionatorio originariamente previsto dal d.lgs. n. 626/94, sono state, per fortuna, eliminate le più vistose incongruenze derivanti dall’attribuzione del medesimo obbligo contemporaneamente al solo datore di lavoro e al datore di lavoro e ai dirigenti e oggi si può tranquillamente concludere che, nelle ipotesi, abbastanza frequenti, di duplicazione di un precetto di eguale contenuto, contemplato speciale di Dossier Ambiente del dicembre 1994 e nel quale vengono esposte diverse tesi, sul tema dei rapporti fra vecchia e nuova normativa, pienamente coincidenti con quelle illustrate nel presente lavoro. (6) Al riguardo, in senso conforme si veda ancora una volta la menzionata circolare ministeriale n. 102/95, paragrafo 3 della premessa intitolato ‘‘Entrata in vigore delle nuove norme’’. (7) Questa è la nuova dizione del summenzionato comma 5, lett. a), dopo le modifiche introdotte dal recente d.lgs. di correzione dell’originario testo del d.lgs. n. 626/94.


— 955 — sia nella parte generale che in quella speciale del medesimo d.lgs. n. 626/94, è sempre a quest’ultimo che bisogna rapportarsi, ai fini anche della sanzione (che naturalmente sarà unica e non doppia, come stranamente è previsto, ad esempio, per l’art. 4, comma 5, lett. h) e l’art. 12, comma 1, lett. d), dovendosi il primo precetto ritenere interamente sostituito dal secondo, in applicazione appunto del principio di specialità. Un’altra grossa incongruenza imputabile al singolare criterio di collegamento adottato dal legislatore del 1994 fra la vecchia e la nuova normativa prevenzionale era quella riguardante le differenze di pene previste per le violazioni dei precetti posti dall’una o dall’altra, se non fosse provvidenzialmente intervenuto il d.lgs. 758/94, di cui si dirà in seguito, e che ha equiparate, elevandole, le sanzioni delle contravvezioni ovunque previste, anche se qualche anomalia marginale è purtroppo rimasta, come, per esempio, il fatto che il datore di lavoro inadempiente all’obbligo di effettuare la valutazione del rischio ‘‘rumore’’, andrà incontro, in forza dell’art. 50 d.lgv. 15 agosto 1991 n. 277 modificato, alla pena alternativa o dell’arresto da tre a sei mesi, ovvero dell’ammenda da L. 10.000.000 a L. 50.000.000 — oblabile nella misura di L. 25.000.000 — mentre il datore di lavoro che ometterà di effettuare la valutazione dei rischi generali dell’azienda, compresi, quindi, anche quelli relativi al rumore, incorrerà in una pena, uguale per quanto riguarda l’arresto, ma notevolmente inferiore per quanto attiene all’ammenda che va da L. 3.000.000 a L. 8.000.000 — oblabile con sole L. 4.000.000. 2. I soggetti responsabili, la nozione di datore di lavoro e i problemi della delega dopo le modifiche del decreto correttivo della legge n. 626/94. — È del tutto ovvio e naturale che il principale destinatario degli obblighi prevenzionali sia il datore di lavoro, gravando su di lui il primario dovere di garantire la salute e la sicurezza dei propri dipendenti ed, in genere, di tutti coloro che vengono utilizzati o si trovano ad operare nell’ambito della sua organizzazione produttiva. Ma già, fin dall’emanazione dei d.P.R. del 1955 e del 1956, la legge, muovendo dal giusto presupposto che la sicurezza è un obiettivo raggiungibile solo attraverso gli sforzi congiunti di più soggetti, aveva ampliato la categoria di quelli responsabili, individuandone degli altri, innanzitutto fra i più stretti collaboratori del datore di lavoro, quali i dirigenti e i preposti, ed estendendola anche fuori dall’azienda, fino a comprendere persone estranee al rapporto di lavoro, come i costruttori, i commercianti, i noleggiatori e gli installatori di macchine, di impianti e di attrezzature da lavoro. Con il d.lgs. n. 626/94 l’area delle responsabilità si allarga ulteriormente, finendo per abbracciare, da una parte, quella dei progettisti di luoghi o posti di lavoro e degli impianti, nonché dei committenti e degli as-


— 956 — suntori di opere in appalto e, dall’altra, sul versante dei collaboratori del datore di lavoro, di una figura relativamente nuova, quale quella del medico competente, già delineata dal d.lgs. 277/91 sulla protezione dai rischi d’amianto, piombo e rumore ed ora gravata da compiti e funzioni più ampi ed articolati. In ogni sistema prevenzionale che si rispetti il perseguimento di queste finalità passa necessariamente attraverso l’individuazione, per ciascun soggetto, di una serie di obblighi specificamente indicati, la cui osservanza è presidiata dalla comminazione di sanzioni per gli inadempienti. Nel nostro paese la maggior parte delle sanzioni è di carattere penale. Non ci sembra questa la sede idonea per discutere della validità ed efficacia di tale scelta di politica legislativa, anche se il dibattito al riguardo è sempre vivo ed oggi è tornato più che mai di attualità, a seguito del diffondersi di voci che, con sempre maggiore insistenza, hanno attribuito al governo l’intenzione di operare urgentemente, addirittura mediante ricorso allo strumento eccezionale del decreto-legge, un’ampia ‘‘depenalizzazione’’ di diverse violazioni in materia, qualificate di natura soltanto formale. Certo, non si può nascondere che la giurisdizionalizzazione del sistema prevenzionale presenta alcuni seri inconvenienti e se ne è avuto un clamoroso esempio proprio di recente, quando, nell’originario testo del d.lgs. n. 626/94, è stata introdotta la definizione di ‘‘datore di lavoro’’, riprendendola pari pari da quella contenuta nella direttiva-quadro 391/89. Ben presto ci si è accorti che la formulazione adottata mal si conciliava con le esigenze proprie di un ordinamento, come il nostro, in cui, per potere attivare il meccanismo repressivo delle violazioni prevenzionali imputabili ad una struttura organizzativa complessa, sia pubblica che privata, è imprescindibile procedere innanzitutto all’esatta individuazione della persona fisica da sottoporre alle relative sanzioni. Avendo, infatti, l’inosservanza dei precetti in materia di sicurezza quasi sempre natura di reato contravvenzionale, entra immancabilmente in gioco l’inderogabile principio della responsabilità penale personale consacrato dall’art. 27 della Costituzione, con la conseguenza che ogni volta bisogna ricercare chi, nell’ambito dell’ente collettivo, sia effettivamente provvisto dei poteri di rappresentanza di esso ed abbia la capacità di esprimerne la volontà all’esterno. Rendendosi conto delle insormontabili difficoltà create al riguardo dall’impiego della nozione di ‘‘datore di lavoro’’ di derivazione comunitaria (8), il legislatore, dopo lunghe polemiche e diatribe dottrinali sull’in(8) La definizione datane dall’art. 2, come si ricorderà, era formulata nei seguenti termini: ‘‘qualsiasi persona fisica o giuridica o soggetto pubblico che è titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore e abbia la responsabilità dell’impresa ovvero dello stabilimento’’.


— 957 — congruità di tale formula, ha deciso finalmente di correre ai ripari e con il recente decreto correttivo ha provveduto a modificarla sostanzialmente, senza peraltro riuscire, come vedremo fra breve, ad eliminare tutti i problemi. Oggi, infatti, è qualificato ‘‘datore di lavoro’’, non più il soggetto che sia al tempo stesso titolare del rapporto di lavoro con i dipendenti e responsabile dell’impresa o dello stabilimento, ma alternativamente o il titolare del rapporto di lavoro o, comunque, il soggetto, provvisto di poteri decisionali e di spesa, che, secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa, abbia la responsabilità della stessa, ovvero di una sua unità produttiva, intesa come lo stabilimento o la struttura finalizzata alla produzione di beni e servizi e dotata di autonomia finanziaria e tecnico-funzionale. Confrontando le due diverse definizioni, emergono chiaramente le differenze che le contraddistinguono, giacché all’iniziale criterio di imputazione, di natura prevalentemente giuridico-formale, basato sul binomio ‘‘titolarità del rapporto di lavoro — responsabilità dell’impresa’’, se ne è sostituito un altro, di carattere più sostanziale, che fa leva soprattutto sull’effettività dei poteri decisionali e di spesa attribuiti al soggetto investito della responsabilità della gestione dell’impresa o di una sua autonoma unità produttiva. La conclusione, pertanto, che se ne può trarre è che, ai fini prevenzionali, la stessa azienda o il medesimo ente collettivo oggi potrà avere contemporaneamente più figure di ‘‘datore di lavoro’’, dato che tale potrà essere legittimamente qualificato non solo il titolare del rapporto di lavoro con i dipendenti, ma anche chi, indipendentemente da tale requisito, sia stato posto a dirigere un’unità produttiva dotata di autonomia finanziaria e tecnico-funzionale, semprecché gli sia stato conferito un adeguato potere decisionale e di spesa. Tutto ciò, se da un canto facilita enormemente l’individuazione della persona fisica che potrà essere chiamata a rispondere delle contravvenzioni alle norme di sicurezza riferibili ad un organismo a struttura organizzativa complessa, dall’altro favorisce la preoccupante tendenza a porre in atto, a livello di vertice, furbesche manovre di circolazione e slittamento verso il basso della qualifica datoriale, con il risultato di frammentare e disperdere l’unitarietà delle scelte di politica prevenzionale nell’ambito di una stessa azienda, dislocando artificiosamente i centri di imputazione e di impulso in un così delicato settore, qual’è quello dell’elaborazione ed attuazione dei programmi di sicurezza. Un’altra importante novità contenuta nel decreto di correzione della legge n. 626/94 ed avente notevoli riflessi sul piano sanzionatorio, è quella riguardante l’eliminazione, salvo pochissimi casi, della distinzione, prima operata, fra obblighi del solo datore di lavoro ed obblighi posti congiuntamente a carico del datore di lavoro e dei dirigenti.


— 958 — È ben noto che il fatto di avere innovativamente enucleato queste due fasce di obblighi era stato ritenuto dalla dottrina prevalente come il segnale univoco della volontà del legislatore di rendere intrasferibili per delega gli obblighi posti a carico del solo datore di lavoro, perché altrimenti non vi sarebbe stato motivo di differenziarli, pure a livello sanzionatorio, da tutti gli altri gravanti anche sui dirigenti. Tale scelta, sicuramente di rottura rispetto alla situazione precedente, caratterizzata dal pacifico riconoscimento della delegabilità di tutti gli adempimenti prevenzionali facenti capo al datore di lavoro, rispondeva in effetti ad un’esigenza largamente avvertita di puntare alla massima responsabilizzazione delle più alte gerarchie aziendali, riportando a livello delle decisioni di vertice la strutturazione organizzativa, la promozione e la gestione dei programmi di sicurezza, in una visione più ampia e globale delle relative problematiche, da affrontare secondo criteri più razionali e moderni, comportanti il necessario coinvolgimento di tutte le parti interessate. Ma la bontà dell’obiettivo perseguito era stata purtroppo in gran parte compromessa da un difettoso ed incongruo affastellamento degli obblighi intrasferibili posti a carico del solo datore di lavoro, perché, insieme a quelli tipicamente propulsivi e programmatici, erano stati inopinatamente aggiunti diversi compiti meramente attuativi, per loro natura insuscettibili di venire assolti personalmente dal destinatario principale di essi. Si era così creata una grossa complicazione, difficilmente risolvibile sul piano interpretativo, ed a nulla erano valsi gli sforzi ermeneutici rivolti a superarla attraverso un’arguta lettura delle norme in chiave teleologica, lettura che, anche se suggestiva e perspicua, presentava pur sempre un alto grado di opinabilità e di incertezza (9). Oggi, per fortuna, con le modifiche introdotte dal decreto correttivo, la questione può considerarsi praticamente archiviata. Innanzitutto vi è da rilevare che, ad eccezione di dodici ipotesi contravvenzionali (poi sostanzialmente riconducibili all’inadempimento di tre (9) Per una rapida rassegna delle principali posizioni in cui, subito dopo l’emanazione del d.lgs. n. 626/94, si era articolato il dibattito riguardante il tema cruciale della delegabilità dei compiti e delle funzioni del datore di lavoro in materia prevenzionale, si veda C. M. GRILLO, Sicurezza ed igiene del lavoro: nuovo apparato sanzionatorio e primi problemi, in Cass. pen., 1995, 1661, che richiama i contributi di: R. GUARINIELLO, Commento al d.lgs. n. 626/94, in un intervento al Seminario della Regione Emilia-Romagna, tenutosi a Bologna il 13 gennaio 1995, e poi largamente riprodotto in un saggio intitolato Profili innovativi del d.lgs. n. 626/94 pubblicato su Dir. prat. lav. - Oro, 1994, n. 4, p. 33 e ss.; di C. GIORDANENGO, Il d.lgs. n. 626/94 e il d.lgs. n. 758/94: problemi applicativi ed interpretativi, Atti del convegno Novità in materia di sicurezza sul lavoro: il d.lgs. 19 settembre 1994 n. 626 di recepimento delle direttive comunitarie, tenutosi a Milano dal 28 al 29 novembre 1994; di chi scrive Datore di lavoro, dirigenti e preposti: obblighi prevenzionali e poteri di delega, in Dossier Ambiente, 1994, n. 28, pagg. 105-110.


— 959 — obblighi fondamentali: a) quello di procedere all’elaborazione e tenuta del documento di valutazione del rischio o dell’autocertificazione sostitutiva; b) quello di effettuare l’aggiornamento di tali valutazioni; c) quello di designare il responsabile del servizio aziendale di prevenzione e protezione nei casi e secondo le regole prestabilite), tutte le altre violazioni risultano sanzionate indifferentemente a carico del datore di lavoro e dei dirigenti, oltre naturalmente a quelle stabilite per i preposti. In secondo luogo va osservato che per la prima volta in un testo di legge è stato espressamente preso in considerazione il problema della delega, istituto che, come si sa, nella disciplina precedente non aveva avuto mai l’onore di essere ufficializzato, per la semplice ragione che esso era soltanto il risultato di un’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, sollecitata dal bisogno di adeguare il principio della responsabilità penale personale alla necessaria distribuzione dei compiti nell’ambito di una moderna struttura organizzativa complessa (10). (10) Per una rapida ma accurata rassegna delle diverse posizioni assunte dalla dottrina in materia, si veda, da ultimo: F. BELLAGAMBA, Sulla responsabilità penale nella delega di funzioni, in Cass. pen., 1996, 743, p. 1272 e inoltre: P. ALDROVANDI, Orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in materia di delega di compiti penalmente rilevanti, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, n. 2, p. 699 e ss., dove sono contenuti ampi richiami di giurisprudenza e fra gli scritti più significativi, oltre a quelli di FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, Firenze, 1985; T. PADOVANI, Diritto penale del lavoro. Profili generali, F. Angeli ed., Milano, 1983; D. PULITANÒ, Posizioni di garanzia e criteri di imputazione personale nel diritto penale del lavoro, in Riv. giur. lav., 1978, IV, 180 e ss.; ID., Igiene e sicurezza del lavoro (tutela penale), in Dig. pen., VI, Torino, 1992, 107 e ss., anche di: C. PEDRAZZI, Profili problematici del diritto penale d’impresa, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1988, p. 138 e ss.; LECIS, Delega di funzioni e responsabilità penale in materia di sicurezza del lavoro, Milano, 1991; PALOMBI, La delega di funzioni nel diritto penale dell’impresa, in Giust. pen., 1985, II, 679 e ss.; ID., La delega di funzioni, in DI AMATO (a cura di), Trattato di diritto penale dell’impresa, vol. I, Padova, 1990, 267 e ss.; AA.VV., Responsabilità penale in materia di lavoro nelle aziende, Giuffrè, Milano, 1982; IORI, Organizzazione dell’impresa e responsabilità penale nella giurisprudenza, Firenze, 1981; MINGHELLI, Dimensioni dell’impresa ed efficacia della delega di funzioni, in Mass. Giur. lav., 1982, p. 851 e ss.; TRUCCO, Responsabilità penale nell’impresa: problemi di personalizzazione e delega, in questa Rivista, 1986, 770; L. STORTONI, Profili penali delle società commerciali come imprenditori, in questa Rivista, 1971, p. 1173. Vanno ricordati infine la rassegna giurisprudenziale realizzata, ponendo a raffronto varie decisioni dei giudici di merito con gli indirizzi espressi dalla Suprema Corte fino a tutto il 1985, da N. GARAVENTA, Orientamenti giurisprudenziali in materia di delitti colposi commessi con violazione delle norme antinfortunistiche, in questa Rivista, 1986, p. 196 e ss. e l’interessante articolo di M. GIARRUSSO, Orientamenti dottrinali ed evoluzione giurisprudenziale sui problemi della responsabilità penale nell’esercizio dell’impresa ed efficacia della delega di funzioni, in Cass. pen., 1984, p. 2042 e ss., perché contiene un’esauriente esposizione dei diversi sforzi compiuti in dottrina per dare una sistemazione concettuale dei problemi della responsabilità penale negli enti a struttura organizzativa complessa, in rapporto all’atteggiamento empirico e pragmatico assunto al riguardo dalla giurisprudenza.


— 960 — Oggi il comma 4-ter, aggiunto in fondo all’art. 1 del d.lgs. n. 626/94, dispone testualmente: ‘‘Nell’ambito degli adempimenti previsti dal presente decreto, il datore di lavoro non può delegare quelli previsti dall’art. 4, comma 1, 2, 4, lett. a) e 11, primo periodo’’. Come si vede, la norma in questione si limita soltanto ad indicare espressamente gli adempimenti che il datore di lavoro non può delegare ai suoi collaboratori, ma in tal modo lascia chiaramente intendere a contrariis che è possibile farlo per tutti gli altri. Si ripristina, quindi, per univoca volontà di legge, una condizione di ampia trasferibilità di quasi tutti gli obblighi prevenzionali dal destinatario principale di essi ai suoi collaboratori, secondo le forme e con i limiti da tempo individuati da una consolidata giurisprudenza sia di merito che di legittimità. Anzi, il ricorso alla delega, nella nuova impostazione normativa, sembra tranquillamente autorizzato anche in aziende di piccole dimensioni. La precisazione, infatti, che nelle imprese minori (fino a 10 addetti) non è delegabile da parte del datore di lavoro la richiesta autocertificazione per iscritto di aver provveduto alla valutazione dei rischi (art. 4, comma 11, primo periodo), induce ancora una volta a ritenere a contrariis che, pure in quelle imprese, tutti gli altri adempimenti, diversi da quelli indicati dal citato art. 4, comma 11, potranno pacificamente formare oggetto di delega. Ora, perché questa possa considerarsi pienamente valida ed idonea a produrre effetti liberatori per il delegante, occorrerà, come già in passato, che venga conferita ad un soggetto tecnicamente capace, naturalmente disposto ad accettarla e provvisto dei necessari poteri di decisione e di spesa. Essa inoltre dovrà contenere una dettagliata descrizione delle competenze e delle responsabilità attribuite, per cui sarà consigliabile fare sempre ricorso alla forma scritta ed, infine, dovrebbe potere evitare eventuali ingerenze del delegante, salvo gli opportuni periodici controlli diretti a verificare le concrete capacità ed attitudini del delegato nello svolgimento dei compiti assegnatigli. In conclusione, anche dopo le recenti modifiche del decreto correttivo della legge n. 626/94, appare legittimo sostenere che l’epoca della cosidetta ‘‘delega in bianco’’ in campo prevenzionale è ormai definitivamente tramontata, giacché essa oggi è ammissibile solo per attribuzioni specifiche e con conferimento dei relativi poteri decisionali e di spesa. La responsabilità del delegato si muove quindi dentro questi precisi confini e, se i poteri conferitigli dovessero per avventura risultare inadeguati o insufficienti ad assolvere all’incarico ricevuto, le eventuali manchevolezze nell’approntamento delle prescritte misure di sicurezza non potranno che farsi ricadere automaticamente in capo al delegante. È evidente, infatti, che in tanto può nascere una responsabilità per


— 961 — omissione, in quanto il soggetto chiamato ad operare in sostituzione del destinatario del precetto possieda il relativo potere d’agire con la necessaria autonomia. Per quanto riguarda, dunque, l’ambito dei compiti delegabili non sembra intervenuta nessuna sostanziale modifica rispetto al passato. L’unica innovazione, come si è accennato, interessa l’intrasferibilità dell’obbligo datoriale di procedere alla valutazione dei rischi, nelle diverse forme stabilite dalla legge, a seconda delle dimensioni aziendali, e di costituire il servizio di prevenzione e protezione, designando il relativo responsabile. Tali adempimenti, infatti, sono stati ritenuti dal legislatore così prioritari e così intrinsecamente connessi alla posizione del datore di lavoro da pretendere che fosse lui a provvedervi personalmente, impartendo in tal modo l’impulso necessario a mettere in moto e ad attivare, dal vertice della piramide aziendale o dell’ente, il complesso meccanismo della programmazione della sicurezza. Ma, a scanso di equivoci, bisogna subito precisare che ciò evidentemente non significa materiale elaborazione e redazione da parte del datore di lavoro del documento valutativo dei rischi, essendo questa un’incombenza che presuppone il possesso di capacità tecnico-professionali da lui inesigibili. La legge gli richiede soltanto di premunirsi degli strumenti indispensabili per la programmazione degli interventi prevenzionali, scegliendo oculatamente gli esperti e fissando tempi, modi e forme di controllo della loro attività, senza rimettere ad altri l’incarico di assumere l’iniziativa. Spetterà, inoltre, al datore di lavoro, una volta ottenuto il piano di sicurezza, reperire le risorse, organizzare le strutture e distribuire i compiti fra i suoi collaboratori, al fine di creare le condizioni per tradurlo in pratica e renderlo pienamente operante. Qualora dovesse accadere che, in dipendenza di un errore di valutazione dei rischi, venga omessa una misura prevenzionale dovuta, c’è da chiedersi a chi debba farsi risalire la responsabilità della contravvenzione e, nel caso di infortunio o malattia da lavoro, la colpa dell’evento. A nostro avviso, i due piani di ricerca della responsabilità vanno tenuti nettamente distinti, perché ubbidiscono a criteri diversi, non completamente sovrapponibili. Per quanto riguarda, infatti, il primo profilo, quello più strettamente prevenzionale, si tratterà innanzitutto di stabilire se l’errore di valutazione, che ha dato luogo all’omissione della misura, sia o no facilmente riconoscibile in sede applicativa, perché, in caso affermativo, il datore di lavoro, o il dirigente investito di apposita delega, risultando per legge gli esclusivi destinatari del precetto violato, avrebbero la possibilità di rilevare agevolmente l’errore e di porvi quindi tempestivo rimedio.


— 962 — La negligenza o l’imperizia riscontrabile nell’omissione di un pronto intervento riparatore costituiscono motivo sufficiente per chiamarli alternativamente a rispondere della relativa contravvenzione, salva poi la possibilità di rivalersi sul piano privato nei confronti del o dei consulenti esterni che per colpa professionale hanno fornito indicazioni carenti o sbagliate. Se, invece, l’errore valutativo non è di immediata percezione e la scelta degli esperti a cui affidare la redazione del piano di sicurezza è avvenuta in modo corretto ed oculato, allora della inadempienza prevenzionale conseguente non potrà essere chiamato a rispondere né il datore di lavoro, né il suo delegato, difettando palesemente per entrambi l’elemento psicologico della colpa che è un requisito essenziale del reato anche nelle ipotesi contravvenzionali. In modo diverso si atteggia la ricerca della responsabilità in caso di infortunio o di malattia da lavoro dipendente sempre da una carenza o da un errore di valutazione imputabile ai tecnici che hanno elaborato il piano di sicurezza. In tale ipotesi, infatti, se nessun rimprovero in termini di culpa in eligendo o di culpa in vigilando potrà muoversi al datore di lavoro che ha conferito a terzi l’incarico di svolgere la prescritta attività valutativa, dell’omessa applicazione di una misura prevenzionale eziologicamente collegata all’evento di danno prodottosi risponderà, a titolo di colpa professionale, solo l’esperto che ha sbagliato, provocando con il proprio comportamento l’inandempienza da cui è derivato il sinistro. Per comprendere appieno la logica di tutto l’impianto sanzionatorio risultante a seguito delle innovazioni introdotte dal d.lgs. n. 626/94 sul piano della distribuzione degli obblighi fra tutti i soggetti destinatari dei precetti prevenzionali, occorre aver presente qual’è la ratio fondamentale della norma che ha imposto al datore di lavoro di procedere alla valutazione dei rischi e alla redazione del relativo documento. Questo è ritenuto lo strumento indispensabile per un approccio razionale e sistematico ai problemi della sicurezza. Non è di per sé sindacabile la sua intrinseca validità, è importante che esso sia predisposto in maniera seria, da tecnici qualificati e rappresenti la guida necessaria ad orientare tutti gli interventi di prevenzione. È un obbligo prioritario che abbraccia tutti gli altri, la cui autonoma vigenza deriva dalle singole norme che li contemplano specificamente. 3. Le responsabilità per i lavori in appalto. — Un capitolo a sé merita la trattazione delle responsabilità e delle relative sanzioni in materia di appalto di opere o di servizi da eseguirsi all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva committente, giacché questo fenomeno, in conseguenza della sempre più marcata specializzazione delle attività dovuta allo svi-


— 963 — luppo tecnologico e alla complessità ed integrazione dei processi produttivi moderni, interessa un numero sempre più ampio di imprese e ha assunto dimensioni veramente notevoli. Nella legislazione previgente, ad eccezione dell’antesignano art. 5, comma 3 e 4 del d.lgs. 277/91, non era stata mai prevista una norma esplicita che affrontasse il delicato tema della tutela della sicurezza nei lavori affidati in appalto o con contratto d’opera a terzi. La lacuna, particolarmente grave per l’elevato indice di pericolosità rappresentato dall’intersecarsi nel medesimo ambiente di lavoro di due o più sfere organizzative distinte, è stata finalmente colmata, anche se in modo non del tutto soddisfacente, dall’entrata in vigore dell’art. 7 del d.lgs. n. 626/94 che ha imposto un rafforzamento della tutela, prescrivendo a carico degli appaltanti e degli appaltatori precisi doveri di coordinamento e di cooperazione. Prima di entrare nel merito di queste disposizioni, occorre fare una premessa che può apparire anche banale e scontata ma che serve, a nostro avviso, ad evitare equivoci e a sgombrare il campo da pericolose confusioni concettuali. È opportuno, infatti, precisare in partenza che il citato art. 7 è stato dettato proprio per regolamentare le situazioni di vero appalto o di reale contratto d’opera e cioè tutte quelle situazioni in cui l’impresa esterna è chiamata ad operare in condizioni di effettiva autonomia organizzativa e decisionale, con conseguente assunzione del così detto rischio del risultato. Esula, invece, chiaramente da tale ambito normativo — e non avrebbe potuto essere diversamente — ogni forma di pseudo-appalto o di appalto fittizio che dà luogo al deprecato fenomeno dell’interposizione di mere prestazioni di manodopera ed incorre nel divieto e nelle sanzioni posti dagli artt. 1 e 2 della l. 23 ottobre 1960 n. 1369. Non sempre è facile distinguere l’appalto vero da quello fittizio poiché questo assume nella realtà aspetti sfuggenti e proteiformi, in relazione alle molteplici modalità elusive che la fantasia dei contravventori continuamente elabora, per sottrarsi più o meno abilmente agli obblighi di legge (11). Sotto il profilo dell’individuazione dei soggetti responsabili del rispetto delle norme prevenzionali, quando sia stata accertata una fattispecie di pseudo-appalto, la questione tutto sommato si rivela abbastanza semplice, ove si consideri il fatto che, al di là delle apparenze, vi è in effetti un solo datore di lavoro ed è quello che praticamente utilizza, nel(11) Sul punto mi sia consentito richiamare un mio articolo dal titolo Appalti di manodopera e intervento giudiziario. Prospettive e limiti, in Lavoro ’80, 1982, p. 554 contenente un’ampia esposizione della complessa problematica giuridica sull’interposizione fittizia e sui criteri elaborati dalla giurisprudenza per individuarne le molteplici forme che essa assume nella realtà del mondo del lavoro.


— 964 — l’ambito della propria organizzazione produttiva e sotto la sua direzione, il personale dipendente fornitogli dal falso appaltatore. Egli, pertanto, è l’unico centro di imputazione su cui vengono a gravare tutti gli obblighi di sicurezza e ne dovrà conseguentemente rispondere, tenendo conto che i lavoratori subordinati, oggetto dell’interposizione vietata, sono considerati dalla legge, a tutti gli effetti, alle sue dipendenze fin dall’inizio del loro impiego e vanno quindi conteggiati in aggiunta alla propria forza-lavoro, anche ai fini della determinazione delle dimensioni aziendali, cui è collegata in alcuni casi la prescrizione di certi adempimenti. La situazione muta radicalmente allorchè, invece, si è in presenza di un rapporto di vero appalto, o di una serie di sub-appalti a catena, giacché, avendo riguardo alla natura propria di tali contratti giuridici, l’appaltatore o sub-appaltatore ha una sua autonoma sfera organizzativa, è titolare di pieni poteri decisionali e, quindi, come qualsiasi altro datore di lavoro, ha il dovere di provvedere alla tutela della salute e dell’integrità fisica dei propri dipendenti. Un’eventuale ingerenza del committente nella scelta e nell’approntamento delle misure di prevenzione relative ai lavori svolti dall’appaltatore finirebbe inevitabilmente per affievolire e comprimere la sua piena autonomia, determinando lo snaturamento e la trasformazione del contratto. Se si tiene sempre presente questa fondamentale chiave di lettura, sarà più agevole comprendere la portata ed i limiti delle disposizioni innovative introdotte dall’art. 7 del d.lgs. n. 626/94, il cui testo non è stato modificato dal decreto correttivo, salvo un piccolissimo ritocco finale di scarso rilievo. Tale norma pone innanzitutto al committente di lavori in appalto da eseguirsi all’interno della propria azienda, un preliminare obbligo di verifica dell’idoneità tecnico-professionale dell’impresa appaltatrice a cui affidare l’incarico, verifica da effettuare anche attraverso la richiesta o la visura del certificato di iscrizione della ditta alla camera di commercio, industria e artigianato competente. La congiunzione ‘‘anche’’ evidenzia chiaramente che il controllo preteso dalla legge non è di carattere meramente formale ed estrinseco ma riguarda la concreta affidabilità della ditta a svolgere, nel rispetto delle norme di sicurezza, i lavori da appaltare. Senonché per questa parte la norma, che pure lascerebbe prefigurare la possibilità di imputare al committente, in caso di scelta inadeguata, una sorta di culpa in eligendo, si rivela gravemente inadeguata per la sua estrema genericità, non essendo stati neppure approssimativamente indicati i parametri valutativi a cui attenersi onde esprimere, al di là del dato formale della iscrizione alla camera di commercio, un valido giudizio di idoneità tecnico-professionale con riguardo soprattutto agli aspetti dell’organizzazione prevenzionale.


— 965 — La lacuna forse potrà essere colmata in sede interpretativa, ma intanto esiste ed è tale da rendere assai vago e di scarsa efficacia deterrente il precetto. L’altro obbligo posto dalla lett. b) del comma 1 dell’art. 7 non costituisce una vera novità, perché richiama un dovere del committente già previsto nel d.P.R. 547/55 e, cioè, quello di fornire all’appaltatore e ai lavoratori autonomi chiamati ad operare all’interno dell’azienda dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente di lavoro e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate per combatterli. Gli aspetti più innovativi sono invece contenuti nel comma 2, laddove si prevede che i datori di lavoro, e cioè sia i committenti che gli appaltatori cooperino all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto e coordinino gli interventi prevenzionali, ‘‘informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva’’. Coordinare significa senza dubbio collegare razionalmente le varie fasi delle attività in corso, in modo da evitare disaccordi, sovrapposizioni, intralci che possono, come purtroppo insegna l’esperienza, accrescere notevolmente i pericoli per tutti coloro che operano nel medesimo ambiente; cooperare è qualcosa di più, perché vuol dire contribuire attivamente dall’una e dall’altra parte a predisporre ed applicare le misure di prevenzione e protezione necessarie. E qui sorge un grosso problema, perché se la cooperazione richiesta dalla legge dovesse intendersi come obbligo del committente di intervenire in supplenza dell’appaltatore tutte le volte in cui costui ometta, per qualsiasi ragione, di adottare le misure prevenzionali prescritte a tutela anche soltanto dei suoi lavoratori, allora si verrebbe a sanzionare per legge un’inammissibile ingerenza del primo nell’attività propria del secondo, al punto tale da stravolgere completamente la figura dell’appalto. Per superare quest’assurda conclusione, occorre quindi cercare di interpretare correttamente quell’inciso, per la verità assai oscuro ed equivoco, contenuto alla fine della frase del comma 2, lett. a) dell’art. 7, laddove si parla di ‘‘rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto’’. Cosa si è inteso indicare con tale espressione sicuramente limitativa? Sebbene la risposta non sia facile, a noi sembra di poter azzardare una linea interpretativa che si rivela rispettosa al tempo stesso sia delle esigenze di tutela dei lavoratori che dei principi fondamentali su cui poggia l’istituto dell’appalto. L’obbligo della cooperazione fra committente ed appaltatore è limitato soltanto all’attuazione di tutte quelle misure prevenzionali rivolte ad eliminare i pericoli che per effetto dell’esecuzione delle opere appaltate


— 966 — vanno ad incidere rispettivamente sia sui dipendenti dell’appaltante che su quelli dell’appaltatore. Qualora, invece, per la natura e le caratteristiche dell’attività commissionata, questa si può svolgere in una zona o in un settore separato, senza che i rischi si estendano fino a coinvolgere i dipendenti del committente, questi non avrà alcun motivo di intervenire sull’appaltatore per esigere da lui il rispetto della normativa di sicurezza, surrogandosi allo stesso qualora non vi provveda o revocando l’incarico e interrompendo il rapporto. Insomma la cooperazione deve ritenersi doverosa per eliminare o ridurre la fascia, spesso molto ampia, dei rischi comuni ai lavoratori delle due parti. Per il resto ciascun datore di lavoro dovrà provvedere autonomamente alla tutela dei propri prestatori d’opera subordinati, assumendosene la relativa responsabilità. A termine di questa breve disamina va ancora aggiunto che l’ultimo comma del citato art. 7 molto opportunamente si è preoccupato di imporre al committente non solo di coordinare il piano di sicurezza e di cooperare con l’appaltatore all’attuazione delle misure prevenzionali, ma anche di promuovere queste attività di collaborazione, escludendo ovviamente i rischi propri delle lavorazioni svolte dalle imprese appaltatrici. La richiesta di tale impulso promozionale è perfettamente in linea con lo spirito e la filosofia dell’intero d.lgs. n. 626/94. Non sono state comminate apposite sanzioni per le violazioni in materia d’appalto commesse dai soggetti indicati dall’art. 7, per la semplice ragione che di esse costoro rispondono nella qualità di datori di lavoro e quindi ai sensi dell’art. 89, comma 2, lett. a) e b). 4. Il nuovo regime sanzionatorio in materia prevenzionale risultante dal d.lgs. 758/94. — Allorché si è avvertita in Italia l’esigenza di operare un’ampia ‘‘depenalizzazione’’ di una serie sparpagliata di infrazioni costituenti il frastagliato territorio del così detto diritto penale del lavoro, è maturata contemporaneamente la consapevolezza che nel campo specifico della tutela antinfortunistica e dell’igiene del lavoro vi era la necessità opposta di rendere più severe le sanzioni e soprattutto di parificarle, in modo da eliminare le più vistose diseguaglianze che erano il retaggio di interventi legislativi spesso scoordinati e disomogenei e tali da rendere il meccanismo, nel complesso, abbastanza irrazionale e squilibrato. Il bisogno, inoltre, di attenuare le rigidità del sistema giurisdizionalizzato, per privilegiare una rapida eliminazione delle situazioni di pericolo da parte del contravventore, aveva spinto, sia pure con atteggiamento ondivago, i giudici di legittimità a ritenere in alcune pronunce che il provvedimento facoltativo di diffida adottato dagli organi di vigilanza fosse alternativo rispetto all’obbligo di denuncia all’A.G. delle contravvenzioni ac-


— 967 — certate, sicché in caso di adempimento a detta diffida l’azione penale non poteva essere neppure iniziata. Il d.lgs. 758/94 ha operato nel settore profonde innovazioni, disponendo, in primo luogo, per tutte le violazioni prevenzionali specificamente indicate in un apposito elenco, costituente l’allegato I del decreto, la sanzione della pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda: il che, oltre a rappresentare un cospicuo inasprimento della sanzione in sé, comporta anche l’effetto, non secondario, di aumentare della metà il termine della prescrizione dei reati, portandolo da due a tre anni e, con l’interruzione, fino a quattro anni e mezzo. In secondo luogo poi, sono stati esattamente individuati gli organi di vigilanza, titolari del diritto-dovere di impartire le prescrizioni, ribadendo sostanzialmente l’attribuzione di competenza al personale ispettivo delle USSL con qualifica di ufficiali di P.G., ma facendo salve altre diverse attribuzioni contenute in specifiche disposizioni di legge come, ad esempio, quelle relative ai Vigili del Fuoco, in materia antincendio, ai funzionari del Ministero dell’industria, nel settore minerario, e agli ispettori del lavoro per alcune attività lavorative qualificate particolarmente rischiose. Ma il maggiore spunto di originalità del d.lgs. 758/94 è senza dubbio offerto dal singolare meccanismo oblativo che il gruppo centrale di disposizioni contenute nel capo II (artt. dal 19 al 25) ha congegnato per ottenere l’estinzione di questo tipo di reati, bloccando sul nascere il promuovimento dell’azione penale. Si tratta in pratica, come è stato esattamente rilevato, di una parafrasi razionalizzata del modello di oblazione previsto dall’art. 162-bis c.p. (12), la cui logica di base è quella di favorire, mediante la concessione di una serie di vantaggi al contravventore, il pronto ristabilimento della situazione di diritto compromessa dalla sua condotta inosservante, nella giusta considerazione che, soprattutto in materia antinfortunistica, è più importante il raggiungimento di un risultato utile che non l’ottusa irrogazione di una pena fine a sé stessa. Perno centrale su cui ruota l’intera procedura è la ‘‘prescrizione’’, nuovo istituto che, per espresso dettato di legge (art. 25, comma 1), sostituisce sia la vecchia ‘‘diffida’’ che la ‘‘disposizione’’, riassumendo in parte le caratteristiche dell’una e dell’altra ma in una prospettiva e con effetti diversi. Essa si sostanzia in un provvedimento con il quale gli organi di vigilanza sopra indicati, nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria attribuite dall’art. 55 c.p.p. (fra cui è compreso, come è noto, oltre al dovere di prendere notizia dei reati, anche quello, importantissimo, di impe(12) L’espressione è di T. PADOVANI, Il nuovo volto del diritto penale del lavoro, in questa Rivista, 1995, n. 3.


— 968 — dire che gli stessi vengano portati ad ulteriori conseguenze), impartiscono al contravventore l’ordine di rimuovere la situazione di pericolo determinata dal suo comportamento criminoso, fissandogli un termine per la regolarizzazione che non potrà eccedere di regola il periodo di tempo tecnicamente necessario per provvedere all’incombente. Tale termine potrà essere prorogato a richiesta di parte, solo in dipendenza della particolare complessità e dell’oggettiva difficoltà dell’adempimento, ma non potrà superare in nessun caso i sei mesi. Prima di passare ad illustrare in sintesi le ulteriori fasi della procedura, conviene soffermarsi brevemente su alcuni rilievi che emergono anche ad una sommaria lettura delle norme in questione. Vi è innanzitutto da osservare che l’opportuna collocazione del provvedimento prescrittivo nell’ambito delle funzioni tipiche di p.g., oltre a ricondurre tutta la procedura nella sfera della giurisdizione, consente di escludere con certezza che esso abbia natura di atto amministrativo e quindi lo sottrae al regime delle impugnazioni mediante ricorso gerarchico o davanti al TAR, cosa che avrebbe gravemente compromesso ed inceppato la funzionalità e l’efficacia di tutto il sistema. Altri importanti rilievi riguardano il problema della sua obbligatorietà e del contenuto concreto che esso deve assumere. Quanto al primo punto, in dottrina si oscilla fra le tesi più rigoriste di chi ritiene che la prescrizione vada sempre e comunque impartita, trattandosi di un dovere vincolato per gli organi di vigilanza, e l’orientamento più sfumato e possibilista di chi sostiene che, pur non potendosi considerare il potere dell’organo di vigilanza come una mera facoltà, ci si trovi tuttavia di fronte ad una discrezionalità tecnica, nel senso che la prescrizione non dovrà (e non potrà) essere impartita, allorché risulti materialmente o giuridicamente impossibile: materialmente, quando la contravvenzione abbia compiutamente esaurito i suoi effetti e non sia, quindi, più prospettabile il ripristino di una situazione conforme a diritto; giuridicamente, quando il contravvventore abbia perso il potere (come, ad esempio, in conseguenza della rimozione dalla carica di responsabile aziendale) di garantire l’adempimento. Essendovi diversi argomenti, anche testuali, a favore dell’uno o dell’altro indirizzo, è francamente difficile, al punto in cui è giunto il dibattito, prendere una posizione netta e decisa. A nostro avviso, la tesi dell’obbligatorietà della prescrizione si rivela tutto sommato più convincente, sia perché trova sostegno nel punto b.1 della legge delega in forza della quale è stato emanato il d.lgs. 758/94 (in tale punto, infatti, è detto espressamente che la prescrizione deve essere obbligatoriamente impartita dagli organi di vigilanza), sia perché, diversa-


— 969 — mente opinando, si prospetterebbero evidenti problemi di legittimità costituzionale proprio per eccesso di delega (13). C’è da aggiungere, inoltre, che, come si dirà fra breve, gli effetti estintivi della contravvenzione sono sostanzialmente collegati, non tanto al ravvedimento operoso dell’indagato, quanto alla concreta cessazione della situazione di pericolo creata dalla sua condotta inosservante, cosicché se il rischio è venuto meno, anche per cause indipendenti dalla sua volontà, si è comunque pienamente realizzata la condizione richiesta dalla legge per dichiarare l’estinzione del reato, semprecché l’interessato si sottometta al pagamento di una somma pari ad un quarto della pena edittale massima prevista per quella ipotesi criminosa. L’organo di vigilanza darà allora atto dell’inutilità di impartire una prescrizione il cui scopo è stato già conseguito e non potrà conseguentemente rifiutare di ammettere il contravventore al pagamento in sede amministrativa del quarto del massimo dell’ammenda, comunicando al P.M. l’avvenuto adempimento, per il di più di sua competenza. Per quanto riguarda poi il caso del contravventore che, a causa della perdita del potere di intervenire a far rimuovere la violazione accertata, si trova nella giuridica impossibilità di avvalersi delle facoltà oblative concesse dalla legge, vi è da osservare che ciò non intacca minimamente l’obbligatorietà della prescrizione gravante sull’organo di vigilanza. Questa dovrà essere sempre impartita, anche se rivolta ad un soggetto che non potrà adempiere. Il problema sarà semmai di quest’ultimo, ma la questione non si prospetta in termini molto diversi da quelli che si pongono, in condizioni simili, per l’oblazione ordinaria ai sensi dell’art. 162-bis c.p. E, in proposito, è molto importante ricordare che, nel caso di contravvenzione i cui effetti antigiuridici si protraggono in permanenza, la cessazione della posizione di garanzia di un soggetto che ha perso il potere di arrestare la progressione criminosa del reato, determina l’automatico subentro nella violazione di altro soggetto che, con la propria inerzia, assume l’intera responsabilità di mantenerla in atto. A questi, pertanto, l’organo di vigilanza è tenuto ad impartire una nuova prescrizione ed il meccanismo oblativo ripartirà da quel punto nei confronti di chi è subentrato nella posizione di garanzia del primo. In proposito, vi è poi da segnalare che al comma 2 dell’art. 20 è stata inserita una disposizione destinata ad assumere un’enorme rilevanza, per gli effetti compulsivi che potrà produrre, se verrà puntualmente osservata. Gli organi di vigilanza sono tenuti, infatti, in forza di tale norma, a notificare o a comunicare copia della prescrizione impartita anche al rap(13) Nello stesso senso, cfr. F. ORIGLIO, La nuova disciplina in materia di sicurezza ed igiene del lavoro. Il d.lgs. n. 758/94. Aspetti processuali e sanzionatori, relazione presentata all’incontro di studio ‘‘Paolo Borsellino’’ sull’aggiornamento professionale per magistrati delle Procure circondariali, tenutosi su iniziativa del C.S.M. a Frascati il 5 dicembre 1995.


— 970 — presentante legale dell’ente nell’ambito o al servizio del quale opera od ha operato il contravventore. Tale adempimento evidentemente ubbidisce allo scopo precipuo di mettere in mora il vertice aziendale, affinché provveda tempestivamente ad attivarsi per porre riparo all’infrazione commessa dai suoi delegati. Qualora dovesse rimanere colposamente inerte, finirà inevitabilmente per assumere in proprio la responsabilità del protrarsi della violazione, facendo così ‘‘saltare’’ l’intero sistema delle deleghe di funzioni con effetti liberatorii e determinando una correità per omesso impedimento dell’evento dannoso (ex art. 40, comma 2, c.p.), nell’ipotesi in cui a causa di quella violazione si dovesse verificare un infortunio o una tecnopatia. La notifica o la comunicazione della prescrizione al legale rappresentante dell’azienda interessata rappresenta, dunque, un campanello d’allarme di grande efficacia sollecitatoria e tale da coinvolgere l’intera struttura organizzativa dell’ente, impegnandola nel tempestivo ripristino della legalità, vulnerata, anche soltanto in una sua zona periferica e marginale, dal comportamento inosservante di uno qualsiasi dei collaboratori del datore di lavoro. In ordine al problema del contenuto della prescrizione va rilevato che l’art. 20, al comma 1, nulla precisa al riguardo, mentre al comma 3, pone come facoltà dell’organo di vigilanza di ‘‘imporre specifiche misure atte a far cessare il pericolo per la sicurezza o per la salute dei lavoratori durante il lavoro’’. Un primo esame di tale disposto normativo sembrerebbe autorizzare la conclusione che il contenuto indefettibile della prescrizione sia ridotto in sostanza alla semplice reiterazione del precetto normativo violato (e ciò sulla falsariga della diffida), con la facoltà di indicare misure specifiche di prevenzione solo in alcuni casi di particolare urgenza e pericolo. L’assunto però non convince del tutto, perché nell’art. 24, comma 3, si regolamenta l’ipotesi in cui l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose della contravvenzione sia avvenuta ‘‘con modalità diverse’’ da quelle indicate dall’organo di vigilanza, segno questo che esso ha la possibilità (e il dovere) di stabilire in che modo si debba procedere alla rimozione della situazione antigiuridica accertata, indicando dettagliatamente le forme di adempimento da adottare in concreto. Ciò comporta indubbiamente un problema di controllo della discrezionalità tecnica dell’ufficiale di p.g., autore della prescrizione, e tale controllo non potrà che essere riservato al P.M. e al GIP. È previsto che, impartita la prescrizione e non oltre i sessanta giorni dalla scadenza del termine in essa fissato per l’adempimento, l’organo di vigilanza, che frattanto avrà provveduto a trasmettere al P.M. la notizia di reato, proceda obbligatoriamente alla verifica dell’avvenuta eliminazione della violazione, secondo le modalità e i tempi stabiliti.


— 971 — Se risulta che l’adempimento è avvenuto regolarmente, il contravventore è ammesso a pagare in via amministrativa allo stesso organo di vigilanza una somma pari ad un quarto del massimo edittale di pena pecuniaria prevista per la violazione commessa e di ciò verrà data comunicazione al P.M. che, a questo punto, non potrà fare altro che prenderne atto e chiedere l’archiviazione al GIP. Il procedimento, infatti, in pendenza del termine di adempimento rimane sospeso, in stato di quiescenza. Il che non impedisce al P.M. o di chiedere subito l’archiviazione del procedimento, qualora ritenga la notizia di reato manifestamente infondata, o di assumere prove con l’incidente probatorio, ovvero di compiere atti urgenti di indagine preliminare, chiedendo eventualmente anche il sequestro preventivo. In quest’ultima ipotesi, ove la concessione dell’eventuale dissequestro, richiesta dalla parte, venisse subordinata dal GIP all’eliminazione delle situazioni di pericolo, secondo modalità determinate, tale provvedimento finirebbe indubbiamente per sovrapporsi alla prescrizione dell’organo di vigilanza, con possibilità di contrasti e di interferenze non facilmente componibili. Se, invece, in sede di rivisita, l’organo di vigilanza accerti l’inadempimento totale o parziale della prescrizione, entro novanta giorni dalla scadenza del termine, dovrà darne comunicazione al contravventore ed al P.M. In tal caso, il procedimento riprenderà corso e molto probabilmente sfocerà in un rinvio a giudizio davanti al Pretore competente. Nell’ipotesi di adempimento fuori termine o con modalità diverse da quelle indicate nella prescrizione, il contravventore avrà tuttavia la possibilità di chiedere una forma di oblazione ai sensi dell’art. 162-bis c.p., versando però una somma ridotta ad un quarto, anzicché alla metà, del massimo edittale di ammenda, e tale richiesta potrà venire accolta ove il giudice ritenga che, comunque, il maggior termine impiegato dall’istante per rimuovere la situazione contravvenzionale riscontrata era da valutarsi congruo, in rapporto alla complessità e alla difficoltà dell’adempimento, o se ne era stato arbitrariamente imposto uno troppo ridotto, ovvero se le modalità adottate dalla parte per provvedere all’adempimento abbiano ugualmente conseguito il risultato di bonifica. Questa seconda possibilità di oblazione, che produce lo stesso effetto dell’estinzione del procedimento, differisce tuttavia dalla prima, che è di natura amministrativa, perché avviene davanti al giudice ed è inoltre sottoposta alle condizioni restrittive dettate dall’art. 162-bis c.p., nel senso che non è consentita, per esempio, al recidivo reiterato. Al contravventore che non si sia avvalso né della prima né della seconda forma di oblazione, rimane tuttavia ancora la possibilità di chiedere ed ottenere quella ordinaria, fino all’apertura del dibattimento, ma, in tal


— 972 — caso, la somma da versare alla cassa delle ammende non sarà più di un quarto, bensì della metà del massimo della pena edittale pecuniaria e ci sarà inoltre il rischio di rimaner privo di tale facoltà, sia per le condizioni soggettive di recidiva reiterata, sia per la valutazione da parte del giudice della particolare gravità dei fatti contestati. L’art. 22 del d.lgs. 758/94 prende in considerazione e regolamenta l’ipotesi in cui la notizia della contravvenzione venga acquisita direttamente dal P.M., ovvero egli la riceva da un privato o da pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio diversi dagli organi di vigilanza competenti. Per sottoporre anche questi casi al meccanismo procedurale della prescrizione impartita dall’organo tecnico e consentire conseguentemente al contravventore di avvalersi della facoltà di bloccare l’esercizio o il proseguimento dell’azione penale attraverso la tempestiva rimozione della situazione antigiuridica posta in essere, il legislatore ha opportunamente previsto una sorta di passaggio obbligato, nel senso di mettere l’organo di vigilanza nella condizione di potere impartire le prescrizioni per sollecitarne l’adempimento e conseguire la bonifica dell’ambiente di lavoro. All’uopo è stato previsto il dovere del P.M. di comunicare immediatamente al predetto organo di vigilanza competente la notizia di reato da altri acquisita, onde stimolare il potere dello stesso di impartire le disposizioni necessarie all’eliminazione della contravvenzione. Questi, ricevuta la comunicazione, è tenuto ad informare entro sessanta giorni il P.M. delle determinazioni adottate. Se emette le prescrizioni, il meccanismo procederà con i modi ed i tempi di quello ordinario. Nell’ipotesi in cui invece l’organo di vigilanza interessato ritenga di non dovere impartire alcuna prescrizione ovvero ometta nei sessanta giorni di informare il P.M. delle proprie determinazioni, il procedimento penale, a norma del comma 2 dell’art. 23, riprenderà il suo corso. E qui nasce un grosso problema, perché l’inerzia o la dichiarata astensione dell’organo di vigilanza dall’esercizio della sua facoltà prescrittiva, non essendo né l’una né l’altra soggetta ad alcun sindacato di merito, potrebbe dar luogo ad un’arbitraria ed ingiustificata compressione del diritto del contravventore di accedere al beneficio dell’oblazione in via amministrativa. La legge nulla dice al riguardo e non contempla alcun rimedio. C’è da chiedersi innanzitutto se l’organo di vigilanza sia tenuto a motivare le ragioni del suo eventuale rifiuto ad impartire le prescrizioni d’adempimento ed, in secondo luogo, se il privato che, pur in difetto di tali indicazioni, provveda ad eliminare entro i tempi tecnici necessari a farlo, le rilevate contravvenzioni, possa o no essere ammesso quanto meno a quell’altra forma di oblazione prevista dal comma 3 dell’art. 24 che consente, pur nelle forme dell’art. 162-bis c.p., il pagamento ridotto ad un quarto del massimo edittale della pena pecuniaria.


— 973 — Accedere ad una siffatta proposta interpretativa comporta sicuramente una qualche forzatura delle norme in materia, forzatura forse giustificata dalla necessità di superare un’evidente lacuna della legge, da cui discende un’indubbia ed irragionevole disparità di trattamento dei contravventori. Ma, allo stato, il dilemma francamente appare insolubile e non rimane che attendere pazientemente le prime pronunce giurisprudenziali, nella speranza che esse siano puntuali e chiarificatrici. Concludendo, possiamo affermare che la nuova disciplina sanzionatoria in materia prevenzionale ha dei tratti salienti che la collocano, tutto sommato, nell’ambito di un impianto legislativo orientato a potenziare il ricorso a meccanismi ed istituti genericamente definibili di tipo ‘‘premiale’’, poiché si tende chiaramente a privilegiare le forme di adempimento, sia pur tardivo, dei precetti antinfortunistici e di igiene del lavoro, ripudiando la repressione pura e semplice delle inadempienze, nella giusta convinzione che, soprattutto in questo campo, conta molto di più il raggiungimento di un risultato utile di bonifica che non l’applicazione di sanzioni, la cui efficacia deterrente serve assai poco a stimolare una maggiore cultura della sicurezza, senza della quale difficilmente il nostro paese potrà raggiungere i livelli degli altri Stati della Comunità economica europea. ANGELO CULOTTA Magistrato


CONSIDERAZIONI IN TEMA DI RIPARAZIONE PER L’INGIUSTA DETENZIONE

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. I principi costituzionali di riferimento. — 3. L’errore riparabile nel sistema vigente. — 4. La tutela del diritto alla riparazione. — 5. Diritto alla riparazione e induzione all’errore.

1. Premessa. — L’istituto della riparazione per l’ingiusta detenzione costituisce una « novità assoluta » rispetto alla legislazione previgente e, fin dal suo primo esordio nella legge delega del 1974 (dir. n. 81), fu salutata dalla più autorevole dottrina come « il punto più elevato » della riforma, « quasi la sintesi dello spirito » che la animava (1). La garanzia relativa alla riparabilità dell’errore giudiziario è stata estesa, dall’art. 314 c.p.p., alla custodia cautelare ingiustamente sofferta e copre sia l’ipotesi della ingiustizia sostanziale (proscioglimento dell’accusato), sia l’ipotesi della ingiustizia formale (illegittimità della misura disposta, qualunque sia l’esito del processo). Nel codice del 1930 il principio della riparazione era delimitato entro i confini del giudicato riconosciuto erroneo in sede di revisione, mentre le ipotesi di carcerazione preventiva illegittima o ingiusta rimanevano totalmente escluse dall’area delle situazioni meritevoli di indennizzo. La disposizione di riferimento era l’art. 571 il quale attribuiva la facoltà di chiedere una riparazione pecuniaria al solo condannato successivamente assolto in sede di revisione, sempre che egli provasse, date le sue condizioni economiche, di averne bisogno per sè o per la sua famiglia (2). L’istituto, così delineato, veniva a fondarsi non sul fatto dell’erroneità della condanna che aveva prodotto una lesione alla libertà dell’individuo, (1) CONSO, Il lungo e laborioso cammino verso la riforma del processo penale, in Arch. pen., 1967, p. 203. (2) Ai fini della concessione della riparazione era inoltre necessario che il condannato avesse espiato una pena detentiva per almeno tre anni (o fosse stato sottoposto a misure di sicurezza detentive per non minore durata); non avesse riportato un’altra condanna per delitto, qualunque fosse stata la pena, in tempo anteriore o posteriore alla pronuncia della sentenza di condanna annullata; non avesse dato nè fosse concorso a dar causa, con dolo o colpa grave all’errore del giudice. La domanda poteva essere proposta, durante il corso del procedimento di revisione o successivamente; in quest’ultimo caso doveva essere presentata, a pena d’inammissibilità, entro diciotto mesi dalla pronuncia della sentenza di annullamento senza rinvio o dal passaggio in giudicato della sentenza di assoluzione.


— 975 — bensì sullo stato di bisogno, in relazione al quale l’intervento dello Stato assumeva le vesti di un soccorso, di un’azione caritatevole (3). Questa impostazione rispecchiava l’influenza esercitata dalla scuola positiva sulla dottrina del tempo (4). Ci si riferisce, in particolare, al principio della difesa sociale e alla cosiddetta concezione unitaria del processo penale. Come è ben noto, secondo il principio della difesa sociale il processo non doveva tendere alla tutela dell’innocenza, ma alla difesa della società e, pertanto, i diritti del cittadino erano destinati ad « affievolirsi » tutte le volte in cui fossero entrati in conflitto con l’esercizio del « magistrato punitivo » (5). Di qui l’elaborazione della cosiddetta teoria unitaria del processo penale, secondo la quale lo Stato doveva essere considerato espressione di ogni interesse, contro il quale non occorreva nè era possibile specifica garanzia. Il processo penale, per adempiere efficacemente alla sua funzione repressiva doveva tendere al raggiungimento della verità assoluta o materiale. Con una duplice conseguenza: il conferimento al giudice di un potere quasi illimitato nella ricerca delle prove (6) e l’utilizzo della carcerazione preventiva come misura pressoché ordinaria se non addirittura come prius necessario per le indagini (7). 2. I principi costituzionali di riferimento. — Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, la disciplina descritta doveva misurarsi con i nuovi principi di uno Stato democratico. Nell’ambito della tematica relativa alla libertà personale, assumevano particolare rilevanza gli artt. 13, 24 e 27 Cost. L’art. 13 proclama l’inviolabilità della libertà personale imponendo, al contempo, una duplice riserva, di legge e di giurisdizione, su ogni possibile forma di intervento. Il quinto comma di detto articolo, fissando l’obbligo per il legislatore ordinario di « stabilire i limiti massimi della car(3) MANZINI, Diritto processuale penale, vol. VI, Torino, 1952, p. 722. (4) Tra i massimi esponenti di questo indirizzo, v. in particolare, CARNEVALE, L’ideale giuridico della procedura penale, in Diritto criminale, vol. III, Roma, 1932, p. 315; FERRI, Il diritto di punire come difesa sociale, Torino, 1882; GAROFALO, Criminologia, Torino, 1885, p. 212; LAVAGNA, La dottrina nazionalsocialista del diritto nello Stato totalitario, in Riv. it. dir. pen. 1939, p. 140 e s. (5) Si veda, sul punto, FLORIAN, Il processo penale e il nuovo codice, Padova, 1930, p. 12; MANZINI, op. cit., vol. I, p. 95, nota 1; SAILIS, I presupposti fondamentali dei rapporti tra individuo e Stato fascista, in Studi economico-giuridici della Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Cagliari, Milano, 1938, p. 417. Per un’attenta analisi critica, diffusamente NOBILI, Il libero convincimento del giudice, Milano, 1974, pp. 222 e s.; nonché GREVI, Ideologie e valori nella tematica della libertà personale, Pavia, 1975, pp. 1-36. (6) V., sul punto, NOBILI, op. cit., p. 39. (7) Cfr. AMATO, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Milano, 1967, p. 301 e s.; PISAPIA, Orientamenti per una riforma della custodia preventiva nel processo penale, in Riv. dir. proc., 1965, p. 74; e, più recentemente, GREVI, op. cit., p. 3.


— 976 — cerazione preventiva » riconosce, implicitamente, la possibilità di far luogo alla custodia in carcere in corso di processo. Pur essendo chiaro che il ricorso alla custodia cautelare è ammesso nel rispetto delle garanzie di ogni altro intervento sulla libertà personale (art. 13, commi 1 e 2), nulla è detto in ordine alle finalità che devono sorreggere l’applicazione di detto istituito. Questo problema di « vuoto dei fini » è stato risolto dalla dottrina (8) richiamando altre disposizioni costituzionali, ed in particolare il principio enunciato dall’art. 27, comma 2 Cost., secondo il quale l’imputato non può essere considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Sul punto va in primo luogo rilevato che la formula adottata dall’art. 27/2 Cost. si differenzia, non soltanto sotto il profilo terminologico, ma anche semantico, da quella contenuta nell’art. 9 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (successivamente accolta nell’art. 6, n. 2 della Convenzione europea e nell’art. 14, n. 2 del Patto internazionale), dove il riferimento è alla « presunzione d’innocenza ». Mentre quest’ultima si ricollega alle tecniche di accertamento del fatto, nel senso che induce ad escludere qualsiasi onere probatorio a carico dell’imputato, risolvendosi nella regola in dubio pro reo, il principio di non colpevolezza esprime essenzialmente una regola di trattamento dell’imputato nel corso del processo, imponendo di verificare che gli strumenti atti a dar vita alla custodia preventiva non ne consentano una utilizzazione a scopo punitivo. È stato quindi segnalato un problema di compatibilità delle norme ordinarie che provvedono alla limitazione della libertà personale con le disposizioni costituzionali menzionate, che fungono entrambe da parametro di riferimento (9). Se da un lato, il combinato disposto degli artt. 13 e 27/2 Cost. non esclude il ricorso alla custodia preventiva, dall’altro ne impedisce un utilizzo indiscriminato, imponendo di ritenere illegittime tutte le ipotesi assimilabili, sotto il profilo sostanziale, ad una delle sanzioni tipiche applicabili ad un accertamento definitivo di colpevolezza. In questa cornice garantista si inserisce l’art. 24 Cost., il quale, nell’individuare i canoni fondamentali di un giusto procedimento, all’ultimo comma dispone: « La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari ». Tale previsione, accolta come « rivoluzionaria », esprime l’esigenza (8) Sul punto, v. AMATO, op. cit., p. 381; ANDRIOLI, Appunti di procedura penale, Napoli, 1965, p. 32; CARNELUTTI, Principi del processo penale, Napoli, 1960, p. 177; CONSO, Istituzioni di diritto processuale penale, III ed., Milano, 1969, p. 115; GREVI, op. cit., p. 19 e s.; ILLUMINATI, La presunzione di innocenza dell’imputato, Bologna, 1979, p. 44; PISAPIA, Orientamenti per una riforma della custodia preventiva nel processo penale, in Riv. dir. proc. 1965, p. 78. (9) Sul punto, si veda AMODIO, La tutela della libertà personale dell’imputato nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in questa Rivista, 1967, p. 863 e s.; TIRELLI, Sulla revoca del mandato di cattura, Milano, 1987, p. 34 e s.


— 977 — concreta non di « alleviare la miseria morale od economica delle vittime degli errori giudiziari, ma di colpire e riparare l’errore come tale » (10). Si riconosce pertanto un vero e proprio diritto soggettivo alla riparazione, che discende dal danno obiettivamente ingiusto arrecato dallo Stato nell’esercizio della pur legittima e necessaria attività giurisdizionale (11). Non è mancato tuttavia chi, ritenendo ininfluente il dettato costituzionale sulle norme del codice di procedura penale (12), ha continuato a configurare la riparazione entro gli schemi dell’interesse protetto (13). Il dibattimento circa i reali limiti di incidenza della norma costituzionale sulla fisionomia dell’istituto era definitivamente risolto con l’entrata in vigore della legge 23 maggio 1960 n. 504, modificativa degli artt. 571 e sgg. c.p.p. Il nuovo art. 571 stabiliva che chi fosse stato assolto a seguito di giudizio di revisione, sempreché non avesse dato o fosse concorso a dar causa per dolo o colpa grave all’errore giudiziario, aveva diritto ad un’equa riparazione, commisurata alla durata della eventuale carcerazione o internamento ed alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna. Non si trattava più di un soccorso caritatevole, ma di un’indennità che lo Stato per ragioni di equità riconosceva alla vittima di una decisione ingiusta. Rimaneva peraltro immutato il presupposto della procedura riparatoria, ossia il riconoscimento, a seguito di giudizio di revisione, dell’errore giudiziario « consacrato » in una sentenza irrevocabile di condanna. I casi di detenzione ante iudicatum restavano ancora esclusi dall’ambito delle situazioni meritevoli di indennizzo. Il generico riferimento all’errore giudiziario ad opera dell’art. 24, comma 4, Cost. dava tuttavia luogo ad un ampio dibattito. Mentre alcuni si limitavano ad osservare che la disposizione lasciava ampi margini al legislatore col solo vincolo di ri(10) SICA, La riparazione degli errori giudiziari, in Rass. dir. pubbl., 1965, p. 548. Nello stesso senso CAVALLARI, La riparazione degli errori giudiziari secondo l’art. 24, ult. comma della Costituzione, in Giust. pen., 1954, c. 266. (11) In questo senso, BELLAVISTA, Lezioni di diritto processuale penale, Milano, 1960, p. 439; CAVALLARI, op. cit., c. 272; CICALA, La riparazione alle vittime degli errori giudiziari secondo l’art. 24, ult. comma, della Costituzione, in Rass. dir. pubbl., 1958, p. 184; CALAMANDREI, Sulla riparazione degli errori giudiziari, in Il ponte, 1954, p. 799; CRISAFULLI, Manuale dei diritti del cittadino, II ed., 1950, pp. 61-62; DEL POZZO, La libertà personale, Torino, 1962, p. 62; LEONE, Lineamenti di diritto processuale penale, Napoli, 1958, pp. 540-541; SICA, op. cit., p. 548 e s.; RUFFINI, Per una nuova disciplina della riparazione dei danni materiali e non materiali derivanti da errore giudiziario o da ingiusta carcerazione preventiva, in Montecitorio, 1966, p. 61. (12) Si veda MARUCCI, voce Errore giudiziario, in Enc. forense, vol. III, 1958, p. 504; PALMERINI, La Costituzione e la riparazione degli errori giudiziari, in Rass. Studi Penit., 1955, p. 467 e s.; SANTORO, Manuale di diritto processuale penale, Torino, 1954, p. 690; VENDITTI, L’art. 24 della Costituzione e l’attuale disciplina della riparazione degli errori giudiziari, in Giust. civ., 1957, III, p. 293 e s. (13) Cfr., tra gli altri, SABATINI, Principi di diritto processuale penale, vol. II, Catania, 1949, p. 360; VANNINI, op. cit., p. 321.


— 978 — comprendervi il proscioglimento a seguito di revisione (14), altra parte, con riferimento all’art. 27 comma 2 Cost., riteneva ricompresa l’ipotesi dell’ingiusta detenzione. Alla luce della presunzione di non colpevolezza, non poteva infatti ammettersi « l’accollo all’imputato del rischio della custodia in carcere per fini cautelari », senza riconoscergli almeno il diritto ad una congrua riparazione nell’ipotesi di carcerazione indebitamente subita (15). Indice della insoddisfacente soluzione della legge n. 504, fu la presentazione del disegno di legge, « Concessione di un’equa riparazione a chi sia stato erroneamente carcerato per almeno sei mesi », tendente ad integrare il nuovo art. 571 c.p.p. Si prevedeva la concessione di una riparazione anche nel caso in cui l’errore fosse riconducibile alla decisione di catturare, e di tenere in stato di carcerazione preventiva, una persona di cui fosse dimostrata l’innocenza (16). Il disegno di legge non solo non ebbe alcun seguito, ma segnò per diverso tempo l’ultimo rilevante tentativo di regolare legislativamente la materia. Della questione, peraltro, fu investita la Corte costituzionale. Secondo il giudice a quo, di « errore giudiziario » doveva parlarsi in relazione ad « ogni provvedimento giurisdizionale che privi il cittadino di uno dei suoi diritti fondamentali (tra cui quello della libertà personale) e che, successivamente, venga riconosciuto erroneo da altro, e definitivo, provvedimento giurisdizionale ». Non v’era ragione alcuna — sosteneva il tribunale di Milano — per ammettere il diritto alla riparazione soltanto in relazione ad alcuni errori ed escluderlo per altri (17). La sentenza costituzionale del 24 giugno 1969 n. 1 dichiarò non fondato il ricorso. La legge n. 504/60 veniva riconosciuta esente da rilievi di incostituzionalità: una normativa che si limitava a dare attuazione parziale ad un principio costituzionale, e non tale da precludere ulteriori estensioni dell’istituto, non poteva per ciò solo ritenersi illegittima. Tuttavia, dopo aver sottolineato l’importanza che l’ultimo comma dell’art. 24 assumeva nell’ambito delle garanzie costituzionali poste a tutela dei « diritti inviolabili dell’uomo » (art. 2 Cost.), la Corte riconosceva che per la sua formulazione in termini estremamente generali, il principio della ripara(14) GERACI, op. cit., p. 751; GUADAGNO, op. cit., p. 3; GUIDA, L’errore giudiziario, in Foro pen. 1959, cc. 26 e s.; PEZZATINI, La custodia preventiva, Milano, 1954, p. 277; VENDITTI, op. cit., p. 299. (15) Così, GREVI, op. cit., p. 306. Nello stesso senso, BUZZELLI, Errore giudiziario e risarcimento dei danni, in Giust. pen. 1951, I, c. 170; CAPALOZZA, op. cit., p. 103; CAVALLARI, cit., p. 277; CRISAFULLI, op. loc. cit. (16) Si veda il disegno di legge n. 1228 di iniziativa Chabod e Lami, comunicato alla presidenza del Senato il 6 ottobre 1960, in questa Rivista, 1961, p. 111 e s. (17) Trib. Milano, sez. I civ., 15 dicembre 1966, in questa Rivista 1967, p. 358, con nota di TRANCHINA, Dubbi sulla legittimità costituzionale delle norme che disciplinano la riparazione degli errori giudiziari.


— 979 — zione giudiziaria postulava la necessità di « appropriati interventi legislativi, indispensabili a conferirgli concretezza e determinatezza di contorni, dandogli così pratica attuazione » (18). Del resto, l’esigenza di un’espressa regolamentazione dell’istituto era imposta dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (19) e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici (20). Ci si riferisce, in particolare, all’art. 5 punto 5 della Convenzione europea (« Ogni persona vittima di arresto o detenzione in violazione di una disposizione di questo articolo ha diritto ad una riparazione ») e all’art. 9 punto 5 del Patto internazionale (« Chiunque sia stato vittima di arresto o detenzione illegali ha diritto ad un indennizzo »), i quali risultano accomunati da una medesima matrice ed ispirazione di fondo: assicurare la riparazione in tutte le ipotesi di restrizione della libertà disposta contra legem. La dottrina (21), tuttavia, se da un lato riconosceva alle pattuizioni internazionali il merito di aver soccorso alla mancanza di una disciplina interna in materia (22), dall’altro, rilevava che tali clausole erano insufficienti a fornire una tutela adeguata al fondamentale diritto consacrato nell’art. 13 Cost. Infatti, le disposizioni in parola disciplinano fattispecie riparatorie legate esclusivamente a valutazioni ex ante, tralasciando tutte quelle situazioni originate da misure custodiali legittime al momento della loro attuazione, ma in seguito rivelatesi ingiuste (23). 3. L’errore riparabile nel sistema vigente. — « Non v’è forma di processo, non v’è ordinamento di giudizio, non v’è sistema di prova che possa garantire del tutto dalla possibilità di errore(...). Il processo penale non può proporsi come scopo di accertare la verità oggettiva; se così fosse, si affiderebbe al giudice un compito superiore alle possibilità umane(...). Esso, al contrario, mediante la valutazione degli elementi pro(18) Corte cost., 24 gennaio 1969, n. 1, in Giur. cost., p. 1 e s. (con nota critica di CHIAVARIO, La riparazione alle vittime degli errori giudiziari in balia del legislatore ordinario?). (19) Ratificata con legge 4 agosto 1955 n. 488. (20) Ratificata con legge 25 ottobre 1977, n. 881. (21) GREVI, op. cit., p. 307; nonché COPPETTA, Verso la riparazione della custodia cautelare ingiusta, in questa Rivista, 1986, p. 1188. (22) Le Carte internazionali, infatti, conferiscono ad ogni persona vittima di illegittime violazioni della propria libertà sia il diritto al recours effectif devante une istance nationale, sia la legittimazione al ricorso individuale alla Commissione europea. Per un’analisi approfondita sul punto, cfr., fra gli altri, CHIAVARIO, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, Milano, p. 180 e s.; GALLI, Diritto alla riparazione degli errori giudiziari, in Giust. e Cost. 1980, p. 46; PISANI, La riparazione dell’ingiusta carcerazione preventiva, in Libertà personale e processo, 1974, p. 116; e recentemente, COPPETTA, La riparazione per ingiusta detenzione, Padova, 1993, p. 81 e s. (23) Così GREVI, op. loc. cit.


— 980 — batori, persegue nell’interesse della società il fine di raggiungere la certezza processuale, che scaturisce dalle prove legittimamente raccolte(...). L’errore giudiziario comprende tutti quei casi nei quali la decisione del giudice appare per qualsiasi motivo discorde dalla verità o contraria a giustizia, indipendentemente dal passaggio in giudicato della sentenza o dall’innocenza o colpevolezza dell’imputato » (24). Con queste parole nel 1962 si apriva a Lecce il Convegno in tema di « Errore giudiziario e riparazione pecuniaria » mentre la mutata cultura giuridica portava alcuni tra i più prestigiosi studiosi della materia a segnalare l’esigenza di una rivisitazione dell’intero sistema processuale (25). Il lungo e laborioso cammino della riforma che, iniziato nel 1963, aveva portato all’approvazione della legge delega del 1974 e alla stesura nel 1978 del « Progetto preliminare di un codice di procedura penale », è approdato, dopo un lavoro più che ventennale, alla redazione definitiva nel 1988 di un codice tendente all’acquisizione dei principi del sistema accusatorio ed ispirato ad una concezione dei rapporti Stato-cittadino maggiormente rispettosa dell’individuo e della sua libertà. L’istituto della riparazione per ingiusta detenzione costituisce il frutto dei processi di osmosi tra l’iter della riforma organica e i tentativi di interventi settoriali nella legislazione del 1930 (26). I tempi lunghi della riforma avevano infatti sollecitato la redazione di numerosi progetti di legge che pur non traducendosi mai in istituti di diritto positivo, ebbero il merito di sancire con fermezza il « diritto ad ottenere » una riparazione, superando l’impostazione precedente che prevedeva invece una semplice « legittimazione a chiedere » l’indennizzo (27). In attuazione della direttiva n. 100 della legge-delega del 1987, il codice di procedura penale vigente prevede e disciplina il nuovo istituto della riparazione per ingiusta detenzione nel capo VIII, titolo I, del libro IV dedicato alle misure cautelari. L’errore giudiziario riconosciuto a seguito di revisione è invece disciplinato dagli artt. 643-647 all’interno del titolo IV, libro IX sulle impugnazioni. Sebbene la scelta di regolamentare (24) SCARDIA, Errore giudiziario e riparazione pecuniaria, in Atti del convegno di Lecce, op. cit., p. 23. (25) Ci si riferisce al Convegno di studiosi del processo penale presieduto da Carnelutti, che nel 1963 proponeva nella « bozza per uno schema del codice di procedura penale » una riforma sostanziale e sotto diversi aspetti perfino rivoluzionaria del sistema allora vigente. (26) Così, COPPETTA, op. ult. cit., p. 95. (27) Secondo la formula dell’art. 300 del Progetto del 1978 alla vittima di una carcerazione cautelare seguita da un’assoluzione non veniva riconosciuto un diritto alla riparazione, bensì la sola possibilità di chiederla e l’interesse a che il giudice competente, valutando con le regole dell’equità, non trasformasse la discrezionalità in arbitrio. In effetti, non si ravvisano differenze rilevanti tra tale formulazione e la versione originaria del codice del 1930.


— 981 — separatamente i due istituti non sia andata esente da critiche (28), ciò che preme sottolineare ai fini del presente studio è il particolare valore ideologico e culturale dell’innovazione legislativa. L’istituto della riparazione trova oggi il suo fondamento nella necessaria conformità di ogni attività statale ai principi della Costituzione. È stato scritto, in proposito, che l’attività giurisdizionale, costituendo la traduzione specifica del sistema giuridico a fatti e situazioni concrete per l’amministrazione della giustizia, deriva la sua validità ed operatività dalla conformità a quello. Conseguentemente, i vizi che alterino tale ruolo non possono non investire gli effetti prodotti. In quest’ottica, la riparazione assume quindi un significato di fondamentale importanza, essendo diretta ad eliminare gli effetti dell’atto giurisdizionale viziato, definito e assunto come errore giudiziario: « l’errore come tale, infatti, interessa ed investe lo Stato. Pertanto, l’inerzia dell’ordinamento, di fronte ad un evento siffatto « implicherebbe una carenza del sistema » (29). La valutazione dell’atto giurisdizionale viziato deve essere operata assumendo come punto di riferimento il sistema delle misure cautelari disegnato dal codice di procedura penale vigente. Una delle più rilevanti novità introdotte dal legislatore del 1988 consiste nella giurisdizionalizzazione dei provvedimenti limitativi della libertà personale. Il principio in parola aveva già trovato parziale riconoscimento con la legge istitutiva del riesame davanti al c.d. Tribunale della libertà (legge 532/82), e, più recentemente, con la legge n. 330 del 1988 che sottraeva al pubblico ministero il potere di cattura. Il codice vigente, tuttavia, supera il limite segnato da queste leggi (30) e riserva all’organo giurisdizionale procedente, quale garante dei diritti fondamentali, la titolarità esclusiva dei poteri in materia di restrizione della libertà personale (art. 279). A tale previsione fa riscontro — nel quadro di una effettiva attuazione del precetto di cui all’art. 13, comma 2, Cost. — la disposizione dell’art. 272, secondo la quale « le libertà della persona possono essere limitate con misure cautelari soltanto a norma delle disposizioni del presente titolo ». I presupposti di applicazione delle misure cautelari — sia con riferimento al fumus commissi delicti, sia con riferimento alla sfera del periculum libertatis — sono infatti fissati in modo tassativo. Quanto al primo aspetto, l’art. 273, comma 1, individua quale condizione generale di applicabilità la sussistenza a carico del destinatario di gravi, e non più soltanto sufficienti, indizi di colpevolezza, mentre al se(28) Sul punto, si veda COPPETTA, op. cit., pp. 75 e 100. (29) SICA, op. cit., p. 549 e s.. Sul punto si veda, altresì, COPPETTA, Verso la riparazione, op. cit., p. 1182; TRANCHINA, voce Riparazione alle vittime degli errori giudiziari, in Noviss. dig. it., vol. XV, Torino, 1968, p. 1195. (30) Controllo giurisdizionale solo successivo, nella prima; concentrazione del potere di cattura nel giudice istruttore, che era organo investigativo, nella seconda.


— 982 — condo comma impone alla competente autorità l’accertamento negativo circa la sussistenza di una delle cause di non punibilità, ovvero di estinzione del reato o della pena elencate nelle medesima disposizione. Per quanto concerne il periculum libertatis, l’art. 274 si preoccupa di determinare le « esigenze cautelari » idonee a giustificare, insieme al presupposto rappresentato dai gravi indizi di colpevolezza, l’adozione delle misure cautelari. Al riguardo la previsione normativa è esplicita non solo nel sottolineare, per un verso, come si tratti di esigenze ciascuna autonomamente sufficiente a legittimare il ricorso allo strumento cautelare, ma anche, per altro verso, come nessuna misura possa venire disposta se non in base al concreto accertamento di una delle suddette esigenze (31). Tra le disposizioni generali del libro IV va inoltre segnalato l’art. 275 c.p.p., che individua nei principi di adeguatezza e proporzionalità i criteri di scelta delle misure cautelari (32). Il principio di adeguatezza impone al giudice di tener conto della specifica idoneità di ciascuna misura a soddisfare la natura e il grado delle esigenze cautelari nel caso concreto. Una particolare specificazione di tale criterio è quella espressamente prevista dal terzo comma del medesimo articolo, che consente di disporre la custodia cautelare in carcere soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata (33). (31) A seguito della l. 8 agosto 1995, n. 332, l’art. 274 c.p.p. è stato quasi interamente riscritto. Le modifiche apportate potrebbero sembrare vistose, ma in effetti, non lo sono, se è vero che, pur avendo il legislatore « ridefinito con particolare cura alcuni fra i presupposti indicati dall’art. 274 c.p.p. » e « irrigidito altre prescrizioni connesse », non si può fare a meno, tuttavia, di « nutrire dubbi, al di là del messaggio inviato agli operatori, sull’efficacia del risultato » (cfr. ILLUMINATI, Commento all’art. 3 l. 8 agosto 1995, n. 332, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale, Nuovi diritti della difesa e riforma della custodia cautelare, Padova, 1995, p. 70. V. anche D’AMBROSIO, La riforma dell’8 agosto 1995, in Dir. pen. e proc., 1995, pp. 1170-1173). (32) L’intervento legislativo del 1995 su questo articolo è di portata più consistente, innanzitutto perchè incide sulla delimitazione della sfera di applicazione delle misure cautelari, ed in particolare della custodia in carcere, secondo un più rigoroso rispetto della regola del minimo sacrificio per l’inquisito. In secondo luogo, perchè rafforza l’onere di motivazione del giudice (Cfr. ZAPPALÀ, Commento agli artt. 4 e 5 l. 8 agosto 1995, n. 322, in AA.VV., Modifiche al codice, cit., p. 83). (33) Questa regola, tuttavia, è stata fortemente attenuata dalla legge n. 203 del 1991, poi sostituita dalla legge 8 novembre 1991 n. 356, la quale, innovando il terzo comma dell’art. 275, ha stabilito che in relazione a determinati reati di particolare gravità debba essere sempre disposta la custodia cautelare in carcere a meno che vengano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari. Il legislatore ha così privilegiato la difesa sociale rispetto alle esigenze di garanzia dei diritti primari dei singoli. Non soltanto, infatti, la custodia è vista come l’unica adeguata « risposta » alla presunta commissione da parte dell’indagato di determinati reati, ma viene altresì posto a carico di quest’ultimo l’onere di fornire elementi dai quali emerga che non sussistono le esigenze cautelari, con grave pregiudizio della presunzione di non colpevolezza dell’imputato, come regola di giudizio oltre che come regola di trattamento. La legge 8 agosto 1995 n. 332 ha lasciato immutata la disciplina descritta, limitandola però ai delitti di associazione a delinquere di tipo mafioso (art. 416-bis


— 983 — In forza del principio di proporzionalità il giudice, nel determinare la misura più idonea, è tenuto a valutare la sua congruità rispetto al fatto addebitato e, quindi, al quantum di pena che in concreto possa essere irrogato (34). L’art. 303 si preoccupa poi di stabilire i termini massimi di durata della custodia in carcere. Dalle disposizioni citate emerge un quadro normativo che vincola la discrezionalità dell’autorità giudiziaria, ora costretta ad una valutazione più attenta e circoscritta nell’adozione delle misure cautelari. Valutazione in ordine alla quale l’errore appare configurabile in modo più stringente, dovendo il giudice, tra l’altro, esporre nel provvedimento limitativo della libertà personale le « specifiche esigenze cautelari e gli indizi che giustificano in concreto la misura, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi della loro rilevanza » (art. 292, comma 2, lett. c) (35). Al mutato assetto dei rapporti autorità — libertà all’interno del processo corrisponde l’accoglimento di una diversa nozione di verità processuale. Il codice di procedura penale vigente è infatti espressione di un nuovo modello culturale, non più fondato sul « monismo dell’idea della verità » (che trovava la sua formale consacrazione nell’art. 299 del c.p.p. 1930) (36), bensì retto da una concezione etica e logica dell’accertamento processuale che deve essere condotto secondo regole ben precise, un certo rito, in armonia con i diritti inviolabili dell’individuo, primo fra tutti la libertà personale. È stato osservato, sul punto, che il problema della verità non riguarda c.p.) e ai delitti consumati o tentati commessi con metodi o finalità mafiose. È, inoltre, stato inserito un secondo comma bis, il quale preclude l’applicabilità della misura della custodia cautelare se il giudice ritiene che, per il reato per cui si procede, potrà, in caso di condanna, o di sentenza a questa equiparata, essere concessa la sospensione condizionale della pena. (34) L’art. 280, anch’esso modificato dalla legge 8 agosto 1995, n. 332 consente al giudice di applicare le misure coercitive diverse dalla custodia in carcere solo quando si proceda per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni. La misura della custodia in carcere può essere invece applicata solo quando si proceda per delitti consumati o tentati puniti con l’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni. (35) La legge n. 332 del 1995 ha innovato anche l’art. 292, comma 2 c.p.p. che stabilisce il contenuto dell’ordinanza applicativa di misure cautelari. La norma, nel suo complesso, mira a rafforzare l’obbligo di motivazione del giudice, predeterminando con maggiore specificità i punti che essa deve trattare, traendo spesso spunto dalle prassi giudiziarie per cercare di correggerne le presunte distorsioni. Per la verità, quasi tutte le nuove indicazioni erano ricavabili dal sistema precedente comunque insite nell’obbligo di completezza della motivazione, mentre la volontà di procedere a specificazioni eccessive ha provocato problemi di interpretazione non sempre risolubili con facilità (cfr. GIOSTRA, Commento all’art. 9 l. 8 agosto 1995, n. 332, cit., pp. 131 e ss.). (36) Così, DE LUCA, Cultura della prova e nuovo costume giudiziario, in AA.VV., Il nuovo processo penale dalla codificazione all’attuazione, Milano, 1991, p. 21.


— 984 — solo la conoscenza del fatto controverso, non si risolve in un mero problema tecnico e come tale neutro, indipendente dai valori, ma riguarda anche, e soprattutto, le modalità con cui tale conoscenza viene acquisita (37). Se il processo inquisitorio ha come obiettivo il conseguimento di una verità assoluta, che il giudice deve ricercare a qualunque costo, il sistema accusatorio — al quale il vigente codice è ispirato — si propone il fine di raggiungere una verità che scaturisca dal contributo dialettico delle parti, nel rispetto scrupoloso del metodo legale probatorio (38). 4. La tutela del diritto alla riparazione. — Pur essendo fuori discussione il valore dell’innovazione legislativa, occorre sottolineare i limiti dell’attuale disciplina ed alcuni problemi che vi si riconnettono. Come si è accennato, l’art. 314 individua due distinte situazioni di detenzione in ordine alle quali si profila una situazione di ingiustizia. La prima fattispecie riguarda le ipotesi di restrizione della libertà personale imposta legittimamente ma risultante ex post non dovuta, e dunque sostanzialmente ingiusta, in ragione della riconosciuta non responsabilità penale del soggetto. Si fa riferimento, da un lato, alla pronuncia di una sentenza irrevocabile con le formule il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato (art. 314 comma 1), e, dall’altro, alla pronuncia di un provvedimento di archiviazione o di una sentenza di non luogo a procedere (art. 314 comma 3). Presupposto della riparazione è, nei casi indicati, una decisione irrevocabile di proscioglimento: il diritto alla riparazione è dunque escluso quando il procedimento si concluda con sentenza di condanna, anche se a pena pecuniaria o a pena di durata minore alla custodia cautelare sofferta, ovvero quando venga concessa la sospensione condizionale della pena. Peraltro, non tutte le sentenze di assoluzione legittimano la riparazione; infatti, tra le formule previste dagli artt. 529 e 530 sono state selezionate quelle « di merito », che esprimono l’accertata innocenza dell’imputato. Alle tradizionali formule di proscioglimento in facto sono affiancate alcune decisioni in iure che pur non essendo del tutto liberatorie per l’imputato — costretto, ove sia proposta, a subire l’azione civile per il ri(37) GIULIANI, voce Prova (filosofia), in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988, p. 526; nonché, DE LUCA, op. loc. cit.. (38) Scrive sul punto CARNELUTTI: « Il risultato della ricerca giuridicamente limitata o disciplinata non è più la verità materiale, ma una verità, convenzionale, che si battezza per verità formale, in quanto ad essa conduce un’indagine regolata nelle forme, o per verità giuridica, in quanto essa è ricercata mediante leggi giuridiche, non solo mediante leggi logiche, e per solo effetto di queste leggi giuridiche si sostituisce alla verità materiale », in La prova civile, II ed., Milano 1992, p. 29. Sulla contrapposizione tra verità materiale e verità formale si veda altresì COMOGLIO, Prove ed accertamento del fatto nel nuovo c.p.p., in questa Rivista, 1990, nonché GIULIANI, op. cit., pp. 519-521.


— 985 — sarcimento del danno o l’applicazione delle misure di sicurezza — sono assimilabili alle prime quanto ad espressione dell’innocenza del perseguito. Si tratta delle formule il fatto non costituisce reato e il fatto non è previsto dalla legge come reato. Rimangono escluse le formule di proscioglimento per mancanza di una condizione di procedibilità o in presenza di una causa di estinzione del reato: in questi casi viene meno la possibilità di una qualsivoglia valutazione circa l’ingiustizia della custodia, che è condizione imprescindibile per il riconoscimento del diritto all’indennizzo (39). Suscita invece qualche perplessità la circostanza che tra le fattispecie riparabili ex art. 314, comma 1, non siano state incluse le situazioni riconducibili alla formula assolutoria per difetto di imputabilità. Va peraltro osservato che, nonostante l’art. 530 preveda separatamente e distintamente le formule il fatto non costituisce reato e la causa di non imputabilità, è prassi costante far rientrare quest’ultima nella formula sopra indicata (40). Un’interpretazione estensiva della disciplina riparatoria in tal senso risulta coerente con la ratio dell’art. 314, comma 1: anche l’assoluzione per difetto di imputabilità è formula di merito che esprime l’accertamento dell’insussistenza dei presupposti attinenti al fatto e alla responsabilità del suo autore legittimanti la pretesa punitiva dello Stato (41). Diversamente, si creerebbero inique discriminazioni tra situazioni sostanzialmente identiche, con grave pregiudizio per il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. Ingiustificata appare poi a chi scrive la mancata previsione del diritto all’indennizzo nell’ipotesi di proscioglimento per errore di persona. Due sono le soluzioni segnalate dalla dottrina per ovviare a questa « svista » del legislatore: quella di far rientrare il proscioglimento in parola nella formula di merito perché l’imputato non ha commesso il fatto (42), oppure quella di concedere la riparazione a norma del secondo comma dell’art. 314, ritenendo insito nell’accertamento dei presupposti di cui all’art. (39) Cfr., in questo senso, Cass. 27 novembre 1992, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 642. V., però, Cass. 1 dicembre 1992, ivi, 1993, p. 804, secondo la quale la persona nei cui confronti è stata emessa sentenza di non doversi procedere può legittimamente adire il giudice ai fini dell’equa riparazione per ingiusta detenzione, in quanto tale sentenza è una sentenza di proscioglimento per una determinata causa. (40) In questo senso v. Corte Cost. 14 luglio 1971, n. 175, in Giust. pen., 1972, I, 29; Cass. 8 ottobre 1980, in Cass pen., 1982, 1186, m. 1058; 10 luglio 1976, ivi, 1977, 1184, m. 1443. In dottrina, cfr. DOSI, La sentenza penale di proscioglimento, Milano, 1955, p. 51; LEONE, Trattato di diritto processuale penale, I, Napoli, pp. 162 e s. (41) In questo senso, MONTALDI, Riparazione per l’ingiusta detenzione, in Commento al nuovo c.p.p. a cura di CHIAVARIO, vol. III, Torino, 1990, p. 315 e SODANI, Riparazione per l’ingiusta detenzione, Torino, 1992, p. 17. Contra, però, COPPETTA, op. cit., p. 135. (42) Cfr. il Parere sul progetto preliminare del codice di procedura penale del 1988, della Corte di cassazione, trasmesso al Ministero di grazia e giustizia l’8 agosto 1988 (in questa Rivista, 1989, p. 314) dove si sottolinea la necessità di precisare nella norma sull’errore di persona la formula assolutoria della sentenza « non aver commesso il fatto ».


— 986 — 273 l’identificazione della persona (43). Si tratta peraltro di forzature ermeneutiche poco convincenti (44), alle quali sarebbe preferibile un intervento correttivo del legislatore nel senso di ricomprendere esplicitamente nell’art. 314, comma 1 anche la formula di proscioglimento relativo all’errore sull’identità fisica dell’imputato. Il secondo gruppo di ipotesi rientranti nel concetto di ingiustizia sostanziale è quello contemplato nell’art. 314, comma 3 c.p.p. La scelta di estendere il diritto alla riparazione a favore delle persone nei cui confronti sia pronunciato provvedimento di archiviazione ovvero sentenza di non luogo a procedere è dettata dalla considerazione della pari afflittività della custodia cautelare sofferta durante la fase pre-processuale. Pur trattandosi di provvedimenti non suscettibili di acquisire il carattere della irrevocabilità è prevalsa l’esigenza di non escludere dalla riparazione le ipotesi per le quali ricorrano gli stessi presupposti sostanziali. Il diritto alla riparazione viene tuttavia riconosciuto « alle medesime condizioni » previste dai commi precedenti. Si escludono quindi le sentenze di non luogo a procedere con formule diverse da quelle contenute nell’art. 314, comma 1. Nel caso di provvedimento di archiviazione occorrerà verificare, caso per caso, se le ragioni poste a base del provvedimento di archiviazione siano o no riconducibili ad una delle formule terminative previste dalla stessa norma. Così, ad esempio, il diritto alla riparazione potrebbe essere escluso nel caso di archiviazione pronunciata ex art. 411 per estinzione del reato o per mancanza di una condizione di procedibilità; potrebbe, invece, essere riconosciuto nell’ipotesi di chiusura delle indagini perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, oltre che per infondatezza della notitia criminis ex art. 408 c.p.p. Nell’ipotesi di archiviazione e di sentenza di non luogo a procedere si pone il problema della sorte del procedimento volto alla riparazione nell’eventualità di riapertura delle indagini (art. 414) o di revoca della sentenza (art. 434). Il caso è quello del cittadino che ottenga — o abbia fatto domanda in tal senso — la riparazione per la custodia cautelare subita nel corso di un procedimento chiuso con provvedimento di archiviazione, o con sentenza di non luogo a procedere cui sopravvengano nuove fonti di prova (45). Più precisamente, occorre distinguere a seconda che l’archiviazione o la riapertura abbia luogo prima che sia terminato il procedimento che sta(43) AMATO, op. cit., p. 299; MONTALDI, op. loc. cit. (44) Cfr. sul punto, COPPETTA, op. cit., p. 150 e s. (45) Oltre all’ipotesi della sopravvenienza di nuovi elementi atti a giustificare la riapertura delle indagini o la revoca, l’art. 345 stabilisce che nel caso di improcedibilità venga successivamente proposta la querela, l’istanza, la richiesta o concessa l’autorizzazione ovvero, quando sia venuta meno la condizione personale che rendeva necessaria l’autorizzazione (per esempio nel caso di dimissione di un parlamentare), è possibile l’esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto e contro la medesima persona.


— 987 — tuisce sulla riparazione, oppure solo successivamente. Quest’ultima ipotesi sembra non creare particolari problemi. Infatti, come è stato giustamente osservato, il procedimento aperto o riaperto ex art. 434 non può incidere su una pronuncia ormai definitiva quale è il provvedimento che ha riconosciuto il diritto alla riparazione ed ha liquidato la somma equa: tanto più in assenza di strumenti idonei predisposti dal legislatore. Di conseguenza, la somma ricevuta a titolo di riparazione non dovrà essere restituita (46). Maggiori perplessità suscita, invece, la prima ipotesi. È evidente infatti, l’atipicità della situazione nel caso in cui, durante il procedimento per la riparazione venga, ad esempio, disposta la revoca della sentenza di non luogo a procedere. Non essendo prevista la sospensione del procedimento di riparazione, la Corte di appello adita dovrebbe procedere autonomamente e decidere allo stato degli atti. Di qui, l’elevato pericolo di contraddittorietà tra decisioni ove, da un lato, venga accolta la domanda di riparazione e, dall’altro, il procedimento instaurato a seguito di revoca si concluda col rinvio a giudizio o in modo inconciliabile con i presupposti di cui all’art. 314. Al fine di prevenire tale pericolo, è auspicabile un intervento da parte del legislatore nel senso di prevedere la sospensione necessaria del procedimento riparatorio e consentire di attendere l’esito del processo riaperto (47). Le situazioni contemplate nel secondo comma dell’art. 314 c.p.p. sono invece riconducibili a situazioni di « illegittimità »: il diritto alla riparazione sorge, a prescindere dall’esito del processo (48), quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento cautelare è stato emesso o mantenuto al di fuori delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280. Sono dunque riparabili le restrizioni della libertà personale subite in mancanza dei « gravi indizi di colpevolezza », o in presenza di una causa di giustificazione o di non punibilità », di una causa di estinzione del (46) Così anche SODANI, op. cit., p. 21. Contra, nel senso di riconoscere allo Stato un diritto alla ripetizione della somma erogata, DINACCI, La riparazione per ingiusta detenzione: profili sistematici e spunti interpretativi, in Giur. merito, 1992, p. 434 (nota 37). (47) Nello stesso senso SODANI, op. cit., p. 22 e DINACCI, op. loc. cit.. Conforme alla soluzione della sospensione anche Cass. 3 aprile 1991, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 634: « Qualora sia stata chiesta la riparazione per ingiusta detenzione a seguito di sentenza di non luogo a procedere, il relativo procedimento va sospeso, dinanzi alla revoca della sentenza, e fino alla definizione del processo penale riapertosi ». (48) « Nel secondo caso è indifferente l’epilogo: prosciolto con formula meno favorevole (dal fatto penalmente illecito, ma non punibile, al reato estinto) o condannato ... » (vd. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1991, p. 505). La Relazione al progetto afferma, sul punto, che « non viene necessariamente in evidenza un profilo di ingiustizia sostanziale della restrizione subita dall’imputato, mentre è evidente la sua illegittimità (cioè, per così dire la sua ingiustizia formale) », in Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in Gazzetta Ufficiale, 24 ottobre 1988, n. 250, suppl. ord. n. 2, p. 171.


— 988 — reato, ovvero di una causa di estinzione della pena da irrogare (49). La custodia è considerata « ingiusta » anche quando sia stata disposta per un reato, punito con pena edittale inferiore al limite indicato nell’art. 280. È questa un’ipotesi infrequente in quanto la possibilità di commettere errori nella individuazione dei reati, punibili con una pena rientrante in tale limite oggettivo, appare concretamente assai remota (50). Più attenzione merita, invece, il richiamo all’art. 273. Al riguardo, va rilevato che rispetto al progetto preliminare — che prevedeva la riparazione in tutti i casi di provvedimento emesso « in mancanza delle condizioni idonee » a legittimarlo —, il progetto definitivo, poi confermato sul punto senza ulteriori modifiche nel testo definitivo, ha escluso dall’area della riparabilità sia l’errata valutazione circa l’esistenza delle « esigenze cautelari » regolate dall’art. 274, sia la violazione dei criteri di « proporzionalità » e di « adeguatezza » indicati nell’art. 275 c.p.p. Tale delimitazione, giustificata dal legislatore in base ad una logica di contenimento dell’istituto (51), appare frutto della « volontà di non lasciare che un onere finanziario a carico dello Stato possa sorgere, per il modo in cui qualche magistrato abbia proceduto a valutazioni di carattere largamente discrezionale » (52). A parte la considerazione che nel conflitto tra difficoltà di ordine economico e tutela della libertà personale non si possono nutrire dubbi su quale dei due interessi debba prevalere, l’esclusione operata dal legislatore (49) Parte della dottrina ha tuttavia precisato che l’insussistenza di tali cause non sempre rileva ai fini riparatori, quando sia contenuta nella sentenza finale del processo: in tal caso, a norma del primo comma dell’art. 314, costituiscono titolo per la riparazione unicamente le cause ricomprese nella formula « il fatto non costituisce reato » e dunque le sole scriminanti (COPPETTA, Custodia cautelare ingiusta e responsabilità civile dei magistrati, in Indice pen., 1990, p. 135). In giurisprudenza, cfr. Cass. sez. un., 12 ottobre 1993, in Cass. pen., 1994, p. 283 secondo la quale, fra le ipotesi di legittimità elencate dall’art. 273 rilevano soltanto l’assenza — all’epoca dell’applicazione o della conferma della misura — di gravi indizi di colpevolezza, ovvero la presenza di cause di non punibilità, di estinzione del reato, o di estinzione della pena che si ritenga irrogabile, e non anche la sussistenza di cause di giustificazione, « posto che questa implicando l’assoluzione dell’imputato perché il fatto non costituisce reato, rientra nella diversa previsione di cui al primo comma dell’art. 314 c.p.p. ». (50) Qualche problema presenta, semmai, l’eventuale derubricazione in sede dibattimentale del reato contestato, da ipotesi delittuose a quelle contravvenzionali e, addirittura, da delitti con pena superiore a tre anni a delitti con pena inferiore. Come è stato osservato, « anche in questo caso dovrebbero ricorrere gli estremi dell’illegittimità del provvedimento che ha disposto la custodia cautelare; ciò alla luce della decisione finale che esclude irrevocabilmente l’ipotesi che aveva giustificato l’originaria emissione dello stesso provvedimento » (SODANI, op. cit., p. 24). (51) Cfr. Relazione al progetto definitivo del codice di procedura penale, in Gazzetta Ufficiale, 24 ottobre 1988, n. 250 suppl. ord. n. 2, p. 184. (52) CHIAVARIO, La riforma del processo penale: appunti sulla legge delega e sul progetto del nuovo codice, Torino, 1990, II ed., p. 161; nonché, AMATO, op. cit., p. 230 e MONTALDI, op. cit., p. 316.


— 989 — non sembra fondata neppure sotto un profilo tecnico-giuridico. Si è già avuto modo di rilevare (53) come in sede di applicazione delle misure cautelari il potere giudiziario sia fortemente « vincolato » da una rete di disposizioni « generali » che determinano puntualmente e tassativamente i criteri del relativo esercizio. In tale settore, infatti, ci si trova di fronte ad una discrezionalità « guidata », in quanto la valutazione del fatto da parte del giudice « filtra attraverso presupposti e condizioni predeterminati dal legislatore come fattori legali di scelta del tipo di provvedimento » (54). Va inoltre osservato che l’art. 274 contiene delle condizioni aggiuntive rispetto a quelle previste dall’art. 273 (nel senso che per l’emissione del provvedimento coercitivo, non è sufficiente la sussistenza di gravi indizi, ma occorre almeno una delle esigenze cautelari) e, al venir meno di tali condizioni si impone una revoca o, quanto meno, una graduazione della misura custodiale. Non vi è quindi motivo per escludere le condizioni suddette dall’area della riparabilità « laddove il provvedimento di revoca sancisca non solo l’insussistenza dei gravi indizi di cui all’art. 273, ma anche la mancanza ab origine delle esigenze cautelari di cui all’articolo successivo » (55). La formula adottata è dunque assai limitativa: essa non solo finisce col negare il diritto alla riparazione nei casi indubbiamente più frequenti, e comunque più delicati, di emissione contra legem del provvedimento custodiale, ma ridimensiona fortemente la portata garantista del principio sotteso al secondo comma dell’art. 314, ovvero l’inviolabilità dei diritti fondamentali, indipendentemente dalla responsabilità penale (56). Per il completarsi della fattispecie prevista dall’art. 314, comma 2, occorrono due ulteriori requisiti. In primo luogo, che il procedimento sia definito con sentenza irrevocabile, di proscioglimento o di condanna. Tale esigenza è connessa alla disposizione di cui al quarto comma del mede(53) Cfr. par. 3, pp. 17 e s. del presente lavoro. (54) RICCIO, Principio di giurisdizionalità e vincoli alla disciplina della libertà personale, in La libertà personale dell’imputato verso il nuovo processo penale, a cura di GREVI, Padova, 1989, p. 47. Sul punto cfr. anche CORDERO, Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1956, p. 168: « la legge pone in capo al giudice un comportamento giuridicamente doveroso, appartenente al tipo degli atti normativi, descritto dalla norma in modo incompleto, attraverso il congegno di una definizione ottenuta dall’indicazione specifica di certi elementi e dall’identificazione indiretta degli altri, mediante il riferimento al risultato di una valutazione demandata all’organo la cui condotta è prevista come doverosa; attraverso tale valutazione, vincolata nell’an e nel quomodo, in quanto l’ordinamento ne fissa in anticipo i parametri, si attua un processo di eterointegrazione dello schema normativo, nel quale l’elemento estraneo è dato dall’attività raziocinante del destinatario del precetto ». (55) SODANI, op. cit., p. 25. L’esclusione della riparazione nei casi di violazione degli artt. 274 e 275 è parso un assunto così insostenibile da far ritenere superabile nel sistema « l’argomento letterale negativo » che l’art. 314 nomini solo gli artt. 273 e 280 (CORDERO, Procedura penale, cit., p. 512). (56) cfr. COPPETTA, La riparazione per ingiusta detenzione, cit., p. 159.


— 990 — simo articolo, che esclude la riparazione per quella parte di custodia cautelare computata ai fini della determinazione della pena. Ulteriore presupposto del diritto alla riparazione ex art. 314, comma 2, è che l’illegittimità della custodia cautelare sia stata accertata con « decisione irrevocabile ». La dottrina dominante ha optato per un’interpretazione estensiva di tale locuzione, ritenendo che l’accertamento in questione non necessariamente debba essere contenuto in una sentenza con la quale a norma degli artt. 309-311 si sia giudicato definitivamente in sede d’impugnazione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale (57); nel genus delle decisioni irrevocabili rientrerebbero anche i casi in cui dalla sentenza di proscioglimento o di condanna che definisce il procedimento risulti che la custodia cautelare è stata applicata in mancanza dei presupposti di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p. (58). 5. Diritto alla riparazione e induzione all’errore. — L’accertamento della sussistenza dei requisiti illustrati non esaurisce il tema relativo all’ammissibilità e all’accoglimento della domanda di riparazione. Infatti, secondo l’art. 314, comma 1 c.p.p., il soggetto ha diritto alla riparazione per la custodia cautelare subita qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave. La disposizione riproduce la medesima formula adoperata nell’art. 517 c.p.p. 1930, mentre la disciplina attuale dell’errore non prevede più, tra le cause esimenti, la situazione di chi abbia concorso a dare causa all’ingiusta condanna (art. 643 c.p.p.). La previsione del « concorso » si inquadra nella tendenza del codice a disciplinare piì restrittivamente l’ambito di riparabilità dell’ingiusta custodia, rispetto a quello dell’errore giudiziario. È vero che la norma in questione è espressione di un principio generale del nostro ordinamento, secondo il quale se il danneggiato ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento viene ridotto secondo la gravità della colpa e le conseguenze che ne sono derivate (art. 1227 c.c.); tale principio, però, non trova integrale applicazione in materia di riparazione, in quanto, a differenza della disciplina civilistica, nella quale la (57) Secondo Cass. sez. un. 12 ottobre 1992, « Anche alle ordinanze non impugnate, adottate dal tribunale ex art. 309 e 310 in sede di riesame o di appello avverso i provvedimenti de libertate, nonché alle pronunce emesse dalla cassazione a seguito di ricorso contro tali ordinanze, o in sede di ricorso per saltum contro il provvedimento applicativo della misura, va riconosciuta una sia pur limitata efficacia preclusiva di natura endoprocessuale, fondata sul principio del ne bis in idem, di cui all’art. 649. Pertanto, soltanto tale pronuncia costituisce decisione irrevocabile, idonea, nei casi di proscioglimento o di condanna di cui all’art. 314, comma 2, a fondare il diritto dell’imputato alla riparazione per l’ingiusta detenzione ». Contra, Cass. 5 marzo 1993, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 803; Id., 4 marzo 1993, ivi, 1993, p. 796; Id., 30 marzo 1993, ivi, p. 803. (58) Così, AMATO, op. cit., p. 230 e MONTALDI, op. cit., p. 319.


— 991 — colpa del creditore determina solo una diminuzione del risarcimento, qui la condotta dolosa o colposa determina l’esclusione del diritto. Sarebbe pertanto opportuno temperare il rigore della disciplina ex art. 314 c.p.p., differenziando il caso del soggetto che abbia dato causa alla custodia, da quello di chi vi abbia semplicemente concorso, prevedendo in tale ultima ipotesi solo una riduzione, e non una totale esclusione, della riparazione. Al codice va anche mossa la critica di non dettare alcun parametro per individuare l’estensione dei concetti di dolo e colpa grave, rimandando tale compito all’interprete. Rispetto all’individuazione del concetto di dolo, corretti e pienamente condivisibili appaiono taluni insegnamenti giurisprudenziali, che hanno qualificato doloso, ed idoneo ad ingannare il giudice, il comportamento consapevolmente preordinato all’applicazione della misura cautelare. Il dolo sussiste quando il soggetto abbia « scientemente operato al fine di creare la fallace apparenza di condizioni nelle quali potesse o dovesse essere adottata o mantenuta una misura cautelare nei suoi confronti » (59). Più precisamente, per la configurazione del comportamento doloso non è sufficiente che l’interessato abbia accettato il rischio di vedersi applicare una misura custodiale, ma è necessario che all’adozione e al mantenimento di essa abbia, in concreto preordinato la sua azione. Un orientamento più recente della Cassazione, nel tentativo di scongiurare che solo i casi di autocalunnia e di simulazione di reato assurgano a causa impeditiva del diritto all’indennizzo, ha definito dolosa « solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, (...) ma anche la condotta consapevole e volontaria che, valutata con il parametro dell’id quod plerumque accidit, secondo le regole di esperienza comunemente accettate, sia tale da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità » (60). Tale giurisprudenza si è richiamata ad una nozione civilistica di dolo, ritenendo integrato tale elemento a prescindere dalla previsione e volontà dell’evento. La Cassazione ha adottato canoni di giudizio civilistici anche nella definizione del concetto di colpa grave. Questa sarebbe ravvisabile in qualsiasi comportamento che sia caratterizzato da negligenza, incuria o noncuranza (61). L’esclusione del diritto alla riparazione in caso di colpa (59) Cass. 20 gennaio 1992, in Giust. pen., 1992, III, c. 512. (60) Cass. 31 gennaio 1994, in Riv. pen., 1995, p. 523. Nello stesso senso, Cass. 30 aprile 1993, in Arch. nuova proc. pen., 1994, p. 128; Id., 9 luglio 1992, in Cass. pen., 1993, p. 621 e ss. n. 382. (61) Cass. 17 dicembre 1992, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 803; Id., 27 novembre 1992, in Cass. pen., 1993, p. 2903; Id., 17 dicembre 1991, in Arch. nuova proc. pen., 1992, p. 451.


— 992 — grave — sostiene la Corte — è un’applicazione del più generale principio enunciato nell’art. 1227, comma 2 c.c., secondo cui « il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza » (62). In quest’ottica, varrebbe ad integrare gli estremi della colpa grave anche l’omessa dimostrazione o allegazione dell’imputato di una ragione plausibile o di una finalità convincente al fine di « neutralizzare » i gravi indizi di colpevolezza posti a fondamento del provvedimento restrittivo della libertà personale (63). Allo stesso modo è stata valutata « la condotta di non collaborazione o di ostruzionismo ovvero di mendacio posta in essere dall’indagato, senza necessità e suo beneficio, risultata sinergica all’emissione del provvedimento di cautela, al procrastinarsi della liberazione del catturato e all’accertamento della sua innocenza » (64). Tale orientamento, volto a restringere sempre più le ipotesi di accoglibilità della domanda di riparazione non può, a parere di chi scrive, essere condiviso. Va infatti sottolineata la diversità di ratio sottesa all’art. 1227 c.c. rispetto a quella dell’art. 314 c.p.p. Se in relazione all’istituto della responsabilità civile la colpa è stata prevista dal legislatore al fine di delineare un punto di riferimento nei confronti di interessi tra loro divergenti, ma meritevoli di tutela bilanciata in quanto derivanti da un rapporto obbligatorio di natura contrattuale, nel caso della riparazione sono in gioco beni di rilevanza costituzionale, tra i quali il diritto di difesa dell’imputato, che devono potersi esplicare anche attraverso condotte di non collaborazione, senza che da ciò derivino pregiudizi a suo carico. Appare pertanto più corretto quell’orientamento della giurisprudenza secondo cui la colpa grave va ravvisata soltanto in comportamenti caratterizzati da rilevante imprudenza o « grossolana » incuria nel difendersi. Ad esempio il contegno dell’inquisito, che a conoscenza di un procedimento a proprio carico e degli elementi sui quali si fonda, « ometta di riferire tempestivamente all’autorità procedente, per ingiustificata o macroscopica negligenza, fatti a lui noti, che avrebbero potuto scagionarlo ovvero restituirlo in libertà » (65). La giurisprudenza, inoltre, esclude che possano integrare « colpa grave » i comportamenti « sospetti ». « La norma penale — motiva la Cassazione — vieta la commissione di fatti illeciti, specificatamente determinati, ma non impone ai consociati alcun dovere di dili(62) Cass. 9 luglio 1992, cit. Analogamente, Cass. 30 aprile 1993, in Arch. nuova proc. pen., 1994, p. 128; Id., 28 gennaio 1993, ivi, 1993, p. 642. (63) Cass. 18 dicembre 1991, in Arch. nuova proc. pen., 1992, p. 451. (64) Cass. 27 novembre 1992, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 642 (65) In questo senso, Cass. 11 maggio 1993, in Arch. nuova proc. pen., 1992, p. 802; Id., 28 aprile 1992, ivi, 1992, p. 796; Id., 28 febbraio 1992 cit.; Id., 20 gennaio 1992, in Riv. pen., 1992, p. 655; Id., 17 dicembre 1991, cit.


— 993 — genza nell’evitare condotte che, in sè lecite, possono essere assunte come indicative dell’avvenuta commissione di reati » (66): opinione, tra l’altro, recentemente avallata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 426 del 1993. In questa occasione, infatti, la Corte ha avuto modo di precisare che la condotta volta a depistare le indagini e ad aiutare altri ad eludere le investigazioni dell’autorità o ad evitare che altri sia indagato, non esclude il diritto alla riparazione: ciò in quanto l’art. 314 c.p.p., così inteso, « non appare irragionevole, risultando ispirato da un particolare favore per chi ha subito una detenzione poi comunque rivelatasi non dovuta ed in quanto, d’altra parte, solo al legislatore compete l’individuazione dei doveri inderogabili di solidarietà cui i cittadini sono tenuti, nonché dei modi e limiti relativi al loro adempimento » (67). A norma del quarto comma dell’art. 314 c.p.p., il diritto alla riparazione è escluso per l’ipotesi in cui il periodo di custodia si sia rivelato non inutile, in quanto computato ai fini della determinazione della misura della pena. A tale ipotesi è equiparato il caso in cui il condannato eserciti la facoltà di richiedere che la custodia espiata sia computata, operato il ragguaglio, nella determinazione della pena pecuniaria o della sanzione sostitutiva da eseguire. È poi sancita l’irreparabilità della custodia, quando le limitazioni conseguenti alla sua applicazione siano state sofferte in forza di altro titolo legittimo (68). In tal caso non è sufficiente, ai fini dell’esclusione, una coincidenza « quantitativa » tra la durata della custodia ingiusta e quella della limitazione di libertà legittima, ma va effettuata una valutazione comparativa, anche per ciò che riguarda le modalità di esecuzione (69). Pertanto, nell’eventualità in cui la privazione di libertà inferta in base a sentenza sia meno gravosa di quella ingiustamente subita in corso di processo, deve riconoscersi il diritto ad una riparazione, « commisurata alle conseguenze di tale maggiore afflittività » (70). L’art. 314, comma 5, infine, prevede il caso di abrogazione della norma incriminatrice ed esclude la riparazione per la parte di custodia sofferta prima dell’abrogazione medesima. La privazione di libertà non presenta, in questa ipotesi, caratteri di ingiustizia, in quanto il provvedimento cautelare è stato emanato applicando una norma allora vigente, e dunque in modo legittimo (71). (66) Cass. 20 gennaio 1992, cit.; Id., 17 dicembre 1991, cit. (67) Corte cost. sent. n. 426 del 3 dicembre 1993, in Giust. pen., 1994, I, cc. 1 e ss. (68) Si tratta, per esempio, dell’ipotesi di provvedimento restrittivo, notificato a persona già detenuta per altra causa. V. AMATO, op. cit., p. 233. (69) Si veda, sul punto, AMATO, op. loc. cit.; MONTALDI, op. cit., p. 322. (70) MONTALDI, op. loc. cit. (71) AMATO, op. loc. cit., che aggiunge: « È ovvio peraltro, che il disposto del comma 5 non esclude la riparabilità della custodia cautelare imposta prima dell’abrogazione della


— 994 — A conclusione di queste brevi note, fermo restando il valore di scelta culturale altamente significativa che deve essere riconosciuta alla riparazione per l’ingiusta custodia cautelare, non può nascondersi qualche perplessità circa la disciplina dell’istituto, afflitta da lacune di non poco conto e non sempre coerente ai principi di fondo che l’hanno ispirata. Il problema delle indebite restrizioni della libertà personale deve tuttavia essere risolto non solo apprestando rimedi successivi all’applicazione delle misure cautelari, ma anche predisponendo una disciplina suscettibile di ridurre al minimo l’adozione di provvedimenti ingiusti o illegittimi. Obiettivo che la recente riforma dell’8 agosto 1995, n. 332 ha solo in parte realizzato, pur muovendo da un’esigenza di potenziamento delle funzioni cognitive e decisorie del giudice per le indagini preliminari, nel suo ruolo di garante dei principi fondamentali posti a salvaguardia della libertà individuale. Molti problemi, infatti, sono rimasti aperti. La nuova formulazione dell’art. 291 c.p.p., ad esempio, imponendo al pubblico ministero di trasmettere al giudice, con la richiesta di applicazione di una misura cautelare, non solo gli elementi posti a fondamento di essa, ma anche quelli « a favore dell’imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate », è senz’altro apprezzabile nel suo intento di consentire al giudice una più ampia conoscenza dei dati rilevanti ai fini della decisione. Essa appare tuttavia carente quanto meno sotto due profili: laddove non prevede alcun rimedio processuale alla colposa o dolosa negligenza del pubblico ministero, e laddove lascia in capo allo stesso la più ampia discrezionalità in ordine alla determinazione degli elementi a favore dell’accusato. Un sistema, come quello attuale, che consente a chi sollecita l’applicazione di una misura cautelare di « orientare » la decisione dell’autorità giudiziaria, rischia di svuotare di significato la stessa garanzia di giurisdizionalità che il legislatore del 1988 prima, e quello del 1995, poi, hanno inteso assicurare in materia di libertà personale. FRANCESCA MARIA MOLINARI Dottoranda in Procedura penale nell’Università di Ferrara

norma incriminatrice, allorché si accerti che mancavano le condizioni di applicabilità di cui agli artt. 273 e 280, vertendosi nell’ipotesi di detenzione illegittima ex art. 314, comma 2 ».


PROSPETTIVE ORGANIZZATIVE DEGLI UFFICI DEL PUBBLICO MINISTERO IN UN RAFFRONTO TRA GLI STATI DELLA COMUNITÀ EUROPEA (*)

SOMMARIO: PARTE PRIMA: I.1. L’attuale proliferazione degli uffici del pubblico ministero in Italia. — II.1. Linee organizzative di tali uffici negli Stati della C.E ad azione penale obbligatoria: a) i Paesi latini. - II.2. (Segue): b) i Paesi nordici. - II.3. I grandi sistemi della C.E ad azione penale discrezionale. - II.4. Costanti e variabili nelle strutture degli ordinamenti e nella partecipazione al processo dei titolari dell’azione penale nella C.E — III.1. L’anomalia del caso italiano. - III.2. (Segue): i contrasti tra pubblici ministeri ed i conflitti analoghi. - III.3. L’organizzazione degli uffici del pubblico ministero italiano sfugge alla legge di Parkinson? - III.4. Genere e specie di avocazione. - III.5. Un approccio onto-fenomenologico alle cause della disorganizzazione complessiva degli uffici del pubblico ministero in Italia. — PARTE SECONDA: IV.1. L’organizzazione degli uffici del pubblico ministero tra indagine dommatica e metodo propositivo. - IV.2. Specialità (e transitorietà?) della competenza per materia delle procure anti-mafia. IV.3. Il tribunale in sede di capoluogo di provincia, unità di misura territoriale dell’unica procura di I grado. - IV.4. Il distretto, misura territoriale delle competenze speciali e di gravame. - IV.5. Quale pubblico ministero nel processo minorile di I grado? IV.6. La procura generale presso la Corte di cassazione. - IV.7. Riepilogo dei possibili rimedi de iure condendo.

PARTE PRIMA I.1. L’attuale proliferazione degli uffici del pubblico ministero in Italia. — Il recente Codice ha portato una novità rilevante nella struttura organica degli uffici del pubblico ministero. Più per volontà ministeriale che per ponderato convincimento della Commissione redigente, la separazione tra funzione di giudizio e funzione di accusa nel processo avanti al pretore, è stata attuata, anziché mediante l’accentramento dell’iniziativa penale nelle capaci braccia della procura della Repubblica, mediante l’istituzione della procura circondariale (artt. 2 n. 103 l.d. 16 febbraio 1987, n. 81, 49 e 550 lett. a) c.p.p., 1 l. 6 febbraio 1992, n. 160). Gli uffici del (*) Contributo alla ricerca C.N.R. su « La funzione d’accusa tra le esigenze di tutela della collettività e le garanzie dell’individuo: la metamorfosi del pubblico ministero nel passaggio dal modello inquisitorio al processo di parti », diretta dal prof. A. Gaito dell’Università di Perugia.


— 996 — pubblico ministero — cinque già alla data del 24 ottobre 1989 (di essi solo la procura generale presso la Corte di cassazione priva dell’obbligo di esercitare l’azione penale, neppure mediante impugnazione) — hanno poi raggiunto il numero quasi sacrale di « sette »: come sappiamo, con l’entrata in vigore del d.lgs. 14 gennaio 1991, n. 12 sono stati istituiti altri due uffici, la procura distrettuale e quella nazionale antimafia (artt. 51 c.p.p. e 70, 70-bis ord. giudiz. e succ. modif.). Sia nel testo originario del Codice che negli sviluppi successivi dell’ordinamento sistematico del processo penale (del quale il Codice è, oramai, soltanto una delle fonti), la riunione e la separazione dei processi, i contrasti negativi tra pubblici ministeri e quelli positivi tra tali uffici sono stati previsti all’interno dell’istituto, proprio per ovviare alla proliferazione dell’organizzazione complessiva del pubblico ministero. Le soluzioni per la loro disciplina (artt. 12, 17, 51 e 54 c.p.p.) testimoniano sia la frequenza dei casi di incerta competenza, sia la precarietà dei tentativi di armonizzazione di azioni penali esercitate da tante e concorrenti parti processuali (artt. 1, 3, 15-16 d.l. n. 367/1991; artt. 8 d.lgs. 14 gennaio 1991, n. 12 e 2 d.l n. 367/1991 cit.). Ben sette uffici di procura — due dei quali nazionali, tre distrettuali, due in sede di capoluogo di provincia (alle quali sono da aggiungere, spesso, le procure presso i tribunali interprovinciali) — risultano chiaramente eccessivi, per lo scompenso che recano al sistema penale. Esso resta tuttora esposto ad incursioni della criminalità organizzata (mimetizzata, ad es., dietro esecutori minorenni), nonché ad oscuri giochi procedimentali, finalizzati tanto al rinvio del procedimento, quanto all’estinzione del reato per prescrizione. Tale scompenso, che produce frammentazioni e già a volo d’uccello suggerisce una correzione di rotta, risulta ingiustificato anche in raffronto col regime organizzativo della pubblica accusa negli Stati della C.E ad azione penale obbligatoria (1). Va da sé che, per gli Stati dell’Unione i cui sistemi processuali (del modello vigente in U.S.A.) sono discrezionali, la figura dell’accusatore, che ivi anima la domanda di giustizia penale, è quella dell’avvocato che la polizia accredita presso il giudice competente. Si tratta di una figura la quale (per compiti d’istituto, statuto, competenza ed organizzazione) è diversa da quella del nostro pubblico ministero. La tradizione continentale, invece, affida al pubblico ministero i compiti di aprire il procedimento penale, di seguirne e determinarne gli sviluppi, acquisendo le fonti di prova allo scopo alternativo di archiviare la notizia di reato, ovvero di ottenere il rinvio a giudizio dell’imputato. Si tratta di indagini preliminari che, in linea di principio, nei sistemi proces(1)

V., infra, §§ II.1-II-2 e II.4.


— 997 — sual-penali ad azione discrezionale competono alla polizia e sono estranee alle funzioni dell’avvocato pubblico che poi parteciperà all’udienza. II.1. Linee organizzative di tali uffici negli Stati della C.E ad azione penale obbligatoria: a) i Paesi latini. — Negli Stati della C.E nei quali il promovimento e l’esercizio dell’azione penale (esclusa la sua critica, giacché l’impugnazione resta per la parte pubblica, come per quelle private, sempre e soltanto facoltativa) sono obbligatori, alla data attuale, risiedono circa duecento milioni di cittadini. Nei relativi sistemi processual-penali l’inizio dell’azione non corrisponde certo ad ogni notizia di reato, giacché varii correttivi concorrono a ridurre il carico penale, sfoltendo i casi sia di promovimento che di prosecuzione dell’iniziativa penale. In generale, tali forme correttive tendono ad adeguare il carico penale alle capacità dei varii sistemi di tollerarlo: ad es., esse prevedono delle condizioni « esterne » dell’azione stessa; distinguono i delitti dalle contravvenzioni ed, all’interno della categoria dei delitti, quelli gravi (e, quindi, procedibili d’ufficio) da quelli di minor gravità (la cui procedibilità è rimessa alla valutazione della persona offesa dal reato ed è, quindi, eventuale, salvo che sia, addirittura, azzerata mediante depenalizzazione). Tali regole e tali eccezioni si fondano sull’idea che il perseguimento dei reati rientri tra le materie di pubblico interesse. Qualora il pubblico interesse offeso dal reato sia congiunto con quello del privato, ovvero sia esclusivamente d’indole privata, l’azione penale, ad es. in Portogallo, sarà procedibile, a seconda del caso, in forma « semipubblica » o « privata », se non in forma « popolare ». Di solito essa è avviata dalla denuncia del privato. Anche in Germania, sussistendo i sufficienti indizi a carico della persona investigata, il pubblico ministero è tenuto a formulare l’accusa: egli, così, esercita l’azione penale nel profilo della sua necessaria obbligatorietà, lasciando operare l’opposto principio della discrezionalità solo per i reati minori (« opportunitätsprinzip »). Dal punto di vista delle funzioni svolte dagli uffici del pubblico ministero preposti ad iniziative penali (di regola) obbligatorie, dei caratteri comuni a tali funzioni e delle forme e modalità con le quali tali uffici si organizzano per svolgere le loro funzioni istituzionali, il nostro discorso si fa specifico prendendo avvio dalla disciplina dei Paesi latini e, in primo luogo, da quella greca. Il pubblico ministero in Grecia, secondo le notizie fornite per questo come per tutti gli altri Stati della C.E dal volume collettaneo curato da C. Van Den Wyngaert (2), è tenuto all’obbiettività, rivendica come propria funzione istituzionale la neutralità in nome dell’interesse della legge, è ga(2)

Criminal procedure systems in the European Community, Butterworths, 1993.


— 998 — rantito (nella stessa misura del giudice) dall’indipendenza da ogni « altra autorità » (sul piano sia funzionale che personale). Nominato a vita, l’art. 87 della Costituzione (1975) lo assoggetta soltanto a tale fonte normativa di rango superiore, oltre che alla legge ordinaria. All’indipendenza « esterna », peraltro, non è parallela quella « interna », giacché la funzione dell’istituto è caratterizzata dai principi della subordinazione gerarchica e dell’indivisibilità dell’ufficio: tale funzione è stata ritenuta di organizzazione così piramidale che « acts performed by subordinates are always attributed to the public prosecutor » (3). Dal punto di vista ordinamentale, dunque, il pubblico ministero in Grecia è unitario, mentre, da quello procedimental-processuale, a seconda dell’imputazione, egli sceglie se procedere personalmente ad istruzione sommaria, se investire dell’istruzione formale (i.e., ordinary) il giudice istruttore, ovvero se affidare il caso in forma direttissima al giudice del dibattimento (i.e., directly) (4). Quasi viene ad istituirsi un singolare parallelo tra il massimo di unità del pubblico ministero greco (egli è judicial officer in senso lato in un monopolio processuale) (5) ed il minimo di riti speciali. Questa dimensione massima di unità istituzionale del pubblico ministero si presenta in altri due sistemi processuali della C.E. Negli ordinamenti portoghese e spagnolo, costituiti dopo che la recente caduta di due regimi autoritari ha fatto riscoprire l’ideale ottocentesco del pubblico ministero al di sopra delle parti, è pure valido quanto C. Mylonopoulos ha scritto del pubblico ministero in Grecia: « whose task is not only the prosecution of crimes, but, more generally, the enforcement of the law, the protection of the citizens and the application of rules concerning the public order » (6). Come si vedrà nel breve cenno finale ai regimi ad azione penale discrezionale, la filosofia di un simile pubblico ministero (che fa proprie, traendole da quelle del giudice, le attribuzioni dell’indipendenza e dell’equità) è del tutto incompatibile con quella che predispone gli organismi di accusa a regime discrezionale. Pure il Ministero Fiscal (m.f.) spagnolo, in forza dell’art. 124 della Costituzione del 31 ottobre 1978 e del Estatuto Orgànico del Ministero Fiscal (r.d. 30 luglio 1982, n. 2046), secondo E. Ruiz Vadino (7), « must promote justice in defence of the rule of law, of the rights of citizens and of the public interest as safeguarded by the law »; « he must watch over (3) (4) (5) (6) (7) 386.

C. MYLONOPOULOS, Greece, in Criminal procedure systems cit., 164. Cfr. Greece by C. MYLONOPOULOS, op. ult. cit., 163-165, 177-178. Come segnala sempre C. MYLONOPOULOS, op. ult. cit., 168. MYLONOPOULOS, Greece cit., 164. Spain, in C. VAN DEN WYNGAERT (a cura di), Criminal procedure systems cit.,


— 999 — the indipendence of the courts and a secure before them the protection of the public interest ». « The public prosecutor in Portugal is a magistrate who benefits from individual status and autonomy in relation to the government (art. 221 of the Costitution of the Portuguese Republic ») — precisano J. De Figuereido Dias e M.J. Antunes (8) —, aggiungendo che « It is duty, in criminal procedure, to collaborate with the courts in the discovery of the truth and doing justice, obeying criteria of strict obiectivity in all his intervention in procedure (art. 53 c.p.p.) ». È in forza di tali doveri del pubblico ministero che i due Autori fondano l’impossibilità del sistema processual-penale portoghese di essere classificato « as a procedure of parties ». Anche se esso è « structured largely on an accusatorial basis as is, moreover, imposed by art. 32, clause 5 of the Constitution of the Portuguese Republic » (9). Il Ministerio Fiscal spagnolo — i cui compiti sono indicati dalla stessa Costituzione [art. 124], oltre che, in rango sottoordinato, dall’Estatuto Orgànico — non ha il monopolio della repressione penale (tant’è vero che è con l’azione popolare che ogni cittadino può perseguire i delitos publicos [artt. 101 e 270 c.p.p.]) e « può » agire tanto d’ufficio quanto su richiesta delle parti interessate (la vittima del delitto e, in certe circostanze, appunto, « any member of the general public ») (10). Tuttavia, il Ministerio fiscal, nel procedimento e poi nel processo, è vincolato dai principii di legalità ed imparzialità, verso l’ultimo dei quali lo spingono i suoi obblighi di tutela del pubblico interesse e di accertamento della verità oggettiva. Egli pure deve sottostare alla regola secondo la quale l’azione penale è obbligatoria (« principle of legality »), regola cogente, peraltro, solo in materia di delitos publicos, alla concorrente e duplice condizione che il fatto costituisca reato e che uno o più imputati siano raggiunti da « sospetti » (i delitos privatos, come ad es. la diffamazione, sono meno frequenti dal punto di vista statistico e possono essere perseguiti soltanto dalla vittima, in veste di accusador e dotata, secondo il Ruiz Vadillo (11) degli stessi poteri del Ministerio fiscal). Il Ministerio fiscal, ricevuta la denuncia o la querela, aziona il procedimento nella direzione alternativa del proceso abreviado o di quello sommario, quest’ultimo destinato all’accertamento del juez de instrucciòn. È fatto salvo il potere del giudice del dibattimento, con rito camerale e su richiesta presentata da qualsiasi accusador, di optare tra il regresso del procedimento verso la fase sommaria, la chiusura del caso con una sorta (8) Spain, in Criminal procedure Systems cit., 318. (9) J. DE FIGUEREIDO DIAS-M.J. ANTUNES, op. ult. cit., 320. (10) E. RIZ VADILLO, Spain cit., 386-387. (11) Spain cit., 388.


— 1000 — di archiviazione (incondizionata o provvisoria [art. 632]) od il rinvio al giudizio pubblico (12). Pure in Portogallo il procedimento penale è promosso d’ufficio dal pubblico ministero, salvo che pei delitti semipubblici e per quelli privati (13). Egli « is under a duty to investigate all offences which come to his attention (art. 283 c.p.p.) », sicché la regola processuale sottoordinata (l’« immutability » dell’iniziativa officiosa, corrispondente alla nostra irretrattabilità dell’azione penale) discende, appunto, dal principio di legalità (14). L’opposto principio di opportunità, invero, regolerebbe soltanto casi eccezionali. L’obbligatorietà della repressione in materia penale, come già in Grecia ed in Spagna, suggerisce al sistema processual-penale portoghese di definire il carico penale in tempi ragionevoli mediante il contenimento (e, quindi, la semplificazione) dei riti. Essi sono rappresentati dall’istruzione del pubblico ministero (i.e., inquiry nella traduzione inglese); dal juiz de instrucao diretto dal giudice istruttore (artt. 32, clause 4, della Costituzione portoghese e 286, clause 2 c.p.p.); e dal dibattimento. Tuttavia, l’intervento del superiore gerarchico (art. 278 c.p.p.) esercita, sul p.m. che ha concluso l’inchiesta, il controllo circa la fondatezza del non proseguire o circa il difetto di richiesta di instruction (i.e., juiz de instrucao, una forma preliminare di investigazione) (15): « the hierarchical superior of the public prosecutor may determine wether the indictment is to be drawn up or wether investigation owe to continue » (16). Passando in rassegna i caratteri comuni della più recente esperienza dei Paesi latini, balzano agli occhi i seguenti caratteri dell’iniziativa — intesa come funzione — in materia penale e del regime organizzativo dei pubblici uffici, tenuti al promovimento ed a procedere alla repressione penale. Dall’osservatorio della funzione penal-repressiva, invero, Grecia, Spagna e Portogallo mostrano di condividere, quale massimo comun divisore di natura strumentale, l’unitarietà dell’ufficio: coi corollari della sua indipendenza da autorità esterne e della sua organizzazione interna su basi gerarchiche. Questa funzione e questa struttura concorrono a rendere obbligatoria l’azione penale (salvo che pei reati di minor gravità) e legali le sue forme. Il principio di legalità regola poi la costante partecipazione del pubblico ministero ad ogni stato e grado del processo, in neutrale rappresentanza dell’interesse pubblico all’osservanza (anche pro reo) della legge. (12) B. RUIZ VADILLO, Spain cit., 395. (13) Eccezioni spiegate da J. DE FIGUEREIDO DIAS e da M.J. ANTUNES, Portugal cit., 322. (14) J. DE FIGUEREIDO DIAS-M.J. ANTUNES, Portugal cit., 323. (15) Secondo J. DE FIGUEREIDO DIAS-M.J. ANTUNES, Portugal cit., 328. (16) Op. ult. cit., 329.


— 1001 — Ai principi di necessaria legalità della repressione penale si conforma la disciplina dell’istituto del pubblico ministero in Italia nei suoi dati funzionali (artt. 50.1 e 405 c.p.p.) e di organizzazione (artt. 104 comma 1o e 111 Cost.). Tuttavia, la più recente legislazione italiana ha svincolato dal principio gerarchico il pubblico ministero, il quale, per le ragioni enunciate nel § I.1, si è frammentato nelle attuali sette procure. II.2. (Segue): b) i Paesi nordici. — La struttura dell’ufficio del pubblico ministero tedesco è ricostruita, di solito, partendo dalla base della piramide. La polizia è, sì, definita come « mero ausiliario » del pubblico ministero (17), perché, « in theory, according to the law, the public prosecutor leads the investigations ». Ma è la polizia, de facto, a condurre l’inchiesta: « The prosecutor acts mainly as legal supervisor of the police » (18). In dipendenza dall’appartenenza alla stessa branca dell’amministrazione, « prosecutor’s office is a part of the Ministry of Justice », il quale, nel Lander, ha al proprio vertice il « prosecutor general » (nel territorio di un’alta Corte) od il « distrist prosecutor » (localmente accreditato presso la Corte distrettuale e subordinato al prosecutor general). Il pubblico ministero tedesco è tenuto a contestare l’accusa dinanzi alla Corte, la quale ultima non è legittimata senza l’atto formale del primo (salvo, come al solito, de minimis: in ordine a tali reati il p.m. tedesco segue l’« opportunitätsprinzip ») (19). Titolare del monopolio dell’azione penale, di regola promossa d’ufficio, il p.m. tedesco agisce in rappresentanza dello Stato, nelle forme del legalitätsprinzip, quando ricorrono « sufficient grounds to suspect a person of having commetted an offence » (20). Pure la struttura del sistema penale olandese parte dalla complessa organizzazione della polizia ed approda all’Openbaar ministerie, il quale ultimo svolge la funzione di intentare il giudizio per le offese criminali. A tale scopo egli dirige le necessarie investigazioni, persegue i trasgressori, esegue le decisioni delle corti. Dipendendo gerarchicamente dal Ministro di Giustizia, il p.m. olandese, nominato a vita, è l’unico potere autorizzato (ma non tenuto) al promovimento dell’azione penale: « the monopoly on prosecution in combination with the opportunity principle [in lingua olandese, ‘‘opportuniteitbeginsel’’] make the Public Prosecution Service one of the central institutions in the Dutch criminal justice system » (21). La dottrina coglie del pubblico ministero irlandese gli obblighi istitu(17) Così la definisce H.H. HUHNE, Germany, in Criminal procedure systems cit., 140. (18) H.H. HUHNE, Germany ult. cit., 141. (19) Cfr. H.H. HUHNE, Germany cit., 141, 146. (20) H.H. HUHNE, lc. ult. cit. (21) H.H. HUHNE, Germany cit., 146.


— 1002 — zionali dell’obbiettività e dell’imparzialità, il primo diretto a far conoscere tutti i fatti rilevanti per la Corte ed a pretendere la corretta applicazione della legge; il secondo, a produrre anche le prove a pro’ dell’imputato (22). Tuttavia, tale pubblico ministero « is not obliged to [initiate or to continue any prosecution], and does not normally give reason for a decision to prosecute or not to prosecute. However », commentano con malizia F. Mauley e J. O’Dows (23), « it seems that the option by the D[irectory]. of P[ublic]. P[rosecution]. not to prosecute a certain type of offence would be unlawful ». Dal punto di vista delle fonti, C. Van den Wyngaert (24) scrive che « Belgium and Luxembourg are probably the last states in Europe to apply the Napoleonic Code d’Instruction Criminelle of 1808 ». Introdotto nel 1878, esso è rimasto « almost intact »: « criminal procedure in Belgium is probably one of the most conservative in Europe », « taking into accaunt the fact that... the Napoleonic Code is, to a large extent, a copy of the Grande Ordonnance Criminelle of Colbert (1670), wich, in turn, heavily draws from the Constitutio Criminalis Caroline (1530)... ». Premesso che tre sono le autorità preposte all’investigazione — la polizia, il pubblico ministero ed il giudice istruttore —, il ministère public è « the master », cui spetta di decidere « what action is to be taken... and may, at any stage, decide not to proceed with the case » (25). Ufficiale di polizia giudiziaria, il p.m. belga ha competenza investigativa di portata generale e dirige la polizia mediante la information (finalizzata alla ricerca, in forma legale, della verità, senza l’adozione di misure coercitive); fa parte di un corpo ordinato gerarchicamente (presso ogni Corte siede il parquet), con cinque procuratori generali (uno per ciascuna Corte) « at the top of the pyramid » e, secondo l’insegnamento di Napoleone, è uno ed indivisibile: « the parquest acts as one single unit... individual members of the parquet do not act in their personal names but in name of the function », precisa C. Van den Wyngaert (26), (la quale ricorda che, in forza del principio « la parole est libre », l’obbedienza al superiore gerarchico cessa in udienza). L’azione penale è in Belgio discrezionale, non in forza della legge, ma di una prassi generalmente accettata: il dossier è archiviato senza formalità, né motivazione, anche se il caso può essere riaperto (salva la prescrizione del reato). La ratio della discrezionalità belga sta nell’impossibilità (22) Cfr. F. MC AULEY-J. O’DOWS, Ireland, in Criminal procedure systems cit., 190. (23) Op. ult. cit., 194. (24) Belgium, in ID. (a cura di), Criminal procedure systems cit., 1993, 3. (25) Op. ult. cit., 6. (26) Belgium cit., 8.


— 1003 — materiale del parquet di trasformare in procedimenti tutte le notizie riferitegli dalla polizia (27). Secondo A. e A. Spielmann (28), il sistema lussemburghese è simile a quello belga in forza della comune derivazione napoleonica. Da essa derivano la potestà investigativa ad iniziativa della polizia; la direzione della polizia da parte del procureur d’Etat (art. 9 c.p.p.), con supervisione del procureur général (entrambi sotto il controllo della chambre du conseil de la cour d’appeal); l’azione della polizia lussemburghese solo su istruzioni del giudice istruttore, dopo che l’inchiesta si è aperta. Tuttavia, quello del pubblico ministero lussemburghese non è un monopolio dell’azione penale ed il « discretionary power » gli spetta, anche se egli è tenuto, in ogni caso, a valutazioni « oggettivamente ragionevoli ». Più decisa — sin dal XIX secolo — la scelta danese per il monopolio statuale della repressione penale (c.d. Officialprincippetts), in forza del quale lo Stato « has even assumed the right and duty to proceed ex officio », sicché « offences may be presented irrespetive of wether the victime so devices ». II.3. I grandi sistemi della C.E ad azione penale discrezionale. — È venuta l’ora di trattare dei grandi sistemi discrezionali della C.E, prendendo le mosse da quello francese, il quale, con il Code de procédure penale del 1959 (d’ora innanzi, c.p.p.), ha abolito il Code d’instruction criminelle di Napoleone (1808) ed è stato più realista del Belgio e del Lussemburgo. Pur variato nove volte dopo il 1959 (le più importanti sono le due ultime, disposte con leggi del 4 gennaio 1983 e 28 agosto 1993), il sistema francese è rimasto fedele al principio secondo il quale — sino all’apertura dell’information preliminare — è la polizia che è tenuta a prendere cognizione delle offese criminali, a raccoglierne le prove ed a ricercarne gli autori. Quando l’information ha preso corpo, essa passa al regime delle istruzioni di competenza del giudice istruttore (« commissions rogatoires »). Il peso procedimentale della polizia francese è, in ogni caso, accentuato dal fatto che il procureur de la République, nella sua veste di massima autorità di impulso (art. 31 c.p.p.), svolge la duplice funzione — dell’esercizio dell’azione pubblica e della richiesta di applicazione della legge — quale parte di un corpo conosciuto come il parquet, a dominante struttura gerarchica. Il parquet è, invero, articolato presso il tribunaux de grande istance (« procureur de la République »), la Corte d’appello o di Cassazione (27) La C. VAN DEN WYNGAERT, Belgium cit., 42, avverte che le scelte not to prosecute (di un parquet non elettivo) sono, spesso, di natura politica. (28) Luxembourg, in Criminal procedure systems cit., 261.


— 1004 — (« procureur général ») ed, in ogni sua branca, è diretto dal Garde de Sceaux (29). Il controllo col quale il Garde de Sceaux interferisce nel promovimento dell’azione penale del procureur de la République viene esercitato tramite il procureur général, il quale agisce di propria iniziativa o su ordine del Guardasigilli francese (30). Ne consegue che il p.m. non è mai obbligato a promuovere il procedimento (principio di opportunité des porsuites: art. 40 al. 1 c.p.p. (31)); a procedimento promosso, il pubblico ministero non può, tuttavia, determinarne la regressione. Terminiamo con l’analisi della discrezionalità nel sistema inglese, davvero segno di contraddizione rispetto alla logica continentale, come da ultimo indica A.T.H Smith (32). La filosofia della discrezionalità inglese implica che la polizia diriga « most of the initial investigation of criminal offences in England » (33). A partire dal Prosecution of offences Act del 1985, il Parlamento ha, tuttavia, creato il Crown Prosecution Service, « whose role was to take over the conduct of all prosecutions in England and Wales » (34), con la conseguenza che la discrezionalità nel promuovere l’inchiesta rientra tra i poteri del Crown Prosecution Service — e non della polizia, com’era anteriormente. Tuttavia, la decisione se oppure non promuovere l’azione è guidata da criteri dettagliati (§ 3 Code for Crown Prosecutors). Tra di essi, il Crown Prosecutor deve tener conto dei sufficienti elementi di prova; dell’interesse pubblico al procedimento; del « realistic prospect of a conviction ». Infine, gli interessi della vittima (tra i quali la sua desistenza) dovrebbero esser considerati « inter alia », al pari di una pena soltanto nominale in caso di condanna, del decorso del tempo, dell’età o della non imputabilità dell’accusato (35). In ogni caso le decisioni del Crown Prosecution Service circa l’opzione per la prosecutorial discretion sono materia di controllo giurisdizionale nell’High Court, secondo l’accurata analisi dello stesso Smith (36), mentre il cittadino, se offeso, può intentare un’azione penale privata (il che accade di rado, ad es., in caso di borseggio nei grandi magazzini; di incidente stradale cagionato da guidatore in stato di ebbrezza). In tali circostanze, il Director of Public Prosecutions conserva il potere di succedere (29) Secondo la ricostruzione di J. PRADEL, France, in Criminal procedure systems cit., 106-112. (30) Cfr. J. PRADEL, France cit., 112. (31) J. PRADEL, op. ult. cit., 117, 130. (32) England and Wales, in Criminal procedure systems cit., 73. (33) A.T.H. SMITH, op. ult. cit., 75. (34) A.T.H. SMITH, England cit., 76-77. (35) A.T.H. SMITH, England cit., 97. (36) England cit., 97, nt. 90.


— 1005 — all’attore privato e di gestire il procedimento, eventualmente anche allo scopo di interromperlo (i.e., retrattabilità dell’azione penale). Secondo il prof. C. Gane, nel sistema penale scozzese (il quale, come il sistema inglese, suppone una doppia ed effettiva corrente di fiducia, tra il Crown Prosecution Service ed i cittadini, tra il suo Direttore, la polizia e l’attore privato), la polizia è delegata dal procurator fiscal e « much of the day-to day... conduct the investigations » (37). Tuttavia, oltre il limite delle prime investigazioni è al « prosecutor and not [to] the police » che spetta « to decide wether or not the results of investigation justify a prosecution » (38). Più in generale, il pubblico ministero inglese (nell’ordinamento, in primo luogo; nelle strutture del processo, in secondo luogo) esercita, nel pubblico interesse ma non in condizione monopolistica, una funzione pubblica. Egli riveste la qualifica di pubblico ufficiale. A sua volta, Master of the istance (39), il p.m. scozzese « non è parte » del processo penale, perché in esso non trova un interesse individuale o personale: l’interesse che lo muove è soltanto quello pubblico. Tuttavia, sempre secondo il prof. C. Gane (40), « conviene » considerare il p.m scozzese come « parte », perché senza di esso il processo non ha inizio ed egli « in no sense occupy a ‘‘neutral’’ position ». Dal punto di vista dell’iniziativa processuale, l’azione del p.m. scozzese non è obbligatoria, perché, se non dall’evidenza della prova, essa è condizionata al « public interest that a criminal charge should be brought, and if brought proceede with » (41). Il promovimento e gli sviluppi dell’azione sono regolati dal bilanciamento tra i contrapposti principii di legalità ed opportunità. II.4. Costanti e variabili nelle strutture degli ordinamenti e nella partecipazione al processo dei titolari dell’azione penale nella C.E. — Sebbene la contrapposizione tra obbligatorietà e discrezionalità dell’azione penale contribuisca ad istituire forme di apertura del procedimento penale e di esercizio della corrispondente iniziativa che sono connaturate in modo stringente a tradizioni profonde dei rapporti tra regime politico nazionale e giudizio penale, l’idea che tale contrapposizione sia una « costante » della teoria generale del processo non può essere condivisa. Le condizioni alle quali l’azione può, comunque, essere subordinata (con effetto tanto sospensivo, quanto risolutivo) attenuano il rigore dell’obbligatorietà, così come l’intervento dell’attore privato (ed, in certi casi, di (37) V. C. GANE, Scotland, in Criminal procedure systems cit., 343. (38) ID., op. ult. cit., 344. (39) C. GANE, Scotland cit., 344, 349-352. (40) Scotland cit., 349. (41) C. GANE, Scotland cit., 354: il potere discrezionale non è « senza ceppi ».


— 1006 — quello popolare) aggiungono alla discretion forme eccezionali, ma non irregolari, di inizio del procedimento ad opera di soggetti diversi dalla polizia o dai pubblici ufficiali. Riesce, quindi, più realistico trovare le costanti dell’azione penale nella pubblicità della qualifica del suo titolare; nella costante legalità delle forme del suo intervento (tanto nel procedimento e nel processo, quanto con l’iniziativa penale o la sua retrattazione). Organismo pubblico, il p.m. è « unitario » ed è quasi sempre retto dal « principio gerarchico » , sicchè the Italian style, come direbbe J. Merryman, deroga — uti singulus sistema — da tali principii, crea il più elevato numero di uffici del pubblico ministero (tanto per i delitti comuni, quanto per quelli special-associativi), riduce al livello minimo i raccordi. Quello del pubblico ministero è, dunque, un caso italiano: anzi, il caso italiano. Le ragioni di questo singolare caso non sono solo quelle che esamineremo nei §§ segg. Lungi da noi, invero, è la pretesa di dar suggerimenti in merito a proposte politiche destinate a riformare il processo da tale angolatura contingente, si tratti della separazione delle carriere, della subordinazione del pubblico ministero (anche se non separato dal giudice) sotto la direzione del Ministro; ovvero, nella direzione opposta, dell’accentuazione della « neutralità » del pubblico ministero, al quale attribuire il maximum di indipendenza esterna. Come scriveva F. Carrara, quando la politica entra sfondando di mal grazia la porta dell’aula di udienza, la Giustizia se ne vola via dalla finestra, come una rondine. III.1. L’anomalia del caso italiano. — La comparazione tra le iniziative processuali disciplinate, all’interno degli Stati dell’Unione, con azione penale obbligatoria ha reso evidente quanto fondata fosse la nostra anticipazione, che, cioè, sette uffici di procura (dei quali ben quattro per il I grado) siano davvero approssimati per eccesso. Tale anticipazione (42), peraltro, non dovrebbe convertire, automaticamente, l’anomalia del caso italiano in inadeguatezza delle sue strutture organizzative. Il conseguimento dello scopo istituzionale, di necessitato e costante impulso al procedimento penale, tuttavia risulta compromesso da alcune caratteristiche di atipicità, non funzionalità e contrasto delle varie figure dell’istituto. Esso non supera positivamente l’esame dei costi e benefici: tanto economici quanto di preparazione e serietà del personale; tanto di rapidità dei tempi di avvio ed impulso quanto di bontà delle decisioni adottate, anche se resta positivo il giudizio di buon funzionamento delle procure anti-mafia (43). Ipotizzando per il futuro il venir meno della necessità di uno speciale (42) (43)

V., retro, § I.1. V., infra, § IV.2.


— 1007 — contrasto contro le associazioni di tipo mafioso e fissando l’attenzione su quelle figure del pubblico ministero le quali hanno carattere di istituti « regolari », la configurazione del p.m. italiano quale titolare dell’azione penale (art. 501 c.p.p.) e quella della polizia giudiziaria quale sua ausiliare (per assicurare, a necessitata disposizione del primo, la conoscenza della notizia di reato, la conservazione e trasmissione delle relative fonti di prova ex artt. 59 e 55 c.p.p.), non impediscono che la polizia stessa, oltre ad esercitare i suoi poteri anche d’iniziativa, abbia un certo margine di scelta nell’individuare tra le tante procure il pubblico ministero al quale riferire per iscritto (art 347.1 c.p.p.). Con quanto segue in ordine al margine di scelta ed alla concorrente signoria del p.m. nella qualificazione giuridica della notizia del reato. La fattispecie incriminatrice della quale la polizia suppone la trasgressione (se concerne davvero un solo reato), in caso di inesattezza in fase di trasmissione della notizia, comporta — al massimo — quel contrasto tra le varie figure di pubblico ministero che è risolvibile dagli organi e nelle forme previste dagli artt. 54, 54-bis, 54-ter c.p.p. Qualora la p.g. riferisca fatti che costituirebbero, in astratto, due o più reati (attribuibili alle competenze istituzionali, per materia, funzione o territorio, di più pubblici ministeri [art. 51.3 c.p.p.]), la contestazione dei reati da parte di quel p.m. che ha dapprima ricevuto la notizia e per la quale ha ottenuto il rinvio a giudizio, può essere corretta mediante le « nuove contestazioni » al dibattimento (artt. 516-522 c.p.p.). Se, però, il procedimento viene iniziato per concludersi nell’archiviazione (artt. 408-415 e 554 c.p.p.), l’ordinanza del g.i.p. sottrae, nei suoi limiti di stabilità (44), l’iniziativa circa la sussistenza e la qualificazione di tali fatti a quello stesso pubblico ministero che fosse l’effettivamente competente. Tale strano risultato può avvenire anche qualora la notizia, trasmessa al p.m. competente dall’ufficio che per primo l’ha ricevuta, implichi la declaratoria di incompetenza di quel primo ufficio. Due sono, invero, i casi che si prospettano in materia. Il p.m. ritiene per doverosamente propria la competenza così attribuitagli dall’ufficio trasmittente, nonostante che, magari successivamente, la notizia si estenda ad altri fatti di reato, che egli, pur tuttavia, non porti alla luce (come potrebbe, ad es. con la richiesta di rinvio a giudizio, con la presentazione della persona arrestata in flagranza o con la richiesta di giudizio immediato). Di fatto, la notizia di reato, successiva all’attribuzione di competenza, può rimanere ignota, tanto nel giudizio a quo, quanto nel giudizio instaurato dalla procura distrettuale anti-mafia (art. 51 c.p.p.). Essa può rimanere sconosciuta pure nell’opinione pubblica. (44) A proposito dei quali, v. i problemi di recente sollevati dalla Corte Suprema: Cass., 19 febbraio 1990, Tormentini, in Giust. pen., 1990, III, c. 284; Id., 3 dicembre 1990, p.m. in c. Gherardini, in Cass. pen., 1991, II, 425.


— 1008 — In secondo luogo, in presenza di un fatto di reato di propria competenza e di altro fatto per il quale sia prospettabile la competenza del giudice più elevato in grado, può darsi che il p.m. presso il giudice meno elevato trasmetta l’unica e corredata notizia di reato al p.m. competente per connessione. Se quest’ultimo inizia il procedimento penale soltanto per il reato più grave, l’archiviazione disposta dal g.i.p. su sua richiesta comporta, sempre di fatto, l’archiviazione della notizia del reato appartenente al pubblico ministero di competenza inferiore. Tale ultimo risultato è l’esito sicuro, qualora si ipotizzi che i relativi atti processuali non siano restituiti al p.m. del reato meno grave. Se, invece, la connessione venisse esclusa, il p.m. di grado meno elevato resterebbe pur sempre competente per il reato di gravità minore (tale ragionamento si può estendere quando a rilevare è la diversità della competenza per funzione). I due casi or ora prospettati sfuggono alla disciplina del contrasto tra uffici, disposta dagli artt. 54 e 54-bis c.p.p. allo scopo di contenere i dissensi all’interno dell’unità dell’ufficio di procura generale di Corte d’appello. Accantonando, a questo punto, gli inconvenienti della ripartizione di compiti dovuti alle difettose trasmissioni di notizie da parte della polizia giudiziaria, possiamo entrare in merito ai conflitti di competenza di stretto diritto, distinguendone la rilevanza in « esterna » od « interna ». Prendendo le mosse da quest’ultima, che sappiamo aver per oggetto i « contrasti tra pubblici ministeri », anticipiamo come la nocività della proliferazione degli uffici del pubblico ministero si amplii anche per la conseguente nocività dei rimedi adottati dal legislatore e dall’interprete per ridurre la portata anomala del caso italiano. III.2. (Segue): i contrasti tra pubblici ministeri ed i conflitti analoghi. — Nel sistema del nuovo processo penale i contrasti negativi sono stati affidati, per la loro risoluzione « silenziosa », alla competenza dell’ufficio « sovraordinato » del pubblico ministero. Per tale originaria funzione dell’art. 54 c.p.p., li abbiamo definiti « contrasti a rilevanza interna ». La soluzione adottata è stata estesa ai contrasti « positivi » tra gli uffici del p.m., per poi ampliarsi, pur con una sensibile differenza di disciplina, ai contrasti « in materia di criminalità organizzata » (artt. 54-bis e 54-ter c.p.p., introdotti col d.l. 20 novembre 1991, n. 367, conv. in l. 20 gennaio 1992, n. 8). Mentre l’art. 54-ter è stato di necessità pensato per attuare la disciplina dei contrasti tra procure distrettuali anti-mafia, l’originario testo della disciplina dei contrasti, diciamo « regolari », tra pubblici ministeri, prova come tale disciplina — a soli ventisei mesi dall’entrata in vigore del nuovo Codice — soffrisse già di aporia, per quanto aveva ad oggetto i soli


— 1009 — contrasti negativi tra uffici (pur da risolversi all’interno delle procure generali e, come si è visto, sine strepitu fori). Se anche questa non è la sede adatta all’esame dei provvedimenti in merito alla giurisdizione ed alla competenza, la disciplina dei conflitti, sia pure soltanto in punto di competenza, resta decisiva per affrontare il nostro problema. Tra i conflitti di competenza vogliamo cogliere la rilevanza di quello « analogo » tra pubblico ministero e giudice. Se l’art. 28.2 c.p.p. ha una portata escludente l’assimilazione, in via analogica, di tale conflitto ai conflitti proprii, tuttavia il costante orientamento della Corte Suprema — secondo la quale una « parte », quale il p.m., non può entrare in conflitto col giudice — sovente lascia passare, tra le sue impeccabili pieghe, valutazioni in senso opposto. Esse si fan forti dell’argomento che l’esclusione del conflitto analogico tra p.m. e giudice, nella lettera dell’art. 28.2 c.p.p., è « meramente implicita », sicché tale conflitto è stato considerato ammissibile. Alla condizione essenziale che la parte pubblica ed il giudice, nel compiere (od omettere) un atto (apparentemente) loro spettante, creino una « ineliminabile » stasi del procedimento. Del pari, si è riconosciuto un conflitto analogo quando il g.i.p. presso la pretura abbia ordinato al p.m. di formulare l’imputazione (art. 554.2) e quest’ultimo gli abbia di nuovo richiesto l’archiviazione. Infine, contro l’ordinanza immotivata con la quale il pretore dispone la trasmissione degli atti alla procura circondariale (con la clausola di stile « per quanto di sua competenza ») è stato ammesso il ricorso per cassazione, perché l’accertata situazione di stasi processuale lo imporrebbe, di principio, col suo sostituirsi all’omessa previsione di un conflitto analogo (45). Dunque, per quanto almeno i contrasti all’interno dei due rami della pubblica accusa (quello « comune » e quello anti-mafia) restino segreti sino al rinvio a giudizio, vi è materia di riflessione quanto ai modelli di contrasto. I rapporti interorganici tra gli uffici del p.m. non sono, sempre, dei più felici e la sola decisione del p.m. sovraordinato non è atta a definire per sempre il contrasto. In particolare, la decisione del « superiore gerarchico » vale rebus sic stantibus ed è inefficace se fatti di reato e prove di commissione suggeriscano, ad uno degli uffici, la riproposizione del contrasto. In tale ultimo caso, il procuratore sovraordinato è obbligato a rivederla. Dall’osservatorio organizzativo, tre principii di natura statica — l’unità dell’ufficio del pubblico ministero; la tassatività delle sue attribuzioni e la disponibilità della polizia giudiziaria — in pratica non sono presupposti tranquilli dell’organizzazione della parte pubblica nel suo complesso. (45) V., nel primo senso, Proc. Rep. pret. Cremona, 11 maggio 1990, in Archivio nuova proc. pen., 1990, 459; nel secondo, Pret. Bologna, 12 marzo 1990, in Dif. pen. (27), p. 75; nel terzo, Cass., 30 aprile 1992, Bajrani, in Mass. uff., 190670.


— 1010 — Sul piano processuale, poi, la costante regolarità delle « attività di indagine » del p.m. (artt. 50, 51, 59, 326 e 368 c.p.p.) è messa in pericolo — quanto meno di ritardi nel procedimento — dall’accidentato terreno delle competenze (o attribuzioni) « interne ». Per tacere come a tale terreno accidentato si aggiunga il progressivo, necessitato passaggio dai contrasti « interni agli uffici » ai « contrasti esterni ». Le questioni di competenza in senso tecnico, secondo la disciplina tanto dei conflitti preventivi, quanto della endo-correzione dei difetti di giurisdizione e competenza, sono destinate a salire alla ribalta del predibattimento. Per sovrappiù, la portata delle decisioni della Corte Suprema su tali presupposti del giudizio è lungi dal conseguire la nota dell’efficacia vincolante nel giudizio (art. 25 al. 2o c.p.p.). Riflettendo, dunque, sull’intiera materia, si giunge a concludere che la proliferazione delle procure nuoccia alla tempestività delle indagini preliminari più di quanto si possa supporre. Questa conclusione si aggiunge alle risultanze dell’analisi comparativa, sicché diviene necessario affrontare « il caso italiano » sul piano dei rimedi da predisporre in modo specifico ed adeguato: più che per la singolarità, per l’ineffettività del funzionamento delle procure italiane. Proponendoci il massimo di unità dell’unico ufficio del pubblico ministero, di coesione delle sue diramazioni periferiche, di rapidità dei suoi interventi (e non solo dei suoi « primi » interventi), va osservato, innanzitutto, che questi obbiettivi sono, di ragione, compatibili con la gestione tendenzialmente collegiale dei procedimenti per delitti concorsuali e associativi, data l’attuale minorità statistica dei reati individuali. Da questa tipologia organizzativa, a nostro avviso, potrebbe scaturire quello che secondo il filosofo G. Fassò, fu il principio fondante della civilità ateniese: l’isonomia penale, il conseguimento, cioè del bene comune mediante l’eguaglianza giuridica dei cittadini. III.3. L’organizzazione degli uffici del pubblico ministero italiano sfugge alla legge di Parkinson? — Com’è del tutto sconosciuto agli uomini politici ed agli studiosi italiani di istituzioni amministrative, Cyril Northocote Parkinson ha pubblicato nel 1957 (46) la dimostrazione, tanto frutto di studi severi quanto ironica nello stile, che, nelle pubbliche amministrazioni, di solito costruite a mo’ di piramide, « l’aumento del numero totale degli impiegati... continua invariato, sia che il lavoro cresca, diminuisca o addirittura scompaia » nella misura media annuale del 5,75%, ricavata da una complessa frazione matematica. Questa legge è stata suggerita all’A. dai suoi studi sull’Ammiragliato di Sua Maestà — i cui funzionari erano cresciuti dai 2.000 del 1919 ai 3.659 del 1928, quando i grandi vascelli (46)

Nt. A) p. III.3 Ms.


— 1011 — erano scesi, nello stesso 1928, dai 62 dell’inizio della I guerra mondiale a 20, sicché la Marina inglese fu soprannominata « una poderosa flotta a terra » — e si estende ad ogni ramo della pubblica amministrazione, tanto negli Stati liberaldemocratici quanto in quelli dittatorial-totalitari. Com’è naturale, la legge di Parkinson è verisimile qualora si postuli che l’aumento del personale ad invarianza di compiti (da svolgere di diritto; o davvero svolti di fatto secondo mansionari duttili) sia una costante dello sviluppo delle attribuzioni e dei mezzi personali delle istituzioni. Una costante, sia chiaro, che tollera delle modeste e temporanee variabili (ad es., per contingenti riduzioni della spesa pubblica). Ciò stante, la portata della legge di Parkinson è tale da trasmigrare verso le istituzioni di giurisdizione e di procura, queste ultime procedimentalmente precedenti le prime e organizzativamente parallele ad esse. I profili organizzativi del giudice e del p.m. discendono, in Italia, esclusivamente dalla legge e dai regolamenti, i quali costituiscono delle strutture statiche. Le istituzioni che ne derivano non possono auto-regolamentarsi, né auto-organizzarsi, né proporzionare autonomamente i loro mezzi ai loro bisogni effettivi (variando nel tempo gli uni secondo il variare degli altri). Anche per queste ragioni, le organizzazioni giudiziarie (tanto dell’azione, quanto della giurisdizione) — con una innovazione che in Italia sarebbe rilevantissima — dovrebbero davvero sfuggire all’inesorabile legge di Parkinson, se vi fosse giustizia. L’inavvertita agonia della procura generale presso la Corte d’appello, che si sta consumando in questi mesi sotto gli occhi smaliziati dei sostituti e del personale subalterno, suggerisce una migliore considerazione del rapporto tra funzionalità del processo e strutture organizzative ad esso serventi. È dalla revisione di tale rapporto che quasi tutte le attuali inadempienze, riepilogate nello sbilanciamento tra « bisogno di giustizia » e capacità di soddisfarlo da parte dell’ordinamento giudiziario, possono trasformarsi in adempimenti del comune bene giurisdizionale. III.4. Genere e specie di avocazione. — Gli artt. 234, 232 e 392 comma 3o c.p.p. previg. rendevano insindacabile il potere del procuratore generale presso la Corte d’appello di avocare a sé sia l’istruzione preliminare che quella sommaria spettanti, di regola, al procuratore della Repubblica. Per mantenere l’avocazione nel nuovo sistema processuale con una più corretta legittimazione costituzionale, il testo originario del Codice Vassalli l’aveva prevista in caso di « stasi delle indagini », ovvero di « inerzia » del p.m. di I grado. Con la prima espressione si voleva intendere l’impossibilità della sostituzione del sostituto di I grado (astenutosi od incompatibile), ovvero l’omessa sostituzione del magistrato tenuto ad aste-


— 1012 — nersi (artt. 372.1 e 36 lett. a), b) e c) c.p.p.); col sostantivo « inerzia » si voleva attribuire al procuratore generale presso la Corte d’appello la potestà di avocare a sé il procedimento (mai il processo), sia quando « il pubblico ministero non esercita l’azione penale o non richiede l’archiviazione nel termine stabilito dalla legge o prorogato dal giudice », che quando la persona sottoposta alle indagini o la persona offesa richiede al p.g. di avocare a sé il procedimento (artt. 412.1 e 413 c.p.p.). Queste quattro specie di avocazione del procuratore generale presso la Corte d’appello sono fondabili, tutte, sull’« inerzia » lato sensu del p.m. di I grado e sulla conseguente « stasi del procedimento » (anche al di fuori dei casi di contrasto negativo o positivo tra gli uffici del p.m. estranei alla materia della criminalità organizzata [artt. 54, 54-bis e 54-ter c.p.p.]). La disciplina delle quattro specie di avocazione è assai semplice. Le funzioni del p.m. c.d. « comune » sono esercitate, a far tempo dall’emissione del decreto (motivato) di avocazione nel corso delle indagini preliminari, « dai magistrati della procura generale presso la Corte d’appello » (art. 51.2 al 1o c.p.p.). Com’è naturale, funzione, struttura, termini e chiusura delle indagini preliminari non risentono dell’avocazione: vi è solo la sostituzione dell’ufficio di I grado con quello del p.m. superiore (sicché, ad es., gli avvisi vanno notificati al secondo, e non al p.m. sostituito). È il procuratore generale, poi, che eserciterà, dans les règles, le funzioni di pubblico ministero nei giudizi di appello (art. 511 lett. a) c.p.p.), sino all’intervento dei sostituti presso la Corte di cassazione. L’avocazione è, così, un istituto monco, perché dispiega la sua efficacia soltanto sino alla chiusura delle indagini preliminari. Il procuratore generale, come si è visto, non partecipa all’udienza preliminare, né al giudizio di I grado. L’avocazione del procuratore nazionale anti-mafia ha presupposti in parte diversi. La competenza funzional-materiale di tale speciale ufficio (artt. 371-bis e 51.2 al. 2o c.p.p.) comporta delle specialità anche rispetto alla normale disciplina dell’avocazione. Invero, il procuratore nazionale avocante, quello anti-mafia, non è inquadrato nella procura generale presso la Corte d’appello, ma è istituito « nell’àmbito della procura generale presso la Corte di cassazione » (art. 36-bis r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 [ord. giudiz. e succ. modif.]). D’altronde l’ufficio « avocato » non è il procuratore della Repubblica, ma quello « distrettuale » istituito esclusivamente presso il tribunale del capoluogo del distretto (art. 51.3-bis c.p.p.), sicché dovrebbe essere difficile una interferenza tra l’avocazione generale del p.g. d’appello e quella speciale del procuratore nazionale antimafia. Tuttavia, la necessità che anima tanto l’avocazione generale quanto quella speciale, pur nel vigore di strutture organizzative diverse, resta l’inerzia dei pubblici ministeri di I grado: è a tale inerzia, invero, che risale la stasi dei procedimenti, ratio della sostituzione dell’ufficio inferiore da parte di quello superiore.


— 1013 — Il regime dell’avocazione speciale della procura nazionale antimafia si spiega con la constatazione di tale procuratore che uno o più procuratori distrettuali non ne accolgono gli impulsi ad assicurare la completezza e tempestività delle investigazioni. Già le direttive impartite dal procuratore nazionale non avevano avuto successo nella fase del coordinamento delle indagini (art. 371-bis.2 c.p.p.), né le riunioni poi indette avevano sanato i contrasti (art. 371-bis.3 lett. g) c.p.p.); sicché la perdurante inerzia e l’ingiustificata violazione degli obblighi di coordinamento, documentata dalle informazioni del caso (il procuratore nazionale le assume mediante un magistrato del proprio ufficio), fanno scattare il meccanismo dell’avocazione speciale. Tale avocazione garantisce la competenza interna della procura distrettuale avocata mediante la motivazione del decreto, che poi reclamabile innanzi al procuratore generale presso la Corte di cassazione (art. 371-bis comma 3o lett. h) c.p.p.). « Salvi casi particolari », la procura nazionale avocante « non può delegare per il compimento degli atti di indagini altri uffici del pubblico ministero » (art. 371-bis comma 4o c.p.p.). A parte la stasi del procedimento causata dall’inerzia degli uffici di procura di I grado, avocazione generale e speciale hanno in comune la rilevanza, in entrambi i casi soltanto « interna », dello spostamento, dal basso verso l’alto, del procedimento. Tale spostamento non è « di competenza », ma « di attribuzione »; discende dalla natura e dalla funzione dei rapporti inter-organici tra gli uffici della pubblica accusa; interessa il solo procedimento, e non il processo. Le parti del quale ultimo non dovrebbero dolersi se le fonti di prova, anziché dal p.m. di I grado, sono raccolte dagli uffici della procura generale presso la Corte d’appello o della procura nazionale antimafia. Né potrebbero dolersi se, all’inverso, una riforma legislativa garantisse la partecipazione nel giudizio alle procure avocanti, anziché ai pubblici ministeri prima scalvalcati e poi rischierati sul campo (anche se tali « cavalli di ritorno », per il loro scarso, risaputo impegno, lo si sa bene, non soddisfano più le squadre e gli appassionati di football). III.5. Un approccio onto-fenomenologico alle cause della disorganizzazione degli uffici del pubblico ministero in Italia. — Le strutture normative degli uffici del pubblico ministero, come si è visto soprattutto per quelli non specificamente costruiti in direzione anti-mafia (art. 51.3bis c.p.p.), sono così numerose da venir meno al cànone logico entia non sunt multiplicanda sine necessitate, con tanta e giusta insistenza riproposto da F. Cordero. È la proliferazione degli uffici di pubblica accusa a farsi fonte di quei fenomeni processuali che abbiamo esaminato: gli enti rimasti soccombenti nella concorrenza tra uffici divengono di fatto inutili, e pur tuttavia non


— 1014 — scompaiono; gli enti di nuova creazione (come la procura circondariale) si sentono in dovere di giustificarsi, agli occhi del Parlamento e della pubblica opinione, sul piano fenomenologico. Còlti da attivismo convulsivo, gli uffici di procura di I grado si pongono in contrasto tra di loro e si sottraggono a vicenda le competenze. Mentre lo sviluppo delle procure anti-mafia è una tendenza alla quale il legislatore non può rinunciare, anche se può augurarsene la provvisorietà nella speranza della sconfitta della mafia; e se, per contro (47), l’attuale disimpegno delle procure minorili rimarrà inevitabilmente transitorio, l’ubi consistam della grave disorganizzazione della pubblica accusa in Italia sta, appunto, nella sua frammentazione e nel conseguente antagonismo tra quegli uffici le cui attribuzioni hanno punti di contatto. Simile alle lotte che le Corti inglesi nel Sei-Settecento si mossero per autolegittimare la propria sovranità giurisdizionale, la concorrenza tra le procure è visibile nelle gare a dar le notizie per prime (e prima della loro pubblicità processuale), nelle esternazioni, nei contatti improprii con la stampa. In particolare, la procura generale d’appello, dal 24 ottobre 1989, si è vista privata della potestà di richiedere l’istruzione formale, di procedere ad istruzione sommaria e preliminare, di avocare in modo insindacabile (artt. 234 comma 1o, 232 e 392 comma 2o c.p.p. previg.). Negli sviluppi successivi all’entrata in vigore del nuovo Codice, il legislatore le ha affidato il compito di individuare l’ufficio di procura competente, anche in caso di contrasto positivo con altra procura di I grado (artt. 54, 54-bis e 54-ter c.p.p.), mentre l’avocazione per inerzia si è estesa, come abbiamo anticipato, ai casi previsti dall’ampliato art. 372 c.p.p. La procura generale d’appello, rispetto al passato, non è più in concorrenza con gli uffici di procura quanto all’esercizio dell’azione penale in I grado; tuttavia, è sotto gli occhi di tutti come essa, oggi, mantenga un personale spropositato, per eccesso, rispetto ai mezzi necessari per le sue attribuzioni. La conclusione, appena accennata, di inutilità della procura circondariale e dell’ufficio del giudice per le indagini preliminari in pretura, in apparenza, non dovrebbe avere spazio. La verità di tale asserto, a ben pensarci, è solo apparente, perché solo la memoria corta dell’uomo è portata a dimenticare come i pretori in sede di tribunale e quelli mandamentali, quando cumulavano le funzioni di accusa, istruzione e giudizio, erano in numero inferiore rispetto a quello complessivo degli attuali procuratori circondariali, giudici delle indagini preliminari e pretori. Secondo un calcolo compiuto sul circondario di Arezzo dal presidente di quel Tribu(47)

Per le ragioni che vedremo nel § IV.5.


— 1015 — nale (48), le funzioni attribuite a tre soggetti distinti (anziché, come un tempo, al solo pretore, quello mandamentale compreso) hanno comportato l’aumento dell’organico complessivo dei magistrati ordinari di quella circoscrizione da 22 a 26, rimanendo inalterato il numero dei sostituti procuratori della Repubblica e quello dei giudici del tribunale e non calcolando i vice-pretori onorari ed i vice-procuratori circondariali. La Corte costituzionale, si ricorderà, pretendeva la sola separazione di azione e giudizio e non richiedeva l’istituzione di un termine medio, un « istruttore » pretorile in senso lato, cioè. L’aumento dei magistrati in pretura dipende, a nostro avviso, dall’aver voluto istituirvi un giudice tanto inutile e costoso quale quello per le indagini preliminari. A questa considerazione aggiungiamo, da un lato, che l’udienza di convalida dell’arresto in pretura, l’ordinanza di archiviazione ed il decreto penale del g.i.p. non giustificano affatto che il miglior modello di processo penale previgente, quello pretorile, sia stato trasformato nel più farraginoso, lento e dispendioso. Nel peggiore, cioè. Non può sfuggire, poi, come la forte riduzione della competenza per materia della procura della Repubblica non abbia comportato né una riduzione di quel personale, né una diminuzione dei tempi necessari per giungere all’udienza preliminare. Se è questo il contesto onto-fenomenologico delle istituzioni oggi preposte, con competenza generale, all’azione penale in I grado, riesce ben comprensibile l’attivismo frenetico della procura circondariale — l’organismo più debole, se non sulla carta, sulla logica processuale. Di nuova costituzione, la procura circondariale ha un numero di sostituti spesso superiore a quello dei pretori (sempre, se si calcolano i vice-procuratori). Il tempo per creare ex nihilo pseudo-procedimenti indubbiamente c’è, anche se alcuni procuratori circondariali lamentano che manchi il personale subalterno per la registrazione delle notizie di reato. Ma la preoccupazione è di stile, se i capaci e sonnolenti armadi hanno pure lo spazio per depositarvi i fascicoli, sinché prescrizione del reato od amnistia non abbiano a dislocarli nell’Archivio in senso proprio. PARTE SECONDA IV.I. L’organizzazione degli uffici del pubblico ministero tra indagine dommatica e metodo propositivo. — Ogni studio sul buon andamento dell’organizzazione di uffici, oltre che con l’eventuale complicazione attuativa dei proprii scopi processuali (nel caso del processo penale italiano, con gli scarsi risultati deflattivi della moltiplicazione dei riti), può (48) A. BORRI, Intervento, in CIRCOLO VALDARNESE PER LA GIURISDIZIONE MINORE, L’attuale decadenza delle preture, Arezzo-Firenze 1994, 127 ss.


— 1016 — misurarsi col principio di realtà solo se, com’è ovvio, accentua le assolute differenze di obbiettivi e metodo (se non la contrapposizione) dei rimedi proponibili de iure condendo, rispetto all’indagine de iure condito. Tali differenze sono acuite dalla connessione storica tra regime politico e sistema processuale (ben visibile nelle ultimissime esternazioni del presidente uscente della Corte costituzionale). Peraltro, esse potrebbero essere ricomposte col metodo onto-fenomenologico della Scuola del prof. Sergio Cotta, purché, in tempi di reformatio reformationis, si postulassero i seguenti criteri. In generale, la struttura portante dell’attuale Codice deve essere mantenuta per ospitare quei soli rimedi che siano capaci di rendere ragionevolmente spedito l’accertamento del vero e del giusto: ambire alla sostituzione del Codice Vassalli con un quinto codice di procedura in poco più di centotrent’anni è semplicemente folle. In particolare, l’attuale, gigantesca disorganizzazione del pubblico ministero deve essere corretta riuscendosi, però, a conservare la neutrale indipendenza dell’istituto, a confermarne la sua attribuzione di fondo (l’obbligatorietà dell’azione penale) ed a dare una giustificazione unitaria dei rimedi. In ogni caso, il segreto istruttorio va irrobustito e quel minimo di informazioni che possono essere comunicate senza pregiudizio delle indagini preliminari e, soprattutto, senza recare offesa ai diritti umani delle parti, quand’anche solo potenziali, debbono essere convogliate ed esaurite nella sola conferenzastampa del capo dell’ufficio. Più specificamente, logica vuole che la ricerca dell’unitarietà (e, quindi, della funzionalità) dei rimedi da predisporre per correggere la frammentazione della pubblica accusa sia d’obbligo, innanzitutto, per le regole sistematico-codicistiche; ed, in secondo luogo, per quelle organizzative, che sono, ovviamente, al servizio delle prime. A proposito delle regole organizzative, a nostro avviso sarà di grande utilità comparare le attribuzioni affidate a ciascun ufficio del pubblico ministero secondo il rapporto normativo di genere a specie. Tale rapporto, alle soglie degli anni 2000 che han visto l’avvicinamento geografico, rapidissimo, di persone e popoli, dovranno fondarsi sulla rideterminazione della competenza per territorio. Tale ultimo criterio, per esperienza, è decisivo per stabilire i « centri » di titolarità dell’azione penale e le inevitabili « articolazioni periferiche » del p.m. IV.2. Specialità (e transitorieta?) della competenza delle procure anti-mafia. — Come abbiamo anticipato (49) la tempestività dell’azione penale in materia di delitti di grandi associazioni criminose va giudicata (49)

V., retro, § I.3.


— 1017 — positivamente per le procure antimafia, la cui istituzione non ha appesantito le altre cinque procure. Gli artt. 51.3 e 3-bis c.p.p. evitano, di regola, conflitti di competenza per materia con la procura della Repubblica, nonché quelli di competenza per funzione con la procura minorile: la prima soccombe, la seconda prevale sulla procura distrettuale antimafia (l’ingorgo, semmai, avviene per fissare la data dell’udienza dibattimentale e per i successivi rinvii per contestualità di giudizi a carico degli stessi imputati). Il rapporto tra le attribuzioni, conferite alla procura distrettuale antimafia dagli artt. 51.3-bis e 51.1 c.p.p., è un rapporto di specie a genere ex art. 15 c.p., come si diceva: la portata del comma 3o-bis dell’art. 51 c.p.p. deroga, quindi, alla competenza generale per materia di tutte le procure « comuni » di I grado. Una simile costruzione fonda la competenza territoriale della procura antimafia — unica per l’intiero distretto e sottratta al potere di avocazione del procuratore generale d’appello (arg. ex art. 371.3 lett. h) c.p.p.) ed è giustificata: la sede presso il tribunale del capoluogo di distretto è necessariamente correlata, sul piano criminologico, dalla maggior incisività dell’infiltrazione delle associazioni mafiose nei capoluoghi di regione. Non solo. La ragionevolezza della giustificazione della procura antimafia territoriale è così forte da finire per dare impulso all’opera di contenimento della smisurata volontà espansiva delle altre procure di I grado. Proprio per effetto dell’istituzione della procura distrettuale antimafia, il principio entia non sunt multiplicanda dà impulso alla soppressione di due di tali procure (quella circondariale e quella minorile). Se non ancora alla soppressione, logica impone pure la decisa revisione delle attribuzioni del pubblico ministero (per e nel giudizio) di appello (salva l’attribuzione del riesame delle misure cautelari adottabili nel distretto ad una sezione della Corte d’appello, tema questo sul quale torneremo) (50). IV.III. Il tribunale in sede di capoluogo di provincia, unità di misura territoriale dell’unica procura di I grado. — Il tribunale circoscrizionale è, senza dubbio, l’unità-base per la misura della dimensione territoriale delle istituzioni di giustizia. Una simile conclusione si impone, ormai, per l’accertato passaggio dalla sostituzione delle preture mandamentali con le sezioni distaccate alla successiva (quasi totale) soppressione di queste ultime: l’occasione per unificare il giudice togato di I grado è pronta. L’attuazione, poi, dell’antica idea di sopprimere i tribunali infra-provinciali è ora vicina a farsi realtà. Essa porterà sia all’unicità del tribunale nel territorio della provincia, sia all’unificazione dei giudici di I grado (con l’assorbimento della pretura circondariale nel tribunale provinciale) e l’i(50)

V., infra, § IV.4.


— 1018 — stituzione, in seno al tribunale penale ed a mo’ delle nuove regole processual-civili, dei collegi penali e del giudice monocratico (il giudice unico del tribunale, per rispetto di un nome antico e di una funzione svolta un tempo nel modo migliore, sarebbe giusto mantenesse la denominazione di « pretore in sede di tribunale »). Le condizioni per questa ripartizione del territorio (naturale sarebbe la suddivisione della materia penale tra collegio e pretore a seconda che la gravità del reato suggerisca o meno la collegialità togata), oggi sono tutte presenti. Se daremo loro la forza per realizzarsi, l’esistenza contemporanea della procura della Repubblica e di quella circondariale, ovviamente, non avrà più ragione e quest’ultima dovrà essere soppressa, quand’anche il giudice di pace consegua la competenza penale. Ubi maior minor cessat: e, d’altronde, l’appello contro le sentenze penali del giudice di pace dovrà proporsi dinanzi al tribunale provinciale, se si vorrà mantenere la competenza della Corte d’appello solo per le sentenze penali del tribunale provinciale: e non gravarla di appelli per assegno a vuoto o guida senza patente. IV.4. Il distretto, misura territoriale delle competenze speciali e di gravame. — Il distretto è, oggi, corrispondente in modo quasi perfetto alla regione e chi è contrario al gigantismo degli uffici giudiziari si augura mai possa corrispondere a federazioni o raggruppamenti di regioni. Il distretto è, dunque, la misura della competenza territoriale del procuratore antimafia (art. 51.3-bis c.p.p. e 3.1 lett. b) d.l. n. 367/1991), procuratore il quale è istituito nel suo capoluogo anche perché ivi hanno sede il giudice competente per il controllo delle indagini preliminari e per il giudizio. Il distretto è pure l’unità di misura di tutte le impugnazioni di merito, salvo quelle (del futuro) contro le sentenze penali del giudice di pace, le quali, di ragione, dovrebbero censurarsi dinanzi al pretore in sede di tribunale provinciale. Invero, è ormai principio generale che il pubblico ministero presso il giudice ad quem — e, cioè, il procuratore generale presso la Corte d’appello — sia sempre (anche se non l’unico) titolare della potestà di impugnazione contro le sentenze (anche minorili) pronunciate nel distretto. La stessa potestà di avocazione si giustifica perché il procuratore generale può appellare le sentenze di I grado, pur non avendo partecipato al giudizio nel quale esse sono state pronunciate. Tuttavia, quest’argomento è troppo debole per respingere l’idea che la riduzione del carico di lavoro (per il venir meno dei poteri di istruzione sommaria o preliminare, un tempo concorrenti con quelli della procura della Repubblica) e la necessità di recuperare magistrati per rendere più spediti i tempi dei procedimenti (anche civili) rendano doveroso un drastico ridimensionamento del personale tutto delle procure generali di Corte d’appello. Se la soluzione migliore sarà quella di sopprimere tanto il


— 1019 — doppio appello di merito e di autorizzare la partecipazione al giudizio d’appello del solo pubblico ministero di I grado, per l’intanto quel drastico ridimensionamento è urgente. Un ridimensionamento del genere potrebbe essere ancora evitato se il riesame delle misure cautelari si svolgesse esclusivamente dinanzi alla Corte d’appello (con conseguente respiro per i tribunali provinciali). Una simile scelta legislativa sarebbe assai più rivoluzionaria della recentissima legge in materia cautelare, giacché una sezione della Corte d’appello in sede cautelare potrebbe avere un organico di consiglieri stabile (ed a sua destinazione esclusiva): per specializzazione del giudice e per uniformità tendenziale dei criteri di riesame nel distretto, tale sezione distrettuale potrebbe rendere una giustizia cautelare migliore dell’odierna (tanto nel merito, quanto nella motivazione delle ordinanze, troppo spesso annullate dalla Corte Suprema). In ogni caso, una sezione distrettual-cautelare, composta dal presidente e da due consiglieri a tempo pieno, avrebbe un’efficienza di gran lunga superiore a quella che offrono gli attuali giudici dei tribunali del riesame. Così numerosi, ma a mezzo servizio; con troppe lacune nell’esame delle fonti di prova e troppe interpretazioni contraddittorie. IV.5. Quale pubblico ministero nel processo minorile di primo grado? — Nel tempo, il processo minorile ha sperimentato il principio di specializzazione del giudizio a carico di persone ad imputabilità diminuita per età minore (artt. 102 comma 2o Cost.; 97 e 98 c.p.; 26, 37 e 39 c.p.p. min.) in quattro modi, a seconda dell’accessorietà od autonomia del tribunale specializzato rispetto al giudice ordinario; ovvero della conformità del processo penale minorile a quello ordinario, previgente o vigente (art. 1.1 d.P.R 22 settembre 1988, n. 448), nonostante l’autonomia del giudice specializzato da quello ordinario. Tuttavia, a stare al c.p.p. previg. ed alle norme di ordinamento giudiziario vigenti sino al 24 ottobre 1989, l’ufficio del pubblico ministero — accessorio al giudice ordinario o da esso autonomo — non era specializzato (artt. 4 comma 1o r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404; 70 r.d. 30 gennaio 1941, n. 12), così come non lo è adesso. Mancando la specializzazione dell’ufficio del p.m. minorile, formato da consiglieri « di Corte d’appello in funzione » « di sostituto procuratore della Repubblica o di sostituto procuratore generale di Corte d’appello », selezionati dal C.S.M. secondo le regole selettive consuete (artt. 1 e 5 l. 24 maggio 1951, n. 392, 5 comma 1o l. 25 luglio 1966, n. 570, 4 comma 1o r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404 e succ. modif.) e privo di esperti, l’attuale dispendio di magistrati presso le procure minorili — oggi a pieno servizio, sì, ma con scarso lavoro — non è giustificato. I compiti dei procuratori per i minorenni vanno, quindi, restituiti alla procura della Repubblica presso il tribunale


— 1020 — provinciale, alla quale spetterà di indagare in via preliminare, di richiedere le misure cautelari ed il giudizio. Il principio di adeguamento « di tutti gli istituti processuali ai principi e criteri [generali] » (art. 2 n. 103 l.d. 16 febbraio 1987, n. 81) va superato per evidenti ragioni criminologiche. Com’è costituzionalmente dovuto, il giudizio, dagli atti predibattimentali in poi si svolgerà dinanzi al giudice specializzato, il tribunale minorile, che ha competenza per territorio di dimensione distrettuale. Orbene, la restituzione alla procura della Repubblica delle attribuzioni di quella minorile non aggrava la difesa, perché la procura della Repubblica presso il tribunale provinciale non è specializzata come non lo è (né mai lo è stata) quella minorile. Anzi, l’unità della procura di I grado aggiunge alla sicura riduzione dei costi (ed al verosimile aumento di produzione di provvedimenti da parte della magistratura tutta) il vantaggio dell’unicità dell’azione penal-preliminare in caso di concorso di persone nel reato attribuito al minore. Andrà fatta salva la separazione del procedimento a carico del minore stesso, da attuarsi soltanto al momento del rinvio a giudizio; nonché l’ovvia separazione delle sedi e dei locali destinati a custodia cautelare in carcere. IV.6. La procura generale presso la Corte di cassazione. — Mentre le procure antimafia (tanto quelle distrettuali, quanto quella nazionale) sono di grandissima utilità e resteranno necessarie sino all’esaurimento dei loro speciali compiti istituzionali, e mentre per il procuratore generale presso la Corte d’appello è urgente solo la riduzione degli organici, la procura generale presso la Corte Suprema, che una legge ed un costume di un tempo definirebbero « ente inutile », non ha, per la propria autoconservazione, alcun argomento di sostegno. Innanzitutto, se con l’ordinamento giudiziario (nel testo del 1941) le sue attribuzioni generali a tutela degli « incapaci » (art. 73.1 e.d. 30 gennaio 1941, n. 612) legittimavano le conclusioni del procuratore generale « in tutte le cause civili », oggi la sua competenza in materia civile non ha più senso, come non ha più senso la sua partecipazione all’udienza penale. Tale ultima partecipazione potrebbe essere consentita, piuttosto, allo stesso p.m. ricorrente. Infine, le attribuzioni del procuratore generale presso la Corte Suprema per la « comunicazione » dei risultati che questi e le D.D.A hanno conseguito (art. 76-ter ord. giudiz.) ben potrebbero essere svolte dal procuratore nazionale (il quale non ha bisogno di essere « sorvegliato » da altri dal Parlamento e dalla pubblica opinione, sotto i cui occhi è ogni giorno). Pure la procura generale presso la Corte di cassazione — per chi vuole anteporre l’effettiva efficacia dell’azione penale obbligatoria agli onori che conseguono agli incarichi direttivi superiori — merita la soppressione: sono i « lussi smodati » del nostro sistema processuale (tra i


— 1021 — quali, ad es., la doppia impugnazione del pubblico ministero) che mettono in crisi quel principio di civiltà, che G. Fassò costruiva sulla radice dell’isonomia. IV.7. Riepilogo dei possibili rimedi de iure condendo. — Secondo le proposte che abbiamo tentato di trarre dalla fenomenologia dell’attuale disorganizzazione del pubblico ministero, i quattro giudici in I grado unificati nel tribunale provinciale (pretore, tribunale per i minorenni, Corte d’assise, tribunale attuale) sarebbero attivati, salva la speciale competenza per materia della procura distrettuale antimafia, esclusivamente dalla procura della Repubblica. La competenza del tribunale provinciale sarebbe ripartibile tra i suoi collegi giudicanti ed i suoi giudici monocratici, gli antichi pretori. Salva la competenza della Corte d’assise d’appello, le sentenze del tribunale provinciale (in composizione tanto collegiale, quanto monocratica) e quelle del tribunale per i minorenni diverrebbero oggetto di cognizione della sola Corte d’appello o della sua sezione minorile, su gravame (generale, ma facoltativo) del procuratore generale in sede, ovvero del procuratore della Repubblica (gravame sempre facoltativo, ma proponiblle — a nostro avviso — solo in caso di difformità della sentenza dalle sue richieste). Ammesso che le procure anti-mafia siano, fortunatamente, transitorie, l’azione penale dovrebbe configurare la propria obbligatorietà in I grado attivando (forte della contemporanea soppressione dei tribunali infra-provinciali), per ragione di materia, il tribunale provinciale (collegiale o monocratico); in ragione della funzione, il tribunale per i minorenni (distrettuale, come adesso); in ragione mista, di funzione e materia, la Corte d’assise. Saggi criteri di semplificazione consiglierebbero di aggiungere la soppressione dell’ufficio del giudice per l’udienza preliminare davanti a tutti i giudici ordinari monocratici. Ci rendiamo, tuttavia, conto che l’eccesso di realismo di proposte rette dal « principio di massima semplificazione nello svolgimento del processo » (art. 2 n. 1) l.d.) può renderle proprio irreali, non tanto perché esse contrastano con gli itali costumi di complicazione della vita giuridica, quanto perché esse attentano alla moltiplicazione di prestigiosi incarichi direttivi o semi-direttivi, così ricercati, oggi, in una Magistratura altrimenti non selezionabile. ROBERTO VANNI Consigliere della Corte d’Appello di Firenze


CORTE COSTITUZIONALE, PRELIEVO EMATICO COATTIVO E TEST DEL DNA

SOMMARIO: 1. Prelievo coattivo e test genetico: considerazioni generali. — 2. Le limitazioni « in negativo » individuate nella sentenza n. 54/86. — 3. ... e la necessità di porre limitazioni « in positivo » conseguente alla sentenza n. 238/96: analisi e spunti critici. — 4. La percorribilità delle alternative all’esecuzione coattiva del prelievo. — 5. Uno sguardo ad alcuni ordinamenti stranieri. — 6. L’urgenza di un equilibrato intervento del legislatore.

1. A distanza di dieci anni, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 238/96 (1), torna a pronunciarsi sul tema dei poteri dispositivi e coercitivi del giudice in tema di perizia, sotto il profilo della legittimità e dei limiti di un prelievo ematico coattivo. In questa occasione la Corte, tuttavia, disattende le conclusioni cui era pervenuta nel proprio precedente, costituito dalla sentenza n. 54/86 (2), manifestando un diverso orientamento. Infatti, l’art. 224, comma 2, c.p.p. viene dichiarato illegittimo nella parte in cui consente al giudice, ai fini dell’espletamento di una perizia, di disporre misure che vengano ad incidere sulla libertà personale dell’indagato, dell’imputato o di terzi, senza prevedere specificamente quali siano quelle esperibili, i casi ed i modi in cui possono essere adottate, mentre gli artt. 146, 314 e 317, c.p.p. 1930, nella parte in cui attribuivano al giudice il potere di disporre perizia per prelievi ematici anche nei confronti di terze persone estranee all’imputazione, erano stati salvati dalla Corte, che aveva dichiarato infondata la questione di costituzionalità sottoposta. All’origine della prima pronuncia vi era un procedimento penale per alterazione di stato (art. 567, comma 2o, c.p.) nei confronti di un soggetto indiziato di falsità nel riconoscimento della paternità naturale di un mi(1) C. cost. (27 giugno)-9 luglio 1996, n. 238, in Gazz. uff., 1 serie spec., 17 luglio 1996, n. 29 e in Dir. pen. e proc., 1996, n. 9, p. 1091 con commento di R.E. KOSTORIS. (2) C. cost. (18 marzo)-24 marzo 1986, n. 54, in Giur. cost., 1986, I, p. 387; in Foro it., 1987, I, c. 716, con nota di N. MAZZACUVA-G. PAPPALARDO, Prelievo ematico coattivo e accertamento della verità: spunti problematici; in Giust. pen., 1986, I, c. 165; in Giur. it., 1987, I, 1, 220; in Riv. pen., 1986, p. 866; in Cass. pen., 1986, p. 868, con nota di A. FERRARO, Il prelievo ematico coattivo e la violenza ‘‘lecita’’; su questa decisione v. anche F. MASTROPAOLO, Prelievi del sangue a scopo probatorio e poteri del giudice, in Riv. it. med leg., 1987, p. 1081 ss.


— 1023 — nore: per accertare la veridicità del riconoscimento veniva disposta perizia al fine di procedere all’esame del gruppo sanguigno della madre naturale del minore, di quest’ultimo e dell’imputato, il quale tuttavia rifiutava di prestarsi al prelievo ematico. La recente pronuncia della Corte si riferisce, invece, al caso della Madonnina di Civitavecchia: nella fattispecie l’indagato rifiutava di sottoporre se stesso ed altri componenti della sua famiglia, al prelievo, nell’ambito di una perizia disposta al fine di accertare l’identità dei polimorfismi genetici dei soggetti in questione con le tracce ematiche rinvenute sulla statua di cui era proprietario. È a tutti evidente l’utilità, in ambito giudiziario, dell’individuazione del gruppo sanguigno e, in particolare, più di recente, spesso la risolutività dell’indagine volta ad identificare i polimorfismi del DNA, una sorta di « impronta genetica » personale che può essere confrontata con altri reperti organici (3). Se in sede civile l’indagine genetica trova applicazione soprattutto ai fini del riconoscimento (o del disconoscimento) della paternità, nei procedimenti penali il test del DNA può risultare determinante per l’accertamento dei fatti e per individuarne il responsabile, in particolare per confermare il coinvolgimento di un soggetto o, al contrario, scagionarlo. L’utilità di un’indagine che si basa sulla comparazione della struttura genetica dei reperti e delle tracce di liquidi organici (sangue, sperma, saliva, capelli, ecc. ...), rinvenuti sul luogo in cui è avvenuto il fatto o sulla vittima, con quella di chi sia indagato (4) è intuitiva quando si tratti di omicidio. Ma può esserlo anche in relazione ad altre ipotesi di reato e ad altri fini, come nei casi di stupro, di lesioni gravi, di sequestro, ed anche, per esempio, quando si debba pervenire all’identificazione di un cadavere, operabile mediante il raffronto dei polimorfismi genetici del defunto con quelli dei suoi familiari. Peraltro, l’indagine genetica si rivela particolarmente duttile e vantaggiosa: può essere eseguita anche in presenza di tracce minime (ad esempio quelle presenti sui mozziconi di sigaretta) e anche a distanza di tempo, in quanto la molecola di DNA manifesta anche un certo grado di resistenza e stabilità. L’eventualità di materiale biologico misto non impedisce il test (3) L’anno di nascita di questa nuova tecnica, basata sull’analisi dei polimorfismi del DNA, è il 1985: viene infatti pubblicato da A.J. JEFFREYS-V. WILSON-S.L. THEIN, Hypervariable « minisatellite » regions in human DNA, in Nature (1985) 314, pp. 67-73; Individualspecific « fingerprints » of human DNA, in Nature (1985) 316, pp. 76-79. (4) Illustra chiaramente la tecnica e offre un inquadramento generale A. FIORI, L’identificazione genetica: il DNA, in L’investigazione scientifica e criminologica nel processo penale (Aspetti di polizia scientifica, medico-legali e giuridici), Atti del convegno di studi (Firenze, 21-23 gennaio 1988), Padova, 1989; v., inoltre, R. DOMENICI, voce Prova del DNA, in Dig. disc. pen., vol. X, Torino, 1995, p. 372 ss. Soprattutto con riferimento all’affidabilità della prova cfr. anche A. GARGANI, I rischi e le possibilità dell’applicazione dell’analisi del DNA nel settore giudiziario, in questa Rivista, 1993, p. 1307 ss.


— 1024 — genetico, potendosi comunque pervenire ad individuare due diverse strutture molecolari, attribuibili quindi a differenti individui. È inoltre possibile operare un raffronto fra materiale biologico diverso e comparare quindi sangue con altri liquidi organici; le stesse modalità con cui è possibile ottenere i campioni per l’indagine possono essere scarsamente invasive, in quanto il test genetico può essere effettuato oltre che sul sangue, sulla saliva o sul capello. Va rilevato che all’attenzione della Corte è posta unicamente la questione della legittimità di un prelievo ematico coattivo. Non è dunque in gioco in generale l’ammissibilità della perizia che si basi su un accertamento ematico, né sono in discussione più specificamente i profili inerenti all’indagine genetica e alle modalità con cui essa può essere effettuata, ma soltanto la possibilità per il giudice di imporre coattivamente il prelievo, qualora l’interessato non acconsenta e non vi si sottoponga perciò spontaneamente (5). L’utilizzo ai fini penali della cosiddetta prova genetica è generalmente consentito, sebbene non siano per nulla da sottovalutare — ma la prospettiva si pone in un diverso ambito, quello delle modalità operative e della validità dei criteri valutativi adottati — i problemi inerenti alla correttezza delle tecniche e metodologie utilizzate, problemi che incidono inevitabilmente sull’attendibilità degli esiti. Al riguardo, tuttavia, di fronte al vuoto normativo, non si può non rilevare, nel nostro ordinamento, lo scarso interesse, circa la tematica in discorso, da parte della dottrina, al di là dei problemi sorti e sviluppatisi in ambito medico-legale; anche in giurisprudenza non sembrano finora emergere, e aver avuto particolare rilievo, profili e questioni relativi all’utilizzo del test e al valore probatorio dei risultati dell’indagine genetica, mentre spesso giunge soltanto notizia, dai mass media, attraverso fatti di cronaca, dell’utilizzo di tale tecnica in procedimenti penali. Ciò può apparire singolare, se solo si dà uno sguardo a quanto invece è accaduto, in particolare, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna: qui, proprio perché la tecnica del DNA fingerprint è stata elaborata, si è andata progressivamente affinando e ha avuto pressoché immediata applicazione processuale, è stata frequentemente sottoposta al vaglio delle Corti e risulta possibile, attraverso l’analisi dell’evoluzione giurisprudenziale, individuare le (5) Secondo i dati riportati da S. MONTINARO (direttore del servizio di polizia scientifica), Per le esigenze della polizia scientifica occorrono norme al passo con le nuove tecnologie, in Guida al Diritto (Il Sole-24 Ore), n. 30, 27 luglio 1996, p. 69, « nel solo 1995 gli accertamenti genetici compiuti dalla polizia scientifica, Sps, sono stati più di duemila e hanno interessato un totale di circa mille delitti. Nel 65% dei casi l’indagato si è sottoposto volontariamente al test, nel 34% è stato necessario il ricorso al prelievo coatto e nell’1%, cioè in circa 10 casi, il giudice non ha ritenuto opportuno, anticipando così per certi versi, il parere della Consulta, autorizzare la coercizione ».


— 1025 — problematiche che l’impiego processuale del DNA fingerprint ha, di volta in volta, suscitato (6). Non nuovi, invece, nel nostro ordinamento, sono i profili relativi alla legittimità degli accertamenti e del prelievo di campioni in rapporto alla necessità di acquisire il consenso dell’interessato, considerate le questioni sorte, durante la vigenza del precedente codice della strada, in relazione alla verifica della guida in stato di ebbrezza alcoolica o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti (7). È comprensibile che, qualora non si ritenga possibile procedere coattivamente ad un prelievo ematico, specie nel caso in cui questo sia funzionale al test genetico, si rinunci all’utilizzo di uno strumento particolarmente efficace, e ci si venga a privare di elementi e dati significativi, (6) Soprattutto negli Stati Uniti si è a lungo dibattuto, e al riguardo si registra una cospicua ed interessante giurisprudenza, sull’ammissibilità dell’indagine genetica, sotto il profilo della correttezza delle metodologie adottate: v., in proposito, con riferimenti anche alle caratteristiche della tecnica in discorso, M. STALTERI, Genetica e processo: la prova del ‘‘DNA fingerprint’’. Problemi e tendenze, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, p. 189; E. TERROSI VAGNOLI, L’identificazione genetica (DNA profiling) nella recente giurisprudenza statunitense, in Giust. pen., 1995, I, c. 85. In generale, sui problemi relativi all’applicazione del DNA profiling in ambito giudiziario, nell’ampia bibliografia relativa agli ordinamenti inglese e statunitense, e al solo fine di offrire qualche indicazione relativamente a differenti profili e aspetti, v., per esempio, fra gli altri, M. REDMAYNE, Doubts and Burdens: DNA evidence, Probability and the Courts, 1995 Crim. Law Rev., 464; B.C. SCHECK, DNA and Daubert, (1994) 15 Cardozo Law Rev., 1959; G.G. BRODSKY, DNA: The Technology of the Future is Here, (1993) Crim. Law Quart., 36, 10; J.J. WALSH, The Popolation Genetics of Forensic DNA Typing: « Could it Have Been Someone Else? », (1992) Crim. Law Quart., 34, 469; F. LEMPERT, Some Caveats Concerning DNA as Criminal Identification Evidence: With Thanks to the Reverend Bayes, (1991) 13 Cardozo Law Rev., 303; D. FARRINGTON, Unacceptable evidence, (1993) 143 New Law Journ., 806, 857; P. ALLDRIDGE, Recognising Novel Scientific Techniques: DNA as a test case, (1992) Crim. Law Rev., 685; D.J. BALDING-P. DONNELLY, The Prosecutor’s Fallacy and DNA Evidence, (1994) Crim. Law Rev., 711; S.J. JOUNG, DNA Evidence - Beyond Reasonable Doubt?, (1991) Crim. Law Rev., 264; N. McLEOD, English DNA Evidence Held Inadmissible, (1991) Crim. Law Rev., 583; S.M. EASTON, Bodily Samples and the Privilege Against Self-Incrimination, (1991) Crim. Law Rev., 18; J.C. HOEFFEL, The Dark Side of DNA Profiling: Unreliable Scientific Evidence Meets the Criminal Defendant, (1990) Stanford Law Rev., 42, 465; K.F. KELLY-J.J. RANKIN-R.C. WINK, Method and Applications of DNA Fingerprinting: A Guide for the Non-Scientist, (1987) Crim. Law Rev., 105. (7) V., in relazione all’art. 132 del precedente codice della strada (d.P.R. n. 393/59), i problemi sorti a proposito della prova dello stato di alterazione: la Cassazione ha più volte ritenuto che l’accertamento dello stato d’ebbrezza non richiede necessariamente l’adozione di particolari tecniche (v., per tutte, Cass. 7 marzo 1974, Rimbl, in Giust. pen., 1975, II, c. 336, n. 340); la necessità di affrancare dalla prova testimoniale o dalla constatazione degli agenti sulla base di dati di esperienza, prevedendo il ricorso alla c.d. prova del palloncino o, in certi casi, al prelievo del sangue per la determinazione del tasso alcoolimetrico, ha posto il problema della mancanza o del rifiuto del consenso del soggetto: v., al riguardo, ad esempio, G. GUARNERI, L’art. 132 del codice stradale. Aspetti ‘‘de iure condendo’’, in Riv. giur. circ. e trasp., 1978, p. 273; cfr. anche F. MASTROPAOLO, op. cit., pp. 1105-1109; G. BUTTARELLI, Le nuove modalità di accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza tra prove legali e diritto di difesa, in Cass. pen., 1990, p. 2231, n. 1796.


— 1026 — spesso determinanti, specie nel caso in cui manchino prove alternative di altrettanto rilievo. Fra l’altro, l’applicazione dell’indagine genetica può essere assai vasta quanto a coloro che verrebbero ad esserne soggetti passivi. Si tratta infatti di campioni o prelievi che possono essere utilmente disposti non solo nei confronti dell’indagato o imputato, ma anche nei confronti della stessa vittima del reato o di soggetti terzi, e ciò suscita evidentemente ulteriori e delicati problemi. I contorni della questione trascendono l’ipotesi, oggetto delle due pronunce, relative ai due casi di prelievo ematico, e si estendono fino ad allargarsi a qualunque altra indagine medico-legale, e, soprattutto, con riferimento ad ulteriori metodiche e tecniche scientifiche più invasive rispetto al prelievo, quali ad esempio la endoscopia, in relazione alle quali si potrebbe porre l’eventualità di una coazione. Vi è quindi una questione più generale, e cioè occorre verificare se, ed entro quali limiti, sia possibile il ricorso a queste nuove metodiche, e quali poteri abbia il giudice al fine di consentire lo svolgimento di indagini mediche per l’espletamento di una perizia, quando non vi sia il consenso, e perciò la collaborazione e spontanea adesione del soggetto interessato. Come si può notare, diversi sono i profili e varie, e delicate, sono le questioni da risolvere, posto che occorre contemperare le esigenze di giustizia con la tutela della persona. Sorgono, in particolare, problemi circa la compatibilità di un’indagine che venga ad incidere così direttamente sulla persona, e di una sua eventuale esecuzione coattiva, con principi e diritti fondamentali, quali i diritti alla libertà personale, all’integrità fisica, alla dignità, alla riservatezza, alla difesa. Sembra allora interessante innanzitutto ripercorrere e tentare di ricostruire l’iter argomentativo seguito dalle sentenze sopra menzionate, tenuto conto che il diverso orientamento manifestato costituisce segno di una maggiore sensibilità verso problemi che toccano il tema della libertà personale, non nella prospettiva cautelare, ma nella differente ottica dell’« uso » della persona quale diretta fonte di prova, e dei limiti relativi. 2. Nel suo primo intervento, la Corte veniva investita della questione di costituzionalità, sotto il duplice profilo della violazione dell’art. 13, comma 2o e 4o, Cost. (8), degli artt. 146, 314 e 317, c.p.p. 1930, (8) Il giudice istruttore non ritenne invece fondata la censura di incostituzionalità, mossa dalla difesa, con riferimento all’art. 24, comma 2o, Cost., in base alla considerazione che l’imputato nel caso in questione « assume la veste di fonte di prova e non già di soggetto passivo della contestazione dell’accusa e non sembra, pertanto, potersi ritenere legittimato al diritto di astensione alla partecipazione processuale previsto per es. in sede di interrogatorio ». L’approccio che distingue a seconda che l’imputato sia in una posizione che implichi


— 1027 — nella parte in cui non prevedono espressamente un limite ai poteri del magistrato inquirente, legittimando la scelta di qualunque indagine peritale e l’uso della coazione fisica attraverso la forza pubblica per consentire l’effettivo svolgimento del prelievo ematico, funzionale alla perizia, quando il soggetto passivo manifesti una volontà contraria. In particolare, il giudice a quo (9) rilevava, in primo luogo, che le norme processuali penali in tema di perizia non pongono alcun limite quanto all’oggetto, e quindi al tipo d’indagine, e ai soggetti coinvolti, potendo riguardare anche persone estranee alla commissione del fatto, né prevedono strumenti e modalità per lo svolgimento degli accertamenti, consentendo una compressione della libertà personale, e, nella fattispecie, del « diritto all’indisponibilità del proprio corpo ». Inoltre, la possibilità di procedere a un prelievo ematico coattivo, comporterebbe una « violenza fisica » nei confronti di un soggetto già sottoposto a una restrizione di libertà, conseguente al provvedimento di carattere coercitivo che risulta essere adempimento preliminare e necessario al fine di procedere al prelievo stesso quando il soggetto passivo manifesti una volontà contraria. La Corte, con una motivazione piuttosto concisa, ha ritenuto infondate, come si è anticipato, entrambe le questioni di costituzionalità eccepite. Contestando la stessa premessa su cui si fondava l’ordinanza di rinvio — ossia l’assenza di limiti ai poteri del giudice — la Corte propone delle disposizioni processuali penali in questione un’interpretazione sistematica, alla luce dei parametri fondamentali contenuti nella Costituzione. Afferma, cioè, che i poteri istruttori del giudice penale vanno inquadrati, e trovano in questo senso vincoli e confini, nei principi di carattere costituzionale. Sarebbero due i limiti impliciti che si pongono quali binari entro cui si deve muovere il giudice nell’esercizio dei propri poteri dispositivi e coercitivi: da un lato, non potrebbe disporre « mezzi istruttori che mettesun comportamento attivo, e quindi un « facere », nel qual caso deve essere garantito il suo diritto a non collaborare, ovvero vi sia l’esigenza di acquisire elementi probatori, e si ponga quale diretto oggetto o comunque fonte di prova, nel qual caso si realizzerebbe invece un semplice « pati » (al riguardo v. E. BERNARDI, op. cit., p. 366), è ulteriormente accentuato nell’attuale disciplina codicistica. Sintomatica è la norma di cui all’art. 490, che innovando rispetto alla precedente disciplina, sottende la scelta che per esigenze probatorie possano essere posti limiti al diritto dell’imputato di non essere presente in giudizio: si prevede la possibilità di accompagnamento coattivo dell’imputato assente o contumace « quando la sua presenza è necessaria per l’assunzione di una prova diversa dall’esame », e quindi anche, per esempio, per una perizia. Proprio per questo, verosimilmente, in seguito non è stata più proposta alcuna censura di incostituzionalità, riguardo al tema di cui si tratta, con riferimento all’art. 24, comma 2o. (9) L’ordinanza del giudice istruttore del Trib. di Torino, 10 ottobre 1978 è pubblicata in Giur. cost., 1979, II, p. 695.


— 1028 — sero in pericolo la vita o l’incolumità o risultassero lesivi della dignità della persona o invasivi dell’intimo della sua psiche, perché sarebbero in contrasto con la tutela dei diritti fondamentali ex art. 2 Cost. »; dall’altro, non sarebbe consentito al giudice « mediante mezzi istruttori, mettere in pericolo la salute del periziando perché violerebbe l’art. 32 Cost. ». Ciò posto, quanto alla dedotta incostituzionalità rispetto all’art. 13, comma 2o, Cost., la Corte sostiene, con riferimento alla riserva di legge imposta da tale norma, che « le ragioni relative alla giustizia penale, e all’accertamento della verità che la concerne, rientrano sicuramente fra i ‘‘casi’’ previsti dalla legge », mentre « la perizia medico-legale è altrettanto certamente uno dei ‘‘modi’’ legittimi mediante i quali è lecito al giudice previa congrua motivazione attuare una ‘‘qualsiasi restrizione della libertà personale’’ », pur sempre all’interno dei confini posti dai principi fondamentali di cui si è precedentemente riferito. Sotto quest’ultimo profilo, nella motivazione si osserva come il prelievo ematico sia « ormai di ordinaria amministrazione nella pratica medica », tanto che può essere eseguito da infermieri professionali (10), e non viene a ledere « la dignità o la psiche della persona, salvo casi patologici eccezionali che il perito medico-legale sarebbe facilmente in grado di rilevare ». In quest’ottica, verrebbe conseguentemente a cadere anche ogni perplessità circa il contrasto con l’art. 13, comma 4o, tenuto conto che la norma si riferisce alle « violenze illecite » e non alle « minime prestazioni personali imposte all’imputato o a terzi, da un normale e legittimo mezzo istruttorio ». Nella decisione, da cui si desume innanzitutto l’ammissibilità di un prelievo ematico coattivo, viene riconosciuta all’atto che consente di procedere al prelievo, anche in presenza di una volontà contraria dell’interessato, la natura di provvedimento restrittivo della libertà personale, mentre il prelievo stesso è posto fra i « rilievi » che pur venendo ad incidere sul corpo di una persona, importandone una temporanea indisponibilità, non ne alterano però l’integrità fisica. Quanto ai limiti impliciti all’attività del giudice ricavabili dai principi costituzionali, se può suscitare qualche perplessità il richiamo all’art. 2 Cost., essendo, al di là di ogni questione relativa alle potenzialità espansive di questa norma, l’inderogabile esigenza dell’assenza di pregiudizio per la vita, l’incolumità e la dignità già intuitivamente sottesa allo stesso principio di cui all’art. 13 (11), sembra invece essere inconferente il richiamo all’art. 32 Cost. (10) V. Cass. 30 aprile 1988, imp. Roma, in Mass. uff dec. pen., 1988, fasc. 4, p. 331, n. 178.247, secondo cui commette il reato di esercizio abusivo di una professione l’infermiere che pratica prelievi ematici consentiti solo agli infermieri professionali. (11) Un’espressa previsione in tal senso si riscontra nella Costituzione tedesca: nella Legge Fondamentale (1949), all’art. 2 (2) è infatti sancito che « Ognuno ha diritto alla vita e


— 1029 — Questa disposizione (12), infatti, si pone a presidio della tutela della salute quale diritto fondamentale dell’individuo, sancendo il divieto di trattamenti sanitari obbligatori senza espressa disposizione di legge e affermando nel contempo il principio per cui comunque non possono essere violati i limiti posti dal rispetto della persona umana. Oggetto della norma costituzionale è il trattamento sanitario, sia come cura che come prevenzione delle malattie. Risulta perciò sterile rapportarvi ogni questione relativa al prelievo ematico, nell’ambito di una perizia medico-legale, e all’eventualità del relativo impiego della coazione fisica al fine di assicurarne l’esecuzione, considerato che si discute di un’indagine di carattere medico, funzionale non a un trattamento sanitario, ma all’accertamento dei fatti nell’ambito di un procedimento penale. Diversi sono, dunque, i termini di riferimento, e differente è la prospettiva e gli interessi in gioco: in un caso occorre bilanciare la tutela della salute, come diritto fondamentale dell’individuo ed interesse generale dell’intera collettività, con la tutela del rispetto e della dignità della persona umana; nell’altro contemperare la libertà personale, sotto il profilo del diritto a non subire limitazioni o coercizioni, con gli interessi della giustizia. I riferimenti agli artt. 2 e 32 Cost., peraltro non richiamati nell’ordinanza di rimessione, sembrano risolversi in osservazioni di contorno, e porsi, a prescindere dalla correttezza dei parametri costituzionali richiamati, quali considerazioni generali che fanno da sfondo, essendo il reale perno su cui ruota l’intero thema decidendum quello della conformità delle disposizioni in tema di perizia al dettato dell’art. 13 Cost. La natura di provvedimento restrittivo della libertà personale, pur in assenza di un’espressa dichiarazione in tal senso da parte della Corte, risulta direttamente conseguente all’affermazione secondo cui devono essere rispettati i criteri di cui all’art. 13, comma 2o, Cost., ed è ulteriormente avvalorata dal richiamo operato dalla stessa Corte a un proprio precedente, la sentenza n. 30/62 (13). In questa pronuncia, che dichiarava l’illegittimità dell’art. 4 t.u.l.p., laddove si consentiva alla polizia di sicurezza di procedere a rilievi segnaletici che comportino ispezioni personali, si poneva innanzitutto l’accento sulla necessità di rispettare la garanzia giurisdizionale imposta dall’art. 13 Cost. Se la Corte in tale occasione all’incolumità fisica. La libertà della persona è inviolabile. Questi diritti possono essere limitati soltanto in base ad una legge ». (12) Al riguardo, in generale ed anche in rapporto all’art. 13 Cost., v. D. VINCENZI AMATO, Il comma 2o dell’art. 32, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna, 1976, p. 167 ss. (13) C. cost. (22 marzo) 27 marzo 1962, n. 30, in Giur. cost., 1962, p. 240, con nota di R.G. DE FRANCO, Ancora in tema di rilievi segnaletici di p.s., ibidem, p. 242; in Foro it., 1962, I, c. 601; in Riv. pen., 1962, II, p. 406; in Giust. pen., 1962, I, c. 168; in Giur. it., 1962, I, 1, c. 917; in questa Rivista, 1962, p. 855, con nota di S. GALEOTTI, Rilievi segnaletici e restrizioni della libertà personale.


— 1030 — non sembra esprimere un orientamento contrario all’ammissibilità di un prelievo ematico coattivo quando vi sia il rifiuto del soggetto passivo (14), la decisione del ’62 — a prescindere dalla soluzione della questione di costituzionalità sottoposta alla Corte — appare invece interessante sotto un altro profilo. Viene infatti operata una tripartizione fra i possibili « rilievi », distinguendo quelli che, pur comportando una momentanea e lieve coercizione, riguardano « l’aspetto esteriore della persona », e che quindi non vengono direttamente ad incidere sulla libertà personale (quali il rilevamento dell’impronta, come la stessa Corte viene ad esemplificare, ma evidentemente anche altri accertamenti analoghi, come l’applicazione del c.d. guanto di paraffina), quelli che, invece, possono comportare indagini che incidono sulla libertà fisica (ed esemplificando nella decisione si pongono fra questi i prelievi del sangue), e, ancora, quelli che interessano la libertà morale della persona, ossia che « debbano essere compiuti su parti del corpo non esposte alla vista altrui », ricomprendendo fra questi ultimi le ispezioni personali (corporali). Il significato del richiamo alla decisione da ultimo citata operato dalla sentenza costituzionale in esame, sembra quello di avvalorare la tesi della legittimità del prelievo coattivo, considerandolo appunto alla stregua di un rilievo, che può comportare una pur breve e momentanea coercizione della persona, ma che, pur non essendo esterno, non altera l’integrità fisica né incide sulla libertà morale. La sottoposizione coattiva al prelievo comporta una compressione della libertà fisica simile all’arresto, senza però essere considerata « violenza fisica », come tale vietata dal comma 4o dell’art. 13 Cost. Sembra allora sbrigativo, e non avere sufficientemente tenuta per la sua debolezza, l’argomento secondo cui le garanzie costituzionali previste nell’art. 13, comma 2o, Cost. sarebbero rispettate identificando i ‘‘casi’’ con le esigenze di accertamento del fatto e i ‘‘modi’’ con quelli della perizia: la Corte infatti rileva che « la perizia medico-legale è altrettanto certamente uno dei ‘‘modi’’ legittimi mediante i quali è lecito al giudice previa congrua motivazione (...) attuare una qualsiasi restrizione della libertà personale ». È, piuttosto, la perizia, uno dei ‘‘casi’’ in cui, al fine di rendere concretamente possibile l’indagine, può esservi l’esigenza di limitare la libertà personale e, in particolare, può porsi il problema dell’uso della coazione fisica — tenuto conto che la nomina del perito costituisce il provvedimento ammissivo della prova ematologica —, mentre quanto ai ‘‘modi’’, e, quindi, quanto ai poteri dispositivi e coercitivi del giudice non è dato rinvenire nella sentenza alcun riferimento normativo, né alcuna considerazione circa gli strumenti concretamente adottabili. Ed è proprio la fragilità di queste conclusioni che indurrà a ripro(14)

Di diverso avviso sono N. MAZZACUVA-G. PAPPALARDO, op. cit., c. 718.


— 1031 — porre la questione di costituzionalità, nel mutato tessuto normativo e nella prospettiva della diversa struttura processuale, sotto il profilo della conformità all’art. 13, comma 2o, Cost., delle disposizioni attuali, il cui tenore è sostanzialmente corrispondente a quelle contenute nel codice abrogato. 3. Per quanto riguarda la più recente pronuncia della Corte costituzionale, sulla base della considerazione che, in mancanza del consenso da parte del soggetto passivo, il ricorso al prelievo ematico coattivo per effettuare il test genetico comporta una significativa restrizione della libertà personale, nell’ordinanza di rinvio (15) si rilevava l’assoluta genericità del disposto dell’art. 224 c.p.p., laddove prevede che il giudice possa adottare « tutti gli altri provvedimenti che si rendono necessari per l’esecuzione delle operazioni peritali ». Si prospettava quindi la violazione di due parametri costituzionali: dell’art. 13, comma 2o e dell’art. 3. Sotto il primo profilo, la disposizione in tema di perizia, riconoscendo al giudice ampia discrezionalità, senza porre condizioni o limiti ai poteri dispositivi e coattivi, necessari per provvedere al prelievo di campioni ematici nonostante la contraria volontà espressa dall’interessato, contrasterebbe con la norma costituzionale che impone una riserva di legge, e quindi una previsione specifica dei « casi » e dei « modi » in cui tale restrizione della libertà personale possa realizzarsi: « una sorta di tipizzazione » che si pone « in netto contrasto con la genericità » della norma di cui all’art. 224 c.p.p. Secondo il giudice a quo, considerato che la stessa Corte costituzionale aveva ritenuto che la possibilità di disporre coattivamente il prelievo ematico andasse inquadrata nell’ambito dei poteri del giudice in tema di perizia e stante la genericità delle disposizioni al riguardo, non è possibile il ricorso all’art. 131 che dispone circa i poteri coercitivi « per la sicurezza e l’ordine degli atti da compiersi », e neppure all’art. 245, relativo all’ispezione che consiste « in una mera osservazione, constatazione o rilevazione di dati ». Viene posto in evidenza, soprattutto, che la lacuna appare tanto più rilevante e la questione di costituzionalità meritevole di essere riproposta, dopo la sentenza n. 54/86 della Corte costituzionale, considerato il mutato assetto processuale e il fatto che la tutela della libertà personale è oggetto nell’attuale codice di rito di una particolare attenzione, con la predisposizione di opportune norme di tutela e garanzia. Al riguardo, si sottolinea che un’analitica disciplina codicistica, viene a regolare e limitare i poteri dell’autorità giudiziaria in tema di libertà personale ed anche, più in generale, in relazione alle libertà individuali, ponendo al riparo da indi(15) Ord. g.i.p. Trib. di Civitavecchia, 13 dicembre 1995, in Gazz. uff., 1 serie. spec. n. 10, 6 marzo 1996, p. 54, n. 167.


— 1032 — scriminate intrusioni, anche per fini probatori, da parte dell’autorità giudiziaria (16). In quest’ottica, e di qui la seconda censura d’illegittimità costituzionale, l’attribuzione al giudice di « un indiscriminato potere di sottoporre coattivamente l’indagato o anche persone estranee all’imputazione a prelievi ematici o ad altre forme di accertamenti medici di carattere invasivo » suscita perplessità anche sotto il profilo della disparità di trattamento. Punto di partenza dell’iter argomentativo della sentenza d’illegittimità costituzionale è sempre l’inquadramento del prelievo ematico coattivo nell’ambito delle forme di limitazione della libertà personale. La Corte non si discosta dunque dall’impostazione già accolta nel proprio precedente intervento, osservando che « la questione però va rimeditata, ritenendosi di dover pervenire a conclusioni diverse », nel senso di ritenere illegittimo l’art. 224 c.p.p. considerata la sua generica formulazione, laddove, invece, il principio di cui all’art. 13, comma 2o, Cost. impegna il legislatore a indicare positivamente presupposti e limiti per l’adozione di misure che incidano sulla libertà personale. Procedere a un prelievo ematico coattivo, secondo la Corte, « comporta certamente una restrizione della libertà personale », e un’invasione « seppur in minima misura » nella « sfera corporale », sottraendone « per fini di acquisizione probatoria nel processo penale, una parte che è, sì, pressoché insignificante, ma non certo nulla ». Con ciò la Corte si riferisce a due momenti che sono nella realtà cronologicamente distinti: il provvedimento coercitivo funzionalmente volto a consentire il prelievo e che viene a incidere sulla disponibilità della persona fisica da parte del soggetto passivo, e il prelievo stesso, che implica un intervento diretto nella sfera corporale. Constatandone il carattere debolmente invasivo, conformemente a quanto già aveva rilevato nella sua precedente pronuncia, la Corte ribadisce che non si tratta però di un intervento idoneo a compromettere, « di per sé, l’integrità fisica o la salute (anche psichica), né la sua dignità, in quanto pratica medica di ordinaria amministrazione ». La qualificazione del prelievo coattivo in termini di misura che costituisce restrizione della libertà personale rende evidentemente operante, oltre che la riserva giurisdizionale, la riserva di legge. Questa garanzia, secondo la Corte — ed è la considerazione portante e centrale dell’intera costruzione argomentativa — non può « tradursi in un ulteriore rinvio da parte della legge stessa alla piena discrezionalità del giudice che l’applica, richiedendosi invece una previsione normativa idonea ad ancorare a cri(16) Nell’ordinanza si ricorda infatti che nel codice di rito non solo riguardo alla sfera della libertà personale, ma anche in relazione all’inviolabilità del domicilio, alla libertà e alla segretezza della corrispondenza e a ogni altra forma di comunicazione, l’intervento dell’autorità giudiziaria, anche per fini probatori, è sottoposto a regole e restrizioni.


— 1033 — teri obiettivamente riconoscibili la restrizione della libertà personale ». Il dettato costituzionale mal si concilia e non può ritenersi soddisfatto, come invece si era concluso nella sentenza del 1986, da una previsione generica, come quella in tema di perizia, che lascia al giudice ogni scelta in merito ai ‘‘modi’’; d’altra parte, « le ragioni relative alla giustizia penale, consistenti nell’esigenza di acquisizione della prova del reato, pur costituendo un valore primario sul quale si fonda ogni ordinamento ispirato al principio di legalità, rappresentano in realtà soltanto la finalità della misura restrittiva e non anche l’indicazione dei ‘‘casi’’ ». La Corte viene così a smontare la motivazione di fondo su cui si basava il precedente intervento: i modi non possono essere lasciati alla totale discrezionalità del giudice e i casi non possono essere semplicisticamente ricondotti alle esigenze di accertamento, tanto più che tale interpretazione farebbe di nuovo ricadere sull’autorità giudiziaria ogni scelta sull’opportunità di, e sul quando, procedere o meno al prelievo coattivo. Alla necessità di una previsione specifica, in particolare della « tipologia delle misure restrittive adottabili », si accompagna conseguentemente l’osservazione dell’insufficienza della determinazione dei soli limiti « in negativo » precedentemente individuati — l’impossibilità di disporre il prelievo ematico coattivo quando vi fosse pericolo per la dignità, la vita o l’integrità fisica — la cui sussistenza viene, tutto sommato, considerata scontata in questa recente pronuncia, in ragione della riconosciuta natura del prelievo coattivo quale forma di restrizione della libertà personale. Secondo la Corte, l’esigenza di una precisa individuazione dei presupposti e dei limiti si impone con ancora maggiore forza e diviene più pressante, considerata l’attuale disciplina codicistica, improntata a un accentuato favor libertatis, che viene ad imporre rigidi canoni all’operato del giudice, qualora debba adottare, per qualunque fine, provvedimenti limitativi della libertà personale. Queste considerazioni, che riprendono e fanno proprie le osservazioni già svolte nell’ordinanza di rinvio, se non possono essere sottovalutate, non sembrano però costituire la vera ragione del mutamento interpretativo, contribuendo soltanto a sostenere e rafforzare la conclusione che occorra in proposito una previsione specifica e puntuale volta ad incanalare, entro regole precise, l’attività del giudice, quando questa venga in qualche modo ad incidere sulla libertà della persona. Il constatato contrasto fra la genericità della disposizione in tema di perizia, da un lato, e l’assetto generale, caratterizzato da specifica previsione di limiti e vincoli circa la possibilità di restrizione della libertà personale, dall’altro, sembra piuttosto rispondere all’ulteriore censura di incostituzionalità, con riferimento all’art. 3 Cost., il cui esame la Corte ritiene « assorbito » in considerazione delle motivazioni già addotte in merito all’art. 13 Cost. Anche se appare davvero difficile leggere nella sentenza n. 54/86 un


— 1034 — suggerimento in questo senso, proprio la precedente pronuncia e « le esigenze di garanzia » messe in luce in tale occasione, secondo la Corte avrebbero dovuto indurre il legislatore, nel disegnare la nuova disciplina, ad intervenire specificamente al riguardo, definendo « condizioni, presupposti e limiti del provvedimento coercitivo in questione », conformemente alle altre previsioni di misure restrittive per fini probatori (artt. 132-133). Perciò, in assenza di una puntuale previsione al riguardo, è preclusa l’esecuzione coattiva di un prelievo ematico. Di più, occorre sottolineare che il dispositivo non menziona espressamente l’ipotesi del prelievo coattivo, oggetto del caso che ha dato origine all’ordinanza di rinvio, ma l’illegittimità dell’art. 224 c.p.p. è estesa ed abbraccia ogni altra ipotesi in cui l’espletamento di una perizia implichi un’indagine che comporta l’adozione di provvedimenti i quali incidano sulla libertà personale, a prescindere dal fatto che riguardino l’indagato, l’imputato o una terza persona. Dunque, una lacuna normativa, che, secondo la Corte, non si può colmare in via interpretativa, e che richiede l’intervento del legislatore. Dalla sentenza si possono trarre alcuni corollari, ma anche qualche spunto che può consentire di mettere in luce una possibile alternativa alle rigide conclusioni cui perviene la Corte, e che forse avrebbe permesso, in relazione al caso de quo di evitare una dichiarazione di illegittimità costituzionale. Scontata e implicita appare l’ammissibilità del prelievo, anche quando, in particolare, sia funzionale al test genetico, il cui ricorso, sotto il profilo probatorio non appare in discussione, come anche, sembra desumersi dalla pronuncia, la legittimità di un prelievo coattivo, purché, qualora vi sia una volontà contraria da parte dell’interessato, vengano previsti a livello normativo vincoli e limiti, in considerazione del principio costituzionale di cui all’art. 13. Quando l’interessato manifesti una volontà contraria a sottoporsi al prelievo, al pubblico ministero sarebbe preclusa la possibilità di procedere attraverso consulenti tecnici e, in particolare, la via offerta dall’art. 360, che dispone circa gli accertamenti tecnici non ripetibili, non sembra percorribile, così che si vedrà « costretto » a sollecitare l’intervento del giudice per la nomina di un perito. All’interno della fase delle indagini preliminari, come è noto, la perizia trova spazio soltanto nell’ambito dell’incidente probatorio. È proprio la disciplina relativa all’incidente probatorio che poteva offrire alla Corte, nel caso di cui si discute, la possibilità di evitare la pronuncia d’incostituzionalità, attraverso una sentenza interpretativa di rigetto, in relazione all’ipotesi in cui il prelievo ematico coattivo, funzionale all’indagine genetica, debba essere eseguito nei confronti della persona sottoposta alle indagini, e il test genetico non possa, in seguito, più essere utilmente compiuto.


— 1035 — L’art. 392 individua, come è noto, due ipotesi di perizia: quella non ripetibile, che riguarda « una persona, una cosa o un luogo il cui stato è soggetto a modificazione non evitabile » (art. 392, lett. f), o per cui le modificazioni sono determinate dall’accertamento stesso (art. 117 disp. att.), e quella, non rinviabile, derivante dall’esigenza di evitare pregiudizi alla concentrazione del dibattimento, consentita quando se fosse disposta in tale fase, « ne potrebbe determinare una sospensione superiore a sessanta giorni ». Ora, l’indagine genetica, considerato l’oggetto della medesima, ossia le tracce e i reperti rinvenuti nel luogo del reato o sulla vittima, risulta tendenzialmente caratterizzata da intrinseca irripetibilità. Questo connotato non è, tuttavia, una caratteristica essenziale e necessaria: vi sono casi, in particolare quello volto ad accertare la paternità, in cui l’accertamento sarebbe di per sé ripetibile, anche se risulterebbe tanto inutile, quanto dispendioso, in termini di tempi e costi, rinnovare il test genetico. Solo quando l’indagine genetica non si ponga quale accertamento irripetibile — secondo i criteri di cui agli artt. 392, lett. f) c.p.p. e 117 disp. att. c.p.p. — e sempre che non si voglia comunque sussumere l’ipotesi in questione all’interno del caso previsto nell’art. 392, comma 2, c.p.p., la rigidità dei casi per cui è possibile ricorrere all’incidente probatorio, e attivare l’intervento del giudice per la nomina di un perito, costituirebbe un ostacolo ai fini dell’espletamento del test genetico, quando il soggetto passivo rifiuti di sottoporvisi. La disciplina relativa all’incidente probatorio consentirebbe, entro i limiti sopra riferiti, innanzitutto di superare le obiezioni legate alla presunta genericità derivante dal considerare rispettata l’indicazione dei ‘‘casi’’ facendo riferimento ad una generica esigenza di accertamento. Peraltro, poiché il DNA fingerprint costituisce prova atipica, ulteriori vincoli deriverebbero dall’art. 189 c.p.p. che impone quali criteri sia l’idoneità ad assicurare l’accertamento dei fatti, sia l’assenza di pregiudizio per la libertà morale della persona, oltre ad introdurre la garanzia che il giudice debba, ai fini dell’ammissione, sentire le parti sulle modalità di assunzione della prova. Ciò consentirebbe di far rilevare l’eventuale volontà contraria del soggetto passivo, manifestare le « buone ragioni » che potrebbero motivare il rifiuto di sottoporsi al prelievo, e conseguentemente sarebbe possibile optare per forme di prelievo meno invasive (v., infra, § 4), posto che comunque l’art. 189 non vincola l’assunzione della prova al consenso delle parti. Inoltre, le norme in tema di incidente probatorio consentono anche di definire i ‘‘modi’’ attraverso i quali si può procedere alla restrizione di libertà necessaria al fine di provvedere all’esecuzione del prelievo. Occorre preliminarmente osservare, in proposito, che, considerata la riserva di giurisdizione contenuta nell’art. 13 Cost., qualora l’interessato


— 1036 — non presti il proprio consenso il prelievo coattivo potrà essere disposto dal giudice. È infatti a tale organo che viene riconosciuta, nella disciplina codicistica, la competenza funzionale in materia di restrizioni della libertà personale. Così è non solo riguardo alle misure cautelari, per cui, in ragione di un’espressa direttiva della legge delega (art. 2, dir. n. 59), la disciplina codicistica dispone che il giudice provveda in merito all’applicazione, alla revoca, e alle vicende modificative, ma, tendenzialmente, anche al fine di ottenere la presenza dell’imputato per esigenze probatorie, considerato che, pur in assenza di un preciso e generale criterio emergente dalla legge delega (17), l’art. 132 (18) prevede l’accompagnamento coattivo come provvedimento tipico del giudice (19). Questa norma, peraltro, individua la forma del provvedimento, il « decreto motivato », e le modalità, « se occorre anche con la forza », ma, circa i presupposti della misura, contiene un rinvio ai « casi previsti dalla legge ». L’art. 399 c.p.p. specificamente dispone che quando la persona sottoposta alle indagini, la cui presenza è « necessaria » al fine di « compiere un atto da assumere con l’incidente probatorio », non compare, senza che l’assenza sia riconducibile a un legittimo impedimento, « il giudice ne ordina l’accompagnamento coattivo ». Attivato l’intervento del giudice, nelle forme di cui all’art. 393, sarebbe dunque possibile che il medesimo disponga, nel caso in cui la persona sottoposta alle indagini non acconsenta spontaneamente al prelievo, con decreto motivato l’accompagnamento coattivo presso una struttura sanitaria ai fini dell’esecuzione dello stesso, anche con la forza se occorre, come espressamente è previsto nell’art. 132, tenendo presente quanto è altresì disposto nel comma 2o di questa disposizione, e cioè che la restrizione deve essere, dal punto di vista temporale, limitata a quanto indispensabile per l’esecuzione dell’atto in questione. Il riferimento alla disciplina dell’incidente probatorio, in particolare (17) La dir. n. 77 prevede sì l’attribuzione al giudice di disporre l’accompagnamento dell’imputato, ma riguarda il caso del contumace e dell’assente. (18) Su questa disposizione v., soprattutto, A. GIANNONE, sub art. 132, in Commentario al nuovo c.p.p. (coordinato da M. Chiavario), vol. II, Torino, 1990, p. 138; M.T. STURLA, sub artt. 131-133, in Commentario del nuovo c.p.p. (diretto da E. Amodio-O. Dominioni), vol. II, Milano, 1989, p. 108; cfr. anche P. FELICIONI, Brevi note sul rapporto fra diritto al silenzio e accompagnamento coattivo dell’imputato per il confronto, in Cass. pen., 1995, p. 3467, n. 1990. (19) È la stessa Corte costituzionale, d’altra parte, a menzionare quello che è lo strumento tipico utilizzabile per assicurare la presenza dell’imputato per fini probatori, richiamando l’art. 132 c.p.p., laddove rileva che il legislatore ha specificamente disciplinato anche forme di restrizione della libertà personale non aventi natura cautelare. Occorre però rilevare che mentre in momenti giurisdizionali viene attribuita al giudice la competenza in materia di restrizioni della libertà per fini probatori (v. artt. 399, 490), nella fase investigativa spetta al pubblico ministero disporre l’accompagnamento coattivo (art. 375), salva la necessità di autorizzazione del giudice per l’interrogatorio o il confronto (art. 376).


— 1037 — l’espressa previsione contenuta nell’art. 399 c.p.p., consente di determinare in positivo la competenza — del g.i.p. — e la forma — il decreto motivato (artt. 399 e 132 c.p.p.) — del provvedimento coattivo e sembra esaurire perciò l’esigenza di tipizzazione delle misure concretamente adottabili nel caso di prelievo ematico coattivo, rispondendo adeguatamente al parametro costituzionale che pone una riserva di legge quanto ai ‘‘modi’’. A ciò va aggiunto che in relazione all’accompagnamento coattivo, disposto dal giudice con provvedimento tipico e motivato, è garantito quale rimedio, contro eventuali iniziative avventate da parte dell’autorità giudiziaria, la ricorribilità in cassazione (artt. 111, comma 2o, Cost. e 568, comma 2, c.p.p.). Pur in assenza di un mezzo ad hoc, la qualifica dell’accompagnamento coattivo quale provvedimento limitativo della libertà personale fa scattare questa garanzia minima (20), la cui efficacia pratica risulta però assai limitata, sia perché ex art. 588, comma 2 l’impugnazione non avrebbe effetto sospensivo, e non bloccherebbe perciò l’esecuzione del prelievo coattivo, sia perché resterebbero comunque da definire le conseguenze, in relazione all’effettuato prelievo ematico, di un eventuale annullamento del provvedimento che abbia disposto l’accompagnamento coattivo. Attraverso le forme dell’incidente probatorio, e nei limiti in cui ne è consentito il ricorso, potrebbe essere consentito procedere ad eseguire coattivamente un prelievo ematico nei confronti della persona sottoposta alle indagini. Più problematica è la possibilità di svolgere il test ematico su persone estranee al fatto per cui si procede, in quanto, posto che possa essere disposta perizia nei casi di cui all’art. 392 c.p.p., non vi è anche in relazione a soggetti diversi dalla persona sottoposta alle indagini una norma corrispondente a quella contenuta nell’art. 399, né soccorre in proposito l’art. 133 che vede quali soggetti passivi dell’accompagnamento coattivo solo le categorie espressamente menzionate (testimone, perito, consulente tecnico, interprete, custode di cose sequestrate), e non sembra suscettibile di interpretazione estensiva. Il rifiuto di sottoporsi al prelievo da parte di terze persone estranee all’imputazione, vedrebbe quindi il giudice privo di strumenti volti a consentirne un’esecuzione coattiva. Va altresì sottolineato, sia pur in altro contesto, che una disposizione contenuta nella recente legge 15 febbraio 1996, n. 66 recante norme contro la violenza sessuale (21) prevede che l’imputato di alcuni specifici de(20) È ormai scontato che questo provvedimento importi una restrizione della libertà personale: v. la stessa Relazione al prog. prel. c.p.p., p. 50. Circa le garanzie conseguenti v., sul tema di cui si tratta, già E. BERNARDI, op. cit., p. 370. (21) Al riguardo v. Commentario delle « norme contro la violenza sessuale » (Legge 15 febbraio 1996, n. 66) coordinato da A. Cadoppi, Padova, 1996; per un breve commento


— 1038 — litti (22) sia sottoposto « con le forme della perizia », ad accertamenti — verosimilmente al prelievo ematico e all’analisi relativa — per l’individuazione di patologie sessualmente trasmissibili quando « le modalità del fatto possano prospettare un rischio di trasmissione delle patologie medesime » (art. 16). In questa situazione, l’indagine medica non sarebbe funzionale ad un’acquisizione probatoria (23), ma risulterebbe finalisticamente volta a proteggere la salute altrui, in particolare quella della vittima del reato, e godrebbe quindi della copertura costituzionale dell’art. 32 Cost. Se viene specificamente prevista l’ipotesi (i ‘‘casi’’) e si può cogliere la ratio sottesa a tale esigenza di accertamento pur nell’ambiguità di fondo della norma, il riferimento operato alle « forme » della perizia ripropone però la soluzione della questione delle modalità (‘‘i modi’’) per un’eventuale esecuzione coattiva, considerato il rinvio a una disciplina, come si è visto, ritenuta sul punto lacunosa. Peraltro, ulteriori questioni potrebbero derivare dal fatto che tali accertamenti volti ad individuare patologie sessualmente trasmissibili siano disposti nei confronti dell’imputato (e non della persona sottoposta alle indagini). A prescindere da ogni considerazione, che qui non rileva, relativa all’opportunità di questo limite, non si vede se, e come, possa eventualmente disporsi un’esecuzione coattiva di un accertamento, che la legge pone come obbligatorio (« l’imputato... è sottoposto... ad accertamenti ») quando si tratti di individuare la sussistenza della più grave patologia sessualmente trasmissibile, ossia dell’infezione da HIV. Da un lato, si pone quale ostacolo innanzitutto la norma di cui all’art. 5, comma 3 della legge 5 giugno 1990, n. 135 (Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l’AIDS), per cui nessuno può essere sottoposto, « senza il suo consenso » ad analisi volte ad accertare l’infezione da HIV, e solo nell’ambito di programmi epidemiologici e nell’assoluto anominato: questa disposizione, già colpita da pronuncia d’incostituzionalità (24), sembra difficilmente resistere a un’ulteriore censura, in relazione all’art. 32 Cost., nei limiti in cui esclude che l’accera questa legge v., invece, G. MULLIRI, La legge sulla violenza sessuale. Analisi del testo, primi raffronti e considerazioni critiche, in Cass. pen., 1996, p. 735, n. 388.1. (22) Si tratta dei delitti di cui agli artt. 609-bis (violenza sessuale) 609-ter (circostanze aggravanti) 609-quater (atti sessuali con minorenni) e 609-octies (violenza sessuale di gruppo). (23) Sottolinea la finalità extraprocessuale della norma che impone una forma atipica di trattamento sanitario obbligatorio ed esclude la finalità probatoria dell’accertamento N. GALANTINI, commento all’art. 16, in Commentario alle « norme contro la violenza sessuale », cit., p. 330 ss., rilevando che qualche analogia con l’art. 16 in discorso si rinviene nell’art. 287-bis, comma 2, c.p.p. ed osservando, fra l’altro, che il rinvio operato alle forme della perizia « parrebbe sottintendere semplicemente un’esigenza di correttezza e professionalità nell’accertamento, garantita da un contesto giurisdizionale » (p. 334); sempre nel senso dell’atipicità di questa ipotesi, prospettandone una rilevanza per il risarcimento del danno e ai fini dell’art. 133 c.p., v. M. VIRGILIO, commento all’art. 16, ibidem, p. 323 ss. (24) V. Corte cost., sentenza n. 218/94, infra, nota (30).


— 1039 — tamento venga disposto anche contro la volontà del soggetto passivo, quando si tratti di tutelare la salute di terzi. Dall’altro, quanto ai ‘‘modi’’, considerato il riferimento specifico all’imputato, al di là dei casi in cui nell’ambito di un’udienza preliminare (25) si ritenga di poter procedere nelle forme dell’incidente probatorio (26) e disporre l’accompagnamento coattivo ex art. 399, sembrerebbe doversi concludere, in assenza di precise indicazioni circa l’adozione delle misure necessarie, per l’impossibilità di procedere al prelievo coattivo, realizzandosi, diversamente, un contrasto con l’art. 13, comma 2o, Cost. Si può tuttavia proporre una diversa interpretazione che fa leva sulla norma di cui all’art. 490 c.p.p. La disposizione, che richiama espressamente l’art. 132, consente al giudice del dibattimento di disporre l’accompagnamento coattivo dell’imputato assente o contumace, quando la sua presenza sia « necessaria per l’assunzione di una prova diversa dall’esame ». Poiché la ratio della norma è quella di consentire l’accompagnamento coattivo per fini probatori anche dell’imputato che non sia presente in giudizio, e in ciò sta l’innovazione rispetto alla precedente disciplina, si può sostenere in generale l’ammissibilità di un accompagnamento coattivo dell’imputato quando si debba assumere una prova diversa dall’esame. Non sembrerebbe esservi motivo per escludere l’applicabilità delle norme richiamate anche nei casi in cui l’accertamento non abbia finalità probatoria e non sia funzionale all’accertamento della responsabilità ed è quindi da ritenere che il giudice possa sempre disporre l’accompagnamento coattivo presso una struttura sanitaria ai fini dell’espletamento di una perizia ematica nei casi di cui all’art. 16 della legge n. 66/96. 4. Le osservazioni sopra svolte attengono al provvedimento necessario e pregiudiziale rispetto al prelievo. Per quanto riguarda invece più direttamente quest’ultimo, il riconoscimento di « pratica medica di ordinaria amministrazione » viene nella generalità dei casi ad escludere di per sé l’idoneità a mettere in pericolo la vita, la salute o l’integrità fisica (27), (25) È noto che l’incidente probatorio può essere ammesso ed eseguito in udienza preliminare a seguito della sentenza della Corte cost. (23 febbraio) - 10 marzo 1994, n. 77, in Foro it., 1994, I, c. 1657; in Giur. it., 1994, I, c. 320; in Giur. cost., 1994, p. 776, con nota di G. DEAN, Nuovi limiti cronologici dell’incidente probatorio; in Giust. pen., 1994, I, c. 129, con nota di A. VIRGILIO, Proponibilità dell’incidente probatorio nell’udienza preliminare: riflessioni; in Cass. pen., 1994, p. 1788, n. 1065, con nota di A. MACCHIA, Incidente probatorio e udienza preliminare: un matrimonio con qualche ombra, e ibidem, p. 1994, n. 1251, con nota di P. TONINI, L’incidente probatorio nell’udienza preliminare: nuove prospettive per il diritto di difesa. (26) In questa prospettiva la legge n. 66/96 introdurrebbe quindi un ulteriore caso, oltre a quelli indicati nell’art. 392, e a quello espressamente aggiunto dalla stessa legge per l’assunzione della testimonianza di un minore di sedici anni. (27) Cfr. A. FERRARO, op. cit., pp. 870-872, il quale, tenuto conto che il prelievo


— 1040 — o a ledere la dignità, la morale e la psiche, e a porre se mai a carico di chi esercita la professione sanitaria — e da questo punto di vista è opportuno che venga effettuato da un medico — la verifica, e la conseguente responsabilità, del contrario, ossia delle particolari ed eccezionali situazioni in cui procedere al prelievo potrebbe compromettere tali beni, e in cui non sarebbe consentito procedere coattivamente. L’obiezione che un intervento di questo tipo praticato in condizioni di persistente e ostinato rifiuto possa davvero essere pericoloso (28) resta comunque difficilmente superabile. Non si potrebbe del tutto escludere che si realizzino situazioni estreme, e che il comportamento tenuto dallo stesso soggetto passivo sia tale da rendere impossibile, nonostante la coazione fisica, il prelievo, o che proprio l’uso della coazione renda pericoloso l’accertamento per l’integrità fisica, tanto da indurre l’operatore sanitario a soprassedere; in questo caso sarebbe il comportamento stesso del soggetto passivo a vanificare la possibilità di svolgere l’indagine peritale. Il problema potrebbe però essere superato, dal punto di vista pratico, nel caso si debba procedere ad un indagine genetica, rinunciando al prelievo ematico e ricorrendo a modalità meno invasive, quali il prelievo della saliva o dei capelli. Ciò potrebbe essere utile anche quando il rifiuto di sottoporsi al prelievo ematico sia motivato da convinzioni religiose. Diversamente, la situazione appare difficilmente risolvibile sul piano pratico e su quello normativo; d’altra parte, analoga situazione, e problemi forse maggiori, potrebbero porsi nel caso di ispezione, quando debba compiersi sul corpo di una persona, e questa si rifiuti in ogni modo di sottostarvi. Occorre comunque tener conto che quando soggetto passivo del prelievo sia la persona sottoposta alle indagini, la previsione di una sanzione nel caso di persistente rifiuto, quale alternativa all’esecuzione coattiva, rischia di essere intrinsecamente debole e non essere per nulla efficace ai fini di ottenere un ripensamento, soprattutto quando il reato per cui si procede è grave. In questo caso diventa infatti difficile individuare una ematico « comporta, sia pur in misura minima, un’alterazione dell’integrità fisica (cui si accompagna anche una sensazione di dolore) » ritiene che tra i diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost. rientri « quello a non subire alterazioni dell’integrità fisica di qualunque tipo, ivi comprese, quindi quelle inidonee a porre in pericolo la vita o l’incolumità », considerato, oltre all’assolutezza del dato letterale della disposizione costituzionale, anche il « referente sistematico che, sia pur a livello di legislazione ordinaria, parrebbe esser rappresentato dalle norme che assicurano tutela penale ai diritti relativi alla vita e all’incolumità individuale (v. il capo I del titolo XII del libro II del codice penale) »; quanto alla sentenza n. 54/86 si osserva che « può, forse, ritenersi che, a fondamento della soluzione accolta, la Corte costituzionale abbia ‘‘presupposto’’ il principio secondo il quale diritti pur ‘‘riconosciuti’’ dalla Carta fondamentale sono suscettibili di limitazioni quando queste appaiono necessarie per tutelare altri beni di rango costituzionale ». (28) V. N. MAZZACUVA-G. PAPPALARDO, op. cit., c. 719.


— 1041 — sanzione che possa essere in qualche modo rapportabile alla pena prevista e applicabile in concreto, proprio nel caso in cui il soggetto passivo avrebbe tutto l’interesse a non sottoporsi al prelievo coattivo, se prevede che l’esito dell’indagine gli sarebbe sfavorevole. Non sembra quindi concretamente proponibile, e « trasferibile » anche sul piano processuale penale, la soluzione normativa accolta nel nuovo codice della strada, e ricordata nella stessa sentenza n. 238/96. Gli artt. 186 e 187 d.l. 30 aprile 1992, n. 285, rispettivamente dedicati alla guida in stato di ebbrezza alcoolica e sotto l’influenza di sostanze stupefacenti, prevedono, nell’ipotesi di incidente, o quando si abbia motivo di ritenere che il conducente del veicolo si trovi in stato di alterazione psicofisica conseguente all’uso delle sostanze sopra riferite, la possibilità di accertare con strumenti il tasso alcoolemico nell’aria espirata, e la facoltà di accompagnamento presso le strutture sanitarie ai fini del prelievo di campioni di liquidi biologici per accertare l’assunzione delle sostanze stupefacenti o psicotrope. Al rifiuto di sottoporsi a tali indagini consegue non l’esecuzione in forma coercitiva, ma l’applicazione di una sanzione (l’arresto fino a un mese o l’ammenda fino a due milioni): spetta all’interessato, dunque, la scelta. In questa specifica prospettiva settoriale, sanzionare penalmente il rifiuto di sottoporsi all’accertamento può risultare efficace, al fine di assicurarsi la collaborazione spontanea da parte del soggetto passivo dell’indagine, specie nel caso in cui — come nella verifica dello stato di ebbrezza mediante etilometro — l’accertamento abbia carattere scarsamente invasivo. Del resto la legittimità costituzionale della disciplina in discorso è stata confermata, nella sentenza n. 194/96 (29) rilevando, in particolare, l’attribuzione all’agente della sola facoltà di accompagnamento del conducente, al quale è consentito di rifiutare, così che la libertà personale non subisce compressione derivanti da forme di coartazione. La dettagliata disciplina settoriale effettivamente consente, attraverso il meccanismo possibilità di rifiuto/sanzione, di bilanciare gli interessi e i valori in gioco. D’altra parte, a volte, la previsione di una sanzione non è neppure necessaria al fine di assicurarsi la collaborazione da parte del soggetto passivo: è questo il caso in cui le analisi, ed in particolare il prelievo ematico, costituiscano un accertamento sanitario imposto per svolgere attività lavorative che possano comportare rischi per la salute altrui. In questi casi non si pone neppure un problema relativo ad un’esecuzione coattiva, o alla previsione di una sanzione, in quanto l’interessato è posto nell’alternativa di sottoporsi spontaneamente all’accertamento o di subirne le conseguenze, che si risolvono nella rinuncia del lavoro in questione. Anzi, (29) C. cost. (30 maggio)-12 giugno 1996, n. 194, in Gazz. uff., 1 serie spec., n. 25, 19 giugno 1996, p. 20.


— 1042 — proprio la necessità di tutelare l’interesse generale alla salute ha costituito il presupposto principale che ha indotto la Corte costituzionale a dichiarare l’illegittimità dell’art. 5, comma 3 della legge n. 135/90 (Programmi di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l’AIDS), nella parte in cui « non prevede accertamenti sanitari dell’assenza di sieropositività all’infezione da HIV, come condizione per l’espletamento di attività che comportino rischi per la salute di terzi » (30). È sempre nell’interesse e al fine di tutelare il diritto alla salute altrui che deve inquadrarsi il già citato accertamento sanitario obbligatorio previsto dall’art. 16 della legge n. 66/96, recante norme sulla violenza sessuale, per cui l’imputato di taluni delitti espressamente previsti « è sottoposto, con le forme della perizia, ad accertamenti per l’individuazione di patologie sessualmente trasmissibili, qualora le modalità del fatto possano prospettare un rischio di trasmissione delle patologie medesime ». A prescindere dai profili inerenti all’esigenza di posporre il diritto alla riservatezza alla tutela del diritto alla salute di terzi, è indubbio che anche in questa ipotesi può proporsi l’eventualità di un rifiuto a sottoporsi agli accertamenti, ed in particolare a un prelievo ematico, e l’adozione di mezzi di coazione fisica appare davvero l’unica via. Sul piano generale, la rinuncia all’adozione di mezzi di coazione fisica o al ricorso ad una sanzione, potrebbe aprire alla soluzione di considerare il persistente rifiuto dell’imputato — specie nel caso di situazioni estreme, e in assenza di giustificazioni davvero plausibili, quali potrebbero essere le convinzioni religiose — come indizio a carico o come argomento di prova (31). Attribuire al comportamento dell’imputato talune (30) C. cost. (23 maggio)-2 giugno 1994, n. 218, in Giur. cost., 1994, p. 1812. Nella fattispecie, un’operatrice di assistenza aveva richiesto di riprendere l’attività lavorativa dopo che era stata in via cautelare sospesa dal servizio, anche se non dalla retribuzione, per essersi rifiutata di sottoporsi ad esami sanitari volti ad accertare l’eventuale esistenza dell’infezione da HIV. La legge 5 giugno 1990, n. 135 (Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l’AIDS) dispone nell’art. 5 (Accertamento dell’infezione), al comma 3 che « nessuno può essere sottoposto, senza il suo consenso, ad analisi tendenti ad accertare l’infezione da HIV, se non per motivi di necessità clinica nel suo interesse. Sono consentite analisi di accertamento di infezione da HIV, nell’ambito di programmi epidemiologici, soltanto quando i campioni da analizzare siano stati resi anonimi con assoluta impossibilità di pervenire all’identificazione delle persone interessate », al comma 5 che « l’accertata infezione da HIV non può costituire motivo di discriminazione, in particolare per l’iscrizione alla scuola, per lo svolgimento di attività sportive, per l’accesso o il mantenimento di posti di lavoro ». (31) Si ricorda in proposito la definizione data da G.R. RICCI, Prove e argomenti di prova, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, pp. 1100-1101, che fa riferimento a « comportamenti dell’uomo che possono certo influire sulla decisione in quanto espressione di una tendenza con valore quantomeno probabilistico... il giudice ne tiene conto poiché quel particolare comportamento tenuto dalla parte può essere effettivamente espressione di una specifica tendenza (ad es. chi non collabora alla ricerca della verità, lo fa perché questa probabilmente gli è sfavorevole). Ma se tale tendenza costituisca un’ipotesi verificabile anche in quel caso


— 1043 — conseguenze probatorie (32) non sembra essere una soluzione soddisfacente: alla perdita di una prova certa che può essere rilevante e, a volte, decisiva, si lascia al giudice la valutazione di un comportamento che può essere, ma non sempre lo è, segno di responsabilità, il cui peso è difficilmente comparabile alla conclusività di una perizia che si basi su una prova ematica. Soprattutto, non appare interpretabile nel senso di desumerne con sicurezza elementi a favore dell’accusa, ma solo un « sospetto » che, di per sé, non potrebbe essere assunto a fondamento di alcuna conclusione, ma diverrebbe significativo solo in presenza di elementi già idonei a sostenere un giudizio di colpevolezza. D’altra parte, anche la sua valorizzazione in senso probatorio accanto ad altri elementi di riscontro obiettivo non sembra priva di pericolosità, proprio perché se già non ci si può nascondere che il rifiuto di collaborare costituisca un comportamento suscettibile di condizionare e generare una qualche prevenzione nella mente di chi giudica, attribuirne una valenza probatoria, sia pure accanto ad altri elementi, viene ad esaltare la rilevanza di un comportamento che resta pur sempre ambiguo e non univoco, nel senso di essere indiscutibilmente sintomo di colpevolezza (33). 5. In molti ordinamenti europei si riscontrano norme relative agli accertamenti da compiersi sul corpo di una persona per fini probatori. Quasi sempre nell’ambito delle norme in tema di ispezioni corporali, si rinvengono alcune disposizioni relative al prelievo ematico, regole e paconcreto, non sarà mai dato sapere con precisione. Ecco perché le ipotesi previste dall’art. 116, comma 2o, c.p.c., possono assumere uno specifico valore solo se il fatto è dimostrato per mezzo di prove effettive. (...) La loro sola funzione è quella di potersi aggiungere alla prova raggiunta per altre vie, al fine di rafforzare l’intima convinzione del magistrato ». Riguardo al comportamento dell’imputato e al concetto di argomento di prova, sia pure in altra prospettiva, si esprime la stessa Relazione al prog. prel. c.p.p., p. 64, relativamente all’esame delle parti osservando che « una volta che una parte ha chiesto l’esame diretto, essa non è più in grado di sottrarsi alle domande che le vengono formulate (e qui sta il fondamento del valore squisitamente probatorio dell’atto) tanto che ogni rifiuto di rispondere — di cui deve farsi menzione nel verbale — assumerà legittimamente il valore di argomento di prova ». (32) È questo, invece, quanto propongono, richiamando l’orientamento formatosi in sede civile, che fa leva sull’art. 118 c.p.c., N. MAZZACUVA-G. PAPPALARDO, op. cit., c. 720, secondo cui « piuttosto che imporre, mediante ‘‘superati’’ strumenti di coazione fisica, un accertamento sanitario del tipo in esame, sarà l’eventuale rifiuto dell’imputato ad essere correttamente e serenamente valutato, in applicazione del principio del libero convincimento del giudice ed in relazione agli elementi di prova già raccolti in un dato procedimento penale ». (33) Il discorso si collega inevitabilmente con il problema del rilievo del comportamento processuale dell’accusato: v., al riguardo, V. GREVI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano, 1972; cfr., anche per la bibliografia ivi citata, O. MAZZA, Interrogatorio ed esame dell’imputato: identità di natura giuridica e di efficacia probatoria, in questa Rivista, 1994, pp. 867-870.


— 1044 — rametri volti a definire competenza e forma, presupposti e modalità, limiti e utilizzabilità dei dati acquisiti, rilevanza e conseguenze del rifiuto di sottoporsi a questo accertamento. È appunto all’interno di queste disposizioni, in assenza di più puntuali interventi del legislatore, che si ricavano agganci normativi e regole estensibili per via interpretativa anche alla prova del DNA e ad altre tecniche e metodiche che comportino accertamenti sul corpo di una persona. Non sono però mancati in taluni ordinamenti, specifici interventi del legislatore circa l’indagine genetica, come in Francia, sia pure solo attraverso norme volte a riconoscere genericamente l’ammissibilità del test del DNA ai fini giudiziari, più raramente, come in Olanda, definendo i presupposti e le condizioni che legittimano tale tipo di indagine, le modalità con cui deve essere effettuata e le garanzie per il soggetto passivo, prevedendo inoltre specificamente quale rilievo assume l’eventuale dissenso del soggetto passivo, se, e come, può essere superato (34). Si riscontrano invece di frequente, nella legislazione di settore, regole volte a definire le tecniche adottate e le modalità del loro impiego, come ad esempio riguardo alle infrazioni stradali a proposito dei test alcoolimetrici o dei prelievi di campioni di liquidi biologici, oppure relativamente alla verifica circa l’uso di droghe e lo stato di tossicodipendenza, gli accertamenti e i rilievi relativi. Le scelte e soluzioni accolte da alcuni ordinamenti risultano significative perché risultano in qualche modo paradigmatiche, in quanto propongono alcuni schemi e modelli normativi, cui sono riconducibili anche altre legislazioni straniere (35). A) Di particolare interesse si rivela l’ordinamento inglese, in cui il (34) Il progetto del 2 dicembre 1991 — divenuto legge in Olanda nel 1994 — contiene una disciplina assai dettagliata e risulta apprezzabile, soprattutto laddove mira a contemperare le esigenze di accertamento con la tutela dei diritti di difesa. Secondo quanto viene riportato nello studio di P.J.P. TAK-G.A. van EIKEMA HOMMES, Le test ADN et la procédure pénale en Europe, in Rev. sc. crim. et dr. pen. comp., 1993, pp. 689-690, si prevede, fra l’altro, che quando il giudice nomini un perito per l’indagine genetica l’imputato abbia diritto di: essere avvertito dell’ora e del luogo in cui si svolgerà il test e dell’esito dello stesso; essere presente personalmente o attraverso il suo avvocato, oltre a poter designare un consulente tecnico a tal fine; chiedere al giudice dopo lo svolgimento dell’indagine di designare un altro esperto per effettuare una controperizia o, in caso di impossibilità di procedere nuovamente all’indagine genetica, per esaminare e dare il proprio parere sul test già effettuato. Il prelievo presuppone il consenso dell’interessato; qualora non vi sia, il giudice, dopo aver sentito l’imputato, può ordinare il prelievo coattivo con provvedimento motivato, appellabile dallo stesso imputato, con effetto sospensivo. La possibilità di emettere tale ordine viene però agganciata ad un duplice presupposto: la gravità e la natura dei reati e la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza nei confronti del soggetto passivo. Se il prelievo di sangue non è, dal punto di vista medico, consentito, è possibile ovviare ricorrendo ad un prelievo di saliva, di capelli o altro. Tale materiale biologico sarà distrutto appena le esigenze del caso lo permettano. (35) Riguardo al tema di cui si tratta, per alcuni riferimenti all’ordinamento danese,


— 1045 — Police and Criminal Evidence Act 1984 ha introdotto un’analitica ed articolata normativa circa i prelievi di campioni che vengono ad incidere sulla persona (36). Disposizioni dettagliate si rinvengono con riferimento all’ispezione corporale (sez. 55 - Intimate searches), ai rilievi dattiloscopici (sez. 61 - Fingerprinting), e, per ciò che qui più direttamente interessa, ai rilievi ed al prelievo di campioni da eseguirsi sul corpo di una persona. In proposito, si distingue a seconda che il prelievo di campioni sia o meno invasivo, facendo riferimento rispettivamente a intimate samples (sez. 62), ossia a quegli accertamenti che vengono ad incidere nella sfera intima della persona, e quindi che sono volti ad acquisire liquidi biologici, quali ad esempio il prelievo ematico, e a other samples (sez. 63), ossia ad altri tipi di rilievi e prelievi di campioni, di carattere più superficiale ed esterno, quali ad esempio, il prelievo di capelli o i rilievi di orme (37). Per quanto riguarda il prelievo di campioni di liquidi biologici, la sez. 62 prevede che questo può essere disposto nei confronti di una persona in stato detentivo (police detention) soltanto previa autorizzazione di un funzionario di polizia (a police officer of at least the rank of superintendent) e sempre che la persona nei cui confronti deve essere eseguito il prelievo abbia prestato il proprio consenso (appropriate consent) (38) scritto. È la stessa legge a definire i requisiti formali dell’autorizzazione e le condizioni in base alle quali può essere rilasciata. Oltre a specificare che tale atto può essere scritto o orale, ma in quest’ultimo caso dovrà esserne data conferma per iscritto appena possibile, vengono indicati due criteri, l’uno che fa leva sulla gravità del reato — deve infatti presumersi il coinvolgimento in una serious arrestable offence — l’altro che impone una prognosi sull’utilità del prelievo stesso — la rilevanza per confermare o smentire che il soggetto passivo sia coinvolto in tale reato. Al fine di tutelare la posizione e i diritti di difesa dell’indagato, viene irlandese, norvegese e svedese, v. ancora P.J.P. TAK-G.A. van EIKEMA HOMMES, op. cit., pp. 685-688. (36) V., per un commento, C. WALKER-I. CRAM, DNA Profiling and Police Powers, (1991) Crim. Law Rev., 477 ss., in cui oltre ad alcune osservazioni relative alle sez. 62-63, si considerano anche le sez. 54-55 in tema di ispezioni personali e di sequestri, nella prospettiva dell’eventuale sottoposizione del materiale raccolto al test genetico. (37) Più precisamente, è la sez. 65 a chiarire che intimate sample « means a sample of blood, semen or any other tissue fluid, urine, saliva or pubic hair, or a swab taken from a person’s body orifice », e non-intimate sample « means (a) a sample of hair other than pubic hair; (b) a sample taken from a nail or from under a nail; (c) a swab taken from any part of a person’s body other than a body orifice; (d) a footprint or a similar impression of any part of a person’s body other than a part of his hand ». (38) In base alla sez. 65, con riferimento al soggetto passivo del prelievo, se si tratta di infraquattordicenne, il consenso dovrà pervenire dal genitore o dal tutore, nel caso in cui abbia compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciassette, dovrà esservi congiuntamente il consenso del minore e del genitore o del tutore, mentre quando abbia compiuto i diciassette anni il consenso dovrà essere prestato personalmente.


— 1046 — previsto, a carico del funzionario di polizia, anche un obbligo di informativa circa l’esistenza dell’autorizzazione e dei motivi per cui è stata disposta, che include anche il dovere di precisare la natura del reato attribuito alla persona che deve sottoporsi al prelievo. Dell’esistenza dell’autorizzazione, dei motivi su cui si fonda e del fatto che sia stato dato il consenso da parte dell’interessato si darà anche atto a verbale, non appena possibile subito dopo l’esecuzione del prelievo. È da sottolineare anche l’opportuna previsione che, salva l’ipotesi di campioni di urina o di saliva, il prelievo può essere eseguito soltanto da medici. La situazione in cui l’interessato non dia il proprio consenso viene risolta escludendo sia l’uso della forza, sia l’applicazione di sanzioni specifiche, e dando invece un rilievo probatorio al rifiuto manifestato. Si dispone infatti che quando il consenso dell’interessato manchi, senza una valida ragione (without good cause), nel procedimento penale contro quella persona e in relazione al reato contestatogli, ai fini di un committal for trial e dello stesso giudizio di merito, la Corte e/o la giuria può trarne le opportune deduzioni e, in particolare, il rifiuto può essere considerato idoneo a corroborare altri elementi di prova a carico (39). È la sez. 63 a disporre invece relativamente al prelievo di altri tipi di campioni, ricalcando, sia pure solo in parte, lo schema della precedente disposizione. Questi accertamenti, indipendentemente dalla natura del reato per cui si procede, sono possibili previo consenso scritto del soggetto passivo. Manca una disposizione corrispondente a quella contenuta nella sez. 62 che dia rilievo probatorio al rifiuto di sottoporsi al prelievo; viene però previsto che, nel caso in cui il soggetto passivo manifesti una volontà contraria, possa comunque disporsi il prelievo di campioni su persona che si trovi in stato detentivo (police detention) quando vi sia autorizzazione, da parte di un funzionario di polizia (an officer of at least the rank of superintendent), autorizzazione soggetta ai medesimi requisiti formali e sostanziali, compreso il sopra citato obbligo di informativa, e ad analoghe modalità di verbalizzazione, già menzionati dalla sez. 62 con riferimento alle intimate samples. In questo caso, il rifiuto di acconsentire al prelievo di campioni può dunque essere superato nell’ipotesi in cui il soggetto sia sospettato di una serious arrestable offence e vi siano ragionevoli motivi per ritenere che l’accertamento possa dimostrare o smentire il suo coinvolgimento. In base alla sez. 64, qualsiasi campione prelevato, a prescindere dal fatto che si tratti di intimate o non intimate samples, dovrà essere distrutto se l’indagato viene assolto o non è perseguito. B) Se l’ordinamento inglese è caratterizzato dalla presenza di regole (39) A chiusura della sez. 62 si fanno salve le disposizioni in tema di infrazioni stradali che dettano disposizioni particolari quanto ai prelievi di campioni.


— 1047 — specifiche e analitiche circa il prelievo di campioni sul, o dal, corpo di una persona, in Francia, invece, il legislatore è intervenuto, più di recente, inserendo, nel codice civile, una norma di carattere generale, volta soltanto ad indicare i fini, e a definire l’ambito, dell’indagine genetica. Con legge n. 94-653 del 29 luglio 1994 si è previsto, nell’art. 16-11, al. 1, C. civil, che l’identificazione di una persona attraverso impronta genetica non può essere disposta che per esigenze investigative o istruttorie nell’ambito di un procedimento giudiziario, o per obiettivi medici e di ricerca scientifica. Posto che l’intervento dovrà essere eseguito da un medico, la precisazione che in materia civile è necessario raccogliere il consenso del soggetto passivo deve indurre a ritenere che ai fini investigativi ed istruttori quando manchi il previo consenso il prelievo possa essere coattivamente eseguito. Non mancano anche interventi settoriali, dove accanto alla previsione della possibilità di eseguire accertamenti previo consenso del soggetto, vi è quella per cui in caso di rifiuto debbano essere applicate sanzioni penali. Così, in materia di infrazioni stradali, si dispone che il rifiuto da parte del conducente di un autoveicolo di prestarsi alla verifica del suo stato di ebbrezza tramite prelievo — ma la disposizione, pur mantenuta, appare oggi superata potendosi disporre l’analisi dell’aria espirata — costituisca un delit correctionnel, punibile con pena detentiva di due anni e con un’ammenda (art. L. 1, I, al. 5 C. route) (40). C) Nell’ordinamento tedesco hanno rilievo il § 81 a (Korperliche Untersuchung; Blutprobe) e il § 81 c (Untersuchung anderer Personen) StPO, in materia di ispezioni corporali, rispettivamente disposte sull’imputato e su testimoni: a tali norme, infatti, hanno fatto riferimento dottrina e giurisprudenza quanto al tema di cui si tratta, ed in particolare riguardo all’indagine genetica, in assenza di disposizioni più specifiche (41). Il § 81 a StPO riconosce al giudice e, in caso di pericolo nel ritardo, al pubblico ministero, la possibilità di disporre l’ispezione corporale al fine di acquisire informazioni rilevanti per il procedimento. Il prelievo ematico ed altri accertamenti sul corpo dell’imputato, che vanno compiuti (40) Risulta opportuno anche un richiamo alla legge n. 87-1157 del 31 dicembre 1987 relativa al traffico di sostanze stupefacenti in cui si prevede che allorché vi siano gravi indizi per ritenere che una persona che passi la frontiera trasporti, dissimulato nel suo corpo, delle sostanze stupefacenti, gli agenti della dogana possano sottoporre tale persona ad esami medici per individuarle, dopo averne raccolto il consenso espresso. In caso di rifiuto, si dispone che l’agente possa richiedere all’autorità giudiziaria (president du tribunal de grande instance) un’autorizzazione, per cui, qualora, dopo il rilascio della stessa, persista una volontà contraria alla verifica, il soggetto in questione sarà punito con pena detentiva di un anno e ammenda (art. 60-bis c. douanes). (41) Le voci a sostegno della necessità di un intervento del legislatore volto a regolare in particolare l’indagine genetica hanno trovato sbocco anche in un progetto di legge ministeriale: v., in proposito, sempre P.J.P. TAK- G.A. van EIKEMA HOMMES, op. cit., p. 686.


— 1048 — da un medico, sono ammessi anche senza il consenso dell’interessato, quando non vi sia pericolo per la sua salute. Diversamente, non si può prescindere dal consenso, che si pone perciò come condizione necessaria per procedere all’accertamento stesso. Analoga disciplina è prevista, con riferimento a soggetti diversi dall’imputato, nel § 81 c StPO: ribadita la necessità che vi provveda un medico, si ritiene ammissibile il prelievo ematico anche senza il consenso dell’interessato purché non vi sia pregiudizio per la salute e questo esame sia indispensabile per l’accertamento della verità. In caso di rifiuto di sottoporsi al prelievo, è prevista l’applicazione di una pena pecuniaria a seguito della quale, qualora persista una volontà contraria, o vi sia pericolo nel ritardo, previo ordine del giudice ne è disposta l’esecuzione coattiva. In sostanza, negli ordinamenti considerati, quanto ai presupposti per procedere a prelievi di campioni biologici, il criterio della gravità del reato si combina spesso con quello della prognosi dell’utilità di tale verifica ai fini del procedimento. Al criterio oggettivo si affianca perciò un criterio soggettivo che lascia all’autorità procedente ogni valutazione circa la necessità dell’indagine per l’accertamento dei fatti, e in particolare per dimostrare o, al contrario, escludere il coinvolgimento in essi di un dato soggetto. Con riferimento alle modalità e alle garanzie approntate, comune è l’individuazione del limite dell’assenza di pregiudizio alla salute o alla dignità, mentre frequente è la precisazione che il prelievo ematico debba essere effettuato da un medico. Più sfumate, invece, sono le posizioni circa la competenza e la forma del provvedimento — viene previsto che l’accertamento possa essere disposto non solo dal giudice, ma anche dal pubblico ministero, dall’autorità di polizia — trattandosi di questioni in parte legate alle scelte di fondo e di struttura dei vari ordinamenti, in parte dipendenti dalla soluzione accolta riguardo all’eventualità di un rifiuto dell’interessato a prestare il consenso al prelievo di campioni. Come si può constatare, l’applicazione di sanzioni penali di fronte al rifiuto di chi debba sottoporsi al prelievo è ricorrente nella legislazione di settore, dove, in pratica, può costituire un’efficace forma di pressione al fine di convincere l’interessato a mutare atteggiamento, mentre invece a livello generale la scelta di fondo rimane quella di ritenere ammissibile l’esecuzione forzata oppure di attribuire rilevanza probatoria, ovviamente di segno negativo per l’imputato, a tale comportamento. 6. Se questo è lo stato attuale della legislazione in alcuni Stati europei, ovunque si registrano spinte affinché il legislatore intervenga a disciplinare la materia, considerate le straordinarie possibilità applicative del test genetico, la delicatezza di tale tipo d’indagine e la sua potenziale risolutività ai fini dell’accertamento dei fatti. Di fronte alle lacune e alle insufficienze normative riguardo alla


— 1049 — prova genetica e considerata la rilevanza di altre metodiche tecnico-scientifiche a fini giudiziari, quasi ovunque si sente l’esigenza di fissare principi e direttive di massima, e diversi sono stati i progetti di legge al riguardo, anche laddove la legislazione esistente consentiva, attraverso interpretazione estensiva, un aggancio normativo. Il nodo di fondo, per ciò che riguarda strettamente l’indagine genetica, è, da un lato, la necessità di garantire l’affidabilità dei risultati dell’indagine, dall’altro, l’esigenza di tutelare i diritti della persona. Se va innanzitutto fissato un limite imprescindibile nella dignità e integrità della persona, per cui qualunque metodica deve essere esclusa quando in astratto, o nel caso concreto, venga a ledere tali valori, e debba essere preferita, quando ve ne sia la scelta, la tecnica meno invasiva, non meno rilevante è la necessità di assicurare e garantire che l’accertamento venga compiuto in condizioni ottimali, con metodiche corrette, al fine di assicurare l’affidabilità dell’esito della prova genetica. Circa i presupposti, sembra necessario porre l’accento soprattutto sulla necessità che ricorrano gravi indizi a carico del potenziale soggetto passivo o l’indagine si renda comunque indispensabile ai fini dell’accertamento dei fatti, mentre i limiti derivanti dalla gravità del reato, se rispondono ad esigenze di economia e possono porre un freno a un eccessivo ricorso a questa metodica, potrebbero essere controproducenti sia in relazione alle necessità di indagine, poiché al fine di provvedere tempestivamente a conservare le tracce e a procedere all’accertamento può essere di ostacolo la necessità di una preventiva qualificazione giuridica del fatto, sia perché ogni limite che faccia leva sulla rilevanza edittale rischia di essere da un lato superfluo (42), dall’altro discutibile, potendo escludere taluni fatti in cui l’indagine possa essere utile e risolutiva. Quanto alla previsione di strumenti coercitivi, per ciò che riguarda il nostro ordinamento, l’accompagnamento coattivo (artt. 132-133 c.p.p.), essendo volto ad assicurare la presenza dell’imputato o di altre persone per fini di indagine o di accertamento, risulta lo strumento utilizzabile per assicurare la presenza del soggetto passivo anche quando si debba procedere a un test genetico. Oltre alla necessità di prendere posizione, a livello normativo, circa le conseguenze del rifiuto di sottoporsi all’accertamento, è proprio la predisposizione di regole per l’indagine, e dunque relative alle modalità della stessa, ad essere particolarmente complessa, delicata e impegnativa (43). (42) Sembrerebbe ovvia, infatti, l’inutilità di tale indagine, ad esempio, nell’ipotesi di bancarotta. (43) A questo proposito v. le considerazioni, le osservazioni e le proposte della Commissione Justice pénale et Droits de l’Homme, in La fase preparatoria del processo penale (a cura di M. Pisani), Bologna, 1991, pp. 116-117.


— 1050 — Non sembra infatti possibile prescindere dall’introdurre cautele e porre limiti, e occorre fissare le condizioni per il prelievo di campioni, assicurare l’ottimale rilevazione dei reperti biologici, definire le modalità di rilevazione, i metodi e i laboratori competenti, la conservazione o la distruzione dei reperti, tenuto conto che, al riguardo, si impone anche il rispetto delle esigenze di riservatezza. Nel contempo, la tendenziale risolutività di tale tipo d’indagine impone, per un verso, che non debba essere soltanto uno strumento utilizzabile dall’accusa, ma che possa essere disposta anche quando venga richiesta dall’imputato; per l’altro, che l’indagato sia informato delle ragioni e della finalità di questo tipo d’indagine, delle conseguenze dell’eventuale rifiuto di sottoporsi all’accertamento, mentre occorre assicurare anche che all’accertamento stesso possano assistervi consulenti tecnici della difesa, o comunque possano esaminarne gli esiti ed, eventualmente, chiedere la ripetizione della prova. Un altro aspetto particolarmente delicato riguarda l’eventualità che il test genetico, o altre metodiche invasive, debbano essere disposti sulla stessa vittima del reato, o su terzi estranei al fatto. In questo caso, se il principio dell’indispensabilità ai fini dell’accertamento dei fatti può costituire un utile criterio-guida, assume particolare rilievo l’esigenza di limitare il ricorso al test genetico, anche facendo riferimento alla gravità dei reati o alla natura dei medesimi e al particolare allarme sociale da questi suscitato, al fine di porsi al riparo dal ricorso indiscriminato (e improduttivo) a questo tipo d’indagine ed evitare anche pericolose « schedature », e controlli per categorie di soggetti (44). In conclusione, e per tornare alla sentenza n. 238/96, anche se forse (44) Viene frequentemente ricordato un caso verificatosi a Leicester nel 1986 dove per individuare il responsabile di due omicidi e violenze carnali fu richiesto alla popolazione di un paese di sottoporsi a prelievo per il test genetico, riuscendo alla fine ad identificare il responsabile (v., in particolare, al riguardo, M. HIBBS, Applications of DNA fingerprinting truth will out, (1989) 139 New Law Journ., 619; R.M. WHITE-J.J.D. GREENWOOD, DNA fingerprinting and the Law, (1988) Modern Law Rev., 51, 145). Secondo quanto riferisce S. MONTINARO, Per le esigenze della polizia scientifica, cit., p. 70, « in Inghilterra è stata da poco approvata una legge che autorizza le forze di polizia a sottoporre all’estrazione del DNA tutti coloro che, a qualsiasi titolo, vengono sottoposti a indagine da parte dell’autorità giudiziaria per creare quella che viene indicata come la ‘‘banca dati del DNA’’. E per il prelievo è stato realizzato un particolare sacchetto, detto Mouth Swab Kit, costituito da un semplice spazzolino da denti sterilizzato e sigillato tramite il quale l’operatore preleva la saliva, più precisamente le cellule di sfaldatura della mucosa orale del sospettato ». Non vi è chi non veda, accanto all’utilità, i rischi insiti in una sottoposizione obbligatoria e preventiva a vasto raggio all’indagine genetica. Al riguardo, circa i pericoli v. M. STALTERI, op. cit., pp. 202-204, il quale osserva: « Addirittura tale codice potrebbe venire estrapolato contro la propria volontà, ogniqualvolta essi si sottopongano per altri motivi ad analisi del sangue presso laboratori pubblici. Si tratta di provvedimenti che senza dubbio finiscono col violare i diritti fondamentali di ciascun individuo, legati al rispetto della sfera più


— 1051 — erano proponibili e prospettabili soluzioni diverse, meno rigide e « demolitive » in relazione alle censure mosse, l’intervento della Corte è da apprezzare proprio laddove si punta il dito sulle insufficienze e lacune normative. I problemi e le questioni che pone l’utilizzo, ai fini processuali penali, dell’indagine genetica e di altre metodiche tecnico-scientifiche — a prescindere dai profili riguardanti strettamente la possibilità di procedere al prelievo coattivo e l’esigenza di contemperare fini di giustizia e libertà personale — sono diversi, complessi e su più versanti. Non si può sottacere la scarsa sensibilità finora mostrata dal legislatore, di cui occorre un puntuale, urgente e meditato intervento, al di là di ciò che appare conseguente alla sentenza della Corte. Si tratta di un impegno certamente non facile, considerato che le scelte e le soluzioni sul piano normativo toccano sfere giuridiche-scientifiche-etiche (45). È fin troppo ovvio, però, che l’esigenza di non privarsi del contributo che deriva dall’applicazione delle scoperte scientifiche e dall’affinamento delle tecniche e dei metodi d’indagine impone l’introduzione di norme che stiano al passo con i tempi, che vengano a « tipizzare » le c.d. prove scientifiche, o quantomeno a offrire al riguardo alcune direttive, assicurando il rispetto dei valori e dei principi fondamentali. DANIELA VIGONI Ricercatore nell’Università di Como

intima della propria personalità. Il rischio che da ciò può facilmente derivare è che, in mancanza di regole precise riguardo all’uso di tali informazioni, queste possano venire utilizzate per fini non legittimi: si pensi, ad esempio, alla possibilità di venire a conoscenza della inconsaguineità di rapporti familiari dati per acquisiti. Ma non va trascurato come i tests genetici possano essere utilizzati per individuare nel soggetto, com’è scientificamente possibile, l’infezione da AIDS o la dipendenza da droghe al fine di discriminarlo nella vita civile o sul luogo di lavoro... Già adesso i rischi derivanti da un uso distorto del DNA fingerprint rivelano la loro consistenza: si riporta infatti qualche tentativo di creazione di banche dati, limitate a coloro che sono stati negli ultimi anni accusati o condannati per specifici reati (sessuali, ad esempio). Appare evidente come l’uso selettivo di tali informazioni rischi di essere fortemente discriminatorio: esso potrebbe portare, ad esempio, ad una maggiore incidenza di rischio nei confronti di questi ultimi soggetti, circa la casuale coincidenza del loro codice genetico con quello rinvenuto sul locus delicti ». Circa i pericoli relativi alla lesione della c.d. genetic privacy v. anche, E. TERROSI VAGNOLI, op. cit., c. 95; A. GARGANI, op. cit., 1327 ss. (45) Alcuni principi e criteri guida per le legislazioni interne degli Stati membri emergono dalla Raccomandazione R(92)1 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sull’uso delle analisi dell’acido desossiribonucleico nell’ambito del sistema della giustizia penale, adottata il 10 febbraio 1992.


NOTE DI DIRITTO COMPARATO E STRANIERO

IL CODICE ZANARDELLI E LA CODIFICAZIONE NEI PAESI DI COMMON LAW (*)

I.

Il formante legislativo

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. La genesi del codice penale del Queensland. - 2.1. Il diritto penale australiano (e del Queensland in particolare) verso la fine dell’Ottocento. 2.2. La codificazione del diritto penale nei paesi di common law: i primi passi. 2.3. Sir Samuel Walker Griffith e la codificazione del diritto penale del Queensland. — 3. I nessi tra il codice Zanardelli ed il codice « Griffith ». - 3.1. I motivi di tale connessione. - 3.2. Il progetto Griffith del 1897 e l’impronta zanardelliana. 3.2.1. L’impianto complessivo ed il principio di legalità. - 3.2.2. La distinzione tra crimes e misdemeanours. - 3.2.3. Il tentativo. - 3.2.4. La legge penale nello spazio. 3.2.5. I principi generali della responsabilità penale. - 3.2.6. La parte speciale. 3.2.6.1. I reati contro il potere esecutivo e legislativo. - 3.2.6.2. Il reato di « interferenze con la libertà politica ». - 3.2.6.3. I reati di rivelazioni di segreti d’ufficio. 3.2.6.4. L’abuso d’ufficio. - 3.2.6.5. La « falsa assunzione di autorità » e l’« impersonazione dei pubblici ufficiali ». - 3.2.6.6. Il rifiuto di atti di ufficio. - 3.2.6.7. Il reato di « pubblici attacchi a fedi religiose ». - 3.2.6.8. Il reato di vilipendio di cadavere. 3.2.6.9. La provocazione in relazione al reato di assault. - 3.2.6.10. I reati contro la libertà. - 3.2.6.11. Le aggravanti del furto. - 3.2.6.12. La diminuzione di pena per la desistenza volontaria. - 3.3. Dal progetto del 1897 a quello del 1899. - 3.4. Dal progetto del 1899 al codice del 1899. - 3.5. Le principali modifiche nei quasi cento anni di vigenza del codice Griffith. - 3.6. Il nuovo e già abrogato codice del 1995. — 4. Le migrazioni del codice Griffith, e di talune sue ascendenze zanardelliane. - 4.1. Il codice penale del Western Australia (1903) ed altri codici australiani. - 4.2. Il codice penale della Papua Nuova Guinea. - 4.3. Il codice penale della Nigeria. - 4.4. Il codice penale modello per le colonie, ed i codici da esso derivati. - 4.4.1. Il codice penale del Kenya e di altri stati africani. - 4.4.2. I codici penali di Cipro e Israele. - 4.4.3. Codici penali di altre remote giurisdizioni. — 5. Conclusioni. 1. Premessa. — « Ho tratto grandissimo ausilio da questo codice, che è, ritengo, sotto molti profili il più completo e perfetto in esistenza ». Chi scrisse queste parole? Da dove è tratta la citazione? Di quale codice si trattava? Le risposte a queste tre domande stupiranno probabilmente il lettore. (*) Il presente lavoro è frutto di un soggiorno di studio a Brisbane, Queensland, Australia, nei mesi di dicembre 1994 e gennaio 1995. Desidero ringraziare per l’opportunità offertami e per la cortesia dimostratami durante lo svolgimento della ricerca, tra gli altri, Robin O’Regan Q. C., allora Chairman della Criminal Justice Commission (ed in precedenza Chairman del Criminal Code Review Committee), e Aladin Rahemtula, bibliotecario della Supreme Court Library di Brisbane. Ma l’intero staff di quell’ottima biblioteca, e di altre biblioteche ed archivi australiani andrebbero ringraziati; e così ancora i tanti colleghi, tutti straordinariamente gentili e disponibili, che ho avuto la fortuna di incontrare durante quell’indimenticabile soggiorno.


— 1053 — Autore originale della menzionata frase fu Sir Samuel Walker Griffith, Chief Justice della Corte Suprema del Queensland (Australia), nel 1897 (1): fin qui, nulla di strano. Il testo da cui è tratta la citazione è un manuale di diritto penale della Nigeria (2): anche qui, in apparenza tutto normale, salvo l’emergere di una forse sorprendente connessione tra il diritto penale di tale lontano paese africano e quello di uno Stato dell’ancor più lontana Australia. Più probabilmente meraviglierà, invece, il fatto che il codice di cui si tratta sia il codice Zanardelli! Si legge, infatti, nel manuale nigeriano: « Egli [Griffith] si premurò di riconoscere il proprio debito verso i compilatori del codice penale italiano del 1888 [sic (3)], dei quali era un grande ammiratore » (4). Quali i misteriosi rapporti tra un giurista australiano di fine Ottocento, il diritto penale della Nigeria, ed il codice Zanardelli? Il lavoro mira tra l’altro a cercare di sciogliere questo rebus della storia del diritto penale comparato. Si noterà che il codice Zanardelli — oltre ad avere influenzato, come è noto, vari codici europei e soprattutto sudamericani (5) — è stato di grande ausilio al compilatore del codice penale del Queensland del 1899. Inoltre, dal momento che sul modello di tale codice sono stati elaborati numerosi altri codici di paesi di common law, si potrà constatare come anche nell’ambito di questi ultimi si ritrovino alcuni non secondari caratteri di stampo zanardelliano (6). Sotto questo profilo, dunque, verrà considerato quello che viene designato dai comparatisti come il « formante legislativo » (7), al quale sarà dedicata una prima parte del lavoro, l’unica pubblicata in questa sede. Il lavoro mira altresì a valutare — ma questo profilo sarà oggetto di una seconda parte da pubblicare successivamente — alcuni aspetti dell’impatto applicativo che ha avuto nell’ambito di giurisdizioni di common law l’inserzione, in un codice penale, di concetti e di norme tratte da un codice penale continentale come quello italiano del 1889. La disamina che ci accingiamo ad effettuare si pone quale tappa di uno studio di più ampio respiro sul tema dei rapporti tra codificazioni penali di common law e di civil law, volto a valutare profili di compatibilità e/o incompatibilità, o quantomeno di comunicabilità e/o incomunicabilità tra le stesse. In sostanza, ci si vuole domandare — già in nuce nella presente sede, ma funditus nel prosieguo della ricerca — se il diverso background culturale ed operazionale che caratterizza sistemi di common law e di civil law possa influire da un lato sulla scelta dei modelli di codificazione penale adottati, e dall’altro sulla concreta applicazione delle norme. A tal fine, particolarmente interessante risulta essere lo studio di codici penali definibili « misti », e cioè derivanti dall’utilizzo di modelli sia di common law che di civil law (8): misto è il codice penale del Queensland, proprio per aver tratto ispirazione, oltre che da fonti di area angloamericana, anche dal codice penale italiano del 1889. (1) Sir S.W. GRIFFITH, An Explanatory Letter to the Honourable the Attorney-general, in ID., Draft of a Code of Criminal Law prepared for the Government of Queensland, Brisbane, 1897, p. VII. (2) R.Y. HEDGES, Introduction to the Criminal Law of Nigeria, London, 1962, p. 4. (3) Si vedrà più oltre (cfr. nt. 66) che il fraintendimento di Griffith non era privo di giustificazioni. (4) R.Y. HEDGES, op. loc. cit. (5) Sul punto cfr. soprattutto R. SCHULZE, Il contributo italiano al diritto penale nel tardo Ottocento, in Problemi istituzionali e riforme nell’età crispina — Atti del LV congresso di storia del Risorgimento italiano (Sorrento, 6-9 dicembre 1990), Roma, 1992, p. 11 ss. e spec. 135. Con particolare riferimento ai codici penali latinoamericani cfr. J.A. JIMENEZ DE ASUA, Tratado de derecho penal, 8 voll., Buenos Aires, 1957, spec. vol. I. Anche R. LEVENE E.R. ZAFFARONI, Los codigos penales latino americanos, Buenos Aires, 1978. (6) Sin da ora è bene sottolineare che taluni studi effettuati da R. O’ Regan sono fondamentali per ricostruire la storia del codice Griffith, i nessi dello stesso col codice Zanardelli, e l’eredità del codice del Queensland: Sir Samuel Griffith’s Criminal Code, in Austr. Bar Rev., 1993, p. 141 ss.; The Migration of the Griffith Code, in ID., New Essays on the Australian Criminal Codes, Sydney, 1988, p. 103 ss.; Two Curiosities of Sir Samuel Griffith’s Criminal Code, in Crim. Law. Journ., 1992, vol. 16, p. 209 ss. (7) Cfr. R. SACCO, Introduzione allo studio del diritto comparato, Torino, ult. ed., passim. (8) Tra i codici penali misti così come definiti nel testo si può annoverare anche il co-


— 1054 — Fine ultimo della ricerca, ça va sans dire, la prospettiva di ricodificazione del nostro diritto penale (9); ma anche i possibili futuribili di un forse utopistico, certamente discutibile, ma non per questo inattuale, « diritto penale europeo ». Come si accennava, in questa prima parte del lavoro si tratterà solamente dell’impatto che il codice Zanardelli ha avuto sulla codificazione di common law. Si studierà così il solo formante legislativo. È chiaro peraltro che l’indagine verrà effettuata (pur in questa prima parte) tenendo comunque conto di taluni aspetti concernenti sia il formante dottrinale che quello giurisprudenziale. Essi, infatti, sono già stati esplorati da chi scrive a sufficienza per poterne tenere conto « sullo sfondo » di una discussione dedicata per ora ex professo al solo formante legislativo. Una seconda parte del lavoro, da pubblicarsi nel prossimo futuro, concernerà espressamente lo studio dei formanti dottrinale e giurisprudenziale, essendo volta soprattutto a vagliare l’impatto pratico, sulla law in action, delle derivazioni zanardelliane del codice del Queensland. Anticipazioni, pur approssimative e provvisorie, delle conclusioni cui si perverrà a seguito della stesura della seconda parte della ricerca, emergeranno già nel corso della presente prima parte, ed in particolare nel § 5, infra. 2. La genesi del codice penale del Queensland. — Ancora oggi, in Queensland, è vigente un codice penale emanato il 28 novembre 1899 ed entrato in vigore il 1o gennaio 1901. Il codice « Griffith » — così chiamato comunemente in omaggio al suo compilatore — avrebbe dovuto essere sostituito da un nuovo codice penale, che era stato approvato in via provvisoria nel giugno 1995 (10). Peraltro il « nuovo » codice penale del Queensland, al primo mutamento del quadro politico, è stato « accantonato », e per ora non entrerà certamente in vigore. Ciò significa che ancor oggi in uno stato australiano vige un codice che, come si accennava, era stato compilato anche sulla base del modello del codice penale italiano del 1889. Ma ancor prima di entrare nel vivo dei rapporti tra il codice Griffith ed il codice Zanardelli, vale la pena domandarsi come mai, sul finire dell’Ottocento, si sia pensato di codificare il diritto penale di un paese di common law come il Queensland. 2.1. Il diritto penale australiano (e del Queensland in particolare) verso la fine dell’Ottocento. — In Australia, i cui Stati allora non erano altro che colonie britanniche, l’assetto del diritto penale era assai simile a quello della stessa Inghilterra: in sostanza, un vero e proprio « caos » (11). A statutes scritti sparsi nelle leggi più disparate — e solo in parte « consolidati » negli anni Sessanta — si affiancava il mare magnum della common law. Trovare la soluzione giuridica di un caso concreto era cosa assai ardua e per pochi esperti, e la certezza del diritto non era altro che una chimera. Quanto al diritto penale del Queensland — solo dal 1859 colonia a sé, ed anteriormente parte del Nuovo Galles del Sud — nell’ultima decade del secolo scorso esso era formato da: a) oltre novanta statutes in vigore nel 1828 in Inghilterra ed estesi al Nuovo Galles del Sud ed alla Terra di Van Dieman con l’Act 9 Geo. IV. c. 83, s. 24 (molti dei quali da tempo abrogati in Inghilterra); b) i sette Criminal Law Consolidation Acts del 1865 (29 Vic. Nos. 3, 4, 5, 6, 7, 11, e 13); c) numerose disposizioni sparse negli statutes (quasi centocinquanta) della colonia. Non poche delle norme in vigore erano state originariamente emanate nel Nuovo Galles dice penale di Malta del 1854, tratto in gran parte dal codice napoletano del 1819 ed anche dal diritto di common law, ed in particolare da quello scozzese, ancor più che da quello inglese: su tale codice chi scrive ha svolto una ricerca che attende una stesura definitiva. (9) Sull’importanza degli studi comparatistici nella fase di elaborazione di riforme ed in particolare nella fase di « ricodificazione » cfr. soprattutto G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Note sul metodo della codificazione penale, in questa Rivista, 1992, p. 385 ss. (10) Queensland, Criminal Code, Act No. 37 of 1995 [Assented to 16 June 1995]. (11) Di « caos » parlava forse il più eminente penalista inglese del secolo scorso, paragonando tale stato del diritto penale inglese a quello ben diverso dell’India, colonia nella quale il diritto penale era stato codificato da oltre un decennio: J.F. STEPHEN, Codification in India and England, in Fortnightly Rev., 1872, vol. 18, p. 654.


— 1055 — del Sud prima della separazione nel 1859, il che rendeva ancor meno agevole il reperimento e l’interpretazione delle stesse (12). Così avrebbe succintamente descritto il jus criminale del Queensland Sir Samuel Griffith nel 1897: il diritto penale scritto del Queensland (a parte le disposizioni imperiali di applicazione generale) è sparso in quasi duecentocinquanta statutes, mentre la porzione non scritta del diritto penale, che forma una grandissima parte di esso, può solo reperirsi nei libri degli scrittori della materia del diritto penale dell’Inghilterra, o nelle decisioni delle corti di giurisdizione penale (13). Confrontando il diritto penale del Queensland con alcuni codificati sistemi europei del tempo, il primo poteva richiamare alla mente una vecchia impolverata soffitta in cui tutto era malamente accatastato, mentre i secondi evocavano immagini di salotti raffinati, puliti ed eleganti, ove ogni mobile e soprammobile si trovava al suo posto. 2.2. La codificazione del diritto penale nei paesi di common law: i primi passi. — La descritta caotica situazione del diritto penale nei paesi di common law spinse non pochi giuristi angloamericani, durante l’intero corso dell’Ottocento, a teorizzare dapprima ed a mirare alla pratica realizzazione di codici penali poi. È noto che il primo pensatore ad elaborare una compiuta teoria della codificazione (non solo, ma anche penale) fu — a cavallo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento — l’inglese Geremia Bentham, il quale, a quanto pare, addirittura coniò lo stesso termine codification. Bentham si propose quale « codificatore » a vari regnanti e autorità politiche del tempo, ma senza successo. Le sue dottrine ed i progetti di codici che realizzò restarono peraltro quali punti di riferimento cui si sarebbero ispirati codificatori sia continentali (si pensi alla stessa codificazione napoleonica del primo Ottocento (14)), che di common law (15). Tra i primi seguaci di Bentham possiamo annoverare l’americano Edward Livingston, il quale negli anni Venti realizzò un progetto di codificazione penale per la Louisiana decisamente improntato alle concezioni benthamiane. L’ideale espresso da tali concezioni era principalmente quello illuministico della certezza del diritto, da realizzarsi attraverso la predisposizione di testi normativi assai articolati e caratterizzati dalla coerenza e compattezza sistematica. Non si trattava dunque, né nel caso di Bentham né in quello di Livingston, di semplici « consolidazioni » di materiali normativi più o meno preesistenti (16). Le consolidazioni avevano caratterizzato da tempo la storia del diritto penale europeo, e avrebbero avuto diffusione in futuro soprattutto in alcuni paesi anglosassoni. Esse erano peraltro lontane dalle concezioni benthamiane perché non potevano rappresentare strumenti adeguati alla realizzazione dell’ideale della certezza del diritto. Una consolidazione non avrebbe mai potuto godere della organicità sistematica di un codice, e, in particolare in materia penale, essa non avrebbe mai potuto contenere una parte generale, indispensabile strumento per garantire una razionale comprensione ed interpretazione delle norme incriminatrici della parte speciale. Nell’ambito di una consolidazione, il giudice avrebbe mantenuto (12) Per un quadro più dettagliato cfr. S.W. GRIFFITH, A Digest of the Statutory Criminal Law in Force in Queensland on the First Day of January, 1896, Brisbane, 1896, p. III ss. (nella lettera all’Attorney-General che funge da Presentazione del Digest). (13) S.W. GRIFFITH, An Explanatory Letter, cit., p. IV. (14) Sull’influenza che il pensiero di Bentham ebbe sui compilatori del code pénal del 1810 cfr. A. CHAUVEAU e F. HÉLIE, Théorie du code pénal1, Paris, s.d., t. I, p. 19. (15) Sul Bentham codificatore cfr. soprattutto A. CAVANNA, Storia del diritto moderno in Europa. Le fonti e il pensiero giuridico, vol. I, Milano, 1979, p. 605. Per riferimenti ulteriori rinvio anche al mio Dalla judge-made law al criminal code. Progetti di codici penali nei paesi di common law, tra istanze dottrinali e giurisprudenziali, in questa Rivista, 1992, p. 939 e nt. 62. (16) Sulla distinzione tra consolidazioni e codificazioni cfr. tra gli altri G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna, vol. I, Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna, 1976, passim; M.E. VIORA, Consolidazioni e codificazioni, Torino, 1967. V. ora, in ambito penalistico, V. MILITELLO, Il diritto penale nel tempo della « ricodificazione », in questa Rivista, 1995, p. 758 ss.


— 1056 — una ben più consistente fetta di potere, e le norme penali sarebbero state frutto più dell’apporto creativo del magistrato che di una automatica « lettura » della legge. Secondo Bentham, questo potere creativo dei giudici era particolarmente intollerabile in materia penale, ove la creazione giudiziale di una legge a fatto avvenuto, con conseguente punizione del « colpevole », comportava in sostanza un’applicazione retroattiva della legge penale. In questo senso, gli uomini venivano trattati come gli animali: infatti, anche il cane viene bastonato dal padrone solo dopo aver fatto qualcosa di male, ed in questo modo impara a non rifare ciò che gli è costato la bastonata. Così operava, secondo Bentham, la judge-made law nei confronti degli esseri umani (17). Il System of Penal Law compilato per la Louisiana da Livingston mirava ad evitare simili inconvenienti tipici della common law o anche delle consolidazioni. Esso comprendeva un codice penale sostanziale, un codice di procedura penale, un codice penitenziario, ed un conclusivo « libro delle definizioni », destinato a contenere una serie di definizioni valide per l’intero contesto codicistico (18). Il principio di legalità e l’assoluta sottoposizione dei giudici alla legge era enfatizzato particolarmente nell’ambito del codice penale sostanziale, che conteneva anche una dettagliata ed interessante parte generale (19). Circa un decennio dopo l’esperimento di Livingston — la cui opera peraltro rimase soltanto un pur apprezzato (20) progetto — un altro tentativo di codificazione fu attuato dall’altra parte del mondo, in India. Fu in particolare Thomas Babington Macauley, il celebre storico ed erudito inglese, ad occuparsi della redazione di un progetto di codice penale per la colonia. Anch’egli era convinto assertore delle teorie benthamiane, e realizzò un progetto di codice (nel 1837) che attuava con grande perizia e coerenza tali concezioni. Anche il progetto di Macauley, come quello di Livingston, conteneva una esaustiva parte generale, e perseguiva il fine di vincolare il più possibile i giudici alla lettera della legge, questa volta non attraverso l’utilizzo di un « libro delle definizioni », ma mediante l’inserzione, in calce alle disposizioni più problematiche, di esempi pratici ad illustrazione di esse e della loro concreta sfera applicativa (21). Il codice di Macauley rimase allo stadio di progetto per oltre vent’anni, per poi divenire, con qualche modificazione, il codice penale indiano del 1860. L’Indian Penal Code fu codice molto importante, e funse da modello per la codificazione penale di gran parte delle colonie britanniche, soprattutto quelle orientali ed africane (22). Come si accennava, esso consisteva di qualcosa di molto più complesso ed articolato di (17) J. BENTHAM, Vue Génerale d’un Corps Complet de Legislation, in Traité de Legislation Civile et Pénale, in Oeuvres de J. Bentham (raccolte da E. DUMONT), t. I, p. II, p. 367. (18) Cfr. l’intero lavoro ripubblicato in E. LIVINGSTON, The Complete Works of Edward Livingston on Criminal Jurisprudence, vol. II, New York, 1873. (19) Non va dimenticato che la Louisiana era originariamente sistema di civil law, e pian piano divenne sistema di tipo « misto ». Livingston viene peraltro ricordato come uno dei pionieri della codificazione del mondo della common law, essendo egli stato educato al diritto in un paese di common law (era di New York): cfr. per tutti S.H. KADISH, Codifiers of the Criminal Law: Wechsler’s Predecessors, in Columbia Law Rev., 1978, vol. 78, p. 1098 ss., il quale descrive Livingston come uno dei « predecessori » di Herbert Wechsler, principale artefice negli anni ‘60 del Model Penal Code americano. Certo era proprio della stessa teoria di Bentham il ripudio della common law come legge non scritta elaborata volta per volta dai giudici, in favore della legge codificata dal legislatore con esclusione di poteri creativi in capo al giudice. I principali seguaci di Bentham, anche nell’ambito di sistemi inequivocabilmente « di common law », avrebbero seguito sul punto l’insegnamento di Bentham e dello stesso Livingston. (20) Sul progetto e per un elogio dello stesso, nonché per riferimenti ulteriori, cfr. S.H. KADISH, op. cit., p. 1099 ss. (21) Va precisato che anche Livingston, nel suo progetto, fece uso pur sporadico di esempi: conf. S.H. KADISH, op. cit., p. 1102. (22) Sul codice elaborato da Macauley e sulle sue vicissitudini e contenuti, cfr. ancora S.H. KADISH, op. cit., p. 1106 ss., cui si rinvia per ulteriori riferimenti. Da ultimo v. poi K.J.M. SMITH, Macaulay’s ’Utilitarian’ Indian Penal Code: An Illustration of the Accidental Function of Time, Place and Personalities in Law Making, in Legal History in the Making (a cura di W.M. GORDON e T.D. FERGUS), London e Rio Grande, 1991, p. 145 ss.


— 1057 — una semplice consolidazione del diritto penale (statutario e non) inglese, ed un simile modello di codice, assai vicino all’ideale benthamiano, era quanto mai adatto alle colonie. Ciò per vari motivi: nelle colonie si voleva imporre una legge inglese che non era spesso patrimonio delle Kulturnormen locali, ed il modo migliore per far applicare tale legge ai giudici, talora indigeni e non sempre preparati giuridicamente (spesso non avevano neppure studiato il diritto), era di renderla il più possibile certa ed insuscettibile di diverse interpretazioni. L’autorità della legge (inglese) poteva insomma affermarsi solo attraverso l’impiego di una legge « autosufficiente », che non avesse bisogno dell’interpretazione dei giudici. Paradossalmente, dunque, l’unico modo per imporre la legge inglese alle colonie era quello di elaborare dei corpi normativi che, pur rispecchiando nei contenuti il diritto di quella nazione, snaturavano l’essenza di common law caratteristica di tale sistema giuridico. Il diritto penale codificato delle colonie veniva così a caratterizzarsi non raramente come diritto di tipo « misto », dal momento che, pur attingendo alla fonte della common law, esso si basava su di una codificazione dai caratteri più continentali che britannici, più da paesi di civil law che da paesi di common law. Ciò era anche dovuto al fatto che nelle colonie era assai meno facile avere a disposizione tutto il materiale cartaceo di cui si sarebbe dovuto servire un giurista inglese. Un giudice londinese, per risolvere certe controversie (penali), non avendo a disposizione un codice, doveva consultare decine di grossi volumi di decisioni, nonché gli scritti dei più importanti criminalisti del presente e del passato. Il suo collega indiano, o di qualche giurisdizione altrettanto o ancor più remota, avrebbe avuto difficoltà ben maggiori nel reperire tutti quei volumi e dunque nel fornire un’adeguata decisione del caso. Così, la compilazione di un codice penale il più esauriente e chiaro possibile rappresentava una insuperabile necessità. Ecco perché nella maggior parte delle colonie il modello codificatorio adottato fu quello benthamiano, in fondo abbastanza simile a quello europeo-continentale, anche se più dettagliato. Talora il codice coloniale era assai chiaro nel « rompere » definitivamente i ponti con la common law — i cui sviluppi sarebbero stati comunque difficilmente conoscibili in tali remote giurisdizioni in un mondo tecnologicamente ancora arretrato — sancendo l’indipendenza dell’interpretazione della norme del codice dai principi di common law e dalla loro evoluzione. In questo senso era orientato ad esempio il progetto di codice penale realizzato attorno al 1870 da Wright per la Giamaica, progetto nato per fungere da « codice penale modello » per tutte le colonie — visto che il codice di Macauley cominciava ad invecchiare — ma poi adottato, con qualche modifica, solo in un paio di giurisdizioni minori (23), e per il resto dimenticato per oltre un secolo, sino ad una recente rivalutazione (24). Il progetto Wright, oltre ad allontanarsi definitivamente dalla common law della madrepatria (25), conteneva una ricca ed articolata parte generale, e si segnalava per l’approccio peculiarmente dottrinale ed assai poco « anglosassone » alla materia penale. Del codice penale indiano adottava l’utilizzo delle Illustrations, ossia di esempi che dovevano orientare il giudice, e più in generale il lettore del codice, alla corretta interpretazione delle norme più complesse. In Inghilterra, nel frattempo, il partito della codificazione, pur rappresentato da illustri esponenti, trovava non poche difficoltà ad affermarsi con risultati tangibili. I grandi sforzi compiuti nella prima metà dell’Ottocento da illuminati uomini politici ispirati agli ideali benthamiani (26), pur mirando molto in alto, non portarono ad altro che ad una serie di Con(23) Ad es. in British Honduras, Tobago e S. Lucia nei Caraibi, e nella Gold Coast (ora Ghana) in Africa. (24) Cfr. M.L. FRIEDLAND, R.S. Wright’s Model Criminal Code: A Forgotten Chapter in the History of the Criminal Law, in Oxford Journ. of Legal. Stud., 1981, vol. 1, p. 307 ss.; ID., Codification in the Commonwealth: Earlier Efforts, in Criminal Law Forum, 1990, vol. 2, p. 148 ss. (25) Cfr. s. 8, (iii.) del codice: « Nell’interpretazione di questo codice, una corte non sarà vincolata da alcuna decisione od opinione sull’interpretazione di una qualsiasi altra norma o della common law in ordine alla definizione di un qualsiasi reato o di un qualsiasi elemento di qualsiasi reato ». Veniva abbandonata anche la regola della « interpretazione restrittiva » degli statuti tradizionale della common law in favore di un’interpretazione ampia e volta a dare effetto agli scopi della legge: s. 8, (ii.). (26) Si pensi a Sir Samuel Romilly, Lord Henry Brougham ed a Sir Robert Peel, i quali (sia pur con accenti diversi) mirarono comunque ad una razionalizzazione del diritto


— 1058 — solidation Acts realizzati negli anni Sessanta. Si trattava dunque di misure che si muovevano nell’ottica opposta rispetto alle concezioni di Bentham e dei suoi adepti. Successivamente fu determinante l’apporto del più grande penalista inglese dell’Ottocento, Sir James Fitzjames Stephen, il quale si batté con impeto a favore dell’istanza codificatoria (27). Egli quasi riuscì nell’intento di dare un codice penale all’Inghilterra. Nel 1878 realizzò — sulla base di un Digest delle leggi penali inglesi da lui stesso compilato l’anno precedente — un progetto di codice penale, che fu proposto al Parlamento come Bill, ma non venne approvato (28). Tale progetto fu peraltro sottoposto ad un accurato esame da parte di una commissione reale, che l’anno dopo pubblicò un nuovo progetto di codice corredato da un importante Report introduttivo (29). Nello stesso anno (30) e nel 1880 (31) dei disegni di legge, largamente basati su tale progetto del 1879, furono presentati al Parlamento ma non ebbero successo (32). E successivamente altri progetti più o meno uguali all’ultimo ebbero la stessa sorte. I progetti menzionati erano veri e propri codici penali, e non mere consolidazioni dell’esistente. Peraltro, essi rappresentavano forse una via di mezzo tra il codice « puro », inteso nel senso benthamiano, e la semplice consolidazione. Sul punto in questa sede non ci si può soffermare come si dovrebbe (33). Si può peraltro notare, ad esempio, che i codici derivanti dal progetto Stephen non intendevano abolire l’intera common law, che restava operante quantomeno nel settore delle cause di giustificazione e più in generale delle esimenti (34). Non solo: il codice Stephen non intendeva ridurre più di tanto il potere interpretativo dei giudici, il metodo applicativo del codice restando quello tipico dei sistemi di common law, anche se veniva vietata ogni creazione giurisprudenziale di nuovi reati (35). Ancora, sotto il profilo della tecnica legislativa, il codice Stephen — anche se in minor misura l’originale progetto del 1878 — si avvicinava meno dei codici coloniali sopra menzionati ad un codice continentale, mantenendo un’impostazione casistica — persino, talvolta, nell’ambito dei principi di parte generale — tipica della tradizione di common law e sconosciuta alla tradizione continentale. penale nella prima metà dell’Ottocento. Tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta varie commissioni reali si occuparono della risistemazione e della riforma del diritto penale, un lavoro mastodontico che portò alla realizzazione di una serie di Reports, pubblicati sui Parliamentary Papers (ripubblicati ora in più di 2000 pagg. in tre volumi, il 3o, il 4o, ed il 5o, sotto il comune titolo Criminal Law, dalla Irish University Press, nel 1971). La montagna, purtroppo, partorì il topolino: unico risultato tangibile, i Consolidation Acts del 1861, di cui al testo. Sui personaggi citati e sul lavoro delle commissioni reali vi è ampia bibliografia. Accenni in S.H. KADISH, op. cit., pp. 1123-1124; cfr. poi R. CROSS, The Reports of the Criminal Law Commissioners (1833-1849) and the Abortive Bills of 1853, in Reshaping the Criminal Law (a cura di P. GLAZEBROOK), London, 1978, p. 5 ss. Si veda inoltre D.H. BROWN, The Genesis of the Canadian Criminal Code of 1892, Toronto, Buffalo, London, 1989, p. 12 ss., cui si rinvia per ulteriori riferimenti. (27) Per tutti, su Stephen e sulla sua influenza sul diritto e sulla codificazione penale, cfr. K.J.M. SMITH, James Fitzjames Stephen: Portrait of a Victorian Rationalist, Cambridge, 1988, cui si rinvia per riferimenti. Per il penalista è particolarmente proficua la lettura di S.H. KADISH, op. cit., p. 1121 ss. (28) Bill 178 del 1878 (in Parliam. Papers). (29) Report of the Royal Commission Appointed to Consider the Law Relating to Indictable Offences: With an Appendix Containing a Draft Code embodying the Suggestions of the Commissioners, London, 1879. (30) Bill 117 e Bill 170 del 1879. (31) Bill 2 del 1880. (32) Si noti che nel frattempo anche privati cittadini si impegnavano in pur isolati e velleitari sforzi codificatori: un esempio, il progetto di E.D. LEWIS, A Draft Code of Criminal Law and Procedure, London, 1879, sfociato nel Bill 47 del 1880. Su tale iniziativa cfr. l’interessante studio di K.J.M. SMITH and S. WHITE, An Episode in Criminal Law Reform through Private Initiative, in The Life of the Law — Proceedings of the Tenth British Legal History Conference Oxford 1991 (a cura di P. BIRKS), London and Rio Grande, 1993, 235 ss. (33) Cenni nel mio Dalla judge-made law, cit., p. 968 ss. (34) Cfr. Report (1879), cit., p. 10 ss., ove si dà conto di questa scelta. (35) Sul punto cfr. Report (1879), cit., p. 9 s., in relazione alla s. 5 del progetto.


— 1059 — Tuttavia il progetto Stephen, se approvato, avrebbe costituito un importante passo avanti nella razionalizzazione del diritto inglese. Esso conteneva un’ampia parte generale — seppur meno elaborata, ad es., di quella del codice Wright — ed una ben costruita parte speciale, nell’ambito della quale erano stati superati certi arcaismi tipici del diritto penale inglese e le singole fattispecie avevano trovato una formulazione più felice che nel passato. Purtroppo esso non divenne mai legge, anche per l’ostracismo dell’ambiente giudiziario inglese, legato ad una tradizione che faceva fatica a lasciarsi alle spalle. Ma gli sforzi del famoso giudice inglese non restarono vani. Nel mondo di common law, ed in particolare nelle numerosissime colonie inglesi, il « progetto Stephen » (36) ebbe vasta eco. Sul modello Stephen ad esempio furono compilati il codice del Canada (1892) (37) e quello della Nuova Zelanda (1893) (38). E, come meglio vedremo, la stessa codificazione penale del Queensland trovò nel progetto inglese il principale punto di riferimento. Nel frattempo, oltre oceano si era scatenata una famosa battaglia dottrinale, che vedeva impegnati — come nel continente Thibaud e Savigny (39) — da una parte David Dudley Field e dall’altra James Carter, il primo irriducibile alfiere ed il secondo strenuo oppositore della codificazione (40). Nessuno — come del resto neppure Savigny da noi — osava peraltro opporsi alla codificazione in materia penale. Fu proprio Field a realizzare, tramite l’ausilio di due collaboratori, cui va in realtà attribuita la vera paternità dell’opera (41), un codice penale per lo Stato di New York, approvato solo nel 1881 ma sulla base di un progetto approntato tra il 1864 ed il 1865 (42). Tale codice, talora bistrattato dai critici (43), non rappresentava certo una realizzazione piena del modello codicistico benthamiano puro — i compilatori avevano dovuto scendere a patti con le esigenze della prassi — ma costituiva certamente qualcosa di molto diverso rispetto ad una mera consolidazione. Conteneva una succinta, ma armoniosa parte generale, ed anche sul piano dei principi di interpretazione sembrava allontanarsi dalle più viete regole tradizionali della common law (44), mentre i reati di legge non scritta venivano abrogati. Il progetto realizzato negli anni Sessanta era per verità certamente più consono alle aspirazioni benthamiane rispetto al prodotto finale, ed i compilatori si erano avvalsi anche di interessanti ricerche comparatistiche sui codici europei (45). (36) Con tale terminologia non sempre si allude alla stessa cosa: infatti, come si è visto, più di uno furono i progetti derivati dal primo Draft elaborato da Stephen nel 1878. La fonte originaria è comunque la medesima. (37) Sulla cui genesi cfr. soprattutto D.H. BROWN, op. cit. (38) Cfr., sulla storia del codice penale della Nuova Zelanda, S. WHITE, The Making of the New Zealand Criminal Code Act of 1893: A Sketch, in Vict. Univ. of Wellington Law Rev., 1986, vol. 16, p. 353 ss. (39) Sulla quale v. ora in Italia A.F.J. THIBAUT-F.C. SAVIGNY, La polemica sulla codificazione (a cura di G. Marini), Napoli, 1992. (40) Cfr. sul punto S.H. KADISH, op. cit., pp. 1131-1132, ed ivi riferimenti. (41) Si trattava di Curtis Noyes e B. V. Abbott: S.H. KADISH, op. cit., pp. 1131-1132. (42) The Penal Code of the State of New York. Reported Complete by the Commissioners of the Code, Albany, 1865. (43) Riferimenti nel mio Dalla judge-made law, cit., p. 942. A quel tempo non avevo ancora avuto l’opportunità di esaminare personalmente il progetto del 1865, e mi basavo su tali pur autorevoli opinioni. (44) Cfr. § 10: « La regola della common law che gli statuti penali debbono essere interpretati restrittivamente, non ha applicazione in questo codice. Tutte le sue disposizioni debbono essere interpretate secondo il significato appropriato dei suoi termini, al fine di dare effetto ai suoi obiettivi e di promuovere la giustizia ». In base al § 2 veniva sancito il principio di legalità: ogni reato di common law sarebbe dunque stato abolito. Queste citazioni concernono il progetto del 1865 e non il codice approvato nel 1881, nell’ambito del quale peraltro tali disposizioni permangono. (45) Cfr. la Preliminary Note a cura dei commissari del codice premessa al progetto del 1865: The Penal Code, cit., p. III ss. (in cui si evidenziano gli intenti dei compilatori, ben più ambiziosi, e la loro rassegnazione a doversi accontentare di un lavoro meno innovativo ma più « facile da digerire » e dunque con maggiori chances di venire approvato); si vedano anche le interessanti note che seguono ogni articolo proposto, da cui risulta la derivazione


— 1060 — Il codice Field, pur perfettibile, funse da modello per numerose codificazioni penali americane, compreso l’importante codice penale della California del 1871 (46). Da questi importanti tentativi di codificazioni penali ottocenteschi si svilupparono quasi tutte le esperienze codificatorie di common law sino alla metà del Novecento circa (47). Lo stesso codice Griffith — che peraltro assumerà un proprio speciale ruolo nella storia della codificazione penale dei paesi di common law — attingerà a due dei codici menzionati, oltre che al nostro codice del 1889. 2.3. Sir Samuel Walker Griffith e la codificazione del diritto penale del Queensland. — Samuel Walker Griffith (48) era nato in Galles nel 1845, ed emigrò al seguito della famiglia (il padre era un pastore protestante) in Australia nel 1853. Dopo un periodo trascorso nel Nuovo Galles del Sud, la famiglia Griffith si trasferì a Brisbane, nel Queensland, un anno dopo la separazione di tale colonia dal Nuovo Galles del Sud (avvenuta nel 1859). Il giovane Samuel si distinse particolarmente negli studi, e vinse una borsa di studio che gli permise di passare oltre un anno in Europa (tra la fine del 1865 e l’inizio del 1867), e così di affinare la sua conoscenza della lingua italiana. Successivamente divenne avvocato ed intraprese la carriera politica, nell’ambito della quale ricoprì varie cariche (tra cui quella di Attorney-general), sino a diventare premier del Queensland nel 1883. Griffith era un liberale, con vaghe tendenze radicali e socialistoidi. Fu promotore di importanti riforme, e su suo impulso venne, sia pur qualche tempo dopo (nel 1909), fondata l’Università del Queensland. Nel 1893 Griffith assunse la più alta carica nella magistratura del Queensland, divenendo Chief Justice. Dieci anni più tardi, quando si insediò per la prima volta la High Court federale, egli, che della federazione australiana — e della stessa Costituzione federale — era stato uno dei più importanti artefici, fu nominato primo Chief Justice dell’Australia. Rimase in quella carica per ben sedici anni, sino al 1919. L’anno dopo morì. Griffith fu uomo poliedrico ed erudito, ma si distinse soprattutto come giurista. Nella sua veste di Chief Justice del Queensland egli si rese conto che il diritto di tale paese aveva bisogno di una razionalizzazione. Ciò valeva a maggior ragione per la materia penale, dal momento che in tale settore le esigenze di certezza del diritto erano, come ovvio, particolarmente sentite, mentre la reale situazione di tale diritto nel Queensland era quella sopra descritta. Secondo le parole dello stesso Griffith, « deve sembrare strano alla mente ordinaria che nel presente stadio della civilizzazione una grande branca del diritto, da cui ciascuno è vincolato, e che si ritiene essere definitivamente conosciuta ed assodata, non sia messa per dello stesso; ed infine le appendici alla fine dell’opera, una delle quali concerne A Brief Account of the Principal Penal Codes of Continental Europe, l’estratto da un resoconto elaborato nel 1852 e pubblicato nel 1854, ad opera di H.S. SANFORD, in cui si descrivono i codici più importanti d’Europa del tempo. La seconda appendice — assai importante — concerne un elenco delle principali Authorities da cui è stato derivato il progetto. (46) Revised Laws of the State of California; in Four Codes: Political, Civil, Civil Procedure and Penal. Penal Code, Sacramento, 1871 (ediz. contenente note di spiegazione dei vari articoli e delle loro fonti ad opera dei componenti della commissione che lo compilò). (47) Con gli anni Cinquanta iniziò l’avventura del Model Penal Code americano, poi approvato nel 1962, che, pur non rompendo in toto col passato, ha segnato l’inizio di una nuova era per la codificazione penale nei paesi di common law: su tale codice, oltre al mio Dalla judge-made law, cit., p. 942 ss., G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Note sul metodo, cit., p. 403 ss. (48) Su Griffith cfr. soprattutto R.B. JOYCE, Samuel Walker Griffith, St. Lucia, London, New York, 1984. V. poi ID., voce Griffith, Sir Samuel Walker, in Australian Dictionary of Biography, vol. 9 (1891-1939), 1983, p. 112 ss.; R.K. FORWARD, Samuel Griffith, Melbourne, 1964; A. DOUGLAS GRAHAM, The Life of the Right Honourable Sir Samuel Walker Griffith, Brisbane, 1939; J.C. VOCKLER, Sir Samuel Walker Griffith, (tesi dattiloscritta), 1953; C.L. PANNAM, Dante and the Chief Justice, in Austral. Law Journ., 1959, vol. 33, p. 290 ss.; ID., The Radical Chief Justice, ivi, 1964, vol. 37, p. 275 ss.; Sir H. GIBBS, Sir Samuel Walker Griffith Memorial Lecture 20 April 1984, in Austral. Law News, May 1984, vol. 19, p. 24 ss.


— 1061 — iscritto in tale forma da renderla conoscibile ad ogni persona intelligente capace di leggere » (49). Un codice penale era quello che ci voleva. D’altra parte, si è visto che in tutto il corso dell’Ottocento la spinta per la codificazione, nei paesi di common law, aveva trovato realizzazione pratica soprattutto, se non esclusivamente, nella materia penale. E Griffith, come risulterà dai lavori preparatori del suo codice, era a conoscenza di tali progressi nel mondo anglosassone e, allo stesso tempo, delle insormontabili difficoltà che aveva incontrato in Inghilterra la codificazione penale progettata soprattutto da James Fitzjames Stephen. Fu proprio nell’anno in cui Griffith assunse la carica di capo della magistratura del Queensland (il 1893) che — dietro richiesta dell’allora primo ministro Sir Thomas McIlwraith — il Nostro intraprese il compito di codificare il diritto penale del Queensland. Il modus procedendi di Griffith fu assai simile, e non a caso, a quello adottato da Stephen nella madrepatria. Sir Samuel decise di cominciare il lavoro compilando un « digesto » ove venivano condensate e sistemate tutte le fattispecie penali di legge scritta (statutory) vigenti nel Queensland. Nel giugno del 1896 il Digest of the Statutory Criminal Law in Force in Queensland on the First Day of January, 1896 era pronto, e venne sottoposto all’attenzione dell’Attorney-General e pubblicato (50). Nella lettera all’Attorney-General anteposta all’opera a mo’ di presentazione, Griffith precisava tra l’altro che il numero totale delle fattispecie incluse nel digesto ammontava ad oltre un migliaio. La lettera si concludeva nel modo seguente: Penso che tutti i lettori del digesto, sia che ritengano l’adozione di un codice desiderabile, e, se desiderabile, fattibile, oppure no, converranno nella conclusione che o una codificazione del diritto penale o una consolidazione delle leggi penali scritte è davvero necessaria, e, inoltre, che non è desiderabile che le norme penali siano sparpagliate, come accade ora, in maniera quasi casuale nel libro degli statuti (51). Ma qual era l’idea che aveva Griffith in relazione all’alternativa tra un codice ed una consolidazione? Certamente egli ne conosceva bene le differenze. Scrisse infatti sul tema: Dovrebbe rimarcarsi che una codificazione è cosa assai diversa da una consolidazione. La seconda è un lavoro relativamente facile ma laborioso, consistendo meramente nella raccolta e nella sistemazione ordinata delle previsioni statutarie esistenti. La codificazione implica tutto ciò, ma implica altresì una formulazione completa di tutti i principi e regole di diritto applicabili in materia (52). Soggiungeva Griffith che nella compilazione di un codice si sarebbe dovuto procedere altresì ad una semplificazione del materiale normativo esistente e ad una riforma delle parti più carenti del diritto vigente (53). Alla mera consolidazione egli preferiva certamente, di gran lunga, la codificazione, ed anzi si impegnò a tal punto in tal senso da riuscire, nel giro di pochi anni, a dare un codice penale al Queensland. Che Griffith credesse fino in fondo all’importanza di un codice penale emergerà molto chiaramente nella lettera che invierà, ultimata la prima stesura del progetto nell’ottobre 1897, all’Attorney-General, presentandogli il progetto stesso. In tale lettera, Sir Samuel riportava testualmente alcuni brani del Report compilato nel 1879 dalla commissione reale (49) An Explanatory Letter, cit., p. IV. (50) A Digest, cit. (51) A Digest, cit., p. VIII. (52) Cfr. S.W. GRIFFITH, Criminal Responsibility: A Chapter from a Criminal Code, in Proceedings of the Australasian Association for the Advancement of Science, 12 Jan. 1898, p. 896 (si tratta di una conferenza tenuta da Griffith presso tale associazione in quel giorno). (53) Cfr. la lettera del giugno 1896, in A Digest, cit., p. VII ss.


— 1062 — che si era occupata della revisione del progetto Stephen — e di cui aveva fatto parte lo stesso Stephen —, brani in cui si enfatizzava l’importanza di un codice penale e si controbattevano puntualmente e decisamente gli argomenti contra addotti di solito dagli oppositori della codificazione (54). Anzi: l’idea di codice condivisa da Griffith era ancor più vicina al modello benthamiano di quella adottata da Stephen e dai suoi colleghi in Inghilterra. Il Chief Justice del Queensland, invero, dopo aver riportato l’opinione dei compilatori inglesi, menzionava anche le critiche rivolte al progetto Stephen dal Lord Chief Justice dell’Inghilterra Sir A. Cockburn, il quale aveva rilevato (55) che la scelta dei commissari di lasciare in vita tutte le esimenti di common law oltre quelle espressamente previste dal progetto era « in contraddizione con qualsiasi idea della codificazione del diritto » (56). Griffith mostrava di aderire almeno in parte alla critica formulata da Cockburn, e, come si vedrà, nel suo codice cercò di contemplare tutte le possibili cause giustificanti e scusanti previste dalla common law e non solo da essa. Ma è soprattutto in relazione alla concezione di quella che oggi chiamiamo la parte generale che Griffith, più di Stephen, poteva considerarsi un discepolo di Bentham. Per Griffith, come si accennava, un codice doveva contenere un’esposizione dei principi e delle regole fondamentali concernenti la responsabilità penale, in tal modo invadendo in pieno quello che sino ad allora era stato il regno incontrastato della legge non scritta (common law), e nel cui ambito il progetto Stephen faceva solo sporadiche incursioni. In questo senso, Griffith era più un seguace di Livingston, Macauley e Wright (e dunque di Bentham), che di Stephen. Ma, come vedremo, in questa prospettiva egli trasse maggiore ispirazione dal codice Zanardelli che dalle esperienze codificatorie del mondo di common law. Sulla base di queste convinzioni, Griffith — una volta terminata la redazione del digesto — si mise alacremente al lavoro (57). Nell’ottobre del 1897 il progetto — che conteneva sia un codice penale sostanziale che un codice di procedura penale riuniti in un solo documento normativo — era pronto. Nel dicembre dell’anno successivo fu nominata una commissione composta dallo stesso Griffith (presidente) e da dieci altri giureconsulti per una revisione del progetto. La commissione presentò il proprio progetto, corredato da un Report introduttivo, il 1o giugno 1899 (58). Gli emendamenti apportati al primo progetto erano stati pochi e di poca importanza. Seguì, dal settembre, la discussione nell’Assemblea Legislativa, che si imperniò soprattutto su taluni problemi sanzionatori. In ottobre il codice fu approvato, e ricevette sanzione sovrana il 28 novembre 1899. Il codice sarebbe entrato in vigore il 1o gennaio 1901. In sostanza, la versione definitiva del codice coincideva col progetto del 1897, con poche e non importanti alterazioni. Si può dire dunque che in pochi anni il Queensland si era dotato di un codice penale per merito e con le fatiche di un solo uomo: Sir Samuel Walker Griffith. Egli, in brevissimo tempo, aveva riportato ordine e razionalità nel sistema penale del Queensland. Paragonare il jus criminale di tale colonia prima e dopo la realizzazione del (54) An Explanatory Letter, cit., p. IV ss. (55) Ciò in una lettera datata 12 giugno 1879, pubblicata in H.C. Papers, 1878-79, v. 59, p. 233 ss. Lord Cockburn scrisse in realtà ben tre lettere sulla codificazione penale intrapresa da Stephen: su tali lettere, l’ultima della quali, apparsa di recente sulla scena del mercato librario antiquario, cfr. S. WHITE, Lord Chief Justice Cockburn’s Letters on the Criminal Code Bill of 1879, in Crim. Law Rev., 1990, p. 315 ss. (56) Cfr. An Explanatory Letter, cit., spec. p. VII. (57) Sulla storia della compilazione del codice Griffith cfr, soprattutto R.S. O’REGAN, Sir Samuel, cit. (58) Criminal Code Commission, Report of the Royal Commission on a Code of Criminal Law together with Proceedings of the Commission and Draft Criminal Code Bill and Criminal Code, Brisbane, 1899.


— 1063 — codice Griffith sarebbe stato — come è stato efficacemente notato (59) — « come paragonare il cosmo al caos ». Ciò valeva anche in relazione alla comparazione del diritto penale (codificato) del Queensland con quello delle altre colonie australiane dell’epoca: il Queensland fu infatti il primo Stato di quel continente ad avere un codice penale, mentre importanti Stati quali il Nuovo Galles del Sud ed il Victoria a tutt’oggi non sono ancora riusciti a darsi una codificazione penale. 3. I nessi tra il codice Zanardelli ed il codice « Griffith ». — È giunto il momento di affrontare il tema principale di questo studio. Come mai il codice Zanardelli influenzò la compilazione del codice penale del Queensland? E ancora: in che misura, ed in relazione a quali istituti il codice del Queensland è debitore del codice italiano del 1889? 3.1. I motivi di tale connessione. — Va subito evidenziato che è allo stesso Griffith che va attribuito l’utilizzo del codice Zanardelli quale fonte del codice del Queensland. Del resto, di ciò non vi sarebbe modo di dubitare, una volta appurato che il codice australiano fu sostanzialmente opera del solo Griffith. Ma come ebbe conoscenza del codice penale italiano del 1889? E perché ne fece largo uso nella compilazione del suo codice? Griffith, come si notava, conosceva bene la lingua italiana, che aveva perfezionato nel soggiorno-premio in Europa quando era studente. Era talmente appassionato della lingua e della letteratura classica italiana che, negli anni della maturità e della vecchiaia, avrebbe realizzato l’immane impresa di tradurre in inglese l’intera Divina Commedia ed altre opere di Dante (60). Condivideva questa sua passione con il suo amico Sir William MacGregor — anch’egli uomo di spicco nell’amministrazione di varie colonie britanniche — il quale già nel 1891 era in possesso di una copia del codice Zanardelli, codice di cui aveva grande ammirazione e di cui riteneva potersi servire nell’ambito della legislazione penale della Nuova Guinea, di cui era a quel tempo luogotenente-governatore. Nel 1894, trovandosi a Brisbane, MacGregor prestò a Griffith una copia del codice Zanardelli ed un piccolo dizionario italiano. Un paio di anni dopo, dall’Europa, scrisse a Griffith dicendogli che non occorreva che restituisse il codice perché in Italia mi sono procurato un’intera collezione di tutti i codici italiani. Quello italiano è a mio parere il migliore di tutti i codici penali, e dopo di esso viene il codice penale tedesco. Dubito che alcuno, eccetto tu, potrebbe riuscire a far adottare un codice in una colonia britannica; ed ho paura che anche tu avrai difficoltà a farlo passare (61). Griffith, come sappiamo, sarebbe riuscito nell’impresa nonostante le perplessità dell’amico. E soprattutto fece ampio uso del codice che MacGregor gli aveva inviato proprio al momento giusto: nel 1894 infatti Griffith aveva cominciato da poco ad occuparsi della codificazione penale del Queensland, e non aveva ancora realizzato il Digest, che avrebbe approntato solo due anni dopo. L’occasione che diede a Griffith la possibilità di conoscere il codice Zanardelli è dunque stata svelata da chi ha studiato la vita di MacGregor e di Griffith. Ed è pure evidente che la (59) O’REGAN, op. ult. cit., p. 147, parafrasando Stephen, citato supra, nt. 11. (60) Cfr. C.L. PANNAM, Dante, cit.: la fama del Griffith « poeta » non fu peraltro pari alla fama di Griffith « giurista ». Vi fu chi affermò che Griffith « era riuscito a rendere la poesia di Dante nel linguaggio ampolloso delle leggi del Parlamento »; ancora, con sarcasmo tipicamente anglosassone, Sir Julian Salomons disse che quando Griffith gli fece omaggio dell’opera, chiese allo stesso Griffith di dedicargli il libro specificando nella dedica che si trattava di un omaggio: questo perché, aggiunse, « non vorrei mai che qualcuno pensasse che ho preso in prestito il libro, ed ancor meno vorrei che qualcuno pensasse che l’ho comprato »: ivi, p. 292. (61) Cfr. soprattutto R.B. JOYCE, Sir William MacGregor, Melbourne, 1971, p. 215 s.


— 1064 — conoscenza della lingua italiana da parte di Griffith ha rappresentato un presupposto indispensabile per permettere a Sir Samuel di utilizzare proficuamente tale codice. Ma non furono questi i soli motivi che spinsero Griffith a fare così ampio uso del codice Zanardelli. Per approfondire il punto — determinante nello studio dei rapporti tra il codice del Queensland ed il codice Zanardelli — occorre soffermarsi brevemente sulle altre fonti di ispirazione cui attinse Griffith. Come dichiarato dallo stesso compilatore, le fonti da cui egli trasse spunto furono tre: il progetto Stephen (nella versione del Bill del 1880 e con l’ausilio del Report della Royal Commission del 1897); il codice dello Stato di New York (del 1881), ed il codice Zanardelli (62). Quanto al progetto realizzato dalla commissione presieduta da Stephen, Griffith scrisse di aver « liberamente attinto ai lavori di questi distinti giuristi, specialmente rispetto alla formulazione delle regole della common law ed alle definizioni dei reati di common law. D’altra parte — soggiungeva — sarebbe impossibile fare altrimenti per chiunque intraprendesse il compito di compilare un codice del diritto penale inglese » (63). Insomma: Griffith voleva dire che un pur valente Chief Justice di una remota e non importante colonia britannica non poteva, nell’accingersi a codificare il diritto penale del proprio paese, trascurare il progetto di codice penale redatto dal più famoso penalista inglese del secolo e che aveva rischiato di diventare legge nella madrepatria. Nella vicina Nuova Zelanda, d’altra parte, pochi anni prima il progetto Stephen era stato approvato con modificazioni di poco conto, e questo Griffith ben lo sapeva (64). Il mero utilizzo del progetto inglese non bastava peraltro a Griffith, giurista raffinato ed esigente, e personaggio di tale personalità da non potersi accontentare di « copiare » quanto realizzato in Inghilterra. Il Queensland si meritava qualcosa di ancor più sofisticato e, si potrebbe dire, « cosmopolita ». Ecco il motivo del ricorso a codici di remote giurisdizioni quali il codice di New York ed il codice Zanardelli. Ma non fu solo un anelito di « internazionalismo » che spinse Griffith ad utilizzare il codice americano e quello italiano. Quanto al codice di New York, v’è da dire che Sir Samuel aveva conosciuto David Dudley Field nel 1887, quando si trovava negli Stati Uniti. Ciò poteva averlo stimolato ad interessarsi del codice che — più o meno meritatamente — portava il nome dello stesso Field (65). Anche questa fu peraltro forse una « occasione », più che la vera causa dell’impiego del codice Field quale fonte di ispirazione. Ma allora quale altro motivo poteva aver spinto Griffith a studiare sia il codice di New York che, soprattutto, quello italiano, nel corso della compilazione del « suo » codice del Queensland? Alta era la considerazione che Sir Samuel aveva del codice italiano. Scrisse in proposito: Nel 1888 il Parlamento italiano approvò un codice penale, il risultato di lavori iniziati nell’anno 1862 e continuati da numerose commissioni parlamentari e reali sotto la guida di eminenti giuristi. Ho derivato grandissimo ausilio da questo codice, che, credo, è considerato, sotto molti aspetti, il più completo e perfetto codice penale esistente. Ho anche tratto grande aiuto dalla magistrale esposizione ministeriale (Re(62) An Explanatory Letter, cit., pp. IV e VII. (63) An Explanatory Letter, cit., p. IV. (64) Cfr. ancora An Explanatory Letter, cit., p. VII, ove Griffith sottolineava che in Nuova Zelanda il progetto Stephen, nella versione del Bill del 1880, era stato « adottato (...) con alcune modifiche di poco conto, che, tuttavia, non tenevano conto delle critiche di Sir A. Cockburn ». (65) Cfr. R.S. O’REGAN, Sir Samuel, cit., p. 145.


— 1065 — lazione) del Signor Zanardelli (66), che fu responsabile del codice durante l’approvazione parlamentare di esso avvenuta nel 1888 (67). Certamente il codice Zanardelli era un ottimo prodotto legislativo, largamente apprezzato in tutto il mondo (68). Ma ritengo che la particolare predilezione di Griffith per tale co(66) La relazione a cui Griffith allude è quella che Zanardelli presentò il 22 novembre del 1887 alla Camera, unitamente al progetto (noto come progetto Zanardelli del 1887) definitivo del codice, che fu discusso al Parlamento ed approvato come tale (il 17 novembre 1888 al Senato), dando mandato al Governo (mediante apposita commissione) di introdurre « nel testo quelle modificazioni che, tenuto conto dei voti del Parlamento, ravviserà necessarie per emendarne le disposizioni e coordinarle tra loro e con quelle degli altri Codici e Leggi, ci entro il 30 giugno 1889 » (artt. 1 e 3 l. 22 novembre 1888, n. 5801, Serie 3a, in GU, 26 novembre 1888). Le modifiche vi furono e non furono, a dir il vero, poche. Peraltro la relazione al progetto del 1887 è certamente documento di grande importanza. È assai ampia e dettagliata (da taluno fu definita « monumentale »: G. CRIVELLARI, Introduzione al commento del nuovo codice penale italiano, in ID., Il codice penale per il Regno d’Italia, vol. I, Torino, 1890, p. CL), ed è corredata di note ricchissime di riferimenti storico-comparatistici, anche dottrinali. Essa fu in realtà opera di Luigi Lucchini, allora direttore della più influente rivista penalistica italiana (la Rivista penale), e convinto oppositore della scuola positiva; autori delle note il Perla ed il Pincherle; mentre Zanardelli si limitò a rivederla e a redigere le parti politicamente più delicate, sulla pena di morte, sugli abusi dei ministri di culto, sullo sciopero e sul duello (cfr. V. MANZINI, voce Codice penale, in Digesto ital., vol. VII, p. 2a, Torino, rist. 1929, pp. 509-510). Griffith ebbe dunque la fortuna di poter disporre di un documento importantissimo, mediante il quale, sulle materie più importanti, poteva conoscere la legislazione di tutta l’Europa e non solo. La Relazione al Re del 30 giugno 1889, per l’approvazione del testo definitivo del codice, viceversa, era ben più sintetica e priva di riferimenti in nota: essa mirava più che altro ad evidenziare le differenze tra il progetto del 1887 come approvato dal Parlamento ed il codice nella sua redazione finale. Su Lucchini e sulla rivista da lui fondata e diretta per oltre cinquant’anni cfr. di recente, per tutti, M. SBRICCOLI, Il diritto penale liberale e la « rivista penale » di Luigi Lucchini (18741900), in Quaderni fiorentini, vol. XVI, 1987, pp. 105-183 (ed ivi pp. 153-154, nt. 70, sulla palese impronta lucchiniana della relazione pur firmata da Zanardelli). La relazione del 1887 fu pubblicata, oltre che autonomamente assieme al progetto (dalla Stamperia Reale), in Riv. pen., vol. XXVII, 1888, p. 129 ss. (quantomeno limitatamente al Libro primo): è da questa fonte che trarremo le citazioni in nota; la relazione verrà citata come Relazione ministeriale 1887. Si noti che nella versione ufficiale (Roma, 1988) la Relazione occupa, in tutto, oltre settecento pagine. (67) An Explanatory Letter, cit., p. VII. (68) È importante segnalare che il codice Zanardelli, tradotto in più lingue (quantomeno in francese ed in tedesco), e oggetto di commenti spesso entusiastici in tutta Europa ed in Sudamerica, anche in Inghilterra fu accolto dalla critica con lodi ed encomii straordinari: cfr. ad es. T. BOSTON BRUCE, The New Italian Criminal Code, in Law Quart. Rev., vol. 5, 1889, p. 287 ss., che prende in esame il progetto definitivo del codice come approvato dal Parlamento nel 1888 e tiene conto delle osservazioni svolte su di esso nell’ambito del dibattito parlamentare; ancora il codice nella sua versione definitiva non era stato promulgato (lo sarebbe stato il 30 giugno 1889: cfr. retro, nt. 66). L’A. scriveva sul codice: Esso rappresenta il lavoro cumulativo della Magistratura, dell’Avvocatura, delle facoltà giuridiche e mediche delle principali Università, e di quei savants che hanno effettuato studi speciali di psicologia e sociologia nei loro rapporti col crimine. Le leggi penali degli altri stati europei, di molti stati americani, e dell’Egitto sono state esaminate [...], e sono state analizzate con tale esaustività insieme con le opere dei giuristi stranieri, che le numerose relazioni ufficiali che compendiano queste ricerche formano una istruttiva enciclopedia di legislazione e giurisprudenza criminali comparate. Del risultato di tali studi non è eccessivo affermare che il codice attuale ampiamente ripaga tutto il tempo speso su di esso, e che gli italiani possono ora congratularsi con loro stessi per possedere un corpo di leggi penali che non è secondo a nessuno in Europa per eccellenza tecnica e per la elevatezza dei suoi scopi etici.


— 1066 — dice fosse da ricollegarsi più che altro al fatto che il esso rappresentava in quel momento la più recente e meglio riuscita incarnazione dei principi di codificazione penale che Bentham aveva elaborato. A differenza del progetto Stephen, il codice Zanardelli era da considerarsi un codice penale come l’utilitarista inglese lo avrebbe desiderato: non una mera consolidazione, e neppure un ibrido tra una consolidazione ed una codificazione, ma un vero codice (69). Come tale, il codice Zanardelli conteneva, nella parte generale, una serie di principi concernenti la responsabilità penale indispensabili per dare una compiuta fisionomia alle fattispecie di parte speciale, e per sancire imprescindibili garanzie per lo stesso reo. E, nella parte speciale, le singole norme incriminatrici erano state disegnate — in omaggio a chiare indicazioni fornite in tal senso soprattutto dal Carrara (70) — in modo da evitare la tecnica casuistica ed esemplificativa e tenendo conto dell’esigenza di generalizzazione sottesa alla formulazione di qualsiasi norma, anche penale. Griffith era rimasto senza dubbio colpito da entrambi i menzionati caratteri del codice Zanardelli (71), caratteri che invano si sarebbero ricercati nel progetto Stephen. Quest’ultimo, come si notava, da un lato — nella parte generale — non si addentrava se non sporadicamente e timidamente nei meandri dei problemi di fondo della responsabilità penale; e dall’altro — nella parte speciale — troppo spesso si dilungava nella dettagliata descrizione di materialità esteriori delle fattispecie, senza rompere definitivamente con la « sesquipedale » tradizione statutaria inglese (72). Insomma: non era ancora un vero e proprio codice à la Bentham. Griffith, attingendo al codice italiano del 1889, dimostrava di voler realizzare qualcosa di più ambizioso dello stesso progetto Stephen, e denotava la sua adesione al modello di codice coniato tempo addietro da Bentham. In questa chiave si può forse spiegare il motivo per cui l’altro documento legislativo consultato da Griffith fu il codice Field di New York. Field era stato per lungo tempo, oltre oceano, il più strenuo e carismatico avvocato della codificazione. La concezione del codice di Field era simile a quella benthamiana e Griffith sicuramente era a conoscenza della idee del giurista americano sul tema. Dunque non stupirà che il Chief Justice del Queensland abbia consultato il prodotto legislativo che, in materia penale, David Dudley Field aveva realizzato, pur indirettamente tramite alcuni collaboratori di fiducia. Certo, quel prodotto non era stato pari alle aspettative e non rispecchiava se non parzialmente gli ideali del paladino americano della codificazione, ma chi come Griffith credeva nell’importanza dei codici, quelli veri, quelli più fedeli alla Weltanschauung benthamiana, non poteva non tenerne conto. Ci si domanderà il perché, se è vera una simile ipotesi ricostruttiva, Griffith non abbia attinto anche a codici di evidente ispirazione benthamiana quali quelli realizzati da Livingston, da Macauley e da Wright. Probabilmente egli giudicò tali elaborati troppo datati per rappresentare utili strumenti di ricognizione ed a maggior ra-

Le parole ora riportate potevano certamente avere influenzato Griffith; gli istituti analizzati con ampie lodi dall’A. inglese nel menzionato articolo, concernenti la parte generale, troveranno ampi utilizzi nel codice del Queensland. Per una bibliografia di lavori stranieri sul codice Zanardelli cfr. ad es. V. MANZINI, voce Codice penale, cit., p. 497 ss. (69) Sul codice Zanardelli v., nella dottrina più recente, soprattutto P. NUVOLONE, Giuseppe Zanardelli e il codice penale del 1889, in ID., Ultimi Scritti (1981-1985), Padova, 1987, p. 99 ss. V. anche i contributi di T. PADOVANI, G. DE FRANCESCO, S. DEL CORSO, S. MOCCIA, M. DA PASSANO e F. COLAO, in S. VINCIGUERRA (a cura di), I codici preunitari, cit., p. 397 ss. (70) F. CARRARA, Lineamenti di pratica legislativa penale, Torino, 1874, passim. (71) Lo si evidenzierà più oltre in dettaglio. (72) Per la terminologia G. MARINUCCI, Profili di una riforma del diritto penale, in CRS, Beni e tecniche della tutela penale — Materiali per la riforma del codice, Milano, 1987, p. 29, il quale fa espresso riferimento alla tradizione della tecnica legislativa anglosassone.


— 1067 — gione di riforma del diritto vigente, e forse volle egli stesso assurgere alla fama di quei codificatori del passato così famosi nel mondo di common law, senza sfruttarne gli sforzi (73). 3.2. Il progetto Griffith del 1897 e l’impronta zanardelliana. — Come si diceva, il progetto Griffith del 1897 non venne alterato se non in minima parte durante le tappe dell’iter di approvazione dello stesso sino al prodotto finale del 1899. Dunque è soprattutto con riferimento al progetto del 1897 che valuteremo l’impatto del codice italiano del 1889 sul codice del Queensland. Successivamente avremo semplicemente cura di controllare se qualcuna delle disposizioni derivanti dal codice Zanardelli sia stata modificata o eventualmente espunta nel corso dei lavori preparatori. Il primo progetto Griffith, quello del 1897 (74), è formulato in modo tale da evidenziare con particolare chiarezza la derivazione di ogni singola disposizione, sia di parte generale che di parte speciale. Ogni pagina del progetto è costituita da due colonne; nella colonna di destra, sono stati inseriti gli articoli (le sections) proposti da Griffith per il codice; nella colonna di sinistra, è menzionata la fonte da cui la norma è stata tratta, e talvolta è riportata la norma stessa per intero. Spesso la fonte risulta essere il Digest compilato dallo stesso Griffith, altre volte, numericamente cospicue, è richiamato il Bill inglese del 1880; talora direttamente la common law; altre, più rare volte, il codice penale di New York; ed infine, in una ventina di occasioni, il codice penale italiano (75). La ricognizione delle ipotesi in cui Griffith si ispirò al codice Zanardelli è dunque agevolata dall’espressa menzione di esse da parte del compilatore del codice australiano. Ma, come si vedrà, gli espliciti richiami del codice italiano operati da Sir Samuel peccano sia per difetto che, talvolta, per eccesso rispetto all’effettiva entità dell’influenza che il codice del 1889 e la Relazione ministeriale di Zanardelli ebbero su Griffith e sul suo codice penale. E, in ogni caso, tale influenza fu certamente, come apparirà chiaro, più che quantitativa, qualitativa, tanto che si può dire che Griffith derivò in buona misura la stessa Weltanschauung di fondo in materia di codificazione penale dal nostro codice penale del 1889. 3.2.1. L’impianto complessivo ed il principio di legalità. — Quanto appena suggerito trova una immediata conferma nel rilievo che lo stesso impianto complessivo del progetto Griffith sembra dovere molto all’influenza zanardelliana. In primo luogo, la parte generale del progetto, pur seguendo a grandi linee lo schema del Bill inglese del 1880, se ne discosta, nei vari titoli dei capitoli, in più di un’occasione, accogliendo terminologie zanardelliane (76): ad esempio, il Ch. III ha per titolo Application of Criminal Law, traduzione letterale del Titolo I del Libro I del codice Zanardelli (Dell’applicazione della legge penale). Lo stesso riferimento ai general principles, che si trova nel sottotitolo della Parte I del progetto, sembra trarre spunto dal lessico zanardelliano; ed altrettanto si può dire con riguardo all’impiego della locuzione Criminal Responsibility, di cui al Ch. V, concetto che prende spunto dalla nozione italiana di imputabilità, così come tale espressione era intesa allora nel lessico giuridico dei nostri classici (77), e come emergeva nell’ambito (73) D’altra parte, come si vedrà nel prosieguo, taluni caratteri di quei codici filtreranno, forse indirettamente, nello stesso codice Griffith. Può anche darsi che Griffith abbia attinto direttamente ad essi, sia pur in modo saltuario, e che non abbia voluto espressamente far menzione di tali fonti, sicuramente secondarie, d’ispirazione della sua opera legislativa. (74) D’ora in avanti citato semplicemente come Draft, 1897. (75) Citato da Griffith come Italian Penal Code: Draft, 1897, passim. (76) Persino taluni accorgimenti tipografici sembrano tratti dal codice Zanardelli, nella sua versione originale della Stamperia Reale di Roma, 1889, non essendo paragonabili a quelli impiegati dai vari progetti inglesi. (77) Per imputabilità si intendeva, come è noto, più o meno quello che intendiamo oggi per colpevolezza; e la nozione di responsabilità era ad essa strettamente collegata: cfr. V. MANZINI, voce Imputabilità e responsabilità (1903), in Digesto it., vol. III, p. I, Torino, rist. 1927, p. 301 ss.


— 1068 — del Titolo IV del libro I del codice del 1889 (Della imputabilità, e delle cause che la escludono o la diminuiscono). Né le predette assonanze hanno mera rilevanza terminologica, ché anzi esse contribuiscono ad infondere all’intero assetto della parte generale del progetto Griffith un sapore zanardelliano, assai lontano dagli schemi della common law e del progetto Stephen che in fondo ne rappresentava l’incarnazione. Così, ad esempio, nel Bill del 1880 si trovavano, nella Parte II del Titolo I (intitolata Matters of Justification or Excuse), oltre cinquanta articoli, nell’ambito dei quali si regolavano minuziosamente e casuisticamente una serie di ipotesi di uso della forza da parte di agenti di polizia e di persone private. Tale materia nel progetto australiano del 1897 viene espunta dalla parte generale e viene inserita, con qualche semplificazione, nella parte speciale, nell’ambito del Capitolo XXVI della Parte V, dedicato ai reati violenti contro la persona (78). Insomma, Griffith è certamente debitore di Zanardelli (rectius: dei compilatori di tale codice) nella stessa intelaiatura generale del suo progetto, assai più razionale e sistematica rispetto a certi codici di common law, non di rado troppo legati ad una tradizione statutaria aliena all’ordine ed alla formulazione sintetica di norme dotate dei caratteri della generalità e dell’astrattezza. Tale impostazione ammiccante verso la tradizione codicistica continentale, piuttosto che anglo-americana, che caratterizza il progetto Griffith, si ripercuote sulla tecnica legislativa impiegata da Sir Samuel, non di rado meno verbosa, prolissa e puntigliosa di quella adottata dal progetto Stephen del 1878 e dai suoi derivati (79). Tale risultato viene ottenuto anche grazie ad un particolare coordinamento tra la parte generale e la parte speciale. Ad esempio, avendo trattato esaurientemente nella parte generale la materia della responsabilità penale, ed avendo definito l’elemento soggettivo del reato in quella sede, Griffith può fare a meno di specificare ogni volta l’elemento soggettivo rilevante nelle singole fattispecie di parte speciale. Così nell’ambito della descrizione dei vari reati Griffith non sarà costretto ad utilizzare quelle tipiche parole da sempre impiegate negli statutes criminali inglesi, quali malice, maliciously, ecc. (80). Si noti che simili espressioni si trovavano anche nei nostri codici preunitari, e ciò derivava da un cattivo coordinamento tra la parte generale e la parte speciale, non essendo la prima, in particolare, sufficientemente evoluta (81). È proprio col codice Zanardelli che in Italia si fece, sul punto, il grande salto, anche grazie alle illuminanti pagine scritte dal Carrara in argomento (82). Griffith, che aveva a disposizione la stessa citata Relazione ministeriale di Zanardelli, documento assai ricco di riferi(78) Griffith espressamente scrive, in una nota posta all’inizio del Cap. XXVI, che gli sembra più corretto inserire tali disposizioni nella parte speciale (ove hanno la funzione di definire l’antigiuridicità del reato di assault et similia) piuttosto che nella parte generale: S.W. GRIFFITH, Draft 1897, p. 107, nt. 1. (79) Sull’opportunità dell’utilizzo di una tecnica legislativa particolarmente dettagliata cfr. lo stesso J.F. STEPHEN, A History of the Criminal Law of England, vol. III, London, 1883, p. 347 ss. (capitolo dal titolo The Codification of the Criminal Law), con contestuale critica al metodo continentale, ed in particolare al codice penale francese del 1810. (80) S.W. GRIFFITH, An Explanatory Letter, cit., p. VIII: « Ho nell’ambito dell’intero codice intenzionalmente evitato l’uso dei termini malice e maliciously [...]. Le regole generali della responsabilità penale espresse nella section 25 rendono inutile esplicitare tali elementi nella definizione dei singoli reati ». (81) Cfr. sul punto S. VINCIGUERRA, I codici penali sardo-piemontesi del 1839 e del 1859, in ID. (a cura di), I codici preunitari e il codice Zanardelli, Padova, 1993, p. 373; ID., Fonti culturali ed eredità del codice penale toscano, in Codice penale pel Granducato di Toscana (1853), Padova, 1995, p. CLXX ss. Sui problemi del coordinamento tra la parte generale e la parte speciale del diritto penale v. ora T. PADOVANI - L. STORTONI, Diritto penale e fattispecie criminose, Bologna, 1996. (82) F. CARRARA, Lineamenti di pratica legislativa penale, Torino, 1874, passim.


— 1069 — menti anche in materia di tecnica legislativa, aveva senz’altro tratto spunto da essa (83) per maturare tali moderne concezioni, ancora poco diffuse nel mondo di common law. Lo stesso atteggiamento di Griffith verso il problema delle definizioni (84) evidenzia una particolare apertura mentale del giurista australiano, non ingabbiato nei più inveterati schemi di tecnica legislativa tipici del mondo anglosassone. Egli espressamente sottolinea che un codice dovrebbe essere formulato in modo tale da non richiedere alcuna definizione di termini di uso comune nel lessico ordinario. Ed anzi non dovrebbe contenere alcun termine usato in un senso diverso da quello « naturale ». Unica concessione all’utilizzo di formule definitorie: nei casi in cui si voglia specificare l’interpretazione di qualche termine così come emergente, ad esempio, da decisioni giudiziali. Ma in tal caso sarà bene sistemare nella stessa parte generale le definizioni che possono aver riscontro nell’ambito dell’intero codice, e nella parte speciale quelle che riguardano esclusivamente singoli settori (85): una conferma dell’impostazione razionale e sistematica del Griffith codificatore, un’impostazione di stampo più continentale che anglosassone; e dell’atteggiamento critico verso l’indiscriminato ricorso a definizioni, caratteristico già allora del legislative drafting di common law. Lo stesso Lord Cockburn, d’altra parte, aveva sottolineato l’esigenza, nella redazione di un codice, di utilizzare un « linguaggio attentamente scelto, evitando da un lato la goffa, prolissa, artificiale e sconcertante fraseologia dei nostri statuti; e dall’altro avendo cura che i termini usati siano sufficientemente comprensivi da abbracciare ogni ipotesi che si vuole che rientri in esso » (86). E Griffith aveva scrupolosamente cercato di trarre insegnamento da quanto Cockburn aveva scritto, poiché le critiche rivolte al progetto Stephen dall’allora Lord Chief Justice inglese erano state determinanti nello sbarrare la strada dell’approvazione di tale codice nella stessa Inghilterra. Con riferimento al metodo casuistico ed esemplificatorio, Griffith avrebbe esplicitamente espresso riserve su tale tecnica legislativa, scrivendo: « Quando una previsione statutaria rappresenta chiaramente un mero esempio di un principio generale, mi sono sentito autorizzato a generalizzare la previsione così da far emergere il principio » (87). Basterebbe considerare le materie del danneggiamento e delle falsità, per notare che Griffith, nel suo progetto, procedette ad una enorme semplificazione di una materia che nella legge statutaria inglese (ed australiana) era di una complessità e macchinosità impressionante, proprio applicando quel processo di generalizzazione descritto. Così, il danneggiamento, negli statuti, era regolato enumerando uno per uno tutti i possibili oggetti materiali su cui poteva realizzarsi (88). Griffith costruì una norma generale, che racchiudeva ogni tipo di danneggiamento di cose di altrui proprietà, prevedendo poi alcune ipotesi aggravate per le caratteristiche dell’oggetto (89), un sistema che già il codice Zanardelli aveva adottato (90). La razionalità e la sistematicità tipiche del codice Zanardelli, alla disciplina del quale si voleva sottoporre tendenzialmente tutta la materia penale, sia quella contenuta nel codice che quella delle c.d. leggi complementari, trovavano ancora sanzione nell’art. 10 dello stesso (83) Cfr. infatti Relazione ministeriale 1887, cit., p. 217, sub artt. 45 e 46, ove si discute esaurientemente la tematica: le parole di Zanardelli (di Lucchini?) ricordano da vicino quelle di Griffith, riportate supra, a nt. 80. (84) Sulla tematica v. ora A. CADOPPI (a cura di), Omnis definitio in iure periculosa? Il problema delle definizioni legali nel diritto penale, Padova, 1996, e gli scritti di vari aa. ivi contenuti. (85) Per l’esposizione di questi concetti cfr. S.W. GRIFFITH, An Explanatory Letter, cit., pp. VII-VIII. (86) Il passo è riportato da Griffith in An Explanatory Letter, cit., p. VI. (87) S.W. GRIFFITH, An Explanatory Letter, cit., p. VII. (88) Lo stesso codice penale di New York non sfuggiva a questo difetto: cfr. il mio Dalla judge-made law, cit., p. 942 ed ivi riferimenti. (89) Cfr. S.W. GRIFFITH, An Explanatory Letter, cit., p. XIII. (90) Peraltro, da questo punto di vista, già i nostri codici preunitari avevano fatto notevoli progressi rispetto al passato.


— 1070 — codice, secondo il quale « Le disposizioni del presente codice si applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali, in quanto non sia da queste diversamente stabilito ». Griffith propose, nel suo progetto, una norma analoga, la s. 38, che — in relazione ai principi concernenti la responsabilità penale — li rendeva « applicabili ad ogni persona accusata di un qualsiasi reato contro la legge scritta del Queensland ». La disposizione, sebbene Griffith non lo dica, è di chiara derivazione zanardelliana, ed è assai importante perché sancisce la centralità del codice e la « universalità » dei principi garantistici in esso contemplati. Un’ulteriore conferma che l’idea di codice accolta da Griffith era molto vicina alla concezione continentale, a sua volta debitrice delle teorizzazioni benthamiane. Un ulteriore punto di contatto tra il progetto australiano ed il codice italiano del 1889 è rappresentato dalla espressa statuizione del principio di legalità, e nella specie del principio di irretroattività, salva la retroattività della legge penale più favorevole. La s. 13 del progetto Griffith, sul punto, ricalca quasi alla lettera l’art. 2 del codice Zanardelli, ripresa poi dallo stesso art. 2 del codice Rocco. Sir Samuel espressamente richiama, come unica fonte ispiratrice di una sì importante disposizione, il codice penale italiano (91). Invano si cercherebbe una simile norma nel Bill inglese del 1880. Anche qui, si ha l’impressione che, dal codice italiano, Griffith abbia derivato una concezione del codice penale come Magna Charta del reo, secondo la famosa espressione di Von Liszt, e cioè come documento di natura para-costituzionale, almeno in relazione alle disposizioni che sanciscono i più fondamentali principi garantistici. Simili disposizioni erano d’altra parte contenute in codici altrettanto ispirati al modello benthamiano quali ad es., come si osservava, il progetto Livingston. 3.2.2. La distinzione tra crimes e misdemeanours. — Come è noto, nella common law i reati erano tradizionalmente distinti in due categorie: i felonies ed i misdemeanours. Tale distinzione era stata da tempo sottoposta a critiche, ed il progetto Stephen (nelle sue varie versioni) (92) l’aveva abolita, senza sostituirla peraltro con una nuova. Anche Griffith pensò di non riproporla. L’uso del termine felony, in particolare — un tempo designante quella categoria di reati punibili con la morte — aveva « da molti anni cessato di avere alcun significato preciso » (93). Il Chief Justice del Queensland, peraltro, non riteneva opportuno fare a meno di distinguere i reati in due categorie. Scriveva in proposito: « vi è, ritengo, generale consenso o sentimento che i gravi illeciti non sono tutti dello stesso grado di gravità, e che esiste una vera distinzione di natura tra di loro; e sembra desiderabile riconoscere questo fatto in un codice » (94). Ma come chiamare gli uni e gli altri? Griffith optò per i termini crimes e misdemeanours, « due termini ben noti che esprimono con sufficiente chiarezza l’idea della maggiore o minore efferatezza » (95). È evidente la derivazione di tale bipartizione dal codice Zanardelli e dai lavori preparatori di esso, nell’ambito dei quali, come è noto, si era enfatizzata la differenza di essenza, o natura, tra i delitti e le contravvenzioni, secondo gli insegnamenti della scuola italiana, per cui non era dalla specie della pena che si doveva dedurre la qualità del reato, ma essa era riconoscibile dalla natura stessa di esso. In base a codeste considerazioni i compilatori del codice Zanardelli avevano, alla fine, optato per la bipartizione tra delitti e contravvenzioni (già accolta nel codice toscano del 1853), rifiutando la tripartizione di origine francese (96). Griffith era stato certamente influenzato dalle altisonanti parole di Zanardelli, che richia(91) Draft, 1897, p. 6. (92) Nel Bill del 1880, all’art. 2, si definiva il crime come quel reato perseguibile per indictment (e cioè con forma solenne); e l’offence come un termine di genere che comprendeva sia i reati perseguibili per indictment che quelli perseguibili sommariamente. Nel progetto del 1879 si usava solo il nome offence. (93) Cfr. S.W. GRIFFITH, An Explanatory Letter, cit., p. IX. (94) Ibid., p. IX. (95) Ibid. (96) Cfr. per tutti, sul tema, l’importantissimo contributo di T. PADOVANI, Il binomio irriducibile. La distinzione dei reati in delitti e contravvenzioni, fra storia e politica crimi-


— 1071 — mava nella sua Relazione i « principi della dottrina italiana, con tanto vigore insegnati dai nostri insigni capiscuola del diritto penale, da Romagnosi a Carmignani, da Pellegrino Rossi a Carrara » (97). La distinzione elaborata da Griffith aveva sì conseguenze di carattere processuale, ma era tratta direttamente alla diversa natura delle due classi di reati, in base al criterio c.d. ontologico. Un criterio che era lontano dagli usuali schemi della common law. Nella s. 3 del progetto, Griffith sanciva tale bipartizione, aggiungendo poi una terza categoria di illeciti — dalla natura peraltro simile all’odierno illecito amministrativo — denominati simple offences. Essi non sarebbero stati inseriti nella parte speciale del codice proprio per la loro natura non stricto sensu penale. La s. 2 precisava la nozione di offence, nozione ampia, corrispondente alla nostra odierna nozione di illecito, nell’ambito della quale rientravano, in base alla s. 3, sia i crimes, che i misdemeanours, che le simple offences. 3.2.3. Il tentativo. — La materia del tentativo era disciplinata in modo piuttosto rozzo dal Bill inglese del 1880, la cui s. 75 sbrigativamente sanciva che: Chiunque avendo l’intenzione di commettere un reato compie od omette un’azione con il proposito di realizzare il suo obiettivo, è colpevole del tentativo di commettere il reato voluto, sia se fosse stato possibile per le circostanze del caso commettere tale reato o non. La questione se un’azione commessa od omessa con l’intenzione di commettere un reato sia o non sia mera preparazione alla commissione di tale reato, e troppo remota per costituire un tentativo di commetterla, è questione di diritto ». Griffith ricorse allora al codice Zanardelli, sul punto molto più esauriente e convincente. Il testo del progetto Griffith accoglie gran parte della definizione del tentativo data dal codice italiano quasi testualmente, richiamando espressamente nella colonna di sinistra, a fianco della norma progettata, la fonte di ispirazione. Ecco il testo della s. 4 del progetto Griffith: Quando una persona, volendo commettere un reato, comincia a mettere in esecuzione la sua intenzione con mezzi idonei alla consumazione di esso, e manifesta la sua intenzione attraverso qualche atto esterno, ma non realizza la sua intenzione sino a tal punto da commettere il reato, si dice che tenta di commettere il reato. Non ha rilevanza, se non in relazione alla misura della pena, se il reo compie tutto ciò che è necessario alla consumazione del reato, o se la completa realizzazione della sua intenzione sia impedita da circostanze indipendenti dalla sua volontà, o se egli desista spontaneamente dalla ulteriore prosecuzione della sua intenzione. [...] Come si può notare consultando il codice Zanardelli, la definizione data da questo codice al tentativo è stata adottata praticamente in toto da Griffith, e le parti in comune tra i due codici — salva qualche lieve differenza terminologica — sono state evidenziate dal carattere « grassetto ». La principale differenza tra il progetto Griffith ed il codice Zanardelli (98) sta in ciò: che nel primo il delitto mancato, quello semplicemente tentato e la desistenza volontaria non costituiscono figure tra loro diverse, cosa che invece accade nel codice Zanardelli, ove il nale, in G. MARINUCCI-E. DOLCINI (a cura di), Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, p. 421 ss., ed ivi spec. p. 435 ss. (97) Relazione ministeriale 1887, cit., p. 141. (98) Oltre al requisito dell’atto esterno (overt act), presente nel progetto Griffith in omaggio alla tradizione di common law ed assente dal codice italiano. Per uno studio comparato sul tentativo punibile nella tradizione di common law cfr. E. GRANDE, Accordo criminoso e conspiracy, Padova, 1993, p. 156 ss.


— 1072 — primo era punito più gravemente del secondo e la terza non era affatto sottoposta a pena, come non la è oggi. Anzi: Griffith espressamente, in nota, richiama tali differenti istituti del codice italiano e ritiene di non accoglierli. Peraltro ne riporta nel testo del secondo comma le differenze, evidenziando che una qualche rilevanza sotto il profilo sanzionatorio possono averla (99). In particolare si vedrà che, in altra parte del proprio progetto, Griffith darà espressa rilevanza attenuante a quella a noi nota come desistenza volontaria. Gli aspetti principali dell’influenza del codice Zanardelli su Griffith in tema di tentativo sembrano essere comunque, da un lato, l’accoglimento del criterio dell’inizio di esecuzione come soglia di rilevanza penale del conato, e, dall’altro, il criterio dell’idoneità dei mezzi. Entrambi tali aspetti erano lontani dalla tradizione della common law. Griffith poi, nel terzo comma, sancirà la rilevanza penale, a titolo di tentativo, del reato impossibile, salvo che l’impossibilità derivi dall’inidoneità dei mezzi usati, poiché in tal caso non si verificherebbe il requisito di cui al primo comma sopra ricordato (100). La punibilità del reato impossibile è del resto tipica della tradizione di common law. Vi è un aspetto del progetto Griffith che vale la pena di evidenziare in tema di tentativo. Sebbene Sir Samuel dia, sulle orme del codice Zanardelli, una definizione generale del tentativo, che dovrebbe valere tendenzialmente per ogni figura della parte speciale, poi, nell’ambito della disciplina dell’omicidio (nella forma più grave del murder) — oltre a menzionare l’ipotesi « normale » del tentativo di tale delitto — parifica ad essa la realizzazione di una qualsiasi azione od omissione « di una tale natura da renderla atta a mettere in pericolo la vita umana » (s. 314). Non è il caso di soffermarsi in questa sede sull’interpretazione della menzionata ipotesi in contrapposizione a quella del tentativo « comune » di omicidio di cui alla definizione di parte generale, ma va qui sottolineato come, nel ritornare sulla definizione del tentativo nell’ambito di una singola fattispecie di parte speciale, dimostri un residuale attaccamento agli schemi tipici della common law, che si caratterizza per la costruzione di principi generali spesso differenti tra loro e validi solo per determinate fattispecie. Tale impostazione, tipica della tradizione anglosassone, deriva dal metodo casistico classico della common law, metodo che si scontrava frontalmente con l’idea stessa del codice. Griffith, come si diceva più sopra, credeva nella codificazione penale e nella formulazione di un codice « in una forma scientifica » (101), ed in ciò abbracciava pienamente le dottrine bentha(99) Draft, 1897, p. 3, nt. 1. (100) In proposito è interessante notare che Griffith pare avere attinto al codice Zanardelli, anche sul punto, quantomeno indirettamente: infatti, è vero che nel primo comma la locuzione « manifesta la sua intenzione attraverso qualche atto esterno » trae spunto dalla tradizione di common law. Peraltro è anche vero che una locuzione praticamente identica è reperibile nella Relazione ministeriale 1887 utilizzata da Griffith. A p. 234 di tale testo, in commento alla tematica del tentativo, si legge: « Perciò vien detto, modificando in questo gli ultimi schemi, non già che il conato si abbia nel ‘‘manifestare l’intenzione di commettere un delitto con atti esteriori idonei, ecc.’’, ma nell’‘‘intraprendere la esecuzione di un delitto’’ essendosi proposto il ‘‘fine di commetterlo’’ » (corsivi aggiunti). Può essere che Griffith, volendo riconfermare la punibilità del reato impossibile in ossequio alla regola di common law, abbia accolto l’espressione espressamente considerata e rigettata sul punto dai compilatori del codice Zanardelli. La relazione così continuava: « L’intenzione, per quanto scellerata, quando anco non sia un semplice atto interno di volontà, ma venga manifestata per via di minaccie, di concerti, di istigazione, di associazione a delinquere, non è ancora quell’atto esterno mediante il quale si comincia l’azione, che, mettendo in pericolo uno speciale diritto tutelato dalla legge penale, importa una pena. I diversi fatti con i quali si manifesta l’intenzione di commettere un delitto, quando comprendano in sé medesimi i caratteri del pericolo sociale, che è il fondamento dell’imputabilità politica, possono bensì venir repressi come reati di per sé stanti, ma non mai come conati del delitto risoluto ». Probabilmente sono questi i fatti che Griffith voleva punire, scegliendo una formula ibrida tra la tradizione di common law e quella italiana. (101) Così espressamente lo stesso S.W. GRIFFITH, Criminal Responsibility, cit., p. 895.


— 1073 — miane e la stessa impostazione zanardelliana (102), e più in generale continentale, ma non riuscì a disfarsi in toto della mentalità di common lawyer, che qua e là riaffiora nelle pieghe del suo pur « scientifico » progetto. 3.2.4. La legge penale nello spazio. — Nella lettera accompagnatoria del suo progetto, Griffith scrive quanto segue: In conseguenza, forse, della posizione insulare dell’Inghilterra, la Common Law sembra non contenere alcuna previsione circa la punibilità di un soggetto nel caso in cui un reato sia costituito da più atti od eventi, e laddove solo alcuni di tali atti od eventi si verifichino nel territorio dello Stato, ed i restanti fuori dal territorio; come nel caso, ad es., in cui un uomo, dal territorio del Queensland, spari ad un uomo che si trova nel New South Wales o viceversa, o in cui un uomo mandi del veleno dal Queensland perché sia somministrato in Victoria o viceversa, o in cui un uomo con dei raggiri operati in Queensland ottenga un profitto nel New South Wales. Questa materia è trattata in una certa misura dal codice italiano, e gli Stati Nordamericani hanno sancito la loro giurisdizione nel caso in cui certe persone, che si trovano fuori dal territorio dello Stato, partecipino alla commissione di un reato commesso nello Stato, e poi vi facciano rientro. Persone che commettono simili atti dovrebbero certamente essere punite (103). Negli artt. 14, 15 e 16 del progetto tali principi vengono codificati. In corrispondenza delle ss. 15 e 16, nella solita colonna di sinistra, si trova l’espresso riferimento, rispettivamente, agli artt. 4, 5 e 6 e all’art. 5 del codice penale italiano (104). In realtà, questa rappresenta una di quelle ipotesi in cui Griffith ha enfatizzato in modo eccessivo l’influsso del codice Zanardelli sulle sue scelte. Il codice italiano nulla diceva, in primo luogo, in merito a quei casi in cui taluni elementi del reato vengono posti in essere nel territorio dello Stato ed altri al di fuori di esso. Per aversi una sanzione legislativa di quella che viene di solito chiamata teoria « dell’ubiquità » occorrerà attendere il codice del 1930 (art. 6), ed anzi il Guardasigilli Alfredo Rocco, nella sua Relazione sul progetto definitivo, sottolineò il fatto che la norma rappresentava un’innovazione rispetto al codice Zanardelli, e che l’elaborazione scientifica della materia era « relativamente recente » (105). E d’altra parte la mancata presa di posizione del codice del 1889 sul punto aveva creato dispute dottrinali e giurisprudenziali (106). Casomai, la vera fonte di ispirazione di Griffith, sul punto, doveva essere stata la s. 5 del Bill inglese del 1880, che, anticipando questa volta il pur « scientifico » legislatore italiano, sanciva, con una formula tra l’altro meno involuta di quella adottata da Griffith, la teoria c.d. dell’ubiquità (107). Forse dal codice italiano Sir Samuel aveva derivato il principio secondo cui chi aveva commesso all’estero un reato sarebbe stato punibile secondo la legge del Queensland una volta rientrato in tale paese (s. 14, secondo comma, n. 2), sebbene il codice Zanardelli distinguesse a seconda del tipo di reato commesso e a seconda della qualifica di cittadino o di straniero dell’agente (cfr. art. 4 ss.). Simili analogie tra il progetto Griffith ed il codice Za(102) L’aggettivo « scientifico » compare sovente nei lavori preparatori del codice Zanardelli ed anche nella Relazione ministeriale 1887 di Zanardelli di cui Griffith disponeva. (103) S.W. GRIFFITH, An Explanatory Letter, cit., pp. IX-X. (104) Draft, 1897, pp. 6-8. (105) Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo, in Codice penale illustrato con i lavori preparatori, Roma, 1930, sub art. 6, p. 10. (106) Ibid. (107) Cfr. sul punto quanto espressamente si notava nel Report della Royal Commission del 1879, p. 15. Anche il § 16, n. 1, del codice di New York prevedeva una regola assai semplice che nella pratica portava ai medesimi risultati.


— 1074 — nardelli sono rintracciabili in relazione alle ss. 15 e 16 del Draft Code del 1897, anche se è ben più chiara l’influenza su tali disposizioni di quanto prevedeva in materia il § 16 del codice penale di New York. Sicuramente Griffith si ispirò al codice Zanardelli nella redazione dell’ultimo comma della s. 16, secondo cui in certi casi di reati commessi all’estero, il soggetto poteva essere perseguito in Queensland solo se vi fosse la richiesta del Governo estero, regola sancita anche, per simili ipotesi, dall’ultimo comma dell’art. 5 del codice italiano. 3.2.5. I principi generali della responsabilità penale. — « Nessuna parte del progetto mi ha creato più inquietudine, ma vorrei aggiungere che non guardo a nessun’altra parte dell’opera con maggiore soddisfazione » (108). Questo il commento di Griffith alle norme in tema di responsabilità penale costituenti il Capitolo V del suo Draft Code. La cosa non deve stupire, se si tiene presente la concezione di codice abbracciata dal Chief Justice del Queensland, per cui il codice, più che un ordinato elenco di leggi, doveva rappresentare, assai di più, il frutto di un’elaborazione filosofico-scientifica di regole e principi giuridici coerenti e sistematici. Non stupirà neppure, dunque, che Griffith, quando fu invitato, nel gennaio 1898, a tenere una conferenza alla Australasian Association for the Advancement of Science, dedicò il suo discorso al tema: « Responsabilità penale: un Capitolo da un codice penale » (109). Scelse questa parte del suo progetto — al fine di illustrare in cosa consisteva la differenza tra un codice (opera scientifica) ed una consolidazione (lavoro laborioso ma sterile sotto il profilo scientifico) — perché essa è della più ampia sfera di applicazione, ed incarna regole che, per la maggior parte, non sono peculiari ad alcuna località o ad alcun speciale sistema di giurisprudenza; perché la questione se tali regole siano buone o cattive dipende da principi generali dei quali sono giudici competenti egualmente i laici ed i giuristi; ed infine perché queste regole danno un’eccellente illustrazione del vecchio detto che la common law è l’incarnazione del senso comune (110). In realtà è proprio in questa parte del suo progetto che Griffith si allontanò in modo assai deciso dalle talora vetuste e non di rado assurde regole della common law, ed è nel concepire questo Capitolo del suo codice penale che egli attinse a piene mani al codice che rappresentava, all’epoca, il trionfo dell’approccio « scientifico » al diritto penale, ovvero il codice Zanardelli (111). Consideriamo partitamente le più significative disposizioni elaborate da Griffith in materia: a) La s. 24 sancisce il principio ignorantia legis non excusat. La regola era contenuta nel Bill del 1880 (s. 25), ma, come è noto, anche nel codice Zanardelli (art. 44). Griffith, nella colonna di sinistra (indicante la fonte), in corrispondenza di tale norma, scrive peraltro, semplicemente, common law (112). b) La s. 25 è intitolata Intention: Motive: Bona fide Claim of Right. È soprattutto su questa section del progetto Griffith che si è manifestato l’importantissimo influsso del codice Zanardelli. Griffith menziona in pratica il solo art. 45 del codice italiano (oltre ad un vago e non del tutto condivisibile riferimento alla common law) tra le fonti della parte dell’articolo che concerne l’Intention (113). Il progetto Griffith, sul punto, così dispone: (108) S.W. GRIFFITH, An Explanatory Letter, cit., p. X. (109) S.W. GRIFFITH, Criminal Responsibility, cit. (110) S.W. GRIFFITH, Criminal Responsibility, cit., p. 903. (111) Nella conferenza menzionata, infatti, Griffith citò più volte il codice Zanardelli, e lo definì tra l’altro « il più recente ed il migliore dei codici penali »: ibid., p. 897. (112) Draft, 1897, p. 12. (113) Ibid.


— 1075 — Salve le espresse previsioni di questo codice che riguardano le azioni e le omissioni colpose, una persona non è responsabile penalmente per un’azione o un’omissione che si verifica indipendentemente dall’esercizio della sua volontà, o per un evento che si verifica accidentalmente. Il risultato che si è voluto cagionare attraverso un’azione o un’omissione è irrilevante, salvo che l’intenzione di cagionare un risultato particolare sia espressamente dichiarato essere un elemento del reato costituito, in tutto o in parte, dall’azione o dall’omissione. La disposizione ricalca solo parzialmente l’art. 45 del codice Zanardelli (richiamato da Griffith) (114). Peraltro essa non aveva precedenti nei codici di common law utilizzati da Griffith (115), ed era il sintomo forse più eclatante di un approccio alla teoria della codificazione ispirata al modello « scientifico » di Bentham e dei codici continentali più evoluti. E soprattutto rappresentava la statuizione di un principio di rango para-costituzionale che avrebbe avuto grande importanza pratica nello sviluppo del diritto penale del Queensland in contrapposizione a certi altri sistemi di common law, anche australiani, non dotati di un siffatto codice penale. c) Il codice Zanardelli sembra aver solo marginalmente influenzato Griffith sia nell’ambito della regolamentazione dell’errore di fatto (s. 26) (116), che in relazione alla pur interessantissima disposizione che dà rilievo scusante alla inesigibilità (s. 27) (117). Il Chief Justice australiano si è invece certamente ispirato al codice italiano del 1889 nella formula(114) Art. 45: « Nessuno può essere punito per un delitto, se non abbia voluto il fatto che lo costituisce, tranne che la legge lo ponga altrimenti a suo carico, come conseguenza della sua azione od omissione ». (115) Altri codici o progetti realizzati da common lawyers invece contenevano simili disposizioni: assai dettagliate, ed invero persino farraginose, ad es., le definizioni dei vari elementi soggettivi del reato di cui al menzionato progetto Wright per la Giamaica (art. 10 ss.). Cfr. sul tema, anche, con riferimento al codice di Macauley e ad ulteriori opinioni di codificatori e filosofi inglesi del tempo, K.J.M. SMITH, Macauley’s ‘Utilitarian’ Indian Penal Code, cit. p. 158 e nt. 64. (116) Cfr. la regola secondo cui, in caso di errore di fatto, il soggetto non deve essere considerato penalmente responsabile più di quanto avrebbe dovuto esserlo se lo stato reale delle cose fosse stato come lui credeva che fosse. La regola, solo apparentemente involuta, richiama quanto disposto in relazione alle aggravanti ed alle attenuanti ex art. 52 cod. 1889 in tema di aberratio ictus. Griffith richiama, quale fonte della s. 26 in tema di errore, la common law. Va peraltro soggiunto che, se il codice Zanardelli non prevedeva alcuna norma in tema di errore, in alcuni progetti anteriori una tale disposizione era contenuta, e di essa dà conto la Relazione ministeriale alla Camera utilizzata dallo stesso Griffith nella redazione del suo codice (Relazione ministeriale 1887, cit., p. 218, e nt. 1, con il testo della norma). Tale norma (l’art. 52, § 2, del progetto del 1877) richiama alla mente in più punti il testo della s. 26. (117) La norma è una novità, a quanto mi consti, nel panorama di common law, e precorre le più recenti norme continentali in materia (sul tema v. di recente G. FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990). Recita la s. 27 del progetto del 1897: Fermo quanto disposto dal codice in relazione ad azioni compiute a seguito di minaccia, o di provocazione o in legittima difesa, una persona non è penalmente responsabile per un’azione od un’omissione posta in essere in circostanze di improvvisa o straordinaria emergenza tali che da una persona dotata di un’ordinaria capacità di autocontrollo non si sarebbe potuto esigere che agisse altrimenti. La disposizione, assai generale, sarebbe servita in definitiva a rendere applicabili residue esimenti di common law senza passare per il tramite di un’applicazione diretta di essa, ed utilizzando pur sempre una norma del codice. Insomma: la previsione di questo articolo da parte di Griffith era probabilmente finalizzata a superare le critiche rivolte al progetto


— 1076 — zione delle disposizioni che regolano l’infermità mentale, ed in particolare nella redazione della s. 27 del progetto. Eccone il testo: Una persona non è penalmente responsabile per un’azione od un’omissione se nel momento in cui ha compiuto l’azione o l’omissione si trovava in tale stato di malattia di mente o di naturale infermità mentale da togliergli la capacità di rendersi conto di ciò che sta facendo, o la capacità di controllare le proprie azioni, o la capacità di rendersi conto che non doveva compiere l’azione o l’omissione. In un’ampia nota annessa all’articolo come proposto da Griffith, egli discute a lungo della tematica di quella che oggi chiamiamo l’imputabilità, e riporta vari dati sulla regolamentazione della materia nei principali codici penali europei, tratti dalla Relazione ministeriale Zanardelli più volte menzionata (118). Osserva che la maggior parte dei codici europei contempla due cause di esclusione dell’imputabilità in materia: quelle derivanti, in sostanza, dalla incapacità di intendere e dalla incapacità di volere. In omaggio alla tradizione di common law, Griffith affianca a tali due ipotesi il caso della c.d. « incapacità morale », ossia della capacità di distinguere, in base al senso del dovere, il bene dal male, non avvertendo che in realtà nella nostra tradizione tale capacità faceva parte integrante della « capacità di intendere ». Comunque sia, egli afferma che la definizione data nel suo progetto è « sostanzialmente la stessa » rispetto a quella dell’art. 46 del codice italiano, « con l’aggiunta dell’elemento della capacità morale » (119). In carattere grassetto si sono evidenziate quelle parti del testo della norma progettata da Griffith che ricalcano, con lievissime modifiche, il testo dell’art. 46 del codice italiano del 1889. Rispetto ad es. alla norma in tema di imputabilità del Bill del 1880 (120), la più eclatante novità introdotta da Griffith — e contenuta anche nel codice italiano — era la rilevanza scusante della incapacità di volere, ossia di « controllare le proprie azioni »: quello che Stephen da Lord Cockburn, sopra riferite, pur sostanzialmente non impedendo alle corti di far uso della common law, qui operante pro reo e dunque in senso equitativo. Si noti che di « possibilità di operare altrimenti » si parlava talora nella Relazione ministeriale 1887 Zanardelli utilizzata da Griffith nella compilazione del codice: cfr. ad es. la formulazione, sino al 1888, dell’art. 47 in tema di infermità mentale. (118) Cfr. p. 223 ss. (e soprattutto p. 224, nt. 1 e 2) della Relazione ministeriale 1887, cit. Griffith riporta (p. 14 del Draft, 1897) anche il testo del progetto Zanardelli come era confezionato sino al 1888 (art. 47: « Non è punibile colui che, nel momento in cui à commesso il fatto, era in tale stato di deficienza o di morbosa alterazione di mente da togliergli la coscienza dei propri atti o la possibilità di operare altrimenti »). Successivamente all’approvazione del testo dal Parlamento (avvenuta il 17 novembre 1888), esso venne rivisto per assumere la formulazione definitiva (di cui alla promulgazione del 30 giugno 1889): « Non è punibile colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto, era in tale stato di infermità di mente da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti ». (119) Draft, 1897, p. 14. (120) Se è vero che tale requisito della imputabilità non era previsto dal Bill del 1880, peraltro Stephen lo aveva contemplato nel suo progetto del 1878, ma la Royal Commission non era d’accordo con tale scelta, cosicché il riferimento ad esso sparì nel Draft Code del 1879. Per Stephen la incapacità di controllare la propria condotta avrebbe potuto comunque, interpretativamente, avere efficacia scusante (J.F. STEPHEN, A History of the Criminal Law of England, vol. II, London, 1883, p. 167 ss.). Griffith aveva dunque l’avallo dell’opinione del più autorevole penalista inglese dell’epoca, oltre che degli eminent lawyers (come lui stesso li definiva) compilatori del codice italiano.


— 1077 — oggi nel gergo giuridico inglese si chiama irresistible impulse (121), e della cui rilevanza ancora si discute con diverse soluzioni in varie giurisdizioni di common law (122). d) L’ubriachezza viene anch’essa sottoposta ad un’espressa regolamentazione da Griffith. Sir Samuel non menziona qui, tra le fonti, il codice Zanardelli, ma alcune caratteristiche sia terminologiche che contenutistiche della s. 30, dedicata a tale materia, evidenziano che il Chief Justice del Queensland fece uso del codice italiano del 1889 pure nel compilare tale norma. Il Bill del 1880, d’altra parte, sulle orme del Draft Code del 1879, nulla disponeva in materia di intoxication, cosicché sembra logico pensare che una delle fonti cui Griffith attinse sia stato lo stesso codice Zanardelli (123). Ecco la traduzione della s. 30: Le disposizioni del precedente articolo si applicano anche al caso di una persona la cui mente è alterata da intossicazione o stupefazione involontaria cagionata da droghe o liquore intossicante o da una qualsiasi altra causa. Non si applicano al caso di una persona che si è volontariamente procurata l’intossicazione o la stupefazione allo scopo di commettere un reato, sia quello di cui è accusato o non, o allo scopo di godere di una scusa per la commissione del reato. Quando l’intenzione di causare un risultato specifico è un elemento del reato, l’intossicazione, sia completa che incompleta, sia volontaria che involontaria, può essere considerata allo scopo di appurare se tale intenzione esisteva effettivamente. Il primo comma ricalca, nell’incipit, quasi letteralmente il primo comma dell’art. 48 del codice italiano, ed anche contenutisticamente lo segue. Il secondo comma è tratto viceversa dall’ultimo comma della norma del codice Zanardelli, secondo cui « Le diminuzioni di pena stabilite nel presente articolo non si applicano, se l’ubriachezza sia stata procurata per facilitare l’esecuzione del reato o per preparare una scusa ». Sembra mancare, nella norma predisposta da Griffith, ogni riferimento all’ipotesi dell’ubriachezza volontaria ma non preordinata, che dal codice Zanardelli riceveva trattamento attenuante nel secondo comma, nn. 1o e 2o, dell’art. 48 cit. Va però detto che anche l’art. 49 del progetto Zanardelli del 1887, come approvato nel 1888 dal Parlamento, prevedeva la non punibilità della ubriachezza se anche non accidentale. L’autore del reato poteva solo essere punito in base alla contravvenzione di cui all’art. 471 di tale progetto, con la pena dell’arresto sino ad un anno o dell’ammenda. Forse Griffith si era ispirato anche al menzionato progetto. Quanto all’ultimo comma della s. 30 del progetto Griffith, esso trae spunto da un’assestata tradizione di common law, che trovava riscontro in altri codici di tali giurisdizioni (124). e) Le ss. 31 e 32 del progetto qui esaminato — concernenti rispettivamente la minore (121) Occorrerebbe soffermarsi sulla differenza tra tale nozione di irresistible impulse, quella (accolta talora dai codici preunitari) di forza irresistibile, e quella accolta dal codice Zanardelli di incapacità di volere, ma è approfondimento che non può certo farsi in questa sede. (122) Cfr. sul punto, nella dottrina italiana, E. GRANDE, voce Criminal Capacity, in Dig. discipl. pen., vol. III, 1989, p. 218 ss. In relazione al sistema scozzese, cfr. A. CADOPPI-A. MCCALL SMITH, Introduzione allo studio del diritto penale scozzese, Padova, 1995, p. 256 ss. (123) Del resto Griffith, come fonte della disposizione, afferma che essa è « probabilmente la common law », evidenziando che in realtà erano regole elaborate dallo stesso Griffith a mezzo, anche, dello studio del codice italiano. (124) Cfr. ad es. il simile § 22, parte finale, del codice penale di New York (versione approvata nel 1881); cfr. lo stesso Bill inglese del 1878.


— 1078 — età e una esimente speciale per gli operatori della giustizia — non sembrano particolarmente ispirate al codice Zanardelli (125), ma tout court alla common law (126). Griffith ha invece attinto a piene mani al codice italiano — sebbene in questo caso non lo riconosca espressamente (127) — nella formulazione delle norme concernenti le cause di giustificazione, e cioè l’adempimento del dovere, la legittima difesa e lo stato di necessità. Recita la s. 33 (che reca per titolo « Justification and Excuse: Compulsion »): Un soggetto non è responsabile penalmente per un’azione o un’omissione, se compie od omette di compiere l’azione in una delle seguenti circostanze, e cioè: (1) In esecuzione della legge; (2) In obbedienza all’ordine di un’autorità competente cui per legge è obbligato ad obbedire, salvo che l’ordine sia manifestamente illegittimo; (3) Quando l’azione è ragionevolmente necessaria per respingere una violenza attuale ed ingiusta minacciata a lui, o in sua presenza ad un’altra persona che si trova sotto la sua cura, o nei cui confronti egli si trova in una relazione coniugale, parentale, filiale o fraterna, o nel rapporto tra padrone e servo; (4) Quando compie od omette di compiere l’azione per salvare sé stesso da un imminente morte o grave danno alla persona minacciata a lui da qualche persona presente in quel momento ed in grado di porre in esecuzione la minaccia, e ritenendo di essere impossibilitato ad evitare altrimenti l’inflizione del male minacciato: Ma questa protezione non si estende ad un’azione od omissione che costituirebbe un reato punibile con la morte, o un reato di cui è un elemento la causazione di un pericolo attuale di vita o di un danno grave alla persona, o un’intenzione di causare tale pericolo o danno, né ad una persona che, entrando a far parte di una associazione illecita o di una cospirazione, si è resa passibile di subire simili minacce (128). Si sono evidenziate col grassetto le parti della section del progetto tratte più o meno testualmente dal codice Zanardelli. Come si nota, la scriminante dell’adempimento del dovere, sia derivante dalla legge che dall’ordine dell’Autorità, è quasi identica a quella contenuta nell’art. 49, n. 1, codice italiano del 1889. Unica differenza di rilievo: il riferimento alla manifesta illegittimità dell’ordine come limite all’obbligo di adempiervi, presente nel progetto e non nel codice Zanardelli. Assai simile, anche terminologicamente, a quanto dispone l’art. 49, n. 2, cod. Zanardelli, è la formulazione della legittima difesa da parte del Draft Code di Griffith. Ciò peraltro se si esclude il punto della difesa del terzo, non indiscriminata (come nel codice Zanardelli), ma limitata a parenti stretti et similia. Sul punto Griffith richiama il codice civile tedesco del 1896, ma questo, ai §§ 226 ss., prevedeva una regolamentazione ben più tortuosa e complessa, e comunque affatto differente, della legittima difesa. Forse si tratta di un refuso tipo(125) Se non forse in relazione alla espressa menzione del « momento del commesso reato » con riferimento al momento in cui valutare se il minore (che avesse però compiuto i sette anni ma non ancora i quattordici) aveva agito con discernimento o meno. Nella Relazione ministeriale 1887, cit., p. 230, Zanardelli sottolineava il fatto che tale precisazione rappresentava una novità rispetto al passato. Nei vari progetti Stephen tale espressa menzione non compariva. (126) Griffith lo sottolinea esplicitamente nella colonna di sinistra rispetto all’art. 31; alla sinistra della s. 32, come in relazione alla s. 30 sulla intoxication, compare la sibillina espressione Probably Common Law. (127) Menzionati sono solo: più volte la common law; il Bill del 1880, s. 56 e s. 24; nonché (peraltro erroneamente) il codice civile tedesco del 1896, s. 221. (128) La s. si conclude con: « Se un ordine sia o meno manifestamente illegittimo è questione di diritto ».


— 1079 — grafico o di un errore dello stesso Griffith. Casomai sarebbe stato appropriato il riferimento al codice penale tedesco del 1871, che ai §§ 52 e 54 prevedeva due scriminanti nell’ambito delle quali la tutela del terzo era in effetti limitata a parenti stretti et similia. Tali scriminanti non erano tuttavia coincidenti con la legittima difesa, prevista al § 53 e legittimante la protezione di un qualsiasi terzo: si trattava infatti, in un caso, della « minaccia accompagnata da un pericolo attuale per il corpo o la vita »; e nell’altro dello « stato di necessità », come noi lo intendiamo oggi. Come si vedrà, comunque, la limitazione della sfera dei terzi difendibili, assai meno giustificabile nell’ambito della legittima difesa (129), sparirà nella versione del progetto Griffith del 1899. Quanto allo stato di necessità, anch’esso ricalca quasi letteralmente il n. 3 dell art. 49 codice Zanardelli, salvo il fatto che è limitato all’ipotesi della compulsion (o duress, o coercion), ossia della minaccia da parte di un terzo (c.d. coazione morale), secondo una tradizione abbastanza diffusa nella common law. La più ampia defence della necessity non fu espressamente prevista da Griffith (nemmeno nella forma limitata, in fondo accolta dal codice Zanardelli e dallo stesso nostro codice attuale, della c.d. duress of circumstances (130)), ma rientrava presumibilmente nell’ampia disposizione sulle Extraordinary Emergencies di cui alla menzionata s. 27. Anche il limite della operatività della scriminante di cui alla seconda parte del n. 4 della s. 33 si spiega per l’osservanza da parte di Griffith di una ferrea regola di common law in base alla quale la duress non scrimina laddove il soggetto, in tale stato, commetta un omicidio (od altri gravissimi reati) (131), limite che non connota la nostra scriminante dello stato di necessità, come dimostra il classico esempio da manuale dei due naufraghi sulla zattera. Griffith stesso peraltro, si rendeva conto dell’eccessivo rigore di tale regola di common law, se commentava: « il diritto su questo punto è assai misero » (132). Egli era senz’altro a conoscenza della maggiore ampiezza e mitezza della legge italiana in materia e forse avrebbe voluto imitarla, ma sarebbe stato un passo troppo ardito per un sia pur importante giudice di una remota e piccola giurisdizione succube, per molti versi, dell’Inghilterra e delle regole più salde del diritto di tale nazione. (129) Va peraltro notato che nella dottrina tradizionale della common law era assai dubbio che la legittima difesa (chiamata non a caso self-defence) potesse estendersi alla difesa di un altro, salvo che l’altro fosse appunto un parente stretto, e simili: cfr. W. BLACKSTONE, Commentaries on the Laws of England, vol. IV (1769), rist. Chicago, 1979, p. 186 (in tema di omicidio se-defendendo). Ma già nel corso dell’Ottocento si era diffusa l’opinione, oggi maggioritaria, che include la difesa di un terzo nella legittima difesa: riferimenti in W.R. LAFAVE and A.W. SCOTT, Handbook on Criminal Law, St. Paul, Minn., 1972, p. 397 ss.; G. WILLIAMS, Textbook of Criminal Law2, London, 1983, p. 501 (che quindi ritiene più corretta la dizione private-defence); molti codici dell’epoca, tuttavia, ancora contenevano la superanda delimitazione: p. es. il codice di New York, 205. Si noti che il limite della difesa legittima alla difesa dei più stretti congiunti, o del padrone da parte del servo, ecc., è — benché la cosa sia discussa (cfr. B. ALIMENA, I limiti e i modificatori dell’imputabilità, vol. III, Torino, 1899, p. 79) — di origine romanistica: V. POSITANO DE VINCENTIIS, voce Difesa legittima, stato di necessità, disposizione della legge e ordine dell’autorità (1899), in Digesto it., vol. IX, p. 2a, Torino, rist. 1925, p. 362 (le cose cambiarono col diritto canonico, nell’ambito del quale la difesa di un diritto altrui divenne addirittura un dovere: ivi, p. 365; con la codificazione, in pratica tutti i codici del mondo di civil law estesero la difesa legittima alla difesa d’altri: ivi, p. 377, e, per un lunghissimo elenco: F. CARRARA, Programma, Parte speciale8, Firenze, 1906, vol. I, § 1086, nt. 2, pp. 55-56). (130) Una tale figura di stato di necessità era stata proposta da Stephen nel suo progetto del 1878, ma a seguito di approfondita discussione nel seno della Royal commission venne eliminata nel Draft code del 1879: cfr. Report, 1879, cit., p. 43, nt. A. Nel progetto del 1879 e nel Bill del 1880 viene prevista solamente la compulsion, come nel codice Griffith. (131) Sulla problematica cfr. per tutti G. WILLIAMS, Textbook, cit., p. 603 ss. (132) Draft, 1897, cit., p. 16, nt. 1.


— 1080 — Ciò che va qui rimarcato, per concludere sul tema delle cause di giustificazione, è che il progetto Griffith, in questa materia, si distacca nettamente dai vari disegni di legge o dagli stessi codici derivanti dal progetto Stephen del 1878. Una trattazione così generale delle esimenti, tipica dei codici continentali ed in particolare del codice Zanardelli (133), era contrastante con lo spirito del common lawyer, più incline a pensare a defences assai più specifiche, talora addirittura inserendole nella parte speciale. Un’osservazione, quest’ultima, che vale in relazione all’intero capitolo dedicato da Griffith ai principi generali della responsabilità penale, capitolo in cui emerge in tutta la sua evidenza il credito del « signor Zanardelli » nei confronti del suo (forse a lui ignoto) estimatore australiano. 3.2.6. La parte speciale. — Se è nell’ambito della parte generale che Griffith trasse i più qualificanti spunti dal codice Zanardelli, pure nella parte speciale del progetto — ed in particolare della prima versione di esso, del 1897 — si riscontrano significativi, anche se più sporadici caratteri di marca zanardelliana. 3.2.6.1. I reati contro il potere esecutivo e legislativo. — Il progetto Griffith prevede un Capitolo — quello VIII, concernente i « reati contro il potere esecutivo e legislativo » — che invano si cercherebbe nel Bill inglese del 1880 o in altri progetti o codici ad esso collegati. Un simile capitolo caratterizzava invece il codice di New York (134), nonché, con terminologia lievemente differente, il codice Zanardelli (135). Quest’ultimo codice aveva innovato parecchio sul tema rispetto ai codici preunitari (136), i quali erano ovviamente meno sensibili alle esigenze di tutela di tali beni, caratteristici di uno Stato dotato di una Costituzione ad assetto moderno e democratico. Nell’ambito delle singole disposizioni, il progetto Griffith prevedeva innanzitutto la s. 55 (« Interferenze con Governi o Ministri »). Come fonte di tale norma Griffith richiama espressamente il solo codice Zanardelli (art. 118), così come avviene anche in riferimento alla s. 56 (« Interferenze con il Legislatore ») (ancora art. 118) (137). In relazione alla s. 57 (« Disturbo al Legislatore »), Griffith menziona viceversa, quale fonte, il codice penale di New York, così come avviene con riguardo ad altre disposizioni dello stesso capitolo (138). In effetti gli articoli formulati da Griffith presentano differenze avvertibili rispetto alle fonti da cui sono stati tratti, soprattutto quelli in cui è il codice Zanardelli ad essere richiamato. Peraltro è notevole che in una materia così centrale ed importante — concernente la tutela delle stesse istituzioni democratiche — Griffith si sia allontanato dalla common law (133) Certo, se consideriamo i codici preunitari, noteremo che spesso talune scriminanti sono sistemate nella parte speciale, ed altre presentano caratteri di specificità lontani dalla tecnica legislativa di « normazione sintetica » cui siamo oggi abituati, e che abbiamo ereditato dal codice Zanardelli, i cui compilatori da questo punto di vista sui erano certamente ispirati al Carrara ed alle sue dottrine: cfr. F. CARRARA, Lineamenti, cit., spec. p. 113 ss., in critica a disposizioni troppo casuistiche del codice sardo (il Sommo Carrara fa riferimento a « certe materialità eventuali ed inconcludenti », che sarebbero state inopportunamente prese in considerazione dal legislatore sabaudo). (134) Nell’ambito del quale vi erano in realtà due separati titoli, il sesto concernente i reati da e contro il potere esecutivo dello Stato; ed il settimo concernente i reati contro il potere legislativo. (135) Ove peraltro vi era un solo capo dedicato alla materia: il capo II del Titolo I (« Dei delitti contro i poteri dello Stato »). Si può dunque dire che Griffith nell’organizzare questa materia aveva tratto spunto da entrambi i codici, come risulterà più evidente nel testo. (136) Cfr. per tutti, sul punto, G. CRIVELLARI, Il codice penale, vol. V, Torino, 1894, p. 135 ss. (137) Draft, 1897, p. 28. (138) Draft, 1897, pp. 28-29 (in relazione alle ss. 57, 59, 60 e 61; richiamate rispettivamente le ss. 59-63, 69, 67 e 66 del codice di New York).


— 1081 — per ispirarsi ad un codice di un paese in cui in fondo la democrazia parlamentare era conquista piuttosto recente. Che il codice Zanardelli fosse ispirato a principi liberali e democratici è peraltro cosa notoria, anche se talvolta forse troppo semplicisticamente enfatizzata. È altresì interessante osservare che anche laddove Griffith, nel regolamentare questa materia, si è ispirato al codice di New York, sia pur indirettamente filtra un’impostazione forse più vicina alla tradizione di civil law che a quella di common law. Infatti la fonte a cui in argomento, a loro volta, si erano ispirati i compilatori del codice di New York era il codice penale progettato da Livingston (139), di cui sopra si diceva, codice dalle cospicue venature di civil law. 3.2.6.2. fith recita:

Il reato di « interferenze con la libertà politica ». — La s. 78 del progetto Grif-

Chiunque con violenza, o minaccia o intimidazione di qualsivoglia genere impedisce od interferisce con il libero esercizio di qualsiasi diritto politico di un altra persona è colpevole di un misdemeanour ed è punito [...] Se il colpevole sia un pubblico ufficiale, e commette il reato con abuso della sua autorità, è punito [...] Come si può notare (i tratti in comune sono evidenziati dal carattere grassetto), la norma ricalca quasi parola per parola l’art. 139 codice Zanardelli, richiamato come unica fonte dallo stesso Griffith (140). Secondo O’Regan, l’autore australiano che più di ogni altro ha studiato — anche da un punto di vista storico — il codice Griffith, la norma « non aveva alcun riscontro nella legge non scritta o scritta d’Inghilterra, ma assicura un’appropriata tutela ai diritti politici in una società democratica » (141). Tanto che ad essa si ispirerà nel 1914 la s. 28 del Commonwealth Crimes Act, a livello federale. Si noti che Griffith aveva attinto al codice italiano anche nella formulazione del Capitolo ove la norma era stata inserita, intitolato — quasi (142) esattamente come il Capo I del Titolo II del codice Zanardelli — « Reati contro la Libertà Politica ». 3.2.6.3. I reati di rivelazioni di segreti d’ufficio. — Il Chapter XII del progetto Griffith si occupa dei reati di rivelazioni di segreti d’ufficio. Nell’ambito di tale capitolo, Griffith richiama il codice italiano quale fonte solo in relazione ad una delle tre norme che lo compongono: la s. 86 (Rivelazione di altri segreti d’ufficio), che in effetti ricalca quasi in toto l’art. 177 del codice italiano (143). Peraltro, anche nel formulare la s. 85 Sir Samuel doveva essersi ispirato al nostro codice, poiché tale disposizione (« Ottenimento della rivelazione di segreti concernenti la Difesa [dello Stato] ») era assai simile all’art. 108 di tale codice. Così pure era senz’altro di ispirazione italiana il secondo comma della s. 84, concernente l’ipotesi della rivelazione colposa di segreti concernenti la Difesa dello Stato da parte di pubblici ufficiali: similmente disponeva infatti l’art. 109 del codice Zanardelli. Si noti che la common law è sempre stata riluttante ad incriminare condotte colpose, cosa assai più frequente nella tradizione di civil law, cui Griffith ha dunque certamente attinto in questa occasione. Si può soggiungere che la materia della tutela dei segreti d’ufficio ha da tempo trovato (139) Cfr. Penal Code, prog. 1865, cit., p. 35 ss., ove sono riportate dai compilatori le disposizioni del prog. Livingston utilizzate. (140) Draft, 1897, p. 36. (141) R. O’REGAN, Sir Samuel, cit., p. 144. (142) Il codice italiano titolava « Dei delitti contro le libertà politiche ». Tale Capo conteneva il solo art. 139. Sul punto cfr. per tutti G. CRIVELLARI, op. ult. cit., p. 371 ss. (143) Draft, 1897, p. 40.


— 1082 — più specifiche previsioni nella tradizione di civil law piuttosto che nella tradizione di common law (144). 3.2.6.4. L’abuso d’ufficio. — Un’altra disposizione del progetto Griffith in relazione alla quale il compilatore australiano ha espressamente riconosciuto (145) l’origine zanardelliana era la s. 94, dedicata all’abuso d’ufficio, reato piuttosto sconosciuto alla criminalistica di common law (146). Recitava la norma: Chiunque, impiegato nel Pubblico Servizio, abusando della autorità del suo ufficio, commette o ordina che sia commesso contro gli altrui diritti qualsiasi atto arbitrario è colpevole [...] Se l’atto è commesso o ordinato a fine di profitto (147), è punito [...] In carattere grassetto sono evidenziate le parti comuni tra la norma in esame e l’art. 175 del codice Zanardelli. Come si vede la norma italiana fu copiata quasi integralmente da Griffith, il quale d’altra parte non richiama nessun’altra fonte in relazione alla citata section. 3.2.6.5. La « falsa assunzione d’autorità » e l’« impersonazione di pubblici ufficiali ». — Sempre nell’ambito del Capitolo XIII, dedicato alla « Corruzione ed abuso di ufficio », si trovano due disposizioni in ordine alle quali sibillinamente Griffith rileva: « Probabilmente Misdemeanour nella Common Law », senza indicare altra fonte (148). Anche qui è peraltro chiara l’influenza del codice italiano del 1899. Con riferimento alla s. 96 del progetto Griffith (« Falsa assunzione di autorità »), esso trae sicuramente spunto dall’art. 185 codice Zanardelli (« Esercizio abusivo di pubbliche funzioni »), sia pur riducendone la portata ad ipotesi più specifiche (ecco un esempio di caso nel quale Griffith non è riuscito a disfarsi della propria mentalità di common lawyer a dispetto dei suoi stessi proponimenti). Quanto alla s. 97 (« Impersonazione di pubblici ufficiali »), essa è ispirata all’art. 186 del codice italiano (« Usurpazione di titoli o di onori »), ma anche qui la fattispecie ritagliata da Griffith risulta più dettagliata di quella italiana. Questa volta peraltro la limatura operata dal compilatore del codice del Queensland pare consona a rendere la norma più rispettosa sia del principio di tassatività che di quello di offensività. 3.2.6.6. Il rifiuto di atti di ufficio. — Nel Capitolo XX (« Miscellanei reati contro l’autorità pubblica ») — a parte certe consonanze tra la s. 204 (« Resistenza a pubblici ufficiali ») e l’art. 190 codice Zanardelli (« Resistenza all’Autorità ») — si rileva la presenza di un reato non molto diffuso nella tradizione di common law, e cioè del « Rifiuto di adempiere un dovere da parte del pubblico ufficiale » (s. 205), dichiaratamente (149) tratto dall’« Omissione o rifiuto di atti di ufficio » di cui all’art. 178 del codice italiano. Recitava la s. 205 del progetto del 1897: Qualsiasi persona impiegata nel pubblico servizio, o come funzionario in qualsiasi corte o tribunale, che volontariamente e senza una scusa legittima omette o rifiuta di compiere un atto che egli è obbligato a compiere in virtù del proprio impiego, è colpevole di un misdemeanour [...]. (144) Cfr. J.F. STEPHEN, A Digest of the Criminal Law of England, London, 1877, passim. (145) Draft, 1897, p. 43. (146) Cfr. J.F. STEPHEN, A Digest, cit., passim. (147) Il codice Zanardelli recita « un fine privato ». (148) Draft, 1897, p. 44. (149) Draft, 1897, p. 89.


— 1083 — In carattere grassetto si sono evidenziate le parti in comune tra il reato come concepito da Griffith nel 1897 e come formulato nel codice Zanardelli, salve insignificanti differenze. Si noti che, al posto della arcaica locuzione « per qualsiasi pretesto, anche di silenzio, oscurità o insufficienza della legge » di cui al cod. Zanardelli — derivante dal ritocco di una simile formula presente nel codice penale francese del 1810 da parte del codice penale parmense del 1820 — Griffith utilizza la più snella e sensata formula « senza una scusa legittima », formula che del resto connoterà i commenti dottrinali dello stesso art. 178 del codice del 1889 e che sfocerà nell’avverbio « indebitamente » di cui all’art. 328 del codice Rocco (150). Se in questo emendamento Griffith ha mostrato una matura sensibilità di legislatore, non così si può dire in relazione all’inserimento nell’ambito della fattispecie dell’avverbio « volontariamente » (wilfully), cosa inutile vista la presenza nella parte generale di una norma sull’elemento psicologico del reato che aveva proprio la funzione, negli stessi intenti di Griffith, di evitare di menzionare ad hoc lo specifico elemento psicologico richiesto per ogni singola fattispecie. Sono residui dei « crittotipi » (151) del common lawyer di cui Griffith non sempre riuscì a spogliarsi nella redazione della sua pur mirabile opera legislativa. Nel progetto definitivo del 1899, come si vedrà, l’avverbio verrà sostituito, anche se senza risultati migliori. Il Bill del 1880 prevedeva, invero, una fattispecie paragonabile, ma essa era strutturata in modo assai differente (152) rispetto alla soluzione adottata da Griffith, secondo cui tale fatto solo « probabilmente » costituiva un misdemeanour nella common law (153). Altra possibile fonte di area anglo-americana da cui Griffith poteva aver tratto spunto nel formulare la norma: il § 154 del codice penale di New York, peraltro non richiamato espressamente dal compilatore del codice del Queensland e d’altra parte diversamente architettato nel codice Field. Unica caratteristica della norma newyorkese probabilmente assimilata da Griffith: il riferimento espresso alla « volontarietà » del fatto, della cui matrice tipicamente anglo-americana si è del resto già detto (154). 3.2.6.7. Il reato di « pubblici attacchi a fedi religiose ». — Un’altra disposizione assai importante del progetto del 1897 attingeva — secondo quanto evidenziava lo stesso Griffith (155) — al codice Zanardelli. Si tratta della s. 213, che prevedeva il reato di « pubblici attacchi a fedi religiose ». Griffith richiamava sul punto gli artt. 141 e 142 del codice italiano, concernenti rispettivamente il reato di « Vilipendio per causa religiosa » e gli « Atti di disprezzo contro un culto e delitti contro i ministri di culto ». Griffith, proveniente da famiglia assai religiosa (156), teneva particolarmente alla section in questione, scrivendo: « Si ritiene che il testo (della norma) rappresenti il moderno sentimento in relazione ai limiti entro i quali coloro che professano credi religiosi dovrebbero essere tutelati dal diritto criminale da pubblici attacchi verso le loro fedi » (157). La legge inglese ed anche del Queensland, in materia, prevedeva un vetusto reato di bestemmia (Blasphemy), che — secondo quanto notava lo stesso Griffith — rispecchiava « il sentimento (150) Cfr. A. CADOPPI-P. VENEZIANI, voce Omissione o rifiuto di atti d’ufficio, in Enc. giur. (Treccani), Aggiornamenti, Roma, 1995, p. 3 ss. (151) Sul concetto cfr. R. SACCO, Introduzione allo studio del diritto comparato4, rist. 1990, p. 155 ss. (152) Lo stesso titolo era diverso: s. 114, Disobedience to a Statute. (153) Draft, 1897, p. 89. (154) D’altra parte anche la menzionata s. 114 del Bill del 1880 prevedeva tale avverbio. (155) Draft, 1897, p. 91. (156) Il padre, Edward, era pastore protestante (« congregazionalista »): R.B. JOYCE, Samuel, cit., p. 1 ss. (157) Draft, 1897, p. 91, nt. 1.


— 1084 — di duecento anni prima » (158). È dunque notevole che Sir Samuel nella previsione di una norma così significativa in relazione alla modernità del suo progetto avesse tratto ispirazione proprio dal recente ed illuminato codice italiano, codice attento ad ogni istanza di libertà compresa quella religiosa (159). Secondo sensibile dottrina australiana (160), probabilmente Griffith non utilizzò il solo codice italiano nel formulare la predetta norma. Essa così recitava: Chiunque, con l’intento di suscitare malanimo tra i sudditi di Sua Maestà, attraverso parole pronunciate pubblicamente, o qualsiasi scritto, segno, o rappresentazione visibile, pubblicamente esibita, espone alla pubblica derisione od oltraggio le dottrine di un qualsiasi credo religioso, è colpevole di un misdemeanour [...] (161). L’altra norma a cui Griffith, a detta di tale opinione, si sarebbe ispirato — pur senza ammetterlo — era la s. 298 del codice penale indiano realizzato da Macauley, che disponeva nel modo seguente: Chiunque, con il deliberato intento di ferire i sentimenti religiosi di qualsiasi persona, pronuncia una qualsiasi parola o produce un qualsiasi rumore udibile da tale persona o compie un qualsiasi gesto in vista di quella persona, o pone un qualsiasi oggetto alla vista di tale persona, sarà punito [...]. Peraltro, si può anche pensare che in effetti Griffith non abbia affatto tenuto in considerazione la norma elaborata da Lord Macauley. Invero, il dato saliente che sembra accomunare la s. 213 e l’art. 298 citt. è il riferimento alle modalità estrinseche attraverso cui può manifestarsi l’offesa alla fede religiosa. È vero che tali modalità caratterizzano la fattispecie disegnata da Macauley e non l’art. 141 del codice italiano (nell’ambito del quale semplicemente si diceva « pubblicamente vilipende »), ma è anche vero che Griffith poteva aver (158) Ibid.; v. anche ivi, p. 92, art. 161, colonna di sinistra (in questo caso il numero indica l’articolo del Digest compilato nel 1896 da Griffith). Eccone il testo: Chiunque, essendo stato educato ne, o avendo in qualsiasi tempo fatto professione de, la religione Cristiana in Queensland(1) Asserisce con scritti, stampe, o discorsi pubblici, che ci sono più Dei di uno; o (2) Nega, con scritti, stampe, o discorsi pubblici, la verità della religione Cristiana o l’Autorità Divina delle Sacre Scritture del Vecchio e del Nuovo Testamento; è colpevole di un misdemeanour, ed è, se condannato, dichiarato incapace di tenere qualsiasi ufficio, posto, o impiego civile o militare, o qualsiasi profitto o vantaggio pertinente a tale ufficio, posto, o impiego; e se egli tiene un qualsiasi simile ufficio, posto, o impiego, esso diviene nullo. Chiunque commetta un qualsiasi simile reato dopo essere stato condannato per un qualsiasi simile reato è passibile di condanna alla prigione per un periodo di tre anni, ed è per sempre incapacitato dall’adire una qualsiasi corte di giustizia [...]. Nel caso di prima condanna al reo sarà rimessa ogni pena ed incapacità derivante dalla sua condanna se egli riconoscerà il suo reato o rinuncerà alla sua erronea opinione nella corte in cui fu condannato, entro quattro mesi dopo la condanna [...]. (159) Sul punto cfr. P. NUVOLONE, Giuseppe Zanardelli, cit., p. 109, ove sono riportati ampi stralci della Relazione ministeriale 1887: per l’insigne A. « non occorrono particolari commenti per evidenziare la vera e propria contrapposizione che esiste tra questa normativa e quella del codice Rocco ». (160) R. O’REGAN, Two Curiosities, cit., p. 213 s. (161) Si riporta per comodità del lettore l’art. 141 cod. Zanardelli: « Chiunque, per offendere uno dei culti ammessi nello Stato, pubblicamente vilipende chi lo professa è punito, a querela di parte, con la detenzione sino ad un anno o con la multa da lire cento a tremila ».


— 1085 — tratto ispirazione, nel contemplare tali mezzi caratterizzanti l’azione, almeno da due altre fonti. In primo luogo, dallo stesso diritto vigente del Queensland: infatti, l’art. 161 del digesto delle leggi scritte vigenti nella colonia australiana compilato dallo stesso Griffith — che puniva l’arcaico reato di Blasphemy — faceva espresso riferimento a simili modalità del fatto (162). In secondo luogo, dal codice Zanardelli medesimo, sia pure in relazione ad un’altra fattispecie, quella di diffamazione aggravata, di cui all’art. 393, secondo comma, ove paragonabili specificazioni erano previste. Del resto l’attuale art. 594 c.p., secondo comma, in tema di ingiuria ripropone l’elencazione delle modalità dell’azione offensiva. Soprattutto, pare decisamente ispirato al codice Zanardelli il requisito della pubblicità del vilipendio, requisito non presente nella norma del codice penale indiano e che potrebbe spostare l’assetto della tutela da una sfera esclusivamente privatistico-individuale (tipica del codice di Macauley) a quella mista privatistico-individuale e pubblicistico-superindividuale (caratteristica del codice italiano) (163). Si vedrà che l’illuminata disposizione concepita da Griffith non avrà vita facile, e scomparirà nel testo definitivo del codice del 1899. 3.2.6.8. Il reato di vilipendio di cadavere. — La s. 243 del progetto del 1897 prevede il reato di vilipendio di cadavere (lett.: « Cattiva condotta in relazione a cadaveri »). In relazione ad essa Griffith richiama tre fonti: la common law (164), il disegno di legge inglese del 1880 (s. 154), ed il codice Zanardelli (art. 144). La disposizione ricalca peraltro quasi letteralmente la norma elaborata da Stephen, e solo per alcuni dettagli sembra prendere spunto dal codice Zanardelli. È comunque notevole che Griffith richiami il codice italiano sul punto. Ciò significa che, nell’optare per l’accoglimento della norma già formulata nei progetti inglesi, può essere stato determinante il riscontro di analoga norma in quello che Griffith riteneva il migliore e più moderno dei codici penali. 3.2.6.9. La provocazione in relazione al reato di assault. — Una delle disposizioni più caratterizzanti il progetto Griffith per la rottura con tradizionali regole della common law è quella di cui alla s. 276, che prevede la rilevanza della provocazione nell’ambito del reato di assault, un reato imparentato con la nostra fattispecie di lesioni personali. La common law, nonché il progetto Stephen — che su questi punti di norma seguiva la legge non scritta inglese — non attribuivano alcuna efficacia, né esimente né attenuante alla provocazione nell’ambito di tale reato. L’unico delitto che risultava attenuato dalla provocazione era tradizionalmente l’omicidio. Griffith pensò di estendere la rilevanza della provocazione anche al reato di assault, ed anzi ritenne opportuno dare ad essa efficacia scriminante, e non meramente attenuante. Ciò perché, secondo Griffith, tale soluzione rispecchiava « ciò che nella vita comune si riteneva una naturale regola di comportamento », cosicché « i giurati non sarebbero più stati costretti a forzare le loro coscienze per evitare di dare verdetti in sintonia con la legge, ma ripugnanti al loro senso della giustizia » (165). La soluzione di Griffith poteva dare adito a discussioni, e certamente oggi ne suscite(162) V. la nt. 158. (163) Per riferimenti ai lavori preparatori cfr. G. CRIVELLARI, op. ult. cit., p. 395 ss. Si afferma talora che il bene tutelato dalla norma in questione sarebbe tout court quello del sentimento religioso individuale (così P. SIRACUSANO, I delitti in materia di religione, Milano, 1983, p. 39 ss., ed ivi riferimenti); peraltro, autorevole dottrina, sotto l’impero del codice Zanardelli, enfatizzava l’aspetto pubblicistico: V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. IV, ed. Torino, 1926, pp. 408-409. Intermedia sembra essere l’opinione di G.B. IMPALLOMENI, Il codice penale italiano illustrato, vol. II, Firenze, 1890, p. 115 (l’A. era stato uno dei compilatori del codice). (164) In realtà Griffith scrive: « Probabilmente Misdemeanour nella Common Law » (DRAFT, 1897, p. 103). (165) Draft, 1897, cit., p. 114, nt. 1.


— 1086 — rebbe, ma era comunque coraggiosa, ed era quantomeno lodevole negli intenti di avvicinare le regole del diritto alle c.d. Kulturnormen. Aveva tratto ispirazione da qualche fonte particolare, Griffith, o si era inventato ex abrupto la disposizione in questione? Sir Samuel non lo dice, rilevando anzi che « nei libri si trova ben poco sul tema della provocazione salvo che in relazione all’omicidio » (166). Il codice Zanardelli poteva aver dato qualche suggerimento al compilatore del codice del Queensland. Infatti, la provocazione nel codice italiano, che in ciò innovava rispetto al passato (167), si trovava nella parte generale (art. 51), ed era dunque applicabile ad ogni tipo di reato, lesioni comprese. Peraltro la norma italiana comportava una semplice attenuazione di pena (168), e non una scriminante. Un sistema penale che viceversa — forse per la sua natura di sistema « misto », e cioè a metà strada tra la tradizione di civil law e quella di common law — contemplava la provocazione per l’assault, ed assegnava ad essa talora mera efficacia attenuante, ma in altre ipotesi addirittura efficacia scriminante, era quello scozzese (169). E Griffith — gallese di origine e certamente non ignaro della tradizione giuridica dei « cugini » scozzesi (170) — poteva aver tratto decisivo conforto da tale diritto, rappresentato nel diritto penale da opere assai importanti e diffuse nelle biblioteche di tutto il mondo di lingua inglese (171). La « rivoluzionaria » regola della provocazione scusante in relazione all’assault, dunque, entrò forse a far parte del diritto penale del Queensland grazie ad un influsso « misto », italo-scozzese. 3.2.6.10. I reati contro la libertà. — La classe dei reati contro la libertà, di cui al Capitolo XXXIII del progetto del 1897, è chiaramente ispirata, anche terminologicamente, al codice Zanardelli. I progetti Stephen infatti non prevedevano capitoli di tal genere, mentre il codice Zanardelli dedicava ai delitti contro la libertà ben sei capi, di cui il terzo (« Dei delitti contro la libertà individuale ») era quello cui attinse Griffith (172). In particolare la s. 361 (173), che contempla il reato di « Privazione della libertà », deriva dall’art. 146 del codice italiano, espressamente richiamato da Griffith (174). Recita la norma australiana: (166) Ibid. (167) Cfr. Relazione ministeriale 1887, cit., p. 229. (168) Era detta, secondo la terminologia dell’epoca, « scusante ». (169) Cfr. sul punto, e per riferimenti agli autori che al tempo di Griffith e ancor prima avevano trattato il problema, G. GORDON, The Criminal Law of Scotland2, Edinburgh, 1978, p. 830 ss. (170) Nella biblioteca della Corte Suprema di Brisbane, di cui al tempo della compilazione del codice Griffith era Chief Justice, erano già allora presenti le principali opere penalistiche scozzesi (come ho potuto verificare di persona). (171) Anche i compilatori del codice penale di New York (prog. 1865) attinsero a varie opere di penalisti scozzesi, e soprattutto all’insuperato Maestro del diritto penale scozzese, e cioè a D. HUME, Commentaries on the Law of Scotland Respecting the Description and Punishment of Crimes, 2 voll., Edinburgh, 1797: cfr. Penal Code, prog. 1865, cit., Appendix B, p. lxix ss. (172) In realtà Griffith attinse al Titolo zanardelliano in altre occasioni di cui si è detto, ad es. in relazione ai delitti contro le libertà politiche e ai delitti di vilipendio alle religioni: tali delitti vennero peraltro separati da quelli contro la libertà individuale: per critiche alla sistemazione dei reati contro la libertà in un unico « calderone » cfr. ad es. C. CIVOLI, Trattato di diritto penale, vol. II, Milano, 1912, p. 211 ss. (Capitolo intitolato significativamente: « Eterogeneità del contenuto del titolo secondo del libro secondo del codice penale »). (173) Quanto alla s. 360 (Kidnapping), essa, pur desunta dalla common law, ed in particolare dal caso australiano R. v. Coath, del 1871 (cfr. Draft, 1897, p. 136), è forse almeno parzialmente ispirata all’art. 145 cod. Zanardelli (« Plagio »). (174) Draft, 1897, p. 137. Secondo Griffith il reato sarebbe anche un misdemeanour nella legge non scritta del Queensland.


— 1087 — Chiunque illegittimamente confina o detiene alcuno in un qualsiasi luogo contro la sua volontà, o comunque priva alcuno della libertà personale è colpevole di un misdemeanour [...]. Se il colpevole è una persona impiegata nel pubblico servizio, e commette il reato con abuso della sua autorità [...]. La prima parte della section ricalca in effetti l’art. 146 del codice italiano del 1899, ma anche il secondo comma è tratto, pur senza esplicita ammissione da parte di Griffith, dal codice Zanardelli, ed in particolare dall’art. 147. In carattere grassetto sono evidenziate le parti della norma australiana più o meno coincidenti con le disposizioni del codice Zanardelli. Un’altra fattispecie tolta quasi di peso dal codice Zanardelli è la s. 365 (« Minacce »), che così dispone: Chiunque minaccia di fare del male, o causare danno ad alcuno con l’intento di impedire od ostacolare tale persona dal compimento di un’azione che essa ha il diritto di compiere, o con l’intento di costringerla a compiere un’azione che essa ha il diritto di non compiere, è colpevole [...]. Trattasi di norma assai simile all’art. 154 del codice italiano (« Violenza privata »), e che non aveva riscontro nella common law né nei progetti inglesi dell’epoca. 3.2.6.11. Le aggravanti del furto. — La materia dei delitti contro il patrimonio ricevette da Griffith una robusta risistemazione rispetto al passato. Del resto le leggi inglesi erano famose per la loro caoticità, ed allo stesso tempo per la loro draconiana severità in particolare nella materia de qua (175). Il compilatore del codice del Queensland, in argomento, fece largo uso dei progetti Stephen, ma realizzando un assetto normativo, a detta dello stesso Griffith, « sostanzialmente in sintonia con l’antico diritto romano e con il moderno diritto italiano » (176). In particolare, il codice italiano viene richiamato espressamente, quale fonte — accanto al Bill del 1880 (s. 247) — in relazione alla s. 404, che prevede le varie aggravanti del furto, non molto dissimili (specie quelle del n. IV) da quelle prevedute dagli artt. 403 e 404 del codice Zanardelli (177). Solo alcune di tali aggravanti sembrano peraltro essere state tratte da queste ultime norme. 3.2.6.12. La diminuzione di pena per la desistenza volontaria. — Si era più sopra notato che il codice Zanardelli aveva rappresentato il modello su cui Griffith aveva elaborato la definizione del tentativo, pur con soluzioni parzialmente diverse. È nella parte speciale che Griffith dispone sulle pene da applicarsi nelle varie ipotesi di tentativo. Quanto alla desistenza volontaria, si ricorderà che Sir Samuel aveva optato per la punibilità di tale ipotesi a titolo di tentativo, in contrasto con la più benigna soluzione del codice Zanardelli. Con la s. 561 (« Riduzione di pena »), peraltro, egli tiene conto del diverso disvalore di tale figura, e prevede una ulteriore diminuzione di pena rispetto alle pene, già diminuite rispetto al reato consumato, del tentativo. (175) Cfr. le pagine di V. MANZINI, Trattato del furto e delle sue varie specie2, vol. II, Torino, 1912, p. 619 ss., che non lesina certo le critiche alle leggi inglesi. Un esempio: « Quando il rispetto della tradizione si spinge a questi grotteschi eccessi, o si tratta di una soltanto formale imitazione romana, ovvero vi si deve riconoscere un’assoluta deficienza di buon senso giuridico. In entrambi i casi, sotto una maschera di serietà pedantesca, si rivela una mente ristretta e un sentimento puerile » (ivi, p. 621). (176) Draft, 1897, p. XIII, nt. a. (177) Id., p. 158.


— 1088 — Le argomentazioni dei compilatori del codice Zanardelli (178), insomma, ebbero comunque un peso nella scelta di Griffith (179), lontana dagli schemi della common law. 3.3. Dal progetto del 1897 a quello del 1899. — Nel febbraio 1899, come si diceva, fu insediata una commissione per rivedere il progetto del 1897. Dopo quasi trenta riunioni, nel giugno 1899 la commissione elaborò un suo Draft Code preceduto da un breve Report introduttivo (180). I cambiamenti apportati al primo progetto non furono molti. Vediamo quali di essi riguardavano le norme tratte dal codice Zanardelli. 1) Quanto all’impianto complessivo del codice ed alle disposizioni più generali in tema di legalità (§ 3.2.1.), nulla muta. 2) Rimane la distinzione tra crimes e misdemeanours (§ 3.2.2.). 3) Il tentativo non subisce modifiche (§ 3.2.3.). 4) Lievi modifiche, che nulla spostano in relazione all’influenza del codice Zanardelli sul progetto Griffith, si registrano in tema di legge penale nello spazio (§ 3.2.4.) (181). 5) Nessuna modifica si ha nel Capitolo V, in tema di principi generali sulla responsabilità penale, salvo quanto segue (182): a) la s. 30 (nel progetto del 1899 divenuta s. 28) viene riformulata nel modo seguente (183): Le disposizioni del precedente articolo si applicano anche al caso di una persona la cui mente è alterata da intossicazione o involontaria stupefazione cagionata senza sua intenzione da droghe o liquore intossicante o attraverso da una qualsiasi altro causa mezzo. Non si applicano al caso di una persona che si è volontariamente procurata l’intossicazione o la stupefazione allo scopo di commettere un reato, sia quello di cui è accusato o non, o sia allo scopo di godere di una scusa per la commissione del reato che non. Quando un’intenzione di causare un risultato specifico è un elemento del reato, l’intossicazione, sia completa che incompleta, sia volontaria che involontaria, può essere considerata allo scopo di appurare se tale intenzione esisteva in effetti (184). b) La s. 33 (nel progetto del 1899 divenuta s. 31), n. 3, viene così riformulata, in modo da ricomprendere qualsiasi terzo nella legittima difesa di altri: (3) Quando l’azione è ragionevolmente necessaria per respingere una violenza attuale ed ingiusta minacciata a lui, o ad un’altra persona in sua presenza ad un’altra persona che si trova sotto la sua cura, o nei cui confronti egli si trova in una relazione coniugale, parentale, filiale o fraterna, o nel rapporto tra padrone e servo (185); Per il resto, nessuna modifica rilevante. (178) Relazione, cit., p. 237 s. (179) Il quale richiama, a p. 252, nt. 1, del Draft, 1897, la nota dallo stesso compilatore annessa alla s. 4, sopra menzionata, alla nt. 99. (180) Criminal Code Commission, Report of the Royal Commission on a Code of Criminal Law, together with Proceedings of the Commission and Draft Criminal Code Bill and Criminal Code, Brisbane, 1899 (d’ora in poi citato come Report, 1899). (181) Report, 1899, p. 23 s. (182) E salve modifiche minori di carattere meramente terminologico se non grammaticale. (183) In carattere barrato sono evidenziate le parti cancellate dal progetto del 1897; in carattere grassetto sono evidenziate le parti aggiunte. (184) Report, 1899, p. 28. (185) Ibid.


— 1089 — 6) Nella parte speciale si hanno le seguenti modifiche rilevanti (186) in relazione a disposizioni derivanti dal codice Zanardelli. a) La s. 205 (ora 203), concernente il rifiuto di atto d’ufficio, veniva modificata nel modo seguente: Qualsiasi persona impiegata nel pubblico servizio, o come funzionario in qualsiasi corte o tribunale, che volontariamente perversamente e senza una scusa legittima omette o rifiuta di compiere un atto che egli è obbligato a compiere in virtù del proprio impiego, è colpevole di un misdemeanour [...] (187). Come si nota, quell’avverbio « volontariamente » di cui più sopra si era parlato veniva sostituito con altro avverbio che aveva probabilmente più ragion d’essere, dal momento che si distaccava certamente da quanto disponeva la parte generale in tema di elemento soggettivo. Peraltro non rappresentava una conquista tecnico-legislativa, non essendo certamente chiaro, e dunque conforme al principio di tassatività, il riferimento ad un non meglio precisato intento « perverso » del pubblico ufficiale. Indubbia era comunque la volontà della commissione di ridurre la portata incriminatrice di una norma che rischiava di criminalizzare a tappeto ogni lieve inadempienza dei pubblici funzionari. Un difetto della norma che si sarebbe fatto sentire anche da noi, specie in relazione all’art. 328 del codice Rocco, che dovette essere sostituito recentemente proprio per quel motivo (188). b) La s. 213 (ora 210) veniva così emendata: Chiunque, con l’intento di suscitare malanimo tra arrecare offesa ad uno qualsiasi dei sudditi di Sua Maestà, attraverso parole pronunciate pubblicamente, o qualsiasi scritto, segno, o rappresentazione visibile, pubblicamente esibita, espone alla pubblica derisione od oltraggio le dottrine o alle pratiche di un qualsiasi credo religioso, è colpevole di un misdemeanour [...] (189). Le modifiche riconsegnavano alla fattispecie una dimensione offensiva lato sensu privatistica, che peraltro era certamente presente nello stesso codice Zanardelli, ove l’art. 141 richiedeva che l’agente, « per offendere uno dei culti ammessi nello stato, pubblicamente vilipende[sse] chi lo professa[va] » (190). La commissione sottolineava l’importanza innovativa della fattispecie ed invitava il legislatore a dedicare ad essa « speciale attenzione » al momento dell’approvazione del progetto (191). c) Il secondo comma della s. 361 (nel progetto del 1899 s. 359) — concernente il sequestro di persona commesso dal pubblico ufficiale — veniva cancellato (192). 3.4. Dal progetto del 1899 al codice del 1899. — Pochissimi gli emendamenti apportati al progetto del 1899, come si diceva, nel codice definitivamente approvato nell’autunno dello stesso anno (193). Uno di questi peraltro, avvenuto a livello di uffici ministeriali ancor prima della discussione in aula del disegno di legge, andava a colpire proprio una delle disposizioni tratte dal codice Zanardelli, disposizione su cui molto aveva puntato Griffith. Spariva infatti dal Bill (186) Lievissime, non rilevanti modifiche sono state apportate alla s. 86, in tema di rivelazioni di segreto di ufficio: Report, 1899, p. 42. (187) Report, 1899, p. 69. (188) Cfr. A. CADOPPI-P. VENEZIANI, op. cit., passim. (189) Report, 1899, p. 70. (190) V. retro, la nt. 163. (191) Report, 1899, p. 70, nonché p. xi, ove la si descriveva come « un’importante modificazione alla legge statutaria attuale ». (192) Report, 1899, p. 98. (193) 63 Vic. No. 9, 1899, Criminal Code Act (« The Criminal Code Act, 1899 »).


— 1090 — definitivo presentato dall’Attorney-General la norma che tutelava le fedi religiose dai pubblici vilipendi (la s. 213 del progetto del 1897) (194). Probabilmente essa rappresentava un passo avanti troppo brusco rispetto al passato. Una simile norma era stata proposta una decina di anni prima in Inghilterra e non era stata approvata (195), e lo stesso Stephen — uomo piuttosto conservatore, sotto questi profili — si era mostrato contrario a disposizioni di tal fatta (196). Così veniva a cadere una qualificante innovazione proposta da Griffith, che sarebbe poi entrata a far parte del diritto australiano e di molti altri sistemi di common law successivamente (197). Per il resto, tutte le norme compilate da Griffith di (parziale o totale) derivazione zanardelliana sono rimaste nella versione finale del codice approvato nel 1899 per entrare in vigore nel 1901. 3.5. Le principali modifiche nei quasi cento anni di vigenza del codice Griffith. — Quante delle disposizioni originate dal codice Zanardelli furono modificate nei quasi cento anni di vigenza del codice Griffith? Saranno qui di seguito sinteticamente segnalate le modifiche principali (198). Taluni cambiamenti sono stati apportati alla materia della legge penale nello spazio, anche se non tali da intaccare il contributo, in realtà non determinante, arrecato a Griffith dal codice Zanardelli sul punto. Il codice Griffith era del resto piuttosto macchinoso in argomento. Nessuna modifica rilevante si riscontra nell’ambito delle norme, cui Griffith tanto teneva, che disciplinano la responsabilità penale, in buona parte di ispirazione zanardelliana. Nell’ambito del reato di falsa assunzione di autorità, si riscontra l’aggiunta (avvenuta nel 1988) di una terza ipotesi di realizzazione del reato. Ciò dipende sicuramente dal fatto che, come si era notato, Griffith si era ispirato, nel redigere la norma, all’art. 185 del codice italiano, ma invece di usare la generale espressione impiegata da tale disposizione, aveva precisato i singoli casi in cui l’usurpazione di pubbliche funzioni era penalmente rilevante. Ovvia conseguenza di tale tecnica legislativa: la creazione di lacune, per colmare le quali si dovette procedere ad un intervento legislativo che integra le ipotesi penalmente rilevanti di funzioni usurpate con altre ipotesi altrettanto specifiche. Basteranno tali ipotesi nel futuro? Per il resto, nessuna modifica rilevante. Dunque, sino al 1995, il codice Griffith, in relazione alle fattispecie tratte in tutto o in parte dal codice Zanardelli, è rimasto più o meno intatto. 3.6. Il nuovo e già abrogato codice del 1995. — Il presente studio non intende occuparsi del nuovo codice penale del Queensland — peraltro, come si è detto, decaduto ancor prima di essere entrato in vigore — in dettaglio. Basti qui notare che esso è nato (sia pur per non sopravvivere a lungo) in modo quasi « furtivo » nei primi mesi del 1995, dopo una fase (194) Cfr. R. O’REGAN, Two Curiosities, cit., p. 214. (195) Ibid. (196) Cfr. J.F. STEPHEN, A History of the Criminal Law of England, vol. III, London, 1883, p. 312 ss., in critica alle disposizioni del codice penale indiano. (197) Ancora R. O’REGAN, op. ult. cit., p. 215. (198) Tratte da R.F. CARTER, Criminal Law of Queensland8, Sydney, ecc., 1992, passim. Cfr. pure, tra le cose più recenti pubblicate in Australia negli ultimi anni concernenti in generale il codice penale del Queensland, R. O’REGAN, New Essays, cit.; E.J. EDWARDS-R.W. HARDING-I.G. CAMPBELL, The Criminal Codes — Commentary and Materials4, Sydney, 1992; The Laws of Australia — The Criminal Laws (a cura di R. HARDUNG), Sydney, 1992; E. CALVIN-S. LINDEN-LAUFER, Criminal Law in Queensland and Western Australia. Cases and Commentary, Sydney, ecc., 1994. Assai importante è poi il Final Report of the Criminal Code Review Committee to the Attorney-General, June 1992, elaborato da un comitato presieduto da R. O’Regan, è volto alla presentazione di un progetto di nuovo codice penale da sostituire al codice Griffith. Quanto scritto nel testo è aggiornato al dicembre 1994.


— 1091 — di elaborazione avvenuta più che altro nella burocrazia degli uffici dell’Attorney-General del Queensland, che si trovano a Brisbane di fronte al palazzo della Supreme Court. I compilatori hanno sì tenuto conto di un progetto di codice elaborato dal Criminal Code Review Committee — una commissione governativa presieduta da R.S. O’Regan — nel 1992 (199), ma hanno in realtà realizzato un prodotto molto diverso da esso, tra l’altro senza giustificare le soluzioni adottate — cosa che invece aveva fatto, in relazione al menzionato progetto del ‘92, la commissione presieduta da O’Regan. Benché il nuovo codice sia già « sparito » dalla circolazione, vale forse la pena di identificare i caratteri di esso in rapporto ai quali è rimasta intatta, o invece si è persa o stemperata l’impronta zanardelliana (200). a) In relazione all’impianto complessivo del codice, si può dire che alcune delle caratteristiche che apparentavano il codice Griffith al nostro codice del 1889 siano svanite o quantomeno attenuate. La struttura non è più così elegante e razionale: per esempio, le varie esimenti previste in relazione all’uso della forza da parte di pubblici agenti e di privati, da Griffith opportunamente sistemate nell’ambito dei reati contro la persona, si ritrovano ora nella parte generale (201). La scelta non pare giovare alla simmetria del codice, dal momento che tali esimenti sembrano utilizzabili solo in relazione ai reati contro la persona. Qui il nuovo codice torna all’impostazione di Stephen e dei suoi progetti, e si allontana dalla concezione in fondo più « continentale » del codice Griffith. Quanto alla tecnica legislativa, se molte delle lineari, sintetiche ed eleganti norme predisposte da Griffith rimangono, va detto che gran parte del codice sembra essere impostato su di una tecnica legislativa più vicina a quella dettagliata e pedante degli statutes inglesi. Addirittura viene predisposto alla fine del codice un « dizionario » che contempla le definizioni dei termini tecnici più ricorrenti (202). Tutto ciò non è necessariamente da criticarsi (203), ma allontana certamente il codice del 1995 dall’arioso spirito zanardelliano. La norma che ricalcava l’art. 2 codice Zanardelli, corrispondente a sua volta all’art. 2 codice Rocco, viene a cadere, restando solo la statuizione generale che esprime il principio di legalità (s. 6). Nulla viene dunque detto in relazione all’applicazione della norma più favorevole in caso di successione di leggi penali nel tempo. b) Quanto al tentativo, esso è definito in modo parzialmente diverso nel nuovo codice rispetto a come Griffith lo aveva previsto. Ecco la nuova definizione (s. 34) comparata con quella del codice Griffith: (1) Una persona tenta di commettere un reato se la persona (a) Quando una persona, volendo commettere un il reato, comincia a mettere in esecuzione la sua intenzione con mezzi idonei alla consumazione di esso, e manifesta la sua intenzione attraverso qualche atto esterno, compie un atto che è più che meramente preparatorio alla commissione del reato; ma (b) non realizza la sua intenzione della persona sino al tal punto da commettere il reato, si dice che tenta di commettere il reato. Non ha rilevanza, se non in relazione alla misura della pena (a) se il reo la persona compie tutto ciò che è necessario da parte della persona alla consumazione del reato; o (b) se la completa realizzazione della sua intenzione della persona sia impedita da circostanze indipendenti dalla sua volontà della persona; o (199) V. la nota precedente. (200) Cfr. Queensland, Criminal Code Act No. 37 of 1995 (verrà citato come Criminal Code, 1995). (201) Cfr. s. 57 ss. (202) Criminal Code, 1995, p. 322 ss. (203) Ricorda infatti il Book of Definitions del progetto Livingston.


— 1092 — (c) se egli la persona desista spontaneamente dalla ulteriore prosecuzione della sua intenzione volontariamente interrompa il tentativo. [...] (204). Insomma: a parte qualche innovazione di carattere formale — adottata in ossequio a canoni di tecnica legislativa, peraltro spesso pedanti ed involuti, ormai invalsi nella prassi del legislative drafting nel mondo inglese — ciò che colpisce è la sostituzione della formula zanardelliana, che evidenziava come primo momento rilevante a livello di tentativo la « messa in esecuzione » dell’intento criminoso, con una locuzione che, pur mirando allo stesso risultato, rovescia la prospettiva richiedendo che l’atto commesso sia « più che meramente preparatorio ». Contemporaneamente, sparisce il riferimento ai « mezzi idonei alla consumazione del reato ». Sia la prima che la seconda innovazione sembrano comprensibili. La prima, in quanto rispecchia, ad es., la formula della legge emessa in tema di tentativo nel 1981 in Inghilterra, e dunque si adegua alla prospettiva attraverso cui viene contemplata in molti paesi di common law la soglia minima di realizzazione del tentativo. La seconda, perché la formula zanardelliana poteva e doveva riferirsi al requisito dell’idoneità dei mezzi — poi filtrato con lievi modifiche nel codice Rocco — vista la non punibilità del tentativo inidoneo. Ma in un codice come quello australiano, nell’ambito del quale il tentativo inidoneo è punibile a titolo di tentativo, sarebbe contraddittorio — come lo era anche quando Griffith compilò il suo codice — richiedere l’idoneità dei mezzi (205). c) Qualche semplificazione si riscontra nella intricata materia della legge penale nello spazio, ma non tale da comportare radicali cambiamenti. d) Nell’ambito del capitolo sui principi della responsabilità penale (oltre a quanto già detto) si riscontra quanto segue: La disposizione sull’ignoranza della legge rimane praticamente inalterata, così come quella, centrale nell’economia del codice Griffith — anche se di non facile interpretazione e non amata da tutti — sull’intention (la famosa s. 23, ora s. 50). A questo proposito va però notato che viene aggiunto un comma assai importante e che rischia di limitare non poco la portata garantistica della norma in questione. Il secondo comma della nuova s. 50 dispone infatti: Un evento cagionato ad alcuno con l’esercizio della violenza da una persona non si verifica accidentalmente per il fatto che la persona su cui la violenza è esercitata soffre di una debolezza, difetto od anomalia ignoti alla persona che esercita la violenza. Si tratta della regola del « cranio sottile », tipica della tradizione di common law e di dubbia compatibilità con la norma a suo tempo coniata da Griffith (206) su ispirazione zanardelliana. Resta la disposizione sull’inesigibilità di cui all’art. 25 del codice Griffith (ora s. 53). Nell’ambito della insanity, ora definita (s. 52) Unsoundness of mind, vengono operate le seguenti modifiche: Una persona non è penalmente responsabile per un’azione od un’omissione se nel momento in cui ha compiuto dell’azione o l’omissione la persona si trovava in tale (204) In carattere grassetto sono riportate le parti in cui il nuovo codice modifica il vecchio; in barrato le parti eliminate dal nuovo codice rispetto al vecchio; in carattere normale le parti conservate nel nuovo; in corsivo le parti che il codice Griffith aveva derivato dal codice Zanardelli (sia pur con lievi differenze lessicali). (205) V. retro, la nt. 100. (206) Cfr. — in relazione ad un recente caso — G. KENNY, Abrogation of the ‘Eggshell’ Theory in Queensland Criminal Law: R. v. Van Den Bemd, in Univ. of Queensland Law J., 1995, p. 121 ss.


— 1093 — stato di per lesione cerebrale, malattia di mente o difetto mentale di naturale infermità mentale da togliergli non ha la capacità (a) di rendersi conto di ciò che la persona sta facendo; o (b) la capacità di controllare le proprie azioni della persona; o (c) la capacità di rendersi conto che la persona non doveva compiere l’azione o l’omissione. [...] (207). Come si vede, talune consonanze letterali tra il codice Griffith ed il codice italiano, di cui alla prima parte dell’articolo, vengono modificate, così come taluni termini tecnico-psichiatrici oggi non più usati vengono sostituiti. Il dato più importante che accomunava il codice del Queensland del 1899 ed il nostro del 1889, peraltro, rimane: anche nel nuovo codice quella che noi chiamiamo « capacità di volere » resta a connotare l’imputabilità, cosicché chi per malattia di mente perde la capacità di controllare la propria azione — pur rappresentandosene correttamente gli effetti e potendo rendersi conto della sua ingiustizia — sarà prosciolto. Ma questo fatto si spiega: in tutto il mondo di common law si va verso un progressivo riconoscimento scusante della incapacità di volere (208). In relazione alla intoxication, sparisce quasi ogni traccia degli influssi zanardelliani, del resto sin dall’inizio non ben armonizzati da Griffith nel tessuto della disciplina dell’istituto da lui concepita. In particolare il riferimento alla ubriachezza indotta « per preparare una scusa » al reo sparisce: Tale ipotesi — unitamente all’altra, di chi si ubriaca « per facilitare l’esecuzione del reato » — aveva senso di essere specificamente considerata dal codice Zanardelli perché in tale sede comportava la non applicazione delle circostanze attenuanti previste in relazione alle altre ipotesi di ubriachezza volontaria. Dal momento che Griffith, nel suo codice, non aveva previsto tali modulazioni sanzionatorie, l’espressa considerazione di tali ipotesi non aveva alcuna ragion d’essere ab initio. Quanto alle esimenti, la questione si fa interessante. Viene mantenuta, pur in collocazione particolare (s. 57), la defence dell’adempimento del dovere, sia in quanto obbedienza della legge che in quanto esecuzione dell’ordine dell’autorità. Lievissime le modifiche, più che altro terminologiche. D’altra parte, tale esimente era già prevista dalla tradizione di common law. Quanto allo stato di necessità, nella sottospecie della compulsion già contemplata dal codice Griffith, esso rimane praticamente inalterato (s. 67). Piuttosto, è la legittima difesa a subire una qualche modifica. Ciò non tanto nella terminologia utilizzata, che rimane quasi identica, quanto in relazione al fatto che il compilatori del Codice sembrano aver frainteso la portata della originale disposizione tratta dal Codice Zanardelli, considerandola più che come legittima difesa, come duress. Ciò è confermato dal fatto che alla legittima difesa sono dedicate tre diverse disposizioni del codice del 1995 (209). Ed inoltre dal fatto che anche per quella che nel Codice Griffith e nel codice Zanardelli rappresentava la legittima difesa (s. 67) valgono i limiti della utilizzabilità dell’esimente previsti per la compulsion. Tutto ciò a riprova del fatto che la generale ed armoniosa disposizione sulla legittima difesa prevista da Griffith in ossequio a tradizioni più continentali che anglosassoni non aveva avuto certamente l’impatto sulla prassi giudiziaria che mirava ad ottenere, ed in particolare non è riuscita a modificare una common law troppo radicata nella mentalità giuridica degli stessi australiani. e) Passando alla parte speciale, si può notare che il reato di interferenze con Governo e ministri di cui alla s. 54 del Codice Griffith sparisce, andando a specificarsi in altri più dettagliati reati. Rimane, invece la fattispecie di cui alla s. 55 del codice del 1899 in tema di in-

(207) Si sono seguiti gli accorgimenti tipografici di cui a nt. 204. (208) Riferimenti in A. CADOPPI-A. MCCALL SMITH, op. cit., p. 259 ss. (209) Cfr. ss. 67, subs. (2), 68 e 69.


— 1094 — terferenze con il potere legislativo, pur modificata e resa più analitica. Si ritrova nel codice del 1995 anche il reato di cui all’art. 78 del codice Griffith (interferenze con la libertà politica). Questa importante fattispecie, tratta ad opera di Griffith dal Codice Zanardelli, è dunque ritenuta anche oggi importante strumento di tutela della democrazia. Le varie ipotesi di rivelazioni di segreti di ufficio vengono a concentrarsi nella sola fattispecie di cui alla s. 198. In particolare viene abrogata l’ipotesi di rivelazione colposa, il che sembra denotare un ossequio da parte dei compilatori del codice alla tradizione di common law, riluttante alla punibilità della semplice colpa. Quanto all’abuso di ufficio, esso viene mantenuto dal nuovo codice (s. 199), che però non contempla una ipotesi così generica come la s. 94 del codice Griffith. Prevede invece quattro diverse ipotesi più specifiche: la prima concernente l’utilizzo di informazioni privilegiate, la seconda l’interesse privato in atti d’ufficio, la terza l’omissione di una funzione dell’ufficio, la quarta l’abuso di potere. In sostanza, il reato di rifiuto di atti d’ufficio, apparentemente abrogato, va a rifluire nella terza ipotesi appena menzionata, peraltro parzialmente diversa. I reati di falsa assunzione di autorità e di impersonazione di pubblici ufficiali sono abrogati, anche se quest’ultimo pare rientrare nella più generica disposizione di cui alla s. 185. La fattispecie di attacchi pubblici alle fedi religiose, come detto non comparsa nella versione definitiva del codice del 1899, non ricompare nemmeno oggi. Rimane invece, pur differenziato in due fattispecie, il reato di cattiva condotta in relazione a cadaveri. La classe dei reati contro la libertà, in relazione alla quale Griffith si era ispirato al codice Zanardelli, rimane, con denominazione lievemente diversa (interferenze con la libertà), ed in particolare rimane il reato di sequestro di persona di cui alla s. 355 del codice Griffith, che viene peraltro riformulato sulla base di una tecnica normativa di stampo tipicamente inglese, ed in particolare mediante l’impiego di una disposizione di tipo definitorio. Altrettanto avviene in relazione al reato di violenza privata, che viene scomposto in due articoli uno dei quali si risolve in una clausola definitoria. Non è più prevista l’attenuante in caso di desistenza volontaria. In sintesi, si può dire che il nuovo (e peraltro già decaduto) codice del Queensland ha certamente perso gran parte di quell’atmosfera zanardelliana che dava un tocco mediterraneo al codice realizzato a fine ottocento dal romantico Griffith. L’eleganza, l’armonia, la sintesi, e la ricercata scientificità del codice compilato da un solo uomo quasi un secolo fa ha lasciato spazio all’asettica, macchinosa tecnica legislativa di stampo burocratico dei moderni legislative drafters, anonimi impiegati volti a realizzare prodotti preconfezionati e non di rado pre-computerizzati. Restano peraltro, quasi come vestigia di un antico splendore, alcuni dei caratteri salienti che Griffith aveva derivato dal codice Zanardelli, e che nemmeno il legislatore « automatizzato » del 1995 ha avuto il coraggio abbandonare. Il fatto che il codice del ‘95, pur approvato, sia stato accantonato ancor prima della sua entrata in vigore può allora essere letto sia sotto un profilo eminentemente politico (il nuovo governo non ha voluto avallare la politica penale del governo appena decaduto), che sotto un profilo tecnico-giuridico: da questo punto di vista, il nuovo codice non riscuoteva certamente la simpatia e l’apprezzamento dei penalisti più influenti ed eminenti del Queensland (210). E, sebbene il codice Griffith, nella sua formulazione originale, non sia considerato più al passo coi tempi e sia ritenuto bisognoso di sostituzione, un nuovo prodotto così poco armonioso e scientifico non poteva certamente fungere da adeguato sostituto di un codice comunque assai ben reputato sia in Australia che, come si vedrà ora meglio, all’estero. 4.

Le migrazioni del codice Griffith, e di talune sue ascendenze zanardelliane. — Dal

(210) tema.

È quanto ho potuto constatare attraverso colloqui con colleghi australiani sul


— 1095 — 1899 ad oggi, il codice del Queensland, così come era stato formulato da Griffith, ha avuto notevole influenza su numerosi codici penali nel mondo di common law, cosicché si può dire che una serie di caratteri genetici risalenti al codice Zanardelli si sono trasmessi, attraverso una mediazione del codice Griffith, in questi codici di common law. I motivi per cui il codice elaborato da Griffith ebbe fortuna e rappresentò un modello legislativo cui si ispirarono numerosi legislatori coloniali successivamente, sono molteplici, e saranno in parte evidenziati più oltre. Qui va sottolineato che lo stesso Griffith, che riteneva di aver realizzato un opera particolarmente ben fatta, inviò il proprio codice a vari suoi colleghi in più giurisdizioni, anche remote, di common law (211). La diffusione del codice fu comunque talmente straordinaria, che esso diventò uno dei pochi modelli codicistici del mondo anglosassone. Si può dire che tali modelli siano: in primo luogo il codice penale indiano, realizzato da Macauley; in secondo luogo, il progetto Wright per la Giamaica; in terzo luogo, il progetto Field per New York; in quarto luogo, il progetto Stephen per l’Inghilterra (212). Che il codice Griffith rappresenti un modello autonomo rispetto a quest’ultimo potrebbe essere discutibile, ma la dottrina maggioritaria pare orientata ad assegnare al codice del Queensland dignità di modello autonomo (213). Infatti, esso, a differenza ad esempio dei codici elaborati in Nuova Zelanda nel 1893 ed in Canada nel 1892, presenta notevoli differenze rispetto al modello inglese, che si sostanziano nello stesso assetto complessivo del codice. Tanto che si può dire, cosa accennata più sopra, che il codice Griffith, diversamente dal progetto Stephen, vada considerato quale vero codice nel senso benthamiano del termine. Lo stesso Griffith, d’altra parte, come più sopra si notava, nel redigere il suo progetto aveva avuto cura di enfatizzare le talora profonde differenze intercorrenti tra il suo progetto e quello inglese. Il codice Griffith quindi fu modello autonomo, e, sebbene fortemente ispirato al progetto Stephen, ebbe influenza ancor maggiore di quest’ultimo nella storia della codificazione nei paesi anglosassoni. Vedremo ora in che modo. 4.1. Il codice penale del Western Australia (1903) ed altri codici australiani (214). — L’Australia dell’Ovest adottò un codice penale nel 1902. Esso era in sostanza il codice Griffith con lievissime modificazioni (215). Unica di queste concernente le disposizioni del codice Zanardelli: la riduzione delle fattispecie delle rivelazioni di segreti d’ufficio. Nel 1913 il codice fu emendato, ma senza intaccare le disposizioni provenienti dal codice italiano. Nel corso degli anni, peraltro, alcune di tali norme sono state modificate. Nella parte generale, nel 1987 è stata riformata la materia del tentativo, ed in particolare, come nel nuovo codice del Queensland, è scomparso il riferimento alla idoneità dei mezzi. Quanto alla parte speciale, è stato abrogato l’abuso d’ufficio, sostituito nel 1988 da una sorta di interesse privato in atti d’ufficio. Abrogata pure la falsa assunzione di autorità. (211) Cfr. R. O’REGAN, Sir Samuel, cit., p. 147. Ho anche potuto leggere di persona molte delle lettere (in copia o in originale) che Griffith spedì a vari personaggi di spicco tra i giuristi del mondo di common law, e delle risposte di questi personaggi, talora significativamente piene di elogi nei confronti dell’opera di Griffith: tali documenti sono consultabili in particolare alla Mitchell Library di Sydney. (212) V. supra, il § 2.2. (213) Cfr. per tutti R. O’REGAN, Sir Samuel, cit., passim; ID., The Migration, cit., passim, ed ivi copiosi riferimenti. Ulteriori riferimenti emergeranno dall’indagine effettuata nel testo. (214) Le informazioni di cui al presente paragrafo sono tratte, oltre che da R. O’REGAN, The Migration, cit., p. 103 ss., da E.J. EDWARDS-R.W. HARDING-I.G. CAMPBELL, The Criminal Codes, cit., passim. Inoltre dai codici stessi, nelle versioni originali, intermedie, e più recenti. (215) Cfr. R. O’REGAN, The Migration, cit., p. 103 s.


— 1096 — Quanto al reato di violenza privata, esso viene radicalmente modificato, pur restando le ipotesi base previste originariamente dallo stesso codice Zanardelli. Scompare la riduzione di pena per la desistenza volontaria. Quanto al codice penale della Tasmania (216), risalente al 1924, esso non era come quello appena descritto ispirato in toto al modello del Queensland, peraltro una serie di disposizioni risalenti al codice Zanardelli possono riscontrarsi. Il tentativo viene regolato diversamente, benché i riferimenti zanardelliani alla desistenza volontaria attuati da Griffith vengano recuperati. Le regole concernenti la responsabilità penale sono più o meno (217) quelle del codice Griffith, e dunque mantengono i principali punti di contatto che legavano il codice Griffith al codice italiano. La materia delle cause di giustificazione è invece debitrice del progetto Stephen. Quanto alla parte speciale, venivano riconfermati i seguenti reati: le interferenze con il Governo, i ministri, ed il Parlamento; la rivelazione dei segreti d’ufficio (ridotta ad una sola fattispecie sul modello dell’Australia dell’Ovest); l’omissione di atti d’ufficio. Venivano viceversa accantonati i seguenti: le interferenze con le libertà politiche; l’abuso d’ufficio; la falsa assunzione di autorità e l’impersonazione di pubblici ufficiali; i pubblici attacchi a credi religiosi; il sequestro di persona e la violenza privata. Nessuna riduzione di pena era prevista per la desistenza volontaria. In realtà i compilatori del codice della Tasmania avevano voluto seguire più di Griffith la legge inglese sia scritta che non scritta. Il codice del Territorio del Nord è stato compilato solo di recente, nel 1983 (218). Il compilatore, il Director of Prosecutions del Queensland, D.G. Sturgess Q.C., ha basato il suo codice sul codice Griffith, pur elaborando un certo numero di soluzioni abbastanza peculiari ed eccentriche rispetto a qualsiasi altro modello. La parte generale ricalca, in relazione alle disposizioni di eredità zanardelliana, il codice Griffith, salvo qualche lieve modifica. Ad esempio, per la s. 31, concernente la intention, basta che l’evento sia previsto come « possibile conseguenza » della condotta. Quanto alla parte speciale, vengono riproposte praticamente tutte le fattispecie di marca zanardelliana di cui al codice Griffith. 4.2. Il codice penale della Papua Nuova Guinea (219). — Nel 1888 la Gran Bretagna colonizzò il territorio allora noto con il nome di Papua e la chiamò British New Guinea. Essa adottò nel 1903 il codice Griffith. Nel 1924 il codice fu adottato anche per la Nuova Guinea, allora separata dalla Papua. Dal 1947 i due territori si unirono nella Papua-New Guinea, territorio delle Nazioni Unite amministrato dall’Australia. Essi mantennero leggi separate sino al 1974, quando con il Criminal Code Act 1974 vennero unificate. Nell’anno successivo la Papua Nuova Guinea divenne una nazione indipendente, il cui codice attualmente in vigore è in sostanza il codice Griffith. Anzi, fino al 1972 per i casi decisi in tale paese si poteva fare appello alla High Court of Australia, il che condusse tale corte ad esplorare più approfonditamente alcuni dei prin(216) Cfr. R. O’REGAN, The Migration, cit., p. 118 ss. (217) L’ubriachezza è peraltro regolata in modo assai più indulgente (s. 17). (218) Cfr. R. O’REGAN, The Migration, cit., p. 113 s. (219) Cfr. R. O’REGAN, The Migration, cit., p. 104 ss. Cfr. inoltre ID., Provocation and Homicide in Papua and New Guinea, in Univ. West. Austr. Law Rev., vol. X, 1971, p. 1 ss.; ID., Western Criminal Law in New Guinea, in Austr. & N.Z. Journ. of Criminol., vol. VII, 1974, p. 5 ss.; J.R. MATTES, Sources of Law in Papua and New Guinea, in Austral. Law Journ., vol. XXXVII, 1963, p. 148 ss.; J.A. WARWICK, D.R.C. CHALMERS, D. WEISBROT, Criminal Law and Practice of Papua New Guinea, Sydney, 1979.


— 1097 — cipi emergenti dal codice Griffith, traendo spunto da casi concreti assai peculiari e ambientati in scenario particolarmente « esotico » (220). I sudditi della Papua Nuova Guinea sono dunque soggetti ancor oggi ad una serie di principi e norme derivanti dal codice Zanardelli. 4.3. Il codice penale della Nigeria (221). — Nel 1904 nel Protettorato Britannico della Nigeria del Nord fu emanato un codice penale basato in gran parte sul codice Griffith. Il compilatore era il Chief Justice H.C. Gollan. Egli aveva scelto, tra le varie fonti a disposizione, il codice del Queensland, poiché esso rappresentava a suo dire un felice compromesso tra l’eccessiva elaborazione di altri codici quali il progetto Wright, e la eccessiva semplicità di altri, quali il progetto inglese derivante dal Digest elaborato da Stephen. Nel 1916, dopo l’unione tra la Nigeria del Nord e quella del Sud, il codice del 1904 fu esteso all’intero paese. Nel 1960, poi, nella regione settentrionale della Nigeria esso fu sostituito da un diverso codice ispirato al codice penale del Sudan e dunque al modello del codice penale indiano, più adatto a popolazioni di religione musulmana (222). Ancor oggi nel resto della Nigeria continua ad applicarsi il codice Griffith con le modifiche ad esso apportate nel 1904 e successivamente. Quanto del corredo genetico zanardelliano è rimasto oggi nel codice nigeriano? La parte generale presenta sostanzialmente (223) tutte le disposizioni zanardelliane del codice Griffith, comprese quelle sulle esimenti. Solo la norma sull’intoxication — categoria come al solito « senza pace » — è mutata nel 1935, poiché sino ad allora era quasi identica alla norma corrispondente del codice Griffith. La parte speciale conserva quasi tutte le fattispecie di derivazione italiana, salvo le interferenze con il Parlamento, e le interferenze con le libertà politiche. La violenza privata venne sin dal 1904 strutturata in modo diverso; ma il reato di attacchi alle fedi religiose riemerse, sia pur non tratto direttamente dal codice Griffith. Insomma: ancor oggi quasi tutte le disposizioni di derivazione zanardelliana che caratterizzavano il codice Griffith sono parte del diritto penale della Nigeria (salva la regione settentrionale). Nessuna meraviglia dunque se i manuali di diritto penale nigeriani menzionano con lode il codice Zanardelli, come si è visto in apertura di questo saggio. 4.4. Il codice penale modello per le colonie, ed i codici da esso derivati. — L’idea di un codice penale modello per le colonie aveva una lunga storia. Il codice penale indiano di Macauley non nacque come codice penale modello, ma lo diventò di fatto, e rimase tale per un lungo periodo. Il codice di Wright fu commissionato al barrister inglese come codice penale per la Giamaica ma in modo da poter fungere da codice penale modello per le colonie. Lo fu in effetti durante gli anni ‘80 e ‘90, anche se in realtà non venne adottato che in poche giurisdizioni (224). (220) Così R. O’REGAN, The Migration, cit., p. 107. (221) Cfr. R. O’REGAN, The Migration, cit., p. 107 ss.; J.S. READ, Criminal Law of Africa of Today and Tomorrow, in Journ. of Afric. Law, vol. VII, 1963, p. 5 ss. H.F. MORRIS, How Nigeria Got its Criminal Code, in Journ. of Afric. Law, vol. XIV, 1970, p. 137 ss.; ID., A History of the Adoption of Codes of Criminal Law and Procedure in British Colonial Africa, 1876-1935, in Journ. of Afric. Law, vol. XVIII, 1974, p. 6 ss.; A.G. KARIBI-WHYTE, History and Sources of Nigerian Criminal Law, Ibadan, ecc., 1993. Cfr. poi OKONKWO and NAISH, Criminal Law in Nigeria2, London, 1980; T. AKINOLA AGUDA, The Criminal Law and Procedure of the Southern States of Nigeria3, London, 1982; R.Y. HEDGES, op. cit. (222) Cfr. A. GLEDHILL, The Penal Codes of Northern Nigeria and the Sudan, London, 1963. (223) I reati più gravi non si chiamavano peraltro crimes, come nel codice Griffith, ma felonies. (224) Cfr. M.L. FRIEDLAND, opp. citt.; v. anche i riferimenti supra, § 2.2.


— 1098 — Il codice redatto da Stephen in Inghilterra e per l’Inghilterra, nei fatti, divenne influente modello per la codificazione penale nelle colonie, direttamente o indirettamente (225). Negli ultimi anni dell’Ottocento, peraltro, il problema di un codice penale modello per le colonie si faceva pressante. I vari codici menzionati erano assai differenti tra loro, e l’utilizzo dell’uno o dell’altro modello per le varie colonie avrebbe prodotto un polverizzarsi del diritto penale coloniale in un caotico ammasso di leggi diverse. Un tale stato di cose non poteva certamente giovare alle esigenze di uniformità dell’amministrazione delle varie colonie dell’Impero britannico. Nel 1899, dunque, il figlio di James Fitzjames Stephen, Henry Lushington, sottolineò su di una pionieristica rivista inglese di diritto comparato l’esigenza di avere un nuovo « ufficiale » codice penale modello per le colonie (226). La proposta di H.L. Stephen fu successivamente accolta dall’Ufficio Coloniale, e lo stesso Stephen — che si accontentò di un modesto emolumento per la realizzazione dell’opera — procedette alla compilazione del codice. Nel 1901 il Draft Criminal Code era pronto, e divenne il modello « ufficiale » di codice penale per le colonie. Si trattava peraltro di opera di non eccellente pregio. Stephen aveva in sostanza riprodotto quasi in toto il progetto compilato anni addietro dal padre con qualche aggiustamento e rari ammiccamenti al codice Wright. Non un gran che, dunque; d’altra parte il Colonial Office aveva voluto risparmiare, ed era prevedibile che l’esito non sarebbe stato migliore (227). Si spiega dunque il motivo per cui, quando Gollan si trovò a dover decidere quale modello scegliere per compilare il codice della Nigeria (del Nord), non utilizzò il codice penale modello redatto da H.L. Stephen, ma scelse il codice del Queensland, un codice più moderno di quelli redatti da Macauley, J.F. Stephen e Wright, ma nello stesso tempo decisamente meglio riuscito del sedicente « codice penale modello » per le colonie, lo « sfortunato » (228) codice di H.L. Stephen. Peraltro questa vicenda storica spiega anche il fatto che il codice realizzato per la Nigeria contenesse una serie di disposizioni risalenti ai vari progetti Stephen della fine degli anni ‘70, benché il Chief Justice nigeriano non avesse preso in considerazione tali progetti. Probabilmente egli derivò un certo numero di tali disposizioni dal codice modello realizzato dal figlio di Stephen, il quale, come detto, le aveva tratte dai progetti del padre (229). Se il Draft Code di H.L. Stephen, nato come modello da seguire, si era paradossalmente risolto nei fatti in modello da non seguire, le cose andarono meglio, un quarto di secolo dopo, ad un altro codice modello redatto nel Colonial Office da certo Albert Erhardt (230): il suo codice, come si vedrà tra breve, verrà accolto quasi integralmente in numerose colonie africane e non. Erhardt peraltro, a sua volta — come era costume nella realizzazione dei codici penali coloniali — aveva avuto un modello: esso era il codice penale nigeriano del 1916, praticamente identico al codice compilato da Gollan nel 1904 per la Nigeria del Nord. Come si è visto, a sua volta quest’ultimo codice aveva tratto ispirazione soprattutto dal codice Griffith. Cosicché, pur indirettamente, il codice del Queensland era stata la principale fonte del codice penale modello redatto nel 1925 da Erhardt. Ecco spiegato il motivo della influenza che il codice del Queensland ebbe su numerosi codici penali emanati nel mondo di common law dal 1930 ad oggi. (225) V. retro, § 2.2. (226) A Model Criminal Code for the Colonies, in Journ. of the Society of Comparative Legislation, vol. I, 1899, pp. 439-440. (227) Cfr. M.L. FRIEDLAND, R.S. Wright’s Model Criminal Code, cit., p. 340 ss. (228) Così M.L. FRIEDLAND, op. ult. cit., p. 340. (229) Per dettagli sulla compilazione del codice della Nigeria e su dispacci del giudice Gollan al Colonial Office di Londra contenenti importanti dati sulla stessa, cfr. — oltre a R. O’REGAN, op. ult. cit., p. 107 ss. — soprattutto H.F. MORRIS, How Nigeria, cit., p. 143 s. (230) Cfr., sulla storia di tale codice modello, H.F. MORRIS, A History, cit., p. 15 ss.


— 1099 — 4.4.1. Il codice penale del Kenya e di altri stati africani (231). — Nel 1930 il codice penale redatto da Erhardt venne adottato in Kenya. Esso conteneva molte delle disposizioni di parte generale trasmigrate dal codice Zanardelli al codice Griffith: le modifiche più consistenti — oltre alla infermità mentale, nell’ambito della quale non ha rilevanza scusante la perdita della capacità di controllo dei propri atti — concernono la intoxication, e le esimenti, di impostazione maggiormente inglese (232). Quanto alla parte speciale — in relazione alle norme del Queensland derivate dal codice italiano del 1889 — si registrano talune modifiche di rilievo: scompaiono le interferenze con Governo, Ministri e Parlamento; così come la rivelazione di segreti di ufficio; qualche modifica viene apportata al reato di omissione di atti di ufficio (che diventa « trascuranza di dovere di ufficio »); assente è il reato di vilipendio di cadavere; i reati contro la libertà rimangono, ma viene modificato radicalmente il delitto di sequestro di persona, e scompare la fattispecie di violenza privata. Per il resto (e salva la diminuzione di pena per la desistenza volontaria) vengono riproposte le fattispecie geneticamente ricollegabili al codice Zanardelli (ad es. l’abuso di ufficio, la falsa assunzione di autorità, la impersonazione di pubblici ufficiali). Ritornano, ma nella versione del codice penale indiano, le norme a tutela del sentimento religioso, che Griffith aveva concepito nel suo primo progetto e che non figuravano nel codice definitivo del 1899. Lo stesso codice fu approvato, sempre nel 1930, in Uganda, Tanganyika e Nyasaland. Nell’anno seguente la Northern Rhodesia adottò un codice penale modellato su quello del Tanganyika e nel 1934 sia Zanzibar che il Gambia emanarono un codice basato su quello del Kenya (233). Più di recente, nel 1964, il Botswana ha seguito l’esempio degli altri stati africani (234). Come si nota, gran parte dell’Africa anglofona ha adottato codici penali modellati sul codice Griffith, e dunque, indirettamente, ed almeno in parte, sul codice Zanardelli. Tali codici — salvo modifiche eventualmente apportate negli ultimissimi anni — sono ancora in vigore, nonostante talune trasformazioni geopolitiche in tutti i paesi menzionati. 4.4.2. I codici penali di Cipro e Israele (235). — Già nel 1928 il codice modello per le colonie redatto da Erhardt fu adottato, con poche modifiche, a Cipro, ove sostituì il codice penale ottomano allora in vigore. Il codice di Cipro divenne il modello cui si ispirarono i compilatori del codice penale della Palestina (allora un Territorio amministrato per la Lega delle Nazioni dalla Gran Bre(231) Cfr., sulla storia di questi codici e sulla loro derivazione — oltre a R. O’REGAN, op. ult. cit., p. 110 s. — soprattutto H.F. MORRIS, op. ult. cit.; nonché J.J.R. COLLINGWOOD, Criminal Law of East and Central Africa, London, 1967. (232) Era ad esempio prevista la necessity, che era formulata in modo praticamente identico a come l’aveva formulata J.F. Stephen nel suo primo Bill del 1878. Si ricorderà che tale previsione scomparì dai progetti inglesi successivi, poiché la Commissione Reale non la aveva ritenuta opportuna. Forse Erhardt l’aveva tratta dal codice modello redatto dal figlio di Stephen nel 1901. (233) Cfr. ancora gli aa. citati a nt. 231. (234) Sul diritto penale del Botswana cfr. soprattutto K. FRIMPONG and A. MCCALL SMITH, The Criminal Law of Botswana, Cape Town, 1992. (235) Cfr., sulla storia di questi codici e sulla loro derivazione — oltre a R. O’REGAN, op. ult. cit., p. 111 ss. — N. BENTWICH, The New Criminal Code for Palestine, in Journ. of Comp. Legisl. and Int. Law, 1938, p. 71 ss.; ID., The Criminal Code of Palestine, in The Law Journ., vol. LXXXIII, 1937, p. 390 s.; e soprattutto N. ABRAMS, Interpreting the Criminal Code Ordinance, 1936 - The Untapped Well, in Isr. Law Rev., vol. VII, 1972, p. 25 ss.; v. poi D. FRIEDMANN, Infusion of the Common Law into the Legal System of Israel, ivi, vol. X, 1975, p. 324 ss.


— 1100 — tagna) del 1936. Sicché anche il codice penale della Palestina può dirsi « nipote » del codice Griffith, cosa riconosciuta dalla stessa dottrina israeliana (236). Cosa conteneva il codice palestinese del corredo genetico zanardelliano? Le norme della parte generale restano inalterate, salvo quanto segue: i reati sono suddivisi in felonies, misdemeanours e contraventions; le regole sulla legge penale nello spazio subiscono radicali cambiamenti; l’intoxication viene modificata; l’infermità mentale non prevede più l’ipotesi dell’incapacità di controllare i propri atti; la legittima difesa e la coazione morale vengono sostituite da regole di stampo maggiormente inglese; non viene riproposta la norma che estende le regole generali del codice alle leggi penali diverse dal codice. Nella parte speciale si riscontrano le seguenti differenze: non si riscontrano l’interferenza con Governi, ecc.; l’interferenza con le libertà politiche; la rivelazione di segreti di ufficio; muta lievemente l’omissione di atti di ufficio (come in Kenya); scompare il vilipendio di cadavere; rimangono i reati contro la libertà ma viene emendato il reato di sequestro di persona e viene accantonata la violenza privata. Essa rispunta peraltro, riformulata secondo criteri di tecnica legislativa all’inglese nell’ambito di un settore specifico, quello dei reati di « Intimidazione nelle dispute industriali »; in proposito viene espressamente scriminato il « pacifico picchettaggio » (s. 211). Per il resto tutte le norme zanardelliane di cui al codice Griffith si ritrovano nel codice palestinese. Tutte queste disposizioni — sia quelle che hanno emendato il codice Griffith, sia quelle che lo hanno seguito, in quanto di zanardelliano si trovava in esso — vengono riprodotte nel codice israeliano del 1977, del resto non molto differente dal codice palestinese del 1936. Non stupisce dunque che anche la dottrina israeliana faccia riferimento talora al codice Griffith ed allo stesso codice Zanardelli (237). 4.4.3. Codici penali di altre remote giurisdizioni. — Il codice penale modello per le colonie del 1925 fu utilizzato per la compilazione di altri codici in varie remote giurisdizioni. Nel 1945 esso fu adottato nelle Isole Fiji e nel 1963 nelle British Solomon Islands. Dopo l’indipendenza di queste due nazioni (rispettivamente ottenuta nel 1970 e nel 1978) i codici restarono in vigore. Nel 1955 anche le Seychelles si uniformarono a tale modello codicistico, con un codice ancora in vigore (238). Se prendiamo in considerazione il codice delle Fiji, notiamo in esso quasi tutte le modifiche alle norme di origine zanardelliana che già connotavano il codice del Kenya. Inoltre, sparisce il reato di omissione di atti di ufficio. Le omissioni dei pubblici ufficiali sono peraltro punibili in base al generalissimo reato « comune » di cui alla s. 129 (« Disobbedienza ad obbligo derivante da norma statutaria »), già peraltro presente nello stesso codice Griffith ed ancor prima nel progetto inglese del 1880. Anche quest’ultima norma sparisce nel per il resto praticamente identico codice delle Isole Solomon del 1963. 5. Conclusioni. — Come si è potuto notare, il codice penale italiano del 1889, in modo forse sorprendente, ha avuto una certa influenza su numerosissimi codici coloniali dell’Impero britannico, ancor oggi in vigore. E tale influenza si è realizzata in via indiretta, attraverso il codice Griffith, codice assai imitato nel mondo di common law almeno sino a pochi anni fa (239). La cosa può forse stupire. Se è plausibile che un illuminato ed erudito giurista austra(236) Per tutti N. ABRAMS, op. cit., p. 29 (a p. 30, nt. 26, si menziona pure l’origine parzialmente zanardelliana del codice del Queensland). (237) V. la nt. precedente. (238) Cfr. R. O’REGAN, op. ult. cit., p. 112 s. (239) Oggi i modelli sono altri: dal Model Penal Code americano, al progetto canadese del 1987, al progetto inglese del 1989. Sul punto rinvio al mio Dalla judge-made law, cit., spec. p. 942 ss. In certi casi, si tiene presente, sia pur sporadicamente, la stessa codifica-


— 1101 — liano di fine Ottocento si fosse appassionato al codice Zanardelli ed avesse tratto ispirazione da esso nel compilare, in solitudine, quello che divenne il codice penale del Queensland, è meno facile comprendere perché tale codice, e le sue caratteristiche zanardelliane, siano rifluite così agevolmente in codici di nazioni così remote e distanti tra loro, talora anche sotto il profilo socio-culturale. Da un lato, il modello Griffith giunse sulla scena della codificazione penale al momento giusto, colmando un vuoto che il Draft Code realizzato da H.L. Stephen non aveva saputo colmare. Dall’altro, però, il codice del Queensland aveva evidentemente meritato apprezzamenti e favori nel mondo giuridico britannico, specie in quello coloniale. Forse il fatto che tale codice — pur maturato in ambiente di common law e pensato da chi la legge inglese la conosceva bene — fosse il risultato di uno studio comparatistico che aveva comportato anche l’esame di un codice di impostazione continentale quale il codice Zanardelli, poteva aver reso più apprezzabile l’opera di Griffith. Il Chief Justice del Queensland, formandosi allo studio del codice italiano, aveva insomma « sciacquato i panni in Arno », depurando il proprio prodotto di marca squisitamente inglese dalla macchinosità e dalla pedanteria tipica delle leggi di quella tradizione. Ecco perché il codice Griffith si presentava più elegante, agile ed armonioso, e dunque anche più semplice da leggere e da interpretare (almeno in apparenza) degli altri modelli improntati più schiettamente alla tradizione inglese. Sotto il profilo dei contenuti, il ricorso a principi generali e regole ad ampio respiro da cui trarre deduttivamente la soluzione dei casi concreti — derivato almeno in parte dall’assetto zanardelliano — rendeva il prodotto codicistico confezionato da Griffith particolarmente accattivante. In particolare i delicati e « scientifici » equilibri tra parte generale e parte speciale, caratteristiche tipiche del nostro codice del 1889 — frutto di un periodo e di una vicenda legislativa tra i più fecondi della storia del nostro diritto (forse non solo) penale — offrirono a Griffith l’opportunità di elaborare un’opera che probabilmente non aveva eguali nel mondo di cui egli faceva parte. Infine, la modernità e l’impronta liberale di certe fattispecie di parte speciale del codice Zanardelli diedero modo a Griffith di introdurre nel panorama della common law figure normative assolutamente inedite, o quantomeno inconsuete, e talora evidentemente opportune anche in tali diversi sistemi normativi. Se l’utilizzo della fonte zanardelliana può forse essere stata una delle chiavi del successo del codice del Queensland, ciò non significa che le disposizioni originate dal codice italiano si siano integrate nella realtà dei sistemi di common law senza problemi di sorta. Anzi, da questo punto di vista l’indagine sinora svolta può rappresentare un utile punto di partenza per valutare la compatibilità tra norme di tipo (sotto il duplice profilo della forma e del contenuto) « continentale » e norme di tipo (sotto gli stessi profili) « anglosassone ». Come si è potuto notare, i codici coloniali che hanno adottato il modello Griffith hanno conservato taluni aspetti in cui esso continuava la tradizione zanardelliana, ma hanno d’altro canto modificato o accantonato un numero considerevole di istituti e di fattispecie di origine italiana. Spesso l’assetto dei rapporti tra la parte generale e la parte speciale, tipico del codice Griffith, ed in particolare le norme sul tentativo e sui principi concernenti la responsabilità penale — il cui impatto sulla portata delle disposizioni della parte speciale è evidente — sono state conservate nei codici coloniali. È questo un dato importante, che può far pensare ad una sorta di validità universale di tale intelaiatura codicistica. Non è un caso che, da questo punto di vista, anche i più recenti progetti di codici penali compilati nel mondo di common law ripropongano simili impostazioni, pur nell’ambito di prodotti che poco risentono delle esperienze codificatorie continentali (240). Non è neppure un caso che anche da noi l’evoluzione storica della codificazione penale abbia visto un progressivo emergere di tale impalcatura, attraverso un lento ma graduale rifluire di istituti dalla parte speciale alla parte zione tedesca: cfr. ad es. il progetto di codice penale del Lesotho, realizzato nel 1993 da A. McCall Smith (ringrazio l’A. per avermi procurato copia di tale progetto). (240) Cfr. il mio lavoro citato alla nt. precedente.


— 1102 — generale — nei primi codici addirittura assente o quasi — e talora, viceversa, una migrazione di norme della parte generale nell’ambito della parte speciale (241). Se da questo punto di vista i codici coloniali sembrano aver seguito l’impostazione derivante originariamente dal codice Zanardelli, nondimeno si è venuta spesso a creare una strana commistione e sovrapposizione di istituti, per cui, ad es., ciò che nel codice Zanardelli, e poi anche nel codice Griffith, era la legittima difesa, in codici successivi (ed anche nello stesso codice penale del Queensland del ‘95, poi abrogato) si « tramutava » nello stato di necessità o addirittura nella « coazione morale », quasi che tali figure fossero tra loro scambievoli. A ciò si aggiunga che regole di parte generale tratte ad opera di Griffith dal codice italiano vennero modificate ad opera dei compilatori di certi codici coloniali sino a mutare totalmente immagine e disciplina. Talvolta ciò è accaduto in relazione a categorie normative « senza pace », che ogniqualvolta si compila un nuovo codice sembra debbano necessariamente subire delle modifiche, più che altro per l’impossibilità di trovare soluzioni davvero soddisfacenti: penso ad es. all’ubriachezza; altre volte perché la tradizione o nuovi sviluppi, normativi o giudiziali, della common law (di solito del diritto penale inglese) erano troppo diversi rispetto alle soluzioni di marca zanardelliana perché queste potessero sopravvivere a lungo: si pensi alla nuova configurazione del tentativo in Queensland, sulle orme di una legge inglese, o all’eliminazione dell’irresistible impulse come scusante nell’ambito della maggior parte dei codici coloniali (242). Tutto ciò denota che è troppo forte la tradizione giuridica di un sistema, troppo potenti sono i c.d. « crittotipi », troppo pesante l’impatto giurisprudenziale — soprattutto in un sistema di common law — perché istituti e figure normative, seppur di parte generale e dunque esprimenti — come diceva Griffith — « regole [...] non peculiari ad alcuna località o ad alcun speciale sistema di giurisprudenza », possano essere raccolti da un terreno normativo e trapiantati d’emblais in un altro. Le « piante giuridiche » così trapiantate di solito muoiono, e se non muoiono danno frutti diversi da quelli che producevano nel loro terreno d’origine. Il fatto che in relazione a certi istituti non si siano realizzati (almeno in apparenza) cambiamenti di sostanza, ma sia cambiata la forma espositiva di essi (si pensi al tentativo) sta ad indicare, a sua volta, quanto possa essere importante la forma nelle regole giuridiche. Se pensiamo ad un istituto quale il tentativo, che differenza passa, in termini sostanziali, tra il dire che « è iniziata l’esecuzione » del reato, o che l’atto « è più che preparatorio » (243)? Eppure questo è il cambiamento realizzato da vari codici, in materia, al codice penale del Queensland rispetto alla vecchia formulazione. In realtà, come si accennava, le parole utilizzate nella nuova versione della norma australiana sono esattamente identiche a quelle della legge inglese del 1981 sulla materia, e dunque i giudici possono attingere più agevolmente alle decisioni emesse dalle corti inglesi o da altri tribunali di giurisdizioni che seguono l’evoluzione del diritto inglese. Anche qui risalta ancora una volta l’importanza della interpretazione giudiziale, ed eventualmente dottrinaria, delle parole della legge. Anche se ictu oculi due locuzioni diverse mirano nella sostanza, e nella voluntas legislatoris, allo stesso risultato, può darsi che nella pratica ricevano diverse interpretazioni, per l’importanza, talora invero eccessiva e pedante, assegnata alle « parole » dai giuristi. (241) Su questi punti è fondamentale la lettura dei vari contributi pubblicati in S. VINCIGUERRA (a cura di), I codici preunitari, cit.; e vanno segnalate le ristampe anastatiche, a cura dello stesso A., di vari codici preunitari, con commenti ed introduzioni di carattere storico, nella collana « Casi fonti e studi per il diritto penale », Padova, diretta dal medesimo, e nelle strenne che la CEDAM pubblica ogni fine anno. (242) Sul punto peraltro si potrebbe assistere ad una futura evoluzione in senso opposto, se è vero, come si è osservato sopra, che l’incapacità di volere tende a riemergere nell’ambito della regolamentazione dell’insanity. (243) Evidenziava la analogia tra la soluzione del codice Zanardelli e quella, pur diversa terminologicamente, della tradizione di common law T. BOSTON BRUCE, op. cit., pp. 306-307.


— 1103 — Soprattutto, ciò che colpisce in relazione a quanto è vivo e quanto è morto del codice Zanardelli nei codici coloniali e non menzionati è il fatto che non di rado sono rimaste nei codici stessi norme di tale codice più « simboliche » che realmente capaci di orientare l’interprete. Si pensi alla sopravvivenza delle norme sull’elemento soggettivo del reato. Esse — neppure in toto derivanti dalle formule zanardelliane — in realtà dicevano tutto e non dicevano nulla. Sul punto si tornerà nella seconda parte di questo lavoro, ma già qui si può sottolineare che è caratteristica consueta delle definizioni in tema di elemento soggettivo la loro mancanza di stretta vincolatività (244). Esprimendo in realtà concetti di natura più filosofica che giuridica, essi tendono a sopravvivere nella loro portata precettiva più generale, ma a non imporsi nei dettagli delle parole di cui sono formati. Si può dire che restino quali precetti vaghi e generali, di carattere para-costituzionale, e che solo entro tali limiti vincolino l’interprete (245). Anche le norme che da noi, pur modellate secondo la ariosa tecnica legislativa continentale, hanno chiaro ed entro certi limiti preciso valore precettivo (si pensi a norme quali il tentativo, la legittima difesa, ecc.), del resto, nell’ambito di codificazioni di common law come quelle esaminate tendono ad essere mere dichiarazioni di principio, affiancate nella parte generale o addirittura in vari settori della parte speciale in relazione alle singole fattispecie criminose, da altri precetti più precisi e vincolanti. Della parte generale del codice Zanardelli resta insomma un’elegante cornice all’interno della quale le vere e proprie regulae juris operanti sono in massima parte quelle della common law, o tacitamente emergenti nelle decisioni giudiziali o espressamente riproposte per iscritto nei codici (246). Quanto alla parte speciale, essa ripropone, col passare degli anni e nei vari codici, sempre meno ipotesi criminose tratte originariamente dal codice Zanardelli, e non di rado quelle rimanenti tendono a subire lente ma inesorabili mutazioni. In particolare esistono differenze talora secolari tra common law e civil law, in rapporto ai beni tutelati ed alle modalità della tutela degli stessi, che sembra facciano fatica ad attenuarsi. Determinate figure criminose che da tempo talora immemorabile caratterizzano l’ordinamento italiano non hanno mai fatto parte della tradizione di common law, e stentano a penetrarla. Le fattispecie più tipicamente « italiane » accolte dall’aperta mente di Griffith nel suo codice sembrano col passare del tempo scontrarsi con una tradizione anglosassone dura a morire, che mostra spesso segni di rigetto nei confronti di esse. Si spiegano le difficoltà incontrate da reati quali la rivelazione di segreti di ufficio, taluni reati contro la libertà, la stessa omissione di atti di ufficio, l’usurpazione di titoli o funzioni, taluni reati lato sensu contro la religione, ecc. Si tratta di ipotesi criminose che non possono dirsi tout court superate — esse caratterizzano di solito lo stesso codice Rocco — ma che la common law non ha riconosciuto come parte del proprio corredo genetico ed ha espulso: talora abrogandole o non riproponendole nei codici, talaltra semplicemente trascurandole nell’applicazione pratica della legge. Si potrebbero all’opposto riscontrare nei codici e nel diritto di common law fattispecie in tali sistemi tradizionali e consolidate, ma da noi mai penetrate nel tessuto normativo, anche se su questo punto l’indagine appena compiuta è naturalmente meno indicativa. Tutto ciò porta ad apprezzare, in ogni caso la misura dell’importanza della tradizione storica di un determinato sistema penale: è dalla storia che un sistema moderno emerge, ma è nella storia che esso in realtà vive la sua vita reale ed assume il suo vero spessore. (244) Sul punto rinvio al già citato volume Omnis definitio, cit., ed ivi a quasi tutti i contributi, ma in particolare a F. BRICOLA, Le definizioni normative nell’esperienza dei codici penali contemporanei e nel progetto di legge delega italiano, p. 175 ss. (245) Sul punto è utile la lettura di C. HOWARD, The Protection of Principle under a Criminal Code, in Modern Law Rev., vol. XXV, 1962, p. 190 ss., che evidenzia l’importanza garantistica di alcuni principi sanciti dal codice Griffith, che hanno arginato certe violazioni giurisprudenziali di importanti diritti del reo. (246) Cfr. sul punto R.W. BAKER, The Codes and the Judicial Process, in Vict. Univ. of West. Austral. Law Rev., 1963-64, p. 449 ss.


— 1104 — Un altro aspetto è quello della tecnica di formulazione letterale delle fattispecie, e qui il discorso vale sia per la parte generale, che, ancor più per la parte speciale: figure descritte nel codice Zanardelli (e nel codice Griffith, salve lievi differenze) in termini ariosi e badando (nella parte generale) al principio che dovevano esprimere e (nella parte speciale) al contenuto essenziale di lesività che miravano a porre in evidenza, sono state spesso sostituite da norme più pignole ed asfittiche, volte ad elencare una serie di casi concreti in cui il principio emerge o la lesività si manifesta. La tecnica legislativa di stampo inglese, insomma, risorge lentamente tra le maglie delle vecchie norme di origine zanardelliana e le snatura. Ciò probabilmente con una serie di implicazioni pratiche che è impossibile esplorare in questa sede. Insomma: si può conclusivamente dire che nei codici esaminati l’atmosfera zanardelliana che in effetti connotava il codice Griffith si sia stemperata sempre più col passare del tempo. Non è un caso che l’ultimo in ordine cronologico dei codici presi in esame, pur succedendo direttamente al codice Griffith per sostituirlo laddove esso era nato ed è da sempre in vigore — e cioè il pur già « defunto » codice del Queensland del 1995 — sia quello che forse più di ogni altro ha allentato il cordone ombelicale che teneva legato il codice Griffith al codice Zanardelli. Sul punto solo parzialmente ha incidenza l’invecchiamento delle norme del codice italiano abrogato. Istituti che ancor oggi da noi si mantengono freschi e al passo coi tempi, nel nuovo codice del Queensland hanno ceduto il passo a nuove e diverse figure normative. Si tratta di innovazioni che non necessariamente apportano miglioramenti alle norme vigenti in precedenza; anzi, in più di un’occasione — quantomeno a sommesso parere di chi scrive — si è verificato il contrario. Ma la scienza del diritto, e soprattutto le leggi, non sono necessariamente — come avviene invece per gli elettrodomestici o per i computer — in costante miglioramento. Talora possono anche, magari solo provvisoriamente o solo parzialmente, peggiorare. Il Queensland non necessariamente può disporre oggi di un giurista raffinato ed erudito come Griffith; né è detto che in Europa possiamo disporre oggi o potremo disporre in futuro così agevolmente di nuovi Beccaria, Feuerbach, Mittermeier, Carrara, o Lucchini. L’esame dei codici coloniali e non sopra effettuato non deve dunque condurci a trionfalistiche soddisfazioni in merito alla presenza ed al successo nell’ambito di essi di norme del codice Zanardelli: le tracce di tale pur riuscito codice si stanno infatti ormai affievolendo. Piuttosto, è di grande utilità avere l’opportunità di valutare il perché di tale lenta e peraltro non uniforme né totale perdita di contatto, e dunque di poter mettere a confronto, nell’ambito di una comparazione sincronica ed anche diacronica, due tradizioni codicistiche diverse, onde valutarne i limiti di compatibilità. ALBERTO CADOPPI Associato di Diritto penale nell’Università di Trento


RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

ALBEGGIANI F., Profili problematici del consenso dell’avente diritto, Giuffrè, Milano, 1995, pp. 1-126. Nell’affrontare il complesso tema del consenso dell’avente diritto, il volume di Ferdinando Albeggiani si sofferma in particolare sui punti nodali e più problematici dell’istituto. L’Autore mette, infatti, in rilievo sia profili di carattere generale, relativi, tra l’altro, al fondamento giustificativo della scriminante, sia profili di più recente emersione, tra i quali, soprattutto, l’operatività del consenso dell’avente diritto nell’ambito dei reati colposi. Entrambi gli aspetti sono oggetto di un’analisi che conduce ad un’originale ricostruzione dell’istituto. Per quanto concerne il fondamento giustificativo del consenso scriminante, l’indagine verifica la ritenuta omogeneità di struttura e di caratteristiche tra la causa di giustificazione prevista dall’art. 50 c.p. e quelle disciplinate dagli articoli successivi (cap. I). Come ricorda l’Autore, infatti, il consenso dell’avente diritto viene spesso considerato dalla dottrina come un « corpo estraneo » rispetto alle altre scriminanti, per via della mancanza di quella situazione di conflitto di interessi contrapposti, che starebbe, viceversa, alla base di tutte le altre cause di giustificazione. È, in altri termini, opinione diffusa che in presenza di comportamenti consentiti, e limitatamente al sacrificio di diritti affidati alla esclusiva sfera di disponibilità del titolare, venga meno in radice ogni interesse alla repressione penale, in quanto l’eventuale sacrificio del bene non costituirebbe nulla più che il risultato dell’esercizio della facoltà di disposizione attribuita dall’ordinamento al soggetto. In tale prospettiva, dunque, il consenso dell’avente diritto troverebbe il proprio fondamento nella carenza totale di ogni offesa a beni o interessi penalmente tutelati, piuttosto che in un sacrificio di interessi giustificato dall’esigenza di tutelare altri interessi meritevoli di protezione. In realtà, osserva l’Autore, vi sono situazioni in cui il consenso dell’avente diritto presenta elementi strutturali simili alle altre cause di giustificazione. Una conclusione, questa, cui è possibile pervenire attraverso una reinterpretazione del concetto di disponibilità del diritto, che consenta di iscrivere anche l’ipotesi prevista dall’art. 50 c.p nella logica del bilanciamento di interessi contrapposti, al pari delle altre scriminanti (cap. II). Se, infatti, il confine tra disponibilità ed indisponibilità, si osserva, fosse sempre individuabile a priori e in via astratta, a prescindere da valutazioni legate all’ipotesi concreta in cui è stato prestato il consenso, sarebbe effettivamente difficile riconoscere al « fatto consentito » una reale autonomia concettuale rispetto al « fatto del tutto irrilevante penalmente ». Ma l’analisi della casistica, puntualmente scandagliata dall’Autore, dimostra come il problema della disponibilità del diritto non possa sempre essere risolto preventivamente in linea generale, in quanto spesso implica una valutazione dinamica, che tenga conto delle concrete modalità attraverso le quali certi beni possano essere sacrificati, sulla base, appunto, di un giudizio di bilanciamento fra interessi e controinteressi, da risolvere con i criteri della necessità e della proporzione. Particolarmente emblematico, a questo proposito, è il settore degli atti di disposizione della propria libertà individuale, nell’ambito del quale sono difficilmente rinvenibili precisi parametri normativi in grado di dare una risposta univoca e definitiva in relazione all’ambito di disponibilità del bene. Infatti, la libertà personale risulta tanto più comprimibile quanto più meritevole di tutela appare lo scopo per il quale il consenso scriminante è stato prestato: in modo tale che, a parità di durata e intensità, un sacrificio al bene della libertà potrebbe apparire giustificato in un caso (si pensi, per esempio, alla segregazione subita da un tossicodipendente, che accetti il ricovero in una comunità per esigenze terapeutiche di disintossicazione) e non giustificato in altri casi. Considerazioni analoghe potrebbero essere svolte in relazione al tema degli atti di disposizione del proprio corpo. Anche in questo settore, infatti, è


— 1106 — possibile che si verifichino ipotesi in cui, sulla base di valutazioni legate al caso concreto, un pregiudizio all’integrità fisica che astrattamente potrebbe sembrare inaccettabile, risulti bilanciato dall’esigenza di tutelare controinteressi altrettanto meritevoli di protezione; come accade, per esempio, nelle ipotesi di interventi chirurgici gravemente mutilanti, ma necessari per evitare più gravi lesioni, oppure in talune ipotesi di sperimentazione scientifica. In tutti questi casi dunque, un’importanza decisiva ai fini di verificare l’ammissibilità di un consenso scriminante dovrebbe essere riconosciuta proprio alla valutazione degli interessi in gioco nel caso concreto. Muovendo da tale considerazione, pertanto, l’Autore sottolinea come anche il consenso dell’avente diritto possa, per lo meno in talune ipotesi, assumere i connotati e la struttura comuni a tutte la altre scriminanti, giustificando, sul piano dommatico, la disciplina unitaria adottata dal legislatore. Come si anticipava, nello sviluppo dell’indagine viene affrontata, altresì, la problematica specifica del consenso dell’avente diritto nei reati colposi (cap. III). Una volta verificato che dall’art. 50 c.p. non emergono particolari ostacoli esegetici ad una sua applicazione anche al settore della responsabilità colposa, l’Autore confuta quegli orientamenti, abbastanza diffusi, volti a considerare la tematica del consenso nel reato colposo degna di interesse sul piano dommatico, ma sostanzialmente priva di rilievo sul piano pratico, in quanto costretta in ambiti applicativi molto circoscritti. In tale prospettiva, la tesi più diffusa è — come è noto — quella che desume il modesto ambito applicativo della scriminante di cui all’ art. 50 c.p. in materia di reato colposo soprattutto dalla pressoché generale indisponibilità dei beni giuridici tutelati dalle fattispecie colpose vigenti. L’Autore, tuttavia, osserva come tale obiezione possa essere, almeno in parte, superata qualora si accolga un concetto di disponibilità indisponibilità del diritto legato non a valutazioni astratte dei beni giuridici tutelati, ma a valutazioni dinamiche, che tengano conto anche delle concrete modalità attraverso le quali detti beni possono essere sacrificati. In tal modo sarebbe possibile ipotizzare un’area di rilevanza del consenso tanto più estesa, quanto più degno di rilievo è l’interesse capace di bilanciare il diritto posto in pericolo dalla condotta colposa del terzo. Acquisiti tali presupposti, la trattazione del tema appura che le ipotesi in cui il consenziente può autorizzare l’azione pericolosa sono soltanto quelle in cui i rischi creati dall’azione stessa sono ab origine, selettivamente diretti in modo esclusivo verso il consenziente; non, invece, le ipotesi in cui la condotta colposa si riveli potenzialmente pericolosa anche verso terzi. Se, infatti, la situazione di pericolo creata dall’azione colposa risultasse potenzialmente lesiva anche nei confronti di persone diverse dal consenziente, cesserebbe, evidentemente, per quest’ultimo ogni possibilità di manifestare un valido consenso. Precisato ciò, l’attenzione dell’Autore si sofferma, in particolare, sul complesso problema relativo all’individuazione dell’oggetto del consenso nei reati colposi. A questo proposito, si osserva, la dottrina ha per lo più ritenuto di poter individuare tale oggetto o esclusivamente nell’attività genericamente pericolosa, senza far alcun riferimento all’evento lesivo, o, viceversa, esclusivamente nell’evento lesivo, senza che il consenso alla situazione di pericolo potesse assumere, in quanto tale, alcuna rilevanza. Muovendo da un’analisi dei limiti insiti in entrambe queste impostazioni, l’Autore propone una soluzione intermedia, che valorizzi il ruolo centrale assunto dall’evento anche nella struttura del fatto colposo, ma al tempo stesso consenta di qualificare il fatto colposo come giustificato già al momento del compimento della condotta violatrice delle regole cautelari. Per questo motivo, l’oggetto del consenso nei reati colposi è ravvisato in via principale nel disvalore dell’azione pericolosa, da accertarsi, però, anche sulla base di un giudizio prognostico arricchito da un necessario riferimento al grado di probabilità di verificazione di specifiche categorie di eventi. Tra i vantaggi di tale impostazione vi è quello di assegnare all’evento un ruolo centrale nell’ambito della fattispecie colposa, senza che sia necessario rinunciare, al contempo, ad un concreto riferimento alla condotta pericolosa in quanto tale; di rendere, inoltre configurabile l’operatività della causa di giustificazione fin dall’inizio del fatto tipico (secondo la tradizionale funzione delle scriminanti), senza attendere la verificazione dell’evento; di valorizzare, infine, il ruolo del giudizio di bilanciamento degli interessi


— 1107 — contrapposti. Quest’ultimo dovrebbe tener conto, in tale prospettiva, non solo della gravità dell’eventuale evento lesivo, ma anche del grado di pericolo di una sua concreta verificazione: quanto più elevato sarà il rischio di verificazione dell’evento lesivo, tanto più rigorosi dovranno essere i limiti di operatività del consenso scriminante. (Costanza Bernasconi).

GHEZZI M.L., Diversità e pluralismo. La sociologia del diritto penale nello studio di devianza e criminalità, Cortina, Milano 1996, pp. XIX-207. L’analisi sociologico-giuridica di devianza e criminalità compiuta dall’Autore, che assume rilevanza sia per lo studioso che per l’operatore del diritto, suscita notevole interesse per almeno due motivi. Innanzitutto perché è costantemente presente la preoccupazione di collegare l’aspetto più strettamente teorico dell’analisi con il suo possibile impiego al fine di trasformare, attraverso l’azione politica e gli interventi normativi, l’assetto sociale. In particolare, nell’ultima parte del libro, egli esprime esplicitamente la sua preoccupazione per il crescente pericolo, per le società contemporanee, di cadere in vecchi o nuovi totalitarismi. Al fine di arginare tale pericolo, dice Morris L. Ghezzi: « Un modello pluralista, che, pur non sanzionando la prevalenza di nessun ordinamento sugli altri, ciò nonostante individui nello Stato non l’ordinamento giuridico prevalente, ma una sorta di metaordinamento, di strumento garante delle libertà e delle possibilità di competizione degli altri ordinamenti, potrebbe essere considerato una utile via d’uscita dall’apparente inconciliabilità tra le diffuse ed irrinunziabili esigenze di certezza e stabilità sociale e le altrettanto irrinunziabili esigenze di non assolutizzare nessun ordinamento e nessuna norma giuridica, per non incorrere nel pericolo di totalitarismi statali ». (p. 199). Al di là della specifica scelta dell’Autore, che ritiene più gravi i reati di violenza e di sangue, in quanto direttamente lesivi dell’interesse individuale, rispetto ai reati economici ed ecologici, solo indirettamente lesivi di tale interesse, la proposta complessiva appare di grande rilievo poiché a monte di essa vi è una scelta per il valore della tolleranza. La tolleranza, come scelta di valore, appare a Ghezzi non soltanto doverosa dal punto di vista etico, oltre che utile (nell’interesse generale) in una prospettiva politica, ma indispensabile sul piano conoscitivo. Egli si ricollega qui direttamente all’insegnamento di R. Treves, alla memoria del quale il libro è dedicato, e, in particolare, al costante impegno di quest’ultimo per costruire, da un lato, una ricerca sociologica scientifica non asservita ad una ideologia politica e, dall’altro, per affermare valori politici democratici. Da qui il secondo motivo che desta l’interesse per il saggio in esame. La separazione concettuale tra fatti e valori, che l’Autore fonda proprio sul valore della tolleranza, costituisce l’elemento metodologico, di derivazione positivista, che, insieme all’uso del paradigma eziologico, riconduce ad unità l’analisi della devianza e la critica della New Criminology e della Criminologia critica che egli compie. Il percorso argomentativo appare così ricco e dettagliato che qualsiasi tentativo di riassumerlo non può che risultare riduttivo. Nella prima parte del volume l’attenzione si concentra sugli aspetti fenomenologici della labelling theory che emergono dall’analisi dei punti di contatto che quest’ultima presenta con le correnti sociologiche dell’interazionismo simbolico e dell’etnometodologia. Si evidenzia così la dimensione sostanzialmente soggettiva delle descrizioni fenomenologiche e la loro conseguente impossibilità di essere sottoposte a falsificazione. Poiché la fenomenologia è estranea al quadro epistemologico delle scienze empiriche, e la sociologia è scienza empirica, com’è possibile — si domanda Ghezzi — costruire una sociologia fenomenologica? Dopo aver compiuto un’analisi del concetto di devianza dalla quale risulta che: « tale concetto descrive fenomeni sociali profondamente diversi tra loro..., quindi, non può essere idoneo ad animare una teoria sociologica che intenda spiegare in modo unitario il fenomeno della criminalità » (p. 48), si individuano quattro modelli ideali di labelling theories. I primi due modelli, che si collegano rispettivamente all’etnometodolo-


— 1108 — gia e all’interazionismo simbolico, sono caratterizzati da una gnoseologia soggettivista e da una nozione di devianza che non fa riferimento al discostamento da norme condivise; il terzo ed il quarto modello, di ispirazione rispettivamente strutturalfunzionalista e marxista, si riferiscono invece alla devianza intesa come discostamento da norme positive. Ghezzi critica la contraddittorietà interna soprattutto della Criminologia critica e della New Criminology, appartenenti al modello marxista, accusandole poi di essere tanto dogmatiche e metafisiche sul piano scientifico quanto assolutiste e intolleranti sul piano politico. Ciò deriva dal mancato accoglimento, da parte di queste teorie, della distinzione tra fatti e valori e dalla loro pretesa, di carattere giusnaturalistico, di dedurre il giudizio di valore dal giudizio di fatto, con la conseguente confusione tra piano descrittivo e piano prescrittivo. Il concetto ambivalente di reorivoluzionario, prodotto dall’identificazione, operata da tali teorie, dell’azione deviante con quella politica, individua il soggetto, caratterizzato più in senso idealistico che materialistico, al quale è affidata la trasformazione sociale. L’Autore contrappone a queste teorie un modello positivista, basato sulla distinzione fatti-valori, che appare maggiormente in grado di garantire il pluralismo sia conoscitivo che politico. (V.C. Bonazzi).

MENLOWE M.A., MCCALL SMITH A. (a cura di), The Duty to Rescue. The Jurisprudence of Aid, Darthmouth, Aldershots, 1993, V-VII, 1-209. C’è una tendenza metodologica sempre più diffusa nella letteratura giuridica anglosassone: quella orientata a mettere in contatto l’elaborazione teorica più sofisticata con i problemi applicativi più specifici, talora, addirittura, con quelli davvero minuti. La scelta in favore di una valorizzazione congiunta dei due lati estremi del campo comporta — si pensi ad autori come Ronald Dworkin e Joel Feinberg — una eliminazione dei « toni medi » non priva, tra l’altro, di affascinanti riflessi sulla qualità stilistica del testo. Soprattutto, però, si rivela scientificamente feconda tanto per la teoria che per la prassi: l’elaborazione teorica, maturata a contatto con la conoscenza dei dettagli applicativi, mentre da un lato risulta per ciò stesso strutturalmente predisposta alla verifica empirica più rigorosa, dall’altro lato, vede ridursi il rischio che gli sforzi di astrazione slittino verso la generalizzazione e l’« oversimplification ». Sul versante della prassi poi, è evidente come l’impostazione e la risoluzione dei problemi applicativi più minuti nel solco dei grandi temi teorici, morali, politici favorisca senz’altro un diffuso acculturamento del dibattito, indirizzando verso l’uscita dagli aridi territori della ragion pratica. Il libro a cura dei due giuristi dell’Università di Edimburgo si colloca, almeno negli intenti, all’interno di tale filone metodologico, affrontando — anche in prospettiva interdisciplinare — l’ampio tema del « dovere di soccorso » (duty to rescue) e della rilevanza della correlativa condotta omissiva. Il volume contiene cinque contributi: uno di natura prettamente filosofica (Michael Menlowe), uno dedicato all’analisi dei sistemi di common law, con attenzione sia ai profili penali che civili, (quello di Alexander McCall Smith), uno di taglio penalistico avente ad oggetto il dovere di soccorso nei sistemi continentali (quello dell’italiano Alberto Cadoppi); due, infine, dedicati al particolare problema del soccorso cui è tenuto lo Stato nei confronti dei cittadini (con riferimento al diritto nordamericano, il saggio di Daniel Schuman, con riferimento al diritto internazionale quello di Stephen Neff). Il volume — è opportuno segnalarlo sùbito — prende in considerazione l’argomento del dovere di soccorso in un senso davvero ampio, non solo spaziando dalle scienze morali ai tanti diversi settori dell’ordinamento giuridico, ma anche svincolandosi dalla circoscritta categoria penalistica a cui il problema potrebbe essere ricondotto, prima facie, dal penalista italiano e cioè quella dell’omissione di soccorso intesa come reato omissivo proprio. Nell’opera in esame, il duty to rescue individua sempre un tema generale, al cui interno si trovano, ad esempio, anche i problemi relativi alla responsabilità per omesso impedimento dell’evento. Nel saggio d’apertura, The Philosophical Foundation of a Duty to Rescue, Michael A.


— 1109 — Menlowe, Professor of Philosophy presso l’University of Edinburgh, affronta l’analisi relativa alla natura ed ai limiti dell’obbligo morale di soccorso, cercando poi di individuare i rapporti tra tale obbligo e quello propriamente giuridico. Dopo aver confutato le posizioni, per la verità minoritarie, che negano sul piano etico l’esistenza di qualsiasi dovere di assistenza (Nozick) o che comunque attribuiscono allo stesso natura di obbligo imperfetto, mera scelta di virtù non propriamente esigibile (Kant), Menlowe passa ad esaminare le possibilità di circoscrivere tale dovere in modo da non addossare ai singoli oneri insostenibili. Tale sforzo si rivela tuttavia, secondo il filosofo scozzese, sostanzialmente vano, criticabili essendo tutti i criteri proposti per giungere — sempre sul piano morale — ad una precisa delimitazione del dovere di soccorso attraverso un equo bilanciamento tra i bisogni dell’assistito e gli oneri del soccorritore. In realtà, una volta ammessane l’esistenza, l’obbligo morale di soccorso finisce per espandersi andando a coincidere con il generico obbligo di « carità ». Sul piano giuridico invece, la previsione di un dovere di soccorso e di una sanzione per la sua inosservanza postulano, innanzitutto, che si ammetta la coercibilità, attraverso il diritto, dei valori morali. Una volta accolta — pur tra mille cautele — tale opzione si pone il problema di circoscrivere comunque i limiti del dovere di soccorso, non essendo ammissibile la previsione di un obbligo giuridico ampio ed indeterminato quale quello morale. Sul piano giuridico tale delimitazione risulta, rispetto al piano etico, non solo, come appena accennato, più impellente, ma anche in definitiva più agevole, essendo rimessa alla sovranità legislativa. Posto dunque che il dovere giuridico di soccorso potrà essere delimitato dal diritto positivo rimane comunque la scelta tra vari criteri adottabili dal legislatore: l’autore, dopo aver criticato l’adozione di formule elastiche che lascino al giudice (o alla giuria) margini di discrezionalità eccessivi, sottolinea la razionalità dei criteri adottati nell’esperienza giuridica anglosassone e cioè, da un lato, nella materia del torto civile, il criterio della « proximity » tra pericolante e soccorritore; dall’altro nella materia penale, il criterio che fa riferimento ad un numerus clausus di relazioni interpersonali tipizzate. Una volta ammessa — nei termini esposti — la coercibilità giuridica dell’obbligo di soccorso, rimane da sciogliere, ad avviso di Menlowe, l’alternativa tra due scelte politico-criminali: è infatti possibile da un lato attribuire rilevanza all’omissione quale condotta causale rispetto all’impedimento dell’evento; dall’altro prevedere autonome ipotesi di reato omissivo proprio. Senza prendere posizione sul punto, l’autore conclude il saggio sottolineando come in ogni caso la disciplina giuridica del dovere di soccorso non debba risolversi nella sola opzione penale: il dovere di assistenza ha anche una sua componente collettiva, ricadendo sull’intera società. Ecco dunque l’importanza della disciplina giuridica apprestata da altri rami dell’ordinamento, in particolare dalla legislazione amministrativa, cui spetta prevenire le situazioni di pericolo e di bisogno. Nel successivo articolo, The Duty to Rescue and the Common Law, Alexander McCall Smith, Reader in Law presso l’University of Edinburgh, dopo aver preliminarmente affermato che la decisione se prevedere o meno una responsabilità per omesso soccorso dipende dalla definizione degli scopi del diritto penale, sottolinea come l’approccio « minimale », adottato dagli ordinamenti anglosassoni e tendente ad ammettere la responsabilità per omesso soccorso entro limiti ristrettissimi, possa essere il frutto sia di una sottostante ideologia iperindividualista sia della preoccupazione di rendere circoscritto e ben delimitato l’ambito del penalmente rilevante. Peraltro, nell’esaminare più da vicino il problema bisogna anche liberarsi dal luogo comune secondo cui nell’esperienza giuridica anglosassone la condotta del c.d. « cattivo samaritano » (bad samaritan) sarebbe giuridicamente irrilevante: benché gli ordinamenti di common law evitino perlopiù di riconoscere un principio che imponga in via generale l’obbligo di soccorso, tuttavia, le ipotesi in cui tale obbligo è previsto non mancano, sia pure con riferimento a contesti specifici tassativamente individuati. Dopo aver sostenuto la minore problematicità dei reati omissivi propri (solitamente di creazione legislativa), McCall Smith sottolinea i molti nodi dogmatici posti dalle ipotesi di omesso impedimento dell’evento. In questi casi l’omissione costituisce infatti l’actus reus di reati solitamente commissivi: essa s’imbatte subito, dunque, nella tradizionale, e pervicace, riluttanza


— 1110 — ad accettare fino in fondo l’idea della causalità omissiva; ciò anche in ragione dei problemi che sorgono allorché occorre delimitare l’ambito dei soggetti tenuti ad attivarsi. Peraltro, questo spunto è di un certo interesse, particolari difficoltà possono derivare, anche nei reati di evento, dalla formulazione legislativa della fattispecie di reato: ad esempio, quando vengono utilizzate espressioni linguistiche che sarebbe riduttivo appiattire sulla mera causalità: l’uso del verbo « uccidere » nella fattispecie di omicidio contiene in realtà, sia pure in modo occulto, l’indicazione di una modalità di lesione. Di qui i problemi nel configurare una responsabilità per omesso impedimento dell’evento. Venendo alle ipotesi in cui la common law riconosce l’esistenza di un dovere di soccorso, McCall Smith — senza menzionare la distinzione tra teoria formale e teoria funzionale dell’obbligo di impedire l’evento richiama, come primo ordine di casi, quelli in cui la situazione di pericolo sia creata dalla condotta antecedente del soggetto. Non sfuggono, anche nel mondo anglosassone, le difficoltà derivanti dal configurare la condotta pregressa come una vera e propria fonte di obblighi: anzi, tali difficoltà spingono la giurisprudenza ad adottare impostazioni dogmatiche particolari, ad esempio quella che porta a fondere la condotta omissiva nella precedente condotta pericolosa di tipo commissivo, al fine di effettuare il giudizio causale su di un’unica complessiva condotta a forte componente commissiva. In merito a tale soluzione giurisprudenziale, a tacer d’altro elusiva, McCall Smith richiama ed analizza alcuni casi giurisprudenziali, tra i quali val la pena di menzionare, per la sua natura paradossale, quello dell’automobilista che, avendo parcheggiato inavvertitamente la propria vettura ponendo una delle ruote sul piede di un agente di polizia, rifiutava di attivarsi al fine di far cessare tale imbarazzante stato di fatto (il caso, realmente accaduto, è Fagan v. Metropolitan Police Commissioner, [1969] 1 Q.B. 439, [1968] All E.R. 442). Il secondo ordine di situazioni in cui la common law riconosce il duty to rescue è quello in cui vi sia una particolare relazione tra il pericolante ed il soccorritore. Mancando però, direbbe il penalista italiano, tanto una nozione formale della fonte dell’obbligo, quanto una teoria funzionale delle posizioni di garanzia, l’individuazione dei particolari rapporti interpersonali fondanti il duty to rescue rimane in gran parte affidata alla case law. McCall Smith dopo aver in proposito sottolineato l’incertezza dell’assetto normativo e dei criteri utilizzabili per individuare le situazioni doverose ricorda tuttavia come il novero delle stesse sia comunque assai limitato: significativa di tale orientamento restrittivo è, ad esempio, la decisione giurisprudenziale che ritenne penalmente lecita la condotta del marito che aveva lasciato annegare la moglie caduta in una piscina. Comunque, al di là della sicura rilevanza di una serie di posizioni formalizzate, l’obbligo pare fondarsi su una serie di aspettative sociali, in ultima analisi riconducibili a convinzioni di carattere morale. Meno problematiche paiono essere le situazioni riconducibili ad una ulteriore serie di casi affrontata da McCall Smith: quelle in cui l’obbligo di soccorso derivi dalla legge o da un contratto di lavoro. L’analisi della casistica in materia consente inoltre di porsi il più generale problema se sia consentito configurare un dovere di soccorso ogni qual volta il soggetto abbia il dominio, la signoria su di una particolare situazione o su altro soggetto. In proposito l’A. propende per la soluzione positiva, quantomeno rispetto alle ipotesi in cui si configuri un obbligo di controllo. Dopo aver segnalato alcuni particolari problemi in tema di dolo, sottolineando, ad esempio, l’orientamento volto a dare rilievo all’errore anche irragionevole sulla situazione di pericolo, McCall Smith passa ad esaminare il problema della responsabilità per omesso soccorso nel diritto privato, in particolare nella materia dell’illecito civile. Senza dilungarsi sul punto, può essere utile ricordare come il criterio regolatore sia qui il principio di « prossimità » (proximity), la cui messa a fuoco è tuttavia tutt’altro che incontroversa. Il saggio di Alberto Cadoppi, dell’Università di Trento, Failure to Rescue and the Continental Criminal Law, offre non solo un quadro storicamente e geograficamente ampio del dovere di soccorso negli ordinamenti di civil law, ma anche un framework dogmatico-concettuale che, a prescindere dalla sua validità universale, si rivela comunque utile per orientare il lettore europeo nell’intero volume. Il contributo propone subito, nei suoi termini moderni, la distinzione tra reati omissivi propri ed impropri. Si sottolinea in particolare come


— 1111 — nel caso dei reati di pura omissione non sussista alcun obbligo di impedire l’evento: per tale ragione, la diffusa presenza negli ordinamenti continentali di reati omissivi propri sanzionanti l’omissione di soccorso non deve assolutamente essere intesa come previsione di un dovere giuridico di prevenire gli eventi pericolosi altrui incombente su tutti i cittadini. Dopo aver analizzato l’evoluzione normativa del duty to rescue in numerosi ordinamenti europei, Cadoppi segnala, da un lato, la tendenza ad un progressivo ampliamento degli obblighi di attivarsi, testimoniata dall’incremento dei reati di omissione di soccorso; dall’altro, il complessivo alleggerimento della risposta sanzionatoria per il « cattivo samaritano » stante l’inesistenza a suo carico di una responsabilità per l’evento dannoso eventualmente verificatosi. L’analisi comparatistica si conclude quindi con un dettagliato esame della legislazione italiana, ripercorsa anche nella sua evoluzione storica. Passando alla propria elaborazione critica del problema, Cadoppi sottolinea come le profonde differenze tradizionalmente rilevate, tra sistemi anglosassoni e continentali, in merito alla rilevanza giuridica del dovere di soccorso siano forse meno drastiche di quanto potrebbe apparire a prima vista. Tali differenze, da un lato, riguardano termini non omogenei: cioè la folta schiera di reati omissivi propri prevista nei sistemi di civil law posta a confronto con i ristretti margini della responsabilità per omesso impedimento dell’evento nei sistemi anglosassoni; dall’altro lato, non paiono essere l’ineluttabile frutto di premesse ideologiche tra loro inconciliabili, come tali destinate ad impedire qualsiasi riavvicinamento tra le due famiglie di sistemi. Ciò che veramente ha condotto ad adottare forme di responsabilità diverse in merito al dovere di soccorso pare essere, a ben vedere, la codificazione penale, vera e propria svolta del diritto continentale priva di equivalente nell’esperienza giuridica anglosassone. La codificazione è momento di globale ripensamento del diritto penale: momento dunque davvero propizio per introdurre fattispecie di omesso soccorso, razionalizzando le sottostanti istanze morali e canalizzando le stesse entro confini ben delimitati. Peraltro, l’inclusione di norme destinate a punire la condotta del « bad samaritan » gode di un facile consenso da parte dell’opinione pubblica cui la scelta politico-criminale può essere presentata come « moderna » e « avanzata ». In definitiva, secondo Cadoppi, il momento della codificazione sarebbe il fattore determinante per il passaggio del duty to rescue dalla morale al diritto: una fattore assai più rilevante di tanti altri, a cominciare dalla tanto spesso menzionata presenza, nel mondo anglosassone, di concezioni individualistico-liberali della società e del diritto. Il saggio si conclude quindi con alcune riflessioni di politica criminale: sottolineata l’estrema cautela con cui il legislatore dovrebbe incriminare le condotte omissive, la disciplina penale del duty to rescue potrebbe essere contraddistinta, secondo Cadoppi, da un lato, dalla previsione di reati omissivi propri, dall’altro dalla indicazione di un obbligo che tenga conto dell’organizzazione sociale delle moderne società tecnologiche: al « buon samaritano » si dovrebbe richiedere oggi, più che un diretto, talora maldestro, soccorso personale, di dare avviso all’autorità, essendo quest’ultima in grado di provvedere nel modo più idoneo. Come già accennato, il volume contempla poi due contributi, di grande interesse, ma alquanto distanti dalla prospettiva penalistica. In The Duty to Rescue the Vulnerable in the United States, Daniel Shuman, Professor of Law, presso la Southern Methodist School of Law di Dallas nonché Professor of Psychiatry presso l’University of Texas, Southwestern Medical School, affronta il problema del duty to rescue da parte dello Stato, in particolare del « soccorso » a tutela dei minori. Muovendo da posizioni di empirismo scettico, Shuman sostiene che l’utilità dell’intervento pubblico è tutta da dimostrare, potendo assai spesso il soccorso, specie se collegato allo strumento penale, creare più danni di quanti mira ad evitarne. Conclude l’opera il saggio Rescue Across State Boundaries: International Legal Aspects of Rescue, di Stephen C. Neff, Senior Lecturer in Public International Law presso l’University of Edinburgh, nel quale si analizza il problema del « soccorso » nel diritto internazionale, con riguardo alle ipotesi di aggressione tra Stati, alla tutela di profughi e rifugiati, alla cooperazione con i Paesi in via di sviluppo. Neff si sofferma, in particolare, sulla evoluzione storica e giuridica che ha visto il passaggio dalle antiche teorie del diritto naturale, orientate


— 1112 — in favore del duty to rescue, alla ideologia del non intervento negli affari interni degli Stati sovrani. Si tratta di un percorso che tuttavia registra, negli anni più recenti, anche un cammino inverso, aprendosi sempre più spazi nel diritto internazionale al diritto di intervenire in soccorso di soggetti (Stati o individui) in situazione di pericolo. (Michele Papa).

MOCCIA S., La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1995. Il libro di Sergio Moccia, aperto da una prefazione di Alessandro Baratta, che è già di per sé un manifesto di « mobilitazione civile » sul tema del « rapporto della giustizia penale con la realtà », va letto e/o compreso entro il postulato dello stato sociale di diritto, della piena compatibilità delle esigenze di difesa sociale con la garanzia di libertà e di dignità della persona umana. L’emergenza italiana (ma Baratta la colloca in una contestuale mutazione del sistema punitivo in molti paesi del capitalismo occidentale delle due rive dell’Atlantico) sembra smentire quel postulato. La criminalità dei colletti bianchi e quella « delle organizzazioni storiche rimodernate » hanno sollecitato come reazione dello Stato una colluvie di leggi episodiche e disorganiche, di fronte alle quali è tutto da verificare il rispetto dei principî di legalità, determinatezza e tassatività, di personalità della responsabilità penale, di proporzione e ragionevolezza, di sussidiarietà, di offensività, di materialità, di tutela della dignità umana, del giudice naturale, della presunzione di non colpevolezza, di inviolabilità dei diritti della difesa, di soggezione alla legge, di obbligatorietà dell’azione penale, di obbligo della motivazione. Ma soprattutto la tecnica della legislazione d’emergenza sembra dimenticare il modulo della tipizzazione del fatto, peculiare del nostro sistema penale. In realtà non si vuole, o non si sa, costruire la fattispecie incriminatrice repressiva di un fatto socialmente dannoso, perché si tende piuttosto a sanzionare penalmente l’inosservanza di norme organizzative o di norme di condotta, come tutela anticipata rispetto alla repressione di un fatto avvenire. Da qui deriva la necessità di una descrizione casistica, perifrastica e di ambigua interpretazione, nella formulazione di leggi sempre più lontane dal linguaggio laconico, immediato e univoco, del canone normativo. In verità questo aspetto formale è il risultato di un ricorso ipertrofico allo strumento della norma penale per ottenere il controllo di fenomeni sociali estesi e depersonalizzati come nell’economia e nell’ecologia o che coinvolgono intere popolazioni come nella criminalità organizzata. Si è andato perdendo il valore di estremo rimedio dell’intervento penale, inflazionando il meccanismo sanzionatorio penale all’interno di sistemi di controllo amministrativo, civilistico, disciplinare, o di assetti politico-sociali. Con quali conseguenze? Oltre quella della incertezza interpretativa e della varietà di applicazione di simili pene ad opera di una magistratura chiamata ad eseguire un compito repressivo, vissuto dai destinatari come autoritario e vessatorio, è da registrare quella della permanente inadeguatezza del mezzo al fine. Se, ad esempio, si rapporta la estensione dell’area dei comportamenti in tal modo criminalizzati con l’obbligo dell’esercizio dell’azione penale, scrive Moccia « che la maggior parte dei consociati sarebbe raggiunta da un’informazione di garanzia, e la conseguenza sarebbe, evidentemente, una condizione di patologia sociale insopportabile per le ragioni di uno stato sociale di diritto ». Applicando il principio di sussidiarietà, che diventerà nel prossimo futuro il principio metodologico guida nella ristrutturazione di tutte le funzioni statali, fondando un nuovo rapporto tra Stato e società, alla norma penale si ricorrerà solo quando ogni altro strumento sarà stato inutilmente sperimentato.


— 1113 — Occorre rimettere in movimento nel verso contrario quel meccanismo di espansione dell’intervento della legge penale ch’era servito nel secolo scorso a ridurre l’arbitrio dello Stato di polizia: oggi vive il bisogno storico opposto di una riduzione dello spazio dominato dalla norma e dal giudice penale. La depenalizzazione deve riguardare non solo fatti di lieve entità, ma anche e soprattutto fatti che la coscienza sociale non raggiunge con giudizio di disvalore, non presta consenso alla censura penale perpetuando così uno stato di disubbidienza. Passando all’oggetto più determinato della legislazione antimafia, Moccia sottolinea la sua simbolicità. Il rigore repressivo dovrebbe scoraggiare i criminali e rincuorare i cittadini. Ma puntando il fuoco dell’attenzione sull’organizzazione associativa, e meno sui singoli reati che ne sono lo scopo, si rischia l’estensione illimitata del fenomeno che deve essere raggiunto e colpito. Moccia descrive l’evoluzione della criminalità mafiosa e della legislazione che ne viene indotta negli ultimi decenni e pone in forte evidenza il nodo, forse più arduo a sciogliere e sul quale si sono già perdute vite umane: quello della magistratura « in lotta » contro la criminalità. Scrive Moccia « che il giudice non può essere considerato un soggetto « in lotta »; ciò ha, innanzitutto, l’effetto di determinare una distorsione delle funzioni di accertamento della giurisdizione, mettendo in crisi la stessa terzietà del giudice, con la conseguente involuzione inquisitoria del modello giurisdizionale. A ciò si aggiunga anche l’effetto di confusione dei vari ruoli istituzionali, con la sovraesposizione del potere giudiziario: essa risulta sterile, rispetto ai compiti di « lotta » che si assume, dannosa perché finisce per non far mettere in mora le istituzioni realmente deputate alla lotta, e pericolosa per i diritti del singolo, come accade fatalmente quando uno dei poteri statuali svolge un’azione che esorbita dalle sue naturali competenze » (pag. 32). Tra i rimedi prospettati da Moccia, soprattutto rispetto alla problematicità, anche costituzionale, dell’associazione mafiosa prevista dall’art. 416-bis c.p., va segnalato quello della creazione di una figura associativa di parte generale: « un concorso qualificato dalla stabilità dell’organizzazione e del vincolo associativo » (pag. 42), non dunque come fattispecie di reato, ma come « modalità plurisoggettiva di commissione del reato » (pag. 47). Sempre in base al postulato dello Stato sociale di diritto, che funziona come canone metodologico e assiologico nella ricerca di Moccia, anche la legge n. 205 del 1993 (Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa) è criticata quale altra tipica forma di legislazione simbolica e inefficiente rispetto al fenomeno da controllare e reprimere. Un intero capitolo, il quinto, è dedicato alla involuzione del nostro nuovo processo penale, introdotto dalla riforma del 1988, è già ampiamente svisato da sentenze della Corte costituzionale e da novellazioni legislative. Come già per il diritto sostanziale, anche per il processo sono andate prevalendo esigenze di difesa sociale. Il postulato costituzionale di Moccia dà sempre più corpo alla immagine della bilancia sui cui piatti con effetto alterno cadono ora il peso della libertà e dignità della persona, ora quello della forza dello Stato e delle paure della società. Non potevano mancare paragrafi dedicati alla tanto discussa questione della custodia cautelare. Moccia, che ha studiato l’evoluzione del diritto e del processo penale e della sua scienza in Europa nei secoli dell’età moderna, ha con sicurezza intravisto, sulla scorta del giudizio di immoralità del carcere preventivo di Francesco Carrara, che è stato rimesso in uso, distorcendo le regole relative alle esigenze cautelari di cui all’art. 275 c.p.p. « Il vecchio arnese inquisitorio della strumentalizzazione della carcerazione dell’imputato per fini confessori » (pag. 93). Come pena, davvero extra ordinem, si aggiunge la gogna dei mass media che funziona come supporto esterno all’azione giudiziaria. La violazione del segreto istruttorio dà « l’inquietante sensazione di una richiesta di consenso esterno alla magistratura ». La sequenza: avviso di garanzia, propalazione delle pretese prove a carico, cattura del-


— 1114 — l’indagato, divulgazione della confessione, spettacolarizzazione del processo con le telecamere, costituiscono il nuovo rito giustizialista di massa. All’interno di quello tecnico e legale insorgono poi i ritorni di tipo inquisitorio sia in materia probatoria, quanto ad atti raccolti dalla polizia giudiziaria, all’opera dei collaboranti, alle chiamate di correo, sia in ordine alla non parità reale di accusa e difesa. Il ruolo dominante del pubblico ministero va ridimensionato entro un processo ricondotto al suo unico fine, che non è quello della lotta alla criminalità, ma quello dell’accertamento della verità. Molto lucidamente e convincentemente Moccia afferma che la lotta alla criminalità è « un oggetto costante dell’accertamento della verità » (pag. 120). E per fare uscire tutti, legislatore e giudici, dalla psicosi della lotta e per fare rientrare tutti nella legalità costituzionale, Moccia afferma: « Un sistema ispirato ai principî garantistici dello Stato sociale di diritto non ha interesse, né convenienza ad una compressione dei diritti fondamentali, quale che sia la situazione contingente » (pag. 120 cit.). Nell’ultimo capitolo, il sesto, Moccia dà il meglio della sua maturità di studioso della laicizzazione del diritto penale, tra Ordnung e Polizei-Staat ancora involuto nelle concezioni teocratiche del magistero penale, e razionalismo illuministico. Egli prende posizione contro la concezione retributiva della pena, cui la generazione di studenti da cui provengo è stata educata, dai Maestri di allora, fra i quali ricorderò Biagio Petrocelli, e a cui miei antichi compagni come Dario Santamaria hanno dato ancora un contributo. Di Santamaria, Moccia ricorda nella nt. 223 di pag. 126 la prolusione senese del 1963 su « il fondamento etico della responsabilità penale », cui io personalmente assistetti, già però come dubbioso ascoltatore. Moccia oggi mi convince definitivamente della fondatezza di una mia lontana obbiezione che la pena statuale non compensa e annulla il contenuto antietico del reato. Questo è un residuo metafisico, oltre tutto « inconciliabile con i principî di teoria dello Stato sui quali si fonda la democrazia » (pag. 127). Se i giudici sentenziano in nome del popolo, ebbene la sentenza non può trascendere i fini del delegante che non mirano ad altro che non sia la pacifica e libera convivenza dei consociati. La mera afflittività della pena, d’altra parte, confligge con il recupero sociale e si è dimostrata frequentemente criminogena. La pena preventiva, quanto alla prevenzione generale, più che ad un effetto di deterrenza, tende ad un effetto pedagogico di mantenimento della fiducia dei consociati nell’ordinamento giuridico. Quanto alla prevenzione speciale, il reo può essere intimidito o neutralizzato. Comunque solo gli aspetti positivi non desocializzanti della prevenzione generale e speciale sono compatibili con il fine costituzionale dell’emenda. In questo orizzonte sia il custodialismo sia le alternative extramurarie sono da superarsi in un radicale ripensamento del sistema sanzionatorio, nel quale la privazione della libertà sia l’ultima ratio di una scala che veda l’astensione dalla applicazione della sanzione, la sospensione condizionale, privata però di carattere clemenziale e munita di prestazioni risarcitorie, di pubblica utilità, di impegno in attività di rieducazione, la pena pecuniaria intesa come abbassamento del tenore di vita in libertà (ad es. prestando attività sociali gratuite) e come controllo sociale nel tempo della reintegrazione del reo. La detenzione come misura residuale deve essere tutta ristrutturata verso la risocializzazione, sia pure nella previsione di un sottosistema penitenziario, prevalentemente se non esclusivamente a regime intramurario, destinato ai condannati per determinati reati di grandissima gravità. Moccia conclude con un richiamo al dovere di fedeltà alle leggi. L’art. 54 della Costituzione può essere letto come fondante la fedeltà solo per leggi non contrarie ai principî costituzionali. Dunque non si deve fedeltà al sovrano infedele. Ma il diritto di resistenza pur presente nel progetto fu cancellato nel testo definitivo della Costituzione.


— 1115 — L’unico insegnamento che si può ricavare dal dovere di fedeltà ai principî dello Stato sociale di diritto è che non si deve ricorrere al diritto penale per scopi non suoi, pena il discredito e la sterilità non solo della legge penale ma di tutto l’ordinamento. E, senza commento personale, vorrei concludere con le parole di Beccaria, che Moccia cita quasi ad explicit del suo bel libro: « ogni legge che non sia armata o che la natura delle circostanze renda insussistente non deve promulgarsi così le leggi inutili, disprezzate dagli uomini, comunicano il loro avvilimento alle leggi anche più salutari... » (pag. 157). (Francesco Paolo Casavola).

PONCELA P., Droit de la peine, Presses Universitaires de France, Parigi, 1995, pp. 445. 1. Affrontare in un unico volume tutti gli aspetti della pena, superando i tradizionali steccati fra diritto penale sostanziale e diritto processuale penale. È questo l’intento che l’Autrice si è espressamente prefissata: spaziare dal problema giuridico-filosofico del fondamento del diritto di punire alla tipologia delle sanzioni, dalla commisurazione all’esecuzione della pena, cercando di fornire una visione d’insieme dell’intero fenomeno e di delineare — come suggerisce il titolo dell’opera — un vero e proprio « diritto della pena ». 2. Il volume si articola in tre parti dedicate rispettivamente ad illustrare: a) le principali risposte che sono state fornite al problema del fondamento del diritto di punire, nonché l’evoluzione storica delle varie tipologie di sanzioni penali; b) le diverse pene previste dalla legislazione francese e i principi che regolano la loro commisurazione; c) la fase esecutiva delle pene. 3. Nel capitolo introduttivo si affrontano, seppur sinteticamente, due distinte questioni. Da un lato ci si sofferma sulle possibili fonti normative di un « diritto della pena », che sono individuate dall’A. in tutte quelle norme che, a partire dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1789 fino al recente codice penale del 1994, enunciano i principi fondamentali che regolano il sistema sanzionatorio penale: i principi di legalità, nelle sue varie articolazioni, di proporzionalità, di uguaglianza e di personalità della responsabilità penale. Dall’altro si anticipano alcune considerazioni, che verranno poi sviluppate nella parte finale dell’opera, sull’opportunità non solo di trattare unitariamente tutti gli aspetti della pena, ma anche di analizzarli all’interno della tematica più vasta delle sanzioni giuridiche (penali, civili e amministrative). Quest’analisi unitaria mira a consentire valutazioni più compiute circa l’efficacia preventiva di una certa sanzione, anche alla luce di tutte le alternative non-penalistiche presenti nell’ordinamento: un fine che dovrebbe essere comune, secondo l’A., ad ogni trattazione in materia di sanzioni giuridiche, e di sanzioni penali in particolare. 4. Come si è anticipato, la prima delle tre parti in cui è suddivisa l’opera affronta innanzitutto la problematica del fondamento del diritto/dovere di punire, illustrando le varie teorie sui fini della pena. La Poncela individua tre diversi angoli visuali: le concezioni elaborate da alcuni grandi filosofi; il ruolo della pena nell’ambito della teoria generale dello Stato, infine, il ruolo della pena come strumento di politica criminale. Quanto ai fini della pena, la distinzione fondamentale corre, secondo l’A., fra teorie che guardano al futuro e teorie che guardano al passato: alle prime possono ricondursi diverse funzioni della pena, dalla rieducazione all’emenda, dalla neutralizzazione all’intimidazione ed alla deterrenza, combinandosi dunque prevenzione speciale e prevenzione generale; il secondo filone ricomprende tutte le teorie di stampo retribuzionistico. L’opera analizza le differenti articolazioni dei due modelli fondamentali, anche se la trattazione non può, per ovvie ragioni di economia, andare oltre un approfondimento di stampo manualistico: fra l’altro, non emergono con particolare evidenza i nessi tra commisurazione e funzione della pena. Passando ad illustrare la storia del sistema sanzionatorio penale francese, l’A. ripercorre le tappe che hanno portato alla graduale abolizione delle pene corporali e delle peines coloniales — le pene che dovevano essere scontate nelle colonie francesi e che venivano irrogate


— 1116 — soprattutto per i delitti politici — nonché il dibattito sulla pena di morte, abolita completamente soltanto nel 1981. Segue un quadro esaustivo di tutte le sanzioni penali conosciute nell’ordinamento francese dal 1791 fino al 1975, anno dell’ultima grande riforma del sistema sanzionatorio prima della redazione del nuovo codice penale: tale quadro è corredato da alcuni interessanti cenni sull’evoluzione storica di ciascuna sanzione, nonché da una serie di dati empirici, che chiariscono il ruolo delle diverse pene nella prassi. 5. La seconda parte della monografia affronta l’argomento, centrale nell’economia del lavoro, della disciplina delle pene nel diritto vigente. Nel primo capitolo — che contiene una minuziosa panoramica di tutte le sanzioni penali previste nell’ordinamento francese, suddivise innanzitutto in considerazione del tipo di reato (crimine, delitto o contravvenzione) per il quale sono comminate e poi a seconda che si tratti di pene principali o di peines complementaires o secondaires — vengono analizzate le modifiche apportate al sistema sanzionatorio prima dalla legge 75-624 dell’11⁄7⁄75 e successivamente dal nuovo codice penale del 1994. La riforma del ’75 si era prefissa due fini fondamentali: da un lato, porre rimedio al problema del sovraffollamento delle carceri, dall’altro garantire una maggiore individualizzazione della pena. Per raggiungere questi obiettivi il legislatore francese del 1975 si è mosso su più fronti: innanzitutto ha creato una vasta tipologia di sanzioni sostitutive della pena detentiva, che si segnalano nel panorama europeo per il ruolo di spicco attribuito alle pene interdittive, come interdizioni professionali, sospensione della patente di guida, divieto di guidare determinati veicoli, ecc. (artt. 43-2 e 43-3 c.p.); nel contempo ha notevolmente ampliato il potere discrezionale del giudice in sede di commisurazione della pena. Sotto questo profilo meritano particolare attenzione l’assenza di qualsiasi limite di pena concreta per la sostituzione, nonché la possibilità per il giudice, in casi particolari, di separare il momento dichiarativo della responsabilità penale dal momento commisurativo della pena attraverso l’istituto de l’ajournament du prononcé de la peine (differimento dell’irrogazione della pena) di cui agli artt. 469-1 ss. c.p. Sempre secondo una logica di individualizzazione della pena, la riforma del ’75 ha stabilito inoltre che il giudice, nell’irrogare una pena pecuniaria (amende), deve valutare, oltre al grado di responsabilità del reo, anche le sue condizioni economiche. L’A. sottolinea come il nuovo codice penale francese continui sulla strada intrapresa dal legislatore del ’75. Nel tentativo di incrementare ulteriormente l’individualizzazione della risposta sanzionatoria vengono infatti soppressi i minimi edittali previsti per i delitti e per le contravvenzioni. A questo stesso scopo, ma anche a quello di ridurre al minimo il ricorso alla pena detentiva, è riconducibile l’ampliamento, per quanto riguarda i delitti e le contravvenzioni, della gamma di pene alternative al carcere e l’introduzione a carico del giudice dell’obbligo di motivare sul punto della pena tutte le sentenze che infliggano una pena detentiva. Interessante per il lettore italiano è inoltre il perfezionamento del jour-amende, introdotto con la legge 83-466 del 10⁄6⁄1983, una pena pecuniaria strutturata secondo lo schema dei « tassi giornalieri »: con questa scelta il legislatore francese recepisce infatti, per una volta, un’importante indicazione del movimento internazionale di riforma del diritto penale. Un’innovazione di grande rilievo introdotta nell’ordinamento francese dal nuovo codice penale riguarda, com’è noto, la responsabilità penale delle persone giuridiche (personnes morales). La Poncela, senza tentare una valutazione, del resto verosimilmente prematura, dei vantaggi o dei problemi applicativi prospettati da questa disciplina, si limita ad una minuziosa rassegna delle sanzioni previste per le persone giuridiche: la pena pecuniaria (amende) pari al quintuplo di quella applicabile qualora l’autore del reato sia una persona fisica; la dissolution — in ogni caso esclusa per enti pubblici, partiti politici e sindacati —, irrogabile solamente quando la persona giuridica sia costituita proprio al fine di commettere quel reato o quella particolare categoria di reati, e quando sia prevista una pena detentiva superiore a 5 anni per l’ipotesi in cui il reato sia commesso da una persona fisica; l’interdizione, temporanea o definitiva, di esercitare l’attività propria della persona giuridica; la sot-


— 1117 — toposizione della gestione a controllo giudiziario; la chiusura, temporanea o definitiva, dello stabilimento; l’esclusione da bandi e concorsi pubblici; il divieto di emettere assegni o utilizzare carte bancarie; la confisca. Il secondo capitolo prende in esame tutti i casi nei quali, indipendentemente dall’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, l’ordinamento francese apre a considerazioni, fatte dal legislatore una volta per tutte o lasciate al giudice caso per caso, circa l’opportunità di irrogare la pena. In quest’ampia categoria l’A. ricomprende ipotesi difficilmente accumunabili agli occhi del lettore italiano: dalle immunità « politiche » di cui godono diplomatici e parlamentari, alle cause di giustificazione, all’infermità di mente e alla minore età. Più congrua sembra la trattazione in questa sede dei casi, contemplati dal codice di procedura penale, in cui, pur essendo stata accertata la responsabilità del reo, questi viene « esentato » dalla pena: tali ipotesi — che riguardano soltanto alcuni specifici reati contro beni collettivi di rilevante importanza, come ad esempio l’incolumità pubblica — presuppongono che l’autore o un concorrente dia un contributo alla rimozione delle conseguenze dannose o pericolose del reato o all’identificazione dei complici. Viene quindi illustrato l’istituto della dispense de peine, introdotto nel 1975, del quale l’autore di un delitto o di una contravvenzione può beneficiare al verificarsi di tre condizioni: il reinserimento sociale del reo, la riparazione del danno, la eliminazione delle conseguenze dannose del reato. Per quanto riguarda la commisurazione della pena, il nuovo codice penale francese individua due criteri generali cui deve attenersi il giudice: le circostanze del fatto e la personalità del reo (art. 132-24 c.p.). L’A. si limita a segnalare questa innovazione, senza addentrarsi nei problemi interpretativi sollevati da tale disciplina, e tanto meno in considerazioni critiche rispetto alle scelte legislative. Anche le conseguenze sul piano commisurativo dell’abolizione dei minimi edittali previsti per delitti e contravvenzioni vengono esaminate solamente in relazione agli effetti sulle circostanze attenuanti. In definitiva, il tema della commisurazione della pena risulta affrontato in una prospettiva sostanzialmente ‘autarchica’, chiusa cioè agli apporti dell’elaborazione dottrinale in corso nel resto d’Europa. 6. La terza ed ultima parte dell’opera concerne l’esecuzione delle pene, la cui disciplina nell’ordinamento giuridico francese è contenuta nel codice di procedura penale. L’A. mette subito in evidenza il ruolo svolto dal pubblico ministero, che dà impulso al processo esecutivo a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di condanna. All’esecuzione delle pene sovrintendono l’amministrazione penitenziaria ed il giudice de l’application des peines (JAP). Compito della prima è « favorire il reinserimento sociale del condannato e collaborare all’esecuzione delle sentenze di condanna » (l. 22/7/1987). Competente a decidere e a controllare le modalità di esecuzione della pena è invece il JAP, un giudice del tribunale che viene assegnato a questa funzione per tre anni, rinnovabili. Passando a trattare delle modalità di esecuzione delle pene detentive, la Poncela si sofferma innanzitutto sui diversi istituti di pena previsti nell’ordinamento francese: le maisons d’arret, che ospitano imputati in attesa di giudizio ed « eccezionalmente » anche condannati a pene non superiori ad un anno o condannati a pene superiori cui resta solo un anno da scontare; le maisons centrales, in cui risiedono condannati a pene superiori a tre anni e che prevedono un regime di maggior sicurezza; i centres de détention, creati nel ’75 per la medesima categoria di detenuti, ma maggiormente « orientati verso la risocializzazione ». Sono anche previsti dei centri per l’esecuzione della semilibertà; attualmente sono peraltro solo 12 in tutto il paese, un numero che risulta del tutto insufficiente. La trattazione prosegue con un’analisi capillare di tutti gli istituti improntati a finalità rieducative che attengono all’esecuzione delle pene detentive (liberazione condizionale, semilibertà, permessi-premio), all’esecuzione delle pene interdittive o restrittive di diritti e all’esecuzione delle pene pecuniarie; da ultimo, vengono analizzate le cause di estinzione della pena. 7. L’opera si chiude con alcune riflessioni, già anticipate all’inizio, sull’opportunità di trattare le problematiche relative alla pena all’interno di considerazioni più ampie su tutte le sanzioni giuridiche previste nell’ordinamento. In effetti, osserva la Poncela, le pene non hanno mai costituito l’unico sistema sanzionatorio, e la distinzione fra le varie forme di san-


— 1118 — zioni giuridiche — pene in senso stretto, riparazione civile e sanzioni amministrative — perde sempre più rilevanza. L’A., per sottolineare la sempre maggiore interazione del sistema penale con sanzioni non penalistiche, cita l’esempio della mediazione (médiation), di cui in Francia viene fatto un sempre maggiore utilizzo: si tratta di un istituto mediante il quale il Procuratore della Repubblica, con il consenso delle parti, rinuncia ad esercitare l’azione penale a favore di un accordo fra vittima e reo, accordo che deve garantire la riparazione del danno patito dalla vittima, porre fine alle conseguenze dannose del reato e contribuire al reinserimento sociale del reo. In conclusione, quest’opera — pur prevalentemente animata dall’intento di illustrare in forma organica il diritto vigente, senza spiccate ambizioni critiche o di politica criminale — approda, ci sembra, ad un’indicazione propositiva di ampio respiro: purché vengano soddisfatte le tre esigenze fondamentali che il legislatore francese riconduce alla pena e alle quali subordina l’applicazione di misure diverse — il reinserimento sociale del reo, la riparazione del danno e l’eliminazione di ogni conseguenza dannosa del reato — anche condotte tradizionalmente ricomprese nell’ambito del diritto penale possono essere utilmente sanzionate mediante strumenti attinti da altri settori dell’ordinamento. Ciò garantirebbe un effettivo rispetto di quel principio, mai attuato fino in fondo, che considera legittima l’utilizzazione della sanzione penale solo quando si tratti, davvero, dell’extrema ratio. (Francesca King).


GIURISPRUDENZA

A) Giurisprudenza costituzionale

CORTE COSTITUZIONALE — sentenza 25-27 giugno 1996, n. 223 Pres. Ferri — Giudici: Mengoni - Cheli Granata - Vassalli - Guizzi - Mirabelli - Santosuosso - Vari Ruperto - Chieppa - Zagrebelsky - Onida - Mezzanotte Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale. Estradizione — Cittadino italiano imputato di omicidio di primo grado dal giudice della Contea di Dade (Florida) — Ratifica ed esecuzione del trattato di estradizione tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo degli Stati Uniti d’America — Estradizione anche per i reati puniti con la pena capitale a fronte dell’impegno, assunto dal paese richiedente, con garanzie ritenute sufficienti dal paese richiesto a non infliggere la pena di morte o, se già inflitta, a non farla eseguire — Assolutezza della garanzia costituzionale del divieto della pena di morte incidente sull’esercizio delle potestà attribuite a tutti i soggetti pubblici dell’ordinamento repubblicano, comprese quelle attraverso le quali si realizza la cooperazione internazionale ai fini della mutua assistenza giudiziaria — Inammissibilità di una concezione flessibile e discrezionale dell’estradizione da parte dello Stato richiesto — Intrinseca inadeguatezza del meccanismo adottato dal codice di procedura penale e dalla legge di esecuzione del trattato in esame rispetto al canone costituzionale — Richiamo alla sentenza della Corte n. 54/79, n. 7, del considerato in diritto — Illegittimità costituzionale (C.p.p., art. 698, secondo comma; legge 26 maggio 1984, n. 225, nella parte in cui dà esecuzione all’art. IX del trattato di estradizione). Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 698, secondo comma, del codice di procedura penale, e della legge 26 maggio 1984, n. 225 (Ratifica ed esecuzione del trattato di estradizione tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo degli Stati Uniti d’America, firmato a Roma il 13 ottobre 1983), nella parte in cui dà esecuzione all’art. IX del trattato stesso, promosso con ordinanza emessa il 20 marzo 1996 dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio sul ricorso proposto da Venezia Pietro contro il Ministero di grazia e giustizia, iscritta al n. 404 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell’anno 1996. Visti gli atti di costituzione di Venezia Pietro e del Govemo degli Stati Uniti d’America, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella udienza pubblica del 28 maggio 1996 il giudice relatore Francesco Guizzi;


— 1120 — Uditi gli avvocati, Mario Salerni per Venezia Pietro, Giuseppe Frigo e Giorgio Luceri per il Governo degli Stati Uniti d’America, e l’Avvocato dello Stato Carlo Salimei per il Presidente del Consiglio dei ministri. RITENUTO IN FATTO. — 1. Avverso il decreto del Ministro di grazia e giustizia del 14 dicembre 1995, con cui si concede al Governo degli Stati Uniti l’estradizione del cittadino italiano Pietro Venezia, raggiunto da provvedimento restrittivo emesso il 30 dicembre 1993 dal giudice della contea di Dade (Florida) con l’imputazione di omicidio di primo grado, l’estradando proponeva ricorso al Tribunale amministrativo regionale del Lazio volto a ottenere l’annullamento, previa sospensione, del citato decreto. A fondamento dell’azione, il ricorrente deduceva l’illegittimità del decreto ministeriale per l’incostituzionalità sia dell’art. 698, secondo comma, del codice di procedura penale, sia della legge 26 maggio 1984, n. 225 (Ratifica ed esecuzione del trattato di estradizione tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo degli Stati Uniti d’America, firmato a Roma il 13 ottobre 1983), nella parte in cui ratifica e dà esecuzione all’art. IX del trattato stesso. 2. Disattese le eccezioni sul difetto di giurisdizione prospettate dall’Avvocatura dello Stato, il Tribunale adito sospendeva in via provvisoria il decreto ministeriale impugnato e con provvedimento contestuale promoveva, in relazione agli artt. 2, 3, 11 e 27, quarto comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale delI’art. 698, secondo comma, del codice di procedura penale, e della legge n. 225 del 1984, nella parte in cui ratifica e dà esecuzione all’art. IX del citato trattato di estradizione. 2.1. Osserva il collegio rimettente che il decreto impugnato non va ascritto al novero degli atti politici e, dunque, è sottoposto al sindacato del giudice amministrativo. Esso verrebbe a concludere due autonome fasi procedimentali distinte l’una dall’altra, ancorché unite da un nesso di presupposizione, e non v’è dubbio che l’autorità amministrativa esplichi una propria attività di valutazione. Sì che la giurisdizione amministrativa verrebbe a radicarsi sul provvedimento finale, anche se non la si voglia estendere al riesame della sussistenza delle condizioni richieste per l’accoglimento della domanda di estradizione, accertate dal giudice ordinario ai sensi dell’art. 704 del codice di procedura penale. Con altrettanta autonomia, il giudice amministrativo potrebbe conoscere le censure inerenti alla legittimità delle fonti normative su cui si basa l’esercizio del potere ministeriale, spettandogli di verificare i presupposti di legittimità dell’atto amministrativo alla luce di quanto dispongono gli artt. 24 e 113 della Costituzione. 2.2. Motivando specificamente sulla rilevanza, il Tribunale amministrativo del Lazio ricorda l’orientamento della Corte costituzionale sull’ammissibilità della questione sollevata dal giudice rimettente che sospenda l’atto impugnato, in via provvisoria, sino alla ripresa del giudizio cautelare dopo l’incidente di costituzionalità (cfr. sentenza n. 440 del 1990 e ordinanza n. 24 del 1995). La questione sarebbe quindi rilevante ai fini della decisione sulla domanda cautelare di sospensione del provvedimento impugnato, che sembrerebbe — prima facie — immune da vizi di eccesso di potere e procedimentali, in quanto congruamente motivato circa l’affidabilità delle garanzie fornite dal Governo degli Stati Uniti di non infliggere la pena capitale all’estradando e, comunque, di non darvi esecuzione. Detto provvedimento si palesa illegittimo, perché adottato in base a disposi-


— 1121 — zioni ritenute incostituzionali. La possibilità di estradare un cittadino italiano affinché venga sottoposto da parte dello Stato richiedente a un processo per un reato punito con la pena capitale — quantunque subordinata a garanzie o assicurazioni sufficienti in ordine alla mancata irrogazione o esecuzione di essa — sarebbe in conflitto con i principi fondamentali della Costituzione, quale che sia la natura delle assicurazioni fornite. Di qui, la non manifesta infondatezza della questione. 2.3. Viene innanzitutto in rilievo, ad avviso del rimettente, l’art. 2 della Costituzione, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali vi è certo quello alla vita, la cui assolutezza è stata sottolineata da questa Corte nella sentenza n. 54 del 1979. Nel contempo va ricordato che con specifico riferimento all’art. 11 — ove si consente l’estradizione sub condicione — il Governo italiano ha apposto riserva alla convenzione europea di estradizione ratificata con la legge 30 gennaio 1963, n. 300, impegnandosi a negare la concessione per i reati punibili dalla legge dello Stato richiedente con la pena capitale. 2.4. Vi sarebbe lesione, altresì, dell’art. 27 della Costituzione per il rischio di valutazioni soggettive difformi, in momenti storico-politici diversi, poiché la clausola denunciata affida all’apprezzamento discrezionale del Ministro di grazia e giustizia — secondo criteri non definiti — il giudizio sulle assicurazioni fornite dallo Stato richiedente, le quali non presentano quel carattere di certezza che i menzionati parametri costituzionali impongono, fondandosi la garanzia soltanto sulla capacità dell’organismo governativo che ha contratto l’impegno di esigerne il rispetto. Né in proposito suffraga il richiamo all’art. 6 della Costituzione degli Stati Uniti d’America, giacché manca nel trattato un presidio di effettività per tali garanzie, non essendo il Governo federale vincolato a particolari forme o tipi di assicurazione, che incontrerebbero, d’altronde, un limite nell’autonomia dei singoli Stati. Il giudice a quo invoca quindi l’art. 3, sotto il profilo dell’uguaglianza, che sarebbe vulnerato per il diverso atteggiamento che lo Stato italiano ha assunto nello stipulare convenzioni con altri Paesi — da ultimo con la Romania, l’Ungheria e il Marocco — nelle quali si è stabilito un vincolo diretto per il giudice dello Stato richiedente a non irrogare, o a non eseguire, la pena di morte. E infine deduce il contrasto con l’art. 11 della Costituzione, sottolineando ch’esso consente « limitazioni di sovranità » solo in quanto « necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni ». 3. È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, concludendo per l’inammissibilità e, comunque, per l’infondatezza. 3.1. La questione sarebbe inammissibile, poiché il sindacato sulla legittimità dell’atto amministrativo di concessione dell’estradizione è circoscritto alla decisione dell’autorità governativa e non può estendersi alla fase giurisdizionale svoltasi davanti alla corte d’appello competente per territorio e, poi, dinanzi alla Corte di cassazione in sede d’impugnazione nel merito. Le due decisioni non potrebbero sovrapporsi, spettando all’autorità giudiziaria l’esame dei requisiti previsti dalla legge e dalla convenzione internazionale, e inerendo al Ministro il compito di vagliare, in base a considerazioni di natura politica (anche contingenti) circa lo stato delle relazioni diplomatiche con il Paese richiedente, se concedere l’estradizione.


— 1122 — Il rapporto fra i due momenti, giurisdizionale e politico-amministrativo, sarebbe chiaramente enunciato dall’art. 701 del codice di procedura penale. Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio non poteva espandere il proprio sindacato alla pronuncia sui diritti dell’estradando già apprezzati dall’autorità giudiziaria: doveva limitarsi a giudicare degli interessi legittimi vantati da costui con riguardo alla salvaguardia del giusto procedimento e alla legittimità delle valutazioni di ordine politico compiute dal Ministro; né potrebbe avere cognizione delle censure sulle fonti normative sottostanti all’atto impugnato. Può infatti dubitare, ad avviso dell’Avvocatura, soltanto delle fonti che attribuiscono discrezionalità al Ministro, mentre il collegio rimettente pone in discussione il provvedimento di estradizione, richiamando i diritti soggettivi dell’estradando, fra cui quello alla vita già esaminato dal giudice ordinario. 3.2. Nel merito, la questione sarebbe comunque infondata, e il richiamo alla sentenza n. 54 del 1979 di questa Corte non pertinente: la norma denunciata in quella circostanza consentiva l’estradizione senza alcuna limitazione o cautela anche per i reati sanzionati con la pena capitale; mentre quella oggetto della presente censura postula garanzie che la condanna a morte non sarà irrogata, o eseguita, qualora sia concessa l’estradizione. Del pari irrilevante sarebbe il riferimento alla espressa riserva apposta dall’Italia alla convenzione europea di estradizione, in quanto anteriore al trattato con gli Stati Uniti. La norma censurata ricollega il provvedimento di estradizione alla sussistenza di parametri certi, obiettivi e autovincolanti che — a giudizio della Corte di cassazione — sono riscontrabili nell’impegno assunto dal Governo federale statunitense con le peculiari caratteristiche dell’obbligazione internazionale, resa vincolante nei confronti dello Stato federato dall’art. 6 della Costituzione del 1787. D’altronde, analoga situazione si verifica anche nel nostro ordinamento, allorché si ottenga l’estradizione soltanto per alcuni reati: in tale ipotesi l’art. 720 del codice di procedura penale vincola l’autorità giudiziaria alle condizioni poste dallo Stato estradante, e liberamente accettate. L’obbligo internazionale è dunque recepito in una norma interna, mentre nell’ordinamento statunitense il rispetto di esso sarebbe assicurato — in ragione della struttura federale — direttamente dalla norma costituzionale. Nel caso di specie — è quanto rileva la Corte di cassazione — la sanzione capitale deve aversi come non più esistente o comunque inoperante. Non vi sarebbe lesione, pertanto, degli indicati parametri costituzionali. L’art. 27, quarto comma, della Costituzione, non si può leggere, infatti, al di fuori del sistema, ma deve coordinarsi sia con l’art. 26 — pertinente nella sua specificità — sia con gli artt. 10 e 11, che conferiscono rango costituzionale ai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti, fra cui l’antico e consolidato pacta sunt servanda. Il divieto della pena di morte non può quindi porre in crisi quella fondamentale forma di collaborazione giudiziaria internazionale che si attua mediante l’estradizione. Significativamente, l’art. 26 della Costituzione consente l’estradizione del cittadino ove sia espressamente prevista dalle convenzioni internazionali, escludendola per i reati politici. Assolutizzando il divieto per i reati puniti con la pena capitale, si verrebbe a configurare un diritto di asilo o, quanto meno, un ingiustificato diritto a essere assoggettati alla giurisdizione penale italiana per i reati di maggiore gravità (art. 9 del codice penale), e ciò in aperta elusione, secondo l’Avvocatura, del principio della territorialità della legge penale.


— 1123 — 4. Destinatario di notifica tanto da parte del giudice a quo quanto da parte del ricorrente, il Governo degli Stati Uniti — che assume di essere titolare dell’interesse alla legittimità del provvedimento di estradizione — si è costituito, concludendo per l’infondatezza della questione limitatamente alla legge di ratifica e di esecuzione del trattato di estradizione. 4.1. Nel merito, si richiamano le argomentazioni svolte dalla difesa del Presidente del Consiglio dei ministri sul punto della vincolatività dell’impegno assunto mediante assicurazioni dallo Stato richiedente; e si sottolinea che — in base all’art. 1, sezione X, della Costituzione statunitense — gli Stati federati non possono sottoscrivere trattati internazionali, di esclusiva competenza dell’Autorità federale, e sono obbligati a osservarne le disposizioni, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza della Corte Suprema federale. Sì che le assicurazioni fornite dal Governo degli Stati Uniti con le note verbali del 28 luglio 1994, 24 agosto 1995 e 12 gennaio 1996 sono da considerare vincolanti per lo Stato della Florida e i suoi giudici. In caso di violazione, il Governo degli Stati Uniti attiverà i rimedi necessari, sino a provocare l’intervento della Corte federale. 5. Si è costituita anche la parte privata, chiedendo la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme denunciate. L’estradando osserva che il trattato fra l’Italia e gli Stati Uniti non fornisce adeguata tutela all’imputato di un reato punibile, nel territorio degli Stati Uniti, con la pena di morte; mentre più ampie garanzie si riscontrano, ad esempio, nel trattato fra l’Italia e il Marocco, ov’è prevista la sostituzione della pena capitale con quella stabilita, nel nostro Paese, per il medesimo reato. Non vi sarebbe quindi ragionevole certezza circa la mancata irrogazione o non esecuzione della pena di morte, giacché l’art. VI della Costituzione statunitense coprirebbe i trattati fra gli Stati dell’Unione e non quelli internazionali, fra i quali rientra il trattato di estradizione. CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. Viene all’esame della Corte, in relazione agli artt. 2, 3, 11 e 27, quarto comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 698, secondo comma, del codice di procedura penale, e della legge 26 maggio 1984, n. 225 (Ratifica ed esecuzione del trattato di estradizione tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo degli Stati Uniti d’America, firmato a Roma il 13 ottobre 1983), nella parte in cui dà esecuzione all’art. IX del trattato ora citato, ove si prevede l’estradizione anche per i reati puniti con la pena capitale a fronte dell’impegno assunto dal Paese richiedente — con garanzie ritenute sufficienti dal Paese richiesto — a non infliggere la pena di morte o, se già inflitta, a non farla eseguire. 2. È ammissibile la costituzione del Governo degli Stati Uniti d’America, in quanto parte legittimata a resistere nel giudizio a quo come risulta dal ricorso del Venezia — notificato all’Ambasciata degli Stati Uniti in Italia — e dalle ordinanze di rimessione e di sospensione adottate dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, ritualmente comunicate. Al profilo formale corrisponde la titolarità dell’interesse sostanziale, sia con riguardo all’oggetto della controversia di merito, sia con riferimento all’incidente di costituzionalità su norme che sono a fondamento della richiesta e del provvedimento di concessione dell’estradizione, una delle quali è quella che dà esecuzione al trattato di cui il Governo degli Stati Uniti è contraente. 3. Occorre quindi valutare se la questione sia ammissibile perché sollevata


— 1124 — nell’ambito di un giudizio, pendente davanti al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, riguardante la legittimità del decreto con cui il Ministro di grazia e giustizia ha concesso l’estradizione di Pietro Venezia su richiesta del Governo degli Stati Uniti d’America. L’Avvocatura dello Stato osserva, in proposito, che tale giudizio verte sull’interesse legittimo dell’estradando al corretto esercizio del potere politico-amministrativo del Ministro e non sul diritto soggettivo, quello alla vita, già considerato dal giudice ordinario, con competenza esclusiva, in duplice grado (Corte d’appello e, in sede di impugnazione estesa al merito, Corte di cassazione). Né verrebbero in rilievo le disposizioni denunciate, poiché attengono alla giurisdizione ordinaria rispetto alla quale il decreto ministeriale appare un diaframma insormontabile. 3.1. L’eccezione va disattesa. L’art. 697 del codice di procedura penale stabilisce che la consegna d’una persona a uno Stato estero può aver luogo soltanto mediante estradizione; e l’art. 698, secondo comma, prevede garanzie processuali e procedimentali per i fatti puniti con la pena di morte dalla legge dello Stato estero, subordinando la concessione del provvedimento di estradizione alla decisione del giudice ordinario circa le assicurazioni fornite dal Paese richiedente, e alla successiva valutazione del Ministro di grazia e giustizia su di esse. Il decreto impugnato davanti al giudice amministrativo ha considerato, in relazione al diritto alla vita dell’estradando, le assicurazioni fornite dallo Stato estero. Ha dunque rilevanza il dubbio di costituzionalità riguardante l’art. 698, secondo comma, del codice di procedura penale, poiché esso attribuisce un potere al Ministro che, nella specie, ne ha fatto uso; e ha rilevanza, altresì, quello che concerne la legge di esecuzione del trattato, n. 225 del 1984, poiché in forza di essa sono investite le due autorità (giudiziaria e amministrativa) indicate nel citato art. 698. Né può sostenersi che il giudice a quo avrebbe invocato diritti soggettivi esclusi dalla propria cognizione: il sindacato di legittimità del provvedimento impugnato — condotto sul piano dell’osservanza delle leggi che regolano l’azione ministeriale — non può non compiersi, infatti, anche con riguardo alla legalità costituzionale, che è, anzi, il primo doveroso controllo da parte di ogni giudice dello Stato. Controllo di legalità che, tuttavia, non può intendersi limitato ai principi dell’azione amministrativa in senso stretto se, e in quanto, essa insista su beni o interessi tutelati (in massimo grado) dalla Costituzione. Di qui, l’ammissibilità della questione. 4. Nel merito la questione è fondata. Il divieto della pena di morte ha un rilievo del tutto particolare — al pari di quello delle pene contrarie al senso di umanità — nella prima parte della Carta costituzionale. Introdotto dal quarto comma dell’art. 27, sottende un principio « che in molti sensi può dirsi italiano » — sono parole tratte dalla relazione della Commissione dell’Assemblea costituente al progetto di Costituzione, nella parte dedicata ai rapporti civili — principio che « ribadito nelle fasi e nei regimi di libertà del nostro Paese, è stato rimosso nei periodi di reazione e di violenza », configurandosi nel sistema costituzionale quale proiezione della garanzia accordata al bene fondamentale della vita, che è il primo dei diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti dall’art. 2. L’assolutezza di tale garanzia costituzionale incide sull’esercizio delle potestà


— 1125 — attribuite a tutti i soggetti pubblici dell’ordinamento repubblicano, e nella specie su quelle potestà attraverso cui si realizza la cooperazione internazionale ai fini della mutua assistenza giudiziaria. Sì che l’art. 27, quarto comma, letto alla luce dell’art. 2 della Costituzione, si pone quale essenziale parametro di valutazione della legittimità costituzionale della norma generale sulla concessione dell’estradizione (art. 698, secondo comma, del codice di procedura penale), e delle leggi che danno esecuzione a trattati internazionali di estradizione e di assistenza giudiziaria. 5. Questa Corte ha già affermato che il concorso, da parte dello Stato italiano, all’esecuzione di pene « che in nessuna ipotesi, e per nessun tipo di reati, potrebbero essere inflitte in Italia nel tempo di pace » è di per sé lesivo della Costituzione (sentenza n. 54 del 1979). Il punto ora in esame è se rappresentino un rimedio adeguato le « garanzie » o « assicurazioni » previste dal citato art. 698, secondo comma, e dalla legge 26 maggio 1984, n. 225, di ratifica ed esecuzione del trattato di estradizione fra il Governo della Repubblica italiana e quello degli Stati Uniti d’America firmato a Roma il 13 ottobre 1983; e in particolare se sia conforme alla Costituzione detta legge, nella parte in cui dà esecuzione all’art. IX del trattato stesso, ove si stabilisce che l’estradizione sarà negata qualora il reato sia punibile con la pena di morte secondo le leggi della Parte richiedente. Salvo che quest’ultima « non si impegni con garanzie ritenute sufficienti dalla Parte richiesta a non fare infliggere la pena di morte oppure, se inflitta, a non farla eseguire ». Come già si è detto, il procedimento delineato dall’art. 698, secondo comma, del codice di procedura penale, si impernia su un duplice vaglio espletato, caso per caso, dall’autorità giudiziaria e dal Ministro di grazia e giustizia circa la « sufficienza » delle predette garanzie. L’estradizione è dunque concessa (o negata) in seguito a valutazioni svolte dalle autorità italiane sulle singole richieste con accertamenti nei limiti indicati. Tale soluzione offre, in astratto, il vantaggio di una politica flessibile da parte dello Stato richiesto, e consente adattamenti, nel tempo, in base a considerazioni di politica criminale; ma nel nostro ordinamento, in cui il divieto della pena di morte è sancito dalla Costituzione, la formula delle « sufficienti assicurazioni » — ai fini della concessione dell’estradizione per fatti in ordine ai quali è stabilita la pena capitale dalla legge dello Stato estero — non è costituzionalmente ammissibile. Perché il divieto contenuto nell’art. 27, quarto comma, della Costituzione, e i valori ad esso sottostanti — primo fra tutti il bene essenziale della vita — impongono una garanzia assoluta. Non hanno fondamento i dubbi della parte privata sulla sussistenza di rimedi giudiziari nell’ordinamento statunitense a tutela della vincolatività dei trattati internazionali stipulati dal Governo federale, e non è in questione l’interpretazione dell’art. VI della Costituzione statunitense. Il punto che qui rileva non è quello dei rimedi contenuti nell’ordinamento straniero, bensì l’intrinseca inadeguatezza del meccanismo adottato dal codice di procedura penale e dalla legge di esecuzione del trattato in esame rispetto al canone costituzionale: l’assolutezza del principio costituzionale richiamato viene infirmata dalla presenza di una norma che demanda a valutazioni discrezionali, caso per caso, il giudizio sul grado di affidabilità e di effettività delle garanzie accordate dal Paese richiedente. 6. Si impone dunque la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 698, secondo comma, del codice di procedura penale, e della legge n. 225 del 1984, nella parte in cui dà esecuzione all’art. IX del trattato di estradizione tra il Governo italiano e quello degli Stati Uniti d’America, per contrasto con gli artt. 2


— 1126 — e 27, quarto comma, della Costituzione. Va da sé che resta applicabile il rimedio predisposto dall’art. 9, terzo comma, del codice penale, in ottemperanza agli obblighi alternativi che gravano sullo Stato (consegnare o punire): a richiesta del Ministro di grazia e giustizia, sono puniti secondo la legge italiana i colpevoli di delitti commessi in territorio estero, sanzionati con almeno tre anni di reclusione, allorché l’estradizione non sia stata o non possa essere concessa (sentenza n. 54 del 1979, n. 7 del Considerato in diritto). Sono assorbite le censure mosse in riferimento agli artt. 3 e 11 della Costituzione. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE. — a) Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 698, secondo comma, del codice di procedura penale; b) Dichiara l’illegittimità costituzionale della legge 26 maggio 1984, n. 225 (Ratifica ed esecuzione del trattato di estradizione tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo degli Stati Uniti d’America, firmato a Roma il 13 ottobre 1983), nella parte in cui dà esecuzione all’art. IX del trattato di estradizione ora citato. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 giugno 1996.

——————— Una sentenza storica in materia di estradizione e pena di morte. SOMMARIO: 1. Estradizione e pena di morte nella giurisprudenza della Corte costituzionale. — 2. Autorità amministrativa ed autorità giurisdizionale nella prassi dell’estradizione passiva: un caso esemplare. — 2.1. Il modello accusatorio nella fase giurisdizionale. — 3. Il sistema delle « sufficienti assicurazioni »: il problema dell’effettività. — 3.1. La separazione dei poteri e la forma federale dello Stato. — 3.2. Le possibili conseguenze del rifiuto di estradizione. — 4. Estradizione e divieto di pena di morte: le ragioni della legalità. — 5. Estradizione e pena di morte dopo la sentenza della Corte. — 5.1. L’estradizione esecutiva nel nuovo contesto ordinamentale. — 5.2. Il divieto di pena di morte come proiezione della tutela dei diritti fondamentali.

1. Estradizione e pena di morte nella giurisprudenza della Corte costituzionale. — La sentenza che si annota dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme che consentono l’estradizione passiva per reati che lo Stato richiedente punisce con la morte solo a condizione « la Parte richiedente non si impegni con garanzie ritenute sufficienti dalla Parte richiesta a non fare infliggere la pena di morte oppure, se inflitta, a non farla eseguire » (art. IX del trattato di estradizione tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo degli Stati Uniti d’America, ratificato con l. 26 maggio 1984 n. 225; art. 698 co. 2 c.p.p.); si tratta di una decisione che fa onore alla Corte che l’ha pronunciata. Intervenendo sulla legge di esecuzione di un trattato internazionale, la Consulta sottopone al controllo di legittimità costituzionale i provvedimenti di adattamento al diritto internazionale pattizio, secondo quanto già affermato, in via di principio, nella sentenza n. 20/1966 (1). Si tratta, tuttavia, di un principio che po(1) Corte cost., sent. 10 marzo 1966 n. 20, in Giur. cost. 1966, 199 ss., con nota di BERNARDINI, Inesistenza del diritto soggettivo assertivamente violato e controllo di costituzionalità di una supposta norma di adattamento ad accordo internazionale, 205 ss.


— 1127 — che volte — e prevalentemente in tempi recenti —, ha portato alla dichiarazione di incostituzionalità delle norme previste in trattati internazionali; di solito, celata da argomentazioni talvolta discutibili, sembra aver prevalso la considerazione delle difficoltà politiche che una declaratoria di incostituzionalità avrebbe comportato all’esecutivo in sede internazionale. Anche l’unico precedente della sentenza in esame sembra trovare un argomento utile a sostenere la dichiarazione di incostituzionalità nell’avanzata fase di preparazione di un nuovo trattato di estradizione tra i due Stati. Si tratta della sentenza del 27 giugno 1979 n. 54, con cui, in riferimento agli artt. 3 co. 1 e 27 co. 4 Cost., è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del provvedimento di esecuzione del trattato di estradizione tra Italia e Francia del 1870 (r.d. n. 5726/1870) nella parte in cui, senza alcuna forma di garanzia, consentiva l’estradizione per reati che la legislazione francese allora vigente puniva con la morte (2). Nella sentenza si rinviava alla Convenzione europea di estradizione del 1957, sia per quanto riguarda il sistema di garanzie previsto all’art. 11 che, con una disposizione parzialmente analoga alle norme oggi dichiarate incostituzionali, prevede l’estradizione passiva per reati « capitali » « solo a condizione che la Parte richiedente dia assicurazioni, ritenute sufficienti dalla Parte richiesta, che la pena capitale non sarà eseguita », sia per quanto riguarda la riserva italiana espressa all’atto della sottoscrizione e confermata dalla legge di esecuzione della Convenzione (l. n. 300/1963) che riafferma l’assolutezza del divieto costituzionale di pena di morte, disponendo che l’Italia « in nessun caso concederà l’estradizione per reati puniti con la pena capitale dalla legislazione della Parte richiedente ». 2. Autorità amministrativa ed autorità giurisdizionale nella prassi dell’estradizione passiva: un caso esemplare. — La sentenza in esame, com’è noto, è stata pronunciata in riferimento ad una richiesta si estradizione degli Stati Uniti d’America nei confronti di un cittadino italiano, Pietro Venezia, accusato dall’autorità giudiziaria della Florida di omicidio di primo grado, ossia di un reato punito con la reclusione non inferiore a venticinque anni o con la pena di morte (3). A favore dell’estradizione si era già pronunciata la Corte d’Appello di Lecce, sebbene l’unica nota verbale fino ad allora trasmessa dall’Ambasciata statunitense garantisse soltanto la non esecuzione della condanna a morte eventualmente pronunciata. Per l’assenza evidente dei presupposti di cui agli artt. 698 co. 2 c.p.p. e IX del trattato di estradizione — che solo nel caso in cui sia stata già pronunciata condanna considerano sufficienti le assicurazioni di non esecuzione —, contro la sentenza veniva proposto ricorso in Cassazione; considerate le ragioni del ricorso, la Corte Suprema sollecitava, attraverso il Ministro di grazia e giustizia, altre garanzie da parte dello Stato richiedente e, dopo averle ottenute, confermava la sentenza favorevole all’estradizione già pronunciata in primo grado (4). Durante il giudizio la difesa dell’estradando aveva invitato la Corte ad attenersi ai motivi dell’impugnazione e, quindi, a non prendere in considerazione la nuova documentazione, per la quale, altrimenti, non sarebbe stato possibile il doppio grado di giudizio e, in particolare, una valutazione davanti al giudice di merito. Le doglianze della difesa venivano disattese con argomentazioni di sicuro fondamento nella misura in cui, rinviando agli artt. 706 e 704 c.p.p., si affermava la (2) Corte cost., sent. 27 giugno 1979 n. 54, in questa Rivista, 1980, 216 ss. con nota di SALVINI, Delitti punibili con la pena di morte ed estradizione dopo la pronunzia della Corte Costituzionale. Sottolinea il riferimento della Corte alla preparazione di un nuovo trattato di estradizione CARELLA, L’estradizione passiva nei trattati internazionali e il divieto di pena di morte, in Riv. dir. int. 1981, 284 s. (3) Per una più dettagliata ricostruzione del caso Venezia cfr. MARCHESI, Estradizione per un reato punibile con la pena di morte nello Stato richiedente: il caso Venezia, in Riv. dir. int. 1996, 110 ss. (4) Cass. pen., sez VI, 30 ottobre 1995, in Riv. dir. int. 1996, 190 ss.


— 1128 — competenza anche nel merito della Corte suprema nei procedimenti di estradizione. Non venivano, invece, neppure discusse le anomalie che, nella prospettiva del sistema accusatorio, caratterizzano il ruolo di un organo giudicante che assume iniziative a favore dell’ipotesi contraria agli interessi dell’estradando, tanto più evidenti se si considera quanto affermato dalla stessa Corte secondo cui il procedimento di estradizione « non risulta [...] connotato dalle previsioni di legge in modo diverso dalla generalità dei procedimenti giurisdizionali penali, nei quali alle istanze punitive si contrappongono [...] i diritti della persona » (5). La richiesta di documenti utili all’estradizione sembra tradire, infatti, un ordine di idee completamente diverso da quello che ispira il sistema accusatorio e caratterizzato, invece, da una sorta di presunzione a favore dell’estradizione che, priva di riscontri normativi, rivela un fondamento esclusivamente politico. Dopo la pronuncia della Corte Suprema, la richiesta di estradizione veniva accolta con decreto del Ministro guardasigilli. Contro il provvedimento veniva proposto ricorso davanti al giudice amministrativo per eccesso di potere, postulando l’illegittimità costituzionale delle norme su cui esso si fonda. La questione veniva ritenuta non manifestamente infondata dal T.A.R. (6) che indicava i parametri di riferimento nell’art. 2 Cost. — che non solo riconosce, ma anche « garantisce » i diritti inviolabili dell’uomo, individuando così compiti che lo Stato non può delegare ad altri, neppure a livello di diritto internazionale —, nell’assolutezza del divieto di pena di morte di cui al quarto comma dell’art. 27 Cost., nell’art. 3 Cost. — in considerazione del fatto che il trattamento riservato agli estradandi sarebbe diverso a seconda della provenienza della richiesta di estradizione —, ed infine nell’art. 11 Cost., che non permetterebbe limitazioni di sovranità realizzate con patti che mettono in pericolo beni fondamentali come la vita. 2.1. Il modello accusatorio nella fase giurisdizionale. — Nel giudizio di legittimità costituzionale, le perplessità poste dalla scelta della Suprema Corte di non limitarsi ad una decisione allo stato degli atti, riemergono nelle considerazioni della Corte costituzionale, che pur non accogliendo la tesi dell’inammissibilità sostenuta dall’Avvocatura dello Stato, non ne respinge la premessa della necessaria autonomia tra le fasi amministrativa e giurisdizionale del procedimento di estradizione. Si tratta di una posizione ormai già da tempo affermata sia in dottrina (7) che in giurisprudenza (8), che, invece, sono apparse a lungo incerte sul problema specifico della competenza a valutare le assicurazioni di non applicazione della pena di morte; la stessa Corte di cassazione ancora nel 1986 esprimeva una posizione diametralmente opposta a quella sostenuta appena un anno prima (9). Una (5) Cass. pen., sez. VI, 30 ottobre 1995, cit., 191. (6) Ordinanza emessa il 20 marzo 1996 dal tribunale amministrativo regionale per il Lazio sul ricorso proposto da Pietro Venezia contro il Ministero di grazia e giustizia, in Gazz. uff. 17 aprile 1996, I Serie speciale, n. 16, 88 ss. (7) In dottrina posizioni diverse sono state sostenute soltanto in riferimento alle ipotesi in cui, secondo quanto dispone oggi l’art. 701 co. 3 c.p.p., la valutazione del Ministro non è vincolata da quella favorevole all’estradizione già espressa dall’autorità giudiziaria, ed appaiono pienamente condivisibili per la maggior tutela che offrono all’estradando: CHIAVARIO, Decreto concessivo di estradizione, garanzie individuali e poteri dell’autorità amministrativa, nota a Consiglio di Stato, sez. IV, 11 maggio 1966, in questa Rivista, 1968, 533 ss., 541, e MARZADURI, Autorità giudiziaria ed autorità amministrativa nel procedimento di estradizione passiva, in questa Rivista, 1983, 629 ss. (8) Consiglio di Stato, sez. IV, 11 maggio 1966, cit., 535 ss. (9) Cass. pen., 11 gennaio 1985, n. 2584, in Giur. it. 1986, II, 360 ss., con nota di MARAFIOTI, Aspetti problematici dell’estradizione passiva nei rapporti con la Spagna; Cass. pen., sez. I, 19 maggio 1986, in questa Rivista, 1987, 195 ss., con nota di TREVISSON LUPACCHINI, Note a margine di una pronuncia in tema di estradizione dall’Italia verso Stati nei quali è ancora in vigore la pena di morte. Sulle incertezze della Corte di Cassazione cfr. ROTTOLA, Ancora a proposito delle oscillazioni della Cassazione: un caso recente, in Riv. dir. int. 1988, 133 s.; ID., La competenza a valutare le garanzie di non applicazione


— 1129 — conclusione sufficientemente condivisa si è affermata soltanto con il nuovo codice di rito che, nel testo definitivo dell’art. 698 co. 2, ripeteva anche per la valutazione delle sufficienti assicurazioni la doppia fase del procedimento di estradizione(10). La definizione esatta dei ruoli degli organi competenti a decidere l’estradizione può, dunque, essere considerata un’acquisizione recente; il caso Venezia dimostra, tuttavia, che la prassi risulta ancora influenzata da una configurazione dell’estradizione in termini esclusivamente amministrativi (11), a lungo indiscussa in dottrina, che una maggiore sensibilità verso i valori della libertà personale tutelati all’art. 13 Cost. rende oggi inaccettabile (12). D’altra parte, diversi elementi per una più precisa definizione della fase giurisdizionale del procedimento di estradizione passiva appaiono deducibili dal codice di rito del 1988. In particolare, la realizzazione del modello accusatorio appare evidente nella maggiore tutela dei diritti della difesa — che esalta il ruolo di parte dell’estradando — (13) e nella disciplina dell’acquisizione degli elementi utili al giudizio, che l’art. 704 co. 2 c.p.p. affida all’organo giurisdizionale, laddove, invece, il procuratore generale, ricevuti gli atti dal Ministro, prepara la requisitoria alla Corte, disponendo la comparizione dell’estradando al solo fine della identificazione e del suo eventuale consenso (art. 703 co. 2 c.p.p.); ai sensi dell’art. 703 co. 3. c.p.p. è, inoltre, il procuratore generale, controparte dell’estradando, (quindi, non la Corte) a richiedere « alle autorità straniere, per mezzo del Ministro di grazia e giustizia, la documentazione e le informazioni che ritiene necessarie ». Ne deriva, a nostro avviso, che alla Corte spetta unicamente il giudizio allo stato degli atti, doveroso ogni volta che una sentenza — qualunque essa sia — potrà essere pronunciata. D’altra parte, l’art. 707 c.p.p. prevede espressamente la possibilità di una nuova domanda di estradizione, quando, dopo la sentenza, emergano nuovi elementi; in ogni caso, esigenze efficientistiche o di economia dei mezzi processuali non sembrano in grado di legittimare da parte di un organo giurisdizionale un’assunzione di ruoli che non spettano ad esso (14). Al contrario, qualsiasi iniziativa della Corte a favore della tesi di una delle parti trasforma il giudice in una sorta di ufficio del Ministero di grazia e giustizia che, in quanto tale, valuta la documentazione trasmessa dallo Stato richiedente per chiederne l’eventuale integrazione; simili attività di ‘trattativa’ sono implicitamente, ma chiaramente previste nel nuovo codice di rito che, risolvendo una questione già sollevata e discussa in dottrina, ne attribuisce la competenza — prima (o di non esecuzione) della pena capitale ai fini della concessione dell’estradizione, in Riv. dir. int. priv. proc. 1988, 465 ss.; MOSCONI, Estradizione e pena di morte nel progetto Mancini del 1882 e nel nuovo codice di procedura penale, in Riv. dir. int. priv. proc. 1988, 655; DELICATO, Estradizione e pena capitale nel nuovo codice di procedura penale, in Riv. dir. int. priv. proc. 1990, 322 s. (10) L’incertezza della dottrina emerge anche dai lavori preparatori del codice di rito del 1988 che solo nel testo definitivo dell’art. 698 co. 2 ha aggiunto il riferimento all’autorità giudiziaria: così MOSCONI, Estradizione e pena di morte nel progetto Mancini del 1882 e nel nuovo codice di procedura penale, cit., 657. Per una dettagliata definizione delle competenze amministrative e giudiziarie nel procedimento di estradizione v., in riferimento al codice di rito abrogato, MARZADURI, Autorità giudiziaria ed autorità amministrativa nel procedimento di estradizione passiva, cit., 632 ss.; sul punto v. ora DELICATO, Estradizione e pena capitale nel nuovo codice di procedura penale, cit., 322 ss. con ulteriore bibliografia. (11) Sulla prevalenza del sistema cosiddetto « amministrativo » in tema di estradizione cfr. MARZADURI, Autorità giudiziaria ed autorità amministrativa nel procedimento di estradizione passiva, cit., 612 ss. (12) Sul punto cfr. MARZADURI, Libertà personale e garanzie giurisdizionali nel procedimento di estradizione passiva, Milano 1993, p. 155 ss., passim. (13) Così ESPOSITO, Estradizione. II) Diritto processuale penale, in Enc. giur. Treccani, XIII, Roma 1989, 3, 11. (14) Per il recupero dell’autonomia della fase giurisdizionale nel procedimento di estradizione passiva, reso difficile da diffusi disorientamenti giurisprudenziali, cfr. MARZADURI, Libertà personale e garanzie giurisdizionali nel procedimento di estradizione passiva, cit., pp. 101 ss., 188 ss.


— 1130 — ancora che al procuratore generale — al Ministro guardasigilli, riconoscendone i poteri di trattativa che derivano dalla facoltà di respingere la domanda senza neppure trasmetterla al procuratore generale (art. 703 co. 1 c.p.p.): si tratta della cosiddetta fase diplomatica del procedimento di estradizione (15). 3. Il sistema delle « sufficienti assicurazioni »: il problema dell’effettività. — La declaratoria di incostituzionalità dell’art. 698 co. 2 c.p.p. e della l. n. 225/1984 nella parte in cui ha dato esecuzione all’art. IX del trattato italo-statunitense, trova il suo argomento principale nell’assolutezza del divieto di pena di morte di cui all’art. 27 co. 4 Cost. (16), che verrebbe « infirmata dalla presenza di una norma che demanda a valutazioni discrezionali, caso per caso, il giudizio sul grado di affidabilità e di effettività delle garanzie accordate dal Paese richiedente ». Sebbene il problema non siano i « rimedi contenuti nell’ordinamento straniero, bensì l’intrinseca inadeguatezza del meccanismo adottato dal codice di procedura penale e dalla legge di esecuzione del trattato », l’esigenza di una garanzia assoluta ripete le istanze del dibattito che il sistema delle sufficienti assicurazioni ha sollevato nella dottrina — prevalentemente internazionalistica — fin da quando, normativizzando una prassi già sperimentata (17), fu accolto nella Convenzione europea ed in numerosi trattati bilaterali di estradizione (18). Nonostante i numerosi contributi sul tema, nessuna delle proposte avanzate per la valutazione delle garanzie ha avuto un consenso largamente diffuso. La dottrina, infatti, appare tuttora divisa tra chi si rifà alla sentenza n. 54 del 1979 laddove la Corte costituzionale sembrava giudicare con favore il sistema già allora previsto all’art. VIII della Convenzione italo-statunitense del 1973 (19), e chi, invece, dall’assolutezza del divieto di pena di morte deduce che solo l’avvenuta commutazione della pena o un’espressa previsione pattizia del divieto di applicazione (15) Sul punto cfr. ESPOSITO, Estradizione, cit., 11. Una diversa definizione dei ruoli del ministro e dell’autorità giudiziaria nel procedimento di estradizione passiva sembra possibile soltanto in un diverso ordine di idee per il quale le incertezze che derivano dalla duplice natura (interna ed internazionale) della disciplina dell’estradizione debbano essere risolte sempre in funzione delle esigenze della cooperazione internazionale: così DELOGU, Ordine pubblico interno e estradizione passiva, in questa Rivista, 1980, 486. Si tratta, tuttavia, di un ordine di idee oggi chiaramente respinto dalla Corte costituzionale. (16) L’assolutezza del divieto di pena di morte risulta già chiaramente deducibile nella sentenza n. 54/1979; cfr. Corte cost., sent. 21 giugno 1979 n. 54, cit., 223 s. Per la dottrina cfr., tra gli altri, PISA, Previsione bilaterale del fatto nell’estradizione, Milano 1973, p. 141 ss.; ID., Commento all’art. IX del Trattato di estradizione tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo degli Stati Uniti d’America, in Legisl. pen. 1984, 425; RUSSO, Estradizione per reati punibili con la pena di morte nell’ordinamento dello Stato richiedente, in Giust. pen. 1981, I, 84; CARELLA, L’estradizione passiva nei trattati internazionali e il divieto di pena di morte, cit., 279 s.; SALVINI, Delitti punibili con la pena di morte ed estradizione dopo la pronunzia della Corte Costituzionale, cit., 223; DELOGU, Delitti punibili con la pena di morte ed estradizione passiva, in questa Rivista, 1978, 1467; MARZADURI, Estradizione e pena di morte, in Giur. cost. 1979, 421 s. (17) STRIANI-PIZZICOLI, Estradabilità dall’Italia per reati punibili all’estero con la pena di morte, in Giust. pen. 1980, III, 56. (18) Sul punto cfr. MOSCONI, Estradizione e pena di morte nel progetto Mancini del 1882 e nel nuovo codice di procedura penale, cit., 653 s.; per quanto concerne lo stesso sistema nei trattati di estradizione in cui l’Italia non è parte cfr. RUSSO, Estradizione per reati punibili con la pena di morte nell’ordinamento dello Stato richiedente, cit., 79 s. (19) Corte cost., sent. 27 giugno 1979 n. 54, cit., 218 s., 227; anche la Corte di Cassazione, nella sentenza sul caso Venezia, rinvia alla valutazione positiva espressa dalla Corte costituzionale sul sistema delle sufficienti assicurazioni: cfr. Cass. pen., sez. VI, 30 ottobre 1995, cit., 194. Per la dottrina, nello stesso senso, cfr., tra gli altri, STRIANI, Ancora sull’estradizione per reati punibili con la pena capitale, in Giust. pen. 1982, I, 185; DELICATO, Estradizione e pena capitale nel nuovo codice di procedura penale, cit., 320.


— 1131 — della pena capitale possa essere considerata una garanzia compatibile con i principi costituzionali (20). Il confronto, in ogni caso, è limitato all’idoneità del sistema delle sufficienti assicurazioni a garantire una tutela effettiva al diritto alla vita dell’estradando e, dal momento che non è mai messa in discussione la necessità della collaborazione internazionale in materia penale, trova la sua origine nell’ordinamento giuridico dello Stato richiedente, che ammette la pena di morte e non prevede limiti alla sua applicazione nei confronti dell’estradando. 3.1. La separazione dei poteri e la forma federale dello Stato. — Nella prospettiva dell’ordinamento giuridico interno dello Stato richiedente, il sistema delle sufficienti assicurazioni trova un primo limite nel principio della separazione dei poteri (21), che, nella misura in cui garantisce l’indipendenza della magistratura dall’esecutivo, priva di ogni effettività gli impegni che gli organi dell’esecutivo — unici legittimati alla gestione dei rapporti internazionali dello Stato (22) — hanno assunto in sede internazionale (23). Va, inoltre, considerato che competente a decidere l’applicazione della pena di morte potrebbe anche non essere un giudice togato, ma una giuria, verosimilmente meno sensibile a considerazioni di ordine politico-istituzionale (24) e magari costretta a pronunciare una sentenza di morte da una legge che, per il reato commesso, non prevede sanzioni alternative (25). Il problema non è stato sottovalutato in dottrina. Si è, infatti, ritenuto che le difficoltà poste dalla separazione dei poteri siano ridimensionate dal potere di commutazione della pena che quasi tutti gli ordinamenti riconoscono agli organi dell’esecutivo in funzione di valutazioni di tipo umanitario (26). L’argomento, indubbiamente condivisibile nell’ambito di una considerazione estremamente realistica delle relazioni internazionali, non appare tuttavia concludente in riferimento all’esigenza costituzionale di una garanzia assoluta per la vita dell’estradando, che, invece, resterebbe affidata alle determinazioni dell’esecutivo dello Stato richiedente e, quindi, non (innanzitutto) alla sua legge. Sotto altro profilo va considerato che, in quanto soluzione di ultima ratio, il provvedimento di (20) In tal senso PISA, Commento all’art. IX del Trattato di estradizione tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo degli Stati Uniti d’America, cit., 425. (21) Ai problemi che, in riferimento all’effettività delle assicurazioni fornite, possono derivare dal principio della separazione dei poteri rinvia anche l’ordinanza di remissione del T.A.R.: cfr. Ordinanza emessa il 20 marzo 1996 dal tribunale amministrativo regionale per il Lazio, cit., 91. Per la dottrina, cfr., tra gli altri, PISA, Previsione bilaterale del fatto nell’estradizione, cit., p. 141; ID., Commento all’art. IX del Trattato di estradizione tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo degli Stati Uniti d’America, cit., 425; TREVISSON LUPACCHINI, Note a margine di una pronuncia in tema di estradizione dall’Italia verso Stati nei quali è ancora in vigore la pena di morte, cit., 198; ROTTOLA, La competenza a valutare le garanzie di non applicazione (o di non esecuzione) della pena capitale ai fini della concessione dell’estradizione, cit., 474 n. 17; DELICATO, Estradizione e pena capitale nel nuovo codice di procedura penale, cit., 326. (22) Per l’inidoneità a creare obblighi giuridici di qualsiasi dichiarazione di organi interni non legittimati alla gestione delle relazioni internazionali ROTTOLA, La competenza a valutare le garanzie di non applicazione (o di non esecuzione) della pena capitale ai fini della concessione dell’estradizione, cit., 474. (23) In questa prospettiva considera le assicurazioni offerte dallo Stato richiedente una promessa de alieno TREVISSON LUPACCHINI, Note a margine di una pronuncia in tema di estradizione dall’Italia verso Stati nei quali è ancora in vigore la pena di morte, cit., 198. (24) Sottolinea le difficoltà che derivano dalla natura dell’organo competente all’applicazione della pena di morte TREVISSON LUPACCHINI, Note a margine di una pronuncia in tema di estradizione dall’Italia verso Stati nei quali è ancora in vigore la pena di morte, cit., 198. Sulla fase del sentencing nei processi statunitensi per reati punibili con la morte cfr. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, Torino 1987, p. 153. (25) Considera anche questo tipo di difficoltà MARCHESI, Estradizione e pena di morte secondo l’art. 11 della Convenzione europea di estradizione, in Riv. dir. int. 1991, 290. (26) MARCHESI, Estradizione e pena di morte secondo l’art. 11 della Convenzione europea di estradizione, cit., 290.


— 1132 — commutazione della pena interverrebbe comunque troppo tardi rispetto a tutti gli elementi che, ancor prima della sua esecuzione, fanno della pena di morte un trattamento inumano e degradante (27). Un’ulteriore ragione di autonomia degli organi del potere giudiziario statale può essere rappresentata dalla struttura federale dello Stato, che riconosce la legittimazione alle relazioni internazionali solo all’esecutivo federale. Il problema si è presentato anche nel caso Venezia, ma l’Avvocatura dello Stato, configurando implicitamente l’offerta e l’accettazione delle assicurazioni in termini di « trattato » o, comunque, di elementi integranti il trattato di estradizione (28), ne ha negato ogni rilevanza rinviando a quanto previsto all’art. VI della Costituzione statunitense (29); in particolare, è stata proposta un’interpretazione della norma analoga al contenuto della disposizione di cui all’art. 720 co. 4 c.p.p. che, nelle ipotesi di estradizione attiva, vincola l’autorità giudiziaria alle condizioni poste dallo Stato estradante ed accettate dal Ministro di grazia e giustizia. La tesi non appare condivisibile e, in particolare, non appare configurabile un rapporto di analogia tra le due norme. In proposito, risulta chiaramente indicativa la considerazione per la quale una disposizione simile a quella della Costituzione statunitense è deducibile anche dalla nostra Costituzione, che, tra l’altro, riferendosi ad uno Stato non federale, avrebbe una ragione di meno per tradursi in una norma di legislazione ordinaria; ciononostante, la stessa disciplina è espressamente prevista nel nostro codice di rito, ossia in disposizioni di rango evidentemente diverso da quello costituzionale e, quindi, immediatamente vincolanti nel procedimento penale. A meno che le norme del codice di rito non debbano essere considerate superflue, occorre concludere che la piena vincolatività delle sufficienti assicurazioni può essere dedotta soltanto da una disciplina analoga a quella di cui agli artt. 696 ss. c.p.p. In particolare, la previsione di una norma analoga all’art. 720 co. 4 c.p.p. nell’ordinamento dello Stato non abolizionista conferirebbe forza di legge alla semplice condizione di non applicazione della pena di morte posta dallo Stato richiesto ed accettata dallo Stato richiedente (30). Il sistema delle idonee assicurazioni sarebbe allora del tutto superfluo, e, a dare piena soddisfazione all’esigenza costituzionale di una garanzia assoluta per la vita dell’estradando, sarebbe sufficiente rendere obbligatoria per le autorità italiane la concessione dell’estradizione sempre e soltanto a condizione della non applicazione della pena capitale. Con una clausola rebus sic stantibus riferita alle norme che nei rispettivi ordinamenti conferiscono forza di legge alle condizioni poste all’estradizione, sarebbe stata la legge, in via generale ed astratta, a rendere giuridicamente impossibile la con(27) Si tratta delle stesse argomentazioni sostenute dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza sul caso Soering; sul punto cfr. PALAZZO, La pena di morte dinanzi alla Corte di Strasburgo, in questa Rivista, 1990, 366 ss., 374; sul punto cfr. anche MARCHESI, La pena di morte nei rapporti giuridici internazionali, in corso di stampa in Atti del seminario su « Diritti dell’uomo e sistema penale », a cura della Cattedra di diritto penale dell’Università di Salerno, anno acc. 1995-1996, p. 12 ss. del dattiloscritto. (28) Sui motivi che rendono discutibili entrambe le tesi v. infra par. 4. (29) L’art. VI della Costituzione statunitense dispone nel senso che « tutti i trattati conclusi, o che si concluderanno, sotto l’autorità degli Stati Uniti costituiranno la legge suprema del Paese e i giudici di ogni Stato saranno tenuti a conformarsi ad essi, quali che possano essere le disposizioni in contrario nella Costituzione o nella legislazione di qualsiasi singolo Stato ». Sulle argomentazioni dell’Avvocatura dello Stato, v. Ordinanza emessa il 20 marzo 1996 dal tribunale amministrativo regionale per il Lazio, cit., 91. (30) L’argomento è sostanzialmente proposto anche nell’Ordinanza emessa il 20 marzo 1996 dal tribunale amministrativo regionale per il Lazio, cit., 92, dove il rinvio all’art. VI della Costituzione statunitense è ritenuto insufficiente in quanto la norma fa riferimento ai trattati che, nel caso specifico, non presidiano direttamente l’effettività delle garanzie.


— 1133 — danna a morte dell’estradando. Il sistema, che avrebbe soddisfatto l’esigenza di una garanzia assoluta, appare, tuttavia, di difficile realizzazione per il limite costituito dalla clausola rebus sic stantibus, per quanto limitata possa essere la sua portata (31); l’obbligo di non applicare la pena di morte non avrebbe, inoltre, alcuna rilevanza per il diritto internazionale (32). 3.2. Le possibili conseguenze del rifiuto di estradizione. — Un’adeguata valutazione del sistema delle sufficienti assicurazioni non può dirsi compiuta a prescindere dalle difficoltà che potrebbe comportare il rifiuto delle estradizioni richieste per reati puniti con la morte; potrebbe, infatti, ripetersi ogni volta una situazione analoga a quella che, in parte, si realizzò dopo la dichiarazione di incostituzionalità della norma del trattato italo-francese del 1870 (33), quando la Francia, non avendo ottenuto l’estradizione, non collaborò ad alcuni dei procedimenti che furono aperti in Italia ai sensi dell’art. 9 co. 3 c.p.; risultando impossibile sostenere l’accusa, l’imputato non potrebbe essere condannato e, verosimilmente, l’Italia diventerebbe terra d’asilo per autori di crimini altrove ritenuti « capitali » (34). Proprio l’attuale disciplina della cooperazione giudiziaria tra Italia e Stati Uniti d’America offre, tuttavia, un chiaro esempio di come tali situazioni possano essere evitate; i due Stati, infatti, sono reciprocamente vincolati dal Trattato di mutua assistenza in materia penale tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo degli Stati Uniti d’America del 1982 (l. 26 maggio 1984 n. 224) che prevede forme di collaborazione per numerosi atti, processuali e non, come la ricerca e l’accompagnamento di testimoni, l’assunzione delle loro dichiarazioni — che, presidiata da sanzioni, può avvenire sia nello Stato richiesto che nello Stato richiedente —, la produzione e la notificazione di documenti, l’esecuzione di perquisizioni, sequestri e confische (artt.1, 14 e 15). Si tratta, comunque, di attività che solo nelle ipotesi tassativamente indicate all’art. 5 del trattato possono essere rifiutate allo Stato richiedente: in nessuno dei casi previsti si fa, tuttavia, riferimento al rifiuto opposto alla richiesta di estradizione precedentemente trasmessa dallo Stato del quale viene poi chiesta la collaborazione (35). 4.

Estradizione e divieto di pena di morte: le ragioni della legalità. — Gli ar-

(31) L’esigenza di una garanzia assoluta per la vita dell’estradando renderebbe necessaria l’espressa previsione della clausola nel trattato di estradizione, che, dunque, dovrebbe essere necessariamente considerata « base essenziale del consenso delle parti » secondo i parametri di validità che l’art. 62 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 riconosce alla clausola come condizione risolutiva: sul punto, per tutti, CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli 1995, p. 129 s. Sull’opinione unanime della dottrina contraria alla necessaria integrazione dei trattati con la clausola rebus sic stantibus riferita all’intero ordinamento giuridico, cfr. DELOGU, Ordine pubblico interno e estradizione passiva, cit., 489. (32) Per la necessità di un obbligo idoneo a vincolare lo Stato richiedente v., per tutti, MARCHESI, Estradizione e pena di morte secondo l’art. 11 della Convenzione europea di estradizione, cit., 295, e RUSSO, Estradizione per reati punibili con la pena di morte nell’ordinamento dello Stato richiedente, cit., 89 ss. Va, in proposito, ricordata anche la posizione di chi ritiene che le assicurazioni si risolvano in una proposta di accordo o, al limite, in una promessa unilaterale in ogni caso non vincolante: così ROTTOLA, La competenza a valutare le garanzie di non applicazione (o di non esecuzione) della pena capitale ai fini della concessione dell’estradizione, cit., 472 s. con ulteriore bibliografia. (33) MARCHESI, Estradizione e pena di morte secondo l’art. 11 della Convenzione europea di estradizione, cit., 298; STRIANI, Ancora sull’estradizione per reati punibili con la pena capitale, cit., 186 s.; STRIANI-PIZZICOLI, Estradabilità dall’Italia per reati punibili all’estero con la pena di morte, cit., 57. (34) Così, tra gli altri, DELICATO, Estradizione e pena capitale nel nuovo codice di procedura penale, cit., 322; MARCHESI, Estradizione e pena di morte secondo l’art. 11 della Convenzione europea di estradizione, cit., 283, 298. (35) Sul punto cfr. POLIMENI, Il nuovo trattato italo-statunitense di mutua assistenza in materia penale, in AA. VV., L’estradizione e l’assistenza giudiziaria nei rapporti Italia-Stati Uniti d’America, a cura di G. TURONE, Milano 1986, p. 77 ss.


— 1134 — gomenti favorevoli al sistema delle sufficienti assicurazioni non appaiono decisivi; in particolare, nessuno di essi offre una risposta adeguata all’esigenza — affermata dalla Corte — di una garanzia assoluta per la vita dell’estradando. Non si tratta, d’altra parte, di un’interpretazione del tutto nuova di un fondamentale principio del nostro ordinamento giuridico; infatti, la riserva italiana alla Convezione europea di estradizione, riferita ai casi in cui il reato è punito con la morte « dalla legislazione della Parte richiedente », con una scelta esattamente contraria a quella dell’art. 11 della stessa Convenzione, assimila gli Stati abolizionisti de facto agli Stati non abolizionisti ed esprime così l’imprescindibile necessità che sia una legge — ovvero l’unica forma di garanzia compatibile con i valori di riferimento del diritto penale — ad assicurare che non sia leso e neppure messo in pericolo il diritto alla vita dell’estradando (36). Anche in materia di estradizione, dunque, la tutela dei diritti fondamentali della persona trova uno strumento imprescindibile nel rispetto del principio di legalità di cui all’art. 25 co. 2 Cost. Si tratta, per altro verso, di implicazioni spesso sottovalutate nei contributi che considerano i rapporti tra estradizione e divieto di pena di morte nella prospettiva dei valori e degli obiettivi del diritto internazionale. Come è stato giustamente affermato, « non potrebbe essere altrimenti », visto che il divieto di pena di morte non fa parte (ancora) del diritto internazionale consuetudinario (37). Finché anche le norme di diritto internazionale saranno sottoposte al giudizio di legittimità costituzionale (38), saranno, tuttavia, i valori fondamentali espressi nella nostra Costituzione a prevalere sulle esigenze della cooperazione tra Stati. Anche nella dottrina internazionalistica non è tuttavia mancato chi ha ritenuto di garantire la massima tutela dei diritti fondamentali dell’estradando assimilando gli effetti dell’offerta e dell’accettazione delle sufficienti assicurazioni a quelli direttamente riconducibili ai trattati internazionali: nella prospettiva del diritto interno ciò comporterebbe l’assimilazione della efficacia vincolante delle garanzie alla forza (di legge) del provvedimento di esecuzione dei trattati. In particolare è stata proposta la configurazione dell’offerta e dell’accettazione delle sufficienti assicurazioni come un accordo internazionale del tutto auto(36) Contrariamente alla tesi sostenuta da chi, alla luce dei trattati di estradizione successivamente sottoscritti dall’Italia, interpreta in senso stretto la riserva italiana alla Convenzione europea di estradizione riferendola al concreto pericolo di una condanna a morte e assimilandola, in ultima analisi, alla disposizione di cui all’art. 698 co. 2 c.p.p. (DELICATO, Estradizione e pena capitale nel nuovo codice di procedura penale, cit., 320; STRIANI, Ancora sull’estradizione per reati punibili con la pena capitale, cit., 185; STRIANI-PIZZICOLI, Estradabilità dall’Italia per reati punibili all’estero con la pena di morte, cit., 56), a noi sembra che la stessa riserva, grazie alla maggiore agilità che deriva alle singole parti dalla struttura multilaterale della Convenzione, sia, invece, espressione della posizione più autentica dell’Italia sul problema dei rapporti tra estradizione e pena di morte: così MOSCONI, Estradizione e pena di morte nel progetto Mancini del 1882 e nel nuovo codice di procedura penale, cit., 654 s. (37) MARCHESI, Estradizione e pena di morte secondo l’art. 11 della Convenzione europea di estradizione, cit., 299. (38) Per quanto messa in discussione dalla dottrina internazionalistica, resta fondamentale in proposito la sentenza della Corte costituzionale n. 48/1979, laddove, in riferimento al diritto internazionale consuetudinario, si afferma che « l’adeguamento automatico previsto dall’art. 10 Cost. non potrà in alcun modo consentire la violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale »; Corte cost., sent. 18 giugno 1979 n. 48, in Giur. cost. 1979, 373 ss. Il controllo di legittimità costituzionale delle norme del diritto internazionale pattizio — e, quindi, delle leggi di esecuzione dei trattati — è esteso, invece, dalla Corte « rispetto ad ogni norma o principio costituzionale »; in relazione all’estradizione, si tratta, dunque, di prendere in considerazione « i principi cui s’informano, secondo Costituzione, reato e pena nell’ordinamento interno »: Corte cost., sent. 27 giugno 1979 n. 54, cit., 222, 224. Sul punto cfr. CARELLA, L’estradizione passiva nei trattati internazionali e il divieto di pena di morte, cit., 273 ss. Sul riferimento della Corte ai principi di reato e pena anche in materia di estradizione cfr. MARZADURI, Estradizione e pena di morte, cit., 422, e TREVISSON LUPACCHINI, Note a margine di una pronuncia in tema di estradizione dall’Italia verso Stati nei quali è ancora in vigore la pena di morte, cit., 196.


— 1135 — nomo (39): i rispettivi provvedimenti di esecuzione conferirebbero ad essi forza di legge nell’ordinamento interno. La soluzione, tuttavia, contraddice la prassi, rispetto alla quale non si è mai resa necessaria una legge di esecuzione per una singola estradizione; non a caso, chi ha sostenuto che l’unica garanzia accettabile fosse un accordo internazionale ad hoc, ha proposto un accordo « anche in forma semplificata », ossia realizzato « attraverso uno scambio di note » (40). Maggiore attenzione merita, invece, la posizione di chi, rifiutando la tesi dell’accordo ad hoc, ha ritenuto che l’offerta e l’accettazione delle assicurazioni di non applicazione della pena di morte contribuiscano alla « ulteriore specificazione » della norma che le prevede; è in virtù di tale norma, dunque, che sussiste l’obbligo per lo Stato richiedente di non eseguire la pena di morte, ragion per cui la violazione delle assicurazioni fornite si risolverebbe in una violazione della norma del trattato che le prevede (41). La tesi appare quanto meno suggestiva e sicuramente plausibile nel valore delle conclusioni a cui perviene. Nella prospettiva del diritto interno l’offerta e l’accettazione delle sufficienti assicurazioni diventerebbero parte integrante — o, comunque, essenziale — della legge di esecuzione del trattato per la definizione della disciplina del caso specifico; sarebbe, dunque, violata la legge di esecuzione nel caso in cui l’autorità competente non rispettasse gli impegni assunti dall’esecutivo. Proprio questa circostanza rende, tuttavia, l’ipotesi quanto meno problematica in riferimento ai contenuti che assume il principio di legalità in diritto penale. Non si tratta, infatti, di approfondire aspetti di teoria del diritto che pure potrebbero venire in discussione in relazione ai requisiti di generalità ed astrattezza degli atti legislativi e delle caratteristiche che, nell’ambito dello Stufenbau ordinamentale, li distinguono dalle decisioni immediatamente riferibili al caso concreto (sentenze, provvedimenti amministrativi ecc.); piuttosto, affermando la necessità di un atto dell’esecutivo, le implicazioni di diritto interno che derivano dalla tesi della specificazione del trattato di estradizione si risolvono nella legittimazione del contributo del potere esecutivo alla definizione del precetto penale, di cui, in particolare, verrebbe decisa — o, comunque, semplicemente esclusa — una determinata sanzione, che nel caso specifico è la pena di morte. Il principio di legalità, nella sua specificazione del principio della riserva di legge, ne risulterebbe evidentemente violato, perché, secondo quanto già da tempo affermato dalla Corte costituzionale in riferimento a qualsiasi di tipo di sanzione penale (quindi anche semplicemente pecuniaria), esso « esige che sia soltanto la legge (o un atto equiparato) dello Stato a stabilire con quale misura debba essere repressa la trasgressione dei precetti che vuole sanzionati penalmente » in quanto « la dignità e la libertà personale sono, nell’ordinamento costituzionale democratico e unitario che regge il Paese, beni troppo preziosi, perché in mancanza di un inequivoco disposto costituzionale, si possa ammettere che un’autorità amministrativa e comunque un’autorità non statale disponga di un qualche potere di scelta in ordine ad essi » (42). (39) Così ROTTOLA, La competenza a valutare le garanzie di non applicazione (o di non esecuzione) della pena capitale ai fini della concessione dell’estradizione, cit., 474 ss. (40) Così ROTTOLA, La competenza a valutare le garanzie di non applicazione (o di non esecuzione) della pena capitale ai fini della concessione dell’estradizione, cit., 474, che, tuttavia, in nota fa esplicito riferimento alla necessità di un provvedimento di esecuzione. (41) MARCHESI, Estradizione e pena di morte secondo l’art. 11 della Convenzione europea di estradizione, cit., 288; ID., Estradizione per un reato punibile con la pena di morte nello Stato richiedente: il caso Venezia, cit., 116. (42) Corte cost., sent. 23 marzo 1966 n. 26, in Giur. cost. 1966, 255 ss., 274, con nota di AMATO, Riserva di legge e libertà personale in una sentenza che restaura l’art. 25, 262 ss.; sul punto v. anche PADOVANI, Diritto penale, Milano 1995, p. 28.


— 1136 — D’altra parte, se è vero che il sistema delle sufficienti assicurazioni avrebbe dovuto condurre comunque alla garanzia della legge dello Stato, non si comprende perché esso sia stato preferito ad una espressa disposizione del trattato che, molto più semplicemente, avrebbe potuto prevedere la non applicazione — e, quindi, la commutazione ope legis — della pena edittale, nel caso in cui il reato per il quale si richiede l’estradizione allo Stato abolizionista sia punito con la morte nello Stato richiedente (43). Il sistema avrebbe l’ulteriore pregio di proiettare la scelta abolizionista nell’ordinamento giuridico dello Stato non abolizionista, nel quale entrerebbe in vigore una norma di legge che, per una determinata serie di ipotesi, ma pur sempre in via generale ed astratta, limita il ricorso alla pena di morte. Per tutta la durata del processo verrebbe, inoltre, continuamente ribadito all’opinione pubblica dello Stato richiedente un messaggio di rifiuto per la pena di morte, chiaro ed inequivocabile, che, tra l’altro, per essere espresso in una legge e non in un accordo da ripetere ogni volta, trasmetterebbe tutta la convinzione di chi, in proposito, non lascia spazio ad alcuna possibilità di ripensamento. 5. Estradizione e pena di morte dopo la sentenza della Corte. — Occorre a questo punto verificare le altre indicazioni deducibili dalla sentenza della Corte costituzionale relativamente agli argomenti trattati. 5.1. L’estradizione esecutiva nel nuovo contesto ordinamentale. — Alcune di esse, direttamente deducibili dalla sentenza, sono di immediata rilevanza per la disciplina dell’estradizione. Sebbene, infatti, anche in questa occasione la Corte non abbia esteso il giudizio di incostituzionalità secondo quanto disposto dall’art. 27 della l. n. 87/1953, ciò non impedisce che le stesse conclusioni che avrebbe potuto trarre la Corte, siano dedotte dalle autorità competenti all’applicazione di norme analoghe a quelle dichiarate incostituzionali (44); si tratta, allora, di riconoscere l’illegittimità costituzionale del sistema delle sufficienti assicurazioni in riferimento a tutti i trattati di estradizione che lo prevedono, i quali, dunque, dovranno essere denunciati nelle sedi opportune, prima che, rifiutando l’estradizione in casi analoghi a quello di Pietro Venezia, l’Italia possa essere chiamata a rispondere della loro violazione (45). Più in generale, le motivazioni della sentenza e, soprattutto, i riferimenti normativi in essa indicati offrono, a nostro avviso, argomenti decisivi per una ridefinizione dell’istituto dell’estradizione, che, conformemente alle indicazioni ormai unanimi della dottrina, offra maggiori ambiti per la piena realizzazione della tutela della personalità umana (46), affrancando definitivamente la sua disciplina dal do(43) È la soluzione proposta da PISA, Commento all’art. IX del Trattato di estradizione tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo degli Stati Uniti d’America, cit., 426, che ripropone la soluzione già adottata nella Convenzione di estradizione tra Italia e Ungheria del 26 maggio 1977, ratificata e resa esecutiva con l. 23 luglio 1980 n. 511; in senso analogo, tra gli altri, DEL TUFO, Estradizione. III) Diritto internazionale, in Enc. giur. Treccani, XIII, Roma 1989, 4. (44) In tal senso CRISAFULLI, In tema di questioni conseguenziali alla pronuncia di illegittimità costituzionale di un principio generale, in Giur. cost. 1961, 1374 ss., 1378. (45) Una situazione analoga si creò dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 54 del 1979; sul punto cfr., tra gli altri, SALVINI, Delitti punibili con la pena di morte ed estradizione dopo la pronunzia della Corte Costituzionale, cit., 225; PANELLA, Convenzione europea di estradizione e convenzione italofrancese del 1870 nella ordinanza del Tribunale di Trieste del 17 febbraio 1977, in Riv. dir. eur. 1977, 421 s.; CARELLA, L’estradizione passiva nei trattati internazionali e il divieto di pena di morte, cit., 284. (46) Considera la tutela della personalità umana lo scopo « generico » del divieto di estradizione per il delitto politico DEL TUFO, Estradizione e reato politico, Napoli 1985, p. 116 ss.


— 1137 — minio di un « rigido concetto di sovranità » che riduce l’estradando ad « oggetto di negozi di scambio tra gli Stati » (47). In particolare, il vincolo che, in termini di necessità, sembra unire l’istituto dell’estradizione (anche) esecutiva al contesto storico e sociale in cui esso ha avuto origine, diventa, a nostro avviso, evidente quando le concrete implicazioni di un provvedimento di estradizione passiva di un cittadino sono valutate alla luce di quelle che oggi dovrebbero essere le funzioni della pena e, al tempo stesso, dell’evoluzione che, intanto, hanno avuto in altri settori i rapporti di collaborazione internazionale in materia penale. In relazione agli scopi dichiarati di quest’ultima offrono, infatti, maggiori prospettive di funzionalità e, quindi, di sviluppo altri strumenti che, al tempo stesso, sembrano meglio assicurare la piena realizzazione dei principi che regolano reato e pena nel nostro ordinamento costituzionale: in particolare, si tratta, a nostro avviso, di verificare le opportunità offerte da strumenti quali l’assunzione di procedimenti penali pendenti (o imminenti) all’estero e l’esecuzione di sentenze penali pronunciate da autorità straniere (48); in altre parole, nel rispetto della massima tutela per i diritti fondamentali della persona (cittadini e stranieri) si tratta di dare piena realizzazione alle indicazioni già chiaramente deducibili dalla Costituzione che, mentre prevede l’estradabilità dello straniero a prescindere da un trattato di estradizione, sembra invece affermare un tendenziale divieto di estradizione del cittadino (49). 5.2. Il divieto di pena di morte come proiezione della tutela dei diritti fondamentali. — Al di là di soluzioni alternative all’estradizione passiva a fini esecutivi, la decisione della Corte può essere considerata, a nostro avviso, la migliore espressione di un indirizzo ormai affermato nella dottrina e nella giurisprudenza del diritto internazionale pattizio (ma ancora estraneo alla legislazione ed alla prassi di molti Stati) che, sia pur nella prospettiva di un giusto equilibrio con le esigenze della cooperazione internazionale, operano una ricostruzione dell’istituto dell’estradizione mostrando una maggiore sensibilità per la tutela dei diritti umani (50). (47) Così JESCHECK, L’oggetto del diritto penale internazionale, in questa Rivista, 1971, 636 ss. Sul punto cfr. anche MARZADURI, Autorità giudiziaria ed autorità amministrativa nel procedimento di estradizione passiva, cit., 611 ss.; ID., Libertà personale e garanzie giurisdizionali nel procedimento di estradizione passiva, cit., 184 ss., al quale si rinvia anche per una approfondita ricostruzione dell’evoluzione della disciplina dell’estradizione in riferimento alla tutela della libertà personale dell’estradando; sul punto v. anche DEL TUFO, Estradizione, cit., 1 s. Ritiene l’estradando privo di soggettività internazionale e, quindi, mero oggetto dell’estradizione che conserverebbe tuttora tracce evidenti della natura esclusivamente politica che ne ha caratterizzato le origini, QUADRI, Estradizione (dir. intern.), in Enc. dir., XVI, Milano 1967, p. 6 s. (48) Sul punto JESCHECK, L’oggetto del diritto penale internazionale, cit., 636 ss., che, in riferimento all’esecuzione delle sentenze penali straniere, cita l’esempio della Convenzione europea sulla validità internazionale dei giudizi repressivi del 1970, alla quale si aggiungono oggi la Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, aperta alle sottoscrizioni dal Consiglio d’Europa il 21 marzo 1983 — che, nella prospettiva della risocializzazione, favorisce l’esecuzione della sanzione penale nello Stato di cittadinanza del condannato (sul punto cfr. PADELETTI, La convenzione europea sul trasferimento delle persone condannate, in questa Rivista, 1985, 791 ss.) —, la Convenzione europea sul trasferimento dei procedimenti penali del 1972 e la Convenzione tra gli Stati membri della Comunità europea sull’esecuzione delle condanne penali straniere del 1991. (49) Così D’ORAZIO, Estradizione. I) Diritto costituzionale, in Enc. giur. Treccani, XIII, Roma 1989, 2. (50) Sul punto cfr. PARISI, Estradizione e diritti dell’uomo fra diritto internazionale e generale, Milano 1993, p. 3 ss., passim. In particolare riferimento al problema della pena di morte va qui ricordato che con la risoluzione n. 45/116 del 14 dicembre 1990 l’Assemblea generale dell’O.N.U. ha approvato un trattato-tipo di estradizione che prevede agli artt. 3 e 4 motivi obbligatori e facoltativi di rifiuto della richiesta di estradizione: tra questi ultimi è prevista anche la pena capitale; sul punto v. PISANI, Quattro trattati-tipo dell’ONU per la cooperazione internazionale in materia penale, in questa Rivista, 1992, 443 ss. Considera la pena di morte come un limite destinato ad impedire l’estradizione dagli Stati abolizionisti


— 1138 — Sotto questo profilo risulta essenziale il riferimento alla tutela dei diritti fondamentali della persona di cui all’art. 2 Cost., che, applicabile anche agli stranieri, estende anche a quest’ultimi il divieto di estradizione per reati puniti con la morte dalla legislazione dello Stato richiedente. Più in generale, l’interpretazione dell’art. 27 co. 4 Cost. come proiezione della più ampia tutela di cui all’art. 2 Cost. assimila la scelta abolizionista dell’Italia alla tutela « riconosciuta » e « garantita » ai diritti fondamentali della persona, proiettandola, al pari di quest’ultima, tra gli obiettivi necessari della politica internazionale italiana (51). D’altra parte, la sentenza della Corte costituzionale giunge dopo che importanti provvedimenti hanno recentemente confermato la scelta abolizionista della Costituzione. Con la l. 9 dicembre 1994 n. 734 è stata data esecuzione, senza alcuna riserva, al Secondo Protocollo facoltativo al Patto dei diritti civili e politici del 1966, adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 15 dicembre 1989. Il suo art. 1 stabilisce che « nessuna condanna a morte verrà eseguita » contro chi sia soggetto alla giurisdizione degli Stati che sottoscrivono il Patto, i quali, quindi, adotteranno « le misure necessarie al fine di abolire la pena di morte nella propria giurisdizione », mentre « la pena di morte in tempo di guerra a seguito della condanna per un reato fra i più gravi di natura militare commesso in tempo di guerra » sarebbe stata possibile soltanto se oggetto dell’unica riserva ammessa dall’art. 2. La necessità di una specifica riserva per la pena di morte in tempo di guerra rende il Secondo Protocollo più limitativo del Sesto Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 adottato dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 28 aprile 1983 e ratificato dall’Italia con la l. 2 gennaio 1989 n. 8; sia pur con la garanzia di tassatività della previsione legislativa — limitata, comunque, ai casi più gravi —, le disposizioni del Sesto Protocollo prevedono, infatti, l’applicabilità della pena di morte per reati militari commessi « in tempo di guerra o di imminente pericolo di guerra » (52).

PALAZZO, La pena di morte dinanzi alla Corte di Strasburgo, cit., 373; in senso analogo WENTZEL, Extradition involving the possibility of the death penalty, in Revue Internationale de Droit Penal 1991 - Atti del Seminario internazionale sull’estradizione tenuto presso l’Istituto superiore internazionale di scienze criminali, Siracusa 4-9 dicembre 1989, 335 ss. (51) Sotto questo profilo risulta quanto meno indicativa la diversa conclusione a cui è pervenuta la Corte costituzionale tedesca, che in una situazione analoga ha affermato la legittimità delle norme che disciplinavano l’estradizione per reati puniti con la morte nello Stato richiedente; contraddicendo un precedente orientamento del Bayerische Oberste Landesgericht — che aveva considerato assoluto il divieto di pena di morte —, il Bundesverfassungsgericht affermava che la scelta abolizionista dell’Art. 102 GG trova la sua origine nell’« abuso » che si era fatto della pena di morte sotto il regime nazionalsocialista e non può quindi risolversi nella valutazione di ordinamenti non abolizionisti, per la quale « manca al diritto tedesco ogni legittimazione »: cfr. Bundesvarfassungsgerichts, Beschluß des Ersten Senats vom 30 Juni 1964, in Entscheidungen des Bundesverfassungsgerichts, vol. 18, 112 ss. Come è stato giustamente sottolineato, la conclusione coincide con la posizione ufficiale della Repubblica federale tedesca sulla pena di morte, ma trascura la tutela della vita di cui all’Art. 2 GG sui diritti fondamentali che non si colloca nella sezione dedicata alla giustizia, come l’Art. 102, ma apre il catalogo dei diritti fondamentali della persona: così GUSY, Auslieferung bei drohender Todesstrafe, in GA 1983, 76, e GECK, Art. 102 GG und der Rechtshilfeverkehr zwischen der Bundesrepublik und Ländern mit der Todesstrafe, in JuS 1965, 231; sul punto cfr. anche VOGLER, Auslieferung und Grundgesetz, Berlin 1970, p. 180 ss. Riconduce direttamente alle norme sull’estradizione previste nella nostra Costituzione la necessità di un giudizio sull’ordinamento straniero e sul modo in cui in esso risulta amministrata la giustizia DEL TUFO, Estradizione e reato politico, cit., p. 156 ss. (52) PALAZZO, Pena di morte e diritti umani (a proposito del Sesto Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo), in questa Rivista, 1984, 759 ss.; sulla evoluzione più recente del diritto internazionale pattizio in riferimento alla pena di morte v. MARCHESI, La pena di morte nei rapporti giuridici internazionali, cit., p. 9 ss.


— 1139 — Nella prospettiva del diritto interno, le disposizioni del Sesto Protocollo erano state comunque superate già con la l. 13 ottobre 1994 n. 589, con cui è stata abolita la pena di morte dal codice penale militare di guerra e dalle altre leggi di guerra. Si tratta di un provvedimento tutt’altro che secondario se si considera che le condizioni per l’applicazione delle leggi di guerra non sono limitate all’ipotesi di un conflitto armato (53) e rendevano, pertanto, la presenza della pena di morte nel nostro ordinamento giuridico « meno « virtuale » di quanto il suo rapporto con lo stato di guerra lasciasse supporre » (54). Se, tuttavia, la l. n. 589/1994 ha eliminato una possibilità tutt’altro che « virtuale », è anche vero che l’abolizione della pena di morte dal nostro ordinamento giuridico resta tuttora affidata ad una legge ordinaria, la cui abrogazione — realizzabile con un semplice decreto legge — non appare né storicamente inverosimile — se riferita alle situazioni di ‘necessità’ che, secondo la normativa tuttora vigente, rendono applicabili le leggi di guerra —, né costituzionalmente illegittima in virtù della riserva espressamente prevista all’art. 27 co. 4 Cost. Per rendere giuridicamente definitiva ed irreversibile l’abolizione della pena di morte occorre, dunque, rafforzare con la garanzia costituzionale la scelta già fatta con le leggi n. 589 e n. 734 del 1994 e, quindi, rivedere la riserva di cui all’art. 27 co. 4 Cost. (55), già sottoposta a critica per l’assenza di un riferimento esplicito ad uno stato di guerra (56). Si tratta di una modifica costituzionale che, evidentemente, non può derivare in termini di necessità giuridica dalle posizioni che, intanto, sono emerse nella legislazione ordinaria. Ciononostante, neppure può essere considerata irrilevante la circostanza che nella sentenza in esame la Corte costituzionale abbia indicato la prima fonte del divieto di pena di morte nella tutela dei diritti fondamentali della persona; in tale prospettiva l’art. 2 Cost. assume una posizione evidentemente sovraordinata rispetto all’art. 27 co. 4 Cost. e rappresenta per l’interprete una chiara opzione di valore che deve essere espressa e ribadita in ogni settore dell’ordinamento giuridico (57). La riserva di cui all’art. 27 co. 4 Cost. si colloca, dunque, in un più ampio contesto determinato da valori che, a nostro avviso, non offrono argomenti utili al mantenimento della pena di morte nelle « leggi militari di guerra »; in particolare, dal momento che esigenze di coerenza sistematica ed assiologica impongono una scelta unica e definitiva sull’ammissibilità della pena di morte, questa, in considerazione dei valori affermati all’art. 2 Cost., non può essere diversa dalla sua abolizione totale ed incondizionata. Resta, indubbiamente, la problematicità delle situazioni in cui le modalità concrete nelle quali può articolarsi la guerra sembrano rendere realmente inevitabile l’uccisione di un uomo. Che si tratti, tuttavia, di una « pena » e non di una (53) Sul punto PALAZZO, Pena di morte e diritti umani, cit., 762; PADOVANI, Commento alla L. 13 ottobre 1994 n. 589 - Abolizione della pena di morte nel codice penale militare di guerra, in Legisl. pen. 1995, 369 s.; FIANDACA, Sub art. 27, in Commentario della Costituzione, a cura di G. BRANCA e V. PIZZORUSSO, Bologna-Roma 1991, p. 348. (54) Così PADOVANI, Commento alla L. 13 ottobre 1994 n. 589, cit., 37. (55) In tal senso PADOVANI, Commento alla L. 13 ottobre 1994 n. 589, cit., 370; da ultimo MARCHESI, La pena di morte nei rapporti giuridici internazionali, cit., p. 2. (56) PALAZZO, Pena di morte e diritti umani, cit., 762. (57) Riconducono il divieto di pena di morte all’orientamento personalistico del nostro ordinamento giuridico, tra gli altri, MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova 1992, p. 774, e PADOVANI, Commento alla L. 13 ottobre 1994 n. 589, cit., 371; sul presupposto della inutilità di qualsiasi altro criterio ritiene fondamentale il principio morale che impone di « Non uccidere » BOBBIO, Contro la pena di morte (1981), in L’età dei diritti, Torino 1992, p. 201.


— 1140 — ‘semplice’ fattispecie di omicidio realizzata in una situazione riconducibile alla legittima difesa o allo stato di necessità va, a nostro avviso, verificato alla luce delle acquisizioni più recenti sulla struttura delle cause di giustificazione (58). FRANCESCO SCHIAFFO Collaboratore presso la Cattedra di diritto penale dell’Università di Salerno

(58) L’argomento non può essere trattato nell’ambito di queste note necessariamente limitate ai temi affrontati nella fondamentale sentenza della Corte costituzionale; in un diverso contesto ci riserviamo di dedicare al delicato problema i dovuti approfondimenti, in particolare per quanto concerne quella che, sin da ora, appare l’essenziale, esatta definizione del requisito dell’attualità del pericolo; recente ed autorevole dottrina ha, infatti, ritenuto di non identificarla con l’« immediata imminenza » della lesione del bene protetto: così ROXIN, Da quale momento un’aggressione è attuale e dà origine al diritto di legittima difesa ? (Von welchem Zeitpunkt an ist ein Angriff gegenwärtig und löst das Notwehrrecht aus?, 1985) in Antigiuridicità e cause di giustificazione, a cura di S. MOCCIA, Napoli 1996, p. 283 ss.; ID., Lo stato di necessità difensivo provocato dall’uomo (Der durch Menschen ausgelöste Defensivnotstand, 1985), ivi, p. 323 ss. Va qui considerato come chi ha negato alla « collettività » il diritto di uccidere un uomo per legittima difesa, lo ha fatto perché ha ritenuto che « la legittima difesa nasce e si giustifica soltanto come risposta immediata in istato di impossibilità di fare altrimenti », mentre « la risposta della collettività è mediata attraverso un procedimento, talora anche lungo, in cui si dibattono argomenti pro e contro »: così BOBBIO, Contro la pena di morte, cit., p. 201 (il corsivo è nostro).


— 1141 — b) Giudizi di Cassazione

CASSAZIONE PENALE — Sez. Un. — 21 aprile 1995 (dep. 1o agosto 1995) Pres. Zucconi Galli Fonseca — Rel. Trojano P.M. Aponte (concl. conf.) — Costantino ed altro. Misure cautelari personali — Condizioni di applicabilità — Gravi indizi di colpevolezza — Criteri valutativi previsti dall’art. 192 — Applicabilità — Esclusione. Misure cautelari personali — Condizioni di applicabilità — Gravi indizi di colpevolezza — Chiamata di correo — Valutazione — Criteri. (C.p.p. artt. 192, 273). L’art. 192 c.p.p. non è applicabile alla fase delle indagini preliminari ed in particolare alle misure cautelari come si ricava, oltre che dalla sua rubrica, dall’esame delle specifiche disposizioni da esso dettate (1). La rilevanza della chiamata in correità o reità, ai fini dell’adozione delle misure cautelari, deve essere apprezzata alla stregua dell’art. 273 c.p.p., potendola il giudice valutare come ogni altro indizio. Per quanto attiene al profilo della c.d. attendibilità estrinseca deve appurarsi la sussistenza, o meno, degli elementi obiettivi che smentiscano la chiamata, e se la stessa sia confermata da riscontri esterni di qualsiasi natura, rappresentativi o logici, dotati di tale consistenza da resistere agli elementi di segno opposto eventualmente dedotti dall’accusato senza però la necessità che i riscontri riguardino in modo specifico la posizione di questo (2). 1. Con ordinanza in data 29 ottobre 1994 il G.i.p. del Tribunale di Foggia ha applicato la misura coercitiva della custodia cautelare in carcere — fra gli altri — a Costantino Vincenzo ed a Di Reda Antonio, coindagati, il primo, per concorso in un delitto di rapina aggravata ai danni di un istituto bancario ed in reati connessi, ed il secondo per concorso in numerosi episodi di rapina aggravata ai danni di istituti bancari ed in reati connessi. Nell’adottare questo provvedimento il giudice ha valorizzato le dichiarazioni rese al p.m. dal coindagato Strafezza Michele, che, nell’ammettere la sua diretta partecipazione ai reati, aveva formulato specifiche chiamate in correità nei confronti di terzi, indicati quali complici, fra cui Di Reda e Costantino. Ha infatti ritenuto che tali accuse erano intrinsecamente attendibili, nonché confortate da precisi riscontri esterni. Sotto quest’ultimo profilo — sulla premessa che la rilevanza dei gravi indizi, richiesti per l’adozione di una misura cautelare, non deve essere verificata attraverso la diretta ed integrale applicazione delle norme processuali in materia di prove — ha ritenuto che l’art. 192 comma 3 c.p.p., sulla chiamata in correità, non sia direttamente applicabile ai provvedimenti cautelari, ma integri soltanto un criterio ermeneutico orientativo da adattare alle specifiche esigenze concernenti questi ultimi. Ha quindi affermato che — se la particolare cautela mostrata dal legislatore nei confronti di tale fonte di prova imponeva di ricercarne eventuali riscontri


— 1142 — esterni ai fini di un giudizio di probabile colpevolezza, dell’indagato — tali riscontri dovevano concernere l’attendibilità complessiva della chiamata e non essere necessariamente individualizzanti, cioè relativi a ciascun chiamato. Ha quindi rilevato che le accuse formulate dallo Strafezza avevano trovato una precisa conferma — in ordine a diversi aspetti obiettivi degli episodi di rapina descritti dal chiamante — nei risultati acquisiti attraverso precedenti indagini di polizia giudiziaria, nonché — per quanto riguardava il coinvolgimento nei detti reati dei coindagati Cucchiarale Tonino e Michele e di Corato Giuseppe — nelle medesime indagini e nelle dichiarazioni rese da altri collaboranti. Lo spessore di tali riscontri, confermando la complessiva affidabilità delle accuse formulate dallo Strafezza, le rendeva credibili, ad avviso del giudice del merito, anche nella parte concernente il Di Reda ed il Costantino, tanto più che, nei confronti di quest’ultimo era stato acquisito un ulteriore elemento di riscontro specifico. Lo Strafezza aveva invero dichiarato che costui, nel corso della rapina avvenuta l’11 marzo 1993 ai danni della sede del Banco di Napoli in S. Ferdinando di Puglia, aveva rubato ed utilizzato un trattore per sfondare la vetrina dell’istituto bancario. Ebbene i Carabinieri avevano sottoposto a fermo il Costantino perché indagato, in un distinto procedimento, anche per un’altra rapina consumata il 28 marzo 1994 ai danni dell’ufficio postale di Stornara mediante lo sfondamento della vetrata di tale ufficio con un trattore, a bordo del quale l’indagato era stato visto poco prima del fatto ed il tribunale del riesame aveva disposto la cattura del Costantino per tale reato, valorizzando proprio quest’ultima circostanza. 2. Il Costantino ed il Di Reda hanno proposto ricorso per cassazione. Con un’unica censura, si deduce la violazione degli artt. 192 e 273 c.p.p., nonché la mancanza e manifesta illogicità della motivazione sulla sussistenza di gravi indizi di colpevolezza. In particolare, quanto al Di Reda, premesso che, ai sensi delle citate norme, la chiamata in correità non vale ad integrare i gravi indizi di colpevolezza necessari per l’adozione della misura cautelare, se non confermata da riscontri esterni specifici alla posizione del singolo accusato, si lamenta che il giudice del merito ha dedotto indizi di responsabilità a carico del ricorrente soltanto dalle accuse formulate dallo Strafezza, senza che le stesse fossero confortate da un qualsiasi riscontro attinente alla posizione dell’indagato. Con riguardo poi alla posizione del Costantino, illogicamente un riscontro estrinseco è stato desunto dalla sottoposizione del ricorrente ad altro procedimento penale per una diversa rapina, consumata con modalità similari a quelle di una delle rapine per cui si procede. Invero l’assenza di qualsiasi connessione fra tali reati, consumati ad una distanza di dieci mesi, impediva di attribuire alla vicenda del 1994 qualsiasi rilievo indiziario; tanto più che la stessa ascrivibilità al Costantino anche di quest’ultimo reato non era sicura, per il contrasto verificatosi al riguardo fra il G.i.p. ed il tribunale del riesame. La difesa ha depositato memoria. 3. La seconda sezione penale, cui i ricorsi erano stati assegnati, li ha rimessi alle Sezioni unite ai sensi dell’art. 618 c.p.p., segnalando l’esigenza di dirimere il contrasto insorto nella giurisprudenza della Suprema Corte, in ordine al quesito se, ai fini dell’adozione delle misure cautelari, sia sufficiente una chiamata in cor-


— 1143 — reità, formulata da un altro coindagato purché intrinsecamente affidabile, o se invece sia necessario un qualche elemento obiettivo di riscontro e, nell’ambito di quest’ultimo orientamento, in ordine ai criteri da adottarsi per giudicare soddisfatta quest’ultima esigenza. 4. Il primo problema sottoposto all’esame delle Sezioni Unite attiene al se la chiamata in correità, per poter concretare i gravi indizi di colpevolezza necessari per l’adozione della misura cautelare personale, debba essere, oltre che intrinsecamente attendibile, anche corredata da elementi di riscontro estrinseci, estranei alle dichiarazioni del chiamante. La sufficienza dell’attendibilità intrinseca è affermata da una parte della giurisprudenza di questa Corte sul presupposto che, nella sfera cautelare, il parametro di valutazione della chiamata in correità non sia desumibile dal citato art. 192 comma 3 c.p.p., concernente il diverso ambito della valutazione della prova richiesta per la condanna e che pertanto il giudizio sulla valenza delle accuse formulate da un coindagato prescinde da elementi di riscontro esterni, dovendo la chiamata di correo essere considerata alla stregua di qualsiasi altro indizio ed, al pari di questo, verificata nella sua gravità (Sez. V, 12 ottobre 1990, n. 4849, Covelli, m. 185.957; Sez. I, 4 novembre 1991, n. 4099, Mazzocchi, m. 188.666; Sez. I, 19 ottobre 1993, n. 4254, Piccirello, m. 195.727; Sez. I, 2 dicembre 1994, n. 5831, Verde). Alla medesima conclusione pervengono altre pronunzie, argomentando dal rilievo che l’art. 273 comma 1 c.p.p. richiede, per l’applicazione delle misure cautelari, soltanto la gravità degli indizi e non anche gli ulteriori requisiti della precisione e della concordanza imposti dall’art. 192 comma 3 c.p.p. e che pertanto le dichiarazioni accusatorie di un coindagato non abbisognano, per assurgere alla dignità di gravi indizi, degli specifici riscontri necessari per l’accertamento definitivo della colpevolezza (Sez. I, 15 ottobre 1993, n. 4206, Bagordo, m. 195.926). Un opposto orientamento è invece seguito da altre sentenze di questa Corte, secondo le quali, affinché la chiamata di correo possa assurgere a grave indizio ai sensi dell’art. 273 c.p.p. è necessario che la stessa — in ragione della diretta applicabilità del citato art. 192 c.p.p. o di una sorta di relativa presunzione di inaffidabilità, che caratterizza tal fonte di prova — sia corredata da riscontri esterni o quanto meno da un principio di riscontro di tale natura, idoneo a confortarne la portata accusatoria (Sez. I, 17 gennaio 1992, n. 168, Alfieri, mass. 189.434; Sez. I, 30 aprile 1992, n. 1825, Giuliano, m. 190.389; Sez. VI, 1o febbraio 1994 n. 324, Greganti, m. 197.151). 5. Le Sezioni Unite ritengono di aderire a quest’ultimo indirizzo con le precisazioni di seguito indicate. Devesi innanzi tutto escludere che l’inserimento dell’art. 192 c.p.p. fra le « Disposizioni Generali » del libro III del codice di rito, intitolato « Prove » implichi, di per sé solo, che tale norma sia applicabile anche alla fase delle indagini preliminari ed in particolare alle misure cautelari. Al contrario, la stessa intitolazione del libro III persuade che le norme in esso contenute siano dettate specificamente per il giudizio, quali regole per l’accertamento della responsabilità dell’imputato, essendo noto che nelle indagini preliminari non si ricercano prove, ma soltanto elementi indiziari di tale spessore da rendere utile un rinvio a giudizio nella prospettiva di un condanna. Inoltre, se alcune delle disposizioni contenute nel citato libro, quali gli artt.


— 1144 — 188 e 189 c.p.p., tutelando valori di rilievo costituzionale, sono sicuramente applicabili anche alle indagini preliminari, a diversa conclusione deve pervenirsi per altre, quali gli artt. 190 (in tema di diritto alla prova) e 190-bis (sui requisiti della prova in casi particolari), che, per il loro stesso contenuto, riguardano soltanto la fase del dibattimento. Che poi l’art. 192 c.p.p. non sia applicabile alla fase delle indagini preliminari ed in particolare alle misure cautelari lo si ricava, oltre che dalla sua rubrica, « Valutazione della prova », dall’esame delle specifiche disposizioni da esso dettate. Invero il comma 1, che impone al giudice di valutare la prova, dando conto in motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati, non riguarda le ordinanze impositive delle dette misure, posto che la motivazione di questi provvedimenti è specificamente disciplinata dall’art. 292 c.p.p. Inoltre il comma 2, stabilendo che « l’esistenza di un fatto » non è desumibile da indizi che non siano « gravi, precisi e concordanti » prescrive, in primo luogo, un criterio di valutazione diretto a verificare il sicuro accadimento di fatti giuridicamente rilevanti, il quale integra il presupposto necessario del giudizio di responsabilità incentrato sulla dimostrazione dei fatti ascritti all’imputato, ma non anche dell’applicazione delle misure cautelari, fondate soltanto sulla sussistenza di una qualificata probabilità di colpevolezza. In secondo luogo, la medesima norma sottende un concetto di indizi — intesi come circostanze certe da cui può logicamente dedursi l’esistenza del fatto da provare — che non coincide con la diversa e più ampia nozione degli indizi richiesti per l’applicazione di tali misure. Infine, la norma in esame richiede la sussistenza del triplice requisito della gravità, precisione e concordanza, mentre l’art. 273 c.p.p. impone soltanto il requisito della gravità. Da tali rilievi consegue che, in assenza di un elemento testuale contrario, lo stesso ambito applicativo dei primi due commi deve essere riconosciuto anche ai commi 3 e 4, in tema di chiamata in reità o correità, posto che queste ultime norme sono state inserite nel medesimo articolo, subito dopo la disciplina sugli indizi. Né varrebbe obiettare, sulla scorta di un’autorevole dottrina, richiamata dalla difesa, che l’esclusione in via di principio dell’applicabilità alle indagini preliminari del libro III del codice equivarrebbe a trasformare questa fase « in una terra di nessuno », non regolata in punto di prova. Si è già sottolineato che la ricerca delle prove è estranea alla fase delle indagini preliminari, così come lo è anche a quella dell’udienza preliminare, poiché, per il rinvio a giudizio, sono sufficienti soltanto indizi di tale gravità da rendere possibile la condanna dell’imputato. Deve aggiungersi che l’attività del p.m. nella fase delle indagini preliminari è specificamente regolata dal capo V del libro V del codice con una disciplina autonoma, salvo particolari richiami delle disposizioni sulla prova; che gli artt. 292 comma 2 lett. c, 384, 273 274, 267 c.p.p., 13 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, richiedendo, secondo i casi, la gravità o la sufficienza degli indizi, nonché la concretezza e la specificità dei fatti dai quali vanno desunte le esigenze cautelari dettano, di perciò stesso, i criteri di valutazione, cui il g.i.p. deve attenersi nell’adottare i provvedimenti riservatigli nella fase delle indagini preliminari; ed, infine — quanto alla possibile utilizzazione in dibattimento degli elementi di prova assunti nelle indagini preliminari ex artt. 500 ss. codice di rito — che soltanto in tal caso essi dovranno essere apprezzati dal giudice del dibattimento con lo specifico criterio di


— 1145 — valutazione delle prove, ricercando cioè se gli stessi, da soli o con altri elementi acquisiti in dibattimento, siano idonei a dimostrare in modo incontrovertibile la responsabilità dell’imputato. 6. Una volta esclusa l’applicabilità dell’art. 192 commi 3 e 4 c.p.p. alla sfera cautelare, la rilevanza della chiamata in correità o in reità, ai fini dell’adozione delle misure, deve essere apprezzata alla stregua dell’art. 273 stesso codice, che impone la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza. Quanto al significato da attribuirsi a questi ultimi, deve ritenersi che essi siano costituiti da quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa, che — contenendo in nuce tutti o soltanto alcuni degli elementi strutturali della corrispondente prova — non valgono, di per sé, a provare oltre ogni dubbio la responsabilità dell’indagato e tuttavia, consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi, saranno idonei — dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo, come già rilevato, una qualificata probabilità di colpevolezza. In questa prospettiva, la chiamata in correità deve essere valutata come ogni altro indizio. Ed a tal riguardo assume decisivo rilievo la sua fonte, costituita da soggetti coinvolti in grado diverso nel fatto per cui si procede o perché indagati per lo stesso reato o per reato connesso, ovvero perché indagati per altro reato, la cui prova influisce su quel fatto e può esserne, a sua volta, influenzata. Il dubbio sull’assoluto disinteresse della chiamata in correità, evidenziata da siffatta provenienza, giustifica la massima di esperienza che tale chiamata, diversamente dalla testimonianza, non può in nessun caso integrare, di per sé sola, un grave indizio di colpevolezza se non sia corroborata da riscontri estrinseci idonei a suffragarne l’attendibilità. A tal riguardo occorre precisare che questa massima di esperienza — già enucleata dalla giurisprudenza di questa Corte formatasi nella vigenza del codice abrogato (cfr. Sez. I, 22 dicembre 1986, n. 4221, Alfano, m. 174747) — non ha soltanto un fondamento razionale, trova un’indiretta, ma precisa conferma negli artt. 351 e 363 c.p.p. attinenti alla fase delle indagini preliminari. Queste norme invero dispongono che le persone indagate per lo stesso reato, ovvero per reati connessi o collegati soltanto sotto il profilo probatorio con il fatto per cui si procede, non possono essere esaminati senza l’assistenza di un difensore. Esse quindi riconoscono ai suindicati soggetti una posizione particolare che li distingue dal testimone e che, se — da un lato — li sottopone al rischio di rendere dichiarazioni a sé sfavorevoli senza l’assistenza di un’adeguata difesa — dall’altro — può, per converso, indurli a coinvolgere terzi al fine di occultare o attenuare le loro effettive responsabilità, così da qualificare come sospette le loro dichiarazioni. Premesso che l’apprezzamento della chiamata in correità o in reità è in ogni caso rimessa al cauto apprezzamento del giudice del merito insindacabile in questa sede se non sotto il profilo della manifesta assenza o illogicità della motivazione, va ribadito che tale valutazione deve svolgersi sotto un duplice profilo. È innanzi tutto necessario che l’attendibilità dell’accusa venga valutata sotto il profilo intrinseco. A tal fine il giudice è tenuto ad apprezzarne la precisione, la coerenza interna e la ragionevolezza, nonché ad individuare il grado di interesse dell’autore per la specifica accusa, alla stregua della sua personalità e dei motivi che lo hanno indotto a coinvolgere l’indagato. Infine lo spessore dell’attendibilità


— 1146 — intrinseca della chiamata è certamente influenzato dal tipo di conoscenza acquisita dal chiamante, variando a seconda che costui riferisca vicende a cui abbia partecipato o assistito, ovvero che abbia appreso de relato. Inoltre, per quanto attiene al profilo dell’attendibilità c.d. estrinseca della chiamata, il giudice deve appurare se sussistano, o meno, elementi obiettivi che la smentiscano e se la stessa sia confermata da riscontri esterni di qualsiasi natura rappresentativi o logici, dotati di tale consistenza da resistere agli elementi di segno opposto eventualmente dedotti dall’accusato. Soltanto nel caso in cui l’indagine del giudice del merito abbia avuto un esito positivo in ordine ad entrambi i profili sopra indicati è consentito concludere che la chiamata in correità integri un grave indizio di colpevolezza a mente del citato art. 273 c.p.p. 7. La soluzione negativa dell’ulteriore quesito, relativo al necessario carattere individualizzante dei riscontri, discende dai precedenti rilievi. Si è già dimostrato che l’art. 192 commi 3 e 4 c.p.p. non è applicabile alle indagini preliminari ed in particolare alle misure cautelari. Ne segue che l’esigenza di elementi confermativi, anche per l’adozione della misura cautelare, non è desumibile da questa norma, ove, sulla scorta di una parte della giurisprudenza di questa Corte, la si interpreti nel senso della necessità (ai fini della condanna) di elementi di conferma individualizzanti nei confronti del singolo chiamato (Sez. I, 26 gennaio 1993, n. 682, Gesso, m. 192.772; contra Sez. III, 31 luglio 1993, n. 7502, Piscitelli, m. 195274). Si è inoltre rilevato che in tale ambito la chiamata in correità o in reità, trova la sua disciplina soltanto nel citato art. 273 c.p.p. e che pertanto tale chiamata, per poter giustificare l’adozione della misura, deve presentare una consistenza indiziaria tale da fondare una qualificata probabilità di colpevolezza. Pertanto il ruolo dei riscontri estrinseci si specifica come rivolto ad assicurare alla chiamata un rilevante grado di affidabilità così da superare l’alone di sospetto connaturato nella sua provenienza. In questa prospettiva è sufficiente una conferma ab extrinseco della credibilità della chiamata, considerata nel suo complesso, attraverso una serie di riscontri che per numero, precisione e coerenza, siano idonei a confermare quanto meno le modalità obiettive del fatto descritte dal chiamante, in modo da allontanare, a livello indiziario, il sospetto che costui possa aver mentito. Ne consegue che, non è invece indispensabile che i riscontri riguardino in modo specifico la posizione soggettiva del chiamato, poiché l’assenza di questo ulteriore requisito — nell’ipotesi in cui non risultino elementi contrari al coinvolgimento di costui — non esclude, di per sé, anche per la naturale incompletezza delle indagini, l’attendibilità complessiva della chiamata, una volta che la stessa sia stata accertata sia sotto il profilo intrinseco, sia — nei termini anzidetti — sotto quello estrinseco. 8. Scendendo all’esame della fattispecie concreta, è da rilevare che, come evidenziato nell’ordinanza impugnata, le ammissioni del chiamante Strafezza hanno trovato nelle indagini di polizia giudiziaria una serie di molteplici e puntuali riscontri in ordine allo svolgimento obiettivo dei singoli episodi di rapina contestati. Tali dichiarazioni sono state invero confermate quanto alle modalità dell’ingresso nelle banche rapinate (sfondamento delle vetrine), ai mezzi all’uopo impie-


— 1147 — gati, a quelli utilizzati per la fuga (autovetture, camion e jeep), al numero dei correi penetrati negli istituti di credito e di quelli che avevano comunque cooperato alle operazioni, alle armi usate, alle somme di denaro sottratte, ai motivi dell’insuccesso di alcune rapine, al furto dei mezzi utilizzati ed al dialetto cerignolese o meridionale dei rapinatori. Inoltre ulteriori elementi di riscontro sono emersi sia da quelle indagini, sia dalle ammissioni di altri « collaboranti » circa il coinvolgimento dei coindagati Cucchiarale e Corato. Infine un ulteriore riscontro specifico a carico del Costantino è stato desunto dal fatto che le modalità di esecuzione di una delle rapine, per cui si procede, erano risultate identiche a quelle di altra rapina, consumata nel 1994, per la quale l’indagato è stato sottoposto a misura cautelare. Il g.i.p., valutando le accuse formulate dallo Strafezza alla stregua della pluralità, della precisione e della coerenza dei detti riscontri, le ha ritenuto credibili anche nella parte relativa al coinvolgimento dei due ricorrenti. Tale conclusione non è sindacabile in questa sede perché sorretta da logica e puntuale motivazione ed inoltre aderente ai principi di diritto sopra enunciati. I ricorsi debbono essere quindi respinti.

—————— (1-2)

Sui rapporti tra gravi indizi di colpevolezza e chiamata in correità ai fini della applicazione delle misure cautelari.

1. Con la sentenza che si annota la Cassazione a sezioni unite ha cercato di dirimere il contrasto giurisprudenziale in ordine al quesito se, ai fini dell’adozione delle misure cautelari, sia sufficiente una chiamata di correo valutata nella sua intrinseca attendibilità o sia invece necessario un qualche elemento obiettivo di riscontro e, in tal caso, quali debbano essere i criteri di riferimento: un riscontro individualizzante, o invece una conferma della chiamata, considerata nel suo complesso. A tali fini è parso alla Corte opportuno prendere posizione, innanzitutto, circa l’operatività o meno, in sede di indagini preliminari, delle regole che presiedono alla valutazione delle prove (1). Benché infatti le misure cautelari siano suscettibili di applicazione oltre i confini della fase prodromica all’azione penale, è certo che proprio qui esse trovano la loro sede tipica di applicazione. La disposizione di riferimento è l’art. 192 c.p.p., il quale, inserendosi in una più generale prospettiva di rigorosa tutela della legalità sul terreno probatorio (2), (1) Si veda, fra gli altri, E. AMODIO, Fascicolo processuale e utilizzabilità degli atti, in AA.VV., Lezioni sul nuovo processo penale, Milano 1990, p. 190; M. NOBILI, Diritto alla prova e diritto di difesa nelle indagini preliminari, in Il nuovo processo penale dalla codificazione all’attuazione (Atti del Convegno di Ostuni, 8-10 settembre 1989), Milano, 1989, p. 143; ID., Gli atti a contenuto probatorio nella fase delle indagini preliminari, in Crit. dir., 1991, n. 2, p. 4; D. SIRACUSANO, voce Prova (nel nuovo codice di procedura penale), in Enc. giur., vol. XXV, Roma, 1991, p 2; G. UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in La conoscenza del fatto nel processo penale, Milano, 1992, p. 32; G.P. VOENA, voce Investigazioni ed indagini preliminari, in Dig. disc. pen., vol. VII, Torino, 1993, p. 265. (2) Com’è noto, il legislatore del 1988, in linea con l’accoglimento di un sistema processuale improntato ai caratteri del sistema accusatorio, ha introdotto una nuova « cultura della prova », in base alla quale l’accertamento dei fatti deve essere condotto secondo regole ben precise e tassative; in quest’ottica, il fine del processo non e più solamente la Verità, ma un accertamento ottenuto secondo certe modalità di ricerca fondate necessariamente su criteri di ammissione e di esclusione. Si veda, sul punto, M. NOBILI,


— 1148 — pone una serie di limiti, vuoi di tipo razionale (primo comma), vuoi di tipo normativo (secondo e terzo comma) alla « libera » valutazione della prova da parte del giudice (3). Fondamentale appare il principio generale contenuto nel primo comma dell’articolo in parola, secondo il quale « il giudice valuta la prova dando conto, nella motivazione, dei risultati acquisiti e dei criteri adottati ». La libertà di apprezzamento della prova trova dunque un primo vincolo — per così dire intrinseco — nella motivazione, ossia nell’obbligo in capo al giudice non solo di esplicitare le massime d’esperienza nel valutare i fatti, ma altresì di giustificare in modo corretto i risultati cui è pervenuto. I successivi commi dell’art. 192, enunciano due specifiche regole di giudizio, l’una in riferimento alla valutazione della prova indiziaria, l’altra alla valutazione della c.d. chiamata di correo. Più precisamente, il secondo comma, laddove afferma che « l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti », indroduce una regola di valutazione mutuata dalla disciplina civilistica delle presunzioni semplici (art. 2729 c.c.). Da un lato, si esclude, su un piano generale, che il giudice possa fondare il proprio convincimento soltanto su elementi di natura indiziaria; dall’altro, si ammette che, ove gli indizi — intesi nel loro organico complesso — rispondano a determinati requisiti (gravità, precisione e concordanza), essi assumano valore di piena prova ai fini della decisione (4). Il terzo comma, nello stabilire che « le dichiarazioni rese Concetto di prova e regime di utilizzazione degli atti nel nuovo codice di procedura penale, in Foro it., 1989, V, c. 275; nonché G. DE LUCA, Cultura della prova e nuovo costume giudiziario, in AA.VV., Il nuovo processo penale dalla codificazione all’attuazione, Milano, 1991, p. 21 e sgg. (3) Si veda, sul punto, E. AMODIO, Il modello accusatorio nel nuovo codice di procedura penale, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da E. AMODIO - O. DOMINIONI, vol. I, Milano, 1989, XLVII: « Nell’Europa continentale, in epoca moderna, nessun legislatore prima di quello italiano si era mai spinto così avanti nel tracciare gli itinerari di convincimento del giudice, ponendo barriere di portata tanto incisiva e rigorosa ». (4) L’intento, come si legge nella Relazione al progetto preliminare, è stato quello di introdurre « in una materia di così grande rilievo come quella investita dal giudizio penale (...) una regola che serva da freno nei confronti degli usi arbitrari e indiscriminati di elementi ai quali, sul piano logico, non è riconosciuta la stessa efficacia persuasiva delle prove » (cfr. Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in Gazzetta Ufficiale, 24 ottobre 1988, n. 250, suppl. ord. n. 2. p. 61) ». Nel previgente codice la mancanza di una disposizione analoga aveva dato luogo ad orientamenti giurisprudenziali contrastanti. Un primo indirizzo, facendo leva su una concezione del libero convincimento secondo la quale nessun limite sarebbe imposto al giudice circa il valore da attribuire agli elementi sottoposti al suo apprezzamento, negava la necessità di operare una distinzione tra indizi e prove sotto il profilo dell’efficacia probatoria (Cfr. per tutte, Cass. sez. V, 25 febbraio 1989, Asero, in Foro it. 1989, II, c. 525). In un’ottica completamente diversa, un altro filone giurisprudenziale aveva invece stabilito che per fondare un giudizio di responsabilità, gli indizi dovessero rispondere a determinati requisiti, quali, appunto, quello della gravità, della precisione e della concordanza (Cfr. ad esempio, Cass., sez. V, 30 gennaio 1976 Puccetti, in Cass. pen., 1977, p. 433, n. 567; Id. sez. 1, 14 ottobre 1975, Amabile, ivi, 1976, p. 1274, n. 1644; Id. sez. I, 5 maggio 1955, Andreoli, in questa Rivista, 1955, p. 622). Questo orientamento è stato pressoché fedelmente recepito dal legislatore del 1988, il quale ha inserito la disciplina degli indizi all’interno del libro terzo, dedicato alle prove, ma, al contempo, ne ha evidenziato la minore affidabilità rispetto alla prova storica. Con specifico riferimento ai parametri di utilizzabilità della prova indiziaria fissati dall’art. 192, comma 2 c.p.p., va innanzitutto rilevato che si deve trattare di una pluralità di indizi e di una effettiva pluralità di indizi, basata su distinte circostanze indizianti, e non di indizi combinati tra di loro secondo un doppio o triplo « passaggio » inferenziale: è questo il caso dell’« indizio mediato », dell’indizio, cioè, « che discende da un altro indizio » (Così, D. SIRACUSANO, op. cit., p. 10; nonché, G. BELLAVISTA, voce Indizi, in Enc. dir., vol. XXI, Milano, 1971, p. 229; G. BETOCCHI, Libero convincimento, prova, indizio: verifica giurisprudenziale, in questa Rivista, 1978, p. 721; A. NAPPI, Libero convincimento, regole di esclusione, regole di assunzione, in Cass. pen., 1991, p. 1522, n. 1167. In senso critico, A.A. SAMMARCO, Sui requisiti della prova indiziaria nella nuova disciplina processuale penale, in Giust. pen., 1991, III, c. 276, secondo il quale il requisito della pluralità degli indizi sarebbe una circostanza del tutto eventuale: « l’indizio unico, purché grave e preciso consente la decisione sul tema di prova »; U. FERRANTE, Gli indizi nel nuovo codice di procedura penale, in Giur. merito, 1991, p. 121. In giurisprudenza, cfr. Sez. un. 3 febbraio 1990, Belli, in Foro it., 1990, II, c. 303; Cass., sez. I, 23 settembre 1987, Minghetti, in Riv. pen., 1988, p. 651; Id., sez. I, 13 novembre 1985, Giannone, ivi, 1986, p. 1002; Id., sez. IV, 29 ottobre 1985, Bagarella, in Cass. pen., 1987, p. 1430; Id., sez. IV, 20 aprile 1984, Montesanto, in Riv. pen., 1984, p.


— 1149 — dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità », esclude che una chiamata in correità possa assurgere da sola a prova del fatto, ammettendone tuttavia l’utilizzazione ai fini decisori, ove la stessa superi la verifica del riscontro (5). Com’è noto, il problema relativo all’applicabilità dell’art. 192 nella valutazione dei « gravi indizi di colpevolezza » richiesti ai fini delle decisioni in materia di misure cautelari personali, ha costituito, fin dai primi tempi di vigenza del codice di procedura penale del 1988, oggetto di ampio dibattito. Mentre la dottrina maggioritaria e parte della giurisprudenza ritengono che il ricorso alle disposizioni generali sulla prova — e quindi all’art. 192 — si imponga 1091). I vari indizi, poi, ai fini di un corretto giudizio, devono essere sottoposti ad un duplice vaglio: in primo luogo occorre verificare se questi corrispondano ai requisiti della gravità e precisione. Gravi sono gli indizi consistenti, cioè resistenti alle obiezioni e, quindi, attendibili e convincenti; precisi sono quelli non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile, perciò non equivoci. Una volta verificata la piena rispondenza ab intrinseco, si deve passare al momento metodologico successivo costituito dall’esame della concordanza. La verifica di questo requisito postula una valutazione unitaria e globale delle circostanze indizianti; la pluralità degli indizi, infatti, non basta: occorre che fra i medesimi si stabilisca un collegamento « non occasionale », ed occorre, soprattutto che « l’operazione logica della coordinazione globale degli indizi nasca dalla loro oggettiva confluenza in un’unica direzione ». Concordanti si possono definire, perciò, gli indizi che risultino tutti compatibili con una medesima ipotesi di ricostruzione del fatto, non contrastando fra di loro e più ancora con altri dati od elementi certi (Cfr., in dottrina, tra gli altri, F. CORDERO, Procedura penale,, VIII ed., Milano, 1985, p. 976; V. GIANTURCO, La prova indiziaria, Milano, 1958, p. 70 e ss; N. LAURO, Note in tema di prova indiziaria e presunzioni, in questa Rivista, 1980, p. 1424; S. SAU, Libero convincimento e criteri metodologici di valutazione degli indizi ai fini della decisione di condanna, in Giur. it., II, 1994, c. 434; M. TARUFFO, Note per una riforma del diritto delle prove, in Riv. dir. proc., 1986, p. 280; e, tra la più recente giurisprudenza, Cass., sez. I, 20 ottobre 1994, Oliveri, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 709; Id., sez. IV, 25 gennaio 1993, Bianchi, in Arch. n. proc. pen., 1993, p. 648; Id., sez. I, 24 giugno 1992, Re, ivi, 1992, p. 172; Id., sez. IV, 25 marzo 1992, Di Giorgio, ivi, 1992, p. 804). (5) II riscontro può essere definito come la susssistenza di elementi che dimostrano la credibilità della chiamata stessa (G. BARONE, Il riscontro della chiamata in correità: un’analisi giurisprudenziale, in Cass. pen., 1986, p. 1039; A. MELCHIONDA, La chiamata di correo, in questa Rivista, 1967, p. 148 e ss.). Esso è scomponibile in due sottocategorie: il riscontro intrinseco che indica l’attendibilità interna della chiamata di correo, cioè la credibilità del suo contenuto in base alla valutazione di determinati criteri (precisione, verosomiglianza, spontaneità e costanza), e il riscontro estrinseco che indica l’esistenza di risultanze processuali oggettivamente distinte dalla chiamata in correità, che ne confermano il contenuto (cfr., sul punto, A.A. SAMMARCO, La chiamata di correo. Profili storici e spunti interpretativi, Padova, 1990, p. 82 e ss.). L’esigenza che ogni dichiarazione accusatoria fosse sorretta da riscontri era già stata riconosciuta durante la vigenza del codice del 1930: tuttavia l’ambiguità della disciplina relativa aveva dato luogo a contrasti giurisprudenziali. Un primo indirizzo, muovendo dalla considerazione che la chiamata in correità fosse una fonte di prova in sé sospetta, la considerava non come prova piena, ma come semplice indizio (probatio levior): di qui la necessità di integrare la sua imperfetta capacità dimostrativa con elementi di riscontro non solo intrinseci, ma anche estrinseci alla dichiarazione medesima (testimonianze, prove reali, ricognizioni, o, anche, ulteriori chiamate: cfr. fra le tante, Cass., sez. I, 7 dicembre 1987, Rodano, in Giust. pen., 1989, III, c. 127; Id., sez. II, 2 ottobre 1987, Bernardo, ivi, 1988, III, c. 561, m. 452; Id., sez. I, 13 giugno 1987, Tortora ed altri, ivi, 1989, III, c. 199). Sempre all’interno di questo orientamento si discuteva se l’elemento di controllo e di conferma dovesse essere esclusivamente di natura oggettiva — prove reali (cose sequestrate), ricognizioni e circostanze indiziarie —, o potesse anche essere individuato in un’altra chiamata di correo o in una testimonianza (riscontro estrinseco di natura soggettiva). Un altro filone giurisprudenziale, invece, attribuiva piena efficacia probatoria alla chiamata di correo, reputando sufficiente a fondare una sentenza di condanna il solo riscontro intrinseco delle dichiarazioni accusatorie del coimputato: sarebbe bastato che il giudice spiegasse sul piano logico e psicologico le ragioni del proprio convincimento circa l’attendibilità e la credibilità della chiamata (cfr. Cass., sez. VI, 12 marzo 1987, Castagliuolo, in Giust. pen., 1988, III c. 187, m. 133; Id., sez. VI, 16 gennaio 1987, Misculin, ivi, 1987, III, c. 689, m. 574; Id., sez. V, 25 gennaio 1983, Bravi, in Riv. pen., 1983, p. 780). La diversità delle soluzioni adottate era stata mediata da una sentenza con la quale la Corte di cassazione, a sezioni unite, da un lato aveva escluso l’esistenza di una presunzione d’inattendibilità e di sospetto nei confronti di determinate categorie di soggetti, come quella dei « pentiti » o dei « confidenti », ma dall’altro, aveva affermato il principio — poi seguito dal legislatore del 1988 — secondo cui l’efficacia probante della chiamata andava desunta non solo da elementi intrinseci di riscontro, ma anche da elementi esterni alla chiamata (Sez. un., 18 febbraio 1988, Rabito ed altri, in Cass. pen., 1988, p. 1343).


— 1150 — anche nella fase delle indagini preliminari, ed in particolare tutte le volte in cui il giudice sia chiamato ad intervenire nell’adempimento della sua tipica funzione di organo di garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali (6), un altro orientamento, su cui si attesta la prevalente giurisprudenza sostiene che detta norma è applicabile solo alle prove in senso stretto, e cioè agli elementi che il giudice può utilizzare per la decisione dibattimentale sulla responsabilità dell’imputato (7). È proprio a quest’ultimo indirizzo cui le Sezioni unite aderiscono. L’inapplicabilità delle prescrizioni fissate dall’art. 192 c.p.p. in ambito cautelare discenderebbe, secondo la Corte, da una serie di considerazioni. Dopo avere osservato che il primo comma di detto articolo non può riguardare le ordinanze impositive delle misure cautelari, poiché la motivazione di questi provvedimenti è specificatamente disciplinata dall’art. 292 c.p.p., e che il secondo comma prescrivendo « un criterio di valutazione diretto a verificare il sicuro accadimento di fatti giuridicamente rilevanti » integra « il presupposto necessario del giudizio di responsabilità ma non anche dell’applicazione delle misure cautelari fondate soltanto sulla sussistenza di una qualificata probabilità di colpevolezza », i giudici di legittimità arrivano alla conclusione che, « in assenza di un elemento testuale contrario, lo stesso ambito applicativo dei primi due commi deve essere riconosciuto anche al terzo ed al quarto comma, (...) posto che queste due ultime norme sono state inserite nel medesimo articolo, subito dopo la disciplina sugli indizi ». 2. La posizione assunta dalla Corte non appare convincente e richiede alcune precisazioni. Ora, premesso che il primo comma dell’art. 192 c.p.p. enuncia un principio generale di razionalità cui devono ispirarsi tutti i provvedimenti giurisdizionali, e rispetto al quale l’art. 292 c.p.p. dettato in tema di misure cautelari non può che rappresentare una diretta applicazione, è con riferimento alla disciplina degli indizi e a quella della chiamata in correità che occorre fare particolare attenzione. Il problema relativo all’incidenza del secondo comma dell’art. 192 c.p.p. in ambito cautelare si incentra sul raffronto con la nozione di « gravi indizi » richiamata dall’art. 273, comma 1, c.p.p. Si può invero osservare che qui il termine indizio ha un significato non del tutto coincidente con quello di prova critica (o logica) che deve ricavarsi dall’art. 192, comma 2, c.p.p. (8). Nell’art. 273, comma 1, l’uso del termine « indizio » si giustifica con la volontà del legislatore di differenziare lo stadio procedimentale da quello processuale anche con riguardo alle caratteristiche degli elementi probatori propri di cia(6) In tal senso, M. CHIAVARIO, Commento all’art. 273, in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura dello stesso Autore, vol. III, Torino, 1990, p. 32, nota 9; A. GAITO, La valutazione della prova de libertate, in Il giusto processo, 1991, p. 142; V. GREVI, Prove, in Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. CONSO - V. GREVI, III ed., Padova, 1993, p. 193; M. NOBILI, La nuova procedura penale, Bologna, 1990, p. 164. (7) Cfr., fra le tante, Cass., sez. I, 8 luglio 1994, Lo Cascio, in Cass. pen., 1995, p. 2962, n. 1773; Id., sez. I, 18 gennaio 1994, Carelli, in Giust. pen., 1994, III, c. 396; Id., sez. VI, 3 settembre 1992, Oliva, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 320; Id., sez. VI, 19 febbraio 1992, Papale, ivi, 1993, p. 147; Id., sez. fer., 3 settembre 1991, Tartaglia, in Giur. it., 1992, II, c. 270, con nota di A. SANNA, Parametri di valutazione della prova e riesame delle misure cautelari; Id., sez. fer., 28 agosto 1991, Romano, ivi, 1993, II, c. 622, con nota di G. GARUTI, La « gravità » degli indizi nei provvedimenti de libertate; Id., sez. fer., 27 agosto 1991, Gusmerini, in Cass. pen., 1992, p. 698, n. 372, con nota di S. RAMAJOLI, I « gravi » indizi di colpevolezza e l’adozione di misure cautelari personali; Id., sez. VI, 15 gennaio 1991, Dresia, ivi, 1991, p. 628; Id., sez. V, 12 ottobre 1990, Covelli, ivi, p. 467. (8) Com’è noto, tale prova si differenzia da quella storica (o rappresentativa) perché non rappresenta direttamente il thema probandum, bensì un altro fatto, dal quale il giudice può risalire al primo attraverso un’operazione mentale di tipo induttivo, fondata sulle regole della logica o su massime d’esperienza.


— 1151 — scun momento. Come la stessa giurisprudenza ha avuto modo di sottolineare, il termine indizi ha significato e valore diversi a seconda che con esso ci si riferisca agli elementi di prova necessari e sufficienti per affermare la responsabilità di un imputato in ordine ai reati allo stesso ascritti, ovvero a quelli legittimanti una misura cautelare coercitiva (9): la diversità di contenuto dell’art. 273 rispetto all’art. 192, comma 2, riflette la distinzione tra il concetto di indizio quale schema logicosillogistico (prova critica) o quale elemento probatorio di minore pregnanza, elevato, nella materia cautelare, a condizione di ogni intervento restrittivo sulla libertà personale. Con i « gravi indizi », ex art. 273, si allude quindi non ad una particolare tipologia di prova (ben potendo le misure coercitive fondarsi tanto su prove dirette quanto su prove critiche), ma solo al grado della loro efficacia persuasiva che, pur elevato, non implica l’evidenza richiesta per la pronuncia di condanna (10). L’elemento caratterizzante l’indizio, insomma, nel significato attribuito dall’art. 273 c.p.p. consiste essenzialmente nel carattere di « provvisorietà » ed « incompletezza » del risultato cui consente di pervenire nel momento in cui si pone un’esigenza cautelare. In questa prospettiva, la differenza tra indizio e prova va individuata in relazione allo stato dell’indagine, che è incompleta, e quindi indiziante, in un caso, e completa, quindi probante, nell’altro (11). Peraltro, la circostanza che l’art. 273 c.p.p. descriva in termini di minore persuasività la piattaforma probatoria necessaria per l’adozione di misure cautelari, non esclude la necessità di fare riferimento all’art. 192 c.p.p. per individuare la natura e il peso degli elementi probatori di cui si dispone. Come giustamente è stato osservato, l’impostazione più corretta, al fine di risolvere la questione dei limiti di incidenza delle disposizioni generali in tema di prova sull’intero arco del procedimento, consiste nel verificare se nella disciplina della specifica fase e dello specifico provvedimento non si individuino deroghe espresse o profili di oggettiva incompatibilità rispetto alle scelte operate negli artt. 187 ss. c.p.p. (12). Ora, proprio rifacendosi a questo principio metodologico le Sezioni Unite sottolineano l’esistenza in sede di indagini preliminari di tutta una serie di norme (cfr. artt. 292, comma 2 lett. c; 384, 273; 274 e 267 c.p.p.) le quali, « richiedendo secondo i casi, la gravità o la sufficienza degli indizi, nonché la concretezza e la specificità dei fatti dai quali vanno desunte le esigenze cautelari », detterebbero specifici « criteri di valutazione cui il g.i.p. deve attenersi nell’adottare i provvedimenti riservatigli » in detta fase. Peraltro, non si può fare a meno di rilevare come, in realtà, queste disposizioni non indichino dei veri e propri « criteri » ossia dei canoni razionali cui debba (9) Cass., sez. I, 22 giugno 1992, Bono ed altri, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 147, ove si precisa che, nel primo caso, « per indizi debbono intendersi le prove cosiddette logiche o indirette, attraverso le quali da un fatto certo si risale, per massime di comune esperienza, ad uno incerto, mentre nel secondo caso la parola indizi fa riferimento anche alle prove cosiddette dirette, le quali, al pari di quelle indirette, debbono essere tali da fare apparire probabile la responsabilità dell’indagato in ordine al fatto o ai fatti per i quali si procede ». Analogamente, Cass., sez. VI, 3 settembre 1992, cit.; Id., sez. fer., 28 luglio 1992, Quarticelli, in Giust. pen., 1992, III, c. 575, m. 175; Id., sez. fer. 27 agosto 1991, Romano, cit.; Id., sez. I, 5 luglio 1990, De Rosa, in Cass. pen., 1991, II, p. 504, n. 159; Id., sez. I, 23 aprile 1990, Coppolino, ivi, 1991, II, p. 505. (10) P. FERRUA, La testimonianza nell’evoluzione del processo penale italiano, in Studi sul processo penale, vol. II, Torino, 1992, p. 92. (11) M. CHIAVARIO, Commento all’art. 273, cit., p. 32; G. GARUTI, op. cit., c. 627; E. MARZADURI, Misure cautelari personali (principi generali e disciplina), in Dig. disc. pen., vol. VIII, Torino, 1990, p. 64 s. (12) E. MARZADURI, op. cit., p. 66; nello stesso ordine di idee, V. GREVI, op. cit., p. 164; M. NOBILI, Il « diritto delle prove » ed un rinnovato concetto di prova, in Commento al nuovo codice, cit., p. 387 s. Cfr. anche Relazione al progetto preliminare del codice, cit. p. 159.


— 1152 — essere impostata l’attività valutativa, ma si limitino ad enunciare una serie di « presupposti » dalla cui esistenza e fondatezza deriva il conseguimento di un certo risultato (13). Non deve quindi trarre in inganno la circostanza — richiamata dalla Corte nella sentenza in epigrafe — che l’art. 273, comma 1, indichi come condizione indispensabile per l’adozione di misure coercitive l’esistenza di indizi gravi, e soltanto gravi, sottacendo gli ulteriori caratteri di precisione e di concordanza richiesti dall’art. 192, comma 2 (14). Con riguardo a questo specifico punto, va inoltre osservato che se gli indizi ex art. 273 c.p.p. devono essere idonei non a dare la certezza della responsabilità della persona sottoposta ad indagini, bensì a dimostrare la ragionevole probabilità che quella persona abbia commesso un certo reato (15), il requisito della gravità individua comunque un livello particolarmente affidabile della prognosi di condanna operata sulla base del materiale probatorio sino a quel momento acquisito: prognosi non obiettivamente ipotizzabile a fronte di elementi indiziari gravi, ma equivoci o discordanti (16). Ne discende che la regola di giudizio contenuta nel secondo comma dell’art. 192 c.p.p. deve ritenersi operante anche in ambito cautelare, ovviamente nella misura in cui il provvedimento de libertate si regga su elementi di prova di tipo logico. Analoga conclusione può essere avanzata rispetto alla prescrizione di valutare le dichiarazioni rese dal coimputato o da un soggetto a lui equiparato « unitamente agli altri elementi che ne confermano l’attendibilità ». Come la stessa Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale ha sottolineato, il terzo comma dell’art. 192 è stato dettato dalla « necessità di circondare di maggiori cautele il ricorso ad una prova, come quella proveniente da chi è coinvolto negli stessi fatti addebitati all’imputato, alla luce della sua attitudine ad ingenerare un erroneo convincimento giudiziale » (17). Il legislatore ha quindi voluto introdurre una sorta di « presunzione relativa di inattendibi(13) Ad esempio, l’art. 273 comma 1 c.p.p. esclude che un individuo possa essere sottoposto a misure cautelari « se... non sussistono gravi indizi di colpevolezza », mentre le stesse misure « sono disposte. .. quando. .. » (art. 274 c.p.p.); ancora, l’organo giurisdizionale autorizza le intercettazioni « quando vi sono » indizi di reato « gravi » (art. 267, comma 1 c.p.p.) o « sufficienti » (nell’ipotesi di indagini relative a delitti di criminalità organizzata); l’art. 384 c.p.p., infine regola il fermo della persona gravemente indiziata di un delitto « quando sussistono specifici elementi ». Così, S. BUZZELLI, Chiamata in correità ed indizi di colpevolezza ai fini delle misure cautelari nell’insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in Cass. pen., 1995, p. 2847, n. 1681, la quale precisa: « qualcosa del genere è, forse, reperibile nel solo art. 292 c.p.p., interpolato dalle recenti modifiche in tema di misure cautelari e diritto di difesa. La norma interferisce, indubbiamente, con l’art. 192 comma 1 c.p.p. che specifica in termini penetranti il dovere di motivare incombente sul giudice: ma il fenomeno dell’interferenza non è detto debba condurre all’elisione, preludendo, talvolta, alla possibile sommatoria di due elementi — nel nostro caso, l’art. 292 e il comma 1 dell’art. 192 c.p.p. — che vengono sovrapposti ». (14) È quanto sottolinea anche, Cass., sez. I, 2 marzo 1992, Di Palma, in Arch. nuova proc. pen., 1992, p. 620. Nel medesimo senso, Cass., sez. I, 2 marzo 1991, Belleri, ivi, 1991, p. 131; Id., sez. II, 8 febbraio 1991, Ventura, in Cass. pen., 1992, p. 2160, n. 1173. Sulla base di tale interpretazione, parte della giurisprudenza ha asserito che l’emissione ed il mantenimento dei provvedimenti cautelari personali possono legittimamente fondarsi sulle sommarie informazioni rese alla polizia giudiziaria o sulle dichiarazioni de relato (cfr. Cass., sez. fer., 20 agosto 1991, Mercurio, in Cass. pen., 1992, p. 3098, n. 1648; Id., sez. VI, 17 maggio 1991, Scavuzzo, ivi, 1992, p. 1278, n. 62; Id., sez. I, 14 marzo 1990, Bartolomeo, ivi, 1990, II, p. 207, n. 82; Id., sez. II, 20 febbraio 1991, Ascione, ivi, 1992, p. 96, n. 75). (15) Cfr. Cass., sez. I, 3 marzo 1993, Marras, in Cass. pen., 1994, p. 2166, n. 1363; Id., sez. I, 23 aprile 1992, Montebello, ivi, 1993, p. 2348, con nota di F. LATTANZI, In tema di indizi richiesti per l’applicazione di misure cautelari; Id., sez. I, 30 maggio 1991, Birra, ivi, 1992, p. 1279. (16) Così, E. MARZADURI, op. cit., p. 66. Nel medesimo senso, M. CHIAVARIO, Commento all’art. 273, loc. cit., secondo cui le regole fissate dall’art. 292, comma 2 in punto di precisione e concordanza degli indizi devono ritenersi operative anche nel procedimento incidentale sulla libertà personale; nonché S. LORUSSO, Brevi considerazioni sull’applicabilità dell’art. 192, commi 3 e 4 c.p.p. nella valutazione dei « gravi indizi di colpevolezza » ex art. 273 c.p.p., in Cass. pen., 1995, p. 2956, n. 1772. (17) Relazione al progetto preliminare del codice, cit. loc. cit.


— 1153 — lità » (18), che, correlata al tipo di fonte coinvolta, proprio nella potenziale inaffidabilità della stessa rinviene la sua ragion d’essere. Se così è, non può disconoscersi l’operatività della norma ogniqualvolta il giudice sia investito di una valutazione nel merito e, di riflesso, in tutti i casi in cui, quale che sia la fase processuale, si imponga l’emissione di provvedimenti giurisdizionali implicanti una motivazione in fatto (19). Ora è interessante notare come le Sezioni unite, pur escludendo (in base ad una lettura sistematica della norma) l’applicabilità del terzo comma dell’art. 192 c.p.p. in ambito cautelare, finiscano comunque per rifarsi a quei criteri valutativi: il dubbio sull’assoluto disinteresse della chiamata — si afferma — giustifica la massima di esperienza che tale chiamata, diversamente dalla testimonianza, non può in nessun caso integrare, di per sé sola, un grave indizio di colpevolezza ove non sia corroborata da riscontri estrinseci idonei a suffragarne l’attendibilità. L’importanza della decisione sta proprio in questa constatazione: che la chiamata in correità, anche solo per assumere il ruolo di grave indizio, ex art. 273 c.p.p., deve superare la verifica sotto il duplice profilo dell’attendibilità intrinseca (nel senso cioè che il giudice è tenuto ad apprezzarne la precisione, la coerenza interna e la ragionevolezza, nonché ad individuare il grado di interesse dell’autore per la specifica accusa, alla stregua della sua personalità e dei motivi che lo hanno indotto a coinvolgere l’indagato), e dell’attendibilità estrinseca. Risulta così definitivamente superato l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, ai fini dell’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale, la chiamata di correo della quale sia stata motivatamente dimostrata la sicura attendibilità, sarebbe idonea ad integrare i gravi indizi di colpevolezza a carico della persona che il chiamante abbia indicato come concorrente nel reato da sola e senza la necessità di riscontri di qualsiasi genere (20). 3. Da queste premesse, le Sezioni Unite fanno discendere conseguenze solo in parte condivisibili. In particolare, vi sono due punti della decisione che meritano di essere approfonditi. In primo luogo, la Corte si preoccupa di chiarire in che cosa consista la verifica dell’attendibilità estrinseca, richiedendo al giudice un duplice ordine di valutazioni: il primo, di tipo negativo, riguardante l’assenza di elementi obiettivi che smentiscano le dichiarazioni accusatorie; il secondo, di tipo positivo, riguardante la sussistenza di riscontri di conferma alla chiamata che, pur potendo essere di qualsivoglia natura — rappresentativi o logici —, siano però dotati di consistenza tale da resistere agli elementi di segno opposto eventualmente dedotti dall’accusato. (18) V. GREVI, Le « dichiarazioni rese dal coimputato » nel nuovo codice di procedura penale, in Chiamata in correità e psicologia del pentitismo nel nuovo processo penale, a cura di L. DE CATALDO NEUBURGER, Padova, 1992, p. 33. (19) Così, testualmente, F. PERONI, Chiamate di correo, dichiarazioni de relato e standards di gravità indiziaria nell’adozione di misure cautelari, in Cass. pen., 1994, n. 410, p. 680. Nello stesso senso, L.P. COMOGLIO, Prove ed accertamento dei fatti nel nuovo c.p.p., in questa Rivista, 1990, p. 144; A. GAITO, op. cit., p. 142; A. NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, IV ed., Milano, 1995, p. 133. Nel senso che « le norme del libro sulle prove (...) debbano applicarsi nelle fasi anteriori al dibattimento, con riferimento ai diversi momenti in cui — nell’arco di tali fasi — è previsto l’intervento del giudice, ora in funzione di organo di garanzia, ora in funzione di organo di decisione, anche sul merito », V. GREVI, Prove, cit., p. 194. (20) Cass., sez. I, 2 dicembre 1994, Verde, in Arch. nuova proc. pen., 1995, p. 692; Id., sez. fer., 4 agosto 1993, Vincenti, in Cass. pen., 1995, p. 2152, n. 1346; Id., sez. fer., 28 luglio 1993, Settineri, in Arch. nuova proc. pen., 1994, p. 116; Id., sez. III, 26 luglio 1993, Basile, in Giust. pen., 1993, III, c. 694; Id., sez. V, 1 marzo 1993, Lai, in Cass. pen., 1995, p. 335, n. 269, con nota adesiva di E. SQUARCIA, Chiamata in correità e indizi cautelari; Id., sez. VI, 18 gennaio 1993, Bono ed altro, in Foro it., 1993, II, 337; Id., sez. fer., 3 settembre 1992, Marra, in Giust. pen., 1992, III, c. 653; Id., sez. VI, 7 luglio 1992, Di Pietrangelo, in Cass. pen., 1993, p. 677, n. 408; Id., sez. I, 4 novembre 1991, Mazzocchi, in Cass. pen., 1993, p. 604; Id., sez. I, 27 marzo 1991, Matina, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 413.


— 1154 — Sotto quest’ultimo profilo va ricordato come già in precedenza le Sezioni unite abbiano affrontato la questione relativa all’individuazione degli « altri elementi » idonei a confermare l’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie, limitandosi a dichiarare che non essendo essi predeterminati nella specie e nella qualità potevano essere, in via generale, di qualsiasi tipo e natura (21). L’affermazione risulta ambigua nella misura in cui non consente di stabilire con certezza gli elementi « tipici » idonei a suffragare la chiamata. Si è quindi finito col riconoscere valore di elementi di riscontro alle chiamate plurime o « convergenti » (aventi identico contenuto e soggetto passivo) (22), nonché a ritenere che una pluralità di dichiarazioni di coimputati tutte coincidenti in ordine alla commissione del fatto oggetto di imputazione, sia in grado di legittimare, nella valutazione unitaria degli altri elementi di prova, l’affermazione di responsabilità a carico del chiamato in corretà (23), Nella medesima prospettiva è stato affermato che gli elementi integratori possano essere anche di natura logica, « purché riconducibili a fatti esterni alle dichiarazioni accusatorie » (24). Così, nell’ipotesi di una dichiarazione d’accusa nei confronti di più persone, la confessione resa da uno dei chiamanti è stata ritenuta utilizzabile ai fini di una valutazione complessiva sull’attendibilità della dichiarazione, e idonea, quindi, a costituire valido elemento di riscontro nei confronti di tutti i chiamati (25). Questo orientamento, cui aderisce anche la sentenza in epigrafe conduce a conclusioni inaccettabili sotto il profilo delle garanzie costituzionali. È evidente infatti che legittimare un giudizio di condanna — o di probabile colpevolezza ex art. 273 c.p.p. — sulla base di una chiamata non suffragata da riscontri positivi significa porre a carico dell’imputato l’onere di provare la propria innocenza, in palese contrasto con la presunzione sancita dall’art. 27, comma 2, Cost. (26). Peraltro, nella posizione assunta dalle Sezioni Unite vi è un segnale importante nell’ottica di un « temperamento » di queste forme di « autarchia valutativa » (27), che merita di essere sottolineato. Nel prevedere un tipo di verifica più articolato, la sentenza in esame sembra orientarsi nella medesima prospettiva di rafforzamento delle garanzie che ha ispirato le recenti modifiche sulla normativa in tema di custodia cautelare introdotte dalla legge 8 agosto 1995, n. 332. Vanno richiamati, in particolare, gli artt. 291 e 292 c.p.p.: il primo, laddove impone al (21) Sez. un., 3 febbraio 1990, Belli, cit. Nella stessa direzione, Cass., sez. I, 13 aprile 1992, Procopio, in Arch. n. proc. pen., 1993, p. 171; Id., sez. I, 23 aprile 1992, Tommaselli, ivi, 1992, p. 803; Id., sez. I, 1 aprile 1992, Bruno, in Giur. it., 1993, II, c. 46; Id., sez. I, 19 aprile 1991, Riccardi, in Cass. pen., 1993, p. 908, n. 561. (22) Cass., sez. V, 24 gennaio 1991, Poli, in Cass. pen., 1991, II, p. 867, n. 310; Id., sez. VI, 15 giugno 1990, Trotta, in Giust. pen., 1991, III, c. 184; Id., sez. V, 28 maggio 1990, Moschetti, in Arch. n. proc. pen., 1991, p. 292. (23) Così, per tutte, Cass., sez. VI, 23 luglio 1992, Rimi, in Riv. pen., 1993, p. 595. (24) Cass., sez. VI, 23 aprile 1992, Sormani, in Arch. n. proc. pen., 1992, p. 802; Id., sez. VI, 11 gennaio 1991, Teresi, in Cass. pen., 1991, II, p. 983; Id., sez. VI, 15 giugno 1990, Castello, ivi, 1991, I, p. 868; Id., sez. VI, 9 marzo 1990, Furlanetto, in Arch. n. proc. pen., 1991, p. 129. (25) Cass., sez. V, 2 marzo 1990, Achilli, in Cass. pen., 1990, II, p. 211, n. 84. Nello stesso senso, Cass., sez. I, 6 febbraio 1992, Baraldi, in Cass. pen., 1993, p. 1738; Id., sez. V, 9 marzo 1991, Memmo, ivi, 1992, p. 2794, n. 1485; Id., sez. V, 28 maggio 1990, Moschetti, cit. (26) Va, sul punto, osservato che la presunzione d’innocenza cui si riconduce la disposizione citata, assume significati diversi a seconda che essa sia riferita alla regola probatoria e di giudizio ovvero a quella di trattamento dell’imputato nel corso del processo. Nel primo significato la presunzione d’innocenza si collega, in particolare alle tecniche di accertamento del fatto: essa induce ad escludere qualsiasi onere probatorio a carico dell’imputato e si risolve nella regola in dubio pro reo. Nel secondo senso la presunzione vale ad impedire che la persona oggetto di indagini sia trattata nel processo come un colpevole e, quindi, sottoposta a trattamenti punitivi. (Sul punto, si veda, G. ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, Bologna, 1979, p. 29). (27) È questa l’espressione usata da G. BOSCO, Sull’applicabilità dell’art. 192, comma 3 in materia di misure cautelari, in Crit. dir., 1994, n. 1, p. 109.


— 1155 — pubblico ministero di indicare, nella richiesta di applicazione delle misure cautelari non solo gli elementi a carico, ma anche « tutti gli elementi a favore dell’imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate »; il secondo, laddove impone al giudice, in sede di motivazione dell’ordinanza che dispone la misura, di indicare, oltre alle « specifiche esigenze cautelari e agli indizi che giustificano in concreto la misura », i « motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa ». Ora se la decisione può suscitare perplessità laddove, richiedendo di accertare la sussistenza o meno di elementi che smentiscano la chiamata, sembra « introdurre una sorta di prova negativa che si presenta sempre ardua (...) e non facilmente praticabile » (28), essa va apprezzata proprio nella misura in cui, nel rendere più stringente l’obbligo di motivazione da parte del giudice, tende a scongiurare un utilizzo disinvolto delle chiamate in correità ai fini dell’adozione di provvedimenti limitativi della libertà personale. L’altro punto della sentenza sul quale conviene soffermarsi è quello relativo alle modalità di verifica degli elementi di riscontro. Il problema era già stato oggetto di controversia. Secondo l’orientamento seguito in prevalenza dalla prima Sezione penale, gli elementi probatori di conferma della chiamata in correità dovevano riguardare « direttamente la persona dell’incolpato », in relazione « allo specifico fatto » oggetto dell’imputazione (29). In questa prospettiva, veniva ritenuto insufficiente il riscontro che concernesse il solo fatto di reato nei suoi estremi oggettivi (30), mentre, in caso di chiamata plurima, si richiedeva che gli elementi di conferma venissero individuati in relazione a ciascun fatto e a ciascun accusato, non reputandosi sufficiente che le accuse trovassero conferma con riguardo a un singolo coimputato o a un singolo episodio criminoso. Con particolare riferimento al campo cautelare, per potere affermare che si era in presenza di gravi indizi di colpevolezza si richiedeva che le chiamate in correità fossero corroborate quanto meno da un principio di riscontro individualizzato, « dotato, cioè, almeno in nuce degli elementi caratteristici e indefettibili del riscontro vero e proprio » (31) di cui all’art. 192, comma 3 c.p.p., il quale doveva consistere in un dato « univocamente interpretabile come conferma dell’accusa » (32). Diametralmente opposta la linea interpretativa suggerita dalla sesta Sezione, nell’ammettere la sufficienza di un riscontro generalizzato (33), avente per og(28) V. PATALANO, L’attendibilità delle dichiarazioni dell’indagato deve essere accompagnata da elementi estrinseci, in Guida al diritto, 7 ottobre 1995 pp. 76-77. (29) Cass., sez. I, 30 gennaio 1992, Abbate ed altri, in Foro it., 1993, II, c. 15; Id., sez. I, 24 ottobre 1990, Fronza, in Giust. pen., 1991, III, c. 184, n. 50; Id., sez. I, 15 ottobre 1990, Batani, in Arch. n. proc. pen., 1991, p. 466; Id., sez. I, 30 aprile 1991, Lucchese, ivi, 1991, p. 128; Id., sez. I, 19 febbraio 1990, Pesce, in Cass. pen., 1991, II, p. 42, n. 14. (30) Come giustamente si osservava, un simile riscontro avrebbe potuto costituire, al più, la prova della partecipazione del chiamante all’episodio criminoso, ma certamente non anche la prova della partecipazione del chiamato: cfr. Cass., sez. I, 24 gennaio 1990, Linardi, in Cass. pen., 1990, II, p. 1110: « è necessario che la chiamata di correo trovi riscontro in altri elementi di prova che attengano alla persona del chiamato in correità. .. non essendo invece sufficienti quelli che confermino l’effettiva commissione del reato secondo le modalità riferite dall’incolpato, servendo questi esclusivamente per il giudizio positivo in ordine all’attendibilità intrinseca dell’accusa... È dunque inammissibile il seguente assioma: poiché è risultato vero che i delitti, di cui il chiamante in correità si è autoincolpato, si verificarono, deve ritenersi che a quelli partecipò colui che viene indicato come correo »; in prospettiva analoga, Cass., sez. I, 13 aprile 1992, Tommaselli, cit. (31) Cass., sez. I, 25 gennaio 1995, Maggiolini, in Arch. nuova proc. pen., 1995, p. 692. (32) Cass., sez. I, 7 dicembre 1994, Perri, in Arch. nuova proc. pen., 1995. p. 692; Id., sez. I, 27 settembre 1994, Mendolia, ivi, 1995, p. 693; Id., sez. I, 29 settembre 1991, De Cambio, in Giust. pen., 1992, III, 243; Id., sez. fer., 20 agosto 1991, Mercurio, cit.; Id., sez. I, 11 marzo 1991, Clemente, in Giur. it., 1991, II, c. 316. (33) Cass., sez. VI, 19 febbraio 1993, Fedele, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 810; Id., sez. VI, 27 gennaio 1993, Sciuto, ivi, 1993, p. 634; Id., sez. VI, 21 dicembre 1992, Roberti, ivi, 1993, p. 634; Id.,


— 1156 — getto la complessiva dichiarazione del coimputato e non ciascuno dei punti riferiti dal dichiarante. In quest’ottica, ai fini dell’applicazione di una misura cautelare, sarebbe bastato che la chiamata in correità, oltre a superare il vaglio critico relativo alla sua attendibilità intrinseca, fosse accompagnata da riscontri esterni anche indiretti, relativi cioè, non al contenuto della chiamata ma semplicemente alle circostanze di tempo, di luogo, e di persona nelle quali il collaborante fosse venuto a conoscenza dei fatti dichiarati (34). Le Sezioni unite, operando dal presupposto secondo il quale in ambito cautelare trova applicazione solamente l’art. 273 c.p.p., affermano la sufficienza di una conferma ab extrinseco della chiamata considerata nel suo complesso. Basterebbero, cioè, una serie di riscontri che per « numero, precisione e coerenza, siano idonei a confermare quantomeno le modalità obiettive del fatto descritte dal chiamante, in modo da allontanare, a livello indiziario, il sospetto che costui possa aver mentito ». Di conseguenza la valutazione complessiva della chiamata sarebbe in grado di sopperire all’aventuale mancanza di riscontri attinenti, in modo specifico, alla posizione soggettiva del chiamato. La conclusione cui perviene la Corte non ci sembra condividibile. Una cosa è la prova del fatto, altra è la prova o l’indizio che quel fatto sia stato commesso da una persona determinata: si tratta di due accertamenti assolutamente eterogenei, fra i quali non è possibile ravvisare reciprocità di valenza probatoria e neppure indiziante. È vero che, nell’assurgere a fondamento di una misura cautelare, il contributo indiziario offerto da una chiamata di correo non deve presentare lo stesso grado di coerenza interna e lo stesso corredo di elementi corroboranti richiesto ai fini dell’utilizzo del medesimo in chiave di vera e propria prova. Come si è visto, però, questo non significa che nell’ambito delle decisioni de libertate non ci si possa rifare ai parametri di valutazione codificati dall’art. 192, comma 3, c.p.p. Ciò, anzi, si impone tutte le volte in cui una corretta interpretazione della norma in parola consenta di impedire, anche in questa sede, prassi devianti. Ritenere sufficiente, ai fini dell’adozione di una cautela, un riscontro relativo al solo fatto delittuoso riferito dal coindagato, ma non anche alla persona dell’accusato e alla sua partecipazione al delitto, significa riproporre una forma di verifica condotta con tecniche elusive quali quelle imperniate sul cosiddetto « riscontro per traslazione », del tutto incompatibile con la presunzione di non colpevolezza (35). FRANCESCA MARIA MOLINARI Dottoranda in procedura penale nell’Università di Ferrara

sez. VI, 18 marzo 1992, Tardi, ivi, 1991, p. 456; Id., sez. VI, 7 febbraio 1991, Pino, ivi, 1991, p. 456; Id., sez. VI, 11 gennaio 1991, Teresi, cit.; Id., sez. VI, 28 maggio 1990, Moschetti, cit. (34) Cass., sez. VI, 26 ottobre 1994, Cutè, in Arch. nuova proc. pen., 1995, p. 691. (35) In tal senso, G. DI CHIARA, Nota a Cass., Sez. I, 30 gennaio 1992 Abbate e altri, in Foro it., 1993, II, c. 26; ID., Quali riscontri esterni per una sola chiamata in correità?, in Dir. pen. e proc., 1995, p. 843; F. PERONI, op. cit., p. 683; nonché, F.M. MOLINARI, La valutazione della chiamata di correo tra dubbi ed oscillazioni giurisprudenziali, in Giust. pen., 1992, 111, c. 336.


— 1157 — CASSAZIONE PENALE — Sez. Un. — 25 ottobre 1995, nn. 18, 19, 20, 21, 22 Pres. Lo Coco — Rel. Battisti P.M. (conf.) — Ric. P.M. in procedimenti Cardoni, Omenetti, Valeri, Solustri, Tupputi Richiesta di decreto penale di condanna — Giudice che ritenga la prova mancante, insufficiente o contraddittoria — Applicabilità del proscioglimento in merito — Esclusione — Restituzione degli atti al Pubblico Ministero a norma dell’art. 459 comma 3 — Necessità — Mancanza assoluta della prova della colpevolezza, prova non altrimenti acquisibile — Applicazione dell’art. 129 c.p.p. — Necessità. Il giudice, richiesto dal Pubblico Ministero dell’emissione del decreto penale di condanna, non può dare rilievo, ai fini previsti dall’art. 129 c.p.p., alla mancanza, alla insufficienza e alla contraddittorietà della prova della responsabilità dell’imputato, rilevando tali formule assolutorie solo in funzione di una pronuncia emessa all’esito del dibattimento — luogo naturale di formazione della prova — non essendo stata altrimenti la parte posta in condizione di dimostrare che era possibile colmare la mancanza, eliminare la contraddizione e superare la insufficienza. Deve, invece, applicare l’art. 129, comma 1, c.p.p. allorché le risultanze offrano la prova negativa della colpevolezza, nel senso radicale, della impossibilità assoluta di acquisire tale prova; in simili casi, nei quali il confine con le ipotesi previste dall’art. 129, comma 1, c.p.p. è davvero molto sottile, evidenti ragioni di economia processuale impongono che gli atti non vengano restituiti al Pubblico Ministero il quale ha, oltre tutto, la possibilità di ottenere una nuova riflessione sul tema proponendo ricorso per cassazione (1). (Omissis). — SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. — 1. Il giudice per le indagini preliminari della pretura di Ancona, con sentenza del 5 aprile 1994, a seguito di richiesta del p.m. di emissione di decreto penale di condanna, proscioglieva Simone Cardoni perché il fatto non sussiste dalla imputazione di aver partecipato, in un bar di Chiaravalle, il 21 dicembre 1993, al gioco d’azzardo del poker, ponendo in rilievo che, non esistendo alcuna prova del fine di lucro, previsto dall’art. 721 c.p. tra gli elementi essenziali del reato di cui all’art. 720 c.p., non poteva dirsi raggiunta la prova certa della sussistenza dell’illecito. 2. Ha proposto ricorso per cassazione il procuratore generale, indicato in epigrafe, deducendo « violazione dell’art. 129 c.p.p. ». Questa norma — rileva il ricorrente — può trovare applicazione in ogni stato e grado del processo solo quando gli atti offrono la prova positiva che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non è previsto dalla legge come reato o non costituisce reato o che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità, sicché deve escludersi che possa valere in una situazione processuale in cui la prova appare insufficiente e le parti hanno ancora la possibilità di colmare la insufficienza. Il procedimento per decreto, del resto, è strutturato in modo tale da garantire pienamente i diritti dell’imputato, il quale, ove ritenga le prove acquisite insuffi-


— 1158 — cienti per un giudizio di responsabilità quale quello sotteso al decreto penale, può proporre opposizione. Il giudice per le indagini preliminari, anticipando una possibile ragione di opposizione, si è posto, dunque, al di fuori dello schema del procedimento monitorio. 3. Il ricorso è stato assegnato alla terza sezione, la quale ha ravvisato l’opportunità di rimetterlo alle sezioni unite, a norma dell’art. 618 c.p.p., avendo rilevato un contrasto giurisprudenziale sulla possibilità, per il giudice delle indagini preliminari, richiesto dal p.m. di emissione di decreto penale, di pronunciare sentenza di proscioglimento soltanto a norma dell’art. 129 c.p.p., ovvero anche per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova ai sensi dell’art. 530, comma 2, del c.p.p. 4. Il primo presidente aggiunto ha disposto che il ricorso venisse trattato dalle sezioni unite. MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1. La terza sezione, nella sua ordinanza, ha posto bene in risalto i due indirizzi, enucleando gli argomenti addotti a sostegno dell’uno e dell’altro. a) Secondo il primo, il giudice per le indagini preliminari, che ritenga di non poter accogliere la richiesta del p.m. di emissione del decreto penale, non può fare altro che, come prevede l’art. 459, comma 3, c.p.p., restituire gli atti al p.m. oppure pronunciare sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p., norma — si sottolinea — in cui sono indicate determinate cause di non punibilità che il giudice, ove ne riconosca l’esistenza, deve dichiarare di ufficio in ogni stato e grado del processo, cause di non punibilità che non comprendono la mancanza, la insufficienza e la contraddittorietà della prova. Soltanto con la sentenza che conclude il dibattimento, nel quale la prova si è formata, è possibile, ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p., pronunciare sentenza di proscioglimento per mancanza, insufficienza e contraddittorietà della prova: è soltanto questa norma, e non la norma dell’art. 129 c.p.p., che equipara espressamente la mancanza, la contraddittorietà e la insufficienza della prova all’esistenza della prova positiva (Cass. sez. III, 30 luglio 1994, n. 2186; sez. I, 31 marzo 1994, n. 150; sez. I, 30 giugno 1993, n. 580; sez. I, 17 ottobre 1991, n. 3431). b) È la stessa terza sezione che, con la sentenza del 25 febbraio 1995, n. 59, ha formulato il secondo indirizzo, sostenendo — dopo aver premesso che, in quel caso, se non esisteva la prova positiva della innocenza, era, però, chiarissima la mancanza di prova sulla responsabilità, prova che era da escludere « fosse acquisibile aliunde » — che il giudice per le indagini preliminari, al quale sia richiesta l’emissione del decreto penale, deve prosciogliere, non solo se gli atti rechino la prova positiva della innocenza, ma anche se manchi e non sia acquisibile la prova della responsabilità. Premesso che il comma 3 dell’art. 459 c.p.p. attribuisce al giudice un sindacato completo sulla richiesta del p.m. e premesso, altresì, che la richiesta di emissione di decreto penale di condanna è, a norma dell’art. 554, comma 1, c.p.p., uno dei modi — gli altri sono la richiesta di archiviazione e la emissione del decreto di citazione — di conclusione delle indagini preliminari, di guisa che deve ritenersi che il p.m. pervenga alla determinazione di chiedere l’emissione del decreto penale


— 1159 — dopo aver effettivamente esperito tutte le indagini necessarie e sufficienti in ordine alla ricerca della responsabilità, non si vede — si osserva — per quale ragione, qualora dagli atti emerga la assoluta mancanza della prova della responsabilità e l’impossibilità di acquisirla, il giudice dovrebbe restituire gli atti al Pubblico Ministero. 2. Come si può facilmente constatare, non v’è contrasto tra i due indirizzi, che le sentenze citate, secondo le quali non v’è possibilità, in sede di procedimento per l’emissione del decreto penale, di far valere la mancanza, la insufficienza e la contraddittorietà della prova, non vanno oltre questa affermazione, non essendosi posto il problema — e la fattispecie al loro esame non importava che se lo ponessero — se la mancanza assoluta della prova, la prova non altrimenti acquisibile debba essere presa in considerazione già in quella sede. I due indirizzi, dunque, convergono esplicitamente nell’attribuire rilevanza, nell’applicazione dell’art. 129 c.p.p., alla prova positiva della innocenza, così come convergono — e questa convergenza interessa in particolare nella specie, nella quale il giudice per le indagini preliminari ha prosciolto ai sensi dell’art. 129 c.p.p. per incertezza della prova — nell’escludere che il giudice, richiesto della emissione del decreto penale possa, avvalendosi dell’art. 129 c.p.p., prosciogliere anche se le prove siano mancanti, insufficienti o contraddittorie. Il secondo indirizzo si pone l’ulteriore quesito, e lo risolve positivamente, se nel procedimento per l’emissione del decreto penale debba essere sottolineata anche la mancanza assoluta della prova, nel senso precisato di prova mancante e non altrimenti acquisibile. 3. Queste sezioni unite sono dell’avviso che i due indirizzi debbano essere seguiti nella loro convergenza sulla impossibilità di dare rilievo, nel procedimento per l’emissione del decreto penale, alla mancanza, alla insufficienza e alla contraddittorietà della prova. Ritengono, poi, che sul problema della impossibilità o della possibilità di porre in risalto, in quella sede, la mancanza assoluta della prova, sia corretta la soluzione offerta da quello che per comodità viene definito « secondo indirizzo ». 4. Iniziando dal tema della prova insufficiente o contraddittoria, è senz’altro esatto l’assunto che la mancanza, la contraddittorietà e la insufficienza della prova rilevino e possano rilevare soltanto alla fine del dibattimento, topos o luogo naturale, proprio, per la formazione dialettica della prova, e correttamente si perviene a questa conclusione ponendo in evidenza che la formula che attribuisce rilievo alla mancanza, alla insufficienza e alla contraddittorietà della prova è contenuta nell’art. 530, comma 2, c.p.p., la cui rubrica è « sentenza di assoluzione » e il cui comma 1 è pressoché identico al comma 1 dell’art. 129 che non contiene, per l’appunto, la disposizione — che è quella del comma 2 dell’art. 530 — secondo la quale « il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile ». L’art. 530 — è opportuno ricordarlo — è il secondo della Sezione I — « sentenza di proscioglimento » — del Capo II — « decisione » — del Titolo III — « sentenza » — del Libro Settimo — « giudizio » —, libro il cui Titolo I disciplina,


— 1160 — come è noto, « gli atti preliminari al dibattimento » e il cui Titolo II si interessa del « dibattimento » dettando regole, nel Capo III, per la « istruzione dibattimentale », per il rito da seguire per la formazione dialettica della prova, per rendere concretamente esercitabile il diritto alla prova enunciato nell’art. 190 c.p.p. 5. L’art. 530, comma 2, è, quindi, uno dei possibili punti di approdo di un determinato iter processuale che vede le parti soffermarsi sulle proprie e altrui prove, iter soltanto al termine del quale ha senso constatare, oltre che la sussistenza delle condizioni per emettere « sentenza di condanna », come prevede l’art. 533 c.p.p., la sussistenza delle condizioni per pronunciare sentenza di assoluzione « perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non lo ha commesso, perché il fatto non costituisce reato », ecc., come vuole il comma 1 dell’art. 530, o, come dispone il comma 2, per pronunciare sentenza di assoluzione perché manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, ecc. 6. Ebbene, il procedimento per decreto, di cui agli artt. 459 e ss. c.p.p. e, per il procedimento dinanzi al pretore, di cui all’art. 565 dello stesso codice, è, per definizione, un procedimento senza dibattimento, un procedimento di « deflazione del dibattimento », al quale si giunge a seguito delle indagini preliminari e, pertanto, con « materiale probatorio » raccolto pressoché esclusivamente da una delle parti, il pubblico ministero; procedimento in cui l’imputato non ha avuto modo di interloquire alla pari e di dimostrare, avvalendosi delle proprie prove e contestando le prove altrui, che la mancanza, la insufficienza e la contraddittorietà della prova potevano essere superate a suo favore. Se la norma dell’art. 129 c.p.p., come già quella dell’art. 152 dell’abrogato codice di rito, tende ad assicurare — oltre che « la speditezza, la immediatezza, l’economia del processo » — il favor libertatis, non può davvero dirsi che questo favor sia garantito, se l’imputato viene prosciolto perché mancante, insufficiente o contraddittoria la prova, senza essere stato in grado di dimostrare che era possibile colmare la mancanza, eliminare la contraddizione e superare la insufficienza. Né, evidentemente, può sostenersi — come sembra si faccia nel ricorso — che il giudice nel caso di mancanza, contraddittorietà e insufficienza della prova deve emettere ugualmente il decreto penale, ponendosi in rilievo che avverso quest’ultimo è esperibile l’opposizione, sicché l’imputato, nel giudizio che ne segue, recupera pur sempre il suo « diritto alla prova ». La tesi non può essere condivisa per la decisiva ragione che il decreto penale è un decreto di condanna, come si legge nell’art. 460 c.p.p., tra i requisiti del quale v’è quello, previsto dalla lett. c) della norma, della « concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata », esposizione che, ovviamente, non può avere un retroterra mancante, insufficiente o contraddittorio. 7. È superfluo sottolineare che il problema del diritto alla prova si pone anche per il pubblico ministero, alla cui richiesta di emissione del decreto penale, se può rispondersi che gli atti, non solo non offrono la prova della responsabilità, ma impongono che si dichiari, ai sensi dell’art. 129, comma 1, che « il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato », ecc., non può rispondersi, avvalendosi dell’art. 129, che la prova è mancante, insufficiente o contraddittoria.


— 1161 — La mancanza, la insufficienza e la contraddittorietà della prova sono, infatti, categorie che, per quel che si è detto, possono avere rilevanza soltanto quando le parti, ivi compreso il Pubblico Ministero, abbiano potuto esercitare compiutamente, nella sede a ciò destinata, il loro diritto alla prova. 8. trina.

Sembra essere di diverso avviso, rispetto a tutto ciò, una voce della dot-

I Premette quest’ultima che « della possibilità di pronunciare una sentenza di proscioglimento, a norma dell’art. 129, si parla negli artt. 444, comma 2, e 459, comma 3, c.p.p., come di una condizione impeditiva all’accoglimento della richiesta di applicazione della pena o dell’emissione del decreto penale » e osserva che, « in entrambi i casi, l’attribuzione al giudice del potere di concludere anticipatamente il processo, con un provvedimento di condanna, ha fatto sì che lo stesso organo risulti legittimato a disporre il proscioglimento ex art. 129, quale che sia il livello di evoluzione del processo ». « Pertanto, — aggiunge — si potrà avere l’emissione di una sentenza proscioglitiva anche nell’udienza fissata a seguito della richiesta di applicazione della pena nel corso delle indagini preliminari e, quindi, in un momento nel quale il Pubblico Ministero potrebbe non avere ancora esaurito tutte le opportunità e le necessità dell’investigazione, sicché sarà su questo materiale probatorio che il giudice dovrà fondare la propria decisione, nella pienezza dei poteri che gli vengono assicurati attraverso il richiamo dell’art. 129 ». « Inoltre, — ed è questo il punto nodale — lo stato in cui si trova il processo non sembra impedire l’operatività delle regole di giudizio, sancite negli artt. 529531 per le sentenze dibattimentali: invero, la richiesta di patteggiamento, non solo consente di riconoscere dignità di prova alle indagini preliminari effettuate, ma impone, altresì, al giudice di considerare tale materiale probatorio, non come il frutto provvisorio di un’indagine in atto, bensì come l’insieme degli elementi sui quali deve basare la decisione finale ». II Queste considerazioni pare si riferiscano al solo patteggiamento, perché, dopo essersi fatta menzione anche del decreto penale e della norma dell’art. 459, comma 3, c.p.p., ci si sofferma, per avanzare la tesi della rilevanza, anche in sede di indagini preliminari, della norma dell’art. 530, comma 2, c.p.p., unicamente sul patteggiamento. Ma, se dovessero concernere anche il procedimento per decreto, non potrebbero non opporsi le osservazioni fatte dianzi, che possono riassumersi nella proposizione che la formula « mancanza, insufficienza e contraddittorietà della prova » è usata dal legislatore nell’art. 530, comma 2, il quale è collocato anche dopo tutta una serie di norme che dicono come deve essere esercitato dalle parti il diritto alla prova, di tal che non si vede come possa anticiparsi un esito processuale che, per sua natura, è proprio di una certa fase del processo. III Quanto, poi, al patteggiamento — va detto per completezza — è sufficiente notare che anche il rito di « applicazione della pena su richiesta » è un procedimento di « deflazione del dibattimento », senza dibattimento, procedimento, dunque, in cui è ipotizzabile, tra l’altro, che il Pubblico Ministero dia il suo consenso, nella fase delle indagini preliminari, nella piena consapevolezza di essere in grado di provare, nel dibattimento, la responsabilità dell’imputato, sicché gli si po-


— 1162 — trà opporre la mancanza, la insufficienza e la contraddittorietà della prova per respingere la richiesta, ma non per pervenire ad una conclusione processuale ontologicamente collegata ad una determinata fase del processo. 9. Conforta ulteriormente la tesi che si va sostenendo — la tesi che la norma dell’art. 129, comma 1, c.p.p. non lascia spazio, nel procedimento per decreto, alla mancanza, alla insufficienza e alla contraddittorietà della prova — la norma dell’art. 129, comma 2, la quale, come è noto, regola il concorso processuale tra una causa di estinzione del reato e una formula di assoluzione nel merito — « quando ricorre una causa estintiva del reato, ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta » — e stabilisce che prevalga la formula di assoluzione nel merito ogni volta che sia assistita dall’evidenza della prova. I Questa norma è stata sottoposta all’esame della Corte Costituzionale, essendosi ritenuto dai giudici di merito che potesse essere illegittima, con riferimento all’art. 3 della Carta Costituzionale, nella parte in cui non prevede che la insufficienza di prove prevalga sulle cause di estinzione del reato. II La Corte Costituzionale, con le ordinanze 26 giugno 1991, n. 300 — che ha risolto il problema del concorso processuale tra l’insufficienza di prove e l’amnistia — e 18 luglio 1991, n. 362 — che ha risolto il problema del concorso tra l’insufficienza di prove e la prescrizione — ha dichiarato manifestamente infondate sia la questione di legittimità costituzionale dell’art. 129, comma 2, con riguardo all’ipotesi in cui l’estinzione del reato per amnistia si trovi a concorrere con l’insufficienza della prova, sia la stessa questione con riguardo all’ipotesi in cui con l’insufficienza della prova si trovi a concorrere l’estinzione del reato per prescrizione. La Corte, nei due provvedimenti, ha affermato, anzitutto, che, prima del dibattimento, l’art. 129 non consente si attribuisca valore processuale alla mancanza, alla insufficienza e alla contraddittorietà della prova proprio perché la prova non è stata ancora assunta, ed è la tesi che qui si sostiene. Ha affermato, inoltre, che l’imputato o l’indagato ha pur sempre la facoltà, riconosciutagli dalle sentenze 14 luglio 1971, n. 175 e 31 maggio 1991, n. 275, di rinunciare alla causa estintiva e, quindi, la possibilità di provocare, nella sede propria, l’accertamento completo dei fatti, il quale, peraltro, — va notato — può sfociare anche nella mancanza, nella insufficienza e nella contraddittorietà della prova ponendo il problema, che è stato oggetto di contrastanti decisioni e che non deve essere risolto in questa sede, del coordinamento della norma dell’art. 530, comma 2, con la norma dell’art. 129, comma 2, pure alla luce della sentenza del 9 gennaio 1975, n. 5 della stessa Corte Costituzionale. 10. Anche quest’ultima sentenza, infine, offre argomenti alla tesi che la richiesta di emissione del decreto penale non può dar luogo ad una pronuncia, emessa ai sensi dell’art. 129 c.p.p., di mancanza, di insufficienza e di contraddittorietà della prova. La Corte Costituzionale, con la stessa, nel dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 152, comma 2, dell’abrogato codice di rito — nella parte in cui


— 1163 — non comprendeva, tra le ipotesi in cui il giudice doveva pronunciare sentenza di proscioglimento nel merito anziché declaratoria di estinzione del reato, anche l’ipotesi in cui mancasse del tutto la prova che l’imputato avesse commesso il fatto — ha posto, come è noto, sullo stesso piano la prova positiva della innocenza e la prova negativa, la mancanza di prova, della colpevolezza. Potrebbe, allora, sostenersi, — ed è stato sostenuto in non poche delle sentenze, cui si è fatto cenno dianzi, che hanno affrontato il tema del coordinamento della norma dell’art. 530, comma 2, con la norma dell’art. 129, comma 2, c.p.p. — che, avendo l’art. 530, comma 2 c.p.p., in attuazione della direttiva n. 11 dell’art. 2 della legge delega n. 81 del 18 febbraio 1987, equiparato la insufficienza e la contraddittorietà della prova alla mancanza della stessa, l’art. 129, comma 2, non può non comprendere, oltre che la mancanza — si vedrà tra poco in che senso debba essere intesa, a questi fini, l’espressione « mancanza della prova » — anche la insufficienza e la contraddittorietà della prova. 11. Orbene, qualunque possa essere la soluzione del problema di quel coordinamento, è certo che la Corte Costituzionale, nella sentenza in questione, ha affermato che la mancanza della prova poteva avere rilevanza, nel contesto dell’art. 152, comma 2, dell’abrogato codice c.p.p., — oggi, nel contesto dell’art. 129, comma 2, c.p.p. — solo « ad istruttoria ultimata » e, dunque, nel nuovo codice, soltanto a dibattimento concluso e non prima dello stesso. Può discutersi, in altri termini, se, ad istruttoria ultimata, allorché acquista valore, ai fini dell’art. 129, comma 2, la « mancanza della prova », possano e debbano essere sottolineate, agli stessi fini, anche la insufficienza e la contraddittorietà; ma, è indubbio che, in ogni caso, se « la mancanza della prova » può prevalere sulle cause di estinzione del reato soltanto « ad istruttoria ultimata », il problema della prevalenza della insufficienza e della contraddittorietà della prova rispetto alla causa di estinzione del reato si pone, se si pone, esclusivamente ad istruttoria ultimata e non prima. 12. Venendo al secondo quesito, al quesito se nel procedimento per l’emissione del decreto penale — e, si può aggiungere, in quello della applicazione della pena su richiesta — debba darsi atto, in applicazione dell’art. 129, comma 1, c.p.p., della assoluta mancanza della prova, si impongono, nel rispondervi affermativamente, le seguenti considerazioni. I La tesi, secondo la quale, in queste due sedi, è possibile, anzi doveroso, prosciogliere ai sensi dell’art. 129, comma 1, allorché si accerti la mancanza assoluta della prova, può sembrare in contraddizione con quanto si è detto sinora, con la tesi che vuole che il procedimento per decreto e quello per l’applicazione della pena su richiesta escludano, per loro natura, che il giudice possa e debba dare risalto, in applicazione dell’art. 129, comma 1, c.p.p., alla mancanza, oltre che alla insufficienza e alla contraddittorietà della prova. II Così non è ove si rifletta — e si scioglie la riserva formulata dianzi — che « mancanza della prova », se significa, anzitutto, prova incompleta, prova non compiutamente raccolta, ma astrattamente completabile in più direzioni, può significare anche, appunto, mancanza assoluta della prova e impossibilità di acquisirla, mancanza, quest’ultima, che può benissimo emergere già in quelle due sedi. È, in altre parole, astrattamente possibile che il giudice, richiesto della emis-


— 1164 — sione del decreto penale o dell’applicazione della pena, colga, come lo ha colto il giudice della fattispecie che ha consentito alla terza sezione di questa corte di affermare il principio del quale si sta discutendo, che gli atti, pur non offrendo la prova positiva della innocenza, offrono la prova negativa della colpevolezza, nel senso, radicale, della impossibilità di acquisirla. Era stato contestato, in quel processo, a tre imputati il reato di cui all’art. 1164 del codice della navigazione, che punisce la navigazione in zona interdetta, e il giudice per le indagini preliminari, sollecitato ad emettere il decreto penale, aveva prosciolto ex art. 129, comma 1, per non aver commesso il fatto, sul presupposto che del reato contestato è responsabile il solo comandante della imbarcazione — in quel caso, un gommone — e che nella specie i verbalizzanti non siano stati in grado di identificarlo; era, inoltre, da escludere, secondo quel giudice, per tutta una serie di ragioni, puntualmente indicate, che, ormai, fosse possibile pervenire a quella identificazione. In casi come questo, ove si verifichino, — casi, va rilevato, nei quali il confine con le ipotesi del comma 1 dell’art. 129 è davvero molto sottile, per non dire evanescente — evidenti ragioni di economia processuale — sembra indiscutibile — impongono che gli atti non vengano restituiti al Pubblico Ministero, il quale, peraltro, ha la possibilità di ottenere una nuova riflessione sul tema proponendo ricorso per cassazione. Tutto ciò premesso, la sentenza impugnata, con la quale il giudice per le indagini preliminari ha assolto semplicemente « per carenza di prova, per prova non certa », deve essere annullata con rinvio. P.Q.M., la Corte di cassazione, a sezioni unite, annulla la sentenza impugnata e rinvia alla stessa pretura di Ancona, altro magistrato. — (Omissis).

——————— (1)

Le Sezioni Unite intervengono sull’ambito applicativo della regola di giudizio ex art. 530 comma 2 c.p.p.

SOMMARIO: 1. La regola di giudizio enunciata dall’art. 530 comma 2 c.p.p. — 2. La mancanza della prova nei procedimenti speciali che eliminano il dibattimento. — 3. I criteri applicativi dell’art. 530 comma 2 c.p.p.: l’impossibilità di completare la prova. — 4. Segue: criteri per valutare l’insufficienza o la contraddittorietà della prova. Variabili applicative. — 5. La prova insufficiente o contraddittoria e la regola di prevalenza ex art. 129, comma 2 c.p.p.

1. La regola di giudizio enunciata dall’art. 530 comma 2 c.p.p. — L’abolizione della formula dubitativa di proscioglimento è stata definita una « novità di portata storica » (1) della riforma processuale (2). Recependo le istanze da tempo formulate dalla dottrina (3), l’art. 530 comma 2, nello stabilire che « il giudice (1) Così G. ILLUMINATI, Giudizio, in Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. Conso - V. Grevi, 4a Ed., 1996, Cedam, p. 607. (2) Sul dibattito parlamentare che ha preceduto l’adozione della soluzione vigente cfr. L. RIGANTI, L’assoluzione per insufficienza di prove nell’itinerario della riforma, in Ind. pen., 1987, p. 162. (3) Vigente il codice abrogato parte della dottrina aveva denunciato l’esistenza di un contrasto tra l’assoluzione per insufficienza di prove ed il principio del favor rei a causa degli effetti negativi che dall’a-


— 1165 — pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova », consacra definitivamente « l’art. 27, comma 2, Cost. nell’ambito delle regole di giudizio che influiscono sulla genesi logica della sentenza penale » (4) di assoluzione. La necessità di una piena attuazione del principio del favor rei è apparsa, dunque, capace di superare le obiezioni di quanti ritenevano irrinunciabile la previsione della formula dubitativa, tra l’altro paventando gli effetti psicologici della sua abolizione sul giudicante (5). L’art. 530 comma 2 c.p.p., a differenza dell’abrogato art. 479 comma 3, contiene, dunque, non più una formula assolutoria, bensì una regola di giudizio: vi siano certezze negative, manchi la prova ovvero la stessa sia insufficiente o contraddittoria, identica dovrà essere la formula di assoluzione (6). Di talché, nessuna conseguenza negativa è sofferta dall’imputato assolto a fronte di un quadro probatorio dubbio. Paradigmatica, al proposito, la posizione assunta dalla giurisprudenza in tema di riparazione per ingiusta detenzione laddove evidenzia come « avendo il legislatore attribuito la stessa valenza processuale alla prova della innocenza ed alla insufficienza e contraddittorietà della prova, quel che rileva in sede di istanza di equa riparazione è esclusivamente il dato formale, cioè la corridozione della formula derivavano a carico dell’imputato. ln particolare, si richiamava il combinato disposto agli artt. 604 e 606 c.p.p. abr. secondo cui doveva farsi menzione della sentenza di assoluzione per insufficienza di prove nei certificati penali rilasciati a richiesta dell’amministrazione pubblica e delle aziende incaricate di un pubblico servizio. Altresì in base agli artt. 348 e 465 c. abr. risultava inficiata da nullità la testimonianza di un imputato dello stesso reato per cui si procedeva ovvero di un reato connesso che fosse stato assolto con formula dubitativa. Cfr. F. CORDERO, Il giudizio d’onore, Giuffrè, 1959, p. 130; G. CONSO, È da rivedere, non da eliminare l’assoluzione per insufficienza di prove, in Atti del Convegno di studi indetto dalla Camera Penale di Trieste (25-26 aprile 1967), sul tema L’assoluzione per insufficienza di prove, Cedam, 1968, p. 259; A. CHIARA, Presunzione di innocenza, presunzione di « non copevolezza » e formula dubitativa, alla luce degli interventi della Corte Costituzionale, in questa Rivista, 1974, p. 72. Sotto altro aspetto si sottolineava come la formula dubitativa di proscioglimento si concretasse in una « pena contro l’onore » a cui nella vita pratica erano collegati molti svantaggi (si pensi ai giudizi disciplinari); sul punto cfr. A. GUARNIERI, Tipologia delle sentenze penali di proscioglimento, in Riv. proc. pen., 1954, p. 41. A queste argomentazioni si replicava che « a fronte di alcuni effetti di minor rilievo indubbiamente svantaggiosi per l’imputato... [dovevano essere]... considerati, invece, i più importanti effetti ricollegabili alle sentenze assolutorie e, cioè, sia l’effetto preclusivo nei confronti di un procedimento penale per il medesimo fatto e la medesima persona, sia l’effetto preclusivo nei confronti dell’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno... i quali.... dimostra[va]no che il proscioglimento per insufficienza di prove integra[va] un’applicazione sia pure non completa, dell’in dubio pro reo », così G. LOZZI, voce Favor rei, in Enc. dir., Giuffrè, Vol. XVII, 1968, p. 15. Sulla questione si pronunciò anche la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 124, 6 luglio 1972, che ne dichiarò l’infondatezza rilevando che « l’Assemblea Costituente (nel dettare la previsione di cui all’art. 27 comma 2 Cost.) ha voluto presumibilmente asserire che durante il processo non esiste un colpevole, bensì soltanto un imputato » ed ha, perciò, dettato un principio concernente « la condizione giuridica dell’imputato », non sancendo così la presunzione d’innocenza. Poiché la condizione di non colpevole non sembra identificarsi con quella d’innocente, il presidio costituzionale della presunzione di non colpevolezza importa che non sia la mancanza di prove d’innocenza, ma la presenza di pertinenti e concludenti prove a carico a giustificare una sentenza di condanna. Per un commento alla sentenza cfr. M. CHIAVARIO, Assoluzione con formula dubitativa e presunzione di non colpevolezza al vaglio della Corte Costituzionale, in Giur. cost., 1972, I, p. 1326 e, anche per ampi riferimenti bibliografici, G. ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, Zanichelli, 1979, p. 125. (4) Così M. CHIAVARIO, Assoluzione con formula dubitativa, cit., p. 1326. (5) Si sottolineava così, come il dubbio fosse un momento ineliminabile del pensiero che, comunque, sarebbe pacificamente esplicitato nella parte motiva della sentenza non essendo il contrasto fra le risultanze probatorie sempre superabile dal magistrato. Proprio tale considerazione induceva a paventare il pericolo che il giudice, eliminata la formula dubitativa, fosse indotto alla condanna piuttosto che alla assoluzione. La fondatezza e rilevanza di tali osservazioni costituiscono il fondamento di quell’orientamento intermedio, emerso in dottrina, che proponeva il mantenimento della formula dubitativa, eliminandone gli effetti pregiudizievoli, cfr. G. CONSO, È da rivedere, non da eliminare l’assoluzione per insufficienza di prove, cit., p. 259. (6) Così F. CORDERO, Procedura penale, 3a ed., Giuffrè, 1995, p. 851. Si v., altresì, E. MARZADURI, sub art. 530, in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di M. Chiavario, UTET, 1991, Vol. V, p. 509.


— 1166 — spondenza della formula di proscioglimento ad una di quelle scritte nell’art. 314 c.p.p., e non le premesse, l’iter logico che ha determinato la formula stessa » (7). 2. La mancanza della prova nei procedimenti speciali che eliminano il dibattimento. — Tuttavia, il tenore dell’art. 530 comma 2 c.p.p. non ha mancato di aprire nuove questioni. Ci si è subito chiesti se le regole di giudizio di cui agli artt. 529 e segg. c.p.p. espandano la loro efficacia nei procedimenti speciali che eliminano il dibattimento (8). Più in generale, ci si è chiesti se il giudice sia chiamato ad applicare le regole decisorie dettate per il termine del dibattimento quante volte, prima di tale momento, gli sia consentito adottare un provvedimento « che esaurisca il rapporto processuale, .. risolvendo le questioni relative all’esistenza o meno della pretesa punitiva » (9). Quanto al primo profilo, atteso l’espresso rinvio agli artt. 529 e seguenti c.p.p. contenuto all’art. 442 comma 1 stesso codice, non può revocarsi in dubbio che all’esito del giudizio abbreviato, in caso di prova insufficiente e contraddittoria, trovi applicazione la regola in discorso (10): è, infatti, un giudizio, sia pure allo stato degli atti (11). Meno facile offrire una soluzione per il rito monitorio e per l’applicazione della pena su richiesta delle parti. Nella sede decisoria relativa a tali riti, il legislatore ha attribuito al giudice il potere-dovere di adottare una sentenza di proscioglimento anche nel merito. Tuttavia, il richiamo è portato alla norma di cui all’art. 129 c.p.p., non già agli artt. 529 e segg. c.p.p. Legittimo è interrogarsi se, così facendo, il legislatore non abbia inteso limitare, nelle sedi de quibus, l’operatività delle regole di giudizio dettate per l’epilogo dibattimentale. Una opinione ha rifiutato l’assunto sottolineando come « nessun dato normativo autorizzi a pensare che l’art. 129 c.p.p. contenga un autonomo criterio di giu(7) Così, Sez. III, 18 dicembre 1993, Mazzetti, in Riv. pen., 1995, c. 407. In senso conforme, Sez. IV, 11 maggio 1993, Assi e altro, in Cass. pen., 1994, p. 1904, n. 1172; Id., 18 dicembre 1993, Tinacci, in Giur. it., 1994, II, c. 726; Id., 17 dicembre 1992, Medica, in Giust. pen., 1993, III, c. 210 e C. App. Lecce, 30 aprile 1990, Molfetta, ivi, 1992, III, c. 541. Secondo una certa giurisprudenza di merito, tuttavia, ai fini della quantificazione dell’indennizzo « deve influire in senso sfavorevole la circostanza che l’istante, dopo la condanna di primo grado, sia stato assolto in appello per insufficienza di prove », così C. App. Trento, Kiem, in Foro it., 1991, II, c. 426. Sul tema cfr., in dottrina, M.G. COPPETTA, La riparazione per ingiusta detenzione, Cedam, 1993, p. 267. Per completezza, va precisato che incombe sul giudice il dovere di verificare se quella situazione di insufficienza non abbia avuto radice in una condotta dolosa ovvero gravemente colposa dell’istante, sinergica alla produzione dell’evento. Sotto altro aspetto, si noti come la dottrina, argomentando dal generale richiamo all’art. 530 c.p.p. operato dall’art. 631 stesso codice, ritenga che « legittimano al procedimento di revisione le nuove prove che, da sole o unite a quelle già in atti, conducano ad una insufficienza o contraddittorietà delle risultanze processuali ». Così R. BETTIOL, Note in tema di prova insufficiente e contraddittoria e limiti alla revisione, in Arch. n. proc. pen., 1990, p. 289. (8) Quanto al giudizio direttissimo ed a quello immediato, infatti, la questione neppure si pone. Tali riti si caratterizzano per un più rapido accesso al dibattimento che si svolge secondo le regole del rito ordinario, ivi comprese le regole decisorie di cui agli artt. 529 e segg. c.p.p. (9) Con tale espressione si intende fare riferimento alla nozione di sentenza di merito come prospettata da A. GALATI, Gli atti, in SIRACUSANO - DALIA - GALATI - TRANCHINA - ZAPPALÀ, Diritto processuale, Giuffrè, Vol. I, 2a ed., 1996, p. 312. (10) Cfr. A. PIGNATELLI, sub art. 442 in Commentario al nuovo codice, cit., 1990, Vol. IV, p. 771; E. LUPO, Processi senza dibattimento, ivi, Primo aggiornamento, 1993, p. 701 e G. RICCIO, Procedimenti speciali, in Profili del nuovo codice, cit., p. 505. (11) Peraltro, pur trattandosi di un provvedimento emesso a seguito di un procedimento camerale, la sentenza del giudizio abbreviato è considerata come una decisione dibattimentale. Al proposito le Sezioni Unite hanno, infatti, affermato che i termini per l’impugnazione della sentenza decorrono dalla scadenza dei termini previsti per la redazione dei motivi ai sensi dell’art. 585 comma 1 lett. b) e c), non trovando applicazione il disposto di cui alla lett. a), comma 1, della norma da ultimo citata. Cfr. Sez. Un., 15 dicembre 1992, Cicero ed altri, in Cass. pen., 1993, p. 1665, n. 966.


— 1167 — dizio » (12). Pertanto, il giudice, investito della richiesta di decreto penale di condanna ovvero di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., di fronte a ricostruzioni del fatto lacunose o poco persuasive, dovrà assolvere nel merito, selezionando dall’art 129 comma 1 c.p.p. la formula idonea. A sostegno dell’assunto si fa osservare come i riti in discorso, per il tramite del meccanismo dell’accordo (espresso nel « patteggiamento », presunto nel rito monitorio) postulino una concorde valutazione, dell’accusa e della difesa, di completezza dell’accertamento. Il materiale probatorio offerto al giudice non potrebbe essere considerato solo ‘‘il frutto provvisorio di un indagine in atto, bensì come l’insieme degli elementi sui quali deve basare la decisione finale » (13). Pertanto, l’operazione decisoria presenta contorni analoghi a quelli che caratterizzano l’alternativa che è chiamato a sciogliere il giudice al termine del dibattimento. Naturale che si applichino le medesime regole di giudizio (14). Di contrario avviso la giurisprudenza. Escludendo che il giudice, in sede di decisione ex art. 459 comma 3 c.p.p. possa dare rilievo, ai fini dell’art. 129 comma 1 c.p.p., alla mancanza, alla insufficienza ed alla contraddittorietà della prova della responsabilità dell’imputato, la decisione delle Sezioni Unite in commento si allinea con il consolidato orientamento della Corte secondo cui la regola di giudizio ex art. 530 comma 2 c.p.p. sarebbe dettata esclusivamente per le sentenze dibattimentali (15). Diversamente, una maggiore apertura della giurisprudenza si rileva in alcune pronunce in tema di poteri decisori del giudice investito dalle parti della richiesta di applicazione della pena. Argomentando dal richiamo contenuto nell’art. 444 comma 2 c.p.p. al solo comma 1 dell’art. 129 stesso codice, si è affermato che il potere assolutorio del giudice non è affatto subordinato al rilievo della evidenza della ragione del proscioglimento (16). Inoltre, in giurisprudenza, è stata esplicitamente ammessa, in sede di decisione ex art. 444 comma 2 c.p.p., la possibilità per il giudice di dare rilievo alla mancanza della prova della colpevolezza (17). La decisione annotata parrebbe, dunque, da un lato, avallare in via definitiva l’orientamento consolidatosi sui poteri decisori del giudice ex art. 459 comma 3 c.p.p. e, dall’altro, porre fine al contrasto emerso sull’analoga questione sollevata dall’art. 444 comma 2 c.p.p. (12) Così, A. SANNA, Opposizione a decreto penale di condanna ed operatività dell’art. 129 c.p.p., in questa Rivista, 1994, p. 1148. Già nella vigenza del codice Rocco, peraltro, la dottrina aveva sottolineato come l’art. 152 c.p.p. abr. non introducesse un procedimento speciale per il quale operi una regola di giudizio diversa da quella valevole per ciascuna delle fasi in cui il proscioglimento può intervenire a seconda dello stato in cui il processo si trova. Cfr. E. FASSONE, La declaratoria immediata delle cause di non punibilità, Giuffrè, 1972, p. 72. (13) Così E. MARZADURI, sub art. 129, in Commento, cit., 1990, Vol. II, p. 121. Trattasi del passaggio riportato in motivazione. (14) Da ultimo, cfr. L. IAFISCO, Il decreto penale di condanna tra immediata declaratoria di cause di non punibilità e restituzione degli atti al p.m. in situazione di insufficienza di prove, in Giur. it., 1995, II, c. 552. (15) Cfr., tra le altre, Sez. I, 27 gennaio 1994, Vescovi, in Giust. pen., 1994, III, c. 596; Sez. II, 8 aprile 1993, Tulliani, in Foro it., 1993, II, c. 427; Sez. I, 27 settembre 1991, Biolcati, in Cass. pen., 1992, p. 3060, n. 1622; Sez. V, 26 settembre 1990, Sposato, ivi, 1991, p. 339, n. 102 e Id., 25 settembre 1990, Venosa, ivi, 1991, p. 341, n. 103. Unico precedente difforme quello richiamato nella parte motiva della sentenza in commento: cfr. Sez. III, 25 febbraio 1995, Faccin e altro, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 242, che aveva già statuito il principio secondo cui il g.i.p. investito della richiesta di decreto penale di condanna « ha il potere-dovere di prosciogliere l’imputato.. anche quando... emerga la mancanza totale di prova della responsabilità ». (16) Cfr. Sez. IV, 26 novembre 1993, Scacco, in Cass. pen., 1995, p. 124, n. 108; Id., 26 novembre 1993, Pica, inedita e Sez. III, 7 luglio 1993, Picano, in Cass. pen., 1995, p. 653, n. 448. (17) Così Sez. V, 29 ottobre 1993, Marzioni, in Cass. pen., 1995, p. 1942, n. 1196. Sul tema, cfr. V. PACILEO, L’alternativa tra applicazione della pena su richiesta di parte e proscioglimento, ivi, 1991, p. 354, n. 315.


— 1168 — Ma così non è. Infatti, in palese contrasto con la conclusione prospettata, le Sezioni Unite affermano che il giudice « deve applicare l’art. 129 comma 1 c.p.p. allorché le risultanze offrano la prova negativa della colpevolezza nel senso radicale, della impossibilità assoluta di acquisire tale prova », dovendo « il g.i.p., al quale sia richiesta l’emissione del decreto penale di condanna, .. prosciogliere anche se manchi e non sia acquisibile la prova della responsabilità ». La sentenza non può che preoccuparsi, pertanto, di definire la diversità ontologica corrente tra la « mancanza assoluta di prova » (così sinteticamente ridefinita dalle Sezioni Unite) e la « mancanza della prova » rilevante ai fini dell’applicabilità della regola di giudizio di cui all’art. 530 comma 2 c.p.p. Nello spazio operativo della disposizione de qua, infatti, rientrerebbe anche la mancanza della prova, per così dire, « allo stato degli atti », e cioè le ipotesi di « prova incompleta, di prova non compiutamente raccolta, ma astrattamente completabile in più direzioni ». Anche ammettendo che il distinguo tracciato dalla Corte abbia un fondamento (18), tuttavia la mancanza assoluta della prova rientra pur sempre nell’asserita più ampia sfera operativa dell’art. 530 comma 2 c.p.p. Non vi è dubbio, infatti, che la possibilità di adottare sentenza di proscioglimento in mancanza di prova, sia questa « assoluta » ovvero « relativa », postula la giuridica esistenza e, quindi, l’applicazione di una regola di giudizio che consenta la produzione di tale effetto. Tale regola il legislatore ha codificato, per l’appunto, nell’art. 530 comma 2 c.p.p. La Corte, al contrario, prima afferma la produzione dell’effetto tipico derivante dall’applicazione della norma in commento, ma poi nega che la stessa possa trovare applicazione. Per non incorrere in tale contraddizione, sarebbe stato opportuno offrire un fondamento giuridico diverso dall’art. 530 comma 2 c.p.p. a sostegno della conclusione prospettata. In difetto di ogni indicazione al proposito ed attesa l’impossibilità di ricercare altrove una valida indicazione normativa, l’affermazione iniziale volta ad escludere ex abrupto l’applicabilità della regola di giudizio dell’equivalenza in sede di decisione sulla richiesta di decreto penale di condanna e di applicazione della pena ha il sapore di un’astratta petizione di principio. Delle due l’una. O la mancanza della prova, ancorché assoluta, non legittima l’adozione della sentenza di proscioglimento perché la regola di giudizio ex art. 530 comma 2 c.p.p. non può operare nella sede decisoria dei riti de quibus. Ovvero la mancanza assoluta della prova emersa in tali sedi può essere rilevata dal giudice in applicazione della regola di giudizio de qua. Pertanto, dall’assunto contenuto nella sentenza in commento non può che desumersi l’implicita affermazione dell’operatività nella sede decisoria del rito monitorio e del patteggiamento, della regola di giudizio ex art. 530 comma 2 c.p.p. ancorché limitatamente all’ipotesi di « mancanza assoluta della prova ». Ma vi è dell’altro. Alla luce dei criteri valutativi sottesi dalla regola di giudizio dell’equiparazione, è possibile destituire di fondamento l’asserita applicabilità di tale regola nell’ipotesi di una mancanza della prova diversa da quella assoluta e definita dalla (18) Puntuali le critiche di chi osserva come « essa non [sia] corretta sul piano semantico, non essendovi alcuna differenza tra i due concetti se è vero che la mancanza, in quanto tale, è ontologicamente assoluta », infatti, « la nozione di ‘‘mancanza totale’’ era stata utilizzata nel precedente codice di rito... essendo evidente che la caduta della locuzione ‘‘del tutto’’ risponde al rilievo di un pleonasmo », così M. VESSICHELLI, Prova insufficiente o incompleta e proscioglimento a norma dell’art. 129 c.p.p., in Cass. pen., 1996, p. 479, n. 219.


— 1169 — Corte « prova non compiutamente raccolta ». Come vedremo, infatti, la mancanza della prova solo allorquando si presenti con il crisma della assolutezza può sfociare in una sentenza di proscioglimento ex art. 530 comma 2 c.p.p. 3. I criteri applicativi dell’art. 530 comma 2 c.p.p.: l’impossibilità di completare la prova. — In ordine ai criteri valutativi sottesi alla regola di giudizio dell’art. 530 comma 2 c.p.p., è opportuno riferirsi alle conclusioni raggiunte sul tema nella vigenza del codice abrogato, perché esse conservano piena validità. I rilievi della dottrina e della giurisprudenza sul nuovo art. 530 comma 2 c.p.p. appaiono, infatti, mutuati dal consolidato orientamento formatosi nel vigore dell’art. 479 c.p.p. abr. (19). Del resto, una chiara dottrina ha evidenziato che « nell’art. 530 comma 2 c.p.p. si fa ogni riferimento alla prova insufficiente e contraddittoria, in piena sintonia con i risultati interpretativi cui era pervenuta la giurisprudenza formatasi sul codice Rocco » (20). Vi è forse un’unica notazione. Vigente il codice Rocco, la ricerca di una linea di demarcazione netta tra mancanza ed insufficienza di prova aveva sollevato un ampio dibattito stante la significativa diversità della disciplina dettata, rispettivamente, dai comma 2 e 3 dell’art. 479 c.p.p. abr. (21). La questione appare oramai priva di interesse attesa l’equiparazione sancita dall’art. 530 comma 2 c.p.p. Tornando al tema che qui interessa, l’incompletezza della prova rileva solo in quanto, da un lato, non se ne possa operare il completamento, perché esperite tutte le indagini possibili, e, dall’altro, tale incompletezza sia misurabile con criteri di carattere obiettivo. Ponendo l’attenzione sul primo aspetto, si è osservato come la regola ex art. 530 comma 2 c.p.p., presupponendo esaurito l’accertamento del fatto, « perda ogni legittimazione quando il risultato della ricerca possa in altra sede modificarsi » (22). Diversamente, infatti, ogni procedimento sarebbe sempre virtualmente definibile allo stato degli atti: con la condanna qualora vi sia la prova della colpevolezza, con il proscioglimento qualora la prova manchi, sia insufficiente ovvero contraddittoria. Né, peraltro, avrebbe significato alcuno il presupposto della « definibilità del procedimento allo stato degli atti » richiesto dal legislatore ai fini dell’instaurazione del rito abbreviato (23). Tanto ciò è vero che neppure al termine del dibattimento il giudice potrebbe pronunciare sentenza di assoluzione ai sensi dell’art. 530 comma 2 c.p.p. a fronte di una mancanza della prova « allo stato degli atti »: cioè qualora siano emerse nuove fonti probatorie astrattamente idonee a colmare la lacuna cognitiva. Conferma l’assunto la previsione dei poteri officiosi del giudice in materia di prova di cui all’art. 507 c.p.p. (24), esperibili, secondo l’orientamento espresso in giuri(19)

In dottrina, cfr., G. ILLUMINATI, Giudizio, cit., p. 608 e D. SIRACUSANO, Il giudizio, in SIRACUa ed., 1996, p. 397. (20) Così E. MARZADURI, sub art. 530, cit., p. 521. (21) Per una panoramica delle posizioni emerse, cfr. A. NAPPI, sub art. 479, in Commentario breve al codice di procedura penale, a cura di G. Conso - V. Grevi, Cedam, 1987, p. 1281. (22) Così A. SANNA, Opposizione a decreto penale di condanna, cit., p. 146. Si v., inoltre, D. SIRACUSANO, voce Assoluzione, in Enc. dir., Giuffrè, Vol. III, 1958, p. 926 e ID., Studio sulla prova delle esimenti, Giuffrè, 1959, p. 207 nonché F. CORDERO, La decisione sul reato estinto, in questa Rivista, 1962, p. 691 e ID., Procedura penale, 9a ed., Giuffrè, 1987, p. 987. (23) Sul significato dell’espressione si veda, da ultimo, S. LORUSSO, Provvedimenti « allo stato degli atti » e processo penale di parti, Giuffrè, 1995, p. 558. Secondo l’A. « occorre riferirsi... ad una valutazione prognostica in termini di idoneità del materiale probatorio rinveniente dalla fase investigativa a supportare una decisione sull’oggetto principale del processo che non si discosti, nella sostanza, dai risultati ai quali potrebbe pervenire il giudice del dibattimento, essendo improbabile un arricchimento apprezzabile delle risultanze processuali ». Si v., altresì, E. LUPO, Il giudizio abbreviato, in Cass. pen., 1989, p. 1864, n. 1528 e A. PIGNATELLI, sub art. 440, in Commento, cit., Vol. IV, 1990, p. 772. (24) In materia cfr., tra i tanti, A. NAPPI, L’art. 507 c.p.p.: un eccessivo self restraint giurisprudenSANO - DALIA - GALATI - TRANCHINA - ZAPPALÀ, Diritto processuale, cit., Vol. II, 2


— 1170 — sprudenza, non solo terminata l’istruzione dibattimentale ma anche dopo la chiusura della discussione (25) ovvero all’esito della camera di consiglio ex artt. 525 e seguenti c.p.p. (26). Così, se la mancanza allo stato degli atti della prova assume significato assoluto, in quanto l’astratta possibilità di completamento non trova in concreto riscontro in fonti conoscitive, sarà legittima l’adozione della sentenza ex art. 530 comma 2 c.p.p., risultando integrato il presupposto per l’applicazione di tale norma, atteso che la lacuna probatoria non è suscettibile di completamento. Al contrario, se l’incompletezza discende proprio dall’esistenza, emersa in dibattimento, di una fonte di prova che astrattamente ne consentirebbe l’integrazione, il giudice ai sensi dell’art. 507 c.p.p. disporrà l’assunzione del mezzo di prova (27), non potendo pronunciare sentenza di assoluzione ex art. 530 comma 2 c.p.p. In conclusione, la sentenza annotata, laddove subordina l’adozione del proscioglimento ex artt. 459 comma 3 e 444 comma 2 c.p.p. al carattere assoluto della mancanza della prova non individua affatto un criterio valutativo diverso e più ristretto di quello presupposto dall’art. 530 comma 2 c.p.p., legato alla particolare sede decisoria di pronuncia della sentenza. Invero, in linea con il consolidato orientamento della dottrina e della giurisprudenza, le Sezioni Unite ribadiscono che ai fini della corretta applicazione della regola dell’equiparazione è imprescindibile che la lacuna probatoria non sia colmabile. Opportuna, tuttavia, una precisazione. Al fine che qui interessa, la prima valutazione che il giudice è chiamato ad operare non è quella relativa alla completezza dell’accertamento ma, vieppiù, quella relativa alla modificabilità del risultato raggiunto in quella sede. La distinzione assume rilievo in ordine al principio di completezza delle indagini preliminari (28), richiamato per sostenere la applicabilità della regola in discorso non solo nella fase decisoria del rito monitorio e del « patteggiaziale, in Cass. pen., 1991, II, p. 773, n. 277; A. SCELLA, I residuali poteri di iniziativa probatoria del giudice dibattimentale, in questa Rivista, 1992, p. 1210 e C. VALENTINI REUTER, Sui limiti insiti nei poteri conferiti al giudice dagli artt. 506 e 507 c.p.p., in Giur. it., 1992, II, c. 109, nonché, a seguito dell’intervento delle Sezioni Unite (Sez. Un. 6 novembre 1992, Martin, in Foro it., 1993, II, c. 65) e della Corte Costituzionale (Corte Cost. sent. 26 marzo 1993, n. 111) sulla norma de qua, L. MARAFIOTI, L’art. 507 c.p.p. al vaglio delle Sezioni Unite: un addio al processo accusatorio e all’imparzialità del giudice dibattimentale, in Giur. it., 1993, II, p. 712; E. RANDAZZO, L’interpretazione dell’art. 507 c.p.p. dopo le decisioni delle Sezioni unite e della Corte costituzionale, in Cass. pen., 1993, p. 2235, n. 1317 e P.P. RIVELLO, sub art. 507, in Commento, cit., Secondo aggiornamento, 1993, p. 242. (25) Così, Sez. V, 22 ottobre 1993, Montani, in Giust. pen., 1994, III, c. 326; Sez. III, 5 dicembre 1990, Maffia, in Cass. pen., 1992, p. 2118, n. 1135 e Trib. Brescia, 12 giugno 1990, Moscono, ivi, 1992, p. 1330, n. 736. (26) Cfr. Sez. III, 19 agosto 1993, Poluzzi, in Arch. n. proc. pen., 1994, p. 259. (27) Ai fini dell’attivazione dei poteri officiosi ex art. 507 c.p.p., non occorre neppure che la fonte di prova sia compiutamente identificata, essendo sufficiente l’individuazione della stessa. Valga un esempio. Se nel corso del dibattimento emerge che sono informate sui fatti le persone che al momento della commissione del reato di cui è processo svolgevano attività lavorativa presso una certa azienda, il giudice ai sensi dell’art. 507 ne potrà disporre la citazione al fine di assumerne la testimonianza, previa identificazione ad opera della P.G. (28) Cfr. Corte Costituzionale, Sentenza 28 gennaio 1991, n. 88. Per un commento alla decisione cfr. F. CAPRIOLI, L’archiviazione, Jovene, 1994, p. 328, M. CHIAVARIO, L’obbligatorietà dell’azione penale: il principio e la realtà, in Cass. pen., 1993, p. 2665, n. 1636; G. GIOSTRA, L’archiviazione, Giappichelli, 1993, p. 23, L. GIULIANI, La regola di giudizio in materia di archiviazione (art. 125 disp. att.) all’esame della Corte Costituzionale, in Cass. pen., 1992, p. 250, n. 157; G. LOZZI, L’udienza preliminare, Giuffrè, 1992, p. 29.


— 1171 — mento » (29) ma anche in ogni fase procedimentale collocata al termine delle indagini preliminari (30). Il principio di completezza delle indagini affermato dalla Corte Costituzionale deve, infatti, essere letto non apoditticamente ma alla luce delle osservazioni svolte nella stessa sentenza. Chiamata a pronunciarsi sulla ortodossia costituzionale dell’art. 125 disp.att., la Corte ha sottolineato come « nel principio di obbligatorietà dell’azione penale sia insito... quello che in dottrina viene definito favor actionis », di talché, « in casi dubbi, l’azione penale va esercitata e non omessa ». Il criterio della inidoneità degli elementi a sostenere l’accusa in giudizio sottende, pertanto, il principio di non superfluità del processo. Le valutazioni del p.m. e del giudice non si pongono in una prospettiva proiettata sul risultato finale del processo ma investono la superfluità dell’accertamento giudiziale. Si è così osservato come, nei casi dubbi, la notizia di reato potrà essere archiviata « solo quando si possa fondatamente ritenere che la formazione della prova nel contraddittorio delle parti non risulterebbe comunque decisiva ai fini dell’accertamento (positivo o negativo) della responsabilità dell’imputato » (31). Tanto premesso, appare evidente come, da un lato, completezza delle indagini e, dall’altro, immodificabilità del quadro probatorio (ovvero secondo la dizione della Suprema Corte « superfluità del dibattimento ») siano concetti non coincidenti. Ben può un’indagine completa offrire risultati suscettibili di modificazione in altra sede. Per contro l’incompletezza delle indagini ben può manifestarsi con il carattere della invincibilità (32). Il punto di discrimine è dato, pertanto, dalla valutazione di staticità del quadro probatorio offerto al giudice. Diagnosi di non modificabilità del quadro probatorio e carattere « assoluto » della mancanza, dell’insufficienza e della contraddittorietà della prova sono concetti ontologicamente coincidenti. Si tratta di valutazioni da operarsi caso per caso, alla luce del principio di non superfluità del dibattimento che assume, così, il ruolo di ago della bilancia per il (29) Cfr., da ultimo, L. IAFISCO, Il decreto penale di condanna, cit., c. 554 e M. VESSICHELLI, Prova insufficiente o incompleta, cit., p. 480. (30) Il riferimento è all’evidenza portato alla pronuncia di archiviazione ed alla sentenza di non luogo a procedere. Cfr., quanto all’archiviazione, A. BERNARDI, sub art. 125 disp. att. c.p.p., in Commento, cit., Normativa complementare, 1992, Vol. I, p. 212; V. BORRACCETTI, Archiviazione, indagini preliminari e obbligatorietà dell’azione penale, in Quest. giust., 1989, p. 569. Paiono orientati in tale direzione, seppur con diverse sfumature, E. AMODIO, Il modello accusatorio nel nuovo codice di procedura penale, in Commentario al nuovo codice di procedura penale, a cura di E. Amodio - O. Dominioni, Giuffrè, 1989, Vol. I, p. xxv; G. GIOSTRA, L’archiviazione, cit. p. 30 e V. GREVI, Archiviazione per inidoneità probatoria ed obbligatorietà dell’azione penale, in questa Rivista, 1990, p. 1274. Cfr., quanto alla sentenza di non luogo a procedere, D. CARCANO, Sentenza di non luogo a procedere ed evidenza probatoria, in Cass. pen., 1992, p. 1573, n. 854; G. CONSO, Conclusioni di un dibattito sull’udienza preliminare, in Giust. pen., 1992, III, p. 55; G. GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 17; V. GREVI, Archiviazione, cit., p. 1274; G. LOZZI, L’udienza preliminare, cit., p. 15; A. PRESUTTI, Presunzione di innocenza e regole di giudizio in sede di archiviazione e di udienza preliminare, in Cass. pen., 1992, p. 1359, n. 742; L. RAVAGNAN, Il concetto di evidenza ed il nuovo codice di procedura penale, in Riv. pen., 1992, p. 911; C. TAORMINA, L’udienza preliminare tra carenze normative e distorsioni applicative, in Giust. pen., 1992, II, c. 266. (31) Così F. CAPRIOLI, L’archiviazione, cit., p. 357. (32) Un calzante esempio è costituito dalla vicenda oggetto della sentenza Sez. III, 25 febbraio 1995, Faccin ed altro, cit., fonte di quel secondo orientamento che ha dato luogo alla decisione annotata. La fattispecie contestata era quella di cui all’art. 1164 c.n. per aver guidato un gommone in zona interdetta. Al momento dell’accertamento del fatto i verbalizzanti non furono in grado di identificare il comandante dell’imbarcazione, l’unico che la legge ritiene responsabile di tale fattispecie. Essendo il gommone non soggetto all’obbligo di registrazione e avendo gli imputati assunto un atteggiamento non collaborativo, è evidente che in nessun modo la prova circa l’identità del comandate dell’imbarcazione potesse essere acquisita. L’incompletezza dell’accertamento si configura così con il crisma della invincibilità, dando luogo ad una situazione di mancanza assoluta della prova che rende superflua la prosecuzione dell’iter processuale.


— 1172 — contemperamento degli opposti principi in gioco tra i quali occorre trovare un punto di equilibrio. Facendo leva sull’archetipo ideologico della centralità del dibattimento come luogo privilegiato di formazione della prova, non può che condividersi l’orientamento secondo cui la regola di giudizio dell’equivalenza può trovare applicazione solo al termine del dibattimento (33). Come sottolinea la sentenza annotata, « prima di tale momento la parte non è stata posta in condizione di dimostrare che la mancanza era colmabile, la contraddizione eliminabile e l’insufficienza superabile ». Ma del pari fondate appaiono le istanze di chi, argomentando dal principio del favor rei, che impone tra le diverse soluzioni di adottare quella più favorevole all’imputato, da un lato, e da quello dell’economia processuale, dall’altro, afferma la piena operatività della regola di equivalenza in discorso anche nelle fasi procedimentali e processuali anteriori alla conclusione del dibattimento (34). E sono proprio le ragioni dell’economia processuale ad essere richiamate nella sentenza in commento per sostenere la rilevanza ai fini del disposto dell’art. 129 comma 1 c.p.p. della « mancanza assoluta della prova ». Alla luce di quanto osservato, dovranno essere i principi di economia processuale e del favor rei a prevalere quante volte la lacuna probatoria si manifesti in termini di assolutezza sì da rendere superfluo il dibattimento. Dovrà essere il principio della centralità del dibattimento a prevalere quante volte la lacuna probatoria appaia suscettibile di modificazione in quella sede. Sotto tale profilo assume, sicuramente, rilievo determinante il distinguo operato dalle Sezioni Unite tra « mancanza assoluta » e « mancanza allo stato degli atti » della prova. Ma solo come criterio per verificare, nel caso concreto, l’esistenza del presupposto per l’applicazione della regola di giudizio ex art. 530 comma 2 c.p.p. Rebus sic stantibus, quantomeno sotto il profilo della mancanza della prova, non potrà più legittimamente negarsi che il giudice, richiesto dell’emissione del decreto penale di condanna ovvero dell’applicazione della pena, possa adottare sentenza di proscioglimento in applicazione del disposto dell’art. 530 comma 2 c.p.p. in ipotesi di mancanza della prova. Ma postulando corretta la soluzione offerta, non vi è motivo per adottarne una diversa per l’insufficienza o la contraddittorietà della prova, giova ripeterlo, alle medesime condizioni. L’orientamento antagonista contrasta, infatti, con la ratio stessa del disposto dell’art. 530 comma 2 c.p.p. con cui il legislatore ha inteso uniformare la disciplina della insufficienza e contraddittorietà della prova a quella della mancanza della stessa, prendendo nettamente le distanze dall’art. 469 c.p.p. abr. (35). (33) Sul tema del contraddittorio delle parti come strumento gnoseologico prescelto dal legislatore in sede di riforma processuale cfr. F. CORDERO, Procedura penale, 3a ed., cit., p. 359; P. FERRUA, Contraddittorio e verità nel processo penale, in Studi sul processo penale, Vol. II, Giappichelli, 1992, p. 45 e A. NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, 5a ed., Giuffrè, 1996, p. 14. Sul tema del rapporto tra strumento processuale e verità cfr. L. FERRAJOLI, Note critiche ed autocritiche intorno alla discussione su « Diritto e ragione », in Le ragioni del garantismo, discutendo con Luigi Ferrajoli, a cura di L. Gianformaggio, Giappichelli, 1993, p.459 e M. TARUFFO, Note sulla verità dei fatti del processo civile, ivi, p. 340. (34) Sul tema cfr., da ultimo, L. IAFISCO, Il decreto penale di condanna, cit., c. 557, con ampi riferimenti di dottrina e giurisprudenza. (35) A dire il vero, leggendo la parte motiva della sentenza viene il dubbio che il ragionamento della Corte risenta della disciplina vigente sotto il codice abrogato. Sintomatica al riguardo, la defaillance lessicale nel qualificare il dubbio probatorio alla stregua di una formula assolutoria, anziché di una regola di giudizio. Ciò, inoltre, spiegherebbe la contraddizione evidenziata: la mancanza della prova parrebbe, infatti, collocata in un contesto diverso rispetto al disposto dell’art. 530 comma 2 c.p.p.


— 1173 — Né pare corretto il rilievo secondo cui una preclusione al proscioglimento ex art. 129 c.p.p. in situazioni di dubbio probatorio discenderebbe dall’essere legata l’operatività della norma de quo all’« evidenza » dell’innocenza dell’imputato (36). È pur vero che gli artt. 530 comma 2 e 129 c.p.p. sottendono principi solo in parte convergenti. Se la prima norma è esclusivamente espressione del principio del favor rei, lo stesso non può dirsi per l’obbligo dell’immediata declaratoria delle cause di non punibilità. In chiave antagonista e prevalente l’art. 129 c.p.p. è espressione anche del principio di economia processuale (37). A ben vedere, tuttavia, il legislatore ha risolto il conflitto tra il principio del favor rei e quello dell’economia processuale a favore del secondo, solo nel capoverso della norma da ultimo citata, precludendo al giudice, in caso di intervento di una causa di estinzione del reato, il potere di proseguire nell’accertamento al fine di verificare l’esistenza di una causa di proscioglimento più favorevole per l’imputato. Non inganni la portata della regola di prevalenza ex art. 129 comma 2 c.p.p. Ciò non significa che comunque il principio del favor rei non trovi tutela nella norma de quo e, soprattutto, che la tutela del favor rei non possa essere ricuperata proprio sotto il profilo delle regole di giudizio sottese alla decisione ex art. 129 c.p.p. Di talché, in linea di principio ed al fine di non tradire lo spirito della riforma, deve ritenersi equiparata in toto la disciplina della mancanza e della insufficienza o contraddittorietà della prova anche nell’ambito operativo dell’art. 129 c.p.p. Ciò, tuttavia, vale solo in linea di principio. All’omogeneità di disciplina tra le due situazioni probatorie è, infatti, ontologicamente legata una non trascurabile diversità, per così dire, probabilistico-quantitativa. 4. Segue: i criteri per valutare l’insufficienza o la contraddittorietà della prova. Variabili applicative. — Si è visto come la regola di giudizio dell’art. 530 comma 2 c.p.p. imponga al giudice di verificare la staticità del quadro probatorio. Nel corso dell’iter processuale, la probabilità di operare la valutazione in discorso appare direttamente proporzionale all’an ed al quantum di attività probatoria esperibile nella sede in cui il giudice è chiamato a sciogliere l’alternativa tra l’adozione di un provvedimento di impulso del procedimento ovvero terminativo dello stesso. Si pensi al potere del giudice richiesto dell’emissione del provvedimento di archiviazione di indicare nuove indagini, che offre una chance di verifica immediata della idoneità espansiva del quadro probatorio. In caso di esito negativo della ricerca sui temi di prova incompleti o nuovi, troverà conferma la diagnosi di statiMa vi è dell’altro. Nella parte motiva la Corte nega che l’operatività della regola di equiparazione ex art. 530 comma 2 c.p.p. si concretizzi in un favor libertatis per l’imputato. Si osserva, infatti, che « non può davvero dirsi che questo favor sia garantito se l’imputato viene prosciolto perché mancante, insufficiente e contraddittoria la prova ». L’assunto ha un potere rievocativo degli effetti negativi per l’imputato legati alla formula dubitativa di proscioglimento vigente nel codice abrogato. Stante la completa equiparazione contenuta nell’art. 530 comma 2 c.p.p., non si vede come l’adozione del proscioglimento ai sensi della norma da ultimo citata possa limitare il favor rei di cui, peraltro, la regola ivi sancita costituisce piena attuazione. (36) Pare prospettare questa soluzione, M. VESSICHELLI, Prova insufficiente o incompleta, cit., p. 481. (37) Al proposito si è osservato come il legislatore nel dettare la disciplina dell’immediata declaratoria delle cause di non punibilità abbia riconfermato « la prevalenza dell’interesse generale alla ‘‘economia dei giudizi’’ sull’interesse del singolo ad ottenere una sentenza di piena assoluzione ». Così, A. JAZZETTI - M. PACINI, La disciplina degli atti nel nuovo processo penale, Giuffrè, 1993, p. 52. Sul tema cfr. A. GALATI, Gli atti, cit., p. 278; E. MARZADURI, sub art. 129, cit., p. 123 e G.P. VOENA, Atti, in Profili del nuovo codice, cit., p. 158.


— 1174 — cità degli elementi di prova già prospettata dall’organo dell’accusa, legittimando l’adozione del provvedimento di archiviazione. Analoghe osservazioni possono essere svolte, mutatis mutandis, per il giudice in sede di udienza preliminare cui il legislatore attribuisce un potere di iniziativa officiosa in tema di prova all’art. 422 c.p.p. Né, ai fini che qui interessano, assume grande rilievo il limite derivante dal particolare criterio di ammissione delle stesse (art. 422 comma 2 c.p.p.), posto che, difficilmente, apparirà non decisiva quella prova la cui assunzione consenta di operare la valutazione di superfluità o meno del dibattimento imposta al giudice dell’udienza preliminare (38). Ben diversa la posizione del giudice investito della richiesta di applicazione della pena ovvero dell’emissione del decreto penale di condanna. In difetto di ogni potere di iniziativa probatoria, gli sarà preclusa ogni attività volta a verificare in concreto la potenzialità espansiva del materiale raccolto. Di talché non potrà che disporre la restituzione degli atti all’organo dell’accusa perché proceda nelle forme ordinarie, eventualmente motivando in ordine alla opportunità di esperire indagini sui temi incompleti ravvisati (39). Un’altra variabile può essere individuata nelle diverse situazioni probatorie descritte dall’art. 530 comma 2 c.p.p. Ai fini dell’applicabilità della regola di giudizio dell’equiparazione si richiede non solo l’impossibilità di operare il completamento della prova ma anche che tale valutazione sia effettuata con criteri di carattere obiettivo. Per quanto attiene alla mancanza della prova il criterio obiettivo per la sua valutazione è in re ipsa (40). Quanto all’insufficienza e contraddittorietà della prova, giurisprudenza e dottrina individuano i criteri, rispettivamente, nell’« inadeguatezza » delle prove a carico a fornire al giudice la certezza della colpevolezza, e nell’« equivalenza » fra le prove rispettivamente a carico e a discarico dell’imputato (41). Per quanto concerne il criterio della « inadeguatezza », potranno ben verificarsi ipotesi in cui il giudice investito della scelta tra impulso e conclusione del procedimento, pur attribuendo prognosticamente il massimo valore probatorio agli elementi raccolti a sostegno dell’accusa, non li ritenga sufficienti per fondare un giudizio di colpevolezza dell’imputato. In tal caso, infatti, si può fondatamente ritenere che la formazione della prova nel contraddittorio delle parti non risulterebbe decisiva ai fini dell’accertamento della responsabilità dell’imputato. Rebus sic stantibus, nulla osta all’adozione di un provvedimento conclusivo dell’iter pro(38) Peraltro, allargata la regola di giudizio dell’udienza preliminare, con la soppressione dell’« evidenza », dovrà del pari, considerarsi proporzionalmente ampliata la possibilità di integrazione probatoria ex art. 422 c.p.p. Rilievo non tranquillizzante come sottolinea una parte della dottrina che paventa la reintroduzione di una più o meno larvata forma di « istruttoria ». Cfr. A. MACCHIA, La « nuova » sentenza di non luogo a procedere e il decreto che dispone il giudizio: tra « cripto-motivazione » e dubbi di costituzionalità, in Cass. pen., 1993, p. 2414, n. 1477 e D. MANZIONE, sub art. 425, in Commento, cit., Secondo Aggiornamento, 1993, p. 206. (39) Resta fermo il carattere non vincolante di tali indicazioni che costituiscono una mera segnalazione circa l’opportunità di acquisire elementi sui temi rilevati dal g.i.p. Sul punto cfr. Sez. V, 20 settembre 1993, Urcioli, Mass. pen., 1994, m. 8. In generale, sui poteri del g.i.p. richiesto dell’emissione di decreto penale di condanna, cfr. Sez. V, 24 giugno 1993, De Micco, ivi, 1993, m. 37, nonché Corte Costituzionale sent. 28 dicembre 1990, n. 580. (40) Cfr. M. VESSICHELLI, Prova insufficiente o incompleta, cit., p. 479. (41) Si v., in giurisprudenza, Sez I, 6 dicembre 1994, Valentino, in Cass. pen., 1986, p. 1611, n. 1281; Sez. II, 9 dicembre 1985, Ventra, in Mass. pen., 1985, m. 172216; Sez. I, 20 febbraio 1985, Lopardo, in Cass. pen., 1986, p. 1610, n. 1280; Sez. III, 13 marzo 1984, Pepe, ivi, 1985, p. 1881, n. 1211 e Sez. I, 15 novembre 1983, Casini, in Mass. pen., 1983, m. 161709 e, in dottrina, D. SIRACUSANO, Studio sulla prova delle esimenti, cit., p. 207 e F. CORDERO, Procedura penale, 9a ed., cit., p. 987.


— 1175 — cessuale nel merito. Si verte, infatti, in ipotesi ubicate nei labili confini che dividono la mancanza dall’insufficienza della prova (42). Diversamente, quante volte la valutazione di adeguatezza lasci spazio al dubbio sulla superfluità dell’accertamento dibattimentale il giudice non potrà adottare un proscioglimento nel merito. Nei casi di insufficienza della prova vi è, dunque, un certo spazio operativo per la regola di giudizio ex art. 530 comma 2 c.p.p. Non solo al termine del dibattimento, infatti, è possibile operare una diagnosi di non vincibilità dell’insufficienza della prova alla luce del principio di non superfluità del dibattimento. A diversi risultati conduce, al contrario, la valutazione operabile con il criterio dell’« equivalenza ». Qualora gli elementi a sostegno dell’accusa e quelli a favore della difesa appaiano bilanciati è improponibile, infatti, l’adozione di un provvedimento terminativo dell’iter procedimentale, sia questo un decreto di archiviazione ovvero una sentenza ex art. 129 c.p.p. Gli elementi di prova non hanno ancora subito tutte le verifiche esperibili in dibattimento, per cui l’accertamento non può dirsi né concluso né completo. Infatti, le prove emerse a favore della difesa, apparentemente di peso pari a quelle a sostegno dell’accusa, potrebbero non reggere il vaglio dibattimentale (si pensi a testi a difesa « smontati », uno ad uno, da serrati controesami) e trasformare, quindi, una situazione di equivalenza in un quadro probatorio idoneo ad un giudizio di colpevolezza. Emerge il dubbio: si rinvii a giudizio in attesa che le variabili dibattimentali apportino contributi risolutivi. In tali casi, infatti, l’accertamento giudiziale si presenta nient’affatto superfluo. Sotto tale profilo è apprezzabile l’affermazione contenuta nella sentenza in commento laddove sottolinea la centralità del dibattimento come luogo di formazione della prova. L’assunto è idoneo a sgombrare il campo da quello che è stato definito un « perdurante equivoco » (43) in ordine al valore del contraddittorio in sede dibattimentale. Se è indubbio che questo costituisce il fulcro della garanzia processuale per l’imputato, con troppa facilità si dimentica che esso costituisce, prima ancora, lo strumento gnoseologico prescelto dal legislatere in sede di riforma del processo penale (44). Riaffermata la funzione principale del contraddittorio, è, per l’appunto, nelle situazioni dubbie che il dibattimento si impone come imprescindibile, quale strumento di accertamento e conoscenza. Il delinearsi di una situazione di equivalenza tra prove a carico e prove a discarico non consente l’adozione di un provvedimento conclusivo dell’ iter processuale nel merito, imponendo la verifica dibattimentale. Regola che, tuttavia, può subire un’eccezione. Nessun sacrificio alla funzione conoscitiva del dibattimento è ravvisabile allorché il giudizio di equivalenza abbia ad oggetto esclusivamente prove precostituite (ad esempio i risultati di una ispezione ed i documenti prodotti dalla difesa). In tal caso, infatti, il quadro probatorio é privo di quella potenzialità espansiva che giustifica il rinvio a giudizio. Si tratta, pur sempre, di ipotesi assai rare. Ciò induce a ritenere, nella pratica, assai improbabile la possibilità di una valutazione di superfluità del dibattimento in caso di prove « equivalenti » nelle fasi anteriori al dibattimento. In conclusione, allorché nel corso dell’iter procedimentale il giudice sia inve(42) Si ricordi, infatti, come nella vigenza del codice abrogato la ricerca di una linea di demarcazione netta tra mancanza e insufficienza della prova avesse sollevato un ampio dibattito stante la significativa diversità di disciplina dettata ai commi 2 e 3 dell’art. 479 c.p.p. abr.: sul tema cfr., da ultimo, A. NAPPI, sub art. 479, in Commentario breve, cit., p. 1281. (43) Per l’uso di questa terminologia cfr. P. FERRUA, Contraddittorio e verità, cit., p. 47. (44) Sulla centralità del contraddittorio cfr. F. CORDERO, Procedura penale, 3a ed., cit., p.17; P. FERRUA, Contraddittorio e verità, cit., p. 45 e A. NAPPI, Guida al nuovo codice, cit., p. 8.


— 1176 — stito del potere di adottare un provvedimento conclusivo nel merito ben potrà applicare il disposto dell’art. 530 comma 2 c.p.p. quante volte la mancanza non sia colmabile, l’insufficienza non sia superabile e la contraddizione non sia eliminabile. 5. La prova insufficiente o contraddittoria e la regola di prevalenza ex art. 129 comma 2 c.p.p. — Resta, infine da esaminare un ultimo aspetto sollevato dal disposto di cui all’art. 129 comma 2 c.p.p. Quid iuris, nei casi di concorso di una situazione di insufficienza e contraddittorietà della prova con una causa di estinzione del reato? Secondo la dottrina e giurisprudenza prevalente (45), l’evidenza richiesta dall’art. 129 comma 2 c.p.p. assume un ruolo diverso rispetto al passato in virtù dell’equiparazione operata dall’art. 530 comma 2 c.p.p. Pertanto, a meno di far sopravvivere la rilevanza processuale del dubbio — in palese contrasto con quanto sancito all’art. 2 n. 11 della legge delega — parrebbe che anche una situazione di incertezza probatoria determini il prevalere delle formule di merito sulla declaratoria di estinzione del reato. Ma non è mancato chi ha tratto dall’espressa clausola di salvezza contenuta all’art. 531 c.p.p., ove trova disciplina la dichiarazione di estinzione del reato a seguito di dibattimento, una sicura conferma all’assunto secondo cui « nel concorso di una causa di estinzione del reato e di un’altra causa più favorevole di non punibilità, quest’ultima deve risultare in modo evidente, e non anche in modo contraddittorio o insufficiente come previsto dall’art. 530 comma 2 c.p.p. » (46). Sul punto, come è noto, è intervenuta la Corte Costituzionale, investita della questione di legittimità dell’art. 129 c.p.p. in relazione alla ipotizzata inoperatività della regola di giudizio dell’equiparazione colta come fonte di una ingiustificata disparità di trattamento di situazioni omogenee (47). Nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione, la Corte ha evidenziato come entrambi gli orientamenti, così come enunciati, non possano essere accettati per la loro assolutezza. Mentre, infatti, il primo svuota di significato la disposizione dell’art. 129 comma 2 c.p.p., il secondo oblitera il principio del favor rei che « ha avuto una specifica attuazione nella nuova e generalizzata regola dell’equiparazione dell’insufficienza e contraddittorietà della prova alla mancanza della stessa » (48). La Corte ha adottato, quindi, una soluzione modellata sulla dinamica strutturale del nuovo processo che si articola in fasi separate che adempiono, almeno tendenzialmente, funzioni diverse. Pertanto, allorché la causa estintiva intervenga dopo che il dibattimento sia giunto al suo epilogo, il giudice sarà chiamato a pronunciare sentenza ai sensi de(45) Cfr., in dottrina, G. CONSO - M. BARGIS, Glossario della nuova procedura penale, Giuffrè, 1992, p. 575; F. CORDERO, Procedura penale, 3a ed., cit., p. 820; E. MARZADURI, sub art. 129, cit., p. 106 e A. NAPPI, Guida al nuovo codice, cit., p. 326 e, in giurisprudenza, App. Milano, 10 novembre 1989, Lorigiola, in Arch. n. proc. pen., 1990, p. 261; Sez. II, 21 giugno 1990, Lagodana, in Cass. pen., 1992, p. 1256, n. 1457; Sez. VI, 16 aprile 1991, Scinto, Riv. pen., 1992, c. 680 e Sez. I, 8 novembre 1991, Brendolan, in Mass. pen., 1991, n. 189013. (46) Così E. FASSONE, Il giudizio, in Manuale pratico del nuovo processo penale, Cedam, 1991, p. 811. Si v., altresì, D. SIRACUSANO, Il giudizio, cit., p. 321. In giurisprudenza, cfr. Sez. IV, 14 dicembre 1989, Magrì, in Arch. n. proc. pen., 1991, p. 616, ove si ritiene operativo il criterio dell’evidenza, nei termini sopra evidenziati, anche nel giudizio d’impugnazione; Sez. I, 17 ottobre 1991, Biolcati, in Cass. pen., 1992, p. 3060, n. 1457 e Sez. III, 8 aprile 1993, Gablai, in Arch. n. proc. pen., 1993, p. 712. (47) In particolare con l’ord. 26 giugno 1991, n. 300, dopo aver evidenziato che « il principio di prevalenza delle formule assolutorie su quelle dichiarative dell’estinzione del reato... è razionalmente contemperato... dal requisito dell’evidenza delle risultanze probatorie... da valutarsi in rapporto allo stato del procedimento », la Corte rileva come l’applicazione della causa estintiva nei confronti degli imputati per i quali non può trovare applicazione il disposto dell’art. 530 comma 2 c.p.p. « non concreta violazione del principio di eguaglianza, attesa la rinunciabilità della causa estintiva ». Si veda altresì, per analoghe conclusioni, ord. 28 dicembre 1990, n. 581 e ord. 18 luglio 1991, n. 362. (48) Si v. Sez. II, 15 ottobre 1992, Tulliani ed altri, in Foro it., 1993, II, c. 427.


— 1177 — gli artt. 529 e segg. c.p.p., trovando così piena applicazione anche la regola di giudizio contenuta nell’art. 530 comma 2 c.p.p. Diversamente, qualora la causa estintiva intervenga in una fase anteriore al dibattimento, stante l’ontologica incompletezza del materiale probatorio a disposizione del giudice ai fini della valutazione dell’evidenza, non vi è spazio per l’equiparazione sancita all’art. 530 comma 2 c.p.p., poiché in tali fasi del processo incompletezza ed insufficienza costituiscono lo status naturale della prova. Le riportate osservazioni vengono fatte proprie dalle Sezioni Unite nella sentenza annotata per confermare la validità dell’asserita non applicazione del disposto di cui all’art. 530 comma 2 c.p.p. in sede di decisione sulla richiesta di decreto penale di condanna, aprendo, però, la strada ad un’altra contraddizione. Non paga del recente orientamento costituzionale, la sentenza richiama le affermazioni a suo tempo formulate dalla stessa Corte nella declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 152 comma 2 c. abr. nella parte in cui non comprendeva, tra le ipotesi in cui il giudice doveva pronunciare sentenza di proscioglimento nel merito anziché declaratoria di estinzione del reato, anche l’ipotesi in cui mancasse del tutto la prova che l’imputato avesse commesso il fatto, così ponendo definitivamente sullo stesso piano la prova positiva dell’innocenza e la prova negativa, la mancanza di prova, della colpevolezza (49). Tuttavia, la sentenza precisava come la mancanza della prova potesse avere rilevanza, nel contesto dell’art. 152 c. abr., « solo ad istruttoria ultimata » (50). Mutatis mutandis, concludono le Sezioni Unite, la mancanza della prova, nel contesto del nuovo art. 129 comma 2 c.p.p. potrà assumere rilievo soltanto a dibattimento concluso. Il cerchio si chiuderebbe se non fosse che la sentenza commentata dichiara anche la piena rilevanza della mancanza (assoluta) della prova in sede di decisione sulla richiesta di decreto penale di condanna e, cioè, in una fase ben anteriore al termine del dibattimento! Se quell’affermazione avesse ancora il pieno valore che le Sezioni Unite vorrebbero riconoscerle, l’operatività dell’equiparazione tra prova negativa e prova positiva in una fase anteriore alla conclusione del dibattimento, come sostenuta nella sentenza in commento, sarebbe censurabile. Si nega la premessa. Anche per la questione del coordinamento del disposto di cui all’art. 129 comma 2 c.p.p. con la regola di equiparazione ex art. 530 comma 2 c.p.p., la soluzione deve essere più articolata. Precisato che la declaratoria ex art. 129 c.p.p. si atteggia quale decisione rebus sic stantibus (51), deve condividersi l’opinione espressa dalla Corte Costituzionale nelle ordinanze richiamate (52). È difficile adottare una nozione unitaria di evidenza laddove, al contrario, questa è destinata ad assumere un contenuto, per così dire, variabile in relazione allo stato del processo in cui il giudice è chiamato ad operare la valutazione ai fini della regola di prevalenza (53). Ma il criterio discretivo, a giudizio di chi scrive, deve essere diverso da quello indicato nelle ordinanze de quibus. (49) Corte Costituzionale sent. 9 gennaio 1975, n. 5. (50) Una dottrina ha sottolineato come « l’espressione ‘‘istruttoria [formale ultimata]’’ non può essere equiparata, ai fini che qui interessano, alla istruttoria dibattimentale dal momento che in tale ultima fase opererebbe con certezza il criterio di cui all’art. 530 comma 1 e 2 c.p.p. e non quello ex art. 129 cpv. ». Così M. VESSICHELLI, Prova insufficiente o incompleta, cit., p. 482. L’A. conclude, pertanto, auspicando l’interpretazione del riferimento come portato alla conclusione delle indagini. (51) Cfr., sul tema, G. VERINA, L’evidenza dell’innocenza dell’imputato nella fase delle indagini preliminari, in Giur. mer., 1991, p. 1154. (52) Cfr., retro, nota 47. (53) Per un’attenta analisi del diverso contenuto e valore delle regole di giudizio in funzione delle diverse fasi procedimentali, cfr. A. PRESUTTI, Presunzione di innocenza e regole di giudizio, cit., p. 1363.


— 1178 — Come il giudice al termine del dibattimento non può dichiarare estinto un reato che non abbia accertato, così nell’udienza preliminare per tale epilogo è necessario che sussistano a carico dell’imputato elementi sufficienti al rinvio a giudizio (54). Si noti come, essendo precluso al giudice ogni sviluppo dell’attività probatoria in presenza di una causa di estinzione del reato, la prognosi di non vincibilità della mancanza e dell’insufficienza della prova dovrà essere operata sulla base degli atti di cui il giudice è in possesso. Ben diverse le conseguenze. Allorché la causa estintiva scatti, ad esempio, in sede di udienza preliminare ovvero in sede di decisione sulla richiesta di decreto penale di condanna il giudice, avendo a disposizione l’intero fascicolo del p.m., usufruirà di un ampio quadro « probatorio » per valutare la mancanza assoluta ovvero l’incompletezza assoluta della prova, secondo quanto già qui osservato. Ma si provi ad immaginare il profilarsi di una causa estintiva nell’incipit del dibattimento il cui « magro » fascicolo preclude al giudice ogni possibilità di operare la complessa valutazione postulata dall’art. 530 comma 2 c.p.p. La soluzione può lasciare perplessi. Mentre, infatti, all’imputato — magari di meno grave reato — risulterebbe preclusa per effetto dell’intervento nel corso del dibattimento della causa estintiva, l’assoluzione con formula pienamente liberatoria, diversamente nella identica ipotesi di prova insufficiente per il quale la causa estintiva operi nell’udienza preliminare si gioverebbe, in tale sede, della più favorevole formula di merito, allorché risultino integrati i presupposti per l’applicazione del disposto ex art. 530 comma 2 c.p.p. Tuttavia, analoga discrepanza è ravvisabile tra l’imputato per cui valga la causa estintiva nel corso del dibattimento e l’imputato per il quale la causa estintiva non operi il quale si gioverebbe della più favorevole formula di merito nel successivo giudizio (55). Se è vero che due contraddizioni non fanno una certezza, comunque deve essere rifiutata la tesi antagonista. Le perplessità possono essere fugate ove si consideri l’espresso riconoscimento del carattere rinunciabile dell’amnistia e della prescrizione, a seguito degli interventi della Corte Costituzionale la quale, con successive pronunce, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 151 comma 1 e 157 c.p. nella parte in cui non prevedevano appunto la rinunciabilità degli istituti de quibus (56). Il sistema può così essere salvato alla luce del contesto in cui opera l’efficacia preclusiva delle cause estintive, idoneo a tutelare il diritto dell’imputato ad ottenere un accertamento giudiziale della propria innocenza. Si osservi, infatti, anche ai fini che qui interessano, come la difesa venga chiamata ad operare una scelta sull’opportunità di rinunciare a tali benefici in un mo(54) Così F. CORDERO, Procedura penale, 3a ed., cit., p. 835. (55) Posizioni critiche avverso il disposto dell’art. 129 comma 2 c.p.p. assumono, proprio per tali motivi, E. MARZADURI, Obbligo dell’immediata declaratoria delle cause di non punibilità, in Commento, cit., Primo aggiornamento, p. 473 e M.T. STURLA, sub art. 129, in Commentario al nuovo codice di procedura penale, cit., p. 100. Si v., inoltre, M. CHIAVARIO, La riforma del processo penale, UTET, 1988, p. 45, ove l’A. rileva che, stante l’ampiezza della previsione della legge delega sul punto, il legislatore ben avrebbe potuto optare per una soluzione intesa ad offrire una maggiore tutela dell’innocenza attraverso l’imposizione di effettuare, pur in presenza di una causa estintiva del reato, le indagini necessarie per addivenire ad una piena assoluzione nel merito. (56) Cfr. Corte Cost. sent. 14 luglio 1971, n. 175 e sent. 23 maggio 1990, n. 275; in dottrina, per un ampio commento alle due decisioni, cfr. rispettivamente, E. FASSONE, La generalizzazione del diritto di rinuncia all’amnistia e suoi riflessi sulla costruzione giuridica dell’istituto, in Giur. cost., 1971, II, p. 2109 e P.P. RIVELLO, La rinunciabilità della prescrizione dopo un recente intervento della Corte Costituzionale, in Leg. pen., 1990, p. 717.


— 1179 — mento successivo alla discovery e, quindi, all’integrale conoscenza dell’attività investigativa del p.m. Di talché, quella valutazione prognostica sulla potenzialità espansiva del quadro probatorio richiesta al giudice ai fini dell’applicabilità dell’art. 530 comma 2 c.p.p., dovrà essere operata anche dalla difesa, al diverso fine di verificare la possibilità di una pronuncia più favorevole all’esito del dibattimento (quindi, anche circa la possibilità che in tale sede si profili una situazione di insufficienza probatoria). La soluzione è, infine, in linea con l’opzione di fondo del nuovo sistema processuale ove i diritti delle parti sono tendenzialmente concepiti come disponibili e, quindi, rinunciabili. In conclusione, la sentenza in commento offre, in modo, forse non volontario, ma efficace, un forte argomento per rivisitare tutti gli orientamenti giurisprudenziali formatisi sui rapporti tra la regola di giudizio ex art. 530 comma 2 c.p.p. e gli istituti che consentono al giudice, nel corso dell’iter processuale, l’adozione di un provvedimento nel merito. Non potrà più essere negata, stante l’autorevolezza del precedente, la rilevanza della mancanza della prova anche nelle fasi anteriori al dibattimento. Toccherà all’interprete aprire la strada a nuovi equilibri giurisprudenziali per vincere la diversa soluzione offerta per l’insufficienza o la contraddittorietà della prova. BARBARA MERCURI Dottoranda in procedura penale nell’Università di Ferrara


— 1180 — CASSAZIONE PENALE — Sez. Un. — 22 novembre 1995 Pres. Vessia — Rel. Morelli P.M. Suraci — Ric. Carlutti Misure cautelari personali — Riesame — Procedimento — Udienza — Traduzione dell’istante che ne abbia fatto richiesta — Omissione — Nullità assoluta — Conseguente inefficacia della misura coercitiva — Esclusione (C.p.p. artt. 127, 178, 179, 309). La mancata traduzione dell’indagato all’udienza camerale di cui all’art. 309 c.p.p., perché non disposta o non eseguita nonostante ne abbia fatto richiesta, determina la nullità assoluta ed insanabile dell’udienza camerale e della successiva pronuncia del tribunale sulla richiesta di riesame. Tale nullità non comporta, però, la cessazione di efficacia della misura coercitiva disposta, cessazione che si verifica nel solo caso in cui il tribunale non provveda nel termine stabilito, con esclusione, quindi, dell’ipotesi in cui il provvedimento, emesso tempestivamente, sia per qualche ragione annullabile (1). (Omissis). — La questione sottoposta all’esame di queste Sezioni unite, di cui al primo motivo di ricorso, di carattere preliminare rispetto alle altre doglianze, è oggetto di contrasto tra le Sezioni semplici di questa Corte. Mentre alcune pronunce affermano il carattere assoluto e insanabile, ai sensi dell’art. 179 c.p.p., della nullità della procedura camerale ex art. 309 c.p.p. svoltasi in assenza dell’indagato che aveva chiesto di essere sentito (Sez. V, 14 settembre 1991, n. 851, Cusimano, Sez. VI, 29 ottobre 1992, n. 3176, Bin Chebel, Sez. VI, 30 aprile 1992, n. 1461, Caterino ed altri, Sez. VI, 6 maggio 1993, n. 1312, Portaro, Sez. VI, 1 giugno 1993, n. 1634, Rossi), altre optano per l’inquadramento di detta nullità tra quelle di tipo intermedio, disciplinate dagli artt. 178 lett. c), 180 e 182 c.p.p. (Sez. V, 18 aprile 1994, n. 1559, Piras, Sez. I, 10 luglio 1993, n. 2233, Di Giacomo, entrambe citate nell’ordinanza impugnata). Occorre peraltro sottolineare che alcune delle sentenze citate nell’ordinanza di rimessione tra quelle che sostengono la tesi meno rigorosa (Sez. V, 2 luglio 1993, n. 1749, Spierto; 20 dicembre 1991, Marsella, rv 190010; Sez. V, 18 aprile 1994, Caiafa, rv. 197997; Sez. I, 11 gennaio 1995, n. 4692, Madonia) hanno escluso la configurabilità della nullità per non essere stata accolta la richiesta dell’indagato, detenuto fuori della circoscrizione del Tribunale e sentito dal giudice di sorveglianza del luogo di detenzione, di essere ascoltato dal Tribunale investito della decisione sull’istanza di riesame, non sussistendo un diritto soggettivo dell’indagato in tal senso, ma rimanendo al giudice la facoltà di valutare l’opportunità di disporre la traduzione dinanzi a sé. Si tratta quindi di pronunce del tutto estranee al thema decidendum. Sono invece in tema tutte le pronunce che affermano la nullità assoluta e, nel versante opposto, le sentenze Di Giacomo e Piras, che, in contrasto con le tre precedentemente esaminate, ritengono configurabile il diritto del detenuto fuori della circoscrizione del Tribunale di essere sentito dal giudice del riesame, qualificando peraltro la relativa nullità, in caso di violazione, rispettivamente come relativa e sanabile ex artt. 182 e 183 c.p.p., e intermedia. Queste Sezioni unite ritengono di condividere il primo orientamento.


— 1181 — È da premettere che la questione si pone negli stessi termini sia l’indagato detenuto nell’ambito o fuori della circoscrizione del Tribunale, dopo la sentenza n. 45/91 della Corte costituzionale che ha interpretato l’art. 127 c.p.p. nel senso che in tale seconda ipotesi il giudice del riesame è tenuto ad assicurare la presenza dell’interessato dinanzi a sé qualora questi ne faccia specifica richiesta. La relativa omissione viene a porsi, sotto il profilo della patologia processuale, sullo stesso piano di quella che si verifica in caso di omessa traduzione del detenuto ristretto nell’ambito territoriale del Tribunale. Venendo ora all’esame della questione, è opportuno anzitutto ricordare che le nullità speciali, previste da singole disposizioni di legge come tali, senza indicazione specifica della loro natura, assoluta, intermedia o relativa, sono riconducibili all’una o all’altra categoria delle nullità generali, con conseguente applicazione della relativa disciplina, se ontologicamente e strutturalmente inquadrabili in ciascuna delle suddette categorie. Pertanto le nullità previste dall’art. 127, 5o comma — applicabile alla procedura di riesame per il richiamo alle forme del procedimento in camera di consiglio di cui all’art. 309, 8o comma — per la violazione delle norme contenute nei commi 1o, 3o e 4o di detto articolo — avviso dell’udienza camerale, audizione delle parti se compaiono, rinvio dell’udienza in caso di impedimento a comparire dell’imputato o del condannato (e anche dell’indagato, in virtù dell’estensione a quest’ultimo dei diritti dell’imputato ex art. 61 c.p.p.) che ha chiesto di essere sentito personalmente — risulterà sussumibile in una delle tre tipologie a seconda delle diverse ipotesi di violazione. Allorquando le suddette violazioni attengono all’intervento dell’imputato dell’indagato o del condannato, e quelle di esse concernenti l’avviso dell’udienza riguardano la sua citazione, si rientra nell’ambito rispettivamente delle nullità intermedie di cui all’art. 178 lett. c) c.p.p. e di quelle assolute ex art. 179 c.p.p. Tanto premesso rileva la Corte che nell’ipotesi di imputato, indagato o condannato detenuto, la cui partecipazione all’udienza camerale è subordinata ad una sua positiva manifestazione di volontà in tal senso (esprimibile, come si è visto, anche nel caso di detenzione fuori della circoscrizione del giudice), l’ordine di traduzione e la sua esecuzione costituiscono, insieme con l’avviso dell’udienza camerale e la sua notificazione, atti indefettibili della procedura diretta alla regolare costituzione del contraddittorio. Senza di essi infatti l’avviso non può svolgere in concreto l’unica funzione che gli è propria, quella della vocatio in iudicium, che può definirsi tale solo in quanto rivolta a chi ad essa sia in grado di rispondere. Devesi perciò ritenere che la citazione dell’imputato, dell’indagato o del condannato realizza un’unica fattispecie complessa, costituita dall’avviso, dalla dichiarazione di volontà dell’interessato detenuto di comparire e dalla sua successiva traduzione, atti tutti da guardarsi, per il rapporto di stretta conseguenzialità che li caratterizza, in una visione unitaria in funzione dello scopo loro proprio, la vocatio in iudicium per la valida instaurazione del contraddittorio. Soccorre una tale interpretazione la ratio del contraddittorio proprio delle procedure camerali riguardanti imputati, indagati o condannati, quale è stata sottolineata con particolare vigore dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 98 del 20 maggio 1982 e n. 45 del 31 gennaio 1991, dianzi citata. Con la prima di tali decisioni è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 del codice di rito abrogato, per contrasto con l’art. 24, 2o comma della Costituzione, nella parte in cui non prevedeva il rinvio della trattazione dell’incidente di esecuzione ove


— 1182 — l’imputato o il condannato, che abbia fatto domanda di essere sentito personalmente, non compaia per legittimo impedimento. Il giudice delle leggi ha fatto leva sulla inderogabile necessità della presenza dell’imputato o del condannato nella procedura incidentale, onde assicurare la pienezza del contraddittorio, la quale sola può consentire l’esercizio del diritto di difesa previsto dalla Carta fondamentale, anche nella forma dell’autodifesa, che non può esplicarsi se non con il rapporto diretto con il giudice dell’esecuzione, al quale l’interessato deve avere la possibilità di rappresentare direttamente le proprie ragioni. La sentenza n. 45/91 dichiarava non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 309, 8o comma e 127, 3o comma c.p.p., con riferimento all’art. 24, 2o comma della Costituzione, nella parte in cui prescrive che, in sede di riesame del provvedimento che ha disposto la misura cautelare della custodia in carcere, se l’imputato chiede di essere sentito e sia in custodia fuori della circoscrizione del Tribunale, deve essere sentito dal giudice di sorveglianza del luogo in cui ha sede lo stabilimento; ciò in quanto, secondo la Corte, l’art. 309 c.p.p. non vieta la comparizione personale dell’imputato se questi ne abbia fatto richiesta o il giudice competente lo ritenga ex officio opportuno, rilevandosi che « il diritto-dovere del giudice di cognizione di sentire personalmente l’imputato, e il diritto di quest’ultimo di essere ascoltato dal giudice che dovrà giudicarlo, rientrano nei principi generali d’immediatezza e di oralità cui s’ispira l’attuale sistema processuale ». Come si vede entrambe le pronunce danno un rilievo decisivo, ai fini della corretta applicazione dell’art. 24, 2o comma della Costituzione e della conseguente interpretazione della legge conforme a tale norma, alla presenza all’udienza camerale dell’imputato detenuto che abbia manifestato espressamente la volontà di comparire, in quanto unico mezzo idoneo a consentirgli di esprimere le sue ragioni, in ispecial modo quando queste vertono su questioni di fatto. In proposito è opportuno rilevare che la particolare struttura del giudizio di riesame, con la deroga al principio devolutivo proprio delle impugnazioni, connota di spiccato rilievo la presenza all’udienza camerale dell’indagato. La richiesta di riesame, sia essa dell’indagato o del difensore, può essere immotivata e i motivi possono essere formulati dall’interessato all’udienza dinanzi al Tribunale, anche quando la richiesta sia del difensore. L’indagato, quando ha proposto istanza motivata, può prospettare motivi nuovi all’udienza dinanzi al Tribunale (art. 309, 6o comma). Inoltre, poiché il Tribunale può annullare il provvedimento impugnato o riformarlo in senso favorevole all’imputato anche per motivi diversi da quelli enunciati, l’area delle prospettazioni difensive può ampliarsi notevolmente anche in relazione allo sviluppo dell’udienza. Se poi si considera che è estremamente vasta la gamma dei motivi vertenti sulle condizioni della misura, cioè gli indizi di colpevolezza, le esigenze cautelari e l’adeguatezza e proporzionalità della misura stessa, in relazione sia agli elementi posti a fondamento dell’ordinanza restrittiva, sia con riferimento ad eventuali ulteriori acquisizioni d’indagine documentate dal pubblico ministero successivamente alla sua adozione o ad elementi nuovi che lo stesso interessato può addurre, questioni tutte che, nella maggior parte dei casi, sono di fatto, in ordine alle quali quindi la valenza dell’autodifesa assume un rilievo talvolta anche superiore a quello della difesa tecnica, appare evidente l’aspetto determinante della presenza dell’indagato nel giudizio camerale. Le considerazioni finora svolte inducono pertanto a ritenere che sia per la natura di fattispecie complessa da attribuire alla citazione dell’imputato o dell’inda-


— 1183 — gato nella procedura camerale, sia per il carattere essenziale della sua presenza all’udienza, in particolare nel giudizio di riesame, la mancata traduzione, perché non disposta o non eseguita, determini la nullità assoluta e insanabile ex art. 179 c.p.p. dell’udienza camerale e della successiva pronuncia del Tribunale sull’istanza di riesame. Nel caso in esame si è verificata appunto tale nullità, avendo il Tribunale proceduto alla trattazione della richiesta di riesame e all’adozione del provvedimento in assenza del Carlutti, del quale pure era stata disposta la traduzione, anziché sollecitare l’esecuzione di detta traduzione ovvero rinviare l’udienza dando avviso della nuova data all’indagato. Tale nullità non comporta, come assume il ricorrente, la cessazione di efficacia della misura e, conseguentemente, l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata, poiché la perdita di efficacia della misura coercitiva a norma dell’art. 309, 10o comma c.p.p. si verifica nel solo caso in cui il Tribunale non provveda nel termine stabilito, con esclusione, quindi, dell’ipotesi in cui il provvedimento del Tribunale, emesso tempestivamente, sia per qualche ragione annullabile (Sez. Unite, 12 febbraio 1993, Piccioni). — (Omissis).

—————— (1-2)

Rispetto del diritto di difesa e alchimie interpretative sull’efficacia della decisione invalida.

1. Suggestivamente evocato quale postulato ineludibile di « processualità » (1) e di ortodossia del metodo giurisdizionale (2), il valore del contraddittorio non poteva non dismettere la sua connotazione sofisticamente virtuale, per insinuarsi, in modo progressivo e penetrante, negli stessi interstizi di un impianto normativo, quale il meccanismo del controllo custodiale, dalla inconfondibile morfologia inquisitoria (3), originariamente refrattaria ad ogni autentica intromissione dialogica. Architettato nella stagione del pregarantismo, l’istituto del riesame subiva fin dall’inizio, la sua natura parentetica con il giudizio principale, ovvero il contagio di una angusta filosofia procedimentale, da cui mutuava vizi e distorsioni. La spiccata vocazione per uno stringente contenimento del ruolo della difesa (4), la cui (1)

Nel senso che il contraddittorio rappresenta il vero carattere distintivo del processo, cfr. FAZ-

ZALARI, Istituzioni di diritto processuale, Padova, 1975, 28.

(2) Sulla connotazione del contraddittorio quale strumento, ancor oggi il meno imperfetto, per la ricerca della verità, cfr. P. CALAMANDREI, La dialetticità del processo, in Opere giuridiche, a cura di Cappelletti, I, Napoli, 1965, 682; GUARNERI, Le parti nel processo penale, Torino, 1949, 17; MALINVERNI, Principi del processo penale, Torino, 1972, 397. (3) Cfr. CHIAVARIO, Il nuovo « riesame »: quale dosaggio di garanzie?, in Legislazione pen., 1983, 569; CORDERO, Procedura penale, App., Milano, ed. 1983, 13; GREVI, Tribunale della libertà, custodia preventiva e garanzie individuali, in Tribunale della libertà e garanzie della persona, a cura dello stesso, Bologna, 1983, 22; NAPOLEONI, Una chiosa sul Tribunale della libertà e difetto di motivazione del provvedimento, in Cass. pen., 1984, 1722; TONINI, Brevi osservazioni sul disegno di legge in tema di « tribunale della libertà » approvato alla Camera il 17 ottobre 1981, in Giust. pen., 1982, III, 240. (4) In senso critico verso il ruolo « ancillare » della difesa nel procedimento del riesame, CHIAVARIO, Il nuovo « riesame »: quale dosaggio di garanzie?, cit., 568; CRISTIANI, Aspetti problematici del contraddittorio nel riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, in questa Rivista, 1984, 962; DI NANNI-FUSCO-VACCA, Il tribunale della libertà, Napoli, 1983, 178; FATA, Richiesta di riesame e diritto di difesa dell’imputato dinanzi al tribunale della libertà, in Cass. pen., 1986, 1585; FERRAIOLI, Il riesame


— 1184 — tutela veniva ricondotta, in forma paralogistica, alla esistenza stessa del rimedio anziché alla sua reale efficacia (5), germinava plasticamente dalla assiomatica compressione di ogni logica partecipativa, nonché dalla presunzione di un ineliminabile disequilibrio tra le parti, causa la marcata preponderanza enfaticamente accordata alle esigenze « criptiche » dell’istruzione (6). Non è certo lecito revocare in dubbio l’intrinseca ambiguità che pervade l’intero sistema della restrizione della libertà personale ante iudicatum, tradizionalmente destinato ad accusare il patologico velleitarismo di ogni tentativo di coniugazione degli opposti; un terreno impervio, dove imperiose tensioni individuali e sociali si scontrano e si scaricano (7), ed interessi forti, di pari dignità giuridica, vivono un drammatico momento di reciproca, sebbene obbligata, rarefazione (8), rendendo ogni assetto quanto meno precario ed ogni soluzione, non quella ottimale, ma solo una congenitamente perfettibile. Sono la vulnerabilità dell’oggetto, la delicatezza della materia, la gravosità delle implicazioni ad imporre modalità nel procedere disponibili all’azione esplicativa e critica dei soggetti interessati, vale a dire congegni improntati ad un generalizzato favor per una « dialetticizzazione » che, realisticamente improponibile nell’economia della fase genetica del provvedimento de libertate, deve perlomeno innestarsi, in chiave posticipatoria, nella fase di rimeditazione dei presupposti legittimanti il titolo coercitivo (9). Soltanto con la metamorfosi « accusatoria » del processo quei pochi spiragli di interlocuzione, concessi medio tempore alle parti in sede di riesame (10), divendei provvedimenti sulla libertà personale, Milano, 1989, 505; GREVI, Tribunale della libertà, cit., 34; ILLUMINATI, Commento agli artt. 6-10 l. 12 agosto 1982, n. 532, in Legislazione pen., 1983, 105; LEMMO, Luci e ombre nei primi orientamenti giurisprudenziali sul tribunale della libertà, in Tribunale della libertà, cit., 289. (5) Per una critica all’assunto secondo cui la tutela del diritto di difesa sarebbe comunque derivata dalla semplice previsione del potere di impugnazione previsto dalla legge, ossia dal fatto stesso dell’investitura di un organo collegiale, dalla « giurisdizionalità » in senso oggettivo del procedimento, cfr. FERRAIOLI, Il riesame, cit., 510. In argomento, v. pure FATA, Richiesta di riesame, cit., 1585; CERESA GASTALDO, Il riesame delle misure coercitive nel processo penale, Milano, 1993, 133. (6) Cfr. BETOCCHI, Sui termini nella procedura di riesame dei provvedimenti cautelari, in Riv. dir. proc., 1989, 517; FERRAIOLI, Il riesame, cit., 508. (7) In questo senso DI CHIARA, Il contraddittorio nei riti camerali, Milano, 1994, 342. (8) Sul rapporto tra cautele processuali e principi costituzionali, v. ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, Bologna, 1979, 33, osservando che la custodia cautelare è « un dilemma insolubile: da un lato l’imputato andrebbe trattato come un innocente, dall’altro lato devono essere anticipate a suo carico misure concretamente assimilabili alle conseguenze dell’eventuale accertamento di colpevolezza... Il problema si risolve sul piano della politica legislativa, in termini di ripartizione del rischio del processo tra lo Stato e l’imputato: intendendo il rischio di una condanna inutile perché ineseguibile per il primo, di un tardivo riconoscimento dell’innocenza per il secondo. A questo punto si inserisce la presunzione costituzionale che sta ad indicare il tendenziale spostamento del rischio dell’imputato allo Stato ». In argomento, v. pure A. MIELE, Esigenze cautelari, nuovo processo e Convenzione Europea, in Il giusto processo, 1989, 78; nonché, ampiamente, NOBILI, La disciplina costituzionale del processo, Bologna, 1976, 281. (9) In tal senso DI CHIARA, Il contraddittorio, cit., 56, per cui essendo decisivo l’« elemento sorpresa » per poter realizzare lo status detentionis, qualsiasi meccanismo anticipatorio che introducesse un contraddittorio anticipato, circa la valutazione dialettica degli elementi addotti per giustificare il titolo cautelare, finirebbe per vanificare ineluttabilmente gli scopi dello strumento. Nell’ottica della comparazione v. CONFALONIERI, Spunti per la riforma delle cautele penali: l’esperienza francese, in Cass. pen., 1995, I, 3586. (10) Il riferimento è a quella prima modesta forma di apertura introdotta dalla l. 5 agosto 1988, n. 330, che autorizzava l’accesso del difensore in camera di consiglio, al fine di illustrare la richiesta di riesame. Sul punto CARULLI, Cenni e spunti sulla l. 5 agosto 1988, n. 330 (nuova disciplina dei provvedimenti restrittivi della libertà nel processo penale), in Arch. pen., 1988, 291; CHIAVARIO, Una legge « anticipatrice » sui generis in tema di libertà personale, in Legislazione pen., 1988, 491; DI CHIARA, Il contraddittorio, cit., 76, per cui « il nuovo meccanismo segna, in ogni caso, un progresso apprezzabile, pur se non interamente soddisfacente: l’embrione di contraddittorio che esso contiene si proietta verso una più compiuta realizzazione del diritto di difesa, facendo da trait d’union tra l’originario assetto del riesame e l’at-


— 1185 — tano veri e propri varchi aperti alla difesa, la quale, scardinate alcune obsolete premesse di fondo e superate antiche inibizioni, finisce per ampliare sensibilmente il proprio spatium di cognizione e di intervento, collocandosi in un piano — oltre che di naturale antagonismo — di tendenziale pariteticità e simmetria con l’accusa (11). Con l’adozione dello schema camerale ex art. 127 c.p.p. davanti al tribunale della libertà, si è cercato in effetti di colmare quegli ingiustificati vuoti di tutela accusati dal vecchio assetto normativo: scelta di per sé evolutiva rispetto all’inadeguatezza delle precedenti forme di gestione dello status custodiae, sebbene non completamente avulsa da certe pregiudiziali ideologiche latenti (12). Si tratta, infatti, di un modello procedimentale — peraltro non inedito all’esperienza processualistica (13) — in cui la perfetta sinergia tra istanze semplificatorie e svalutazione di solennità superflue, crea il substrato essenziale per un contenzioso ritenuto meno « nobile », garantisticamente meno esigente (14). Allo snellimento formale si accompagna, altresì, una parziale amputazione del contraddittorio, privilegiato nella sua articolazione (scritta) « cartolare », anziché nella sua classica esternazione « orale » (15), la cui previsione in termini di sola « eventualità » — e non di imprescindibilità — rischia di affievolirne sensibilmente l’effetto (16). Risponde, del resto, ad elementari canoni logici quella sorta di concezione « relativistica » del rito (ovvero di flessibilità procedurale) per cui si persegue l’« adeguatezza » dell’aspetto « strutturale » del processo al suo concreto aspetto « funzionale », scremando tutto ciò che, di volta in volta, non è necessario o, in ogni caso, non è utile (17). Il che si traduce, di riflesso, in una conseguente « graduazione » della dialetticità del giudizio e quindi nel « poliformismo » (18) dello stesso diritto di difesa, il cui esercizio va modulato secondo le particolarità del procedimento cui accede. Il problema è quello di evitare che contrazioni fisiologiche degli schemi processuali degenerino in vere e proprie diseconomie partecipative, ossia in eccessivi tuale volto dell’istituto, adesso ridisegnato, soprattutto sotto il profilo del variato inquadramento sistematico del nuovo codice di procedura penale »; LOZZI, Sulle principali innovazioni apportate al codice di procedura penale del 1930 dalla l. 5 agosto 1988, n. 330, in Giust. pen., 1988, III, 634. (11) In argomento BETOCCHI, I nuovi profili del riesame delle misure di coercizione personale, in Riv. dir. proc., 1992, 888; nonché, ampiamente, CONFALONIERI, Verso la tutela sostanziale della difesa nel riesame delle misure cautelari, in Giur. it., 1995, II, 534. Per la nozione tecnica di contraddittorio quale « dualità antagonistica e paritetica » in cui è in gioco la persuasione di un « terzo », v. GIOSTRA, Valori ideali e prospettive metodologiche del contraddittorio in sede penale, in Pol. dir., 1986, 14. (12) Per notazioni critiche, cfr. CERESA GASTALDO, Il riesame, cit., 134; TAORMINA, Diritto processuale penale, I, Torino, 1991, 480. (13) Il modello di riferimento è rappresentato, infatti, dall’incidente di esecuzione disciplinato dall’art. 630 c.p.p. 1930. In argomento, ampiamente A. GAITO, Incidenti di esecuzione e procedimenti incidentali, in Riv. dir. proc., 1989, 27. Sul procedimento in camera di consiglio come impianto normativo « di genere », cfr. DI CHIARA, Il contraddittorio, cit., 165. (14) Cfr. AMODIO, Art. 127, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, II, Milano, 1989, 95; GARAVELLI, Art. 127, in Commento del nuovo codice di procedura penale, II, Torino, 1990, 85. (15) Sulla inscindibilità del legame tra contraddittorio e oralità, cfr. GIOSTRA, Valori ideali, cit., 14. (16) Cfr. CERESA GASTALDO, Il riesame, cit., 139, per cui l’art. 127 c.p.p. garantisce solo l’intervento, non già il contraddittorio, nel senso che « la nozione di ‘‘garanzia’’, per quanto incerta, non può certo essere compressa sino al punto di essere snaturata attraverso l’assimilazione al concetto di ‘‘eventualità’’ ». Circa l’interpretazione dell’« eventualità » del contraddittorio orale, quale libera scelta delle parti in conformità alle proprie tattiche processuali, cfr. DI CHIARA, Il contraddittorio, cit., 170. (17) Per una nitida teorizzazione del principio di « adeguatezza » delle forme processuali, cfr. G. FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, II, Milano, ed. 1968, 8. Al proposito, v. pure CONSO, Problemi di metodo e scelte di fondo, in Giust. pen., 1988, I, 516. (18) In tema, cfr. AMODIO, La presenza del difensore all’interrogatorio istruttorio dell’imputato: epilogo di un conflitto e prospettive per l’effettività della difesa tecnica, in questa Rivista, 1972, 756.


— 1186 — contenimenti del contraddittorio, il cui « minimo » irrinunciabile va comunque tutelato, non in termini di astratta potenzialità ma di obbiettiva realizzazione (19). È naturale, dunque, che proprio il riesame, quale delicato momento di valutazione critica del provvedimento de libertate, sia la sede meno tollerante verso letture restrittive del ruolo interlocutorio delle parti, del loro contributo cognitivo e argomentativo (20). Sono valori giuridici, gnoseologici e finanche etici (21), quelli che reclamano, in tale frangente, l’effettività della difesa, ogni tentativo di marginalizzazione della quale finisce per riverberarsi in un odioso ridimensionamento della sua area costituzionalmente protetta. 2. Non avrebbe avuto senso proclamare la rigenerazione garantista dell’istituto del riesame, senza parimenti soddisfare le istanze presenzialistiche dell’interessato (di colui, cioè, che vive più intensamente il coinvolgimento nella vicenda processuale): il richiamo alle disposizioni dell’art. 127 c.p.p. assicura — dietro facoltativa richiesta — l’intervento personale dell’imputato all’udienza camerale, quale opportuna via di accesso a quella « irripetibile » fase dialogica che si instaura davanti all’organo giudicante (22). Si tratta di una svolta qualificante in senso autodifensivo, il cui carattere innovativo è in parte stemperato dalla riproposizione di quel tormentato meccanismo dell’audizione « diretta » o per « rogatoria », a seconda che l’imputato sia detenuto rispettivamente nel luogo in cui ha sede il giudice o fuori circoscrizione. Nonostante la consapevolezza dell’evidente vizio di incoerenza costituzionale di una tale regolamentazione (23), si è comunque conservata questa discutibile sperequazione di trattamento della difesa materiale degli interessati: rispetto all’unico dato significativo che, nella fattispecie, accomuna i soggetti, ossia lo stato di restrizione personale, la priorità viene accordata ad un elemento estrinseco ed estemporaneo quale il locus custodiae, al fine di giustificare una disciplina deficitaria circa il quantum di oralità e di immediatezza (24). (19) In questo senso CONSO, Considerazioni in tema di contraddittorio nel processo penale italiano, in Riv. it. dir. proc. pen., 1966, 416; CRISTIANI, Aspetti problematici del contraddittorio, cit., 968. Sul rapporto tra contraddittorio e diritto di difesa, v. in special modo GIOSTRA, Valori ideali, cit., 26; VOENA, voce Difesa penale, in Enc. giur. Treccani, X, Roma, 1988, 15. (20) Cfr. CRISTIANI, Aspetti problematici del contraddittorio, cit., 972. (21) Cfr. GIOSTRA, Valori ideali, cit., 21, osservando come la realizzazione del contraddittorio rivela « una concezione della giustizia in cui il metodo di accertamento della verità rappresenta di per sé un valore, per l’acquisita consapevolezza che un ‘‘giusto processo’’ non è eticamente e socialmente meno importante di una ‘‘giusta decisione’’ ». (22) Cfr. DELLA MARRA, Sulla partecipazione dell’imputato detenuto all’udienza di riesame, in Giur. it., 1992, II, 723; TRIGGIANI, Sul diritto dell’imputato detenuto (o internato) a partecipare all’udienza di riesame, in Cass. pen., 1994, 3054; COMUCCI, In tema di nullità per violazione del diritto di difesa nelle impugnazioni de libertate, ivi, 1995, 2304; DI CHIARA, Il contraddittorio, cit., 361. (23) Una tale disciplina è stata mutuata da quella che nel sistema precedente regolava la medesima situazione nel procedimento per gli incidenti d’esecuzione ex art. 630, 2o comma, c.p.p. 1930, peraltro ritenuta legittima, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dalla Corte cost., sent. 22 gennaio 1970, n. 5, che ha escluso ogni compressione del diritto di difesa, ritenendo « giustamente prevalenti in senso ostativo le difficoltà pratiche che un trasporto in stato di detenzione presenta, di fronte all’irrilevanza che il beneficio di essere ascoltato di persona dal giudice competente a decidere rappresenta per il detenuto, garantito nella sua difesa, dagli altri mezzi a lui offerti dalla legge ». In senso decisamente critico, cfr. A. GAITO, Esecuzione, in Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, Padova, 1996, 766; GIANZI, voce Incidenti e procedimenti incidentali (dir. proc. pen.), in Enc. dir., XXI, Milano, 1971, 15; ID., Aspetti del diritto di difesa nel procedimento incidentale d’esecuzione, in Arch. pen., 1972, I, 217; GREVI, Incidenti d’esecuzione e autodifesa del detenuto, in Giur. cost., 1970, I, 49. (24) Cfr. GREVI, Incidenti d’esecuzione, cit., 57, per cui desta « perplessità il ‘‘peso’’ attribuito a circostanze contingenti, e per di più prive di qualunque risalto a livello costituzionale, di fronte a esigenze che trovano nella Costituzione esplicita garanzia ». Nel senso che trattasi di una « scelta difficilmente conciliabile con le esigenze di effettiva partecipazione su basi paritarie agli istituti processuali »: A. GAITO, Esecuzione, cit., 767.


— 1187 — Esistono senza dubbio difficoltà pratico-temporali che rendono sconveniente la frequente traduzione da un luogo ad un altro, e quindi più agevole e meno strumentalizzabile l’esame « delegato »; ma il fatto di escludere che l’apprezzamento preferenziale di tali esigenze possa comportare un intollerabile sacrificio per il ruolo difensivo, non può essere riduttivamente stigmatizzato come sconfinamento in « inutili eccessi ipergarantistici » (25). In effetti, se soltanto il contatto diretto ed orale con l’organo giudicante sprigiona impressioni e fattori di convincimento non surrogabili (26), è evidente il pregiudizio che subisce chi, ascoltato da un giudice non-naturale, prima e al di fuori dell’udienza camerale, vede filtrate e disperse la forza persuasiva delle proprie argomentazioni, l’immediatezza delle sensazioni, e, quindi, « l’efficacia maieutica del contraddittorio » (27). Una così vistosa deviazione dalla regola dell’uguaglianza delle chances autodifensive impone una lettura correttiva del dettato normativo, oltretutto avallata da un intervento mediatore della giurisprudenza costituzionale che — sebbene più elusivo che chiarificatore — suggerisce un’interpretazione intonata all’impostazione accusatoria del rito penale (28). Ne esce confermato quell’orientamento, per così dire, « massimalista » che, svalutando il dato casuale dell’ubicazione custodiale, propende per una opportuna assimilazione delle posizioni processuali degli imputati in vinculis, per cui anche il detenuto fuori sede vanta, dietro richiesta, un vero e proprio diritto all’esplicazione delle proprie ragioni difensive davanti al collegio (29), e non un mero interesse affievolito, insindacabilmente rimesso agli umori del giudice del riesame (30). 3. Tra la provocazione all’intervento e la sua concreta realizzazione, la traduzione « fisica » dell’imputato — ovunque ristretto — all’udienza camerale si pone come elemento cardine di una fase composita, volto a sostanzializzare la sua volontà partecipativa, legittimamente espressa. L’eventuale omissione di tale adempimento materiale, di certo non imputabile all’interessato, finisce per innescare un evidente effetto disfunzionale nell’iter procedimentale, ovvero una lesione (25) In questi termini CORBI, L’esecuzione nel processo penale, Torino, 1992, 226. (26) Cfr. GREVI, Incidenti d’esecuzione, cit., 53. (27) Così GIOSTRA, Valori ideali, cit., 15. Da notare Corte cost., sent. 20 maggio 1982, n. 98, la quale, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 630, 2o comma, c.p.p. 1930 nella parte in cui non prevedeva il rinvio della trattazione dell’incidente d’esecuzione nel caso di legittimo impedimento dell’imputato che avesse fatto richiesta di essere sentito personalmente, aveva affermato che l’interessato « deve avere la possibilità di rappresentare le proprie ragioni direttamante davanti al giudicante », affinché « questi possa formarsi il convincimento nel modo più diretto e completo ». (28) Cfr. Corte cost., sent. 31 gennaio 1991, n. 45, che, nel ritenere non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 309, 8o comma, e 127, 3o comma, c.p.p., in riferimento all’art. 24, 2o comma, Cost., nella parte in cui prevede che l’imputato, se detenuto fuori della circoscrizione del giudice del riesame, deve essere sentito, qualora ne faccia richiesta, dal magistrato di sorveglianza del luogo, sostiene che se « di regola il legislatore, per ragioni di sicurezza e di economia processuale, abbia previsto la delega rogatoria al giudice di sorveglianza quando l’imputato sia detenuto in luogo esterno al circondario, non esclude che, ove l’imputato ne abbia fatto richiesta, o il giudice di cognizione lo ritenga necessario, possa ordinarne la traduzione innanzi a sé. Il diritto-dovere del giudice di cognizione di sentire personalmente l’imputato, e il diritto di quest’ultimo di essere ascoltato dal giudice che dovrà giudicarlo, rientrano nei principi generali d’immediatezza e di oralità ». Sul punto, cfr. DI CHIARA, Il contraddittorio, cit., 365; GIANNONE, Misure cautelari personali, in Commento, cit., I Agg., 1993, 562; TRIGGIANI, Sul diritto dell’imputato detenuto, cit., 3055. (29) Cfr. Cass., Sez. II, 25 gennaio 1994, Gioffré, in Arch. nuova proc. pen., 1994, 580, per cui, nel riesame delle misure cautelari personali, « nel caso in cui l’interessato sia detenuto in luogo esterno al circondario ove ha sede il tribunale competente, l’audizione del detenuto da parte del magistrato di sorveglianza non esclude il diritto del detenuto stesso a comparire all’udienza camerale allorché ne abbia fatto richiesta »; Id., Sez. I, 16 marzo 1994, Piras, in Cass. pen., 1994, 3053, 1909. (30) Nel senso di escludere il diritto detenuto fuori sede ad essere sentito all’udienza camerale del riesame, cfr. Cass., Sez. VI, 2 maggio 1995, Madonia, in Riv. pen., 1996, 391; Id., Sez. V, 12 maggio 1993, Spierto, in Arch. nuova proc. pen., 1994, 279; Id., Sez. I, 26 novembre 1992, Granillo, ivi, 1993, 639.


— 1188 — macroscopica, sebbene implicita, del rituale svolgimento dell’impugnazione de libertate. Ciò che rende improponibile la possibilità di configurare una simile anomalia come mera irregolarità, intesa quale difformità minima dallo schema legale, apprezzabile in termini di sola utilità e non di necessità ai fini dell’incidenza su una struttura processuale di interessi (31); un’ermeneusi di questo tipo, infatti, confinando l’imputato ai margini della procedura camerale, vanificherebbe del tutto il significato della sua presenza, ridotta ad un dato meno che rilevante. Piuttosto, occorre cogliere, nella fattispecie in esame, i tratti di una invalidità nominata, compresa nell’alveo delle nullità, posto che la chiara lettera dell’art. 127, 5o comma, c.p.p, a sua volta richiamata dall’art. 309, 8o comma, c.p.p., commina proprio tale tipo di sanzione per l’inosservanza delle disposizioni di cui ai commi 1o, 3o e 4o, vale a dire quelli relativi all’avviso dell’udienza ai destinatari, all’audizione degli interessati comparsi e al rinvio dell’udienza medesima per legittimo impedimento. L’ipotesi della mancata traduzione dell’imputato detenuto, addebitabile essenzialmente a negligenze organizzative, ripete in un certo senso quella parziale « imperfezione » dell’assetto dicotomico che caratterizza le nullità generali e le nullità speciali (32), dal momento che richiede il previo tentativo di sussunzione di tale vizio nell’area del paradigma normativo di riferimento ex art. 178 c.p.p. In effetti, ogni previsione di nullità « speciale » non altrimenti qualificata impone una appropriata esegesi circa l’eventuale riconducibilità al genus delle nullità generali, a loro volta bipartite in assolute e intermedie (33). Né si creda che la puntuale individuazione tipologica della patologia, e la sua contestuale quantificazione, siano operazioni dal puro gusto classificatorio, essendo le relative conseguenze suscettive di regimi processuali profondamente diversificati. Sebbene appaia inquadrabile, prima facie, nell’ambito dell’intervento ex art. 178, 1o comma, lett. c), c.p.p. (da cui la natura intermedia della nullità) (34) l’omesso accompagnamento del detenuto va più precisamente ascritto alla fenomenologia dei substantalia processus (35), dal momento che riflette un’eterodossa instaurazione del contraddittorio. Posto che, nel disciplinare la reazione all’inosservanza delle regole, l’ordinamento si ispira al principio di gradualità degli interessi tutelati, nel senso che la gravità della risposta sanzionatoria rifrange la meritevolezza della situazione soggettiva lesa (36), nel caso in discussione il carattere assoluto ed insanabile del vizio ex art. 179 c.p.p. trae origine dalla particolare intensità della garanzia dovuta al valore vulnerato (37). In effetti, la concreta partecipazione dell’imputato in vinculis all’udienza del (31) In questo senso, cfr. NORMANDO, voce Nullità degli atti processuali (dir. proc. pen.), in Enc. giur. Treccani, XXI, Roma, 1990, 27. (32) Così CORDERO, Codice di procedura penale commentato, Torino, ed. 1992, 210. (33) Per una articolata ricostruzione esegetica, in termini esemplificativi, delle nullità ex art. 127 c.p.p., cfr. GALATI, Gli atti, in SIRACUSANO-DALIA-GALATI-TRANCHINA-ZAPPALÀ, Manuale di diritto processuale penale, I, Milano, 1990, 352. (34) Cfr. Cass., Sez. V, 16 marzo 1994, Piras, cit.; Id., Sez. VI, 29 novembre 1991, Priolo, in Giur. it., 1992, II, 724. In dottrina, cfr. DELLA MARRA, Sulla partecipazione dell’imputato, cit., 727; TRIGGIANI, Sul diritto dell’imputato detenuto, cit., 3057. Per la generale riconducibilità delle nullità previste dall’art. 127 c.p.p. a quelle di tipo intermedio ex art. 178, 1o comma, lett. b) e c) e art. 180 c.p.p., eccezion fatta per il carattere relativo della nullità riferita alla persona offesa, cfr. F. CORDERO, Procedura penale, Milano, ed. 1993, 337; DI CHIARA, Il contraddittorio, cit., 182; GALATI, Gli atti, cit., 352; GARAVELLI, Art. 127, cit., 99. (35) Così CORDERO, Procedura penale, cit., 993. (36) Cfr. NORMANDO, Nullità, cit., 27. (37) Nel senso che l’omessa traduzione determina una nullità assoluta, cfr. Cass., Sez. VI, 1 giugno 1993, Rossi, in Cass. pen., 1994, 3062, 1910; Id., Sez. VI, 17 settembre 1992, Bon Chebel Ghanan,


— 1189 — riesame (e quindi la compiuta esplicazione del suo diritto di difesa) non solo non può prescindere ma addirittura finisce per dipendere proprio dal fatto che sia stata (ordinata e quindi) eseguita la sua traduzione: adempimento fattualmente distinto dall’avviso, rispetto al quale si pone in un rapporto « simbiotico », la traduzione ne condiziona l’operatività, l’efficacia, nonché la stessa validità. Se è lecito presumere che le norme abbiano un senso, non si può immaginare di citare un soggetto, cioè renderlo edotto dell’esistenza di un dato procedimento, invitarlo ad invocare il proprio intervento, per poi frustrarne inspiegabilmente la legittima volontà di partecipazione attraverso la preclusione alla materiale possibilità di accesso. La non-traduzione, in altri termini, finisce per disperdere l’effetto propulsivo tipico della vocatio in iudicium, rendendo sterile l’obiettivo a cui la stessa è espressamente funzionalizzata, ovvero la sollecitazione delle parti alla dialettica processuale. Del resto, se la particolarità del soggetto, ossia il suo status detentionis, richiede specifiche modalità della « chiamata in giudizio », parzialmente difformi da quelle ordinarie, l’essenziale è che alla divergenza delle forme non si associ una deprecabile contrapposizione di risultati; ciò significa che, indipendentemente dallo strumento concreto, vengano comunque realizzate le esigenze che quel tipo di atto è volto a soddisfare e che, in difetto, vengano parimenti riconosciute le medesime conseguenze sul piano dell’invalidità (38). Oltretutto, non si può propendere per l’esclusione, nella fattispecie, di una ipotesi di nullità assoluta, facendo leva su una presunta perentorietà del dato letterale ex art. 179 c.p.p., ossia orientandosi verso una eccessiva valorizzazione del limite semantico insito nel termine « citazione » (39): termine che, in quanto riferito unicamente all’udienza dibattimentale, non sarebbe estensibile all’udienza camerale, per la quale l’art. 127 c.p.p. parla invece di « avviso » (40). Di fatto, quello che rileva, in una prospettiva garantista corretta, non è l’esasperazione dell’equivoco nomenclatorio, piuttosto la lucida consapevolezza che il medesimo rigore sanzionatorio vada a presidiare tutte quelle sedi in cui l’indefettibilità del contraddittorio necessita di una concreta protezione. 4. Non è casuale che quella del riesame sia una sede sicuramente poco incline a tollerare contrazioni di spazi autodifensivi, visto che nessuno meglio dell’imputato può assicurare una gestione tatticamente adeguata della sua posizione processuale. La possibilità di produrre memorie scritte ante iudicium si riduce ad una sorta di simulacro di contributo esplicativo, se comparata alle potenzialità implicite nella diretta partecipazione all’udienza (41); è in questa fase, nella « serrata successione di asserzioni e repliche di cui è intessuto il dialogo orale » (42), che il giudice, « sfruttando » la presenza e quindi il comportamento dell’imputato, penein Arch. nuova proc. pen., 1993, 325; Id., Sez. VI, 30 aprile 1992, Caterino, ib., 325; Id., Sez. fer., 5 settembre 1991, Cusimano, in Cass. pen., 1992, 347, 227. (38) Per notevoli osservazioni sulla necessità che all’« adeguazione » delle forme in base alla « specialità » del rito, non consegua una diversità di effetti, con specifico riferimento al giudizio direttissimo, cfr. GALLI, Autodifesa e difesa tecnica nella fase predibattimentale del procedimento direttissimo, in Arch. giur. F. Serafini, 1968, 198; ID., In tema di citazione della persona offesa nei procedimenti direttissimi, in Temi, 1973, 169; nonché A. GAITO, Il giudizio direttissimo, Milano, 1980, 299. (39) Così VOENA, Atti, in Profili, cit., 214. (40) In questo senso, cfr. DOMINIONI, Art. 179, in Commentario, cit., II, 1989, 280. Contra, cfr. CAVALLARI, Art. 179, in Commento, cit., II, 1990, 324, per cui, con il termine « citazione » si deve intendere anche l’avviso a comparire all’udienza preliminare, « ciò in chiara applicazione dell’art. 61, che estende alla persona sottoposta ad indagine i diritti e le garanzie dell’imputato e in considerazione altresì della portata che la partecipazione a tale udienza assume per il diritto di difesa ». (41) Cfr. DELLA MARRA, Sulla partecipazione dell’imputato, cit., 726. (42) Cfr. GIOSTRA, Valori ideali, cit., 15.


— 1190 — tra e valuta preziosi spunti argomentativi, e decide con piena cognitio causae, sulla base di una nutrita piattaforma conoscitiva (43). È la natura precipuamente di fatto, piuttosto che di diritto, del procedimento de libertate che induce ad accentuare la preponderanza dell’aspetto materiale su quello tecnico della difesa. Il lodevole tentativo di evitare pericolosi sbilanciamenti e di contenere l’esuberanza di sgradite scelte arbitrarie ha prodotto, nel tempo, un progressivo irrigidimento delle fattispecie applicative delle misure cautelari, attraverso una analiticità, quasi morbosa, del quadro sintomatologico dei presupposti legittimanti l’intervento restrittivo, la sua proporzionalità e adeguatezza (44). È dunque chiaro che, in un contesto in cui al dichiarato ostracismo verso facili generalizzazioni apodittiche e considerazioni puramente presuntive si accompagna il favor per la « specificità » e « concretezza » del giudizio e per la immediata connessione degli elementi di valutazione con le particolarità soggettive e oggettive della singola vicenda cautelare, una attenta verifica sulla persona dell’interessato diventa tanto pregnante da rendere il suo contributo praticamente infungibile. Oltretutto, non si può non tener conto della insolita impostazione strutturale del meccanismo del riesame, della estrema latitudine dei poteri concessi al relativo organo giudicante, la cui connotazione, per così dire « onnivora », si espande in ogni direzione, al fine di attingere qualsiasi dato capace di esprimere anche un minimo valore persuasivo (45). « Sciolto dalle pastoie del tantum devolutum quantum appellatum » (46), il tribunale della libertà rivaluta ex novo l’opportunità e la legittimità del provvedimento impugnato, attraverso una completa revisione della posizione cautelare dell’imputato; premessa la discrezionalità delle censure, di specifici motivi di doglianza (47), la richiesta di riesame finisce per servire unicamente come propulsore del controllo e non come delimitatore del controllo stesso (48), del correlativo campo di indagine, « quasi che la provocazione dell’intervento giurisdizionale in questione possa fungere da mera occasione all’esercizio di una generale legittimazione alla gestione dei poteri in materia di libertà personale » (49). La stessa ampiezza dello spettro decisorio di tale organo riecheggia il carattere ibrido, la natura giuridica innegabilmente controversa del procedimento di riesame (50). Se si considera che il collegio giudicante vanta una totale libertà di scelta nel (43) Sul punto GREVI, Incidenti d’esecuzione, cit., 53. (44) Cfr. ILLUMINATI, in Modifiche al codice di procedura penale, Padova, 1995, 65. (45) In tema di poteri del tribunale della libertà, cfr. GREVI, Tribunale della libertà, cit., 27. Per una ulteriore significativa conferma dei poteri del giudice del riesame, cfr. da ultimo Corte cost., sent. 15 marzo 1996, n. 71, in Guida al diritto, 1996, 72, per cui, sono costituzionalmente illegittimi gli artt. 309310 c.p.p. nella parte in cui non prevedono la possibilità di valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, nel caso in cui sia stato emesso il decreto che dispone il giudizio. (46) Così NAPOLEONI, Una chiosa, cit., 1724. (47) Per puntuali osservazioni sul tema, A. GAITO, Sul devolutum nella richiesta di riesame, in Giur. it., 1992, II, 265. V. pure GIUS. AMATO, Art. 309, in Commentario, cit., III, 1990, 196; CORDERO, Procedura penale, cit., 500; GARAVELLI, voce Riesame dei provvedimenti limitativi della libertà personale, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 790; TAORMINA, Diritto processuale penale, cit., 474. (48) Cfr. BETOCCHI, I nuovi profili del riesame, cit., 895. (49) Così TAORMINA, Diritto processuale penale, cit., I, 483. (50) Per i vari orientamenti sul tema, cfr. CORDERO, Procedura penale, cit., 499; CRISTIANI, Aspetti problematici del contraddittorio, cit., 962; DELLA MARRA, Sull’omesso avviso della data fissata per l’udienza di riesame ad uno dei due difensori dell’indagato, in Giur. it., 1992, II, 255; F.R. DINACCI, Contenuto e limiti del potere di riesame spettante ai c.d. tribunali della libertà, in Giust. pen., 1984, III, 377; DI NANNI-FUSCO-VACCA, Il tribunale della libertà, cit., 163; FERRAIOLI, Il riesame, cit., 207; A. GAITO, Incidenti di esecuzione e procedimenti incidentali, cit., 27; ID., Sul devolutum nella richiesta di riesame, cit., 265; GIAMBRUNO, Spunti per un inquadramento del « riesame » sui provvedimenti cautelari nel nuovo codice di procedura penale, in questa Rivista, 1989, 1025; MARZADURI, voce Riesame dei provvedimenti re-


— 1191 — selezionare il materiale su cui formare il proprio convincimento, nel senso che la decisione può fondarsi anche soltanto sugli elementi addotti in udienza, astraendo dalle eventuali previe prospettazioni argomentative delle parti, si riesce a cogliere la particolare efficacia che può rivestire la comparizione personale dell’imputato nel momento dell’articolazione del confronto, della contrapposizione di confliggenti strategie processuali. La stessa possibilità di addurre motivi nuovi prima dell’inizio della discussione, quale eventuale estensione dei profili d’attacco dell’ordinanza cautelare, può rappresentare un significativo momento di ulteriore esplicazione critica della difesa, volta a contrastare la consistenza delle risultanze probatorie avversarie e, più in generale, la tenuta del completo impianto accusatorio costruito dal pubblico ministero (51). Del resto, l’impronta ideologica dell’intero sistema, orientandosi verso un miglioramento della qualità e dell’intensità del controllo giurisdizionale sulle limitazioni della libertà personale in corso di procedimento (52), mira a garantire la « voce » dell’interessato, in tutte quelle fasi decisorie qualificanti che si riflettono direttamente sulla sua persona (53). Non a caso, la stessa previsione ex art. 309, 5o comma, c.p.p., di un distinto obbligo del p.m. di trasmettere, al giudice del riesame, tutti gli elementi sopravvenuti a favore delle ragioni difensive, risponde alla volontà di tutelare la non-dispersione di qualsiasi dato utile, fruibile ai fini di un giudizio in cui non è trascurabile l’importanza del bene coinvolto. In fondo, la valorizzazione della persona dell’imputato non può non iscriversi in quel più ampio processo di emancipazione del diritto di difesa, ovvero in quella logica riequilibratrice delle parti, da cui trae ispirazione ogni dignitoso ripensamento della inquietante materia de libertate. 5. Contesa tra obliqui iter ermeneutici e vivaci mediazioni politiche, la problematica dell’invalidità — per vizio di procedura — dell’ordinanza del riesame e delle sue ripercussioni sull’efficacia del titolo custodiale, continua a reggersi su precari equilibri dogmatici, senza pervenire a soluzioni soddisfacenti, in termini di chiarezza. I vari contorcimenti interpretativi gravitano intorno alla controversa alternativa tra il riconoscimento o la negazione dell’effetto caducatorio — quindi risolutivo dello status detentionis — connesso all’annullamento di un provvedimento restrittivo emesso, in seconda battuta, dal tribunale della libertà, in spregio del rispetto che si deve al diritto di difesa (54). È intuitivo che il parametro normativo di riferimento della questione sia rappresentato dall’art. 309, 10o comma, c.p.p., laddove contempla, a chiare lettere, la perdita di efficacia dell’ordinanza che dispone la misura coercitiva, nell’ipotesi di omessa decisione del giudice nel termine prescritto — oltre che nella nuova fattispecie di mancata trasmissione degli atti da parte dell’autorità procedente. strittivi della libertà personale, in Noviss. Dig. it., App., VI, Torino, 1986, 784; TREVISSON LUPACCHINI, Natura del procedimento di riesame, in Giur. it., 1992, II, 661. (51) In argomento, v. GIANNONE, Art. 309, in Commento, cit., III, 1990, 274; COMUCCI, In tema di nullità, cit., 2307. (52) In questo senso FRIGO, Contrasto tra Consulta e Corte di cassazione sulla valutazione degli indizi di colpevolezza, in Guida al diritto, n. 14, 1996, 77. (53) Cfr. KOSTORIS, in Modifiche, cit., 147. (54) Nel senso che, essendo tamquam non esset la decisione del tribunale invalida, si verifica l’effetto caducatorio, cfr. Cass., Sez. fer., 30 luglio 1992, Palamara, in Giust. pen., 1992, III, 586; Id., Sez. II, 20 febbraio 1991, Caccavale, in Cass. pen., 1992, 346, 226; Id., Sez. I, 5 luglio 1990, Tilleni Scaglione, in Mass. Uff., 184989. Contra, Cass., Sez. Un., 12 febbraio 1993, Piccioni, in Giur. it., 1994, II, 323; Id., Sez. VI, 29 ottobre 1992, Bon Chebel Ghanan, cit.; Id., Sez. VI, 30 gennaio 1992, Faranna, in Giur. it., 1992, II, 469; Id., Sez. I, 15 gennaio 1992, Cannizzaro, in Arch. nuova proc. pen., 1992, 607; Id., Sez. I, 10 ottobre 1991, Mazzola, ib., 239; Id., Sez. fer., 5 settembre 1991, Cusimano, cit.


— 1192 — Nitida l’impronta garantista di una tale disposizione, orientata verso una difficile ponderazione tra l’interesse alla completezza e congruità del controllo collegiale, e la pressante esigenza individuale alla sollecitudine di una simile verifica, al fine di rimuovere con prontezza l’eventuale illegalità del provvedimento coercitivo (55). Il tutto opportunamente funzionalizzato a tutelare il bene della libertà personale aggredito ante iudicatum, ossia a prevenire quegli effetti disfunzionali che scaturirebbero dalla mancata previsione di una adeguata risposta sanzionatoria ad una « risposta giudiziaria » irrispettosa di precise scansioni cronologiche (56). Al cospetto della perentorità del dato letterale dell’art. 309 c.p.p., il quale sembra attribuire il crisma della tassatività alla relativa fattispecie caducatoria, emerge la necessità di penetrare l’autentica ratio legis, nel senso di accertare se lo scongiuramento dell’effetto liberatorio consegue ad una qualsiasi decisione emessa nel termine, anche se viziata, o piuttosto soltanto ad un provvedimento ritualmente adottato (57). È qui che si può intrecciare la tematica del tormentato rapporto tra nullità ed inesistenza, della rivendicata autonomia concettuale di due categorie logiche, esegeticamente adiacenti (58). Muovendo da una prospettiva capace di sceverare il profilo giuridico da quello naturalistico degli avvenimenti, si può agevolmente cogliere l’assimilazione, sul piano « effettuale », tra l’atto inesistente e l’atto nullo (59). Empiricamente intesa come carenza del « minimo di individuazione necessaria dell’atto » (60), ossia mancanza dei requisiti essenziali per l’identificazione dell’atto, della sua particolare fisionomia (61), l’inesistenza si traduce nell’assoluta improduttività di qualsiasi effetto giuridico; in pratica la vistosità dell’imperfezione osta all’operatività delle cause di sanatoria, inclusa quella estrema che è il giudicato (62). Parimenti, nel caso della nullità, sebbene la difformità dal modello legale non precluda la temporanea produzione degli effetti dell’atto (63), la precarietà degli (55) Cfr. BETOCCHI, I nuovi profili del riesame, cit., 909; DELLA MARRA, Scarcerazione per parziale ritardata trasmissione degli atti al tribunale della libertà, in Giur. it., 1991, II, 324; GREVI, Tribunale della libertà, cit., 37; LEMMO, Luci e ombre, cit., 299; VALENTINI REUTER, Il rispetto dei tempi delle decisioni de libertate, in questa Rivista, 1993, 1146. (56) Cfr. GIULIANI, Annullamento dell’ordinanza e caducazione del provvedimento cautelare ex art. 309, comma 10 c.p.p., in Cass. pen., 1993, 2800. (57) Cfr. BETOCCHI, Diritto di difesa e poteri di integrazione nel procedimento di riesame dei provvedimenti di coercizione personale, in questa Rivista, 1986, 169, osservando che così come « è prevista la liberazione dell’imputato, quando il tribunale non decide in termini — anche se, in concreto, il provvedimento fosse pienamente legittimo e fondato — analogamente, e a maggior ragione, dovrà essere disposta, quando il provvedimento risulti, al controllo, illegittimo od infondato ». In argomento, v. pure, LEMMO, Luci e ombre, cit., 298. (58) In tema di inesistenza, cfr. PANNAIN, Le sanzioni degli atti processuali penali, Napoli, 1933, 239; MASSARI, Il processo penale nella nuova legisazione italiana, Napoli, 1934, 456; G. LEONE, La sentenza penale inesistente, in Riv. it. dir. pen., 1936, 146; CARNELUTTI, Inesistenza dell’atto giuridico?, in Riv. dir. proc., 1955, 208; DE MARSICO, Diritto processuale penale, Napoli, ed. 1966, a cura di Pisapia, 142; CORDERO, L’« inesistenza » della decisione giudiziaria (rilievi in merito ad un recente contributo giurisprudenziale all’inquadramento del problema), in Riv. it. dir. pen., 1957, 602; CONSO, Il concetto e le specie d’invalidità, Milano, rist. 1972, 95; MANCINELLI, voce Inesistenza degli atti processuali penali, in Noviss. Dig. it., VIII, Torino, 1975, 638. (59) Cfr. VIGGIANO, Invalidità dell’ordinanza di riesame ed efficacia della misura coercitiva, in Giur. it., 1994, II, 323. (60) Così TORRENTE, Spunti per uno studio sull’inesistenza e sulla nullità della sentenza, in Studi in onore di E. Redenti, II, Milano, 1951, 395. (61) Cfr. PANNAIN, Le sanzioni, cit., 342; MASSARI, Il processo penale, cit., 456. (62) Cfr. CONSO, Il concetto e le specie d’invalidità, cit., 98. (63) Sul fenomeno della « utilizzazione » degli atti imperfetti, cfr. CONSO, Il concetto e le specie d’invalidità, cit., 26.


— 1193 — stessi è destinata ad essere travolta dalla declaratoria di nullità, che ne comporta la radicale eliminazione ex tunc (64), sulla base di un elementare presupposto che considera inconcepibile una « equivalenza effettuale tra due fattispecie, rispettivamente perfetta e imperfetta » (65). Sostanzialmente, ai fini che qui interessano, la situazione successiva ad una pronuncia di annullamento non appare giuridicamente diversa da quella che segue ad una non decisione (66); come dire che, dovendosi equiparare « la nullità di un atto all’inesistenza, giuridica o di fatto, il suo annullamento ne impedisce l’efficacia » (67). Attraverso l’identificazione del provvedimento invalido con il provvedimento inesistente si esprime la volontà di eludere, in qualche modo, l’anelasticità del dettato codicistico ex art. 309 c.p.p., nel tentativo di aggirare l’ostacolo che si frappone alla pratica azionabilità del meccanismo sanzionatorio. Il che trova lo stimolo nella consapevolezza della frattura, anzi dello stridente contrasto che si crea tra l’apparente ostentazione di un generalizzato favor libertatis e la legittimità della protrazione dello stato di custodia cautelare, derivante da un titolo nullo (68). Non è accettabile, del resto, l’idea di congegnare un qualsiasi sistema di controllo fulmineo sul valido esercizio del potere coercitivo, accontentandosi della garanzia immanente all’esistenza stessa del rimedio, senza altresì evitare che un suo eventuale uso distorto, noncurante delle regole del contraddittorio, sia, di fatto, meno che significativo ai fini della posizione personale dell’imputato. 6. Indipendentemente dalla possibilità di invocare la immediata riconducibilità del provvedimento invalido all’automatismo caducatorio, è necessario valutare — su un piano diverso, sebbene connesso — l’aspetto effettuale dell’annullamento, in sede di legittimità, dell’ordinanza del riesame, ossia il tipo di reazione che tale pronuncia provoca sul titolo coercitivo (69). Se è vero che la intensità della tutela concretamente riservata all’imputato è subordinata alla capacità dell’ordinamento di contrarre, il più possibile, le limitazioni della libertà personale, è naturale credere che, da « ingiustizia necessaria », la custodia cautelare rischi di diventare uno strumento addirittura vessatorio nel momento in cui si istituzionalizza una sorta di intangibilità dell’efficacia dell’originario provvedimento restrittivo, estesa dall’inizio alle propaggini dell’intero procedimento, compresa dunque l’eventuale fase delle impugnazioni, a prescindere dal loro esito (70). Al proposito, non si può non tener conto del ruolo sui generis del giudice del riesame, di quella sua funzione di « supplenza » che porta a configurare il relativo meccanismo, quale fattispecie complessa a formazione successiva (71), costruita (64) Tra gli altri: CORDERO, Riflessioni in tema di nullità assolute, in questa Rivista, 1958, 252; GALATI, voce Nullità (dir. proc. pen.), in Enc. dir., XXII, Milano, 1978, 911; PANNAIN, Le sanzioni, cit., 415. (65) Così CORDERO, Riflessioni in tema di nullità assolute, cit., 248. (66) In questo senso VIGGIANO, Invalidità dell’ordinanza di riesame, cit., 325. (67) Così Cass., Sez. II, 20 febbraio 1991, Caccavale, cit. Contra, nel senso che la inesistenza di un atto è di per sé irrimediabile, mentre l’invalidità può solo portare all’annullamento del medesimo atto, ma solo se eccepita o rilevata nei modi previsti dalla legge, cfr. Cass., Sez. Un., 12 febbraio 1993, Piccioni, cit. (68) Cfr. DELL’ANNO, Ricorso per saltum e vizi di motivazione dell’ordinanza di custodia cautelare, in Giust. pen., 1992, II, 352. (69) Cfr. ILLUMINATI, Commento agli artt. 8 e 9 l. 12 agosto 1982, n. 532, in Legislazione pen., 1983, 109, osservando che ad « impedire la caducazione è il solo fatto della decisione, anche se invalida. Altro problema è quello della sua annullabilità e quindi della sua efficacia come provvedimento sulla libertà personale ». (70) Cfr. GIULIANI, Annullamento dell’ordinanza di riesame, cit., 2800. (71) In senso critico TAORMINA, Diritto processuale penale, cit., 484; CERESA GASTALDO, Il rie-


— 1194 — su un rapporto osmotico, di reciproca integrazione tra l’ordinanza emessa in prima istanza e quella del tribunale della libertà, a guisa di procedura unica (72). Per quanto sia singolare che « il sistema possa porsi a garantire l’immunità a provvedimenti applicativi di misure di coercizione personale in mancanza dei relativi presupposti » (73), il legame di complementarità tra l’atto impugnato e quello successivo permette al tribunale di porre in essere, senza limiti, quei requisiti di legittimità di cui il titolo cautelare è carente, provocandone sorprendentemente la sanatoria. Inteso come « energia riparatrice » (74), che vivifica un atto efficace ma claudicante, il riesame finisce per rappresentare « un (abnorme) strumento giuridico ad impulso di parte, volto ad ottenere la formazione di un atto già esecutivo, ma giuridicamente in itinere » (75). La « gradualità » di una simile fattispecie è tale da dilatare il potere integrativo del collegio giudicante per tutto l’evolversi del procedimento cautelare, fino allo stesso giudizio di rinvio, successivo ad un eventuale annullamento, senza che ciò influisca minimamente sul regime della custodia (76); in pratica l’operatività del controllo sul provvedimento applicativo si propaga sino al segmento terminale della procedura, proprio il giudizio di rinvio, in pendenza del quale il titolo coercitivo conserva intatta la propria efficacia (77). Le perplessità nascono nel momento in cui si avverte la frizione palese che esiste tra la protrazione dello status custodiae e l’omissione di una sua rigorosa delimitazione cronologica. È istintivamente percepibile, del resto, l’essenzialità che il fattore-tempo riveste nell’intera sfera de libertate (78), dove l’impatto traumatico che la vicenda cautelare ha sull’individuo, derogando alla sua presunta non colpevolezza, va mantenuto negli stretti margini dell’« essenzialità » (79). L’eccentricità del sistema traspare dalla presenza di evidenti smagliature nel tessuto di un impianto normativo nel suo complesso rigidamente cadenzato: singolare la distonia che affiora tra la ristrettezza e l’inderogabilità del termine per la pronuncia del riesame e la dimenticanza di una qualsiasi regolamentazione per la pronuncia di rinvio (80). Posto che l’esigenza di tempestività nell’intervento non può non coinvolgere tutti gli organi di controllo (81), l’anomalia sta nel circoscrivere l’efficacia dell’automatismo caducatorio alla fase del riesame, evitando di estendere il medesimo rigore alle fasi successive del procedimento, attraverso un progressivo indebolimento dell’elemento « temporale », con conseguente flessione del livello garantistico dell’intera disciplina. A parte la mancata previsione di un qualche meccanismo sanzionatorio per l’inosservanza dei termini nel giudizio di appello e di Cassazione, le difficoltà magsame sulla legittimità dell’ordinanza cautelare: cade il teorema della motivazione « integratrice », in Cass. pen., 1995, 1922. (72) Sul potere integrativo del tribunale della libertà, v. GIUS. AMATO, Art. 309, cit., 201; BETOCCHI, Diritto di difesa, cit., 144; F.R. DINACCI, Contenuto e limiti, cit., 366; GIANNONE, Art. 309, cit., 273; NAPOLEONI, Una chiosa, cit., 1722. (73) Così TAORMINA, Diritto processuale penale, cit., 486. (74) In questi termini F.R. DINACCI, Contenuto e limiti, cit., 375. (75) Così CERESA GASTALDO, Il riesame sulla legittimità dell’ordinanza cautelare, cit., 1921. (76) Sul punto v. DI NANNI-FUSCO-VACCA, Il tribunale della libertà, cit., 190; nonché, in termini problematici, LEMMO, Luci e ombre, cit., 299. (77) Cfr. GIULIANI, Annullamento dell’ordinanza di riesame, cit., 2801. (78) Sul fattore tempo nei procedimenti cautelari, cfr. DI TROCCHIO, voce Provvedimenti cautelari (dir. proc. pen.), in Enc. dir., XXXVI, Milano, 1988, 844. (79) In questo senso, cfr. VALENTINI REUTER, Il rispetto dei tempi, cit., 1147. (80) Cfr. LEMMO, Luci e ombre, cit., 300. (81) Cfr. VALENTINI REUTER, Il rispetto dei tempi, cit., 1150.


— 1195 — giori derivano proprio da quella « lacuna » del giudizio di rinvio, non agevolmente colmabile ai termini di legge nell’ambito delle impugnazioni de libertate: il tentativo di recuperare l’operatività di limiti cronologici, facendo leva sulla uguaglianza (anche temporale) dei poteri tra il giudice del rinvio e quello il cui provvedimento è stato annullato (82), si scontra con la consapevolezza che « ammettere una reviviscenza del termine ex 309 c.p.p. costituirebbe una contraddizione ancora più grave di quella perpetrata dal legislatore con l’interrompere l’esigenza di celerità alle soglie della prima fase di controllo » (83). È innegabile il disagio che suscita la scarsa chiarezza di un tale contesto: in esso, giusta la disposizione dell’art. 588, 2o comma, c.p.p., la mancanza della condizione sospensiva conferisce al titolo restrittivo la natura di « accertamento » (84), con immediata esecutività e con una assoluta pienezza di effetti dalla durata, peraltro, incerta. Il che significa, in fondo, consacrare la precarietà della posizione dell’imputato, destinato a subire la provvisorietà di una ordinanza continuamente « riaggiustata » lungo i diversi gradi del giudizio, in attesa di quel provvedimento che possa legittimamente giustificarne il sacrificio. Stupisce che difettino certezza e trasparenza nel settore nevralgico della libertà personale, quello in cui, coerentemente « alla avvertita esigenza di configurare limiti obiettivi e ineludibili alla durata » (85) dei relativi provvedimenti, ogni esitazione può essere già pregiudizio (86). KATIA MAMBRUCCHI dell’Università di Perugia

(82) Cfr. MARZADURI, Riesame dei provvedimenti restrittivi, cit., 787. (83) Così VALENTINI REUTER, Il rispetto dei tempi, cit. 1150, per cui, posto che i « termini si considerano stabiliti a pena di decadenza solo nei casi previsti dalla legge » ex art. 173 c.p.p., ciò è sufficiente per escludere che il giudizio di rinvio presso il tribunale della libertà possa venire sottoposto ad un termine di decadenza non espressamente previsto. (84) Cfr. CERESA GASTALDO, Il riesame sulla legittimità dell’ordinanza cautelare, cit., 1921. In argomento, v. pure GIULIANI, Annullamento dell’ordinanza di riesame, cit., 2802, per cui, un’interpretazione della norma di cui all’art. 588, 2o comma, c.p.p. « ispirata ad una prospettiva di favor libertatis, nel senso cioè di rendere immediatamente esecutiva la pronuncia di annullamento della Corte di cassazione (che è pur sempre la pronuncia emessa sul ricorso) anche in pendenza del giudizio di rinvio, potrebbe costituire il dato normativo necessario a garantire il rispetto delle esigenze di tutela dell’imputato a non soffrire illegittime detenzioni ». (85) Così Corte cost., sent. 28 marzo 1996, n. 89, in Guida al diritto, n. 16, 1996, 70. (86) In sensi analoghi da ultimo A. GAITO, Dagli interventi correttivi sull’esecuzione della pena all’adeguamento continuo del giudicato: verso un processo penale bifasico?, in Giur. cost., 1996, 2o fasc.


— 1196 — CASSAZIONE PENALE — Sez. Un. — 13 dicembre 1995 (dep. 20 gennaio 1998) Pres. Callà — Rel. Silvestri — P.M. Aponte (concl. conf.) Clarke. Giudizio abbreviato — Appello — Assunzione di nuove prove — Rinnovazione dell’istruzione dibattimentale — Limiti — D’ufficio — Assoluta necessità ai fini della decisione (C.p.p. artt. 443, 599, 603). Nel processo celebrato con le forme del rito abbreviato, al giudice di appello è consentito disporre d’ufficio i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari per l’accertamento dei fatti che formano oggetto della decisione, secondo il disposto dell’art. 603 comma 3 c.p.p. In tale fase, peraltro, non può configurarsi alcun potere di iniziativa delle parti in ordine all’assunzione delle prove in quanto, prestando il consenso all’adozione del rito abbreviato, esse hanno definitivamente rinunciato al diritto alla prova (1). (Omissis). — A seguito di giudizio svoltosi con le forme del rito abbreviato a norma dell’art. 247 delle disposizioni transitorie del c.p.p., il Tribunale di Firenze, con sentenza del 28 novembre 1989, assolveva con la formula « perché il fatto non sussiste », Joseph Clarke dal reato previsto dall’art. 589, prima parte e primo capoverso c.p. contestatogli perché il 20 novembre 1987, nel comune di Calenzano, località Marinella, mentre alla guida dell’autoarticolato Mercedes targato 880Y10 procedeva in direzione Nord, giunto al Km. 278,950, per imprudenza, negligenza, imperizia e con violazione delle norme della circolazione stradale (art. 125 cod. strad.) e comunque per colpa consistita, in particolare, nell’avere effettuato inversione di marcia, per di più in ora notturna e in curva, provocava la collisione con l’autocarro Fiat Ducato condotto da Helimi N’Barek il quale decedeva poco dopo in Firenze a causa delle lesioni riportate. Il P.M. proponeva appello. Con ordinanza del 23 aprile 1991, la Corte d’Appello di Firenze sollevava, in riferimento agli artt. 101, cpv. e 111, 1o comma della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 247 disp. trans. c.p.p. in relazione agli artt. 442 e 443 dello stesso codice, sul rilievo che il divieto di procedere, nel giudizio abbreviato di appello, alla rinnovazione o all’assunzione di nuove prove menomerebbe il potere-dovere del giudice di secondo grado di conoscere e valutare tutti gli elementi necessari ai fini del decidere in conformità alla legge e avrebbe altresì negativa incidenza sull’obbligo di dare corretta motivazione delle ragioni della decisione. Con sentenza n. 470 del 19 dicembre 1991 la Corte Costituzionale dichiarava non fondata la questione osservando che nel giudizio abbreviato se non si può procedere al rinnovo di una fase, quella dibattimentale, in tale rito insussistente, è, tuttavia, applicabile almeno in parte, la disciplina posta dall’art. 603 qualora il giudice di appello ritenga assolutamente necessario assumere d’ufficio nuove prove o riassumere prove già acquisite agli atti del giudizio di primo grado. La Corte d’Appello di Firenze provvedeva, quindi, all’assunzione di prove e, con sentenza del 14 gennaio 1993, dichiarava il Clarke colpevole del delitto ascrittogli e lo condannava alla pena di due anni di reclusione e al risarcimento dei


— 1197 — danni in solido con il responsabile civile ritenendo sussistente il rapporto di causalità, escluso dal primo giudice, tra la condotta colposa dell’imputato e la morte dell’Helimi. In data 21 giugno 1993 la Quarta Sezione di questa Corte annullava con rinvio la sentenza di appello perché pronunciata da un collegio diverso da quello che aveva compiuto l’istruzione dibattimentale. Con sentenza del 9 dicembre 1994, altra sezione della stessa Corte di Firenze condannava nuovamente l’imputato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione e al risarcimento dei danni in favore della parte civile. Nell’interesse del Clarke veniva proposto ricorso per cassazione con cui era chiesto l’annullamento della sentenza sulla base dei seguenti motivi: a) violazione dell’art. 606 lett. b), c), d) c.p.p. per inosservanza degli artt. 442 e 443 dello stesso codice, avendo la Corte d’appello, in un giudizio celebrato con il rito abbreviato e quindi da trattare « allo stato degli atti », proceduto alla rinnovazione del dibattimento, assumendo testi, perito e verbalizzante; b) violazione dell’art. 606 lett. e) c.p.p. per manifesta illogicità della motivazione, erronea valutazione delle circostanze di causa, travisamento dei fatti e delle prove sul rilievo che la ricostruzione effettuata dal giudice d’appello, secondo cui il veicolo della vittima fu agganciato dalla vettura investitrice e trascinato oltre il punto d’urto, non sarebbe confermata dalle dichiarazioni dei testi Cinagli e Bertaglia, essendo stata trascurata l’affermazione del Bertaglia, il quale aveva precisato che l’autofurgone dell’Helimi aveva tamponato l’autotreno: inoltre, ad avviso del ricorrente, sarebbe stata travisata la misurazione eseguita dai verbalizzanti e apoditticamente privilegiata quella contrapposta del perito ing. Stracuzzi, mentre, in presenza di tale contrasto, il giudice avrebbe dovuto disporre un sopralluogo e specificare il punto esatto in cui era avvenuta la collisione; c) violazione di legge e vizi di motivazione in ordine al mancato accertamento della responsabilità esclusiva o concorrente dell’Helimi, avendo la Corte distrettuale omesso di valutare che costui viaggiava a velocità eccessiva sulla corsia di emergenza; d) violazione di legge ed erronea valutazione delle emergenze processuali in merito al diniego delle circostanze attenuanti generiche; e) violazione di legge nella determinazione del periodo di sospensione della patente; f) illegittima condanna dell’imputato e del responsabile civile ai danni nonostante che la materia del contendere fosse cessata in conseguenza dell’avvenuto risarcimento delle parti civili; g) violazione di legge in relazione alla pronuncia di condanna al pagamento delle spese di costituzione di parte civile, pur sussistendo una revoca tacita dipendente dall’assenza delle stesse parti civili nella fase conclusiva del processo. Il ricorso, assegnato alla Terza Sezione penale di questa Corte, veniva rimesso alle Sezioni Unite a norma dell’art. 618 c.p.p. per la risoluzione del contrasto di giurisprudenza vertente sulla questione relativa alla possibilità o meno di procedere all’assunzione di prove nel giudizio abbreviato in grado di appello. MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1. Il primo motivo riguarda la questione per la quale è stato richiesto l’intervento di queste Sezioni Unite, chiamate a dirimere il contrasto di giurisprudenza sull’esistenza o meno del potere di disporre l’acquisi-


— 1198 — zione di elementi probatori nel giudizio abbreviato in grado di appello e, in caso di soluzione affermativa, sui limiti dell’attività di integrazione istruttoria. Il problema costituisce un riflesso della più ampia tematica relativa alla natura del procedimento speciale regolato dal titolo I del libro VI del vigente codice e agli effetti del negozio processuale che rappresenta il fondamento del rito abbreviato, le cui peculiarità di giudizio allo stato degli atti risiedono nella cristallizzazione delle risultanze probatorie esistenti nel momento in cui si è perfezionato l’accordo delle parti mediante una manifestazione di volontà di segno abdicativo con cui le stesse hanno rinunciato all’esercizio del diritto alla prova. Nella giurisprudenza di questa Corte la preclusione derivante dalla scelta concordata del rito abbreviato è stata variamente configurata su basi interpretative diversamente articolate e con una portata più o meno estesa a seconda delle differenti opzioni argomentative. Per quanto riguarda il giudizio di primo grado, l’indirizzo prevalente ha inteso nei termini più rigidi e assoluti la preclusione determinata dall’accordo delle parti, ritenendo che, al di fuori della specifica ipotesi di passaggio dal giudizio direttissimo al giudizio abbreviato prevista dall’art. 452, comma 2o c.p.p., la ratio, i contenuti e le finalità del rito speciale siano di ostacolo a qualsiasi successiva acquisizione probatoria (Cass., Sez. I, 3 maggio 1994, Filosa, m. 198118; Cass., Sez. I, 16 marzo 1994, Di Stefano, m. 197436; Cass., Sez. I, 1o febbraio 1994, P.G. in proc. Franzoni, m. 197432; Cass., Sez. II, 16 aprile 1993, Cresci, m. 194053; Cass., Sez. I, 11 maggio 1992, P.G. in proc. Castaneda, m. 192151). Non mancano, tuttavia, decisioni che temperano il rigore del divieto di assunzione di prove nel giudizio abbreviato riferendo che possa procedersi all’interrogatorio dell’imputato (Cass., Sez. VI, 24 maggio 1993, Mercuri, m. 194612; Cass., Sez. VI, 28 settembre 1992, Guzzaffi, m. 192141) o che sia ammessa la prova documentale (Cass., Sez. II, 2 ottobre 1992, Russo, m. 195013; Cass., Sez. II, 2 dicembre 1991, Traditi, m. 189156), con la precisazione, contenuta in talune pronunce, che le acquisizioni probatorie sono consentite soltanto se riguardano punti diversi dalla ricostruzione storica del fatto e dall’attribuibilità del reato all’imputato (Cass., Sez. I, 10 dicembre 1990, Ragno, m. 186845). Per il rito abbreviato in grado di appello, che rappresenta il tema della presente indagine, la divaricazione delle posizioni della giurisprudenza di legittimità risulta ancora più netta, essendosi formati due confliggenti orientamenti attorno alla linea segnata dalla pronuncia della Corte Costituzionale con cui è stata dichiarata non fondata, in riferimento agli artt. 101, cpv. e 111, comma 1o cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 247 disp. trans. c.p.p. in relazione agli artt. 442 e 443 dello stesso codice, sul rilievo che la disciplina dettata dall’art. 603 in tema di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale può operare, almeno in parte, nell’ambito del rito abbreviato qualora il giudice di appello ritenga assolutamente necessario, ai fini della decisione, assumere di ufficio nuove prove o riassumere prove già acquisite agli atti del giudizio di primo grado (Corte cost., 19 dicembre 1991, n. 470). Ad un primo indirizzo favorevole alla soluzione indicata dal giudice delle leggi nella decisione testé ricordata (Cass., Sez. VI, 2 maggio 1995, Benassi, m. 201523; Cass., Sez. VI, 26 gennaio 1994, p.m. in proc. Gesù, m. 197770; Cass. Sez. V, 18 gennaio 1994, Piccioni, m. 197573; Cass., Sez. VI, 24 novembre 1993, De Carolis, m. 197263), si è contrapposto un orientamento, altrettanto consi-


— 1199 — stente, che, in esplicita critica alle indicazioni della sentenza interpretativa di rigetto della Corte costituzionale, è rimasto fermo nell’affermare l’operatività del divieto assoluto di assunzione di prove nel giudizio abbreviato sia in primo grado sia in grado di appello (Cass., Sez. I, 24 gennaio 1994, P.G. in proc. Pepe, m. 198630; Cass., Sez. I, 16 marzo 1994, Di Stefano, cit.; Cass., Sez I, 1o febbraio 1994, P.G. in proc. Franzoni, cit.; Cass., Sez. II, 16 aprile 1993, Cresci, cit.; Cass., Sez. III, 10 giugno 1993, Castelli, m. 195850). 2. Dopo la disamina delle diverse posizioni emerse nella giurisprudenza di legittimità, la delimitazione dell’indagine al thema decidendi relativo all’ammissibilità o meno di acquisizioni probatorie nel giudizio abbreviato di secondo grado impone di prendere le mosse dalla valutazione delle indicazioni interpretative contenute nella sentenza n. 470 del 1991 con cui la Corte costituzionale ha reputato che il rito speciale in grado di appello non sia incompatibile con l’assunzione di prove disposte ex officio ai sensi dell’art. 603, comma 3o c.p., tenendo presente che tale decisione è intervenuta nel corso del presente processo a seguito della questione di legittimità costituzionale dell’art. 247 disp. trans. sollevata dalla Corte di Appello di Firenze, che, definito l’incidente di costituzionalità, ha poi provveduto ad acquisire nuove prove sulla base delle quali è stata pronunciata la sentenza di condanna impugnata dal Clarke col ricorso rimesso alla cognizioni di queste Sezioni Unite. Dottrina e giurisprudenza concordano nel riconoscere che le sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale non sono munite dell’efficacia erga omnes propria delle sentenze con le quali viene dichiarata l’illegittimità costituzionale di una disposizione di legge ai sensi degli artt. 136 cost. e 30 della l. 11 marzo 1953, n. 87, ditalché non è posto in dubbio che le predette pronunce hanno valore di mero precedente e non vincolano il giudice, al quale è consentito discostarsi dall’interpretazione proposta dalla Corte costituzionale e sollevare nuovamente la questione di legittimità costituzionale della identica disposizione di legge per le medesime ragioni già disattese. È, del pari, ampiamente accreditata l’opinione che attribuisce alla sentenza interpretativa di rigetto l’effetto di far sorgere nel giudizio a quo una preclusione endoprocessuale derivante « dal carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale e dall’imprescindibile nesso di necessaria pregiudizialità che lo lega al processo principale », con la conseguenza che la medesima questione non può essere riproposta nello stesso giudizio (Corte cost., ord. 23 maggio 1990, n. 268). Negli identici termini è orientata la giurisprudenza civile di questa Suprema Corte in cui è stato precisato che la questione già rigettata con una sentenza interpretativa non può essere risollevata nel corso dello stesso giudizio nell’ambito del quale al giudice è anche interdetta l’adesione all’interpretazione che rappresentava la base argomentativa dell’incidente di costituzionalità e che il giudice costituzionale ha giudicato non fondata, ritenendola, nel contempo, in modo esplicito o implicito, contrastante con principi e norme della Costituzione (Cass. civ., Sez. I, 21 luglio 1995, n. 7950; Cass., Sez. II, 21 marzo 1990, n. 2326). La forza preclusiva della sentenza interpretativa di rigetto è rispondente ad una precisa esigenza di coerenza interna del sistema e si traduce in un vincolo negativo di interpretazione per il giudice che aveva sollevato la questione giudicata non fondata, nel senso che quest’ultimo non può attribuire alla disposizione di legge la portata esegetica rite-


— 1200 — nuta non corretta dalla Corte costituzionale, pur restando libero di optare a favore di differenti soluzioni ermeneutiche che, ancorché non coincidenti con quelle della sentenza interpretativa di rigetto, non collidano con norme e principi costituzionali. I precedenti rilievi, afferenti il sistema di rapporti tra giudice costituzionale e giudici ordinari, devono rappresentare i termini di riferimento dell’esame del primo motivo di ricorso, contenente la denuncia dell’illegittima acquisizione di prove nel rito abbreviato in grado di appello, atteso che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 247 disp. trans. è stata sollevata in questo stesso processo e la sentenza interpretativa di rigetto che ne è scaturita produce gli effetti preclusivi sopra esaminati non solo nello stesso grado del giudizio ma anche in quelli successivi (Cass. civ., Sez. I, 25 ottobre 1986, n. 6260). 3. Specificato l’ambito dell’indagine interpretativa, le Sezioni Unite ritengono che debba essere condiviso l’indirizzo favorevole all’ammissibilità di attività istruttorie disposte dal giudice di appello, nei limiti appresso determinati, in quanto la conclusione rappresenta il lineare e convincente risultato di una organica analisi ricostruttiva delle linee della disciplina del giudizio abbreviato, le cui effettive connotazioni possono essere individuate soltanto se non si abbandona la prospettiva segnata dai principi fondamentali sui quali poggia nell’ordinamento vigente, l’impianto e la struttura del processo penale. Soltanto la corretta impostazione di una ricerca sistematica consente di superare le incongruenze e l’inadeguatezza esegetica riscontrabili nella sentenza n. 470/91 della Corte costituzionale, che sono all’origine del dissenso di un vasto settore della giurisprudenza di legittimità, permettendo di cogliere la reale solidità argomentativa dell’opzione che porta a riconoscere la parziale applicazione dell’art. 603 c.p.p. all’interno del rito abbreviato in grado di appello. Nella motivazione della sentenza interpretativa del 1991 il collegamento tra l’art. 247 disp. trans. e l’art. 603 passa attraverso una serie di rinvii da una disposizione all’altra (dal citato art. 247 all’art. 443 del codice e da questo all’art. 599, il cui 3o comma richiama, a sua volta, l’art. 603). Tuttavia, una siffatta linea argomentativa presta il fianco all’obiezione che la catena di rinvii presenta soluzione di continuità interrompendosi all’altezza dell’ultimo anello: infatti, se è vero che l’art. 443 richiama l’art. 599, è altrettanto certo che la prima disposizione si limita a rinviare alle « forme », ossia alle sole modalità di trattazione dell’appello secondo lo schema dell’udienza in camera di consiglio: ditalché il riferimento ai contenuti del giudizio di secondo grado e ai poteri del giudice può raggiungere un livello di sicura affidabilità ermeneutica non tanto utilizzando l’argomento testuale e formale della serie di richiami quanto enucleando i tratti di fondo del modello di processo penale accolto nell’ordinamento positivo e chiarendo, in tale ottica, le posizioni e i poteri delle parti e del giudice rispetto alla res iudicanda. 4. Non è dubbio che il legislatore ha delineato il vigente codice di rito penale in riferimento al modello accusatorio e che tale scelta ha avuto profonda incidenza sulla configurazione del ruolo attribuito al giudice e alle parti nello sviluppo dialettico del processo: da ciò traggono spunto le affermazioni ricorrenti in dottrina secondo cui l’attuale sistema processuale esalta i caratteri che sono propri di un « processo di parti » e, correlativamente, valorizza i poteri disposivi dei quali esse sono investite, attribuendo al giudice una funzione che coincide, in buona sostanza, con quella di un arbitro chiamato a garantire la osservanza delle regole che


— 1201 — governano lo svolgimento delle attività processuali. Tali proposizioni, rispondenti, a grandi linee, al disegno sotteso alla legge delega n. 81 del 1987, risultano, tuttavia, fuorvianti se intese in una portata generalizzante e di indiscriminata assolutezza, posto che — come è stato lucidamente segnalato da queste stesse Sezioni Unite — l’individuazione dei caratteri fondamentali dell’ordinamento processuale non deve essere compiuta seguendo schemi e moduli astratti ma deve necessariamente avvenire sulla base della disciplina positiva risultante, oltre che dalle norme del codice, dai principi e dai criteri direttivi enunciati dalla legge delega nonché dai principi sanciti dalla Costituzione (Cass., Sez. Un., 6 novembre 1992, Martin, m. 191606). La correttezza di tale metodo di ricerca è avvalorata dall’art. 2 della l. 16 febbraio 1987, n. 81, che, dopo avere stabilito che « il codice di procedura penale deve attuare i principi della Costituzione », precisa che « esso inoltre deve attuare nel processo penale i caratteri del sistema accusatorio, secondo i principi e i criteri che seguono... », restando così confermato che le linee peculiari del sistema devono essere identificate sulla base delle concrete esplicazioni normative, senza aprioristiche generalizzazioni, nella consapevolezza che il modello accusatorio si conforma diversamente in relazione alle specifiche scelte del legislatore e al differente bilanciamento di interessi e di valori che ha determinato quelle scelte e non altre astrattamente possibili. 5. Una delle più salienti espressioni della impronta accusatoria del processo è riscontrabile sul terreno della disciplina della prova. La direttiva n. 69 della legge delega prevede una « disciplina della materia della prova in modo idoneo a garantire il diritto del pubblico ministero e delle parti private ad ottenere l’ammissione e l’acquisizione dei mezzi di prova richiesti, salvi casi manifesti di estraneità ed irrilevanza »: essa si è tradotta nell’art. 190, comma 1o del codice, che, con la significativa rubrica di « diritto alla prova », dispone che « le prove sono ammesse a richiesta di parte », riconoscendo in tal modo l’esistenza di un generale potere dispositivo delle parti, alla cui iniziativa è rimessa l’acquisizione delle prove, e limitando il controllo del giudice alla verifica della inerenza dei mezzi probatori richiesti al thema decidendi e dell’assenza di divieti legali. Tuttavia, al comma immediatamente successivo dello stesso art. 190 è precisato che « la legge stabilisce i casi in cui le prove sono ammesse di ufficio ». Resta con ciò esplicitamente confermato che nel codice vigente il sistema accusatorio non è stato recepito sino alle estreme implicazioni, che avrebbero postulato l’eliminazione di ogni residua traccia del principio inquisitorio e che, in materia probatoria, accanto alla generale disponibilità delle prove ad opera delle parti coesiste il potere del giudice di ammettere di ufficio le prove ritenute indispensabili per la decisione, sia pure non in via generale ma nelle sole ipotesi prefigurate dalla legge. La presenza del potere di iniziativa del giudice in materia probatoria trova il proprio referente in precisi principi costituzionali posti in luce nella giurisprudenza della Corte costituzionale in cui è stato chiarito che la configurazione di un assoluto potere dispositivo delle parti, senza l’interferenza di poteri integrativi del giudice, non incide soltanto sul piano processuale dell’acquisizione delle prove ma finisce inevitabilmente per rendere disponibile la stessa tutela giurisdizionale poiché « significherebbe, da un lato, recidere il legame strutturale e funzionale tra lo strumento processuale e l’interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi che quei principi intendono garantire; dall’altro, contraddire all’esi-


— 1202 — genza, ad essi correlata, che la responsabilità penale sia riconosciuta solo per i fatti realmente commessi, nonché al carattere indisponibile della libertà personale » (Corte cost., 26 marzo 1993, n. 111). Nell’ambito della stessa impostazione interpretativa, è stato altresì precisato che il conferimento al giudice del potere di ammettere di ufficio prove necessarie ai fini della decisione è coessenziale all’esigenza della ricerca della verità che, affermata esplicitamente dalla direttiva n. 73 della legge delega, rappresenta un « fine primario ed ineludibile del processo penale » e comporta, come corollario di necessaria conseguenzialità logica, l’attribuzione al giudice di poteri di iniziativa probatoria in modo da supplire all’eventuale inerzia delle parti e da rendere possibile l’accertamento dei fatti inclusi nel tema della decisione (Corte cost., 26 marzo 1993, n. 111; Corte cost., 3 giugno 1992, n. 255; e altresì Corte cost., 3 giugno 1992, n. 241). 6. Le precedenti riflessioni, direttamente attinenti alla struttura del processo e al ruolo del giudice, contengono le premesse logiche e giuridiche per la corretta soluzione del problema relativo all’ammissibilità di acquisizioni probatorie nel rito abbreviato in grado di appello. Dalla normativa che regola tale procedimento speciale emerge che il giudizio abbreviato trova fondamento giustificativo nella volontà delle parti che dà vita, attraverso la richiesta dell’imputato e il consenso del pubblico ministero, ad un negozio processuale a mezzo del quale le parti stesse accettano che il giudizio sia definito, nell’udienza preliminare, allo stato degli atti già acquisiti, rinunciando a richiedere ulteriori mezzi di prova e consentendo ad attribuire agli atti compiuti nel corso delle indagini preliminari quel valore probatorio di cui essi sono normalmente privi nel giudizio che si svolge nelle forme ordinarie del dibattimento. L’operatività della determinazione volitiva delle parti, ricondotta durante i lavori preparatori nella figura del « patteggiamento sul rito » per distinguerla dal « patteggiamento sulla pena », è subordinata alla sola condizione che il giudice verifichi la sussistenza del requisito della definibilità allo stato degli atti e renda possibile l’applicazione della diminuente prevista dall’art. 442, comma 2o c.p.p., la cui ratio « risponde a una esigenza utilitaristica di sollecita definizione dei giudizi, proponendo all’imputato uno sconto secco della pena, già determinata, come premio della scelta del rito abbreviato contro la rinunzia alle maggiori garanzie del dibattimento » (Cass, Sez. Un., 31 maggio 1991, Volpe, m. 188523). Il negozio processuale che è alla base del giudizio abbreviato costituisce esercizio dei poteri dispositivi riconosciuti alle parti e rappresenta, in particolare, un modo in cui queste dispongono del diritto alla prova, nel senso che, con la scelta del rito abbreviato l’imputato e il pubblico ministero rinunciano ad avvalersi della facoltà di richiedere l’ammissione dei mezzi di prova ai sensi dell’art. 190, comma 1o c.p.p. È ovvio, tuttavia, che tale negozio abdicativo può avere ad oggetto esclusivamente i poteri che rientrano nella sfera di disponibilità degli interessati e che esso non può riguardare i poteri di iniziativa ex officio di cui il giudice è direttamente investito dalla legge in vista del superiore interesse della ricerca della verità: ditalché la differenza, sul piano della estensione e delle connotazioni funzionali, tra poteri delle parti e poteri del giudice in ordine alle prove implica che l’inerzia e la rinuncia delle prime restano prive di negativa incidenza sui poteri del giudice (Cass., Sez. Un., 6 novembre 1992, Martin, cit.), finalizzati, come sono, al conseguimento di una giusta decisione indipendentemente dalla condotta processuale


— 1203 — delle parti (Corte cost., 26 marzo 1993, n. 111; Corte cost., 3 giugno 1992 n. 255). Dalla trasposizione di tali principi alla tematica dei poteri del giudice di appello nel rito abbreviato si evince, in termini lineari e assolutamente conseguenziali, che la rinuncia al diritto alla prova, insita nella richiesta ex art. 438 c.p.p., non produce preclusioni, ostacoli o impedimenti di sorta all’esercizio del potere di disporre di ufficio i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari per l’accertamento dei fatti che formano oggetto della decisione secondo la previsione dell’art. 603, comma 3o c.p.p., considerato, non a caso, come precipua manifestazione dei poteri del giudice in materia probatoria (cfr. Cass., Sez. Un., 6 novembre 1992, Martin, cit.). Per contro, deve reputarsi operante una rigida preclusione all’attivazione dei poteri di iniziativa delle parti in ordine all’assunzione di prove in grado di appello non soltanto perché costituirebbe una contraddizione palese procedere al rinnovo di una fase, quella dell’istruttoria dibattimentale, che nel rito abbreviato è, per definizione, insussistente (Corte cost., 19 dicembre 1991, n. 470), ma anche, e soprattutto, per la precisa ragione che le parti hanno definitivamente consumato il loro diritto alla prova allorché hanno consentito l’adozione del giudizio abbreviato: ond’è che ad esse non resta che sollecitare i poteri suppletivi di iniziativa probatoria che spettano al giudice di secondo grado, il cui esercizio è regolato, per espresso dettato normativo, dal rigido criterio della « assoluta necessità ». 7. La soluzione interpretativa, scaturita dall’indagine sin qui condotta, resiste ai rilievi critici dei fautori della tesi contraria, che hanno segnalato, anzitutto, la disarmonia di un sistema che, dopo avere ammesso l’applicazione di una diminuzione di pena al dichiarato scopo di realizzare finalità deflattive e la sollecita definizione dei procedimenti, consente l’espletamento di attività istruttorie e, tramite esse, l’acquisizione di ulteriori elementi probatori. All’obiezione è facile replicare che non si tratta di aporie della normativa e che comunque, anche se così fosse, il conseguimento di un intento pratico non può mai risolversi, se non si vuole negare la ragion d’essere del processo penale, nel sacrificio dell’esigenza primaria della ricerca della verità: con la precisazione, per giunta, che eventuali incongruenze dello sviluppo del giudizio abbreviato sono addebitabili, allorché insorgono, non tanto ai contenuti della disciplina normativa e all’uso non corretto che ne abbiano fatto le parti quanto alla non ponderata valutazione del giudice dell’udienza preliminare quando, senza la dovuta cautela, ha ritenuto definibile allo stato degli atti un procedimento che, invece, non lo era. Non ha neppure pregio l’argomento con cui è stata posta in evidenza l’anomalia di un giudizio di appello che, con palese inversione delle normali caratteristiche dei due gradi del giudizio ordinario, presenta possibilità di sviluppi probatori superiori a quelle del processo di primo grado. Ciò deriva direttamente dal modo in cui la legge ha strutturato il giudizio abbreviato di primo grado, la cui cognizione è affidata al giudice dell’udienza preliminare, il quale, al di fuori della specifica ipotesi di conversione del rito direttissimo ex art. 452, comma 2o c.p.p., non dispone di un potere di iniziativa probatoria né è munito, in particolare, del potere di ammettere di ufficio nuove prove ai sensi dell’art. 507 c.p.p. contenente una norma che è specularmente corrispondente a quella di cui all’art. 603, comma 3o. Il che consente di ritenere che l’argomento critico in esame trova plausibile spiegazione nelle peculiari differenze di configurazione dei due gradi di merito nei quali si articola il giudizio abbreviato,


— 1204 — tanto più che potrebbe dubitarsi, non senza ragione, della coerenza di una disciplina che riconoscesse al giudice dell’udienza preliminare la facoltà di dare impulso ad attività istruttorie nel momento stesso in cui lo stesso giudice reputa che il giudizio può essere definito allo stato degli atti. Del resto, la mancanza di un siffatto potere da parte del giudice dell’udienza preliminare è stata segnalata in ripetuti interventi della Corte costituzionale che, sia pure da una diversa ottica e in relazione a tematiche estranee alla presente decisione, ha dichiarato inammissibili varie questioni di legittimità costituzionale vertenti, direttamente o indirettamente, sui poteri del giudice di primo grado nel rito abbreviato: con tali decisioni il giudice delle leggi ha rilevato che dall’ordinamento vigente non possono ricavarsi idonei correttivi e che il rito speciale, quale « giudizio a prova contratta », postula l’introduzione di meccanismi di integrazione probatoria che valgano a ricondurre l’istituto a piena sintonia con i principi costituzionali, con la precisazione che la mancanza di soluzioni costituzionalmente obbligate impedisce l’emanazione di pronunce additive e rende necessario un intervento del legislatore volto ad un complessivo ridisegno del giudizio abbreviato, ditalché — come si legge in una delle più recenti decisioni — « perdurando tale stato di inerzia, questa Corte, ove investita di ulteriori questioni di costituzionalità riguardanti lo specifico tema, non potrà esimersi dall’adottare le decisioni più appropriate ad evitare la più volte constatata distonia dell’istituto con i principi costituzionali » (c.d. sentenza-monito: Corte cost. 23 dicembre 1994, n. 442; negli stessi termini v. Corte cost., 16 febbraio 1993, n. 56; Corte cost., 8 luglio 1992, n. 318; Corte cost., 9 marzo 1992, n. 92). Alla luce di tutte le considerazioni che precedono deve conclusivamente riconoscersi che la Corte di merito ha legittimamente esercitato i poteri di iniziativa probatoria previsti dall’art. 603, comma 3o c.p.p. dando conto, con adeguata motivazione, delle ragioni che hanno reso assolutamente necessario lo svolgimento di ulteriori attività istruttorie ad integrazione degli elementi probatori già raccolti. Devono essere dunque disattese le censure formulate col primo motivo di ricorso e, in particolare, deve ritenersi inconsistente la doglianza in ordine alla lesione dei diritti acquisiti con la scelta del rito abbreviato, dato che con la sentenza impugnata è stato esattamente riconosciuto che, da un canto, la scelta delle parti non si traduce in una preclusione all’esercizio dei poteri autonomamente spettanti al giudice di secondo grado in materia probatoria e che, dall’altro, l’acquisizione di prove ammesse ex officio non fa perdere all’imputato il beneficio della diminuzione di pena ai sensi dell’art. 442, comma 2o c.p.p. 8. Non hanno fondamento il secondo e il terzo motivo di ricorso con i quali sono stati denunciati, sotto più profili, vizi logici della motivazione nella ricostruzione del sinistro stradale la cui verificazione è stata attribuita, sul piano della causalità materiale e psicologica, alla condotta colposa del Clarke valutata quale fattore esclusivo della morte dell’Helimi. Deve premettersi che gran parte delle censure si risolvono in mere deduzioni di fatto dirette a capovolgere le conclusioni accolte dalla Corte distrettuale e che, attraverso lo schema formale del travisamento, il ricorrente ha proposto, in realtà, una diversa interpretazione degli elementi probatori sollecitando un sindacato di merito che resta precluso nel giudizio di legittimità. Limitata la disamina alle sole censure afferenti la struttura logica della motivazione, va rilevato che le linee argo-


— 1205 — mentative della sentenza impugnata resistono ai rilievi critici formulati con i due motivi di ricorso risultando immuni dai difetti prospettati dal ricorrente. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte in tema di sindacato del vizio di motivazione, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine alla affidabilità delle fonti di prova ma quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre. L’applicazione di tali criteri al controllo della logicità della motivazione della sentenza impugnata rivela che il giudice di secondo grado ha compiuto una organica e coordinata disamina delle risultanze probatorie desunte dalla deposizione dei testi e dai rilievi del perito dando adeguata base giustificativa al proprio convincimento sulla dinamica del sinistro ricostruito alla stregua di accertamenti, di piena plausibilità e congruenza, riguardanti l’individuazione del punto di urto tra i due automezzi e l’ubicazione dei danni provocati dalla collisione, ditalché appare incensurabile in sede di legittimità l’opinione che ha portato a riconoscere che la causa esclusiva dell’incidente stradale da cui è derivata la morte dell’Helimi è identificabile nella spericolata manovra di inversione di marcia posta in essere dall’imputato in violazione dell’art. 125 del codice stradale all’epoca vigente. 9. Deve essere disatteso il quarto motivo di ricorso concernente la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, il cui diniego è stato giustificato, con adeguata motivazione, in riferimento al macroscopico grado di gravità della colpa attribuita all’imputato e al comportamento dallo stesso tenuto nell’immediatezza del fatto con l’essersi allontanato dal luogo del sinistro prima dell’arrivo della polizia e con l’avere negato l’inversione del senso di marcia fino a quando non gli fu esibito il biglietto rilasciato all’ingresso dell’autostrada. Le medesime ragioni costituiscono idonea motivazione della determinazione del periodo di sospensione della patente di guida, la cui durata deve essere ragguagliata alla gravità del fatto e alla pericolosità specifica nella guida dimostrata dal condannato (Cass., Sez. IV, 28 novembre 1988, Lo Faro): ond’è che risulta infondato anche il quinto motivo di ricorso. 10. Non possono trovare accoglimento neppure il sesto e il settimo motivo di ricorso riguardanti rispettivamente la pronuncia di condanna al risarcimento dei danni e la liquidazione delle spese in favore della parte civile. Riguardo al primo punto è da rilevare che la circostanza relativa all’avvenuto ristoro dei pregiudizi patrimoniali e morali patiti dai danneggiati forma oggetto di una mera allegazione di parte che, non trovando riscontro in alcuna risultanza processuale, non poteva esimere il giudice dall’osservanza del dovere di pronunciare sulla domanda di risarcimento dei danni proposta dalle parti civili nel giudizio di primo grado. Non ha pregio neppure la doglianza concernente la intervenuta revoca tacita della costituzione di parte civile, posto che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il principio di immanenza della costituzione di parte civile comporta che l’assenza nel procedimento di appello non può interpretarsi come comporta-


— 1206 — mento equivalente a revoca tacita o presunta, non essendo riconducibile in alcuna delle specifiche ipotesi previste dall’art. 82, comma 2o c.p.p. (Cass., Sez. IV, 2 dicembre 1994, Prestigiacomo, m. 201502: Cass., Sez. I, 6 maggio 1991, Fresi, m. 187394: Cass., Sez. V, 15 giugno 1990, Calderoni, m. 185129). Ne consegue che la Corte territoriale, nel riformare la sentenza di assoluzione pronunciata dal Tribunale, rettamente ha provveduto ad emette le statuizioni relative agli interessi civili e, nonostante la mancata comparizione nel giudizio di appello, ha liquidato le spese di rappresentanza sostenute dalla parte civile nel giudizio di primo grado. 11. In conclusione, risultando infondato in tutte le sue articolazioni, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M. — La Corte Suprema di cassazione, a Sezioni Unite rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

——————— (1)

Questioni in tema di compatibilità tra giudizio abbreviato in sede di appello e rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.

1. Nel 1991 la Corte costituzionale, con la sentenza interpretativa di rigetto n. 470, aveva dichiarato infondata — in riferimento agli artt. 101 comma 2o e 111 comma 1o cost. — la questione di legittimità dell’art. 247 disp. att. in relazione agli artt. 442 e 443 c.p.p. (1). In particolare, la Corte aveva ritenuto che la disciplina dettata dall’art. 603 c.p.p., in tema di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, poteva operare anche nell’ambito del rito abbreviato, laddove il giudice d’appello reputasse assolutamente necessario, ai fini della decisione, assumere d’ufficio nuove prove. Il ragionamento della Consulta si fondava essenzialmente sul dato letterale: l’art. 247 disp. att. richiama l’art. 443 c.p.p., quest’ultimo l’art. 599 c.p.p., che rinvia, a sua volta, all’art. 603 c.p.p. Tale decisione, vuoi perché vincolante solo per il giudice remittente, in quanto sentenza interpretativa di rigetto (2), vuoi perché intrisa di « incongruenze ed inadeguatezze esegetiche », non aveva tuttavia risolto il problema della compa(1) Corte cost., 19 dicembre 1991, n. 470, in Cass. pen., 1992, p. 901 s. (2) Secondo la decisione in commento, il valore delle sentenze interpretative di rigetto può vincolare soltanto il giudice remittente, nel senso che questi non avrebbe potuto riproporre la stessa questione nel corso del medesimo giudizio. Di conseguenza, dette sentenze hanno valore di mero precedente nei confronti degli altri giudici. Questi, pertanto, potranno discostarsi dalla interpretazione proposta e sollevare nuovamente la questione di legittimità della medesima disposizione per le ragioni già disattese: in questo senso, cfr. anche Corte cost., 25 maggio 1990, n. 268, in Foro it., 1990, I, c. 3067 s.; nonché, nella giurisprudenza civile, Sez. I, 21 luglio 1995, n. 7950, p. g. in proc. Di Lazzaro, in Giust. civ., 1995, I, p. 2332; Sez. II, 21 marzo 1990, n. 2326, Caparra c. Caparra, in Giur. it., 1991, I, 1, c. 82, con nota di RAPONE, Dichiarazione giudiziale di paternità e prescrizione del diritto di accettare l’eredità (le riforme e il diritto transitorio). Sull’argomento, che esula dalla sfera di pertinenza della scienza processualpenalistica, investendo profili più generali di carattere pubblicistico, cfr. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, Cedam, 1984, p. 396; ELIA, Sentenze interpretative di norme costituzionali e vincolo dei giudici, in Giur. cost., 1966, p. 1715 s.; PIZZORUSSO, La motivazione delle sentenze della Corte costituzionale: comandi o consigli?, in Riv. trim. dir. publ., 1963, p. 345 s.


— 1207 — tibilità tra rito abbreviato e rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, ma bensì contribuito ad alimentare il contrasto giurisprudenziale e dottrinale in atto. La controversia risultava così articolata. Secondo una prima interpretazione, lo svolgimento del giudizio abbreviato sulla base del materiale probatorio acquisito « allo stato degli atti », precludeva l’espletamento dell’istruzione dibattimentale anche in secondo grado (3). Questa tesi si fondava sostanzialmente su tre argomenti: l’incompatibilità tra un giudizio « allo stato degli atti » e possibili esiti di rinnovazione; l’incongruenza tra una decisione assunta « allo stato degli atti », in forza di un accordo tra le parti, e la rivalutazione dei presupposti tramite un recupero probatorio in appello; il rischio di una eventuale perdita di efficacia deflattiva del rito speciale provocata dal dilatarsi degli adempimenti in secondo grado (4). Di segno contrario, l’opinione favorevole all’applicazione nel corso del giudizio abbreviato di appello, dell’art. 603 c.p.p. (5): lo sconto di pena collegato alla scelta del rito speciale, pur costituendo un beneficio, non poteva determinare la rinuncia all’accertamento delle circostanze del fatto, tese, a loro volta, ad influenzare la determinazione dell’entità della pena dovuta (6). Infine, una terza teoria limitava la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale all’ipotesi in cui essa risultasse assolutamente necessaria ai fini della decisione (7). Simile opinione trovava giustificazione nel fatto che una rinnovazione dibattimentale generalizzata sarebbe risultata incompatibile con i limiti entro i quali il giudizio abbreviato doveva rimanere per non perdere le proprie caratteristiche (8). 2. Sul tema, la Corte di cassazione, a sezioni unite, giunge — seppure attraverso un percorso esegetico differente — alle medesime conclusioni prospettate dalla Corte costituzionale (9). Innanzitutto, la cassazione sostiene che il rinvio operato dall’art. 443 comma 4o c.p.p. all’art. 599 c.p.p. deve intendersi limitato alle sole « forme » richiamate da quest’ultima disposizione, vale a dire quelle che regolano il procedimento in camera di consiglio. Di conseguenza, il riferimento ai contenuti del giudizio di secondo grado ed ai poteri del giudice — tra i quali la facoltà di rinnovare l’istruzione dibattimentale — dovrà raggiungere un livello di sicura « affidabilità erme(3) Cfr. Sez. I, 1o febbraio 1994, p. g. in proc. Franzoni, in Cass. pen., 1995, p. 320, con nota di CARCANO, Questioni in tema di integrazione probatoria e giudizio abbreviato; Sez. III, 10 giugno 1993, Castelli, ivi, 1994, p. 3038, con nota di LORUSSO, È veramente incompatibile con l’adozione del giudizio abbreviato in primo grado la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in grado di appello?; Sez. I, 27 giugno 1991, Vernetti, ivi, 1992, p. 3066 s., con nota adesiva di RAMAJOLI, Il giudizio abbreviato e la preclusione a disporre in grado d’appello la rinnovazione del dibattimento. (4) Così CHILIBERTI-ROBERTI, Il giudizio abbreviato, in CHILIBERTI ed altri, Manuale pratico dei procedimenti speciali, 2a ed., Giuffrè, 1994, p. 250; CORSO, Il giudizio abbreviato, in PISANI ed altri, Manuale di procedura penale, Monduzzi, 1996, p. 419; GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Cedam, 1992, p. 276; MURONE, In tema di regime dell’appello avverso le sentenze pronunciate in giudizio abbreviato, in Giust. pen., 1994, III, c. 310; nonché AA. cit. infra, nota 25. (5) Cfr., per tutte, Sez. I, 25 marzo 1991, De Tommasi e altri, in Cass. pen., 1991, II, p. 727 s., con osservazioni di PETRUCCI; anche in Arch. n. proc. pen., 1992, p. 80, con commento di LI VIGNI, Brevi note interpretative sul rinvio alle forme previste dall’art. 599 c.p.p. effettuato dall’art. 443. (6) CONTI, Giudizio abbreviato e integrazione probatoria, in Cass. pen., 1992, p. 193; LI VECCHI, Peripezie e metamorfosi del giudizio abbreviato: procedimento senza pregi e con numerosi difetti, in Riv. pen., 1992, p. 901 s.; MAZZARRA, Aspetti problematici del giudizio abbreviato: i controlli del giudice d’appello, in AA.VV, I giudizi semplificati, coordinati da A. GAITO, Cedam, 1989, p. 114. (7) Sez. VI, 7 ottobre 1994, Della Valle, in Guida al diritto, 3 giugno 1995, p. 74, con nota di RANCATI, L’integrazione probatoria resta possibile per fatti sopravvenuti al giudizio di primo grado; Sez. VI, 24 novembre 1993, De Carolis, in Cass. pen., 1995, p. 2599; nonché Corte cost., 19 dicembre 1991, n. 470, cit. (8) Corte cost., 19 dicembre 1991, n. 470, cit. (9) Retro, nota 7.


— 1208 — neutica » mediante soluzioni diverse rispetto all’utilizzo dell’argomento testuale. A tale determinazione la Corte è pervenuta mettendo dapprima in evidenza i princìpi fondamentali del modello processuale accolto nel nostro ordinamento e sottolineando poi condizioni e poteri dei soggetti che operano in tale contesto. È stato allora precisato come la volontà del legislatore di predisporre un codice secondo i criteri tipici del sistema accusatorio, abbia profondamente influito sui ruoli attribuiti alle parti ed al giudice. Le prime sono dotate di un ampio potere dispositivo, mentre quest’ultimo « è chiamato a garantire l’osservanza delle regole che governano lo svolgimento delle attività processuali ». Tuttavia, simili indicazioni rischiano di diventare forvianti laddove assunte in astratto prescidendo dalle norme di diritto positivo, dai criteri direttivi enunciati nella legge-delega e dai princìpi costituzionali (10). Non deve sfuggire, infatti, come in concreto un modello accusatorio possa variare a seconda delle scelte effettuate dal legislatore. Sulla base di queste premesse, la Corte ha ravvisato nella disciplina della prova una delle più considerevoli realizzazioni del modello accusatorio presenti nel nostro ordinamento. Tale disciplina si fonda, da un lato, sul principio di carattere generale che assegna alle parti un ampio potere dispositivo, e, dall’altro, sul riconoscimento all’organo giurisdizionale di « un potere di intervento suppletivo » avente un « risalto secondario e marginale » (11). La compatibilità tra l’attribuzione al giudice di una qualche iniziativa probatoria e l’ispirazione accusatoria del codice trova conforto — secondo la Corte (12) — in precisi princìpi costituzionali. La configurazione di un assoluto potere dispositivo delle parti, senza un potere integrativo del giudice, rischierebbe di rendere disponibile la tutela giurisdizionale e di eludere quell’esigenza di ricerca della verità che, affermata esplicitamente nella direttiva n. 73 della legge-delega, rappresenta « un fine primario ed ineludibile del processo penale » (13). Sotto il profilo della tutela giurisdizionale, l’assenza di un potere integrativo verrebbe ad interrompere quel legame che unisce strumento processuale e interesse pubblico alla repressione dei fatti criminosi, nonché a contraddire la necessità di riconoscere la responsabilità penale soltanto per fatti realmente commessi (14). In considerazione di ciò, la Corte ha sottolineato come il giudizio abbreviato costituisca esercizio dei poteri dispositivi riconosciuti alle parti e rappresenti una realizzazione particolare del diritto alla prova. Tuttavia, la rinuncia ad avvalersi della facoltà riconosciuta dall’art. 190 comma 1o c.p.p. riguarda soltanto i poteri nella piena disponibilità delle parti e non anche quelli ex officio attribuiti al giudice direttamente dall’art. 507 c.p.p. In sostanza, l’inerzia o la rinuncia di accusa (10) Sez. Un., 6 novembre 1992, Martin, in Cass. pen., 1993, p. 280 s., con nota di IACOVIELLO, Processo di parti e poteri probatori del giudice; nonché ivi, 1993, p. 1370 s., con nota di BASSI, Principio dispositivo e principio di ricerca della verità materiale: due realtà di fondo del nuovo processo penale; ed anche in questa Rivista, 1993, p. 822 s., con nota di L. MARAFIOTI, L’art. 507 c.p.p. al vaglio delle Sezioni unite: un addio al processo accusatorio e all’imparzialità del giudice dibattimentale. (11) Così GREVI, Prove, in CONSO-GREVI (a cura di), Profili del nuovo codice di procedura penale, 4a ed., Cedam, 1996, p. 245; nonché GAROFOLI, L’introduzione della prova testimoniale nel nuovo processo penale, Giuffrè, 1992, p. 3. (12) La sentenza in esame riprende espressamente le argomentazioni sviluppate in Corte cost., 26 marzo 1993, n. 111, in questa Rivista, 1994, p. 1057 s., con nota di FERRUA, I poteri probatori del giudice dibattimentale: ragionevolezza delle Sezioni unite e dogmatismo della Corte costituzionale. (13) Corte cost., 26 marzo 1993, n. 111, cit.; nonché Corte cost., 3 giugno 1992, n. 241, in Cass. pen., 1992, p. 2011, (anche ivi, 1993, p. 1061, con nota di TORNATORE, Modifica dibattimentale dell’imputazione e diritto alla prova); Corte cost., 25 maggio 1992, n. 255, ivi, 1993, p. 491. (14) Corte cost., 26 marzo 1993, n. 111, cit.


— 1209 — e difesa in ordine al diritto alla prova, « restano prive di negativa incidenza sui poteri del giudice » (15). Tale conclusione porta ad escludere, in relazione al rito abbreviato, l’esercizio, in grado d’appello, di iniziative probatorie di parte. Ciò avviene fondamentalmente per due motivi: l’impossibilità di procedere al rinnovo di una attività — l’istruzione dibattimentale — che, per definizione, non esiste nell’ambito del rito abbreviato (16); l’impossibilità, per le parti, di esercitare un diritto — quello alla prova — già definitivamente consumato mediante la richiesta di giudizio abbreviato. Al pubblico ministero e all’imputato non resta che sollecitare i poteri suppletivi di iniziativa probatoria che spettano al giudice di secondo grado, il cui esercizio è regolato dal criterio della « assoluta necessità ». Va comunque precisato — su un piano generale — che una corretta esegesi dell’art. 603 comma 3o c.p.p. assegna alla norma una latitudine minore di quella riconosciuta all’art. 507 c.p.p. (17). Di regola, infatti, il giudizio di appello si svolge dopo una fase di accertamento, primo grado, celebrata con forme articolate. Ciò impone, dunque, il superamento dell’eventuale inerzia dell’accusa mediante interventi di vera e propria « supplenza giudiziale » (18). Tale rimedio risulta invece utilizzabile in modo assai più limitato in fase d’appello, ove il processo approda con un accertamento già potenzialmente idoneo ad un esito di irrevocabilità (19). Occorre in ogni caso stabilire quali prove possano essere oggetto di rinnovazione da parte del giudice di seconde cure. Innanzitutto, sembra corretto escludere ipotesi di rinnovazione che, in assenza di contributi di novità, siano volte a provocare una ulteriore valutazione della piattaforma probatoria utilizzata dal giudice di primo grado. Non si dimentichi, infatti, che in tal caso al giudice di appello verrebbe affidato un « controllo di merito in ordine alla completezza degli elementi probatori già acquisiti » e non già una verifica sulla « legittimità del provvedimento con cui il giudice di primo grado, ritenendo di potere definire il giudizio allo stato degli atti, abbia disposto il procedimento abbreviato » (20). La rinnovazione dovrà invece riguardare elementi conoscitivi idonei ad integrare un contributo di novità. A tale categoria andranno ricondotte le prove « sopravvenute o scoperte » dopo il giudizio di primo grado (art. 603 comma 2o c.p.p.), nonché quelle che, a disposizione del giudice di tale fase, non siano state da lui in concreto valutate (21). Pur criticata (22), quest’ultima soluzione non sembra superabile neppure mediante la considerazione che gli elementi in oggetto — laddove (15) Sez. Un., 6 novembre 1992, Martin, cit. (16) Corte cost., 19 dicembre 1991, n. 470, cit. (17) SPANGHER, Appunti per un ripensamento del giudizio di appello, in Dir. pen. e proc., 1996, p. 627, sottolinea l’influenza dell’art. 507 c.p.p. nell’ambito di operatività dell’art. 603 comma 3o c.p.p. (18) Si esprime in tal modo, PERONI, L’istruzione dibattimentale nel giudizio d’appello, Cedam, 1995, p. 172. (19) Osserva sul punto PISANI, Sul principio dispositivo del processo penale di secondo grado, in questa Rivista, 1959, p. 853, che il « potere di rendere attiva la giurisdizione, corrispondente al potere di azione penale, si esaurisce con la pronunzia della sentenza di primo grado, la quale ha efficacia potenzialmente imperativa, è idonea a passare in cosa giudicata, e lo diventa se si perfeziona il fatto negativo della mancata impugnazione entro il termine », talché, dopo « la sentenza di primo grado il pubblico ministero non appare più titolare dell’azione penale ». (20) Testualmente, MAZZARRA, op. cit., p. 115, nota 24. (21) Cfr., in dottrina, PERONI, op. cit., p. 234, secondo il quale « l’opportunità di aprire il varco a dati di quest’ultimo tipo è suggerita dalla constatazione che, anche nei confronti di siffatti elementi, la valutazione demandata al giudice di secondo grado non potrebbe mai assumere i connotati di una mera replica del vaglio operato dal primo giudice »; in giurisprudenza, Sez. I, 4 maggio 1994, Rosati e altri, in Arch. n. proc. pen., 1994, p. 361 s. (22) MANFREDI, Possibilità di acquisizione di nuove prove nell’appello celebrato a seguito di giudizio abbreviato, in Arch. n. proc. pen., 1992, p. 250; RAMAJOLI, op. cit., p. 3068.


— 1210 — vengano sottratti alla cognizione del giudice d’appello — potrebbero essere recuperati con il mezzo della revisione (art. 630 comma 1o lett. c) c.p.p.). Non si può ignorare infatti come tale strumento sia utilizzabile soltanto in favore del condannato, e comporti costi notevoli sotto il profilo non solo dei tempi di perfezionamento del giudicato, ma anche del possibile sacrificio del bene della libertà personale (23). Quanto sostenuto ci consente di chiarire la sorte riservata in appello ad una sentenza di condanna emessa al termine del giudizio abbreviato, sulla base di atti d’indagine o di eventuali integrazioni probatorie (art. 422 c.p.p.) viziate da inutilizzabilità. In questo caso il giudice dovrà limitarsi a riformare la sentenza qualora l’eventuale estromissione della prova illegittima comporti l’esclusione della responsabilità dell’imputato. Come abbiamo anticipato, infatti, eventuali episodi di rinnovazione non potranno riguardare elementi probatori già valutati dal giudice nel corso del giudizio abbreviato di primo grado (24). In conclusione, il rapporto tra l’appello ai sensi dell’art. 443 c.p.p. e la fattispecie di rinnovazione, dovrà venire escluso nelle situazioni di cui al comma 1o dell’art. 603 c.p.p. — sempre che non si tratti di elementi assunti ma non valutati dal giudice — e nel caso di rinnovazione connessa a contumacia (art. 603 comma 4o c.p.p.), esistendo, in tale ipotesi, una intrinseca incompatibilità con il presupposto del rito. 3. La soluzione prospettata dalle Sezioni Unite risulta particolarmente persuasiva laddove tenta di superare le obiezioni mosse dai fautori delle tesi contrapposte. Innanzitutto, la Corte ha respinto le critiche di quanti ritengono disarmonico un sistema volto, da un lato, ad ammettere la diminuzione di pena con finalità deflattive e, dall’altro, a consentire l’espletamento di attività istruttorie, ovvero l’acquisizione di ulteriori elementi probatori (25). Per scalfire tale argomento, le sezioni unite hanno dapprima sottolineato che la presunta disfunzione configurabile in appello non è dettata da incertezze collegate all’elemento normativo, ed in seguito evidenziato come la « ragion d’essere del processo penale » imponga il conseguimento di un intento pratico, quello « della ricerca della verità », non sacrificabile. In particolare, all’interprete non deve sfuggire che eventuali incongruenze relative allo sviluppo del giudizio abbreviato sono spesso da porre in rapporto all’errata valutazione compiuta dal giudice dell’udienza preliminare sulla presunta decidibilità del processo « allo stato degli atti ». Al di là di tali osservazioni, occorre considerare — sotto il profilo del rischio di una minor efficacia deflattiva della procedura semplificata — che la rinnovazione dell’istruzione nel corso del giudizio abbreviato d’appello comporta una dilatazione dei tempi processuali, nel complesso sempre più breve — venendo definito il giudizio in sede di udienza preliminare — rispetto alla dilatazione provocata dalla rinnovazione in appello del rito ordinario. Ed ancora: il potere di utilizzare pienamente gli elementi raccolti prima dell’ammissione del giudizio abbreviato rimane intatto anche in sede di appello, consentendo ciò, in caso di rinno(23) LORUSSO, op. cit., p. 3040. (24) Così GALANTINI, op. loc. cit. (25) In tal senso GIUSTOZZI, Il giudizio abbreviato, in FORTUNA ed altri, Manuale pratico del nuovo processo penale, 4a ed., Cedam, 1995, p. 627; PIGNATELLI, Commento all’art. 443 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da CHIAVARIO, vol. IV, Torino, 1991, p. 792.


— 1211 — vazione, la definizione del processo in un arco di tempo più limitato di quello necessario per lo svolgimento dello stesso secondo il rito ordinario (26). Procedendo nell’analisi della sentenza, vediamo che la Corte ha tentato di superare l’argomento — sostenuto anche in dottrina (27) — volto ad evidenziare l’anomalia di un giudizio di appello che, invertendo le normali caratteristiche dei due gradi del processo, presenta possibilità di sviluppi probatori superiori a quelle del giudizio di primo grado. In particolare, tale incoerenza emerge ponendo mente al fatto che al giudice di prime cure — quello dell’udienza preliminare — « non è dato esercitare il potere integrativo ex art. 507 c.p.p. » (28). Pur ammettendo la sussistenza di tale squilibrio, la Corte ritiene che comunque non possa essere la mancata attribuzione al giudice dell’udienza preliminare di un potere analogo a quello previsto dall’art. 603 comma 3o c.p.p., ad impedire al giudice d’appello l’esercizio del potere suppletivo. La critica in parola trova pertanto una giustificazione nella struttura del rito abbreviato, che configura in modo differente lo svolgimento del primo e del secondo grado di giudizio. Tale situazione normativa potrebbe comunque indurre a dubitare — come peraltro è già stato fatto in diversi interventi della Corte costituzionale (29) — di un sistema così congegnato e favorire un lavoro di riforma complessiva del giudizio abbreviato, volto ad introdurre meccanismi di integrazione probatoria che valgano a riportare l’istituto in piena sintonia con i princìpi costituzionali (30). 4. Il quadro tracciato risulterebbe incompleto ove non ci si intrattenesse sulle problematiche concernenti le modalità di assunzione delle prove nell’ambito del giudizio abbreviato in sede di appello. In particolare, l’indagine dovrà riguar(26) DI CHIARA, Considerazioni in tema di rito abbreviato, finalità del processo e tecniche di giudizio, in questa Rivista, 1989, p. 574 s., esamina il conflitto tra esigenze pragmatiche ed esigenze etiche introdotto dal giudizio abbreviato nel sistema del processo. (27) Così SPANGHER, op. cit., p. 627. (28) Nel senso che la ratio, i contenuti e le finalità del rito abbreviato sono di ostacolo a qualsiasi successiva acquisizione probatoria, cfr. Sez. I, 3 maggio 1994, Filosa, in Cass. pen., 1995, p. 2946; Sez. I, 16 marzo 1994, Di Stefano e altro, in Riv. pen., 1995, p. 184; Sez. I, 1 febbraio 1994, p. g. in proc. Franzoni, cit.; Sez. II, 16 aprile 1993, Croci e altro, in Cass. pen., 1994, p. 1556; Sez. I, 11 maggio 1992, p. g. in proc. Castaneda, in Mass. Cass. pen., 1993, 2, p. 95; in senso più temperato, vale a dire che nel giudizio abbreviato si può procedere all’interrogatorio dell’imputato, cfr. Sez. VI, 24 maggio 1993, Mercuri, in Cass. pen., 1994, p. 961, con osservazioni di DIOTALLEVI; Sez. VI, 28 settembre 1992, Guzzaffi, in Mass. Cass. pen., 1993, 2, p. 91; all’ammissione di prove documentali, cfr. Sez. II, 2 ottobre 1992, Russo, in Cass. pen., 1995, p. 110; Sez. II, 2 dicembre 1991, Traditi, in Cass. pen., 1993, p. 584; con la precisazione, contenuta in alcune pronunce, che le acquisizioni probatorie sono consentite soltanto se riguardano punti differenti dalla ricostruzione storica del fatto e dalla attribuibilità del reato all’imputato, cfr. Sez. I, 10 dicembre 1990, Ragno, ivi, 1992, p. 89. (29) Cfr. Corte cost., 23 dicembre 1994, n. 442, in Cass. pen., 1995, p. 813, (anche in Leg. pen., 1995, p. 267 s., con nota di MAINA, Ultimo monito della Corte costituzionale per il giudizio abbreviato?; e in Dir. pen. e proc., 1995, p. 360, con commento di R.E. KOSTORIS). L’esigenza di introdurre, nella disciplina del giudizio abbreviato, meccanismi di integrazione probatoria, ritenuta pregiudiziale alla riconduzione dell’istituto a piena coerenza con i princìpi costituzionali, era stata più volte richiamata dal giudici della Consulta in successive pronunce: Corte cost., 1o aprile 1993, n. 129, in Cass. pen., 1993, p. 1907; Corte cost., 16 febbraio 1993, n. 56, ivi, 1993, p. 1907. (30) In questi termini SPANGHER, Le acquisizioni nel giudizio abbreviato in grado di appello-Il commento a Sez. Un., 29 gennaio 1996, in Dir. pen. e proc., 1996, p. 740. In una prospettiva di riforma coerente con gli interventi effettuati dalla giurisprudenza costituzionale nel settore in esame, andava il disegno di legge n. 1086/S recante: « Modifiche alle disposizioni del codice di procedura penale in materia di giudizio abbreviato », presentato dal Ministro di Grazia e Giustizia, Conso, durante l’undicesima legislatura. Il suddetto testo è pubblicato in Doc. Giust., 1993, c. 693. Vi si prevedeva, in particolare, una riformulazione del presupposto della definibilità del processo allo stato degli atti mediante la « equiparazione alla detta condizione sia per l’ipotesi in cui la definizione è consentita con una integrazione non complessa degli elementi di prova risultanti dalle indagini preliminari, sia per quella in cui il processo sarebbe stato definibile allo stato degli atti se non vi fosse stata una ingiustificata incompletezza di indagine e quindi una inerzia del pubblico ministero (così la Relazione al disegno di legge, ivi, c. 695).


— 1212 — dare i poteri del giudice e delle parti, nonché la tecnica di elaborazione della prova. In relazione al primo punto, la dottrina si è schierata su posizioni differenti. Secondo alcuni autori, il rito abbreviato in sede di appello — assoggettato alle forme previste dall’art. 127 c.p.p. (art. 443 comma 4o c.p.p.) — imporrebbe l’assunzione di mezzi e fonti di prova ad esclusiva opera del giudice (31). Tale soluzione si fonda su due argomenti. Il primo, di carattere letterale, è ricavato dal testo dell’art. 599 comma 3o c.p.p., che impone la « necessaria partecipazione (all’udienza) del pubblico ministero e dei difensori ». Questa formula — è stato sostenuto — risulterebbe superflua « ove si ipotizza(sse) l’assunzione delle prove mediante l’esame incrociato, il quale implica molto di più di una mera partecipazione di quelle parti » (32). Il secondo argomento, di carattere sistematico, emerge invece dall’esame delle formule legislative utilizzate per individuare, in vari contesti processuali, il ruolo del giudice nell’area del procedimento probatorio (33). In proposito, devono essere valutati gli artt. 507 e 603 c.p.p.: l’uno stabilisce che il giudice « può disporre anche d’ufficio l’ammissione di nuovi mezzi di prova »; l’altro rimette al giudice il potere di disporre la « rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ». Queste formule sembrano dunque individuare situazioni diverse dalla « assunzione della prova »: esse attribuiscono all’autorità giudiziaria inequivoci poteri di impulso, ma non gli assegnano un ruolo attivo nella fase in cui il mezzo di prova viene alla luce. Ruolo che, viceversa, è conferito esplicitamente al giudice nel corso della « rinnovazione camerale », dall’art. 599 comma 3o c.p.p. (34). A fronte di una presa di posizione così netta in favore dell’assunzione della prova « con metodo inquisitorio ad opera del giudice » (35), non è mancato chi ha voluto leggere nella disciplina in tema di rinnovazione, l’intento di recuperare le « movenze più articolate del contraddittorio tipico » (36). In tale prospettiva, allora, si è obiettato che il rinvio alle forme dell’art. 127 c.p.p. non rappresenta un limite alle modalità di acquisizione probatoria, ma trova nell’art. 599 comma 3o c.p.p. « una delle sue più significative deroghe ». Di conseguenza, le fattispecie di rinnovazione richiamate da quest’ultima disposizione risultano estranee allo schema dell’art. 127 c.p.p. e non ne vengono condizionate. Da ciò, dunque, la necessaria presenza di pubblico ministero e difensori all’udienza. Per suffragare tale opinione è stata poi ritenuta priva di fondamento la tesi volta a considerare il concetto di « partecipazione » come « un quid minus rispetto al ruolo pienamente attivo affidato alle parti nel giudizio di prima istanza » (37). La stessa locuzione è stata utilizzata infatti a proposito dell’incidente probatorio, ove le parti intervengono nell’assunzione della prova « con le forme stabilite per il dibattimento » (art. 401 comma 5o c.p.p.). Al di là delle tesi prospettate, dotate entrambe di logicità e concretezza, non possiamo tuttavia negare come — alla luce dei princìpi sottesi all’impianto accusa(31) Così DI CHIARA, Il contraddittorio nei riti camerali, Giuffrè, 1994, p. 312 s.; NAPPI, Guida al codice di procedura penale, 5a ed., Giuffrè, 1996, p. 619. (32) Così NAPPI, op. cit., p. 429. (33) DI CHIARA, op. ult. cit., p. 314. (34) DI CHIARA, op. ult. cit., p. 315. (35) Testualmente NAPPI, op. loc. cit.; nonché CORDERO, sub art. 599 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, 2a ed., Utet, 1992, p. 670, secondo il quale « quest’eventuale istruzione avviene in camera di consiglio, davanti al pubblico ministero e ai difensori ». (36) PERONI, op. cit., p. 237. (37) PERONI, op. loc. cit., sostiene anche che l’elemento letterale, per quanto suggestivo, non è « in grado da solo di fondare, in senso derogatorio rispetto agli schemi dibattimentali tipici, un’autonoma dinamica di assunzione probatoria in fase di appello camerale ».


— 1213 — torio del nuovo codice — la soluzione che pone in risalto il contributo diretto delle parti dovrebbe risultare preferibile, se non altro per tutte le ragioni che inducono a « privilegiare il ruolo dei soggetti del contraddittorio nella dinamica dell’esecuzione probatoria » (38). In tale ottica, vediamo allora se sia possibile applicare, alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in sede di giudizio abbreviato d’appello, le forme dell’esame incrociato previste dall’art. 498 c.p.p. Il problema risulta collegato a quello relativo alle modalità di assunzione della prova nel corso della rinnovazione presso l’appello ordinario (39). Per alcuni, l’incompatibilità della struttura del giudizio di secondo grado — ovvero un giudizio critico — con quella di un mezzo « a dinamiche probatorie rette su criteri di oralità-immediatezza », imporrebbe l’esclusione, dall’appello, delle forme di cui all’art. 498 c.p.p. (40). Per altri, invece, le regole generali dettate a proposito dell’esame dei testimoni dovrebbero valere anche in sede di impugnazione, ispirandosi pure questa fase a princìpi di matrice accusatoria (41). La soluzione al problema sottolineato deve essere cercata avendo ben presente che la rinnovazione dibattimentale in sede di giudizio abbreviato d’appello, può avere ad oggetto soltanto prove nuove o già in possesso del giudice di primo grado, ma non valutate. Al di là di ogni critica o riserva espressa dalla dottrina in ordine ad entrambe le ipotesi esposte (42), sembra corretto ritenere che nel corso della rinnovazione in appello debbano trovare applicazione le stesse modalità previste per l’istruzione probatoria che ha luogo nel dibattimento di primo grado. La soluzione è suggerita — su un piano generale — dall’importanza che nel codice attuale riveste l’istituto dell’esame incrociato. Non si può ignorare, infatti, come il sistema della cross-examination rappresenti non soltanto una particolare tecnica di indagine, ma risulti soprattutto ispirato alla « idea di una diversità nella qualità della prova » e costituisca espressione del diritto alla prova quale strumento di conoscenza giudiziaria (43). Attraverso l’esame ed il controesame, le parti esercitano il diritto all’organizzazione ed all’utilizzo del materiale probatorio, giungendo più facilmente — nello scontro dialettico — alla scoperta della verità. Da un punto di vista normativo, poi, l’art. 598 c.p.p., estendendo al giudizio d’appello le regole relative alla fase di primo grado soltanto se applicabili, impone un regime diverso tutte le volte in cui ciò non risulti possibile. Di conseguenza, laddove fosse stata ritenuta l’incompatibilità tra giudizio abbreviato di seconda istanza e regole stabilite dall’art. 498 c.p.p., si sarebbero dovute prevedere, per l’esame svolto in sede di rinnovazione dibattimentale, formalità differenti. L’alter(38) Così PERONI, op. cit., p. 238. (39) In tal senso PERONI, op. cit., p. 238, nota 152. (40) In tal senso Sez. I, 7 luglio 1993, Battipaglia, in Arch. n. proc. pen., 1993, p. 715; Sez. I, 30 aprile 1992, Idda, ivi, 1993, p. 2859, con nota di CARACENI, Sulle forme dell’esame testimoniale nella rinnovazione del dibattimento in appello. (41) Sez. II, 21 settembre 1992, Rottino, in Cass. pen., 1994, p. 3015, con nota di RENON, Presupposti e limiti all’applicazione delle forme dell’esame incrociato nel giudizio di appello; nonché in Giur. it., 1994, II, c. 272, con nota di PERONI, Metodo orale e logica del controllo nel dibattimento d’appello: un’antinomia davvero insuperabile?. Più in generale, nel senso dell’applicabilità delle comuni regole in tema di esame testimoniale al giudizio d’appello, in forza della clausola di cui all’art. 598 c.p.p., v. Sez. III, 3 giugno 1993, Tettamanti, in Cass. pen., 1995, p. 79. (42) Per l’esame di tali critiche, cfr. PERONI, L’istruzione dibattimentale, cit., p. 216 s., cui si rimanda per ulteriori indicazioni dottrinali e giurisprudenziali sul punto. (43) FRIGO, Commento all’art. 498 c.p.p., in CHIAVARIO, Commento al nuovo codice di procedura penale, vol. V, Utet, 1991, p. 221, 232.


— 1214 — nativa possibile poteva essere la conduzione dell’esame da parte del presidente del collegio. Tuttavia, uno schema di questo tipo — già presente nel nostro codice (artt. 506 comma 2o; 567 comma 4o c.p.p.) in relazione a fattispecie particolari e ben delimitate — pare non essere attuabile sulla base soltanto di una operazione di mera analogia (44). 5. Pur essendo d’accordo con la soluzione cui è giunta la Corte di cassazione nella sentenza in esame, riteniamo che alcuni punti concernenti la rinnovazione non siano stati sufficientemente precisati. Un primo aspetto riguarda l’esercizio del potere del giudice, collegato esclusivamente al criterio della « assoluta necessità ». Nella motivazione della sentenza non si pone in luce la differenza esistente tra il richiamato parametro, utilizzato laddove il giudice debba agire d’ufficio, e quello della « non decidibilità allo stato degli atti », dettato per i casi in cui l’autorità giudiziaria operi a richiesta di parte. In prima approssimazione, i due termini sembrerebbero intercambiabili, nel senso che la rinnovazione risulterebbe « assolutamente necessaria » ogni qual volta il giudice non fosse in grado di decidere « allo stato degli atti », vale a dire sulla base della piattaforma probatoria a sua disposizione. Per quel che qui importa, va allora precisato che la differenza di formula — pur se collegata a situazioni diversamente caratterizzate per la presenza o meno della richiesta — non potrà mai condurre a conseguenze pratiche rilevanti. Risulta infatti difficile ipotizzare una impossibilità di decidere allo stato degli atti in grado d’appello che non si risolva, al contempo, in un giudizio di assoluta necessità della rinnovazione istruttoria (45). Un secondo punto, trascurato dalle Sezioni Unite, concerne il diritto alla prova del controinteressato. In particolare, ci domandiamo se esso trovi tutela — come già aveva ritenuto a proposito dell’art. 507 c.p.p. la sentenza del 1992 (46) — anche nel caso dell’art. 603 comma 3o c.p.p. Alla luce delle considerazioni svolte — tese a ravvisare un formale parallelismo tra l’art. 507 c.p.p. e l’art. 603 comma 3o c.p.p. — si dovrebbe ritenere che anche nel caso della rinnovazione disposta d’ufficio in sede di giudizio abbreviato di appello, le parti controinteressate possano controdedurre le prove ex art. 495 comma 2o c.p.p. Precludere il diritto alla controprova significherebbe infatti non solo porsi in contrasto con i princìpi fissati dalla legge-delega (47), ma anche con l’art. 6 par. 3, lett. d) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e con l’art. 14 n. 3 lett. e) del Patto internazionale sui diritti civili e politici, che riconoscono alle parti il diritto alla prova a discarico a pari condizioni di quelle a carico (48). Per tacere poi della violazione dell’art. 24 cost., autorevolmente interpretato (44) Così PERONI, op. ult. cit., p. 222; RENON, op. cit., p. 3019. (45) ZAPPALÀ, Commento all’art. 603 c.p.p., in CHIAVARIO, Commento, cit., vol. VI, Utet, 1991, p. 205. (46) Retro, nota 10. (47) L’art. 2, n. 3 della l. 16 febbraio 1987, n. 81, in G.U., 16 marzo 1987, n. 62 (supp. ord.), prevede la « partecipazione dell’accusa e della difesa su basi di parità in ogni stato e grado del procedimento ». (48) Così MAZZARRA, La rinnovazione del dibattimento in appello, Cedam, 1995, p. 98; nonché, in proposito, v. CHIAVARIO, La convenzione europea dei diritti dell’uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, Giuffrè, 1969, p. 339 s.; ID., Riverberi della convenzione europea dei diritti dell’uomo sui poteri del giudice e delle parti in ordine all’assunzione dei testimoni nel processo penale, in Foro it., 1964, V, c. 49 s.; GREVI, Spunti sull’art. 6 § 3 lett. d) della convenzione europea dei diritti dell’uomo (in tema di citazione dei testimoni a discarico nella fase del giudizio), in Ind. pen., 1968, p. 408 s.; PISANI, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e processo penale, in Foro it., 1966, V, c. 37.


— 1215 — nel senso che « una difesa senza possibilità di prova a discarico non sarebbe una difesa » (49). A favore di tale conclusione, bisogna sottolineare come un sistema differente da quello prospettato potrebbe compromettere l’equilibrio dell’intero ordinamento. La possibilità di smentita da parte di soggetti diversi rispetto a quelli che hanno sollecitato il giudice d’appello nella acquisizione della prova, risulterebbe molto limitata, o addirittura, inesistente. Una decisione emersa al termine di un giudizio abbreviato potrebbe allora venire stravolta, senza possibilità di replica, nel secondo grado di giudizio. GIULIO GARUTI Ricercatore di procedura penale nell’Università di Modena

(49)

VASSALLI, Il diritto alla prova nel processo penale, in questa Rivista, 1968, p. 12; nonché FO-

SCHINI, Nuova prova e controprova testimoniale, ivi, 1950, p. 834.


— 1216 — c) Giurisprudenza internazionale

TRIBUNALE PENALE INTERNAZIONALE — 3 aprile 1996 Pres. A. Cassese — Uff. del Procuratore: E. Ostberg, M. Kehoe Le Procureur c. Tihofil alias Tihomir Blas̆kić Decisione relativa all’istanza della difesa presentata in conformità all’art. 64 del Regolamento di procedura e di prova Custodia cautelare in carcere — Competenza del Presidente del Tribunale in merito alle modalità di esecuzione della custodia cautelare — Misure equivalenti alla custodia cautelare in carcere — Arresti domiciliari — Valore delle legislazioni nazionali (art. 64 del Regolamento di procedura e di prova del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja). Anche in assenza di disposizioni espresse, lo Statuto ed il Regolamento di procedura e di prova del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja non escludono la concessione degli arresti domiciliari, come alternativa alla custodia in carcere (1). Un attento esame delle legislazioni nazionali mostra che gli Stati tendono a riconoscere lo stesso concetto fondamentale di arresti domiciliari e prevedono le stesse condizioni per la sua concessione (2). 1. Le 1er avril 1996, en vertu des articles 64 et 65 da Règlement de procédure et de preuve, le Conseil de la défense du général Tihomir Blas̆kić m’a soumis une motions en ma qualité de Président du Tribunal. La motion de la défense demandait une modification des conditions de détention du général et son éventuelle mise en liberté provisoire. Le Procureur a répondu par écrit le 2 avril 1996. A ARGUMENTS DES PARTIES 2. Quand on lui a demandé de spécifier les motifs sur lequels s’appuyait sa motion, le Conseil de la défense a précisé à l’audience que, à ce stade, elle était limitée à l’article 64 du Réglement qui confère au Président le pouvoir de modifier les conditions de détention de son client. Cependant, il a précisé qu’il ne renonçait en aucune façon au droit pour le général Blas̆kić de déposer ultérieurement une autre motion devant une Chambre de première instance, conformément à l’article 65 du Règlement. 3. Le Conseil de la défense a soutenu que des raisons déterminantes justifiaient la motion et que la général Blas̆kić méritait des conditions spéciales de détention. Premièrement, le Conseil de la défense et le général Blas̆kić ont, tous les deux, insisté sur le fait que la présence du général devant le Tribunal ne tient pas à l’exécution par la République de Croatie du mandat d’arrêt lancé contre lui mais sim-


— 1217 — plement de sa propre décision de se livrer volontairement au Tribunal. Le Conseil de la défense a expliqué que, pour l’instant, les autorités croates ne disposent pas des moyens juridiques nécessaires pour arrêter les inculpés et les remettre au Tribunal. Il était, par conséquent, impossible pour lesdites autorités d’exécuter un tel mandat d’arrêt puisque, ce faisant, elles violeraient les dispositions de l’article 10 de leur constitution ainsi que la législation nationale pertinente. Le Conseil de la défense a estimé que le Parlement croate adopterait prochainement les dispositions législatives ou constitutionnelles nationales appropriées en vue d’assurer la coopération entre la Croatie et le Tribunal. De sucroît, le Conseil de la défense a insisté sur les fonctions du général Blas̆kić en tant que Chef d’état-major du Conseil croate de défense en Bosnie-Herzégovine, sur ses principes moraux élevés et sur le fait qu’il est un soldat professionnel extrêmement qualifié. Il a déduit de ces éléments que le général Blas̆kić mérite des conditions specialés de détention. Enfin, le Conseil de la défense a souligné qu’il n’existe aucun élément de preuve établissant que le général Blas̆kić a commis les crimes pour lequels il fait l’objet d’un acte d’accusation. Pour ces raisons, le Conseil de la défense a soutenu que le général Blas̆kić mérite ‘‘une sorte de liberté conditionnelle’’, ce qui suppose que le général ne serait pas en mesure de se déplacer librement aux Pays-Bas, qu’il serait limité à une résidence specifique et qu’il serait sous la surveillance permanente des autorités competentes. Le Conseil de la défense a souligné le fait que son client respecterait toutes les conditions formulées par le Président et qu’il a convenu de ne pas demander l’asile politique aux Pays-Bas et de ne pas avoir de contacts avec les médias ou la presse. 4. Dans sa réponse à la motion deposée par la Défense ainsi que dans sa présentation orale durant l’audience, le Procureur a accepté la demande de la défense mais uniquement dans la mesure où le President est convaincu que le général Blas̆kić a volontairement comparu devant lui et que tous les frais afférents aux conditions spéciales de détention seront couverts par le général Blas̆kić ou pour son compte. B DECISION I. Le régime de la législation croate. — 5. Comme l’a indiqué le Conseil de la défense à l’audience, la raison d’être de cette motion du général Blas̆kić est que la République de Croatie n’a pas exécuté le mandat d’arrêt lancé par le Tribunal contre le général. Les autorités croates savent indéniablement que la résolution 827 (1993) du Conseil de sécurité d’une part, et l’article 29 du Statut du Tribunal d’autre part, font obligation aux Etats de prendre toutes les mesures internes nécessaires pour respecter les ordonnances et requêtes du Tribunal. Cependant, le Conseil de la défense a soutenu que les autorités croates ne peuvent pas exécuter les mandats d’arrêt visés ci-dessus parce qu’aucune législation n’a encore été adoptée en Croatie aux fins d’application du Statut du Tribunal; en vertu de la législation actuelle — selon l’argument — les autoritès croates ne sont pas dotées des moyens juridiques nécessaires pour arrêter les personnes faisant l’objet d’un acte d’accusation et pour les remetre au Tribunal. Cet argument du Conseil de la défense est confirmé par une lettre que m’a envoyée le Ministre de la justice de


— 1218 — Croatie en date du 27 mars 1996, par laquelle il m’informe que ‘‘après la première lecture devant le Parlament, le groupe de travail met au point la version définitive du texte constitutionnel sur la coopération avec le Tribunal international. Nous nous attendons à ce que cette version finale soit examinée et éventuellement adoptée par le Parlement au cours d’une de ses prochaines sessions. En Croatie, les textes de lois entrent en vigueur huit jours après leur publication au journal officiel (Narodne novine)’’. Cette question appelle trois observations. 6. Premièrement, il n’appartient pas à un juge international de s’assurer que cette affirmation par un Etat est correcte, à savoir que la situation juridique au sein du système national est tel que ledit Etat ne peut pas respecter ses obligations internationales. Il est vrai, cependant, que le droit national peut être examiné par les cours et tribunaux internationaux à titre d’un jeu de normes juridiques et, en conséquence, être appliqué par lesdits cours et tribunaux — à cet égard, la doctrine ancienne et assez artificielle aux termes de laquelle ‘‘au regard du droit international et de la Cour qui en est l’organe, les lois nationales sont de simples faits’’ (C.P.J.I., affaires relatives à Certains intérêts allemands en Haute-Silésie polonaise, série A, no 7, 1926) ne peut plus être acceptée parce que, pour le juge international également, les droits internes peuvent être pertinents tant pour ce qui est du champ normatif que de la force contraignante. Néanmoins, il reste vrai que, à moins qu’une règle juridique internationale n’autorise expressément ou implicitement le contraire, les juges internationaux ne peuvent pas interpréter les droits internes à la place des juridictions ou autorités administratives nationales. Les juges internationaux peuvent facilement mal comprendre ou mal interpréter les droits nationaux parce qu’ils manquent, généralement, des outils juridiques nécessaires pour les interpréter correctement. Il s’ensuit que je m’appuierai sur l’hypothèse que l’interprétation donnée par le Conseil de la défense est la bonne. 7. J’en viens maintenant à ma deuxième remarque relative à l’obligation d’une loi croate. Sur ce point, je suis tenu de relever que la Répubblique de Croatie est incontestablement en violation d’une obligation juridique internationale lui incombant autant qu’à tout autre Etat ou même qu’a tout autre gouvernement de facto. Il existe en droit international un principe universellement reconnu aux termes duquel une faille ou une déficience en droit national, ou toute absence de la législation nationale nécessaire, ne décharge pas les Etats et autres sujets internationaux de leurs obligations internationales; en conséquences, aucun sujet de droit international ne peut s’appuyer sur les dispositions d’une législation nationale ou sur les lacunes de cette législations pour être déchargé de ces obligations; lorsqu’ils le font, ils contreviennent aux dites obligations. Cet argument est appuyé par une jurisprudence internationale volumineuse. Il suffit de ne mentionner ici que quelques affaires. Dans l’affaire du Traitement des nationaux dans le territoire de Dantzig, la Cour permanente de droit international a déclaré que: ‘‘Il faut (...) observer que, ... d’après les principes généralment admis... un Etat ne peut pas se prévaloir d’un autre Etat de sa propre Constitution pour se soustraire aux obligations que lui imposent le droit international ou les traités en vigueur’’ (C.P.J.I., série A/B no 44, 1931, p. 24). On peut également mentionner l’affaire Georges Pinson traduite devant la


— 1219 — Commission de réclamations France-Mexique. Dans sa décision, l’arbitre a écarté l’opinion que dans le cas d’un conflit entre la constitution d’un Etat et le droit international, la première l’emporterait. Il a fait remarquer que cette approche était ‘‘absolument contraire aux axiomes mêmes du droit international’’ (décision du 19 octobre 1928, RSA, vol. V, p. 393-394). 8. Troisièmement, il convient d’attirer l’attention sur le caractère et le contenu intrinsèques de l’obligation des Etats de coopérer avec les ordonnances et requêtes du Tribunal. Ladite obligation est telle que les Etats y contreviennent non seulement lorsqu’ils se heurtent à une situation spécifique ne leur permettant pas d’exécuter les mandats d’arrêt ou les ordonnances du Tribunal mais même avant cette éventualité, en n’adoptant pas la législation d’application (si cette législation est prévue par le droit interne). C’est une question qui mérite quelque attention en raison de son importance et je m’y arrêterai, par conséquent, même si ce n’est que brièvement. Au paragraphe 4 de la résolution 827 (1993), le Conseil de sècurité a décidé que tous les Etats ‘‘(...) prendront toutes mesures nécessaires en vertu de leur droit interne pour mettre en application les dispositions de la présente résolution et du Statut, y compris l’obligation des Etats de se conformer aux demandes d’assistance ou aux ordonnances émanant d’une Chambre de première instance en application de l’article 29 du Statut’’. Il s’ensuit que, depuis 1993, tous les Etats on l’obligation incontestable de promulguer toute législation d’application nécessaire pour leur permettre d’exécuter les mandats d’arrêt et les requêtes du Tribunal (à moins, bien sûr, qu’aucune modification du droit interne ne soit nécessaire à cette fin, une situation que l’on trouve dans des pays comme la République de Corée, le Venezuela, Singapour et la Russie). Il convient de souligner qu’il ne s’agit pas là d’une obligation générique mais d’une obligation très spécifique. Plus précisément, il s’agit d’une obligation de comportement ou d’une obligation de moyens, à savoir une obligation qui exige des Etats qu’ils exécutent une action spécifiquement déterminée, à la différence des obligations de résultat, qui requièrent des Etats qu’ils produisent une certaine situation ou résultat, en les laissant libres d’en choisir les moyens (cette distinction a été opérée par la Commission du droit international des Nations Unies; voir Annuaire de la Commission du droit international, 1977, vol. II, partie II, p. 13, par. 1). Tandis que cette dernière catégorie comprend des obligations comme celle de protéger des étrangers avec la diligence d’un bon père de famille ou celle de prendre toutes les mesures appropriées en vue de protéger les locaux des missions diplomatiques contre les intrusions ou dommages, les obligations de comportement déterminent spécifiquement le type d’actions requises, bien qu’elles laissent une certaine marge de liberté aux Etats (par example, quand une action législative est nécessaire, les Etats peuvent être en mesure de choisir entre la promulgation d’une loi votée au Parlement ou adopter quelque autre mesure législative propre à leur système juridique: cf. Annuaire de la C.D.I., precité, p. 15, par. 8). Il en découle que dès qu’un Etat ne prend pas les mesures législatives nécessaires pour lui permettre de respecter les ordonnances ou requêtes du Tribunal, il contrevient à une obligation internationale avant même que survienne le besoin pratique d’exécuter un mandat d’arrêt ou une ordonnance du Tribunal. 9.

Il ressort à l’évidence de ce qui précède que, en ne promulguant pas la lé-


— 1220 — gislation d’application, la République de Croatie contrevient indéniablement depuis 1993 à son obligation d’appliquer le Statut, découlant des résolutions pertinentes du Conseil de sécurité ainsi que de l’article 29 du Statut du Tribunal. 10. J’ajouterai que le non-respect par la République de Croatie de son obligation juridique internationale est d’autant plus grave et regrettable qu’en quatre occasions différentes (le 14 mars et le 20 juin 1994; le 15 février et le 30 novembre 1995), j’ai rappelé par écrit l’obligation susmentionnée aux Ministres croates des affaires étrangères et de la justice. J’ai ultérieurement insisté sur le respect de cette obligation lors d’une réunion avec les Ministres croates des affaires étrangères et de la justice le 15 janvier 1996. 11. Bien que, comme je viens de l’exposer, la République de Croatie enfreint son obligation internationale d’appliquer le Statut du Tribunal, le fait demeure qu’en n’adoptant pas cette législation, elle n’a pas été en mesure d’exécuter le mandat d’arrêt lancé contre le général Blas̆kić avec pour conséquences que, en vertu du système juridique croate, cet inculpé peut légalement jouir de la pleine liberté dans cet Etat. II. L’objet de la demande. — 12. Le Conseil de la défense n’a, ni dans la présente motion ni durant l’audience, présenté en détail la demande spécifique qu’il a déposée. Comme mentionné plus haut, il s’est limité à demander ‘‘une sorte de liberté conditionnelle’’, ajoutant que l’accusé était prêt à se soumettre à un certain nombre de restrictions. A cet égard il convient de souligner que toute forme de ‘‘liberté’’, c’est-à-dire de mise en liberté provisoire, qu’elle soit accompagnée ou non de conditions rigoureuses, doit être écartée d’entrée de jeu, puisqu’il appartient à la Chambre de première instance concernée d’ordonner une telle mise en liberté en vertu de l’article 65. L’article 64, sur la base duquel j’ai été saisi de cette question, prévoit simplement de ‘‘modifier les conditions de la détention de l’accusé’’. Je me limiterai par conséquent à décider s’il convient ou non de modifier la détention et, si oui, dans quelle mesure. Il s’ensuit que je n’aurais pas à me prononcer sur la possibilité d’imposer au général Blas̆kić une assignation à résidence (compulsory residence), une mesure prévue par de nombreux systèmes juridiques, y compris ceux de la France et, en particulier, de la Croatie (il convient de noter que l’article 176 de la Loi croate de procédure pénale du 21 avril 1993 a été mentionnée à l’audience (1). En fait, l’assignation à résidence n’est pas une forme de détention mais plutôt une mesure de précaution prise contre des personnes qui i) sont présumées avoir commis des infractions qui n’entraînent pas automatiquement de détention préventive et ii) dont le comportement probable (comme une ingérence dans l’enquête, la répétition du crime ou un danger pour l’ordre public) n’exige pas l’adoption de mesures carcérales. L’assignation à résidence vise à s’assurer qu’un inculpé ne s’enfuira pas avant l’ouverture du procès, se soustrayant ainsi à la justice. (1) L’article 176 dispose: ‘‘1) S’il existe des raisons de penser que, durant le procès, l’accusé puisse se soustraire à la justice, partir pour une destination inconnue ou quitter les pays, la Cour peut lui demander l’engagement formel qu’il ne disparaîtra pas ou qu’il ne quittera pas son lieu de résidence sans l’autorisation de ladite Cour. L’engagement est inscrit au procés-verbal; 2) Le passeport de l’accusé peut lui être provisoiremente retiré. L’appel contre une décision rendue à cet effet n’est pas suspensif de l’exécution de ladite décision; 3) Lorsqu’il s’engage à ne pas quitter son lieu de résidence, l’accusé est mis en garde qu’il peut être placé en détention en cas de violation dudit engagement.


— 1221 — 13. J’en viens maintenant à l’examen de la question de savoir si le général Blas̆kić a droit à la forme de détention autre que l’incarcération, que l’on appelle communément arrêts domiciliares (house arrest). Il convient de faire remarquer que les arrêts domiciliares ne sont prévus ni par le Statut ni par le Règlement de procédure et de preuve du Tribunal. Cependant, il est également vrai que rien dans le Statut ou le Règlement ne s’oppose ou n’interdit ces arrêts domiciliares comme une option à l’incarcération préventive (ou même à l’emprisonnement pour purger une peine). Si ce concept est confirmé par le Tribunal, il constituerait une mesure intermédiaire entre ce qui est considéré par le Règlement comme la règle, à savoir la détention préventive (article 64) et l’exception, c’est-à-dire la mise en liberté provisoire (article 65). Ce serait une mesure intermédiaire uniquement parce qu’elle serait moins sévère que l’incarcération tout en étant plus rigoureuse que la mise en liberté provisoire, parce que les arrêts domiciliaires sont une forme de détention. i) Règles nationales et internationales relatives à l’arrêt domiciliaire. 14. L’arrêt domiciliaire n’est pas exclus par le Statut ou par le Règlement et il est par conséquent approprié d’examiner brièvement les règles internationales et les législations internes en la matière. 15. Il convient de souligner que dès 1965, le Conseil de l’Europe a fortement recommandé que les gouvernements considèrent la détention préventive comme une mesure exceptionnelle tout en favorisant d’autres mesures ‘‘telles que la surveillance à domicile ou l’ordre de ne pas quitter un lieu déterminé sans l’autorisation préalable du juge’’ (Résolution (65) 11 adoptée le 9 avril 1965 par le Comité des Ministres, articles 1 b) et 1 g). 16. Une étude des législations nationales montre que de nombreux systèmes juridiques internes prévoient les arrêts domiciliaires soit comme option à la détention préventive soit comme moyen pour un condamné de purger sa peine. Si l’on écarte cette dernière catégorie qui n’est pas pertinente en l’espèce (et qui est prévue dans des Etats comme l’Espagne et les Etats-Unis), on fera remarquer que la première catégorie est envisagée dans la législation ou la jurisprudence d’Etats européens comme la Belgique, la France, l’Allemagne, la Grèce, l’Italie, les Pays-Bas, le Portugal et la Suède ainsi que dans celle d’Etats non-européens comme le Japon. ii) La notion d’arrêt domiciliare: conditions préalables et critères de son application. 17. Un examen attentif des diverses législations nationales révèle que les Etats tendent à reconnaître le même concept fondamental d’arrêts domiciliaires et, de surcroît, posent les mêmes conditions préalables pour l’imposition de cette mesure. Par contre, les critères devant être remplis par la personne détenue dans le cadre d’arrêts domiciliaires varient condidérablement, d’autant plus qu’ils sont normalement fixés par des juges individuels pour des affaires spécifiques et compte tenu des circonstances particulières de chaque affaire. J’examinerai brièvement les divers éléments des arrêts domiciliaires que nous venons de mentionner. 18. S’agissant du concept de base des arrêts domiciliaries, l’accord général est qu’ils couvrent la détention à son propre domicile ou dans les limites d’une maison ou autre logement en dehors d’une prison. Il est généralement spécifié


— 1222 — dans les législations nationales et confirmé par les tribunaux que les arrêts domiciliaires constituent une forme ou une catégorie de détention à toutes fins utiles, y compris le droit de contester la légalité de la détention et le droit de tenir compte du délai passé aux arrêts domiciliaires dans la détermination de la peine. (Il s’ensuivrait que, dans le cas du Tribunal, l’article 101 E) du Règlement selon lequel ‘‘la durée de la période pendant laquelle la personne reconnue coupable a été gardée à vue attendant d’être remise au Tribunal ou en attendant d’être jugée par une Chambre de première instance ou la Chambre d’appel est déduite de la durée totale de sa peine’’ s’appliquerait également à cette forme de détention préalable au procès). 19. S’agissant des conditions préalables à l’imposition des arrêts domiciliaires, elles sont d’un caractère à la fois négatif et positif. La première catégorie couvre les conditions qui ne devraient pas être présentes. Elles comprennent: le risque que le détenu puisse s’échapper; la possibilité qu’il puisse falsifier ou détruire des éléments de preuve ou mettre en danger des témoins potentiels; la possibilité qu’il puisse persévérer dans son attitude criminelle; qu’il présente un danger potentiel pour l’ordre et la paix publics. Normalement, les conditions préalables positives pour les arrêts domiciliaires ne sont pas énoncées dans la législation interne ou la jurisprudence. Cependant, il ressort à l’évidence de la pratique des juges et juridictions nationales que les arrêts domiciliaires peuvent être utilisés quand l’accusé est gravement malade, mentalement ou physiquement, quand il est âgé ou quand les conditions carcérales mettront gravement en danger sa vie ou sa santé mentale; ou lorsqu’il existe des circostances spéciales justifiant les arrêts domiciliaires comme mesure rétribuant un comportement particulier de l’accusé (par exemple, l’offre volontaire d’éléments de preuve allant au-delà de ce qui est demandé par le Procureur ou le juge d’instruction). 20. Les critères à remplir par le détenu varient d’une affaire à l’autre et ils sont généralement définis par le juge concerné. Un examen des pratiques nationales révèle que, en fonction des circonstances particulières de chaque affaire, le détenu a) peut être autorisé à résider dans un appartement ou une maison avec sa famille sans être autorisé à recevoir ou rencontrer des personnes autre que son conseil juridique ou son médecin, ou b) il peut être autorisé à quitter son lieu de résidence à heures fixes chaque jour et pendant une brève période en vue de travailler, ou c) il peut quitter son lieu de résidence pour de brèves périodes préétablies à des fins spécifiques autres qu’un travail, à condition qu’il le signale régulièrement à la police avant et après qu’il ait quitté son domicile. Ces critères varient dans chaque affaire spécifique mais ce qui constitue une caractéristique commune des arrêts domiciliaires est le droit du détenu de vivre avec sa famille et de rencontrer son conseil à son lieu de détention. C’est en ce qui concerne les dernières conditions mentionnées que les arrêts domiciliaires peuvent être considérés comme une forme privilégiée ou préférentielle de détention. III. Décision quant à la mesure sollicitée. — i) Raisons justifiant le refus d’accorder la résidence surveillée. 21. Je suis à présent en mesure de me prononcer sur la demande introduite par le Conseil de la défense du général Blas̆kić.


— 1223 — Il ressort des arguments présentés par le Conseil de la défense durant l’audience que certaines des conditions préalables négatives sont remplies en l’espèce. S’il est assigné à résidence et étroitement surveillé par la police, il est peu probable que le général Blas̆kić s’échappe, qu’il détruise des éléments de preuve ou qu’il menace la vie de témoins, et il ne sera pas non plus en mesure de participer à des activités semblables à celles visées dans les chefs d’accusation retenus contre lui par le Procureur. Par contre, sa présence sur le territoire néerlandais pourrait représenter une menace pour l’ordre public et la paix, ne fût-ce qu’en raison de la présence aux Pays-Bas de milliers de réfugiées de l’ex-Yougoslavie. En ce qui concerne les conditions préalables positives, il convient de remarquer que l’accusé n’est ni malade, ni âgé. Il résulte de ce qui précède que certaines conditions préalables essentielles aux arrêts domiciliaires font défaut. ii) Détention dans un endroit autre que le quartier pénitentiaire. 22. Le Conseil de l’accusé a cependant souligné que bien qu’aux termes de la législation croate il n’était pas tenu de se livrer au Tribunal et qu’a fortiori il n’a pas été placé en état d’arrestation par les autorités croates, il a volontairement décidé de se présenter devant le Tribunal pour y être jugé et pour démontrer son innocence. Le Procureur a reconnu qu’il convenait de tenir compte de son attitude, pour autant toutefois que je sois convaincu que l’accusé comparaît volontairement devant le Tribunal. Les explications fournies à ma demande durant l’audience par le Conseil de la défense semblent indiquer qu’il s’est rendu volontairement. En particulier, le Conseil de la défense a souligné que le général Blas̆kić, qui avait décidé de se rendre a La Haye le 29 mars, n’a pas pu s’exécuter en raison de graves problèmes émotionnels de sa femme; une fois ces problèmes disparus, il a embarqué à bord d’un vol commercial Zagreb-Amsterdam; il s’est présenté à l’aéroport de Zagreb sans escorte policière, accompagné seulement de sa femme et de ses avocats. Le Conseil de la défense a ajouté: ‘‘si le gouvernement croate souhaitait recourir à la force, il aurait attendu que cette loi (sur la coopération avec le Tribunal) soit votée par le Parlement, auquel cas il aurait disposé de tous le moyens légaux pour remettre le général Blas̆kić au Tribunal’’ (procès-verbal, p. 10). Le Procureur a également accepté que les conditions de détention ne soient modifiées que pour autant que je sois convaincu que tous les frais relatifs à cette modification soient supportés soit par l’accusé lui-même, soit par une autre personne en son nom. Lorsqu’il a été interrogé à l’audience sur cette condition, le Conseil de la défense a assuré que son client supporterait tous les frais nécessaires à la modification de ses conditions de détention. Les autorité néerlandaises m’ont ensuite transmis confirmation à cet effet. 23. Avant de prendre une décision sur cette question, je me permets de souligner à nouveau que même si le général Blas̆kić s’est volontairement livré au Tribunal, il n’en reste pas moins que la non-adoption par la Croatie d’une loi d’application constitue une violation flagrante de ses obligations au regard du droit international. Cependant, il serait peu judicieux et contraire à des principes de droit pénal généralement admis de ne pas tenir compte de l’attitude procédurale susmentionnée du général Blas̆kić. De plus, il convient de garder à l’esprit la maxime énoncée par Gaius au deuxième siècle après Jésus-Christ, à savoir semper in dubiis


— 1224 — benigniora praeferenda sunt, Digeste, L 17 (en cas de doute, la préférence sera toujours donnée au traitement le plus clément). L’attitude du général Blas̆kić mérite d’être prise en considération dans une certaine mesure, notamment en optant pour un lieu de détention autre que le quartier pénitentiaire, pour autant qu’un certain nombre de conditions strictes soient remplies. 24. Conformément à l’article 64 du Règlement de procédure et de preuve, je décide par la présente que le général Blas̆kić sera placé en détention en un endroit autre que le quartier pénitentiaires des Nations Unies. Le Règlement portant régime de détention des personnes en attente de jugement ou d’appel devant le Tribunal ou détenues sur l’ordre du Tribunal et tous autres règlement, règles ou directives régissant la détention des personnes sur ordre du Tribunal (ci-après dénommé collectivement ‘‘le Règlement sur la détention’’) sont applicables mutatis mutandis sauf s’il en est explicitement prévu autrement: a) le général Blas̆kić restera dans les limites d’une résidence désignée par les autorités néerlandaises en consultation avec le Greffier (ci-après le ‘‘lieu de détention’’); b) il ne pourra quitter le territoire des Pays-Bas sans autorisation délivrée par le Président suite à une demande écrite introduite à cet effet; c) il ne sera autorisé à quitter sa résidence que pour rencontrer son Conseil, les représentants diplomatiques ou consulaires de la République de Croatie accrédités aux Pays-Bas, ainsi que sa famille et ses amis. Les réunions et visites se dérouleront au quartier pénitentiaire des Nations Unies conformément au Règlement sur la détention. A l’occasion de ces visites et rencontres, le général Blas̆kić sera escorté au quartier pénitentiaire des Nations Unies par le personnel responsable de sa détention; d) il ne pourra quitter son lieu de détention à quelqu’autre moment que ce soit; e) il s’acquittera de tous les frais relatifs aux conditions particulières de sa détention, comme les frais concernant la maison dans laquelle il sera détenu ou ceu relatifs aux fonctionnaires de la sécurité requis pour assurer sa protection; f) il n’entretiendra aucun contact, quel qu’il soit, avec la presse et les médias. Il refusera d’accorder des interviews ou d’entrer en contact avec des reporters, des journalistes, des photographes ou des cameramen de télévision; g) il répondra promptement à toutes ordonnances, citations à comparaître, assignations, mandats ou demandes du Tribunal; h) il remettra son passeport et toute autre pièce d’identité au Greffier; i) il n’enverra ni ne recevra d’appels téléphoniques en son lieu de détention, tous les appels téléphoniques étant régis par le Règlement sur la détention; j) toute la correspondance adressée au général Blas̆kić et envoyée par celuici sera adressée au quartier pénitentiaire des Nations Unies et recevra le traitement prévu par le Règlement sur la détention; k) le général Blas̆kić ne révélera à personne l’emplacement de son lieu de détention. 25. Toute violation grave de l’une quelconque des conditions exposées cidessus entraînera l’incarcération immédiate du général Blas̆kić dans le quartier pénitentiaire des Nations Unies. Il reviendra au Greffier d’apprécier si une violation


— 1225 — grave a été commise et s’il y a lieu de transférer le général Blas̆kić au quartier pénitentiaire. 26. Le général Blas̆kić a le droit de formuler des demandes ou des plaintes auprès du Greffier, lequel prendra une décision rapide à leur sujet. Le général Blas̆kić a le droit d’introduire un recours auprès du Président du Tribunal contre toute décision du Greffier. Les demandes, plaintes et recours seront introduits par écrit. 27. Les conditions de détention du général Blas̆kić peuvent être modifiées à tout moment par décision motivée du Président. 28. La présente décision cessera d’avoir effet si une ordonnance de mise en liberté provisoire est rendue par la Chambre de première instance conformément à l’article 65 du Règlement. IV. Dispositif. — 29. Compte tenu de ce qui précède et vu l’article 64 du Règlement, j’ordonne par la présente que le général Blas̆kić soit transféré dès que possible du quartier pénitentiaire à l’endroit visé au paragraphe 24 a) ci dessus. Il sera maintenu en détention préventive dans le strict respect des conditions décrites ci-dessus, jusqu’à ce qu’il en soit décidé autrement par le Président ou jusqu’an terme de son procès, y compris, le cas échéant, la procédure d’appel, devant le Tribunal. 30. Le Greffier et le Greffier adjoint sont chargés du suivi continu de la détention et feront rapport au Président dans les plus brefs délais. 31.

Fait en anglais et en français, la version anglaise faisant foi. — (Omis-

sis).

——————— (1-2)

Sulla custodia cautelare disposta dal Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nella ex-Jugoslavia.

SOMMARIO: 1. Introduzione. — 2. L’ordinanza del Presidente del Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nella ex-Jugoslavia nel caso Blas̆kić: l’obbligo di cooperazione degli Stati con il Tribunale penale internazionale. — 3. Le misure cautelari nello Statuto e nel regolamento. — 4. Il valore delle convenzioni internazionali per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. — 5. La discrezionalità del giudice internazionale ed il ricorso ai principi generali. — 6. Considerazioni conclusive.

1. Il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nel territorio della ex-Jugoslavia è stato istituito con la risoluzione 827 del 23 maggio 1993, adottata dal Consiglio di Sicurezza nell’ambito del cap. VII della Carta delle Nazioni Unite (1). Si discute ancora, in dottrina, sul fondamento giuridico di tale ri(1) Gli scritti sul Tribunale penale internazionale sono numerosi, pertanto le indicazioni che seguono non intendono essere esaustive. Tra gli altri si vedano DAVID, Le Tribunal international pénal pour la ex-Yougoslavie, in Revue Belge de Droit International, 1992, p. 565 ss.; MERON, The Case for War Crimes Trials in Yugoslavia, in Foreign Affaires, 1993, p. 122 ss.; O’BRIEN, The International Tribunal for Violations of International Humanitarian Law in the Former Yugoslavia, in American Journal of International Law, 1993, p. 639 ss.; BERNARDINI, Il ‘‘Tribunale penale internazionale’’ per la (ex) Jugoslavia: considerazioni giuridiche, in I diritti dell’uomo. Cronache e battaglie, 1993, p. 15 ss.; CHARVIN, Premières observations sur la création du Tribunal Permanent international de la resolution 808 du Conseil de Sé-


— 1226 — soluzione: le critiche in merito alla legittimità della istituzione del Tribunale, ed i corrispondenti tentativi di cercare un fondamento alla costituzione del medesimo si svolgono su molteplici direttrici sia all’interno della Carta delle Nazioni Unite (2) che sul piano del diritto internazionale generale (3). La stessa Camera d’appello del Tribunale penale internazionale ha avuto modo di pronunciarsi su tale problema nel processo a carico di Tadic, ritenendo sostanzialmente che la legittimità della propria istituzione potesse trovare un fondamento sia nel potere del Consiglio di Sicurezza di nominare organi sussidiari, sia nei poteri vincolanti attribuiti a tale organo dal cap. VII della Carta delle Nazioni Unite (4). L’organizzazione, la competenza ed il funzionamento del Tribunale sono disciplinati dallo Statuto, approvato dal Consiglio di Sicurezza con la stessa risoluzione 827, e dal regolamento di procedura e di prova, adottato l’11 febbraio 1994 dagli stessi giudici del Tribunale (5). La competenza di questi ultimi all’adozione del regolamento di procedura trova il proprio fondamento giuridico nell’art. 15 dello Statuto, ai sensi del quale ‘‘Les juges du Tribunal international adopteront un règlement qui régira la phase préalable à l’audience, l’audience et les recours, la recevabilité des preuves, la protection des victimes et des témoins et d’autres questions appropriées’’. Come si vede, a differenza degli ordinamenti statali, in cui le norme di procedura penale sono solitamente adottate con legge, nel caso del Tribunale penale internazionale le norme di procedura sono adottate dallo stesso organo giudicante. In un ordinamento quale quello internazionale, caratterizzato dall’assenza di una funzione giurisdizionale istituzionalizzata oltreché di enti aventi una competenza normativa generale, si tratta di un fenomeno normale: nel caso in esame, tuttavia, è opportuno rilevare come la particolare competenza attribuita al Tribunale consenta l’adozione di norme in grado di incidere, anche in modo rilevante, sulla libertà personale degli individui sottoposti alla sua giurisdizione. Tra i diversi problemi che hanno caratterizzato la nascita ed il funzionamento curité des Nations Unies, ibidem, p. 26 ss.; LATTANZI, Alcune riflessioni su un Tribunale ad hoc per la ex Jugoslavia, ibidem, p. 382 ss.; PELLET, Le tribunal criminel international pour l’ex Jougoslavie. Poudre aux yeux ou avancée décisive?, in Révue Générale de Droit International Public, 1994, p. 7 ss.; SHRAGAZACKLIN, The International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia, in European Journal of International Law, 1994, p. 360 ss.; VASSALLI, Il Tribunale internazionale per i crimini commessi nei territori dell’ex-Jugoslavia, in Legislazione penale, 1994, p. 335 ss.; CARELLA, Il Tribunale penale internazionale per la ex-Iugoslavia, in PICONE (a cura di), Interventi delle Nazioni Unite e diritto internazionale, Padova, 1995, p. 463 ss. (2) Secondo CONFORTI, Le Nazioni Unite, Padova, 1994, p. 197, la istituzione del Tribunale può essere considerata ‘‘... come una misura rientrante nelle azioni di tipo bellico che il Consiglio sta conducendo nella ex-Jugoslavia e come tale riportarsi all’art. 42’’. (3) Per un recente ed interessante tentativo di giustificare la legttimità del Tribunale sulla base del diritto internazionale generale cfr. PICONE, Sul fondamento giuridico del Tribunale penale internazionale per la ex-Iugoslavia, (estratto) in La comunità internazionale, 1996. Secondo l’Autore, il Tribunale penale sarebbe stato istituito, dal Consiglio di Sicurezza ‘‘... al di là delle competenze attribuite al medesimo dalla Carta, su sollecitazione degli Stati operanti uti universi per conto della Comunità internazionale’’ (p. 17 dell’estratto) e costituirebbe ‘‘... uno strumento sanzionatorio per gli illeciti erga omnes commessi dalle varie ‘parti’ del conflitto iugoslavo, e non quello di una semplice misura di ristabilimento della pace assunta ai sensi del cap. VII della Carta...’’ (ibidem, p. 20). (4) Cfr. The Prosecutor v. Dusko Tadic a/k/a/‘‘Dule’’, Decision on the Defence Motion for Interlocutory Appeal on Jurisdiction, 2 ottobre 1995, caso N. IT-94-1-AR72, riprodotta anche in Rivista di diritto internazionale, 1995, p. 1016 ss. Tadic sosteneva la invalidità della istituzione del Tribunale penale internazionale da parte del Consiglio di Sicurezza. Mentre la Camera di prima istanza aveva negato la propria giurisdizione in materia, la Camera d’appello ha ritenuto di poter decidere in merito alla validità della propria istituzione, in applicazione del principio, operante nei collegi arbitrali internazionali, della ‘‘Kompetenz-Kompetenz’’. (5) Il regolamento di procedura e di prova, come emendato sino al 18 gennaio 1996, è riprodotto in Rivista di diritto internazionale, 1996, p. 242 ss. Sui vari emendamenti si veda VIERUCCI, Gli emendamenti al regolamento di procedura del Tribunale penale internazionale per la ex-Iugoslavia, ibidem, p. 71 ss.


— 1227 — del Tribunale internazionale per i crimini commessi nella ex-Jugoslavia, assume un certo interesse quello relativo alla disciplina delle misure cautelari per le persone in attesa di giudizio. Si tratta di un settore delicato, in cui alla necessità di garantire un efficace svolgimento del processo e di salvaguardare la vita dei testimoni, si accompagna l’esigenza di tutelare la libertà personale di individui che, pur essendo imputati di crimini così efferati quali quelli di competenza del Tribunale, non siano stati ancora condannati. Nonostante l’importanza, non sembra che tale materia sia compiutamente disciplinata dagli strumenti che regolano il funzionamento del Tribunale: mentre lo Statuto non contiene norme in proposito, il regolamento di procedura e di prova considera le misure cautelari in poche disposizioni. L’interesse nei confronti di tale problematica, destinato a crescere con l’aumento del numero dei processi, è diventato attuale in seguito ad un recente ricorso. Detenuto nel carcere del Tribunale in attesa di essere giudicato per crimini di guerra e contro l’umanità (6), il Generale Blas̆kić, Capo di Stato maggiore del Consiglio Croato di Difesa in Bosnia-Erzegovina, ha presentato al Tribunale penale internazionale una richiesta per ottenere la modifica delle condizioni di detenzione e la eventuale concessione della libertà provvisoria. Nella prima udienza, il collegio di difesa del Generale Blas̆kić ha ‘‘precisato’’ le richieste, chiedendo per il Generale ‘‘une sorte de liberté conditionnelle’’, consistente nell’assegnazione ad una residenza specifica, sotto la sorveglianza delle autorità competenti. Sulla richiesta si è pronunciato il Presidente del Tribunale sulla base dell’art. 64 del regolamento di procedura: dopo aver negato al Generale gli arresti domiciliari, egli ha concesso al Generale di essere detenuto in una residenza diversa dal carcere, sotto il controllo costante delle autorità competenti e con l’imposizione di diversi obblighi, tesi ad impedire contatti tra il Generale ed altre persone (7). Va precisato che l’art. 64 del regolamento di procedura e di prova si limita a disciplinare la modifica delle condizioni di detenzione preventiva: per il resto nessuna norma considera esplicitamente possibili misure alternative rispetto alla detenzione ed alla libertà condizionale. Merita esaminare il modo ed i criteri attraverso i quali tale decisione è stata presa. 2. In via preliminare, il Presidente del Tribunale ha colto l’occasione per precisare il contenuto dell’obbligo di cooperazione che la Repubblica di Croazia, e più in generale gli Stati hanno nei confronti delle richieste del Tribunale (8). (6) Blas̆kić è accusato in particolare di crimini contro l’umanità, di aver commesso numerose violazioni delle leggi e consuetudini di guerra, nonché di gravi violazioni della Convenzione di Ginevra del 1949. Cfr. in tal senso l’atto di accusa del Procuratore generale Goldstone, Kordic and others (‘‘Lasva River Valley area’’), del 10 novembre 1995. (7) Cfr. Le Procureur c. Tihofil alias Tihomir Blas̆kić, Décision relative à la motion de la defense presentée conformement à l’article 64 du Règlement de procedure et de preuve, 3 aprie 1996, caso N. IT95-14-T. Con due decisioni successive, rispettivamente del 17 aprile 1996 e del 9 maggio 1996, le condizioni di detenzione del Generale Blas̆kić sono state ulteriormente modificate. Nella prima di tali decisioni, le condizioni di detenzione sono state alleggerite, ed è stato concesso al Generale di trasferirsi in una residenza più appropriata. Nella seconda decisione, viste le difficoltà pratiche e giuridiche (non meglio definite nell’ordinanza) di dare attuazione all’ordinanza precedente, è stata nuovamente disposta la custodia cautelare in carcere del Generale, anche se solo temporaneamente ed a particolari condizioni. (8) Un altro punto giuridico, toccato incidentalmente in relazione alla situazione giuridica della Repubblica di Croazia, riguarda il valore del diritto interno per il giudice internazionale. Secondo il Presidente del Tribunale ‘‘... la doctrine ancienne et assez artificielle aux termes de laquelle ‘au regard du droit international et de la Cour qui en est l’organe, les lois nationales sont de simples faits’... ne peut plus être acceptée parce que, pour le juge international également, les droit internes peuvent être pertinents tant pour ce qui est du champ normatif que de la force contraignante. Néanmoins, il reste vrai que, à moins qu’une règle juridique internationale n’autorise expressément ou implicitement le contraire, les juges internationaux ne peuvent pas interpréter les droits internes à la place des juridictions ou autorités administratives nationales. Les juges internationaux peuvent facilement mal comprendre ou mal interpréter les droits nationaux parce qu’ils manquent, généralement, des outils juridiques nécessaires pour les interpré-


— 1228 — Tra le numerose persone imputate di crimini di guerra e contro l’umanità, la posizione del Generale Blas̆kić è caratterizzata dal fatto che, pur essendosi dichiarato non colpevole dei fatti contestatigli, il Generale si è presentato spontaneamente di fronte al Tribunale dell’Aja. Secondo le motivazioni della difesa, la costituzione volontaria dell’imputato assumeva un valore particolare in considerazione del fatto che la Repubblica di Croazia non si era ancora dotata degli strumenti legislativi necessari all’attuazione della necessaria cooperazione con il Tribunale: in assenza di una legislazione ad hoc le autorità croate non avrebbero infatti potuto eseguire il mandato di arresto emesso dal Tribunale nei confronti dell’imputato (9). La comparizione spontanea di Blas̆kić avrebbe evitato alla Repubblica di Croazia di trovarsi nella difficile situazione di dover scegliere tra il rispetto del proprio diritto interno ed il rispetto dell’obbligo internazionale di dare esecuzione alle richieste del Tribunale. Prima di decidere in merito all’oggetto della domanda, il Presidente del Tribunale, Antonio Cassese, ha ritenuto opportuno soffermarsi su tale aspetto. Dopo aver riaffermato il principio secondo il quale uno Stato non può addurre la situazione del proprio diritto interno per giustificare la violazione di un obbligo internazionale, egli ha sostenuto che ‘‘... dès qu’un Etat ne prend pas les mesures législatives nécessaires pour lui pemettre de respecter les ordonnances ou requêtes du Tribunal, il contrevient à une obligation internationale avant même que survienne le besoin pratique d’exécuter un mandat d’arrêt ou une ordonnance du Tribunal’’ (10). Secondo il Presidente, quindi, la mancata adozione della normativa necessaria ad assicurare il rispetto delle ordinanze o richieste del Tribunale costituirebbe la violazione di un obbligo internazionale, indipendentemente dal fatto che lo Stato si trovi concretamente di fronte all’esigenza di dare attuazione ad un suo provvedimento (11). In conseguenza, nonostante la costituzione spontanea di Blas̆kić, ‘‘ ...en ne promulgant pas la législation d’application, la République de Croatie contrevient indeniablement depuis 1993 à son obligation d’appliquer le Statut, découlant des résolutions pertinentes du Conseil de sécurité ainsi que de l’article 29 du Statut du Tribunal’’ (12). L’obbligo di cooperazione con il Tribunale è contenuto nella risoluzione 827 (1993). Secondo il par. 4 di tale risoluzione, tutti gli Stati ‘‘... prendront toute mesures nécessaires, en vertu de leur droit interne pour mettre en application les dispositions de la présente résolution et du Statut, y compris l’obligation des Etats de se conformer aux demandes d’assistance ou aux ordonnances émanant d’une ter correctement’’. (Décision cit., par. 6). Sull’applicazione del diritto interno nel processo internazionale cfr. CASSESE, Il diritto interno nel processo internazionale, Padova, 1962; MAREK, Les rapports entre le droit international et le droit interne à la lumière de la jurisprudence de la Cour Permanente de Justice Internationale, in Revue Générale de Droit International Public, 1962, p. 260 ss. (9) Una legge di cooperazione con il Tribunale Penale Internazionale è stata adottata dalla Repubblica di Croazia poco dopo la decisione resa nel caso Blas̆kić (cfr. Constitutional Act on the Co-operation of the Republic of Croatia with the International Tribunal). (10) Décision cit., par. 8. (11) Secondo il Presidente del Tribunale, ‘‘Ladite obligation est telle que les Etats y contreviennent non seulement lorsqu’ils se heurtent à une situation spécifique ne leur permettant pas d’exécuter les mandats d’arrêt ou les ordonnances du Tribunal mais même avant cette éventualité, en n’adoptant pas la législation d’application (si cette législation est prévue par le droit interne) (ibid., par. 8). (12) Seguendo tale interpretazione, e considerando che fino ad oggi solo 15 Stati hanno adottato norme in materia di cooperazione con il Tribunale, si dovrebbe giungere alla conclusione che tutti gli altri Stati versino in una situazione di responsabilità internazionale. Per quanto concerne l’Italia, cfr. la legge 14 febbraio 1994, n. 120, riprodotta anche in Rivista di diritto internazionale, 1994, p. 293 ss. Per alcuni problemi relativi alla conformità con lo Statuto della legislazione italiana, in merito alla giurisdizione concorrente con il Tribunale, cfr. CIAMPI, Priorità ‘relativa’ della giurisdizione del Tribunale internazionale per la ex-Iugoslavia, ibidem, p. 140 ss.


— 1229 — Chambre de première instance en application de l’article 29 du Statut’’ (13). Secondo l’ordinanza, tale norma non obbliga lo Stato a dare attuazione ai provvedimenti del Tribunale, lasciandogli, come solitamente avviene, la discrezionalità nella scelta dei mezzi necessari al raggiungimento di tale scopo: essa richiede invece l’esercizio di una specifica attività normativa in tal senso. In effetti, l’ordinanza richiama espressamente la distinzione tra obblighi di comportamento ed obblighi di risultato, accolta nel progetto di codificazione sulla responsabilità degli Stati, predisposto dalla Commissione di diritto internazionale nell’ambito delle Nazioni Unite (14). Tale distinzione, che è stata oggetto di acute critiche in dottrina (15), ha riguardo sostanzialmente ai meccanismi interni di esecuzione degli obblighi internazionali: si sarebbe in presenza di un obbligo di comportamento quando la norma internazionale indichi specificamente il mezzo — legislativo, giudiziario od esecutivo — per la sua attuazione, mentre sussisterebbe un obbligo di risultato quando allo Stato viene lasciata discrezionalità in merito alla scelta del mezzo medesimo. La scelta interpretativa operata dall’ordinanza in esame, che si giustifica pienamente sul piano pratico come esortazione nei confronti di tutti quegli Stati che non abbiano ancora predisposto il proprio ordinamento interno in modo adeguato all’attuazione dei provvedimenti del Tribunale (16), non è pienamente convincente. Nel commento all’art. 20 del progetto sulla responsabilità degli Stati, la Commissione di diritto internazionale ha precisato che per poter considerare un obbligo internazionale come un obbligo di comportamento, ‘‘ ... il ne suffit pas que l’obligation requière de l’Etat un comportément déterminé de n’importe quelle manière. Il faut, au contraire, qu’une telle détermination soit bien précise, en d’autres termes que l’obligation détermine d’une façon ‘spécifique’ ce qui est exigé de telle ou telle branche de l’appareil étatique’’ (17). Ora, non sembra che (13) La ris. 827, adottata dal Consiglio di Sicurezza il 25 maggio 1993, è riprodotta in Rivista di diritto internazionale, 1993, p. 516 ss. L’art. 29 dello Statuto, a sua volta, dispone: ‘‘1. Les Etats collaborent avec le Tribunal à la recherche et au jugement des personnes accusées d’avoir commis des violations graves du droit international humanitaire. 2. Les Etats répondent sans retard a toute demande d’assistance ou à toute ordonnance émanant d’une Chambre de première instance et concernant, sans s’y limiter: (a) L’identification et la recherche des personnes; (b) La réunion des témoignages et la production des preuves; (c) L’expédition des documents; (d) L’arrestation ou la détention des personnes; (e) Le transfert ou la traduction de l’accusé devant le Tribunal’’. (14) La distinzione tra obblighi di mezzi o di comportamento, ed obblighi di risultato, è considerata agli artt. 20 e 21 del progetto di codificazione delle Nazioni Unite sulla responsabilità degli Stati. Secondo tali articoli, si è in presenza di un obbligo di mezzi quando l’obbligo internazionale imponga allo Stato ‘‘ ... d’adopter un comportement spécifiquement déterminé...’’. È un obbligo di risultato, invece, quello che richiede allo Stato ‘‘... d’assurer, par un moyen de son choix, un résultat déterminé...’’. Va precisato che tale distinzione non corrisponde, o corrisponde solo in minima parte, all’analoga distinzione che viene fatta dalla dottrina civilistica in quegli ordinamenti interni che derivano dal diritto romano. (15) Si vedano, in tal senso, COMBACAU, Obligations de résultat et obligations de comportement Quelques questions et pas de réponse, in Mélanges offerts à P. Reuter, Paris, 1981, p. 181 ss.; GIULIANO, SCOVAZZI, TREVES, Diritto internazionale, vol. I, Milano, 1983, p. 582 ss.; CONFORTI, Obblighi di mezzo ed obblighi di risultato nelle Convenzioni di diritto uniforme, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 1988, p. 233 ss. (16) Bisogna infatti considerare che l’assenza di cooperazione da parte degli Stati costituisce il maggiore ostacolo all’effettivo funzionamento del Tribunale. In un comunicato stampa del Tribunale (CC/PIO/067-F, del 26 aprile 1996) si fa osservare come, su 57 mandati di arresto diretti agli Stati firmatari degli accordi di Dayton, nessuno fosse stato ancora eseguito. A tale proposito, è il caso di ricordare che il regolamento di procedura e di prova esclude la possibilità di un giudizio in contumacia. Nel caso in cui un mandato di arresto non venga eseguito, l’art. 61 del regolamento prevede un particolare procedimento che porta non alla condanna dell’imputato, ma all’emissione di un mandato di arresto internazionale nei confronti del sospettato, che viene inviato a tutti gli Stati. (17) Cfr. Annuaire de la Commission du droit international, 1977, vol. II, 2o parte, p. 19.


— 1230 — un obbligo di comportamento risulti in modo così preciso dalla risoluzione 827, sopra citata, nè tantomeno dall’art. 29 dello Statuto del Tribunale che si limita ad enumerare, in modo più circostanziato, le ipotesi in cui l’assistenza al Tribunale è doverosa (18). Anche per considerazioni più generali, la configurazione di un obbligo di mezzi non sembra pertinente. Infatti, il diritto internazionale ha solitamente riguardo al potere di governo degli Stati inteso come potere coercitivo piuttosto che come mero esercizio di attività normativa: normalmente, esso si disinteressa della eventuale inadeguatezza dei mezzi interni di esecuzione ed ha invece riguardo al potere di governo concretamente esercitato sugli individui ed enti ad esso sottoposti. Come è stato sostenuto ‘‘... praticamente inesistenti sono le manifestazioni della prassi da cui dovrebbe dedursi la convinzione degli Stati di considerarsi responsabili anche quando violazioni concrete non siano perpetrate. Il contenzioso internazionale è sempre un contenzioso su questioni concrete, e ciò del resto testimonia della serietà degli Stati’’ (19) Del resto, è solo in tale ottica che assume un significato il principio, ricordato espressamente nell’ordinanza, secondo il quale uno Stato non può far valere l’inadeguatezza del proprio diritto interno per giustificare la violazione di un obbligo internazionale. 3. Come già accennato, i difensori di Blas̆kić avevano chiesto, in un primo momento, la modifica delle condizioni di detenzione del Generale ed eventualmente la concessione della libertà provvisoria. La loro richiesta si fondava sugli artt. 64 e 65 del regolamento di procedura, che attribuiscono rispettivamente al Presidente del Tribunale la competenza in merito alla modifica delle condizioni di detenzione, ed alla Camera di prima istanza la decisione in merito alla concessione della libertà provvisoria. In seguito, essi hanno ritenuto di poter limitare l’oggetto della domanda all’applicazione dell’art. 64 del regolamento, chiedendo ‘‘une sorte de liberté conditionnelle’’. Pronunciandosi in merito all’oggetto della domanda, e dopo aver escluso la propria competenza in merito alla concessione di qualunque provvedimento che potesse comportare la liberazione dell’imputato, il Presidente del Tribunale ha esaminato la possibilità di poter concedere allo stesso gli arresti domiciliari: dopo aver rilevato l’assenza di disposizioni in proposito, egli ha sostenuto che ‘‘ ... rien dans le Statut ou le Règlement ne s’oppose ou n’interdit ces arrêt domiciliaires comme une option à l’incarcération préventive (ou même à l’emprisonnement pour purger une peine)’’. Secondo l’ordinanza, quindi, il giudice internazionale potrebbe discrezionalmente concedere misure cautelari non previste esplicitamente dallo Statuto e dal Regolamento di procedura. Per valutare la fondatezza di tale argomentazione, è opportuno esaminare innanzitutto in che modo lo Statuto ed il Regolamento di procedura disciplinino tale materia. Lo Statuto non contiene disposizioni in tema di misure cautelari, se non in quanto considera l’adozione di misure restrittive della libertà personale nei confronti dell’imputato negli artt. 19, par. 2, e 20, par. 2, che hanno ad oggetto, rispettivamente, la conferma da parte del Tribunale dell’atto di accusa emesso dal Procuratore, e l’apertura e lo svolgimento del processo. L’art. 19, par. 2, stabilisce: ‘‘S’il confirme l’acte d’accusation, le juge saisi, sur réquisition du Procureur, décerne les ordonnances et mandats d’arrêt, de détention, d’amener ou de remise de personnes et toute autres ordonnances nécessaires pour la conduite du procès’’. L’art. 20, dopo aver riaffermato la necessità di un processo equo e rapido, dispone: ‘‘2. Toute personne contre laquelle un acte d’accusation a été confirmé est, conformément à une ordonnance ou un mandat d’arrêt décerné par le Tribunal in(18) Per il testo dell’art. 29 si veda retro, alla nota n. 13. (19) CONFORTI, Obblighi di mezzi, cit., p. 238.


— 1231 — ternational, placée en état d’arrestation, immédiatement informée des chefs d’accusation portés contre elle et déférée au Tribunal international’’. Per il resto, nessun’altra disposizione fa riferimento, neppure indiretto, a tale materia, né vengono stabiliti i criteri ed i limiti a cui subordinare la concessione di misure cautelari: lo stesso art. 21, che ha riguardo ai diritti dell’imputato, si limita a prevedere la presunzione di non colpevolezza e ad enumerare diverse garanzie, attinenti perlopiù all’equità e rapidità del processo ed al rispetto del diritto di difesa. Il Regolamento di procedura e di prova disciplina le misure cautelari in pochi articoli. L’art. 64 considera la custodia preventiva dell’imputato quale regola generale, senza prevedere neppure un termine massimo di durata: ‘‘Après son transfert au siège du Tribunal, l’accusé est détenu dans les locaux mis à disposition par le pays hôte ou par un autre pays. Le Président peut, à la demande d’une des parties, faire modifier les conditions de la détention de l’accusé’’ (20). La custodia cautelare in carcere è ammessa, ma non costituisce la regola, per coloro che, assolti in primo grado, siano in attesa del giudizio di appello. L’art. 99 del regolamento stabilisce infatti: ‘‘(A) En cas d’acquittement, l’accusé est remis en liberté. (B) Si lors du prononcé du jugement, le Procureur fait part en audience publique de son intention d’interjeter appel conformément à l’art. 108, la Chambre peut émettre un mandat d’arrêt contre l’accusé qui prend effet immédiatement sans préjudice des dispositions de l’art. 108 ci-après’’. Una ulteriore ipotesi di custodia cautelare in carcere è stata configurata, a seguito di un recente emendamento al regolamento e all’introduzione dell’art. 40-bis, per le persone che, ancora non formalmente accusate di un crimine, siano però sospettate di averlo commesso; il periodo di custodia non deve eccedere un mese, ma è rinnovabile sino a due volte (21). In alternativa alla detenzione, il regolamento considera esclusivamente la libertà provvisoria, la cui concessione, di competenza della Camera di prima istanza, può essere eventualmente subordinata al versamento di una cauzione ed al rispetto di ulteriori condizioni, finalizzate a garantire la partecipazione al processo dell’imputato e la protezione delle vittime e dei testimoni. La libertà provvisoria è comunque considerata come una misura eccezionale. L’art. 65, lett. (B) afferma: ‘‘La mise en liberté provisoire ne peut être ordonnée par la Chambre de première instance que dans des circonstances exceptionnelles, après avoir entendu le pays hôte, et pour autant qu’elle ait la certitude que l’accusé comparaîtra et, s’il est libéré, ne mettra pas en danger une victime, un témoin ou toute autre personne’’. Non è chiaro, nella formulazione dell’art. 65, lett. (B), cosa debba intendersi per ‘‘circostanze eccezionali’’: se cioè con tale locuzione si intenda solo fare riferimento alle condizioni successivamente enumerate, oppure si ritenga necessaria l’esistenza di condizioni ulteriori, attinenti ad esempio all’atteggiamento processuale dell’imputato. In una decisione, la Camera di prima istanza ha dato un’interpretazione restrittiva alla locuzione in esame, ritenendo di poter concedere la libertà provvisoria solo quando lo stato di salute dell’imputato sia incompatibile con lo stato di detenzione (22). Si potrebbe inoltre ritenere che un ulteriore presupposto per la concessione della libertà provvisoria possa essere costituito dal consenso (20) Le condizioni di detenzione delle persone in attesa di giudizio sono disciplinate dal Règlement portant régime de détention des personnes en attente de jugement ou d’appel devant le Tribunal ou détenues sur l’ordre du Tribunal, adottato il 5 maggio 1994, e successivamente più volte emendato. (21) Si veda in tal senso il comunicato stampa del Tribunale, del 26 aprile 1996 (CC/PIO/067-F). (22) A tale proposito, la Camera di prima istanza ha sostenuto: ‘‘Attendu que le règlement a consacré le principe de la détention préventive des accusés, en raison de l’extrême gravité des crimes pour lequels ils sont poursuivis devant le Tribunal pénal international; et qu’ainsi subordonne-t-il toute mesure de mise en liberté provisoire à l’existence de ‘circonstances exceptionnelles’; ...la Chambre estime qu’elle ne doit ordonner la mise en liberté provisoire que dans des cas très rares, dans lequels la situation de l’accusé, en raison notamment de son état de santé, est incompatibles avec toute forme de détention; qu’il a été fait application de ce principe dans la décision de cette Chambre en date du 24 avril 1996 (affaire no


— 1232 — dello Stato olandese, anche se non è chiaro in quale misura un eventuale dissenso potrebbe rilevare nel merito della decisione della Camera di prima istanza (23). Si tratta evidentemente di una condizione motivata dalle particolari natura e circostanze in cui il Tribunale penale si trova ad operare, e dalla necessità di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dello Stato di sede (24). Per il resto, le condizioni per la concessione della libertà provvisoria sembrano riferirsi al pericolo di fuga ed al rischio che l’imputato porti il reato ad ulteriori conseguenze. 4. Quelle appena esaminate sono le uniche norme che disciplinano una materia in cui, come già accennato, accanto al rispetto delle esigenze processuali si pone l’esigenza di salvaguardare la libertà personale di individui per i quali vale la presunzione di non colpevolezza fino al momento della condanna. L’efferatezza, e la gravità dei crimini oggetto della competenza del Tribunale penale non costituiscono elementi sufficienti a sospendere quelle garanzie che costituiscono per gli individui un patrimonio ormai acquisito sul piano internazionale. Lo Statuto del Tribunale ed il regolamento non precisano quale sia il valore delle convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo. L’art. 15 dello Statuto, come già si è visto, si limita ad attribuire ai giudici del Tribunale la competenza a predisporre il regolamento di procedura, senza stabilire criteri ulteriori per il tema in esame. Nessun riferimento espresso alle convenzioni internazionali si ritrova neppure nelle risoluzioni istitutive del Tribunale (25). Nonostante l’assenza di riferimenti espressi non si può dubitare che tali convenzioni, ed in particolare il Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici debbano costituire, per i giudici del Tribunale, un parametro di riferimento nella emanazione di norme di dettaglio. Formalmente, il Patto sui diritti civili e politici è una convenzione tra Stati adottata dall’Assemblea generale, ma non è certo sostenibile l’idea che gli organi delle Nazioni Unite, mentre insistono sull’adempimento degli obblighi posti dal Patto da parte degli Stati membri che ne sono parte, ne consentano l’ignoranza da parte di un organo sussidiario del Consiglio di Sicurezza. Nonostante l’assenza di riferimenti, quindi, la necessità del rispetto delle più basilari garanzie contenute nel Patto delle Nazioni Unite è da considerarsi implicita nella natura stessa del Tribunale. In tal senso, del resto, sembra esprimersi il rapporto del Segretario generale delle Nazioni Unite, che ha costituito la base per l’approvazione dello Statuto del Tribunale: ‘‘Il va sans dire que le Tribunal international doit respecter pleinement les normes internationalement reconnues touchant les droits de l’accusé à toutes les phases de l’instance. De l’avis du Sécretaire général, les normes internationalement reconnues sont notamment énumérées à l’article 14 du Pacte international IT-96-20-T, le Procureur c/Djordje Djukic)’’ (cfr. Affaire no IT-95-14-T, Chambre de première instance, decisione del 25 aprile 1996, Le Procureur c. Tihofil, dit Tihomir, Blas̆kić, Décision portant rejet d’une démande de mise en liberté provisoire, p. 3). (23) Nella decisione che rifiuta la libertà provvisoria al Generale Blas̆kić, citata alla nota precedente, la Camera di prima istanza ha ritenuto che la mancata presentazione all’udienza del Governo olandese non costituisse un ostacolo allo svolgimento della procedura. (24) I rapporti tra il Tribunale ed i Paesi Bassi sono disciplinati dall’accordo di sede, tra le Nazioni Unite e quest’ultimo Stato, firmato a New York il 27 maggio 1994 (doc. S/1994/848). L’accordo non chiarisce la rilevanza del parere richiesto in materia di concessione della libertà provvisoria. L’art. XX, che sembra l’unica norma rilevante, si limita a prevedere l’immunità dalla giurisdizione penale per coloro che ‘‘... doivent être ou ont été amenées en qualité de suspect ou d’accusé dans les locaux du Tribunal suite à une demande ou à une ordonnance du Tribunal, en ce qui concerne les actes, omissions ou opinions antérieurs à leur entrée sur le territoire du pays hôte. 2. L’immunité visée au présent article cesse lorqu’une personne, qui à été acquitté ou autrement relâchée par le Tribunal et qui à eu l’occasion de quitter le territoire du pays hôte pendant une période de 15 jours consécutifs à compter du moment où elle a été remise en liberté, y est néanmoins demeurée, ou qui, l’ayant quitté, y est revenue’’. (25) Cfr. in particolare la ris. 808, adottata dal Consiglio di Sicurezza il 22 febbraio 1993, (riprodotta in Rivista di diritto internazionale, 1993, p. 288 ss.) e la ris. 827 (1993), citata retro, alla nota n. 13.


— 1233 — relatif aux droits civils et politiques’’ (26). Per quanto faccia riferimento solo all’art. 14 del Patto sui diritti civili e politici è da ritenere che l’affermazione enunciata trascenda la specifica ipotesi considerata, per assumere un valore generale rispetto a tutte le garanzie individuali contenute nel Patto. Sembra quindi opportuno verificare la conformità della disciplina delle misure cautelari contenuta nel Regolamento di procedura e di prova rispetto a tali garanzie. La tendenza delle principali convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo è nel senso di limitare l’uso e la durata della carcerazione preventiva, in considerazione del fatto che essa costituisce la negazione di principi fondamentali posti a tutela dell’individuo, quali il diritto alla libertà ed alla sicurezza, e la presunzione di innocenza nei confronti della persona non ancora condannata. In tal senso, l’art. 9, par. 3, del Patto sui diritti civili e politici considera la detenzione preventiva come una misura eccezionale: ‘‘ ...La détention de personnes qui attendent de passer en jugement ne doit pas être de règle, mais la mise en liberté peut être subordonnée à des garanties assurant la comparution de l’intéressé à l’audience, à tous les autres actes de la procédure et, les cas échéant, pour l’exécution du jugement’’. La carcerazione preventiva sembra quindi consentita solo in quanto risulti necessaria a fini processuali e ad evitare il pericolo di fuga. In tal senso si esprime la giurisprudenza del Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite: ‘‘... remand in custody pursuant to lawful arrest must not only be lawful but reasonable in all the circumstances. Further, remand in custody must be necessary in all the circumstances, for exemple, to prevent flight, interference with evidence or the recurrence of crime’’ (27). In modo analogo, un limite all’applicazione della carcerazione preventiva può essere rinvenuto nella Convenzione europea sui diritti dell’uomo. L’art. 5, par. 1, lett. c), di tale Convenzione ammette che un individuo possa essere arrestato o detenuto, tra gli altri casi, ‘‘ ...lorsqu’il y a des raisons plausibles de soupçonner qu’il a commis une infraction...’’. Tale norma deve tuttavia essere collegata con l’art. 5, par. 3, secondo il quale ‘‘Toute personne arrêtée ou détenue, dans les conditions prévues au paragraphe 1 c) du present article... a le droit d’être jugée dans un délai raisonnable, ou libérée pendant la procédure. La mise en liberté peut être subordonnée à une garantie assurant la comparution de l’intéressé à l’audience’’ (28). Scopo di quest’ultimo articolo è di garantire il rilascio dell’imputato nel (26) Cfr. Rapport du Sécretaire général établi conformement au paragraphe 2 de la résolution 808 (1993) du Conseil de Sécurité, doc. S/25704, presentato il 3 maggio 1993, par. 106. I1 rispetto dell’art. 14 del Patto delle Nazioni Unite sembra essere la ragione che ha determinato l’impossibilità, per il Tribunale, di procedere in contumacia: ‘‘D’aucuns estiment que le Tribunal international ne devrait pas procéder par contumace au motif que la pratique irait à l’encontre des dispositions de l’art. 14 du Pacte international relatif aux droits civils et politiques aux termes duquel toute personnes accusée a droit à être présente à son procès’’ (ibid., par. 101). Come si vede, il rapporto parla in questo caso di una prassi internazionale tendenzialmente conforme all’art. 14 del Patto, creando con questo il dubbio che ci si intenda riferire all’esistenza di norme consuetudinarie in proposito, piuttosto che alle disposizioni del Patto, in sé e per sé considerate. Una simile interpretazione non sembra accettabile: del resto, sembra particolarmente difficile poter sostenere, nel caso di specie, che una norma consuetudinaria vieti i giudizi in contumacia. (27) Decisione sulla comunicazione n. 305/1988, del 23 luglio 1990, riprodotta in Human Rights Law Journal, 1990, p. 328 ss. (per la citazione riprodotta nel testo cfr. p. 333, par. 5.8): la carcerazione preventiva che non rispetti le condizioni specificate nel testo è da considerare, secondo il Comitato, ‘‘arbitraria’’ ai sensi dell’art. 9, par. 1, del Patto stesso. Sull’art. 9 del Patto delle Nazioni Unite e la giurisprudenza del Comitato si veda, per tutti, NOVAK, U.N. Covenant on Civil and Political Rights - CCPR Commentary, Kehl-Strasbourg-Arlington, 1993, in particolare p. 158 ss. (28) È opportuno precisare che il diritto dell’imputato ‘‘d’être jugé dans un délai raisonnable ou libéré’’, ai sensi dell’art. 5, par. 3, non deve essere confuso con il diritto ad un processo equo e rapido, ai sensi dell’art. 6, par. 1, della Convenzione europea. Scopo dell’art. 5, par. 3 è quello di evitare una durata eccessiva della carcerazione preventiva, indipendentemente dalla durata più o meno rapida del processo. Sul punto si veda, per tutti, COHEN-JONATHAN, La Convention européenne des droits de l’homme, Paris,


— 1234 — momento in cui la detenzione cessa di essere ragionevole. Sul concetto di ragionevolezza della carcerazione preventiva si è soffermata più volte la Corte europea dei diritti dell’uomo: per giurisprudenza costante, tale concetto non può essere determinato in astratto, ma solo in relazione alle circostanze concrete di ogni caso di specie. Tra i criteri elaborati dalla Corte per valutare la congruità della durata della detenzione emergono il pericolo di fuga o di recidiva dell’imputato, il rischio di distruzione delle prove, la diligenza nella condotta della fase istruttoria da parte dell’autorità giudiziaria, nonché la complessità del processo (29). Come è stato giustamente osservato riguardo alla Convenzione europea, ma con un discorso applicabile anche al Patto delle Nazioni Unite ‘‘ ...la liberté est la règle et la détention, l’exception. C’est pourquoi le principe de proportionnalité commande de recourir à la mise en liberté provvisoire, chaque fois que cela est possible, moyennant des garanties appropriées pour assurer la comparution de l’accusé à l’audience’’ (30). Una risoluzione adottata il 19 aprile 1965 dal Comitato dei Ministri nell’ambito del Consiglio d’Europa sottolinea il carattere eccezionale della carcerazione preventiva (31), affermando inoltre: ‘‘Remand in custody should be ordered or continued only when it is strictly necessary. In no event should it be applied for punitive ends’’. In tale ottica, sembra sussistere un contrasto tra la lettera delle disposizioni del regolamento di procedura del Tribunale penale internazionale e la disciplina delle Convenzioni sopra esaminate. Si tratta di un contrasto che tuttavia può essere corretto sul piano interpretativo, attraverso una considerazione della libertà provvisoria non come misura da concedere solo ‘‘in circostanze eccezionali’’, concetto del resto quanto mai ambiguo, ma ogniqualvolta si realizzino i presupposti citati dallo stesso articolo che, correttamente intesi fanno riferimento al pericolo di fuga, al rischio di portare il reato ad ulteriori conseguenze ed all’ordine pubblico del Paese ospite (32). 5. Come già osservato, secondo il Presidente del Tribunale lo Statuto ed il regolamento di procedura e di prova non escludono il ricorso agli arresti domici1989, in particolare p. 336 ss. Sulla disciplina della carcerazione preventiva nell’ambito della Convenzione europea si vedano, per tutti, BENVENUTI, La ‘‘ragionevolezza’’ della detenzione preventiva nell’art. 5, par. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Rivista di diritto internazionale, 1974, p. 508 ss.; VAN DIJK-VAN HOOF, Theory and Practice of the European Convention on Human Rights, DeventerBoston, 1990, p. 274 ss.; VELU-ERGEC, La Convention européenne des droits de l’homme, Bruxelles, 1990, p. 292 ss. (29) Sulla giurisprudenza ed i criteri elaborati dalla Corte europea si veda, per tutti, FACCHIN (a cura di), L’interpretazione giudiziaria della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, Padova, 1990, vol. I, p. 25 ss., vol. II, p. 34 ss. Per quanto concerne la giurisprudenza della Corte, si vedano, per tutti, i casi Wemhoff, 27 giugno 1968, Série A, n. 7; Neumeister, 27 giugno 1968, Série A, n. 8. (30) Cfr. COHEN-JONATHAN, op. cit., p. 339. (31) Cfr. la risoluzione 65 (11), del 9 aprile 1965, riprodotta in FAWCETT, The Application of the European Convention on Human Rights, Oxford, 1987, p. 108: ‘‘(b) Remand in custody should be regarded as an exceptional mesure... (d) Any decision on remand in custody should state — as precisely as possible — subject-matter of the charge and the reasons underlying the detention... (e) Effective guarantees should be provided to prevent detention from extending beyond what is strictly necessary. The following remedies (garanties) in particular should be taken into account (énvisagées) — limitation of the period of custody laid down by law or by the judicial authority; — review ex officio at regular intervals; — right of appeal to the judicial authority; — right to be assisted by legal counsel...’’. Come si può vedere, nessuna delle garanzie contenute nella risoluzione, ad eccezione del diritto alla difesa, sembrano essere contenute nel regolamento di procedura del Tribunale. (32) Si tratta, in altre parole, di un’applicazione particolare del criterio intepretativo della ‘‘presunzione di conformità’’, in virtù del quale, tra più interpretazioni possibili, è necessario preferire quella che assicura il rispetto degli obblighi internazionali. Si tratta di un criterio utilizzato prevalentemente nell’ambito degli ordinamenti interni statali, ma che sembra poter essere tranquillamente utilizzato anche nel caso del Tribunale penale internazionale. Per una recente applicazione di tale principio, in relazione all’interpretazione dell’art. 143 cod. proc. pen., si veda ad esempio la decisione 19 gennaio 1993, n. 10, della Corte Costituzionale (riprodotta anche in Rivista di diritto internazionale, 1993, p. 256 ss.).


— 1235 — liari come alternativa alla custodia cautelare in carcere. In effetti i due atti non contengono alcuna disposizione che preveda la tassatività delle misure cautelari considerate: sembra quindi implicita, per il giudice internazionale, la possibilità di ricorrere a misure cautelari diverse, che permettano di modulare le restrizioni della libertà personale dell’imputato alle specifiche esigenze processuali di ogni caso concreto. Va inoltre considerato come tale soluzione consenta una maggiore aderenza della disciplina del regolamento alle convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo. Dopo aver constatato la possibilità di concedere gli arresti domiciliari, il Presidente del Tribunale ha ritenuto opportuno un esame delle norme internazionali e delle legislazioni interne in materia. In relazione alle prime, l’ordinanza in esame si limita a sottolineare correttamente la tendenza della prassi internazionale nel senso di favorire misure cautelari che limitino il meno possibile la libertà personale individuale (33). Per quanto riguarda le legislazioni nazionali, l’ordinanza osserva come numerosi sistemi giuridici interni considerino, in via legislativa o giurisprudenziale, gli arresti domiciliari come un’alternativa alla custodia preventiva in carcere. Secondo il Presidente del Tribunale ‘‘Un examen attentif des diverses législations nationales revèle que les Etats tendent à reconnaître le même concept fondamental d’arrêts domiciliaires et, de surcroît, posent les mêmes conditions préalables pour l’imposition de cette mesure. Par contre, les critères devant être remplis par la personne détenue dans le cadre d’arrêts domiciliaires varient considérablement, d’autant plus qu’ils sont normalement fixés par des juges individuels pour des affaires spécifiques et compte tenu des circonstances particulières de chaque affaire’’ (34). Quindi, l’ordinanza si sofferma sui risultati di tale esame comparativo, enunciando quelli che sono ritenuti come elementi comuni ai diversi ordinamenti in relazione al concetto di arresti domiciliari considerati come una forma di detenzione, ai presupposti negativi (pericolo di fuga, inquinamento delle prove, pericolo per i potenziali testimoni, ripetizione di reati, pericolo potenziale per l’ordine pubblico) e positivi per la sua concessione (condizioni di salute fisica o mentale, atteggiamento processuale dell’imputato), alle condizioni imposte al detenuto (variabili a seconda dei casi concreti). Questi stessi criteri vengono poi utilizzati per negare al generale Blas̆kić la concessione degli arresti domiciliari e decidere una forma particolare di detenzione in un ‘‘endroit autre que le quartier pénitentiaire des Nations Unies’’ (35): Il metodo utilizzato per giungere alla decisione resa nel caso Blas̆kić induce ad alcune riflessioni. Come si è visto, il Presidente del Tribunale utilizza le norme comuni agli ordinamenti interni per supplire all’assenza di una disciplina espressa del caso di specie, senza peraltro motivare tale modo di procedere. Nessuna norma, nello Statuto e nel regolamento, fa riferimento ad una o più legislazioni interne: l’unica eccezione è costituita dall’art. 24 dello Statuto, e dal corrispondente art. 101 del regolamento, che prevedono il ricorso, nella determinazione delle pene detentive, ‘‘à la grille générale des peines d’emprisonnement appliquée par les Tribunaux de l’ex-Yougoslavie’’. Si deve ritenere che il modo di procedere del Presidente del Tribunale trovi il proprio fondamento nel ricorso ai principi generali di diritto, intesi non nell’ac(33) Cassese fa espresso riferimento alla già ricordata risoluzione 65 (11), adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 9 aprile 1965: ‘‘Il convient de souligner que dès 1965, le Conseil de l’Europe a fortement recommandé que les gouvernements considèrent la détention préventive comme une mesure exceptionnelle tout en favorisant d’autres mesures ‘telles que la surveillance à domicile ou l’ordre de ne pas quitter un lieu déterminé sans l’autorisation préalable du juge’ ’’ (Decision cit., par. 15). (34) Ibid., par. 17. (35) Décision cit., par. 24.


— 1236 — cezione di elementi caratterizzanti l’ordinamento internazionale, ma come elementi comuni ad una pluralità di ordinamenti (36). Come è noto, i ‘‘principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili’’ sono considerati dall’art. 38, par. 1 (c), dello Statuto della Corte internazionale di giustizia quali criteri di decisione della Corte stessa. Si discute se l’arbitro o il giudice internazionale possano far ricorso ai principi generali di diritto in assenza di un’attribuzione di competenza in tal senso: la soluzione è chiaramente affermativa per coloro i quali considerano i principi generali di diritto come vere e proprie fonti di diritto internazionale (37). Nello Statuto, l’unico riferimento ai principi generali è contenuto nell’art. 28, che ha riguardo alla concessione della grazia ed alla commutazione delle pene: ‘‘Si le condamné peut bénéficier d’une grâce ou d’une commutation de peine en vertu des lois de l’Etat dans lequel il est emprisonné, cet Etat en avise le Tribunal. Le Président du Tribunal, en consultation avec les juges, tranche selon les intérêts de la justice et les principes généraux du droit’’. Comunque, il ricorso ai principi generali di diritto, nell’accezione sopra ricordata, è frequente in diversi settori: ad esempio negli arbitrati commerciali tra Stati e privati stranieri gli arbitri fanno spesso riferimento a tali principi anche quando tale facoltà non sia contemplata nelle clausole compromissorie; nell’ambito delle Comunità europee, tramite il ricorso ai principi comuni ai diritti degli Stati membri la Corte di giustizia ha svolto un’importante opera giurisprudenziale di sviluppo del diritto comunitario anche in settori diversi rispetto a quelli espressamente previsti dai Trattati istitutivi; il ricorso al diritto interno è infine utilizzato ai fini dell’interpretazione di concetti tecnico-giuridici nelle convenzioni di diritto privato uniforme. In linea generale, si può osservare come l’utilizzo dei principi generali di diritto sia frequente in tutti quei settori, non sufficientemente sviluppati, in cui si rende necessario disciplinare situazioni concrete che altrimenti non troverebbero regolamentazione: il caso del Tribunale penale è emblematico in tal senso, non potendosi certamente ritenere formate, nel diritto internazionale, norme idonee a disciplinare in modo compiuto l’esercizio della giurisdizione penale nei confronti di individui. Quest’ultima è stata tradizionalmente oggetto di una competenza esclusiva degli Stati ed è da considerare un’evoluzione recente la tendenza a sottoporre certi tipi di illeciti ad una giurisdizione svincolata dagli Stati nazionali. Il Tribunale di Norimberga, precedente storico dell’attuale Tribunale penale, è considerato, in modo pressoché unanime, come un Tribunale comune delle Potenze vincitrici della seconda guerra mondiale; le norme di procedura penale all’epoca utilizzate derivavano sostanzialmente dal codice di procedura penale degli Stati Uniti. In una situazione come quella del Tribunale per la ex-Jugoslavia, il ricorso alle legislazioni interne si rivela non solo utile, ma indispensabile. Se le osservazioni che precedono permettono di attribuire un fondamento al ricorso ai principi di diritto, rimane tuttavia da chiarire la vera funzione che tali principi rivestono. Come è stato osservato, ‘‘... non è raro il caso in cui, nonostante la diversità di contenuto tra le norme, si raggiungono in una pluralità di ordinamenti soluzioni identiche, ma nel riferimento ai principi generali vengono in considerazione non tanto le soluzioni concrete quanto i criteri che le determinano. Elementi comuni ad una pluralità di ordinamenti sono normalmente riscontrabili soltanto se ci si ferma a constatazioni di ordine generale’’ (38). In tal senso, è difficile ricostruire regole concrete sulla base di elementi veramente comuni a più or(36) Sui principi generali di diritto si veda, per tutti, GAJA, Principi del diritto (diritto internazionale), voce, in Enciclopedia del diritto, vol. XXXV, Milano, 1986, p. 533 ss. (37) In tal senso, per tutti, CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, 1992, p. 42 ss. (38) GAJA, Principi cit., p. 534.


— 1237 — dinamenti: questo è tanto più vero quanto più numerosi sono gli ordinamenti da esaminare (39). Un attento studio sul modo in cui tali principi vengono utilizzati, mostra come molto spesso manchi, nelle decisioni che vi fanno riferimento, una vera e propria comparazione critica delle norme dei singoli ordinamenti e, soprattutto, come il giudice o l’arbitro si limitino molto spesso alla considerazione di un numero limitato di ordinamenti (40). L’applicazione dei principi generali di diritto nasconde in realta un’attività prevalentemente creativa del giudice: muovendo da un’analisi comparativa, questi ricostruisce quella che ritiene essere la regola migliore per il caso di specie. Tali osservazioni sembrano pertinenti anche per quanto riguarda la decisione in esame. Nel caso del Tribunale penale, che pur avendo una competenza limitata ai reati commessi nel territorio della ex-Jugoslavia costituisce un organo giurisdizionale a carattere universale, il ricorso ai principi di diritto, letteralmente intesi, avrebbe richiesto un’analisi comparativa di tutti i sistemi giuridici esistenti. Oltre ad essere quasi impossibile, un simile esame avrebbe difficilmente portato alla posizione di regole concrete: basti pensare agli Stati Uniti (41) ed al Regno Unito, in cui misure come gli arresti domiciliari sono misure praticamente sconosciute. Nell’estrapolare un concetto comune di arresti domiciliari, il Presidente del Tribunale ha fatto prevalentemente riferimento alla legislazione ed alla giurisprudenza di Paesi europei: ‘‘Une étude des législations nationales montre que de nombreux systèmes juridiques internes prévoient les arrêts domiciliares soit comme option à la détention préventive soit comme moyen pour un condamné de purger sa peine. Si l’on écarte cette dernière catégorie qui n’est pas pertinente en l’espèce (et qui est prévue dans des Etats comme l’Espagne et les Etats-Unis), on fera remarquer que la première catégorie est envisagée dans la législation ou la jurisprudence d’Etats européens comme la Belgique, la France, l’Allemagne, la Grèce, l’Italie, les Pays Bas, le Portugal et la Suède ainsi que dans celle d’Etats non européens comme le Japon’’ (42). L’analisi di alcuni ordinamenti interni ha permesso quindi non la ricostruzione di norme preesistenti ma, attraverso l’esercizio di un’ampia discrezionalità, la scelta della regola migliore per la disciplina del caso concreto. La conferma più significativa di tale modo di procedere è costituita dalla decisione finale assunta dal Presidente del Tribunale, dopo aver rifiutato la concessione degli arresti domiciliari: quella di concedere al Generale Blas̆kić di essere detenuto in una residenza, indefinita, ‘‘... désignée par les autorités néerlandaises en consultation avec le Greffier...’’ (43). 6. La breve analisi condotta fino a questo momento permette alcune considerazioni conclusive. In primo luogo, si è cercato di mostrare come la disciplina delle misure cautelari contenuta negli atti che regolano il funzionamento del Tribunale non sembri del tutto idonea ad assicurare il rispetto di importanti garanzie individuali. Si potrebbe ancora constatare la mancanza, nel regolamento, di ulteriori garanzie che solitamente si ritrovano negli ordinamenti interni, quali ad esempio la possibilità di ricorrere ad un giudice diverso contro una decisione che neghi la concessione della libertà provvisoria o di un’altra misura cautelare. (39) In conseguenza ‘‘...la funzione del richiamo ai principi generali di diritto, sia pure relativi a pochi ordinamenti sarebbe assai limitata se il ruolo del giudice o dell’arbitro fosse soltanto quello di ricostruire ed applicare i principi comuni’’ (GAJA, op. cit., p. 534). (40) GAJA, op. cit. (41) Sulla custodia cautelare negli Stati Uniti, recentemente, cfr. FANCHIOTTI, La custodia cautelare in U.S.A., in Diritto penale e processo, 1996, n. 3, p. 381 ss. (43) Décision cit., par. 16. Per un sintetico esame delle misure cautelari nei Paesi europei cfr. VAN DEN WYNGAERT (Ed.), Criminal Procedure System in the European Community, London, Brussels, Dublin, Edinburgh, 1993. (43) Décision cit., par. 24, lett. a).


— 1238 — Poco opportuna appare inoltre l’attribuzione di competenza ad organi giudiziari diversi, a seconda che si tratti della modifica delle condizioni di detenzione ovvero della concessione della libertà provvisoria. Tale soluzione, che di per sé sembra rendere più difficile la possibilità di modulare la scelta delle misure cautelari in relazione alle specifiche esigenze di ogni caso concreto, impone all’organo giurisdizionale di qualificare la natura della singola misura richiesta. Tale compito si rivela arduo, in assenza di una predeterminazione normativa di ciò che deve essere considerato equivalente alla custodia cautelare in carcere. Nell’ordinanza esaminata, come si è visto, la determinazione della natura degli arresti domiciliari è stata ricostruita agevolmente attraverso il riferimento ad alcuni ordinamenti interni, ma non sempre la qualificazione della misura cautelare come privativa della libertà personale può rivelarsi semplice. Nel noto caso Guzzardi (44), ad esempio, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto che il soggiorno obbligato nell’isola dell’Asinara costituisse una privazione della libertà ai sensi dell’art. 5 della Convenzione, piuttosto che una semplice limitazione della libertà di circolazione e soggiorno, come sostenuto dal Governo italiano. Le considerazione fin qui svolte, inducono a ritenere opportuna una modifica del regolamento di procedura che chiarisca i punti oscuri della disciplina ed assicuri all’imputato la certezza dei propri diritti. Con queste premesse, l’ordinanza resa nel caso Blas̆kić è sostanzialmente da condividere, in quanto costituisce un tentativo di far aderire la normativa procedurale alle specifiche esigenze fin qui considerate: ciò anche se la soluzione concreta raggiunta, come si è visto, costituisce indubbiamente esercizio di un’ampia discrezionalità, sia pure entro i limiti del ricorso ai principi generali di diritto e della rispondenza della decisione alla tendenziale evoluzione della prassi internazionale. MARIA LUISA PADELLETTI Associato di Diritto delle Comunità europee nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Teramo

(44)

C.E.D.H., 6 novembre 1980, Série A, n. 39, riprodotto, nella versione inglese, in GREMEN-

TIERI (a cura di), L’Italia e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Milano, 1989, p. 267 ss.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.