Penale Cop98CD
28-04-1999 14:56
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RIVISTA ITALIANA DI
DIRITTO E PROCEDURA PENALE FONDATA DA GIACOMO DELITALA
DIRETTA DA G. L E O N E T. D E L O G U G. V A S S A L L I M. G A L L O G. C O N S O A. C R E S P I C. P E D R A Z Z I G. D E L U C A M. S I N I S C A L C O D. SIRACUSANO M. P I S A N I A. P A G L I A R O V. CAVALLARI C. F. G R O S S O G. L O Z Z I G. MARINUCCI F. MANTOVANI F. S T E L L A M. R O M A N O V. G R E V I D. P U L I T A N Ò T. P A D O V A N I E. M U S C O E. D O L C I N I A. G I A R D A - F. C. P A L A Z Z O
NUOVA SERIE - ANNO XL 1997
M I L A N O - D O T T. A . G I U F F R È E D I TO R E
INDICE GENERALE
DOTTRINA BACCARI G.M., Incertezze interpretative circa il momento in cui ‘‘interviene’’ la decisione del Tribunale del riesame (N) ......................................................
1396
BERSANI G., La tassabilità dei proventi da attività illecita: presupposti, criteri distintivi ed esistenza di obblighi di dichiarazione (N) ..................................
998
BERTOLINO M., Le opzioni penali in tema di usura: dal codice Rocco alla riforma del 1996 (A) ................................................................................................. BONINI V., Imputato e pubblico ministero nella scelta del rito « patteggiato » (A) ......
774 1182
CAPRIOLI F., Insufficienza o contraddittorietà della prova e sentenza di non luogo a procedere (N) ............................................................................................ CAZZETTA G., « Colpevole col consentire ». Dallo stupro alla violenza sessuale nella penalistica dell’Ottocento (A) ............................................................. COLLI A., La tutela della persona nella recente legge sulla violenza sessuale all’epilogo di un travagliato cammino legislativo (A) ........................................
1163
CORBETTA S., La cornice edittale della pena e il sindacato di legittimità costituzionale (A) ...................................................................................................
134
CURTOTTI D., Il diritto all’interprete: dal dato normativo all’applicazione concreta (A) ................................................................................................................ DE VERO G., La circostanza aggravante del metodo e del fine di agevolazione mafiosi: profili sostanziali e processuali (A) ................................................ DE VITA A., La tutela degli interessi diffusi nel processo penale (A) ................. DOMINIONI O., Un nuovo idolum theatri: il principio di non dispersione probatoria (A) .......................................................................................................... DONINI M., Selettività e paradigmi della teoria del reato (A) .............................
287 424
463 42 838 736 338
ESER A., Bene giuridico e vittima del reato: prevalenza dell’uno sull’altra? (A) EUSEBI L., Dibattiti sulle teorie della pena e ‘‘mediazione’’ (A) .........................
1061 811
GARUTI G., Incompatibilità del giudice e udienza preliminare (N) ..................... GELARDI M., Se una condotta « omissiva » potesse integrare gli estremi dell’interesse privato in atti d’ufficio (prima dell’entrata in vigore della legge 86/90) (N) ................................................................................................................
590
614
GIACCA M., In tema di prelievo ematico coatto: brevi note a margine della sentenza della Corte Cost. n. 238 del 1996 (N) ...............................................
602
GIUNTA F., Diritto di morire e diritto penale. I termini di una relazione problematica (A) ......................................................................................................... GIUNTA F., Il diritto penale dell’ambiente in Italia: tutela di beni o tutela di funzioni? (A) ..................................................................................................... INSOLERA G., Usura e criminalità organizzata (A) ..............................................
74 1097 126
— IV — LAVARINI B., Proscioglimento immediato e regola di giudizio (N) ......................
626
LOZZI G., I princìpi dell’oralità e del contraddittorio nel processo penale (A) ...
669
MANES V., Abuso d’ufficio e progetti di riforma: i limiti dell’attuale formulazione alla luce delle soluzioni proposte (A) ..........................................................
1202
MANGIONE A., Società concessionarie di pubblico servizio e qualifiche pubblicistiche fra « nuovi » e « vecchi » paradigmi giurisprudenziali (N) ...................
1024
MANTOVANI F., Il principio di offensività nello schema di delega legislativa per un nuovo codice penale (A) ..............................................................................
313
MANTOVANI M., Alcune puntualizzazioni sul principio di affidamento (N) ........
1051
MARRA G., Alchimie giuridiche dell’istigazione alla corruzione: concorso materiale di reati tra promessa corruttiva e successiva dazione? (N) .................
274
MARTINES F., Procedimenti penali in corso ed estradizione (N) ..........................
1413
MASUCCI M., La competenza per connessione determinata dalla continuazione (N) ................................................................................................................
647
MENCARELLI F., Crisi della giustizia, notizia di reato e procedimento probatorio (A) ................................................................................................................
1236
MOCCIA S., Il sistema delle circostanze e le fattispecie qualificate nella riforma del diritto penale sessuale (L. 15 febbraio 1996 n. 66): un esempio paradigmatico di sciatteria legislativa (A) ...............................................................
395
PALAZZO F., Scienza penale e produzione legislativa: paradossi e contraddizioni di un rapporto problematico (A) ..................................................................
694
PANAGIA S., Del metodo e della crisi del diritto penale (A) ................................
1124
PEDRAZZI C., Sui tempi della nuova fattispecie di usura (A) ..............................
661
PEDRAZZI C., Sui limiti dell’‘‘appropriazione’’ (N) ...............................................
1441
PIERGALLINI C., Attività produttive e imputazioni per colpa: prove tecniche di diritto penale del rischio (N) ...........................................................................
1473
PULITANÒ D., La giustizia penale alla prova del fuoco (A) .................................
3
ROMANO B., Principio di legalità ed esigenze di tutela nella ‘‘subornazione’’ di soggetto esaminato dalla polizia giudiziaria (N) .........................................
1424
ROTONDO F., Riflessioni su responsabilità personale e imputabilità nel sistema penale dello stato sociale di diritto (A) .......................................................
485
SCALFATI A., La pronuncia di abolitio criminis nel vigente assetto dell’esecuzione penale (A) ....................................................................................................
175
SELLAROLI G., Il tasso di usura prefissato: una pericolosa illusione? (A) ..........
212
SIRACUSANO D., Reati associativi e processo penale (A) .....................................
1085
TABARELLI DE FATIS S., Sulla rilevanza penale del « bacio » come atto di libidine prima e dopo la riforma dei reati sessuali (N) ............................................
965
VALLINI A., La violazione dei c.d. ‘‘obblighi di assistenza materiale’’ e l’errore inerente a fattispecie connotate da disvalore etico (N) ...............................
936
VARRASO G., Annullamento con rinvio al pretore, citazione del pretore e termine a comparire (N) ............................................................................................
1038
COMMENTI E DIBATTITI LOSAPPIO G., Delitti e contravvenzioni nella « Teoria del reato » di Massimo Donini ...............................................................................................................
227
— V — VIGGIANO F., Patologie nel giudizio abbreviato e nell’applicazione della pena su richiesta: il controllo della Corte di cassazione ...........................................
509
NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO BARTOLE S., La Convenzione-quadro del Consiglio d’Europa per la protezione delle minoranze nazionali ............................................................................ CIPRIANI S., La protezione penale della riservatezza in diritto comparato italiano e francese ...................................................................................................... DE FRANCESCO G., Variazioni penalistiche alla luce dell’esperienza comparata .
866 233
DELMAS-MARTY M., Verso un diritto penale comune europeo? ...........................
543
FISER Z., Le condizioni obiettive di punibilità nel diritto penale sloveno ........... MUHM R., La natura giuridica dei crimini contro l’umanità e le attuali critiche in Germania ......................................................................................................
555
567
256
PAPA M., Considerazioni sui rapporti tra previsioni legali e prassi applicative nel diritto penale federale statunitense. (A proposito del reato di mail fraud) .
1258
SICURELLA R., Il titolo VI del Trattato di Maastricht e il diritto penale .............
1307
NOTIZIE CURTOTTI M., Il X Convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale .....
581
PALUMBIERI S.R., Convegno di studi « Verso un nuovo codice penale: i principi generali, gli interessi emergenti ed i reati economici considerati alla luce del nuovo Codice Penale Spagnolo (1995) » .....................................................
270
STILO P., Il Xo Convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale .
268
RASSEGNE BISORI L., L’omesso impedimento del reato altrui nella dottrina e nella giurisprudenza italiane ...............................................................................................
1339
GIURISPRUDENZA Appropriazione indebita — Uso arbitrario sotto qualsiasi forma - Sussistenza - Condizioni (C.p. art. 646) (con nota di C. PEDRAZZI) .............................................................................. — Distrazione di riserve extrabilancio per finalità illecite - Sussistenza (C.p. art. 646) (con nota di C. PEDRAZZI) ..................................................................... Atti e provvedimenti del giudice — Sentenza di proscioglimento immediato - Pronunciabilità da parte del giudice per le indagini preliminari richiesto del decreto penale o dell’applicazione con-
1435 1435
— VI — cordata della pena - Condizioni (C.p.p. artt. 129 comma 1, 459 comma 3, 444 comma 2) (con nota di B. LAVARINI) ............................................................. Colpa — Omicidio colposo - Attività medico-chirurgica in équipe - Trapianto di organi da cadavere - Omessa raccolta di dati anamnestici su donatore proveniente da altra struttura ospedaliera - Assenza di indizi sulla inesattezza o incompletezza dei dati raccolti dalla struttura ospedaliera di provenienza - Principio dell’affidamento - Colpa - Esclusione (C.p. artt. 43 e 589) (con nota di M. MANTOVANI) .................................................................................................... — Omicidio colposo - Attività medico-chirurgica in équipe - Trapianto di organi da cadavere - Omessa esecuzione del test anti-HIV sul donatore - Non prevedibilità della sussistenza di effettivi rischi di contagio in base alle conoscenze scientifiche dell’epoca dei fatti - Esclusione della colpa (C.p. artt. 43 e 589) (con nota di M. MANTOVANI) ......................................................................... — Omicidio colposo - Responsabilità del datore di lavoro - Inosservanza di regole cautelari - Reato (C.p. art. 589; D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, norme generali per la prevenzione degli infortuni, artt. 377 e 387; D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, norme generali per l’igiene del lavoro, artt. 4, 20 e 21; D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, artt. 157 e 176) (con nota di C. PIERGALLINI) ................................................................. — Reato in genere - Prevedibilità ed evitabilità dell’evento - Accertamento (C.p. art. 43) (con nota di C. PIERGALLINI) ............................................................. — Reato in genere - Prevedibilità dell’evento - Accertamento - Fattispecie: conoscibilità degli effetti cancerogenetici dell’amianto negli anni ’60 - Esclusione (con nota di C. PIERGALLINI) .......................................................................... — Reato in genere - Inosservanza delle misure di prevenzione degli infortuni sul lavoro - Prevedibilità dell’evento mortis - Esclusione - Prevedibilità di un grave danno alla salute o alla vita - Sufficienza (con nota di C. PIERGALLINI) ....... Competenza — Competenza per territorio - Competenza del giudice che dispone la misura cautelare - Sindacabilità della competenza territoriale in sede di impugnazione avverso l’ordinanza cautelare - Affermazione (C.p.p. artt. 24, 27 e 311) (con nota di M. MASUCCI) ...................................................................................... — Competenza territoriale determinata dalla connessione - Fattispecie - Reato continuato - Concorso di persone nei singoli reati - Identità dei concorrenti nei singoli reati - Necessità - Affermazione (C.p.p. art. 12) (con nota di M. MASUCCI) ......................................................................................................... — Procedimento riguardante un magistrato - Connessione con altri procedimenti - Attrazione nella cognizione del giudice competente a conoscere del procedimento contro un magistrato - Presupposti - Affermazione (C.p.p. art. 11) (con nota di M. MASUCCI) ......................................................................................
619
1043
1043
1447 1447
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638
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Delitti contro la libertà sessuale — Atti di libidine violenti - Baci su guancia e collo - Persona non consenziente Azione insidiosa e repentina - Violenza - Sussistenza - Atto - Natura libidinosa - Esclusione (C.p. art. 521) (con nota di S. TABARELLI DE FATIS) .................
962
Errore — Violazione degli obblighi di assistenza familiare - Fattispecie: rinvio dell’udienza presidenziale di separazione tra coniugi - Mancata adozione di provvedimenti circa il mantenimento - Omessa prestazione dei mezzi di sussistenza Errore di fatto - Ignoranza scusabile della legge penale - Configurabilità Esclusione - Ragione: obbligo derivante da inderogabili principi di solidarietà (C.p. artt. 5, 47 comma 3 e 570 comma 2 n. 2) (con nota di A. VALLINI) .
935
— VII — Estradizione — Pendenza di procedimento penale in Italia per gli stessi fatti per cui l’estradizione è richiesta - Convenzione Europea di Estradizione (art. 8) - Facoltà di estradare riconosciuta allo Stato in caso di procedimento penale in corso - Discrezionalità del Ministro di grazia e giustizia nella concessione dell’estradizione - Contrasto coi principi di cui agli artt. 24, secondo comma, 25, primo comma, e 112 Cost. - Esclusione - Non fondatezza della questione (Cost. artt. 24, secondo comma, 25, primo comma, 112; l. 30 gennaio 1963, n. 300, artt. 1 e 2) (con nota di F. MARTINES) ..................................................................
1403
Incidente probatorio — Questione di legittimità costituzionale in via incidentale - Sottoposizione dell’indagato o di terzi a perizia medico-legale - Potere del giudice, se lo ritenga necessario per l’esecuzione delle operazioni peritali, di disporre sul periziando, anche senza il suo consenso, prelievi ematici - Mancata precisazione, nella norma su cui tale potere si basa (art. 224, secondo comma, del codice di procedura penale), dei casi e dei modi in cui misure di tal genere possono essere adottate, come richiesto dall’art. 13, secondo comma, della Costituzione a garanzia della libertà personale - Illegittimità costituzionale parziale - Assorbimento di altra censura - Richiamo a sentt. nn. 194 del 1996 e 54 del 1986 (Cost. artt. 3 e 13, 2o co.; c.p.p. art. 224, 2o co.) (con nota di M. GIACCA)
597
Interesse privato in atti d’ufficio — Indebito esercizio di attività professionale privata da parte del Rettore di un’Università - Inadempimento degli obblighi di professore universitario e di rettore - Condotta meramente omissiva - Insussistenza (C.p. art. 324, abrogato) (con nota di M. GELARDI) .....................................................................
612
Istigazione alla corruzione passiva — Accettazione simulata della promessa - Successiva dazione - Concorso di reati tra la promessa e la dazione - Configurabilità (con nota di G. MARRA) .......
273
Misure cautelari — Riesame - Deposito del solo dispositivo della decisione nel termine perentorio di cui all’art. 309, comma 9, c.p.p. - Perdita di efficacia dell’ordinanza impositiva per inosservanza del termine - Sussistenza (C.p.p. art. 127, 128 e 309, commi 9 e 10) (con nota di G.M. BACCARI) ..................................................
1395
Omicidio colposo — Attività medico-chirurgica in équipe - Trapianto di organi da cadavere Omessa raccolta di dati anamnestici su donatore proveniente da altra struttura ospedaliera - Assenza di indizi sulla inesattezza o incompletezza dei dati raccolti dalla struttura ospedaliera di provenienza - Principio dell’affidamento - Colpa - Esclusione (C.p. artt. 43 e 589) (con nota di M. MANTOVANI) .....
1043
— Attività medico-chirurgica in équipe - Trapianto di organi da cadavere Omessa esecuzione del test anti-HIV sul donatore - Non prevedibilità della sussistenza di effettivi rischi di contagio in base alle conoscenze scientifiche dell’epoca dei fatti - Esclusione della colpa (C.p. artt. 43 e 589) (con nota di M. MANTOVANI) ..............................................................................................
1043
Perizia — Questione di legittimità costituzionale in via incidentale - Incidente probatorio - Sottoposizione dell’indagato o di terzi a perizia medico-legale - Potere del giudice, se lo ritenga necessario per l’esecuzione delle operazioni peritali, di disporre sul periziando, anche senza il suo consenso, prelievi ematici - Mancata precisazione, nella norma su cui tale potere si basa (art. 224, secondo comma, del codice di procedura penale), dei casi e dei modi in cui misure di tal genere possono essere adottate, come richiesto dall’art. 13, secondo
— VIII — comma, della Costituzione a garanzia della libertà personale - Illegittimità costituzionale parziale - Assorbimento di altra censura - Richiamo a sentt. nn. 194 del 1996 e 54 del 1986 (Cost. artt. 3 e 13, 2o co.; c.p.p. art. 224, 2o co.) (con nota di M. GIACCA) ................................................................................ Procedimento pretorile — Annullamento con rinvio - Decreto di citazione a giudizio - Rinnovazione Competenza (C.p.p. artt. 549, 555; disp. att. c.p.p. art. 143) (con nota di G. VARRASO) ........................................................................................................ — Annullamento con rinvio - Decreto di citazione a giudizio - Termine per comparire - Venti giorni (C.p.p. artt. 429, 549, 567; disp. att. c.p.p. art. 143) (con nota di G. VARRASO) ...................................................................................... — Annullamento con rinvio - Termine per comparire - Inosservanza - Nullità di ordine generale a regime intermedio - Sussistenza (C.p.p. artt. 178 lett. c), 180, 429) (con nota di G. VARRASO) ............................................................. Pubblico servizio — Attività svolta da privati - Qualificazione come pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio - Esclusione - Non decisivo (con nota di A. MANGIONE) ........ — Presenza di un provvedimento concessorio - Qualificazione dell’attività come pubblico servizio - Non decisivo - Disciplina di diritto pubblico o svolgimento in proprio dallo Stato o da altro ente pubblico - Necessità (con nota di A. MANGIONE) ...................................................................................................... — Raggiungimento di pubbliche finalità - Qualificazione come pubblica funzione o pubblico servizio - Non decisivo - Regolamentazione dell’attività in forma pubblicistica - Necessità di entrambi gli elementi (con nota di A. MANGIONE) ...... — Funzionari SIP - Compiti di acquisizione di beni strumentali - Qualifica di pubblici ufficiali - Esclusione (con nota di A. MANGIONE) ............................ — Esercizio telefonico - Gestione da parte di un soggetto privato - Atto di concessione avente natura pubblicistica - Attività sottoposte al regime concessorio e attività sottoposte all’ordinario regime privatistico - Distinzione (con nota di A. MANGIONE) ....................................................................................
597
1036
1036
1036
1015
1015
1015 1015
1015
Rapporto di causalità — Reato in genere - Criteri generali di accertamento - Modello della sussunzione sotto leggi scientifiche - Leggi universali e statistiche - Sufficienza del ricorso a leggi statistiche - Fattispecie (C.p. art. 40) (con nota di C. PIERGALLINI) ..
1447
Reati tributari — Tassabilità dei proventi illeciti - Ammissibilità - Natura interpretativa dell’art. 14 comma 4 l. 24 dicembre 1993 n. 537 (con nota di G. BERSANI) ............
983
Reato omissivo — Reato in genere - Responsabilità per omesso impedimento dell’evento - Fattispecie (C.p. artt. 40 e 43) (con nota di C. PIERGALLINI) ...............................
1447
Sentenza di proscioglimento — Sentenza di proscioglimento immediato - Pronunciabilità da parte del giudice per le indagini preliminari richiesto del decreto penale o dell’applicazione concordata della pena - Condizioni (C.p.p. artt. 129 comma 1, 459 comma 3, 444 comma 2) (con nota di B. LAVARINI) .............................................................
619
Subornazione — Bene tutelato - Genuinità processuale - Soggetti chiamati a riferire davanti all’Autorità Giudiziaria - Pressioni esterne - Offerta o promessa di qualsivoglia utilità - Fine di indurre a commettere falsità processuale (C.p. artt. 371-bis, 372, 373 e 377) (con nota di B. ROMANO) ...................................................
1422
— IX — — Reato di pericolo - Evento di natura formale - Necessaria previa assunzione della qualità di « persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria » (C.p. art. 377) (con nota di B. ROMANO) .................................. — Qualità di subornato - Soggetto chiamato dalla polizia giudiziaria come autorità delegata dal pubblico ministero - Configurabilità del delitto di subornazione (C.p. art. 377; C.p.p. artt. 348, comma terzo, 362 e 370, comma primo) (con nota di B. ROMANO) ............................................................................... — Celebrando processo - Conseguente ovvia induzione a commettere il delitto di falsa testimonianza - Irrilevanza della non configurabilità del reato di cui all’art. 371-bis c.p. per effetto dell’art. 2 c.p. regolante la successione delle norme penali nel tempo (C.p. artt. 2, 371-bis, 372 e 377) (con nota di B. ROMANO) .............................................................................................................
1422
1422
1422
Udienza preliminare — Sentenza di non luogo a procedere - Regola di giudizio per la sua emanazione - Possibilità di emanare la sentenza nel caso di insufficienza o contraddittorietà della prova (C.p.p. art. 425) (con nota di F. CAPRIOLI) ........................ — Questione di legittimità costituzionale in via incidentale - Giudice delle indagini preliminari che abbia restituito gli atti al p.m. per formulare o modificare l’imputazione ovvero che abbia disposto una misura cautelare personale nei confronti dell’imputato - Incompatibilità dello stesso giudice a partecipare a detta udienza - Omessa previsione - Richiamo all’ordinanza n. 24 del 1996 della Corte costituzionale - Manifesta infondatezza (Cost. artt. 3, 24, 25, 76, 77 e 101; c.p.p. art. 34, 2o co.) (con nota di G. GARUTI) .............................
285
588
Violazione degli obblighi di assistenza familiare — Fattispecie: rinvio dell’udienza presidenziale di separazione tra coniugi - Mancata adozione di provvedimenti circa il mantenimento - Omessa prestazione dei mezzi di sussistenza - Errore di fatto - Ignoranza scusabile della legge penale - Configurabilità - Esclusione - Ragione: obbligo derivante da inderogabili principi di solidarietà (C.p. artt. 5, 47 comma 3 e 570 comma 2 n. 2) (con nota di A. VALLINI) .........................................................................................
935
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (a cura di M. PISANI) — Svizzera - Stati Uniti d’America: assistenza giudiziaria penale in tema di insider trading ............................................................................................... — Italia - Svizzera: in tema di trasmissione di documentazione bancaria .... — Pendenza di ricorso contro la rogatoria e utilizzabilità degli atti acquisiti per suo tramite .......................................................................................... — Sulla non applicabilità dell’art. 710 c.p.p. nei rapporti estradizionali ItaliaStati Uniti d’America ................................................................................. — Un ‘‘trasferimento’’ a favore del Tribunale penale internazionale per il Rwanda ...................................................................................................... — L’appel de Genève ......................................................................................
1496 1505 1507 1508 1508 1509
DOTTRINA
LA GIUSTIZIA PENALE ALLA PROVA DEL FUOCO
SOMMARIO: I. TANGENTOPOLI E « MANI PULITE ». — 1. Tangentopoli come emergenza criminale. — 2. Mani pulite: una rivoluzione giudiziaria? — 3. La discussione su « mani pulite », fra giustizialismo e garantismo. II. I DIFFICILI EQUILIBRI DEL SISTEMA PENALE. — 1. Intersezioni e tensioni fra giustizia e politica. — 2. Le tensioni sul principio di legalità. — 3. Le tensioni sul processo penale. III. SU ALCUNE PROPOSTE PER L’« USCITA DA TANGENTOPOLI ». — 1. Uscire da Tangentopoli o da Mani pulite? — 2. Quale riformulazione della fattispecie di corruzione? — 3. Inasprimento delle sanzioni? — 4. Una causa di non punibilità per la corruzione? — 5. La questione dei « collaboratori di giustizia ». IV. QUALE MODELLO DI GIUSTIZIA PENALE? — 1. Razionalità finalistica, ideologia retributiva, principio d’uguaglianza — 2. Quali compiti per la dottrina penalistica?
È in corso nel paese (queste note sono scritte nel dicembre 1996) un aspro dibattito attorno a temi e problemi fondamentali per l’assetto ed il funzionamento del sistema penale. Nel teatro dei mass media si sentono spesso recite strumentali ad interessi di parte, nelle quali i fatti sono deformati, e i temi della giustizia degradati a strumento di pressione e (forse) a merce di scambio nel mercato politico. Le voci dell’analisi critica, che intendano sottrarsi a logiche di schieramento, stentano a trovare spazio. Esigenza prioritaria, e compito oggi ineludibile per la dottrina giuridica, mi sembra il cercare di ricostruire le condizioni di un dialogo razionale e non strumentale, che sappia mettere a fuoco, dietro gli eventi della cronaca quotidiana, gli elementi davvero rilevanti per il disegno istituzionale e per un corretto funzionamento di istituzioni di giustizia. I. TANGENTOPOLI E « MANI PULITE ». 1. Tangentopoli come emergenza criminale. — I fatti al centro della discussione sono evocati dai nomi « tangentopoli » e « mani pulite ». Tangentopoli: metafora di un sistema largamente praticato di pratiche illegali orientate al profitto, diffuse nel mondo politico, nella pubblica ammini-
— 4 — strazione, e anche nel mondo delle imprese (1). Mani pulite: una risposta della giustizia penale non più occasionale e limitata a episodi casualmente emersi, ma programmata all’esplorazione sistematica del pianeta Tangentopoli, anche mediante l’adozione degli strumenti più energici di cui la giustizia penale dispone, per penetrare dentro sfere tradizionalmente immuni (di fatto, non di diritto) da indagini giudiziarie e interventi repressivi. Lo « spaccato » del sistema tangentopoli, che le indagini giudiziarie a partire dal 1992 hanno evidenziato, è, nelle sue linee generali, attendibile ancorché incompleto, fondato su molteplici riscontri e su conferme « dall’interno » (fra cui numerose confessioni). Molti sono i processi giunti a compimento, spesso con riti alternativi, e per la maggior parte si sono conclusi con affermazioni di responsabilità (2) relativamente a fatti di sicura rilevanza penale (corruzione o concussione, illecito finanziamento di partiti politici, reati strumentali come le false comunicazioni sociali). Dal punto di vista della legge penale, una vera e propria emergenza criminale, collocata nel cuore del sistema politico; per le istituzioni e per il paese un pericolo tanto più grave, in quanto lungamente sottovalutato. La capillare diffusione, ad ogni livello, della pratica delle tangenti, significa feudalizzazione della politica e dell’amministrazione pubblica, subordinazione dell’esercizio di pubbliche funzioni e della gestione del potere politico ad interessi privati, personali o « di parte ». C’è chi sostiene che ciò possa avere, sotto alcuni aspetti, stimolato l’efficienza del sistema; ma quel che è certo è che la corruzione assunta a sistema altera surrettiziamente le regole di funzionamento delle istituzioni e dei rapporti fra i cittadini e le istituzioni, traendo con sé quanto meno il rischio di distorsioni sostanziali nell’applicazione delle regole legali e nella valutazione degli interessi pubblici (3). (1) Corruzione « sistemica »: FORTI, L’insostenibile pesantezza della « tangente ambientale », in questa Rivista, 1996, 476 s.; ID., Unicità o ripetibilità della c.d. corruzione sistemica? Il ruolo della sanzione penale in una prevenzione « sostenibile » dei crimini politico-amministrativi, rapporto al XIII Congresso di difesa sociale, Lecce, 28-30 novembre 1996. (2) Alcuni dati relativi a quattro anni e mezzo di « mani pulite » a Milano sono forniti da COLOMBO, Mani sporche e colpi di spugna, in Micromega, n. 4 del 1996, p. 20. (3) Sugli effetti della corruzione cfr., anche per ulteriori informati riferimenti, FORTI, opp. cit. Sugli effetti del « sistema tangentopoli » si è soffermata la relazione illustrativa della proposta elaborata nel settembre 1994 da alcuni magistrati del c.d. pool della Procura della Repubblica di Milano e da alcuni giuristi delle università e del foro di Milano, fra cui il sottoscritto. La proposta e la nota illustrativa sono state pubblicate (fra l’altro) in questa Rivista, 1994, 1025 s., 1031 s., e in Riv. trim. dir. pen. econ., 1994, p. 911 s., dove sono pure pubblicate alcune relazioni tenute nel convegno svoltosi presso l’Università statale di Milano nel settembre 1994 per la presentazione dell’iniziativa. Per quanto concerne le dimensioni economiche della corruzione, le valutazioni di auto-
— 5 — Anche l’illecito finanziamento di partiti ed esponenti politici, talora considerato come un illecito bagatellare e meritevole di totale depenalizzazione, fa parte di un sistema di scambio occulto fra mondo politico e mondo delle imprese. Gli interessi offesi non sono di poco rilievo. Il finanziamento occulto (che, si noti, è vietato ai privati solo in quanto sia occulto) altera alcune importanti condizioni di funzionamento della democrazia politica, sottraendo al controllo dei cittadini elementi rilevanti per la formazione del loro giudizio: un reato contro la trasparenza nella vita politica (come le false comunicazioni sociali relativamente alla sfera economica). Da considerare, inoltre, il possibile intreccio con fatti di corruzione, favoriti dal clientelismo politico, e l’offesa ad interessi anche patrimoniali dello Stato nei casi in cui l’erogazione provenga da soggetti « pubblici » (in tal caso il divieto di finanziamento a partiti è assoluto). Quale che ne sia la qualificazione penalistica, e quale che possa essere la valutazione sotto il profilo della soggettiva colpevolezza dei singoli, il « rubare per il partito » e il finanziamento occulto per il partito (o per la revoli istituti finanziari vanno da duemila a quindicimila miliardi di lire annui di tangenti; anche a stare alla cifra minore, l’ammontare delle tangenti sarebbe pari allo 0,1% del PIL italiano, e con un costo quantificato nel 23% degli utili realizzati nel 1992 dalle società italiane. I danni derivanti dalla corruzione non si esauriscono negli importi delle tangenti. Sotto l’aspetto economico occorre innanzi tutto considerare che, in un’ampia e importante serie di casi, dalle prestazioni del corrotto il corruttore si attende ed ottiene a proprio indebito vantaggio, a scapito dei più onesti, la soluzione di un problema di allocazione di risorse (assegnazione di contratti, autorizzazioni, et similia). Su queste distorsioni ha richiamato l’attenzione il Governatore della Banca d’Italia, nelle sue « considerazioni finali » nell’assemblea del 31 maggio 1993: « forme di corruzione diffusa nei rapporti tra imprese e sfera pubblica » hanno « gonfiato la spesa, leso il buon funzionamento del mercato, ostacolato la selezione dei fornitori e dei prodotti migliori ». Altra importante tipologia di corruzione è quella che ha come scopo di assicurare lo svolgimento di attività illecite, coprendolo per il passato o creandone le condizioni per il futuro (basti pensare alle tangenti pagate ad appartenenti alla Guardia di Finanza, in relazione ad accertamenti tributari). In questo caso la corruzione alimenta un sistema che è stato definito di « doppia illegalità », costituito dalla corruzione stessa e dall’attività illecita in relazione alla quale la corruzione venga posta in essere. Sotto altro aspetto, la stessa deviazione nell’allocazione di risorse, inerente allo scambio illecito, genera il pericolo di commissione di ulteriori reati (come quello di false comunicazioni sociali) tendenti a coprire e a consentire la realizzazione di fatti di corruzione. I costi della corruzione tendono ad essere scaricati, in ultima analisi, sui cittadini: la corruzione funziona come una sorta di « tassazione impropria ». E il denaro drenato ai contribuenti, come denaro « nero », viene spesso trasferito all’estero, sottraendo importanti risorse finanziarie al sistema economico nazionale. È stata rilevata, infine, la tendenza della corruzione ad autoalimentarsi: il fatto che in un certo « mercato » vengano perpetrati fatti di corruzione determina un aumento dei « costi di transazione » e del valore della prestazione corrotta; determina cioé uno squilibrio tale da incentivare il ricorso alla corruzione. Quando il fenomeno abbia raggiunto certe dimensioni, chi si astenga dal ricorrere alla corruzione rischia di essere eccessivamente penalizzato, e di uscire dal mercato, come conferma la situazione emersa dalle indagini giudiziarie.
— 6 — propria « corrente ») attentano a interessi pubblici non meno, ma più importanti di quelli offesi dal rubare per sé. In gioco non sono soltanto interessi patrimoniali, bensì condizioni — di trasparenza e di par condicio — della dialettica democratica. Di fronte alla perversione della polis trasformata in tangentopoli, le fattispecie applicate dai magistrati sarebbero — si è detto (4) — « contenitori angusti, ‘‘irreali’’ nella loro manifesta sproporzione valutativa »: come un frantumare un saccheggio in una miriade di furtarelli. Quelli di Tangentopoli sarebbero reati politici: « obiettivamente tali perché hanno colpito non questo o quell’aspetto della pubblica amministrazione, ma la stessa esistenza di una ‘‘pubblica’’ amministrazione; subiettivamente tali perché diretti ad alimentare un partito — apparato ed a formare e consolidare il consenso attorno a partiti — clientela ». È, questa, una valutazione tutta politica dei reati di tangentopoli; che non vale certo a contestare la pertinenza degli strumenti penali adoperati dai magistrati, ma, al contrario, sottolinea la rilevanza dei fenomeni considerati, come politicamente più gravi di quanto le stesse qualificazioni penalistiche non dicano. 2. Mani pulite: una rivoluzione giudiziaria? — Con il malaffare diffuso il nostro paese ha convissuto per anni, dentro la città delle tangenti, senza cogliere o evitando di guardare in faccia il fenomeno, ovvero adattandovisi. È per questo che le inchieste « mani pulite », cioé l’emersione giudiziaria del « sistema Tangentopoli », hanno avuto un effetto esplosivo. Non è certo la prima volta che la giustizia penale ha assunto un ruolo di primo piano, di fronte alle emergenze criminali delle quali la storia italiana recente è purtroppo ricca. Basti pensare ai non lontani « anni di piombo » dell’eversione armata: il terrorismo è stato sconfitto con le armi della giustizia penale, oltre che con quelle della ragione e della coscienza civile. Il consistente impatto politico, che la risposta giudiziaria al terrorismo ha avuto, non ha dato luogo a tensioni fra intervento giudiziario e istituzioni politiche. Al contrario: l’istituzione giudiziaria era chiamata a rispondere con il massimo di efficacia ad un attacco che veniva sferrato (ricordiamo lo slogan brigatista?) dall’esterno verso il « cuore dello stato »: un fenomeno la cui natura criminale era tragicamente evidente agli occhi di tutti. Dal sistema politico sono allora venuti interventi di sostegno, anche legislativi: una legislazione d’emergenza che, potenziando gli strumenti d’indagine e di coercizione, ha sì introdotto momenti di tensione interna al sistema penale (fra esigenze di funzionalità e preoccupa(4) PADOVANI, Il problema tangentopoli tra normalità dell’emergenza ed emergenza della normalità, in questa Rivista, 1996, p. 461.
— 7 — zioni garantiste), ma in un contesto nel quale gli obiettivi di fondo erano chiari e largamente condivisi e vedevano la dichiarata convergenza delle diverse istituzioni dello Stato. Con le inchieste « mani pulite » (e, in parte, nei processi di mafia) lo scenario è diverso: la magistratura è andata a frugare nel cuore delle istituzioni, in arcana imperii, in attività che costituivano il concreto modo di operare di soggetti muniti di poteri istituzionali. L’intervento giudiziario diviene dunque momento di tensione fra poteri; ed è per questo che si può ravvisare nell’intreccio Tangentopoli-Mani pulite una situazione limite, qualitativamente diversa dalle altre « emergenze » attraversate dalla giustizia penale nei decenni della Repubblica. Di fronte al fenomeno « tangentopoli », le indagini « mani pulite » hanno rappresentato un controllo di legalità d’inconsueta ampiezza ed efficacia (ancorché ’a « macchie di leopardo ») in ambiti tradizionalmente « immuni ». Facendo con estremo (eccessivo?) impegno il suo mestiere di accertamento di fatti illeciti e di responsabilità personali, la giustizia penale ha potentemente contribuito alla crisi di un ceto dirigente e di vecchi assetti di potere ed equilibri politici. Impatto politico eccezionale, dunque, dell’attività di un potere politicamente neutro, quale è il potere giudiziario secondo il modello istituzionale dello stato liberale di diritto. « Mani pulite » è, sotto questo aspetto, un caso limite di intervento giudiziario politicamente rilevante. Paradossalmente, un simile esito può essere considerato una compiuta realizzazione dell’idea illuministico-liberale della separazione dei poteri come sistema di pesi e contrappesi: il potere giudiziario si è dimostrato in grado di funzionare, in misura della quale è difficile trovare precedenti, come effettivo contrappeso del potere politico (e di potentati economici) in chiave di controllo di legalità. Perdita di legittimazione del diritto penale? All’interrogativo dei giuristi teorici (5) i magistrati penali hanno risposto con la forza dei fatti: solo l’intervento penalistico, solo l’effettivo utilizzo dell’arma della coercizione legale si è di fatto mostrato in grado non solo di vincere emergenze drammatiche ma contingenti come il terrorismo antisistema, ma anche di contrastare con qualche efficacia l’insediarsi dell’illegalità a prassi diffusa (o addirittura regola non scritta) entro il sistema di governo e di funzionamento della società (delle istituzioni, del mercato). Se l’esperienza insegna qualcosa, l’esperienza di questi anni ci ha mostrato che per fronteggiare il mostro « tangentopoli » la giustizia penale si è rivelata (impregiudicato ovviamente il giudizio su singole vicende e singoli aspetti) l’unica sede in qualche misura funzionante, in mezzo al generale disastro. (5) FIANDACA e MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in questa Rivista, 1994, p. 23 s.
— 8 — La dimensione politica della giustizia penale, già ben presente e vistosa in altri importanti e talora drammatici capitoli dell’esperienza italiana recente (come gli « anni di piombo » del terrorismo) è stata per così dire portata nei processi « mani pulite » alle estreme conseguenze. Rivoluzione per via giudiziaria, come talora si è detto? A mio avviso si tratta d’una formula fuorviante sia sul piano giuridico che su quello politico. La vicenda di « mani pulite » si radica (ad una valutazione d’insieme, e salvo il giudizio su singole vicende) sul terreno della legalità e della continuità dell’ordine legale: la profondità degli effetti delle indagini giudiziarie è stata tanto maggiore, quanto più l’intervento penale ha saputo rivelare la malattia che corrode dall’interno la polis, con corretti accertamenti di fatti e di responsabilità di soggetti detentori di potere politico o amministrativo o economico. Appunto la capacità di funzionamento conforme al modello liberale della separazione dei poteri, spinta ad un livello inconsueto di efficacia, ha consentito il controllo su illegalità realizzate su larga scala, o addirittura « sistemiche », all’interno della sfera dei poteri pubblici. Consolidati assetti ed equilibri istituzionali e politici ne sono stati travolti; e ciò ha innescato processi che fuoriescono dalle competenze dell’ordine giudiziario e dalle possibilità degli strumenti a questo affidati, fra cui quelli del diritto penale. L’esito politico di « mani pulite » è una situazione di crisi: la supposta « rivoluzione giudiziaria » non è in grado di ricostruire, ma solo di distruggere: « non è pensabile di riedificare la società civile a partire dagli strumenti offerti dal diritto penale » (6), non è pensabile riedificare per via giudiziaria un nuovo sistema di rapporti fra società civile e poteri pubblici. Il « ritorno alla normalità » — ad una ordinata vita della polis, senza più il dominio delle tangenti — passa per il ritorno alla politica (7). Con i processi di « mani pulite » la giustizia penale degli anni ’90 ha fatto (e non è poco) quello che ha potuto, e che in passato non era riuscita a fare: ha accertato fatti delittuosi gravi, commessi da detentori di potere, e ne ha individuato i responsabili, in misura molto maggiore che in passato, disvelando e contrastando la deformazione della polis in tangentopoli. Se riteniamo che questi siano risultati importanti (io direi essenziali) (6) PADOVANI, loco cit. (7) Ciò, significa, anche, capacità della politica di porre mano a riforme in terreni « a monte » del diritto penale, quali l’efficienza e trasparenza dell’azione amministrativa, il sistema dei controlli, ed una migliore selezione del personale politico e amministrativo. GROSSO, L’iniziativa di Di Pietro su tangentopoli. Il progetto anticorruzione fra utopia punitiva e suggestione premiale, in Cass. pen., 1994, p. 2347; FORTI, opp. cit.
— 9 — per la difesa della legalità democratica — se riteniamo vitale per lo stato di diritto l’esigenza « mai più tangentopoli » — allora mi sembra importante riaffermare una valutazione complessivamente positiva dell’esperienza di « mani pulite », e porre in primo piano l’obiettivo di come mantenere, e, se possibile, rafforzare le condizioni perché la giustizia penale possa, occorrendo, continuare a svolgere efficacemente anche in futuro la sua funzione di contrappeso e di controllo di legalità, anche negli ambiti su cui si sono sviluppate le indagini « mani pulite ». Questa indicazione non pretende certo di esaurire le risposte a tangentopoli quale « emergenza politica », né sopravvaluta il ruolo della giustizia penale, né intende chiudere gli occhi di fronte ai molti e gravi problemi connessi al modo in cui la giustizia penale ha funzionato e funziona. Essa intende, semplicemente, prendere sul serio il compito « di chiusura » e di contrappeso che alla giustizia penale è assegnato da classici principi di matrice illuministica e liberale. Disperdere l’esperienza di « mani pulite » sarebbe come accettare il rischio (o la certezza?) di tornare allo status quo ante, quando tangentopoli prosperava e le non frequenti iniziative giudiziarie si trovavano dinanzi ad ostacoli insormontabili. Sarebbe un esito che i critici genuinamente liberali non riconoscerebbero come desiderabile, né conforme ai principi. Che cosa deve fare, allora, una politica del diritto che prenda sul serio l’obiettivo « mai più tangentopoli »? Che cosa deve fare, per quanto qui interessa, sul terreno del diritto e della giustizia penale? 3. La discussione su « mani pulite », fra giustizialismo e garantismo. — Di fronte allo sconvolgente impatto delle indagini giudiziarie, non stupisce che al massimo di legittimazione dell’intervento penale agli occhi dell’opinione pubblica (il P.M. come eroe nazionale!) (8) si sia unito il massimo di contestazione. Forze potenti hanno cercato prima di bloccare le indagini, poi di screditarle, con accuse personali e politiche; ma anche con argomenti di carattere giuridico, concernenti questioni fondamentali per il « sistema giustizia ». Sotto questo aspetto (l’unico che qui interessa) le discussioni su « mani pulite » (fuori e dentro l’ambito specialistico) hanno rivelato una netta polarizzazione di posizioni, caratterizzate dall’enfatizzazione unilaterale dell’uno o dell’altro dei due poli, nel cui campo di tensione si colloca il problema penale: — da un lato, esigenze di funzionalità, anzi di effettivo funziona(8) Emblematica la vicenda di Antonio Di Pietro, il magistrato della Procura di Milano che ha avviato le indagini « mani pulite » e ne è poi divenuto il simbolo, sia pure fortemente contrastato.
— 10 — mento della tutela coercitiva di diritti e interessi dei singoli e della società, mediante la prevenzione (fin dove possibile) e la repressione dei comportamenti ritenuti lesivi o pericolosi per gli interessi protetti (la giustizia penale come strumento finalizzato di « lotta alla criminalità »: nella specie, di lotta contro il sistema del malaffare politico e amministrativo); — dall’altro lato, esigenze di garanzia dei diritti e delle libertà individuali di fronte alla potestà coercitiva dello Stato (la giustizia penale come magna charta o garanzia « liberale »: principio di legalità, giusto processo, delimitazione dei poteri di coercizione legale). I modelli teorici del diritto penale liberale — « arma a doppio taglio », secondo la nota definizione di v. Liszt (9) — vanno alla ricerca di un ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze: sia la funzionalità della tutela coercitiva, sia le garanzie di fronte alla potestà punitiva sono esigenze essenziali per lo stato di diritto e per una libera e civile convivenza. Bene espressivo della situazione spirituale della dottrina penalistica è il « principio di codificazione » enunciato nello schema di legge delega per la riforma del codice penale, elaborato all’inizio degli anni ’90 dalla « commissione Pagliaro »: « armonizzare, a tutela dei beni giuridici, funzioni e limiti della sanzione penale » (10). Alla geometria dei modelli teorici, i processi « mani pulite » (come, del resto, i processi di terrorismo o di mafia) hanno contrapposto la corposa durezza dei fatti: di un operare della macchina penalistica che, proprio nel raggiungere inediti successi in termini di controllo di legalità, ha evidenziato la problematicità dei mezzi che tale risultato hanno consentito (e, in parte, degli stessi esiti). La polemica si è appuntata soprattutto su prassi processuali che hanno fatto largo ricorso agli strumenti più autoritari del processo penale (coercizione cautelare, intercettazioni telefoniche e ambientali, perquisizioni e sequestri, consulenze ad amplissimo spettro, et similia). Legittimi o meno che siano stati i singoli provvedimenti della magistratura (ciò è oggetto di legittima discussione) gli strumenti adoperati sollevano, per la loro natura « autoritaria », la questione delle garanzie dei diritti individuali, come aspetto essenziale della tutela della legalità; anche nei confronti delle istituzioni di controllo della legalità. Riproponendo con il massimo di evidenza le ragioni sottese ad entrambi i poli del problema penale (quello delle garanzie liberali e quello della coercizione finalizzata), l’esperienza di « tangentopoli » e di « mani pulite » costituisce una sfida che non può essere elusa né dalla dottrina giuridica, né dalla politica. È (anche e soprattutto) di esperienze di questo genere, con i loro aspetti laceranti e le loro interne tensioni, che occorre (9) La teoria dello scopo nel diritto penale, traduz. italiana, Milano 1962, p. 46. (10) Il testo della proposta e della relazione è pubblicato in Ind. pen., 1992, p. 580 s.
— 11 — discutere, nello spirito di un razionalismo critico che ravvisa il suo compito (11) nel disvelamento e nel possibile superamento (non già nell’annebbiamento) delle contraddizioni del mondo reale. II. I DIFFICILI EQUILIBRI DEL SISTEMA PENALE. 1. Intersezioni e tensioni fra giustizia e politica. — L’attenzione al concreto funzionamento del sistema penale, rispetto alle finalità che gli sono assegnate, pone l’esigenza di assumere ad oggetto di considerazione unitaria, superando tradizionali partizioni accademiche, le istituzioni penali nel loro complesso: diritto penale sostanziale, processo penale, organi preposti all’applicazione della legge. Particolare rilievo assume il nesso privilegiato fra il sistema penale e il sistema giudiziario. Nell’assetto costituzionale liberaldemocratico, fondato sulla separazione dei poteri, è il potere giudiziario il luogo istituzionale specificamente deputato al law enforcement; e il diritto penale è lo strumento attraverso il quale il potere della magistratura si realizza nella forma più penetrante. Non c’era bisogno di « mani pulite » per sapere che è la potestà punitiva, nella sua estrinsecazione concreta, il contenuto fondamentale del potere del giudice, e che si tratta di un potere — per quanto vincolato alla legge, anzi proprio perché vincolato alla legge — di grande rilevanza politica. L’essere il potere giudiziario — a differenza degli altri — un potere politicamente « neutro », non lo rende estraneo alla vita e alle esigenze della polis, ma definisce i modi e i limiti del suo ruolo: che è di garanzia formale dell’ordine giuridico e dei diritti di tutti, attraverso le forme del giusto processo e l’emanazione di decisioni conformi alla legge. Ciò vale in particolare per la giustizia penale, la quale si legittima proprio come forma di tutela di interessi pubblici nei confronti di aggressioni ritenute più significative. Anche, occorrendo, nei confronti di violazioni della legalità provenienti da detentori di poteri pubblici, se prendiamo sul serio l’idea della separazione dei poteri come sistema di pesi e contrappesi, di checks and balances, del quale fa parte anche il potere giudiziario. Il livello d’indipendenza che la magistratura italiana ha acquisito, fra tanti contrasti, nel corso dei decenni della Repubblica, è stato condizione necessaria dei livelli di efficienza che l’attività giudiziaria ha attinto in direzioni che altrimenti sarebbero state precluse. Sotto questo aspetto, l’esperienza offre fortissime indicazioni a favore del mantenimento del dise(11)
RADBRUCH, Rechtsphilosophie, Stuttgart, 1973, p. 82.
— 12 — gno delle istituzioni di giustizia della Costituzione del 1948: soggezione del giudice « soltanto alla legge », indipendenza politica ed autogoverno dell’ordine giudiziario, appartenenza all’ordine giudiziario dell’organo promotore dell’azione penale obbligatoria. Queste esigenze appaiono vieppiù stringenti nel passaggio verso forme di « democrazia maggioritaria », tendenti a rafforzare la stabilità e le capacità di decisione (il potere) degli organi politicamente responsabili. Quanto più forti i poteri, tanto maggiore la necessità di protezione da possibili abusi, e perciò l’esigenza di controlli e contrappesi rappresentati da istituzioni di garanzia indipendenti dal potere politico. Anche l’apoliticità e l’indipendenza della giurisdizione si riconnettono all’esigenza politica sottesa al modello liberale classico, quella, per l’appunto, del controllo imparziale di legalità, a garanzia dei diritti di tutti. Ma se il modello funziona senza grossi traumi quando il potere giudiziario (penale) si esplica in direzioni e in ambiti tradizionali, forti tensioni si innnescano quando quello stesso potere, con gli stessi mezzi, coinvolge direttamente o indirettamente luoghi e modi di esercizio di altri poteri, e altri detentori di potere. La neutralità politica della giurisdizione sembra qui entrare in crisi, e l’etichetta ambigua della « supplenza giudiziaria » viene applicata su qualsivoglia intervento giudiziario che di fatto abbia un qualche significativo impatto politico. Entrata largamente nell’uso comune e anche nel discorso dei giuristi (12), la formula della « supplenza giudiziaria » intende descrivere (e/o valutare) una situazione nella quale il giudice (in genere, il giudice penale) interviene in campi primariamente affidati alla cura del potere politico o della Pubblica Amministrazione; una situazione che, sotto uno od altro profilo, viene ritenuta patologica e da superare. A questo punto, il discorso sulla supplenza si apre a diversi possibili sviluppi: da un lato, di critica politica verso poteri politici o verso amministrazioni inadempienti; dall’altro lato, di critica anche e soprattutto sul piano giuridico verso eventuali debordamenti della magistratura in un terreno che non le spetterebbe. In quest’ultimo senso, l’idea della « supplenza » sembra suggerire una sostanziale sovrapposizione fra problemi di rispetto del principio di legalità nell’operato della magistratura, e problemi di equilibri e rapporti fra poteri dello Stato, sulla tacita premessa che i principi di legalità e di separazione di poteri comporterebbero una netta distinzione di campi d’intervento fra la giustizia ed il potere politicoamministrativo. In realtà le cose sono assai più complesse: un’intersezione dei campi d’intervento è nella logica stessa del sistema penale, in quanto modo o tec(12) Sia consentito, anche per i riferimenti, rinviare a PULITANÒ, Supplenza giudiziaria e poteri dello Stato, in Quaderni costituzionali, 1982, 93 s.
— 13 — nica di disciplina che attraversa trasversalmente campi di materia disciplinati da altri settori dell’ordinamento, e spesso affidati in via prioritaria all’esercizio di poteri diversi da quello giudiziario penale. L’intersezione di campi d’intervento — la possibilità dell’intervento giudiziario a chiusura del sistema di tutela legale, in campi altrimenti affidati alla cura della Pubblica Amministrazione o di altri soggetti — lungi dall’essere patologica rispetto ai principi, è iscritta nella struttura stessa dell’ordinamento giuridico. Politica, amministrazione e giustizia sono chiamate ad occuparsi dei medesimi problemi attinenti alla civile convivenza; la « separazione dei poteri » non separa oggetti, ma regole e modi e finalità di esercizio dei diversi poteri. La valutazione tecnico-giuridica degli interventi della magistratura dev’essere perciò depurata dal discorso politicamente suggestivo in termini di supplenza, e riportata al metro esclusivo del principio di legalità, secondo le classiche coppie concettuali legittimità-illegittimità, competenza-incompetenza, e simili. Concettualmente distinti, i piani della legalità formale e degli equilibri fra poteri si congiungono peraltro in maniera peculiare là dove sia il contenuto stesso delle fattispecie di reato — che costituiscono, ad un tempo, l’ambito e lo strumento del potere del giudice — ad incidere sulla conformazione legale, per l’appunto, dei rapporti fra le diverse istituzioni. Emblematiche, sotto questo profilo, le questioni del sindacato giudiziario sulla legittimità di atti amministrativi, e quella del delitto di abuso d’ufficio: questioni di conformazione (e di interpretazione) di specifiche fattispecie penali, la cui soluzione segna l’ambito e il limite delle possibilità di controllo giudiziario in relazione ad atti e comportamenti della Pubblica Amministrazione (ed anche delle possibilità di controlli successivi sullo stesso operato dei magistrati). Non si tratta certo di questioni nuove. Attorno a temi del genere si sono sviluppati indirizzi giurisprudenziali volti ad affermare la possibilità di un sindacato a tutto campo sulla legittimità di atti amministrativi, anche invocando considerazioni d’ordine costituzionale (13): indirizzi che (13) Com’è noto, la giurisprudenza prevalente fino alla metà degli anni ’80 riteneva configurabili i reati di esercizio abusivo (« senza autorizzazione ») di date attività, quando l’atto autorizzativo fosse illegittimo (p. es., attività edificatoria sulla base di autorizzazione ritenuta illegittima). Di contrario avviso la prevalente dottrina (cfr. per tutti BAJNO, La tutela penale del governo del territorio, Milano, 1980; CONTENTO, Giudice penale e Pubblica amministrazione, Bari, 1979; VILLATA, Disapplicazione dei provvedimenti amministrativi e processo penale, Milano, 1980) secondo la quale ad escludere il reato basta l’esistenza dell’atto autorizzativo emanato dall’autorità competente, indipendentemente da ogni ulteriore questione circa la sua legittimità. Quest’impostazione è stata recepita dalle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza 31 gennaio 1987, in Cass. pen. 1987, 878 s.) e da allora è giurisprudenza consolidata (con sacche minoritarie di dissenso).
— 14 — all’inizio degli anni ’80 avevo ritenuto di poter definire (14) di autoaffermazione del potere giurisdizionale, collegata a (discutibili) interpretazioni estensive di norme penali, e financo a eccezioni d’illegittimità costituzionale in malam partem contro talune riduzioni legislative dell’area dell’illecito penale (15). La Corte Costituzionale, com’è noto, ritiene inammissibili le questioni di legittimità costituzionale volte alla creazione o all’ampliamento di fattispecie di reato: a ciò conduce il principio di legalità, con l’affermare la competenza esclusiva del legislatore (16). È stato così bloccato il tentativo di utilizzare la teoria dei beni giuridici costituzionali a sostegno di istanze di irrigidimento del sistema penale, contro riforme che ne comportino il ritrarsi. I confini del sistema penale restano flessibili; e con essi i limiti del potere di controllo della magistratura. È il potere politico che ha la responsabilità e il potere di determinarli, nel rispetto dei classici principi garantisti, con scelte discrezionali di politica del diritto. Una volta, però, che il legislatore abbia optato per lo strumento penale, il diritto penale viene a segnare un limite (anche) della sfera politica: non solo della politica criminale, ma della politica tout court. Un limite non rigido, ma che, una volta posto, richiede di essere custodito secondo regole (il principio di legalità!) diverse da quelle della politica, e proprio per questo affidate a un’istituzione caratterizzata (nell’essenziale) da indipendenza politica, imparzialità e soggezione soltanto alla legge. Appunto nel far valere i principi di legalità e di responsabilità di fronte alla legge sta la funzione politica del potere giurisdizionale penale, politicamente neutro ma tutt’altro che politicamente irrilevante. L’actio finium regundorum fra giustizia e politica resta, in conclusione, un problema aperto, le cui soluzioni flessibili e provvisorie sono segnate, a livello normativo, dalla contingente conformazione del sistema penale; e sono esposte, di fatto, sia alle diverse possibili interpretazioni della legge, sia alla natura dei problemi dei quali la giustizia penale debba occuparsi. Se « supplenza giudiziaria » (buona o cattiva) vi è stata, le cause dovrebbero essere ricercate non solo nelle spinte all’autoaffermazione del potere giurisdizionale, ma anche (o soprattutto) nell’esistenza di problemi lasciati irrisolti dall’inefficienza dell’amministrazione o dalla latitanza della politica. (14) PULITANÒ, Supplenza giudiziaria, cit., p. 114 s. (15) Emblematica la questione dell’aborto, ma anche alcune questioni in materia di inquinamento. In argomento, cfr. PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in Studi Delitala, 1984, p. 1239 s. (16) Si tratta di un indirizzo consolidato e stabile: nella giurisprudenza più recente si veda p. es. Corte cost. n. 411 del 1995, in Cass. pen., 1996, 27 s.; Corte cost. n. 317 del 1996 (G. U. del 21 agosto 1996); Corte cost. n. 288 e n. 332 del 1996, in Foro it., 1996, I, 2939 s.
— 15 — 2. Le tensioni sul principio di legalità. — Sotto il profilo strettamente giuridico, il tema dei rapporti fra giustizia penale e politica riconduce dunque alla centralità del principio di legalità: « limite invalicabile » della politica criminale, a garanzia delle libertà individuali, ed insieme indicazione dei compiti di tutela cui il sistema penale ha da servire, anche per il tramite del buon funzionamento dell’istituzione giudiziaria. Sull’esigenza di difendere il principio di legalità — quale fondamentale principio di struttura del sistema penale — la dottrina è compattamente e giustamente concorde. Nel confronto con la giurisprudenza ne ha enfatizzato il profilo liberalgarantista (17), impegnandosi soprattutto contro interpretazioni estensive di norme penali (18): battaglie talora perdenti, altre volte capaci di incidere sugli indirizzi della giurisprudenza; talora ben giustificate, talora opinabili. La discussione sul principio di legalità non può però esaurirsi nei termini d’uno scontro « forense » fra le ragioni dell’accusa e della difesa. I contenuti della legalità sono per definizione discutibili (nel senso letterale del termine) sul piano della politica del diritto, e di fatto sono spesso assai meno certi di quanto la teoria non vorrebbe. Anche le interpretazioni della legge sono, in via di principio, discutibili e discusse nel quotidiano lavoro dei giuristi teorici e pratici. E l’esperienza applicativa mostra quanto fragili siano le barriere formali, o l’idea tutta dottrinaria della « frammentarietà » del diritto penale, là dove una (bene o male intesa) considerazione sostanziale degli interessi e dei comportamenti in gioco solleciti un intervento repressivo a tutto campo. Per una riflessione sul sistema penale, che non si chiuda nell’orizzonte della mera esegesi, proprio le tensioni nell’interpretazione ed applicazione della legge segnalano punti cruciali, additando come la stessa « tenuta » del principio di legalità formale debba essere realisticamente assunta non come un dato, ma come un problema, la cui positiva soluzione dipende da condizioni che non si esauriscono nella mera esistenza di un qualsivoglia dictum del legislatore. È, del resto, un dato acquisito alla cultura moderna che l’idea del giudice mera « bocca della legge » è un mito ideologico: il messaggio legislativo sconta, per sua natura, i limiti inerenti a qualsiasi comunicazione mediante il linguaggio (19), e la sua comprensione esige di tenere conto di (17) Cfr. gli atti del seminario dell’ISISC dell’ottobre 1990 su Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, Napoli 1991, e in particolare la relazione di sintesi di Stile. (18) In questo contesto si collocano anche le critiche mosse alle indagini su tangentopoli, relativamente alla correttezza di certe qualificazioni giuridiche: per es. a proposito dei confini fra corruzione e concussione, o fra le diverse figure di corruzione, o sulla stessa sussistenza del presupposto della qualifica pubblicistica del soggetto agente. (19) Anche la recente letteratura manualistica ne dà atto: cfr. FIANDACA, MUSCO, Di-
— 16 — un contesto complesso, del quale fanno parte necessariamente elementi extratestuali, di ordine storico (per es. la c.d. volontà originaria del legislatore, ove ricostruibile), di ordine teleologico (gli scopi di tutela assegnati o assegnabili ad una data disposizione), di ordine culturale (ivi comprese le ideologie degli interpreti), di ordine fattuale. La questione della legalità nell’interpretazione della legge merita dunque di essere ricondotta — anche di fronte a controversie interpretative e a ritenute forzature nell’applicazione di norme penali sostanziali — a nodi di fondo ben presenti alla più attenta dottrina: quelli del rapporto fra dogmatica e politica criminale (20), e delle responsabilità rispettive del legislatore e degli applicatori della legge. Vincolate (per definizione!) a un dato sistema positivo, le operazioni dell’interprete e applicatore del diritto si inseriscono in un continuum che parte dalla determinazione degli scopi politici ultimi, si articola nel sistema legale, e mira a concretizzarsi nella qualificazione giuridico-penale di casi di specie. È in questo continuum che acquista concretezza il rapporto fra la politica legislativa e quella che bene può definirsi come politica criminale sublegislativa, dei giuristi o dei giudici (21) formalmente vincolati al rispetto delle scelte del legislatore, ma competenti all’interpretazione delle stesse norme da cui sono vincolati (22). Per il legislatore, l’emanazione di norme penali conformi al principio di legalità costituisce adempimento d’un dovere dal quale dipende il rapporto fra l’ordinamento giuridico e i suoi destinatari: questi, tenuti all’osservanza delle norme, debbono essere messi in condizione di poterne comprendere il significato. In proposito non v’è che da richiamare i principi affermati dalla Corte Costituzionale nella fondamentale sentenza sull’art. 5 cod. pen. (23): a fronte dei doveri dei cittadini stanno doveri dell’ordinamento statuale « attinenti alla formulazione, struttura e contenuto delle norme penali ». E se i doveri del legislatore non sono adempiuti? se la traduzione legale degli obiettivi politico-criminali non è sufficiente o non è chiara? Allora (citiamo una voce del tutto estranea alle vicende italiane) « c’è da attendersi (o addirittura da esigere) che la dogmatica penalistica colmi tale ritto penale, Parte generale, Bologna, 1995, p. 95; PAGLIARO, Principi di diritto penale, Milano 1996, p. 77 s. (20) Il dibattito, com’e noto, ha un punto di riferimento fondamentale nelle dense pagine di ROXIN, Kriminalpolitik und Strafrechtssystem, Berlin 1970. (21) Cfr. VASSALLI, Politica criminale, cit., p. 1008 s. (22) Cfr. LUHMANN, Rechtsystem und Rechtsdogmatik, 1974. (23) Sentenza 23 marzo 1988 n. 364, in Foro it., 1988, I, 1385 s., con nota di FIANDACA; in questa Rivista, 1988, 686, con nota di PULITANÒ; in Cass. pen., 1988, 1152 s., con nota di GUARDATA; commentata da G. VASSALLI in G. cost., 1988, 3 s.; da STORTONI in questa Rivista, 1988, 1313 s.; da G. BETTIOL in Rass. tributaria, 1988, I, 385; da PADOVANI in L.p., 1988, 449 s.
— 17 — lacuna » (24). Il problema scottante delle « invasioni di campo » (Uebergriffe) del potere giudiziario, in aree lasciate scoperte (o mal coperte) dal potere legislativo, si rivela ineludibile per un modello teorico realistico dei rapporti fra dogmatica e politica criminale, fra legge ed applicatori della legge. La salvaguardia del principio di legalità (sotto tutti i suoi aspetti: quello della tutela dei beni giuridici al pari di quello garantista) passa dunque attraverso l’attenzione alle concrete condizioni di tenuta del principio di legalità. Vengono a tal fine in rilievo aspetti sia formali (adeguata formulazione delle fattispecie) sia contenutistici (adeguatezza alle funzioni di tutela) della produzione legislativa, nonché elementi del contesto in cui essa si colloca, fra cui in particolare la cultura giuridica. 3. Le tensioni sul processo penale. — La considerazione del diritto penale « in azione », attraverso l’opera concreta delle istituzioni a ciò preposte, ha portato in primo piano i problemi delle possibili patologie di funzionamento nella fase applicativa. È soprattutto sotto il profilo processuale che l’analisi critica di « mani pulite » (e in genere degli indirizzi di maggiore interventismo giudiziario penale) ha sollevato problemi particolarmente delicati. Prassi giudiziarie volte a ottenere il massimo di risultati, in termini di efficacia inquisitoria e di repressione dei reati, sono entrate in tensione con le garanzie dei diritti di difesa, della libertà personale, della riservatezza: al conseguimento di migliori risultati hanno fatto da pendant un più elevato livello di coercizione cautelare e un maggiore ricorso a strumenti inquisitori incidenti in sfere di libertà in via di principio inviolabili. La critica si è appuntata, in particolare, contro il massiccio ricorso a misure cautelari, invocando il dato di fatto inoppugnabile che tali misure, quali che ne siano stati i presupposti giustificativi, sono di fatto servite ad ottenere confessioni e chiamate in correità. Non sono state messe in crisi le regole di un sistema processuale che rigetta (non può non rigettare) metodi di inquisizione coercitiva? Comunque si valutino, sul piano della legittimità formale, i singoli provvedimenti e le prassi adottate dai magistrati, un riaggiustamento verso il basso dei livelli di coercizione processuale è nello spirito del giusto processo e del rispetto delle libertà individuali. È questa la direzione in cui si è mosso, con buone ragioni anche se non sempre con buone soluzioni, il legislatore nel 1995. D’altra parte, proprio l’esigenza di tener salde le garanzie di libertà, di fronte a prassi inquisitorie eccessivamente disinvolte, riapre ulteriori problemi per chi abbia a cuore l’efficacia (oltre (24) HASSEMER, Strafrechtsdogmatik und Kriminalpolitik, Reinbek bei Hamburg, 1974, p. 201.
— 18 — che la correttezza) dell’intervento giudiziario penale, ravvisando nella risposta efficace alla criminalità una finalità propria anche del processo penale. Quest’ultima affermazione non è scontata. La finalità del processo penale, si sente dire, è di accertare la fondatezza o meno delle singole accuse; il processo è un luogo di garanzia dei diritti individuali, non uno strumento di lotta (25). Siamo senz’altro d’accordo, se si pensa alla finalità e alla struttura di ciascun singolo processo; ed è ben comprensibile che questa prospettiva garantista sia enfatizzata dalle organizzazioni degli avvocati, con l’unilateralità propria di chi legittimamente rappresenta una fra le parti del conflitto. Ma il garantismo liberale — la tutela dell’individuo di fronte all’autorità — non esaurisce affatto le finalità dell’istituzione « giustizia penale »: non nei modelli teorici del sistema penale, se prendiamo sul serio la funzione di prevenzione e repressione dei reati, e non nel sistema costituzionale, nel quale il principio di obbligatorietà dell’azione penale orienta verso il finalismo repressivo anche la macchina giudiziaria, complessivamente considerata (26). Che cosa diremmo di un sistema processuale che, funzionando nell’ineccepibile rispetto delle garanzie formali, lasci impunita la maggior parte dei delitti più gravi? La polarità fra garanzie individuali e funzionalità repressiva percorre l’intero sistema penale: non solo il diritto sostanziale, ma anche la sua attuazione in sede processuale. Il problema fattuale della « produttività » del sistema processuale, in termini di accertamento dei reati e di affermazioni di responsabilità degli autori di reati, non può perciò essere considerato secondario, ma concorre a definire, insieme alla qualità delle garanzie, il reale contributo del processo penale alla « tenuta » della legalità. Di più: un sistema processuale fondato sul principio di obbligatorietà dell’azione penale (principio di rango costituzionale, ben giustificato da ovvie esigenze di accertamento e repressione dei reati) dà per scontato il pagamento di un alto prezzo in termini di coinvolgimenti personali e di effetti negativi del procedere della macchina giudiziaria. L’« amara necessità » (27) del diritto penale si traduce, nel processo penale, nell’ancor più amara necessità di coinvolgere persone per le quali vale la presunzione di non colpevolezza, e di interferire anche nella sfera di soggetti « terzi », (25) Cfr. per es., la relazione del Presidente dell’Unione delle Camere penali, Gaetano Pecorella, al Congresso nazionale del 25-27 ottobre 1996, in Guida al diritto de Il Sole 24 Ore, n. 44 del 9 novembre 1996, p. 121. (26) La giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di procedura penale ha sempre considerato l’esigenza di prevenire e reprimere i reati come un bene oggetto di protezione costituzionale. Lo stesso principio di legalità « rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale »; la legalità nel procedere ne sarebbe il necessario strumento di concretizzazione (sentenza n. 88 del 1991). (27) La definizione è tratta dalla relazione all’Alternativ-Entwurf eines Strafgesetzbuches, Tubingen, 1966.
— 19 — svolgendo indagini su « notizie di reato » che potrebbero rivelarsi infondate. I risultati sono, per definizione, incerti; i costi del processo, una certezza. Ridurre al minimo questo non azzerabile prezzo è un problema dalla cui soluzione dipende largamente il significato sociale e politico del funzionamento della macchina processuale penale. Ritornando all’esperienza di « mani pulite »: se davvero, per squarciare il velo su tangentopoli, è stato necessario fare ricorso a prassi inquisitorie di accentuato carattere autoritario — ai confini e forse talora al di là dei confini della legalità processuale — allora l’esigenza di ridurre il tasso di autoritarismo processuale (che pure non necessariamente significa illegalismo) non può essere disgiunta dalla preoccupazione di salvaguardare altrimenti (e, se possibile, di potenziare) il livello di efficacia che le inchieste giudiziarie degli anni ’90 hanno saputo raggiungere. Di fronte a questo tipo di problemi non servono le facili formule consolatorie sulla necessità di contemperare l’efficacia strumentale e i limiti garantisti dell’intervento giudiziario: l’esperienza ha mostrato che il raggiungimento di risultati significativi, in termini di accertamento e di repressione di gravi reati, ha comportato un alto costo sul versante delle garanzie. L’esperienza conferma, in modo spesso drammatico, che garantismo liberale e funzionalità repressiva sono strutturalmente in equilibrio precario. È una constatazione inquietante, che solleva problemi tanto difficili quanto ineludibili. Sostituire un mero revival « garantista » (anche il meglio intenzionato) agli entusiasmi giustizialisti non è una risposta sufficiente, se non vogliamo rassegnarci ad una situazione in cui il rispetto formale di principi garantisti si combini con l’incapacità della giustizia penale di funzionare in modo adeguato ai suoi obiettivi di accertamento e di repressione dei reati. Come già di fronte al terrorismo, così di fronte alla mafia o a tangentopoli la difesa della democrazia liberale si è rivelata passare anche attraverso il rigoroso (troppo rigoroso?) funzionamento della giustizia penale. Se non riesce a cogliere — e avviare a soluzione — questi problemi, il garantismo liberale della dottrina rischia di diventare un liberalismo dimezzato, che finisce per dimenticare il significato « ordinante » dei principi dello stato di diritto, e in particolare del sistema penale. Per converso, sarebbe una concezione dimezzata della difesa della società e dello stato quella che, in nome della bontà del fine, santificasse i mezzi quali che siano (28). Anche la difesa delle garanzie per l’individuo, (28) Sul caso limite dell’uso — ovviamente inaccettabile — della violenza fisica come strumento di inquisizione, cfr. Trib. Padova 15 luglio 1983, in Foro it., 1984, II, p. 233 s., con nota di PULITANÒ.
— 20 — inscindibile da un’effettiva difesa delle libertà individuali, fa parte dei fini che lo stato di diritto ha da perseguire. L’esperienza giudiziaria di questi anni, con la sua combinazione di successi ed eccessi, ha così portato impietosamente allo scoperto un nodo irrisolto, posto nel cuore della tensione immanente ai principi dell’ordinamento liberale. È difficile, e non può mai ritenersi assicurato una volta per tutte, l’equilibrio sul crinale che separa la burocratica inefficienza dalla tentazione di forzare le regole in vista dei possibili risultati. O forse dobbiamo ammettere che più equilibri sono possibili; che sia le scelte del legislatore che le prassi applicative (là dove sia in gioco l’esercizio di poteri discrezionali) debbono potersi legittimamente muovere entro una fascia di possibilità — ferma ovviamente l’esigenza di rispetto intransigente dei diritti « inviolabili » — privilegiando ora il polo dell’efficienza inquisitoria, ora l’attenzione agli interessi coinvolti dall’inquisizione processuale. Appunto questo è storicamente avvenuto, con un pendolarismo della legislazione e delle prassi processuali che, spesso criticato e criticabile, riflette comunque l’esigenza di contemperare interessi in potenziale conflitto, anche con soluzioni diversificate e variabili entro bande di ragionevole oscillazione. III. SU ALCUNE PROPOSTE PER L’« USCITA DA TANGENTOPOLI ». 1. Uscire da Tangentopoli o da Mani pulite? — Come « uscire da Tangentopoli »? L’interrogativo, insistentemente ripetuto, si intreccia con quello come uscire dalla stagione calda dei processi. Molte proposte sono state formulate; e fra di esse particolare attenzione critica ha suscitato la proposta del « gruppo di Milano » del settembre 1994 (29). A due anni di distanza è tempo per un riesame, alla luce dei fatti avvenuti e delle vivaci discussioni (30) che la proposta ha suscitato. A scanso di fraintendimenti, e per segnare i limiti della discussione, sia consentito innanzi tutto osservare che la proposta del gruppo di Milano non ha inteso essere una risposta a « tangentopoli » quale emergenza politica. Se altri la ha caricata di una tale valenza, ciò non corrisponde alle soggettive intenzioni dei proponenti, e men che meno al contenuto effettivo della proposta. (29) Cfr. nota 3. (30) Oltre ai già citati (o che saranno citati) interventi di FORTI, GROSSO, PADOVANI, PAGLIARO, cfr. AA.VV., Revisione e riformulazione delle norme in tema di corruzione e concussione, Atti del convegno tenuto a Bari, 21-22 aprile 1995. La proposta e il dibattito che ne è seguito hanno avuto eco anche all’estero. Cfr. HEIN, Italienische Reformbestrebungen bei den Bestechungsdelikten, in ZStW, 1995, p. 429 s.
— 21 — L’obiettivo dichiarato della proposta — presentata come un contributo parziale e problematico (31), ovviamente aperto alla discussione — è tutto interno al sistema penale: contribuire al rafforzamento dell’efficacia generalpreventiva delle norme penali di fronte al fenomeno delle « tangenti ». Senza la pretesa di aver trovato ricette miracolose, senza sopravvalutare il ruolo specifico del diritto penale, e con la consapevolezza che il terreno della prevenzione generale è sempre esposto alla dura verifica dell’esperienza, si è ritenuto di poter individuare alcune possibili linee, delle quali le principali possono essere così schematizzate: a) unificazione ed allargamento delle fattispecie di corruzione, ed abolizione della fattispecie della concussione; b) inasprimento del sistema sanzionatorio; c) previsione di una causa speciale di non punibilità per chi, entro un certo termine, tenga determinati comportamenti riparatori e di collaborazione processuale. La proposta conteneva, inoltre, disposizioni transitorie: non punibilità per chi avesse tenuto i comportamenti di collaborazione processuale e di riparazione del danno entro un certo termine dall’ipotetica entrata in vigore della legge. Sarebbe stata questa, malgrado ed anzi a cagione della sua portata « transitoria », la novità più dirompente, perché intesa e (verosimilmente) idonea a esplicare un’efficacia immediata, favorendo — ancora con l’adozione della tecnica « premiale » — l’emersione in misura più larga di fatti commessi in passato: un possibile strumento di accelerazione e completamento del ciclo di « mani pulite ». Ciò sulla valutazione che solo un’emersione ampia del sistema « tangentopoli », nella debita sede giudiziaria, potrebbe dare affidamento a che le radici di quel sistema siano davvero estirpate. Proposte del genere erano state avanzate dai magistrati della Procura di Milano fin dalla prima fase di « mani pulite » (32). Ma sempre si sono scontrate con resistenze fortissime, dagli uni perché sospettate di attuare il paventato « colpo di spugna », dagli altri perché bollate come inaccettabile invito alla delazione. Possiamo dire, con Grosso (33), che si sarebbe trattato di un colpo di spugna « ragionevole », perché « subordinato alla restituzione del maltolto e alla ineleggibilità e decadenza dalle cariche pubbliche »; la non punibilità non avrebbe eliminato, anzi avrebbe indotto una pubblica assunzione (31) E sotto qualche aspetto provocatorio, anche per reazione al montante clima di rivincita contro « mani pulite », bene esemplificato dal « decreto Biondi » sulla custodia cautelare, presentato e poi ritirato nel luglio 1984. (32) Cfr. per es. l’intervento di Di Pietro pubblicato su Panorama del 15 novembre 1992. (33) Op. cit., p. 1346.
— 22 — di responsabilità. Una soluzione giudiziaria, dunque, tutt’altro che indolore, e proprio per questo — è ragionevole ritenere — così fortemente avversata da ambienti che teoricamente se ne sarebbero potuti giovare. Certo è che, con il passare degli anni e con il procedere delle indagini, proposte di questo genere si logorano. Circola invece con insistenza l’idea di un’amnistia: etichettata come « uscita da Tangentopoli », ma in realtà voluta come uscita da mani pulite: come esonero dal controllo di legalità e dall’applicazione del principio di responsabilità. Come soluzione dichiaratamente politica, in chiave di rottura del principio di legalità, la proposta d’amnistia solleva questioni politiche che oltrepassano l’orizzonte penalistico, ma ricomprendono innanzi tutto questioni di politica del diritto penale, su cui il giurista non può non esprimere, oggi, fortissime preoccupazioni. Le ragioni politiche che oggi, a mio fermo avviso, si oppongono all’amnistia per tangentopoli sono le medesime che negli anni di piombo del terrorismo sorreggevano la scelta pur dolorosa (il ricatto brigatista metteva in gioco vite umane) della « linea della fermezza »: la valutazione di priorità della salvaguardia del principio di legalità come garanzia generale non transigibile dei rapporti istituzionali e sociali, e dei diritti di tutti. In una situazione in cui il sistema del malaffare è ancora vivo ed attivo (come alcune indagini dell’autunno 1996 hanno confermato), il colpo di spugna indiscriminato avrebbe prevedibilmente effetti dirompenti sulla tenuta delle condizioni d’osservanza della legge. Il significato della legalità, e del principio di responsabilità che ne è corollario, ne risulterebbe svilito agli occhi della gente; quale migliore incoraggiamento per gli illegalismi grandi e piccoli che pesano sulla vita civile del nostro paese? Un ponte ideale sarebbe gettato fra la tangentopoli di ieri e quella (temiamo) di domani (34). La motivazione di politica del diritto penale, su cui oggi poggia la ripulsa di un’eccezionale clemenza, addita nel contempo le condizioni che potrebbero rendere forse non impraticabile quella prospettiva, qualora forti ragioni politiche, esterne all’orizzonte del sistema penale, la sostenessero. L’eccezionale sospensione del law enforcement potrebbe essere in tal caso accettata, a condizione che non ne fossero intaccate le condizioni d’osservanza della legge, prima fra tutte la fiducia nelle istituzioni dello stato di diritto. Al termine di un cammino prevedibilmente lungo ed aspro di ricostruzione dello stato di diritto — di una Pubblica Amministrazione efficiente, di un rinnovato patto fondativo del confronto politico, di un rigoroso sistema di controlli — soltanto a quel punto anche l’idea della cle(34) FORTI, Unicità, cit., parla di irresponsabilità di proposte che trasmettono un messaggio di disimpegno e di opacizzazione dello specifico disvalore penale della corruzione.
— 23 — menza come pacificazione, rispetto a fenomeni illegali di massa di un periodo ormai superato, potrebbe diventare un legittimo tema di discussione. Sarebbe uno scenario auspicabile; oggi ne siamo assai lontani. Fino a che le radici di tangentopoli non siano distrutte, uscire da « mani pulite » (dal controllo giudiziario di legalità) significherebbe una secca sconfitta ed un grave pericolo per lo stato di diritto. 2. Quale riformulazione delle fattispecie di corruzione? — Per quanto concerne le fattispecie delittuose, la proposta del gruppo di Milano si caratterizza per una drastica semplificazione della normativa vigente: si suggerisce di unificare in un’unica disposizione ipotesi tradizionalmente suddivise (nell’ordinamento italiano) nelle diverse figure di corruzione e nella fattispecie di concussione. La nuova fattispecie è inoltre allargata ai casi in cui la dazione o promessa, pur senza porsi in relazione con un atto d’ufficio specificamente individuato, sia comunque in relazione alla qualità, alle funzioni o all’attività del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Gli obiettivi che la soluzione proposta si prefigge possono essere così riassunti: — L’unificazione delle fattispecie di corruzione mira ad alleggerire la prassi dai problemi probatori e di interpretazione posti dalle attuali differenziazioni normative. — L’eliminazione della fattispecie di concussione ridefinisce la posizione del privato che (fuori dei casi di autentica violenza o minaccia, qualificabili come estorsione) abbia accettato di pagare « mazzette ». — La nuova descrizione della fattispecie intende ricondurre in modo inequivoco nell’area del divieto un tipo di situazioni che l’esperienza ha mostrato far parte della fenomenologia di tangentopoli: situazioni in cui, pur non potendosi ricollegare la dazione o promessa ad un atto ben individuato, la dazione o promessa non possa avere altro significato se non corruttivo, di « acquisto » del favore del pubblico ufficiale. Su tutti i punti le obiezioni non sono mancate. 2.1. Nell’unificazione delle figure di corruzione, e nella maggiore estensione della fattispecie, è stata ravvisata non solo un’equiparazione ingiustificata di fatti di diversa gravità, ma anche « l’effetto di produrre mutazioni non sufficientemente ponderate del bene tutelato » ed addirittura un pericoloso scivolamento verso la punizione di un « tipo d’autore » (35). È agevole replicare che un disancoraggio dal diritto penale del fatto non è da temere nella parte in cui la nuova fattispecie non fa che recepire, unificandoli, contenuti che già si ritrovano in quelle che si propone di uni(35) ARDIZZONE, La proposta di semplificazione in tema di corruzione ed i rischi di erosione della concezione del diritto penale del fatto, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, p. 1 s.
— 24 — ficare, e la cui aderenza ai principi del diritto penale del fatto non è in discussione. Per quanto concerne l’allargamento della fattispecie a dazioni o promesse « in relazione alla qualità o all’attività », il discorso è più delicato: non nel senso che venga meno un « fatto » cui riferire il divieto e la pena, ma nel senso che la formula testuale proposta, se interpretata in modo da ricomprendere qualsiasi dazione non strettamente doverosa ad un pubblico ufficiale, potrebbe prestarsi a ricomprendere fatti nei quali un significato illecito non sia ravvisabile (per es., regali conformi a consuetudine, di modico valore). D’altra parte, lo svincolo della fattispecie di corruzione dal riferimento puntuale ad un atto d’ufficio è suggerito dall’esperienza di tangentopoli, e dall’esigenza di non lasciare incertezze (36) sull’illiceità penale di fatti obiettivamente e soggettivamente facenti parte del sistema dello scambio corruttivo (per es., pagamenti « forfettizzati » o messa del pubblico ufficiale « a libro paga »). Se si condivide questa esigenza, allora il problema è di adeguata formulazione tecnica, e poi di razionale interpretazione della nuova più ampia fattispecie, sì da evitare slabbramenti applicativi. Quanto al principio d’uguaglianza, la proposta in esame poggia sulla valutazione (discutibile, certo, ma ragionevole) che tutte le ipotesi considerate presentano — al di là delle innegabili diversità — un tratto fondamentale comune, cioè la strumentalizzazione del ruolo pubblico per l’ottenimento di compensi indebiti. Nei casi in cui venga venduto un esercizio illegittimo di poteri, è colpita più gravemente la legalità istituzionale; in altri casi un esercizio anche conforme al dovere viene fatto indebitamente pagare al privato. Per l’una o l’altra di tali ragioni, in tutti i casi possono ragionevolmente ravvisarsi modalità di attentato ugualmente gravi (tali cioè da consentir di adottare una cornice sanzionatoria unitaria) ai principi che regolano il funzionamento delle istituzioni in uno stato di diritto. La diversa gravità dei casi concreti sarà poi valutata dal giudice in sede di commisurazione della pena. Ovviamente, sono legittime e possono essere non irragionevolmente sostenibili soluzioni diverse, che mantengano rilievo a talune differenziazioni interne. Ma se si vuole evitare di appesantire inutilmente la giustizia penale, meglio adoperare il rasoio di Occam: fattispecie legali (di qualsiasi natura) non sunt multiplicanda sine necessitate. 2.2. Quanto alla soppressione della fattispecie di concussione, le critiche vi hanno ravvisato un ingiustificato aggravamento della posizione del privato di fronte all’amministratore prevaricatore, ribadendo la vali(36) La giurisprudenza è in proposito oscillante. Per un recente riesame della questione, cfr. Cass. 30 novembre 1995, in Foro it., 1996, II, p. 414 s., con nota di GROSSO.
— 25 — dità della distinzione concettuale fra corruzione e concussione (qualcuno parla di differenza « ontologica »), e riprendendo proposte che vorrebbero riportare nell’ambito della concussione le ipotesi di c.d. « dazione ambientale » (37). Anche su questo punto, ritengo che il giurista attento al mondo dei fatti debba guardarsi dalle sirene di una geometria concettuale che non trova riscontro nella realtà. Davvero sempre chiara e praticabile la distinzione fra rapporti paritari, di tipo genuinamente negoziale, e rapporti segnati dal metus verso l’autorità pubblica? Davvero abbiamo sbagliato, nel formulare la proposta, a cogliere nelle incertezze della prassi una spia significativa della labilità dei tradizionali criteri di differenziazione? Si ricordi che, fra i capi d’accusa contro « mani pulite », è stato prospettato anche quello di indebite dilatazioni applicative della fattispecie di concussione, in difformità da criteri dottrinali ritenuti più corretti. Quale che sia l’interpretazione preferibile del diritto vigente, proprio le tensioni (o forzature) applicative ravvisate nella prassi giudiziaria offrono argomento a sostegno dell’esigenza (quanto meno) di un chiarimento legislativo, eliminando l’ambigua figura della concussione per induzione. La proposta del « gruppo di Milano » in punto di concussione è stata giudicata da un attento e rigoroso commentatore (38) come una « scelta politico-criminale possibile ». Vediamo allora quali ragioni di politica criminale possano far preferire tale soluzione rispetto ad altre, e in particolare rispetto a quella dell’ordinamento vigente. La proposta, in realtà, è meno radicale di quanto a prima vista non appaia. Si propone di abolire il vigente art. 317 cod. pen., non già di negare rilievo alla differenza fra scambio corruttivo e sopraffazione da parte del pubblico ufficiale: solo che i confini fra le due situazioni non sono affatto stati segnati « ontologicamente » dal codice Rocco, né ben definiti dai suoi applicatori. L’ambito assegnato alla concussione è troppo ampio; troppo ampio, di conseguenza, l’ambito di irresponsabilità del privato che abbia accettato di effettuare prestazioni indebite. Il risultato normativo della proposta è appunto di ampliare l’ambito di responsabilità di chi paghi « mazzette », escludendone la responsabilità nei soli casi in cui egli sia stato vittima di una vera e propria estorsione, cioè di violenza o minacce commesse mediante abuso della qualità o dei poteri. Alla base di questa opzione (così la relazione illustrativa) vi è una concezione della cosa pubblica improntata ad un coerente rigore nell’affermare il principio di piena soggezione alla legge: una soggezione cui cia(37) PAGLIARO, Per una modifica delle norme in tema di corruzione e concussione, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, p. 55 s. (38) GROSSO, op. cit., p. 2342.
— 26 — scun cittadino ha il fondato diritto, ma anche il preciso dovere di indirizzare le proprie aspettative, facendone un saldo punto di riferimento nella scelta della condotta da tenere verso la pubblica amministrazione. Non ci si nasconde, certo, i possibili costi d’una maggior responsabilizzazione dei privati, in situazioni in cui il pubblico ufficiale può comunque avvalersi dei suoi poteri per mettere l’interlocutore in difficoltà. Ma l’esperienza ha mostrato che è possibile — per il privato che non scelga di stare al gioco — sollecitare l’intervento della giustizia; appunto di questo tipo è stato l’esordio di « mani pulite », nel febbraio 1992, con la vicenda del Pio Albergo Trivulzio. Preferiamo la morale lassista che induce a scusare le dazioni illecite, quando avvengano in contesti ambientali corrotti? Il realismo apparente di questa soluzione è quello che lascia le cose come sono, rassegnato alla crescita delle tangentopoli di ieri e di domani. Nell’ambito delle proposte relative alle fattispecie delittuose si inserisce infine la modifica dell’art. 346 cod. pen., tendente ad equiparare al trattamento del corruttore il trattamento di chi riceva fondi vantando (veridicamente o falsamente non fa differenza: la sostanza dell’illecito consiste nell’approfittare del « vantato credito ») di poter influire sull’attività di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio. Anche questa proposta nasce dall’esperienza di « mani pulite », e apre un capitolo ancora da esplorare: quello delle modalità di elusione sostanziale del divieto di corruzione, mediante forme di scambio illecito che non vedono in diretto rapporto il privato e il pubblico ufficiale, ma che mirano comunque a ottenere i medesimi risultati: da un lato l’illecita remunerazione e dall’altro un favore indebito. 3. Inasprimento delle sanzioni? — La proposta del « gruppo di Milano » ha previsto, per la nuova fattispecie unificata di corruzione, una pena assai elevata, sia nel minimo che nel massimo edittale. In tal modo si è voluta rendere visibile una valutazione di particolare gravità della corruzione, in tutte le sue forme. Pur nella consapevolezza che la minaccia legale di pena, di per sé sola, non è sufficiente ad assicurare una concreta efficacia deterrente, si è ritenuto che un maggior rigore possa contribuire a rafforzare la percezione di legittimità del sistema punitivo da parte dei cittadini, ricollocando la corruzione, entro la scala di gravità di reati e delle pene, ad un livello corrispondente all’importanza degli interessi in gioco (39). L’inasprimento sanzionatorio proposto, rispetto al sistema vigente, è (39) Limiti edittali diversi sono stati proposti per il corrotto e il corruttore. Anche questa soluzione è stata criticata, in quanto prevede pene edittali diverse per persone che concorrono nel medesimo fatto materiale. Non si tratta di una scelta caratterizzante, e non poggia su ragioni « di principio »; sul piano della politica del diritto (e di fronte al principio
— 27 — notevole, al limite della (voluta) provocazione, ed ha suscitato vivaci critiche. Lo spirito della proposta va ricercato, più che nella concreta misura degli aumenti di pena, nell’indicazione di principio per una netta ricollocazione « verso l’alto » della corruzione nella scala di gravità dei reati, avuto riguardo all’importanza degli interessi in gioco e alla gravità del fenomeno. Quanto alla misura concreta delle pene, l’invito a ricollocare la corruzione nella fascia alta dei delitti di maggiore gravità è stato espresso nel linguaggio draconiano cui purtroppo costringe la struttura complessiva dell’attuale sistema sanzionatorio. Certo sarebbe preferibile ripensare il sistema, assicurando non solo il riequilibrio fra il trattamento dei diversi reati, ma anche una maggiore effettività e una maggior ragionevolezza dei livelli delle pene edittali (40). Ulteriore, delicato problema è quello del trattamento dei fatti di minore entità. Nella proposta ci si è affidati all’attenuante già prevista dal codice per i delitti dei pubblici ufficiali in genere, ampliando fino alla metà la possibile riduzione di pena. È legittimo andare alla ricerca di soluzioni tecniche diverse: il problema è di riuscire a tipicizzare la fascia di fatti di lieve entità, o addirittura bagatellari, in modo chiaro ed adeguato alle esigenze della prassi (41). d’uguaglianza) mi pare difendibile considerando che con la previsione di pene diverse si vuol « sottolineare il particolare dovere di fedeltà che contrassegna la posizione di chi svolge funzioni pubbliche, e la cui violazione rende più grave, in via di principio, il delitto di quest’ultimo ». Gli spazi di discrezionalità giudiziale potranno in ogni caso consentire un adeguamento delle pene in concreto alla diversa gravità delle singole posizioni nei singoli casi. (40) Il disegno di legge n. 1043 prevede inoltre che la pena sia aumentata nel caso di corruzione per atto contrario al dovere d’ufficio. Nel disegno di legge n. 1043, presentato al Senato il 21 ottobre 1994 da Salvi ed altri, e nella proposta di legge n. 1239, presentata alla Camera dei deputati il 16 settembre 1994 da Ayala ed altri, largamente modellati sulla proposta del gruppo di Milano, la strada degli inasprimenti di pena è stata seguita, ma con aumenti più contenuti (si propone una pena da tre ad otto anni). È una soluzione che potrebbe rappresentare, allo stato, un buon punto d’equilibrio. (41) Al capitolo delle sanzioni attiene anche la previsione della confisca, a carico del corrotto, di una somma pari all’ammontare della « tangente », nonché l’obbligo del corruttore di pagare alla Pubblica Amministrazione una somma pari alla tangente, a titolo di riparazione pecuniaria, impregiudicato il diritto al risarcimento dei danni. In quest’ultima clausola è stata ravvisata una ingiustificata duplicazione di sanzioni, che non era nell’intenzione degli autori della proposta: l’idea è di assicurare una sorta di riparazione forfettaria, per la quale la tangente pagata offre una non irragionevole misura, fermo il diritto dell’amministrazione danneggiata ad un risarcimento maggiore. Il tema delle misure patrimoniali evoca quello della responsabilità delle persone giuridiche, nel cui interesse sia stato commesso il reato. La proposta del gruppo di Milano si è fermata alla previsione di una responsabilità civile solidale per il pagamento della riparazione pecuniaria. Spingersi oltre, verso una esplicita responsabilità penale delle persone giuridiche, è un passo oggi all’ordine del giorno, che dovrebbe trovare collocazione nell’ambito d’una più ampia riforma.
— 28 — 4. Una causa di non punibilità per la corruzione? — Il punto su cui si è più concentrata la discussione è la proposta di introdurre una causa speciale di non punibilità per chi, dopo aver commesso un fatto di corruzione, prima che la notizia di reato sia stata iscritta nel registro generale a suo carico, e comunque entro tre mesi dalla sua commissione, spontaneamente lo denunci, fornendo indicazioni utili per l’individuazione degli altri responsabili (ed inoltre versi o renda comunque irrevocabilmente disponibile all’autorità giudiziaria una somma pari a quanto dato o ricevuto). 4.1. Di fronte ad una proposta che avrebbe potuto essere considerata di limitata portata — ed ovviamente discutibile, come qualsiasi proposta di politica del diritto — è stato opposto un fuoco di fila di argomenti di principio, tendenti a negare non solo l’opportunità, ma la stessa legittimità della causa di non punibilità prospettata. Una reazione di estrema durezza (42), che merita essa stessa di divenire oggetto di riflessione: tanto più che l’ammissibilità di principio di cause di non punibilità non risulta fosse mai stata messa in discussione. Per una legittima configurazione di cause di non punibilità è necessario, e sufficiente, che « siano il frutto di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco » (43), così da giustificare la differenziazione di trattamento rispetto alla regola generale che al reato fa seguire la pena. Quanto alla dottrina, nel contesto delle discussioni degli anni ’80 (42) Nel fuoco della polemica sono stati introdotti argomenti talora francamente sconcertanti, come quello della supposta violazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale. È agevole replicare che le cause di non punibilità, comunque etichettate, sono istituti di diritto penale sostanziale, la cui applicazione avviene in sede processuale secondo le regole generali e su iniziativa del P.M., non diversamente da quanto avviene per tutti gli altri istituti sostanziali dei quali il giudice fa applicazione nel pronunciare sentenza. L’obbligatorietà dell’azione penale non è affatto in gioco. La Corte Costituzionale ha già avuto occasione di affermare che il principio di obbligatorietà dell’azione penale, relativo al processo penale, non è pertinente alla problematica delle cause di non punibilità: sentenza n. 148 del 1983. Pretestuoso mi sembra anche l’argomento di chi ha parlato di rinuncia alla finalità rieducativa della pena (cfr. l’intervista al Presidente dell’Unione delle camere penali, Gaetano Pecorella, sul Corriere della sera del 14 settembre 1994), addirittura capovolgendo il significato del principio, la cui funzione è di limitare l’intervento penale, opponendosi a pene che siano incompatibili con la finalità rieducativa. Francamente non ci si sarebbe aspettati di dover leggere siffatte prese di posizione contro l’introduzione di una causa di non punibilità — cioé di un istituto che amplia le possibilità di difesa, in senso sostanziale, per l’individuo che abbia commesso un fatto illecito e tempestivamente voglia porvi rimedio — anche in documenti che vorrebbero rappresentare il punto di vista della classe forense. Prendere in seria considerazione l’introduzione di una nuova possibilità di difesa sarebbe stato più in linea con lo spirito di una professione « liberale », legata ai valori liberali della difesa dell’individuo di fronte alla potestà punitiva dello Stato. (43) Corte cost. n. 148 del 1983, in Foro it., 1983, I, con note di PULITANÒ e GIRONI.
— 29 — sulla normativa « premiale » uno dei più acuti avversari di tale normativa ha evidenziato la possibile sussistenza di ragioni che consentono e suggeriscono, in certi casi e modi e limiti, di « adattare la tutela al comportamento successivo al reato, stimolando la reintegrazione di un interesse non ancora irrimediabilmente offeso » con la previsione di un trattamento di favore, spinto fino alla non punibilità (44). La configurabilità di cause di non punibilità incentrate sulla « regressione » dell’offesa incontra peraltro dei limiti. Innanzi tutto soglie temporali, le quali assicurino una reintegrazione « utile » (perché tempestiva) dell’interesse offeso dal reato, e che possa « riconnettersi alla minaccia iniziale, ed apparire quindi come osservanza, sia pur tardiva, di quello stesso precetto che è stato violato » (45). A queste condizioni « risulta effettivamente salvaguardata l’esigenza di prevenzione generale », e « l’applicazione della disposizione premiale può ribadire l’efficacia del precetto e convalidarne ‘‘esemplarmente’’ il significato ». Viene dunque riconosciuta, anche da avversari del « premio » per la collaborazione processuale, l’ammissibilità e utilità di cause di non punibilità che siano strutturate in modo coerente con la funzione di tutela degli interessi offesi dal reato. In questo schema, la causa di non punibilità proposta dal gruppo di Milano trova coerente giustificazione (46). Il fine primario della promessa d’impunità per chi tenga certe con(44) PADOVANI, Il traffico delle indulgenze, in questa Rivista, 1986, p. 407 s. « Se in questo modo — argomenta Padovani — può forse indebolirsi la deterrenza originaria, giacché l’agente sa preventivamente che avrà comunque a disposizione un mezzo di salvataggio in extremis, si rafforza tuttavia l’aspetto della prevenzione connesso alla tutela di beni giuridici: la violazione del comando originario non è — giustamente — assunta in una mera dimensione etico-politica (come rottura di un vinculum subjectionis), ma riguardata nella sua proiezione politico-sociale (come rottura di un equilibrio suscettibile di essere reintegrato). « In definitiva — prosegue Padovani — la legge prende in questi casi atto che la minaccia legale ha, sia pur tardivamente, raggiunto il proprio scopo originario, rendendo inutile una condanna (o una condanna nella misura inizialmente prospettabile, in caso di attenuanti). Sul piano dell’esemplarità, infatti, l’applicazione della disposizione « premiale », non che dimostrare la ‘‘debolezza’’ della legge, ne ribadisce l’efficacia, perché la sola prospettiva della condanna è obiettivamente risultata sufficiente per indurre il reo a ripercorrere a ritroso l’ iter criminis compiuto. E tale percorso esprime inoltre per tabulas la convalida dell’interesse offeso nei confronti dei consociati, perché proprio colui che l’ha offeso si piega alla necessità di garantirlo. Sul piano dell’orientamento culturale è forse più significativa la non punibilità o la minore punizione seguita alla ritrattazione di una falsa testimonianza o alla costituzione in carcere dell’evaso, il recesso dall’accordo o dall’associazione, e così via dicendo, che non la condanna per i corrispondenti reati ». (45) PADOVANI, op. cit. (46) La previsione della causa di non punibilità è stata recepita nella già citata proposta di legge n. 1239 di Ayala ed altri. Altre proposte di legge, che pure hanno recepito largamente i contenuti della proposta del gruppo di Milano, su questo punto se ne sono discostate.
— 30 — dotte è di prevenire, per il futuro, l’ingresso in patti corruttivi; e viene perseguito introducendo un fattore di insicurezza: a seguito della previsione di una causa di non punibilità per chi denunci il fatto, nessuna delle parti dello scambio corruttivo potrà più fare affidamento certo su un comune interesse a tacere (47). Le strette soglie temporali, entro cui deve essere tenuta la condotta « premiata », mirano ad assicurare che la previsione d’una possibile impunità non indebolisca l’efficacia deterrente della norma penale, e che il comportamento « riparatore » intervenga prima del consolidarsi degli effetti del reato (48). 4.2. Un critico severo, ma attento ed equilibrato (49), ha dato atto che nella proposta in esame « la non punibilità del collaboratore è stata in ogni caso circoscritta entro limiti abbastanza contenuti », e che « i compilatori del progetto si sono preoccupati di cercare di contenere in qualche modo i rischi che la promessa impunità potesse trasformarsi in maniera incondizionata in un’arma di ricatto ». Si sostiene, peraltro, che la delimitazione temporale della causa di non punibilità non basterebbe ad eliminare il rischio che, nei tre mesi dal fatto, la disposizione proposta non fornisca al corrotto ed al corruttore « una temibile arma di pressione nei confronti del correo perché questi si apra ad ulteriori concessioni sul terreno della realizzazione di atti pubblici o del pagamento di tangenti »; un’arma « utilizzabile potenzialmente in modo ripetuto nel tempo, attesoché la non punibilità opera qualunque sia il numero delle corruzioni realizzate » (50). Obiezioni di questo genere ci riportano sul terreno proprio di una riflessione di politica del diritto: quello delle valutazioni prognostiche dei possibili effetti, positivi e negativi, voluti o indesiderati, delle scelte legi(47) Analoghe proposte erano state presentate nelle precedenti legislature da parlamentari delle principali forze politiche: cfr. in particolare la proposta di legge Azzaro ed altri, n. 1780, presentata alla Camera dei Deputati il 31 maggio 1984. (48) Come presupposti della non punibilità, accanto alla collaborazione utile è stato inoltre previsto, per quanto concerne il corrotto, il sacrificio del profitto patrimoniale conseguito attraverso il reato, ovvero, per la parte in cui la somma sia stata utilizzata nell’interesse di altri o versata ad altri, sia indicazioni che consentano di individuare l’effettivo beneficiario. Anche da parte del corruttore si esige la dazione di una somma pari all’ammontare della tangente. Nella proposta di legge Ayala, l’unica che ha recepito la causa di non punibilità, è stata eliminata (senza darne motivazione) la condizione relativa al corruttore. Tale soluzione mi sembra migliorativa, sulla premessa che — per rimediare agli eventuali effetti della corruzione e sottrarre al corruttore il profitto conseguito o atteso — i rimedi di diritto amministrativo siano non solo sufficienti, ma anche i più idonei. Si consideri, in proposito, che la causa di non punibilità, che presuppone una tempestiva denuncia del fatto all’autorità, interviene quando probabilmente gli effetti della corruzione non sono ancora consolidati, ed è sul piano amministrativo che occorre bloccarli. (49) GROSSO, op. cit., p. 2345. (50) GROSSO, loco cit.
— 31 — slative. Su questo terreno, aperto per definizione alle verifiche ed alle smentite dell’esperienza, nessuno può spendere certezze, e tutti hanno l’onere di argomentare perché, e a quali condizioni, prevedano il verificarsi di certi effetti e non altri. A me pare che lo scenario di ricatti ripetuti nel tempo sia poco realistico: chi abbia partecipato ad un qualsiasi fatto di corruzione non è più in condizioni di ricattare gli altri, non appena sia decorso lo stretto termine per confessare e guadagnarsi l’impunità. In ogni caso, di fronte all’eventuale ricatto la disposizione prospettata offre una sicura via d’uscita: prevenire il ricattatore nell’avvalersi della causa di non punibilità. Un’ulteriore obiezione attiene al modo in cui è stato delimitato il termine utile per confessare. Secondo la proposta in esame, la confessione del fatto deve essere anteriore all’iscrizione della notizia di reato a carico dell’autore; si è obiettato che ciò non proteggerebbe adeguatamente « contro il pericolo che un imputato, interrogato, o trovandosi in stato di custodia cautelare per altra ragione, possa essere indotto correttamente a collaborare forzato dalla situazione in cui versa ». Alla luce dell’esperienza di Tangentopoli, sarebbe prevedibile che « la disciplina proposta nel progetto o concretamente servirà a poco, o rischierà di essere utilizzata strumentalmente per spingere alle ‘‘dichiarazioni spontanee’’ » (51). Certo, sarebbe illusorio sopravvalutare i prevedibili effetti della causa di non punibilità. Questi peraltro sono stati pensati più sul terreno generalpreventivo (dissuasione dall’entrare in patti corruttivi) che su quello dell’accertamento successivo: per chi sia stato partecipe del reato, un ripensamento entro tre mesi è difficilmente pensabile (su questo punto Grosso ha ragione) al di fuori di circostanze che abbiano messo in crisi la prospettiva dell’impunità (52). Ma in questo contesto, la prospettiva dell’« essere indotto correttamente a collaborare forzato dalla situazione » è davvero un rischio da temere (53)? o non è, piuttosto, una possibilità che è legittimo tenere aperta? Alla fine dei conti, l’obiezione più seria è che l’istituto prospettato non promette grossi risultati, o addirittura apparterrebbe al regno delle illusioni (54). Un’obiezione, dunque, non « di principio », ma legata a prognosi fattuali, e che perciò lascia aperta la strada per una « ragionevole sperimentazione ». (51) GROSSO, op. cit., p. 2346. (52) Per questa ragione vi è chi preferirebbe un termine più ampio, per es. un anno: FORTI, Unicità, cit. In tal senso era la citata proposta Azzaro. (53) Al rischio di strumentalizzazioni di inquirenti troppo disinvolti, con artificiosi ritardi nell’iscrizione della notizia di reato, si oppone l’altro termine rigido di tre mesi dal fatto. (54) PADOVANI, Il problema, cit., p. 462.
— 32 — 5. La questione dei « collaboratori di giustizia ». — Come mai la proposta di una causa di non punibilità per il corruttore (o il corrotto) pentito, ascritta al regno delle illusioni, ha suscitato fortissime reazioni di principio? L’interrogativo, che chiama in causa atteggiamenti di fondo verso il problema penale, mi sembra più interessante della stessa proposta. La più forte (ancorché talora mascherata) ragione di ostilità verso la proposta mi sembra sia da ricercare nell’avversione contro i collaboratori di giustizia e le discipline premiali, che accomuna da sempre (dalle polemiche sulla legislazione d’emergenza degli « anni di piombo ») filoni consistenti di dottrina giuridica garantista con rappresentanti di interessi meno nobili (55). Sulla concreta capacità d’incidenza di tecniche premiali tutti sembrano d’accordo. Divergente ne è la valutazione, spesso enfatizzata con linguaggio retorico: rottura dell’omertà, meritevole di essere perseguita, o pericoloso incentivo a delazioni che potrebbero anche essere calunniose? La proposta del gruppo di Milano parte — sulla base dell’esperienza anche italiana — dalla valutazione che i collaboratori di giustizia possono essere uno strumento utile — se oculatamente utilizzato — e talora non sostituibile. Così è stato per il terrorismo, così è stato nelle indagini « mani pulite » (56). Lungi dal disperdere (come da qualche parte si è sostenuto) patrimoni di competenze investigative, o di svilire il momento giurisdizionale, l’attenzione al problema dei « collaboratori di giustizia » esalta la necessità dell’uno e dell’altro aspetto. Delle competenze investigative, perché solo nel quadro di investigazioni solide e « temibili » (come l’esperienza dimostra) la collaborazione può essere ottenuta; e del momento giurisdizionale, perché solo esso dà garanzia che i dati probatori siano imparzialmente e correttamente valutati. Vogliamo andare avanti sulla strada — certo rischiosa e bisognosa di attente cautele, ma rivelatasi fruttuosa e talora insostituibile — di una possibile utilizzazione dei « pentiti », scrupolosamente vagliata (57)? o si (55) Per un quadro d’insieme e per ulteriori riferimenti, cfr. AA.VV., La legislazione premiale, Milano, 1987 (Atti del convegno del Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, Courmayeur, 1986). (56) Contro la proposta in esame taluno ha sostenuto che essa attribuirebbe valore di prova piena e indiscutibile alla chiamata di correo, in contrasto con i principi garantisti del nuovo codice di procedura. Ma ciò non è scritto nella proposta, e non ne è lo spirito. Certo, l’utilizzazione probatoria delle chiamate in correità pone delicati problemi; anche ai fini dell’eventuale non punibilità per la corruzione tempestivamente denunciata, la chiamata di correo dovrà essere ovviamente valutata secondo le regole generali, alla luce di riscontri esterni. Starà ai magistrati fare corretta applicazione delle regole probatorie, e ai difensori il vigilare sul rispetto delle regole legali, nell’esercizio di diritti che la proposta presuppone operanti. (57) Negli ordinamenti di common law si sono sviluppate prassi processuali molto
— 33 — preferisce lanciare un messaggio di sbarramento, che bolli come negativa la confessione e la rottura dell’omertà (58)? IV. QUALE MODELLO DI GIUSTIZIA PENALE? Le sfide della dura realtà dei fatti sono state nei decenni trascorsi e prevedibilmente continueranno ad essere, per il sistema penale, assai impegnative: si chiamano insicurezza della vita quotidiana dovuta alla criminalità comune, criminalità degli affari, organizzazioni criminali di grande potenza, terrorismo politico internazionale; e speriamo di non dover mantenere nell’elenco una prolungata vitalità di tangentopoli o di altre forme di criminalità interna ad apparati di potere. Un magistrato che è stato ed è fra i protagonisti della giustizia penale degli ultimi 20 anni ha parlato di un « diritto alla normalità », che nel mondo di oggi (nell’Italia di oggi) non è assicurato (59). Può la cultura penalistica avere qualcosa da dire sui temi che veramente interessano la civile convivenza (quella società che il diritto penale dovrebbe difendere)? I problemi sul tappeto la interpellano direttamente, ed esigono risposte forti. Se gli strumenti della coercizione legale sono destinati anche in futuro ad un ruolo significativo, per necessità di tutela importanti e non altrimenti affrontabili, è necessario che quegli strumenti siano continuamente verificati e, occorrendo, riprogettati, sulla base di conoscenze adeguate e di principi razionalmente fondati, quanto più possibile condivisi. 1. Razionalità finalistica, ideologia retributiva, principio d’uguaglianza. — La dottrina giuridica moderna tende sempre più a identificare la funzione — il fondamento — del diritto penale nella tutela dei beni giupiù spinte di quanto non consentirebbe, nel nostro ordinamento, il principio di obbligatorietà dell’azione penale. Cfr. AMODIO, La testimonianza del coimputato nell’esperienza di common law: modelli premiali, prassi negoziali e collaborazione coatta, in La legislazione premiale, cit. (58) Il disegno di legge n. 1043, nel respingere l’idea della causa di non punibilità, propone tuttavia una attenuante « dalla metà a due terzi » per chi ammetta il fatto « e indichi ogni elemento utile per la individuazione degli altri responsabili fino al giorno precedente l’inizio dell’udienza preliminare ». Il contenimento del « premio » nei limiti d’una attenuante consente di estendere grandemente l’ambito temporale della fattispecie premiata, in tal modo legandone il funzionamento a realistici presupposti processuali. In via di principio, la causa speciale di non punibilità e la circostanza attenuante potrebbero coesistere, diversi essendone gli ambiti temporali di operatività. Entrambe le proposte si muovono in una direzione che l’esperienza di « mani pulite » ha mostrato fruttuosa, e tendono a consolidare un clima nel quale la strada della « collaborazione processuale » continui a veder riconosciuta la sua dignità ed utilità. (59) CASELLI, La normalità come progetto, in Micromega, 1996, I, p. 13 s.
— 34 — ridici: significa, questo, affermazione compiuta delle concezioni « preventive », modernamente orientate all’idea dello scopo, sull’idea tradizionale della pena retributiva, espressione di una giustizia assoluta, sciolta da scopi? Ancora in un recente riesame dei modelli di diritto penale (60) è stata rilevata « la radicata persistenza di una mentalità retribuzionistica non solo nelle reazioni della gente, ma nella stessa prassi giudiziaria ». Il clima « giustizialista » che ha accompagnato « mani pulite » ne costituisce conferma. Quanto alla dottrina, è fresca di stampa una appassionata difesa della concezione retributiva della pena, che rimprovera alle concezioni « preventive » asserite incoerenze, e che nel riproporre il discorso sui fondamenti del punire non rifugge dal presentare la contrapposizione nella sua radicalità: mentre per le concezioni relative la pena è un malum, che « ha bisogno, per continuare ad esistere, di trovare al di fuori di sé, in qualcosa di concretamente e fattualmente verificabile, il suo ubi consistam », per i retribuzionisti la pena è « un bonum in sé, che non necessita pertanto, al di fuori di sé, alcuna giustificazione » (61). Anche al di fuori di approcci dichiaratamente « retribuzionisti », la logica della pena retributiva (la pena come conseguenza necessaria della colpa, e proporzionata alla colpa) ha manifestato la sua vitalità nelle discussioni attorno a disposizioni « premiali ». Al favor per i pentiti, incorporato in cause di non punibilità o in attenuanti, si è rimproverato il « paradossale capovolgimento di un classico principio garantista: quello della proporzionalità della pena alla gravità del reato e al grado di colpevolezza » (62). Si potrebbe replicare rilevando in questa obiezione un paradossale capovolgimento dell’invocata funzione garantista dell’idea della proporzione fra pena e colpa: che è « principio garantista » in quanto si ponga come criterio od istanza di delimitazione verso l’alto della coercizione statuale, opponendosi a pene sproporzionate per eccesso. Nella polemica sul pentitismo è emersa invece una prospettiva diametralmente opposta: il principio di proporzione sorregge richieste di intransigente mantenimento di appropriati livelli di « retribuzione » punitiva, opponendosi a prospet(60) FIANDACA, Concezioni e modelli di diritto penale tra legislazione, prassi giudiziaria e dottrina, in Questione giustizia, 1991 p. 46. (61) RONCO, Il problema della pena, Torino, 1996. La frase citata è a p. 115. (62) FERRAJOLI, Ravvedimento processuale e inquisizione penale, in Questione giustizia, l982, p. 217. Anche contro la proposta di non punibilità del corruttore « pentito » si è scritto ch’essa si porrebbe in contrasto con la coscienza sociale « che nella nostra tradizione giuridica (a differenza di quella anglosassone) continua a sentire la necessaria connessione tra reato e condanna dei colpevoli » (NEPPI MODONA, in un articolo su La Repubblica del 13 settembre 1994).
— 35 — tive di riduzione verso il basso. E ciò, merita notare, anche da parte di studiosi d’orientamento « di sinistra » o libertario, in sintonia con un più ampio riemergere di concezioni neo-retribuzioniste (63), anzi con l’idea più arcaica della « retribuzione », nel senso « forte » che vuole la pena inderogabilmente determinata dalla colpa, in nome di valori (assoluti) di giustizia ed indipendentemente da fini ulteriori. La contrapposizione fra idea « retributiva » e concezioni « relative » o finalistiche della pena costituisce dunque, e non solo a livello teorico, un problema tuttora aperto, che sollecita motivate prese di posizione. Come sempre, è bene andare oltre le formule, e cogliere la sostanza dei problemi, distinguendo quelli attinenti alla fondazione o legittimazione del diritto penale da quelli attinenti alla conformazione concreta degli istituti. Per quanto concerne il fondamento del « diritto di punire », l’orizzonte del pensiero politico e giuridico di matrice illuministico-liberale è univocamente nel segno dell’idea dello scopo. Se il diritto è regola e strumento della convivenza fra uomini, il diritto penale non può legittimamente pretendere di essere invece l’espressione di una giustizia assoluta, « sciolta » (absoluta) dalle ragioni e dalle esigenze della convivenza fra uomini, e perciò d’un ragionevole ordinamento dei rapporti intersoggettivi. Certo, se lo si immagina deliberato da un’istanza suprema, trascendente l’orizzonte delle società umane, il male della pena potrà essere considerato espressione (necessaria?) di una giustizia assoluta. Ma può esser questo il modello ideale della giustizia statuale di un ordinamento giuridico laico (64)? Può riconoscersi allo Stato, ad una qualsiasi autorità terrena, il diritto di infliggere sofferenze in nome di un’idea di giustizia sciolta da scopi? di un’idea di giustizia che, in ciò che prescrive o per come reagisce, potrebbe non essere condivisa e non avere altra base che il principio d’autorità? Nella risposta negativa a questi interrogativi sta il senso concreto della ripulsa dell’idea retributiva quale fondamento del diritto di punire: una ripulsa che non pretende di assumere significati metafisici o religiosi o filosofici, e nemmeno di negare il contenuto strutturalmente afflittivo della pena, che anzi concorre a definire i termini del problema penale (65). Ripulsa dell’ideologia retributiva significa negare allo Stato — ad uomini muniti di autorità — la competenza a porsi come « stato etico » (63) Su cui cfr. EUSEBI, La nuova retribuzione, in questa Rivista, 1983, 914 s., 1315 s. (64) Ricordiamo, in proposito, quanto ha scritto BECCARIA, Dei delitti e delle pene, par. VII, p. 23: « Se ha stabilito pene eterne a chi disobbedisce alla sua onnipotenza, qual sarà l’insetto che oserà supplire alla divina giustizia, che vorrà vendicare l’Essere che basta a se stesso? » (p. 23 dell’edizione a cura di F. Venturi, Torino 1994). (65) ANDROULAKIS, Ueber den Primat der Strafe, in ZStW, 1996, p. 300 s.
— 36 — o « imprenditore morale », e a infliggere pratiche coercitive e sofferenze « senza scopo » dal punto di vista dell’organizzazione della convivenza. Dopo di che, nell’ottica moderna dell’idea dello scopo i problemi della legittimazione e dei limiti della potestà punitiva, e della concreta conformazione degli istituti penali, si ripropongono in termini ben più complessi che nello schema tutto ideologico della pena retributiva. Più complessi, da un lato, perché legati alla dimensione fattuale dell’efficacia e delle condizioni di efficacia preventiva e repressiva degli istituti penali. E più complessi anche sul piano dei valori: una concezione relativa o finalistica delle istituzioni penali sottende un possibile modello di funzionamento delle istituzioni penali, nonché un criterio di legittimazione negativa (non accettazione di istituti che non siano razionali rispetto allo scopo); ma non vale affatto a giustificare qualsivoglia strumento penale, in nome della mera idoneità rispetto a un qualsiasi scopo. La funzione preventiva — non diversamente, del resto, dall’idea della giusta retribuzione — non è che uno schema astratto: aperto a diversi possibili contenuti, rinvia a funzioni di tutela la cui determinazione dipende dal modello di società, di interessi socialmente riconosciuti, di diritti delle persone, cui la tutela si voglia apprestata. Dobbiamo concludere che l’idea della pena retributiva — malgrado la sua persistente vitalità — non abbia ormai più nulla d’importante da dire per un ordine giuridico « secolarizzato »? Una volta che sia svincolata da pretese di assolutezza, l’idea retributiva esprime un’esigenza (o un principio?) di proporzione, di ricerca di una « giusta misura », con cui non possono non fare i conti anche i sostenitori di concezioni « relative ». Proporzione fra che cosa, e in che senso? Uno dei più brillanti protagonisti dell’attuale scena penalistica ha scritto che il principio di proporzione discende dai principi di legalità e materialità, e che « la necessaria conseguenzialità della pena rispetto al reato esprime la ‘‘retributività’’ dell’una rispetto all’altro » (66). Sono, entrambe, affermazioni discutibili. L’esigenza di un qualche metro di « proporzione » nel ricorso alla coercizione legale è logicamente indipendente dal principio di legalità, e vale non solo per la pena in senso stretto, ma per qualsiasi intervento coercitivo, comunque etichettato e disciplinato. Per altro verso, l’idea della « proporzione » non implica affatto l’idea della « necessaria conseguenzialità » fra pena e reato, o di un criterio univoco di raccordo, se non in quanto la si carichi, tautologicamente, di significati propri dell’ideologia retributiva « in senso forte ». Fuori dall’ideologia retributiva, la connessione fra reato e pena non può essere a priori posta come necessaria, ma (66) PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma, in questa Rivista, 1992, p. 443.
— 37 — costituisce essa stessa un problema (di conformazione finalizzata della risposta all’illecito). Fuori dell’orizzonte dell’ideologia retributiva, l’idea di proporzione si ridimensiona a principio distributivo delle pene in rapporto alle fattispecie criminose, corrispondente ad una esigenza primordiale di giustizia, e — si aggiunge — condizionante lo stesso perseguimento dello scopo generalpreventivo (67). L’esigenza in tal modo espressa è un’esigenza di razionalità interna del sistema dei reati e delle pene, ben presente ai sostenitori di concezioni « relative », orientate alla razionalità finalistica. Ed è una prospettiva nella quale anche considerazioni « di giustizia » e di sensibilità sociale a valori ritornano come termini del problema di conformazione « adeguata allo scopo » degli istituti penali. « Solo un ordinamento penale sentito come giusto nel suo insieme può portare la generalità dei destinatari a una obbedienza giuridica volontaria; se invece si avverte che beni primordiali sono già in astratto privi di tutela o di tutela adeguata, mentre altri beni di rango assai inferiore formano oggetto di una protezione oltranzista, allora l’intero sistema penale perde la sua capacità di orientamento e di guida, e si pervertisce, sino a diventare uno dei principali fattori criminogeni » (68). D’altra parte, nell’orizzonte della razionalità finalistica, i termini della proporzione non possono identificarsi a priori con la pena e il reato, secondo lo schema rigidamente retributivo. La proporzione, ovvero un rapporto di ragionevole congruità, deve intercorrere fra la risposta dell’ordinamento giuridico ed il complesso di fatti e di ragioni che giustifica la risposta, fra i quali — necessario e fondamentale, ma non necessariamente esclusivo — il commesso reato. Come banco di prova, possiamo ancora pensare ai problemi sollevati attorno alla legislazione premiale. In base al principio di proporzione — si è sostenuto (69) — sarebbe « costituzionalmente inammissibile permettere che si faccia scendere irragionevolmente la pena al di sotto del limite tendenzialmente segnato dal criterio » in questione. Il criterio (e il limite) della legittimità della risposta punitiva viene in tal modo spostato, dall’idea di proporzione come matrice di soluzioni valide in assoluto, alla ragionevolezza o irragionevolezza di date differenziazioni normative entro un sistema dato (per es., del « fare scendere la pena » come risposta « premiale »). È, questo, lo schema tipico del controllo di costituzionalità ai sensi del principio d’eguaglianza. Come principio generale di struttura dell’ordinamento, valido per (67) PADOVANI, loco cit. (68) MARINUCCI, Politica criminale e riforma del diritto penale, in Jus, 1974, p. 483. (69) FLORA, Il ravvedimento del concorrente, Padova, 1984, p. 172.
— 38 — qualsiasi settore, il principio d’uguaglianza è un criterio di razionalità intrasistematica: non può essere, a differenza dell’idea retributiva, un principio fondante del sistema penale, ma è fra i criteri di legittima conformazione degli istituti in cui il sistema si articola. Il problema dell’uguaglianza di trattamento si profila dunque come cruciale — insieme alle esigenze di garanzia dell’individuo di fronte alla potestà punitiva, incorporate nei principi di legalità, offensività, colpevolezza — per un sistema penale emancipato dall’ideologia retributiva, ma non dall’attenzione a criteri di giustizia. Proseguendo su una strada già avviata dalla giurisprudenza costituzionale (70) si apre qui il compito di lavorare ad un’elaborazione sistematica che riconnetta la problematica dell’uguaglianza ai principi « materiali » del sistema dei reati e delle pene (bene giuridico, principio di colpevolezza, finalità della pena, ecc.), in modo da approfondire quali limiti invalicabili e quali spazi di discrezionalità ne derivino per la politica legislativa penale, nella selezione delle fattispecie e delle conseguenze sanzionatorie secondo uguaglianze e differenze rilevanti (ammissibili) entro il sistema (71). (70) La Corte Costituzionale ha fatto applicazione del principio d’uguaglianza, nella materia penale, con attento self restraint; il che rende particolarmente significative le sentenze di accoglimento, relative soprattutto ad aspetti del sistema sanzionatorio latamente inteso: questione della conversione della pena pecuniaria (cfr. sentenza n. 131 del 1979, in questa Rivista, 1980, p. 1375 s.); controllo sulla ragionevolezza di limiti edittali (dalla sentenza n. 26 del 1979, in questa Rivista, 1980, p. 200 s., fino alla sentenza n. 341 del 1994, in Foro it., 1994, I, p. 2585 s., in materia di oltraggio); controllo sui presupposti di trattamenti « differenziati » previsti dalla legge penitenziaria (sentenze n. 357 del 1994, in Cass. pen., 1995, p. 496 s.; n. 68 del 1995, in Cass. pen., 1995, p. 1777 s.) o dalla legge processuale (sentenze n. 125 del 1995, in Cass. pen., 1995, p. 2077 s., in tema di « messa alla prova » nel diritto penale minorile); invalidazione di « presunzioni di pericolosità » (sentenze n. 1 del 1971, in Giur. cost., 1971, p. 1 s., con nota di VASSALLI, La pericolosità presunta del minore non imputabile; n. 139 del 1982, in questa Rivista, 1982, con nota di MUSCO, Variazioni minime in tema di pericolosità presunta; n. 249 del 1983, in questa Rivista, 1984, p. 460 s.; n. 58 del 1995, in Foro it., 1995, I, p. 1757 s., a proposito di espulsione dello straniero), o di altre discipline ritenute ingiustificatamente rigide (come quella sulla sospensione obbligatoria dell’esecuzione della pena per i malati di AIDS: Corte cost. n. 438 del 1995, in Cass. pen., 1996, p. 34 s.). Con riguardo a fattispecie di reato, si segnalano, nel periodo recente, la sentenza sulla bestemmia (n. 440 del 1995, in Cass. pen., 1996, p. 42 s.) e quella sull’art. 708 cod. pen. (n. 370 del 1996). (71) In questo contesto potrà per es. essere discussa, a proposito della prospettata causa speciale di non punibilità in materia di corruzione, l’obiezione che denuncia disparità di trattamento fra autori di diversi reati, cioé una supposta violazione del principio d’uguaglianza, e paventa che la strada avviata con la previsione d’una esimente speciale possa condurre troppo lontano, fino « alla previsione, addirittura, pena la illegittimità costituzionale della disciplina formulata, di una esimente generale di pentimento-collaborazione » (GROSSO, op. cit., 2346). Sono senz’altro d’accordo sull’inaccettabilità di un’esimente generale di pentimento-
— 39 — 2. Quali compiti per la dottrina penalistica? — Riesaminando il problema della legittimazione — e dell’auspicata modernizzazione — del diritto penale, attenti studiosi hanno sottolineato l’esigenza di « collegamento tra la teoria della ‘‘legittima’’ penalizzazione e la teoria della democrazia politica » (72). Ancora una volta, il nesso fra sistema penale e sistema politico: un tema legato alla stessa nascita del pensiero penalistico moderno, nel contesto della filosofia politica illuministica; ed è il tema che ci sbattono in faccia le emergenze criminali, nei cui confronti il sistema penale è chiamato a svolgere la sua parte. Esigenza prioritaria — specie in un periodo in cui ogni comunicazione (anche sulla questione penale) tende a diventare spettacolo o propaganda — è di prendere sul serio l’aspetto « dialogico » della democrazia, perseguendo il modello ideale d’una comunicazione quanto più possibile « libera dal dominio » e orientata all’intesa, anche (o soprattutto?) là dove siano in gioco gli istituti della coercizione. È da una simile matrice che è nato il moderno « principio di legalità »: la pretesa di legittimità del vincolo legale viene derivata dall’esser la legge l’espressione ragionata d’una volontà generale formata discorsivamente attraverso un confronto « orientato all’intesa », aperto a tutte le posizioni socialmente significative. Un modello utopico, certamente, ma anche un’idea guida irrinunciabile (ad un tempo di razionalità e di democrazia) se si condivide l’assunto (73) secondo cui « in mancanza d’una copertura religiosa o metafisica il diritto coercitivo potrà salvaguardare la sua forza d’integrazione sociale soltanto se i singoli destinatari delle norme collaborazione; ma questa non sarebbe affatto imposta dal principio d’uguaglianza. Un’estensione dell’ambito di riferimento della fattispecie premiale, o l’introduzione di fattispecie analoghe, sarebbero da prendere in considerazione — come soluzioni possibili, e non già obbligate — limitatamente a casi fra loro assimilabili sotto aspetti rilevanti ai fini del « premio ». L’elemento decisivo, sotto questo profilo, non è la maggiore o minore gravità del reato; ma è la possibilità ed opportunità di prevedere un dato meccanismo di incentivazione, in vista di una reintegrazione utile dell’interesse leso dal reato (da determinati reati, rispetto ai quali il problema dell’incentivare una condotta di « reintegrazione dell’interesse leso » si ponga in termini peculiari). L’eventuale introduzione d’una causa di non punibilità sopravvenuta (o di estinzione del reato), delimitata in modo da non risultare incompatibile con la funzione deterrente della norma penale, potrà essere ragionevolmente presa in esame in relazione a fatti privi di effetti irreversibili, là dove una tempestiva e spontanea confessione, e/o eventuali altre condotte di riparazione dell’offesa, possano ritenersi eliminare il bisogno di punizione, e concorrere ad una più effettiva tutela degli interessi in gioco. Istituti del genere sono ben noti all’ordinamento italiano: basti pensare all’oblazione discrezionale ex art. 162 bis cod. pen., o alla causa estintiva speciale delle contravvenzioni in materia di sicurezza e igiene del lavoro, costituita dall’adempimento alle prescrizioni degli organi di vigilanza (d. lg. 758/96). (72) FIANDACA e MUSCO, op. cit., p. 56. (73) HABERMAS, Fatti e norme, Milano, 1996, p. 44.
— 40 — giuridiche saranno in grado di cogliersi, nel loro insieme, come autori di queste norme. In questo senso il diritto moderno si alimenta d’una solidarietà che, concentrandosi nello statuto della cittadinanza politica, rimanda in ultima istanza all’agire comunicativo e alla discussione ». Per quanto concerne i contenuti, un terreno comune possiamo (credo) riconoscerlo nel modello liberale delle istituzioni penali: da ricostruire e far funzionare nella sua interezza, come apposizione di limiti invalicabili all’arma a doppio taglio del diritto (e del processo) penale, ed insieme, inscindibilmente, come matrice di positive ragioni di tutela e di principi ordinatori. La strada percorsa, e le stesse difficoltà incontrate, ci rendono peraltro ben consapevoli che l’adesione (davvero comune a tutti?) al modello liberale non è che un punto di partenza, e che proseguire il cammino impone di fare i conti con una serie ampia di difficoltà, di incertezze d’analisi, e anche di legittimi dissensi su scelte più o meno importanti. Con riguardo al sistema dei reati, si può contare su un patrimonio di base assai consistente: una teoria del reato che ha da tempo avviato l’elaborazione di schemi d’analisi idonei a comprendere le diverse modalità dell’agire umano, sotto gli aspetti rilevanti ai fini della attribuzione di responsabilità, e di criteri normativi a ciò pertinenti. Teoria dei beni giuridici, principio di legalità, principio di colpevolezza segnano un terreno in cui già si esprime, e potrà auspicabilmente esser sempre meglio sviluppata la razionalità del principio di responsabilità, quale fondamento anche etico di una convivenza di uomini liberi. Con riguardo al sistema delle pene, siamo (mi sembra) molto più indietro. Le pratiche punitive restano esposte alla pressione di « bisogni di punizione » istintivi o sollecitati (74), resi più acuti dall’esplodere dell’una o dell’altra emergenza criminale. Riforme « di parte speciale » nate sotto il segno dell’allarme sociale, e dell’autorappresentazione politica di rigore di fronte a fenomeni criminali allarmanti, hanno ulteriormente accentuato la già draconiana severità del codice Rocco. Nello stesso tempo, istanze di umanizzazione e di prevenzione speciale hanno prevalso nelle riforme (settoriali) di parte generale e del sistema penitenziario. Gli esiti concreti sono quanto mai ambigui: la « politica penale giudiziaria » non trova nella legge criteri idonei (75), il sistema sanzionatorio si rivela in parte ineffettivo (76), in parte di estrema severità. (74) Sia consentito rinviare, anche per i riferimenti, a PULITANÒ, voce Politica criminale, in Enc. dir., XXXIV, 1985, p. 96 s. (75) Gli stessi principi guida sono oggetto di controversia: non solo si discute a quali principi il sistema sia o debba essere orientato, ma plurime e divergenti sono anche le interpretazioni ricondotte al medesimo principio. L’idea della giusta retribuzione viene invocata sia come principio garantista, sia come ripulsa di depenalizzazioni o attenuazioni del rigore
— 41 — Teoria e prassi del diritto penale restano chiamate a dover fare razionalmente i conti con l’irrazionale (77): con l’arbitrarietà o quanto meno con l’intrinseca discutibilità di modelli punitivi, nel cui carico di sofferenze minacciate e inflitte nessun postulato retribuzionista potrà assicurare non vi sia altro che un bonum. Abschaffen des Strafens? La questione dell’abolizione del punire, riproposta nel titolo della recente raccolta di saggi di uno dei più stimolanti penalisti tedeschi (78) ha un carattere (oggi) francamente utopico, anche nella prospettiva della abolizione, non già del diritto penale, ma della pena come fino ad oggi la conosciamo. Ma ciò non ne diminuisce il significato di stimolo, tanto più necessario di fronte al persistere palese od occulto di spinte verso un accentuato rigorismo, vuoi di segno neo-retribuzionista, vuoi nell’ottica della prevenzione generale intimidatrice. Se la pena — la pena « preventiva », orientata allo scopo — non è un valore in sé, ma un mezzo per uno scopo, ed un mezzo che per definizione è in sé un malum, ne deriva la problematizzazione di principio di qualsiasi istituto penalistico storicamente esistente (comunque etichettato). Inesorabile, ci sta sempre davanti la tensione di fondo del problema penale: come combinare il rigoroso mantenimento del « principio di responsabilità » — più che mai necessario in un mondo sempre più complesso — con una progressiva delimitazione e riduzione del carico di irrazionalità e di sofferenza insito nelle pratiche punitive? DOMENICO PULITANÒ
sanzionatorio. La stessa idea della « risocializzazione », affermatasi come criterio di invalidazione di pene inaccettabili (non rieducative) per eccesso di rigore, è stata invocata per attribuire (giustamente) al giudice il potere di rifiutare pene « patteggiate » ritenute inadeguate per difetto (Corte Costituzionale, n. 313 del 1990, in Foro it., 1990, I, p. 2385 s.): soluzione ineccepibile, ma per ragioni che con la risocializzazione hanno ben poco a che fare. (76) Basti pensare al ruolo giocato da amnistie cicliche, prescrizione di reati, sospensione condizionale, affidamento in prova. Senza considerare la cifra oscura dei reati non accertati e delle responsabilità non individuate. (77) L’espressione è di HASSEMER, Theorie und Soziologie des Verbrechens, Frankfurt am Main, 1973, p. 244. (78) LUDERSSEN, Abschaffen des Strafens?, Frankfurt am Main, 1995.
LA CIRCOSTANZA AGGRAVANTE DEL METODO E DEL FINE DI AGEVOLAZIONE MAFIOSI: PROFILI SOSTANZIALI E PROCESSUALI (*)
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — 2. La variante del metodo mafioso: a) necessità di coincidenza dei soggetti attivi del delitto aggravato con gli autori del delitto ex art. 416-bis c.p.? — 3. (Segue): b) la consistenza del metodo mafioso nel delitto aggravato e nel delitto associativo. — 4. La variante della finalità di agevolazione mafiosa: a) spunti per una coloritura materiale della dimensione soggettiva. — 5. (Segue): b) i rapporti con il concorso c.d. esterno nel reato associativo. — 6. La circostanza aggravante ed il reato associativo come modelli in via di principio alternativi di approccio politico-criminale al fenomeno mafioso. — 7. Gli effetti sostanziali: a) la disciplina del concorso di circostanze omogenee ed eterogenee. — 8. (Segue): b) i riflessi sulla liberazione condizionale: cenni e rinvio. — 9. Gli effetti processuali: generalità. - 9.1. Presunzione di esigenze cautelari e applicazione non sussidiaria della custodia cautelare in carcere. - 9.2. Attribuzione delle funzioni di pubblico ministero alla procura distrettuale antimafia. Subordinazione della concessione dei benefici penitenziari alla collaborazione con la giustizia. - 9.2.1. Ulteriore aggravio dei presupposti di concessione dei benefici penitenziari? - 9.3. Disciplina delle intercettazioni telefoniche ed ambientali: il significato della locuzione « delitti di criminalità organizzata ». - 9.4. Deroghe in materia di comunicazione della notizia di reato e di durata massima delle indagini preliminari. — 10. La questione dell’autonomia della fattispecie processuale rispetto alla fattispecie circostanziata sostanziale.
1. L’art. 7 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, recante provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa, prevede una circostanza aggravante pressoché comune (1) e ad effetto speciale connessa con i profili (*) Questo scritto riproduce, in forma rielaborata e con l’aggiunta delle note, la relazione svolta all’incontro di studio sul tema: « I delitti di criminalità organizzata: profili criminologici, sostanziali e processuali » tenutosi a Frascati dal 13 al 17 maggio 1996 su iniziativa del Consiglio superiore della magistratura. (1) L’esclusione dei delitti puniti con l’ergastolo dall’ambito di operatività dell’aggravante non ne pregiudica nella sostanza la generalità di applicazione: rispetto ad un delitto punito con l’ergastolo ogni eventuale circostanza aggravante è comunque improduttiva di effetti (c.d. circostanza inerte: per tutti, ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, 2a ed., 1995, art. 64/5). Va piuttosto segnalato che, ai sensi dell’art. 8 comma 2 d.l. n. 152/1991, la compresenza dell’attenuante della dissociazione, ivi prevista, esclude l’applicabilità dell’aggravante in esame.
— 43 — di tipicità del delitto ex art. 416-bis c.p. o comunque con le attività delle associazioni di tipo mafioso. La fattispecie si snoda in due varianti: la prima consiste nel fatto che il delitto base sia commesso « avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis del codice penale »; la seconda attribuisce portata aggravante « al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo ». Sopravvenute a quasi dieci anni di distanza dall’introduzione nell’ordinamento penale della corrispondente fattispecie associativa, le due articolazioni dell’aggravante, cosiddette rispettivamente « del metodo mafioso » e « dell’agevolazione mafiosa » (2), lasciano trasparire un disegno politico-criminale analogo a quello già perseguito, seppure all’interno di uno stesso contesto normativo, dalla legislazione in tema di criminalità terroristica (3): assicurare una copertura repressiva totale del fenomeno criminoso contemplato, senza eccessiva preoccupazione da parte del legislatore per i profili di possibile interferenza tra le distinte previsioni normative e quindi per i margini di effettiva reciproca autonomia delle stesse. Questa impressione risulta già da una prima lettura dell’art. 7 d.l. n. 152/1991. Le due varianti dell’aggravante sembrano concernere, la prima, una sorta di postfatto della fattispecie di associazione mafiosa finalizzata alla commissione di delitti, in quanto l’avvalersi del metodo mafioso viene presentato come modalità effettiva di commissione di un certo delitto; la seconda, un’ipotesi di concorso eventuale nel reato associativo per così dire a consumazione anticipata, poiché assume rilievo criminoso la semplice finalità di agevolazione, senza il riscontro dell’effettivo vantaggio che l’attuazione del delitto base abbia rappresentato per il sodalizio mafioso. Nell’uno e nell’altro caso il supplemento di portata repressiva arrecato dall’art. 7 d.l. n. 152/1991 rispetto al (concorso nel) delitto di cui all’art. 416-bis c.p. appare molto modesto e addirittura esposto al rischio di una tendenziale disapplicazione nei casi concreti in vista del superiore principio del ne bis in idem sostanziale. Per un verso, sarebbe infatti iniquo addebitare il ricorso al metodo mafioso tanto come generale connotato di struttura del reato associativo quanto come concreta modalità di attuazione di taluno dei delitti scopo; per altro verso, sarebbe altrettanto implausibile imputare la finalità agevolativa una prima volta come aggravante del delitto attraverso il quale si intende arrecare un contributo al sodalizio mafioso ed una seconda volta come elemento costitutivo della fattispecie plurisoggettiva eventuale riferita all’art. 416-bis c.p. Si impone allora un’opera di approfondimento esegetico e sistematico (2) TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, 1995, p. 171. (3) Si allude alla previsione, rispettivamente negli artt. 1 e 3 d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, dell’aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico e, per il tramite dell’aggiunto art. 270-bis c.p., dell’associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico.
— 44 — del disposto normativo in esame, al fine di verificarne i possibili spazi di applicazione autonoma rispetto ai fenomeni criminosi già coperti dalla previsione del delitto di associazione di tipo mafioso: solo ove tale esame sortisse esito negativo, sarebbe lecito affermare che il legislatore abbia ancora una volta ceduto alla tentazione di un intervento puramente « simbolico », inteso più a soddisfare le generiche aspettative di tutela in seno alla collettività che a promuovere una più efficace repressione del complesso fenomeno della criminalità organizzata (4). 2. La considerazione dell’aggravante del « metodo mafioso » prospetta subito all’interprete un risvolto ermeneutico particolarmente rilevante nella prospettiva sopra segnalata: si tratta di stabilire se essa sia applicabile soltanto o in prevalenza agli autori delle condotte già riferibili all’art. 416-bis c.p. ovvero se, al contrario, la cerchia elettiva dei destinatari della circostanza aggravante sia data dai soggetti estranei al reato associativo. La prima posizione è sostenuta nell’una e nell’altra variante da un medesimo autore. Con riferimento all’analoga formula, contenuta nell’art. 51 comma 3-bis c.p.p., che richiama i « delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis », si afferma che l’espressione indica i delitti commessi dagli associati al sodalizio mafioso, eventualmente in concorso tra di loro, nel quadro del programma di delinquenza caratterizzante l’associazione sia come finalità ultima tipica sia come progetto minimale comunque insito nell’apparato strutturale della stessa (5). In sede di analisi del disposto dell’art. 7 d.l. n. 152/1991 viene assunta una posizione meno radicale, poiché si ammette che l’aggravante in parola possa trovare applicazione, sia pure in casi sostanzialmente marginali, ai delitti commessi da soggetti estranei al sodalizio mafioso (6). Ora, la necessaria appartenenza al sodalizio mafioso dell’autore dei delitti aggravati ex art. 7 d.l. n. 152/1991 va esclusa per due ordini di considerazioni. Sotto un profilo sistematico occorre rilevare come le varie norme processuali che individuano il regime differenziato dei delitti di criminalità organizzata (7) contemplano sempre i delitti qualificati dall’uso del « metodo mafioso » accanto alla fattispecie associativa ex art. 416-bis c.p.: questa duplice indicazione risulterebbe del tutto superflua ove dovesse affermarsi la costante coincidenza degli autori degli uni con i sog(4) Sulla funzione simbolico-espressiva assolta talora dalla legislazione penale è sempre utile il riferimento ad AMELUNG, Strafrechtswissenschaft und Strafgesetzgebung, in ZStW, 1980, p. 19 ss. (5) TURONE, Indagini collegate, procure distrettuali e procura nazionale antimafia, in AA.VV., Processo penale e criminalità organizzata, a cura di V. Grevi, 1993, p. 163 s. (6) TURONE, Il delitto, cit., p. 171 ss. (7) V. infra, n. 9 e ss.
— 45 — getti attivi dell’altra, che avrebbe reso sufficiente il riferimento esclusivo al delitto di associazione mafiosa (8). Con riguardo poi alla complessiva ratio legis sottesa alla recente legislazione in materia di criminalità organizzata, è significativa la vicenda dell’art. 9 del d.l. 31 dicembre 1991, n. 419 recante l’istituzione del fondo di sostegno per le vittime di richieste estorsive. Questa disposizione, soppressa dalla legge di conversione, costruiva una generica fattispecie delittuosa di attività estorsiva incentrata sul requisito dello avvalersi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. e per altro verso contemplava come circostanza aggravante di tale nuova figura l’appartenenza dell’autore del fatto incriminato all’associazione di tipo mafioso: appariva quindi evidente come nella rappresentazione del legislatore l’utilizzazione della forza di intimidazione del vincolo associativo costituisse un fenomeno molto ampio, rispetto al quale assumeva carattere soltanto eventuale, seppure aggravante, la partecipazione vera e propria al sodalizio criminoso (9). Per converso non sembra rivestire pregio l’opposta opinione, rintracciabile in un’isolata pronuncia del Supremo Collegio (10), secondo cui l’aggravante de qua troverebbe applicazione esclusiva ai delitti commessi da soggetti estranei all’associazione mafiosa: non si ravvisa né il fondamento né l’utilità di tale presa di posizione, altrettanto drastica, che comporta una pregiudiziale ed arbitraria menomazione dell’ambito di operatività della disposizione in esame. Respinte così le tesi estreme, e riconosciuto che soggetti attivi dei delitti aggravati dal « metodo mafioso » possono essere tanto gli intranei quanto gli estranei al sodalizio mafioso, conviene piuttosto interrogarsi sul grado di complementarità rispettivamente assunto dalle due sottoipotesi nell’economia della fattispecie circostanziata. In dottrina tende ad affermarsi l’idea, come già accennato, di una netta prevalenza dei casi in cui gli autori dei delitti così aggravati risultano appartenere all’associazione: l’opposta ipotesi di estraneità al gruppo criminale viene sostanzialmente ricondotta al limitato ambito del delitto compiuto dal soggetto che rivendichi falsamente l’appartenenza al sodalizio mafioso, in modo da sfruttare « abusivamente » un patrimonio di carica intimidativa che non gli compete (11). La giurisprudenza inclina di contro a sottolineare che l’aggravante in esame prescinde di per sé ed in (8) Cfr. INSOLERA, Diritto penale e criminalità organizzata, 1996, p. 126 s. (9) Cfr. VIGNA, Le « nuove » indagini preliminari nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata, in AA.VV., Processo penale e criminalità, cit., p. 78. (10) Cass. 5 luglio 1994, in Giur. it., 1995, II, c. 355. (11) TURONE, Il delitto, cit., p. 172. L’ipotesi è richiamata anche da VIGNA, Le « nuove » indagini, cit., p. 77. Più complessa la posizione di DE LIGUORI, Concorso e contiguità nell’associazione mafiosa, 1996, p. 113 ss. e 121: l’A., mentre ribadisce la dimensione marginale del caso di simulazione di appartenenza mafiosa, ravvisa l’ambito di applicazione pressoché esclusivo dell’aggravante in relazione agli estranei all’associazione, che operino
— 46 — via di principio dall’appartenenza all’associazione criminale, la cui compresenza resta comunque compatibile con la disposizione dell’art. 7 d.l. n. 152/1991 (12). Questo secondo orientamento è da condividere, come quello più adatto ad assicurare uno spazio di applicabilità dell’aggravante distinto dall’area di operatività dell’art. 416-bis c.p. A riguardo sono state avanzate perplessità da parte di chi, considerando « non molto realistica l’ipotesi di una condotta improntata alla millanteria circa l’appartenenza alla mafia », teme che l’applicazione della circostanza del metodo mafioso sfumi in una sorta di « contestualità geografica e ambientale » (13): con ciò si ipotizza — pare di capire — l’eventualità di una applicazione indiscriminata ai delitti commessi in regioni ad alto tasso di criminalità organizzata, sul presupposto che specialmente talune manifestazioni criminose, per solito connesse all’attività delle associazioni mafiose, possano sprigionare l’effetto intimidativo in questione indipendentemente da concrete modalità esecutive utilizzate in tale direzione dal soggetto attivo del reato. La preoccupazione è certo da condividere; non è detto tuttavia che la soluzione atta ad evitare tali inaccettabili distorsioni applicative passi necessariamente attraverso la limitazione dell’ambito soggettivo di operatività dell’aggravante agli autori del delitto ex art. 416-bis c.p. Conviene piuttosto spostarsi a considerare la portata del requisito dello « avvalersi » delle condizioni previste da questa disposizione, in modo da promuoverne un’interpretazione che, esaltandone i connotati di « visibilità » e « materialità », ponga al riparo da qualsiasi rischio di depotenziamento del suo significato tipico. 3. L’art. 7 d.l. n. 152/1991 definisce il metodo mafioso rilevante quale aggravante di portata generale attraverso un sintetico rinvio alle « condizioni previste dall’art. 416-bis del codice penale ». Se da un punto di vista di stretta corrispondenza letterale tali condizioni si identificano con l’assoggettamento e l’omertà, non può tuttavia seriamente dubitarsi che il richiamo operato dal legislatore coinvolge innanzitutto la forza di intimidazione del vincolo associativo (14). La condizione di assoggettamento e di omertà rileva nell’economia dell’art. 416-bis non già di per sé, comunque con modalità e metodi propri dei contesti mafiosi; ma finisce poi per ammettere che questo spazio applicativo è più teorico che reale, di modo che l’unico e minimo riscontro empirico-criminoso dell’aggravante resta l’ipotesi di simulazione di appartenenza al sodalizio mafioso. (12) Cfr., tra le altre, Cass. 18 marzo 1994, in Giust. pen., 1994, II, c. 657; Id., 31 gennaio 1994, ivi, 1994, III, c. 586; Id., Sez. II, 17 giugno 1993, inedita. (13) Così INSOLERA, Diritto penale, cit., p. 127. (14) Cfr., tra gli altri, DE LIGUORI, Concorso e contiguità, cit., p. 110; INSOLERA, Diritto penale, cit., p. 126.
— 47 — ma in quanto diretta conseguenza del fenomeno intimidativo (15): sarebbe allora ben strano ipotizzare che il c.d. metodo mafioso degradi a semplice sfruttamento di condizioni originate e consolidatesi indipendentemente dalla forza di intimidazione, nel momento in cui trapassa da elemento costitutivo della fattispecie associativa ad elemento accidentale di una qualsiasi ipotesi delittuosa. Piuttosto occorre chiedersi se l’interpretazione della complessa formula contenuta nell’art. 416-bis comma 3 c.p., cui si intenda accedere, sia trasferibile sul piano dell’art. 7 d.l. n. 152/1991 senza alcuna correzione, o se, al contrario, non occorra in questa sede procedere ad una riconsiderazione del requisito in esame, senza timore di prospettarne una configurazione divergente da quella già adottata in relazione alla fattispecie associativa. Come è evidente, viene in tal modo riproposta l’alternativa esegeticosistematica prospettata già in apertura di questa indagine: se lì l’esigenza di una ricostruzione dell’aggravante in termini non (necessariamente) coincidenti con il nucleo del reato associativo veniva collegata ad una generale istanza, per così dire, di « conservazione » (dei margini di autonomia) della più recente disposizione di legge, qui è necessario fornire indicazioni più stringenti, frutto di una meditata presa di posizione sul ruolo che il c.d. metodo mafioso è chiamato a svolgere nei due distinti contesti normativi. A questo proposito va chiaramente detto che, al di là della coincidenza letterale, l’elemento costitutivo previsto dall’art. 416-bis c.p. e la circostanza aggravante ex art. 7 d.l. n. 152/1991 si collocano in due ordini di grandezze incommensurabili, che ne impongono una ricostruzione in termini di reciproca autonomia. Il metodo mafioso rilevante ai sensi del primo disposto è la connotazione strutturale di un fenomeno associativo complesso, contemplato dalla norma incriminatrice dal momento della genesi a quello del consolidamento (16): esso individua pertanto un’attività continuativa, seriale, non destinata necessariamente a riproporsi, nell’attualità di contenuti di violenza o di minaccia, in qualsiasi manifestazione puntuale della vita del sodalizio. L’avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo di cui alla fattispecie circostanziata rappresenta invece per definizione modalità concreta di realizzazione di un circoscritto fatto delittuoso, di modo che è nell’attualità del singolo episodio criminoso che vanno ricercati i connotati più coerenti con la definizione lette(15) Per l’irrilevanza di manifestazioni di assoggettamento e di omertà indipendenti dall’intimidazione esercitata dalla cosca, e generate da fattori di subcultura criminale, v. per tutti TURONE, Il delitto, cit., p. 144 ss. (16) Per un’attenta ricostruzione della genesi e dell’affermazione della « carica intimidatoria autonoma » ascrivibile al sodalizio mafioso, v., da ultimo, TURONE, Il delitto, p. 103 ss.
— 48 — rale del requisito tipico. Se dunque a livello di reato associativo può accettarsi la tesi secondo cui una determinata estrinsecazione dell’attività mafiosa può consistere anche nel semplice sfruttamento di esiti intimidativi pregressi, al di fuori di un sia pure implicito atteggiamento intimidativo (17), altrettanto non vale sul piano della fattispecie circostanziata: qui la consistenza del requisito tipico non può essere integrata per il tramite di una considerazione « allargata » all’intero ciclo di vita dell’associazione, ma deve risultare integralmente dalla modalità di condotta accessoria all’esecuzione del delitto. L’autore di questo deve in definitiva assumere un contegno inequivocabilmente riconoscibile nel senso non tanto della necessaria appartenenza ad un sodalizio mafioso, quanto piuttosto della sicura e precisa evocazione del potenziale intimidativo proprio del medesimo: in altre parole non è necessario che il delinquente faccia professione, autentica o « millantata », di appartenenza mafiosa, ma è imprescindibile che tenga il comportamento minaccioso idoneo a richiamare alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo tale attinenza. La necessità di ravvisare nella condotta del soggetto attivo concreti elementi di intimidazione evocatori del fenomeno mafioso (18) consente di evitare il rischio, sopra accennato, di risoluzione dell’aggravante nella mera « contestualità geografico-ambientale » del delitto commesso rispetto agli ambiti territoriali di più acuta evidenza della criminalità organizzata; e ciò senza dover essere per altro verso costretti a postulare quella effettiva affiliazione del reo ad una associazione mafiosa che ridurrebbe arbitrariamente lo spazio di operatività della circostanza. 4. Nella forma c.d. dell’agevolazione mafiosa, l’aggravante ex art. 7 comma 1 d.l. n. 152/1991 si configura certamente come una circostanza soggettiva, incentrata su di una particolare motivazione a delinquere; come tale essa non si estende agli eventuali concorrenti ai sensi dell’art. 118 c.p. La finalità agevolatrice, perseguita dall’autore del delitto, deve essere oggetto di rigorosa verifica in sede giudiziale: anche su questa articolazione dell’aggravante incombe invero il rischio della diluizione nella semplice contestualità ambientale, specie in quanto vengano in considerazione tipologie delittuose per solito concretanti forme di contiguità o di fiancheggiamento della criminalità organizzata (19). (17) Per tutti, SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, 4a ed., 1993, p. 29 ss. (18) In giurisprudenza sembrano orientate a valorizzare un attuale e concreto contenuto intimidativo nella condotta di cui all’art. 7 d.l. n. 152/1991, tra le altre, Cass. 18 marzo 1994, cit.; Id., Sez. II, 17 giugno 1993, cit. (19) Prospetta il pericolo che gli estremi dell’aggravante possano essere riconosciuti « in forma sostanzialmente automatica, presumendo in re ipsa la suddetta finalità agevolatrice, soprattutto laddove si tratti di comportamenti più frequentemente ricollegabili a manifestazioni criminali di tipo mafioso » DE FRANCESCO G.A., Dogmatica e politica criminale
— 49 — Vanno segnalati due indirizzi, rispettivamente giurisprudenziale e dottrinale, intesi a valorizzare un qualche sostrato obiettivo dell’aggravante, in modo che la finalità agevolatrice non si esaurisca nel dato puramente psicologico. Il primo è riscontrabile in quella presa di posizione della Corte regolatrice, che sottolinea la necessità di provare ai fini dell’applicazione dell’aggravante l’effettiva esistenza dell’associazione beneficiaria della finalità agevolatrice, a differenza dell’ipotesi del metodo mafioso, laddove è indifferente che sia reale o soltanto supposto il sodalizio la cui forza di intimidazione viene evocata (20). Questa impostazione va condivisa, poiché consente di individuare un primo referente oggettivo del disvalore espresso dall’aggravante, che altrimenti rischierebbe di risolversi in un mero atteggiamento interiore di solidarietà da parte del reo nei confronti del circostante milieu di criminalità organizzata. Su questa strada si spinge più oltre la dottrina, quando richiede altresì l’accertamento di un coefficiente di idoneità oggettiva del delitto commesso in ordine all’obiettivo di contribuire al rafforzamento dell’associazione mafiosa (21). Anche questa sottolineatura di una oggettiva relazione di adeguatezza tra il singolo fatto delittuoso e la finalità di agevolazione perseguita dall’agente è plausibile in via di principio, in quanto contribuisce al radicamento « materiale » del contenuto di per sé soggettivo dell’aggravante. Va tuttavia precisato che il consolidamento o il rafforzamento del sodalizio criminoso non costituiscono di regola l’obiettivo della finalità agevolatrice, che l’art. 7 d.l. n. 152/1991 individua più genericamente e più modestamente nella « attività » dell’associazione, vale a dire in qualsiasi manifestazione esterna della vita della medesima non necessariamente impegnativa delle sue condizioni di conservazione ovvero dell’attuazione delle finalità ultime tipicizzate dall’art. 416-bis c.p. (22). Il rapporto di adeguatezza dello strumento rispetto al fine, giustamente richiesto, non va dunnei rapporti tra concorso di persone ed interventi normativi contro il crimine organizzato, in AA.VV., Lotta alla criminalità organizzata. Gli strumenti normativi, 1995, p. 70. (20) Cass. 18 marzo 1994, cit. (21) È la posizione di DE FRANCESCO G.A., Dogmatica, cit., p. 70 s. (22) Non convince l’affermazione secondo cui l’attività agevolata andrebbe identificata alla stregua delle finalità tipiche perseguite dal sodalizio ai sensi dell’art. 416-bis c.p. (FONDAROLI, Le circostanze previste dagli artt. 7 ed 8 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modifiche nella l. 12 luglio 1991, n. 203, in AA.VV., Mafia e criminalità organizzata, II, 1995, p. 673 e 684): se con tale asserzione si intende in realtà indicare qualsiasi manifestazione dell’attività dell’associazione, in quanto comunque orientata verso le finalità ultime della stessa, si tratta della medesima posizione sostenuta nel testo; se si vuole invece far riferimento ad attività di particolare consistenza, che di per sé attuino gli scopi tipici del sodalizio, si prospetta una restrizione eccessiva ed arbitraria dell’oggetto della finalità agevolatrice.
— 50 — que caricato della soverchia valenza derivante dall’ancoraggio prevalente all’esito di rafforzamento del sodalizio, il quale appare invece più coerente con il contributo arrecato sul piano materiale nel distinto ambito del concorso c.d. esterno nella fattispecie associativa (23). Anche un delitto di limitata gravità può ben ritenersi aggravato dalla finalità in discorso, purché risulti adeguato rispetto alla concreta attività che si intende agevolare: per fare un esempio, non è da escludere l’applicazione dell’art. 7 d.l. n. 152/1991 ad un modesto fatto di sostituzione di persona ex art. 494 c.p., quando il delitto sia commesso al fine di assicurare per il tramite di locazione o di compravendita la disponibilità agli associati di uno o più appartamenti da utilizzare nell’ambito del programma criminoso. 5. Le precisazioni in ultimo effettuate sull’obiettivo di riferimento della finalità agevolatrice consentono o addirittura impongono a questo punto di affrontare ex professo la questione che sin dall’inizio di questa relazione è stata segnalata come centrale nell’economia dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa: il rapporto di coincidenza o di autonomia del delitto così aggravato con le ipotesi di concorso materiale c.d. esterno nel reato associativo (24). Valgano solo pochi cenni a sintetizzare lo stato della discussione sulla problematica configurabilità di tale forma di manifestazione del reato di associazione mafiosa. Relativamente incontroversa l’ammissione della compartecipazione morale, mediante essenzialmente l’istigazione a realizzare le diverse condotte rilevanti ai sensi dell’art. 416-bis c.p., perplessità consistenti sono state invece avanzate sulla configurabilità del concorso materiale mediante agevolazione, soprattutto in considerazione di una pretesa impossibilità di individuare un contributo rilevante all’esistenza ed al consolidamento del sodalizio criminoso che già non integri la condotta tipica di partecipazione all’associazione (25). Non è questa la sede per approfondire di per sé la questione della ammissibilità del concorso esterno nelle fattispecie associative. Senonché si rende necessario soffermarvisi in qualche misura a causa del singolare intreccio che si è venuto a creare nel dibattito dottrinale e nell’esperienza (23) V. infra, n. 5. (24) V. soprattutto DE FRANCESCO G.A., Dogmatica, cit., p. 67 ss. (25) Un’accurata rassegna degli argomenti utilizzati dalla dottrina contraria alla configurabilità del concorso esterno nell’associazione mafiosa si trova in VISCONTI, Il concorso « esterno » nell’associazione mafiosa: profili dogmatici ed esigenze politico-criminali, in questa Rivista, 1995, p. 1308 ss. In argomento v., di recente, DE LIGUORI, Concorso e contiguità, cit., p. 123 e ss.; GROSSO, La contiguità alla mafia tra partecipazione, concorso in associazione e irrilevanza penale, in questa Rivista, 1993, p. 1191 ss.; MANNA, L’ammissibilità di un concorso « esterno » nei reati associativi, tra esigenze di politica criminale e principio di legalità, ivi, 1994, p. 1189 ss.; MUSCATIELLO, Il concorso esterno nelle fattispecie associative, 1995; TURONE, Il delitto, cit., p. 327 ss.
— 51 — giurisprudenziale sui due termini del rapporto sopra accennato. Ci si sarebbe aspettato che l’interrogativo circa la coincidenza o l’autonomia dell’aggravante in parola rispetto al concorso materiale nel reato associativo subentrasse se ed in quanto fosse stata preliminarmente e per altra via risolta la questione della configurabilità del c.d. concorso esterno. Al contrario, la presenza nell’ordinamento dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa viene introdotta fin dall’inizio nel dibattito sull’ammissibilità di tale forma di manifestazione del reato associativo, con la conseguenza che non è più possibile scindere le due questioni secondo l’ordine di successione logica che apparirebbe corretto (26). Più in particolare è stato sostenuto che la configurazione normativa della finalità agevolatrice quale circostanza aggravante dei delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo denuncerebbe la chiara intenzione del legislatore di restringere la rilevanza penale del concorso eventuale nella fattispecie associativa ai soli casi in cui il contributo materiale arrecato alla vita ed alle attività del sodalizio si concretizzi appunto in fatti intrinsecamente criminosi; diversamente opinando, si incorrerebbe nella contraddizione di punire chi abbia posto in essere una condotta di agevolazione in sé penalmente neutra in modo più severo, cioè a titolo di concorso nell’associazione mafiosa, di chi, avendo arrecato un contributo agevolativo di per sé delittuoso, andrebbe incontro ad una semplice aggravante ai sensi appunto dell’art. 7 d.l. n. 152/1991 (27). Questa impostazione è certo suggestiva e stimolante, poiché pone l’accento su di un principio di distinzione ed eventuale selezione, tra le condotte candidate ad assumere rilievo penale per il tramite del concorso esterno nel reato associativo, di solito trascurato in dottrina, ad onta del (26) Elementi, per lo più in senso contrario all’ammissibilità del concorso esterno in associazione mafiosa, vengono tratti, nel quadro di un’interpretazione sistematica dell’intera normativa « antimafia », non solo dall’aggravante ex art. 7 d.l. n. 152/1991, ma altresì dai delitti di assistenza ai partecipi (art. 418 c.p.) e di favoreggiamento personale aggravato (art. 378 comma 2 c.p.): in tutte queste fattispecie si tende a ravvisare ipotesi particolari di aiuto esterno alle organizzazioni criminali preclusive di una più generale rilevanza penale del concorso per agevolazione (v., anche per i necessari richiami, VISCONTI, Il concorso « esterno », cit., p. 1309 ss.). Altra ipotesi normativa interferente con l’ambito empirico potenzialmente riferibile al concorso esterno nell’art. 416-bis c.p. può ravvisarsi nell’art. 3-quater comma 2 l. 31 maggio 1965, n. 575, che prevede la misura di prevenzione della sospensione temporanea dall’amministrazione dei beni aziendali a carico di quanti, nel libero esercizio di attività economiche imprenditoriali, agevolino l’attività delle persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata una delle misure di prevenzione di cui all’art. 2 della medesima legge o che siano sottoposte a procedimento penale per taluno dei delitti previsti dagli artt. 416-bis, 629, 630, 648-bis e 648-ter c.p. (a riguardo v., da ultimo, MANGIONE, La « contiguità » alla mafia fra « prevenzione » e « repressione »: tecniche normative e categorie dogmatiche, in questa Rivista, 1996, p. 705 ss.). (27) Cfr. SIRACUSANO F., Il concorso esterno e le fattispecie associative, in Cass. pen., 1993, p. 1876.
— 52 — suo essenziale significato politico-criminale. I problemi relativi alla possibilità di provare il nesso causale tra le svariate condotte atipiche e l’esito di rafforzamento del sodalizio criminoso, ovvero alla individuabilità di un autentico confine tra contributo atipico e condotta tipica di partecipazione, meriterebbero invero di essere graduati in funzione della coloritura del tutto diversa che la natura intrinsecamente criminosa o meno del comportamento in questione assume alla luce del fondamentale principio di tassatività. L’incertezza circa il grado di effettività empirico-criminosa del postulato contributo causale ad un evento allo stesso tempo così macroscopico e sfuggente, quale il consolidamento del sodalizio mafioso, appare di gran lunga più intollerabile quando è in discussione un’attività di per sé lecita, o addirittura considerata con estremo favore dall’ordinamento giuridico nel suo complesso, del tipo dell’esercizio della professione forense o comunque della prestazione continuativa di assistenza legale. Al di fuori dei casi in cui in tali contesti intrinsecamente leciti si innestino gravi fatti di per sé criminosi (ad esempio, il c.d. « aggiustamento » dei processi: rectius, il concorso in corruzione in atti giudiziari), è veramente allarmante in termini di certezza del diritto e di garanzia del cittadino non poter fornire indicazioni precise e tassative circa il limite al di là del quale una certa attività trapasserebbe nell’illecito penale ai sensi degli artt. 110 e 416-bis c.p. perché dotata di (pretesa) efficienza causale sulle « fortune » dell’associazione mafiosa. Sarebbe allora oltremodo confortante poter aderire all’impostazione sopra richiamata. In questa prospettiva potrebbe accreditarsi al legislatore una risoluzione quanto mai ragionevole in termini politico-criminali: la (finalità di) agevolazione della criminalità mafiosa non vale a fondare l’illiceità penale di comportamenti intrinsecamente leciti, ma può solo aggravare condotte già di per sé costituenti delitto, di modo che l’eventuale deficit di plausibilità empirico-criminosa del postulato contributo causale al rafforzamento del sodalizio possa essere decorosamente bilanciato, senza che ne risulti complessivamente un eccessivo sacrificio dei principi di materialità ed offensività (28). Eppure l’interpretazione qui discussa non può essere accolta per diversi motivi. (28) Analoga valutazione potrebbe essere effettuata in relazione all’ipotesi di agevolazione dell’attività di soggetti mafiosi per il tramite del libero esercizio di attività economiche imprenditoriali, previsto dall’art. 3-quater comma 2 l. n. 575/1965 (v. supra, nt. 26): la sottoposizione alla misura di prevenzione della sospensione provvisoria dall’amministrazione dei beni aziendali, eventualmente trasformabile in confisca dei medesimi beni in presenza dei requisiti di cui all’art. 3-quinquies comma 2 l. n. 575/1965, potrebbe a ragione essere considerata, per un verso, sanzione non sproporzionata a fronte della problematicità di un effettivo accertamento dell’agevolazione su basi rigorosamente obiettive e, per altro verso, come soluzione normativa che escluda a contrario una generale rilevanza penale del comportamento in parola in relazione agli artt. 110 e 416-bis c.p.
— 53 — È stata più volte prospettata a riguardo la mancata coincidenza tra la fattispecie aggravata ex art. 7 d.l. n. 152/1991 e l’ipotesi di concorso materiale nel reato associativo per il tramite della commissione di un delitto: mentre è sufficiente il mero riscontro della finalità agevolatrice perché ricorra l’aggravante della c.d. agevolazione mafiosa, è necessario di contro l’effettivo conseguimento del vantaggio in capo al sodalizio mafioso — vale a dire l’evento di agevolazione — ai fini della piena integrazione della fattispecie di concorso eventuale nell’art. 416-bis c.p. (29). In tali condizioni l’ipotesi aggravata in discorso appare distinta ed autonoma rispetto alla problematica del concorso esterno nel reato associativo, che non dovrebbe pertanto ritenersi in alcun modo pregiudicata dall’intervento legislativo del 1991. Questa posizione, pur condivisibile negli esiti cui perviene, richiede un approfondimento. La ragione della eterogeneità di contenuti delle due fattispecie, circostanziata e plurisoggettiva eventuale, qui messe a confronto e quindi della esclusione di ogni interferenza di disciplina non risiede tanto nella diversa rilevanza strutturale dell’agevolazione, che si configura come semplice finalità nell’una e come risultato effettivo nella seconda. Come osservato già in apertura di questa relazione, tale distinta articolazione strutturale, piuttosto che indurre l’interprete ad escludere ogni connessione tra la circostanza in esame ed il concorso eventuale nel reato associativo, può al contrario suggerire l’idea che il legislatore abbia optato nella prima per una sorta di concorso esterno a consumazione anticipata, nel senso di incriminare il complice indipendentemente dal conseguimento o meno dell’intento di agevolazione; e ciò in attuazione di un disegno politico-criminale di particolare rigore repressivo del fenomeno della compartecipazione c.d. esterna, non insensibile all’esigenza di schivare le notevoli difficoltà di accertamento in concreto dell’effettivo vantaggio conseguito dall’associazione mafiosa come conseguenza del contributo dell’estraneo (30). Il vero fondamento della diversità di materie rispettivamente regolate dall’art. 7 d.l. n. 152/1991 e dal combinato disposto degli artt. 110 e 416bis c.p. sta nel fatto che tanto l’oggetto del contributo quanto l’obiettivo dell’agevolazione previsti nella fattispecie circostanziata sono di regola incomparabili con i corrispondenti requisiti di struttura del concorso esterno nel reato associativo. Il contributo agevolativo contemplato nella prima disposizione si esaurisce nella commissione di un singolo e puntuale fatto criminoso, talmente poco caratterizzato in termini di gravità da poter coincidere con (29) V., per tutti, DE FRANCESCO G.A., Dogmatica, cit., p. 68 s. (30) È in sostanza la chiave di lettura dei rapporti tra l’aggravante in discorso ed il concorso esterno nel reato associativo proposta da DE FRANCESCO G.A., Dogmatica, cit., p. 67 ss.
— 54 — qualunque ipotesi delittuosa per cui non sia prevista la pena dell’ergastolo. La condotta rilevante in prospettiva concorsuale è di contro individuata per solito in un’attività di collaborazione sufficientemente stabile e continuativa (31), adeguata cioè ai connotati strutturali del reato associativo, il quale a sua volta non si esaurisce, per definizione, in un fatto materiale puntuale e circoscritto. Ed anche quando viene diffusamente argomentato il possibile (o addirittura regolare) carattere episodico, ed in particolare criminoso, del contributo rilevante a titolo di concorso esterno nell’associazione mafiosa, si ha cura di tracciare una precisa linea di demarcazione rispetto ai fatti delittuosi sussumibili sotto l’art. 7 d.l. n. 152/1991: il contributo, anche occasionale, dell’estraneo deve, per essere suscettibile di integrare un concorso materiale nel reato, intervenire in una fase di emergenza della vita dell’associazione (32), e quindi risultare determinante ai fini della stessa conservazione del sodalizio mafioso. Ciò trova conferma, come sopra accennato, nella configurazione data dal legislatore all’obiettivo dell’agevolazione rilevante ex art. 7 d.l. n. 152/1991: qui non viene menzionata la permanenza e la stabilità del vincolo associativo, come sarebbe necessario ove fosse in questione una vi(31) Cfr., per tutti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 3a ed., 1995, p. 477 s. (32) È la ben nota posizione espressa da Cass., Sez. un., 5 ottobre 1994, in Cass. pen., 1995, p. 842 ss. La sottolineatura, da un lato, della emergenza che deve fare da sfondo al contributo rilevante in chiave concorsuale e, dall’altro, del possibile carattere assolutamente episodico del medesimo, sembrano convergere verso la soluzione sopra raccomandata del problema del concorso in associazione mafiosa, nel senso dell’opportunità — in vista dei superiori principi costituzionali di tassatività ed offensività — di una restrizione della sua rilevanza ai casi in cui il contributo si configuri come intrinsecamente criminoso. L’intervento una tantum inteso a scongiurare un serio pericolo per la sopravvivenza del sodalizio, cui fa riferimento la Corte regolatrice, non sembra potersi invero identificare in altro che in un grave fatto a sua volta criminoso (è significativo a riguardo che la fattispecie concreta dedotta in giudizio riguardasse un’attività di intermediazione tra giudice e imputato in vista dello « aggiustamento » di un processo penale a carico di appartenenti ad associazione camorristica). Tra l’altro, la sentenza in parola si preoccupa altresì di tracciare una precisa linea di confine tra il concorso esterno ed il (semplice) delitto aggravato ex art. 7 d.l. n. 152/1991, ribadendo anche per tale via, da un lato, il comune convergere delle due fattispecie sul piano di un contributo agevolatore intrinsecamente criminoso, e, dall’altro, la speciale portata che l’intervento rilevante in chiave di compartecipazione deve rivestire in vista del rafforzamento o del superamento della crisi da parte del sodalizio. Non concordo pertanto con la proposta (VISCONTI, Il concorso « esterno », cit., p. 1336 ss.) di reinterpretare il riferimento delle Sezioni unite alla fase di « patologia », in cui dovrebbe versare l’associazione mafiosa al momento di aprirsi al contributo dell’estraneo, nella chiave della natura infungibile della prestazione da questi assicurata rispetto alle prestazioni ottenibili dai partecipi a pieno titolo: come risulta dalle esemplificazioni addotte, che richiamano tra le altre le figure e le attività del consulente finanziario e dell’esercente la professione forense, il campo elettivo di evidenza del concorso esterno verrebbe in tal modo a coincidere proprio con l’esplicazione di quelle attività intrinsecamente lecite che dovrebbero in via di principio restare il più possibile ai margini di tale forma di manifestazione della fattispecie associativa.
— 55 — cenda di concorso nel reato associativo, ma semplicemente la attività del sodalizio, vale a dire qualsiasi estrinsecazione « ordinaria », ovvero quella fase « fisiologica » (33) di vita del medesimo che presuppone come acquisite, o comunque non messe attualmente in discussione, le condizioni di esistenza e di conservazione dell’associazione. Anche con riferimento alla problematica del concorso esterno nel reato associativo risulta così confermata la sostanziale autonomia della circostanza aggravante in esame rispetto al delitto di associazione mafiosa. Nel caso poi che il delitto commesso rivestisse, in rapporto alla vita dell’associazione, la straordinaria portata agevolatrice sottolineata dalla giurisprudenza (34) e si verificasse pertanto un concorso apparente tra le due previsioni, va da sé che dovrebbe trovare applicazione il più severo trattamento sanzionatorio in base al principio di assorbimento (35). 6. Il fondamentale problema interpretativo posto dall’art. 7 d.l. n. 152/1991, cui si accennava in apertura, può dirsi a questo punto risolto sotto tutti gli aspetti. L’aggravante in esame riguarda, salva una limitata area di interferenza destinata a risolversi nell’applicazione del principio del ne bis in idem sostanziale, ipotesi estranee tanto all’ambito di operatività dell’art. 416-bis c.p. (in concorso con i delitti-scopo commessi dagli associati) quanto alla sfera di rilevanza del concorso esterno per agevolazione nel medesimo reato associativo. I capisaldi di questa precisa autonomia strutturale vanno individuati, per quanto attiene alla sottospecie del « metodo mafioso », nell’estraneità in via di principio dell’autore del delitto aggravato all’associazione mafiosa e nella necessaria connotazione in termini attualmente intimidativi della sua condotta; per quanto riguarda invece la sottospecie della « agevolazione mafiosa », nella emancipazione dall’imponente questione dell’accertamento del nesso causale (quanto meno sotto l’aspetto di una idoneità ex ante, trattandosi di mera finalità agevolatrice) tra il delitto commesso e l’obiettivo di rafforzamento o consolidamento della compagine associativa. Il risultato ermeneutico così conseguito permette ora di puntualizzare talune riflessioni di carattere più generale circa le strategie politico-criminali di intervento sulla criminalità organizzata di tipo mafioso rispettivamente sottese, quasi sicuramente al di fuori di una precisa consapevolezza da parte del legislatore, al modulo del (concorso nel) reato associativo e all’opzione del delitto aggravato dall’uso del metodo o dal perseguimento della finalità mafiosi. La costruzione del reato associativo, con il conseguente ingombrante (33) (34) (35) p. 70.
Cfr. ancora Cass., Sez. un., 5 ottobre 1994, cit. Cfr. supra, nt. 32 e 33. In tal senso sembra cautamente orientato DE FRANCESCO G.A., Dogmatica, cit.,
— 56 — bagaglio del concorso esterno, corrisponde ad una « filosofia » di intervento politico-legislativo chiaramente ispirata da motivazioni di « emergenza », come tali scarsamente sensibili alle esigenze di compatibilità con le capacità di prestazione del diritto penale « classico » (36), vincolato ai principi di materialità ed offensività. Non può dubitarsi — a distanza di quasi tre lustri dalla novella legislativa e tenuto conto del consistente patrimonio nel frattempo accumulato di approfondimento scientifico e di esperienza sul piano della prassi — che la fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p. porta all’estremo limite di tensione la tenuta del fatto come pietra angolare della tradizionale fisionomia del reato. Al posto di un accadimento circoscritto e puntuale, agevolmente dominabile innanzitutto dalla capacità di comprensione dei consociati e quindi da parte del giudice in sede di accertamento, subentra qui un fenomeno sociale di proporzioni complesse (37), interessante un arco temporale necessariamente divaricato: occorre infatti indagare distintamente sulla genesi del sodalizio — caratterizzata da un sorta di progressivo accumulo, per il tramite di ripetuti fatti criminosi di violenza e minaccia, di quella che sarà infine la forza di intimidazione del vincolo associativo e la conseguente condizione di assoggettamento e di omertà — e quindi sulla utilizzazione di tale « patrimonio » una volta che sia venuto ad esistenza; senza perdere di vista che talora può prospettarsi non tanto una successione lineare tra questi due momenti, ma piuttosto un andamento a spirale, di guisa che può risultare non agevole imputare i comportamenti concreti degli associati all’una o all’altra fase di vita del sodalizio e quindi accertare l’avvenuta o meno consumazione del reato associativo. Quando poi si ipotizza, non senza legittimità da un punto di vista sistematico, addirittura un concorso eventuale in quello che si continua a chiamare il « fatto » dell’associazione mafiosa, l’incrocio tra la già problematica fisionomia del reato base con i sempre ardui profili di questa forma di manifestazione del reato esalta in maniera pressoché intollerabile la scarsa compatibilità del tutto con l’« ambiente » del diritto penale classico. Pienamente coerente con i dettami di quest’ultimo è invece la scelta politico-legislativa di attribuire rilevanza giuridico-penale al fenomeno cri(36) Per una efficace sintesi dei connotati del diritto penale c.d. classico v. PALIERO, L’autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?, in questa Rivista, 1994, p. 1226 ss. Acute osservazioni sulla « profonda divaricazione rispetto ai principi idealtipici del diritto penale classico », promossa dalla legislazione in materia di criminalità organizzata, in FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in questa Rivista, 1994, p. 28 ss. (37) Ai modelli delittuosi « a fisionomia ambientale » viene ricondotta l’associazione di stampo mafioso da PALIERO, op. cit., p. 1235, che intende con tale formula riferirsi a quelle fattispecie in cui « il fondamento della responsabilità penale non risiede tanto nella realizzazione di specifici comportamenti tipizzati dalla norma, quanto nel milieu, nel clima ambientale in cui una cerchia ampia di condotte, altrimenti neutrali, si insedia ».
— 57 — minale mafioso attraverso il filtro di circostanze aggravanti che accedano a puntuali fatti delittuosi. Una volta assicurato il rispetto dei fondamentali canoni di materialità ed offensività innanzitutto per il tramite del delittobase, diventa assolutamente plausibile una connotazione aggravata in funzione vuoi dell’innegabile disvalore della condotta intimidativa tipicamente mafiosa, vuoi della finalità di fiancheggiamento delle associazioni mafiose perseguita dall’agente. La funzionalità di questa opzione politicolegislativa in vista di un efficace (seppure indiretto) intervento sulla criminalità organizzata sembra peraltro essere allo stato assicurata non tanto dal tipico effetto di natura sostanziale dell’aggravante, in termini di aumento della pena secondo il meccanismo dell’effetto speciale, quanto piuttosto dalla serie cospicua di effetti sul piano processuale e penitenziario, che ritagliano anche per il delitto (aggravato) « di mafia » il regime differenziato previsto innanzitutto per il corrispondente reato associativo e quindi per altri gravi delitti portatori di particolare allarme sociale (38). Come accennato in apertura di questa relazione, il legislatore ha inteso, attraverso i successivi interventi del 1982 e del 1991, percorrere entrambe le possibili alternative di controllo penale del fenomeno mafioso; e probabilmente si è trattato di una strada obbligata, considerate le straordinarie dimensioni (ovvero la inusitata evidenza) assunte in questo lasso di tempo dalla criminalità di tale stampo. Resta tuttavia compito ineludibile dello studioso quello di segnalare la fondamentale diversità del quadro politico-criminale di riferimento delle due soluzioni normative; non senza formulare il cauto auspicio che una futura attenuazione delle condizioni di acuta emergenza della criminalità mafiosa — mediata da un massiccio impegno collettivo di responsabilità politiche, sociali, professionali e individuali a tutti i livelli, rivolto a realizzare un effettivo isolamento del fenomeno così come già sperimentato con successo nei confronti della criminalità terroristica — possa promuovere le condizioni per una utilizzazione esclusiva del modello politico-criminale corrispondente alle classiche connotazioni di un diritto penale di stampo liberaldemocratico. 7. Il principale effetto sul piano sostanziale delle fattispecie ex art. 7 d.l. n. 152/1991 si coglie chiaramente nella disciplina della variazione della pena prevista per il delitto base, sia nel caso in cui la circostanza acceda da sola a questo, sia per l’ipotesi di concorso con altre circostanze aggravanti o attenuanti. La previsione di un aumento di pena da un terzo alla metà permette di ascrivere l’aggravante in discorso con immediata ed assoluta certezza al novero delle circostanze ad effetto speciale introdotte nell’ordinamento penale a seguito della riforma dell’art. 63 comma 3 c.p. ad opera dell’art. (38)
V. infra, n. 9 e ss.
— 58 — 5 l. 31 luglio 1984, n. 400. Il tipo di variazione indotta, su base proporzionale superiore ad un terzo, corrisponde infatti alla lettera alla definizione di questa categoria di circostanze proposta dallo stesso legislatore. È noto per contro che solo a seguito di una coraggiosa interpretazione estensiva del disposto in ultimo richiamato, apparsa ineludibile per salvare l’agibilità complessiva del sistema di disciplina delle circostanze del reato (39), è stato possibile, alla stregua dell’orientamento che può dirsi ormai consolidato (40), annoverare tra le circostanze ad effetto speciale l’insieme delle circostanze c.d. indipendenti, che sarebbero altrimenti rimaste confinate in un ambiguo limbo con notevoli incertezze di disciplina. Ribadito pertanto che all’aggravante in esame, concorrente con altre circostanze pure aggravanti, si applica la disciplina del concorso omogeneo prevista per le circostanze ad effetto speciale dagli ultimi tre commi dell’art. 63 c.p., occorre sottoporre ad attento esame la particolare disposizione contenuta nell’art. 7 comma 2 d.l. n. 152/1991 a proposito del concorso di circostanze eterogenee (41). Invero una prima lettura del disposto ora in esame, corredata dalla sola conoscenza della vicenda evolutiva dell’art. 69 c.p., che disciplina in generale il concorso di circostanze eterogenee, non può non lasciare l’interprete abbastanza perplesso: al concorso dell’aggravante con ogni attenuante diversa dalla minore età sembrano contemporaneamente e contraddittoriamente applicabili tanto il modulo normativo del giudizio di bilanciamento (anche se orientato su di un esito obbligato nel senso della soccombenza delle attenuanti), quanto la opposta soluzione dell’applicazione distinta e successiva di tutti gli aumenti e le diminuzioni di pena previsti per il reato base. Per attribuire un significato comprensibile alla formulazione dell’art. 7 comma 2 d.l. n. 152/1991 è in realtà assolutamente indispensabile ripercorrere le linee di evoluzione della disciplina del concorso eterogeneo di circostanze successiva al punto fermo che sembrava essere stato rag(39) Alludo alla proposta ermeneutica di ritenere l’art. 63 comma 3 c.p. inteso essenzialmente a ricondurre le circostanze con variazione frazionaria superiore ad un terzo all’ambito delle circostanze ad effetto speciale, e non già ad escludere da questo, anche solo in parte, le circostanze indipendenti: cfr. DE VERO, Le circostanze del reato al bivio tra reintegrazione e disintegrazione sistematica, in questa Rivista, 1986, p. 83 ss.; ROMANO, Commentario, cit., Pre-Art. 59/28 ss. (40) La tesi richiamata supra, nt. 39, è stata recepita, a livello manualistico, da FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 380 s. e da MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, 3a ed., 1992, p. 404. (41) Si riporta, per comodità del lettore, il testo della disposizione in esame: « Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall’art. 98 del codice penale, concorrenti con l’aggravante di cui al comma 1 non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alla predetta aggravante ».
— 59 — giunto con la riforma dell’art. 69 c.p. realizzata nel 1974, quando era stata sancita la generalità di applicazione del giudizio di bilanciamento. Già in sede di redazione degli artt. 1 e 2 del d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, recante misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica, il legislatore aveva mostrato una sorta di resipiscenza rispetto all’indiscriminato affidamento alla discrezionalità propria del giudizio di comparazione dell’effettiva operatività di ogni specie di circostanze aggravanti. Sia in relazione all’aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, sia con riguardo alle circostanze speciali previste per la nuova fattispecie di attentato per finalità terroristiche o di eversione, era stata esplicitamente disposta l’inapplicabilità dell’art. 69 c.p. ed il ripristino dell’applicazione cumulativa degli aumenti e delle diminuzioni di pena (42). Senonché, al momento della conversione in legge del decreto, un emendamento governativo, proposto con l’intento di arrecare « maggiore chiarezza » nella formulazione normativa (43), promuoveva il definitivo ed attuale assetto degli artt. 1 e 2 d.l. n. 625/1979, il cui tenore letterale sancisce ora il divieto per il giudice di considerare le circostanze attenuanti come equivalenti o prevalenti rispetto alle aggravanti speciali ivi disciplinate. Le disposizioni così risultanti apparvero in prevalenza ai primi interpreti come chiaramente rivolte a confermare, per un verso, la obbligatorietà del giudizio di bilanciamento tra le circostanze concorrenti e di imporre, per altro verso, una soluzione assolutamente vincolata della valutazione comparativa, nel senso appunto della necessaria soccombenza delle attenuanti e della esclusiva applicazione delle aggravanti (44). La conseguente evidente violazione del principio costituzionale di uguaglianza non (42) L’art. 1 comma 3 d.l. 15 dicembre 1979, n. 625 era così formulato nel testo originario: « Quando la circostanza aggravante prevista dal comma 1 concorre con una o più circostanze attenuanti, non sono applicabili le disposizioni dell’art. 69 del c.p., nemmeno rispetto ad altre eventuali circostanze aggravanti, e la diminuzione di pena si opera sulla pena conseguente all’applicazione delle circostanze aggravanti ». Parimenti l’originaria versione dell’art. 2 d. n. 625/1979 — e quindi dell’art. 280 c.p. — così recitava nell’ultimo comma: « Quando le circostanze aggravanti previste nei tre commi precedenti concorrono con una o più circostanze attenuanti, non sono applicabili le disposizioni dell’art. 69, nemmeno rispetto ad altre circostanze aggravanti, e la diminuzione di pena si opera, nei casi di cui al comma 2 e 3, sulla pena conseguente all’applicazione delle circostanze aggravanti, nel caso di cui al comma 4, col criterio indicato nell’art. 65, n. 2 ». (43) Si veda la ricostruzione della vicenda legislativa operata con precisi rinvii ai lavori parlamentari dalla Corte costituzionale nella motivazione della sentenza n. 38/1985 citata infra in nota 45. (44) Sia consentito rinviare in proposito, anche per i riferimenti di dottrina, a DE VERO, Concorso di circostanze eterogenee ed attentato per finalità di terrorismo o di eversione con esito mortale nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in questa Rivista, 1986, p. 1294 ss.
— 60 — mancò di essere fatta ben presto valere dai giudici ordinari in sede di giudizio incidentale di legittimità. Si pervenne quindi a due distinte sentenze di rigetto della Corte costituzionale (45), che dichiarò l’infondatezza della questione sollevata discostandosi sensibilmente dall’interpretazione assunta dal giudice a quo a presupposto della censura avanzata: il giudizio di bilanciamento ad esito vincolato non va ritenuto obbligatorio, potendo il giudice di merito pur sempre discostarsene, ove non ritenga di dover dichiarare la soccombenza delle attenuanti, per applicare distintamente e successivamente gli aumenti e le diminuzioni di pena. Se dunque sino a quel momento la pur complessa vicenda legislativa della disciplina del concorso di circostanze eterogenee era stata caratterizzata quanto meno da una scelta netta tra le alternative del giudizio di bilanciamento e dell’applicazione cumulativa, le richiamate sentenze interpretative della Corte costituzionale introdussero nel sistema un ibrido tertium genus: rispetto a talune circostanze aggravanti il giudice può operare una scelta tra applicazione congiunta o necessaria soccombenza delle attenuanti concorrenti (46). I successivi interventi legislativi in materia si sono allineati a questa svolta promossa dalla Corte costituzionale (47), preoccupandosi peraltro di tradurre l’assetto normativo così concepito in una formulazione letterale che risultasse in qualche modo adeguata, posto che resta certamente arduo rintracciare i significati normativi in parola nell’attuale tenore degli artt. 1 e 2 d.l. 15 dicembre 1979, n. 625. Il risultato di tale sforzo non è stato a sua volta particolarmente apprezzabile sul piano del linguaggio legislativo, persistendo, come sopra accennato, una notevole equivocità di (45) Corte cost. 7-13 febbraio 1985, n. 38 e 28 giugno-3 luglio 1985, n. 194, in questa Rivista, 1986, p. 1293 ss. (46) Per una valutazione critica più puntuale della scelta interpretativa operata dalla Corte costituzionale si rinvia a DE VERO, Concorso, cit. (47) Formulazione corrispondente a quella dell’art. 7 comma 2 d.l. n. 152/1991 si riscontra nell’art. 7 comma 4 d.l. 31 dicembre 1991, n. 419, che disciplina, limitatamente ai delitti di cui all’art. 407 comma 2 lett. a) nn. da 1 a 6 c.p.p., il concorso delle attenuanti diverse dalla minore età con le aggravanti di cui agli artt. 111 e 112, comma 1 n. 3 e 4 e comma 2, c.p.; identica disciplina si rinviene altresì nell’art. 3 comma 2 d.l. 26 aprile 1993, n. 122, a proposito del concorso delle attenuanti diverse dalla minore età con l’aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso e del fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità. Non ancora determinato a seguire la strada tracciata dalla Corte costituzionale era invece apparso il legislatore in occasione dell’emanazione del d.lgs. 30 marzo 1990, n. 76, il cui art. 90 comma 1 stabilisce l’inapplicabilità dell’art. 69 ultimo comma c.p., e quindi del giudizio di comparazione, all’aggravante del fatto commesso per conseguire i benefici disposti a favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del 1980, 1981 e 1982, che comporta l’aumento fino alla metà delle pene previste dagli artt. 479, 480, 481 e 483 c.p.
— 61 — formulazione nell’art. 7 comma 2 d.l. n. 152/1991 (48): soltanto la ricostruzione della ratio legis, sulla base della precedente vicenda normativa qui sinteticamente riproposta, è tuttora in grado di fornire validi elementi di interpretazione. 8. Altri effetti di diritto sostanziale della fattispecie aggravata ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152/1991 si colgono sul piano della disciplina della liberazione condizionale. L ’art. 2 comma 1 d.l. n. 152/1991 subordina — per il tramite di un più ampio rinvio ai delitti indicati nell’art. 4-bis comma 1 l. 26 luglio 1975, n. 354 — l’ammissione a tale beneficio, per i condannati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare le associazioni previste dall’art. 416-bis c.p., alla presenza dei presupposti richiesti dal medesimo art. 4-bis comma 1 per la concessione di taluni benefici penitenziari. Un’ovvia esigenza di economia consiglia di trattare unitariamente, più avanti (49), questi presupposti comuni. Conviene peraltro segnalare subito che la giurisprudenza di legittimità ha qualificato tale collegamento tra l’art. 2 d.l. n. 152/1991 e l’art. 4-bis comma 1 l. n. 354/1975 in termini di « rinvio recettizio permanente », con la conseguenza che qualsiasi futura modificazione della seconda disposizione si rifletterà immediatamente sulla prima (50). L’art. 2 comma 2 del decreto in parola introduce a sua volta un presupposto più gravoso per l’ammissione alla liberazione condizionale dei condannati, fra l’altro, per i delitti aggravati ai sensi dell’art. 7: è necessario che siano stati scontati almeno i due terzi della pena temporanea, salvi i casi di dissociazione e di collaborazione con la giustizia previsti dal(48) Cfr., con riferimento all’analoga formula adottata nell’art. 7 comma 4 d.l. 31 dicembre 1991, n. 419, DE FRANCESCO G.A., Commento all’art. 7 d.l. 31 dicembre 1991, n. 419, in Legisl. pen., 1992, p. 771 s., il quale lascia tuttavia aperto uno spiraglio per una possibile interpretazione della norma nel senso della totale disapplicazione dell’art. 69 c.p. in favore dell’applicazione sempre congiunta delle circostanze eterogenee concorrenti. (49) V. infra, n. 9.2. Né va taciuto che la liberazione condizionale può allo stato considerarsi già di per sé un istituto di diritto penitenziario piuttosto che di diritto penale sostanziale: cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 759 ss.; ROMANO-GRASSO-PADOVANI, Commentario sistematico del codice penale, III, 1994, art. 176/1 ss. (50) Cfr. Cass., Sez. I, 18 giugno 1994, n. 429, inedita. La questione si è posta a breve termine dall’entrata in vigore del d.l. n. 152/1991, quando l’art. 15 d.l. 8 giugno 1992, n. 306 è intervenuto a modificare il citato art. 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario. Lo stretto collegamento tra le norme in parola si riflette altresì sui giudizi di legittimità costituzionale: cfr. Corte cost. 22 febbraio 1995, n. 68, che ha dichiarato parzialmente illegittimi tanto l’art. 4-bis comma 1 l. n. 354/1975 quanto l’art. 2 comma 1 d.l. n. 152/1991, nella parte in cui non prevedono la concessione dei benefici rispettivamente indicati « nel caso in cui l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile renda impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, sempre che siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata » (cfr. infra, nt. 63).
— 62 — l’art. 8 l. 29 maggio 1982, n. 304 e dall’art. 58-ter l. 26 luglio 1975, n. 354. 9. La serie più cospicua di effetti giuridici ascrivibili ai delitti commessi avvalendosi del « metodo mafioso » ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso si coglie sul piano processuale e della esecuzione penale. Diverse norme del codice di rito e della legge penitenziaria, coinvolgenti vari istituti, ritagliano per i delitti in parola un regime differenziato, che li accomuna di volta in volta ad altre fattispecie criminose riferibili ad un più vasto ambito di criminalità organizzata o comunque portatrici di notevole allarme sociale. In questo quadro i delitti commessi con le modalità o con la finalità di cui all’art. 7 d.l. n. 152/1991 assumono particolare risalto, poiché sono le sole fattispecie, insieme ai delitti direttamente riferibili all’art. 416-bis c.p., che compaiono in tutte le disposizioni in discorso, coniugate ora con l’uno ora con gli altri gruppi di ulteriori ipotesi criminose; può dirsi pertanto che il regime processuale differenziato introdotto nel nostro ordinamento presenta, con riguardo ai reati di riferimento, una sorta di assetto variabile, il cui nucleo indefettibile è rappresentato appunto dai delitti « di mafia » in senso lato. Questa osservazione permette di prendere in considerazione le varie norme da cui risulta il regime in parola secondo una sequenza non casuale, ma che rispecchia il progressivo ampliarsi della base dei reati di riferimento dal nocciolo dei delitti « di mafia » fino all’esteso catalogo contenuto nell’art. 407 comma 2 c.p.p. Peraltro, in questo ordine di successione che mi accingo ad esporre, l’ampliamento dei reati di riferimento appare inversamente proporzionale al « costo » politico-criminale delle varie norme derogatorie in rapporto ai fondamentali diritti della persona: così, laddove l’eccezione riguarda la più invasiva misura cautelare personale, la custodia in carcere, vengono in considerazione i soli delitti di mafia (art. 275 comma 3 c.p.p.); mentre la massima espansione dei reati sottoposti al regime differenziato si registra, ai sensi del citato art. 407 comma 2 c.p.p., a proposito della durata massima delle indagini preliminari. Un ultimo rilievo. Esula chiaramente dall’economia della presente indagine l’esame approfondito dei vari profili processuali dell’aggravante ex art. 7 d.l. n. 152/1991, ciascuno dei quali, anche per il fatto di essere comune ad una serie più o meno ampia di altre fattispecie criminose, meriterebbe una trattazione autonoma. Mi limiterò pertanto a talune essenziali considerazioni su ciascuna delle disposizioni in rassegna, rinviando alla chiusura la trattazione di una importante questione comune alle varie
— 63 — norme in esame e specificamente attinente ai delitti aggravati dal metodo e dalla finalità agevolatrice mafiosi (51). 9.1. L’art. 275 comma 3 c.p.p. detta una disciplina eccezionale di applicazione della custodia cautelare in carcere limitatamente ai delitti di cui all’art. 416-bis c.p. e ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’attività delle associazioni ivi previste. Per un verso, viene affermata una presunzione juris tantum di sussistenza di esigenze cautelari: il giudice non è tenuto, come di regola, a motivare la presenza di una o più delle condizioni richieste dall’art. 274 c.p.p., ed « il superamento di tale presunzione è possibile soltanto quando siano acquisiti concreti e specifici elementi che rivelino l’insussistenza di dette esigenze » (52). Per altro verso, viene meno il carattere di sussidiarietà dell’applicazione della custodia cautelare in carcere rispetto alle altre misure cautelari: questa viene disposta dal giudice senza alternative, solo che ricorrano i gravi indizi di colpevolezza e non sia acquisita la prova dell’inesistenza di esigenze cautelari (53). L’attuale formulazione della disciplina derogatoria in esame è frutto di fresca consolidazione: il secondo periodo dell’art. 275 comma 3 c.p.p., a sua volta di recente introduzione (54), ha subito infatti nel giro di pochi anni varie modifiche, sia con riguardo ai delitti di riferimento, sia nel contenuto della disciplina. Sotto il primo profilo, un’abbondante potatura è stata effettuata dall’art. 5 l. 8 agosto 1995, n. 332, che ha rimpiazzato l’esteso catalogo prima contenuto nell’art. 275 comma 3 c.p.p. con l’esclusivo riferimento ai delitti di cui all’art. 416-bis c.p. e ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’attività delle associazioni ivi previste (55). Con riferimento alla disciplina, va ricordato che solo per il tramite dell’art. 1 d.l. 9 settembre 1991, n. 292 è stato escluso per i delitti in parola ogni spazio di applicazione di misure cautelari diverse dalla custodia in carcere: la prima formulazione della disposizione consentiva infatti al giudice di accertare che le esigenze cautelari potessero essere soddisfatte con altre misure (56). (51) V. infra, n. 10. (52) Così Cass., Sez. I, 27 febbraio 1995, n. 5579, inedita. (53) Cfr., tra le altre, Cass., Sez. I, 22 agosto 1994, n. 2132, inedita. (54) L’originaria inserzione del secondo periodo nel comma 3 dell’art. 275 c.p.p. si deve all’art. 5 d.l. 13 maggio 1991, n. 152. (55) Cfr. sul punto MARZADURI-BRESCIANI, Commento all’art. 5 l. 8 agosto 1995, n. 332, in Legisl. pen., 1995, p. 621 ss. (56) Per la descrizione delle varie fasi evolutive della normativa in discorso cfr. MANZIONE, Una normativa « d’emergenza » per la lotta alla criminalità organizzata e la trasparenza e il buon andamento dell’attività amministrativa (D.l. n. 152/1991 e l. n. 203/1991): uno sguardo d’insieme, in Legisl. pen., 1992, p. 849 ss.
— 64 — 9.2. Un primo allargamento della base dei delitti soggetti a regime differenziato è riscontrabile nell’art. 51 comma 3-bis c.p.p., che regola le funzioni della procura distrettuale antimafia, e nell’art. 4-bis comma 1 l. 26 luglio 1975, n. 354, in materia di concessione di benefici penitenziari. Entrambe le disposizioni contemplano, accanto ai delitti « di mafia », il sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.) e l’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309). In questo ampliamento dei reati di riferimento è possibile riscontrare una nota di omogeneità rispetto al precedente livello, poiché ci si colloca ancora in un ambito di criminalità organizzata: e ciò può dirsi non solo in rapporto al reato associativo di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309/1990, ma anche a proposito del delitto ex art. 630 c.p., che costituisce una delle più tipiche estrinsecazioni di tale milieu (57). L’attribuzione alla c.d. procura distrettuale antimafia delle funzioni di pubblico ministero nelle indagini preliminari e nel procedimento di primo grado per i richiamati delitti costituisce oggetto di distinta relazione in questo incontro di studio; vale dunque in proposito a maggior ragione l’esigenza di self-restraint sopra anticipata in relazione ai vari profili di rilevanza processuale dell’aggravante ex art. 7 d.l. n. 152/1991. Qualche ulteriore cenno conviene invece dedicare ai presupposti della disciplina dei benefici penitenziari e — per il tramite del rinvio recettizio contenuto nell’art. 2 d.l. n. 152/1991 — della liberazione condizionale, dal momento che l’art. 4-bis comma 1 l. n. 354/1975 è andato incontro ad una vicenda di successione di leggi particolarmente travagliata. Nella sua originaria formulazione (58) la disposizione in esame si distingueva dalla versione ora vigente (59) sia in relazione all’ambito di ap(57) Come delitti potenzialmente mafiosi sono qualificate le fattispecie, in ultimo richiamate, da TURONE, Indagini collegate, cit., p. 160. (58) L’art. 4-bis l. 26 luglio 1975, n. 354 è stato introdotto dall’art. 1 comma 1 d.l. n. 152/1991. (59) Si riporta per comodità del lettore il testo attuale dell’art. 4-bis comma 1 l. 26 luglio 1975, n. 354: « 1. Fermo quanto stabilito dall’art. 13-ter del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, nella l. 15 marzo 1991, n. 82, l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI della l. 26 luglio 1975, n. 354, fatta eccezione per la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e internati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo nonché per i delitti di cui agli artt. 416-bis e 630 del codice penale e all’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborano con la giustizia a norma dell’art. 58-ter. Quando si tratta di detenuti o internati per uno dei predetti delitti, ai quali sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dagli artt. 62, n. 6, anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, o 114 del codice penale, ovvero la disposizione dell’art. 116, comma 2, dello stesso codice, i bene-
— 65 — plicazione sia, e soprattutto, per il contenuto di disciplina. Sotto il primo aspetto, i reati di riferimento comprendevano, in aggiunta all’attuale elencazione, i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale. Sotto il secondo profilo, la concessione ai condannati per i ripetuti reati dell’assegnazione del lavoro all’esterno, dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione veniva condizionata all’acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva; con riferimento invece ad altro gruppo di delitti, ritenuti di un livello di gravità e di un indice di pericolosità appena inferiore, la concessione dei benefici era condizionata ad un onere probatorio meno gravoso, richiedendosi — con una formulazione tuttora presente nel testo vigente — che non ricorrano elementi tali da far ritenere la sussistenza dei suddetti collegamenti criminali. L’attuale formulazione dell’art. 4-bis comma 1 l. n. 354/1975 si deve all’art. 15 comma 1 lett. a) d.l. 8 giugno 1992, n. 306, che ha introdotto quattro significative modifiche: a) spostamento dei delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale dalla prima alla seconda fascia di condannati per i quali la concessione dei benefici è variamente condizionata; b) esplicita esclusione della liberazione anticipata dal novero dei benefici per cui si applica il regime differenziato; c) subordinazione della concessione dei benefici penitenziari per i delitti della prima fascia (delitti « di mafia », sequestro di persona a scopo di estorsione, associazione finalizzata al traffico illecito di stupefacenti) non più all’accertamento dell’assenza di attuali collegamenti con la criminalità organizzata, ma alla collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58ter da parte dei detenuti e degli internati (60); d) individuazione di una più specifica disciplina per i delitti della prima fascia, quando risultino attenuati ai sensi degli artt. 62 n. 6, 114 o 116 comma 2 c.p., nel senso di ammettere la concessione dei benefici anche quando la collaborazione offerta risulti oggettivamente irrilevante, purché siano stati acquisiti elefici suddetti possono essere concessi anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. Quando si tratta di detenuti o internati per delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale ovvero di detenuti o internati per i delitti di cui agli artt. 575, 628 comma 3, 629 comma 2 del codice penale e all’art. 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 80 comma 2, del predetto testo unico approvato con d.P.R. n. 309/1990, i benefici suddetti possono essere concessi solo se non vi sono elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva. » (60) La disposizione in parola definisce come collaboratori della giustizia « coloro che, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati ».
— 66 — menti tali da escludere in maniera certa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. Le consistenti modifiche intervenute sull’art. 4-bis comma 1 l. n. 354/1975 ad appena un anno di distanza dalla sua introduzione nel corpo della legge sull’ordinamento penitenziario si prestano ad una valutazione differenziata, in esito alla quale è difficile dire se prevalgano le luci o le ombre. Sicuramente encomiabile è la chiarificazione intervenuta in materia di liberazione anticipata nel senso della conferma del regime ordinario: il legislatore ha così risolutamente superato i dubbi che potevano nutrirsi circa la pertinenza o meno di questo istituto al novero delle misure alternative alla detenzione richiamate dalla norma in esame, e che la giurisprudenza della Corte Suprema aveva per parte sua risolto nel senso affermativo, ritenendo conseguentemente applicabile anche alla liberazione anticipata l’oneroso regime probatorio richiesto dall’art. 4-bis comma 1 nella sua originaria formulazione (61). Plausibile sarebbe anche di per sé la rinuncia all’accertamento positivo dell’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata quale condizione per la concessione dei benefici, in cui non a torto era stata da varie parti ravvisata un’autentica probatio diabolica (62). Senonché la sostituzione di tale requisito con quello della collaborazione con la giustizia, se semplifica e rende indubbiamente più governabile la fattispecie in sede processuale, altera la ratio del vincolo: il sia pur problematico accertamento di cui sopra era chiaramente inteso a subordinare la concessione dei benefici ad una condizione soggettiva di assenza di pericolosità: la collaborazione con la giustizia, seppure possa ritenersi sintomatica di questa condizione, sembra valorizzare piuttosto una dimensione premiale, e per converso punitiva, estranea alla genuina questione della pericolosità in rapporto al trattamento penitenziario. Di questo rilevante mutamento di ispirazione politico-criminale fornisce del resto significativa testimonianza la disciplina introdotta per i delitti (della prima fascia) attenuati di cui si è fatto cenno sopra al punto d). Lo spazio riconosciuto alla collaborazione « oggettivamente irrilevante » ai fini della concessione dei benefici è subordinato, con formulazione ancora più rigorosa di quella originariamente prevista, all’esclusione « in maniera certa » di collegamenti criminali attuali: ora, è di tutta evidenza che un tale accertamento dovrebbe essere di gran lunga sufficiente di per sé solo a consentire la concessione di benefici penitenziari che avessero esclusivo riguardo alla persistenza o meno della (61) V., per ulteriori approfondimenti e richiami di giurisprudenza, GUAZZALOCA, Profili penitenziari dei dd.ll. 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modifiche nella l. 17 luglio 1992, n. 203, e 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella l. 7 agosto 1992, n. 356, in AA.VV., Mafia e criminalità organizzata, II, 1995, p. 752 ss. (62) Cfr., per i necessari richiami, GUAZZALOCA, op. cit., p. 746 ss.
— 67 — pericolosità dei condannati, senza dover a tal fine assumere una valenza integrativa rispetto alla compresenza di circostanze attenuanti (63). 9.2.1. Il d.l. n. 152/1991 ha introdotto altre norme integrative o modificative della legge sull’ordinamento penitenziario riguardanti i condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis comma 1 ed in particolare — per quanto qui specificamente interessa — per i delitti aggravati dal metodo e dalla finalità agevolatrice mafiosi. Si tratta, da un lato, di una serie di disposizioni (artt. 21 comma 1, 30-ter comma 4 e 50 comma 2 l. n. 354/1975) che esigono l’espiazione di una quota della pena inflitta più consistente dell’ordinario per l’ammissione ai benefici rispettivamente disciplinati e, dall’altro lato, dell’art. 58-ter, che al comma 1 rimuove questa più severa disciplina per i condannati per taluno dei ripetuti delitti che collaborino con la giustizia (64). Prima della riforma dell’art. 4-bis comma 1 ad opera dell’art. 15 comma 1 lett. a) del citato d.l. n. 306/1992, lo speciale regime dei benefici penitenziari concedibili ai condannati, tra gli altri, per i delitti aggravati dal metodo o dalla finalità agevolatrice mafiosi era dunque chiaramente riassumibile nei seguenti termini: a) presupposto generale e comune per accedere al lavoro all’esterno, ai permessi premio ed alle misure alternative alla detenzione era, rispettivamente per i delitti della prima e seconda fascia dell’art. 4-bis comma 1, l’accertamento della mancanza o la assenza di elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata; b) in relazione ai singoli benefici penitenziari gli artt. 21 comma 1, 30-ter comma 4 e 50 comma 2 prevedevano ulteriori aggravi in rapporto alla quantità di pena inflitta che dovesse risultare già espiata; c) l’art. 58-ter della ripetuta legge sull’ordinamento penitenziario eliminava infine quest’ultimo inasprimento per i condannati che svolgessero attività di collaborazione con la giustizia. Ora, la modifica dell’art. 4-bis comma 1 nei termini sopra indicati ha creato una sorta di corto circuito in questo contesto normativo. La collaborazione con la giustizia, divenuta presupposto primo per la concessione dei benefici, ha finito di fatto per annullare l’operatività delle norme restrittive di cui sopra al punto b) rispetto ai delitti della prima fascia: i condannati per tali delitti, se non collaborano con la giustizia saranno esclusi tout court dai benefici, se collaborano saranno sottoposti senz’altro al regime ordinario ai sensi dell’(immutato) art. 58-ter. (63) Lo spazio di applicazione della disciplina prevista nel secondo periodo dell’art. 4-bis comma 1 si è allargato ad ulteriori ipotesi di inutile collaborazione con la giustizia a seguito di altrettante sentenze della Corte costituzionale che ne hanno dichiarato la parziale illegittimità nella parte in cui le rispettive previsioni erano assenti: cfr. Corte cost. 27 luglio 1994, n. 357, in Giur. cost., 1994, p. 2920 ss.; Id., 22 febbraio 1995, n. 68, ivi, 1995, p. 625 ss. (64) Cfr. supra, nt. 60.
— 68 — Un problema interpretativo notevole si pone poi in particolare per i delitti della prima fascia menzionata nel ripetuto art. 4-bis comma 1, nelle ipotesi in cui è stata mantenuta la probatio diabolica relativa all’assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata ad integrazione della « inutile » collaborazione offerta e in presenza di determinate circostanze attenuanti: restano applicabili in tali casi ai detenuti ed agli internati le restrizioni di cui sopra al punto b), dal momento che non sembra attuato il presupposto ex art. 58-ter del « concreto aiuto » all’autorità di polizia o giudiziaria (65), o la sostanziale equiparazione della collaborazione oggettivamente irrilevante a quella efficace, stabilita dall’art. 4-bis comma 1 ai fini della concessione tout court delle misure premiali, deve ritenersi implicitamente valevole anche ai fini della specifica disciplina dell’art. 58ter? Riterrei più valida questa seconda opzione ermeneutica, che presenta il duplice vantaggio di essere più favorevole per il condannato e di arrecare un contributo di semplificazione all’intricata disciplina. 9.3. L’art. 13 d.l. n. 152/1991 istituisce un regime differenziato delle intercettazioni telefoniche ed ambientali per i delitti « di criminalità organizzata » (66). A differenza delle disposizioni già richiamate e di quelle su cui mi soffermerò tra breve (67), la norma in esame non individua in modo tassativo ed univoco i delitti in rapporto ai quali trova applicazione la disciplina derogatoria, ma utilizza una categoria generale che sembra mutuata dagli ambiti del dibattito politico-criminale, se non addirittura del linguaggio comune (68): come tale, essa ha bisogno di un’attenta e rigorosa ricognizione, al fine di circoscrivere con sufficiente determinatezza il campo di operatività del regime differenziato e di chiarire soprattutto, per quanto qui specificamente interessa, se il citato art. 13 riguardi o meno i delitti aggravati dal metodo e dalla finalità di agevolazione mafiosi. Al momento dell’entrata in vigore del nuovo codice di rito era possi(65) V., in questo senso, GUAZZALOCA, op. cit., p. 783. (66) La disposizione in questione prevede essenzialmente quattro deroghe alla disciplina ordinaria risultante dagli artt. 266 e 267 c.p.p.: a) quanto ai presupposti, la degradazione della « gravità » degli indizi di reato a mera « sufficienza » e della « assoluta indispensabilità » dell’intercettazione a semplice « necessità »; b) quanto alla durata, la sostituzione dei periodi di quindici giorni con un primo intervallo di quaranta e successivi periodi di venti giorni; c) con riguardo alle modalità esecutive, la possibilità di impiego anche degli agenti di polizia giudiziaria in aggiunta agli ufficiali; d) con riferimento specifico alle intercettazioni di comunicazioni tra presenti, la possibilità di attuazione nei luoghi di cui all’art. 614 c.p. anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi predetti si stia svolgendo l’attività criminosa. Per un approfondimento si rinvia a BERSANI, Decreto anticriminalità: l. 13 maggio 1991, n. 203 - Profili processuali, in AA.VV., Mafia e criminalità, cit., p. 841 ss. (67) Infra, n. 9.4. (68) Per un’attenta ricognizione delle varie fonti normative in cui la locuzione viene utilizzata v. VIGNA, Le « nuove indagini », cit., p. 71 ss.
— 69 — bile pervenire ad una individuazione abbastanza certa dei delitti di criminalità organizzata, intesi come categoria di rilevanza processuale. Sulla base del rilievo che l’unica disposizione della legge delega per l’emanazione del nuovo codice contemplante « processi di criminalità organizzata » era quella che autorizzava la durata sino a due anni delle relative indagini preliminari, riusciva agevole cogliere il preciso riscontro della formula nella originaria versione dell’art. 407 comma 2 lett. a) c.p.p., che stabiliva appunto tale termine per una serie di reati associativi di tipo politico, comune e mafioso, nonché per taluni delitti « monosoggettivi » che rappresentano la più ricorrente estrinsecazione dei primi (69). Le successive e molteplici modifiche intervenute a carico dell’art. 407 comma 2 lett. a) c.p.p. hanno interrotto l’originario stretto collegamento con la direttiva della legge delega, né appaiono altrimenti idonee a fornire una coerente elencazione dei delitti di criminalità organizzata a causa della eccessiva dilatazione delle previsioni ivi attualmente contenute: basti pensare ai delitti di omicidio, rapina ed estorsione aggravate, come pure alle varie fattispecie in materia di armi da guerra, tipo guerra e comuni da sparo. È dunque rimesso essenzialmente all’interprete il compito di individuare i criteri atti a fornire la ricercata delimitazione. In proposito occorre prendere subito le distanze da alcune proposte che conducono ad una configurazione della categoria di gran lunga più ampia ed incerta di quella, di per sé eterogenea ma quanto meno tassativa, risultante dalla norma in ultimo citata. Alludo al suggerimento di prendere a prestito le nozioni fornite dalle scienze criminologiche o addirittura dal linguaggio corrente, di modo che andrebbero ascritti al novero dei delitti di criminalità organizzata « tutti quelli che in qualsiasi modo siano collegabili, a qualsiasi titolo, ad associazioni criminali o alle attività di tali associazioni » (70); ovvero all’idea che la formula in parola comprenderebbe, oltre ai reati associativi, qualsiasi ipotesi di concorso di persone nel reato (71). Plausibile appare di contro la proposta di assumere come punto di riferimento i cataloghi delittuosi figuranti nelle norme del codice di rito che disciplinano l’avocazione delle indagini preliminari da parte del procura(69) Cfr. per tutti CONSO, La criminalità organizzata nel linguaggio del legislatore, in Giust. pen., 1992, III, c. 385 ss. Riportiamo per comodità del lettore il testo originario dell’art. 407 comma 2 lett. a): « 2. La durata massima è tuttavia di due anni se le indagini preliminari riguardano: a) i delitti previsti dagli artt. 270-bis, 280, 285, 286, 289-bis, 305, 306, 416 nei casi in cui è obbligatorio l’arresto in flagranza, 416-bis, 422, 630 del codice penale e 75 della l. 22 dicembre 1975, n. 685 ». (70) MADDALENA, I problemi pratici delle inchieste di criminalità organizzata nel nuovo processo penale, in AA.VV., Processo penale e criminalità organizzata, cit., p. 83. (71) MANZIONE, Una normativa « d’emergenza », cit., p. 852.
— 70 — tore nazionale antimafia e del procuratore generale presso la Corte d’appello (artt. 371-bis comma 3 lett. h e 372 comma 1-bis c.p.p.), dal momento che l’esigenza di rendere effettivo il collegamento delle indagini è certo tra gli obiettivi primari perseguiti dal legislatore nella predisposizione del regime processuale differenziato per il crimine organizzato (72). Peraltro il quadro applicativo così derivante si presenta come particolarmente coerente e circoscritto: per un verso, l’art. 371-bis comma 3 lett. h) richiama i delitti di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p., che coincidono con quelli ex art. 4-bis l. n. 354/1975 ed individuano il secondo livello di espansione del regime processuale differenziato sopra preso in esame (73); per altro verso, i delitti richiamati nell’art. 372 comma 1-bis corrispondono al catalogo già contenuto nell’originaria formulazione dell’art. 407 comma 2 lett. a) c.p.p. (74), di modo che può dirsi ricostituita per questa via la primitiva configurazione dei delitti di criminalità organizzata. Ma è possibile muovere un ultimo passo nella direzione di una definitiva concentrazione della categoria attorno al nucleo dei reati di associazione a delinquere comune e di tipo mafioso, allargato ai delitti aggravati ex art. 7 d.l. n. 152/1991 ed ai pochi altri previsti dall’art. 51 comma 3bis c.p.p. Dal combinato disposto degli artt. 371-bis comma 3 lett. h) e 372 comma 1-bis risultano aggiungersi al catalogo contenuto nell’art. 51 comma 3-bis c.p.p. soltanto una serie di delitti politici a struttura associativa o comunque con forte valenza eversiva. Ora, tanto l’art. 274 lett. c) c.p.p., in materia di esigenze cautelari, quanto il citato art. 4-bis comma 1 l. n. 354/1975 distinguono esplicitamente (i delitti di) criminalità organizzata, rispettivamente, dai delitti contro l’ordine costituzionale e dalla criminalità eversiva: in forza di un’attenta interpretazione sistematica può dunque legittimamente concludersi che la categoria dei delitti di criminalità organizzata va ulteriormente depurata dall’insieme dei delitti politici e può in definitiva venire a coincidere per intero con l’elenco contenuto nell’art. 51 comma 3-bis c.p.p., a sua volta collimante con quello dei delitti della prima fascia di cui all’art. 4-bis comma 1 l. n. 354/1975 (75). Questa conclusione permette di ridurre la frammentazione degli ambiti di riferimento del regime processuale differenziato, individuando (72) VIGNA, Le nuove indagini, cit., p. 75. (73) V. supra, n. 9.2. (74) Quest’ultima disposizione — il cui testo è riportato supra in nt. 69 — prevedeva in più i delitti di cui all’art. 416-bis e 630 c.p., nonché ex art. 75 l. 22 dicembre 1975, n. 685 (ora art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), tutti attualmente richiamati, insieme ai delitti aggravati dal metodo e dalla finalità di agevolazione mafiosi, dall’art. 51 comma 3-bis c.p.p. (75) Riconosce alla categoria una latitudine più ampia, per il tramite degli artt. 372 comma 1-bis e 407 comma 2 lett. a) c.p.p., Cass., Sez. VI, 27 maggio 1995, n. 6159, inedita.
— 71 — un’unica categoria di reati cui si applicano le deroghe in materia di competenza degli uffici del pubblico ministero, di concessione dei benefici penitenziari e di disciplina delle intercettazioni telefoniche ed ambientali. 9.4. La massima apertura di quella sorta di imbuto rovesciato che definisce i vari ambiti di applicazione del regime processuale differenziato si coglie ai livelli successivi della comunicazione della notitia criminis da parte della polizia giudiziaria al pubblico ministero e della durata massima delle indagini preliminari. L’art. 347 comma 3 c.p.p. stabilisce che la comunicazione della notizia di reato è data immediatamente anche in forma orale, oltreché in ogni caso in cui sussistono ragioni di urgenza, quando si tratta di taluno dei delitti indicati nell’art. 407 comma 2 lett. a) nn. da 1 a 6 c.p.p. È questo un catalogo già di per sé molto articolato, il quale, integrato con le ipotesi contemplate nelle successive lettere b), c) e d) — che non aggiungono peraltro riferimenti ad ulteriori tipi legali di reato, ma si limitano ad evidenziare particolari esigenze processuali —, individua a sua volta tutti i casi in cui la durata massima delle indagini preliminari è fissata in due anni (76). 10. Le varie disposizioni di natura processuale e penitenziaria sopra passate in rassegna presentano una caratteristica comune in ordine ai delitti oggetto di questa relazione. In nessuna di esse figura un riferimento esplicito alla natura aggravata di tali delitti, con diretto richiamo all’art. 7 d.l. n. 152/1991; viene invece di volta in volta fedelmente riprodotto il contenuto descrittivo della fattispecie circostanziata ivi delineata. Si profila pertanto il dubbio se il rinvio di queste disposizioni ai delitti commessi con metodo o con finalità di agevolazione mafiosi debba intendersi investire la qualificazione aggravante o soltanto il sostrato di fatto di tale qualificazione. L’interrogativo ha ragione di essere posto dal momento che, come accennato in apertura (77), la fattispecie aggravata dispone di un’estensione, o comunque di un ambito di applicazione ridotto rispetto alla potenzialità espansiva del suo sostrato di fatto: per un verso, sfuggono alla qualificazione aggravante i delitti punibili con l’ergastolo; per altro verso, (76) Per quanto attiene invece al termine iniziale di durata delle indagini preliminari l’innalzamento da sei mesi ad un anno riguarda — ai sensi dell’art. 405 comma 2 — i soli delitti previsti dalla lettera a) dell’art. 407 comma 1 c.p.p.; mentre la deroga alla disciplina ordinaria della proroga del termine, nel senso della esclusione dell’avviso alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa dal reato così come di ogni eventuale contraddittorio, è prevista dall’art. 406 comma 5-bis ancora una volta per i soli delitti ex art. 51 comma 3-bis c.p.p. (77) Supra, n. 1 e nt. 1.
— 72 — la circostanza aggravante non si applica nei confronti dell’imputato dei delitti in esame che, dissociandosi dagli altri, tenga i comportamenti « collaborativi » indicati dall’art. 8 d.l. n. 152/1991 e costituenti a loro volta un’attenuante ad effetto speciale. È legittimo dunque chiedersi se in queste due ipotesi possa o meno trovare ugualmente applicazione il regime processuale differenziato o in altre parole se, a prescindere dalla quasi completa coincidenza, la fattispecie processuale dei delitti commessi col metodo o con la finalità agevolatrice mafiosi abbia una precisa autonomia rispetto alla fattispecie aggravata sostanziale. Una risposta affermativa al quesito, e quindi la mancata riproduzione in sede processuale dei limiti di operatività della fattispecie aggravata di diritto sostanziale, può essere argomentata innanzitutto con specifico riferimento alla normativa contenuta nell’art. 4-bis l. n. 354/1975 (78). In forza di questa disposizione la particolare disciplina di concessione dei benefici penitenziari, che prescinde dalla collaborazione con la giustizia, ai detenuti o internati per i delitti cosiddetti della prima fascia (79) è subordinata all’applicazione, tra le altre, della circostanza attenuante prevista dall’art. 62 n. 6 c.p. « anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna ». Ora, se il citato art. 4-bis comma 1 riconosce espressamente rilevanza sul piano penitenziario alla condotta risarcitoria pure in assenza del fondamentale presupposto dell’anteriorità al giudizio, che ne condiziona l’effetto attenuante a livello di diritto penale sostanziale, e se ciò avviene addirittura a dispetto dell’esplicito richiamo alla natura di circostanza attenuante del comportamento contemplato, a maggior ragione dovrà riconoscersi autonomia di effetti, rispetto alla fattispecie aggravata ex art. 7 d.l. n. 152/1991, ai delitti commessi con il metodo o con il fine di agevolazione mafiosi, che vengono richiamati dalla medesima disposizione della legge penitenziaria senza alcun riferimento alla loro qualificazione aggravata. Questa conclusione può essere legittimamente estesa all’insieme delle norme da cui risulta il regime processuale differenziato, e consente altresì di rispondere ad un altro quesito che può sorgere sul piano del diritto transitorio, questa volta indipendentemente dai margini di non completa coincidenza tra la fattispecie sostanziale e quella processuale. Si dia il caso che in costanza del nuovo regime processuale si avviino le indagini preliminari per un delitto aggravato dal metodo o dalla finalità mafiosi commesso prima dell’entrata in vigore dell’art. 7 d.l. n. 152/1991. L’aggravamento di pena non può evidentemente trovare applicazione, nel rispetto dell’art. 2 comma 1 o 3 c.p.; ma si pone il problema, tra gli altri, se (78) Cfr. MANZIONE, Una normativa « d’emergenza », cit., p. 856 s. (79) Cfr., supra, n. 9.2.
— 73 — subentri o meno la competenza della procura distrettuale antimafia ai sensi dell’art. 51 comma 3-bis c.p.p. Chi ricolleghi gli effetti processuali alla medesima fattispecie di diritto sostanziale che comporta l’aumento di pena dovrebbe orientarsi in senso negativo; a voler invece seguire la soluzione qui raccomandata, nel senso della autonomia della (quasi interamente) corrispondente fattispecie prevista dalle norme processuali, nulla osta all’applicazione dell’ordinario principio in materia di successione di leggi processuali del tempus regit actum (80). GIANCARLO DE VERO Straordinario di Diritto penale nell’Università di Messina
(80) Altro discorso andrebbe chiaramente fatto ove si aderisse all’orientamento dottrinale (riferimenti essenziali in FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 74 s.) che estende alla legge processuale penale come tale il principio di irretroattività sancito dall’art. 25 comma 2 Cost.
DIRITTO DI MORIRE E DIRITTO PENALE I termini di una relazione problematica (*)
SOMMARIO: 1. La dimensione pregiuridica del problema dell’eutanasia. - 1.1. I possibili atteggiamenti del giurista e in particolare del penalista. - 1.2. L’inevitabilità di una scelta di campo preliminare. — 2. L’inadeguatezza dell’attuale disciplina dell’omicidio pietatis causa. Tra mancanza di normativa specifica ed eccessi sanzionatori. - 2.1. L’omicidio del consenziente: l’indisponibilità manu alius del bene della vita e le condizioni di validità del consenso. - 2.2. L’incriminazione dell’aiuto al suicidio e le sue implicazioni sulla dibattuta disponibilità manu propria del bene della vita — 3. La liceità della c.d. eutanasia passiva consensuale: alle radici del diritto di morire. - 3.1. Le ipotesi problematiche. In particolare: a) la disattivazione del sostegno artificiale della vita; b) la terapia del dolore; c) la sospensione delle cure ad opera di persona diversa dal medico. 3.2. Incertezze interpretative e lacune legislative in ordine alla tutela penale del diritto di morire. — 4. Il dovere di curare nei confronti del paziente terminale incosciente: il principio in dubio pro vita e il suo fondamento costituzionale. - 4.1. Lo stato vegetativo permanente e i limiti di tutela della vita biologica. - 4.2. Le condizioni di validità del c.d. testamento in vita. — 5. Lineamenti di una auspicabile riforma. - 5.1. La mancanza di indicazioni costituzionali univoche - 5.2. Il bilanciamento tra diritto di morire e istanze collettivistiche - 5.3. Le articolazioni del possibile intervento riformatore: modalità e livelli d’incidenza.
1. Le comprensibili difficoltà di una trattazione dell’eutanasia pietosa, che aspiri a essere esclusivamente « tecnica », che, con asettica neutralità, pretenda cioè di cogliere i soli profili giuridici del tema, dipendono intuitivamente dall’assorbente dimensione pregiuridica che presenta il problema: ogni uomo ha una sua etica della morte, così come ogni popolo ha una sua cultura della morte. Se la pretesa di assolutezza e di definitività non fosse di per sé ingenua e velleitaria, si potrebbe dire che quello dell’eutanasia pietosa è uno dei campi dove appaiono impossibili sia pronunciamenti universalmente validi, sia soluzioni sottratte al relativismo delle coordinate spazio-temporali, come confermano oltre tutto gli esiti di un pure superficiale esame storico e comparatistico. Del resto, parimenti difficile è la ricerca di soluzioni al problema dell’eutanasia valide per un contesto sociale, storicamente determinato, qual è il nostro attuale. Lace(*) Si tratta del testo, ampliato e corredato di note, della relazione svolta al Convegno Internazionale di studi sul tema: « Una norma giuridica per la bioetica » (Siena, 9-11 giugno 1994).
— 75 — rando le coscienze individuali, la questione dell’eutanasia divide anche, se non soprattutto, la compagine delle società pluralistiche e multiculturali, mettendone a prova la professata laicità. Si comprende infatti che, a fronte della diversità dei singoli punti di vista, sul piano giuridico la soluzione cui in ogni caso si deve pervenire non può che essere unitaria. Talché, la questione si arricchisce di un profilo, che investe gli stessi fondamenti della vita democratica. E precisamente: acquisita — come dimostrano i termini di un dibattito profondamente tormentato — l’esistenza di posizioni contrapposte e in larga misura inconciliabili, quali possono essere i criteri in base ai quali stabilire la prevalenza tra l’atteggiamento di favore e quello di contrarietà all’eutanasia pietosa? Senza con ciò voler disconoscere o sminuire il principio che in democrazia prevale la volontà della maggioranza, non par dubbio che, applicato a una materia così delicata, il criterio dell’alzata di mano porta in sé il rischio di una rozza semplificazione della questione, che può acuire il contrasto tra gli opposti punti di vista, presenti nel tessuto sociale. 1.1. La dimensione pregiuridica del tema dell’eutanasia, dunque, rifluisce su ogni suo sviluppo ed elaborazione. È difficile negare infatti che le convinzioni morali e il patrimonio culturale di chi si occupa dell’eutanasia ne condizionino fortemente la trattazione « tecnica ». E ciò tanto nel caso che il tecnico sia un medico, quanto in quello che si tratti di un giurista: nonostante gli sforzi (e più spesso le dichiarazioni) di obiettività, ciascuno utilizza la propria perizia tecnica per avvalorare la soluzione che, magari problematicamente, ha già prescelto come uomo della strada, salvo poi a riproporla in termini di più o meno ineccepibile scientificità. A parte ciò, e quando il problema viene collegialmente discusso nella prospettiva di un’ampia interdisciplinarietà, di fronte alla frequente divergenza delle possibili angolazioni, esiste un punto di vista prevalente? Le osservazioni che precedono lasciano ragionevolmente supporre che molte delle conclusioni « tecniche », che interessano la tematica dell’eutanasia, presentano una dimensione palese ed una non meno decisiva dimensione nascosta, la cui convivenza può rivelare diversi livelli di onestà intellettuale. Vi è anche la possibilità che un dibattito sull’eutanasia si apra con l’opportunità di parlarne e si concluda con il proposito di riparlarne. Il rischio è che — così facendo — si sviluppi un atteggiamento di pura esorcizzazione del problema (1), la cui soluzione — in un senso o nell’altro — si rimandi eternamente, addossando alle scelte legislative già compiute la responsabilità di un esistente tollerato. Di fronte a una siffatta eventualità, (1) Frequente è del resto il rilievo che la nostra società tende a escludere la morte dalle rappresentazioni collettive e quotidiane; così ad esempio B. STURLESE, J. BATAILLE, C. BASCHET, Les droits de la personne devant la vie et la mort, in Problèmes politiques et sociaux, 1993, p. 51.
— 76 — è certamente preferibile l’atteggiamento di chi, nel dubbio, approda a un remissivo non liquet o, all’opposto, palesa la propria convinzione morale e culturale, ancorché la renda più « agguerrita » attraverso ogni possibile argomento tecnico, che gli consente la sua formazione professionale. Soprattutto al giurista si presentano molti modi di impostare la questione dell’eutanasia: può, ad esempio, far valere la propria scelta attraverso i passaggi di una interpretazione, professata come impersonale e rispettosa dei valori della legge; mentre è noto che, a fronte dei vincoli testuali cui è assoggettata, l’attività ermeneutica consente (e talvolta impone) opzioni che l’avvicinano alla creazione del diritto. All’opposto, anche il giurista può sottrarsi di fatto al dibattito sull’eutanasia. È sufficiente adottare un atteggiamento di self restraint rispetto alle prevalenti competenze di studiosi di altre discipline scientifiche, trascurando che in ogni caso una soluzione legislativa al problema è inevitabile. A tale ultimo proposito, poi, il giurista può sempre osservare che solo il legislatore ha una competenza alla regolamentazione del fenomeno, sottacendo che tra i compiti oramai acquisiti della scienza giuridica vi è anche quello di seguire, se non indirizzare, la politica legislativa, segnalando i possibili settori di intervento. In breve: il giurista ha diversi modi per una sostanziale — ma mai neutrale — elusione della questione. Lo spostamento in altra sede delle radici del problema consente di legittimare il mantenimento dello status quo legislativo, quando non giunge a favorire soluzioni prasseologiche e sottobanco, ispirate alla logica del caso per caso. Quanto in particolare al penalista, è ben vero che si trova più direttamente a contatto con le scelte che l’ordinamento fa in ordine alla tutela della vita. Nondimeno, il suo coinvolgimento « tecnico » al tema dell’eutanasia è particolare. Infatti, il diritto penale non può che registrare le ripercussioni punitive di scelte di valore più generali. E precisamente: poiché il problema dell’eutanasia pietosa è il problema di un possibile limite alla tutela della vita, è chiaro che al diritto penale spetta la funzione di una presa d’atto delle scelte effettuate al riguardo, che può variare per incisività, ma che non può essere del tutto autonoma. Ne consegue che al sapere specifico del penalista si può attingere soprattutto per configurare possibili modelli differenziati di tutela della vita. 1.2. Questa breve premessa vorrebbe avere un riflesso immediato: consentire di precisare che, nel tratteggiare i principali risvolti penalistici dell’eutanasia pietosa, quali risultano dal nostro attuale assetto normativo e dalle possibili prospettive di riforma, le presenti note non simuleranno nemmeno di svilupparsi al di fuori di qualsiasi scelta di campo. Più realisticamente, esse cercheranno invece di recuperare la problematicità dell’ampio dibattito, sviluppatosi negli ultimi anni sull’eutanasia, nell’esposizione di un punto di vista personale sull’argomento, che comunque non intende proporsi in forma di « tesi » da accettare o da confutare. Queste
— 77 — dunque le ragioni per cui, prima di entrare nel vivo del tema, è il caso di anticipare che le riflessioni seguenti muovono da una convinzione « pregiuridica », favorevole a una riforma della normativa vigente, che miri ad attenuare l’attuale rigore sanzionatorio con cui è trattata l’eutanasia pietosa non consensuale. Ritenendo, per i motivi che emergeranno lungo la trama delle argomentazioni giuridiche, troppo « forte » e assoluta la concezione dell’indisponibilità del bene della vita, posta da larga parte della dottrina a giustificazione dell’odierno trattamento penale dell’eutanasia, pare altresì auspicabile un espresso intervento legislativo, che assicuri effettività al principio dell’incoercibilità del vivere e al dovere di rispettare l’altrui volontà di lasciarsi morire. Per altro verso, la mancanza di indicazioni costituzionali univoche in materia non sembra precludere, in linea di principio, un ampliamento degli attuali margini di disponibilità del bene della vita e la rinuncia a pena, non solo nel caso di aiuto al suicidio del malato terminale, ma anche in talune ipotesi di eutanasia attiva consensuale, che oggi ricadono nell’ambito dell’omicidio del consenziente. Il lettore può valutare fin d’ora il valore e la condivisivilità della scelta. Se vorrà, giudicherà inoltre i margini di arbitrarietà degli argomenti « tecnici » con cui si cercherà di avvalorare tale punto di vista. 2. Com’è noto, anche sotto il profilo penale, l’eutanasia pietosa manca nel nostro ordinamento di una normativa specifica: di una normativa cioè che prenda in considerazione espressamente il fenomeno, tenendo conto delle circostanze e dei moventi eutanasici. Di conseguenza, nella sua forma c.d. attiva, che è poi quella cui più propriamente si riferisce il termine, l’eutanasia pietosa ricade nella regolamentazione di norme generali; di fattispecie, cioè, dettate indipendentemente dalle peculiarità del fenomeno in esame e in ragione, piuttosto, di esigenze di tutela ritagliate su fenomenologie criminologiche sensibilmente diverse. Più precisamente, posto che la tutela della vita è assicurata da un’articolata costellazione di fattispecie di omicidio, è da queste ultime che deve necessariamente procedere l’inquadramento penale delle ipotesi che si sogliono ricondurre al concetto di eutanasia. Ne deriva un quadro non privo di rigorismi paradossali (2): solo a titolo esemplificativo, si pensi che l’omicidio pietatis causa commesso senza il consenso del paziente, se da un lato può risultare attenuato in virtù del rilievo che l’art. 62 n. 1 c.p. riconosce ai motivi di particolare va(2) L’inadeguatezza della normativa vigente è comunemente riconosciuta in dottrina; da diverse angolazioni e con varietà di accenti, nella letteratura recente v. tra gli altri: F. STELLA, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, in Riv. it. med. leg., 1984, p. 1008; F. RAMACCI, Premesse alla revisione della disciplina penale dell’aiuto a morire, in Studi Senesi, 1988, suppl., p. 303 s.; F. TABANELLI, Eutanasia attiva e passiva: opportunità di una riconsiderazione delle disposizioni del codice penale in materia, in Critica pen., 1989, p. 48 s.
— 78 — lore morale e sociale (3), dall’altro lato, risulterà con ogni probabilità aggravato dalla premeditazione (artt. 576, comma 1, e 577, comma 1, n. 3, c.p.). Cosicché, quell’intervallo temporale tra la deliberazione dell’azione e la sua realizzazione, che è connaturale al travaglio di una scelta in ogni caso difficile, nel nostro sistema può far trasmigrare il fatto addirittura tra le ipotesi punite con l’ergastolo. Una soluzione, questa, cui si perviene anche nel caso in cui l’agente adoperi sostanze venefiche come strumento di morte, se non necessariamente rapido e indolore, quantomeno incruento, ovvero all’azione partecipi, anche a solo titolo di concorso morale, un ascendente o un discendente del soggetto passivo (artt. 576 e 577, comma 1, nn. 1 e 2, c.p.). Né, come a suo tempo prospettato (4), può ritenersi che l’eutanasia non rientri nel tipo penale dell’omicidio, in quanto non sarebbe omicidio il troncare l’agonia di un soggetto destinato alla morte per una malattia inguaribile. È insegnamento indiscusso anche nella nostra dottrina, che l’omicidio presuppone solo la vita della vittima, non anche la sua attitudine a vivere (5); come dimostra il pacifico inquadramento come omicidio dell’uccisone del condannato a morte anche solo un istante prima dell’esecuzione della sua pena (6). 2.1. L’inadeguatezza e la severità dell’attuale assetto legislativo in materia di eutanasia pietosa risultano poi solo in parte compensate dalla previsione dell’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), come fattispecie (3) La questione, per di più, è controversa. Per l’applicabilità dell’attenuante, già affermata nei lavori preparatori (Relazione ministeriale al Progetto definitivo, II, p. 374, n. 661), v. la dottrina prevalente, tra cui: C. SALTELLI, E. ROMANO-DI FALCO, Commento teorico-pratico del nuovo codice penale, 2a ed., vol. IV, Torino, 1940, p. 252.; V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, 5a ed., a cura di P. NUVOLONE e G.D. PISAPIA, vol. VIII, Torino, 1985, p. 106; F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte speciale, 11a ed. a cura di L. CONTI, vol. I, Milano, 1994, p. 64; R. PANNAIN, Omicidio (diritto penale), in Nss. D.I., vol. XI, 1968, p. 883. Contra: G. MAGGIORE, Diritto penale, parte speciale, 2a ed., vol. II, p. 631. In quest’ultimo senso si orienta anche la giurisprudenza, che, muovendo dal rilievo secondo cui i motivi di particolare valore morale sono penalmente rilevanti solo se accompagnati da un generale e attuale apprezzamento sociale, esclude la riconducibilità nell’ambito dell’art. 62 n. 1 delle motivazioni eutanasiche, in ragione delle discussioni esistenti sulla condivisibilità dell’eutanasia, sintomatiche della mancanza di un loro generale apprezzamento; cfr. Cass., sez. I, 7 aprile 1989, Billo, in Cass. pen., 1991, p. 1778, con nota di M. GARAVELLI, Eutanasia e attenuanti del motivo di particolare valore morale, ivi, p. 1780 s. (4) Cfr. G. DEL VECCHIO, Morte benefica (l’eutanasia) sotto gli aspetti etico-religioso, sociale e giuridico, Torino, 1928, p. 88. (5) Per tutti v. F. ANTOLISEI, op. cit., p. 43. (6) Cfr. F. ANTOLISEI, op. cit., p. 44; e più di recente G. FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, p. 676. Nella dottrina tedesca, analogamente, v. per tutti, C. ROXIN, Pflichtwidrigkeit und Erfolg bei fahrlässigen Delikten, in ZStW, 1962, (74), p. 428. Con riferimento al tema specifico dell’eutanasia, per la decisa affermazione del principio che « a nessuno è dato di anticipare sia pure di un solo minuto la morte di alcuno », v. G. MAGGIORE, op. cit., p. 629.
— 79 — meno grave di omicidio (ma punita pur sempre con una sanzione che può arrivare fino a quindici anni di reclusione). Vale la pena di ricordare preliminarmente che l’introduzione, ad opera del codice Rocco, dell’omicidio del consenziente ha rappresentato una significativa innovazione rispetto alla tradizione legislativa italiana, dato che un’analoga fattispecie era sconosciuta sia al codice Zarardelli del 1889, sia ai codici preunitari. E per quanto, come si è già detto, l’incriminazione in questione non prenda espressamente in considerazione il fenomeno dell’eutanasia pietosa, la ragion d’essere dell’attuale art. 579 c.p. non è del tutto scollegata dal dibattito sull’eutanasia, che ha coinvolto la dottrina penalistica del secolo scorso. Si trattava di un dibattito che originava da autorevoli prese di posizione favorevoli all’eutanasia tout court (7) e alla diponibilità del bene della vita (8), ma soprattutto da alcuni orientamenti giurisprudenziali affermatisi sotto la vigenza del codice Zanardelli. Invero, l’eccessiva severità della legislazione allora in vigore, vale a dire la riconduzione di tutte le ipotesi di omicidio doloso nell’ambito di un’unica e indifferenziata fattispecie (9), aveva indotto in taluni casi la giurisprudenza a interpretazioni distorte del dato testuale, finalizzate ad evitare, in presenza del consenso del soggetto passivo, l’incriminazione a titolo di omicidio, per di più premeditato (10). Si comprende pertanto che, in questo contesto, l’introduzione da parte del nuovo codice di una fattispecie attenuata di omicidio, subordinata al requisito del valido consenso della vittima, mirasse a ripri(7) È sufficiente ricordare qui lo scioccante saggio di K. BINDING, A. HOCHE, Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens, Leipzig, 1920 (secondo i quali doveva andare esente da pena la soppressione di soggetti, la cui vita, a causa di demenza, vecchiaia o sofferenze inguaribili, risultasse priva di valore) e le aspre critiche che esso suscitò in seno alla nostra dottrina. Cfr. ad esempio V. MANZINI, op. cit., p. 103 s., che non mancò di bollare come barbare le tesi di Binding e di definire Hoche « un alienista, e in parte anche un alienato, se si deve giudicare da quello che scrive » (ivi nota 11). (8) Per la particolare notorietà e incisività, il riferimento va soprattutto alla netta presa di posizione di E. FERRI, L’omicidio-suicidio, 4a ed., Torino, 1895, p. 19 s., secondo cui l’uomo « come ha diritto di vivere » così « ha diritto di morire » e « di disporre della sua vita ». Per un recente riesame del pensiero di Ferri sul tema, v. A. CADOPPI, Una polemica fin de siècle sul « dovere di vivere »: Enrico Ferri e la teoria dell’omicidio-suicidio, in Vivere: diritto o dovere? Riflessioni sull’eutanasia, a cura di L. STORTONI, Trento, 1992, p. 125 s. (9) Faceva eccezione la sola previsione — all’art. 369 cod. Zanardelli — di una fattispecie attenuata, punita con la detenzione da tre a dodici anni, per il caso di infanticidio commesso « per salvare l’onore proprio, o della moglie, della madre, della discendente, della figlia adottiva o della sorella ». (10) Con riferimento all’ipotesi di c.d. « doppio suicidio » o « suicidio a due », si era interpretato analogicamente l’art. 370 cod. Zanardelli (Determinazione o aiuto al suicidio), in modo da condannare il soggetto sopravvissuto per aiuto al suicidio, anziché per omicidio (cfr. ad esempio Cass. 13 settembre 1992, in Riv. pen., 1923, p. 249 s.; Corte App. Catanzaro, 15 febbraio 1924, ivi, 1924, p. 469). Del resto, non pochi erano stati i casi di imputati assolti finanche dal delitto di cui all’art. 370 cit.; per ulteriori e più dettagliate informazioni, v. sul punto E. FERRI, op. cit., 5a ed., Torino, 1925, p. 579 s.
— 80 — stinare la piena effettività della tutela della vita e, per altro verso, a negare in linea di principio ogni legittimazione all’eutanasia pietatis causa. Non a caso, è proprio sulla base della nuova fattispecie che si sono sviluppati i più estremi tentativi di collettivizzazione del bene della vita, fino al limite della sua statualizzazione. Nel contesto dei primi e più autorevoli commenti della norma è dato riscontrare infatti esplicitazioni in tal senso, che conviene brevemente ricordare: « La esistenza umana appartiene a Dio, alla Patria, allo Stato, alla società, alla famiglia: a tutti questi ordinamenti superindividuali, non all’individuo » (11). E ancora: « Nel numero è la forza materiale, economica e morale di un popolo. Ecco la ragion d’essere della norma contenuta nell’art. 579 c.p.; opportunissima norma (...) ma fuori posto nell’ordine sistematico del codice, collocata com’è sotto la rubrica dei delitti contro la persona » (12), piuttosto che tra i delitti contro l’integrità della stirpe (13). Oltre che da esplicite effermazioni in tal senso, rinvenibili in larga misura nei lavori preparatori (14), l’atteggiamento di chiusura, adottato dal codice Rocco nei confronti di una regolamentazione dell’eutanasia pietosa, emerge poi da un rilievo di tutta evidenza. E precisamente: rispetto alla fattispecie generale di omicidio, l’unico elemento specializzante della fattispecie attenuata di cui all’art. 579 c.p. è costituito dal dato oggettivo del consenso della vittima, là dove nessun dubbio può esservi sull’imprescindibilità delle motivazioni altruistiche nella descrizione del fenomeno dell’eutanasia pietosa (15); motivazioni, la cui rilevanza — si è visto — viene invece relegata deliberatamente al livello di mero elemento circostanziante. Il punto merita attenzione, poiché, pur senza contare le difficoltà che può comportare il suo accertamento (16), il requisito del consenso pone una serie di problemi applicativi, che rendono ancora più difficile de iure condito far rientrare i casi di eutanasia nell’ambito operativo dell’art. 579 c.p. (17), anziché in quello della fattispecie generale di omicidio. Il riferimento non va tanto al principio della necessaria validità del consenso, che (11) Cfr. G. MAGGIORE, op. loc. cit. (12) Così iniziava il commento dell’art. 579 c.p. O. VANNINI, Il delitto di omicidio, Milano, 1935, p. 115. (13) V. ancora O. VANNINI, op. cit., p. 117, che ravvisava nell’omicidio del consenziente un delitto sulla persona, ma non contro la persona. Ritenevano che l’indisponibilità della vita umana sancita dall’art. 579 c.p. si giustificasse con « l’interesse statale, sovra ogni altro interesse preminente, alla conservazione della stirpe », C. SALTELLI, E. ROMANO-DI FALCO, op. cit., p. 251. (14) Cfr. la Relazione ministeriale, cit., p. 374, n. 661. (15) Cfr. M. PORZIO, Eutanasia, in Enc. dir., vol. XVI, 1967, p. 106; F. MANTOVANI, Problemi giuridici dell’eutanasia, in Arch. giur., 1970, p. 40; ID., Eutanasia, in Dig. disc. pen., vol. IV, 1990, p. 429. (16) V. anche L. STORTONI, Introduzione, in Vivere: diritto o dovere?, cit., pp. 8-9. (17) Anche durante i lavori preparatori non mancarono del resto consapevoli critiche a questo proposito. V. ad esempio l’intervento del senatore Madia (Verbali comm. parlam.,
— 81 — di per sé parrebbe espressivo della scelta legislativa di dare rilievo solamente all’eutanasia consensuale, ma alle condizioni della sua necessaria validità, che si ricavano dal secondo comma dell’art. 579 c.p. Orbene, nulla quaestio là dove tale norma dispone l’invalidità del consenso espresso da un minore ovvero estorto con costrizione o carpito con inganno. È questa una previsione indubbiamente opportuna ove si consideri, da un lato, che nell’adolescenza il desiderio di morte è spesso collegato a disturbi affettivi propri dell’età evolutiva (18) e, dall’altro lato, che — per un principio generale dell’ordinamento (19) — il consenso non può più considerarsi libero quando il processo formativo della volontà di chi lo esprime è condizionato dall’altrui violenza o inganno. Diversamente, deve dirsi in relazione all’invalidità del consenso prestato da una « persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità ». Qui i problemi nascono già in ordine al concetto d’infermità di mente, dato che, come conferma peraltro il dibattito sviluppatosi in relazione al vizio di mente quale causa di inimputabiltà (artt. 88 e 89 c.p.), conseguenze applicative sensibilmente diverse discendono dall’accoglienza o meno di una nozione puramente nosografica di « malattia mentale ». Solo a titolo esemplificativo, particolarmente dubbia finisce per risultare la validità del consenso prestato in presenza di anomalie psichiche, nel cui ambito vengono comunemente ricomprese le deficienze intellettive, le reazioni psicogene abnormi e le personalità abnormi (20). Senza contare poi che, per la ben nota crisi di identità che da tempo travaglia la nozione di malattia mentale in seno alla moderna psichiatria (21), ulteriormente accresciuto risulta il rischio che la validità o meno del consenso finisca per dipendere dal parametro scientip. 331), il quale lamentava che « così come quest’articolo è redatto, si viene ad escludere proprio l’eutanasia ». (18) Cfr. F. LADAME, I tentativi di suicidio degli adolescenti, trad. it. a cura di A. NOVELLETTO, Roma, 1987, p. 15 s. V. anche: G. CANEPA, Personalità e delinquenza, Milano, 1974, p. 207; F. BRUNO, G.A. ROLI, S. COSTANZO, Il suicidio, in Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, a cura di F. FERRACUTI, vol. VII, Criminologia dei reati omicidiari e del suicidio, Milano, 1988, vol. VII, p. 268 s. (19) In argomento, v. M.G. GALLISAI PILO, Consenso dell’avente diritto, in Dig. disc. pen., vol. III, 1989, p. 81. Dall’angolazione civilistica, v. anche U.G. NANNINI, Il consenso al trattamento medico. Presupposti teorici e applicazioni giurisprudenziali in Francia, Germania e Italia, Milano, 1989, p. 439 s. (20) Cfr. American Psychiatric Association, DMS-III-K, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Milano, Parigi, Barcellona, Messico, 1990, p. 51 s. e p. 289 s. Tra i manuali di criminologia v.: G.L. PONTI, Compendio di criminologia, 3a ed., Milano, 1990, p. 344 s.; F. MANTOVANI, Il problema della criminalità, Padova, 1984, p. 124 s. (21) Il riferimento va segnatamente alla corrente internazionale dell’antipsichiatria degli anni ’60 e ’70, che, come noto, in Italia ha avuto uno dei principali rappresentanti in F. BASAGLIA (in particolare cfr. L’istituzione negata, Torino, 1968). Nella letteratura angloamericana, v. per tutti: T.S. SZASZ, Il mito della malattia mentale, trad. it. a cura di F. SABA SARDI, Milano, 1966.
— 82 — fico adottato dallo psichiatra cui è affidato l’incarico peritale; si pensi ad esempio al tuttora contrastato dibattito sulla natura della sindrome depressiva (22). A parte ciò, e a differenza di quanto previsto in materia di imputabilità, ai fini dell’operatività dell’art. 579 c.p. non ha nessun valore il grado dell’infermità (23), con la conseguenza che un’alterazione anche lieve delle capacità mentali del soggetto passivo è sufficiente ad invalidarne il consenso, e a far ricadere l’omicidio del consenziente nella più severa cornice dell’art. 575 c.p. (24). Ma la questione interpretativa più delicata si riconnette — com’è intuitivo — soprattutto alle « condizioni di deficienza psichica »; inciso, questo, che attualmente ricorre anche in altre norme del codice penale (25), e che pertanto ha favorito l’elaborazione di una nozione unitaria di deficienza psichica e, come tale, svincolata sia dalla diversità di funzione, che essa svolge nelle singole fattispecie, sia dalla differente ratio di ciascuna di esse. In questa prospettiva ricostruttiva, è opinione largamente diffusa che l’espressione deficienza psichica stia a indicare tutte le forme, anche non morbose e clinicamente non definite, di abbassamento intellettuale, di menomazione del potere di critica, di indebolimento della funzione volitiva o affettiva, che rendono facile la suggestionabilità e diminuiscono le capacità di difesa contro l’altrui opera di coazione psicologica o suggestione (26). Com’è evidente, ne discende un ulteriore e pressoché insuperabile ostacolo all’applicabilità dell’art. 579 c.p. al fenomeno dell’eutanasia. Invero, anche quando la malattia non determina nel soggetto passivo uno stato di infermità di mente, sarà difficile non ravvisare una condizione di deficienza psichica nella situazione del malato termi(22) Le due più note e antitetiche interpretazioni della sindrome depressiva sono quelle degli indirizzi biologico-organicistici (di recente v. G.B. CASSANO, S. ZOLI, E liberaci dal male oscuro, Milano, 1993, p. 55 s.), da un lato, e dall’altro della corrente psicodinamica della psichiatria (cfr. per tutti E. JACOBSON, La depressione, trad. it. a cura di G. PINTO, Firenze, 1977, p. 191 s.). (23) In tal senso, v. V. PATALANO, Omicidio (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XXIX, 1979, p. 668. Sul punto v. anche le osservazioni di B. PANNAIN, F. SCLAFANI, M. PANNAIN, L’omicidio del consenziente e la questione « eutanasia », 2a ed., Napoli, 1988, p. 10. (24) Per ulteriori rilievi sull’argomento cfr.: V. PATALANO, I delitti contro la vita, Padova, 1984, p. 193 s.; F. INTRONA, Omicidio del consenziente ed analisi psichiatrico-forense della validità del consenso, in Riv. it. med. leg., 1987, p. 205 s. (25) V. gli artt. 112, 580, 643 e 689. Alle condizioni di deficienza psichica della vittima faceva pure riferimento l’abrogata fattispecie di Istigazione alla prostituzione e favoreggiamento (art. 531 c.p.). (26) Cfr.: R. PANNAIN, op. ult. cit., p. 881; V. PATALANO, op. ult. cit., p. 194. Per ulteriori rilievi, v. anche: A. FRANCHINI, Medicina legale, 10a ed., Padova, 1985, p. 504 s.; F. INTRONA, op. cit., p. 204 s. In giurisprudenza, v.: Cass., sez. II, 11 giugno 1992, Frandino, in Giust. pen., 1993, II, 564: ID., sez. VI, 26 marzo 1987, Mancini, in Riv. pen., 1987, 1066; ID., sez. II, 16 ottobre 1984, Vulcano, in Cass. pen., 1987, 69.
— 83 — nale (27), il quale acconsente alla propria uccisione in preda a intollerabili dolori, non ininfluenti sull’equilibrio psicologico, e magari sotto l’effetto di adeguati analgesici narcotici (28). Né, allo scopo di sovvertire il coerente sistema di preclusioni legislative all’applicabilità dell’art. 579 c.p. ai casi di eutanasia, varrebbe tentare interpretazioni meno rigoriste del requisito della deficienza psichica. Ritenere, ad esempio, che la deficienza psichica indichi null’altro che una condizione di incapacità già assorbita nel concetto di infermità di mente equivale, da un lato, a proporre una interpretatio abrogans della netta distinzione legislativa tra infermità di mente e deficienza psichica e, dall’altro lato, a disconoscere la sua chiara ratio rafforzativa del bene della vita. 2.2. Il quadro normativo dell’attuale trattamento dell’eutanasia pietosa sarebbe gravemente lacunoso, ove si omettesse di considerare le implicazioni sia di principio, sia applicative, che discendono sul tema dell’eutanasia dalla previsione dell’istigazione o aiuto al suicidio, come ipotesi autonoma di reato punito con la reclusione fino a dodici anni (art. 580 c.p.). Si tratta di una fattispecie incriminatrice che, sconosciuta ad altre legislazioni europee (29), rafforza nella nostra tradizione legislativa le già considerate preclusioni ideologiche al fenomeno dell’eutanasia, arricchendole di un retroterra culturale a cui vale la pena di accennare. Ed invero, la presenza, fin dai codici del secolo scorso (30), di un’apposita fattispecie che incrimina il concorso nell’altrui suicidio, ha consentito di conciliare la mancata repressione del suicidio (ovviamente nella forma tentata) con il principio dell’indisponibilità della vita. Si può dire anzi che la illiceità penale dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio costituisce il tradizionale perno concettuale di quella concezione collettivistica del bene della vita e dell’integrità personale, che, successivamente, ha trovato nell’introduzione dell’omicidio del consenziente motivo di conferma e di ulteriore accentuazione, fino agli eccessi statualistici che si sono già (27) Cfr.: E. ALTAVILLA, Delitti contro la persona, in Trattato di diritto penale, coordinato da E. FLORIAN, 4a ed., Milano, 1934, p. 159; F. ANTOLISEI, op. cit., p. 64. Più di recente: F. MANTOVANI, Aspetti giuridici dell’eutanasia, in questa Rivista, 1988, p. 463; V. FILIPPI, I profili penalistici della così detta eutanasia, in Arch. pen., 1988, p. 84; F. TABANELLI, op. cit., p. 51; G. IADECOLA, Il medico e la legge penale, Padova, 1993, p. 120. (28) Sul punto cfr. in particolare G. GIUSTI, L’eutanasia. Diritto di vivere-diritto di morire, Padova, 1982, p. 79 s. (29) V. ad esempio il codice penale tedesco, che pure conosce la fattispecie di omicidio del consenziente (§ 216 StGB). Per un’ampia rassegna della legislazione straniera, v. B. PANNAIN, F. SCALFANI, M. PANNAIN, op. cit., p. 27 s. Con riferimento ai sistemi di common law, v. specificamente A. MCCALL SMITH, Suicidio ed aiuto al suicidio negli ordinamenti di common law, in Vivere: diritto o dovere?, cit., p. 179 s. (30) V. il codice Zanardelli (art. 370) e ancor prima il codice del Granducato di Toscana (art. 314). Per una retrospettiva storica, v., in argomento, ampiamente A. CADOPPI, Una polemica, cit., 126 s.
— 84 — segnalati. I termini dell’impostazione possono così riassumersi: la « sostanziale » contrarietà del diritto al suicidio si ricava dalla illiceità penale del concorso nell’altrui suicidio, in quanto, se illecita è l’attività di istigazione e di aiuto al suicidio, parimenti illecita deve considerarsi a fortiori l’attività istigata e agevolata (31). D’altro canto, seppure non si neghi l’anomalia di una siffatta disciplina (32), la mancata repressione penale del tentativo di suicidio viene giustificata ora con l’inefficacia deterrrente della pena nei confronti di chi persegue una finalità autolesionistica (33), ora sulla base di mere ragioni politico-criminali (34). Spiegazioni, queste, che in ogni caso non escluderebbero — a giudizio della dottrina — il carattere contra ius del suicidio (35), il cui impedimento — quando non risulta doveroso, per la sussistenza dei presupposti dell’art. 593 c.p. (36) — sarebbe conseguentemente lecito ex art. 52 c.p. (37). A ben vedere, l’iter argomentativo appare più che stringente, tautolo(31) Cfr. ad esempio F. RAMACCI, op. cit., p. 280: « l’art. 580 esclude che nel suicidio possa essere ravvisato l’esercizio di un diritto individuale; se ciò fosse, infatti, sarebbe impossibile punire la condotta di partecipazione all’esercizio di un diritto, consistente appunto nell’altrui suicidio ». V. anche: R. PANNAIN, I delitti contro la vita e l’incolumità individuale, Torino, 1965, p. 13; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, 2a ed., Bologna, 1989, p. 412; M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, 2 ed., Milano, 1995, p. 496. (32) Cfr. F. ANTOLISEI, op. cit., p. 65. (33) In tal senso, v. già: C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, ristampa a cura di P. CALAMANDREI, Firenze, 1965, § XXXV; G. FILANGERI, La scienza della legislazione, vol. IV, Venezia, 1784, p. 482 s. Con riferimento alla scelta effettuata dal codice Rocco, cfr. per tutti: C. SALTELLI, E. ROMANO-DI FALCO, op. loc. cit.; V. MANZINI, op. cit., p. 111 s. (34) Cfr. già F. CARRARA, Programma del corso di diritto penale, parte speciale, 4a ed., vol. I, Lucca, 1878, § 1155, p. 216 s., nonché: G. CRIVELLARI, Il codice penale per il regno d’Italia, vol. VII, Torino, 1896, p. 744; G. STOCCHIERO, Diritto penale della Chiesa e dello Stato italiano, Vicenza, 1932, p. 596; O. VANNINI op. cit., p. 128; F. ANTOLISEI, op. loc. cit. Nello stesso senso v. anche la Relazione ministeriale, cit., p. 375 s., n. 663. (35) Cfr.: A. ROCCO, L’oggetto del reato e la tutela giuridica penale, Torino, 1913, p. 17, nota 28; V. MANZINI, op. cit., p. 111-112; F. RAMACCI, op. cit., p. 283; F. MANTOVANI, Il problema della disponibilità del corpo umano, in Vivere: diritto o dovere?, cit., p. 43. Nella criminalistica dell’800, per il carattere addirittura criminoso (ancorché non punito dalla legge) del suicidio, v. E. PESSINA, Elementi di diritto penale, Napoli, 1883, vol. II, p. 15. (36) In tal senso, cfr.: R. PANNAIN, Omissione di soccorso (diritto penale), in Nss. Dig. it., vol. XI, 1965, p. 903; U. GIULIANI, Dovere di soccorso e stato di necessità nel diritto penale, Milano, 1970, p. 13 s. Da ultimo sul punto v. A. CADOPPI, Il reato di omissione di soccorso, Padova, 1993, p. 60 s. cui si rimanda anche per ulteriori indicazioni bibliografiche. (37) Per l’operatività in tal caso della legittima difesa, v.: V. MANZINI, op. cit., p. 112; F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, 3a ed, Padova, 1992, p. 267; T. PADOVANI, Difesa legittima, in Dig. disc. pen., vol. III, 1989, p. 507. Sul punto v. anche B. PANNAIN, F. SCLAFANI, M. PANNAIN, op. cit., p. 174, dove, incorrendo in una petizione di principio, si utilizza l’argomento della legittimità dell’intervento impeditivo dell’altrui autoaggressione ex art. 52 c.p. come dimostrazione della illiceità del suicidio.
— 85 — gico (38), finalizzato com’è a trasformare in principio giuridico una convinzione morale. Infatti, come riconoscono anche quanti sostengono l’illiceità del suicidio (39), l’art. 580 c.p. prevede un autonomo titolo di reato, talché « per solo comodo di trattazione » (40) si può dire che tale norma punisce un’attività di concorso (41). Anche se nella mens legislatoris la « sostanziale » illiceità del suicidio costiuiva la premessa culturale ed etica da cui ha tratto origine la norma (42), non ne costituisce comunque contenuto dispositivo. E poiché è da quest’ultimo che si ricava la contrarietà di un certo fatto al diritto, una volta esclusa la possibilità di desumere dall’art. 580 c.p. la « formale » illiceità del suicidio (43), non resta che chiedersi se esistono altre norme positive, in base alle quali risulti possibile ribaltare la conclusione della non difformità del suicidio all’ordinamento giuridico. Nelle nostra tradizione legislativa infatti non sono mancate disposizioni di legge, univoche nell’indicare la illiceità (ancorché non penale) del suicidio. Ad esempio, sotto la vigenza del codice Sardo del 1839 (art. 585), che prevedeva per il tentativo di suicidio una misura di sicurezza, veniva disposta altresì l’invalidità del testamento del suicida e il divieto degli onori funebri (44). Ebbene, il quesito trova già una prima risposta nella significativa mancanza nell’ordinamento vigente di norme che, come quella appena ricordata, sanzionino (anche solo civilmente) il suicidio (45). A parte ciò, e allargando il terreno della verifica, non sembra nemmeno che l’illiceità del suicidio trovi una base argomentativa nell’art. 5 c.c. (46) ovvero discenda, (38) In tal senso cfr. V. VITALE, L’antigiuridicità « strutturale » del suicidio, in Riv. int. fil. dir., 1983, p. 458 s. (39) Cfr. ad esempio: V. MANZINI, op. cit., p. 113; O. VANNINI, op. cit., p. 128. (40) Così E. ALTAVILLA, op. cit., 2a ed., Milano, 1921, p. 188. (41) Non a caso la dottrina si premura di negare l’assimilabilità dell’aiuto al suicidio alle ipotesi di concorso nel fatto del soggetto non imputabile o non punibile, dove nessun dubbio sussiste sulla illiceità dell’attività posta in essere da quest’ultimo. Cfr. E. ALTAVILLA, op. cit., 4a ed., p. 162 s.; più di recente v. anche F. RAMACCI, op. cit., p. 286. (42) V. la Relazione ministeriale, cit., p. 375, n. 663, dove l’indisponibilità della vita è affermata in modo « assoluto e rigoroso ». (43) Per ulteriori argomenti a favore della liceità del suicidio, v. F. GRISPIGNI, Il consenso dell’offeso, Roma, 1924, p. 540, nota 1; adesivamente anche A. SANTORO, Manuale di diritto penale, vol. V, Torino, 1968, p. 54. Di recente, ribadisce l’impossibilità di ricavare dall’art. 580 c.p. l’asserita illiceità del suicidio G. MARINI, Omicidio, in Dig. disc. pen., vol. VIII, 1994, p. 532. (44) Cfr. V. MANZINI, op. cit., p. 111 nota 4. Per un quadro delle sanzioni, talvolta macabre, previste dalle legislazioni preunitarie in caso di suicidio, v. A. CADOPPI, Una polemica, cit., p. 126 s. (45) Del resto, anche nel recente codice canonico del 1983, è scomparsa l’interdizione dalla sepoltura ecclesiastica per i suicidi, prevista dal codex del 1917. In argomento, E. MARRANTONIO SGUERZO, Sepoltura (dir. can.), in Enc. dir., vol. XLII, 1990, p. 57. (46) Cfr. R. PANNAIN, I delitti, cit., p. 13. Più di recente, v. anche M. ROMANO, op. loc. cit.
— 86 — come pure è stato sostenuto, direttamente dai doveri di solidarietà stabiliti nell’art. 2 Cost. (47). Ed invero, cominciando da quest’ultimo riferimento, va da sé che un’attenzione davvero particolare s’impone allorché si proceda all’individuazione dei contenuti impliciti delle norme costituzionali, la cui formulazione, anche quando non è volutamente assai generale, non di rado lo è inevitabilmente. È il caso, per l’appunto, dell’art. 2 Cost., la cui portata, proprio al fine di evitarne una lettura unilaterale, va ricavata attraverso la necessaria mediazione di altre norme costituzionali, come quelle che valorizzano la libera autodeterminazione dell’individuo, quali gli artt. 13, comma 1, e 32, comma 2. Naturalmente — e lo si vedrà meglio avanti — ciò non significa che i principi che garantiscono la libertà di autodeterminazione della persona non si pongano in tensione dialettica con quelli di ispirazione solidaristica. Resta il fatto che — salvo a verificare se tale tensione dialettica possa legittimare una disciplina, che, diversamente da quella attuale, stigmatizzi il suicidio e il suo stesso tentativo — altro è considerare non incompatibile con la Costituzione l’eventuale varo di una siffatta disciplina, altro è ritenere che già de iure condito l’illiceità del suicidio discenda direttamente dall’art. 2 Cost. Quanto all’art. 5 c.c., com’è noto, il divieto, che esso pone al potere di disposizione del proprio corpo, riguarda espressamente solo quegli atti che comportano una diminuzione permanente dell’integrità fisica. Muovendo da tale norma, l’illiceità del suicidio si desumerebbe dunque ragionando a fortiori (48): includendo, cioè, tra gli atti di disposizione del proprio corpo vietati, anche quelli che offendono il bene della vita, che dell’integrità fisica costituisce il logico presupposto. Senonché, una siffatta impostazione trascura la ratio dell’art. 5 c.c. e la ragione, altrimenti incomprensibile, del suo espresso riferimento alla sola integrità fisica. In effetti, come confermano anche i lavori preparatori (49), l’art. 5 c.c. è stato introdotto per un’esigenza di natura negoziale (50), qual è quella di riconoscere uno spazio di liceità « alla libera contrattazione mediante atti di disposizione del proprio corpo » (51), evitando ad un tempo, che, dietro compenso, si potesse compromettere per(47) Cfr. F. RAMACCI, op. cit., p. 283. (48) Così R. PANNAIN, op. loc. ult. cit. (49) Se ne veda la sintesi di O. DE PIETRO, Il consenso dell’avente diritto e il consenso del paziente, Napoli, 1988, p. 596 s. (50) In argomento, v. F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 1994, p. 170. Per la conclusione che l’art. 5 c.c. fa riferimento a negozi giuridici veri e propri, v. O. DE PIETRO, op. cit., p. 602 s. e p. 610. (51) Cfr. L. BIGLIAZZI GERI, U. BRECCIA, F.D. BUSNELLI, U. NATOLI, Diritto civile, vol. 1, Torino, 1987 (rist. 1991), p. 156; O. DE PIETRO, op. cit., p. 602.
— 87 — manentemente la propria integrità fisica a favore di terzi (52). Più che a introdurre un principio generale in ordine alla indisponbilità dei beni della persona, il legislatore del 1942 mirava dunque a regolare (e a consentire) fenomeni più specifici, come il contratto di baliatico e la cessione del sangue a scopo di trasfusione (53). E ciò spiega non solo la collocazione della norma nel codice civile, ma anche il silenzio dell’art. 5 c.c. sugli atti di disposizione del bene della vita: proprio per il fatto di disciplinare atti di disposizione del proprio corpo aventi natura negoziale, la norma non può essere invocata per vietare comportamenti che non vengono compiuti a vantaggio di terzi, come per l’appunto il suicidio e l’automutilazione (54). Con ciò non si esclude che il divieto dell’art. 5 c.c. presenti anche una valenza collettivistica (55). Indubbiamente, negando uno spazio negoziale agli atti di disposizione che determinano una diminuzione permanente dell’integrità fisica, la norma garantisce ad un tempo l’integrità fisica quale « condizione essenziale perché l’uomo possa adempiere ai suoi doveri verso la società e la famiglia » (56). Non sempre, però, dall’angolo visuale del diritto penale, si tiene adeguatamente presente la ratio patrimoniale dell’art. 5 c.c. e le difficoltà di un suo raccordo con l’acquisita natura non negoziale del consenso scriminante. Non v’è dubbio, che il principio dell’unità dell’ordinamento giuridico impone di non trascurare l’art. 5 c.c. ai fini dell’operatività dell’art. 50 c.p. Non è meno vero, tuttavia, che il disposto dell’art. 5 c.c. può rilevare in materia penale, solo nei limiti della sua non incompatibilità logica con i caratteri e le finalità dell’intervento penalistico. Così, non si potrà ritenere che i limiti posti dall’art. 5 c.c. alla libera disposizione del proprio corpo invalidino il consenso scriminante solo quando l’atto di disposizione ha natura patrimoniale ed è compiuto a favore di terzi. Per questa (52) In particolare, i lavori preparatori risentirono della vasta eco che accompagnò la vicenda giudiziaria di uno studente che aveva acconsentito all’asportazione di una ghiandola sessuale a scopo di trapianto in favore di un facoltoso beneficiario (cfr.: Trib. Napoli, 28 novembre 1931, in Giust. pen., 1932, II, c. 592; App. Napoli, 30 aprile 1932, ivi, 1932, II, 1679; Cass., 31 gennaio 1934, ivi, 1934, II, c. 373). Sul punto v. anche: M.C. CHERUBINI, Tutela della salute e c.d. atti di disposizione del corpo, in Tutela della salute e diritto privato, a cura di F.D. BUSNELLI e U. BRECCIA, Milano, 1978, p. 74, nota 2. (53) Cfr. P. RESCIGNO, Diritto privato italiano, 10a ed., Napoli, 1992, p. 232. (54) Cfr. A. DE CUPIS, I diritti della personalità, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. CICU, F. MESSINEO, Milano, 1982, vol. IV, p. 129-130; O. DE PIETRO, op. cit., p. 603, il quale, dopo aver desunto dai lavori preparatori che l’art. 5 c.c. non si applica al rapporto medico-paziente, nega esattamente che la norma disciplini l’intera materia degli atti di disposizione del proprio corpo. (55) V. sul punto V. RIZZO, Atti di « disposizione » del corpo e tecniche legislative, in Rass. dir. civ., 1989, p. 624, che peraltro richiama l’attenzione sull’inadeguatezza della formulazione dell’art. 5 c.c., secondo lo schema — inusuale per il legislatore civile — del divieto. (56) Così la Relazione ministeriale al Progetto definitivo del codice civile, n. 26.
— 88 — via, si giungerebbe oltre tutto all’inammissibile conseguenza che i delitti contro l’integrità fisica avrebbero un ambito operativo diverso a seconda che l’aggressione al bene tutelato abbia o meno un’origine negoziale. Per converso, lo spirito dell’art. 5 c.c. può e deve essere rispettato in materia penale, là dove circoscrive la disciplina dell’art. 50 c.p. ai soli casi in cui la diminuzione permanente dell’integrità fisica si riconnette ad atti di disposizione che, concretandosi in una rinuncia al bene dell’integrità, lo espongono all’altrui azione offensiva o pericolosa (57). Sulla base di questi rilievi, risulta dunque confermata la mancanza di appigli legislativi in grado di suffragare l’asserita illiceità del suicidio. In combinato disposto con gli artt. 579 e 580 c.p., l’art. 5 c.c., non solo non smentisce, ma anzi conferma che il vincolo alla disponibilità della vita e dell’integrità opera solo nei confonti delle aggressioni manu alius, non anche nelle ipotesi di autoaggressione, che si pongono in uno spazio di azione non regolato dal diritto e dunque consentito (58). Ne consegue altresì che, venendo meno il carattere ingiusto delle autoaggressioni non altrimenti vietate (come, invece, nel caso ad esempio dell’art. 642 c.p.), l’eventuale intervento impeditivo dell’altrui suicidio non potrà essere scriminato ex art. 52 c.p., ove la scelta di porre fine alla propria esistenza sia frutto della libera determinazione di un soggetto pienamente capace. Quanto al dovere di soccorso derivante dall’art. 593 c.p., esso opererà solo in capo a chi, ad azione compiuta, trovi il suicida in stato di incoscienza, non anche nei confronti di colui al quale l’aspirante suicida opponga la ferma e consapevole volontà di morire (59). Tutto ciò considerato, e tornando alla vigente disciplina dell’eutanasia, di immediata incidenza sono in ogni caso i riflessi operativi che discendono dall’esistenza nel nostro sistema dell’art. 580 c.p. Ed invero, colui che aiuta il paziente ad effettuare il suicidio manu propria risponderà del reato anzidetto, ove il suicidio avvenga ovvero dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima. A differenza di quanto accade nelle legislazioni che non reprimono penalmente l’aiuto all’altrui suicidio, la previsione di cui all’art. 580 c.p. determina dunque una serie di problemi aggiuntivi, assumendo un’importanza decisiva sul piano della responsabilità penale il fatto che l’ultimo atto causativo della morte sia compiuto dal paziente ovvero da un terzo, come il medico o un parente. Mentre, ricorrendone tutti i requisiti, in quest’ultimo caso si profilerà l’appli(57) Sul punto, e per ulteriori rilievi sul rapporto tra art. 5 c.c. e art. 50 c.p., v. F. GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Padova, 1993, p. 314 s. (58) Sul piano del diritto vigente, non sembra condivisibile pertanto il tradizionale insegnamento (cfr. ad esempio: F. ANTOLISEI, Manuale, cit., parte generale, 13a ed., Milano, 1994, p. 264; M. ROMANO, op. loc. cit.), secondo cui i beni della vita e dell’integrità personale sarebbero affidati all’uomo in semplice custodia. (59) Analogamente v. A. CADOPPI, Il reato, cit., p. 61 s.
— 89 — cabilità dell’omicidio del consenziente, nell’eventualità che sia il malato a darsi la morte, la responsabilità del terzo potrà sussistere per il fatto di aver consapevolmente fornito al malato il mezzo o di averne spiegato il funzionamento. 3. Nel silenzio della legislazione vigente, non poche questioni pone anche il trattamento della c.d. eutanasia passiva consensuale: si tratta di casi in cui, con il consenso del malato terminale, il medico cessa di praticare le cure che mantengono in vita il paziente. Di tali ipotesi si dibatte soprattutto la liceità, che taluno nega in radice ed altra parte della dottrina ammette, seppure entro confini definiti e — si vedrà — non poco problematici. Ed invero, con varietà di argomenti, l’orientamento più rigorista amplifica oltre misura la portata dell’asserito principio dell’indisponibilità della vita e la ritenuta antigiuridicità del suicidio, traendo da essi implicazioni che non discendono — come invece si lamenta o si vorrebbe — dalle coordinate del dettato normativo; prima tra tutte l’impossibilità per il malato terminale di rifiutare le cure che lo tengono in vita (60), dato che tale rifiuto equivarrebbe ad una richiesta di morte non consentita dall’ordinamento (61). D’altro canto, si ritiene che, violando il dovere giuridico di assistenza che grava sul medico, la sospensione delle cure costituisca un’omissione penalmente rilevante (62); anche se significative incertezze si riscontrano poi in ordine alla fattispecie che risulterebbe integrata dall’omissione delle cure, individuata ora nell’art. 579 c.p. (63), ora nell’art. 580 c.p. (64). Da qui la presa d’atto che l’attuale assetto normativo imporrebbe al medico un pressoché illimitato dovere di curare (65). Senonché, questa impostazione della questione non risulta condivisibile né in relazione alla ritenuta impossibilità del malato di rifiutare le cure, né per quel che concerne l’asserito e speculare dovere di curare, gravante incondizionatamente sul medico. Quanto al primo punto, l’inaccoglibilità dell’orientamento rigorista discende già dai rilievi che precedono, e che hanno consentito di acquisire l’odierna liceità del suicidio e la disponibilità manu propria sia della vita, sia dell’integrità personale. L’ordinamento — si è visto — non solo non vieta, ma riconosce una libertà di morire, che può essere esercitata in vario modo: anche rinunciando a nutrirsi (66) o, per l’appunto, con il rifiuto (60) Cfr.: L. EUSEBI, Omissione dell’intervento terapeutico ed eutanasia, in Arch. pen., 1985, p. 525 s.; G. IADECOLA, op. ult. cit., p. 127 s. (61) Sul punto v. F. RAMACCI, op. cit., p. 293. (62) Cfr.: L. EUSEBI, op. loc. cit.; G. IADECOLA, op. loc. ult. cit. (63) Cfr. F. RAMACCI, op. cit., p. 294. V. anche R. PANNAIN, Omicidio, cit., p. 894. (64) Cfr. L. EUSEBI, op. cit., p. 527. (65) Espressamente, v. in tal senso F. RAMACCI, op. cit., p. 293. (66) Con riferimento al ricorrente caso dello sciopero della fame dei detenuti, per il
— 90 — delle cure. Pur muovendo dall’opposta premessa, secondo cui il suicidio sarebbe contra ius, anche la dottrina maggioritaria perviene, del resto, alla conclusione dell’incoercibilità del vivere, facendo leva sul disposto dell’art. 32, comma 2, Cost. Anche quando porta alla morte — si osserva — il consapevole rifiuto delle cure integra il contenuto di un diritto costituzionalmente garantito, che discende dal divieto di trattamenti sanitari obbligatori (67). È questo, dunque, il perno argomentativo su cui ruota la — largamente ammessa — liceità dell’eutanasia passiva consensuale (68). Essa viene desunta dal riconoscimento che, essendo svolta nell’interesse del paziente, l’attività terapeutica può essere da questi rifiutata (voluntas aegroti suprema lex); la malattia farà allora il suo corso e per il diritto la morte sarà opera della natura. Ne consegue, però, che per la dottrina prevalente non ci si troverebbe di fronte al diritto di morire, ma al più delimitato diritto di non curarsi, garantito dall’art. 32, comma 2, Cost. come principio di autodeterminazione terapeutica (69). Naturalmente, riconoriconoscimento dell’incoercibilità del vivere e l’illegittimità dell’alimentazione coattiva dei detenuti, v.: F. BUZZI, L’alimentazione coatta nei confronti dei detenuti, in Riv. it. med. leg., 1982, p. 284 s.; E. FASSONE, Sciopero della fame, autodeterminazione e libertà personale, in Questione giustizia, 1982, p. 342 s.; V. ONIDA, Dignità della persona e diritto di essere malato, ivi, 1982, p. 364 s.; D. PULITANÒ, Sullo sciopero della fame di imputati in custodia preventiva, ivi, p. 370 s.; G. FIANDACA, Sullo sciopero della fame nelle carceri, in Foro it., 1983, II, c. 235 s. In termini più problematici, in argomento v. anche: N. MAZZACUVA, Problemi attuali in materia di responsabilità penale del sanitario, in Riv. it. med. leg., 1984, p. 426 s.; G. CARPEGGIANI, Eutanasia e diritto. Forme di manifestazione e problemi giuridici connessi, Bologna, 1988, p. 50. Per la doverosità dell’alimentazione coattiva, nella dottrina meno recente, v. invece, decisamente, D. PALAZZO, Sciopero della fame dei detenuti ed omissione di soccorso, in Riv. pen., 1935, p. 420. (67) Per la conclusione che l’art. 32 Cost. garantisce il diritto di non curarsi, v. tra gli altri: F. MODUGNO, Trattamenti sanitari « non obbligatori » e Costituzione (a proposito del rifiuto della trasfusione di sangue), in Dir. società, 1982, p. 312; D. VINCENZI AMATO, Tutela della salute e libertà individuale, in Trattamenti sanitari tra libertà e doverosità, Napoli, 1983, p. 30 s.; in argomento, di recente v. anche R. ROMBOLI, La libertà di disporre del proprio corpo: profili costituzionali, in Vivere: diritto o dovere?, cit. p. 38. (68) Cfr. F. MANTOVANI, op. cit., p. 41; ID., Aspetti giuridici dell’eutanasia, cit., p. 458; ID., Eutanasia, cit., p. 423; ID., Il problema, cit., p. 67.; F. STELLA, op. cit., p. 1018; M. BARNI, Sull’alterna « fortuna » della nozione di eutanasia, in Riv. it. med. leg., 1985, p. 422; M. DOGLIOTTI, Eutanasia e trapianti: i termini del dibattito nella scienza giuridica, in Corr. giur., 1989, p. 994; E. VARANI, L’eutanasia nell’ordinamento giuridico italiano e nel nuovo codice di deontologia medica, in Dir. società, 1990, p. 159 s.; R. BARUCHELLO, Considerazioni giuridiche sull’eutanasia, in Sanità pubbl., 1991, p. 1289. Nella letteratura straniera, per la liceità dell’eutanasia passiva consensuale, v. di recente: M. MARTIN GOMEZ, J.L. ALONSO TELUCA, Aproximacion juridica al problema de la eutanasia, in Revista Juridica Española, La ley 1992-3, p. 866 s.; M. CASADO GONZALES, La eutanasia. Aspectos eticos y juridicos, Madrid, 1994, p. 38. (69) Cfr. F. MANTOVANI, op. loc. ult. cit. Di recente, v. anche: R. ROMBOLI, op. cit., p. 34; A. MANNA, Trattamento medico-chirurgico, in Enc. dir., vol. XLIV, 1992, p. 284, cui si rimanda per ulteriori e aggiornate indicazioni bibliografiche. Contra v. invece P. PERLINGIERI, Il diritto alla salute quale diritto della personalità, in Rass. dir. civ., 1982, p. 1045, il quale,
— 91 — scere, come fa la dottrina maggioritaria, il più generale diritto di non curarsi, ma non anche il più generale diritto di morire non è senza implicazioni, dato che — così opinando — si ravvisa la liceità dell’autodeterminazione del soggetto solo nell’ambito di comportamenti omissivi, non anche nei casi di autoaggressione. Una soluzione, questa, che — come si vedrà — lascia oltre tutto in ombra quelle norme costituzionali che consentono una più piena affermazione del principio della libertà di autodeterminazione. La tesi rigorista non risulta condivisibile nemmeno in relazione al secondo punto: vale a dire, alla ritenuta doverosità dell’intervento medico. Ed invero, una volta acquisito che il paziente non ha il dovere di vivere ad ogni costo (70), sul medico sorge per converso il dovere di rispettarne la volontà (71). Ciò discende ancora una volta dall’art. 32, comma 2, Cost. che, prevedendo i trattamenti medici obbligatori come eccezionali e tassativamente stabiliti per legge, riconduce la sottoposizione alle cure tra i diritti di libertà della persona. In questa prospettiva — e fatta salva l’ipotesi del paziente non cosciente, su cui si tornerà avanti — il consapevole consenso del paziente rileva, non soltanto come condizione della liceità dell’attività medica, ma anche quale presupposto e limite della sua doverosità. Di conseguenza, quando il malato esercita il suo pieno diritto di morire, la sua richiesta in tal senso fa cessare l’obbligo giuridico di agire del medico e la sua posizione di garanzia rispetto alla salute del paziente. E poiché si sarebbe in presenza, non già di un’omissione omicida, ma di un limite al dovere di curare del medico (72), finalizzato ad evitare un indesiderato accanimento terapeutico, secondo autorevole dottrina è perfino muovendo dal rilievo che la Costituzione considera la persona « come un valore da preservare e da realizzare anche nel rispetto di se stessi », nega che sussista un vero diritto di ammalarsi e di lasciarsi morire. Analogamente, v.: A. DE CUPIS, op. cit., p. 84 s.; G. CRISCUOLI, Sul diritto di morire naturalmente, in Riv. dir. civ., 1977, p. 97; V. ZAMBRANO, Eutanasia diritto alla vita e dignità del paziente, in Rass. dir. civ., 1990, p. 874 s. (70) V. ancora F. MANTOVANI, op. loc. ult. cit. nonché F. RAMACCI, op. cit., p. 281; secondo quest’ultimo A., che giunge comunque a negare la liceità dell’eutanasia passiva, l’inesistenza di un dovere giuridico di (lasciarsi) vivere discende già dalla mancanza nel nostro ordinamento di una norma che incrimini il tentativo di suicidio. (71) Oltre agli Autori citati alla nota precedente, v. anche: A. SANTOSUOSSO, Situazioni giuridiche critiche nel rapporto medico-paziente: una ricostruzione giuridica, in Pol. dir., 1990, p. 193; R. BARUCHELLO op. cit., p. 1289. (72) Per l’opportuna precisazione che si tratterebbe di un comportamento non solo conforme al diritto, ma altresì conforme al dovere, v. F. STELLA, op. cit., p. 1018. Con riferimento alle note vicende dei Testimoni di Geova che, maggiori di età, rifiutano l’emotrasfusione, v. nel senso del testo: G. FIANDACA, Diritto alla libertà religiosa e responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, in Foro it., 1983, II, c. 27 s. Da ultimo, v. anche A. MANNA, op. cit., p. 285.
— 92 — improprio usare a questo proposito la consueta espressione di eutanasia passiva (73). Ora, per quanto su queste conclusioni si registri una significativa convergenza, talché può ritenersi attualmente minoritaria la dottrina che in linea di principio contesta la liceità dell’eutanasia passiva, è difficile negare tuttavia i margini di problematicità che al livello della legge ordinaria presenta l’individuazione degli specifici ambiti di liceità dell’eutanasia passiva. In effetti, mentre la mancata disciplina espressa dell’eutanasia attiva e la riconduzione di tali ipotesi nell’area operativa degli artt. 579 e 580 c.p. non equivale né a una lacuna, né a una dimenticanza, ma ad una precisa scelta, lo stesso non può dirsi per il fenomeno dell’eutanasia passiva, la cui importanza peraltro cresce con il progredire di nuove tecnologie nel campo della rianimazione: prime tra tutte quelle che consentono di prolungare la vita biologica. Discendendo da principi generali, la liceità dell’eutanasia passiva si rivela de iure condito un epilogo interpretativo, se non dotato di minore consapevolezza, certamente meritevole di un’attenta verifica. 3.1. Limitando l’attenzione agli aspetti principali, l’attuale liceità dell’eutanasia passiva appare particolarmente problematica in tre ipotesi. A) Quanto alla prima, ci si riferisce al caso in cui la terapia che il malato terminale rifiuta consiste, non già nella somministrazione di farmaci, ma nell’operatività di un sostegno artificiale già attivato, che tiene in vita il paziente (74). Poiché, dal punto di vista naturalistico, interrompere il sostegno artificiale della vita costituisce una condotta attiva, è giocoforza chiedersi se sul piano giuridico essa sia assimilabile alla doverosa omissione delle cure rifiutate dal paziente. Il quesito è delicato, dato che, in caso di risposta negativa, sarebbe inevitabile qualificare la disattivazione della « macchina » come eutanasia attiva, e considerare lecite le sole ipotesi in cui la volontà di lasciarsi morire del paziente possa essere rispettata dal medico con un mero non facere. Ora, sulla scorta dell’acquisita liceità dell’eutanasia passiva consensuale, la dottrina è abbastanza concorde nell’escludere che la sospensione del sostegno artificiale della vita integri l’omicidio del consenziente ovvero la fattispecie di aiuto al suicidio, ove l’ultimo atto causale sia del paziente e il medico si sia limitato a fornire i mezzi o le spiegazioni necessarie per l’interruzione (75). Senonché, le motivazioni che sorreggono que(73) Cfr. F. MANTOVANI, Aspetti giuridici, cit., p. 449; ID., Il problema della disponibilità, cit., p. 67. L’A. osserva al riguardo che « l’ambito dell’eutanasia pietosa ha subito una continua dilatazione, che ha finito con lo snaturarne l’originario significato ». (74) Con riferimento a questa ipotesi, parla di interruzione tecnica del trattamento A. ESER, Possibilità e limiti dell’eutanasia dal punto di vista giuridico, in Vivere: diritto o dovere?, cit., p. 82. (75) Cfr. ad esempio F. STELLA, op. cit., p. 1017.
— 93 — sta soluzione non sono sempre e del tutto convincenti. Non lo è certamente l’argomento della sostanziale equivalenza delle due condotte, trattandosi di un rilievo condivisibile nel contenuto, ma — così enunciato — assai poco decisivo sul piano giuridico. Restano pur sempre oscure, infatti, le ragioni di tale equivalenza. E che l’onere argomentativo di una siffatta dimostrazione gravi soprattutto su chi afferma l’equivalenza delle due condotte, dipende intuitivamente dalla loro indubbia diversità naturalistica, oltre che dall’insegnamento secondo cui, nel dubbio, il comportamento dell’agente va sempre considerato attivo (76). Nella dottrina tedesca la questione ha ricevuto una trattazione varia ed articolata, anche per l’attenzione che da tempo viene dedicata al controverso discrimine tra l’agire e l’omettere nel più ampio quadro della teoria del reato (77). Con particolare riferimento alla natura attiva o omissiva dell’interruzione tecnica del trattamento, si è osservato che tutto dipende « dal senso sociale di tale interruzione » (78), in base al quale si dovrebbe considerare tale condotta alla stregua dell’interruzione di « misure di rianimazione iniziate con movimenti di massaggio » (79). Senonché, in una materia così problematica, è difficile appellarsi all’univocità del « senso sociale » per superare le variabili del sentire individuale; vi è il rischio di invischiarsi in una oziosa circolarità argomentativa o di spacciare per senso sociale la visione sostanziale di chi giudica. Preferibile appare pertanto il tentativo di giustificare l’equivalenza tra la sospensione della terapia e l’interruzione della macchina, ravvisando in quest’ultima con(76) Cfr. per tutti H.H. JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts, 4a ed., Berlin, 1988, p. 546. Per la conclusione che nel caso in esame ci si troverebbe di fronte a un comportamento positivo, v. con varietà di argomentazioni: E. SAMSON, Begehung und Unterlassung, in Festschrift für Hans Welzel, Berlin, New York, 1974, p. 579 s.; W. SAX, Zur rechtlichen Problematik der Sterbehilfe durch vorzeitigen Abbruch einer Intensivbehandlung, in JZ, 1975, p. 137 s.; H.H. RUDOLPHI, in H.H. RUDOLPHI, E. HORN, E. SAMSON, Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch, Allg. Teil, 6a ed., Neuwied, Kriftel, Berlin, 1994, vor § 13, Rn. 47. (77) In argomento, v.: C. ROXIN, An der Grenze von Begehung und Unterlassung, in Festschrift für K. Engisch, Frankfurt am Main, 1969, p. 380 s.; K. ENGISCH, Tun und Unterlassen, in Festschrift für W. Gallas, Berlin, New York, 1973, p. 163 s.; E. SAMSON, op. cit., p. 579 s.; W. STREE, in A. SCHÖNKE, H. SCHRODER, Strafgesetzbuch Kommentar, 24a ed., München, 1991, vor § 13, Rn. 158; J. HRUSCHKA, Über Tun und Unterlassen und über Fahrlässigkeit, in Festschrift für P. Bochkelmann, München, 1979, p. 421 s.; K. VOLK, Die Abgrenzung von Tun und Unterlassen. Dogmatische Aspekte und kriminalpolitische Probleme, in Festschrift für Herbert Tröndle, Berlin, New York, 1989, p. 219 s. (e p. 223 con specifico riferimento alla disattivazione del respiratore). Nella letteratura spagnola v. di recente anche: E. GIMBERNAT ORDEIG, Causalidad, omission e imprudencia, in Anuario de Derecho penal, 1994, p. 11 s. (78) Così A. ESER, op. loc. cit. Più in generale, sul « senso sociale » quale parametro di distinzione tra l’agire e l’omettere, anche per ulteriori rilievi, v. K. ENGISCH, op. cit., p. 165 s. (79) V. ancora A. ESER, op. loc. cit.
— 94 — dotta un’omissione mediante azione (Unterlassung durch Tun) (80), come tale penalmente irrilevante (81). E non a caso a questa tesi si è ricollegata parte della nostra dottrina (82). Senonché, come riconosciuto dai suoi stessi sostenitori (83), la tesi dell’omissione mediante azione è tutt’altro che pacifica in Germania (84) e anche sul terreno del nostro diritto positivo mostra alcuni limiti, meritevoli di ulteriore riflessione. Ed invero, com’è fin troppo evidente, l’espressione « omissione mediante azione » si propone come opposto concettuale della più nota categoria della « commissione mediante omissione ». Entrambi i concetti esprimono una concezione antinaturalistica dell’azione penalmente rilevante. Diverso è però il modo in cui rileva nei due casi la normatività della condotta: l’uno equipara il non impedire l’evento che si ha l’obbligo di impedire al cagionarlo; l’altro equipara l’interruzione della terapia meccanica che si ha il dovere di non prolungare alla sospensione (80) V. soprattutto C. ROXIN, op. cit., p. 395; ID., Die Sterbehilfe im Spannungsfeld von Suizidteilnahme, erlaubtem Behandlungsabbruch und Tötung auf Verlangen, in NStW, 1987, p. 349. Con altre argomentazioni, afferma che, nel caso in questione, il medico pone in essere un comportamento omissivo, non inquadrabile come eutanasia attiva, anche K. ENGISCH, Suizid und Euthanasie nach deutschen Recht, in Suizid und Euthanasie als human und sozialwissenschaftliches Problem, a cura di A. ESER, Stuttgart, 1976, p. 315; ID., Konflikte, Aporien und Paradoxien bei der rechtlichen Beurteilung der ärztlichen Sterbehilfe, in Festschrift für E. Dreher, Berlin, New York, 1977, p. 325 s. Nella dottrina spagnola, per la tesi dell’omissione mediante azione, v. per tutti C.M. ROMEO CASABONA, El marco juridico-penal de la eutanasia en el Derecho español, in Revista de la Facultad de Derecho de la Universidad de Granada, 1987, p. 193. (81) Altra parte della dottrina (cfr. J.M. ZUGALDIA ESPINAR, Eutanasia y homicidio a petición: situación legislativa y perspectives politico-criminales, in Revista de la Facultad de Derecho de la Universidad de Granada, 1987, p. 287) giunge alla liceità penale del fatto, negando la sussistenza del nesso di imputazione oggettiva tra l’azione e l’evento. Si osserva infatti che la disattivazione del rianimatore non creerebbe, per il bene della vita, un aumento del rischio disapprovato. Com’è evidente, però, si tratta di un’impostazione che pecca di apriorismo, nella misura in cui non chiarisce perché non sussisterebbe l’aumento del rischio disapprovato. (82) Cfr. in particolare: F. STELLA, op. cit., p. 1017; F. RAMACCI, op. cit., p. 291. In senso non dissimile v. G. PAPPALARDO, L’eutanasia pietosa: profili di interesse medico legale, in Vivere: diritto o dovere, cit., p. 117. (83) Cfr. ad esempio C. ROXIN, op. loc. ult. cit. (84) Per una critica della figura dell’« omissione mediante azione » — la cui prima formulazione viene comunemente attribuita a A.F. VON OVERBECK, Unterlassung duch Begehung, in GS, 1922, (88), p. 319 s. — v. tra gli altri: H.H. JESCHECK, op. loc. cit.; E. SAMSON, op. cit., p. 601 s.; W. SAX, op. cit., p. 137 s. In argomento, con varietà di accenti, cfr. pure: W. STREE, op. cit., Rn. 159; R. SCHMITT, Euthanasie aus der Sicht des Juristen, in JZ, 1979, pp. 466-467; A. KAUFMANN, Zur ethischen und strafrechtlichen Beurteilung der sogenannten Früheuthanasie, in JZ, 1982, 484; A. BREIT, Probleme der Intensivmedizin unter besonderer Berücksichtigung des Abstellens eines Reanimators, in Moderne Medizin und Strafrecht, a cura di A. KAUFMANN, Heidelberg, 1989, p. 123 s. Nella letteratura spagnola, di recente v. ampiamente C. JUANATEY DORADO, Derecho, suicidio y eutanasia, Madrid, 1994, p. 318 s.
— 95 — della cura. Tuttavia, mentre nel primo caso l’equivalenza tra omissione ed azione è possibile in ragione di quanto espressamente disposto nell’art. 40, comma 2, c.p., qual è la base normativa che consente nella seconda ipotesi di qualificare l’interruzione della macchina come una modalità dell’omessa prosecuzione delle cure? Né può aggirarsi il quesito rilevando l’assenza di un dovere giuridico che impone al medico l’allungamento della vita del malato terminale con mezzi meccanici e contro la volontà del paziente (85). Stante la struttura causalmente orientata degli artt. 579 e 580 c.p., per affermare la liceità della disattivazione della macchina non basta l’assenza di norme che impongono la prosecuzione del trattamento automatico, ma occore l’esistenza di una norma che stabilisca la doverosità dell’interruzione (86). Ebbene, tale norma nel nostro sistema è costituita per l’appunto dall’art. 32, comma 2, Cost., che, se nel caso di mera interruzione della terapia opera come limite alla tipicità dell’omissione, nell’ipotesi di disattivazione della macchina integra il limite scriminante dell’art. 51 c.p., in tanto che impone l’interruzione delle cure, secondo la volontà del paziente. In entrambi i casi, e al di là delle categorie dogmatiche interessate, la liceità del comportamento discende dall’art. 32, comma 2, Cost., là dove, stabilendo l’impossibilità di un trattamento contro la volontà del paziente, rende ad un tempo obbligatoria la sospensione delle cure da questi espressamente richiesta. B) Una seconda ipotesi di eutanasia passiva, di cui de iure condito si dibattono gli ambiti di liceità, è quella della c.d. terapia del dolore, talvolta recisamente considerata penalmente rilevante (87), altre volte ritenuta con eccessiva assolutezza il solo caso di eutanasia passiva consentita (88). Ciò si riferisce all’ipotesi in cui, sempre con il consenso del ma(85) Cfr. C. ROXIN, op. loc. ult. cit. (86) Un’inversione dell’ordine logico dei problemi (con inevitabile compromissione della corretta impostazione della questione) può ravvisarsi, dunque, nel tentativo di acquisire preventivamente (in base a valutazioni sostanziali) la natura omissiva della disattivazione della macchina, al fine di poter sostenere poi che tale omissione non è tipica a norma dell’art. 40, comma 2, c.p. (v. ad esempio F. STELLA, op. cit., p. 1017). Agli esiti di questo procedimento si richiama L. EUSEBI, op. cit., p. 530 s., che, però, muovendo dalla doverosità incondizionata delle cure da parte del medico quando è in gioco il bene della vita, utilizza la tesi dell’omissione mediante azione nell’opposta prospettiva di attribuire una rilevanza penale sia all’interruzione della cura, sia al suo mancato inizio. (87) Cfr.: F. STELLA, op. cit., p. 1015, nota 16 (secondo cui si tratterebbe di « un comportamento che certamente sfocia in una forma di effettiva eutanasia attiva »); V. FILIPPI, op. cit., p. 89 (che non dubita della illiceità penale). (88) Cfr.: F. RAMACCI, op. cit., p. 290; G. IADECOLA, Eutanasia e sue problematiche giuridiche, in Giust. pen., 1985, I, c. 190 s.; nella dottrina tedesca, v. A. ESER, op. cit., p. 83 (per il quale non sussisterebbe problema circa la liceità dell’ipotesi). Non di rado, per sottolineare le particolarità del fenomeno, si parla al riguardo di eutanasia indiretta; v. ad esempio: C. LEGA, Il « diritto di morire con dignità » e l’eutanasia, in Giur. it., 1987, IV, p. 471;
— 96 — lato terminale, il medico somministra dei farmaci idonei ad alleviarne le sofferenze, ma il cui prevedibile effetto collaterale può essere quello di anticipare la morte del paziente. La liceità del trattamento contro il dolore viene per lo più ammessa, osservando che esso è addirittura doveroso (89) e dunque scriminato a norma dell’art. 51 c.p. (90). Per opinione pacifica (91), infatti, oltre che per espressa previsione normativa (92), « compito del medico non è solo quello di ristabilire la salute, ma anche quello di calmare i dolori e le sofferenze legate alle malattie » (93). Ne consegue che, rientrando a tutti gli effetti nel quadro del trattamento medico-chirurgico (94), la terapia del dolore consisterebbe in un doveroso aiuto nel morire, non nell’aiuto a morire vietato ai sensi dell’art. 579 c.p. (95). Senonché, per quanto condivisibile nell’impostazione di fondo, questo ragionamento rischia di risultare lacunoso, nella misura in cui non chiarisce i limiti entro i quali la terapia del dolore può ritenersi scriminata, e al di fuori dei quali, accompagnata (com’è inevitabile) anche solo dal dubbio che possa accorciare la vita del paziente, essa ricade inevitabilSEMINARA, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, in questa Rivista, 1995, p. 702; nella letteratura straniera, v. anche: H. TRÖNDLE, Warum ist die Sterbehilfe ein rechtliches Problem?, in ZStW, 1988, (100), p. 29; H.C.M. ROMEO CASABONA, op. cit., p. 191; M. MARTIN GOMEZ, J.L. ALONSO TEJUCA, op. cit., p. 867. (89) Cfr.: A. DE MARSICO, La lotta contro il dolore e la legge penale, in Arch. pen., 1971, I, p. 219. (90) Pur senza fare espresso riferimento all’art. 51 c.p., v. in tal senso anche F. RAMACCI, op. cit., p. 290. Nella letteratura tedesca, per la qualificazione della terapia del dolore (Schmerzlinderung) come attività scriminata, v. con riferimento all’orientamento prevalente, A. ESER, in A. SCHÖNKE, H. SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, cit., vor § 211, Rn. 26, che pure non manca di rilevare i dissensi che questa tesi ha incontrato in dottrina. (91) Cfr. per tutti A. DE MARSICO, op. loc. cit. (92) V. l’art. 32 del vigente codice di deontologia medica e, sul punto, G. IADECOLA, Il codice deontologico del medico, Padova, 1995, p. 52. (93) Così già F. BACONE, Novum organum, (1620), in Opere, vol. II, Bari, 1965, p. 876. (94) Cfr. E. FORTUNA, La responsabilità professionale del medico nella terapia del dolore, in Riv. it. med. leg., 1980, p. 717. (95) Così: M. PORZIO, Eutanasia, in Enc. dir., vol. XVI, 1967, p. 105 s.; F. D’AGOSTINO, L’eutanasia come problema giuridico, in Arch. giur., 1987, p. 37 s.; F. MANTOVANI, Eutanasia, cit., p. 425; di recente v. anche B.M. MAGRO, Etica laica e tutela della vita umana: riflessioni sul principio di laicità in diritto penale, in questa Rivista, 1994, p. 1429. Del resto, pur senza con ciò sminuire il valore salvifico del dolore (ribadito anche nella Lettera Apostolica di Papa Giovanni Paolo II, Salvifici doloris, 11 febbraio 1984, in particolare n. 27, p. 43; v. anche Eutanasia, Dichiarazione della S. Congregazione per la dottrina della fede, 5 maggio 1980, p. 7), la liceità morale della terapia del dolore è da tempo affermata in linea di principio dalla dottrina cattolica; v. sul punto L. EUSEBI, op. cit., p. 521. Contra G. IADECOLA, Il medico, cit., p. 124, per il quale, al pari del « colpo di grazia », la consapevole somministrazione di analgesici con proprietà abbrevianti della vita configura un’ipotesi di eutanasia attiva.
— 97 — mente sotto i rigori degli artt. 579 e 580 c.p. (96), a titolo di dolo eventuale (97). Allo scopo di fornire un criterio discretivo, parte della dottrina tedesca ricorre alla clausola polivalente del rischio consentito (98), che anziché risolvere la questione, la ripropone in forma solo apparentemente diversa. È giocoforza chiedersi infatti: entro quali limiti può ritenersi consentito il rischio di vita insito nella la terapia del dolore? E a pena di tautologia questa risposta non può discendere dalla clausola del rischio consentito. Preferibile (e in certa misura inevitabile) appare dunque far dipendere la liceità della terapia del dolore da un giudizio di proporzione dei mezzi utilizzati (99), peraltro caratteristico anche di altre scriminanti. Resta però da chiarire il termine di riferimento di tale proporzione: a cosa, cioè, devono essere proporzionati i mezzi. E la risposta non pare possa essere ricercata nel grado di probabilità della morte (100), per via del carattere arbitrario della limitazione che essa introduce al dovere di curare. A ben vedere, infatti, se la cura del dolore rientra tra le competenze doverose del medico al pari (quando possibile) dell’obbligo di guarire, essa integra un dovere assoluto che, come il dovere di guarire, trova il suo solo limite nelle conoscenze mediche del momento e nelle disponibilità tecnologiche. Questo rilievo vale anche a escludere che il rapporto di proporzione in questione si possa instaurare con il carattere diretto o indiretto dell’effetto morte (101), ammettendo la liceità della terapia del dolore solo quando essa non causi direttamente la morte, ma « cagiona di per se stessa due effetti distinti, da un lato, l’abbreviamento dei dolori, dall’altro l’abbreviamento della vita » (102). Ancora una volta, è l’assolutezza del dovere giuridico di alleviare le sofferenze che non consente di dare spazio a, peraltro complesse, valutazioni sugli effetti causali principali e secondari della terapia del dolore. Pur con tutte le incertezze dovute alla reticenza della legislazione sul (96) Com’è intuitivo, l’operatività dell’art. 580 c.p. è ipotizzabile là dove il medico si limiti a prescrivere o a consegnare al paziente i farmaci necessari alla terapia del dolore. (97) Sul punto v. anche E. VARANI, op. cit., p. 170. (98) Cfr. A. ESER, Possibilità e limiti, cit., p. 83; da noi, v. F. STELLA, op. cit., p. 1015 nota 16. (99) Cfr. F. RAMACCI, op. cit., p. 290. (100) In tal senso v. K. ENGISCH, op. ult. cit., p. 329 s., che considera non proporzionato il rischio insito nella terapia del dolore quando vi è un’elevata probabilità o addirittura la certezza dell’accelerazione della morte. Da noi, analogamente: F. STELLA, op. cit., p. 1015 nota 16; e già A. DE MARSICO, op. cit., p. 219, dove si ammette la liceità della terapia del dolore quando all’uso dei mezzi utilizzati si riconnette un « pericolo remoto » per la vita del paziente. (101) Cfr. F. RAMACCI, op. cit., p. 290. (102) Così, testualmente, Papa Pio XII, Discorso ai partecipanti al IX Congresso della Società di Anestesiologia, 24 febbraio, 1957, in Discorsi ai medici, Roma, 1959, p. 580. In tal senso v. anche il nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, Roma, 1993, § 2279.
— 98 — punto, non resta che instaurare la proporzione tra la misura della riduzione di vita propria dei mezzi terapeutici disponibili e il grado di tollerabilità (o di insopportabilità del dolore), cercando un delicato equilibrio tra la quantità di vita che si sacrifica e la qualità di vita che si recupera. Al riguardo e quale notazione conclusiva, va precisato però che sia la quantità della vita che la terapia del dolore accorcia, sia la qualità della vita che essa consente di guadagnare non possono non apprezzarsi in termini di valore. Così, anche di fronte a dolori intollerabili sproporzionata risulterà la terapia del dolore che determini una morte subitanea o una totale perdita della coscienza la quale, se irreversibile, è effettivamente qualcosa di contiguo all’eutanasia attiva (103). C) Una terza ipotesi problematica, sul piano della sua liceità, è quella in cui la sospensione consensuale delle cure venga effettuata da una persona diversa dal medico, quale può essere un parente del malato terminale. Di una siffatta eventualità, la dottrina si occupa per lo più en passant: dopo aver affermato la natura « omissiva mediante azione » del distacco del sostegno artificiale che tiene in vita il paziente, non di rado si osserva che « la qualificazione ‘‘omissiva’’ subito cade se a deconnettere il paziente è un terzo, diverso dal medico e al quale deve allora imputarsi la commissione di omicidio » (104). Se ci si sforza di cogliere le ragioni di una siffatta conclusione, esse sembrerebbero risiedere nel carattere per così dire « proprio » del limite scriminante che, solo al medico, e non ad altri, consentirebbe (rectius: imporrebbe) di rispettare la volontà del paziente di non curarsi e di disattivare la « macchina ». Una conclusione, questa, che oltre tutto sembra attagliarsi perfettamente all’odierno fenomeno della ospedalizzazione e della medicalizzazione della morte. A tacer d’altro, però, una siffatta impostazione rischia di condurre a conclusioni addirittura paradossali. Si è visto infatti che anche la (liceità della) mera sospensione della terapia si fonda sul rilievo che, di fronte al dissenso del paziente, cessa la liceità dell’attività medica e il dovere di curare. Indubbiamente, il principio che vieta di proseguire la terapia contro la volontà del paziente è unico, e discende, come si è detto (105), dall’art. 32, comma 2, Cost. Quel che varia, semmai, è il modo in cui esso rileva sul piano del diritto penale: se nel caso della disattivazione della « mac(103) Cfr. L. EUSEBI, op. cit., p. 523. (104) Cfr. ad esempio G. PAPPALARDO, op. loc. cit. Anche nella dottrina tedesca, quanti colgono nella disattivazione della « macchina » un’omissione mediante azione precisano che la condotta deve considerarsi positiva se tale disattivazione è compiuta da un soggetto non abilitato; v. ad esempio C. ROXIN, An der Grenze, cit., p. 395 s. Sottolinea che, proprio per il fatto di svolgersi al di fuori del trattamento medico, il comportamento del terzo che disattiva il respiratore ha un significato totalmente diverso dal medesimo comportamento tenuto dal medico, K. ENGISCH, op. ult. cit., p. 328 s. Sul punto, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, v. H.H. JESCHECK, op. loc. cit. (nota 30). (105) V. supra § 3.1 a).
— 99 — china » il principio dell’incoercibilità del vivere opera come un limite scriminante, nell’ipotesi della mera sospensione delle cure esso fa venir meno il presupposto della liceità (rectius: doverosità) dell’attività medica. Vero ciò, si dovrebbe ammettere di conseguenza che proprio ed esclusivo del medico non sarebbe solo il limite scriminante che consente la disattivazione del sostegno artificiale, ma anche il dovere di agire che, venendo meno con il dissenso del paziente alle cure, svincola il medico dalla posizione di garanzia rispetto alla salute del paziente e legittima la mera sospensione della terapia. Per coerenza, allora, dovrebbe considerarsi come eutanasia attiva, punibile ai sensi dell’art. 579 c.p., anche il fatto del figlio che, non essendo medico, cessa di somministrare al genitore consenziente le medicine che lo tengono in vita o ne rallentano la morte. Una conclusione, questa, eccessiva già ictu oculi. Ma che un siffatto epilogo non sia affatto scontato, appare chiaro ove si verifichi brevemente l’asserito carattere « proprio » del dovere di rispettare la volontà di morire espressa del malato, che giustifica la sospensione consensuale delle cure nelle due forme dell’interruzione del trattamento o della disattivazione della macchina. A tale fine, poiché l’art. 32, comma 2, Cost. fa riferimento al trattamento sanitario, è opportuno chiedersi se anche la mera sospensione delle cure integri o meno un trattamento medico. Ebbene, per la risposta negativa depone già il carattere sostanzialmente omissivo dell’interruzione delle cure, là dove quella medica appare per definizione un’attività. Oltre tutto, proprio per il suo carattere omissivo, la sospensione delle cure non persegue le finalità tipiche del trattamento medico che, sebbene non si riducano solamente alla guarigione (106), non possono nemmeno coincidere con l’agevolazione della morte. Né varrebbe obiettare che la sospensione della terapia presuppone una conoscenza tecnica e richiede una perizia, proprie della professione medica. È questa un’osservazione che, risultando empiricamente fondata soprattutto (se non esclusivamente) nel caso di disattivazione della « macchina », consente intanto di acquisire la liceità dell’eutanasia attiva consensuale ad opera del terzo, quando questi si limiti a sospendere l’offerta o la somministrazione del trattamento farmacologico. A ben vedere, però, anche la limitazione in capo al medico del potere di disattivare lecitamente la « macchina », che tiene in vita il paziente, appare discutibile. Essa muove infatti da una nozione di attività medico-chirurgica, che include tra i requisiti dell’atto medico la qualifica soggettiva (106) Come si è già visto (supra nota 89), infatti, è pacifico che tra i compiti del trattamento medico rientri anche la terapia del dolore e, per opinione largamente maggioritara, l’assistenza del paziente (sul punto v. per tutti M. BARNI, G. DELL’OSSO, P. MARTINI, Aspetti medico-legali e riflessi deontologici delle cure mediche, in Riv. it. med. leg., 1981, p. 39 s., che osservano come tra i doveri del medico rientri altresì quello di garantire al malato il maggior benessere possibile).
— 100 — (o meglio formale) di chi lo pratica: vale a dire la sua abilitazione (107). Si tratta di un’inclusione affatto arbitraria, dato che — a pena di tautologia — la definizione di un’attività non può dipendere dalla qualifica di chi la compie, essendo anzi il suo svolgimento un elemento di definizione formale del soggetto che la esegue. Non a caso la dottrina più avvertita propende per una nozione « oggettiva » di attività medica (108), che fa leva sulle sue finalità (tra cui quella di essere svolta nell’interesse del paziente) e sul rispetto delle leges artis (109). Se si muove da tali acquisizioni, però, è difficile escludere dall’ambito scriminante dell’art. 51 c.p. l’interruzione della macchina effettuata da persona diversa dal medico, ma nel rispetto delle leges artis. Anche se, proprio a causa della natura oggettivamente medica dell’atto di disattivazione, colui che lo pone in essere senza essere medico non potrà sfuggire alla responsabilità per il delitto di esercizio abusivo di una professione (art. 348 c.p.), stante l’orientamento secondo cui per l’integrazione del delitto in questione è sufficiente il compimento di un’isolata prestazione professionale (110). Poiché come la disattivazione della macchina, anche la liceità della terapia del dolore — si è visto — discende dall’art. 51 c.p., i rilievi anzidetti valgono a escludere che integri un’ipotesi di eutanasia attiva la terapia del dolore effettuata da persona diversa dal medico, ma nel rispetto delle leges artis. Anche qui, per il carattere medico dell’attività, resta salva però la configurabilità in capo all’agente di una responsabilità a norma dell’art. 348 c.p. 3.2. Le acquisizioni in tema di eutanasia passiva consensuale mo(107) In tal senso v. ampiamente O. DE PIETRO, op. cit., p. 115 s. e p. 207 s., cui si rinvia per ulteriori indicazioni bibliografiche. (108) In tal senso, nella sostanza, v. già P. NUVOLONE, I limiti taciti della norma penale, Palermo, pp. 128-130; F. MANTOVANI, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974, p. 13, che definisce l’attività terapeutica in funzione dello scopo di arrecare beneficio alla salute del paziente, dell’obiettiva idoneità terapeutica del trattamento eseguito nel rispetto delle leges artis e del suo diretto rapporto con la malattia del paziente. (109) Una siffatta conclusione consente inoltre di ravvisare la colpa per imperizia anche nel caso di attività abusivamente esercitata, con conseguenti implicazioni in relazione all’operatività — nel caso di specie — del disposto dell’art. 2236 c.c. (contra v. però A. CRESPI, La responsabilità penale nel trattamento medico-chirurgico con esito infausto, Palermo, 1955, p. 106 s.). Da altra angolazione, del resto, si ritiene comunemente che la morte del paziente non possa essere imputata a colui che, pur in mancanza della qualifica formale di « medico », ha svolto l’attività nel rispetto delle leges artis. Sul punto v. E. BELFIORE, Profili penali dell’attività medico-chirurgica in équipe, in Arch. pen., 1986, p. 267, nonché F. GIUNTA, op. cit., p. 214. (110) Cfr. F. ANTOLISEI, op. cit., parte speciale, vol. II, 11a ed., Milano, 1995, p. 378 nonché Cass. sez. VI, 7 marzo 1985, LO VERSO, in Riv. pen., 1986, p. 297. In senso difforme, v. G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, cit., parte speciale, vol. I, Bologna, 1988, p. 242.
— 101 — strano ulteriori e significative incertezze in relazione alla tutela penale del diritto di morire, che si potrebbe ritenere assicurata dal delitto di violenza privata (art. 610 c.p.). E non v’è dubbio che a tale norma sia riconducibile la — peraltro inverosimile — persistenza terapeutica del medico che, contro il volere del malato, si manifesta nella somministrazione forzata di medicinali o nell’assoggettamento coattivo ad altro tipo di terapia. Prescindendo al momento dai profili che attengono alla libertà di coscienza del personale medico, delicati problemi interpretativi sorgono invece allorché il medico si rifiuti di disattivare la « macchina » che tiene in vita il paziente, dato che il comportamento omissivo del medico sembra qui sfuggire all’area d’intervento dell’art. 610 c.p., quale reato a condotta necessariamente attiva e vincolata (111). Più precisamente, la condotta del medico che, non sospendendo la terapia meccanica, costringe il paziente a vivere suo malgrado, non sarebbe sussumibile nello schema dell’art. 610 c.p., in quanto il suo comportamento meramente negativo non integrerebbe la violenza richiesta dalla fattispecie incriminatrice come modalità esecutiva della costrizione. A ben vedere però questa conclusione non è necessariamente corretta, né l’unica possibile. La sua accoglibilità dipende infatti dalla nozione di violenza da cui si muove. Così, l’inapplicabilità dell’art. 610 c.p. risulterà inevitabile in tanto che si intenda la violenza in senso ristretto, vale a dire unicamente come dispiego di energia fisica (nozione c.d. « propria ») (112). Ad un opposto risultato si giunge invece se si aderisce all’opinione largamente maggioritaria in dottrina e giurisprudenza, secondo cui è penalmente rilevante anche la violenza « impropria », cioè qualunque mezzo adoperato sul paziente per limitarne o annullarne la capacità di autodeterminazione, che non sia la minaccia (113); e la « violenza impropria — si precisa — può consistere anche in una semplice omissione » (114). Così intesa, però, la violenza non esprime più una condotta vincolata, ma un’azione che rileva penalmente in quanto causalmente orientata alla costrizione della vittima. Verrebbero meno di conseguenza gli ostacoli alla possibilità di sanzionare penalmente l’inottemperanza alla richiesta del malato. Invero, a norma dell’art. 40, comma 2, c.p. il medico che, contro la volontà del paziente, non disattiva la « macchina », causa (111) Cfr. A. SANTORO, op. cit., p. 288. (112) Così, soprattutto A. PECORARO ALBANI, Il concetto di violenza nel diritto penale, Milano, 1962, p. 44 s.; M. VARIO, Violenza e minaccia, in Nss. D.I., vol. XXI, 1975, p. 968 s. Da ultimo, v. in tal senso anche M. MANTOVANI, Violenza privata, in Enc. dir., vol. XLVI, 1993, p. 936 e p. 938. (113) Cfr. F. ANTOLISEI, op. cit., parte speciale, vol. I, p. 134. (114) Così F. ANTOLISEI, op. loc. ult. cit. Da ultimo, v. anche G. DE SIMONE, Violenza (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XLVI, cit., p. 907.
— 102 — l’evento previsto dall’art. 610 c.p., che aveva il dovere di evitare (115): la costrizione del paziente a vivere, ovvero la costrizione ad ogni possibile fare, tollerare e omettere, sia attuale che potenziale. Una lacuna di tutela penale si registra invece nel caso in cui, sempre contro la volontà del malato, il medico persista nella terapia in modo clandestino (omettendo cioè di informare il malato della prosecuzione della cura) ovvero ingannatorio (negando ad esempio gli effetti terapeutici dei farmaci somministrati). L’inapplicabilità dell’art. 610 c.p. dipende dal fatto che, in base alla fattispecie citata, la coercizione violenta non può sussistere là dove non venga percepita come tale dalla vittima. 4. I limiti al dovere di curare e il corrispettivo diritto di morire sono stati esaminati, fin qui, con esclusivo riferimento alla situazione del malato terminale, capace di esprimere un valido dissenso al trattamento medico. Restano adesso da analizzare i confini del dovere di curare nei confronti del malato terminale, che, trovandosi invece in uno stato di incoscienza, non può conseguentemente chiedere di lasciarsi morire, né acconsentire all’altrui proposta in tal senso. Per una corretta impostazione della questione, va ricordato che una parziale chiarificazione della materia si deve all’intervento della l. 29 dicembre 1993, n. 578, la quale, recependo gli esiti del dibattito internazionale in materia, ha identificato a ogni effetto giuridico la morte con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo (art. 1), talché il concetto di morte deve ritenersi oggi un elemento normativo della fattispecie penale. Con l’auspicata affermazione legislativa di una nozione unitaria di morte (116), si sono superate infatti le incertezze derivanti dal precedente quadro normativo che, in base alla l. 2 dicembre 1975, n. 644 (artt. 3 e 4), accoglieva il concetto di morte cerebrale limitatamente alla regolamentazione dei prelievi d’organo a scopo di trapianto terapeutico. Acquisito, dunque, che l’accertamento della morte cerebrale segna il limite dell’attività terapeutica, ad esso segue logicamente il dovere di disattivare il funzionamento di eventuali sostegni automatici. Non solo: a partire dall’accertamento della morte cerebrale, ogni ulteriore attività sul corpo del paziente (rectius: sul cadavere), che non rientri tra quelle tassativamente consentite e regolate dalla legge, potrà rilevare ai sensi degli artt. 410-413 c.p. A contrariis, finché non giunge la morte cerebrale, permane intatto (115) Per la configurabilità del delitto di violenza privata mediante omissione rilevante ex art. 40, comma 2, c.p., v. V. MANZINI, op. cit., p. 785. (116) Sulla necessaria unitarietà della nozione di morte, v.: F. MANTOVANI, Morte (generalità), in Enc. dir., vol. XXVII, 1977, p. 97; R. CECCHI, Unicità del concetto di morte: ordinamenti etici, deontologici e legislativi, in Giust. pen., 1991, I, c. 274 s.; L. EUSEBI, op. cit., p. 513; U.G. NANNINI, Quale « unità » del concetto di morte? Una prospettiva giuridica, in Bioetica, 1993, p. 261 s.
— 103 — nella sua massima estensione il dovere di assistere il paziente, anche quando la prognosi risulta certamente infausta. Infatti, posto che la tutela del bene della vita non è subordinata alla vitalità del soggetto passivo (117), non è dubbio che la posizione di garanzia del medico si estenda fino a ricomprendere l’obbligo di mantenimento in vita del paziente (118). Di conseguenza, nei confronti del malato terminale che versi in stato di incoscienza, i doveri del medico rilevano negli stessi termini in cui essi sussistono nei confronti del paziente che ha acconsentito alle cure, anche se diverso è il fondamento giuridico della doverosità dell’intervento medico. Invero, nel caso di paziente consenziente, la doverosità dell’attività medica discende dalla subordinazione della natura intrinsecamente solidaristica dell’attività medica e della tutela della salute (art. 32 comma 1, Cost.) alla componente personalistica della volontà del paziente (art. 32, comma 2, Cost.). Diversamente, nel caso di paziente incosciente o incapace, la doverosità del trattamento ha un fondamento esclusivamente solidaristico, non soggetto a essere integrato dalla volontà del paziente, ma eterolimitato dal disposto dello stesso art. 32, comma 1, Cost., là dove, imponendo la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo, impone che l’attività del medico sia svolta nell’interesse esclusivo del paziente. Di conseguenza, la regola che governa il trattamento del malato terminale incosciente — sintetizzata nel brocardo in dubio pro vita — risulta un’applicazione del medesimo principio che fonda la doverosità di qualunque trattamento medico su soggetti incoscienti. Come, ricorrendo verosimili prospettive di guarigione del paziente incosciente, il medico è obbligato a curare, anche quando la terapia comporta (in misura non sproporzionata) sofferenze o lesioni dell’inegrità fisica, così, nel caso di malato terminale incosciente, il medico è tenuto ad intervenire, quando la cura consente un apprezzabile rallentamento della patologia, e sempre che vi sia una proporzione tra tale obiettivo e il possibile grado di sacrificio connesso alla terapia. 4.1. La questione si complica quando la terapia cui può essere sottoposto il malato terminale incosciente non consente di sperare né in un apprezzabile rallentamento della malattia, né in un sicuro ritorno di coscienza del paziente, talché possa esercitare il suo diritto di scegliere tra la vita o la morte. Al riguardo, ci si è interrogati sulla liceità della sospensione delle cure anche prima che siano cessate tutte le funzioni dell’encefalo. La soluzione affermativa è stata prospettata facendo leva ora sul cri(117) (118)
V. supra nota 5. Così per tutti F. STELLA, op. cit., p. 1019.
— 104 — terio del migliore interesse del paziente (119), ora sul diritto a morire con dignità (120). Non si è mancato infine di distinguere tra l’impiego di mezzi terapeutici ordinari e il ricorso a mezzi terapeutici straordinari (121), osservando che solo i primi e non anche i secondi sarebbero doverosi nel caso di malato terminale in condizioni di incoscienza. A ben vedere, però, questi argomenti non consentono di affermare l’incondizionata liceità della sospensione delle cure, anche perché essi mancano, a tal fine, di un adeguato supporto sul piano del nostro diritto positivo. Ed invero, il primo argomento dà per acquisito, già in linea di principio e in assenza di un’esplicita fonte, che altri possano farsi interpreti del « migliore interesse » del paziente (122). Ma ciò — com’è evidente — contrasta con il principio che nessuno può decidere dell’altrui vita; nemmeno il medico, cui in questa prospettiva verrebbe fatalmente attribuito il peso della scelta (123). Non a caso si osserva che il « migliore interesse » del paziente getta un ponte con la tematica dei diritti dell’uomo (124); una precisazione, questa, che conferma come di per sé la clausola del « migliore interesse » non sia risolutiva del problema. Quanto al diritto a morire con dignità, è da dimostrare che esso si estrinsechi nella cessazione delle cure e, soprattutto, che faccia venir meno il dovere di curare; la soluzione affermativa muove da una concezione del diritto di morire con dignità che potrebbe pur sempre non coincidere con quella del paziente. La ritenuta doverosità dei soli mezzi terapeutici ordinari, infine, oltre a porre il difficile problema della distinzione tra mezzi ordinari e mezzi straordinari, non spiega sul terreno del diritto penale perché non sia doveroso il ricorso a tutti i possibili strumenti di prolungamento della vita. In effetti, per una corretta impostazione della questione, bisogna distinguere tra due diverse situazioni di fatto. La prima è quella della stato di coma. Come precisa la scienza me(119) Si tratta di un argomento più facilmente rintracciabile nella letteratura angloamericana; cfr. I. KENNEDY, Relazione (in corso di pubblicaz.) al Convegno Internazionale sul tema « Una norma giuridica per la bioetica », Siena, 9-11 giugno 1994. In argomento. v. anche V. ZAMBRANO, op. cit., p. 883 s. (120) Da noi, di recente v. C. LEGA, op. cit., p. 475. (121) Cfr.: V. MARCOZZI, Il cristiano di fronte all’eutanasia, in Civiltà cattolica, IV, 1975, p. 333. (122) Per la riconduzione di tale scelta al rapporto fiduciario che lega il medico al paziente, cfr. V. ZAMBRANO, op. cit., p. 883, che non esita a verificare l’assunto alla luce dell’art. 2028 c.c. (123) Per un potenziamento, in tal caso, dei poteri di apprezzamento del medico, v. invece M. BARNI, G. DELL’OSSO, P. MARTINI, op. cit., p. 41. Cfr. anche V. ZAMBRANO, op. cit., p. 884 s. (124) Cfr. ancora I. KENNEDY, op. cit.
— 105 — dica (125), anche nel caso di coma profondo, non si può escludere che il soggetto riprenda coscienza, seppure per un tempo breve. Ebbene, proprio in ragione di una siffatta eventualità, il dovere di curare del medico non subisce modificazioni di sorta, talché la sospensione delle cure integra un’omissione penalmente rilevante. Per giungere a questa conclusione, del resto, non occorre far leva su una presunzione di consenso del paziente: anche a prescindere dalle forti perplessità cui va incontro la figura del consenso presunto, allorché si tratti di scriminare offese ai beni della persona (126), si è già detto che nei confronti del paziente incosciente il fondamento giuridico dell’attività medica e la sua stessa doverosità discendono dal disposto dell’art. 32, comma 1, Cost. Ben diversa è la situazione del paziente che si trova in stato vegetativo permanente: in una condizione cioè di incoscienza irreversibile, anche se non necessariamente terminale (127). Al riguardo, è opportuno ricordare in via preliminare che — com’è pacifico — il dovere di curare del medico non viene meno per il solo fatto che la terapia non porterà ad una guarigione del paziente. Da un punto di vista più generale, infatti, si può osservare che compito della scienza medica è quello di curare, non necessariamente di guarire, potendo dipendere l’esito infausto della terapia dai limiti della scienza medica (128). Nondimeno, l’incoscienza irreversibile è una condizione affatto particolare: per quanto il soggetto in stato vegetativo permanente sia vivo dal punto di vista giuridico e biologico, cessata per sempre è la sua vita c.d. biografica (129). Naturalmente, ciò non significa che anche la vita puramente biologica non sia un bene tutelato dal diritto penale e che la dignità di tale bene sia inferiore a quella della vita cosciente; ed infatti, nei confronti delle aggressioni commissive la prima viene protetta nello stesso modo in cui l’ordinamento tutela la seconda. Il problema di una possibile (125) Cfr. F. PLUM, J.B. POSNER, Stupor e coma, ed. it. a cura di S. MAZZA, Roma, 1987, p. 6 s. (126) Come noto, la dottrina che ammette il consenso presunto, giunge a tale conclusione attraverso un’interpretazione analogica dell’art. 50 c.p., limitatamente ai casi non rientranti nell’ambito della negotiorum gestio (art. 2028 c.c.) e come tali non scriminabili attraverso l’istituto del consenso dell’avente diritto (cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 265). Poiché l’art. 2028 c.c. fa riferimento agli « affari altrui » di natura evidentemente patrimoniale, il consenso presunto non può comunque abbracciare le offese di tipo non patrimoniale, per mancanza dell’eadem ratio. In argomento cfr. F. GIUNTA, L’applicazione analogica delle scriminanti: un luogo di tensione tra certezza del diritto e favor libertatis, in Studium iuris, 1995, p. 186. (127) Cfr. ancora F. PLUM, J.B. POSNER, op. cit., p. 7 s. (128) Cfr. per tutti: A. CRESPI, op. cit., p. 9 s.; F. MANTOVANI, Problemi giuridici, cit., p. 41. Non a caso, dal punto di vista civilistico, l’attività medica costitutisce un obbligazione di mezzi e non di risultato (per tutti, v. F. MANTOVANI, I trapianti, cit., p. 43). (129) In argomento v. anche G. ORRÙ, La tutela della dignità umana del morente, in Vivere: diritto o dovere?, cit., p. 105 s.
— 106 — differenziazione di tutela può porsi, invece, in relazione alle condotte omissive, per via delle particolarità di queste ultime. Nella prospettiva della responsabilità omissiva, infatti, il dovere di agire non rileva incondizionatamente, ma risulta subordinato, tra l’altro, all’idoneità dell’azione doverosa rispetto alla tutela del bene. Non deve meravigliare pertanto che l’obbligo di impedire l’evento possa esprimere un grado di evitabilità dell’offesa inferiore rispetto a quello che corrisponde all’obbligo di non ledere (attraverso una condotta attiva). Ebbene, tornando al caso del soggetto in stato vegetativo permanente, mentre è indubbio che il bene della vita biologica è pienamente tutelato nei confronti delle condotte attive lesive, rispetto alle condotte omissive può ritenersi che esso sia tutelato nella misura in cui la vita biologica sussista autonomamente. In quanto autonoma, invero, la vita biologica costituisce un bene rispetto al quale può porsi il problema dell’idoneità delle cure; diversamente, nei confronti di una vita biologica non autonoma, il dovere di intervenire non ha più la funzione strumentale tipica del trattamento medico (130), ma sconfina nell’accanimento terapeutico (131). Ne consegue che nei confronti dei soggetti in stato vegetativo permanente sarà lecita la sospensione delle cure farmacologiche che consentono, assieme al persistente funzionamento dell’ausilio meccanico, il mantenimento della vita. Invero, poiché la macchina non è più al servizio della vita biologica, ma è la vita puramente biologia un prodotto della macchina, tutelare questo tipo di vita biologica attraverso l’imposizione di ulteriori attività terapeutiche, significa tutelare il funzionamento della macchina in sé. Solo in tale situazione dunque la persistenza nella terapia può configurare quel fenomeno che parte della dottrina internazionale indica come distanasia (132): neologismo che, con valenza negativa, sta per l’appunto a significare l’arbitrario prolungamento del corso naturale della morte (133). Ciò che rimane penalmente illecito, invece, è la disattivazione del sostegno artificiale della vita, dato che, come si è visto (134), si tratta di un’attività positiva (135). 4.2. Sulla scia del dibattito sviluppatosi all’estero, anche la nostra dottrina si è posta il problema del valore da riconoscere al c.d. testamento in vita, altrimenti detto testamento biologico (living will). Con tale espres(130) Cfr. anche C.M. ROMEO CASABONA, op. cit., p. 197 s. (131) Cfr. C. LEGA, op. loc. cit. (132) Cfr. ad esempio V. MARCOZZI, op. loc. cit. Nella letteratura straniera v., tra gli altri: C.M. ROMEO CASABONA, op. cit., p. 195 s. (133) Questo concetto era del resto già presente nella distinzione tra prolungamento della vita e prolungamento dell’atto di morire avanzata da A. DE MARSICO, op. cit., p. 217. (134) V. supra § 3.1. a). (135) Diversamente C.M. ROMEO CASABONA, op. loc. cit., che, con riferimento all’ipotesi considerata, ammette l’irrilevanza penale dell’interruzione della terapia, anche quando quest’ultima si realizzi attraverso la disattivazione del sostegno artificiale della vita.
— 107 — sione si fa riferimento alla dichiarazione con cui un soggetto, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, dà disposizioni in merito alle terapie che desidera ricevere e a quelle che intende rifiutare, nel caso in cui si venga a trovare in uno stato di incoscienza e — per ciò che qui più interessa — nella condizione di malato terminale (136). Se si conviene sulla configurabilità, già de iure condito, di un diritto di morire, risultano conseguentemente superabili i rilievi di quella parte della dottrina che contesta la legittimità del testamento in vita in ragione del carattere indisponibile del suo oggetto: il rifiuto delle cure (137). Contro l’efficacia del testamento in vita viene fatto valere, però, anche un altro argomento, certamente più consistente e largamente condiviso: il rifiuto delle terapie contenuto nel testamento in vita — si osserva — si riferisce a una situazione non solo futura, ma anche astratta, talché, nel momento in cui dovrebbe dispiegare il suo effetto, la dichiarazione risulta inattuale (138). Ne consegue — si aggiunge — che il testamento in vita non assicura l’effettiva corrispondenza tra la volontà in esso espressa e quanto il suo autore, ove avesse potuto, avrebbe deciso nella situazione concreta (139). Ne conseguirebbe la totale perdita di efficacia di uno strumento che, com’è stato osservato, nasce in definitiva come l’estremo tentativo di vincolare i medici al rispetto della volontà del paziente e di scongiurare l’accanimento terapeutico (140). A ben vedere, però, i rilievi riferiti non sono del tutto persuasivi. Premesso che, in mancanza di una sua apposita regolamentazione legislativa, il problema va risolto ancora una volta sulla base di considerazioni sistematiche più generali, non sembra che l’invalidità del testamento in vita possa farsi discendere dall’inefficacia della volontà inattuale in sé considerata, dato che in altri noti casi l’ordinamento non manca di riconoscere validità alla volontà inattuale del testatore, anche in relazione a disposizioni non patrimoniali (come, ad esempio, ai fini del riconoscimento del (136) Sulle funzioni e le caratteristiche (anche formali) del testamento in vita v.: P. RESCIGNO, La fine della vita umana, in Rass. dir. civ., 1982, p. 651 s.; M. LAGAZZI, Il dialogo ambiguo. Riflessioni sull’eutanasia del paziente terminale, in Rass. criminol., 1986, p. 196; G. PERICO, Testamento biologico e malati terminali, in Aggiornamenti Soc., 1992, p. 677 s.; M. BARNI, I testamenti biologici: un dibattito aperto, in Riv. it. med. leg., 1992, p. 171, cui si rinvia anche per uno sguardo al modello di testamento in vita (ivi, p. 184), proposto nella recente Carta di autodeterminazione, elaborata nel 1992 dalla Consulta di bioetica. (137) V. ad esempio F. RAMACCI, op. cit., p. 293. (138) V.: F. MANTOVANI, Aspetti giuridici, cit., p. 459; A. MANNA, Trattamento, p. 1297 s.; G. ORRÙ, op. cit., p. 105; L. STORTONI, op. cit., p. 9. (139) Cfr.: M. BARNI, Considerazioni sull’eutanasia: il pensiero di un medico-legale, in Fed. med., 1985, p. 6; G. IADECOLA, La rilevanza del consenso del paziente al trattamento medico-chirurgico, in Riv. it. med. leg., 1986, p. 65 s. Nella letteratura straniera v. anche J.L. BAUDOUIN, D. BLONDEAU, Ethique de la mort et droit à la mort, Paris, 1993, p. 96. (140) Così J.L. BAUDOUIN, D. BLONDEAU, op. cit., p. 92.
— 108 — figlio naturale ex art. 254 c.c.). D’altro canto, l’invalidità del testamento in vita non può affermarsi instaurando un parallelo con il consenso dell’avente diritto e osservando che l’attualità del consenso viene comunemente considerata un requisito tacito della scriminante (141). Si prescinda pure dal rilievo che, con il testamento in vita, il testatore non esprime un consenso alla propria lesione, ma esercita più semplicemente il proprio diritto a non essere curato, talché l’attuazione della sua volontà di morire sarà un fatto penalmente lecito in quanto atipico e non perché giustificato; preme rilevare invece che quando si parla di attualità del consenso ci si intende riferire alla necessità che esso intervenga prima del fatto lesivo, e non necessariamente al momento della lesione (142). Senonché, proprio questo diffuso insegnamento dà agio di precisare che, quale caratteristica della volontà, l’attualità è un requisito logico e non meramente cronologicotemporale. Diversamente opinando, infatti, si arriverebbe all’assurdo di riconoscere rilievo giuridico solamente alle manifestazioni di volontà concomitanti, menomando in modo irragionevole anche l’operatività del consenso scriminante, che non potrebbe contribuire a giustificare, tra l’altro, la gran parte degli interventi chirurgici, in quanto in tali ipotesi il consenso viene espresso dal paziente prima che abbia inizio l’intervento stesso; cosa, peraltro, addirittura scontata nei casi in cui il paziente venga sottoposto ad anestesia totale. Ne consegue che se, per il diritto, la volontà inattuale non coincide affatto con la volontà espressa « prima », quest’ultima può ben essere attuale, alla condizione che vi sia una corrispondenza tra il fatto voluto e l’avverarsi delle condizioni cui è subordinata tale volontà. In attuazione dei principi generali che rendono valide tutte le dichiarazioni a futura memoria, la corrispondenza cui si è fatto cenno annulla pertanto la sfasatura temporale tra il momento in cui è stata manifestata la volontà e la situazione futura nella quale deve dispiegare gli effetti. Si può dire anzi che, quando la volontà è condizionata al verificarsi di fatti futuri, il requisito della sua attualità subisce una dilatazione, nel senso che la volontà è attuale dal momento in cui è stata manifestata fino al verificarsi della condizione futura, salvo che non sia intervenuta una sua revoca. Tanto premesso, per evitare la paradossale conclusione di far prevalere sempre e comunque sull’ultima volontà espressamente manifestata una volontà ipotetica e oltre tutto inespressa, pare più corretto ammettere la validità del testamento in vita (143), seppure in subordine ad alcune (141) Cfr. M. ROMANO, op. cit., p. 503. (142) Cfr. ancora M. ROMANO, op. loc. cit. (143) Sul punto, v. A. SANTOSUOSSO, A proposito di living will e di advance directives: note per il dibattito, in Pol. dir., 1990, p. 487. L’ A. osserva opportunamente che, di fronte all’alternativa tra rispettare una volontà di cui non può eservi la certezza della sua attualità e porre nel nulla una volontà certa e meditata fino a epoca recente, è sacrificio di
— 109 — condizioni, in assenza delle quali torna ad operare la generale presuzione in dubio pro vita, che governa la disciplina del trattamento del paziente in stato di incoscienza. Anzitutto, perché la volontà di esercitare il proprio diritto di morire possa dotarsi di quell’effettività che intende assicurarle il testamento in vita, occorre che la relativa dichiarazione avvenga con espresso riferimento alla situazione futura per la quale è destinata a valere, che deve essere individuata in modo determinato. Naturalmente, la dichiarazione ha maggiori probabilità di risultare determinata ove faccia riferimento, più che a singole patologie, alle terapie ovvero agli effetti della malattia (si pensi al grado di invalidità o al livello delle presumibili sofferenze) in relazione ai quali opera la rinuncia alle cure. Del resto, nel caso dei Testimoni di Geova, che portano con sé un’espressa dichiarazione scritta contraria all’emotrasfusione, destinata per l’appunto a valere ove si venissero a trovare in pericolo di vita e nell’incapacità di manifestare la propria volontà, è opinione già largamente accreditata che un siffatto testamento in vita abbia efficacia vincolante (ed esimente dalla responsabilità) (144). In secondo luogo, la validità del testamento in vita è condizionata ovviamente alla mancanza di una sua revoca, che può essere anche tacita; vale a dire ragionevolmente desumibile da comportamenti incompatibili con la volontà di morire precedentemente espressa. Anche al fine di valutare la persistenza del testatore nella sua volontà di morire, le proposte di testamento in vita che sono state avanzate, e prima ancora i modelli che vengono utilizzati all’estero, si caratterizzano per una predeterminazione della loro validità nel tempo (145), che quanto più è breve, tanto meglio contribuisce a fugare possibili dubbi sulla persistente attualità della volontà espressa dal testatore. 5. La parte conclusiva delle presenti note — dovrebbe essere oramai chiaro — è rivolta alla futura disciplina giuridica del fenomeno eutanasico. Ed invero, mentre scarsamente condivisa risulta oggi l’opinione che considera l’eutanasia pietosa un settore da affidare unicamente alla prassi e al quale il diritto deve restare estraneo (146), non poche voci insistono sull’opportunità che il riassetto penalistico della materia si sviluppi maggiore entità « quello che fa scaturire dall’incertezza relativa sull’attualità della volontà una violazione certa dell’ultima volontà conosciuta ». (144) Cfr. D. VINCENZI AMATO, op. cit., p. 39; M. PARODI GIUSINO, Trattamenti sanitari obbligatori, libertà di coscienza e rispetto della persona umana, in Foro it., 1983, I, c. 2660; S. SEMINARA, op. cit., p. 699. (145) In argomento v. anche J.L. BAUDOUIN, D. BLONDEAU, op. cit., p. 93. (146) Contro una visione dell’eutanasia come « rechtsfreier Raum », v. i noti rilievi di K. ENGISCH, Suizid, cit., p. 312, che replica alle obiezioni di quanti hanno ritenuto di cogliere in tale interessamento un atteggiamento di arroganza dei giuristi nei confronti di problemi, che, in quanto morali, dovrebbero registrare un monopolio delle coscienze individuali. Sulla necessità che sia il diritto a regolare la materia dell’eutanasia, v. da noi: F. STELLA, op. cit., p. 1009; L. EUSEBI, op. cit., p. 509 (dove si osserva opportunamente che « la
— 110 — de iure condendo (147). Un compito, questo, che, a differenza di quanto auspicato con riferimento ad altri ordinamenti (148), da noi non può non essere assunto direttamente dal legislatore, che deve provvedere con la necessaria ponderazione, ma ad un tempo con chiarezza: evitando cioè l’ambiguità (si potrebbe anche dire l’ipocrisia) dell’attuale legislazione, che rende incerto, quando non anche ingiustamente severo, il trattamento dell’eutanasia pietosa senza disciplinarla espressamente. È fin troppo evidente, infatti, che, per la loro importanza assoluta, sia la tutela della vita, sia l’effettività dei diritti di ciascun uomo di fronte alla morte non tollerano reticenze legislative, tanto più se cause di incertezze applicative o, peggio, strumento di deresponsabilizzazione dell’ordinamento in un campo dove non può che essere massima la responsabilità delle sue scelte. Si tratta di scelte, peraltro, rispetto alle quali — come si è già detto — l’angolo visuale del penalista non presenta specificità e competenze particolari. Anche per questa ragione, dunque, conviene soffermarsi subito su alcuni aspetti tecnici della possibile riforma della materia, utili per una consapevole riflessione, ancora meritevole di sviluppi sul piano del dibattito scientifico, prima ancora che su quello legislativo. E precisamente, in tale prospettiva si toccheranno conclusivamente due punti: il primo riguarda il tipo e i limiti dei condizionamenti che sulla disciplina dell’eutanasia discendono dai principi costituzionali; il secondo interessa invece le modalità e i livelli d’incidenza del possibile intervento riformatore. 5.1. Cominciando col considerare il primo dei profili anzidetti, è noto che, pur in assenza di un’espressa formulazione, anche dalla nostra Costituzione è possibile desumere l’esistenza del vero diritto di morire con dignità, quale specificazione del più generale diritto alla dignità umana. Il riferimento va al complesso di norme, che — garantendo, con assoluta priorità, i beni fondamentali della persona — individuano il perno dell’intero assetto ordinamentale nel c.d. principio personalistico (149), che, contrapponendosi all’opposta concezione utilitaristica dei beni della persona, considera l’uomo un fine in sé e preclude ogni sua solitudine del medico di fronte a una vita che si conclude non è utile né a lui, né alla comunità »); E. VARANI, op. cit., p. 157; L. STORTONI, op. cit., p. 10; M.B. MAGRO, op. cit., p. 1429 s. (147) Cfr. F. RAMACCI, op. cit., p. 294 e p. 298; V. FILIPPI, op. cit., p. 92; F. TABANELLI, op. cit., p. 53 s.; F. BRICOLA, Vita diritto o dovere: spazio aperto per il diritto?, in Vivere: diritto o dovere?, cit., p. 214 s.; L. STORTONI, op. cit., pp. 7 e 11. Per il rilievo che non si avverte nel nostro ordinamento la necessità di una specifica disciplina dell’eutanasia, v. invece B. PANNAIN, F. SCLAFANI, M. PANNAIN, op. cit., p. 25. (148) V. ad esempio I. KENNEDY, op. cit., che, con riguardo al sistema inglese, ritiene che tale compito spetti alle Corti. (149) Cfr. ampiamente: F. MANTOVANI, I trapianti, cit., p. 37 s.; ID., Il problema, cit., p. 41 s. e p. 50 s.; ID., Diritto penale, cit., Delitti contro la persona, Padova, 1995, p. 28 s. e p. 41 s.; F.C. PALAZZO, Persona (delitti contro), in Enc. dir., vol. XXXIII, 1983, p. 297 s.,
— 111 — strumentalizzazione per fini collettivistici. In particolare viene qui in rilievo, anzitutto, l’art. 2, là dove garantisce l’inviolabilità dei diritti dell’uomo anche nei confronti dello Stato, e l’art. 3, comma 2, che assegna allo Stato il compito di farsi strumento per assicurare il pieno sviluppo della persona umana. In secondo luogo, il principio personalistico trova conferme più specifiche, ma non meno importanti, nella consacrazione dei diritti e delle libertà attinenti alla persona umana (si pensi, tra gli altri, agli artt. 13-19 e 21, che assegnano a tali diritti e libertà una posizione di assoluto rilievo anche dal punto di vista della topografia costituzionale). Vengono ancora in rilievo l’art. 32, comma 2, per le ragioni che sono state già esposte, e gli artt. 41, comma 2, e 27, comma 3, posti a salvaguardia della dignità dell’uomo. Infine, il principio personalistico viene desunto dalle disposizioni che, in stretto collegamento con il disposto dell’art. 3, comma 2, impongono allo Stato specifici compiti positivi per il pieno sviluppo della persona umana in materia di lavoro (artt. 4, 35, 37), di cultura e ricerca scientifica (art. 9), di assistenza processuale (art. 24), di famiglia (art. 29), di salute (art. 32), di scuola (art. 34), di assistenza sociale (art. 38) e di attività economica (art. 41, comma 1) (150). Senonché, lo sforzo ermeneutico non consente di trarre da tali norme tutti i possibili significati del diritto di morire con dignità, tant’è che in dottrina vi è maggiore convergenza solo su taluni dei suoi contenuti. Si riconosce così che il complesso dei diritti della persona vale anche di fronte alla morte (151); compreso — si è visto — il diritto di rifiutare le cure, che possono lasciare sperare nella sopravvivenza o più semplicemente nella dilazione della morte. Le indicazioni costituzionali sul diritto alla dignità umana non aiutano invece a chiarire se il diritto di morire con dignità possa fondare la legittimità dell’eutanasia pietosa intesa nel suo significato più lato, compresivo cioè dell’eutanasia attiva anche nella sua forma non consensuale. Una siffatta soluzione infatti potrebbe discendere solo da un’espressa presa di posizione — frequente del resto nelle impostazioni della dottrina favorevole alla legittimità dell’eutanasia — che subordinasse il valore della vita (e la sua tutela come bene in sé) alla qualità della vita. Presa di posizione che, come noto, non solo manca nella nostra Costituzione, ma risulterebbe in ogni caso di difficile interpretazione, data la diversità di significati che può evocare un parametro — si è già visto (152) — di per sè sfuggente come quello della qualità della vita (153). che considera il principio personalistico una « linfa circolante nell’intero ordinamento »; R. ROMBOLI, op. cit., p. 18 s. (150) Per questa elencazione, v. F. MANTOVANI, I trapianti, cit., p. 37 s. (151) Per tutti, di recente, v. ancora F. MANTOVANI, op. loc. ult. cit. (152) V. quanto si è osservato (supra § 3.1. sub b) in relazione alla liceità della terapia del dolore che determina un accorciamento della vita del paziente. (153) Sui pericoli connessi ad una tutela della vita ancorata al requisito della sua qualità, v. F. D’AGOSTINO, op. cit., p. 38.
— 112 — A ben vedere, se l’accezione soggettiva di tale concetto ne evidenzia l’indeterminatezza e il rischio del suo uso più arbitrario, l’accezione oggettiva evoca un sentire medio solo apparentemente più afferrabile e in ogni caso capace di tutelare, attraverso il supposto standard di dignità del morente, soprattutto la sensibilità collettiva di fronte alla sua sofferenza. A un non diverso ordine di obiezioni si espone del resto anche il tentativo di fondare la legittimità costituzionale delle scelte eutanasiche sulla base della clausola del miglior interesse del paziente. A parte il rilievo che una siffatta clausola non ha di per sé un’espressa rilevanza costituzionale, è ben vero che essa rimanda alla tematica dei diritti dell’uomo (154), soggetta alle medesime oscillazioni tra l’accezione media e le varie accezioni soggettive dei diritti insopprimibili della persona. Semmai, maggiore plausibilità sembra avere il più circoscritto tentativo di fondare costituzionalmente il divieto di accanimento terapeutico — quale fenomeno di protrazione della vita puramente biologica, reso possibile dagli odierni progressi della medicina — sulla base del divieto di trattamenti inumani di cui all’art. 27, comma 3, Cost. In effetti, una siffatta soluzione — sostenuta all’estero, ad esempio con riferimento alla Costituzione spagnola, che contiene un’affermazione generale del divieto di trattamenti inumani (155) — potrebbe prospettarsi ragionando a fortiori: premesso che il soggetto condannato a scontare una pena (segnatamente una pena detentiva) mantiene tutti i diritti che gli competono come persona umana, in quanto non incompatibili con i contenuti afflittivi della sanzione irrogatagli (156), ne discende che il divieto di trattamenti inumani ben può avere una portata più generale, indipendentemente dal fatto che tale trattamento si inscriva o meno tra i contenuti di una sanzione penale. Senonché, anche una siffatta impostazione del problema non è del tutto persuasiva. Anzitutto, non può trascurarsi che, a differenza di altre Carte fondamentali, nella nostra Costituzione il divieto di trattamenti inumani viene affermato in un contesto — quello per l’appunto dell’art. 27, comma 3, dedicato alle caratteristiche della pena — che, pur non impedendone una lettura in termini di principio generale, prende in considerazione un fenomeno certamente diverso dall’accanimento terapeutico. In secondo luogo, va da sé che, svincolato dal riferimento ai contenuti di una sanzione punitiva, il concetto di trattamento contrario al senso di umanità (154) V. supra nota n. 124. (155) V. l’art. 15, su cui si rinvia a E. GIMBERNAT ORDEIG, Eutanasia y derecho penal, in Estudios de derecho penal, Madrid, 1990, p. 53. In argomento, v. anche: C. ROMEO CASABONA, op. cit., p. 196; C. JUANATEY DORADO, op. cit., p. 349. (156) Sul punto, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, sia consentito rinviare a F. GIUNTA, Le aperture del carcere verso il mondo esterno, in Indice pen., 1990, p. 431 s. e p. 441.
— 113 — assume anch’esso contorni indeterminati. In particolare, resterebbe ancora da dimostrare che la protrazione della vita e la tutela « sacrale » della sua dimensione biologica integrino un trattamento inumano. In terzo luogo, va anche detto che la costituzionalità del divieto di accanimento terapeutico discende già dal più calzante e decisivo riferimento dell’art. 32 Cost., quale norma che ad un tempo fonda e delimita la doverosità del trattamento medico. In effetti, stabilendo la doverosità dell’intervento medico nei confronti del soggetto che lo richiede, così come nei confronti di chi non può esprimere un valido consenso, l’art. 32 per un verso consente tutte le terapie svolte nell’interesse del paziente (compresa dunque la terapia del dolore), per l’altro verso, crea una posizione di garanzia in capo al medico, dando vita a un dovere di agire non già incondizionato, ma limitato all’esigenza terapeutica. E benché la doverosità della terapia sussista anche ove manchi la prospettiva di una guarigione, come si è visto, può fondatamente dubitarsi che in tale concetto di terapia rientri la mera protrazione della vita biologica non autonoma. In breve: il principio della dignità dell’uomo non consente l’eutanasia pietosa come scelta compiuta da terzi in nome della dignità del paziente o in nome del suo migliore interesse. Conseguentemente, la dignità del morire e il migliore interesse del morente non possono che essere tutelati come aspetti della più generale libertà di autodeterminazione del paziente: contro la volontà di quest’ultimo, così come senza il suo libero e consapevole consenso, non vi può essere intervento che possa accorciarne la vita (157). Tutto ciò, però, non equivale a ritenere che, sul piano dei principi costituzionali, i beni della persona umana vadano considerati beni privati, rispetto ai quali ogni possibile tutela deve essere sempre e comunque subordinata alla volontà del loro titolare. In effetti, se e in che misura ciascun consociato abbia la disponibilità di se stesso è un quesito che non pare consentire una soluzione unica e definitiva, ammettendo piuttosto una pluralità di risposte, tra loro anche sensibilmente diverse, a seconda degli interessi di tipo collettivistico con cui il diritto alla libera e consapevole autodeterminazione entra di volta in volta in tensione. Non a caso, non si manca di rilevare, anche dall’angolazione costituzionale (158), che nella nostra Carta costituzionale mancano indicazioni espresse sui limiti del di(157) Che l’autodeterminazione consapevole del paziente segni il limite oltre il quale non è più lecita alcuna sospensione delle cure, è affermazione ricorrente in dottrina; v. ad esempio R. ROMBOLI, Commento all’art. 5, in Commentario del codice civile, SCIALOJABRANCA, a cura di F. GALGANO, Bologna, Roma, 1988, pp. 241-242; contra v. V. ZAMBRANO, op. cit., 853, che, dietro il riconoscimento di una siffatta autonomia, vede una concezione riduttivamente utilitaristica dell’uomo. Nel senso del testo, nella letteratura straniera, v. anche E. GIMBERNAT ORDEIG, op. loc. cit. (158) Cfr. di recente R. ROMBOLI, La libertà, cit., p. 15. Tra i penalisti, in modo non dissimile, F. RAMACCI, op. cit., p. 282.
— 114 — ritto di disporre del proprio corpo e le indicazioni implicite ricavabili in proposito non sono comunque univoche. 5.2. Il punto merita attenzione. Va da sé, infatti, che i termini del bilanciamento tra istanze collettivistiche e principio personalistico non possono certo individuarsi attraverso una lettura delle norme costituzionali, condotta alla luce delle scelte effettuate dal legislatore ordinario, ed in particolare dal codice penale (159). Un siffatto rischio appare tutt’altro che ipotetico, se si tiene conto della diffusa e già considerata tendenza a desumere, attraverso un’interpretazione peraltro forzata sia degli artt. 579 e 580 c.p., sia dell’art. 5 c.c., la illiceità del suicidio e l’indisponibilità assoluta della bene della vita (160). Com’è evidente, si tratta di conclusioni che risentono di pregiudiziali, svincolate (talvolta dichiaratamente) dal sistema normativo. Basti pensare alla tesi dell’illiceità strutturale del suicidio, secondo cui, anche in mancanza di un’apposita previsione in tal senso, il suicidio sarebbe un fatto contra ius, in quanto si porrebbe in contrasto con la funzione del diritto e segnatamente con i suoi presupposti della coesistenza e intersoggettività (161). Un’impostazione, questa, che, cogliendo nel suicidio una diserzione sociale (162), oltre che esistenziale, ha consentito in passato, con indubbia ma paradossale coerenza, di accostare nella comune illiceità il suicidio e l’emigrazione (163), e di estendere — già in linea di principio — il vincolo dell’indisponibilità anche all’integrità fisica. A ben vedere, invece, proprio dal primato del principio personalistico è agevole desumere che, quali e quante che siano, le limitazioni al diritto di morire (comprensivo del diritto di suicidarsi), operano come eccezioni rispetto al principio dell’incoercibilità del vivere (164), peraltro — lo si è (159) Su questo fenomeno v. anche F. RAMACCI, op. cit., p. 854, che lamenta la pretesa di dare un contenuto riduttivo all’art. 32 Cost. attraverso l’interpretazione della legge ordinaria. (160) Oltre agli A. citati supra (note 11, 12, 13, 58), v. anche: F. MANTOVANI, op. ult. cit., p. 43; P. PIERLINGERI, op. loc. cit.; G. CRISCUOLI, op. cit., p. 97; P. D’ADDINO SERRAVALLE, Atti di disposizione del corpo e tutela della persona umana, Napoli, 1983, p. 94 s.; V. ZAMBRANO, op. loc. cit. (161) Cfr. ampiamente V. VITALE, op. cit., p. 440 s. Sui presupposti concettuali di tale impostazione v. anche S. COTTA, La coesistenza come fondamento ontologico del diritto, in Riv. int. fil. dir., 1981, p. 263 s., dove si osserva che « il diritto, lungi dall’essere una mera tecnica di organizzazione sociale, rileva come una forma di strutturazione e misurazione reciproca della co-esistenza, ove lo statuto deontico della doverosità, che si esprime nel doveressere della norma, va più precisamente inteso come dovere-di-essere ». (162) In argomento v. anche J.L. BAUDOUIN, D. BLONDEAU, op. cit., p. 101. (163) Richiamava l’attenzione sui rischi di questo di tipo di ragionamento, F. CARRARA, op. cit., § 1154, p. 215. (164) Considera il suicidio spontaneo e cosciente un atto di libertà, talché una legge che vietasse in via generale il suicidio « sarebbe sicuramente incostituzionale per violazione dell’art. 2 », P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984, p. 59. Sulla
— 115 — visto — già desumibile da un esame non preconcetto della legislazione ordinaria. Invero, il dovere di vivere non può non porsi in tendenziale contrasto con il primato delle libertà personali sancito dalla Costituzione. E lo stesso rilievo può farsi in relazione al bene dell’integrità fisica (165). Ne consegue che la legittimità costituzionale dei limiti al diritto di morire e i confini di un’eventuale tutela (anche penale) « contro se stessi » dipendono dalla significatività dello specifico valore solidaristico, che di volta in volta si contrappone alla liceità della morte volontaria e alla libertà di disporre del proprio corpo anche a discapito della sua integrità. In altre parole: per una corretta impostazione della questione, non è sufficiente invocare quelle indefinite istanze collettivistiche che, anche dopo l’avvento della Costituzione repubblicana, hanno consentito di giustificare, in nome del generico interesse alla conservazione della società (166), la compressione dei diritti dell’uomo sulla propria integrità e sulla propria vita (167). Per risultare legittima, ogni scelta di delimitazione dei diritti dell’uomo su tali beni deve farsi carico di dimostrare piuttosto le ragioni per le quali le singole istanze collettivistiche vanno ritenute prevalenti. Per negarne la legittimità costituzionale, non basta, invece, che l’atto contra se sia privo di valore sociale: che rifletta, cioè, una concezione individualistica dell’uomo e dei suoi beni. Le pur significative e innegabili differenze (168), che — sul piano etico e filosofico — intercorrono tra la concezione individualistica e quella personalistica non possono non sfumare sotto il profilo ordinamentale di uno Stato laico e secolarizzato. In questa prospettiva la concezione individualistica viene a perrecente inversione di tentenza della dottrina internazionale che, a partire segnatamente dagli anni ’70, ha portato a considerare il suicidio un autentico diritto, v.: R. ROMBOLI, Commento all’art. 5, cit., p. 248; e da ultimo M.B. MAGRO, op. cit., p. 1442 s., cui si rimanda anche per ulteriori indicazioni bibliografiche. (165) Per l’ammissione del diritto di essere malato, v. F. MANTOVANI, op. ult. cit., p. 210 s., che osserva opportunamente come l’autodeterminazione della propria salute si estenda fino a ricomprendere la scelta della non salute. Contra, facendo leva sul « classico » argomento dei doveri di solidarietà familiare, umana e sociale (v. supra note 11 e 56), cfr. più di recente P. D’ADDINO SERRAVALLE, op. cit., p. 198 s., cui si rimanda per ulteriori indicazioni bibliografiche nello stesso senso. (166) Sulle radici teoriche di questo argomento, v. di recente M.B. MAGRO, op. cit., p. 1430 s., dove si osserva peraltro che, muovendo da premesse laiche, una siffatta impostazione del problema converge verso il medesimo risultato di negare la disponibilità della vita, già caratteristico delle opposte teoriche di tipo metafisico, per le quali solo Dio può disporre della vita umana. (167) V. ancora gli A. citati supra note 11, 12 e 13 nonché: F. ANTOLISEI, op. ult. cit., p. 42 (secondo cui la vita del singolo ha un valore anche sociale « in considerazione dei doveri che sull’individuo incombono verso la famiglia e verso lo Stato »). Negli stessi termini, anche B. PANNAIN, F. SCALAFANI, M. PANNAIN, op. cit., p. 7. (168) V. ampiamente: F. MANTOVANI, op. ult. cit., p. 35 s.; F.C. PALAZZO, op. cit., p. 298, dove si osserva che — svincolata da qualunque dimensione sociale — la visione individualistica dell’uomo si presenta egoisticamente animalesca.
— 116 — dere quell’autonomia concettuale (169), con cui si è soliti ravvisare una sorta di abuso dei diritti sulla propria persona, ogni volta che l’autoaggressione non sia finalizzata alla realizzazione di un bisogno della persona. Invero, la laicità dello Stato non consente di vietare una condotta contra se per le sue valenze culturali, etiche o per le stesse finalità dell’agente; per quanto biasimevoli, esse appartengono al foro interno della persona e alla sua insindacabilità. Ne consegue che l’autoaggressione o è vietata in ragione delle precise e prevalenti istanze solidaristiche, o è destinata a restare lecita, ancorché espressione dell’esecrabile esaltazione di una singola individualità. Per ampiezza e complessità il tema meriterebbe un’apposita indagine. In questa sede, però, è sufficiente osservare che, in linea di principio, per evitare che i singoli divieti di autoaggressione siano piuttosto espressione di autoritarismo o assumano valenze meramente paternalistiche (170), l’istanza solidaristica può prevalere sullo ius in se ipsum in tanto che il suo esercizio comporti un danno sociale; un costo, cioè, che ricade direttamente su soggettività diverse da quella dell’agente (171). Del resto, è nel rispetto di un siffatto orientamento, che sembra svilupparsi la nostra legislazione, anche alla luce dei recenti approcci interpretativi della dottrina. Così, ad esempio, sono certamente legittimi, perché atti di disposizione che non comportano un danno a terzi, ancorché lesivi dell’integrità fisica dell’individuo: a) la donazione del rene al fine di trapianto (l. 26 giugno 1967, n. 458); b) il transessualismo, ovvero la trasformazione chirurgica dell’identità sessuale e la conseguente rettificazione dell’attribuzione di sesso ai sensi della l. 14 aprile 1982, n. 164 (172), ove addirittura non lo si voglia considerare un « adeguamento al sesso psico-comportamentale » che si risolve a vantaggio del soggetto (173); c) la sterilizzazione volontaria (c.d. di comodo), nonostante si ritenga che la sua dimensione edonistica neghi una delle più intense (169) Rileva che il discrimine tra individualismo e personalismo è spesso più incerto e sottile di quel che sembra a prima vista, S. SEMINARA, op. cit., p. 676. Non a caso, è proprio facendo leva sulla versatilità e l’incertezza della distinzione tra personalismo e individualismo, che parte della dottrina nega finanche il diritto di lasciarsi morire e di ammalarsi, quale portato di una concezione indivilualistico-utilitaristica; così, ad esempio, P. D’ADDINO SERRAVALLE, op. loc. cit. (170) In argomento, v. di recente M.B. MAGRO, op. cit., p. 1438. (171) Per il principio che, in assenza di interessi di terzi, non è ammessa alcuna imposizione al soggetto nel suo proprio interesse, v. G. GEMMA, Sterilizzazione e diritti di libertà, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1977, p. 252. (172) V. in particolare l’art. 3 della l. 164/1982, che prevede la possiblità di autorizzare con sentenza del tribunale un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzarsi mediante trattamento medico-chirurgico. (173) Cfr. F.C. PALAZZO, op. cit., p. 313. Sul punto, v. anche P. STANZIONE, Transessualità, in Enc. dir., vol. XLIV, 1992, p. 879.
— 117 — proiezioni della personalità umana, qual è la generazione dei figli (174). Per converso, in conformità del più generale principio di offensività, non contrasta con i citati principi costituzionali la repressione penale della mutilazione fraudolenta della propria persona (art. 642 c.p.), trattandosi di condotta pur sempre orientata ad offendere gli interessi patrimoniali di un terzo. Naturalmente, è di tutta evidenza che — anche così impostata — la questione rimane oltremodo delicata in relazione alla valutazione del danno che l’atto contra se cagiona ai consociati. E ciò soprattutto quando si tratta di un’offesa che ricade sulla collettività impersonalmente considerata. Infatti, se non correttamente intesa, l’esigenza di tutela dei terzi consente di elevare a danno sociale qualunque violazione del doveri di solidarietà. In particolare, vi sono casi problematici in relazione ai quali ci si può chiedere se, così ragionando, non si rischia di riaprire a quelle soluzioni interpretative che conducono alla statualizzazione della persona umana a scapito della libertà di autodeterminazione. Si pensi, ad esempio, al consumo voluttuario di sostanze stupefacenti: un’impostazione della questione, che sia coerente con le premesse sopra esposte, deve muovere dal principio secondo cui la libera e consapevole scelta del consumatore di sostanze stupefacenti non sia di per sé sindacabile, nemmeno quando determina nel soggetto uno stato di tossicodipendenza. E lo stesso deve dirsi in linea di partenza per l’alcolismo e il tabagismo. La dimensione costituzionale del diritto di ammalarsi vale ad escludere qualunque limitazione di una siffatta libertà. Né vale distinguere tra i comportamenti autoaggressivi di tipo commissivo, da un lato, e dall’altro l’offesa alla salute che deriva dall’esercizio del diritto di rifiutare le cure, riservando solo a quest’ultimo la dignità di diritto non comprimibile (175). Una volta che si convenga sulla necessità di impostare l’intero problema muovendo dall’autodeterminazione del singolo, risultano affatto secondarie le modalità attive o commissive con cui si realizza tale volontà. Se si esamina la questione da altra angolazione, è difficile negare, però, che il fenomeno della tossicodipendenza abbia riflessi negativi sull’intera compagine sociale. Si prescinda pure dagli effetti criminogeni dell’uso delle sostanze stupefacenti, che — a giudizio della dottrina — potrebbero di per sé giustificare la repressione penale del consumo, in piena conformità con il principio costituzionale di offensività e sulla base della riscoperta legittimità dei reati di pericolo astratto, allorché s’intenda proteg(174) Cfr. ancora F.C. PALAZZO, op. loc. cit. D’altro canto, un’eventuale lesione dell’interesse alla conservazione della società manca al momento di verosimiglianza. (175) Questo argomento è stato ampiamente sviluppato da F. MANTOVANI, op. ult. cit., p. 89 s.; non diversamente v. F. STELLA, op. cit., p. 494 s. In senso critico, v. R. ROMBOLI, op. ult. cit., p. 247.
— 118 — gere beni superindividuali (176). In questa sede interessa osservare, piuttosto, che il fenomeno del consumo voluttuario di sostanze stupefacenti comporta un danno sociale non indifferente, che emerge già nel costo (anche economico) del trattamento della tossicodipendenza. Ora, non v’è dubbio che questo costo possa eliminarsi abbandonando il tossicodipendente al suo destino; applicando, cioè, il principio (inumano e cinico, ma certamente coerente), secondo cui ogni libera scelta deve addossarsi la responsabilità delle sue conseguenze. Senonché, quando si tratta di atti contra se che determinano un danno alla salute (anche solo individuale), il ricorso al criterio dell’imputet sibi è precluso proprio dal dovere di solidarietà consacrato, tra l’altro, nell’art. 32, comma 1, Cost., là dove pone a carico dello Stato l’obbligo di assicurare la salute come diritto del cittadino, garantendo altresì la gratuità delle cure agli indigenti. In breve: per il suo carattere generale e condizionato solo al consenso dell’interessato, il dovere statuale di provvedere alla cura e alla salute dell’individuo scatta anche nei confronti del tossicodipendente (ma il discorso vale anche per l’alcolista e il tabagista), che ne faccia apposita richiesta o che, essendo bisognoso di cure, si trovi nell’impossibilità di esprimere tale richiesta. Tanto considerato, però, sarebbe davvero irragionevole ritenere che in tali casi il dovere di solidarietà non possa diventare reciproco, imponendo al singolo (anche sotto la minaccia di una sanzione) dei limiti alla libera disposizione di sé, finalizzati a impedire che si verifichi il presupposto dell’obbligo statuale di solidarietà a favore del singolo. Lo stesso si può dire, del resto, in ordine all’obbligo, per motociclisti e automobilisti, rispettivamente di indossare il casco protettivo e di usare le cinture di sicurezza (177). Quest’obbligo e la sanzione prevista per la sua trasgressione possono giustificarsi solo in nome dell’esigenza di contenere, in caso di danno alla persona, il costo sociale del dovere di solidarietà. Com’è fin troppo ovvio, una volta appurata la legittimità costituzionale della possibilità di vietare gli atti contra se, che comportano un danno sociale, non si esclude che la scelta di stigmatizzarli, anche penalmente, dipenda in definitiva da valutazioni politico-legislative, fondate, da un lato, sul principio di proporzione tra condotta e sanzione, dall’altro lato, sul raffronto tra i costi e i benefici della loro repressione penale. Così, e per tornare al caso della tossicodipendenza, la Costituzione non impedisce certo al legislatore di improntare una politica legislativa ispirata all’idea della tossicodipendenza come prodotto della moderna società, anziché come scelta individuale, e di impostare la prevenzione del fenomeno inte(176) Così, per tutti, F.C. PALAZZO, Consumo e traffico degli stupefacenti, 2 ed., Padova, 1994, p. 30. (177) V. le ll. 11 gennaio 1986, n. 3 (la cui costituzionalità è stata di recente riaffermata da Corte cost. 16 maggio 1994, n. 180, in Foro it., 1994, I, c. 1634 s.) e 18 marzo 1988, n. 111.
— 119 — ramente sul versante del trattamento riabilitativo: con esclusione cioè di qualsiasi sanzione punitivo-dissuasiva. Del resto, rispetto ai meno gravi fenomeni dell’alcolismo e del tabagismo, se i principi costituzionali non escludono la liceità di una loro stigmatizzazione, il principio di proporzione, ancor prima di quello di sussidiarietà, induce a contenere l’eventuale risposta sanzionatoria nell’ambito, al più, amministrativo o preferibilmente in quello civilistico-risarcitorio. Tirando le fila del discorso, e concludendo sulla legittimità costituzionale dell’eutanasia consensuale, le considerazioni che precedono portano a ritenere che, se l’autoaggressione che incide sull’integrità personale può essere vietata nella misura in cui comporti un danno agli altri consociati, lo stesso non può dirsi dell’autoaggressione finalizzata alla soppressione della vita, dato che in quest’ultima scelta è difficile cogliere un danno sociale, con cui bilanciare il diritto dell’agente di cagionarsi la morte. Del resto, riprendendo il parallelismo tra emigrazione e suicidio, allo scopo di rovesciarne l’impiego a favore della non sanzionabilità del suicidio, osservava Beccaria: « Chi si uccide fa un minor male alla società che colui che ne esce per sempre dai confini, perché quegli vi lascia tutta la sua sostanza, ma questi trasporta con se stesso parte del suo avere » (178). 5.3. Passando conclusivamente al profilo dei possibili settori e gradi dell’intervento riformatore, le possibilità di riforma si presentano ampie e variegate, ove si convenga che i principi costituzionali non solo non impediscono, ma sollecitano un assetto legislativo anche sensibilmente diverso da quello attuale. A) Senz’altro opportuno appare un primo tipo di intervento, per così dire minimale, inteso a esplicitare la legittimità dell’eutanasia passiva consensuale nei casi in cui essa possa risultare dubbia: vale a dire nelle ipotesi in cui la sopravvivenza del soggetto dipende dal funzionamento di una macchina già attivata. Del resto, è questa una prospettiva di riforma che dovrebbe raccogliere ampi consensi, anche in considerazione del fatto che, stante l’odierna tendenza alla medicalizzazione e alla ospedalizzazione della morte (179), la laconicità della legislazione vigente può essere intesa dal medico come delega di un potere di scelta esercitabile anche contro la volontà del paziente. Orbene, tale esigenza di chiarificazione legislativa si può validamente soddisfare attraverso la creazione di un’apposita disposizione — ovviamente extrapenale — che imponga al medico di interrompere il trattamento terapeutico nel caso di espressa e consapevole richiesta del paziente. Integrando la scriminante dell’adempimento del do(178) C. BECCARIA, op. loc. cit. Sviluppando premesse contrattualistiche, per non dissimili conclusioni, cfr. anche G. FILANGERI, op. cit., p. 483, dove si afferma che se il « suicida è l’esule, e la morte è l’atto, col quale rompe il nodo, che l’univa alla società (...) egli non è più né sotto la protezione delle leggi, né sotto il loro impero ». (179) Cfr. per tutti L. STORTONI, op. cit., p. 6.
— 120 — vere, tale norma eliminerebbe possibili e residui dubbi interpretativi, con il vantaggio di assicurare la necessaria effettività al diritto di lasciarsi morire. Una volta affermata a livello legislativo la doverosità di una siffatta condotta, meno problematica dovrebbe risultare ad un tempo la liceità della medesima condotta tenuta da persona diversa dal medico, quale può essere un parente del paziente. Un’analoga soluzione, del resto, potrebbe prospettarsi al fine di esplicitare la liceità della terapia del dolore, anche quando determina un accorciamento della vita del paziente (180). Come si è visto, però, la delicatezza della materia risiede soprattutto nel difficile bilanciamento tra il dovere di lenire i dolori e l’effetto di accorciamento della vita: un aspetto, questo, che — per quanto centrale — non sembra risolvibile attraverso un astratto parametro di valutazione. Preferibile sembra, pertanto, la configurazione della scriminante in questione attorno a un requisito, quello per l’appunto della proporzione, come noto, espressamente stabilito in altre scriminanti, che imponga al giudice di effettuare le necessarie valutazioni di fatto, anche alla luce dei progressi della scienza medica. Per converso, per assicurare il diritto del paziente di non curarsi e contro il rischio di comportamenti antagonistici del medico, potrebbe rendersi opportuna l’introduzione di un’apposita fattispecie incriminatrice, che punisca la persistenza terapeutica del medico contro il dissenso espresso del paziente. Una siffatta innovazione ovvierebbe alla già considerata lacuna di tutela dell’odierno apparato repressivo, e segnatamente dell’art. 610 c.p. In effetti, la predisposizione di un’apposita fattispecie che sanzioni il trattamento sanitario indesiderato dal paziente risponderebbe a una concezione della libertà del trattamento medico, che non abbraccia la sola libertà di curarsi, ma che comprende anche la libertà dal trattamento medico. Per assolvere al suo scopo di tutela, una siffatta previsione incriminatrice andrebbe costruita intorno alla mera mancanza di consenso del paziente (capace e consapevole) nei confronti del trattamento medico, in modo da poter colpire anche le ipotesi in cui il trattamento avviene in modo clandestino, ovvero all’insaputa del malato, ancorché nel suo interesse. Quanto all’eutanasia attiva consenuale, anche nella prospettiva di un intervento minimale che muova dall’idea della sua illiceità, non pare possa farsi a meno di una revisione della fattispecie dell’omicidio del consenziente. Come si è visto, infatti, tale norma risulta di difficile applicazione pratica per via del disposto dell’art. 579, comma 3, n. 2, c.p. là dove stabilisce l’invalidità del consenso del soggetto passivo quando è prestato da persona inferma di mente o che si trova in condizioni di deficienza psi(180) In tal senso v. anche: M. VACCHIAVO, Eutanasia e diritto a non soffrire, in Quad. giust., 1986, n. 64, p. 40; E. VARANI, op. cit., p. 170.
— 121 — chica. Ferma restando l’esigenza di una disposizione finalizzata ad assicurare la capacità del soggetto che acconsente alla propria uccisione, in luogo dell’odierno riferimento all’infermità di mente e alla deficienza psichica, preferibile sembra l’ancoraggio dell’omicidio del consenziente a una formula che, senza riproporre nozioni psichiatriche destinate a possibili ulteriori evoluzioni scientifiche, indichi piuttosto la funzione che un siffatto requisito è chiamato a svolgere nell’ambito della fattispecie. Sufficiente potrebbe risultare pertanto il riferimento all’assenza, nel soggetto passivo, di disturbi psichici tali da escludere che la volontà manifestata corrisponda al suo intimo volere. A parte ciò, e proprio allo scopo di predisporre una disciplina specifica del fenomeno eutanasico, adeguato rilievo andrebbe riconosciuto alla situazione di chi agisce altresì allo scopo puramente altruistico di evitare al soggetto passivo, malato terminale, un’agonia dolorosa. A tal fine, particolarmente opportuna è parsa la creazione di un’autonoma fattispecie incriminatrice (181), speciale rispetto all’omicidio del consenziente e punita meno severamente, che si caratterizzi altresì per il fine esclusivamente altruistico dell’agente, per l’uso di mezzi indolori e per le condizioni del soggetto passivo, quale malato certamente non guaribile, afflitto da dolori non mitigabili. Queste condizioni infine andrebbero tenute presenti allo scopo di introdurre, per il caso di eutanasia attiva non consensuale, un’apposita circostanza attenuante dell’omicidio doloso, preferibilmente ad efficacia speciale (vale a dire con capacità diminuente superiore a un terzo della pena edittale), non bilanciabile con altre aggravanti e incompatibile con le aggravanti della premeditazione e del grado di parentela (182). Invero, il fatto che tale ipotesi di eutanasia sia inevitabilmente destinata a rimanere nell’area dell’illiceità penale non significa che la sua disciplina attuale non possa essere opportunamente modificata. E la soluzione sopra proposta sembra largamente preferibile al ricorso alla grazia (183), comunemente (181) In tal senso, tra gli altri, v.: F. ANTOLISEI, op. ult. cit., p. 64; A. CARUSO, L’eutanasia nell’ordinamento giuridico italiano: problemi medico-legali de iure condito e de iure condendo, in Dir. famiglia, 1982, p. 705. In argomento v. anche C. LANZA, L’omicidio pietoso su richiesta della vittima tra codice ed esigenze di riforma, in Foro it., 1985, II, c. 491. (182) Seppure senza precisarne l’effetto attenuante e il suo rapporto con le altre possibili aggravanti concorrenti, una siffatta soluzione è proposta di recente dallo Schema di delega per l’emanazione di un nuovo codice penale, che prevede un’apposita circostanza per il fatto commesso « con mezzi indolori e per esclusivo motivo di pietà verso la persona incapace di prestare un consenso valido, la quale per ragioni di malattia si trovi in irreversibile condizione di sofferenza fisica insopportabile o particolarmente grave, quando sia stata constatata l’impotenza dei trattamenti antalgici » (art. 59). V. anche F. MANTOVANI, Eutanasia, cit., p. 430, secondo cui l’abbassamento della pena potrebbe per di più consentire, nei casi estremi, la sospensione condizionale della pena o la concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale. (183) V. ad esempio F. STELLA, op. cit., p. 1014.
— 122 — ritenuto inadeguato, se non addirittura un modo per eludere i reali termini del problema (184). B) Un diverso e più incisivo livello d’intervento potrebbe riguardare segnatamente il fenomeno dell’eutanasia attiva consensuale. Qui viene in rilievo il duplice caso di colui che mette il paziente nelle condizioni di porre fine manu propria alle sue sofferenze ovvero di chi pone in essere l’azione esecutiva. Con riferimento alla prima ipotesi, che — si è visto — attualmente ricade nell’ambito dell’art. 580 c.p., va preliminarmente osservato che la rilevanza costituzionale della libertà di morire certamente non inficia la legittimità dell’attuale disposto dell’art. 580 c.p., nella parte in cui punisce l’istigazione al suicidio. Il valido esercizio del diritto di morire presuppone, infatti, la libera formazione della volontà del suicida; obiettivo, questo, cui per l’appunto mira l’incriminazione della condotta di chi fa sorgere in altri un proposito suicida ovvero lo rafforzi una volta sorto autonomamente (185). Diverso discorso va fatto invece per la condotta di aiuto all’altrui suicidio: per il fatto cioè di chi, senza porre in essere la condotta esecutiva (ché altrimenti si ricadrebbe nell’ipotesi attualmente disciplinata dall’art. 579 c.p.), si limita ad agevolare in qualsiasi modo (ad esempio, fornendo il mezzo o le informazioni necessarie) l’atto suicida. A ben vedere, non è facile giustificare la illiceità penale di una siffatta condotta, che — si è già detto — è esente da pena in altri ordinamenti stranieri. Invero, se poco persuasivo appare il tentativo di spiegare la fattispecie incriminatrice con l’intento di isolare il suicida ancor prima della sua defezione sociale, in modo cioè da ostacolare la realizzazione del suo proposito (186), assai discutibile appare la più plausibile conclusione, secondo cui la punizione dell’aiuto al suicidio si fonderebbe sulla mera immoralità di una siffatta partecipazione (187); una scelta politico-criminale, dunque, espressione di una concezione paternalistica dei rapporti tra (184) Cfr. M. PORZIO, op. cit., p. 113; F. MANTOVANI, Aspetti giuridici, cit., p. 463; V. ZAMBRANO, op. cit., p. 879. (185) Per questa interpretazione della condotta di determinazione e rafforzamento di cui all’art. 580 c.p., v. F. ANTOLISEI, op. ult. cit., p. 65. (186) Per la tesi (condivisibile solo con riferimento alla condotta dell’istigazione) secondo cui l’oggetto giuridico dell’art. 580 c.p. va individuato nella vita del suicida, v. di recente F. MANTOVANI, Diritto penale, Delitti contro la persona, cit., p. 183. (187) Con riferimento all’art. 580 c.p. nel suo complesso, in senso non dissimile, v. di recente: M.B. MAGRO, op. cit., p. 1446; S. SEMINARA, op. cit., p. 722, che richiama l’attenzione sulla necessità di rimeditare l’art. 580 c.p., distinguendo il maggiore disvalore della condotta di determinazione rispetto a quella di agevolazione. Diversamente, v. però F. RAMACCI, op. cit., p. 287, secondo cui sarebbe più grave la condotta di aiuto al suicidio, per via della « particolare sudditanza psicologica che si stabilisce nelle fattispecie di omicidio del consenziente e di aiuto al suicidio, nel senso preciso della subordinazione della propria all’altrui volontà, alla quale si soggiace fino all’estrema conseguenza ».
— 123 — Stato e individuo (188) e — come tale — in contrasto con la moderna secolarizzazione dell’intervento penale. A conferma di una siffatta impressione, infatti, può osservarsi che, nella nostra legislazione, le fattispecie penali di agevolazione, cui corrisponde l’irrilevanza penale della condotta agevolata, tipizzano comportamenti comunemente ritenuti immorali; si pensi all’agevolazione sia della prostituzione (art. 3 l. 20 febbraio 1958, n. 75), sia del consumo personale di sostanze stupefacenti (art. 79 l. 9 ottobre 1990, n. 309), che pure costituisce un illecito amministrativo (189). Queste connessioni, del resto, non sono sfuggite ad autorevole dottrina (190), che ha giustificato però la rilevanza penale delle ipotesi in questione, osservando che la condotta di agevolazione avrebbe ad oggetto comportamenti tollerati, e in quanto tali espressivi di un disvalore, ancorché non illeciti. Senonché, anche così impostata la questione, è difficile negare l’incongruenza e gli stessi margini di illegittimità della scelta legislativa. A meno di non voler fondare il disvalore del suicidio sul rilievo che è penalmente illecita la sua agevolazione (cosa che renderebbe palese il circolo vizioso), l’acquisita libertà costituazionale di suicidarsi risulta incompatibile con la repressione delle condotte di partecipazione materiale. In breve: non presentando la fattispecie di aiuto al suicidio un’offesa a un bene giuridico dotato della necessaria significatività, la sua depenalizzazione costituirebbe un adeguamento della normativa penale ai principi costituzionali (191), con intuibili riflessi positivi sul trattamento di quei casi di eutanasia — oggi penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 580 c.p. — in cui il medico offre al paziente i mezzi e le istruzioni, da questi richiestigli, per realizzare il suo libero e consapevole proposito suicida. Resta infine da considerare, con riguardo alla problematica ipotesi di eutanasia attiva consensuale, la prospettiva di una radicale rinuncia di tutela penale (192), la cui plausibilità (anche costituzionale) discende dagli stessi argomenti invocabili a sostegno della tesi del suicidio come esercizio di un diritto di libertà. Essendo comunemente riconosciuto, infatti, che l’odierna fattispecie di omicidio del consenziente tipizzi nella sostanza un (188) V. ancora M.B. MAGRO, op. cit., p. 1439. (189) In argomento, v. per tutti F.C. PALAZZO, op. ult. cit., p. 95 s. (190) Cfr. F. MANTOVANI, op. ult. cit., p. 176. (191) Questi rilievi, mentre possono estendersi all’agevolazione della prostituzione, non valgono però per l’agevolazione all’uso degli stupefacenti, poiché, come si è detto (v. supra § 5.2.), per le condotte di autolesionismo che determinano un costo sociale, la Costituzione ne consente il divieto. Ne discende che la scelta di reprimere penalmente l’agevolazione all’uso di stupefacenti, non diversamente da quella che attiene alla repressione del consumo voluttuario, può essere confutata sul piano politico-criminale, ma non su quello della legittimità costituzionale. (192) In tal senso v. G. PAPPALARDO, Eutanasia e soppressione dei mostri, in Giust. pen., 1972, I, c. 272.
— 124 — « suicidio per mano altrui » (193), non vi sarebbero ragioni di principio per mantenere una siffatta ipotesi nell’area del penalmente rilevante, una volta che si rinunci alla pena per l’ipotesi di aiuto al suicidio. D’altro canto, è pur vero che l’affermazione del diritto di morire avvalora la riproposizione dell’eutanasia in una prospettiva solidaristica; nel senso che, ferma restando la sua dimensione personalistica, il diritto di morire viene rivendicato come diritto alla cui realizzazione lo Stato ha il dovere di concorrere (194). In particolare, l’attuale fattispecie di cui all’art. 579 c.p. crea un’evidente discriminazione tra il malato terminale che, essendo in grado di uccidersi, può porre fine alle sue sofferenze e il malato terminale che, trovandosi nell’impossibilità di far cessare da solo la sua vita (a causa, ad esempio, di una paralisi irreversibile degli arti), per esercitare il suo diritto alla morte ha bisogno di collaborazione (195), soprattutto da parte del medico. In effetti, almeno limitatamente a queste situazioni e fatto salvo il diritto all’obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella decisione del malato terminale (196), la scelta della depenalizzazione dell’eutanasia attiva consensuale sembra in grado di superare l’obiezione con cui si confuta l’opportunità politico-criminale di abrogare il delitto di omicidio del consenziente: la preoccupazione cioè che l’ammissibilità dell’eutanasia attiva consensuale rappresenti un indebolimento del divieto di uccidere (197). L’assoluta particolarità del fenomeno eutanasico, infatti, lascia ragionevolmente supporre che la sua depenalizzazione nella forma consensuale non produca una perdita di valore (193) Per tutti, v. testualmente, F. MANTOVANI, op. ult. cit., p. 170. Sul punto v. anche M. PORZIO, op. cit., p. 107. (194) Così F. D’AGOSTINO, Eutanasia, diritto e ideologia, in Iustitia, 1977, p. 295. Analogamente v. anche F. CAVALLA, Diritto alla vita e diritto sulla vita. Sulle origini culturali del problema dell’eutanasia, in Riv. int. fil. dir., 1988, p. 25. (195) Osserva, inoltre, D. NERI, Eutanasia. Valori, scelte morali, dignità delle persone, Bari, 1995, p. 152, che « non sempre c’è una terapia da rifiutare per poter morire e non sempre il rifiuto della terapia conduce a una morte rapida e indolore ». L’A. ricorda inoltre che il premio Nobel per la fisica Percy Bridgman, suicidatosi con un colpo di pistola, nello stadio terminale di un cancro, lasciò un messaggio in cui rimproverava la società di averlo costretto ad agire da solo. « Probabilmente — aggiungeva Percy — questo è l’ultimo giorno in cui sono in grado di farlo da me ». (196) Non diversamente da quanto è accaduto in materia di interruzione volontaria della gravidanza (art. 9 della l. 22 maggio 1978, n. 194), l’obiezione di coscienza attribuirebbe alla scelta del personale medico contrario all’eutanasia un valore etico in luogo del tradizionale valore deontologico, quale si è venuto sviluppando a partire dal giuramento d’Ippocrate (« Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; analogamente a nessuna donna darò un medicinale abortivo »). Sulla rilevanza costituzionale del diritto all’obiezione di coscienza, v. per tutti F.C. PALAZZO, Obiezione di coscienza, in Enc. dir., vol. XXIX, 1979, p. 542 s. (197) Cfr. anche F. STELLA, op. cit., p. 1013. Per la non decisività dell’obiezione, v. nella letteratura meno recente G. DEL VECCHIO, op. cit., p. 100; in argomento, di recente, cfr. M.B. MAGRO, op. cit., p. 1432; ampiamente v. anche D. NERI, op. cit., p. 157 s.
— 125 — del bene della vita. Il rischio di una siffatta scelta risiede semmai nella possibilità che la depenalizzazione dell’eutanasia si trasformi in un « alibi per incurie sociali » (198), che — specie nei casi in cui il mantenimento della vita abbia costi assistenziali ed economici particolarmente onerosi (199) — spingano il malato terminale a optare per un commiato anticipato, che non crei problemi ai familiari. Una preoccupazione, questa, del tutto condivisibile: è ben vero infatti che mai come in questo settore, l’effettività del valore della vita non dipende dal diritto penale, ma da un’adeguata politica sociale. FAUSTO GIUNTA Straordinario di Diritto penale nell’Università di Ferrara
(198) Così A. ESER, op. ult. cit., p. 72. (199) Sul punto, v.: R. DWORKIN, Il dominio della vita. Aborto eutanasia, e libertà individuale, trad. it. a cura di C. BAGNOLI, Milano, 1994, p. 263; G. FORNARI, L’eutanasia e il malato terminale, in Bioetica, 1993, p. 303 (che paventa inoltre l’eventualità di una « discriminazione sociale, geografica e culturale » ove l’eutanasia finisse per sostituire — a causa di « carenze sanitarie strutturali e organizzative — la terapia di sostegno del paziente terminale).
USURA E CRIMINALITÀ ORGANIZZATA (*)
SOMMARIO: 1. Un collegamento scontato. — 2. Due definizioni problematiche. — 3. Il percorso dell’usura. — 4. Le due fattispecie previste dalla l. n. 108 del 1996.
1. Sia la riforma della disciplina penale dell’usura realizzata dal d.l. n. 306 del 1992, sia quella, certamente più drastica ed incisiva, del 1996, (l. n. 108) sono maturate collocando quel reato tra le manifestazioni tipiche della criminalità organizzata. Inequivocabile in questo senso l’inserimento delle modifiche alla tradizionale fattispecie dell’art. 644 (ma, come si vedrà, non solo quelle), nel provvedimento legislativo che, per contenuti e momento storico, costituisce l’acme della legislazione dell’emergenza contro la criminalità organizzata. D’altra parte la l. n. 108 del 1996 è stata preceduta da un dibattito che sia nelle sedi istituzionali sia, soprattutto, nei mass media ha costantemente fatto riferimento al nesso tra usura ed organizzazioni criminali. Questo collegamento è riscontrabile anche nella letteratura penalistica che, in entrambe le occasioni, si è confrontata con i nuovi testi normativi. Così a proposito della riforma del 1992, si affermava che i comportamenti illeciti delineati dall’art. 644 e dal nuovo art. 644-bis c.p. risultavano « sempre più frequentemente collegati all’attività di associati ad organizzazioni criminose: e nell’esperienza più recente è dato relativamente comune che l’approfittamento di situazioni critiche in cui versino imprenditori si risolva non soltanto nell’ottenimento dell’interesse usurario, ma anche nel conseguimento di una posizione di controllo dell’impresa per tale modo ‘‘sovvenzionata’’, magari attraverso la cessione delle quote di maggioranza della società che esercita l’attività imprenditoriale. Con il che viene a realizzarsi il duplice risultato di una prima forma di riciclaggio di denaro di illecita provenienza e di un inserimento nel mondo dell’impresa » (1). (*) Relazione al Convegno « Il fenomeno dell’usura e l’intermediazione finanziaria e bancaria », Università degli studi di Bari, 13 dicembre 1996. (1) MUCCIARELLI, D.l. 8 giugno 1992 n. 306 (antimafia) commento agli artt. 11-quinquies e 12-quinquies, in Legisl. pen., 1993, 140.
— 127 — Il concetto è spesso ripreso negli scritti che precedono la l. n. 108 del 1996 e nei primi commenti di essa. È una sorta di clausola di stile che nel primo caso può giustificare l’urgenza di reintervenire normativamente sul problema, nonostante le recentissime modifiche del 1992 (2). Questo atteggiamento è confermato dopo l’entrata in vigore della l. n. 108 del 1996 (3). 2. Si potrebbe quindi ritenere che la connessione tra usura e criminalità organizzata costituisca ormai un dato acquisito che pienamente legittima l’adozione non solo di una nuova, e asseritamente più efficace, strumentazione repressiva, ma anche di quell’insieme di regole derogatorie caratterizzanti il regime del « doppio binario » nei confronti del crimine organizzato. Vero è tuttavia che proprio quest’ultimo concetto presenta complessi problemi definitori. Ciò avviene sia che lo si esamini nell’attuale dibattito criminologico, sia alla ricerca di una sua dimensione più strettamente penalistica. Nella prima sede, quella criminologica, non soddisfacente si è rivelato il più tradizionale approccio rivolto ad una evidenziazione degli autori, ottenuta attraverso, pur differenziate, teorizzazioni del deficit ovvero quello, di tipo oggettivo, che connota il fenomeno soprattutto attraverso il requisito dell’organizzazione. Infine l’approccio economico, che ci avvicina particolarmente al nostro tema, rispetto al quale si è sottoposta a critica l’indimostrata contrapposizione tra economia legale ed economia sommersa, alegale, illecita o mafiosa, quando al contrario è possibile riscontrare un intreccio inestricabile, « un’economia ‘‘cattiva’’ fatta di diverse tipologie di contatto, compenetrazione, continuità » (4). Il concetto di criminalità organizzata tende a perdere un’autonoma capacità referenziale posto che « crimine economico, crimine del colletto bianco e crimine organizzato convenzionale possono essere esaminati da prospettive comuni... l’ordine economico contiene, ab initio, il disordine (2) Così, ad esempio, CAVALIERE, L’usura tra prevenzione e repressione: il controllo del ruolo penalistico, in questa Rivista, 1995, 1207; PROSDOCIMI, Aspetti e prospettive della disciplina penale dell’usura, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1995, 575; SANTACROCE, Usura, riciclaggio e sistema bancario: linea di una strategia composita di contrasto, in Giust. pen., 1995, 247; PISA, Nota a Cass. pen., Sez. II, 25 marzo 1995, in Dir. pen. e processo, 1995, 1284. (3) PROSDOCIMI, La nuova disciplina del fenomeno usurario, in Studium juris, 1996, 771; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte speciale, vol. II, Bologna, 1996, 207. (4) CENTORRINO, L’economia cattiva nel Mezzogiorno, Napoli, 1990; analogamente RUGGIERO, Crimine organizzato: una proposta di aggiornamento delle definizioni, in Dei delitti e delle pene, 1992, 7 s.; PAVARINI, Lo sguardo artificiale sul crimine organizzato, in Lotta alla criminalità organizzata: gli strumenti normativi (a cura di Giostra e Insolera), Milano, 1995, 75 s.
— 128 — criminale » (5). « La ricchezza delle nazioni è, anche oggi o soprattutto oggi, in buona parte costituita dai proventi dell’economia illegale » (6). La collocazione di un fenomeno nell’ambito espressivo del crimine organizzato non può quindi che scontare queste problematiche definitorie; ciò rivela inoltre il limite di altra clausola di stile, oggi di gran voga. Quella che in modo deduttivo e un po’ schematico subordina l’intervento penale a dati conoscitivi desunti dalle indagini criminologiche e dalle altre scienze empirico-sociali, senza considerare adeguatamente i complessi problemi che lo stesso sapere criminologico si pone sotto il profilo epistemologico (7). Preferibile quindi un modello che, facendo riferimento al più vasto concetto di penalità colga « una rete complessa in cui si intrecciano istituzioni e varie forme di relazioni supportate da agenzie, ideologie, pratiche discorsive (e) tra queste ultime vanno annoverate, ovviamente, anche quelle criminologiche » (8). Se si passa all’altro aspetto, è possibile constatare un’assoluta indeterminatezza del concetto di criminalità organizzata sul terreno strettamente giuridico penale. Si parla così di nozione priva di validità euristica, capace di abbracciare « le attività criminose più disparate, purché realizzate da più soggetti che concorrono con un minimo di organizzazione nella preparazione e/o esecuzione di reati » (9) e si arriva a prospettare il rischio di un’onnicomprensività che può condurre alla inutilizzabilità giuridica del concetto stesso (10). L’insufficienza della tradizione giuridico penale sul tema, tradizione impegnata sul solo terreno dei reati associativi, corrisponde al limite delle indagini criminologiche riferite al dato oggettivo di un esercizio organizzato dell’attività illecita. Inoltre l’iniziale, prevalente, interesse per i reati associativi (11) è stato superato dall’evoluzione normativa riscontrabile nella legislazione di emergenza degli ultimi anni che ha dimostrato come lo spettro degli strumenti di diritto penale sostanziale si sia ampliato, se pure in modo asistematico. Infine l’eterogeneità del sistema corrisponde, e fors’anche contribui(5) RUGGIERO, Economie sporche. L’impresa criminale in Europa, Milano, 1996, 207-208. (6) PAVARINI, op. cit., 81. (7) CERETTI, L’orizzonte artificiale. Problemi epistemologici della criminologia, Padova, 1992, passim. (8) CERETTI, op. cit., 334 s. (9) FIANDACA, Criminalità organizzata e controllo penale, in Ind. pen., 1991, 5. (10) BASSIOUNI, Criminalità organizzata e terrorismo: per una strategia di interventi efficaci, in Ind. pen., 1990, 14. (11) DOLCINI, Appunti su criminalità organizzata e delitti associativi, in Arch. pen., 1982, 263.
— 129 — sce, a fianco di altri « storici » argomenti, alla messa in crisi del bene giuridico ordine pubblico a cui tradizionalmente fa anzitutto riferimento l’art. 416 c.p. Per concludere sul punto condivido l’opinione di chi, in termini minimali, da un lato valorizza l’utilizzabilità di soli riferimenti esterni: « la criminalità organizzata entra così nel lessico politico giuridico quando fenomeni criminosi, per altro molti dei quali storicamente presenti da tempo, raggiungono livelli elevati di intollerabilità sociale; come dire che è sull’elemento esterno della reazione sociale che si finisce per definire una determinata realtà come criminalità organizzata e non sulle intrinseche sue caratteristiche » (12). Dall’altro, postula un’insuperabile autoreferenzialità delle conclusioni: « l’integrazione e quindi la coincidenza di orizzonti artificiali tra sistema penale e scienza criminologica in tema di crimine organizzato può realizzarsi solo subordinando lo sguardo criminologico a quello ‘‘limitato’’ e per certi versi è da augurarsi che tale rimanga, offerto dal sistema penale » (13). Sguardo, quest’ultimo, che si esprime prevalentemente attraverso scelte selettive delle tipologie criminose realizzate sul terreno processuale e penitenziario ovvero, più immediatamente, con il loro inserimento in provvedimenti legislativi « intitolati » alla lotta al crimine organizzato. 3. Alla luce delle sintetiche osservazioni che precedono, paradigmatico appare il percorso della disciplina dell’usura. L’autoreferenzialità del suo inserimento tra gli illeciti tipici della criminalità organizzata si coglie, da un lato, già nella collocazione delle prime modifiche codicistiche (artt. 644 e 644-bis) nell’ambito di uno dei più importanti interventi contro mafia e crimine organizzato (d.l. n. 306 del 1992), dall’altro nella selezione processuale, anche se « mascherata » nella fattispecie incriminatrice dell’art. 12-quinquies, 2o comma, dello stesso decreto che assimilava gli artt. 644 e 644-bis alle altre fattispecie ricorrentemente richiamate per definire l’area dei delitti tipici della criminalità organizzata. Ciò avveniva nel contesto di una complessa fattispecie incriminatrice che « al fine di superare questioni probatorie sulla base di un mero sospetto, faceva ricorso all’inversione dell’onere della prova in materia penale, ponendo però in essere una raffica di violazioni di princìpi costituzionali » (14). Seguì, come è noto, una celere declaratoria di incostituzionalità della norma per violazione dell’art. 27, 2o comma Cost. La classificazione fu tuttavia confermata, in tema di confisca, dall’art. 12-sexies, del (12) PAVARINI, Per aprire un dibattito su criminalità organizzata e legislazione dell’emergenza, in Dei delitti e delle pene, 1992, 32. (13) PAVARINI, Lo sguardo artificiale, cit., 82. (14) MOCCIA, La perenne emergenza, Napoli, 1995, 64.
— 130 — d.l. n. 399 del 1994. La possibilità di collocare l’usura sul « binario » della criminalità organizzata è infine affermata dagli effetti prodotti dalla eventuale contestazione dell’aggravante prevista dall’art. 7 della l. 12 luglio 1991 n. 203 (riguardante qualsiasi delitto punibile con pena diversa dall’ergastolo, commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo). Il clima che ha portato con ritmi affannosi, veramente emergenziali, alla l. n. 108 del 1996 può condurre invece a considerazioni sulla costruzione prevalentemente esterna, misurata su connotati di allarme sociale (con la conseguente necessaria lettura integrata della « penalità » a cui si è fatto cenno), della connessione usura-crimine organizzato. Potremmo dire che il fenomeno dell’usura si colloca sulla frontiera mobile della penalità ed è suscettibile di una « opaca » definizione legale (15): basti ricordare i dubbi formulabili sulla stessa meritevolezza di pena — esemplare l’assenza della sua incriminazione nel codice Zanardelli — anche di recente riproposti da qualcuno (16). È quindi in una precisa fase storica — crisi valutaria nel settembre 1992 e conseguente poderosa stretta creditizia — che l’usura da reato scarsamente visibile diviene, soprattutto in talune zone del paese, fenomeno che desta notevolissimo allarme sociale (17). Variegata è la gamma dei soggetti (e di consumi) colpiti dall’usura (18). Ma soprattutto, ed è ciò che più a noi interessa, altrettanto variegata è la tipologia degli autori. Se uno spazio è occupato dalle tradizionali associazioni criminali (ma ciò a ben vedere concerne qualsiasi attività criminosa motivata dal lucro) vi è tuttavia una multiforme e variegata tipologia ad esse estranea che si attiva cogliendo l’occasione data dalla congiuntura economica. « Vi sono professionisti che guadagnano molto più di quanto dichiarano, ed affidano il surplus a mediatori o agenzie prestasoldi. La discrezione garantisce che i reali finanziatori di questi prestasoldi rimangano nell’ombra. Vi sono poi anche delle banche che, nel rifiutare di concedere (15) RUGGIERO, op. ult., cit., 149. (16) Ad esempio, DENICOLÒ, Usura, non lasciatevi tentare, in Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 1994. (17) CENTORRINO, Economia assistita da mafia, Messina, 1995, 47 s.; RUGGIERO, op. ult. cit., 150 s. (18) CENTORRINO, loc. ult. cit.; CAPERNA-LOTTI, Il fenomeno dell’usura tra esperienze giudiziarie e prospettive di un nuovo assetto normativo, in Banca, borsa e titoli di credito, 1995, 76 s.
— 131 — crediti, suggeriscono ai clienti di rivolgersi altrove, vale a dire ad individui o ad agenzie che operano nel mercato parallelo » (19). Queste considerazioni ci riportano a quel concetto di « economia cattiva » capace di attraversare il complesso di relazioni intercorrenti tra le nozioni di economia « legale », criminalità economica e criminalità organizzata. In tal senso il tema dell’usura si presta addirittura ad essere utilizzato come paradigma dimostrativo di come l’ordine economico contenga ab initio il disordine criminale. « Il crimine organizzato sembra aver attraversato delle fasi che, schematicamente, lo hanno visto predatorio prima, parassitico poi, e simbiotico infine. Le Goff (20) ha scritto memorabili pagine sul rapporto simbiotico tra lecito ed illecito, sotto forma di dialettica tra virtù e peccato. Il suo studio dell’usura, ad esempio, rivela come molte attività oggi legittime incorporino un nocciolo fatto di illegittimità, una sorta di peccato originale. L’usura, afferma Le Goff, si è potuta affrancare nella coscienza del mondo Cristiano quando l’invenzione del Purgatorio ne ha fatto un peccato veniale e riscattabile. I Cristiani hanno potuto allora « salvare sia la borsa che la vita », a ben intendere, quella eterna. Così l’economia legittima, che incorporando modalità illegittime, periodicamente se ne « purga » tracciando confini, improbabili o adeguatamente valicabili, tra ciò che è lecito e ciò che è illecito » (21). 4. Dalle osservazioni che precedono possono trarsi alcune ulteriori considerazioni che ci avvicinano alle scelte operate dal legislatore del 1996. In particolare a quelle espresse con la figura-base, imperniata sulla individuazione di un tasso di interesse usurario a cui, tuttavia si è affiancata (3o comma del nuovo art. 644) una fattispecie che, ulteriormente dilatando la discrezionalità giudiziale, si colloca nell’alveo tradizionale della repressione dell’usura. Anzitutto il nuovo sistema repressivo sembra connotarsi per il superamento della storica prospettiva di tutela che coniugava dimensione etica e rilievo assegnato alla condizione della vittima (22). Come visto, ciò avviene in coincidenza con una precisa congiuntura economica. Questo rilievo potrebbe far ascrivere la componente innovativa della (19) RUGGIERO, op. ult. cit., 150; analogamente, CAPERNA-LOTTI , op. cit., 76 s. Può essere interessante trasferire a questa materia il paradigma utilizzato di recente a proposito delle attività « predatorie » contro il patrimonio. Prospettiva che interpretando le variazioni nello spazio e nel tempo del numero dei reati, accanto alla considerazione della quota di persone disposte a compierli, valorizza le occasioni che ad essi si offrono, BARBAGLI, L’occasione e l’uomo ladro, Bologna, 1995. (20) LE GOFF, La borsa e la vita. Dall’usurario al banchiere, Bari, 1987. (21) RUGGIERO, Crimine organizzato, cit., 270. (22) Diffusamente E. GALLO, L’usura nella evoluzione dei tempi fino agli ultimi provvedimenti normativi, in Dir. pen. e processo, 1995, 298.
— 132 — disciplina penale dell’usura tra gli interventi normativi caratterizzanti, in un’economia mista, i poteri pubblici di direzione di importanti settori (nel nostro caso quello del credito) in cui convivono libera iniziativa economica e controllo amministrativo. Si può fare l’esempio dei reati valutari (23), calzante anche per la variabilità congiunturale delle esigenze di tutela. Diviene così indispensabile toccare il dibattuto problema del bene tutelato. Si possono riproporre impostazioni che, già alla stregua del codice Rocco, individuavano nell’ordinamento del credito, il bene protetto (24). Nei primi commenti pare tuttavia prevalere l’orientamento che riconduce la tutela ad una dimensione individualistico-patrimoniale: questo principalmente a causa dell’assenza « di un minimo di omogeneità tecnica tra quella che si pone come descrizione legale comune e quella che si profila come ipotesi sussidiaria dominante » (25). Resterebbe centrale lo stato di difficoltà della vittima, presunto juris et de jure, nella ipotesi di tasso usurario ex lege, accertata dal giudice nel caso di usurarietà determinata in concreto (26). Tale prospettiva non mi pare condivisibile sotto il profilo di una razionale politica criminale e ciò proprio in considerazione della funzione di oggettiva regolamentazione pubblica del credito che assume la fattispecie base rispetto alla tradizionale ipotesi di « sfruttamento » del soggetto passivo che connota la norma sussidiaria che si è voluta mantenere. Evidente è così la forzatura nella presunzione sopra descritta, posto che al negozio oggettivamente usurario possono corrispondere motivazioni, contesti economici, ripartizioni del rischio che prescindono completamente da una condizione di inferiorità economica della vittima, come tale meritevole di tutela. Per questa via occorrerebbe inoltre riesaminare la questione della non punibilità a titolo di concorso eventuale del concorrente necessario che abbia posto in essere una condotta diversa ed ulteriore rispetto a quella tipica non sottoposta a pena. La non punibilità dell’istigatore del prestito usurario non troverà infatti più giustificazione nella sua natura di soggetto passivo (27) laddove, da un lato, si prescinda da qualsiasi connotazione soggettiva di inferiorità, dall’altro la tutela sia orientata ad una oggettiva calmierazione ex lege dei tassi di interesse. (23) PEDRAZZI, Interessi economici e tutela penale, in Bene giuridico e riforma della parte speciale, (a cura di Stile), Napoli, 1985, 305. (24) FLORIAN, Il delitto di usura, nota economico giuridica, in Giurisp. it., IV, 94 s. (25) CRISTIANI, Guida alle nuove norme sull’usura, Torino, 1996, 31. (26) FIANDACA-MUSCO, op. cit., 212. (27) In tal senso da ultimo, GRASSO, in ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, vol. II, Milano, 1990, 131.
— 133 — Alla scelta infelice di affiancare le due fattispecie e di equipararle sotto il profilo sanzionatorio non mi sembra quindi che debba accompagnarsi anche quella di renderle omogenee quanto all’oggetto della tutela. Il tema meriterebbe quindi di essere riesaminato con maggiore razionalità e freddezza, lontani dall’emergenza, separando nettamente finalità di protezione patrimoniale individuale, da intenti regolativi del mercato. Ed è significativo in proposito un dato. Come è noto il modello oggettivo fatto proprio dal legislatore del 1996 è stato recepito dall’esperienza francese. In quel contesto tuttavia già al livello della collocazione normativa (Code de la consommation) è possibile constatare come il fenomeno, non collegato in alcun modo alla criminalità organizzata, sia affrontato esclusivamente nell’ottica di una regolamentazione del credito. GAETANO INSOLERA Associato di Diritto penale nell’Università di Macerata
LA CORNICE EDITTALE DELLA PENA E IL SINDACATO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE
SOMMARIO: 1. L’individuazione della cornice edittale e i limiti costituzionali: premessa. — 2. Il controllo ex art. 3 comma 1o Cost.: il canone della ragionevolezza come principio logico-formale. — 3. (Segue): ipotesi ricostruttive. — 4. (Segue): ragionevolezza e valori costituzionali. — 5. Il controllo ex art. 25 comma 2o Cost.: il principio di precisione (o di determinatezza) e l’ampiezza della cornice edittale. — 6. Il controllo ex art. 27 comma 3o Cost.: il finalismo rieducativo della pena e il principio di proporzione. — 7. Il controllo ex art. 27 comma 1o Cost.: il principio di colpevolezza e il limite della rimproverabilità soggettiva. — 8. Spunti di diritto comparato: l’esperienza degli U.S.A. e della Germania. — 9. Considerazioni conclusive sui limiti costituzionali della cornice edittale. — 10. Questioni aperte. — 11. Prospettive de iure condendo.
1. L’individuazione della cornice edittale e i limiti costituzionali: premessa. — 1.1. Con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, la scienza penalistica italiana ha dovuto confrontarsi con lo spirito e, soprattutto, con i precetti contenuti nella Legge fondamentale e ha cercato di (ri)modellare i caratteri dell’illecito penale — e dunque anche della pena — alla stregua dei principi costituzionali (1). Salvo qualche eccezione (2), è rimasta tuttavia sullo sfondo la problematica relativa alla corrispondenza dei limiti edittali della sanzione penale ai parametri sanciti (1) Tra i primi studiosi a delineare il « volto costituzionale » del sistema penale vedi: NUVOLONE, Le leggi penali e la Costituzione, 1953; SPASARI, Diritto penale e Costituzione, 1966; e, soprattutto, BRICOLA, voce Teoria generale del reato, in Nss. dig. it., vol. XIX, 1973, p. 8 s. (2) Si veda, in particolare, il saggio di PAPA, Considerazioni sul controllo di costituzionalità relativamente alla misura edittale delle pene in Italia e negli U.S.A., in questa Rivista 1984, p. 726 s.; sull’argomento si segnalano inoltre: CERRI, Sindacato di costituzionalità alla stregua del principio di uguaglianza: criteri generali ed ipotesi specifiche di pari normazione in ordine a situazioni diverse, in Giur. cost., 1974, p. 2160 s.; FIANDACA, Controllo penale sull’uso degli additivi alimentari e principi di uguaglianza, in Foro it., 1982, I, c. 637 s.; GROSSO, Illegittimità costituzionale delle pene eccessivamente discrezionali, in questa Rivista, 1992, p. 1474 s.; LATAGLIATA, Principio di eguaglianza davanti alla legge ed equiparazione di condotte « diverse » sotto un unico titolo di responsabilità, in Giur. merito, 1971, p. 94 s.; PIACENTINI, Reati di insubordinazione militare: diversità delle fattispecie e congruità delle pene, in Giur. cost., 1981, I, p. 369 s.; PIZZORUSSO, Le norme sulla misura delle pene e il controllo della ragionevolezza, in Giur. it., 1971, IV, c. 192 s.; ROSSETTI, Controllo di ragionevolezza e oggettività giuridica dei reati di insubordinazione, in questa Rivista, 1980, p. 200 s.
— 135 — dalla Costituzione. Ne è una significativa conferma l’orientamento della Corte costituzionale: per lungo tempo sono infatti state respinte tutte le numerosissime eccezioni sollevate dai giudici di merito, che censuravano il rigore del quantum di pena previsto da questa o quella norma incriminatrice (3). I termini del problema — a lungo relegato ai margini da dottrina e giurisprudenza — si lasciano compendiare in questo interrogativo: il legislatore ordinario, attraverso la minaccia della sanzione penale con cui intende tutelare il bene giuridico da questa o quella forma di offesa (4), incontra limiti nel dosaggio della pena oppure è vincolato — e in che misura — da questo o quel precetto costituzionale? In altri termini: è arbitro il legislatore nella scelta della misura della sanzione o deve, invece, attenersi al rispetto di canoni, sia formali che sostanziali, desumibili dalla Costituzione? Per fornire una risposta a un interrogativo del genere, si dovrà appurare se si profili — e quanto sia esteso — il sindacato della Corte costituzionale in ordine alla misura della pena comminata dal legislatore, indi(3) Tra le decisioni di accoglimento si segnalano le sentenze nn.: 218/74, in Giur. cost., 1974, II, p. 11; 176/76, ivi, 1976, p. 1090; 26/79, ivi, 1979, I, p. 288; 103/82, ivi, 1982, p. 1013; 22/91, ivi, 1991, I, p. 143; 299/92, in questa Rivista, 1992, p. 1468, con nota di GROSSO, cit.; 341/94, in Foro it., 1994, I, c. 2585 con nota di FIANDACA e in Giur. cost., 1994, p. 2802 s., con note di SPASARI e PINARDI. Di regola, le questioni di adeguatezza della pena rispetto al reato, ove non presentino profili problematici, vengono rigettate con ordinanza di manifesta infondatezza (cfr., ad es., le nn. 113/83, 120/83 e 42/84); nella giurisprudenza più recente, si dichiara la manifesta inammissibilità, implicando la questione valutazioni riservate al legislatore. In tal modo, questo indirizzo giurisprudenziale si ricongiunge a quello che afferma l’inammissibilità di questioni che comportano un controllo, non consentito, della discrezionalità legislativa. (4) Sulla (diversa e prodromica rispetto all’argomento trattato) questione se il legislatore ordinario sia vincolato a tutelare con l’impiego della sanzione penale solo quei beni giuridici di rango costituzionale cfr. BRICOLA, Teoria generale, cit., p. 15; PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in questa Rivista, 1983, p. 484; FIANDACA, Il « bene giuridico » come problema teorico e come criterio di politica criminale, in AA.VV., Diritto penale in trasformazione, a cura di MARINUCCI-DOLCINI, 1985, p. 148; PAPA, Considerazioni, cit., pp. 737-740; MARINUCCI-DOLCINI, Costituzione e politica dei beni giuridici, in questa Rivista, 1994, p. 333, nonché Corso di diritto penale, 1, 1995, p. 111 s.; FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in questa Rivista, 1994, pp. 38-41; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, seconda edizione, 1995, p. 281, DE FRANCESCO, Il principio della personalità della responsabilità penale nel quadro delle scelte di criminalizzazione, in questa Rivista, 1996, pp. 24-32. La dottrina più recente è approdata alla conclusione che il rango costituzionale di un bene è sintomo di « meritevolezza » circa la sua protezione con la sanzione penale ma non sussiste un obbligo di incriminazione in capo al legislatore ordinario, il quale è libero di scegliere con quali strumenti — penalistici o non — tutelare determinati beni giuridici, eventualmente anche sprovvisti di rilievo costituzionale (cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso, specialmente pp. 122-127). Tale è, del resto, anche l’indirizzo seguito dalla Corte costituzionale: « appartiene alla politica legislativa il potere di stabilire, in relazione a un determinato contesto storico, se siano sufficienti le sanzioni di natura civile o se sia necessario disporre anche misure penali » (così la sent. n. 147/69, in Giur. cost., 1969, II, p. 2230).
— 136 — viduando al contempo le norme della Costituzione che possano fungere da parametro del controllo di costituzionalità della cornice edittale. 1.2. Si direbbe che a questo tipo di interrogativi si possa opporre, subito, una fin de non recevoir: non è forse vero che la scelta della misura della pena, per questo o quel fatto, è una manifestazione per eccellenza di quelle scelte di « natura politica » ed esercizio di quel « potere discrezionale del Parlamento » che sono esclusi — come vuole l’art. 28 della l. n. 87 del 1953 — dal « controllo di legittimità della Corte costituzionale »? E non è ancor più vero che la materia penale, per dettato costituzionale, è dominata da un regime delle fonti — la riserva di legge — che, esaltando e rafforzando il primato del Parlamento, rende ancor più invalicabile lo sbarramento frapposto dall’art. 28 al controllo della Corte costituzionale? È certo innegabile che, nel dosare la pena, il legislatore spesso rispecchia e dà voce (anche) a vicende storiche, contingenti o di lunga durata, nelle quali hanno un peso nient’affatto marginale, e in tutto e per tutto politico, fattori « irrazionali » come la paura del rafforzarsi della criminalità, il bisogno collettivo di essere rassicurati, l’esplosione improvvisa di patologie sociali a lungo sommerse, etc. (5). Ne è pensabile che il legislatore — animato da uno spirito illuminista — possa semplicemente ignorare il peso, anche relativo, di quei molteplici fattori irrazionali: « fare i conti razionalmente con l’irrazionale », come insegna un adagio ben noto (6), è infatti tra i più indiscussi principi guida di qualsivoglia politica del diritto penale. Cionondimeno, il potere legislativo non sfugge — non può sfuggire — ai vincoli che la « legge fondamentale dello Stato » pone anche all’esercizio della potestà punitiva statuale: vincoli di portata generale — relativi all’intera attività statuale, posti a presidio di diritti di libertà e di principi fondamentali — e vincoli propri della materia penale, circondata com’è da una rete di norme costituzionali ispirate ad esigenze di garanzia dagli arbitri, al rispetto della « personalità » umana, e a finalità che il legislatore è tenuto a perseguire proprio sul terreno della pena. Nulla dunque si oppone, a ben vedere, a un controllo di costituzionalità delle norme penali anche « dal lato » della pena — del quantum di pena minacciato dal legislatore. Si tratta, naturalmente, di un controllo esercitabile, e da esercitare, con oculata pacatezza: il che spiega, anche se non giustifica appieno, la lunga astinenza di interventi ablativi da parte della Corte costituzionale. Da qualche tempo, peraltro, si lascia registrare una progressiva apertura della Corte ai diversi profili di conformità alla Costituzione sotto i quali il dosaggio sanzionatorio del legislatore è stato sottoposto da un crescente numero di ordinanze dei giudici di merito. (5) Sull’analisi dei fattori non razionali nel « bisogno di pena » cfr., anche per altre indicazioni, PULITANÒ, Politica criminale, in Diritto penale in trasformazione, cit., p. 45. (6) Così HASSEMER, Theorie und Soziologie des Verbrechens, 1973, p. 244.
— 137 — Oggetto delle osservazioni che seguono è, per l’appunto, l’individuazione e il vaglio critico del « nuovo corso » della Corte, che si chiuderà con qualche conclusione provvisoria e con un abbozzo di « quel che resta da fare » da parte della Corte e, soprattutto, del legislatore, in sede di riforma della legislazione penale. 2. Il controllo ex art. 3 comma 1o Cost.: il canone della ragionevolezza come principio logico-formale. — L’esame della copiosa giurisprudenza della Corte pone subito in evidenza che le norme parametro nelle quali il giudice delle leggi ha visto dei limiti alla discrezionalità del legislatore nella fissazione delle cornici edittali sono quelle contenute negli articoli: 3 comma 1o, 25 comma 2o, 27 comma 1o e comma 3o Cost. Viene dunque subito in rilievo il ruolo che, a giudizio della Corte, può competere all’art. 3 comma 1o Cost. 2.1. Dall’analisi delle numerose decisioni della Corte emerge chiaramente come la norma per lo più invocata — ed applicata — quale parametro per sindacare la dosimetria edittale è, per l’appunto, il principio di uguaglianza, sancito nell’art. 3 comma 1o Cost. Questo principio « di chiusura » dell’ordinamento (7) sta notoriamente a significare il divieto per il legislatore ordinario di discriminazioni arbitrarie: a situazioni uguali deve corrispondere un trattamento uguale e, specularmente, a situazioni diverse un trattamento differenziato (8). Si tratta di un principio che non impone al legislatore di perseguire obiettivi di sorta: appone solo un limite negativo alla legislazione, o meglio, il divieto di un’attività legislativa irragionevole (9). 2.2. Dal principio di eguaglianza dottrina e giurisprudenza fanno discendere il canone della ragionevolezza dell’attività legislativa (10); il controllo del rispetto del principio di uguaglianza postula, invero, la verifica che il legislatore abbia « ragionevolmente » valutato diversità e analogie tra le ipotesi da disciplinare, e che « ragionevole » sia la scelta del trattamento normativo riservato: « il principio di eguaglianza » — ha stabilito la Corte — « è violato anche quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso a cittadini che si trovino in situazione (7) Cfr. AGRÒ, Contributo ad uno studio della funzione legislativa in base alla giurisprudenza sul principio costituzionale di eguaglianza, in Giur. cost., 1967, p. 900. (8) Cfr. sent. n. 90/71, in Giur. cost., 1971, p. 730 s. (9) Cfr. CERRI, Nuove note sul principio di eguaglianza, in Giur. cost., 1971, p. 981. (10) Per un’ampia rassegna sulle diverse interpretazioni della ragionevolezza quale parametro costituzionale si vedano gli atti del seminario svoltosi a Roma — Palazzo della Consulta — nei giorni 13 e 14 ottobre 1992, ora raccolti e pubblicati in AA.VV., Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, 1994, nonché, di recente, CHELI, Il giudice delle leggi, 1996, spec. pp. 71-81.
— 138 — uguale » (11). Mutuando le categorie proprie del sindacato dell’atto amministrativo (12), la Corte ha fatto leva, anzi, sul principio di uguaglianza per esercitare un controllo dell’(eventuale) « eccesso di potere legislativo », che si traduce nel controllo di « ragionevolezza » dell’uso della discrezionalità legislativa. Questa impostazione è stata limpidamente ribadita anche molto di recente, proprio sul terreno del dosaggio sanzionatorio: « perché sia possibile operare uno scrutinio che direttamente investa il merito delle scelte sanzionatorie operate dal legislatore, è pertanto necessario che l’opzione normativa contrasti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza, vale a dire si appalesi, in concreto, come espressione di un uso distorto della discrezionalità che raggiunga una soglia di evidenza tale da atteggiarsi alla stregua di una figura per così dire sintomatica di ‘‘eccesso di potere’’ e, dunque, di sviamento rispetto alle attribuzioni che l’ordinamento assegna alla funzione legislativa » (13).
2.3. Quale sia, d’altra parte, la « soglia di evidenza » che il legislatore penale non può varcare, la Corte lo ha precisato più volte: la determinazione della quantità (e della qualità) della pena rientra « nell’ambito del potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio può essere censurato sotto il profilo della legittimità costituzionale soltanto nei casi in cui non sia rispettato il limite della ragionevolezza » (14), ovverosia si deve trattare di dosaggi sanzionatori che diano origine a « sperequazioni che assumono una tale gravità da risultare radicalmente ingiustificate » (15). Superata quella soglia, la Corte interviene con i suoi poteri ablativi. 2.4. Osserviamo più da vicino lo schema argomentativo seguito dalla Corte. Il criterio della ragionevolezza fa leva su un rapporto tra norme legislative e norme o principi costituzionali per stabilire, attraverso un criterio logico, se la disciplina adottata dal legislatore urti o meno con i dettati costituzionali (16). La « ragionevolezza » è dunque un parametro che ha carattere relazionale: non stabilisce il contenuto a cui le leggi si devono uniformare ma richiede che siano leggi coerenti e armonizzate (17). Tradizionalmente, la coerenza — la ragionevolezza — viene letta e utilizzata come un canone meramente logico-formale, che opera secondo un modello ternario, assimilabile al sillogismo: confronto tra la disciplina prevista dalla norma sottoposta al giudizio di costituzionalità con quella, (11) Così la sentenza n. 15/60 in Giur. cost., 1960, I, p. 162. (12) Cfr. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, IX ed., 1976, pp. 1412-1414 e bibliografia ivi citata. (13) Si tratta della sentenza n. 313/95, Giur. cost., 1995, p. 2246. (14) Così la sent. n. 103/82, in Giur. cost., 1982, p. 1013. (15) Sent. n. 26/79, cit., p. 288. (16) Nello stesso senso ROSSANO, « Ragionevolezza » e fattispecie di eguaglianza, in Il principio di ragionevolezza, cit., p. 177. (17) Cfr. CERRI, Nuove note, cit., p. 986.
— 139 — differente, prevista da un’altra norma della legislazione ordinaria che funge da tertium comparationis, « in vista del quale possa dirsi che la differenziazione o la classificazione in esame sia ragionevole oppure arbitraria, provvista o carente di un adeguato fondamento giustificativo, e quindi conforme o difforme rispetto al generale imperativo dell’art. 3 » (18). Lo schema del giudizio è così formulabile: se A----> B e, invece, A1----B1, la scelta è censurabile in relazione all’art. 3 comma 1o Cost., se A è comparabile con A1, che funge da tertium comparationis. In altri termini, il giudizio di ragionevolezza implica l’individuazione di una fattispecie (A1) che si assume coincidente con quella censurata (A); orbene, se è possibile giungere a un’equivalenza tra A e A1, ne seguirà che la disciplina (B) riservata all’una può essere considerata irragionevole rispetto a quella prevista dall’altra (B1). Diversamente, se la fattispecie presa a confronto come tertium comparationis (A1) ha caratteristiche tali da rendere impossibile un’assimilazione con la fattispecie « sotto esame » (A), allora apparirà giustificato il differente trattamento legislativo. Il giudizio di ragionevolezza non comporta quindi una valutazione sull’opportunità o sul merito della legge, ma piuttosto un esame della sua coerenza rispetto a norme poste dal legislatore in fattispecie analoghe (19). Come si avrà modo di vedere nei paragrafi successivi, assai rilevante è dunque l’individuazione, da parte del giudice remittente, della norma parametro (il c.d. tertium comparationis) che vincola il giudizio della Corte. 3. (Segue): ipotesi ricostruttive. — 3.1. Scendendo all’analisi dei casi sottoposti al vaglio di costituzionalità, si può notare che le sentenze della Corte possono così raggrupparsi: — un primo gruppo, quantitativamente il più cospicuo, riguarda quelle ipotesi in cui viene denunciata l’incostituzionalità di un medesimo trattamento sanzionatorio per fattispecie che si assumono di gravità differente; si tratta dunque di casi di ingiustificata parificazione sanzionatoria; — un secondo gruppo ricomprende le decisioni in cui viene censurata la cornice edittale prevista da talune fattispecie incriminatrici, ritenuta irragionevolmente elevata rispetto a quella, più mite, comminata per reati astrattamente considerati di maggiore gravità; si è pertanto in presenza di casi di ingiustificata discriminazione sanzionatoria. 3.2. A proposito del primo gruppo, vi è da notare che, inizialmente, il termine di confronto è stato rinvenuto nella medesima disposizione in cui era inserita la fattispecie censurata; si tratta dunque di un controllo « interno », teso a verificare la congruenza logica e la razionalità intrin(18) PALADIN, Corte costituzionale e principio generale di eguaglianza: aprile 1979dicembre 1983, in Scritti sulla giustizia costituzionale in onore di V. Crisafulli, I, 1985, p. 609. (19) Cfr. CHELI, Il giudice delle leggi, cit., p. 74.
— 140 — seca di una stessa ed unica norma — per così dire « endonormativo » (20). È il caso affrontato dalla sentenza n. 218/74, che, pur essendo relativa a una fattispecie contravvenzionale di modesta importanza, merita attenzione perché si tratta della prima decisione di accoglimento (21). La Corte, dopo aver ribadito il proprio consolidato orientamento circa l’insindacabilità della misura della pena salvo il limite della razionalità, ha ritenuto, nel caso concreto, che il legislatore avesse ecceduto tale limite, « mancando ogni elemento logico che possa spiegare il fondamento giuridico e razionale di una normativa come quella dell’art. 8 impugnato, il quale punisce (... ) in modo identico chi non sia assicurato e chi, pur essendo assicurato, non sia stato in grado di darne la prova all’agente che gliene abbia fatto richiesta ». Del tutto simile — e cioè « endonormativo » — è il tipo di controllo effettuato nella sentenza n. 176/76 (22), che ha ritenuto illegittimo l’art. 32 ultimo comma r.d. n. 1016/39 nella parte in cui prevede « la punizione come delitto dell’inosservanza di un divieto diretto alla prevenzione di semplici contravvenzioni », con ciò travalicando il limite della razionalità. Un caso sui generis, ma pur sempre riconducibile a questo gruppo di decisioni, è quello che, assai di recente, ha portato la Corte a dichiarare l’incostituzionalità dell’ipotesi contravvenzionale prevista dall’art. 7, l. n. 130 del 1975 (23), che puniva il comportamento di chi fa un uso non consentito di altoparlante collocato su un’automobile per la propaganda elettorale nei trenta giorni precedenti la data fissata per le elezioni del Parlamento europeo. Come ha argomentato la Corte, il legislatore, con la l. n. 515 del 1993, ha depenalizzato tutti i comportamenti concernenti la propaganda elettorale — tra cui, ad esempio, i casi di uso non consentito di manifesti, giornali murali, ecc. —, con l’unica irragionevole eccezione dell’ipotesi prevista dall’art. 7. Orbene, ha osservato la Corte, « non si può intraprendere una iniziativa di decriminalizzazione — che presenta carattere omogeneo nelle previsioni, nel bene tutelato e nelle sanzioni irrogabili — senza completarne in modo coerente le statuizioni, pena l’arbitrarietà di quelle non uniformi ». In questo caso, dunque, la Corte ha censurato la mancata depenalizzazione della fattispecie di cui all’art. 7 attraverso il consueto schema della « ragionevolezza formale », e cioè: confronto della norma denunciata con un tertium comparationis; verifica (qui positiva) dell’omogeneità tra le due situazioni; valuta(20) Cfr. PIZZORUSSO, Le norme, cit., pp. 195-196. (21) Cit., p. 11; la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 penultimo comma del r.d. 5 giugno 1939, n. 1016 (Testo unico delle norme per la protezione della selvaggina e per l’esercizio della caccia), modificato dalla l. 2 agosto 1967, n. 799, limitatamente alla parte in cui si riferisce al soggetto che, pur avendo l’assicurazione, è sorpreso a cacciare privo dei soli documenti giustificativi. (22) Cit., p. 1092; la Corte ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 32, ultimo comma, r.d. 5 giugno 1939, n. 1016, come modificato dall’art. 10 l. 2 agosto 1967, n. 799, nella parte in cui, limitatamente alla zone di ripopolamento, puniva con la multa da lire 20 mila a lire 100 mila il porto « delle armi da caccia con munizione spezzata e di arnesi per l’uccellagione, a meno che il trasporto avvenga per giustificato motivo e che il fucile sia smontato o chiuso in busta o altro involucro idoneo ». (23) Si tratta della sentenza n. 52/96, in Giur. cost., 1996, p. 366.
— 141 — zione (in questo caso) di incongruenza e illogicità della scelta (omissiva) del legislatore.
3.2.1. Nella maggior parte dei casi, la Corte ha invece « salvato » la norma incriminatrice sospettata di irragionevolezza sanzionatoria: pur essendo diverse le condotte descritte in una stessa norma, ha ritenuto che non fosse irragionevole l’aver riservato, per tutte, il medesimo trattamento sanzionatorio, in quanto alla base della norma vi era, invariabilmente, la protezione del medesimo bene giuridico o, comunque, il perseguimento della medesima finalità da parte del legislatore. È l’ipotesi, ad esempio, decisa con la sentenza n. 9/72 (24) in relazione all’art. 6 l. n. 1041 del 1954 che parificava a livello sanzionatorio chiunque « senza autorizzazione, acquisti, venda, ceda, esporti, importi, passi in transito, procuri ad altri o comunque detenga » sostanze stupefacenti: « non si tratta — ha osservato la Corte — di situazioni diametralmente diverse, ma tra loro concorrenti, rispetto al piano d’azione che il legislatore si è chiaramente proposto ». Analogamente, nella sentenza n. 114/74 (25) concernente l’art. 108 l. n. 1424 del 1940, la Corte ha affermato che la parificazione sanzionatoria ivi prevista « trova fondamento nella valutazione di politica criminale secondo cui, nel tentativo di contrabbando e nel contrabbando consumato, risiedono elementi di pericolosità sociale che richiedono eguali sanzioni ». Dello stesso tenore la sentenza n. 47/79 (26), a proposito del trattamento sanzionatorio riservato dall’art. 41 lett. b l. n. 1150 del 1942 (come modificato dall’art. 13 l. n. 765 del 1967) che colpiva con la stessa pena sia chi avesse costruito senza licenza ma in conformità con le prescrizioni stabilite da strumenti urbanistici, sia chi avesse costruito egualmente senza licenza ma in violazione delle norme urbanistiche; la Corte ha rigettato la questione facendo notare che « risponde a un fondamentale interesse pubblico (...) sottoporre l’attività edilizia al controllo preventivo della P.A. (...) Rispetto a tale esigenza (...) è quindi indifferente la circostanza che la costruzione corrisponda o meno al complesso delle norme che regolano l’attività edilizia ». Similmente, nella sentenza n. 1/82 (27) la Corte, dichiarando inammissibile la questione di incostituzionalità degli artt. 5 lett. g) e 6 l. n. 283 del 1962 nella parte in cui non differenziano le pene comminate per il reato di aggiunta di additivi chimici autorizzati nella preparazione di alimenti — ma senza l’osservanza delle norme prescritte per il loro impiego — e quello di aggiunta di additivi non autorizzati, ha affermato che in tali disposizioni « intese alla tutela del medesimo bene, che si vuole realizzare ad una soglia determinata, vengono presi in considerazione comportamenti diversi ma tutti estrinsecantisi nella inosservanza delle prescrizioni poste dal legislatore a quel fine ». Ancora, nella sentenza n. 7/87 (28) la Corte ha ritenuto che la mancata differenziazione di pena a proposito dell’art. (24) In Giur. cost., 1972, p. 27 con nota di CARLASSARRE. Sui profili di incostituzionalità che pone la vigente normativa in tema di stupefacenti cfr. infra par. 10.2. (25) In Giur. cost., 1974, p. 909. (26) In Giur. cost., 1979, p. 369. (27) In Foro it., 1982, I, c. 637 s., con nota di FIANDACA. (28) In Giur. cost., 1987, p. 50.
— 142 — 589 c.p. (che contempla un uguale trattamento allorquando l’omicidio colposo concerna, anziché persone estranee, congiunti) non poteva dirsi irragionevole in quanto il bene vita comporta « un’esigenza assoluta di tutela che non può tenere in considerazione — ai fini del trattamento sanzionatorio — l’eventuale rapporto di parentela, di coniugio o di affinità tra l’autore e la vittima del reato ».
3.2.2. In altre decisioni, la norma incriminatrice è stata « salvata » facendo leva sulla logica e sulla funzione della « commisurazione della pena », che consente al giudice di differenziare il diverso disvalore delle condotte elencate nella norma — pur offensive di beni giuridici diversi — così da punire con una pena prossima al massimo edittale le più gravi, e con una pena vicina al minimo quelle meno gravi. Tale è, ad esempio, la soluzione accolta dalla sentenza n. 285/91 (29) che ha dichiarato non fondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 2 comma 2o, l. n. 36 del 1990 sotto il profilo dell’irragionevolezza dell’uguale trattamento sanzionatorio del porto di arma comune da sparo e di arma giocattolo priva dell’apposito contrassegno di riconoscimento (cd. « tappo rosso »). La Corte ha dovuto riconoscere che « la norma accomuna nel medesimo trattamento fatti la cui essenziale diversità è innegabile »; difatti, ha argomentato la Corte, « mentre l’incriminazione del porto d’armi da sparo risponde all’esigenza di prevenire il pericolo del compimento di atti di offesa all’integrità fisica delle persone, quella delle armi giocattolo confondibili con le prime perché prive del prescritto dispositivo di identificazione mira a prevenire il pericolo di atti diretti ad intimidire, ma per definizione inidonei a ledere: sicché il loro grado di offensività e disvalore è nettamente diverso ». Purtuttavia, ha precisato la Corte, nel « divario tra il limite minimo e quello massimo della pena edittale è consentito al legislatore di includere in uno stesso modello di genere una pluralità di sotto fattispecie diverse per struttura e disvalore »; in questo caso « sarà il giudice a fare emergere la differenza tra le varie sottospecie risultante dal loro diverso disvalore oggettivo ed a graduare su questa base (...) la pena da irrogare in concreto » (30). Questo indirizzo è stato seguito dalla Corte in più occasioni. Così, nell’ordinanza n. 337/87 (31) a proposito del medesimo trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 2 ultimo comma d.l. n. 429 del 1989 — conv. nella l. n. 516 del 1982 — riguardante l’omissione e il ritardato versamento delle somme trattenute a titolo di ritenuta d’acconto, la Corte ha affermato che si tratta di comportamenti diversi di cui « il giudice potrà tener conto in sede di commisurazione della pena ». Analogamente, nella sentenza n. 256/87 (32) — in relazione all’art. 20 lett. b) l. n. 47 del 1985 che sanziona con la stessa pena l’esecuzione di lavori in totale difformità o assenza della concessione edilizia e la prosecuzione degli stessi nono(29) In Cass. pen., 1992, p. 23 s., con nota di MANZIONE, Armi giocattolo prive di tappo rosso: nuova legge, nuova querelle? (30) Per degli spunti critici nei confronti di questo orientamento cfr. PAPA, La questione di costituzionalità relativa alla disciplina delle armi giocattolo: il « diritto vivente » tra riserva di legge e determinatezza della fattispecie, in Giur. cost., 1989, p. 41. (31) In Giur. cost., 1987, p. 2610. (32) In Giur. cost., 1987, p. 2075.
— 143 — stante l’ordine di sospensione — la Corte ha evidenziato che proprio « la previsione di un minimo e di un massimo edittale, tra loro ampiamente distanziati permette di graduare la sanzione secondo la gravità del fatto ». Infine, nella sentenza n. 272/91 (33), valutando la disciplina dell’abusiva installazione di impianto radioelettrico di telecomunicazione imperniata sulla parificazione sanzionatoria dell’ipotesi in cui l’impianto sia soggetto a regime concessorio con quello, ritenuto meno grave, in cui sia soggetto a semplice regime autorizzatorio, la Corte ha argomentato che « le due fattispecie non comportano di per sé una diversa entità della lesione del bene tutelato e le eventuali diversità rilevabili in concreto ben possono essere apprezzate nell’ambito dei limiti minimo e massimo della pena ».
3.3. Un secondo gruppo di decisioni ha per oggetto i casi in cui la norma impugnata prevede una pena ritenuta dai giudici remittenti ingiustificatamente troppo elevata (vuoi nel minimo che nel massimo) rispetto a quella comminata da un’altra norma incriminatrice. Qui, pertanto, il tertium comparationis non viene cercato all’interno della stessa disposizione, ma in una norma diversa da quella censurata: l’esame della ragionevolezza è dunque « esterno » rispetto alla fattispecie impugnata, il che, peraltro, non implica alcuna diversità circa l’ampiezza o la qualità del controllo di ragionevolezza (34). Di regola, la Corte ha respinto le eccezioni, « trovando », caso per caso, un elemento di diversità tra le fattispecie poste a confronto in grado di giustificare la diversità di pena. Ad esempio, la Corte ha escluso la possibilità di raffrontare il trattamento punitivo del furto e quello della lesione personale (35), affermando, in maniera apodittica, che la diversa efficacia rieducativa della pena non può « essere presa in considerazione rispetto a singoli reati o gruppi di reati ». Ancora, la ragionevolezza della disomogeneità del regime sanzionatorio, nell’ipotesi di guida di un autoveicolo senza patente, riservato alle persone sottoposte a misure di prevenzione (da 6 mesi a 3 anni) rispetto al regime cui vengono assoggettate le persone sottoposte a misura di sicurezza personale (da 3 a 6 mesi), è stata vista in « una circostanza inerente alla persona del colpevole » (36). Similmente, vagliando la disparità di pena che corre tra le ipotesi dell’art. 18 comma 4o della l. n. 194 del 1978 (che punisce con la pena da 8 a 16 anni chiunque provochi l’interruzione della gravidanza con azioni dirette a provocare lesioni alla donna se dal fatto derivi la morte della donna) e l’ipotesi prevista dall’art. 584 c.p. (che commina la pena da 10 a 18 anni per chiunque con atti diretti a percuotere o a ledere cagioni la morte di un uomo), la Corte ha fatto leva su un discutibilissimo argomento dogmatico — classificatorio (37): ha cioè ritenuto che l’art. 18, prevedendo una circostanza aggravante speciale, delinei un delitto aggravato dall’evento e non un delitto prete(33) In Giur. cost., 1991, p. 2171. (34) Cfr. PIZZORUSSO, Le norme, cit., p. 197. (35) Sentenza n. 22/71, in Giur. cost., 1971, p. 135, con nota di RODOTÀ, Nuove frontiere per il diritto di proprietà?. (36) Sentenza n. 66/84, in Giur. cost., 1984, p. 413. (37) Sentenza n. 162/81, in Giur. cost., 1981, p. 1483.
— 144 — rintenzionale, con la conseguente impossibilità di operare un confronto tra le due fattispecie (38).
3.4. L’indirizzo giurisprudenziale che emerge dalle decisioni sin qui esposte, va, per un verso, salutato con favore: dopo un iniziale atteggiamento di totale chiusura, la Corte ha intrapreso a sindacare la costituzionalità del dosaggio sanzionatorio proprio facendo leva sull’art. 3 comma 1o Cost. Purtuttavia si tratta di un indirizzo che merita di essere criticato se e nella misura in cui il vaglio della « ragionevolezza » viene assunto come l’unico parametro del controllo di costituzionalità e, per di più, secondo una visione esclusivamente logico-formale di quel parametro. Secondo l’indirizzo espresso dalla Corte nelle decisioni che si sono esaminate, il canone della ragionevolezza si àncora infatti ad una concezione solo « formale » del principio di eguaglianza, che fa leva sulle sole « caratteristiche oggettive della norma controllata e del termine di paragone » (39), prescindendo dalla complessiva ponderazione dei valori costituzionali in gioco, specie quelli previsti dagli artt. 13, 25 comma 2o, 27 1o e 3o comma Cost. Criticabile è, d’altro canto, la ricorrente « via d’uscita » suggerita dalla Corte, secondo cui la diversificazione delle condotte può — e deve — emergere in sede giudiziale, grazie all’ampiezza dello spazio edittale. Anche lasciando da parte, per ora, ogni considerazione relativa al rispetto del principio di legalità nei casi di spazi edittali con « minimi » e « massimi » troppo distanziati (40), il problema che viene sottoposto dai giudici ordinari alla Corte concerne il trattamento sanzionatorio « astratto »; è, dunque, a tale livello che deve essere effettuato il confronto, a nulla rilevando se « in concreto » il giudice possa differenziare il diverso disvalore di condotte che, nella previsione legislativa, sono invece parificate (41). Senza dire che, affidando quest’opera di diversificazione al giudice, si apre costantemente la strada alla violazione del principio di eguaglianza: si rischia infatti il ben noto e non arginabile proliferare di una molteplicità di indirizzi interpretativi, attesa la diversità di orientamenti che possono condurre a delineare diversissime scale di (dis)valori rispetto ad una pluralità di condotte ricomprese in un’unica norma. Va segnalato, da ultimo ma non per ultimo, il fatto che in talune decisioni la Corte ha vieppiù abbassato gli standard della ragionevolezza — salvando così la norma denunciata —, come se avesse il timore di travali(38) Per una critica della decisione della Corte cfr. ZANCHETTI, La legge sull’interruzione della gravidanza, 1992, pp. 355-357. (39) CASAVOLA, La giustizia costituzionale nel 1992 (conferenza stampa del presidente della Corte costituzionale), in Foro it., 1993, V, c. 323. (40) A proposito dei problemi di legittimità costituzionale che si pongono nei confronti di fattispecie con previsioni edittali aventi il minimo e il massimo eccessivamente distanziati cfr. infra par. 5. (41) In questo senso MANZIONE, Armi giocattolo, cit., p. 24.
— 145 — care il limite posto dall’art. 28, con ciò autolimitando il proprio sindacato, « senza che ciò corrisponda (...) ad un qualche principio giuridico che possa essere costruito partendo dal dato positivo » (42). 4. (Segue): ragionevolezza e valori costituzionali. — 4.1. La sentenza n. 26/79 segna una svolta nella valorizzazione del canone della ragionevolezza della comminatoria edittale. L’elemento di novità non sta tanto nel fatto che, per la prima volta, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità di un’ipotesi delittuosa (43), quanto nell’iter argomentativo seguito nella motivazione. Distaccandosi dalla concezione meramente logico-formale del giudizio di uguaglianza, la Corte ha infatti compiuto una « valutazione di merito in chiave costituzionale del rango dei beni penalmente protetti » (44), sulla scia di quell’indirizzo giurisprudenziale, delineatosi su terreni diversi da quello del diritto penale, che ha allargato la base del sindacato della ragionevolezza, richiedendo anche un bilanciamento e una valutazione complessiva degli interessi contrapposti (45). In questo senso, il controllo di ragionevolezza diventa controllo della giustizia delle leggi (46): il concetto di eguaglianza è di per sé avalutativo — neutrale rispetto a qualunque sistema di valori — mentre il giudizio di ragionevolezza, in forza del quale un dato trattamento si può definire giustificato ovvero ingiustificato, richiede un raffronto con un « ordine superiore di valori che costituisce il parametro per la valutazione » (47). 4.1.1. Viene in considerazione, sotto quest’ultimo profilo, l’ipotesi esaminata nella sentenza n. 26/79, relativa all’equiparazione quoad poenam, da parte dell’art. 186 c.p.m.p., dell’omicidio tentato del superiore con la corrispondente ipotesi di omicidio consumato (48). Il caso sottoposto al vaglio della Corte poteva, senz’altro, essere inquadrato nel gruppo di decisioni esaminate in precedenza: si (42) Così PIZZORUSSO, Le norme, cit., p. 206. Sull’atteggiamento di self-restraint tenuto dalla Corte in materia penale cfr. BARILE, Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Il principio di ragionevolezza, cit., pp. 31-32. (43) Come visto (cfr. supra par. 3.2.), la precedente decisione ablativa (sent. n. 218/74), aveva per oggetto, infatti, un’ipotesi contravvenzionale. (44) Così ROSSETTI, Controllo di ragionevolezza, cit., p. 207. (45) Cfr., sul punto, PALADIN, Esiste un « principio di ragionevolezza » nella giurisprudenza costituzionale?, in Il principio di ragionevolezza, cit., pp. 163-164; CONSO, La giustizia costituzionale nel 1990 (conferenza stampa del presidente della Corte costituzionale), in Foro it., V, c. 158. (46) Cfr. PALADIN, op. cit., p. 163. (47) ROSSANO, « Ragionevolezza » e fattispecie di eguaglianza, cit., p. 171. (48) La Corte, ai sensi dell’art. 27 l. n. 87 del 1953, ha esteso la dichiarazione di incostituzionalità ai delitti di omicidio preterintenzionale del superiore e di lesioni personali gravi o gravissime in danno del superiore ufficiale, previste dall’art. 186 c.p.m.p., rispettivamente al 1o e al 2o comma, per i quali era pure comminata la pena dell’ergastolo.
— 146 — trattava, in effetti, della irragionevole parificazione edittale di fatti diversi (49). Peraltro, la Corte, ha alzato il tiro: dopo aver enucleato i diversissimi beni giuridici protetti dalla norma censurata (la vita e l’integrità fisica del superiore gerarchico da un lato, la disciplina militare dall’altro), ha sindacato, e ritenuto illegittima, la scelta operata dal legislatore, alla luce del diversissimo rango dei beni tutelati. Questo il cuore della sentenza: « nel bilanciare i due tipi di beni (...) — afferma la Corte — il legislatore ha operato uno stravolgimento dell’ordine dei valori messi in gioco: anteponendo la disciplina militare in tempo di pace, intesa in senso riduttivo di obbedienza e di rispetto dell’inferiore verso il superiore, a quel bene supremo dell’ordinamento costituzionale e penale, premessa naturale di qualsiasi altra situazione soggettiva giuridicamente protetta, che è il diritto alla vita ».
4.2. Al di là di un richiamo « di stile » alla propria costante giurisprudenza (50), ciò che conta è che, in questa decisione, la Corte ha effettuato un controllo sulla misura della pena valutando il rango costituzionale degli interessi tutelati: andando cioè a verificare se il giudizio effettuato dal legislatore fosse conforme alla scala di valori emergente dalla Costituzione. In altri termini, ha detto la Corte: il legislatore ordinario è libero di decidere se tutelare o meno un certo bene con la sanzione penale (51), ma nella quantificazione della pena non può ribaltare la gerarchia dei valori desumibile dalla Costituzione. Emerge così chiaramente come, sotto questo nuovo profilo, il sindacato della Corte sia più penetrante rispetto a quello, analizzato nelle decisioni sopra esposte, del controllo effettuato alla luce di una visione della ragionevolezza come connotato logico-formale, attraverso la ricerca di coerenze (o incoerenze) interne ad ogni singola norma; ovvero andando alla ricerca — e in realtà trovando sempre — di un elemento di differenziazione — primo fra tutti la diversità di bene giuridico — tale da giustificare la disparità di trattamento riservato dalle diverse norme poste a confronto (52). (49) Cfr. supra par. 3.2. (50) Riaffermata nella sentenza n. 72/80, in Giur. cost., 1982, p. 672. La Corte, chiamata a giudicare della ragionevolezza del diverso trattamento sanzionatorio del reato di insubordinazione con violenza o con minaccia e ingiuria, punito più severamente se avviene nei confronti di superiore ufficiale rispetto al superiore non ufficiale, ha affermato che « pur non potendosi disconoscere che il regime sospettato di incostituzionalità sia per più aspetti opinabile, devesi ammettere che la scelta (...) risponde ad uno scopo pur sempre operante nell’ambito della discrezionalità ». (51) La Costituzione non prevede, difatti, alcun obbligo di criminalizzazione, salvo il caso previsto dall’art. 13 comma 4o: « è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà »; sulla « forza » di quest’obbligo espresso di incriminazione nei confronti del legislatore ordinario, cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., pp. 132-135. (52) Nello stesso senso PAPA, Considerazioni, cit., p. 742. In termini critici, invece, GRASSO, Questioni costituzionali in tema di diritto penale militare, in Giur. cost., 1979, I, p. 479.
— 147 — 4.3. La via inaugurata con la decisione in parola rende invece possibile, come si è anticipato, un confronto tra norme sotto il profilo del diverso rango dei beni tutelati. Il passo successivo porta a verificare la gerarchia di tutti i beni in gioco; la prospettiva cioè si allarga, abbracciando non solo i beni tutelati dalla norma incriminatrice (come è avvenuto nella sentenza n. 26/79), ma anche il primario bene della libertà personale — dichiarato inviolabile dall’art. 13 Cost. — sul quale va a incidere l’« arma a doppio taglio » della sanzione penale, tutela di beni giuridici attuata attraverso la lesione di beni giuridici (53). In tal modo, si apre la strada per sindacare il quantum di pena qualora risulti eccessivamente sproporzionato rispetto al rango costituzionale dei beni — di tutti i beni — chiamati in causa dal fatto di reato (54). 4.3.1. Un simile controllo effettuato (anche) alla stregua del sacrificio della libertà personale è stato, di recente, compiuto dalla Corte nella sentenza n. 341/94 (55). In particolare, la Corte ha, tra l’altro, censurato l’eccessiva severità del minimo edittale previsto dall’art. 341 c.p. in quanto « frutto di un bilanciamento ormai manifestamente irragionevole tra tutela dell’onore e del prestigio del pubblico ufficiale (e del buon andamento dell’amministrazione) anche nei casi di minima entità, e quello della libertà personale del soggetto agente ». È interessante inoltre notare che la Corte, collocandosi dall’angolo visuale del rango dei beni in discussione, ha incluso nel suo esame anche i beni tutelati dalle norme che reprimono rispettivamente l’oltraggio e l’ipotesi (affine) dell’ingiuria, raffrontati con i beni sacrificati dalla pena comminata per l’oltraggio e per l’ingiuria. « La plurioffensività del reato di oltraggio — ha affermato la Corte — rende certamente ragionevole un trattamento sanzionatorio più grave di quello riservato all’ingiuria (...). Ciò non toglie però che nei casi più lievi, il prestigio e il buon andamento della pubblica amministrazione, scalfiti da ben altri comportamenti, appaiono colpiti in modo così irrisorio da non giustificare che la pena minima debba necessariamente essere dodici volte superiore a quella prevista per il reato di ingiuria ». Si noti, infine, come la Corte, tra le argomentazioni usate per fondare il giudizio di illegittimità, ha fatto riferimento al trattamento sanzionatorio previsto per l’oltraggio in ordinamenti affini al nostro (« in altri Paesi europei di democrazia matura non solo non esistono, per le ipotesi corrispondenti, pene così severe, ma è quasi sempre ignorato il reato di oltraggio »), nonché alla convinzione, ormai diffusa nella coscienza sociale, della palese incongruenza della previsione sanzionatoria, convinzione che, secondo la Corte, si desume « dall’atteggiamento dei giudici di (53) Così VON LISTZ, La teoria dello scopo nel diritto penale, trad. it., 1962, p. 46. (54) È la tesi sostenuta da BRICOLA, Teoria generale del reato, cit.; sostiene l’A. che « la sproporzione tra misura della sanzione penale e valore tutelato dipende, oltre che da un giudizio quasi inevitabile di raffronto con altri beni costituzionalmente rilevanti e tutelati da altre norme penali, altresì e principalmente dal rapporto di gerarchia (e dall’entità di esso) intercorrente tra bene tutelato e libertà personale sacrificata dalla sanzione penale e quindi non solo da un giudizio estrinseco alla norma penale ma anche un giudizio interno ad essa » (p. 19, nota 9). (55) Per ulteriori spunti di interesse contenuti nella sentenza n. 341/94, cit., specie in riferimento al controllo della pena ai sensi dell’art. 27 comma 3o Cost., cfr. infra par. 6.
— 148 — merito che (...) hanno continuato ad avvertire il disagio di essere tenuti a dare risposte sanzionatorie manifestamente eccessive, tanto da continuare a investire questa Corte di ripetute questioni di costituzionalità ».
4.4. In breve: con l’interpretazione qui caldeggiata, valorizzata nelle sentenze nn. 26/79 e 341/94, si arricchisce senz’altro il sindacato della misura della pena, in quanto il canone della ragionevolezza si inquadra e trae linfa dall’intero quadro costituzionale. Si tratta, a ben vedere, di un giudizio di ragionevolezza, in cui la Corte è chiamata a valutare la correttezza a livello costituzionale del bilanciamento dei beni in gioco compiuto dal legislatore, attraverso una duplice, autonoma valutazione così sintetizzabile: — confronto tra la rilevanza costituzionale del bene protetto dalla norma incriminatrice e la libertà personale; — confronto tra la pena prevista dalla norma censurata e quella comminata per reati simili o affini in considerazione del rispettivo rango costituzionale dei beni tutelati, anche alla luce della valutazione sociale dei beni e del confronto con le scelte operate in ordinamenti affini al nostro. Il giudizio di ragionevolezza, quindi, costituisce un criterio di giudizio che assume un valore autonomo e più generale rispetto al principio di eguaglianza, e viene impiegato dalla Corte come parametro di controllo non più collegato all’art. 3 comma 1o Cost. (56), ma anche ad altri principi costituzionali, secondo una valutazione più ampia, comprensiva di tutti gli interessi coinvolti nelle scelte punitive del legislatore. 5. Il controllo ex art. 25 comma 2o Cost.: il principio di precisione (o di determinatezza) e l’ampiezza della cornice edittale. — 5.1. Un’altra norma che limita la fissazione legislativa dei limiti edittali è l’art. 25 comma 2o Cost. che, come noto, costituzionalizza il principio di legalità in materia penale e dal quale discende, tra l’altro, l’obbligo per il legislatore di formulare con precisione la norma penale, dal lato della sanzione non meno che dal lato del precetto (57). Un impulso deciso ad ampliare, in questa direzione, il controllo di costituzionalità della misura della pena lo ha dato la sentenza n. (56) Cfr. CHELI, Il giudice delle leggi, cit., p. 79. (57) Sul significato del principio di legalità in materia penale e, in particolare, sulla portata del principio di determinatezza cfr. BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, 1965, p. 349 s., nonché Commento all’art. 25 2o e 3o comma Cost., in Commentario alla Costituzione, a cura di BRANCA, 1981, p. 268; PALAZZO, Il principio di determinatezza nel diritto penale, 1979; RONCO, Il principio di tipicità della fattispecie, 1979; LICCI, Ragionevolezza e significatività come parametri della norma penale, 1989; DOLCINI, Note sui profili costituzionali della commisurazione della pena, in questa Rivista, 1974, p. 338 s.; ROMANO, Commentario, cit., p. 29 s.
— 149 — 299/92 (58), che ha censurato l’eccessiva ampiezza dello spazio edittale dell’art. 122 c.p.m.p. utilizzando, come parametro, proprio l’art. 25 comma 2o Cost. Il caso sottoposto alla Corte concerneva il trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 122 c.p.m.p., che comminava la reclusione da due a ventiquattro anni per una figura speciale di violata consegna (59). Nella motivazione, la Corte ha dapprima ribadito il proprio insegnamento: cioè, piena legittimità costituzionale di previsioni edittali che oscillano da un minimo a un massimo, essendo aperta, — anzi doverosa — l’opera di « individualizzare » la pena da parte del giudice secondo i criteri indicati dall’art. 133 c.p. Tuttavia, per la prima volta, si è messo in evidenza che dal precetto dell’art. 25 comma 2o Cost. discende nei confronti del legislatore un vincolo insuperabile nell’individuazione della cornice della pena: urtano con il principio di legalità non solo le previsioni edittali con un massimo di pena indeterminato, ma anche quelle che, per l’eccessiva latitudine tra minimo e massimo, lasciano al giudice uno spazio, non di discrezionalità, ma di vero e proprio arbitrio punitivo. La Corte ha infatti sottolineato che il rispetto dell’art. 25 comma 2o richiede che « l’ampiezza del divario tra il minimo e il massimo della pena non ecceda il margine di elasticità necessario a consentire l’individualizzazione della pena (...) e che manifestamente risulti non correlato alla variabilità delle fattispecie concrete e delle tipologie soggettive rapportabili alla fattispecie astratta »; diversamente, continua la Corte, « la predeterminazione legislativa della misura della pena diverrebbe soltanto apparente ed il potere conferito al giudice si trasformerebbe da potere discrezionale in potere arbitrario ».
5.2. Il principio enunciato dalla Corte si lascia così riformulare. La ratio garantista dell’art. 25 comma 2o Cost., che tende a prevenire possibili abusi e/o arbitri (anche) da parte del potere giudiziario, impone la fissazione dei limiti edittali che, intanto può soddisfare il principio della riserva di legge, in quanto non comporti un’escursione così ampia tra « minimo » e « massimo » da tradursi in una completa delega al giudice della quantificazione della sanzione (60): sarebbe infatti il giudice — e non il legislatore — a individuare, caso per caso, il reale disvalore della condotta punita (61). All’organo giudicante è sì riconosciuto un potere discrezionale nella commisurazione della pena, ma tale potere-dovere deve essere esercitato all’interno di una scelta normativa compiuta dal legislatore, e (58) Cit., p. 1468, con nota di GROSSO, Illegittimità costituzionale delle pene eccessivamente discrezionali, cit. (59) L’art. 122 c.p.m.p. punisce, per il solo fatto della violata consegna, il militare che, essendo preposto di guardia a cosa determinata, la sottrae, distrae, devasta, distrugge, sopprime, disperde o deteriora ovvero la rende, in tutto o in parte, inservibile; la norma indica solo il minimo edittale — 2 anni di reclusione —, mentre il massimo risulta determinato in 24 anni, ai sensi dell’art. 26 c.p.m.p. (60) In senso conforme, LICCI, Ragionevolezza, cit., p. 153. (61) Cfr. LICCI, Ragionevolezza, cit., pp. 154-162.
— 150 — resa esplicita attraverso la fissazione di uno spazio edittale, dal quale risulti chiaramente la gravità astratta del fatto previsto come reato. Poiché — è stato giustamente affermato — il diritto penale « lavora con tipi e pensa per tipi » (62), la norma incriminatrice « deve indicare non solo le diverse tipologie aggressive rilevanti (...) ma anche esprimere la differente significatività delle varie condotte attraverso una risposta sanzionatoria che sia già in astratto diversificata » (63). Si tratta, d’altra parte, di affermazioni tanto più rilevanti quando la norma accomuni più condotte che, lungi dall’esprimere un contenuto di disvalore unitario, siano tra loro eterogenee. In ipotesi del genere, è infatti affidato all’interprete il compito di diversificare le une dalle altre, sulla base di un giudizio di maggiore o minore gravità che sarà lo stesso interprete a dover formulare. Ma se è il giudice a stabilire il grado di disvalore da attribuire alle singole condotte, si confonde il livello normativo della quantificazione del disvalore del fatto (che è compito del legislatore) con quello della commisurazione della pena (64); viceversa, è la norma legislativa che deve indicare chiaramente il giudizio espresso dall’ordinamento in relazione al fatto e, dunque, l’ambito all’interno del quale può correttamente esplicarsi la discrezionalità del giudice. Del resto, un eccessivo divario dello spazio edittale frustra la finalità di orientamento che deve svolgere la norma penale: neppure il cittadino sarebbe in grado di cogliere il significato di disvalore del proprio comportamento perché la norma, peccando di imprecisione, non gli offrirà alcuna guida (65). 5.3. L’indirizzo aperto dalla sentenza n. 299/92 schiude, dunque, nuove prospettive al sindacato di costituzionalità del quantum di pena. Il controllo viene effettuato non più solo alla stregua della comparazione con i livelli edittali di fattispecie omologhe o attraverso la verifica della corrispondenza con la scala di valori recepita dalla Costituzione. È già il principio di legalità della pena, sancito dell’art. 25 comma 2o Cost., ad incidere direttamente sulla previsione edittale, senza la necessità di un tertium comparationis. Quel principio postula infatti l’esigenza che la scelta punitiva venga compiuta dal legislatore, e venga compiuta in un modo sufficientemente preciso, stabilendo un divario non spropositato tra il minimo e il massimo, per evitare al cittadino gli inevitabili abusi da parte del potere giudiziario, essendo, in ultima analisi, il giudice a determinare — come « legislatore nel caso concreto » — il grado di disvalore del fatto. (62) La frase di SAUER è citata in MARINUCCI, Consuetudine (dir. pen.), in Enc. dir., vol. IX, 1961, p. 504. (63) Così PAPA, La questione di costituzionalità, cit., p. 41. (64) Cfr. MAIZZI, Limiti edittali e principio di legalità: a proposito dell’illegittimità costituzionale dell’art. 122 c.p.m.p., in Giur. cost., 1992, p. 4434. (65) Cfr. ROMANO, Commentario, cit., p. 43.
— 151 — Il principio di precisione legislativa pone al legislatore, in ultima analisi, un vincolo nel dosaggio della pena: esige una precisione della scelta punitiva che si traduca nella fissazione di limiti edittali « distanziati », consentendo al giudice il margine di discrezionalità necessario per « personalizzare » la pena, ma non così distanziati da aprire la porta all’arbitrio giudiziario. 6. Il controllo ex art. 27 comma 3o Cost.: il finalismo rieducativo della pena e il principio di proporzione. — 6.1. Il rispetto, da parte del legislatore, del principio di precisione legislativa nella fissazione dei limiti edittali, non garantisce la piena conformità della pena minacciata ai canoni costituzionali, tra i quali va innanzitutto annoverato quello della tendenziale finalità rieducativa della sanzione. Stabilendo che le pene « devono tendere alla rieducazione del condannato », l’art. 27 comma 3o Cost. fornisce infatti un’indicazione univoca della finalità ultima della sanzione penale: una finalità che va tenuta presente (anche) nel momento in cui il legislatore fissa i limiti edittali. Si tratta però di chiarire in che modo quel precetto possa costituire un vincolo per l’attività legislativa nella quantificazione astratta della pena. A ben vedere, il rispetto del parametro in parola richiede che vi sia una proporzione tra disvalore del fatto e quantità di sanzione già nella determinazione della comminatoria edittale, per non pregiudicare « in partenza » il conseguimento della finalità rieducativa. 6.2. È noto che il principio di proporzionalità permea tutti i settori del diritto pubblico, imponendo al legislatore di perseguire le proprie finalità attraverso la scelta di strumenti che siano congrui e razionali rispetto agli scopi ed ai valori dell’ordinamento (66). Sul terreno del diritto penale, in particolare il principio di proporzionalità (67) è notoriamente un’idea cardine che risale all’illuminismo liberale; Beccaria lo enunciava dicendo che: « non solamente è interesse comune che non si commettano delitti, ma che siano più rari a proporzione del male che arrecano alla società. Dunque più forti debbono essere gli ostacoli che risospingono gli uomini dai delitti a misura che sono contrari al bene pubblico, ed a misura che gli portano ai delitti. Dunque vi deve essere una proporzione tra i delitti e le pene » (68). Orbene, come è stato esattamente osservato, il principio di propor(66) Sul punto, cfr. DOLCINI, Sanzione penale o sanzione amministrativa: problemi di scienza della legislazione, in Diritto penale in trasformazione, cit., pp. 387-388 e bibliografia ivi citata. Ulteriori approfondimenti, con riferimento alla giurisprudenza e alla dottrina tedesche, sono analizzati al par. 8.2. (67) Sul significato del principio di proporzione nel diritto penale cfr. ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, 1983, p. 165 s. (68) Dei delitti e delle pene, Livorno, 1764, nell’edizione a cura di F. VENTURI, Torino, 1973, p. 19.
— 152 — zione « opera a vari livelli, fungendo da metro o indice dei modi di rilevanza dei diversi fattori che influiscono sull’an e il quantum della punibilità » (69): fissa cioè un limite generale alle scelte di politica criminale, obbligando il legislatore a bilanciare i possibili effetti « positivi » dell’incriminazione con i sacrifici che, attraverso la pena, vengono a gravare sui diritti fondamentali dell’individuo (70). Pur non essendo previsto in maniera esplicita da alcuna norma, il principio di proporzione può ritenersi costituzionalizzato per implicazione logica (71), trovando fondamento normativo in un ventaglio di precetti che, come si è visto in precedenza, si riferiscono in generale al dosaggio della sanzione penale (artt. 3 comma 1o, 13, 25 comma 2o Cost.), e tra cui spicca, in particolare, l’art. 27 comma 3o Cost. 6.3. Che l’art. 27 comma 3o Cost. possa in qualche modo vincolare il dosaggio della pena è, in realtà, una « scoperta » recente della Corte. Si è trattato di un approdo non facile, epilogo di un’evoluzione giurisprudenziale assai interessante (72). Allorquando i giudici di merito hanno incominciato a sollevare questioni di incostituzionalità per sanzioni che, per la loro severità, erano ritenute diseducative, la Corte ha sistematicamente disatteso tali censure, argomentando — all’unisono con la dottrina a quel tempo prevalente (73) — nel senso che l’efficacia rieducativa dipende dal trattamento penitenziario e non dal tipo, o dalla quantità di pena; quest’ultimo profilo, in particolare, non poteva formare oggetto del sindacato di costituzionalità — la Corte lo ha ribadito più volte (74) — trattandosi di materia riservata alla discrezionalità legislativa. 6.3.1. In alcune decisioni, peraltro, la Corte ha riconosciuto l’implicita costituzionalizzazione del principio di proporzione, facendo leva sull’art. 3 comma 1o Cost. (69) Così ANGIONI, op. cit., pp. 165-166; sul rispetto del principio di proporzione nella determinazione delle comminatorie edittali cfr. PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in questa Rivista, 1992, pp. 443-452. (70) Cfr. DOLCINI, op. ult. cit., p. 388 e, più in generale, NAUCKE, Prevenzione generale e diritti fondamentali della persona, in AA.VV., Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati, a cura di ROMANO-STELLA, 1980, p. 49 s. (71) ANGIONI, op. cit., p. 165. Analogamente FIORELLA, Reato in generale, in Enc. dir., XXXVIII, 1987, p. 793. (72) Per un’analisi dei casi in cui la Corte ha valorizzato (o mancato di valorizzare) il principio rieducativo cfr. FIANDACA, Commento all’art. 27 comma 3o, Cost., in Commentario alla Costituzione, a cura di BRANCA-PIZZORUSSO, 1991, p. 330 s. (73) Per una rassegna delle posizioni dottrinali a proposito dell’art. 27 comma 3o a partire dagli anni ’50, cfr. FIANDACA, op. ult. cit., p. 228 s. (74) Cfr., ex plurimis, le decisioni n.: 22/71, 18/73, 143/74, 119/75, 25/79, 104/82, 137/83, 237/84, 102/85, 183/86, 639/87, 1023/88, 127/89.
— 153 — Nella sentenza n. 50/80 (75) la Corte ha espressamente affermato « l’uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva, ‘‘proporzione’’ della pena rispetto alle ‘‘personali’’ responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguono, svolgendo una funzione che è essenzialmente di giustizia e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite alla potestà punitiva statuale ». Nella medesima decisione, la Corte ha tuttavia posto un freno a questo tipo di controllo, precisando che « porre in discussione la generale ‘‘proporzionalità’’ fra tipo di illecito ed il livello sanzionatorio significherebbe sovrapporre altre valutazioni di merito a quella operata dal legislatore nell’ambito di una sua competenza esclusiva ». Nella sentenza n. 103/82 (76) la Corte ha avuto modo di ritornare sull’argomento, affermando che « il principio di uguaglianza, quale specifica applicazione della regola generale sancita nell’art. 3 Cost., esige che la pena sia proporzionata al fatto, di modo che il sistema sanzionatorio adempia, nel contempo, alla funzione di difesa sociale e a quella di tutela delle posizioni individuali », fermo restando che, sotto questo profilo, le valutazioni discrezionali del legislatore sono censurabili « solo nei casi in cui non è rispettato il limite della ragionevolezza ».
Se a questa impostazione della Corte va riconosciuto il pregio di aver rinvenuto un fondamento costituzionale al principio di proporzione, tuttavia il richiamo al (solo) art. 3 comma 1o Cost. non appare pienamente condivisibile: mentre il principio di eguaglianza, attraverso l’impiego del tertium comparationis, controlla la razionalità della legge rispetto al suo scopo, il principio di proporzione, stabilendo una relazione tra mezzi e scopi, verifica invece la razionalità della norma rispetto ai valori (77). Pur risolvendosi in un giudizio di bilanciamento (78), lo scrutinio di costituzionalità della misura della pena attraverso il principio di proporzione non può tuttavia prescindere dal rispetto degli scopi che la Costituzione assegna alla sanzione penale. 6.3.2. Verso la fine degli anni ’80 questo consolidato orientamento, teso a circoscrivere la portata dell’art. 27 comma 3o Cost. alla sola fase esecutiva, è stato rovesciato. Sulla scia della « storica » decisione n. 364/88 (79) — che ha equiparato la responsabilità « personale » alla responsabilità « colpevole » facendo leva (anche) sulla funzione rieducativa (75) In Giur. cost., 1980, p. 352 s. (76) In Giur. cost., 1982, p. 1013. (77) Cfr. LUTHER, Ragionevolezza e Verhältnismaßigkeit nella giurisprudenza costituzionale tedesca, in Dir. e soc., 1993, p. 326. (78) Cfr. supra par. 4.3 e 4.4. (79) Si tratta della nota sentenza con cui è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 5 c.p. nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile, pubblicata in Foro it., 1988, I, 1385; sul punto si vedano i commenti di PULITANÒ, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1988, p. 686 s., e di FIANDACA, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge penale: « prima lettura » della sentenza n. 364/88, in Foro it., 1988, I, c. 1385.
— 154 — della pena (80) —, la sentenza n. 409/89 (81) ha dichiarato l’illegittimità, per contrasto con l’art. 3 comma 1o Cost., dell’art. 8 comma 2o l. n. 772 del 1972 nella parte in cui puniva il militare che rifiuta il servizio militare adducendo motivi di coscienza con la reclusione da 2 a 4 anni: una pena ritenuta dalla Corte illegittimamente sproporzionata rispetto a quella (da 6 mesi a 2 anni) comminata nella similare fattispecie di mancanza alla chiamata prevista dall’art. 151 c.p.m.p. — che punisce il militare che rifiuta il servizio militare senza motivo alcuno o per motivi futili. Vale la pena di sottolineare che la Corte, per la prima volta, ha compiutamente formulato il principio di proporzione, stabilendo che il suo rispetto, nel diritto penale, comporta che si neghi « la legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all’individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla società sproporzionatamente maggiori ai vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni ». Se, ancora una volta, la norma di riferimento per la dichiarazione di incostituzionalità è stata rinvenuta nell’art. 3 comma 1o Cost., tuttavia la sentenza n. 409/89 presenta dei profili di novità in quanto, sia pure incidentalmente, la Corte ha stabilito che la finalità rieducativa della pena viene in considerazione, oltre che nella fase della commisurazione e della esecuzione, anche nello stadio della minaccia legislativa. 6.3.3. A questa prima apertura ha fatto seguito la sentenza n. 313/90 (82). Recependo le argomentazioni della dottrina più sensibile (83), la Corte ha nuovamente enunciato il principio secondo il quale la finalità rieducativa opera già a livello di previsione legislativa, costituendo il fine primario — anche se non esclusivo — della pena (84), e ne ha tratto le conseguenze: quella finalità deve orientare e plasmare la scelta (80) Sul rapporto tra finalità rieducativa e struttura del fatto di reato cfr. FIANDACA, Principio di colpevolezza, cit., c. 1390. (81) In Giur. cost., 1989, p. 1906 s. (82) La Corte ha dichiarato illegittimo l’art. 444 comma 2o c.p.p. del 1989 nella parte in cui non prevede che, ai fini e nei limiti di cui all’art. 27 comma 3o Cost., il giudice possa valutare la congruità della pena indicata dalle parti, rigettando la richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione; la sentenza è pubblicata in Foro it., 1990, I, c. 2385 s., con nota di FIANDACA, Pena « patteggiata » e principio rieducativo: un arduo compromesso tra logica di parte e controllo giudiziale. Si vedano inoltre i commenti di DOLCINI, Razionalità nella commisurazione della pena: un obiettivo ancora attuale?, in questa Rivista, 1990, pp. 810-814, e di MONACO-PALIERO, Variazioni in tema di « crisi della sanzione »: la diaspora del « sistema commisurativo », ivi, 1994, p. 421 s. (83) Tra i primi Autori a sostenere che la finalità rieducativa deve presiedere anche al momento della previsione normativa cfr. NUVOLONE, Il sistema del diritto penale, 1982, p. 58. (84) Sottolinea questo mutato atteggiamento della Corte nei confronti delle finalità assegnate alla pena DOLCINI, op. ult. cit., p. 811.
— 155 — del tipo e dell’entità della sanzione (85). « Che la pena debba ‘‘tendere’’ a rieducare, — ha sottolineato infatti la Corte — lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue ». Conseguentemente, il precetto dell’art. 27 comma 3o Cost. — afferma la Corte — « vale tanto per il legislatore quanto per i giudici ». Un significativo riconoscimento dell’operatività del principio di proporzione a livello di previsione sanzionatoria, come espressione della funzione rieducativa della pena, è contenuto nella sentenza n. 343/93. Vincendo le abituali remore, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 8 comma 3o l. n. 772 del 1972 (86) in connessione con l’art. 148 c.p.m.p. nella parte in cui non prevede l’esonero dalla prestazione del servizio militare di leva a favore di coloro che, avendo rifiutato totalmente in tempo di pace la prestazione del servizio stesso dopo aver addotti motivi diversi da quelli indicati nell’art. 1 l. n. 772 del 1972 o senza aver addotto alcun motivo, abbiano espiato per quel comportamento la pena della reclusione in misura complessivamente non inferiore a quella del servizio militare di leva. L’elemento di novità risiede nel fatto che la Corte ha utilizzato come parametro costituzionale il combinato degli artt. 3 e — si badi — 27 comma 3o Cost., affermando che « la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale (...) produce (. ..) una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall’art. 27, comma 3o, Cost., che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione ». Un simile indirizzo è stato richiamato e confermato nella recente sentenza n. 341/94; la Corte, dopo aver più volte rigettato un’analoga eccezione (87), ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 341 c.p. nella parte in cui prevede come minimo edittale la pena di mesi sei di reclusione; anche in questo caso, il parametro impiegato per la dichiarazione di illegittimità deriva dal combinato disposto degli artt. 3 e 27 comma 3o Cost. Nella stessa direzione si colloca la sentenza n. 168/94 (88) con cui la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità per contrasto con l’art. 27 comma 3o Cost. degli artt. 17 e 22 c.p. nella parte in cui non escludono l’applicazione della pena dell’ergastolo al minore imputabile.
6.4.
Oltre ad orientare il legislatore nelle scelte di incriminazione, il
(85) Su questa operatività del principio rieducativo cfr. FIANDACA, Nota a sent. n. 341/94, in Foro it., 1994, I, c. 2586. (86) Pubblicata in Giur. cost., 1993, p. 2668 s. (87) Cfr. le sentenze n. 109/69, 165/72, 65/74, 100/77, 51/80 e, di recente le ordinanze n. 127/89, in Giur. cost., 1989, p. 621 s. e n. 323/88, ivi, 1988, p. 1335 s., in cui la Corte ha ribadito il proprio orientamento secondo cui la finalità rieducativa va riferita alla (sola) fase di esecuzione della pena. (88) In Cass. pen., 1994, p. 2382.
— 156 — principio di proporzione può dunque, a nostro avviso, essere utilmente impiegato nel sindacato di costituzionalità della pena attraverso il parametro dell’art. 27 comma 3o Cost. In particolare, ai fini che qui interessano (89), si può affermare che il rispetto del principio costituzionale in parola postula un rapporto di misura tra la (quantità di) pena comminata dal legislatore e il conseguimento della finalità rieducativa (90), « non potendosi perseguire alcuna azione rieducativa mediante un trattamento sanzionatorio sproporzionato alla gravità del fatto » (91). Appare utile, a questo punto, sgombrare il campo da possibili fraintendimenti. È senz’altro vero che l’art. 27 comma 3o Cost. non sembra offrire un parametro che consente controlli tecnicamente rigorosi sulla misura della pena (92): il termine « rieducazione » è equivoco e può assumere significati diversi a seconda delle vedute politico-criminali dei singoli interpreti (93). Non offrendo un criterio certo circa la corrispondenza della misura della sanzione con il disvalore complessivo del fatto, appartiene, in ultima analisi, alla discrezionalità legislativa la determinazione del quantum di pena che si può ritenere congruo per il conseguimento della finalità rieducativa. Non è tuttavia nemmeno vero che questa finalità costituisca solo un criterio di politica criminale: il sindacato ex art. 27 comma 3o Cost. può infatti portare a una dichiarazione di illegittimità costituzionale di quelle pene che, già a livello di previsione astratta, risultino manifestamente sproporzionate (cioè eccessive) rispetto al perseguimento della finalità rieducativa (94). Pur con questi limiti, è quindi da condividere il nuovo corso della Corte teso all’impiego, come parametro di riferimento nel controllo del dosaggio della sanzione, dei precetti costituzionali che si riferiscono espressamente alla finalità che la Costituzione assegna alla pena. (89) Una prospettiva interessante, che esula dalla presente trattazione, concerne le implicazioni del principio di proporzione nella determinazione dell’an e del quantum di pena in relazione alla significatività del bene oggetto della tutela penalistica, al grado di anticipazione dell’offesa, al livello di concretezza dei beni giuridici, alla gravità dell’offesa, argomenti ampiamente trattati in ANGIONI, op. cit., p. 163 s.; nella manualistica cfr., di recente, MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., pp. 245-246. Sul rapporto tra il principio di proporzione e la commisurazione (in concreto) della pena cfr. EUSEBI, La « nuova » retribuzione, in questa Rivista, 1983, pp. 102-106. (90) Nello stesso senso DOLCINI, Sanzione penale o sanzione amministrativa, cit., p. 392. (91) Così la circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri del 19 dicembre 1983 elaborata da una commissione ministeriale presieduta da PADOVANI, con la finalità di fissare « criteri orientativi per la scelta tra sanzioni penali e sanzioni amministrative », pubblicata in Leg. pen., 1984, p. 281 s. (92) Cfr. FIANDACA, Commento all’art. 27 comma 3o, cit., p. 338. (93) Cfr. DOLCINI, Commisurazione della pena, 1979, p. 95; FIANDACA, op. ult. cit., p. 227. (94) Nello stesso senso FIANDACA, Il « bene giuridico », cit., p. 149.
— 157 — 6.5. Conclusivamente: l’importanza — sia concettuale che pratica — riconosciuta dalla Corte all’art. 27 comma 3o Cost. sta nell’avere messo in luce come il controllo sulla quantità di pena non può prescindere dal perseguimento dello scopo (o degli scopi) che il legislatore deve perseguire con la minaccia della pena. Se da un lato, come ha puntualizzato la Corte nella sentenza n. 330/90, i caratteri afflittivi e retributivi della pena semplicemente « riflettono quelle condizioni minime, senza le quali la pena cesserebbe di essere tale » — con ciò negando che alla retribuzione spetti la dignità di fine autonomo della pena (95) —, dall’altro le esigenze di prevenzione generale e di difesa sociale « sono valori che hanno fondamento costituzionale ma non tale da autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa ». Pertanto, se la finalità rieducativa è, per così dire, impressa nel codice genetico della sanzione penale, caratterizzandola già nel momento della previsione edittale, tanto da poter essere considerata il fine primario della pena, l’art. 27 comma 3o Cost. può fungere da parametro nel controllo della dosimetria edittale, ponendo uno sbarramento a quelle sanzioni che appaiono in palese contrasto con il perseguimento di quella finalità. 7. Il controllo ex art. 27 comma 1o Cost.: il principio di colpevolezza e il limite della rimproverabilità soggettiva. — 7.1. Tra i parametri costituzionali che vengono in rilievo a proposito del sindacato sulla quantità di pena merita attenzione l’art. 27 comma 1o Cost., il quale, peraltro, sino ad ora non è stato mai impiegato fruttuosamente dalla Corte. Come è noto, dal precetto: « la responsabilità penale è personale » discende il principio nulla poena sine culpa, caposaldo del diritto penale moderno (96). Il principio di colpevolezza, sancito dall’art. 27 comma 1o Cost., implica infatti non solo il divieto della responsabilità penale per fatto altrui ma, più significativamente, il divieto dell’imputazione all’agente di fatti a lui non rimproverabili. La Corte, dopo un lungo cammino giurisprudenziale, con la « storica » sentenza n. 364/88 (97), seguita dalla n. 1085/88 (98), ha finalmente riconosciuto (95) Cfr. DOLCINI, Razionalità, cit., p. 81. (96) Sulla portata del principio di colpevolezza dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 364/88, cfr., da ultimo, MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., pp. 81 s. e 287 s.; ROMANO, Commentario, cit., p. 303 s., con ampi riferimenti bibliografici. (97) La sentenza n. 364/88, cit., è stata oggetto di numerosi commenti, tra cui: PULITANÒ, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, cit.; PETRONE, Il « nuovo » art. 5 c.p.: l’efficacia scusante dell’ignorantia iuris inevitabile e i suoi riflessi sulla teoria generale del reato, in Cass. pen., 1990, p. 697 s.; ALESSANDRI, Commento all’art. 27 comma 1o Cost., in Commentario della Costituzione a cura di BRANCA e PIZZORUSSO, 1991, p. 1 s.; FIANDACA, Principio di colpevolezza, cit. (98) La Corte ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 626 comma 1o n. 1 c.p. nella parte in cui non estende la disciplina ivi prevista alla mancata restituzione, dovuta a caso fortuito
— 158 — l’integrale costituzionalizzazione del principio di colpevolezza. Ciò implica che « il fatto imputato, perché sia legittimamente punibile, deve includere almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica » (sent. n. 364/88). È dunque « indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili e cioè anche soggettivamente disapprovati » (sent. n. 1085/88). È inoltre significativa la correlazione individuata dalla Corte tra il 1o e il 3o comma dell’art. 27 Cost. (99): « non avrebbe senso la ‘‘rieducazione’’ — ha osservato la Corte nella sentenza n. 364/88 — di chi, non essendo almeno ‘‘in colpa’’ (rispetto al fatto) non ha, certo, ‘‘bisogno’’ di essere rieducato ».
Se dunque la pena, per essere legittimamente minacciata e inflitta, presuppone la colpevolezza dell’agente, ne segue che la colpevolezza adempie ad una duplice funzione. In primo luogo, concorre a fondare la responsabilità penale: lo « Stato non punisce perché vi è un fatto colpevole, ma punisce, per proteggere un bene giuridico, se vi è un fatto colpevole » (100). Inoltre — ed è ciò che rileva ai nostri fini — la colpevolezza segna il limite del potere di intervento statuale in ordine alle conseguenze del rimprovero nei confronti del reo (101), in quanto l’intensità della reazione punitiva dello Stato deve essere contenuta nella misura del rimprovero colpevole (102): « al di là di tale misura — è stato esattamente osservato — il fondamento della sanzione non sarebbe più ‘‘personale’’, ma legato a considerazioni del tutto estranee al reo, come pretese di intimidazione generale » (103). o forza maggiore, della cosa sottratta; la sentenza n. 1085/88 è pubblicata in Cass. pen., 1989, p. 758 s., con nota di PISANI, Brevi note in tema di furto d’uso, e in questa Rivista 1990, p. 289 s. con nota di VENEZIANI, Furto d’uso e principio di colpevolezza; si vedano inoltre le considerazioni svolte da MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 98. Con riferimento alle conseguenze della sentenza sulla materia delle condizioni di punibilità, ANGIONI, Condizioni di punibilità e principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1989, p. 1440 s., nonché FIORE, Diritto penale, parte generale, I, 1993, p. 381 s. (99) In dottrina, tra i primi a collegare il principio di colpevolezza con la finalità rieducativa della pena cfr. PULITANÒ, voce Ignoranza della legge (dir. pen.), in Enc. dir., XX, 1970, p. 36; BRICOLA, Teoria generale, cit., p. 51 s. (100) Così ROMANO, Prevenzione generale e prospettive di riforma, in ROMANOSTELLA, Teoria e prassi, cit., 1980, p. 167. (101) Cfr. FIANDACA, Considerazioni su colpevolezza e prevenzione, in questa Rivista, 1987, p. 838. (102) Sulla funzione di tutela della libertà personale del singolo nei confronti della potestà punitiva dello Stato svolto dal principio di colpevolezza cfr., in particolare, i due saggi di ROXIN, Considerazioni di politica criminale sul principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1980, p. 369 s., e Sul problema del diritto penale della colpevolezza, ivi, 1984, p. 16 s. (103) Così PULITANÒ, Il principio di colpevolezza e il progetto di riforma penale, in Jus, 1974, p. 521.
— 159 — 7.2. Si può ben comprendere, quindi, come il principio di colpevolezza possa essere utilizzato nel controllo della cornice edittale. Sotto un primo profilo, contrastano ovviamente con il principio della responsabilità colpevole le sanzioni comminate per quegli illeciti in cui è irrilevante la presenza o meno del dolo o della colpa, vale a dire tutti i casi, ancora presenti all’interno nel nostro ordinamento penale, di responsabilità oggettiva (104). Ma l’operatività dell’art. 27 comma 1o Cost. sta anche a significare l’illegittimità di quelle previsioni edittali che già in astratto superano il limite della (misura della) colpevolezza (105). Anche in questo caso, si tratta di un giudizio di proporzione che si instaura tra il trattamento sanzionatorio e la gravità del fatto nei limiti segnati dalla colpevolezza: la previsione di una pena che risulti eccessiva rispetto al grado della colpevolezza produce nel reo « effetti desocializzanti » in quanto la sanzione, risultando sproporzionata, non viene sentita come « giusta », facendo così prevalere nell’agente un senso di ostilità nei confronti dell’ordinamento; al contempo la sanzione, se eccessiva, perde di credibilità nello stadio della minaccia poiché « l’aspirazione a guidare i meccanismi umani esige, come minimo, che il destinatario della minaccia possa riconoscere ed evitare la commissione dei fatti che la pena tendeva ad impedire » (106). Del resto, dal punto di vista della politica criminale, un livellamento delle sanzioni verso l’alto, superiore al grado di colpevolezza, disorienterebbe le coscienza dei destinatari delle norme, che non saprebbero più apprezzare il reale disvalore di fatti puniti con pene omogenee, e dunque verrebbe indebolito il significato di orientamento dell’agire umano su cui fa leva il diritto penale (107). Al proposito, già Beccaria con grande lucidità affermava che « se una pena uguale è destinata a due delitti che disugualmente offendono la società, gli uomini non troveranno un più forte ostacolo per commettere il maggior delitto, se con esso vi trovino unito un maggior vantaggio » (108). 7.3. Vi è infine un ulteriore profilo che merita di essere evidenziato. Nel delineare la cornice edittale, il legislatore deve tenere altresì conto del grado di colpevolezza dell’agente: a parità di bene giuridico (ad es., la (104) Per una rassegna dei casi di responsabilità « non personale » tuttora presenti nella legislazione penale italiana cfr., di recente, MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 84 s.; ROMANO, Commentario, cit., p. 395 s. (105) Nello stesso senso, PULITANÒ, op. ult. cit., p. 521; MARINUCCI, Politica criminale e riforma del diritto penale, in Jus, 1974, pp. 481-483; DOLCINI, Sanzione penale, cit., p. 392; ROMANO, Commentario, cit., p. 304. (106) Per questi rilievi MARINUCCI, Politica criminale, cit., p. 481; cfr. anche PULITANÒ, Politica criminale, cit., p. 23 e ROMANO, Prevenzione generale, cit., p. 158. (107) Sul punto, cfr. le considerazioni svolte da PULITANÒ, Politica criminale, cit., p. 23, nonché HART, Responsabilità e pena, 1968, trad. it. di JORI, 1981, p. 34 s. (108) Dei delitti e delle pene, cit., p. 60.
— 160 — vita), la determinazione del quantum di pena varierà (in senso decrescente) a seconda che il fatto sia commesso con dolo o con colpa (109). Lo impone il bisogno di proporzione tra pena e colpevolezza: esso esige infatti sensibili differenze sanzionatorie se differenti sono gli elementi soggettivi (dolo o colpa) (110). Quel principio non è espressione di un’esigenza retributiva della pena, bensì di quella giustizia distributiva della potestà punitiva statuale in rapporto alle fattispecie criminose (111), reclamata — anche — dalla finalità rieducativa della pena: sarebbe infatti diseducativa, e avvertita da tutti come ingiusta, una pena per l’omicidio colposo che fosse più grave o di egual peso o di un peso appena inferiore a quella minacciata a chi abbia intenzionalmente spento la vita umana. 7.4. Nonostante l’art. 27 comma 1o Cost. non sia stato fino ad ora mai utilizzato quale parametro di riferimento nel sindacato della misura della pena, una simile conclusione si impone, a nostro avviso, una volta riconosciuta la costituzionalizzazione del principio di colpevolezza. I principi — tutti i principi — hanno una forza espansiva illimitata (112), capace di orientare le scelte dell’interprete e del legislatore; e se è vero che il nostro diritto costituzionale è composto principalmente da principi, questi « forniscono i ‘‘punti di vista’’ costituzionali attraverso i quali guardare alla realtà » (113). Il principio di colpevolezza, pietra angolare del diritto penale costituzionalmente orientato, si traduce quindi in un criterio di controllo della dosimetria edittale; la sua piena e integrale attuazione impone pertanto al legislatore di non eccedere nella risposta sanzionatoria rispetto alla rimproverabilità soggettiva del fatto, di non sottoporre a pena quei fatti che sono privi di ogni legame « colpevole » con l’agente e di differenziare sensibilmente, a parità di bene giuridico, le conseguenze sanzionatorie in relazione al diverso disvalore soggettivo (dolo o colpa). 8. Spunti di diritto comparato: l’esperienza degli U.S.A. e della Germania. — Le conclusioni sopra delineate, tese alla valorizzazione del controllo della misura della pena (anche) attraverso l’angolatura del principio di proporzione — che, come visto, opera in diverse direzioni — trovano conferma nella giurisprudenza di Corti costituzionali di altri Paesi. Pur limitando il campo di indagine all’esperienza della Supreme Court degli (109) Sul rapporto di « più a meno » che sussiste, sul piano della colpevolezza, tra dolo e colpa cfr. MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa. Morte della « imputazione oggettiva dell’evento » e trasfigurazione nella colpevolezza?, in questa Rivista, 1991, spec. p. 26 e s.; FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, 1990, pp. 374-392. (110) Così ANGIONI, Contenuto e funzioni, cit., p. 214. (111) Cfr. PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio, cit., p. 443; nello stesso senso ROMANO, Commentario, cit., sub pre-art. 1, p. 16. (112) Sul rapporto tra principi e regole e sulla loro (diversa) operatività cfr. ZAGREBELSKY, Su tre aspetti della ragionevolezza, in Il principio di ragionevolezza, cit., p. 186 s. (113) Così ZAGREBELSKY, op. ult. cit., p. 189.
— 161 — U.S.A. e del Bundesverfassungsgericht della Repubblica tedesca, non è senza importanza la constatazione che, pur muovendo da presupposti teorici e normativi assai differenti, il punto di approdo delle due Corti sia pressoché coincidente: l’esigenza di proporzionalità tra reato e sanzione. 8.1. Nell’esperienza nordamericana (114) il canone costituzionale attraverso cui si attua il controllo sulla misura della pena si fonda sul dettato dell’VIII emendamento, che vieta al governo federale di imporre cruel and unusual punishment (115); tale divieto, peraltro, si estende anche ai crimini statali attraverso il XIV emendamento che contiene la due process clause. Come è stato osservato (116), il precetto dell’VIII emendamento opera a tre livelli: 1) delimita i mezzi con cui può essere inflitta la sanzione, 2) stabilisce taluni divieti di incriminazione (117), e, quel che maggiormente qui interessa, 3) limita la quantità di pena astrattamente prevista: contrastano con il precetto costituzionale le pene che, rispetto a un certo reato, risultano « eccessive, cioè del tutto sproporzionate rispetto al delitto commesso » (118). La tematica relativa alla misura della pena è stata inizialmente affrontata con riguardo alla legittimità della pena capitale. In Gregg vs. Georgia (119) la Suprema Corte ha ritenuto che la pena di morte, inflitta in un caso di omicidio, non è di per sé cruel, argomentando che: per questo tipo di reato, si tratta di una pena che vanta una lunga tradizione nei Paesi anglosassoni; è ritenuta appropriata e necessaria dalla maggioranza degli americani; è efficace sotto il profilo sia della retribuzione che della prevenzione generale. Il giudizio di legittimità espresso dalla Corte non era peraltro assoluto: caso per caso si doveva verificare la congruenza tra la pena capitale e il reato per il quale è comminata. E, difatti, poco dopo, trattando il caso Coker vs. Georgia (120), la Corte ha dichiarato l’illegittimità della pena di morte prevista per il delitto di violenza carnale sulla base di un giudizio comparativo dei beni in gioco — la libertà sessuale della vittima e la vita dell’aggressore —: « la pena di morte, che ‘‘è unica nella sua severità e irrevocabilità’’, è una pena ecces(114) Con riferimento al sistema costituzionale degli U.S.A, ricco di spunti interessanti è il saggio di PAPA, Considerazioni, cit., specialmente le pp. 745-758. (115) Va segnalato che le Costituzioni di diversi Stati riprendono a vario titolo il contenuto dell’VIII emendamento: 22 lo mutuano integralmente, 19 prescrivono il divieto di pene « crudeli » o « inusuali », 6 proibiscono le sole pene « crudeli ». (116) Cfr. LAFAVE-SCOTT JR., Criminal Law, second edition, 1986, p. 177. (117) Come, ad esempio, nel caso di uso personale di sostanze stupefacenti: cfr. Robinson vs. California, 370 U.S. 660, 1962. (118) Cfr. Weems vs. United States, 217 U.S. 104, 1910. (119) 428 U.S., 153, 1976. (120) 433 U.S., 584, 1977.
— 162 — siva per il violentatore, che, come tale, non toglie la vita umana ». Approfondendo quest’indirizzo, la Corte è giunta a negare la legittimità della pena di morte per il complice che abbia partecipato a un omicidio materialmente commesso da altri (121). Il sindacato della Corte sulla base dell’VIII emendamento non è peraltro limitato ai casi in cui è prevista la pena capitale: ha abbracciato anche i reati sanzionati con pena detentiva. In particolare, nella sentenza sul caso Salem vs. Helm (122) la Corte ha messo in rilievo i principi che devono presiedere il controllo del quantum di pena in base all’VIII emendamento, precisando che il giudizio di proporzione deve tenere conto di tre criteri obiettivi: 1) la gravità dell’offesa e la severità della pena; 2) la pena prevista nello stesso Stato per altri reati, 3) la pena comminata per quello stesso reato in altri Stati. Si tratta, dunque, di un giudizio comparativo — che coinvolge da un lato la libertà personale e, dall’altro, il bene tutelato dalla norma penale — del tutto simile a quello operato dalla Corte costituzionale nelle sentenze nn. 26/79 e 34/94 (123). 8.2. Nell’esperienza tedesca il criterio della proporzionalità ha svolto un ruolo di primo piano, per certi versi analogo al concetto di « ragionevolezza » elaborato dalla Corte costituzionale italiana (124). Sviluppatosi già a partire dalla fine dell’800 nel campo del diritto amministrativo, per porre limiti ai poteri di polizia nei confronti del cittadino (125), il principio di proporzione si radica come principio regolativo finalizzato alla salvaguardia dei diritti di libertà e il cui contenuto essenziale è compendiabile nell’idea che l’attività statuale deve essere « idonea » e « necessaria » per il raggiungimento dello scopo, nel senso che il legislatore deve scegliere lo strumento che, rispetto ad altri, colpisce in misura inferiore le posizioni giuridiche del cittadino. Pertanto, fermo restando che la produzione legislativa è libera e insindacabile quanto ai fini, il controllo di costituzionalità verte sui mezzi utilizzati per il raggiungimento degli scopi: la scelta del mezzo deve sottostare al duplice limite della « idoneità » e « necessità », che si traduce nell’obbligo della scelta del « mezzo più mite » (criterio del Gebot des mildesten Mittels); illegittima è perciò la scelta di un mezzo quando ve ne sia (121) Enmund vs. Florida, 458 U.S., 782, 1982. (122) 463 U.S., 277, 1983. (123) Cfr. supra par. 4. (124) Per un’accurata analisi del criterio di proporzionalità come elaborato dalla dottrina tedesca e dalla giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht cfr. il saggio di LUTHER, Ragionevolezza, cit., p. 307 s. con ivi ampi riferimenti bibliografici. (125) In particolare, il principio di proporzione è stato sviluppato specialmente dal Tribunale amministrativo superiore di Prussia, « stabilendo come criterio dell’azione di polizia che l’uso di strumenti di polizia non potesse andare al di là di quanto risultasse necessario per raggiungere lo specifico scopo di polizia »: così FORSTHOFF, Die Rechtsprechung, in Deer Staat der Industriegesellschaft, 1971, p. 138.
— 163 — uno alternativo « ugualmente efficace, ma effettivamente o presumibilmente meno pregiudizievole per il diritto fondamentale » (126). A partire da questo significato di proporzione, intesa « in senso lato » (127), si è sviluppata un’interpretazione che ha invece valorizzato il collegamento tra proporzionalità e bilanciamento dei beni. Sulla scorta di due importanti sentenze emesse nel 1958 (128), prendendo le mosse dalle premesse liberali, il Bundesverfassungsgericht ha elaborato un concetto di proporzione « in senso stretto » riconoscendone espressamente il rango costituzionale: « il principio di proporzionalità » — ha affermato la Corte tedesca — « deriva dal principio dello Stato di diritto, in sostanza già dall’essenza degli stessi diritti fondamentali. Questi ultimi, in quanto espressioni del diritto alla libertà generale del cittadino nei confronti dello Stato, possono essere limitati dal potere pubblico di volta in volta soltanto fino a quanto risulti indispensabile per la tutela di interessi pubblici » (129). In questa accezione, il principio di proporzionalità comporta un giudizio di ponderazione tra posizioni dell’individuo e interessi della collettività, che implica l’esistenza di una gerarchia di valori che il legislatore è tenuto a rispettare. Particolarmente significativa è la ricaduta di una simile impostazione sul terreno del diritto penale. Valorizzando i limiti insiti nel principio di proporzione, il Bundesverfassungsgericht ha infatti affermato che « dai principi generali della Legge fondamentale e specialmente dal principio dello Stato di diritto deriva nel diritto penale la regola che la pena minacciata deve trovarsi in una relazione giusta rispetto alla gravità del reato e alla colpevolezza del reo; non deve essere del tutto sproporzionata rispetto alla condotta sanzionabile, né tantomeno crudele » (130). Il rispetto del principio di proporzione va dunque commisurato (anche) al grado della colpevolezza ed implica perciò un intenso controllo di corrispondenza tra colpevolezza richiesta da questo o quel reato da un lato e misura della sanzione dall’altro (131). (126) BverfGE, 88 (115). (127) Cfr. LUTHER, op. cit., p. 309. (128) Si tratta della sentenza c.d. Luth del 15 gennaio e della c.d. sentenza sulle farmacie dell’11 giugno. Nella prima il Bundesverfassungsgericht annullò la sentenza che aveva imposto a tale Luth di non fare dichiarazioni in pubblico dirette a incitare il boicottaggio di un film antisemita, sul presupposto che l’interpretazione di una clausola generale di diritto civile era in contrasto con la libertà di opinione sancita dalla Legge fondamentale. Quanto alla seconda, al ricorrente era stata negata la licenza per l’apertura di una farmacia in quanto contrastante con una legge bavarese che subordinava il rilascio alla sussistenza di un pubblico interesse e alla mancata interferenza con gli interessi economici di altre farmacie; la Corte dichiarò illegittima tale norma ai sensi dell’art. 12 L.F. che garantisce, tra l’altro, la libera scelta della professione e del posto di lavoro. (129) BVerfGE 19, 342 (348). (130) BVerGE 6, 389 (439). (131) Cfr. LUTHER, op. cit., p. 322.
— 164 — 8.3. Il confronto con l’esperienza nord americana e tedesca — anche se appena schizzato — corrobora le conclusioni prospettate nei paragrafi precedenti. In particolare, proprio il principio di proporzione è, in ultima analisi, il filo rosso che lega diversissimi sistemi normativi sotto il profilo del controllo del dosaggio edittale della pena. Nel sistema statunitense, il principio di proporzione è stato elaborato a partire dall’esame della prassi sanzionatoria seguita dal legislatore, mentre in quello tedesco è stato teorizzato come principio costituzionale di portata generalissima, che deve guidare l’intera attività statuale, e che discende, come corollario, dai connotati dello Stato di diritto. Identiche sono, peraltro, le conclusioni: esigenza di proporzionalità tra gravità oggettiva e soggettiva dell’offesa e conseguenze sanzionatorie. Ampie sono dunque le convergenze con l’ordinamento italiano, in cui il principio di proporzione, pur con sfumature e modalità diverse, è alla base, a ben vedere, di ogni giudizio della Corte che utilizza questo o quel principio costituzionale come parametro nel controllo dei limiti edittali. 8.4. Va infine segnalato come, soprattutto nell’esperienza nordamericana — e, in misura meno accentuata, anche in quella tedesca —, un limite significativo al dosaggio della sanzione deriva, come si è visto, dal divieto di « pene crudeli ». Il nostro ordinamento contiene un divieto analogo a quello stabilito dall’VIII emendamento nella prima parte dell’art. 27 comma 3o Cost.: « le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità ». Sinora tale precetto è stato interpretato in maniera restrittiva: il divieto di trattamenti inumani starebbe a significare il rifiuto di sanzioni lesive dei diritti inviolabili della persona umana garantiti anche al reo (132). È stato d’altra parte giustamente osservato (133) che il principio di umanizzazione della pena è assai elastico e la sua interpretazione dipende dalla variabilità della coscienza sociale, non da dogmi preconcetti e immutabili: potrebbe perciò ricevere nuova linfa, attribuendogli un significato che vada al di là della (sola) inammissibilità della tortura e di ogni altra forma di punizione crudele. Il divieto di trattamenti inumani potrebbe dunque contribuire a fondare, insieme agli altri precetti costituzionali che si sono analizzati, il principio di proporzione tra pena e reato, come suggerisce l’esperienza statunitense — qui fugacemente evocata —, la cui lezione merita di essere seguita e studiata in profondità (134). (132) Per questo orientamento cfr. l’analisi di FIANDACA, Commento all’art. 27 comma 3o, cit., p. 241. (133) Cfr. NUVOLONE, Pena, in Enc. dir., XXXII, 1982, p. 792. (134) Va chiarito che il divieto di trattamenti inumani non postula, di per sé, che la pena abbia uno scopo puramente di retribuzione (così invece SPASARI, Diritto penale e Costituzione, cit., p. 134); difatti, anche la funzione di risocializzazione, prevista nello stesso
— 165 — 9. Considerazioni conclusive sui limiti costituzionali della cornice edittale. — L’esame sin qui condotto consente di trarre talune conclusioni sui limiti costituzionali che incontra il legislatore nella fissazione della cornice edittale della pena. 9.1. Va anzitutto ribadita la conformità alla Costituzione — in più occasioni ricordata dalla Corte (135) — della previsione di uno « spazio » edittale, perché consente al giudice di individuare con maggiore precisione la sanzione che sia il più possibile « personalizzata », tenendo conto di una serie di indici che fungono da parametro per valutare la gravità del fatto e la personalità dell’agente, come impone l’art. 133 c.p. D’altra parte, lo « spazio edittale » permette l’attuazione, in sede giudiziale, dei principi sanciti dall’art. 27 commi 1o e 3o Cost., perché consente di irrogare una sanzione commisurata alle effettive esigenze rieducative del singolo agente, entro i limiti della colpevolezza relativa al fatto concreto. 9.2. I limiti edittali — vale a dire: il tipo di pena, l’ampiezza della « forbice » tra minimo e massimo, il dosaggio della sanzione — non possono tuttavia essere fissati ad libitum. Come si è cercato di dimostrare, la Costituzione ha da « dire la sua »: contiene limitazioni e vincoli, sia formali che sostanziali, che impongono al legislatore di compiere scelte punitive nel rispetto delle esigenze di razionalità, di precisione legislativa e di proporzionalità. Il tipo e il quantum di pena andrà senz’altro, e innanzitutto, commicomma, potrebbe essere perseguita con modalità non rispettose dell’autodeterminazione del condannato. (135) Cfr., ad es., la sent. n. 15/62, in Giur. cost., 1962, p. 161 s.: « è nel carattere della sanzione penale che essa sia prefissata dalla legge in maniera da consentirne l’adeguazione alle circostanze concrete ». Di recente, cfr. le sentenze nn. 285/1991, in Cass. pen., 1992, p. 23, e 299/92, in questa Rivista, 1992, p. 1468, ove esplicitamente si afferma che « l’individualizzazione della pena (...) si pone come naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio di eguaglianza), quanto attinenti direttamente alla materia penale ». Deve tuttavia osservarsi come la Corte non giunga ad affermare in maniera esplicita che sia costituzionalizzato il principio della pena discrezionale. Sulla problematica riguardante la costituzionalità delle pene fisse cfr. la sent. n. 50/80, in Giur. cost., 1980, p. 352: la Corte, pur « salvando » l’art. 121 comma 3o del d.P.R. n. 393 del 1959 come modificato dall’art. 5 l. n. 313 del 1976 (che prevedeva la pena dell’ammenda di lire 800.000 e l’arresto di 15 giorni per chiunque circolasse con un veicolo superiore di oltre trenta quintali al peso complessivo consentito) ha comunque affermato « l’esigenza di un articolazione legale del sistema sanzionatorio che renda possibile l’adeguamento personalizzato e proporzionale delle pene inflitte ». A giudizio della Corte, il principio di legalità della pena « in collegamento con l’art. 27 commi 1o e 3o, postula un sistema nel quale l’attuazione della giustizia distributiva esige la differenziazione, più che l’uniformità ». In dottrina cfr. BRICOLA, Pene pecuniarie, pene fisse e finalità rieducativa, in AA.VV., Sul problema della rieducazione del condannato, 1964, e La discrezionalità, cit.; DOLCINI, Note sui profili costituzionali della commisurazione della pena, cit., p. 338; FIANDACA, Commento all’art. 27 comma 3o, cit., p. 222; ROMANO, Commentario, cit., pp. 230-231.
— 166 — surato al rango e alle modalità di aggressione del bene giuridico, e, nel compiere questa valutazione, il legislatore dovrà differenziare la pena in relazione al diverso « peso » qualitativo dei beni che intende tutelare, operando un bilanciamento che non stravolga la scala di valori recepita dalla Costituzione. Non solo: il disvalore dei fatti repressi, operato in armonia con la gerarchia costituzionale dei beni, non dovrà sfuggire alle esigenze di coerenza e razionalità, che impongono, ad esempio, di cumulare più condotte all’interno di una stessa norma incriminatrice solo se sussiste un medesimo contenuto offensivo. L’osservanza del principio di legalità richiede, inoltre, la fissazione di limiti edittali non eccessivamente distanziati, per evitare una sostanziale delega in bianco al giudice nelle scelte punitive che, al contrario, devono essere compiutamente espresse dal legislatore. Infine, dal rispetto dei precetti fissati dall’art. 27 Cost. discende che il dosaggio della sanzione dovrà da un lato non pregiudicare già al livello della previsione astratta il conseguimento della finalità rieducativa della pena; dall’altro rispecchiare la « differenza di colpevolezza » che contrassegna dolo e colpa: a parità di nocumento oggettivo, i fatti colposi devono essere puniti in misura inferiore rispetto ai fatti dolosi (136). 9.3. Riassumendo: sulla base degli artt. 3 comma 1o, 25 comma 2o, 27 commi 1o e 3o Cost. sono da ritenersi incostituzionali le previsioni di pena che: a) creino irragionevoli parificazioni o discriminazioni di trattamento sanzionatorio; b) stravolgano il sistema di valori recepito dalla Costituzione; c) impongano un sacrificio di libertà personale eccessivamente sproporzionato rispetto al rango del bene tutelato; d) stabiliscano i limiti edittali in maniera così divaricata da trasformare la discrezionalità del giudice in mero arbitrio; e) risultino sproporzionate rispetto alla tendenziale finalità rieducativa della pena; f) puniscano fatti che non sono commessi almeno per colpa da parte dell’agente; g) siano eccessive rispetto al grado di colpevolezza; h) puniscano, a parità di aggressione di un medesimo bene, fatti dolosi in misura inferiore, uguale o di poco superiore rispetto a quanto previsto nella corrispondente previsione colposa. 9.4. Si impongono qui due precisazioni. La prima riguarda lo stretto collegamento tra le diverse ipotesi di illegittimità. Le censure elencate non sono « monadi »: spesso sono interdi(136) p. 26.
Per analoghi rilievi cfr., di recente, MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa, cit.,
— 167 — pendenti, trattandosi di un unico vizio che viene posto in luce da diverse angolature. Può infatti accadere che una norma crei un’ingiustificata disparità di trattamento e, ad un tempo, ecceda anche il limite della colpevolezza, ovvero che una previsione edittale abbia i limiti edittali troppo divaricati ed il cui minimo sia, già in astratto, eccessivo rispetto al conseguimento della finalità rieducativa. La seconda precisazione concerne la portata dell’intervento riconosciuto alla Corte. Dovendo rispettare il limite di ordine generale dell’art. 28, la dichiarazione di incostituzionalità potrà intervenire solo nei casi in cui la patologia della previsione astratta sia manifesta o eccessiva. Non è del resto casuale che gli interventi ablativi della Corte abbiano avuto (per lo più) come oggetto le pene previste da norme del c.p.m.p.: si trattava di ipotesi macroscopicamente incostituzionali. Del resto, i parametri di riferimento, risolvendosi spesso nel giudizio di proporzione — o, comunque, di misura — tra due entità non omogenee (ad esempio, l’offesa penalmente rilevante, che comporta un giudizio di tipo qualitativo, e la privazione di libertà personale — o l’esborso pecuniario —, che invece implica una valutazione espressa in termini quantitativi (137), oppure la misura della pena e il conseguimento della finalità rieducativa, etc.), sono per loro natura sfuggenti, non definibili in maniera rigorosa, implicando un ampio margine di elasticità. Con queste avvertenze, va senz’altro sottolineato che compete alla Corte un decisivo ruolo di controllo della dosimetria edittale; lo impone, del resto, la mancata armonizzazione del sistema sanzionatorio previsto dal codice Rocco con i valori e i principi espressi dalla Costituzione. 10. Questioni aperte. — Sulla scorta dei parametri qui analizzati — e per evocare solo alcuni casi — le previsioni edittali di talune fattispecie incriminatrici presenti nel nostro ordinamento risultano, a nostro avviso, di dubbia costituzionalità. In particolare, tra i casi maggiormente sospetti vanno menzionati i seguenti. 10.1. Le ipotesi di responsabilità oggettiva. — Oltre alle (insuperabili) obiezioni sul terreno dell’imputazione soggettiva del fatto, essendo richiesta almeno la colpa per l’attribuzione del fatto all’agente, queste ipotesi sono attaccabili (anche) dal versante della pena. Secondo quanto si è sopra esposto, il quantum di pena che non è « coperto » da alcun coefficiente soggettivo si pone in contrasto con l’art. 27 comma 1o e 3o Cost.: la sanzione, infatti, va « al di là » del limite segnato dalla colpevolezza, e, d’altro canto, non può sortire alcun effetto rieducativo proprio perché nessun rimprovero si può muovere all’agente. Anche sotto questa angolazione, dunque, sono da ritenersi incostitu(137)
Cfr. PADOVANI, op. ult. cit., p. 446.
— 168 — zionali i casi di responsabilità oggettiva, espliciti o « mascherati », e, tra questi, le figure di delitto preterintenzionale (art. 584 c.p. e 18 comma 2o l. n. 194 del 1978) e di delitto aggravato dall’evento; i casi di aberratio ictus (art. 82 c.p.) e di aberratio delicti (art. 83 c.p.); le ipotesi speciali di concorso di persone previste dagli artt. 116 e 117 c.p.; i casi di finzione legale di imputabilità di cui agli artt. 87, 92, 93 e 94 c.p., in quanto il rispetto del principio di colpevolezza richiede la coincidenza temporale tra capacità di intendere e di volere e dolo o colpa (138); le condizioni intrinseche (o improprie) di punibilità, in cui l’accadimento descritto dalla norma posto a carico dall’agente, anche se da lui non è voluto, solo formalmente — ma non sostanzialmente — è estraneo all’offesa del bene giuridico (139). È ben vero che, in via di interpretazione conforme alla Costituzione, sia dottrina (140) che giurisprudenza (141) hanno superato (buona parte del)le deviazioni dal principio di colpevolezza, nel senso che deve essere presente almeno la colpa in relazione a quell’elemento che la legge pone a carico dell’agente in maniera obiettiva (l’evento non voluto nei delitti preterintenzionali e nei delitti aggravati dall’evento, il fatto diverso da quello concordato con gli altri correi nell’ipotesi prevista dall’art. 116 c.p., la qualità personale dell’intraneus nel caso di concorso nel reato proprio, etc.). Tuttavia, a parte la considerazione che permangono alcune ipotesi di responsabilità oggettiva non corrette né dalla Corte né dal legislatore (sono i casi previsti dagli artt. 87, 92, 93 e 94 c.p.), la strada della riforma legislativa merita senz’altro la preferenza: solo una presa di posizione del legislatore, come è avvenuto in tema di circostanze aggravanti (142), può fugare ogni dubbio interpretativo: lo impone il principio di legalità (143). Ma vi è di più. Anche a voler seguire l’interpretazione correttiva proposta, inserendo tra i requisiti della fattispecie la prevedibilità dell’evento (più grave) non voluto, i dubbi di incostituzionalità non sono del tutto fugati: si costruiscono fattispecie colpose quanto ai presupposti, ma disciplinate quoad poenam come se fossero dolose (144). Del resto, la logica del versari in re illicita risulta con chiara evidenza se si considera che, in riferimento a taluni di questi casi — in particolare, i delitti aggravati dall’evento ove l’evento aggravante è la morte della vit(138) Cfr., di recente, MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 105. (139) Sull’argomento cfr. ANGIONI, Condizioni di punibilità e principio di colpevolezza, cit., spec. p. 1497 s. (140) Per tutti, MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 100. (141) Cfr. le sentenze n. 364/88 e n. 1085/88, cit. (142) Come noto, l’art. 1 della l. n. 19 del 1990 ha modificato l’art. 59 comma 2o c.p. introducendo il principio dell’imputazione soggettiva per le circostanze aggravanti; sulle problematiche suscitate dalla novella legislativa, cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, III ed., 1995, p. 376; ROMANO, Commentario, cit., sub art. 59, p. 610 s. (143) Cfr. ROMANO, Commentario, cit., p. 396. (144) Così ANGIONI, op. cit., p. 214.
— 169 — tima (ad es. gli artt. 289-bis, 571, 572, 630 c.p.) e i delitti preterintenzionali — la pena è di gran lunga superiore rispetto non solo a quella che discenderebbe dall’applicazione dei principi generali in tema di concorso dei reati, ma anche a quella comminata nelle (affini) fattispecie colpose. Si consideri, ad esempio, la cornice edittale prevista dall’art. 584 c.p. (il quale prevede anche le semplici percosse come reato base dell’omicidio non voluto): il massimo (18 anni) è oltre il triplo rispetto a quanto previsto per l’omicidio colposo (art. 589 c.p.: 5 anni), mentre il minimo edittale è addirittura di venti volte superiore (10 anni contro 6 mesi). In altri termini: anche a volere modellare queste ipotesi come fattispecie miste di dolo e colpa, il dosaggio della sanzione non risulta affatto coerente con i relativi connotati di colpevolezza (145). 10.2. La previsione edittale dell’art. 73 comma 1o d.P.R. n. 309 del 1990: benché finora la Corte abbia sempre ritenuto infondata la questione, non pochi sono i dubbi di incostituzionalità (146). In primo luogo, la previsione del minimo di pena, nella misura di otto anni di reclusione, appare irragionevolmente eccessiva, soprattutto alla luce dell’interpretazione giurisprudenziale restrittiva dell’ambito di applicazione dell’ipotesi attenuata prevista dal quinto comma dell’art. 73 (147). Considerazioni di prevenzione generale, è vero, possono essere legittimamente tenute in considerazione nello stadio della minaccia ma, in questo caso, hanno letteralmente preso la mano al legislatore, facendogli superare il limite della ragionevolezza. Ne è la dimostrazione l’assimilazione quoad poenam di una serie di condotte il cui disvalore è manifestamente disomogeneo. L’art. 73 punisce infatti con la reclusione da 8 a 20 anni e la multa da 50 a 500 milioni « chiunque (...) coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o riceve a qual(145) Per simili critiche si veda il saggio di DOLCINI, L’imputazione dell’evento aggravante. Un contributo di diritto comparato, in questa Rivista, 1979, spec. pp. 776-779 e pp. 820-824. (146) La questione di costituzionalità dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 è già stata affrontata — dichiarandola non fondata — con le decisioni: sent. n. 333/91, in Foro it., 1991, I, c. 2628 s., con nota di FIANDACA, La nuova legge antidroga tra sospetti di incostituzionalità e discrezionalità legislativa; sent. n. 308/92, ivi, 1992, I, c. 2914 s.; ord. n. 415/93, ivi, 1994, I, c. 374 s., la quale peraltro ha restituito gli atti ai giudici a quibus per un nuovo giudizio di rilevanza essendo nelle more del giudizio intervenuto un mutamento del quadro normativo a seguito dell’esito del referendum abrogativo del 18-19 aprile 1993, indetto con d.P.R. 25 febbraio 1993. (147) Si afferma in giurisprudenza che, ai fini della concessione dell’attenuante prevista dall’art. 73 comma 5o d.P.R. n. 309 del 1990, la valutazione della lieve entità del fatto va compiuta nel contesto delle situazioni previste dalla norma globalmente considerate, a meno che una soltanto di esse presenti una pericolosità tale da escludere in modo insuperabile l’attenuante in questione. Cfr. Cass. sez. III, 22 giugno 1993, Menabò; sez. IV, 22 gennaio 1993, Di Blasi; sez. IV, 16 aprile 1993, De Rosa; sez. IV, 27 novembre 1992, Pisano, tutte pubblicate in Cass. pen., 1994, pp. 2547-2548.
— 170 — siasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene (..) sostanze stupefacenti » (148). In altri termini, il vizio sta in ciò: le varie condotte non sembrano esprimere un contenuto di disvalore unitario, in quanto non convergono — manifestamente — su un medesimo tipo sostanziale di illecito (si va dal transito all’estrazione, dalla fabbricazione alla semplice cessione a titolo gratuito). Né una via d’uscita può essere quella di delegare al giudice il compito di stabilire, in astratto, la « gerarchia » tra le diverse condotte, attribuendo a ciascuna di esse, a suo insindacabile avviso, una pena corrispondente al diverso grado di disvalore di ciascuna. Anche in considerazione dell’ampio spazio edittale, pari a dodici anni, la conseguenza di una simile delega sarebbe infatti la violazione dell’art. 25 comma 2o Cost. sotto il profilo della precisione legislativa della pena. Per non dire, poi, delle ipotesi in cui l’agente realizzi più condotte tra quelle previste dalla norma: poiché la norma nulla dice a proposito del (diverso) grado di offensività dei comportamenti ivi descritti, al giudice viene di fatto riconosciuto un potere discrezionale ancor maggiore, che, a fortiori, fuoriesce a dismisura dai limiti fissati dall’art. 25 comma 2o Cost. 10.3. Le comminatorie edittali previste da alcuni delitti del titolo primo. Vi sono numerose fattispecie che, usando la dizione: « è punito con la reclusione non inferiore a x anni », prevedono il solo limite minimo (149), e, pertanto, l’altro estremo della forbice edittale raggiunge i 24 anni di reclusione, per effetto della disposizione generale dell’art. 23 c.p. Siffatte previsioni — è ben vero — esprimono la soglia al di sotto della quale il legislatore ha ritenuto di non dover scendere in considerazione della particolare rilevanza dei beni tutelati; e tuttavia appaiono in contrasto con il precetto dell’art. 25 comma 2o Cost., perché, lasciando un amplissimo margine di discrezionalità al giudice, violano il principio di precisione legale della pena (nelle fattispecie previste dagli artt. 249, 263, 265, 267, 269 c.p. la cornice edittale è ricompresa tra i 5 e i 24 anni!). 10.4. Alcune ipotesi di circostanze aggravanti ad effetto speciale, quali, ad esempio, quelle previste dagli atti artt. 625 cpv. c.p. (da 3 a 10 anni) (150), 1 comma 3o d.lgs. 22 gennaio 1948, n. 66 (da 2 a 12 (148) Va infatti ricordato che, in seguito al d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171, la detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti non costituisce più reato. (149) È questa l’ipotesi contemplata, ad esempio, dagli artt. 243, 247, 258 c.p. (reclusione non inferiore a 10 anni), 253 c.p. (reclusione non inferiore a 8 anni), 249, 263, 265, 267, 269 c.p. (reclusione non inferiore a 5 anni). (150) Dubitano della legittimità costituzionale della pena prevista dall’art. 625 c.p. PADOVANI, La questione di legittimità costituzionale della pena del furto aggravato, in Studi Grazianti, 1973, p. 448 s., GROSSO, Illegittimità costituzionale, cit., p. 1480. Con la sentenza n. 22/71 la Corte aveva respinto la questione affermando che « la determinazione della pena
— 171 — anni) (151), 261 comma 5o c.p. (da 3 a 15 anni) appaiono censurabili sia perché l’excursus edittale è assai ampio, sia perché comminano sanzioni eccessive rispetto ai parametri fissati dall’art. 27 Cost. Né varrebbe obiettare che una simile ampiezza trova giustificazione e legittimazione nella variabilità delle fattispecie concrete; si tratta infatti di circostanze descritte con assoluta precisione, che non lasciano spazio a una gamma di modalità del loro manifestarsi così ampia, da giustificare un’oscillazione edittale tanto divaricata. Neppure servirebbe obiettare che, trattandosi di circostanze, in concreto il loro effetto potrebbe essere eliso nel giudizio di bilanciamento operato ai sensi dell’art. 69 c.p.; si tratta infatti di una mera eventualità e, a parte le riserve — già espresse (152) — circa la rimessione di un simile giudizio al giudice, in ogni caso il problema del dosaggio edittale della pena si pone sul piano della previsione astratta e, dunque, a tale livello deve essere affrontato e risolto. 11. Prospettive de iure condendo. — 11.1. Alcune brevi considerazioni finali sul ruolo del controllo da parte della Corte costituzionale nella dosimetria della pena, e sulle auspicabili riforme nel nostro sistema penale. Non vi è dubbio che le numerosissime eccezioni di incostituzionalità sollevate dai giudici di merito in relazione a pene ritenute troppo severe, sono spia eloquente dell’eccessivo rigore sanzionatorio — e dunque dell’attuale inadeguatezza — delle pene previste dal codice Rocco. La Corte, come si è visto, ha sempre esitato nell’esercitare in questo ambito i propri poteri. Si tratta di un atteggiamento per certi versi comprensibile — trattandosi di materia rimessa per buona parte alla scelte politiche del legislatore —, per altri troppo rinunciatario. Posto che il limite dell’art. 28 ha una portata generale — e dunque non è specifico per le norme penali —, ne segue che le scelte politiche e discrezionali del Parlamento vanno incontro edittale è rimessa alla valutazione discrezionale del legislatore » e che « l’indagine sulla rieducabilità sfugge al controllo di legittimità ». (151) L’art. 1 d.lgs. 22 gennaio 1948, n. 66 recante « norme dirette ad assicurare la libera circolazione sulle strade ferrate ed ordinarie e la libera navigazione » al comma 1o punisce con la reclusione da uno a sei anni « chiunque, al fine di impedire od ostacolare la libera circolazione, depone o abbandona congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in strada ferrata od ordinaria o comunque ostruisce o ingombra, allo stesso fine, la strada stessa »; il 3o comma prevede che la pena è raddoppiata « se il fatto è commesso da più persone, anche non riunite, ovvero è commesso usando violenza o minaccia alle persone ovvero violenza sulle cose ». Dunque, ricorrendo una delle ipotesi aggravate previste dal 3o comma (peraltro di facile verificazione, se si considera che è sufficiente, ad esempio, la sola partecipazione di più persone anche non riunite tra loro), la banda di oscillazione della pena è ricompresa tra i due e i dodici anni. Con la sentenza n. 217/96 (in G.U., 1a serie speciale, 3 luglio 1996, n. 27), la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, 1o e 3o comma, che dai giudici era stata sollevata in riferimento agli artt. 3 e 27 comma 3o Cost., e non anche all’art. 25 comma 2o Cost. (152) Cfr. supra par. 5.2.
— 172 — ai limiti -generali- imposti a quelle scelte dalle norme costituzionali (153). In realtà, il problema ha una valenza politico-istituzionale più ampia e riguarda, in ultima istanza, il ruolo della Corte costituzionale nel quadro dell’assetto dei poteri dello Stato: neutrale e asettico giudice delle leggi oppure, pur nell’ambito dei valori delineati dalla Costituzione, titolare di una « funzione di attuazione » dei principi e dei limiti costituzionali alla potestà punitiva del legislatore? (154). Al proposito, appaiono condivisibili le conclusioni a cui giunge il Bundesverfassungsgericht (155): « a questo giudice è stata attribuita la tutela dei diritti fondamentali nei confronti del legislatore. Se dall’interpretazione di un diritto fondamentale derivano dei limiti per il legislatore, il giudice deve essere in grado di poter vigilare sul loro rispetto, altrimenti si verrebbe in pratica a svalutare per buona parte i diritti fondamentali e a privare la funzione attribuitagli dalla Legge Fondamentale del suo senso peculiare ». 11.2. D’altro canto, le sollecitazioni provenienti dai giudici e dalla dottrina più sensibile, che da anni ha denunciato le carenze del codice vigente, non sono state raccolte dal legislatore, il quale, ben lungi dall’attuare un programma razionale — anche sotto il profilo sanzionatorio — di politica criminale, ha oscillato tra atteggiamenti di rigorismo e di indulgenzialismo (156). Invece di una radicale riforma delle fattispecie incriminatrici, il legislatore ha preferito imboccare la strada dell’aumento della discrezionalità nella commisurazione della pena (157); suo malgrado, il giudice si è pertanto trovato a svolgere un indebito ruolo di supplenza: alla prova dei fatti, egli è stato l’unico protagonista della politica criminale (158). Inoltre, come è opinione diffusa in dottrina (159), la sanzione (153) Per una critica dell’atteggiamento di chiusura della Corte a proposito del controllo delle norme penali, specie con riguardo alla misura del pena cfr. BRICOLA, Commento all’art. 25 comma 2o Cost., cit., pp. 277-282, nonché PIZZORUSSO, Le norme, cit., pp. 206207. (154) Su questa alternativa, che contrappone una visione « illuminista » a una visione « realista » della giustizia costituzionale — la prima normalmente riferita al pensiero di KELSEN (in part. La giustizia costituzionale, trad. it. a cura di GERACI, 1981, p. 145 s.), la seconda a SCHMITT (spec. Il custode della Costituzione, trad. it. a cura di CARACCIOLO, 1981) —, cfr., di recente, CHELI, Il giudice delle leggi, cit., pp. 45-54. (155) BVerfGE 7, 377 (409 s.). (156) Cfr. MARINUCCI, Politica criminale, cit. passim. (157) Sull’evoluzione del significato della discrezionalità giudiziale, da istituto indispensabile per proseguire nel caso concreto l’opera del legislatore a « strumento di rottura del sistema, per consentire di superare le previsioni normative della parte speciale del codice senza modificarle direttamente » cfr. STILE, Discrezionalità e politica penale giudiziaria, in Studi urbinati, 1977-78, p. 300. (158) Cfr. ROMANO, Commentario, cit., sub pre-art. 1, p. 7. (159) Si vedano, al proposito, i recenti scritti di PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio, cit.; MONACO-PALIERO, Variazioni in tema di « crisi della sanzione », cit.; DOLCINI, La commisurazione della pena tra teoria e prassi, in questa Rivi-
— 173 — penale sta attraversando un periodo di crisi, dovuto sia all’ingresso di nuovi modelli processuali di tipo premiale (« patteggiamento », rito abbreviato) che incidono sul significato della pena, sia, più in generale, alla mancanza di un progetto globale di riforma del sistema penale. 11.3. Nonostante gli sforzi di ortopedia interpretativa per smussare gli spigoli più acuti del sistema, anche il ruolo (tutt’altro che marginale) della Corte costituzionale non può comunque supplire all’inerzia del legislatore. Proprio la contenuta possibilità di intervento della Corte rende ancor più urgente l’emanazione di un nuovo codice che, oltre a « rimodernare » il catalogo dei beni meritevoli di tutela penale — anche in relazione alle nuove modalità di aggressione —, riformuli le previsioni edittali della parte speciale del codice. A questo proposito, condivisibili appaiono le indicazioni di massima contenute nel progetto di legge delega elaborato da una commissione di professori di diritto penale istituita nel 1988 presso il Ministero di grazia e giustizia (160): l’art. 58 comma 1o sottolinea infatti l’esigenza di « prevedere i limiti edittali di pena dei singoli reati, in modo da proporzionarli al disvalore complessivo del fatto, riducendo i livelli spesso eccessivi del codice attuale e restringendo il divario tra minimo e massimo edittale, così da rendere più circoscritta e significativa la scelta legislativa come limite della commisurazione giudiziale della pena »; tale scelta è confermata dal 2o comma, in base al quale occorre « fissare per le pene detentive i limiti edittali secondo classi progressive » di modo che il massimo non superi il quadruplo del minimo e che i limiti stabiliti per la classe superiore non superino il doppio di quelli previsti dalla classe inferiore. Accanto a queste indicazioni si dovrebbe aggiungere quella di evitare l’impiego di fattispecie che descrivono una pluralità di condotte eterogenee, privilegiando invece la differenziazione: ogni norma dovrebbe contenere solamente una classe ristretta di condotte omogenee. In questo modo si farebbero passi in avanti rispetto all’esigenza di razionalizzazione delle cornici edittali, così da armonizzarle con i principi contenuti dalla Costituzione. Un’unica, non marginale riserva: lo schema di riforma contiene le citate apprezzabilissime enunciazioni di principio: manca — non poteva non mancare, data la natura del progetto — un’analitica descrizione dei reati e delle relative pene, l’unico banco di prova del rispetto (o sta, 1991, p. 55 s.; PALIERO, Metodologie de lege ferenda: per una riforma non improbabile del sistema sanzionatorio, ivi, 1994, p. 510 s.; NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio: considerazioni in margine ad un recente schema di riforma, ivi, 1995, p. 315 s. (160) Lo schema predisposto dalla commissione e la relazione illustrativa sono pubblicati in Doc. giust., 3, 1992, p. 305 s., e in Ind. pen., 9, 1993, p. 579 s.; per un primo commento dello schema di riforma cfr. PAGLIARO, Valori e principi nella bozza italiana di legge delega per un nuovo codice penale, in questa Rivista, 1994, p. 374 s. nonché, con alcuni spunti critici, NEPPI MODONA, op. cit., p. 329 s.
— 174 — del mancato rispetto) di quei principi. È dunque auspicabile che si ponga mano, finalmente, a un vero e proprio progetto di riforma del codice penale, articolato in tutti i minimi dettagli, sul versante dei tipi di reato come su quello della sanzione penale (161). STEFANO CORBETTA Giudice del Tribunale di Milano
(161) Sottolineano « l’esigenza che l’opera di codificazione penale sia condotta muovendo da un progetto articolato con la stessa analiticità del futuro codice », unica strada percorribile in grado di valorizzare appieno le ricerche comparatistiche, le indagini criminologiche e le rilevazioni giurisprudenziali, cioè tutte quelle attività indispensabili nel processo di codificazione (e, invece, destinate ad essere eluse con lo strumento — inevitabilmente vago e generico — dei « principi e criteri direttivi » contenuti in una legge delega), MARINUCCI-DOLCINI, Note sul metodo della codificazione penale, in questa Rivista, 1992, p. 385 s. Nella direzione auspicata dagli illustri Autori, si colloca invece il disegno di legge ad iniziativa parlamentare n. 2038 — primo firmatario il sen. Roland Riz — redatto dai membri del « Comitato per la riforma del codice penale » istituito presso la commissione giustizia del Senato nel dicembre 1994, limitato (per ora) alla sola parte generale, pubblicato in questa Rivista, 1995, p. 927 s.
LA PRONUNCIA DI ABOLITIO CRIMINIS NEL VIGENTE ASSETTO DELL’ESECUZIONE PENALE
SOMMARIO: 1. Stabilità del giudicato ed esigenze di pari trattamento punitivo in fase d’esecuzione. — 2. L’abolitio criminis come deroga parziale al giudicato. — 3. L’estensione possibile della nuova disciplina processuale. I provvedimenti di condanna. — 4. (Segue): Provvedimenti di proscioglimento e di non luogo a procedere. — 5. (Segue): Le ipotesi di abrogazione sottratte al regime dell’art. 2, secondo comma, c.p. — 6 (Segue): Gli effetti della « revoca ». — 7. (Segue): « I provvedimenti conseguenti » alla dichiarazione favorevole. — 8. L’esame « sulle norme ». - 9. L’indagine « sul fatto ». — 10. Il mancato proscioglimento per l’abolitio criminis intervenuta prima del giudicato. I termini del problema in rapporto alla fase esecutiva. — 11. (Segue): Interventi abolitivi totali. — 12. (Segue): Interventi abolitivi parziali e la quaestio facti.
1. Stabilità del giudicato ed esigenze di pari trattamento punitivo in fase d’esecuzione. — Nell’attuale assetto, la pronuncia di abolitio criminis adottabile dopo il giudicato trova un precedente quanto a contenuto e collocazione, nell’art. 635 Prog. prel. c.p.p. 1978; è in sede esecutiva che occorre intervenire sul titolo nei casi di abrogazione o d’illegittimità costituzionale del precetto penale. L’unica novità, frutto di un aggiornamento introdotto nel testo definitivo del codice (1), riguarda l’applicazione della norma, oltreché alle ipotesi già previste di proscioglimento per fatti estintivi o inimputabilità, a quelle in cui si tratta di sentenze di non luogo a procedere pronunciate per le stesse ragioni. Pertanto, espunta dall’ordinamento una fattispecie illecita, l’operazione non coinvolge solo provvedimenti definitivi di condanna, ma anche di proscioglimento o di non luogo emessi per le causali suindicate (art. 673 c.p.p.). Da un punto di vista generale, va notata la scarsa attenzione del legislatore verso tale disciplina; essa manca di un puntuale riferimento nella legge-delega (2) e riceve dai compilatori il solo commento secondo cui (1) L’integrazione non era stata prevista nell’art. 664 Prog. prel c.p p. 1988. Va, poi, aggiunto che l’attuale formulazione della norma è tecnicamente più precisa rispetto a quella del Progetto preliminare, nella parte in cui obbliga il giudice a dichiarare che « il fatto non è previsto dalla legge come reato » invece che « il fatto non costituisce reato ». (2) Per un quadro di sintesi dell’attuale disciplina dell’esecuzione penale, come riflesso dell’impianto normativo voluto dalla delega, CAVALLARI, La nuova disciplina dell’esecuzione penale, in Leg. pen., 1990, p. 679 ss.
— 176 — « non pone particolari problemi interpretativi » (3). Tuttavia, la collocazione sistematica prescelta non è priva di significato; anzi, ciò richiede, in via di prima approssimazione, di inquadrare i temi che riguardano l’abolitio criminis tenendo conto del dilatato ambito funzionale consentito in fase d’esecuzione quando si opera sul provvedimento irrevocabile. A prescindere dalle regole procedimentali « di genere » (art. 666 c.p.p.) (4), adottabili anche nello specifico (5) e tese a recepire la direttiva n. 96 circa le garanzie giurisdizionali (6) del rito « incidentale » (7), va, in proposito, sottolineato come la relativa disciplina s’inquadri nel complesso dei poteri diretti ad adeguare gli effetti del comando a sopravvenute esigenze punitive. In questa prospettiva, si registra una generale « flessione » del titolo sul piano delle sue concrete conseguenze, a tutto vantaggio di meccanismi volti a superare la tradizionale intangibilità del provvedimento irrevocabile. Ciò non si riferisce in via diretta agli strumenti del « trattamento individualizzato », già noti al complesso regime della sorveglianza e tenden(3) Relazione Prog. prel. 1988, in Gazz. Uff. n. 250, Supplemento ordinario, del 24 ottobre 1988, p. 148. (4) A riguardo, per l’analisi della disciplina, nell’ottica di un raffronto con procedimenti camerali a ridotto tasso di contraddittorio, DI CHIARA, Il contraddittorio nei riti camerali, Milano, 1993, p. 317 ss. Quanto alle « anomalie » che il contraddittorio subisce nell’udienza camerale, GAITO, Esecuzione, in CONSO-GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, Padova, 1996, p. 766 ss. (5) Per quanto l’art. 673 c.p.p. non si riferisca espressamente all’art. 666 stesso codice, è evidente che all’ipotesi va applicata la procedura incidentale di « genere »; infatti, alcun richiamo è contemplato alle forme semplificate di cui all’art. 667, quarto comma, c.p.p., così come avviene per le ipotesi di cui agli artt. 672, primo comma e 676, primo comma c.p.p. Cfr., Cass., Sez. I, 7 gennaio 1994, Fittirillo, in Arch. n. proc. pen., 1994, p. 553. (6) In senso critico, tuttavia, sulla pretesa « giurisdizionalizzazione » della procedura, attesa la frequente identità tra il giudice che ha emesso il provvedimento durante la cognizione e quello competente ad esercitare il controllo circa l’eseguibilità concreta, GAITO, Esecuzione, cit., p. 763; MARGARITELLI, I requisiti minimi della giurisdizionalità nell’esecuzione penale, in Giur. cost., 1993, p. 367. Analogamente sia pur ritenendo opportuno un ripensamento legislativo di vasta portata che incida sull’attuale potere del pubblico ministero a gestire l’esecuzione della pena, DEAN, Sulla competenza ad applicare l’amnistia impropria in caso di condanne plurime, in Giur. it., 1991, II, c. 234 ss. GAITO, L’evoluzione dell’esecuzione penale, in Giust. proc., 1989, p. 52; MIELE, Appunti per un’illustrazione dell’esecuzione nel nuovo codice di procedura penale, in Giust. pen., 1990, III, 638. (7) Il termine è mutuato dalla direttiva n. 96 legge-delega, dove esso è, evidentemente, diretto a precisare la natura dell’intervento giurisdizionale in fase esecutiva e, contemporaneamente, a sottolinearne l’autonomia strutturale e funzionale rispetto ad altri tipi « d’incidente » attuabili nel corso della cognizione. In questi termini, CATELANI, Incidente di esecuzione, in Dig. disc. pen., vol. IV, Torino, 1992, p. 334. Con riguardo al codice abrogato, per l’individuazione dell’incidente d’esecuzione come disciplina di genus per ogni altro procedimento incidentale, GAITO, Incidente d’esecuzione e procedimento incidentale, in Riv. dir. proc., 1989, p. 44 ss., nonché CUCCUREDDU, « Incidenti di esecuzione » e « procedimenti incidentali », in Giur. it., 1988, II, c. 97.
— 177 — zialmente ispirati ai principi rieducativi immanenti nell’ordinamento costituzionale (8); quest’ultimo fenomeno, peraltro, non è stato ignorato dalla direttiva n. 98 quanto a coordinamento e distribuzione di competenze rispetto al tessuto positivo già presente alla data di entrata in vigore del codice (artt. 659, 661, 677-684 c.p.p., artt. 189-191, 236 d.l.vo 28 luglio 1989, n. 271). Né il rilievo riguarda soltanto i compiti del giudice d’esecuzione quando valuta, anche nel merito (9), la mancanza o l’ineseguibilità del titolo (art. 670 c.p.p.), dichiara effetti estintivi (artt. 672 e 676, primo comma, c.p.p.) o reprime, negli ampliati limiti dell’art. 669 c.p.p. (10), i « conflitti pratici » tra giudicati. Nella prospettiva sopra indicata, il profilo di maggior peso attiene alla verifica circa il reato continuato o il concorso formale, sempre che si versi nel caso di procedimenti distinti e che la relativa disciplina non sia stata « esclusa » in giudizio (artt. 671 c.p.p., 187 e 188 d.l.vo 28 luglio 1989, n. 271). Proprio a tal riguardo, meglio s’intuisce come i poteri d’indagine in fase esecutiva non si limitino a sindacare questioni esclusivamente formali ma penetrino molto più a fondo la stessa vicenda giudiziale definita (11). Il necessario esame sugli aspetti di fatto (8) Cfr. (diffusamente) GIOSTRA, Il procedimento di sorveglianza nel sistema processuale penale. Dalle misure alternative alle sanzioni sostitutive, Milano, 1983, p.112 ss.; GREVI, Scelte di politica penitenziaria e ideologie del trattamento nella legge 10 ottobre 1986, n. 663, in AA.VV., L’ordinamento penitenziario dopo la riforma, a cura di Grevi, Padova, 1988, p. 5 ss. Non vanno, tuttavia, dimenticate le svolte di politica penitenziaria degli anni più recenti ed il preminente interesse per le esigenze di difesa sociale piuttosto che perseguire « ideologie » rieducative, ci si avvia, in maniera sempre più marcata, a realizzare il regime carcerario c.d. « a doppio binario », in cui si mescolano istanze di tutela collettiva e « premialità » collaborazionistiche (cfr., per un’efficace sintesi, GREVI, Verso un regime penitenziario progressivamente differenziato: tra esigenze di difesa sociale ed incentivi alla collaborazione con la giustizia, in AA.VV., L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenze, Padova, 1994, p. 4 ss.). Sotto questo profilo, è indubitabile che i principi di legalità della pena passano in secondo piano, piegandosi verso scopi general-preventivi recentemente immanenti nel processo (a riguardo, le osservazioni di NOBILI, Principio di legalità e processo penale (In ricordo di Franco Bricola), in questa Rivista, 1995 (specialmente) p. 656 ss. (9) A riguardo, specificamente, CORBI, L’esecuzione nel processo penale, Torino, 1992, p. 283 ss. (10) Per gli aspetti di novità dell’attuale disciplina oltre le trattazioni manualistiche, GUARDATA, Conflitto di giudicati tra vecchio e nuovo codice, in Cass. pen., 1988, p. 574 ss.; ID., sub art. 669 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. VI, Torino, 1991, p. 537 ss.; KALB, Il processo per le imputazioni connesse, Torino, 1995, p. 366 ss. (11) Non si nega che l’indagine sui contenuti di merito dell’accertamento definito può essere effettuato anche nei casi in cui risulti incerta « l’identità del fatto » per reprimere un conflitto pratico di giudicati, o quando occorre — ove lo si ritiene possibile — adottare un decreto di amnistia intervenuto prima dell’irrevocabilità della sentenza di condanna (cfr. le precisazioni di GUARDATA, sub art 672 c.p.p., in Commento al nuovo codice, cit. vol., VI, Torino, 1991, p. 562, nota n. 1); senza contare che lo stesso art. 670 c.p.p., a proposito dell’esecutivita del titolo, richiede di compiere esami anche « nel merito » per stabilire la sussi-
— 178 — posti a base delle sentenze irrevocabili coinvolte, l’eventuale integrazione istruttoria consentita in via generale dall’art. 666, quinto comma, c.p.p., il conseguente spettro esplorativo diretto ad individuare « il medesimo disegno criminoso » ed a rivalutare la pena da infliggere, rappresentano momenti inediti per l’esecuzione penale. Non va, in proposito, taciuto come la disciplina ora indicata tenda ad evitare, soprattutto alla luce di taluni interventi costituzionali sul rapporto tra reato continuato e cosa giudicata (12), che previsioni di favore possano essere ammesse o precluse secondo che, in maniera del tutto casuale, l’irrevocabilità interviene a definire la vicenda giudiziale sul fatto più grave prima o dopo quella relativa ai reati « satelliti » separatamente accertati (13). Il giudicato, insomma, non può produrre alcuno sbarramento quoad poenam, considerato che il cumulo giuridico statuito dall’art. 81 c.p. va adottato in maniera uniforme, senza che ciò dipenda dalla celebrazione riunita o disgiunta dei procedimenti. In questa prospettiva, certo, non si può sottovalutare il principio di « umanizzazione della pena » (14) (art. 27, terzo comma, Cost.). Ma, soprattutto, qui è in gioco l’esigenza di pari trattamento rispetto ai criteri di legalità della sanzione irrogabile (artt. 3 e 25, secondo comma, Cost.). Tale ultimo profilo costituisce un complesso di rilievo costituzionale che supera la pretesa immutabilità del stenza dei requisiti d’irreperibilità del condannato. Tuttavia, è indubitabile la più ampia portata cognitiva realizzabile in esecuzione quando occorre ‘‘interpretare’’ i contenuti fattuali già ‘‘giudicati’’ allo scopo di individuare il « medesimo disegno criminoso » e, conseguentemente, di applicare la sanzione. (12) Cfr. Corte cost. sentt. 9 aprile 1987, n. 115 (Cass. pen., 1987, p. 1497) e 3 luglio 1987, n 267 (Gazz. Uff., Serie speciale, 22 luglio 1987, n. 33, p. 22), secondo le quali, sia pure trattando materie non identiche e usando argomenti diversi, hanno ritenuto che il giudicato non può rappresentare fenomeno preclusivo al trattamento di favore previsto dall’art. 81 c.p. Sul punto, LAZZARONE, Continuazione nel reato e res judicata al vaglio della Corte costituzionale, in Leg. pen., 1987, p. 681 ss.; RUSSO, Reato continuato e cosa giudicata: problemi applicativi e prospettive normative in una recente pronuncia della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1987, I, p. 3028 ss. (13) Ci si riferisce all’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’aumento della pena ai fini dell’art. 81 c.p. poteva essere effettuato dal giudice di un procedimento separato soltanto se fosse già divenuta irrevocabile la sentenza relativa al reato più grave sul quale praticare il calcolo « suppletivo ». Era naturalmente in gioco l’intera previsione del cumulo giuridico nel caso inverso, quando cioè il procedimento per l’ipotesi illecita meno grave era già concluso e residuava sub judice l’accertamento del reato più grave. Cfr. Cass., Sez. Un., 19 giugno 1982, Alunni, in Giust. pen., 1982, II, c. 674; Cass., Sez. VI, 23 aprile 1986, Patruno, in Giust. pen., 1986, II, c. 609; Cass., Sez. VI, 10 ottobre 1986, Di Diodato, ivi, 1987, III, c. 267; Cass., Sez. VI, 12 gennaio 1987, Di Maggio, ivi, 1988, II, c. 195. Contro simile interpretazione peraltro, già, COPPI, Reato continuato e cosa giudicata: accertamento della violazione più grave dopo la sentenza e nuova determinazione della pena base, in Giur. merito, 1971, II, p. 100. (14) Relazione al Prog. prel., cit., p. 139.
— 179 — comando (15) e trasforma il titolo in un fenomeno composto, frutto di attività congiunta tra cognizione ed esecuzione (16). Occorre, peraltro, precisare che il significato dell’art. 671 c.p.p. non è venuto meno dopo il ripristino del reato continuato come presupposto della connessione (17). È chiaro che la preferenza verso la separazione dei processi, insita nell’originaria versione del codice, determinava un reale effetto di recupero post judicatum dei benefici previsti dall’art. 81 c.p.; tutto ciò fino al punto da ritenere realizzato uno spostamento della « valutazione complessiva dei reati... alla fase esecutiva » (18). Peraltro, è altrettanto scontato che oggi, attese le modifiche intervenute sull’art. 12 lett. b) c.p.p., la cennata disciplina è destinata ad assumere un’autonomia residuale. Tuttavia, per quanto qui interessa, tale ridotta operatività, forzatamente imposta, non è frutto di tendenze dirette ad attenuare la flessibilità del comando; essa è, piuttosto, un riflesso del modo in cui si è inteso trattare gli orizzonti dell’accertamento di cognizione (19). Per ciò solo, dunque, non risultano sminuite le attribuzioni della fase esecutiva quanto alla possibilità di integrare il titolo adeguandone gli aspetti sanzionatori; scopo, questo, che se, da un lato, è necessario sul piano delle esigenze costituzionali, per altro verso, non potrebbe essere raggiunto ove il provvedimento oggetto d’esecuzione fosse davvero immutabile (20). 2. L’abolitio criminis come deroga parziale al giudicato. — In quest’ottica specifica va osservata la disciplina sull’abolitio criminis inserita nel contesto esecutivo; infatti, quanto alla mediazione tra stabilità del giu(15) Cfr., AMBROSETTI, Problemi attuali in tema di reato continuato. Dalla novella del 1974 al nuovo codice di procedura penale, Padova, 1991, p. 46 ss.; BASSI, La continuazione criminosa come strumento applicabile dal giudice dell’esecuzione: la nuova veste dell’istituto e le sue implicazioni processuali, in Cass. pen., 1991, II, p. 235; CORBI, L’esecuzione nel processo penale, cit., p. 301 ss.; COSSEDDU, Continuazione nel reato e giudicato di fronte alle scelte del c.p.p. 1988, in Giust. pen., 1990, III, c. 24 ss.; D’ASCOLA, Limiti all’applicazione della disciplina del reato continuato nella fase dell’esecuzione penale, in questa Rivista, 1991, p. 1280 ss.; GAITO, Concorso formale e reato continuato nella fase dell’esecuzione penale, ivi, 1989, p. 992 ss.; (diffusamente) D. GROSSO, Continuazione di reati e processo penale tra dogma e riforma, in Giust. pen., 1989, II, c. 616 ss.; PAGLIARO, Cosa giudicata e continuazione di reati, in Cass. pen., 1987, p. 97 ss. (16) Cfr., D. GROSSO, Esecuzione penale, in Enc. giur., vol. XIII, Roma, 1989, p. 4; PIERRO, Esecuzione, in AA.VV., Gli altri gradi di giurisdizione, a cura di A.A. Dalia, Napoli, 1991, p. 60. (17) Si veda l’art. 1 d.l. 20 novembre 1991, n. 367 conv. in l. 20 gennaio 1992, n. 8. (18) PAGLIARO, Riflessi del nuovo processo penale sul diritto penale sostanziale, in questa Rivista, 1990, p. 36. (19) Cfr., in proposito i rilievi di KALB, Il processo per le imputazioni connesse, cit., p. 34 ss. (20) Cfr. le osservazioni di TAORMINA, Il processo di esecuzione nel progetto del nuovo codice di procedura penale, in AA.VV., Prospettive del nuovo processo penale, a cura di A. Stile, Napoli, 1978, p. 183 ss.
— 180 — dicato e valori di rango superiore, notevoli sono le analogie che essa presenta con i temi appena accennati. Dal punto di vista generale, la portata dell’art. 673 c.p.p. non può che essere ricondotta ai profili normativi che ne giustificano la ragion d’essere, vale a dire all’art. 2, secondo comma, c.p. ed all’art 30, quarto comma, l. 11 marzo 1953, n. 87. Tuttavia, pur nell’unicità delle conseguenze, secondo le quali se la previsione incriminatrice cessa di esistere vengono meno esecuzione ed effetti penali della condanna, le ipotesi implicano aspetti diversi. Riguardo all’art. 2, secondo comma, c.p., la regola contempla un caso di abrogazione determinata da una legge successiva che, in quanto tale, avrebbe dovuto comportare la semplice non ultrattività della norma precedente a partire dalla sua entrata in vigore. Ciò non avrebbe alterato i rapporti giuridici caduti sotto la pregressa disciplina e definitivamente conclusi ed avrebbe, altresì, consentito il progressivo esaurimento degli effetti da essi già scaturiti (21). Di solito, infatti, l’efficacia abrogante, anche in ambito normativo, non è retroattiva (22), e tanto meno coinvolge situazioni soggettive sulle quali è intervenuto un giudicato. Questo non avviene in caso di norme penali sostantive, superando l’ordinario regime di successione tra leggi. Tale fenomeno, infatti, determina la « iperretroattività della legge abolitrice » (23), generando, da un lato, la liceità futura di condotte prima vietate e, dall’altro, il venir meno delle conseguenze penali derivanti dalla sentenza irrevocabile pronunciata su fatti che erano illeciti al tempo della loro commissione. La deroga al generale meccanismo, capace di travolgere gli effetti sanzionatori del giudicato, risiede, evidentemente, in ragioni che superano il contesto delle fonti legislative ordinarie. Anche a non volere ritenere che la previsione di cui all’art. 2, secondo comma, c.p. si presenti come « materialmente » costituzionale in rapporto all’art. 25, secondo comma, Cost. (24), è indubitabile che la sua rilevanza tende ad imporsi come prin(21) Sul piano generale, infatti, cfr. PATRONO, Legge (vicende della), in Enc. del dir., vol. XXIII, Milano, 1973, p. 9 ss. (22) Cfr., sul punto specifico, quanto al fenomeno dell’abrogazione, PUGLIATTI, Abrogazione, in Enc. del dir., vol. I, Milano, 1958, p. 151; analogamente, in funzione l’abrogazione normativa, MODUGNO, Abrogazione, in Enc. giur., vol. I, Roma, 1988, p. 6. (23) ROMANO, sub art. 2 c.p., in Commentario sistematico al codice penale, Milano, 1995, p. 54. (24) In tal senso, invece, PAGLIARO, Legge penale nel tempo, in Enc. del dir., vol. XXIII, Milano, 1973, p. 1065, sul presupposto che la materia trattata dall’art. 2 c.p. riguarda, nel suo complesso, il principio di legalità sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost. e concerne, più in generale, « i diritti fondamentali del cittadino ». Criticamente, sulla diretta riconducibilità dell’abolitio criminis all’art. 25, secondo comma, Cost., PALAZZO, Legge penale, in Dig. disc. pen., vol. VII, Torino, 1993, p. 365.
— 181 — cipio fondamentale dell’ordinamento penale (25), sotto il profilo specifico della parità di trattamento tra comportamenti identici (26); « non sarebbe infatti ragionevole punire (o continuare a punire) un soggetto per un fatto che chiunque altro può impunemente commettere nel momento in cui il primo subisce la condanna o i suoi effetti (27). In questa prospettiva la ‘‘flessione’’ del giudicato è dovuta, ancora una volta, a perequazioni punitive di diretto rilievo costituzionale. Tuttavia, non sfugge che la paralisi delle conseguenze derivanti dal provvedimento irrevocabile assume carattere parziale, giustificandosi sull’esclusivo piano sanzionatorio; essa investe solo quella parte il cui permanere diviene incompatibile a principi che risultano superiori rispetto al bisogno di certezza posto a base dell’immutabilità del titolo. Tali conclusioni sono ripetibili anche quando l’abolitio criminis deriva da una pronuncia d’illegittimità costituzionale, sebbene la questione presenti premesse diverse (28). È evidente, in via di prima approssimazione, che abrogazione ed illegittimità della norma sono fenomeni differenti; mentre la prima, intervenendo in virtù di nuove scelte legislative, determina solitamente inefficacia ex nunc, la seconda, coinvolgendo un giudizio d’invalidità, può essere intesa come generale meccanismo di travolgimento anche degli effetti già prodotti (29). Tuttavia, occorre precisare, pur senza negare la differente natura in astratto esistente tra invalidità e abrogazione, che la pronuncia (25) PETRONE, L’abolitio criminis, Milano, 1985, p. 111 ss. (26) Cfr. VASSALLI, Abolitio criminis e principi costituzionali, in questa Rivista, 1983, p. 378 ss. (27) PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1990, p. 48. (28) A riguardo, per l’approfondimento della complessa tematica, CAVALLARI, Natura ed effetti della dichiarazione d’illegittimità costituzionale della legge penale, in Arch. pen., 1956, I, p. 117 ss; CRISTIANI, Sulla natura dei giudizi d’illegittimità costituzionale in rapporto alla successione di leggi penali, in Riv. pen., 1955, I, p. 167 ss.; DELITALA, Gli effetti penali della dichiarazione d’illegittimità costituzionale delle leggi, in Riv. it. scienze giur., 1954, p. 17 ss.; M. GALLO, La « disapplicazione » per invalidità costituzionale della legge penale incriminatrice, in Studi in onore di E. Crosa, II, Milano, 1960, p. 916 ss.; M. LEONE, Aspetti costituzionali del principio d’irretroattività in materia penale, in Giust. pen., 1982, II, c. 257 ss.; PARODI-GIUSINO, Effetti della dichiarazione d’incostituzionalità delle leggi penali, in questa Rivista, 1982, p. 915; VASSALLI, Abolitio criminis e principi costituzionali, cit., p. 407 ss. (29) Cfr., PATRONO, Legge (vicende della), in Enc. del dir., cit., p. 912 ss. ritenendo che la retroattivita degli effetti dell’incostituzionalità non va desunto dal solo art. 136 Cost., ma dal combinato disposto degli artt. 1, l. cost. n. 1/48, 23 e 30, l. n. 87/53, e 136 Cost. Analogamente, sul presupposto che l’illegittimità produce un contrasto originario tra norma e Costituzione, M. GALLO, La « disapplicazione », cit., p. 724; LEBMAN, Contenuto ed efficacia delle decisioni della Corte costituzionale, in Riv. dir. proc., 1957, p. 507; PODO, Successione di leggi penali, in N.ssimo Dig. it., vol. XVIII, Torino, 1971, p. 686 ss.; PUGLIATTI, Abrogazione, cit., p. 151. Negli stessi termini, ritenendo « nulla » e, dunque, originariamente improduttiva d’effetti, la norma illegittima, ONIDA, Illegittimità costituzionale di
— 182 — d’illegittimità incontra il limite dei c.d. « rapporti esauriti » (30), non incidendo sugli effetti in via di completamento originati da situazioni soggettive definitivamente regolate dalla legge abolita o, comunque, giudizialmente non più controvertibili (31). Pertanto, sul piano delle conseguenze, la vicenda penale irrevocabilmente conclusa avrebbe potuto non essere coinvolta dalla sentenza d’illegittimità se l’art. 30, quarto comma, l. 11 marzo 1953, n. 87 non avesse specificamente statuito una cosa diversa (32). Certo, seguendo la linea della generale retroattività della sentenza costituzionale abolitrice, si può sempre sostenere che, rispetto alla norma dichiarata illegittima, il complesso fenomeno dell’esecuzione in materia penale non appartenga all’area dei « rapporti esauriti » ma rientri nell’ambito di quelli ancora « in corso » (33); cosicché, l’efficacia dell’incostituzionalità potrebbe essere molto più radicale di quanto appena riferito, superando tutti gli effetti del giudicato (34). Tuttavia, pur volendo, in teoria, ritenere esatta la superiore premessa, bisognerebbe sempre fare i conti con il dato normativo più volte citato, proprio nella parte in cui limita la flessione del giudicato ai soli profili penali del comando. Conclusioni analoghe conseguono alla contraria opinione secondo cui il combinato disposto degli artt. 136 Cost. e 30, terzo comma, l. 11 marzo 1953, n. 87 esclude che la dichiarata invalidità della norma ha generale carattere retroattivo (35); in tal caso, la regola circa il venir meno dell’esecuzione e degli effetti penali della condanna (art. 30, quarto comma, l. 11 leggi limitatrici di diritti e decorso del termine di decadenza, in Giur. cost., 1965, 1967, p. 561. (30) Per questa interpretazione anche nella giurisprudenza della Corte di cassazione, per tutte, Sez. un., 7 luglio 1984, Cunsolo, in Giur. it., 1985, II, c. 178. (31) PIERANDREI, Corte costituzionale, in Enc. del dir., vol. X, Milano, 1962, p. 972, nonché, PIZZORUSSO, sub art. 136 Cost., in Commentario della Costituzione. Garanzie costituzionali, a cura di G. Branca, Bologna 1981, p. 184. Giova, peraltro, precisare, senza approfondire una tematica che resta estranea alla presente indagine, che recentemente la Corte costituzionale ha operato una sorta di self restraint sui limiti d’efficacia delle declaratorie d’illegittimità; servendosi delle sentenze « monito » per il legislatore inerte (cfr. MORELLI, Sentenza monito, inerzia del legislatore e successiva declaratoria di « incostituzionalità sopravvenuta ». Nuove tipologie di decisioni costituzionali al di là del dogma dell’efficacia retroattiva, in Giur. cost., 1989, I, p. 510 ss.) è divenuto jus receptum utilizzare la c.d. illegittimità costituzionale sopravvenuta, in modo da evitare, appunto, l’eccessivo dilatarsi del fenomeno della retroattività degli effetti (cfr. POLITI, La limitazione degli effetti retroattivi delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale nel recente dibattito dottrinale, in Giur. cost., 1991, p. 3003 ss.). (32) Cfr. CHIAVARIO, Giudizi (rapporti tra), in Enc. del dir., vol. XVIII, Milano, 1969, p. 999. (33) PIERANDREI, Corte costituzionale, cit., p. 974. (34) Per tale soluzione, sia pure in un più vasto contesto sistematico esteso ai rapporti tra revisione e giudicato, NORMANDO, Limiti alla revisione ed intangibilità del giudicato, in questa Rivista, 1986, p. 851 ss. (35) SILVESTRI, Legge (controllo di costituzionalità), in Dig. disc. pubb., vol. IX, Torino, 1994, p. I57.
— 183 — marzo 1953, n. 87) rappresenta una vera e propria deroga all’ordinaria inefficacia dell’illegittimità sui fenomeni giuridici irrevocabilmente statuiti. Di norma, insomma, « il giudicato impedisce l’espansione... della sentenza d’incostituzionalità, perché la sua autorità non trova smentite all’interno del sistema di giustizia costituzionale al di fuori della regola specifica — e di stretta interpretazione — » sopra accennata (36). Ciò premesso, non sfugge che l’abolitio criminis, comunque intervenga, circoscrive la propria « iperretroattività » ai soli profili penali del giudicato; la deroga parziale in tanto si giustifica in quanto gli interessi coinvolti, sia per espressa previsione (art. 30, quarto comma, l. 11 marzo 1953, n. 87) sia per diretta riconducibilità a criteri di eguaglianza connessi alla legalità del trattamento punitivo (artt. 3 e 25, secondo comma, Cost.), assumono una dimensione superiore all’intangibilità del comando. In questi termini, la disciplina in esame s’inserisce senza troppe sbavature nella sistematica dell’esecuzione. In contiguità a quanto è avvenuto circa il cumulo giuridico di cui all’art. 81 c.p., si tratta di adattare gli effetti del provvedimento alle più adeguate esigenze punitive collocate a livello costituzionale. 3. L’estensione possibile della nuova disciplina processuale. I provvedimenti di condanna. — Premessi i rapporti, definibili sul piano normativo, tra giudicato ed esigenze legate all’abolitio criminis, si tratta, ora, di capire se l’art. 673 c.p.p. abbia recato novità, ed eventualmente in quali ambiti, alla menzionata disciplina sostanziale. In primo luogo, non sembra porre particolari problemi l’espressa previsione secondo cui le conseguenze abolitive operano anche nel caso di decreto penale. In via di stretta esegesi letterale, del resto, l’art. 2, secondo comma, c.p. subordina il beneficio all’ipotesi in cui « vi è stata condanna », mostrando, evidentemente, di comprendere pure il provvedimento monitorio divenuto inopponibile. Qualche incertezza potrebbe derivare dal confronto tra l’art. 673 c.p.p. e l’art. 30, quarto comma, l. n. 87/53, atteso che quest’ultimo si riferisce espressamente alla sola sentenza; tuttavia, non può non riconoscersi che, così restringendone la portata, la sua ‘‘lettura’’ sarebbe nient’affatto ragionevole. Peraltro, considerati gli attuali limiti di conversione della pena detentiva, quando occorre adottare la sanzione sostitutiva pecuniaria (art. 53, primo comma, l. 689/81), e il conseguente, possibile utilizzo del decreto penale (37), diffi(36) CHIAVARIO, Decisioni della Corte costituzionale e giudici penali: spunti minimi in funzione comparatistica, in Cass. pen., 1988, p. 186. (37) È noto che l’art. 5, primo comma, d.l. 14 giugno 1993, n. 187, conv. in l. 12 agosto 1993, n. 296, modificando l’art. 53, primo comma, l. n. 689/81, consente attualmente di convertire in sanzione pecuniaria la pena detentiva che, irrogata in concreto, non superi i tre mesi di detenzione o di arresto; ne consegue che, potendo il decreto penale essere
— 184 — cilmente si potrebbe scriminare tra i due provvedimenti di condanna quanto ad intensità di conseguenze da essi, in astratto, derivanti. Conclusioni analoghe appaiono necessarie con riferimento alla sentenza che applica la pena su richiesta delle parti. A prescindere dal quantum di giudizio che la precede, non è contestabile che essa è idonea a produrre numerosi riflessi di natura penale; del resto, eccettuata l’inapplicabilità delle pene accessorie o delle misure di sicurezza diverse dalla confisca « obbligatoria », basterebbe pensare all’entità della sanzione detentiva irrogabile (sia pure nei limiti di due anni) non sospesa condizionalmente. Oltretutto, è lo stesso art. 445, primo comma, c.p.p. ad equiparare la sentenza di « patteggiamento » a quelle di condanna « salvo diverse disposizioni di legge », con il chiaro intento di contemperare la regola generale con le previsioni specifiche dirette a limitare gli effetti normalmente originati da una condanna (38). In proposito, tuttavia, con esclusivo riferimento alla pena negoziata, si potrebbe sostenere che, prevista la cessazione degli « effetti penali » conseguente a particolari condizioni e dopo un certo tempo (artt. 445, secondo comma, c.p p. e 136 d.l.vo 28 luglio 1989 n. 271) (39), la regola esecutiva in esame si adotti solo se tale beneficio ha mancato di realizzarsi. Sotto questo profilo, sarebbe inutile, esperire la procedura d’abolitio criminis se sono già cessati esecuzione penale della condanna ed estinti i suoi effetti. Un’ipotesi di questo tipo merita, però, qualche precisazione che ne pone in dubbio la praticabilità. Innanzitutto, essa non potrebbe trovare luogo quando è stata irrogata la sanzione a carattere detentivo, atteso che il venir meno degli « effetti penali », in tal caso, non riguarda i limiti in cui è consentito adottare la sospensione condizionale (art. 445, secondo comma, c.p.p.) (40); una conseguenza, insomma, e di non poco conto, permarrebbe pur sempre. emesso anche nell’ipotesi di sanzione pecuniaria sostitutiva (art. 459, primo comma, c.p.p. ) il provvedimento è in grado di coprire un’area di illeciti non sempre lievi. (38) Cfr., tra gli altri, CONSO, È in corso un dibattito sul Progetto preliminare del 1988, in Giust. pen., 1988, I, c. 294; CORDERO, Procedura penale, Milano, 1995, 891, p. 869; ILLUMINATI, I procedimenti a conclusione anticipata e speciali nel nuovo codice di procedura penale, in Pol. dir., 1990, p. 281; LOZZI, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, in AA.VV., I riti differenziati nel nuovo processo penale, Milano, 1990, p. 55 ss.; LUPO, Il giudizio abbreviato e l’applicazione di pena negoziata, in AA.VV., I giudizi semplificati, coordinati da Gaito, Padova, 1989; MAZZADURI, Intervento, in AA.VV., I riti differenziati, cit., p. 236; MONTI, La sentenza di « patteggiamento » come sentenza di condanna: una soluzione che sembra l’unica possibile, in Arch. n. proc. pen., 1992, p. 175; TAORMINA, Qualche riflessione in tema di natura giuridica della sentenza di applicazione di pena su richiesta delle parti, in Giust. pen., 1990, III, c. 271 ss.; RICCIO, I procedimenti speciali, in CONSO-GREVI, Profili, cit., p. 511; TONINI, I procedimenti semplificati, in Le nuove disposizioni sul processo penale, Padova, 1989, p. 113. (39) A riguardo, MACCHIA, Il patteggiamento, Milano, 1992, p. 65. (40) Cfr., RICCIO, I procedimenti speciali, cit., p. 511.
— 185 — Inoltre, per quanto attiene alle pene pecuniarie o sostitutive, l’estinguersi degli effetti di cui parla l’art. 445, secondo comma, c.p.p., perché si possa ritenere coincidente con quello riconducibile all’art. 673, primo comma, dovrebbe determinare l’eliminazione della « scheda » dal casellario giudiziale; le regole attuali, infatti, precisano che la pronuncia d’abolitio criminis impone di cancellare la relativa iscrizione della condanna (art. 687, secondo comma, lett. a) c.p.p.), per l’evidente necessità di escludere quel determinato « segmento » dalla complessiva vicenda penale del singolo. Infine, più in generale, va osservato che, a seguito della procedura esecutiva, si può operare lo « scomputo », dalla pena derivante da altro reato, della sanzione già sofferta in base alla relativa condanna (art. 657, secondo e terzo comma, c.p.p.); fenomeno, questo, che è sicuramente estraneo all’estinzione degli effetti di cui all’art. 445, secondo comma, c.p.p. 4. (Segue): Provvedimenti di proscioglimento e di non luogo a procedere. — Problemi più delicati genera l’art. 673 c.p.p. nella parte in cui coinvolge le sentenze definitive di proscioglimento e di non luogo emesse per estinzione del reato o inimputabilità. Innanzitutto, l’ampliarsi della norma al provvedimento di non luogo a procedere manifesta la tendenza a superare un distinguo, pur presente nel codice, che ha ad oggetto il tipo di sentenza suscettibile di diventare cosa giudicata (art. 648, primo comma, c.p.p.). Condivisibile o meno che sia il dettato normativo (41), stando alla stretta esegesi letterale, il non luogo a procedere divenuto inoppugnabile assume forza esecutiva senza appartenere al novero dei provvedimenti « irrevocabili » (art. 650, secondo comma, c.p.p.) (42). Nondimeno, la disciplina dell’abolitio criminis equipara i due tipi di sentenza quando si tratta di ottenere la più favorevole dichiarazione secondo cui il fatto « non è previsto dalla legge come reato »; evidentemente, più che ai presupposti formali del giudicato, (41) In senso critico, verso la soluzione che attribuisce al provvedimento inoppugnabile di non luogo la sola efficacia esecutiva, anziché il ruolo di vera e propria sentenza irrevocabile secondo lo schema adottato nell’art. 648, primo comma, c.p.p., CORDERO, Procedura, cit., p. 1057; TRANCHINA, L’esecuzione, in SIRACUSANO-GALATI-TRANCHINA-ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, Milano, vol. II, 1996, p. 531. (42) In proposito si è ritenuto di escludere che la disciplina del ne bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p., sia applicabile anche alle sentenze di non luogo a procedere Cass., Sez. III, 18 gennaio 1994, Bignami, in Cass. pen., 1994, p. 2455. Peraltro, ciò ha indotto l’idea che tale provvedimento è revocabile (art. 434 c.p.p.) quando le nuove prove siano tali da consentire una diversa qualificazione del « fatto » precedentemente dichiarato estinto. TIRELLI, La revoca della sentenza di non luogo a procedere, in questa Rivista, 1994, p. 100. In senso contrario, Pret. Perugia, 14 aprile 1995, Dozza, in Cass. pen., 1995, p. 3547, nonché, GRASSI, Considerazioni circa il divieto di un secondo giudizio quando nei confronti dell’imputato sia già stata emessa, per lo stesso fatto, sentenza di non luogo a procedere per essere il reato estinto per amnistia, in Cass. pen., 1994, p. 2456.
— 186 — qui l’interesse si rivolge agli eventuali effetti che possono scaturire dal non luogo a procedere. Ciò precisato, coinvolgere i provvedimenti definitivi per estinzione del reato appare, per certi versi, eccessivo e, per altri, riduttivo (43). Quanto ai riflessi di natura penale, ovvero quelli che discendono dal comando e la cui adozione non implica ulteriori procedimenti decisori demandati ad organi civili o amministrativi, si deve riconoscere che tali sentenze presentano una ridotta attitudine a produrne. Di essi neppure v’è annotazione presso il casellario giudiziale (art. 686 c.p.p.) (44). Né, sotto il profilo specifico, l’art. 673, secondo comma, c.p.p. potrebbe riferirsi alle iscrizioni relative alla disciplina codicistica abrogata (45), atteso che una regola di coordinamento (art. 237 d.l.vo 29 luglio 1989, n. 271) prescrive di eliminare dal casellario tutto quanto non è indicato dal vigente codice o dalle relative disposizioni attuative; cosicché, pure l’effetto in questione è destinato a venir meno, indipendentemente dalla procedura d’abolitio criminis. Un discorso analogo, ed è inutile ripeterlo, va fatto per le sentenze che dichiarano non doversi procedere per essere il reato estinto a seguito d’oblazione; anche i casi di fatti riconducibili all’art. 162bis c.p., richiedendo un proscioglimento, dovrebbero subire la stessa sorte (46). Parimenti, analogie si registrano per l’estinzione del reato seguente all’esito positivo della prova nei confronti del minore (47). Non è, infatti, prevista alcuna iscrizione di tale provvedimento presso l’apposito (43) Cfr., tuttavia, NAPPI, Guida al codice di procedura penale, Milano, 1995, p. 674, nel senso che la previsione della procedura anche per le ipotesi di proscioglimento estintivo costituisce frutto dell’estensione dei principi generali desumibili dagli artt. 2, secondo comma, c.p. e 30, quarto comma, l. 11 marzo 1953, n. 87. (44) Sul punto, specificamente, PIGNATELLI, L’esecuzione, in FORTUNA-DRAGONE-FASSONE-GIUSTOZZI-PIGNATELLI, Manuale pratico del nuovo processo penale, Padova, 1993, p. 1100. (45) L’art. 604, primo comma, lett. b) non escludeva dalla relativa iscrizione le sentenze di proscioglimento per estinzione del reato. (46) Cfr. PRESUTTI, sub art. 237 disp. coord., in AMODIO-DOMINIONI, Commentario del nuovo codice di procedura penale, Appendice, Milano, 1990, p. 242. (47) Il discorso non riguarda il regime delle conseguenze sanzionatorie successive all’ordinanza di « messa alla prova » ma degli effetti derivanti dal proscioglimento estintivo. È, comunque, innegabile che una pronuncia di questo tipo presuppone l’accertamento della responsabilità del minore (PALOMBA, Il sistema del nuovo processo penale minorile, Milano, 1991, p. 416; L. POMODORO, Minore imputato e « messa alla prova », in Dir. pen. e proc., 1995, 2, p. 265; SCOMPARIN, Sospensione del processo per « messa alla prova »: limiti di compatibilità con i riti speciali ed altri profili processuali dopo l’intervento della Corte costituzionale, in Leg. pen., 1995, p. 511 ss.), anche quando la relativa decisione è stata assunta « allo stato degli atti » nell’udienza preliminare (cfr. su tale problematica, DI PAOLO, Riflessioni in tema di « probation » minorile, in Cass. pen., 1992, p. 2867; GHIARA, La messa alla prova nella legge processuale minorile, in Giust. pen., 1991, III, c. 89; LOSANA, sub art. 28 d.P.R. n. 448/88, in Commento al codice di procedura penale. Le leggi collegate, I, coordinato da M. Chiavario, Torino, 1993, p. 297; MAGNO, La decisione, in Il processo penale minorile: prime esperienze, a cura di Occhiogrosso, Milano, 1991, p. 132 ss.; MAZZA-GALANTI-
— 187 — casellario giudiziale (artt. 14 d.P.R. 22 settembre 1989, n. 448 e 18 d.l.vo 28 luglio 1989, n. 272), per quanto la relativa procedura può coinvolgere anche illeciti particolarmente gravi (48). Restano, invece, iscritte, le sentenze concernenti le sanzioni applicate a richiesta dell’imputato, secondo l’abrogato art. 77 l. 689/81 (art. 196 d.l.vo 29 luglio 1989, n. 271); in tal caso, ben potrebbe l’accertamento della norma abolita determinare l’eliminazione della « scheda » ai sensi dell’art. 687, secondo comma, c.p.p. Non si nega, comunque, che, sul piano più generale, le pronunce estintive non escludono taluni effetti negativi. L’esempio è quello della circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 2 c.p. ritenuta applicabile anche se il reato « mezzo » è stato dichiarato estinto; parimenti, le sentenze proscioglitive per messa alla prova o per oblazione « speciale » potrebbero essere successivamente inibite quando si dimostra l’esistenza di un precedente giudiziario terminato allo stesso modo. Peraltro, occorre precisare che all’estinzione del reato segue eccezionalmente l’adozione della confisca (49), perlomeno quella prevista dall’art. 240, secondo comma, n. 2 c.p. (50). È, dunque, evidente come, in tutti questi casi, l’intervento abolitivo sia in grado di eliminare il permanere di siffatte conseguenze, evitando che pronunce di questo tipo possano ritenersi ancora come fenomeni rilevanti nella vicenda penale del singolo. Non sfugge, tuttavia, come l’art. 673 c.p.p., quando coinvolge le sentenze estintive, presenti una notevole apertura verso pronunce che molto più raramente sono suscettibili di creare conseguenze di diretta natura sanzionatoria; a parte la tutela morale volta ad ottenere la dichiarazione secondo cui « il fatto non è previsto dalla legge come reato » (51), è probabile che la disciplina abbia inteso riPATRONE, La messa alla prova nel processo penale minorile, in Dei delitti e delle pene, 1993, 2, p. 162. (48) A riguardo, in senso critico, GIANNINO, Il processo penale minorile, Padova, 1994, p. 66. (49) Cfr., per l’applicabilità della confisca anche facoltativa alle ipotesi di proscioglimento per estinzione del reato, Cass., Sez. III, 7 giugno 1982, Campari, in Cass. pen., 1984, p. 57. Per le diverse opinioni a riguardo, TRAPANI, Confisca, II), in Enc. giur., vol. VII, Roma, 1988, p. 4. (50) In tal senso, Cass. Sez. un., 25 marzo 1993, Carlea, in Cass. pen., 1994, p. 1670. (51) Sul punto, CORBI, L’esecuzione, cit., p. 332, nel senso che pure sotto questo profilo permane l’interesse a richiedere la procedura in esame. In una prospettiva sostanzialistica, peraltro, non si nega che il « reato estinto rimane comunque elemento costitutivo di una condotta vietata e, più in generale, fatto integrativo di fattispecie criminose complesse »: CUSUMANO, Estinzione del reato e della pena (cause di), in Enc. giur., vol. XIII, Roma, 1989, p. 4. Sotto altro profilo, del resto, la sussistenza del reato non è ipoteticamente esclusa nemmeno dalle declaratorie estintive di cui all’art. 129 c.p.p. ed è, invece, implicitamente affermata, al termine del giudizio d’appello, o di cassazione quando occorre statuire esclusivamente sulla responsabilita civile dell’imputato (art. 578 c.p.p.).
— 188 — ferirsi a tali provvedimenti come a dei presupposti per il verificarsi di vari effetti posti al di fuori del campo penale in senso stretto. Tuttavia, se anche questa è la prospettiva in cui osservare il fenomeno, va precisato l’irragionevole riduzione operata dal legislatore nel momento in cui limita la procedura d’abolitio ai soli proscioglimenti per estinzione del reato. Si faccia l’ipotesi dell’art. 44 r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 che impone di sottoporre a procedimento disciplinare, per lo stesso fatto dell’imputazione, l’avvocato che sia stato prosciolto con tutte le formule diverse dal « fatto non sussiste » o « l’imputato non l’ha commesso ». Senza, poi, considerare che non è affatto giustificabile non aver menzionato le sentenze di perdono giudiziale, salvo a non voler ritenere tale ipotesi, ai fini della procedura, riconducibile nel novero delle condanne (52). Le cose stanno in modo diverso per quanto concerne le sentenze d’inimputabilità. In questi casi ne deriva, innanzitutto, l’iscrizione nel casellario giudiziale (art. 686, primo comma, lett. a) n. 4 cp.p.), per l’implicita affermazione di responsabilità che tali provvedimenti necessariamente presuppongono e per i riflessi in tema di pericolosità sociale; inoltre, com’è ovvio, da essi possono scaturire misure di sicurezza personali. Non occorre attardarsi a dimostrare, insomma, come l’estensione dell’art. 673 c.p.p. ai casi di proscioglimento in esame è giustificabile sul piano dell’eguaglianza di trattamento, considerata la gravità degli effetti che da esse discendono, rispetto alla più generale disciplina prevista per le sole condanne (53). (52) È noto che la pronuncia presuppone l’accertamento della colpevoleza (tra gli altri, M. SEVERINO, Perdono giudiziale, in Enc. giur., vol. XXIII, Roma, 1990, p. 2) e che ad essa, oltre i limiti di concedibilità di un secondo perdono giudiziale, possono seguire talune misure « amministrative », secondo gli artt. 25 e 26 r.d.l. n 1404/34. Nel senso di attribuire alle dichiarazioni d’illegittimità costituzionale della norma incriminatrice l’effetto di travolgere anche le sentenze di perdono giudiziale, ABBAMONTE, L’effetto della dichiarazione d’illegittimità costituzionale della legge incriminatrice sulle sentenze di proscioglimento per perdono giudiziale, in questa Rivista, 1958, p. 289 ss. (53) L’art. 673, secondo comma, c.p.p. finisce con avere un’estensione limitata quanto ai provvedimenti di non luogo a procedere, tenuto conto dell’intervento costituzionale 10 febbraio 1993, n. 41 (in Giur. cost., 1993, p. 297 ss., con nota di TASSI, Sentenza di non luogo a procedere e difetto d’imputabilità) che esclude la possibilità di pronunciare sentenza quando risulta evidente che l’imputato è persona non imputabile. Si deve ritenere, anche dopo la soppressione dell’aggettivo « evidente » dalla regola di giudizio in udienza preliminare (l. 8 aprile 1993, n. 108), che per nessuna ragione sia attualmente consentito dichiarare il non luogo a procedere per difetto d’imputabilità. Gli argomenti della Corte costituzionale, nell’intervento citato, muovono, tra l’altro, da un presumibile eccesso di delega dell’intera previsione, « per essere la stessa non conforme ai principi e criteri direttivi a riguardo stabiliti nel numero 52), sesto periodo, dell’art. 2 » l. 16 febbraio 1987, n. 81. Appare, tuttavia, fuori dubbio che, prima della sentenza costituzionale n. 41/93 sarebbe stato consentito disporre misure di sicurezza al non imputabile mediante il provvedimento di non luogo, considerate talune regole dalle quali traspariva tale possibilità (artt. 579 e 680, secondo comma, c.p.p.: CONSO-BARGIS, Glossario della nuova procedura penale, Milano, 1992, p. 415).
— 189 — In conclusione appare chiaro come, con riferimento alle sentenze proscioglitive, la disciplina inserita nel contesto processuale abbia debordato i limiti previsti dagli artt. 2, secondo comma, c.p. e 30, quarto comma, l. n. 87/53. In rapporto alla statuizione contenuta nel codice penale, il descritto intervento integrativo non sembra sindacabile, salvo la possibile irragionevolezza per non aver esteso la disciplina ad altri tipi di proscioglimento secondo le ragioni già accennate. Peraltro, in senso contrario, neppure varrebbe invocare l’opinione che considera l’art. 2 c.p. come « materialmente costituzionale », allo scopo di ritenere che ogni sua modifica deve avvenire secondo la procedura « rafforzata » prevista per i relativi fenomeni normativi (54). In effetti l’art. 25, secondo comma, Cost. sanziona l’irretroattività della legge penale ma non tutela anche la retroattività della norma abolita o di quella più favorevole (55); tutto ciò — sia chiaro — senza voler negare che il regime tracciato dal legislatore in materia di effetti che l’abolitio criminis produce sul giudicato si giustifica sul piano dell’eguaglianza di trattamento punitivo (artt. 3 e 25, secondo comma, Cost). Argomenti diversi impone il rapporto tra l’art. 673, secondo comma, c.p.p. e la previsione che riguarda la norma penale dichiarata illegittima. Qui, l’area d’incidenza fissata sui provvedimenti definitivi è materia sottratta al regime di una qualsiasi legge ordinaria, per quanto essa non sia delimitata da una vera e propria legge costituzionale. L’art. 30, quarto comma, l. n. 87/53 appartiene al complesso delle norme concernenti il funzionamento ed i poteri della Corte, la cui ‘‘tenuta’’, però, deriva da una specifica riserva di attuazione riposta nel contesto della disciplina costituzionale (art. 1, l. cost. 11 marzo 1953, n. 1) (56); attraverso quest’ultima è stato imposto, oltre l’obbligo di provvedere mediante legge, l’obbligo « di conferire alla legge un dato contenuto » (57). In altri termini la modifica normativa che investe l’ambito precisato avrebbe dovuto intervenire attraverso una puntuale volontà legislativa diretta ad integrare le regole in materia di effetti prodotti dalle sentenze d’illegittimità costituzionale sul giudicato (58); diversamente, è assai dubbio che una qualsiasi nuova previsione ordinaria sia in grado di alterare i limiti in cui esse operano. Del resto, il particolare rigore solitamente imposto alle leggi-delega nei casi (54) In tal senso, PAGLIARO, Legge penale nel tempo, cit., p. 1065. (55) Cfr. Corte cost., sent. 16 gennaio 1978, n. 6, in Giur. cost., 1978, I, p. 40 ss. (56) PIERANDREI, Corte costituzionale, cit., p. 913. (57) Così, a proposito della discussa nozione di « riserva rafforzata », L. CARLASSARE, Legge (riserva di), in Enc. giur., vol. XVIII, Roma, 1990, p. 9. (58) Cfr., più in generale a proposito della riserva « rafforzata » concernente le norme attuative o integrative della legge costituzionale, CERRI, Delega legislativa, in Enc. giur., vol. X, Roma, 1988, p. 6.
— 190 — analoghi (59) e la mancanza di ogni riferimento effettuato a riguardo dal legislatore delegante conferma una simile prospettiva. Non si nascondono, pertanto, perplessità sul fatto che l’art. 673 c.p.p. si applichi all’intervento d’illegittimità avente ad oggetto un giudicato penale di proscioglimento. Certo, resterebbe impregiudicato il problema della ragionevolezza del trattamento differenziato derivante, rispettivamente, dall’abrogazione e dall’invalidità della legge, con specifico riguardo alle sentenze proscioglitive contemplate dalla norma processuale; tantopiù se si considera che tra le due forme di abolitio bisognerebbe, sul piano della natura dell’atto e per gli effetti in astratto desumibili, ritenere maggiormente diffusivo il provvedimento d’illegittimità costituzionale. Qui, va soltanto aggiunto che, forzando il dato testuale dell’art. 30, quarto comma, l. 11 marzo 1953, n. 87, si può probabilmente equiparare la sentenza di condanna al proscioglimento per inimputabilità. Tuttavia, propizio sarebbe un intervento legislativo che chiarisse i rapporti tra le due discipline (60). 5. (Segue): Le ipotesi di abrogazione legislativa sottratte al regime dell’art. 2, secondo comma, c.p. — Considerata l’ampia versione dell’art. 673 c.p.p., secondo cui « nel caso di abrogazione... della norma » è consentito adottare la relativa procedura, viene da chiedersi se la disciplina ha introdotto nuove previsioni rispetto all’ordinario regime in cui opera l’art. 2, secondo comma, c.p. In altri termini, si tratta di stabilire se, d’ora in poi, gli effetti retroattivi di un’abolitio si riproducono anche sulle ipotesi per le quali le vigenti regole sostantive lo escludono. È il caso dei fe(59) Cfr. DI GIOVINE, Introduzione allo studio della riserva di legge nell’ordinamento italiano, Torino, 1969, p. 117; MEZZANOTTE, Interrogativi intorno alla delegazione legislativa in materia riservata alla legge, in Giur. cost., 1969, p. 1742; PALADIN, La formazione delle leggi, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, vol. lI, Bologna, 1979, p. 12. (60) L’art. 673 c.p.p. lascia impregiudicato il problema circa la possibilità di sollevare in esecuzione incidente di legittimità costituzionale con riguardo alle norme applicate in sede cognitiva. La sua esclusione (perlomeno con riferimento alle regole processuali, Cass., Sez. II, 17 dicembre 1975, Gallo, in Cass. pen. Mass., 1977, p. 145.), può essere criticabile sul piano della ragionevolezza, quando concerne disposizioni penali sostantive; potrebbe non giustificarsi il negare tale potere al condannato se nel corso del giudizio l’imputato può esercitarlo ed ottenere esiti favorevoli (PIZZORUSSO, Sulle condizioni di ammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata mediante incidente d’esecuzione, in Giur. it., 1964, I, p. 1291; in termini pressoché analoghi, CHIAVARIO, Limiti per l’ammissibilità di pregiudiziali costituzionali in sede di esecuzione penale, in Giur. cost., 1964, p. 895; COCO, Le questioni di legittimità costituzionale nella fase esecutiva del processo penale, in Rass. st. pen., 1970, p. 858). Va, tuttavia, rilevato come la soluzione del tema non dipenda dalla previsione in esame, atteso che la procedura adottabile presuppone già intervenuta l’invalidità della fattispecie sostantiva. In teoria, un’ipotesi di questo tipo potrebbe, semmai, verificarsi instaurando un incidente di costituzionalità nell’ambito del procedimento « di genere » (art. 666 c.p.p.) avente ad esclusivo oggetto la legalità della pena in corso d’esecuzione, sotto il profilo che essa deriva da una norma probabilmente illegittima.
— 191 — nomeni abrogativi connessi alle leggi temporanee o eccezionali (art. 2, quarto comma, c.p.), ai decreti-legge non convertiti ed alle leggi finanziarie (art. 20 l. 7 gennaio 1929, n. 4). Al quesito occorre fornire risposta negativa, nonostante un diverso intendimento possa derivare dalla vaga formulazione della norma inserita nell’attuale contesto processuale (61). L’assenza di un’espressa indicazione, a riguardo, nella legge-delega gioca in modo assolutamente negativo. Il complesso delle discipline menzionate rappresenta una vera e propria « deroga » legislativa rispetto all’art. 2, secondo comma, c.p., considerato che quest’ultimo è da intendersi, per quanto già chiarito, come un principio generale dell’ordinamento penale. Vale, infatti, la pena precisare che sul piano normativo può considerarsi deroga « l’esclusione o la sottrazione di una serie di casi all’applicabilità di una norma principio » (62); s’intuisce, allora, come previsioni di questo tipo non possano venire meno che attraverso una regola esplicitamente diretta a statuire in tal senso (63). Non potrebbe, in altri termini, l’art. 673 c.p.p., a prescindere dalla generica formula utilizzata, determinare conseguenze così importanti in mancanza di una precisa indicazione tra le direttive della delega. Va meglio chiarito, in proposito, che le leggi penali « eccezionali o temporanee » hanno una matrice comune consistente nella loro limitata durata nel tempo (64); sia quando esse sono determinate da circostanze, appunto, « eccezionali », sia quando è la previsione normativa a fissare un termine di durata, l’irretroattività di un’eventuale abrogazione si pone come corollario della stessa ratio di tali discipline (65). Per ciò +che attiene, invece, alle leggi penali finanziarie, l’esclusione dal principio generale di cui all’art. 2, secondo comma, c.p. va ricercato, secondo la Corte costituzionale, nell’interesse primario alla riscossione dei tributi (66); mentre, in riferimento ai decreti-legge non convertiti, attesa l’inefficacia (61) Cfr., in senso analogo GUARDATA, sub art. 673, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato. da M. Chiavario, vol. VI, Torino, 1991, p. 569. (62) PATRONO, Legge (vicende della), cit. p. 920. (63) Cfr. PATRONO, op. ult. cit., p. 922. (64) ROMANO, sub art. 2 c.p., in Commentario sistematico, cit., p. 61. (65) PAGLIARO, Principi di diritto penale, Milano, 1993, p. 108; ID., Legge penale nel tempo, cit, p. 1073. (66) Corte cost., sent. 6 giugno 1974, n. 164, in Foro it., 1975, I, c. 27; Corte cost., sent. 6 marzo 1975, n. 43, in Giur. cost., 1975, p. 177; Corte cost., sent. 16 gennaio 1978, n. 6, in Giur. cost., 1978, I, p. 40. Criticamente, tuttavia, verso l’equiparazione delle norme finanziarie incriminatrici al trattamento riservato alle leggi penali temporanee ed eccezionali, NUVOLONE, I principi generali del diritto penale tributario, in Le sanzioni in materia tributaria, Milano, 1979, p. 33. Nel senso, invece, che la disparità di trattamento legislativo in materia di non retroattività della legge finanziaria più favorevole non determina alcun conflitto con le regole costituzionali, CARACCIOLI, Leggi penali finanziarie, in Enc. giur., vol. XVIII, Roma, 1990, p. 3.
— 192 — ex tunc ad essi collegata (art. 77, terzo comma, Cost.), la loro capacità di causare le conseguenze previste dall’art. 2, secondo comma, c.p. deve ritenersi preclusa ai fatti commessi durante il vigore della norma penale transitoriamente abrogata (67). Non sfugge, in definitiva, come alla base di simili esclusioni si trovino ragioni giustificatrici nient’affatto irragionevoli (68), di fronte alle quali l’intervento modificativo delle relative discipline avrebbe dovuto passare attraverso una chiara opzione del legislatore delegante, e di più vasta portata, fenomeno assolutamente non riconducibile all’art. 673 c.p.p. 6. (Segue): Gli effetti della « revoca ». — In tema di rapporti tra le norme richiamate di matrice sostanziale e la regola inserita nel contesto processuale, è lecito interrogarsi se quest’ultima ha mutato la disciplina degli effetti conseguenti all’eventuale pronuncia favorevole. In proposito, il possibile punto di divergenza si ricava dal testo dell’art. 673, secondo comma, c.p.p., secondo cui « il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza... o il decreto dichiarando... il fatto non... previsto dalla legge come reato ». Il potere di revocare, insomma, può indurre a ritenere l’« evidente intenzione del legislatore di eliminare in radice il provvedimento che presuppone l’esistenza della norma illegittima: intenzione che trova conferma... nella sostituzione della pronuncia con altra di proscioglimento nel merito... » (69). Per quanto v’è da riconoscere che « l’attuale sistema accorda al giudice dell’esecuzione poteri ignoti al vecchio », giacché « non era pensabile che (egli) revocasse giudicati » (70), la natura del(67) Cfr. Corte cost., sent. 22 febbraio 1985, n. 51, in Giur. cost., 1985, I, p. 238. In argomento, per la complessa tematica scaturente dal rapporto tra decreto-legge non convertito e successione di leggi penali, principalmente, ALIBRANDI, In tema di decreto-legge non convertito o convertito con modificazione di successive leggi penali, in Riv. pen., 1986, p. 494 ss.; LA VALLE, Legge penale e decreto-legge non convertito: due retroattività in conflitto, in Giur. cost., 1985, I, p. 1388 ss.; PADOVANI, Decreto-legge non convertito e norme penali di favore, in bilico tra opposte esigenze costituzionali, in questa Rivista, 1985, p. 819 ss.; SINISCALCO, Successione di leggi penali e decreti-legge non convertiti. La nuova problematica di fronte alla sentenza n. 51/1985 della Corte costituzionale, in Leg. pen., 1985, p. 464 ss.; VASSALLI, Decreti-legge favorevoli al reo non convertiti, emendati o decaduti: una prima tappa verso la chiarezza su un controverso tema di diritto transitorio, in Giur. cost., 1985, I, p. 242 ss. (68) Sotto questo profilo, la diversità di trattamento riservata dall’art. 2 c.p. alle menzionate previsioni derogatorie è giustificabile anche sul piano costituzionale (art. 3 Cost.): PALAZZO, Legge penale, in Dig. disc. pen., cit., p. 365. (69) GUARDATA, sub art. 673 c.p.p., in Commento al nuovo codice, cit., vol. VI, Torino, 1991, p. 568. In prospettiva analoga, secondo cui il provvedimento emesso in funzione dell’abolitio criminis è « un’ordinanza di assoluzione », GIOVENE, Giudicato, in Dig. disc. pen., vol. V, Torino, 1991, p. 434. (70) CORDERO, Procedura, cit., p. 1080, sia pure con esplicito riferimento alla « revoca » diretta a reprimere i « conflitti pratici di giudicato » (art. 669 c.p.p. ).
— 193 — l’intervento riconducibile ai casi di abolitio criminis richiede qualche considerazione preliminare. Si è già detto come l’esigenza di superare il giudicato in tali ipotesi sia da ricondurre al principio di parità di trattamento punitivo desumibile dal contesto costituzionale (71); è ingiustificabile che il provvedimento continui a suscitare conseguenze di carattere sanzionatorio se chiunque altro è libero di porre in essere una condotta divenuta lecita. In questa limitata prospettiva è ragionevole che il giudicato non continui a produrre efficacia di natura penale, ovvero quella efficacia la cui permanenza darebbe luogo a gravi incompatibilità verso regole superiori alla legge ordinaria. Una deroga, insomma, che trova la propria ragion d’essere, ed il suo limite, in esigenze poste oltre l’assoluta stabilità del comando. Tutto ciò, del resto, è quanto emerge dalla lettura degli artt. 2, secondo comma, c.p. e 30, quarto comma, l. 11 marzo 1953, n. 87, nelle parti in cui prescrivono che cessi l’esecuzione della condanna ed i suoi effetti penali; peraltro, un approccio di analogo contenuto, proteso all’esigenza di perequare il trattamento sanzionatorio, si rinviene nella disciplina del reato continuato in fase esecutiva. Nonostante tali premesse, si può essere indotti ad attribuire alla « revoca » di cui all’art. 673 c.p.p. un significato più vasto di quello testé accennato, considerando la norma capace di travolgimenti sinora inediti. In linea di massima, giova notare come sia molto azzardato pervenire a soluzioni di questo tipo se ci si muove sull’esclusivo terreno dell’espressione letterale, non essendo il legislatore solitamente « affetto dalla nevrosi delle parole esatte » (72). È probabile, peraltro, che la redazione della norma sia stata influenzata dall’idea, diffusa durante il codice abrogato, secondo cui la declaratoria di abolitio criminis intervenuta dopo il giudicato determinava l’annullamento, anziché l’estinguersi, dell’esecuzione (73); quasi, insomma, si trattasse di un’invalidità capace di incidere anche su tutti gli atti già compiuti (74). In tale prospettiva, il termine « re(71) Supra § 2. (72) L’espressione è di CORDERO, Guida alla procedura penale, Torino, 1986, p. 16. (73) Cfr. CAVALLARI, Considerazioni in tema di annullamento degli atti processuali penali, in Arch. pen., 1959, I, p. 215; CHIAROTTI, Sull’accertamento dell’abolitio criminis in sede di esecuzione, in Arch. pen., 1958, II, p. 327; CORDERO, Procedura penale, Milano, 1987, p. 821; LEONE, Trattato di diritto processuale penale, vol. III, Napoli, 1961, p. 479; SANTORO, L’esecuzione penale, Torino, 1953, p. 226; analogamente sia pure con rilievi critici, D’ANGELO SCAGLIONE, Gli incidenti d’esecuzione nel processo penale, Milano, 1981, pp. 101-102; nonché, GIANZI, L’incidente nell’esecuzione penale, Napoli, 1965, p. 96. Va precisato come nel previgente sistema, pur mancando una regola espressa, l’esame sull’abolitio criminis in esecuzione avveniva utilizzando la norma disciplinante il procedimento incidentale « di genere » (art. 628 c.p.p. 1930). (74) In tal senso, BAROSIO, Esecuzione penale, in Enc. del dir., vol. XV, Milano, 1966, p. 508.
— 194 — voca », al quale in una visione sovraordinamentale può essere attribuito un significato del genere (75), si presenta con nomenclatura idonea a rispecchiare precedenti elaborazioni in materia. Peraltro, ciò è tanto più vero se si pensa che la stessa parola è usata per indicare il venir meno della sentenza di condanna all’esito del positivo giudizio di revisione (art. 637, secondo comma, c.p.p.), fenomeno, questo, in cui deve riconoscersi la « sostituzione » del provvedimento irrevocabile con altro di pari intensità. Tuttavia, al di là delle « geometrie » verbali, l’incidenza dell’intervento in esecuzione va misurato sul piano strettamente positivo. Innanzitutto, la revoca avviene con ordinanza, essendo tale il provvedimento utilizzabile per lo schema procedimentale esecutivo (art. 666, sesto comma, c.p.p.); ciò ribadisce il carattere assolutamente complementare della funzione svolta in materia, ovvero quella di « modificare gli effetti del titolo per cause di natura penale sostanziale » (76). Tale aspetto, riflesso di una precisa scelta sistematica, manifesta che l’ambito d’incidenza del provvedimento non riguarda il titolo quanto questioni concernenti la sua efficacia concreta; in questa prospettiva, la procedura s’inserisce bene nel contesto giurisdizionale esecutivo in cui occorre mediare tra stabilità del comando e fenomeni, talvolta di non poco rilievo, che ne inducono a depotenziare gli effetti in maniera più o meno ampia. In secondo luogo, come meglio si vedrà in seguito, l’affidare a tale fase le tematiche sull’abolitio criminis implica un ambito d’indagine inidoneo a sindacare la compiutezza dell’accertamento raggiunto attraverso la cognizione; ciò traspare significativamente dalla direttiva n. 97, legge-delega, che, sia pure riferendosi al solo beneficio previsto dall’art. 81 c.p., vieta di ripetere analisi in esecuzione laddove i presupposti del diverso trattamento sono stati esclusi con sentenza irrevocabile (77). Non è, insomma, consentito in fase esecutiva riesaminare temi ricostruttivi affrontati in giudizio. Ne deriva, innanzitutto, che la « revoca » di cui parla l’art. 673 c.p.p., attesi i limiti cognitivi, non potrà coinvolgere aspetti che conseguono all’efficacia extrapenale dell’accertamento concluso da sentenza irrevocabile (artt. 651-654 c.p.p.). In proposito, non è nemmeno ipotizzabile, sul presupposto secondo cui la sentenza definitiva « fa stato » nel giudizio civile per danni circa l’« illiceità » del fatto, che l’ordinanza in materia d’abolitio criminis determini conseguenze « a rovescio ». Inoltre, se la revoca in esame fosse idonea ad « eliminare in radice » il titolo si potrebbe facil(75) Cfr, per esempio, MODUGNO, Abrogazione, cit., p. 6 nel senso che la « revoca » sarebbe una specie di abrogazione retroattiva. (76) CRISTIANI, Manuale del nuovo processo penale, Torino, 1991, p. 536. (77) Cfr., a riguardo, le precisazioni di GAITO, L’esecuzione, in CONSO-GREVI, Profili, cit., pp. 777.
— 195 — mente ritenere inibita la preclusione del bis in idem (art. 649 c.p.p.) qualora un nuovo processo investisse lo stesso fatto avente una qualificazione giuridica diversa rispetto alla norma penale abolita; il che sarebbe davvero inconcepibile. Per altro verso, l’incapacità di tale revoca ad andare oltre i profili sanzionatori è confermata dalla mancanza di ogni riferimento all’abolitio criminis nel regime della riparazione per errore giudiziario (78); il rilievo, naturalmente, vale considerando adottabile la procedura anche se l’intervento abrogante è caduto prima del giudicato (79). Il silenzio a riguardo risponde al fatto che in materia non si realizza alcuna « sostituzione della pronuncia con altra di proscioglimento nel merito », fenomeno che avrebbe potuto indurre ad estendere al caso in esame la disciplina prevista dall’art. 643 c.p.p. È difficile, insomma, immaginare che un’ordinanza possa « sostituire » il provvedimento irrevocabile e conseguentemente « prosciogliere ». Peraltro, sotto questo profilo, l’art. 673 c.p.p. è chiaro quando impone, non il proscioglimento bensì, la dichiarazione che il fatto non è previsto dalla legge come reato; s’intuisce, allora, come ai compilatori fosse nota la « sfumatura » che passa tra impugnazione ed incidente esecutivo (80). 7. (Segue): « I provvedimenti conseguenti » alla dichiarazione favorevole. — Premesso, dunque, che la revoca in esame non può ritenersi un fenomeno diretto ad inficiare la validità del titolo, il suo ambito d’incidenza va ricercato tra le regole processuali in materia d’esecuzione e le norme penali sostantive più volte citate. In questa prospettiva, quando l’art. 673, primo comma, c.p.p. contempla che il giudice, « revocata » la sentenza, « adotta i provvedimenti conseguenti » si riferisce ai poteri correttivi che direttamente discendono dal complesso delle previsioni richiamate. In primo luogo, va ordinata l’eliminazione della scheda dal casellario giudiziale (art. 687, secondo comma, lett. a) c.p.p.) e va indotto lo scomputo, nei limiti fissati dall’art. 657, secondo, terzo e quarto comma, c.p.p., della pena detentiva o sostitutiva già espiata da quella derivante da altra condanna ancora da eseguire. Mentre per la prima ipotesi l’abolitio opera per il futuro, nella seconda produce effetti anche per il passato circa (78) Cfr., nella medesima prospettiva, GUARDATA, sub art. 673 c.p.p., in Commento, cit., p. 570. (79) CORDERO, Procedura, cit., Milano, 1995, p. 1082. (80) Cfr. configurando l’incidente d’esecuzione come procedimento incidentale anziché come impugnazione, CONSO, I fatti giuridici processuali, Milano, 1955, p 143; GIANZI, L’incidente nell’esecuzione penale, cit., pp. 29 e 46; Gius. SABATINI, Incidenti (dir. proc. pen. e civ.), in Nss.mo Dig. it., vol III, Torino, 1962, p. 526. Contra, tra gli altri, LEONE, Sistema delle impugnazioni penali, Napoli, 1935, p. 57.
— 196 — la « fungibilità » adottabile tramite il cumulo tra pena scontata e da scontare (81). Sotto questo profilo, traspare una sorta di retroattività di conseguenze che sembra divergere dalle tradizionali statuizioni secondo le quali il cessare della sanzione implica solo un divieto ultrattivo d’efficacia. Tuttavia, non sfugge che tale beneficio è adottabile pure nei casi di amnistia impropria e d’indulto (art. 657, secondo comma, c.p.p.); non sarebbe, pertanto, ragionevole prevedere una « fungibilità » di pena del tipo descritto esclusivamente per le ipotesi estintive e non anche quando la sanzione segue alla condanna pronunciata sulla base di una condotta successivamente considerata lecita. Si è di fronte ad una soluzione, insomma, diretta ad evitare possibili disparità di trattamento, fenomeno specifico che, perciò, non sembra utile a rivalutare in diversa prospettiva il significato che assume la « revoca » nella procedura in esame. Per quanto attiene all’eliminazione della scheda dal casellario, la disciplina tende solo a completare la regola secondo cui gli interventi abolitivi producono il venir meno anche degli effetti penali (82). È chiaro che (81) Cfr. CORBI, L’esecuzione, cit., p. 133. (82) A tal proposito, si pone il problema della portata eliminatoria dell’intervento esecutivo con riguardo agli « effetti penali ». Considerato che, oltre alle conseguenze verificabili nell’ordinamento penale in senso stretto (in tema di recidiva, abitualità-professionalità-tendenza a delinquere, di adozione della pena condizionatamente sospesa o di perdono giudiziale, etc.) il provvedimento di condanna è in grado di determinare talune incapacità (o indegnità) ad essere titolare o ad esercitare diritti soggettivi pubblici e privati (es. art. 541, secondo comma, c.p. in materia di indegnità a succedere; artt. 11, primo comma, n. 1; 52, secondo comma; 92; 123; 134, secondo comma; 138, primo comma, n. 4 r.d. 18 giugno 1931, n. 733, in materia di pubblica sicurezza; art. 17, terzo comma, d.l. 27 novembre 1933, in materia di professione forense art. 8, primo comma, n. 3 r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, in materia di ordinamento giudiziario; art. un. 4, 5, 6, 8, d.P.R. 20 marzo 1967, in materia di elettorato attivo; art. 26, terzo comma, l. 14 aprile 1975, n. 103, in materia di diffusione radiofonica o televisiva; art. 9, primo comma, l. 18 aprile 1975, in materia di armi; art. 17, secondo comma, l. 22 dicembre 1975, n. 685, in materia di stupefacenti; art. 2 l. 21 aprile 1983, n. 123, in materia di cittadinanza, etc.); il problema è quello di stabilire se la procedura d’abolitio criminis incide anche su questi ultimi. Ancora una volta qui il discorso si potrebbe sbrigativamente risolvere ritenendo che « la revoca » statuita dall’art. 673 c.p.p. implichi una diretta volontà legislativa di far venire meno anche effetti di tal genere. Certo, simile ipotesi è molto suggestiva perché attribuisce alla regola inserita nel contesto processuale una soluzione che supera le controversie dirette a tracciare il significato di « effetti penali », cioè se occorre intendere come tali le conseguenze che spiegano efficacia solo in ambito penale (BOSCARELLI, Compendio di diritto penale, Parte generale, Milano, 1988, pp. 406-407; PANNAIN, Manuale di diritto penale, Parte generale, I, Milano, 1967, p. 930), oppure anche quelle che, pur incidendo in campo civile e amministrativo, mutuano la loro natura dal fatto che sono diretta promanazione della sentenza di condanna (FROSALI, Sistema penale italiano. Diritto penale sostanziale, vol. III, Torino, 1958, p. 317; SANTORO, L’esecuzione penale, cit., p. 174) o più precisamente, che ad essa conseguono di diritto (CERQUETTI, Gli effetti penali della condanna, Padova, 1990, p. 49 ss.). Tuttavia, ad un’interpretazione di questo tipo si può facilmente opporre che il silenzio mantenuto a riguardo dalla legge-de-
— 197 — cancellare dall’anagrafe giudiziaria il segno della condanna sottende l’idea che essa non vada più considerata come « precedente » ai fini di qualsiasi valutazione di tipo penalistico; ed una scelta di questo tipo, pienamente condivisibile, mostra di prescindere dalle dispute che assegnano l’inquadramento della relativa iscrizione ora tra le pene accessorie (83), ora tra gli effetti penali in senso stretto (84) ora, infine, tra gli atti di certificazione amministrativa (85). Si ricordi, infine, l’art. 193 disp. att., secondo cui il provvedimento di revoca va annotato nella sentenza di condanna a cura del giudice che l’ha emessa. Si tratta di una disciplina volta ad evitare che il documento relativo possa essere prodotto in altre sedi e, a tal fine, determinare qualche effetto penale residuo; la regola, insomma, costituisce una specie di valvola di chiusura, laddove non fosse sufficiente la cancellazione dal casellario, che impedisce ulteriori conseguenze afflittive derivanti dalla condanna. Al di fuori di questi tre aspetti, con funzione di completamento rispetto ai precetti sostanziali, non sembra che l’art. 673 c.p.p. sia in grado di determinare una portata eliminatoria più vasta di quanto è sancito negli artt. 2, secondo comma, c.p. e 30 l. n. 87/53. Da un lato, l’aver dettato espresse regole che circoscrivono l’ambito di effetti probabilmente non desumibili in via diretta da tali discipline, dall’altro, l’assenza di più ampie e diverse indicazioni nel codice e nelle direttive della delega, inducono a confermare simile prospettiva. Del resto, una differente intensità dell’intervento esecutivo « revocatorio » è espressamente prevista per i « conflitti pratici di giudicati »; l’art. 669, primo comma, c.p.p. attribuisce al giudice il potere di « ordinare l’esecuzione », nei casi di bis in idem, di una sola sentenza, « revocando le altre ». Il potere risolutivo è qui accompagnato dalla statuizione secondo cui uno solo tra i provvedimenti va eseguito, con implicito divieto di rendere operativo, sotto ogni profilo, tutti i restanti titoli. È, inoltre, disposta, non solo la paralisi delle conseguenze, ma una specie di « fungibilità generale » tra le vicende esecutive già compiute in relazione ai provvedimenti soggetti a revoca e quella materialmente ancora da eseguire; l’art. 669 quinto comma, c.p.p., stabilisce che lega pesa in modo assolutamente critico. Il quesito va meglio risolto all’interno del significato sostantivo di « effetti penali », tentando di ampliarne la portata a tutti i detrimenti che conseguono ope legis alla condanna. Ciò comporterebbe che gli interventi abolitivi fanno cessare anche le conseguenze che operano in settori diversi da quello strettamente penale; del resto, se gli artt. 2, secondo comma, c.p. e 30, quarto comma, l. n. 87/53 si giustificano per evitare l’irragionevole prosecuzione di aspetti sanzionatori circa le condotte divenute lecite (art. 3 Cost.), non si vede perché la predetta efficacia negativa della sentenza debba venire meno solo parzialmente. (83) LARIZZA, Le pene accessorie, Padova, 1986, pp. 179-180. (84) CONTENTO, Istituzioni di diritto penale. Corso di lezioni, Milano, 1974, p. 238. (85) PANNAIN, Le incapacità giuridiche quali effetti — penali e non — delle sentenze penali, Napoli, 1938, pp. 91-92.
— 198 — « se la sentenza era stata in tutto o in parte eseguita, l’esecuzione si considera come relativa alla sentenza rimasta in vigore ». Il fenomeno implica una volontà legislativa diretta ad eliminare tutti i possibili effetti esecutivi del titolo (pena, misure di sicurezza, sanzioni pecuniarie, spese processuali, etc.) Non così, invece, per quanto riguarda la disciplina in esame, in funzione della quale sono dettate previsioni limitate ai punti già espressi. Pertanto, alcuna conseguenza sembra determinare il positivo esito della procedura relativamente alle spese processuali (art. 691 e ss. c.p.p.), alle sanzioni pecuniarie (art. 664 c.p.p.) ed alle eventuali sanzioni amministrative irrogate congiuntamente alla condanna (art. 664, quarto comma, c.p.p.). Se ne ricava che, i « provvedimenti conseguenti » di cui parla l’art. 673 c.p.p. implicano, oltre l’obbligo di comunicare l’ordinanza all’ufficio del casellario ed al giudice competente ex art. 193 disp. att., un insieme di statuizioni impartite agli organi d’esecuzione, volte va far cessare ogni tipo di pena, anche quella accessoria, e le misure di sicurezza (86). Più controverso è lo spazio dei poteri esercitabili dal giudice quando la procedura ha avuto ad oggetto sentenze estintive o d’inimputabilità. In proposito, a parte la dubbia praticabilità dell’intervento esecutivo nei casi di norma incriminatrice dichiarata illegittima, si deve ritenere che i « provvedimenti conseguenti » agiscano sul casellario giudiziale e sulle misure di sicurezza eventualmente disposte; per quanto nulla è stabilito, una diversa interpretazione a riguardo costringerebbe a rendere l’inciso della norma privo di significato. 8. L’esame « sulle norme ». — L’abolizione della norma non si presenta sempre chiara nei casi di legislazione « riproduttiva ». Talvolta, anche se i termini usati dai compilatori farebbero ritenere intervenuta la volontà abrogante (87), è estremamente arduo comprendere se le previsioni di seguito introdotte hanno eliminato la norma incriminatrice o se, invece, (86) Si è inopinatamente ritenuto che la revoca non determini la cessazione della confisca (Cass., sez. III, 23 settembre 1993, De Cristofaro, in Arch. n. proc. pen., 1994, p. 44; contra, Cass., sez. III, 10 febbraio 1995, Surlati, in Cass. pen. 1996, p. 1480). È, inoltre, evidente come, in linea generale, il regime degli effetti penali non dipenda dal giudice d’esecuzione, producendosi automaticamente sulle situazioni soggettive individuali (cfr., VENDITTI, Esecuzione penale, in Nss.mo Dig. it., vol . VI, Torino, 1960, p. 783); si desume che « i provvedimenti conseguenti » di cui all’art. 673 c.p.p., ad eccezione dell’ordine di eliminare la scheda dal casellario giudiziale, non si riferiscono alla cessazione dei suddetti effetti, giacché il fenomeno si realizza ope legis. (87) Per esempio, l’art. 20 l. n. 86/90 disponeva che « gli artt. 315 e 324 c.p. sono abrogati », lasciando così intendere di aver eliminato in radice le previsioni illecite corrispondenti. Di fronte alla perentorietà di tale indicazione si può, certo, pensare che ogni volta in cui la sentenza di condanna abbia utilizzato tali norme per la qualificazione del fatto, ci si trovi di fronte ad un’abolitio criminis con la conseguente piana adozione dell’art. 673 c.p.p. (in tal senso, GAITO, Abrogazione della norma incriminatrice e revoca della condanna in
— 199 — si versa nel fenomeno di una semplice modifica che lascia inalterata l’illiceità della precedente condotta. La soluzione del problema, come s’intuisce, non è senza rilievi pratici; solo nel primo caso si realizzano gli effetti contemplati dall’art. 2, secondo comma, c.p. e, dunque, la conseguente possibilità di dichiarare « il fatto non... previsto dalla legge come reato ». Naturalmente, l’argomento va qui ricordato solo perché costituisce materiale d’analisi in sede esecutiva; tuttavia, ad esso non può che darsi un rapido cenno, ad esclusiva testimonianza della propria complessità, essendo legato a temi « sostantivi » che investono la successione delle leggi penali nel tempo. Il problema, in altri termini, sta nel capire, nei casi di sostituzione di nuove a vecchie incriminazioni, se il fatto è da ritenersi ancora illecito o se, viceversa, l’ipotesi incriminatrice introdotta ha eroso la rilevanza penale della ‘‘classe di fatti’’ alla quale esso appartiene (88). A riguardo le conseguenze sono diverse secondo che si ritenga decisivo che la nuova norma debba eliminare il « giudizio di disvalore astratto » della precedente (89) o, invece, che si adotti il criterio della relazione strutturale tra gli elementi omogenei della fattispecie, in modo da escludere un rapporto di contenenza o di sovrapponibilità tra le due previsioni (90). Prediligendo la prima soluzione, occorrerà valutare se è venuta meno la disapprovazione attribuita dall’ordinamento penale alla fattispecie precedente quanto alla « lesione del bene giuridico o (al)la violazione dell’obbligo » (91). Ne consegue che, per esempio, si parlerà di abolitio quando un certo tipo di condotta riassume comportamenti considerati come causa di giustificazione secondo la nuova legge; non così, invece, se l’intervento normativo ha aggiunto un’ipotesi di non punibilità nella quale sarebbero rientrate precedenti condotte, attesa la permanenza del disvalore astratto ancora attribuibile al fatto-reato (92). Se, al contrario, si scegliesse la seesecuzione, in Giur. it., 1993, II, c. 89). Tuttavia, in una prospettiva sostanziale del fenomeno, occorre verificare se le eventuali nuove incriminazioni create contestualmente all’intervento abolitivo non lascino sussistere il divieto di condotte che, per quanto realizzate nel vigore della norma formalmente abrogata, devono considerarsi attualmente comprese nell’area dell’illecito. (88) Un esame di questo tipo non va operato immediatamente ‘‘in concreto’’, cioè considerando se il fatto specifico rientra nella vecchia o nella nuova ipotesi normativa a prescindere dal valutare il rapporto « astratto » tra le due previsioni (cfr., PADOVANI, Tipicità e successione di leggi penali, in questa Rivista, 1982, p. 1359 ss.); occorre, invece, esaminare in astratto quali siano le differenze evidenziabili tra di esse, allo scopo di stabilire se un’ipotetica classe di fatti possa ritenersi compresa o meno nella fattispecie abolita. (89) PALAZZO, Legge penale, cit. p. 366; ROMANO, sub art. 2 c.p., in Commentario, cit., p. 53 ss. (90) PADOVANI, Tipicità e successione di leggi penali, cit., p. 1357 ss.; P. SEVERINO, Successioni di leggi penali nel tempo, in Enc. giur., vol. XXX, Roma, 1993, p. 4 ss. (91) ROMANO, op. ult. cit., p. 58. (92) Cfr. ROMANO, op ult. cit., p. 55.
— 200 — conda via interpretativa, l’abolitio implica che la nuova disposizione non rivela l’illiceità della fattispecie in virtù « degli stessi elementi costitutivi in base ai quali era tale » la precedente (93). Dal modo di affrontare la problematica generale discendono, poi, le singole soluzioni volte a stabilire la presenza dell’intervento abolitivo quando la modifica attiene all’elemento soggettivo (94), alle norme eterointegrative richiamate (95), alla disciplina del reato presupposto (96), etc. In prospettiva analoga, le questioni derivanti dall’abolitio per illegittimità costituzionale pongono problemi interpretativi nei casi di sentenze « additive » o « interpretative » di accoglimento (97); occorre, insomma, verificare quale parte della norma è rimasta in vigore e qual’è la classe di condotte la cui realizzazione ha cessato di assumere rilievo penale. Ma, al di là dei problemi enunciati, la cui approfondita disamina è estranea alla presente indagine per essere oggetto di temi più generali, qui preme rilevare che, di fronte all’art. 673 c.p.p., la loro soluzione costituisce aspetto primario, sul piano logico, rispetto all’esame diretto a stabilire se l’episodio giudicato costituisca ancora reato. Si tratterà, insomma, di affrontare, prima, i temi concernenti la successione delle leggi penali e, (93) PADOVANI, Prevenzione dal rumore e successione di leggi: dall’art. 24 d.P.R. n. 303 del 1956 al d.lg. n. 277 del 1991, in Cass. pen., 1993, p. 412. (94) Se si ritiene che il rapporto tra norma vecchia e nuova vada misurato sul piano della coincidenza dei soli requisiti integranti la fattispecie oggettiva, il mutamento dell’elemento soggettivo non determina abrogazione ma solo modificazione (PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1376); analoghe sono le soluzioni nei casi di passaggio dalla punibilità a titolo di dolo alla punibilità a titolo di colpa (PAGLIARO, Legge penale nel tempo, cit., p. 1072 e, per un’impostazione particolare sul punto, CRISTIANI, L’applicazione di « disposizioni più favorevoli all’imputato » in cassazione, Milano, 1979, p. 72 ss.). Contra, secondo cui il mutamento che riguarda l’elemento soggettivo è idoneo a determinare l’abolitio parziale TAORMINA, Ancora sui problemi di diritto intertemporale per le vecchie fattispecie di interesse privato, in Giust. pen., 1990, II, c. 523 ss. Del resto il passaggio dal dolo generico al dolo specifico della condotta caratterizza l’attuale punibilità per detenzione di stupefacenti (PALAZZO, Riflessi diretti ed indiretti dell’abrogazione referendaria sulla disciplina degli stupefacenti, in Cass. pen., 1993, p. 2824), fenomeno per il quale il tema dell’abolitio è già stato positivamente risolto dalla giurisprudenza a favore della classe di fatti per i quali manca il « fine » dello spaccio (tra le altre, Cass. 13 aprile 1994, Rosati, in Cass. pen., 1995, p. 1685). (95) In argomento, C.F. GROSSO, Successione di norme integratrici della legge penale e successione di leggi penali, in questa Rivista, 1960, p. 1206 ss.; IORI, Abrogazione di norma extrapenale integratrice, ivi, 1976, p. 349 ss.; PODO, Successione di leggi penali, in Nss.mo Dig. it., vol. XVIII, Torino, 1971 p. 657 ss. (96) È il caso dell’abrogazione del reato che il calunniante ha imputato al calunniato (in senso favorevole all’abolitio parziale della calunnia, tra gli altri, CONSO, Falsa incolpazione di un fatto che per legge posteriore cessa di costituire reato, in Giur. it., 1949, II, c. 33. Contra, DELL’ANNO, Sulla calunnia relativa ad un fatto che successivamente abbia cessato di costituire reato o sia divenuto perseguibile a querela, in Cass. pen., 1990 p. 228 ss.). (97) Sulla problematica interpretativa che tali sentenze impongono al giudice comune, SILVESTRI, Legge (controllo di costituzionalità), cit., p. 158 ss.
— 201 — dopo, di sperimentare in concreto il giudizio di diritto tra « fatto » e « valore ». 9. L’indagine « sul fatto ». — Quando la norma penale viene semplicemente eliminata dall’ordinamento, l’esame richiesto non rivela problemi importanti; basta che l’ipotesi legale abolita coincida con quella adottata dal provvedimento definitivo. Esatta o meno che sia la « fattispecie giudiziale » accertata in fase cognitiva, il giudice dell’esecuzione dovrà limitarsi a prendere atto dell’intervento abolitivo, dichiarando il fatto non previsto dalla legge come reato; in questi casi non gli è consentito discutere la ricostruzione « materiale » né la qualificazione giuridica. Indagini più complesse si presentano quando si ritiene realizzato sul piano normativo un restringimento dell’area illecita; qui, allora, occorre verificare se il fatto « storico » esaminato in fase cognitiva appartiene alla classe di quelli che non sarebbero attualmente punibili. In altri termini, risolto il tema concernente le condotte in astratto divenute lecite, s’impone l’analisi circa l’esatta individuazione dell’episodio accertato, allo scopo di dipanare la quaestio juris richiesta dalla nuova configurazione normativa. Un esempio riguarda l’abrogazione referendaria del delitto di detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti, fenomeno, questo, che ha eliminato la punibilità della semplice condotta del detenere, ma non anche quella del detenere « ai fini di spaccio » (98). Premessi, dunque, i limiti del lecito, l’operazione da compiere sui giudicati intervenuti prima della modifica normativa consiste nell’accertare se il fatto ricostruito in cognizione ha rivelato la presenza o meno di un’attività diretta, almeno in parte, alla cessione dello stupefacente a terzi (99). Non sfugge che, essendo la precedente punibilità legata al semplice possesso (sia pure superiore a date quantità), si tratterà di verificare se il risultato dell’accertamento cognitivo ha coinvolto aspetti del fatto utili all’indagine sui nuovi limiti dell’area illecita, dovendosi, ora, valutare ‘‘lo scopo’’ della detenzione. Il problema assume, naturalmente, carattere generale; esso si pone ogni volta in cui la fattispecie legale residua coincide solo in parte con quella non più vigente, in modo che, mentre, alcune condotte non costi(98) Cfr., tra gli altri, AMATO, La disciplina degli stupefacenti dopo il referendum, in Foro it., 1993, II, c. 543; AMATO-FIDELBO, La disciplina penale degli stupefacenti, Milano, 1994, p. 229 ss.; IADECOLLA, Detenzione di droga ad uso personale dopo il referendum, in Giur. merito, 1994, p. 709; MANNA, Gli effetti del referendum abrogativo sulla legislazione in materia di stupefacenti, in Dei delitti e delle pene, 1993, n. 2, p. 41 ss.; PALAZZO, Riflessi diretti ed indiretti, cit., p. 2823; ROSSOTTI, Problemi connessi alle sostanze stupefacenti, in Quad. C.S.M., 1994, n. 71, p. 195 ss. (99) AMATO, Irrilevanza penale della detenzione di sostanze stupefacenti per uso personale e revoca della sentenza di condanna, in Cass. pen., 1995, p. 1659; ID., Teoria e pratica degli stupefacenti, Roma, 1994, p. 42.
— 202 — tuiscono reato, altre continuano a considerarsi punibili anche dopo l’intervento parzialmente abolitivo. Sorge, a questo proposito, il quesito circa i limiti dell’indagine esercitabile in esecuzione, fenomeno che riflette il delicato rapporto tra l’esaurimento della giurisdizione cognitiva ed i poteri d’integrare il merito post rem judicatam (100). Pur mancando precisazioni normative a riguardo, è chiaro come simile intervento non possa ritenersi senza vincoli. Va, però, chiarito che ciò non deriva dal considerare il giudicato penale come fenomeno capace di produrre una generalizzata efficacia « materiale »; in altri termini, se una preclusione esiste essa non dipende da regole normative che attribuiscono ai contenuti dell’accertamento definitivo la forza d’imporsi su ogni altro tipo di giudizio, atteso che simile aspetto riguarda solo ipotesi tassative (artt. 651-654 c.p.p.) (101). Né, del resto, si potrebbe individuare un limite cognitivo in esecuzione facendo riferimento alla regola prevista dall’art. 649 c p.p., considerato che essa implica il divieto del doppio processo che niente ha da spartire con le questioni proponibili in sede esecutiva. E, neppure, è dato circoscrivere il suddetto potere conoscitivo avendo riguardo al « fatto » indicato nell’art. 649 c.p.p. e ritenendo che per suo tramite si possa delineare l’integrale oggetto dei singoli momenti dell’accertamento; infatti, la nozione desumibile da tale norma implica esclusivamente la « rappresentazione del fatto storico » ritenuta rilevante rispetto al determinato modello legale prescelto (102). La « fattispecie giudiziale », insomma, di cui all’art. 649 c.p.p. si riferisce soltanto alle porzioni di verifica che sono state pertinenti rispetto all’ipotesi astratta in cui si è inteso collocarle; restano fuori da tale area altri aspetti « storici » che, pur eventualmente analizzati, non sono apparsi utili alle conclusioni ricostruttive considerate rilevanti secondo una data norma. Si deve, piuttosto, ritenere che un limite implicito a conoscere i « fatti » in sede esecutiva derivi dalla doverosità di non sindacare i risultati raggiunti nei vari gradi di giudizio; per evitare di mettere in discussione la stessa ragion d’essere dell’attività giurisdizionale di cognizione, è logico, insomma, che, ad un certo punto, l’accertamento debba irrevocabilmente concludersi, salvo rivisitazioni « straordinarie » nel merito. Per altro, attesa l’attuale posizione sistematica attribuita alla procedura in esame, fenomeno che impone, appunto, di non assimilarlo alla revisione, (100) Sul piano sistematico, l’efficace sintesi di GAITO, Poteri d’integrare il merito post rem judicatam, in Dir. pen. e proc., 1995, p. 1317 ss. (101) In argomento, diffusamente sia pure con riguardo al codice previgente, DE LUCA, I limiti soggettivi della cosa giudicata penale, Milano, 1963, (specialmente) p. 151 ss. (102) LOZZI, Profili di un’indagine sui rapporti tra ne bis in idem e concorso formale di reati, Milano, 1974, p. 38 ss.
— 203 — i poteri cognitivi ivi praticabili vanno bloccati di fronte agli aspetti ricostruttivi già sindacati nella vicenda giudiziaria conclusa (103). Ciò premesso, occorre, in primo luogo, chiarire che il giudice d’esecuzione non può indagare circa le circostanze integranti la sopravvenuta liceità della condotta se, sul piano fattuale, l’argomento è già stato accertato con esito negativo. Parimenti, quelle medesime circostanze non potranno essere negate qualora, invece, risultano affermate; in questi casi la quaestio facti non è controvertibile e condurrà ad una revoca del provvedimento senza ulteriori analisi. Una diversa opinione indurrebbe a ritenere possibile un’indagine in sede esecutiva diretta a conseguire risultati diversi da quelli raggiunti prima; ipotesi che, per le ragioni espresse, sarebbe nient’affatto condivisibile. Il vero nodo da sciogliere, tuttavia, si evidenzia quando la ricostruzione non ha coinvolto gli aspetti ‘‘storici’’ dai quali desumere la liceità o meno della condotta. Peraltro è probabile che ciò avvenga tutte le volte che la rilevanza giuridica di determinate circostanze sopravviene al giudizio, cosicché il loro accertamento si rivelava ininfluente sia sul terreno della prova che sul conseguente piano ricostruttivo. Qui la giurisprudenza risolve il problema ritenendo utile un’interpretazione del « giudicato » (104), quasi si trattasse di un’indagine su di un testo normativo; quando nulla emerge dal giudizio effettuato in sede di cognizione occorre, insomma, verificare se le circostanze utili a dipanare la questione esecutiva si nascondano tra le pieghe dei discorsi giustificativi utilizzati nelle sentenze (105), anche a costo di valutare ancora il complessivo quadro probatorio (106); e, se neppure questo fosse sufficiente, non è parso inopportuno ricorrere all’esame degli atti o ad altra integrazione istruttoria consentita dall’art. 666, quinto comma, c.p.p. (107). Tutto ciò è, certo, plausibile, fin tanto che si tratti di interventi assolutamente favorevoli al processato; peraltro, un’operazione di questo tipo è condivisibile proprio quando non risulta essere stata compiuta alcuna attività volta a ricostruire aspetti diventati pertinenti solo dopo l’aboli(103)
Cfr., Cass., Sez. VI, 6 maggio 1994, Zanardini, in Arch. n. proc. pen., 1994, p.
712. (104) Cass., Sez. VI, 7 giugno 1994, Zanichelli, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 301; Cass., Sez. I, 8 giugno 1994, Macchia, ivi, 1994, p. 846; Cass., Sez. VI, ord. 13 settembre 1994, Stivala, ivi, 1995, p. 302. (105) Cass., Sez. I, 21 novembre 1994, Comite, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 674. (106) Cass., Sez. VI, ord. 7 marzo 1994, Arietti, in Giur. it., 1994, II, c. 707. (107) Cass., Sez. VI, 7 giugno 1994, Imperato, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 301. Adesivamente, BASSI, Revocabilità della sentenza di condanna ex art. 673 c.p.p. all’esito dell’abrogazione referendaria, in Cass. pen., 1994, p. 202; CHERUBINI, Il giudice dell’esecuzione di fronte all’abrogazione parziale del reato, in Giur. it., 1995, II, c. 655. In senso contrario alla possibilità di estendere l’indagine al fascicolo processuale della fase cognitiva, Cass., Sez. I, 21 novembre 1994, Comite, cit., c. 674.
— 204 — zione parziale. In questi casi, in realtà, non si mette in pericolo la tenuta dell’accertamento, perché il giudice d’esecuzione interviene in maniera integrativa rispetto a temi irrilevanti per il precedente giudizio. Non poche perplessità, tuttavia, investono l’ipotesi in cui la particolare « interpretazione del giudicato » induce a dedurre argomenti, favorevoli o sfavorevoli, tramite l’esame di prove acquisite e non valutate o valutate in modo implicito. È chiaro, comunque, che simili indagini devono ritenersi consentite esclusivamente quando l’omissione valutativa non concerne la soluzione probatoria su temi pertinenti per il fatto materiale già ricostruito in giudizio; diversamente si corre un serio rischio di travolgere la stabilità dei contenuti dell’accertamento. Per vero, in linea teorica, siffatte possibilità non hanno punti di contatto con la revisione, perlomeno fin quando si tratta di adottare l’abolitio criminis intervenuta dopo il giudicato. L’eventuale integrazione riguarda aspetti ricostruttivi che non erano influenti al tempo del giudizio e che tali si presentano solo in seguito; non così, invece, in sede « straordinaria », dove le nuove prove possono indurre una differente ricostruzione « storica », coinvolgendo temi da considerare rilevanti anche durante la fase « ordinaria », ai fini della riconducibilità del fatto in un’ipotesi normativa che risultava già abrogata (108). Nondimeno, l’intervento esecutivo nei casi menzionati nasconde il pericolo di realizzare incursioni sul giudizio di merito concluso o, addirittura, di sostituirsi ad esso nelle ipotesi in cui la procedura si applica ad un decreto penale o alla sentenza di pena « negoziata » (109). In proposito, sono noti sia lo scarso rigore della motivazione, sia il compresso spazio cognitivo che (anche) la prassi riserva a giudizi di questo tipo. Una soluzione, allora, potrebbe consistere nel tenere presente solo i singoli elementi della contestazione ‘‘in fatto’’ riprodotta nella parte introduttiva dei citati provvedimenti; in questi casi è difficile negare la sovrapponibilità tra le circostanze indicate nell’imputazione e quelle contenute nella decisione, cosicché ogni altra indagine su di esse dovrebbe ritenersi preclusa di fronte al dato formale. Non si nasconde che, così ragionando, s’incorre nel pericolo di attribuire ai contenuti dell’accertamento una sorta di vincolo legale fissato dagli elementi della contestazione, con ovvi svantaggi rispetto ad altri casi in cui è, invece, possibile « interpretare » gli aspetti del giudizio concluso. Tuttavia, una scelta del genere ridurrebbe numericamente l’incidenza che l’intervento esecutivo è in grado di produrre in materia. Certo, resta pur sempre uno spazio operativo limitato alle volte in cui il fatto contestato (108) Per ulteriori precisazioni, volendo, SCALFATI, L’esame sul merito nel giudizio preliminare di revisione, Padova, 1995, p. 312. (109) A riguardo, efficacemente, GAITO, Poteri d’integrare il merito, cit., p. 1322.
— 205 — non indica le circostanze dalle quali desumere l’attuale liceità della condotta; tuttavia, al di fuori di queste evenienze, la prospettata soluzione appare in grado di ridurre l’ambito di un possibile riesame nel merito circa la vicenda giudiziaria definita. 10. Il mancato proscioglimento per l’abolitio criminis intervenuta prima del giudicato. I termini del problema in rapporto alla fase esecutiva. — La regola introdotta dall’art. 673 c.p.p. ripropone il tema, positivamente risolto da remota giurisprudenza durante il codice previgente (110), circa la proponibilità in esecuzione dell’intervento abolitivo caduto prima che il provvedimento divenisse inoppugnabile. Si tratta di stabilire se è ammissibile la procedura in esame quando, pur sussistendone in astratto i presupposti, il soggetto non è stato prosciolto per essere il fatto non previsto dalla legge come reato. Nulla prevedendo a riguardo la nuova norma, una risposta affermativa non sembra esclusa (111); del resto, la perentorietà delle regole fissate negli artt. 2 secondo comma, c.p. e 30, quarto comma, l. n. 87/53 tendono a confermare prospettive di questo tipo (112). Le soluzioni, tuttavia, si presentano meno scontate. Va ricordato come la giurisprudenza consideri attualmente preclusa la procedura esecutiva per il semplice fatto che il relativo proscioglimento è mancato in giudizio (113). Esauriti i poteri esercitabili nei vari « gradi », circa la dichiarazione dell’abolitio criminis già intervenuta, la presenza del giudicato copre anche tale questione, sia quando è stata decisa sia quando poteva essere decisa. « Dedotto » e « deducibile », insomma, sono insindacabili in sede esecutiva, perlomeno fino che una simile indagine non sia espressamente prevista (114); sarebbero escluse da questo sistema, le particolari ipotesi in cui il provvedimento abolitivo sopraggiunge durante i termini per l’impugnazione che, poi, non è proposta (115) o qualora esso (110) A riguardo, per il panorama giurisprudenziale, D’ANGELO-SCAGLIONE, Gli incidenti, cit., p. 102 ss. (111) Cfr., CORDERO, Procedura, cit., Milano, 1995, p. 1082. (112) Affermazione generale, valevole per il vecchio (D. GROSSO, Esecuzione penale, cit., p. 13) quanto per il nuovo codice (CORBI, L’esecuzione, cit., p. 133). (113) Cass., Sez. VI, 23 agosto 1994, Mastrolembo, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 114. (114) L’argomento è già noto alle precedenti elaborazioni e riguarda i limiti cognitivi esercitabili in esecuzione: (con precisazioni) CORDERO, Contributo allo studio dell’amnistia, cit., p. 125 ss.; GIANZI, Incidenti (dir. proc. pen.), vol. XXI, Milano, 1971, p. 9; Gius. SABATINI, Trattato dei procedimenti incidentali nel processo penale, Torino, 1953, p. 737; SANTORO, L’esecuzione, cit., p. 393; SIRACUSA, Incidenti di esecuzione (diritto processuale penale), in Nss.mo Dig. it., vol. VIII, Torino, 1962 p. 531. (115) È un caso particolare enunciato nella motivazione di Cass, Sez. VI, 23 agosto 1994, cit., p. 115. Tuttavia, a ben vedere, l’ipotesi si presenta come corollario della tesi ge-
— 206 — interviene nelle more del giudizio di cassazione avente ad oggetto punti diversi dalla responsabilità dell’imputato (116). In base a tali premesse, la ricostruzione del tema si presenta nei seguenti termini. L’inammissibilità della procedura in esame riguarda, in primo luogo, i casi in cui l’abolitio sia già stata espressamente o implicitamente esclusa; peraltro, pur mancando regole, è condivisibile ricollegarsi alla direttiva n. 97 legge-delega per la parte in cui, sebbene ad esclusivo proposito del beneficio di cui all’art. 81 c.p., vieta di riesaminare in fase esecutiva il punto già deciso. In secondo luogo, l’intervento di cui all’art. 673 c.p.p. appare inibito quando in sede di cognizione si è semplicemente mancato di dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato. In proposito, poi, complica le cose l’idea della formazione « progressiva » del giudicato, inteso come fenomeno idoneo a vietare la conoscibilità di questioni non impugnate nel passaggio tra i vari gradi del processo (117); conferma tale ipotesi la ritenuta ammissibilità della revoca in esecuzione se l’abolitio interviene nel momento in cui i limiti dell’indagine fissati per i gradi successivi non consentono di valutare aspetti legati alla responsabilità dell’imputato (118). I problemi, così impostati diventano complessi. Una soluzione di questo tipo imporrebbe inopinatamente di considerare che la formazione progressiva del giudicato superi la stessa portata dell’art. 129 c.p.p.; diversamente, invece, salva l’ipotesi del giudizio di rinvio (art. 634, primo comma, c.p.p.) (119), non può ritenersi vietato utilizzare tale previsione nerale che vieta in esecuzione la pronuncia d’abolitio quando poteva già essere emessa in giudizio. Infatti, se il nuovo assetto normativo sopravvenisse durante i termini per l’impugnazione poi non proposta, l’inammissibilità originaria in tal modo prodottasi vieterebbe qualsiasi potere cognitivo al giudice del « grado » superiore. Il fenomeno implica, insomma il formarsi di una preclusione antecedente all’intervento abolitivo. (116) Cass., Sez. VI, 15 febbraio 1995, De Cesare, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 256. (117) Per tutti, circa l’inquadramento del fenomeno, CONSO, Questioni nuove di procedura penale, Milano, 1959, p. 155 ss. (118) Cass., 15 febbraio 1995, De Cesare, cit., p. 256. (119) Sull’inapplicabilità dell’art. 129 c.p.p. al giudizio di rinvio quando l’annullamento « parziale » non ha investito le questioni concernenti la responsabilità dell’imputato o la sussistenza del fatto, salva l’ipotesi in cui l’annullamento riguardi aspetti con essi logicamente collegati, Cass. pen., Sez. un., 19 gennaio 1991, Agnese, in Arch n. proc. pen., 1991, p. 445; Cass., Sez. un., 11 maggio 1993, Ligresti, in Arch. pen., 1993, p. 410. Nelle menzionate decisioni ci si riferisce all’art. 152 c.p.p. 1930, ma il richiamo all’omologo art. 129 c.p.p. 1988 è esplicito nel corso della motivazione. In argomento, tra i contributi più recenti circa un tema già noto in precedenti elaborazioni sul codice abrogato, SPANGHER, Sui poteri del giudice di rinvio in relazione ai capi non oggetto di annullamento, in Cass. pen., 1988, p. 97 ss.; ID., Bis in idem delle Sezioni unite sui limiti di applicabilità dell’art. 152 c.p.p. 1930 nel giudizio di rinvio con annullamento parziale, in Cass. pen., 1993, p. 2506; VESSICHELLI, Sull’effetto dell’annullamento parziale rispetto alle « parti » della sentenza diverse da quelle annullate, in Cass. pen. 1991, p. 734 ss.
— 207 — allo scopo di dichiarare, in ogni momento del processo, che « il fatto non è previsto dalla legge come reato ». Però, a causa dell’evidente svalutazione di quest’aspetto, il mancato esercizio del potere di prosciogliere nell’ipotesi in esame può tendere a determinare l’intervento di cui all’art. 673 c.p.p. quando il fenomeno normativo sopraggiunge nei « gradi » della cognizione ai quali sono devoluti punti diversi dalla responsabilità. Per contro, correttamente valutando il rapporto tra preclusioni decisorie nei giudizi d’impugnazione e l’art. 129 c.p.p., l’inammissibilità della procedura in esame potrebbe sempre essere invocata se si ritiene semplicemente decisiva l’omessa pronuncia sul punto; tutto ciò perlomeno fino all’annullamento parziale in cassazione dichiarato su questioni estranee alla responsabilità dell’imputato. Non sfugge, tuttavia, che ritenendo generalmente inammissibile la procedura in esame in tutte le ipotesi in cui la pronuncia è stata omessa durante la cognizione, si esaspera in nome del giudicato la diseguaglianza di trattamento punitivo che la disciplina sostanziale tende ad evitare. Si continuerebbe, in definitiva, a punire anche laddove la ricostruzione giudiziale ha accertato condotte lecite senza espressamente dichiararne le conseguenze. 11. (Segue): Interventi abolitivi totali. — Pervenire a soluzioni diversificate impone, innanzitutto, di distinguere i casi in cui l’abolitio si presenta totale, cosicché l’area del lecito coincide perfettamente con la fattispecie concreta giudizialmente ricondotta nel « tipo », da quelli in cui il divieto penale residua per una classe di ipotesi dinanzi alle quali necessita un nuovo accertamento tra « fatto » e « valore ». Analizzando il primo aspetto, va preliminarmente compreso se ci si trova di fronte all’omessa adozione del proscioglimento perché la materiale esistenza dell’intervento abolitivo è sfuggito, dai casi in cui la qualificazione giuridica prescelta ha determinato la sussunzione del fatto in un nomen juris diverso da quello eliminato dall’ordinamento. In questa seconda ipotesi la conclusione « in diritto », pur coinvolgendo un errore, non appare più sindacabile in sede esecutiva. Ad una scelta di questo tipo si può sempre obbiettare che il graduale ampliamento dei limiti cognitivi desumibile dal nuovo complesso di norme in sede d’esecuzione induce a non escludere il sindacato sulla quaestio juris (120); soprattutto se ciò si risolve nell’adottare regole così importanti come quelle in esame. Tuttavia, pur condividendo la prospettiva di potenziamento della fase, non sembra che il legislatore del 1988 si sia spinto fino a questo punto. Innanzitutto, nulla è cambiato in merito (120) Per una prospettiva di questo tipo, VALENTINI REUTER, Questioni proponibili in fase esecutiva, in Giur. it., 1992, II, c. 737.
— 208 — alla possibilità di emendare, dopo il giudicato, errori di diritto nei quali è incorso il giudice nei precedenti « gradi »; lo confermano la perdurante inoppugnabilità delle sentenze della cassazione (121) ed il nuovo regime della procedura « straordinaria » diretto, piuttosto, a potenziare le indagini di fatto (122). Inoltre, è scomparsa dalle attuali previsioni la possibilità di adottare l’amnistia « le volte in cui non si sia già provveduto con sentenza » (art. 594 c.p.p. 1930), fenomeno particolare che consentiva di ritenere rimediabile in sede esecutiva l’omessa pronuncia sulla relativa questione (123). Viceversa, laddove il legislatore ha inteso attribuire un sindacato, anche nel merito, su punti già rilevabili nel corso del giudizio lo ha espressamente statuito (art. 670 c.p.p.) (124); anzi, temendo una possibile incursione su aspetti già risolti, ha, talvolta, provveduto a meglio descrivere le condizioni dei poteri esercitabili (art. 671 c.p.p.) (125). Insomma, perlomeno stando all’attuale assetto positivo, non sembra potersi desumere che in esecuzione sia consentito riesaminare temi che avrebbero potuto essere trattati nel corso dell’accertamento concluso, ad eccezione, appunto, di ipotesi espressamente contemplate. Conferma simile prospettiva l’opinione secondo cui, in caso d’annullamento parziale non avente ad oggetto la responsabilità dell’imputato, è precluso finanche al giudice (121) Per quanto la regola non sia espressamente ripetuta nel nuovo codice deve ritenersi implicita, soprattutto in virtù della disposizione che preclude in sede di rinvio, l’esame sulle « parti » della sentenza non annullate (art. 624, primo comma, c.p.p.). Cfr. del resto, Corte cost., sent. 26 giugno 1995, n. 294, in questa Rivista, 1995, p. 915 ss. Sul punto SPANGHER, Le impugnazioni, in CONSO-GREVI, Profili, cit., p. 703; in senso critico, GIARDA, Ancora sull’intangibilità assoluta delle sentenze della Corte di cassazione, in questa Rivista, 1995, p. 923, e per il codice abrogato, CHIAVARIO, Inoppugnabilità delle sentenze di cassazione ed art. 24 Cost., in Giur. cost., 1972, I, p. 138 ss. (122) L’eliminazione delle due fasi autonome del giudizio straordinario, la concentrazione dell’accertamento nell’unico schema decisorio possibile ed il richiamo alle regole istruttorie consentite nel dibattimento di primo grado, costituiscono i principali elementi dai quali desumere l’intento di potenziare la rinnovazione del giudizio di fatto. (123) Per un quadro di sintesi, tra le elaborazioni più recenti in materia, SOTTANI, Sui poteri del giudice dell’esecuzione in caso di applicazione dell’amnistia, in Giur. it., 1989, II, c. 83. (124) Per i temi cui dà luogo la tematica della mancanza o ineseguibilità del titolo, GAITO, In tema d’irrevocabilità ed escutività della sentenza penale, in Giust. proc., 1990, n. 5, p. 94. (125) A proposito dell’applicabilità del reato continuato in sede esecutiva, l’art. 671 c.p.p. richiede non solo che la questione non sia già stata esclusa, ma impone di adottare la procedura quando i fatti tra i quali occorre adottare la disciplina di cui all’art. 81 c.p. siano stati trattati in procedimenti distinti. Quest’ultima regola tende ad evitare le situazioni in cui il punto concernente l’« identità del disegno criminoso » sia stato solo implicitarnente risolto. Ne deriva, evidentemente, che un’omessa statuizione in materia non è rimediabile se i fatti interessati al « vincolo » sono stati trattati congiuntamente (analogamente, D. GROSSO, Continuazione di reati, cit., c. 623 nota 100).
— 209 — di rinvio il potere di dichiarare cause estintive non adottate in precedenza (126). Occorre, invece, concludere diversamente quando in giudizio è stata applicata la norma incriminatrice non più vigente; qui, l’opera integrativa non emenda l’errore di qualificazione ma, lasciando questa inalterata, procede ad adattare gli effetti del titolo, pronunciato a seguito del vuoto normativo, ai presupposti già accertati (127); il rimedio tende esclusivamente a riparare l’illegalità dei profili sanzionatori conseguente alla statuizione. Impostato il problema in questi termini, sembra potersi superare anche l’obbiezione secondo cui un’opera del genere sarebbe inibita dal c.d. « giudicato implicito » (128), ovvero da quel meccanismo secondo cui « l’efficacia (preclusiva)... della decisione si estend(e), oltre ai fatti dei quali è stata specificamente accertata la presenza o la mancanza, a tutti quegli altri, la cui esistenza o inesistenza funge da postulato rispetto alla conclusione in essa recepita » (129). Se una tale nozione riguarda il rapporto logico tra le singole questioni elaborate nell’accertamento, tra loro inscindibilmente connesse anche se non tutte esplicitamente enunciate (130), l’intervento esecutivo nei limiti precisati non tende a violarlo quanto, piuttosto, a rafforzare l’intima coerenza tra i punti decisi in rapporto al dispositivo. Il lavorìo correttivo, insomma, non incide sui singoli temi implicitamente risolti, ma procede all’adeguamento che, per diretta necessità giuridica, consegue alla loro affermazione. S’intuisce, allora, come questa ipotesi sia diversa dall’omesso proscioglimento che presuppone l’erronea sussunzione del fatto in una norma rimasta vigente; in casi simili, il giudizio proscioglitivo « implicitamente » dipende dall’aver risolto la questione qualificativa che, come tale, non va ridiscussa. Va, infine, esaminato il caso in cui l’omesso proscioglimento in giudizio derivi da una particolare ricostruzione « storica », cosicché, utilizzandone un’altra, il « fatto » potrebbe essere ricondotto nel quadro normativo non più vigente. Il problema qui verte sulla quaestio facti che, ancora una volta, non appare sindacabile dal giudice dell’esecuzione nelle ipotesi di abolitio integrale; tanto più, supponendo che essa era emendabile fa(126) Sul punto le indicazioni fornite alla nota n. 119. (127) D. GROSSO, Esecuzione penale, cit., p. 13. (128) CORDERO, Il rimedio alla sentenza contumaciale irregolarmente notificata. Rilievi sulla linea di confine tra impugnazione ed incidente di esecuzione, in questa Rivista, 1957, p. 426. (129) CORDERO, Contributo allo studio dell’amnistia nel processo, Milano, 1957, p. 125. In senso analogo, sia pure con espressione diversa, LA ROCCA, Studi sul problema del fatto nel processo penale, Napoli, 1954, p. 110; LEONE, Trattato, cit., vol. III, Napoli, 1961, p. 377; NUVOLONE, Giudicato ed amnistia, in Giust. pen., 1957, III, c. 226. (130) Puntualizza il vincolo del giudicato implicito sui rapporti logici tra le questioni, evidenziando come esso sia direttamente legato alla nozione di motivazione implicita, CONSO, In tema di rapporti tra giudicato implicito ed amnistia, in Giur. it., 1963, II, c. 347.
— 210 — cendo ricorso all’art. 129, primo comma, c.p.p. In questi casi, tuttavia, non va esclusa l’impugnazione straordinaria quando le « nuove prove » sono tali da imporre una diversa ipotesi ricostruttiva che diventa sussumibile nella fattispecie abolita. Il discorso, naturalmente, concerne il terreno probatorio e, in particolare, l’efficienza che il novum comporta al fine di riconsiderare l’intera vicenda sul piano del « fatto ». Ma la soluzione coinvolge anche i casi in cui elementi disponibili agli atti del processo non sono stati mai esaminati; niente esclude, insomma, che apatie valutative, pur evidenziabili attraverso un oculato ricorso all’art. 129, primo comma, c.p.p., possano ripresentarsi mediante la revisione ed essere sviluppate dalla nuova istruttoria. Non è preclusivo in questa sede ridiscutere aspetti « implicitamente » risolti; il divieto di riesame, qui, non riguarda le « questioni » ma le prove poste a base dell’accertamento definito. 12. (Segue): Interventi abolitivi parziali e la quaestio facti. — Residua l’analisi sui casi in cui la modifica normativa ha determinato un’abolitio parziale, comportando la liceità di talune condotte originariamente vietate. Il fenomeno rileva nei limiti in cui gli aspetti del « fatto » necessari ad integrare la nuova area del lecito non sono mai stati valutati. L’opera correttiva in esecuzione potrebbe giustificarsi solo in tali circostanze, non essendo concepibile che qui siano diversamente riesaminati i temi sui quali è già intervenuto il giudizio. Ciò può accadere anche nelle ipotesi in cui il nuovo intervento normativo è caduto tra la pronuncia d’appello e quella di cassazione. Infatti, stante l’esigenza di rinnovare l’indagine sul terreno probatorio intorno a circostanze divenute rilevanti solo dopo e non essendovi, in quello stadio del processo, né le condizioni per adottare l’art. 129, primo comma, c.p.p., né quelle per « rettificare » la sentenza secondo l’art. 619, terzo comma (131), c.p.p., il corrispondente proscioglimento potrebbe mancare. Certo, se si ammette che il giudice d’esecuzione può « interpretare » il giudicato quando deve stabilire la liceità della condotta nei casi di parziali mutamenti normativi posteriori all’irrevocabilità, nulla sembra vietare un’operazione analoga nelle ipotesi ora in esame. Non sfugge, tuttavia, che qui, salvo circostanze particolari (es. abolitio parziale intervenuta nel giudizio di cassazione avente ad oggetto questioni sulla pena, quando la relativa soluzione imponeva altre indagini di merito) è molto fluida la linea di confine tra devianti incursioni sui profili ricostruttivi del « fatto » e l’analisi di temi irrilevanti e non trattati in giudizio. Pertanto, anche allo scopo di evitare scelte in grado di riflettersi ne(131) Sull’ambito dei poteri esercitabili in materia dalla cassazione secondo le nuove regole, BARGIS, Rettificazione e merito nel giudizio di cassazione penale, Milano, 1989, p. 202 ss.
— 211 — gativamente sulle sorti del processato, è preferibile ricorrere all’impugnazione straordinaria (132). Il rimedio non esclude che le « nuove prove » riguardino aspetti « storici » rilevanti ai fini della diversa qualificazione imposta sul piano normativo già durante i precedenti gradi dell’accertamento. Vale la pena ribadire che non si tratterebbe di sindacare un errore di diritto, bensì di verificare una differente prospettiva « in fatto » che dipende da omesse indagini o mancate valutazioni probatorie. L’unico limite imposto al giudizio di revisione è quello di riesaminare gli stessi elementi emersi nei precedenti gradi (artt. 630 lett. c) e 637, terzo comma, c.p.p.); pertanto, la « novità » non può non riguardare anche i dati che, pur presenti tra gli atti processuali, sono rimasti estranei, per qualsiasi ragione, alla logica decisoria e che, invece si presentano pertinenti ai fini della ricostruzione « storica » necessaria a verificare l’attuale liceità della condotta. ADOLFO SCALFATI Ricercatore confermato di procedura penale Università di Urbino
(132) Sulla possibilità di cumulare revisione ed incidente d’esecuzione nel caso di abolitio criminis precedente il giudicato, NORMANDO, Il sistema dei rimedi revocatori del giudicato penale, Torino, 1996, p. 149 ss.
IL TASSO DI USURA PREFISSATO: UNA PERICOLOSA ILLUSIONE?
SOMMARIO: 1. Un rapido sguardo d’insieme alla legge n. 108/96. Delimitazione del campo di indagine. — 2. La struttura del « vecchio » reato di usura. I due cardini della fattispecie: lo stato di bisogno e la indeterminatezza della prestazione a carico del soggetto passivo. — 3. La modifica dell’art. 644 c.p. I lavori parlamentari. — 4. La fissazione legislativa del tasso usurario. Critica. — 5. Gli inconvenienti di ordine interpretativo derivanti dalla predeterminazione del tasso usurario. — 6. La mancata distinzione tra interessi corrispettivi e moratori. Conseguenze pregiudizievoli suscettibili di derivarne. — 7. Considerazioni conclusive.
1. Un rapido sguardo di insieme alla legge n. 108/96. Delimitazione del campo di indagine. — La legge 7 marzo 1996 n. 108, nel tentativo se non di estirpare — almeno di contenere il grave e dilagante fenomeno dell’usura, diventato uno degli « investimenti » meno rischiosi e più redditizi della criminalità organizzata (1), ha riscritto l’art. 644 c.p., delineando una fattispecie criminosa strutturata con connotati diversi dai suoi precedenti normativi. Inoltre, al fine di rendere più incisiva la tutela civilistica, la stessa legge ha sancito la nullità della clausola di interessi usurari nel contratto di mutuo (art. 4); ha poi equiparato il reato alle altre gravi forme di pericolosità sociale, rendendo applicabili anche all’usura le misure sostanziali e processuali previste per gli illeciti di mafia (artt. 6, 8 e 9); ha esteso alle imprese commerciali, artigianali e professionali che siano state vittime dell’usura, le elargizioni pecuniarie concesse per il ristoro dei danni conseguenti al rifiuto opposto a richieste estorsive (artt. 12 e 13); ha istituito (1) Per quanto concerne la dimensione e il vario atteggiarsi del fenomeno, con particolare riguardo al « dominio » che di esso ha assunto la criminalità organizzata avvalendosi di mezzi intimidatori e violenti in occasione delle riscossioni, cfr. la « Relazione approvata dalla Commissione Parlamentare Antimafia il 21 dicembre 1993 », Roma, Bari 1994. Cfr., inoltre, CAVALIERE, L’usura tra prevenzione e repressione: il controllo del ruolo penalistico, in questa Rivista, 1995, p. 1206; e, con particolare riguardo all’intreccio tra riciclaggio e usura, SANTACROCE, Usura, riciclaggio e sistema bancario: linee di una strategia composita di contrasto, in Giust. pen., 1995, II, c. 246 s. Circa poi le ragioni per cui si è passati da una considerazione « blanda » dei comportamenti di strozzinaggio, all’attuale dimensione allarmante del fenomeno, si veda l’acuta analisi di PISA, Lotta all’usura, giurisprudenza in difficoltà nell’attesa di nuove norme, in Dir. pen. e proc., 1995, p. 1283 s.
— 213 — un fondo di solidarietà per l’erogazione di mutui senza interesse a favore delle stesse imprese (art. 14); allo scopo di spezzare il vincolo di omertà generato dal bisogno e sorretto dall’intimidazione, ha istituito, in funzione preventiva, un fondo destinato a favorire l’erogazione di finanziamenti a soggetti che, pur essendone meritevoli, incontrano difficoltà di accesso al credito (art. 15); e, infine, ha disciplinato un ulteriore tipo di riabilitazione civile a favore del debitore protestato, nonché particolari ipotesi di sospensione e cancellazione del protesto (artt. 17 e 18). Si tratta, dunque, di un intervento legislativo articolato e complesso, tutto sommato positivo e convincente proprio perché, abbandonato il miraggio di onnipotenza della pena, ci si è sforzati di riguadagnare l’area di illegalità anche in una prospettiva vittimologica, mediante interventi di « sostegno » e di « recupero » che, alla resa dei conti, potrebbero risultare vincenti. A fronte degli aspetti persuasivi appena rilevati, emergono peraltro taluni connotati della fattispecie penale i quali inducono a dubitare dell’efficacia operativa della nuova norma incriminatrice, o, peggio, fanno temere che possa addirittura proliferare la pratica dell’usura che si è inteso combattere con maggiore incisività. Il modesto apporto di questo scritto è diretto ad individuare tali connotati negativi, a porre in luce i « guasti » che essi potrebbero produrre, nonché a segnalare gli opportuni rimedi capaci di tappare anche le poche falle che rimangono ancora aperte, nella strategia di lotta dell’insidioso fenomeno. 2. La struttura del « vecchio » reato di usura. I due cardini della fattispecie: lo stato di bisogno e la indeterminatezza della prestazione a carico del soggetto passivo. — Per introdurre il tema di indagine appena enunciato, potrebbe risultare di una qualche utilità ricordare che con il reato di usura, previsto dal codice Rocco a differenza di quello Zanardelli (2), furono incriminate le operazioni meramente finanziarie (usura (2) Senza la pretesa di ripercorrere tutte le tappe di quella che Francesco Carrara definì la « storia morale dell’usura » (Programma, Lucca 1871, vol. IV, p. 552), sembra interessante porre in luce un particolare momento del travagliato cammino normativo della pratica usuraria che, come è noto, ha vissuto stagioni diverse, passando dalla concezione peccaminosa, alla repressione, alla liceità. Questo momento coincide con l’irrompere delle dottrine economiche liberiste nei secoli XVIII e XIX, a seguito dell’influenza esercitata dalla legislazione francese post-rivoluzionaria. Si creò allora un forte movimento abolizionista delle leggi proibitive dell’usura, in nome della libertà di contrattazione (quest’ultima comprensiva della libertà di stipula della clausola degli interessi), in quanto si ritenne che ogni intervento sui tassi avrebbe impedito il finanziamento delle aziende in pericolo, determinando l’accantonamento infruttuoso di capitali. Peraltro, ad onta di tali movimenti di opinione, in Italia la pratica usuraria continuò ad essere punita dalla legislazione pre-unitaria (codice sardo del 1839, codice toscano, estense,
— 214 — pecuniaria), compiute mediante approfittamento dell’altrui stato di bisogno, con esclusione quindi dall’area dell’illecito di tutte le forme di usura non meno esose di quelle catalogabili nell’accezione — diremo così — tradizionale, oppure realizzate al di fuori dell’approfittamento sopra indicato (usura reale) (3). La dottrina e la giurisprudenza, peraltro, nel lodevole tentativo di allargare l’area della repressione penale, identificarono lo stato di bisogno in una situazione di disagio capace di limitare la libertà di scelta del soggetto, inducendolo ad accettare tassi o altre condizioni gravose (4) e inclusero nella sua nozione, oltre alle necessità elementari del soggetto passivo o dei soggetti verso i quali il primo è giuridicamente o moralmente obbligato a provvedere (5), quelle inerenti all’esercizio del mestiere o della professione (6), al mantenimento della propria posizione sociale e alla tutela dell’onorabilità (7), alle esigenze aziendali (anche nel caso in cui titolare dell’azienda fosse una persona giuridica) (8). In sintesi, si ritenne giuridicamente rilevante lo stato di bisogno ogni qualvolta fosse riparmense, degli Stati Pontifici). Fu invece abolita dal codice sardo del 1859 e, sulla scia di questo, non venne prevista come reato dal codice Zanardelli, ispirato ai principi economici liberisti sopra cennati. Il diniego di tutela del contraente più debole, sancito mediante la riconosciuta liceità della pratica usuraria, dette luogo ad una disputa vivace, espressa anche mediante progetti di legge contrapposti, alcuni dei quali erano diretti a reintrodurre il reato di usura, mentre altri si limitavano a regolamentare il solo strumento civilistico, ritenendo la sanzione penale inefficace o addirittura dannosa. L’annosa querelle si ripropose anche durante i lavori preparatori del codice Rocco che, alla fine, previde l’usura come reato. (Per ulteriori cenni storici, cfr.: MANZINI, Trattato di diritto penale, Torino, 1984, 5a ed., vol. IX, p. 868-871; MAGGIORE, Diritto penale, Bologna, 1950, vol. II, p. 1031; BUCCILLI, Introduzione al volume di JEREMY BENTHAM, Difesa dell’usura, Macerata, 1996, p. XLVI; VIOLANTE, Enciclopedia del diritto, Milano, 1992, voce Usura, vol. XLV, p. 1142; in particolare, IANNITTI PIROMALLI, Il codice penale illustrato articolo per articolo, Milano, 1936, vol. III, p. 454-456 e, più ampiamente, LA PORTA, La repressione dell’usura nel diritto penale italiano, Milano, 1963, p. l8 e s.). (3) ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Milano, 1994, 11a ed., Parte speciale, vol. I, p. 342-343; MANZINI, Trattato cit., vol. IX, p. 881-882. (4) Cfr. VIOLANTE, op. cit., nonché gli AA. e la giurisprudenza ivi, cit. alle note 9 e 10. Cfr. altresì, nello stesso senso, MANZINI, Trattato, cit., vol. IX, p. 876. Per la giurisprudenza, si veda sul punto, Cass. 28 aprile 1988 in Cass. pen., 1990, p. 627, m. 562; Cass. 13 gennaio 1989 ivi, 1992, p. 82 m. 51; e Cass. 5 dicembre 1991, ivi, 1993, p. 576, m. 340. (5) Cass. 10 aprile 1935, in Giust. pen., 1935, II, col. 1392 nonché Cass. 16 giugno 1986, in Cass. pen., 1987, p. 462, m. 404 e Cass. 24 febbraio 1982, ivi, 1983, p. 1560, m. 1118 per quanto concerne le persone verso le quali il soggetto passivo è legato da vincolo di solidarietà. (6) Cass. 17 gennaio 1963 in Cass. pen. Mass., 1964, p. 63, m. 522. (7) VIOLANTE, Usura (delitto di), in Novissimo Digesto Italiano, 1975, vol. XX, p. 384. (8) Cass. 18 maggio 1978, in Cass. pen. Mass., 1979, p. 1526, m. 1453; Cass. 29 gennaio 1985, in Cass. pen., 1986, p. 1282, m. 1039; Cass. 26 gennaio 1988, ivi, 1988, p. 253, m. 224.
— 215 — collegabile a necessità socialmente considerevoli, mentre tale rilevanza fu esclusa nei casi in cui il soggetto passivo dell’usura si proponeva di utilizzare il danaro ottenuto in prestito, in modo illecito (ad es. per l’acquisto di sostanze stupefacenti) o in vista di una condotta contraria alla morale o socialmente non apprezzabile (9). Inoltre, al fine di agevolare la prova dell’esistenza dello stato di bisogno e del conseguente consapevole approfittamento da parte dell’usuraio, la Corte di Cassazione ritenne che l’esistenza di tale stato potesse essere desunta dalla misura degli interessi, quando si trattava di misura talmente elevata da rendere evidente che solo un soggetto in stato di bisogno poteva contrarre un mutuo a condizioni così esose (10). Ma la connotazione del reato più significativa, ai fini del nostro discorso, era rappresentata dall’indeterminatezza della prestazione a carico del soggetto passivo, prestazione che l’art. 644 c.p. faceva consistere nella dazione o nella promessa di « interessi o altri vantaggi usurari »; per cui, fin dalla prima applicazione della norma citata, ci si domandò quando un interesse o un altro vantaggio diventavano usurari. Durante i lavori preparatori furono proposti vari criteri per stabilire il carattere usurario degli interessi, ma saggiamente il concetto rimase imprecisato e il Guardasigilli si fece carico di spiegare in questo modo le ragioni della mancata precisazione: « Si è rilevato che dovrebbesi definire quando riconoscere gli interessi o altri vantaggi usurari, previsti come elementi del reato. Tale definizione non è possibile e non è necessaria. Si è fatto ricorso alla locuzione ‘‘interessi o altri vantaggi usurari’’, perché appunto l’usura si nasconde nei più vari espedienti e non si realizza solo nell’alta misura degli interessi; e, d’altra parte, non si può stabilire in un codice quando la misura degli interessi raggiunga tale grado da fornire (9) Si veda in tal senso, Cass. 20 novembre 1990 in Cass. pen., 1993, p. 2280, m. 1370. Nel commento alla sent. cit., GAROFANO, Sullo « stato di bisogno » nel delitto di usura (ivi), sostiene che, per accertare la sussistenza dello stato di bisogno, il riferimento a canoni sociali, morali o giuridici nell’utilizzo del prestito concesso, rappresenta un elemento non necessario per l’esistenza del reato di usura, in quanto la causa che determina tale stato è irrilevante. In quest’ultimo senso, v. altresì Cass. 25 gennaio 1982, in Riv. pen., 1982, p. 571. Recentemente la S.C. non ha ritenuto ravvisabile lo stato di bisogno richiesto dall’art. 644, vecchia formulazione del cod. pen., in un caso in cui il privato si era rivolto ad una società finanziaria accettando un tasso usurario per non compromettere la possibilità di erogazione di un mutuo bancario (Cass. 3 ottobre 1995 n. 3713 in Guida al diritto, 1996 n. 25 p. 65). (10) Così PISA, Lotta all’usura, cit., p. 1284 s. V. inoltre la giurisprudenza di legittimità e di merito cit. ivi, alle note 4 e 5 e, da ultimo, Cass. 24 marzo 1995, ivi, p. 1282. L’A. peraltro, pur riconoscendo all’indirizzo giurisprudenziale in parola « un fondamento logico innegabile », non manca di notare che la semplificazione probatoria « relega(va) su uno sfondo più sfumato il nodo dell’individuazione della natura del bisogno da soddisfare mediante il prestito ad usura ».
— 216 — materia di usura, essendo la misura degli interessi dipendente dalle più diverse circostanze di tempo, di luogo, di persona, di rischio » (11). La strada scelta dal legislatore dell’epoca fu giudicata « sotto molti profili, la migliore » in quanto, « mentre offre (offriva) la possibilità di valutare la misura delle controprestazioni nel caso concreto, permette (va) di guardare... a tutti gli altri vantaggi che l’usurario può (poteva) trarre dalla vittima » (12). Peraltro, al di là di questi aspetti positivi, non vi è dubbio che la mancanza di un qualsivoglia punto di riferimento, capace di conferire all’elemento in parola una qualche determinatezza già a livello normativo, abbia obbligato la dottrina e la giurisprudenza ad attestarsi su formule di stile, poco più che tautologiche, alla cui stregua l’interesse e il vantaggio diventavano usurari quando erano « esorbitanti », « eccessivi », « manifestamente sproporzionati alla prestazione » oppure corrisposti « sine causa », e cioè privi di una controprestazione adeguata (13). Deve però rilevarsi all’incontrario che, l’elemento normativo in questione, esprimendo un dato facilmente individuabile con riferimento ai correnti parametri economico-sociali, da un lato si sottraeva ad ogni censura di costituzionalità, essendo classificabile tra gli elementi « elastici » che non privano la fattispecie della determinatezza necessaria per soddisfare il precetto costituzionale (14) e, dall’altro, che proprio l’indeterminatezza consentiva di adeguare il giudizio alla evoluzione naturale dei costumi e alle fluttuazioni del mercato dei tassi, permettendo altresì di adottare, in particolar modo nei c.d. casi-limite, criteri di sostanziale equità (11) Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo del Codice penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, Roma, 1929, V, parte II, p. 467. (Sottolineatura nostra). (12) Così VIOLANTE, Il delitto di usura, Milano, 1970, p. 136 s. (13) Così VIOLANTE, voce Usura, cit., in Encicl. dir., cit., p. 1145. Anche la Cassazione (28 marzo 1991 in Cass. pen., 1992, p. 3054, m. 1614) definì « tautologica » la formula che compariva nel vecchio testo dell’art. 644 c.p., da ciò traendo la conseguenza che, in mancanza di precisazioni circa la natura usuraria dell’interesse, « non è (ra) possibile fare riferimento all’interesse legale e/o alla disciplina del cartello bancario », per cui « spetta (va) solo al giudice di merito stabilire quando l’interesse è (ra) usurario » (Cfr. nello stesso senso: Cass. 13 luglio 1979 in Cass. pen. Mass., 1981, p. 226, m. 235; Cass. 22 aprile 1983, ivi, 1985, p. 116 m. 46; e Cass. 28 marzo 1991, cit.). (14) Cfr. in tal senso, MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1992, 3a ed. p. 102. Ritiene invece PADOVANI (Diritto penale, Milano, 1993, 2a ed. p. 34 e s.) che gli elementi normativi di tipo extragiuridico i quali postulano, come quello in esame, il riferimento a criteri valutativi da reperirsi aliunde, sono compatibili con il principio di determinatezza, a condizione che la materia cui l’elemento « elastico » si riferisce debba essere regolamentata penalmente senza alternative ragionevoli, e non sia possibile ricorrere a segni linguistici diversi per esprimere lo stesso concetto.
— 217 — che la prefissazione della natura usuraria degli interessi avrebbe invece precluso (15). 3. La modifica dell’art. 644 c.p. I lavori parlamentari. — In sede di modifica legislativa della disciplina penale dell’usura, le ragioni esposte da Rocco furono evidentemente ritenute tuttora valide da un ramo del Parlamento (la Camera dei deputati) che, infatti, all’art. 1 del disegno di legge poi approvato, concepì un’unica fattispecie di reato, nella quale venne abolito il requisito dello stato di bisogno (previsto invece come aggravante), ma fu mantenuta ferma la soluzione adottata dal codice penale del 1930 per quanto riguarda l’indeterminatezza del carattere usurario della controprestazione, per cui la norma continuava ad incriminare chi « si fa dare o promettere interessi o vantaggi usurari ». Solo al comma 3o dello (15) In linea generale, la Corte Costituzionale ha affermato ripetutamente che il principio di determinatezza assume rilevanza costituzionale, ed ha ritenuto altresì che tale principio non rimane vulnerato dal ricorso « a concetti di comune esperienza o valori etico-sociali oggettivamente accertabili dall’interprete » (Così C. Cost. 8 luglio 1975, n. 188 in Giurispr. cost., 1975, p. 1502). Seguendo le direttive ermeneutiche della Corte Costituzionale, la Cassazione ha giudicato manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 644 c.p., proposte con riferimento agli artt. (77), 3 e 24 Cost., affermando: « Poiché non è possibile stabilire a priori quando la misura degli interessi sia tale da fornire materia di usura, essendo tale misura dipendente da diverse circostanze di tempo, di luogo, di persona e di rischio, il legislatore ha seguito il saggio criterio di affidare tale valutazione all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito. Trattasi non già di una norma in bianco, ma di una norma che consente un giudizio di valore, come le disposizioni riflettenti gli atti, le pubblicazioni e gli spettacoli osceni, nelle quali la nozione di ‘‘osceno’’ è anch’essa collegata a molteplici circostanze, soprattutto di tempo, in relazione cioè all’evoluzione dei costumi. Ma tutto ciò... non vulnera alcun principio costituzionale » (Cass. 7 dicembre 1978 in Cass. pen., 1980 p. 760 m. 703). In una nota adesiva alla sentenza citata (ivi), LUCCIOLI ha ritenuto che l’espressione interessi o altri vantaggi usurari fosse idonea ad individuare con certezza il precetto, ove si consideri che essa « fonda su valutazioni prettamente economiche che, se pur sensibili alla situazione contingente, di mercato e di costume, sono comunque suscettibili di concreta determinazione ». Anche successivamente, l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 644 c.p., prospettata sotto il profilo della indeterminatezza della previsione, è stata dichiarata manifestamente infondata, in quanto si è ritenuto « chiaro che il giudice deve riferirsi alla nozione comune, secondo cui sono usurari gli interessi sproporzionati alla prestazione e, cioè, notevolmente superiori a quelli che di regola vengono corrisposti per simili prestazioni » (Così Cass. 26 giugno 1990 in Cass. pen., 1992, p. 2758, p. 1444). Cfr. inoltre, sulla determinatezza della nuova fattispecie, CRISTIANI, Guida alle nuove norme sull’usura, Torino, 1996, p. 99 s. Per quanto concerne l’adeguamento, per così dire « automatico », che la indeterminatezza della formula legislativa rendeva possibile, deve ricordarsi che il fenomeno si registrò in particolar modo negli anni ’80, quando l’inflazione spinse in alto i tassi di interesse e ciò nonostante non fu ravvisata l’usura in fattispecie rispetto alle quali sarebbe stato senza meno riscontrabile il reato in periodi di normale circolazione monetaria.
— 218 — stesso art. 1 era prevista un’ipotesi aggravata, qualora gli interessi o vantaggi pattuiti o corrisposti fossero di valore superiore di otto volte il tasso di sconto praticato dalla Banca d’Italia (16). L’altro ramo del Parlamento fu però di diverso avviso e, ripudiando la soluzione di compromesso adottata dalla Camera, in forza della quale la predeterminazione del tasso usurario veniva « relegata » — come si è detto — tra le aggravanti del reato, previde un meccanismo, ispirato al modello francese, secondo il quale la predeterminazione del c.d. tasso-soglia, ai fini della qualifica usuraria dell’interesse, veniva demandata ad organi amministrativi di natura finanziaria (17). L’innovazione fu giustificata con motivazioni varie: « indicare criteri oggettivi per l’individuazione del reato » (18), fornire agli « operatori del settore... un ben preciso punto di riferimento » (19), « agevolare l’accertamento giudiziale e quindi la repressione penale di una così odiosa forma di reato » (20). Peraltro, anche in Senato non mancarono le voci discordi a questa impostazione e, accanto a chi si limitò a rivolgere il generico invito « a lasciare il giudice libero di valutare caso per caso gli estremi dell’usura » (21), vi furono altri senatori che espressero più motivate ragioni di dissenso, rilevando che la predeterminazione di una soglia, ai fini della qualifica usuraria dell’interesse, avrebbe « posto in discussione parte dei contratti bancari », conseguendo « l ’effetto pericoloso di allineare la misura del tasso legittimo sul livello più alto » (22), oppure « si sarebbe rischiato di porre una limitazione al libero mercato, se la soglia fosse (stata) fissata troppo in basso e di spingere in alto il mercato dei tassi, se fosse (stata) fissata troppo in alto » (23). Non mancò infine chi, tra gli stessi senatori, criticando la fissazione legislativa del c.d. tasso-soglia, segnalò « il rischio di alimentare canali illegali di finanziamento » (24), o di conseguire l’effetto perverso per cui, (16) Per una sintesi delle varie proposte di legge e dei lavori parlamentari della Camera, Cfr. PISA, Lotta all’usura, cit., p. 1285. (17) Cfr. sul punto, PISA, Mutata la strategia di contrasto al fenomeno dell’usura, in Dir. pen. e proc., 1996, p. 414 s. (18) 2a Commissione Giustizia del Senato, seduta del 14 settembre 1995, interv. SENESE. (19) Commiss. Sen. cit., seduta del 24 gennaio 1996, interv. BECHELLI. (20) Commiss. Sen. cit., seduta del 21 febbraio 1996, interv. MARRA. Per una sintesi delle ragioni a favore della soluzione prescelta dal Senato e delle obiezioni che ad essa sono state mosse, Cfr. PISA, Mutata la strategia, cit., p. 416. (21) Commiss. Sen. cit., seduta del 5 luglio 1995, interv. CONTESTABILE. (22) Commiss. Sen. cit., seduta del 24 gennaio 1996, interv. ALÌ. (23) Commiss. Sen. cit., seduta del 25 gennaio 1996, interv. MARRA, espresso dopo aver mutato parere a seguito dell’« orientamento largamente maggioritario emerso nella Commissione ». (24) Commiss. Sen. cit., seduta del 6 febbraio 1996, interv. GIARDA.
— 219 — una volta resa « meno conveniente l’erogazione di prestiti da parte delle banche e degli altri intermediari autorizzati, gli utenti sarebbero stati spinti verso il mercato illegale dell’usura » (25). Anche in Senato, quindi, si levarono non poche voci invitanti ad un ripensamento della soluzione radicata sulla predeterminazione del tasso usurario, ma, ad onta di ciò, il progetto fu trasmesso in seconda lettura alla Camera nella versione modificata dal Senato. La Camera, a sua volta, pur esprimendo il convincimento che « la scelta di fissare una soglia oltre la quale il tasso è usurario non era utilizzabile senza recare danno al sistema creditizio, trattandosi di scelta che restringe l’accesso al credito e quindi alimenta l’usura » (26), finì per approvare il testo licenziato dal Senato non senza riconoscere che « sotto la spinta della pressione sociale e delle elezioni imminenti » (27), sarebbe stata approvata una « legge lacunosa e spesso sbagliata » (28) o addirittura « disperata » (29). A questo punto, si verificò un fatto che si pensa (e ci si augura) non abbia precedenti nella storia parlamentare del nostro Paese. Venne cioè presentato un ordine del giorno con il quale la Commissione Giustizia della Camera: « rilevato che... l’attuale formulazione del disegno di legge presenta aspetti che avrebbero bisogno di una maggiore riflessione, mentre l’urgenza di approvare il provvedimento non permette di migliorarne il testo », dichiarò chiusa la discussione, ritenendo che « la materia potrebbe essere immediatamente disciplinata attraverso lo strumento del decreto legge, permettendo così... di ponderare adeguatamente le complesse tematiche, in modo da pervenire ad una disciplina congrua e coerente che risponda effettivamente alle esigenze e alle aspettative della collettività » (30). L’auspicio che il Governo emanasse un decreto-legge sulla materia venne formulato anche da altri deputati, mentre la VI Commissione Finanze dette parere favorevole al disegno di legge, « pur ravvisando note(25) Commiss. Sen. cit., seduta del 14 febbraio 1996, interv. GUALTIERI. (26) Commiss. perm. Giustizia della Camera, seduta del 28 febbraio 1996, interv. STAJANO. (27) Commiss. Cam. cit., seduta del 28 febbraio 1996, interv. STAJANO. (28) Commiss. Cam. cit., seduta del 28 febbraio 1996, interv. PARENTI. (29) Commiss. Cam. cit., seduta del 28 febbraio 1996, interv. BASSI-LAGOSTENA. Per verità, bisogna dare atto che la legge venne approvata sotto la spinta emozionale conseguente al verificarsi di talune vicende particolarmente dolorose, amplificate oltre misura dai mezzi di informazione. Ma non pare che questa contingenza possa giustificare l’approvazione di una legge, avvenuta con la consapevolezza che si trattava di una legge « sbagliata ». (30) Seduta 28 febbraio 1996.
— 220 — voli perplessità sul contenuto delle disposizioni approvate dal Senato che renderanno indispensabili in futuro interventi correttivi » (31). Siamo dunque passati dal mito della razionalità del legislatore, uno dei pilastri della sistematica e dell’ermeneutica giuridica dell’800, all’opposta realtà di un legislatore consapevole di dar vita a leggi, definite da lui stesso « lacunose », « sbagliate », « disperate », « non adeguatamente ponderate », « incongrue », « incoerenti », al punto di sollecitare, già all’atto dell’approvazione, opportuni « interventi correttivi ». 4. La prefissazione legislativa del tasso usurario. Critica. — Come si è visto, uno dei capisaldi strutturali della nuova legge « lacunosa » e « sbagliata », sottrae alla valutazione discrezionale del giudice il carattere usurario degli interessi o del diverso vantaggio usurario per ancorarla ad un parametro prefissato ma variabile, fondato su rilevazioni statistiche di natura finanziaria. In particolare, nella rinnovellata nozione dell’usura, gli interessi sono considerati usurari quando superano del 50% il tasso medio globale, rilevato dal Ministero del Tesoro (sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio Italiano Cambi) per operazioni finanziarie analoghe, « tenuto conto della natura, dell’oggetto, dell’importo, della durata, dei rischi e delle garanzie » (art.2, 2o comma). Inoltre, sono considerati usurari anche gli interessi inferiori al limite come sopra stabilito, se « risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di danaro o di altra utilità... quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria » (art. 1, 3o comma). È facile avvedersi come nel contesto normativo delineato dagli artt. 1 e 2 della legge, la regola della predeterminazione legale del carattere usurario degli interessi, introdotta al fine di eliminare ogni forma di valutazione discrezionale ad opera del giudice, risulti inficiata da un groviglio di contraddizioni. Infatti, mentre da un lato è stata eliminata la discrezionalità giudiziale, dall’altro si è stabilto che il Ministro del Tesoro dovrà operare la classificazione annuale delle operazioni finanziarie per categorie omogenee, « tenuto conto della natura, dell’oggetto, dell’importo, della durata, dei rischi e delle garanzie » (art. 2, 2o comma), attribuendosi così all’Autorità amministrativa un amplissimo potere discrezionale, dato che taluni degli anzidetti parametri e, in particolare, la « natura » e i « rischi », appaiono di difficile determinazione e privi di reale consistenza se valutati in astratto (32). (31) Seduta 28 febbraio 1996 (interv. MAIOLO). (32) Cfr. in tal senso, CAPERNA ed altri AA., a commento della legge n. 108 del 1996
— 221 — A questo avvicendamento di potestà discrezionali che sono passate dall’Autorità giudiziaria a quella amministrativa, è seguito poi un ritorno... all’antico per quanto concerne la determinazione del carattere usurario degli interessi inferiori al parametro legale, in quanto per questa forma di interessi il giudice è chiamato a compiere una valutazione discrezionale più ampia di quella conferita dalla precedente norma, dovendosi ora cimentare con il concetto di « proporzione » che, oltre ad essere per sua natura indeterminato, esige altresì il ragguaglio ad altri coefficienti non meno incerti, quali appunto le « condizioni di difficoltà economica o finanziaria » del soggetto passivo (33). La verità è che al di là delle superficiali giustificazioni di facciata, quali risultano dai lavori parlamentari, non è facile rendersi conto delle vere ragioni in forza delle quali, per la determinazione del tasso usurario, sia stato introdotto un parametro rigido che, per sua natura, non consente adeguamenti applicativi di alcun genere e perciò determina la impossibilità di tener conto di una serie di fattori concreti che incidono sull’equilibrio tra le prestazioni (34). Tanto più che la indeterminatezza dello stesso elemento normativo, così come concepita dal « vecchio » art. 644 c.p., non aveva mostrato crepe o défaillances di sorta nell’applicazione concreta, in quanto sia la dottrina che la giurisprudenza si erano attestate sulle posizioni ricordate che, oltre ad assicurare un appagante rispetto del principio di tassatività, consentivano una valutazione equitativa dei c.d. casi-limite, che oggi invece non è più permessa. Né può dirsi che l’adozione del criterio rigido in parola sia in grado di contribuire in maniera significativa alla lotta dell’usura, dato che questa, nelle sue manifestazioni sociali più allarmanti è caratterizzata da una sproporzione tra le prestazioni, di entità tale per cui non c’è davvero bisogno di fare ricorso a particolari metodi o criteri di determinazione per accertare la natura usuraria degli interessi. Detto altrimenti, poiché la vera usura da combattere è quella che in media fa registrare la corresponsione di interessi che vanno dal 4 al 12% mensili e sono destinati a raddoppiare in caso di mancato pagamento alla scadenza (35), si appalesa di nessuna utilità, nella strategia di lotta, l’avere abbandonato la vecchia strada della indeterminatezza, che non aveva in Guida al diritto, 1996, n. 12, p. 38. V. inoltre sul punto, i rilievi critici di CRISTIANI, Guida, cit., p. 91 s. (33) Per quanto concerne l’incertezza interpretativa derivante dal riferimento ai criteri della « sproporzione », delle « concrete modalità del fatto », del « tasso medio praticato per operazioni similari » e delle « condizioni di difficoltà economica o finanziaria », v. PISA, Mutata la strategia, cit., p. 417 s. (34) Cfr. in tal senso, CAVALIERE, op. cit., p. 1223. (35) Cfr. in tal senso, GUISO, Quant’è grande il mercato dell’usura?, Servizio Studi B.I., in Guida al diritto, 1996 n. 12, p. 50.
— 222 — posto problemi di sorta dal punto di vista di un’efficace repressione del fenomeno, per adottare una soluzione che i problemi rischia di crearli, e anche « di difficile controllo », come è stato lucidamente previsto (36). Alla resa dei conti, quindi, l’adozione del parametro rigido di commisurazione dell’usura finisce per incidere esclusivamente sui c.d. casi-limite anchilosandone la valutazione a spese dell’equità, per cui dovranno ora essere assoggettate a pena anche fattispecie concrete contraddistinte da un tasso di interesse appena superiore (sia pure per cifre decimali) a quello fissato per legge, ad onta di particolari connotazioni personali, sociali, familiari o di altro genere che possano caratterizzarle (37). 5. Gli inconvenienti di ordine interpretativo derivanti dalla predeterminazione del tasso usurario. — A questo primo inconveniente, che comporta un allineamento sanzionatorio dei casi di usura veramente odiosi e preoccupanti a quelli che appena travalicano la soglia della legalità, si affiancano le difficoltà interpretative cui dà luogo la soluzione accolta. Tali difficoltà non sono certo rinvenibili nella creazione di una norma penale in bianco, destinata ad essere integrata da un provvedimento amministrativo, essendo noto che in tal caso il principio di legalità non rimane vulnerato quando il legislatore indichi con sufficiente precisione il contenuto e i limiti del provvedimento di integrazione della norma penale (38). I veri nodi ermeneutici che dovranno essere affrontati e risolti emergono invece dal fatto che, mentre sotto la vigenza dell’originario art. 644 c.p., la natura usuraria dell’interesse, anche se priva di precisazione legislativa, era pur sempre determinabile con riferimento al momento dell’assunzione dell’obbligo della controprestazione, nella nuova struttura dell’illecito, invece, la detta qualifica è diventata rigida, siccome prefissata, ma al tempo stesso è stata resa fluttuante, in quanto influenzata dagli esiti della rilevazione trimestrale disciplinata dall’art. 2 della legge. Potremo cioè assistere al fenomeno per cui le connotazioni di illiceità e di liceità possono avvicendarsi, dando luogo a più momenti di antigiuri(36) Così BELLONI, Commiss. Sen. cit., seduta del 6 febbraio 1996. (37) CAVALIERE, op. cit., p. 1263. (38) Cfr. in tal senso, PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 26 s., il quale ritiene compatibile col principio della riserva di legge le norme penali in bianco quando la legge rimette a fonti extra-penali solo la definizione di taluni elementi della fattispecie normativa, e ricorda in proposito che la Corte Costituzionale, a partire dalla sentenza n. 26 del 1966 (che può considerarsi capostipite in materia), ha affermato, per quanto concerne il precetto, che la legge « deve indicare con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti del provvedimento dell’autorità non legislativa, alla trasgressione dei quali deve seguire la pena ». Nello stesso senso, MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 86 s. e, con riferimento alla nuova formulazione dell’art. 644 c.p., CAPERNA ed altri AA., op. cit., p. 38.
— 223 — dicità intervallati da periodi di liceità, pur essendo il fatto rapportabile ad un’unica pattuizione. Non è chi non veda allora come la possibilità che la condotta assuma un andamento antigiuridico per così dire « altalenante » o « pendolare », ponga con immediatezza il problema della unità o pluralità di illeciti e quello della natura istantanea o permanente del reato, con particolare riferimento al momento consumativo (39). 6. La mancata distinzione tra interessi corrispettivi e moratori. Conseguenze pregiudizievoli suscettibili di derivarne. — Ai segnalati inconvenienti di carattere interpretativo, che destano minore preoccupazione siccome destinati a trovare un qualche assetto sistematico (o... asistematico) ad opera della dottrina e della giurisprudenza, se ne affiancano altri ben più preoccupanti, in quanto potrebbero conseguire lo sbocco paradossale di incrementare il grave fenomeno che la legge ha inteso combattere con rinnovellato vigore. In particolare, l’assurdo epilogo accennato potrebbe scaturire dalla mancata distinzione del tipo di interessi penalmente rilevanti ai fini dell’usura, con riferimento alla tradizionale distinzione tra interessi corrispettivi e moratori, fondata — come è noto — sulla diversa funzione che li carat(39) I problemi enunciati nel testo importano riflessioni di respiro più ampio di quanto non consentano i limiti e le finalità di questo lavoro, ma ciò nonostante, ci sia consentita una fugace riflessione sul primo dei temi accennati. Sembra infatti interessante, per quanto attiene alla unità o pluralità di reati, porre nel debito risalto che il succedersi di rilevazioni trimestrali le quali possono dar luogo ad altrettanti momenti di antigiuridicità penale riferibili ad un’unica pattuizione, non pare realizzi molteplici offese dell’interesse protetto, dato che il fulcro di offensività dell’illecito è rappresentato dalla condotta impositiva di condizioni usurarie. Pertanto, la ipotizzata successione di situazioni antigiuridiche appare suscettibile di essere valutata alla stregua di un fenomeno soltanto incrementativo della gravità dell’offesa. Con la conseguenza che nella successione in parola dovrebbe ravvisarsi un reato eventualmente abituale, il cui elemento materiale — come è noto — può essere integrato da una sola condotta, mentre la pluralità di esse non ne moltiplica la realizzazione (Così PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 135-136). E poiché per questa forma di illecito il momento consumativo coincide con il compimento dell’ultima condotta punibile, la disposizione dell’art. 11 della legge n. 108 del 1996 secondo cui « la prescrizione del reato decorre dal giorno dell’ultima riscossione sia degli interessi che del capitale », finirebbe per svolgere un duplice ruolo: recuperare la potestà punitiva anche nei casi in cui, per lo stato di soggezione o di intimidazione del soggetto passivo, il rapporto usurario viene denunciato o accertato dopo un considerevole lasso di tempo dal suo sorgere; e prevenire eventuali deviazioni interpretative, dettando una regola che, a differenza del reato continuato o permanente (art. 158 c.p.), non è dato di rinvenire in forma espressa nel nostro ordinamento per il reato abituale, anche se è pacificamente ricavabile in via di principio. Relativamente al secondo problema enunciato, concernente la natura istantanea o permanente dell’illecito, cfr. CAPERNA ed altri AA., op. cit., p. 44-45; SILVA, Osservazioni sulla nuova disciplina del reato di usura in Riv. pen., 1996, p. 131; CRISTIANI, Guida, cit., p. 3940; PISA, Lotta all’usura, cit., p. 1287 e, dello stesso A., Mutata la strategia, cit., p. 418.
— 224 — terizza, rappresentando i primi la remunerazione per l’uso del danaro, mentre i secondi, dovuti a causa del ritardo del pagamento, assumono il diverso ruolo di risarcimento del danno in misura forfettaria (40). Attesa questa diversità di funzioni, c’era da aspettarsi che in una disciplina caratterizzata dalla determinazione della soglia dell’usura ad opera del legislatore, fosse introdotta almeno la distinzione cennata, elevando il limite di legittimità degli interessi moratori, se non altro, per evitare di incentivare per questa via l’inadempimento delle obbligazioni pecuniarie. Invece, una distinzione in tal senso è mancata e pertanto non rimane all’interprete che prendere atto come, nell’aumento della metà del tasso medio, siano confluite tutte le componenti valutative che Rocco aveva indicato come « circostanze di tempo, di luogo, di persona e di rischio », e che consentivano di tener conto anche della distinzione tra interessi corrispettivi e moratori. D’altro canto, la distinzione di cui è cenno, non può essere introdotta con una sorta di interpretazione adeguatrice che — a nostro avviso — non è praticabile per almeno due ordini di ragioni: in primo luogo, perché un’interpretazione del genere, di carattere chiaramente restrittivo, si porrebbe in contrasto con le linee di fondo della legge di modifica dell’art. 644 c.p., volta ad allargare l’area dell’illecito; ed inoltre, perché la distinzione degli interessi nel senso auspicato, sarebbe mal raccordabile, ad opera dell’interprete, alla soglia dell’usura fissata dal legislatore. La mancata distinzione tra interessi corrispettivi e moratori, che rappresenta uno degli aspetti più discutibili della predeterminazione legale del c.d. tasso-soglia, è destinata quindi a rimanere e pertanto al primo effetto perverso già esaminato, quale è quello di accomunare i tassi odiosamente esorbitanti a quelli che appena oltrepassano il limite stabilito, si aggiunge ora la impossibilità di tener conto del rischio insito nelle difficoltà di recupero del capitale, rischio che nella passata interpretazione del reato di usura, è stato costantemente stimato come un « elemento importante di valutazione » del carattere usurario della prestazione (41). Diventa allora facile la previsione che, nella cennata prospettiva, la mancanza di ogni forma di remunerazione diretta a coprire le linee di credito più aleatorie, sia destinata a sboccare nel rifiuto di quei finanziamenti richiesti da imprenditori in grado di offrire più rischi che garanzie: o per(40) Cfr. per tutti, in tal senso, LIBERTINI in Encicl. dir., cit., vol. XII, voce Interessi, p. 95 e s. L’A., per verità, ricorda (op. cit., p. 97) che è lo stesso legislatore del 1942 a distinguere gli interessi in tre categorie: corrispettivi, moratori e compensativi, i quali ultimi, secondo la Relazione al codice civile, « prescindono dalla mora del debitore ed anche dalla semplice scadenza del debito ed appaiono in taluni casi specificamente previsti (artt. 1499, 1815, 1825) ». Questa terza forma di interessi non assume però rilevanza ai nostri fini. (41) Così VIOLANTE, Usura, cit., in Encicl. dir., cit., p. 1145.
— 225 — ché versano in crisi di liquidità, oppure perché, essendo i più disponibili ad introdurre innovazioni produttive di avanguardia, devono necessariamente affrontare avventure imprenditoriali rischiose. Con la conseguenza finale che, proprio in questi casi, che sono poi quelli meritevoli di maggior considerazione e tutela, il mancato soddisfacimento della richiesta di credito finirà per obbligare gli interessati ad imboccare la strada dell’usura. 7. Considerazioni conclusive. — A conclusione di queste brevi note che — come si è detto nelle proposizioni di esordio — non hanno altro scopo se non quello di stimolare più approfondite riflessioni sul particolare aspetto della legge segnalato, ci sembra di potere affermare che il legislatore repubblicano, nel dare vita ad una regolamentazione dell’usura tutto sommato attendibile e, forse, anche efficace sul piano della prevenzione e della repressione, ha mostrato, almeno su un punto, di non avere memoria storica: né remota, per rammentare le lucide osservazioni critiche avanzate, oltre due secoli fa (1787), da J. BENTHAM in merito alla « fissazione di un limite agli interessi sui prestiti » (42); e neppure recente, per ricordare che un’altra legge, quella sul c.d. « equo canone », introdotta appena diciotto anni fa con toni trionfalistici come misura risolutiva del problema della casa, determinò invece la rarefazione (se non la scomparsa) dal mercato, degli immobili da cedere in locazione per uso abitativo, in quanto i proprietari si rifiutarono di darli in affitto per un prezzo non remunerativo, stabilito dal legislatore, e alla fine la legge dovette essere abrogata, nonostante il problema della casa fosse ben lontano dal trovare una soluzione appagante. Il parallelismo che può instaurarsi tra la legge del 1978 e quella del 1996 sull’usura è impressionante, in quanto anche quest’ultima legge, al pari di quella sull’« equo canone », è stata concepita in contrasto con le regole del libero mercato, inseguendo, come l’altra, la soluzione velleitaria di addossare ad una sola componente del mondo economico (questa volta, agli istituti bancari e di finanziamento) gli oneri derivanti dalla particolare tutela di cui è senza dubbio meritevole l’operatore economico più debole e più esposto. Se il parallelismo instaurato dovesse malauguratamente reggere fino (42) J. BENTHAM, Difesa dell’usura, trad. di Buccilli e Guidi, Macerata, 1996. Nella Difesa, cit. BENTHAM, dopo aver ricordato che contro gli elevati tassi di interesse la legge è sempre stata impotente (Lettera VIII, p. 45 s.), sostiene che il tetto legale degli interessi esclude dal prestito alcune categorie obbligandole a fare ricorso alle alternative meno favorevoli e afferma in particolare, che la fissazione del tasso legale scoraggerebbe « i prestatori di danaro » a finanziare i « projectors », cioè quegli imprenditori che, essendo più sensibili verso l’introduzione di attività innovative, « si lanciano sulla via di qualche invenzione » affrontando avventure imprenditoriali rischiose (Lettera XIII, p. 75 s.).
— 226 — in fondo, il risultato prevedibile potrebbe essere disastroso anche in materia di usura, in quanto — giova ripeterlo — a causa della mancata remunerazione del rischio, l’area dell’accesso al credito legale potrebbe restringersi e, di conseguenza, aumenterebbe la domanda di servizi illegali. Rimane perciò ancora attuale l’auspicio, formulato dagli stessi compilatori della legge, di sottoporre la particolare disposizione di cui ci siamo occupati ad una « ponderazione più adeguata », introducendo, se del caso, quel già previsto « intervento correttivo » che valga sia ad eliminare gli inconvenienti posti in luce sul piano applicativo, ma ancor più ad evitare che una legge per larga parte condivisibile, nata per combattere più efficacemente l’usura, finisca per incrementarla. Avv. GIOVANNI SELLAROLI già Magistrato di Cassazione
COMMENTI E DIBATTITI
DELITTI E CONTRAVVENZIONI NELLA « TEORIA DEL REATO » DI MASSIMO DONINI
1. Quali sono le possibilità della teoria generale del reato dopo il tramonto non solo dei vari concetti unitari che ambivano a « contribuire all’edificio complessivo — esterno all’ordinamento penale — della teoria del diritto » (p. 3) ma anche dei meno generali concetti interni allo stesso sistema, per effetto del prevalere del metodo analogico nella elaborazione delle categorie del penale, corrispondente al processo di scomposizione del diritto penale « in molteplici ‘‘gironi’’ » (p. 4) o sottosistemi? Questo è l’interrogativo cui Massimo Donini offre una risposta positiva e convincente nella sua opera, Teoria del reato (1), disimpegnandosi con successo nell’intrigo della complessa coscienza che la legittimità delle ragioni della scienza è condizionata dalla fedeltà alla divisione dei poteri ed al volto costituzionale del reato, ma, al tempo stesso, che quello stesso nobile aspetto del reato non conserva la « forza espressiva » di un tempo (p. 5) per l’affermarsi di una molteplicità di elementi (ad es. etero-integrazione del diritto penale, interpretazione « conforme alla Costituzione » o « adeguatrice ») che hanno tanto esaltato la consapevolezza della storicità del diritto costituzionale e dell’ineludibile mutevolezza dei significati delle sue norme, quanto, impietosamente, messo a fuoco l’« obiettiva pochezza numerica del materiale normativo penale realmente contenuto nella Costituzione del 1948 » (id.). In questo non facile contesto non è possibile assecondare lo stile deduttivo, tipico dell’approccio costituzionale. Riproporre « sotto le mentite spoglie del giuslegalismo » (p. 23) una fede giusnaturalistica incapace di comprendere « un ordinamento non deducibile dalle sue aprioristiche premesse » (id.) mortificherebbe le ragioni del pluralismo ermeneutico e, soprattutto, precluderebbe il successo della missione della teoria del reato: elaborare e divulgare un linguaggio comune che, in quanto background epistemologico costituito da realtà strutturali, categorie sistemiche o indirizzi di scienza della legislazione, richiede ben altro orientamento metodologico, perché non può precipitare dall’alto dell’universo costituzionale, ma deve sorgere dal basso mediante l’analisi del sistema ordinario estesa a verifiche di diritto comparato. Con Bricola, ma oltre Bricola (2), Donini sostiene che la costruzione della teoria del reato non deve risolversi nell’« esposizione dei principi costituzionali in materia penale »: la stessa impresa, piuttosto, va fatta coincidere con « lo studio della ‘‘diffusione’’ dei predetti principi all’interno degli elementi costitutivi del reato » (p. 34) e dei diversi modelli di reato, e, soprattutto, degli esponenti della vexata divisio tra delitti e contravvenzioni. Vero cardine di tutta l’opera, il problema del « binomio irriducibile » (3) viene riproposto (1) DONINI M., Teoria del reato. Una introduzione, C.E.D.A.M., Padova, 1996. (2) BRICOLA F., Teoria generale del reato, voce in N.N.D.I., XIX, U.T.E.T., Torino, 1973. (3) Cfr. PADOVANI T., Il binomio irriducibile. La distinzione dei reati in delitti e contravvenzioni fra storia e politica criminale, in MARINUCCI G.-DOLCINI E., Diritto penale in trasformazione, Giuffrè, Milano, 1985, p. 421 e ss.
— 228 — in un’ottica dove (ancora « con » Bricola (4)) dogmatica e politica criminale sono fecondamente e solidamente abbracciate e sostenute da un argomentare serrato e da una possente intuizione: la tirannia del principio di legalità ed il relativo corredo di corollari che attinge dal medesimo logos (5) è ancora imperiosa solo sulle « vette dell’utopia, della profezia, o anche solo dei progetti politici » (p. 46). Sul terreno dell’ordinamento vigente, sta di fatto che il contenuto operativo dei principi di offensività e sussidiarietà utilizzabile dalla Corte Costituzionale è davvero modesto. Il che suggerisce una riconsiderazione della tradizionale bipartizione dei reati in delitti e contravvenzioni. Occorre pensare, cioè, — conclude Donini — un sistema che valorizzi al massimo grado i principi dove, come nei delitti, la sanzione è la pena tradizionale, mentre, dove la sanzione, come nelle contravvenzioni, si stempera nel ventaglio di alternative all’arresto previste dall’ordinamento, non ci si deve meravigliare se l’esigenza di attuare altri principi, « di matrice solidaristica, anch’essi di rilevanza costituzionale » (p. 47), attenui l’importanza della offensività, della sussidiarietà e della colpevolezza. 2. Il primo argomento a favore della dichiarazione di indipendenza tra contravvenzioni e delitti sono le innegabili corrispondenze che legano la disciplina dell’imputazione soggettiva delle prime con quella dell’illecito amministrativo. A prima vista le une e gli altri richiedono la suitas della condotta e il dolo o quanto meno la colpa, ma, calando la disciplina generale sull’imputazione soggettiva di entrambi « nella realtà della ‘‘parte speciale’’ » (p. 60), emerge una caratteristica del tutto peculiare nella relazione biunivoca (p. 41) pena e sanzione che dissocia i delitti dalle contravvenzioni, associando queste ultime all’illecito amministrativo. Quando, come avviene nella maggioranza assoluta delle contravvenzioni, « la tipicità dell’illecito » è « circoscritta alla descrizione di una condotta inosservante », « dolo e colpa si riducono sostanzialmente alla suitas della condotta » (p. 61). « In queste ipotesi l’elemento soggettivo doloso non solo non determina mai autonomamente l’an della punibilità », ma neppure il quantum (id.), salvo che in concreto emerga — fatto piuttosto raro — « un comportamento avente le caratteristiche differenziali del dolo rispetto alla colpa » (id.). Viceversa « il modello più caratterizzato di illecito penale » è quello dove alle « realizzazioni dolose » vengono attribuite valutazioni e conseguenze distinte dalle corrispondenti « realizzazioni colpose » (p. 74). Sempre e quasi esclusivamente nei delitti, espressione emblematica ed egemonica di tale modello, il « fatto tipicamente doloso » (p. 78) è obiettivamente distinto dal fatto tipicamente colposo, anche quando la descrizione delle modalità di lesione sia racchiusa dall’« indicazione ellittica » del requisito soggettivo (p. 77). In ogni caso, pertanto, occorre tenere separato l’elemento oggettivo dei fatti dolosi da quello oggettivo dei fatti colposi. Sul punto Donini non conosce mezze misure (6). « Realizzazione dolosa e colposa sono... due titoli, due universi criminologici e sanzionatori » tanto sono « consistenti » le « differenze » non solo sul piano della struttura psicologica ma anche della « tipicità esterna o strutturale della condotta, quanto meno (o soprattutto) nei reati di evento e in relazione alle forme più paradigmatiche del dolo come volontà costituite dal dolo intenzionale e diretto » (p. 96). Fatto colposo e fatto doloso, pertanto, — secondo Donini — sono fatti diversi « già sul piano materiale ed ‘‘oggettivo’’ » (p. 106). Alla diversa tipicità, oggettiva corrisponde « una diversa ‘‘offesa’’ » (id.). Per questa ragione, — conclude l’A. — nei delitti (4)
BRICOLA F., Rapporti tra dommatica e politica criminale, in questa Rivista, 1988,
p. 5. (5) La pena limitativa della libertà personale è giustificata e giustificabile solo per reprimere fatti « realmente lesivi di beni e interessi rilevanti e realizzati con forme di aggressione significative, gravi » (p. 45). (6) Si consideri anche che nel maggior disvalore obiettivo del citato fatto tipicamente doloso Donini trova, in chiave di « proporzionalità retributiva » (p. 94), la risposta alla cruciale domanda: « perché, a parità di risultati prodotti, la realizzazione dolosa è punita (nei delitti corsivo mio) in maniera così più grave della corrispondente realizzazione colposa (spessissimo anzi penalmente lecita)? » (pp. 87-88).
— 229 — « non è consentito chiedersi neppure de iure condendo — a fronte di varie difficoltà nel distinguere le forme contigue di dolo (eventuale) e colpa (con previsione) — » (id.) se non sarebbe preferibile adottare quella « impostazione unificante » (p. 107), tollerabile in campo contravvenzionale, per la pochezza materiale del fatto, caratteristica di questo settore del sistema penale. 3. Sono risultati coerenti e complementari quelli in cui approda l’ampio ragionamento sul non abbastanza valorizzato rapporto tra tipicità del fatto di reato e gli oggetti di tutela, in discorso nel 3o capitolo. Com’è noto « compito fondamentale del diritto penale è la tutela di beni giuridici » (p. 117). Il che nessuno mette in discussione. Si discute, e molto, invece, sulla individuazione della soglia costituzionale di tutela legittima dei beni giuridici (p. 122). A tal fine, ovviamente, non basta che le norme penali non siano incostituzionali (p. 137). Occorre qualcosa di più. Donini ravvisa tale quid pluris in due livelli di selezione: « il primo livello di ‘‘selezione esterna’’ dei beni certamente non rilevanti » (p. 138); il « secondo livello di selezione delle forme di offesa », calibrato « alle tipologie di offesa (...) e all’insufficienza di altre misure extrapenali (...) » (id.). Ma nell’intrigo delle « ‘‘nuove’’ oggettività giuridiche e delle relative ‘‘tecniche di tutela’’ » (p. 140) (7), dove si perde la distinzione tra interessi « oggetto di disciplina » ed interessi oggetto di tutela (p. 150) e dove risultano confuse « tutela giuridica di beni (preesistenti alla tutela) e tutela di beni giuridici (fin dalla ‘‘nascita’’) » (p. 152), difendere il principio di offensività non è certo semplice. La ricetta di Donini contempla due presidi: « mantenere la distinzione fra bene-oggetto e bene-scopo » (p. 153) e ripensare « la norma incriminatrice come precetto » (p. 159). Alle « prestazioni selettive dell’area punibile » (p. 154), che garantirebbe il primo, il secondo somma il positivo effetto di favorire una tecnica legislativa, « buona », proprio perché « consente all’interprete di individuare il bene protetto mediante una tassativa e illuminante descrizione del ‘‘fatto’’ » (p. 125). Il precetto ripensato in chiave di tipicità, piuttosto che come comando di un’azione e di un’omissione che infrange la liceità nei monconi dell’illecito di azione e di evento, orienta la teoria del reato nel senso della costruzione di « tipicità già divise fin dall’origine » (p. 172): il tentativo, i delitti di attentato ed in particolare i reati di pericolo astratto ed ancora, in sostanza, i delitti e le contravvenzioni. 4. Dove si collocano le scriminanti nella struttura del reato? Dopo un’adeguata rassegna sulle diverse dottrine che hanno risposto all’interrogativo, l’A. trae spunto dall’opzione che le inquadra nell’ambito dell’antigiuridicità per illustrare il contributo della tripartizione al tema dell’opera. Occorre tenere distinte la illiceità dalla antigiuridicità perché la penalizzazione di un fatto antigiuridico pretende un quid pluris in termini di offensività rispetto alle valutazioni già espresse in altri rami dell’ordinamento, quid pluris che la reductio ad unum tra antigiuridicità e illiceità non consente di afferrare. Altrimenti, ma in particolare nelle tesi sanzionatorie, « la stessa tipicità è così normativizzata » e « priva di un referente fattuale o sociale pregnante » (p. 232) che il reato, il delitto, in particolare, viene svilito ad « armamentario ancillare e accessorio di precetti ‘‘monopolizzati’’ da rami giuridici privatistici o da competenze amministrative di settore » (p. 240). Un fatto illecito è certamente antigiuridico, ma un fatto antigiuridico non solo per questo rappresenta un delitto. Ciò posto in teoria, realisticamente si deve accettare una certa omogeneità fra antigiuridicità amministrativa e contravvenzioni, ma con fermezza va ribadita la differenza qualitativa tra delitti ed illiceità amministrativa (p. 241). (7) « ... la tutela di interessi diffusi e di interessi collettivi, di beni giuridici universali, superindividuali, i reati ad ampio spettro, ad offesa seriale o ‘‘cumulativi’’... la tutela di funzioni e di istituzioni sino alle fattispecie incentrate sul momento autorizzativo, su norme di organizzazione... » (pp. 140-143).
— 230 — 5. La trama del quinto e conclusivo capitolo della Teoria del reato: La colpevolezza per il fatto tra dolo, colpa e scusanti, è retta, in primo luogo, dal tentativo di giustificare le costruzioni separate della fattispecie (fatto colposo e fatto doloso) e delle fattispecie (delitti e contravvenzioni) attraverso l’individuazione di « elementi ancora comuni ed unitari... antecedenti la problematica specifica del dolo o della colpa come componenti di colpevolezza, ma successivi alla presenza della condotta dolosa o colposa » (pp. 114-115) (8). Il terreno di questa ricerca, ancora una volta, è quello confluito e che defluisce dalla sentenza n. 364 del 1988, un testo — detto per inciso — di cui Donini mette a frutto tutte le potenzialità fondative e ricostruttive di alcuni lineamenti fondamentali di teoria del reato: « in un ordinamento il quale riconosce l’imprescindibile esigenza di un’imputazione soggettiva completa, congruente, e differenziata dalla mera suitas... non è più la responsabilità oggettivo-causale a costituire il minimo denominatore comune dell’imputazione penale » (p. 263). Esso va ritrovato in una parte « dell’universo soggettivo... prodromica all’idea di colpevolezza » (id.) ma avulsa dai « tratti specifici del dolo o della colpa » (id.). A partire dalla « causalità umana », ma ben oltre la causalità umana, l’indagine è conclusa positivamente a favore delle moderne teorie dell’imputazione oggettiva che riconoscono la competenza dell’ordinamento « a produrre i criteri in base ai quali vanno selezionati rischi e concause in funzione di un giudizio di responsabilità » (p. 270) (9). La colpevolezza è il campo sul quale si gioca il secondo tempo della medesima trama. Ritroviamo su un punto così controverso affermazioni dello stesso stampo di quelle espresse in merito alla tipicità dei fatti colposi e dolosi (cfr. p. 96), ovvero, rigorose e perentorie. Donini esordisce così: « Va subito chiarito che se si intende arricchire fin da principio dolo e colpa di un contenuto di disvalore penalistico, tale da rendere possibile considerare quelle nozioni come forme autentiche di ‘‘colpevolezza’’, occorre però essere conseguenti, e annoverare tutte le condizioni dell’ascrivibilità personale di un fatto doloso o colposo tra i requisiti per l’identificazione e la stessa esistenza giuridica di dolo e colpa (o altre forme miste) » (p. 274). Se si vuole che dolo e colpa, oltre agli « aspetti generali e ‘‘fattuali’’ della tipicità soggettiva », esprimano anche « la loro essenza di colpevolezza », si dovrà attribuire a questi concetti « (ormai) ‘‘di valore’’ » un autonomo spessore personalistico riferibile alla « normalità del processo motivazionale dell’autore del fatto » (p. 275), che attrae le scusanti previste dagli artt. 5, 47, 48 e 59, ma non si esaurisce in esse (10). Nondimeno, la riconosciuta indipendenza della colpevolezza rispetto alla tipicità soggettiva non giustifica la separazione di dimensioni che restano « unitarie e comunicanti » (p. 282) e che non in tutte le fattispecie (8) « ... ché altrimenti la differenza rispetto all’impostazione tradizionale che ha sempre ‘‘separato’’, ovviamente, dolo e colpa come realtà psicologiche o soggettive o di colpevolezza, risulterebbe davvero inconsistente » (p. 115). (9) Come al solito, Donini non manca di illustrare i risvolti operativi della sua opzione: per i delitti l’imputazione oggettiva recupera all’interno del disvalore di azione e di evento (dove previsto) un giudizio in chiave di offensività concreta, suscettibile di trovare riscontro sul piano della tipicità ancora prima della punibilità (cfr. pp. 267 e 417). Nelle contravvenzioni, invece, la struttura prevalentemente formale della fattispecie legittima solo l’introduzione di un giudizio di esiguità della violazione, irrilevante rispetto al telos della disciplina oggetto di tutela. (10) « Non ogni caso di esclusione del dolo, oppure della componente di colpevolezza specifica del dolo di una certa fattispecie, deve essere ricondotta ad un’ipotesi di errore disciplinata: nel senso che la mancanza di dolo o di colpevolezza dolosa... può essere originaria » (p. 301). Un esempio di assenza di colpevolezza, non riconducibile alla presenza di errori/scusanti codificati è quello del vizio di mente, totale e (soprattutto) parziale. Tale ipotesi trova nella teoria della doppia posizione del dolo (e della colpa) una soluzione efficace: in ordine a fatti che sul piano della tipicità soggettiva non presentano differenze, la distinzione tra tipicità soggettiva (componente dell’illecito) e colpevolezza riconosce la totale diversità dei processi motivazionali dell’imputabile e del non imputabile, senza ricorrere alla figura dello pseudo-dolo o negare l’innegabile rapporto che lega la capacità di intendere e di volere con la coscienza e volontà (p. 292).
— 231 — sono spiccatamente distinguibili (11). Al posto della « povera » coppia elemento oggettivo e soggettivo (p. 333), con la prevalente letteratura tedesca, Donini correla colpevolezza e tipicità nel quadro della doppia posizione del dolo e della colpa. 6. Se non è del tutto agevole riassumere in breve la densa esposizione di Donini, una valutazione altrettanto succinta è possibile solo dopo aver selezionato il tema che meglio esprime o rifrange le coordinate essenziali ed i motivi di maggior pregio, novità ed interesse di tutta l’opera. La proposta della costruzione separata dei delitti e delle contravvenzioni pare essere l’argomento della Teoria del reato più corrispondente a queste caratteristiche. In primo luogo in esso emerge la formidabile coerenza di tutta la trattazione agli impegnativi canoni (epistemologici e, quindi, metodologici) che l’A. si dà nella introduzione: elaborare la teoria del reato, senza cedere al gius-positivismo o al gius-naturalismo, mediante la ricerca nelle fattispecie penali definite dalla legge, rilette dalla dottrina europea e ridefinite dalla giurisprudenza dei riflessi, più o meno pallidi, dei principi costituzionali (esemplare, in tal senso, l’utilizzo a tutto campo della sentenza n. 384 del 1988). Le stesse opzioni di contenuto e di metodo si sposano felicemente con la costante preoccupazione di dare uno sbocco operativo alla riflessione teorica. Per tale motivo l’opera di Donini è una delle più significative e (soprattutto) complessive testimonianze di un tempo nuovo e più costruttivo della dottrina italiana. Dopo la stagione della rivolta contro gli apriorismi e monismi, ritroviamo con Donini lo slancio verso il sistema fecondamente integrato dalla post-moderna consapevolezza che la realtà non si lascia mai definitivamente comprendere dai principi e, quindi, che in nessun caso la pratica può essere completamente legittimata e desunta dalla teoria. Così Donini non è preda dell’assillo che tutto il sistema penale sia umano e che su tutto il sistema si estenda, incontrastata, la tirannia dei principi costituzionali, ma persegue l’obiettivo di pensare e proporre i necessari strumenti per un sistema più umano, dove almeno per la pena detentiva valga senza riserve il principio nulla poena, sine lege, culpa, iniuria. Questa finissima « sensibilità politica » (12) sottrae la sua Teoria del reato al faticoso e non appagante mondo degli « emuli di Sisifo » e degli « operatori dell’effimero » (13), dove la riflessione dottrinaria si richiude in sé stessa nella mesta consapevolezza dell’estrema difficoltà di trovare riscontri legislativi o quanto meno giurisprudenziali. Donini ripensa alla dottrina del reato europea calandola nel rovente crogiuolo dell’esperienza giuridica che si consuma nei parlamenti e nelle aule di giustizia e, per ogni opzione che sostiene, dopo l’ideale, sapiente, deciso ma sempre pacato confronto con le altre ragioni, indica ai colleghi di oggi (docenti universitari) e di ieri (giudici), al legislatore, ma anche a difensori e cultori del diritto penale, « quali mete e quali traguardi possono (o non possono) raggiungersi percorrendo certe strade » (14). Non ne mancano altri, ma questa penetrazione delle prospettive della teoria del reato fin sul terreno dell’applicazione delle norme e la sottostante preoccupazione di comporre o, almeno, ridurre le « discrasie » ermeneutiche ed epistemologiche tra i diversi protagonisti del mondo giuridico penale sono i motivi per i quali Teoria del reato merita il più convinto e caloroso plauso. Per le stesse ragioni quasi dispiace che Donini non abbia voluto riservare nulla al lettore che intenda seguire senza intensa e stabile concentrazione il flusso del suo fittissimo argomentare, mai intramezzato dall’approccio frontale a temi di fondo, cui spesso allude, al massimo cenna, senza però mai sviscerarli. Se questo non neces(11) È, in particolare, il caso del dolo eventuale: qui la tipicità non è discriminante rispetto alla colpa e la chiave di volta per la ricostruzione della fattispecie pare essere proprio la colpevolezza, nel senso più tradizionale. (12) Cfr. CONTENTO G., Corso di diritto penale, I, 3a ed., Laterza, Bari-Roma, 1996, VIII. (13) La felice espressione è di FORTUNATO S., Approccio legalistico e principi contabili in tema di struttura e valutazioni di bilancio, in Giur. comm., 1992, I, p. 453 e in ID., Società di revisione e collegio sindacale, idem, 1994, p. 841. (14) Cfr. CONTENTO G., op. loc. cit.
— 232 — sariamente è un motivo di critica, sono da svolgere alcune osservazioni meno neutre, quasi politiche. La prima scaturisce dalla riflessione sull’eccedenza del problema della sanzione penale rispetto al problema della pena in senso stretto. Non che Donini metta in discussione questo dato, ma quando egli propone il doppio binario tra delitti e contravvenzioni concedendo a queste ultime sconti significativi in termini di fedeltà ai principi costituzionali (descrittivi o meno), la parziale depenalizzazione costituzionale delle contravvenzioni avrebbe dovuto esser fatta coincidere con un altrettanto significativa depenalizzazione tanto del procedimento di accertamento quanto delle sanzioni. Non va trascurato che il processo penale (oggi più che mai) è una sanzione e che anche la più bagatellare delle contravvenzioni punita con l’arresto (anche in alternativa) costituisce ancora un precedente, variamente rilevante, nel successivo corso della vita sociale e, se del caso, delinquenziale del soggetto. Per non dire che molte contravvenzioni implicano pesanti pene accessorie. Solo se tutte queste conseguenze del reato fossero sostanzialmente attenuate nelle contravvenzioni, si potrebbe procedere senza esitazioni nel senso proposto da Donini. Nella stessa direzione un altro importante ostacolo merita di essere attentamente considerato. Vi sono fattispecie contravvenzionali con previsioni di arresto elevate, a volte più che giustificate dal valore fondamentale delle oggettività giuridiche tutelate (vedi: l’ambiente) e viceversa vi sono delitti puniti con pene non sempre irrisorie, a tutela di beni di scarsissimo pregio. In breve, ciò vuol dire che vi sono delitti da «degradare » e contravvenzioni che devono essere « promosse » al rango di delitti. Anche per tale ragione, risulta difficile stabilire se sia preferibile pensare ad una « doppia morale » tra delitti e contravvenzioni, prima che il legislatore decida di riordinare beni, lesioni, tecniche di tutela, pena, sanzioni e processo penale, riformando radicalmente il tutto, oppure si debba insistere sulle inderogabili condizioni di moralità della pena detentiva, delle sanzioni accessorie, degli effetti penali della condanna e dello stesso processo prima di ipotizzare momenti del diritto penale regolati da un’altra e meno rigida morale. GIUSEPPE LOSAPPIO Cultore di diritto penale Università di Bari
NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO
VARIAZIONI PENALISTICHE ALLA LUCE DELL’ESPERIENZA COMPARATA RIFLETTENDO SU DI UNA RECENTE INDAGINE IN TEMA DI DIRITTO PENALE SCOZZESE
SOMMARIO: 1. Profili metodologici: l’importanza della ricerca storica. — 2. Caratteri generali del sistema penale scozzese. — 3. I confini di applicazione della legge penale. In particolare: il problema della responsabilità delle persone giuridiche tra « personalità » dell’illecito ed esigenze politico-criminali. — 4. Gli elementi del reato ed il diritto penale scozzese: tra modelli di imputazione psicologica e valutazioni sul piano etico-sociale nel processo di attribuzione della responsabilità. — 5. I requisiti delle singole categorie di defences. — 6. Riflessioni in tema di « codificazione » dei principi della responsabilità penale. Il dibattito sulle « definizioni legislative ». — 7. (Segue): difficoltà tecniche nelle vicende della Law Reform. Una materia controversa: la struttura della recklessness. — 8. Perplessità ed incertezze nella disciplina del tentativo e del concorso di persone nel reato. — 9. Cenni problematici al sistema sanzionatorio scozzese. 1. Sulla scia della progressiva apertura di nuove frontiere nelle ricerche comparatistiche (il riferimento è a VINCIGUERRA, Introduzione allo studio del diritto penale inglese, Padova, 1992), ecco adesso apparire un’ulteriore, interessante indagine dedicata ai principi generali del diritto penale scozzese (cfr. CADOPPI-MCCALL SMITH, Introduzione allo studio del diritto penale scozzese, Padova, 1995). Lo schema seguito dai due autori ricalca, nei suoi tratti essenziali, la medesima impostazione metodologica già in precedenza adottata nel ricordato volume di Vinciguerra: una sorta di Parte generale, cioè, del diritto penale scozzese, costruita e sviluppata sulla falsariga dei più moderni manuali di diritto penale italiano. Il profilo maggiormente qualificante della ricerca condotta da Cadoppi e McCall Smith è costituito, in particolare, dalla costante attenzione rivolta verso l’evoluzione storica del diritto penale scozzese, sul presupposto che questa rappresenti una condizione indispensabile per consentire al giurista continentale di comprendere la reale portata — teorica ed applicativa — degli istituti e delle categorie giuridiche proprie dell’esperienza maturata in quel territorio (particolarmente significativo, nell’ottica di una ricostruzione in chiave storica dello sviluppo dei sistemi giuridici, il recente studio di KELLY, spec. p. 235 ss., 259 ss., 292 ss., 323 ss.). Come sottolineano gli stessi autori, un simile approccio metodologico (che appare tanto più necessario in un sistema caratterizzato dall’influenza del « precedente » giudiziario e delle opinioni dei più autorevoli doctores) dovrebbe, tuttavia, concorrere a porre maggiormente in risalto il ruolo e l’importanza delle analisi di taglio storico anche presso le scuole giuridiche educate ai principi della civil law. Da questo punto di vista, il recente apparire, anche nel nostro Paese, di una serie di opere dedicate alle origini storiche del diritto penale italiano — sia con riguardo alle tendenze a livello legislativo, sia sotto il profilo delle vicende della prassi applicativa e degli orientamenti della dottrina — verrebbe a porsi finalmente in
— 234 — linea con l’esigenza di un profondo rinnovamento degli studi giuridico-penali, troppo spesso rimasti confinati nell’ambito di indagini che, pur denotando uno sforzo crescente di andare oltre l’esegesi nuda e cruda dell’ordinamento positivo, sono ben lungi dal mostrare una reale consapevolezza dei condizionamenti e delle influenze del passato sulla progressiva evoluzione e differenziazione dei sistemi penali (come non ricordare, in proposito, accanto alle affermazioni lapidarie di autorevoli penalisti cari alla nostra dottrina, quella, singolarmente trascurata, di WÜRTENBERGER, 50: « senza storia del diritto penale non può esistere alcuna scienza penalistica che abbia pieno valore »?). 2. Lungo la direttrice di indagine or ora illustrata, i due autori pongono anzitutto in evidenza il progressivo sviluppo del diritto scozzese attraverso quattro differenti fasi storiche (cfr. p. 3 ss.): un’epoca di tipo « feudale » (fortemente influenzata dal sistema giuridico allora vigente in Inghilterra), un periodo successivo denominato « epoca oscura » (e che si caratterizza invece per i primi sintomi di allontanamento e di distacco dal diritto inglese), un periodo « romano », un periodo, infine, di « incontro » e di assimilazione (parziale) all’esperienza giuridica inglese. Particolare interesse presenta la fase storica denominata come « periodo romano »; essa ebbe luogo nel momento in cui, contemporaneamente all’affermarsi di una Corte suprema unica per tutto il territorio, si manifestò la tendenza ad assicurare un’adeguata formazione giuridica degli studenti scozzesi attraverso la frequentazione di Università (per lo più francesi e olandesi) influenzate dalla cultura giuridica di matrice romanistica. Nonostante che una simile influenza sia andata, in tempi successivi, progressivamente scemando, gli autori sottolineano, tuttavia, il perdurare di tracce, talora significative, dell’esperienza di quel periodo, ricordando, altresì, che in esso videro la luce contributi scientifici — come il celebre Trattato di Mackenzie — tuttora dotati di largo credito presso i moderni studiosi di diritto penale (cfr. p. 3 ss., 8, 16 ss., 68 s.). Una « svolta » decisiva nel senso della compenetrazione tra diritto inglese e scozzese si realizzò, tuttavia, a seguito dell’Unione parlamentare tra Scozia e Inghilterra (a. 1707), la quale comportò, a livello di fonti del diritto, una corrispondente svalutazione dell’importanza delle leggi scritte (cfr. p. 6, 7, 17, 54 ss., 67 ss., 74 ss.) in favore dell’affermazione del sistema della common law. A livello dottrinale (ma con influenze sulla stessa elaborazione giurisprudenziale fino ai giorni nostri) spicca la figura di David Hume, nipote omonimo del grande filosofo scozzese (cfr. p. 22 ss., 70 ss.), nella cui opera vanno delineandosi quelle caratteristiche essenziali del diritto penale scozzese che ne segnano, al contempo, l’analogia e la (parziale) autonomia rispetto all’esperienza giuridica inglese. Degna di nota, a tale riguardo, è l’emersione di tre profili, che i due autori si preoccupano di sviluppare con crescente ampiezza nel corso dell’indagine: una notevole concessione alla « discrezionalità » degli organi giudiziari (cfr. p. 13, 26); una significativa attenuazione, rispetto al modello inglese, della « forza vincolante » dei precedenti giurisprudenziali (cfr. p. 77 ss.); una marcata « eticizzazione », infine, dei presupposti necessari a fondare una responsabilità penale (cfr. p. 13, 27). L’insieme di tali caratteristiche — e di altre ancora, di volta in volta richiamate nel corso della trattazione — si inquadra, da un punto di vista storico-politico, nella tendenza del diritto scozzese a ritagliarsi significativi spazi di (sia pur relativa) indipendenza rispetto al diritto vigente in Inghilterra: la stessa attribuzione di un ampio margine di intervento all’opera di concretizzazione delle fattispecie e dei criteri di imputazione da parte della giurisprudenza risulterebbe appunto finalizzata a preservare e a difendere il carattere « autoctono » del diritto di origine scozzese, paradigmaticamente confermato dall’esclusione della possibilità di impugnativa delle pronunce giudiziarie di fronte alla House of Lords (cfr. p. 6, 75, 77). La manifestazione più eclatante di un siffatto modo di procedere della giurisprudenza scozzese è rappresentata dal c.d. declaratory power da tempo attribuito al massimo organo della piramide giudiziaria, l’High Court of Justiciary. Si tratta, in buona sostanza, della fa-
— 235 — coltà, spettante all’Alta Corte, di ampliare la sfera del penalmente rilevante, procedendo all’introduzione di nuovi reati, al di fuori di qualsiasi limite di legalità, ed in particolare di irretroattività, delle scelte incriminatrici. I due autori ripercorrono, attraverso un’analisi puntuale di una serie di « casi » sottoposti all’attenzione della High Court, le caratteristiche concrete delle vicende giudiziarie che hanno di volta in volta « suggerito » alla Corte di fare ricorso ad uno strumento, che, per la vastità e l’ampiezza dei presupposti che ne accompagnano l’utilizzazione, non trova riscontro, non soltanto nel sistema di civil law, ma anche in quello della vicina Inghilterra, tradizionale « culla » della common law e della tendenza, propria di quest’ultima, ad offrire le basi per un’interpretazione accentuatamente « elastica » e flessibile delle soluzioni ricavabili dalle precedenti esperienze giudiziarie (cfr. p. 78 ss., 83 s.). Una siffatta, « straordinaria prerogativa » riconosciuta al supremo organo giudiziario non ha mancato, peraltro, di dar luogo a notevoli dubbi e perplessità addirittura presso gli stessi giuristi scozzesi, ed, ancor prima, presso alcuni componenti della High Court, che non hanno esitato ad esprimere, a tale riguardo, una netta, ed ampiamente argomentata, dissenting opinion (p. 82). A seguito di tali critiche, l’Alta Corte è venuta successivamente elaborando l’abile escamotage consistente nel far uso di tale potere, pur dichiarando di non avervi fatto ricorso: l’« espediente » più frequentemente utilizzato in proposito è rappresentato, in particolare, dall’affermata « analogia » di precedenti casi giudiziari rispetto a quello attualmente sottoposto all’esame dell’High Court: così è accaduto, ad esempio, in tema di « simulazione di reato », mediante il ricorso « analogico » alla fattispecie della calunnia, ovvero in tema di atti di libidine, ritenuti punibili sulla base di una ratio repressiva analoga a quella propria dei casi di congiunzione carnale in senso stretto. È difficile negare come la stessa utilizzazione di un siffatto procedimento di tipo « analogico » venga a porsi in radicale contrasto con quel principio di stretta legalità che domina da tempo l’esperienza giuridica di civil law. E tuttavia, ragionando nell’ottica del diritto penale scozzese, la ricerca di un rapporto di « similitudine » con fattispecie di reato precedentemente riconosciute in sede giudiziaria, non può non evocare l’idea di un « vincolo » e di un fondamento sul piano repressivo già più intenso e rigoroso rispetto alla scelta deliberata (e dichiarata) di far ricorso ad un potere discrezionale in assenza di qualsiasi presupposto o condizione limitatrice. Il che non esclude — osservano gli autori — che dietro il paravento dell’analogia si celi pur sempre una utilizzazione assai ampia del c.d. declaratory power a disposizione dell’Alta Corte (cfr. p. 83 ss.); il dibattito circa la necessità di introdurre vincoli più rigorosi al suo concreto esercizio ha condotto, semmai, ad approfondire e a sviluppare maggiormente la ricerca in ordine alla concreta possibilità di addivenire ad una (sia pur relativa e parziale) conciliazione del diritto penale scozzese con le tradizionali esigenze di garanzia espresse dal classico brocardo del nullum crimen sine lege. Simile dibattito appare tuttavia fortemente influenzato dall’eredità e dal « peso » di una tradizione giuridica — quale quella scozzese — che risente in misura significativa del particolare credito ed importanza riconosciuti al profilo « etico » (e finanche religioso) nelle valutazioni inerenti alle condotte da sottoporre a sanzione penale. Un profilo — richiamato più volte dalla stessa High Court nelle sue pronunce « pretorie » — che tende, per sua natura, a far premio su tentativi e proposte di delimitazione dell’intervento penale maggiormente rigorose e « selettive ». Nonostante il diffondersi di opinioni volte ad elaborare criteri di penalizzazione più saldamente ancorati al riscontro di sicuri ed evidenti — oltreché « empiricamente » afferrabili — effetti di « dannosità sociale » delle condotte da incriminare, perdura, invero, a tutt’oggi, una sostanziale preferenza nei confronti dell’adozione di parametri di carattere « morale » (non privi, sovente, di una forte connotazione di tipo emotivo, e della connessa preoccupazione di soddisfare le « aspettative sociali » di punizione emergenti dalla collettività) nel momento di individuare gli estremi dei comportamenti meritevoli di essere assoggettati alla sanzione penale. Né può trascurarsi, infine, il rilievo di fondo secondo il quale l’appello ad esigenze di
— 236 — natura morale nell’individuazione dell’area del penalmente rilevante è destinato a giocare concretamente il ruolo di « garantire » e preservare il diritto scozzese dall’influenza di scelte politico-criminali che, nel tentativo di « razionalizzare » e di ordinare entro schemi più rigidi e vincolanti l’ambito delle condotte meritevoli di una risposta penale, finiscano col condurre ad una progressiva assimilazione ed « omologazione » delle opzioni sul piano repressivo a quelle via via consolidatesi nella vicina Inghilterra. Ne costituisce un’evidente conferma l’atteggiamento di netta chiusura, finora manifestatosi in terra scozzese, nei confronti di un eventuale progetto di codificazione penale; per vero, dovendo essere sottoposto a verifica ed approvazione da parte del Parlamento di Westminster, un simile programma sarebbe destinato a sfociare nella redazione di un testo legislativo in larga misura esemplato sulla falsariga di quello proprio del (futuro) codice penale inglese (cfr. p. 97 ss.). Concludendo sul punto, le caratteristiche, or ora evidenziate, dello jus criminale di origine scozzese danno ragione di un ultimo, significativo profilo differenziale rispetto alla situazione penalistica della contigua Inghilterra. Pur non essendosi addivenuti, in quest’ultima, alla definitiva introduzione di un vero e proprio codice penale, si è assistito, invero, ad una diffusione crescente della tendenza a disciplinare la materia penale mediante l’emanazione di disposizioni a carattere legislativo (statutes). Un fenomeno analogo non si è invece verificato in Scozia, dove (insieme alla tendenza a fornire interpretazioni particolarmente ampie ed « estensive » delle leggi esistenti, e ad introdurre significative limitazioni all’ambito di operatività delle disposizioni del Parlamento inglese) la case law conserva un netto predominio, con il consenso e l’avallo di numerosi, autorevoli giuspenalisti, che non perdono l’occasione per esaltare il profilo di maggiore elasticità e « flessibilità » di tale fonte del diritto rispetto all’eccessiva rigidità ed immobilismo della lex scripta (specialmente laddove si tratti di dover applicare i principi della c.d. parte generale del diritto penale: cfr. p. 100, 101, 106). Non può allora sorprendere, in questa prospettiva, la già segnalata preoccupazione di evitare eccessivi irrigidamenti e « vincoli » in sede di deliberazioni giudiziarie, persino nei confronti delle (precedenti) pronunce rese sulla base della tradizione giuridica di common law (cfr. p. 77, 101 s.); anche in tale contesto — e pur lasciando da parte il caso estremo del ricorso al c.d. declaratory power — la giurisprudenza scozzese si mostra, in effetti, particolarmente sensibile a quella filosofia della « giustizia del caso concreto », che in altri ordinamenti — e nello stesso sistema inglese — viene talora guardata con sospetto a causa delle sue possibili (e sovente intollerabili) « tensioni » con il fondamentale principio della legalità penale. 3. Sempre all’interno della Parte I del volume, i due autori si preoccupano successivamente di tratteggiare, oltre alle « fonti di cognizione » del diritto scozzese (cfr. p. 115 ss.), la tematica dei confini di validità della legge penale. In tale contesto, emerge, ancora una volta, quanto ai criteri di applicazione della legge nello spazio, l’obiettivo di delimitare l’ambito della giurisdizione scozzese rispetto a quello spettante alle corti inglesi: ne deriva un sistema che rifugge tendenzialmente dall’utilizzazione di parametri di individuazione del locus commissi delicti suscettibili di condurre ad indesiderati fenomeni di « interferenza » e sovrapposizione tra diverse competenze giurisdizionali. Così, una volta escluso il ricorso al criterio della c.d. « ubiquità", la dottrina e la giurisprudenza scozzesi si mostrano propense ad adottare soluzioni ispirate, ora alla teoria dell’« evento », ora, invece, alla teoria dell’inizio della condotta, ora, infine, a quella della commissione della c.d. « parte principale » del fatto tipico (cfr. p. 127 s.). Tuttavia, a causa del perdurare di oscillazioni ed incertezze circa il parametro da ritenersi più adeguato a disciplinare il locus delicti, non sono pochi oggi coloro che propongono di fare ricorso ad una soluzione più rigorosa, in quanto tale suscettibile di « imporsi » alla prassi, orientandone durevolmente le scelte applicative: in tale ottica, muovendo dalla distinzione tra reati di pura condotta e reati d’evento, si conclude nel senso della necessità di adottare, quanto ai primi, la teoria del main act (corrispondente al nucleo essenziale del compor-
— 237 — tamento incriminato), e, quanto ai secondi, la teoria fondata appunto sulla verificazione del risultato offensivo (cfr. p. 129). Dopo alcuni cenni alla validità nel tempo della legge penale — caratterizzata, nell’ambito della common law, dall’assenza di un criterio di irretroattività della norma incriminatrice (cfr. p. 129 s., nonché, retro, par. 2) — gli autori affrontano, nel contesto dei limiti « personali » di applicazione della legge, il delicato problema della responsabilità penale delle persone giuridiche. Due sono in proposito gli aspetti meritevoli di essere considerati. Sotto un primo profilo, sul quale si dovrà tornare tra breve, i due studiosi sottolineano come una simile tematica venga ad inquadrarsi in un sistema tuttora alieno da una contrapposizione tra diritto penale e diritto amministrativo punitivo. Più esattamente, la qualifica di « penale » viene riservata, in Scozia, a qualsiasi comportamento accompagnato da sanzione punitiva: il che, facendo sì che le condotte in questione debbano qualificarsi pur sempre come « reati », conduce inevitabilmente al risultato di dover includere in tale categoria la commissione di illeciti della più differente natura e gravità (e, tra di essi, anche le violazioni di carattere puramente artificiale o « bagattellare »: cfr. p. 136, 143 s.). Una siffatta circostanza, tuttavia, non sarebbe indicativa di una consapevole volontà di « penalizzare » qualsiasi comportamento meritevole di una risposta di tipo sanzionatorio. È vero, piuttosto, che un diritto di formazione giurisprudenziale si mostra in linea di principio refrattario ad una rigorosa e puntuale presa di posizione circa la rispettiva « collocazione giuridica » degli illeciti a carattere punitivo; in altri termini, l’inserimento di tali illeciti nel settore penale si fonda assai meno su di una scelta deliberata di fare ricorso allo strumento della sanzione « criminale », che non sul progressivo affermarsi e consolidarsi della tendenza ad individuare — più « pragmaticamente » — un settore di fattispecie caratterizzate dall’applicazione di sanzioni comunque differenti da quelle di carattere puramente civilistico-risarcitorio. In tale ottica, (anche) l’accoglimento del principio della responsabilità penale delle persone giuridiche non potrebbe considerarsi espressione di una specifica opzione di tipo sistematico programmaticamente rivolta ad avvalersi dello strumento della « pena » criminale in senso stretto; in realtà — e considerata altresì l’impossibilità di applicare comunque, in simili ipotesi, sanzioni di carattere detentivo — l’irrogazione all’ente societario di misure di natura (esclusivamente) pecuniaria, non potrebbe non apparire, agli occhi dello stesso giurista continentale, come una soluzione di portata sostanzialmente analoga a quella che deriverebbe dal sottoporre l’impresa collettiva ad una risposta sanzionatoria di carattere lato sensu penale-amministrativo (cfr. p. 136). Simili considerazioni — ed altre ancora, sapientemente articolate e sviluppate nel corso dell’indagine — suggeriscono all’interprete alcune riflessioni ulteriori. È interessante notare, al riguardo, come anche in Italia — dove il problema della responsabilità penale delle persone giuridiche ha visto un crescente moltiplicarsi di studi e di ricerche ad opera della migliore dottrina (cfr. in proposito il fondamentale studio di BRICOLA (1), 952 ss., e più recentemente, le analisi di BERNARDI, 3 ss.; DE MAGLIE, 89 ss.; DE SIMONE, 211 ss.; FIORE, 12 ss.; FLORA, 13 ss.; GUERRINI (1), 693 ss.; ID. (2), 594 ss.; MILITELLO, 101 ss.; PALAZZO (1), 430 ss.; ROMANO, 1032 ss.) — i termini della questione si siano andati progressivamente disancorando dal vincolo ad un’opzione radicalmente « alternativa » tra sanzione penale e sanzione amministrativa punitiva. Per vero, le caratteristiche differenziali del « soggetto attivo » dell’illecito rispetto a quelle su cui si fonda la responsabilità della persona fisica sembrano rendere ormai inattuali le dispute sull’ammissibilità di una criminalizzazione, ad analogo titolo — e con i medesimi schemi sanzionatori e criteri di imputazione — della persona giuridica: com’è stato osservato, eventuali comportamenti illeciti « non sarebbero più imputabili », in questa materia, a soggetti-persone fisiche, bensì direttamente ascrivibili alla società, consentendo un trattamento sanzionatorio e criteri di imputazione a questo punto indifferenziati-penali, penaleamministrativi o « sanzionatori » tout court; « ontologicamente » assente dal gioco la « li-
— 238 — bertà personale », perderebbe importanza « la sacralità (e la genuinità) delle etichette », né avrebbe più « molto senso erigere steccati fra diritto criminale e diritto penale-amministrativo, fra garanzie di stretta legalità e garanzie parapenali » (cfr. PALIERO (2), 1248). Alla luce di simili premesse, sarebbe forse il caso di rimeditare su di un problema che, presentatosi talora sotto le vesti di un ostacolo difficilmente superabile all’ammissibilità di una responsabilità « penale » delle persone giuridiche, è destinato oggi a rivelarsi come il frutto di una visione sistematica eccessivamente riduttiva ed unilaterale. Si vuole alludere — come appare evidente — al ruolo ed al significato attribuibile alla disposizione fondamentale della Costituzione in tema di « personalità della responsabilità penale » (cfr. art. 27, 1o comma, Cost.). In tempi ancora recenti, si è giunti invero a dubitare, attraverso una approfondita disamina della ratio di tale disposto normativo, circa la plausibilità di quella tendenza — peraltro minoritaria — volta a negare in radice qualsiasi possibilità di far giocare la norma in questione come uno « sbarramento » all’introduzione della responsabilità penale degli enti collettivi; una tendenza fondata, com’è ben noto, sul presupposto che la garanzia costituzionale sarebbe stata « pensata » fin dall’inizio con esclusivo riguardo alla singola « persona » fisica (sul punto cfr. di recente GROSSO (2), 132), e non risulterebbe pertanto in alcun modo riferibile ad organismi a carattere necessariamente collettivo e « pluripersonale », quali quelli costituiti appunto in forma societaria (cfr., in proposito, ALESSANDRI (1), 51). Una siffatta impostazione, tuttavia — questo il succo della critica — rischierebbe di attribuire al legislatore « completa libertà di scelta nella punizione di chi non è persona fisica », consentendogli in tal modo di eludere la ratio ed il fondamento del disposto costituzionale, il quale sarebbe, invece, chiaramente dettato in funzione dell’obiettivo di disciplinare qualsiasi « manifestazione concreta del potere punitivo » (v. ancora ALESSANDRI (1), 52, nonché ID. (2), 160 s.) senza distinzioni in merito ai « soggetti » destinatari della risposta sanzionatoria penale. Senonché, un’obiezione del genere risulta appunto condizionata dall’idea che per le persone giuridiche sia possibile ipotizzare gli estremi di una responsabilità « penale » in senso stretto. Qualora si ritenesse, invece, che le caratteristiche ed i contenuti dei modelli sanzionatori (e dei connessi sistemi di imputazione) concretamente prospettabili impediscano di postulare un’analogia di tale forma di responsabilità rispetto a quella concernente le persone fisiche, le perplessità sottese alle argomentazioni or ora riferite sarebbero destinate a ridimensionarsi sensibilmente. Non si tratterebbe più, in questa prospettiva, di aggirare surrettiziamente il limite del carattere « personale » della responsabilità addebitabile all’ente collettivo. Ciò che verrebbe a mancare sarebbe, piuttosto, il carattere propriamente « penale » del modello di responsabilità che condiziona il fondamento e l’ambito di operatività del principio costituzionale. La stessa circostanza che le persone giuridiche non risultino assoggettabili a sanzioni di carattere detentivo — e l’ulteriore rilievo secondo il quale anche l’applicazione di sanzioni di natura pecunaria non sarebbe comunque suscettibile di dar luogo ad un procedimento di eventuale « conversione » di queste in misure limitative della libertà personale — dovrebbe concorrere a dimostrare come la problematica della responsabilità degli enti collettivi sfugga ai tradizionali parametri di ricostruzione dei contenuti (e dei connessi modelli di imputazione) propri di un addebito di natura penale (per spunti al riguardo cfr. già BRICOLA (2), 662). Guardata in quest’ottica, perfino la tradizionale alternativa tra sanzioni penali ed amministrative — così ricca di suggestioni sul piano teleologico e politico-criminale quand’essa venga ricollegata al contenuto di disvalore espresso dalla realizzazione (in forma individuale) del comportamento vietato — è destinata a rivelarsi assai meno significativa, una volta che venga posta in relazione con la particolare tematica della responsabilità addebitabile alla societas. Già si riconosce, invero, come una simile alternativa risulti condizionata, nel caso di specie, da preoccupazioni di portata ben diversa, incentrate per lo più sulla (ritenuta) maggiore adeguatezza di sanzioni di carattere extrapenale a porsi in sintonia con un modello di responsabilità fondato su presupposti e livelli di imputazione meno rigorosamente « persona-
— 239 — lizzati ». E tuttavia, l’idea di riproporre (anche in questa materia) una simile scelta tra i due tipi di sanzione non sembra rendere, a ben guardare, pienamente giustizia delle peculiarità inconfondibili che paiono caratterizzare la tematica in oggetto. In effetti, proprio la circostanza che il « soggetto attivo » dell’illecito venga a presentare, in simili ipotesi, un’autonoma configurazione sotto il profilo strutturale, sembra suggerire l’opportunità di procedere all’elaborazione e alla concreta messa in opera di un modello repressivo di nuovo conio, destinato, presumibilmente, a sfociare nel definitivo superamento della stessa dicotomia tradizionale tra le due categorie di illeciti, quale si è andata progressivamente evolvendo e consolidando fino ai giorni nostri. Tornano a proposito gli ammonimenti (e gli auspici) recentemente formulati da un autorevole studioso del diritto penale dell’economia (cfr. TIEDEMANN, 624): il problema della responsabilità delle persone giuridiche esige che si ponga mano alla costruzione e all’implementazione di una « nuova dogmatica penale », rispetto alla quale le categorie tradizionali non potranno essere più riproposte nella loro configurazione originaria, dovendo invece essere « riplasmate » in funzione dell’obiettivo di armonizzarsi e di « adattarsi » — come si è ulteriormente precisato (cfr. PALIERO (2), 1248) — alla logica della creazione di un autonomo (e per molti versi ancora inedito) modello alternativo di Sanktionsrecht, destinato a far apparire inattuale — oltre che fuorviante — il tentativo di fissarne e di « irrigidirne » i connotati all’interno delle classificazioni sperimentate finora. La costruzione di un simile modello di repressione « alternativa » sembra richiedere, peraltro, uno sforzo, ed una sensibilità, sul piano politico-criminale, tale da scongiurare il rischio di dar luogo a soluzioni improvvisate, od, ancor peggio, di incentivare la tendenza — non rara in questa materia — a cedere alle lusinghe di una sorta di « eclettismo » deteriore, fondato su di un’arbitraria giustapposizione di esperienze normative maturate in altri sistemi giuridici, in mancanza di un preventivo ed approfondito vaglio critico circa i limiti (e le condizioni) della loro praticabilità e « redditività » in concreto all’interno del nostro ordinamento. Ciò non significa — è appena il caso di sottolinearlo — che le indicazioni provenienti dal diritto comparato non debbano essere tenute nella più attenta considerazione (in proposito, quanto all’esperienza francese, cfr., oltre a quelli già citati, lo studio di BRUNET, 1 ss., e, quanto ai termini del problema nel sistema portoghese, l’indagine di LOBO MOUTINHO — SALINAS MONTEIRO, 3 ss.). Si ha l’impressione, semmai — ed ecco il secondo aspetto meritevole di essere considerato — che tali indicazioni si rivelino particolarmente utili — non tanto sotto il profilo delle soluzioni sul piano legislativo astrattamente considerate — quanto, piuttosto, dall’angolo visuale delle molteplici situazioni e fenomeni concreti racchiusi nella vasta ed articolata « casistica » giurisprudenziale (circa la necessità di estendere il metodo della comparazione oltre i confini di un’analisi puramente « formalistica » dei sistemi normativi cfr., in vario senso, GORLA, 1 ss.; PEDRAZZI, 176; SACCO, 52). È appunto analizzando quest’ultima, che è dato cogliere, di volta in volta, la specifica fisionomia e « consistenza » dei problemi che sorgono nell’individuazione dei limiti e delle possibilità effettive per un riconoscimento della responsabilità penale della societas; come osservano gli stessi autori dell’opera in commento (cfr. p. 138 ss.), proprio l’esperienza scozzese dimostra come la possibilità di imputare la realizzazione di determinati illeciti all’ente societario sia destinata a dipendere da una serie di variabili concrete (relative, ad es., al tipo di attività di volta in volta esplicata nell’interesse dell’impresa, ovvero al particolare modo di atteggiarsi dell’« oggetto sociale » proprio di quest’ultima) che, guardate nel contesto delle singole vicende giudiziarie, conducono a far ritenere non del tutto irragionevoli modelli di soluzione a prima vista dissonanti rispetto a quelli astrattamente delineati nelle « tavole dei principi ». In sostanza il confronto problematico (e « topico », si potrebbe dire) con le esigenze della prassi mostrerebbe all’evidenza come le regole generali che dovrebbero governare (anche) le ipotesi di responsabilità penale della societas siano destinate — in questo particolare settore — a subire un processo di adattamento (quando non addirittura di significativo ridi-
— 240 — mensionamento), proprio a causa dell’intrinseca ed « ontologica » diversità sotto il profilo strutturale del soggetto destinatario della disciplina sanzionatoria penale. È da precisare, al riguardo, come il diritto penale scozzese conosca — per quanto concerne gli illeciti di derivazione « statutaria » — sia reati sottoposti ad un regime di responsabilità oggettiva, sia fattispecie criminose per le quali è invece espressamente richiesta una mens rea (e cioè, un coefficiente di colpevolezza). Nell’ambito della responsabilità delle persone giuridiche, una simile distinzione si traduce (o meglio, dovrebbe tradursi) in un differente regime di imputazione dell’illecito concretamente verificatosi; mentre, nel primo caso, sarebbe possibile addebitare quest’ultimo secondo lo schema della c.d. vicarious liability (consistente nell’imputare « oggettivamente » il fatto alla persona giuridica, a prescindere dal « livello » di volta in volta attribuito al dipendente dell’impresa, e con esclusione dei soli casi di « autonoma iniziativa » da parte di quest’ultimo, in assenza di qualsiasi vantaggio per l’organizzazione societaria), nel secondo, invece, il presupposto della mens rea dovrebbe esigere la presenza di un « rapporto di immedesimazione » con la società di appartenenza, tale da far apparire « colpevolmente » implicata nel fatto la stessa persona giuridica (il che sarebbe possibile soltanto con riguardo all’operato di soggetti suscettibili di esprimere in qualche misura la « politica di impresa » ). Ebbene, nonostante una simile distinzione di principio, non è infrequente il caso che la c.d. mens rea venga in ogni caso ravvisata in capo alla societas, sul presupposto che a questa potrebbe « estendersi » pur sempre l’atteggiamento colpevole dei singoli soggetti responsabili, perfino laddove questi ultimi si collochino in una posizione ben lontana da quella che caratterizza le istanze di vertice (o comunque di « rango » superiore) all’interno dell’organizzazione aziendale (cfr. p. 137). Una simile circostanza non deve, peraltro, apparire particolarmente sorprendente. Altro é, invero, la ricerca e la verifica in concreto della sussistenza di un coefficiente di tipo soggettivo in rapporto ad un singolo individuo; altro è il riconoscimento della possibilità di imputarne l’operato ad una persona giuridica (tende, viceversa, a ridimensionare simili differenze DELMAS-MARTY, 46). In questo secondo caso, non è tanto la « colpevolezza » (in guisa di un addebito a carattere strettamente « personale ») a dover esser specificamente dimostrata, quanto, piuttosto, la concreta possibilità di istituire un qualche « nesso di collegamento » dell’offesa realizzata con gli interessi che fanno capo all’organizzazione societaria: e questo collegamento (specialmente ove venga concepito in maniera particolarmente ampia ed estensiva) è destinato in ogni caso a far premio sulla fisionomia ed i contenuti di un presupposto (la c.d. mens rea, appunto) originariamente — e del tutto plausibilmente — costruito in funzione di una dinamica esclusivamente « individuale » di imputazione dell’illecito. Il procedimento fondato sulla c.d. « estensione » della mens rea all’impresa societaria appare già ab initio predisposto, in buona sostanza, a rivelarsi alla fine per quello che esso realmente è (e non potrebbe non essere): un comodo escamotage, o, se si vuole, una surrettizia assimilazione della colpevolezza individuale rispetto a quella della persona giuridica, che non impedisce tuttavia di scorgere, alla base di un simile procedimento, l’impronta inconfondibile di un’artificiosa (e del tutto innaturale) fictio culpae. In definitiva, l’accentuato « pragmatismo » e la spiccata aderenza alla logica del caso concreto che caratterizzano il diritto scozzese conducono ad evidenziare e a sottolineare maggiormente la necessità di muoversi in questo particolare settore dell’esperienza giuridico-penale con la chiara consapevolezza dei limiti e dei condizionamenti che le soluzioni legislative (e le stesse elaborazioni della dottrina) sono destinate ad incontrare, nel momento di dover applicare determinate categorie generali alle peculiari esigenze di imputazione di volta in volta emergenti della specifica « materia » del processo. Una siffatta circostanza dovrà dunque rappresentare, per chi intenda muoversi in una prospettiva de lege ferenda, uno stimolo ed una sollecitazione non trascurabili a non lasciarsi abbagliare da formule o da stereotipi concepiti esclusivamente « a tavolino », e a sapersi invece confrontare con un approccio politico-criminale suscettibile di esprimersi, in sede applicativa, nell’adozione di scelte ermeneutiche tali da rispecchiare la sostanza effettiva di fenomeni di « ascrizione » della re-
— 241 — sponsabilità penale, ormai destinati a rivelarsi non più compatibili con gli schemi e modelli di soluzione tradizionalmente posti a fondamento del « classico » paradigma della reità individuale. Non si può escludere, d’altronde, che la constatata difficoltà di pervenire, in questa materia, all’individuazione di criteri di soluzione rigorosamente costanti ed uniformi — in quanto tali suscettibili di orientare la prassi applicativa secondo percorsi ermeneutici univocamente predeterminabili — conduca alla fine ad evidenziare e a portare alla luce la necessità di un ripensamento ulteriore, fino a questo momento non ancora compiutamente delineatosi nelle indagini sull’argomento (per alcuni spunti al riguardo, cfr. tuttavia PALIERO (1), 1044). In effetti, la configurazione di una responsabilità in capo ad un’organizzazione di tipo societario potrebbe forse rivelarsi meno esposta alle oscillazioni ed incertezze insite nel processo di attribuzione alla societas di specifici comportamenti criminosi realizzati dal singolo, laddove ci si orientasse nel futuro verso una mutata ottica ricostruttiva nell’individuazione dello stesso modello di illecito suscettibile di giustificare l’irrogazione della sanzione nei confronti dell’organizzazione collettiva in quanto tale. Ci si deve domandare, in altri termini, se, proprio in ragione della peculiare fisionomia del soggetto cui imputare la responsabilità, non si possa (e si debba) pervenire ad un radicale mutamento di prospettiva in ordine alla stessa categoria di fattispecie riferibili all’organizzazione societaria: non più qualsiasi illecito, e comunque figure di illecito « comuni » anche alla persona fisica, bensì modelli di comportamento tali da rendere poco plausibile il ricorso — eventualmente, anche in via « cumulativa » — ad una responsabilità di tipo individuale (si pensi, ad es., alle ipotesi di « abuso di posizione dominante » da parte di un organismo societario), essendo in tali casi rilevante il « risultato » complessivamente ricollegabile alle scelte organizzative proprie dell’impresa, e non già un contegno destinato ad attingere il proprio disvalore in sede di ricostruzione dell’atteggiamento sul piano « personale » del singole autore dell’illecito (e sia pure con effetti suscettibili di ripercuotersi in via « mediata » sull’entità collettiva di riferimento). Anche in questa prospettiva, tuttavia, la strada delle riforme appare ben lungi dal far intravedere un percorso evolutivo lineare e coerente, anche a causa (per lo meno in Italia) della mancanza di una reale volontà politica di procedere ad un’ampia e lungimirante ristrutturazione globale delle scelte in materia sanzionatoria. Il superamento della logica « emergenziale » che ha contrassegnato il diritto penale degli ultimi decenni (in argomento, recentemente, PALAZZO (4), 528 ss.), dovrà dunque rappresentare, in un prossimo futuro, l’obiettivo primario di un legislatore finalmente consapevole della necessità di affrontare (anche) il problema della responsabilità delle persone giuridiche attraverso soluzioni capaci di sostenere l’impatto con un sistema economico-sociale caratterizzato da profonde trasformazioni quanto alla sua struttura e alle sue dinamiche interne: un sistema, il cui « prodotto finale », si potrebbe dire, si esprime anche nel manifestarsi di fenomenologie di illeciti differenti da quelle tradizionalmente « monosoggettive », e rispetto alle quali, pertanto, il modello di una responsabilità superindividuale sembra meritare una posizione privilegiata (quando non addirittura esclusiva) fin dal momento — occorre ribadirlo — della costruzione del rapporto tra tipologia sanzionatoria e fattispecie costitutiva dell’illecito, tra la misura « punitiva » irrogabile ed il complesso dei presupposti destinati a giustificarne l’operatività sotto un profilo funzionale e teleologico. 4. Giunti a questo punto, l’analisi svolta dai due autori è in grado finalmente di « aprirsi » verso la ricostruzione e l’approfondimento critico delle categorie fondamentali del reato, quali si sono andati progressivamente consolidando nell’esperienza scozzese. A tale proposito, si rivela particolarmente significativo l’esame dedicato ad alcuni profili di carattere generale, destinati a rappresentare la base di riferimento essenziale per le successive considerazioni « di dettaglio » via via sviluppate in sede di identificazione della fisionomia strutturale dei singoli elementi costitutivi dell’illecito penale (cfr. p. 145 ss.).
— 242 — Un significativo criterio di orientamento per comprendere la ratio ed i principi ispiratori delle soluzioni adottate, è rappresentato da quello — già in precedenza segnalato — che si ricollega alla particolare importanza riconosciuta dalla giurisprudenza (e dalla dottrina) scozzesi a considerazioni di carattere essenzialmente « morale » nel momento della definizione dei contenuti (e delle stesse espressioni lessicali volte a designarli) su cui si fondano i singoli requisiti che condizionano l’affermazione di una responsabilità penale. Paradigmatica al riguardo si rivela la nozione di dole (cfr. p. 148 s.), la quale viene definita, nella già menzionata opera di David Hume, come una « corrotta e cattiva » intenzione di commettere un fatto considerato riprovevole dalla coscienza sociale. Al connotato di « malvagità » morale espresso dalla categoria del dole fanno riscontro, del resto — osservano gli autori — delle opzioni marcatamente « eticizzanti » nella stessa configurazione dei presupposti « materiali » rispetto ai quali un simile atteggiamento soggettivo è destinato di volta in volta ad operare. Si spiega, in questa prospettiva, la particolare « sensibilità » mostrata dal diritto scozzese verso la punizione di comportamenti e pratiche « immorali », e tra di esse, in particolare, delle manifestazioni lato sensu riguardanti la sfera del « buon costume » (cfr. p. 150 ss.), in relazione alla quale la prassi applicativa è venuta da tempo elaborando un modello di intervento penale sostanzialmente privo di qualsiasi limite o fondamento di legittimazione in chiave « negativa », quale potrebbe eventualmente desumersi da una verifica in concreto della mancanza di un risvolto di « dannosità sociale » delle condotte da incriminare. In tale contesto, è dato assistere, in effetti, non soltanto alla punizione di comportamenti idonei ad arrecare offesa al « pudore » — nell’accezione limitativa in cui questo viene generalmente inteso dalla dottrina italiana — ma anche alla criminalizzazione di manifestazioni suscettibili di apparire comunque sconvenienti o « indecenti » (e, per l’appunto, « moralmente » riprovevoli), quali, ad es., la fruizione di spettacoli a carattere pornografico, sia pure in ambito esclusivamente privato, e con la messa in opera di tutte le cautele necessarie ad impedire l’accesso da parte di terze persone. La circostanza che (anche) la disciplina del « buon costume » contenuta nella legislazione italiana venga a denotare a tutt’oggi un’incidenza sul piano repressivo non del tutto in linea con una scelta di ultima ratio dell’intervento penale (cfr., al riguardo, FIANDACA (2), 84 ss.) non può certo rappresentare — sottolineano conclusivamente gli autori — un motivo sufficiente ad impedire la formulazione di un netto e radicale dissenso nei confronti della tendenza a colpire qualsiasi contegno suscettibile di dar luogo ad un giudizio di pura riprovazione o « disgusto » morale. Dopo aver proceduto ad alcune chiarificazioni ulteriori, suggerite dal vasto « campionario » di casi pratici offerti dalla giurisprudenza scozzese, i due studiosi giungono infine a delineare — anche attraverso l’esame di un celebre (e sia pure notevolemente discusso) leading case — il problema del « ruolo della morale nella parte generale » del diritto penale scozzese. Tirando le somme dell’analisi svolta nelle pagine precedenti, il dato di maggior rilievo desumibile dalla prassi applicativa viene individuato in un costante — e per molti versi singolare — processo di « adattamento » delle categorie della responsabilità penale rispetto all’esigenza di far emergere dal fatto realizzato gli elementi necessari per poterlo inquadrare in una « scala » di gravità di comportamenti delittuosi, costruita in funzione della riprovevolezza sotto il profilo morale ch’essi sono in grado, di volta in volta, di esprimere e di rivelare. Per comprendere i termini del problema, basti invero considerare che il diritto penale scozzese rifugge, in linea di principio, da forme di classificazione dei reati, fondate sul differente atteggiamento sotto il profilo strettamente « psicologico » dell’autore del fatto. Mentre negli ordinamenti di civil law — e, sia pure in minor misura, nello stesso sistema inglese — non è raro riscontrare puntuali ed analitiche descrizioni delle diverse « forme » del dolo e della colpa (ed, ancor prima, delle singole categorie di « confine », cui risulta affidato il compito di circoscriverne il rispettivo ambito di applicazione), chi intendesse porsi alla ricerca di analoghe « teorizzazioni » o schemi ricostruttivi nel diritto scozzese si vedrebbe ben presto costretto ad abbandonare completamente un siffatto approccio metodologico allo studio del tema.
— 243 — Categorie fondamentali dell’imputazione penale, quali la « volontà », la « previsione », la « prevedibilità » (più o meno elevata) dell’evento tipico — come pure le correlative distinzioni tra fattispecie dolose, ovvero colpose o preterintenzionali, accompagnate o meno dalla rappresentazione da parte dell’agente circa il verificarsi di un ulteriore (e sia pur involontario) esito offensivo — si rivelano, in effetti, sostanzialmente estranee alla « sensibilità » giuridica propria delle corti scozzesi. Fermandosi per il momento a considerare la linea di demarcazione tra i diversi « titoli » di responsabilità in materia di omicidio, non è difficile accorgersi, ad es., come, pur distinguendosi in linea di massima tra omicidio doloso (murder) e colposo (culpable homicide), l’applicazione in concreto delle due figure risulti condizionata da presupposti assai lontani dalla mera caratterizzazione sotto il profilo « psicologico » dell’atteggiamento dell’autore. Nel murder, in effetti, vengono fatti rientrare, sia casi di omicidio intenzionale, sia ipotesi di realizzazione del fatto in presenza di una c.d. wicked recklessness (cfr. p. 149, 213, 214, 219 s., 226 ss.). Una siffatta, « turpe sconsideratezza » viene peraltro ritenuta esistente, pur quando si ravvisi la mancanza (non solo di volontà) ma anche di una reale « previsione » dell’evento (cfr. p. 214, 228): unico requisito richiesto per integrarne gli estremi è, per l’appunto, quello che l’atteggiamento del colpevole possa rivelare concretamente una connotazione di carattere « moralmente » negativo, adeguata a giustificare l’imputazione a titolo di dole. Così, qualora l’agente abbia operato sotto l’influenza di sostanze alcooliche o stupefacenti, avendole assunte in circostanze tali da denotare un atteggiamento di grave « sconsideratezza » ed indifferenza verso i possibili effetti del loro consumo (si tratta del famoso caso Brennan cui si alludeva poc’anzi: cfr. p. 158 s.), ovvero abbia intrapreso un’attività consistente nell’usare violenza contro le persone, e da questa sia derivato un risultato più grave (cfr. p. 219 s., 239 s.), l’addebito a titolo di murder non potrà che costituire il naturale « sbocco » del processo (e dell’eventuale condanna) penale. A sua volta, un culpable homicide potrà essere concretamente ravvisato soprattutto laddove il soggetto non versasse già ab initio in re illicita, perché, in caso contrario, si dovrà appunto fare ricorso alla più grave imputazione a titolo di murder, in virtù della presenza del suddetto connotato di wicked recklessness. Con la sola eccezione — la quale viene peraltro a riconfermare l’accentuata caratterizzazione in chiave « eticizzante » delle valutazioni inerenti all’atteggiamento del reo — che il risultato ulteriore, oltre a non essere voluto, non fosse comunque facilmente prevedibile da parte del colpevole: nel qual caso, l’imputazione a titolo di culpable homicide — che, in presenza dello svolgimento di un’attività di per sé lecita, dovrebbe fondarsi sulla verifica in concreto della possibilità da parte dell’agente di prevedere l’evento — potrà considerarsi « sufficiente » ad assicurare un’adeguata punizione di colui che, pur muovendosi in « territorio illecito », non fosse stato in grado di prefigurarsi un (improbabile) sviluppo ulteriore dell’attività intrapresa (cfr. in particolare p. 242). D’altronde — e sia pur in (apparente) contrasto con il quadro complessivo or ora delineato — un addebito a titolo di murder viene talvolta ritenuto inammissibile, quand’anche, nelle circostanze concrete, la sussistenza di una vera e propria « volontà » di commettere il fatto (ed in particolare, di cagionare la morte della vittima) difficilmente potrebbe essere negata. Invero, pur non mancando, nella penalistica scozzese, la percezione delle differenze tra dolo e « motivi » dell’agire, si è giunti talora ad affermare una responsabilità esclusivamente a titolo di culpable homicide, laddove il soggetto agente avesse operato al fine di risparmiare inutili sofferenze ad una persona affetta da malattia giunta ormai allo stadio terminale (c.d. eutanasia attiva). Nonostante che una simile tendenza rappresenti il frutto di un’elaborazione prevalentemente dottrinale, non può tuttavia negarsi com’essa venga a rappresentare un ulteriore motivo di conferma (e sia pure in presenza di casi « estremi » e non generalizzabili) della notevole importanza attribuita ad una valutazione in chiave essenzialmente morale del modo di porsi dell’autore dell’illecito nei confronti dei valori e delle supreme istanze « etiche » che qualificano e danno la propria impronta all’assetto complessivo di una determinata comunità sociale.
— 244 — In questa prospettiva, la circostanza che si sia ritenuto di dover fare ricorso alla sanzione stabilita per l’omicidio colposo non può esaurire il proprio significato in una pura e semplice utilizzazione quoad poenam di una fattispecie sottoposta ad un regime sul piano repressivo di minor rigore: l’idea di una sostanziale « erosione » del significato e della « carica » negativa insita nell’atteggiamento sul piano « etico » dell’agente doloso, rappresenta, in realtà, una motivazione senza dubbio più convincente e « culturalmente » plausibile rispetto ad un’ipotetica interpretazione in chiave di contingente e semplicistico « rinvio » ad una disciplina sanzionatoria « presa a prestito » da una diversa fattispecie (sia pur) punita meno gravemente. L’accentuata « flessibilità » nella ricostruzione dei parametri di imputazione soggettiva del reato — flessibilità dovuta all’influenza determinante di valutazioni collegate all’atteggiamento sul piano « morale » proprio del colpevole — si fa sentire, d’altronde — ricordano conclusivamente gli autori — anche nell’ambito delle due categorie della recklessness e della negligence. Quanto alla prima, il diritto penale scozzese mostra una scarsa considerazione verso gli esiti della disputa — particolarmente accesa in Inghilterra (cfr. ASHWORTH, 154 ss.; FIELDLYNN, 127 ss.; SMITH-HOGAN, 60 ss.;WILLIAMS, 74 ss., nonché VINCIGUERRA, 187 ss.) — circa l’attribuzione di una fisionomia più o meno accentuatamente « soggettivistica » a tale controverso requisito d’imputazione del reato. È dato così riscontrare, a seconda delle circostanze, sia casi nei quali l’addebito a titolo di recklessness si fonda sull’effettiva previsione (ed « accettazione ») dell’evento da parte del colpevole, sia ipotesi caratterizzate invece dalla mancanza di un coefficiente di rappresentazione in concreto circa il suo verificarsi (cfr. p. 227 ss.). Le ragioni di una simile estensione attribuita alla figura della recklessness sono da ricondurre, ancora una volta, a quella logica della presenza o meno di un connotato di disvalore sotto il profilo etico-sociale nell’atteggiamento del reo, che, pur risultando più facilmente riscontrabile nel primo gruppo di ipotesi, potrebbe tuttavia concretamente emergere — secondo l’opinione prevalente — anche dall’analisi delle seconde, specialmente laddove l’autore dell’illecito abbia rivelato, con il proprio comportamento, un grado di « indifferenza » e di « sconsideratezza » particolarmente accentuati di fronte al pericolo di arrecare offesa a beni giuridici altrui. Quanto al requisito della negligence, è significativa, d’altronde, la circostanza — già in precedenza segnalata — che la responsabilità per colpa venga generalmente riservata ad ipotesi nelle quali il coefficiente di « stigmatizzazione » sul piano sociale (e morale) del reo è destinato a passare decisamente in seconda linea. Non è un caso, in effetti, che un simile criterio di imputazione venga ad essere più frequentemente utilizzato con riferimento alla categoria dei reati c.d. « artificiali » — in quanto tali estranei alla tradizione giuridica di common law — mentre risulti del tutto eccezionale nell’ambito delle fattispecie costitutive dei c.d. « delitti naturali » (cfr. p. 231 s.). Nè si deve dimenticare, inoltre, come, a proposito delle fattispecie di « pura creazione legislativa », il diritto scozzese si mostri propenso ad attribuire largo spazio anche alle ipotesi di c.d. strict liability (ben diverse dai casi di imputazione dell’evento a chi già versasse in re illicita, sui quali ci si è in precedenza soffermati); una simile figura di « responsabilità oggettiva » si ricollega, invece, a quelle fattispecie di reato — frequenti, ad es., in materia di circolazione stradale, ovvero nell’ambito di attività di carattere lato sensu economico-imprenditoriale — nelle quali le esigenze di tutela connesse allo sviluppo tecnologico o industriale vengono ritenute idonee a legittimare un modello d’imputazione ormai sganciato dal tradizionale parametro della « riprovevolezza morale » del reo, e fondato, piuttosto, sul dato meramente obiettivo della violazione di determinate « regole » (si parla non a caso, a questo proposito, di regulatory offences) già intrinsecamente dotate di un contenuto e di una finalità di natura essenzialmente preventivo-cautelare (cfr. p. 244 ss., 247 ss.) 5.
La notevole « elasticità » nella ricostruzione dei presupposti costitutivi della respon-
— 245 — sabilità penale — e la costante ricerca, ad opera della giurisprudenza, di soluzioni applicative idonee a rispecchiare le caratteristiche della singola vicenda processuale — si fa sentire, d’altronde, anche nell’ambito relativo alle c.d. defences (cfr. p. 254 ss. Sul tema cfr., in generale, GRANDE (2), 310 ss.). Prescindendo da un esame analitico delle molteplici problematiche racchiuse sotto tale amplissima denominazione (la quale, come del resto accade in Inghilterra, non lascia trasparire al suo interno una netta linea di demarcazione tra ipotesi di esclusione dell’illiceità e cause di esclusione della colpevolezza), merita tuttavia svolgere qualche breve considerazione su quelle figure di defences, le quali si rivelano particolarmente illuminanti per cogliere — ed avvalorare ulteriormente — la sostanza effettiva delle scelte operate nel sistema giuridico scozzese, quali si sono andate progressivamente delineando nel corso dell’indagine finora svolta. A tale riguardo, appare degna di menzione, in primo luogo, la disciplina riservata alla c.d. insanity, e cioè alle ipotesi riconducibili ad un difetto di « imputabilità » dovuto ad infermità di mente. Mentre il sistema inglese appare a tutt’oggi fortemente condizionato dalle c.d. M’Naghten Rules elaborate dalla House of Lords (v. in proposito VINCIGUERRA, 205 ss.), il diritto penale scozzese mostra invece un atteggiamento assai più « duttile » ed articolato nella ricostruzione dei presupposti di operatività dell’insanity. Non soltanto, invero, viene generalmente sottolineata la necessità di fare ricorso, in tale materia, a dei criteri di valutazione maggiormente capaci di adattarsi alle caratteristiche concrete dell’« alienazione » mentale di volta in volta riscontrabile nel singolo imputato. Si tende anche — e sia pure non senza contrasti — a ricondurre a tale figura anche ipotesi qualitativamente differenti rispetto a quelle costitutive di una vera e propria infermità di mente, e che vengono fatte rientrare sotto la categoria del c.d. irresistible impulse: una categoria, questa, per chi abbia presente l’evoluzione storica della figura della « forza irresistibile » nella tradizione dei codici continentali, che ha mostrato da sempre una potenzialità espansiva destinata a ricomprendere anche fenomeni di perdita di autocontrollo non dipendenti da cause patologiche (e, per tale ragione, assai più vicini alle caratteristiche proprie di quegli « stati emotivi o passionali », cui il codice italiano del 1930 intese espressamente negare qualsiasi efficacia ai fini dell’esclusione dell’imputabilità) (cfr. p. 256 s., 258, 259 s.). D’altronde — aggiungono i due autori — non può dimenticarsi come il diritto penale scozzese abbia costituito la patria d’origine, rispetto agli altri sistemi di common law, della c.d. diminished responsibility (o semi-imputabilità) (cfr. p. 262 ss.); la quale, proprio per il suo carattere « intermedio » tra normalità e deficienza psichica, ben si prestava a trovare il proprio terreno di coltura in un sistema caratterizzato da un elevato coefficiente di « permeabilità » e di adattabilità delle proprie categorie giuridiche alla variegata tipologia delle forme di anomalia psichica di volta in volta riscontrabili nel singolo autore dell’illecito. Dopo aver tratteggiato (cfr. p. 265 ss.) l’ambito di rilevanza riconosciuto alla categoria dell’intoxication, e cioè alle ipotesi di commissione del reato sotto l’influenza di sostanze alcooliche o stupefacenti — categoria che, per quanto sottoposta ad una disciplina di particolare rigore, dimostrerebbe, ancora una volta, l’influenza del profilo etico-sociale nella valutazione dei presupposti della responsabilità penale (si ricordi il caso Brennan più volte richiamato in precedenza) — i due autori svolgono alcune interessanti considerazioni a proposito del trattamento dell’errore nel diritto scozzese. Lasciando da parte le soluzioni adottate in tema di errore sul precetto (per lo più considerato, come in Inghilterra, del tutto irrilevante ai fini dell’esclusione di un addebito di colpevolezza: cfr. p. 272 s.; sul punto, più ampiamente, cfr. GRANDE (2), 314 ss.), preme soffermarsi soprattutto sulle condizioni necessarie affinché possa attribuirsi efficacia « scusante » all’errore sul fatto. Invero, la rilevanza di tale forma di errore viene generalmente subordinata alla circostanza che questo non fosse tale da apparire del tutto « irragionevole ». L’apparente singolarità — data dal fatto che, in presenza di un atteggiamento di natura essenzialmente colposa, il soggetto venga pur sempre chiamato a rispondere a titolo di dolo — può nondimeno spie-
— 246 — garsi, osservano gli autori (cfr. p. 277 s.), considerando come l’« irragionevolezza » dell’errore venga ad essere prevalentemente ricollegata a situazioni nelle quali il carattere del tutto « immaginario » e fantasioso delle circostanze invocate come motivo di scusa lasci trasparire (non già un atteggiamento meramente colposo) quanto, piuttosto, un coefficiente di dolo c.d. « indiretto » od eventuale, sia pure esteso fino a ricomprendere anche ipotesi nelle quali il collegamento dell’agente con l’evento offensivo non fosse tale da rivelare, con assoluta certezza, una « previsione » effettiva del suo verificarsi come conseguenza della condotta; anche a tale proposito, è destinato, dunque, a riemergere, come connotato qualificante del giudizio di colpevolezza, quel disvalore sul piano etico-sociale insito dell’atteggiamento di « indifferenza » del reo verso i valori tutelati, che (unito anche a preoccupazioni di natura probatoria, particolarmente « sentite » in un ordinamento di formazione essenzialmente giurisprudenziale) è destinato a rendere priva di una reale capacità di influenza sulle scelte applicative una visione sistematica « dogmaticamente » incentrata su di una caratterizzazione in chiave rigorosamente « psicologica » dei coefficienti della responsabilità penale. Per quanto concerne, infine, la tematica delle defences lato sensu corrispondenti alle nostre « cause di giustificazione », preme ricordare — rinviando per il resto all’esauriente ed approfondita esposizione analitica compiuta dai due autori (cfr. p. 281 ss.) — come il profilo dell’influenza di considerazioni di natura morale (anche) sulla ricostruzione dei connotati di simili figure conduca addirittura a rendere incerto e problematico (oltre l’ambito di estensione) lo stesso riconoscimento giuridico della scriminante dello « stato di necessità » (necessity); la cautela mostrata a tale riguardo dalle corti scozzesi sarebbe tuttora da ricondursi al dubbio di fondo, formulato in epoche non più recenti, secondo il quale dovrebbe considerarsi cinico ed immorale « rendere i criminali arbitri di decidere cosa è lecito e cosa è illecito » (cfr. p. 291 s.). La discussione (per un’analisi tecnica dei termini del problema cfr. GROSSO (1), 481 ss.), del resto presente anche in Italia, circa i limiti oltre i quali lo stato di necessità rischierebbe di risolversi in una scriminante del tutto « immorale », è destinata dunque ad atteggiarsi, nel sistema scozzese, nella forma dell’interrogativo, di portata ben più radicale, se tale ipotesi di defence possa ricevere una base di legittimazione adeguata a giustificarne la stessa introduzione (o comunque l’ulteriore permanenza) all’interno dell’ordinamento penale. 6. Prima di procedere oltre, non sembra inopportuno svolgere, a questo punto, alcune brevi considerazioni critiche in merito alle tematiche sottostanti ai fenomeni fino ad ora sinteticamente tratteggiati. Particolare interesse, da questo punto di vista, presenta l’interrogativo — del resto sollevato a più riprese dagli stessi autori del volume — circa il contributo che l’esperienza giuridica scozzese è in grado di arrecare alla dibattuta questione riguardante l’opportunità di fare o meno ricorso, nell’individuazione dei presupposti della responsabilità penale, ad apposite « definizioni legislative » (sulle quali cfr. l’ampia panoramica di TARELLO, spec. 179 ss., come pure RAMACCI, 88 ss., 120 ss.; SCARPELLI, 187 ss.) atte a circoscriverne i confini concettuali e la concreta capacità di incidenza a livello di scelte applicative. Un interrogativo, questo, che ha dato luogo, proprio in tempi recenti, e con l’intervento di autorevoli studiosi della stessa area anglosassone (sul dibattito al riguardo cfr. DENNIS, 361 ss.; CADOPPI (2), 985 ss.; ID. (3), 25 ss.; CURI, 119 ss.; LA SPINA, 419 ss., tutti con ampi riferimenti) ad un confronto di opinioni particolarmente ricco ed approfondito, anche in vista dell’elaborazione di un programma di riforme destinato a sfociare nell’introduzione di un nuovo codice penale (o di un codice penale tout court). A tale proposito, si può affermare, in via di estrema sintesi, come la discussione riguardante la necessità di fare o meno ricorso a simili « definizioni » (ci si riferisce soprattutto a quelle della « parte generale » del codice penale) veda attualmente contrapposte tre diverse linee di tendenza, che, sia pure in via del tutto approssimativa e convenzionale, potrebbero rispettivamente denominarsi come « favorevole », « scettica » e « realistica ». La prima (cfr., tra altri, BRICOLA (3), 179 ss.; CONTENTO, 111 ss.; MARINUCCI (2), 144
— 247 — ss.), facendo leva sul principio di determinatezza e di « tipicità », il quale dovrebbe permeare l’intera materia del diritto penale, sottolinea come lo strumento definitorio sarebbe destinato a svolgere, in questa prospettiva, il ruolo insostituibile di preservare il singolo da arbitrarie e del tutto incontrollabili « manipolazioni » in sede applicativa dei presupposti della responsabilità penale. La seconda (cfr., ad es., FIANDACA (1), 217; GROSSO (2), 127 s.), mentre da un lato sottolinea come l’opera di « concretizzazione » di tali categorie debba restare in linea di principio affidata alle elaborazioni della dottrina — in modo da consentire, altresì, un congruo « adattamento » nel tempo dei relativi schemi concettuali, in funzione degli sviluppi e dei risultati via via conseguiti in ambito scientifico — pone in evidenza, dall’altro, la difficoltà di « vincolare » la prassi a determinati presupposti di dipo dogmatico, adducendo a conferma l’atteggiamento estremamente « elastico » e flessibile assunto dalla giurisprudenza di fronte a determinati gruppi di fattispecie e dei correlativi modelli di imputazione. La terza, infine, per quanto consapevole dell’indubbia utilità sul piano applicativo — oltre che della funzione di limite in chiave garantistica — ricollegabile a talune definizioni legislative, si preoccupa, tuttavia, di inquadrarne e di valutarne il significato e la concreta efficacia in un sistema caratterizzato da una forte « tensione » sul piano politico-istituzionale tra i differenti « poteri » dello Stato; pervenendo, in definitiva, alla conclusione che le definizioni adottate dal legislatore potranno realisticamente esplicare un’effettiva capacità di influenza sulla prassi applicativa, soltanto laddove venga a ricostituirsi quell’equilibrio e quella suddivisione di competenze tra legislativo e giudiziario, che è andato sempre più incrinandosi a causa della progressiva delegittimazione degli organi titolari del potere di rappresentanza politica (cfr. in particolare PALAZZO (3), 385 ss.). Non è certamente questa la sede più appropriata per una valutazione analitica in merito alla fondatezza e alla plausibilità sul piano teorico-scientifico, e, soprattutto, politico-criminale, delle diverse soluzioni scaturite dal presente dibattito. E tuttavia, pur senza disconoscere le difficoltà — sia sotto il profilo tecnico-formale, sia sotto quello delle valutazioni di opportunità sul piano politico-legislativo — collegate alla loro utilizzazione, non sembra azzardato affermare come l’importanza delle disposizioni definitorie venga a delinearsi, con particolare evidenza, almeno sotto due profili, peraltro in stretta correlazione tra loro. Sotto un primo punto di vista, parrebbe derivarne, in effetti, un ulteriore contributo a quell’arricchimento sotto il profilo « culturale » della sensibilità dell’interprete, quale si esprime nell’affinamento della ricerca in merito ai connotati differenziali tra le singole categorie rilevanti ai fini di un giudizio di responsabilità penale, e che rappresenta, a sua volta, una premessa indispensabile per il conseguimento di risultati sul piano applicativo il più possibile conformi alle caratteristiche tipologiche (ed ai contenuti di valore) dei fenomeni ritenuti meritevoli di una risposta penale. Ed invero, è difficile negare come tra l’elaborazione scientifica e dottrinaria — come pure a livello giurisprudenziale — delle categorie della responsabilità penale, e la scelta legislativa di individuarne i presupposti, venga ad intercorrere un essenziale rapporto di corrispondenza e di correlazione di tipo « dialettico », per così dire, il quale è destinato a rendere più agevole (anche in prospettiva futura) il conseguimento degli obiettivi or ora sinteticamente delineati. Si vuol dire, in altri termini, che determinate definizioni legislative, sorte sotto l’influenza dell’esperienza maturata in sede scientifica ed, ancor prima, nella stessa applicazione pratica del diritto, sono in grado di svolgere, a loro volta, il ruolo di sviluppare e stimolare la sensibilità di chi è chiamato ad interpretarle, fornendo ad esso motivo ed occasione per ulteriori riflessioni e concettualizzazioni in merito agli istituti e alle categorie giuridiche di riferimento (sui meccanismi di condizionamento e di interazione tra linguaggio definitorio ed elaborazioni del pensiero cfr. LANTELLA, 160 ss.), e ponendo in tal modo le premesse per una più consapevole ed approfondita ricostruzione (e valutazione critica) dei presupposti necessari ad identificarne e a circoscriverne in maniera adeguata il corrispondente ambito di rile-
— 248 — vanza. Non si può dimenticare, d’altronde — com’è stato recentemente sottolineato, proprio nel contesto di un’indagine particolarmente sensibile alla dimensione funzionale e praticooperativa di siffatte definizioni (cfr. PADOVANI-STORTONI, 16 s.) — che determinati istituti della parte generale appaiono destinati a svolgere un ruolo particolarmente significativo ai fini di una più accentuata « individualizzazione » della responsabilità penale, ponendo un limite all’eccessiva « astrattezza » (e alla conseguente mancanza di un’adeguata potenzialità espressiva rispetto alle caratteristiche del singolo fatto) propria della descrizione legale delle singole fattispecie incriminatrici, quale risulta dall’elencazione dei « tipi » di reato inclusa nella parte speciale del codice penale. È necessario aggiungere, tuttavia (ed ecco il secondo profilo cui si alludeva in precedenza), come la « definizione » legislativa, per poter rivelarsi funzionale al conseguimento di simili risultati, debba necessariamente fondarsi, a sua volta, sull’elaborazione di un schema concettuale di riferimento dotato di contenuti sufficientemente « caratterizzanti », in quanto tale idoneo a disciplinare e ad « imbrigliare », per così dire, l’intrinseca vocazione « teleologica » propria dell’interprete (e prima ancora, del legislatore) attraversc una puntuale e rigorosa presa di posizione circa i requisiti strutturali dei fenomeni destinati a formare oggetto della disposizione definitoria. Soltanto in questo modo, in effetti, potrà evitarsi il rischio che la singola categoria rilevante ai fini di un giudizio di responsabilità penale venga ad essere di volta in volta ricercata all’interno di quella sorta di « magma » indistinto di valutazioni (e di sottostanti fenomenologie strutturali suscettibili di venir selezionate in forma totalmente arbitraria), potenzialmente idoneo ad attribuire a siffatte categorie un « volto » ed un significato dai contenuti radicalmente eterogenei, incapaci, per ciò stesso, di esprimere un « valore » unitario di riferimento. Rinunciare, ad es., ad elaborare uno schema concettuale sufficientemente rigoroso (in quanto tale suscettibile di tradursi in una corrispondente « definizione ») dei connotati strutturali propri del dolo, significa aprire il varco a ricostruzioni e a modelli di valutazione di tale requisito irriducibili ad una dimensione (sia pur relativamente) omogenea: potrà accadere così che il coefficiente del dolo venga ad essere di volta in volta ricondotto, ora agli estremi di un atteggiamento « volontario » in senso strettamente psicologico, ora, invece, ad un atteggiamento di carattere prevalentemente « emotivo » ed interiore, ora, infine, ad una categoria sintomatica della pericolosità del soggetto (con il rischio di avvicinarlo alle forme più gravi di colpa) (sulle problematiche attuali della responsabilità dolosa cfr. EUSEBI, 61 ss., 134 ss.; PROSDOCIMI, 76 ss., 98 ss.). Pare evidente, al contrario, come, una volta ricondotto il dolo agli estremi di un atteggiamento volontario, le alternative prospettabili in sede di verifica della sussistenza di tale elemento vengano a disporsi entro i confini di una dimensione psicologica, la quale, per quanto suscettibile di differenti livelli di intensità, non potrà tuttavia prescindere dalla previa individuazione di una base di riferimento strutturalmente e teleologicamente fondata su presupposti unitari di valutazione. La circostanza, poi, che la « definizione » prescelta venga a risolversi nell’« offerta » di un modello che l’interprete ritenga di non dover condividere nel suo fondamentale nucleo ispiratore, potrà benissimo dar luogo all’elaborazione di una posizione critica, da vagliarsi in sede di progettazione di soluzioni alternative de lege ferenda. Ma la « definizione » adottata non risulterà, per questa sola ragione, priva di un suo ruolo particolarmente significativo e qualificante: quello, appunto, di aver proposto un modello ricostruttivo, con il quale confrontarsi sulla base di un discorso critico pienamente consapevole delle implicazioni sul piano sistematico (ed applicativo) delle diverse soluzioni alternativamente ipotizzabili, e con il conseguente impegno a « definire », ancora una volta, quel determinato requisito, allo scopo di farne emergere un sostrato valutativo dotato anch’esso di una compiutezza di significati ( e di una coerenza interna) non minori rispetto a quelli ravvisabili nella « definizione » originaria (per approfonditi rilievi circa i rapporti tra il momento valutativo e quello definitorio nell’individuazione della fattispecie costitutiva della responsabilità penale, cfr. la raffinata ricerca di PALAZZO (2), 362 ss.).
— 249 — 7. Orbene, se, alla luce di tali osservazioni, torniamo a valutare il significato e la portata delle scelte operate all’interno del sistema penale scozzese, non sarà difficile individuare le ragioni di fondo per le quali in tale sistema (come pure in altri ordinamenti giuridici, anch’essi ispirati ai principi della common law), risulti difficile procedere alla redazione di una « codificazione » penale realmente idonea al conseguimento degli obiettivi, cui l’utilizzazione delle disposizioni definitorie dovrebbe considerarsi in linea di principio preordinata. Invero, l’influenza di considerazioni legate al profilo « etico-sociale » nel processo di attribuzione della responsabilità — e la connessa tendenza, rilevata dai due autori (cfr. p. 235), a ricostruire i requisiti di imputazione soggettiva del reato alla stregua di una serie di variabili concrete insuscettibili di adeguata tipizzazione (con la conseguenza di arrivare addirittura a « bollare » come dolosi anche fatti non voluti, e colposi anche comportamenti volontari) — non può non porsi in radicale antitesi con la stessa possibilità di elaborare delle « definizioni » codicistiche dotate delle caratteristiche strutturali poc’anzi evidenziate. Non è un caso, in effetti, che nel ricordato progetto di codificazione del diritto inglese (in proposito cfr. CADOPPI (1), 67 ss.; DENNIS, 377 ss.; SMITH-HOGAN, 59 ss., e, con particolare ampiezza, CURI, 124 ss.), la stessa figura della recklessness — per quanto destinata ad assumere un’importanza centrale nel quadro della disciplina delle forme di colpevolezza — venga a racchiudere al suo interno una tipologia di atteggiamenti da parte dell’autore dell’illecito notevolmente differenti quanto al rispettivo contenuto psicologico, e, per tale ragione, irriducibili ad una dimensione strutturale fondata su di un nucleo unitario di disvalore. In tale progetto, per vero, la figura in questione viene subordinata, non soltanto al presupposto che l’autore « si renda conto del rischio » di un determinato evento, ma anche alla condizione che, « tenuto conto delle circostanze a lui note », fosse « irragionevole correre quel rischio ». Tale ultima locuzione pone tuttavia di fronte ad un interrogativo, cui non è facile dare una risposta del tutto soddisfacente (sulle problematiche interpretative riguardanti, in generale, il parametro della « ragionevolezza » cfr. SMITH-HOGAN, 60 ss., ed, in chiave storica, KELLY, 334 s.): irragionevole per chi? Se riferito all’atteggiamento psichico dell’autore, il coefficiente dell’« irragionevolezza » non potrà che dar luogo, in effetti, al riconoscimento dell’esistenza di un fenomeno sostanzialmente analogo alle caratteristiche tradizionalmente attribuite al c.d. dolo « eventuale »: qualora si accertasse che lo stesso autore dell’illecito aveva ritenuto « irragionevole » correre quel particolare tipo di rischio, si dovrebbe, invero, concludere nel senso che egli aveva appunto « accettato » l’eventualità della lesione. Ma la disposizione, a ben guardare, sembra riferirsi (o, quanto meno, potrebbe anche riferirsi) ad una valutazione espressa alla stregua di un parametro connotato in termini maggiormente obiettivi, tali da apparire, per ciò stesso, sostanzialmente estranei al punto di vista « personale » dell’autore del fatto; in tale ottica, muovendo dal presupposto che l’autore fosse comunque « consapevole » del rischio inerente alla propria condotta, essa potrebbe limitarsi a richiedere che questo — e sia pure in base alle circostanze note all’agente — fosse tale, per l’appunto, da indurre a ritenere (obiettivamente) incongrua e del tutto « irragionevole » la scelta di operare in sua presenza. È legittimo domandarsi, tuttavia, per quali motivi si sia ritenuto di dover affiancare e « giustapporre », per così dire, al profilo soggettivo della rappresentazione del rischio quello — oggettivo — della valutazione circa la sua irragionevolezza. Per vero, nella misura in cui l’autore dell’illecito fosse stato effettivamente consapevole dei rischi inerenti alla propria condotta (e sia pure senza aver accettato l’eventualità della lesione), non si comprendono le ragioni per le quali la sua responsabilità penale dovrebbe risultare necessariamente subordinata ad un riscontro ulteriore (ben lungi, d’altronde, dal rivelarsi sufficientemente chiaro e perspicuo; meno equivoca, sotto questo profilo, la formulazione del Model Penal Code statunitense, circa la quale cfr. TREIMAN, 316 ss., 348 ss.) in termini di c.d. « irragionevolezza ». Una volta escluso, in altri termini, che tale ultimo requisito possa identificarsi tout court con il superamento del « rischio consentito » nell’esercizio di un’attività pericolosa — in quanto,
— 250 — di fronte ad un rischio lecito, nessuna responsabilità (neanche a titolo di mera colpa) potrebbe essere addossata al soggetto (per più articolate argomentazioni cfr. tuttavia CARDCROSS-JONES, 67) — sarebbe stato logico attendersi, in effetti, che l’autore dell’illecito venisse chiamato in ogni caso a rispondere a titolo di recklessness, senza alcuna necessità di fare ricorso ad ulteriori criteri di valutazione, da ritenersi totalmente estranei al suo atteggiamento psicologico rispetto al fatto. Di fronte ad un simile dilemma interpretativo, potrebbe apparire, allora, maggiormente fondata una terza soluzione ermeneutica. Il requisito della « percezione » soggettiva del rischio si limiterebbe, in quest’ottica, a fare riferimento a quella generica consapevolezza (la quale non esclude che le le circostanze dell’azione fossero in qualche modo presenti al soggetto) circa il carattere « irregolare » della propria condotta (si pensi al consapevole superamento dei limiti di velocità consentiti delle norme in materia di circolazione stradale). Mentre, l’« irragionevolezza » insita nel fatto di aver operato nonostante il rischio, alluderebbe invece ad una colpevole « trascuratezza » nel non aver ricollegato alle circostanze dell’azione una prognosi in concreto circa l’effettiva possibilità del verificarsi di un risultato offensivo. Se interpretata in questo modo, la « definizione » adottata nel progetto finirebbe, tuttavia, col ricomprendere anche ipotesi di colpa « incosciente », dato che il soggetto, in realtà, non avrebbe effettivamente « previsto » (né tanto meno accettato) l’eventualità della lesione, essendosi invece limitato ad una generica rappresentazione circa l’inosservanza di una regola cautelare, senza peraltro riconnettervi un significato preventivo rispetto alla realizzazione di un’offesa destinata a verificarsi e a « concretizzarsi » hic et nunc. Con la conseguenza, in ultima analisi, che una simile definizione, oltre a rivelarsi in contrasto con la tendenza — attribuita agli stessi compilatori del progetto (cfr. DENNIS, 379) — a superare le precedenti interpretazioni in chiave « oggettivistica » del requisito della recklessness (al riguardo cfr. CADOPPI (1), 40 s.), rischierebbe di estendersi fino a ricomprendere fenomeni e situazioni psicologiche profondamente diverse tra loro, in quanto, pur essendo idonea a disciplinare, a fortiori, le ipotesi (più gravi) di dolo eventuale o di colpa cosciente, essa verrebbe ad applicarsi anche ai casi, ben diversi, di pura e semplice « prevedibilità » del risultato offensivo. Come appare ormai evidente, si tratta di problemi e di interrogativi per i quali non appare possibile offrire una risposta definitiva e del tutto appagante. Ma le ragioni di tali difficoltà non vanno ricercate, a ben guardare, in un’improbabile incapacità od « imperizia » tecnica da parte dei compilatori del progetto, quanto, piuttosto, nel fatto che questi non intendevano, verosimilmente, precludersi la strada per attribuire alla figura della recklessness un’estensione applicativa tale da ricomprendere fenomeni, che, pur se differenti sotto il profilo strettamente psicologico, potessero in concreto legittimare un apprezzamento discrezionale suscettibile di tradursi in una risposta repressiva di tenore sostanzialmente analogo. In un simile contesto, tuttavia, l’ipotizzata « definizione » legislativa serve (e servirà sempre) molto poco, sia ai fini del conseguimento dell’obiettivo della « certezza » e della prevedibilità delle decisioni giudiziarie (in argomento v. FORTI, 84 ss.; LANTELLA, 197) sia dall’angolo visuale del potenziamento delle « garanzie » individuali nei confronti del singolo autore dell’illecito. L’utilizzazione dello strumento definitorio — si deve conclusivamente riconoscere — si rivela realmente significativa (sotto entrambi i profili or ora menzionati) soltanto laddove la definizione adottata possa apparire — per usare un’espressione tratta dalla filosofia della scienza — suscettibile di essere eventualmente « falsificata »: il che potrà accadere, soltanto quando — rinunciandosi ad inserire in essa « troppe cose » (e per di più eterogenee quanto alle sottostanti scelte di valore) — si pervenga a circoscrivere il definiendum, in maniera tale da attribuire al corrispondente definiens uno spessore connotativo realmente « orientato » verso specifiche « conseguenze » sul piano applicativo (anche se, proprio per questo, destinate, prima o poi, ad essere messe nuovamente in discussione, sotto la spinta della necessità di adeguare il sistema ai progressi della scienza e agli sviluppi della politica criminale; per puntuali riflessioni circa il significato ed i limiti dell’« argomento consequenzialista » cfr., ora, MENGONI, 102 ss.).
— 251 — 8. Tutto ciò considerato, non si deve peraltro ritenere che la « definizione » eventualmente adottata da parte del legislatore — e sia pure con la massima attenzione e sensibilità per gli sviluppi ermeneutici ch’essa è in grado di promuovere e di sollecitare — si riveli sempre idonea a segnare una linea di confine sufficientemente rigorosa dal punto di vista delle conseguenze applicative. Ed anzi, proprio laddove se ne sentirebbe maggiormente il bisogno, la ricerca di una definizione adeguata allo scopo sembra destinata ad incontrare ostacoli operativi di portata ed intensità tali da far apparire particolarmente arduo lo sforzo di individuare un definiens suscettibile di inquadrare e di « incapsulare » la realtà sottesa al corrispondente definiendum. Si vuole alludere, come appare evidente, alla tematica delle « forme di manifestazione » del reato, ed in particolare a quella concernente la materia del tentativo punibile. Che si tratti di un problema pressoché insolubile attraverso l’utilizzazione di puntuali ed esaustive formule definitorie, è circostanza ben nota a tutti coloro che ne hanno indagato la complessa evoluzione storica e le recenti vicende legislative all’interno degli ordinamenti contemporanei. E tuttavia, non si può fare a meno di sottolineare come l’elaborazione di un modello definitorio in materia di tentativo si riveli un compito non del tutto impossibile con riferimento, quanto meno, al requisito dell’« idoneità » della condotta rispetto al conseguimento del risultato offensivo. Si vuol dire, in altri termini, che, se è pur vero che la ricerca di una linea di demarcazione tra atti « preparatori » ed « esecutivi » (espressa, nel nostro sistema, attraverso il requisito strutturale dell’« univocità ») risulta — e risulterà sempre — caratterizzata da un elevato tasso di incertezza e di « elasticità » nell’individuazione dei fenomeni appartenenti alle due fasi dell’iter criminis, il connotato dell’« idoneità » della condotta si presta, viceversa, all’elaborazione di una formula definitoria costruita secondo parametri più agevolmente predeterminabili in sede legislativa; si ritenga o meno di dover subordinare tale requisito ad una prognosi di pericolosità a base « parziale » ovvero « totale » — secondo le due formulazioni più diffuse nella dottrina contemporanea — è certo, comunque, che, come testimoniano recenti indagini in materia (cfr. ANGIONI, 303; MARINUCCI (1), 1224 s., nt. 124 bis; per l’opposta opinione cfr. MANTOVANI, 445), entrambe le soluzioni si prestano ad offrire una « chiave di lettura » delle singole ipotesi concrete idonea a renderle chiaramente distinguibili in funzione della sussistenza o meno del parametro di qualificazione (alternativamente) prescelto. La mancanza, nel sistema scozzese, di una puntuale presa di posizione, in sede legislativa, circa gli estremi del tentativo punibile, è destinata invece a risolversi, da questo punto di vista, in esiti sul piano applicativo assai poco plausibili e convincenti sotto il profilo della coerenza e dell’uniformità delle decisioni giudiziarie. Come ricordano i due autori (cfr. p. 328 ss.), la dottrina e la giurisprudenza di quel Paese mostrano, invero, una perdurante incertezza circa l’ammissibilità della punizione dei casi di tentativo inidoneo, ora affermandola, ora negandola, ora, infine, circoscrivendola entro confini più o meno ampi, in funzione delle caratteristiche concrete e dei riflessi (ancora una volta!) sotto il profilo etico-sociale del comportamento di volta in volta incriminato. In questo quadro, non può dunque stupire la circostanza che nel sistema scozzese le difficoltà sul piano applicativo siano destinate ad aumentare ulteriormente, in corrispondenza della verifica dell’altro requisito proprio del tentativo, costituito dal grado di sviluppo necessario per la configurabilità degli estremi di un atto dotato di significato univoco rispetto all’evento offensivo. Ne costituisce conferma la constatazione che, pur contrapponendosi in linea di massima due tendenze — la prima fondata sul riferimento all’« ultimo atto » compiuto dal colpevole, l’altra invece sulle « possibilità residue » di intervento a difesa del bene tutelato — la giurisprudenza finisca poi col manifestare la propria preferenza verso una terza impostazione, sostanzialmente ispirata al binomio preparazione-esecuzione del reato, facendone tuttavia un’applicazione del tutto svincolata da presupposti strutturali rigorosi nell’individuazione del rispettivo ambito di estensione delle due categorie di atti diretti alla commissione dell’illecito (cfr. p. 317 ss., 320 ss.).
— 252 — Né deve dimenticarsi, d’altro canto, come eventuali « vuoti » di tutela vengano ad essere « colmati », nel diritto scozzese, mediante il ricorso all’« onnivora » figura — di significato chiaramente « preparatorio » — costitutiva del reato di conspiracy (sulla quale cfr. PAPA, 4 ss.; GRANDE (1), 84 ss., 285 ss.; VINCIGUERRA, 264 ss.), il cui rigore repressivo risulta appena temperato dalle caratteristiche attribuite alla finalità propria dell’accordo, la quale, a differenza di quanto accade in Inghilterra, viene in ogni caso subordinata al perseguimento, da parte dei compartecipi, di un programma avente ad oggetto la commissione di un illecito necessariamente dotato di rilevanza penale (cfr. p. 332 ss.). Di fronte all’ampiezza dello spettro applicativo ricollegabile alla figura della conspiracy, non appaiono, d’altronde, sufficienti a « riequilibrare » significativamente le potenzialità repressive del sistema le soluzioni adottate a proposito della disciplina generale del fenomeno della compartecipazione criminosa (cfr. p. 339 ss.). A tale proposito, ci si limita a ricordare come tale disciplina presenti, nell’esperienza giuridica scozzese, sensibili profili di analogia con quella desumibile dalla prassi e dall’elaborazione scientifica in Italia, e, talora, con le soluzioni prospettate nel nostro sistema da parte degli interpreti più consapevoli della necessità di adottare criteri maggiormente conformi al fondamentale principio della personalità della responsabilità penale. Anche se — rilevano conclusivamente gli autori (cfr. p. 340 ss.) — la naturale « vocazione » delle corti scozzesi verso il rifiuto di qualsiasi vincolo o condizionamento sul piano normativo (oltre che teoricodommatico) nell’applicazione dei singoli istituti afferenti alla materia del concorso, si esprime concretamente nell’adozione di criteri di imputazione dell’illecito tali da apparire (e sia pure in parte) divergenti da quelli astrattamente enunciati nelle più note opere scientifiche, ovvero di volta in volta desumibili da precedenti elaborazioni giurisprudenziali (solo in apparenza) consolidate. 9. Nella parte conclusiva del volume, i due autori si volgono infine a considerare le caratteristiche essenziali del sistema sanzionatorio scozzese. L’estrema flessibilità ed « elasticità » nella ricostruzione e nell’applicazione degli istituti del diritto penale è destinata a trovare, nel settore delle conseguenze del reato, un ulteriore ed ancora più significativo motivo di conferma. Ed invero, riallacciandosi ad osservazioni già svolte in precedenza con riguardo alla tematica delle fonti del diritto penale (cfr. p. 101 ss.), gli autori pongono in evidenza, come prima caratteristica fondamentale dell’ordinamento scozzese, la mancanza in molti casi di qualsiasi indicazione relativa al limite minimo e massimo della pena irrogabile per il singolo reato: una circostanza, questa, che, accompagnandosi (a differenza di quanto sembra stia accadendo nella vicina Inghilterra: cfr. 359 ss., nonché MANNOZZI, 51 ss.; PALIERO (3), 209 ss.; SMITH-HOGAN, 9 ss.) all’assenza di criteri orientativi nell’individuazione del livello di gravità del fatto commesso, è destinata ad esaltare e ad accentuare ulteriormente il potere discrezionale degli organi giudiziari, fino ad una soglia di radicale compromissione delle esigenze garantistiche sottese al principio fondamentale del nulla poena sine lege. Non può dimenticarsi, peraltro, che nel sistema scozzese (cfr. p. 362 ss.) anche il principio della c.d. « inderogabilità » della pena è destinato ad incontrare significative limitazioni e condizionamenti nella fase applicativa; ed invero, qualora la pubblica accusa ritenga (per le più svariate ragioni: ad es., allorché reputi la pena concretamente « non necessaria ») di doversi astenere dal richiedere espressamente l’irrogazione di una sanzione, quest’ultima non potrà venire in ogni caso applicata al soggetto, nonostante che la commissione dell’illecito risulti ormai attestata dall’emanazione di una sentenza di condanna. In un simile contesto, si comprendono altresì le ragioni del riconoscimento, in territorio scozzese, di una gamma particolarmente ampia ed articolata di misure « alternative » alla detenzione (od anche alla pena tout court: cfr. p. 364 ss.): misure che anche nel nostro sistema stanno ricevendo una crescente attenzione presso gli studiosi più sensibili alle esperienze del diritto comparato, ed all’elaborazione di un programma di riforma penale tale da coinvolgere l’intero apparato delle conseguenze sanzionatorie (v. da ultimo, NEPPI MODONA, 186 ss.)
— 253 — Nell’ambito dell’ordinamento scozzese, tali misure appaiono tuttavia destinate ad assumere un significato ed una valenza ulteriore rispetto a quella insita nel graduale superamento della tradizionale concezione « custodialistica » dello strumento coercitivo penale. Pur iscrivendosi nella medesima logica che permea l’intero assetto del sistema sanzionatorio — in termini di accentuata « flessibilità » e discrezionalità delle decisioni giudiziarie — le predette misure vengono ad assumere in effetti, anche il ruolo di un elemento di parziale « riequilibrio », per così dire, delle chances a favore del colpevole, di fronte delle smisurate potenzialità repressive ricollegabili alla mancanza di qualsiasi vincolo nella predeterminazione del livello delle sanzioni, e dei parametri finalizzati ad individuarne (e a circoscriverne) l’entità in concreto nei confronti del singolo autore dell’illecito. GIOVANNANGELO DE FRANCESCO Straordinario di Diritto penale nell’Università di Pisa Riferimenti bibliografici ALESSANDRI (1), Reati d’impresa e modelli sanzionatori, Milano, 1984. ALESSANDRI (2), Commento all’art. 27, 1o comma, Cost., in Commentario della Costituzione, fondato da BRANCA e continuato da PIZZORUSSO, art. 27-28, Bologna-Roma, 1991, 1. ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, Milano, 19942. ASHWORTH, Principles of Criminal Law, Oxford, 1991. BERNARDI A., Società commerciali e sistema sanzionatorio: prospettive di riforma, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1990, 1. BRICOLA (1), Il costo del principio « societas delinquere non potest » nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in Riv. it. dir. proc. pen., 1970, 951. BRICOLA (2), Luci ed ombre nella prospettiva di una responsabilità penale degli enti (nei paesi della CEE), in Giur. comm., 1979, I, 647. BRICOLA (3), Le definizioni normative nell’esperienza dei codici penali contemporanei e nel progetto di legge delega italiano, in Omnis definitio in iure periculosa? Il problema delle definizioni legali nel diritto penale, Studi coord. da CADOPPI, Padova, 1996, 175. BRUNET, Infractions matérielles et responsabilité pénale de l’entreprise, in La responsabilità penale delle persone giuridiche (Incontro tenutosi a Siena nei giorni 25 e 26 maggio 1996), in corso di pubbl. CADOPPI (1), voce Mens rea, in Dig. disc. pen, VII, 1992, 3 (dell’estratto). CADOPPI (2), Dalla judge-made law al criminal code, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, 923. CADOPPI (3), Il problema delle definizioni legali nel diritto penale. Presentazione, in Omnis definitio, cit., 1. CARD-CROSS-JONES, Criminal Law, London, Dublin, Edinburgh, 199212. CONTENTO, Clausole generali e regole di interpretazione come « principi di codificazione », in Valore e principi della codificazione penale: le esperienze italiana, spagnola e francese a confronto, Padova, 1995, 109. CURI, L’istituto della recklessness nel sistema penale inglese (tesi di dottorato), Trento, 1996. DELMAS-MARTY, Dal codice penale ai diritti dell’uomo (trad. it.), Milano, 1992. DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 88. DENNIS, Funzioni ed ambito delle definizioni nel progetto di codice penale inglese, in Omnis definitio, cit., 361. DE SIMONE, Il nuovo codice penale francese e la responsabilità delle personnes morales, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 189. EUSEBI, Il dolo come volontà, Brescia, 1993.
— 254 — FIANDACA (1), « Intervento » sul problema delle definizioni nella parte generale del codice penale, in Metodologia e problemi fondamentali della riforma del codice penale, a cura di STILE, Napoli, 1981, 217. FIANDACA (2), Problematica dell’osceno e tutela del buon costume, Padova, 1984. FIELD-LYNN, Capacity, Recklessness and the House of Lords, in Crim. Law Rev., 1993, 127. FIORE, Irriducibilità e limiti del principio « societas delinquere non potest », in FIORE-ASSUMMA-BAFFI, Gli illeciti penali degli amministratori e sindaci delle società di capitali, IPSOA, 1992, 9. FLORA, L’attualità del principio « societas delinquere non potest », in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, 11. FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990. GORLA, voce Diritto comparato e straniero, in Enc. giur., XI, 1989. GRANDE (1), Accordo criminoso e conspiracy, Padova, 1993. GRANDE (2), voce Justification and excuse (le cause di non punibilità nel diritto anglo-americano), in Dig. disc. pen., VII, 1993, 309. GROSSO (1), La riforma delle cause di giustificazione generali, in Scritti in memoria di Dell’Andro, I, Bari, 1994, 475. GROSSO (2), Il principio di colpevolezza, in Prospettive di riforme del codice penale e valori costituzionali, Milano, 1996, 125. GUERRINI R. (1), La responsabilità penale delle persone giuridiche (Francia-Personnes morales), in Le società, 1993, 691. GUERRINI R. (2), La responsabilità penale delle persone giuridiche, in Ind. pen., 1996, 594. KELLY, Storia del pensiero giuridico occidentale (trad it.), Bologna, 1996. LANTELLA, Pratiche definitorie e proiezioni ideologiche nel discorso giuridico, in Definizioni giuridiche e ideologie, Milano, 1979, 5. LA SPINA, Le vicende della « Law Reform » in Gran Bretagna, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1988, 401. LOBO MOUTINHO-SALINAS MONTEIRO, La responsabilité pénale des personnes morales et entités assimilées dans le droit portugais, Relazione al XIVe Congrès International de droit Comparé, Athènes, luglio-agosto 1994 (in dattiloscritto). MANNOZZI, Razionalità e « giustizia » nella commisurazione della pena, Padova, 1996. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, Padova, 19923. MARINUCCI (1), Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, 1190. MARINUCCI (2), Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza, in Prospettive di riforma, cit., 139. MENGONI, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996. MILITELLO, La responsabilità penale dell’impresa societaria e dei suoi organi in Italia, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1992, 101. NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio, in Prospettive di riforma, cit., 181. PADOVANI-STORTONI, Diritto penale e fattispecie criminose, Bologna, 1996. PALAZZO (1), Associazioni illecite ed illeciti delle associazioni, in Riv. it. dir. proc. pen., 1976, 418. PALAZZO (2), Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova, 1979. PALAZZO (3), Sulle funzioni delle norme definitorie, in Omnis definitio, cit., 381. PALAZZO (4), Legislazione penale, in Dizionario storico dell’Italia unita, a cura di BONGIOVANNI-TRANFAGLIA, Bari, 1996, 508. PALIERO (1), La sanzione amministrativa come moderno strumento di lotta alla criminalità economica, in Riv. trim. dir. pen. econ. ,1993, 1021.
— 255 — PALIERO (2), L’autunno del patriarca, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, 1220. PALIERO (3), La riforma del sistema sanzionatorio: percorsi di metodologia comparata, in Prospettive di riforma, cit., 205. PAPA, voce Conspiracy, in Dig. disc. pen., III, 1988, 3 (dell’estratto). PEDRAZZI, Apporto della comparazione alle discipline penalistiche, in L’apporto della comparazione alla scienza giuridica, a cura di SACCO, Milano, 1980, 169. PROSDOCIMI, Dolus eventualis, Milano, 1993. RAMACCI, Istituzioni di diritto penale, Torino, 19922. ROMANO, Societas delinquere non potest (nel ricordo di Franco Bricola), in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 1031. SACCO, Introduzione al diritto comparato, Torino, 19925. SCARPELLI, La definizione nel diritto, in Diritto e analisi del linguaggio, a cura di SCARPELLI, Milano, 1976, 183. SMITH-HOGAN, Criminal Law, London, Dublin, Edinburgh, 19927. TARELLO, L’interpretazione della legge, Milano, 1980. TIEDEMANN, La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto comparato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 615. TREIMAN, Recklessness and the Model Penal Code, in Amer. Journ. Crim. Law, 1981, 281. VINCIGUERRA, Introduzione allo studio del diritto penale inglese, Padova, 1992. WILLIAMS, The Unresolved Problem of Recklessness, in Legal Studies, 1988, 74. WÜRTENBERGER, La situazione spirituale della scienza penalistica in Germania (trad. it.), Milano, 1965.
LA NATURA GIURIDICA DEI CRIMINI CONTRO L’UMANITÀ E LE ATTUALI CRITICHE IN GERMANIA (*)
SOMMARIO: 1. Le riserve manifestate in Germania nei confronti della nozione giuridica dei crimini contro l’umanità. — 2. La recente dottrina tedesca sviluppata in occasione dell’istituzione del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia. — 3. Il principio nullum crimen nulla poena sine lege e il diritto naturale in Germania. — 4. La figura delittuosa dei crimini contro l’umanità come parte integrante del diritto consuetudinario. — 5. Riflessioni conclusive. 1. Nella Repubblica Federale di Germania la nozione giuridica dei crimini contro l’umanità come parte integrante del diritto internazionale penale è, a cinquant’anni dai celebri processi di Norimberga e Tokio, tuttora oggetto di rigorose critiche (1). Le riserve manifestate sia in dottrina sia in giurisprudenza non si riferiscono unicamente alla controversa determinazione della fattispecie delittuosa, bensì esprimono piuttosto una diffusa contestazione dell’esistenza stessa della fattispecie normativa dei crimini contro l’umanità (2). Tali obiezioni, a loro volta, determinano attualmente una presa di posizione contraddistinta da riluttanza rispetto allo Statuto istitutivo del Tribunale penale internazionale per la ex-Jugoslavia (3), soprattutto con riguardo alla categoria giuridica dei crimini contro l’umanità, così come ascritti ratione materiae alla competenza giurisdizionale della Corte all’art. 5 del relativo Statuto (4). Un esempio in merito è rappresentato dalle severe censure della dottrina maggioritaria tedesca in riguardo alla posizione giuridica espressa dal Segretario Generale delle Nazioni Unite al § 35 del Report of the Secretary General pursuant to paragraph 2 (*) L’autore ringrazia sentitamente Suzanne Bürger e Myriam Muhm. (1) ROGGEMANN, Der internationale Strafgerichtshof der Vereinten Nationen von 1993 und die Balkankriegsverbrechen, in Zeitschrift für Rechtspolitik (ZRP), 1994, pp. 297, 301; HOLLWEG, Das neue Internationale Tribunal der UNO und der Jugoslawienkonflikt, in Juristenzeitung (JZ), 1993, pp. 980, 986; TOMUSCHAT, Ein Internationaler Strafgerichtshof als Element einer Weltfriedensordnung, in Europa-Archiv, Folge 3/1994, pp. 61, 65; GRAEFRATH, Jugoslawientribunal - Präzedenzfall trotz fragwürdiger Rechtsgrundlage, in Neue Justiz (NJ), 1993, pp. 433, 436; REICHART, Die Bemühungen der Vereinten Nationen zur Schaffung eines « Weltstrafgesetzbuches », in ZRP, 1996, p. 134. (2) Difatti un’attenta disamina della recente dottrina maggioritaria tedesca (un’eccezione rappresentano Simma ed Oellers-Frahm) consente di poter ritenere pressochè isolati gli assertori dell’esistenza della suddetta nozione giuridica in ambito di diritto internazionale penale. Cfr. POLAKIEWICZ, Verfassungs- und Völkerrechtliche Aspekte der strafrechtlichen Ahndung der Schußwaffeneinsatzes an der innerdeutschen Grenze, in Europäische Grundrechte-Zeitschrift (EuGRZ), 1992, pp. 177, 182; GORNIG, Die Verantwortlichkeit politischer Funktionsträger nach völkerrechtlichem Strafrecht, in NJ, 1992, pp. 4, 12; IPSEN, Völkerrecht, C.H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung, München, 3a ed., 1990, p. 540 ss.; JESCHECK, Handbuch des Strafrechts: Allg. Teil, Duncker & Humblot, Berlin, 4a ed., 1988, pp. 106, 108 ss. (3) GRAEFRATH, op. cit., pp. 433, 434; ROGGEMANN, op. cit., pp. 297, 299. (4) Cfr. supra nota 1.
— 257 — of Security Council Resolution 808/1993, secondo cui la fattispecie penale dei crimini contro l’umanità è indubbiamente parte del diritto internazionale consuetudinario (5). Occorre premettere in questo contesto che in Germania la resistenza dottrinale nei confronti del concetto dei crimini contro l’umanità (6) è stata corroborata dalla giurisprudenza della Corte Suprema federale di cassazione, la quale ha avuto occasione di precisare che la Repubblica Federale di Germania non avrebbe mai riconosciuto le sentenze di condanna pronunciate in base al diritto di occupazione qualora le pene fossero state comminate in applicazione della figura delittuosa dei crimini contro l’umanità (7), confutando in questo (5) HOLLWEG, op. cit., pp. 980, 986; cfr. supra nota 1. Con riferimento ai testi normativi « sostanziali » contemplati agli artt. 6, § 2c della Carta del Tribunale internazionale di Norimberga, 5 (c) della Carta del Tribunale internazionale di Tokio ed all’art. II. Ic della legge n. 10 del Consiglio di Controllo per la Germania cfr.: Article 6 of the Nuremberg Charter: « Article 6: The Tribunal established by the Agreement referred to in Article 1 hereof for the trial and punishment of the major war criminals of the European Axis countries shall have the power to try and punish persons who, acting in the interests of the European Axis countries, whether as individuals or as members of organisations, committed any of the following crimes. The following acts, or any of them, are crimes coming within the jurisdiction of the Tribunal for which there shall be individual responsibility: — [...] (c) Crimes against humanity: namely, murder, extermination, enslavement, deportation, and other inhumane acts committed against any civilian population, before or during the war, or persecutions on political, racial or religious grounds in execution of or in connection with any crime within the jurisdiction of the Tribunal, whether or not in violation of the domestic law of the country where perpetrated. »; Article 5 (c) of the Tokyo Charter: « Crimes Against Humanity: Namely, murder, extermination, enslavement, deportation, and other inhumane acts committed before or during the war, or persecutions on political or racial grounds in execution of or in connection with any crime within the jurisdiction of the Tribunal, whether or not in violation of the domestic law of the country where perpetrated. Leaders, organizers, instigators and accomplices participating in the formulation or execution of a common plan or conspiracy to commit any of the foregoing crimes are responsible for all acts performed by any person in execution of such plan. (Italicized portion is new language added to the London Charter Article 6 (c) definition). [...] Art. II. Ic of the Law No. 10 of the Control Council for Germany: Crimes Against Humanity: Atrocities and offences, including but not limited tomurder, extermination, enslavement, deportation, imprisonment, torture, rape, or other inhumane acts committed against any civilian population, or persecutions on political, racial or religious grounds, whether or not in violation of the domestic law of the country where perpetrated. (Italicized language indicates changes from London Charter Article 6 (c) definition) ». (6) JESCHECK, op. cit., pp. 106, 109, 112; WILKITZKI, Die völkerrechtlichen Verbrechen und das staatliche Strafrecht (Bundesrepublik Deutschland), in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft (ZStW), 99, 1987, pp. 455, 456, 461. (7) BGH-St. 9 settembre 1958, vol. 12, p. 36 ss.: « Die Urteile wegen Verbrechen gegen die Menschlichkeit und wegen Kriegsverbrechen bildeten jedoch eine besondere Gruppe. Gegen sie bestanden auf deutscher Seite Bedenken hauptsächlich wegen der Art, in der ein großer Teil von ihnen zustande gekommen war, und wegen des sachlichen Rechts, auf dem sie beruhen. Das war das Kontrollratsgesetz Nr. 10, das von deutschen Gerichten schon seit der Verordnung Nr. 234 vom 31. August 1951 ..., die auf deutsches Betreiben hin schließlich ergangen war, nicht mehr angewendet wurde. Die Bundesrepublik fand sich aus allen diesen Gründen nicht bereit, jene Urteile als nach deutschem Recht wirksam anzuerkennen. Andererseits verzichteten die früheren Besatzungsmächte nicht auf die Vollstreckung. Sie behielten diese daher in ihrer eigenen Zuständigkeit. Die Bundesrepublik mußte dies hinnehmen. Sie erreichte nur einen deutschen Einfluß auf die Ausübung des Gnadenrechts in dem Gemischtem Ausschuß, der aber nach Art. 6, Abs. 1. Satz 2 die Gültigkeit der Urteile nicht in Frage stellen darf. Gerade diese Einschränkung läßt erkennen, daß die Bundesrepublik selbst die Urteile nicht anerkennen wollte und, wie in Abs. 11 desselben Artikels zum Ausdruck kommt, auch nicht anerkannt hat. »; BGH-St., 9 gennaio 1959, vol. 12, pp.
— 258 — modo la validità delle sentenze di condanna emesse dal Tribunale militare internazionale di Norimberga (8). Giova inoltre rilevare che il governo della Repubblica Federale di Germania, in virtù dell’art. 103, comma 2 della Legge Fondamentale tedesca (9) (il quale contempla una rigida versione del principio nullum crimen, nulla poena sine lege, ossia di quel principio su cui era incentrata la difesa dei criminali di guerra durante il processo di Norimberga), al momento della ratifica della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) ha apposto formalmente riserva in riguardo all’art. 7, comma 2 CEDU, che a sua volta, in deroga al principio nullum crimen, nulla poena sine lege di cui all’art. 7, comma 1, dispone che non si debba comunque considerare esclusa la punibilità di persone che abbiano commesso fatti, i quali secondo principi generali riconosciuti dalla comunità dei popoli civili costituiscono reato (10). Tale riserva, peraltro l’unica espressa in merito alla succitata convenzione, prevede di applicare l’art. 7, comma 1 e 2 solo nei limiti previsti dall’art. 103, comma 2 della Legge Fondamentale tedesca (11). In questo modo la Repubblica Federale di Germania ha dimostrato di non accettare la cosidetta « Nuremberg Clause » (12) dell’art. 7, comma 2 CEDU, con la quale si sanciva l’applicabilità del diritto internazionale penale (13). 2. Considerando la tradizionale scarsa disposizione ad accogliere la figura dogmatica dei crimini contro l’umanità, giova ora esaminare la recente dottrina tedesca sviluppata in occasione dell’istituzione del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, il cui relativo statuto all’art. 5 configura la competenza giurisdizionale con riferimento ai suindicati crimini (14). Secondo la dottrina maggioritaria tedesca in merito, tale nozione giuridica non sarebbe compatibile né con il principio di tassatività in virtù della sua indeterminatezza categoriale (15), né con il principio nullum crimen, nulla poena sine lege dato che i crimini contro 326, 330; VULTEJUS, Verbrechen gegen die Menschlichkeit, in Strafverteidiger, 1992, p. 602 ss. (8) VULTEJUS, op. cit., p. 603. (9) L’art. 103, comma 2 della Legge Fondamentale della Repubblica Federale di Germania dispone: « Eine Tat kann nur bestraft werden, wenn die Strafbarkeit gesetzlich bestimmt war, bevor die Tat begangen wurde ». (10) Cfr. United Treaty Series, 1955, pp. 222, 258, 260. (11) Cfr. supra nota 10. (12) P. VAN DIJK, G.J.H. VAN HOOF, Theory and Practice of the European Convention on Human Rights, Kluwer Law and Taxation Publishers, Deventer-Boston, 2a ed., 1990, p. 365; WILKITZKI, op. cit., p. 461. (13) P. VAN DIJK, G.J.H. VAN HOOF, op. cit., pp. 565, 566; WILKITZKI, op. cit., p. 461. (14) In merito alla competenza giurisdizionale « ratione materiae » vedasi: Report of the Secretary-General pursuant to paragraph 2 of Security Council Resolution 808 (1993), Doc. S/2504 of 3 May 1993, I, 28, 29 (« It should be pointed out that, in assigning to the International Tribunal the task of prosecuting persons responsible for serious violations of international humanitarian law, the Security Council would not be creating or purporting to ‘‘legislate’’ that law. Rather, the International Tribunal would have the task of applying existing international humanitarian law. »), e II, 31; THÜRER, Vom Nürnberger Tribunal zum Jugoslawien-Tribunal und weiter zu einem Weltstrafgerichtshof?, in Schweizerische Zeitschrift für internationales und europäisches Recht - Revue suisse de droit international et de droit européen, 1993, pp. 491, 495; GROSS, The grave breaches system and the armed conflict in the former Yugoslavia, in Michigan Journal of International Law, 1995, p. 784; SHRAGA, ZACKLIN, The International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia, in European Journal of International Law, 1994, pp. 360, 363. (15) ROGGEMANN, op. cit., p. 301; HOLLWEG, op. cit., p. 986; GORNIG, op. cit., p. 8; IPSEN, op. cit., p. 542.
— 259 — l’umanità non farebbero parte del diritto internazionale penale, in quanto non si sarebbe affermata una consuetudine consolidata (16). Ora, per quanto concerne il principio di tassatività si esprime un severo giudizio in riguardo alla fattispecie normativa di cui all’art. 6, § 2c della Carta del Tribunale internazionale di Norimberga, all’art. 5 (c) della Carta del Tribunale internazionale di Tokio ed all’art. II. Ic della legge n. 10 del Consiglio di Controllo (interalleato) per la Germania, sia a causa dell’impiego di concetti vaghi, come ad esempio la clausola omnicomprensiva, la quale sancisce la punibilità di coloro che abbiano commesso « altri atti disumani » (17), sia in virtù del fatto che i precetti penali del diritto internazionale non determinano né il tipo né il limite preciso della pena da irrogare (18). Inoltre si confuta la necessità stessa della nozione dei crimini contro l’umanità, soprattutto se è definita in modo impreciso, vista l’intersezione di questa figura delittuosa con altre categorie riconosciute, quali i crimini di guerra ai sensi delle convenzioni di Ginevra e il genocidio (19). Con riferimento all’assunto, secondo cui si debba ricusare il fatto che la nozione dei crimini contro l’umanità sia parte del diritto internazionale vigente a causa della pretesa impossibilità di poter riscontrare una consuetudine consolidata, appare opportuno accennare alla catena argomentativa propugnata dalla dottrina maggioritaria tedesca. Essa, in primo luogo, confuta l’esistenza della succitata fattispecie delittuosa per il periodo antecedente alla fine della seconda guerra mondiale (20), in secondo luogo sostiene che i processi di Norimberga e di Tokio contro i criminali di guerra, le cui rispettive carte istitutive, come è noto, prevedevano la punibilità dei crimini contro l’umanità, sarebbero rimasti due eventi isolati non essendo constatabile una ulteriore prassi degli Stati (21). In tale contesto va specificato che la dottrina tedesca prende atto sia del fatto che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione GA RES 95 (I) dell’11 dicembre 1946, ha ribadito i principi della Carta istitutiva del Tribunale internazionale di Norimberga, sia del fatto che la medesima, con la risoluzione GA RES 177 (II) del 21 novembre 1947, richiedeva alla Commissione del Diritto Internazionale (CDI) di formulare e concretizzare i principi inerenti ai crimini contro l’umanità (22). Parimenti vengono presi in considerazione i progetti proposti per conto della CDI, ossia il Draft code of offences del 1954, il Draft code of Crimes against the peace and security of Mankind e il Draft code of Crimes del 1987 (23). Infine la dottrina tedesca valuta anche il fatto che in ambito delle Nazioni Unite siano state aperte alla firma la Convenzione per la protezione e la repressione del crimine di genocidio del 9 dicembre 1948, la Convenzione sull’imprescrittibilità del crimine di genocidio e (16) Cfr. IPSEN, op. cit., p. 542: « ... die Straftatbestände des Statuts des Nürnberger Gerichtshofs sowie des Gerichtshofs von Tokio (sind) nicht zu Völkergewohnheitsrecht erstarkt worden .. »; JESCHECK, op. cit., pp. 108, 109: « Die Mitglieder der Vereinten Nationen haben sich das in Nürnberg und Tokio angewendete Völkerstrafrecht bisher nicht zu eigen gemacht. », inoltre a p. 109, nota 21, si può leggere: « Die Ansicht von Greenspan, Law of Warfare, S. 428, die Nürnberger Grundsätze seien ein fester Bestandteil des Völkerrechts geworden, wird weder von den Verträgen noch von der Staatenpraxis bestätigt. »; HOLLWEG, op. cit., p.986; TOMUSCHAT, op. cit., p. 65; POLAKIEWICZ, op. cit., p. 182. (17) HOLLWEG, op. cit., p. 987; GORNIG, op. cit., p. 8. (18) TOMUSCHAT, op. cit., p. 66; IPSEN, op. cit., p. 542. (19) ROGGEMANN, op. cit., p. 301; GRAEFRATH, op. cit., p. 436. (20) JESCHECK, op. cit., p. 108; GORNIG, op. cit., p. 8. (21) HOLLWEG, op. cit., p. 986; GORNIG, op. cit., p. 8; POLAKIEWICZ, op. cit., p. 182: « In der modernen Staatenpraxis sind die in der unmittelbaren Nachkriegszeit durchgeführten Verfahren von Nürnberg und Tokio Einzelfälle geblieben ». (22) HOLLWEG, op. cit., p. 986; POLAKIEWICZ, op. cit., p. 182; GORNIG, op. cit., p. 8; IPSEN, op. cit., pp. 540, 541; JESCHECK, op. cit., p. 109. (23) Vedasi supra nota 22.
— 260 — dei crimini contro l’umanità del 26 novembre 1968 e la Convenzione sulla repressione e punizione del crimine di Apartheid del 30 novembre 1973 (24). Nonostante l’esistenza dei suesposti elementi, la dottrina maggioritaria tedesca confuta ad essi il carattere di atti costituenti una prassi degli Stati, quale elemento indispensabile della consuetudine come fonte di diritto internazionale ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. b) dello Statuto Internazionale della Corte internazionale di giustizia (25). Difatti alle risoluzioni GA RES 95 (I) e GA RES 177 (II) viene contestato il carattere di prassi statuale, valutando quest’ultime solamente come atti interni di un organo internazionale, non costituenti una prassi internazionale degli Stati (26). Inoltre per quanto concerne i progetti di codificazione della CDI si rileva che questi progetti sono rimasti tali, non essendo state ancora adottate delle convenzioni (27). Infine, con riferimento alla Convenzione per la prevenzione e la soppressione del crimine di genocidio e alla Convenzione sulla soppressione e la punizione del crimine di Apartheid, la dottrina tedesca riconosce sì ai crimini di genocidio e di Apartheid la loro appartenenza al diritto internazionale penale, in virtù della loro conferma pattizia, ma specifica al contempo che i suddetti crimini di genocidio e di Apartheid rappresentano due casi speciali del concetto generale dei crimini contro l’umanità, e che la conferma di tali fattispecie non permetterebbe di ascrivere anche alla nozione dei crimini contro l’umanità in senso lato la qualità di diritto internazionale penale vigente (28). In questo ambito giova altresì rilevare che la dottrina tedesca non accetta nemmeno di contemplare la nozione dei crimini contro l’umanità come ravvisabile nei principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. c) dello Statuto della Corte internazionale di giustizia (29). La dottrina o contesta l’esistenza di una opinio juris in merito (30), o contesta la possibilità di sviluppare un precetto penale da un principio generale di diritto internazionale a sua volta desumibile da principi generali di diritto interno (31). 3. Ora un’attenta disamina delle obiezioni esposte dalla dottrina maggioritaria tedesca permette di addivenire a delle soluzioni differenziate. Indubbiamente la tipologia della figura delittuosa dei crimini contro l’umanità è di difficile enucleazione così che occorre auspicare una migliore determinazione della medesima (32). In primo luogo si deve riscontrare, come già accennato, l’impiego di termini vaghi, omnicomprensivi del tipo « altri atti disumani ». In secondo luogo si deve anche constatare che i testi normativi « sostanziali » contemplati agli artt. 6, § 2c della Carta del Tribunale internazionale di Norimberga, 5 (c) della Carta del Tribunale internazionale di Tokio, nonché all’art. II. Ic della legge n. 10 del Consi(24) Vedasi supra nota 22. (25) Vedasi supra nota 22. (26) JESCHECK, op. cit., p. 109; IPSEN, op. cit., p. 217; GORNIG, op. cit., p. 8; HAILBRONNER, KLEIN, in SIMMA, in Charta der Vereinten Nationen, Kommentar, C.H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung, München, 1991, p. 196. (27) GORNIG, op. cit., pp. 8, 9; POLAKIEWICZ, op. cit., p. 182. (28) HOLLWEG, op. cit., p. 986; GORNIG, op. cit., p. 9; POLAKIEWICZ, op. cit., p. 182. (29) GORNIG, op. cit., pp. 8, 9. (30) IPSEN, op. cit., p. 542. (31) GORNIG, op. cit., pp. 8, 9. (32) MANSFIELD, Crimes Against Humanity: Reflections on the Fiftieth Anniversary of Nuremberg and a Forgotten Legacy, in Nordic Journal of International Law (Acta scandinavica juris gentium), 1995, pp. 293, 313; BOTTIGLIERO, Il rapporto della Commissione di esperti sul Ruanda e l’istituzione di un Tribunale internazionale penale, in La comunità internazionale, 1994, pp. 760, 764; GIULIANO, SCOVAZZI, TREVES, Diritto internazionale, parte generale, Giuffrè, Milano, 1991, p. 197.
— 261 — glio di Controllo per la Germania e i due testi normativi « procedurali » delle attuali norme di competenza ratione materiae degli Statuti dei Tribunali Internazionali per la ex-Jugoslavia e per il Ruanda si differenziano tutti — ossia rispettivamente sia i testi normativi « sostanziali » tra di loro, sia quelli « procedurali » tra di loro — in merito all’estensione della fattispecie normativa e in riferimento all’ambito di applicabilità (33). Infine non sono effettivamente garantiti né il tipo né il limite preciso della pena da irrogare (34). Tali suesposti aspetti rendono dunque agevolmente comprensibili i timori e le riserve espresse dalla dottrina tedesca. Al contrario appaiono opinabili le obiezioni con riferimento al principio nullum crimen, nulla poena sine lege in virtù della confutata consuetudine consolidata in merito alla figura delittuosa dei crimini contro l’umanità (35). Difatti, a prescindere dalla questione se il succitato principio sia, per quanto auspicabile (36), veramente un principio universalmente riconosciuto dal diritto internazionale penale (37), e indipendentemente dall’eventualità che detto principio in ambito di diritto internazionale penale possa differenziarsi tipologicamente dalla sua realizzazione in un contesto di diritto interno a causa della differente struttura informativa del diritto internazionale dovuta all’assenza di un « legislatore universale » (38), occorre specificare che sin dai primi anni della Repubblica Federale di Germania la Corte Suprema di cassazione e la Corte costituzionale federale, nell’intento di condannare gli efferati crimini perpetrati durante il pe(33) Con riguardo all’istituzione del Tribunale penale internazionale per il Ruanda vedasi S/RES/955 (1994) 11 novembre 1994; MERON, International Criminalization of Internal Atrocities, in American Journal of International Law (AJIL), 1995, pp. 554, 556 ss.; MANSFIELD, op. cit., pp. 307, 333 (nota 103); SHRAGA, ZACKLIN, op. cit., p. 367. In questo ambito è incontestabile l’influsso di fattori, perquanto rilevanti, di natura contingente, ad esempio la delimitazione di cui all’art. 5 dello Statuto del Tribunale internazionale per l’exJugoslavia, secondo la quale la competenza è solamente prevista per gli atti commessi durante i conflitti armati. Cfr GRAEFRATH, op. cit., p. 436. (34) OELLERS-FRAHM, Das Statut des Internationalen Strafgerichtshofs zur Verfolgung von Kriegsverbrechen im ehemaligen Jugoslawien, in Zeitschrift für ausländisches öffentliches Recht und Völkerrecht (ZaöRV), 1994, pp. 416, 426. (35) ROGGEMANN, op. cit., p. 301; HOLLWEG, op. cit., p. 986; GORNIG, op. cit., p. 8; IPSEN, op. cit., p. 542. (36) NUNZIATA, Il Tribunale internazionale per i crimini nell’ex-Jugoslavia. Un modello per una generale giurisdizione internazionale penale, in La giustizia penale, 1995, pp. 232, 234. (37) GORNIG, op. cit., pp. 11, 12 (note 160, 168, 169, 171, 172); MUHM, Il « muro di Berlino », i processi paralleli e il diritto naturale in Germania, in L’indice penale, 1994, pp. 625, 629. Di altro avviso il Segretario Generale delle Nazioni Unite Boutros-Ghali in Report of the Secretary-General pursuant to paragraph 2 of Security Council Resolution 808 (1993), Doc. S-2504 of 3 May, 1993, nos. 34, 35: « 34. In the view of the Secretary-General, the application of the principle nullum crimen sine lege requires that the international tribunal should apply rules of international humanitarian law which are beyond any doubt part of customary law so that the problem of adherence of some but not all States to specific conventions does not arise. This would appear to be particularly important in the context of an international tribunal prosecuting persons responsible for serious violations of international humanitarian law. 35. The part of conventional international humanitarian law which has beyond doubt become part of international customary law is the law applicable in armed conflict as embodied in: The Geneva Conventions of 12 August 1949 for the Protection of War Victims; the Hague Convention (IV) Respecting the Laws and Customs of War on Land and the Regulations annexed thereto of 18 October 1907; the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide of 9 December 1948; and the Charter of the International Military Tribunal of 8 August 1945 ». (38) CAVICCHIOLI. Sull’elemento soggettivo nei crimini contro la pace e la sicurezza dell’umanità, in Rivista di diritto internazionale, 1993, pp. 1047, 1050.
— 262 — riodo nazionalsocialista, avevano disapplicato il precetto nullum crimen, nulla poena sine lege ai sensi dell’art. 103, comma 2 della Legge Fondamentale tedesca in virtù del diritto naturale (39). Invero, in base a delle considerazioni giuridico-filosofiche sviluppate da Gustav Radbruch, esponente principale insieme ad Hans Kelsen del Südwestdeutscher-NeuKantianismus (40), la Corte Suprema federale di cassazione nella pronuncia BGH-St. 2, 237 affermava che la libertà dello Stato non è illimitata: « Nella coscienza dei popoli civili vi è sempre un certo nucleo (Kern) di diritto, il quale, secondo il diritto generale non può essere violato da nessuna legge o misura di autorità. Esistono principi intangibili di comportamento umano, i quali si sono sviluppati presso tutti i popoli civili sulla base di visioni etiche fondamentali evolutesi nell’arco del tempo ». In seguito anche la Corte costituzionale federale nella sentenza BVerf-GE 3, 225, 232, esprimeva il concetto, che essa fondava la sua attività e il suo processo di identificazione delle norme, non solo sull’autorità derivante dalla Legge Fondamentale, bensì anche sul concetto di diritto (Rechtsbegriff) e sull’idea di diritto (Rechtsidee) connaturata all’essenza stessa della propria attività giurisprudenziale (41). Inoltre, in un’ulteriore pronuncia, la Corte costituzionale federale reiterava il principio secondo cui leggi pervase di ingiustizia non debbono essere accettate come aventi valori di diritto (42). Appare opportuno sottolineare come questa tradizione giurisprudenziale tedesca, la quale in base al diritto naturale disapplica il principio nullum crimen, nulla poena sine lege, sia stata recentemente ribadita dalla sentenza della Corte Suprema federale di cassazione BGH-St., 3 novembre 1992, Str 370/92 nell’ambito dei processi a carico di Honecker e dei funzionari dell’estinta Repubblica Democratica Tedesca, i quali avevano violato gravemente i diritti umani dei propri concittadini (43). Nelle motivazioni di questa sentenza è stato specificato che una norma positiva del legislatore statuale può venire disapplicata solamente nel caso in cui rappresenti una violazione delle norme di rango superiore, ossia dei principi di giustizia e di umanità e che una simile violazione deve essere di entità tale da contrastare la opinio juris comune a tutti i popoli e a tutte le nazioni in merito al valore della dignità umana (44). Ossia il conflitto tra il diritto positivo e il concetto di giustizia deve essere talmente insopportabile da imporre l’esigenza che la legge positiva venga soppressa dal concetto di giustizia (45). Ribadendo la preminenza del diritto di natura (Überpositives Recht) la Corte rileva che anche se la ratio dell’art. 103, comma 2 della Legge Fondamentale, il quale sancisce il principio nullum crimen, nulla poena sine lege, consista nella tutela della fiducia che l’individuo possa venire giudicato unicamente in base al diritto vigente al momento del fatto, tale tutela non sussiste e non può essere invocata nel caso in cui una nozione penale, avente funzione (39) MUHM, op. cit., pp. 625, 626, 638-640; BGH, vol. 2, pp. 237,238; BVerfGE, vol. 3, pp. 232, 235. (40) KAUFMANN, Einführung in die Rechtsphilosophie, UTB Verlag, Paderborn-München, 5a ed., 1987, p. 282; COING, Grundzüge der Rechtsphilosophie, Walter de Gruyter Verlag, Berlin-New York, 4a ed., 1984, p. 82; RADBRUCH, Gesetzliches Unrecht und übergesetzliches Recht, in Süddeutsche Juristenzeitung (SJZ), 1 (1946), pp. 105-108; RADBRUCH, Rechtsphilosophie, K.F. Koehler Verlag, Stuttgart, 8a ed. 1973, pp. 339, 350. (41) MUHM, op. cit., p. 639. (42) BVerfGE, vol. 6. pp. 198, 199; MUHM, op. cit., p. 639. (43) MUHM, op. cit., p. 626 ss.; con riguardo alla giurisprudenza di merito cfr. la sentenza del Landgericht Berlin, 20 gennaio 1992, 523 2S 48/90-9/91 riportata in NJ, 1992, p. 270. (44) MUHM, op. cit., pp. 636, 637. (45) Vedasi supra nota 44.
— 263 — di causa di giustificazione, fosse stata interpretata in modo non conforme ai diritti umani (46). Ora, in virtù di quanto esposto non appare difficile riscontrare una certa ambiguità nelle deduzioni argomentative della dottrina maggioritaria tedesca qualora intenda inficiare la validità della nozione dei crimini contro l’umanità riferendosi al principio nullum crimen, nulla poena sine lege in ambito di diritto internazionale (47), reiterando in questo modo le critiche mosse all’assetto giuridico del processo di Norimberga, senza prendere in considerazione il fatto che al contrario in ambito di diritto interno le stesse Alte Corti della Repubblica Federale di Germania disapplicano il precetto dell’art. 103, comma 2 della Legge Fondamentale in base al diritto naturale (48). 4. A prescindere dalle suesposte osservazioni in riferimento all’applicabilità del principio nullum crimen, nulla poena sine lege, come già accennato, la censura principale mossa dalla dottrina tedesca, corroborata dalla giurisprudenza della Corte Suprema federale di cassazione (49), consiste nel contestare alla nozione dei crimini contro l’umanità il carattere di diritto internazionale vigente a causa della confutata riscontrabilità di una consuetudine consolidata, la quale, notoriamente, richiede ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. b) dello Statuto della Corte internazionale di giustizia, l’esistenza degli elementi costitutivi della diuturnitas e della opinio juris (50). L’argomentazione secondo cui, come si è già ricordato, i processi di Norimberga e di Tokio, le cui rispettive Carte istitutive contemplavano il concetto di crimini contro l’umanità, sarebbero rimasti due eventi isolati, non essendo riscontrabile una ulteriore prassi degli Stati (51), appare confutabile, in quanto una simile argomentazione sembra considerare come prassi consolidatrice unicamente lo svolgimento di processi penali internazionali, nella loro struttura analoghi a quelli di Norimberga e di Tokio, senza riconoscere ad altre forme di prassi internazionale la valenza costitutiva di comportamento costante (52). In effetti va rilevato che la prassi internazionale consolidatrice è proprio caratterizzata dal concerto di molteplici elementi per loro natura differenti (53). Come è noto, elementi costituenti una prassi internazionale possono essere, ad esempio, le dichiarazioni di autorità statali, gli atti e le risoluzioni di conferenze e di organizzazioni internazionali, le risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite relative a questioni giuridiche, i commenti degli Stati attinenti ai progetti di codificazione della CDI, i trattati internazionali, specie le convenzioni, la legislazione interna e ovviamente le decisioni delle autorità giudiziarie statali (54). (46) Vedasi supra nota 44. (47) Vedasi supra nota 16. (48) Vedasi supra nota 39. (49) BGH-St., 9 settembre 1958, vol. 12, pp. 36, 39, 40; BGH-St., 9 gennaio 1959, vol. 12, pp. 326, 330; VULTEJUS, op. cit., pp. 602, 603. (50) VERDROSS, SIMMA, Universelles Völkerrecht, Duncker & Humblot, Berlin, 3a ed., 1984, p. 345 ss.; DAHM, DELBRÜCK, WOLFRUM, Völkerrecht, vol. I/1, Walter de Gruyter, Berlin-New York, 2a ed., 1989, p. 55 ss.; GIULIANO, SCOVAZZI, TREVES, op. cit., p. 200 ss.; CONa FORTI, Diritto internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 3 ed., 1988, p. 32. (51) HOLLWEG, op. cit., p. 986; GORNIG, op. cit., p. 8; POLAKIEWICZ, op. cit., p. 182. (52) MUHM, op. cit., p. 631. (53) COMBACAU, SUR, Droit international public, Montchrestien, Paris, 1993, p. 76 ss.; BROWNLIE, Principles of Public International Law, Claredon Press, Oxford, 1990, pp. 4, 5; GIULIANO, SCOVAZZI, TREVES, op. cit., pp. 208, 209. (54) SHAW, International Law, Grotius Publications Limited, Cambridge, 3a ed., 1991, pp. 69, 70; BROWNLIE, op. cit., pp. 4, 5; COMBACAU, SUR, op. cit., p. 76 ss.; ROUSSEAU, Droit international public, Dalloz, Paris, 11a ed., 1987, pp. 81-84; IPSEN, op. cit., p. 195; VERDROSS, SIMMA, op. cit., p. 353; GIULIANO, SCOVAZZI, TREVES, op. cit., p. 209.
— 264 — Alla luce di questi elementi l’assunto della dottrina maggioritaria tedesca appare incondivisibile, soprattutto se si tiene conto dei seguenti dati: a) al trattato dell’8 agosto 1945, con il quale le quattro potenze istituirono il Tribunale internazionale di Norimberga, e alla Carta annessa hanno aderito ulteriori 19 Stati delle Nazioni Unite (55). b) L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con le risoluzioni GA RES 3 (I) del 13 febbraio 1946, GA RES 95 (I) dell’11 dicembre 1946, ha avvalorato i principi della suddetta Carta, confermando espressamente le sentenze del Tribunale internazionale di Norimberga (56). c) Giova rilevare anche la risoluzione GA RES 177 (II) del 21 novembre 1947, con la quale si richiedeva alla CDI di concretizzare i principi inerenti ai crimini contro l’umanità (57). d) Inoltre anche i trattati di pace del 1947 con l’Italia, la Romania, I’Ungheria, la Bulgaria e la Finlandia prevedevano la punizione dei succitati crimini (58). e) Parimenti occorre rammentare che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato sia la Convenzione per la protezione e la repressione del crimine di genocidio del 9 dicembre 1948 (59) sia la Convenzione sull’imprescrittibilità dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità del 1968 (60), nonché la Convenzione sulla soppressione e la punizione del crimine di Apartheid del 1973 (61). Ora, secondo la dottrina maggioritaria tedesca, come già rammentato, tutti questi elementi non sono sufficienti come prassi informativa della consuetudine (62). Le risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite secondo tale dottrina, non solo non avrebbero valore vincolante (63), bensì non sarebbero nemmeno atte a partecipare alla costituzione della consuetudine (64). Esse possono tutt’al più esprimere una opinio juris (65). (55) United Nations Treaty Series, vol. 82, n. 251, p. 280 ss.; BROWNLIE, op. cit., p. 562; IPSEN, op. cit., p. 536. (56) NGUYEN QUOC DINH, DAILLIER, PELLET, Droit international public, Librairie Générale de Droit et de Jurisprudence, Paris, 4a ed., 1992, p. 620; MANSFIELD, op. cit., p. 313; SHAW, op. cit., p. 413; BROWNLIE, op. cit., p. 562. (57) NGUYEN QUOC DINH, DAILLIER, PELLET, op. cit., p. 620; IPSEN, op. cit., p. 540. (58) CASSESE, International Law in a divided world, Claredon Press, Oxford, 1986, p. 293. (59) Convention on the prevention and punishment of the crime of genocide, Dec. 9, 1948, United Nation Treaty Series, vol. 78, n. 227; MANSFIELD, op. cit., p. 313; BROWNLIE, op. cit., p. 562. (60) GA RES 2391 (XXIII); NGUYEN QUOC DINH, DAILLIER, PELLET, op. cit., p. 625; MILLER, The Convention on the Non-Applicability of Statutory Limitations to War Crimes and Crimes Against Humanity, in AJIL, 1971, p. 476 ss. (61) International Convention on the Suppression and Punishment of the Crime of Apartheid, Nov. 30, 1973, 1015 United Nations Treaty Series, 244; MANSFIELD, op. cit., p. 313. (62) HOLLWEG, op. cit., p. 986; POLAKIEWICZ, op. cit., p. 182; GORNIG, op. cit., p. 8; IPSEN, op. cit., pp. 540, 541; JESCHECK, op. cit., p. 109. (63) HAILBRONNER, KLEIN, op. cit., p. 195, n. 45; JESCHECK, op. cit., p. 109; JESCHECK, International crimes, in EPIL, 8 (1985), pp. 333, 334; GORNIG, op. cit., pp. 7, 8; IPSEN, op. cit., p. 197 (secondo Ipsen in effetti le risoluzioni dell’Assemblea Generale possono essere atte allo sviluppo del diritto consuetudinario qualora vi sia un’ulteriore prassi degli stati la quale deve essere « extensive and universally uniform »). (64) DAHM, DELBRÜCK, WOLFRUM, op. cit., pp. 72, 73; HAILBRONNER, KLEIN, op. cit., p. 196, n. 47: « Für die Begründung einer ‘‘Staatenpraxis’’ reicht das bloße Abstimmungsverhalten jedoch nicht aus. Hierfür ist vielmehr notwendig, daß die Staaten ihre Rechtsüberzeugung durch tatsächliches Verhalten außerhalb der Organisation bekräftigen ». (65) HAILBRONNER, KLEIN, op. cit., p. 196, n. 48; DAHM, DELBRÜCK, WOLFRUM, op. cit., pp. 72, 73; IPSEN, op. cit., p. 197.
— 265 — I voti dei singoli Stati nell’Assemblea Generale non rappresenterebbero un comportamento informativo di una prassi degli Stati, essendo necessari atti costituenti un comportamento degli Stati sviluppatosi all’esterno dell’organizzazione internazionale in modo da corroborare una eventuale opinio juris (66). 5. A tale presa di posizione della dottrina maggioritaria tedesca vanno contrapposte alcune riflessioni. L’opinione maggioritaria della dottrina internazionale sottolinea che le risoluzioni, in particolar modo le dichiarazioni, dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sono da considerare nell’ambito della formazione del diritto consuetudinario in quanto prassi degli Stati, essendo quest’ultime la somma degli atteggiamenti degli Stati che le adottano, e non solamente degli atti interni di un organo delle Nazioni Unite (67). Appare invero difficile, anche in virtù dell’art. 2 comma 2 della Carta dell’ONU, presumere che gli Stati, i quali partecipano con voto favorevole ad una risoluzione, non intendano poi obbligarsi (68). Va altresì sottolineato che la risoluzione GA RES 95 (I) dell’11 dicembre 1946 è stata adottata all’unanimità (69), assolvendo in questo modo ad uno dei criteri di maggior valore riconosciuti ai fini della constatazione della prassi formativa della consuetudine (70). Se si tiene conto infine delle succitate convenzioni, in particolar modo di quella inerente all’imprescrittibilità dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità del 1968, la quale non solo sancisce expressis verbis l’esistenza delle fattispecie delittuose in questione ma si riferisce anche alle suindicate risoluzioni adottate in sede ONU (71), e se si valutano sia i pro(66) Vedasi supra nota 65. (67) CONFORTI, Le Nazioni Unite, CEDAM, Milano, 5a ed., 1994, pp. 285, 286: « ... è anche vero però che le Dichiarazioni svolgono un ruolo assai importante ai fini dello sviluppo del diritto internazionale, e del suo adeguamento alle esigenze di solidarietà e di indipendenza sempre più sentite nel mondo di oggi. Non si tratta, ripetiamo, di accordar loro una forza vincolante che in base alla Carta esse non hanno; si tratta di riconoscere il contributo che, con esse, l’Assemblea dell’ONU dà alla formazione del diritto internazionale, sia pure nel quadro delle fonti tipiche di tale diritto, quali la consuetudine e l’accordo. In che cosa consiste siffatto contributo? Per quanto riguarda il diritto consuetudinario le Dichiarazioni vengono in rilievo, ai fini della sua formazione, in quanto prassi degli Stati, in quanto somma degli atteggiamenti degli Stati che le adottano, e non come atti dell’ONU. Ciò è dimostrato dal fatto che, come generalmente si ritiene, esse tanto più valgono come prassi formativa della consuetudine in quanto siano prese all’unanimità o per consensus o almeno a larghissima maggioranza »; SHAW, op. cit., pp. 71, 412, 413; BROWNLIE, op. cit., pp. 2, 5, 15; CASSESE, op. cit., pp. 192-195: ASAMOAH, The legal significance of the Declarations of the General Assembly of the United Nations, Martinus Nijhoff, The Hague, 1966, pp. 47, 49, 52-58. (68) CONFORTI, Le Nazioni Unite, op. cit., p. 286: « ... dal che risulta pienamente lecito presumere, almeno fino ad una chiara prova contraria (ossia sempre che non vi siano riserve espresse al momento dell’adozione e della risoluzione), che gli Stati i quali partecipano col loro voto favorevole all’atto intendano appunto obbligarsi. Ed invero delle due l’una: o si ammette una simile presunzione oppure bisogna concludere che le Dichiarazioni di principi del tipo in esame rappresentino, per dirla in termini privatistici, delle dichiarazioni non serie o rese con riserva mentale! »; ASAMOAH, op. cit., p. 59. (69) CASSESE, op. cit., p. 293; SHAW, op. cit., p. 412; BROWNLIE, op. cit., p. 14. (70) CONFORTI, Le Nazioni Unite, op. cit., p. 285; CASSESE, op. cit., pp. 193-195. (71) MILLER, op. cit., p. 481: « ARTICLE I. No statutory limitation shall apply to the following crimes, irrespective of the date of their commission: (a) War crimes as they are defined in the Charter of the International Military Tribunal, Nürnberg, of 8 August 1945 and confirmed by resolutions 3 (I) of 13 February 1946 and 95 (I) of 11 December 1946 of the General Assembly of the United Nations, particularly the ‘‘grave breaches’’ enumerated in the Geneva Conventions of 12 August 1949 for the protection of war victims; (b) Crimes
— 266 — getti di codificazione della CDI (72), sia le note sentenze delle Alte Corti nei casi Eichmann, Barbie, Legay, Touvier (73), appare difficilmente comprensibile come la dottrina maggioritaria tedesca possa tuttora, in presenza di questi elementi, i quali, quantunque di differente natura, sono tutti riconosciuti come determinanti al fine della formazione e dello sviluppo della consuetudine, contestare il fatto che la nozione dei crimini contro l’umanità sia parte integrante del diritto internazionale penale. In conclusione si deve constatare che il persistente diniego opposto da parte della dottrina maggioritaria tedesca alla nozione dei crimini contro l’umanità con riferimento al carattere di norma vigente del diritto internazionale penale appare infondato. In primo luogo in quanto la dottrina tedesca, come già ricordato, propugna un concetto rigido del principio nullum crimen, nulla poena sine lege in ambito di diritto internazionale, allorquando le stesse Alte Corti tedesche lo hanno, in base ad esigenze di giustizia, disapplicato in nome di un altrettanto difficilmente enucleabile diritto naturale, dimostrando al contempo che il principio di certezza sottostà a superiori esigenze di giustizia (74). In secondo luogo in virtù dei suesposti molteplici elementi costituenti una prassi consolidata. Difatti la posizione espressa dalla dottrina tedesca appare pressochè isolata, se si prende atto della dottrina internazionale a riguardo, la quale quasi all’unanimità sottolinea la natura di diritto internazionale penale vigente del concetto dei crimini contro l’umanità (75). La dottrina internazionale ribadisce che indipendentemente da come si possano valutare le fondamenta giuridiche degli storici processi di Norimberga e Tokio, l’esistenza stessa dei trattati istitutivi dei Tribunali Internazionali di Norimberga e Tokio, la relativa giurisprudenza e lo sviluppo apportato nell’ambito delle Nazioni Unite, nonché gli ulteriori precedenti giurisprudenziali, rendono inconfutabile riconoscere alla fattispecie penale dei crimini contro l’umanità il carattere di diritto internazionale vigente (76). In tale contesto è degno di nota il fatto che la dottrina maggioritaria tedesca, nello sviagainst humanity whether committed in time of war or in time of peace as they are defined in the Charter of the International Military Tribunal, Nürnberg, of 8 August 1945 and confirmed by resolutions 3 (I) of 13 February 1946 and 95 (I) of 11 December 1946 of the General Assembly of the United Nations, eviction by armed attack or occupation and inhuman acts resulting from the policy of apartheid, and the crime of genocide as defined in the 1948 Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide, even if such acts do not reconstitute a violation of the domestic law of the country in which they were committed »; SHAW, op. cit., pp. 412, 413. (72) MANSFIELD, op. cit., p. 313; IPSEN, op. cit., pp. 540, 541. (73) BROWNLIE, op. cit., p. 305; NGUYEN QUOC DINH, DAILLIER, PELLET, op. cit., pp. 620, 625. (74) MUHM, op. cit., pp. 639, 640. (75) NGUYEN QUOC DINH, DAILLIER, PELLET, op. cit., p. 620: « Une impulsion très ferme était donnée à l’essor du droit conventionnel: les prescriptions de l’accorde de Londres de 1945 se voyaient reconnaître la qualité de normes coutumières »; ASAMOAH, op. cit., pp. 51, 125: « By affirming the Nuremberg principles, the Assembly was not creating new principles. The Nuremberg principles were already law being embodied in an international agreement and applied and defined by an international tribunal. The affirmation was a recognition and acceptance of the principles »; SHAW, op. cit., pp. 412, 413: « This article (art. 6 of the Charter of the International Military Tribunal of Nuremberg) can now be regarded as part of International Law »; MANSFIELD, op. cit., p. 310; BROWNLIE, op. cit., pp. 305, 562; CONFORTI, Diritto internazionale, op. cit., pp. 209, 210; DI QUAL, Les effets des résolutions des Nations Unies, Librairie Générale des Droits et Jurisprudence, Paris, 1967 pp. 243-246. (76) BROWNLIE, op. cit., p. 562: « But whatever the state of the law in 1945, art. 6 of the Nuremberg Charter has since come to represent general international law »; GROSS, op. cit., p. 790: « Regardless of criticisms of the Nuremberg and Tokyo Tribunals, the norms of the IMT and both tribunals’ judgments have since 1945 come to represent and be part of general international law »; MANSFIELD, op. cit., p. 310: « There is little that was historically and legally wrong with ‘‘Crimes Against Humanity’’ that has not been remedied with the passage of time and its prevalence in custom and practice in international law. Those who
— 267 — luppare le catene argomentative in merito, è prevalentemente autoreferenziale, ossia si basa pressoché unicamente su opere di autori tedeschi, senza, e ciò è veramente inusuale, valutare la dottrina internazionale estera, la cui agevole disamina permetterebbe di rivedere la propria posizione in merito. Infine va enfatizzato che grazie all’istituzione dei due Tribunali Internazionali per la exJugoslavia e per il Ruanda, i cui relativi Statuti, prevedendo la propria competenza giurisdizionale ratione materiae in relazione ai crimini contro l’umanità, ne ribadiscono la configurabilità, si può sin d’ora, considerato l’atteggiamento favorevole e di collaborazione del governo, nonché del parlamento della Repubblica Federale di Germania in riferimento all’istituzione del Tribunale internazionale per l’ex-Jugoslavia (77), auspicare che nell’ambito della dottrina tedesca si determini un cambiamento di opinione a riguardo, consentendo in questo modo una più serena partecipazione dottrinale allo sviluppo di quegli elementi indispensabili del diritto internazionale penale quali la codificazione del diritto sostanziale e l’istituzione di un Tribunale internazionale penale permanente al fine di una migliore tutela e realizzazione dei diritti umani. RAOUL MUHM Assessor (Munchen)
would criticize the prosecutions at Nuremberg for violating the ‘‘principles of legality’’ such as nullum crimen sine lege and nulla poena sine lege cannot, by any stretch, utilize those principles today, since the category of crimes against humanity is not only codified in international law, it is well established in reputation ». (77) Gesetzesentwurf der Bundesregierung: Entwurf eines Gesetzes über die Zusammenarbeit mit dem Internationalen Strafgerichtshof für das ehemalige Jugoslawien; Drucksache 13/57; 29 novembre 1994.
NOTIZIE
IL Xo CONVEGNO DELL’ASSOCIAZIONE TRA GLI STUDIOSI DEL PROCESSO PENALE
Si è tenuto a Salerno nei giorni 11-13 ottobre 1996 il Xo Convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale su « Il giusto processo », sotto la presidenza del prof. Giovanni Conso. I lavori sono stati introdotti da una relazione del prof. Siracusano che ha chiarito la collocazione di talune garanzie individuali nella tavola dei valori disegnati nella Costituzione e nelle Carte internazionali dei diritti dell’uomo. Una quasi inarrestabile giurisprudenza costituzionale ha, infatti, ridisegnato l’originario modello processuale penale fissando delle nuove linee portanti, fondate su taluni principi (artt. 24, 25, 112 Cost.), considerate essenziali per « un giusto processo ». È seguito l’intervento del ministro di grazia e giustizia prof. Flick, che, preliminarmente, ha invitato ad abbandonare la logica dell’emergenza e dello scontro ed ha prospettato la necessità di procedere ad alcune riforme dell’attuale processo penale attraverso il recupero della centralità del dibattimento, il potenziamento dell’attività difensiva e la riformulazione dei riti alternativi. La seconda giornata dei lavori è ripresa con la relazione del prof. Giarda, il quale, ripercorrendo il composito itinerario che ha condotto la Corte costituzionale ad ampliare il primitivo nucleo delle fattispecie di incompatibilità di cui all’art. 34 comma 2 c.p.p., ha sottolineato il raccordo posto dai giudici della Consulta nella sentenza n. 131/1996 tra « giusto processo », principi di terzietà — imparzialità e regole d’incompatibilità. Il relatore, inoltre, ha contrapposto l’ottimismo che aveva caratterizzato l’entrata in vigore del codice all’impatto tutt’altro che tranquilizzante che il nuovo corpo normativo ha avuto rispetto al sistema delle fonti di diritto interno, ulteriormente osservando come i giudici costituzionali, nell’attuare il processo di aggiustamento dell’originario impianto codicistico, hanno posto a fondamento del « giusto processo » solo valori costituzionali e non anche principi contenuti nelle Carte internazionali dei diritti dell’uomo. Al rapporto tra garanzie individuali ed efficienza nel processo, è stata dedicata la relazione del prof. Chiavario, il quale ha sottolineato la necessità che le regole dell’accertamento penale siano tali da garantire da esasperate compressioni dei diritti individuali. Lo stesso, inoltre, ha segnalato una perdurante inattuazione delle garanzie previste dai Trattati internazionali a tutela dei diritti della persona al fine di ottenere un « due process of law ». Ha infine rilevato il forte contrasto tra giustizia giusta e giustizia efficiente, in un processo che, sempre più spesso, non esprime le risorse di un leale contraddittorio tra le parti. Il principio di « non dispersione dei mezzi di prova » ha costituito la trama delle tematiche affrontate nella relazione del prof. Dominioni, il quale ha sottolineato come quel principio, introdotto con la sentenza della Corte costituzionale n. 255/1992, ha invertito la fisiologia del rapporto regola-eccezione, convertendo nel criterio della non dispersione un complesso di norme derogatorie al metodo orale. I cospicui interrogativi sollevati dalla citata sentenza in relazione all’esigenza di non dispersione, sono divenuti artifici non tollerabili nella sentenza n. 254/1992 (in tale pronuncia, infatti, si sarebbero riprodotti meccanismi omologhi
— 269 — a quelli dei sistemi di prova legale, che hanno trasformato il diritto al silenzio dell’imputato in un dato probatorio di valore incontestabile). È seguita la relazione del prof. Galati, che, analizzando il problema della compatibilità del nuovo processo penale con il maxi-processo, ha richiamato l’impegno del legislatore delegato nel disegnare un meccanismo processuale che ridimensionasse la praticabilità del « processo complesso » e favorisse — specialmente per via della riduzione della portata della connessione processuale — la separazione dei processi. Il relatore si è soffermato, inoltre, sulle degenerazioni che si sono verificate, in relazione al fenomeno dei maxi-processi, in collegamento alle inchieste giudiziarie sulla criminalità organizzata. La seconda, intensa giornata dei lavori ha registrato, ancora, gli interventi, su varie posizioni, della prof.ssa Galantini, del prof. Ubertis, delle dottoresse Curtotti e Molinari. L’ultima giornata è stata caratterizzata dagli interventi dei professori Dalia, Grevi, Pennisi, Perchinunno e Pansini, del dott. Scillitani, del dott. Lo Russo e dell’Avv. Iannone, i quali, ognuno per profili particolari, hanno fornito il loro contributo per la definizione del « giusto processo ». I lavori, quindi, sono stati conclusi dalla relazione di sintesi del prof. Conso, il quale ha ripreso e rielaborato i temi trattati nel corso del Convegno, sottolineando la necessità che il « giusto processo » non si riduca solo ad una formula arida, e che soluzioni operative siano adottate coerentemente con i valori ispiratori del sistema, evitando diatribe « sterili », come quelle tra i fautori del processo accusatorio e i sostenitori del sistema inquisitorio. (Paola Stilo - Università di Catanzaro).
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CONVEGNO DI STUDI « Verso un nuovo codice penale: i principi generali, gli interessi emergenti ed i reati economici considerati alla luce del nuovo Codice Penale Spagnolo (1995) »
Il 25 e 26 ottobre 1996 si è tenuto a Trento un convegno di studi organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Trento, patrocinato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto e col supporto della CEDAM, sul tema ‘‘Verso un nuovo codice penale: i principi generali, gli interessi emergenti ed i reati economici considerati alla luce del nuovo Codice Penale Spagnolo (1995)’’. Dopo una breve presentazione della giornata di studi da parte del prof. Alberto Cadoppi, i lavori iniziano, sotto la presidenza del prof. Roland Riz, con la relazione del prof. Gonzalo Quintero Olivares dell’Università delle Isole Baleari. Lo studioso, dopo una breve introduzione sulle ‘‘vicissitudini’’ parlamentari occorse durante l’iter per l’approvazione del nuovo codice, affronta la questione relativa al maggiore rigore sanzionatorio del nuovo testo, nonostante l’avvenuta depenalizzazione di numerosi illeciti e la presenza di varie misure alternative alla pena detentiva. Infatti se si analizza la durata effettiva delle pene privative della libertà non si può fare a meno di notare come ‘‘il nuovo codice avvicina la durata teorica delle pene alla loro durata effettiva’’, in quanto il legislatore ha eliminato istituti che incidevano pesantemente sulla pena comminata al condannato. Successivamente il relatore affronta la tematica del linguaggio del nuovo codice, affermando che nel caso in cui si voglia procedere ad una vera riforma occorre necessariamente utilizzare un nuovo linguaggio. Solo con parole nuove si possono esprimere concetti nuovi. Ed in tal senso si è orientato il legislatore, laddove si sono abbandonati concetti (e parole) ormai vetusti ed accettati neologismi d’uso corrente. Infine il relatore si è soffermato sui problemi di diritto transitorio. È seguita la relazione del prof. Sergio Vinciguerra, il quale ha innanzitutto effettuato delle osservazioni sul codice spagnolo di carattere strutturale, valutando negativamente l’assenza delle rubriche e positivamente la numerazione dei commi dei singoli articoli. Dopo aver notato alcune imprecisioni di carattere tecnico-linguistico, ritiene valido l’ordine delle figure di reato seguito dal legislatore, caratterizzato da un impianto fortemente personalista, e le tipologie degli interessi tutelati, tra i quali emergono alcuni di nuovo conio e di particolare interesse, come in materia di delitti relativi alla manipolazione genetica. Successivamente ha esaminato la parte generale del codice, rilevando il rispetto dei principi di legalità (e dei suoi sotto-principi) e di colpevolezza. Ha svolto la relazione sul sistema sanzionatorio il prof. Josep Tamarìt Sumalla dell’Università di Lerida. Il primo quesito che si pone il relatore è quello relativo al modello adottato dal legislatore spagnolo nel nuovo codice, ossia se siamo in presenza di un sistema unitario (fondato esclusivamente sulla pena), binario (basato sulla pena e sulla misura di sicurezza) o ternario (con conseguente valorizzazione della riparazione del danno). Tamarìt sembra propendere per una interpretazione del sistema sanzionatorio in chiave binaria, pur rilevando la presenza nel nuovo codice di norme che tutelano maggiormente la vittima sotto il profilo risarcitorio. Quindi prende in esame le varie misure alternative alla pena detentiva di breve durata, tra le quali merita di essere ricordato l’arresto di fine settimana come novità assoluta, ed i vari meccanismi sostitutivi della pena detentiva. Sul sistema sanzionatorio interviene il prof. Carlo Enrico Paliero con la sua relazione in
— 271 — chiave comparatistica avente ad oggetto la situazione italiana e quella spagnola. Innanzitutto constata la discrasia esistente in Italia tra situazione legale e situazione reale: alla teoria della commisurazione della pena si è andata sostituendo una prassi del sentencing, una prassi del ‘‘giudicare penalmente’’ nella quale incidono pesantemente i nuovi istituti processuali del patteggiamento, del giudizio abbreviato, etc. Secondo il relatore vi è stata una ‘‘grande riforma inconscia’’, essendosi passati dal modello della pena determinata a quello della pena indeterminata di tipo non continentale. Analizzando poi i diversi sistemi sanzionatori in Europa, ha operato una distinzione tra modelli semplici (tipici nell’etica protestante) e modelli complessi (usuali nell’etica cattolica) a seconda del minore o maggiore numero di modelli alternativi al carcere, oltre al diverso approccio nell’ambito commisurativo. Successivamente procede all’analisi della situazione legale spagnola (anche perchè una prassi non è ancora individuabile per la novità del codice) mettendone in evidenza ‘‘le luci e le ombre’’. Paliero rileva che le vere novità del sistema sanzionatorio spagnolo sono da ravvisarsi più sul piano commisurativo che su quello tipologico, dove tuttavia non mancano indubbie novità, come, ad es., l’arresto di fine settimana. Infatti il modello commisurativo, ispirato al pragmatismo di stampo anglosassone, è criminologicamente orientato e basato sul ‘‘fatto’’ delle singole fattispecie di reato. La seconda giornata del convegno, presieduta dal prof. Fabrizio Ramacci, inizia con la relazione del prof. Fermin Morales Prats dell’Università Autonoma di Barcellona, il quale prende in esame i reati contro la persona. Nell’ambito dei delitti contro la vita umana il relatore ha constatato una maggiore secolarizzazione dello strumento sanzionatorio. Infatti alcune figure di reato dal forte substrato etico sono state abrogate, come nel caso del parricidio e dell’infanticidio, con conseguente riemergere della fattispecie di omicidio, eventualmente aggravata od attenuata dalla circostanza mista della parentela. Un’altra novità in tale settore è stata la configurazione dell’asesinato come omicidio aggravato (dalla perfidia, dall’aver agito per prezzo, etc.) e non più come figura autonoma di reato, con evidenti ripercussioni dogmatiche ed applicative. Successivamente ha preso in considerazione i delitti contro la libertà sessuale, esaminando, anche in chiave critica, le novità apportate sul tema (tra le quali ricordiamo l’avvenuta penalizzazione delle molestie sessuali). Infine, come esempiotipo delle nuove tecniche di tutela per la protezione di interessi emergenti, ha esaminato i numerosi delitti contro la ‘‘privacy informatica’’. Anche il prof. Francesco Carlo Palazzo ha svolto la sua relazione sui reati contro la persona, operando un raffronto tra il codice spagnolo e il progetto Pagliaro. Tale confronto è stato effettuato alla stregua di due obiettivi che devono permeare una nuova codificazione, ossia l’affermazione di un ordine di valori consolidato e il perfezionamento tecnico. Ha quindi preso in considerazione l’ordine dei valori, notando come in entrambi i testi vi è una vera e propria primazia della persona costituzionalmente ispirata. Circa la stabilità dei valori oggetto di codificazione, ha rilevato come in alcuni casi il codice spagnolo cade nel contingente (v. le molestie sessuali) a differenza del progetto Pagliaro, mentre entrambi i testi cedono all’incertezza dei tempi in materia di aborto e di manipolazioni genetiche. L’ulteriore obiettivo della semplificazione e del perfezionamento tecnico è stato diversamente perseguito: il progetto Pagliaro abbonda di definizioni a differenza del codice spagnolo. In quest’ultimo c’è inoltre una maggiore tendenza alla semplificazione, come in materia di circostanze. Infine il relatore pone in evidenza la difficoltà di razionalizzare il settore dei reati contro la persona proprio per la difficile conciliazione di opposte esigenze: quella della valorizzazione della persona e quella del rispetto del principio di sussidiarietà. Su questo punto Palazzo ha osservato che il progetto Pagliaro ha dedicato un libro ai reati contro la persona ed un intero titolo ai reati contro la dignità dell’essere umano, prevedendo reati che non esistono nel codice spagnolo (quali, ad es., i reati contro la dignità della maternità e i reati di commercio di parti del corpo umano vivente). In definitiva, dal raffronto operato dal relatore traspare una maggiore secolarizzazione del codice spagnolo rispetto al progetto Pagliaro nella regolamentazione dei reati contro la persona. Dopo gli interventi programmati del prof. Giovannangelo De Francesco e del dott.
— 272 — Giampaolo Naronte, i lavori, presieduti dal prof. Lorenzo Picotti, sono proseguiti nel pomeriggio con la relazione del prof. Louis Arroyo Zapatero dell’Università di Ciudad Real. Il relatore ha posto in evidenza l’attualità della criminalità economica come problema di politica criminale, dovuto sia ad una nuova sensibilità sociale, sia all’inserimento della Spagna nell’ambito della Comunità Europea. Dopo avere delineato la situazione preesistente al nuovo codice, ha posto in rilievo le maggiori novità del nuovo codice nel settore dei reati economici: un titolo unico per i delitti contro il patrimonio e contro l’ordine socioeconomico, eliminazione della responsabilità a titolo di colpa (salvo che per l’ipotesi di ricettazione-riciclaggio ex art. 301, 3o c.) e delle norme penali in bianco, ricorso a fattispecie di pericolo concreto e di danno in luogo di fattispecie di pericolo astratto, previsione della pena accessoria della pubblicazione della sentenza. Sempre sui reati economici, con particolare riferimento alla situazione italiana, ha relazionato il prof. Alessio Lanzi, il quale ha innanzitutto segnalato la difficoltà di individuare un bene giuridico unitario nel settore del diritto penale dell’economia in ragione della molteplicità degli interessi presenti in tale settore, interessi che sono spesso fra loro confliggenti. Ha poi rimarcato che in tale settore vige la più grande relatività di carattere storico e geografica dato che l’opzione penale è la risultante di esigenze contingenti; e come esempio di tale situazione ha citato lo sciopero, che da delitto è diventato un diritto. In ragione di ciò ritiene opportuno prescindere, limitatamente a tale settore, dalla teoria del bene giuridico, assegnandoli un mero ‘‘rilievo classificatorio e di individuazione della fattispecie’’. Successivamente segnala le novità presenti nel nuovo codice spagnolo nell’ambito dei reati economici, affermando che, comunque, l’aspetto più significativo è da ravvisarsi proprio nell’avvenuta inserzione dei reati economici nel codice penale. Su tale opzione legislativa tuttavia Lanzi nutre seri dubbi determinati proprio dalla peculiarità dei reati economici: la loro derivazione da situazioni contingenti. Dopo gli interventi del prof. Fausto Giunta, del prof. Gabriele Fornasari e del dott. Luigi Foffani è seguita la relazione di sintesi del prof. Luigi Stortoni, il quale ha ribadito la necessità e l’utilità di una codificazione. E conclude affermando che in Italia si avrà la riforma solo se il diritto penale sostanziale riacquisterà il suo ruolo rispetto al diritto penale processuale. dott. SABINO ROBERTO PALUMBIERI Dottorando di ricerca in Diritto penale nell’Università di Trento
GIURISPRUDENZA
b) Giudizi di Cassazione
CASSAZIONE PENALE — Sez. VI — 14 dicembre 1995 Pres. Troiano — Rel. Milo — P.M. (concl. conf.) Ric. Proc. Rep. Trib. Urbino. Istigazione alla corruzione passiva — Accettazione simulata della promessa — Successiva dazione — Concorso di reati tra la promessa e la dazione — Configurabilità. La promessa di una somma di denaro, falsamente accettata dal p.u., ed il successivo adempimento di questa (« concreta dazione ») integrano due distinti reati di istigazione alla corruzione (art. 322 c. 2 c.p.) in continuazione tra loro. È quindi legittimo l’arresto del privato istigatore operato all’atto della dazione, configurandosi, in questo momento, lo stato di flagranza del reato (1). (Omissis). — Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Urbino ha impugnato, con ricorso per Cassazione, l’ordinanza 15 marzo 1995 del GIP presso lo stesso Tribunale, che, per difetto del requisito della flagranza, non aveva convalidato l’arresto, eseguito il precedente giorno 13, di Gaetano Vitali, indagato in ordine al reato di tentata corruzione attiva nei confronti di un ufficiale e di un sottufficiale della Guardia di Finanza. Ha dedotto il ricorrente il vizio di violazione e di erronea applicazione della legge penale sotto il profilo che, avendo il GIP ritenuto d’inquadrare la condotta ascritta all’indagato nello schema criminoso dell’istigazione alla corruzione, lo stato di flagranza di questo reato coincideva proprio con la dazione del denaro effettuata, il 13 marzo 1995, dal Vitali ai finanzieri, atto questo di univoca interpretazione, che fugava ogni dubbio in ordine alla valenza di precedenti approcci, che pure vi erano stati. La difesa dell’indagato ha prodotto memoria con la quale ha sottolineato la correttezza della decisione impugnata ed ha sollecitato il rigetto del ricorso del P.M. Il ricorso è fondato e va accolto. Ed invero, il GIP presso il Tribunale di Urbino, dopo avere correttamente qualificato la condotta ascritta al Vitali come istigazione alla corruzione passiva, erroneamente non ha convalidato l’arresto dell’indagato da parte della Polizia giudiziaria, ritenendo superato lo stato di flagranza. Ha precisato il giudice di merito che il reato in questione si sarebbe già consumato con la promessa di denaro fatta
— 274 — dal Vitali, nei giorni precedenti all’arresto, ai finanzieri, per indurli a compiere atti contrari ai doveri d’ufficio, e che l’effettiva consegna del denaro (lire 50.000.000) al momento dell’arresto avrebbe integrato un post factum non punibile. La tesi non ha consistenza giuridica, sotto un duplice profilo. Innanzi tutto, perché l’atto di concreta messa a disposizione del denaro, al di là delle precedenti promesse che potevano avere avuto un significato non univoco, rappresenta un dato di fatto certo ed obiettivo che prova la flagrante consumazione dell’ipotizzato reato; poi, perché la precedente promessa di denaro fatta dal Vitali con esito negativo e la successiva concreta dazione, accettata in modo simulato dai finanzieri, al chiaro fine di fare scoprire l’istigatore, hanno integrato, sulla base di quanto — allo stato — emerge dagli atti, due distinti reati d’istigazione, evidentemente in continuazione tra loro. Ciò posto, non può, in ogni caso, negarsi che, al momento in cui il Vitali venne tratto in arresto, versava in flagranza di reato, sicché legittimo fu l’operato della Polizia giudiziaria ed il GIP avrebbe dovuto convalidarlo. L’ordinanza impugnata, quindi, va annullata senza rinvio, ex art. 620 lett. l) c.p.p., apparendo — allo stato — superfluo un ulteriore intervento del Giudice della convalida.
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Alchimie giuridiche dell’istigazione alla corruzione: concorso materiale di reati tra promessa corruttiva e successiva dazione?
SOMMARIO: 1. Divagazioni introduttive. — 2. La vicenda processuale. — 3. La rilevanza della riserva mentale: una decisione da condividere. — 4. I rapporti fra tentativo di corruzione ed istigazione alla corruzione. — 5. Uno « strano caso » di reato continuato. - 5.1. Brevi note sulla struttura dell’art. 322 c.p. — 6. Sintesi.
1. Il reato d’istigazione alla corruzione, oscurato dall’incombente presenza delle molteplici ipotesi di corruzione — vere figlie predilette della dottrina — non si è mai imposto all’attenzione degli interpreti: soltanto in occasione delle proposte di riforma, ad iniziativa del senatore Vassalli ed altri (disegno di legge n. 1250 del 1988) e del Ministro di Grazia e Giustizia Martinazzoli (disegno di legge n. 2844 del 1988) (1), proposte poi sfociate nella legge n. 86/1990, il delitto in esame, grazie ad un importante intervento ampliativo, è riuscito ad accendere i riflettori della ribalta politico-criminale, per la sua esplicita vocazione a servire la « crociata » di moralizzazione della p.a. Infatti, per espressa volontà dei proponenti, l’introduzione dell’istigazione per « sollecitazione », oltre a colmare un evidente vuoto di tutela, risponderebbe ad un ben preciso scopo preventivo, diretto ad incidere sulla moralità dei pubblici funzionari: come si legge ancora nelle relazioni dei citati disegni di legge, l’utilità di questa nuova fattispecie sarebbe da apprezzare anche nella sua idoneità a fungere da sostitutivo d’ipotesi premiali a favore del corruttore che avesse denunziato il pactum sceleris, vista la generale ritrosia ad accettare soluzioni volte a spezzare (1) Entrambi pubblicati in Giust. pen., 1988, c. 28 ss. I passi delle relazioni che qui interessano si trovano a p. 35 e p. 41.
— 275 — (eccezionalmente) il nesso tra reato e punibilità (2). Ma tutto questo prima di Tangentopoli! Alla luce di quanto emerso dalle indagini sulla corruzione politico-amministrativa, sarebbe oltremodo interessante poter verificare se, ed in che modo, questa fattispecie abbia assolto il suo « nuovo » ruolo, e se la prospettiva politico-criminale in cui essa si inscrive possa ancora dirsi efficace. L’oggetto di questo lavoro non permette di svolgere i dovuti approfondimenti sul tema: per non lasciar cadere del tutto tale indicazione, sarà sufficiente proporre alcuni elementi di riflessione. Come è stato dimostrato dalle numerose inchieste in corso ormai dal 1992, il progressivo consolidarsi di un sistema di corruttela ha elevato la corruzione dalla « banalità » degli specifici episodi al ben più impegnativo ruolo di « normale » modalità di svolgimento dei rapporti tra imprenditori privati e p.a., facendo divenire i pagamenti illeciti veri e propri costi fissi di gestione. Una tale degenerazione ha permesso di aggirare le severe ma salutari regole della concorrenza di mercato, a tutto svantaggio degli imprenditori rimasti fuori — per nobile scelta o per dolorosa necessità — da questo giro, determinando al contempo « un aumento dei costi di transazione » ed « uno squilibrio tale da incentivare » sempre più « il ricorso alla corruzione » (3). Di fronte a questa situazione, pensare che il privato possa collaborare all’attività di prevenzione della corruzione, reagendo alla richiesta del p.u., è quanto meno irrealistico (4). In tal senso depone, seppur indirettamente, la più recente proposta di modifica dei reati contro la p.a., redatta da alcuni p.m. del c.d. pool di mani pulite e da alcuni professori delle Università milanesi, tenendo conto dell’esperienza accumulata durante le indagini svolte negli ultimi anni. In tale proposta si sostiene con forza la necessità di introdurre una causa di non punibilità per chi denunci spontaneamente il fatto di corruzione: se si vuole aver ragione di quello che è stato incisivamente definito come « il cancro... che corrode il tessuto morale (e materiale) del paese » (5), questo sarebbe — si dice — il prezzo da pagare. Più in generale, per completare lo scarno Lebenslauf di questo delitto, va osservato che l’istigazione alla corruzione, in quanto fattispecie residuale dell’intricato microcosmo della corruzione, sconta problemi interpretativi che solo parzialmente possono dirsi interamente suoi. Da un punto di vista sistematico: a) la sua esatta qualificazione è subordinata all’interpretazione della struttura del reato di corruzione; b) la nuova ipotesi di istigazione per « sollecitazione » sembra porsi in conflitto con la ben diversa ipotesi di tentativo di concussione per induzione (6) (come interpretata dalla prevalente giurisprudenza); c) la formulazione letterale della fattispecie de qua sembra escludere la sua applicabilità ai casi nei quali lo scopo perseguito sia quello indicato dall’art. 319-ter; se si aggiunge, in un’ottica de jure condendo, che, d) l’istigazione alla corruzione contende altresì il campo alla c.d. concussione ambien(2) In questo senso, anteriormente all’avvio dell’iter legislativo di riforma, G. VASSALLI, La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali, in Quaderni della giustizia, 1986, n. 46, p. 3. L’illustre autore non manca di segnalare le intuibili difficoltà di prova. (3) La citazione è tratta da Note illustrative di proposte in materia di corruzione e di illecito finanziamento ai partiti, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1994, p. 919 ss. (4) Cfr., la statistica pubblicata in Pubblica amministrazione: tipologie di reato e giurisprudenza, in Guida al diritto. Dossier/2, Milano, 1996, p. 9. (5) D. PULITANÒ, Alcune risposte alle critiche verso la proposta, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1994, p. 956 ss. (6) F.C. PALAZZO, La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali: un primo sguardo d’insieme, in questa Rivista, 1990, p. 826.
— 276 — tale (7), diventa facile osservare che l’interprete ha dinanzi a sé un quadro nel quale le zone d’ombra prevalgono sulle forme nette e ben delineate. Limitatamente al punto sub a), è sufficiente osservare che se la corruzione viene costruita come reato composto da due distinte condotte autonomamente rilevanti (corruzione attiva e corruzione passiva), l’istigazione alla corruzione dovrà essere interpretata come « tentativo eccettuato » (8); se invece la si interpreta come reato plurisoggettivo a concorso necessario, si dovrà parlare di istigazione autonomamente rilevante (in deroga all’art. 115 c.p.) (9), oppure di « tentativo di concorso » (10). Il problema sub b) sembra possa essere risolto attraverso un’interpretazione che valorizzi adeguatamente il requisito normativo dell’abuso » (11), quello sub c) viene risolto dalla dottrina prevalente facendo leva sul dolo specifico che sorregge la condotta istigatoria (12), mentre il problema indicato sub d) rileva solo retrospettivamente, in quanto l’ipotesi di concussione ambientale non sembra riscuotere l’interesse che l’aveva — spesso — sostenuta in passato (13). 2. Il fatto oggetto della sentenza annotata è il seguente: un privato, durante una verifica fiscale effettuata dalla G.d.F. presso il suo esercizio commerciale, prometteva al p.u. che dirigeva l’attività di controllo una somma di denaro affinché questi « pilotasse » la verifica verso lidi sicuri (per il contribuente!). Il p.u. fingeva di accettare la proposta, al solo fine di far cogliere con le mani nel sacco il privato. Ed infatti, al momento di ricevere la « dazione » del denaro precedentemente promesso, lo arrestava. Successivamente il G.I.P. presso il Tribunale di Urbino non convalidava l’arresto, ritenendo insussistente lo stato di flagranza, in quanto il reato ipotizzato (istigazione alla corruzione propria) non si era consumato al momento della dazione, ma già al momento della promessa. In questa sequenza diacronica la consegna del denaro è stata considerata come post factum non punibile. La decisione è stata impugnata dal P.M., il quale ha dedotto il vizio di violazione ed erronea applicazione della legge penale « sotto il profilo che, avendo il G.I.P. ritenuto di inquadrare la condotta... nello schema criminoso dell’istigazione (7) A. PAGLIARO, Brevi note sulla riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, in Ind. pen., 1989, p. 34. (8) A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte speciale, Delitti contro la pubblica amministrazione, VII ed., Milano, 1995, p. 153. Per un’ulteriore conferma v. la successiva n. 13. Parte della dottrina, G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, vol. I, Bologna, 1989, p. 171, ritiene questa fattispecie criticabile sotto l’aspetto politico-criminale, per l’inapplicabilità degli istituti della desistenza e del recesso attivo. Sul punto v. A. PAGLIARO, Principi, cit., p. 211. (9) Per tutti, F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte speciale, vol. II, XI ed., Milano, 1995, p. 303. (10) Così M. ZANOTTI, La riforma dei delitti di concussione e corruzione tra dogmatica e politica criminale, in (a cura di) A.M. STILE, La riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, Napoli, 1987, p. 387; amplius, ID., Profili dogmatici dell’illecito plurisoggettivo, Milano, 1985, p. 156 ss. Non convince la tesi di chi, A. SEGRETO-G. DE LUCA, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, II ed., Milano, 1995, p. 452, ritiene questa fattispecie « un autonomo reato plurisoggettivo ». Se la fattispecie richiede solo la condotta di un soggetto, da dove si ricava la natura plurisoggettiva del reato? (11) Sul punto v. le considerazioni di S. SEMINARA, Commento all’art. 317, in (a cura di) A. CRESPI-F. STELLA-G. ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, II ed., Padova, 1992, p. 719 s.; G. CONTENTO, Commento agli artt. 317-317-bis c.p., in I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione coordinato da T. Padovani, Torino, 1996, p.160. In giurisprudenza v. Cass. 198498/94, in (a cura di) G. ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, Complemento giurisprudenziale, Appendice di aggiornamento 1994-1995, Padova, 1995, p.70. (12) Da ultimo v. C.F. GROSSO, Commento agli artt. 318-322 c.p., in I delitti, cit., p. 220. (13) In senso contrario si è espressa la c.d. commissione Pagliaro che, nello schema di legge delega per un nuovo codice penale, ha introdotto questa forma di concussione, eliminando però l’istigazione alla corruzione; cfr., (a cura di) M. PISANI, Per un nuovo codice penale, Schema di disegno di legge-delega al Governo, Padova, 1993, p. 65 e p. 99.
— 277 — alla corruzione, lo stato di flagranza di questo reato coincideva... con la dazione del denaro ». La S.C. ha accolto il ricorso ritenendo che la promessa e la successiva dazione integrassero « due distinti reati d’istigazione alla corruzione, evidentemente in continuazione tra loro ». Prima di entrare nel merito dell’analisi, è bene precisare che la sinteticità della motivazione della sentenza annotata, (memore, il Collegio, del detto « Niente di troppo »?) (14) permette di estendere l’analisi anche alle ipotesi formulate dal p.m. e dal G.I.P. nel caso de quo. 3. Il primo punto da valutare, per verificare la correttezza della decisione in esame, è la rilevanza della riserva mentale di una delle due parti contraenti il pactum sceleris. Sul punto della riserva del p.u. non sembra vi siano incertezze: dottrina e giurisprudenza ammettono che la riserva mentale dell’intraneus escluda la sua responsabilità per il reato di corruzione, lasciando sussistere a carico del solo extraneus una responsabilità per istigazione alla corruzione (15). La soluzione coglie nel segno. Infatti, con questo atteggiamento l’intraneo impedisce che si realizzi l’accordo criminoso, sicché nella situazione concreta si verifica il requisito negativo previsto dall’art. 322, comma 2, c.p., cioè la non accettazione dell’offerta o della promessa (16). Più problematico appare l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la riserva mentale del promittente sarebbe sempre irrilevante ai fini della realizzazione del delitto di corruzione (17). Nella sua assolutezza, tale posizione non sembra condivisibile per almeno due motivi: a) la riserva mentale serbata dall’estraneo, riserva che investe nella sua essenza il pactum sceleris, non può che avere la medesima rilevanza di quella espressa dal p.u., ed essere perciò idonea ad escludere la punibilità; b) rebus sic stantibus, sembra che ove l’iniziativa provenga dal p.u si configuri l’istigazione alla corruzione ex art. 322 commi 3 e 4 (18). È palese che quanto sopra esposto ha valore limitatamente all’ipotesi di riserva mentale che investa l’esistenza del pactum sceleris, in quanto l’intenzione di non adempiere non ha davvero alcuna rilevanza (19), così come efficacia non può avere la riserva mentale del p.u. di non realizzare l’atto oggetto della « baratteria ». In conclusione: la sussunzione del fatto sotto il nomen juris dell’istigazione alla corruzione sembra corretta e merita di essere condivisa. 4. L’adesione all’interpretazione adottata dal G.I.P. e confermata dalla Corte di Cassazione, esclude che si possa ipotizzare, come invece fa il P.M., una tentata corruzione attiva. In tal senso è la giurisprudenza prevalente, secondo la quale per la realizzazione del reato di corruzione tentata, stante la natura bilaterale del reato, è necessaria la verificazione — incompleta — del comportamento tipico dei due soggetti: (14) Sul punto F. CORDERO, Stilus curiae (analisi della sentenza penale), in questa Rivista, 1986, p. 19 ss.; ID., Procedura penale, III ed., Milano, 1995, p. 804 ss. (ivi, p. 807, la citazione riportata nel testo). (15) V., Cass. 18 marzo 1988, in Giust. pen., II, m. 296; A. PAGLIARO, Principi, cit., p. 174; C.F. GROSSO, Commento, in I delitti, cit., p. 193. (16) A. PAGLIARO, Principi, cit., p. 213. In giurisprudenza v. Cass. 5 maggio 1988, in Cass. pen., 1989, m. 1733. (17) Cass. 21 ottobre 1982, in (a cura di) T. BASILE-G. CAPALDO, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1996, p. 115. (18) C.F. GROSSO, Commento, in I delitti, cit., p. 178. (19) Cass. 18 febbraio 1981, in Cass. pen., 1982, m. 1560.
— 278 — ad esempio, tra le parti si svolgono trattative poi non concluse con un accordo o con una dazione (20). Come è noto, in dottrina le posizioni non sono invece uniformi. Alcuni autori ritengono che il tentativo di corruzione sia elevato a figura autonoma di reato ex art. 322 c.p: tale peculiarità sarebbe spiegata con la volontà del legislatore di assoggettare questa attività ad un regime diverso da quello di cui all’art. 56 c.p. (21); altri invece, prospettando la corruzione come reato plurisoggettivo a concorso necessario, sostengono che l’istigazione alla corruzione sia un reato autonomo che, derogando al principio della irrilevanza penale della istigazione non accolta, punirebbe comportamenti che non raggiungano lo stadio del tentativo (22): ovviamente questa parte della dottrina ritiene configurabile il tentativo solo quando « la condotta di entrambi (soggetti) tenda al raggiungimento dell’accordo, senza riuscirvi, manifestando l’incompleta violazione degli obblighi che a ciascuno di essi la legge impone in funzione preventiva » (23). Prima di concludere questo breve excursus sul rapporto tra tentativo di corruzione ed istigazione alla corruzione, appare utile sottolineare che non sembrano condivisibili le argomentazioni di coloro che, pur ritenendo la corruzione un reato plurisoggettivo, interpretano l’istigazione alla corruzione come un tentativo elevato a figura autonoma (24). Infatti, se si considera la corruzione come reato a concorso necessario, non si vede come possa affermarsi che l’attività di offrire o promettere disgiunta dall’accettazione, possa costituire un inizio di tipicità. La sentenza in esame sembra aderire all’impostazione che vede nell’istigazione alla corruzione un « tentativo eccettuato ». Infatti, come si legge nella motivazione, « la concreta messa a disposizione del denaro, al di là delle precedenti promesse che potevano avere avuto un significato non univoco, rappresenta un dato di fatto certo ed obiettivo ». Di fronte a siffatta argomentazione non può passare inosservato lo stretto legame che unisce la premessa teorica (l’istigazione alla corruzione come tentativo) all’inquadramento del caso de quo. Senza alcun dubbio questo passaggio della motivazione costituisce la « pietra angolare » sulla quale è costruita la decisione in commento, ma anche il punto di emersione di un vizio di fondo che ne mina in radice la solidità. Infatti, l’esclusione del carattere univoco della promessa: a) non è fondata: se si ritiene che non possa parlarsi di univocità « finché l’atto » è « tale da poter condurre tanto al delitto quanto ad azione innocente » (25), non si vede come possa sostenersi che la « promessa » (che è « assunzione unilaterale di impegno ad eseguire una prestazione futura », produttiva « di effetti giuridici indipendentemente dall’accettazione dell’altra parte ») (26) non sia univocamente diretta ad integrare il reato de quo anche a prescindere da ogni riferimento alla fattispecie di parte speciale verso la quale era diretto l’atto — rectius dal « nesso finalistico obiettivamente rilevante con la commissione del de(20) V., le decisioni citate in (a cura di) T. BASILE-G. CAPALDO, I delitti, cit., p. 116 e p. 136. (21) M.B. MIRRI, Corruzione, in Enc. giur. Treccani, vol. IX, Roma, 1991; A. PAGLIARO, Principi, cit., p. 153. (22) F. ANTOLISEI, Manuale, cit., p. 303. (23) A. SEGRETO-G. DE LUCA, I delitti, cit., p. 345. La parola « soggetti » è stata da noi inserita. (24) R. VENDITTI, Corruzione (delitti di), in Enc. dir., vol. X, Milano, 1962, p. 760 ss; C.F. GROSSO, Corruzione, in Dig. disc. pen., vol. III, Torino, 1989, p. 164; M.B. MIRRI, La corruzione dopo la riforma, in (a cura di) F. COPPI, Reati contro la pubblica Amministrazione, Torino, 1993, p. 98. Per una efficace critica a questo orientamento e per un’esatta ricostruzione cfr. A. SEGRETO-G. DE LUCA, I delitti, cit., p.450 ss. (25) F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale: Del delitto, della pena, Bologna, 1993, p. 237. (26) Cass. 3 marzo 1980, in (a cura di) T. BASILE-G. CAPALDO, I delitti, cit., p. 151.
— 279 — litto » (27). Il carattere univoco della promessa è così evidente che, anche volendo utilizzare i postulati della concezione c.d. soggettiva, il risultato non cambia; il proposito criminoso del soggetto emerge chiaramente e senza possibilità di equivoci; b) non è legittima: trasferendo la disciplina di cui all’art. 56 c.p. al delitto di istigazione alla corruzione, la S.C. non sembra accorgersi che tale delitto « è... dal punto di vista formale un autonomo delitto consumato »; il requisito della univocità « non trova alcun fondamento normativo... D’altra parte la condotta... del promettere è già sufficientemente delineata di per sé... Oltre a non essere nella legge, il requisito della univocità è... superfluo da un punto di vista funzionale » (28). A questi rilievi si deve peraltro aggiungere che, come si osserva in dottrina, il requisito della univocità, da intendersi in senso oggettivo, è la caratteristica della condotta che indica « il punto del non ritorno » nella zona della irrilevanza penale. Di conseguenza, l’accertamento di questo requisito deve precedere la valutazione dell’idoneità stessa (29). Più in generale, è da osservare altresì che l’istigazione alla corruzione è stata tipizzata dal legislatore come illecito a « condotta esclusiva », a differenza delle più classiche ipotesi di istigazione (artt. 302, 303, 414, 415 c.p.) che non prevedono modalità di manifestazione della condotta tipizzate in fattispecie (30). Questa scelta del legislatore fa sì che tali condotte — offrire e promettere — debbano essere considerate adeguate ex se: l’accertamento dei requisiti di idoneità e di univocità deve dunque ritenersi superfluo. Tuttavia, un esame seppur sommario della giurisprudenza formatasi sul reato de quo, evidenzia che almeno l’accertamento dell’idoneità della condotta si affianca, in molte pronunce, alla promessa e all’offerta come requisiti di fattispecie (31). Siffatto orientamento, se lo si innesta sul tronco del delitto tentato, non appare condivisibile, anche se l’esigenza della quale si fa portatore merita certo considerazione, ma nell’ambito suo proprio, che sembra essere il reato impossibile per inidoneità dell’azione (32). Come è noto, questo istituto è stato al centro di un dibattito di alto profilo teorico: da una parte, si riteneva che l’art. 49 c.p. non foss’altro che « il contrario negativo » del delitto tentato (33); dall’altra, si celebrava in esso il riconoscimento normativo del principio di necessaria offensività dell’illecito penale, interpretando la fattispecie quale « ipotesi tipica di divergenza fra conformità allo schema descrittivo e realizzazione dell’offesa » (34). (27) T. PADOVANI, Diritto penale, III ed., Milano, 1995, p. 351. (28) A. PAGLIARO, Principi, cit., p. 211; contra R. PANNAIN, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Napoli, 1966, p. 149. (29) V. MORMANDO, L’istigazione: I problemi generali della fattispecie ed i rapporti con il tentativo, Padova, 1995, p. 82 s. (30) Cfr., F. ANTOLISEI, Manuale, cit., p. 219. Critici G. FORTI, Art. 414, in Commentario breve, cit., p. 886; G. DE VERO, Istigazione a delinquere e a disobbedire alle leggi, in Dig. disc. pen., vol. VIII, Torino, 1993, p. 295. (31) Secondo Cass. 15 aprile 1985, in Giust. pen., 1986, II, m. 233, « il delitto si configura con la semplice condotta dell’offerta o della promessa e con l’idoneità alla realizzazione dello scopo ». In questo senso v. anche, Cass. 25 marzo 1977, in Cass. pen., 1979, m. 527; Cass. 12 novembre 1980, in Cass. pen., 1982, m. 637; Cass. 14 febbraio 1985, in Giust. pen., II, 1986, m. 234; Cass. 25 febbraio 1987, in Riv. pen., 1987, p. 1119; Cass. 11 novembre 1988, in Cass. pen., 1989, m. 1218 e giur. ivi cit.; Cass. 15 dicembre 1989, in Riv. pen., 1991, p. 198; Cass. 30 novembre 1995, in Foro it., 1996, II, p. 418 ss. (32) Contra, R. PANNAIN, I delitti, cit., p. 149 ss. (33) Così ad es. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, XIII ed., Milano, 1994, p. 457. (34) M. GALLO, Dolo (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XIII, Milano, 1964, p. 786. A favore della c.d. concezione realistica del reato si sono espressi, ex multis, C. FIORE, Il reato impossibile, Napoli, 1959,
— 280 — Quest’ultima impostazione, seppur suggestiva, ha tuttavia incontrato molteplici ed insuperabili obiezioni, che ne hanno minato in radice la validità (35) riconducendo così il reato impossibile nell’usuale ambito del delitto tentato (36). Di recente la querelle interpretativa dell’art. 49 c.p. si è arrichita di un ulteriore e condivisibile sviluppo. Un riesame « incidentale » di questa tematica (37), ha fatto emergere che la reale funzione dell’istituto è quella di « fugare ogni dubbio relativo alla rilevanza penale del tentativo assolutamente inidoneo » (38), aggiungendo alla verifica ex ante radicata al momento dell’azione e nell’ottica del soggetto agente (richiesta dalla norma sul tentativo), una verifica ugualmente ex ante, ma condotta nella prospettiva del soggetto titolare del bene giuridico tutelato, verifica da operarsi in relazione a tutte le circostanze esistenti al momento dell’azione, anche se non conosciute dal soggetto agente. Nel caso in esame, la verifica che il giudice è chiamato a compiere, per evitare sovrapposizioni con le scelte del legislatore, deve accertare se la condotta astrattamente conforme al tipo sia effettivamente lesiva del bene giuridico tutelato, tenendo in conto ogni aspetto della situazione nella quale si è svolta l’azione (39). Ovviamente, la scelta tra le due prospettive accennate nel testo — tentativo o reato impossibile — non è senza conseguenze. La valutazione dell’idoneità nell’ambito del tentativo rende, nel caso di verifica negativa, pienamente lecito il fatto; se invece si opta per una valutazione ex art. 49 c.p., residua lo spazio per l’applicazione di una misura di sicurezza (40). A ciò si aggiunga, ad adiuvandum, che attraverso la valorizzazione di questa prospettiva si renderebbe comprensibile l’orientamento giurisprudenziale a mutare il titolo di reato — dall’istigazione alla corruzione all’oltraggio al pubblico ufficiale — nel caso di offerta corruttiva assolutamente irrisoria: ad esempio, lire 5.000 ad agenti della polizia stradale affinché si astenessero dal contestare una contravvenzione (41). Tutto ciò premesso, è da ritenere che la decisione di escludere la rilevanza della promessa precedente alla dazione si fondi su presupposti non condivisibili e porti a conseguenze, a nostro modo di vedere, insostenibili. Nella sentenza de qua, la S.C. ha infatti compiuto un’inammissibile operazione di interpretazione corretpassim; ID., Diritto penale, Parte generale, vol. I, Torino, 1993, p. 286 ss.; G. NEPPI-MODONA, Il reato impossibile, Milano, 1965, passim. (35) Per tutti v. F. STELLA, La teoria del bene giuridico e i c.d. fatti inoffensivi conformi al tipo, in questa Rivista, 1973, p. 19 ss.; M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, II ed., Milano, 1995, p. 479 ss. e lett. ivi, cit. (36) Di recente la Corte Costituzionale, sent. 11 luglio 1991 n. 333, in Giur. cost., 1991, p. 2660 e p. 2671, sembra aver valorizzato le osservazioni dei sostenitori della concezione realistica del reato, affermando che sebbene di norma l’offensività del reato debba ritenersi « implicita nella configurazione del fatto e nella sua qualificazione d’illecito da parte del legislatore », potrebbero verificarsi casi « marginali » di divergenza tra tipicità ed offesa. In queste ipotesi il giudice di merito è chiamato a verificare, sulla base del bene giuridico tutelato, se un determinato comportamento, astrattamente conforme al tipo, possa dirsi ricompreso tra i fatti puniti da quella disposizione. Sul punto v., G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Corso di diritto penale, 1, Nozione, struttura e sistematica del reato, Milano, 1995, p. 208 ss.; contra M. ROMANO, Commentario sistematico, cit., p. 481. (37) G. MARINUCCI, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in questa Rivista, 1983, p. 1223, n. 124-bis. Questa ampia nota non è riportata in una successiva riedizione di questo contributo cfr. (a cura di) G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, p. 209 e ss. (38) G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, Parte generale, III ed., Bologna, 1995, p. 432 e ss. (39) Come è stato scritto « l’art. 49, comma 2 c.p. non introduce... alcun requisito di fattispecie (l’idoneità appunto) ma... un requisito negativo (l’inidoneità); non stabilisce che si possa punire soltanto quando la condotta è idonea, ma prescrive che non si debba punire quand’essa non è idonea »: F. ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, II, Sassari, 1984, p. 98 ss. (40) Per alcuni spunti critici su questa conseguenza del reato impossibile v. G. GRASSO, in M. ROMANO-G. GRASSO-T. PADOVANI, Commentario sistematico del codice penale, vol. III, Milano, 1994, p. 396 s. (41) Cass. 15 dicembre 1989, cit.
— 281 — tiva, che ha sfigurato il reato di istigazione alla corruzione — il tenore letterale è sufficientemente chiaro nel ritenere idonee ed univoche l’offerta o la promessa — correzione probabilmente operata al fine di individuare, per ragioni « equitative », un concorso di reati. Tuttavia, escludendo la rilevanza penale della promessa in quanto carente di univocità, non sembra possibile recuperare poi questa stessa condotta per configurare un concorso materiale di reati, sub species reato continuato. Come si è già visto, l’accertamento del requisito della univocità non è richiesto: la promessa è « diretta in modo non equivoco » perché il legislatore stesso, in via generale, ha compiuto questa valutazione. Ma se si afferma che la promessa « ha un significato non univoco », si esclude che quella condotta abbia, in sé, rilevanza penale: da un punto di vista logico-formale, siffatta esclusione elide un componente essenziale, ed elimina così in radice la possibilità di configurare un concorso di reati. 5. Dalle osservazioni precedentemente svolte potrebbe dedursi che, se la S.C. avesse considerato la promessa come condotta univocamente diretta al compimento del reato, si sarebbe potuto legittimamente ipotizzare un concorso di reati tra le condotte di offrire e promettere. Ma questa ipotesi non coglierebbe nel segno. 5.1. La fattispecie incriminatrice de qua sembra corrispondere perfettamente allo schema generale della c.d. legge penale mista: il legislatore ha previsto all’interno di una « unica graduazione dosimetrica di pena » più modalità di realizzazione di un unico fatto (42). Una volta inquadrata l’istigazione alla corruzione all’interno di questo genus, è necessario spingere l’analisi più a fondo al fine di valutare se la fattispecie debba essere ricompresa tra le norme penali cumulative o tra le norme penali alternative, posto che — come è noto — si hanno notevoli divergenze tra le due species in tema di concorso di reati (43). Non è questa la sede per ripercorrere compiutamente gli sviluppi di una problematica che, storicamente, ha sempre affaticato la dottrina penalistica italiana, e non meno la dottrina di lingua tedesca: ai nostri fini sarà sufficiente richiamare le singole cadenze argomentative che interessano il problema di cui qui si tratta. Nella letteratura sul tema — vera palestra logica — si riscontra una notevole difformità di posizioni sia dal punto di vista sostanziale che nominale, difformità di posizioni che certamente ben poco ha contribuito ad apportare chiarimenti in una problematica che per tanti versi resta tuttora oscura, affidata a scelte compiute caso per caso (44). L’interpretazione più corretta sembra essere quella che vede nell’art. 322 c.p. una norma ad alternatività formale, in quanto il legislatore ha previsto che il reato possa essere integrato indifferentemente con la realizzazione di più comportamenti (45). Se infatti, come comunemente si ritiene in dottrina, le norme ad alternatività formale si caratterizzano per l’unicità del fatto e l’identità dell’interesse garantito; non vi è dubbio che entrambi tali requisiti siano presenti nell’ipotesi in esame. (42) L’espressione è di F. BRICOLA, Il rapporto di alternatività tra le fattispecie di falso in copie autentiche previste dall’art. 478 c.p., in questa Rivista, 1960, p. 561 s. (43) G. VASSALLI, Le norme penali a più fattispecie e l’interpretazione della legge Merlin, in Studi in memoria di F. Antolisei, vol. III, Milano, 1965, p. 356 al quale si rimanda per una più approfondita informazione sul tema. (44) F. BRICOLA, Il rapporto, cit., p. 561. (45) « Ogni condotta rappresenta una possibilità (un’alternativa) di commissione del reato, anche se si realizzano più condotte il reato resta unico »: così M. ROMANO, Commentario sistematico, cit., p. 684.
— 282 — È da ritenere che nel caso de quo si sia in presenza di una lesione unitaria di beni giuridici, rectius, di una pluralità apparente di lesioni del medesimo bene giuridico. Infatti, l’interesse tutelato è leso una sola volta, al momento della promessa (l’istigazione alla corruzione è reato istantaneo) (46), ed il successivo adempimento di questa non offende nuovamente il bene tutelato in quanto la prima azione è espressiva dell’intero disvalore del fatto. Tuttavia, se si considera che la norma con cui si punisce l’istigazione alla corruzione tutela il « prestigio della p.a contro il pericolo che coloro che ne fanno parte possano cedere alla venalità » (47), si potrebbe sostenere che ad ogni « attività » istigatoria corrisponda una lesione diversa del bene tutelato e, di conseguenza, che sia possibile ipotizzare una pluralità di reati, in concorso tra loro. In realtà, tale posizione non potrebbe affatto convincere. A tacer d’altro, basti pensare che anche per l’istigazione alla corruzione, così come per tutte le ipotesi di corruzione, deve realizzarsi un rapporto di « retribuzione » (da intendersi, per l’aspetto che qui interessa, come sinonimo di volizione corruttiva unitaria) tra l’attività del privato e quella del p.u. (48). Questo rapporto si presenta in maniera molto chiara ed evidente, in atto, nelle ipotesi di corruzione consumata, mentre appare in maniera molto più sfumata, in potenza, nelle ipotesi d’istigazione alla corruzione: nella corruzione ha una rilevanza oggettiva, mentre nell’istigazione alla corruzione tale rilievo è puramente soggettivo. Ciò premesso, sembra che — al pari della corruzione (49) — anche nella istigazione alla corruzione si debba ritenere l’unicità del reato se le offerte o le promesse, anche se contestuali, siano effettuate per indurre il p.u. ad un unico fatto di corruzione — rectius: se esse tendano ad un unico pactum sceleris o, parafrasando Accursio, se siano prestate ratione actis (50). Infatti, il bene giuridico tutelato dalla norma in questione, in qualsiasi modo lo si intenda, non sembra possa essere interpretato come autonomo dovere etico di fedeltà, ma deve essere visto in correlazione con il dovere del p.u. di adempiere correttamente i propri doveri istituzionali o con il dovere dello stesso di non accettare retribuzioni per il compimento di atti di ufficio (51). Se così è, le due diverse condotte non ledono più volte lo stesso bene, in quanto finalizzate al medesimo risultato. Per quanto riguarda l’unicità del fatto, sembra qui sufficiente richiamare il pensiero di un compianto Maestro: il fatto deve considerarsi unico « anche quando identico sia rispetto alle varie condotte tipizzate l’evento operante però non in funzione individuatrice del momento consumativo del reato, bensì in guisa di interesse attivo che stimola le varie condotte dell’agente... e si rifrange nello schermo mentale del soggetto (operando... come dolo specifico) » (52). Il reato d’istigazione alla corruzione sembra possa agevolmente riportarsi a questo (46) Cass. 26 novembre 1985, in Riv. pen., 1987, m. 172; Cass. 4 marzo 1992, in Riv. pen., 1992, m. 1047. (47) Così M.B. MIRRI, Corruzione, cit., p. 9. (48) V., S. RICCIO, Corruzione (delitti di), in Nov.mo dig. it., vol. IV, Torino, 1968, p. 904; C.F. GROSSO, Commento all’art. 12, in Leg. pen., 1990, p. 290; ID., Promessa di denaro al pubblico ufficiale « in ragione delle funzioni esercitate »: corruzione punibile o fatto penalmente atipico, in Foro it., 1996, II, p. 414 ss.; S. SEMINARA, Art. 322, in Commentario breve, cit., p. 729. (49) Cass. 25 gennaio 1988 afferma che « se la promessa o la retribuzione è unitaria, anche in funzione di una pluralità di atti non si avrà una pluralità di reati ma un unico reato » in Cass. pen., 1983, n. 1453 con nota contraria di A. FERRARO. (50) Su questo « aspetto » di Accursio criminalista v. M. LUCCHESI, Giustizia e corruzione nel pensiero dei glossatori, in Riv. stor. dir. it., 1991, p. 170 ss. (51) Sul punto v., da ultimo, S. SEMINARA, Gli interessi tutelati nei reati di corruzione, in questa Rivista, 1993, p. 951 ss. e l’ampia lett. ivi cit. (52) F. BRICOLA, Il rapporto, cit., p. 563 ss. Il corsivo è nostro.
— 283 — schema: l’elemento soggettivo del reato è infatti il dolo specifico (53), e l’evento che « si rifrange nello schermo mentale del soggetto », è l’induzione al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio. Di conseguenza, si deve dire che le due distinte condotte, offrire e promettere, sono considerate dal legislatore alternativamente o cumulativamente idonee ad integrare un solo reato. Risolto il problema in questi termini, non può essere accettata nemmeno la soluzione proposta dal G.I.P. (la dazione come post factum non punibile (54), inteso come vorbestrafte Tat in quanto « condotta criminosa susseguente, il cui disvalore è da ritenere già incluso in una condotta precedente che integra un reato più grave ») (55): è qui di ostacolo la struttura stessa della istigazione alla corruzione, che si presenta come norma penale ad alternatività formale. Il problema del post factum, in casi di tal genere, non si pone affatto, perché l’indifferenza, ai fini della consumazione, dei diversi tipi di condotte impedisce il verificarsi di uno dei presupposti di questa figura: la pluralità di condotte ognuna idonea ad integrare un reato (56). In conclusione: la possibilità d’individuare un concorso di reati tra le condotte consistenti nel promettere ed offrire deve essere certamente esclusa. Tale soluzione lascia tuttavia aperto il problema del valore da attribuire alla dazione successiva all’accettazione — simulata — di una promessa. Le argomentazioni svolte lasciano trasparire una duplice soluzione: l’effettiva dazione potrebbe essere valutata, ove fosse contestuale alla promessa, ai sensi e per gli effetti del’art. 133, comma 1 c.p., e specificamente sub n. 2 « gravità del pericolo » (da intendersi come « la misura concreta del rischio corso » dal bene) (57), oppure, nell’ipotesi di frazionamento — ed è questo il caso che qui interessa — potrebbe rilevare come indice per valutare la capacità a delinquere del reo ai fini di una commisurazione della pena orientata a reali effetti specialpreventivi (58). Questa possibile bipartizione non sembra debba essere oltremodo enfatizzata (59), anche se non può essere taciuto che optando per quest’ultima soluzione e seguendo le indicazioni della moderna dottrina sulla commisurazione della pena, si arriverebbe a considerare di fatto irrilevante questo ulteriore comportamento dell’istigatore, dato che non sembra possa incidere in bonam partem sul quantum della pena determinato sulla base della colpevolezza per il fatto (60). 6. La critica sin qui svolta alla decisione della S.C. ha consentito di verificare che: — l’istigazione alla corruzione è un autonomo titolo di reato, sicché non è necessario riscontrare i requisiti di cui all’art. 56 c.p.: la consumazione si realizza al momento della dazione o della promessa; (53) Cfr., la giurisprudenza citata in (a cura di) T. BASILE-G. CAPALDO, I delitti, cit., p. 155; G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, Appendice, cit., p. 26; A. SEGRETO-G. DE LUCA, I delitti, cit., p. 463. (54) Conf., Cass. 5 maggio 1988, cit. (55) G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. 623. (56) G. VASSALLI, Antefatto non punibile, post fatto non punibile, in Enc. dir., vol. II, Milano, 1962, p. 506 ss; ID., Le norme, cit., p. 382, n. 46. (57) M. ROMANO, in M.ROMANO-G. GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, vol. II, II ed., Milano, 1996, p. 303; G. VASSALLI, Le norme, cit., p. 383. (58) S. FIORE, Postfatto, in Dig. disc. pen., vol. IX, Torino, 1995, p. 653 ss. (59) S. PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, Milano, 1982, p. 263 ss., ritiene di ricomprendere nell’indice ex art. 133, c. 1, n. 2 anche le conseguenze « connesse ad un nuovo contegno post delittuoso dell’agente ». (60) E. DOLCINI, Art. 133, in Commentario breve, cit., p. 384; v. anche L. MONACO, Prospettive dell’idea dello « scopo » nella teoria della pena, Napoli, 1984, p. 274 ss. Un’indagine sull’ammissibilità della doppia valutazione degli indici di commisurazione in E. DOLCINI, La commisurazione della pena, Padova, 1979, p. 301 ss.
— 284 — — « promettere » ed « offrire » sono condotte alternativamente idonee e dirette in modo non equivoco ad integrare un unico reato; — l’effettiva dazione, a seguito di una promessa solo apparentemente accettata, non può essere qualificata come post factum non punibile, ma costituisce un elemento da valutare ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 133 c.p. dott. GABRIELE MARRA Istituto di diritto penale Università di Urbino
c) Giudizi di merito
CORTE D’APPELLO DI TORINO, 15 novembre 1995 Pres. Barbaro — Rel. Gandolfo P.M. (diff.) — Galletto, imputato Udienza preliminare — Sentenza di non luogo a procedere — Regola di giudizio per la sua emanazione — Possibilità di emanare la sentenza nel caso di insufficienza o contraddittorietà della prova. (C.p.p. art. 425). La sentenza di non luogo a procedere va pronunciata non solo nel caso in cui il rinvio a giudizio sia da escludere perché è provata l’insussistenza dei presupposti della penale responsabilità dell’imputato, ma anche nel caso in cui il rinvio a giudizio appaia inutile perché le fonti di prova della penale responsabilità dell’imputato appaiono a tal punto carenti, o insufficienti o contraddittorie da rendere altamente probabile l’assoluzione in sede dibattimentale (1). (Omissis). — MOTIVI DELLA DECISIONE. — La sentenza del G.U.P. di Saluzzo si apre con una premessa di carattere processuale, che il P.M. appellante dichiara di condividere. La premessa, riguardante l’art. 425 c.p.p., è stata formulata in relazione alla tesi della difesa dell’imputato Galletto, secondo cui il G.U.P. può pronunciare sentenza di non luogo a procedere non solo nel caso di prova negativa in ordine alla sussistenza del fatto, o alle altre formule di merito, ma anche nel caso in cui le emergenze probatorie inducano a un giudizio di mancanza di prova, ovvero di sua insufficienza o contraddittorietà. Il G.U.P. ha ritenuto di non potere accedere alla tesi difensiva attesa la diversa formulazione degli artt. 425 e 530 c.p.p., la quale dimostrerebbe che il legislatore ha voluto dare rilevanza alle situazioni di carenza, insufficienza e contraddittorietà della prova solo ai fini della pronuncia della sentenza di assoluzione in esito al dibattimento, e non ai fini della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere in esito alla udienza preliminare. Questa Corte ritiene invece condivisibile la tesi sostenuta dalla difesa del Galletto. A sostegno di essa militano importanti argomenti. Occorre preliminarmente ricordare che la principale funzione dell’udienza preliminare è quella di controllo sull’esercizio dell’azione penale al fine di evitare il rinvio a giudizio per imputazioni azzardate, e i conseguenti dibattimenti superflui. L’art. 425 va quindi letto in correlazione con l’art. 408, che, con la stessa finalità, consente al P.M., di non esercitare l’azione penale quando al termine delle indagini preliminari la notizia di reato appaia infondata; e l’art. 125 disp. att. al c.p.p. precisa in proposito che il P.M. chiede l’archiviazione quando « gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio ».
— 286 — È nell’ottica dell’art. 125 disp. att. che vanno dunque interpretate le regole dettate dal legislatore in ordine ai poteri e ai compiti del G.U.P. La diversa interpretazione secondo cui il G.U.P. può pronunciare il non luogo a procedere per una formula di merito soltanto quando vi sia la prova negativa della responsabilità, porterebbe invero alla conclusione, decisamente contrastante con lo scopo dell’istituto, di rendere obbligatorio il rinvio a giudizio anche nel caso in cui, in assenza di elementi di prova negativa, manchino però anche elementi di prova positiva della responsabilità, e la richiesta del P.M. sia fondata esclusivamente sul mero sospetto determinato da una generica notitia criminis. Ma la tesi qui sostenuta trova anche convincenti riscontri normativi. La soppressione dell’inciso « evidente » dal testo dell’art. 425 c.p.p., disposta con la legge n. 105/93, è chiaramente significativa della volontà del legislatore di superare le prassi interpretative che riconducevano la possibilità di pronuncia della sentenza di n.l.p. ai soli casi in cui l’innocenza delle persone sottoposte a indagini apparisse manifesta, e cioè risultasse direttamente provata. La nuova formulazione della norma, che risulta dalla espunzione del concetto di evidenza, deve quindi consentire il proscioglimento anche nei casi in cui l’innocenza non sia evidente, ma la situazione probatoria non sia comunque tale da giustificare un dibattimento, del quale si può pronosticare un esito sfavorevole alle tesi dell’accusa. A sostegno di questa conclusione sta anche la previsione dell’art. 422 c.p.p. secondo cui il G.U.P., quando ritiene di non potere decidere allo stato degli atti, indica alle parti temi nuovi o incompleti, e assume le prove dedotte al riguardo; tale potere concesso al G.U.P. dimostra che nel caso di elementi di prova carenti, insufficienti o contraddittori, il G.U.P. non è tenuto a emettere il decreto di rinvio a giudizio sul solo presupposto del difetto della prova negativa dell’innocenza, ma deve sollecitare un supplemento delle indagini. E allora, se l’acquisizione dei nuovi elementi di prova non dovesse consentire al giudice di superare la situazione di incertezza in precedenza accertata, non resta che concludere che egli a questo punto deve pronunciare sentenza di n.l.p.; altrimenti non avrebbe senso la previsione del suo potere di sollecitare un approfondimento delle indagini. Argomento in tal senso si ricava anche dal punto 52 della legge delega, nelle cui ultime righe si legge che il giudice dell’udienza preliminare è obbligato a pronunciare sentenza di n.l.p. « se non siano stati forniti elementi per il giudizio ». Questa espressione indica chiaramente che presupposto del non luogo a procedere è la mancanza di elementi per il giudizio, vale a dire lo stesso concetto espresso dall’art. 125 disp. att. al c.p.p., correntemente interpretato nel senso che debbano essere tralasciate le iniziative penali che appaiano ragionevolmente destinate a un insuccesso nella fase dibattimentale. Con riferimento a questo argomento si deve osservare che l’interpretazione più restrittiva della portata dell’art. 425 c.p.p. condurrebbe a ritenerlo costituzionalmente illegittimo per contrasto con la legge delega. Ulteriore conferma della correttezza della interpretazione qui sostenuta si rinviene nel disposto dell’art. 434 c.p.p. secondo cui la sentenza di n.l.p. può essere revocata quando si scoprono « nuove fonti di prova che da sole, o unitamente a quelle già acquisite, possono determinare il rinvio a giudizio ». Orbene il riferimento alle « fonti di prova già acquisite » sta a dimostrare che la precedente sentenza di n.l.p. può essere stata pronunciata anche in presenza di elementi di prova della colpevolezza, che però sono stati ritenuti insufficienti o contraddittori.
— 287 — Ritiene in conclusione questa Corte che la sentenza di non luogo a procedere vada pronunciata non solo nel caso in cui il rinvio a giudizio sia da escludere perché è provata l’insussistenza dei presupposti della penale responsabilità dell’imputato, ma anche nel caso in cui il rinvio a giudizio appaia inutile perché le fonti di prova della penale responsabilità dell’imputato appaiono a tal punto carenti, o insufficienti o contraddittorie da rendere altamente probabile l’assoluzione in sede dibattimentale. La verifica del G.U.P. resta comunque limitata al piano strettamente processuale, non essendo suo compito decidere sul merito della accusa, ma solo sulla ammissibilità o meno della richiesta di giudizio rivoltagli dal P.M.; in buona sostanza il fondamento dell’imputazione non dovrà essere approfondito sino al punto della verifica della colpevolezza dell’imputato, ma dovrà arrestarsi alla preliminare prospettiva di scongiurare un dibattimento superfluo. (Omissis).
——————— (1)
Insufficienza o contraddittorietà della prova e sentenza di non luogo a procedere.
1. Autorevolmente sostenuta in dottrina fin dai primi anni di vita del codice del 1988 (1) — quando ancora nel testo dell’art. 425 c.p.p. figurava l’inopportuno richiamo all’« evidenza » delle cause di proscioglimento nel merito (2) —, l’opinione secondo la quale la sentenza di non luogo a procedere andrebbe emanata anche nel caso di insufficienza o contraddittorietà della prova sta cominciando a raccogliere significativi consensi in giurisprudenza (3). A favore di una lettura non restrittiva dell’art. 425 c.p.p. si sono recentemente espresse sia la Corte di cassazione a Sezioni unite sia (con maggiore cautela) la Corte costituzionale: l’una affermando che il passaggio alla fase dibattimentale implica un giudizio di « qualificata probabilità di colpevolezza » che deve ritenersi incompatibile con un materiale probatorio lacunoso o di incerta decifrazione (4); l’altra sottolineando come (1) Cfr. in particolare CORDERO, Procedura penale, Milano, 1991, 780; GALATI, Le « ulteriori informazioni » e i criteri decisori nell’udienza preliminare, in AA.VV., L’udienza preliminare, (Atti del Vo Convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale, 20⁄22 settembre 1991, Urbino), Milano, 1992, 118 ss.; GREVI, Archiviazione per ‘inidoneità probatoria’ ed obbligatorietà dell’azione penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, 1312 ss.; LOZZI, L’udienza preliminare nel sistema del nuovo processo penale, ivi, 1991, 1077 (ora in Riflessioni sul nuovo processo penale, Torino, 1992, 143 ss.). (2) A cancellare l’aggettivo « evidente » dal testo della norma codicistica ha provveduto, come è noto, la legge 8 aprile 1993, n. 105. (3) Cfr. Cass., Sez. VI, 9 ottobre 1995, La Penna, in Arch. nuova proc. pen., 1996, 98; Trib. Teramo, 29 gennaio 1996, Biancucci, ivi, 1996, 269; Trib. Piacenza, 12 aprile 1995, Quintavalla, ivi, 1995, 645; Corte App. Napoli, 8 marzo 1995, Villanova e altri, ivi, 1995, 465; Trib. Minorenni Perugia, 16 dicembre 1993, in Rass. giur. umbra, 1995, 179. (4) Cfr. Cass., Sez. un., 25 ottobre 1995, Liotta, in Foro it., 1996, II, 351 (di identico contenuto Cass., Sez. un., 25 ottobre 1995, Riillo; Id., Sez. un., 25 ottobre 1995, Trimarchi). Il contrasto giurisprudenziale che ha provocato l’intervento delle Sezioni unite concerneva la possibilità di rivalutare la sussistenza del carico indiziario ex art. 273 c.p.p. — in difetto di elementi nuovi — dopo l’emanazione del decreto che dispone il giudizio. Adeguandosi all’orientamento prevalente (cfr. tra le più recenti Cass., Sez. I, 17 ottobre 1994, Modeo, in Giur. it., 1995, II, 478; Id., Sez. I, 11 ottobre 1994, Falcone, in Cass. pen., 1996, 221; Id., Sez. I, 19 maggio 1994, Magellano, ivi, 1995, 2222; Id., Sez. V, 21 marzo 1994, Bonifati, ivi, 1994, 2745; Id., Sez. V, 17 marzo 1994, Marando, ivi, 1994, 2747; contra Cass., Sez. I, 1 agosto 1995, Testa, in Arch. nuova proc. pen., 1995, 851; Id., Sez. VI, 2 febbraio 1995, Bono, in C.E.D., n. 201107; Id., Sez. I, 26 ottobre 1994, Barbaro, ivi, n. 200016; Id., Sez. VI, 8 marzo 1993, De Maria, in Cass. pen., 1994, 1900), le Sezioni unite hanno ritenuto che tale possibilità debba essere esclusa, in
— 288 — il ricorso alla sentenza di non luogo a procedere debba ritenersi legittimo, quanto meno, nelle ipotesi in cui vi sia motivo di prevedere che la prova insufficiente o contraddittoria rimarrebbe tale anche all’esito dell’istruzione dibattimentale (5). Nella motivazione della sentenza che si annota si ritrovano efficacemente riassunti tutti i principali argomenti che vengono di solito addotti a sostegno dell’opinione in esame. Le considerazioni svolte dalla Corte d’Appello di Torino possono dunque essere impiegate come un utile termine di riferimento per vagliare la reale fondatezza di tale opinione. 2. La cancellazione dell’aggettivo « evidente » dal testo dell’art. 425 c.p.p. ad opera della legge 8 aprile 1993, n. 105; il riferimento alle « prove già acquisite » contenuto nell’art. 434 c.p.p.; l’inconciliabilità logica della tesi avversata con il meccanismo di integrazione probatoria di cui all’art. 422 c.p.p.; la necessità di far coincidere la regola di giudizio sottesa all’emanazione della sentenza di non luogo a procedere con la regola di giudizio stabilita negli artt. 408 c.p.p. e 125 disp. att. c.p.p. per l’accoglimento della richiesta di archiviazione. Questi, in sintesi, i riscontri normativi e sistematici che la Corte d’Appello di Torino pone a fondamento dell’interpretazione accolta dell’art. 425 c.p.p. Consideriamoli nel dettaglio, invertendo, per comodità di trattazione, l’ordine espositivo seguito dalla Corte torinese: — in primo luogo, « la soppressione dell’inciso ‘evidente’ dal testo dell’art. 425 c.p.p., disposta con la legge 105/93 », sarebbe « chiaramente significativa della volontà del legislatore di superare le prassi interpretative che riconducevano la possibilità di pronuncia della sentenza di non luogo a procedere ai soli casi in cui l’innocenza delle persone sottoposte a indagini apparisse manifesta, e cioè risultasse direttamente provata »; — in secondo luogo, « il riferimento alle ‘fonti di prova già acquisite’ » contenuto nell’art. 434 c.p.p. starebbe a dimostrare « che la precedente sentenza di non luogo a procedere può essere stata pronunciata anche in presenza di elementi di prova della colpevolezza, che però sono stati ritenuti insufficienti o contraddittori »; — in terzo luogo, nel caso di elementi di prova carenti, insufficienti o contraddittori il giudice dell’udienza preliminare non sarebbe tenuto « a emettere il decreto di rinvio a giudizio sul solo presupposto del difetto della prova negativa dell’innocenza », ma dovrebbe « sollecitare un supplemento delle indagini » a norma degli artt. 421 comma 4o e 422 c.p.p. E « se l’acquisizione dei nuovi elementi di prova non dovesse consentire al giudice di superare la situazione di incertezza in precedenza accertata », egli dovrebbe « pronunciare sentenza di non luogo a procedere: altrimenti non avrebbe senso la previsione del suo potere di sollecitare un approfondimento delle indagini ». In altri termini, non vi sarebbe alcuna possibilità di emanare un decreto di rinvio a giudizio fondato su elementi di prova insufficienti o contraddittori, dal momento che in presenza di un siffatto quadro probatorio il giudice dell’udienza preliminare dovrebbe attivare il meccanismo integrativo di cui all’art. 422 c.p.p., e successivamente, permanendo la situazione di incertezza, pronunciare sentenza di non luogo a procedere. Una diversa interpretazione degli artt. 422 e 425 c.p.p. farebbe nascere, del resto, dubbi quanto « il rinvio a giudizio disposto ai sensi dell’art. 429 c.p.p. fa parte di quelle ‘statuizioni adottate da organi giurisdizionali nell’ambito dello stesso processo a fondamento delle quali è posta, in modo esplicito o implicito, la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza’, che, per ormai costante giurisprudenza, precludono, in mancanza di fatti nuovi sopravvenuti, la rivalutazione del requisito della gravità degli indizi ». (5) Corte cost. 15 marzo 1996, n. 71, in Cass. pen., 1996, 2090. Sull’opinione espressa dalla Corte v. ampiamente infra, par. 7.
— 289 — di legittimità costituzionale della disciplina codicistica sotto il profilo della sua conformità alla legge delega, in quanto — osservano ancora i giudici torinesi — « nelle ultime righe del punto 52 si legge che il giudice dell’udienza preliminare », sollecitato il supplemento istruttorio, « è obbligato a pronunciare sentenza di non luogo a procedere ‘se non siano stati forniti elementi per il giudizio’ »: espressione che « indica chiaramente (come) presupposto del non luogo a procedere (sia) la mancanza di elementi per il giudizio, vale a dire lo stesso concetto espresso dall’art. 125 disp. att. c.p.p., correntemente interpretato nel senso che debbano essere tralasciate le iniziative penali ragionevolmente destinate ad un insuccesso nella fase dibattimentale »; — infine, posto che « la principale funzione dell’udienza preliminare è quella di controllo sull’esercizio dell’azione penale al fine di evitare il rinvio a giudizio per imputazioni azzardate, e i conseguenti dibattimenti superflui », l’art. 425 andrebbe « letto in correlazione con l’art. 408, che, con la stessa finalità, consente al pubblico ministero di non esercitare l’azione penale quando al termine delle indagini preliminari la notizia di reato appaia infondata ». Dunque « le regole dettate dal legislatore in ordine ai poteri e ai compiti del giudice dell’udienza preliminare » andrebbero « interpretate ... nell’ottica dell’art. 125 disp. att. », il quale « precisa ... che il pubblico ministero chiede l’archiviazione quando ‘gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio’ ». Il proscioglimento dovrebbe pertanto ritenersi consentito « anche nei casi in cui l’innocenza non sia evidente, ma la situazione probatoria non sia comunque tale da giustificare un dibattimento del quale si può pronosticare un esito sfavorevole alle tesi dell’accusa »; vale a dire, « non solo nel caso in cui il rinvio a giudizio sia da escludere perché è provata l’insussistenza dei presupposti della penale responsabilità dell’imputato, ma anche nel caso in cui il rinvio a giudizio appaia inutile perché le fonti di prova della penale responsabilità dell’imputato appaiono a tal punto carenti, o insufficienti o contraddittorie da rendere altamente probabile l’assoluzione in sede dibattimentale ». 3. Va detto subito che il richiamo alla legge n. 105 del 1993 non può essere considerato risolutivo (6). Vigente l’art. 425 c.p.p. nella sua formulazione originaria, un’attenta dottrina aveva fatto notare come la semplice soppressione del requisito dell’« evidenza » dal testo della norma codicistica non avrebbe determinato alcuna sostanziale modifica nei presupposti normativi della sentenza di non luogo a procedere, lasciando irrisolti i problemi funzionali dell’udienza preliminare (7). Era una giusta osservazione: richiedendo che le cause di proscioglimento nel merito « risultino » dagli atti di indagine, il testo attuale dell’art. 425 c.p.p. sembra (6) Di avviso contrario Corte cost. 15 marzo 1994, n. 88, in Giur. cost., 1994, 846 (« la novella legislativa ... ha sostanzialmente modificato la regola di giudizio sottesa alla sentenza di non luogo a procedere, rafforzando chiaramente il potere valutativo del giudice dell’udienza preliminare, così che quest’ultima possa funzionare come filtro di maggior consistenza rispetto al dibattimento »); Cass., Sez. VI, 9 ottobre 1995, La Penna, cit. (la legge 105⁄93 ha di fatto « normativizzato l’interpretazione meno restrittiva dell’art. 425 c.p.p. »); Trib. Piacenza, 12 aprile 1995, Quintavalla, cit.; Trib. Minorenni Perugia, 16 dicembre 1993, cit. Nel senso che il nuovo testo dell’art. 425 c.p.p. richiederebbe addirittura « un accertamento positivo della colpevolezza dell’imputato » cfr. Cass., Sez. V, 17 marzo 1994, Marando, cit. (7) Così DOMINIONI, Giudice e parti nell’udienza preliminare, in AA.VV., L’udienza preliminare, cit., 84, che suggeriva dunque di « abbandonare in modo radicale la regola di giudizio dell’art. 425 c.p.p. ... per adottare quella prognostica ». Occorre dire che una proposta di questo genere — da realizzarsi aggiungendo al testo dell’art. 425 la clausola « ... oppure quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non siano idonei a sostenere l’accusa in giudizio » — venne effettivamente avanzata nel corso dei lavori preparatori della legge 105⁄93. Al suo mancato accoglimento contribuì forse la convinzione (eccessivamente ottimistica) che la soppressione del termine « evidente » non potesse venire intesa altrimenti: v. ad esempio l’intervento del Sen. Pinto in Commissione Giustizia del Senato [in Senato della Repubblica, XI Legislatura, 2a Commissione permanente (Giustizia), 31 marzo 1993, 10].
— 290 — alludere alla prova negativa della responsabilità esattamente come il suo predecessore; il problema di stabilire se il dettato normativo « possa ricomprendere pure la mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova » si poneva, dunque, « con maggiore incisività prima della legge 105/93 ma (si) pone ancor oggi » (8). Ugualmente non irresistibile — nonostante l’ampia considerazione di cui gode in dottrina (9) e in giurisprudenza (10) — è l’argomento fondato sul disposto dell’art. 434 c.p.p. L’errore che vi si annida è quello di confondere l’esistenza degli elementi a carico dell’imputato con la valutazione che ne viene fatta dal giudice, e di ritenere, conseguentemente, che in presenza di tali elementi non possa mai venire emanata una sentenza di non luogo a procedere per totale carenza della prova positiva o per ritenuta sussistenza della prova negativa. Si immagini un’udienza preliminare al cui esito gli elementi di prova favorevoli all’accusa siano soverchiati (e sul piano cognitivo, annichiliti) dagli elementi di prova favorevoli alla difesa: ad esempio, a una chiamata di correo intrinsecamente debole e non suffragata da validi riscontri si contrappongono numerose testimonianze d’alibi del tutto attendibili (11). Non v’è dubbio che in una simile ipotesi il giudice dovrebbe provvedere ex art. 425 c.p.p. anche in un sistema che vietasse de plano l’emanazione della sentenza di non luogo a procedere nei casi di insufficienza o contraddittorietà della prova. Qui infatti il giudizio non è dubitativo ma categorico: gli elementi d’accusa sussistono ma la loro efficacia dimostrativa, allo stato, è pari a zero; il coimputato ha mentito, oppure ricorda male. Supponiamo, tuttavia, che il pubblico ministero chieda in seguito la revoca della sentenza di non luogo a procedere dichiarandosi in possesso di nuove prove che dimostrano come le testimonianze favorevoli all’imputato fossero, in realtà, menzognere. Imprevedibilmente riabilitate, le dichiarazioni accusatorie del coimputato diventerebbero le prove « già acquisite » idonee ex art. 434 c.p.p. a determinare il rinvio a giudizio dell’imputato « unitamente ... alle nuove fonti di prova », a nulla rilevando il giudizio di completo disvalore in precedenza formulato nei loro confronti dal giudice dell’udienza preliminare (12). Insomma, prove a carico « già acquisite » non significa (8) Così LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 1996, 312. La persistente ambiguità del dato testuale è sottolineata anche da CORVI, L’udienza preliminare: sempre più udienza, sempre meno preliminare, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1993, 1099; GALATI, L’udienza preliminare, in SIRACUSANO-GALATITRANCHINA-ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, II, Milano, 1995, 213; MANZIONE, Commento all’art. 425 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da MARIO CHIAVARIO, Secondo aggiornamento, Torino, 1993, 217 s.; NAPPI, Guida al codice di procedura penale, Milano, 1996, 303. (9) Cfr. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1996, 828 (« il non luogo a procedere corrisponde al vecchio proscioglimento istruttorio, motivabile anche da prove insufficienti: l’art. 434 ne prevede la revoca davanti a nuovi materiali che, soli o con i già acquisiti, possano condurre al rinvio a giudizio »); GALATI, Le « ulteriori informazioni », cit., 121; GIULIANI, La regola di giudizio in materia di archiviazione (art. 125 disp. att. c.p.p.) all’esame della Corte costituzionale, in Cass. pen., 1992, 255; GREVI, Archiviazione per ‘inidoneità probatoria’, cit., 1316; LORUSSO, Provvedimenti ‘allo stato degli atti’ e processo penale di parti, Milano, 1995, 483 s.; LOZZI, Lezioni, cit., 316; MANFREDI, I presupposti della sentenza di non luogo a procedere ed il concetto di evidenza probatoria di cui all’art. 425 c.p.p. L’alternativa all’abolizione o facoltatività dell’udienza preliminare, in Arch. nuova proc. pen., 1992, 652. Per un’opinione difforme v. PRESUTTI, Presunzione di innocenza e regole di giudizio in sede di archiviazione e di udienza preliminare, in Cass. pen., 1992, 1369 s. (10) Già Corte cost. 15 febbraio 1991, n. 88, in Giur. cost., 1991, 595 s. aveva fatto notare come dal richiamo alle prove « già acquisite » contenuto nell’art. 434 c.p.p. si potesse « desumere ... che l’evidenza dell’innocenza ... non va identificata con la totale assenza di elementi a carico ». Concordi Cass., Sez. VI, 9 ottobre 1995, La Penna, cit., e Trib. Teramo, 29 gennaio 1996, Biancucci, cit.: attraverso l’art. 434 c.p.p. « l’ordinamento riconosce la fisiologica possibilità di emettere sentenza di non luogo a procedere anche in presenza di elementi probatori a carico dell’imputato ». (11) Magari acquisite ai sensi dell’art. 422 c.p.p.: ché altrimenti riuscirebbe difficile comprendere per quale motivo sia stato richiesto il rinvio a giudizio. (12) Si potrebbe obiettare che l’efficacia parziale di giudicato riconosciuta alla sentenza di non luogo a procedere preclude ogni rivisitazione del materiale probatorio in precedenza acquisito. Ma il principio vale soltanto a escludere che il giudice possa disporre la revoca della sentenza di non luogo a proce-
— 291 — prove già positivamente valutate dal giudice (sia pure ai limitati fini di una diagnosi di insufficienza o contraddittorietà delle stesse): ne deriva che la regola contenuta nell’art. 434 c.p.p. non è affatto incompatibile con un sistema normativo che autorizzi l’emanazione della sentenza di non luogo a procedere nei soli casi di totale carenza della prova positiva o di sussistenza della prova negativa. 4. Decisamente più complessa la tematica dei rapporti che intercorrono tra l’art. 422 e l’art. 425 c.p.p. A pochi mesi dal varo della riforma codicistica, in dottrina era stata denunciata la situazione « al limite dell’assurdo logico » che si sarebbe venuta a creare se — inteso in senso restrittivo l’art. 425 c.p.p. — si fosse costretto il giudice dell’udienza preliminare a disporre il rinvio a giudizio dell’imputato dopo avere vanamente sollecitato il supplemento istruttorio ex art. 422 c.p.p. Il giudice — era stato osservato — si considera non in grado di decidere allo stato degli atti quando gli elementi addotti dal pubblico ministero « risultano nel complesso ... insufficienti o contraddittori », ossia, « evidentemente, in base ad una valutazione di insufficienza di tali elementi ad autorizzare il passaggio al giudizio ». Permanendo la situazione di incertezza probatoria anche dopo l’assunzione (o la mancata assunzione) delle « sommarie informazioni » di cui all’art. 422, il giudice avrebbe dunque dovuto decretare il passaggio alla fase dibattimentale « in base a quegli stessi elementi valutati, in precedenza, non idonei a sorreggere il relativo provvedimento ». Una situazione — si concludeva — non solo « palesemente sconcertante anche in termini di funzionalità del modello processuale » (posto che in simili ipotesi, « avendo il pubblico ministero promosso l’azione penale sulla scorta di scarsi e lacunosi elementi d’accusa, e non avendo saputo fornirne altri in via suppletiva nel corso dell’udienza preliminare, il giudice ... sarebbe tenuto a decretare il passaggio al dibattimento pur nella consapevole prognosi di un epilogo pressoché sicuramente assolutorio dello stesso »), ma anche tale da suscitare fondati dubbi di compatibilità con la direttiva n. 52 della legge delega, nella quale « è prescritto che il giudice, al termine dell’udienza preliminare dedicata ad acquisire ulteriori elementi ai fini della decisione, debba ‘disporre il rinvio a giudizio’ ovvero ‘pronunciare sentenza di non luogo a procedere se non siano stati forniti elementi per il giudizio’ » (13). Cadenze argomentative non dissimili si ritrovano in numerosi successivi contributi dottrinali e giurisprudenziali. Punto di partenza è la ribadita equazione tra non decidibilità allo stato degli atti e insufficienza o contraddittorietà del materiale probatorio: « il fatto che il giudice abbia rappresentato l’esigenza di ulteriori informazioni ... di per sé è indice di insufficienza degli elementi portati fino a quel momento a sostegno dell’accusa » (14); l’indicazione dei temi di prova nuovi o incompleti si rende necessaria quando l’organo giudicante « ritiene che l’accusa sia deficitaria per la presenza di significative lacune o di gravi contraddizioni che non dere sulla base di un puro e semplice « ripensamento » in ordine al significato probatorio delle prove già valutate: se tale ripensamento consegue al novum probatorio — vale a dire, se le nuove fonti di prova sopravvenute o scoperte sono in grado di gettare una luce totalmente diversa sui precedenti apporti cognitivi —, nulla vieta di disporre il rinvio a giudizio anche sulla base di una rinnovata lettura di tali precedenti apporti. È tuttavia essenziale che siano le nuove prove a fungere, per così dire, da elemento trainante della rivisitazione del quadro probatorio: violerebbe il ne bis in idem un giudice che impiegasse la loro scoperta o sopravvenienza come un semplice pretesto per rovesciare la valutazione delle prove già acquisite. Sul punto rinviamo a CAPRIOLI, Archiviazione della notizia di reato e successivo esercizio dell’azione penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1995, 1381 ss. (13) GREVI, Archiviazione per ‘inidoneità probatoria’, cit., 1317 ss. (14) BIELLI, Natura e funzione dell’udienza preliminare, in Giust. pen., 1991, III, 266. V. anche ROBERTI, L’udienza preliminare. Poteri delle parti ed iniziative del giudice, ivi, 1991, III, 20.
— 292 — gli permettono di decidere allo stato degli atti » (15). Segue la constatazione dell’inammissibile paradosso contra reum che si verrebbe a profilare ammettendo il rinvio a giudizio dell’imputato dopo l’esito negativo del supplemento istruttorio: « sarebbe assurdo ipotizzare che ove l’accusa non soddisfi l’onere di integrare la prova su elementi di accusa ritenuti essenziali la sanzione sia, per l’imputato, il rinvio a giudizio » (16); « sostenere che anche in caso di supplemento totalmente fallito sia possibile il rinvio a giudizio significa obliterare il ruolo che in un processo accusatorio spetta all’onere della prova » (17): « se l’accusa non porta nulla, il niente rimane tale ... Nemmeno il più accanito sistema inquisitorio potrebbe avallare conseguenze del genere » (18). L’alternativa rinvio a giudizio/non luogo a procedere andrebbe pertanto risolta sulla base di due diverse regole di giudizio a seconda che ci si trovi nella fase precedente o successiva il supplemento istruttorio. In prima battuta, entrambe le decisioni potrebbero essere emanate solo in presenza di situazioni di « evidenza » probatoria (cioè nel caso di evidente utilità o evidente superfluità del dibattimento), dovendosi risolvere ogni situazione dubbia mediante il ricorso al meccanismo integrativo di cui all’art. 422 c.p.p.; sollecitata la presentazione di ulteriori elementi di prova, il giudice sarebbe invece legittimato a emanare la sentenza di non luogo a procedere anche nelle ipotesi di (perdurante) incertezza probatoria (19). Questa conclusione troverebbe un fondamentale riscontro nella direttiva n. 52 della legge delega, la quale — unanimemente intesa nel senso di imporre il non luogo a procedere ove le parti non abbiano fornito « elementi per il giudizio » (20) — andrebbe considerata come direttamente integrativa della disciplina ordinaria (21), o come tale, quanto meno, da orientarne in senso decisivo l’interpretazione (22). Il ragionamento, tuttavia, non convince per diversi motivi. In primo luogo, se l’impossibilità di decidere allo stato degli atti ex art. 422 c.p.p. dipendesse realmente da quello che si potrebbe definire come un difetto di « concludenza » delle indagini preliminari — vale a dire, se la valutazione di sufficienza o insufficienza del materiale probatorio da utilizzare per la decisione an(15) Così GALATI, Le « ulteriori informazioni », cit., 118. V. anche ID., L’udienza preliminare, in SIRACUSANO-GALATI-TRANCHINA-ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, II, Milano, 1995, 206. Del resto, a norma dell’art. 422 comma 2o c.p.p. le ulteriori prove a carico sono ammesse dal giudice solo « quando ne risulti manifesta la decisività ai fini dell’accoglimento della richiesta di rinvio a giudizio ». Dunque « l’art. 422 c.p.p. stabilisce ... che il giudice si deve astenere da una decisione allo stato degli atti se all’accusa manca un elemento decisivo »: ma « cos’è l’accusa alla quale manca un elemento decisivo, se non un’accusa carente, un’accusa contraddittoria? » (GALATI, ivi, 206 s.). (16) Trib. Teramo, 29 gennaio 1996, Biancucci, cit. Analogamente LOZZI, Lezioni, cit., 314; ID., L’udienza preliminare, cit., 150 s. (17) CONSO, Conclusioni, in AA.VV., L’udienza preliminare, cit., 188. (18) CONSO, Conclusioni, cit., 189. (19) Nei termini ora riferiti (prima e dopo la riforma del 1993) cfr. soprattutto GALATI, Le « ulteriori informazioni », cit., 117 ss.; ID., L’udienza preliminare, cit., 203 ss. V. anche BENE, Prime riflessioni su archiviazione e obbligatorietà dell’azione penale, in Arch. pen., 1992, 43 s.; CORVI, L’udienza preliminare, cit., 1090 s. (20) Cfr. BIELLI, Natura e funzione, cit., 266; CONSO, Conclusioni, cit., 188; CORDERO, Codice di procedura penale commentato, Torino, 1992, 509; GALATI, Le « ulteriori informazioni », cit., 120 ss.; ID., L’udienza preliminare, cit., 207; KOSTORIS, Commento all’art. 422 c.p.p., in Codice di procedura penale. Commentario a cura di Angelo Giarda, III, Milano, 1990-1993, 3 s. [« un rinvio a giudizio è possibile solo in quanto il quadro probatorio — anche a seguito di eventuali integrazioni ex art. 422 — appaia idoneo a sostenere l’accusa in dibattimento. In difetto di ciò si impone il non luogo a procedere. Una soluzione questa a cui porta anche la chiara indicazione contenuta nella direttiva 52, ultima parte, della legge-delega (‘obbligo del giudice di pronunciare sentenza di non luogo a procedere se non siano stati forniti elementi per il giudizio’) »]; LORUSSO, Provvedimenti ‘allo stato degli atti’, cit., 482; LOZZI, Lezioni, cit., 314; ID., L’udienza preliminare, cit., 150 s. (21) Così (riprendendo uno spunto di GREVI, Archiviazione per ‘inidoneità probatoria’, cit., 1320) GALATI, Le « ulteriori informazioni », cit., 122; ID., L’udienza preliminare, cit., 208. (22) LOZZI, Lezioni, cit., 314.
— 293 — dasse realmente compiuta in termini di avvenuto o mancato raggiungimento di una determinata soglia cognitiva (con il giudice dell’udienza preliminare tenuto a promuovere il supplemento istruttorio tutte le volte in cui i risultati dell’indagine apparissero incerti o contraddittori (23)) —, il meccanismo decisorio conclusivo dell’udienza preliminare sarebbe fatalmente destinato a incepparsi tutte le volte in cui gli esiti investigativi fossero dubbi ma le indagini svolte si dimostrassero ineccepibili dal punto di vista della completezza. Perché si possa procedere all’integrazione probatoria di cui all’art. 422 c.p.p. occorre che esistano temi di prova suscettibili di un fruttuoso approfondimento: ma tale condizione, come è ovvio, non sempre si realizza, in quanto l’indagine dall’esito equivoco potrebbe risultare del tutto esauriente (o apparire non utilmente « completabile » per il sopravvenuto inaridirsi delle fonti di prova trascurate). In simili circostanze, dunque, si verrebbe a creare una situazione di irrimediabile impasse, risultando preclusa sia l’applicazione dell’art. 422 c.p.p. (per la carenza di piste investigative praticabili), sia l’immediata emanazione di un provvedimento terminativo della fase (per l’incertezza dei dati cognitivi acquisiti) (24). Ma la tesi riferita conduce a esiti criticabili soprattutto nell’ipotesi inversa, ossia quando le indagini abbiano prodotto risultati cognitivi inequivoci ma difettino di completezza. Supponiamo che il rinvio a giudizio dell’imputato sia stato richiesto sulla base di due prove testimoniali apparentemente inattaccabili, cui la difesa non ha saputo contrapporre alcun significativo elemento a discarico. Nessun dubbio che ci si trovi in presenza di un quadro probatorio privo di quei requisiti di incertezza e contraddittorietà che sono indispensabili, secondo l’opinione criticata, perché si possa procedere all’acquisizione delle « ulteriori informazioni » di cui all’art. 422 c.p.p. Immaginiamo tuttavia che il giudice dell’udienza preliminare ritenga non sufficientemente approfondito un tema di prova che, opportunamente sondato, avrebbe potuto offrire elementi di giudizio idonei a rovesciare la valutazione di evidente necessità del dibattimento. Ad esempio, nessuno ha pensato di controllare se al momento in cui è stato commesso il reato l’imputato risultava realmente assente dal luogo di lavoro; oppure esisteva una documentazione filmata dell’evento criminoso e le parti non hanno provveduto a farla acquisire agli atti di causa. In simili evenienze, non ci pare seriamente contestabile che debba essere sollecitato l’approfondimento del tema di prova: una diversa conclusione non soltanto produrrebbe l’effetto di limitare notevolmente la funzione di filtro attribuita all’udienza preliminare (per il corretto esercizio della quale occorre che il giudice sia posto in condizione di prevenire anche le sgradite sorprese che l’istruzione dibattimentale potrebbe riservare all’ipotesi d’accusa), ma ridurrebbe in modo drastico gli spazi concessi al diritto alla prova dell’imputato nel corso della medesima udienza (25). (23) V. per tutti GALATI, L’udienza preliminare, cit., 206: « il giudice non può decidere allo stato degli atti ove i risultati delle indagini del pubblico ministero si presentino lacunosi o contraddittori ». (24) È stato opportunamente chiarito che la decisione negativa del giudice ex art. 421 comma 4o c.p.p. non discende né può discendere da una « impossibilità » stricto sensu di provvedere allo stato degli atti, per il semplice fatto che nel caso di fallimento del supplemento istruttorio il giudice deve « decidere ugualmente, con gli stessi parametri di giudizio in base ai quali avrebbe deciso prima e in base ai quali ... ha ritenuto di non poterlo fare ». Dunque il giudice può « stimolare le parti ad offrire elementi in più, non tanto a causa di una ‘situazione di stallo’ o di ‘impasse’, ma per la convinzione o che si possa pretendere un maggior grado di fondatezza alla richiesta del pubblico ministero o che non si debbano negare alle parti private (e segnatamente all’imputato) opportunità probatorie capaci di inserirsi nella logica della decisione, condizionandone il segno ». Si tratta cioè « di un potere che, lungi dal ripetere la sua essenza da una irriconoscibile impossibilità di decisione, asseconda, piuttosto, una esigenza di arricchimento delle conoscenze utili alla decisione stessa » (FRIGO, Commento all’art. 422 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da Mario Chiavario, IV, Torino, 1990, 630 s.). (25) Esemplare, in proposito, la vicenda oggetto di giudizio in Trib. Torino, 18 luglio 1990, Pe-
— 294 — D’altra parte, se il modulo differenziato di udienza preliminare descritto nell’art. 422 c.p.p. potesse venire adottato soltanto nel caso di insufficienza o contraddittorietà della prova, e se il fallimento del supplemento investigativo avesse quale inevitabile conseguenza l’emanazione della sentenza di cui all’art. 425 c.p.p., riuscirebbe difficile comprendere quale interesse potrebbero avere l’imputato e le parti cointeressate a chiedere l’ammissione di nuove prove ex art. 422 comma 2o c.p.p.: e come, soprattutto, l’assunzione di tali prove, la cui mancanza condurrebbe alla pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere, potrebbe venire considerata « decisiva » (ai sensi del medesimo art. 422 comma 2o c.p.p.) ai fini di ottenere l’emanazione della suddetta pronuncia. A tale obiezione si è replicato osservando che l’onere probatorio gravante sull’imputato sarebbe da intendere esclusivamente « in funzione di quanto prospettato o prospettabile dall’accusa, data l’esigenza di contrastarne le iniziative, o, più precisamente, non potendo conoscere a priori quali prove l’accusa potrà richiedere e quali risultati attingere, di premunirsi a fronte di ogni eventualità » (26). Ma così argomentando si finisce per spezzare la limpida simmetria dell’art. 422 comma 2o c.p.p. a totale svantaggio di chi si oppone alla richiesta di rinvio a giudizio: mentre il pubblico ministero e la parte civile sarebbero legittimati (nei limiti e alle condizioni stabilite dalla norma codicistica) ad arricchire di nuovi elementi di prova la tesi d’accusa ritenuta debole dall’organo giurisdizionale, il « diritto di difendersi provando » attribuito all’imputato e alle altre parti private nel corso dell’udienza preliminare si ridurrebbe alla sola facoltà di compiere affannose contromosse probatorie. Questi rilievi inducono a ritenere che il presupposto per l’applicazione degli artt. 421 comma 4o e 422 c.p.p. sia l’incompletezza delle indagini (qualunque ne sia l’esito momentaneo) e non la loro inconcludenza (27). La « necessità » di acstellini, in Arch. nuova proc. pen., 1991, 215. L’imputato di cui veniva richiesto il rinvio a giudizio — accusato di avere aggredito un agente della Polizia di Stato nel corso dei tafferugli seguiti a una partita di calcio — era raggiunto da prove addirittura schiaccianti: due colleghi dell’agente ferito lo avevano riconosciuto e nel suo zaino era stato ritrovato lo sfollagente sottratto alla vittima dell’aggressione. Egli tuttavia si difendeva sostenendo, tra l’altro, che una decisiva prova della sua innocenza avrebbe potuto essere fornita dalle registrazioni audiovisive dell’accaduto che erano state effettuate dalla Rai e dalla stessa Polizia di Stato. Nonostante l’univocità degli elementi di prova raccolti nel corso dell’indagine (e la loro indubbia sufficienza ai fini del rinvio a giudizio, comunque fosse stato inteso l’art. 425 c.p.p.), il giudice dell’udienza preliminare riteneva — a nostro avviso, correttamente — che fosse necessaria l’integrazione probatoria: « se il giudice dell’udienza preliminare potesse sequestrare e visionare l’audiovisivo della Polizia dello Stato che ritrae le gradinate ove sono avvenuti i tafferugli, acquisendo un documento sicuramente obiettivo e con ogni probabilità decisivo, potrebbe pronunciare una sentenza di non luogo a procedere — che implicherebbe per l’imputato, oltre che immediate e positive conseguenze in ordine alla libertà personale, il risparmio dei costi e della pubblicità del dibattimento — ovvero superare decisamente i dubbi a favore dell’accusa (nel caso l’imputato venga ritratto nell’atto di commettere il reato) ». (26) CONSO, Conclusioni, cit., 189. (27) Nello stesso senso DOMINIONI, Udienza preliminare, in Quaderni C.S.M., Iniziative di aggiornamento professionale in relazione alla prossima entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, Roma, 1988, 126 s. (« al giudice dell’udienza preliminare è attribuito un potere di impulso verso le parti sul piano probatorio non semplicemente perché nella sua valutazione finale si registra lo stato del dubbio, ma perché coglie nell’insieme del materiale probatorio ... spunti, elementi, che gli consentono di registrare la possibilità di approfondimento »); FRIGO, Commento all’art. 422 c.p.p., cit., 628 ss.; MACCHIA, L’udienza preliminare, in Contributi allo studio del nuovo codice di procedura penale, Milano, 1990, 42 s. (l’art. 422 disegna « una situazione di stallo decisorio per la incompletezza del panorama informativo offerto al giudice ... Non direi, quindi, che si tratta di una situazione riconducibile alla categoria del dubbio, ma di un carente approfondimento di aspetti essenziali ai fini della decisione »); NAPPI, Guida, cit., 313 s. (« la situazione disciplinata dall’art. 422 è quella di una carenza delle indagini preliminari dovuta all’incompleto o mancato esame di un tema di prova ... Emblematiche in tal senso sono le situazioni che si presentano quando il pubblico ministero non ha verificato un alibi, o, comunque, un’attendibile ipotesi alternativa di ricostruzione dei fatti proposta dall’imputato. Non si tratta, quindi, di insufficienza o contraddittorietà della prova ...; ma si tratta di ipotesi di violazione del dovere di completezza delle indagini, che incombe sul pubblico ministero »). Nel senso che il potere di promuovere il supplemento istruttorio ex art. 422 c.p.p. sarebbe stato « conferito al giudice dell’udienza preliminare ... solo per evitare le situazioni di
— 295 — quisire ulteriori informazioni ai fini della decisione (art. 422 comma 1o c.p.p.) va dunque esclusivamente commisurata al rapporto esistente tra la valutazione delle risultanze di causa effettuata dal giudice allo stato degli atti e quella — di segno opposto — che potrebbe scaturire dalla verifica dei temi di prova nuovi o incompleti. Più esattamente, il giudice dell’udienza preliminare deve dichiararsi non in grado di decidere allo stato degli atti tutte le volte in cui ritenga — sulla base del materiale probatorio di cui all’art. 421 comma 3o c.p.p. e delle indicazioni fornite dalle parti nel corso della discussione (28) — che vi sia spazio per un approfondimento investigativo potenzialmente idoneo a rovesciare il suo giudizio provvisorio di necessità o superfluità del dibattimento (29), a nulla rilevando che il contenuto di tale giudizio sia, allo stato, categorico o dubitativo. Chiarito che la valutazione di decidibilità o non decidibilità allo stato degli atti da effettuarsi a norma dell’art. 421 comma 3o c.p.p. prescinde interamente dalla maggiore o minore consistenza degli elementi addotti a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio — e che, di conseguenza, nulla vieta di ipotizzare un supplemento istruttorio totalmente improduttivo cui faccia seguito l’accoglimento di tale richiesta (30) —, diventa arbitrario desumere argomenti a favore dell’interstallo decisorio derivanti dall’incompletezza del materiale informativo offertogli » v. anche Corte cost. 8 febbraio 1991, n. 64, in Giur. cost., 1991, 477, e Corte cost. 2 maggio 1991, n. 190, ivi, 1991, 1773. Meno decisa la posizione di LORUSSO, Provvedimenti allo stato degli atti, cit., 295 s., che da un lato riconduce l’impossibilità di decidere allo stato degli ex art. 421 c.p.p. alla « esigenza che la pronuncia del giudice consegua ad un accertamento più completo », ma d’altro lato afferma che « l’onere di acquisire ulteriori elementi di conoscenza » nasce « quando dalla discussione sia emerso un quadro probatorio carente o contraddittorio ». Sostanzialmente analoghe a quelle recepite nel testo sono le conclusioni cui perviene la dottrina circa il giudizio di decidibilità allo stato degli atti che il giudice dell’udienza preliminare è chiamato a formulare a norma dell’art. 440 comma 1o c.p.p. Anche qui — si afferma — non conta la « decisività o categoricità degli elementi acquisiti » (in senso favorevole o contrario all’ipotesi d’accusa), bensì « la completezza (o incompletezza) delle indagini espletate sui vari temi di prova » (così LAVARINI, La definibilità del processo allo stato degli atti nel giudizio abbreviato, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1994, 570 s.). (28) Sulla dialettica parti⁄giudice nell’individuazione dei temi di prova da completare cfr. Corte cost. 8 febbraio 1991, n. 64, cit., e Corte cost. 6 giugno 1991, n. 252, in Giur. cost., 1991, 2063; in dottrina v. LOZZI, L’udienza preliminare, cit., 158 ss. (29) Qualche dubbio potrebbe nascere con riferimento all’ipotesi in cui il giudice dell’udienza preliminare consideri incompleta l’indagine svolta dal pubblico ministero ma ritenga inidonei i suoi esiti provvisori ai fini del rinvio a giudizio. Se è vero che il compito principale dell’udienza preliminare è quello di scongiurare la celebrazione di dibattimenti inutili, ossia di funzionare, come si usa dire, da filtro delle imputazioni azzardate, potrebbe apparire estraneo alla logica dell’istituto che il giudice debba preoccuparsi dell’inefficienza investigativa del pubblico ministero anche laddove ritenga, allo stato degli atti, di potersi già esprimere nel senso della superfluità del dibattimento. La circostanza che i nuovi apporti probatori del pubblico ministero possano venire ammessi solo se « decisivi ai fini dell’accoglimento della richiesta di rinvio a giudizio » (art. 422 comma 2o c.p.p.) dimostra, tuttavia, che il legislatore ha preso in considerazione anche tale ipotesi. Non sembra invece che l’intervento del giudice ex art. 422 c.p.p. possa venire concepito, in questo caso, come una forma (necessaria) di controllo giurisdizionale sull’esercizio « apparente » dell’azione penale da parte del pubblico ministero, secondo uno schema argomentativo analogo a quello utilizzato dalla Corte costituzionale con riferimento all’art. 507 c.p.p. (Corte cost. 26 marzo 1993, n. 111, in Giur. cost., 1993, 918). A prescindere dal carattere probabilmente arbitrario di ogni estensione alla fase post-imputativa della regola che vuole la gestione della potestas agendi sottoposta al controllo del giudice (cfr. in proposito VALENTINI REUTER, La Corte costituzionale alle prese con l’art. 507 c.p.p., ovvero: ritorno al futuro, in Giur. cost., 1993, 933), non va infatti dimenticato che l’art. 422 c.p.p. si rivelerebbe uno strumento del tutto inadeguato a simili finalità, dal momento che non vi sarebbe modo di costringere il pubblico ministero ad accogliere le sollecitazioni provenienti dall’organo giudicante, né esisterebbero rimedi di sorta alla sua perdurante inerzia. (30) Nulla quaestio se la potenziale fonte di prova a discarico si rivela inesistente o non mantiene le sue promesse sul piano dimostrativo. Ma che dire se il canale probatorio potenzialmente favorevole all’imputato rimane insondato a causa delle limitate facoltà di ricerca della prova attribuite alla difesa (perché, ad esempio, la prova a discarico non può essere acquisita se non attraverso l’esercizio di poteri autoritativi)? Si potrebbe ritenere che in simili casi sia lo stesso pubblico ministero a dovere svolgere l’attività di ricerca della prova, pena il rigetto della richiesta di rinvio a giudizio. In fondo il giudice ha constatato l’esistenza di una lacuna investigativa (imputabile anche all’organo inquirente) che non è stata colmata: permanendo il dubbio che la fonte di prova non sottoposta a verifica si possa rivelare decisiva ai fini del
— 296 — pretazione meno restrittiva dell’art. 425 c.p.p. dall’esistenza del meccanismo di integrazione probatoria affidato all’iniziativa del giudice, potendo convivere tale meccanismo con qualsiasi regola di giudizio per il passaggio alla fase dibattimentale (31). Torniamo a ipotizzare che sia totalmente mancata la verifica dell’alibi dell’imputato, o che sia sfuggita alle parti la possibilità di acquisire agli atti una prova documentale potenzialmente risolutiva: ma supponiamo stavolta che ciò si verifichi all’esito di un’indagine che ha prodotto esiti cognitivi incerti, e che il supplemento investigativo si riveli infruttuoso (perché, ad esempio, nessuno è in grado di ricordare se l’imputato era sul luogo di lavoro nel momento in cui il reato è stato commesso, o perché la documentazione filmata del fatto criminoso non è tale da consentire l’individuazione del responsabile). Se la regola generale desumibile dall’art. 425 c.p.p. fosse quella che impone di affidare al dibattimento la risoluzione dei casi dubbi, è scontato che il giudice dell’udienza preliminare dovrebbe emanare il decreto di rinvio a giudizio anche dopo il fallimento del tentativo di integrazione probatoria (32). Ma davvero non si vede perché una disciplina processuale che consentisse al giudice di decidere in questo modo dovrebbe considerarsi necessariamente irragionevole (33). proscioglimento dibattimentale, potrebbe apparire non illogico che si debba emanare la sentenza di non luogo a procedere. Tale soluzione (sostanzialmente accolta da Corte cost. 2 maggio 1991, n. 190, cit.) appare tuttavia inconciliabile con la lettera e lo spirito dell’art. 422 comma 2o c.p.p.: il giudice dell’udienza preliminare dovrebbe infatti ammettere perché « manifestamente decisive ai fini dell’accoglimento della richiesta di rinvio a giudizio » le prove richieste dal pubblico ministero da cui risultasse l’assoluta estraneità dell’imputato al fatto criminoso. Non resta dunque che riconoscere l’esistenza di una violazione dei diritti difensivi dell’imputato, sicuramente censurabile anche in termini di mancato rispetto dell’art. 24 comma 2o Cost. (31) Il rapporto di implicazione che unisce la regola di giudizio desumibile dall’art. 425 c.p.p. e le scelte che il giudice dell’udienza preliminare è chiamato ad effettuare a norma degli artt. 421 comma 4o e 422 c.p.p. è semmai di segno opposto: non è infatti l’esistenza degli artt. 421 comma 4o e 422 a condizionare l’interpretazione e l’applicazione dell’art. 425 c.p.p., ma l’inverso, in quanto il giudizio di rilevanza o irrilevanza del mancato approfondimento investigativo (e quindi, di decidibilità o non decidibilità allo stato degli atti) deve essere ovviamente commisurato al criterio decisorio utilizzabile per il provvedimento terminativo della fase. In proposito, è affermazione ricorrente che l’interpretazione non restrittiva dell’art. 425 c.p.p. conduce a un « notevole ampliamento della sfera delibativa che si offre al giudice » ex art. 422 c.p.p., dovendo « la ‘decisività’ delle prove a discarico », in tale prospettiva, essere « valutata anche in vista della necessità di fare emergere l’insufficienza o la contraddittorietà del quadro probatorio presentato dal pubblico ministero » [v. MACCHIA, La ‘nuova’ sentenza di non luogo a procedere e il decreto che dispone il giudizio: tra ‘cripto-motivazione’ e dubbi di costituzionalità, in Cass. pen., 1993, 2415; MANZIONE, Commento all’art. 425 c.p.p. (aggiornato), cit., 220; NEPPI MODONA, Indagini preliminari, in CONSO-GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, Padova, 1996, 482 s.; Corte App. Napoli, 8 marzo 1995, Villanova e altri, cit.]. Occorre tuttavia notare che l’ampliamento della sfera delibativa concerne le sole prove a discarico: di fronte a una situazione di carenza assoluta di elementi d’accusa, il giudice — inteso non restrittivamente l’art. 425 c.p.p. — non potrebbe, ad esempio, sollecitare ed ammettere un’integrazione probatoria proveniente dal pubblico ministero che fosse potenzialmente idonea a determinare soltanto una situazione di insufficienza o contraddittorietà della prova. (32) Cfr. Tribunale di Piacenza, 9 aprile 1990, in Arch. nuova proc. pen., 1990, 582. (33) Si potrebbe sostenere che l’interpretazione meno restrittiva dell’art. 425 c.p.p. trova una indiretta conferma in quella stessa esigenza di completezza del materiale probatorio che il meccanismo integrativo di cui all’art. 422 c.p.p. intende garantire. È stato infatti ritenuto — sia pure con riferimento al decreto di archiviazione — che l’obbligo del pubblico ministero di svolgere indagini complete non potrebbe logicamente coesistere con la previsione di un criterio poco selettivo di passaggio al dibattimento: « se la richiesta di archiviazione ha per presupposto delle indagini esaurienti — è stato detto —, appare logico che la regola di giudizio sottesa all’archiviazione ricomprenda pure la carenza, l’insufficienza o la contraddittorietà della prova » (LOZZI, Lezioni, cit., 311 s.; per uno spunto nel medesimo senso v. GREVI, Archiviazione per ‘inidoneità probatoria’, cit., 1283 s.). Lo stesso principio sarebbe applicabile anche alla sentenza di non luogo a procedere: la doverosa completezza delle indagini « non può non comportare un controllo sulla carenza o insufficienza di elementi probatori, giacché sarebbe assurdo imporre una indagine completa al pubblico ministero e, poi, non consentire un controllo sulla effettiva presenza di elementi probatori » (così ancora LOZZI, Lezioni, cit., 316; ID., L’udienza preliminare, cit., 156 ss.). La convinzione che si tratti di due fattori necessariamente interdipendenti non è, tuttavia, unanime: « il grado di accertamento imposto da (una) regola di giudizio dipende dalla funzione che deve assolvere la decisione alla quale si riferisce e non già dalla maggiore o minore complessità del materiale probatorio su cui si deve
— 297 — Resta da prendere in esame l’argomento desunto dalla direttiva n. 52 della legge delega. Come già sappiamo, l’opinione pressoché unanime della dottrina è che in tale direttiva sia espressamente enunciata la regola secondo la quale all’esito negativo del supplemento istruttorio deve seguire l’emanazione della sentenza di non luogo a procedere (34). Così, infatti, andrebbe inteso l’inciso finale della norma nella parte in cui allude all’obbligo di « pronunciare sentenza di non luogo a procedere se non siano stati forniti elementi per il giudizio »: « l’alternativa non era risolubile allo stato degli atti: perplesso, il giudice ha invitato le parti a sottoporgli nuovi elementi; se alla nuova udienza non gliene portano, dichiara non luogo a procedere » (35). Rileggiamo tuttavia la direttiva 52 nelle sue battute conclusive. « Potere del giudice, nel caso in cui allo stato degli atti non ritenga di accogliere la richiesta del pubblico ministero di rinvio a giudizio né di pronunciare sentenza di non luogo a procedere, di rinviare ad altra udienza affinché le parti forniscano ulteriori elementi ai fini della decisione; previsione che tale udienza debba tenersi entro i termini previsti dal numero 48) o, se tali termini sono esauriti, non oltre un ulteriore termine massimo di sessanta giorni e che del rinvio si dia comunicazione al procuratore generale; obbligo del giudice, in questa nuova udienza, di disporre il rinvio a giudizio o di pronunciare sentenza di non luogo a procedere se non siano stati forniti elementi per il giudizio ». La subordinata condizionale « se non siano stati forniti elementi per il giudizio » ha una collocazione ambigua nella struttura sintattica della frase che la contiene. Essa infatti può essere intesa: a) come accessoria alla previsione dell’obbligo « di pronunciare sentenza di non luogo a procedere » (cioè come se la norma recitasse « obbligo del giudice di disporre il rinvio a giudizio o, se non siano stati forniti elementi per il giudizio, di pronunciare sentenza di non luogo a procedere »); b) come accessoria alla previsione dell’obbligo « di disporre il rinvio a giudizio o di pronunciare sentenza di non luogo a procedere » (cioè come se la norma recitasse « obbligo del giudice, se non siano stati forniti elementi per il giudizio, di disporre il rinvio a giudizio o di pronunciare sentenza di non luogo a procedere »). Ne deriva che anche la locuzione « elementi per il giudizio » può essere interpretata in due modi diversi: a) come riferita agli elementi idonei a determinare l’accoglimento della richiesta di instaurazione del dibattimento (cioè come se la norma recitasse « obbligo del giudice di pronunciare sentenza di non luogo a procedere se non siano stati forniti elementi per il rinvio a giudizio »); b) come riferita agli elementi utili al giudice dell’udienza preliminare per l’emanazione del provvedimento conclusivo dell’udienza (cioè come se la norma recitasse « obbligo del giudice di decidere » — nel senso del rinvio a giudizio o del non luogo a procedere — « anche se non siano stati forniti elementi ulteriori per la valutazione di superfluità o non superfluità del dibattimento »). Accolta la duplice soluzione interpretativa prospettata sub b), è appena il caso di notare che rimarrebbe del tutto impregiudicata la questione relativa al contenuto della regola di giudizio per il passaggio alla fase dibattimentale: la direttiva in esame non avrebbe altro scopo che quello di vietare ulteriori decisioni interlocutorie dopo il fallimento del primo tentativo di integrazione probatoria. La nostra opinione è che sia precisamente questa l’interpretazione corretta della norma. Lo si desume, in primo luogo, dalla circostanza che l’invito a prenfondare » (GIOSTRA, L’archiviazione. Lineamenti sistematici e questioni interpretative, seconda edizione, Torino, 1994, 24, nota 13). (34) Cfr. gli autori citati supra, note 13 e 20. (35) In questi termini, chiosando l’art. 2 n. 52 della legge delega, CORDERO, Codice, cit., 509.
— 298 — dere una decisione « se non siano stati forniti elementi per il giudizio » viene immediatamente dopo la previsione di un termine perentorio per la fissazione dell’udienza di acquisizione delle nuove prove: circostanza che induce a pensare alle due raccomandazioni del legislatore delegante come ispirate alla medesima volontà di contenere i tempi di svolgimento dell’udienza preliminare. Ma più ancora, lo si deduce dai lavori preparatori della legge delega del 1987, che rivelano come il testo originario della direttiva fosse assolutamente inequivoco sullo specifico punto (« potere del giudice dell’udienza preliminare, nel caso in cui allo stato degli atti non ritenga di accogliere la richiesta del pubblico ministero di rinvio a giudizio o di proscioglimento dell’imputato, di richiedere al pubblico ministero, che deve compierli, gli atti assolutamente indispensabili per la propria decisione, rinviando, entro un breve termine predeterminato nel massimo, ad altra udienza, nella quale deve in ogni caso adottare uno dei provvedimenti previsti nel numero 50 del presente articolo », cioè emanare il provvedimento di rinvio a giudizio o la sentenza di proscioglimento (36), e come, in seguito, la norma sia stata ritoccata dal legislatore per motivi di natura esclusivamente formale (37). 5. Escluso che si possano trarre elementi decisivi di conferma dell’interpretazione meno restrittiva dell’art. 425 c.p.p. dalla lettera della stessa norma codicistica (così come modificata dalla legge n. 105 del 1993) o dall’analisi delle dinamiche decisionali che presiedono all’emanazione e alla revoca della sentenza di non luogo a procedere (artt. 421 comma 4o, 422, 434 c.p.p.), resta da chiedersi quale sia il valore dell’argomento logico-sistematico imperniato sul rapporto tra la disciplina dei provvedimenti terminativi dell’udienza preliminare e la disciplina dell’archiviazione della notizia di reato. Presupposto dell’argomentazione è che il combinato disposto degli artt. 408 c.p.p. e 125 disp. att. vincoli il pubblico ministero a richiedere l’archiviazione anche nel caso di insufficienza o contraddittorietà degli esiti dell’indagine prelimi(36) Così la direttiva n. 52 del testo approvato dall’Assemblea della Camera dei deputati in data 18 luglio 1984; ma in termini analoghi si erano già espresse la direttiva n. 48 del testo approvato dalla Commissione Giustizia della Camera in data 15 luglio 1982 e la direttiva n. 40 del testo elaborato nel giugno 1982 dal Comitato ristretto della medesima Commissione Giustizia. A commento di quest’ultima previsione normativa (che attribuiva direttamente al giudice la facoltà di disporre l’acquisizione delle nuove prove), si era osservato in Commissione Giustizia come la stessa « limita(sse) il potere autonomo del giudice dell’udienza preliminare alla possibilità di disporre i soli atti assolutamente indispensabili per la propria decisione », e come, a tal fine, si sarebbe potuto « rinviare per una sola volta il procedimento ad un’udienza da tenere entro un brevissimo termine » (Camera dei deputati, Commissione Giustizia, VIII legislatura, Note ai testi del Comitato ristretto, in CONSO-GREVI-NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, III, Le direttive della delega per l’emanazione del nuovo codice, Padova, 1990, 486). (37) Nel testo elaborato nel giugno 1986 dal Comitato ristretto della Commissione Giustizia del Senato, la direttiva in esame fu modificata nel senso di prevedere che entrambe le parti (anziché il solo pubblico ministero) potessero venire invitate dal giudice a fornire nuovi apporti probatori; furono inoltre ulteriormente precisati i limiti cronologici entro i quali si sarebbe potuta tenere l’udienza di acquisizione delle prove. Le modifiche introdotte costrinsero il legislatore a riscrivere la norma che imponeva di adottare, nella nuova udienza, uno dei provvedimenti terminativi della fase, ossia di « rinviare per una sola volta il procedimento » (cfr. la nota precedente): e la formulazione prescelta fu quella che si ritrova nel testo definitivo della delega. Che il legislatore delegante volesse qui unicamente ribadire la scelta già effettuata dall’Assemblea della Camera è dimostrato dal fatto che le varianti apportate dal Senato vennero illustrate dal relatore on. Casini (nuovamente in Commissione Giustizia della Camera) senza neppure fare riferimento all’ultima parte della direttiva, evidentemente ritenuta non innovativa rispetto al testo precedente: « il testo originario della Camera prevedeva la restituzione degli atti al pubblico ministero con contestuale fissazione di un’altra udienza, mentre il testo del Senato stabilisce che il giudice restituisce gli atti per consentire alle parti — e quindi non solo al pubblico ministero — di produrre il materiale che si doveva raccogliere con contestuale fissazione di termini » (Camera dei deputati, Commissione Giustizia, II lettura, IX legislatura, Intervento del relatore on. Casini nella seduta del 22 gennaio 1987, in CONSOGREVI-NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, III, Le direttive della delega, cit., 495).
— 299 — nare, così dovendosi intendere l’art. 125 disp. att. nella parte in cui identifica l’infondatezza della notitia criminis con la « inidoneità » degli elementi raccolti nel corso delle indagini « a sostenere l’accusa in giudizio ». Tanto premesso, si fa rilevare come l’adozione di un differente criterio decisionale per l’emanazione della sentenza di non luogo a procedere provocherebbe conseguenze inaccettabili sul piano sistematico, in quanto l’organo giurisdizionale, di fronte a indagini preliminari dall’esito incerto, si verrebbe a trovare nella paradossale situazione di dovere condividere le scelte del pubblico ministero sia nel caso di richiesta di rinvio a giudizio sia nel caso di richiesta di archiviazione, con buona pace della sua funzione di controllo sul corretto governo del potere di azione da parte dell’organo inquirente (38). Ma non è tutto. È stato sostenuto in dottrina che una simile ricostruzione dei rapporti tra l’art. 425 c.p.p. e l’art. 125 disp. att. c.p.p. riuscirebbe addirittura lesiva del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Così come l’art. 125 disp. att. individua i casi in cui il pubblico ministero può legittimamente rinunciare all’esercizio dell’azione, allo stesso modo, si è fatto osservare, l’art. 425 c.p.p. segna i confini dell’uso legittimo della potestas agendi (39). Facendo rientrare l’ipotesi della prova insufficiente o contraddittoria in entrambi gli orizzonti decisionali, si sarebbe costretti a registrare la violazione del principio di cui all’art. 112 Cost.: infatti, « non è ammissibile che i presupposti dell’azione e quelli dell’archiviazione siano anche soltanto in parte sovrapponibili », perché « si è nell’ambito del principio di opportunità — bandito dalla nostra Costituzione — ogniqualvolta rispetto ad una fattispecie concreta il pubblico ministero possa legittimamente percorrere la strada dell’archiviazione o quella dell’azione » (40). Del resto, è stato detto, se « l’obbligatorietà mira pure ad assicurare l’eguaglianza dei cittadini in ordine al principio di legalità », come ha sovente riconosciuto la stessa Corte costituzionale, « può fondatamente asserirsi che tale eguaglianza risulta lesa ... anche quando, malgrado la palese infondatezza della notitia criminis, l’azione penale sia esperita facendo subire ingiustamente al cittadino tutte le conseguenze negative (si pensi, (38) Per tale sviluppo argomentativo cfr. ad esempio BENE, Prime riflessioni, cit., 42 ss.; CORDERO, Procedura (1996), cit., 828; DALIA-FERRAIOLI, Corso di diritto processuale penale, Padova, 1992, 420, 450; GALATI, Le « ulteriori informazioni », cit., 113 ss.; GIULIANI, La regola di giudizio, cit., 254 s.; GREVI, Archiviazione per ‘inidoneità probatoria’, cit., 1319; LOZZI, Lezioni, cit., 312 ss.; NEPPI MODONA, Indagini preliminari (1996), cit., 471 ss. Nel senso della compatibilità tra le due diverse regole di giudizio si vedano tuttavia le Osservazioni Governative all’art. 115 del progetto definitivo e all’art. 125 del testo definitivo delle norme di attuazione, in CONSO-GREVI-NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, VI, Le norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, Padova, 1990, 334, 455; in dottrina v. CONTI, La chiusura delle indagini preliminari, in Cass. pen., 1989, I, 930; CONTI-MACCHIA, Introduzione alle norme di attuazione del 1989, in CONSO-GREVI-NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, VI, Le norme di attuazione, cit., 89; D’ORAZI, Le fattispecie di archiviazione, in Crit. pen., 1991, 55; PULITANÒ, Chiusura delle indagini preliminari, archiviazione ed esercizio dell’azione penale, udienza preliminare, imputato e indagato, in AA.VV., Lezioni sul nuovo processo penale, Milano, 1990, 112; TURONE, Il pubblico ministero nel nuovo codice di procedura penale: criteri guida per la gestione delle indagini preliminari in funzione delle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale, in Quaderni C.S.M., Incontri di studio sul nuovo codice di procedura penale, II, Roma, 1989, 258 s.; V. ZAGREBELSKY, Sul ruolo del giudice nel nuovo codice di procedura penale, in Cass. pen., 1989, 915. (39) Cfr. PANSINI, Udienza preliminare, regole probatorie e procedimenti speciali, in AA.VV., L’udienza preliminare, cit., 95: se il giudice dell’archiviazione deve « valutare l’idoneità degli elementi raccolti nella fase delle indagini preliminari a mantenere in piedi l’accusa in giudizio », il giudice dell’udienza preliminare opera in una « situazione specularmente opposta: non più controllo sull’inazione del pubblico ministero e sulla legittimità di quest’inazione ma sulla legittimità dell’esercizio dell’azione penale ». In prospettiva affine v. anche COPPETTA, Osservazioni sull’archiviazione del pretore, in Dif. pen., 1990, n. 26, 23; SAMMARCO, La richiesta di archiviazione, Milano, 1993, 164; PRESUTTI, Presunzione di innocenza, cit., 1374 (e gli autori citati ivi, 1391, nota 134). (40) GIOSTRA, L’archiviazione. Lineamenti sistematici e questioni interpretative, prima edizione, Torino, 1993, 9 s., 28.
— 300 — ad esempio, alla obbligatoria sospensione da determinati impieghi) conseguenti alla assunzione della qualità di imputato » (41). Per garantire il rispetto del principio di obbligatorietà sarebbe dunque necessario istituire un controllo sull’azione perfettamente simmetrico, nei suoi presupposti, al controllo sull’inazione che si realizza attraverso la procedura archiviativa; una disciplina processuale che consentisse il rinvio a giudizio nelle ipotesi di infondatezza della notitia criminis sarebbe non soltanto irragionevole ma, prima ancora, lesiva dell’art. 112 Cost. (42). Espressa in questi termini, l’opinione riferita non appare, tuttavia, pienamente condivisibile. Il presupposto implicito da cui essa muove è che l’art. 112 Cost. obblighi il pubblico ministero non soltanto a esercitare l’azione penale ove ricorrano le condizioni stabilite dal legislatore ordinario (tradizionalmente coincidenti con la non manifesta infondatezza della notizia di reato), ma anche a non esercitarla nel caso in cui tali condizioni non si realizzino (43). Tuttavia, l’esistenza di questa seconda situazione soggettiva di dovere gravante sull’organo dell’accusa sembra essere smentita dalla stessa disciplina ordinaria dell’azione penale. L’analisi di tale disciplina dimostra, infatti, come l’esercizio avventato della potestas agendi non inneschi alcun meccanismo sanzionatorio di natura processuale: se il pubblico ministero dispone o richiede il rinvio a giudizio in difetto delle condizioni stabilite dalla legge (ad esempio, in presenza di una notitia criminis macroscopicamente infondata), l’ordinamento non « reagisce » né con una comminatoria di invalidità dell’atto propulsivo (in ipotesi, per violazione delle norme inerenti all’« iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale »), né costringendo il giudice a pronunciare una sentenza che attesti l’illegittimità di tale iniziativa (come avviene, in caso di mancanza di una condizione di procedibilità, attraverso la formula quanto mai significativa dell’azione penale che « non doveva essere iniziata »), né, infine — stante il principio di irretrattabilità dell’azione penale riaffermato nell’art. 50 comma 3o c.p.p. —, consentendo al medesimo giudice di « trasformare » l’azione in inazione mediante la pronuncia di un provvedimento archiviativo non richiesto (44), secondo schemi analoghi a quelli previsti per l’udienza preliminare nella legge delega del 1974 (45). Anche se esercitata in condizioni che legittimerebbero la richiesta di cui all’art. 408 c.p.p., l’azione penale spiega dunque per intero la sua efficacia tipica, determinando l’avvio del processo e la pronuncia di una decisione giurisdizionale sull’imputazione. Di conseguenza, un « dovere » del pubblico ministero di non agire (e di richiedere l’archiviazione) può ritenersi positivamente sussistente nel sistema processuale penale (46) soltanto a (41) LOZZI, L’udienza preliminare, cit., 154 ss. (42) Non dissimile nella sostanza la posizione di Cass., Sez. VI, 9 ottobre 1995, La Penna, cit., e di Trib. Teramo, 29 gennaio 1996, Biancucci, cit.: all’accoglimento della tesi criticata « consegu(e) un insindacabile potere del pubblico ministero, giacché dalla sua scelta (incontrollabile) di non richiedere l’archiviazione (può) derivare una soggezione dell’imputato: se nella situazione descritta nell’art. 125 att. c.p.p. il pubblico ministero, invece della doverosa archiviazione, richie(desse) il rinvio a giudizio, sarebbe preclusa la possibilità di adottare una sentenza ex art. 425 nel merito »; risultato « di dubbia legittimità costituzionale per la diretta incidenza sulla situazione dell’imputato di scelte discrezionali del pubblico ministero ». (43) Per una esplicita affermazione del principio cfr. ad esempio Cass., Sez. V, 12 ottobre 1984, Sciarretta, in Cass. pen., 1985, 1130: « l’obbligo, previsto dall’art. 112 Cost., per il pubblico ministero di esercitare l’azione penale non esclude, bensì postula, un correlativo potere-dovere di richiesta dell’archiviazione in caso di manifesta infondatezza della notitia criminis ». (44) In argomento v. Cass., Sez. II, 9 marzo 1993, Hocip Agira, in Mass. cass. pen., 1993, 6, 129; Id., Sez. VI, 19 ottobre 1990, Sica, in Cass. pen., 1991, II, 93; Id., Sez. III, 22 giugno 1990, Gherarduzzi, ivi, 1990, II, 397. (45) Cfr. CAPRIOLI, L’archiviazione, cit., 285 s., nota 35. (46) In accordo con la schiacciante maggioranza degli interpreti: cfr. tra gli altri CRISTIANI, Manuale del nuovo processo penale, Torino, 1991, 94; D’ORAZI, Le fattispecie di archiviazione, cit., 34;
— 301 — condizione che lo si configuri come un dovere la cui violazione è improduttiva di effetti sul piano giuridico (47), deducendosi la sua esistenza dalla sola previsione del modello legale di comportamento (48). Le considerazioni che precedono valgono anche con riferimento alla sentenza di non luogo a procedere. Pur avendo indubbiamente lo scopo di arginare gli effetti negativi che potrebbero derivare da un’azione penale esercitata in modo azzardato, la sentenza di cui all’art. 425 c.p.p. non postula affatto (né ha il compito di accertare) l’« illegittimità » di tale esercizio, se non altro perché la sua stessa natura giurisdizionale presuppone un’azione penale validamente promossa. Se questo è vero, anche equiparando la regola di giudizio della sentenza di non luogo a procedere a quella dettata per l’archiviazione non si eliminerebbe del tutto il preteso contrasto con il principio di obbligatorietà, perché si consentirebbe comunque al pubblico ministero di esercitare validamente l’azione in difetto dei presupposti di legge, e si costringerebbe ugualmente l’imputato a sopportare gli oneri derivanti dall’assunzione di tale status (a cominciare da quello di dovere affrontare la stessa udienza preliminare). Ad essere rigorosamente coerenti con le premesse accolte in ordine al valore « bifronte » del principio di obbligatorietà, si dovrebbe ritenere costituzionalmente tollerabile solo un sistema che consentisse al giudice di bloccare sul nascere le iniziative avventate del pubblico ministero: ad esempio, un sistema che prevedesse una « autorizzazione » dell’organo giurisdizionale all’esercizio dell’azione, o consentisse al giudice di replicare con un immediato decreto archiviativo a una richiesta infondata di rinvio a giudizio (49). Ma in chiave critica nei confronti di simili soluzioni si è giustamente osservato come « istituire un controllo giurisdizionale per la determinazione del pubblico ministero di promuovere l’azione penale (comporterebbe) uno stravolgimento dei ruoli GAITO, Natura, caratteristiche e funzioni del pubblico ministero. Premesse per una discussione, in AA.VV., Accusa penale e ruolo del pubblico ministero (Atti del convegno di Perugia 20-21 aprile 1990), Napoli, 1991, 22; GREVI, Archiviazione per ‘inidoneità probatoria’, cit., 1281; PRESUTTI, Presunzione di innocenza, cit., 1374; nel vigore del codice abrogato v. per tutti CONSO, Il provvedimento di archiviazione, in Riv. it. dir. pen., 1950, 358, nota 90; DOMINIONI, voce Azione penale, in Dig. pen., Torino, 1987, 400. In giurisprudenza, oltre alla già citata Cass., Sez. V, 12 ottobre 1984, Sciarretta, cfr. Cass., Sez. V, 7 giugno 1988, Falcetto, in Riv. pen., 1989, 613 (« l’obbligo del pretore di esercitare l’azione penale, a norma dell’art. 74 c.p.p. coesiste, come per tutti i magistrati inquirenti, con l’altro obbligo che gli impone di emettere decreto di archiviazione, qualora gli atti non consentano di procedere contro l’imputato »). (47) Per analoghe conclusioni cfr. FERRUA, L’iniziativa del pubblico ministero nella ricerca della notitia criminis, in Leg. pen., 1986, 315: « quale che sia la fonte a cui il pubblico ministero ha attinto per esercitare l’azione penale, quest’ultima è sempre validamente promossa, ossia idonea a costituire il dovere del giudice di decidere in merito, prosciogliendo o condannando l’imputato »; dunque « per quanto la cosa possa apparire singolare, l’azione penale si esercita e si sviluppa validamente a scapito della sua stessa causa (la notizia di reato non manifestamente infondata); detto in termini più tecnici, i presupposti del dovere di esercitare l’azione penale non coincidono con quelli del relativo potere, giacché, se il pubblico ministero deve esercitare l’azione penale solo a seguito di una notitia criminis non manifestamente infondata, egli può efficacemente esercitarla per ogni reato di sua competenza, quali che siano le fonti del suo sospetto ». Significativa anche la posizione di CORDERO, Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1957, il quale — dopo avere affermato l’esistenza di un « dovere (processuale) del pubblico ministero di esercitare l’azione penale ... ricollegato alla situazione pura e semplice risultante dal concorso dei due elementi rappresentati da una notitia criminis non manifestamente infondata e dalla presenza delle condizioni di procedibilità ... eventualmente richieste » (ivi, 152, 174) —, ravvisava in capo al pubblico ministero un « dovere di non agire » (e un correlativo dovere di richiedere l’archiviazione) nella sola ipotesi di notitia criminis relativa a un reato sottoposto a una condizione di procedibilità non avveratasi (ivi, 186 s., 251 nota 28). (48) Cfr. CORDERO, Le situazioni soggettive, cit., 108, 116 s.: « ogni comportamento che non collimi con quello di cui la norma ... fornisce la descrizione, per ciò stesso può essere qualificato antidoveroso, senza che nella valutazione entri alcun criterio fuor che quello rappresentato dalla commisurazione della fattispecie reale a quella astratta ». (49) Senza contare, naturalmente, che l’intera disciplina del processo pretorile non potrebbe sfuggire alle censure di incostituzionalità.
— 302 — processuali, ancora più marcato in un sistema di processo di parti », in quanto « l’azione penale, una volta promossa, trova la naturale verifica della sua fondatezza nella sentenza, che il giudice pronuncia secondo la regola di giudizio assegnatagli » (50). Sembra dunque preferibile ritenere che l’art. 112 Cost. imponga al pubblico ministero soltanto l’obbligo (positivo) di agire in presenza dei presupposti di legge e non anche l’obbligo (negativo) di astenersi dall’agire in assenza di tali presupposti. Così intesa la norma costituzionale — del resto inequivoca nella sua formulazione letterale, e storicamente legata all’esigenza di scongiurare la colpevole inerzia del rappresentante dell’accusa assai più che alla necessità di frenarne l’eccessiva intraprendenza —, nulla impedisce di ritenere conforme al principio di obbligatorietà una disciplina processuale che consenta al pubblico ministero di « percorrere legittimamente la strada dell’archiviazione o quella dell’azione » rispetto a una medesima fattispecie concreta: a patto, naturalmente, che in presenza di tale fattispecie non vi sia l’obbligo « forte » di esercitare l’azione penale ma l’obbligo « debole » di non esercitarla. Né può dirsi che l’interpretazione proposta dell’art. 112 Cost. sottovaluti le esigenze di legalità ed eguaglianza che sono connaturate al precetto costituzionale: il punto è che l’art. 112 non si preoccupa delle diseguaglianze (pur gravi) che derivano dall’uso avventato della potestas agendi, ma soltanto delle diseguaglianze che si verrebbero a creare laddove, ricorrendo i presupposti per agire nei confronti di due cittadini, il pubblico ministero potesse decidere discrezionalmente di sottoporne uno a processo e di chiedere l’archiviazione per l’altro. Tutto ciò comunque non significa che ci si debba rassegnare alla mancata coincidenza delle regole di giudizio stabilite per l’archiviazione e per il non luogo a procedere. Benché immune da censure di illegittimità costituzionale sotto il profilo dell’art. 112 Cost., un’interpretazione degli artt. 425 c.p.p. e 125 disp. att. che negasse la sovrapponibilità dei due criteri di decisione rimarrebbe inaccettabile dal punto di vista logico e sistematico, non comprendendosi per quale motivo all’organo giurisdizionale debbano essere assegnati due diversi parametri di valutazione della superfluità del dibattimento in ragione della circostanza (del tutto irrilevante) che il pubblico ministero abbia manifestato la volontà di agire o di non agire (51). La constatazione di tale incongruenza — in virtù della quale sarebbe lo stesso pubblico ministero, in definitiva, a fissare le condizioni del controllo giurisdizionale sulla sua scelta di procedere o non procedere (52) — è motivo sufficiente per considerare la reductio ad unum delle due regole di giudizio come una strada obbligata per l’interprete. Ciò che resta da chiarire è in quale modo debba essere ricucito lo strappo sistematico. Tre le possibili opzioni interpretative: a) dilatare la fattispecie decisoria contenuta nell’art. 425 c.p.p. fino a ricomprendervi — in accordo con l’opinione più diffusa — le ipotesi di insufficienza o contraddittorietà della prova (o, comunque, di « non probabile » condanna dell’imputato) (53); b) restringere la nozione di infondatezza della notitia criminis desumibile dagli artt. 408 c.p.p. e 125 disp. (50) DOMINIONI, Giudice e parti, cit., 78. (51) V. per tutti CORDERO, Procedura (1996), cit., 828 (« sarebbe assurdo rinviare a giudizio i casi che lo stesso organo avrebbe archiviato se l’indagante gliel’avesse chiesto »), e GROSSO, L’udienza preliminare, Milano, 1991, 238 ss. (52) GREVI, Archiviazione per ‘inidoneità probatoria’, cit., 1314. (53) È la via espressamente seguita da Cass., Sez. un., 25 ottobre 1995, Liotta, cit.: « essendo ragionevole escludere che in sede di udienza preliminare fosse imposto il rinvio a giudizio anche in quei casi nei quali, se fosse stato richiesto, il giudice avrebbe emesso decreto di archiviazione, la ‘evidente’ innocenza dell’imputato si aveva » — prima della modifica dell’art. 425 c.p.p. — « quando non vi erano elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio »; dunque « l’emissione del decreto che dispone il giudizio accertava la sussistenza di elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio il che, nella sostanza, stava a
— 303 — att. fino a ravvisare nelle sole situazioni di evidenza probatoria il presupposto per la legittima rinuncia all’esercizio dell’azione penale (54); c) individuare un criterio « intermedio » di valutazione della superfluità del dibattimento. Per effettuare correttamente la scelta occorre sospendere l’analisi dell’art. 425 c.p.p. e domandarsi quali siano i presupposti normativi dell’archiviazione. 6. Si afferma comunemente che il pubblico ministero dovrebbe richiedere l’emanazione del provvedimento archiviativo ogniqualvolta l’instaurazione del dibattimento si profili ab origine « superflua » (55), costituendo la superfluità del processo il « limite implicito » dell’obbligo costituzionale di esercitare l’azione penale (56). Il rilievo è certamente esatto ma non risolutivo: il concetto di superfluità o inutilità del dibattimento è un concetto di relazione, che allude a una finalità non realizzata; occorre stabilire quando la celebrazione del giudizio possa dirsi realmente inutile. Sul punto la dottrina è nettamente divisa. L’opinione prevalente è che debba considerarsi comunque « superfluo » il dibattimento che non si chiude con l’affermazione di responsabilità dell’impusignificare la concreta prevedibilità della condanna dell’imputato ». A seguito della novella del 1993 « risulta sicuramente confermato che il rinvio a giudizio emesso a conclusione dell’udienza preliminare implica un accertamento positivo della sussistenza di elementi ... tali da integrare la probabilità della affermazione di responsabilità ». In dottrina cfr. gli autori citati supra, nota 38 (prima parte). (54) Così ad esempio (ma prima della riforma del 1993) FORTUNA, I principi fondamentali dell’attuale modello processuale, in AA.VV., Manuale pratico del nuovo processo penale, Padova, 1993, 68 [« se solo l’evidenza dell’insussistenza del fatto, dell’estraneità ad esso dell’accusato, della sua non riconducibilità ad una ipotesi di reato, ovvero della non imputabilità dell’imputato può legittimare il proscioglimento in sede di udienza preliminare, a maggior ragione è indispensabile tale evidenza (se non se ne esige una ancora più immediata ed eclatante) per legittimare la richiesta di archiviazione del pubblico ministero e lo stesso decreto motivato con cui il giudice per le indagini preliminari l’accoglie »]; ID., voce Pubblico ministero, in Enc. giur. Treccani, 1991, 3; BERNARDI, Commento agli artt. 405-415 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da Mario Chiavario, IV, cit., 530; PIZIALI, L’archiviazione nella giurisprudenza costituzionale, in Ind. pen., 1993, 411; PRESUTTI, Presunzione di innocenza, cit., 1375 ss.; TAMBURINO, La chiusura delle indagini preliminari, in Quaderni C.S.M., Incontri di studio sulle disposizioni di attuazione, di coordinamento e transitorie del nuovo codice di procedura penale, Roma, 1989, 104 ss. (55) Cfr. tra i molti BERNARDI, Commento all’art. 125 disp. att. c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da MARIO CHIAVARIO, La normativa complementare, I, Torino, 1992, 482; BORRACCETTI, Archiviazione, indagini preliminari e obbligatorietà dell’azione penale, in Quest. giust., 1989, 576; CONTI, La chiusura delle indagini, cit., 929; CONTI-MACCHIA, Introduzione alle norme di attuazione del 1989, cit., 89; CRISTIANI, Manuale, cit., 95; GREVI, Archiviazione per ‘inidoneità probatoria’, cit., 1285, 1296; MOLINAR ROET, Eccesso di delega nella disciplina dell’archiviazione per infondatezza della notizia di reato?, in Giur. cost., 1990, 855; PIZIALI, L’archiviazione, cit., 408 ss.; PRESUTTI, Presunzione di innocenza, cit., 1373; ROCA, Archiviazione, non luogo a procedere e dovere di completezza delle indagini nella sentenza della Corte costituzionale n. 88⁄91, in Giust. pen., 1992, I, 187; TURONE, Il pubblico ministero, cit., 227; VIGLIETTA, Obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale tra realtà e apparenza, in Crit. dir., 1990, n. 4-5, 28; V. ZAGREBELSKY, Sul ruolo del giudice, cit., 916. (56) Cfr. Corte cost. 15 febbraio 1991, n. 88, cit. (« azione penale obbligatoria non significa ... consequenzialità automatica tra notizia di reato e processo, né dovere del p.m. di iniziare il processo per qualsiasi notitia criminis. Limite implicito alla stessa obbligatorietà, razionalmente intesa, è che il processo non debba essere instaurato quando si appalesi oggettivamente superfluo ... Il problema dell’archiviazione sta nell’evitare il processo superfluo senza eludere il principio di obbligatorietà ed anzi controllando caso per caso la legalità dell’azione »); in dottrina v. BENE, Prime riflessioni, cit., 40; CHIAVARIO, L’obbligatorietà dell’azione penale: il principio e la realtà, in Cass. pen., 1993, 2665; DALIA-FERRAIOLI, Corso di diritto processuale penale, cit., 305, 417; FORTUNA, I principi fondamentali, cit., 71; GIOSTRA, L’archiviazione (1994), cit., 4; GREVI, Archiviazione per ‘inidoneità probatoria’, cit., 1285, 1296; KOSTORIS, voce Riapertura delle indagini, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 350; NOBILI, La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Bologna, 1989, 71; RICCIO, Azione penale e politica delle riforme, in Arch. pen., 1992, 378; SAMMARCO, La richiesta, cit., 130; STABILE, L’archiviazione nel nuovo codice tra legge delega e norme di attuazione. Riflessi della riforma in tema di obbligatorietà dell’azione penale e indipendenza del pubblico ministero, in Cass. pen., 1990, I, 985; TREVISSON LUPACCHINI, Decreto di archiviazione e ordine di confisca, in Giur. it., 1992, III, 124; TURONE, Il pubblico ministero, cit., 227 s.
— 304 — tato (57). La scelta di esercitare o non esercitare l’azione penale andrebbe dunque esclusivamente commisurata agli esiti prevedibili del processo: il pubblico ministero dovrebbe decidere per la richiesta di rinvio a giudizio solo quando ritenesse altamente « probabile » la conferma dibattimentale della tesi accusatoria (58). Sulla base di queste premesse — che inducono non solo a ravvisare connotazioni di accentuata « concretezza » nella nuova azione penale (59), ma anche ad assegnare all’istituto dell’archiviazione finalità specifiche di « deflazione » del dibattimento (60) — viene normalmente interpretata la regola di giudizio risultante dagli artt. 408 c.p.p. e 125 disp. att. In applicazione di un criterio analogo a quello nordamericano della probable cause (61), il pubblico ministero sarebbe legittimato a richiedere l’archiviazione non solo nelle ipotesi di innocenza evidente dell’imputato o di carenza assoluta di prova, ma anche nei casi di prova insufficiente o contraddittoria, e, comunque, in tutti i casi in cui, sulla base di una valutazione prognostica degli esiti del dibattimento, l’eventualità di una condanna dell’imputato apparisse remota (62). Naturalmente, nel formulare questa prognosi si do(57) V. per tutti BERNARDI, Commento all’art. 125 disp. att. c.p.p., cit., 482 (« il processo utile e necessario è quello che ... si conclude con la condanna dell’imputato »); BORRACCETTI, Archiviazione, cit., 576; TURONE, Il pubblico ministero, cit., 230. (58) In questo senso v. già CORDERO, Linee di un processo di parti, in Ideologie del processo penale, Milano, 1966, 177. (59) L’affermazione è ricorrente: cfr. ad esempio AMODIO, Il modello accusatorio nel nuovo codice di procedura penale, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da Amodio-Dominioni, I, Milano, 1989, XLII; ID., Intervento, in L’azione per la repressione dell’illecito tra obbligatorietà e discrezionalità (Atti del XVo Convegno di Senigallia, 2-3 febbraio 1990), in Giustizia e Costituzione, 1991, I, 36; BENE, Prime riflessioni, cit., 45; BORRACCETTI, Archiviazione, cit., 575; CONTI-MACCHIA, Introduzione alle norme di attuazione del 1989, cit., 89; F.R. DINACCI, Il controllo giurisdizionale sulla decisione del pubblico ministero di non esercitare l’azione penale, in Cass. pen., 1991, II, 583; D’ORAZI, Le fattispecie, cit., 53; GREVI, Archiviazione per ‘inidoneità probatoria’, cit., 1286; KOSTORIS, voce Riapertura delle indagini, cit., 350; RICCIO, Azione penale e politica delle riforme, cit., 381; SELVAGGI, Notizie e pseudonotizie di reato: quale controllo?, in Cass. pen., 1991, II, 587; TURONE, Il pubblico ministero, cit., 227; VALENTINI REUTER, In tema di riapertura delle indagini dopo l’archiviazione e misure coercitive, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1994, 321. Contra CRISTIANI, Manuale, cit., 95 s.; FORTUNA, I principi fondamentali, cit., 69. (60) Per una particolare sottolineatura del profilo cfr. BERNARDI, Commento all’art. 125 disp. att. c.p.p., cit., 481; CENNICOLA, Principi guida per un buon funzionamento del nuovo sistema processuale, in Giust. pen., 1989, III, 26; COPPETTA, Osservazioni sull’archiviazione del pretore, cit., 25; CRISTIANI, Manuale, cit., 95; F.R. DINACCI, Il controllo giurisdizionale, cit., 581; D’ORAZI, Le fattispecie, cit., 56; FERRUA, Il nuovo processo penale e la riforma del diritto penale sostanziale, in Studi sul processo penale, II, Anamorfosi del processo accusatorio, Torino, 1992, 14 s.; GREVI, Archiviazione per ‘inidoneità probatoria’, cit., 1316, 1322, 1326; LOZZI, Il nuovo processo penale dopo il primo anno di applicazione: preoccupazioni fondate e preoccupazioni inconsistenti, in Leg. pen., 1990, 638 s.; NEPPI MODONA, Indagini preliminari (1996), cit., 472; TAORMINA, Diritto processuale penale, Torino, 1991, 556, 569 s.; TURONE, Il pubblico ministero, cit., 231. (61) Suggeriscono l’accostamento GREVI-NEPPI MODONA, Introduzione al progetto preliminare del 1988, in CONSO-GREVI-NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, IV, Il progetto preliminare del 1988, Padova, 1990, 63 s.; GREVI, Archiviazione per ‘inidoneità probatoria’, cit., 1322; NEPPI MODONA, Indagini preliminari (1996), cit., 471 s.; ID., Principio di legalità, cit., 126. Per opportune precisazioni sul concetto v. L. MARAFIOTI, L’archiviazione tra crisi del dogma di obbligatorietà dell’azione ed opportunità ‘di fatto’. Prospettive di razionalizzazione della prassi (alla luce del ‘Codice Tipo’ di procedura penale per l’America latina), in Cass. pen., 1992, 207 s., 215 nota 20, e ID., Sui poteri decisori del giudice all’esito dell’udienza preliminare, in Giur. it., 1993, II, 713 nota 3. (62) Con diverse e talora significative sfumature, il concetto viene espresso in dottrina da AMODIO, Il modello, cit., XLII; BENE, Prime riflessioni, cit., 39; BOCHICCHIO, Archiviazione degli atti ed error in iudicando, in Arch. nuova proc. pen., 1992, 429 (« il p.m. non deve richiedere l’archiviazione solo quando la notizia di reato sia manifestamente fondata »); CONTI, La chiusura delle indagini, cit., 929 (occorre richiedere l’archiviazione quando « l’ingresso della fase processuale si presenta superfluo per mancanza di prospettive idonee ad accreditare un esito contra reum del giudizio »); CONTI-MACCHIA, Introduzione alle norme di attuazione del 1989, cit., 89; DOMINIONI, Commento all’art. 50, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da Amodio-Dominioni, I, cit., 295; ID., Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, in AA.VV., Il nuovo processo penale. Dalle indagini preliminari al dibattimento, Milano, 1989, 62; ID., Giudice e parti, cit., 77 (per richiedere il rinvio a giudizio, il pubblico mini-
— 305 — vrebbe tenere conto sia della possibilità di reperire ulteriori elementi di prova dopo la richiesta di rinvio a giudizio (63), sia della necessaria acquisizione dibattimentale degli elementi di prova raccolti nel corso dell’indagine (64): anche in presenza di un quadro probatorio di per sé non insufficiente, sarebbe dunque lecito rinunciare all’azione penale nel caso in cui vi fossero prevedibili difficoltà a formare la prova in dibattimento (ad esempio, per la presunta incapacità dell’unico teste d’accusa a fronteggiare il controesame) (65). Condivisibile o meno, non c’è dubbio che sia stata questa la ratio ispiratrice dell’art. 125 disp. att. c.p.p. È vero che il riferimento al parametro della « causa probabile » era molto più esplicito nel progetto preliminare delle norme di attuazione (dal momento che l’art. 115 del progetto consentiva al pubblico ministero di richiedere l’archiviazione ogniqualvolta giudicasse gli elementi di prova acquisiti nel corso dell’indagine « non ... sufficienti al fine della condanna dell’impustero deve potere « fondatamente aspirare alla condanna dibattimentale »); GIOSTRA, L’archiviazione (1994), cit., 30; GREVI, Archiviazione per ‘inidoneità probatoria’, cit., 1292, 1312, 1322; L. MARAFIOTI, L’archiviazione, cit., 207 s.; ID., Sui poteri decisori, cit., 713 s.; RICCIO, Azione penale e politica delle riforme, cit., 378; RIVELLO, Un intervento della Corte Costituzionale sul delicato problema dell’archiviazione per l’inidoneità degli elementi acquisiti nelle indagini preliminari a sostenere l’accusa in giudizio, in Dif. pen., 1991, 59; SAMMARCO, La richiesta, cit., 134, 198 s.; V. ZAGREBELSKY, Sul ruolo del giudice, cit., 915. Riconoscono espressamente che possa venire decretata l’archiviazione anche nelle ipotesi di prova contraddittoria o insufficiente BERNARDI, Commento all’art. 125 disp. att. c.p.p., cit., 472 ss.; BILANCETTI, Le funzioni del giudice nella fase delle indagini preliminari, in Giust. pen., 1989, III, 309; BORRACCETTI, Archiviazione, cit., 576; CORDERO, Codice, cit., 488 (« cade ... ogni ipotesi su cui manchino le premesse di una condanna, inclusi i casi dubbi ...: è l’unico possibile calcolo prognostico »); ID., Procedura (1996), cit., 412; DALIA-FERRAIOLI, Corso di diritto processuale penale, cit., 420; D’ORAZI, Le fattispecie, cit., 53; DRAGONE, Le indagini preliminari e l’udienza preliminare, in AA.VV., Manuale pratico del nuovo processo penale, cit., 571; GREVI-NEPPI MODONA, Introduzione al progetto preliminare del 1988, cit., 63; LOZZI, Lezioni, cit., 85 s., 309 ss.; ID., L’udienza preliminare, cit., 145; MOLINAR ROET, Eccesso di delega, cit., 854; NAPPI, Guida, cit., 280; TAORMINA, Diritto processuale, cit., 558 ss., 645 ss.; TREVISSON LUPACCHINI, Decreto di archiviazione, cit., 124; TURONE, Il pubblico ministero, cit., 230 s., 257; VALENTINI REUTER, Le forme di controllo sull’esercizio dell’azione penale, Padova, 1994, 103. In giurisprudenza v. Trib. Torino, 5 aprile 1990, Trirè, in Giur. cost., 1990, 849 (legittima l’archiviazione quando il nesso causale tra la condotta e l’evento non è certo ma solo probabile); Cass., Sez. I, 12 marzo 1993, Tirone, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 629; Id., Sez. III, 22 giugno 1990, Gherarduzzi, cit. (il pubblico ministero deve chiedere l’archiviazione « ogni volta che l’analisi scrupolosa dei risultati investigativi lasci prevedere che il quadro probatorio a carico dell’imputato sarebbe, in caso di rinvio a giudizio, contraddittorio o comunque insufficiente ai fini di una pronuncia di condanna »). (63) Il riferimento è alle indagini svolte dopo la richiesta di rinvio a giudizio (art. 419 comma 3o c.p.p.), a quelle effettuate dopo il conforme decreto del giudice dell’udienza preliminare (art. 430 c.p.p.), agli elementi di prova acquisibili nel corso dell’udienza stessa (art. 422 c.p.p.) e all’« attività probatoria esperibile ex novo dall’organo dell’accusa nel contesto della dialettica dibattimentale »: così per tutti GREVI, Archiviazione per ‘inidoneità probatoria’, cit., 1292. (64) Nel senso che la valutazione prognostica di condanna dell’imputato va in ogni caso commisurata alle « potenzialità probatorie del dibattimento » v. soprattutto DOMINIONI, Chiusura delle indagini, cit., 62 e 75 [il pubblico ministero, « per seriamente contare che in dibattimento l’imputazione sia riconosciuta fondata con una sentenza di condanna, deve misurare i mezzi di prova che ha raccolto (e che di regola non vedranno aggiungersene altri, se non a discarico) con i nuovi meccanismi del dibattimento, il quale con tecniche istruttorie nuove e particolarmente penetranti forma originariamente le prove e non si limita, come nel sistema del codice Rocco, a rivisitare i materiali probatori già formati nell’istruzione e a saggiarne l’affidabilità »; dunque « il pubblico ministero, al fine di valutare se la notizia di reato è fondata ... deve stabilire, tenendo conto ... della funzione dibattimentale di formazione impregiudicata della prova, se i mezzi di prova raccolti siano idonei a far riconoscere fondata la tesi accusatoria in dibattimento »]. (65) Così Trib. Torino, 5 aprile 1990, Trirè, cit.; BERNARDI, Commento all’art. 125 disp. att. c.p.p., cit., 481 s.; GREVI-NEPPI MODONA, Introduzione al progetto preliminare del 1988, cit., 63; MOLINAR ROET, Eccesso di delega, cit., 854 s.; NEPPI MODONA, Indagini preliminari (1996), cit., 471; ID., Principio di legalità, cit., 126; SALVI, Primi problemi interpretativi su assetto e competenze degli uffici del pubblico ministero, in Quest. giust., 1989, 602 s.; nonché — meno esplicitamente — DOMINIONI, Chiusura delle indagini, cit., 62. Di avviso nettamente contrario GIOSTRA, L’archiviazione (1994), cit., 28 s., nota 26.
— 306 — tato ») (66), ma non sembra che la modifica intervenuta nel passaggio al progetto definitivo rifletta un reale mutamento di impostazione da parte del legislatore (67). Illuminanti, in proposito, i rilievi contenuti nella relazione governativa che accompagna il testo dell’art. 125: occorre — si diceva — « scoraggiare la prassi del rinvio a giudizio nonostante la insufficienza degli elementi a carico, riscontrata nell’applicazione del codice abrogato », ponendosi tale prassi « palesemente in contrasto con i caratteri del sistema accusatorio che ispirano il nuovo codice, fra i quali va sicuramente compresa la ‘deflazione dibattimentale’ » (68). Questa visione rigidamente efficientistica del processo penale non è, tuttavia, universalmente condivisa. Alla tesi che giudica « utili » soltanto i dibattimenti che si concludono con la condanna dell’imputato è stato infatti obiettato che il dibattimento penale ha un compito più gravoso: offrire una risposta che sia autenticamente « giurisdizionale » ad ogni situazione dubbia di possibile rilevanza penalistica (69). A sostegno di tale opinione è stato addotto ora un preteso diritto dell’imputato all’affermazione in giudizio della propria innocenza (a sua volta desumibile dal più generale principio di non colpevolezza consacrato nell’art. 27 comma 2o Cost.) (70), ora — in maniera più convincente — lo stesso principio di obbligatorietà dell’azione penale, inteso come principio che richiederebbe, a garanzia dell’eguaglianza dei cittadini, una trattazione degli affari penali tendenzialmente pubblica e condotta secondo le regole del contraddittorio (71). Per chi ragiona in questi termini è ovvio che il dibattimento concluso con l’as(66) Così l’art. 115 del progetto preliminare delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice. Modificato — su proposta della Commissione Parlamentare — in sede di redazione del progetto definitivo delle norme attuative, il testo della disposizione veniva poi recepito, senza ulteriori modifiche, nell’attuale art. 125 disp. att. È tuttavia da notare che rispetto alla formulazione suggerita dalla Commissione bicamerale veniva sostituito al condizionale « sarebbero » l’indicativo « sono », al fine di connotare in senso oggettivo la valutazione del pubblico ministero (sul punto Corte cost. 15 febbraio 1991, n. 88, cit.; GIULIANI, La regola di giudizio, cit., 253 s.; STABILE, L’archiviazione, cit., 981). (67) Cfr. per tutti BERNARDI, Commento all’art. 125 disp. att. c.p.p., cit., 472 s.; CORDERO, Procedura (1996), cit., 412; TAMBURINO, La chiusura delle indagini, cit., 109. Un riferimento esplicito alla prognosi di condanna è tuttora rintracciabile nell’art. 256 disp. trans. c.p.p., che detta i criteri per il rinvio a giudizio da osservarsi nei procedimenti che proseguono con l’applicazione delle norme del codice abrogato. « La richiesta e il decreto di citazione a giudizio nonché l’ordinanza di rinvio a giudizio — stabilisce l’art. 256 — sono emessi solo quando il pubblico ministero, il pretore o il giudice istruttore ritengono che gli elementi di prova raccolti siano sufficienti a determinare, all’esito dell’istruttoria dibattimentale, la condanna dell’imputato ». (68) Osservazioni Governative sull’art. 115 del progetto definitivo delle norme di attuazione, cit., 334. In senso critico nei confronti dell’intento « eminentemente deflattivo » perseguito dall’art. 125 disp. att., cfr. ROCA, Archiviazione, cit., 185 s.; accenti non dissimili in STABILE, L’archiviazione, cit., 985; TAMBURINO, La chiusura delle indagini, cit., 111 s.; VENEZIANO, Il ruolo del pubblico ministero nelle recenti sentenze della Corte costituzionale, in Quest. giust., 1991, 604 s. (69) In questo senso soprattutto il Parere del Consiglio Superiore della Magistratura sull’art. 115 del progetto preliminare delle norme di attuazione del codice, in CONSO-GREVI-NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, VI, Le norme di attuazione, cit., 190 ss.; in dottrina PIZIALI, L’archiviazione, cit., 410; PRESUTTI, Presunzione di innocenza, cit., 1367 ss.; STABILE, L’archiviazione, cit., 980 ss. (70) Così PRESUTTI, Presunzione di innocenza, cit., 1368 (« in presenza di elementi di prova che si prestino a soluzioni ‘aperte’ si impone il passaggio alla fase dibattimentale, la cui instaurazione se non altro giova al riconoscimento dell’interesse, di cui è portatore l’imputato, alla affermazione della propria innocenza »; solo in questo modo si consente « il dispiegarsi della presunzione di non colpevolezza nella sede propria del dibattimento »). (71) Parere del Consiglio Superiore della Magistratura sull’art. 115 prog. prel. disp. att., cit., 191 s.: « il nuovo processo, pur ispirandosi al modello del rito accusatorio, deve coesistere, fin quando la Costituzione non verrà sul punto modificata, con il principio di obbligatorietà dell’azione penale che esige che, di regola, sia il giudice del dibattimento, nella pienezza del contraddittorio delle parti, e con quella pubblicità che costituisce anch’essa garanzia di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge penale, a verificare la fondatezza o meno dell’ipotesi accusatoria. Non vi è dubbio che il lasciare alla richiesta e alla decisione di archiviazione, assunta senza il contraddittorio delle parti e in segreto, senza neppure la formulazione di un capo di imputazione, spazi dell’ampiezza di quelli concessi dall’art. 115 delle norme di
— 307 — soluzione dell’imputato non potrebbe definirsi necessariamente « inutile »: e neppure potrebbe dirsi in contrasto con il nuovo sistema processuale una regola di giudizio che fondasse l’alternativa tra archiviazione e rinvio a giudizio sulla circostanza che fosse evidente o non evidente l’innocenza dell’imputato, posto che soltanto nel primo caso l’accesso alla fase dibattimentale risulterebbe autenticamente « superfluo » (72). Solo così, del resto, il dibattimento potrebbe recuperare la centralità che gli è connaturale nel sistema accusatorio; « l’introduzione nel sistema di una norma quale quella prevista dall’art. 115 del progetto delle norme di attuazione — si era fatto notare nel corso dei lavori preparatori della disciplina attuativa — appare ispirata a una filosofia diversa da quella che si ritiene essere alla base dello stesso modello accusatorio: mentre infatti quest’ultima si fonda sull’idea che il contraddittorio meglio serva allo scopo di raggiungere la ‘verità’ (sia a favore che contro l’imputato), con la conseguenza che il dibattimento, contrassegnato dalla pubblicità, dalla trasparenza, dal completo contraddittorio tra le parti, viene concepito come la sede ideale per accertare la sussistenza o la insussistenza della responsabilità delle persone cui vengono attribuiti determinati fatti storici, quella che è invece sottesa alla disposizione dell’art. 115 delle norme di attuazione tradisce una sfiducia di fondo nel mezzo del contraddittorio e del dibattimento pubblico » (73). Un efficace tentativo di mediazione tra i due contrapposti orientamenti si ritrova nella sentenza costituzionale n. 88 del 1991 (74). Dopo avere ribadito che la superfluità del processo è il « limite implicito » dell’obbligo di esercitare l’azione penale, ed è, conseguentemente, il criterio-guida per l’individuazione dei casi in cui deve ritenersi legittima la rinuncia all’aattuazione significa favorire eventuali deprecabili ipotesi di ‘copertura’, ‘insabbiamento’, ‘compiacenza’, ‘lassismo’ etc., di cui verosimilmente non sarebbero i più deboli o i più sprovveduti a beneficiare... Il fatto è che in paesi retti da ordinamenti democratici, il principio della obbligatorietà dell’azione penale (che a sua volta rappresenta una estrinsecazione del principio di eguaglianza davanti alla legge) mal si concilia con un regime di decisione segreta sulla notizia di reato non manifestamente infondata ». (72) In questo senso il Parere del Consiglio Superiore della Magistratura sull’art. 115 prog. prel. disp. att., cit., 190 ss.: ma v. anche BERNARDI, Commento all’art. 408 c.p.p., cit., 529 s. (prima dell’emanazione delle norme attuative del codice); FORTUNA, I principi fondamentali, cit., 68; ID., voce Pubblico ministero, in Enc. giur. Treccani, 1991, 3; STABILE, L’archiviazione, cit., 979 (« la non evidenza dell’insussistenza del fatto o dell’innocenza dell’imputato postula il rinvio a giudizio »); TAMBURINO, La chiusura delle indagini, cit., 106. Più articolata, ma non dissimile nella sostanza, la posizione di PRESUTTI, Presunzione di innocenza, cit., 1368 s., 1375 s. (73) Per questi rilievi — sicuramente apprezzabili — v. ancora il Parere del Consiglio Superiore della Magistratura sull’art. 115 prog. prel. disp. att., cit., 192; in prospettiva analoga PRESUTTI, Presunzione di innocenza, cit., 1373; ROCA, Archiviazione, cit., 187; STABILE, L’archiviazione, cit., 980; TAMBURINO, La chiusura delle indagini, cit., 106. (74) Corte cost. 15 febbraio 1991, n. 88, cit. Le interpretazioni offerte dalla dottrina a questa pronuncia della Corte costituzionale (che ha escluso l’esistenza di un contrasto tra la direttiva n. 50 della legge delega del 1987 e l’art. 125 disp. att. c.p.p. nella parte in cui subordina l’archiviazione a un presupposto diverso dalla « manifesta infondatezza » della notitia criminis) sono, in verità, molto discordanti. Si ritiene talora che la Consulta abbia avallato la tesi della « causa probabile », ammettendo l’archiviazione dei casi dubbi [così sostanzialmente GIULIANI, La regola di giudizio, cit., 249; NAPPI, Guida, cit., 281; NEPPI MODONA, Indagini preliminari (1996), cit., 472 s.]: ma per l’interpretazione opposta cfr. ad esempio BERNARDI, Commento all’art. 125 disp. att. c.p.p., cit., 480; v. anche CHIAVARIO, L’obbligatorietà, cit., 2665; D’ORAZI, Le fattispecie, cit., 58 ss.; MANZIONE, Commento all’art. 425 (aggiornato), cit., 216; L. MARAFIOTI, Sui poteri decisori, cit., 715; MENCARELLI, Procedimento probatorio e archiviazione, Napoli, 1993, 107; VENEZIANO, Il ruolo del pubblico ministero, cit., 605 ss. Per una lettura « autentica » della sentenza costituzionale v. Corte cost. 6 giugno 1991, n. 252, cit., che sulla base delle stesse argomentazioni della sentenza n. 88⁄91 ha respinto una eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 425 c.p.p., negando la premessa, accolta dal giudice rimettente, secondo la quale l’art. 125 disp. att. consentirebbe l’archiviazione nelle ipotesi di insufficienza di prove (« la Corte ha già avuto modo di rilevare, nella sentenza n. 88 del 1991, che la formula adoperata nell’art. 125 disp. att. ... va intesa ... nel senso che sulla base degli elementi acquisiti l’accusa deve essere chiaramente insostenibile e quindi la notitia criminis inequivocamente infondata »).
— 308 — zione (75), la Corte osserva come nel principio di obbligatorietà « sia insito ... quello che in dottrina viene definito favor actionis », dal momento che l’art. 112 Cost. « esige che nulla venga sottratto al controllo di legalità effettuato dal giudice ». Ciò comporta « non solo il rigetto del contrapposto principio di opportunità, che opera, in varia misura, nei sistemi ad azione penale facoltativa, consentendo all’organo dell’accusa di non agire anche in base a valutazioni estranee all’oggettiva infondatezza della notitia criminis; ma comporta, altresì, che in casi dubbi l’azione penale vada esercitata e non omessa ». Di conseguenza, il principio di « non superfluità » del processo deve essere riguardato « non nell’ottica del risultato dell’azione » (cioè nell’ottica della probabilità della condanna), bensì « in quella della superfluità o no dell’accertamento giudiziale ». Il passaggio dalla prima alla seconda formulazione dell’art. 125 disp. att. troverebbe così una logica e condivisibile spiegazione nella volontà del legislatore di adeguare la norma al principio costituzionale, ripudiando la logica efficientistica legata al criterio della probable cause (76) e salvaguardando, nel contempo, la funzione « creativa » della prova assegnata al dibattimento nel nuovo sistema processuale (77). « Se la norma fosse restata nel testo del progetto preliminare — ha osservato la Corte — vi sarebbe stata una palese violazione della direttiva n. 50 e dei già illustrati principi regolanti la materia »: ma, fortunatamente, « ben diversa è la prospettiva nella quale si colloca l’art. 125. ... La regola che tale disposizione detta per il pubblico ministero consiste in una valutazione degli elementi acquisiti non più nella chiave dell’esito finale del processo, bensì nella chiave della loro attitudine a giustificare il rinvio a giudizio. Il quadro acquisitivo viene, cioè, valutato non nell’ottica del risultato dell’azione, ma in quella della superfluità o no dell’accertamento giudiziale, che è l’autentica prospettiva di un pubblico ministero il quale, nel sistema, è la parte pubblica incaricata di instaurare il processo ... Così come è formulata, la norma è, in definitiva, la traduzione in chiave accusatoria del principio di non superfluità del processo ». Né, secondo i giudici della Consulta, si può avere riguardo alle sole esigenze di funzionalità del sistema. « La Corte è consapevole che la tendenza ad allargare l’area di operatività dell’archiviazione — tendenza manifestatasi prima con la re(75) Cfr. supra, nota 56. (76) Sulla stessa linea BENE, Prime riflessioni, cit., 37 ss.; PRESUTTI, Presunzione di innocenza, cit., 1362; STABILE, L’archiviazione, cit., 981 s.; VENEZIANO, Il ruolo del pubblico ministero, cit., 60. V. anche ROCA, Archiviazione, cit., 186, a giudizio del quale l’art. 125 disp. att. — se inteso nel senso di consentire l’archiviazione dei procedimenti « caratterizzati da insufficienza o contraddittorietà del quadro probatorio » — renderebbe l’istituto dell’archiviazione « la contraddizione più evidente del principio del favor actionis, inteso dalla Corte come necessità che, in casi dubbi, l’azione penale vada esercitata e non omessa ». (77) « La formula iniziale — si legge nella sentenza n. 88 — comportava che all’oggetto proprio della valutazione del p.m. circa i risultati delle indagini ai fini dell’esercizio, o no, dell’azione si sostituisse l’oggetto proprio della valutazione del giudice, che investe, appunto, la sufficienza delle prove per la condanna: e ciò in netta contraddizione con il fatto che, nel sistema del codice, quest’ultimo giudizio è frutto di un materiale probatorio da acquisire nel dibattimento ». In altre parole, la regola della « prognosi di condanna » — così come formulata nell’art. 115 prog. prel. — attribuiva al pubblico ministero e al giudice delle indagini preliminari una capacità di prevedere con esattezza gli sviluppi del dibattimento che era palesemente in contrasto con il principio di esclusiva formazione dibattimentale della prova. Per rilievi analoghi a quelli formulati dalla Corte cfr. già CONTI, La chiusura delle indagini, cit., 929 (l’art. 115 « sovrappone arbitrariamente il piano delle indagini con quello del giudizio: appare scorretta una valutazione dei risultati delle indagini in termini di ‘condannabilità’ dell’imputato, atteso che il giudizio sulla responsabilità penale si fonda su un materiale probatorio da acquisire nel dibattimento. Gli elementi che scaturiscono dalle indagini non possono mai, in quanto tali, fornire la base per un giudizio di responsabilità: la prognosi di condanna, dunque, sarebbe in radice improponibile in una situazione di assoluta mancanza dell’oggetto del convincimento del giudice. Appare più corretto ... ragionare in termini di materiale idoneo a sostenere l’impostazione accusatoria nel dibattimento »); BORRACCETTI, Archiviazione, cit., 576; GIULIANI, La regola di giudizio, cit., 253; GREVI, Archiviazione per ‘inidoneità probatoria’, cit., 1293 s.; MOLINAR ROET, Eccesso di delega, cit., 855; NAPPI, Guida, cit., 280 s.; RIVELLO, Un intervento, cit., 52 s.
— 309 — dazione dell’art. 115, poi con interpretazioni dell’art. 125 volte a stabilire una sostanziale omogeneità con quello — dipende essenzialmente da preoccupazioni di deflazione dibattimentale, che la stessa Corte è ben lungi dal sottovalutare »: ma tali preoccupazioni « non bast(a)no a legittimare interpretazioni collidenti con i principi dianzi richiamati ». Del resto, « il legislatore delegante non ha considerato l’archiviazione in funzione deflattiva, tant’è che nei lavori parlamentari non esiste traccia di indicazioni tendenti a perseguire, con la sua configurazione, obiettivi di economia processuale ». Da questi esatti rilievi sembra potersi trarre l’individuazione di un criterio che è per certi versi intermedio rispetto a quello della « evidente innocenza » e quello della « causa probabile ». La chiave di volta è la necessità o meno di un accertamento giudiziale condotto con le regole del contraddittorio: nei casi dubbi, pubblico ministero e giudice possono decidere per l’archiviazione della notizia di reato solo quando si possa fondatamente ritenere che la formazione della prova nel contraddittorio delle parti non risulterebbe comunque decisiva ai fini dell’accertamento (positivo o negativo) della responsabilità dell’imputato (78). Ne deriva che l’archiviazione può essere richiesta e concessa non solo quando risulti evidente l’innocenza della persona sottoposta a indagine o quando vi sia carenza assoluta di prove, ma anche in quelle ipotesi di insufficienza o contraddittorietà della prova rispetto alle quali si possa ritenere che il dibattimento non offrirebbe alcun reale contributo conoscitivo. All’opposto, si deve chiedere e disporre il rinvio a giudizio ogniqualvolta la situazione di dubbio circa la responsabilità dell’imputato potrebbe venir meno — non importa se in senso favorevole o sfavorevole all’accusa (e a prescindere, quindi, dal fatto che si debba valutare ex ante più « probabile » la condanna o l’assoluzione) — proprio in virtù delle modalità dibattimentali di acquisizione della prova (79). Per dare concretezza al discorso si può abbozzare qualche esempio. Immaginiamo quattro situazioni tipiche di prova insufficiente o contraddittoria: una chiamata di correo attendibile ma del tutto priva di riscontri; una serie di intercettazioni telefoniche dal significato non univoco; una testimonianza della persona offesa non priva di contraddizioni; una coppia di dichiarazioni testimoniali in apparenza ugualmente attendibili ma tra loro contrastanti (ad esempio, una testimonianza d’accusa e una d’alibi). In queste situazioni l’innocenza della persona sottoposta a indagine non è certo dimostrata, ma nemmeno si può prevedere — se non (78) Non dissimili le conclusioni di GIOSTRA, L’archiviazione (1994), cit., 32 s. È una questione « malposta » quella della « archiviabilità di una notizia di reato rispetto alla quale ricorre una situazione di mancanza, insufficienza o contraddittorietà probatoria »: il giudice deve archiviare se, « in base al dossier depositato dal pubblico ministero e alle eventuali sollecitazioni della persona offesa », ritiene che a dibattimento « il quadro probatorio sia destinato a rimanere carente, insufficiente o contraddittorio »; deve invece respingere la richiesta « quando le stesse risultanze presentate dal pubblico ministero postulano integrazioni investigative o approfondimenti dibattimentali di cui, allo stato, il giudice non può escludere la rilevanza ». (79) In prospettiva del tutto contraria cfr. TURONE, Il pubblico ministero, cit., 231: « nel nuovo processo non potrà più trovare spazio quella discutibile prassi — talvolta seguita nel vigore del codice Rocco — di rinviare comunque a giudizio, per dar luogo alla cosiddetta ‘verifica dibattimentale’, nonostante la lacunosità del quadro probatorio: infatti, il dibattimento del nuovo rito non sarà più una ‘verifica’ di prove già raccolte e cristallizzate, ma la sede ove la prova verrà a formarsi » [sostanzialmente negli stessi termini, circa la necessità di non « scaricare » a dibattimento i casi dubbi, AMODIO, Intervento, in L’azione per la repressione dell’illecito, cit., 37; CASADEI MONTI, Intervento, ivi, 95; GREVI, Archiviazione per ‘inidoneità probatoria’, cit., 1316; NEPPI MODONA, Indagini preliminari (1996), cit., 471; ID., Principio di legalità, cit., 125 s.]. Ma il discorso può essere comodamente rovesciato: proprio la circostanza che la prova si forma soltanto a dibattimento induce a ritenere necessario il rinvio a giudizio nei casi di incertezza probatoria (sul punto PRESUTTI, Presunzione di innocenza, cit., 1369); ed è su queste basi che può trovare spiegazione la differenza esistente tra la regola di giudizio prevista nell’art. 125 disp. att. per i processi di nuovo rito (inidoneità a sostenere l’accusa) e quella prevista nell’art. 256 disp. trans. per i processi di vecchio rito (insufficienza a determinare la condanna).
— 310 — in termini di mera « possibilità » — un esito del dibattimento favorevole alla tesi d’accusa: applicando i criteri dell’« evidente innocenza » (80) o della « probabilità della condanna » (81) bisognerebbe dunque sempre rinviare a giudizio, o, rispettivamente, sempre archiviare. Seguendo l’impostazione suggerita, occorre invece distinguere: se nei primi due casi si può considerare effettivamente « superfluo » il rinvio a giudizio (e quindi, consentita l’archiviazione) in quanto la celebrazione del dibattimento non servirebbe a dissipare le ambiguità del quadro probatorio, a diverse conclusioni si deve giungere per le due restanti ipotesi, potendosi qui ritenere che l’acquisizione della prova testimoniale con il metodo dell’esame incrociato consentirebbe di accertare la veridicità o la falsità delle dichiarazioni rese nel corso dell’indagine (82). 7. Il criterio decisorio imperniato sull’utilità o inutilità del ricorso all’euristica dibattimentale — ideale punto d’incontro fra la regola della « sicura innocenza » desumibile dall’art. 425 c.p.p. e la regola della « condanna probabile » desumibile dall’art. 125 disp. att. — è dunque il criterio che va impiegato dal giudice dell’archiviazione e dal giudice dell’udienza preliminare per risolvere la duplice alternativa azione penale/archiviazione e rinvio a giudizio/non luogo a procedere nei casi di insufficienza o contraddittorietà della prova. Nel dubbio, « è giusto che il processo approdi al dibattimento laddove sia ragionevole prevedere che, grazie alle più ampie risorse della formazione delle prove in contraddittorio, sarà vinta l’incertezza »: qualora, invece, « s’imponga la prognosi che il quadro gnoseologico resterebbe immutato nonostante il dibattimento, l’imputato andrà immediatamente prosciolto » (83). (80) Cfr. TAMBURINO, La chiusura delle indagini, cit., 106 (necessaria la richiesta di rinvio a giudizio « ogni qualvolta non ... risulti l’evidenza della non-responsabilità dell’imputato »); FORTUNA, voce Pubblico ministero, cit., 3 [possibile archiviare quando pubblico ministero e giudice constatino la « manifesta (nel senso di immediata, palmare evidenza) infondatezza della notitia criminis »]. (81) Cfr. GREVI, Archiviazione per ‘inidoneità probatoria’, cit., 1293 (« il pubblico ministero deve orientarsi per l’archiviazione quando esclude che, se il giudice fosse chiamato a pronunciarsi nel merito in quel momento, alla stregua dei soli elementi fino ad allora raccolti, riconoscerebbe la fondatezza della sua pretesa »); CASELLI LAPESCHI, La ‘continuità’ investigativa delle indagini suppletive tra ‘completabilità’ e ‘completezza’, in Pol. dir., 1993, 404 [« il pubblico ministero non deve esercitare l’azione penale ... quando gli elementi acquisiti siano, allo stato degli atti (di indagine preliminare), ancora insufficienti e⁄o contraddittori per un giudizio di colpevolezza »]. (82) Secondo un’autorevole dottrina (LOZZI, L’udienza preliminare, cit., 145), a sostegno dell’opinione secondo la quale non sarebbe consentito richiedere l’archiviazione in caso di insufficienza o contraddittorietà della prova « non varrebbe obiettare ... che il giudizio prognostico del pubblico ministero formulato ex art. 125 prescinde, ovviamente, ... dal significato che gli elementi di prova emersi nel corso delle indagini preliminari avranno allorquando, mediante il contraddittorio dibattimentale, acquisiranno dignità di prova »; infatti, « tale obiezione ... varrebbe anche nel caso di giudizio prognostico basato sulla prova negativa (che pure prescinde ... dal contraddittorio) ». Questo esatto rilievo sembra tuttavia superabile nella misura in cui si ritenga — come noi riteniamo — che la possibile metamorfosi dibattimentale della prova sia un dato da prendere in considerazione, ai fini della richiesta di rinvio a giudizio, solo nelle ipotesi in cui la valutazione dell’elemento di prova presenti margini di equivocità che il dibattimento potrebbe eliminare (con effetti decisivi sul giudizio di responsabilità o non responsabilità dell’imputato). (83) Così — con riferimento alla sentenza di non luogo a procedere — MOLARI, L’udienza preliminare, in PISANI-MOLARI-PERCHINUNNO-CORSO, Appunti di procedura penale, Bologna, 1994, 375. Per analoghe conclusioni cfr. in dottrina GIOSTRA, L’archiviazione (1994), cit., 33 ss., e VOGLIOTTI, Commento all’art. 1 della legge 8 aprile 1993, n. 105, in Leg. pen., 1993, 455 (« è bene ribadire ... — tanto più ora che è caduto l’ostacolo dell’evidenza — che il giudice non deve delibare l’accusa in relazione alle chances di ottenere una condanna a dibattimento, ma soltanto in relazione all’opportunità di avvalersi del processo come itinerario conoscitivo supplementare ... Se, quindi, gli elementi di prova si prestano a soluzioni aperte, si deve dare corso all’iter processuale »). In giurisprudenza si veda Cass., Sez. VI, 9 ottobre 1995, La Penna, cit. (« in tutti i casi in cui sussistono fonti o elementi di prova, pur contraddittori o insufficienti, che si prestino, secondo una inevitabile valutazione prognostica, a soluzioni aperte, è doverosa la verifica dibattimentale. La sentenza di non luogo a procedere va, invece, adottata quando la situazione probatoria è tale da far prevedere, secondo criterio di ragionevolezza, l’inutilità del giudizio, cioè quando l’istruzione dibattimentale appaia incapace di arrecare, in termini di prova a carico, alcun risultato utile
— 311 — La necessità di adottare tale criterio anche ai fini della decisione sulla richiesta di rinvio a giudizio è stata recentemente riaffermata dalla Corte costituzionale in una sentenza esemplare per chiarezza e incisività (84). La questione rimessa all’esame del giudice delle leggi era se, « in tema di provvedimenti riguardanti la libertà personale dell’imputato, l’avvenuto rinvio a giudizio precluda la proposizione e l’esame di questioni attinenti alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza » (fatta salva, ovviamente, « l’ipotesi in cui si sia in presenza di fatti nuovi o sopravvenuti che, per ciò stesso, non vengono ad essere in contrasto con la intervenuta decisione »). Come sappiamo (85), la questione era già stata risolta in senso positivo dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, che avevano sottolineato come la valutazione di insussistenza del carico indiziario ex art. 273 c.p.p. fosse logicamente inconciliabile con il giudizio di « qualificata probabilità di colpevolezza » implicito nella decisione di instaurare il dibattimento. Ripudiando la semplicistica impostazione accolta dal giudice di legittimità, la Corte costituzionale ha invece ribadito che la decisione conclusiva dell’udienza preliminare deve essere emanata non soltanto in considerazione delle maggiori o minori probabilità di condanna dell’imputato, ma anche tenendo conto dei possibili apporti cognitivi dell’istruzione dibattimentale. « La sentenza di non luogo a procedere — hanno osservato i giudici della Consulta — era e resta, anche dopo le modifiche subite dall’art. 425 c.p.p., una sentenza di tipo ‘processuale’, destinata null’altro che a paralizzare la domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero ». Dunque « l’apprezzamento del merito che il giudice è chiamato a compiere all’esito dell’udienza preliminare non si sviluppa secondo un canone, sia pur prognostico, di colpevolezza o di innocenza, ma si incentra sulla ben diversa prospettiva di delibare se, nel caso di specie, risulti o meno necessario dare ingresso alla successiva fase del dibattimento ». Ne deriva che non tutte le ipotesi di insufficienza o contraddittorietà degli esiti dell’indagine preliminare possono impedire l’accesso alla fase dibattimentale: « ove la prova risulti insufficiente o contraddittoria, l’adozione della sentenza di non luogo a procedere potrà dirsi imposta soltanto nei casi in cui si appalesi la superfluità del giudizio, vale a dire nelle sole ipotesi in cui è fondato prevedere che l’eventuale istruzione dibattimentale non possa fornire utili apporti per superare il quadro di insufficienza o contraddittorietà probatoria » (86). In una simile eventualità « il provvedimento di rinvio a giudizio ... lungi dal rinvenire il proprio fondamento in una previsione di probabile condanna, si radicherà null’altro che sulla ritenuta necessità di consentire nella dialettica del dibattimento lo sviluppo di elementi non ancora chiariti » (87). per superare lo stato di incertezza o contraddittorietà ») e Trib. Teramo, 29 gennaio 1996, Biancucci, cit.; nonché, in termini più sfumati, Cass., Sez. I, 30 gennaio 1995, Valle, in Riv. pen., 1995, 1507. (84) Corte cost. 15 marzo 1996, n. 71, cit. È da notare che tale sentenza non affronta direttamente il problema dei rapporti tra l’art. 425 c.p.p. e l’art. 125 disp. att. Tuttavia, che non si potesse « non riconoscere un certo accostamento — anche se in prospettive diverse — tra insostenibilità dell’accusa ed evidenza dell’innocenza » era già stato affermato da Corte cost. 15 febbraio 1991, n. 88, cit.; e il concetto era stato ribadito da Corte cost. 6 giugno 1991, n. 252, cit. (85) V. supra, nota 4. (86) Tra i meriti della soluzione proposta va sicuramente annoverato quello di ridurre l’efficacia condizionante del provvedimento di rinvio a giudizio sull’area del convincimento del giudice dibattimentale. Sottolinea opportunamente tale esigenza DI CHIARA, Il contraddittorio nei riti camerali, Milano, 1994, 290. Il rischio che — ampliando gli spazi del non luogo a procedere — l’imputato possa « pervenire al cospetto del giudice del dibattimento gravato da una seria ipoteca » è segnalato anche da MACCHIA, La ‘nuova’ sentenza, cit., 2415. (87) « In siffatte ipotesi » — ha concluso la Corte costituzionale dissentendo dall’opinione espressa in argomento dalle Sezioni unite — « il decreto che dispone il giudizio non potrà ritenersi in alcun modo assorbente rispetto alla valutazione dei gravi indizi di colpevolezza che sostengono l’adozione e il mantenimento delle misure cautelari personali ». Per questi motivi, essa ha dichiarato « l’illegittimità costituzionale degli artt. 309 e 310 c.p.p., nella parte in cui non prevedono la possibilità di valutare la sussi-
— 312 — Sono rilievi ineccepibili. Li sorregge l’idea che il contraddittorio nel momento di formazione della prova — lungi dal costituire soltanto una irrinunciabile garanzia difensiva — sia anche la tecnica più efficace di accertamento giudiziale dei fatti (88). La riforma processuale del 1988 riposava interamente su questa idea: davvero « a leggere le parole della Corte sembra di essere colti da una ventata d’aria fresca, che ci riporta alle origini del nuovo codice » (89). dott. FRANCESCO CAPRIOLI
stenza dei gravi indizi di colpevolezza nell’ipotesi in cui sia stato emesso il decreto che dispone il giudizio a norma dell’art. 429 c.p.p. ». (88) Cfr. in argomento FERRUA, Contraddittorio e verità nel processo penale, in Studi sul processo penale, II, cit., 47 ss. (nonché ID., La revisione del codice 1988: correzioni e integrazioni nel quadro della legge-delega, ivi, 132 s.). (89) FRIGO, Contrasto tra Consulta e Corte di cassazione sulla valutazione degli indizi di colpevolezza, in Guida al diritto, 6 aprile 1996, n. 14, 78.
DOTTRINA
IL PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ NELLO SCHEMA DI DELEGA LEGISLATIVA PER UN NUOVO CODICE PENALE (*)
SOMMARIO: 1. L’opzione per un diritto penale dell’offesa. — 2. L’opzione per un diritto penale personalistico-solidaristico. — 3. La distinzione personalistica tra « beni-fine » e « beni-mezzo ». — 4. L’opzione garantista per il reato come « fatto offensivo tipico ». — 5. L’impostazione costituzionalistica dell’oggettività giuridica. — 6. L’essenzialità e relatività dell’impostazione costituzionalistica dell’oggettività giuridica. — 7. L’essenzialità e relatività del principio di necessarietà della tutela penale. — 8. L’essenzialità e relatività del principio di offensività. — 9. I reati « senza » e i reati « con bene giuridico ». — 10. I reati « con » e i reati « senza offesa ». — 11. Le tecniche di attuazione legislativa del principio di offensività nella Parte speciale. — 12. Le tecniche di attuazione legislativa del principio di offensività nella Parte generale. — 13. Le tecniche di attuazione del principio di offensività sul piano interpretativo-applicativo. — 14. Considerazioni conclusive.
1. Assumere il principio di offensività a direttrice fondamentale di politica criminale e a « baricentro » del nuovo codice penale significa operare una prima opzione di fondo tra noti modelli di diritto penale. Di adesione, cioè, ad un modello di diritto penale a base oggettivistica, inteso come sistema di norme poste a tutela di beni giuridici, incentrato sui due cardini dell’oggettività giuridica e dell’offesa: con tutti i coerenti corollari. E di conseguente rifiuto di ogni modello di diritto penale a base soggettivistica, sia esso un diritto penale repressivo o della volontà, sia esso un diritto penale preventivo o della pericolosità sociale; con tutti i corollari conseguenti. Ma assumere il principio di offensività a baricentro della neocodificazione significa anche operare una ulteriore duplice opzione fondamentale, in rapporto a diversi modelli di codici penali, sotto il profilo: 1) del contenuto, cioè dei sistemi di valori da tutelare; 2) della tecnica legislativa, cioè dei mezzi di attuazione legislativa della tutela del sistema di valori scelti. (*) Il presente scritto riproduce, con leggere modifiche, il testo della relazione tenuta al XIX Convegno Enrico De Nicola, dedicato a « Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali » (St. Vincent, 6-8 maggio 1994).
— 314 — 2. Circa l’aspetto contenutistico del sistema di valori da tutelare, la prima illuminante opzione di civiltà è per il ripudio integrale sia, innanzitutto, del modello di codice penale dell’oppressione, in tutte le sue connotazioni poliziesche, liberticide, terroristiche, che nei tempi moderni costituisce l’espressione penalistica dei totalitarismi ideologico-politici, tragiche connotazioni del nostro secolo e dolorosamente sperimentati anche sotto il profilo penale; sia, altresì, del modello di codice penale del privilegio, in tutte le sue connotazioni discriminatorie, di tutela dei soggetti « più eguali » rispetto a quelli « meno eguali », che nei tempi moderni costituisce l’espressione penalistica del vecchio Stato liberale individualisticoegoistico. E, invece, per l’incondizionata adesione ad un modello di codice penale personalistico, tutto da costruire, della libertà, che deve costituire l’espressione penalistica del moderno Stato sociale di diritto nella sua inesauribile ricerca del punto di sintesi tra i beni, tra loro in potenziale tensione, della « libertà » e dell’« eguaglianza sociale ». E che presenta precise connotazioni circa: 1) il fondamento; 2) la funzione. Per quanto riguarda il fondamento, esso si incentra sul principio personalistico, del primato della persona umana come « valore etico » in sé, dell’uomo-valore, dell’uomo-persona, dell’uomo-fine, non strumentalizzabile per alcuna finalità extra-personale, neppure di politica criminale, sia esso soggetto attivo o passivo, vittima o reo; che si pone in irriducibile contrapposizione con il principio utilitaristico dell’uomo-cosa, dell’uomomassa, dell’uomo-mezzo, aperto a tutte le strumentalizzazioni in funzione dell’utilitarismo pubblico-collettivo, dell’utilitarismo maggioritario (della maggior felicità per il maggior numero a scapito dei pochi) e dell’utilitarismo individualistico-egoistico (della propria maggiore felicità), anche per quanto riguarda la politica criminale. Per quanto concerne la funzione, il modello personalistico di diritto penale non opera più e soltanto come tradizionale limite alla libertà, ma anzitutto e primariamente come strumento di libertà, in funzione cioè della difesa — senza discriminazioni — dei diritti della persona umana contro le offese di chiunque, soggetti privati e soggetti pubblici, delinquenza privata e delinquenza di Stato. 3. Il modello di codice penale personalistico assolve la sua primaria funzione di strumento di libertà individuando il sistema di beni giuridici e le relative gerarchie, secondo la triplice direttrice personalistica, seguita dallo Schema: 1) della centralità della persona umana, fine primo e fine ultimo, alfa ed omega del sistema penale; 2) della conseguente somma distinzione tra: a) beni-fine, costituiti dai diritti fondamentali della persona umana e tutelati come tali; b) beni-mezzo, costituiti dai beni individuali patrimoniali e dai beni ultraindividuali (della famiglia, della comunità, dello Stato-amministrazione, dello Stato-unità e delle sue istituzioni de-
— 315 — mocratiche) e tutelati in quanto strumentali — e nei limiti di tale strumentalità — alla conservazione, dignità e sviluppo della persona umana, nella sua duplice dimensione individuale e sociale (come sanciscono gli artt. 2 e 3 Cost.); 3) della conseguente centralità dei delitti contro la persona, che proprio per la loro priorità debbono, anche topograficamente, aprire la Parte speciale del codice personalistico, seguiti via via dai delitti contro i beni-mezzo. Con tale capovolgimento dell’ordine gerarchico dei codici penali totalitari o autoritari, imperniati sulla centralità della tutela dei beni pubblico-collettivi, elevati a beni-fine, e sulla degradazione dei beni della persona umana a beni mezzo, strumentali ai suddetti beni e tutelati nei limiti di tale loro strumentalità, nonché sulla conseguente centralità dei delitti contro lo Stato, che aprono anche topograficamente la Parte speciale, la quale si chiude coi delitti contro la persona. Nello Schema del nuovo codice penale la Parte speciale — che a nostro avviso è la più innovativa e originale, non trovando pari riscontro in altri modelli di codice penale — si apre coi reati contro la persona nella sua dimensione individuale, che è la categoria più ampia e numerosa, poiché arricchita sia dalle tipologie di nuove oggettività giuridiche emergenti (es.: dignità della persona umana), sia dalle tipologie emergenti di aggressione, dovute al progresso tecnologico, sia dal recupero dei delitti contro la persona, decentrati nella legislazione speciale. Seguono i reati contro i rapporti civili, sociali, economici che tutelano la persona umana nella sua dimensione sociale. E, poi, i reati-mezzo contro la comunità. E si chiude coi reati contro la Repubblica. 4. Il modello personalistico di codice penale, seguito dallo Schema, assolve la sua ulteriore funzione di limite alla libertà entro la cornice garantista di irrinunciabili princìpi di civiltà, costituiti innanzitutto, oltre che dai princìpi di stretta necessarietà del diritto penale, realisticamente intesa, e di colpevolezza, dai princìpi — che qui particolarmente interessano — di legalità e di materialità-offensività del fatto. Nell’ambito dei modelli del diritto penale dell’offesa si impone, infatti, un’ulteriore opzione di fondo, essenziale anche per dissipare i diffusi timori circa la codificazione del principio di offensività, stante il noto uso totalitario che di esso è stato tragicamente fatto. Opzione, cioè, di incondizionata adesione alla concezione personalistico-garantista del principio di offensività, propria dello Stato di diritto, secondo la quale tale principio si coniuga con e si compenetra nel principio di legalità e certezza giuridica. Ed il reato va, pertanto, inteso come fatto offensivo tipico, cioè come fatto non solo previsto dalla legge come reato, ma legislativamente costruito in termini di necessaria offensività del bene specifico tutelato dalla norma. Onde l’interesse offeso deve costituire non un dato esterno alla norma, attinta, di volta in volta, dal giudice da
— 316 — « sottostanti valori ideologico-socioculturali », ma interno alla norma ed elemento costitutivo del reato. E l’offesa deve costituire non la « breccia » attraverso cui vulnerare il nullum crimen, nulla poena sine lege, bensì anch’essa elemento costitutivo del reato, accanto agli elementi strutturali della fattispecie legale. Opzione, quindi, di frontale contrapposizione alla concezione utilitaristico-totalitaria del principio di offensività propria del diritto penale socialista e del diritto penale nazionalsocialista, secondo la quale il reato viene inteso come « fatto tipico o atipico offensivo », è reato ogni « fatto socialmente pericoloso » e la pericolosità o la non pericolosità del fatto viene attinta, in ultima analisi, da fonti sostanziali extralegislative (la coscienza rivoluzionaria, l’interesse della società socialista, il sano sentimento del popolo, ecc.). Con riferimento, cioè, ad un interesse sociale, ad un’oggettività giuridica generica, esterna alla norma, prevalente, in caso di conflitto, sul bene specifico, tutelato dalla norma (es.: vita, libertà personale, onore) e, quindi, determinante ai fini della illiceità o liceità del fatto. Sia nel senso di incriminare fatti ritenuti socialmente pericolosi, anche se non previsti dalla legge come reati. Sia nel senso di scriminare fatti, previsti dalla legge come reati, ma ritenuti socialmente non pericolosi (a cominciare dalla delinquenza di Stato; dall’olocausto dei campi di sterminio nazisti, alle purghe staliniane). Un’utilizzazione, quindi, del principio di offensività in difesa del finalismo ideologico dello Stato totalitario. 5. La funzione personalistico-garantista del principio di offensività postula due dati: 1) la preesistenza ontologica del bene giuridico rispetto alla norma penale; 2) la vincolatività giuridica del bene per il legislatore penale. La travagliata storia del bene giuridico sta, eloquentemente, ad insegnare che la sua funzione critico-garantista è vanificata, se esso è — secondo la concezione giuspositivistica del bene giuridico — un bonum semplicemente creato dalla norma, quindi, ad essa posteriore: non un prius, ma un posterius. E compromessa se esso è — secondo la concezione metapositivistica del bene giuridico — un bonum soltanto preesistente alla norma penale. Sia perché, come tale, non è vincolante per il legislatore ordinario, sia per la difficoltà di trovare criteri oggettivi di identificazione dei beni, ricavati aliunde, da fonti metagiuridiche come comprovano tutti gli sforzi per trovare una « definizione materiale » di bene giuridico, ancorata a valori prepositivi (quali sono i beni meritevoli di tutela penale per il giusnaturalismo contrattualistico, per il personalismo umanitario o per il funzionalismo sociologico?). La duplice esigenza della preesistenza vincolante del bene giuridico è soddisfatta — nella maggiore misura umanamente possibile — in base alla impostazione costituzionalistica del bene giuridico, dovendo considerarsi
— 317 — penalmente tutelabili, cioè non solo beni giuridici, ma beni giuridico-penali: a) innanzitutto i beni costituzionalmente significativi, sia per la vincolatività della Costituzione, sia perché esprimono valori sui quali, in una società pluralistica o conflittualistica, qual è la nostra, si è pur sempre formato un consenso di fondo; b) e, al più, i beni desumibili dall’attuale realtà socio-culturale e costituzionalmente non incompatibili. Sono tali quei beni, specie emergenti, la tutela penale dei quali può comportare al più limitazioni (non l’annullamento) di beni-mezzo costituzionalizzati, ma non di beni-fine, e non contrasta con, ma addirittura favorisce, la conservazione, lo sviluppo, la vita degna delle persone umane. Così la tutela dell’ambiente e dell’animale-soggettività nel suo « diritto » alla non sofferenza, che limitano i beni-mezzo del diritto di proprietà e della libertà di iniziativa privata, ma favoriscono la conservazione, sviluppo, qualità della vita degna degli essere umani, contribuendo alla crescita morale dell’uomo e ad una maggiore dignità della vita il ridurre l’immensa crudeltà anche verso gli animali (nell’allevamento, trasporto, mattazione, ecc.), riconosciuti come soggetti di tutela diretta per le loro capacità di cosciente sofferenza. E, a fortiori, sono tali quei beni, come la riservatezza della vita privata (ammesso che non sia, come invece crediamo, bene costituzionalizzato), il patrimonio faunistico e floristico e la correttezza delle competizioni sportive, la tutela dei quali non comporta limitazioni neppure di beni-mezzo costituzionalizzati. Non il primo, che non si pone in conflitto neppure col diritto di manifestazione del pensiero, essendo questo per sua ratio, genesi storica e solennità di proclamazione costituzionale, circoscritto ai fatti di interesse pubblico-sociale e non all’intimità o banalità della vita privata. Non il secondo, poiché la caccia, la pesca, la raccolta o danneggiamento di piante protette non costituiscono, di certo, un diritto costituzionalizzato. Così come non è tale l’attività sportiva tanto più se scorretta, le limitazioni della quale a garanzia della correttezza possono al più incidere, mediatamente, sul bene-mezzo dello sport-impresa, cioè sulla libertà di iniziativa economica. Col prevedere il reato contro la riservatezza, contro l’ambiente, contro il patrimonio floristico e faunistico, contro gli animali, lo Schema ha optato per una nozione ampia di bene giuridico-penale, comprendente anche i beni non incompatibili con la Costituzione. Sotto il profilo più strettamente giuridico, la stimolante tesi che circoscrive l’oggettività giuridica ai soli beni costituzionalmente significativi, facendo leva sul fatto che la libertà personale (art. 13 Cost.) non può subire limitazioni se non ad opera di pene, imposte dalla necessità di tutelare beni pure essi costituzionalmente rilevanti, appare cadere in una petizione di principio, poiché — come è stato autorevolmente detto — « quello di libertà personale non è concetto assoluto, ma solo relativo all’ambito nel quale il singolo può lecitamente operare in base a norme non
— 318 — incompatibili con la Costituzione ». Più precisamente: a) perché la libertà personale è, ex art. 13 Cost., limitabile per legge; b) perché, anche aderendo alla più corretta tesi, garantista, dell’art. 13 come norma « servente », la libertà personale può essere per legge limitata per finalità di giustizia, cioè per la prevenzione dei reati, per garantire la libertà dal crimine, onde si ripropone il problema di stabilire quali fatti possano costituire reati; c) perché appare conforme alla esigenza generalpreventiva, pure essa fondata sull’art. 2 Cost., e alla ratio di una Costituzione personalistica, elevare a beni giuridico-penali anche i beni, quali i suddetti, che se, pur non costituzionalizzati, non contrastano o favoriscono la conservazione e lo sviluppo della persona umana; d) perché tra il « catalogo costituzionale » dei diritti di libertà e il « catalogo penale » dei delitti contro la libertà, non vi è stretta corrispondenza. La tutela costituzionale ha per effetto non la « onnicomprensiva » libertà umana, ma singoli diritti di libertà, che ne rappresentano gli aspetti più significativi e maggiormente esposti ai pericoli di aggressioni. La tutela penale, viceversa, se è vero che è legittimamente apprestata ai suddetti diritti di libertà nei limiti della tutela costituzionale dei medesimi (non sono applicabili, ad es., le norme incriminatrici degli artt. 605, 606, 614, ai comportamenti lesivi, imposti o autorizzati dalla legge ordinaria in conformità alle norme costituzionali in materia di custodia cautelare, di carcerazione, di perquisizioni domiciliari), è pur vero che si estende a tutte le libertà, di diritto o anche di fatto, garantite o non garantite dalla Costituzione. Ciò in virtù della norma generale sulla violenza privata (art. 610), che tutela l’onnicomprensiva libertà umana, anche sotto il profilo delle libertà di fatto, senza che un problema di legittimità costituzionale della stessa sia mai stato posto o sia proponibile in ragione del fatto che l’art. 610 tutela anche aspetti della libertà umana non costituzionalmente garantiti o, altresì, ammessi in quanto non vietati. Sotto il profilo pratico, la tesi dei soli beni costituzionalmente significativi e la tesi dei beni anche non costituzionalmente incompatibili finiscono pressoché per coincidere. E ciò allorché la prima, per evitare di lasciare certi beni privi di tutela anche extrapenale (poiché pure la sanzione pecuniaria non penale comporta una limitazione del diritto di proprietà, anch’esso costituzionalmente tutelato), estende i beni costituzionalmente significativi anche a quelli costituzionalmente « impliciti », a quelli « strumentali » alla tutela di beni costituzionali (es.: sicurezza stradale rispetto alla incolumità degli utenti della strada; fede pubblica rispetto ai beni del patrimonio, dell’economia, della giustizia) e a quelli costituzionalizzabili per analogia (es.: beni ambientali); finendo così per restituire al legislatore ordinario più ampi spazi di discrezionalità. 6.
Ma anche l’impostazione costituzionalistica, nei termini suddetti,
— 319 — dell’oggettività giuridico-penale va intesa nel suo connaturale e realistico relativismo, per una triplice fondamentale ragione: 1) perché è indubbiamente vero che l’oggettività giuridico-penale costituzionalizzata costituisce — per la sua funzione « critico-garantista », stante il carattere rigido e personalistico della Costituzione, la sua controllabilità da parte della Corte costituzionale e la sua capacità di creare responsabilità politica e morale per il legislatore ordinario — un poderoso strumento per la ricostruzione personalistica della Parte speciale, segnando fondamentali direttrici per la criminalizzazione, la decriminalizzazione, la depenalizzazione, la proporzionalità della pena al diverso rango dei beni; 2) perché è parimenti vero, però, che l’oggettività giuridico-penale costituzionalizzata non offre « soluzioni magiche » al problema della selezione dei fatti penali nell’immenso ambito dei fatti offensivi per le incertezze e polivalenze della stessa Costituzione, non essendo essa un « catalogo di beni » gerarchizzati e non essendo idonea, come sistema più o meno chiuso, a recepire nuovi beni emergenti; 3) perché l’oggettività giuridico-penale costituzionalizzata è, comunque, insufficiente a tale scopo selettivo, concorrendo con esso i noti criteri della meritevolezza (o proporzione), della sussidiarietà (o ultima ratio) e dell’effettività. Criteri che anch’essi non offrono — a prescindere da certe acritiche enfatizzazioni e intemperanti invocazioni di moda — « soluzioni magiche », per la loro indeterminatezza e non automatica applicabilità, onde vanno anch’essi intesi nel loro connaturale e realistico relativismo. 7. Invero, il principio di necessarietà del diritto penale (nullum crimen, nulla poena sine necessitate), sovraordinato a tali criteri, anche quando si riconosca ad esso un fondamento costituzionale, costituisce una direttrice fondamentale di politica criminale, ma non anche un rigoroso limite per il legislatore penale, stante le molteplici « incognite » su cui poggia. E ciò: a) per la difficoltà di una netta distinzione tra i beni meritevoli e i beni non meritevoli di tutela penale, che non può farsi rigorosamente corrispondere alla distinzione tra beni costituzionalizzati e beni costituzionalmente non incompatibili, poiché si rischia di ritenere immeritevole di tutela penale, ad es., il bene dell’ambiente, rispetto al quale non si tratta più di un problema di « non necessità », bensì di un problema di « non sufficienza » della tutela penale, richiedendosi una ben più estesa e impegnativa politica ambientalistica, nazionale e sovranazionale, poiché il problema ambientale sta sempre più assurgendo a problema planetario vitale per la conservazione, sviluppo e vita degna della persona umana, di tutte le persone umane, delle presenti e delle future generazioni: dell’intera umanità; b) per la difficoltà di distinzione tra i diversi gradi di offesa e
— 320 — della individuazione delle offese di gravità intollerabile (le c.d. macroffese) ai beni meritevoli di tutela penale sì da giustificare il sacrificio dei beni e gli effetti negativi collaterali che la pena comporta; c) per l’impossibilità di una misurazione precisa di gradi di efficacia delle sanzioni penali ed extrapenali data la mancanza o il dubbio valore di rilevazioni statistiche di comparazione; d) per la non fattibilità di previe sperimentazioni; e) per l’incertezza circa la spettanza dell’onere probatorio sulla esistenza di sanzioni extrapenali efficaci al legislatore o al ricorrente innanzi alla Corte costituzionale; f) perché la « sussidiarietà », intesa realisticamente e non secondo un illuminismo astratto, fuori dal tempo e dallo spazio, deve tenere conto del dato incontrovertibile che i più sono sensibili non tanto ai fatti offensivi di entità spersonalizzate (fisco, economia, ecc.), quanto e innanzitutto alle tante quotidiane prevaricazioni, che incidono sulla qualità della vita (es.: alla piaga dei furti domiciliari, degli scippi, dei borseggi nei mezzi pubblici di trasporto, delle ingiurie e maleducazioni stradali, dei fracassoni disturbatori del riposo e della quiete, ecc.). E che ai prevaricati deve essere data la possibilità di sentirsi tutelati, anche col solo minacciare il prevaricatore di denuncia o querela. Perché, altrimenti, si favoriscono i fenomeni degenerativi dell’autodifesa e giustizia privata e dei delitti di reazione. « Cifra oscura » e « fattività » sono criteri utili alla politica criminale se usati responsabilmente, ma pericolosi se usati in modo acritico e intemperante per i pericoli di confusioni e smarrimenti, concettuali ed operativi. Poiché la funzione del diritto non è soltanto quella « notarile » della « verbalizzazione » legislativa del modo di sentire e di agire della c.d. maggioranza (o di quella che si simula tale), appurata al più con gli infidi o sospetti strumenti della « democrazia del sondaggio », ma anche e ancor prima quella di « norma agendi » a tutela di beni fondamentali, i delicati problemi della criminalizzazione, decriminalizzazione e depenalizzazione vanno correttamente impostati e risolti: 1) non in base al parametro quantitativo della « condotta della maggioranza », che porta alla conclusione, in verità affermata, dell’abrogazione della legge penale, quale sia il valore del bene tutelato, là dove la cifra oscura raggiunga dimensioni tali da indicare che essa è praticamente dimenticata dai cittadini e la sua violazione non perseguita dall’autorità. Col conseguente assurdo — nel coraggio della coerenza — del « più crimini, meno pena » e di elevare, ad es., l’omicidio da delitto a diritto, qualora i più, per ipotesi, diventassero assassini, e del conseguente venir meno della condizione prima della « socialità »; 2) bensì in base al parametro qualitativo del valore dei beni in giuoco e della reale offensività del fatto, che impone di distinguere anche qui tra « variabili » e « costanti criminali ». Cioè tra: a) interessi storicamente contingenti, di mera creazione legislativa, la tutela dei quali è condizionata dai mutamenti della coscienza sociale, espressi anche dalla « cifra oscura »; b) in-
— 321 — teressi fondamentali, siano essi beni-fine (i c.d. diritti naturali) o anche beni-mezzo (es.: istituzioni democratiche), la tutela dei quali si presenta irrinunciabile e richiede, di fronte al dilatarsi della cifra oscura, un potenziamento della legge e degli strumenti di prevenzione e di accertamento degli stessi. Senza dire, poi, che « cifra oscura » e « fattività » debbono essere rimeditati anche sotto il duplice profilo: a) del carattere innanzitutto « simbolico » del diritto penale, poiché questo, più di ogni altro diritto, esprime nel modo più energico l’importanza del « valore » tutelato e la « disapprovazione sociale » per le relative offese, onde svolge quella funzione stigmatizzante, di accentuazione della sociale disapprovazione, che è la primaria forma di controllo sociale, stante la legge criminologica della proporzione inversa tra controllo sociale e controllo penale, in quanto più è ferma e univoca la disapprovazione sociale di un certo comportamento meno si rende necessaria la concreta repressione penale. Sicché il deprecato « simbolismo » di una norma, per la sua scarsità e difficoltà di applicazione, non significa, per ciò solo, « inutilità » di essa e, quindi, opportunità della sua abrogazione; b) della rassegnata presa d’atto che la giustizia penale è, e verosimilmente sarà sempre più, anche « giustizia esemplare per campioni ». Lo Schema ha provveduto, da un lato, a depurare il proprio testo dai reati relativi agli interessi del primo tipo, e, dall’altro, a conservare, razionalizzare, potenziare o introdurre i reati riguardanti interessi del secondo tipo. Così per esemplificare: a) l’omissione di soccorso, nonostante la quotidiana constatazione, e proprio per tale quotidiana constatazione, di una certa crescente indifferenza collettiva verso i soggetti in pericolo; b) i delitti contro l’onore e, segnatamente, la diffamazione, specie da mass media, nonostante l’uso sempre più incontrollato e diffamatorio di questi, e per la gravità degli effetti pregiudizievoli, distruttivi talora di una persona e non solo sotto il profilo morale; salva la facoltà del giudice di applicare soltanto una sanzione civile nei casi di offese di scarsa rilevanza e di non recidiva; c) i reati contro le finanze dello Stato, nonostante l’evasione fiscale costituisca lo sport nazionale più praticato; d) i reati di peculato, corruzione, concussione, nonostante che la « cleptocrazia » politico-amministrativa e la relativa impunità abbiano, per lungo tempo, superato il limite della decenza e, tutt’ora, la « cifra chiara », sia ben inferiore alla « cifra oscura »; e) il delitto di corruzione elettorale, pur essendo stato il voto di scambio una prassi per lungo tempo diffusa e impunita; f) il delitto di riciclaggio, che per la difficoltà e scarsità di applicazione, viene considerata fattispecie « simbolica », ma che, per i gravi turbamenti dell’ordine economico e socio-politico del fenomeno del riciclaggio, è un’ineliminabile tessera del mosaico di misure contro la criminalità organizzata, onde il problema non è quello della sua soppressione, ma della rivitalizzazione, rispetto innanzitutto agli operatori bancari.
— 322 — Col sancire, aprendosi nell’art. 2 coi « Principi di codificazione », che « Il codice penale deve... conformarsi ai princìpi e ai valori della Costituzione », lo Schema esprime una netta adesione all’impostazione costituzionalistica del nostro diritto penale e, innanzitutto, del bene giuridico-penale. Ma con la chiara consapevolezza, memore della sapienziale massima che « il diavolo si cela nel particolare », delle difficoltà, problemi, incertezze della coerente traduzione della stessa nelle singole norme, come pure dell’attuazione del principio della necessarietà della sanzione penale. E proprio rispetto all’attuazione di quest’ultimo principio, più facile anch’esso da proclamare ed invocare, che da concretizzare legislativamente, va rilevato: 1) che, da un lato, il criterio qualitalivo, primario, del tipo di bene giuridico, tanto più nella sua impostazione costituzionale, lascia ben poco spazio per ulteriori espunzioni dallo Schema di fattispecie, poste a tutela di beni, individuali, collettivi, istituzionali, la cui meritevolezza di tutela penale appare di non facile contestazione; 2) che, dall’altro, il criterio quantitativo, sussidiario, del quantum di offesa, volto a circoscrivere l’illecito penale alle c.d. macroffese ai beni, predeterminati come meritevoli di tutela penale, può venire in considerazione rispetto allo Schema non tanto al livello delle fattispecie astratte ivi previste, perché riteniamo che anche sotto questo profilo poco spazio resti per ulteriori sfrondamenti. Ma al più al livello delle fattispecie concrete, attraverso cioè la c.d. « clausola di bagatellarità », della « minima lesività », da inserirsi nella Parte generale quale causa di non punibilità per le « microffese ». Soluzione certamente meritevole di attenta considerazione, ma anch’essa non priva di difficoltà e di inconvenienti. Non solo sotto il profilo della tassatività e certezza giuridica, per l’ampio margine di discrezionalità giudiziaria circa il giudizio sull’entità dell’offesa. Ma anche sotto il profilo della generalprevenzione delle microffese, poiché esse o finiscono per restare sguarnite, di diritto o di fatto, anche di sanzione extrapenale, creandosi così la « licenza di microffendere », col rischio di reati di reazione. Oppure resta la via della non agevole previsione di un sistema sanzionatorio extrapenale per la generalità di fatti microffensivi, con tutti i problemi di proporzionare la sanzione extrapenale alla molteplice varietà di tali fatti. Lo Schema ha affrontato il delicato problema delle « microffese » secondo le seguenti direttrici: a) della previsione della circostanza attenuante comune dell’« avere cagionato un evento offensivo di particolare tenuità » (art. 22/4) o di analoghe circostanze attenuanti speciali (es.: art. 117/7, sui reati fallimentari); b) dell’astensione dall’inflizione della pena allorché il reo abbia subito la « poena naturalis » (art. 40); c) dell’esclusione dall’applicazione della pena accessoria o della pena principale quando una di esse sia sufficiente al raggiungimento delle finalità del trattamento sanzionatorio (art. 38/4); d) dell’ampliamento della sospensione condizionale della pena, pur se concepita come forma graduale di tratta-
— 323 — mento sanzionatorio; e) del trattamento della criminalità minore nel contesto delle sanzioni sostitutive, che se, da un lato, si atteggiano quale contenuto (possibile o necessario) della misura sospensiva (art. 41/7), dall’altro costituiscono un sistema di pene vicarie rispetto alla pena detentiva (o semidetentiva), la cui sospendibilità sia preclusa (art. 43); f) della previsione di talune cause speciali di non punibilità, ispirate al principio di bagatellarità (così gli artt. 89/7, in materia di reati contro l’onore, e 117/5, in materia di reati fallimentari), restando aperto il problema della previsione di altre specifiche ipotesi; g) di riservare, tendenzialmente, al settore contravvenzionale i « reati di ridotta offensività » (art. 55). 8. Pure il principio di offensività è principio regolare, ma non assoluto. Così è inteso anche dallo Schema, che ai fini dell’attuazione di tale principio al livello legislativo, ha inserito la clausola generale dell’art. 54: a) che ha come destinatario il legislatore delegato; b) che, in apertura dei princìpi generali della Parte speciale, impone a questi di « Descrivere di regola le singole fattispecie delittuose in modo che la loro realizzazione assuma una dimensione di concreta lesività o di concreto pericolo per il bene giuridico »; c) che pertanto, da un lato, eleva il principio di offensività a « baricentro » del nuovo codice, e, dall’altro, con l’inciso « di regola » ammette possibili deroghe. La derogabilità del principio di offensività deve ritenersi di per sé non illegittima, non solo allorché si ritenga tale principio non costituzionalizzato, ma anche allorché — sulla base di note argomentazioni e come pure noi riteniamo — lo si ritenga costituzionalizzato. Da un lato, esso segna una direttrice fondamentale di politica criminale in quanto esprime una opzione della nostra Costituzione — e altrimenti non potrebbe essere — a favore di un diritto penale a base oggettivistica, non totalitario e non autoritario. Ma, dall’altro, può subire quelle deroghe « necessarie » per la prevenzione dell’offesa a beni primari, individuali, collettivi, istituzionali, dovendosi la « razionalità » dei princìpi contemperarsi con la « necessità » della generalprevenzione. Anche questa costituzionalizzata, trovando essa il proprio fondamento già nell’art. 2, che imperiosamente impone alla Repubblica il dovere di riconoscere i diritti fondamentali di ogni uomo e di garantirli, anche contro le altrui aggressioni, adottando le necessarie misure preventivo-repressive: quindi, sinteticamente, il c.d. diritto di libertà dal crimine. Lo Schema si è mosso, pertanto, nei termini di una chiara consapevolezza ad un tempo, ferma la funzione « portante » del principio di offensività, dell’irrinunciabilità di certe deroghe e della loro tendenziale eccezionalità, e, quindi, anche della loro non necessaria incostituzionalità. Ed è questa, a nostro avviso, la soluzione più realistica e lineare, perché evita le ambiguità della dottrina che, proclamata la inderogabilità del
— 324 — principio di offensività, è poi costretta, sotto la spinta delle ostinate esigenze della generalprevenzione, a pericolose « mimetizzazioni », volte a « normalizzare » come reati di offesa reati che sono, irriducibilmente, senza offesa. E che vanno considerati come tali, se si vuole mantenere nitido lo spartiacque tra la regola del principio di offensività e le deroghe ed avere la concreta misura della regolarità della sua attuazione legislativa nel nuovo codice e l’eccezionalità delle deroghe. Non basta, infatti, per armonizzare con l’asserita inderogabilità del principio di offensività una legislazione penale, convertire la presunzione di pericolosità, oggi assoluta, dei reati di pericolo presunto in una presunzione relativa. Poiché, se è indubbiamente vero che spetta al legislatore ordinario la scelta delle tecniche di attuazione del principio di offensività e che con tale principio contrasta non tanto la presunzione di pericolosità, quanto l’invincibilità di essa, è pur vero che le esigenze generalpreventive possono imporre il ricorso a reati senza offesa, rispetto ai quali la suddetta operazione di conversione non è possibile, poiché trattasi non di reati di pericolo presunto, ma, come vedremo, di reati di pericolo astratto (es.: atti osceni in luogo pubblico, pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapriccianti, corruzione di minorenni, non essendo possibile conoscere a priori e neppure accertare a posteriori i possibili effetti lesivi di tali fatti) oppure di reati-ostacolo (es.: associazioni criminose; fabbricazione, detenzione, commercio non autorizzati di armi o esplosivi). Né appare adeguata operazione di recupero all’inderogabile principio di offensività il ravvisare nella funzione il bene giuridico dei reati a tutela di una funzione. O il considerare reati di pericolo quei reati (es.: artt. 440 e 441), nei quali è sì richiesto dalla norma l’accertamento della pericolosità, anticipata però agli atti preparatori e, quindi, più esattamente, della idoneità degli stessi a concretizzare una situazione di pericolo per il bene protetto, allorché l’agente ponga in essere altre ulteriori condotte (1). Per evitare aggiramenti (o raggiramenti) del principio di offensività, (1) Nei reati degli artt. 440 e 441 l’adulterazione e la contraffazione di sostanze alimentari o altre cose non creano, come tali, alcuna reale situazione di pericolo per la salute collettiva, ma una tale situazione concretizzano, al più, con la distribuzione o la messa in commercio delle stesse. Sicché il fatto che dette norme richiedano che l’adulterazione e la contraffazione rendano dette sostanze o cose pericolose alla salute collettiva sta soltanto a significare — anche se mediante una formulazione non corretta — che, per potere anticipare la soglia della punibilità alle mere condotte adulteratrici o contraffattrici o per poterle classificare tra i delitti contro l’incolumità pubblica, è quanto meno necessario che si tratti di un’adulterazione o contraffazione non qualsiasi, ma realizzata in modo tale da creare pericolo per detto bene, allorché ad esse segua la messa in circolazione delle suddette sostanze o cose. Lo Schema nella consapevolezza dell’irrecuperabilità al principio di offensività di detti reati (e degli altri similari), nell’attuale formulazione, li ha sostituiti con la nuova fattispecie di pericolo concreto dell’art. 99/5, che incrimina il fatto di « chi somministra o pone in commercio, in modo pericoloso per la salute collettiva, sostanze o strumenti nocivi ».
— 325 — va subito ricordato che esso è vulnerato dai reati senza oggetto giuridico e dai reati senza offesa al bene giuridico, anche se più numerosi sono i secondi rispetto ai primi. 9. E per individuare i reati senza oggetto giuridico, occorre la chiara consapevolezza della distinzione tra oggetto giuridico e scopo della norma. La travagliata storia dell’oggettività giuridica è — non va dimenticato — anche la storia di continui svuotamenti, che ne hanno segnato il passaggio dalla « concezione metapositivistica » alla « concezione giuspositivistica », operata tramite l’identificazione del bene giuridico con lo « scopo della norma », riuscendosi così, in quanto ogni norma ha un suo scopo, a munire di oggettività giuridica tutti i reati, ma privando il bene giuridico della sua funzione critico-garantista di limite al legislatore penale, poiché si continua a chiamare tale — in virtù di una slealtà anche terminologica — un quid che, in quanto coevo alla norma, non può assolvere tale funzione. Ed anche nella costruzione di un nuovo codice penale occorre premunirsi contro gli « incanti » di un duplice opposto rischio. Da un lato, il rischio della « gratuita elargizione » di oggettività giuridiche, identificandosi il bene giuridico con lo scopo della norma, a reati che ne sono privi; e, quindi, di legittimazioni, in base al principio di offensività, a reati di scopo, la cui legittimazione va ricercata sul diverso piano della loro necessità generalpreventiva ed eccezionalità. Paradigmatiche figure di reati senza oggetto giuridico sono i delitti di fabbricazione, detenzione e commercio senza licenza di armi od esplosivi, poiché l’interesse statuale al controllo della circolazione di dette cose non è l’asserito bene giuridico, preesistente alla norma, ma nient’altro che lo scopo perseguito col divieto di tale condotta: la stessa fattispecie vista in chiave teleologica. Dall’altro, il rischio della « messa in liquidazione » dell’oggettività giuridica, attraverso l’enfatizzazione, in particolare: a) dei reati con bene giuridico vago o diffuso, non bene identificabile nella sua reale consistenza (fede pubblica, economia nazionale, ambiente, ecc.), di fronte alla dilatazione dei quali si parla di « volatizzazione » del bene giuridico; b) dei reati a tutela di una funzione, cioè del modo con cui la pubblica amministrazione ha risolto un conflitto di interessi, che caratterizzano il moderno « diritto penale accessorio » e che consistono, almeno in via immediata, nella mera inosservanza delle regole amministrative con cui tale conflitto è risolto (così in materia di scarichi di sostanze inquinanti, di assetto urbanistico, di mercato e concorrenza). Col conseguente interrogativo se non debba considerarsi superata la filosofia politica dell’Illuminismo e se il diritto penale « moderno » o « postmoderno » non debba fare a meno del bene giuridico. Posizioni, queste, che provano troppo: a) perché le due suddette cate-
— 326 — gorie di reati sono non il diritto penale, ma una parte minoritaria di esso; b) perché, rispetto a certi reati, si tratta più propriamente non di oggettività giuridiche, ma di astrazioni concettuali, con mere finalità classificatorie, di raggruppamenti di reati, e che sono comprensive di specifici beni giuridici, in cui si « concretizzano » e debbono essere concretizzate. Paradigmatici i reati contro la fede pubblica, ove il vero bene giuridico è l’interesse patrimoniale, amministrativo, fiscale, giudiziario, offeso dalla falsificazione del singolo atto, come anche lo Schema ha voluto, a scanso di equivoci, sottolineare, col sancire la esclusione del reato « quando il fatto non offende l’interesse salvaguardato in concreto dalla funzione probatoria dello specifico documento » (art. 93/2); c) perché, rispetto ad altri reati, si tratta di metafore concettuali, che esprimono « situazioni strumentali », « beni intermedi » (ecosistema, assetto urbanistico, sicurezza della circolazione stradale, ecc. ), la cui tutela, anche se autonoma, è pur sempre funzionale alla tutela di beni giuridici finali, « preesistenti » e di rango superiore a quelli confliggenti, e non più adeguatamente protetti, attraverso le forme tradizionali di tutela, di fronte alle nuove forme di aggressione. E il cui aggancio a tali sottostanti oggettività giuridiche finali è fondamentale per legittimare, con sufficiente preservazione del principio di offensività, la criminalizzazione e per delimitare l’ambito della criminalizzazione dei fatti, raggruppati sotto oggettività intermedie, strumentali; d) perché lo Schema ha cercato, nei limiti possibili, di recuperare al principio di offensività i reati a tutela di funzioni. Così, particolarmente, in materia di reati contro l’ambiente, come fra breve vedremo. 10. Per individuare i reati senza offesa occorre la chiara consapevolezza della distinzione tra i reati di offesa, nei quali l’offesa a un preesistente bene giuridico è elemento tipico, esplicito o implicito, del reato, assieme agli altri elementi strutturali della fattispecie, e che deve essere dal giudice accertato in concreto, di volta in volta; e i reati di scopo (o senza offesa), coi quali si incrimina non l’offesa ad un bene giuridico, ma la realizzazione di certe situazioni, che lo Stato ha interesse che non si verifichino, poiché tale interesse non è l’oggetto giuridico del reato ma lo scopo dell’incriminazione, e poiché la frustrazione di tale scopo, attraverso la commissione del reato, non può essere considerata l’offesa, coincidendo quella con la realizzazione della condotta criminosa e confondendosi l’offesa col disvalore del fatto tipico. La travagliata storia dell’offesa è anche la storia di continui svuotamenti, assieme all’oggetto giuridico, pure dell’offesa medesima, operati, nel presupposto che ogni norma è preordinata al conseguimento di un interesse, mediante l’identificazione dell’offesa con la tipicità, con la stessa infrazione della legge penale. Sicché, in questa prospettiva giuspositivistico-formalistica dell’offesa, ogni reato postula per definizione un’offesa, la quale non è che un travisamento verbale della
— 327 — fattispecie legale, rappresentando essa non un elemento costitutivo del reato, da accertarsi caso per caso, ma lo stesso reato visto sotto il profilo della frustrazione dell’interesse dello Stato alla non commissione del reato stesso. E l’ipotesi di un reato senza offesa finisce per essere considerata una contradictio in terminis. Le tipiche categorie dei reati senza offesa sono i reati-ostacolo e i reati a dolo specifico di offesa, mentre i reati di pericolo presunto e di pericolo astratto sono reati eventualmente senza offesa. E anche nella costruzione di un nuovo codice penale occorre premunirsi contro gli « incanti » di un duplice opposto rischio. Da un lato, il rischio della « gratuita elargizione » di offese, identificandosi il bene giuridico con lo scopo della norma e l’offesa con il fatto tipico, a reati che ne sono privi; e, quindi, di legittimazioni, in base al principio di offensività, a reati di scopo, la cui legittimazione va invece ricercata sul diverso piano della loro necessità generalpreventiva ed eccezionalità. Paradigmatiche ipotesi di delitti di scopo, senza offesa, sono le diverse figure di associazione criminosa, in quanto costituenti meri reati ostacolo: a) perché la mera costituzione dell’associazione rivela la pericolosità soggettiva (quale probabilità di commissione di reati) dei singoli componenti e dell’entità associativa, data la maggiore capacità dell’associazione di attuare il programma criminoso; b) perché essa, viceversa, non realizza ancora una pericolosità oggettiva per i singoli beni, oggetto giuridico dei programmati reati-fine, in quanto l’associazione come tale rientra nel novero dei meri « atti preparatori » e non costituisce, perciò, ancora né lesione e nemmeno messa in pericolo di detti beni, non configurando neppure tentativo punibile; c) perché l’invocato « ordine pubblico » o è una pseudoggettività giuridica, una nominalistica astrazione concettuale, sotto molti profili indecifrabile, oppure ha la concretezza di un’oggettività giuridica, e allora non può che essere un’oggettività giuridica di sintesi (meglio espressa con quella di « sicurezza collettiva » dello Schema), comprendente l’insieme dei beni oggetto giuridico dei commettendi reati-fine, ma dal solo fatto dell’associazione non ancora neppure messi in pericolo; d) perché l’asserita offesa all’« ordine pubblico », ravvisata nel fatto che certe associazioni (es.: mafiose) possono provocare, su un territorio, effetti terrorizzanti, grande allarme sociale e, quindi, turbamento per la tranquillità e sicurezza pubblica per lo stesso ordinamento giuridico, in verità dipende non dalla costituzione, in sé e per sé, dell’associazione, che fra l’altro può essere del tutto ignota. Bensì dalla serie di reati-fine già da essa commessi (uccisioni, strage, minacce, estorsioni, danneggiamenti) e, quindi, dalla probabilità o pressoché certezza che altri reati saranno commessi: quindi, dalla pericolosità sociale soggettiva dell’aggregazione, fondata sui reati commessi, così come allarme sociale, turbamento dell’ordine pubblico, può suscitare la pericolosità sociale soggettiva di un singolo soggetto, fon-
— 328 — data sui reati già commessi (così nei casi, ad es., dei « mostri » della letteratura criminologica). E nella consapevolezza, ad un tempo, dell’irrinunciabilità generalpreventiva e della non offensività dei delitti di associazione lo Schema ne ha mantenuto la previsione, ma semplificata e meglio tassativizzata. Dall’altro lato, il rischio della « messa in liquidazione » anche dell’offesa, attraverso l’enfatizzazione delle difficoltà di adeguata tipizzazione in termini di offesa delle fattispecie criminose. Pur se incontestabili, tali difficoltà si manifestano soprattutto rispetto ai reati ad oggettività giuridica diffusa o a tutela di funzioni, i quali costituiscono categorie pur sempre circoscritte e che possono essere recuperati al principio di offensività, nei limiti del possibile, oppure configurabili come reati di pericolo non concreto. Quale paradigmatico esempio di ricorso alle due suddette tecniche è la disciplina dei reati contro l’ambiente, prevista dallo Schema. L’art. 102 prevede il delitto di danno dell’alterazione dell’ecosistema, volto a punire i fatti di inquinamento più gravi e di agevole accertamento (es.: inquinamento delle acque costiere e della costa per fuoriuscita di greggio da navi cisterne, dell’atmosfera e del suolo con la diossina da attività industriale o di ampi tratti fluviali con sostanze tossiche e distruzione della fauna ittica); mentre l’art. 103 prevede la contravvenzione sussidiaria di pericolo presunto, volta a colpire le immissioni o scarichi in violazione dei limiti di accettabilità, con danno inesistente o non provato all’ecosistema. 11. Circa le tecniche di attuazione, il principio di offensività va attuato al duplice livello: 1) legislativo, prima; 2) interpretativo-applicativo, poi. Cominciando dal prioritario piano dell’attuazione legislativa, questa va a sua volta effettuata: a) nella Parte speciale, innanzitutto; b) nella Parte generale nondimeno; dovendo l’esigenza dell’offensività dominare l’intero diritto penale. Va operata sul piano primario della Parte speciale, poiché è qui che il principio di offensività si gioca, innanzitutto, la propria credibilità. Ciò per la fondamentale ragione che non basta inserire nel codice una clausola generale, che sancisca espressamente o implicitamente (come il vigente art. 49, secondo una certa interpretazione), la non punibilità del fatto non offensivo del bene protetto dalla norma. Ma occorre procedere alla ricostruzione della Parte speciale in chiave di offensività di specifiche oggettività giuridiche. Una siffatta clausola non indica, ovviamente, i beni specificamente tutelati dalle singole norme. Né potrebbe munire di un oggetto giuridico e di un’offesa la serie di reati senza oggetto giuridico e, soprattutto, senza offesa, quali quelli presenti nel vigente diritto penale. Sicché in questi casi o la clausola resta inoperante, finendosi al più per fare
— 329 — coincidere l’oggetto giuridico con lo scopo della norma e l’offesa con la fattispecie legale, aggirando (o meglio, raggirando) il principio di offensività. Oppure — e peggio — si attinge l’oggetto giuridico fuori dalla norma, da fonti extralegislative, violando il principio di legalità, come avviene nel diritto penale socialista, in base alla clausola dei codici penali socialisti della « non punibilità delle azioni tipiche, ma socialmente non pericolose in misura rilevante » per la società socialista. E non va dimenticato che l’avversione di non poca parte della dottrina italiana ad intendere l’art. 49 del vigente codice sul reato impossibile come norma non doppione in negativo dell’art. 56 (riferentesi cioè al tentativo inidoneo), ma consacrante il principio della necessaria offensività del reato, trae la propria origine dal timore, generato dalle esperienze dei paesi dell’Est relative, alla clausola della pericolosità sociale della condotta, di un uso antilegalitario dell’art. 49. E al livello della Parte speciale il principio di offensività va attuato — con la consapevolezza delle difficoltà di « tipizzazione » (specie rispetto alle figure di reati offensive di beni « diffusi ») e con lucida essenzialità, come in qualche misura ha tentato di fare lo Schema — attraverso: 1) l’enucleazione di un sistema ontologico di precise oggettività giuridiche di categoria, espresse nelle rubriche dei Titoli e, ulteriormente, specificate, in quelle dei Capi e Sezioni. Intitolati che, alla luce del principio di offensività, assumono un valore normativo, tanto più vincolante e precettivo quanto maggiore è la loro specificazione e concretezza, sì da esercitare una funzione determinante nell’individuazione del bene protetto e dell’offesa; 2) la tipizzazione delle offese attraverso: a) innanzitutto, l’enucleazione delle fondamentali tipologie ontologiche di aggressione, da raggrupparsi sotto le diverse oggettività giuridiche di categoria; b) l’inclusione nei reati di danno del requisito espresso della lesione (come oggi avviene, ad es., per la truffa, le lesioni personali, i delitti contro l’onore), quando questa non sia già implicita (es.: omicidio, aborto) o ciò si renda necessario. Esempi paradigmatici i delitti di falso, che hanno sempre costituito — secondo una nota giurisprudenza, volta ad identificare il falso punibile con la mera immutatio veri — il tallone più vulnerabile del principio di offensività, ma che lo Schema ha ricostruito in termini di offesa: a) perché incentra la tutela sugli interessi garantiti dall’efficacia probatoria dei singoli documenti, sia rubricando tale categoria di reati come « reati contro l’efficacia probatoria dei documenti », sia escludendo espressamente il reato in assenza dell’offesa al bene, salvaguardato in concreto dalla funzione probatoria dello specifico documento; b) perché, non tutelando più l’atto in sé e, quindi, in ragione della gerarchia dei tipi di atti, equipara gli atti pubblici della verificazione, della certificazione, dell’autorizzazione, dell’attestazione (art. 93). Altro esempio paradigmatico è il delitto di abuso
— 330 — d’ufficio, richiedendo lo Schema l’evento del danno ingiusto o dell’ingiusto vantaggio (art. 138); 3) la ricostruzione dei delitti di attentato, rispetto ai quali lo Schema ha spostato la tipicità dal « fine » al « mezzo idoneo » e, per porre termine alla nota discordia interpretativa, sancisce che i requisiti del tentativo punibile si riferiscano anche ai reati di attentato e ai reati a struttura simile (condotte volte alla produzione di un evento) (art. 19); 4) la previsione dei reati omissivi, improntata — consistendo essi, naturalisticamente, in un nihil facere e, perciò, essendo essi inconciliabili, naturalisticamente, col principio di materialità-offensività — al duplice principio: a) dell’eccezionalità dei reati omissivi, dovendo un diritto penale della libertà essere, come regola, un diritto, repressivo, di divieti e, come deroga, un diritto, costrittivo, di comandi, e avere come scopo primario la conservazione dei beni giuridici e non la promozione, di reprimere il « male » e non di perseguire il « bene », trasformandosi in strumento di governo della società; b) di solidarietà, anch’esso connotazione dello Stato personalistico-solidaristico, trovando la deroga dei reati omissivi il fondamento e il limite nella necessità, principalmente, dell’adempimento dei fondamentali obblighi di solidarietà umana. Ed il recupero dei reati omissivi al principio di offensività va effettuato non, ovviamente, al livello naturalistico, impraticabile, ma al livello normativo, attraverso: a) la ricostruzione dei reati omissivi propri non in termini di mera inosservanza della norma comportamentale, come sono invece oggi in genere formulati, ma in termini di pregiudizio ad un preesistente bene giuridico. Così, significativamente, lo Schema richiede per la sussistenza del reato di omissione di atti d’ufficio l’evento del « turbamento alla regolare attività della pubblica amministrazione » (art. 138); b) la ricostruzione dei reati omissivi impropri in termini di equiparazione dell’offesa non impedita all’offesa cagionata, sulla base dei tre requisiti seguenti: α) la previa configurazione, innanzitutto, del referente dei reati commissivi come reati di offesa; β) la delimitazione dell’obbligo di garanzia in termini solidaristici, cioè a favore di soggetti incapaci dell’autosalvaguardia del proprio bene e a carico di soggetti che, per i particolari rapporti con detti soggetti o con la cosa fonte del pericolo, sono dotati dei poteri giuridici impeditivi; e la conseguente distinzione, come fa anche lo Schema, dall’autentico obbligo di garanzia del mero obbligo di attivarsi e dell’obbligo di sorveglianza, la cui inosservanza è punibile solo se prevista come reato (es.: a titolo di omissione di atti di ufficio o di omessa sorveglianza nell’ambito dell’impresa, fattispecie quest’ultima introdotta dall’art. 114 dello Schema per colmare la lacuna repressiva nei confronti dei soggetti, quali i sindaci e i membri di organi di controllo, che per la mancanza dei poteri impeditivi non sono « garanti », ma che oggi, in presenza di tale lacuna, una nota giurisprudenza tende a considerare tali); γ) l’assicurazione che la condotta dove-
— 331 — rosa impeditiva sia quella idonea ad impedire l’offesa, essendo la condotta impeditiva che tipizza il reato omissivo improprio. Ma punctum dolens restano soprattutto i reati di pericolo ed i reatiostacolo. Circa i reati di pericolo, è, infatti, tuttora aperto il dibattito tra chi, privilegiando il principio di offensività, vorrebbe circoscriverli ai soli reati di pericolo concreto o, al più, ai reati di pericolo relativamente presunto, con possibilità cioè di prova contraria, stante il crescente disfavore per i reati di pericolo assolutamente presunto, manifestato anche dalla Corte costituzionale. E chi, privilegiando il principio di tassatività e certezza giuridica e le esigenze di tutela, ha abbandonato ogni preconcetta avversione per i reati di pericolo non concreto. Ciò sia per le difficoltà ed incertezze dell’accertamento dell’esistenza o dell’assenza del pericolo concreto e le divergenze sugli stessi criteri adottabili in merito. Sia perché i reati di pericolo non concreto sarebbero maggiormente rispettosi del principio di tassatività e strumenti obbligati di tutela, pur se limitati ai soli beni primari, contro la diffusività del pericolo, originato dai complessi processi tecnologici, da attività (es.: riguardanti la salute collettiva), in ordine alle quali non sono ancora note le leggi causali, o da pluralità di condotte (es.: pericolo ambientale) o da attività « seriali »; e per la vanificante diabolica probatio della loro attitudine lesiva. Sicché dovrebbe guardarsi piuttosto al rango dei beni tutelati e alle tecniche di tipizzazione. Circa i reati ostativi (cioè quelle incriminazioni arretrate che non colpiscono comportamenti offensivi, ma tendono a prevenire il realizzarsi di azioni effettivamente lesive o pericolose, mediante la punizione di atti che sono la premessa idonea per altri reati), accanto ad autorevole dottrina che propende per un allargamento del campo di tali reati quali mezzi particolarmente idonei per la prevenzione dei reati, altri autori ne contestano la costituzionalità. Lo Schema, ritenendo inopportuna l’introduzione di una clausola generale conferente la facoltà di prova liberatoria dell’assenza di pericolo nel caso concreto, perché contrastante, oltre che con ragioni di prevenzione generale, soprattutto di praticabilità rispetto ai reati di pericolo non presunto, ma astratto, e ai reati-ostacolo, si è mosso secondo le seguenti direttrici: a) della conversione, ove possibile, dei reati di pericolo non concreto o, comunque, senza offesa in reati di pericolo concreto (es.: i reati di disastro, di somministrazione o commercio di sostanze nocive, di pericolo nucleare, di offesa alla sicurezza dei trasporti, di attentato, di violazione del segreto di Stato, di infedeltà in affari di Stato) o, altresì, in reati di danno (es.: reati di alterazione dell’ecosistema, di abuso di autorità, di omissione di atti d’ufficio); b) della delimitazione dei reati di pericolo non concreto soprattutto
— 332 — ai reati non di pericolo presunto, ma di pericolo astratto. Costituendo questi ultimi, reati che, per loro natura, precludono la possibilità di un controllo ex ante delle condizioni di verificabilità dell’evento lesivo e che, pertanto, pongono il legislatore nell’alternativa di accettarli come tali o di rinunciare alla tutela penale preventiva, anche di beni primari, lo Schema ha fatto ricorso a tale categoria di reati soprattutto — e in misura marginale, specie per quanto concerne i delitti — in materia di reati contro l’incolumità e la salute collettiva (sottrazione, danneggiamento od omissione di misure contro disastri, boicottaggio dell’opera di difesa), contro la sicurezza collettiva (istigazione a commettere delitti), contro l’altrui sentimento di discrezione sessuale (atti osceni) e contro l’integrità psichica (oscenità in danno del minore di cui all’art. 61/6, lett. b) e c); c) della delimitazione dei reati-ostacolo o, comunque, anticipanti la soglia della punibilità agli atti preparatori, ai circoscritti casi di imperiose esigenze di difesa, utilizzandoli per incriminare fatti che sono la « premessa idonea » per la commissione di fatti offensivi di interessi di particolare rilievo costituzionale (associazione per delinquere, associazione eversiva, associazione segreta, cospirazione politica, guerra alla Repubblica, conflitto armato, sperimentazione a fini di ibridazione o di clonazione); d) della previsione come contravvenzioni — secondo la direttrice fissata dall’art. 55 — della maggior parte dei reati di pericolo non concreto (quali quelli consistenti in violazioni di regole cautelari: es., art. 101) e dei reati consistenti nell’esercizio irregolare di attività sottoposte a concessione, autorizzazione, controllo o vigilanza, amministrativi (es.: artt. 65 nn. 4 e 6; 101 n. 7; 103). 12. Passando alle tecniche di attuazione del principio di offensività nella Parte generale, esso va attuato attraverso la ricostruzione in termini di offensività degli istituti, che costituiscono il tallone vulnerabile della legalità e dell’offensività. Il primo vulnerabile tallone è costituito dal tentativo punibile, poiché corollari, in materia, del principio di offensività, osservati dallo Schema, sono il rigetto della concezione soggettivistica del tentativo, connaturale ai diritti penali della volontà o della pericolosità sociale e accolta da non pochi codici; la quale estende il tentativo punibile al più remoto stadio degli atti preparatori, secondo la rituale e ricorrente formula degli « atti aventi per scopo di causare o favorire la commissione di un reato », e ne equipara la pena a quella del reato consumato. E la piena adesione, invece, alla concezione oggettivistica, che limita il tentativo punibile agli atti esterni, realizzanti una situazione di concreto pericolo per il bene giuridico. Salvo l’ulteriore problema della opzione tra: a) il modello oggettivistico dell’inizio dell’esecuzione, scartato dallo Schema, perché, da un lato, non soddisfa pienamente l’esigenza di certezza giuridica, essendo rimasto
— 333 — irrisolto il problema del criterio distintivo tra atti preparatori ed atti esecutivi; e, dall’altro, riduce il tentativo punibile ad un ambito troppo ristretto, sacrificando eccessivamente l’esigenza generalpreventiva; b) il modello oggettivistico degli atti idonei ed univoci, perché, se correttamente applicato, consente un onorevole contemperamento tra certezza giuridica e difesa sociale, nel rispetto del principio di offensività. Modello accolto dallo Schema (art. 19) e rafforzato nella sua base oggettivistica con la formula « atti idonei oggettivamente diretti in modo non equivoco », apprezzabile nella sua ratio di rafforzamento della base materiale e, quindi, della pericolosità obiettiva del tentativo, contro i pericoli di sconfinamenti soggettivistici, ma — re melius perpensa — non del tutto formalmente ineccepibile, perché, riferendosi l’« obiettivamente » alla « direzione » degli atti potrebbe far pensare ad una riesumazione legislativa della tesi della capacità degli atti, in sé considerati, di rivelare la loro direzione finalistica, la specifica intenzione criminosa dell’agente: col rischio della vanificazione del tentativo punibile, stante la normale pluridirezionalità oggettiva degli atti. Sicché tale esigenza di obiettivizzazione potrebbe essere meglio espressa con la formula « atti idonei diretti in modo oggettivamente non equivoco ». L’adesione al modello oggettivistico, ha portato, coerentemente, lo Schema, non solo a punire il tentativo con pena edittale inferiore a quella del delitto perfetto, ma altresì: a) ad escludere la configurabilità giuridica del tentativo punibile rispetto ai reati di pericolo e di attentato, essendo il « pericolo del pericolo non un pericolo » e, quindi, senza offesa; come appare doversi desumere anche dall’art. 19/3, che, richiedendo per i delitti di attentato e similari i requisiti del delitto tentato, li considera come fattispecie di tentativo e, così, esclude l’estensione della punibilità al tentativo di reato di attentato; b) a circoscrivere, secondo una risalente tradizione, il tentativo ai delitti, per la fondamentale ragione che molte contravvenzioni sono già forme di reati a consumazione anticipata (di pericolo o reati-ostacolo); c) a distinguere tra desistenza e recesso, con conseguente diversità di trattamento, poiché sussiste un’irriducibile diversità di pericolosità oggettiva, oltre che di volontà colpevole e di capacità a delinquere, tra la rinuncia del soggetto a compiere ulteriori atti, che poteva ancora compiere per perfezionare il reato (es.: propinare le altre dosi di veleno), e il compimento di tutti gli atti necessari a cagionare l’evento (es.: l’avere propinato tutte le dosi di veleno), onde qui il tentativo ha raggiunto il massimo di pericolosità e l’esito della controcondotta impeditiva è non di rado aleatorio. Alla luce del principio di offensività, raccordato col principio della responsabilità penale personale, va operata, come fa anche lo Schema (art. 13), la distinzione — abbandonato il criterio letterale-formale (fondato sul « se », « qualora », « sempre che ») — tra: a) evento-elemento costitutivo del reato, che è rappresentato da quegli accadimenti che atten-
— 334 — gono all’offesa del bene protetto, che accentrano in sé l’offensività, e, quindi, la ratio dell’incriminazione; b) evento-elemento condizionante la punibilità, che deve essere circoscritto a quegli accadimenti del tutto estranei alla sfera dell’offesa, ma che rendono, secondo le valutazioni del legislatore, opportuna la punibilità del fatto, già di per sé offensivo. Il nuovo criterio distintivo, se può anche non essere in tutti i casi di automatica applicazione, offre all’interprete un fondamentale canone di orientamento. A cominciare dai reati fallimentari, ove l’« apertura di una procedura concorsuale », che è stata ritenuta anche in base allo Schema di ambigua qualificazione dommatica, in verità sembra che possa difficilmente non essere considerata mera condizione di punibilità, sia perché l’offensività si accentra nei fatti di bancarotta sia perché consiste in un fatto altrui. Ma in rapporto al principio di offensività va pure ribadita l’operatività oggettiva delle cause di giustificazione. Il richiedere la consapevolezza dell’esistenza della situazione giustificante e la volontà di realizzare la specifica finalità della causa di giustificazione (es.: la volontà di difendersi e non di offendere) comporta il passaggio da un diritto penale dell’offesa a un diritto penale della volontà, poiché si punisce una volontà criminosa in presenza di un fatto obiettivamente non offensivo (es.: perché rientra nel diritto di libera manifestazione del pensiero). 13. Per quanto riguarda, infine, le tecniche di attuazione del principio di offensività al livello interpretativo-applicativo, lo Schema provvede in merito con la clausola generale dell’art. 4, che, in apertura della Parte generale, sotto la rubrica « Interpretazione ed applicazione della legge penale », sancisce per il legislatore delegato l’obbligo di « prevedere il principio che la norma sia interpretata in modo da limitare la punibilità ai fatti offensivi del bene giuridico ». Con tale clausola interpretativa, da un lato, si è inteso evitare clausole del tipo di quelle dei codici penali socialisti della « minima offensività » (della « non punibilità delle azioni tipiche ma socialmente non pericolose in misura rilevante »), che portano — come già detto — ad attingere l’offesa al di fuori della norma nel nebuloso terreno della « legalità sostanziale »; e così rassicurare che l’accoglimento del principio di offensività in fase interpretativa non costituisce attentato alla legalità e certezza giuridica, svolgendo esso la funzione ulteriormente limitatrice dell’illecito penale. Dall’altro, si è inteso porre un argine a quel formalismo giurisprudenziale, che ha svuotato di contenuto applicativo il reato impossibile e porta a punire ingiustificatamente i fatti concretamente « inoffensivi » (si pensi ai falsi innocui e ai falsi inutili). O che, quando ritiene non punibili certi fatti concretamente inoffensivi, lo fa in nome di generiche esigenze equitative o per mancanza di animus o perché fuori dallo scopo della norma teleologicamente interpretata, senza risalire alla superiore ratio,
— 335 — dommatica e costituzionale, consistente nella atipicità del fatto, per mancanza del requisito tipico dell’offesa. Anche se, specie nell’ultimo decennio, il principio di offensività, dopo le proclamazioni dottrinali, ha cominciato a filtrare anche nella giurisprudenza di legittimità e di merito, ove si riscontra con crescente frequenza il riconoscimento dell’effettiva offensività come requisito tipico del reato. Va, nondimeno, precisato che la clausola suddetta serve per assicurare l’esigenza dell’offensività — di fronte a tutte le varianti dei casi concreti, che possono rendere il fatto « inoffensivo » — relativamente ai reati legislativamente costruiti, e nello Schema sono la maggioranza, come reati di danno o reati di pericolo. Non per elargire, ripetiamo, pseudoffese a reati che nello Schema sono stati deliberatamente costruiti — anche se in numero minoritario — senza offesa in nome di fondamentali esigenze generalpreventive. 14. Anche sulla base delle considerazioni sopra svolte, non appare del tutto convincente la pur stimolante tesi che, muovendo da una asserita impossibilità di mantenimento dell’unitarietà dei princìpi del diritto penale, stante la « volatizzazione » del bene giuridico e l’espandersi dei reati senza offesa, propone lo scorporamento del diritto penale in una pluralità di sottosistemi legislativi, muniti ciascuno di una specifica Parte generale, raggruppante le norme generali proprie e comuni dello specifico sottosistema. A prescindere dal fatto, non decisivo ma nondimeno significativo, che si tratterrebbe di una « via del tutto italiana » alla ricodificazione, la tesi, pur contenendo taluni elementi di verità, non convince: 1) perché, confondendo la regola con l’eccezione, prova troppo, in quanto nello Schema i reati senza offesa hanno carattere marginale, mentre i reati di offesa sono la stragrande maggioranza, tali essendo il maggioritario raggruppamento dei reati contro la persona (con eccezione, al più, per le contravvenzioni dell’art. 60, per i delitti-ostacolo dell’art. 65 nn. 4 e 6, dell’art. 73 n. 2), i reati contro il patrimonio, la pressoché totalità dei reati contro i rapporti civili, sociali ed economici. Per quanto concerne, in particolare, i reati contro la comunità, sono previsti come reati di offesa i reati contro le genti, contro il patrimonio culturale, contro il paesaggio e la flora, contro gli animali e il patrimonio faunistico, contro le risorse economiche ambientali e la produzione, contro le finanze dello Stato, contro l’ambiente (ad eccezione della contravvenzione dell’art. 103), contro l’economia imprenditoriale; nonché i reati fallimentari. Fattispecie di pericolo non concreto e reati-ostacolo sono, invece, più frequenti — per esigenze generalpreventive imperiose — oltre che tra i reati contro la sicurezza collettiva, tra i reati contro l’incolumità e la salute collettiva, ove, nondimeno, le fondamentali figure delittuose sono state costruite o rico-
— 336 — struite in termini di pericolo concreto (le cinque ipotesi raggruppate sotto il delitto di disastro, la somministrazione e commercio di sostanze nocive, il pericolo nucleare); nonché tra i reati connessi alla costituzione ed organizzazione dell’impresa. Analogo discorso vale per i reati contro la Repubblica, ove, accanto ai reati di offesa, costituiti dai tradizionali reati contro la pubblica amministrazione e contro la giurisdizione, sono previsti i reati contro l’ordine costituzionale, ove si alternano, ai maggioritari reati di offesa (così, ad es., i reati di attentato, visti alla luce della clausola dell’art. 19/3; i reati relativi al segreto di Stato e di infedeltà in affari di Stato), reati-ostacolo (così, in particolare, i reati di associazione) e reati anticipanti la soglia della punibilità agli atti preparatori (così, ad es., i reati di guerra alla Repubblica, di conflitto armato): fattispecie irrinunciabili per imperiose esigenze generalpreventive, riguardando fenomeni che vanno bloccati sul nascere, poiché potrebbero altrimenti non essere più controllabili e travolgere le stesse istituzioni, con conseguente impossibilità di punire la consumazione dei reati-scopo; 2) perché la costruzione di sottosistemi come corpi legislativi autonomi, come « microcodici », rischia di fatto di ridare la stura alla mala pianta della legislazione speciale, a quel fenomeno degenerativo della decodificazione, coi noti effetti dell’« ordinamento giuridico occulto », della crisi del principio di legalità-certezza-chiarezza giuridica, del disordine giuridico, dell’arbitrium judicis, della « caotizzazione » della giustizia; 3) perché perenne è l’esigenza della codificazione, in quanto, per la sua centralità, unitarietà, sistematicità e coerenza di princìpi e di specifiche applicazioni, è irrinunciabile strumento di razionalizzazione del diritto penale contro i suddetti pericoli; 4) perché la costruzione di sottosistemi non appare necessaria neppure rispetto ai settori minoritari di più marcata presenza dei reati senza offesa, sia perché i princìpi fondamentali di un diritto penale garantistapersonalistico valgono anche per i suddetti reati, sia perché alle eventuali esigenze di peculiari discipline sotto certi profili, degli stessi può provvedersi — e non è grande problema — attraverso la previsione di una Parte generale della Parte speciale o, al limite e se strettamente necessario, anteponendo a certi settori di reati disposizioni proprie e specifiche di essi. Sicché il problema può essere agevolmente risolto attraverso una verifica per settori di reati, anche se riteniamo che una siffatta verifica non dovrebbe portare ad un gran che di significativo sotto il profilo della specificità di disciplina. Ferme la centralità del codice e la complementarità marginale della legislazione speciale, consacrate nello Schema dalla dirompente clausola dell’art. 13 delle Disposizioni di attuazione e transitorie, la legislazione speciale trova giustificazione se circoscritta ai marginali settori delle materie di carattere eminentemente tecnico o della regolamentazione derogato-
— 337 — ria con carattere di temporaneità o eccezionalità, attinente al diritto penale della necessità e della patologia sociale, come la legislazione dell’emergenza (antiterroristica, antimafiosa). Per tale ragione riteniamo che, contrariamente all’opinione di chi vorrebbe inserire nel codice penale la disciplina penale della criminalità organizzata (e, segnatamente, di quella di stampo mafioso), questa debba essere riservata alla legislazione speciale, essendo essa tipica materia da sottosistema penale. L’invocato vantaggio di un maggior richiamo, attraverso la collocazione nel codice penale, dell’attenzione su tale criminalità non compensa il rischio della legittimazione, della « normalizzazione » come diritto regolare di un tale diritto penale derogatorio ed eccezionale, e, quindi, il rischio di « inquinamento », di contaminazione della razionalità garantista del codice penale, che non ammette possibilità di equivoci. E, per concludere, in questa stimolante avventura collettiva, intellettuale e culturale, della ricodificazione del nostro diritto penale non va mai dimenticata la quadruplice verità: a) che il buon legislatore non può che legiferare per semplificazioni essenziali; b) che a questi fini occorre distinguere ciò che appartiene alla legislazione da ciò che appartiene all’interpretazione, alla scienza o solo alla teoria generale del nulla, tenuto conto che certi livelli di sofisticazione scientifica non sono recepibili dalla legislazione penale e tendono ad essere sempre più fine a se stessi; c) che il punto di collaudo dell’utilizzabilità legislativa delle elaborazioni dottrinali è dato dalla loro traducibilità in articolati di essenzialità e semplicità precettiva, onde sarebbe particolarmente costruttivo che le varie osservazioni critiche e migliorative sullo Schema venissero tradotte in precisi articolati sostitutivi od integrativi; d) che anche la dosatura legislativa, doverosamente più attenta, della giustizia e dell’ingiustizia va pur sempre, realisticamente, rapportata a quel tanto di giustizia umana sempre approssimativa, che, anche con le migliori leggi ed i migliori giudici, è possibile concretamente ottenere. E senza mai dimenticare che il diritto penale non di rado si limita, per sua natura, a sanzionare i frammenti, i segmenti di ingiustizia, mentre le « grandi ingiustizie », i grandi misfatti, sovente ad esso sfuggono ed i relativi autori sono esaltati e ricordati come i grandi personaggi della storia o, peggio, come benefattori dell’umanità. FERRANDO MANTOVANI
SELETTIVITÀ E PARADIGMI DELLA TEORIA DEL REATO (*)
SOMMARIO: 1. La « selettività » politica di una teoria del reato fondata sui « principi » e la parabola del metodo dal tecnicismo all’approccio costituzionalistico. — 2. Le due « generalità » (forse le due anime) della teoria del reato, una deduttiva e una induttiva, fra storia e comparazione. — 3. Il diritto penale come ius singulare, sull’esempio delle categorie della tipicità, dell’illecito e della colpevolezza. L’eccezione dell’antigiuridicità: categoria del dialogo. — 4. L’impatto « critico » di un approccio induttivo (dal diritto vivente) nella verifica delle teorie generali fondate sui principi. Principi dimostrativi e principi argomentativi, comunque « aperti » a un’attuazione politica pluralistica. — 5. La crisi della « neutralità » dell’interprete e l’attenzione non ideologica al molteplice giuridico dei « fatti » e degli « autori ». - 5.1. L’esempio del principio di offensività. - 5.2. L’esempio del principio di colpevolezza. — 6. Una risposta « teleologica » alle tendenze disaggreganti dei « sottosistemi » e di un « diritto punitivo generale » penalmente aspecifico: non solo i delitti, ma anche le contravvenzioni nel quadro della politica criminale e della teoria del reato.
1. Quando ci si appresta ad approfondire il modo di « pensare » le categorie generali del reato oggi, il taglio con il quale quelle categorie sono di fatto ricostruite ed elaborate dalla maggior parte degli studiosi, ma anche ormai dalla Corte costituzionale italiana, non si può non cogliere un dato peculiare dell’attualità: non interessa più individuare nozioni « dialogiche » fra l’ordinamento penale e quello extrapenale, nozioni così « generali » da poter essere lessicalmente e funzionalmente adatte, o quanto meno comprensibili, allo studioso o al pratico del diritto civile, commerciale, internazionale, ecc. Il diritto penale, oggi, chiede selettività. Le « sue » categorie vogliono rispondere a interrogativi « specifici » dell’istituzione punitiva, evidenziare le caratteristiche differenziali dei delitti e delle pene rispetto agli altri illeciti e alle sanzioni extrapenali, rispondere alla penalità come « problema » politico, culturale, istituzionale: ciò che essa ha cominciato a divenire solo dopo l’Illuminismo e la Rivoluzione francese. La teoria del reato, quindi, non celebra la razionalità dell’esistente, non organizza soltanto (e qualche volta trascura perfino) le categorie di (*) Il testo, con l’aggiunta delle note, riprende e amplia l’intervento orale svolto al Convegno « Il diritto penale degli anni ’90 », in ricordo di Franco Bricola, Bologna, 18-20 maggio 1995.
— 339 — sempre, le « costanti » del pensiero penalistico, ma si pone nel solco della ragione critica, nella tradizione della scuola del sospetto; essa coltiva la cattiva coscienza del giurista, la tiene in vita con mille e premurose cure. Ciò è tanto più evidente in Paesi come l’Italia, che non hanno ancora conosciuto una riforma codicistica: quando questa arrivasse, sarebbe facile pronosticare il naturale recupero di una razionalità tutta « comprendente », nella misura in cui, almeno, il nuovo codice sappia esprimere le più avvertite esigenze che ne reclamano l’introduzione. Ma l’appello alla selettività va ben oltre il problema storico italiano tutto peculiare dei ritardi e dei blocchi legislativi: anche là dove le riforme sono avvenute, resta aderente allo spirito del tempo una lettura delle nozioni penalistiche secondo i modelli di uno ius singulare. I vantaggi che se ne hanno (la forte identità politico-culturale del diritto penale) appaiono ancora, nel tempo presente — ma questo giudizio dovrà conoscere, prima o poi, un’opportuna verifica — maggiori degli svantaggi pur evidenti (il rischio di un isolamento, la mancanza di dialogo, una provincializzazione a tratti non più accettabile) e sono insiti in ogni forte caratterizzazione. Non starò a discutere in questa sede di tali limiti. Assumo invece come un dato, ancora adesso imprescindibile, la singolare caratterizzazione dell’immaginario e dell’universo argomentativo penalistico. Questo stile di pensiero ha cominciato ad affermarsi, nel ’900, con le categorie del Tatbestand, della colpevolezza normativa e del bene giuridico, quando sono state riconsiderate attraverso l’idea dello scopo (1). Lo (1) La « storia della cultura » di questi « passaggi » è stata elaborata in Germania, ma è assai istruttiva per comprendere l’evoluzione del diritto penale italiano dalla seconda metà degli anni Sessanta. Idealmente — e prescindendo dalle varie stagioni civilistiche e pubblicistiche ispirate da una giurisprudenza degli interessi (sul punto, si rammentino le belle pagine di PORZIO, Formalismo ed antiformalismo nello sviluppo della metodologia giuridica moderna, estratto dal « Bollettino della Biblioteca degli Istituti Giuridici dell’Università di Napoli », parte I, 1961, fasc. III, 254 ss.; e spec. la parte II, 1962, fasc. II, 203 ss., 216-227 e passim) — si deve ricordare il « Programma di Marburgo » di V. LISZT, Der Zweckgedanke im Strafrecht, Berlin, 1905, trad. it., La teoria dello scopo nel diritto penale, Milano, 1962, la sua forte accentuazione teleologica nella ricostruzione del bene giuridico (Rechtsgut) come concetto di confine (Grenzbegriff) fra la dogmatica e la politica criminale: V. LISZT, Rechtsgut und Handlungsbegriff im bindingschen Handbuche, in ZStW, Bd. 6, 1886, 672 ss.; ID., Der Begriff des Rechtsgutes im Strafrecht und in der Enzyklopädie der Rechtswissenschaft, in ZStW, Bd. 8, 1888, 139 s., e la valorizzazione « sistematica » dei profili « sostanziali » o materiali dell’antigiuridicità: ID., Lehrbuch des deutschen Strafrechts, 12/13. Aufl., Berlin, 1903, 140 s. In queste premesse vanno còlti momenti significativi di un « passaggio » verso una sistematica non più meramente categoriale e classificatoria (concetti di genere e di specie, nozioni comuni al diritto penale e al diritto civile e amministrativo, ecc.), ma teleologica; è vero, però, che il garantismo liberale frenò il potenziale sviluppo di queste nozioni in Liszt, e che è con l’opera di BELING, Die Lehre vom Verbrechen, Tübingen, 1906, che si completano « idealmente » le premesse di un approccio teleologico, in quanto dopo di allora il primo gradino del sistema, il « fatto tipico », verrà pensato in ragione dell’esigenza di tipicità
— 340 — Zweckgedanke è poi filtrato nel modo di comprendere le funzioni della pena, rinnovando profondamente la scienza penalistica tedesca nel suo modo di impostare non solo il sistema sanzionatorio, ma anche l’interrelazione fra le categorie strutturali del diritto penale, la sua « sistematica » e dell’illecito penale, portando in sé la sua dipendenza funzionale da un illecito sanzionato con la « pena », sì da condizionare finalisticamente tutto il « successivo » edificio concettuale. V. sul punto RADBRUCH, Zur Systematik der Verbrechenslehre, in Festgabe Frank, Bd. I, Tübingen, 1930, 158 ss., pur svalutando gli anzidetti momenti teleologici in Liszt; il contrassegno di una sistematica teleologica è così scolpito da Radbruch: « gli elementi del reato sono ormai desunti tutti dallo scopo della pena, il concetto stesso del reato viene edificato muovendo dallo scopo della pena » (ivi, 163). Quest’idea originale, ma in verità solo abbozzata, di Radbruch era densa di futuro — in Germania comincerà ad essere ripresa, con qualche scetticismo, da ENGISCH, Sinn und Tragweite juristischer Systematik (1957), in ID., Beiträge zur Rechtstheorie, Frankfurt a.M., 1984, 112-114, e quindi, programmaticamente, da SCHMIDHÄUSER, Zur Systematik der Verbrechenslehre, in Gedächtnisschrift G. Radbruch, Göttingen, 1968, 272 ss., e in Italia, al principio degli anni Settanta, da MARINUCCI, Il reato come « azione », Milano, 1971, 148 ss. —, ma non si realizzò affatto nell’immediatezza, né fra le due guerre mondiali (il teleologismo di uno Schwinge, ad es., era tutt’altra cosa, così come il teleologismo di Bettiol, ricco di un’umanità che le pagine di nessun altro penalista, dopo di lui, hanno più saputo trasmettere), né in seguito, perché nel primo Ventennio dopo il secondo dopoguerra in Germania — come del resto anche in Italia — la pena fu concepita di nuovo in termini prevalentemente retributivi, perciò come sanzione « senza scopi », con pedissequo sviluppo di una dogmatica categoriale e ontologizzante: v. l’età del finalismo (per un bilancio critico, in vario senso, nella letteratura più recente, JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, 5. Aufl., Berlin, 1996, 209-214, 216 s.; NAUCKE, Strafrecht. Eine Einführung, 7. Aufl., Neuwied-Kriftel-Berlin, 1995, § 7/132-166; BAUMANN-WEBER-MITSCH, Strafrecht, AT, 10. Aufl., Bielefeld, 1995, § 13/61-84; H.J. HIRSCH, Der Streit um Handlungs- und Unrechtslehre, insbesondere im Spiegel der Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft, in ZStW, Bd. 93, 1981, Parte I, spec. 833 ss.; ID., Die Entwicklung der Strafrechtsdogmatik nach Welzel, in Fest. der rechtswissenschaftlichen Fakultät zur 600-Jahr-Feier der Universität Köln, Köln-Berlin-BonnMünchen, 1988, 399 ss.; LOOS, Hans Welzel (1904-1977). Die Suche nach dem Überpositiven im Recht, in LOOS (Hrsg.), Rechtswissenschaft in Göttingen. Göttinger Juristen aus 250 Jahren, Göttingen, 1987, 486 ss.; B. SCHMIDHÄUSER, Was ist aus der finalen Handlungslehre geworden?, in Juristenzeitung, 1986, 109 ss.; B. SCHÜNEMANN, Einführung in das strafrechtliche Systemdenken, in ID. (Hrsg.), Grundfragen des modernen Strafrechtssystems, BerlinNew York, 1984, 34-45; FROMMEL, Welzels finale Handlungslehre, in REIFNER-SONNEN (HRSG.), Strafjustiz und Polizei im Dritten Reich, Frankfurt a.M.-New York, 1984, 86 ss.; DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, Padova, 1996, 83-87, 164-172, 351-355, 386391; ID., Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991, 7-17, 552-574; FIORE, voce Azione finalistica, in Enc. giur., IV, 1988, 1 ss.; ID., Diritto penale, PG, vol. I, Torino, 1993, 132-138; MAZZACUVA, Il disvalore di evento nell’illecito penale. L’illecito commissivo doloso e colposo, Milano, 1983, 29 ss., 82 ss.). Non è stato dunque il finalismo — pur foriero di evoluzioni dogmatiche decisive (v. in particolare le opere cit. di Hirsch, Jescheck-Weigend, Loos, Fiore, Donini, con gli ulteriori richiami) — a sviluppare una sistematica teleologica nell’accezione anzidetta, ma il movimento creatosi attorno all’Alternativ-Entwurf (I ed., 1966) negli anni Sessanta. Basti ricordare ROXIN, Zur Kritik der finalen Handlungslehre (in ZStW, Bd. 74, 1962, 515 ss.) in Strafrechtliche Grundlagenprobleme, Berlin-New York, 1973, 72 ss., 84 s., 86, 98 ss., 108 ss., 119 s.; ID., Franz von Liszt und die kriminalpolitische Konzeption des Alternativentwurfs, in ZStW, Bd. 81, 1969, spec. 616-636; ID., Strafzweck und Strafrechtsreform, in J. BAUMANN
— 341 — uno sviluppo dialettico delle ideologie della prevenzione (generale, positiva e negativa, nonché speciale) (2). Soltanto con la maturazione di queste stagioni teoriche ha fatto ingresso anche nella cultura italiana, a livello di esperienza collettiva, una (Hrsg.), Programm für ein neues Strafgesetzbuch, Frankfurt a.M.-Hamburg, 1968, 75 ss.; ID., L’evoluzione della politica criminale a partire dai progetti alternativi, in A.M. STILE (a cura di), Metodologia e problemi fondamentali della riforma del codice penale, Napoli, 1981, 33 ss.; ID., Sinn und Grenzen staatlicher Strafe, in Juristische Schulung, 1966, 377 ss.; ID., Kriminalpolitische Überlegungen zum Schuldprinzip, MSchrKrim, 1973, 316 ss.; NOLL, Die ethische Begründung der Strafe, Tübingen, 1962, in ID., Gedanken über Unruhe und Ordnung, Zürich, 1985, 88 ss.; ID., Schuld und Prävention unter dem Gesichtspunkt der Rationalisierung des Strafrechts, in Beiträge zur gesamten Strafrechtswissenschaft. Fest. H. Mayer, Berlin, 1966, 219 ss.; STRATENWERTH, Die Zukunft des strafrechtlichen Schuldprinzips, Heidelberg-Karlsruhe, 1977, 8 ss. Di particolare interesse sul tema, nella letteratura italiana, le ricostruzioni di MOCCIA, Politica criminale e riforma del sistema penale. L’Alternativ-Entwurf e l’esempio della Repubblica federale tedesca, Napoli, 1984, spec. 88 ss., e di L. MONACO, Prospettive dell’idea dello « scopo » nella teoria della pena, Napoli, 1984, cap. I e II. (2) Basti qui ricordare, oltre alle opere di Roxin, Noll e Stratenwerth cit. alla nota prec., nel quadro più « tradizionale » di una sistematica teleologica, portando peraltro a compimento (certo oltre le intenzioni) l’intuizione di Radbruch e la funzionalizzazione delle categorie del sistema penale all’idea dello scopo e agli scopi della pena, ROXIN, Kriminalpolitik und Strafrechtssystem, 2 Aufl., Berlin-New York, 1973, passim; SCHMIDHÄUSER, Strafrecht, AT, 1 Aufl., Tübingen, 1970, spec. Kap. 6; B. SCHÜNEMANN, Einführung in das strafrechtliche Systemdenken, cit., spec. 45 ss.; ulteriormente, talora con soluzioni più accentuate verso la recezione di considerazioni sociologiche e di efficienza « sistemica » eccentriche rispetto alla teleologia normativistica tradizionale, BRINGEWAT, Funktionales Denken im Strafrecht, Berlin, 1974, 14 ss., 30 ss., 85 ss., 143 ss. e passim; JAKOBS, Schuld und Prävention, Tübingen, 1976, passim; ZIPF, Kriminalpolitik. Ein Lehrbuch, Heidelberg, 1980, trad. it. Politica criminale, Milano, 1989, 173 ss.; HASSEMER, Über die Berücksichtigung von Folgen bei der Auslegung der Strafgesetze, in Fest. Coing, München, 1982, Bd. I, 493 ss.; NEUMANN, Neue Entwicklungen im Bereich der Argumentationsmuster zur Begründung oder zum Ausschluß strafrechtlicher Verantwortlichkeit, in ZStW, Bd. 99, 1987, spec. 570 ss., 587 ss.; VOSS, Symbolische Gesetzgebung, Ebelsbach, 1989, 16 ss., 58 ss., 139 ss., 163 ss.; PRITTWITZ, Strafrecht und Risiko, Frankfurt a.M., 1993, 121 ss., 320 ss.; HASSEMER, in Nomos Kommentar zum StGB, Baden-Baden, 1995 e s. (aggiornam. al 31 dicembre 1995) Vor § 1/481-486; JAKOBS, Das Strafrecht zwischen Funktionalismus und « alteuropäischem » Prinzipiendenken, in ZStW, Bd. 107, 1995, 843 ss.; LÜDERSSEN, Das Strafrecht zwischen Funktionalismus und « alteuropäischem » Prinzipiendenken, ivi, 877 ss. Il conseguente dibattito sui rapporti fra prevenzione e colpevolezza, o prevenzione (o scopi politico-criminali) e sistema penale, è ricchissimo e ancora in corso, con forti « spinte » recenti ad una funzionalizzazione generalpreventiva del diritto sostanziale e di quello processuale: ad es. BOTTKE, Assoziationprävention. Zur heutigen Diskussion der Strafzwecke, Berlin, 1995, e altrettanto decise opposizioni, di vario segno (ontologizzante, retributivo o specialpreventivo): ad es. KÜPPER, Grenzen der normativierenden Strafrechtsdogmatik, Berlin, 1990, 152 ss., 196 ss. e passim; KÖHLER, Über den Zusammenhang von Strafrechtsbegründung und Strafzumessung, Heidelberg, 1983, 29 ss., 40 ss., 62 ss.; H.J. HIRSCH, Die Entwicklung der Strafrechtsdogmatik, cit., 418 ss.; ARTH. KAUFMANN, Schuld und Prävention, in Fest. Wassermann, Darmstadt, 1985, 889 ss., 896. Sia qui sufficiente rinviare, per un quadro d’insieme, a FIANDACA, Considerazioni su colpevolezza e prevenzione, in questa Rivista, 1987, 836 ss.; EUSEBI, La pena « in crisi ». Il
— 342 — rinnovata metodologia sostanzialistica, una lettura interattiva fra le categorie del sistema e le finalità politico-criminali perseguite dalla legge o imposte a quest’ultima dalla Costituzione: ciò che alla fine ha avuto sbocco nella riconsiderazione del ruolo del penalista (interprete, giudice) come attore nella costruzione del sistema. Il salutare progresso insito in questo approdo si è infine legato solo per ragioni del tutto contingenti — a mio avviso — con l’esperienza estremamente ricca, ma anche conflittuale e disordinata, di una forte verifica dei poteri attuata dalla magistratura penale dalla seconda metà degli anni Ottanta, e con i noti, gravi impatti che ciò ha avuto sulla crisi istituzionale italiana che si qualifica, in primo luogo, come crisi della politica, del sistema dei partiti, della legalità della Pubblica Amministrazione, e solo di conseguenza come eccesso del significato politico del potere giudiziario. La « recezione » di uno stile di pensiero teleologico, del resto, cominciò attraverso una metodologia del tutto autonoma e specifica, oltre che più consona al mos italicus: un approccio testuale, una esegesi prima sottile e poi sempre più larga e sistematica della Costituzione. La datazione più prossima si colloca nella seconda metà degli anni Sessanta, allorché si sono andati intensificando i contributi orientati a un approccio costituzionalistico al diritto penale. Nasce allora la fondazione costituzionale dei due principi più importanti per la determinazione del « contenuto » delle norme penali, vale a dire l’offensività e la colpevolezza, secondo passaggi argomentativi risultati poi vincenti nel dibattito successivo (3). In entrambi i casi, infatti, sarà il collegamento con la funrecente dibattito sulla funzione della pena, Brescia, 1990, passim; KIM, Zur Fragwürdigkeit und Notwendigkeit des strafrechtlichen Schuldprinzips. Ein Versuch zur Rekonstruktion der jüngsten Diskussion zu « Schuld und Prävention », Ebelsbach, 1987, 80 ss. e passim; SCHÜNEMANN, L’evoluzione della teoria della colpevolezza nella Repubblica federale tedesca, in questa Rivista, 1990, 3 ss., e nella manualistica a ROXIN, Strafrecht, AT, Bd. I, 2. Aufl., München, 1994, § 3/36-53; § 7/23-29, 68-83; § 19/31-45. Con approccio costituzionalistico d’avanguardia (all’epoca) lontani dalle architetture sistematiche, ma attenti alla sostanza delle soluzioni « orientate allo scopo », SAX, Grundsätze der Strafrechtspflege, in BETTERMANN-NIPPERDEY-SCHEUNER (Hrsg.), Die Grundrechte, Bd. III, 2. Halbband, Berlin, 1959, 909 ss.; STREE, Deliktsfolgen und Grundgesetz, Tübingen, 1960, spec. Kap. I, 1-35, e 35-82; WARDA, Dogmatische Grundlagen des richterlichen Ermessens im Strafrecht, Köln-Berlin-Bonn-München, 1962, § 7; HAMANN, Grundgesetz und Gesetzgebung, Neuwied, 1963, e successivamente RUDOLPHI, Die verschiedenen Aspekte des Rechtsgutsbegriffs, in Fest. Honig, Göttingen, 1970, 151 ss., spec. 158 ss. (3) Quanto al principio di colpevolezza (nell’accezione, almeno, del nullum crimen, nulla poena sine culpa, laddove la colpevolezza come idea accompagna dal suo nascere la storia del pensiero morale e giuridico, mentre le singole « forme » della colpevolezza trovarono approfondimenti decisivi già nella canonistica, nella Scolastica e presso i Commentatori), ricordiamo soprattutto — dopo le sue letture anche costituzionalizzanti, ma di stampo retributivo, ad opera, ad es., di BETTIOL, Diritto penale, 6a ed., Padova, 1966, 36 ss.; SPASARI, Diritto penale e Costituzione, Milano, 1966, 53 ss., 84 s., in relazione a 122-137 — le argomentazioni costituzionalizzanti ex art. 27, comma 1, Cost., ad es., di PORZIO, La illegit-
— 343 — zione della pena a risultare decisivo per l’ancoraggio costituzionale del principio mediante: 1) l’abbandono di un diritto penale della pericolosità, della mera prevenzione soggettiva, dell’intenzione o dell’atteggiamento interiore, a timità costituzionale delle « praesumptiones iuris et de iure » di responsabilità penale, in Giust. pen., 1957, estratto, 3 ss.; PAGLIARO, Il fatto di reato, Palermo, 1960, 408 ss.; ID., La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto, Milano, 1966, cap. IV; C.F. GROSSO, voce Responsabilità penale, in N.N.D.I, XV, 1968, 713 s., e quindi le argomentazioni fondate su una lettura sistematica dei commi 1 e 3 dell’art. 27 Cost. (e perciò anche sul fine di risocializzazione della pena): BRICOLA, La discrezionalità in diritto penale, vol. I, Milano, 1965, 358 s., nota 295; G. AMATO, Individuo e Autorità nella disciplina della libertà personale, Milano, 1967, ristampa inalterata, 1976, 454-469; PULITANÒ, voce Ignoranza (dir. pen.), in Enc. dir., XX, 1970, 36 s.; ID., Il principio di colpevolezza e il progetto di riforma penale, in Jus, 1974, 399 ss.; BRICOLA, Teoria generale, cit., 53 s.: tesi che risulterà vincente oltre un ventennio dopo la sua iniziale formulazione, quando verrà accolta dalla Corte costituzionale nella sentenza 23-24 marzo 1988, n. 364, in questa Rivista, 1988, 686 ss., con nota di PULITANÒ. Sul « processo storico di formazione costituzionale » del principio di colpevolezza cfr. DONINI, Il principio di colpevolezza, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, Torino, 1997, 198 ss.; ALESSANDRI, Art. 27, comma 1, in Commentario della Costituzione, a cura di BRANCA-PIZZORUSSO, Bologna-Roma, 1991, 1 ss. Per l’introduzione del principio di colpevolezza nel dibattito culturale italiano va comunque almeno segnalata ancora, per l’importanza argomentativa e la raffinatezza degli sviluppi teorici, l’ulteriore opera fondante di PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, 71 ss., 118 ss., 525 ss. Per la distinzione tra la colpevolezza come « principio » e come « categoria » dogmatica del sistema penale (una distinzione già presente chiaramente in nuce alla Corte cost. nella sentenza n. 364 del 1988, § 13, ad es. in questa Rivista, 1988, 709-711), sia consentito il rinvio a DONINI, Illecito e colpevolezza, cit., 552 ss. e amplius cap. III, sez. 2a; ID., Il principio di colpevolezza, cit., 192 ss. (colpevolezza come idea), 198 ss. (colpevolezza come principio costituzionale), 208 ss. (colpevolezza come categoria dogmatica). Nella più recente letteratura di carattere generale, con altri richiami, v. per tutti ROa MANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, 2 ed., Milano, 1995, Pre-Art. 39/66 ss.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, I, Milano, 1995, 85 ss. Quanto al principio di offensività, o di necessaria lesività, si tratta, come è stato detto, di un « prodotto tipicamente italiano » (così PALAZZO, Meriti e limiti dell’offensività come principio di ricodificazione, in Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Atti del Convegno di Saint Vincent, 6-8 maggio 1994, Milano, 1996, 74): v. su di esso in generale FIORE, Il principio di offensività, in Indice pen., 1994, 275 ss. (nonché negli Atti del Convegno ult. cit., 61 ss.); MANTOVANI, Il principio di offensività del reato nella Costituzione, in Scritti Mortati, vol. IV, Milano, 1977, 477 ss.; VASSALLI, Considerazioni sul principio di offensività, in Studi Pioletti, Milano, 1982, 529 ss. Il principio, diversamente nominato, fu inizialmente costruito su basi codicistiche dalla c.d. concezione realistica ex art. 49 cpv. c.p. (fra gli altri FIORE, M. GALLO, NEPPI MODONA) — cfr. anche il suo più recente « bilancio » da parte di NEPPI MODONA, voce Reato impossibile, in DDP, XI, 1996, 259 ss. —, ma la sua fondazione costituzionale risale a M. GALLO, I reati di pericolo, in Foro pen., 1969, 1 ss. e BRICOLA, Teoria generale, cit., 14 ss., 81 ss.: in entrambi i casi risulterà decisivo l’argumentum libertatis, il raffronto fra il rischio penale per il bene « inviolabile » (art. 13 Cost.) della libertà personale, e l’esigenza che ciò impone di una « proporzionalità » adeguata fra il bene la cui lesione costituisce reato e la libertà che viene minacciata o compromessa, vuoi valorizzando il diverso significato che, in punto di perdita della libertà, devono avere le pene e le misure di sicurezza (essendo solo le misure
— 344 — favore di un diritto penale del fatto oggettivo e dell’offesa, argomentato sui nessi fra pene e misure di sicurezza secondo la Costituzione (art. 25, commi 2 e 3, Cost.), in rapporto al valore primario della libertà che si sacrifica dopo la responsabilità per il « fatto » (art. 25 cpv. Cost.), ma a fini di rieducazione (art. 27, comma 3, Cost.); la « rieducabilità » del cittadino, in uno Stato laico, pluralista e democratico, apparirà possibile e lecita, da parte dello Stato, solo in rapporto ai valori espressi dalla Costituapplicabili in forza di un giudizio di mera pericolosità che potrebbe anche prescindere da un’offesa oggettiva), vuoi valorizzando la necessità di un’offesa significativa, di pericolo non assolutamente presunto nella formalità di un’inosservanza, affinché la pena comminata possa (non coercitivamente) spiegare effetto di « rieducazione » o non desocializzante. La manualistica più recente ripercorre costantemente questi passaggi argomentativi, sia pure recependoli con vari « distinguo »: ad es. MANTOVANI, Diritto penale, PG, 3a ed., Padova, 1992, 206 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, PG, 3a ed., Bologna, 1995, 13 ss.; PADOa VANI, Diritto penale, PG, 3 ed., Milano, 1996, 104 ss.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., 75 ss., 122 ss., 148 ss. (e qui ulteriori richiami a nota 1, p. 75). Meno sottolineata (ma in qualche caso sono in realtà differenze di accenti) la dimensione costituzionale dell’offensività in ROMANO, Commentario sistematico, vol. I, 2a ed., cit., Pre-Art. 39/8-9 e 114-117; FIORE, Diritto penale, PG, vol. I, Torino, 1993, 287 ss. (ma per la costituzionalizzazione del principio di offensività v. ID., Il principio di offensività, cit., 278 s.); PAGLIARO, Principi di diritto penale, PG, 5a ed., Milano, 1996, 233 ss. La resistenza a ritenere la costituzionalizzazione del principio di offensività (es. Pagliaro, Romano, e con qualche ambiguità Mantovani, Padovani) dipende dalla convinzione che i « principi » funzionino come le « regole », secondo il meccanismo del « tutto o niente », laddove essi consentono sempre uno spazio ampio di realizzazione maggiore o minore, articolandosi in principi « argomentativi » (di indirizzo) e « dimostrativi » (anche evolvendo dagli uni agli altri), e risultando, in entrambi i casi, di contenuto non rigido, ma espansibile tra un minimo e un massimo: Optimierungsgebote (Alexy), come è stato detto (v. anche quanto chiarito di seguito, nonché DONINI, Teoria del reato, cit., 25-47, e specificamente sul principio di offensività, ivi, 137-158, 240-250, e nota 92 a p. 153). Le anzidette argomentazioni, come è noto, saranno poi riprese dalla Corte costituzionale, anche in questo caso circa un ventennio più tardi, non già per ritenere l’illegittimità dei reati di pericolo astratto o presunto, ma per valorizzare due aspetti diversi dell’offensività: 1) come principio diretto al legislatore, suscettibile di « controllo di legittimità » da parte della Corte non autonomamente, ma soprattutto sotto il profilo della « ragionevolezza » (art. 3, comma 1, Cost.), vale a dire in relazione ai reati di pericolo astratto-presunto nei quali la presunzione di offesa risulti manifestamente irragionevole; 2) come principio diretto all’interprete, come tale utilizzabile direttamente dal giudice nella lettura di ogni incriminazione, senza nessuna necessità di previo intervento della Corte costituzionale: per tappe successive, v. C. cost. 22 marzo 1986, n. 62, in Cass. pen., 1986, 1053, in tema di armi ed esplosivi; C. cost. 6 ottobre 1988, n. 957, ibidem, 1989, 186, in tema di sottrazione consensuale di minori; C. cost. 23-24 marzo 1988, n. 364, in questa Rivista, 1988, 714 (par. 17), sull’art. 5 c.p.; ordin. C. cost. 14 giugno-25 luglio 1989, in questa Rivista, 1990, 725 ss., con nota di INSOLERA, sulla previgente ipotesi di irregolare tenuta delle scritture contabili a fini tributari; e soprattutto C. cost. 10-11 luglio 1991, n. 333, in Giur. cost., 1991, 2646 ss., spec. 26582661 e 2671 s., in materia di stupefacenti. V. altresì, in argomento, FIANDACA, Note sul principio di offensività e sul ruolo della teoria del bene giuridico tra elaborazione dottrinale e prassi giudiziaria, in AA.VV., Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, a cura di A.M. STILE, Napoli, 1991, 61 ss.
— 345 — zione; centrale, poi, per la valorizzazione della dimensione lesiva del bene giuridico rispetto alla mera disobbedienza, del pericolo astratto e concreto, ma non assolutamente presunto, risulterà lo stesso principio di proporzione — il paradigma: pena=potenziale sacrificio della libertà —, quale argomento forte in favore di un intervento penale davvero sussidiario, extrema ratio della tutela giuridica (4); 2) l’abbandono della logica del versari in re illicita per effetto del divieto di strumentalizzare il singolo a vantaggio di una politica criminale dissuasiva e deterrente, un divieto argomentato in forza della lettura sistematica della funzione rieducativa della pena in rapporto alla personalità della responsabilità penale (art. 27, commi 1 e 3, Cost.), che ha consentito di ritenere costituzionalizzato il principio di colpevolezza e a un tempo illegittima ogni responsabilità penale oggettiva « primaria » (riguardante gli aspetti più significativi del fatto) in quanto insuscettibile di fondare una sanzione rieducativa o risocializzante. L’adesione a una lettura strumentale, finalistica, teleologica, talora anche utilitaristica della pena segnerà, con l’affrancarsi dal dominio della retribuzione quale paradigma assorbente e decisivo, il punto di svolta di tutta la teoria del reato (5). Ma non è — si noti bene — che si sia cominciato a concepire diversa(4) V. la nota prec. Sul valore centrale dell’argumentum libertatis per l’epistemologia di tutti i principi penalistici in età postilluministica, cfr. quanto osservato in DONINI, Teoria del reato, cit., 38-47. (5) Cfr. gli sviluppi (pur nel modo a volte ben differenziato di intendere la « teleologia » del diritto: nozione a cui con intensità ricorrente si richiamano le opere giuridiche, « sostanzialistiche » e non, da secoli: v. ARM. KAUFMANN, « Objektive Zurechnung » beim Vorsatzdelikt?, in Fest. Jescheck, Bd. I, Berlin, 1985, 251) di una intera teoria del reato, alla luce di un pensiero « orientato allo scopo » e alle finalità della sanzione penale, presenti ad es. in MARINUCCI, Il reato, cit., 148 ss., e passim; ID., Politica criminale e riforma del diritto penale, in Jus, 1974, 463 ss., 473 ss.; ID., Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politicocriminali, in MARINUCCI-DOLCINI, a cura di, Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, 177 ss.; BRICOLA, Teoria generale del reato, in N.N.D.I., XIX, 1974, estratto, Torino, 1973, 23, 25 e passim; v. anche, sui nessi fra scopi della pena, idea dello scopo e offesa-bene giuridico, politica criminale e teoria del reato, rispettivamente BRICOLA, Art. 25, 2o e 3o comma, in Commentario della Costituzione. Rapporti civili, a cura di G. BRANCA, Bologna, 1981, 272-282; ID., Tecniche di tutela penale e tecniche alternative di tutela, in Funzioni e limiti del diritto penale, a cura di DE ACUTIS e PALOMBARINI, Padova, 1984, 9 ss., 22 ss. e passim; ID., Rapporti tra dommatica e politica criminale, in questa Rivista, 1988, 3 ss., 28 ss.; MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, 111-130; ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, 163 ss.; PULITANÒ, voce Politica criminale, in Enc. dir., XXXIV, 1985, 93 ss.; BETTIOL-PETTOELLO MANTOVANI, Diritto penale, PG, 12a ed., Padova, 1986, 89 ss.; FIORELLA, voce Reato in generale, in Enc. dir., XXXVIII, 1987, 787 ss., 804 ss.; PALIERO, Il principio di effettività nel diritto penale: profili politicocriminali, in Studi Nuvolone, vol I, Milano, 1991, 412 ss.; PAGLIARO, Imputazione obiettiva dell’evento, in questa Rivista, 1992, 784-788; FIANDACA, Il 3o comma dell’art. 27, in Commentario della Costituzione, a cura di BRANCA e PIZZORUSSO, Roma-Bologna, 1991, 254 ss., 263 ss.; MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleo-
— 346 — mente il reato perché la pena, nei fatti, fosse davvero divenuta più risocializzante o più efficace nella tutela preventiva dei beni: il richiamo tutto argomentativo alla prevenzione speciale risocializzante è stato di tipo astratto, comunque un input prescrittivo, non emergente dalla prassi, che è servito sia per sollecitare riforme del sistema sanzionatorio, e sia anche per il suo rifrangersi tutto « ideologico » sul modo di concepire altri istituti (6). La teoria del reato, in tal modo, è divenuta essa stessa prescrittiva, un logica, Napoli, 1992, 101 ss., 115 s., 173 ss. e passim; v. anche quanto osservato in DONINI, Teoria del reato, cit., 380 ss. Nella letteratura spagnola, MIR PUIG, Función de la pena y teoria del delito en el Estado social y democratico de derecho, Barcelona, 1979, 27 ss. e passim; SILVA SANCHEZ, Aproximación al derecho penal contemporáneo, Barcelona, 1992, 102 ss., 139 ss., 146 ss. Sui nessi tra finalismo della pena e sistema sanzionatorio, fra i molti, VASSALLI, Il potere discrezionale del giudice nella commisurazione della pena, in AA.VV., Conferenze Primo corso di perfezionamento per uditori giudiziari (10 maggio-27 giugno 1957), Tomo II, Milano, 1958, 741 ss.; ID., Funzioni e insufficienze della pena, in questa Rivista, 1961, 339 ss.; BRICOLA, La discrezionalità, cit., 80 ss., 98-102, 356 ss.; MUSCO, La misura di sicurezza detentiva. Profili storici e costituzionali, Milano, 1978, 165 ss., 238 ss.; DOLCINI, La commisurazione della pena, Padova, 1979, 93 ss., 153 ss.; STILE, Probleme und Besonderheiten der Strafzumessung in Italien, in ZStW, Bd. 94, 1982, 182 ss., 190, 193 ss.; MONACO, Prospettive, cit., passim; PULITANÒ, voce Politica criminale, cit., 77-79, 81-88; DOLCINI, L’art. 133 c.p. al vaglio del movimento internazionale di riforma del diritto penale, in Studi Vassalli, vol. I, Milano, 1991, 241 ss. (e in numerosi altri contributi); ROMANO, in ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico, cit., vol. II, 2a ed., Milano, 1996, Art. 133/1 ss. Per un bilancio critico delle correnti neoretribuzioniste americane v. da ultimo MANNOZZI, Razionalità e « giustizia » nella commisurazione della pena, Padova, 1996, 135 ss., 157 ss., 367 ss. e passim. (6) Piuttosto carente uno « sguardo alla realtà » della pena nelle argomentazioni della Corte — giudice di legittimità — pur fondate sulla pena « utile » e rieducativa: v. comunque, in merito alla certo importante evoluzione giurisprudenziale della Corte in tema di art. 27, comma 3, Cost. che negli ultimissimi anni ha valorizzato sempre più la finalità rieducativa per vagliare la legittimità di istituti riguardanti la pena edittale e la fase commisurativa in senso stretto (e non solo la fase esecutiva, come accadeva un tempo), per tappe successive, PASELLA, Osservazioni sugli orientamenti della Corte costituzionale in tema di funzioni della pena, in Indice pen., 1977, 311 ss.; FIANDACA, Art. 27, 3o comma, cit., 319-321, 330-339: E. GALLO, L’evoluzione del pensiero della Corte costituzionale in tema di funzione della pena, in Giur. cost., 1994, 3203 ss.; PAVARINI, Lo scopo della pena, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, cit., 301 ss.; segnalano un abbandono della concezione « polifunzionale » della pena da parte della Corte, almeno nella sentenza n. 20 luglio 1990, n. 313 sull’art. 444 c.p.p. (più in generale è lecito dubitarne), DOLCINI, Razionalità nella commisurazione della pena: un obiettivo ancora attuale?, in questa Rivista, 1990, 812; MANNOZZI, Razionalità e « giustizia », cit., 9 ss.; PAVARINI, Lo scopo della pena, cit., 303 s.; più decisamente critici verso la « scoperta » della prevenzione speciale da parte della Corte (sospettata di seguire impliciti percorsi assiologici, anziché empirico-prasseologici) in un momento di profonda crisi dell’ideologia del trattamento a livello internazionale, MONACO-PALIERO, Variazioni in tema di « crisi della sanzione »: la diaspora del sistema commisurativo, in questa Rivista, 1994, 434 ss. In effetti, una idea rieducativa affrancata dall’empiria risponde a premesse tutte ideologiche, il cui « programma di scopo » — oltre a non poter affatto annullare le componenti retributive e generalpreventive che nessuna teoria può sottrarre alla pena — è
— 347 — complesso di argomentazioni di rango costituzionale rivolte in primo luogo al legislatore: un programma e una sistematica de lege ferenda. In seconda istanza, quindi, essa ha profilato un nuovo metodo ermeneutico rivolto al teorico e al pratico: l’interpretazione conforme alla Costituzione, o « adeguatrice ». Paradossalmente, il prolungarsi dei ritardi nelle riforme ha imposto il successo dell’approccio costituzionalistico in misura probabilmente più vasta e profonda di quanto ciò non sia accaduto in altri Paesi. Ciò ha contribuito a dare l’impressione che la teoria del reato, per sua naturale destinazione — restando diversamente delegittimata — abbia il compito di raccogliere in sé moltissime funzioni, e comunque sia quella di soddisfare le aspettative del diritto penale dei nostri sogni, sia quella di saper organizzare razionalmente il diritto penale vigente in un quadro composito e unitario, sia — infine — il compito di risultare la più « scientifica » possibile, in questo difficile equilibrio fra passato (le « costanti » penalistiche), presente (la comprensione, ma anche la reinterpretazione e la critica, del diritto positivo) e futuro (la preparazione delle riforme). Si è compiuta una parabola opposta a quella tracciata da Arturo Rocco nel 1910, allorché, promuovendo lo sviluppo dell’indirizzo tecnicogiuridico, additava nella commistione fra politica, sociologia, critica del diritto, nonché criminologia, da un lato, e il momento giuridico dell’esegesi, dell’interpretazione, della dogmatica e della scienza del diritto, dall’altro, un limite degli studi penalistici del suo tempo, sollecitando un’actio finium regundorum che, allora, veniva guadagnata restringendo (ma non isolando, almeno nelle intenzioni dichiarate del suo Autore) l’orizzonte dell’oggetto specifico del metodo giuridico al « diritto positivo », e cioè più esattamente alle sole « regole » (7). La chiusura dell’orizzonte culturale del metodo ottenuta attraverso una riduzione (anch’essa sedicente) « teleologica » dell’oggetto, appare oggi superata attraverso una parabola esattamente opposta. Una « nuova concretamente funzionale, nella prassi delle sentenze della Corte, ad obiettivi spesso molto diversi dalla disciplina dell’esecuzione della pena. Per un quadro di sociologia critica sull’effettività della pena v. altresì PAVARINI, I nuovi confini della penalità. Introduzione alla sociologia della pena, Bologna, 1994, 57 ss. e passim. (7) Art. ROCCO, Il problema e il metodo della scienza del diritto penale, (Sassari, 1910, già in questa Rivista, 1910, 497-521, 560-582), poi in ID., Opere giuridiche, vol. III, Roma, 1933, 263 ss. Per una valutazione oggi più ottimistica delle « dichiarate » intenzioni di Rocco in quel famoso saggio — ma il significato del tecnicismo-giuridico non può che essere apprezzato anche dal suo concreto operare — v. SBRICCOLI, La penalistica civile. Teorie e ideologie del diritto penale nell’Italia unita, in SCHIAVONE (a cura di), Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, Bari, 1990, 217-221. V. anche in merito, ribadendo una critica tradizionale, ROSONI, Dalle codificazioni preunitarie al codice Rocco, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, cit., 24 s.
— 348 — teleologia » del metodo, ancorato ai principi e ai valori costituzionali, ha comportato l’estensione dell’oggetto della teoria del reato: apparentemente, è sempre il diritto positivo a focalizzare l’attenzione del giurista, ma in realtà, dovendosi sottintendere nel diritto positivo di livello costituzionale anche un « programma di scopi » sovraordinati alla legge ordinaria, nell’oggetto rientra altresì la politica del diritto, una politica che ondeggia continuamente fra il vincolo di principi « positivi » (che non sono « regole » determinate) e l’esigenza di trovare i contenuti di quei principi mediante scelte di democrazia politica, anziché mediante l’appalto quasi esclusivo delle concretizzazioni di valore a organi di vario livello giurisdizionale, che procedono con argomentazioni apparentemente tecniche, o comunque caratterizzate da tecniche argomentative ben diverse da quelle che si impiegano solitamente nell’interpretazione delle « regole » del diritto ordinario. 2. La condizione spirituale ora tratteggiata è sotto gli occhi di tutti. La tensione tutta ideologica di un approccio prescrittivo e deduttivo secondo premesse (apparentemente) « a priori » e la necessaria fedeltà anche al diritto positivo può trovare una mediazione culturale accettabile solo riflettendo di nuovo — è un compito storico che si rinnova a ogni generazione — sull’epistemologia della ricerca giuridica, sulla sua « scientificità ». La teoria del reato, nell’accezione divenuta comune e un po’ atecnica di teoria « generale », è anche l’erede del pensiero dogmatico e sistematico che, nel corso dell’Ottocento, caratterizzò lo sviluppo della Pandettistica e della giurisprudenza dei concetti, per poi estendersi alla costruzione di una « teoria generale del diritto » (allgemeine Rechtslehre): una filosofia del diritto di matrice strettamente giuspositivistica (8), geneticamente dipendente da uno Stato nazionale. Su queste radici si innesta il suo audace programma: fare scienza con una giustizia che rischia di avere « come confine un fiume. Verità di qua dei Pirenei, errore di là » (9). Un limite politico, questo, che è anche una grave ipoteca sullo statuto epistemologico del diritto in genere, perché l’oggetto — le diverse legislazioni, le diverse scelte politiche — condiziona il metodo, e l’unificazione o l’« avvicinamento » del metodo non può che riflettersi sull’oggetto. L’uscita dall’impasse, oggi, pare collocarsi non già sui sentieri dell’ontologia giusnaturalistica, ma sull’apertura internazionale degli studi (8) Sia consentito rinviare, sul punto, a DONINI, Teoria del reato, cit., 1 ss. e agli AA. ivi cit. (spec. alle note da 1 a 3). (9) PASCAL, Pensées, n. 294 ed. Brunschvig, tr. it., Pensieri, Milano, 1971, n. 301, p. 189.
— 349 — giuridici e delle legislazioni statali (10). Solo la comparazione e l’internazionalizzazione consentono agli studi giuridici di mantenersi — secondo quell’ambizioso programma accennato — « positivi » e « filosofici » a un tempo, come tali ancorati sia a principi e sia a regole che vogliono e debbono rispecchiare i primi. In effetti, alla teoria del reato appartiene dalle sue origini quale insuperabile ed essenziale background, un nocciolo scientifico di conoscenze (le « costanti » di Pietro Nuvolone) che si organizzano attorno a istituti e nozioni tradizionali (nel lessico corrente: condotta, evento, causalità, elemento oggettivo e soggettivo e relativa imputazione, illecito e colpevolezza, scriminanti e scusanti, bene giuridico, tentativo, autoria e partecipazione, prevenzione e repressione, ecc.) — anche se la loro « generalizzazione » teorica ha cominciato a trovare un consolidamento solo nella seconda metà del ’500 (11) — mediante un linguaggio comune che rappresenta una prima base per un dialogo concettuale e culturale diacronico attraverso tempi anche lontani e uno scambio intenso e fruttuoso nel campo della comparazione (12). (10) V. da ultimo su tale questione, da un punto di vista « ontologizzante », di matrice finalista, HIRSCH, Gibt es eine national unabhängige Strafrechtswissenschaft?, in Fest. Spendel, Berlin-New York, 1992, 43 ss.; e da un punto di vista più giuspositivistico, MAIWALD, Criteri-guida per una teoria generale del reato, 3 ss. del dattiloscritto del testo della relazione al Convegno « Il diritto penale degli anni ’90. In ricordo di Franco Bricola », 18-20 maggio 1995. Prospettando un bilancio delle tesi welzeliane, v. anche già i rilievi di DELL’ANDRO, Il dibattito delle scuole penalistiche, in Arch. pen., 1958, 201 s., che ammoniva contro il progetto del giuspositivismo di poter fare « scienza » entro i soli confini di un diritto nazionale; ulteriormente, PETTOELLO MANTOVANI, Il valore problematico della scienza penalistica. 1961-1983 contro dogmi ed empirismi, 2a ed., Milano, 1983, 91 ss., 97 ss. Sull’importanza « costitutiva » del metodo comparatistico per la scienza penale, v. anche i riferimenti in DONINI, Teoria, cit., 6 s. in nota. (11) Secondo le risultanze più ricorrenti degli studi storici del Novecento, la prima vera « parte generale » del diritto penale risale alla fine del ’500, allorché, sperimentata da quasi un secolo la cattedra universitaria dei « criminalia », dall’insegnamento scaturì il Tractatus criminalis di Tiberius Decianus (Tiberio Deciani, comunemente detto Deciano), pubblicato postumo a Venezia nel 1590, e quindi a Francoforte nel 1591 (consultato in questa edizione). Per un’analisi dettagliata e valutazione critica v. soprattutto MARONGIU, Tiberio Deciani (1509-1582), lettore di diritto, consulente, criminalista, parte II, in Riv. di storia dir. it., 1934, 312 ss.; ID., La scienza del diritto penale nei secoli XVI-XVIII, in AA.VV., La formazione del diritto moderno in Europa, vol. I, Firenze, 1977, 407, 409 ss., e F. SCHAFFSTEIN, Tiberius Decianus, in ID., Die Europäische Strafrechtswissenschaft im Zeitalter des Humanismus, Göttingen, 1954, 38 ss.; ulteriormente, Eb. SCHMIDT, Einführung in die Geschichte der deutschen Strafrechtspflege, 3. Aufl., Göttingen, 1983, § 133; CORDERO, Criminalia. Nascita dei sistemi penali, Bari, 1986, 297 ss.; MOOS, Der Verbrechensbegriff in Österreich im 18. und 19. Jahrhundert. Sinn und Strukturwandel, Bonn, 1967-1968, 56 ss. (12) La tensione politico-criminale di certi approcci, invero, ha portato a svalutare molto, negli anni Settanta e Ottanta, i profili di scientificità degli studi penalistici, a negare
— 350 — Nella seconda metà dell’Ottocento, sul modello della teoria generale del diritto, anche la teoria del reato si è distaccata da stili di pensiero giusnaturalistici o metapositivi, per cercare di aderire a un sistema nazionale, consapevole quindi dei limiti storici di certe soluzioni adottate nell’ordinamento per il quale è stata elaborata: ma senza un collaudo storico e comparato le sue « prestazioni » resterebbero chiuse in province nazionali capaci di far rimpiangere senza alcuna titubanza le stagioni giusnaturalistiche più rigogliose e feconde dei tempi passati, sino alla lezione di Hans Welzel. La ricerca storica e quella comparata, invece, dovrebbero avere l’effetto di relativizzare il valore e il significato delle soluzioni « nazionali », al fine di verificarne la contingenza politica oppure una più durevole e stabile valenza scientifica (13). In termini più impegnativi si può anzi affermare che il metodo della teoria del reato — supponendo « a monte » un’empiria criminologica e sociologica già apprezzata dal legislatore nella costruzione delle « regole » — si caratterizza ulteriormente, fra l’altro, per una componente teleoloperfino che la buona dogmatica rappresenti una politica criminale molto consolidata in strutture razionali, tali da apparire al consenso dei più categorie tendenzialmente obiettive e più imparziali delle scelte contingenti « di mero scopo » (v. peraltro, a metà degli anni Settanta, W. HASSEMER, Strafrechtsdogmatik und Kriminalpolitik, Reinbek bei Hamburg, 1974, 155 ss., 166, 168 ss.): una significativa rivalutazione dell’interesse verso categorie più stabilizzate, fosse anche attraverso strutture linguistiche e concettuali di maggiore « tenuta » a livello di esperienza comparata e storica, in PULITANÒ, Quale scienza del diritto penale?, in questa Rivista, 1993, 1216 ss. (ma v. già ID., voce Politica criminale, cit., 91 ss., riprendendo Hassemer). L’esigenza di riguadagnare al dibattito, nell’ambito della dogmatica penale italiana, la sensibilità per la distinzione (non però la separazione) fra dogmatica e politica criminale, è stato uno dei motivi conduttori, sul piano metodologico, del nostro Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, cit., IX, 85-108, 165-168. Un « eccesso di finalismo », oltre a suggerire l’idea che la dogmatica si dissolva completamente nella politica criminale, a far credere che l’unica scienza « giuridica » possibile avente ad oggetto le norme sia la scienza della posizione delle norme, la scienza della legislazione, ha anche l’effetto pratico insidioso di ispirare al giudice una lettura strumentale di qualsiasi diposizione alla luce di fini incontrollabili — dato che le leggi, tuttavia, di regola non li esplicitano... —: la norma, in quest’ottica, è solo un mezzo, ma il giudice deve perseguire il fine che la norma gli pone (rectius: che egli ha individuato), e lo deve perseguire « utilizzando » la regola, non già « applicando » semplicemente la regola stessa, in quanto ad essa « soggetto » (art. 101 cpv. Cost.). Questo fenomeno, unito all’inevitabile pluralismo ermeneutico, produce la rottura della logica della ripartizione dei poteri, figlia anche degli eccessi di tutti i teleologismi che — in un sistema che non conosce lo « stare decisis » — hanno voluto dissolvere la dogmatica nella politica (criminale o di altro tipo). Per una significativa rilettura degli spazi legittimi di una interpretazione contro la ratio subiectiva legis, v. la stimolante ricostruzione di NEUNER, Die Rechtsfindung contra legem, München, 1992, 122-138, 147 ss. (13) V. in tal senso i rilievi di PEDRAZZI, Apporto della comparazione alle discipline penalistiche, in SACCO (a cura di), L’apporto della comparazione alla scienza giuridica, Milano, 1980, 169 ss., 173 s.
— 351 — gica ed empirica rappresentata da una sorta di verifica sperimentale storico-comparata. Là dove questa manchi, si può giungere egualmente a soluzioni brillanti e adeguate, ma di regola senza la prova della loro « tenuta » scientifica. D’altro canto, la stessa comparazione non è fattore di immunità, anche se, storicamente, può dar conforto a una soluzione « sbagliata » il fatto che si tratti di un errore comune ai sistemi neolatini, germanici o di common law. La comparazione, tuttavia, è garanzia di scientificità — al di là di particolarismi e nazionalismi — nella misura in cui promuove e realizza il dialogo oltre il livello delle « strutture » dogmatiche apparentemente più neutrali (es. oggettivo-soggettivo, condotta ed evento, dolo e colpa, fatto e autore, ecc.), verso categorie dogmatiche più aderenti a scelte politico-criminali consapevoli e differenziate, e quindi promuove — anche nel pluralismo delle opzioni — l’elaborazione di strutture concettuali, linguistiche e teoriche comuni, talune delle quali possono esistere anche a fronte di politiche differenti e opposte, mentre altre potranno davvero comunicare solo sul presupposto di alcune scelte istituzionali e politiche affini. A questo momento più « sperimentale » strettamente giuridico — e non pre-giuridico — appartiene anche il contrassegno più problematico della « generalità » della teoria del reato: la sua generalità « induttiva », che discende cioè dall’avere i suoi concetti, le sue categorie, i suoi istituti una base empirica nelle norme vigenti, dalla cui previa lettura e interpretazione abbia tratto origine e fondamento la generalizzazione di quei concetti. Ciò non pregiudica, tuttavia, che nello stesso tempo — e anzi contestualmente — la teoria del reato sia anche legittimata a seguire approcci di tipo assiologico e deduttivo, uno stile a priori che ricava concetti e fini dalla riconosciuta preesistenza di principi e valori dai quali l’ordinamento — nazionale e non — dovrebbe essere guidato e ispirato. Quanto più tali principi trovano ancoraggio in un testo di rango superiore (leggi costituzionali o di portata internazionale), tanto più cresce la legittimazione politica a « rileggere » il sistema — de lege lata o anche de lege ferenda — privilegiando l’attuazione di quei valori e principi. La « forza di legge » di tali principi, a seconda che siano dimostrativi, e quindi tali da poter essere direttamente utilizzati da un organo costituzionale per invalidare la legittimità di una norma di legge, oppure abbiano (anche temporaneamente) solo un valore ermeneutico, argomentativo e di indirizzo politico (14), condiziona la loro « diffusione » nelle varie inter(14) Per la distinzione fra principi costituzionali di tipo « dimostrativo » e « argomentativo » ricordiamo soprattutto, nella nostra letteratura, MENGONI, I principi generali del diritto e la scienza giuridica, in I principi generali del diritto, Atti del Convegno dell’Accademia nazionale dei Lincei, Roma, 27-29 maggio 1991, Roma, 1992, 317 ss., 324 ss. e, nella sostanza, VASSALLI, I principii generali di diritto nell’esperienza penalistica, in questa Rivi-
— 352 — pretazioni e successive teorie. Ne discende, comunque, un secondo, diverso tipo di « generalità » della teoria del reato. Non una generalità a base induttiva, ma piuttosto a base deduttiva; una generalità tanto più forte quanto più stringente sia la capacità dimostrativa dei principi giuridici sui quali essa si fonda: quanto più quei principi hanno valore dimostrativo (es. legalità, irretroattività, riserva di legge, tassatività, e oggi anche colpevolezza), essi esprimono caratteristiche che tutte le norme vigenti devono necessariamente rispettare (quantomeno entro una certa misura minimale di attuazione dei principi stessi) per essere legittime. Se, viceversa, detti principi trovano una più agevole attuazione sul piano argomentativo e politico, senza offrire (ancora) a un organo di controllo costituzionale lo strumento per dichiarare — sulla base della loro esclusiva vigenza « superiore » — l’illegittimità di una qualsivoglia norma di legge con essi contrastante, la valenza generale di tali principi resta confinata al piano ermeneutico o de iure condendo (es. sussidiarietà, offensività, effettività, ecc.). 3. L’interazione fra i due tipi di metodo (induttivo e deduttivo) e fra le due distinte « generalità » ora descritte abbisogna di mille mediazioni, perché avviene sotto il rischio costante di insanabili antinomie. La composizione di queste antinomie, anzi, offre il terreno al pieno dispiegarsi della caratteristica — non specificamente penalistica — dell’essere l’ermeneutica un’attività fondata su un sapere argomentativo, topico, dipendente da molteplici punti di vista e casi, da esigenze di « applicazione » dell’astratto al concreto, di individualizzazione del nomos, nella costante ricerca di una mediazione fra gli stessi principi superiori, affinché nessuno di essi diventi « tiranno » rispetto agli altri (15). sta, 1991, 704 ss. La distinzione, che abbiamo ripreso e approfondito in DONINI, Teoria, cit., 25 ss., prende le mosse dal dibattito contemporaneo relativo alla distinzione fra « regole » e « principi », da Dworkin a Esser ad Alexy, ma non la applica nell’uso impiegato da Dworkin (così, ad es., G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, Torino, 1992, 148 ss.) e Esser, quanto piuttosto in quello di Alexy: per i necessari richiami, DONINI, op. loc. ult. cit. Cfr. anche la recente rilettura della problematica sempre da parte di MENGONI, Ermeneutica e dogmatica giuridica. Saggi, Milano, 1996, 126 ss. (dove peraltro si accentua il profilo argomentativo e di « programmi di scopo » dei principi in genere: ma non mi pare eludibile la categoria di principi che, più vicini alle regole sotto questo profilo, consentono alla Corte un uso dimostrativo, rispetto ad altri che presentano un significato assorbente di « indirizzo » politico). (15) La valenza ermeneutica del diritto penale — per il suo essere diritto « in genere » — e il ricorso ai principi costituzionali in funzione anche argomentativa, oltre che in chiave « fondante », sono aspetti nient’affatto specifici degli studi penalistici. È questo, anzi, un terreno sul quale si misura largamente l’esigenza del dialogo fra il penale e l’extrapenale anche nei settori (diversi dalle scriminanti e dagli elementi normativi extrapenali richiamati nel tipo che, per loro natura, nascono fuori dall’incriminazione) più marcatamente segnati da un’esigenza di selettività politico-criminale. Si pensi soltanto al problema della dimen-
— 353 — Esser consapevoli di ciò schiude la strada a due chiavi di lettura immanenti alla stessa storia della teoria del reato, come di qualunque suo istituto o concetto: una verticale, deduttiva, assiologica, prescrittiva — ispirata a un programma anche bello e progressivo, ma ad un tempo « resistente » a saper leggere il diritto vigente nella compiutezza delle sue norme —; e una orizzontale, induttiva, prasseologica, descrittiva — attentissima alle norme positive davvero vigenti, dalle quali si parte per costruire i concetti più generali, ma con approccio di per sé non necessariamente critico, né necessariamente orientato alla piena attuazione dei principi fondamentali della Costituzione o dei principi razionali della legislazione penale elaborati a livello politico o filosofico —. Orbene, non c’è argomento che non possa essere affrontato privilegiando l’una o l’altra impostazione, oppure attuando una sintesi più o meno equilibrata fra quei punti di vista. Solo quando la normativa ordinaria rispecchi idealmente la massimizzazione dei principi dai quali si vorrebbero « dedurre » le regole quotidiane, si è in presenza di una tendenziale, ma provvisoria, coincidenza delle due prospettive. Poiché, in Italia, si attende da tempo una riforma completa del codice penale, è inevitabile che una riflessione orientata solo al codice vigente sia oggi inattuale, mentre una riflessione troppo « sbilanciata » sulla Costituzione appaia carente di « positività ». Molto dipende, comunque, dallo stile argomentativo, persino da come si riesce, talora, a ingannare la memoria storica (la volontà del legislatore ordinario « di ieri »), a sciogliere i vincoli del passato, senza perdere rispetto della legalità. Ciò premesso, va comunque registrato che, in campo nazionale e internazionale, i profili di selettività dell’intervento penalistico restano i più sottolineati nelle ricerche sia dogmatiche che di politica legislativa. Esemplifichiamo brevemente alcuni esiti della selezione penalistica per poi verificare (par. seg.) le basi sulle quali essi poggiano meglio. La categoria del fatto, o fatto tipico, o tipicità ha assunto solo in diritto penale un significato tutto peculiare. A far data dall’affermarsi di un motivo centrale delle opere « Die Lehre vom Verbrechen » (1906) di E. sione ermeneutica del fatto tipico (v. sul punto SCHMIDHÄUSER, Strafrecht, già nella 1a ed., cit., 14, e in merito la recensione critica di ROXIN, Ein « neues Bild » des Strafrechtsystems, in ZStW, Bd. 83, 1971, 376 ss.; più radicalmente W. HASSEMER, Tatbestand und Typus, Köln-Berlin-Bonn-München, 1968, 98 ss., 109 ss.; sviluppi in DONINI, Illecito e colpevolezza, cit., 118-126, con altri ragguagli). Lo stesso divieto di analogia in materia penale trova qui, nell’esigenza di ripensare i limiti estremi delle « aperture » del sistema penale mediante interpretazione, rinvii non ricettizi, topica giuridica, applicazione individualizzante, il banco di prova più significativo: la vera verifica metodologica, forse, delle aspirazioni più che alla selettività (ogni ramo dell’ordinamento, in fondo, ha peculiarità specifiche proprie), al crisma di ius singulare: con particolare tassatività, riserva di legge, sussidiarietà di tutela, analogia, offensività, colpevolezza, ecc.
— 354 — Beling e « Il « fatto » nella teoria generale del reato » (1930) di G. Delitala, domina nella cultura penalistica di area italo-tedesca e di lingua spagnola l’idea che in diritto penale esista una categoria tutta speciale, solo penalistica: il « fatto » (Tatbestand, tipo) inteso come complesso non degli elementi necessari per l’intervento della minaccia sanzionatoria penale, ma, più « restrittivamente », come complesso degli elementi che individuano la specificità penalistica del comportamento (o del fatto) vietato, i contorni che selezionano in modo decisivo l’area del penalmente rilevante, e quindi i profili più « fondanti » il disvalore penalistico dell’incriminazione (16). La « tipicità », inoltre, si arricchisce oggi anche di elementi soggettivi (17), senza i quali nessuna condotta potrebbe mai assumere un significato « criminale », sotto la sanzione dell’incostituzionalità della norma (16) Il contributo decisivo più recente alla ripresa della modernità (anche politicocriminale) della categoria del fatto tipico, nella letteratura italiana, è stato quello di MARINUCCI, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in questa Rivista, 1983, 1190 ss. Ma v. anche, proseguendo linearmente un’impostazione seguita in vari scritti da un quarantennio, VASSALLI, Il fatto negli elementi del reato, ibidem, 1984, 529 ss., e di seguito, nella manualistica successiva, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, PG, 3a ed., cit., 150 ss.; PAa a DOVANI, Diritto penale, PG, 3 ed., cit., 123 ss.; ROMANO, Commentario sistematico, vol. I, 2 ed., cit., Pre-Art. 39/22 ss.; FIORE, Diritto penale, PG, vol. I, cit., 114 ss., 123 ss. Sia anche consentito rinviare alla nostra trattazione in DONINI, Teoria del reato, cit., cap. III (117195), e già ID., Illecito e colpevolezza, cit., 2 ss., 70 ss., 110 ss., 291 ss., 433 ss., 459 ss. (17) L’origine contemporanea di questo modo di intendere il fatto tipico è logicamente successiva all’introduzione, nel dibattito penalistico, del concetto « ristretto » di tipicità, ad opera di Beling (1906). Ma le sue radici vanno rinvenute nella distinzione fra illecito e colpevolezza, o meglio nella distinzione fra componenti soggettive dell’illecito (penale), cioè del fatto antigiuridico, che non sono ancora « colpevolezza », e che pur devono sussistere affinché il fatto non sia equiparabile ad un evento della natura, ma all’opera dell’uomo qualificabile, sia pur « obiettivamente », in termini di antigiuridicità. È stato Jhering, ancora nel 1867, a distinguere un fatto « obiettivamente antigiuridico », ma non ancora « colpevole », con riferimento al furto commesso da persona in buona fede. Una situazione, osservava Jhering, che è suscettibile di una legittima reazione da parte del proprietario e che obbliga alla restituzione anche l’incolpevole detentore. Per il costituirsi di tale obbligo conseguente ad un objektives Unrecht, precisava ancora Jhering, non basta tuttavia il mero fatto « materiale », ma occorre una componente soggettiva e umana del fatto, anche se essa non sia ancora una colpa: JHERING, Das Schuldmoment im römischen Privatrecht. Eine Festschrift, Gießen, 1867, poi raccolto in (e di qui la cit.) ID., Vermischte Schriften juristischen Inhalts, Leipzig, 1879, 159-163. A queste radici concettuali della necessaria presenza di una componente soggettiva dell’illecito obiettivo (=non necessariamente ancora « colpevole ») si riallaccerà il finalismo (essenziali riferimenti di storia dogmatica in LAMPE, Das personale Unrecht, Berlin, 1967, cap. I e II; ma v. anche le numerose opere cit. infra a nota 20). Sempre restando alla letteratura italiana (e nelle opere citate ampi richiami a quella di lingua tedesca, e al decisivo apporto del finalismo in tal senso) in ordine cronologico, con particolare inquadramento generale, riferito alla tipicità sia del dolo che della colpa — al loro contributo costante alla tipizzazione delle condotte e dei fatti di reato — M. GALLO, La teoria dell’« azione finalistica » nella più recente letteratura tedesca (1950), ristampa inalterata, Milano, 1967, 22; ID., Colpa penale (dir. vig.), in Enc. dir., VII, 1960, 637; SANTAMA-
— 355 — che contravvenisse a questo principio: il « nullum crimen sine culpa », in altri termini, condiziona la stessa costruzione dei « fatti » di reato da parte del legislatore e della dottrina, imponendo che quella costruzione avvenga fin dall’inizio in vista dell’attuazione del principio di colpevolezza, e ciò mediante la selezione dei comportamenti significativi ed espressivi del dolo o della colpa già dal primo gradino della struttura del reato: l’elemento c.d. oggettivo. Questo elemento oggettivo, anzi, è ormai così commisto di componenti subiettive indispensabili a dargli tipicità (e significato) penale, che la distinzione oggettivo/soggettivo è ormai interna alla stessa tipicità, in quanto in ogni incriminazione è possibile distinguere un fatto tipico (oggettivo e soggettivo) dalle componenti di colpevolezza (ulteriori alla tipicità soggettiva più impersonale e fattuale) (18). RIA, Prospettive del concetto finalistico di azione, Napoli, 1955, 118 ss. e passim; PAGLIARO, Il delitto di bancarotta, Palermo, 1957, 79 ss.; ID., Il fatto di reato, Palermo, 1960, 257 ss., 295 ss., 418 ss.; LATAGLIATA, I principi del concorso di persone nel reato, 2a ed., Napoli, 1963, 73 ss.; FIORE, L’azione socialmente adeguata in diritto penale, Napoli, 1966, 112 ss.; MORSELLI, Coscienza e volontà nella teoria del dolo, in Arch. pen., 1966, I, 406 ss., e in molti altri contributi sul dolo e da ult. ID., Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, Padova, 1989, 4 ss., 48 ss.; MARINUCCI, Il reato come « azione ». Critica di un dogma, Milano, 1971, 153 ss.; GALLO-SEVERINO, voce Antigiuridicità penale, in Enc. giur., II, 1988, 5-6; G.V. DE FRANCESCO, Il « modello analitico » fra dottrina e giurisprudenza: dommatica e garantismo nella collocazione sistematica dell’elemento psicologico del reato, in questa Rivista, 1991, 107 ss, 123 ss., 126 ss.; DONINI, Illecito e colpevolezza, cit., 2-19, 119-210, 211-229, 285-288, 319 s., 340-350, 353-361, 477-481; ID., Il delitto contravvenzionale, cit., 314 ss.; ID., Teoria del reato, cit., 74 ss., 96 ss, 164 ss., 272 ss., 279 ss., 312 ss., 333 ss.; PIOLETTI, Fattispecie soggettiva e colpevolezza nel delitto colposo. Linee di un’analisi dogmatica, in questa Rivista, 1991, 538 ss.; VASSALLI, voce Tipicità (diritto penale), in Enc. dir., XLIV, 1992, 537 s.; MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, cit., 124 ss.; FIANa DACA-MUSCO, Diritto penale, PG, 3 ed., cit., 166 s., 183, 305 s., 485 ss.; GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa. I. La fattispecie, Padova, 1993, 339 ss.; EUSEBI, Il dolo come volontà, Brescia, 1993, 7; GELARDI, Il dolo specifico, Padova, 1996, 8 ss., 147 ss. Ancor più dominante, nella letteratura italiana degli ultimi quindici-vent’anni, l’adesione ad una lettura della colpa come tipicità (anziché come elemento psicologico o colpevolezza): riferimenti in FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, 132 ss., 149 ss.; GIUNTA, Illiceità e colpevolezza, cit., 133 ss., 150 ss.; v. altresì quanto osservato al riguardo in DONINI, Teoria, cit., 348 ss. (18) In realtà è ormai diffusa, anche in Italia, la tendenza dottrinale — una tendenza nient’affatto recepita nel linguaggio e nel modo di ragionare della giurisprudenza — a non analizzare più il reato secondo la divisione concettuale dei suoi elementi in aspetti oggettivi e soggettivi, o meglio a non attribuire più a quella distinzione valore decisivo. Si parla spesso di « tipicità », di « fatto tipico » della commissione dolosa o colposa, senza approfondire che cosa di « oggettivo » o di « soggettivo » vi sia dentro quella categoria, anche perché si ammette comunemente che non è sempre facile tenere bene separati quei due profili. Questo atteggiamento è ancor più marcato, probabilmente, nell’analisi del fatto colposo, ma si registra anche rispetto a molti profili dei reati dolosi. Anzi, dopo Welzel (già WELZEL, Der allgemeine Teil des deutschen Strafrechts in seinen Grundzügen, 1a ed., Berlin, 1940, 21 ss., e sul punto i rilievi critici di SCHMIDHÄUSER, « Objektiver » und « subjektiver » Tatbestand: eine verfehlte Unterscheidung, in Festgabe Schultz, Bern, 1977, 65 ss., e in merito quanto osservato in DONINI, Lettura sistematica delle
— 356 — Il reato, quindi, è un illecito « modale » (19), ma è anche un illecito nel quale dolo e colpa danno luogo a distinte « tipicità », a distinte previsioni edittali di pena, a differenti universi concettuali e criminologici. Oltre al significato sociale del fatto, la stessa funzione della pena, in caso di realizzazione del medesimo risultato con dolo oppure per colpa, muta senteorie dell’imputazione oggettiva dell’evento, parte II, in questa Rivista, 1989, 1149 ss.), è invalso l’uso a pensare che lo stesso fatto tipico della commissione dolosa di un certo evento abbia un elemento « oggettivo » diverso da quello della realizzazione colposa del medesimo risultato: omicidio doloso e omicidio colposo, perciò, non avrebbero lo stesso « elemento oggettivo » (es. il « cagionare la morte di un uomo »), perché cagionare con dolo è cosa diversa dal cagionare per colpa. Muta cioè il modo di cagionare, la modalità di realizzazione, muta la condotta tipica: concetto, quest’ultimo, di per se stesso verissimo e non contestato (ma spesso neppure adeguatamente approfondito, né pensato nelle sue radici e implicazioni). Ne consegue, tuttavia, secondo la lettura welzeliana, che l’elemento oggettivo del dolo e della colpa sarebbero diversi perché rappresentano una « oggettivizzazione » di dolo e colpa nel fatto (WELZEL, Das deutsche Strafrecht, 11a ed., Berlin, 1969, 62 ss.; in Italia, particolarmente radicale, e se vogliamo coerente, in questo senso, la posizione di PAGLIARO, da ult. nella 5a ed. dei suoi Principi di diritto penale, PG, Milano, 1996, 271 s., 358 ss., che analizza l’aspetto subiettivo della condotta illecita prima di quello obiettivo, e tratta distintamente la stessa « causalità » dei reati dolosi, colposi e a responsabilità obiettiva). Orbene, questo modo di ragionare (v. sul punto quanto osservato in DONINI, Il delitto contravvenzionale, cit., 324 s., nota 10, e ID., Teoria del reato, cit., 84-87, 96-102, 113115), se si presenta con mire di esclusività, cioè se intende escludere altri usi ed accezioni del termine « elemento oggettivo » del reato (ad es., da premesse ontologiche fuorvianti, nel senso che la nozione di « oggettivo » non starebbe a disposizione del giurista, perché questi la troverebbe a lui precostituita, H.J. HIRSCH, Die Entwicklung der Strafrechtsdogmatik, cit., 407), oltre a non rispecchiare la cultura del codice penale italiano vigente — ma questo non vorrebbe dire nulla: la cultura del codice del ’30 deve essere abbandonata in molti punti, perché per vari aspetti non è più respirabile — non rispecchia neppure le sue leggi: ciò che conta assai più delle sovrastrutture culturali sedimentate nel linguaggio legislativo. Infatti il codice penale e il codice di procedura penale (anche quello del 1988) impongono al giudice di accertare l’esistenza di aspetti obiettivo-materiali-esterni della condotta prima di altri aspetti obiettivo-soggettivi o soggettivi in senso stretto. E ciò avviene — lo ricordo qui perché attiene direttamente al tema specifico di questo intervento — in ragione di un’esigenza di dialogo fra il « penale » e l’« extrapenale », un’esigenza di riduzione della selettività penalistica: c’è qualcosa di obiettivo in senso originario, nel fatto di reato, che viene prima dell’accertamento delle specificità del dolo e della colpa, prima delle stesse caratteristiche « modali » che dolo e colpa conferiscono all’azione, e che i codici esigono che venga ricostruito nel processo in funzione di un accertamento unitario, valevole anche in campo civile e amministrativo (v. gli artt. 651 a 654 c.p.p.). A siffatta logica di accertamento unitario, però, non appartengono soltanto i « fatti materiali » in senso stretto (per citare l’espressione dell’art. 654 c.p.p.), ma pure aspetti di valutazione normativa di taluni profili della condotta umana (che è inseparabile da un quid di soggettivo) che l’ordinamento intende apprezzare — si tratta di vedere sino a che punto a ragione: ma ciò non può essere risolto in questa sede — in modo unitario: è il caso degli artt. 40 e 41 c.p., dell’art. 42, comma 1, c.p. (se manca la cosiddetta suitas il proscioglimento deve avvenire con la formula: « perché il fatto non sussiste »), e in parte anche dell’art. 45 c.p. A questa logica di accertamento unitario — anche qui si tratta di vedere fino a che punto tale impostazione sia corretta — appartiene la stessa indagine sulle cause di giustificazione, sul presupposto che il giudice penale, anche se sta verificando un’ipotesi di reato,
— 357 — sibilmente. Per questo il disvalore di azione è coessenziale all’identità offensiva certo non meno che il disvalore di evento: ci può essere un disvalore d’azione senza l’evento — se eccentrico al tipo —, ma non può mai verificarsi il contrario. La selettività tutta speciale del concetto di Tatbestand, che ha fatto paventare, per lungo tempo, una chiusura culturale del diritto penale ripossa comunque pronunciare dell’esistenza di una scriminante con effetto esteso al campo extrapenale: se la causa di giustificazione opera rispetto agli illeciti penali (dove al massimo si potrebbe esigere qualche requisito di imputazione in più: ad es. un elemento soggettivo della causa di giustificazione), non potrà che operare a fortiori rispetto agli altri illeciti extrapenali eventualmente esistenti. Tenuto conto comunque di queste esigenze, è ancora possibile distinguere fra varie accezioni, di fatto coesistenti, dell’« oggettivo » nel sistema penale: 1) oggettivo come materiale-esterno alla psiche (nozione classica o del c.d. sistema classico): nozione concettualmente e linguisticamente inevitabile; 2) oggettivo in senso sistematico, riguardante ciò che, esterno o interno alla psiche, ancora non caratterizza né la colpa, né il dolo nelle loro specificità differenziali: anche elementi di rappresentazione o di rappresentabilità (es. suitas, idoneità degli atti o dell’azione, rischio consentito) colorano l’elemento oggettivo e l’imputazione oggettiva in senso sistematico, perché nel « soggettivo » entra solo ciò che vale a qualificare distintamente e successivamente dolo e colpa, la tipicità dolosa e colposa (in tal senso DONINI, Illecito, cit., 71 ss.); 3) oggettivo inteso nel significato di « avente valore generale ». È questa l’accezione dell’antigiuridicità oggettiva quale è invalsa dopo che è stata valorizzata l’esistenza di una tipicità soggettiva: se anche elementi soggettivi riempiono il fatto tipico, il giudizio di antigiuridicità (=assenza di scriminanti), non potendo che riguardare un fatto tipico anche soggettivamente definito, è « oggettivo » nel senso che ha valore generale per tutto l’ordinamento, è « allgemeingültig » (per tutti JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., 274); 4) oggettivo nel senso che l’elemento di cui si predica tale qualità è applicato obiettivamente dal giudice per il solo fatto di esistere, secondo un criterio legale, a prescindere da ogni valutazione che di ciò possa fare il soggetto che subisce il giudizio: ad es. le condizioni di punibilità sono « obiettive » in questa accezione giudiziale, perché rilevano e si applicano obiettivamente per il fatto di esistere e di essere verificate dal giudice, anche se dipendano da caso fortuito; a questa quarta accezione si avvicina una quinta: 5) oggettivo nel senso di normativo: è un’accezione un po’ confusa, assai frequente nel linguaggio delle teorie dell’imputazione c.d. « oggettiva » dell’evento. Molti criteri di imputazione sono definiti obiettivi perché sono applicati normativamente dal giudice e non è richiesta nessuna rappresentazione o rappresentabilità dei criteri stessi da parte del soggetto a cui si imputa l’evento. Se si segue questo lessico, deve essere però chiaro che molti criteri, sedicenti di imputazione oggettiva, valgono tuttavia solo per la colpa, in quanto criteri normativi di imputazione dell’evento nel reato colposo, e non sono estensibili (o non senza aggiustamenti) ai reati dolosi. La c.d. « oggettivizzazione » del dolo e della colpa nel fatto, di cui discorreva Welzel, altro non è che la tipicità oggettiva (congiuntamente nei significati sub 1 e 2) e soggettiva insieme. V. anche sulle pluralità di nozioni di oggettivo e soggettivo nel lessico penalistico SCHILD, « Objektiv » und « subjektiv » in der strafrechtlichen Terminologie, in Fest. Verdross zum 90. Geburtstag, Berlin, 1980, 215 ss.). (19) Sul reato come illecito modale, o di modalità di lesione, v. fra gli altri, M. GALLO, La teoria dell’azione, cit., 19 ss., 42 ss.; ID., L’elemento oggettivo del reato, Torino, 1967, 9; DEAN, Il rapporto di mezzo a fine nel diritto penale, Milano, 1967, 87 ss.; BRICOLA, voce Teoria generale del reato, cit., 50; FIORELLA, voce Reato in generale, cit., 816; MARINI, Lineamenti del sistema penale, Torino, 1988, 232 s.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, PG, 3a ed., cit., 36; PEDRAZZI, voce Diritto penale, in Dig. Disc. pen., IV, 1990, 67.
— 358 — spetto agli altri rami dell’ordinamento, si riverbera quindi anche sulla categoria dell’illecito penale, sul momento dell’offesa ingiusta e antigiuridica, sul contenuto positivo della c.d. antigiuridicità sostanziale e del bene giuridico (20). (20) Il peso dell’elaborazione germanica, in merito, è schiacciante. In realtà, in questa rincorsa all’individuazione dei tratti peculiari del disvalore penalistico del fatto, del significato criminale del « torto », si incontrano insieme sia i seguaci della tripartizione che della bipartizione: si ricorda, ad es., l’elaborazione del concetto di illecito penale come « tipo di illecito » (Unrechtstypus) cominciata già nell’ambito della tripartizione (la tipicità dell’illecito fu intesa in senso descrittivo-formale dal « primo » Beling e ripresa in senso più teleologico già dal « secondo » Beling, che le affiancava uno Schuldtypus) e poi confluita in alcune versioni assai perspicue all’interno di letture bipartite: ad es. Mezger (prima tripartito e poi bipartito), Engisch, Arth. Kaufmann; si ricorda la parallela rilettura del fatto tipico non più come « indizio » dell’antigiuridicità, ma come ratio essendi dell’illecito (da Mezger a Gallas a Schmidhäuser a Jakobs); si ricorda il dibattito sull’antigiuridicità materiale inaugurato da v. Liszt in stretta connessione con la teoria del bene giuridico; si veda pure tutta la successiva stagione teleologica (da Hegler, Sauer, Wolf, Schwinge a Bettiol in Italia): ma soprattutto la continua rielaborazione del concetto di illecito (Unrecht) compiuta nell’arco di un secolo dalla scienza penalistica tedesca (con tutti i suoi « ismi »: dal naturalismo al teleologismo, dal finalismo al funzionalismo), che ha fortemente influenzato alcune elaborazioni italiane e non. La questione dell’appartenenza dell’elemento soggettivo al concetto di « torto » penale, ad es., ritorna ancora in Autori molto indipendenti come Antolisei, Moro e Petrocelli; la riscoperta della categoria del bene giuridico negli anni Settanta avverrà tutta nel segno dell’individuazione di tratti specificamente penalistici del concetto di « offesa » — si ricorda tutta la problematica degli oggetti e delle tecniche di tutela penalistici (v. anche nota 3, ante) —, salvo poi accorgersi, alla fine degli anni Ottanta, della eccessiva dimensione oggettivistica di questa lettura che ha seguito una larga corrente della scienza penale italiana. Ma ancora una volta, il riequilibrio della nozione di illecito e di offesa fra disvalore di azione e d’evento, sarà inteso come un contrassegno specifico dell’illecito penale. Anche le nuove riflessioni sui rapporti fra illecito penale e amministrativo, sulla « graduabilità » dell’illecito, sulla costruzione di una dogmatica degli illeciti bagattellari, sulla riforma delle contravvenzioni, non potranno che muoversi nell’alveo di un’analisi differenziale della specificità penalistica. Gli esempi e le citazioni sarebbero moltiplicabili in lunghi elenchi. Basti qui rinviare soltanto ad alcune opere (a parte quelle generali) che tracciano una riflessione storico-dogmatica del concetto di fatto tipico e di illecito penale nel Novecento (un filone di storia della cultura dogmatica non molto rappresentato nella nostra letteratura), o che (le due prospettive non coincidono sempre) appaiono più rappresentative per l’elaborazione del concetto di reato (o del fatto di reato) come illecito di grado più « elevato »: in ordine cronologico, BELING, Die Lehre vom Verbrechen, Tübingen, 1906, rist. Aalen, 1964, 110-201; NAGLER, Der heutige Stand der Lehre von der Rechtswidrigkeit, in Fest. Binding zum 4. Juni 1911, Bd. II, Leipzig, 1911, 275 ss.; MEZGER, Die subjektiven Unrechtselemente, in Der Gerichtssaal, Bd. 89, 1924, spec. 208-259; ID., Strafrecht. Ein Lehrbuch, 2. Aufl., München und Leipzig, 1933, 162 ss., 182-185; SIEVERTS, Beiträge zur Lehre von den subjektiven Unrechtslementen im Strafrecht, Hamburg, 1934, Kap. I e II, e 174-198; WELZEL, Studien zum System des Strafrechts, in ZStW, Bd. LVIII, 1939, spec. 505-530 (illecito doloso), 533 ss. (illecito colposo); e quindi ID., Das neue Bild des Strafrechtssystems, 4. Aufl., Berlin, 1961, 15-38; PETROCELLI, La pericolosità criminale e la sua posizione giuridica, Padova, 1940, cap. II; ANTOLISEI, L’analisi del reato (1940), in ID., Scritti di diritto penale, Milano, 1955, spec. 80-89; NOWAKOWSKI, Zur Lehre von der Rechtswidrigkeit, in ZStW, Bd. 63, 1951, 287 ss.; PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, Palermo, 1952, 3 ss., 7 ss.; GALLAS, Zum gegenwär-
— 359 — Concetti, al confine tra la dogmatica e la politica criminale, che sono stati elaborati con attenzione specialissima alle singolarità del diritto penale, alla sua « diversità » rispetto alle altre branche del sistema giuridico. L’unica finestra aperta al dialogo con l’intero ordinamento — per la tigen Stand der Lehre vom Verbrechen, ZStW, Bd. 67, 1955, tr. it. Sullo stato attuale della teoria del reato, in Scuola pos., 1963, 3 ss.; SANTAMARIA, Prospettive, cit., 19 ss.; ARTH. KAUFMANN, Tatbestand, Rechtfertigungsgründe und Irrtum (1956), in ID., Schuld und Strafe, 2. Aufl., Köln-Berlin-Bonn-München, 1983, spec. 101-111; SCHWEIKERT, Die Wandlungen der Tatbestandslehre seit Beling, Karlsruhe, 1957, 48 ss., 121 ss.; ROXIN, Offene Tatbestände und Rechtspflichtmerkmale, 1958, 2a ed. immutata, Berlin, 1970, 173 ss.; ENGISCH, Der Unrechtstatbestand, in Hundert Jahre Deutsches Rechtsleben. Fest. zum 100. jährigen Bestehen des deutschen Juristentages (1860-1960), Bd. I, Karslruhe, 1960, 401 ss.; PAGLIARO, Il fatto di reato, cit., 110 ss., 178 ss.; CEREZO MIR, Lo injusto de los delitos dolosos en el derecho penal español (1961), in ID., Problemas fundamentales del derecho penal, Madrid, 1982, 25 ss.; KRAUSS, Erfolgsunwert und Handlungsunwert im Unrecht, in ZStW, Bd. 76, 1964, 19 ss.; KRÜMPELMANN, Die Bagatelldelikte, Berlin, 1966, 21 ss.; LAMPE, Das personale Unrecht, cit., cap. I; SCHMIDHÄUSER, Der Unrechtstatbestand, in Fest. Engisch, Frankfurt a.M., 1969, 433 ss.; TIEDEMANN, Tatbestandsfunktionen im Nebenstrafrecht, Tübingen, 1969, 70 ss., spec. 87-134; ZIELINSKI, Handlungs- und Erfolgsunwert im Unrechtsbegriff, Berlin, 1973, 120 ss.; BRICOLA, Teoria, cit., passim; SAX, « Tatbestand » und Rechtsgutsverletzung. Überlegungen zur Neubestimmung von Gehalt und Funktion des « gesetzlichen Tatbestandes » und des « Unrechtstatbestandes », in Juristenzeitung, 1976, 8 ss., 80 ss., 429 ss.; GÜNTHER, Die Genese eines Straftatbestandes, in Juristische Schulung, 1978, 8 ss.; H.J. HIRSCH, Der Streit, cit., Teil I, 831 ss.; CEREZO MIR, La polemica en torno a la doctrina de la acción finalista en la ciencia del derecho penal española (1980), in ID., Problemas fundamentales, cit., spec. 119 ss.; GÜNTHER, Strafrechtswidrigkeit und Strafrechtsausschluß, KölnBerlin-Bonn-München, 1983, 9 ss., 57 ss., 83 ss.; BRICOLA, Tecniche di tutela penale e tecniche alternative di tutela, cit., 3 ss.; MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., spec. 1206-1228; MAZZACUVA, Il disvalore d’evento nell’illecito penale, Milano, 1983, 29 ss., 77 ss.; HUERTA TOCILDO, Sobre el contenido de la antijuridicidad, Madrid, 1984, passim; PALIERO, « Minima non curat Praetor », Padova, 1985, 653 ss.; v. anche, nella più recente letteratura, DIEZ RIPOLLÉS, La categoría de la antijuridicidad en derecho penal, in Anuario de derecho penal y ciencias penales, 1991, spec. 752 ss.; DONINI, Illecito e colpevolezza, cit., 141 ss., 190 ss., 199-210 e amplius, Cap. II, sez. 1a; SCHÜNEMANN, Die Funktion der Abgrenzung von Unrecht und Schuld, in Bausteine des europäischen Strafrechts. Coimbra-Symposium für C. Roxin (1991), Köln-Berlin-Bonn-München, 1995, 149 ss.; DONINI, Teoria del reato, cit., cap. II, III e IV. Del tutto minoritarie sono le costruzioni — da parte di giuristi che muovono da un determinato diritto positivo — dell’illecito in chiave unitaria (o « analogica ») rispetto all’ordinamento civile (amministrativo) e penale: v. comunque le (peraltro ricchissime e istruttive) ricerche di MÜNZBERG, Verhalten und Erfolg als Grundlagen der Rechtswidrigkeit und Haftung, Frankfurt a.M., 1966, passim, e CIAN, Antigiuridicità e colpevolezza, Padova, 1966, passim. Sui limiti degli inquadramenti unitari dell’illecito in campo penale e civile, cfr. WIETHÖLTER, Der Rechtfertigungsgrund des verkehrsrichtigen Verhaltens, Karlsruhe, 1960, 28, e quindi RODOTÀ, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964, 55-58; CENDON, Il dolo nella responsabilità extracontrattuale, Torino, 1976, 234 ss., 495 ss. (con amplissimi ragguagli); ma soprattutto, proprio con riguardo al concetto di illecito/Unrecht, GÜNTHER, Strafrechtswidrigkeit, cit., 83 ss. (in relaz. a 66 ss., 71 ss.). Quanto al rapporto penale-amministrativo, viceversa, è notorio che sono dominanti, almeno in area italo-tedesca, ma con varie propaggini europee, le tendenze ad un’assimilazione di disciplina dell’illecito amministrativo rispetto a quello penale, in omaggio ad altret-
— 360 — communis opinio — è quella dell’antigiuridicità formale, vale a dire, secondo la logica della concezione tripartita, della qualificazione del fatto tipico e lesivo come formalmente antigiuridico in quanto non giustificato da una qualche scriminante di origine non strettamente penale: solo il raccordo con l’ordinamento generale consente di decidere compiutamente del contrasto del fatto con la legge (21). Questo livello di verifica, che tanto notorie distinzioni « quantitative » fra i due rami. Basti qui rinviare, anche per ulteriori ragguagli, a MATTES, Untersuchungen zur Lehre der Ordnungswidrigkeiten, Bd. II, Geltendes Recht und Kritik, Berlin, 1982, 87 ss., 251 ss., e passim; CADOPPI, Il reato omissivo proprio, vol. I, Profili introduttivi e politico-criminali, Padova, 1988, 479-569; ROMANO, Commentario, vol. I, 2a ed., cit., 39/1 ss., 14-18. Cfr. anche, sotto il profilo connesso della ricostruzione delle sanzioni, PALIERO-TRAVI, voce Sanzioni amministrative, in Enc. dir., XLI, 1989, 350 ss.; M.A. SANDULLI, voce Sanzione. IV. Sanzioni amministrative, in Enc. giur., XXVIII, 1992, 1 ss. (21) Nella concezione tripartita, oggi dominante nella manualistica italiana più recente, l’antigiuridicità è il luogo del dialogo fra il mondo « chiuso » della tipicità penale e l’intero ordinamento: per tutti, MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., 1228-1236; ID., voce Antigiuridicità, in Dig. Disc. pen., I, 1987, 172 ss., 182 ss.; e quindi M. ROMANO, FIANDACAMUSCO, PADOVANI, FIORE cit. a nota 16, nonché MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., 278 ss., e nei cit. lavori di Marinucci e Romano gli essenziali richiami alla letteratura tedesca nella quale va parimenti trovata la fonte dottrinale di questa concezione. La nascita della categoria viene spesso ricondotta a JHERING, in un passo del suo già menzionato, fortunatissimo scritto del 1867 (noto anche per altri, non meno importanti profili): Das Schuldmoment im römischen Privatrecht. Eine Festschrift, sempre cit. da JHERING, Vermischte Schriften juristischen Inhalts, Leipzig, 1879, spec. 159-163: ma in quel passo non si mirava a dare « collocazione sistematica » alle scriminanti, quanto piuttosto ad escludere la necessità di una componente soggettiva di colpevolezza nell’autore della condotta illecita per esprimere un giudizio sul contrasto col diritto di un comportamento e per attivare una legittima reazione contro il fatto « obiettivamente » contra ius (l’esempio di Jhering, come già ricordato, era la sottrazione della cosa altrui avvenuta in buona fede: condotta fonte dell’obbligo di restituzione, anche se non del risarcimento dei danni). Di lì a poco, la polemica con Merkel condurrà anche ad evidenziare comportamenti obiettivamente antigiuridici, ma pure non privi di una componente soggettiva « incolpevole », degli incapaci. È questo un filone del concetto di antigiuridicità strettamente connesso a quello di illecito: si ricordi tutta la discussione sul carattere oggettivo o soggettivo dell’illecito penale (per un quadro assai limpido, sino al primo ventennio del Novecento, si cfr. soprattutto i lavori di NAGLER e MEZGER cit. alla nota precedente; e per l’epoca successiva v. soprattutto la monografia di LAMPE ivi cit.). Si tratta di un problema strettamente penalistico, perché involge la valutazione dell’essenzialità o meno, per aversi un fatto « penalmente tipico », ma non necessariamente colpevole, di un coefficiente soggettivo del fatto, e di quale coefficiente (es. dolo e colpa di fattispecie nella dimensione ancora « fattuale » e impersonale che non vale a qualificarli ancora, prima di indagare altri aspetti personalistici, come forme di colpevolezza): è questione centrale, pertanto, per distinguere il « torto », l’illecito, dalla colpevolezza (cfr. WELZEL, Die deutsche strafrechtliche Dogmatik der letzten 100 Jahre und die finale Handlungslehre, in Juristische Schulung, 1966, 421-423). L’altro filone concettuale della categoria è quello relativo alla « collocazione » delle cause di giustificazione, e si tratta di un problema non penalistico, nella misura in cui riguarda esclusivamente le scriminanti come norme dell’intero ordinamento, norme non penali, ma neppure civili o amministrative — perché trasversali a tutti gli illeciti —, capaci,
— 361 — nulla ci dice di positivo sulle caratteristiche del reato, ma solo quando un qualsiasi fatto è comunque autorizzato o imposto dalla legge, e quindi lecito per l’ordinamento intero, civile, amministrativo, penale, assolve un compito importante: che è quello di ospitare gli argomenti che impongono o rendono problematico il « dialogo » fra l’universo penale e quello dell’ordinamento giuridico nel suo complesso: non solo le scriminanti in relazione all’impatto erosivo sulla tipicità dei conflitti e delle dinamiche sociali a cui dànno prospettiva di una soluzione formalizzata, ma altresì l’uso in chiave « sanzionatoria » degli elementi normativi del fatto, le norme penali in bianco, lo studio delle tecniche di rinvio, di quelle impiegabili per la degradazione fra il diritto penale e le c.d. « antigiuridicità minori », l’esiguità, ecc. (22). L’attenzione del penalista, peraltro, ha affinato la logica della « selettività » anche in ordine all’imputazione delle scriminanti, onde vagliare se — in diritto penale — esse conoscano criteri di attribuzione più sensibili ai profili soggettivi di quanto ciò non avvenga, ad es., quando si discute di una causa di giustificazione ai soli fini del diritto civile (23). come tali, di rendere lecito un qualsiasi fatto altrimenti antigiuridico, sia esso di rilevanza civile, amministrativa o penale. Quei due momenti sono stati studiati spesso insieme: e ciò, unitamente all’importanza emotiva e sociale che rivestono per i delitti le ipotesi scriminanti come la legittima difesa o lo stato di necessità, giustifica il fatto che siano i penalisti ad occuparsi delle scriminanti quale categoria « generale » più di quanto non facciano amministrativisti e civilisti: mentre se nel concetto di « antigiuridicità » non si trattasse altro che delle scriminanti, restando attratto tutto l’altro aspetto sopra indicato nella disamina del « fatto tipico », il capitolo sull’antigiuridicità sarebbe un capitolo non penalistico, appunto. Ben cogliendo quei due differenti profili, è stato opportunamente proposto di distinguere fra l’illecito (Unrecht), come concetto sostanziale e graduabile, esprimente l’offensività tipica del reato, e l’antigiuridicità (Rechtswidrigkeit), come nozione formale, sempre identica, applicabile a qualsiasi illecito (anche extrapenale) ed esprimente solo il contrasto con la legge per assenza di cause di giustificazione (WELZEL, Das neue Bild, 4a ed., cit., 18 s.; ampiamente anche GÜNTHER, Strafrechtswidrigkeit, cit., 55 ss., 83 ss.). Per un’analisi di questi due ben diversi momenti nei loro punti di tangenza e di separazione — cioè dell’illecito « penale » e dell’antigiuridicità « generale » —, sia consentito rinviare alla nostra Teoria del reato, cit., cap. IV. (22) Ho cercato di tratteggiare un primo quadro approssimativo di queste possibilità offerte dalla categoria dell’antigiuridicità « generale », differenziandola da quella dell’illecito penale, in Teoria del reato, cit., cap. IV, spec. par. 2, 4-5 (207-215, 221-250): la cursorietà della rappresentazione non dovrebbe peraltro celare l’intento esplicito di rendere palesi le notevoli aperture concettuali — ben oltre la sola disamina delle scriminanti — che consentono una rivitalizzazione di questa categoria, altrimenti troppo « provincializzata » nelle radici e negli sviluppi tutti germanici della sua storia. (23) È questa, invero, l’altra ragione — oltre a quanto evidenziato alla nota 21 — che consente di rendere comprensibile la trattazione nei soli manuali penalistici di un capitolo così aspecifico, di teoria generale dell’illecito giuridico, come quello relativo a scriminanti che appartengono all’ordinamento giuridico « in genere »: vale a dire (questa la ragione ulteriore) la risposta all’interrogativo se le cause di giustificazione necessitino, per ope-
— 362 — Ma ancor più evidente, anche se non proprio corale, negli ultimi anni, è stato l’impegno della dottrina italiana a costruire un concetto dogmatico e sistematico di colpevolezza stagliato sulle specifiche esigenze della responsabilità penale e dei fini della pena (24): una colpevolezza per il fatto rare in funzione scriminante, di coefficienti soggettivi di imputazione, e soprattutto se tali coefficienti siano (o possano, oppure debbano) risultare più intensi allorché si tratta di giustificare non un illecito qualsiasi, ma un reato. Sul tema, oltre allo studio di SPAGNOLO, Gli elementi soggettivi nella struttura delle scriminanti, Padova, 1980, passim, cfr. SCHIAFFO, L’elemento soggettivo nelle cause di giustificazione: prospettive di riforma, in questa Rivista, 1994, 1003 ss.; S. FIORE, Cause di giustificazione e fatti colposi, Padova, 1996, 25 ss.; MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, cit., 203 ss.; FIORELLA, voce Reato in generale, in Enc. dir., XXXVIII, 1987, 802 s., 810, 819; nella letteratura tedesca, WAIDER, Die Bedeutung der Lehre von den subjektiven Rechtfertigungselementen für Methodologie und Systematik des Strafrechts, Berlin, 1970; STEINBACH, Zur Problematik der Lehre von den subjektiven Rechtfertigungselementen bei den vorsätzlichen Erfolgsdelikten, ecc., Frankfurt a.M.Bern-New York-Paris, 1987; FRISCH, Grund- und Grenzprobleme des sog. subjektiven Rechtfertigungselements, in Fest. Lackner, Berlin-New York, 1987, 113 ss.; JUNGCLAUSSEN, Die subjektiven Rechtfertigungselemente beim Fahrlässigkeitsdelikt, ecc., Göttingen, 1987; in sintesi JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., § 31/IV, 328 ss.; in quella austriaca TRIFFTERER, Zur subjektive Seite der Tatbestandsausschließungs- und Rechtfertigungsgründe, in Fest. Oehler, Köln-Berlin-Bonn-München, 209 ss.; NOWAKOWSKI, Zur subjektive Tatseite der Rechtfertigungsgründe (1977), in ID., Perspektiven zur Strafrechtsdogmatik, Wien-New York, 1981, 113 ss.; in quella spagnola, HUERTA TOCILDO, Sobre el contenido de la antijuridicidad, cit., 78 ss., 121 ss.; SANZ MORAN, Elementos subjetivos de justificación, Barcelona, 1993, 90 ss. e passim; VALLE MUÑIZ, El elemento subjetivo de justificación y la graduación del injusto penal, Barcelona, 1994, via via con altri richiami; per la letteratura di common law v. il quadro tracciato da GRANDE, voce Justification and Excuse (le cause di non punibilità nel diritto anglo-americano), in Dig. Disc. pen., VII, 1993, 319 s., nonché, per la letteratura inglese, HOGAN, The Dadson Principle, in Criminal Law Rev., 1989, 679 ss.; ELLIOTT & WOOD’S, Casebook on Criminal Law, 6th. ed., London, 1993, 345 s., e per quella americana (assai istruttivo sul punto) FLETCHER, A Crime of Self-defence. Bernhard Goetz and the Law on Trial (1988), tr. it. Eccesso di difesa, Milano, 1995, 37 ss. (24) Tralasciando tutti i numerosissimi contributi in tema di dolo, colpa, preterintenzione, errore, singole ipotesi scusanti, e limitandoci ad alcuni lavori più specificamente dedicati (anche) alla colpevolezza come principio o categoria sistematica, ricordiamo soprattutto, oltre alle opere più risalenti sul principio di colpevolezza già cit. alla nota 3, i contributi di BRICOLA, Teoria, cit., 51 ss.; PULITANÒ, Il principio di colpevolezza e il progetto di riforma penale, cit., 399 ss.; DOLCINI, La commisurazione della pena, cit., 257 ss., 283 ss.; PULITANÒ, L’errore di diritto, cit., cap. I, e passim; G.V. DE FRANCESCO, Sulla misura soggettiva della colpa, in Studi Urbinati, 1977-78, 275 ss.; MARINUCCI, Problemi della riforma del diritto penale in Italia (1982), in MARINUCCI-DOLCINI, Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, 353 s.; FIANDACA, Considerazioni su colpevolezza e prevenzione, in questa Rivista, 1987, 836 ss.; PADOVANI, Teoria della colpevolezza e scopi della pena, ivi, 1987, 798 ss.; MONACO, Prospettive, cit., 112 ss.; il volume collettaneo AA.VV., Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, a cura di A.M. STILE, Napoli, 1989; FORNASARI, Il principio di inesigibilità, Padova, 1990, 47 ss., 53 ss., 319 ss.; ANGIONI, Condizioni di punibilità e principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1990, 1440 ss.; DONINI, Illecito e colpevolezza, cit., cap. III, sez. 2a e passim; ID., Il delitto contravvenzionale, cit., cap. I e IV e passim; ALESSANo DRI, Art. 27, 1 comma, cit., 1-161; G.A. DE FRANCESCO, Il principio della personalità della responsabilità penale nel quadro delle scelte di criminalizzazione, in questa Rivista, 1996,
— 363 — — che si aggiunge all’accertamento previo del fatto tipico e non scriminato —, e non una colpevolezza per la condotta di vita o per il tipo d’autore; una colpevolezza normativa capace di dare ingresso a nuove tipologie di scusanti, di arricchire e rendere duttile la commisurazione della pena (in senso lato), e comunque di rinnovare una riflessione penalistica già antica intorno alle condizioni personali e ai limiti di esigibilità soggettiva delle pretese normative; una colpevolezza non presunta nell’antidoverosità obiettiva della condotta, né appiattita su profili formali e impersonali di esigibilità orientata alla prevenzione generale, ma ben ancorata all’esigenza di mediare fra la persona come valore invalicabile e non patteggiabile e i fini generali dell’intervento punitivo; una colpevolezza, comunque, che nonostante il normativismo sa ancora ben differenziare fra dolo e colpa, che li concepisce non solo come aspetti « modali » dell’agire, ma anche come atteggiamenti antidoverosi « reali » (non meramente « ascritti ») della decisione della persona rispetto a un bene giuridico possibilmente consolidato e afferrabile. Le cause di esclusione della colpevolezza, poi, esaltano al massimo grado la selettività penalistica di quest’ultima categoria: trattandosi di ipotesi scusanti di origine tutta penale — mentre dolo e colpa condividono buona parte del loro contenuto con le corrispondenti categorie civilistiche o amministrativistiche — le quali, se poco si differenziano dalle varie « cause di non punibilità » in senso stretto sotto il profilo funzionale, cioè degli effetti giuridici, sono però meglio caratterizzate sotto il profilo strutturale, in quanto oltre a presupporre dolo e colpa « fattuali » (e che non ricorra l’art. 47 c.p. in funzione esimente), si fondano sull’operare di situazioni che alterano, al tempo della commissione del fatto tipico, la normalità della motivazione, sì da escludere l’esigibilità soggettiva della condotta lecita. In tanto ha senso, anzi, parlare di scusanti piuttosto che di cause di non punibilità, in quanto l’ipotesi esimente non sia del tutto 21 ss.; MARINUCCI, Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza, ivi, 1996, 423 ss.; DONINI, Teoria, cit., cap. V; ID., Il principio di colpevolezza, cit. Molto significativa, inoltre, l’evoluzione della manualistica italiana nell’ultimo decennio — ma soprattutto dopo la sentenza n. 364/1988 della Corte cost. — in tema di colpevolezza. Alcune di queste opere andrebbero opportunamente raffrontate con le edizioni precedenti la sentenza della Corte, oppure ancor meglio con quanto esponevano vari manuali rappresentativi negli anni Cinquanta-Sessanta-Settanta (si rileggano, ad es., i manuali di Pannain, di Frosali, di Nuvolone, di Antolisei, il trattato di Manzini relativi a quel periodo, per comprendere che, nel permanere dell’identità delle norme scritte — art. 27 Cost., artt. 42 ss. c.p. — nel frattempo è cambiato un mondo): v. ad es. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, PG, 3a ed., cit., 267 ss., 276 s., 360 ss., 513 ss.; FIORE, Diritto penale, PG, vol. I, cit., 362 ss.; ROMANO, Commentario, vol. I, 2a ed., cit., Pre-Art. 39/66 ss.; MANTOVANI, Diritto penale, PG, 3a ed., Padova, 1992, 291 ss.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso, 85 ss.; PADOVANI, Diritto penale, PG, 3a ed., cit., 220 ss., 300 ss.; RAMACCI, Corso di diritto penale, vol. II, Torino, 1993, 130 ss.
— 364 — obiettivizzata, consentendo invece una personalizzazione del giudizio sull’esigibilità (25). « Necessità » e « bisogno » di pena — una valutazione più assiologico-retributiva e una più teleologico-funzionale — si misurano infine, oltre che ai « livelli » della tipicità, dell’illecito (v. i temi della sussidiarietà, dell’inoffensività e dell’esiguità, del diritto penale sanzionatorio, ecc.) e della colpevolezza, all’ultimo ed eventuale stadio della punibilità, là dove vengano in considerazione valutazioni ulteriori e autonome relative all’an della pena, ancorate a cause e condizioni di (non)punibilità, oppure estintive o modificative della punibilità. In questo caso — come al livello, parimenti eventuale, delle scriminanti — considerazioni penalistiche vengono temperate con interessi e valutazioni anche extrapenali o processuali di vario genere (26). (25) Sulle scusanti, nella più recente letteratura italiana — ricordando solo gli AA. che ne riconoscono l’esistenza come ipotesi penali specifiche di esclusione non di « qualcosa di soggettivo », ma della colpevolezza normativa e personale inerente ad un fatto tipico, già soggettivamente qualificato (v. già la fondante trattazione di SANTAMARIA, Lineamenti di una dottrina delle esimenti, Napoli, 1961, 108-112, 137 s., 143 ss.): PADOVANI, Teoria della colpevolezza, cit., 814 ss.; ID., Diritto penale, 3a ed., cit., 300 ss.; ROMANO, Cause di giustificazione, cause scusanti, cause di non punibilità, in questa Rivista, 1990, 58 ss.; G.V. DE FRANCESCO, Il modello analitico, cit., 212 ss.; DONINI, Illecito, cit., 574 ss.; ID., Teoria, cit., 276 ss., 379 ss.; MILITELLO, Le cause soggettive di esclusione della responsabilità penale nella proposta di legge delega, dattiloscritto dell’intervento presentato a Siracusa, al Convegno « Prospettive di un nuovo codice penale », 15-18 ottobre 1992, 1 ss.; FIORE, Diritto penale, PG, vol. I, cit., 344 ss., 408 ss. (pur distinguendo, « finalisticamente », tra scusanti e cause di esclusione della colpevolezza); FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, PG, 3a ed., cit., 360 ss., 513 ss.; CAVALIERE, Riflessioni dommatiche e politico-criminali sulle cause soggettive di esclusione della responsabilità nello schema di legge delega legislativa per la riforma del codice penale, in questa Rivista, 1994, 1478 ss. Un punto nodale, che ancora attende di essere approfondito, è quello della differenza strutturale — forse più che delle conseguenze giuridiche — fra scusanti e cause « soggettive » di esclusione della pena, allorché queste ultime riguardino situazioni che operano al tempo del fatto (es. desistenza volontaria, detenzione di stupefacenti per uso personale non terapeutico) e vengano costruite dalla legge oppure dall’interprete secondo parametri particolarmente obiettivizzanti, tali che non guardano, cioè, alla reale incidenza della situazione tipizzata sul processo motivazionale del singolo. Quando una scusante operi in quel modo, è ancora una causa di esclusione della « colpevolezza », oppure della punibilità soltanto? (es. è ancora una « scusante » l’art. 5 c.p. qualora il giudice si limiti ad applicarlo senza indagare la reale incidenza della supposta ignoranza sulla decisione del soggetto?, quando si « accontenti » del « caos giurisprudenziale » nella materia regolata? è ancora una scusante l’art. 384 c.p., quando lo si applichi sulla base dell’obiettiva esistenza del rapporto di parentela, senza indagare se davvero sia stato ciò a « costringere » al delitto contro l’amministrazione della Giustizia?). Sul problema delle scusanti « costruite oggettivamente », v. nella letteratura tedesca, oltre al risalente THIERFELDER, Objektiv gefaßte Schuldmerkmale, Breslau-Neukirch, 1932, 44 ss.; MAIHOFER, Objektive Schuldelemente, in Fest. H. Mayer, Berlin, 1966, 185 ss., 198 ss.; JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., 471 s., con altri richiami. (26) È certo significativo che, nella più recente letteratura, si riconosca — giustamente — come, sia pur con intensità differenziata, tutti i livelli delle categorie del reato
— 365 — 4. Questa breve e cursoria rassegna dei percorsi dogmatici della « selettività » penalistica — ancora più vasto e istruttivo sarebbe un inventario dei percorsi delle avanguardie politico-criminali strettamente orientate in prospettiva di riforma, e soprattutto dei percorsi di riduzione « minima » dell’intervento penale — si armonizza soltanto con un tipo di « generalità »: quella deduttiva, la quale, muovendo dai principi costituzionali aventi forza « dimostrativa » (ciò che li avvicina un po’ di più alle « regole »), ovvero da principi probabilmente ancora più « argomentativi » come il principio di sussidiariatà o extrema ratio o come il principio di offensività nella sua valenza ermeneutica, li pensi già realizzati o di doverosa e prossima realizzazione da parte del legislatore, oppure — omisso medio — da parte del giudice: sì che tutto l’edificio penalistico, il suo ordine concettuale, la sua valenza politica, le sue categorie basiche, risultino conformi a quei modelli prescrittivi, se non altro perché sono stati dagli stessi dedotti. Quei percorsi dogmatici, viceversa, non si armonizzano affatto con una « generalità » di tipo classificatorio e induttivo: la generalità che muove direttamente dal diritto vigente (legittimo) e vivente (più o meno legittimo) (27). Proprio questo secondo tipo di generalità, in effetti, è stato largasiano interessati, trasversalmente, dall’incidenza di valutazioni sulla « necessità » e sul « bisogno » di pena: non solo, dunque, le ipotesi riguardanti la punibilità, sono attratte nell’orbita di valutazioni « opportunistiche », anche se queste ultime tendono talora ad avere il sopravvento nella codificazione, o nell’uso discrezionale, proprio di figure di esclusione o di estinzione della punibilità in senso stretto: v. in merito VOLK, Entkriminalisierung durch Strafwürdigkeitskriterien jenseits des Deliktsaufbaus, in ZStW, Bd. 97, 1985, 892, 896 ss.; ANGIONI, Condizioni di punibilità, cit., 1490-1496; ALTPETER, Strafwürdigkeit und Straftatsystem, ecc., Frankfurt a.M.-Bern-New York-Paris, 1990, 37 ss.; M. ROMANO, « Meritevolezza di pena », « bisogno di pena » e teoria del reato, in questa Rivista, 1992, 46-50; v. anche HASSEMER, in Nomos Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., Vorbemerkungen Vor § 1/183 ss.; DONINI, Teoria, cit., 108 s., 410 ss. È vero, peraltro, che proprio l’incidenza assorbente di considerazioni di scopo tende ad inserire nelle ipotesi di non punibilità apprezzamenti legati a punti di vista anche extrapenalistici (es. talune ipotesi di immunità, rapporti di parentela, eliminazione sopravvenuta di conseguenze extrapenali), così come avviene, in misura maggiore, nell’ambito delle scriminanti: v. ROXIN, Strafrecht, AT, 2a ed., cit., § 23; JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., § 52, p. 551 s. (27) Per una quadro assai critico della trasfigurazione del volto « classico » del diritto penale « dei principi », liberale, garantista, fondato sulla tutela di beni afferrabili, costruito con norme tassative, ancorato a situazioni sociali pregnanti (i delitti « naturali »), nelle sperimentazioni della politica criminale effettiva del nostro tempo, SGUBBI, Il reato come « rischio sociale », Bologna, 1990, passim; nella letteratura tedesca, un quadro non dissimile in vari interventi nel vol. collettivo Institut für Kriminalwissenschaften Frankfurt a.M. (Hrsg.), Vom unmöglichen Zustand des Strafrechts, Frankfurt-Berlin-Bern-New YorkParis-Wien, 1995, (spec. POTT, 79 ss., ALBRECHT, 429 ss., 439 ss.; PRITTWITZ, 387 ss., GÜNTHER, 445 ss., NAUCKE, 483 ss.), passim. Con riferimento alle molteplici forme — ormai vere « costanti » del sistema — del diritto penale dell’emergenza, da ult. MOCCIA, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli, 1995.
— 366 — mente negletto negli ultimi due, tre decenni: con esiti felici — talora, straordinariamente felici — quando si è trattato di operare ermeneutiche e costruzioni vicarie rispetto agli adempimenti del legislatore, per la sua omessa o ritardata attuazione della Carta costituzionale o ottemperanza ai compiti di scelte politiche che gli sarebbero spettati; con esiti pratici di varia fortuna quando non è rimasto altro che esprimere motivate censure alle insipienze di una legislazione emotiva e frammentata, che riflette solo bisogni e umori dei « mercati generali » della ribalta politica romana e massmediale, e con esiti infelici quando l’eccesso di deduzione astratta « dai principi » è divenuto incapace di leggere il « nuovo », vale a dire le produzioni legislative e giurisprudenziali del tempo presente le quali — affatto indeducibili, stricto sensu, da qualche principio consolidato, ma non per questo contrastanti con la Costituzione — non possono sempre essere ricondotte a emergenze, irrazionalità e tradimenti, ma sono anche il portato di una modernità varie volte « razionale » della politica criminale e legislativa che una parte della classe accademica di penalisti — a differenza della magistratura — non ha gli strumenti concettuali per elaborare finché resta (per ragioni le più varie che sarebbe interessante sottoporre a un’indagine anche sociologica) conservativamente nostalgica di idealtipi vetero-illuministici. Eppure, una « generalità » di tipo induttivo è — come già detto — costitutiva anch’essa della metodologia della teoria del reato: ogni « concetto » (dogmatico-sistematico) sedicente generale può infatti essere suscettibile di revisione e verifica al confronto con qualsiasi norma incriminatrice o gruppo di norme, anche di nuova formazione. Tanto che, anzi, proprio questa verifica « empirica » rappresenta il banco di prova più moderno e sconvolgente di tutta una vecchia e nuova dogmatica (causalità, imputazione oggettiva, offesa/evento, dolo eventuale/colpa con previsione, delitti aggravati dall’evento e preterintenzione, « fatto » tipico/« fatto » di reato oggetto di dolo e di errore ecc.) edificata sui paradigmi parziali dell’omicidio e delle lesioni, o comunque di reati con forte dimensione naturalistica, oppure di evento, di pericolo concreto, assurti a modelli generalissimi dalle cui « derivazioni » teoriche poi, con procedere concettualistico, si è dedotto veramente troppo, imponendo categorie pensate su quei paradigmi a tipologie di condotte, di offese, di autori completamente differenti. Orbene, la stessa « selettività » penalistica delle categorie del fatto tipico, dell’illecito e della colpevolezza — della loro struttura dogmatica come dei loro contenuti e delle relative proiezioni teleologiche — richiede oggi come sempre un riadattamento costante alle « species », e quindi un umile ma scientifico processo di verifica empirica. Una tale verifica mette subito in allarme verso le generalizzazioni arbitrarie le quali, nonostante alcuni brillanti e magistrali antidoti scientifici
— 367 — a disposizione (28), restano una tentazione costante del penalista che — pur superata una modellistica parziale che contaminava molti approcci delle teorie generalizzanti a base induttiva — si lasci distrarre un attimo da nuove forme di generalizzazione e di idola, dal fascino totalizzante dei principi: dalla loro tendenza a farsi tiranni gli uni ai danni degli altri, ma altresì dalla massimizzazione indifferenziata dei principi a valenza garantista (29), per la suggestione della logica solo deduttiva che parrebbe imposta dal loro impiego deontico quali programmi di scopo. In realtà, l’uso dei principi si presta a una logica deduttiva soprattutto là dove essi abbiano una forza di tipo dimostrativo, e specialmente quando sia possibile disporre di criteri di concretizzazione tecnica tali da consentire di stabilire in via generale e vincolante se una norma specifica sia conforme oppure difforme ai principi (che in tal caso, contrariamente a quanto taluni ritengono, non si riducono a soli « programmi di scopo »). (28) Es. BELING, Die Lehre von Verbrechen, cit., 207-209 (sul vizio metodologico di considerare la causalità e relativa imputazione come un concetto « generale »); ID., Der gegenwärtige Stand der strafrechtlichen Verursachungslehre, in Gerichtssaal, Bd. 101, 1932, 1 ss.; BAUMGARTEN, Der Aufbau der Verbrechenslehre, Tübingen, 1913, 79 ss. (sul concetto di « generalità » della teoria del reato); ARTH. KAUFMANN, Das Unrechtsbewußtsein in der Schuldlehre des Strafrechts. Zugleich ein Leitfaden durch die moderne Schuldlehre (Mainz, 1949), 2a ed., Aalen, 1985, 183 ss., 191 ss. (sull’esigenza di una ricostruzione « generalizzante » differenziata dell’oggetto del dolo nelle fattispecie del diritto penale artificiale, secondo premesse già presenti in Goldschmidt, M.E. Mayer, E. Wolf, R. Lange e E. Schmidt); BRICOLA, Dolus in re ipsa, Milano, 1960, 79 ss., 112-140 (sull’esigenza di una costruzione differenziata dell’oggetto del dolo nei reati « formali » e segnatamente in quelli omissivi « a struttura semplice », cioè a condotta neutra); TIEDEMANN, Tatbestandsfunktionen, cit., 281 ss. (cap. IV) (sull’esigenza di ripensare « sul campo » la specificità delle funzioni del « fatto tipico » in relazione al settore del diritto penale complementare e dell’economia, con riguardo al tema anche dell’oggetto giuridico e della teoria del dolo e dell’errore); MARINUCCI, Il reato come « azione », cit., 43 ss. (sull’uso, proprio e improprio, di concetti « generali e astratti » non solo in riferimento al concetto di azione, ma complessivamente alla teoria del reato); BRICOLA, Teoria generale, cit., 23 s. (sull’improprietà dell’impiego unitario degli stessi concetti di dolo e colpa, e qui, peraltro, l’impulso, fecondo nel suo statu nascenti, ad una « nuova » generalità dei principi); GÜNTHER, Strafrechtswidrigkeit, cit., 57 ss., 83 ss. (sui limiti dell’uso, in diritto penale, di nozioni di « antigiuridicità » e di « illecito » pensate e costruite su una modellistica generalizzante di teoria dell’illecito giuridico tout court). V. anche DONINI, Il delitto, cit., 200 ss., 278 ss., 293 ss., 346 ss. (sull’autonomia della ricostruzione del dolo — e della colpa — delle singole incriminazioni, rispetto alle definizioni « classificatorie » della parte generale); PALIERO, L’autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?, in questa Rivista, 1994, 1242 ss. (sui « deficit di rappresentatività » delle « parti generali » elaborate sino ad oggi su paradigmi troppo parziali); MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., Premessa, XIV (sull’esigenza di costruire i concetti generali in relazione al « contenuto » delle varie incriminazioni, e quindi verificandoli sempre sulla « parte » e sulla legislazione speciali). È muovendo dalla condivisione di tutte queste premesse di metodo che ho impostato la trattazione di DONINI, Teoria del reato, cit. (29) Rinvio a quanto osservato in DONINI, Teoria, cit., 38-47, a ripresa, in diverso contesto e argomentare, del noto motivo schmittiano.
— 368 — Diversamente, se i principi hanno valenza più politica o argomentativa, perché a essi non si accompagnano — o non ancora: ma storicamente le cose possono evolversi in fretta — criteri operativi praticabili per quel giudizio di conformità, le scelte politiche che devono « mediare » la loro attuazione precludono mere decisioni tecniche di legittimità o meno di una norma vigente. Lo stesso pluralismo ideologico, politico ed ermeneutico, infine, impone una tolleranza dogmatica che la teoria del reato, invero, ha praticato assai poco: una scelta di democrazia. Proprio in questi spazi molto ampi di pluralismo legittimo nell’attuazione dei principi — di tutti: anche di quelli più cogenti e dimostrativi — si valorizza un procedimento di tipo induttivo nella costruzione dei concetti e delle categorie del reato: perché la loro elaborazione terrà conto sia dei « principi » sovraordinati e sia delle « regole » che li attuano o che attuano programmi di politica criminale che non discendono necessariamente dai principi, senza peraltro contrastarli. In molti Stati nazionali, ad es., vigono i principi di legalità, di riserva di legge, di tassatività, di colpevolezza, il divieto di analogia e di retroattività delle leggi penali, il principio di proporzione ecc., come norme costituzionali vincolanti e di forza dimostrativa: ma non per questo si richiede che tutti questi Paesi abbiano il medesimo diritto penale. L’armonizzazione delle legislazioni, a cui i principi possono e dovrebbero condurre, resta quindi compatibile con il loro pluralismo. Ebbene, se è vero che un approccio di tipo induttivo è stato trascurato dai teorici « generali » — al punto che ci troviamo di fronte a specie giuridiche politicamente e costituzionalmente legittime, anche se più o meno desiderabili, che non riusciamo più a descrivere e comprendere come esistenti utilizzando talune rigide categorie « prescrittive » cresciute all’ombra del metodo aristocratico della deduzione assiologica —, occorre ricominciare il cammino della ricerca e anche della « revisione » del passato: impegno ineludibile di ogni generazione che coltiva con senso critico le proprie istanze di progresso. 5. Come oggi si abusa dire, si impone un mutamento di paradigmi. Esso può realizzare una parvenza di « rivoluzione scientifica » qualora si dia spazio a logiche concrete di democrazia penale — ma non penso di « appaltare » scelte così complesse a decisioni popolari governate da disinformazione e ignoranza, non penso alla democrazia etero-diretta, bensì a scelte parlamentari che si sappiano aggiornare più frequentemente e che non dovrebbero essere subappaltate alla « democrazia penale » della magistratura: la legge, prima dell’interprete, dovrebbe chiarire espressamente quando un evento è condizione obiettiva di punibilità, che cos’è la causalità nei reati omissivi impropri, quando è punibile il tentativo, quando un elemento aggravante ha natura circostanziale oppure costitu-
— 369 — tiva, quando un reato commissivo è realizzabile in forma omissiva, se e quale tipo di partecipazione esterna è ammissibile nei reati associativi, ecc. —, anziché perpetuare modelli di aristocrazia illuminata; e tuttavia quel mutamento significa anche, più modestamente ma efficacemente, la riappropriazione di una metodologia comune agli studi giuridici di sempre, comprensiva di aspetti « scientifici » e « ideologici » insieme. Non pare adeguata al tempo presente una teoria generale di soli principi (tendenzialmente giusnaturalistica o comunque prescrittiva, fatta di scopi e funzioni, di valori e di filosofia, di metadiritto), come non lo è mai stata una teoria generale di sole regole (rigorosamente giuspositivistica, ma solo descrittiva, fatta di nozioni di struttura, di casi e di giurisprudenza). Entrambi quei momenti sono costitutivi del metodo (30). Se se(30) ENGISCH, Logische Überlegungen zur Verbrechensdefinition, in Fest. Welzel, Berlin-New York, 1974, 365, e qui (362) anche l’importante monito (espresso in riferimento alla tematica delle teorie dell’azione) a non dimenticarsi, nelle tendenze tutte « selettive » proprie di ciascuna disciplina giuridica, di mantenere aperto il dialogo — linguistico, concettuale, culturale — con il resto dell’ordinamento, ma anche con altre culture non giuridiche, a non « isolare » il diritto penale nella provincia dei suoi teleologismi e delle sue politiche solo « criminali ». Si intende — ma ciò appare chiaramente dal testo — che l’impiego binario di un metodo sia deduttivo che induttivo non postula un primato dell’induzione dal diritto positivo ordinario verso la costruzione di concetti dai quali, nuovamente, dedurre soluzioni e concetti nuovi: era questa la logica del « concettualismo », della « scienza produttiva », da Puchta al primo Jhering (v. PORZIO, Formalismo e antiformalismo, cit., parte II, 260 ss., 282 ss., 299 ss.; LARENZ, Methodenlehre der Rechtswissenschaft, 5. Aufl., Berlin-Heidelberg-New YorkTokyo, 1983, 19 ss., 25 s.): la deduzione è, in primo luogo, dai principi sovraordinati ancorati alla Costituzione — ma, in realtà, irriducibili a sole norme giuridiche, perché immediatamente espressivi anche di valori —, mentre l’induzione è da un sistema ordinario « conforme ai principi » sovraordinati. Procedimenti, perciò, che presentano fonti e origini diverse e integrantisi (v. anche HASSEMER, in Nomos Kommentar, cit., Vor § 1/288). Questo pensiero meriterebbe di essere sviluppato riallacciando i nodi che uniscono il diritto penale alle scienze giuridiche nel loro complesso e la politica criminale alla politica generale. Più ampiamente, a proposito di induzione dalle regole e dai casi e deduzione dai principi, si potrebbe ricordare l’immenso dibattito sulla « scientificità » e sul « metodo » (grande affresco in FIKENTSCHER, Methoden des Rechts, 5 voll., Tübingen, 1975-1977; LARENZ, Methodenlehre, cit., Kap. 1-5 e passim; POUND, Jurisprudence, vol. I, S. Paul Minnesota, 1959, 25 ss.; vol. II, 3 ss.; ORESTANO, Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna, 1987, passim; efficace sintesi in PAWLOWSKI, Introduzione alla metodologia giuridica, Milano, 1993, 67 ss.) di quella « science des livres » che è la giurisprudenza — a cui il diritto penale appartiene integralmente —, e segnatamente tutta la produzione relativa alla divisione fra dialettica e retorica (già consolidata in Aristotele con l’elaborazione della figura del sillogismo pratico), nonché l’opposizione fra Glossatori e Commentatori, fra bartolisti e giuristi « culti », fra mos italicus e mos gallicus, e in seguito fra pensiero problematico e topico e pensiero sistematico, almeno a cominciare dalla polemica anticartesiana di Vico (contrassegnata anche dal suo essere una riflessione sulla giurisprudenza), per giungere all’edificazione del metodo dogmatico (dopo Leibniz e Wolff) tra spirito geometrico e de finesse, attraverso
— 370 — guiamo un indirizzo fedele ai principi, ma anche attento al molteplice, ci accorgiamo che molte categorie « generali » (es. dolo, colpa, offesa, bene giuridico, pericolo astratto/concreto, causalità, elementi oggettivi, soggettivi, normativi, ecc.) sembrano bisognevoli di costruzioni differenziate, secondo una pluralità di modelli. Vedremo anzi che troppo spesso un approccio rigorosamente « dogmatico » al diritto penale ha imposto l’impiego di pochi criteri generali (es. « colpa »= prevedibilità ed evitabilità; « causalità »=condicio sine qua non, « interruzione della causalità »=condizioni eccezionali o rarissime; obbligo di impedire l’evento=posizione formale di garanzia individuata dalla legge; « dolo »=decisione di agire in presenza del dubbio sul verificarsi dell’evento; errore sul fatto=errore di percezione, errore sulla legge penale=errore di diritto, riserva di legge=divieto assoluto di ricorrere a fonti sublegislative, ecc., ecc.) tramite i quali si riteneva di poter risolvere ogni problema, laddove questa estrema semplificazione metodologica nascondeva la rinuncia — di volta in volta da parte del legislatore, dello studioso o del giudice — a scelte (politiche, « sostanziali » o « teleologiche » che dir si voglia) differenziate, sostituite da stili interpretativi logico-deduttivi che al legislatore stesso apparivano tranquillizzanti perché tendenzialmente avalutativi. La percezione dell’insostenibilità di quel procedere, a vantaggio di parametri ermeneutici assai più complessi e meno « governabili » — es. interpretazioni conformi alla Costituzione, impiego della topica, interpretazione teleologica, analogia iuris in bonam partem, ma anche interpretazione estensivo-analogica in malam partem, ecc. — ha rotto ogni argine, aprendo una stagione di forte crisi di identità e di crisi del potere definitola scuola dell’esegesi, la giurisprudenza dei concetti e degli interessi, sino alle dicotomie (con ascendenze in Bacone e in Vico) fra scienze della natura e dello spirito (le « due culture »), riprese e approfondite nel Novecento nelle pagine antiilluministiche di Heidegger (v. precomprensione e pre-giudizio), di Gadamer (v. applicazione e « Wirkungsgeschichte ») e dell’ermeneutica contemporanea: tanti (e sono solo alcuni dei) motivi concettuali che hanno attraversato la storia del pensiero giuridico e filosofico riproponendo ad ogni generazione l’inevitabile dialettica fra un approccio deduttivo e un metodo induttivo, fra epistéme e doxa, verità (e razionalità) e autorità (o forza), concettualismo e storicismo, dottrina e giurisprudenza, teoria e prassi, dogmatica e interpretazione o interpretazione e esegesi, validità e vigenza, giusnaturalismo e giuspositivismo, principi e regole, ecc. A mio avviso, il raffronto dialettico (non necessariamente l’« equilibrio »: ciò dipende dai momenti storici e dai modelli di società) fra tutte queste indispensabili polarità che contrassegnano la storia del diritto, e in larga misura anche di quello penale, va perseguito attraverso una corretta o almeno coerente concezione dell’ermeneutica giuridica — che è passaggio obbligato di ogni discorso sulla divisione dei poteri. È quindi il concreto ruolo istituzionale che si attribuisce al giudice (ma di riflesso anche al legislatore), a condizionare in misura decisiva la gestione di quelle polarità: una questione storica e politica, non decidibile « una volta per tutte »; una questione, comunque, che è stata pesantemente condizionata — in vari e pur sensibili settori della scienza penale — dalla scarsa cultura ermeneutica dell’Illuminismo.
— 371 — rio da parte della cultura accademica, e nel contempo di crescita sociale, culturale e politica del ruolo del giudice e del diritto giurisprudenziale. Il molteplice, del resto, occupa spazi. Quarant’anni orsono si poteva condensare la « parte generale » in un manuale di duecento-trecento pagine: oggi se ne richiede almeno il triplo. Per quanto sembri urgente una ridefinizione dell’assetto istituzionale della divisione dei poteri, resta insopprimibile la coscienza critica di chi sa ormai vedere l’esigenza di troppe e delicate scelte sostanziali o politiche — ma non per questo « di parte », o secondo la logica « amico/nemico » — al di sotto delle formule e delle categorie « generali », al posto di soluzioni tecniche e logiche una volta (ma adesso sempre meno) eterodirette da un sapere accademico i cui esponenti, fra l’altro, non hanno più, verso i giudici, l’auctoritas che poteva riservare a essi una magistratura culturalmente ancora timida nell’uso del proprio potere definitorio, e un ruolo meno « esposto » nell’attività forense che i law professors oggi — a livello di « categoria » — esercitano con tanta intensità. Esemplifichiamo l’emergere del « molteplice » alla luce delle species (prima che del genus) dell’offensività e della colpevolezza, e affrancandoci dal vincolo delle categorie unitarie della « parte generale » del codice del 1930. 5.1. Il principio di offensività (31) vede oggi il suo banco di prova nell’esistenza di reati di pericolo astratto e presunto. Sul piano strutturale questi reati hanno tipologie normative assai composite. Accomunarli in un giudizio unitario e generale di incompatibilità con una lettura cogente del principio costituzionale di offensività è certamente sbagliato e pare oggi accettabile solo a una minoranza (32). In (31) Cfr. la letteratura cit. a nota 3. (32) Sullo stato della questione, con i necessari richiami, MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., 205 ss.; ROMANO, Commentario, vol. I, 2a ed., cit., Pre-Art. 39/115 ss.; nella più recente produzione monografica, con vari « distinguo » PARODI GIUSINO, I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, Milano, 1990, 378 ss.; CATENACCI, La tutela penale dell’ambiente, Padova, 1996, 119-158; COCCO, L’atto amministrativo invalido elemento delle fattispecie penali, Cagliari, 1996, 357-429; nella letteratura tedesca, KINDHÄUSER, Gefährdung als Straftat, Heidelberg, 1989, 225 ss., 277 ss.; MÜSSIG, Schutz abstrakter Rechtsgüter und abstrakter Rechtsgüterschutz, Frankfurt a.M.-Berlin-Bern-New York-Paris-Wien, 1994, passim; LAGODNY, Strafrecht vor den Schranken der Grundrechte, Tübingen, 1996, 240 ss., 437 ss., 480 ss.; quadro di sintesi in SCHÜNEMANN, Kritische Anmerkungen zur geistigen Situation der deutschen Strafrechtswissenschaft, in Goldtdammer’s Archiv zum Str., 1995, 201 ss.; HASSEMER, in Nomos Kommentar, cit., Vorbem. Vor § 1/269 ss., 291 ss. Per alcune più recenti rivisitazioni che accentuano l’illegittimità dei reati di pericolo astratto v. FIORE, Il principio, cit., 280 ss.; FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 1990, 477-482; MOCCIA, Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, in questa Rivista, 1995, 368 ss.; HERZOG, Gesellschaftliche Unsicherheit und strafrechtliche Daseinsvorsorge. Studien zur Vorverlegung des
— 372 — questa minoranza, peraltro, si coltivano ideali profondi e importanti — e proprio a Franco Bricola noi tutti, nell’onorarne in questo convegno la memoria, riconosciamo una testimonianza ininterrotta, intellettualmente magistrale e lungimirante di queste idealità (33): ciò che rende così attraente il suo pensiero « forte », in dialettica costante con i molti dubbi che illuministicamente coltivava con ragione critica —, ideali in vista della cui realizzazione merita di essere rinnovata la « lotta per il diritto ». In altra sede si è cercato di indicare alcuni percorsi che suggerisce l’attuazione dei principi di sussidiarietà, offensività, proporzione ed esiguità: secondo un approccio di maggiore duttilità e consapevolezza del molteplice, alla luce di soluzioni intrecciate: sostanziali, probatorie e processuali (34). Non sto ora a ripetermi. Assumo tuttavia come premessa Strafrechtsschutzes in den Gefährdungsbereich, Heidelberg, 1991, 1 ss., 129 ss.; GRAUL, Abstrakte Gefährdungsdelikte und Präsumptionen im Strafrecht, Berlin, 1991, 321 ss.; HASSEMER, Produktverantwortung im modernen Strafrecht, cit., 1 ss.; PRITTWITZ, Strafrecht und Risiko, cit., 245 ss. (33) Prima della Teoria generale del reato, cit., nel segno di uno sviluppo coerente e ininterrotto di un modello di diritto penale a fondazione costituzionale, v. soltanto, fra i vari scritti, L’istituto della conversione della pena pecuniaria in pena detentiva alla luce dei principi costituzionali, in questa Rivista, 1961, 1073 ss.; Principio di legalità e potestà normativa penale delle Regioni, in Scuola pos., 1963, 630 ss.; ID., Pene pecuniarie, pene fisse e finalità rieducativa, in AA.VV., Sul problema della rieducazione del condannato, Atti del Convegno di Bressanone, 1963, Padova, 1964, 193 ss.; ID., Le aggravanti indefinite (legalità e discrezionalità) in tema di circostanze del reato, in questa Rivista, 1964, 1019 ss.; ID., La discrezionalità nel diritto penale, cit., parte seconda, 229-422; ID., In tema di legittimità costituzionale dell’art. 323 c.p., in questa Rivista, 1966, 984 ss.; ID., Punibilità (condizioni obiettive di), voce in Noviss. Dig. It., 1968, XIV, 588 ss.; ID., Tutela penale della Pubblica Amministrazione e principi costituzionali, in Studi in onore di F. Santoro Passarelli, Napoli, 1968, 123 ss.; ID., Prospettive e limiti della tutela penale della riservatezza, in AA.VV., Il diritto alla riservatezza e la sua tutela penale, Milano, 1970, 67 ss.; ID., Il costo del principio « societas delinquere non potest » nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in questa Rivista, 1970, 951 ss.; e dopo la « Teoria generale », cfr. tra le altre opere, ID., Forme di tutela « ante-delictum » e profili costituzionali della prevenzione, Atti del Convegno « Enrico de Nicola » tenutosi ad Alghero, 26-28 aprile 1974, Milano, 1975, 29 ss.; ID., Il sistema sanzionatorio penale nel codice Rocco e nel Progetto di riforma, in AA.VV., Giustizia penale e riforma carceraria in Italia (Atti del Seminario organizzato dal Centro Studi e iniziative per la Riforma dello Stato, Roma, 9-10 marzo 1973, Roma, 1974, 41 ss.; ID., Le misure alternative alla pena nel quadro di una « nuova » politica criminale, in questa Rivista, 1977, 13 ss.; ID., Art. 25, 2o e 3o comma, cit.; ID., Considerazioni introduttive al dibattito su « Il codice Rocco cinquant’anni dopo », in Quest. crim., 1981, 7 ss.; ID., Funzione promozionale, tecnica premiale e diritto penale, in Quest. crim., 1981, 445 ss.; ID., La depenalizzazione nella l. 24 novembre 1981, n. 689: una svolta « reale » nella politica criminale?, in Pol. dir., 1982, 359 ss.; ID., Tecniche di tutela penale e tecniche alternative di tutela, cit.; ID., Rapporti tra dommatica e politica criminale, in questa Rivista, 1988, 3 ss.; ID., Lo statuto penale dell’impresa: profili costituzionali, in Trattato di diritto penale dell’impresa, a cura di DI AMATO, Padova, 1990, vol. I, 117 ss.; ID., Il diritto penale del mercato finanziario, in Contratto e impresa, 1992, 682 ss. (34) DONINI, Teoria del reato, cit., 189-195, 238-250 (in relazione a 131-158).
— 373 — (largamente condivisa) la legittimità di alcune tipologie di reati di pericolo astratto. Orbene, esistono — fra i molti suscettibili di « legittimazione » politico-costituzionale — reati di pericolo sedicente « astratto » che sono reati di mera condotta; altri sono di evento (evento di pericolo « astratto »); altri contengono l’evento in forma di condizione di punibilità; alcuni tipicizzano condotte pericolose secondo livelli di rischio da accertare in concreto, ma alla luce di parametri predeterminati (es. da decreti ministeriali). In altri casi basta solo l’impiego di certe tipologie di additivi (astrattamente pericolosi) o di certi strumenti o macchinari a contatto con persone, sostanze alimentari, ecc. (35). Talora è la Pubblica Amministrazione che, in un settore pericoloso sotto il suo « governo » (del territorio, delle acque, delle assicurazioni private, della borsa e delle società, del mercato finanziario, ecc.), è deputata a definire, secondo criteri generali e astratti ma anche con provvedimenti individualizzati, il livello e il limite di rilevanza penale di un rischio (36). In altre ipotesi si attende il verificarsi di un evento di pericolo concreto; ma questo pericolo è a sua volta più o meno « concreto » — oppure, da altro punto di vista, più o meno « astratto » — in rapporto al « segmento » del rapporto causale tipicizzato (in forma espressa, oppure in via interpretativa): nel decorso che da (a) conduce a (b), esistono ad es. 9 sotto-eventi (a1, a2, a3...a9), ognuno dei quali può rappresentare la « soglia » rilevante del pericolo concreto. Lo (35) Un esempio paradigmatico di questa varietà (la quale è nota da tempo: ad es. FIANDACA, La tipizzazione del pericolo, in AA.VV., Beni e tecniche della tutela penale, a cura del CRS, Milano, 1987, 59 ss.; PARODI GIUSINO, I reati di pericolo, cit., 261 ss.) è offerto dal diritto penale alimentare, dove le sperimentazioni legislative offrono spunti di grande interesse per apprezzare la complessità del fenomeno del pericolo astratto e concreto: cfr. ad es. il climax delle varie « tipologie » di pericolo presenti nella l. 30 aprile 1962, n. 283 (art. 5), nel d.leg. 27 gennaio 1992, n. 118 (artt. 2 e 3) e quindi negli artt. 440 ss. c.p. Ancor più mosso e fantasioso il quadro delle oggettività giuridiche suggerito da tempo — oltre la schematicità delle categorie « causali » del pericolo, anche se astratto: le quali, a mio avviso, anche se non esaustive, restano comunque fondamentali per un controllo di ragionevolezza delle incriminazioni — da PEDRAZZI, Problemi di tecnica legislativa, in AA.VV., Comportamenti economici e legislazione penale, Atti del Convegno « Arel » del 17 marzo 1978, Milano, 1979, spec. 29 ss.; ID., Interessi economici e tutela penale, in STILE (a cura di), Bene giuridico e riforma della parte speciale, Napoli, 1985, spec. 295 ss. (36) Sui nessi fra tale fenomeno di « amministrativizzazione » dell’intervento penale e la « selettività » penalistica rappresentata dalla riserva di legge e dalle resistenze ad un diritto penale meramente « sanzionatorio », v. da ultimo, da distinte prospettive, CATENACCI, La tutela penale dell’ambiente, cit., passim; COCCO, L’atto amministrativo invalido, cit., 269 ss., 295 ss., 357 ss.; DONINI, Teoria, cit., 221-238; PADOVANI, Diritto penale della prevenzione e mercato finanziario, in questa Rivista, 1995, 634 ss.; FRISCH, Verwaltungsakzessorietät und Tatbestandsverständnis im Umweltstrafrecht, Heidelberg, 1993, 7 ss., 121 ss.; e ancor prima le importanti ricerche di KÜHL, Probleme der Verwaltungsakzessorietät des Strafrechts, insbesondere im Umweltstrafrecht, in Fest. Lenckner, Berlin-New York, 1987, 815 ss. e di WINCKELBAUER, Zur Verwaltungsakzessorietät des Umweltstrafrechts, Berlin, 1985.
— 374 — stesso verificarsi di (b) può essere considerato, a sua volta, anziché come evento di danno (rispetto a un bene più « arretrato »), come offesa di pericolo rispetto a un bene più significativo ulteriore. E via discorrendo. La previsione di un « arretramento » della soglia di punibilità verso l’incriminazione di atti preparatori, di istigazione, attentato, accordo, associazione; la costruzione dell’offesa di un bene-ostacolo, di un valore astratto che parafrasa, in realtà, la previsione legale (es. reati associativi e « ordine pubblico », reati di falso e « fede pubblica ») in vista della tutela di altri e più rilevanti interessi i quali restano, tuttavia, meri interessiscopo; oppure la previsione di forme di dolo c.d. specifico, di dolo di pericolo indiretto (es. l’applicazione del dolo eventuale a reati di pericolo astratto, come il favoreggiamento personale), di dolo di frode, di consapevolezza dell’offesa di pericolo quale pendant di una pericolosità ex ante non « presunta », ecc.: sono molte, fra le altre, possibili manifestazioni di un logica di previsione di pericolo spesso « meno concreto » di quello dove il pericolo è espressamente previsto come l’evento ulteriore di una condotta essa stessa pericolosa, ma sovente assai più concreto (o meno astratto) del pericolo insito nella violazione « formale » (dolosa e colposa insieme) di una regola preventiva rigida e predeterminata per legge o con decreto ministeriale. Anche la categoria del dolo, in varie fattispecie c.d. di pericolo astratto, può assumere un significato « fattuale », anziché rappresentare un mero atteggiamento « interno » (37): quando, ad es., si ammette la punibilità del dolo eventuale in forme di reati di pericolo, è un po’ come ammettere il tentativo (e anche qualche cosa di meno) in queste ipotesi, perché il dolo eventuale, qui, significa che la condotta tipica (es. l’aiuto a eludere le investigazioni dell’Autorità nel favoreggiamento personale, art. 378 c.p.) sarà non quella descritta nel tipo (es. « aiuta a eludere »), ma un atto o più atti che recano in sé il rischio di realizzare la.... condotta tipica (es. rendere una dichiarazione o pubblicare una notizia che di per sé non « aiuta » a eludere, ma che potrebbe aiutare a quello scopo) (38). (37) Sui limiti che la componente fattuale di dolo e colpa conoscono nelle fattispecie di mera condotta, specialmente se costruite « artificialmente » su elementi normativi che qualificano comportamenti apparentemente neutri sul piano sociale, DONINI, Il delitto contravvenzionale, cit., passim; ID., Teoria, cit., 70-74, 127-129, 191-195. (38) La problematica — che peraltro riguarda un po’ in generale il tema del tentativo nei reati di pericolo — è stata sollevata da un caso giurisprudenziale di « favoreggiamento a mezzo stampa » di notevole interesse (fra l’altro) anche sotto questo profilo: Trib. Milano, 6 ottobre 1988, in Foro it., 1989, II, 241 ss. La difficile accettabilità delle conclusioni del Tribunale (l’« estensione » del favoreggiamento consumato, che è reato di pericolo, verso modalità lesive così arretrate come quelle che si raggiungono ampliando soggettivamente il dolo a forme eventuali) la si può giustificare razionalmente proprio a motivo dell’inerenza del dolo al fatto: cambiando il dolo — la volontà di chi « aiuta taluno ad eludere le investigazioni dell’Autorità » —, non diviene « indiretto » soltanto l’atteggiamento psicologico, ma anche il
— 375 — Nello stesso tempo, quando al dolo generico che riflette, ed è all’origine di, un comportamento obiettivamente descritto, si aggiunge un dolo specifico oppure di frode, questo elemento, di regola, non ha affatto un mero valore psicologico (39), salvo che, per ragioni di politica criminale giudiziaria, non si voglia sottovalutare il significato fattuale del dolo specifico o del dolo di frode, « allargando » la punibilità: ciò che la giurisprudenza, comunque, è in grado di realizzare anche quando le fattispecie sono costruite dal legislatore su elementi apparentemente tutti « obiettivi », perché in quel caso l’operazione viene condotta o mediante una ricostruzione differenziata dell’elemento soggettivo (ad es. « processualizzando » aspetti di diritto sostanziale, rendendo « indiziaria » e probabilistica la prova di un elemento che, in tal modo, diventa esso stesso qualcos’altro: v. il rapporto dolo diretto/dolo eventuale, oppure la trasformazione « probatoria » della causalità omissiva nella responsabilità medica in contributo pericoloso) ovvero mediante una interpretazione « estensiva » del c.d. elemento oggettivo. È comunque palese che ci si presenta una estrema « varietà » di figure riconducibili alla categoria del pericolo (più o meno) « astratto », al punto che la valenza « causale » della categoria mantiene talvolta solo un impercettibile retrogusto. Sino agli anni Sessanta, invero, il pericolo astratto era categoria che « fatto », che non comprenderà più soltanto la condotta di chi « aiuta », ma anche quella di chi pone le premesse di un aiuto, di chi rischia di aiutare. In definitiva, si punisce il pericolo del pericolo come consumazione, anziché come tentativo, essendo il fatto indiretto del tutto « equivoco » come tentativo. Il problema è, per l’appunto, che già la consumazione integra un reato di pericolo, mentre il « tentativo » supporrebbe atti univocamente diretti: la scelta del dolo eventuale, quindi, « aggira » in via ermeneutica tutto l’apparato di « garanzie » che la figura generale del delitto tentato vorrebbe idealmente precostituire contro gli arretramenti della soglia di punibilità. (39) PICOTTI, Il dolo specifico. Un’indagine sugli « elementi finalistici » delle fattispecie penali, Milano, 1993, 497 ss., 501 ss., 558 ss.; GELARDI, Il dolo specifico, cit., 167 ss., 259 ss., 337 ss., con significative e interessanti differenziazioni (cap. III e IV), che valorizzano la circostanza che il dolo specifico resta strutturalmente « dolo », senza che la sua funzione « tipizzante » costituisca in questo una eccezione (avendola di regola il dolo in genere: contra, sul punto, PICOTTI, op. cit., spec. 546 ss., 578 ss., che assume la funzione tipizzante del solo dolo specifico, contestando invece quella del dolo generico), e pervenendo peraltro ad un’accentuazione, per tal via, anche del requisito dell’idoneità della condotta al raggiungimento del fine (ivi, 259 ss., 273, 274 ss., 287 ss., 296 ss., 305 s. nota; contra, sul punto, PICOTTI, op. cit., 511 ss.): idoneità che peraltro non può che risultare assai variabile, a seconda delle fattispecie (non solo se a finalità « immanente » o « trascendente », ma anche all’interno di quelle a finalità trascendente), rispetto alla « soglia » di quella ex art. 56 c.p. (co-determinata anche dalla direzione non equivoca): v. al riguardo, sia pur limitatamente alla problematica di tentativo, attentato e pericolo astratto, ma contro le « nuove » generalizzazioni arbitrarie di una pericolosità necessariamente uguale in nome dell’offensività (che è prospettiva probabilmente sbagliata anche de iure condendo), DONINI, Teoria, cit., 172-195.
— 376 — la dottrina maggioritaria rifiutava (40), essendo ogni pericolo, per definizione, più o meno « astratto ». Si preferiva parlare di evento di pericolo, di pericolo presunto, talora di pericolo indiretto, e di evento di danno. Il pericolo presunto altro non rappresentava che il pericolo concreto visto « dal punto di vista del legislatore », cioè da una prospettiva insindacabile. Da quando hanno fatto ingresso i principi di ragionevolezza e di offensività quale categoria « critica » e di rilevanza anche costituzionale, il termine « presunto », riferito al pericolo, ha conosciuto in dottrina — anche sotto l’influsso linguistico della letteratura tedesca — un regresso, essendo esso utilizzato spesso per indicare le forme di pericolo non concreto (da ritenersi) illegittime e incostituzionali (41), mentre il pericolo astratto, in quanto tale, ha ricevuto l’adesione politica della maggioranza. Un approccio a questa materia a prescindere dai principi sarebbe esiziale, facendo ripiombare tutti noi nel clima del tecnicismo « puro », che non sapeva apprezzare il valore pratico della distinzione fra pericolo concreto e presunto; ma anche un approccio attraverso i soli principi rischierebbe di essere troppo ideologico e totalizzante. Ciò vale anche quando l’ideologia si manifesti negli atteggiamenti pratici di chi cerchi di « far (40) Ad es. ROCCO, L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale. Contributo alle teorie generali del reato e della pena, Milano-Torino-Roma, 1913, 306 s.; MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. I, Torino, 1981, n. 229; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, PG, 13a ed., a cura di L. CONTI, Milano, 1994, 239 (e nelle preced. ediz.); NUVOLONE, Il sistema del diritto penale, 2a ed., Padova, 1982, 308 s.; BETTIOL, Diritto penale, 10a ed., Padova, 1978, 308 s. La stessa espressione « pericolo astratto » veniva anzi spesso criticata (es. da Rocco, Manzini, Antolisei, Bettiol), ritenendosi il pericolo sempre « concreto » o « effettivo », pur se sottratto, nei casi in cui esso era presunto dalla legge, ad un accertamento specifico da parte del giudice. Al di là di ogni pruderie linguistica, anche chi preferisce oggi la categoria del pericolo presunto, pur senza contestarla sul piano politico, tende a circoscriverla, escludendo da essa le ipotesi in cui il pericolo o la pericolosità sono « reinterpretabili » dal giudice secondo una maggior concretizzazione (le quali vengono così attratte in forme di pericolo concreto): v. sul punto i rilievi di ROMANO, Commentario, vol. I, 2a ed., cit., Pre-Art. 39/108 ss., 113. (41) Sull’impiego del principio di offensività per delegittimare la nozione stessa del pericolo « presunto » v. es. M. GALLO, I reati di pericolo, cit., 5 ss.; BRICOLA, Teoria generale, cit., 86; VASSALLI, Considerazioni sul principio di offensività, cit., 650 ss.; MANTOVANI, Diritto penale, PG, 3a ed., cit., 233; FIORE, Il principio di offensività, cit., 281 s.; PARODI GIUSINO, I reati di pericolo, cit., 245 ss., 277 ss. La Corte costituzionale, come è noto (v. anche ante, nota 3), pur lasciando ampi varchi all’uso ermeneutico del principio di offensività (cioè l’uso che è autorizzato a farne il giudice in vista di un’interpretazione restrittiva delle incriminazioni), ne circoscrive l’utilizzabilità in chiave costituzionale, cogente per il legislatore, alle sole ipotesi di presunzioni irrazionali di pericolo (o di offesa in genere), riconducendo perciò tecnicamente la portata costituzionale dell’offensività al principio di ragionevolezza. V., peraltro, sulle letture via via più larghe del criterio di ragionevolezza da parte della Corte costituzionale, anche e proprio in ambito penale, l’istruttiva e aggiornata ricostruzione di INSOLERA, Principio di eguaglianza e controllo di ragionevolezza sulle norme penali, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, cit., 264 ss.
— 377 — passare » per ipotesi identiche di pericolo concreto (cioè come se per la legge fossero egualmente e concretamente pericolose) fattispecie molto diverse (es. dall’attentato al dolo specifico), disconoscendo la loro varietà tipologica, la quale, da una siffatta scelta interpretativa, viene viceversa « livellata » verso l’alto, secondo istanze « realistiche » che educano il giudice a disinteressarsi del tutto della volontà del legislatore, della sua ricchezza e pulizia linguistica (che nel 1930 c’era ancora), e ad argomentare « direttamente » dai principi (42). Si suggerisce, così, dei principi, una specifica lettura cogente, quando essa, invero, è soltanto una delle possibili. Una infedeltà sostanziale dell’interprete — che « risponde » solo alla « sua » Costituzione — la quale abitua a una politicizzazione del giudice spesso oltre i limiti della divisione dei poteri, capace di produrre effetti preterintenzionali in altri settori, a cominciare dal processo e dalle indagini preliminari. È convincimento di chi scrive che tutte queste proposte ermeneutiche in punto di offensività — opzioni che ognuno di noi, di volta in volta, rischia di far proprie, a seconda della sensibilità politica che ritiene imprescindibile valorizzare in questo o in quel settore — debbano misurarsi, in (42) Un’operazione ermeneutica che potrebbe essere favorita dalla « rassegnazione » alla perdurante vitalità del codice Rocco, dal timore di ripetere sul piano sostanziale gli esiti della riforma processuale del 1988, dall’abitudine ad una gestione sempre provvisoria del vecchio che non muore (si moltiplicano, negli ultimi tempi, le iniziative editoriali per « nuovi » commentari e trattati « sul » codice Rocco) o dalle spinte a studiare sine die i modelli stranieri: ma forse siamo già tra quelli che, oggi, fanno più comparazione, anche se in assenza di un’adeguata cura della nostra identità storico-politica, che vive una crisi molto profonda, e in assenza di un’opportuna sensibilità per le radici preilluministiche di vari contenuti « scientifici » della nostra disciplina: ciò che ci ha indebolito di fronte al comodo fascino dell’imitazione e dei « trapianti » culturali. La scommessa sulla vitalità o sull’irreformabilità del codice Rocco, inoltre, è direttamente proporzionale alla propensione ad accogliere stili ermeneutici sempre più « larghi » e dimentichi della stretta interpretazione. Infatti, quanto più il giudice è autorizzato a « creare diritto » — magari applicando senza l’intermediazione di leggi nuove i principi sovraordinati —, tanto più longevi saranno i vecchi testi (non è davvero il caso di ricordare la vitalità « formale » del diritto giustinianeo, fra Glossatori, Commentatori, umanisti « culti » e Pandettisti, sino alla fine del 1800). Ma è vera, appunto, anche la reciproca: quanto più vive un testo di legge (come pure una fonte religiosa, filosofica, letteraria, bisognosa di una sua ermeneutica), tanto più risulta inevitabile, al di là della fedeltà delle intenzioni dell’interprete, riempire di contenuti nuovi le vecchie norme (le « regole », non solo i « principi »). Ne discende, tuttavia, un esito culturale che almeno il penalista non può che valutare come pericoloso, cioè l’abitudine a leggere sempre e comunque, anche le leggi « nuove », trascurando la volontà del legislatore storico, la lettera della legge, ecc.; e quindi l’educazione ad uno stile ermeneutico incapace, ormai, di distinguere, in bonam come in malam partem, l’analogia dall’interpretazione estensiva: perché si è ormai convinti che le « lacune » non esistano, che si possa sempre « applicare » la legge in modo da colmarle senza però riconoscerle ufficialmente. Un esito paradossale, perché uguale a quello di certo giuspositivismo di fine Ottocento (che negava l’esistenza di lacune in quanto sempre « ideologiche »), ma raggiunto in virtù di una metodologia ermeneutica opposta a quella propria della « fedeltà » al sistema ordinario che professava il giuspositivismo.
— 378 — primo luogo, con l’esistenza di due fondamentali categorie di reati: i delitti e le contravvenzioni. La teoria del reato è stata pensata trascurando troppo spesso, negli ultimi venti, trent’anni, l’esistenza degli illeciti contravvenzionali. Ma la valutazione delle tipologie offensive minori non può assolutamente essere apprezzata, sul piano della legittimità politico-costituzionale, prescindendo da quel dato. O si concepisce il reato come offesa alle persone « in carne e ossa » (43), sì che solo la pena detentiva esclusiva appare seria e indispensabile — vera extrema ratio! —, con conseguente esclusione di ipotesi contravvenzionali e l’attrazione dei delitti nell’area dei « crimini » (44); oppure si fanno i conti con una legislazione, a livello internazionale, che non riesce a pensare come adeguatamente tutelabili in via extrapenale molti interessi « in campo anticipato », che persegue penalmente anche fatti contrastanti con obiettivi e compiti di prevenzione del delitto, ecc.: e allora resta ineludibile l’esigenza di pensare il reato contravvenzionale come tipologia criminosa del tutto « legittima » per la politica criminale e per la teoria del reato. Per quest’ultima, anzi, la contravvenzione — coordinata, « verso il basso », con un programma di depenalizzazione mirato e, « verso l’alto », con una ridefinizione dello statuto delittuoso o meno di vari illeciti già esistenti — assurge a motivo di vero rinnovamento dogmatico e si profila il dubbio se non abbia comportato molti condizionamenti negativi l’avere seguito per troppo tempo le orme della letteratura tedesca, che si è illusa di eliminare « nominalmente » le contravvenzioni (Übertretungen), peraltro mantenendo una bipartizione, fra crimini (Verbrechen) e delitti (Ver(43) Uno spunto espresso in tal senso in FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., 481. Ricordiamo anche — nonostante non si siano avventurate nella formulazione di programmi davvero concreti e precisi, e benché si profilino con una maggiore duttilità politico-criminale — le concezioni « personali » del bene giuridico, specialmente nella versione di HASSEMER, Grundlinien einer personalen Rechtsgutslehre, in Jenseits des Funktionalismus. Fest. Arth., Kaufmann zum 65. Geburtstag, Heidelberg, 1989, 90 ss.; ID., Produktverantwortung im modernen Strafrecht, Heidelberg, 1994, 1 ss.; ID., in Nomos Kommentar, cit., Vorbem. Vor § 1/285 ss.; MUÑOZ CONDE-HASSEMER, Introducción a la Criminología y al Derecho Penal, Valencia, 1989, 108 ss. (44) A sostegno della tesi dell’esclusione delle ipotesi contravvenzionali e della pena pecuniaria, in un’ottica di extrema ratio, peraltro affiancata ad una lettura della seprazione fra morale e diritto che conduce l’A. anche al rifiuto della finalità rieducativa-risocializzatrice della pena, FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., 419 ss.: su questa tesi, che disconosce o disprezza il movimento internazionale concernente l’impiego della pena pecuniaria (ivi, 415417), v. le considerazioni critiche di PADOVANI, Un percorso penalistico, in GIANFORMAGGIO (a cura di), Le ragioni del garantismo. Discutendo con Luigi Ferrajoli, Torino, 1993, 314 ss., 318 s.; FIANDACA, Concezioni e modelli di diritto penale tra legislazione, prassi giudiziaria e dottrina, in Questione giustizia, 1991, 39-4; ID., Quando proibire e perché punire? Ragioni di « concordia discors » con Luigi Ferrajoli, in GIANFORMAGGIO (a cura di), op. cit., 266 ss., nonché PALIERO, Il principio di effettività nel diritto penale: profili politico-criminali, in Studi Nuvolone, vol. I, 1991, 421 in nota.
— 379 — gehen), e sotto questa operazione di facciata ha conservato incriminazioni la cui struttura corrisponde a quella delle nostre contravvenzioni (45). Poiché ciò è accaduto senza peraltro coltivare la sensibilità teorica verso una bipartizione sostanziale, in Germania — dove gli splendori della dogmatica riflettono spesso una classe di giuristi fortemente « innamorata » del proprio sistema punitivo, della « bestrafende Gesellschaft » — si parla del reato « in genere » indifferentemente, come se l’oggetto teorico ideale prescelto fosse adeguato sia ai « crimini » che agli illeciti « sostanzialmente contravvenzionali ». Ma qualcosa di analogo — riguardo a tale aspetto — è avvenuto in Italia, dove il solo delitto ha costituito, almeno per la dottrina, il punto di riferimento delle riflessioni « generali », di valenza più « culturale », di maggior impegno politico-criminale, ecc. I programmi de lege ferenda — l’abolizione delle contravvenzioni o la loro riduzione a quantità trascurabile (46) — hanno condizionato la teoria del reato: ma nessuno, nondimeno, si è mai sognato di proporre una riforma con una tipologia veramente unica di reati. E allora, tornando al pericolo astratto/presunto, qual è la sua forma davvero incompatibile con una tecnica penale di tutela? La risposta al quesito non dipende anche dalla stessa sanzione che la legge intenda comminare? dal fatto che si tratti di contravvenzione oblazionabile, oppure no? dal fatto che la pena detentiva si risolva pressoché sempre — quando mai irrogata — in semilibertà o in libertà controllata? dal fatto che la struttura dell’incriminazione rende obiettivamente secondaria — anche se non superflua — l’indagine sull’atteggiamento soggettivo reale dell’autore, nelle sue peculiari distinzioni fra dolo e colpa? Que(45) Cfr. su tale situazione quanto osservato in DONINI, Teoria, cit., 64 ss. (46) Ad es., con diversi approcci o sfumature, BRICOLA, Teoria generale, cit., 83 s., 87; MAZZACUVA, Il disvalore d’evento, cit., 318; ROMANO, Commentario, vol. I, 2a ed., cit., 39/18; FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., 741 ss. È viceversa significativo che il più recente (ancora in fieri) « manuale » di diritto penale (MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., 15 ss., cap. II) — scritto, si sarebbe detto una volta, « da sinistra » — contenga la più puntigliosa trattazione che si conosca, in un’ottica meramente de lege lata, della distinzione fra delitti e contravvenzioni: quasi a riconoscerne la sicura legittimazione anche de lege ferenda. Sulle ragioni di quella legittimazione — seguendo un percorso ben tracciato dalla Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri 5 febbraio 1986, in Cass. pen., 1986, 624 ss., e da PADOVANI, Il binomio irriducibile. La distinzione dei reati in delitti e contravvenzioni, fra storia e politica criminale, in MARINUCCI-DOLCINI (a cura di), Diritto penale in trasformazione, cit., 421 ss. —, mi ero ampiamente soffermato in Il delitto contravvenzionale, cit. V. anche in merito FIANDACA, Concezioni e modelli, cit., 40 s. Per il mantenimento della bipartizione tradizionale fra delitti e contravvenzioni, v. anche lo « Schema di legge delega » del 1992, in Documenti Giustizia, n. 3/1992, 339, art. 12.3, e la relazione a p. 311 s.; il c.d. « Progetto Riz », in questa Rivista, 1995, art. 34 e la relazione a p. 933, e anche il « Progetto di depenalizzazione (Per un diritto penale « minimo ») » di Magistratura democratica del giugno 1991, stampato a Bra, 1991, 3 ss.
— 380 — sta situazione, perciò, non può non « responsabilizzare » la scienza giuridica quando discetta del reato « in genere », sì che la legittimità del pericolo astratto discende dalla resistenza a tutelare penalmente la disobbedienza oppure la mera « qualità della vita », ma è condizionata anche da profonde ragioni strutturali delle tecniche punitive, oltre che dalla circostanza che si ammetta, in certi casi, la prova contraria della non pericolosità in concreto ed ex ante della condotta o dalla possibilità di raggiungere un analogo risultato « reinterpretando » un qualche elemento della fattispecie legale secondo criteri di maggiore concretezza, dall’introduzione di spazi sostanziali o processuali per escludere la punibilità dei fatti esigui, ecc. 5.2. Uno scenario non meno complesso offre il tema dell’elemento soggettivo e della colpevolezza. Che cos’è il dolo « in genere », qual è la nozione « unitaria » e generale della colpa? Domande assurde, se pretendono una definizione veramente « informativa » sulla struttura e sul contenuto di quegli atteggiamenti comportamentali e interni (modi di agire e tipologie soggettive insieme) in tutte le loro diversissime « forme ». Domande ancora più assurde se da quelle definizioni « generali » si pensasse perfino di poter dedurre conclusioni corrispondenti relative alla « colpevolezza » degli autori dolosi e colposi. Generalizzazioni veramente insopportabili, che fanno della teoria del reato una sorta di « teologia civile » del pensiero legittimista, le cui continue ipocrisie dogmatiche hanno l’esito che, non appena lasciate le aule universitarie o le sedi dei concorsi pubblici, ci si debba immediatamente dimenticare dei (di molte parti spesso « qualificanti » i) manuali di diritto penale, non già perché troppo istituzionali e sintetici nella materia trattata a confronto con la complessità del diritto applicato — ciò è davvero inevitabile: non basteranno i principi e i dogmi, ma certo neppure le raccolte di massime a prevedere e dominare il futuro del giurista —, ma perché obiettivamente « parziali », « pedagogici », orientati soprattutto a indottrinare sia sui principi che su molte categorie di fondo, afrodisiaci del semplicismo punitivo per futuri benpensanti o per studenti « ad apprendimento rapido ». Esempi (si omettono le citazioni): il dolo è — sottinteso: « sempre » — consapevolezza dell’offesa del bene protetto; il dolo è (sempre) volontà e colpevolezza (o realizzazione) del volere; è (sempre) tipicità modale dell’azione; il dolo è (sempre) atteggiamento interiore; il dolo è (sempre) decisione contro il bene giuridico; il dolo è (sempre) consapevolezza del carattere antigiuridico del fatto, ecc. Oppure la colpa è — sottinteso: « sempre » — prevedibilità ed evitabilità di un « evento »; la colpa è (sempre) violazione di una regola di cautela « precostituita » al fatto; è (sempre) superamento del rischio consentito; è (sempre) un « elemento psicologico »;
— 381 — è (sempre) « colpevolezza »; è (sempre) misura oggettiva e misura soggettivo-individuale, ecc. La realtà, invece, è che il dolo e la colpa sono, di volta in volta, tutte queste cose, perché essi presentano, di volta in volta, una o un’altra delle predette caratteristiche (47). Nella prassi — inutile celarlo dietro anatemi e pedagogie infamanti la posizione di chi pensa diversamente —, c’è anche il dolo-suitas e il dolo in re ipsa (es. nei reati contravvenzionali e omissivi a condotta neutra), il dolo oggettivistico e presunto nella pericolosità della condotta (es. il dolo diretto, per come inteso dalle Sezioni Unite della Cassazione), il dolo-Gesinnung e il dolo d’autore (in certe forme di dolo eventuale, di reato abituale, di reati d’impeto, di preterintenzione ecc.): spesso ai limiti e oltre i limiti della legittimità, è vero; ma non sempre, come qualcuno vorrebbe. La colpa, poi, conosce anch’essa tali e tanti registri e modulazioni, che definirla « obiettivisticamente » come contrasto della condotta con una regola preventiva, di precauzione o di cautela, accontenta solo chi è ancora mosso dai ricordi (dei limiti) delle vecchie concezioni psicologiche, e preferisce continuare a combatterle come fantasmi del passato. Ma il tempo presente conosce forme nuove di colpa, oltre alle forme tradizionali che da sempre mal si conciliano con le concezioni normative « integrali » della colpa: dalla colpa in contesto illecito (circostanze aggravanti, delitti aggravati dall’evento, preterintenzione, ecc.) alla colpa relativa alla conoscenza erronea di elementi normativi (del fatto o del precetto), cioè la culpa iuris ex art. 5 o 47, ultimo comma, c.p. (a seconda dei casi); dalla colpa impropria (specialmente gli artt. 59, ultimo comma, c.p. e 55 c.p.) alla colpa con previsione dell’evento (art. 61, n. 3, c.p.); così come si conoscono una colpa tutta « oggettiva » (quella per inosservanza di regole cautelari rigide precostituite da leggi, regolamenti, ordini o discipline) e una colpa più « soggettiva » o personalizzabile (in ipotesi di colpa generica, o nella individualizzazione di singole scusanti). Ipotesi, le predette, in cui ora prevalgono i profili psicologici, ora scompaiono criteri di imputazione come la prevedibilità o l’evitabilità quali li conosciamo in altre forme di colpa, ora si intravede una colpa che ha anche un suo contenuto positivo di colpevolezza; ora, invece, appare solo un’imputazione colposa del tutto spersonalizzata e « obiettiva ». La sensibilità verso profili pluralistici dell’offesa — la c.d. pluridimensionalità degli illeciti — impone infine cautela rispetto alle definizioni generali (anche codicistiche), agli approcci unitari nella ricostruzione non tanto dell’oggetto (che per definizione muta al variare delle incrimina(47) Ampia analisi di questa realtà in DONINI, Teoria del reato, cit., in particolare sul dolo: 70 s., 184 ss., 195, 286 ss., 302 ss., 384 s.; sulla colpa: 70 s., 348 ss. e amplius 334378.
— 382 — zioni), quanto anche del contenuto, della fisionomia, dello stesso concetto del dolo e della colpa (48), ma anche dell’ulteriore e più specifica categoria della colpevolezza. Questa sensibilità al pluralismo dei fenomeni dovrà infine ricomporre le inefficienze di un diritto penale del fatto che sia dimentico del pluralismo degli autori: giacché alla fine non sono i fatti a entrare (o meno) negli istituti penitenziari, e la colpevolezza per il fatto, se non sa condurre anche all’autore, è solo espressione di una tecnica impersonale e amorale di controllo sistemico (la si chiami « Verantwortlichkeit », « responsabilità », « imputazione », o come meglio aggrada). 6. L’interazione fra un diritto penale dei « principi » e un diritto penale delle « regole » non consente, peraltro, di assestarsi su posizioni di contemplazione e di razionalizzazione dell’esistente: perché, grazie ai principi ancorati alla Costituzione, all’esistente giuridico appartiene al medesimo tempo il dover essere di un programma « aperto », ma anch’esso vincolante, in misura diversa, il legislatore e l’interprete. (48) Il nostro discorso riguarda, innanzitutto, le definizioni « generali » della stessa scienza penale, prima ancora che quelle del legislatore (su queste ultime v. ora l’ampio volume Il problema delle definizioni legali nel diritto penale, a cura di CADOPPI, Atti del Convegno « Omnis definitio in iure periculosa? », Trento, 3-4 dicembre 1993, Padova, 1996): ed è la conseguenza di quanto già osservato sulla pluralità del contenuto sostanziale di offensività delle tipologie di fatti di reato e relativi oggetti giuridici, come anche sulla pluralità del contenuto e dei concetti, oltre che delle « forme », di dolo e colpa. Questa pluralità preclude anche la legittimità di definizioni legislative unitarie di tipo meramente « classificatorio ». Diverso, si intende, è il discorso in caso di definizioni legislative « di disciplina » (se ed in quanto siano ancorate ad una corretta comprensione della varietà dei fenomeni regolati): anziché una definizione « generale » dell’oggetto del dolo, quale ad es. quella contenuta nello Schema di legge delega del 1992 (v. sul punto, in ordine cronologico, i rilievi critici di PULITANÒ, Appunti sulla disciplina dell’imputazione soggettiva nello schema di proposta di legge delega, dattiloscritto per il Convegno di Siracusa 15-18 ottobre 1992; DONINI, Il delitto, cit., 351 ss.; BRICOLA, Le definizioni normative nell’esperienza dei codici penali contemporanei e nel progetto di legge delega italiano, in CADOPPI (a cura di), Il problema delle definizioni, cit., 181-185; MARINUCCI, Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1996, 429 ss.), più utile sarebbe « rivitalizzare » l’art. 47, comma 3, c.p. (indicazioni in tal senso, ad es., da parte di GROSSO, Il principio di colpevolezza, in Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, cit., 126127), meglio esplicitandolo come ha fatto da tempo il codice portoghese (che peraltro ha adottato una larga scelta a favore delle definizioni, e segnatamente anche dell’oggetto del dolo in positivo: v. DE FARIA COSTA, Le definizioni legali del dolo e della colpa quali esemplificazioni delle norme definitorie nel diritto penale, in CADOPPI (a cura di), Il problema delle definizioni legali, cit., spec. 257 ss.): non si tratta di una vera novità, per chi sappia leggere il nostro vecchio art. 47, comma 3, c.p. in senso non abrogante (v. quanto osservato, rispetto al modello portoghese, in DONINI, Il delitto, cit., 355, nota 46), ma si tratta comunque di un’esigenza di migliore specificazione e formulazione nella medesima direzione, onde contrastare le note vicende disapplicative da parte della giurisprudenza. Analoga la possibile funzione, in questa prospettiva, di una definizione del dolo diretto e di quello eventuale: definizione che, in quanto « di disciplina », avesse la capacità di imporsi a prassi devianti.
— 383 — C’è un nucleo del diritto penale attorno al quale, effettivamente, è stata costruita tutta la dialettica argomentativa dei principi che rendono questo ramo dell’ordinamento, nell’autocoscienza dei suoi rappresentanti istituzionali, uno ius singulare. Questo nucleo è costituito dai reati che fanno perdere la libertà, non dai reati estinguibili con una somma di denaro. C’è quindi una forte tensione ideale fra il mantenimento di un significato « massimalista » dei principi penalistici in tutto il territorio in cui si estendono formalmente le pene « criminali », e la conservazione o l’incremento di pene e reati che più si confanno ad altre qualificazioni di illiceità: è un nodo cruciale che investe la stessa legittimazione del diritto penale nel suo complesso (49). L’impostazione (prima ancora che la soluzione) di questo problema non può oggi tuttavia trascurare che l’evolversi delle concezioni e delle funzioni reali della pena (pene alternative alla detenzione, sostitutive, pecuniarie), anziché delegittimare gli illeciti meno gravi, rende urgente ripensare al significato del mantenimento del valore « assoluto » dei prin(49) Coglie bene l’importanza del nesso fra pena privativa o limitativa della libertà e « fondamenti » del diritto penale, FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., 415 s., 480, 743 s. e passim, pur portando il discorso a conseguenze estreme, difficilmente condivisibili (v. anche nota 44 ante), nel senso della depenalizzazione di tutte le contravvenzioni e soprattutto della « impossibilità » epistemologica della pena pecuniaria (v. anche ID., Per un programma di diritto penale minimo, in AA.VV., La riforma del diritto penale, cit., 57 ss., 66 ss.), oltre che riproponendo stili di « riduzione culturale » del ruolo del giudice e del « dogmatico » — una giurisprudenza senza logos? — con riferimento ad un’asserita minor capacità critica dei predetti rispetto al filosofo-politico-« scienziato » del diritto, che operando da un punto di vista « esterno » alle stesse norme costituzionali, potrebbe meglio esercitare un « giuspositivismo critico » (FERRAJOLI, op. cit., 912 ss., 967 ss., e sul punto anche i rilievi di GUASTINI, I fondamenti teorici e filosofici del garantismo, in GIANFORMAGGIO (a cura di), Le ragioni del garantismo, cit., 53-57). Invero il sacrificio della libertà non è (più) il « denominatore comune » del diritto penale contemporaneo, se non come « conversione » estrema di pena pecuniaria, mentre lo è il sacrificio di « beni personali », di beni aggrediti dallo Stato con proporzione commisurata alla (e incidente sulla) persona del loro titolare: se quindi il sacrificio della libertà resta comunque il fondamento epistemologico ed argomentativo, il « modello teorico » del diritto penale post- (e neo-)illuministico, del diritto penale dei princìpi, si tratta, nondimeno, di un modello in qualche misura « affievolito ». È questa, a mio avviso, una realtà che non va demonizzata, ma di cui occorre prendere atto differenziando la costruzione del sistema (e dei suoi principi), non solo per meglio assicurare al « nucleo » di esso un’identità conforme al modello tradizionale del diritto « criminale », ma anche per conoscere prima, e meglio « governare » poi, le distinte realtà strutturali che avvicinano alcuni settori del diritto penale vigente agli illeciti amministrativi, e per rendere più duttile — anche dopo che sarà realizzata una significativa depenalizzazione — la degradazione giudiziale dell’illecito, da penale ad amministrativo o civile: sia il legislatore che il giudice, pertanto, devono, ciascuno nel rispettivo ambito, realizzare programmi di « riduzione » teleologica dell’area penale di intervento. E per far ciò, devono poter utilizzare, nei rispettivi ambiti, il medesimo logos.
— 384 — cipi penalistici rispetto a tutti gli illeciti minori, dove la perdita della libertà sia sempre più eventuale, succedanea, statisticamente marginale. Abbiamo esteso al massimo grado i principi penalistici in nome del sacrificio della libertà, e adesso se non arriviamo a sottrarre questo sacrificio all’esecuzione di molte condanne per reati già di medio calibro (in Italia la pena detentiva o limitativa della libertà, a livello di condanna di primo grado, almeno in tribunale resta la regola, ma nel suo evolversi verso il giudicato e l’esecuzione, quando non venga sospesa, si stempera assai; una pena molto « dolce » anche se « immediata », dovrebbe infine accompagnare i responsabili di reati anche piuttosto gravi che concordassero la condanna entro i tre anni di reclusione o arresto, secondo i più recenti disegni di legge governativi; in Germania poi — come è stato ricordato anche in questo convegno — meno del 10% delle condanne portate a esecuzione si conclude con l’irrogazione di una pena privativa della libertà), rischiamo di annacquare per sempre il senso della conservazione di pene incisive nella normalità dei casi di esecuzione di sentenze di condanna per reati « minori » (soprattutto i « tipi d’autore » recidivi o plurirecidivi conoscono un’esecuzione carceraria per moltissimi delitti, e ancor più per i reati contravvenzionali, laddove altrimenti — a parte la sospensione della pena: diritto naturale dei delinquenti primari, salvo che siano senza lavoro e senza fissa dimora, specie se stranieri — si applicano la pena pecuniaria, principale o sostitutiva, oppure la libertà controllata, il lavoro sostitutivo o la semilibertà). Se la pena che toglie o limita la libertà, in ipotesi, restasse statisticamente sempre più « simbolica » in concreto, o destinata a certi « tipi di autore », come potremmo continuare a giustificare la « massimizzazione » dei principi penalistici in tutto il territorio dei delitti, delle contravvenzioni e delle pene? Una massimizzazione costruita, fra l’altro, pensando generalmente a tipologie di « fatti » che minacciano la libertà, anziché a tipologie di « autori » che finiscono per perderla? Potrebbe, in effetti, non restare che un’alternativa: o una rinuncia progressiva alla selettività penalistica, con il rischio di una diminuzione delle garanzie in tutto il sistema penale, una sorta di « amministrativizzazione » dello stesso (50), oppure l’estensione delle medesime garanzie dei crimini agli illeciti amministrativi, e quindi la rinuncia all’esclusività pena(50) Muovendo da questo tipo di preoccupazione, paventava l’estensione di tutte le garanzie penalistiche all’illecito amministrativo, a livello costituzionale (non di legge ordinaria) BRICOLA, La depenalizzazione nella l. 24 novembre 1981, n. 689, cit., 359 ss. Nello stesso tempo, sull’adattabilità del diritto penale dei principi (quello fondato sull’argumentum libertatis e sull’art. 13 Cost.) anche a incriminazioni corredate di pene non detentive, v. le riflessioni (precedenti la l. n. 689 del 1981) dello stesso BRICOLA, Art. 25, 2o e 3o comma, cit., 272 s. in nota, secondo il quale persino la pena edittale pecuniaria esclusiva e non convertibile (come fu quella che emergeva dalla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 136 c.p. ad opera di C. cost. n. 131 del 1979, e quindi sino alla riforma della l. n. 689 del 1981)
— 385 — listica del processo di selezione: il diritto, ma anche il processo penale non potrebbe più rivendicare la sua « singolarità » esclusiva, perché ogni sanzione patrimoniale non meramente riparatoria (civile) verrebbe avvertita come troppo invasiva di « beni già personali » (non essendo commisurata solo al quantum del danno). Non si tratterebbe solo di estendere le « garanzie », di elevare il livello di formalizzazione di illeciti minori. Ciò comporterebbe, infatti, un mutamento profondo dei paradigmi penali postilluministici e il ritorno a una sorta di « normalizzazione », a un dialogo forzato e continuo con l’extrapenale, ma anche — si noti — con le sue « logiche »: il diritto, già « criminale », ora « penale », verrebbe degradato da ius singulare a mera « specie » del grande, nuovo « genere » del diritto punitivo (civile, amministrativo o penale). Orbene, un siffatto diritto punitivo « generale » attende ancora la sua « teoria ». Prima di pensarla, infatti, è necessario che quel diritto esista vepotrebbe mantenersi nel solco dei principi comuni, essendo comunque una sanzione commisurata alla personalità del reo ed incidente sulla sua « dignità ». In senso non dissimile (sempre prima della l. n. 689 del 1981) v. PALAZZO, Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova, 1979, 207 ss., 211 ss., che ravvisava non nell’incidere necessariamente sulla libertà, ma nell’adeguarsi alla « personalità dell’autore », la caratteristica della sanzione « criminale », salvo poi vedersi costretto a riconoscere che anche la pena pecuniaria amministrativa, se ed in quanto commisurata alla personalità dell’autore, avrebbe « natura sostanzialmente criminale » (op. cit., 220). Su questi ultimi passaggi, invero, è doveroso, oggi, fare chiarezza: una pena pecuniaria non convertibile (ma anche una pena restrittiva della libertà la cui applicazione diventasse, in qualche settore, desueta) in che cosa si differenzierebbe dalla sanzione amministrativa (pecuniaria) come modellata dalla l. n. 689 del 1981 (art. 7)? Ma se non si ravvisa nessuna differenza, non verrebbe meno del tutto, almeno rispetto a questo settore di reati, la possibilità di tenere in piedi le tradizionali « barriere » (costantemente ribadite dalla Corte costituzionale: es. sent. nn. 363 del 1995, 159 del 1994, 502 del 1987, 420 del 1987, 29 del 1961 sull’art. 27, comma 1, Cost.; e sent. nn. 118 del 1994, 250 del 1992, 823 del 1988 e 68 del 1984 sull’art. 25 cpv. Cost.) sulla vigenza « assoluta » di certi principi costituzionali solo per il diritto punitivo penale e non per quello punitivo amministrativo? Chi saluta con favore una « estensione » costituzionale di tutte le garanzie (almeno in teoria) « assolute » dei principi penalistici al settore « generale » del diritto punitivo in senso lato, e quindi specificamente a quello amministrativo (ma sempre con la, davvero singolarissima, eccezione degli illeciti disciplinari, esclusi anche da troppe garanzie ordinarie) — dottrina di minoranza, ma ben rappresentata: v. il quadro offerto da ROSSI VANNINI, Illecito depenalizzato-amministrativo, Milano, 1990, 173 ss. — pensa in realtà solo a rafforzare indistintamente l’illecito amministrativo, ma dovrebbe prima fare i conti con la pluralità delle sue forme e funzioni e con un adeguato raccordo fra lo scopo pratico perseguito (raggiungibile settorialmente mediante la legge ordinaria, come oggi avviene) e la specificità della logica « selettiva » del rapporto tra sanzione e struttura degli illeciti nonché personalità degli autori in larga parte delle fattispecie (non penali in genere, ma soprattutto) delittuose. Sulle problematiche attuali della conversione della pena pecuniaria, comunque, v. per tutti ROMANO, in ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico, cit., vol. II, 2a ed., Milano, 1996, Art. 136/1 ss., 16 ss.; sulla « scalarità » ascendente nella personalizzazione della responsabilità, dall’illecito civile a quello amministrativo, alle contravvenzioni, ai delitti, v. DONINI, Teoria del reato, cit., cap. II, spec. 49-87.
— 386 — ramente; e in questo momento storico sarebbe intempestivo cimentarsi in tale impresa. Ma non è detto che i tempi siano lunghi. Non dobbiamo, pertanto, trovarci impreparati a nuovi scenari, capaci di rimettere in discussione l’intera « penalità » — il diritto punitivo penale come « problema » specifico, irriducibile a un genere giuridico superiore non penalistico — quale prodotto della razionalità critica dell’Aufklärung e della scoperta del carcere quale dimensione totalitaria dell’esecuzione della pena. Questa, io credo, è una prospettiva grave e attuale per una riflessione urgente sull’esigenza di conservare un nucleo « forte » e serio del diritto criminale — non per questo troppo esteso, né incentrato sul carcere o sulla detenzione come unica dimensione della penalità —, da reinserire con ogni opportuno aggiornamento nel codice, in un codice nuovo, e nel rispetto dei principi di garanzia che l’illuminismo e l’approccio costituzionalistico ci lasciano in eredità. Ma è, ad un tempo, una ragione grave e attuale per riflettere sull’esigenza di diversificare teleologicamente da quel nucleo un’area « di confine » con gli illeciti extrapenali, che la nostra tradizione non può che ravvisare nel reato contravvenzionale: e il nuovo codice, in tal caso, dovrebbe contenere anche i modelli, gli archetipi propri di quest’area, veri criteri-guida arginanti le sperimentazioni che la legislazione speciale volesse perpetuare, fra istanze di amministrativizzazione del diritto penale e bisogni di prevenzione (51). Rispetto a queste realtà normative, evidentemente, la « tirannia dei principi » — che unisce insieme l’esigenza di serietà dell’offesa e di serietà della pena (e viceversa) — sarebbe in difficoltà a mantenere un livello indifferenziato di « massimizzazione » del loro significato: perché la stessa « struttura » delle incriminazioni (es. di mera condotta, a contenuto normativo, maggiormente o tendenzialmente neutro o artificiale, di pericolo astratto, ecc.), teleologicamente consona alla loro « funzione » (mera prevenzione, gestione amministrativa di fonti di rischio, per quanto « serio », di controllo, ecc.), deve suggerire una strategia sanzionatoria la cui duttilità nel sapersi degradare verso l’area dell’illecito amministrativo costituisce dei vincoli strutturali e funzionali, per l’appunto, a una concretizzazione differenziata (51) Un primo tentativo in questa direzione è stato realizzato dallo Schema di legge delega del 1992: v. l’art. 55 (in Documenti Giustizia, 1992, 409): ma l’indicazione (corrispondente al terzo tipo di contravvenzioni) incentrata sugli illeciti « minori » resta nel vago e richiederebbe ulteriori sforzi di concretizzazione. V. anche la « chiusura » ai sottosistemi preesistenti al codice prospettata dallo « Schema di legge delega » del 1992 all’art. 13 delle disposizioni di attuazione, di coordinamento e transitorie (p. 461), dove si prevede: « al fine di assicurare la centralità del codice penale, nei casi in cui il fatto è preveduto come reato dal codice e da leggi speciali preesistenti, stabilire la non applicabilità di queste, salvo che siano state confermate con leggi delegate, da emanare nel tempo indicato per l’entrata in vigore del codice medesimo » (cfr. anche la relazione, sempre in Documenti Giustizia, cit., 407 s.).
— 387 — di alcuni di quei principi (es. materialità, offensività, colpevolezza, riserva di legge, obbligatorietà dell’azione penale). Ciò che peraltro garantisce una loro assai più solida e permanente « tenuta » nel nucleo centrale della mappa dei reati — dove non si deve correre il rischio di un feedback negativo dai territori più « deboli » dell’esperienza penale-amministrativa — e nel contempo assicura una consapevole « tensione » ideale a tenere alto il livello di giustificazione politica delle stesse contravvenzioni che verranno mantenute o introdotte. Questa, in breve, la geografia del problema: l’esistenza di « sottosistemi » (52) (es. diritto penale tributario, urbanistico, ambientale, alimentare, del lavoro, societario, finanziario, ma anche della criminalità organizzata, minorile, ecc.) ripresenta al penalista molti vecchi modelli sotto vesti nuove: spesso, cioè, troviamo nel codice o nella legislazione a esso coeva o anteriore tipologie normative di cui quelle più « moderne » non rappresentano che lo sviluppo. L’importanza e l’estensione di questo sviluppo, tuttavia, assume un significato tutto speciale: il codice non l’aveva previsto e quindi non l’aveva assunto certo fra i suoi « paradigmi ». Un’attenta analisi, forse, avrebbe potuto comunque riconoscere fin dalle origini (allorché questo sviluppo non esisteva) le generalizzazioni arbitrarie della parte generale del codice poi sottintese a molti studi: evitando nozioni unitarie delle sottospecie che compongono i due universi dell’offensività e della colpevolezza (v. i par. 5.1 e 5.2 che precedono). Va tuttavia riconosciuto che solo la dimensione sociale di un fenomeno giustifica una sua significativa percezione ed elaborazione a livello di teoria « generale ». A prescindere dall’estensione, peraltro, le novità maggiori dei « sottosistemi » di più recente sviluppo sono costituite da un aumento del livello di normativizzazione del « tipo » — con un impiego larghissimo della tecnica del rinvio —, dalle peculiari cause estintive, dalle ipotesi di non punibilità, dagli strumenti processuali impiegati in funzione sostanziale (non l’« accertamento » del fatto e della responsabilità, ma la « lotta » alla cri(52) Sulla tematica dei « sottosistemi » (cause ed effetti di una « decodificazione »), fra i nostri penalisti, dopo BRICOLA, Considerazioni introduttive, in Il codice Rocco cinquant’anni dopo, cit., 7 ss., spec. 14 ss., e nello stesso volume PADOVANI, La sopravvivenza del codice Rocco nell’« età della decodificazione », 96-98, v. soprattutto PALIERO, « Minima », cit., 92 ss., e quindi, in vario senso, FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., cap. XI e XII; FIANa DACA, Concezioni e modelli, cit., 16 ss., 31 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, PG, 3 ed., cit., 44; SGUBBI, Il reato come rischio sociale, cit., passim; PEDRAZZI, voce Diritto penale, cit., 74-76; PADOVANI-STORTONI, Diritto penale e fattispecie criminose, Bologna, 1991, rist. 1996, 25 ss.; FIANDACA, Problemi e prospettive attuali di una nuova codificazione penale, in AA.VV., Valore e principi della codificazione penale: le esperienze italiana, spagnola e francese a confronto, Padova, 1995, 19 ss.; ID., La parte speciale tra codificazione e legislazione penale speciale, in AA.VV., Prospettive di riforma del codice penale, cit., 253 s.; FIORELLA, La parte speciale tra codificazione e legislazione complementare, in Prospettive di riforma del codice penale, cit., 268 ss., 277-279; con specifico riferimento alla problematica ambientale quale « prototipo » di sottosistema, CATENACCI, La tutela, cit., cap. III e IV.
— 388 — minalità, la difesa sociale come scopo immediato del processo), dalla conseguente strumentalizzazione reciproca delle forme sostanziali e processuali sotto la suggestione della common law — trapiantata con malinteso pragmatismo senza un coordinamento culturale con il « sistema » del diritto penale sostanziale —, da una spiccata logica della prevenzione, e da un uso dello strumento penalistico che « sconta » in partenza la prognosi che non sarà applicato — o lo sarà in forme assai edulcorate — nonostante la commissione dell’illecito, qualora si realizzino post factum comportamenti collaborativi o riparatori di vario tipo. Non è il « penale » che domina la scena, dunque, ma l’« extrapenale »: l’illecito (penale) appare un’« appendice » dell’antigiuridicità (generale, o extrapenale), non già una sua autentica « selezione ». Alcune di queste tendenze — di valenza mista, processuale e sostanziale — stanno diventando fisionomia, regola generale, al fine di snellire la macchina processuale in vista di impegni più gravosi per i casi « rappresentativi » (già, rappresentativi di che cosa?), subordinando nelle ipotesi di medio-basso calibro il diritto sotanziale al processo — alle finalità autopoietiche del processo — con la promessa di vantaggi indiretti di efficienza e quindi di celerità delle pene dolci e amare. Se in questi illeciti muta conseguentemente anche la funzione della pena, per la prevalenza della prevenzione generale (negativa e positiva, la si chiami deterrence, integrazione-prevenzione, pedagogia collettiva, funzione simbolica, espressiva o come si preferisce) rispetto a questioni retributive e specialpreventive autentiche obiettivamente subordinate, nondimeno essa rientra senza dubbio — e deve rientrare, se vuole rispecchiare il senso civile e morale di una « pena », anziché di una « misura » o di un « risarcimento » — tra quelle funzioni che da sempre sono state attribuite alla sanzione criminale nelle tradizionali e dominanti concezioni « polifunzionali »: funzioni che si innestano in un meccanismo sanzionatorio incentrato sul rapporto del « fatto » con l’« autore » come persona, laddove misure, sanzioni pecuniarie impersonali e risarcimento privilegiano tendenzialmente l’autore come componente sistemica, oppure la regolarità sociale del ruolo dell’autore, ovvero il fatto (il danno) soltanto. Appartiene del resto alle generalizzazioni arbitrarie della tradizione del Novecento, sia il dimenticarsi dell’autore per guardare solo al fatto, e sia anche il far credere che le funzioni della pena, una volta stabilito quali siano, debbano valere egualmente per ogni reato: laddove è di quotidiana evidenza che alle diverse tipologie di « fatti » (tipologie astratte) e di « autori » (tipologie criminologiche e soggetti concreti) corrispondono diverse funzioni della pena. Premessa comunque l’esigenza di una revisione profonda di tutte le generalizzazioni arbitrarie che si annidano nel sistema — perciò in primis negli stessi settori tradizionali del diritto penale c.d. classico —, questo
— 389 — non significa che ogni riflessione ulteriore, anche sui « sottosistemi », possa rinunciare alle categorie generali, per quanto queste debbano essere diversificate (es. il pericolo astratto-presunto — insieme a una più ridotta praticabilità della distinzione anche « fattuale » tra dolo e colpa — dovrebbe allocarsi nelle contravvenzioni, ma con duttili possibilità di prove contrarie o ben disciplinate clausole di esiguità oggettivo-soggettiva corredate dalla rinuncia alla pena, tali da consentire discrezionalmente il « degradare » quantitativo dell’illecito dall’area contravvenzionale a quella amministrativa). E tra queste categorie, la prima in ordine logico è rappresentata dalla partizione dei reati in almeno due grandi classificazioni. Anche se a piccoli passi, la ricomposizione di un’immagine se vogliamo « postmoderna » del sistema — che potrebbe somigliare molto a quella « moderna » se saprà risalire umilmente verso le vette « dal basso » di molte e inesplorate province —, non potrà fare a meno di quella partizione, che lega a un pensiero « forte » — la tirannia dei principi — l’esigenza di una tensione fra il « penale » e l’« extrapenale », rifuggendo da indefinite, impercettibili e agnostiche scale « quantitative » fra i crimini, le disobbedienze alla polizia comunale e i piccoli inadempimenti contrattuali. Una partizione, del resto, che sa offrire una chiave di lettura realistica e adeguata alla nostra evoluzione normativa dove la mitezza delle pene, con una sorta di eterogenesi dei fini, ha alleggerito anche la struttura di molti illeciti: affinché la ricerca del « paradiso penale » non produca l’abbandono « generale » dell’epistemologia postilluministica della penalità. Per questo la soluzione « tecnica » delle antinomie fra principi e regole, fra Costituzione e legge ordinaria, fra politica criminale e dogmatica, passa — almeno nell’esperienza culturale italiana: non occorre pensare a una ricetta di valore « ontologico » — attraverso la riappropriazione del dualismo fra i delitti e le contravvenzioni: la dialettica sulla tirannia dei principi, sul senso e i limiti della loro « massimizzazione » in tutti i territori dell’intervento penale, trova qui un primo binario per una corretta razionalizzazione. Non seguendo, tuttavia, il realismo penale dei francesi, che hanno mantenuto le contravvenzioni, accanto ai crimini e ai delitti, escludendole dalla riserva di legge e dal principio di colpevolezza (53), tanto da rendere problematico lo sviluppo dello stesso diritto punitivo amministrativo, che pure hanno cominciato a conoscere; ma neppure seguendo l’idealismo dei tedeschi che hanno abolito le contravvenzioni, mantengono numerose fattispecie di pericolo astratto-presunto nell’inosservanza di regolamenti amministrativi, procedure, ecc., e raccontano a se stessi di aver realizzato (53) Sia consentito il rinvio ancora a DONINI, Il delitto contravvenzionale, cit., 104152, e in sintesi ID., Teoria, cit., 64-74.
— 390 — l’extrema ratio solo perché si applica in concreto la pena pecuniaria (54), oppure sottintendono che anche il « fatto » dei reati artificiali sarebbe « indizio » della sua antigiuridicità, e costruiscono su una colpevolezza tutta normativizzata (mentre dolo e colpa, dopo Welzel, hanno perso ogni fisionomia di colpevolezza) il tentativo di legittimare reati di scarso spessore offensivo (55); oppure continuano a produrre costruzioni presentate come « generalissime », ma modellate sui reati naturali di evento (es. le teorie dell’imputazione oggettiva, del dolo come rischio, del dolo eventuale, ecc.) (56), o su illeciti di azione « parziali » (il c.d. Handlungsun(54) Cfr. ad es. WEIGEND, in JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., 744 s., che proclama la realizzazione, in Germania, del principio di ultima ratio a motivo del fatto che nel 1991 il solo 5% delle condanne portate ad esecuzione ha applicato in concreto la pena privativa della libertà: assunta realizzazione della « sussidiarietà » che si predica a prescindere da ogni rilievo sul tipo di illecito commesso (reato di massa, bagatellare, artificiale, a condotta neutra, di pericolo presunto e concretamente inoffensivo, ecc.). Viceversa, per un affresco fortemente critico sugli attuali trends della legislazione penale (e della dottrina che la legittima) in Germania cfr. il volume collettivo a cura dell’Institut für Kriminalwissenschaften Frankfurt a. M., Vom unmöglichen Zustand des Strafrechts, cit.; PRITTWITZ, Strafrecht und Risiko, cit., passim; HASSEMER, Produktverantwortung, cit., passim. Di segno opposto le difese d’ufficio da parte di SCHÜNEMANN, Kritische Anmerkungen, cit., 201 ss.; KUHLEN, Zum Strafrecht der Risikogesellschaft, in Goldtdammer’s Archiv zum Str., 1994, 347 ss. (55) Sulle ipocrisie della visione del fatto tipico come « indizio » dell’antigiuridicità, mi sono soffermato, a fronte dell’esperienza dei reati artificiali e a condotta neutra, in DONINI, Il delitto, cit., 13, 58-65, 80-86, 211 s. e passim, con vari richiami; ID., Teoria, cit., 233, 303 ss. Quanto alle concezioni della colpevolezza nei paesi di lingua tedesca, concezioni tutt’ora povere di « contenuto » e di « spessore » (di colpevolezza « dolosa » e « colposa ») diverso dal giudizio ascrittivo di rimprovero sulla formazione del volere, si tratta, notoriamente, del limite più grave dell’eredità del finalismo: per tutti, disconoscendo peraltro i meriti della scoperta del valore « fattuale » di dolo e colpa, BOCKELMANN, Über das Verhältnis von Täterschaft und Teilnahme, Göttingen, 1949, 20 ss., 29 ss.; MORO, L’antigiuridicità penale, Palermo, 1947, 89 ss.; MEZGER, Moderne Wege der Strafrechtsdogmatik, Berlin-München, 1950, 33 ss.; ID., in Leipziger Kommentar zum StGB, 8. Aufl., Berlin, 1957, sub § 59, 498 ss.; PECORARO-ALBANI, Il dolo, Napoli, 1955, 49 ss., 58 ss.; BRICOLA, Fatto del non imputabile e pericolosità, Milano, 1961, 56 ss., in relaz. a 109 ss.; ROXIN, Zur Kritik der finalen Handlungslehre (1962) cit. (da Strafrechtliche Grundlagenprobleme), spec. 108 ss. (l’A., in seguito, ha peraltro tacitamente aderito a molti esiti di una dogmatica postwelzeliana in tema anche di rapporti fra dolo, colpa e colpevolezza); ARTH. KAUFMANN, Das Schuldprinzip, 2a ed., cit., 174-186; BAUMANN-WEBER-MITSCH, Strafrecht, AT, 12. Aufl., cit., § 18/16 ss.; e pur riconoscendo i meriti di quella scoperta, MARINUCCI, Il reato come « azione », cit., 6976, 154-156; DONINI, Illecito, 548 s., in nota; 552-574, 580; ID., Il delitto, cit., 51 ss. (56) I reati di evento a forma libera (spec. omicidio e lesioni) restano ancora oggi il « modello teorico » delle più recenti e « generalizzanti » elaborazioni germaniche in tema di imputazione oggettiva dell’evento (e quindi anche, in larga misura, teoria della colpa), oggetto del dolo e dolo eventuale: cfr. ad es. da ultimo GIMBERNAT-SCHÜNEMANN-WOLTER (Hrsg.), Internationale Dogmatik der objektiven Zurechnung und der Unterlassungsdelikte, Heidelberg, 1995, segnatamente i contributi di Wolter (3 ss.), Gómez Benítez (25 ss.), Schünemann (49 ss.): si noti che in questi contributi, come in varie esposizioni manualistiche, l’imputazione oggettiva viene riferita o esposta come categoria « generale » di onnivalente si-
— 391 — recht) presi a prestito dal tentato omicidio, anziché studiare i « veri » illeciti di azione delle fattispecie di pericolo astratto (57). Conoscere in forma di teoria le fattispecie che appaiono naturali destinatarie della « tipologia » contravvenzionale di illecito penale è dunque un compito degno di una scienza penale che intende governare la molteplicità delle sue figure nelle loro distinte caratteristiche strutturali e funzionali: premessa vera di una politica legislativa non rassegnata a un giuspositivismo agnostico nella distinzione « quantitativa » fra il penale e l’amministrativo, fra la « repressione » e la « prevenzione », né pubblicizzata sotto la bandiera della sussidiarietà dell’intervento penale in forma di mero slogan (58). gnificato paradigmatico per tutti i reati dolosi, colposi e omissivi di evento; ma accade poi che pure il reato omissivo improprio sia a sua volta il modello per l’omissione « in sé », sembrando quindi offrire anche una base per l’imputazione, « oggettiva » e « soggettiva », del reato omissivo proprio (in realtà largamente differente) (ad es. JAKOBS, Strafrecht, 2. Aufl., Berlin-New York, 1991, 30/3; WESSELS, Strafrecht, AT, 24. Aufl., Heidelberg, 1994, nn. 732-741), salvo che si preferisca rinunciare del tutto ad una trattazione « di parte generale », rinviando agli studi di parte speciale (ad es. BAUMANN-WEBER-MITSCH, Strafrecht, AT, cit., § 8/43; KÜHL, Strafrecht, cit., § 1/11, sulla premessa (vera) del numero marginale dei reati omissivi propri in senso stretto, e sulla premessa (sbagliata) implicita che i reati di mera condotta o misti, o di pericolo astratto-presunto, siano adeguatamente spiegati dalle teorie che si modellano sulle fattispecie ad evento naturalistico). Ma un’altra e più profonda ragione della tendenza a sottovalutare l’esistenza e il significato teorico di reati costruiti sulla mera condotta, consiste nel fatto che, in Germania, sono (e comunque sono state) troppo celebrate le sopravalutazioni del disvalore d’azione in tutti i reati, a cominciare da quelli di evento: nell’istante in cui, infatti, il « peso » teorico e politicocriminale dell’incriminazione è misurato « in generale » sul disvalore d’azione, ne discende che quando la fattispecie manchi di evento, è meno acuta la sensibilità per l’autonomia strutturale di queste fattispecie: esemplari, nella più recente letteratura, FRISCH, Tatbestandsmäßiges Verhalten und Zurechnung des Erfolgs, Heidelberg, 1988, 77-79, 510-517; FREUND, Erfolgsdelikt und Unterlassen, Köln-Berlin-Bonn-München, 1992, 4, nota 22, 9 ss., e qui altri rinvii. Polemicamente, invece, nel senso che le accresciute tendenze ad una normativizzazione della responsabilità e delle posizioni di garanzia conducano oggi al reato omissivo colposo quale nuovo « paradigma » del concetto di reato, K. GÜNTHER, Von der Rechts- zur Pflichtverletzung. Ein « Paradigmawechsel » im Strafrecht?, in Institut für Kriminalwissenschaften Frankfurt a.M. (Hrsg.), Vom unmöglichen Zustand des Strafrechts, cit., 445 ss., 457-459: una simile tendenza, ad es., trovasi dispiegata toto coelo in JAKOBS, Die strafrechtliche Zurechnung von Tun und Unterlassen, Opladen, 1996, 30 ss. e passim, a sviluppo di una già ben collaudata « rinormativizzazione » di tutti i concetti giuridici. Un fondamento di responsabilità completamente identico unisce adesso azione ed omissione: Op. ult. cit., 36. (57) Su questo diffuso e improprio costume di separare, all’interno dei reati consumati di evento, un « illecito d’azione » da un successivo e distinto « illecito d’evento », v. quanto osservato in DONINI, Teoria, cit., 166-172; sulle (non dissimili) tendenze a fare del tentativo compiuto il « modello generale » della teoria dei reati di evento, v. ancora, in relazione alle elaborazioni di Frisch e di Wolter, DONINI, Illecito, cit., 230 ss. (58) BRICOLA, Tecniche di tutela, cit., 22. Da ultimo, sull’accademicità di molte stereotipe riproposizioni della logica selettiva dei principi penalistici, a fronte della realtà legislativa, PRITTWITZ, Das deutsche Strafrecht: Subsidiär? Fragmentarisch? Ultima Ratio?, in
— 392 — In qualche luogo dello spirito, delle istituzioni, della vita civile, deve pur esserci un giusto mezzo fra l’atteggiamento degli intellettuali « apoti » che profetizzano l’isola che non c’è senza impegnarsi nella (o nella riflessione sulla) applicazione del diritto vivente, che teorizzano solo il diritto penale « più bello », coltivando la ragione critica o la politica criminale che il Parlamento non ha mai tradotto in legge, e l’atteggiamento dei causidici « scafati »; l’atteggiamento dei rassegnati al diritto giurisprudenziale, dei frequentatori dei massimari e della « pratica »-che-sola-insegna la soluzione, di chi pensa che è negli angoli dei corridoi forensi, nei circoli privati, nelle cene o nei buoni rapporti con i pubblici ministeri e con i giudici, nella furbizia delle « strategie » processuali elaborate a tavolino conoscendo le « carte » e i « retroscena », nella fretta o nelle tecniche persuasorie delle camere di consiglio, nelle riunioni o nelle politiche di corrente, nell’estetica terapeutica delle motivazioni scritte « a posteriori », nelle intuizioni e nel mero fortuito, infine, che si risolvono i casi e che si fa « diritto ». Non già, invece — come si insegna all’Università — nelle teoriche troppo argomentate, sistematiche e dotte degli studiosi accademici, scritte-per-andare-in-cattedra: deposito vecchio e stanco di biblioteche polverose e sempre meno consultate, piccolo frammento di un meccanismo sociologico immenso e ingovernabile nella sua lunghissima parabola « autopoietica » che intercorre fra le indagini, il giudicato e l’eventuale fase esecutiva. Chi opera nelle istituzioni con senso della cultura e conoscenza degli uomini sa che il diritto, effettivamente, è anche tutto questo: ma senza quel « piccolo frammento » di sapere scientifico, non resterebbe che un’immagine del ius dicere come forza, potere, mercato e volgarità. Ci deve pur essere, quindi, un equilibrio necessario, per quanto non tranquillizzante, fra quegli insopportabili estremi (59). Institut für Kriminalwissenschaften Frankfurt a.M. (Hrsg.), Vom unmöglichen Zustand, cit., 387 ss.: riflessioni critiche che non si possono non sottoscrivere, pur nella rasserenante consapevolezza che i nostri odierni « idoli polemici » non hanno di fronte a sé i « libri terribiles » del Digesto, né i supplizi, la tortura o la caccia alle streghe (se non in senso, evidentemente, molto traslato). Più radicalmente, nel senso che « questa contraddizione strutturale tra essere e dover essere, tra funzioni « manifeste » e funzioni « latenti », tra principi dichiarati e principi reali di funzionamento, è la malattia congenita del diritto penale moderno », BARATTA, Prefazione a MOCCIA, La perenne emergenza, cit., XI. (59) Ritornano alla mente alcune considerazioni di Guizot (Histoire de la civilisation en Europe) riprese e rielaborate da CHABOD, Storia dell’idea d’Europa (1961), Bari, 1991, 148 s., sul carattere degli italiani: « all’Italia manca la fede nella verità, cioè quella fede per cui non solamente l’intelligenza è soddisfatta, ma sorge la volontà di piegare e governare i fatti e di dominare sul mondo, in maniera che l’uomo, convinto di esser nel vero, s’impegna a far trionfare questo vero, riformando anche le situazioni esterne. Ora questo è generalmente mancato all’Italia: essa è stata feconda di grandi intelletti, in idee generali; è stata piena di uomini di una rara abilità pratica, espertissimi nell’arte di condurre la società; ma
— 393 — Ebbene, finché, con l’opinione assolutamente prevalente, si vorranno mantenere differenze meramente « quantitative » fra l’area dell’illecito penale e quella dell’illecito amministrativo, anche senza giungere al « genere » comune di un aspecifico diritto punitivo (che trasformerebbe facilmente il diritto penale « criminale » in un diritto penale d’autore, più che del fatto), il modello contravvenzionale di illecito sarà opportuno che resti, e divenga però — superato un vecchio e comodo « non expedit » — oggetto anche di teoria « generale ». Questo non già per rispecchiare in sé la geografia territoriale di un movimento trasformistico di mutazione del diritto penale c.d. « classico » verso l’area extrapenale degli illeciti, cioè la « contravvenzionalizzazione » dei delitti, o la conversione dei reati di evento in reati di mera condotta: perché, rispetto alle trasformazioni orizzontali « tra » quei due modelli (delitti e contravvenzioni), è la contravvenzione che resta strutturalmente e teleologicamente adatta da un lato (secondo tradizione) alle « funzioni » preventive e amministrative dello Stato e degli altri enti territoriali, e dall’altro (innovando la tradizione), a recepire illeciti di mera condotta — anche distinti dal fenomeno della « amministrativizzazione » del diritto penale che ha « segnato » la storia delle contravvenzioni fra Ottocento e Novecento —, soprattutto se (e comunque quelli) con assorbenti profili di antigiuridicità extrapenale, oppure omissivi puri o a condotta mista: tipologie di reato, fra l’altro, che rappresentano una larga parte (esclusi, ad es., minorenni o criminalità organizzata e a base violenta) dei sottosistemi emergenti. Un’adeguata riflessione criminologica sui tipi di autore dovrebbe supportare, infine, la composizione normativa di questi due universi, che non sono solo espressione di fatti, giacché conducono alla punizione delle persone. Quanto ad altri tipi di trasformazioni, in verticale, quelle del movimento di depenalizzazione, si tratta di logiche « esterne » alla dialettica contravvenzione/delitto, o meglio « trasversali » rispetto a questi: dovendo la decriminalizzazione (o la depenalizzazione « secca ») operare sia sui delitti che sulle contravvenzioni, e non solo scambiando le etichette dei nomina iuris strutturalmente più affini (contravvenzioni e illeciti amministrativi). Riscoperta perciò nelle due categorie più « generali » del nostro sistema la modernità di una base razionale e politica per « allocare » sensatamente gli (la maggior parte degli) illeciti d’azione e quelli d’evento — queste due classi di uomini sono rimaste estranee una all’altra. I grandi ingegni speculativi non si sono applicati a far trionfare praticamente la loro verità, agendo sulla società; mentre d’altra parte gli uomini d’affari e i politici non hanno quasi tenuto alcun conto delle idee generali e delle conquiste dell’intelligenza, e non hanno quasi mai provato il bisogno di organizzare la vita pratica secondo certi principi, ‘‘gli uni e gli altri hanno agito come se la verità non fosse buona che a conoscersi e non avesse nulla da chiedere né da fare di più’’ ».
— 394 — questa loro base strutturale ancorata alla presenza o meno di un evento è un’intuizione dello stesso codice Rocco (60) —, forse così non dovremo arrossire nel prendere atto che le contravvenzioni, utili serve di una ragion di Stato che non impone loro di celarsi nelle dépendances, sanno meglio esprimere, in palese « ufficialità », la problematica, forse provvisoria convivenza dei principi penalistici con la sostanza delle « trasgressioni ». MASSIMO DONINI Straordinario di Diritto penale nell’Università di Teramo
(60) Valorizza assai bene, in prospettiva di scienza della legislazione, la scelta codicistica di ancorare all’evento il delitto e la contravvenzione alla condotta, MAZZACUVA, Il disvalore, cit., 114-118: il significato « politico » migliore di questa valorizzazione si coglie, per l’appunto, non tanto nella rilettura de lege lata dei delitti alla ricerca inevitabile di un evento in senso tecnico, quanto nell’indicazione de lege ferenda di trasferire in un’area contravvenzionale (salva, e non preterita, la decriminalizzazione) i « fatti », pur significativi e bisognosi di tutela penale, ma più carenti sul piano del disvalore di evento (carenti non sono nel nostro ordinamento — pur se qualificabili come delitti di azione, anziché di evento — il delitto tentato, né l’attentato dove la pericolosità della condotta possegga connotati di serietà offensiva). Per alcune conseguenze « operative » dell’accoglimento di questo punto di vista nella teoria « generale » dei reati di evento, v. anche gli ulteriori sviluppi contenuti in DONINI, Teoria, cit., 170-172.
IL SISTEMA DELLE CIRCOSTANZE E LE FATTISPECIE QUALIFICATE NELLA RIFORMA DEL DIRITTO PENALE SESSUALE (L. 15 FEBBRAIO 1996 N. 66): UN ESEMPIO PARADIGMATICO DI SCIATTERIA LEGISLATIVA (*)
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — 2. L’attenuante della minore gravità della violenza sessuale. — 3. Il sistema delle circostanze aggravanti. — 4. Il regime sanzionatorio relativo alle fattispecie di atti sessuali con minorenni e di corruzione di minorenni. — 5. La sorprendente riproposizione di un’ipotesi ‘‘classica’’ di responsabilità oggettiva: l’inescusabilità dell’ignoranza dell’età della persona offesa. — 6. Il regime sanzionatorio relativo alla fattispecie di violenza sessuale di gruppo. — 7. Un bilancio, preventivo, poco esaltante.
1. Considerazioni introduttive. — La nuova legge sulla violenza sessuale recentemente approvata dal Parlamento rappresenta la tipica espressione di una normativa emergenziale. E non deve stupire il fatto che essa è il frutto di un’elaborazione durata quasi un ventennio (1). In realtà, ormai, al di là della connotazione di genere temporale, che tradizionalmente qualifica l’emergenza come una risposta alle situazioni contingenti sull’onda dei flussi dell’opinione pubblica, è possibile, persino al livello dell’elaborazione teorica giuspenalistica, parlare di un ‘‘tipo emergenziale di reato’’. Questo viene ad affiancarsi alle tradizionali fattispecie di reato modellate in senso garantistico, formale e sostanziale, secondo gli schemi dello stato sociale di diritto. Il tipo emergenziale presenta, invece, costantemente tali caratteristiche: approssimazione, caoticità, rigorismo repressivo, sterile simbolicità. In esso, solitamente, alla caduta in termini di garanzia si abbina la modestia di risultati sul piano dell’effettività. (*) Testo rielaborato della relazione svolta al Seminario su ‘‘I reati contro la libertà sessuale’’, a cura del Consiglio Superiore della Magistratura - Frascati, 10-12 ottobre 1996. (1) Sul tema, tra gli altri, cfr. BERTOLINO, I reati contro la libertà sessuale tra codice e riforma, in questa Rivista, 1983, 1464 ss.; ID., Libertà sessuale e tutela penale, Milano 1993, passim; MONACO, Itinerari e prospettive di riforma del diritto penale sessuale, in St. Urbinati, 1988-89, 1989-90, 401 ss.; PADOVANI, Violenza carnale e tutela della libertà, in questa Rivista, 1989, 1301 ss.; ROMANO, Legislazione penale e tutela della persona umana (contributo alla revisione del Titolo XII del codice penale), in questa Rivista, 1989, 53 ss.; VIRGILIO, Riforme penali, processi e violenza sessuale, in Pol. dir., 1983, 481 ss.
— 396 — Sia chiaro, qui non si vuole affatto negare o sminuire l’estrema gravità del fenomeno criminale della violenza sessuale, in rapporto al quale la risposta penale è un dato da cui non si può prescindere, ma unicamente per soddisfare esigenze, legittime, di immediata difesa sociale ed individuale. In ogni caso, sul piano repressivo, non è certo il rigore astratto delle sanzioni che conta, ma l’efficienza delle indagini, la celerità nei processi e la serietà nell’esecuzione penale. Detto questo, va subito aggiunto che la risposta penale è assolutamente insufficiente, e va anche ricordato che questa risposta era già presente, nel nostro ordinamento, nell’ambito del codice Rocco. Non era certamente l’inappagante definizione della sede sistematica delle disposizioni — il titolo relativo ai ‘‘delitti contro la moralità pubblica ed il buon costume’’ — o un’eventuale tenuità delle sanzioni (un solo addebito non può muoversi al codice Rocco, intriso di autoritarismo fino al midollo, e cioè quello di essere lassista sul piano della risposta sanzionatoria) ad impedire un efficace controllo del fenomeno; tanto più che, a ben vedere, malgrado le intenzioni, un legislatore poco consapevole ha finito per attenuarlo, come vedremo, il regime sanzionatorio. Certo, mancava un’espressa fattispecie dedicata allo stupro di gruppo, ma persino questa fenomenologia, che pare di recente emersione, risulta disciplinata attraverso la normativa del concorso di persone nel reato, che, anzi, sul piano dell’attribuzione delle singole responsabilità — artt. 112 e 114 c.p. — riesce a graduare in maniera più appagante il trattamento sanzionatorio dei singoli concorrenti. Quanto poi all’esigenza di una maggior tutela della riservatezza, se non della dignità della vittima — una delle rationes ‘‘forti’’ della riforma —, si è ritenuto di poterla in qualche modo soddisfare attraverso l’unificazione delle condotte di violenza sessuale e di atti di libidine all’interno della nuova fattispecie di violenza sessuale, di cui all’art. 609-bis. Ebbene, anche sotto questo profilo la riforma ha mancato l’obiettivo: infatti, la struttura della/e fattispecie è irrilevante rispetto al dovere giudiziale di accertare l’esatta dinamica del fatto aggressivo. L’oggettiva differenza e la naturalistica gerarchia tra le condotte riportabili a qualsiasi modello di violenza sessuale — unitario o articolato che sia — impone comunque al giudice — vincolato al principio costituzionale di personalità della responsabilità penale ed orientato, nell’esercizio della sua discrezionalità, dai parametri di cui all’art. 133 c.p. — di svolgere ogni accertamento possibile e consentita per la corretta ricostruzione dell’episodio. E ciò appare tanto più necessitato nell’opzione unitaria, a cui ha fatto riferimento la legge di riforma, date le oscillazioni amplissime che la reale cornice edittale della nuova figura consente: da un anno e otto mesi a dieci anni. A ciò si aggiunge la previsione dell’accertamento anti-AIDS, di cui all’art. 16 l. n. 66/1996, obbligatoria in tutti i casi in cui le modalità del fatto lascino ipotizzare un pericolo di contagio, il che obbliga il giudice ad una accurata indagine sulle medesime modalità.
— 397 — Queste le censure più appariscenti; ma non vanno sottaciute quelle relative alla tecnica di redazione, sul piano della determinatezza delle fattispecie di reato, con conseguenti, eccessivi spazi di discrezionalità giudiziale: si pensi all’introduzione del parametro normativo della ‘‘minore gravità’’ da applicare per l’attenuazione della pena in materia di meri ‘‘atti sessuali’’. Per non parlare, poi, dell’irragionevole stramberia del gratuito patrocinio alla parte lesa — previsto nel testo approvato alla Camera, e, per fortuna, cancellato dal testo definitivo —, a prescindere da considerazioni di reddito, che era tutta da spiegare alle vittime di sequestri di persona o di lesioni personali, tanto per fare qualche esempio; oppure, ancora, del trattamento assurdamente repressivo dei rapporti consensuali tra minori. La verità è che la normativa approvata alla Camera, a quanto pare non senza qualche imbarazzata frettolosità, è il risultato immediato di una campagna di law and order scatenata in tempi estivi da una stampa evidentemente a corto di argomenti, che, da un lato, lasciava passare l’immagine, falsa, di una mancanza di strumenti penali di risposta agli episodi di violenza e, dall’altro, contestualmente, rappresentava la risposta penale con l’attitudine di strumento principe di soluzione dei conflitti. Essa finiva, quindi, con il far assumere alla giustizia penale quella fisionomia di tipo metafisico-sacrale del tutto estranea all’esperienza, laica, dello stato sociale di diritto. È questa l’impostazione che sembra stare alla base della normativa in questione, in sostanziale continuità con la linea espressa dal codice Rocco, e ciò non ha altro significato se non quello di non voler affrontare la complessità del fenomeno. Si è continuato, dunque, a tendere a contrastare i sintomi del malessere, senza preoccuparsi neanche di ipotizzare un’azione di tipo strutturale. È, questa, la paradigmatica espressione dell’uso simbolico del diritto penale, che consiste nel mostrare il carattere imprescindibile ed esaustivo dell’intervento punitivo, accreditando una situazione di non altrimenti gestibile insicurezza. Essa scoraggia la contestuale ricerca — accanto a quella punitiva — di soluzioni meno ‘‘rappresentative’’ di quella penale, a cui, invece, andrebbe dato ben altro spazio. Occorre, infatti, considerare altre prospettive, di tipo culturale, sociale, psicologico, medico; si tratta sovente di rimediare a carenze di socializzazione, di opportunità, di razionalità, di fiducia in se stessi. È una verità tanto elementare quanto scomoda — e per questo rimossa — quella secondo cui gli sforzi maggiori, per combattere fenomeni criminali che traggono origine da condizioni di profondo disagio socio-individuale, vanno operati nella direzione del superamento di quelle condizioni, con serietà di intenti e competenza, ridimensionando molto le illusioni di tipo poliziesco: ma di tutto ciò nella legge non si trova neppure un cenno. Non è certo nella spirale repressiva che è possibile intravedere una via d’uscita:
— 398 — a rapporti di fondo inalterati, il fenomeno, al di là di qualsiasi successo di tipo giudiziario, tenderà a riprodursi. Invece il legislatore postmoderno, della metà degli anni Novanta, ha trovato il modo di superare, forse con eccessiva disinvoltura, steccati partitici e/o ideologici tramite il più inquietante dei traits d’union: il perseguimento di rozze finalità di genere repressivo-deterrente — peraltro non riuscendo neppur a realizzarle completamente, per fortuna — con l’adozione del tipo emergenziale, tentando così di superare, in autoritarismo, persino le soluzioni del codice Rocco. La legge del 15 febbraio 1996 n. 66, recante Norme contro la violenza sessuale, come già si è accennato, è costellata da una serie di incongruenze che, nel determinare preoccupanti incertezze interpretative, testimoniano i limiti di un legislatore disattento, frettoloso e preoccupato principalmente di fornire una ‘‘risposta’’, prescindendo dai necessari elementi di qualità ed efficacia della stessa. Esemplificativa è, al riguardo, l’ambiguità dell’art. 609-nonies, in tema di pene accessorie nella parte in cui, anche con riferimento alla eventuale condanna per i delitti indicati in questa disposizione, stabilisce ‘‘la perdita della potestà del genitore, quando la qualità di genitore è elemento costitutivo del reato’’ e richiama anche le ipotesi, previste dagli art. 609-bis — violenza sessuale — e 609-quinquies c.p. — corruzione di minorenne — in cui la qualità di genitore non risulta indicata né come elemento costitutivo, né come circostanza aggravante (2). E tema specifico del mio lavoro, che è stato originato da una conversazione sul sistema delle circostanze e sulle fattispecie qualificate in materia di reati sessuali, è finito con il diventare l’illustrazione delle aporie rispetto al sistema, che caratterizzano anche la disciplina delle circostanze contenute nella l. 15 febbraio 1996 n. 66 e che testimoniano in maniera esemplare l’avvenuta consacrazione del ‘‘tipo emergenziale’’ anche al di là delle emergenze! Prima di addentrarci nel tema specifico del mio contributo — divenuto dunque le aporie del sistema delle circostanze in materia di reati sessuali — è opportuno premettere una serie di brevi considerazioni intorno alle contraddizioni presenti in altri settori della legge, che fungono quasi da presupposto ideale per l’indagine sulle incongruenze oggetto specifico del contributo. È da segnalare l’uso improprio e ricorrente di espressioni del tipo ‘‘delitti previsti dall’art. 609-ter’’, laddove questa norma prevede circostanze, così come tecnicamente imprecisa ed incompleta è la formulazione di apertura dell’art. 609-quater — atti sessuali con minorenni —, ove sa(2) Sul punto, cfr. MELCHIONDA, Commento all’art. 4, in AA.VV., Commentario delle ‘‘norme contro la violenza sessuale’’ (l. 15 febbraio 1996, n. 66) a cura di A. CADOPPI, Padova 1996, p. 93 nota 6.
— 399 — rebbe stato opportuno ricomprendere nel novero delle condotte punibili non solo quelle del ‘‘compiere’’ ma anche quelle del ‘‘far compiere’’ al minore (ovvero dell’indurlo a compiere) atti sessuali su se stesso o su altra persona (3): l’alternativa o è un ingiustificato vuoto di tutela o un’interpretazione estensiva del testo approvato con tutte le riserve che potrebbero essere avanzate sul piano del rispetto del principio di legalità sub specie tassatività, sufficiente determinatezza, e persino divieto di analogia in malam partem (4). Nell’art. 609-quinquies — corruzione di minorenni — si registra la mancata previsione di un’aggravante per aver commesso il fatto in danno di un minore di anni 10, sul modello della circostanza invece prevista nell’ultimo comma degli artt. 609-ter e quater — atti sessuali con minorenni —; analogamente non chiarito è il concetto di ‘‘presenza’’, che pure figurava nell’abrogato art. 530 c.p., se cioè deve trattarsi di una mera presenza fisica o di una presenza cosciente (5), con tutto quel che ne consegue sul piano della determinatezza. Una preoccupante mancanza di coordinamento con il sistema penale vigente si ricava, poi, dalla previsione di atti sessuali violenti commessi dall’ascendente o dal genitore (art. 609-ter n. 5), affatto distinta dal delitto di incesto previsto all’art. 564 c.p.; così come dal problema del possibile concorso tra il delitto previsto dall’art. 613 c.p. — stato di incapacità procurato mediante violenza — e l’uso delle sostanze di cui al n. 2 dell’art. 609-ter c.p. — alcooliche, narcotiche, stupefacenti — che ponga la vittima in condizioni di vera e propria incapacità di intendere e di volere; oppure dalla mancata indicazione dell’operatività dell’ipotesi di omicidio (3) Immaginiamo l’adulto che induce un minore di anni quattordici a compiere atti sessuali con altro minore di anni quattordici: intesa la non punibilità come un limite alla tipicità del fatto ovvero come una causa di giustificazione si avrebbe che, lecita l’azione dei due, sarebbe lecita anche l’azione dell’adulto; se la non punibilità fosse interpretata come una causa di non punibilità che opera oggettivamente, nessuno, per ragioni di opportunità, sarebbe punito, e quindi nemmeno l’adulto (art. 119 comma 2 c.p.); se la si considerasse una scusante i minori continuerebbero a non essere punibili e l’adulto potrebbe al massimo essere ritenuto ‘‘concorrente’’ nel delitto commesso da un soggetto attivo non punibile (art. 119 comma 1 c.p.); se poi fosse superato lo scarto dei tre anni tra i minorenni l’adulto potrebbe al massimo essere punito per concorso in qualità di ‘‘induttore’’, con l’aggravio previsto dall’art. 111 c.p.: cfr., sul punto, VENEZIANI, Commento all’art. 5, in Commentario delle ‘‘norme contro la violenza sessuale’’, cit., p. 142. Se il minore viene indotto dall’adulto al compimento di atti sessuali con altro adulto l’induttore risponde in qualità di concorrente (art. 110 c.p.) se sussistono i necessari requisiti: sicuramente fuori della portata dell’art. 609-quater continuerebbero ad essere, invece, il caso dell’adulto che induce il minore a compiere atti sessuali su se stesso e i casi in cui il genitore, tutore ecc. inducano il minore degli anni sedici a compiere atti sessuali su soggetto che ha compiuto i quattordici anni. (4) Così VENEZIANI, Commento all’art. 5, cit., p. 140. (5) Cfr., in tema, PICOTTI, Commento all’art. 6, in AA.VV. Commentario delle ‘‘norme contro la violenza sessuale’’, cit., p. 175.
— 400 — aggravato ai sensi dell’art. 576 n. 5 c.p. congiunta o meno alla suddetta aggravante nel caso di causazione dolosa della morte. La norma, infatti, non è stata modificata e fa ancora riferimento agli abrogati artt. 519, 520 e 521 c.p. E qui va anche segnalata un’ulteriore stranezza relativa alla mancata abrogazione dell’art. 540 c.p., che definisce il ‘‘rapporto di parentela’’, dal momento che la nuova normativa non fa alcun riferimento a questa disposizione. È da sottolineare che nel primo caso la congiunta applicazione del delitto di incesto e dell’aggravante di cui al n. 5 dell’art. 609-ter originerebbe problemi sul versante del ne bis in idem sostanziale; se invece si ipotizza un assorbimento del delitto di incesto nella (più specifica) circostanza sopra menzionata, si realizza un ingiustificato aggravamento della posizione di quei soggetti (affine in linea retta, fratello, sorella) che non rientrano nella sfera di applicazione della presente circostanza (6): per essi si dovrebbe ammettere il concorso formale di reati. Chiari elementi di incostituzionalità traspaiono ancora dalla mancanza, nell’art. 609-quinquies — corruzione di minorenni —, di una causa di non punibilità analoga a quella prevista al comma 2 dell’art. 609-quater — rapporti sessuali tra minorenni —, con la conseguente disparità di trattamento che si verifica, ad esempio, tra il minore (punibile) che compie atti sessuali su di sé davanti ad una tredicenne ed il minore che induce una tredicenne a compiere i medesimi atti sessuali su di lui (non punibile). Del tutto incomprensibile appare poi la riproposizione del ‘‘vecchio’’ art. 539 c.p., molto discusso sul piano della legittimità costituzionale, nell’enunciato dell’art. 609-sexies (‘‘L’ignoranza dell’età della persona offesa, quando si tratta di minore degli anni quattordici, non scusa’’) (7). Va evidenziato che ora la violazione dell’art. 3 Cost. si evidenzia ancor più chiaramente per via della modifica della disciplina dell’imputazione delle circostanze aggravanti, che devono essere dal soggetto ‘‘conosciute ovvero ignorate per colpa’’ (art. 59 comma 2 c.p.): ciò crea una notevole disparità di trattamento tra l’errore sull’età che scusa e l’ipotesi dell’art. 609-sexies in cui esso non scusa mai, pur concernendo un elemento ancor più significativo, cioè un elemento essenziale del fatto che dà fondamento all’offesa e, quindi, alla stessa tipicità del fatto (8). Sarebbe stato logico, ed anche in sintonia con altri modelli stranieri, prevedere una scusabilità limitatata e costruita sul modello ‘‘imposto’’ dalla pronuncia della Corte cost. n. 364 del 1988. In tema di querela, inoltre, l’art. 609-septies si rivela contraddittorio sotto il profilo delle opzioni di politica criminale nel momento in cui mo(6) Sull’argomento, cfr. MELCHIONDA, Commento all’art. 4, cit., p. 108. (7) Sul punto, v. infra. (8) Cfr. CADOPPI, Commento all’art. 3, in AA.VV., Commentario delle ‘‘norme contro la violenza sessuale’’, cit., p. 212.
— 401 — stra di tutelare mediante l’irrevocabilità della querela (che pure sembra palesare aspetti di incostituzionalità) la parte offesa e poi amplia il periodo di tempo per la decisione in ordine alla presentazione di questa, con ciò esponendo maggiormente la vittima alle temute pressioni per non presentare querela (9). In ordine al regime della procedibilità si registra un aumento delle ipotesi di procedibilità d’ufficio rispetto al precedente regime, quasi a farne la regola. Infatti, si procede d’ufficio per gli art. 609-quinquies — corruzione di minorenni — ed octies — violenza sessuale di gruppo —; per l’art. 609-bis — violenza sessuale —, qualora il fatto sia commesso nei confronti di persona che al momento del fatto non aveva compiuto i quattordici anni; per l’art. 609-quater ultimo comma — atti sessuali con minore di anni dieci —. Si procede a querela di parte per tutti gli altri casi nelle ipotesi descritte dagli artt. 609-bis, ter e quater. 2. L’attenuante della minore gravità della violenza sessuale. — Passiamo ora ad esaminare più da vicino, la circostanza attenuante contenuta nell’art. 609-bis (10). Il limite edittale è fissato dal comma 1 dell’art. 609-bis c.p. nella reclusione da cinque a dieci anni (secondo la normativa previgente andava da 3 a 10 anni), ma basta una delle circostanze di cui all’art. 609-ter c.p. perché la cornice inferiore raggiunga i sei anni. Parallelamente va detto che, se il nuovo assetto sanzionatorio rispondeva all’esigenza di escludere l’applicazione di istituti premiali e di benefici — secondo opzioni da tipo d’autore non proprio rispettabili — ebbene neppure questo obiettivo è stato centrato dal legislatore. Infatti, la pena minima di 5 anni con l’applicazione delle attenuanti generiche può scendere a 3 anni e 4 mesi; con l’aggiunta del risarcimento del danno può arrivare a circa 2 anni e 3 mesi; con un’ulteriore attenuante (ad es. il fatto doloso della persona offesa o la provocazione) può giungere ad 1 anno e 6 mesi, con l’ampia possibilità di applicare la sospensione condizionale. (9) Cfr. VIRGILIO, Commento all’art. 8, in AA.VV., Commentario delle ‘‘norme contro la violenza sessuale’’, cit., p. 225. A parere dell’Autrice sarebbe stato preferibile un regime di procedibilità a querela senza limiti temporali prefissati (ovviamente entro i termini di prescrizione), op. cit., p. 233. (10) Che recita: « Violenza sessuale. Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Nel caso di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi ».
— 402 — Tutto questo senza contare la possibilità di ottenere (anche in presenza di due sole attenuanti) il rito abbreviato o il patteggiamento, ed anche in tal caso scendere sotto i 2 anni, con conseguente via libera all’applicazione della ‘‘paventata’’ sospensione condizionale. A maggior ragione ciò sarà possibile ove ricorra l’attenuante della minore gravità, nel qual caso la pena base da cui partire per ulteriori abbassamenti, in presenza di altra o di altre attenuanti, sarebbe di 1 anno e 8 mesi (11). Si può, quindi, provocatoriamente affermare che, di fatto, la violenza sessuale, prima punita con una pena da 3 a 10 anni, oggi è punita con pena più bassa che va da 1 anno e 8 mesi a 10 anni (12). Il regime circostanziale introdotto dall’art. 609-bis comma 3, potendo attenuare in misura non eccedente i due terzi la sanzione, finisce per stravolgere sul piano generalpreventivo lo stesso messaggio ‘‘culturale’’ della norma. Ugualmente da censurare è la previsione di una diminuente così ampia solo per porre al riparo la legge da possibili censure di legittimità costituzionale (ex art. 27 Cost.) per eccessiva severità della pena base (13). Si tratta in ogni caso di una circostanza ad effetto speciale (art. 63 comma 3 c.p.), dal momento che importa una diminuzione della pena superiore a un terzo. Ci sembra il caso di segnalare, sul piano della sciatteria, che la scelta terminologica di prevedere una diminuente ‘‘in misura non eccedente i due terzi’’ (soluzione ritenuta più in sintonia con la formula adoperata nell’art. 65 n. 3 c.p.) non corrisponde alla dizione contenuta nel successivo art. 609-quater, ove continua a parlarsi di diminuzione ‘‘fino a due terzi’’. Era questo un coordinamento tanto difficile da attuare? Qualora l’attenuante concorra con una o più aggravanti il bilanciamento conseguente farà sì che in caso di prevalenza o di equivalenza della/e aggravante/i l’effetto attenuante della minore gravità sarà in toto annullato: nella prima ipotesi si terrà conto solo delle aggravanti, nella seconda si applicherà la fattispecie base senza tener conto né dell’attenuante, né della o delle aggravanti. In caso di concorso con altre attenuanti si applicheranno i criteri di cui all’art. 63 comma 3 c.p. e cioè diminuzione calcolata sulla pena stabilita per la circostanza ad effetto speciale. Qualora anche altre circostanze concorrenti fossero ad effetto spe(11) Si noti che quest’ultima pena è inferiore di 4 mesi alla pena minima prevista per gli atti di libidine dell’abrogato art. 521 c.p. (12) Per queste osservazioni si rinvia a CADOPPI, Commento all’art. 3, cit., p. 80. (13) Su questo malcelato intento del legislatore cfr. VESSICHELLI, Con l’aumento del minimo edittale a cinque anni ora più difficile la strada del ‘‘patteggiamento’’, in Il Sole 24 Ore, Guida al diritto, 2 marzo 1996, n. 9, 23. Contra, sulle conseguenze ‘‘non necessariamente negative’’, v. CADOPPI, Commento all’art. 3, cit., p. 29.
— 403 — ciale, si applicherà l’ultimo comma dell’art. 63 c.p., applicazione della pena meno grave, con possibilità di ulteriore diminuzione. Sul piano dei criteri di applicazione, l’attenuante di cui al comma 3 dell’art. 609-bis, si propone come circostanza indefinita o discrezionale, perché la legge non tipicizza le modalità del fatto da cui dipende l’applicazione di essa (14). Per quanto attiene al delitto circostanziato tentato, in relazione all’attenuante di cui al comma 3, esso sembra ravvisabile (in analogia con quanto di solito viene ammesso ex art. 62 n. 4 — danno patrimoniale di speciale tenuità) ogniqualvolta sia chiaro che il colpevole stava ponendo in essere un fatto di minore gravità. In tali casi il giudice dovrà applicare la diminuzione di cui all’art. 56 c.p. — pena stabilita per il delitto diminuita da un terzo a due terzi — della pena di cui al reato circostanziato (che spazia da 1 anno e 8 mesi a 10 anni meno 1 giorno). Sul piano del contenuto di illiceità, l’attenuante in esame concerne ipotesi che non possono ancora definirsi bagatellari e presuppone comunque che nel caso concreto vi sia stata lesione del bene giuridico rilevante ex art. 609-bis c.p. La predisposizione di una fattispecie di molestie sessuali (secondo l’indirizzo prevalente in Europa e sul tipo di quella contemplata all’art. 71 comma 1 dello Schema di legge delega per la riforma del codice penale) — di cui si lamenta l’assoluta latitanza in questa legge — avrebbe meglio risolto i problemi di ‘‘perdita di identità’’ per quelle ipotesi residuali che risultano, ora, di difficile collocazione in un’attenuante che è comunque indefinita. Corollario dell’accorpamento in un’unica figura — con livellamento verso l’alto del trattamento sanzionatorio — delle due attuali ipotesi di violenza sessuale e della nuova formulazione della fattispecie di abuso sarebbe stata, infatti, l’introduzione di una nuova figura di molestie sessuali o di ingiuria — di cui pur si era discusso nell’ambito del lungo iter legislativo —, ritagliando verso il basso delle ipotesi-base, relative a quelle condotte, pur genericamente espressive di una pulsione a sfondo sessuale, e tuttavia inidonee ad assumere i connotati dell’aggressione sessuale vera e propria. Ciò sarebbe servito anche a mantenere un’affidabile cornice sanzionatoria alle ipotesi-base, senza introdurre regimi circostanziali che, potendo attenuare fino ai due terzi la sanzione, ripetiamo, finiscono per stravolgere sul piano generalpreventivo lo stesso messaggio ‘‘culturale’’ della norma. Infine, anche la presenza dell’attenuante di cui all’art. 609-bis comma (14) Circostanze del genere sono presenti, ad esempio, all’art. 311 c.p., all’art. 5 l. n. 895/1967, all’art. 4 comma 2 d.l. n. 429/1982, all’art. 73 comma 5 d.P.R. n. 309/1990 per la lieve entità e all’art. 648 comma 2 nonché all’art. 323-bis c.p. per la particolare tenuità.
— 404 — 3 contrasta una delle forti rationes di questa riforma: soddisfare l’esigenza di una maggior tutela della privacy della vittima. In realtà, la struttura della/e fattispecie incriminatrici è irrilevante rispetto al dovere giudiziale di accertare l’esatta dinamica del fatto aggressivo. L’ontologica differenza e la naturalistica gerarchia fra le condotte sussumibili sotto qualsiasi modello di violenza sessuale — unitario o articolato che sia —, impone comunque al giudice, vincolato al principio di personalità della responsabilità penale (art. 27 comma 1 Cost.) ed orientato, nell’esercizio della sua discrezionalità, dai criteri di cui all’art. 133 c.p., di svolgere ogni accertamento possibile e consentito per la corretta ricostruzione dell’episodio. E ciò vale specialmente in relazione a tipologie tanto odiose di criminali, ma, forse proprio per questo, più bisognose di intransigente garanzia. E tutto questo appare tanto più necessitato dall’opzione normativa fissata nell’art. 609-bis, viste le oscillazioni amplissime che la reale cornice editale della nuova figura consente: 5-10 anni, con possibilità, poco determinata, di riduzione fino ai due terzi. 3. Il sistema delle circostanze aggravanti. — Prima di occuparci delle circostanze aggravanti introdotte dalla l. n. 66/1996, ci sembra il caso di porre in rilievo che, ben al di là della materia che ci occupa, è forse maturata l’esigenza di incidere radicalmente sull’intero sistema generale delle circostanze, del tutto pletorico nel suo taglio casistico: esso attualmente non ha altra funzione se non quella di rendere sempre più complessa ed inappagante la minaccia e la commisurazione della pena. Sarebbe, infatti, molto opportuno orientarsi, con un’opzione di carattere generale, alla rinuncia di principio a questi accidentalia delicti, che un’accurata tipizzazione delle condotte, una ragionevole definizione dei limiti edittali ed un funzionale meccanismo generale di commisurazione, orientato a scopi ed a valori costituzionali, renderebbe del tutto superflui. Con un’opzione di questo genere si contribuirebbe non poco a quell’indispensabile semplificazione del sistema, proficua sotto il profilo della garanzia e dell’efficienza. Qualora si ritenesse di voler ritagliare per casi particolari regimi sanzionatori differenziati, nulla vieterebbe di introdurre autonome fattispecie di reato. Una rimarchevole novità della legge in esame è indubbiamente costituita dalla disciplina delle aggravanti, di cui all’art. 609-ter (15). Le ipo(15) La norma recita: « Circostanze aggravanti. La pena è della reclusione da sei a dodici anni se i fatti di cui all’art. 609-bis sono commessi: 1) nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni quattordici; 2) con l’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa; 3) da persona travisata o che simuli la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio;
— 405 — tesi che ora danno vita a circostanze, a differenza di quanto originariamente previsto, comportano l’aumento dell’intera cornice edittale, determinando la misura della sanzione in modo indipendente dalla pena ordinaria. In ogni caso, la natura circostanziale delle ipotesi previste nell’art. 609-ter è generalmente accolta, sebbene sia stata anche, impropriamente, utilizzata l’espressione ‘‘delitti’’ previsti dall’art. 609-ter. Il reato appare, dunque, per la prima volta, circostanziato; il legislatore ha optato per un obbligatorio aumento dei limiti edittali minimi e massimi di pena previsti per il delitto di cui all’art. 609-bis c.p.. Tuttavia, come vedremo, il quadro sanzionatorio sembra mantenere un sufficiente margine di manovra per l’imputato che aspiri al patteggiamento ovvero alla sospensione condizionale della pena. Le circostanze aggravanti, in linea di massima, sono imperniate o sulla particolare gravità di talune modalità del fatto o sulla presenza di speciali rapporti tra autore e vittima. In particolare, le aggravanti che comportano la pena della reclusione da 6 a 12 anni si riferiscono ai casi di stupro ai danni di minore di anni 14; di uso di armi o droghe; di travestimento o simulazione; di vittima detenuta (16); di fatto commesso nei confronti del minore di anni sedici, da parte dell’ascendente, del genitore anche adottivo, del tutore (17). Vi è quindi un’aggravante, sicuramente ad effetto speciale, in quanto comporta la pena della reclusione da 7 a 14 anni e si riferisce al caso in cui la vittima non ha compiuto i dieci anni. Notevoli difficoltà derivano dalla classificazione delle varie ipotesi previste quali circostanze ad effetto speciale, ovvero ad effetto comune, nonché dai rapporti fra alcune delle circostanze previste dall’art. 609-ter c.p. ed altre fattispecie autonome, ovvero altre ipotesi circostanziali. 4) su persona comunque sottoposta a limitazioni della libertà personale; 5) nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni sedici della quale il colpevole sia l’ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore. La pena è della reclusione da sette a quattordici anni se il fatto è commesso nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni sedici ». (16) La locuzione utilizzata nell’art. 609-ter comma 1 n. 4 riecheggia quella di cui all’art. 61 n. 11 c.p. in tema di circostanze aggravanti. Lo stato di limitazione della libertà della persona offesa origina l’aggravio della sanzione (alla presenza delle condizioni soggettive di cui all’art. 59 comma 2 c.p.) a prescindere dall’esistenza, in capo all’agente, della qualifica di pubblico ufficiale e, conseguentemente, della configurabilità di un vincolo di custodia o affidamento con quest’ultimo. (17) Detta circostanza ha natura soggettiva ai sensi dell’art. 70 comma 1 n. 2 c.p. Il rapporto tra il colpevole e l’offeso, tuttavia, se conosciuto o ignorato per colpa, produce effetti anche a carico del correo, non rientrando nella previsione limitativa di cui all’art. 118 c.p. (così come modificato dalla l. n. 19/1990). L’aggravante in esame non si estende alle persone aventi funzione educativa sul minore perchè evidentemente si è ritenuta sufficiente, al riguardo, l’aggravante comune di cui all’art. 61 n. 11 c.p.: in senso critico, sul punto, MULLIRI, La legge sulla violenza sessuale. Analisi del testo, primi raffronti e considerazioni critiche, in Cass. pen., 1996, II, 742.
— 406 — Con riferimento a quest’ultimo problema segnaliamo che nel caso di atti sessuali compiuti nei confronti di quattordicenni, descritti nella prima aggravante, sussisterà l’alternativa tra l’integrazione del reato di cui all’art. 609-quater comma 1 n. 1 — atti sessuali con minorenni — che importa, però, procedibilità a querela di parte e della figura di violenza sessuale (art. 609-bis) aggravata ex art. 609-ter comma 1 n. 1 e procedibile d’ufficio. Per entrambe le ipotesi, invece, l’art. 609-sexies prevede che il colpevole non può invocare, a propria scusa, l’ignoranza dell’età della persona offesa (18): da questo punto di vista, l’alternativa tra circostanza e/o elemento costitutivo di un’autonoma fattispecie incriminatrice non porterebbe, a differenza di quanto segnalato per il versante della procedibilità, ad alcuna differenza applicativa. Maggiori problemi derivano dall’interpretazione della seconda circostanza — uso di armi, sostanze alcooliche, stupefacenti e altri strumenti o sostanze gravemente lesive della salute —, che accomuna elementi eterogenei ed indeterminati (19). Si può osservare, ad esempio, che l’uso di armi come aggravante è difficilmente compatibile con l’ipotesi di induzione descritta al n. 2 dell’art. 609-bis — inganno ai danni della persona offesa —, che viceversa può essere aggravata dall’uso di sostanze alcooliche o stupefacenti. È legittimo l’interrogativo intorno al requisito della signoria dell’autore del fatto in merito all’assunzione ed intorno alla funzionalità agevolatrice dell’uso di tali sostanze per la realizzazione del fatto: ed invero, quid juris se la vittima aveva assunto tali sostanze spontaneamente, ovvero se la specifica modalità della condotta qui descritta come aggravante non abbia minimamente influito sulla capacità di autodeterminazione della vittima, né abbia creato i presupposti di un pericolo per la salute? Quid juris, inoltre, nel caso in cui l’agente non era a conoscenza dell’uso di tali sostanze? Evidentemente, anche sotto questo profilo, la normativa lascia a desiderare. La terza circostanza disposta dall’art. 609-ter — travisamento o simulazione — risulta formulata in termini identici a quelli previsti per l’analoga aggravante del delitto di furto, di cui all’art. 625 n. 5 c.p.; la quarta ipotesi — persona sottoposta a limitazioni della libertà —, in quanto aggravante della fattispecie di violenza sessuale contemplata dall’art. 609-bis, determina una vera e propria abolitio criminis per l’ipotesi autonoma di congiunzione carnale commessa con abuso della qualità di (18) Questa circostanza risulta, quindi, non riconducibile a quelle contemplate nell’art. 118 c.p.: gli effetti aggravanti, cioè, si comunicano anche a quei compartecipi che abbiano direttamente concorso alla circostanza del fatto senza conoscere la vera età della persona offesa. (19) Si pensi al richiamo agli ‘‘altri strumenti’’ gravemente lesivi della salute della persona offesa.
— 407 — pubblico ufficiale, in precedenza descritta dall’art. 520 c.p. e punita a prescindere dall’eventuale consenso della vittima. La quinta circostanza indica tassativamente quali destinatari dell’aumento di pena l’ascendente, il genitore anche adottivo e il tutore. Non si è ritenuto di estenderne l’ambito operativo, onde evitare che l’aggravante in oggetto potesse sovrapporsi a quella disposta in via generale dall’art. 61 n. 11 c.p. — abuso di autorità ecc. — e portare così ad effetti opposti a quelli voluti, cioé ad una pena inferiore a quella che si avrebbe applicando l’aggravante comune. Comunque, sussiste, al riguardo, il pericolo di uno spostamento della problematica dal versante del concorso di reati a quello del concorso di circostanze (20). Dal problema di un concorso di norme tra l’art. 564 c.p. — incesto — e il n. 5 dell’art. 609-ter che aggrava l’art. 609-bis si passa alla peculiarità di una fattispecie circostanziata (quella appena descritta), a più fattispecie alternative con eventuale aggravamento ai sensi dell’art. 61 n. 11 e distinzione dall’ipotesi descritta nell’art. 609-quater n. 2 — atti sessuali con minori di anni 16 —, riguardante i minorenni, in cui sono puniti gli atti sessuali a prescindere dalla violenza e dal consenso. Probabilmente, se l’intento era quello di aggravare l’art. 609-quater in presenza della costrizione e dell’induzione, che ricorrono nella figura criminis di cui all’art. 609-bis, meno problemi sarebbero derivati dall’inserimento di un’altra aggravante nel suddetto art. 609-quater, costruita, appunto, su induzione e/o costrizione. Per le ipotesi di specialità reciproca fra circostanze tutte comuni, ovvero tutte speciali, dovrebbe operare l’art. 68 c.p. in tema di limiti al concorso di circostanze. Un’altra distinzione deve essere tracciata tra l’art. 609-sexies, in cui non rileva l’eventuale errore sull’età della vittima, e l’aggravante n. 5 dell’art. 609-ter — rapporti del genitore con infrasedicenne —, per la quale (sebbene sia difficilmente riscontrabile un errore, in concreto, stante lo stretto legame tra vittima e agente) sarà applicabile in via ordinaria la disciplina di cui all’art. 59 comma 2 c.p., in correlazione a quanto previsto anche dall’art. 60 c.p. Si ritiene, inoltre, circa l’ipotizzabilità di un errore del soggetto agente sul rapporto che lo lega alla persona offesa, che, se l’errore consegue ad uno scambio di persona, troverà applicazione il disposto dell’art. 60 comma 1 c.p. (e quindi il soggetto non risponderà dell’aggravante in argomento); se l’errore deriverà da un’inesatta conoscenza del rapporto con la vittima effettivamente designata, la disciplina sarà quella di cui all’art. 59 comma 2 c.p. (con conseguente irrilevanza dell’er(20)
Sul tema, cfr. MELCHIONDA, Commento all’art. 4, cit., p. 109.
— 408 — rore dell’agente, tutte le volte in cui questo sia a lui addebitabile per colpa) (21). Con la più specifica circostanza aggravante inserita al comma 2 dell’art. 609-ter — vittima infradecenne — il legislatore ha inteso puntualizzare in forma autonoma la maggiore gravità di atti sessuali commessi in danno di bambini di età inferiore ai dieci anni, sebbene la cornice edittale sia comune a quella ritagliata, con una tecnica legislativa assai discutibile, dall’ultimo comma del successivo art. 609-quater — atti sessuali con minorenne —. Non ritroviamo, invece, un’analoga aggravante nell’art. 609-quinquies — corruzione di minorenne — nel caso in cui la vittima non abbia compiuto i dieci anni, né alcuno specifico rilievo per l’eventualità che l’abuso sul minore di dieci anni sia avvenuto in ambito familiare. L’articolo in esame — il 609-ter — propone, inoltre, una serie di circostanze non propriamente definibili ad effetto speciale ai sensi dell’art. 63 comma 3 c.p. (22); tuttavia la maggiore pena edittale stabilita per questa aggravante, al comma 2, consente una sua classificazione come circostanza ad effetto speciale (23). La questione inerente la natura delle aggravanti in oggetto è di notevole interesse e, a seconda delle soluzioni accolte, si avranno conseguenze rimarchevoli sul piano della quantificazione della sanzione. Secondo la disciplina inizialmente prevista dal codice penale del 1930, tutte le circostanze dell’art. 609-ter sarebbero state classificate quali circostanze indipendenti (24) (e/o ad effetto speciale): circostanze, cioè, per le quali la legge determina la misura della pena ‘‘in modo indipendente dalla pena ordinaria del reato’’, e che quindi, ai sensi di quanto originariamente previsto dal comma 3 dell’art. 63 c.p., avrebbero dovuto essere applicate sostituendo la pena edittale del reato base con quella autonomamente prevista per la singola circostanza indipendente. L’eventuale concorso di più circostanze autonome e/o indipendenti comportava l’applicazione della sola pena edittale più grave in caso di aggravanti, ovvero di quella più lieve in caso di attenuanti (secondo la disciplina dei commi 4 e 5 dell’art. 63 c.p.), ferma restando la facoltà per il giudice di procedere rispettivamente ad un ulteriore aumento ovvero un’ulteriore diminuzione, fino ad un terzo. In caso di concorso omogeneo con altre cir(21) In tal senso cfr. MELCHIONDA, Commento all’art. 4, cit., p. 111. (22) Così VESSICHELLI, Con l’aumento del minimo edittale a cinque anni ora più difficile la strada del ‘‘patteggiamento’’, cit., p. 24. (23) Cfr. MELCHIONDA, Commento all’art. 4, cit., p. 113. (24) In precedenza, le circostanze ‘‘autonome’’ comportavano un mutamento nella specie di pena, laddove quelle indipendenti presentavano un’autonoma cornice edittale di pena. Questa contrapposizione definitoria fu ritenuta preferibile anche rispetto al già ricorrente indirizzo dottrinale favorevole ad utilizzare la nozione di ‘‘circostanze ad effetto speciale’’: sul punto, per tutti, diffusamente MELCHIONDA, Commento all’art. 4, cit., p. 113 ss.
— 409 — costanze ad effetto comune (però non caratterizzate né da un mutamento della specie di pena, né da una variazione indipendente), il giudice avrebbe viceversa dovuto procedere ad una predeterminazione della pena base nell’ambito della cornice edittale prevista per la circostanza autonoma e/o indipendente, e sulla pena così preventivamente individuata applicare l’ulteriore variazione frazionaria prevista per la circostanza ad effetto comune. La riformulazione dell’art. 63 comma 3 c.p. introdotta dalla l. 31 luglio 1984 n. 400, probabilmente per una svista del legislatore, ha determinato problemi ulteriori: ‘‘Quando per una circostanza la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o si tratta di circostanza ad effetto speciale, l’aumento o la diminuzione per le altre circostanze non opera sulla pena ordinaria, ma sulla pena anzidetta. Sono circostanze ad effetto speciale quelle che importano un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo’’. Finché si tratta di individuare ipotesi con variazioni aritmetiche o qualitative di pena non sussiste alcun problema: altro è, invece, il caso della classificazione delle circostanze che, come quelle in esame, producono una variazione indipendente della pena, con un’autonoma cornice edittale. Premesso che in tale ultima ipotesi non è ipotizzabile, de lege lata, una trasformazione in autonome figure di reato restano solo due soluzioni possibili: la prima conduce a classificare anche queste circostanze in ragione del criterio matematico (25). In tali casi si tratterà di valutare, secondo un calcolo frazionato ideale, se l’autonoma rideterminazione della cornice edittale di pena comporti, di fatto, una variazione superiore, o meno, ad un terzo di quella prevista per il delitto base (26). Altra parte della dottrina ha invece sostenuto che l’omessa considerazione della precedente tipologia delle circostanze ad effetto indipendente possa essere stata determinata da una mera ‘‘svista’’ legislativa, — e su questo siamo d’accordo — in considerazione del radicale sconvolgimento normativo, probabilmente non voluto, che si è venuto a determinare; per(25) CONCAS, Il nuovo sistema delle circostanze, in Cass. pen., 1984, 2298; FLORA, Commento all’art. 5 l. 31 luglio 1984, n. 400, in Legisl. pen., 1984, 389; PALAZZO, La recente legislazione penale, Padova 1985, p. 256; PADOVANI, Circostanze del reato, in Dig. disc. pen., vol. II, Torino 1988, p. 211. (26) Laddove tale variazione si riveli superiore al terzo sul piano del minimo, ma non su quello del massimo edittale, o viceversa, il problema si complica ancor più, perchè taluno sostiene che si dovrebbe dare rilievo solo al massimo nel caso delle aggravanti e solo al minimo nel caso delle attenuanti: (in questo senso ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, 2a ed., Milano 1995, sub art. 63, n. 8, p. 651, che ritiene comunque preferibile la tesi di una integrale ricomprensione di tutte le circostanze a variazione indipendente nella categoria delle circostanze ad effetto speciale): altri ritengono, invece, che ognuna delle due eventualità obbligherebbe a classificare la corrispondente ipotesi quale circostanza ad effetto speciale (cfr. CONCAS, op. cit., 2300; PADOVANI, op. cit., p. 211).
— 410 — tanto, con un’interpretazione secondo noi eccessivamente disinvolta, sarebbe possibile continuare a ritenere tali ipotesi, caratterizzate da un’autonoma determinazione edittale della pena, tutte tacitamente ed implicitamente contenute nella categoria delle circostanze ad effetto speciale, a prescindere dall’entità della concreta variazione di pena (27). Se aderiamo al primo indirizzo (che deve essere privilegiato per la sua conformità alle regole della legalità) (28), le aggravanti disciplinate nel comma 1 dell’art. 609-ter dovrebbero rientrare tra le circostanze ad effetto comune, non variandosi di un terzo né il minimo né il massimo della pena; la circostanza del comma 2, invece, risulterebbe ad effetto speciale per la variazione superiore al terzo. La seconda soluzione interpretativa porterebbe, invece, a valutare tutte le aggravanti dell’art. 609-ter (sia del primo che del secondo comma, quindi) quali circostanze ad effetto speciale. La differenza tra i due opposti indirizzi si avverte soprattutto nell’ipotesi di concorso omogeneo di più circostanze. I casi ipotizzabili sono sei: 1) Se concorrono più circostanze del comma 1 dell’art. 609-ter c.p. avremo che, se si ritiene (secondo il primo indirizzo) che le predette siano circostanze ad effetto comune, opereranno i primi due commi dell’art. 63 c.p., con il giudice che dovrà dapprima fissare la pena base all’interno dei limiti edittali stabiliti per il delitto di cui all’art. 609-bis (reclusione da cinque a dieci anni) e, successivamente, applicare un aumento fisso di un quinto per ogni circostanza concretamente integrata, posto che ognuna delle aggravanti del comma 1 dell’art. 609-ter comporta, nella sostanza, l’aumento di un quinto rispetto alla fattispecie base del precedente art. 609-bis. Se si opta per la seconda tesi, che riconosce anche le predette circostanze come ad effetto speciale, opererà l’art. 63 comma 4 c.p. e la pena edittale prevista (reclusione da sei a dodici anni) potrà essere ulteriormente aumentata fino ad un terzo. 2) Se concorrono una o più circostanze del comma 1 dell’art. 609ter c.p. con quella del comma 2 (che rispetto alla pena prevista per la fattispecie dell’art. 609-bis comporta un aumento di due quinti) avremo che, per la prima tesi, il concorso della circostanza ad effetto speciale (art. 609-ter comma 2) con una o più circostanze ad effetto comune (di cui al comma 1 dell’art. 609-ter) richiederà l’applicazione della pena base del comma 2 (reclusione da sette a quattordici anni) con tanti aumenti fissi di (27) Cfr. DE VERO, Le circostanze del reato al bivio tra reintegrazione e disintegrazione sistematica. I riflessi delle novelle del 1984, in questa Rivista, 1986, 85; ROMANO, op. cit., sub Pre art. 59, n. 34, p. 605. (28) In termini fortemente critici, sulla disciplina introdotta dalla l. n. 66/1996, v. MELCHIONDA, Commento all’art. 4, cit., p. 119.
— 411 — un quinto quante sono le circostanze ad effetto comune del comma 1 concretamente realizzate. Per la seconda tesi il concorso di circostanze tutte ad effetto speciale renderà applicabile come pena base quella prevista nel comma 2 dell’art. 609-ter (reclusione da sette a quattordici anni), con facoltà giudiziale di dar luogo ad un unico, ulteriore aumento fino ad un terzo. 3) Se concorrono una o più circostanze dell’art. 609-ter con quella ad effetto speciale prevista dall’art. 36 l. n. 104/1992 (aumento della pena da un terzo alla metà qualora l’offeso sia una persona portatrice di handicap) si avrà che, per la prima tesi, le circostanze del comma 1 dell’art. 609-ter saranno ritenute ad effetto comune e, come per il caso di concorso con la circostanza (sicuramente) ad effetto speciale del comma 2, avremo l’applicazione della pena base quantificata all’interno dei limiti edittali previsti per l’aggravante ex art. 36 citato, con tanti aumenti fissi di un quinto quante sono le circostanze ad effetto comune del comma 1 concretamente integrate. Se concorre la circostanza ad effetto speciale del comma 2 dell’art. 609-ter con quella dell’art. 36 citato, pure ad effetto speciale, sarà considerato il solo aumento previsto per l’aggravante caratterizzata da pena maggiore di cui all’art. 36 con facoltà del giudice di procedere ad un ulteriore, singolo aumento fino ad un terzo. Per la seconda tesi il concorso di circostanze tutte ad effetto speciale (sia del primo che del comma 2 dell’art. 609-ter) porterà a considerare il solo aumento di pena previsto per l’aggravante (caratterizzata da pena maggiore che in concreto va da sei anni e otto mesi (29) a quindici anni di reclusione (30)) di cui al citato art. 36 l. n. 104/1992, con facoltà del giudice di procedere ad un ulteriore, singolo aumento fino ad un terzo. 4) Se vi è concorso di una o più circostanze dell’art. 609-ter c.p. con altre circostanze aggravanti comuni avremo che, alla luce della prima tesi (che classifica quali circostanze ad effetto comune l’insieme delle ipotesi di cui al comma 1 dell’art. 609-ter), si procederà al cumulo materiale dei vari aumenti di pena: la pena base dell’art. 609-bis verrà aumentata di un quinto (31) per ogni circostanza speciale dell’art. 609-ter e di un terzo per ogni circostanza comune di cui all’art. 61 c.p. L’ordine degli aumenti è indifferente e si terrà comunque conto del limite massimo, fissato dall’art. 66 c.p. nel triplo del massimo stabilito per il reato base, pari, quindi, a trent’anni di reclusione. 5) Nell’ipotesi di concorso eterogeneo di una o più circostanze fra quelle previste dall’art. 609-ter con circostanze attenuanti comuni (si pensi all’avvenuto risarcimento del danno ex art. 62 n. 6 c.p., ovvero alle (29) (30) (31)
Aumento di un terzo del minimo edittale del reato base. Aumento della metà del massimo edittale del reato base. Due quinti, se trattasi dell’aggravante di cui al comma 2 dell’art. 609-ter.
— 412 — attenuanti generiche ex art. 62-bis) la regola applicabile sarà, ovviamente, quella dell’art. 69 c.p.: solo in caso di prevalenza delle aggravanti si riproporranno le precedenti situazioni attinenti al concorso omogeneo. 6) Se, infine, concorrono una o più circostanze fra quelle stabilite dall’art. 609-ter c.p. e l’ipotesi di minore gravità prevista dal comma 2 dell’art. 609-bis, avremo un’altra ipotesi di concorso eterogeneo e di conseguente bilanciamento, in cui il giudice potrà spaziare da una pena minima di un anno e otto mesi ad una massima di dodici, ovvero di quattordici anni (limiti minimi e massimi che saranno ancora più dilatati, ove si registri anche un concorso di più aggravanti o di più attenuanti). 4. Il regime sanzionatorio relativo alle fattispecie di atti sessuali con minorenni e di corruzione di minorenni. — A) La fattispecie di atti sessuali con minorenni prevista dall’art. 609-quater (32). L’articolo in esame sembra porre a fondamento di tutela il bene giuridico della libertà sessuale del minore. Non pare, tuttavia, da trascurare la soluzione che diversifica il bene giuridico protetto, rispettivamente, dalla fattispecie di atti sessuali con persona infraquattordicenne (comma 1 n. 1) e dalla fattispecie di atti sessuali in cui il soggetto passivo ha compiuto i quattordici anni, ma è minore di anni sedici (comma 1 n. 2). Nel primo caso, infatti, sembra mancare lo stesso riconoscimento di un diritto alla libera esplicazione delle proprie qualità e facoltà sessuali. Pertanto la stessa affermazione secondo la quale, nei casi in cui difetti la violenza o la minaccia, il bene leso sarebbe comunque la libertà nelle scelte di carattere sessuale, pare difficile da conciliare con la costatazione che al minore degli anni quattordici l’ordinamento non riconosce, in realtà, un diritto di autodeterminazione sessuale. Alla volontà del minore degli anni quattordici, dunque, è preclusa ogni rilevanza in positivo, cioè a consentire l’atto sessuale, potendo peraltro venire in considerazione la volontà negativa come aggravante (ed è (32) La norma recita: « Atti sessuali con minorenne. Soggiace alla pena stabilita dall’art. 609-bis, chiunque, al di fuori delle ipotesi previste in detto articolo, compie atti sessuali con persona che, al momento del fatto: 1) non ha compiuto gli anni quattordici 2) non ha compiuto gli anni sedici quando il colpevole sia l’ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato o che abbia, con quest’ultimo, una relazione di convivenza. Non è punibile il minorenne che, al di fuori delle ipotesi previste nell’art. 609-bis, compie atti sessuali con un minorenne che abbia compiuto gli anni tredici, se la differenza di età tra i soggetti non è superiore a tre anni. Nei casi di minore gravità la pena è diminuita fino a due terzi. Si applica la pena di cui all’art. 609-ter, comma 2, se la persona offesa non ha compiuto gli anni dieci ».
— 413 — una novità) dei fatti di violenza ex art. 609-bis. Sotto questo profilo ciò che si intende tutelare, più che la mera libertà sessuale, è, nella migliore delle ipotesi, l’integrità fisio-psichica del minore con riferimento alla sfera sessuale, nella prospettiva di un corretto sviluppo della propria sessualità. La tipicizzazione del delitto segue, in tal senso, il modello del pericolo astratto, se non addirittura presunto: è preclusa in radice, infatti, ogni indagine diretta a stabilire se l’atto sessuale abbia prodotto o meno un pericolo per l’interesse tutelato. Parzialmente diverso è invece il discorso che si pone per l’ipotesi di cui al n. 2 del comma 1, ove il compimento del quattordicesimo anno colloca il minore al di fuori della sfera di intangibilità sessuale, pur assicurandogli la titolarità di un diritto alla libertà sessuale, intesa come diritto a pretendere che altri non aggredisca il proprio corpo o la propria psiche con atti sessuali non desiderati. Un eventuale consenso della vittima si ritiene, in proposito, invalidato dal metus che pone il minore che si trova nella situazione descritta al n. 2 del comma 1 in condizione psichica di sudditanza. Tuttavia, anche nell’ipotesi richiamata sembra configurarsi un modello di reato di pericolo astratto, ove il giudizio di pericolosità è formulato a priori. Il reato si consuma per entrambi i casi al compimento di qualsivoglia ‘‘atto sessuale’’ con il minorenne, per cui non sussiste alcun problema in ordine alla distinzione che, in precedenza, si poneva tra tentativo di violenza carnale e atti di libidine violenti consumati. Il dolo richiesto deve comprendere il compimento di atti sessuali, con la coscienza del significato sessuale dei medesimi. Le due fattispecie, disciplinate dal comma 1 dell’articolo in esame, non possono trovare applicazione contemporaneamente, sebbene possa nascere il problema di stabilire se vi sia un concorso materiale omogeneo nell’ipotesi di più atti sessuali realizzati in un unico contesto, ovvero se si debba ritenere consumato un unico reato. In questo caso, se gli atti sessuali avvengono in contesti diversi, sembrerebbe potersi ravvisare comunque una pluralità di reati, verosimilmente unificabili sotto il vincolo della continuazione. Va poi debitamente sottolineato il fatto che in mancanza, nell’articolo in esame, dei requisiti di violenza, minaccia, inganno ecc. non si pongono problemi di concorso (di norme o di reati) con fattispecie quali percosse, lesioni, minacce, violenza privata, sostituzione di persona; potrebbe, invece, profilarsi un concorso con la nuova fattispecie di corruzione di minorenne di cui all’art. 609-quinquies, che, a differenza dell’abrogato art. 530 c.p., non contiene alcuna clausola di riserva. Il comma 1 dell’art. 609-quater rende elemento costitutivo del reato l’età minore dei quattordici anni, che invece l’art. 609-ter comma 1 n. 1 prevede come circostanza aggravante.
— 414 — Ora è evidente l’irrilevanza del consenso al compimento dell’atto sessuale da parte del minore degli anni quattordici (o di anni sedici, per l’ipotesi di cui al n. 2 del comma 1 dell’art. 609-quater), con conseguente preclusione di qualsiasi indagine diretta a verificare se questi sia, in concreto, capace di autodeterminarsi nella sfera dei rapporti sessuali. Parallelamente il comma 2 introduce una causa di esclusione della punibilità, e dunque la ‘‘non rimproverabilità’’ del minorenne che (fuori delle ipotesi di cui all’art. 609-bis c.p.) compia atti sessuali con altro minorenne che abbia almeno tredici anni, purché la differenza di età tra i soggetti non sia superiore a tre anni (33). Tale causa di non punibilità manca nel successivo art. 609-quinquies — corruzione di minorenni —, con la conseguente disparità di trattamento che si verifica, ad esempio, tra il minore (punibile) che compie atti sessuali su di sé davanti ad una tredicenne ed il minore che induce una tredicenne a compiere i medesimi atti sessuali su di lui (non punibile). Anche in questo articolo, come nel precedente, manca la previsione di un’aggravante nel caso in cui i fatti siano commessi abusando di rapporti di parentela, di coabitazione o di istruzione: tali aspetti sono presi in considerazione ai soli fini della configurazione dell’ipotesi di violenza presunta, quando la parte offesa sia minore infrasedicenne. Il comma 3 dell’art. 609-quater prevede una nuova circostanza attenuante — casi di minore gravità — ad effetto speciale, corrispondente a quella contemplata dall’ultimo comma dell’art. 609-bis, che comporta una diminuzione di pena fino a due terzi (34). L’ultimo comma prevede la stessa pena prevista per la violenza (reclusione da sette a quattordici anni) se la persona offesa è minore di anni dieci. Si tratta di un’aggravante che non sottrae al giudizio di equivalenza o di prevalenza fra le circostanze il dato della tenera o tenerissima età della persona offesa: sottrazione che si sarebbe realizzata strutturando l’abuso, lato sensu inteso, nei confronti del minore come fattispecie autonoma di reato (35). Manca, inoltre, la connotazione di un ulteriore disvalore nel caso tale ipotesi si realizzi in termini di minaccia o di violenza. Gravemente aporetiche sembrano, così come formulate, le ipotesi di ‘‘atti sessuali con minorenni’’, previste all’art. 609-quater che, a ben vedere, danno vita ad ipotesi di violenza presunta. In realtà, la, pure indiscu(33) Anche qui esigenze di precisione imporrebbero di specificare che tale ipotesi di non punibilità vale per il primo caso e non per quello previsto al n. 2, giacché le relazioni tra soggetto attivo e passivo tipicizzate dalla norma presuppongono un agente maggiorenne. (34) Questa attenuante consente da sola l’abbattimento della pena minima fino ad un anno ed otto mesi di reclusione, a cui potrebbe essere detratto un ulteriore terzo con la concessione delle attenuanti generiche, oltre alla diminuzione conseguente alla scelta di un rito alternativo (patteggiamento o rito abbreviato). (35) In questo senso, cfr. VENEZIANI, Commento all’art. 5, cit., p. 155.
— 415 — tibilmente legittima, pretesa di tutela del libero sviluppo dei giovani non può passare attraverso soluzioni normative, che nella loro rigidità non tengono conto dei dati empirici che la realtà impone all’attenzione del legislatore, se si vogliono sperimentare soluzioni che risultino praticabili, efficaci e legittime. Ed allora, la previsione di limiti di età — che, nella loro assolutezza, per definizione lasciano aperti spazi di iniquità: si pensi solo ai casi immediatamente a ridosso dei limiti — andava integrata, anche per esigenze di effettività della tutela, con parametri più elastici, che si sforzassero di rappresentare con maggior precisione le singole, concrete vicende individuali e consentissero, così, quell’adeguamento reale della fattispecie concreta all’ipotesi normativa astratta. I parametri potevano essere dati da un richiamo alla presenza, unitamente ai limiti di età espressamente previsti, dell’incapacità di effettiva autodeterminazione sessuale e/o dell’assenza di consenso. La previsione del dissenso, che pure avrebbe rappresentato un filtro rispetto all’automatismo dell’intervento penale legato alla presunzione di violenza, sarebbe servita a rendere comunque più avanzata la soglia dell’intervento penale, rispetto alla violenza, in quanto a differenza di quest’ultima, che comunque richiede concettualmente un’azione di resistenza da parte della vittima, non è necessaria alcuna attività particolare, al di fuori della mera espressione del proprio dissenso. E ciò risultava auspicabile, in considerazione della minore capacità di opposizione legata all’età e/o ai rapporti di tipo personale con l’autore del fatto, senza, così, ricorrere a presunzioni in materia penale, che si rivelano fortemente discutibili in uno stato di diritto. B) La corruzione di minorenni di cui all’art. 609-quinquies. La nuova previsione, contenuta nell’art. 609-quinquies (36) in materia di corruzione di minorenne, sanzionata con la reclusione da sei mesi a tre anni, mantiene una dichiarata continuità con il suo immediato precedente normativo, superando soltanto in parte i tradizionali inconvenienti e presentandone, nel contempo, di nuovi. Sotto il profilo della condotta punibile, la norma prende in considerazione solo il compimento di ‘‘atti sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici’’ — erano sedici nella disposizione previgente —, dato che le altre più gravi ipotesi delittuose, concernenti atti sessuali ‘‘nei confronti’’ o ‘‘con’’ minorenni, rientrano ora nell’art. 609-ter, n. 1 e n. 5, quali aggravanti del delitto di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis, ovvero nell’art. 609-quater c.p., che sanziona gli ‘‘altri atti sessuali con mi(36) La norma recita: « Corruzione di minorenne. Chiunque compie atti sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici, al fine di farla assistere, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni ».
— 416 — norenne’’. Conseguentemente, non è richiesto, o è comunque irrilevante, che si instauri un rapporto di ‘‘costrizione’’, tramite violenza o minaccia o abuso di autorità, ovvero di ‘‘induzione’’ mediante abuso od inganno, ai sensi del capoverso della stessa norma. Per il profilo del soggetto attivo, la norma non pone limitazione né distinzione alcuna, mentre, per quanto concerne il soggetto passivo, occorre rilevare che il fatto punibile è, per un verso, più limitato (la condotta è punita solo se compiuta in presenza di un minore di anni quattordici e non più di anni sedici), ma, per un altro, più ampio di quello prima previsto dall’abrogato art. 530 c.p., alla luce della mancanza della speciale — peraltro imperscrutabile — causa di non punibilità relativa al caso in cui il minore sia ‘‘persona moralmente corrotta’’. Il requisito della ‘‘presenza’’ caratterizza il fatto tipico della nuova formulazione, mentre lo specifico ‘‘fine di far assistere’’ sembra contribuire ad una più convincente interpretazione della norma in esame, posto che il requisito soggettivo ‘‘dolo’’ deve necessariamente riferirsi a tutti gli elementi della fattispecie. Ne consegue che la lettura del requisito della ‘‘presenza’’ non può intendersi limitata al mero dato fisico-spaziale, ma deve abbracciare la ‘‘consapevolezza’’ da parte del minore. In sede di commento complessivo va sottolineata la difficoltà con cui la norma si inserisce nel tessuto della nuova legge, orientata alla tutela della libertà sessuale, in particolare dalla violenza. In effetti, sembra che la fattispecie ricorra solo per evitare ‘‘l’impressione’’ di lacune nella tutela dei minori e che, pertanto, non riesca ad accordare la dovuta rilevanza anche ad altri comportamenti — si pensi a conversazioni telefoniche o comunicazioni televisive, a proiezioni di filmati o contatti telematici idonei —, che possono incidere molto negativamente sulla sfera di tutela e riservatezza del minore in campo sessuale; così come si segnala la strana lacuna in rapporto alla previsione di aggravanti ‘‘familiari’’. 5. La sorprendente riproposizione di un’ipotesi ‘‘classica’’ di responsabilità oggettiva: l’inescusabilità dell’ignoranza dell’età della persona offesa. — L’art. 609-sexies (37) dispone in materia di ignoranza dell’età della persona offesa. Questa disposizione, come già abbiamo segnalato, è da cancellare, alla stessa stregua di quella di cui al vecchio art. 539 c.p., perché manifestamente incostituzionale (38). Invero, la norma si pone in contrasto con il principio di personalità della responsabilità penale (art. 27 comma 1 Cost.) e con quello di rieducazione (art. 27 comma (37) La norma recita: « Ignoranza dell’età della persona offesa. Quando i delitti previsti negli artt. 609-bis, 609-ter e 609-quater e 609-octies sono commessi in danno di persona minore di anni quattordici nonché nel caso del delitto di cui all’art. 609-quinquies, il colpevole non può invocare, a propria scusa, l’ignoranza dell’età della persona offesa ». (38) Per tutti, recentemente, CADOPPI, Commento all’art. 3, cit., p. 185 ss.
— 417 — 3 Cost.). Infatti, la Corte costituzionale, proprio per affermare la conformità delle fattispecie di reato ai principi menzionati, ha affermato, sia pur nella forma di obiter dicta, che tutti gli elementi significativi della fattispecie debbono essere coperti almeno dalla colpa (Corte cost., sent. nn. 364/1988 e 1085/1988). Ed è questo il caso dell’età nelle ipotesi considerate dalla norma: essa rappresenta proprio l’elemento di discrimine tra lecito ed illecito. L’ignoranza dell’età della persona offesa, quando si tratta di minore degli anni quattordici, dunque, non scusa. Sotto questo aspetto, il nuovo art. 609-sexies non differisce sostanzialmente dal vecchio art. 539 c.p., limitandosi a proporre un più dettagliato richiamo alle ipotesi delittuose di riferimento. Si tratta di una tipicizzazione di solito apprezzabile, se non si incorre nel rischio di generare lacune o fraintendimenti, come invece accade, ad esempio, per il richiamo all’art. 609-ter, che riproduce circostanze e non ‘‘delitti’’. La presunzione juris et de jure mantenuta dall’articolo, di cui stiamo trattando, riproduce una ipotesi di responsabilità oggettiva, che deroga ai principi sul dolo e sull’error facti fissati negli artt. 43 e 47 c.p. Non possono non riproporsi sotto questo aspetto, come si accennava, gli stessi problemi di legittimità costituzionale che hanno accompagnato il ‘‘vecchio’’ art. 539 c.p., soprattutto per quanto attiene alla violazione dell’art. 27 comma 1 e dell’art. 3 Cost., alla luce della disciplina dell’imputazione delle circostanze aggravanti introdotta nel 1990 con l. n. 19. In effetti, una notevole disparità di trattamento si profila tra l’ipotesi in cui l’errore sull’età scusa — quantomeno allorché non sia dovuto a colpa —, pur comportando una mera circostanza aggravante — e dunque un dato che per definizione non fonda l’offesa —, e l’ipotesi contemplata dall’art. 609sexies in cui l’errore non scusa mai, pur concernendo un dato — l’età inferiore ai quattordici anni — fondante, indiscutibilmente, l’offesa. Viene allora da domandarsi quale sia il senso della riproposizione di una norma palesemente incostituzionale. Probabilmente, assecondando, ottusamente, un’ottica di tipo repressivo-deterrente, si è preferito ignorare il dato in base al quale non balza sempre agli occhi con sicurezza il fatto che la persona abbia o meno quattordici anni e che quindi, in questi casi, un’affidabile opzione di politica criminale imporrebbe la previsione di un’imputazione dell’ignoranza a titolo di colpa e non di dolo. Eppure, come in dottrina è stato più volte segnalato, le esigenze di tutela delle vittime di abusi sessuali, specialmente se minori, possono essere ben assicurate anche attraverso la punibilità dell’errore sull’età se dovuto a colpa, senza così violare principi di civiltà in materia di responsabilità penale, sanciti, tra l’altro, anche nella Legge fondamentale. Il legislatore italiano del 1996 ha invece perduto l’occasione per adottare un modello sicuramente più in linea con il dettato costituzionale e
— 418 — con il messaggio espresso chiaramente al riguardo dalla Consulta quasi dieci anni fa. 6. Il regime sanzionatorio relativo alla fattispecie di violenza sessuale di gruppo. — L’art. 609-octies (39) introduce una nuova figura di reato, la violenza sessuale di gruppo, punita con la reclusione da 6 a 12 anni. È previsto un margine per un’attenuazione, ma anche per un pluriaggravamento della pena ai sensi dell’art. 112 nn. 1, 2, 3 e 4 c.p. La caratterizzazione della norma in questione, data dalla commissione del fatto da parte di più persone riunite, sembra non risolvere espressamente i dubbi circa la sua natura di titolo autonomo di reato ovvero di circostanza aggravante speciale. Qualora fosse considerata un aggravante speciale, essa opererebbe un bilanciamento con le attenuanti e vi sarebbe anche una notevole incidenza sul piano della determinazione della pena: muterebbero, inoltre, le condizioni di procedibilità e l’ipotesi circostanziata verrebbe a mutuare il regime, a querela di parte, previsto per il reato base (40). Si osserva, in proposito, che ‘‘qualificare un dato elemento come aggravante può essere sfavorevole quando il reo non l’abbia conosciuto e non ricorrano le circostanze attenuanti; può essere favorevole quando il reo l’abbia invece conosciuto e si profili la prevalenza o l’equivalenza di circostanze di segno opposto. Viceversa accade per un elemento minorante, che è favorevole qualificare come circostanza quando non sia stato oggetto di rappresentazione e non ricorrano aggravanti, ma che è più favorevole considerare come costitutivo quando sia conosciuto, e ricorrano aggravanti prospettabili come equivalenti o come prevalenti’’ (41). Tuttavia, sia la mens legis che la tecnica di redazione fanno pensare ad un’autonoma figura di reato a concorso necessario per la particolare (39) La norma recita: « Violenza sessuale di gruppo. La violenza sessuale di gruppo consiste nella partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis. Chiunque commette atti di violenza sessuale è punito con la reclusione da sei a dodici anni. La pena è aumentata se concorre taluna delle circostanze aggravanti previste dall’art. 609-ter. La pena è diminuita per il partecipante la cui opera abbia avuto minima importanza nella preparazione o nella esecuzione del reato. La pena è altresì diminuita per chi sia stato determinato a commettere il reato quando concorrono le condizioni stabilite dai numeri 3) e 4) del comma 1 e dal comma 3 dell’art. 112 ». (40) Va sottolineato, in proposito, il fatto che la partecipazione al fatto da parte di più persone riunite generalmente compare nel codice penale come circostanza aggravante (si vedano, ad esempio, gli artt. 628 comma 3 e 629 comma 2 c.p.). (41) Cfr. PADOVANI, Circostanze del reato, cit., p. 196.
— 419 — connotazione soggettiva dell’autore (42): d’altro canto, se il legislatore avesse inteso questa fattispecie come aggravante speciale, l’avrebbe inserita nell’art. 609-ter ove sono previste, appunto, queste circostanze; ma data la sciatteria che connota questa legge, il pur significativo argomento della sede sistematica sarebbe tutt’altro che decisivo. Inoltre, essendo disposte ai commi 3 e 4 di questa norma delle circostanze attenuanti ed aggravanti, sembra logico presumere che la pena su cui tali effetti si devono produrre sia quella del reato e non di altra circostanza aggravante speciale. La configurazione della fattispecie come autonoma figura di reato, oltre a determinare la trasformazione in delitto autonomo dello stesso concorso di persone nella sua forma più consueta e grave, i reati a base violenta, pone la questione, di non poco momento, se, in relazione alla stessa, operi la circostanza attenuante di cui all’art. 609-bis comma 3, prevista per i casi di minore gravità. A voler prescindere dal rilievo della difficoltà di considerare ontologicamente compatibili la nozione di violenza di gruppo con quella del fatto di minore rilevanza, va sottolineato, a sostegno della soluzione negativa del problema, che la norma dell’art. 609-octies, pur rinviando all’art. 609-bis senza distinzione di commi, in realtà sembra orientare teleologicamente il rinvio ai soli elementi dell’art. 609bis che valgono a identificare la condotta delittuosa, ossia la consumazione di atti in relazione ai quali il consenso della persona offesa manchi o sia comunque viziato. Restano pertanto assoggettate al limite edittale di sei anni di reclusione anche i casi di minima gravità. Se si parte dal riconoscimento dell’ipotesi in esame come figura autonoma di reato, residua, infine, il problema della differenziazione tra ‘‘concorso’’ e ‘‘partecipazione’’. Il legislatore opta per quest’ultimo termine che genera problemi di determinatezza (43). Forse sarebbe più opportuno parlare di concorso e non di partecipazione e, quindi, nella definizione, precisare il numero minimo di persone (44), che allo stato delle cose sembra poter consistere anche in sole due, attesa la definizione criminologica di gruppo (45). L’art. 609-octies, nel rinviare unicamente agli atti di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis e non anche a quelli di cui al successivo art. 609(42) In tal senso v. anche DONINI, Commento all’art. 9, in AA.VV., Commentario delle ‘‘norme contro la violenza sessuale’’, cit., p. 236. (43) Potrà essere considerato partecipe e quindi responsabile colui che presta, ad esempio, il proprio appartamento ad un amico che poi in esso, assieme ad altri amici, realizza una violenza di gruppo? La risposta non è indifferente se si pensa che l’ipotesi criminosa in esame è punita più severamente di quella di cui all’art. 609-bis. (44) Così MULLIRI, La legge sulla violenza sessuale. Analisi del testo, primi raffronti e considerazioni critiche, cit., 747. (45) Sul punto, per ulteriori approfondimenti, cfr. DONINI, Commento all’art. 9, cit., p. 240.
— 420 — quater, lascia intendere che la violenza di gruppo — intesa come autonoma incriminazione — non trovi applicazione nel caso di concorso di più persone riunite che pongono in essere atti sessuali nei confronti di un minore di anni quattordici o degli anni sedici ‘‘apparentemente consenziente’’: qui ricorrerà l’ipotesi ex artt. 110 e 609-quater c.p., con le aggravanti speciali dei nn. 1 e 5 dell’art. 609-ter. Il fondamento politico-criminale del più severo trattamento sanzionatorio per questa forma di reato collettivo si desume dalla maggiore offensività del fatto, sia sul versante della costrizione che su quello della degradazione personale imposta alla vittima e ciò avrebbe dovuto dar vita ad una fattispecie che avrebbe dovuto caratterizzarsi, rispetto al concorso, per considerare, tra le varie possibili forme di partecipazione, o quella speciale della correità, secondo cui ogni partecipe realizza la fattispecie, oppure dell’esecuzione frazionata, ove ciascun partecipe realizza un segmento del fatto tipico. Questa appare una finalità politico-criminale forse accettabile, rispetto all’inconveniente di introdurre una ennesima norma penale pure in assenza di un effettivo vuoto di tutela. Senonché, in aperta contraddizione con la ratio cennata, il comma 4 dell’art. 609-octies prevede una diminuzione della pena ‘‘per il partecipante la cui opera abbia avuto minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato’’, sulla falsariga e con lo stesso effetto dell’art. 114 comma 1 c.p. (46). Infatti, va osservato che questa attenuante, oltre a non prevedere gli stessi margini di cui all’ultimo comma dell’art. 609-bis, riguarda non già il fatto ma solo l’opera del partecipe, che per la fattispecie speciale della violenza di gruppo non può mai essere di minima importanza. A meno che tale attenuante non la si voglia considerare operante solo per le ipotesi di ‘‘concorso esterno’’, che nella violenza di gruppo darebbe luogo ad un’attenuante obbligatoria in considerazione della partecipazione ritenuta di minima importanza e riferita alla sola preparazione del delitto, ma non vi sono, comunque, agganci testuali per una limitazione del genere. L’attenuante speciale per la violenza di gruppo ricalca l’art. 114 comma 1 c.p., relativa all’‘‘opera’’ di minima importanza, con la significativa differenza che la diminuzione è divenuta obbligatoria anziché facoltativa: questo aspetto, tuttavia, non compensa la mancata previsione di una diminuente per il fatto di minore gravità, descritto, invece, nell’ultimo comma dell’art. 609-bis (47). I commi 3 e 4 dell’art. 609-octies prevedono, altresì, l’applicazione delle aggravanti di cui all’art. 609-ter — a cui si fa rinvio — e dell’atte(46) Cfr. PADOVANI, Commento all’art. 1, in AA.VV., Commentario delle ‘‘norme contro la violenza sessuale’’, cit., p. 11. (47) Cfr. DONINI, Commento all’art. 9, cit., p. 252.
— 421 — nuante, in realtà ‘‘comune’’, dell’art. 112 nn. 3 e 4, che tradisce, forse, la vera natura ‘‘manifesto’’ di questa norma. L’introduzione della figura della violenza sessuale di gruppo è, dunque, un’altra innovazione che suscita profonde perplessità. A parte il rilievo che con una semplice interpretazione sistematica il ‘‘gruppo’’, come già si è accennato, si riduce a sole due persone, va subito evidenziato il fatto che sarebbe palesemente erroneo ritenere che la nuova fattispecie serva a colmare vuoti di tutela. Non solo, ma che tale tutela denotasse reali necessità di essere incrementata, sarebbe perlomeno difficile da argomentare. I partecipi dell’episodio di violenza, in base alla disciplina previgente, avrebbero risposto, secondo le regole del concorso di reati, per violenza carnale continuata, delitto per cui era prevista, di regola, una pena massima di anni 30 di reclusione. Tale pena veniva poi pluriaggravata, se ne ricorrevano i presupposti, ai sensi dell’art. 112 nn. 1, 2, 3 e 4 c.p., raggiungendo dimensioni non più controllabili. Se, tuttavia, la precedente fattispecie di violenza poteva condurre, nella fase giudiziale concreta, a modesti aumenti per la continuazione e ad un giudizio di bilanciamento favorevole alle attenuanti e, così, dar vita ad una commisurazione anche al di sotto del minimo edittale dei tre anni: questo ‘‘inconveniente’’, con la nuova fattispecie di violenza sessuale, si sarebbe verificato difficilmente. Infatti, il minimo edittale è di cinque anni e basta la presenza di taluna delle circostanze previste dall’art. 609-ter, perché la cornice inferiore raggiunga i sei anni ed otto mesi, quando, ad esempio, anche solo una persona del gruppo sia armata o mascherata. Opportunamente sono stati apportati dei temperamenti sanzionatori in relazione a forme di partecipazione di minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato. Tuttavia, i contenuti tipici della violenza di gruppo restano in ogni caso definiti alla stregua della fattispecie di cui all’art. 609-bis. Pertanto, il meccanismo sanzionatorio rischierà comunque di produrre effetti iniqui per quella vasta gamma di condotte, sicuramente comprese nella sfera concettuale di ‘‘atti sessuali’’ tipici, ai sensi dell’art. 609-bis, ma, tuttavia, incapaci — sotto il profilo materiale e, soprattutto, per il disvalore sociale che li connota — di attingere il nucleo più intimo della libertà sessuale, sulla cui violazione è stata in realtà ‘‘irrigidita’’ la risposta penale. Se si considera, infine, che con grande frequenza tale reato concorrerà con il sequestro di persona, è facile immaginare quale ulteriore impennata dovrà subire il livello delle sanzioni. Ancora, va segnalata la poco opportuna scelta della procedibilità d’ufficio; si è forse dimenticato che le esigenze di tutela della riservatezza e della dignità della vittima probabilmente, in questi casi, avrebbero meritato un’attenzione privilegiata, data l’accentuata traumaticità dell’esperienza vissuta.
— 422 — Si tratta, allora, di una norma simbolica ed iniqua, una delle tante della cui introduzione non si avvertiva alcuna necessità. 7. Un bilancio, preventivo, poco esaltante. — In conclusione, ci sentiamo di ribadire che questa riforma, di cui abbiamo analizzato per sommi capi taluni aspetti, si conferma un provvedimento di tipo emergenziale, da cui traspare innanzitutto l’assoluta inconsistenza del materiale empirico su cui dovrebbe essere stato strutturato il lavoro del legislatore: manca solo l’ennesima figura associativa, magari con il consueto corollario della ‘‘vendita dell’indulgenza’’ per l’eventuale stupratore pentito. Anche per la criminalità sessuale, se non soprattutto per essa, è forte la differenza tra dati reali e cifra oscura; e questo fatto, a maggior ragione avrebbe dovuto spingere il superficiale riformatore ad acquisire il pur limitato nucleo di conoscenze, che la criminologia empirica applicata all’analisi della violenza sessuale ha fin qui saputo elaborare, evitando mistificanti forzature interpretative, funzionali ad opzioni politico-criminali poco rispettabili, in ogni caso palesemente precostituite rispetto ai ‘‘materiali’’ da cui vorrebbero, invece, essere tratte. Una riforma, che non voglia o non riesca a discernere i dati dalle valutazioni, bara con se stessa. Appare, inoltre, necessario ricordare a chi ha prodotto questo tipo di normativa alcune acquisizioni, scontate, ormai, all’interno della dottrina penalistica. Innanzitutto, il fatto che la pena detentiva tout court non è assolutamente il rimedio migliore: tutt’altro. E ciò è dimostrato dal dato secondo cui ad incrementi di pena non sono per nulla immancabilmente connessi effetti deflattivi in rapporto ai tassi di criminalità. Per quel che concerne, poi, più da vicino, la ‘‘clientela’’ del diritto penale sessuale, tutto lascia credere che una politica criminale, realisticamente interessata ad incrementare le sue capacità preventive, meglio affiderebbe le sue possibilità di successo a strategie, serie, che nulla o poco hanno in comune con gli illusori simbolismi della deterrenza. Attese ancor meno fondate appaiono, poi, quelle che nella mera esecuzione della pena detentiva — ovviamente, di lunga durata — vedono la misura più idonea per contenere l’inquietante fenomeno della criminalità sessuale plurirecidiva. Eppure, sarebbe bastato sfogliare qualcuno dei numerosi lavori a cavallo tra criminologia e scienza penitenziaria, per scoprire i perniciosi effetti della prolungata o ripetuta, mera permanenza negli istituti, specialmente per quel che riguarda la delinquenza sessuale. Va allora detto, senza infingimenti, che un legislatore interessato ad elevare i livelli di tutela del diritto penale sessuale non può davvero permettersi il lusso di escludere dai suoi programmi tipologie di intervento forse poco ‘‘esemplari’’, ma empiricamente assai più fondate. E nel testo della legge che abbiamo tra le mani di questo non vi è la benché minima traccia: in perfetta coerenza con la spocchiosa superficialità della perenne emergenza.
— 423 — Basti solo pensare che una riforma fondata sui meri inasprimenti sanzionatori rappresenta un passo indietro, ancor più che un azzardo: tra l’altro, lì dove circa trent’anni fa — in Pennsylvania intorno alla metà degli anni Sessanta — le pene per la violenza carnale furono sensibilmente elevate, i tassi di criminalità non subirono alcun decremento. SERGIO MOCCIA Ordinario di Diritto penale nell’Università di Salerno
« COLPEVOLE COL CONSENTIRE ». DALLO STUPRO ALLA VIOLENZA SESSUALE NELLA PENALISTICA DELL’OTTOCENTO
SOMMARIO: 1. Un frammento dogmatico: l’immagine femminile nel discorso penalistico. — 2. Il ‘progresso dei lumi’ e il silenzio della legge (‘consenso uguale’ e depenalizzazione dello stupro semplice). — 3. « Colpevole col consentire »: la fine delle ‘protezioni’. — 4. L’ambigua enfasi del ‘consenso di lei’. — 5. « La Toscana fu la ultima ad erudirsi ». — 6. Il silenzio come sanzione. — 7. Un contraddittorio lascito: « stupro con violenza ».
« Ma il principio giuridico non era che un sogno... » (CARRARA, Programma)
1. Un frammento dogmatico: l’immagine femminile nel discorso penalistico. — L’abbandono tra XVIII e XIX secolo della generica figura dello stupro semplice e delle sue qualificazioni è in genere rappresentato dai penalisti come una prima e chiara negazione tecnica dei ‘miti’, dei ‘sogni’ giuridici ereditati dal passato, reliquie dei delicta carnis: il sistema penale ‘repressivo’ di antico regime si incrina, la preminente tutela accordata all’ordine delle famiglie è costretta a fronteggiare la critica illuministica alle ingiustizie generate dall’aver « considerato la società piuttosto come un’unione di famiglie che come una unione di uomini » (1), ad affrontare la forza espansiva dei princìpi individualistici e egualitari. La depenalizzazione delle qualificazioni dello stupro semplice diverse dalla violenza è in particolare utilizzata per mostrare il programmatico disinteresse della scienza penalistica per comportamenti non riconducibili ad una precisa lesione del diritto, per sottolineare la ‘depeccatizzazione’ del diritto penale, la distinzione tra diritto e morale. Il peso di questi princìpi attribuisce alla vicenda del passaggio dallo stupro di antico regime alla violenza carnale il carattere di una ‘svolta’ e costringe a prendere sul serio l’intera retorica che ci propone il racconto dei penalisti: fa apparire il silenzio della legge come riconoscimento delle libere scelte dei singoli, come esplicita ammissione dell’impossibilità di un (1) L’affermazione sta in un noto passo di BECCARIA, Dei delitti e delle pene, § 26 (nell’edizione a cura di F. Venturi, Torino, Einaudi, 1965, a p. 56).
— 425 — controllo completo della vita privata attraverso strumenti giuridici, drammatizza le opposizioni tra le scelte culturali del penalista ‘di professione’ e gli antichi dottori, tra la mentalità sottesa alle scelte tecniche vecchie e nuove. Lo scontro dogmatico mostra anche un contrasto tra realtà sociali, evoca diverse (‘opposte’) immagini di riferimento, soprattutto immagini femminili. Il discorso dei giuristi volto ad abbattere l’ampia figura dello stupro si fonda — come vedremo — su un richiamo costante al ‘consenso uguale’ prestato dalla donna, indica una donna che è ‘capace di resistere’, di manifestare un consenso ‘libero’, ‘pieno’, una donna capace di scegliere, responsabile, le cui scelte non possono essere fatte risalire ad altri soggetti. Tale rappresentazione è in polemica contrapposizione al passato, alle costruzioni di un consenso femminile sempre imperfetto o assente. Sorretta dal richiamo ai princìpi scientifici caratterizzanti la nuova penalistica, si accredita insomma la rappresentazione di una svolta: certo, incompiuta in molti suoi aspetti, ma destinata, si dice, a sicuri e coerenti sviluppi. Affiora in tema di reati sessuali un’immagine femminile svincolata dalle rigide, e poetiche, presunzioni del passato (si valorizza il consenso prestato all’atto sessuale dalla donna libera); e il silenzio della legge si impone nei confronti di comportamenti semplicemente immorali. La figura residua del vecchio ordine (l’unica che la nuova penalistica ottocentesca può accettare: la violenza carnale, lo stupro qualificato da vera, reale, effettiva violenza), conserva, come si sa, un legame non tenue con l’ordine delle famiglie e con la moralità pubblica, ma ciò emerge come una circostanza destinata, prima o poi, a cadere: in fondo, la valorizzazione del consenso, la configurazione della violenza come reato contro la persona era già insita nelle negazioni di ogni commistione tra diritto e morale presente nella depenalizzazione dello stupro semplice imposta dal secolo dei lumi, era già chiara nelle pagine di Carrara. Il presente lavoro si propone di verificare dal suo interno questo schema, mettendo a fuoco le relazioni esistenti tra costruzioni dogmatiche e mentalità, tra scelta delle tutele giuridiche ed immagini femminili offerte dal discorso giuridico. Tra i tanti aspetti che compongono l’immagine femminile presente nel giuridico qui si privilegia in particolare la costruzione del ‘consenso di lei’ nella ‘transizione’ dallo stupro alla violenza carnale. È opportuno spiegare brevemente il perché di una tale scelta. Il quadro di riferimenti individualistici al ‘consenso di lei’ che affiora nella depenalizzazione dello stupro semplice è naturalmente settoriale, incapace di rivendicare una più ampia coerenza sistematica con le molteplici incapacità riferite dal diritto alla donna. Resta il fatto però che l’enfasi posta dai penalisti del XIX secolo sul ‘consenso di lei’ è un aspetto essenziale per l’abbattimento delle vecchie figure dogmatiche e per la fondazione delle nuove; resta il fatto che, pur in tutta la loro contraddittorietà
— 426 — rispetto alla ‘vera’ realtà sociale, sono soprattutto le rappresentazioni ‘interne’ alla scienza a condizionare il discorso tecnico e a permetterci di comprenderne continuità e discontinuità. Quel discorso frammentario e contraddittorio, per quanto ingannevole, va dunque preso sul serio. È forse utile spendere ancora qualche parola su questo punto. L’affermazione del soggetto unico di diritto, la proclamazione di un diritto ‘uguale’ costituiscono, com’è noto, un aspetto essenziale del processo di codificazione e di costituzionalizzazione del diritto (2). È altrettanto noto che un’intima lacerazione attraversa tale ricostruzione giuridica: il quadro delle critiche all’astrattezza e al formalismo del diritto borghese, alla creazione di un soggetto astratto, ai molteplici contrasti tra proclami e attuazioni, tra universalità del diritto e discriminazioni, tra ‘forma’ e ‘sostanza’, è oramai consolidato. Meno approfondita è invece l’analisi dei dilemmi posti alla cultura giuridica dall’affermazione di un soggetto unico e ‘uguale’. I proclami, anche se ‘astratti’, rivendicano coerenze logiche, esigono ‘sistemi’, linee di una rappresentazione dogmatica che hanno una tensione unitaria; nello stesso tempo, però, operano ‘in concreto’ incrociandosi con modelli di conoscenza consolidati, con attribuzioni di tutele fondate su obiettivi difficili da capovolgere. In altre parole: ‘i progetti giuridici’ diventano effettivi quando, divenuti parte integrante della coscienza giuridica degli operatori del diritto, si sedimentano in costruzioni dogmatiche capaci di incidere nella regolamentazione degli assetti della vita quotidiana, nelle regole e nelle decisioni del processo, quando riescono a garantire effettive tutele ai diritti. La verifica dei nessi tra ‘astratti proclami e tutele’ in riferimento alle immagini femminili diffuse prima e dopo la Codificazione non riesce a comporre un quadro unitario; un incrocio composito di rappresentazioni femminili ‘antiche’ e ‘moderne’ accompagna una ricostruzione giuridica che è incapace di tradurre ‘i diritti dell’uomo’ in un assetto coerente e ‘uguale’ di tutele per tutti i soggetti di diritto. I giuristi propongono tanti segmenti di racconto che non riescono a darci un’unica storia. Capacità e incapacità femminili si fondano su assunti contrastanti: rivendicazioni di libertà e uguaglianza, livellanti assimilazioni al modello proprietario, sono ora assolute, ora relative; la volontà e il consenso femminile sono ora elemento centrale della costruzione tecnica del giurista, ora scompaiono, inesistenti. L’autonomia della volontà, l’enfasi del consenso (e, ovviamente, l’uso ‘espansivo’ di libertà ed uguaglianza) si frammentano senza alcuna coerenza in molteplici figure femminili proposte dai giuristi. Analizzato minutamente e indagato nella sua ‘purezza’ quando si mostra in direzione (2) Cfr. G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna, I: Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna, il Mulino, 1976.
— 427 — del matrimonio (nel momento della ‘formazione del contratto’), il consenso della donna è ignorato nella ‘normale’ sottomissione, nelle molteplici incapacità dettate dalla ‘ordinaria’ vita matrimoniale, è ignorato nei rapporti civili e politici. Finzioni, presunzioni, legittimazioni vecchie e nuove sostengono nelle pagine dei giuristi regole ed eccezioni. La coerenza dogmatica dei Codici ottocenteschi riguardo alla condizione giuridica della donna è fondata su laceranti contrasti presenti nelle immagini femminili poste a fondamento delle singole regole: parole-chiave del modello individualistico, libertà e uguaglianza, rivelano in questo campo antinomie intrinseche, e ingaggiano un conflitto con l’invocazione perentoria delle ‘naturali’ disuguaglianze, con la pressante (e unilaterale) preminenza dell’ordine pubblico. I giuristi sono incapaci di offrire un’immagine unitaria della donna: i vari frammenti non riescono mai a comporre una piena personalità civile e politica, un autentico soggetto di diritto. « Contraddizioni » « ambivalenze » « incoerenze » sono, è stato detto, « conseguenza dello iato esistente tra il discorso giuridico e la realtà sociale che pretende di regolare » (3). In queste pagine non si abbandonerà ‘l’illusorio’ discorso dei giuristi, né si cercherà di ricomporre, mostrando i suoi contrasti con la realtà sociale, il mosaico di immagini femminili proposte; si tenterà invece di inseguire un singolo frammento per cogliere le relazioni tra scelte tecniche ed immagini offerte, per verificare nella retorica di un sapere disciplinare i nessi tra l’accettazione dogmatica dei ‘proclami’ e l’effettività delle tutele. I contrasti, le ambivalenze, le incoerenze, le svolte incompiute emergeranno dall’interno del discorso dei giuristi; accettando, diciamo così, le regole del loro gioco (4). La ricostruzione interna al discorso dei giuristi non è il frutto di una scelta stravagante, e non lo è neppure nell’analisi di un settore in cui il diritto viene posto esplicitamente ai margini. Alla centralità ‘repressiva’ del diritto, fondata su una rigida struttura di regole atte a definire il lecito e l’illecito, si è infatti sostituita negli ul(3) N. ARNAUD-DUC, Le contraddizioni del diritto, in G. DUBY e M. PERROT, Storia delle donne in Occidente. L’Ottocento, (a cura di G. FRAISSE e M. PERROT), Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 51, 52 e 86. (4) Si è naturalmente tentati di leggere il discorso giuridico alla luce della sua maggiore o minore adesione ‘alla realtà che pretende di regolare’ oppure di ricercare nel gioco di immagini frammentarie quelle più ‘moderne’, indicandole come espressive di nuove ‘sensibilità’ riguardo al ruolo sociale della donna, come segno di emancipazione. Così facendo però, si corre il rischio di trasformare espedienti retorici, immagini fondate su necessità tecnica, in segnale (più o meno ‘coerente’) di una mutata mentalità giuridica. La contraddittoria convivenza di modelli diversi ci indica, in fondo, l’inanità di una ricerca volta a fissare, partendo dalle rappresentazioni fornite dai giuristi, una precisa realtà sociale. Le rappresentazioni dei giuristi vanno misurate alla luce della coerenza dogmatica della loro rappresentazione, in riferimento agli obiettivi delle tutele accordate.
— 428 — timi due secoli una sua progressiva marginalità, « una fase di regressione della dimensione giuridica » (5): imposta dalla separazione tra diritto e morale, dal silenzio del legislatore e dalle programmatiche scelte di una penalistica pensata come scienza. Ritorna anche qui l’immagine della ‘svolta’: ancora le dichiarazioni diffuse tra Sette e Ottocento tornano a mostrare una discontinuità segnata dalla critica illuministica, dal mito della certezza della legge, dall’ineluttabile abbandono di figure dogmatiche funzionali ad una realtà sociale oramai decrepita. Un verificare nella dottrina e nella giurisprudenza dell’operatività del silenzio della legge mostra un quadro che non è così semplice da delineare. Nello spazio ‘libero’ dovrebbero assumere rilievo esclusivo i mutati assetti della società, finalmente privi di vincoli normativi, i fatti liberati dalle deformanti finzioni imposte dalla lente del giurista. Il discorso dei giuristi ripropone invece una sua autonomia anche di fronte al silenzio della legge: lo strumentario tecnico costringe i giuristi a reinventare la realtà, a ripensarla attraverso le strette maglie della rappresentazione dogmatica, a rimodellarla in vista delle finalità del rimedio. Il contrasto sugli interessi meritevoli di tutela giuridica ritorna anche negli spazi ‘liberati’ dal diritto e ripropone nella costruzione delle nuove figure dogmatiche rappresentazioni giurisprudenziali e dottrinali ‘autonome’. In settori in cui esiste una tradizionale centralità di questioni dogmatiche (troppo spesso ritenute solo tali dai giuristi) c’è una tendenza del discorso giuridico a mostrare e a rivendicare una sua forte autonomia; un’autonomia che appare quasi naturale manifestazione della vischiosità delle antiche certezze o che è manifestazione dell’esigenza di costituire una dottrina specialistica che affermi con la sua ‘purezza’ punti di stabilità sottratti ai mutevoli venti della politica e alle instabilità sociali (6). La (5) È quello che Foucault individua come meccanismo di sovrapposizione del « dispositivo della sessualità » (fondato su tecnologie di potere — mobili, polimorfe, congiunturali — estranee al diritto, volte a realizzare un controllo globale della popolazione non più attraverso la ‘semplice repressione’, non più attraverso una manifestazione del potere nella forma della legge e del divieto) al « dispositivo dell’alleanza » (fondato sul sistema del matrimonio, della fissazione e lo sviluppo delle parentele, della trasmissione del nome e dei beni; un sistema volto a ‘mantenere il corpo sociale’ tramite un suo legame privilegiato con il diritto, con i grandi codici che regolavano sino al XVIII secolo le pratiche sessuali). Cfr. M. FOUCAULT, La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978, (ed. orig., Paris, 1976), pp. 37 e ss.; 73 e ss.; 94 e ss. e 128. (6) Si pensi, ad esempio, al diritto di proprietà e alle vischiosità tecniche di lunghissimo periodo della concezione medievale del dominio diviso, della proprietà come somma di diritti, dei diritti reali come qualitativamente partecipi all’essenza proprietaria (cfr. ampiamente in P. GROSSI, Il dominio e le cose. Percezioni medievali e moderne dei diritti reali, Milano, Giuffrè, 1992) oppure alla tensione verso una configurazione puramente giuridica dello Stato (riguardo alla produttività dogmatica delle immagini circolanti nel giuridico cfr. P. COSTA, Lo Stato immaginario. Metafore e paradigmi nella cultura giuridica fra Ottocento e Novecento, Milano, Giuffrè, 1986).
— 429 — centralità del dogma (o, meglio, l’impostazione del tema in termini di centralità del dogma) impone al giurista di porre e di comprendere solo nella sua tecnica ‘l’essenza’ delle questioni, permette di contrapporre autonome metamorfosi del giuridico a quelle politiche e sociali (7). Tali caratteristiche non scompaiono nel settore qui considerato, ove pure il diritto rinuncia programmaticamente ad una sua centralità: anche qui l’inevitabile richiamo ai mutamenti sociali non riesce a proporsi ‘puro’ nelle pagine dei giuristi. La linearità dell’alternativa ‘antico-moderno’ offerta dalle immagini femminili proposte dai giuristi va dunque valutata in stretto collegamento con le soluzioni tecniche proposte; soluzioni che continuano spesso ad essere rivelatrici di ‘miti’ e di ‘sogni’ antecedenti. Il silenzio della legge che accompagna il passaggio dallo stupro di antico regime alla ‘moderna’ violenza carnale continua, da questo punto di vista, ad essere ancor oggi gravido di significati per i penalisti. 2. Il ‘progresso dei lumi’ e il silenzio della legge (‘consenso uguale’ e depenalizzazione dello stupro semplice). — Nella seconda metà dell’Ottocento i penalisti ci offrono, in tema di delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie (8), un quadro molto lineare, aggregato com’è attorno a pochi e netti assunti programmatici. Le grandi opere divulgative, i trattati, le enciclopedie giuridiche, ci forniscono una linea semplice e sicura, capace nei suoi princìpi di fondo di travalicare i contrasti tra le scuole: si ripete, con Carrara, che un peccato non può essere punito come un reato, che la legge non deve punire le passioni o i cattivi istinti ma le lesioni del diritto (9); si proclama che il ‘giure penale’ non ha interesse per le virtù degli uomini, che il penalista obbedisce solo alla « fredda ragione giuridica » (« la ragione punitrice diverrebbe la più patente violazione della libera personalità umana qualora si proponesse lo scopo di cu(7) La presenza con le codificazioni moderne di un sistema di fonti caratterizzato da un dominio assoluto delle scelte politiche espresse dalla legge non ha del resto eliminato tali spazi di autonomia ‘creativa’ dei giuristi, non racchiudibile in una semplice ‘descrizione’ della realtà (utili riferimenti in P. COSTA, Discorso giuridico e immaginazione. Ipotesi per una antropologia del giurista, in Diritto pubblico, 1, 1995, pp. 1 e ss.). (8) È la dizione ampia offerta dal titolo VIII del Secondo libro del Codice Zanardelli. (9) Cfr. F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale dettato nella R. Università di Pisa, Parte speciale, vol. II, Lucca, Giusti, 1873 (3a ed.) pp. 210 e ss. E, a mo’ di esempio, A. MORTARA, Buon costume e l’ordine delle famiglie (Delitti contro il), in Il Digesto italiano, V, (1890-1899), pp. 1023 e ss.; C. CALOGERO, Dei delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie, in Completo trattato teorico pratico di diritto penale, (pubblicato da P. Cogliolo), Milano, Vallardi, 1890, II, 1, pp. 977 e ss. Più in generale sulla questione cfr. L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari-Roma, Laterza, 1989, pp. 203 e ss.; M. SBRICCOLI, La penalistica civile. Teorie e ideologie del diritto penale nell’Italia unita, in A. SCHIAVONE (a cura di), Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 147 e ss.; M.A. CATTANEO, Illuminismo e legislazione, Milano, Ed. di Comunità, 1966.
— 430 — stodire o vendicare la virtù della pudicizia... ») (10); si sostiene che il ‘giure penale’ non può che abbandonare il campo della morale e, con esso, le generiche dizioni e le confusioni del passato. Il diritto penale, in assenza di una specifica « aggressione a beni giuridici » deve dunque tacere anche di fronte ad azioni che « destano ripugnanza ed orrore »: « L’impudicizia, l’incontinenza, l’appagamento, naturale o innaturale, della sessualità esulano dal dominio giuridico, perché lo Stato non può creare a viva forza la moralità sessuale, ma deve provvedervi col magistero dell’educazione » (11). Ferma è, in nome di questi princìpi condivisi e ‘indiscutibili’, la critica nei confronti dei residui riferimenti alle qualificazioni dello stupro non riconducibili alla violenza (12): non si elimina la confusione tra orbita giuridica e orbita morale; si conserva nel diritto penale una costrizione che contrasta con la libertà assoluta a contrarre matrimonio; si accorda (anche nei confronti di donne maggiorenni e comunque consenzienti) una protezione contrastante con gli obiettivi scientifici della penalistica; si propone, facendo rivivere presunzioni che non hanno più motivo di esistere, figure giuridiche nebulose che fomentano errori giudiziari ed usi strumentali della normativa penale (13). Queste convinzioni, se non generano un’interpretazione omogenea della normativa del presente (naturalmente ricca di contrasti e di inevitabili ritorni di scelte morali), fanno scaturire una lettura storica priva di contrasti perché offrono una lente obbligata, un angolo visuale privilegiato per opporre le certezze del presente derivate dal ‘progresso dei lumi’ alle confusioni del passato. Il silenzio della legge è programmaticamente letto in relazione ad un mondo che non esiste più, in relazione a situazioni (10) C. CALOGERO, Dei delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie, cit., p. 974. (11) F. PRECONE, Buon costume (reati contro il), in Enciclopedia giuridica italiana, II, 3, 1892, (pp. 582-643) p. 599. (12) Richiami critici sono mossi in particolare alla ‘seduzione’ e alla seduzione con promessa di matrimonio ancora presenti nei Codici del periodo, in particolare nei confronti dell’art. 298 del Codice penale toscano del 1852 e dell’art. 500 del Codice penale sardo. (13) Conseguentemente le scelte presenti nel Codice Zanardelli sono rappresentate come il coronamento logico della divisione tra diritto e morale, come necessario sviluppo della scelta dello Stato liberale di non porsi come custode della virtù dei cittadini e di non colpire pertanto forme di malcostume incapaci di una concreta aggressione nei confronti della libertà del singolo. La penalistica promuove e sostiene queste scelte e, invocando ulteriore coerenza dallo stesso legislatore, non esita, ad esempio, a contestare duramente le disposizioni relative al « ratto improprio o consensuale » (la critica va all’ipotesi di ratto consensuale di persona maggiore degli anni dodici e minore dei ventuno prevista nell’art. 341 del Codice Zanardelli) come « contrarie ad ogni buon fondamento di logica e di diritto ». Insomma, ogni configurazione giuridica volta a tradurre scientificamente le figure antiche si condanna da sé, si pone contro i ‘veri’ postulati della scienza penale, cosi come fissati — si afferma — dopo la svolta impressagli da Beccaria e da Filangieri.
— 431 — che non devono più preoccupare la legislazione e la scienza penale. La depenalizzazione delle qualificazioni dello stupro diverse dalla violenza trova così un fondamento ‘storico’ in un racconto che mostra il passaggio dal vecchio ordine sempre più in crisi, nella sua incapacità di corrispondere alle mutate realtà, all’assetto del presente, ‘logico e razionale’. La ricostruzione storica non si pone da questo punto di vista per il penalista come astratto ‘prologo in cielo’, come erudizione separabile dal suo successivo discorso tecnico, ma come dimostrazione empirica della bontà dei nuovi schemi dogmatici, come riprova dell’impegno ‘militante’ della scienza penalistica, come verifica della capacità dei suoi modelli di non imporsi ai fatti ma di leggerli. Il passaggio dalla figura ampia dello stupro, così come presentata ancora dalla penalistica del tardo diritto comune, alla violenza carnale rappresenta per tutti la prova provata del cammino della scienza verso ‘la civiltà’, la prosecuzione sicura del ‘sentiero di luce’ aperto dai ‘geni’ del XVIII secolo (14). Si può scegliere a caso: « Sino alla fine del secolo passato e al principio di questo, tutti i criminalisti accettavano la classe dei delitti di carne (...) oramai unanimemente respinta dalla scienza, la quale ha riconosciuto che non può punirsi come delitto quel fatto che per quanto impudico non contenga nessuna lesione del diritto. (...) quando la legge punisce al pari del ratto, dello stupro e dell’adulterio il commercio carnale di un uomo con una donna libera e consenziente (...) allora davvero non si sa se sia più deplorevole il vizio in sé medesimo o la imbecillità e la ferocia del legislatore » (15).
L’elemento centrale posto a lumeggiare in questo settore il distacco dall’era della ‘ferocia’ e delle ‘barbarie’ è la valorizzazione moderna del consenso della ‘donna libera’: è concentrando l’attenzione su quell’elemento, mostrando una donna ‘responsabile’ e ‘capace di consentire’ che si possono ribadire le nuove distinzioni, mostrare il necessario disinteresse del giurista per scelte, magari immorali, ma incapaci di produrre lesione del diritto. La valorizzazione nelle relazioni sessuali fuori dal matrimonio del « comune consenso », il riferimento ad una realtà in cui gioca un ruolo rilevante anche il ‘consenso femminile’ permette di segnare un confine certo tra un prima e un dopo; ribadisce, con la veemenza della critica illuministica, l’impossibilità per il giurista di porre sullo stesso piano fatti e (14) Cfr. G. RAFFAELLI, Nomotesia penale, Napoli, dalla tip. francese, I, 1820, p. 4 e pp. 94 e ss. Cfr. anche G. ZIINO, Stupro e attentati contro il pudore e il buon costume (medicina legale), in Il Digesto italiano, XXII, 2, 1895, (pp. 897-1004) pp. 904 e ss.; F. PRECONE, Buon costume, cit., pp. 597 e ss. (15) C. CALOGERO, Dei delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie, cit., pp. 975 e 976.
— 432 — comportamenti diversi, di parificare la violenza con il « trasporto amoroso » (16). La questione procede spedita anche sul piani dogmatico. Una volta che si è posta in dubbio la punibilità dello « stupro semplice » non può che saltare l’intero impianto ricostruttivo, è superfluo il riferimento ad un sistema di ‘qualificazioni’. Carrara ne ha lucida consapevolezza: « non può qualificarsi ciò che nello stato semplice non è delitto »; « ciò che dà al fatto la essenza di delitto non è qualifica ma elemento costitutivo del malefizio » (17). E la non punibilità dello stupro semplice ruota inevitabilmente sul perno del consenso femminile: « Lo stupro semplice è quello che cade su donna o vergine, o onesta, la quale libera padrona del suo corpo ne ha con libero e valido consenso dato balia al proprio amatore » (18). L’intera rappresentazione del giurista pare disporsi attorno a questo elemento ‘fondante’ della sua costruzione (19): il riferimento condiviso al consenso della donna permette di individuare con nettezza il diritto tutelato, di superare i dati che « appartengono alla storia » (20) a vantaggio di elementi logici e razionali, di riconsiderare in modo nuovo una serie di presunzioni che ruotavano attorno ad un nucleo ora mostrato come inesistente: « Riconosciuto il principio che la oggettività del delitto di stupro deve trovarsi nella offesa del diritto della donna; e ricordato l’altro principio che essa è libera dispositrice del corpo suo, non è possibile trovare elementi di seduzione se (16) Ancora forte è l’eco di una nota pagina di Filangieri in tema di ‘ratto della consenziente’ che ben sintetizza sul punto, coi toni tipici della polemica illuministica contro il diritto romano, le istanze di razionalizzazione del sistema penale costruite in opposizione alle ‘barbarie’ del passato. Cfr. G. FILANGIERI, La scienza delle legislazione, Filadelfia, Stamperia delle provincie unite, 1799, III, pp. 377 e 378. (17) F. CARRARA, Programma, cit., Parte speciale, II, § 1484, p. 228, 229. (18) F. CARRARA, Programma, cit., Parte speciale, II, § 1485, p. 229 (corsivo mio). Ciascuno poi esprime la sua opposizione contro la classificazione antica (« vieta e insostenibile ») con la retorica che più gli è congeniale, ma l’elemento centrale della questione non muta: « Lo stupro consentito, che è quello che si compie sopra donna vergine ed onesta la quale, potendo a suo libito disporre del proprio corpo, annuisce a che l’amante ne colga il primo fiore, ne corrompa l’illibatezza, è un contratto bilaterale, in cui nulla ha da vedere il Codice penale » (G. ZIINO, Stupro e attentati contro il pudore e il buon costume, cit., p. 900). (19) È ovvio che qui alludo alla traduzione dogmatica di questa consapevolezza e alla sua omogenea accettazione nelle pagine dei giuristi, alla sua centralità che spinge a far saltare le vecchie distinzioni. Per una ricostruzione relativa alle rappresentazioni di una ‘disponibilità’ della donna del suo corpo, di una donna ‘domina’, cfr. G. ALESSI, Il gioco degli scambi. Seduzione e risarcimento nella casistica cattolica del XVI e XVII secolo, in Quaderni storici, 75, 3 dicembre 1990, pp. 805 e ss. (20) F. CARRARA, Programma, cit., Parte speciale, II, § 1481, p. 221.
— 433 — non là dove il consenso della donna rimanga destituito di ogni valore giuridico » (21).
Le nuove classificazioni rivendicano un’astratta purezza teorica che si sedimenta in dogmi, ma ci mostrano anche una realtà, la presuppongono: la donna, proprio perché è ‘proprietaria e libera dispositrice del proprio corpo’, è capace di scegliere e di esprimere « consenso libero e pieno ». Insomma, la donna ‘libera’ è autonoma custode della sua virtù e il suo consenso non può essere ingabbiato una volta per sempre in presunzioni volte a fissare nel giuridico una realtà immaginaria. Sempre in quest’ottica i giuristi tendono ad individuare nel passato i primi segni del presente e ricercano una svolta in alcuni provvedimenti capaci di segnare l’avvio di una nuova strada per la scienza (22): si enfatizzano le critiche nei confronti delle degenerazioni della prassi repressiva presenti in un’ordinanza francese del 1730; e si guarda al dettato di una prammatica napoletana del 1779 come alla chiusura di un’epoca: « niuna donna (...), di qualunque grado o condizione, possa più avere azione penale di stupro ancorché alla vera o simulata deflorazione siano preceduti sponsali o parole di matrimonio innanzi al parroco (...) eccetto l’unico e solo caso dello stupro commesso con vera, reale, ed effettiva violenza, esclusa qualunque interpretativa che si possa trarre dal pretesto delle blandizie, allettamenti, promesse verbali e somiglievoli cose..., perché le donne non debbono profittare della loro complicità nel delitto, ma badare a conservare l’onore delle famiglie in cui nascono, acciò passando nelle altrui per mezzo di lodevoli nozze... ».
Emerge qui — i diversi autori sottolineano ampiamente il punto — la linea della ‘modernità’: depenalizzazione della figura ampia dello stupro e fine delle qualificazioni diverse dalla violenza; rappresentazione della donna, quando è consenziente, non come necessaria vittima, ma come ‘complice’; cancellazione delle presunzioni e punibilità del solo stupro commesso con « vera, reale, effettiva violenza ». « La punizione dello stupro semplice — sintetizza Carrara — doveva presto o tardi cadere, e cadde in faccia al progresso dei lumi. » (23). (21) F. CARRARA, Programma, cit., Parte speciale, II, § 1503, p. 272. (22) Naturalmente diverso è il rapporto con il passato in quanti, ancora nella prima metà dell’Ottocento, considerano lo stupro semplice come delitto. Cfr. G. GIULIANI, Istituzioni di Diritto Criminale col commento della legislazione gregoriana, Macerata, Viarchi, 1840-1841, 2a ed., vol. I, pp. 308-309: « ora se (...) è stato per tanti secoli così generale il consenso de’ legislatori e delle nazioni su questa sanzione restringente la pena del delitto allo stupratore, deve esservi qualche ragione di giustizia e di politica che ciò consigli, e di questa dobbiamo andare in traccia ». (23) F. CARRARA, Programma, cit., Parte speciale, II, § 1488, p. 238. Le critiche nei confronti della Leopoldina, in cui dopo un contrastato dibattito non era stata scelta la via della completa depenalizzazione delle qualificazioni dello stupro diverse dalla violenza (e la critica nei confronti delle ambiguità presenti nella successiva legislazione) sono, del resto,
— 434 — Il ‘progresso dei lumi’ e la configurazione della violenza non come mera ‘qualificazione’ dello stupro ma come delitto autonomo, si intrecciano in un racconto unitario che pone enfasi sul consenso femminile, sulla libertà della donna, sulla ‘libera determinazione del volere’. Una retorica che, comunque sia valutata, apre un contrasto di lungo periodo riguardo all’esigenza di svincolare le tutele nei confronti della libertà sessuale dai richiami preminenti all’ordine delle famiglie, alla moralità pubblica e al buon costume. È soprattutto nelle argomentazioni volte a depenalizzare lo stupro semplice che le tesi degli innovatori vengono allo scoperto e sono costrette a sviluppare l’argomento della tutela necessaria solo nei confronti del diritto leso e l’esigenza di un disinteresse per i beni ‘ulteriori’ dell’ordine delle famiglie. Le argomentazioni di quanti ancora all’inizio dell’Ottocento rivendicano la configurabilità dello stupro semplice come delitto sono lineari: il centro dell’attenzione non sta nella valutazione del volere dei singoli, ma nel riferimento ad un ‘bene giuridico’ oggettivo, l’ordine delle famiglie e « il matrimonio, che dell’ordine di famiglia forma l’essenza il fondamento » (24). I delitti, classificati in riferimento all’ordine delle famiglie, possono violare o il matrimonio già contratto (adulterio, bigamia), o il matrimonio futuro (stupro, ratto, incesto). « Rendere più rari i matrimoni e così alterare l’ordine stabilito dalla natura per la prosperità e felicità del genere umano » è « l’effetto politico », il « vero danno politico », « vero delitto contro l’ordine delle famiglie » presente nello stupro (25). Le ragioni poste a fondamento della depenalizzazione dello stupro semplice possono, in base a questo inquadraproprio quelle di non aver compreso i nuovi modelli di riferimento, di aver mantenuto in vita situazioni ‘condannate dalla storia’ e dalla scienza, situazioni vere solo nelle finzioni dei giuristi: « Malgrado il nobile esempio fornito dal legislatore napoletano, le leggi toscane seguitarono a vagare nell’incerto e nell’indeterminato fino a poco dopo la metà del secolo »; neppure nel Codice del 1852 infatti « si possono dire dileguate le preoccupazioni tradizionali e le confusioni tra l’orbita giuridica e quella morale » (così, ad esempio, G. ZIINO, Stupro e attentati contro il pudore e il buon costume, cit., p. 905). Ma si cfr. anche F. CARRARA, Programma, cit., Parte speciale, II, § 1488, p. 238: (« la Toscana fu la ultima ad erudirsi... »), e di recente, T. PADOVANI, Violenza carnale e tutela della libertà, in questa Rivista, 1989, (1301 e ss.) p. 1305: « ... la sensibilità del re di Napoli nell’abbandonare un simile strumento repressivo non trovò eco immediata ». (24) G. GIULIANI, Istituzioni di Diritto Criminale, cit., I, 301. Il Regolamento dei delitti e delle pene di Gregorio XVI del 1832, all’art. 168, puniva lo stupro semplice « coll’opera pubblica di tre anni, quando il reo o non doti, o non sposi la stuprata ». Gli artt. 169 e 170 punivano « lo stupro qualificato da precedente promessa di matrimonio » e « lo stupro qualificato per violenza ». (25) G. GIULIANI, Istituzioni di Diritto Criminale, cit., I, 302. La classificazione conserva tutte le distinzioni classiche in riferimento alla maggiore o minore gravità del « danno politico » e cerca in qualche modo di evitare contaminazioni tra diritto e morale: « il danno politico emergente dallo stupro è diverso secondo che egli cade nella vergine o nella vedova
— 435 — mento, essere respinte una per una. Rifiutando la depenalizzazione, non si confonde il diritto con la morale: se esiste infatti il danno politico, lo stupro semplice sarà configurabile come delitto (e non solo come peccato). E dal momento che esiste un fondamento politico nella punibilità dello stupro semplice, non si potrà certo negare la tutela per la difficoltà della prova, ma si dovrà, come accade del resto per gli altri delitti, affrontare e superare le difficoltà (« i giudici debbono essere sommamente circospetti e guardinghi nel prestar fede alla querela della stuprata » (26)). Ed è ancora in riferimento al danno politico dello stupro che si contrasta l’obiezione centrale degli innovatori volta a porre al centro dell’attenzione il ‘comune consenso’ manifestato dalla donna e dall’uomo all’accoppiamento: « Quando è che lo stupro comincia ad essere delitto? Quando lo stupratore si ricusa di sposare la stuprata. (...) Dunque non è vero ciò su cui tanto declamano il Filangieri ed altri suoi seguaci, cioè che il delitto di stupro si verifica in ambi i coagenti dell’accoppiamento. Lo stupro politico si verifica nel solo stupratore ricusantesi di permanere in una unione che libero scelse, ed esponente così la sua compagna a perdere per sempre la speranza delle nozze con evidente discapito della riproduzione della specie. La legge repressiva adunque di questo delitto deve colpire il solo stupratore, come il solo che dà opera al danno politico » (27).
Puntuali naturalmente sono le repliche dei fautori della depenalizzazione: « è un’idea del tutto nuova nel giure penale - ironizza Carrara - che l’inadempimento di un obbligazione costituisca delitto ». La questione non riguarda dunque il penalista: « per le indennità ad un danneggiato porgono tutela bastante i tribunali civili »; « non vi è principio giuridico che valga a giustificare la persecuzione penale dello stupro semplice quando si tenga fermo il cardine della distinzione tra peccato e delitto » (28). La distinzione ‘disciplinare’, le distinzioni tra giuridico e non giuridico, si sorreggono inevitabilmente sul distacco dalla preminenza della tuonesta: che nel primo caso si ha la deflorazione e la corruzione, nell’altro la corruzione soltanto. (...) E qui cade in acconcio rimarcare che l’accoppiamento dell’uomo con donna libera da altri violata extra matrimonium viene chiamato fornicazione per distinguerla dallo stupro; e siccome esso non presenta il danno politico, così è peccato ma non delitto ». Sulle classificazioni antecedenti è sufficiente confrontare CLARUS, Liber quintus sive practica criminalis, in Opera omnia sive practica civilis atque criminalis, s. 1, 1637, § Fornicatio (pp. 18 e ss.); Raptus (pp. 59 e ss.) § Stuprum (pp. 63 e ss.) con BAIARDUS, Additiones ad Clarum, in CLARUS, Opera omnia, cit., §§ Fornicatio (pp. 40), Raptus (pp. 98); Stuprum (pp. 104). (26) G. GIULIANI, Istituzioni di Diritto Criminale, cit., I, pp. 306, 307. (27) G. GIULIANI, Istituzioni di Diritto Criminale, cit., I, p. 311. Si cfr. anche Jacopo Buonfanti (Sostituto R. Procuratore al Tribunale di Prima Istanza di Pisa) che ripete, con maggiore vigore, Giuliani (J. BUONFANTI, Manuale teorico-pratico di diritto penale, Pisa, Vannucchi, 1849, pp. 348 e ss.). (28) F. CARRARA, Programma, cit., Parte speciale, II, § 1488, p. 243.
— 436 — tela dell’ordine delle famiglie e sul richiamo individualistico al ‘consenso uguale’ della donna che esige una valutazione giuridica. Le critiche nei confronti della « poetica presunzione » per cui la donna fosse da considerare sempre sedotta, la critica nei confronti del « mostruoso risultato » per cui « la donna che ha liberamente concorso non viene punita, viene anzi premiata » (29) demoliscono ‘nella realtà’ la precedente costruzione e indicano la via per il suo superamento. Il consenso della donna ha un peso uguale a quello dell’uomo, la donna è « correa » nello stupro semplice: ‘uguale’ deve pertanto essere la valutazione del giurista. È utile però cercare di considerare più a fondo la centralità del ‘volere della donna’ posto a sostegno della scelta della depenalizzazione e, sfrondando la retorica sul ‘progresso dei lumi’, tornare a rileggere gli obiettivi sottesi alla caduta delle ‘antiche tutele’. Già un primo dato può essere sottolineato: la valorizzazione del consenso femminile è affermata soprattutto per opposizione: emerge con nettezza solo nella polemica verso le figure antiche, ma non è un criterio guida per l’affermazione di una nuova tutela della persona. Per altro verso, come vedremo, è proprio quell’enfasi posta sul consenso ad indicare l’incapacità di abbandonare la logica di antico regime e a riproporre l’esigenza di accordare una protezione solo nei confronti di comportamenti moralmente ‘virtuosi’: i discorsi giuridici che accompagnano la depenalizzazione dello stupro, il passaggio dallo stupro alla violenza carnale, si presentano da questo punto di vista non tanto come inevitabile conseguenza (coerente e moderna) della nettezza delle distinzioni illuministiche, ma come un retaggio antico, sedimentazione dogmatica di una mentalità difficile da mutare. 3. « Colpevole col consentire »: la fine delle ‘protezioni’. — Proviamo a ripercorrere allora alcune tappe del racconto propostoci dai penalisti e a rileggere ‘la svolta’ impressa dal ‘secolo dei lumi’. La « Déclaration concernant le rapt de séduction » del 22 novembre del 1730 — richiamata spesso, come abbiamo visto, per mostrare l’avvio del processo di superamento delle antiche figure (30) — mostra, sia pure all’interno di una vicenda più specifica, i termini della questione cui ho fatto riferimento negli ultimi paragrafi. Da un lato, troviamo una critica molto netta, e poi molto fortunata, nei confronti di un sistema di ‘prote(29) F. CARRARA, Programma, cit., Parte speciale, II, § 1486, p. 235. Cfr. anche G. PUCCIONI, Il codice penale toscano illustrato sulla scorta delle fonti del diritto e della giurisprudenza, Pistoia, tip. Cino, 1857, vol. IV, p. 343. (30) Cfr. ancora M. TUOZZI, I delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie (Libro II, titolo VIII del Codice penale), in Enciclopedia del diritto penale italiano (a cura di Enrico Pessina), Milano, Soc. ed. Libraria, 1909, pp. 170 e ss.
— 437 — zioni’ accordate dai giudici nei confronti della donna; dall’altro, si propongono immagini di una donna che non è necessaria vittima, ma pericolosa seduttrice. I nessi tra i due aspetti, sfumati nel racconto dei penalisti dell’Ottocento, qui risultano forse più chiari. Il problema centrale non è certo quello di abbandonare l’ordine delle famiglie, ma di razionalizzarlo, di uniformare attraverso la legislazione una prassi ancora variegata e influenzata da vischiose tradizioni locali, di rendere davvero efficaci gli strumenti per la protezione di interessi di cui il sovrano da tempo si era dichiarato tutore: « ...d’affermir l’autorité des pères sur leurs enfants, d’assurer l’honneur et la liberté des mariages, et d’empêcher que des alliances indignes par la corruption des moeurs, encore plus que par l’inégalité des conditions, ne flétrissent l’honneur de plusieurs familles illustres, et ne deviennent souvent la cause de leur ruine... » (31).
L’ordinanza, riprendendo una lunga serie di provvedimenti tendenti ad affermare il necessario consenso dei genitori al matrimonio e il divieto di matrimoni clandestini (32), tende a distinguere il « commerce illicite » dal « rapt de séduction » e a ribadire pertanto le ‘vere’ finalità della tutela. La figura del ratto di seduzione attraverso una presunzione operava, per così dire, una conduzione forzata di un ‘comune consenso’, di un consenso effettivo, in non consenso, in consenso giuridicamente non valido: una costruzione ruotante attorno a consenso ‘libero’ dei nubendi mirava ad annullarlo in nome della tutela degli interessi delle famiglie (33). (31)
Cfr. Déclaration concernant le rapt de séduction, 22 novembre 1730, in (ISAM-
BERT, DECRUSY, TAILLANDIER), Recuil général des anciennes lois françaises, depui l’an 420,
jusqu’a la révolution de 1789, Paris, 1822-1833, XXI, n. 406, pp. 338. (32) Cfr., in particolare, Édit contre le mariages clandestins, février 1556, in Recuil général des anciennes lois françaises, cit., XIII, n. 363, p. 469 e ss.; gli artt. 40, 41, 42 e 281 dell’ordonnance di Blois (Ordonnance rendue sur les plaintes et doléances des etats-généraux assemblés a Blois en novembre 1576..., in Recuil général des anciennes lois françaises, cit., XIV, pp. 391, 392 e 443); e la Déclaration sur les formalités du mariage, les qualités requises, le crime de rapt..., 26 novembre 1639, in Recuil général des anciennes lois françaises, cit., XVI, n. 327, pp. 520 e ss. (33) Nell’ambito del contrasto che opponeva lo Stato alla Chiesa sulla questione dei matrimoni clandestini, il ratto di seduzione si era affermato, del resto, come tentativo di conciliare interessi opposti tra poteri forti: la validità del matrimonio contratto anche senza il consenso dei parenti (tesi imposta dalla considerazione del carattere sacramentale del matrimonio come prevalente su quello convenzionale) e la rivendicazione del potere civile di legiferare in materia matrimoniale, con la possibilità di stabilire anche impedimenti sconosciuti nella legislazione della Chiesa. Dottrina e giurisprudenza cercarono di avvicinare le opposte esigenze evitando un conflitto frontale tra i due poteri: il matrimonio contratto senza il consenso dei parenti non è dichiarato di per sé nullo; l’assenza del consenso dei parenti, però, fa presumere (e si tratta di presunzione assoluta) la seduzione; la seduzione è assimilata al ratto (che costituisce causa di nullità anche per la Chiesa). Si ha così che la seduzione (presunta legalmente in assenza del consenso dei genitori) con il nome di ‘ratto di seduzione’ co-
— 438 — L’obiettivo dichiarato dell’ordinanza del 1730 è proprio quello di negare le degenerazioni instauratesi nella prassi giurisprudenziale che avevano sostanzialmente capovolto le finalità della scelta repressiva dei matrimoni contratti senza il consenso dei parenti (34) da cui la stessa figura del ‘ratto di seduzione’ era stata generata e, estendendo apparentemente il rigore della legislazione, aveva perpetuato per la donna ‘la protezione’ oramai ignorata dal rigore della legge, esclusa dalla ratio della nuova legislazione (35). L’obiettivo della tutela dell’ordine delle famiglie resta fermo, quello che è posto in discussione è l’uso di ‘protezioni’ accordate dalla giurisprudenza alla sedotta, è la possibilità di poter raggiungere per via giudiziaria matrimoni non graditi dalle famiglie. L’ordinanza pertanto riconferma la morte come sanzione per il ‘ratto di seduzione’ distinguendolo dal « commerce illicite », e afferma soprattutto l’impossibilità per il giudice di concedere ‘alternative’ matrimoniali’ (36). stituisce un impedimento al matrimonio; e, almeno in apparenza, le opposte rivendicazioni sono fatte salve. La figura è poi recepita nella stessa legislazione regia che commina sanzioni penali operanti, come è facile intuire, in un’ottica ben diversa rispetto alla prospettiva del dotare e/o sposare. È qui sufficiente rinviare a L. DUGUIT, Étude historique sur le rapt de séduction, in Nouvelle revue historique de droit français et etranger, X, 1 (gennaio-febbraio 1886), pp. 587 e ss. (34) « Nous savons cependant que par un ancien usage, contraire au véritable objet des ordonnances, et même de la loi municipale, on a confondu en Bretagne tout commerce criminel avec le rapt de séduction; et l’on y a donné un si grand avantage à un sexe sur l’autre, que la seule plainte de la fille qui prétend avoir été subornée, et la preuve d’une simple fréquentation, y sont regardées comme un motif suffisant pour condamner l’accusé au dernier supplice. Mais cet excès de rigueur est bientôt suivi d’un excès d’indulgence; sur la requête de la fille qui demande à épouser celui qu’elle appelle son suborneur, et sur le consentement que la crainte de la mort arrache toujours au condamné, (...) se consomme un engagement dont la débauche a été le principe... », Déclaration concernant le rapt de séduction, 22 novembre 1730, in Recuil, cit., p. 339. (35) « notre autorité est blessée par une jurisprudence où les juges, exeçant un pouvoir dont nous nous sommes privé nous-même, font grace à celui qu’ils ont regardé comme coupable d’un crime que les lois déclarent irrémissible », Déclaration concernant le rapt de séduction, 22 novembre 1730, in Recuil, cit., p. 340. (36) Déclaration concernant le rapt de séduction, 22 novembre 1730, in Recuil, cit., p. 340. Sulla situazione giurisprudenziale antecedente si cfr. il quadro fornito da FOURNEL, Traité de la séduction considérée dans l’ordre judiciaire, Paris, Demonville, 1781, pp. 149 e ss.; 304 e ss. La lettura delle disposizioni dell’ordinanza del 1730 rende evidente l’impossibilità di confondere ancora la seduzione semplice (« simple commerce illecite ») col ratto di seduzione (i cui requisiti sono l’età minore dei venticinque anni e un progetto matrimoniale non accompagnato dal consenso dei parenti). Non è più possibile, avvalendosi di presunzioni, ripetere la giurisprudenza antecedente (« la lecture de nos anciens Auteurs, où l’on voit toute espece de fréquentation charnelle confondue avec le rapt »): come esempio di classificazione erronea del ratto di seduzione si cita Denisart (si ha ratto di seduzione lorsqu ’ayant trouvé le secret de plaire (aux filles) par des soins artificieux, l’on se prévaut enfin, dans une occasion favorable, de ces momens de foiblesse où le coeur n’a plus la force de soutenir la vertu contre les appas de la volupté » (p. 324). La critica nei confronti della vaghezza di
— 439 — L’effettiva operatività di una strategia già ben delineata può aversi soltanto ‘convincendo’ i Parlamenti ad allinearsi sulla nuova strada, pressandoli ad abbandonare protezioni antiche capaci di ritorcersi contro l’ordine delle famiglie. È in questa prospettiva che è richiamata la ‘nuova realtà’ di cui i giudici devono tener conto. L’effettivo scardinamento delle vecchie tutele (accordate, diciamo così, in modo suppletivo dai giudici) si ottiene mostrando retoricamente un nuovo modello femminile di riferimento: la ‘protezione’ antica deve cadere perché è in contrasto con una realtà popolata da donne scaltre e approfittatrici, non sedotte ma seduttrici: « la subornation peut venir également de l’un ou de l’autre côté, et que celle qui vient de la part du sexe le plus foible, est souvent la plus dangereuse »; « le bien public et l’intérêt commun des familles, réclament notre secours contre un usage qui donne souvent lieu d’appliquer la peine de la séduction à celui qui a été séduit, et la récompense à la séductrice » (37).
Si possono naturalmente rintracciare molteplici antecedenti, richiamare ricostruzioni giuridiche più risalenti che ci mostrano questo contrasto di immagini insito in scelte giuridiche (38); quello che mi preme rilevare, però, è come l’enfasi posta su un’immagine femminile ‘capovolta’ si tali definizioni ‘assurde’ e ‘ridicole’ (p. 325), l’esigenza di non aggirare disposizioni della legge attraverso presunzioni è ravvivata dalla rigorosa sanzione prevista per il ratto di seduzione: « quand le rapt de seduction se trouve une fois établi, le dernier supplice en est la peine, & il y a des exemples de cette sévérité ». Non si manca di aggiungere però « pour l’honneur de notre siecle, que ces exemples ne sont pas fréquens; & les familles offensées par l’attentat d’un suborneur préferent ordinairement le parti de ratifier un mariage inégal, à la stérile satisfaction de livrer le coupable au supplice » (p. 326). (37) Déclaration concernant le rapt de séduction, 22 novembre 1730, in Recuil, cit., p. 339 e 340. (38) Diverse immagini femminili sono insite, ad esempio, nella diversa regolamentazione del ratto data da Costantino (Cod. Theod. IX. 24. 1. in cui il consenso femminile al ratto è punito) e da Giustiniano (C. 9. 13. 1. ove la volontà della donna si presume indotta). Il contrasto prosegue nelle diverse immagini femminili che accompagnano le ricostruzioni relative alla non punibilità della donna consenziente al ratto o allo stupro (mulier fragilis est), e ai sistemi attraverso cui si cerca di non fare entrare in contrasto la figura del ratto della consenziente con la violenza come elemento costitutivo del ratto: a fronte della fortuna di uno schema fondato sulla ‘persuasio’ (cfr., per tutti, Cino: « ... non est voluntas ordinata, sed dolosa persuasione inducta, et sic mulier decepta pro non volente habetur, et hoc ex eo procedit, quia dolosa persuasio plus est quam violenta coactio »: Super Codice et Digesto veteri lectura, Francoforti ad Moenum, 1578, (rist. anast. Torino, Bottega d’Erasmo, 1964, super C. 9. 13. De raptu virginum, lex un., n. 5, p. 550), c’è l’opinione di quanti si oppongono alla generica e pericolosa ‘estensione’ della violenza (si stuprum persuasionibus commissum puniretur poena mortis — scrive Raynaldo —, multi sine capite ambularent). Ampi riferimenti alla questione in P. FARINACIUS, Praxis et Theoricae criminalis, Lugduni, 1631, quaest. 145 § Vis, nn. 105 e ss. (pp. 538 e ss.); quaest. 147 § Stuprum, nn. 32 e ss., 54 e ss. (pp. 557 e ss.); e, ancora, in F.M. RENAZZI, Elementa juris criminalis, Roma, 1803, (Liber IV, pars II, Cap. I), pp. 88 e ss. (da cui è tratto il riferimento a Raynaldo).
— 440 — inserisca e sia funzionale soprattutto all’abbattimento di tutele suppletive accordate dalla giurisprudenza in riferimento ad un’altra immagine della donna. Lo scontro è sotteso a temi e ad interessi più ampi, ma è elemento persuasivo non trascurabile, anzi, indispensabile, per affermare con nettezza la vittoria di un modello sull’altro. In questo caso si radica nella più vasta pagina del sovrapporsi in tema matrimoniale dei provvedimenti civili contro i matrimoni clandestini a quelli canonistici, nell’affermazione dei diritti dello Stato emergenti in stretta relazione con un rinnovato « irrigidimento delle struttura di classe della società e di difesa dell’autorità del gruppo familiare sui suoi membri », in una chiusura contro le aspirazioni a scelte nunziali libere (39). La struttura di protezioni accordate dal favor matrimonii si ritorce contro l’ordine delle famiglie; si affermano nuovi strumenti di controllo per impedire « disordine »; si pongono nuovi strumenti di tutela da imporre su quelli antecedenti. Il rilievo può essere, anche senza tanta approssimazione, generalizzato. Nella legislazione del periodo le richieste di depenalizzazione e le rinnovate istanze di controllo verso le ‘passioni sregolate’ tendono a ‘generare’ (e a generalizzare) nuove immagini in base a cui consolidare diversi strumenti di tutela dell’ordine delle famiglie. Le cosiddette Costituzioni modenesi prevedono ancora la pena del ‘dotare o sposare’ per lo stupro semplice (40), ma cercano di raccordare tale normativa con le severe misure stabilite per porre un rimedio contro i matrimoni contratti senza il consenso dei padri (41); a Napoli si interviene « per impedire la violenza di una sregolata passione (la quale tal(39) P. UNGARI, Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1942), Bologna, il Mulino, 1974, pp. 46, 47; A.C. JEMOLO, Stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del Seicento e del Settecento, Torino, Bocca, 1914, pp. 261 e ss. (40) Codice di leggi e costituzioni per gli Stati di Sua Altezza Serenissima [Francesco III, Duca di Modena], (Modena, soc. Tipografica, 1771) Libro V, Titolo XI, Dello Stupro ed altri Delitti di carne, 1: « Per il semplice stupro, e Deflorazione di donna lo stupratore oltre l’obbligo di dotarla, o sposarla sarà punito con pena di venticinque Scudi d’oro, e della carcere, o relegazione secondo la qualità delle persone, e delle circostanze... ». (41) Cfr. Codice di leggi e costituzioni per gli Stati di Sua Altezza Serenissima, cit., Libro V, titolo XI, Dello Stupro, ed altri Delitti di carne, 10: « Non potrà alcuna donna stata deflorata sotto promessa di Matrimonio agire all’adempimento, se non quando farà costare col mezzo di prove legittime, e concludenti la preventiva obbligazione contratta sotto simile promessa; la quale azione, e adempimento, non avrà neppur luogo qualora tra promissori, e contraenti fosse tale disparità di condizione che dell’effettuazione del matrimonio potesse derivarne grave scandalo, e ignominia alle parentele... ». Riguardo alla stessa questione cfr. ancora Libro II, titolo XIII, Dei Matrimonii, loro effetti civili, e delle Cause matrimoniali, 19. Francesco Forti ripropone a metà Ottocento, richiamandosi anche al c.d. Codice estense, una difesa della necessità del consenso paterno per il matrimonio, in polemica col modello negativo rappresentato dai « matrimoni riprovevoli » favoriti dal Codice Napoleone in cui la « pazzia di un giovane [è] favoreggiata dalla legge » (F. FORTI. Libri due delle istituzioni di diritto civile accomodate ad uso del Foro, 1840-41, Firenze, Cammelli, 1863, vol. II, pp. 414 e ss.).
— 441 — volta annebbia l’intelletto anche dei più savj), per dare un freno alla incauta gioventù, per avvertirla con la minaccia della pena a riconoscere i proprj doveri verso de’ Genitori, e per farle conoscere i danni che si arrecano alle proprie famiglie... » (42) e, nello stesso tempo, ma in stretta relazione con questi stessi obiettivi (43), si definisce dopo qualche anno la linea della netta depenalizzazione dello stupro senza « vera, effettiva, reale violenza »; in Toscana, nel 1754, si mitiga la pena per lo stupro semplice, cancellando il riferimento al dotare o sposare (44). La questione della depenalizzazione delle qualificazioni dello stupro diverse dalla violenza si inquadra naturalmente in quest’ambito di contrasti noti: di affermazioni di statalismo e talvolta di laicismo, di ‘freni e contrappesi’ contro la permissività ecclesiastica, di affermazione di una tendenza verso un complessivo rinsaldamento delle strutture gerarchiche familiari (45). La valorizzazione del consenso femminile e la depenalizzazione dello stupro vanno comprese in necessario riferimento alla crisi e ai tentativi di riconsolidamento dell’ordine delle famiglie: l’enfasi posta sul ‘libero consenso femminile’, più che la trasposizione nel giuridico di nuovi valori, appare come semplice artifizio retorico volta a giustificare la caduta delle vecchie tutele, per introdurre una sanzione ritenuta ora più efficace, quella del silenzio, della perdita della ‘protezione’. L’esigenza di « purgare la macchia dell’infamia incorsa » nella donna che appaia « compagna del delitto » è nelle classificazioni antecedenti sempre bilanciata dal richiamo ad una donna ‘sedotta’, ‘persuasa’, ‘forzata’, priva di ‘volontà di delinquere’ (virgo semper praesumitur seducta) (46). La depenalizzazione, la caduta delle antiche protezioni si delineano come diversa sanzione nei confronti delle scelte devianti dei singoli; (42) Così nella Prammatica del 10 aprile 1771 (in D.A. VARIUS, Pragmaticae Edicta decreta interdicta regiaeque santiones Regni Neapolitani, Napoli, Cervonii, 1772, II, Tit. CXLV, 1, p. 492). (43) La questione dello stupro emerge tutta filtrata attraverso l’angolo visuale del ‘consenso de’ Genitori’: « per far argine a questo disordine, non raro nel Ceto Civile, assai frequente nel popolare, e sapendo che col pretesto di vere, o simulate deflorazioni si procura di mandare ad effetto la contrazione de’ Matrimonj, sforniti del necessario legale requisito del consenso de’ Genitori... » (Prammatica del 10 aprile 1771, cit.). (44) Cfr. Legge per gli stupri del 24 gennaio 1754, in Legislazione toscana raccolta ed illustrata da Lorenzo Cantini, Firenze, presso Fantosini, 1807, XXVII, pp. S3 e ss.: « non si condanni più alla pena di lire 500 a favore del nostro Fisco, ed a sposare, o a dotare; ma sia solamente condannato alla pena di lire trecento da applicare intieramente in benefizio... ». (45) Cfr. P. UNGARI, Storia del diritto di famiglia, cit., pp. 42 e ss.; A.C. JEMOLO, Stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del Seicento e del Settecento, cit., pp. 258 e ss. (46) Riguardo alla presunzione di seduzione cfr., per tutti, ABBAS PANORMITANUS, Commentaria in quartum et quintum Decretalium librum, Venetiis, 1571, in c. 1. Si seduxerit, X. V. 16 (n. 2., p. 135). Riguardo al tema della donna « compagna di delitto », e all’esigenza di « purgare la macchia di infamia con il tormento moderato ad arbitrio del Giudice », cfr. M.A. SABELLI, Pratica universale, Venezia, 1748, VII, § Stupro, n. 25, p. 322 (e i richiami ivi contenuti).
— 442 — e l’immagine femminile è parziale, ‘dogmatica’, delineata alla luce delle nuove esigenze. La donna è capace di scegliere, non è più vittima ma ‘complice’, è ’colpevole col consentire’: « ...le Fanciulle poco si guardano dal tenere una vita licenziosa, sicure di poter scegliere a suo tempo tra molti uno per farlo condannare... » (47); « anch’essa [la donna] viene ad essere colpevole col consentire al delitto di stupro, e può perciò considerarsi colpevole in qualche parte » (48); « le donne non debbono profittare della loro complicità nel delitto » (49). La scelta per l’abbattimento della tutela sostiene la valorizzazione del consenso femminile, porta ad una diversa considerazione del ‘volontario abbandono’ della donna: « si la séduction [qui il termine è utilizzato, come l’autore ci avverte in nota, in luogo di stupro: « le stupre seroit le mot propre »] étoit considérée comme un delit public, il y a auroir deux coupables, puiqu’il est nécessairement l’ouvrage de deux personnes; & cette hypothese, loin d’assurer à l’un des complices une action lucrative contre l’autre, les envelopperoit tous deux dans la meme condamnation »; « ...lorsque le succès du séducteur n’est du qu’à l’abandon volontaire de la fille, qu’il est l’effet de son plein consentement, elle ne doit se plaindre que d’elle même & de l’insuffisance de sa vertu » (50). (47) « ... l’esperienza ci ha fatto conoscere, che il favorire indistintamente la condizione delle Stuprate coll’obbligare gli stupratori a sposarle, o dotarle, non ha ovviato a simili delitti, ma li ha moltiplicati, e dato campo a maggiori inconvenienti: succedendo bene spesso, o che le Fanciulle poco si guardano dal tenere una vita licenziosa, sicure di poter scegliere a suo tempo tra molti uno per farlo condannare; o quel che è peggio i Genitori istessi poco curanti delle Leggi Divine ed Umane non siano la debita premura di allevarle Cristianamente, le lasciano trascorrere in pratiche poco oneste, e di più gliene procurano le occasioni col fine di provvedere per mezzi così illeciti, ed abominevoli, o di Marito, o di Dote conveniente... » (Legge per gli stupri del 24 gennaio 1754, cit.). Un accenno critico può essere letto anche in Muratori (Della pubblica felicità, oggetto de’ buoni prìncipi, cap. X): cfr. in Opere di Ludovico Antonio Muratori, a cura di G. Falco e F. Forti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1964, II, p. 1553. (48) « ... qualora la donna non soffra vera, reale, ed effettiva forza nella sua deflorazione, anch’essa viene ad essere colpevole col consentire al delitto di stupro, e può perciò considerarsi colpevole in qualche parte »: così nella Prammatica napoletana del 18 marzo 1738, in D.A. VARIUS, Pragmaticae, cit., III, p. XVIII (De ordine et forma iudiciorum), § VI, 9, p. 584. In questa logica, e con ‘spirito egualitario’, si stabiliva che « da oggi in avanti occorrendo querela di stupro non possa procedersi alla carcerazione del reo, senza essersi prima proceduto alla carcerazione della querelante essendo di bassa condizione; o che sia posta in un Monistero, o in una casa terza onesta ad arbitrio del Giudice essendo la donna di una migliore condizione e di miglior riguardo... » (ivi). (49) È il testo della Prammatica del 1779. (50) FOURNEL, Traité de la séduction considérée dans l’ordre judiciaire, cit., pp. 6 e 7. Si badi bene: questa retorica, volta ad abbattere l’uso ampio, ‘non rigoroso’, della tutela penale e per abbandonare le presunzioni che conducevano a concedere il matrimonio come una protezione nei confronti della donna, continua ad utilizzare al suo fianco, e con disinvoltura, una serie di presunzioni per porre riparo attraverso strumenti risarcitori alle ingiustizie generate dalla seduzione: la gravidanza fa presumere la promessa di matrimonio (cfr. in ibi-
— 443 — 4. L’ambigua enfasi del ‘consenso di lei’. — Il consenso della donna emerge dunque trasversalmente rispetto ad una sistematizzazione delle antecedenti tutele. Elemento di crisi della stabilità del precedente ordine, il consenso femminile mostra ‘trame’ da colpire, irregolari strategie matrimoniali, sintomi di decadenza morale da arginare con nuovi strumenti: emerge come ‘inconveniente’, disordine, scelta deviante da reprimere. Il cardine dell’intera costruzione era e resta, però, l’ordine delle famiglie: in quest’ordine il solo ‘consenso’ legittimo e da tutelare rimane quello indirizzato verso il matrimonio (nell’ottica statalistica: verso i matrimoni imposti dalle strategie di alleanza tra famiglie), il consenso che affiora nelle pieghe della crisi di quell’ordine non riesce ad essere letto e valorizzato ‘di per sé’ ma soltanto in relazione ai vecchi meccanismi. La questione degli inconvenienti della repressione dello stupro (51) impone una nuova immagine femminile, e apre una vasta e fortunata retorica sul ‘consenso colpevole’ della donna; ma non riesce a fornire ai giuristi le basi per una costruzione diversa delle tutele: la ‘protezione’ accordata dal diritto continua ad essere pensata in riferimento al vecchio ordine, in riferimento ad un ideale, ora infranto, della ‘donna virtuosa’. Le presunzioni su cui la giurisprudenza fondava le sue conclusioni conducevano ad una applicazione ‘sconveniente’ delle tutele; il consenso ‘uguale’ dem pp. 29 e ss.); l’indicazione di un seduttore da parte della donna stabilisce una légere présomption che pur è sufficiente a far condannare l’uomo alle « frais de gésine » e alle « provisions alimentaires » (ibidem pp. 98 e ss.) e continua a porgere indizi per la prova della paternità (a mo’ di esempio, si cfr. riguardo alla prassi giurisprudenziale Toscana e della Rota Romana T. CUTURI, Studi sulla dichiarazione giudiziale della paternità dei figli naturali con particolare riferimento al diritto civile francese e al diritto civile italiano, in Annali dell’Università di Perugia (Pubblicazione della facoltà di giurisprudenza), Nuova serie, I, Perugia, tip. Boncompagni, 1891, pp. 365 e ss.). Si può qui notare solo per inciso che queste ‘protezioni’ furono cancellate nel Codice Napoleone attraverso l’uso ‘espansivo’ della stessa immagine ‘egualitaria’ della donna cui si fa riferimento nel testo ed insistendo naturalmente sugli abusi, sulle degenerazioni prodotte dalla prassi di antico regime. La retorica antecedente di una donna ‘colpevole col consentire’ non è più delimitata alla questione della depenalizzazione dello stupro, ma assume connotati ‘sanzionatori’ più ampi: il divieto di ricerca di paternità è esplicitamente posto come sanzione per la donna, come freno nei confronti di donne ‘seduttrici’ e ‘disoneste’: il divieto di ricerca di paternità « prémunit la faiblesse et l’inexpérience contre les dangers de la séduction, (...) met un frein à la perversité des femmes flétries et déhontées » (così, ad esempio, Lahary, nel suo rapporto al Tribunato del 21 ventoso anno XI — 12 marzo 1803 —, in FENET, Recueil complet des travaux préparatoires du Code civil, Paris, 1927, r. Osnabrueck, Zeller 1968, X, p. 200); « Les femmes deviendront plus réservées lorsqu’elles sauront qu’en cédant sans avoir pris des précautions pour assurer l’état de leur postérité, elles en sont seules chargées » (così Cambacérès, Discours préliminaire prononcé au Conseil des Cinq Cents, Lors de la présentation du 3. projet de Code civil, in ibidem, I, p. 148). (51) Cfr. D. PECCIANTI, Gli inconvenienti della repressione dello stupro nella giustizia criminale senese: il dilagare delle querele nel Settecento, in Criminalità, pena, controllo sociale e politico in età moderna (La « Leopoldina ». Criminalità e giustizia criminale nelle riforme del ’700 europeo, 12, a cura di L. BERLINGUER), Milano, Giuffrè, 1991, pp. 477-515.
— 444 — della donna, il riconoscimento di una ‘parità di scelta’ indica, con ingannevole retorica individualistica, la fine di quel mondo senza trasformarsi in costruzione attenta alle scelte della persona. La valutazione ‘uguale’ del consenso non rivendica ulteriori coerenze dogmatiche, si arresta alla demolizione delle antecedenti protezioni; anzi, è, strumento per l’affermazione (‘morale’) di un nuovo tipo di controllo sociale fondato sul silenzio del diritto. Anche le declamazioni di Filangieri e ‘dei suoi seguaci’, contro cui si scagliava Giuliani, risentono di questa logica. Ben all’interno della svolta, del complessivo mutamento ideologico, della rivoluzione di prospettive nel modo di affrontare il ‘problema penale’ da parte degli intellettuali illuministi del XVIII secolo (52) si può rintracciare la stessa retorica del ‘consenso colpevole’: fondamento per le richieste di depenalizzazione, invisibile sostegno moralistico e sanzionatorio della nuova prospettiva e delle nuove distinzioni laiche e razionali. Non a caso la richiesta di depenalizzazione pone al centro dell’attenzione la ‘moltiplicazione dei disordini’ dovute a tutele che oramai favoriscono il delitto; mostra come consenso visibile solo quello ‘pericoloso’ e ‘deviante’: « La fanciulla che vedeva il vantaggio che trar poteva dal richiesto favore, aveva una ragione di più per concederlo, e qualche volta per suggerirne la richiesta »; « le donne istesse, che avevan messo in commercio il loro corpo, con istudiati raffinamenti e con simulata verginità turbavano di continuo la pace di tanti onesti cittadini » (53).
È dalla negazione delle ‘devianze’, dalla critica verso « la tacita approvazione » dei parenti al delitto (« i loro occhi si chiudevano allorché era d’uopo di aprirli » (54)), che scaturisce la esclusione della ‘sanzione della legge’, che si afferma l’abbattimento delle antiche immagini e la retorica del consenso uguale: « lo stupro si supponga sempre volontario per tutte e due le parti » (55); « se si consulta la ragione, essa ci dice, che un delitto che si commette da due persone non deve essere punito nell’una, e premiato nell’altra. Se si consulta l’esperienza, questa ci ha pur troppo mostrati i disordini che derivano da questa determinazione. La ragione e l’esperienza prevaler debbono all’autorità ed agli esempj » (56).
In questa stessa ottica si possono anche leggere le Osservazioni di Giuseppe Maria Galanti riguardo alla legge napoletana del 1779 (57). La (52) Cfr. G. TARELLO, Il « problema penale » nel secolo XVIII, in Materiali per una storia della cultura giuridica, V, 1975, pp. 13 e ss. (53) G. FILANGIERI, La scienza delle legislazione, cit., p. 387. (54) Ibidem, p. 387. (55) Ibidem, p. 389. (56) Ibidem, p. 388 (in nota). (57) G.M. GALANTI, Osservazioni sopra la nuova legge abolitiva de’ delitti di stupro
— 445 — questione rilevante non mi pare quella di cogliere nel discorso, « fra ondeggiamenti e riconoscimenti », lo sguardo « sostanzialmente sfavorevole alle donne stesse, o almeno non benevolo nei loro confronti » (58). Il discorso, al di là di riconoscimenti e benevolenze (59), è interessante perché aggrega, disponendoli attorno alla legge ‘abolitiva degli stupri’, due modelli femminili, perché enfatizza la questione del consenso, ma al tempo stesso continua a mostrarne la marginalità, il suo disporsi come accessorio attorno ad altri elementi. La necessità di « produrre qualche ordine ne’ costumi » (60), la ricerca di un « mezzo... più efficace, da obbligarle alla continenza » (61), di una nuova « pena proporzionata » (62), costituiscono il centro delle Osservazioni: le immagini femminili ‘antiche’ e ‘moderne’ si dispongono attorno per giustificare il mutamento della tutela, per indicare il modello femminile che possa essere « degno della protezione delle leggi » (63). Occorre rendersi conto che i tribunali ‘immaginano’ una donna che non esiste più nella realtà, assumono al centro dell’attenzione un modello femminile ‘antico’: « I tribunali di Europa, che in questi giudizi non hanno altra scorta che le ipotesi e le supposizioni, figurano ancora che l’accusatrice sia onesta » (64); « Quale violenza, quale seduzione, si potrà ora supporre nell’uomo, se la propensione è scambievole, e se il giuoco riesce sempre di comune desiderio e di(1786), in F. VENTURI (a cura di), Illuministi italiani, V. Riformatori napoletani, Milano, Ricciardi, 1962, pp. 1024 e ss. (58) Così, con ottica fuorviante, R. BONINI, Condizione femminile e matrimonio tra diffidenze e nuove sensibilità. Rappresentazioni e dibattiti nel Settecento illuminista, I, Padova, Cedam, 1995, p. 24. (59) La situazione femminile (« Quale condizione più misera delle donne! ») è orpello dell’argomentazione, discussione dotta oscillante tra ‘rispetto’ (« Esse che altro non sono che un felice composto di sensibilità e di grazie, di dolcezza e di armonia, di spirito e di genio ») e commiserazione per una ‘schiavitù’ ingiusta e necessaria (« ... di necessità la loro vita è divenuta un circolo perpetuo di simulazioni e di falsità, di artifizi e d’intrighi » G.M. GALANTI, Osservazioni sopra la nuova legge abolitiva de’ delitti di stupro, p. 1025); la situazione della donna resta aspetto marginale rispetto alla questione ‘seria’ toccata dalla legge imposta dai « lumi di questo secolo »: « ... qui si tratta de’ mezzi che si abbiano a tenere per serbare un cert’ordine nella società, e non già d’idearne oziosamente una nuova, o di compiangere inutilmente il destino miserabile delle donne », (Ibidem, p. 1025). (60) Ibidem, p. 1030. (61) Ibidem, p. 1025. (62) Ibidem, p. 1026. (63) Ibidem, p. 1030 (corsivo mio). (64) Ibidem, p. 1028. Cfr. anche W. BLACKSTONE, Commentaires on the Laws of England (1767), cap. XV. Ho utilizzato la traduzione in francese di Coyer, Commentaire sur le Code criminel d’Angleterre, Paris, Knapen, vol. I, 1776, p. 237: « Le loix Romaines supposoient qu’elles ne s’écartoient de la vertu, sans la séduction & les artifices de l’autre sexe (...). Mais nos loix ne se font pas une ideé si sublime de cet honneur, jusqu’à jeter tout le blâme d’une faute mutuelle sur un seul des deux coupables... ».
— 446 — letto! Troppo strane mi sembrano per verità, almeno pel nostro secolo, le supposizioni de’ legisti e de’ tribunali » (65).
Anche in questo caso la preoccupazione non è quella di opporre (‘oziosamente’) una nuova concezione della donna alle erronee supposizioni dei giudici, né di sostituire una ‘donna reale’ all’immagine di un’onesta fuori dal tempo. Si tratta di ‘ordine della società’; si tratta di eliminare completamente le tutele pensate per donne necessariamente oneste, prospettando, generalizzando, un nuovo modello, mostrando un’altra realtà ‘vera’ ed ignorata completamente dai giureconsulti: « Non mi si dica che gli stupri avvengono per un’ingiusta violenza dell’uomo, o per una seduzione uguale alla violenza, perché così sarebbe mostrarsi poco intelligenti di queste cose... »; « ... le giovani... sono quelle che si abbandonano agli uomini... »; « ... la pudicizia nelle donne... è una virtù assai fragile »; « ... non saprei figurare più grave ingiuria, né maggiore oppressione, di costringere un cittadino, coll’autorità sacra e veneranda della giustizia, a sposare una stuprata, ch’è quanto dire una libertina » (66).
La donna ‘degna della protezione della legge’ resta la « donna virtuosa », ma la protezione le può essere data solo capovolgendo l’immagine di partenza, solo estendendo e generalizzando l’altra immagine, quella della donna come ‘vera seduttrice’. D’altronde è la stessa scelta della via giudiziaria a segnare la divisione, a mostrare gli estremi: la « donna onesta » ingannata e sedotta mostra la sua virtù tacendo (« ha sofferto in silenzio la sua crudele disgrazia, senza fare strepito o mormorare »); al contrario, « le donne volgari, senza onestà e senza educazione, colla stessa facilità colle quali si lasciano sedurre, si apprestano in giudizio » (67). È la degenerazione della tutela che ‘crea’ il discorso giuridico sul consenso femminile. L’enfasi sul consenso mostra una realtà che spinge a degradare, ad abbattere le precedenti tutele; nasce in contrapposizione alle presunzioni e alle scelte dogmatiche antiche. Allo stesso modo è la scelta per ‘l’affievolimento’ della tutela a guidare l’immagine che il giurista propone e a dare un nuovo elemento di coesione, di coerenza al suo racconto. Il silenzio della legge è difesa della virtù, l’esasperazione retorica della ‘disonestà’ è argine contro il disordine, la valorizzazione del ‘consenso di lei’ è ‘sanzio(65) G.M. GALANTI, Osservazioni sopra la nuova legge abolitiva de’ delitti di stupro, p. 1028: « Bisogna dunque dire che nei giudizi di stupro le supposizioni si sono fatte per abito, e senza niuna esame e riflessione; perché per una donna che non abbia alcun ritegno di domandare davanti al magistrato una riparazione dal suo seduttore, la ragionevole conchiusone sarebbe che assai facile e liberale ella sia ne’ suoi amori, o al più che a questo oggetto si sia lasciata sedurre ». (66) Ibidem, pp. 1026, 1027 e 1028. (67) Ibidem, pp. 1028 e 1029.
— 447 — ne’ per una scelta deviante... La sequenza rimane tipica in tutte le pagine della penalistica successiva e, affiancando e sostenendo la retorica ‘moderna’ della valorizzazione del consenso, è argomento decisivo nelle dispute per la completa depenalizzazione dello stupro semplice. A metà dell’Ottocento, criticando gli argomenti utilizzati da Giuliani in difesa della classificazione delle stupro semplice come delitto, è un illustre giurista toscano, Giuseppe Puccioni, a puntare ancora sulla difesa della virtù: la legge, la prassi dei tribunali, non può contrastare con « la prima fra le virtù che la natura insinua nella donna », « la pudicizia »: l’abbandono volontario della pudicizia non può essere guardato con indulgenza dalla legge, o addirittura premiato (abilitando le donne a « divenire accusatrici impudenti di colui al quale volontariamente cederono »; « vinte da mezzi comuni e volgari di una seduzione, che non deprime la volontà, ma eccita la concupiscenza »). La conseguenza, logica più che paradossale, è che la pena, qualora alla sanzione del silenzio si preferisca ancora l’uso delle pene, dovrà essere graduata in relazione alle colpe reali: « Se la legge civile trova nello stupro semplice le caratteristiche di un delitto, deve essere severa più con la femmina che con il maschio, perché la femmina repudia ciò che costituisce la difesa del suo sesso, quel pudore che la rende venerata e cara agli uomini » (68). 5. « La Toscana fu la ultima ad erudirsi ». — La donna virtuosa, venerata e cara agli uomini...; la donna senza onestà, che consente al proprio disonore, non sedotta ma seduttrice, che fa dello stupro un mestiere... Immagini femminili lontane, opposte; eppure presenti fianco a fianco nelle pagine dei giuristi, troppo vicine per non mostrare i contrasti, per non richiedere una mediazione o una tensione verso una ricomposizione unitaria. La nettezza della scelta della depenalizzazione dello stupro, il passaggio ‘violento’ dallo stupro alla violenza carnale, non convince soprattutto i giuristi e i legislatori toscani. Le qualificazioni dello stupro diverse dalla violenza vivono così in Toscana, « ultima ad erudirsi », una breve, ultima, stagione di fortuna. Nei dibattiti legislativi, nelle decisioni giurisprudenziali è possibile rintracciare una fase di transizione tra modelli giuridici contrapposti che evidenzia ancora l’uso solo retorico del richiamo ‘centrale’ al consenso femminile. La legge toscana per gli stupri del 1754, come abbiamo visto, percorreva senza contrasti la stessa sequenza argomentativa che abbiamo ritro(68) G. PUCCIONI, Il Codice penale toscano illustrato, cit., IV, pp. 343 e 344. Commenti più sobri rintracciabili in altri autori non alterano l’impostazione ‘sanzionatoria’. Cfr., a mo’ di esempio, F.A. MORI, Teorica del codice penale toscano, Firenze, Stamperia delle Murate, 1854, pp. 240 e 241.
— 448 — vato in altri provvedimenti del periodo: fanciulle dalla ‘vita licenziosa’, padri che non vigilano sulla educazione della prole, costringono ad abbandonare per lo stupro semplice la protezione del dotare o sposare... Il punto su cui si fa leva per scardinare la tutela degenerata è naturalmente il consenso della donna: non si può rintracciare alcuna ingiuria, alcuna lesione del diritto altrui nelle azioni commesse col consenso di chi (correa-accusatrice) si pretende offeso, si tratta dunque di azioni « impunibili » (69). È, però, lo stesso motivo della valorizzazione del consenso, unito al permanente e qui esplicito richiamo alla ‘natura’ femminile, alla « debolezza naturale » della donna, a far sì che non si vada oltre sulla via della depenalizzazione: il consenso deve essere ‘vero’, e per esser tale non può essere astratto, deve essere valutato in concreto riferimento al modo di essere della donna: come dimenticare, ad esempio, l’esistenza di mezzi capaci di falsarlo, come dimenticare ‘l’arte maschile’ volta ad ‘approfittare’ della natura femminile con ‘seducenti allettative’ (70). Nei lavori preparatori della Riforma della legislazione penale toscana ritroviamo, più che lo scontro tra ideologie contrapposte (71), soprattutto l’esigenza di adeguare l’immagine femminile alla tutela proposta: i fautori della depenalizzazione insistono sul consenso femminile (sul consenso deviante, sul disordine, sulle degenerazioni di rimedi penali ‘ridicoli’); il richiamo alla ‘natura femminile’ offre il principale sostegno argomentativo per coloro che si oppongono alla logica della depenalizzazione, alla fine del sogno. (69) Così Cantini nella sua ‘illustrazione’ della Legge per gli stupri del 24 gennaio 1754, cit., p. 54: « Nella commissione di uno Stupro semplice, io non trovo alcuna ingiuria, o lesione dell’altrui interesse (...). Quelle azioni, che sono commesse col consenso di quello che pretende dalla commissione delle medesime di essere offeso, non recano ingiuria, e sono perciò rispetto a quello impunibili ». (70) « Se poi lo Stupro non è semplice, ma è accompagnato da una vera seduzione, in tal caso conviene che sia punito con una pena (...) vantaggiosa alla deflorata Fanciulla per indennizzarla del perduto decoro, e dell’offesa fattagli. Le donne sono composte di una tessitura più molle, e più delicata degl’Uomini, e perciò più facilmente sono soggette ad essere vinte da un tratto spiritoso, e seducente. Colui che profitta di questa loro debolezza naturale, è certamente più reo di quello, che semplicemente richiede i loro favori, e merita perciò di essere punito con una pena che sia capace a compensare la deteriorata condizione di quella che è stata vittima delle sue più seducenti allettative. (...) L’obbligo di sposare, o dotare la sedotta Fanciulla è la pena più giusta da imporsi al seduttore » (CANTINI, Illustrazione della Legge per gli stupri del 24 gennaio 1754, cit., p. 55). (71) Da Passano ha sottolineato, a ragione, come angoli visuali diversi mostrano una concezione simile della donna, e come anche nei fautori della depenalizzazione fosse assente « ogni idea di una netta separazione tra diritto morale e religione ». Cfr. M. DA PASSANO, Dalla « mitigazione delle pene » alla « protezione che esige l’ordine pubblico ». Il diritto penale toscano dai Lorena ai Borbone (1786-1807), (La « Leopoldina ». Criminalità e giustizia criminale nelle riforme del ’700 europeo, 3, a cura di L. BERLINGUER) Milano, Giuffrè, 1988, p. 81. Cfr. anche G. ALESSI, Processo per seduzione. Piacere e castigo nella Toscana leopoldina, Catania, PME, 1988, pp. 141 e ss.
— 449 — La proposta di Pietro Leopoldo respinge « la ridicola legge presente di doversi dotare, e sposare, la stuprata, o andare in galera, la quale serve d’incentivo alli stupri », cancella e affievolisce l’ampia tutela penale: « per gli stupri non vi sarà che una pena pecuniaria, fuorché quando è fatto con violenza, e armi alla mano, che allora cade nella pena della violenza pubblica o ferimenti » (72). Com’è noto, soprattutto su questo punto le resistenze furono forti e riuscirono ad imporre una soluzione molto diversa. Nel dibattito chi è favorevole alla depenalizzazione accentua l’immagine di una donna (donna-complice, « Donna Correa » (73), « rea non men dell’Uomo » (74)) che è ben capace di scegliere e che pertanto non necessita di tutele: pur « debole e fragile in tutte le sue azioni », la donna mostra soprattutto « sagacità e malizia », agisce solo in vista di un vantaggio (75). Una sequenza in cui, fatalmente, le donne si mostrano « più seduttrici che sedotte » (76). D’altra parte, la difesa della tutele è necessaria difesa di un’immagine femminile virtuosa « per dettame di natura », di una donna che è « condotta a consentire » (77), che, per quanto sagace, è sempre meno sagace del suo seduttore (78). La necessità di evitare degenerazioni della tutela, di impedire gli abusi non può imporre — in fondo è questa la questione decisiva — di « fondarsi sull’eccezione della regola » (una regola che naturalmente « milita per la buona educazione, e per l’onestà delle giovani assistita dalla presunzione di natura »), « privando del ben giusto dovuto riparo indistintamente tutte le Stuprate, il massimo numero di cui certamente è sedotto, e lusingato dagli stupratori » (79). Nell’art. 98 della Leopoldina la scelta del progetto è abbandonata: si opta per una pena pecuniaria per lo stupro semplice; si lascia all’arbitrio (72) Cfr. in M. DA PASSANO, Dalla « mitigazione delle pene » alla « protezione che esige l’ordine pubblico », cit., pp. 25 e ss. (73) Così Giuseppe Giusti (Presidente del Buon Governo): il delitto « si commette da due persone » e « col premiare la Donna Correa si moltiplicano i disordini, si favorisce il delitto e si espone l’innocenza ». Faccio riferimento ai documenti riportati in M. DA PASSANO, Dalla « mitigazione delle pene » alla « protezione che esige l’ordine pubblico », cit., p. 76. (74) Così Urbano Urbani (auditore del Supremo Tribunale di Giustizia), in ibidem, p. 78. (75) Giuseppe Giusti: « ... e declamino quanto vogliono i Dottori, io persisterò sempre nella opinione, che la Donna nel far copia di se illegittimamente ha in veduta un vantaggio... » (ibidem, p. 61). (76) Urbano Urbani che ripropone anche il tema di una impossibile tutela per le « ragazze civili e ben educate », perché la legge « invita la Femmina a propalare a faccia aperta la propria turpitudine » (in ibidem, p. 78). (77) Giuliano Tosi (Auditore di Consulta) (in ibidem, p. 62). (78) Giuliano Tosi: « chi è che dà occasione alla donna di usare di quella sua pretesa sagacità? Non è egli lo stupratore? E se è lo stupratore, più sagace della stuprata sarà lo stupratore » (in ibidem, p. 71). (79) Antonio Caciotti (componente della Consulta) (in ibidem, p. 74).
— 450 — del giudice la possibilità di condannare ancora il reo a dotare o sposare la stuprata « se per le circostanze e qualità del caso, o per prove dirette, o di fatto, costerà di una vera, e non ordinaria, ma qualificata seduzione »; si lascia in vita lo stupro qualificato da precedente promessa di matrimonio « fatta in scritto in valida forma, o in voce alla presenza di due testimoni espressamente chiamati ». L’assenza di precise configurazioni dottrinali delle diverse qualificazioni (80) e la mancanza di specificazioni legislative attribuiscono al modello femminile di riferimento un’importanza decisiva: i giudici toscani non sono condannati a mostrare solo le sventure della virtù, cercano, e finiscono col trovare, la donna che ‘sognano’, la donna che intendono « soccorrere » (81). La degenerazione della tutela è evitata spostando tutte le situazioni ritenute non meritevoli di tutela verso lo scalino più basso, degradandole a stupro semplice (82). È in particolare la « vera, non ordinaria, ma qualificata seduzione » ad offrire uno spazio per attribuire ancora ‘un soccorso’ alla donna, tutela e premio accordato caso per caso alla virtù. La seduzione è richiamata come criterio suppletivo « quando la precedente promessa di matrimonio non può provarsi »: le circostanze prive delle minime formalità necessarie (80) « Seductio alia simplex, alia qualificata dicitur. Illa ex blandis verbis, muneribus, et similibus constat: haec ex fraude singulari ». Le distinzioni poste dalla dottrina sono inevitabilmente fragili su questo punto: le catalogazioni esatte risultano impossibili, come difficile è fissare criteri giuridici distintivi tra seduzione semplice e qualificata, tra seduzione qualificata e promessa di matrimonio, tra frode e seduzione. L’elemento determinante sta per tutti nel riferimento alla ‘frode’, cfr. A. CREMANI, De iure criminali libri tres, II, Ticini, apud haeredes Petri Galeatii, 1792, p. 323 (Lib. II; Cap. Vl; art. II): « ... si fraus vere singularis, & valde dolosa, & callida persuasio, a blanditiis multum differens, arguatur, aliquid habetur vi turpius, & improbius: quod nostri vocant qualificatam seductionem »; J.M. PAOLETTI, Institutiones theorico-praticae criminales, I, Florentiae, Fantosini, vol. II, 1791, p. 173 e ss. (Lib. Vl, tit. II); J. BUONFANTI, Manuale teorico pratico di diritto penale, Pisa, Vannucchi, 1849, p. 375: la seduzione qualificata « meglio saria appellata fraude »; G. GIULIANI, Istituzioni di Diritto criminale, cit., II, pp. 314 e 315. Carmignani (da cui è tratta la frase riportata all’inizio) solitario si oppone: « Ast, cum fraus non ad seductionem sed ad falsitatem pertineat, alii restius seductionem qualificatam eam dicunt, qua stuprator puellam val de simplicem ita illecebris ad peccandum trahit ut ipsa sibi non in rem turpem sed licitam consentire videatur » (G. CARMIGNANI, Juris criminalis elementa, Pisa, Nistri, 1933 (5a ed.; 1a ed. 1808), § 1154, p. 176). (81) « ... il Legislatore intendeva ciò che da molto tempo i criminalisti scrittori erano andati dicendo, che in massima l’obbligare lo stupratore a sposare la stuprata favoriva, anzi eccitava il mal costume; ma (...) d’altronde era troppo giusto soccorrere alla debolezza del sesso... » (J. BUONFANTI, Manuale teorico pratico di diritto penale, cit., 377). (82) La seduzione è utilizzata come via intermedia, ipotesi autonoma e distinta; è lo stesso art. 98 — si dice — a considerarla tale: lo stupro commesso con « arte » con « frode » merita una sanzione più severa dello stupro semplice, meno severa di quello qualificato da ‘solenne’ promessa di matrimonio. Cfr. S.R., 3 maggio 1832, (Pescia), in (P.A. CERRETELLI) L’ultimo decennio dal 1829 della giurisprudenza criminale toscana, Firenze, Soc. tipografica, III, 1844, p. 620 e ss. (Stupro, n. 36).
— 451 — per configurare sponsali atti a ‘qualificare’ lo stupro, essendo « fatto valutabile dai Giudici », sono spesso considerate come vera, non ordinaria seduzione « che costituisce la distinta qualità aggravante dello stupro » (83). La ‘protezione per l’onestà’ (per donne che hanno espresso un consenso ‘apparente’ in base a sicurezze inesistenti, per donne raggirate e incapaci di esprimere vero consenso) viene così estesa enormemente. La finalità della legge — si obietta — è così falsata: si voleva « soccorrere alla debolezza del sesso illuso dalla sicurezza che prestava una promessa capace di dare azione avanti ai tribunali per lo adempimento degli sponsali »; la legge non intendeva certo « soccorrere a quella fragile onestà, che cede a qualsivoglia lusinga, né sa difendersi dalle comunissime ed ordinarie seduzioni... » (84). È comunque difficile mantenere distinzioni rigide nei processi per stupro. Gli elastici criteri forniti dalla legge sono interpretati spesso estensivamente da una giurisprudenza che non ha dimenticato le presunzioni antiche: si passa così da affermazioni in cui si dà per scontato il consenso della donna, a valutazioni in cui il consenso si colora di apparenza e scompare grazie ad un vago richiamo alla promessa di matrimonio e alla seduzione (‘non ordinaria’). Insomma, i giudici toscani hanno ancora il mezzo per incasellare vari gradi di virtù tra le varie qualificazioni dello stupro e possono disporre liberamente del consenso femminile, intrecciando apparenze e realtà, seduzione e consenso (la seduzione semplice non toglie consenso all’atto; di fronte alla seduzione qualificata scompare il consenso e così via). La questione, del resto, come nessuno nega, non è certo quella di tutelare in modo uguale un diritto della persona, ma di ‘soccorrere una debolezza’ o di scorgere onestà fragili o ingannevoli non meritevoli di tutela. La mancata depenalizzazione lascia, dunque, liberi i giudici di scegliere e di graduare la protezione, di mostrare ancora una ‘natura femminile’ intatta (da ricondurre nell’ordine delle famiglie da tutelare con il ma(83) Corte di Cassazione, 25 giugno 1839, in Annali di giurisprudenza, I, 1 (1839), cc. 129 e ss.; cfr. ancora Corte di Cassazione, 28 aprile 1848, in Annali di giurisprudenza, X, 1, 1848, c. 227). Il criterio è elastico, capace di ricomprendere persino, indipendentemente dalle formali promesse di matrimonio, le intenzioni matrimoniali reiteratamente manifestate, le « replicate lusinghe ». (84) Francesco Forti, che pure è favorevole ad una interpretazione ‘non tassativa’ dei requisiti formali per gli sponsali, stigmatizza come Pubblico Ministero la « nuovissima giurisprudenza » pronta a ritenere, con risultati giuridicamente paradossali, che le prove comunque insufficienti a provare gli sponsali potessero essere utilizzate per provare « la straordinaria e qualificata seduzione »: « un identico fatto provato sorte un nome di qualificazione legale dalla Legge reputata ordinaria, non provato pienamente si riterrebbe pur tuttavia per provato all’oggetto di sortire un nome di qualificazione dalla Legge riputata straordinaria » (Conclusioni del Pubblico Ministero alla S.R. 2 agosto 1837, S. Giovanni), in CERRETELLI, L’ultimo decennio dal 1829 della giurisprudenza criminale toscana, cit. (Stupro, nota M), p. 667. Cfr. anche F. FORTI, Opere edite e inedite, vol. V, Raccolta di conclusioni criminali, (ordinata e annotata da Baldassarre Paoli), Firenze, Cammelli, 1864, XV: pp. 139 e ss.
— 452 — trimonio) o di capovolgerla; di accordare o meno il ‘soccorso’, soppesando ossessivamente ‘l’onestà di lei’: abbiamo così una ‘indubitata onestà’ che si presume (« la presunzione di ragione sta sempre a favore della stuprata... » (85)), ma che si ‘adombra’ al minimo sospetto (« l’onestà ha bisogno di una piena prova... bastando anche il sospetto a renderla vacillante » (86)); l’onestà che mostra accettazioni ‘implicite e certe’ di promesse di matrimonio (87) o che supplisce ‘moralmente’ alla mancanza di prova dello ‘stupro fisico’; onestà che si incrinano per la sola assenza dei ‘precedenti amori’ con il seduttore — circostanza atta a generare sospetto sulle dichiarazioni (« accusazioni ») della donna —; onestà da verificare nei riti degli amanti, nella serietà e nella solennità (‘sostanziale’) delle loro promesse, distinguendo gioco e frodi, consenso vero e ‘accese’ passioni (88). 6. Il silenzio come sanzione. — I contrasti presenti nel caso Toscano tornano a mostrare degenerazioni della tutela, sogni giuridici affidati alla pericolosa discrezionalità dei giudici e alla loro capacità di amministrare, a fronte del caso concreto, ‘soccorsi’ per l’onestà e sanzione del silenzio, di dosare il rapporto tra diritto e morale. La resistenza delle protezioni antiche ripropone e difende immagini che appaiono destinate ad essere travolte dalla modernità. La rappresentazione egualitaria di una donna che consente liberamente appare più lineare, capace di una maggior forza espansiva, inevitabile modello per scelte legislative e guida per l’interpretazione giudiziale: « lo stupro si supponga sempre volontario per tutte e due le parti »; « ... la donna presumesi aver consentito per piacimento suo... ». Ritorna inevitabilmente l’immagine della svolta, complessiva trasformazione della mentalità che si impone comunque agli interpreti e diviene lentamente operativa nella prassi dei tribunali: costretti ad ‘erudirsi’, pressati ‘dai lumi’ ad abbandonare le vecchie presunzioni. (85) Cfr. S.R., Radda, 10 luglio 1821, in CERRETELLI, L’ultimo decennio dal 1829 della giurisprudenza criminale toscana, cit. (Stupro, n. 3), p. 603. (86) Cfr. S.R., Pisa, 21 maggio 1835, in CERRETELLI, L’ultimo decennio dal 1829 della giurisprudenza criminale toscana, cit. (Stupro, n. 65), p. 636. (87) Cfr. Corte di Cassazione, 18 gennaio 1848, in Annali di giurisprudenza, X, 1848, p. 73. (88) Tali questioni si ripropongono in parte ancora in riferimento all’art. 298 del codice penale toscano del 1852 che conserva il riferimento alla promessa di matrimonio e alla seduzione (« fraudi di una seduzione straordinaria »). Art. 298 § 1: « Si fa colpevole di stupro: a) chiunque, dopo aver contratto solenni sponsali con una fanciulla, la deflora, e poi non osserva, senza giusta causa, la data fede; b) chiunque deflora una fanciulla che ha compiuto l’anno duodecimo, ma non il decimosesto; e c) chiunque, circonvenendo con le fraudi di una seduzione straordinaria la sua inesperienza, deflora una fanciulla, che, sebbene abbia oltrepassato l’anno decimosesto, non ha compito il vigesimo primo ».
— 453 — La ‘svolta’ può essere correttamente compresa, però, solo se i capovolgimenti di immagine sono collegati alla ‘fine delle protezioni’: da questo punto di vista, più che il mutamento di mentalità è la sua continuità a dettare le regole, a mostrare il silenzio del diritto come sanzione contro la trasgressione, la perdita della protezione come pena finalizzata a realizzare gli stessi obiettivi della vecchia tutela. Nella perdita delle protezioni, nelle sventure della virtù, si rivelano profonde continuità tra ‘vecchio’ e ‘nuovo’. È invece la ricerca di una linearità dogmatica a polarizzare i contrasti, a indicare la novità dei fatti, a mostrare la nuova mentalità: la svolta dogmatica enfatizza il mutamento, esige una nuova realtà del consenso femminile, vede nuove relazioni tra uomini e donne, capovolge i ruoli consolidati... La dogmatica, del resto, tende a imporsi sulla realtà: la scienza deve dimostrare, contro l’empiria, le logiche deduzioni dei suoi princìpi; « la verità è una » (89), deve imporsi sulle ‘false’ presunzioni dei Tribunali. Muta quello che si cerca, muta quello che si presuppone, quello che si è disposti ad ascoltare, mutano le presunzioni del diritto: « lo stupro si supponga sempre volontario per tutte e due le parti »; « ... la donna presumesi aver consentito per piacimento suo... ». L’onestà ingannata deve cedere il passo; la sedotta da proteggere scompare mentre trionfa la ‘vittima apparente’, trionfa la ‘sedotta-seduttrice’... Lo scontro tra le diverse immagini femminili non è, da questo punto di vista, più espressivo di uno scontro di mentalità, ma mostra semplicemente un gioco interno al giuridico, schermaglie dogmatiche. È la svolta dogmatica che deve far scomparire dalle sentenze dei giudici la realtà presupposta dalla seduzione, che ‘inventa’ un consenso della donna ‘vero’, resistente a truffe e raggiri, libero anche di fronte a seduzioni straordinarie. È la depenalizzazione che esige un’onestà non più da tutelare, ma da responsabilizzare: si può infrangere ‘per piacimento suo’, può liberamente scegliere la sua perdizione e deve pertanto ‘pagare’. La retorica di fondazione dell’abbattimento dei delicta carnis resta profondamente ambigua, così come è ambigua la dogmatica ‘moderna’ della persecuzione della sola « vera, effettiva e reale violenza ». La degenerazione delle tutele mostra la fine di un sogno, impone il riferimento retorico dei giuristi a una nuova immagine femminile: i giudici sono invitati ad abbandonare princìpi giuridici immaginari per volgersi alla realtà per valutare anche il consenso della donna al proprio disonore: (89) « Su questo punto — scrive Carrara — io non mi rimuovo dalle convinzioni mie. Se il giure penale è un’arte empirica gettiamo la penna, e cessiamo di meditarne gli arcani principii che come tale non ha: ma se il giure penale è una scienza, e vogliamo mantenerlo a codesta sua altezza, esso deve avere dei principii; e questi non possono riconoscersi come veri, quando non sono accettabili in tutte le loro logiche deduzioni, perché la verità è una, e sotto ogni forma deve risultare verità ». CARRARA, Programma, cit., Parte speciale II, § 1493, p. 250.
— 454 — « La legge per quanto impolitica avria pur dovuto tollerarsi se un sommo principio giuridico l’avesse renduta doverosa. Ma il principio giuridico non era che un sogno, perché dove la donna consente al proprio disonore non può lagnarsi che il suo diritto sia leso » (90).
Il modello femminile ‘poetico’, ‘cavalleresco’, è infranto. Nel corso dell’Ottocento gli inviti ad abbandonare definitivamente il sogno per la realtà sono costanti: la scienza esige l’abbandono della poesia, esige un sistema penalistico coerentemente fondato su una valutazione ‘uguale’ delle responsabilità dei soggetti, su una distribuzione ‘meritata’ delle tutele. Il discorso non può che insistere su una diversa valutazione del consenso (« la donna consente »), elemento retorico centrale della ‘nuova’ costruzione del giurista; ma gli echi ‘antichi’ non scompaiono. Il principio giuridico fondato su un sogno non cessa di esistere e continua a generare contrasti: il giurista continua ad indicare alla donna modelli di virtù e di onore, propone freni e ammaestramenti. L’immagine da abbattere nelle supposizioni dei tribunali, continua a influenzare l’attribuzione della tutela, a segnare criteri di meritevolezza. La protezione della legge penale viene meno, il diritto tace perché la donna manifesta un consenso deviante, perché « consente al proprio disonore » e non può « lagnarsi » della sua caduta; perché la donna non è ingannata ma « aveva piacere di essere ingannata » (91): la realtà mostra, ricordiamolo, « la facilità con cui le femmine allegano sempre di essere state sedotte, mentre le poverine furono invece bene e meglio le prime a cercare e desiderare » (92). La critica nei confronti della prassi del dotare e/o sposare, nei confronti della poetica presunzione di una donna sempre sedotta, insiste, sì, su libero consenso, libera scelta della donna, ma è incapace di prendere sul serio quel consenso e si sorregge ancora sulla logica morale della sanzione per l’onestà perduta, utilizzando pene ritenute più crudeli: « è utilissimo freno — scrive Carrara — il pericolo della gravidanza, la tema del disonore, la prospettiva delle nozze a lei rese difficili per la caduta. Togliete cotesto freno, e la donna non più è rattenuta dal cadere per un timore, ma vi è sospinta per una speranza caldissima » (93). (90) CARRARA, Programma, cit., Parte speciale II, § 1488, p. 238. (91) CARRARA, Programma, cit., Parte speciale II, § 1509, p. 284. (92) « chi allega di essere stato ingannato meramente per le parole altrui, fu ingannato perché volle esserlo ». CARRARA, Programma, cit., Parte speciale II, § 1496, p. 259 (nota). (93) CARRARA, Programma, cit., Parte speciale II, § 1487, pp. 233, 234: « La presunzione di seduzione della donna, che è un’ipotesi assai problematica nella vita reale anche prescindendo dallo stimolo di siffatta legislazione [dotare e/o sposare], diventò un iperbole per la triste opera della medesima. Nella donna, che agli sfoghi carnali viene sospinta dalla natura sua con impulso più energico, è utilissimo freno il pericolo della gravidanza... ». Naturalmente anche in Carrara la critica nei confronti delle degenerazioni delle antiche tutele occupa un posto di rilievo: « ... la legge che faceva mostra di proteggere la moralità della fa-
— 455 — Il modello della donna onesta e virtuosa non scompare (resta l’unico modello femminile degno di tutela giuridica) e continua, al di là della retorica sul consenso, al di là del ‘progresso dei lumi’, a dettare le linee di fondo della ricostruzione di giuristi. È la difesa di quel modello attraverso la sua negazione nel giuridico, attraverso l’enfasi del suo opposto. La rinnovata difesa della virtù si ottiene imponendo il silenzio e il sacrificio alla donna virtuosa. La ‘vera virtù’ si mostra non attraverso la strenua difesa del diritto, non con la pretesa del rimedio (urlata e disonorevole), ma attraverso la silenziosa e dignitosa accettazione della ‘disgrazia’ (senza strepiti e mormorii). Le aule dei tribunali non sono più luoghi adatti per l’onestà e la pudicizia. I giudici devono scegliere di conseguenza, consapevoli che le donne che affollano i giudizi non hanno più niente in comune con la ‘donna onesta’ tutelata nelle antiche supposizioni, perché privilegiano ancora il clamore e la pretesa di una protezione (per un delitto che le vede ‘complici accusatrici’) alla dignità del silenzio. La protezione per la virtù svanisce nel momento in cui, non più concessa, è rivendicata: la pretesa nega la virtù, fa svanire il diritto e il fondamento della protezione. Il diritto deve dunque tacere perché non ha più strumenti diretti per tutelare la virtù, perché la contamina. Privilegiando al rimedio la sanzione del comportamento deviante, il diritto può sostenere quanto la ‘natura’ impone alla donna attraverso una funzione pedagogica, mostrandole il peso delle responsabilità del consenso, l’insopportabile solitudine generata dal suo ‘colpevole consenso’. Il silenzio della legge è deterrente per la donna, e il sogno della virtù non è sconfitto dalla ricerca dogmatica del ‘vero consenso’. Si pensa ancora alle antiche protezioni: la tutela della legge non si accorda a donne dalla virtù ‘vacillante’. Il silenzio della legge è sanzione, perdita di protezioni immeritate, tensione verso la ricomposizione di un ordine infranto. Il diritto penale ‘moderno’ ricompone solo nel silenzio la sua immagine femminile, ed è ancora un’immagine ‘antica’, ‘un sogno’ (94). Negazione delle antiche tutele nella prassi dei tribunali e riferimento ad una nuova immagine femminile, di una donna capace di consentire, riferimento morale alle virtù del vecchio modello e configurazione del silenmiglia, eccitava la dissoluzione della famiglia, il disordine dei coniugi, e per tutto una ripetizione di pessimi esempi » (§ 1487, pp. 234 e 235). (94) Non mi pare si tratti della semplice compresenza di argomenti ‘vecchi’ e ‘nuovi’, « onorevole compromesso tra audacia illuministica e rispetto della tradizione » (cfr. G. FIANDACA, I reati sessuali nel pensiero di Francesco Carrara: un onorevole compromesso tra audacia illuministica e rispetto per la tradizione, in Francesco Carrara nel primo centenario della morte. Atti del Convegno internazionale. Lucca-Pisa 2-5 giugno 1988, Milano, Giuffrè, 1991, pp. 513 e ss.); siamo infatti di fronte ad una linearità disciplinare che è, sì, fondata su immagini ‘nuove’, ma che è incapace di svincolarsi dagli obiettivi delle tutele antiche, che non riesce a prendere mai sul serio ‘il diritto leso’ della donna e a configurare una tutela ‘autonoma’ per quel diritto, per il consenso femminile considerato di per sé.
— 456 — zio della legge come sanzione, continuano a marciare insieme per tutto l’Ottocento e ben oltre (95). L’ambigua valorizzazione dogmatica del consenso femminile ci mostra un tragico apologo delle virtù, della castità, dell’onestà, del pudore... Tragico perché si afferma solo attraverso l’ingannevole retorica del suo opposto, mostrando una realtà che spietatamente indica al giurista le sventure della virtù. 7. Un contraddittorio lascito: « stupro con violenza ». — Reminiscenza retorica di un passato non lontano, la donna che « inconscia del male » presta « un consenso apparente » è destinata a scomparire dalle pagine della penalistica e della giurisprudenza, è una figura estranea alle nuove esigenze del rimedio penale, contrasta con il rigore dogmatico e inquina, con richiami moralistici, la linearità del nuovo sistema. Le qualificazioni dello stupro diverse dalla violenza, momento di unione tra diversi mondi femminili, trasposizione ‘discrezionale’ di una sogno giurisprudenziale, sono condannate a scomparire per coerenza scientifica. Carrara propone uno sfortunato recupero del termine seduzione che è dettato da esigenze di linearità tecnica (96), la giurisprudenza, (95) Si cfr., a mo’ di esempio, la giustificazione fornita da Manzini al venir meno della punibilità della « Seduzione fraudolenta », la depenalizzazione continua ad essere pensata come sanzione, come pedagogica riaffermazione di una virtù perduta: « Conveniamo che l’abolizione di questa incriminazione fu saggia e provvida, perché le anticipazioni matrimoniali da parte delle ragazze già mature (...) rivelano una sintomatica facilità di scappucciare, le cui conseguenze è giusto che stiano a carico di chi possiede siffatta eccezionale debolezza, come ogni altro difetto personale. C’è poi da scommettere che la massima parte delle ‘sedotte’ con promessa di matrimonio, le quali furono prodighe nell’anticipare le loro grazie al seduttore, non gli avrebbero anticipato la croce d’un quattrino neppure se si fosse trattato di salvarlo dal suicidio. » (V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, Torino, Bocca, 1915, vol. VI, pp. 535 e 536). (96) È per certi aspetti singolare che sia proprio Carrara a tentare una sorta di recupero della seduzione. Impegnato, come sappiamo, a combattere le qualificazioni di ciò che allo stato semplice non è delitto, l’illustre penalista propone lo « stupro con seduzione » non come una qualifica, ma « come una condizione della imputabilità politica dello stupro ». CARRARA, Programma, cit., Parte speciale II, § 1500, p. 267; cfr. anche § 1482, p. 223: « Io definisco lo stupro - la conoscenza carnale di donna libera ed onesta, preceduta da seduzione vera o presunta, e non accompagnata da violenza ». La seduzione acquista una posizione centrale e determinante: discrimine tra lo stupro come fatto non imputabile e stupro elevabile al grado di delitto. La riabilitazione è però solo apparente: l’intero impianto ricostruttivo proposto da Carrara non permette cedimenti alla vecchia figura che è piegata in altra direzione. Il richiamo alla seduzione permette di classificare una situazione particolare del « soggetto passivo » del delitto: non equiparabile, con « falsa » ed « impolitica » presunzione, alla assenza di consenso determinata dalla violenza (cfr. §§ 1490 e ss., pp. 243 e ss.) né evidentemente al vero consenso. Il rigore scientifico esige un’appropriata classificazione di questa ipotesi intermedia: l’analisi del vizio del consenso determinato dalla seduzione, permette di coglierla evitando un appiattimento di situazioni di diversa gravità. Esiste una diversità sostanziale tra « la semplice assenza di consentimento efficace » e « la presenza positiva di un dissenti-
— 457 — meno incline ad abbandonare le vecchie protezioni a fronte del silenzio della legge, ripropone lo schema del ‘consenso apparente’ negli interstizi del sistema. Non è facile infatti rassegnarsi al silenzio della legge e alle distinzioni della scienza: la giurisprudenza penale fa riemergere qua e là, il richiamo a qualificazioni dello stupro per supplire al vuoto di tutele e per offrire ancora un soccorso alla ‘vera’ virtù (97). La dottrina si oppone: si torna a confondere la morale con il diritto, il peccato con il delitto; si abbandona la lettura del testo e l’interprete si sostituisce al legislatore (98). mento »; una distinzione che rende sofistico il brocardo per cui « chi non è capace di volere vuole il contrario » (§ 1493, pp. 250 e ss.). La polemica è rivolta contro Carpzov: con Hommel si può dire che l’incapace di volere è però capace di non volere: tale situazione non può essere parificata con una finzione, ‘violenza figurativa’, alla vera violenza, perché chi « non è capace di valido consenso giuridico è però capace di consenso naturale, ed è capacissimo di dissenso » (§ 1494, p. 254). La « verità delle cose » e il bisogno di « una giusta proporzione delle pene » fanno sì pertanto che da determinate condizioni del soggetto passivo non si possa presumere la violenza, ma soltanto la seduzione. La poetica presunzione di seduzione, fondata sul sogno di una necessaria onestà della donna, cede il posto ad una presunzione più prosaica, dettata « dal punto di vista della scienza » per l’abuso della « impubere » e della « demente », menti inesperte e deboli, capaci però di esprimere dissenso. (97) L’immagine « turpe » del seduttore, ad esempio, permette ancora di sopperire al silenzio della legge e di prospettare scelte legislative impegnate in difesa della virtù. Nell’art. 334 del Codice penale francese i giudici individuano excitation de la jeunesse à la débauche anche nel comportamento di chi abbia ‘eccitato o favorito la corruzione’ per soddisfare la propria passione: la dizione generale dell’articolo, la mancata definizione legislativa dei caratteri della eccitazione alla corruzione permettono ai giudici di far ritornare il seduttore, confondendolo con il lenòne. (DALLOZ), Répertoire méthodique et alphabétique de législation de doctrine et de jurisprudence, Paris, Jurisprudence générale du royaume, 1846, V, Attentat aux moeurs, nn. 136 e ss., pp. 432 e ss. Quasi completamente ricalcato sul modello francese, l’art. 421 del codice penale sardo-piemontese è utilizzato nella stessa direzione, estendendo così la possibilità di colpire il seduttore rispetto all’ipotesi prevista nell’art. 500 (seduzione con promessa di matrimonio di una persona minore di anni diciotto). (98) Comprensibile moralmente, apprezzabile per la difesa dei valori e per il suo sdegno, per la sua riprovazione contro le azioni ‘turpi’, contro le sconfitte delle virtù, irrilevante però nella dimensione del diritto, impotente di fronte al silenzio della legge: i giudici, « animés d’une vertueuse indignation », ripropongono un mondo oramai inesistente per il giurista, suppliscono al silenzio della legge, confondono diritto e morale. « ... c’est l’immoralité du séducteur qui, dans quelques espèces, a provoqué l’application de l’art. 334: le juge, à la vue d’une dépravation qui l’indignait, ne s’est point enquis avec assez de soin de la distinction trop peu précise de cet article, il a confondu tous les actes dans une même peine; mais au moment d’interpréter, il a suppléé au silence de la loi, il s’est érigé en législateur; il a déclaré punissable un fait que le législateur de tous les temps et notre ancienne législation ellemême, si scrupuleuse en cette matière, avaient absous »; e ancora: « Il appartient au moraliste, au législateur, d’examiner si le cercle des incriminations n’est pas trop restreint, si les limites peuvent être étendues: mais le juriconsulte est en face d’un texte; il doit en interroger le sens, en sonder l’esprit; il ne peut, sous le prétexte d’un besoin social ou de l’immoralité d’un acte, ériger des délits nouveaux en étendant ses termes » (CHAUVEAU-HÉLIE, Théorie du code pénal, Bruxelles, Meline, 1845, II, n. 2774, p. 192 e n. 2787, p. 195).
— 458 — Gli esempi di tentativi giurisprudenziali di sopperire al rigore imposto dal silenzio della legge, di rivendicare una lettura ‘autonoma’ del fatto non schiacciata dalle nette distinzioni imposte dal legislatore, di scorgere ancora modelli differenziati di virtù femminile da ‘premiare’ in opposizione al rigido dettato del legislatore, potrebbero accrescersi (99); ma non sta in queste reliquie di costruzioni giurisprudenziali il contraddittorio lascito dell’ambigua depenalizzazione dell’ampia figura dello stupro. I contrasti più forti stanno infatti nella incompiuta linearità del nuovo sistema, nel passaggio dogmatico imperfetto dallo stupro ad una violenza sessuale che, al di là dell’enfasi sul consenso femminile, non riesce a prendere sul serio le sue stesse immagini e a porsi come coerente tutela della persona e ‘la libera determinazione del volere’. I discorsi dei giuristi sulla violenza carnale (quella vera, reale, effettiva) mostrano infatti come in uno specchio le contraddizioni affioranti dalla depenalizzazione dello strupro e delle sue qualificazioni. La tutela accordata dalla legge è più specifica, più esigente. Le « aberrazioni » presenti nei delicta carnis cedono il passo alla ricerca di una diversa « essenza »: « la essenza sta nel dissenso del soggetto passivo »; « dato il consenso... il delitto sparisce » (100). È, come sappiamo, (99) Nel ratto per inganno di una maggiorenne i giudici di merito tornano a riproporre ancora la retorica della seduzione e a prospettare, a presumere, un’immagine femminile necessariamente virtuosa. La questione è posta in particolare riferimento al Codice Zanardelli. « Inganno »: la parola compare nell’art. 340 del Codice Zanardelli « Formula troppo elastica », si dice. Tanto elastica da poter far riemergere situazioni scomparse: si teme soprattutto il ritorno della « figura dello stupro per seduzione cacciata per la porta nell’art. 331 [violenza carnale] del codice penale » (P. VIAZZI, Ratto, in Enciclopedia giuridica italiana, XIV, 1, 1900, p. 210). La formula elastica in effetti è inizialmente utilizzata da parte della giurisprudenza senza tante sottigliezze: si può ravvisare inganno nella promessa di matrimonio non adempiuta, nelle arti e nei raggiri, nelle « mentite sofferenze », nelle minacce di suicidio. Ragioni di ordine sistematico condannano la scelta dei giudici. La Cassazione precisa che l’inganno non può riferirsi alla congiunzione carnale e che non può consistere nella semplice promessa di matrimonio: se così fosse, si dice, rivivrebbe, e con maggior gravità, lo stupro qualificato da promessa di matrimonio, reato ‘bandito dal legislatore’. Il temine ‘inganno’ evoca ancora, istintivamente, la seduzione e la promessa di matrimonio, ripropone figure femminili ‘antiche’. La sconfitta dell’indirizzo giurisprudenziale si affida anche in questo caso soprattutto alla dimostrazione della ‘vera realtà’ femminile: l’inganno — si dice — richiede il raggiro, la mise en scène, ma « si rasenta tuttavia sempre un pericolo: quello di punire la seduzione all’incontrario — applicare la pena al maschio, forse perché si è lasciato sedurre »; « ... la donna è sedotta (...) ma da sé medesima: sedotta dalla sua avidità, sedotta dai sensi, sedotta dall’ambizione di divenire una signora... » (VIAZZI, Ratto, cit., p. 199; p. 211 nota). (100) CARRARA, Programma, cit., Parte speciale II, § 1372, p. 5. E ciò naturalmente spinge ad abbandonare ‘l’ordine delle famiglie’ a favore di una classificazione della violenza carnale tra « i delitti contro la persona umana »: « Non si punisce la maculazione della donna, perché essa abbia un padre, od un fratello, ma perché essa ha una personalità che non deve essere siffattamente oltraggiata ».
— 459 — l’argomento centrale nello smantellamento delle vecchie protezioni e della costruzione delle nuove: la ricerca, al di là delle ingannevoli apparenze, della ‘sostanza’ del consenso. Il consenso ‘uguale’ impone la cancellazione delle protezioni ampie e ‘pericolose’ (oramai inutili per lo stesso ordine delle famiglie che le esigeva): la ricerca del dissenso non si affida più a finzioni romantiche, il sogno della virtù non trasforma più consenso in dissenso, ‘correa in accusatrice’. Anche di fronte a ‘seduzioni straordinarie’ la donna sa ciò che vuole, è responsabile, ‘capace di resistere’: la demolizione delle protezioni genera e scorge ‘capovolgimenti’ (non più vittima ma seduttrice), impone e pretende nuove prove dalla virtù e dall’onestà ‘vera’. La mentalità degli operatori è incapace di concepire in modo qualitativamente diverso la violenza carnale che resta comunque una figura residua rispetto al vecchio ordine. Certo, « la essenza sta nel dissenso del soggetto passivo », « dato il consenso... il delitto sparisce »; ma tali affermazioni mostrano soprattutto la polemica contro le confusioni del passato e le degenerazioni delle protezioni, contro i sogni di virtù, poesia tradotta in principio giuridico: l’importante è soprattutto non riprodurre protezioni non meritate, evitare che la correa si faccia accusatrice, non tutelare chi è colpevole col consentire. La scienza penalistica deve essere rigorosa: « dato il consenso... il delitto sparisce ». La rappresentazione ricorrente degli abusi, delle degenerazioni, delle tutele non meritate sostengono la nuova immagine femminile diffusa nelle pagine della penalistica e capovolgono le presunzioni del passato (‘sedotte seduttrici’), rendendo fragile l’analisi del consenso e del ‘dissenso’. La violenza carnale continua ad appartenere al vecchio mondo, è in continuità con le vecchie protezioni, se ne distacca solo quantitativamente, resta l’unica tutela ancora meritata. Costruita su ‘dissenso’ e ‘consenso’, non può più essere configurata senza contrasti in relazione all’ordine delle famiglie, non riesce però ad essere pensata come « delitto contro la persona ». Il consenso è ‘colpevole’: fa sparire la protezione, ottiene la sanzione del silenzio. Il consenso si presume: traspare dalle immagini femminili nate dalle degenerazioni delle tutele, dalla donna disegnata dalla giurisprudenza e dal legislatore, è presente dietro le ingannevoli apparenze, è nell’ordine generale e comune delle cose. Il ‘dissenso’ della donna alla violenza sessuale per esser ‘vero’ deve sconfiggere la nuova immagine, riscattare la colpevolezza del consenso, fugare ogni ombra di correità. La donna deve mostrare molto più di un rifiuto per essere degna di protezione: nel suo dissenso (vero reale effettivo) il giurista deve, d’altra parte, poter scorgere ancora la pienezza di una tutela accordata alla virtù. Ed è ancora il sogno che produce il principio giuridico; è ancora la presupposta meritevolezza della tutela a ‘reinventare’ la realtà. Si riprodu-
— 460 — cono convinzioni dogmatiche antiche, presunzioni da cui desumere la ‘sostanza’ del dissenso: « la resistenza » non deve indebolirsi neanche per un sol momento; l’onestà deve essere piena e perfetta (« Lo stupro semplice può contentarsi d’un grado qualunque di prova della onestà della donna: lo stupro con violenza la richiede più perfetta e più piena » (101)); e, ancora a fine Ottocento, ci si affanna nel sostenere che dalla gravidanza non si deve presumere il consenso della donna (102). Non è il caso di intrattenersi sul caso di scuola della violenza alla meretrice (violazione ‘perfetta’ del diritto di « personale proprietà », delitto completo nella sua ‘essenza’ ma di ‘peso minore’) oppure sull’uso legislativo (e giudiziario) del matrimonio riparatore (« la più grande riparazione — si dice nei lavori preparatori del Codice Zanardelli — che si possa dare da un colpevole ad una fanciulla disonorata »: « essendo giusto ed equo non tenere separate due persone strettesi oramai tra loro con uno dei vincoli più sacri »: la violenza sessuale), né sui profili rilevantissimi, e ancora attuali, della collocazione ‘sistematica’ della violenza. Anche qui le incertezze sul bene giuridico cui dare preminenza si traducono in contrasti nella lettura del fatto, in scontri tra mondi diversi: consenso e dissenso appaiono ancora come beni disponibili, valutati in un’ottica moderna che è incapace di pensarli veramente al di fuori degli schemi imposti dalla tutela dell’ordine delle famiglie (103). Non è però necessario abbandonare l’angolo visuale qui prescelto: nei (101) G. CARMIGNANI, Accusa di stupro violento (1831), in Cause celebri, Pisa, Nistri, 1845, III, p. 345. (102) Cfr., ad esempio, la critica presente in F. FORTI, Raccolta di conclusioni criminali, cit. (XI, 1833), p. 113 e ss.; e, a fine secolo, G. ZIINO, Stupro e attentati contro il pudore, cit., pp. 910 e 949: « la fisiologia sperimentale ha dimostrato che nell’atto della fecondazione la volontà resta estranea », è dunque erronea la teoria per cui « la susseguente gravidanza implichi costantemente l’annuenza della femmina all’atto del concubito, cioè questo debba sempre ritenersi volontario (...), anziché violento »; G. CRIVELLARI, Il Codice penale per il Regno d’Italia interpretato sulla scorta..., Torino, Utet, VII, 1896, p. 481. (103) Forse proprio in questi giorni (il presente testo è stato scritto nel settembre del 1995) il Parlamento italiano sta per approvare la legge sulla violenza sessuale, svolta legislativa annunciata da anni e già segnata dal dettato costituzionale. Al di là dell’aspetto ‘simbolico’ della collocazione sistematica della materia (la questione naturalmente non è irrilevante, anche se va detto che la giurisprudenza assume già esplicitamente la tutela della persona a nuovo centro della sua ricostruzione), il tema su cui più incombono fantasmi del passato è quello della configurazione ‘concreta’ di consenso e dissenso, della ‘libera determinazione del volere’. È difficile che il legislatore possa comunque risolvere la questione con un tratto di penna, qui l’aspetto più rilevante è la trasformazione della mentalità degli operatori che è segnata da tempi lunghi, e forse ancora condizionata dai modelli femminili dogmatici e ‘opposti’ consegnatici dal passato. A mo’ di esempio: la Corte di Cassazione (Sezione III penale, sentenza 25 febbraio 1994, in Il foro italiano, 1994, 2, cc. 485 e ss.) riaffermando — contro un’« antica opinione dottrinale », « arcaico orientamento » — il principio dell’unicità del concetto di violenza sessuale anche in riferimento al rapporto tra coniugi, ha sottolineato: « L’aspetto fondamentale da rimarcare è che, ai fini della configurabilità del delitto di violenza carnale, non si richiede (...) che la violenza sia tale da annullare la volontà del soggetto
— 461 — processi per violenza si afferma senza contrasti una simmetria spietata con il silenzio della legge come sanzione. Che cosa i giudici devono scorgere nel fatto? Qual è la sostanza da ricercare dietro le apparenze? È una ricerca ossessiva dell’evidenza della ‘nuova realtà’ femminile: onestà simulate, ritrosie ingannevoli, ‘cerimonie di pudore’ sotto cui la donna ‘cela i veri desideri suoi’, donzelle ‘scottate’ da fuochi che hanno esse stesse incautamente acceso, vittime apparenti, sedotte seduttrici, falsi dinieghi, finzioni di resistenza (la resistenza deve essere viva, seria, tenace e costante, deve cedere solo alla forza che si manifesti prima, durante e dopo la perpetrazione del reato), resistenze che incitano all’amplesso, ‘semplici riluttanze’ e opposizioni ‘fiacche’ (‘figlie dell’ultimo pudore che sfuma’), apparenze di fuga (e si cita Tasso: « fugge e fuggendo vuol che altri la giunga »), apparenze di lotta, ‘parvenze di combattimenti’ (« pugna e pugnando vuol che altri la vinca »), apparenze di sdegno (Ariosto: « ... ancorché se ne mostri disdegnosa »), sono l’immancabile corollario retorico per distinzioni di classica e labile nettezza, ‘oneste’ e ’perdute’, ‘deflorate’ e ‘traviate’, non vittime ma « impudentissime e bugiardissime meretrici ». Le presunzioni legali degli « antichi giureconsulti » si saldano ora coerentemente con l’immaginario del giurista: non ci sono più, del resto, protezioni da accordare a chi amministra male la virtù. Cancellata la poesia come principio giuridico, non si smette di ricorrere ai poeti, « egregi conoscitori dell’animo umano »: consenso e dissenso restano ancora caselle bianche da immaginare in libertà, e il parametro fondamentale è dato da una tutela incapace di liberarsi dal fantasma dello stupro semplice. Se il silenzio è sanzione del colpevole consenso, la ricerca del dissenso dovrà essere rigorosissima, spietata (104). passivo. Come questa corte ha ripetutamente affermato, è sufficiente che la volontà risulti coartata. (...) È sufficiente (...) che il rapporto sessuale non voluto dalla parte offesa sia consumato anche solamente approfittando dello stato di prostrazione, angoscia o diminuita resistenza in cui la vittima è ridotta. (...) Il dissenso della vittima (...) può essere espresso o tacito, esplicito o implicito » (c. 488). Il ‘dissenso’, in fondo, se l’obiettivo è quello di tutelare la « libertà sessuale », può accontentarsi della semplice volontà contraria senza ulteriori richieste di un onere attivo di resistenza (cfr. PADOVANI, Violenza carnale e tutela della libertà, cit., 1309 e ss. e i dubbi espressi da FIANDACA, Violenza sessuale, in Enciclopedia del diritto, 44, 1993, p. 955); una scelta questa tanto coerente, quanto di difficile attuazione: sullo sfondo tornano infatti ancora a stagliarsi antichi fantasmi: i rischi di ‘degenerazione della tutela’ penale, ingannevoli richiami a ritorni di « straordinarie seduzioni », impliciti riferimenti a modelli antagonistici di virtù. (104) Non è il caso di insistere nelle citazioni. Si cfr. soltanto, a mo’ di esempio, riguardo all’uso dei poeti G. CARMIGNANI, Accusa di stupro violento (1831), in Cause celebri, cit., III, pp. 341 e ss. in cui si mostra in tema di violenza la stessa ‘natura femminile’ da svelare riguardo a una Accusa di strupro con precedente promessa di matrimonio, cfr., in ibidem, p. 437: « Il pudore è spesso una cerimonia, sotto la quale la femmina cela a stento, e con pena i veri suoi desideri. Lo dissero i poeti, e meglio d’ogni altro il Ferrarese... ». E segue naturalmente l’immancabile citazione di un’ottava dell’Orlando Furioso fortunatissima
— 462 — Drammatico epilogo del sogno della virtù, i processi per ‘stupro violento’ sono troppo noti per essere narrati. GIOVANNI CAZZETTA Associato di Storia del diritto italiano Facoltà di Giurisprudenza - Università di Ferrara
nelle pagine dei giuristi (I, 58), affiancata da altre autorità: Properzio, Terenzio, Ovidio, Virgilio, Catullo, Boccaccio, Tasso... Accentuazioni ‘scientifiche’ dei modelli antecedenti, che non arrecano però sostanziali mutamenti all’immagine ‘dogmatica’ della donna e che non rinunciano ai poeti, si possono leggere, ad esempio, in P. VIAZZI, Sui reati sessuali. Note e appunti di psicologia e giurisprudenza (con prefazione di Enrico Morselli), Torino, Bocca, 1896, (in particolare pp. 12 e ss. le pagine sulle « Sedotte seduttrici ») e in G. ZIINO, Stupro e attentati contro il pudore, cit., p. 910. L’invito a non scherzare col fuoco è in Carrara (Programma, II, § 1540, p. 353). Sulla resistenza cfr. G. CRIVELLARI, Il Codice penale per il Regno d ’ltalia, cit., pp. 479, 529 e ss.; e Prima Raccolta completa di giurisprudenza sul Codice penale, III, Milano, Soc. Ed. Libraria, 1923, art. 331 (ho ripreso nel testo la massima n. 93. Appello di Torino, 13 marzo 1894).
IL DIRITTO ALL’INTERPRETE: DAL DATO NORMATIVO ALL’APPLICAZIONE CONCRETA
SOMMARIO: 1. L’uso delle lingue nel processo penale italiano e la centralità del ruolo dell’interprete. — 2. Dalla legge delega n. 81/87... — 3. ...alle Convenzioni internazionali dei diritti dell’uomo. — 4. L’art. 143.1 e il suo adeguamento alle direttive delle fonti internazionali. — 5. Il recupero di un « modello ». — 6. Il diritto all’interprete per l’imputato che non conosce la lingua italiana. — 7. L’estensione della garanzia linguistica alla persona sottoposta alle indagini preliminari. — 8. Dalla enunciazione alla applicazione concreta: atti orali e atti scritti. — 9. (Segue): il presupposto di insorgenza del diritto all’assistenza gratuita dell’interprete e il problema della lingua da usare. — 10. (Segue): i criteri di nomina dell’interprete. — 11. Cause, rimedi ed aspettative.
1. Il nostro sistema processuale penale riconosce la lingua italiana come unica lingua ufficiale del processo (1). La previsione « suona ovvia » (2) perché è nel principio di obbligatorietà ed ufficialità dell’uso della lingua nazionale che il legislatore soddisfa l’esigenza di dare un « fattore culturalmente e socialmente unificante » (3) all’intera progressione di atti che al processo danno vita. L’impostazione della norma, comunque, — nonostante l’art. 109.1 (1) La regola è fissata nell’art. 109.1 c.p.p. in cui è disposto che « Gli atti del procedimento sono compiuti in lingua italiana ». Pur mancando l’impiego del verbo servile (« devono » essere compiuti) che invece appare nell’art. 137 codice abrogato, l’imperatività della norma è sottolineata dalla Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in G.U., 24 ottobre 1988, n. 250, Serie generale, Supplemento ordinario, n. 2, 48. Inoltre, è parere della Corte costituzionale, sent. 11 febbraio 1982, n. 28, che la natura ufficiale ed obbligatoria della lingua italiana sia confermata implicitamente dalla stessa Costituzione. Tra gli altri, vedine il commento di S. BARTOLE, Gli sloveni nel processo penale a Trieste, in Giur. cost., 1982, I, 249 ss. Si soffermano sull’obbligatorietà dell’uso della lingua italiana, G. BEVILACQUA, L’art. 109 del nuovo codice di procedura penale e le minoranze linguistiche, in Giur. it., 1989, IV, 320 ss.; E. LUPO, sub art. 109 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, vol. II, Utet, 1990, 21. (2) Così F. CORDERO, Procedura penale, 3a ed., Giuffrè, 1995, 315. (3) Così si è espresso M. CHIAVARIO, La riforma del processo penale, 2a ed., Utet, 1990, 245. Più in generale, la lingua rappresenta l’indice unificante della popolazione di uno Stato e il prescindervi comporterebbe maggiori costi collettivi e conseguenze pratiche per tutti. In proposito, v. G. BEVILACQUA, L’art. 109 del nuovo codice di procedura penale, cit., 325; A. PIZZORUSSO, Lingue (uso delle), in Nss. D.I., vol. IX, Utet, 1968, 934 ss.
— 464 — recuperi, in tono meno rigoroso (4), l’omologo contenuto del previgente art. 137 — è ben lungi dal riproporre l’atteggiamento di chiusura del sistema abrogato, ispirato da « patriottismo paranoide » (5). Anzi, l’intento del legislatore delegato è quello di fissare nell’art. 109.1 una regola generale che legittimi l’applicazione di deroghe (6), rivolte alla tutela di coloro che hanno diritto ad usare nel processo la propria lingua madre (7): da un lato, gli appartenenti alle minoranze linguistiche riconosciute per i quali, nei territori insediati, si giunge addirittura a parificare la lingua minoritaria al rango di lingua ufficiale (art. 109.2) e dall’altro, i soggetti non italoglotti presenti al processo i quali, con l’aiuto di un interprete, possono parteciparvi attivamente esercitando i propri diritti nel loro idioma senza, per questo, comprimere l’interesse delle altre parti a « comprendere chiaramente quanto (nel processo) si dice o si legge » (8) (art. 143). Ebbene, la nostra attenzione è rivolta a quest’ultimo aspetto della disciplina dell’uso processuale delle lingue — vale a dire il diritto all’interprete — il cui interesse è determinato principalmente da due motivi. Innanzitutto, perché la tematica della tutela linguistica dello straniero (9) riveste un carattere di grande attualità, considerando che negli ultimi anni si assiste ad una crescente presenza dei fenomeni migratori, legittimi e clandestini, verso il nostro Stato da parte di persone provenienti (4) In proposito, v. retro, nota 1. Inoltre, in dottrina, v. G. DE GENNARO, Limiti all’uso della lingua italiana nel processo penale, in Diritto penale e processo, 1995, 986 ss.; E. LUPO, sub art. 109 c.p.p., in Commento, cit., 22 s.; G. UBERTIS, sub art. 109 c.p.p., in Commentario al nuovo codice di procedura penale, coordinato da E. AMODIO-O. DOMINIONI, vol. II, Giuffrè, 1989, 4 s. (5) Cfr. F. CORDERO, Procedura penale, cit., 315. (6) Secondo M. PISANI, Gli atti, in M. PISANI-A. MOLARI-V. PERCHINUNNO-P. CORSO, Manuale di procedura penale, Monduzzi, 1994, 155 s., la regola dell’art. 109 potrebbe addirittura sembrare pleonastica « se non fosse che l’applicazione di altri principi comporta necessariamente (l’adozione) di una serie di deroghe ». Il legislatore, infatti, ha dovuto far fronte alle « esigenze di fondo di un processo penale ispirato a canoni democratici, (che) richiedono la trasparenza nell’esercizio dei poteri e, più in particolare, la partecipazione effettiva del destinatario dei provvedimenti giurisdizionali al loro iter preparatorio ». (7) Il richiamo all’uso della lingua materna intende individuare il contenuto di un diritto pubblico soggettivo che il titolare esercita nel rendere dichiarazioni ad altri consociati, agli organi dello Stato o ad Enti pubblici. Altra cosa è la « libertà della lingua » che consiste nella facoltà di usare il proprio idioma nei confronti di consociati consenzienti. La distinzione tra i due aspetti è tracciata da A. PIZZORUSSO, Libertà di lingua e diritto all’uso della lingua materna nel sistema costituzionale italiano, in Rass. dir. pubbl., 1963, 298 ss. (8) Cfr. G. CONSO, Istituzioni di procedura penale, 3a ed., Giuffrè, 1969, 147. (9) Ne evidenzia il « vieppiù accentuato rilievo » nella tematica delle garanzie linguistiche M. CHIAVARIO, La tutela linguistica dello straniero nel nuovo processo penale italiano, in Studi in memoria di P. Nuvolone, vol. III, Giuffrè, 1991, 111 ss.; per un’analisi più approfondita dei diritti processuali riconosciuti allo Straniero, v. B. NASCIMBENE, voce Straniero (condizione giuridica dello): III condizione processuale dello straniero, in Enc. giur., vol. XXX, 1993, 1 ss.
— 465 — da altri paesi le quali a causa delle precarie condizioni fisiche e morali sono coinvolte, ormai sempre più frequentemente, in procedimenti penali. E, poi, perché la gamma di situazioni riconducibili sotto la tutela dell’art. 143 è ben più ampia di quanto — a prima vista — possa apparire. Infatti, oltre agli stranieri — la cui ignoranza della lingua italiana è di facile intuizione — è bene individuare altre categorie di soggetti non italoglotti che, pur avendo la cittadinanza italiana, vengono a trovarsi in posizione di « svantaggio » processuale, dovuta all’ignoranza o imperfetta conoscenza della lingua nazionale (10). Si pensi a coloro i quali hanno acquisito la cittadinanza iure coniugii ovvero fanno uso del solo dialetto, a coloro ai quali l’ordinamento non riconosce un’identità linguistica al pari di quella delle minoranze riconosciute (11) o, nell’ambito dei processi instaurati nei territori insediati da queste ultime, a coloro che vi partecipano pur non appartenendo al gruppo minoritario o, infine, agli stessi membri dei gruppi etnici in tutte le ipotesi in cui l’art.109.2 vieta loro di far uso della lingua madre. 2. Nell’affrontare il tema dell’uso processuale delle lingue, il legislatore delegante del 1987 sembra prestare poca attenzione alle esigenze di salvaguardia degli interessi dei soggetti non italoglotti che partecipano al processo. L’art. 2 n. 102 della legge delega 16 febbraio 1987 n. 81 si sofferma scrupolosamente sui problemi di tutela dei gruppi etnici minoritari, ai cui appartenenti riconosce il diritto di essere esaminati od interrogati nella loro madrelingua e di ricevere gli atti e i verbali redatti nella stessa; ma non offre uguali garanzie agli interessi « difensivi » di tutti gli altri soggetti alloglotti, limitandosi a mantenere fermi « gli altri diritti particolari sull’uso della lingua derivanti da leggi speciali dello Stato ovvero da convenzioni o accordi internazionali ». Pertanto, la formulazione « di riserva » offerta dalla direttiva in esame a coloro che partecipano al processo in una « posizione soggettiva individuale » — perché non apparte(10) Volendo dare una visione completa della tematica del diritto all’interprete, occorre evidenziare che al di fuori dell’assistenza che l’interprete offre al soggetto alloglotta, l’attività di traduzione si estende innanzitutto agli atti giuridici provenienti ab externo rispetto al procedimento penale per i quali è ammessa la redazione in lingua straniera. In argomento sia consentito rinviare a D. CURTOTTI, Limiti all’uso della lingua italiana nel processo penale, in Diritto penale e processo, 1996, 845 ss. (11) Ci si riferisce alle minoranze alloglotte cc.dd. deboli (o meno rilevanti) che non godono del riconoscimento statale ma che trovano una tutela minima e marginale, per non dire solo potenziale, nella disposizione costituzionale dell’art. 6 Cost., oltre che nelle norme vigenti nelle Convenzioni internazionali ratificate dell’Italia. Sul punto v. A.M. DEL VECCHIO, La tutela delle minoranze nei sistemi di cooperazione internazionale, in Riv. intern. dir. uomo, 1994, III, 571 ss.; G. RECCHIA, Minoranze linguistiche. Riflessioni sul « modello italiano », in I diritti dell’uomo, 1992, 24 ss.; M. STIPO, voce Minoranze etnico-linguistiche (diritto pubblico), in Enc. giur., vol. XX, 1990, 10 s.
— 466 — nenti ad una minoranza linguistica riconosciuta (12) — potrebbe sembrare lacunosa e, soprattutto, poco vincolante per il legislatore delegato. Si tratta, tuttavia, di una conclusione affrettata. È pur vero, cioè, che non v’è un impegno specifico del legislatore delegante ad indicare le modalità di tutela dei soggetti non italoglotti. Però la direttiva n. 102, nel richiamare le Convenzioni internazionali ove taluni principi in punto di diritto all’interprete sono enunciati, vincola il legislatore delegato a tenere conto di siffatti principi nella emanazione del nuovo codice di procedura penale, a pena di una sua illegittimità costituzionale ai sensi dell’art. 76 Cost. (13). Infatti, il preambolo della legge delega — prescrivendo che il nuovo codice di procedura penale debba adeguarsi anche alle norme internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale — attribuisce a quelle stesse norme un ruolo pari « a quello delle direttive rientranti nell’elenco dei singoli punti dell’art. 2 della legge delega » (14); per cui esse acquistano la portata di inde(12) Più precisamente, in questo caso si può parlare di una totale sovrapposizione della tutela del gruppo rispetto a quella del singolo, al quale non è riconosciuto un eguale diritto all’uso della propria lingua nel processo. L’obiettivo della legge delega è quello di salvaguardare l’uso di determinate lingue nazionali in quanto espressione della unitarietà linguistica d’un « popolo ». « Obiettivo certamente legittimo... ma ben lontano dall’esaurire ogni prospettiva di tutela delle persone in rapporto all’uso delle lingue nel processo ». Così M. CHIAVARIO, La tutela linguistica, cit., 115. (13) Con riferimento al rapporto fra le Convenzioni internazionali e la Costituzione, la Corte costituzionale ha sempre opposto resistenza al riconoscimento dei principi delle Convenzioni internazionali come parametri di giudizi de legitimitate legum. L’atteggiamento è peraltro comprensibile se si considera che, almeno sino all’entrata in vigore del codice di procedura penale 1988 (v. nota successiva), l’unico strumento usato per introdurre nel nostro Paese quelle norme internazionali è costituito da un « ordine di esecuzione », avente valore di legge ordinaria dello Stato (C. cost., 22 dicembre 1980, n. 188 in Giur. cost., 1980, 1612; ID., 10 febbraio 1981, n. 17 in Riv. dir. intern., 1982, 400 ss.; ID., 1 febbraio 1982, n. 15 in Giur. cost., 1982, 85); tanto meno la Corte costituzionale ha accolto l’indirizzo di chi ha inteso « costituzionalizzate » quelle stesse norme pattizie alla stregua dell’art. 10 Cost., ovvero dell’art. 11 Cost. o, infine, dell’art. 2 Cost. Per una analisi dettagliata dell’argomento v. M. CHIAVARIO, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, Giuffrè, 1969, 39 ss.; v., inoltre, G. RAIMONDI, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella gerarchia delle fonti dell’ordinamento italiano, in Riv. intern. dir. uomo, 1990, 36 ss.; C. ZANGHÌ, La rilevanza della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella giurisprudenza italiana, in Temi romana, 1987, 429 ss.; a cura della Corte costituzionale, I diritti fondamentali in Italia, in Ind. pen., 1990, 246 ss. Più di recente, F.C. PALAZZO-A. BERNARDI, La Convenzione europea e la Costituzione italiana in una prospettiva di razionalizzazione della politica criminale, in M. DELMAS-MARTY, Verso un’Europa dei diritti dell’uomo, Cedam, 1994, 165 ss. (14) Cfr. M. CHIAVARIO, « Cultura » italiana del processo penale e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Studi in onore di G. Vassalli, vol. II, Giuffrè, 1991, 573 ss., il quale coglie nel preambolo della legge delega, e già in ralazione alla legge delega del 3 febbraio 1974, n. 108 v. Norma: d) diritto processuale penale, in Enc. dir., vol. XXVIII, Giuffrè, 1978, 449, lo strumento con il quale conferire alle norme internazionali un nuovo ruolo
— 467 — fettibili norme-parametro nei giudizi de legitimitate legum (15), cosicché in caso di inosservanza di una di esse si realizzerebbe una violazione dell’art. 76 Cost. con conseguente censura di illegittimità costituzionale (16). 3. Il diritto all’interprete trova una dettagliata esplicitazione ed una puntuale tutela nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, stipulata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con l. 8 agosto 1955 n. 818, e nel Patto internazionale sui diritti civili e politici, firmato il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo nel nostro Stato con l. 25 ottobre 1977 n. 881. Più in particolare, le norme della Convenzione di Roma, ma in eguale misura quelle del Patto internazionale, sanciscono (17) « il diritto della persona accusata di essere informata... in una lingua a lei comprensibile dei motivi dell’arresto e di ogni accusa elevata a suo carico (art. 5.2); il diritto di essere informata in una lingua a lei comprensibile della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico (art. 6.3 lett. a); il diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza (art. 6.3 lett. e) ». Alla luce delle suddette clausole, si delinea un trattamento linguistico preferenziale in favore degli imputati alloglotti i quali, tramite l’assistenza gratuita di un interprete, possono partecipare personalmente al processo. Del resto, senza un’agevole comprensione di quanto si svolge sulla scena processuale l’imputato non è in grado di partecipare consapevolmente allo stesso e di esplicare appieno le proprie potenzialità difensive (18) soprattutto quando queste, come nel caso di specie, assumono il particolare riin ordine ai meccanismi di controllo di costituzionalità delle leggi con l’importante ripercussione sul piano dei rapporti fra le fonti normative. (15) Dello stesso avviso L. SCOMPARIN, Processo penale e convenzioni internazionali: prospettive vecchie e nuove nella giurisprudenza costituzionale, in Leg. pen., 1992, 407 ss. (16) È bene ricordare — ma è di tutta evidenza — che qualora l’art. 143 non dovesse adeguarsi alle disposizioni di fonte internazionale la norma sarebbe soggetta al sindacato di illegittimità costituzionale anche per violazione dell’art. 3 Cost., in quanto risulterebbe violato il principio di eguaglianza tra l’imputato che conosce e l’imputato che non conosce la lingua italiana, e dell’art. 24 Cost. relativo al diritto di difesa dal momento che l’imputato alloglotta non sarebbe messo in condizione di esercitarlo adeguatamente. (17) La versione italiana rappresenta una traduzione libera del testo ufficiale redatto nelle lingue inglese e francese. Per un raffronto con la versione francese, vedine il testo in M. CHIAVARIO-D. MANZIONE-T. PADOVANI, Codici e leggi per l’udienza penale, Zanichelli, 1996, 10 ss. (18) A tal proposito, già G. FOSCHINI, La giustizia sotto l’albero e i diritti dell’uomo, in questa Rivista, 1963, 300 ss. si chiedeva quale valore potesse avere l’intervento dell’imputato che « non è in grado neanche di intendere ciò che si svolge davanti ai suoi occhi », se non quello di un intervento meramente formale che si risolve nella comparsa da parte di uno spettatore passivo.
— 468 — lievo del diritto di difesa personale (19), cioè il diritto di intervenire e concorrere attivamente allo sviluppo della dialettica processuale. Per essere più chiari, l’imputato alloglotta potrà utilmente rendere dichiarazioni ed esercitare i suoi diritti e i suoi doveri solo se è in condizioni di intendere ciò che accade nel corso del processo. Di conseguenza, la nomina dell’interprete si impone ogni qualvolta l’imputato non abbia le necessarie conoscenze linguistiche per intendere il senso degli atti ai quali partecipa e il contenuto degli « inviti, avvertimenti, ammonizioni e comunicazioni a lui indirizzati » (20). In questo contesto, il ruolo svolto dall’interprete all’interno del processo non può non avere natura difensiva nella misura in cui tale soggetto interviene in veste di « coadiutore » indispensabile dell’imputato non italoglotta nella conduzione di una adeguata difesa personale (21). E, d’altra parte, l’essenza difensiva di tale ruolo si intuisce non appena si osserva il contesto nel quale le clausole internazionali relative all’interprete sono inserite: parliamo dell’art. 6.3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (22) e dell’art. 14.3 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (23) ove converge tutta la vasta gamma di garanzie difensive tutelate a livello internazionale e nelle quali il diritto di difesa, considerato nella sua accezione più lata, si specifica e riceve attuazione. (19) Ci riferiamo al cd. diritto di difesa materiale o personale che concorre con il cd. diritto di difesa tecnica ad individuare i due momenti nei quali si profila il contenuto del diritto di difesa, genericamente considerato. La duplicità dei profili è stata evidenziata dalla Corte costituzionale (v. sent. 8 giugno 1983, n. 149, in Giur. cost., 1983, 860 ss.) che, in altra occasione, ha sottolineato come il diritto di difesa personale non può essere sopperito dal difensore, i cui compiti restano circoscritti nell’ambito dell’assistenza tecnica (v. sent. 1 febbraio 1982, n. 9, in Giur. cost., 1982, 56 ss.). In dottrina, sulla centralità del ruolo dell’autodifesa nel contesto delle garanzie sancite dalle Carte costituzionali, v. M. CHIAVARIO, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., 291 ss. Più di recente, G. RICCIO-A. DE CARO-S. MAROTTA, Principi costituzionali e riforma della procedura penale, Edizioni Scientifiche Italiane, 1991, 117 ss. (20) Così, e a sottolineare l’importanza di tali atti al fine di una adeguata predisposizione della difesa dell’imputato, G. GIOSTRA, Il diritto dell’imputato straniero all’interprete, in questa Rivista, 1978, 438. (21) In questo senso M. CHIAVARIO, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., 292, e, dello stesso Autore, Processo e garanzie della persona, 3a ed., vol. II, Giuffrè, 1984, 168 s.; v., inoltre, F. CORDERO, Procedura penale, cit., 315. (22) Per un’analisi più approfondita delle disposizioni contenute nell’art. 6.3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo v. M. CHIAVARIO, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed il suo contributo al rinnovamento del processo penale italiano, in Riv. dir. intern., 1974, 454 ss.; D. PONCET, La protection de l’accusé par la Convention europèenn dei droits de l’homme, Georg & C.ie SA, 1977, 130 ss.; F.G. JACOBS, The Convention of Human Rights, Clarendon Press, 1975, 114 ss.; Z.M. NEDJATI, Human rights under the European Convention, North-Holland, 1978, 127 ss.; F. CASTERBERG, The European Convention of Human Rights, A.W. Sijthoff Oceana, 1974, 126 ss. (23) Sul punto v., per tutti, M. CHIAVARIO, Le garanzie fondamentali del processo nel Patto internazionale sui diritti civili e politici, in questa Rivista, 1978, 465 ss.
— 469 — 4. Passando, ora, ad esaminare la normativa di fonte interna, è facile considerare come l’art. 143.1, dedicato alla figura dell’interprete, si ispira fedelmente alle direttive impartite dalle Convenzioni internazionali a tutela dei soggetti linguisticamente più deboli (24). Basta richiamare, infatti, il contenuto della norma che conferisce all’« imputato che non conosce la lingua italiana il diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di poter comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa ». Ne consegue la perfetta compatibilità della disposizione de qua con le direttive contenute nell’art. 6.3 lett. a) ed e) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e nell’art. 14.3 lett. f) del Patto internazionale sui diritti civili e politici. Anzi, è proprio nel dettato dell’art. 143.1 che le enunciazioni di carattere internazionale acquistano effettività ed applicazione concreta in quanto pur rappresentando delle proclamazioni pregnanti — alla luce dei diritti dell’uomo in esse consacrati solennemente — rimangono pur sempre delle definizioni concettuali, bisognose di essere specificate a livello normativo per divenire diritto vivente ed operante (25). A tal proposito, comunque, è bene ricordare un autorevole orientamento della dottrina prevalente (26) secondo il quale le norme internazionali relative all’interprete sono tra le poche disposizioni delle Convenzioni internazionali ad essere dotate di efficacia self-executing, potendo, cioè, operare direttamente all’interno dell’ordinamento giuridico di uno Stato senza l’intervento di mediazione del legislatore ordinario. E tale forza è dovuta alla completezza e alla precisione dei loro contenuti e presupposti tanto da renderle capaci di abrogare ed integrare le norme giuridiche preesistenti (27) nel tessuto normativo statale. Ad ogni buon conto, que(24) Cfr. Relazione al progetto preliminare, cit., in G.U., 24 ottobre 1988, cit., 105. (25) Cfr. G. CONSO, Corte costituzionale e diritti dell’uomo, in I diritti dell’uomo, 1991, 8 ss., mette in luce il rischio che la società corre, oggi più che mai, di vedere relegare le norme delle Convenzioni internazionali a mere enunciazioni di principio che non riescono a tradursi in realtà operativa, rimanendo troppo vaghe per poter incidere nel concreto. Un rischio, peraltro, condiviso da M. CHIAVARIO, « Cultura » italiana del processo, cit., 535, il quale auspica che la Convenzione europea non sia ricordata soltanto come « un libro dei sogni ». (26) V., per tutti, G. CONSO, I diritti dell’uomo e il processo penale, in Riv. dir. proc., 1968, 307 s. (27) Sul tema del diritto all’interprete, le norme delle Convenzioni internazionali hanno abrogato parzialmente l’art. 419 codice previgente che pone a carico delle parti private non ammesse al gratuito patrocinio di anticipare le spese per le citazioni e le indennità dell’interprete, e ha integrato l’art. 326 codice abrogato nel quale la nomina dell’interprete è considerata esclusivamente in funzione delle esigenze di comprensibilità linguistica delle parti processuali, diverse dall’imputato. Del resto, la proiezione dei principi convenzionali nel contesto delle norme ordinarie dedicate all’interprete è stata autorevolmente sostenuta dalla dottrina prevalente. V., in proposito, V. ANDRIOLI, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il processo giusto, in Temi Romana, 1964, 461 ss.; M. CHIAVARIO, Garanzie lin-
— 470 — sta considerazione non incide sulla nostra indagine dal momento che il legislatore delegato del 1988 si è fatto carico di tradurre le norme convenzionali nel linguaggio della norma ordinaria, interpretandola ed integrandola. Prima, però, di soffermarci ad analizzare il contenuto dell’art. 143.1 per verificare la sua adesione alle direttive impartite dalle Convenzioni internazionali, è opportuno precisare che la figura innovativa dell’interprete-assistente dell’imputato, introdotta dall’art. 143.1, non esaurisce il ruolo ricoperto da tale soggetto all’interno del processo penale in quanto va ad affiancarsi — in posizione « debitamente anteposta » (28) — al tradizionale ruolo di « ausiliario di giustizia » (29) delineato già nell’art. 326 codice previgente ed ora disciplinato nell’art. 143.2. Infatti, il legislatore dispone la nomina di un interprete anche « quando occorre tradurre uno scritto in lingua straniera o in un dialetto non facilmente intelligibile ovvero quando la persona che vuole o deve fare una dichiarazione non conosce la lingua italiana ». In questo caso, il ruolo per il quale l’interprete è nominato assume un significato profondamente diverso da quello delineato nell’art. 143.1 poiché la sua attività è finalizzata a risolvere le impasses linguistiche di tutte le parti processuali diverse dall’imputato. Di qui, è possibile intendere anche la portata più ristretta dell’art. 143.2 rispetto a quella dell’omologo art. 326 codice previgente. Dal suo ambito, infatti, vanno escluse quelle dichiarazioni rese dall’imputato alloglotta la cui traduzione è fatta solo nell’interesse di tutte le altre parti processuali, non avendo alcuna funzione difensiva; dichiarazioni rientranti, pur semguistiche nel processo penale ed escamotages riduttivi, in questa Rivista 1973, 884 ss.; G. GIOSTRA, Il diritto dell’imputato straniero, cit., 436 ss.; nello stesso senso si è espressa una parte minoritaria della giurisprudenza, v. Sez. III, 23 dicembre 1987, Heinz, in Riv. pen., 1988, 1006; Sez. I, 8 ottobre 1985, Smohamed, in Cass. pen., 1987, 136; Sez. II, 1 giugno 1981, Perovic, in Giur. it., 1982, II, 400 ss. (28) Così M. CHIAVARIO, La riforma del processo penale, cit., 248. (29) L’espressione appartiene a M. PISANI, Gli atti, cit., 185, che ne fa uso per indicare il criterio di spersonalizzazione adottato dal legislatore nel disciplinare l’art. 143.2 relativamente al ruolo tradizionale dell’interprete dal momento che nell’art. 326 codice abrogato la nomina dell’interprete era disposta esclusivamente in funzione delle esigenze linguistiche del giudice o, al massimo, di tutti gli organi inquirenti e giudicanti, quantunque l’art. 326.3 prevedesse l’utilizzo dell’interprete anche quando al giudice fosse nota la lingua da tradurre. Già la dottrina del codice previgente ne rifiutava la definizione. V. R. KOSTORIS, La rappresentanza dell’imputato, Giuffrè, 1986, 313 ss.; V. MANZINI, Trattato di diritto processuale penale, a cura di G.D. Pisapia, 6a ed., vol. III, Utet, 1970, 501; E. DOSI, voce Interprete (dir. proc. pen.), in Enc. dir., vol. XXII, 1972, 329; G. CONSO, Istituzioni, cit., 145 ss. A maggior ragione, allora, nell’attuale assetto accusatorio non si può impedire che lo scibile processuale sia comune a tutti i consociati e che la traduzione sia esternata pubblicamente in modo da essere intelligibile a tutti. A conferma dell’assunto, l’art. 143.1 chiarisce che la nomina dell’interprete prescinde dalla personale conoscenza che il giudice, il pubblico ministero e la polizia giudiziaria abbiano della lingua o del dialetto da interpretare.
— 471 — pre, nelle attività di assistenza interpretativa delineata dall’art. 143.1 (30) in quanto provenienti dall’imputato. 5. Il legislatore delegato nel 1988 non si è posto solo l’obiettivo di adeguare le proprie norme ai principi delle Convenzioni internazionali (obiettivo, peraltro, necessario per non subire una condanna di illegittimità costituzionale in forza dell’art. 76 Cost.), ma è andato ben oltre, spingendosi sino ad accogliere quello stesso « modello » di garanzia processuale che le Convenzioni attribuiscono al ruolo dell’interprete. Infatti, l’art. 143.1 contiene una apposita disposizione di carattere generale nella quale mutua i contenuti ed i presupposti del modello di tutela offerto a livello internazionale all’imputato alloglotta, mercé un’accurata opera di riscrittura di quella stessa disposizione. In particolare, la norma interna fa proprie le finalità verso le quali è diretto il riconoscimento del diritto all’interprete. Da un lato, mette in luce l’esigenza di garantire all’imputato non italoglotta la comprensibilità linguistica dell’accusa formulata nei suoi confronti. A mo’ di esempio, si pensi all’informazione di garanzia (art. 369), all’invito a presentarsi (art.375), alla richiesta di rinvio a giudizio (art. 417): tutti atti funzionalmente deputati a permettere all’accusato di predisporre tempestivamente la sua difesa. Dall’altro lato, ne assicura la partecipazione consapevole al processo mediante una presenza ed assistenza costante dell’interprete che gli permetta di « seguire il compimento degli atti cui partecipa ». 6. Sempre in un’ottica di perfetta sintonia con i principi delle Convenzioni internazionali, l’art. 143.1 recupera anche il presupposto della titolarità soggettiva cui va attribuito il diritto all’interprete. Infatti, la norma indica nell’« imputato che non conosce la lingua italiana » il destinatario del diritto in oggetto, aderendo all’impostazione delle clausole internazionali che attribuiscono la relativa garanzia all’« accusato », senza fare alcuna distinzione tra lo straniero, bisognoso naturalmente di una adeguata tutela linguistica, e il cittadino italiano, dal canto suo, in onerosa situazione di incomprensibilità linguistica (31). Abbiamo già ricordato quante sono le ipotesi in cui è il cittadino italiano ad aver bisogno dell’ausilio dell’interprete non conoscendo la lingua ufficiale del processo per avere, ad esempio, acquisito la cittadinanza iure coniugii o iure sanguiniis. Aggiungiamo subito, però, che il riferimento dell’art. 143.1 alla indiscriminata figura dell’« imputato che non conosce la lingua italiana » è (30) Cfr., in proposito, E. LUPO, sub art. 143, in Commento, cit., 185 ss.; G. UBERTIS, sub art. 143, in Commentario, cit., 149 ss. (31) Secondo F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato, 2a ed., Utet, 1992, 167, il legislatore « soccorre anche gli italiani non abbastanza italoglotti da ‘seguire’ quel che avviene sulla scena ».
— 472 — una conquista recente del nostro codice di procedura penale in quanto sino alla redazione del progetto definitivo del 1988 si usava riferire la tutela linguistica al solo « straniero » (32). La formulazione della norma, poi, è apparsa troppo limitativa ed altamente discriminatoria a discapito di chi, pur non essendo straniero, non comprende la lingua ufficiale del processo. Ad ogni buon conto, per evitare possibili strumentalizzazioni della regola (33) ed inutili oneri all’economia del processo (34), l’art. 143.3 prevede che « la conoscenza della lingua italiana è presunta fino a prova contraria per chi sia cittadino italiano ». Per quanto riguarda l’imputato straniero, ovviamente tale presunzione non opera (35), quantunque non sia possibile riscontrare neppure una presunzione assoluta di non conoscenza della lingua italiana, per cui la nomina dell’interprete non dipende solo dalla nazionalità straniera della persona da assistere (36). Occorre, invece, dimostrare l’impossibilità o la difficoltà dello straniero di comprendere la lingua usata in udienza (37), facendo ricadere il relativo onere di dimostrazione sull’autorità giudiziaria procedente (38), onde « solo in assenza di elementi dai quali risulti positi(32) Cfr. Relazione al testo definitivo del codice di procedura penale, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale, dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. V, Cedam, 1990, 639. (33) Cfr. Relazione al testo definitivo, cit. (34) Così M. CHIAVARIO, La normativa del nuovo codice sugli « atti » del procedimento penale: dietro l’apparente timidezza legislativa novità anche salienti, in Leg. pen., 1989, 586. (35) A tal proposito M. CHIAVARIO, Garanzie linguistiche nel processo penale, cit., 897; F. CARDERO, Codice, cit., 167. In giurisprudenza v. Sez. I, 27 maggio 1994, Abdou Mustafà, in Arch. n. proc. pen., 1995, 298; Sez. VI, 20 maggio 1993, Osagie Anuanru, in Riv. pen., 1994, 325; Sez. VII, 27 novembre 1992, Kamel Abbes, in Giust. pen., 1995, III, 89; Sez. V, 10 marzo 1992, Samire Iandoubis, in Riv. pen., 1993, 85; Sez. III, 14 maggio 1991, Balboa, ivi, 1992, 289 s. (36) Così Sez. I, 27 maggio 1994, Abdou Mustafà, cit.; anche la Commissione europea dei diritti dell’uomo ha avuto occasione di precisare che l’appartenenza dell’imputato straniero ad un’etnia linguistica diversa non esclude che egli possa conoscere la lingua ufficiale del processo (Comm. eur. 4 febbraio 1971, rec. déc. XXVII, 137). (37) In questo senso si è espressa anche la giurisprudenza del codice previgente. V., per tutti, Sez. V, 13 febbraio 1987, Ielassi, in Cass. pen., 1988, 483 s. (38) Non si può, infatti, opporre all’imputato alloglotta di provare di non sapersi esprimere in lingua italiana. Se tale circostanza non è evidenziata spontaneamente dallo stesso, deve essere accertata dall’autorità procedente. In dottrina v. A.A. DALIA-F. VERDOLIVA, Codice di procedura penale, Giappichelli, 1994, 100 ss.; F. CORDERO, Codice, cit., 167. In giurisprudenza Sez. V, 22 giugno 1995, Alagra, in Arch. n. proc. pen., 1996, 283; Sez. VI, 19 ottobre 1993, Bangula, in Riv. pen., 1994, 1048; in senso inverso, e cioè ribaltando sull’imputato straniero l’onere di dimostrare di non sapersi esprimere in lingua italiana, in dottrina v. G. TRANCHINA, I soggetti, in D. SIRACUSANO-A.A. GALATI-G. TRANCHINA-E. ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, 2a ed., vol. I, Giuffrè, 1996, 242 s. In giurisprudenza v. Sez. VI, 14 settembre 1994, Puertos, in Arch. n. proc. pen., 1995, 481; Sez. VI, 28 ottobre 1993, Bouaziz, in Giust. pen., 1994, III, 278 s.; Sez. VI, 20 maggio 1993, Osagie Anuanru, cit.; Sez.
— 473 — vamente la conoscenza della lingua italiana... questa va presuntivamente esclusa fino a prova contraria » (39). 7. In un contesto aderente alle clausole internazionali, potrebbe sembrare di segno contrario la previsione con la quale l’art. 143.1 identifica nell’« imputato » il soggetto titolare del diritto all’assistenza gratuita dell’interprete, considerando che la normativa convenzionale, invece, fa esplicito riferimento alla « persona accusata ». Ma, anche in questo caso, la conclusione è affrettata. È pur vero che, come sostenuto da un’autorevole dottrina, la qualifica di « persona accusata » adottata dalle Carte internazionali dei diritti dell’uomo comincia a decorrere dal momento in cui viene messa in discussione la sua innocenza (40) — e non da quello di emissione dell’atto formale di accusa —, ciò condurrebbe ad escludere una compatibilità tra le due locuzioni; ma è anche vero che la previsione dell’art. 143.1 non va riferita esclusivamente all’imputato, bensì anche alla persona sottoposta alle indagini del pubblico ministero e della polizia giudiziaria (41). E la conferma è contenuta sia nell’art. 61 ove si estendono all’indagato i diritti e le garanzie dell’imputato sia nell’art. 143.3 in cui è fatto specifico riferimento al pubblico ministero e all’ufficiale di polizia giudiziaria la cui personale conoscenza della lingua o del dialetto da interpretare non impedisce al giudice di nominare un interprete (42). In quest’ultimo caso, infatti, sarebbe illogico considerare la loro personale conoscenza linguistica rivolta esclusivamente alle dichiarazioni rese all’interno del processo e non anche a quelle delle indagini preliminari, luogo deputato a raccogliere la VII, 27 novembre 1992, Kamel Abbes, cit.; Sez. VI, 29 ottobre 1992, Sosic Zelico, in Riv. pen., 1993, 852; Sez. V, 10 marzo 1992, Samire Iandoubis, cit. (39) Così G. PACILEO, Diritto all’assistenza dell’interprete da parte dell’imputato che non conosce la lingua italiana e traduzione degli atti da notificare, in questa Rivista, 1992, 651. (40) È da questo momento che il soggetto ha interesse a mettere in atto tutti gli strumenti utili a dimostrare la propria innocenza e « a controbattere ogni addebito relativo ad un illecito penale ». Così M. CHIAVARIO, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., 254 ss. (41) L’estensione della garanzia in esame anche alla persona indagata è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale già sotto il codice 1930 con la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 225 « nella parte in cui consentiva, prima dell’entrata in vigore della l. 5 dicembre 1969, n. 332, che la polizia giudiziaria procedesse a sommario interrogatorio dello straniero senza l’osservanza della garanzia dettata dalle norme sull’istruzione formale ». Cfr. C. cost., 18 marzo 1972, n. 50, in Giur. cost., 1972, 230 ss. (42) Senza considerare, inoltre, che con l’intitolazione « Traduzione degli atti », a capo della rubrica dedicata alla figura e al ruolo dell’interprete, il legislatore intende estendere la relativa attività di traduzione a tutti gli atti del procedimento e non solo a quelli processuali. Per ogni ulteriore approfondimento, A. GALATI, Gli atti, in D. SIRACUSANO-A.A. GALATI-G. TRANCHINA-E. ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, cit., 248 ss.
— 474 — maggior parte dell’attività di questi due soggetti processuali (43). Tra l’altro, la compatibilità dei due termini è definitivamente assicurata dal rifiuto espresso dal legislatore di inserire nel testo dell’art. 143.1 il riferimento alla « lingua usata in udienza » presente nell’art. 6.3 lett. e) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e nell’art. 14.3 lett. f) del Patto internazionale sui diritti civili e politici. L’inserimento della locuzione de qua nella norma interna avrebbe potuto indurre a pensare ad un restringimento dell’ambito di operatività della tutela linguistica entro i margini dell’udienza dibattimentale (44), laddove, invece, l’assenza di una puntualizzazione del genere estende il campo di applicazione del precetto, prendendo le mosse dalla fase delle indagini preliminari — dove occorre tradurre all’accusato i documenti contenenti l’addebito ipotizzato — per concludersi con l’ultimo atto cui l’imputato partecipa (45). Infine, l’ultimo aspetto nel quale è possibile riscontrare una adesione della garanzia dell’art. 143 con il modello delineato a livello internazionale è dato dal principio di gratuità del servizio di traduzione, per cui le relative spese non possono gravare sull’imputato non italoglotta, neanche dopo la pronuncia di una sentenza di condanna (46). 8. Tutte le considerazioni sinora svolte non possono indurci a concludere se non nel senso che le direttive impartite dalle Convenzioni internazionali a tutela dei soggetti linguisticamente più deboli sono state accuratamente recepite nell’art. 143.1. Abbiamo messo in luce, infatti, come tale norma abbia mutuato il « modello processuale » di tutela linguistica adottato dalle fonti internazionali, tanto nei suoi elementi essenziali (titolarità e presupposti di insorgenza) quanto nei suoi effetti (finalità della norma). Ciò nonostante, però, è necessario considerare che le disposizioni convenzionali, — alle quali il nostro legislatore si è ispirato nella redazione del codice 1988 — in quanto norme programmatiche a cui è richiesto solo il compito di fornire delle linee di comportamento assai generali che gli Stati si impegnano ad adottare, presentano carattere di genericità ed incompletezza. Pertanto se, da un lato, l’art. 143, recuperando la (43) Cfr. G. UBERTIS, sub art. 143, cit., 148. (44) È bene ricordare che il concetto di udienza è contenuto nella versione francese del testo della Convenzione, quando si parla di « langue employée à l’audience », mentre nella versione inglese ci si riferisce al « language used in court », inteso quale ufficio giudiziario procedente. Cfr. G. DI TROCCHIO, Convenzione europea dei diritti dell’uomo, diritto all’interprete ed estratto contumaciale, in questa Rivista, 1980, 957. (45) Per G. UBERTIS, sub art. 143, cit., 149, tale atto è rappresentato dalla pubblicazione della sentenza cui potrebbe fare seguito la traduzione contestuale del provvedimento da depositare in cancelleria ai sensi dell’art. 548.1. (46) Sul punto e per una disamina della giurisprudenza della Corte e della Commissione europea v. M. CHIAVARIO, Processo e garanzie della persona, cit., vol. III, 126 s.
— 475 — forma ed il contenuto delle clausole convenzionali, ha il merito di aver superato il vaglio costituzionale in forza dell’art. 76 Cost., dall’altro lato, però, ne eredita anche il carattere di genericità e, quindi, di incompletezza. Per cui, esso presenta espressioni e concetti non completamente definiti o, comunque, non riferibili a dati verificabili in concreto correndo il rischio di rendere disagevole la sua applicazione e di dare luogo ad interpretazioni contrastanti della giurisprudenza e della dottrina. È quanto viene da pensare quando ci si imbatte nelle numerose sentenze che negli ultimi anni hanno impegnato la giurisprudenza della Suprema Corte in punto di diritto all’interprete. Il primo aspetto, quello di maggior interesse per la eterogeneità degli orientamenti di cui è stato oggetto, riguarda gli atti di cui si rende necessaria la traduzione. I contrasti interpretativi sorgono non appena ci si sofferma ad analizzare il contenuto dell’art. 143.1 nel quale l’assistenza linguistica è disposta in funzione dell’esigenza dell’imputato non italoglotta di « seguire il compimento degli atti cui partecipa ». Infatti, la poca chiarezza della norma ha indotto la dottrina e la giurisprudenza, ciascuna nel proprio ambito, ad adottare indirizzi interpretativi diversi. Da un lato, una parte minoritaria della dottrina (47) riferisce l’espressione usata nell’art. 143.1 esclusivamente agli atti orali ai quali l’imputato alloglotta assiste, individuando una lacuna nel sistema di tutela linguistica predisposta dalla norma de qua in cui, appunto, manca una esplicita previsione dell’obbligo di traduzione degli atti scritti indirizzati all’imputato alloglotta (quali gli atti che contengono l’imputazione ovvero quelli finalizzati alla sua partecipazione al processo); lacuna, peraltro, difficilmente colmabile « in sede ermeneutica ». Nello stesso senso si è espressa la giurisprudenza prevalente (48) che, riconoscendo l’operatività della garanzia della traduzione ai soli atti orali prodotti nel corso del procedimento (dalle eventuali testimonianze rese nel corso dell’incidente probatorio all’esame delle parti nel corso dell’udienza dibattimentale) e dei quali l’imputato alloglotta, assistendo alla loro escussione, ha diritto di comprendere il senso, destina gli atti scritti alla regola dell’obbligatorietà dell’uso della lingua italiana, in ossequio al dettato dell’art. 109.1 (49). Del resto, secondo tale orientamento giurisprudenziale, la delimitazione del ruolo dell’interprete agli atti orali è confermata — assumendole a contrario — dalle disposizioni contenute negli artt. 109.2 (relativo alle minoranze linguistiche) e 169.3 (relativo alle notificazioni all’imputato straniero) nelle quali è espressamente previsto che (47) Cfr. E. LUPO, sub art. 143, cit., p. 183 s. (48) V. Sez. VI, 20 maggio 1993, Osagie Anuanru, cit.; Sez. III, 14 maggio 1991, Balboa, cit. (49) Così Sez. VI, 19 febbraio 1991, Muzi Ezekiel, in C.E.D. Cass., n. 187580.
— 476 — gli atti da notificare siano redatti anche (50) nella lingua del soggetto cui sono indirizzati (51). Di qui, allora, la mancanza di un’apposita indicazione dell’art. 143.1 in ordine agli atti portati a conoscenza dell’imputato al di fuori del contatto diretto con il magistrato sarebbe dovuta al disinteresse dimostrato dal legislatore verso questo aspetto della problematica in quanto laddove tale interesse è stato preso in considerazione, il legislatore si è preoccupato di tradurlo in realtà normativa. Profondamente diverso è, invece, l’indirizzo adottato dalla dottrina maggioritaria (52) che estende il ruolo dell’interprete anche oltre le fasi processuali caratterizzate dall’oralità. Del resto, l’interpretazione non potrebbe essere circoscritta ai soli atti orali in quanto l’art. 143.1, ancor prima di richiamare il ruolo dell’interprete in funzione degli atti al cui compimento l’imputato assiste, orienta la sua attività in direzione della comprensibilità linguistica degli atti contenenti « l’accusa contro di lui formulata » che, è inutile dirlo, sono redatti per iscritto ed indirizzati all’accusato, sia esso indagato o imputato. Si pensi, a mo’ di esempio, alla informazione di garanzia (art. 369), all’invito a presentarsi (art. 375), alla richiesta di rinvio a giudizio (art. 419) e, nel rito pretorile, al decreto di citazione a giudizio (art. 555). Sono tutti atti contenenti l’indicazione della natura e dei motivi dell’accusa e la cui comprensibilità costituisce il presupposto fondamentale perché questi raggiungano lo scopo per il quale sono stati concepiti. Infatti, non si può pensare — senza considerare totalmente leso il diritto di difesa — ad una informazione di garanzia del tutto inintelligibile per l’accusato poiché impedirebbe la predisposizione tempestiva di una linea difensiva (53) ovvero all’incomprensibilità della richie(50) Dalla lettura dell’art. 169.3 sembra che la redazione dell’atto da notificare vada effettuata esclusivamente nella lingua dell’imputato straniero. Per chiarire la portata della norma, altrimenti in contrasto con il principio di obbligatorietà della lingua italiana di cui all’art. 109.1, l’art. 63 disp. att. precisa che « all’avviso redatto in lingua italiana... è allegata la traduzione nella lingua ufficiale dello stato in cui l’imputato risulta nato ». (51) Così Sez. II, 31 gennaio 1991, Halilvic, in C.E.D. Cass., n. 186420; v., inoltre, Sez. V, 19 marzo 1993, Hrustic, in Riv. pen., 1994, 179 ss. in cui la diversità di disposizioni dell’art. 143, dedicato ai soli atti orali, e dell’art. 169.3, dedicato all’atto da notificare allo straniero, è dovuta alla diversa situazione di fatto presupposta e disciplinata dalle due norme. Nell’ultimo caso, lo straniero che risiede o dimora all’estero potrebbe trovarsi in serie difficoltà nel comprendere la lingua italiana e nel reperire qualcuno che glielo possa tradurre, nel primo caso, invece, la persona avendo già in Italia un punto di riferimento per la sua difesa non incontra difficoltà a comprendere l’atto ed a procurarsene adeguata conoscenza. (52) Cfr. G. DI TROCCHIO, Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., 958; A. JAZZETTI-M. PACINI, La disciplina degli atti nel nuovo processo penale, Giuffrè, 1993, 62 ss.; V. PACILEO, Diritto all’assistenza dell’interprete, cit., 651 s.; M. PISANI, Gli atti, cit., 176 s.; G. TRANCHINA, I soggetti, cit., 242 ss.; G. P. VOENA, Atti, in AA.VV., Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. CONSO e V. GREVI, Cedam, 1993, 146. (53) Sulla strumentalità dell’informazione di garanzia all’esercizio dell’attività difensiva v. G. SALVI, sub art. 369 c.p.p., in Commento, cit., vol. IV, 257 ss.
— 477 — sta di rinvio a giudizio in quanto funzionalmente deputata ad avvisare l’imputato della data, ora e luogo dell’udienza preliminare (nella quale egli può sottoporsi all’interrogatorio) e della possibilità di richiedere il giudizio immediato (54). Insomma, gli atti contenenti l’accusa non possono non essere tradotti all’imputato alloglotta se si vuole rispettare appieno il suo diritto fondamentale di difendersi partecipando all’udienza (55) ovvero optando per uno dei riti alternativi (56). Allo stesso modo, la dottrina ha ritenuto di dover estendere la tutela della nomina dell’interprete a tutti gli altri atti scritti che vengono portati a conoscenza dell’imputato alloglotta mediante la notificazione perché, anche per questi, l’incomprensibilità conduce sempre alla negazione, rectius violazione, del diritto di difesa. Non si può dubitare, ad esempio, che la « piena comprensione del contenuto finale della pronuncia emessa nei suoi confronti sia essenziale per consentire all’imputato di valutare il proprio interesse ad impugnare » (57); così come la comprensione del decreto di giudizio immediato (art. 456.2) ovvero del decreto penale di condanna (art. 461.3) contenenti entrambi l’avviso all’imputato della facoltà di richiedere un rito alternativo. In questo senso, e cioè attribuendo la garanzia della traduzione sia agli atti orali sia agli atti scritti dei quali l’imputato è interessato a conoscere il contenuto, si è espressa la Corte europea dei diritti dell’uomo (58). E, del resto, l’art. 143.1 non può essere circoscritto ai soli atti orali senza porsi in contrasto con le direttive internazionali contenute nelle Carte dei diritti dell’uomo in tema di tutela linguistica degli imputati alloglotti. Aggiungiamo subito, però, che l’interpretazione estensiva dell’art. 143.1 non implica la traduzione all’imputato di tutti gli atti scritti prodotti all’interno del processo, bensì solo quelli a lui indirizzati; « la norma (54) Secondo G. FRIGO, sub art. 419 c.p.p., in Commento, cit., vol. IV, 594 ss., « questa notificazione, nell’economia processuale, riveste una particolare delicatezza, sia perché deve assicurare... l’effettività della conoscenza, in capo al destinatario, del contenuto dell’atto, garantendo così anche l’effettività del contraddittorio all’udienza... sia perché l’avviso è preordinato all’esercizio... della facoltà... di rinunciare all’udienza preliminare, richiedendo il giudizio immediato... e di... richiedere il giudizio abbreviato ». (55) Ritiene che « l’assistenza dell’interprete all’udienza può essere una garanzia del tutto inutile se l’imputato non è in grado di comprendere la citazione che gli venga notificata a comparire a tale udienza », E. LUPO, sub art. 143, cit., 183. (56) Si pensi anche all’avviso contenuto nel decreto di citazione a giudizio (art. 555) della facoltà dell’imputato di richiedere « il giudizio abbreviato (art. 560) o l’applicazione della pena a norma dell’art. 444... ovvero domanda di oblazione ». (57) Così G. DI TROCCHIO, Traduzione dell’estratto contumaciale ed imputato straniero, in Giur. it., 1982, 401 ss.; ID., Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., 953 ss. (58) Corte eur., 19 dicembre 1989, Brozicek (Serie A, n. 167) in Riv. intern. dir. uomo, 1990, 320 ss.; ID., 19 dicembre 1989, Kamasinsky (Serie A, n. 168), ivi, 332.
— 478 — codificata non garantisce che capisca tutto, ma soddisfa i requisiti elementari dell’autodifesa » (59). 9. L’art. 143.1 pone un altro problema interpretativo sul quale la dottrina e la giurisprudenza si sono soffermate per rendere agevole l’applicazione della norma al caso concreto: parliamo dell’individuazione del grado di familiarità della lingua italiana per il quale si rende superflua l’assistenza linguistica dell’interprete. La norma non dice nulla al riguardo, limitandosi ad individuare il presupposto della nomina dell’interprete nella mancata conoscenza dell’imputato della lingua italiana. Innanzitutto, è bene evidenziare quanto — in questo caso — l’art. 143.1 risulti equivoco agli occhi del lettore più attento poiché le Convenzioni internazionali non si riferiscono a quel concetto generico di « conoscenza », contenuto nella disposizione de qua, bensì lo specificano nel concetto di comprensione, riferito agli atti scritti notificati all’accusato, e in quello di capacità di « parlare », riferito alla fase processuale caratteriazzata dall’oralità (60). Sicché, volendo chiarire la portata della fonte normativa interna, il presupposto della mancata conoscenza della lingua italiana deve tradursi nella incapacità di comprendere il contenuto degli atti di accusa e di non sapersi esprimere nella lingua ufficiale del processo. A questo punto, però, occorre individuare anche a quale livello tale « ignoranza » deve assurgere per rendere necessaria la nomina dell’interprete in funzione di garanzia della sua posizione di isolamento linguistico. La giurisprudenza della Suprema Corte non si è allontanata molto dal dato letterale della norma, esigendo che l’imputato non deve conoscere la lingua italiana o deve conoscerla tanto imperfettamente da non poter comprendere il contenuto dell’accusa e degli atti processuali cui partecipa (61). Dal canto suo, invece, la dottrina si è soffermata con maggior accuratezza sulla problematica di cui si tratta; da un lato, infatti, considera insufficiente, per una partecipazione personale e consapevole al processo, una conoscenza « sommaria ed elementare (62) da parte dell’imputato della lingua italiana dal momento che tale livello di padronanza linguistica potrebbe non essere adeguato a fargli intendere il linguaggio tecnico con(59) Così F. CORDERO, Codice, cit., 167. In giurisprudenza, nello stesso senso, v. Sez. III, 18 novembre 1994, Molina, in Arch. n. proc. pen., 1995, 481; Sez. VI, 27 settembre 1994, Acedevo ed altri, in Giust. pen., 1995, III, 565 ss. (60) Cfr. Relazione al progetto preliminare, cit., in G.U., 24 ottobre 1988, cit., 52, ove è evidenziato che le disposizioni internazionali relative al diritto all’interprete « considerano chi non comprende ovvero non parla la lingua utilizzata nel processo: queste due situazioni sono unificate nella espressione ‘‘non conosce’’ impiegata dall’art. 143 commi 1 e 2. (61) Così, Sez. VI, 28 ottobre 1993, Bouaziz, cit.; Sez. III, 14 maggio 1991, Balboa, cit. (62) Cfr. M. CHIAVARIO, La tutela linguistica dello straniero, cit., 131.
— 479 — tenuto negli atti processuali (63); dall’altro lato, però, esclude anche un livello di padronanza perfetta (64) della lingua. Di qui, allora, la regola iuris si colloca nel mezzo, rendendo superflua la nomina dell’interprete tutte le volte in cui l’imputato comprenda e parli, almeno nelle sue linee essenziali (65), la lingua italiana così da poter intendere il contenuto degli atti scritti e di quelli orali e poter parlare in udienza in modo intelligibile per tutte le altre parti. Ovviamente, poi, la valutazione di tale grado di comprensibilità linguistica è rimessa all’apprezzamento dell’autorità giudiziaria alla quale spetta il potere-dovere di valutare la necessità della nomina di un interprete (66) che non può presumersi, come abbiamo già avuto occasione di sottolineare (67), dalla sola cittadinanza straniera dell’imputato. D’altra parte, il relativo onere di dimostrazione non può ricadere sullo stesso imputato (68); tutt’al più questi può fornire all’autorità giudiziaria un’indicazione in tal senso, dalla quale « la responsabilità degli organi procedenti... ne esce (uscisse) accresciuta, per un atteggiamento di particolare attenzione a non frustrare le esigenze di garanzia » (69). Se all’autorità procedente è attribuito il compito di valutare l’idoneità dell’imputato a far uso della lingua ufficiale del processo, è anche affidato alla sua competenza il compito di individuare la lingua nella quale l’attività di traduzione deve essere esercitata. Non sembra accettabile, infatti, riferirsi sempre alla lingua di appartenenza dell’imputato perché molto spesso questa rientra nella categoria delle lingue poco conosciute a livello internazionale, cioè con scarso grado di divulgazione; per cui, volendo far uso della sua lingua madre per tradurgli gli atti del procedimento, si rischierebbe di condurre « defatiganti ricerche di praticanti (magari mediocri) » (70). (63) Il problema, tra l’altro, si riporta ad un’esigenza più generale di ridurre lo scarto tra il linguaggio dei « chierici » ed il linguaggio dei « laici » che, anche se italoglotti, non sono spesso in possesso di un lessico tanto raffinato da rendere loro comprensibile il linguaggio tecnico-giuridico usato dai chierici. L’autorevole riflessione è di M. CHIAVARIO, Garanzie linguistiche nel processo penale, cit., 895. (64) Così G. DI TROCCHIO, Traduzione dell’estratto contumaciale, cit., che, ai fini della inoperatività dell’art. 143.1, nega rilevanza sia ad una conoscenza meramente « turistica » sia ad una perfetta padronanza dello strumento linguistico, risultando, invece, sufficiente una conoscenza media della lingua italiana tale da permettere all’imputato di « comprendere senza apprezzabili difficoltà quanto gli viene portato a conoscenza nel corso dell’udienza ». (65) Cfr. M. CHIAVARIO, Garanzie linguistiche nel processo penale, cit., 896. (66) In giurisprudenza Sez. VI, 14 settembre 1994, Puertos, cit.; Sez. VI, 28 ottobre 1993, Bouaziz, cit.; Sez. VI, 23 giugno 1993, Adekunde ed altri, in Riv. pen., 1994, 541; Sez. VI, 20 maggio 1993, Osagie, cit. (67) V. retro, nota 36. (68) V. retro, nota 38. (69) Così M. CHIAVARIO, La tutela linguistica dello straniero, cit., 132. (70) Così M. CHIAVARIO, La tutela linguistica dello straniero, cit., 133.
— 480 — Nella formulazione dell’art. 143.1 non ci sono indicazioni in tal senso (71). Dal canto suo, l’indirizzo unanime della dottrina (72) si orienta verso l’esclusione di un uso incondizionato della lingua dell’imputato nella traduzione degli atti orali e degli atti scritti quando questa sia di scarsissima conoscenza in Italia. Risulta, infatti, più facile ed efficiente — per un corretto funzionamento dei servizi di traduzione — che si ricorra a quelle lingue aventi maggiore diffusione, in quanto internazionalmente riconosciute in fatto ed in diritto, come il francese e l’inglese. È sempre necessario, tuttavia, che l’autorità giudiziaria ne accerti la sufficiente conoscenza da parte dell’imputato non italoglotta, dovendo soprattutto tenere conto delle sue eventuali indicazioni « alternative ». Quanto alla giurisprudenza, essa ha accolto di buon grado tale impostazione, richiedendo per l’imputato straniero non italoglotta l’assistenza dell’interprete in una lingua a lui nota (73) (e, quindi, non necessariamente la lingua madre). 10. Strettamente connesso al difetto di precisione che grava sul contesto normativo dedicato alla figura dell’interprete tale da renderne disagevole l’applicazione al caso concreto, è l’imprecisione di questa stessa normativa nel disciplinare le modalità di nomina dell’interprete poiché, essendo esente da vincoli di tipo operativo, rischia di non garantire sufficientemente un effettivo ed obiettivo espletamento del servizio di traduzione, nell’interesse della situazione difensiva dell’imputato alloglotta (74). Nulla dispone il codice, infatti, sui criteri ai quali il giudice (75) deve attenersi nell’individuazione dell’interprete né sui requisiti necessari per poter prestare un servizio di traduzione in ambito giudiziario (76). (71) Maggiori indicazioni sono fornite dagli artt. 169.3 — dove la lingua impiegata per le traduzioni è specificata nella « lingua dell’imputato straniero » — e 63 disp. att. — dove si parla di « lingua ufficiale dello stato in cui l’imputato risulta essere nato ». La soluzione, condivisibile per gli avvisi di cui all’art. 169, non può essere mutuata nel contesto dell’art. 143.1 in ordine alla nomina dell’interprete con compiti di assistenza dell’imputato alloglotta. (72) Cfr. M. CHIAVARIO, Garanzie linguistiche nel processo penale, cit., 896 ss.; G. UBERTIS, sub art. 143, cit., 148. (73) Già durante la vigenza del codice abrogato, App. Roma, 3 dicembre 1979, Perovic, con nota di G. DI TROCCHIO, Traduzione dell’estratto contumaciale, cit., 400 ss.; di recente, si è espressa anche la C. cost., sent. 19 gennaio 1993, n. 10, in Giur. cost., 1993, I, 52 ss. con nota di E. LUPO, Il diritto dell’imputato straniero all’assistenza dell’interprete tra codici e convenzioni internazionali. (74) Il rischio è avvertito da G. TRANCHINA, I soggetti, cit., 243 s. (75) In ogni caso, è esclusa la nomina di parte dell’interprete. V. G. CONSO, Istituzioni, cit., 146; E. DOSI, Interprete, cit., 329; A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, 5a ed., Giuffrè, 1996, 74. (76) In ordine alla citazione e nomina dell’interprete, l’art. 52 disp. att. sancisce che
— 481 — Per la verità, il legislatore delegato si è preoccupato di assicurare che il ruolo dell’interprete non venga ricoperto da quei soggetti aventi un’inidoneità naturale e funzionale (77) (ossia in situazione di incapacità o incompatibilità ai sensi dell’art. 144) all’esercizio della relativa attività, attribuendo il potere di ricusazione alle parti private e al p.m., in rapporto agli atti compiuti o disposti dal giudice, nonché il dovere di astensione all’interprete stesso (art. 145). Così come, del resto, l’art. 146 tende a garantire la stabilità dell’ufficio e la cooperazione del’interprete il quale, in veste di pubblico ufficiale (78), è tenuto a comparire dinanzi all’autorità giudiziaria (art. 133), a prestare il suo ufficio sino ad esaurimento dell’incarico (art. 366 c.p.) e, soprattutto, ad eseguire il suo servizio bene e fedelmente senz’altro scopo se non quello di far conoscere la verità e di mantenere il segreto su tutti gli atti che si fanno per suo mezzo o in sua presenza (art. 146 c. 2). Tuttavia, se tutto ciò può garantire l’imparzialità, l’obiettività e la stabilità dell’attività svolta dall’interprete, non può dirsi anche che essa risulti effettiva cioè possa dare la massima affidabilità dei suoi risultati. Infatti, nonostante l’interprete non incorra in una delle situazioni di incapacità e di incompatibilità e svolga il suo compito rispettando i doveri legalmente dovuti, la sua attività potrebbe risultare imprecisa ed inesatta a causa dell’inettitudine (79) del soggetto chiamato a svolgere il relativo servizio. Al giudice è lasciato libero apprezzamento sulla sussistenza delle capacità professionali e della cognizione inerenti al compito che l’interprete è chiamato a svolgere (80) in quanto non esiste un albo istituito presso il tribunale, al pari di quello previsto per i periti (81), nel quale il giudice possa scegliere e nominare l’interprete; albo idoneo ad assicurare all’interprete sia notificato il decreto di citazione e che, nei casi urgenti, egli possa essere citato anche oralmente per mezzo del’ufficiale giudiziario o della polizia giudiziaria. (77) Su questo punto E. DOSI, Interprete, cit., 331 s. (78) La natura di pubblico ufficiale dell’interprete è delineata da V. MANZINI, Trattato di diritto processuale penale, cit.; F.P. GABRIELI e R. DOLCE, Interpretazione e interprete (diritto processuale), in Nss. D.I., vol. VIII, Utet, 1987, 891 ss. Sulla stessa scia, più di recente, C.F. GROSSO, I delitti contro la pubblica amministrazione, in AA.VV. Codice penale, diretto da F. BRICOLA e V. ZAGREBELSKY, 2a ed., vol. IV, Utet, 1996, 421. (79) Sulla mancanza di rilievo assunta dall’inettitudine, per cui « scelto qualcuno impari al compito, mancano rimedi preventivi; Dio voglia che ‘‘l’autorità procedente’’ se ne accorga sul campo, sostituendolo », F. CORDERO, Codice, cit., 170. (80) In questo senso si è già espressa la giurisprudenza della Suprema Corte, Sez. II, 7 dicembre 1971, Golisano, in Cass. pen., 1973, 642. (81) Se è vero che la figura del perito è sempre stata discostata da quella dell’interprete (v., per tutti, G. DE FAZIO, Interprete, in Dig. disc. pen., vol. VII, Utet, 1993, 219 ss.) perché il primo apporta al processo un contributo probatorio diretto alla formazione del convincimento del giudice, il secondo, invece, si limita a sostituire fedelmente le dichiarazioni originali con quelle convenzionali senza compiere alcuna valutazione di carattere personale, ma tutt’al più affiancando all’attività rappresentativa l’attività ricognitiva diretta ad intendere la volontà del dichiarante, è anche vero che l’esigenza di garantire la massima pro-
— 482 — la massima professionalità dell’esperto, richiedendone l’attestato di abilitazione all’esercizio di traduzione ed interpretariato (82) ed, eventualmente (83), l’iscrizione nella rispettiva associazione professionale. A nostro avviso, invece, solo così sembra possibile assicurare la competenza dell’interprete, ancorandone la scelta ad elementi oggettivi (iscrizione all’albo) e non più « alla incondizionata e poco realistica fiducia nel carattere ottimale della scelta che venga operata da parte del giudice » (84). Scelta che, tra l’altro, frequentemente si rileva inadatta per l’urgenza con la quale è operata ed anche per la difficoltà di reperire esperti in lingue aventi scarsa diffusione in Italia. 11. Alla luce delle considerazioni esposte nei paragrafi precedenti, è possibile individuare un duplice ordine di motivi ai quali imputare l’inadeguatezza della normativa relativa all’interprete nell’applicazione al caso concreto. Innanzitutto, abbiamo osservato come l’art. 143.1 sia solo apparentemente in perfetta sintonia con i contenuti delle disposizioni convenzionali relative alla problematica linguistica in quanto, ad una lettura più attenta, esso si presenta incompleto e poco adeguato a soddisfare le esigenze concrete che, volta per volta, ne richiedono l’applicazione. A tal proposito, infatti, abbiamo già evidenziato quali sono le carenze normative dell’art. 143.1 relativamente agli atti nei confronti dei quali occorre assicurare l’opera di mediazione dell’interprete, al grado di ignoranza della lingua italiana rispetto al quale ritenere superflua la sua nomina, all’individuazione della lingua da dover usare soprattutto quando questa non sia di comune conoscenza ed, infine, alle modalità di scelta con le quali garantire un adeguato sussidio alla situazione difensiva dell’imputato alloglotta. Poi, in quanto logica conseguenza del suddetto carattere di genericità, la norma de qua offre anche il destro ad interpretazioni giurisprudenziali che si discostano dallo « spirito » difensivo della norma ossia dai fini normativamente riconosciuti dall’art. 143 e, soprattutto, dalle direttive infessionalità ed affidabilità del servizio svolto da questi due soggetti e la stessa perché entrambi apportano un contributo che richiede specifiche cognizioni tecnico-scientifiche. (82) Esigenza ineludibile, soprattutto in seguito all’indirizzo interpretativo adottato dalla giurisprudenza della Suprema Corte, Sez. II, 7 dicembre 1971, Golisano, cit., la quale ha affermato che a nulla rileva « la circostanza che (gli interpreti) non siano in possesso di un attestato di abilitazione professionale ». (83) Del resto, l’iscrizione nell’associazione professionale di appartenenza non è prevista come requisito di iscrizione nell’albo dei periti, per dare la possibilità ad esperti non organizzati in ordini o collegi professionali di potervi partecipare. Così, F. GIANFROTTA, sub art. 69 disp. att., in Commento, cit., La normativa complementare, vol. I, 1992, 255. (84) Così, ma riferendosi al criterio scelto dal legislatore delegato 1988 per la nomina del perito che nel codice abrogato era rimessa alla libera valutazione del giudice (art. 314.4), F. GIANFROTTA, sub art. 221, cit., 580.
— 483 — ternazionali dettate in tema di traduzione degli atti. Si pensi, a mo’ di esempio, alle innumerevoli sentenze che hanno destinato l’assistenza gratuita dell’interprete alla sola traduzione degli atti orali, escludendo quegli atti scritti indirizzati all’imputato non italoglotta, con l’evidente conseguenza di rendere la sua partecipazione al processo solo parzialmente effettiva. Di qui, volendo cercare una spiegazione plausibile all’atteggiamento di chiusura dimostrato dalla giurisprudenza italiana verso il riconoscimento di un adeguato sistema di assistenza difensiva per l’imputato alloglotta, la risposta può essere rintracciata nella considerazione secondo la quale alla tematica relativa all’interprete, se non addirittura all’intero tema dell’uso processuale delle lingue, è attribuita una posizione di lateralità sul piano delle priorità assegnate alle garanzie individuali attinenti al processo penale. Vale a dire, cioè, che nelle interpretazioni della giurisprudenza il diritto all’interprete riveste un carattere marginale rispetto ad altre garanzie processuali più immediatamente rapportabili alla struttura essenziale del nostro processo penale e considerate, forse a ragione, più urgenti ed essenziali alla realizzazione di questo stesso modello. Ma « ‘‘laterale’’... non vuol... sempre dire ‘‘secondario’’ ai fini della determinazione del grado complessivo di civiltà di un processo » (85). Anzi, in questo caso, la garanzia dell’ausilio dell’interprete alla parte in posizione di isolamento linguistico, concretizza addirittura il presupposto per la realizzazione di tutte le altre garanzie processuali presenti nel processo di stampo accusatorio. Non si può, infatti, pensare ad un sistema basato sul principio del contraddittorio, cioè con evidente posizione di uguaglianza tra i due contendenti (86), se all’accusato non è data neanche la possibilità di capire quanto si sta svolgendo davanti ai suoi occhi. A questo punto, allora, occorre trovare un rimedio che colmi i vuoti normativi della norma e, al tempo stesso, vincoli la giurisprudenza ad una interpretazione aderente alla ratio sottesa all’art. 143.1. Non potendo contare su di una futura addizione normativa, che tarda ad arrivare addirittura per quelle stesse garanzie considerate poc’anzi prioritarie, a nostro avviso la soluzione è già presente nell’art. 143 e, più in generale, nell’ordinamento vigente. E, a tal proposito, la soluzione è anche suggerita da una sentenza della Corte costituzionale (87) che nel ritenere infondata la questione di legittimità degli artt. 555.3 e 456.2 in com(85) Così, M. CHIAVARIO, La tutela linguistica dello straniero, cit., 113. (86) Per un’analisi più approfondita dei caratteri del sistema accusatorio v. G. LEONE, Manuale di diritto processuale penale, 8a ed., Jovene, 1971, 8. (87) C. cost., 19 gennaio 1993, n. 10, cit., vedine il commento anche in M. D’AMICO, Decisioni interpretative di rigetto e diritti fondamentali: una nuova strada per la Corte costituzionale?, in Giur. it., 1993, I, 2049 ss. In senso conforme, C. cost., ord. 24 febbraio 1994, n. 64, in Giur. cost., 1994, I, 370 ss.
— 484 — binato disposto con l’art. 458.1 — rispettivamente nella parte in cui per il decreto di citazione a giudizio e l’avviso contenuto nel decreto di giudizio immediato dell’indicazione del termine entro cui richiedere il giudizio abbreviato, non è prevista la notificazione all’imputato alloglotta anche nella lingua da lui compresa — riconosce alle norme richiamate dall’art. 143 un significato espansivo, destinato a prodursi nei confronti di tutte le varie esigenze concrete che lo richiedono. Insomma, la norma presenta, proprio in quanto clausola di carattere generale, un contenuto di ampia applicazione destinato ad operare nella disciplina dell’intero procedimento in quanto « diritto soggettivo perfetto, direttamente azionabile » al quale il giudice è tenuto a conferire un significato espansivo che colmi tutte le eventuali lacune presenti nel codice e renda concreto ed effettivo, nei limiti del possibile e in presenza dei presupposti indicati nella norma, il diritto all’interprete. Ci sembra, allora, che l’interpretazione offerta dalla Corte costituzionale possa assicurare l’effettività e l’applicabilità in concreto della garanzia linguistica delineata nell’art. 143.1 in tutte le ipotesi in cui l’imputato sarebbe pregiudicato nel suo diritto di partecipare effettivamente allo svolgimento del processo. Anzi, essa potrebbe rappresentare il punto di partenza verso un più effettivo riconoscimento del diritto all’assistenza gratuita dell’interprete, capace di imporsi all’ossequio dei giudici comuni. Non ci si può, infatti, non preoccupare della scarsa attenzione dimostrata dalla giurisprudenza di merito e di legittimità per il delicato problema della tutela processuale dei soggetti non italoglotti soprattutto per le abnormi conseguenze destinate a ripercuotersi sul funzionamento dell’intero sistema processuale; ove, infatti, la partecipazione dell’imputato si esaurisse in una mera comparsa — e ciò ogni qualvolta il soggetto alloglotta interviene al processo senza l’assistenza dell’interprete — la prospettiva accusatoria del processo penale sarebbe messa in grave pericolo perché incapace di assicurare il rispetto del fondamentale diritto di difesa. DONATELLA CURTOTTI Istituto di Diritto e Procedura penale dell’Università di Bari
RIFLESSIONI SU RESPONSABILITÀ PERSONALE E IMPUTABILITÀ NEL SISTEMA PENALE DELLO STATO SOCIALE DI DIRITTO
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. La libertà del volere nel più recente dibattito dottrinale. — 3. Colpevolezza e motivabilità. — 4. Le critiche al concetto di colpevolezza. La responsabilità personale. — 5. Il giudizio di responsabilità. — 6. Imputabilità e cause c.d. di esclusione della colpevolezza. In particolare: l’errore sul divieto. — 7. L’errore sul fatto del non imputabile.
1. Premessa. — Ancora nel 1992 l’art. 17 del Progetto di legge delega per l’emanazione di un nuovo codice penale, nel disciplinare espressamente le cause di esclusione della responsabiltà (1), non dà alcuna indicazione in merito a che cosa debba intendersi per responsabilità. A quale, fra i possibili contenuti che tale categoria ha assunto nel corso dell’elaborazione dottrinale (2), si debba fare riferimento all’interno del nostro contesto ordinamentale. Non sarà inutile tentarne, pertanto, una ricostruzione che, utilizzando le recenti acquisizioni dommatiche e di politica criminale, si sforzi di individuare una relazione adeguata alle esigenze di un sistema penale coerente con la premessa da stato sociale di diritto quale emerge dalla nostra Costituzione repubblicana. La categoria che ci occupa va, prima di tutto, distinta dalla c.d. responsabilità penale (3), intesa come somma di tutti i presupposti necessari affinché a un fatto di reato segua la predisposizione degli effetti tipici del diritto penale (4). L’elaborazione dottrinale, infatti, la assegna alla struttura del reato come elemento condizionante la sua stessa esistenza (5). In questo senso la sua problematica va tenuta distinta in modo particolare da quella delle cause di esclusione della mera punibilità (6). (1) Cfr. CAVALIERE, Riflessioni dommatiche e politico-criminali sulle cause soggettive di esclusione della responsabilità nello schema di delega legislativa per la riforma del codice penale, in questa Rivista, 1994, 567 ss. (2) Si vedano le note n. 11 e 12. (3) GROSSO, Responsabilità penale, in NNDI, XV, Torino, 1968, 707 ss. (4) GROSSO, op. cit., 708. (5) Si vedano le note n. 11 e 12. (6) VASSALLI, Cause di non punibilità, in ED, VI, Milano, 1960, 609 ss.; SANTAMA-
— 486 — Che sia possibile, del resto, isolare i caratteri del reato anche al di là della concreta inflizione della sanzione, è stato dimostrato da quella parte della dottrina (7) che ha analizzato gli effetti delle cause di esclusione della mera punibilità in relazione alle componenti tradizionali del reato. Esse non escludono la tipicità del fatto, poiché di questa è dimostrata la piena rilevanza nei confronti degli eventuali correi, non l’antigiuridicità, perché, per concorde ammissione, si differenziano dalle cause di giustificazione rimanendo inalterata nei confronti di azioni meramente non punibili, sia la possibilità di produrre un danno risarcibile, sia la possibilità di opporre la legittima difesa (8), non, infine, la colpevolezza, perché è pienamente presente l’elemento psicologico del reato ed è sicuramente possibile muovere un rimprovero all’autore del fatto. Un problema di difficile soluzione è invece rappresentato dallo studio dei rapporti fra la responsabilità e la colpevolezza. Il dibattito riguarda essenzialmente a) le rispettive posizioni delle categorie all’interno della struttura del reato, e cioè, in effetti, se la responsabilità debba precedere o seguire l’accertamento della colpevolezza (9), nonché b) se la responsabilità possa sostituire lo stesso concetto di colpeRIA, Lineamenti di una dottrina delle esimenti, Napoli, 1961, 9 ss.; ROXIN, Rechtfertigungsund Entschuldigungsgründe in Abgrenzung von sonstigen Strafausschliessungsgründe (Cause di giustificazione e scusanti, distinte da altre cause di esclusione della pena, trad. di CAVALIERE), in Jus, 1988, 425 ss., ora in Antigiuridicità e cause di giustificazione, Problemi di teoria dell’illecito penale, a cura di MOCCIA, Napoli, 1996, 87 ss.; ROMANO, Cause di giustificazione, cause scusanti e cause di non punibilità, in questa Rivista, 1990, 55 ss.; FROSALI, Circostanze di esclusione della pena che escludono il reato, in SP, 1953, 49 ss. (7) VASSALLI, op. cit., 612. (8) SANTAMARIA, op. cit., 9. (9) Nel primo senso: MAURACH, Schuld und Verantwortung, Wolfenbüttel-Hannover, 1948; ID., L’evoluzione della dogmatica del reato nel più recente diritto penale germanico, in RIDP, 1949; MAURACH-ZIPF, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Bd I, 8 Aufl, Heidelberg 1992, 213 ss.; KAUFMANN Arm., Die Dogmatik der Unterlassungsdelikte, Göttingen 1957, 159 ss.; KAUFMANN Arth., Rechtsfreier Raum und eigenverantwortliche Entscheidung, in Maurach FS, Karlsruhe 1972, 327 ss.; AMELUNG, Zur Kritik des kriminalpolitischen Strafrechtssystems, in AA.VV., Grundfragen des modernen Strafrechtssystems, a cura di SCHÜNEMANN, Berlin-New York, 1984, 85 ss.; BACIGALUPO, Unrechtsminderung und Tatverantwortung, in Arm Kaufmann - GS, Köln-Berlin-Bonn-München, 1989, 459 ss.; ID., Entre la justification y la exclusion de la culpabilidad, in La ley, 1986, 1 ss.; DE FRANCESCO, Il modello analitico fra dottrina e giurisprudenza: dommatica e garantismo nella collocazione sistematica dell’elemento psicologico del reato, in AA.VV., Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, a cura di STILE, Napoli, 1991. Nel secondo senso ROXIN, « Schuld » und « Verantwortlichkeit » als strafrechtliche Systemkategorien, in AA.VV., Grundfragen der gesamten Strafrechtswissenschaft, Henkel - FS, Berlin-New York, 1974, 151 ss.; ID., Zur jüngsten Diskussion über Schuld, Prävention und Verantwortlichkeit im Strafrecht, in Bockelmann - FS, München 1979, 279 ss.; ID., Considerazioni di politica criminale sul principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1984, 369 ss.; ID., Sul problema del diritto penale della colpevolezza, in questa Rivista, 1984, 16 ss.; ID., Was bleibt von der Schuld im Strafrecht übrig?, in SchwStr, 104 (1984), 356 ss.; ID., Strafrecht, Allgemeiner Teil, München 1992, § 19, 126
— 487 — volezza alla luce delle acquisizioni teoriche maturate in materia di rapporti fra dommatica e politica criminale (10). 2. La libertà del volere nel più recente dibattito dottrinale. — Il concetto di colpevolezza che oggi conosciamo è sostanzialmente differente da quello sviluppatosi originariamente all’interno della concezione normativa (11). In particolare risulta pacifica l’impossibilità di dimostrare con mezzi empirici che l’autore, al momento del fatto, poteva agire diversamente da come egli ha agito (12); si è sostituito, in questo modo, a un potere individuale un potere medio (13). Il rimprovero di colpevolezza nei confronti del singolo andrebbe così riformulato: « L’autore, nella situazione in cui si è trovato, avrebbe potuto agire diversamente, quando, secondo la nostra esperienza in casi analoghi, un altro, al suo posto, avrebbe verosimilmente attivato la forza di volontà che è mancata all’autore nel caso concreto » (14). A questo assunto si è replicato (15) che, da un punto di vista indeterministico, ritagliare il rimprovero morale sulla persona individuale, ss.; SCHÜNEMANN, Die Funktion des Schuldprinzips im Präventionsstrafrecht, in Grundfragen, cit., 168 ss. (10) Da ultimo MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992, 88 ss.; ID., Sui Principi normativi di riferimento per un sistema penale teleologicamente orientato, in questa Rivista, 1988, 1006, note 48 e 49; ACHENBACH, Historische und dogmatische Grundlagen der strafrechtssystematischen Schuldlehre, Berlin-New York, 1974, 215 ss.; ID., Individuelle Zurechnung, Verantwortlichkeit und Schuld, in Grundfragen, cit., 135 ss. (11) FRANK, Über den Aufbau des Schuldbegriffs, in Festgabe der juristischen Fakultät der Universität Gießen, Gießen 1907, 521 ss. Fondamentali: GALLO, Il concetto unitario di colpevolezza, Milano, 1951; SANTAMARIA, Colpevolezza, in ED, VII, Milano, 1960, 357 ss.; PADOVANI, Teoria della colpevolezza e scopi della pena, in questa Rivista, 1987, 738. ss.; FIANDACA, Considerazione su colpevolezza e prevenzione, in questa Rivista, 1987, 836 ss. (12) Solo a titolo di esempio: KOHLRAUSCH, Sollen und Können als Grundlage der strafrechtlichen Zurechnung, in Güterbock - FG, Berlin, 1910 (Aalen 1981); NOWAKOWSKI, Freiheit, Schuld, Vergeltung, in Rittler - FS, 1957, 571; BOCKELMANN, Willensfreiheit und Zurechnungsfähigkeit, in ZStW, 75 (1963), 378; NAUCKE, Die sozialphilosophie des sozialwissenschaftlich orientierten Strafrechts, 20, in NAUCKE-HASSEMER-LÜDERSSEN, Fortschritte im Strafrecht durch die Sozialwissenschaften?, Heidelberg, 1983; BARATTA, Ideologie und Idee in der strafrechtsphilosophischen Lehre von der Willensfreiheit, in Philosophie und Strafrecht, 1987, 267; STRENG, Schuld ohne Freiheit? Der Funktionale Schuldbegriff auf dem Prüfstand, in ZStW, 101 (1989), 278; VOLK, Introduzione al diritto penale tedesco, Parte generale, Padova 1993, 23-24 ss. Per la dimostrazione del fondamento storico-politico delle reali ragioni poste a base del concetto di libertà del volere nello Stato liberale BALBI, La volontà e il rischio penale d’azione, Napoli, 1995, 70 ss. (13) ELLSCHEID-HASSEMER, Strafe ohne Vorwurf, in AA.VV., Seminar: Abweichendes Verhalten, II, Die gesellschaftliche Reaktion auf die Kriminalität, a cura di LÜDERSSEN-SACK, Frankfurt am Main 1975, 270. (14) JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts, Allgemeiner Teil, Berlin 1988, § 37, I, 2 b. (15) ROXIN, Strafrecht, cit., 542.
— 488 — avendo come punto di riferimento la capacità di una persona immaginaria, rappresenta un abbandono delle posizioni di partenza, poiché, in sostanza, ci si rifiuta di accertare la possibilità di una libertà di decisione dell’autore stesso, individualmente considerato. D’altro canto, recente dottrina (16) sostiene che la libertà del volere non è un fatto bio-psichico ma una parte della ricostruzione sociale della realtà. Facendo riferimento alla teoria secondo la quale vi sarebbe coincidenza fra le strutture del linguaggio e la visione del mondo essa, sulla scorta delle ricerche di Humboldt e Whorf, afferma che la costruzione della frase nelle lingue indoeuropee con un soggetto attivo e un oggetto su cui ricade l’azione, le stesse forme grammaticali dell’attivo e del passivo, fanno riferimento a una visione del mondo improntata alla figura di un soggetto agente e, con ciò, alla fine, alla libertà di azione (17). Pertanto, se la libertà del volere è fondata sulle strutture elementari della comunicazione sociale, essa è, per ciò stesso, socialmente reale (18). Si conclude, quindi, nel senso che: « almeno per il diritto penale europeo non è possibile mettere in dubbio l’esistenza della libertà del volere come fenomeno sociale. Deriva da ciò che nei confronti di un autore medio si deve partire dalla possibilità di agire diversamente » (19). Nei confronti di tale concezione è possibile obiettare che essa condurrebbe a ritenere non imputabili tutti gli appartenenti a quei gruppi la cui struttura linguistica non contiene le categorie in precedenza citate (20). Da un altro punto di vista il ricorso ad una presunzione sociale non dice ancora nulla in merito alla sua validità per il diritto in genere e per il diritto penale in specie (21). Altri (22), invece, sostiene che con l’espressione « A avrebbe potuto fare x » si intende soltanto evidenziare che sono presenti le condizioni strumentali (di capacità) e le condizioni occasionali indispensabili per la realizzazione di x. Ma tutto ciò non dimostra la possibilità di agire diversamente, poiché un’affermazione del genere non spiega perché A ha compiuto y (mentre avrebbe dovuto compiere x) che è appunto la domanda cui si dovrebbe rispondere, ma constata (e quasi fotografa) una situazione di fatto (la realizzazione di x a dispetto di y) che potrebbe essere avvenuta per le più svariate ragioni. (16) SCHÜNEMANN, Die Funktion des Schuldprinzip im Präventionsstrafrecht, cit., 153. (17) SCHÜNEMANN, op. cit., 164. (18) SCHÜNEMANN, op. cit., 166. (19) SCHÜNEMANN, op. cit., 167. Nello stesso senso recentemente: KRAUSS, Schuld im Strafrecht - Zurechnung der Tat oder Abrechnung mit dem Täter, in Schüler - Springorum FS, Köln-Berlin-Bonn-München, 1996, 461. (20) Nello stesso senso anche HIRSCH, Das Schuldprinzip und seine Funktion im Strafrecht, in ZStW, 106 (1994), 761. (21) HIRSCH, cit., 761. (22) FIANDACA, Considerazioni su colpevolezza e prevenzione, cit., 872.
— 489 — A questo schema Burkhardt (23) aggiunge la percezione da parte di A di avere in suo potere la realizzazione di x. Con l’asserzione « A avrebbe potuto fare x nel tempo t » non sarebbe detto nulla di più che nel tempo t esistevano le condizioni personali ed occasionali per la realizzazione di x e che A possedeva la cognizione di poter realizzare x. Tale cognizione, poi, sarebbe tratta, in particolare, dalla conoscenza e dall’esperienza del potere di ciascuno di noi, la quale sarebbe una parte integrante dell’attuale potere di agire. « Ciò che noi possiamo fare è influenzato da ciò che noi crediamo di poter fare » (24). Da questo punto di vista tale teoria può essere accomunata all’altra (25), di più recente formulazione, la quale pure ritiene la libertà del volere come un qualcosa derivante dall’esperienza che l’uomo fa di sé stesso come libero (26). Ma se, da un lato, va posto in rilievo che tale percezione non necessariamente deve corrispondere alla realtà delle cose (27), dovrebbe essere, d’altra parte, vero anche l’inverso, e cioè, che quello che non possiamo fare è influenzato da quello che crediamo di non potere fare, con tutto ciò che ne deriverebbe di fronte a tale affermazione da parte di A. Nei confronti di tali teorie e di quelle altre che seguono vie, più o meno, intermedie (28), rimane infine valida la critica di fondo che nessuna di esse ritiene empiricamente provabile l’esistenza della libertà del volere (29). Si è detto che: « Il peso di un’obiezione come questa, beninteso, va commisurato al grado di accettabilità della tesi di fondo che essa presuppone: e cioè che abbiano titolo a risultare fra i presupposti della responsabilità soltanto fattori suscettibili di essere espressi con la terminologia delle scienze della natura e dimostrabili in base ai procedimenti empirici » (30). Ma la necessità, difficilmente discutibile, di fare riferimento a concetti non dimostrabili empiricamente (31), va considerata, appunto, una necessità, nel senso che pressanti istanze di razionalizzazione inducono al superamento di concetti indimostrabili, quando essi siano legittimamente sostituibili (in particolar modo in termini di utilizzabilità) con altri che tale caratteristica non abbiano. (23) Zur Möglichkeit eines utilitaristischen Rechtfertigung des Schuldprinzip, in Schuld und Verantwortung, a cura di BAUMGARTNER-ESER, Tübingen 1983. (24) L’affermazione è di HEIDER, in BURKHARDT, cit., 58. (25) DREHER, Die Willensfreiheit, München 1987, 37. (26) DREHER, op. cit., 360. (27) BURKHARDT, op. cit., 59; TIEMAYER, Der relative Indeterminismus und seine Bedeutung für das Strafrecht, in ZStW 105 (1993), 506. (28) Si veda ad esempio la posizione di HIRSCH, op. cit., 763. (29) ROXIN, Strafrecht, cit., 548. (30) FIANDACA, op. cit., 870. (31) KAUFMANN, Schuldprinzip und Verhältnismäßigkeitsgrundsatz, in Lange - FS, Berlin-New York, 1976, 31.
— 490 — 3. Colpevolezza e motivabilità. — Da quando in « Politica criminale e sistema del diritto penale » (32) Claus Roxin ridefinì il contenuto del concetto di colpevolezza si è via via fatta strada in ampia parte della dottrina — sia altrove (33) che nel nostro Paese (34) — la convinzione dell’opportunità di una rimeditazione della categoria secondo i principi dello stato sociale di diritto. La categoria sistematica comunemente indicata come colpevolezza sarebbe sorretta dalla dottrina degli scopi della pena (35). Questo elemento del reato, cioè, non dipenderebbe dall’utilizzo più o meno corretto che l’autore ha fatto della sua capacità di agire diversamente, ma dovrebbe rispondere, dal punto di vista politico-criminale, alla domanda intorno al bisogno di pena nel caso singolo (36). La prospettiva delineata, che trova specifica conferma nel nostro sistema assiologico-normativo (37), si completa con la ricomprensione del concetto di colpevolezza all’interno di un più generale concetto di responsabilità (38). La colpevolezza, infatti, è condizione necessaria ma non sufficiente per l’inflizione della pena, poiché vi sono esimenti che si lasciano spiegare solo attraverso le funzioni politico-criminali della stessa, non mancando in astratto, in tali casi, la possibilità di un agire diverso (stato di necessità scusante ed eccesso nella legittima difesa) (39). Dal naufragio di ogni possibilità di dimostrare empiricamente l’esistenza della libertà del volere, ha poi tratto spunto l’intuizione che il problema andasse affrontato facendo riferimento alla possibilità di orientare il proprio comportamento nel senso voluto dalla norma (40). In questo (32) Kriminalpolitik und Strafrechtssystem (Politica criminale e sistema del diritto penale), 1a ed. 1971, traduzione italiana a cura di S. Moccia, 1986. (33) Una sintesi del dibattito in Germania si può leggere in: ROXIN, Politica criminale e sistema del diritto penale, cit., Prefazione all’edizione italiana, ed ivi relativa bibliografia. (34) Cfr. MOCCIA, Sui principi normativi, cit., 1020; ID., Pena e colpevolezza nel pensiero di Claus Roxin, in Indice penale, 1981, 155; PADOVANI, Teoria della colpevolezza, cit., 798; FIANDACA, Considerazioni, cit., 836. Sulla teoria roxiniana in generale: BRICOLA, Rapporti fra dommatica e politica criminale, in questa Rivista, 1988, 2 ss.; MOCCIA, Politica criminale e riforma del sistema penale, Napoli 1984; PULITANÒ, Politica criminale, in Il diritto penale in trasformazione, a cura di MARINUCCI-DOLCINI, Milano 1985, 36 ss.; MARINUCCI, Politica criminale e riforma del diritto penale, in Dem. dir., 1975, 61 ss.; TAGLIARINI, Politica criminale e sistematica giuridico-penale nel pensiero di Claus Roxin, in Indice Penale, 1976, 347 ss. (35) ROXIN, « Schuld » und « Verantwortlichkeit », cit., 181. (36) ROXIN, op. cit., 181. (37) MOCCIA, Sui principi normativi, cit., 1020. (38) ROXIN, op. cit., 181; ID., Strafrecht, § 19. (39) ROXIN, op. cit., 182. (40) ROXIN, Was bleibt, cit., 368.
— 491 — modo, si è detto (41), si abbandona la traccia fuorviante di concetti indimostrabili, poiché psicologia e psichiatria sono in grado di spiegare in misura sempre crescente i criteri attraverso i quali è possibile raffigurare, secondo un modello empirico e nei suoi gradi di gravità, le riduzioni di capacità all’autoorientamento. Non si tratta di indagare, quindi, in merito all’impossibile accertamento della libertà del volere, ma soltanto di acquisire il dato che l’autore, al momento del fatto, aveva intatta la sua capacità di autocomando (42), che egli, cioè, non è rimasto passivo rispetto agli impulsi psicologici che lo spingevano ad agire (43) e ciò basta a giustificare il suo trattamento come se fosse libero. La possibiltà di un agire libero va considerata, insomma, « una condizione normativa », « una regola del gioco sociale » (44). Ma che il potere punitivo statuale debba fondarsi, in un sistema improntato ai principi dello stato sociale di diritto, su di una necessaria finzione statuale (45), è davvero difficilmente accettabile (46), e tutto ciò a maggior ragione se essa dovesse dimostrarsi inutile. Va tenuto fermo, invece, il ricorso al concetto di motivabilità normativa (47). Contro di esso sono stati sollevati dubbi da parte di autorevole dottrina la quale ha osservato che potrebbe sembrare solo un altro nome dato alla libertà (48). Si è detto, inoltre, che per accertare la normale motivabilità di un soggetto si dovrebbe fare comunque riferimento ad un procedimento analogico fondato sulla rilevanza di un soggetto medio. « Medietà o normalità ‘in sé’ non esiste, ma sempre soltanto ‘in riguardo a’, e ciò significa che anche ciò che è normale o medio o anche normalmente motivabile rappresenta un procedimento analogico. Il criterio dell’uomo medio, inteso quale metro per misurare l’imputabilità penale, non è né astratto né reale, ma, molto di più, è un tipo e sta, come tale, con una gamba nel mondo del percettibile e con un’altra nel mondo dell’intellegibile » (49). Il contenuto di questa affermazione (50), che cioè anche la (41) ROXIN, Strafrecht, cit., § 19, 34. (42) ROXIN, op. ult. cit., § 19, 35. (43) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Bologna 1989, 245. (44) ROXIN, Strafrecht, cit., § 19, 35. (45) Secondo la nota definizione di KOHLRAUSCH, Sollen und Können, cit., 26. (46) Critico anche SCHÜNEMANN, op. cit., 162. (47) L’espressione « motivabilità normativa » è utilizzata, per la prima volta, da NOLL nel suo importante saggio dal titolo « Schuld und Prävention unter dem Gesichtspunkt der Rationalisierung des Strafrechts », in Beiträge zur gesamten Strafrechtswissenschaft, Mayer - FS, Berlin 1966, 219. (48) KAUFMANN, Schuldprinzip und Verhältnismäßigkeitsgrundsatz, cit., 29. (49) KAUFMANN, op. cit., 30. (50) Per la cui critica si veda: ALBRECHT, Unsichereitszonen des Schuldstrafrechts, in Lackner - FS, Berlin-New York, 1987, 214.
— 492 — motivabilità richiede un giudizio comparativo (analogico), a me sembra che attenga, a ben vedere, alla stessa capacità di conoscenza dell’essere umano, che abbisogna di criteri relazionali per definire le caratteristiche di un’entità, ma, in ogni caso, questo non comporta l’impossibilità di enucleare una differenza fra motivabilità e libertà. « Se qualcuno uccide l’omicida di suo figlio in un grave stato passionale, tale da escludere l’imputabilità, la sua azione è motivata dal precedente fatto della sua vittima (l’autore è dunque capace di essere motivato). Che l’essere umano è mosso da motivi (ad esempio dalla pena) ad agire o ad omettere, non significa ancora che egli è libero. Libertà significa molto di più, la possibilità di scegliere tra la realizzazione o la non realizzazione di un comportamento al quale spinge una determinata motivazione » (51). Anche la psichiatria, infine, distingue fra libertà del volere e motivabilità affermando che solo l’esistenza di quest’ultima è concretamente accertabile (52). 4. Le critiche al concetto di colpevolezza. La responsabilità personale. — È noto che, nel sistema roxiniano, la colpevolezza assume « l’importantissima funzione » (53) di garantire il rispetto del principio di proporzione fra fatto commesso e misura della pena in contrapposizione alle rispettive esigenze di prevenzione generale e speciale (54). La colpevolezza appare così depurata da quelle opzioni di tipo filosofico (in particolare, si è detto (55), dalla presunzione della libertà del volere intimamente connessa alla concezione retributiva della pena) e, per ciò stesso pregiuridiche, incompatibili con i principi dello stato sociale di diritto. Nei confronti di una colpevolezza intesa in tal modo si è obiettato, da parte di studiosi pur vicinissimi alla teoria roxiniana (56), che essa, mero limite alla misura della pena, si poneva comunque, al contempo, come condizione necessaria della pena stessa, costituendone quindi anche il fondamento. A questa « colpevolezza senza riprovevolezza » (57), poiché il principio di proporzione (58) risulta imposto nel nostro assetto ordinamentale (51) GIMBERNAT ORDEIG, Zur Strafrechtssystematik auf die Grundlage der Nichtbeweisbarkeit der Willensfreiheit, in Henkel - FS, cit., 163. (52) KRÜMPELMANN, Die Neugestaltung der Vorschriften über die Schuldfähigkeit durch das Zweite Strafrechtsreformgesetz vom 4 Juli 1969, in ZStW 88 (1976), 11; ALBRECHT, Unsichereitszonen des Schuldstrafrechts, cit., 206. (53) MOCCIA, Sui principi normativi, cit., 1022, nota 48. (54) ROXIN, Fin da Sinn und Grenzen staatlicher Strafe, in Jus, 1966, ora in Strafrechtliche Grundlagenprobleme, Berlin-New York, 1979, 20 ss. (55) MOCCIA, Sui principi normativi, cit., 1022, nota 48. (56) Si veda MOCCIA, op. cit., 1022, nota 48. (57) MOCCIA, op. cit., 1022, nota 48. (58) Per un mantenimento del concetto di colpevolezza fondato, però, esclusiva-
— 493 — dall’art. 3 della Costituzione insieme ad altre, e numerose norme, tutte di rilievo costituzionale (artt. 2, 3, 13, 25 comma 2, e 27 comma 3 Cost.), sembrerebbe, allora, più opportuno sostituire « un concetto concreto di proporzionalità i cui criteri di valutazione dovrebbero essere dati dal titolo di imputazione soggettiva e dalla gravità del fatto sotto il profilo della dannosità sociale (59) che, unitamente alla soddisfazione di istanze preventive, agirebbe all’interno di quella categoria della responsabilità utilmente proposta da Roxin in Politica criminale e sistema del diritto penale » (60). In questo modo, quindi, alla categoria della colpevolezza verrebbe a sostituirsi un criterio univoco di imputazione soggettiva, la responsabilità personale, in grado, cioè, di fondare un presupposto unico per giustificare l’applicazione sia della pena che delle misure di sicurezza e che trova un fondamento normativo di rango costituzionale nella norma di cui all’art. 27 comma 1 Cost. (61). « Nel nostro contesto ordinamentale il fondamento dell’intervento punitivo, al di fuori di incerte prospettive di tipo metagiuridico, riposa su una norma fondamentale ben precisa, quale è quella contenuta nell’art. 54 della Costituzione, che tra l’altro sancisce, com’è noto, il dovere di osservare le leggi » (62). Se questa proposta trova un autorevole avallo in quella parte della dottrina d’oltralpe che pure fonda il potere punitivo statuale su una norma costituzionale (art. 74 Nr. 1 GG) (63), essa ha il vantaggio di utilizzare una disposizione che non si limita a conferire il potere al legislatore di emanare norme penali, ma, di più, concretizza la legittimazione mente su ragioni general-preventive e limitata dall’esterno dal principio di proporzionalità NOLL, op. cit., 228, il quale espressamente si richiama all’elaborazione di Feurbach. Il recente dibattito, volto a sostituire la colpevolezza con il principio di proporzione, ha preso le mosse da un contributo di ELLSCHEID-HASSEMER, Strafe ohne Vorwurf, cit., 267, esponenti della c.d. Frankfurter Schule, sulla quale da ultimo SCHÜNEMANN, Kritische Anmerkungen zur geistigen Situation der deutschen Strafrechtswissenschaft, in GA, 1996, 203 ss. (59) MOCCIA, op. cit., 1009, nota 8. Il criterio del rango del bene giuridico e del titolo di imputazione soggettiva sono utilizzati da GIMBERNAT ORDEIG, Hat die Strafrechtsdogmatik eine Zukunft?, in ZStW, 82 (1970), 379 ss. Dello stesso anche Zur Strafrechtssystematik auf der Grundlage der Nichtbeweisbarkeit der Willensfreiheit, cit., 151. Una ricostruzione del princio di proporzione alla luce del criterio della dannosità sociale del fatto si può leggere anche in BAURMANN, Schuldlose Dogmatik?, in AA.VV., Seminar: Abweiches Verhalten, cit., 196 ss. Per un’analisi delle ragioni a favore e contro il principio di colpevolezza: HAFFKE, Problemaufriß: die Bedeutung der sozialpsychologischen Funktion von Schuld und Schuldunfähigkeit für die strafrechtliche Schuldlehre, in AA.VV., Sozialwissenschaften im Studium des Rechts, Bd. III, Strafrecht, a cura di HASSEMER-LÜDERSSEN, München 1978, 160 ss. Si veda anche BARATTA, Ideologie und Idee, cit., 267. (60) MOCCIA, op. cit., 1022. (61) MOCCIA, op. cit., 1022, nota 48. (62) MOCCIA, Il diritto penale, cit., 95. (63) ROXIN, Strafrecht, cit., § 2, 1.
— 494 — punitiva ponendo in capo ad ogni consociato, legislatore compreso, il dovere di non violare le leggi dello stato. In questo contesto ci sembra particolarmente interessante la posizione di Achenbach (64), che anche propone un abbandono del concetto di colpevolezza per un più funzionale concetto di imputazione individuale. Egli ritiene che la differenziazione operata da Roxin fra colpevolezza e responsabilità sia una inutile complicazione, poiché: « l’ascrizione individuale di un comportamento, come fondamento di una pena da infliggere contro un concreto autore, si lascia derivare e delimitare pienamente solo da un’interpretazione preventiva degli elementi fondanti l’imputazione » (65). Tale funzione primaria della pena è ravvisata dall’autore in una particolare accezione della prevenzione integratrice: « Essa raccoglie il bisogno individuale o collettivo di rappresaglia e vendette in una procedura ordinata e legale e dimostra la validità della norma comportamentale violata attraverso una sanzione visibile, per garantire così l’orientamento normativo dei consociati su queste e secondo queste elementari regole » (66). Alla prevenzione speciale non resta che un ruolo secondario nel fondamento della pena (67). Questa teoria è particolarmente vicina alla dottrina funzionalistica di Jakobs (68) della quale pertanto condivide le critiche (69). Nel nostro sistema ordinamentale essa si scontra inoltre con il disposto dell’art. 27 comma 3 Cost., il quale, attribuendo importanza primaria alla prevenzione speciale, rende incompatibile qualunque teoria che la posponga alla prevenzione generale nella spiegazione dell’intervento penale. A tal proposito Padovani, in un noto saggio (70), afferma che « ... il giudizio di colpevolezza non si riduce ad una ‘ascrizione’ personale di conseguenze, perché la pena non è la tassa che si paga per il delitto, né il tributo corrisposto per un ‘trattamento sociale’; esso implica invece un rimprovero personale, che legittimi assiologicamente la pena inflitta visto (64) Individuelle Zurechnung, cit. (65) ACHENBACH, op. cit., 140. (66) ACHENBACH, op. cit., 143. (67) ACHENBACH, op. cit., 147. (68) JAKOBS, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Berlin-New York 1983, § 17; ID., Über die Behandlung von Wollenfehlern und von Wissenfehlern, in ZStW, 101 (1989), 516. (69) Da ultimo BOCK, Ideen und Schimären im Strafrecht, in ZStW, 103 (1991), 636. Ed inoltre: SCHÜNEMANN, Die Funktion, cit., 153 ss.; Arth. KAUFMANN, Unzeitgemäße Betrachtungen zum Schuldgrundsatz im Strafrecht, in Jura, 1986, 229 ss; BARATTA, La teoria della prevenzione-integrazione. Una « nuova » fondazione della pena all’interno della teoria sistemica, in Dei delitti e delle pene, 1984, 155 ss.; FIANDACA, Considerazioni, cit., 860 ss. (70) Teoria della colpevolezza e scopi della pena, cit., 798.
— 495 — che, senza tale presupposto, essa risulterebbe indecifrabile, e calata nell’assurdo » (71). La colpevolezza costituirebbe quindi il fondamento della sofferenza legalmente inflitta con la pena (72). Va posto, tuttavia, nel dovuto rilievo che, sotto il profilo della sofferenza le misure di sicurezza non si distinguono dalla pena, poiché anch’esse contengono un rilevante contenuto afflittivo che non dipende, per definizione, dalla colpevolezza dell’agente. Se si è consapevoli, come viene posto autorevolmente in rilievo, che « la funzione retributiva non può fondare razionalmente il senso della pena » e che non vi è differenza di scopo fra misure di sicurezza e pena (73), la legittimazione del ‘male’ inflitto con esse finisce con l’identificarsi con le ragioni stesse che giustificano l’esistenza di una « violenza di Stato » (74). Se il compito del diritto penale non è nella retribuzione e nella sua « maestà libera da scopi » (75), se le sanzioni da esso previste sono funzionalmente omogenee ed al loro contenuto appartiene, come momento ineliminabile delle stesse, una carica di rilevante afflittività il fondamento di quest’ultima dovrebbe essere ricercata in elementi comuni ad entrambe. 5. Il giudizio di responsabilità. — A fronte di tale costruzione va aggiunto, però, che la dottrina dominante ritiene ancora indispensabile il mantenimento del concetto di colpevolezza sotto diversi e svariati profili. Secondo Roxin solo il principio di colpevolezza può garantire la necessità di un legame psichico fra fatto ed autore (76), da un lato, e il rapporto di proporzione fra gravità del fatto e misura della sanzione in contrapposizione alle contrastanti esigenze preventive (77), dall’altro. Kaufmann pone in rilievo che il principio di colpevolezza ha tre significati: esso è, in primo luogo, un elemento materiale del reato, ogni pena cioè presuppone la colpevolezza. Il secondo significato va individuato, invece, nella congruenza fra illecito e colpevolezza, la colpevolezza deve ricomprendere tutti gli elementi dell’illecito e dunque fonda la rinuncia ad ogni forma di punizione legata al mero versari in re illicita. Come terzo, ed ultimo significato, infine, la pena deve essere misurata con riguardo alla colpevolezza esprimendo il principio di proporzione (78). (71) PADOVANI, op. cit., 829. (72) PADOVANI, op. cit., 828. (73) ROXIN, Strafrecht, cit., 44. (74) ROXIN, Sinn und Grenzen staatlicher Strafe, cit., 1973, 1. (75) MAURACH, Strafrecht, cit., 77. (76) ROXIN, Das Schuldprinzip im Wandel, in Kaufmann - FS, München, 1993, 519. (77) ROXIN, Was bleibt, cit., 370. (78) KAUFMANN, Arth., Schuld und Verhältnismäßigkeit, cit., 32; ID., Schuld und Prävention, in Wassermann - FS, Neuwied-Darmstadt, 1985, 890.
— 496 — Anche Hassemer, a cui pure si deve una delle più profonde critiche al concetto di colpevolezza (79), ha in seguito affermato di non vedere alternative a tale principio sotto quattro dimensioni: la possibilità di un’imputazione soggettiva, l’esclusione della mera responsabilità per l’evento, la distinzione dei gradi di partecipazione interiore e la proporzione delle conseguenze penali (80). 5.1. Nell’attuale contesto ordinamentale italiano il principio di colpevolezza non è indispensabile per l’affermazione della necessaria esistenza, ai fini della punibilità, di un legame psicologico fra fatto ed autore. Il rifiuto di ogni ipotesi di responsabilità oggettiva deriva, infatti, direttamente dall’art. 27 comma 1 della Costituzione (81). Tale norma è ora quasi costantemente interpretata nel senso che essa preveda la costituzionalizzazione del principio di colpevolezza (82). Questa affermazione, la quale testimonia un indubbio progresso nel senso delle garanzie, è evidentemente condizionata dal concetto di colpevolezza così come è generalmente inteso; ricomprendere gli elementi soggettivi in contrapposizione alle ipotesi di responsabilità oggettiva. La constatazione secondo cui dall’art. 27 comma 1 Cost. si deve trarre la necessità di un legame soggettivo fra fatto ed autore non comporta però la costituzionalizzazione del principio di colpevolezza (83) e, a dire il contrario, ci si baserebbe su di un’inversione metodologica, poiché si presuppone che dolo e colpa siano elementi del concetto di colpevolezza e dall’accertata rilevanza degli stessi in termini costituzionali se ne deduce l’avvenuta costituzionalizzazione del principio stesso. 5.2. Il principio di colpevolezza non è necessario, inoltre, né per garantire il rapporto di proporzione, né quale unità di misura dello stesso, né, infine, quale fondamento dell’intervento punitivo statale. Si è già detto della rilevanza assunta, in merito a tali argomenti, da precise norme costituzionali (84), ed anche l’obiezione secondo cui il principio di proporzione, a differenza del principio di colpevolezza, non avrebbe un contenuto materiale, ma sarebbe un principio puramente formale (85), può essere correttamente superata offrendo indici dal contenuto empirico, come la complessiva dannosità sociale del fatto insieme ai titoli di imputazione (79) ELLSCHEID-HASSEMER, Strafe ohne Vorwurf, cit., 267. (80) HASSEMER, Alternative zum Schuldprinzip?, in AA.VV., Schuld und Verantwortung, a cura di BAUMGARTNER-ESER, Tübingen 1983, 93. (81) MOCCIA, Il diritto penale, cit., 141 ss. (82) Cfr. GROSSO, Responsabilità penale, cit., 712; BRICOLA, Teoria generale del reato, in NNDI XIX, Torino, 1974, 53. (83) MOCCIA, Il diritto penale, cit., 141 ss. (84) Si veda retro par. 4. (85) KAUFMANN, Schuldprinzip und Verhältnismäßigkeit, cit., 33.
— 497 — soggettiva, e risulta comunque più facilmente determinabile rispetto all’indimostrabile accertamento del quantum di libertà posto in capo all’agente concreto. Questa è, insomma, la grandezza di relazione (86) secondo la quale determinare la proporzione della sanzione penale. Ma, poiché un adeguato giudizio di proporzione presuppone, in primo luogo, dei limiti edittali adeguati ad un sistema penale improntato ai canoni di efficienza e di rispetto delle istanze preventive, va sottolineato, e se mai ve ne fosse ancora bisogno, l’inadeguatezza del codice attuale ad offrire, fin da tale momento, un’adeguata soluzione del caso concreto. Il fallimento della disciplina prevista in materia di reati contro il patrimonio e il conseguente distacco della prassi dalle indicazioni del legislatore sono, da questo punto di vista, dei casi di scuola (87). Già alcuni secoli or sono (88) si è avuta ben chiara la rilevanza di questo problema, ed anche oggi si evidenzia l’intima relazione esistente fra proporzione della sanzione ed esigenze preventive: « La previsione di una norma oltremodo severa nei confronti di un qualsiasi reato (e dunque sproporzionata in eccesso), lungi dall’avere un’efficacia intimidativa più forte, crea nel potenziale trasgressore sentimenti di insofferenza e di fatalismo e dall’altra parte offusca quella scala di valori cristallizzata nelle leggi che essi dovrebbero ricavare proprio dal rapporto fra specie e entità della sanzione e illecito » (89). Queste considerazioni, formulate dall’Autore con riguardo ai limiti edittali, valgono a maggior ragione con riguardo all’inflizione concreta della sanzione. Ma anche i generi e le specie di diversa partecipazione interiore dell’autore alla commissione di un reato concorrono, per il lato soggettivo, a determinare, in uno con la dannosità sociale, la complessiva misura della sanzione. La comminazione di pene diverse in corrispondenza di atteggiamenti psicologici diversi, pur aventi ad oggetto la lesione del medesimo bene giuridico, è chiaramente spiegabile attraverso l’utilizzo di istanze preventive. Così, la ragione per cui, chi ha commesso un omicidio doloso deve essere punito con una pena più grave rispetto a chi ha compiuto un omicidio colposo, non risiede nel diverso grado di rimproverabilità della volontà che, in un caso, decide scientemente per il delitto, quanto piutto(86) STRATENWERT, Die Zukunft des strafrechtlichen Schuldprinzip, München, 1977, 37, criticando lo scritto di ELLSCHEID-HASSEMER, Strafe ohne Vorwurf, cit., 266, nel quale veniva proposta la sostituzione del concetto di colpevolezza con il principio di proporzione, aveva appunto obiettato che mancava, al fine di dare un contenuto effettivo a tale proposta, la grandezza di relazione cui proporzionare la risposta sanzionatoria. (87) MOCCIA, Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, Padova, 1988, passim. (88) BECCARIA, Dei delitti e delle pene, ed. a cura di BURGIO, Padova 1991, 44. (89) ANGIONI, Beni costituzionali e criteri orientativi nell’area dell’illecito penale, in AA.VV., Bene giuridico e riforma della parte speciale, a cura di Stile, Napoli, 1985, 61.
— 498 — sto nel diverso allarme sociale che la lesione intenzionale di un bene giuridico diffonde nei consociati e nella relativa, tendenzialmente maggiore, manifestazione di pericolosità individuale che giustifica una maggiore durata del trattamento rieducativo. Anche l’acuta osservazione, secondo la quale la rinuncia al principio di colpevolezza comporterebbe la conseguente rinuncia ai differenti criteri del dolo e della colpa, perché il primo non rappresenta senz’altro la manifestazione di un maggiore pericolo di recidiva (90), assume una validità limitata in relazione alla complessità del giudizio di proporzione come qui inteso; esso, infatti, non dipende solo dalla pericolosità sociale dell’agente, ma si fonda anche sulla prevenzione generale e sulla rilevanza che, rispetto ad essa, acquistano i sostrati, soggettivo ed oggettivo, del giudizio. L’intensità del dolo e il grado della colpa, infine, costituiscono un elemento di giudizio per l’irrogazione delle misure di sicurezza, che non presuppongono la colpevolezza dell’agente, e a tal fine è indifferente il grado di similarità (o di identità) che si intende attribuire, a seconda delle rispettive costruzioni dogmatiche, all’elemento soggettivo del non imputabile in relazione a quello del soggetto imputabile. Non vorremmo essere fraintesi: quel che ci preme sottolineare è soltanto che un diverso trattamento punitivo, in relazione ai diversi gradi di partecipazione interiore usualmente utilizzati al fine del computo della sanzione, può essere spiegato senza ricorrere al criterio dell’utilizzo che l’autore ha fatto della propria libertà del volere, ma si rimane, fin qui, pur sempre al di fuori di quel giudizio complesso (91) che conduce poi alla quantificazione della giusta sanzione. Fin qui, insomma, non entrano ancora in azione tutti i criteri che determinano la misura della pena adeguata al caso concreto. Come le istanze preventive, infatti, oltre ad offrire tale chiarimento, possano giustificare, a volte, una deroga in melius (92) rispetto alla quantità di pena che sarebbe astrattamente imposta dal principio di proporzione, operando, per così dire, questa volta dall’esterno di un giudizio di proporzione già approntato, non si diversifica in nulla dalla rilevanza che tale possibiltà assume per coloro che ritengono, invece, il principio di colpevolezza deputato a garantire il rapporto di proporzione. Il precetto, costituzionalmente rilevante, che impone, al fine di evitare violazioni del principio di uguaglianza, di punire in modo proporzionato alla gravità del fatto commesso, sostituisce, quindi, la sola cosiddetta funzione garantista del principio di colpevolezza. 6. Imputabilità e cause c.d. di esclusione della colpevolezza. In particolare: l’errore sul divieto. — A questo punto viene in evidenza l’estrema (90) STRATENWERT, Die Zukunft, cit., 37. (91) MOCCIA, Il diritto penale, cit., 92. (92) ROXIN, Was bleibt, cit., 362.
— 499 — problematicità che, in un contesto teorico come quello delineato, assume la definizione della funzione, sia dommatica che politico-criminale, del tradizionale concetto di imputabilità (93). Ciò del resto appare evidente se si pone mente al fatto che è in questo settore che effettivamente si finisce per collidere con una consolidata tradizione sistematica. Una volta rinunciato al parametro discretivo della libertà del volere, sul quale si basa il fondamento dell’inimputabilità quale causa prima di esclusione della colpevolezza, si deve ammettere, infatti, che la sua presenza non impedisce la nascita della responsabilità e il perfezionarsi quindi del reato. Ciò che abbiamo a questo punto è, però, qualcosa di completamente nuovo. « È chiaro che in questo contesto l’imputabilità diverrebbe uno degli oggetti del giudizio di responsabilità, integrando, altresì, un indice di predisposizione di un’offerta di recupero sociale con determinate caratteristiche differenziali rispetto a quella predisposta per l’autore di reato, per così dire, incapace di intendere e di volere » (94). La teoria della responsabilità personale cioè, si differenzia da quella che voleva il non imputabile come un soggetto idoneo a realizzare un reato completo di tutti i suoi elementi (95), perché, a differenza di quest’ultima, considera l’imputabilità come un elemento interno al reato e non come una mera causa personale di non punibiltà (96). (93) BRICOLA, Fatto del non imputabile e pericolosità, Milano, 1961; ROXIN, Die Schuldunfähigkeit Erwachsener im Urteil des Strafrechts, in Spann - FS, Berlin-New YorkHeidelberg-London-Paris-Tokyo, 1986, 457; SANTAMARIA, Interpretazione e dommatica della dottrina del dolo, Napoli, 1961, 7 ss.; MAURACH, Schuld und Verantwortung, cit., passim; PETROCELLI, Reato e punibilità, in questa Rivista, 1960, 669 ss.; ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, vol. II, Milano, 1990, 1 ss. LENCKNER, in SCHRÖNKESCHRÖDER-LENCKNER, Strafgesetzbuch. Kommentar, München 1991, 302 ss.; RUDOLPHI, in RUDOLPHI-HORN-SAMSON-SCHREIBER, Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch. Allgemeiner Teil, vol. I, Neuwied-Kriftel-Berlin, 1987; LANGE, Strafgesetzbuch. Leipziger Kommentar, § 21, vol. I, Berlin-New York, 1985; BERTOLINO, L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Milano 1990; ID., La crisi del concetto di imputabilità, in questa Rivista, 1981, 190 ss.; PULITANÒ, L’imputabilità come problema giuridico, in AA.VV., Curare e punire. Problemi e innovazioni fra psichiatria e giustizia penale, Milano, 1988; BRESSER, Probleme bei Schuldfähigkeits - und Schuldbeurteilung, in NJZ, 1978, 1188 ss.; VENZLAFF, Ist die Restaurierung eines « engen » Krankheitsbegriffs erforderlich, um kriminalpolitische Gefahren abzuwenden?, in ZStW 88 (1976), 57 ss. Una compiuta disamina storica della c.d. imputabilità morale nella dottrina italiana si può leggere oggi in BALBI, La volontà, cit., 3 ss.; ID., Infermità di mente e imputabilità, in questa Rivista, 1991, 844 ss. (94) MOCCIA, Il diritto penale, cit., 92. (95) PAGLIARO, Principi di diritto penale, Milano, 1980, 175; GALLO, Capacità penale, in NNDI, II, Torino, 1958, 888; GUARNIERI, Pericolosità sociale, in NNDI, vol. XII, Torino, 1963, 951. (96) ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 1985, 526; GRISPIGNI, La sistematica del diritto penale, in RIDP, 1934, 1261.
— 500 — In ciò si rifà alla tradizione della costruzione tripartita del reato (97) ma nega, nel contempo, che l’accertamento della non imputabilità escluda alcunché. Di fronte a questa conclusione, che potrebbe apparire a prima vista paradossale, ci si deve domandare però, quale è stato il costo, in termini di rifiuto della prassi a riconoscere stati di non imputabilità, dell’attuale costruzione dommatica, dovuta alla preoccupazione di non vanificare gli effetti general-preventivi del processo e della sentenza attraverso l’assoluzione dell’imputato. La formula assolutoria, a fronte della concreta inflizione di una sanzione penale, rimane una caratteristica problematica del nostro ordinamento. La differenziazione tra pene e misure di sicurezza è stata definita come « una truffa delle etichette senza risultati pratici per colui che ne è colpito » (98) e anche da un diverso punto di vista, si è affermato essere una pura finzione ritenere che la condanna ad una misura di sicurezza non avrebbe alcuna valenza sociale ed etica (99). Proprio questi elementi innovativi, però, consentono, a nostro sommesso avviso, di esplorare prospettive che potrebbero risultare proficue dal punto di vista delle garanzie e dell’efficienza. Fino ad ora non si è riusciti a dare una soddisfacente sistemazione dommatica ai rapporti fra il fatto del non imputabile e le altre cause di esclusione della colpevolezza. Posto che il non imputabile agisce senza colpevolezza, infatti, egli non può giovarsi di tutte le altre cause di esclusione della stessa. In effetti il ragionamento è lineare, se la colpevolezza si fonda sulla libertà del volere e se l’accertamento della mancanza di imputabilità è la situazione che la esclude per definizione, le altre cause di esclusione della colpevolezza, le quali anche si fondano sul medesimo presupposto (100), non possono essere applicate al non imputabile. Come tutto ciò sacrificasse il principio di uguaglianza era così presente alla dottrina, del resto, che l’ampliamento al non imputabile di tali scusanti era giustificato in base a scelte di tipo equitativo incompatibili con le premesse dommatiche di partenza (101). (97) Per tutti: WELZEL, Das deutsche Strafrecht, Berlin-New York, 1969, 152. (98) ELLSCHEID-HASSEMER, op. cit., 277. (99) KAUFMANN, op. ult. cit., 36 « A ragione Ellscheid ed Hassemer criticano aspramente la truffa delle etichette esistente nella differenza di pene e misure di sicurezza. Ma la conseguenza non è questa, che si potrebbe o dovrebbe eliminare dalla pena l’elemento del biasimo, molto di più è all’opposto così, che anche la misura di sicurezza, indipendente dalla colpevolezza, contiene un rimprovero contro l’autore. È dunque una pura finzione se si ritiene che la condanna ad una misura di sicurezza nel senso dei §§ 61 ss. non avrebbe alcuna valenza sociale ed etica ». (100) Che l’imputabilità sia un presupposto della colpevolezza è affermazione diffusa in dottrina. Per tutti: ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., 1. (101) WELZEL, Das deutsche Strafrecht, cit., 82.
— 501 — E a questa contraddizione, inoltre non sfugge nemmeno la dottrina che fonda il concetto di colpevolezza su ragioni politico-criminali. In effetti la Tatverantwortung (102) elaborata da Maurach, che rappresentava già, rispetto alla dottrina tradizionale tedesca, il tentativo più organico di dare una risposta all’eterno problema del fatto del non imputabile (103), si ripresenta all’attenzione della dottrina. Partendo dal dato che le funzioni della pena e delle misure di sicurezza si differenziano, in quanto le seconde sono deputate a raggiungere solo scopi di prevenzione speciale (104), è stato, infatti, recentemente osservato che (105), quando le cause della terza categoria del reato si basano anche su ragioni special-preventive dovrebbero escludere anche le misure di sicurezza (106). Ciò dovrebbe accadere, in particolare, nei casi dei c.d. Entschuldigungsgründe (107) (scusanti, da distinguere dai Schuldausschliessungsgründe, cause di esclusione della colpevolezza) le quali escludono la punibilità del fatto sia da un punto di vista general-preventivo che special-preventivo. Essi, quindi, hanno poco a che fare con la colpevolezza, poichè hanno il potere di escludere non solo la pena, ma anche le misure di sicurezza le quali sono indipendenti da essa. A tali osservazioni non si riesce in effetti ad offrire alcuna replica quando si afferma, in chiave critica alla teoria della tatverantwortung, che se un malato di mente agisce all’interno della previsione dello stato di necessità scusante (§ 35 StGB) il suo comportamento non contiene indizi di pericolosità e va esclusa, pertanto, l’applicazione di una misura di sicurezza (108), perchè rimane oscuro come tale valutazione possa conciliarsi con una costruzione gradualistica del reato, quando è stata accertata l’inesistenza dei gradini precedenti che ne costituiscono il presupposto necessario. Tali elaborazioni dottrinali, che hanno il merito di tentare una giustificazione razionale di questa complessa problematica, sembrano perdere (102) Si veda la nota n. 11 (103) Il giudizio è di BRICOLA, Fatto del non imputabile, cit., 79. (104) AMELUNG, Zur Kritik, cit., 97. L’Autore chiarisce in nota (n. 54) che questa affermazione attiene al dover essere delle stesse, mentre un’altra domanda è quella intorno al se, de facto, le misure di sicurezza abbiano anche effetti general-preventivi. Nella sua ultima presa di posizione in argomento Roxin afferma chiaramente che le misure di sicurezza hanno anche un effetto di prevenzione generale e che esse e la pena non si differenziano quanto agli scopi. (Strafrecht, cit., 44). Ciò non invalida le osservazioni di Amelung le quali, come è affermato nel testo, fanno riferimento a scusanti che escludono la punibilità sia dal punto di vista della prevenzione generale sia da quello della prevenzione speciale. (105) AMELUNG, Zur Kritik, cit., 97. (106) AMELUNG, op. cit., 100. (107) Scettico sulla differenziazione tra Entschuldigungsgründe e Schuldausschliessungsgründe ROXIN, Strafrecht, cit., § 19, 48. (108) ROXIN, Strafrecht, cit., 553.
— 502 — notevolmente d’interesse se si accettano i criteri proposti dalla dottrina della responsabilità personale. Se la responsabilità, infatti, non è esclusa dalla presenza della non imputabilità, diviene possibile estendere al non imputabile tutte le scusanti previste per il soggetto capace di intendere e di volere (109). Di più difficile definizione sono i rapporti intercorrenti tra l’imputabilità e la disciplina dell’errore sul divieto e tra quest’ultimo ed i casi di vizio parziale di mente (110). Dottrina e giurisprudenza ritengono (111) che la capacità di intendere prevista in materia di imputabilità sia null’altro che un’ipotesi applicativa della causa di esclusione della colpevolezza rappresentata dall’errore sul divieto. Il vero elemento costitutivo del rimprovero di colpevolezza sarebbe la capacità di motivazione in conformità al disposto normativo nelle sue due componenti rappresentate, dalla riconoscibilità dell’obbligo e dalla capacità di formare la volontà secondo la conoscenza di tale obbligo (112). Ne deriva che « se la capacità d’intendere è esclusa da uno dei disturbi enumerati nel § 20, si è sempre in presenza anche di un errore inevitabile sul divieto nel senso del § 17 » (113). In questo modo il problema dell’errore del non imputabile sembra trovare una appagante soluzione. Non esistono, infatti, ragioni dommatiche che impediscano tout court al non imputabile di giovarsi dei casi di errore sul divieto, poiché i rapporti fra quest’ultimo e l’imputabilità sono sistemati in tal guisa da consentirgli di usufruire di tale causa di esclusione della colpevolezza. Tali affermazioni, però, comportano un mutamento della struttura del reato tradizionalmente intesa (fatto di cui, per la verità, non sempre si è avuta piena consapevolezza), perché l’imputabilità non può essere più considerata un presupposto della colpevolezza. Ed, invece, ad un illustre Autore, Armin Kaufmann, già da anni tutto ciò era ben presente come si deduce da un brano di evidente attualità: « ... la regola del § 51 comma 1 StGB (114) (e del corrispondente § 24 del Progetto del 1960) e la regola dell’errore sul divieto — come anche naturalmente i § 55 I StGB e § 3 (109) MOCCIA, op. ult. cit., 146. Aderisce a questa impostazione: SESSA, La disciplina dell’error juris nello schema di legge delega per la riforma del codice penale, Salerno 1994, 85. (110) La rubrica del § 21 StGB è « Verminderte Schuldfähigkeit ». (111) A partire da DREHER, Verbotsirrtum und § 51 StGB, in GA, 1957, 97 ss.; SCHRÖDER, Verbotsirrtum, Zurechnungsfähigkeit, actio libera in causa, in GA, 1957, 297; KAUFMANN, Arm., Schuldfähigkeit und Verbotsirrtum, in Eberhard Schmidt - FS, Göttingen, 1961, 319; LANGE, Strafgesetzbuch. Leipziger Kommentar, § 21, cit., Rdn 58; LENCKNER, in SCHRÖNKE-SCHRÖDER-LENCKNER, Strafgesetzbuch. Kommentar, cit., 305. Contra RUDOLPHI, in RUDOLPHI-HORN-SAMSON-SCHREIBER, Systematischer Kommentar, cit., § 17, 98. (112) KAUFMANN Arm., op. cit., 321. (113) LENCKNER, op. cit., 305. (114) Il § 51 corrispondeva al disposto degli attuali §§ 20 e 21 StGB.
— 503 — JGG — sono soltanto sottocasi di una e della stessa necessità, vale a dire della capacità di essere motivati conformemente all’obbligo giuridico e attraverso l’obbligo giuridico. Se questa formula (o una corrispondente nel senso) fosse accolta nella legge, allora tutte le nominate regole particolari (115) sarebbero inutili; esse sarebbero in quest’ultima ricomprese, poiché sono tutte riferite alla possibilità di motivazioni conformi alla norma. Al contrario una risalente dottrina distingue tra presupposti o momenti generali o esistenziali (116) della colpevolezza, ai quali appartiene (in primo luogo od esclusivamente) l’imputabilità ed elementi speciali della rimproverabilità, tra i quali è annoverata la coscienza o la riconoscibilità dell’antigiuridicità. Ma tra presupposti od elementi della colpevolezza non può essere ritrovata una differenza. Tutto ciò che deve esistere per fondare la colpevolezza è un ‘presupposto’, un ‘elemento’, una ‘caratteristica’ della colpevolezza... » (117). Queste affermazioni, tuttavia, sono pienamente condivisibili, solo se si rinuncia al concetto di colpevolezza e, pertanto, alla libertà del volere. Ritenendo il contrario, dovrebbe essere aggiunto un ulteriore passaggio, che invaliderebbe l’intero discorso. Dovrebbe affermarsi, cioè, che in tanto un soggetto è motivabile in quanto egli è libero e l’elemento del reato che fonda tale discrimine e che ne definisce i contenuti è, appunto, l’imputabilità, che rimane, pertanto, un presupposto della colpevolezza (118). La descrizione, quasi tralatizia, che si fa dei rapporti tra imputabilità ed errore sul divieto è incompatibile col mantenimento del concetto della libertà del volere e chi li adotta entrambe sembra cadere nel sincretismo. Va ora esaminata la problematica relativa ai rapporti intercorrenti tra il vizio parziale di mente e l’errore evitabile sul divieto. Prima, però, è necessario chiarire come questi due istituti sono disciplinati nel sistema tedesco. In entrambi i casi, infatti, è previsa una diminuzione (facoltativa) di pena, ma, mentre nel caso di imputabilità diminuita (§ 21 StGB) tale attenuante può essere concessa solo se la capacità di intendere e di volere (115) E cioè l’imputabilità e l’errore sul divieto. (116) Corsivi dell’A. (117) KAUFMANN Arm., op. cit., 322. (118) In nota KAUFMANN, op. cit., 322 (nota n. 13.), afferma, esplicitamente, che la libertà del volere è un presupposto della colpevolezza e che solo sulla base di tale libertà è possibile immaginare la capacità di dirigere la volontà secondo il disposto normativo, eppure, secondo l’Autore « La concreta (corsivo dell’A.) libertà del volere è identica alla capacità di essere motivati secondo il disposto normativo ». La libertà del volere, pur appartenendo senza dubbio alla dottrina della colpevolezza non occuperebbe un posto particolare nella costruzione del reato. Ma, se si è già visto (retro pg. 8) che motivabilità e libertà del volere vanno distinte, deve anche essere aggiunto che è una contraddizione ritenere che la libertà del volere appartenga alla dottrina della colpevolezza e che, tuttavia, non occupi alcun posto nella struttura del reato.
— 504 — è diminuita in modo rilevante, nel caso di errore evitabile sul divieto non è richiesta alcuna valutazione di tipo quantitativo in ordine alla particolare gravità della situazione su cui l’errore stesso si fonda. In questo modo, però, — posto che, come si è appena visto, in entrambi i casi è esclusa la capacità di intendere — si realizza un’evidente contraddizione, perché, se l’autore non ha riconosciuto il carattere illecito del suo fatto, qualora l’errore fosse evitabile, si trova in una situazione che può condurre ad una diminuzione di pena. Nell’ipotesi di cui al § 21 StGB, invece, tale diminuzione di pena può essere concessa solo se l’errore evitabile sul divieto si fonda su di una rilevante diminuzione della capacità di intendere (119). Il recente Schema di legge delega per l’emanazione di un nuovo codice penale non ha ritenuto di fare propria la possibilità di una diminuente nel caso di errore evitabile sul divieto ed ha previsto, pertanto, la sola non punibilità dell’autore di un fatto di reato nell’ipotesi di errore inevitabile. Già de lege lata, però, dopo la sentenza 364/88 Corte Cost. che ha introdotto la non punibilità di fatti commessi in situazioni di errore di diritto, i casi di errore evitabile potrebbero legittimamente rappresentare un’ipotesi di attenuante generica, con il che si presenterebbero anche all’attenzione dell’interprete italiano i medesimi problemi affrontati in Germania. Secondo il disposto dell’art. 89 del vigente codice penale, infatti, la pena va diminuita, in caso di vizio parziale di mente, solo nell’ipotesi in cui esso abbia fatto scemare ‘grandemente’ la capacità d’intendere e di volere. La struttura delle circostanze attenuanti generiche è invece tale, da consentire diminuzioni di pena senza ricorrere a criteri quantitativi, ma in base alla semplice esistenza di un errore evitabile. Per risolvere la contraddizione cui si è appena accennato, la dottrina d’oltralpe è ricorsa a ragioni politico-criminali. Questo atteggiamento è ben descritto da Claus Roxin quando afferma: « Non è possibile risolvere questa assurdità se non si fa precedere la regola di favore del § 17, cosicché il § 21 in questo modo marci a vuoto. Poiché sarebbe un insopportabile violazione del principio di uguaglianza, se l’uomo completamente sano, intellettualmente e psichicamente, in ogni caso di errore evitabile sul divieto potesse godere della possibilità di una diminuzione di pena, mentre colui che versa in uno stato di imputabilità diminuita (anche se non rilevante) in rapporto allo stesso stato delle cose dovesse essere punito secondo i normali limiti di pena » (120). L’abbandono del concetto di colpevolezza, però, consentirebbe una sistemazione anche dommatica della complessa questione. L’utilizzo di (119) (120)
Si vedano gli scritti citati nella precedente nota 112. ROXIN, Strafrecht, cit., 570 s.
— 505 — una categoria strutturale del reato come quella della responsabilità personale, nella quale sono solo le finalità di prevenzione a determinare, in relazione con la valutazione di alcuni elementi di tipo oggettivo e soggettivo e nel rispetto del principio di proporzione, le ragioni della punibilità comporta, infatti, una evidente semplificazione dommatica, poiché sia l’errore sul divieto che l’imputabilità vi sono legittimamente inclusi in quanto entrambi possibili cause efficienti dell’intervento penale. Va da sé che, anche in questo caso, non si è più costretti a ritenere l’imputabilità come un presupposto della colpevolezza solo se è escluso, effettivamente, ogni rilievo della libertà del volere, in favore del concetto di motivabilità normativa (121). 7. L’errore sul fatto del non imputabile. — La nostra dottrina utilizza quasi unanimemente la distinzione fra errore condizionato ed errore non condizionato dallo stato di non imputabilità facendone discendere, solo nel primo caso, l’applicabilità di una misura di sicurezza (122). Tale ricostruzione della vicenda pone, però, svariati problemi e ciò, sia dal punto di vista della dottrina che, tradizionalmente, ritiene gli elementi soggettivi come inclusi nella sola categoria della colpevolezza (123), sia, dall’altro punto di vista, secondo il quale alla fattispecie oggettiva andrebbe affiancata una corrispondente fattispecie soggettiva (124). Secondo autorevole dottrina: « ... pur riconoscendo l’assoluta priorità che da un punto di vista rigorosamente logico-dogmatico l’imputabilità presenta rispetto al reato, ..., il giudizio sull’imputabilità deve innestarsi come fase intermedia o di passaggio tra il giudizio di imputazione oggettiva e il successivo giudizio che è rispettivamente di responsabilità o di garanzia, a seconda che il quesito sull’esistenza della capacità di intendere e di volere sia risolto positivamente o negativamente » (125). Queste affermazioni, inserite in un capitolo dedicato a « L’iter di ricostruzione processuale delle fattispecie soggettive di pericolosità degli artt. 222-224 c.p. », partono da un presupposto non condivisibile, quando affermano la priorità logico-dommatica dell’imputabilità rispetto al reato e ne vogliono poi accertare l’esistenza dopo la verifica del fatto tipico. Che l’accertamento processuale del reato — e ciò vuol anche dire il procedimento di formazione del giudizio da parte del giudice — possa prescindere dalla sua rico(121) Cfr. nota n. 120. (122) In argomento si veda: CASTALDO, Der durch Geisteskrankeit bedingte Irrtum: ein ungelöstes Problem, in ZStW, 103 (1991), 541. (123) È questo, ad esempio, il presupposto dal quale prende le mosse la ricerca di BRICOLA, Fatto del non imputabile, cit., 268. (124) SANTAMARIA, Interpretazione e dogmatica della dottrina del dolo, cit., 17; FIORE, Diritto penale, cit., 158. (125) BRICOLA, op. cit., 268.
— 506 — struzione dommatica appare, infatti, in contraddizione con la funzione stessa della sistematica penale, la cui eleborazione in termini di garanzia acquista un senso solo se essa è considerata effettivamente vincolante in sede giudiziaria. Anche quella parte della dottrina che attribuisce rilevanza agli elementi soggettivi fin dalla fattispecie tipica non offre una soluzione soddisfacente al problema dell’errore sul fatto commesso dal non imputabile. Il rigore della costruzione dommatica impone, infatti, di ricostruire in modo perfettamente identico il dolo sia per i soggetti imputabili, sia per i soggetti non imputabili. Ne deriva che, anche nell’ipotesi di errore condizionato, non può essere applicata una misura di sicurezza (126). Così, nel caso di chi spari a Tizio ritenendolo un’entità demoniaca (127) non v’è dolo, né può essere utilizzata la colpa, perché l’art. 222 esclude che l’illecito colposo possa costituire il presupposto per il ricovero nell’ospedale psichiatrico giudiziario. È impossibile, pertanto, applicare misure di sicurezza a soggetti pur dotati di una rilevantissima carica di pericolosità. Inapplicabilità che frustra evidenti ragioni preventive: così, nell’esempio di cui sopra, si rinuncia alla soddisfazione di qualunque istanza di prevenzione speciale, tanto più pressante quanto più grave l’importanza del bene offeso; anche da un punto di vista general-preventivo può logicamente presumersi l’insoddisfazione che la rinuncia a qualunque tipo di trattamento nei confronti di un soggetto socialmente pericoloso diffonde fra i consociati. Incorre in un’aporia, inoltre, chi ritiene rilevante l’elemento soggettivo fin dalla fattispecie (128) e poi risolve i problemi posti dall’errore del non imputabile attraverso l’utilizzo di canoni (quale quello del c.d. pseudo-dolo) (129) che possono essere utilizzati solo considerando gli elementi soggettivi come inclusi esclusivamente nella colpevolezza. È pur vero, del resto, che l’esistenza di una fattispecie soggettiva (e cioè di un disvalore d’azione) accanto ad una fattispecie oggettiva (e cioè di un disvalore d’evento) (130) trova la propria giustificazione in ragioni che prescindono dal trattamento del fatto del non imputabile. Appare opportuna, quindi, la previsione di un’ipotesi di responsabilità per colpa del non imputabile per vizio totale di mente, che altrove (131) è già generalmente ammessa. (126) Da ultimo FIORE, Diritto penale, cit. (127) L’esempio è di PADOVANI, Teoria della colpevolezza, cit., 812. (128) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 361. (129) FIANDACA-MUSCO, op. cit., 244. (130) Per una recente riaffermazione dei meriti della dottrina finalistica dell’azione, FIORE, Diritto penale, cit., 158; MOCCIA, Il diritto penale, cit., 124. (131) Presupposto per il ricovero in un ospedale psichiatrico è, secondo il § 63 StGB, la commissione di « un fatto antigiuridico », che, in conformità alla struttura del reato
— 507 — Una volta introdotta tale possibilità, infatti, attraverso il meccanismo previsto dall’art. 47 comma 1 c.p. sarebbe possibile, nei confronti di fatti come quello di cui all’esempio precedente, apprestare adeguate forme di tutela, dal momento che sarebbero integrati i presupposti minimi necessari (fatto antigiuridico) che, in uno alla prognosi di pericolosità, giustificano l’applicazione di una misura di sicurezza. Come è stato autorevolmente affermato al riguardo « Non vi è dubbio, infatti, che, per l’imputabile come per il non imputabile l’errore escluda il dolo. Ciò che rimane da stabilire è se si sia trattato di un errore inevitabile, anche per un soggetto pienamente capace di intendere e di volere (nel qual caso nessuna differenza di trattamento è ipotizzabile rispetto all’incapace); o si tratti, invece, di un errore, nella cui genesi sia ravvisabile una violazione della diligenza oggettiva, tale, cioè, da dar luogo, in ipotesi, a una responsabilità a titolo di colpa. Sembra, peraltro, abbastanza ovvio che, quando l’errore sia realmente condizionato dalla malattia mentale, esso non può non considerarsi come evitabile, mediante l’uso della diligenza oggettivamente richiesta. Ciò che viene in questione, è perciò, in ogni caso, la sola misura soggettiva della colpa: e, dunque, ancora una volta, un problema che concerne propriamente la colpevolezza del soggetto » (132). L’ampliamento della sfera di operatività dell’intervento penale risulterebbe in questo modo limitata ai soli fatti puniti anche a titolo di colpa, e quindi tendenzialmente diretti alla tutela di beni di particolare rilevanza; nel rispetto, pertanto, dei principi di frammentarietà e sussidiarietà (133). Va anche aggiunto che, data l’assoluta prevalenza della tesi del c.d. pseudo-dolo, la proposta appena formulata comporta, in realtà, una diminuzione della sfera del penalmente rilevante. Essa, infatti, a differenza di quel che accade attualmente, consentirebbe l’applicazione di una misura di sicurezza — quante volte l’atteggiamento soggettivo del non imputabile non sia perfettamente equiparabile a quello del soggetto capace di intendere e di volere — solo nell’ipotesi di reati espressamente previsti anche come colposi. Queste considerazioni si basano su situazioni di fatto oggi generalmente ritenute meritevoli, nella dottrina penalistica, di una sanzione penale e fanno riferimento all’attuale sistema che al non imputabile pericogeneralmente accolta in Germania, contiene gli elementi soggettivi sia del dolo che della colpa. Per tutti: RUDOLPHI, op. cit., § 63, Rn 4. (132) FIORE, Diritto penale, cit., 397. Corsivi dell’A. (133) MOCCIA, Politica criminale e riforma del diritto penale, Napoli, 1984, 6 ed ivi ampi riferimenti bibliografici. BARATTA, Principi di diritto penale minimo. Per una teoria dei diritti umani come oggetti e limiti della legge penale, in Dei delitti e delle pene, 1985, 443 ss.; FERRAJOLI, Il diritto penale minimo, ibidem, 475.
— 508 — loso riserva l’applicazione di una misura di sicurezza (134); esse, pertanto, sono valutabili solo come tali all’interno di un più ampio discorso che ponga in discussione, invece, la validità stessa di tali presupposti politico-criminali, in una prospettiva di riforma in senso esclusivamente a-penale del trattamento di fatti di reato commessi da non imputabili (135). Siamo giunti, così, alla conclusione di questo lavoro che può essere riassunto nei seguenti termini: è possibile sostituire il concetto di colpevolezza con una più appropriata figura, denominata, sulla scorta della precedente elaborazione dottrinale, responsabilità personale. Il superamento del principio di colpevolezza fa sì che il fatto del non imputabile possa essere qualificato come reato, offrendo a quest’ultimo la possibilità, anche da un punto di vista logico-dommatico, di usufruire delle c.d. cause di esclusione della colpevolezza. Attraverso la categoria della responsabilità personale è possibile, inoltre, una più compiuta sistemazione dei legami intercorrenti tra fatto del non imputabile ed errore sul divieto. Andrebbe introdotta, infine, una responsabilità a titolo di colpa del non imputabile affetto da vizio totale di mente, che è stata da tempo auspicata, pur in un diverso contesto teorico, dalla nostra migliore dottrina (136). Ciò consentirebbe una adeguata soluzione degli attuali rapporti problematici tra struttura del reato ed errore sul fatto del non imputabile, realizzando, fra l’altro, una riduzione dell’area del penalmente rilevante. FRANCESCO ROTONDO Collaboratore presso la Cattedra di Diritto penale dell’Università di Salerno
(134) ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 1990, vol. II, 4. (135) MANACORDA, Il manicomio giudiziario, Bari, 1982, 132 ss. (136) BRICOLA, Fatto del non imputabile, cit., 47, nota n. 82.
COMMENTI E DIBATTITI
PATOLOGIE NEL GIUDIZIO ABBREVIATO E NELL’APPLICAZIONE DELLA PENA SU RICHIESTA: IL CONTROLLO DELLA CORTE DI CASSAZIONE
SOMMARIO: 1. Oggetto e struttura dell’indagine — PARTE I: LE PATOLOGIE — 2. Riti alternativi e nullità: a) il giudizio abbreviato. — 3. (Segue): b) l’applicazione della pena su richiesta. — 4. I presupposti del giudizio abbreviato: la carenza dell’impulso delle parti e i difetti dell’atto. - 4.1. (Segue): la punibilità con pena temporanea e la « definibilità » allo stato degli atti. — 5. I presupposti dell’applicazione della pena su richiesta: la carenza dell’impulso delle parti - 5.1. (Segue): la sentenza « incongrua » rispetto alla richiesta, come carenza dell’impulso delle parti. - 5.2. (Segue): i difetti dell’atto d’impulso e i limiti legali del « patteggiamento ». — PARTE II: IL CONTROLLO IN CASSAZIONE — 6. Profili generali. — 7. Le alterazioni riconducibili alla nullità od all’inammissibilità. — 8. L’error in iudicando nella sentenza che applica la pena su richiesta. 8.1. (Segue): la scelta tra annullamento con e senza rinvio. — 9. Le specialità dei riti e del vizio di motivazione: interazioni. - 9.1. (Segue): la conversione del ricorso ex art. 606, lett. e) in appello - 9.2. (Segue): il giudizio di rinvio dopo l’annullamento per vizio di motivazione della sentenza che applica la pena su richiesta. — 10. La « definibilità » allo stato degli atti. — 11. Il diniego della diminuente perché l’imputazione prevede la comminatoria dell’ergastolo. — 12. La violazione dei presupposti legali dei riti. — 13. La violazione dell’art. 445, comma 1. — 14. La formazione progressiva del giudicato e l’annullamento della sentenza che applica la pena su richiesta. — 15. Conclusioni. 1. Oggetto e struttura dell’indagine. — Processi senza dibattimento e giudizio ordinario si ispirano — quanto a modalità di formazione del convincimento giudiziale — a modelli antinomici. Coerentemente, nei diversi itinerari processuali i momenti di specialità prevalgono, di gran lunga, sui tratti comuni. Ma ciò non accade per il controllo, costituzionalmente ineludibile, di ultima istanza. Il giudizio di cassazione resta costruito alla stregua di uno strumento unitario per la verifica del rispetto della legge avuto riguardo alla generalità delle sentenze (1): né lo spettro degli errores deducibili né l’estensione del controllo variano in funzione dell’itinerario processuale concluso dal provvedimento oggetto del ricorso. Un giudizio di legittimità tanto monolitico, adeguato ad un sistema che non prevedeva i « riti alternativi », rischia di non armonizzarsi con le specificità proprie del giudizio abbreviato e dell’applicazione della pena su richiesta. Pare che il riformatore non abbia tenuto nel debito conto « che i meccanismi di controllo o le esigenze di reiterazione dei giudizi non possono non essere funzionali al tipo di processo nel quale si devono innestare » (2). Non solo, il quadro presenta, ora, ulteriori elementi di complessità rispetto alla disciplina entrata in vigore il 24 ottobre 1989. I numerosi interventi della Corte Costituzionale, (1) Tale è il provvedimento che « investe il tema fondamentale del processo »: così A. NAPPI, voce Sentenza penale, in Enc. dir., XLI, Milano, 1989, 1327. (2) Così G. SPANGHER, Il giudizio di cassazione nel sistema delle impugnazioni, in Giust. pen., 1991, III, 589.
— 510 — dilatando lo spettro del controllo giudiziale (3) e creando un nuovo presupposto di ammissibilità del giudizio abbreviato (4), hanno finito con l’accrescere le doglianze suscettibili di essere coltivate in fase d’impugnazione. Emergono così profili di « crisi », naturalmente tra loro non privi di sovrapposizioni, intorno ai quali articolare l’analisi. In primo luogo, le violazioni di legge suscettibili di verificarsi anche nel corso del giudizio ordinario interagiscono con la logica negoziale che sta alla base dei nuovi riti. Cosicché, anche le patologie che ricevono una compiuta disciplina legislativa, subiscono inevitabili « aggiustamenti ». Si allude, soprattutto, alla tendenza giurisprudenziale a restringere il perimetro degli errores deducibili in cassazione qualora venga impugnata la sentenza terminativa di uno dei riti in discorso. Di qui l’esigenza, oltre che di valutare la fondatezza di tale indirizzo, di cogliere — mettendone a fuoco il fondamento dogmatico — il punto di equilibrio tra legalità del processo e logica negoziale. In secondo luogo, una volta spostato il centro di gravità dall’assunzione delle prove nella pienezza del contraddittorio, emergono patologie (5) difficili da governare con l’impiego dei consueti strumenti ermeneutici perché scaturiscono dai momenti di specialità del rito. Ai tratti speciali del momento « fisiologico » segue, insomma, una indubbia etereogeneità del « difforme » (6). L’interprete, già spesso a disagio nel qualificare l’anomalia, si trova poi pressato dall’esigenza di evitare che alcune violazioni di legge rimangano prive di presidio in sede di giudizio di cassazione. Si apre a tal punto — riguardo ad ogni disfunzione che comprometta valori fondamentali — un bivio: o inquadrare le patologie in discorso nelle invalidità nominate, in specie nelle nullità o nell’inammissibilità, oppure, addirittura, ammettere una qualche apertura alla tassatività dei motivi di ricorso in cassazione (7). Svela, infine, profili singolari anche l’indagine relativa alla tipologia dei provvedimenti che chiudono la fase innanzi alla Corte e al conseguente atteggiarsi dell’eventuale giudizio di rinvio. In questa sede si studiano, è appena il caso di dirlo, i soli aspetti problematici della materia. Esulano, perciò, dall’analisi le situazioni che, già prima facie, non suscitino interrogativi di grosso peso, o perché la disciplina generale risulta applicabile senza imbarazzo o perché il legislatore fornisce loro un assetto speciale chiaramente delineato. Pertanto, ad esempio, non si affronteranno i profili relativi al sindacato sulla decisione terminativa del giudizio abbreviato ove questi collimino con quelli posti a presidio della generalità delle sentenze,
(3) Si pensi soprattutto, a C. Cost. n. 313 del 1990; C. Cost. n. 81 del 1991; C. Cost. n. 183 del 1990; C. Cost. n. 23 del 1992. Per uno sguardo di sintesi v. A. CRISTIANI, Le modifiche al nuovo processo penale e la giurisprudenza costituzionale, Torino, 1993, 144-170; G. DE ROBERTO, Corte costituzionale e nuovo codice di procedura penale nei primi due anni di applicazione, in Giur. cost., 1992, 609. (4) Ci si riferisce, a tutta evidenza, a C. Cost. n. 176 del 1991. (5) F. CORDERO, Procedura penale, 3a ed., Milano, 1995, 884, rileva che « complicano i quadri normativi le semplificazioni della forma tipica, perché i relativi modelli esigono un laborioso coordinamento: alternative, sequenze, convenzioni; dall’alchimia procedurale escono forme nuove ». (6) Cfr. F. CORDERO, Proc. pen., cit., 893, secondo cui « i neomorfismi procedurali innescano questioni fuori dal solito canone ». (7) Cass., Sez. III, 12 maggio 1994, Lorenzi, in Cass. pen., 1995, 1557, appare — a prescindere dal discutibile assunto circa l’impossibilità di procedere al giudizio abbreviato successivamente all’attivazione dei poteri ex art. art. 422 — emblematica, al punto da indurre A. MACCHIA, Preclusioni al rito abbreviato: una discutibile pronuncia della Cassazione, ivi, 1995, 1559, ad affermare che « la Corte costruisce una sorta di incompetenza funzionale sopravvenuta che né la lettera del codice, né i lavori preparatori, né argomenti di ordine sistematico consentono a nostro avviso di ipotizzare ». Sempre in nota alla stessa decisione, v. anche C. CARRERI, Ma è davvero scomparso il giudice istruttore?, ivi, 1995, 1561.
— 511 — come accade qualora si verifichi un error in iudicando rilevante ex art. 606, lett. b). Parimenti, esula dalla presente analisi la problematica relativa al controllo sul dissenso del pubblico ministero rispetto alla « richiesta di applicazione della pena » in quanto disciplinato nel dettaglio dall’art. 448. I limiti del controllo in cassazione costituiscono, in una parola, il « cuore » dell’analisi. Nondimeno, sembra passaggio obbligato e, a rigor di logica, addirittura prioritario, indagare la tipologia degli errores coltivabili in sede di legittimità. Intercorre, difatti, uno stretto legame, intessuto di reciproci condizionamenti, tra la natura delle violazioni di legge e l’atteggiarsi del giudizio in cui esse vengono fatte valere. Ciò vale ancor più per un mezzo d’impugnazione a « critica chiusa »: basti pensare che la norma violata, se lex imperfecta, è addirittura priva di presidio. La parola controllo, insomma, in quanto evoca un oggetto su cui esercitarsi allude ad un concetto di relazione che rimarrebbe oscuro se non chiarendone ambedue i termini. Si è, così, preso le mosse dal tentativo di individuare, classificandole, le più frequenti patologie suscettibili di verificarsi nel giudizio abbreviato e nell’applicazione della pena su richiesta. Ne è risultata una parte, per così dire, « statica » della trattazione che, pur eccentrica rispetto al tema dell’indagine, ne pone le necessarie premesse.
PARTE I: LE PATOLOGIE 2. Riti alternativi e nullità: a) il giudizio abbreviato. — Subito affiorano le interazioni tra i momenti speciali dei riti alternativi e il regime di validità degli atti. Si è affermato, in giurisprudenza (8), che la richiesta di giudizio abbreviato « sottintende non soltanto l’accettazione del giudizio allo stato degli atti, ma anche la sollecitazione del giudizio speciale, la quale non può consentire, per l’intima contraddizione, la possibilità di proporre eccezioni sulla ritualità degli atti ». Dovrebbe, in altri termini, ritenersi che la richiesta di giudizio abbreviato implichi, oltre che la rinuncia al « diritto di difendersi provando » (9), anche la dismissione del potere di proporre questioni sulla regolarità del processo (10). Dell’esattezza di tale indirizzo non sarebbe corretto disquisire in modo unitario: inevitabile muovere dalla distinzione tra gli atti, conditiones sine quibus non del processo, in quanto « pongono in essere il dovere di procedere al successivo », e quelli che, in quanto eventuali, si atteggiano alla stregua di « episodi » del processo. Ci si riferisce — con tutta evidenza — alla summa divisio tra atti propulsivi e probatori (11). Il giudizio abbreviato non immette, avuto riguardo agli atti propulsivi, alcuna deviazione nei consueti schemi in tema d’invalidità. Non a caso, l’orientamento giurisprudenziale in discorso si è andato formando, per la maggior parte, in margine agli atti a valenza probatoria. Difatti, se è quantomeno argomentabile che l’accettazione dello « stato degli atti », cardine negoziale del rito abbreviato, implichi anche acquiescenza alle eventuali difformità (8) Cass., Sez. VI, 21 maggio 1991, Fabroni, in Cass. pen., 1992, 3077. (9) V. G. LOZZI, Riflessioni sul nuovo processo penale, Torino, 1990, 66. (10) Cass., Sez. V, 25 gennaio 1996, Finzio, in Arch. n. proc. pen., 1996, 240, nega la deducibilità nel giudizio abbreviato dell’incompetenza per materia per ipercapacità, v. anche Trib. Genova, Sez. I, 24 gennaio 1990, Auci Vahit, ivi, 1990, 445; contra, però, Cass., Sez. VI, 28 giugno 1991, D’Andrea, ivi, 1992, 438, sconfessando apertamente l’indirizzo secondo cui la scelta del giudizio abbreviato implica rinuncia ad eccepire l’incompetenza, ammette la proponibilità della questione, purché sollevata appena compiuto l’accertamento relativo alla costituzione delle parti. (11) V. F. CORDERO, Nullità, sanatorie, vizi, innocui, (1961) in Ideologie del processo penale, Milano, 1966, 36.
— 512 — dal regime legale dell’attività che « si fa prova », è intuitivo che ciò non si riverberi in alcun modo sugli atti che incardinano il processo (12). Spingono in tal senso il modo di operare tanto dell’invalidità derivata che delle cause di sanatoria. Ove sussista un rapporto di dipendenza giuridica, l’antecedente invalido contamina, a norma dell’art. 185, il seguito. La richiesta di giudizio abbreviato non spezza per nulla il nesso tra atti che, per la loro natura propulsiva, continuano a disegnare una sequela indefettibile, ancorché diversamente costituita da quella ordinaria. In altri termini, valida instaurazione del procedimento e forme del rito sono profili perfettamente autonomi: invalido l’atto propulsivo il seguito è viziato e l’imputato si limita a dirottarlo verso un itinerario che, sia pure alternativo, nondimeno ripete la sua validità da quella dell’atto presupposto (13). La partita sembra, pertanto, decidersi — per intero — nel valutare se la richiesta di giudizio abbreviato integri, o no, una causa di sanatoria (14). Il codice disciplina, oltre ad una speciale per avvisi e citazioni, due sanatorie non suscettibili di estensione analogica (15): la rinuncia esplicita, od accettazione degli effetti dell’atto, e l’esercizio effettivo della facoltà cui l’atto omesso o nullo era preordinato. A sua volta, l’ubi consistam della richiesta di giudizio abbreviato è perimetrata con esattezza dall’art. 442: si chiede che il giudizio venga definito nell’udienza preliminare. Gli atti d’indagine divengono valida fonte del convincimento giudiziale — con ciò cade la c.d. « inutilizzabilità funzione » (16) — e l’imputato perde la possibilità di addurre elementi a suo favore. È facile constatare come l’istituto della sanatoria resti inerte. Immaginiamo, ad esempio, che a fronte di un termine dilatorio minore di quello accordato dall’art. 419, comma 4, l’imputato chieda il giudizio abbreviato (17). Non si accettano gli effetti dell’atto, giacché, casomai, sono gli atti d’indagine — e non l’amputazione del termine — ad essere accettati, né, (12) V. Cass., Sez. V, 18 maggio 1992, Pace, in Arch. n. proc. pen., 1993, 133. Contra, Corte App. Trento, 27 aprile 1990, Cristofaro, in N. dir., 1990, 753, con nota adesiva di G. MANERA, Se la nullità della richiesta di giudizio immediato per omesso interrogatorio dell’imputato resti sanata dalla trasformazione in giudizio abbreviato. (13) F. CORDERO, Proc. pen., cit., 973, pare fornire uno spunto a quanto sostenuto nel testo, col definire i riti alternativi come varianti della « serie necessaria » ossia della sequenza degli atti propulsivi, così come, Cass., Sez. V, 18 maggio 1992, Pace, cit., col dichiarare la nullità del giudizio abbreviato non preceduto dall’avviso al difensore. Occorre, però, dare atto che, nel caso di specie, si discorreva attorno ad un giudizio abbreviato pretorile in cui, come noto, la fissazione dell’udienza avviene successivamente alla richiesta (art. 560), sicché la situazione non risulta perfettamente omologa a quella che si verifica per reati di diversa competenza. (14) Sul concetto di sanatoria v. G. CONSO, Il concetto e le specie d’invalidità, Milano, (1955), rist. inalt., 1972, 34. (15) G. DI CHIARA, Le nullità, in Atti del procedimento: forma e struttura, Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, a cura di M. Chiavario ed E. Marzaduri, Torino, 1996, 195, sottolinea « che le nullità, insuscettibili di arbitrarie estensioni ermeneutiche, sono nel contempo refrattarie ad ogni discriminante improntata a ‘‘concrete’’ valutazioni degli effetti del vizio, salvo che, attraverso una previsione di ordine complesso, il legislatore non abbia previsto una (altrettanto tassativa) causa di sanatoria ». V., nello stesso senso, sia pure implicitamente, G.P. VOENA, Atti, in AA.VV., Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, 4a ed., Padova, 1996, 208. (16) Per la differenza tra il profilo « fisiologico » e quello « patologico » dell’inutilizzabilità v. N. GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Padova, 1992, 4, essendo caratterizzato il profilo « fisiologico » dalla « estromissione di atti compiuti nel rispetto dello schema legale », 119. Si distingue tra inutilizzabilità assoluta, che determina l’invalidità di qualsiasi atto del procedimento che si fondi sulla prova che ne è affetta, e relativa, che determina l’invalidità solo per alcuni atti. V., sul punto, F.M. GRIFANTINI, voce Inutilizzabilità, in D. disc. pen., Torino, 1993, VII, 249; A. NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, 5a ed., Milano, 1996, 122. (17) Stiamo ipotizzando, ovviamente, che una causa di sanatoria non si sia integrata in ragione di eventi diversi dalla richiesta di giudizio abbreviato.
— 513 — tantomeno, viene esercitata la facoltà, in quanto il « periodo di attesa » (18), stabilito per legge, è preordinato a consentire attività che, sicuramente, non si esauriscono nella richiesta di giudizio abbreviato. Argomentare in senso contrario, ossia sostenere che la richiesta, in quanto consentanea di un giudizio hic et nunc, comporti sanatoria per « accettazione » sembra frutto di un’erronea suggestione. Parrebbe quasi, nella prospettiva avversata, che, per scongiurare la sanatoria, l’imputato debba dimostrarsi recalcitrante al giudizio. Sia consentita una « provocazione »: nessuno oserebbe sostenere che, in dibattimento, sollevata eccezione in ordine alla validità della vocatio in judicium, la successiva difesa nel merito sani l’invalidità denunciata! L’iperbole svela il tralignamento: il giudizio dibattimentale si percepisce alla stregua di un esito ineluttabile, laddove il giudizio abbreviato implica un atto di libero arbitrio. Dalla volontarietà della scelta si inferisce l’accettazione degli effetti, ed il correlato effetto taumaturgico. Risulta, però, evidente la confusione tra il profilo giuridico e quello psicologico degli accadimenti. Che la richiesta di giudizio abbreviato si riverberi, invece, sul regime degli atti probatori non pare potersi, in linea di principio, negare (19). Si avverte un’intima contraddizione tra la volontà di essere giudicato « allo stato degli atti » e il potere di eccepire alcunché in relazione agli atti che tale stato formano (20). L’assunto viene, spesso, giustificato in forza del carattere irrevocabile dell’ordinanza ammissiva al rito: parrebbe scorretto, a tal punto, consentire all’imputato di « cambiare le carte in tavola ». In verità, pur aderendo alla conclusione, si deve dissentire dal tessuto argomentativo che la sostiene. Al di là della circostanza che il regime d’irrevocabilità del provvedimento in discorso è tutt’altro che scontato (21), per quel che più conta, non sembra che le considerazioni d’indole generale, genericamente ispirate al rispetto del fair play processuale, se non tradottesi in cogenti previsioni positive, siano idonee a conculcare poteri, come quello di proporre questioni sulla validità degli atti, in cui si estrinseca il diritto di difesa tecnica. Il punto è che, con la richiesta di giudizio abbreviato, « l’imputato esprime necessariamente la volontà che vengano utilizzati ai fini della decisione gli atti esistenti nel fascicolo », e ciò « implica acquiescenza » in ordine alla ritualità degli stessi (22). La chiave di volta sta, (18) Cfr. V. MANZINI, Trattato di diritto processuale italiano, 6a ed., aggiornata da G. Conso e G.D. Pisapia, III, Torino, 1970, 84. (19) Nel senso del testo parrebbe orientato A. NAPPI, Guida, cit., 417; contra P. DUBOLINO, Pubblico Ministero e riti alternativi, in Quad. CSM, 1989, fasc. 27, 390; E. GIRONI, Rito abbreviato e deducibilità delle nullità intervenute nelle fasi pregresse, in Foro it., 1990, II, 514; F.M. IACOVELLIO, « Parere » del p.m. e decidibilità allo stato degli atti nel giudizio abbreviato, in Cass. pen., 1991, I, 1684. V. anche, sul punto, V. CAVALLARI, sub art. 181, in Commento, cit., 341. (20) V. Cass., Sez. IV, 21 maggio 1991, Fabbroni, in Arch. n. proc. pen., 1992, 273. (21) Per la revocabilità si esprimono F. CORDERO, Proc. pen., cit., 902; B. LAVARINI, Giudizio abbreviato ed interrogatorio dell’imputato, in Giur. it., 1991, II, 376; F. RIGO, Interrogatorio dell’imputato nel giudizio abbreviato e revocabilità dell’ordinanza di ammissione al rito, in Cass. pen., 1992, 3076; contra, R. GIUSTOZZI, I procedimenti speciali, in AA.VV., Manuale pratico del nuovo processo penale, 4a ed., Padova, 1995, 617; A. GRANATA, Ancora qualche riflessione in tema di giudizio abbreviato: revocabilità del consenso al rito e regressione al giudizio ordinario, in Arch. n. proc. pen., 1996, 276. In generale sul tema v., altresì, G. ARICÒ, voce Ordinanza (dir. proc. pen.), in Enc. dir., XXX, Milano, 1980, 964. (22) Così Trib. Milano, ord. 27 ottobre 1989, X; Trib. Milano, ord. 7 marzo 1990, Marino, entrambe in Foro it., 1990, II, 512. Di diverso avviso parrebbe, Trib. Treviso, 1o dicembre 1989, Scanferla, in Cass. pen., 1989, II, 47. Contra anche M. NOBILI, Gli atti a contenuto probatorio nella fase delle indagini preliminari, in Crit. dir., 1991, n. 2, 12; ID., Concetto di prova e regime di utilizzazione degli atti nel nuovo codice di procedura penale, in Foro it., 1989, V, 276, nonché, sia pure implicitamente, A. SCELLA, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, 215, laddove afferma che se la
— 514 — insomma, nell’attribuire alla richiesta di impiego a fini decisori la valenza di qualificato comportamento di accettazione — id est sanatoria ex art. 183, lett. a) — degli atti d’indagine. All’obiezione, autorevolmente avanzata, che una « richiesta di giudizio allo stato degli atti non equivale ad accettazione (anche) degli atti viziati (art. 183) » (23), si può replicare che l’asserto svela i limiti del richiamo normativo. Nell’invocare, correttamente, quale norma decisiva nel risolvere la questione, l’art. 183, l’autore ne amputa una parte: la sanatoria scatta non in virtù dell’accettazione dell’atto viziato bensì dell’accettazione degli effetti di quest’ultimo. Posto che l’acquiescenza si misura in relazione alle modificazioni dell’universo giuridico che l’atto invalido produce, riesce agevole arguire che, laddove l’imputato chieda che l’elemento viziato si adoperi per emanare una sentenza sul merito, ne valorizzi al massimo grado la potenzialità causale. Si noti come venga conferita agli atti una valenza ben maggiore di quella, c.d. endoprocedimentale, che è loro propria (24). Cosicché l’accettazione degli effetti, in cui si risolve la sanatoria, sembra, addirittura, atteggiarsi alla stregua di un minus rispetto a quanto implicito nella richiesta di giudizio abbreviato. Completezza vuole che si segnali, ad ogni modo, l’erroneità o, quantomeno, la scarsa precisione terminologica, dell’indirizzo giurisprudenziale che dichiara inammissibili le eccezioni di nullità in discorso: queste dovranno, invece, dichiararsi infondate per intervenuta sanatoria (25). L’aver posto l’istituto della sanatoria come momento qualificante la contraddizione tra doglianze relative alla ritualità degli atti a valenza probatoria e richiesta di giudizio abbreviato, implica, a guisa di corollario, un duplice limite. In primo luogo, non potrà darsi sanatoria per le nullità a regime assoluto (26) e per i divieti che importano l’inutilizzabilità (27) per la loro trasgressione (28). In secondo luogo, il meccanismo sanante non scatta allorquando l’eccezione di nullità — tanto relativa quanto a regime intermedio — sia proposta, e rigettata, anteriormente, alla richiesta di giudizio abbreviato. Posto che l’acquiescenza rileva quale espressione, per facta concludentia, di una volontà silente, un precedente contegno, esplicito, di segno contrario (29) impedisce di scorgere nella richiesta di giudizio abbreviato il quid dell’accettazione « sanante ». Occorre, però, riconoscere un punto debole della ricostruzione offerta. Atteso che gli effetti degli atti viziati vengono accettati al momento della richiesta, la sanatoria si perfeziona, una volta per tutte, a prescindere dalle successive vicende sul piano della concreta attivanullità di una prova viene dichiarata successivamente all’instaurazione del giudizio abbreviato, l’eventuale utilizzazione della prova si riverberebbe sulla validità della decisione conclusiva del rito speciale. (23) Così M. NOBILI, Gli atti, cit., 13. (24) Il rilievo è descrittivo. Dopo il sovvertimento dell’impianto originario è assai dubbio che l’efficacia endoprocendimentale sia l’elemento caratterizzante gli atti delle indagini preliminari. V., sul punto, G.P. VOENA, voce Investigazioni ed indagini preliminari, in D. disc. pen., VII, Torino, 1993, passim e spec. 267. (25) Si esprime per la necessità di un uso più accorto delle due nozioni A. GAITO, In tema di confini tra inammissibilità e rigetto del ricorso in cassazione, in Giur. it., 1996, II, 129. (26) Cfr. Cass., Sez. VI, 15 febbraio 1993, Barlow, in Cass. pen., 1994, 2467. (27) Non può affatto condividersi Cass., Sez. III, 20 aprile 1994, Mazzaraco, in Arch. n. proc. pen., 1994, 866, che ha ritenuto utilizzabili le dichiarazioni, rese dall’indagato in assenza del difensore nel luogo e nell’immediatezza del fatto. Dette dichiarazioni non dovevano neanche essere verbalizzate (art. 350, comma 6)! (28) Si tratta del c.d. profilo « patologico dell’inutilizzabilità » su cui v. infra nota 16. In argomento v. anche M. NOBILI, Concetto, cit., 279. (29) Cass., Sez. I, 5 novembre 1992, Labozzetta, in Cass. pen., 1995, 1556, richiede una previa eccezione, sia pure in relazione al diverso profilo della illegittima acquisizione di atti di polizia giudiziaria al fascicolo del p.m.
— 515 — zione e dello svolgimento del rito speciale (30). Cosicché ove il processo seguiti nelle forme ordinarie, ad esempio per ritenuta indecidibilità allo stato degli atti, rimane ferma la sanatoria degli atti invalidi. È innegabile che un vincolo destinato a protrarsi oltre il contesto di origine ingeneri un forte disagio, eppure, il diritto positivo non sembra consentire soluzioni diverse (31). Emerge qui una constatazione destinata ad affiorare più volte nel corso della presente indagine: l’intera disciplina in tema d’invalidità, disegnata sul modello dibattimentale, delinea disarmonie evidenti nei riti « speciali ». 3. (Segue): b) l’applicazione della pena su richiesta. — I principi enunciati in tema di giudizio abbreviato (32), segnatamente la diversa valenza della richiesta del rito a seconda della tipologia dell’atto la cui invalidità venga in discorso (33), possono, con qualche opportuna puntualizzazione, estendersi anche all’applicazione della pena su richiesta delle parti, cosicché l’analisi scorre più agevole. È opportuno, però, qui ricordare che la giurisprudenza, senza operare alcun distinguo, è, talvolta, andata in contrario avviso, affermando, ad esempio, che « la richiesta di applicazione della pena ex art. 444 costituisce per l’imputato un obbligo ad accettare ed eseguire la sanzione concordata con il pubblico ministero e, comporta, quindi la rinuncia a far valere ogni questione od obiezione di qualsiasi natura » (34). Paradigmatica, al riguardo, una decisione in cui il ricorso, volto a far dichiarare la nullità, già eccepita in prime cure, dell’ordinanza contumaciale, è stato dichiarato inammissibile. Come lucidamente affermato dal commentatore della sentenza (35), con argomenti analoghi a quelli qui svolti in relazione al giudizio abbreviato, non si danno sanatorie fuori dai casi disciplinati dalla legge (art. 183, lett. a). Da un lato, la deduzione tempestiva della nullità esclude la rinuncia, dall’altro « la scelta di richiedere l’applicazione di una pena concordata con il pubblico ministero non poteva considerarsi un’accettazione tacita degli effetti della ordinanza viziata, dovendosi intendere alla stregua di una soluzione subordinata al non accoglimento della tesi principale ». In ogni caso, ove la Corte avesse ritenuto integrata una causa di sanatoria doveva — non essendo in discussione l’astratta configurazione in capo al ricorrente del potere di eccepire la nullità — rigettare la relativa doglianza, perché infondata, e non già dichiararla inammissibile. Che la sanatoria sia lo strumento in effetti adoperato, al di là delle incertezze lessicali, (30) Cfr. G. DI CHIARA, Le nullità, cit., 239. (31) Lo squilibrio potrebbe eliminarsi solo ipotizzando un’accettazione condizionata all’effettiva celebrazione del processo nelle forme del giudizio abbreviato. Sennonché un simile meccanismo non trova un solo appiglio testuale. (32) Supra § 2. (33) Nell’ordinamento statunitense la legittimità della « giustizia negoziata » è subordinata alla circostanza che l’imputato, nell’operare le sue scelte, sia debitamente assistito dal difensore. Cfr., per tutti, R. GAMBINI MUSSO, Il « plea barganing » tra common law e civil law, Milano, 1985, 68. (34) Così Cass., Sez. IV, 11 marzo 1992, Maradona, in Giur. it., 1993, II, 284. V. pure Cass., Sez. I, 31 ottobre 1994, Padilla Chanez, in Cass. pen., 1996, 596, relativa a pena applicata su richiesta pur omesso l’avviso ad uno dei difensori, fa riferimento ad una « implicita rinuncia » all’assistenza del difensore non avvisato. Forse, nella fattispecie, si può cogliere, diversamente da quanto ritenuto dalla cassazione, un profilo d’intempestività della deduzione della nullità; nello stesso senso Cass., Sez. VI, 25 maggio 1994, Mancini, ivi, 1996, 595, ma la fattispecie, ove il ricorrente lamentava la nullità della sentenza per mancato avviso del decreto di citazione, pare, più correttamente, integrare la sanatoria per comparizione ex art. 184. V. anche Cass., Sez. I, 2 luglio 1993, Locci, ivi, 1995, 131; Cass., Sez. VI, 26 maggio 1992, Cogo, in Arch. n. proc. pen., 1993, 118. (35) Così P. MOSCARINI, Contumacia ed applicazione della pena su richiesta delle parti, in Giur. it., 1993, II, 288.
— 516 — trova conferma nella circostanza che lo stesso filone giurisprudenziale in discorso ha ritenuto censurabili, nel giudizio di legittimità, le nullità rilevabili in ogni stato e grado del processo. In particolare, in altra occasione (36), non è sfuggito che l’omesso avviso al difensore, produttivo di nullità assoluta ex art. 178, lett. c) e 179, « travolge il patteggiamento cui l’imputato, non debitamente assistito, sia addivenuto ». Anche avuto riguardo agli atti a sfondo probatorio si ripercorre lo schema adottato nell’analisi del giudizio abbreviato. Invero, la richiesta di applicazione della pena, per concorde dottrina (37), implica anche accettazione del valore « probatorio degli atti », sicché è possibile, senza nulla dover mutare, far leva sulle considerazioni testé enunciate (38). Con cadenze appena divergenti si pone la questione relativa alle invalidità degli atti probatori « superstiti » alla richiesta di applicazione della pena. Ove appaia fuori gioco la sanatoria per accettazione, la particolare struttura della sentenza che applica la pena su richiesta, può, sia pure in via mediata, influire sul profilo in esame. Difatti, nell’applicazione della pena su richiesta, il controllo del giudice in punto di fatto, ed il correlato obbligo motivazionale, è commisurato all’assenza di cause di non punibilità rilevanti ex art. 129 (39). Ne segue che, assai di rado, l’invalidità della prova riuscirà a porre in crisi un contesto motivazionale tanto contratto (40). In altri termini, non opera qui alcuna sanatoria ma si allarga l’area delle prove che, pur difformi dal modello legale, una volta eliminate, non travolgono l’apparato argomentativo della decisione: si tratta, cioè, di una sorta di invalidità che autorevole dottrina ha definito alla stregua di « vizi innocui » (41). 4. I presupposti del giudizio abbreviato: la carenza dell’impulso delle parti e i difetti dell’atto. — Le anomalie originate dalla violazione delle norme caratterizzanti il giudizio abbreviato si verificano, innanzitutto, avuto riguardo ai presupposti del rito. Conviene, perciò, analizzare partitamente gli spunti problematici relativi alla richiesta dell’imputato e al con-
(36) Cass., Sez. V, 18 marzo 1993, Sciarra, in Cass. pen., 1995, 123, v. anche Cass., Sez. I, 18 luglio 1994, Celle, ivi, 1996, 597, ove si afferma la nullità, ex art. 178 lett. b) e c), della sentenza applicativa della pena su richiesta, emessa in fase d’indagini preliminari, per difetto di notifica del decreto di fissazione dell’udienza; Cass., Sez. I, 28 dicembre 1993, Bartoli, ivi, 1995, 1943. (37) Per l’affermazione che la richiesta di applicazione comporta, al pari del giudizio abbreviato l’utilizzabilità a fini decisori degli atti d’indagine, v., per tutti, E. LUPO, Il giudizio abbreviato e l’applicazione della pena negoziata, in AA.VV., I riti semplificati, Padova, 1989, 6. (38) Cfr. Cass., Sez. VI, 3 aprile 1991, Pelella, in Arch. n. proc. pen., 1992, 267. (39) Cass., Sez. I, 12 gennaio 1994, Di Modugno, in Arch. n. proc. pen., 1994, 543, si spinge a ritenere sufficiente « una delibazione del tutto sommaria che addirittura si condensi nella mera considerazione che non ricorrano ipotesi (ictu oculi) contemplate nell’art. 129. Cfr., altresì Cass., Sez. IV, 7 dicembre 1994, Zanella, in Cass. pen., 1996, 599; Cass., Sez. I, 27 settembre 1994, Magliulo, ivi, 1996, 599; Cass., Sez. I, 31 marzo 1994, Luise, ivi, 1995, 1011; Cass., Sez. I, 14 marzo 1995, p.m. in c. Vaccaro, in Arch. n. proc. pen., 1995, 1045; Cass., Sez. I, 3 luglio 1992, Oadolecchio, ivi, 1993, 120; Cass., Sez. I, 3 luglio 1992, Tritto, ivi, 1993, 121; Cass., Sez. I, 2 giugno 1992, Corradi, ivi, 1993, 120; Cass., Sez. I, 18 giugno 1991, Bombaci, ivi, 1992, 111. (40) V. P. FERRUA, Anamorfosi del processo accusatorio, in Studi sul processo penale, II, Torino, 1992, 32; V. PINI, La struttura delle sentenze nelle decisioni patteggiate, in Cass. pen., 1995, 359; G. VITTORINI, La richiesta di applicazione della pena come espressione di nolo contendere, ivi, 1992, 110, definisce l’obbligo di motivazione della sentenza applicativa della pena su richiesta « contratto »; analogamente, in giurisprudenza, Cass., Sez. II, 10 luglio 1992, Piras, in Arch. n. proc. pen., 1993, 118. Contra A. MACCHIA, Il patteggiamento, Milano, 1992, 99, sul presupposto che la sentenza ex art. 445 sia di condanna. (41) Cfr. F. CORDERO, Proc. pen., cit., 1039; G. GALLI, L’inamissibilità dell’atto processuale penale, Milano, 1968, 172. In giurisprudenza v. Cass., Sez. I, 29 settembre 1994, Cominelli, in Cass. pen., 1996, 852.
— 517 — senso del pubblico ministero; alla definibilità del processo allo stato degli atti; e, infine, all’imputazione di un reato punito con pena diversa dall’ergastolo. Esercitata l’azione penale, il giudizio abbreviato può innescarsi in forza dell’iniziativa esclusiva dell’imputato cui concorra, dando così luogo ad un atto complesso plurisoggettivo (42), il consenso del pubblico ministero. La volontà dell’imputato può, peraltro, essere espressa tanto personalmente che a mezzo di procuratore speciale. Avuto riguardo al necessario impulso delle parti può, quindi, accadere che manchi, o difetti dei requisiti formali prescritti, l’iniziativa dell’imputato, oppure, sull’altro versante, che il giudizio abbreviato si celebri in carenza del consenso della parte pubblica. Il catalogo delle invalidità codicistiche, tuttavia, consente, sia pure al costo di qualche sforzo esegetico, di inquadrare le anomalie in discorso. Ove il giudizio abbreviato si instauri in carenza dell’impulso dell’imputato è agevole diagnosticare una nullità, a regime intermedio ex art. 178, lett. c), originata dalla violazione di una norma relativa all’intervento dell’imputato nel procedimento. Il concetto di « intervento » convoglia in sé « le disposizioni che garantiscono all’imputato la possibilità di partecipare al processo, conferendogli poteri facoltà e diritti » (43), tra cui sono, all’evidenza, da annoverare le norme che qualificano la volontà dell’imputato alla stregua di condicio sine qua non per la celebrazione dei riti alternativi. Ove, invece, si propenda per una interpretazione restrittiva del concetto d’intervento, nel senso di comprendervi le sole norme volte a consentire all’interessato di presenziare ad atti del procedimento, è inevitabile ravvisare una violazione del diritto di assistenza difensiva. Pare, difatti, innegabile che l’amputazione dell’intera fase dibattimentale, costituisca, forse, il massimo vulnus concretamente arrecabile al diritto di difesa tecnica (44). Se difetta il consenso della parte pubblica la qualifica del vizio non presenta difficoltà: si è violata una norma relativa alla partecipazione del pubblico ministero al procedimento (45). Ne scaturisce una nullità a regime intermedio ex art. 178, lett. b) (46). Appartiene, invece, alla specie dell’inammissibilità la carenza dei requisiti formali — o l’intempestività — della richiesta dell’imputato (47). Non osta, a tale classificazione, la tassatività, pure affermata dalla dottrina (48), delle relative cause: come è stato autorevolmente osservato « non essendo univoche le relative previsioni spetta al lettore individuarle nei vari contesti » (49). Identici — ad ogni modo — gli effetti della successiva declaratoria del vizio: (42) Secondo G. LOZZI, voce Atti processuali (dir. proc. pen.), in Enc. giur. Treccani, III, Roma, 1988, 12, tale è « quello che determina una fattispecie solo quando si realizzi congiuntamente ad altri atti ». (43) Cfr. O. DOMINIONI, sub art. 178, in Commentario al nuovo codice di procedura penale, a cura di E. Amodio e O. Dominioni, II, Milano, 1989, 268. (44) G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, 2a ed., Torino, 1995, 214, rileva che con la scelta dell’abbreviato l’imputato rinuncia a difendersi sul versante probatorio. Autorevole dottrina (F. CORDERO, Proc. pen., cit., 1027) riferisce l’intera formazione della prima parte dell’art. 178, lett. c), al diritto al contraddittorio. (45) Cfr. G. DI CHIARA, Le nullità, cit., 215, nonché, F. CORDERO, Proc. pen., cit., 1031. (46) In tal senso O. DOMINIONI, sub art. 180, in Commmentario, cit., II, 1989, 289. (47) Lo definisce l’unico esito arguibile dal sistema F. DE PRIAMO, voce Inammissibilità, in D. disc. pen., VI, Torino, 1992, 300. V. anche G.i.p. Pret. Carrara, ord. 2 giugno 1992, Bolognini, in Arch. n. proc. pen., 1992, 744. Si noti pure come Cass., Sez. I, 11 ottobre 1994, Vergara Lasa, in Cass. pen., 1996, 885, qualifichi l’ipotesi alla stregua di nullità. Occorre, però, tener presente la particolarità della fattispecie ove l’imputato lamentava l’intempestività della propria richiesta di applicazione della pena! (48) F. CORDERO, Proc. pen., cit., 1037; contra C. PEYRON, voce Invalidità (dir. proc. pen.), in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 618; R. MANCINELLI, voce Decadenza, in Enc. dir., XI, Milano, 1962, 798. (49) Così F. CORDERO, Proc. pen., cit., 1037.
— 518 — tamquam non esset — per invalidità derivata (50) — il rito così celebrato, donde la retrocessione necessaria all’udienza preliminare. Assai più intricata è l’analisi circa la natura e gli effetti della erronea declaratoria d’inammissibilità della richiesta di giudizio abbreviato avanzata dall’imputato (51). Non appaia ipotesi di scuola: in taluni contesti procedimentali, si pensi alla trasformazione del giudizio immediato nel rito in discorso, la richiesta, oltre che sottoposta a brevi termini di decadenza, impone il rispetto di rigorosi requisiti formali. Cosicché il controllo in ordine al rispetto di forme e termini della richiesta offre margini di opinabilità tali da consentire valutazioni di segno opposto da parte dei giudici, rispettivamente, dell’udienza preliminare e delle fasi successive. Il rimedio che, per primo, viene in mente è consentire al giudice del dibattimento, dissenziente dalla statuizione del g.i.p., di applicare la diminuzione di pena (52). La problematica di cui si discorre è, però, ben diversa da quella oggetto della nota sentenza costituzionale n. 23 del 1992 (53) che, si deve sottolinearlo, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 438, 439, 440 e 442, avuto riguardo alla mancata previsione del potere di concedere la diminuente del rito, solo con riferimento al presupposto della decidibilità allo stato degli atti. Si tratterebbe, quindi di rendere applicabile, non per via diretta bensì per analogia, in forza dell’identità di fondamento pratico delle fattispecie, il meccanismo correttivo immesso nel sistema dalla Corte Costituzionale. Alcuni rilievi inducono ad escludere che si possa percorrere la strada appena indicata (54). Se, per un verso, l’applicazione analogica di una norma frutto di sentenza additiva, suscita, di per sé, perplessità (55), per l’altro, non sfugge che al giudice del dibattimento difetta un generale potere di riforma delle statuizioni adottate nella fase precedente. Agevole, quindi arguirne che i poteri attribuiti dalla più volte richiamata sentenza costituzionale siano, se non connotati dai caratteri dell’eccezionalità, certamente eccentrici rispetto all’usuale riparto dei poteri originato dal succedersi delle fasi. Peraltro, la correzione in punto di pena, operata all’esito del dibattimento, non configura affatto una restitutio in integrum dei diritti dell’imputato. Difatti, essa produce effetti solo sostanziali e non processuali, vale a dire non comporta un regresso, neanche virtuale, dalle forme ordinarie a quelle del giudizio abbreviato, pregiudicando, così, interessi dell’imputato di un certo spessore (56). (50) Per l’affermazione che, in materia d’inammissibilità, opera il meccanismo dell’invalidità derivata, v., per tutti, C. PEYRON, Invalidità, cit., 619. V. anche, in materia, G. CONSO, Il concetto, cit., 94. (51) A. DIDDI, La disciplina del dissenso del giudice del dibattimento sulla inabbreviabilità del rito « allo stato degli atti » nel quadro della normativa concernente i conflitti di competenza, in Giust. pen., 1992, III, 370, coglie acutamente la peculiarità della fattispecie. (52) In tal senso Cass., Sez. I, 26 febbraio 1992, confl. in c. Bambai, in Arch. n. proc. pen., 1992, 582. (53) Cfr. anche ord. correzione errori materiali, n. 77 del 1992, in Giur. cost., 1992, 425, nonché, in dottrina, G. DE ROBERTO, Il controllo del giudice sul diniego alla celebrazione del rito abbreviato (note critiche sul rimodernamento dell’istituto tra decisione sul dissenso del p.m. e sull’archiviazione), ivi, 1992, 426. (54) Contra A. DIDDI, La disciplina, cit., 370, secondo cui « non sembra possano scorgersi limiti all’operatività della fattispecie sostitutiva de qua ». (55) Esse nascono dall’estrema delicatezza dello stesso meccanismo di produzione della norma che si andrebbe ad applicare analogicamente: v., in materia, G. ZAGREBELSKY, La giurisdizione costituzionale, in Manuale di diritto pubblico, a cura di G. Amato e A. Barbera, 3a ed., Bologna, 1991, 671, per il quale le sentenze c.d. « additive » pongono « un problema di rispetto della competenza del legislatore » tali da ingenerare « molti dubbi sull’ammissibilità dell’intervento paralegislativo » della Corte. Assai più possibilista V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, II, 1984, 407. (56) Ci si riferisce, ad esempio, alla circostanza che, all’esito del processo di primo grado, il pubblico ministero è pienamente legittimato ad appellare la sentenza di condanna con tangibili effetti in punto di riforma in peius della decisione. V, sul punto, Cass., Sez. un.,
— 519 — La denunciata disarmonia (57) — che trova origine, si badi bene, da un decisione del giudice che si assume erronea — induce alla cautela nell’affrontare gli istituti non direttamente coinvolti dagli interventi della Corte Costituzionale. Corretto, invece, inquadrare la vicenda nel paradigma delle nullità (58). Non sembra avventuroso, in un contesto ove i poteri dispositivi delle parti sono talmente incisivi da porre vincoli sulle stesse forme di celebrazione del processo (59), che rientrino nel concetto d’intervento, ai sensi dell’art. 178, anche le fattispecie costitutive del diritto di adire — beninteso ove concorrano tutti i presupposti di legge — i riti alternativi (60). Sostenendo che dall’ordinanza illegittimamente denegante il rito scaturisca una nullità, o, comunque a ritenere che l’erronea declaratoria d’inammissibilità implichi regressione del procedimento (61), il quadro si compone ad armonia ed ogni errore del giudice trova rimedio nel sistema delle impugnazioni (62). 4.1. (Segue): la punibilità con pena temporanea e la « definibilità » allo stato degli atti. — La declaratoria d’illegittimità costituzionale della parte finale dell’art. 442, comma 2 (63), che ha introdotto il presupposto in discorso, ha suscitato numerose incertezze applicative. Ne è seguito « un doppio, combinato intervento » (64), ad opera delle sezioni unite della Corte di cassazione (65) e dalla stessa Corte costituzionale (66), mirato ad evitare l’incondizionata soggezione dell’imputato alle scelte discrezionali del pubblico ministero (67). 24 marzo 1995, Boido, in Cass. pen., 1995, 3323; nonché D. CARCANO, in margine a Cass., Sez. I, 3 febbraio 1993, La Maestra, ivi, 1995, 318. (57) S. VENTURA, Opposizione del Pubblico ministero al giudizio abbreviato e sindacato del giudice, in Giur. cost., 1991, 1558, rileva un altro elemento di disarmonia dell’assetto originato dalle pronunce della Corte Costituzionale: il mancato consenso del p.m. non soggiace ad alcun sindacato laddove l’udienza preliminare sfoci in una sentenza di non luogo a procedere. Il pregiudizio per l’imputato consiste nella possibilità di revoca, nei casi di cui all’art. 434 c.p.p., laddove la sentenza emanata all’esito dell’abbreviato produce il ne bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p. (58) Contra la giurisprudenza unanime, cfr., per tutte, Cass., Sez. I, 22 aprile 1991, confl. in c. Di Grazia, in Giust. Pen., 1992, III, 359, in relazione, però a ritenuta indecidibilità allo stato degli atti. Sullo specifico oggetto di analisi, v. Cass., Sez. I, 26 febbraio 1992, confl. comp. in c. Bambai, cit. (59) Cfr. G. DI CHIARA, Il contraddittorio nei riti camerali, Milano, 1994, 442. (60) V., in argomento, R.E. KOSTORIS, In tema di diritto all’« intervento » dell’imputato (a proposito del mancato avviso nel decreto di citazione a giudizio della possibilità di chiedere il giudizio abbreviato o il patteggiamento), in Cass. pen., 1996, 1071. (61) Nel senso che all’erronea declaratoria d’inammissibilità debba seguire la regressione del processo, pare orientato G.G. DE GREGORIO, Le ordinanze che si pronunziano sui riti speciali: vizi, impugnazioni e poteri del giudice, in Cass. pen., 1993, 127. (62) Ove il giudice del dibattimento ritenga erronea la declaratoria d’inammissibilità rinvierà gli atti al g.i.p. il quale, inibito dall’elevare conflitto ai sensi dell’art. 28, dovrà — sempre, ovviamente, che ritenga il processo definibile allo stato degli atti e che intervenga il consenso del pubblico ministero — celebrare il giudizio abbreviato. Nell’itinerario appena descritto trova rimedio anche l’erronea regressione disposta dal giudice del dibattimento: impugnata vittoriosamente, con decisione a sua volta controllabile in cassazione, la sentenza terminativa del giudizio abbreviato, l’esito consisterebbe nella declaratoria d’inammissibilità della richiesta. Di qui l’epilogo, nelle forme ordinarie, innanzi al giudice del dibattimento. (63) Cort. Cost. n. 176 del 1991, su cui v. P. CORVI, L’ergastolo non può più essere abbreviato, in questa Rivista, 1991, 1029. (64) Così lo definisce A. PIGNATELLI, sub art. 422, in Commento al codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, Primo aggiornamento, Torino, 1993, 342. (65) Cass., Sez. un., 6 marzo 1992, Piccillo, in questa Rivista, 1993, 370. (66) C. Cost., ord. n. 163 del 1992, in Giur. cost., 1992, 1251 con nota di B. LAVARINI. (67) V. PINI, In tema di conversione del procedimento direttissimo in rito abbreviato,
— 520 — Così, se pure l’imputazione formulata dal pubblico ministero (68) costituisce l’unico parametro, intangibile dal giudice dell’udienza preliminare, cui fare riferimento per ammettere l’effettiva celebrazione del processo nelle forme del giudizio abbreviato, si è introdotto, in via interpretativa, un controllo, procrastinato all’esito del dibattimento (69), tale da consentire il recupero dello « sconto » di pena. La via d’uscita escogitata, pure suscettibile di letture diversificate, non ammette, nei suoi tratti fondamentali, alternative. Si vuole, qui, in altri termini, rimarcare la differenza che intercorre tra il profilo di cui si discorre e quello relativo alla « decidibilità allo stato degli atti » che verrà analizzato in proseguo (70). Se di quest’ultimo presupposto potrà sostenersi la natura eminentemente processuale, affatto diversa è quella del requisito introdotto dalla sentenza 176 del 1991 della Corte Costituzionale. È fondamentale, in proposito, guardare all’essenza dell’atto di accusa. L’imputazione consiste in una ipotesi ricostruttiva, giuridicamente qualificata, di un fatto storico, ossia, adoperando una felice formula di sintesi, « un’attribuzione delittuosa tendente ad una dichiarazione di responsabilità » (71); identica natura presentano le singole componenti — la sussistenza delle quali comporta l’applicabilità della pena perpetua — in cui l’accusa stessa è scomponibile. Una imputazione (poi) rivelatasi non ostativa alla celebrazione del processo nelle forme del giudizio abbreviato consiste in un addebito (parzialmente) infondato. Ma ciò non è che un frammento del tema del processo (72), ossia del merito nel senso individuato dalla miglior dottrina come « il giudizio attorno ad una situazione il cui modello è offerto dalle norme del diritto sostanziale » (73). Va da sé che il controllo successivo, soprattutto nei giudizi d’impugnazione, si attivi diversamente a seconda che l’insussistenza dell’imputazione ostativa emerga da rilievi meramente giuridici oppure da considerazioni fattuali. Se il vaglio ulteriore, operato dal giudice del dibattimento e poi nei gradi d’impugnazione, può, senza dubbio, esplicarsi appieno sull’error iuris, profili di non poco momento affiorano qualora la non ostatività derivi dall’insussistenza in facto di qualcuno degli elementi che comportino la pena perpetua, ad esempio perché non ricorre un’aggravante contestata. Si afferma, in giurisprudenza e in dottrina, che si debba far luogo al criterio della « prognosi postuma », ossia ad una valutazione ex ante, avuto, in ultima analisi, esclusivo riguardo al quadro esistente al momento della richiesta. Ne conseguirebbe un ostacolo all’applicazione della diminuente qualora l’insussistenza, per esempio, della circostanza aggravante sia il portato dell’istruttoria dibattimentale (74). annotando Trib. Roma, ord. 20 dicembre 1993, Gianmaria, in Giur. it., 1994, II, 778, osserva che « nei c.d. meccanismi premiali le scelte discrezionali del p.m. determinano conseguenze ‘‘sostanziali’’ per l’imputato ». (68) Cfr. Cass., Sez. un., 6 marzo 1992, Piccillo, cit. Ne segue il corollario di negare la diminuente ove la pena perpetua non sia, all’esito del dibattimento, irrogabile per effetto del meccanismo del bilanciamento delle circostanze: v., sul punto, Cass., Sez. I, 7 luglio 1994, Tabasso, in Cass. pen., 1996, 849; Cass., Sez. I, 23 settembre 1993, Sinopoli, ivi, 1994, 3047; Cass., Sez. II, 18 gennaio 1993, Bergamaschi, ivi, 1994, 2139; in dottrina, v. P. DUBOLINO, Giudizio abbreviato e reati punibili con l’ergastolo dopo la decisione delle SS.UU. della Corte di cassazione, in Arch. n. proc. pen., 1992, 224. (69) V., anche Corte Ass. App. Milano, 14 dicembre 1992, Ventura, in Arch. n. proc. pen., 1993, 101, con nota di C. LIMENTANI, Incompatibilità tra giudizio abbreviato e reati punibili con l’ergastolo: l’ultima parola spetta al giudice del dibattimento. (70) Infra § 10. (71) Così G. CONSO, voce Accusa e sistema accusatorio, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 339. (72) V. O. DOMINIONI, voce Imputazione (dir. proc. pen.), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, 818, per il nesso tra imputazione e thema decidendum. (73) Così F. CORDERO, voce Merito (diritto processuale), in Nss.D.I., 3a ed., X, Torino, 1957, 578. (74) Cfr. Cass., Sez. I, 15 marzo 1995, Costa, in Cass. pen., 1996, 1484; Cass., Sez. I, 19 ottobre 1994, Osnato, in Giur. it., 1996, II, 92; Cass., Sez. I, 13 aprile 1994, Miche-
— 521 — Se la soluzione adottata ha il pregio di azzerare lo « scarto » da addebitare ad un errore di valutazione del pubblico ministero, lascia perplessi il risultato che ne scaturisce: in tale assetto l’imputato, nondimeno, subisce un pregiudizio a seguito di una imputazione risultata — comunque — infondata (75). Emerge qui vistoso il cortocircuito in cui versa un sistema che, con completa inversione dell’ordine logico degli argomenti, configura una questione di merito alla stregua di un presupposto di ammissibilità del rito. Si configura, così, un circolo vizioso dagli esiti comunque insoddisfacenti: o si fa discendere, come in fin dei conti pare inevitabile, da un’imputazione (poi) infondata un effetto sfavorevole all’imputato, oppure si ammette — scardinando così ogni residua correlazione tra celebrazione (rectius celebrabilità) del rito ed effetto premiale — che la diminuente spetti anche in ipotesi di « sopravvenuta » infondatezza dell’imputazione (76), con il paradossale risultato di sottoporre l’imputato ad un trattamento ancora più favorevole di quello che avrebbe conseguito anteriormente alla sentenza n. 176 del 1991. L’irrazionalità dell’assetto non consente, peraltro, di rispondere in modo piano all’interrogativo in ordine al tipo di vizio che scaturisce dalla erronea ammissione al giudizio abbreviato ove il reato sia punibile con l’ergastolo. Ma tale questione, al pari di quella relativa al presupposto di cui all’art. 440, comma 1, interessa, ai fini della presente indagine, solo nella limitata prospettiva del controllo esercitato, sul punto, dalla cassazione, sicché pare opportuno analizzarle entrambe unitamente ai problemi affrontati in tale sede (77). 5. I presupposti dell’applicazione della pena su richiesta: la carenza dell’impulso delle parti. — L’assetto dell’applicazione della pena su richiesta è simile a quello, già considerato, del giudizio abbreviato (78). Ne diverge appena il regime delle invalidità poiché il « patteggiamento » può chiedersi anteriormente all’esercizio dell’azione penale. Se difetti il necessario contributo, d’impulso o di consenso, dell’imputato si verifica, quale che sia la fase del procedimento in corso, una nullità a regime intermedio. Invece, la preterizione della parte pubblica esplica effetti diversi a seconda del momento in cui si verifichi. Anteriormente all’esercizio dell’azione penale si deve diagnosticare una nullità a regime assoluto, mentre a « processo », in senso tecnico, instaurato, è violata una norma relativa alla partecipazione lacci, in Cass. pen., 1995, 2984; Cass., Sez. I, 21 dicembre 1993, Rodaro, ivi, 1995, 2601, con nota di D. CARCANO; Cass., Sez. I, 2 aprile 1993, Obexer, in Arch. n. proc. pen., 1993, 426; Cass., Sez. I, 29 marzo 1993, p.m. in c. Ventura, ivi, 1993, 271. In dottrina v. E. DI SALVO, L’inchiesta di giudizio abbreviato in procedimenti per reati punibili con la pena dell’ergastolo e concedibilità della diminuente processuale, in Cass. pen., 1995, 7; G. LOZZI, La non punibilità con l’ergastolo come presupposto del giudizio abbreviato, in questa Rivista, 1993, 380; A. NAPPI, Considerazioni sui presupposti del giudizio abbreviato, in Arch. n. proc. pen., 1995, 755. (75) Cfr. A. PIGNATELLI, sub art. 422, cit., 344; V. PINI, Ancora oscillazioni giurisprudenziali sulla riduzione di pena per i delitti punibili con l’ergastolo, in Giur. it., 1996, II, 93 paventa la possibilità di trattamenti difformi a fronte di situazioni omogenee, ove l’omogeneità è costituita proprio dall’applicazione — in concreto — di una pena temporanea; Corte Ass. App. Milano, 19 dicembre 1992, Ventura, cit., poi cassata da Cass., Sez. I, 29 marzo 1993, p.m. in c. Ventura, cit., esprimeva analoghe preoccupazioni. La Corte Costituzionale, ord. n. 449 del 1995, ha, però, dichiarato manifestamente infondati i dubbi di legittimità, sotto il profilo dell’ingiustificata disparità di trattamento, della disciplina in discorso. (76) Si tralascia l’ulteriore problematica relativa al profilo in cui l’imputazione ostativa sia originata da un’inerzia del p.m. in fase d’indagini, su cui si rimanda a G. LOZZI, La non punibilità, cit., 363. (77) Infra § 10, in relazione al presupposto « della decidibilità allo stato degli atti », e § 12, sulla violazione dei presupposti di legge per l’adozione dei riti alternativi. (78) Supra, § 4. Cass., Sez. VI, 12 aprile 1995, Cilla in Cass. pen., 1996, 1911, ritiene nulla la sentenza che applica la pena su richiesta del procuratore sprovvisto dei poteri di rappresentanza.
— 522 — del pubblico ministero al procedimento: sicché si integra, allora, una nullità a regime intermedio, ex art. 178, lett. b) (79). 5.1. (Segue): la sentenza « incongrua » rispetto alla richiesta come carenza dell’impulso delle parti. — Nell’applicare la pena richiesta dalle parti il giudice può violare l’accordo in modi diversi: o discostandosene o aggiungendo comandi ulteriori rispetto a quelli negoziati. A sua volta, l’extrapetizione assume valenza diversa a seconda che consista in statuizioni che, sebbene non concordate, siano astrattamente suscettibili di entrare a far parte di una sentenza « patteggiata » (ad esempio, venga concesso il beneficio ex art. 163 c.p.), oppure in quelle escluse dal legislatore per il provvedimento emanato ex art. 444 (ad esempio l’applicazione di una pena accessoria) (80). Sia l’incongruenza, in senso stretto, tra la sentenza e l’accordo, che l’extrapetizione, in sé compatibile con gli effetti della sentenza patteggiata, devono riportarsi al paradigma — implicante la nullità della decisione — della carenza del contributo delle parti (81). Ciò che legittima l’emanazione di una sentenza nelle forme dell’art. 444 è la concorde istanza delle parti (82). La sentenza che non ricalchi — in tutto o in parte — la richiesta, spezza il legame con il proprio antecedente logico e giuridico (83). Ovvio, pertanto, che, venuto meno il nesso istanza-decisione, il quadro sia concettualmente identico a quello che si verifica tutte le volte che la pena venga applicata senza la necessaria « sollecitazione » (84). Analogo discorso vale nel caso in cui il giudice abbia subordinato una componente dall’accordo ad un quid non pattuito, ad esempio condizionando la sospensione della pena all’adempimento di un obbligo. Le parti avevano chiesto la sospensione sic et simpliciter e l’ottengono subordinata: la discrasia rispetto alla richiesta implica nullità della decisione (85). 5.2. (Segue): i difetti dell’atto d’impulso e i limiti legali del « patteggiamento ». — Avuto riguardo ai requisiti, di forma e tempo, della richiesta è agevole, anche qui ripercor(79) Cass., Sez. VI, 14 dicembre 1992, Gattuso, in Cass. pen., 1995, 356, nell’escludere che sia causa di nullità della sentenza ex art. 444 l’omessa trascrizione delle conclusioni delle parti qualora la richiesta di applicazione della pena sia compiutamente formulata per iscritto, sembra lasciare intendere che, al contrario, ricorra la nullità quando la richiesta non risulti in alcun modo. (80) Ovviamente non si prendono in considerazione le statuizioni ulteriori, rispetto all’accordo, ordinate direttamente dalla legge, quali l’applicazione di sanzioni amministrative accessorie. (81) In ordine alla pronuncia di statuizioni incompatibili con il rito v. infra § 13. (82) Cass., Sez. III, 18 novembre 1992, Durazzo, in Cass. pen., 1994, 691. (83) V., sia pure non del tutto in termini, Cass., Sez. I, 21 settembre 1992, Verardi, con nota di G. LO VECCHIO, Epiloghi della richiesta di pena nel nuovo « patteggiamento »: profili e spettro dei poteri del giudice, in Cass. pen., 1994, 1584. (84) V. Cass., Sez. un., 11 maggio 1993, Iovine, in Cass. pen., 1993, 2256, relativamente all’affermazione che il beneficio della sospensione può essere concesso solo se richiesto perché l’accordo delle parti costituisce un limite invalicabile per il giudice; contra, V. ADAMI, Il patteggiamento e la sospensione condizionale della pena, ivi, 1994, 550. V. anche, nel senso dei testo, Cass., Sez. III, 17 gennaio 1994, Badaoui, ivi, 1995, 1012; Cass., Sez. VI, 12 novembre 1993, Totaro, ivi, 1995, 1008, per l’impossibilità di applicare la pena detentiva in luogo di quella sostitutiva richiesta; Cass., Sez. un., 12 ottobre 1993, Scopel, ivi, 1994, 900; Cass., Sez. I, 24 novembre 1993, Giordano, ivi, 1995, 1943, per l’inapplicabilità, ex officio, della continuazione; Cass., Sez. V, 17 marzo 1992, Vitali, in Arch. n. proc. pen., 1992, 753; Cass., Sez. V, 31 ottobre 1991, Hamidovic, ivi, 1992, 565. (85) V., Cass., Sez. un., 11 maggio 1993, Zanlorenzi, in Foro it., 1994, II, 91; Cass., Sez. V, 23 aprile 1993, Fortunato, in Arch. n. proc. pen., 1993, 420. Profilo diverso, ma contiguo, è quello dell’illegittimità dell’accordo tutte le volte in cui la sospensione venga condizionata all’accettazione di un provvedimento esulante dalla competenza dell’autorità giudiziaria: v., sul punto, Cass., Sez. I, 10 novembre 1993, Papanikolla, in Cass. pen., 1995, 1939. Aspetto ancora ulteriore è quello relativo alla subordinabilità a condizioni diverse dalla sospensione condizionale: v., in senso negativo, Cass., Sez. VI, 2 dicembre 1994, Marchioni, ivi, 1996, 602; Cass., Sez. IV, 20 ottobre 1994, Romagnoli, ivi, 1996, 602; Cass.,
— 523 — rendo gli itinerari seguiti con il giudizio abbreviato, proporre una classificazione alla stregua di requisiti di ammissibilità. In tale invalidità ricadono, per la gran parte, anche le violazione dei limiti legali del rito. La dizione dell’art. 444 conferma l’assunto: « le parti possono chiedere ... ». È agevole rilevare che la norma pone un limite, ancor prima che al potere decisorio del giudice, all’iniziativa negoziale dell’imputato e del pubblico ministero. Cosicché ove il giudice abbia, ad esempio, emesso sentenza ex art. 445 irrogando una pena superiore ai due anni possono darsi due, e solo due, ipotesi. La prima è che tale decisione rispecchi il contenuto dell’accordo, e in tal caso è lo stesso atto d’impulso, prima ancora della decisione che lo recepisce, a dover essere stigmatizzato come inammissibile. La seconda, invece, è che il giudice sia incorso nella violazione di legge discostandosi dall’accordo; in tal caso la fattispecie finisce per coincidere con quella, dianzi considerata, che trae origine dalla carenza del necessario contributo delle parti. La soluzione, però, non tranquillizza appieno. Allorquando il giudice abbia, al contempo, violato l’accordo delle parti ed i limiti del rito, concorrono due invalidità, di cui una, quella attinente al secondo profilo, non espressamente disciplinata. Al di là di ogni esigenza classificatoria, riveste interesse concreto individuare il regime proprio dell’invalidità scaturente dalla violazione — in sé considerata — dei presupposti del rito. Al vizio che inficia una decisione adottata fuori dai limiti di cui all’art. 444, pare congeniale il regime — proprio delle nullità assolute — della rilevabilità di ufficio in ogni stato e grado, mentre la discrasia tra decisione e contenuto dell’accordo diviene foriera, come già evidenziato, di una nullità a regime intermedio. A dar contezza dei valori in gioco basta ipotizzare che la sentenza applicativa della pena venga attaccata in cassazione avuto riguardo a statuizioni, ad esempio in punto di confisca, autonome rispetto all’entità — poniamo ultraduodennale — della pena. Solo a ritenere che l’invalidità in discorso possegga i caratteri della rilevabilità di ufficio si può argomentare il travolgimento totale — che pure sembra doveroso — dell’accordo. Pertanto, la questione, che riveste identità di natura con quella attinente ai presupposti « sostanziali » del giudizio abbreviato, verrà trattata, come l’altra, congiuntamente ai profili relativi al controllo in cassazione.
PARTE II: IL CONTROLLO IN CASSAZIONE 6. Profili generali. — Conviene ordinare il discorso, avvalendosi della tassonomia degli errores sin qui effettuata, verificando, di volta in volta, se il trattamento dei vizi individuati sia, o no, direttamente ricavabile dalle coordinate codicistiche. Appartengono al novero delle ipotesi sussumibili sotto il paradigma delle invalidità che ricevono una puntuale disciplina legislativa: a) le nullità delle sentenze terminative del giudizio abbreviato o che applicano la pena su richiesta; b) i vizi degli atti probatori, non sanati, nei procedimenti in discorso; c) i difetti relativi al necessario contributo delle parti (tra cui si devono annoverare le ipotesi di discrasia tra decisione e richiesta delle parti nel procedimento disciplinato dagli artt. 444 ss.); d) la mancata declaratoria di inammissibilità della richiesta di accesso ai riti alternativi; e) l’erronea declaratoria d’inammissibilità della richiesta di giudizio abbreviato, una volta ritenuto che tale decisione violi una norma relativa all’intervento dell’imputato. Cade, invece, nell’ambito della inosservanza, o erronea applicazione, della legge penale, la patologia che affligge la sentenza che, ricalcando l’accordo delle parti, violi una norma sostanziale (ad esempio l’erronea qualificazione giuridica del fatto; l’applicazione della pena illegale; l’erronea comparazione delle circostanze). Sez. V, 10 giugno 1993, Dolce, ivi, 1995, 128; Cass., Sez. VI, 21 dicembre 1992, D’Angelo, ivi, 1994, 2190.
— 524 — Non ricevono invece disciplina: a) la questione relativa alla « definibilità » allo stato degli atti; b) l’errore commesso dal giudice che ammetta il giudizio abbreviato nonostante l’imputazione consenta la pena dell’ergastolo; c) la violazione — in sé considerata — dei limiti legali per applicare la pena richiesta dalle parti; d) il vizio in cui incorra il giudice in punto di « effetti » della sentenza ex art. 445. Discorso a parte, infine, merita il vizio di cui all art. 606 lett. e). Ad ognuna delle categorie così individuate non corrisponde una perfetta omogeneità di trattamento. Difatti, passando dal profilo statico, ove l’invalidità viene fotografata a prescindere dal gioco, a volte deformante, dei gradi d’impugnazione, a quello dinamico, nel quale si tratta di definire il modus operandi del controllo di legittimità, ci si accorge che la tipologia dei provvedimenti adottabili dalla cassazione si diversifica in relazione sia alle categorie appena delineate sia all’interno di ciascuna di esse. Nondimeno il tentativo di sistemare la complessa materia ruota su tre cardini che qui si danno definitivamente per acquisiti. Innanzitutto, la scelta tra annullamento con o senza rinvio dipende dalla eventualità che il procedimento critico relativo alla sentenza impugnata abbia modo di esaurirsi in sede di cassazione (86). In secondo luogo, nel giudizio di legittimità, è impossibile, con tutta evidenza, procedere alla rinnovazione degli atti viziati da errores in procedendo. A tal punto, gli interrogativi in ordine alla declaratoria di nullità ed inammissibilità si sostanziano nell’individuare il punto della serie processuale a cui riportare il procedimento (87). Da questo accertamento dipende, per quanto qui interessa, la sorte del rito in precedenza adottato. Si vuol dire che il vizio può, a seconda del momento procedimentale d’insorgenza, travolgere — o lasciare intatto — l’atto d’impulso delle parti. Di talché, il giudizio successivo all’annullamento potrà configurarsi o no, come sviluppo dell’originaria istanza negoziale. Il terzo luogo sta nell’adesione, che qui si presta, all’autorevole tesi, assai risalente nel tempo ma destinata ad assumere particolare pregnanza in un contesto ispirato ai principi accusatori (88), secondo cui l’annullamento con rinvio postula nel suo termine ad quem un organo della giurisdizione (89). Ne deriva che se la necessità di rinnovare la sequenza invalida imponga la restituzione degli atti al pubblico ministero, organo carente di giurisdizione, l’annullamento deve pronunciarsi senza rinvio. 7. Le alterazioni riconducibili alla nullità od all’inammissibilità. — Sulla scorta delle coordinate di riferimento sopra esposte può agevolmente risolversi il quesito relativo al controllo operato dalla cassazione sulle invalidità appartenenti alla prima delle categorie individuate, ossia ai vizi del processo sussumibili, o in via immediata o attraverso i passaggi ermeneutici svolti a suo tempo nella parte « statica » della presente trattazione, nella nullità e nell’inammissibilità. Premesso che, in forza della natura dei vizi in discorso, il ricorso è proposto ai sensi dell’art. 606, lett. c) la categoria presenta una certa omogeneità di regime. Ove si riscontri un difetto non originato dalla « specialità » dei riti che invalidi, in via diretta o derivata, la sentenza, la cassazione dovrà pronunciare annullamento con rinvio (90) all’organo procedente affinché ripeta l’attività irrituale. Ne discende, con stretta consequenzialità, che l’atto d’im(86) Cfr. D. SIRACUSANO, I rapporti tra « cassazione » e « rinvio » nel processo penale, Milano, 1967, 216. (87) Cfr. A. PRESUTTI, Le nullità nelle impugnazioni penali, Milano, 1982, 173. (88) Sulle caratteristiche del sistema accusatorio, v., per tutti, G. CONSO, Accusa, cit., passim e spec. 336; G. ILLUMINATI, Accusatorio e inquisitorio (sistema), in Enc. giur. Treccani, I, Roma, 1988, passim e spec. 4. (89) Così G. BELLAVISTA, voce Corte di cassazione (dir. proc. pen.), in Enc. dir., X, Milano, 1962, 848. (90) Eccezion fatta per le ipotesi, davvero marginali, in cui debbano restituirsi gli atti al p.m. Si pensi ad un decreto di citazione a giudizio nel rito pretorile, carente, in modo as-
— 525 — pulso negoziale, parte integrante — anzi addirittura costitutiva — del rito speciale adottato, sarà travolto se, e in quanto, si collochi nel segmento da rinnovare. Paradigmatica, in proposito, la vicenda del giudizio abbreviato qualora la sentenza che lo concluda ripeta la propria invalidità da quella di un atto della vocatio per l’udienza preliminare. Rilevato l’error in procedendo si dovrà regredire, ex art. 187, ad un momento anteriore all’instaurazione — rectius alla richiesta — del rito. Ne deriva che un processo celebrato nelle forme camerali sino al grado di cassazione potrà, a seguito dell’annullamento, proseguire secondo gli schemi « ordinari ». Si noti come il giudizio di rinvio si atteggi in modo diametralmente opposto nei casi in cui l’invalidità si verifichi successivamente alla istanza del rito speciale (si faccia il caso che il giudice abbia negato l’interrogatorio richiesto) (91): qui il seguito è senz’altro camerale (rectius « abbreviato »), e le parti sono vincolate alla richiesta ed al consenso prestati in un contesto procedimentale perfettamente regolare. Con specifico riguardo ai vizi originati dalla carenza dell’impulso delle parti, è coerente alla loro qualifica sub specie nullitatis, che la relativa declaratoria imponga la ripetizione del segmento viziato. È necessario, però, puntualizzare un profilo relativo all’applicazione della pena su richiesta. Qualora il vizio si sia verificato successivamente all’esercizio dell’azione penale, dovrà pronunciarsi annullamento con rinvio al giudice, per le indagini preliminari o del dibattimento, procedente al momento del verificarsi della nullità, quale che sia, imputato o pubblico ministero, il soggetto cui la carenza si riferisce. Qualora, invece, difetti il contributo del pubblico ministero nella sequenza descritta dall’art. 447 manca, addirittura, l’atto di esercizio dell’azione penale: il necessario riflusso alla fase delle indagini preliminari implica che l’annullamento debba essere pronunziato senza rinvio e, pertanto, con trasmissione degli atti all’organo dell’accusa. Il paradigma dell’annullamento con rinvio si attaglia anche all’ipotesi in cui l’error in procedendo consista nella mancata declaratoria dell’inammissibilità dell’atto d’impulso negoziale e, per converso, una volta ricondotta tale figura nell’alveo delle nullità, alla erronea declaratoria d’inammissibilità della richiesta di giudizio abbreviato. Nell’un caso, il procedimento dovrà proseguire nelle forme ordinarie, nell’altro, il giudice dell’udienza preliminare, cui comunque rifluirà il procedimento (92), dovrà, anzitutto, pronunziarsi in ordine alla decidibilità allo stato degli atti. Quanto, infine, al vizio della sentenza che applichi la pena discostandosi dalla richiesta delle parti, ivi compresa l’extrapetizione consistente in statuizioni pur consentite in sede di patteggiamento (93), è logico corollario della sussunzione di tali ipotesi nel paradigma della nullità per violazione dei diritti delle parti, che l’annullamento, non travolgendo la richiesta, atto antecedente non viziato, debba pronunciarsi con rinvio all’organo giurisdizionale. A sua volta il giudice — vincolato all’alternativa tra rigetto ed accoglimento — dovrà pronunziarsi sull’istanza da cui si era, in precedenza, discostato. Si noti, a prescindere dalla qualificazione alla stregua di error in procedendo del vizio di cui si è appena detto, che l’annullamento con rinvio soddisfa anche l’esigenza di evitare lo sconfinamento della cassazione in valutazioni di pertinenza del giudice del merito. Ammettere l’annullamento senza rinvio della decisione, vale a dire la diretta ratifica, in sede di legitsoluto, dell’enunciazione del fatto contestato, cui segua l’instaurazione del giudizio abbreviato. (91) V. Cass., Sez. VI, 24 maggio 1993, Mercuri, in Foro it., 1994, II, 351; Cass., Sez. VI, 28 settembre 1992, Guzzaffi, in Arch. n. proc. pen., 1993, 315. (92) Cfr. Cass., Sez. I, 5 maggio 1993, Mura, in Arch. n. proc. pen., 1993, 427, secondo cui il rinvio vede come termine ad quem il giudice dell’udienza preliminare e non il pubblico ministero. (93) Cfr. Cass., Sez. VI, 5 ottobre 1992, p.m. in c. Auferi, in Arch. n. proc. pen., 1993, 304; Cass., Sez. VI, 8 settembre 1992, Carcioni, ivi, 1993, 304; Cass., Sez. I, 10 luglio 1992, Di Benedetto, ivi, 1993, 304.
— 526 — timità, dell’accordo da cui il giudice si è svincolato, implicherebbe, difatti, una notevole spendita di poteri discrezionali eccentrici rispetto alla funzione nomofilattica della corte di cassazione (94). Il processo, dunque, deve ritornare al giudice del merito, così nuovamente investito della decisione sulla richiesta formulata all’origine. Merita appena un cenno il controllo in ordine agli atti probatori: la loro invalidità rileva solo se l’elisione del dato « spurio » metta in crisi, nel complesso o nei suoi elementi essenziali, l’apparato argomentativo della decisione. Come è stato autorevolmente affermato, « invalida è la decisione, sul cui contenuto abbia influito la prova illegalmente valutata, sicché il concetto con cui bisogna operare è quello di rilevanza causale dell’errore » (95). 8. L’error in iudicando nella sentenza che applica la pena su richiesta. — Si considerino, ora, gli errori di diritto contenuti nella sentenza, ad esempio in ordine alla qualificazione giuridica del fatto, che abbia recepito puntualmente l’accordo intervenuto tra imputato e pubblico ministero: stando alla ripartizione adottata, l’ipotesi in cui il giudice si sia discostato dai petita concordati, genera una nullità. Si discorre, insomma, della fattispecie in cui il giudice abbia fatto proprio un errore delle parti. La dottrina sembra essersi disinteressata di tale profilo e l’elaborazione giurisprudenziale appare sul punto scarsamente persuasiva. Scontata, ex artt. 111 Cost. e 568, comma 2, c.p.p., la ricorribilità « oggettiva » del provvedimento (96), le perplessità riguardano la legittimazione e, soprattutto, l’interesse a ricorrere. Si nega, in giurisprudenza, sic et simpliciter o sub specie della mancanza d’interesse, il potere di ricorrere in cassazione da parte dell’imputato o dell’ufficio del pubblico ministero che abbia partecipato all’accordo (97). Dal momento che lo stesso indirizzo giurispruden(94) Cass., Sez. VI, 24 settembre 1992, Toscanelli, in Arch. n. proc. pen., 1993, 305, lascia perplessi laddove afferma che, in caso di discrasia tra richiesta e pena applicata, è consentito alla cassazione stessa di rideterminarla. Vi è da dire, però, che la massima non permette di comprendere con esattezza i tratti della fattispecie esaminata. (95) F. CORDERO, Scrittura e oralità, in Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, 183; ID., Proc. pen., cit., 1035; G. GALLI, L’inammissibilità, cit., 172; G. ILLUMINATI, La disciplina processuale delle intercettazioni, Milano, 1983, 151, precisa che, per sottrarsi all’annullamento, deve essere lo stesso contesto decisorio a dimostrare l’irrilevanza della prova illegittima. G. LOZZI, Prove invalide non utilizzate e declaratoria di nullità, in questa Rivista, 1978, 443, è, almeno avuto riguardo alle nullità assolute, di diverso avviso. P. FERRUA, Oralità del giudizio e lettura di deposizioni testimoniali, Milano, 1981, 443, osserva che, riportando nell’alveo del vizio di motivazione l’utilizzazione della prova illegittima, si rischia di sottrarre all’annullamento la sentenza che sarebbe stata diversa ove il giudice avesse ignorato la prova inutilizzabile. G. UBERTIS, Riflessioni sulle « prove vietate », in Riv. pen., 1975, 712, pur ritenendo l’atto acquisitivo viziato di nullità assoluta, non prende, sullo specifico profilo, posizione. G. LEONE, Manuale di diritto processuale penale 2a rist., Napoli, 1981, 432, fa riferimento al concetto di abnormità dell’atto. (96) Per la terminologia adottata nel testo v. D. SIRACUSANO, I rapporti, cit., 54. (97) V. Cass., Sez. V, 18 gennaio 1995, Pepe, in Cass. pen., 1996, 594; Cass., Sez. I, 29 dicembre 1993, Diley, ivi, 1995, 1010; Cass., Sez. III, 22 ottobre 1993, Giglione, ivi, 1995, 1010; Cass., Sez. III, 22 maggio 1990, p.m. in c. Bianchi, in Giur. it., 1991, II, 144. Cass., Sez. I, 28 dicembre 1993, Bartoli, in Giust. pen., 1994, III, 237, sembra, invece, fare perno sul novero degli errores deducibili, comunque negando che possa rilevarsi l’erronea qualificazione giuridica del fatto. Per l’impossibilità di sindacare, tramite ricorso in cassazione, il quantum di pena, v. Cass., Sez. V, 21 ottobre 1993, p.m. in c. Guerrieri in Arch. n. proc. pen., 1994, 247; Cass., Sez. I, 7 luglio 1992, p.m. in c. Popolizio, ivi, 1993, 119; Cass., Sez. V, 16 maggio 1991, Nerini, in Giur. it., 1992, II, 285. Per l’affermazione che « non possono mettersi in discussione profili oggettivi o soggettivi della fattispecie » v. Cass., Sez. III, 24 novembre 1993, Bognanni, in Cass. pen., 1995, 653; Cass., Sez. VI, 25 maggio 1993, Franco, ivi, 1995, 131. Avuto riguardo all’accoglimento concordato dei motivi di appello, v. Cass., Sez. VI, 17 gennaio 1995, Gualtieri, ivi, 1996, 531.
— 527 — ziale afferma, sia pure tra molte perplessità, la sussistenza dell’interesse ad impugnare in capo al procuratore generale presso la Corte d’appello, si è fatta viva la preoccupazione circa una disparità di trattamento a danno dell’imputato. Così, nel perseguire l’equilibrio dei poteri tra le parti, si è avanzata l’ipotesi che l’interesse difetti tanto in capo all’imputato che all’ufficio dell’accusa nel suo complesso: « la rinuncia al processo effettuata dalle parti comport[a] la rinuncia a ricorrere in cassazione relativamente a quegli elementi su cui si è formato l’accordo » (98). L’assunto non va condiviso. La legittimazione consiste nel conferimento — operato dalla legge — ad un soggetto del potere di impugnare un provvedimento (99), laddove l’interesse si sostanzia nell’idoneità del mezzo d’impugnazione, se vittorioso, di rimuovere un pregiudizio (100). Date le premesse non può che condividersi la tesi di chi (101), con invidiabile sintesi, ha osservato che la legittimazione a ricorrere, tanto del pubblico ministero che dell’imputato, è scolpita dal combinato degli artt. 606, comma 2 (102), e 568, comma 3, laddove stabilisce che se la legge non distingue tra le parti il diritto d’impugnazione spetta a ciascuna di esse. Se l’interesse, come accennato, deve valutarsi in relazione ai possibili esiti dell’impugnazione (103), non si vede come negarlo in capo all’imputato di fronte al potenziale annullamento di una sentenza che — sia pure con il suo consenso — gli applichi una pena. Avuto, infine, specifico riguardo alla posizione del pubblico ministero, la dottrina più avvertita non ha mancato di sottolineare come la relativa « posizione non sia mai definibile in questa chiave: parte pubblica agisce au nom de la loi a mosse formalmente disinteressate » (104). I profili inerenti alla fondatezza del ricorso vanno, in altri termini, tenuti separati da quelli relativi all’ammissibilità dell’impugnazione. Mentre i primi sono da parametrarsi restrittivamente a causa della peculiare struttura della sentenza che applica la pena su richiesta, i secondi, invece, ne prescindono (105). (98) Così T. DELLA MARRA, Controlli sulla ritualità della pena negoziata, in Giur. it., 1993, II, 353. In giurisprudenza v. Cass., Sez. IV, 8 ottobre 1996, P.G. in c. Cremonin, inedita. (99) Cfr. G. PETRELLA, Le impugnazioni nel processo penale, Milano, 1965, I, 175. (100) F. CORDERO, Proc. Pen., cit., 953, lo definisce al negativo « se non vi è interesse l’atto è inammissibile, tale risulta quando non giovi all’autore o addirittura gli nuoccia (rectius, gli nuocerebbe se conseguisse l’esito cui mira) ». Sul concetto d’interesse v. F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, Roma, 1947, II, 113; U. DEL POZZO, voce Impugnazioni (diritto processuale penale), in Nss.D.I., VIII, Torino, 1968, 435; V. MANZINI, Trattato, cit., 1972, IV, 621. (101) A. NAPPI, in Giur. it., 1991, II, 44, in margine a Cass., Sez. II, 22 maggio 1990, p.m. in c. Bianchi, cit.; v. anche, E. LUPO, Processi senza dibattimento, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, Primo aggiornamento, Torino, 1993, 729. (102) Appare, quindi, non condivisibile Cass., Sez. I, 30 novembre 1993, Laurenzana, in Arch. n. proc. pen., 1994, 859, laddove afferma che il ricorso in cassazione è ammesso solo ex art. 111 Cost. (103) Cass., Sez. IV, 17 febbraio 1994, Lecis, in Cass. pen., 1995, 2232, con nota critica di P. DELL’ANNO, afferma — proprio avuto riguardo a sentenza di applicazione della pena su richiesta — la carenza di interesse ad impugnare della parte civile che lamenti l’erronea qualificazione giuridica della fattispecie. (104) F. CORDERO, Proc. pen., cit., 953. In giurisprudenza v. Cass., Sez. un., 24 marzo 1995, Boido, in Cass. pen., 1995, 3308. (105) Cass., Sez. I, 20 dicembre 1993, Milano, in Cass. pen., 1995, 2233, sembra cadere nell’equivoco qui denunciato laddove afferma che « non è ammissibile proporre motivi concernenti la misura della pena, a meno che non si versi in ipotesi di pena illegale »; in termini analoghi v. anche Cass., Sez. V, 18 gennaio, 1995, Pepe, ivi, 1996, 594. La categoria dell’ammissibilità sembra, invece, fuori giuoco perché a fronte di una pena illegale il ricorso è fondato, e nell’altra ipotesi no.
— 528 — Il profilo negoziale, d’altra parte, non deve essere sopravvalutato: « l’equivoco sta nel presupporre interessi disponibili » (106). Non si può, neppure in una prospettiva de iure condendo, concepire, alla stregua degli artt. 101 e 111 Cost., che accordi illegittimi, ancorché ratificati dal giudice, divengano, sia pure soggettivamente, inattaccabili (107). Il che, peraltro, è coerente con la preminente, quanto meno in sede storica, funzione, di garanzia « oggettiva » dell’ordinamento, assegnata alla Corte di cassazione (108). Giova, inoltre, ricordare che, al di là dell’indisponibilità dell’oggetto del processo, l’acquiescenza non assurge a cardine del processo penale (109), sicché niente osta a che l’imputato censuri la legittimità di un decisum promanante, perlomeno in parte, da una sua libera scelta. È, quindi, pienamente censurabile in cassazione ogni errore di diritto (110) rilevante ai sensi dell’art. 606, lett. b) (valga ad esempio l’erronea qualificazione giuridica del fatto (111) od errori di diritto nella comparazione delle circostanze, o l’applicazione di pena illegale) (112) nonché — sia pure riguardo ad un contesto giustificativo « contratto » — il vizio di motivazione (113). Il tutto, eccezion fatta per l’ipotesi di cui all’art. 606, lett. e), senza che la Corte incontri alcun limite nell’esame del materiale del processo (114). Ovvio, (106) Così F. CORDERO, Proc. pen., cit. 893; v. anche S. LORUSSO, Provvedimenti allo « stato degli atti » e processo di parti, Milano, 1995, 629, per il quale il principio dispositivo investe solo l’iniziativa probatoria e non l’oggetto del processo, nonché, G. DI CHIARA, Il contraddittorio, cit., 470. (107) Nel senso del testo, v. F. CAPRIOLI, Limiti di ricorribilità della sentenza patteggiata in caso di pena illegale, in Giur. it., 1993, II, 293. (108) Cfr. G. LATTANZI, La Corte di cassazione tra nuovo e vecchio processo penale, in Foro it., 1988, V, 453; e, per un’analisi attenta agli sviluppi più recenti, A. NAPPI, La corte di cassazione nell’ordinamento democratico: contributi giurisprudenziali all’evoluzione del diritto processuale penale, in Cass. pen., 1995, 2032. Per un inquadramento storico della Corte di cassazione resta fondamentale P. CALAMANDREI-C. FURNO, voce Cassazione civile, in Nss.D.I., II, Torino, 1957, 1059. (109) Svolge importanti considerazioni in proposito Cass., Sez. un., 8 luglio 1994, Buffa, in Cass. pen., 1994, 2933, con nota di D. POTETTI, Riesame, appello e revoca in tema di misure cautelari. Sul punto, in dottrina, cfr. G. SPANGHER, Le sezioni unite sui rapporti tra riesame e revoca dei provvedimenti cautelari, in Dir. pen. proc., 1995, 73. (110) Cass., Sez. V, 18 ottobre 1993, Casanova, in Riv. pen., 1994, 513. (111) Cfr. Cass., Sez. I, 24 novembre 1993, Lucchesi, in Cass. pen., 1996, 598. (112) V. Cass., Sez. I, 14 aprile 1994, Marchese, in Cass. pen., 1995, 1263, e Cass., Sez. III, 27 aprile 1993, Ben, ivi, 1995, 128, che rilevano di ufficio, per l’appunto in relazione a sentenze « patteggiate », il vizio in discorso. V. anche Cass., Sez. I, 22 maggio 1992, Riccardi, in Giur. it., 1993, II, 756; Cass., Sez. V, 14 febbraio 1992, p.m. in c. De Santi, in Cass. pen., 1994, 1000; Cass., Sez. I, 3 luglio 1991, P.G. Mil. in c. Musto, in Arch. n. proc. pen., 1992, 434; e, in dottrina, A.M. ROMANO, L’irrilevanza dell’errore di calcolo nella determinazione della pena patteggiata, in Giur. it., 1994, II, 121. (113) A detta di F. CORDERO, Proc. pen., cit., 893, « affermi o neghi il giudice deve spiegare perché abbia deciso così ». In giurisprudenza v. Cass., Sez. V, 14 giugno 1993, Onnis, in Cass. pen., 1995, 654; Cass., Sez. IV, 16 aprile 1993, p.m. in c. De Rosa, in Giur. it., 1994, II, 570, con nota di S. SAU, Sulla motivazione della sentenza che applica il patteggiamento; Cass., Sez. II, 22 maggio 1992, Ruggeri, in Arch. n. proc. pen., 1993, 121, che ha annullato una sentenza in cui non erano indicati gli elementi costitutivi dell’illecito; Cass., Sez. IV, 4 maggio 1992, p.m. in c. Doudu, ivi, 1992, 753; Cass., Sez. VI, 13 novembre 1990, p.m. in c. Palladini, in Giur. it., 1991, II, 408, con nota T. TREVISSON LUPACCHINI, In tema di motivazione della sentenza che applica la pena su richiesta delle parti, la quale individua un onere motivazionale più rigoroso allorquando venga mutata la qualificazione giuridica del fatto. (114) Cfr. A. NAPPI, in margine a Cass., Sez. II, 22 maggio 1990, p.m. in c. Bianchi, cit. Non può quindi condividersi l’affermazione secondo cui la mancata rilevazione dell’art. 129 sia censurabile solo se dalla motivazione risulti ictu oculi la sussistenza delle condizioni
— 529 — peraltro, che, difettando in primo grado un’iniziativa probatoria, sia da escludere un attacco al provvedimento ex art. 606, lett. d) (115). Più articolata analisi merita l’interrogativo in ordine alla censurabilità del mancato proscioglimento ai sensi dell’art. 129 (116). Prima facie, è indiscutibile che possa sindacarsi la mancata rilevazione di una causa di proscioglimento risultante dagli atti al momento della decisione (117). Si rimarchi come in un simile controllo la cassazione non incontri alcun limite nell’accesso al materiale del processo (118). La sentenza che applichi, in detta situazione, la pena richiesta viola, sul piano della legge sostanziale, le norme costitutive della fattispecie di proscioglimento, rispetto alle quali, sia l’art. 129 (119) che l’art. 445, esplicano una mera funzione servente o, se si preferisce, strumentale. Ne consegue che, pure qualora il ricorrente assuma violata la norma processuale, l’impugnazione, per omessa declaratoria ex art. 129, è da intendersi come proposta ai sensi dell’art. 606, lett. b), norma che, come accennato, non contiene la clausola restrittiva prevista, alla lett. e), per il solo vizio di motivazione. Quanto, invece, alle cause sopravvenute all’emanazione della pronuncia occorre distinguere in relazioni ai possibili significati della « novità ». Se è la causa stessa ad essere sopravvenuta all’emanazione della sentenza ex art. 445 (si pensi alla maturata prescrizione), non vi è dubbio che la cassazione debba annullare senza rinvio il provvedimento impugnato. Gli artt. 129, 609, comma 2, e 620 non consentono perplessità al riguardo. Diverso è il caso in cui la novità della causa di proscioglimento consista nel fatto che siano emersi, successivamente alla pronunzia della sentenza, gli elementi di fatto che ne codi proscioglimento: in tal senso, invece, Cass., Sez. I, ord. 11 dicembre 1992, Grassi, in Arch. n. proc. pen., 1994, 247. (115) In tal senso v. A. MACCHIA, Il patteggiamento, cit., 100. (116) E. LUPO, Processi senza dibattimento, cit., 730, ritiene che sia deducibile in cassazione il profilo in discorso. (117) Resta da sciogliere il rebus relativo alla causa estintiva, segnatamente la prescrizione, che diviene operante solo a seguito della qualificazione giuridica operata dalle parti. Cass., Sez. IV, 18 gennaio 1996, Fontanive, in Arch. n. proc. pen., 1996, 420, ha ritenuto, in relazione a fattispecie in cui l’accordo comprendeva il riconoscimento di attenuanti, che il giudice non possa dichiarare l’estinzione del reato in quanto la cornice giuridica apprestata dalle parti deve ritenersi meramente strumentale alla quantificazione della pena. L’assunto, a prescindere dalla artificiosità della ricostruzione, non pare da condividersi. Il giudice, nell’emanare sentenza, fa proprio, esercitando un potere di controllo attribuitogli sin dalla stesura originaria del codice, l’accordo delle parti anche in punto di qualificazione giuridica e di concessione delle attenuanti, tanto che, ove non lo ritenga corretto, pur, si badi bene, reputando la pena congrua, deve rigettare la richiesta. Ovvio che nel momento in cui l’inquadramento della fattispecie venga condiviso (rectius fatto proprio) dal giudice sorge, per ques’ultimo, il dovere di applicare l’art. 129. Appare, però, assai incoerente con la ratio dell’applicazione della pena su richiesta che la si adoperi, in modo tanto strumentale, per conseguire una sentenza di proscioglimento. La via d’uscita può consistere nel ritenere, valorizzando il dato testuale, inteso a consentire all’imputato e al p.m. di chiedere (solo) una pena, che la richiesta di patteggiamento, formulata in termini tali da integrare una causa di proscioglimento, debba ritenersi inammissibile. In tal senso parrebbe orientata Cass., Sez. IV, 10 maggio 1993, P.G. in c. Bicocchi, in Arch. n. proc. pen., 1994, 93. Ammette, invece, la declaratoria di estinzione del reato, sempre avuto riguardo alla fattispecie in esame, Cass., Sez. VI, 5 novembre 1993, Branche, ivi, 1994, 543. (118) Contra M. CURTOTTI, Sull’inammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 129 c.p.p. fondato su elementi probatori non conoscibili allo stato degli atti, in Cass. pen., 1995, 1593; E. MARZADURI, sub art. 129, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, II, Torino, 1990, 123; nonché, in giurisprudenza, Cass., Sez. V, 18 settembre 1994, Visconti, in Cass. pen., 1996, 600. (119) Per l’affermazione che non occorre l’evidenza della causa di proscioglimento v. Cass., Sez. IV, 26 novembre 1993, Scacco, in Cass. pen., 1995, 124; Cass., Sez. III, 7 luglio 1993, p.m. in c. Picano, in Arch. n. proc. pen., 1994, 249.
— 530 — stituiscono il substrato. In tal caso, la risposta dev’essere senz’altro negativa (120). E ciò, è opportuno sottolinearlo, in forza non di un’asserita — ma sempre più discussa — incompetenza funzionale della cassazione a decidere il merito, bensì del carattere chiuso del relativo giudizio. Esclusa ogni forma di attività istruttoria, gli elementi idonei a dimostrare l’applicabilità dell’art. 129 non entreranno a far parte dell’orizzonte della suprema Corte. In altri termini, non sono i limiti decisori ad inibire la declaratoria in discorso, bensì è la ristrettezza dei poteri cognitivi (rectius istruttori) che costituisce l’ostacolo davvero insuperabile. L’assetto è, peraltro, perfettamente coerente alla tipologia del controllo in cassazione nel quale i vizi della sentenza costituiscono l’oggetto stesso del ricorso: ovvio che se non risulta — ab origine ed ex actis— la causa di proscioglimento, non è dato neppure rinvenire alcun errore nella decisione impugnata. Resta aperta all’imputato che abbia patteggiato la strada della revisione (121), a condizione, beninteso, che la causa di proscioglimento fosse « ontologicamente » antecedente all’applicazione della pena su richiesta. A conferma di quanto sin qui sostenuto, si noti come il potere di attaccare in sede di revisione il « patteggiamento » confermi l’inesistenza di un divieto dell’agire contra factum proprium nell’ambito del processo penale: la legge del processo non esige mosse coerenti ma, solo, decisioni conformi al diritto. 8.1. (Segue): la scelta tra annullamento con e senza rinvio. — La tensione, denunciata in premessa, tra riti speciali e giudizio di legittimità emerge prepotente ove si tenti di mettere a fuoco il provvedimento che la Corte di cassazione deve adottare una volta riscontrata la violazione di una legge sostanziale nella sentenza che abbia recepito l’accordo tra le parti. Un solo punto è certo: in nessun caso la Corte di cassazione potrà, ex art. 619, lett. l), emettere una pronuncia rescissoria che emendi la sentenza che abbia ricalcato l’errore delle parti. Paradigmatica, al riguardo, la situazione in cui il giudice abbia ratificato una pena illegale: la diretta reductio ad ius introdurrebbe un’inammissibile discrasia tra la sentenza e la richiesta delle parti che, ancorché illegittima, ne costituisce l’indefettibile antecedente logico e giuridico (122). Sui provvedimenti conseguenti, la giurisprudenza è divisa: ad alcune pronunce che si schierano per l’annullamento senza rinvio (123), pur con contestuale trasmissione degli atti al giudice del dibattimento, se ne contrappongono altre che, evidenziando come l’annullamento non travolga l’accordo delle parti, rinviano al giudice, il quale, in ossequio al dictum della cassazione, dovrà rigettare la proposta (124). (120) Cfr. Cass., Sez. IV, 4 ottobre 1994, Pozzati, in Giur. it., 1996, II, 160; Cass., Sez. III, 25 maggio 1993, Facella, in Foro it., 1994, II, 84; Cass., Sez. VI, 8 novembre 1991, Di Lizio, in Arch. n. proc. pen., 1992, 435. (121) Cass., Sez. VI, 15 aprile 1994, Castigliola, in Cass. pen., 1996, 605; Cass., Sez. VI, 26 ottobre 1993, Trommanco, ivi, 1995, 2643, ammettono la revisione avverso la sentenza che applica la pena su richiesta. In dottrina, nello stesso senso, A. NAPPI, Guida, cit., 648, argomentando in forza dell’equiparazione a sentenza di condanna di cui all’art. 445, comma 1. (122) Cfr. Cass., Sez. I, 14 marzo 1995, p.m. in c. Panariello, in Arch. n. proc. pen., 1995, 1044; Cass, Sez. I, 12 novembre 1993, Boccanera, in Cass. pen., 1995, 652; Cass., Sez. I, 11 giugno 1992, Sania, ivi, 1994, 366; Cass., Sez. IV, 1o giugno 1992, Gallorini, ivi, 1994, 365; Cass., Sez. II, 11 dicembre 1991, Galota, in Arch. n. proc. pen., 1992, 570. In dottrina v. A.M. ROMANO, L’irrilevanza, cit., c. 122. (123) Cass., Sez. I, 14 marzo 1995, Capurso, in Cass. pen., 1996, 1910; Cass, Sez. I, 12 novembre 1993, Boccanera, cit.; Cass., Sez. V, 22 settembre 1993, Curci, in Cass. pen., 1994, 2506; Cass., Sez. I, 6 febbraio 1992, in Giust. pen., 1993, III, 564; Cass., Sez. I, 11 giugno 1992, p.m. in c. Sania, cit. (124) Cass., Sez. I, 4 novembre 1993, Melone, in Cass. pen., 1995, 652; Cass., Sez. V, 22 ottobre 1993, Bulagna, ivi, 1994, 2505; Cass., Sez. V, 18 febbraio 1992, p.m. in c. Ragozzino, in Arch. n. proc. pen., 1992, 570; Cass., Sez. II, 11 dicembre 1991, Galota, cit.
— 531 — La seconda soluzione, ancorché antieconomica, sembra l’unica praticabile (125): avuto riguardo agli errores in iudicando l’annullamento senza rinvio è congeniale alle sole ipotesi in cui emendato l’errore di diritto, la cassazione possa, sulle premesse nel merito correttamente poste dal giudice del fatto, emanare direttamente una sentenza di proscioglimento. Si rifletta sulla circostanza che, ad argomentare nel senso dell’annullamento senza rinvio, mal si giustificherebbe il vincolo per il giudice, in seguito investito d’identica richiesta, di non reiterare l’errore foriero dell’annullamento. In verità, all’inconveniente da ultimo denunciato è agevole replicare: per un verso, le decisioni della cassazione culminanti nell’annullamento senza rinvio per vizio in iudicando, possiedono, per esigenze di coerenza sistematica, forza tale da impedire che si adotti, in seguito, una decisione identica a quella viziata; per l’altro, appare dubbia, in generale, la stessa reiterabilità della richiesta di patteggiamento rigettata, e ciò a prescindere dall’iter procedurale antecedente. Non si può fare a meno, al riguardo, di ricordare come la Corte Costituzionale, nel dichiarare, con la sentenza n. 439 del 1993, infondati i dubbi di legittimità relativi agli artt. 34 e 444 laddove, nella prospettazione del giudice remittente, consentirebbero al pubblico ministero ed all’imputato, tramite reiterate richieste identiche, di procrastinare sine die il giudizio, abbia escluso che si possano riproporre petita identici a quelli in precedenza rigettati (126). Altro, e più sottile, è il punto di crisi della ricostruzione che qui si contrasta: nonostante i rilievi di cui si è dato atto, non potrebbe, comunque, affermarsi su solide basi positive, l’illegittimità, per violazione del vincolo promanante dalla sentenza di annullamento, della decisione che, nel pronunciare su diversa istanza concorde, o, al limite, all’esito del processo ordinario, incorresse nello stesso errore di diritto. In verità, il disagio che si percepisce nell’inquadrare alla stregua di un annullamento con rinvio la decisione che rimuova la sentenza applicativa della pena su richiesta è da rinvenirsi nella circostanza che la pronuncia annullata viene emessa anteriormente alle formalità di apertura del dibattimento, in carenza di un processo di merito finalizzato all’integrale risoluzione della regiudicanda. Non sfugga, in proposito, il carattere, peculiare a tale decisione, di non contenere, secondo parte della dottrina cui si aderisce, oltre all’accertamento fattuale, neanche una statuizione in punto di responsabilità (127). Cosicché, a seguito dell’annullamento, il processo, lungi dal dover « proseguire » dovrà principiare ex novo. Entra così in crisi, la correlazione, individuata dalla dottrina, tra la tipologia dell’errore rilevato dalla cassazione e il carattere del giudizio di rinvio. Ci si riferisce alla circostanza per cui, solitamente, le violazioni di legge sostanziale, al pari del vizio di motivazione, comportano l’esigenza di dar vita a un nuovo esame del merito sul presupposto che le fasi processuali posseggano i caratteri indispensabili per considerarsi esaurite: si origina, così, un rinvio « prosecutorio » (128). Diversamente accade quando (125) A. NAPPI, Guida, cit., 640, parrebbe, sia pure per ragioni diverse, orientato nel senso del testo. (126) Cass., Sez. I, 19 giugno 1991, p.m. in c. Civitarese, in Giur. it., 1992, II, 427, con nota critica di G. DE DONNO, Rigetto e riproponibilità della richiesta nell’applicazione di pena « negoziata », pare implicitamente escludere tale eventualità col ritenere legittima una nuova richiesta « con contenuto diverso », nonché, in dottrina, P.P. RIVIELLO, La Corte costituzionale fornisce un ulteriore contributo nell’individuazione delle cause di incompatibilità del giudice, in Giur. cost., 1993, 3601, il quale esclude, aderendo alla sentenza costituzionale citata nel testo, la reiterabilità di richieste identiche già rigettate. (127) Cfr. P. FERRUA, Anamorfosi, cit., 32; contra G. LOZZI, Lezioni, cit., 229; ID., La legittimità costituzionale del c.d. patteggiamento, in questa Rivista, 1990, 1602. V. anche nota 40. (128) Così E. AMODIO, Rinvio prosecutorio e reformatio in peius, in Riv. dir. proc., 1975, 546, il quale fa riferimento ad una distinzione, operata in relazione al giudizio di rinvio nel processo civile, risalente, a E. RICCI, Il giudizio civile di rinvio, Milano 1967, 71 e 305. V. anche G. SPANGHER, voce Reformatio in peius, in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, 302.
— 532 — venga rilevato un error in procedendo: in tal caso « il processo deve tornare indietro affinché si attui ritualmente ciò che è avvenuto irregolarmente » (129). Il fatto che l’applicazione della pena si caratterizzi quale « decisione senza processo », sicché è intuitiva l’impossibilità di designare il rinvio per error in iudicando come prosecutorio, rompe in breccia il nesso tra la tipologia dell’errore e i caratteri del giudizio conseguente all’annullamento inducendo a scartare la soluzione del rinvio. Occorre però riflettere sulla circostanza che la correlazione cui si è fatto riferimento, pur esatta, non passa il segno di una valenza meramente descrittiva riguardante l’id quod plerumque accidit. Il punto merita attenzione: anche avuto riguardo ai processi ordinari la necessità del rinvio a seguito della rilevazione dell’error in iudicando, ed il carattere prosecutorio, nascono da esigenze logicamente autonome. La necessità del rinvio trae origine dalla carenza di potere della cassazione nel provvedere direttamente, laddove il carattere prosecutorio di quest’ultimo, dipende, solo e soltanto, dall’attività posta in essere anteriormente alla sentenza annullata. Si vuol dire che il nesso tra l’errore rilevato ed il carattere del rinvio disegna con efficacia l’usuale atteggiarsi dei rapporti tra giudizio di cassazione e seguito innanzi al giudice del merito, ma non risponde a nessuna esigenza di carattere logico o normativo. Sicché non è da escludere il legame possa, anche fuori dai casi di sentenza patteggiata, spezzarsi: si faccia il caso di una sentenza predibattimentale, emessa ex art. 469, che abbia erroneamente dichiarato estinto il reato. Nessuno dubiterebbe che l’annullamento, da pronunciarsi senz’altro con rinvio per error in iudicando, si colori in modo fortemente « restitutorio ». La particolare natura della sentenza che applica la pena su richiesta, e, segnatamente, la circostanza che essa venga emanata preliminarmente ad ogni attività istruttoria in senso stretto, impone di rimeditare la trama della correlazione. Si tratta, in ultima analisi, di concepire, nei confronti delle sentenze emesse ai sensi dell’art. 445, un annullamento con rinvio in funzione « restitutoria » originato dalla rilevazione di un error in iudicando. Nella ricostruzione offerta, rinvio e carattere « restitutorio » del seguito innanzi al giudice del merito, soddisfano esigenze autonome. Il primo consente al processo di giungere al suo sbocco naturale evitando, al contempo, la ripetizione dell’error in iudicando determinante l’annullamento. Il secondo scaturisce dalla particolare struttura — che esclude un accertamento in fatto — del procedimento ex art. 445. Dal resto, l’esigenza, avvertita dalle decisioni che propendono per l’annullamento senza rinvio, di svincolare il processo dai limiti stabiliti dall’art. 627, onde consentire una plena cognitio al giudice del merito, non dev’essere sopravvalutata. Infatti « la regola di base del giudizio di rinvio è data dalla reviviscenza della situazione giuridica propria della fase processuale in cui il processo è riportato » (130) che, nella fattispecie in esame, corrisponde al momento del controllo giurisdizionale sulla richiesta. I vincoli per il giudice di rinvio, trovano origine, essenzialmente, in due fattori: l’imperatività della sentenza della cassazione e le preclusioni che investono i capi non colpiti da annullamento. Vale a dire, da un lato, che il giudizio rescissorio è già stato iniziato dalla cassazione enunciando il principio di diritto, dall’altro, che alcuni temi sono ormai intangibili. Se, come già detto, i limiti del primo tipo sono — addirittura — funzionali al sistema, in quanto impediscono la ripetizione dell’errore già causa dell’annullamento, i secondi attesa la particolare natura della sentenza patteggiata, cui è alieno ogni accertamento fattuale, sono insuscettibili di prodursi (131). 9. La specialità dei riti e del vizio di motivazione: interazioni. — È noto che la patologia dell’apparato argomentativo delle decisioni presenti profili assai particolari: pur consistendo in un vizio formale dell’atto essa non intacca la validità del procedimento di cui segna l’epilogo. (129) V. ancora E. AMODIO, Rinvio, cit., 546. (130) Così G. PETRELLA, Le impugnazioni, cit., II, 550. (131) V. infra, § 14.
— 533 — Sulla scorta della premessa data, si individua, subito, un punto fermo valido per ambedue i riti speciali. L’annullamento ex art. 606, lett. e) — da disporsi a tutta evidenza con rinvio — non potrà in alcun caso riverberarsi sull’atto negoziale d’innesco del rito. Il giudizio di rinvio, pertanto si configurerà come sviluppo dell’originaria istanza. Ma le peculiarità del vizio di motivazione, combinandosi con i momenti di specialità dei riti senza dibattimento, causano, ove vengano attivati i rimedi impugnatori, nodi processuali complessi. Emergono, in particolare, due punti problematici, relativi, rispettivamente, al giudizio abbreviato e alla sentenza che applica la pena su richiesta: ci si riferisce agli effetti della conversione in appello del ricorso della parte pubblica avverso la sentenza di condanna emanata ai sensi dell’art. 442 ed alla particolare fisionomia del giudizio di rinvio qualora venga annullata per difetto di motivazione una sentenza che applica la pena su richiesta. 9.1. (Segue): la conversione del ricorso, ex art. 606, lett. e), in appello. — Può accadere che nei confronti di una decisione di condanna pronunziata ex art. 442 concorrano l’appello dell’imputato ed il ricorso del p.m. che si dolga, per l’appunto, del vizio di motivazione. Posto che l’inscindibilità della regiudicanda penale non tollera scomposizioni (132), la trattazione unitaria è assicurata dal meccanismo di cui all’art. 580: il ricorso della parte pubblica si converte in appello (133). Sennonché il vizio di motivazione si atteggia, nei due giudizi, in modo marcatamente diverso. Come è stato autorevolmente osservato, il difetto de quo « assume rilievo solo in cassazione: importano poco i motivi della sentenza appellata; l’organo ad quem provvede sul merito » (134). Il riesame sul fatto è destinato ad inglobare, privandolo di autonomia, il vizio che ne affetti il precipitato formale. All’opposto, nel giudizio di cassazione, il vizio in discorso si atteggia alla stregua del difetto di un requisito di forma: ciò di cui si discute è, stando a schemi assai risalenti, solo la validità e non la giustizia della sentenza. Coerentemente, in tale sede, sia la rilevabilità del vizio che i poteri decisori della Corte sono ristretti in limiti assai angusti (135) irriducibili rispetto alla funzione adempiuta dal giudizio di appello. Il punctum dolens si coglie in relazione ai possibili esiti dell’impugnazione convertita. Cosa accade se il giudice di appello, di fronte ad una motivazione perfettamente coerente e logica, o comunque inattaccabile ex art. 606, lett. e), addivenga ad un convincimento diverso, e peggiorativo della situazione dell’imputato, rispetto a quello della sentenza impugnata dalla parte pubblica? Si noti una particolarità: ove il giudizio si fosse svolto innanzi al giudice originariamente competente avrebbe sortito un rigetto; la conversione, invece, sembra consentire, addirittura, una pronuncia, di carattere rescissorio tale da riformare in peius (132) V. F. CORDERO, Proc. pen., cit., 967. (133) Cfr. Cass., Sez. VI, 27 marzo 1992, Docci, in Arch. n. proc. pen., 1992, 767; Cass., Sez. VI, 15 aprile 1991, Galioto, ivi, 1992, 767. Non persuade A. GAITO, Condanna a seguito di giudizio abbreviato e limiti all’appello del p.m., in Giur. it., 1993, II, 632, laddove afferma che « un ricorso può convertirsi in appello se e quando questo mezzo d’impugnazione era proponibile, ma non già ove era precluso proporlo ». Attento a non vanificare i benefici in punto di appellabilità insiti nella celebrazione del processo nelle forme del giudizio abbreviato, l’A. non individua, però, il modo di far giungere il processo al suo esito qualora la decisione venga attaccata con mezzi d’impugnazione diversi. Nel senso del testo v. A. MAZZARRA, Problemi vecchi e nuovi in tema di conversione dei mezzi d’impugnazione, in Rass. giur. umbra, 1993, 121. (134) Così F. CORDERO, Proc. pen., cit., 974. Per E. AMODIO, voce Motivazione sentenza penale, in Enc. dir., XXVII, Milano, 1977, 202, in appello la nullità per vizio di motivazione è del tutto platonica. (135) P. FERRUA, Il sindacato di legittimità sul vizio di motivazione nel nuovo codice di procedura penale, in Cass. pen., 1990, 964, è fortemente critico sulle restrizioni al controllo sulla motivazione introdotte con il nuovo codice.
— 534 — finendo, così, con « l’assurgere a fonte di produzione giuridica » (136). La discrasia è poi aggravata dal potere accordato al giudice di appello (137) — e ovviamente non spettante alla Corte di cassazione — di assumere nuovi mezzi di prova al fine di rinnovare il convincimento in fatto. Il profilo non pare di poco momento, ma è possibile complicare ancora il quesito. Basti considerare che gli atti d’impugnazione possono colpire parti diverse della sentenza: ad esempio, appellata dall’imputato la sentenza in punto di determinazione della pena, il concorrente ricorso del pubblico ministero, convertito ex art. 580, lamenta l’omessa motivazione su di una circostanza aggravante denegata. In tal caso, può persino accadere che entrambe le doglianze siano fondate. Che dire, infine, dell’ulteriore circostanza per cui, stando alla lettera della legge, il meccanismo della conversione del ricorso, implicante le anomalie appena denunciate, pare attivarsi in modo irreversibile, a prescindere dall’ammissibilità dell’appello dell’imputato? Non giova ad armonizzare l’assetto neanche l’argomento che « la conversione non comporta la modifica dei contenuti dell’impugnazione » (138). Se l’assunto convince avuto riguardo alla maggior parte dei « casi di ricorso » indicati dall’art. 606, altrettanto non vale per il difetto di motivazione, la cui fenomenologia si configura in rapporto al tipo di gravame al quale soggiace l’atto viziato (139). Ciò significa che la struttura del giudizio d’impugnazione nel quale il vizio è fatto valere pare atteggiarsi, addirittura, alla stregua di una coordinata di riferimento rilevante nel disegnare la stessa natura dell’invalidità denunciata. Non pare, a tal punto, un azzardo sostenere che la censura ex art. 606, lett. e), subisca, in forza della conversione del ricorso, una mutazione genetica: da vizio della sentenza a censura dell’accertamento in fatto di cui la motivazione, in fin dei conti, non rappresenta nient’altro che lo specchio. La disarmonia denunciata non è suscettibile di essere emendata in via interpretativa. Non vi è opzione ermeneutica o considerazione sistematica che induca a ritenere che il giudice d’appello — cui è connaturale l’investitura di un nuovo giudizio su tutta o una parte della vicenda già esaminata — debba valutare del vizio in discorso come « sedesse in cassazione », ossia autolimitandosi sino a rendere congrui i propri poteri decisori a quelli della Corte. Unico è il punto fermo da cui prendere le mosse per limitare gli inconvenienti messi in risalto: il ricorso deve, comunque, possedere i requisiti di ammissibilità stabiliti dall’art. 606. Rimangono, perciò, refrattari alla conversione — di talché al relativo accertamento deve provvedere la Corte d’appello (140) — quei ricorsi che, sin dall’origine, consistessero in censure in ordine all’accertamento di fatto non sublimate in critiche all’apparato argomentativo (141). Ci si riferisce agli atti impugnatori che, in cassazione, sarebbero stati dichiarati inammissibili, ex art. 606, comma 3, perché proposti per motivi non consentiti. È così possibile puntualizzare lo iato, creato dal meccanismo di cui all’art. 580: esso riguarda le censure relative al vizio di motivazione che, infondate, ma pur sempre ammissibili, alla (136) Così A. GAITO, Limiti, cit., 632; sul punto v. anche M. MONTAGNA, L’appello nel giudizio abbreviato, in Studi sul processo penale in ricordo di Assunta Mazzarra, Padova, 1996, 330. (137) Cass., Sez. un., 13 dicembre 1995, Clarke, in Arch. n. proc. pen., 1996, 52, ha affermato che la celebrazione, in primo grado, con le forme del rito abbreviato non è di ostacolo, in appello, all’assunzione di ufficio di nuovi mezzi di prova. (138) Così Cass., Sez. un., 18 giugno 1993, Rabiti, in Cass. pen., 1994, 558. In dottrina, v. G. SPANGHER, I profili soggettivi dell’appello incidentale nella giurisprudenza delle sezioni unite, ivi, 1994, 559. (139) Così, quasi testualmente, F. CORDERO, Scrittura, cit., 183, nota 20. (140) Pare infatti che l’inammissibilità debba essere dichiarata dal giudice competente a decidere il merito. In argomento, sia pure non esattamente in termini, v. Cass., Sez. VI, 19 dicembre 1992, Mefthai Sami, in Cass. pen., 1996, 694. (141) Cfr. A MAZZARRA, Problemi, cit., 122.
— 535 — stregua di ricorsi, divengano, attraverso il nuovo accertamento di fatto devoluto al giudice di appello, meritevoli di accoglimento quali appelli (142). Quanto, infine, ai profili relativi all’inammissibilità dell’appello che innesca la conversione, esigenze di armonia sistematica suggerirebbero di considerare, in via interpretativa, l’intero meccanismo come risolutivamente condizionato alla declaratoria d’inammissibilità dell’impugnativa della parte privata (143). Occorre, però, dare atto che il tenore testuale dell’art. 580 è di segno opposto, sicché, non senza ragione, la giurisprudenza è ferma (144) nel ritenere che la conversione si attivi irreversibilmente, ossia a prescindere dalle successive vicende dell’appello, fatte salve, ovviamente, le sole cause originarie d’inammissibilità dell’impugnazione (145). 9.2. (Segue): il giudizio di rinvio dopo annullamento per vizio di motivazione della sentenza che applica la pena su richiesta. — Annullata per difetto di motivazione una sentenza che applica la pena su richiesta delle parti si dà la seguente alternativa. Può accadere che il giudice ritenga di poter adempiere correttamente all’obbligo di motivazione già violato: in tal caso, nulla quaestio, egli applicherà la pena originariamente richiesta. Qualora, invece, il giudice ritenga di non essere in grado di provvedere a tale adempimento, rigetterà, con ordinanza, la richiesta. Si noti, ancora una volta, l’adattamento che gli usuali strumenti di analisi debbono subire. Nella prima ipotesi, il giudizio di rinvio si configura come « prosecutorio » rispetto al pregresso esame, che si va a completare, degli atti di causa, nella seconda emerge una caratterizzazione in senso « restitutorio ». Anzi, per l’esattezza, ad una prima fase prosecutoria, culminante nella reiezione dell’accordo, segue una mutazione. La necessità di procedere, ove le parti non addivengano a diverso accordo, nelle forme ordinarie caratterizza in senso « restitutorio » il seguito del processo. 10. La « definibilità » allo stato degli atti. — Il controllo in ordine alla legittimità del diniego al rito abbreviato da parte del giudice dell’udienza preliminare e quello relativo all’ingiustificato dissenso del pubblico ministero possono trattarsi unitariamente, stante l’identità, in ultima analisi, del parametro capace di ostacolare la celebrazione, ossia la « non decidibilità allo stato degli atti ». Non importa, in questa sede, approfondire tale nozione, invero assai sfuggente (146), interessa, invece, indagarne la natura alternativamente sostanziale o processuale. Se appare addirittura ovvio che il giudice di appello, richiesto di applicare la diminuente, decida con gli stessi poteri del giudice della sentenza impugnata, cosicché l’interrogativo pare assumere un sapore « nominalistico », le difficoltà affiorano, privando il quesito di oziosità, allorquando si tratti di delineare i limiti del sindacato della Corte di cassazione. La giurisprudenza, con il conforto della dottrina, è ferma nel ritenere che il controllo sul (142) Cass., Sez. VI, 15 dicembre 1993, De Leonardo, in Cass. pen., 1995, 2927, con nota di P. DELL’ANNO, converte il ricorso per manifesta illogicità della motivazione. La peculiarità della fattispecie sta nel fatto che pure l’imputato aveva ricorso per saltum. (143) In tal senso A. MAZZARRA, Problemi, cit., 123, osservando che « quando uno dei gravami proposti è inammissibile ed è, quindi, inidoneo a promuovere il giudizio, che, in linea astratta, potrebbe porsi in contrasto con l’altro intentato da un diverso mezzo d’impugnazione, la conversione perde ogni sua ragion d’essere e non può produrre alcun effetto ». (144) Cfr. Cass., Sez. VI, 5 aprile 1994, Chimenti, in Arch. n. proc. pen., 1995, 496; Cass., Sez. VI, 15 dicembre 1993, De Leonardo, cit. (145) Cfr. Cass., Sez. IV, 14 giugno 1996, Zuliani, in Arch. n. proc. pen., 1995, 496. (146) Su cui v. F. CORDERO, Proc. pen., cit., 900, G. GIOSTRA, Primi interventi della Corte Costituzionale in materia di giudizio abbreviato, in Giur. cost., 1990, 1291; F.M. IACOVELLIO, « Parere » del p.m. e decidibilità, cit., 1686; ID., Motivazione e impugnabilità dell’ordinanza del g.i.p. che decide sulla richiesta di giudizio abbreviato, in Cass. pen., 1992, 677; A. NAPPI, Guida, cit., 424.
— 536 — punto debba limitarsi alla verifica in ordine alla congruità logica della motivazione dell’ordinanza denegante il rito (147). La ricostruzione non persuade. Per argomentare in senso opposto, cioè della piena sindacabilità, non è necessario rifarsi ai numerosi contributi dottrinali volti a smentire il diffuso luogo comune per cui alla Corte di cassazione sono inibiti giudizi di merito. Neppure si deve distinguere tra giudizio nel merito, implicante la risoluzione della quaestio facti, inibito alla suprema Corte, e giudizio sul merito (148), consentito in cassazione. Il quesito si scioglie, addirittura, a monte: riposa nel discrimine tra merito (149), al cui interno si colloca il « distinguo » appena evidenziato, e rito, rispetto al quale la cassazione possiede plena cognitio estesa anche alla verifica in ordine alla sussistenza in fatto dei presupposti dell’error in procedendo denunciato. Se per « merito » si intende il tema del « giudizio attorno ad una situazione il cui modello è offerto dalle norme del diritto sostanziale » (150), è addirittura intuitiva l’estraneità degli interrogativi in ordine al parametro di cui all’art. 440 ad un novero così delimitato e, a fortiori, all’ambito della quaestio facti dibattuta nei gradi precedenti. Trattasi, invece, con tutta evidenza, di una questione attinente al « rito », entrando in giuoco nient’altro che l’osservanza di una regola del processo (151). Non deve, insomma, far velo all’analisi la circostanza che il controllo in ordine alla decidibilità si snodi attraverso l’esame degli stessi elementi rilevanti per la ricostruzione del fatto o, al limite, ripercorra gli stessi itinerari mentali volti a sciogliere il dilemma assoluzione-condanna: ciò che conta non è l’operazione logica compiuta dal giudice bensì la natura del quesito devoluto. Il tralignamento dell’impostazione che qui si contrasta è identico a quello che si verifica ogni qualvolta si lamenti il vizio di motivazione di un provvedimento che abbia rigettato una eccezione di nullità (152): il punto non è se il giudice abbia correttamente motivato quanto se la nullità invocata sussistesse. Altrettanto è a dirsi per la questione che ci occupa. Poco importa sapere se la motivazione del giudice fosse corretta, urge, invece, stabilire se il processo fosse, o no, definibile allo stato degli atti. Ecco il quesito sottoposto alla cassazione. È necessario, però, sciogliere un interrogativo prioritario ai profili sin qui affrontati. Occorre, addirittura, chiedersi se sia ammissibile, stante la tassatività del catalogo di cui all’art. 606, proporre in cassazione questioni attinenti al rispetto del parametro in discorso. Un primo argomento in senso positivo potrebbe rinvenirsi nella natura del presupposto in esame. Ritenendo che l’art. 440 detti un requisito di ammissibilità del rito, l’intera fattispecie integrerebbe la violazione, quale erronea declaratoria di una causa d’inammissibilità (153), di una norma presidiata dall’art. 606 lett. c). Non si riesce, però, a superare un forte disagio nel ricorrere alla categoria della inam(147) V. Cass., Sez. I, 4 novembre 1992, D’Agostino, in Giur. it., 1994, II, 192, con nota adesiva di S. BATTAGLIO; Cass., Sez. I, 10 febbraio 1992, Cramella, in Arch. n. proc. pen., 1992, 583; Cass., Sez. II, 17 gennaio 1992, p.m. in c. Pinna, in Giur. it., 1993, II, 54, con nota di A. NAPPI. (148) Secondo la ricostruzione coltivata da D. SIRACUSANO, Nuove prospettive per la cassazione penale, in questa Rivista, 1965, 669. (149) G. SPANGHER, In giudizio, cit., 590, adotta una terminologia un pò diversa nel definire i medesimi concetti, intendendo per giudizi di merito, quelli assistiti dal potere di formulare gli adeguati giudizi di valore, laddove i giudizi nel merito sarebbero contrassegnati dal potere di definire l’intera causa formulando i relativi giudizi storici. (150) Così F. CORDERO, voce Merito, cit., 578. (151) C. VALENTINI REUTER, In tema di sindacabilità dei presupposti del giudizio abbreviato, in Giur. it., 1992, II, 753, osservando come l’attività del giudice, in materia, sia vincolata a parametri precisi, stigmatizza il riferimento alla discrezionalità dell’organo giurisdizionale: « null’altro è che un travestimento eufemistico dell’invito para-emotivo alla coscienza del singolo; come se un codice di procedura non fosse fonte di regolamentazione dell’attività di tutti i soggetti del processo, compreso, evidentemente, il giudice ». (152) L’esempio è di E. AMODIO, Motivazione, cit., 236. (153) Cfr. G.G. DE GREGORIO, Le ordinanze, cit. 127.
— 537 — missibilità: posto che essa « riguarda gli atti di parte o di chi si fa parte » (154), la quadratura del cerchio riuscirebbe solo al costo di attrarre — con inaccettabile forzatura — la « decidibilità » tra i requisiti della richiesta di parte (155). Più corretto, invece, argomentare che la norma di cui all’art. 440, in ragione degli indubbi riflessi sostanziali, cada nel novero di quelle « di cui si debba tener conto nell’applicazione della legge penale », e che, quindi, il ricorso possa esperirsi ai sensi dell’art. 606, lett. b). Si rivela qui prezioso il contributo, risalente nel tempo (156), di chi ha avanzato un’ermeneusi dell’inciso contenuto nell’art. 524, comma 1, n. 1, del codice abrogato, tale da ricomprendervi alcune norme, quali le regole di giudizio per i casi dubbi, di chiara natura processuale e di certo estranee al catalogo dei vitia in procedendo. Anche allora, le perplessità generate dall’assenza di presidio in cassazione per i casi d’inosservanza, inducevano ad audaci apertura interpretative. Quanto ai provvedimenti adottabili, ove il ricorso sia accolto, consegue all’affermata natura squisitamente processuale del quesito che la cassazione provveda direttamente a risolverlo. Considerando poi che, una volta rilevato l’errore, dev’essere applicata una diminuente in misura fissa, non si rinvengono ostacoli alla pronuncia di un annullamento senza rinvio con diretta rideterminazione della pena ai sensi dell’art. 620, lett. l). 11. Il diniego della diminuente perché l’imputazione prevede la comminatoria dell’ergastolo. — A differenza della quaestio appena analizzata, la deducibilità ai sensi dell’art. 606 non suscita incertezze. Due sole sono, difatti, le prospettazioni con cui attaccare il diniego alla diminuente. O si stima la decisione inficiata in diritto nel qualificare il quid ostativo al rito — in tal caso la via è quella della lett. b) dell’art. 606 — oppure si assume che il giudice del dibattimento abbia errato nel reputare che la modifica dell’imputazione costituisse il portato dell’istruttoria dibattimentale. In tale ultima eventualità, è coerente alle premesse a suo tempo svolte, ritenere che l’unico sindacato spettante alla cassazione verta sulla congruità della parte motiva della sentenza. Ovvio, pertanto, che il ricorso aggredisca la decisione ai sensi — e nei limiti — di cui all’art. 606, lett. e). Problematica, invece, l’individuazione dei criteri idonei a fondare la scelta tra l’annullamento con rinvio e la diretta applicazione della diminuente ex art. 620, lett. l). Riemergono qui gli interrogativi di ordine generale sulla definibilità, in cassazione, della regiudicanda penale. La dottrina, da tempo abbandonato il discrimine fondato sul tipo di errore denunciato, si orienta ora nel senso di ritenere consentito l’annullamento senza rinvio nelle situazioni in cui, non sia necessario, da un lato, ricostituire la « preclusione sul merito propria della sentenza impugnata » (157), dall’altro, spendere poteri discrezionali (158). Tanto premesso, e tenuto altresì presente che l’erroneità dell’imputazione può giustificare il successivo recupero solo se risulti ex ante, è dato all’interprete individuare una direttiva di fondo. Si deve ritenere, in prima approssimazione, consentito alla Corte di applicare — in via diretta — la diminuente ogni volta che, rilevato l’error iuris nella qualificazione giuridica del quid implicante l’ergastolo, non si renda necessario un successivo accertamento in ordine alla quaestio facti. Se, all’opposto, l’insussistenza riguarda la ricorrenza fattuale del quid implicante l’erga(154) Così, da ultimo, G.P. VOENA, Atti, cit., 205. (155) Cass., Sez. un., 6 dicembre 1991, confl. in c. Di Stefano, in Giur. it., 1992, II, 720, qualifica il requisito in discorso come presupposto di ammissibilità. (156) M. CHIAVARIO, voce Norma giuridica (dir. proc. pen.), in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, 495. (157) Così D. SIRACUSANO, I rapporti, cit., 221. (158) Paradigmatica, sempre in tema di giudizio abbreviato, la situazione in cui il giudice del merito abbia applicato la diminuente in misura inferiore al terzo, sul punto v. Cass., Sez. II, 9 febbraio 1995, Turao, in Cass. pen., 1996, 1220, che ha rettificato la pena ex art. 619, comma 2.
— 538 — stolo, la necessità di disporre il rinvio consegue al tipo di controllo esercitato, circoscritto alla motivazione del provvedimento. Paradigmatico, in proposito, l’esempio della circostanza aggravante insussistente in facto et ex ante, che il giudice abbia, invece, ritenuto caduta soltanto ex post. Sennonché tali indicazioni, valide come criteri tendenziali, non esauriscono la trama che la commistione rito-merito disegna più variegata. Si consideri, infatti, la fattispecie idonea, secondo la prospettiva indicata, a permettere la diretta definizione, applicando la diminuente, della regiudicanda: la ritenuta insussistenza, in diritto, della circostanza aggravante consentanea dell’ergastolo. All’esito del dibattimento, la diminuente del rito può essere negata nei seguenti contesti decisori: o perché l’assunto dell’accusa trova conferma all’esito del dibattimento, o perché la circostanza aggravante venga ritenuta insussistente in facto ma solo con giudizio ex post (159). Ovvio che, qualora ricorrano circostanze attenuanti, oltre all’aggravante contestata, si inneschi il giudizio, dal triplice esito, di cui all’art. 69 c.p. Va escluso che la cassazione, nelle ipotesi di ritenuta equivalenza o prevalenza dell’aggravante, possa annullare la sentenza senza rinvio rideterminando la pena ex art. 620 lett. l): l’error iuris rilevato comporta due effetti, uno solo dei quali « automatico ». Dovrà certo applicarsi — in misura fissa e predeterminata — la diminuente del rito, ma sarà altresì necessario effettuare un nuovo giudizio di comparazione, da ritenersi eccentrico rispetto alla competenza della Corte. Niente sembra invece ostare alla definizione della regiudicanda in cassazione nelle ipotesi in cui il giudice di merito abbia valutato la circostanza — nella cui prospettazione si annida l’errore di diritto — insussistente in facto ma solo con giudizio ex post, o laddove, comunque, ne abbia dichiarato la soccombenza nel giudizio di comparazione. Qui l’errore viene rilevato in un contesto che si caratterizza per il previo esaurimento delle scelte discrezionali proprie del giudice del merito. Se questi sono i limiti di definibilità della regiudicanda in cassazione, allorquando si colga un error iuris sul quid ostativo al rito, residua un ulteriore quesito. Esso investe l’opposto versante, ossia il controllo, limitato, giova ripeterlo, alla motivazione di merito, in ordine all’insussistenza in facto, ex ante et ex actis, della preclusione al rito. L’interrogativo ruota attorno alla possibilità di enucleare una gamma di ipotesi tale da consentire alla cassazione, anche all’esito di siffatto controllo, di procedere a rideterminare la pena. La risposta dipende dalle opzioni adottate in ordine ai criteri di riparto tra annullamento con e senza rinvio. ove si aderisca alla tesi, sensibile alle esigenze di economia dei giudizi (160), secondo cui in generale, anche alla constatazione del vizio della parte motiva della sentenza può seguire una pronuncia di carattere rescissorio, diviene ragionevole ammettere, anche nel caso in esame, la soluzione dell’annullamento senza rinvio. Ciò, beninteso, nei soli casi in cui alla presa d’atto del vizio di motivazione consegua, alla stregua di effetto necessario, l’automatico correggersi dell’accertamento in fatto. Giova qui solo sottolineare che, anche ad accedere a detta tesi, di certo la più « liberale » nel definire i poteri « rescissori » della cassazione, il continuo intersecarsi della questione in ordine all’ammissibilità del rito con altre gravide di valutazioni discrezionali proprie del giudice di merito, limiterà assai, in concreto, l’attivarsi dell’annullamento senza rinvio. 12. La violazione dei presupposti legali dei riti. — Si è fatto cenno alla difficoltà classificatoria delle anomalie in oggetto. Se pare da escludere una qualificazione sub specie nul(159) Ove sia stata ritenuta insussistente ex ante e il giudice non abbia applicato, non ritenendo di averne il potere, la diminuente, la Corte è chiamata a giudicare di quest’ultimo error in iudicando sicché pare ovvio che la cassazione possa provvedere direttamente. (160) Cfr. F. CORDERO, Proc. pen., cit., 1007.
— 539 — litatis (161), atteso il numerus clausus dei vizi dell’atto così sanzionati, neppure soddisfa l’idea di annoverarli tra le cause d’inammissibilità (162). Come già evidenziato riguardo al presupposto di cui all’art. 440, comma 1, la categoria non pare riferibile agli atti del giudice. Peraltro, alla violazione di legge di cui si discute mal si attaglia anche il tentativo, in cui è comunque indubbia una certa « forzatura » esegetica, di considerare il presupposto in discorso quale « norma di cui si debba tener conto nell’applicazione della legge penale ». Difatti, nella ricostruzione qui offerta riguardo al presupposto della « definibilità allo stato degli atti », l’erronea declaratoria di non definibilità viene a correggersi con effetti solo sostanziali. Da essa non discende, in altri termini, la necessità di ripetere il segmento viziato. È addirittura intuitiva, invece, la necessità che, ove sia stato ammesso un rito alternativo fuori dai casi consentiti, la successiva rilevazione del vizio esplichi effetti radicalmente invalidanti. La situazione, che si verifica qualora venga giudicata nelle forme del giudizio « abbreviato » una imputazione implicante la pena perpetua o si applichi su richiesta delle parti una pena superiore ai due anni, svela l’insufficienza degli usuali schemi in tema d’invalidità a fronteggiare la casistica dei giudizi speciali (163). Il disagio classificatorio, combinandosi con il carattere tassativo dei motivi di ricorso, imbarazza l’interprete persino nel dar conto del controllo in cassazione di tali anomalie. Ma l’esigenza, talmente forte ed intuitiva da risultare evidente, che provvedimenti tanto difformi dalla legge vengano rimossi impone uno sforzo esegetico. Senza altra pretesa se non di offrire uno spunto di riflessione, si può ben cogliere più di una affinità tra i presupposti in discorso e taluni requisiti delle decisioni, pure anch’essi non espressamente menzionati nel catalogo dell’art. 606, ma il cui difetto non si è mai dubitato possa integrare un valido motivo di ricorso per cassazione. Si allude alla competenza ed alla giurisdizione. Si tratta, al pari del limite di pena di cui all’art. 444, comma 1, e della punibilità con pena temporanea, di requisiti « esterni » alla pronuncia come atto formale. E come non cogliere, del resto, una profonda affinità tra il riparto « verticale » delle regiudicande penali operato dalla competenza per materia, e la sottrazione al giudice dell’udienza preliminare del potere di statuire nel merito di un’imputazione tale da comportare l’ergastolo? È opportuno, al proposito, rilevare che, in tema di competenza, la miglior dottrina processualcivilistica ha affermato trattarsi « di un requisito extra-formale attinente alla teoria generale della legittimazione, ossia ai requisiti necessari per l’emanazione di provvedimenti validi ed efficaci da parte del giudice » (164). Come ben si vede, tale definizione, pur generica, ricomprende anche i requisiti di cui si discorre, e può costituire un punto di partenza per rimeditare con attenzione la materia. Quanto al regime applicativo si ritiene, attesa la particolare gravità del vizio, che vada ricostruito sulla falsariga dei criteri « forti » di distribuzione delle regiudicande, ossia l’incompetenza per materia per ipocapacità e il difetto di giurisdizione. Ripugna, insomma, che la rilevabilità dei difetti in discorso sia sottoposta a termini od affidata all’iniziativa esclusiva delle parti. Avuto riguardo, infine, ai provvedimenti adottabili, essi consisteranno nell’annullamento con rinvio al giudice che procedeva al momento d’innesco del rito in carenza dei presupposti. (161) Contra, Cass., Sez. I, 5 maggio 1993, Mura, cit. (162) Già G. GALLI, L’inammissibilità, cit., 96, metteva in guardia, con considerazioni che mantengono intatta validità, dal qualificare sub specie d’inammissibilità ogni ipotesi di sostituzione di un rito ad un altro. (163) Quanto posto in risalto da G. CONSO, Il concetto, cit., 84, ossia che per ritenere, nel rispetto del principio di tassatività, una norma stabilita a pena di nullità non è necessaria una esplicita statuizione, essendo sufficiente, a tal fine, che per l’inosservanza il legislatore detti il regime delle nullità, non consente di risolvere il problema. Difatti, nelle anomalie analizzate è lo stesso regime per i casi d’inosservanza ad essere del tutto carente. (164) Così A. PROTO PISANI, Diritto processuale civile, Napoli, 1994, 276.
— 540 — 13. La violazione dell’art. 445, comma 1. — Cosa accade quando il giudice, nel pronunciare sentenza ex art. 444, vi annetta statuizioni, si faccia il caso dell’irrogazione di una pena accessoria, che il legislatore ha escluso per quel tipo di provvedimento (165)? Anche in subiecta materia, ad una irriducibilità classificatoria negli schemi delle invalidità codicistiche fa riscontro, superandola, l’esigenza di assicurare la legalità, ed il relativo controllo, della decisione. Ammessa così, per « forza di cose », la deducibilità del vizio, l’interrogativo riguarda, a tal punto, il tipo di provvedimento da adottare a seguito della rilevazione di un errore siffatto. Si tratta, cioè, di stabilire se l’annullamento debba pronunciarsi — beninteso in parte qua — senza rinvio, provvedendo la Corte stessa al retractment del disposto illegittimo, oppure in toto, con rinvio al giudice affinché si pronunci sull’istanza. La risposta dipende dall’opzione adottata in ordine all’estensione del controllo affidato all’organo della giurisdizione in prime cure. Laddove si ritenga quest’ultimo chiamato, nel vagliare la correttezza dell’accordo, ad esprimersi anche sulla opportunità, nel caso sottoposto al suo esame, del prodursi degli effetti premiali, segue, a guisa di corollario, la necessità del rinvio. Laddove, invece, come pare corretto (166), si reputi il controllo limitato al solo perimetro di cui all’art. 444 (167), sia pure integrato dalla nota sentenza n. 313 del 1990 della Corte Costituzionale, la conclusione è ovvia: avendo il giudice del merito esaurito i suoi poteri decisori, l’annullamento può pronunciarsi senza rinvio (168). 14. La formazione progressiva del giudicato e l’annullamento della sentenza che applica la pena su richiesta. — La giurisprudenza — pur avversata dalla dottrina (169) — si è ormai assestata nell’affermare il principio « della formazione progressiva del giudicato » (170). In altri termini, qualora l’annullamento operato dalla cassazione non abbia colpito la statuizione in punto di responsabilità, quest’ultima deve considerarsi ormai intangibile. Con la conseguenza, di non poco momento, che in fase di rinvio non possono rilevarsi cause estintive del reato. La particolare struttura della sentenza che applica la pena su richiesta implica l’inoperatività dell’istituto appena evocato. Come è stato, con efficacia, posto in risalto « l’esito negativo » ai fini dell’applicazione dell’art. 129 « non autorizza affatto a considerare provata (quindi ‘‘accertata’’) la colpevolezza » (171). Mancando una statuizione in punto di respon(165) Cass., Sez. VI, 21 dicembre 1992, p.m. in c. D’Angelo, in Giur. it., 1994, II, 248, nega la possibilità sia di concedere la provvisionale alla parte civile che di subordinare la sospensione della pena all’adempimento di un obbligo. (166) Cfr. Cass., Sez. II, 10 novembre 1993, Beray, in Cass. pen., 1995, 1940. Cass., Sez. V, 25 settembre 1992, Barba, in Giur. it., 1994, II, 530, con nota di S. PRESTIPINO, nell’affermare che la verifica sulla congruità della pena concerne anche la diminuzione premiale, non contrasta con quanto sostenuto nel testo. Difatti, non essendo la diminuente stabilita in misura fissa, quest’ultima non si atteggia alla stregua di un effetto imposto — una volta per tutte — dal legislatore. Sicché è naturale che la verifica sulla congruità investa anche tale momento. (167) Cass., Sez. IV, 24 giugno 1991, Bartoli, in Arch. n. proc. pen., 1992, 63, afferma, correttamente, che il controllo del giudice riguarda anche la sussistenza della continuazione. (168) Cass., Sez. I, 20 giugno 1995, Karif Ssife, inedita; Cass., Sez. V, 29 gennaio 1993, Baruffi, in Cass. pen., 1995, 129. Cass., Sez. Un. 3 luglio 1996, Chabni, in Arch. n. proc. pen., 1996, 895, nell’annullare senza rinvio la statuizione in punto di confisca, individua nella procedura di cui agli artt. 263, ultimo comma, 264 e 676 lo strumento per risolvere ogni quesito relativo al diritto alla restituzione. (169) V., per tutti, F. CORDERO, Proc. pen., cit., 1008. (170) Cass., Sez. un., 19 gennaio 1994, Cellerini, in Arch. n. proc. pen., 1994, 366. In controtendenza parrebbe porsi Cass., Sez. I, 30 maggio 1994, Antonini, in Cass. pen., 1996, 568. (171) V. P. FERRUA, Anamorfosi, cit., 32.
— 541 — sabilità (172) difetta — addirittura — il termine di riferimento per la formazione — ancorché parziale — del giudicato. Di ulteriore conforto un argomento a contrario: ogni ipotesi di annullamento con rinvio lascia, come risulta dalla trattazione sin qui svolta, impregiudicata l’eventualità che il processo venga definito nelle forme ordinarie. Nel caso si affermasse il principio della formazione progressiva del giudicato se ne dovrebbe inferire un giudizio ordinario non aperto al dilemma assoluzione-condanna. Inaccettabile la conclusione, non resta che rigettarne la premessa. La deviazione dagli schemi usuali risalta, in misura ancor più evidente, laddove si consideri la sentenza applicativa della pena « oggettivamente complessa ». Quid iuris quando la pena venga applicata per una pluralità di imputazioni ed il ricorso culmini nell’annullamento di uno solo dei capi della sentenza? Nella fattispecie in esame, il difetto di statuizione in punto di responsabilità (173) inibisce non più la formazione progressiva del giudicato avuto riguardo al singolo capo (174), ma, addirittura, il giudicato parziale, avente ad oggetto il singolo addebito, in seno al medesimo provvedimento. Si rivela impraticabile un meccanismo che, relativamente alla generalità delle sentenze pluricefale, è fuori discussione sia in giurisprudenza che in dottrina. L’accordo riguardava, inscindibilmente, la globalità delle imputazioni: venuta meno, a seguito dell’intervento della cassazione, una parte, cade il tutto (175). L’assetto è identico, persino, nel caso in cui i capi non annullati non fossero neppure stati messi in discussione con il ricorso. Si produce, in ultima analisi, un effetto demolitorio — che peraltro cade su statuizioni in sè valide — oltre i capi annullati, o, addirittura, oggetto di ricorso, in deroga apparente agli artt. 609 e 624. Il carattere apparente dell’eccezione si coglie avuto riguardo alla fisionomia della sentenza che applica la pena su richiesta. Si ritorni su sentieri concettuali già percorsi: ciò che legittima l’emanazione di una sentenza nelle forme dell’art. 444 è la perfetta congruità tra istanza e decisione. Venuto meno un tassello, ogni soluzione diversa dal travolgimento globale spezzerebbe il nesso con la richiesta del rito. Il fatto è, ed in ciò sta il clou della fattispecie, che nella sentenza che applica la pena su richiesta i capi non colpiti da annullamento si presentano sempre, salva una precisazione di cui si dirà appresso, in rapporto di connessione essenziale, ai sensi dell’art. 604, con quelli annullati. Il tratto peculiare della vicenda sta nella natura di detta connessione. Mentre per la generalità dei provvedimenti tale legame consiste in un rapporto di comunanza parziale dell’oggetto di merito (176) in « tutti quei casi in cui la legge consente che si estendano gli effetti dell’impugnazione » (177), ossia in una connessione « sostanziale » tra regiudicande, affatto diversa è la natura del nesso che avvince i reati per cui sia stata applicata la pena. Qui il « destino comune » delle imputazioni nasce da un dato squisitamente processuale, ossia la natura della sentenza che ha definito provvisoriamente il processo. Tanto premesso, si deve puntualizzare (e in ciò consiste la precisazione dianzi accen(172) Cass., Sez. V, 1o marzo 1994, Tura, in Cass. pen., 1995, 1942, afferma testualmente che « il consenso espresso dalle parti, invero, non implica alcuna cristallizzazione vincolante dei dati processuali, ove sia nullo l’atto decisorio che ne sia stato effetto ». V. anche Cass., Sez. I, 31 ottobre 1994, Padilla Chanez, cit., ove si afferma che manca, nella sentenza che applica la pena, una statuizione di responsabilità. (173) Vedi gli AA. citati alle note 32 e 125. (174) Per la definizione di capo e punto di sentenza v. F. CORDERO, Proc. pen., cit. 1007. (175) Cass., Sez. VI, 28 giugno 1994, Mascitti, in Giur. it., II, 1996, 30, con nota di V. CEDOLA, ha addirittura ritenuto inscindibile la richiesta di applicazione della pena per alcuni reati e sentenza di non luogo a procedere per altri. V. anche Cass., Sez. I, 22 febbraio 1994, Bala Ninet, in in Cass. pen., 1995, 1011; Cass., Sez. I, 19 maggio 1993, Amoroso, ivi, 1995, 655. (176) F. CORDERO, Proc. pen., cit., 955, fa gli esempi « che lo stesso fatto corrispond[a] a due figure legali o la stessa scriminante copr[a] fatti distinti ». (177) Così G. PETRELLA, Le impugnazioni, cit., II, 549.
— 542 — nata) che è necessario un coefficiente minimo, un legame « sostanziale » tra le regiudicande, affinché si produca l’effetto demolitorio oltre i capi annullati. Ci si riferisce alla circostanza che, in sede di applicazione della pena, deve essere stata ritenuta la continuazione o il concorso formale tra i reati. Diversamente la sentenza, ancorché unica come documento, contiene una pluralità di accordi, ciascuno sottoposto ad un autonomo regime. Ne discende l’ovvio corollario che il vizio dell’uno non può, in alcun modo, riverberarsi sugli altri. In ciò non si deve, peraltro, ravvisare una contraddizione con la natura squisitamente processuale del legame dianzi accennata: il vincolo ex art. 81 c.p. qui non gioca quale nesso sostanziale, bensì quale elemento rilevatore della circostanza, chiaramente attinente al processo, dell’unicità dell’accordo coinvolgente le regiudicande. 15. Conclusioni. — Dall’analisi condotta emerge l’estrema difficoltà del rintracciare coordinate di riferimento sulle quali sistemare la tematica dei rapporti tra giudizio di cassazione e riti alternativi. La vistosa frammentazione, per cui neanche una fattispecie e quella ad essa speculare sembrano governate dal medesimo criterio, costringono nelle angustie di un approccio casistico. Si ricordi l’asimmetria tra la conseguenze dell’ammissione al giudizio abbreviato in carenza dei presupposti di legge, che implica regressione del processo, e gli effetti, assai eterogenei, dell’illegittimo diniego al rito, ove la partita, in gran parte dei casi, pare esaurirsi nel recupero della diminuente. Se davvero una costante si può rinvenire, sta nella presa d’atto della continua torsione che le categorie del processualista subiscono nel tentativo di dominare la materia. Lo dimostra la fatica, poco appagante, di mettere a fuoco requisiti quali la « decidibilità allo stato degli atti » o « la punibilità con pena diversa dall’ergastolo », o, ancora, di ricondurre allo schema delle nullità patologie inedite quali la discrasia tra accordo e decisione nel patteggiamento. Né si dimentichino gli inevitabili riflessi sulla materia di antinomie originate dalla convivenza di principi contrapposti: il potere, su un piano logico implausibile ma costituzionalmente ineliminabile, di ricorrere in cassazione avverso una sentenza liberamente richiesta, inducono, nella prassi giurisprudenziale, ad un uso non sempre ortodosso degli istituti dell’« interesse » e della « legittimazione » a ricorrere. L’interprete, così, dall’ambizioso tentativo di un riordino sistematico, è dovuto retrocedere sulla più modesta linea d’indicare frastagliati punti problematici: insomma, partenze, e non traguardi, di riflessione. dott. FILIPPO VIGGIANO
NOTE DI DIRITTO COMPARATO E STRANIERO
VERSO UN DIRITTO PENALE COMUNE EUROPEO? (*) (**)
A prima vista, Diritto penale ed Europa sono termini fortemente antinomici. In effetti, il diritto di punire, monopolio dello Stato, è senza dubbio il segno più eclatante della sovranità nazionale; mentre, al contrario, l’Europa si orienta verso una costruzione giuridica internazionale e, talvolta, sovranazionale che potrebbe sembrare pericolosa per la sovranità nazionale, in ragione della crescente attività delle due corti europee (la Corte di giustizia delle Comunità europee a Lussemburgo, CGCE, e la Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo, CEDU). A dire il vero, questa dualità simbolizza la bipolarità di un’Europa che oscilla tra ‘‘mercato’’ e ‘‘diritti dell’uomo’’, senza che ciò implichi, di per sé, una competenza penale a favore delle istituzioni europee. Per quanto concerne il primo polo, quello del mercato, i testi fondatori della Comunità, e poi dell’Unione europea (il Trattato di Roma nel 1957, quello di Maastricht nel 1992), hanno istituito un sistema giuridico comunitario che però esclude, in linea di principio, il diritto penale. La Commissione delle Comunità europee ha, d’altro canto, ricordato nel 1974 (nel suo 8o rapporto di attività) che il diritto penale ‘‘è un tema che non rientra, come tale, nella sfera di competenza della Comunità, ma che resta di competenza di ciascuno Stato membro’’. Parimenti, la Corte di giustizia delle Comunità europee ha ritenuto nel 1977 (1) che, qualora la regolamentazione comunitaria non preveda sanzioni particolari, nel caso di inosservanza di tali disposizioni da parte di privati cittadini gli Stati membri siano competenti a scegliere le sanzioni che riterranno più appropriate. E la Corte ricorderà questo principio a diverse riprese, precisando, nel 1989 (caso del mais greco-yugoslavo), che gli Stati interessati da violazioni del diritto comunitario, devono prevedere sanzioni a carattere ‘‘effettivo, proporzionato e dissuasivo’’ (2), ma non necessariamente penale. Certo il Trattato di Maastricht si occupa della materia penale, ma ciò avviene nel titolo VI, detto ‘‘terzo pilastro’’, che si situa al di fuori del pilastro comunitario (detto ‘‘primo pilastro’’) e si sottrae all’elaborazione del ‘‘sistema giuridico comunitario’’. Tale titolo si limita, in linea di principio, a una cooperazione di tipo intergovernativo (giudiziario e di polizia) senza incidere sulla sovranità nazionale. Tuttavia, come si è sottolineato altrove, si tratta di una cooperazione « poco ordinaria » (3), che comporta, tanto per ragioni formali (partecipazione delle istitu-
(*) Testo redatto sulla base di una conferenza tenuta nell’Aula Magna dell’Università di Firenze il 2 dicembre 1996. In questo testo il ‘‘diritto penale’’ è inteso nel senso stretto di diritto sostanziale, con esclusione della procedura. (**) Traduzione dal francese di Chiara Garofalo e Annalisa Vegni, rivista dall’A. (1) CJCE, 21 settembre 1989, causa 68/88. (2) DELMAS-MARTY, Une coopération peu ordinaire, Remarques en conclusion du troisième panel, in A propos du titre VI du Traité de Maastricht, Istituto europeo di Firenze, seminario del marzo 1996, in corso di pubblicazione. (3) BIANCARELLI e D. MAIDANI, RSC, 1984, p. 225 e p. 445. Un’abbondante dottrina
— 544 — zioni europee al processo di cooperazione) che sostanziali (necessità, per rendere possibile ed efficace la cooperazione, di armonizzare se non unificare certe definizioni), degli elementi di integrazione in un sistema giuridico sovranazionale. D’altronde, l’obiettivo comunitario dell’unità del mercato e dell’uguaglianza degli operatori economici aveva già provocato, da una quindicina di anni, diverse conseguenze riassumibili nell’‘‘incidenza del diritto comunitario sul diritto penale degli Stati membri’’ (4). Quanto al secondo polo, quello dei diritti dell’uomo, esso dipende dal Consiglio d’Europa che, a differenza delle istituzioni comunitarie, non ha alcuna competenza normativa diretta. Nemmeno la Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CESDU) potrebbe essere considerata come creatrice di un sistema giuridico europeo, simmetrico e complementare rispetto al sistema giuridico comunitario. Se è vero che l’art. 45 della CESDU riconosce alla Corte, quando sia stata adita, una competenza che ‘‘si estende a tutte le controversie concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione’’, in compenso la CEDU non ha il potere di interpretare il diritto nazionale; così le informazioni concernenti il diritto interno dello Stato interessato o, all’occorrenza, il diritto comparato degli Stati membri, si trovano nella parte delle sentenze della Corte intitolata ‘‘in fatto’’, in cui si affiancano alle circostanze della fattispecie concreta. Nondimeno, occorre approfondire ancora l’analisi, poiché, per vigilare sull’‘‘applicazione’’ della Convenzione (ai sensi dell’art. 45), la Corte esamina, in diritto, l’ammissibilità e poi la fondatezza della richiesta. Può accadere che nelle controversie derivanti dall’esecuzione di una legge, quest’ultima venga ‘‘chiamata in causa di riflesso’’ (5). E la Corte stessa constata talvolta, ‘‘non senza una qualche malizia’’ (6) che la sua decisione ‘‘produrrà... fatalmente effetti che esorbitano dai limiti del caso di specie, dato che le violazioni rilevate trovano la loro fonte immediata nei testi normativi e non nei provvedimenti individuali d’esecuzione’’ (7). Vi sono anche casi in cui la semplice esistenza di una legge o di una lacuna della legge, comporta violazione della Convenzione. Ciò a dimostrare l’ampiezza dell’influenza potenziale della Corte rispetto alle norme nazionali. In definitiva, come afferma con forza la sentenza Loizidou (8), la Convenzione è divenuta ‘‘strumento costituzionale del sistema europeo’’, fornendo così alla Corte uno statuto in parte paragonabile a quello di una Corte costituzionale sovranazionale. Ora, il diritto penale è espressamente oggetto di numerosi articoli della Convenzione: art. 2-1 sulla pena di morte; art. 3 riguardante le ‘‘pene o trattamenti inumani e degradanti’’; art. 4-3a sul lavoro forzato di persona detenuta o liberata condizionalmente; art. 5-1a sulla detenzione ordinaria a seguito di condanna; art. 5-1c riguardante l’arresto o la detenzione preventiva al processo penale; art. 6 da 1 a 3 concernente chiunque sia imputato in ‘‘materia penale’’; art. 7 che stabilisce l’irretroattività della legge penale sfavorevole. E anche al di fuori di questi testi, la giurisprudenza dà risalto al diritto penale, ad esempio in ciò che concerne le misure restrittive ‘‘necessarie in una società democratica’’, prese in considerazione dagli art. da 8 a 11. Ne consegue che il diritto penale è il primo bersaglio, diretto o indiretto, della CESDU: le cause penali rappresentano circa i due terzi di tutte le cause giudicate a Strasburgo. Il che si spiega, forse, con l’ambiguità di un diritto penale che incarna, nel medesimo tempo, una protezione per i diritti dell’uomo (per i valori che vi sono sottesi) e una minaccia (per le pene e le misure coercitive che comporta). si è sviluppata in seguito (vedere riferimenti citati in M. DELMAS MARTY, Les grands systèmes de politique criminelle, PUF, 1992, p. 357 ss. spec. Etat des questions, p. 372). (4) COLLEWAERT, Commento dell’articolo 45, in La Convention européenne des droits de l’homme, Commentaire article par article, dir. L.E. PETTITI, E. DECAUX, P-H. IMBERT, Economica, 1995, p. 767 ss. (5) COLLEWAERT, op. cit. (6) COLLEWAERT, op. cit. (7) CEDH 23 marzo 1995, serie A n. 310, sentenza Loizidou c/Turquie. (8) Cfr. M. DELMAS-MARTY, Le role du juge européen dans la renaissance du jus commune, in corso di pubblicazione, in Mélanges Ryssdal, 1997.
— 545 — È così che, sotto l’influenza congiunta del mercato e dei diritti dell’uomo, si elabora in Europa un diritto penale comune, derivante nello stesso tempo dall’avvicinamento delle categorie nazionali esistenti e dalla comparsa di nuove categorie propriamente europee. A differenza dello jus commune che fluì attraverso l’Europa, dal Medioevo ai tempi moderni, a partire dal diritto romano e da quello canonico, talvolta mescolati alla lex mercatoria, non si tratta di un diritto colto, di origine universitaria, che propone agli operatori del diritto una sorta di ‘‘grammatica comune’’ costituita di principi e di un metodo di ragionamento, ma piuttosto di frammenti di diritto positivo sorti dai testi o dalla prassi, senza coerenza d’insieme (9). Una tale constatazione rende particolarmente necessario, oltre all’inventario sempre rinnovato delle creazioni normative che accompagnano la costruzione europea, l’esplorazione dei percorsi e dei mezzi che permettano ‘‘di pensare il molteplice’’ (10), cioè questa pluralità di sistemi nazionali, combinata alla bipolarità delle stesse norme europee. Da qui le due questioni alle quali tenterò di rispondere, a proposito della costruzione di questo diritto penale europeo comune: per quali strade? e con quali mezzi? I. Per quali strade? Nella costruzione di questo diritto penale comune, occorre senza dubbio accantonare la via tradizionale della cooperazione interstatuale (per esempio in materia di estradizione o di mutua assistenza in materia penale). Quando si limita a co-ordinare (cioè a mettere in relazione dei sistemi giuridici che restano diversi ed autonomi), la cooperazione, anche multilaterale, ha come unica ambizione di assicurare una maggiore efficacia di questi sistemi nazionali, senza pretendere di influenzarne l’evoluzione. Invece un’influenza può manifestarsi per altre vie: sia attraverso l’assimilazione degli interessi europei a quelli nazionali, sia attraverso l’armonizzazione, ovvero l’avvicinamento dei diversi sistemi, sia attraverso l’unificazione, che implica la definizione di regole non semplicemente simili, ma del tutto identiche. Qualche esempio può illustrare queste tre strade e la gradazione che conduce dalla prima alla terza. 1.1. L’assimilazione ha il vantaggio di estendere la competenza del diritto interno attraverso, appunto, l’assimilazione degli interessi sovranazionali, o relativi ad altri Stati, agli interessi nazionali. Tale assimilazione è talvolta stabilita spontaneamente dagli Stati. Così, ad esempio, per ciò che riguarda le frodi alle sovvenzioni della Comunità, si constata che il diritto tedesco stabilisce il principio dell’assimilazione degli interessi comunitari a quelli nazionali. Lo stesso principio si ritrova nel diritto portoghese e in quello italiano. Il diritto francese, al contrario, non prevede disposizioni specifiche in proposito: l’assimilazione non è, dunque, esplicita. Certo non si pone alcun problema quando si tratta di frode perseguibile come truffa, ma altre incriminazioni sono limitate alla protezione del bilancio nazionale. Ecco perché l’assimilazione è talvolta anche imposta. In materia di frode comunitaria, un tale obbligo è stato stabilito inizialmente dalla giurisprudenza, ed è oggi previsto dall’art. 209-A del Trattato di Maastricht: ‘‘Gli Stati membri adottano, per combattere le frodi che le(9) Cfr. M. DELMAS-MARTY, Pour un droit commun, Seuil, 1994, p. 115 ss. Ugualmente, sulla criminalità economica transnazionale, S. MANACORDA, Un premier bilan des instruments de politique criminelle, e M. DELMAS-MARTY, Pour une politique criminelle à stratégie diversifiée, in Le trimestre du monde, 1995, p. 59 ss.; 83 ss. (10) Cfr. Etude comparative sur la protection des intérets financiers de la Communauté: rapports de synthèse 1993, rapport final Incompatibilités entre systèmes juridiques et mesures d’harmonisation, in Séminaires sur la protection juridique des intérets financiers de la Communauté, Bruxelles novembre 1993, Oak Tree Press, Dublino, 1994, pp. 59-132. Cfr. anche Quelle politique pénale pour l’Europe? (dir. M. DELMAS-MARTY), Economica, 1992; Perspectives de formation d’un droit pénal de l’Union européenne, Vèmes Journées gréco-latines de défense sociale, Tessalonica, ottobre 1995 (dir. C. VOUYOUCAS), 1996.
— 546 — dono gli interessi finanziari della Comunità, le stesse misure che adottano per combattere le frodi che ledono i loro interessi finanziari’’. Tuttavia, il rapporto redatto dalla Commissione nel novembre del 1995 sull’applicazione di questa norma, ricollegandosi alla relazione elaborata nel 1993 da un gruppo di esperti incaricato di uno studio comparativo (11), mostra ‘‘che attualmente, a livello comunitario, non si dispone che di informazioni parziali, mentre solo la conoscenza di tutte le maglie della rete anti-frode permetterebbe di valutare l’efficacia delle misure adottate e di apprezzare il loro adattamento nel tempo’’ (12). E la conclusione esprime l’ampiezza della difficoltà: ‘‘gli Stati membri affermano una volta per tutte che l’assimilazione è realizzata, ma in realtà essa non si realizza mai da un settore all’altro, né attraverso la comparazione dei risultati’’. Un altro esempio, emerso in occasione del Congresso della Società internazionale di difesa sociale a Lecce (novembre 1996), è quello della corruzione, segnatamente quando sia legata a lesioni degli interessi finanziari dell’Unione europea. Il protocollo addizionale alla Convenzione PIF del 1995 (sulla protezione degli interessi finanziari dell’Unione), adottato nel 1996, prevede l’assimilazione ai funzionari pubblici nazionali di quelli della Comunità e degli altri Stati membri dell’Unione. Progetti di riforma in questo senso sono d’altronde all’esame in Germania e in Italia, visto che il progetto di convenzione dell’Unione europea sulla corruzione (1995) estende il principio di assimilazione a qualunque tipo di corruzione, indipendentemente dalla sussistenza di un nesso con la protezione del bilancio dell’Unione. Detto ciò, il principio di assimilazione, pur presentando il vantaggio di una certa semplicità di formulazione e realizzazione, resta di applicazione limitata per le ragioni sopra indicate e, anche in quest’ambito limitato, non garantisce sempre l’efficacia della repressione. Al di là della cooperazione interstatuale (oggetto del secondo comma dell’art. 209-A del Trattato UE), il rapporto precitato sull’applicazione di tale norma conclude allo stato che ‘‘in certi settori, non potranno essere ottenuti miglioramenti, al di là dell’assimilazione, se non attraverso un avvicinamento delle prassi nazionali a livello comunitario’’. Questo rapporto elenca, più in particolare, le modalità di controllo necessarie per pervenire a un livello di vigilanza equivalente su tutto il territorio della Comunità, le regole per il recupero dei crediti comunitari (ivi comprese le regole sulla prescrizione e sui privilegi applicabili ai crediti comunitari) e più ampiamente le sanzioni amministrative e le condizioni di applicazione. Ciò significa che al di là della cooperazione e dell’assimilazione, la via dell’armonizzazione attraverso l’avvicinamento delle prassi nazionali merita di essere ugualmente esplorata. 1.2. Per quanto riguarda l’armonizzazione, deve esserne innanzitutto precisato il significato. Sovente armonizzazione e unificazione sono impiegate indifferentemente. Personalmente, per armonizzazione intendo (un insieme di) regole nazionali che restano differenti, ma si avvicinano in modo da risultare compatibili. Ma a partire da quale grado la differenza è sufficientemente marcata da creare un’incompatibilità? Si tratta, evidentemente, di un problema molto sottile, da valutare caso per caso. Certo l’armonizzazione, come l’assimilazione da cui talvolta deriva, può essere spontanea. Ed emerge allora per una sorta di ‘‘flessione’’ delle disposizioni di diritto interno, e il diritto comparato rivela che molto spesso le riforme si ispirano le une alle altre. Questo fenomeno è molto evidente per i paesi già richiamati che hanno adottato delle disposizioni spe(11) Cfr. l’analisi comparata dei rapporti degli Stati membri relativi alle misure adottate a livello nazionale per lottare contro lo sperpero e la malversazione delle risorse comunitarie, Rapport sur l’application de l’article 209A du Traité sur l’Union européenne, novembre 1995. (12) Sul ruolo dei principi generali del diritto penale in questa prospettiva di avvicinamento su scala europea, V. A. BERNARDI, Les principes du droit national et leur développement au sein des systèmes pénaux français et italien, RSC, 1994, p. 11 ss. e Les principes du droit international et leur contribution à l’harmonisation des systèmes punitifs nationaux, RSC, 1994, p. 256.
— 547 — ciali contro la frode alle sovvenzioni della Comunità: la Germania ha dato l’esempio, poi il Portogallo e l’Italia. Ma queste iniziative spontanee hanno dei limiti e l’armonizzazione dovrà dunque essere anche imposta. Questo è, d’altronde, l’obiettivo della Convenzione PIF precitata. Ma molto prima che l’obiettivo dell’armonizzazione penale fosse anche apertamente enunciato in seno all’Unione europea, l’avvicinamento delle categorie del diritto penale interno si realizzava già, passo dopo passo, sulla scorta della giurisprudenza delle due Corti europee, per ciò che concerne tanto la scelta delle pene quanto quella delle incriminazioni (13). La scelta delle pene è dominata, nel diritto comunitario, dal principio di proporzionalità, richiamato dalla Corte di giustizia delle Comunità ogni volta che una sanzione penale è suscettibile di minare il commercio intercomunitario. Si aggiungono, poi, i diversi vincoli risultanti dai diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo (e dai protocolli addizionali, tra i quali il VI recante l’abolizione della pena di morte). Se la sola disposizione specifica è l’art. 7 concernente il principio di non retroattività del diritto penale, già riconosciuto nella maggior parte dei nostri Stati (14), l’insieme delle altre disposizioni della Convenzione può influenzare tanto la natura delle pene (15) che il loro regime d’esecuzione (16), limitando così corrispondentemente il margine di libera iniziativa del legislatore nazionale. Nello stesso modo, si osserva che la scelta delle incriminazioni non appartiene più, ormai, al solo legislatore nazionale, tanto che si tratti di neutralizzare la norma penale interna (depenalizzazione) quanto di procedere alla sua creazione (incriminazione o criminalizzazione). Nel primo caso la norma penale interna può essere neutralizzata in ragione della sua incompatibilità con un principio di derivazione europea. L’incompatibilità può essere con un diritto garantito dalla Convenzione europea di salvaguardia, come ad esempio il diritto al rispetto della vita privata che impone la decriminalizzazione dell’omosessualità (17), o il diritto alla libertà di espressione che comporta la regolamentazione dei reati di stampa (18). L’incompatibilità può essere altresì con un principio comunitario, come ad esempio quello dell’art. 30 del Trattato della Comunità europea che vieta le restrizioni quantitative all’importazione tra gli Stati membri ‘‘così come tutte le misure di effetto equivalente’’; ciò che conduce la Corte di giustizia a considerare certe fattispecie incriminatrici, suscettibili ‘‘di (13) Per delle applicazioni di questa norma, cfr. la sentenza Kokkinakis c/Grecia, CEDH 25 maggio 1993, serie A n. 260-A e, più discutibile, la sentenza C.R. e S.W. c/RU 22 novembre 1995, serie A, n. 335-C e 335-B; con nota di R. KOERING-JOULIN, RSC 1996, chr. internationale, p. 473 ss. (14) Sulla pena di morte considerata come trattamento inumano o degradante, V. la sentenza Soering c/RU, CEDH 7 luglio 1989 serie A, n. 161. Sulle pene corporali V. la sentenza Tyrer c/RU, CEDH 25 aprile 1978 serie A n. 26. Sulla reclusione a vita utilizzata come sentenza indeterminata, V. le sentenze Weeks c/RU, CEDH 2 marzo 1987, serie A n, 114, e Thynne, Wilson e Gunnel c/RU, CEDH 25 ottobre 1990, serie A n. 190. (15) Sul regime d’esecuzione delle pene privative della libertà, cfr. Les droits de l’homme dans les prisons, doc. Conseil de l’Europe, Strasburgo 1986 e le Règles pénitentiaires européennes, Recommandation du Comité des ministres du Conseil de l’Europe, 12 febbraio 1987. Adde, sotto la direzione di P.H. BOLLE, Droits fondamentaux et détention pénale, Actes du 7ème Colloque international de la FIPP, Neuchatel, 1993; H. JUNG, Droits de l’homme et sanctions pénales, Rev. tr. dr. homme, Bruxelles, 1994, p. 164 ss. (16) Sentenze Dudgeon c/RU, CEDH 22 ottobre 1981, serie A n. 45, e Norris c/Rep. d’Irlanda, CEDH 26 ottobre 1988, serie A n. 142. (17) Sentenze Sunday Times c/RU n. 1, CEDH 26 aprile 1979, serie A n. 30 e Lingens c/Austria, CEDH 8 luglio 1986, serie A n. 103. (18) Vedere a titolo di esempio, per il reato di ‘‘prezzo illecito’’, sentenze Dasson ville, CJCE, 11 luglio 1974 (8/74) e van Tiggele, CJCE 24 gennaio 1978 (82/77), Rec. 837 e 25.
— 548 — ostacolare il commercio intercomunitario’’, come misure di effetto equivalente a una restrizione quantitativa (19). Nel secondo caso, il legislatore nazionale può essere al contrario spinto a creare un’incriminazione penale per assicurare la protezione di interessi europei. A dire il vero, la spinta nel senso della criminalizzazione ha degli effetti necessariamente incompleti, in quanto presuppone l’intervento del legislatore nazionale per adottare un nuovo testo, mentre la neutralizzazione (la depenalizzazione) può avvenire direttamente, senza intervento del legislatore nazionale, essendo la norma europea di applicabilità diretta. Come ha mostrato il Professor Palazzo, nemmeno l’Europa si sottrae al fenomeno dell’inflazione penale (20). Si è citato sopra, a proposito della via dell’assimilazione, l’esempio delle frodi agli interessi finanziari della Comunità, per le quali la Corte di giustizia ha dedotto dall’art. 5 del Trattato di Roma non solo l’obbligo per gli Stati membri di assimilare, dal punto di vista delle incriminazioni, delle sanzioni e della loro esecuzione, le violazioni del diritto comunitario alle violazioni del diritto nazionale ‘‘di natura e importanza similare’’, ma anche quello di prevedere sanzioni a carattere ‘‘effettivo, proporzionato e dissuasivo’’ (21). La formula utilizzata è molto elastica per non imporre a questo stadio l’unificazione dei sistemi repressivi nazionali. In effetti, questi tre caratteri possono applicarsi non soltanto a delle sanzioni penali, ma altresì a sanzioni amministrative a carattere repressivo. Si tratta, comunque, di un avvicinamento, dunque di un’armonizzazione nel senso in cui l’abbiamo definita poco sopra, al fine di proteggere degli interessi la cui legittimità è riconosciuta sul piano europeo. Se si passa dal diritto economico a quello della persona, occorre ricordare il ruolo svolto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa ha sostenuto un’argomentazione paragonabile a quella della CGCE, a proposito del rispetto dell’intimità della vita privata (22): a seguito di una violenza carnale commessa contro una ragazza di sedici anni, handicappata mentale, la querela sporta dal padre era stata dichiarata irricevibile in ragione dell’età della vittima (più di sedici anni), essendo peraltro irricevibile anche la querela della ragazza quale conseguenza del suo stato mentale. La Procura decise di non procedere, e la Corte d’appello, adita dal padre della vittima, rifiutò di ordinare l’esercizio dell’azione penale. Questo caso eccezionale offriva, tuttavia, alla Corte europea l’occasione di introdurre un principio di portata generale. Al governo olandese che faceva notare come esistano diverse maniere di assicurare il rispetto della vita privata e come il ricorso alla legge penale non costituisca necessariamente l’unica soluzione, la Corte rispondeva che essa ritiene ‘‘insufficiente la protezione del diritto civile nel caso di reati come quello di cui Y... è stata vittima’’. Si trattava, nella specie, ‘‘di valori fondamentali e di aspetti essenziali della vita privata. Solo una legislazione criminale può assicurare una prevenzione efficace, necessaria in questo settore; di fatto, è questo tipo di legislazione che regola, di solito, la questione’’. Al contrario, la giurisprudenza europea è rimasta relativamente neutrale se (paragonata a quella di certe Corti costituzionali) per ciò che concerne il nesso tra tutela della vita e necessità di incriminare l’aborto. Vero è che solo la Commissione ha dovuto pronunciarsi sul punto, e l’ha fatto con molta prudenza. Nella causa Bruggeman e Scheuten c/RFA (23), peraltro, la questione era stata sollevata in senso inverso: occorreva stabilire se il divieto di interruzione volontaria della gravidanza posto da un’incriminazione penale potesse costituire violazione della vita privata, e la risposta fu negativa. È però nella decisione del 13 maggio 1980 (24) che la Commissione doveva chiarire la (19) PALAZZO, Riserva di legge e diritto penale moderno, in Studium Juris, 1996, p. 281 ss. (20) Causa del mais greco-yugoslavo, cit. (21) Causa X e Y c/Paesi Bassi, CEDH, 26 marzo 1985. (22) CDH, Rapport del 12 luglio 1977. (23) A proposito della causa X c/RU. (24) Rapport M. Delmas-Marty, sintesi delle proposte del gruppo di esperti composto dai professori Enrique Bacigalupo (Madrid), Mireille Delmas-Marty (Paris), Giovanni
— 549 — sua posizione in rapporto al diritto alla vita del concepito. In effetti, la madre era ricorsa all’aborto per proteggere la propria salute, in applicazione del diritto britannico, e il padre aveva contestato l’interruzione volontaria della gravidanza, prima davanti alle giurisdizioni nazionali (sostenendo che il consenso del padre fosse sempre necessario come condizione preliminare in ogni caso di aborto), poi davanti alla Commissione di Strasburgo, dinanzi alla quale invocava il diritto del feto alla vita in applicazione dell’art. 2 della Convenzione europea. La Commissione ritenne che l’autorizzazione ad interrompere la gravidanza, data dalle autorità britanniche, e contestata nel caso di specie, fosse compatibile con l’art. 2 in ragione del conflitto di interessi esistente tra la vita del bambino e quella della madre. È chiaro quindi che, secondo la Commissione, la Convenzione non vieta l’aborto terapeutico nei primi mesi della gravidanza. Da questa decisione non è però possibile dedurre quale sarebbe la posizione della Commissione, o della Corte, nel caso di un aborto non terapeutico, o di un aborto che intervenisse dopo i primi tre mesi di gravidanza. Si resta dunque molto lontani da una vera e propria armonizzazione in questo settore, ancora molto conflittuale e nel quale si riflettono le forti divergenze culturali e religiose tra i diversi paesi d’Europa. Se, come si è visto, l’assimilazione resta limitata nella sua estensione come nella sua efficacia, l’armonizzazione non si realizza ancora che in modo frammentario, nei soli settori in cui un accordo è possibile, non solo tra gli Stati, ma anche tra i popoli di tradizioni differenti. Si arriva così a dubitare della possibilità di una qualunque unificazione, per quanto limitata, e a interrogarsi sul carattere utopistico di un tale percorso. E tuttavia l’utopia ha preso forma. 1.3. L’unificazione è stata proposta recentemente. Su richiesta del Parlamento europeo, uno studio Espace judiciaire européen, avviato nel novembre 1995 da Francesco de Angelis (direttore della direzione generale XX, sul controllo finanziario, della Commissione europea), è sfociato nell’ottobre 1996 in un rapporto che propone un ‘‘Corpus Juris recante disposizioni penali per la protezione degli interessi finanziari dell’Unione europea’’ (25). Il rapporto inizia ponendosi la questione ‘‘se sia ancora possibile rassegnarsi ad aspettare degli anni per osservare qualche miglioramento del sistema repressivo’’. In effetti, secondo gli esperti, ‘‘il rischio è duplice: da una parte, l’insabbiamento politico di un processo che, da protocolli aggiuntivi in convenzioni sottoscritte ma non ratificate, consiste nell’ergere un muro di carta di fronte ad una criminalità molto reale e in piena espansione, che ammonta a miliardi di ECU; dall’altra, il rigetto, da parte degli stessi giuristi, di questa complessità normativa crescente che dipende dal groviglio di norme nazionali, più o meno armonizzate ma mai identiche, e dal groviglio di procedure di cooperazione a geografia e a contenuto variabile. Gli studi di avvocati vi possono trovare un sovrappiù di attività, ma non è sicuro che la qualità del diritto possa risultare migliorata’’. Trattandosi di proteggere gli interessi vitali che sono gli interessi finanziari dell’Unione europea, le diverse strade esplorate prima si sono rivelate inadatte, dal momento ‘‘che l’assimilazione non garantisce né l’efficacia, né la giustizia che presupporrebbe una repressione uguale per tutti gli operatori economici; che la cooperazione, concepita per accrescere l’efficacia, aumenta ineluttabilmente la complessità; che l’armonizzazione, infine, destinata a rinforzare giustizia e efficacia, contribuisce alla complessità dell’insieme’’. Da qui l’idea che in questo settore, dove esiste un ampio consenso circa la necessità di una repressione penale, ‘‘la sola strada che possa coniugare le tre virtù — giustizia, semplicità e efficacia — è la strada dell’unificazione’’. Certo non si tratta di un codice penale, né di Grasso (Catania), Nils Jareborg (Uppsala), John R. Spencer (Cambridge), Dionysios Spinellis (Atene), Klaus Tiedemann (Freiburg im Breisgau) e Christine Van den Wyngaert (Anvers). (25) Nella procedura, le principali proposte concernono l’adozione di un principio di territorialità europea, accompagnato dalla creazione di un ministero pubblico europeo e dalla definizione di regole di procedura e di prova comuni.
— 550 — un codice di procedura penale europeo totalmente unificato e direttamente applicabile, in tutti i settori, dalle giurisdizioni europee create a questo scopo. Ma il rapporto propone un insieme di regole penali, che costituiscono una sorta di corpus juris, limitato alla protezione penale degli interessi finanziari dell’Unione europea, in uno spazio giudiziario europeo largamente unificato. Senza pretendere di regolare tutto nei minimi particolari, questo corpus si limita a trentacinque regole raggruppate intorno a sette principi che indicano la filosofia generale. L’enunciato di ciascuna regola è seguito da un breve commento che espone la motivazione delle scelte del gruppo di esperti. Un tale progetto solleva la questione del fondamento normativo di siffatto Corpus, poiché il problema attuale dell’Unione europea, sottolineato da numerosi autori, è quello del ‘‘deficit democratico’’. In effetti i testi, anche quelli che hanno un’influenza sul diritto penale interno, sono nati o dai trattati (e dunque dal potere esecutivo degli Stati), o dal diritto derivato (dunque dal potere esecutivo della Comunità europea). Sarà pertanto necessario attribuire al Parlamento europeo competenza legislativa e riconoscere un potere interpretativo a favore della CGCE. Mi limiterò qui a presentare le disposizioni di diritto penale sostanziale (26), ricollegate ai tre principi fondamentali della legalità dei delitti e delle pene, della colpevolezza come fondamento della responsabilità penale e della proporzionalità delle pene. In primo luogo, il Corpus Juris propone, in applicazione del principio di legalità, la definizione di reati unificati (artt. da 1 a 8, riguardanti la frode al bilancio comunitario, la frode nell’esecuzione degli appalti, la corruzione, l’abuso di funzioni, la malversazione, la rivelazione dei segreti di ufficio, il riciclaggio e la ricettazione e l’associazione a delinquere) e indica le pene applicabili a titolo principale (detenzione per un massimo di 5 anni per le persone fisiche e sorveglianza giudiziaria per un massimo di 5 anni per le persone giuridiche, ammenda, confisca, pubblicazione della sentenza di condanna) e a titolo complementare per certi delitti (esclusione da sovvenzioni o da appalti, interdizione della pubblica funzione comunitaria e nazionale). In secondo luogo, il Corpus ricava dal principio di colpevolezza, fondamento della responsabilità penale, numerose regole relative all’elemento psicologico (art. 10), all’errore (art. 11), alla responsabilità penale individuale (art. 12), alla responsabilità penale dell’imprenditore (art. 13), e alla responsabilità penale degli enti collettivi (art. 14). Infine, in applicazione del principio di proporzionalità delle pene sono definite le regole relative alla misura della pena (art. 15), alle circostanze aggravanti (art. 16), così come alle pene inflitte in caso di concorso di reati (art. 17). Senza voler aprire qui il dibattito sul contenuto di queste regole (che saranno sottoposte ad ampie discussioni, soprattutto nel quadro delle Giornate di Studi che dovranno essere organizzate nel 1997 dalle quindici associazioni di ricerca penale create in seno all’Unione europea), vorrei solamente indicare il metodo impiegato per definirle. Certo queste regole obbediscono a principi cardine che sono già iscritti nella tradizione giuridica europea comune, come si è costruita nel corso della storia e come la consacrano oramai i principi fondamentali di diritto comunitario, stabiliti dalla Corte di Giustizia delle Comunità e dalla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tuttavia, trattandosi di regole tecniche precise, occorreva tener conto delle diversità nazionali che differenti studi comparativi, portati avanti sotto l’egida della Commissione e del Parlamento, avevano permesso di evidenziare, sottolineando, secondo i casi, convergenze, divergenze o lacune. Il rapporto è esplicito su questo punto: ‘‘se alle volte da un sistema nazionale all’altro esistono delle convergenze che permettono di definire un diritto comune di confluenza, in molti casi restano delle divergenze che solamente un diritto comune di sintesi può superare. Infine le lacune, frequenti in un settore relativamente nuovo per quanto riguarda la protezione di interessi sovranazionali, conducono all’elaborazione di ciò che può chiamarsi diritto comune suppletivo’’. (26) WOLTON, La nation-II n’y a pas d’espace public européen, in L’esprit de l’Europe, Flammarion 1993, t. 2, p. 125 ss.
— 551 — È ora il momento di passare alla questione dei mezzi che, quale che sia la strada percorsa, guidano l’elaborazione di un diritto penale europeo comune. II. Con quali mezzi? Non si tratta solamente dei mezzi materiali. Certo, i problemi sono collegati: trattandosi delle corti europee, la destinazione dei giudici a tempo pieno o la possibilità di essere assistiti da consiglieri, come è previsto fin d’ora dal dispositivo della CGCE e per l’avvenire dal protocollo addizionale n. 11 sulla CEDU, dovrebbero incontestabilmente migliorare l’elaborazione concettuale di una giurisprudenza sempre più sollecitata. Ma il giudice, per costruire la sua giurisprudenza, come d’altronde il ‘‘legislatore’’, nel senso europeo del termine, per definire principi e regole tecniche, hanno bisogno di una dottrina che fornisca loro, come al tempo dello jus commune, questa ‘‘grammatica comune’’ invocata sopra. Tenuto conto delle specificità nazionali, che peraltro non possono essere paragonate a quelle di un’epoca in cui il diritto positivo era più locale che nazionale, il primo mezzo è senz’altro il diritto comparato, che si è appena visto essere determinante per le scelte in Europa, quale che sia la strada seguita. Ma occorre anche rifarsi alle logiche dell’argomentazione che, di fronte alla complessità dei dati di cui le corti europee sono chiamate a tenere conto, sono imposte dalla necessità di assicurare il rigore della decisione e dunque la sua prevedibilità: garanzia essenziale contro il rischio di arbitrio. Infine l’elaborazione di un diritto penale comune può scontrarsi con tradizioni culturali così eterogenee che né la logica né il diritto comparato bastano a consentire una soluzione comune (vedi sopra l’esempio dell’aborto). È qui senza dubbio il punto più fragile della costruzione europea: l’insufficiente sviluppo dei luoghi dove discutere dei valori essenziali, per riparare all’‘‘assenza di spazio pubblico’’, nel senso definito da Dominique Wolton: uno ‘‘spazio simbolico in seno al quale si scambiano i discorsi, per la maggior parte contraddittori, dei diversi attori sociali, religiosi, culturali e scientifici che compongono una società’’ (27). 2.1. Il diritto comparato è certamente spesso evocato dal giudice europeo, ma in modo allusivo, che sottolinea più la suggestione che una vera sistematizzazione del suo ruolo. La sistematizzazione del diritto comparato potrebbe invece condurre ad un uso differenziale, privilegiando ora l’analisi e ora la sintesi. Come strumento di analisi, il diritto comparato guida in effetti sia l’elaborazione di un diritto comune di confluenza, nato dalla convergenza delle prassi nazionali, sia quella di un diritto comune correttivo destinato a correggere le lacune comuni. A dire il vero le convergenze sono assai rare, ma si può richiamare a questo titolo il VI protocollo addizionale che abolisce la pena di morte, e ricordare che almeno in quindici Stati dell’Unione europea la pena di morte non è più applicata. Altro esempio può essere l’art. 3 della Convenzione che vieta la tortura e le pene o trattamenti inumani o degradanti in tutti gli Stati membri, e c’è attualmente convergenza in Europa, se non nella pratica, almeno sul principio stesso del divieto e sulle sue conseguenze, soprattutto per quanto riguarda l’esclusione delle pene corporali prima ricordate. Quanto alle lacune comuni, che possono condurre verso un diritto comune correttivo, esse sono decisamente più numerose. Oltre all’esempio predetto delle offese agli interessi finanziari dell’Unione europea, che solo qualche paese ha incriminato specificamente, si possono ricordare altre lacune rivelate dal diritto comparato, che allora non è che il punto di partenza di un ragionamento costruito in seguito in modo ‘‘autonomo’’. Così è per la ‘‘materia penale’’ che, ai sensi dell’art. 6 CEDU, ingloba oltre al diritto penale, sanzioni punitive di diversa specie: il primo criterio di identificazione della ‘‘materia penale’’ si fonda sulla qualificazione giuridica interna e la Corte ha ricordato, soprattutto nella causa Oztürk, il fatto che le infrazioni in materia di circolazione stradale, depenalizzate in Germania, fossero rimaste (27)
CEDH 21 febbraio 1984, serie A n. 73, caso Oztürk c/Allemagne.
— 552 — penali ‘‘nella grande maggioranza degli Stati membri’’ (28). Ma l’essenziale del suo ragionamento si fonda sulle lacune: affermando che ‘‘la giustizia non deve fermarsi alla porta delle carceri’’ (29), la Corte indica bene la sua volontà di correggere le insufficienze della disciplina penitenziaria, comuni a tutta l’Europa, riconducendo anche l’esecuzione delle pene nell’area della giurisdizione. Così pure per quanto concerne la disciplina militare, o ancora il vasto campo delle sanzioni amministrative a carattere punitivo, come le sanzioni in materia fiscale o in materia di concorrenza. Tuttavia quando ‘‘desume’’ gli altri criteri della materia penale, che si tratti della natura dell’infrazione trattata o della severità della sanzione (inflitta, pronunciata o eseguita), il giudice europeo si basa su una sorta di concezione penale comune che esprimerebbe la sintesi delle concezioni nazionali. Una sorta di slittamento insensibile dall’analisi alla sintesi. Come strumento di sintesi, il diritto comparato richiede un lavoro più elaborato. Soprattutto quando non si tratta solamente, come nel caso delle nozioni europee ‘‘autonome’’, di ispirarsi alle concezioni nazionali nel senso più ampio del termine per superarle, ma di realizzare la sintesi, tecnicamente molto più difficile, delle divergenze rivelate dal diritto comparato. In una Europa giuridicamente contrassegnata dalla divisione tra famiglia romano-germanica e common law gli esempi non mancano. Nel diritto penale sostanziale, si ricorderà che la legalità dei diritti e delle pene è fortemente affermata sul Continente, dove il principio ha spesso anche valore costituzionale, mentre la tradizione di common law ha per molto tempo riconosciuto al giudice penale (e gli riconosce ancora in Scozia) il potere di creare nuove fattispecie incriminatrici, a tal punto che numerosi reati ancora in vigore sono di origine giurisprudenziale. Una tale opposizione spiega senza dubbio la prudenza dei redattori della Convenzione europea che rinunciano ad imporre la legalità se non sotto la forma molto attenuata della non retroattività del ‘‘diritto’’ penale (art. 7 CESDU). Tuttavia l’interpretazione progressiva dei testi europei tende a definire una sorta di legalità di sintesi, che combina giurisprudenza e diritto scritto ma esige dall’una e dall’altro il rispetto della ‘‘qualità della legge’’ nel senso definito dalla CEDU (accessibilità, precisione e prevedibilità della norma posta). Certamente sussistono delle difficoltà riguardo alla realizzazione di queste condizioni (rispetto alle quali alcuni autori giudicano la CEDU insufficientemente esigente) e, al contrario, riguardo all’estensione della legalità anche a quelle misure che nel diritto interno sfuggono alla qualificazione penale (30). Ma in sostanza si cominciano a cogliere i contorni di una legalità europea che combina le differenti concezioni nazionali. Da qui la riaffermazione di questo principio per i quindici Stati dell’Unione europea nel Corpus Juris (31). Ma la divisione tra common law e famiglia romano-germanica non è la sola. Altre linee di frattura si disegnano in Europa, per esempio tra paesi che ammettono e paesi che escludono ogni tipo di responsabilità oggettiva; o ancora tra quelli che ammettono la responsabilità penale delle persone giuridiche (come il Regno Unito, i Paesi Bassi o da poco la Francia) e quelli che la escludono (segnatamente l’Italia o la Germania). Di fronte a simili sfalsature, il primo passo è nel senso dell’armonizzazione che si limita a proporre dei principi cardine comuni senza imporre l’identità delle regole di applicazione. Il che però non esclude, almeno nei settori più consensuali come la protezione del bilancio dell’Unione, l’ambizione dell’uni(28) CEDH, caso Campbell e Fell. (29) Soprattutto in materia di confisca (caso Welsh c/RU, CEDH 9 febbraio 1995, serie A n. 307-A) e di detenzione (caso Jamil c/Francia, CEDH 8 giugno 1995, serie A, n. 317-B). (30) Anche nella procedura il Corpus Juris si sforza di operare una sintesi tra tradizione accusatoria e tradizione inquisitoria, a favore di una procedura di tipo ‘‘contraddittorio’’. (31) Cfr. M. DELMAS-MARTY, Le flou du droit, Du Code pénal aux droits de l’homme, PUF 1986 e in versione italiana Dal codice penale ai diritti dell’uomo, Prefazione F. Palazzo, Giuffré, 1992.
— 553 — ficazione, che riposa sulla definizione di regole identiche come quelle elaborate nel quadro del Corpus Juris. Ma allora, se il diritto comparato conduce ad uno jus commune fatto ora di regole comuni, ora di principi cardine, ora della combinazione delle regole e dei principi, esso solleva una difficoltà maggiore riguardo all’argomentazione che rischia di oscillare tra logica unitaria e logica pluralista. 2.2. Le logiche dell’argomentazione non sono in effetti le stesse a seconda che l’obiettivo sia definito come diritto unico o come diritto pluralista. La logica unitaria, familiare ai giuristi (soprattutto nella tradizione continentale) è di semplice applicazione. Essa poggia su regole precise che, nella prospettiva di un diritto europeo unificato sarebbero identiche da un paese all’altro. Un tale obiettivo può essere realizzato a partire da un diritto comune di confluenza (vedi gli esempi citati sopra sull’abolizione della pena di morte o sulla proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti). Il ragionamento giuridico si costruisce allora secondo la coppia identità/conformità: le norme e le prassi nazionali devono essere identiche alla norma europea, mentre, anche una differenza molto lieve ne comporterà la non-conformità. Pur giuridicamente soddisfacente, questo processo di unificazione è politicamente difficile da generalizzare e presenta sempre il rischio di condurre all’egemonia di un sistema sugli altri. Ed anche quando, nell’area del diritto penale speciale, si tratta di norme comuni in funzione correttiva, prima di tutto destinate a correggere le lacune comuni (vedi il Corpus Juris per la protezione penale degli interessi finanziari dell’Unione europea), la norma europea non può essere totalmente isolata dal contesto nazionale, spesso molto dissimile da un paese all’altro, e impone nel diritto penale generale la necessaria sintesi delle tradizioni nazionali. La stessa espressione di diritto comune di sintesi, che parte da divergenze tra sistemi, appare escludere, almeno in un primo tempo, la logica unitaria e invocare una logica pluralista. La logica pluralista sconcerta il giurista che si sforza sempre di reintrodurre precisione e gerarchia, l’una e l’altra unificatrici. Per ammettere il pluralismo dei sistemi, senza peraltro rinunciare ad armonizzarli tra loro, occorre fondarsi su principi meno determinati delle regole e prevedere margini di interpretazione che consentano di sfuggire alla rigorosa gerarchia. Alla coppia identità/conformità che caratterizza la via della unificazione, si sostituisce, nella prospettiva della armonizzazione, la coppia prossimità/compatibilità. Questo è un modo per modificare tutta l’argomentazione obbligando l’interprete a porre la prassi nazionale su una scala graduata dove apparirà più o meno vicina alla norma europea di riferimento. Da qui la necessità di fissare una soglia di compatibilità al di là della quale la prassi nazionale sarà censurata (‘‘incompatibile’’ piuttosto che ‘‘non conforme’’). Così possono essere ammesse delle differenze — è il famoso ‘‘margine nazionale di apprezzamento’’ —, ma non al di là di una certa soglia. L’interesse di siffatta logica di graduazione non è solamente di permettere il pluralismo (dato che ciascun Stato conserva un diritto alla differenza), ma anche di dare una grande flessibilità all’insieme poiché la soglia di compatibilità può variare secondo i settori considerati. Se si tratta di questioni particolarmente conflittuali tra Stati, la soglia può essere fissata più in basso di quella dei settori maggiormente consensuali. Ma questa flessibilità non è evidentemente senza rischio. Come mostrano i lavori scientifici condotti in altre discipline, le logiche ‘‘non standard’’ (32), come sono quelle pluraliste, rimangono ‘‘logiche’’ solo a condizione che esplicitino accuratamente i criteri che guidano la valutazione della prossimità e quelli che determinano la fissazione della soglia di compatibilità. Se la lista dei criteri, o i loro rispettivi paesi, cambiano da un processo all’altro ad arbitrio dei giudici e della soluzione che essi vogliono ottenere, la decisione avrà perso in rigore, dunque in prevedibilità ciò che essa avrà guadagnato in flessibilità. Questo è ciò che si chiama arbitrio. Per evitarlo, occorre un sovrappiù di trasparenza (attraverso la defini(32)
WOLTON, op. cit.
— 554 — zione di criteri precisi) e di rigore (attraverso l’applicazione di uguali criteri da un caso all’altro). Ed anche quando tutte le condizioni di trasparenza e di rigore sono rispettate, rimane l’indecidibile, il postulato sul quale fondare la regola unificatrice o il principio armonizzatore. Avremmo molto bisogno qui di riferirci alla ‘‘concezione comune’’ e al ‘‘patrimonio comune’’ che ci promette il preambolo della CESDU, ma è talvolta difficile scoprirli, in mancanza di uno ‘‘spazio pubblico’’ per discuterne. 2.3. Lo sviluppo di uno spazio pubblico di dibattito sui valori sarà comunque necessario in quei settori così eterogenei in Europa come, per esempio, l’aborto o la bestemmia, l’uno e l’altra fortemente segnati dalla morale e dalla religione, o ancora nel campo della vita privata e della vita familiare, riunite dalla CESDU nell’unico art. 8, mentre nella prassi l’una è spesso opposta all’altra. Si capiscono dunque le difficoltà contro le quali urta la giurisprudenza europea quando si confronta con la diversità delle tradizioni nazionali. La nozione di ‘‘margine nazionale di apprezzamento’’, come quella di sussidiarietà, permettono in principio di tenere conto adeguatamente delle suscettibilità nazionali, senza impedire ciononostante un certo controllo. Ma lo spazio giuridico non può sostituirsi allo spazio pubblico che permetterebbe l’elaborazione di valori comuni. Dunque, non è sorprendente che si rimproveri contemporaneamente alla giurisprudenza di frenare l’integrazione con un controllo troppo limitato che giunge ad una frammentazione dello spazio europeo e di forzare l’integrazione con un controllo troppo rigoroso che segnerebbe il predominio di una concezione talvolta criticata per il suo liberalismo e il suo individualismo. La scelta dei valori che sostengono il diritto penale dell’Europa non può essere abbandonata ai soli giuristi; sarebbe dunque urgente che il famoso cittadino europeo, di cui si comincia a intravedere il profilo, trovasse tempi e luoghi dove intervenire in un dibattito così essenziale. Ma il volontarismo trova qui il suo limite. Lo spazio pubblico, nel senso definito da Wotton, non si decreta. Si farà ‘‘quando ci sarà incontro tra le frontiere storiche e culturali dell’Europa’’, dunque intorno ad un sentimento di comune appartenenza, ad una volontà di vivere insieme. Se non spetta né ai giuristi, né d’altra parte ai responsabili politici, crearlo di tutto punto, almeno essi possono renderlo possibile. La creazione di un mediatore europeo da parte del Trattato di Maastricht, come l’istituzione di procedure di amicus curiae davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, o i dibattiti che si organizzano davanti al Parlamento europeo e all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, sono forse i primi punti di riferimento che permetteranno un avvicinamento di concezioni nazionali frammentarie, perfino opposte. Tali sono, tra gli altri, le strade e i mezzi verso un diritto penale europeo che avrebbe scoperto il segreto di ciò che chiamerei, per concludere, un pluralismo ordinato. MIREILLE DELMAS-MARTY
LE CONDIZIONI OBIETTIVE DI PUNIBILITÀ NEL DIRITTO PENALE SLOVENO
1. Introduzione. — Le condizioni obiettive di punibilità sono un fenomeno poco trattato nella letteratura penalistica slovena, tanto che si potrebbe più opportunamente parlare di una loro quasi totale assenza. Non migliore era la situazione nella ex Jugoslavia, dove l’istituto, di diritto positivo, era per lo più trascurato dalla dottrina (1) e poco sviluppato dalla giurisprudenza. Un istituto giuridico senza problemi, dunque? Certamente no. Con l’inizio del 1995, in Slovenia è entrato in vigore il nuovo (si potrebbe dire, anche il primo completo) Codice penale (2). Non si tratta in realtà di un codice del tutto nuovo, ma di una unificazione e rielaborazione delle leggi penali jugoslava e slovena del 1976 e 1977 (3), dettato per lo più da ragioni costuzionalistiche, nonché politiche e di carattere pra(1) Tra gli autori meno recenti che si sono occupati delle condizioni obiettive non sarebbe corretto dimenticare il teorico serbo TOMA ŽIVANOVIĆ, al tempo assai noto anche negli ambienti penalistici internazionali. ŽIVANOVIĆ ha elaborato la sua teoria sulle condizioni obiettive soprattutto durante il corso, tenuto a Parigi negli anni 1916-17, dal titolo Les problèmes fondamentaux du droit criminel, Parigi, 1929, (Belgrado, 1930 Osnovni problemi krivičnog prava, I problemi fondamentali del diritto penale, trad. dell’Aut.). Nella letteratura penalistica slovena, le condizioni obiettive sono state introdotte dai professori METOD DOLENC e ALEKSANDER MAKLECOV con i loro lavori pubblicati nel 1929, ma soprattutto con quello del 1934 (Sistem celokupnega kazenskega prava Kraljevine Jugoslavije, Il sistema completo del diritto penale del Regno di Jugoslavia, trad. dell’Aut.) (2) Kazenski zakonik Republike Slovenije, Uradni list (Gazzetta Ufficiale), n. 63, del 13 ottobre 1994. Il codice è stato finora tradotto (ma non ancora pubblicato) in lingua inglese; è in preparazione anche la traduzione in italiano a cura di MARCO UKMAR, NATALINA FOLLA dell’Università di Trieste e dell’Autore di quest’articolo. Tutte le parti del codice penale sloveno, riportate nell’ambito di quest’articolo nella traduzione italiana (non ancora definitiva), sono tratte dal lavoro sopra menzionato. (3) Negli ultimi decenni, com’è probabilmente noto, la ex Jugoslavia ha conosciuto una divisione di competenze legislative tra la federazione e le repubbliche (e le regioni autonome, per essere esatti del tutto) nel campo del diritto penale sostanziale più unica che rara. Immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, la competenza di emanare le leggi penali era, con rare eccezioni, soltanto federale. Dopo la riforma costituzionale della metà degli anni Settanta, alla federazione è rimasta la competenza di emanare (quasi completamente) la parte generale e alcuni capitoli della parte speciale della legislazione penale (tra i quali i reati contro l’ordinamento costituzionale e la sicurezza dello stato, contro le forze armate, una parte dei reati contro l’economia, contro i doveri dei pubblici ufficiali federali etc.). Le repubbliche hanno, per la prima volta nella loro storia, emanato proprie leggi penali, con una competenza assai ristretta per la parte generale e molto più incisiva per la parte speciale (che comprendeva p. es. i reati contro l’incolumità personale, contro il patrimonio, contro l’ordine pubblico, contro la sicurezza generale, ecc.). Il rapporto di proporzione fra reati federali e reati c.d. « repubblicani » emerge nitidamente dalla prassi: la stragrande maggioranza dei casi che giungono nei tribunali penali, eccezion fatta per quelli militari — cioè circa il 90% dei casi complessivi — è infatti stata rappresentata dai reati c.d. repubblicani. All’inizio le differenze tra le leggi penali delle varie repubbliche erano minime, ma con le novelle suc-
— 556 — tico. Sarebbe stato quanto mai inopportuno che il nuovo Stato sloveno si fosse affidato, solo per citare qualche esempio emblematico, al capitolo XV della legge penale jugoslava, contenente i reati contro i ‘‘fondamenti dell’ordinamento sociale autogestito e socialista e la sicurezza della RSF di Jugoslavia’’, o a tutti quei reati contro l’economia, che traevano la loro legittimazione dai principi formatori dell’ordinamento precedente: la proprietà sociale e l’autogestione operaia. A dire il vero una legge completamente nuova non rientrava nemmeno nelle intenzioni del gruppo di lavoro che ha preparato il progetto; una decisione forse non del tutto condivisa da una parte dell’assemblea parlamentare, che aveva aspirazioni un pò diverse: se non penalisticamente più ambiziose, sicuramente di ‘‘rottura’’ netta con il passato. Il ‘‘nuovo’’ codice ha optato invece per la continuità: risente dell’influenza di quelli previgenti, anche se sono state introdotte delle novità piuttosto importanti sia nella parte generale, sia, soprattutto, nella parte speciale. Per le condizioni obiettive di punibilità a prima vista non sembrano essere intervenuti mutamenti rilevanti: come prima, infatti, esse continuano ad essere sprovviste di una disciplina di carattere ‘‘generale’’ — contrariamente a quanto avviene, invece, nel codice penale italiano per effetto dell’art. 44 — anche se nella parte speciale vi sono diverse fattispecie che le contengono. Va detto, tuttavia, che il numero delle fattispecie in parola è diminuito sensibilmente rispetto alla legislazione precedente. C’è da chiedersi se sia stata, forse, questa una decisione meditata del legislatore, che si è reso conto della loro natura controversa, dell’ambiguità o persino della pericolosità del fenomeno. In parte è così; ma si deve aggiungere che, nell’attuale sistema penale, sono venute meno diverse figure di reato, contemplate nell’ex codice federale, contro le forze armate, dotate di condizioni obiettive, fattispecie che il legislatore sloveno era comunque necessitato a depenalizzare o, al limite, a ristrutturare radicalmente. Per il resto, la configurazione delle condizioni obiettive è rimasta pressoché invariata. La situazione slovena è, per così dire, una via di mezzo tra quella tedesca caratterizzata dall’assenza di una previsione generale dell’istituto e dalla presenza, nella parte speciale, di un numero limitato di norme contenenti le condizioni obiettive — e quella italiana — con riferimenti specifici nella parte generale che non hanno eliminato, però, le controversie circa l’estensione del fenomeno nella parte speciale —. 2. Le condizioni obiettive di punibilità nel diritto penale sloveno: una tipologia. — In linea di massima, le condizioni obiettive di punibilità nel diritto penale sloveno si presentano suddivise in tre raggruppamenti, ciascuno con caratteristiche diverse: 1) come condotte di terzi, inseriti nella tipizzazione del comportamento illecito, che sfuggono al dominio dell’autore; 2) come presupposto legale per l’esistenza della punibilità del reato: in alcuni reati contro la giustizia la punibilità dipende, ad es., dalla gravità di un altro reato (commesso, preparato, falsamente denunciato); 3) come evento aggiuntivo dell’evento naturalistico del reato. In quest’ambito le condizioni obiettive fungono da discrimine quantitativo tra il lecito e l’illecito, ed anche tra le diverse categorie dell’illecito. L’elemento che unifica, tuttavia, ipotesi così diverse ed eterogenee si rinviene non tanto sul piano dommatico, quanto, piuttosto, su quello funzionale. Nella dottrina slovena, infatti, (così come in quella della ex Jugoslavia, della quale terremo conto anche più avanti) le condizioni obiettive sono considerate strumenti di politica criminale inseriti nella norma penale con l’unico scopo di delimitare (o di circoscrivere) la sfera di punibilità del reato. cessive esse crescevano e diventavano man mano sempre più vistose. La procedura penale, invece, è rimasta sempre di competenza esclusiva dello Stato federale.
— 557 — Opinioni dottrinali dissenzienti, o tentativi della giurisprudenza di imprimere loro un significato diverso (ad esempio in senso opposto, vale a dire di ampliamento dell’area punibile), praticamente non sono state finora evidenziate. 2.1. Le condizioni obiettive come ‘condotte di terzi’. — Tra gli esempi tipici di condizioni obiettive del primo gruppo, paragonabili grosso modo ad alcune condizioni obiettive del diritto italiano (ma il raffronto è qui puramente tecnico), potrebbero essere citati il suicidio consumato o tentato nel reato di istigazione al suicidio (art. 131) (4) e la sentenza di fallimento (5) nei reati fallimentari (art. 232 e 233) (6). Non trovano riscontro nel diritto penale italiano, invece, le condizioni obiettive relative ai reati di falsa testimonianza (art. 289) (7), calunnia (art. 288) (8) e omessa denuncia della (4) ART. 131. (Istigazione al suicidio e aiuto al suicidio). — 1. Chi, dolosamente, istiga al suicidio o aiuta al suicidio una persona, qualora il suicidio avvenga, è punito con una pena detentiva da sei mesi a cinque anni. 2. Chi commette il reato di cui al comma precedente ai danni di un minore che abbia già compiuto quattordici anni ovvero contro una persona la cui capacità di intendere e di volere era sensibilmente diminuita, è punito con una pena detentiva da uno a dieci anni. 3. Chi commette il reato di cui al comma 1 del presente articolo ai danni di un minore di anni quattordici o contro una persona incapace di intendere e di volere, è punito come se avesse commesso assassinio. 4. (Omissis). 5. Chi aiuta una persona a commettere suicidio, ma lo fa in circostanze attenuanti di rilevanza particolare, è punito con una pena detentiva fino a tre anni. 6. Se nei casi previsti dai commi precedenti il suicidio è solo tentato, l’autore può essere punito con una pena più lieve. (5) Per essere del tutto esatti, precisiamo che l’apertura del fallimento nel diritto penale sloveno avviene con decreto (art. 97 della legge sul concordato coatto, fallimento e liquidazione) e non con sentenza come nel diritto italiano. (6) ART. 232. (Bancarotta fraudolenta). — 1. Chi, al fine di evitare il pagamento di obbligazioni, simula o provoca un peggioramento della propria situazione patrimoniale o della situazione patrimoniale di un altro creditore e causa così il fallimento: 1) simulando la vendita, in parte o per intero, dei beni che fanno parte della massa fallimentare, ovvero cedendoli a titolo gratuito, alienandoli per un prezzo eccessivamente al di sotto del loro valore o distruggendoli; 2) stipulando un falso contratto comprovante un debito o dichiarando debiti inesistenti; 3) occultando, distruggendo, falsificando o tenendo i libri o le altre scritture contabili in modo da rendere impossibile l’accertamento della sua reale situazione patrimoniale, è punito con una pena detentiva da sei mesi a cinque anni. L’economia del presente lavoro ci autorizza a citare soltanto il primo dei due reati fallimentari previsti dal codice penale sloveno. (7) ART. 289. (Falsa testimonianza). — 1. (Omissis). 2. La stessa pena [reclusione fino a due anni] si applica alla parte che in esame testimoniale nel corso di una causa, di un procedimento non contenzioso, di un procedimento esecutivo o di un procedimento amministrativo testimonia il falso, quando tale testimonianza influisca sulla decisione pronunciata dal giudice o da altro organo competente. 3-5. (Omissis). (8) ART. 288. (Calunnia). — 1. Chi denuncia taluno per un reato perseguibile d’ufficio, sapendo che questi non l’ha commesso, è punito con una pena detentiva fino a due anni. 2. La stessa pena si applica a chi costruisce indizi o in altro modo fa sì che venga avviato un procedimento penale per un reato, perseguibile d’ufficio, contro una persona che non lo ha commesso. 3. Chi si autodenuncia per un reato perseguibile d’ufficio che non ha commesso, è punito con una pena pecuniaria.
— 558 — preparazione di un reato (art. 285) (9). Nella falsa testimonianza, limitatamente all’ipotesi del falso della parte nel processo civile e amministrativo, la punibilità è condizionata dal fatto che il giudice (o il competente organo amministrativo) basi la sua decisione sulla dichiarazione falsa, mentre nella falsa denuncia in esame la condizione obiettiva consiste nell’apertura di un procedimento penale (formale) (10). Molto simile alle prime è la condizione obiettiva nel reato di omessa denuncia della preparazione di un reato: l’illecito — quello in preparazione, del quale l’autore ha omesso la denuncia — dev’essere consumato o almeno tentato se si vuole che scatti la punibilità. L’atto di terzi, come abbiamo visto, si presenta, da una parte, nella forma di un atto giuridico — sentenza o altro tipo di decisione giudiziaria o amministrativa — e dall’altra, come un fatto naturalistico — la commissione o il tentativo del reato e del suicidio. I reati fallimentari, che altrove hanno avuto un ruolo importantissimo nell’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale dell’istituto trattato, costituiscono, da noi — per ragioni facilmente intuibili — una categoria che ha potuto ricevere una limitata elaborazione dogmatica e giurisprudenziale (11). I reati fallimentari come tali non erano del tutto sconosciuti al diritto penale sloveno (e della ex Jugoslavia) sin dai tempi della proclamazione della (prima relativa, in un secondo tempo assai estesa) autonomia dei soggetti economici. Le procedure fallimentari, però, erano talmente rare e così anomale, che non ne poteva scaturire alcuna giurisprudenza penale degna di rilievo. È interessante, peraltro, notare che proprio nel momento in cui la sentenza dichiarativa di fallimento, come pare, sta perdendo la sua importanza come elemento del reato fallimentare (12), nel nuovo codice penale sloveno tutte le fattispecie di reati fallimentari sono state costruite nel modo, per così dire, classico: la condotta lesiva, l’insolvenza o il peggioramento della situazione economica del debitore come evento, la sentenza di fallimento come condizione obiettiva. 2.2. Le condizioni obiettive come presupposto della punibilità. — Le condizioni obiettive del secondo gruppo si riscontrano esclusivamente in alcuni reati contro la giustizia e contro l’ordine pubblico. Molti di questi reati sono costruiti secondo un modello nel quale la punibilità di una condotta tipica (omessa denuncia della preparazione di un reato, art. 285, omessa denuncia di un reato o dell’autore di un reato, art. 286, favoreggiamento personale, art. 287, calunnia, art. 288, associazione a delinquere, art. 297 e accordo per la commissione di un reato art. 298) viene subordinata alla gravità oggettiva del reato presupposto al quale si riferisce. Per esempio, l’omessa denuncia della preparazione di un reato (13) non è punibile se il reato in preparazione non è perseguibile d’ufficio e se la pena prevista per lo stesso non supera nel minimo i tre anni di reclusione. Non è difficile indovinare, a questo punto, il nocciolo della problematica: spesso, l’autore dei reati sopra elencati non conosce né il modello di perseguibilità (14) né la pena previ4. La stessa pena si applica a chi denuncia la commissione di un reato perseguibile d’ufficio, sapendo che tale reato non è stato realizzato. (9) ART. 285. (Omessa denuncia della preparazione di un reato). — 1. Chi, sapendo che è in preparazione un reato per il quale la legge prevede una pena detentiva superiore a tre anni, non lo denuncia in tempo utile perché possa essere prevenuto, se il reato è tentato o compiuto, è punito con una pena detentiva fino a un anno. 2 e 3. (Omissis). (10) È pacifica, in dottrina, l’opinione secondo la quale il processo penale (formale) sloveno (lo stesso valeva per il processo della ex Jugoslavia), comincia sempre con una decisione giudiziaria. (11) In quest’ambito restano ancora validi i lavori di DOLENC e MAKLECOV (nt. 1) anteriori alla seconda guerra mondiale. (12) ELIO CARLETTI (a cura di), Diritto penale commerciale. 1. I reati nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, Torino, 1990, p. 15. (13) V., supra, nt. 9. (14) Il pubblico ministero sloveno non ha monopolio dell’azione penale: la maggior
— 559 — sta per i reati cui accedono tali condizioni obiettive. La dottrina ha cercato di superare questo impasse teorico spostando l’attenzione sugli elementi di fatto del reato presupposto: l’autore dovrebbe conoscere gli elementi che caratterizzano il reato presupposto ma non la pena per esso prevista. Proseguendo per questa via, però, il problema, a nostro parere, non è risolvibile, poiché oggetto del divieto non sono né gli elementi del reato presupposto né la pena prevista (e men che mai la correlazione tra un determinato elemento della fattispecie e la pena prevista), bensì gli obblighi dell’autore legalmente previsti in presenza di un determinato reato. Senza entrare nelle particolarità di ciascun reato, basti dire che il contenuto del divieto si concretizza in una azione favoreggiatrice nei confronti del reo, che, come tale o in generale, è riprovevole: le scelte di politica criminale hanno indotto il legislatore ad intervenire con le condizioni obiettive soltanto al fine di potenziare la perseguibilità d’ufficio, anche se con una piccola differenza. Poiché la denuncia (come istituto di procedura penale) si ricollega logicamente soltanto ai reati perseguibili d’ufficio (e non a quelli perseguibili a istanza di parte), questa condizione, in qualche caso, è, a rigore, persino superflua. Il lettore italiano rimarrà probabilmente sorpreso trovando tra i reati nei quali la condizione obiettiva assolva alla funzione di limitare la punibilità, anche il reato di associazione a delinquere (art. 297) (15); e, tra l’altro, con una soglia di punibilità del reato presupposto assai alta (il limite minimo di pena deve superare i cinque anni). È necessario, allora, precisare che nel codice penale sloveno esiste un triplice regime di incriminazione del reato di associazione a delinquere: come fattispecie speciale è prevista l’associazione al fine di commettere i reati contro l’ordine costituzionale e la sicurezza dello stato (art. 361). Per chi scrive è fuor di dubbio che, nell’ipotesi in parola, l’autore deve essere assolutamente consapevole della natura, per così dire, « sovversiva » dell’associazione. Poi ci sono alcuni reati, spesso commessi dai gruppi preorganizzati, che non raggiungono la soglia della pena sopra indicata e per i quali la punibilità dell’associazione è prevista negli articoli concernenti il reato stesso: si pensi al contrabbando (art. 255) e alla illecita produzione e traffico d’armi (art. 310). Anche questi sono gruppi ‘‘specializzati’’, e per quanto concerne la colpevolezza dell’organizzatore e dei singoli membri della organizzazione criminale, vale lo stesso principio espresso sopra. Infine, vi è la già menzionata norma generale dell’art. 297. In tutti e tre i casi il reato di associazione ha una applicabilità assai limitata, tant’è che viene considerato dalla maggior parte della dottrina e, quasi unanimamente, anche dalla giurisprudenza una fattispecie sussidiaria, che perde la sua autonomia ogniqualvolta il reato progettato entri nella fase esecutiva. Dall’impostazione delineata si può dedurre che il legislatore considera l’associazione a delinquere in generale punibile: nei casi c.d. ‘‘innominati’’, però, egli ha ritenuto opportuno limitare la punibilità, introducendo nella norma una condizione obiettiva. 2.3. Le condizioni obiettive di punibilità come ‘evento aggiuntivo’. — Il terzo tipo di condizioni obiettive nel diritto penale sloveno suscita perplessità soprattutto tra i penalisti orientati verso una concezione classica dell’istituto. Molti, infatti, considerano la previsione della condizioni obiettive non soltanto un espediente atto a facilitare il lavoro del giudice nell’individuazione della colpevolezza, ma addirittura una vera e propria deroga al principio della responsabilità personale colpevole. A prima vista, invero, potrebbe apparire così; ma ci sembra che la problematica sia, in parte dei reati è sì perseguibile d’ufficio, ma vi è un numero (assai ristretto nel nuovo codice penale sloveno, ma pur sempre considerevole) di reati che sono perseguibili soltanto ad istanza di parte. (15) ART. 297. (Associazione a delinquere). — 1. Chi fonda un’associazione che ha per scopo la commissione di reati punibili con una pena detentiva superiore ai cinque anni, è punito con una pena detentiva fino a tre anni. 2 e 3. (Omissis).
— 560 — realtà, ben più complessa. Lo dimostra una casistica essenziale delle fattispecie più rilevanti di questo gruppo, di per sé abbastanza eterogeneo. Praticamente tutti questi reati, eccezion fatta per la ‘‘classicissima’’ (16) partecipazione a una rissa (art. 136) (17) e per qualche altro reato di relativamente nuova conio (p. es. registrazioni visive non autorizzate, art. 149) (18), hanno avuto, nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale (cioè nelle leggi penali della seconda Jugoslavia e delle sue repubbliche), un’evoluzione molto simile: previsti dapprima come reati di pericolo, o formali, o di evento (ma senza alcuna soglia quantitativa minima), essi hanno via via acquisito le condizioni obiettive come delimitatori quantitativi della punibilità. 2.3.1. Così è stato, ad esempio, per la causazione colposa di incidente stradale (19), originariamente prevista come reato di pericolo concreto e di portata potenziale a dir poco vastissima. Poiché, però, il Paese a quei tempi si muoveva a piedi o al massimo con la bicicletta, nessuno ha pensato che questo delitto, allora di ‘‘comune pericolo’’, sarebbe presto diventato nella prassi la fattispecie statisticamente caratterizzata dalla maggiore frequenza di commissione. Quando, infatti, il numero degli episodi delittuosi raggiunse un livello notevole, ci si rese conto che la repressione penale non poteva certamente fungere da principale strumento di disciplina del traffico; così il reato, in un primo momento venne considerato, nella prassi giudiziaria, come reato d’evento e, in un secondo tempo, con le opportune modifiche legislative, si trasformò effettivamente in reato d’evento con l’aggiunta della condizione obiettiva (20). Tra i fattori che influirono sul cambiamento figuravano, è innegabile, anche le difficoltà probatorie di una fattispecie che risultava, sotto questo profilo, decisamente complessa. È quasi superfluo aggiungere che pure l’elemento costituente il contenuto della condizione obiettiva ‘‘cresceva’’, raggiungendo qualche anno fa la soglia attuale delle lesioni corporali gravi (21). Nel codice penale sloveno vigente abbiamo così il reato d’evento di chi partecipa alla circolazione stradale e, infrangendo le norme che la regolano, causa colposamente (22) un incidente stradale — che della fattispecie costituisce l’evento — nel quale al(16) La norma sulla partecipazione alla rissa nel codice penale sloveno è paragonabile con quelle dei codici penali svizzero (art. 133), tedesco (art. 227), austriaco (art. 91) e spagnolo (art. 408); un pò meno con quella dell’art. 588 del codice penale italiano. Con ciò non vogliamo contraddire la constatazione di chi avverte (HASSEMER) che disposizioni come queste ‘‘mettono in ansia i penalisti’’. (17) ART. 136. (Partecipazione a una rissa). — Chi partecipa a una rissa nella quale taluno perde la vita o riporta lesioni personali gravi, è punito, per il solo fatto della partecipazione, con la pena detentiva fino a un anno. (18) ART. 149. (Registrazioni visive non autorizzate). — 1. Chi esegue illegittimamente una registrazione visiva di taluno o del suo domicilio senza averne il consenso, violandone così gravemente il diritto alla riservatezza, oppure trasmette direttamente, riproduce o, in qualunque altro modo, dà in visione tale registrazione a terza persona, è punito con una pena pecuniaria o con una pena detentiva fino a un anno. 2 e 3. (Omissis). (19) ART. 325. (Causazione colposa di incidente stradale). — 1. Chi partecipa alla circolazione stradale e, violandone le norme sulla sicurezza, colposamente causa un incidente nel quale taluno riporta lesioni personali gravi, è punito con una pena pecuniaria o con una pena detentiva finno a tre anni. 2. (Omissis). (20) L’idea di costruire questa fattispecie, introducendo la condizione obiettiva, risale al professore lubianese PETER KOBE, che la presentò in un convegno tenutosi a Spalato nel 1963. La proposta, che inizialmente non trovò molte adesioni, fu recepita successivamente nella quasi totalità delle leggi penali delle repubbliche del 1977 (v., supra, nt. 3). (21) Il discorso svolto nel testo vale, ora, anche per la legge penale slovena, così come novellata nel 1989. (22) L’art. 15 del codice penale sloveno stabilisce, secondo una concezione del tutto « classica », che la responsabilità penale è primariamente dolosa; eccezionalmente, e solo se
— 561 — meno una persona riporti le lesioni corporali gravi — è questa la condizione obiettiva. Secondo la dottrina, tutto il disvalore della fattispecie dovrebbe essere concentrato nel fatto, mentre la condizione obiettiva serve soltanto a definire la soglia minima della repressione penale. Le infrazioni al di sotto di essa costituiscono infatti delle contravvenzioni punibili con sanzione amministrativa; in questo caso, quindi, la condizione obiettiva funziona da spartiacque tra i due tipi di illecito. Poiché il reato in questione è statisticamente tra i più frequenti e, per motivi diversi, è anche tra i più trattati in dottrina, l’idea di fondare su di esso una teoria delle condizioni obiettive nel diritto penale sloveno sembrerebbe stimolante. Ma, ad onor del vero, proprio l’utilizzo della condizione obiettiva in questa norma è tra i più controversi. A questo proposito, parte della dottrina ha sottolineato criticamente che la separazione delle lesioni, intese come eventi causalmente legati alla condotta, dalla condotta stessa risulta, a suo parere, innaturale e forzata. 2.3.2. Il secondo esempio, alquanto diverso dal primo, dell’evoluzione registrata dalle fattispecie contenenti le condizioni obiettive è dato dai reati contro le forze armate nella legge penale della ex Jugoslavia (Capitolo XX: Reati contro le forze armate della RSFJ, da sempre appartenente alla competenza esclusiva federale). Diverse fattispecie di questo capitolo sono state concepite in origine come reati formali, con la conseguenza facilmente prevedibile che la repressione penale, in questo campo, è diventata oltremodo vasta, e, a causa delle scelte relative alla perseguibilità, sulle quali in questa sede non possiamo soffermarci dettagliatamente (23), anche assai discrezionale. Per fare un po’ d’ordine in un settore tanto delicato quanto complesso, sono state introdotte, inizialmente in una decina di fattispecie, altrettante condizioni obiettive. Seguendo i consigli della migliore dottrina estera, usando, cioè, le espressioni standardizzate tipicamente espressive di una condizione (24), i risultati sul piano tecnico non sono stati insoddisfacenti. Tuttavia, le condizioni obiettive si sono rivelate carenti proprio sotto il profilo della tipicità complessiva delle fattispecie, dato che la formulazione solitamente usata risulta essere la seguente: ‘‘...e sono scaturite delle conseguenze dannose per il servizio o lo stesso è stato messo in pericolo in modo grave...’’. Per dovere di cronaca, comunque, va riconosciuto che la tecnica di formulazione ha funzionato discretamente se non altro perché ha messo in evidenza che, oltre al fatto oggettivo di reato, è richiesto un quid pluris, cui è subordinata la punibilità concreta. Nel nuovo codice penale sloveno di norme come quelle sopra descritte non ve ne sono più. Le fattispecie contro i doveri militari — che altro non sono se non reati speciali contro i doveri di un pubblico ufficiale (così viene denominato l’apposito capitolo del codice penale sloveno, comparabile con quello dei delitti contro la pubblica amministrazione dell’ordinamento italiano) — sono state radicalmente riformulate; molti reati sono stati depenalizzati ed eventuali punizioni per infrazioni minori sono state trasferite legislativamente nel campo del diritto disciplinare militare. 2.3.3. Il terzo sotto-settore emblematico per lo studio dello sviluppo delle condizioni obiettive nel diritto penale sloveno (e jugoslavo, naturalmente), è quello dei reati economici. Sebbene trattato da ultimo, esso non è certo da ritenersi meno importante degli altri; anzi, previsto espressamente dalla legge, la responsabilità può essere colposa. Ciò nonostante, il nuovo codice penale prevede anche delle fattispecie esclusivamente colpose. (23) Causa ne era la norma contenuta nell’art. 238 della legge penale jugoslava del 1976, secondo la quale la persecuzione penale per i reati militari meno gravi (per i quali era prevista la pena detentiva fino a tre anni) si poteva sostituire con quella disciplinare, se il reato si presentava nella forma particolarmente lieve e ‘‘se questo era in favore del servizio militare’’. È evidente l’ambiguità soprattutto della seconda condizione che era direttamente discriminatoria. Una norma simile non esiste più nel codice penale sloveno. (24) V., per tutti, SCHMIDHAUSER, Objektive Strafbarkeitsbedingungen. Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft, 1959, pp. 562-564.
— 562 — forse, è stato proprio quello che, più incisivamente degli altri, ha rispecchiato i cambiamenti politico-sociali e la loro influenza sul diritto penale. Non è certamente una novità la constatazione che, nei Paesi c.d. socialisti, il diritto penale avesse una funzione di stretto controllo (qualche volta anche di regolamentazione) delle attività economiche, priva di un equivalente nei Paesi a economia di mercato. Nella società jugoslava, anche a seguito dell’introduzione dell’autogestione operaia, ci si è resi conto relativamente presto che questa impostazione non soltanto era utopica, ma sopratutto era irrazionale. Passati gli anni durissimi del primo dopoguerra, nel campo dei reati economici la presenza della repressione penale, non senza difficoltà e battute d’arresto, diminuiva e cambiava volto, anche attraverso un uso mirato delle condizioni obiettive. Il ruolo guida spettava a una fattispecie che si trova ancor’oggi nel diritto penale sloveno (25), condannata tuttavia a scomparire (almeno come reato economico) con il processo della privatizzazione. Si allude alla ‘‘gestione non scrupolosa’’ (art. 127 della vecchia legge penale slovena) (26), un reato che, a nostro avviso, non trova riscontri nel diritto penale dei paesi ad economia capitalistica e che ha solo qualche vaga assonanza con il delitto di infedeltà patrimoniale conosciuto dagli ordinamenti francese e tedesco. Il fatto consiste sostanzialmente nella violazione, da parte di chi ricopre un incarico di gestione (c.d. persona responsabile) all’interno dell’impresa, delle disposizioni di comunità sociopolitiche oppure di altri organi statali o autogestionali relative alla disponibilità, all’utilizzo o alla gestione della proprietà sociale (27). Anche senza entrare nei particolari, né dell’evoluzione della fattispecie nel tempo, né delle difficoltà incontrate dalla giurisprudenza sulla sua interpretazione — soprattutto relativamente alla colpevolezza — è di immediata evidenza la vastissima ancorché solo potenziale portata repressiva della norma. In questo caso, l’introduzione di una condizione obiettiva che subordina la punibilità alla verificazione di un danno superiore ad un determinato ammontare — nella specie, cinquantamila talleri — ha consentito di limitare il ricorso a tale fattispecie incriminatrice ai casi in cui si sia verificato un danno economicamente significativo. Anche se la fattispecie poc’anzi descritta lentamente sta lasciando il nostro diritto positivo, la sua importanza non è soltanto storica: nel codice vigente resteranno due reati costruiti, nelle loro linee principali, secondo tale modello; tutti e due con le rispettive condi(25) L’art. 392 del codice penale ha (temporaneamente) recepito taluni fra i reati del capitolo economico della vecchia legge penale slovena; tra questi, l’art. 127, che reprime la ‘‘Gestione non scrupolosa’’ (nt. 26). (26) ART. 127. (Gestione non scrupolosa). — Il responsabile di un’organizzazione del lavoro unito o di un’altra persona giuridica sociale che nello svolgimento delle proprie funzioni manifestamente agisce in modo non scrupoloso, cosicché: 1) consapevolmente viola disposizioni di comunità sociopolitiche oppure di altri organi statali o autogestionali o, ancora, decisioni degli organi di gestione, relativi alla disponibilità, all’utilizzo e alla gestione della proprietà sociale, oppure 2) con false rappresentazioni od occultamento dei fatti consapevolmente delinea una situazione o un movimento delle risorse, nonché risultati commerciali dell’organizzazione, non corrispondenti al vero, inducendo così in errore gli organi gestionali nel decidere su questioni relative alla gestione, oppure 3) esegue disposizioni degli organi gestionali che sa essere contrarie alla legge, oppure 4) comunque manifestamente trascura i propri doveri relativi alla gestione del patrimonio sociale ovvero alla direzione o supervisione di un processo produttivo o di un altro processo lavorativo; pur prevedendo o potendo e dovendo prevedere che da ciò potrebbe derivare all’organizzazione un danno materiale che effettivamente si verifica e supera l’ammontare di cinquantamila talleri, è punito con una pena detentiva fino a cinque anni. (27) Le disposizioni sono da intendere in modo quantomai vasto; è certamente inclusa anche tutta la normativa speciale degli organi di autogestione, all’epoca molto sviluppata e numerosa.
— 563 — zioni obiettive (gestione non scrupolosa di pubblico ufficio, art. 262 e gestione non scrupolosa dei mezzi per la difesa, art. 367). Molto simile è stata anche l’evoluzione del reato di evasione fiscale (art. 254) (28). Attualmente il c.d. reato base è punibile soltanto se le imposte evase oltrepassano lo standard del ‘‘vantaggio patrimoniale di discreta entità’’ — definito nell’art. 126, comma 13 del codice — mentre si ha il reato più grave se il vantaggio patrimoniale è rilevante ed esiste il dolo diretto di evadere una tale quantità di tasse. Praticamente in tutte le fattispecie del diritto penale sloveno, nelle quali compare la condizione obiettiva come evento aggiuntivo — di cui la fattispecie di evasione fiscale ex art. 254 comma 1 costituisce appunto un esempio emblematico — si potrebbe parlare di una vera e propria progressione criminosa (29). Il reato è già perfetto anche senza la condizione obiettiva poiché tutto il disvalore è, per così dire, concentrato nel reato base; la sola funzione della condizione obiettiva è di politica criminale, e cioè di mera opportunità. 3. Collocazione dogmatica, ruolo e natura giuridica delle condizioni obiettive di punibilità. — Sulla base dei dati che abbiamo raccolto analizzando sia le fattispecie dotate di condizioni obiettive, sia quelle che ne sono prive, e verificando le opinioni della dottrina (la giurisprudenza in materia è, purtroppo, poverissima essendo concentrata prevalentemente sul reato di causazione colposa di incidente stradale e sui reati militari) si può, ora, cercare di fissare alcuni punti fermi in relazione a questo elemento della fattispecie tanto discusso e controverso. Il nodo teorico centrale è individuabile nel ruolo che le condizioni obiettive rivestono all’interno della struttura del reato. Una esigua parte della dottrina, sotto l’evidente influenza delle elaborazioni sistematiche tedesche, ha cercato di trovare per le condizioni obiettive una collocazione tra gli elementi del reato, senza tuttavia risultati meritevoli di menzione particolare. L’opinione prevalente, invece, ritiene che le condizioni obiettive non rappresentino un elemento costitutivo del reato. Poiché diversi autori, in passato, consideravano la pericolosità sociale come un elemento costitutivo del reato, alcuni hanno pensato di inserirci anche delle condizioni obiettive (30): una scelta che, a nostro avviso, non si poteva condividere nel passato e tanto meno può essere condivisa oggi. La posizione teorica, secondo la quale tra gli elementi del reato si troverebbe anche la punibilità (31), ha avuto finora rarissimi seguaci: in tale ottica, le condizioni obiettive troverebbero appunto la loro collocazione dogmatica all’interno dell’elemento « punibilità » (32). (28) ART. 254. (Evasione fiscale). — 1. Chi, al fine di evitare a sé o ad altri il pagamento, in tutto o in parte, di imposte sui redditi, di tasse o di altre imposizioni prescritte per le persone fisiche o giuridiche, fornisce informazioni false in merito a redditi, spese, circostanze materiali o di altra natura rilevanti per l’accertamento di tali imposizioni oppure in altro modo induce in errore le autorità fiscali, e le imposizioni così eluse gli fanno conseguire un vantaggio patrimoniale di discreta entità, è punito con la pena detentiva fino a tre anni. 2 e 3. (Omissis). (29) Analogamente, nella letteratura giuridica italiana, si parla di progressione criminosa per definire l’incidenza delle condizioni obiettive in talune fattispecie incriminatrici. V., per tutti, ANGIONI, Condizioni di punibilità e principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1989, p. 1462; cfr. anche D’ASCOLA, Punti fermi e aspetti problematici delle condizioni obiettive di punibilità, in questa Rivista, 1993, pp. 673 ss. (30) Cfr. ATANACKOVIĆ, Objektivni uslovi inkriminacije u jugoslovenskom krivičnom zakonodavstvu (Condizioni obiettive d’incriminazione nella legislazione penale jugoslava), Mostar 1980-1981, (trad. dell’Aut.). L’articolo è uno dei rarissimi esempi di un lavoro che tratta sistematicamente soltanto le condizioni obiettive (spesso denominate ‘‘condizioni d’incriminazione’’, soprattutto dalla scuola belgradese). (31) V., nella dottrina italiana più recente, MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 1. Nozione, struttura e sistematica del reato, Milano, 1995. (32) BAČIĆ, Krivično pravo. Opći dio (Diritto penale. Parte generale, trad. dell’Aut.), Zagreb, 1978.
— 564 — Per la maggior parte della dottrina, però, le condizioni obiettive sono escluse dagli elementi tipici del reato; rivestono, cioè, una posizione marginale, entrando a far parte della fattispecie in senso ampio. L’identificazione all’interno delle condizioni obiettive della norma si presenta di solito difficile: nella maggior parte dei casi occorre una analisi complessiva della fattispecie contenente la presunta condizione obiettiva, partendo proprio dalla funzione che essa potrebbe svolgere nel reato, anche se questo criterio, da solo, non è mai sufficiente. Sarebbe auspicabile l’utilizzo di una forma grammaticale fissa che mettesse in risalto la natura condizionale della condizione obiettiva. Su questo punto, però, il codice penale sloveno è abbastanza carente in generale e non soltanto per quello che concerne l’istituto di cui ci stiamo occupando in particolare. Nel diritto penale sloveno non si trovano delle fattispecie contenenti condizioni obiettive simili a quelle che nella dogmatica italiana sono solitamente considerate come condizioni obiettive ‘‘estrinseche’’ (ad es., l’essere sorpresi in flagranza di reato). Neppure la querela — che sebbene abbia nel sistema sloveno un significato parzialmente diverso da quello italiano — può essere considerata una condizione obiettiva avendo natura squisitamente processuale (33). Perciò la delimitazione tra le condizioni obiettive e le condizioni di procedibilità di solito non presenta alcuna difficoltà. È altresì indubbio che l’assenza della condizione obiettiva provochi la sentenza assolutoria (34), laddove l’assenza di una condizione di procedibilità comporta, secondo la legge processual-penalistica slovena, la sentenza c.d. formale (35). Mentre la giurisprudenza e gran parte della dottrina hanno fatto propria la concezione secondo la quale le condizioni obiettive si ascrivono al reo obiettivamente, una parte minoritaria dei teorici si è attivata al fine di trovare una forma di collegamento almeno colposo (quantomeno sotto il profilo della prevedibilità) tra il reato base e la condizione obiettiva prevista nella norma stessa (36). Il compito, però, si è rivelato assai arduo per due ordini di motivi: a) La soluzione che esclude l’applicabilità obiettiva delle condizioni obiettive, richiedendo che queste siano sorrette da un criterio di imputazione colposo sarebbe forse attuabile per il sopra menzionato terzo tipo delle condizioni obiettive, molto difficilmente per i primi due. b) Il problema che appare di più difficile superamento è che il suddetto criterio di imputazione è per legge ‘‘riservato’’ ai c.d. reati aggravati dall’evento (37). Non è quindi, ammissibile che due figure, già di per sé abbastanza vicine e per di più tutte e due controverse, abbiano lo stesso trattamento normativo. La prevedibilità (non della condizione obiettiva, ma dell’evento!) si trova in tutti i reati costruiti secondo il modello della gestione non scrupolosa (art. 127 della vecchia legge penale slovena) (38): è chiaro, allora che non può essere usata per due scopi diversi. Il tentativo nei reati costruiti con le condizioni obiettive è di solito ammesso: l’opinione di chi scrive è tuttavia decisamente contraria. Non è pensabile, infatti, che da un lato sia stato introdotto nel sistema penale un istituto con l’intento di limitare la punibilità di un reato già perfetto, e, dall’altra parte si voglia estendere la punibilità alla fase del tentativo, che peraltro in alcuni casi è tecnicamente ipotizzabile. In assenza di una norma apposita che regoli la prescrizione dei reati che contengano le condizioni obiettive — analoga a quella italiano (art. 158 comma 2) — è normale che non vi (33) La querela come istituto processuale è regolata dagli artt. 52-57 della legge di procedura penale slovena. (34) Art. 358 della legge di procedura penale. (35) Art. 357 della legge di procedura penale. (36) Cfr. ATANACKOVIĆ, nt. 30. (37) Art. 19 del codice penale sloveno. (38) V., retro, nt. 26.
— 565 — sia, sul punto, unanimità di vedute. L’unica soluzione accettabile, a parere nostro, e senza dilungarci nell’esposizione degli argomenti a favore dei ben noti a tutti, è quella secondo la quale i termini della prescrizione iniziano a decorrere dal momento in cui si realizza la « condizione ». 4. Considerazioni conclusive. — Allo stato attuale delle cose si potrebbe concludere sostenendo che nel diritto penale sloveno l’istituto delle condizioni obiettive è da considerare ormai ‘‘tradizionale’’. Al riguardo, non ci sono obiezioni di particolare rilievo da opporre anche se va esplicitato l’avvertimento contro un uso troppo esteso dell’istituto medesimo (che sembra peraltro essere stato in una buona parte recepito dal legislatore) e vanno ribadite, nel contempo, le critiche mosse ad alcune fattispecie, giudicate artificiose o non strettamente necessarie. Una regolamentazione legislativa delle condizioni obiettive sulla base della esperienza italiana, che si è visto essere stata largamente criticata nella dottrina, non sarebbe auspicabile; molto probabilmente non è nemmeno possibile poiché la collocazione dell’istituto nella sistematica del diritto penale sloveno non è del tutto stabile (39). Semmai, per evitare interpretazioni arbitrarie e un uso potenzialmente scorretto dell’istituto, in prospettiva de lege ferenda, si potrebbe dichiararne l’efficacia obiettiva, sempre, comunque, a favore del reo (40). A nostro parere, l’istituto delle condizioni obiettive, sebbene ambiguo e talvolta difficile da gestire, continuerà ad avere una sua collocazione nel diritto penale di domani (41). La questione fondamentale della rilevanza delle condizioni obiettive, se posta nei termini dicotomici obiettività-colpevolezza appare troppo rozza e, in parte, fuorviante. Quando l’elemento in questione ha una sia pur minima influenza sul contenuto dell’illecito, non può essere condizione obiettiva. Naturalmente vale anche l’opposto: quando un elemento, anche per la volontà del legislatore, ha la sola funzione di condizionare la punibilità di un illecito (già di per sé meritevole di pena) e quindi di ridurre l’area repressiva, perché non potrebbe avere efficacia obiettiva? Il futuro delle condizioni obiettive è, anche se non in senso assoluto, in buona parte ricollegabile al regime dell’azione penale. In un sistema di obbligatorietà dell’azione penale, le condizioni obiettive trovano senza dubbio maggior spazio che in un sistema basato invece sul principio di opportunità. Quella della natura dell’azione penale è in Slovenia, una questione ancora aperta e dibattuta: partendo dal tradizionale principio della legalità (mai però intesa, come Italia, in termini assoluti) si stanno man mano introducendo istituti già noti nelle legislazioni straniere (si pensi p. es. alla c.d. diversion) (42) che stanno cambiando il volto della procedura penale. L’introduzione di un sistema di opportunità classico o puro è poco probabile; la scelta quasi certamente cadrà su di un sistema misto, in cui convivono il principio di ‘‘opportunità’’ per gli illeciti meno gravi e quello di ‘‘legalità’’ per i reati più gravi (43). (39) Si pensi che non ha finora trovato una regolamentazione legislativa il reato continuato, una figura tuttavia ben nota al diritto penale sloveno e largamente usata dalla giurisprudenza. (40) Ci viene in mente una norma simile a quella dell’art. 59 del codice penale italiano, così come modificata dalla legge 7 febbraio 1990 n. 19, che non comprenda però soltanto le condizioni obiettive di punibilità, bensì tutti gli elementi, favorevoli al reo, di applicazione oggettiva. (41) Idee troppo entusiastiche circa la portata dell’istituto si trovano qualche volta nella letteratura italiana. V., ad es., P. VIOLANTE, Condizioni obiettive di punibilità o condizioni di procedibilità? Aspetti vecchi e nuovi di un antico dilemma, in Scritti in memoria di Renato Dell’Andro, Bari, 1994, vol. II, p. 1059. (42) Art. 162 e 163 della legge di procedura penale. (43) PRADEL (Droit pénal comparé, Paris, 1995) definisce questo sistema, riferendosi al Portogallo, mi-légaliste et mi-opportuniste.
— 566 — La linea di demarcazione tra i due regimi di procedibilità non è ancora definitiva: per il momento è attestata verso il basso, nel senso che il pubblico ministero può non iniziare l’azione penale per tutti i reati che prevedono la pena pecuniaria o la pena detentiva fino a un anno. In verità, il pubblico ministero dispone di ampi margini di discrezionalità e può prendere la decisione di non esercitare l’azione penale anche per i reati più gravi in virtù dell’istituto della ‘‘minima importanza’’ del fatto (44). È in questa cornice processualpenalistica che le condizioni obiettive giocano il loro ruolo nel diritto penale sloveno, rivestendo una funzione relativamente importante. Si potrebbe dire, più esattamente, che, com’è marginale la posizione della singola condizione obiettiva all’interno della fattispecie, parimenti è marginale il ruolo dell’istituto all’interno del sistema penale. Nel nuovo codice penale sloveno l’utilizzo delle condizioni obiettive sembra risultare, a nostro avviso, fondamentalmente corretto. Comparando la legislazione attuale con quella precedente si può rilevare che il numero di fattispecie in cui sono inserite le condizioni obiettive è diminuito, poiché il legislatore si è attivato per restringere il loro utilizzo; forse, però, gli è sfuggito qualche caso, nel quale il ricorso a quest’istituto non era strettamente necessario. In particolare, è da ritenere superfluo il ricorso alle condizioni obiettive in quelle fattispecie in cui si perverrebbe ad un risultato analogo senza l’ausilio di quest’istituto. Su questo punto il discorso si sposta nel campo della nomotecnica, settore sorprendentemente poco approfondito, specie in relazione all’istituto in questione. Se, in definitiva, diamo uno sguardo complessivo all’istituto delle condizioni obiettive, circa la sua evoluzione e il livello raggiunto nel contesto penale sloveno, non possiamo non accorgerci che il percorso è stato abbastanza originale e autonomo. Determinante per la istituzione delle condizioni obiettive sembra essere stato il portato della dottrina penalistica tedesco-austriaca, che ha avuto in passato una grande influenza sul diritto penale in quest’area, anche se, oggi, proprio per le condizioni obiettive tale influsso non sembra più dimostrabile. L’incidenza dell’altro grande sistema penalistico vicino — quello italiano — è, invece, alquanto improbabile, anche se la nostra ricerca ha individuato, tra tante differenze, interessanti punti comuni e scelte fondamentalmente analoghe. Questa conclusione vale soprattutto per la situazione creatasi negli ultimi decenni: non può sfuggire, infatti, che le posizioni teoriche orientate verso la una valenza politicocriminale delle condizioni obiettive (45), potrebbero benissimo funzionare da denominatore comune per le condizioni obiettive nel diritto positivo sloveno. Non sta a noi giudicare qual è, in questo momento, la corrente di pensiero prevalente in Italia, ma non può che farci piacere la constatazione che l’orientamento che va per la maggiore ormai ammetta le condizioni obiettive come delimitatori quantitativi (46), e che quella dottrina, ancora non molto tempo fa scettica riguardo a una siffatta impostazione dell’istituto in esame (47), almeno de jure condendo non insista più sul conflitto fra condizioni obiettive e principio di colpevolezza, ma prospetti soluzioni, i cui termini sono, a noi molto vicini. Dott. ZVONKO FIŠER Procuratore presso la Procura generale della Repubblica di Slovenia, Ljubljana (44) Art. 14 del codice penale sloveno: trattasi della norma che in un certo qual modo succede a quella della ‘‘pericolosità sociale minima’’, ben nota, in passato, nel diritto penale jugoslavo e nella dottrina penalistica di altri Paesi socialisti. (45) Il testo chiave, per questo filone, è quello di NEPPI MODONA, Concezione realistica del reato e condizioni obiettive di punibilità, in RIDPP, 1971. (46) ROMANO M., Commentario sistematico del codice penale, Milano, 1995, I, pp. 444-445. (47) Non è possibile non accorgersi di un’evoluzione, in questo senso, tra la prima e la terza edizione del manuale di FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, (ed. 1985, p. 460; ed 1995, p. 731).
LA CONVENZIONE QUADRO DEL CONSIGLIO D’EUROPA PER LA PROTEZIONE DELLE MINORANZE NAZIONALI
1. La Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali è stata adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 10 novembre 1994 con apertura alla firma degli Stati-membri il 1 febbraio 1995. Si tratta di documento che presenta molteplici elementi di interesse, che non è possibile segnalare tutti qui contemporaneamente. Perciò mi limiterò ad alcuni fra essi nell’intento di sviluppare l’approfondimento dei problemi di maggiore rilievo in vista della pratica attuazione della Convenzione stessa all’interno degli ordinamenti degli Stati firmatari. Innovativa è anzitutto la scelta di fare ricorso ad uno strumento quadro, ad una convenzione quadro. Molto ha pesato al riguardo l’intento di alcuni Stati di evitare l’adozione di norme suscettibili di acquisire — a ratifica avvenuta — immediata efficacia normativa sul piano dei rapporti fra Stato e cittadini all’interno di ordinamenti ad impianto monistico, cioè in quegli ordinamenti in cui i trattati ratificati costituiscono fonti di diritto concorrenti con quelle di diritto interno. Vivissima è stata poi la preoccupazione che una normativa uniforme e puntualmente dettagliata potesse risultare inadeguata a fare fronte a situazioni minoritarie molto diverse da Paese a Paese. Si è cioè ritenuto che si tratta di fenomeno difficilmente riconducibile ad una tipologia unitaria e, quindi, insuscettibile di essere affrontato a livello internazionale con una normativa rigidamente ed egualmente vincolante per tutti gli Stati firmatari. D’altra parte, vincolati al mandato di tradurre in norme di diritto internazionale gli impegni espressi nelle statuizioni ‘‘soft’’ della CSCE, nel frattempo convertitasi in OSCE, gli organi del Consiglio d’Europa si sono inevitabilmente trovati fra le mani il modello di una normativa molto elastica e flessibile, dal contenuto generico e — talora — volutamente ambiguo (1). Vero è che a loro era offerta l’occasione di agganciarsi alla normativa ben più puntuale e determinata della Convezione europea per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, ma proprio il carattere aggiuntivo ed innovativo dell’intervento rispetto a questo ormai consolidato strumento non consentiva di lavorare per una meccanica conversione sul piano della tutela minoritaria delle garanzie disposte dalla Convenzione per la tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Bisognava introdurre nuove e diverse garanzie, prevedere diritti e situazioni di favore normativamente tutelati completamente diversi da quelli già garantiti dalla Convenzione, anche perché il ricorso ad uno strumento apposito (1) Solo l’esperienza potrà darci un’idea precisa delle differenze intercorrenti fra le regole dell’OSCE e quelle della Convenzione-quadro, aldilà dell’ovvia ma insoddisfacente constatazione che le prime costituiscono la fonte di vincoli politici e le seconde sono norme di diritto internazionale. Chi sottolinea questa differenza, spesso non tiene conto che anche le regole giuridiche — come quelle dei documenti dell’OSCE — talvolta sono difficilmente sanzionabili ed hanno talora un contenuto vago ed ambiguo, e che, d’altra parte, la violazione di accordi politicamente e non giuridicamente vincolanti è anch’essa inaccettabile come la violazione di norme di diritto internazionale (come ricorda, citando un’opinione di Arie Bloed, E. GILBERT, The Council of Europe and minority rights, in Human Rights Quartely, 18, 1996, 160 ss., in particolare 17). Del resto, non bisogna dimenticare che — come si vedrà in seguito — il meccanismo di controllo dell’implementazione della Convenzione-quadro è posto sotto la responsabilità degli organi politici del Consiglio d’Europa.
— 568 — di tutela minoritaria implicava il rifiuto definitivo dell’idea che alla tutela delle minoranze si potesse pervenire soltanto attraverso la garanzia dei tradizionali diritti e libertà di applicazione generale, l’obiettivo specificamente perseguito richiedendo norme e garanzie apposite, cioè uno strumento a contenuto speciale e disegnato in funzione della protezione di quei gruppi affatto particolari che sono — appunto — le minoranze. La scelta definitiva in proposito va addebitata al Vertice dei Capi di Stato del Consiglio d’Europa tenutosi a Vienna nell’ottobre 1993. Ma chi ha seguito direttamente il lavoro nel campo della tutela minoritaria delle istituzioni di Strasburgo negli ultimi anni, sa che ben prima del Vertice di Vienna la soluzione della Convenzione-quadro era reputata come l’inevitabile risultato degli sforzi che venivano condotti per arrivare alla confezione di uno strumento di protezione delle minoranze nazionali. Era, cioè, evidente che la scelta inclinava nella direzione di uno strumento la cui attuazione negli ordinamenti interni degli Stati membri non poteva essere automatica ed immediata, ma richiedeva una apposita legislazione interna di esecuzione, volta a dare applicazione — secondo le necessità del caso ed anche negli stessi ordinamenti ad impostazione monistica — alla normativa convenzionale nelle singole situazioni nazionali con norme di integrazione e completamento di un eventuale provvedimento di mera ratifica. Né le spiegazioni che si sono sin qui offerte sembrano contraddette dalla prescrizione impartita dal Vertice di Vienna agli organi del Consiglio d’Europa di affiancare alla Convenzione-quadro un Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali in materia di diritti culturali, con speciale riguardo alle ragioni della protezione delle minoranze. Infatti, per questa parte gli organi del Consiglio d’Europa non sono stati sinora in grado di corrispondere al mandato ricevuto, e l’esercizio si è arenato nelle secche delle difficoltà di trovare una mediazione fra tuteta di diritti di applicazione generale e protezione minoritaria, esigenze di uniformità di trattamento (aldilà di qualsiasi distinzione di lingua, nazionalità, etnia e religione) e specialità degli interventi, universalità delle ragioni fondanti della protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali e peculiarità delle singole situazioni minoritarie. Va tuttavia fatto osservare che, valutato nella sua veste presente, il documento prodotto dal Consiglio d’Europa sembra discostarsi dal modello di convenzione-quadro che proprio in tempi recenti la dottrina internazionalistica è venuta proponendo all’attenzione degli studiosi. Si sostiene, infatti, che le convenzioni-quadro sono quelle che vogliono essere integrate e completate, se non eseguite ed aggiornate da accordi ulteriori da concludere fra tutti gli Stati stipulanti o una sola parte di essi. Alexandre Kiss (2) ha parlato in proposito di strumenti convenzionali che enunciano i principi destinati a servire da fondamento della collaborazione fra gli Stati stipulanti in ordine ad una determinata materia, lasciando agli Stati stessi il compito di definire, con accordi separati, le modalità e i dettagli della cooperazione, ed eventualmente prevedendo, se del caso, una o più istituzioni destinate allo scopo. Per quanto la Convenzione-quadro che andiamo analizzando espressamente preveda che alla sua implementazione gli Stati stipulanti possono anche provvedere a mezzo di accordi bilaterali (cfr. gli artt. 11.3 e 18), quando vi sia un comune interesse alla tutela, la via principale di attuazione dello strumento — dallo stesso chiaramente evidenziata e in prospettiva delineata nella sua connessione funzionale con il conseguimento degli obiettivi previsti — sembra essere quella della legislazione interna di attuazione, da adottare anche in assenza di un qualsiasi ulteriore strumento internazionale (bilaterale o multilaterale) integrativo e specificativo degli obblighi de quibus. In questo senso vi sono indicazioni inequivocabili nel preambolo del documento, il meccanismo di controllo è funzionalizzato al riscontro dell’attività di diritto interno degli Stati stipulanti, e la stessa costruzione lessicale della più parte delle disposizioni è articolata in (2) A. KISS, Les traitds-cadres: une technique juridique caractéristique du droit international de l’environnement, in Annuaire français de droit international, XXXIX, 1993, 792 ss.
— 569 — modo da porre in primo piano l’obbligazione degli Stati di perseguire determinati obiettivi, in diretta attuazione delle disposizioni della Convenzione, e nullo intermisso medio. Una volta ratificata e recepita negli ordinamenti interni degli Stati stipulanti, o in base alla sola ratifica o in forza di una legge di esecuzione, la Convenzione-quadro sembra destinata ad operare quale una delle leggi cornice previste nell’art. 117 Cost., e comunque come una legge di principi suscettibile di trovare diretta applicazione solo in forza di un’ulteriore attività normativa del legislatore cui i loro precetti sono rivolti (3). Il che non esclude che, sul lungo periodo, dalla Convenzione-quadro possa trarre origine uno di quei « systèmes conventionnels, à la fois uniques e multiples » di cui discorre Kiss (4) fermando la sua attenzione sul diritto internazionale ambientale. Ma è sul piano dei diritti interni che, anzitutto, si manifesterà, attraverso autonome scelte degli Stati stipulanti, l’effetto unificante della normativa pattuita, effetto della cui coerenza saranno arbitri gli organi preposti alla verifica dell’implementazione di quella normativa medesima. E, al limite, dalla stessa legislazione degli Stati finirà per dipendere l’efficacia che la Convenzione-quadro andrà a dispiegare nei singoli ordinamenti. Vero è che nella Convenzione vi sono anche disposizioni puntuali e precise, apparentemente suscettibili di immediata applicazione interna ovvero di costituire direttamente in capo ai singoli diritti soggettivi o interessi giuridicamente tutelati: si pensi — ad esempio — all’art. 3.1 che consente ai singoli appartenenti ad un gruppo minoritario di scegliere o meno se sottostare alla normativa di tutela. E, però, è anche vero che gli Stati (ivi inclusi quelli ad orientamento monista) saranno pur sempre liberi — all’atto dell’interna recezione e con loro autonomo provvedimento — di bloccare questi effetti diretti o subordinarli ad un ulteriore intervento normativo. E una scelta siffatta non implicherebbe violazione degli obblighi convenzionali, giacché gli Stati si sono impegnati non già a dare immediata efficacia normativa ai precetti della Convenzione-quadro ma a trattarli, piuttosto, come disposizioni di principio da tradurre in pratica con una ulteriore normativa di esecuzione. 2. A sensi dell’art. 1 della Convenzione-quadro la protezione delle minoranze nazionali e dei diritti e delle libertà delle persone appartenenti a queste minoranze forma parte integrante della protezione internazionale dei diritti umani. Questa disposizicne entra direttamente nel cuore stesso dell’antico e tradizionale dibattito sulla protezione delle minoranze. Vi è stato un momento in cui, nel secondo dopoguerra, si è ritenuto che il sistema speciale di protezione delle minoranze introdotto dal Trattato di Versailles e dagli accordi successivi si dovesse ritenere responsabile delle contrapposizioni che hanno esasperato i rapporti internazionali fra le due guerre (5). Si è, quindi, preferito affidare, allora, quella protezione al sistema generale di tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali, quale sancito nella Dichiarazione Universale del 1948 e nei successivi Patti conclusi sotto l’egida dell’ONU, da un lato, e nella Convenzione di Roma, dall’altro lato (6). D’altra parte, ancor oggi molti Stati reputano la protezione delle minoranze — se realizzata con norme speciali e particolari — incompatibile con il sistema dei diritti umani e delle libertà fondamentali, cui sono orientati ad assegnare una portata universale, nel senso che vogliono siano congegnati in modo da (3) Conforme BENOIT-F. ROHMER, La Convention-cadre du Conseil de l’Europe pour la protection des minorités nationales, in EJIL, 6, 1995, 573 ss., pag. 577. Sulle leggi cornice di diritto italiano L. PALADIN, Diritto regionale, Padova 1992, 96 ss. (4) A. KISS, op. cit., 793. (5) Si veda il cenno al desiderio di evitare ‘‘the particularism of the post-First World War minority regimes’’ in A. ROSAS, The protection of minorities in Europe: a general overview, in The protection of ethnic and linguistic minorities in Europe, a cura di J. Packer e K. MYNTTI, 1993, 9 ss. (6) G. MALINVERNI, La Covention-cadre du Conseil de l’Europe pour la protection des minorités nationales, in Revue suisse de droit international et de droit européen, 1995, 521 ss., 525-526.
— 570 — spettare a chiunque, indipendentemente da qualsiasi condizione personale o sociale (7). In effetti, l’attribuzione e la titolarità dei diritti minoritari non può non essere subordinata, invece, alla ricorrenza in capo ai destinatari della protezione di determinati requisiti, che valgono a differenziarli dagli altri componenti della comunità associata, e che, proprio perché differenzianti, richiedono interventi protettivi dei soli soggetti de quibus, ad evitare discriminazioni e svantaggi derivanti dalla differenziazione. La normativa di protezione è, per destinazione, normativa speciale e particolare, e — pertanto — apparentemente incompatibile con il sistema normativo dei diritti umani ad orientamento universalistico. Questi precedenti storici e queste preoccupazioni di ordine ideologico non possono, però, impedirci di attribuire alla citata disposizione una propria rilevanza normativa, e, quindi, obbligarci a trattarla alla stregua di una semplice dichiarazione politica. Vero è che il ricorso ai soli strumenti di tutela offerti dal sistema della protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali si è rivelato — con il passare degli anni — inadeguato a fondare e giustificare gli interventi positivi di tutela delle minoranze che il ripristino o la realizzazione dell’eguaglianza di fatto (e non solo formale) esige. Tuttavia, si può dire che la protezione delle minoranze nazionali e dei diritti e delle libertà delle persone che vi appartengono è parte del sistema della protezione internazionale dei diritti umani per un duplice ordine di motivi. Da un lato, la protezione minoritaria presuppone il sistema dei diritti umani, nel senso che vuole essere un prolungamento e completamento di questo, arrivando là dove lo stesso — proprio per la sua pretesa universalistica — non può arrivare. Storicamente la protezione minoritaria ha fatto la sua comparsa con qualche anticipo rispetto alla protezione dei diritti umani (8), ma è palese che il succedersi storico degli eventi in questo secolo conforta la nostra ipotesi, nella misura in cui dimostra che la tutela dei diritti umani — la quale in ragione della sua universalità interessa anche gli appartenenti alle minoranze — è destinata ad offrire quelle garanzie minime di giuridica protezione della persona umana in assenza delle quali la stessa questione minoritaria non troverebbe modo di porsi all’attenzione dei poteri costituiti. Di protezione delle minoranze si può parlare solo all’interno di ordinamenti orientati al rispetto dei principi di libertà e democrazia. D’altra parte, la protezione delle minoranze rappresenta anche un fattore di garanzia della protezione dei diritti umani, nel senso che, solo in presenza di essa, la fruizione di questi può farsi concreta ed effettiva, non solo consentendo di evitare le discriminazioni di cui si è detto, ma creando anche le condizioni pratiche per l’esercizio dei diritti stessi ad opera delle persone appartenenti ai gruppi minoritari. Così prospettato, l’innesto della protezione minoritaria su quella dei diritti dell’uomo mette in evidenza un tratto caratteristico degli elementi propri della prima: in quanto non si risolvano in diritti di libertà (com’è il caso — ad esempio — del diritto di usare in pubblico e in privato la propria lingua, o del diritto di apprenderla liberamente: artt. 10.1 e 14.1 della Convenzione-quadro), i diritti in cui si dovrà manifestare la protezione minoritaria, in esito agli obblighi sottoscritti, sembrano appartenere ai c.d. diritti della seconda generazione, o comunque essere ad essi assimilabili, nel senso che implicano da parte dello Stato (non già una mera astensione ma) una prestazione positiva (9), ora volta — ad esempio — ad assicurare le condizioni atte a rendere possibile l’uso della lingua minoritaria nei rapporti fra le pubbliche autorità e i singoli che delle minoranze fanno parte, ora destinata a creare adeguate opportunità di insegnamento della lingua minoritaria e nella lingua minoritaria nelle istituzioni scolastiche pubbliche (artt. 10.2 e 14.2). Il che consente di meglio comprendere — fra l’altro — le ragioni che hanno indotto gli Stati a preferire una convenzione-quadro: l’adozione di una normativa non programmatica o di principio ma suscettibile di immediata e diretta applicazione li avrebbe assoggettati ad obbligazioni di fare troppo stringenti e pun(7) Cfr. — con riguardo proprio alla Convenzione-quadro — G. CARCASSONNE, La laicité en péril, Le point, 19 novembre 1994. (8) Vedi A. PIZZORUSSO, Le minoranze nel diritto pubblico interno, Milano 1967. (9) Si veda in argomento A. BALDASSARRE, voce Diritti sociali, in Enc. giur., XI, Roma 1989.
— 571 — tuali, impedendo loro di organizzare gli interventi positivi richiesti secondo le caratteristiche delle situazioni in cui si trovano ad operare, nel rispetto delle istituzioni proprie del loro ordinamento e secondo le loro stesse disponibilità e capacità (10). In base alla Convenzione, invece, ogni Stato può provvedere all’attuazione delle obbligazioni assunte con un margine di discrezionalità, che gli consente una qualche libertà di scelta e di movimento. A questo punto pare necessario un chiarimento. La Convenzione parla per lo più di diritti che gli Stati si impegnano a riconoscere alle persone appartenenti alle minoranze nazionali, salvo a ricorrere in taluni casi a formule più dirette di apparente, immediato riconoscimento dei diritti ai singoli interessati: è il caso — ad esempio — dell’art. 3.1, ove si dispone che ogni persona appartenente ad una minoranza nazionale ha il diritto di scegliere liberamente se essere trattata o meno come tale. Tale scelta redazionale ha indotto taluno a ritenere che in questi casi siamo in presenza di disposizioni direttamente applicabili, aventi — quindi — ‘‘caractère « self-executing »’’. Secondo questa opinione, la Convenzione si presenterebbe, dunque, come uno strumento ibrido (11). Si tratta di un’interpretazione che non può essere condivisa, in quanto contrasta con una chiara scelta di principio delle Parti stipulanti, quale espressamente risulta dal Preambolo dello strumento e, implicitamente, dalle stesse clausole relative al controllo sull’attività di attuazione. Ovviamente diverso è il caso in cui vi è una coincidenza fra le previsioni della Convenzione quadro e quelle della Convenzione di Roma, giacché in questo caso l’enforcement giudiziale è fuori discussione, come fuori discussione è il ricorso alla Commissione ed alla Corte di Strasburgo: ma nei relativi giudizi sarà la Convenzione di Roma ad essere applicata e non già la Convenzione-quadro. Non a caso l’art. 23 di questa impone che in casi siffatti ai diritti ed alle libertà vanno riconosciuti i contenuti desumibili dalla Convenzione per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. D’altra parte, la tendenziale assimilazione di molti istituendi diritti minoritari ai c.d. diritti sociali o di prestazione richiederà — negli ordinamenti interni — modalità di tutela giudiziale tutte particolari in vista dell’enforcement delle obbligazioni positive di fare discendenti dall’attuazione della Convenzione stessa: si pensi alla panoplia di ordini giudiziali cui i giudici degli Stati Uniti hanno dovuto fare ricorso per garantire l’attuazione della famosa decisione Brown v. Board of Education. Il che ovviamente potrebbe non essere vero — invece — nell’ipotesi in cui i diritti minoritari si risolvano in diritti di libertà, o meglio, quando gli impegni della Convenzione-quadro implichino il riconoscimento di diritti di libertà. In questi casi un enforcement giudiziale parrebbe essere più agevole, arrivando — come si diceva — a coinvolgere anche le istituzioni di Strasburgo. Si pensi, ad esempio, al diritto alla libertà di espressione garantita dall’art. 10 della Convenzione di Roma. Nel corso dei lavori preparatori della Convenzione-quadro è stato sostenuto che esso includerebbe il diritto ad usare liberamente le lingue minoritarie, in pubblico come in privato, oralmente e negli scritti, e comunque senza interferenze. L’espressa previsione di questo diritto all’art. 10 della Convenzione-quadro sembra mettere in discussione una siffatta interpretazione, tanto più che all’art. 9 gli autori della Convenzione-quadro hanno sentito il bisogno di impegnare separatamente gli Stati a riconoscere il diritto alla libertà di espressione agli appartenenti alle minoranze, includendovi quello di ricevere e diffondere informazioni ed idee nella lingua minoritaria, senza interferenza delle pubbliche autorità e senza riguardo alle frontiere in atto. Ma quand’anche questa distinzione dovesse consolidarsi, è fuori di dubbio che, in sede di applicazione dell’art. 10 della Convenzione per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, non potrebbe disconoscersi il diritto di usare la propria lingua nell’espressione pubblica o privata del pensiero, se non a patto di mettere in discussione la stessa tutela della libertà di espressione in ragione della lingua (10) A. RONQUIST, The Council of Europe Framework convention for the protection of national minorities, in Helsinki monitor, 1995, 38 ss. (11) P. BOILLAT, Quelques observations sur la Convention-cadre pour la protection des minorités nationale, in AJP, 1955, 1283 ss., 1287.
— 572 — usata dall’autore della manifestazione del pensiero. Vi osta l’art. 14 di quella stessa Convenzione, che proibisce — fra le altre — ogni discriminazione fondata sulla lingua nella fruizione dei diritti garantiti dalla Convenzione fondata. Dopo l’adozione della Convenzionequadro questa interpretazione non può che risultare rafforzata, nel senso che — almeno nei confronti degli Stati che l’abbiano sottoscritta e ratificata — gli organi di Strasburgo possono far valere una interpretazione lata dell’art. 10 della Convenzione di Roma, indipendentemente dal fatto che lo Stato interessato abbia o meno provveduto all’implementazione degli impegni assunti con la Convenzione-quadro medesima. La disposizione dell’art. 1 di questa, che andiamo commentando, consiglia, se non impone di arrivare a queste conclusioni in ragione della riconduzione della protezione dei diritti minoritari nel sistema della protezione internazionale dei diritti umami. Ed è probabilmente ad analoga conclusione che si deve arrivare sia in materia di libertà di apprendere la lingua minoritaria (art. 14.1) in connessione con il diritto all’educazione di cui all’art. 2 del Protocollo 20 marzo 1952 alla Convenzione di Roma, che in ordine al diritto al nome (art. 11.1) con riguardo all’artt. 8 di quella Convenzione così come interpretato dalla giurisprudenza di Strasburgo. Infine, probabilmente, in ragione della sua stessa collocazione si deve argomentare che il disposto dell’art. 10.3 della Convenzione-quadro trascende le necessità della difesa nel processo penale, di cui si dà carico il parallelo art. 5.2 della Convenzione di Roma, per attingere anch’esso ad un obiettivo non più eludibile di tutela minoritaria. D’altra parte, è agevole osservare che la stessa Convenzione-quadro tira le conseguenze dall’affermazione di principio iniziale, quando espressamente consente la sottoposizione dei diritti da essa programmaticamente individuati ai soli limiti, restrizioni e deroghe previsti nella Convenzione di Roma (art. 19), ed esclude che le garanzie da questa previste e la loro interpretazione possano risultare inficiate dall’attuazione degli obblighi della Convenzionequadro. 3. Dunque la stessa apparente imputazione diretta ad opera della Convenzione quadro di determinati diritti in capo alle persone appartenenti ad una minoranza nazionale non dovrebbe consentire di aggirare il carattere programmatico delle disposizioni della Convenzione medesima. Solo in funzione interpretativa di altre e diverse disposizioni, e in una considerazione sistematica della protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, è immaginabile un’utilizzazione diretta degli impegni della Convenzione-quadro, anche in ordinamenti ad impostaziona monistica e dopo la ratifica dello strumento in esame, in assenza delle relative normative di attuazione. Ancor più difficile, se non impossibile, è accogliere l’opinione espressa da Geoff Gilbert (12) sulla possibilità di convertire alcuni dei diritti minoritari da individuali in collettivi. Egli muove dal dato testuale che nella Convenzione i titolari dei diritti spettanti all’insieme delle persone appartenenti alle minoranze nazionali (‘‘persons belonging to national minorities’’) sono apparentemente distinti, in termini espliciti, dai titolari di quelli separatamente garantiti ad ogni persona appartenente ad una minoranza nazionale individualmente considerata (‘‘every persons belonging to a national minority’’), questi soltanto essendo presi in considerazione nella loro qualità di individui e non nella loro collettiva appartenenza ad un gruppo. In sostanza, secondo questa lettura, solo un esame accurato del testo delle singole disposizioni dello strumento in esame potrebbe consentire di comprendere se, parlando di persone appartenenti alle minoranze nazionali, ci si intende riferire a singoli individui o a gruppi collettivi nel loro insieme. Si tratta di una proposta di interpretazione che va — anch’essa — contro l’espresso intento degli autori della Convenzione-quadro di limitare le previsioni di essa a soli diritti indi(12) G. GILBERT, op. cit., 179. Per la corretta conclusione che la previsione dell’esercizio in comune di diritti non implica necessariamente la loro natura collettiva MALINVERNI, op. cit., 537.
— 573 — viduali. Giova ricordare che alla base della scelta dei redattori della Convenzione vi è stato anzitutto un orientamento che ritroviamo in molti documenti internazionali concernenti la protezione minoritaria, da quelli delle Nazioni Unite (13) a quelli dell’OSCE (14). Inoltre, vi troviamo ancora una volta il segno della tradizionale prudenza di molti degli Stati membri del Consiglio d’Europa, come sempre diffidenti di ogni soluzione normativa suscettibile di scomporre l’unità della comunità nazionale in una pluralità di corpi o comunità intermedie, e come tali interposte fra l’autorità dello Stato e il cittadino, chiamato così a duplici o plurime fedeltà. Vi troviamo, cioé, la stessa diffidenza che guida gli Stati quando è il momento di superare la concezione universalistica dei diritti dell’uomo per arrivare a disegnare i tratti di una normativa speciale di tutela minoritaria. Ma, aldilà delle intenzioni delle parti stipulanti, bisogna convenire che lo stesso argomento testuale offerto è molto debole. Anzitutto esso non è sorretto da una chiara teoria giustificativa della contrapposizione dei diritti di cui si tratta, in due distinte categorie. Inoltre esso contrasta con la mancata previsione di una norma sulla tutela giurisdizionale interna dei diritti contemplati nella Convenzione-quadro. Tale mancanza è stata motivata, in primo luogo, in ragione dell’adesione di tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa ai principi dello Stato di diritto (che renderebbe scontata una tale previsione); ed ancora, con riguardo al carattere programmatico delle disposizioni della Convenzione-quadro (che implica un rinvio alle misure interne di implementazione); ed infine, in vista della sua stessa inutilità — almeno nella misura in cui siano in giuoco possibili diritti perfetti — in presenza dell’art. 13 della Convenzione di Roma. Certo è, però, che all’inserimento di una qualche clausola in materia si sarebbe provveduto ove accanto a diritti individuali fossero stati contemplati diritti collettivi, il cui enforcement richiede scelte di dettaglio quanto alla titolarità della situazione sostanziale de qua, all’imputazione dell’esercizio dell’azione volta ad esperire il rimedio ed alle relative modalità di decisione relativa (quando si tratti di gruppo collettivo implicante la partecipazione alla decisione stessa di più soggetti) (15). Un diritto collettivo è azionabile solo in presenza di una strutturazione della collettività che ne è titolare, ovvero in vista della possibilità di utilizzare al fine rappresentanti eletti o enti esponenziali della stessa, come avviene nell’ordinamento italiano per i rappresentanti dei gruppi linguistici nelle assemblee legislative della Regione Trentino-Alto Adige e nella Provincia di Bolzano, ovvero direttamente per quella stessa Regione e per le due Province di Trento e Bolzano (artt. 56, 97 e 98 St. TAA). Il fatto che non si sia ritenuto di fare alcun cenno al riguardo dimostra che la questione non si pone all’interno del sistema della Convenzione-quadro, e che i problemi relativi alla tutela giudiziaria delle persone appartenenti alle minoranze nazionali possono essere affrontati nei termini usuali della tutela dei diritti individuali. Questa conclusione trova conferma nella seconda parte dell’art. 3 della Convenzionequadro là dove si prevede espressamente che le persone appartenenti alle minoranze nazionali possano esercitare i diritti e godere delle libertà derivabili dai principi della Convenzione medesima sia individualmente che collettivamente con altri. Il che non sarebbe evidentemente possibile se si trattasse di diritti collettivi, i quali non sono suscettibili di esercizio individuale ovvero plurimo e contemporaneo da parte di più soggetti, ma sono esercitabili soltanto dai soggetti collettivi che di essi sono titolari. Una scelta diversa avrebbe comportato l’intento degli autori della Convenzione di ingerirsi negli assetti organizzativi dei gruppi minoritari, ovvero di rilasciare agli Stati un siffatto potere di ingerenza, il che si sarebbe risolto in un ridimensionamento dei principi di libertà cui — come vedremo — si vogliono ispirate l’appartenenza ai gruppi minoritari e, quindi, l’articolazione dei loro, eventuali assetti organizzativi. (13) F. CAPOTORTI, Are minorities entitled to collective international rights?, in Israel Yearbook on human rights, 1991, 353 ss. (14) BENOIT-F. ROHMER, op. cit., 581-582. (15) Contra, apparentemente, G. GILBERT, op. cit., 183.
— 574 — E — a sostegno di una diversa interpretazione della normativa convenzionale — non vale nemmeno osservare che in più luoghi della Convenzione il risultato perseguito è quello della tutela di identità che, avendo come termini di riferimento gruppi o comunità, non può non avere una rilevanza collettiva (16). A chi ragiona in questi termini è agevole osservare che sempre l’attribuzione di tutele giuridiche individuali ha — in più o meno larga misura — riflessi di ordine collettivo, senza che per questo si possa dire che sul piano giuridico si creano le premesse per un’azionabilità collettiva, e non individuale, dei rimedi dalla protezione accordati. L’adozione dei meccanismi di tutela individuale è la modalità prevista per la realizzazione degli obiettivi d’ordine collettivo che si perseguono a vantaggio delle minoranze. 4. Le considerazioni che precedono risultano più facilmente comprensibili se si tiene conto che nella Convenzione manca una qualsiasi definizione delle minoranze nazionali, cioè dei gruppi o comunità che dovrebbero essere titolari dei diritti collettivi. Come si è detto, la mancata individuazione degli eventuali titolari dell’ipotizzata tutela collettiva rende poco credibile l’esistenza di questa. Se ai sensi dell’art. 1 la protezione delle minoranze nazionali come tali è definita parte del sistema internazionale di protezione dei diritti umani allo stesso titolo della protezione dei diritti e delle libertà delle persone appartenenti alle minoranze medesime, la sua realizzazione, così come prevista — allo stato — dalla Convenzione-quadro, è tutta affidata ai diritti individuali dalla stessa Convenzione previsti. In effetti, il fatto che di protezione delle minoranze nazionali si parli non implica assunzione di queste alla titolarità di diritti: l’esistenza di esse è il presupposto e il principale degli elementi di fatto che gli Stati sono tenuti a prendere in considerazione ai fini della attivazione della tutela. L’assenza di una definizione di questo elemento di fatto in Convenzione rimette ogni decisione al riguardo agli Stati stessi, anche se questi non possono dirsi completamente liberi nello individuare le fattispecie che postulano il ricorso alla tutela. La scelta di non definire in Convenzione le minoranze nazionali è stata molto criticata (17). La si è anche vista come una voluta riserva mentale volta a mettere a repentaglio la stessa implementazione della normativa di tutela, lasciando agli Stati di definire i termini delle stesse loro obbligazioni positive (18). Questa severa critica, anche se attenuata dal riconoscimento dell’international concern richiamato in Convenzione, non è condivisibile, giacché molti sono gli elementi che dalla Convenzione si ricavano ai fini della individuazione dei gruppi destinatari della protezione. Fin dall’inizio nei lavori preparatori si è posto il problema — tradizionale della tutela minoritaria — se la normativa di protezione dovesse intendersi destinata a vincolare gli Stati firmatari a darsi carico al loro interno soltanto di loro cittadini appartenenti a gruppi minoritari, ovvero dovesse ritenersi indirizzata ad assicurare anche la tutela di persone appartenenti a gruppi minoritari che siano presenti sul territorio degli Stati firmatari ma non risultino cittadini di questi. All’interrogativo non è stata data risposta, ed anzi deve dirsi che la restrizione della tutela ai soli cittadini non sembra imposta dalla Convenzione: il fatto che questa non faccia carico agli appartenenti alle minoranze nazionali dell’obbligo di fedeltà — (16) Così F. SALERNO, Sulla tutela internazionale dell’identità culturale delle minoranze straniere, in Riv. dir. int., 1990, 257 ss., ripreso con riguardo alla Convenzione-quadro da V. PIERGIGLI, Diritti dell’uomo e diritti delle minoranze nel contesto internazionale ed europeo: riflessioni su alcuni aspetti nella protezione dei diritti linguistici e culturali, in Rassegna parlamentare, 1996, 33 ss. (17) Vedi per una misurata critica della scelta fatta dai redattori della Convenzione MALINVERNI, op. cit., 533. Ricostruisce i precedenti storici di questa scelta BENOIT-F. ROHMER, op. cit., 579 ss. Minimizza i rischi della mancanza di una definizione, richiamandosi alle norme della Convenzione che individuano le misure richieste agli Stati, H. KLEBES, Rahmenubarreinnkommen des Europarats zum Schutz nationaler Minderheiten, in EuGRZ, 1995, 262 ss., 263. (18) G. GILBERT, op. cit., 177.
— 575 — salutato dai commentatori come un positivo sviluppo rispetto a molti dei progetti da varie parti fatti circolare (19) — può invero leggersi come una indiretta conferma della possibilità di estendere la tutela anche ai non cittadini. Ai quali, comunque, si applica l’obbligo di rispettare la legislazione nazionale e i diritti altrui, secondo quanto previsto dall’art. 20 della Convenzione-quadro. Né il requisito della cittadinanza può ritenersi implicato dalla previsione in Convenzione di una stretta connessione fra minoranze e territorio. Vero è che i frequenti cenni all’implementazione della tutela nel quadro di rapporti di buon vicinato, il suo collegamento all’attivazione di pacifici rapporti trasfrontalieri e l’espressa previsione della sua attuazione per il tramite di accordi fra Stati, e in particolare fra Stati vicini, sembrano tutti militare nel senso di focalizzare l’attenzione sulle minoranze nazionali tradizionali, quelle costituite di cittadini appartenenti — a seguito di passaggi di sovranità — a Stati diversi da quelli della cui maggioritaria popolazione condividono storia, cultura, lingua ed eventualmente religione. Se però guardiamo alle previsioni relative all’uso della lingua nei rapporti fra le persone appartenenti alle minoranze e le autorità amministrative, vediamo che norme speciali sono dettate non solo per le aree di insediamento tradizionale di quelle persone, ma anche per le aree ove queste stesse persone sono soltanto presenti in numero sostanziale (art. 10.2 della Convenzione). Lo stesso duplice criterio è ripreso là dove si parla dell’attivazione ad opera degli Stati di scuole per l’insegnamento della e nella lingua minoritaria (vedi il successivo art. 14.2), mentre a ragione si fa riferimento al solo parametro del tradizionale insediamento in determinate aree di un numero sostanziale di persone appartenenti al gruppo minoritario laddove si parla di esibizione di nomi di località e vie e di altre indicazioni topografiche, proprio in quanto si dà rilievo ai soli nomi e indicazioni tradizionali (art 11.3). Il legame col territorio può, dunque, risultare un fatto anche meramente quantitativo (20), non connesso con fattori di insediamento tradizionale, sicché potrebbe implicare l’estensione della tutela anche a non cittadini, lavoratori immigrati o rifugiati, ad esempio. Anche in questo caso sembra potersi applicare — e non solo in quello degli insediamenti minoritari tradizionali — il divieto di alterare le proporzioni della presenza minoritaria in date aree al fine di ridefinire in senso peggiorativo le obbligazioni di tutela scaturenti dalla Convenzione (si veda l’art. 16) (21). Ulteriori elementi di approfondimento sono offerti dalle norme che impongono la tutela dell’identità delle persone appartenenti alle minoranze, identità che viene, per così dire, scomposta nei suoi elementi essenziali, e cioè la religione, la lingua, le tradizioni e l’eredità culturale (artt. 5, 6 e 12). Sono questi i fattori che gli Stati debbono tenere in considerazione all’atto di definire ad uso interno le minoranze nazionali. Se vogliono adempiere in buona fede alle obbligazioni convenzionali (art. 2 della Convenzione) (22), non possono trascurarli, come non possono trascurare il fattore di una presenza sostanziale in una data area territoriale ad esclusivo vantaggio della connessione tradizionale fra insediamento minoritario e territorio. Non è priva di interesse la circostanza che nello strumento in esame il riferimento all’identità etnica non è sempre presente e ricorre, oltre che nell’enunciato dell’art. 6 (che ha portata generale), nel solo art. 17, ove ha un senso specifico in quanto vi si parla dei rap(19) G. MALINVERNI, op. cit., 543. (20) Sottolinea l’importanza del profilo quantitativo ai fini della stessa definizione delle minoranze G. MALINVERNI, op. cit., 534. (21) Specialmente se si applica l’art. 16 non solo alla delimitazione delle circoscrizioni politiche ed amministrative, ma anche a quelle elettorali, secondo l’intuizione di G. MALINVERNI, op. cit., 543, a supporto della quale si può ricordare la garanzia accordata alle minoranze di poter concorrere alla trattazione dei pubblici affari, in particolare quando li riguardino direttamente (art. 15 della Convenzione). (22) Vedi sulla connessione fra impegno ad attuare la Convenzione in buona fede e definizione del concetto di minoranza nazionale A. FENET, G. KOUBI, I. SCHULTE-TENCKOFF, T. ANSBACH, Le droit et les minorités, Bruxelles, 1995, 177.
— 576 — porti transfrontalieri fra comunità territorialmente insediate e partecipi di una comune eredità culturale e, evidentemente, di vita (23). Ma quale rapporto intercorre fra la menzione di tutti questi fattori ora nominati e la qualificazione delle minoranze quali minoranze nazionali? Parlando di minoranze nazionali (24), la Convenzione fa riferimento a gruppi o comunità contrassegnate da fattori di identificazione aggiuntivi rispetto a quelli linguistico, religioso, culturale (ed etnico)? Oppure la connotazione nazionale ricorre in presenza di tutti questi fattori assemblati, o — eventualmente — anche di uno o due soltanto di essi? Ad esempio, l’Italia che vede nella sua Costituzione menzionate le sole minoranze linguistiche può restringere solo a queste la tutela, ovvero deve estenderla anche alle minoranze religiose? Ovvero deve individuare una categoria di minoranze c.d. nazionali, che non si identificano con quelle soltanto linguistiche o religiose, ma si connotano per la ricorrenza di più fattori non solo di ordine linguistico o religioso? In realtà, sembra molto difficile immaginare la ricorrenza in fatto soltanto di questo o quel fattore distintivo delle minoranze nazionali. Non è pensabile che sussista il fattore linguistico disgiunto — nella sua dimensione collettiva — dal fattore culturale, e questo, ovviamente, trascina quel tanto di storicità dell’identità collettiva di un gruppo, specie (ma non solo) quando si è in presenza di un qualche radicamento territoriale tradizionale. L’identità di una minoranza nazionale dipende, dunque, dall’esistenza di più fattori nella loro combinazione, ed un elemento realmente aggiuntivo potrebbe essere individuato soltanto qualora si ritenesse che in tanto si può parlare di minoranza nazionale in quanto si alluda all’esistenza di un gruppo insediato in uno Stato che abbia una qualche connessione, di preferenza anche di contiguità territoriale, con la comunità egemone di altro Stato. Ma abbiamo visto che dalla Convenzione-quadro non si traggono elementi univoci in questa direzione, anche se vi sono sintomi di una speciale attenzione per quello che può definirsi il concetto tradizionale di minoranza nazionale. L’importanza dei fattori individuativi ora ricordati non va, tuttavia, enfatizzata oltre misura, ed in particolare non va sopravvalutata in relazione all’interpretazione dell’art. 3.1 della Convenzione-quadro, per cui ciascuna persona appartenente alla minoranza nazionale ha il diritto di scegliere liberamente se essere trattata o meno come tale, e nessuno svantaggio può risultare dalla sua scelta o dall’esercizio dei diritti connessi a tale scelta. A parte il fatto che questa è una delle disposizioni in cui si parla non genericamente di persone appartenenti ad una minoranza nazionale, ma di ogni persona appartenente ad una minoranza nazionale, così sottolineando ancora una volta la rilevanza individuale della fruizione dei diritti minoritari, la sua interpretazione pone l’operatore dinanzi ad un dilemma che la comprensione piena della normativa in esame vuole risolto in termini chiari. Ci si può, cioè, chiedere se la libertà di scelta di cui si parla è piena e illimitata, ovvero se essa è ristretta a quelle persone che in base ai fattori oggettivi dinanzi ricordati si possono considerare — indipendentemente dalla loro scelta quanto al trattamento di cui intendono usufruire — come di fatto appartenenti ad una minoranza nazionale. La formulazione della citata disposizione potrebbe consigliare di orientarsi a favore di questa seconda interpretazione, che lega l’esercizio della libertà di scelta alla previa esistenza di fattori oggettivamente accertabili (25). Un ulteriore argomento si potrebbe dedurre dal fatto che le parti hanno preferito restringere la libertà di scelta alla fruizione o meno dei diritti minoritari, e non estenderla — dunque — all’apparte(23) Sembra trascurare questo elemento H. KLEBES, op. cit., 263, di cui pure condivido l’idea che la Convenzione non adotti il concetto etnico di Nazione. Osserva giustamente che il fondamentale art. 5 della Convenzione non fa riferimento al fattore etnico P. TAVERNIER, A propos de la Convention-cadre du Conseil de l’Europe pour la protection des minorités nationales, in RGDIP, 1995, 385 ss., 400 (24) Secondo un’antica preferenza del Consiglio d’Europa: BENOIT-F. ROHMER, op. cit., 580. (25) Cosi P. BOILLAT, op. cit., 1287.
— 577 — nenza o meno alla minoranza nazionale, la quale sembrerebbe, quindi, essere fatta dipendere non da opzioni individuali ma da elementi oggettivi di fatto. Ma una volta che l’individuazione dell’appartenenza alle comunità minoritarie sia svincolata da un riferimento inescapabile al territorio e si superino, pertanto, le antiche dottrine che quelle comunità riconducevano ai legami di sangue e di terra, la stessa necessarietà e inescapabilità degli elementi distintivi dell’identità minoritaria deve essere ripensata. Forse non basta nemmeno dire che la scelta soggettiva della persona è inseparabile dalla sua identità (26). Fattori quali quello linguistico, religioso e culturale sono tutti, essi stessi, riconducibili a scelte individuali di libertà, per cui sembra difficile escludere la possibilità che sia lo stesso individuo a crearsi le condizioni dell’appartenenza minoritaria attraverso una serie di scelte personali, che possono sembrare improbabili a chi si attenga alla concezione tradizionale delle minoranze nazionali, ma che appaiono molto meno improbabili nel mondo contemporaneo, che conosce una maggiore circolazione e un più vivo interscambio di esperienze personali. Ed acquistano particolare rilievo in un sistema di tutela che presuppone il quadro della protezione internazionale dei diritti umani e delle libertà fondamentali (27). In questa prospettiva scelta di appartenenza e scelta di trattamento normativo, per quanto concettualmente distinte, sembrano confluire ogni qualvolta l’ordinamento sia improntato a principi di libertà e rifiuti concezioni mistiche o naturalistiche, e perciò non laiche delle comunità minoritarie. D’altra parte, questa conclusione è perfettamente in linea con l’orientamento della Convenzione-quadro di non introdurre previsioni in materia di diritti collettivi e di escludere il riconoscimento di una qualche giuridica soggettività alle minoranze nazionali. Se le comunità minoritarie fossero titolari di diritti e poteri propri, potrebbe anche immaginarsi che possa essere fatta dipendere dalle loro decisioni, o da un loro atto di accertamento del possesso di determinati requisiti, l’appartenenza del singolo individuo ad una o l’altra delle comunità stesse. In tal caso, evidentemente, la libertà di scelta dei singoli in materia di appartenenza o meno ad una comunità minoritaria potrebbe risultare limitata o assoggettata ad eteronome decisioni. In mancanza di una scelta istituzionale siffatta pare difficile immaginare un vincolo dei fattori oggettivi capace di effettivamente circoscrivere e contenere la libertà dei singoli contro la loro stessa volontà. In questo senso sembra veramente difficile accettare le opinioni espresse in ambiente francese, ed in particolare da Guy Carcassonne (28), che la Convenzione-quadro, implicando l’applicazione di regole particolari a determinati e separati gruppi di individui, introdurrebbe un fattore di disgregazione e frantumazione nel contesto di una società che — come quella francese — vuole essere coesa e unitaria proprio perché poco disposta ad accettare trattamenti differenziati, in materia di diritti umani, fra i suoi membri in ragione di caratteristiche personali diversificanti. Così, d’altra parte, l’adozione della Convenzione-quadro non sembra inficiare l’idea, che la Costituzione italiana accetta, che nel nostro ordinamento statuale vi è una sola Nazione nella quale si raccolgono tutti i cittadini in ragione dell’adesione ai valori unitari della convivenza civile, quali espressi nella nostra carta costituzionale, e indipendentemente da ogni distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (29). (26) Così H. KLEBES, op cit., 265, il quale tuttavia lega il suo discorso al riferimento a criteri obiettivi. (27) Sottolineano l’importanza della libera scelta personale ai fini della stessa appartenenza al gruppo minoritario A. FENET, G. KOUBI, I. SCHULTE-TENCKOFF, T. ANSBACH, op. cit., 175-176. (28) G. CARCASSONNE, op. cit. (29) Cfr. S. BARTOLE, Un caso di insoddisfacente overruling in termini di tutela delle minoranze in materia elettorale, in Giur. cost., 1994, 4095 ss.
— 578 — 5. Solo utilizzando i ricordati, rari richiami al fattore distintivo dell’etnicità potrebbe, dunque, chi volesse dissentire da questa interpretazione, tentare di proporre altra e diversa lettura della Convenzione quadro. Ma sarebbe, questo, un tentativo destinato a scontrarsi con l’enfasi posta sulla volontarietà dell’assoggettamento alle clausole di tutela e sulla stessa libertà personale di scelta della differenziata identità linguistica, culturale e religiosa, che quella tutela richiede, in una prospettiva che esclude l’idea dell’appartenenza minoritaria per destinazione e necessità della storia. Questa scelta può forse anche spiegare perché — aldilà della preoccupazione di non interferire direttamente nelle scelte sulla struttura costituzionale degli Stati in modi non consentiti dal diritto internazionale — la Convenzione-quadro si astiene dal prescrivere sia il ricorso a rappresentanze parlamentari garantite delle minoranze, come previsto anche in talune recenti costituzioni, che l’adozione di forme di autonomia territoriale a tutela delle minoranze a forte insediamento territoriale, come suggeriscono — ad esempio — il Documento della riunione di Copenhagen dell’OSCE al paragrafo 35 e la raccomandazione 1201 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (c.d. progetto Worms). In effetti, l’art. 15 si limita a prescrivere agli Stati di creare le condizioni necessarie ad una partecipazione effettiva delle persone appartenenti alle minoranze nazionali alla vita culturale, sociale ed economica ed ai pubblici affari, specialmente in quanto li riguardino direttamente. Anzitutto, la scelta a favore di rappresentanze garantite avrebbe comportato l’abbandono del principio della rappresentanza generale nei Paesi che non hanno al riguardo una tradizione difficilmente rinunciabile, senza revisione costituzionale, ovvero non conoscono assemblee rappresentative delle loro componenti territoriali o delle comunità o categorie in cui la società civile si divide. D’altra parte, la preferenza per il modello di tutela fondato sull’autonomia territoriale si sarebbe configurata come una soluzione obbligata del problema della protezione minoritaria, suscettibile di vincolare gli appartenenti alla minoranza alla residenza in una determinata area geografica più di quanto già non implichino le norme sull’uso della lingua minoritaria nei rapporti fra autorità amministrative e cittadini, sull’adozione della topografia nella lingua minoritaria e sull’istituzione di scuole ad opera degli Stati per l’insegnamento della e nella lingua minoritaria. Inoltre, la scelta in favore della istituzione di autonomie territoriali nelle aree occupate da minoranze nazionali ed ai fini della protezione di queste appariva a taluni Stati come una concessione atta a favorire l’avvio di un processo di secessione (30). In effetti, fin dal preambolo risulta evidente l’intento della Convenzione di evitare — nel quadro delle preoccupazioni per la stabilità e la sicurezza internazionali che la ispirano (31) — la strumentalizzazione della protezione minoritaria ad obiettivi che mettano a rischio i beni della sovranità, indipendenza ed integrità degli Stati. Ed è perciò che, in conformità a quanto disposto in altri documenti di tutela minoritaria (32), all’art. 21 si è espressamente vietata ogni interpretazione delle disposizioni del documento che porti ad una sovversione di quei valori. Preoccupazione preminente della Convenzione-quadro è, infine, con riguardo agli interni ordinamenti degli Stati, quella di non frapporre ostacoli alle politiche di integrazione sociale, anche là dove impegna le parti contraenti ad astenersi da politiche e pratiche volte a perseguire l’assimilazione delle persone appartenenti alle minoranze nazionali contro la loro volontà. Invero, andrebbe contro il corso della storia uno strumento che volesse disconoscere il carattere aperto della società contemporanea, i legami e le interrelazioni che collegano le comunità e i soggetti che la costituiscono, la mobilità degli attori sociali e la circolarità delle comunicazioni che fra loro intercorrono. Da qui la necessità di una tutela che sconti la possibilità di spostamenti all’interno degli Stati delle persone appartenenti alle minoranze nazionali. Le vecchie concezioni della tutela minoritaria erano costruite in funzione (30) G. MALINVERNI, op. cit., 542. (31) P. TAVERNIER, op. cit., 400-401. (32) BENOIT-S. ROHMER, op. cit., 590 ss.
— 579 — di società tendenzialmente immobili e bloccate, legate per lo più ad economie chiuse, quando non addirittura di carattere essenzialmente agricolo. Non si può certo dire che la Convenzione-quadro ha inteso proporre un modello radicalmente nuovo di tutela, capace di superare e travolgere le vecchie concezioni. Però, nella misura in cui essa non vincola le parti ad un disegno dettagliato e stringente, essa rilascia alle parti il compito di delineare anche modelli nuovi di tutela, in adempimento delle indicazioni di principio della normativa di quadro in essa contenuta. Un risultato, probabilmente, inevitabile, se si considera la stessa elasticità della posizione della Convenzione in materia di definizione del concetto di minoranza nazionale: ad una pluralità di situazioni suscettibili di tutela non può non corrispondere una molteplicità di modelli di tutela, benché tutti riconducibili ad un’unica radice. Il che lascia intravvedere una prospettiva di ricerca ricca di interesse per la nostra dottrina: ricostruire i modelli di tutela secondo i quali nei vari Stati si è data attuazione alla Convenzione-quadro o — avendo già provveduto — si è ritenuto di essere rimasti all’interno dei disposti convenzionali. 6. Sono state molto criticate le disposizioni della Convenzione che disciplinano le modalità di riscontro e controllo sull’osservanza da parte degli Stati delle obbligazioni assunte. Si è detto che si tratta di meccanismo addirittura meno ambizioso di quello in atto alle Nazioni Unite nel campo dei diritti dell’uomo (33), il quale si risolverebbe in una sostanziale vanificazione della funzione di controllo (34). Su questi giudizi certamente incide la scelta di abbandonare la via della tutela dei diritti praticata a Strasburgo per il tramite della Commissione europea e della Corte europea dei diritti dell’uomo, e dunque una via in ultima istanza giudiziaria, per adottare una soluzione tutt’affatto speciale (35), da taluno ricondotta ai modelli classici del diritto internazionale in fatto di controllo delle obbligazioni internazionali degli Stati (36). In effetti, i poteri decisori al riguardo sono stati concentrati in capo al Comitato dei Ministri, e cioè ad un organo politico, il quale evidentemente finirà per optare per logiche ed indirizzi di giudizio diversi da quelli di un organo giurisdizionale, e perciò meno stringenti e più soffici. Spetterà ad esso deliberare sui rapporti informativi sullo stato di attuazione della Convenzione presentati dagli Stati che aderiranno allo strumento. Ad una prima tornata ad un anno dall’entrata in vigore della Convenzione altre ne seguiranno alle scadenze periodiche dallo stesso Comitato stabilite (artt. 24-25). È una soluzione che deve essere ricondotta alla natura peculiare del documento in esame, nel senso che per definizione questo esclude a livello internazionale l’esistenza di una protezione individuale diretta e, quindi, l’attivazione di meccanismi personali immediati di ricorso. La natura programmatica delle prescrizioni e l’ampia discrezionalità accordata agli Stati per la loro implementazione non consentivano altra modalità di controllo, che non lasciasse spazio a margini di apprezzamento politico. È stato giustamente fatto notare (37) che in tal modo le cancellerie degli Stati vedono ulteriormente appesantiti i compiti burocratici, che loro derivano dagli strumenti internazionali, ed impongono alle parti contraenti di trattati e convenzioni doveri di informazione e rapporto sulle attività intraprese in attuazione degli obblighi assunti. Ma, se si tiene in considerazione il fatto che l’implementazione della Convenzione-quadro interesserà anche, ed in speciale misura, Stati che sono alle prime esperienze democratiche dopo anni di regime totalitario e sono caratterizzati da profonde ‘‘cleavages’’ nazionali, un siffatto meccanismo di controllo — più duttile di un meccanismo giuri(33) (34) (35) (36) (37)
S. MALINVERNI, op. cit., 543 ss. H. KLEBES, op. cit., 264. BENOIT-F. ROHMER, op. cit., 583. A. FENET, G. KOUBI, I. SCHULTE-TENCKOFF, T. ANSBACH, op. cit., 185 ss. A. RONQUIST, op. cit., 44.
— 580 — sdizionale — può funzionare come un flessibile ‘‘mécanisme de suivi’’ (38), destinato a favorire un dialogo costruttivo fra il Comitato dei Ministri e le parti contraenti, e ad offrire a queste ultime una spesso irrinunziabile cooperazione nella stessa progettazione tecnica degli interventi di tutela minoritaria, se non nella ricerca di soluzioni in grado di venire incontro alle contrastanti esigenze. Anche per questa via si arriva, comunque, al superamento del geloso rifiuto di ogni esterna ingerenza una volta opposto dagli Stati in materia minoritaria, ed oggi destinato ormai a cedere inescapabilmente di fronte all’international concern di cui anche la Convezione-quadro è espressione. Non sembri incongruo il riferimento a compiti di supporto tecnico nel caso di un meccanismo di controllo così eminentemente politico. Il Comitato dei Ministri sarà, infatti, affiancato da un comitato consultivo, composto da personalità di riconosciuta esperienza nel campo della protezione delle minoranze nazionali. Esso avrà, quindi, a disposizione una struttura tecnica adeguata a fornirgli non solo la necessaria assistenza nell’esame dei rapporti degli Stati, ma anche il consiglio tecnico nella definizione di problemi rimasti irrisolti o connotati da elevata conflittualità. La natura strumentale del comitato consultivo sembra fuori discussione. La sua presenza non potrà non costituire un contrappeso di ordine tecnico (e, perciò, non politico) del ruolo centrale assegnato al Comitato dei Ministri all’interno del meccanismo. Vengono, in tal modo, tenute in considerazione, anche se solo parzialmente soddisfatte, le richieste di quanti spingevano perché il controllo sull’attuazione della Convenzione-quadro fosse affidato ad un’autorità indipendente dalle istanze politiche e connotata da una composizione rigorosamente qualificata di esperti di elevata pratica nel settore. Certo è che, comunque, il comitato consultivo sarà chiamato a mettere a disposizione dell’organo decidente elementi oggettivi, e suffragati da conoscenze tecniche, ai fini delle determinazioni da prendere, e ad assicurare, così, una base alla realizzazione del principio che non si può deliberare senza conoscere. È, pertanto, da escludere che se ne possa fare una sorta di doppione — a livello inferiore — dello stesso Comitato dei Ministri, inserendo, ad esempio, al suo interno rappresentanti tecnici di tutti i governi interessati. Ma, del pari, non sembra consentito che alla sua nomina venga preposto organo diverso dal Comitato dei Ministri, che al suo ausilio è direttamente interessato. Per quanto non direttamente riferito al Comitato dei Ministri, il primo comma dell’art. 25 della Convenzione non deve, quindi, essere letto come una clausola autorizzante ogni struttura componente del meccanismo di controllo ad agire di propria iniziativa in vista della valutazione delle misure adottate dagli Stati per dare effetto ai principi enunciati nella Convenzione. Come solo il Comitato dei Ministri potrà investire il comitato consultivo dell’esame dei rapporti informativi degli Stati, così solo da una decisione dello stesso Comitato dei Ministri dipenderà l’intervento del comitato consultivo nel follow-up di quell’esame, quando, cioè, si imporrà la necessità di attivare quel rapporto di collaborazione e dialogo con le parti interessate che solo può portare al superamento di situazioni di insoddisfacente implementazione dei principi della Convenzione. È, perciò, evidente che il futuro della Convenzione, in quanto legato a quello del sistema di controllo, dipende dal Comitato dei Ministri, non solo per le funzioni deliberanti che gli spettano, ma anche perché ad esso compete il compito di saper valorizzare bene l’apporto del comitato consultivo sia nelle singole, puntuali situazioni che ne richiedano l’intervento, che nella formulazione delle regole sulla sua composizione e sulle sue modalità di funzionamento, secondo quanto previsto dall’art. 26, secondo comma, della Convenzione. SERGIO BARTOLE Ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Trieste
(38)
P. BOILLAT, op. cit., 1289.
NOTIZIE
IL X CONVEGNO DELL’ASSOCIAZIONE TRA GLI STUDIOSI DEL PROCESSO PENALE
« Il processo giusto » non è soltanto il processo conforme a legge. Non è soltanto questione di rispetto delle regole, si vuol dire qualcosa di più: devono essere rispettati i grandi valori, i grandi principi, quasi una sorta di diritto naturale »: con queste parole il prof. Conso, presidente dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale, ha evidenziato, in apertura dei lavori del X convegno dell’Associazione, — svoltosi sotto l’egida della Università di Salerno nei giorni 11-13 ottobre 1996 — il nodo da sciogliere prima di affrontare ogni ipotesi di riforma del processo penale. Del resto, il tema del convegno, dedicato a « il giusto processo », richiamava i problemi emersi nel corso di questi anni, per la costruzione di un processo che si possa definire realmente equilibrato nel contemperare le opposte istanze. La giustizia, ha ribadito Conso, va ricercata al di là delle regole e del diritto positivo poiché queste si prestano ad essere applicate anche nell’ambito di ordinamenti fondamentalmente autoritari e non garantisti. Un « giusto processo », insomma, riposa nei grandi principi di tutela della persona umana che devono essere prima di tutto codificati. Ecco quindi che studio del processo penale deve essere anzitutto studio di un metodo indirizzato alla realizzazione di questi princìpi di giustizia. Non a caso tutti i relatori, pur nella diversità delle impostazioni, hanno posto l’accento sull’insieme dei princìpi che si pongono come motore immobile di qualunque sistema giuridico, sia di tipo processuale che sostanziale. Prima di cedere la parola al prof. Siracusano, per la relazione introduttiva, il prof. Conso ha ricordato ancora come il tema del convegno sia stato « condizionato » da alcune recenti sentenze della Corte costituzionale, dove il concetto di giusto processo risulta determinante per la decisione di questioni legate ai temi dell’imparzialità e del diritto di difesa: « oltre a questi principi ce ne sono molti altri che servono a costruire un giusto processo; questi principi dobbiamo cercare, definire e rendere concreti ». Su questo sfondo, il prof. Siracusano, nella sua relazione, è partito dalla premessa che il diritto al « giusto processo » è un diritto essenziale della persona, i cui caratteri sono ricavabili da tutte le carte internazionali sui diritti dell’uomo. Un punto di importanza qualificante del nuovo ordinamento processuale penale è quello del recepimento automatico e immediato di questi imperativi fondamentali, mentre nel vecchio sistema la giurisprudenza unanime aveva assegnato loro un carattere meramente programmatico. Questi principi, dunque, finalmente sono stati riconosciuti, anche se a seguito dell’ingresso di tali valori si è registrato uno sforzo parallelo teso ad interpretarli in chiave riduttiva e a dare loro una dimensione diversa. Il prof. Siracusano ha preso spunto da tali considerazioni per effettuare una verifica ad ampio raggio sull’attuale disciplina del procedimento penale e anche per constatare come i punti di rottura con il modello processuale ideale siano numerosi e di difficile soluzione. In particolare, si è soffermato sul problema dei maxi-processi: prima della legge antimafia del 1982 si partiva dai reati-scopo per risalire alla associazione a delinquere; successivamente con il reato di associazione di tipo mafioso si parte dalla associazione per poi perseguire tutti i reati-scopo. Questo ha determinato il sorgere dei
— 582 — maxi-processi, talora anche quando non si era nemmeno in presenza di un reato-scopo da giudicare. Naturalmente così diventa impossibile separare i processi, con la conseguenza che la lungaggine diventa la loro caratteristica fondamentale, in assoluto spregio del giusto processo e del principio di concentrazione. Altro punto dolente è stato individuato da Siracusano nello stentato funzionamento dei riti alternativi. Non ultimo il rito abbreviato, il cui problema principale, ad avviso del relatore, è quello di non consentire alla difesa di poter rimediare ad un quadro probatorio insufficiente prima di presentare la relativa richiesta. L’unica soluzione, al momento, consiste nell’applicare lo sconto di pena a dibattimento ormai avvenuto, facendo perdere così a tale rito la propria funzione deflattiva del dibattimento. Una proposta interessante è stata tuttavia avanzata dal relatore, con riguardo alla possibilità di accompagnare la richiesta di giudizio abbreviato con una richiesta istruttoria preventiva. Altro problema affrontato è stato quello relativo alla attuazione del contraddittorio, principale obiettivo del Ministro Vassalli, allo scopo di assicurare una prova assistita dal contraddittorio non solo nel momento dell’assunzione ma anche nel momento del giudizio di ammissibilità. Questo è infatti, il significato della lettera e dell’art. 546 c.p.p., in forza del quale il giudice deve dare conto nella, motivazione anche delle prove che ha ritenuto di non considerare perché inattendibili. Tutto questo dimostra che il contraddittorio non è soltanto una specificazione del diritto alla prova ma esprime anche una esigenza fondamentale ai fini della sentenza e del lavoro valutativo del giudice. E non si può trascurare il fatto, importantissimo, che l’attuazione del contraddittorio non può prescindere dalla presenza dei suoi tre elementi fondamentali: l’immediatezza, l’oralità e la concentrazione. Accanto ai temi del contraddittorio, dell’imparzialità del giudice e della tutela della libertà personale non è mancato il richiamo alla tematica relativa alla efficienza del processo anche se su questo tema secondo il prof. Siracusano, ha spesso pesato il malinteso di una evidente confusione con le esigenze della esemplarità, con la capacità di dare risposte decise ai problemi emergenziali. Paradossalmente, ha concluso Siracusano, si è perseguito l’obiettivo dell’efficienza con rimedi inefficienti. Tali sono state, infatti, le numerose novelle intervenute, che spesso hanno complicato, invece di semplificare i meccanismi processuali. L’intervento del prof. Flick, Ministro di Grazia e Giustizia, ha riguardato i progetti in corso su una riforma organica del processo penale nel quadro della tutela delle garanzie della persona. Dopo aver espresso diversi dubbi sulla efficacia della separazione delle carriere come strumento risolutivo dei problemi che affliggono il processo penale, il Ministro guardasigilli ha illustrato gli obiettivi più immediati del suo dicastero. Tali sono, anzitutto, il ricoscimento alla difesa di quei poteri che oggi sono di esclusiva spettanza del pubblico ministero, dando, in buona sostanza, concreta attuazione all’art. 38 disp. att.; quindi l’allargamento delle ipotesi di « patteggiamento » con diminuzione dei benefici; la possibilità per il giudice dell’udienza preliminare di valutare direttamente la « decidibilità allo stato degli atti » del giudizio abbreviato; la modifica del tipo di sanzioni applicabili mediante la comminazione di pene alternative da parte del giudice della cognizione; una nuova legge di depenalizzazione o altri modi di deflazione processuale come l’archiviazione per scarsa rilevanza del fatto o meccanismi congiunti con il ravvedimento operoso; infine, una riforma del rito pretorile come prova generale per giungere alla creazione del giudice monocratico. Il Ministro ha poi affrontato il delicato tema delle intercettazioni telefoniche. Grazie anche ai contributi tecnici della Commissione presieduta dal Prof. Conso, si è dichiarato in grado di proporre un intervento normativo che non presenti più i caratteri dell’emergenza, e che tenga conto della presenza attuale di un quadro normativo improntato essenzialmente alla tutela del segreto delle indagini, ma scarsamente attento ai fondamentali principi di inviolabilità del domicilio e di segretezza delle comunicazioni. Intervento assolutamente necessario, secondo il Ministro Flick, è quello di affidare il compito della eliminazione delle intercettazioni irrilevanti anzitutto al Pubblico Ministero, conservando però il contraddittorio alla difesa, e sempre attraverso meccanismi di controllo riservati al giudice, che deve tornare ad essere il garante delle libertà individuali.
— 583 — Nell’introdurre il tema della propria relazione intitolata « Imparzialità del giudice e difficoltà operative derivanti dalla incompatibilità », il prof. Giarda ha ricordato come il principio dell’imparzialità non abbia referenti di tipo costituzionale. Eppure, questo principio non è mai stato messo in discussione; anzi, ha costituito il cardine (nascosto proprio perché non codificato) delle pronunzie della Corte costituzionale in tema di incompatibilità. È, insomma, uno di quei principi posti alla base del diritto naturale sotteso al diritto positivo. La causa del moltiplicarsi delle ipotesi di incompatibilità è stata rinvenuta dal relatore nello spostamento dell’asse centrale del procedimento dal pubblico ministero all’organo giurisdizionale. Ciò ha aumentato le occasioni di compromissione del giudice con le decisioni anticipate sul merito senza, tuttavia, un principio di imparzialità al quale rifarsi. Di qui il richiamo ai principi più diversi: dal principio di uguaglianza al diritto di difesa, dalla generica imparzialità della pubblica amministrazione all’eccesso di delega. In realtà, nel gestire il problema della incompatibilità la Corte costituzionale ha ricercato la tutela del principio di imparzialità del giudice là dove questo avrebbe dovuto essere astrattamente rinvenibile nel diritto vivente (vale a dire nella Costituzione), senza rendersi ben conto che siamo di fronte ad un principio nel quale si esprime un valore di cultura sovraordinato al sistema del diritto positivo, e quindi alla stessa Costituzione. Le conseguenze di tale diverso atteggiamento, ha concluso il prof. Giarda, sono gravi, come ad esempio quella di attribuire alla incompatibilità la stessa valenza della incapacità, ponendo le basi di una vera e propria aporia; oppure quella di tutelare l’imparzialità a scapito di alti valori come la difesa, ciò che in pratica è avvenuto con lo spostamento nei capoluoghi di distretto del Tribunale della libertà, a costo di pesanti disagi per imputati e difensori. Il prof. Chiavario, nella relazione dal titolo « Garanzie individuali ed efficienza del processo », ha preso le mosse dal riconoscimento, operato dalla Corte costituzionale in una recente pronuncia (sent. 131 del 1996), circa la rilevanza costituzionale del valore dell’efficenza processuale allo scopo di analizzare il rapporto tra quest’ultiimo valore e le garanzie della persona. In particolare, il relatore, osservando come l’indubbia crescita di attenzione che si è verificata in questi anni verso il tema dell’efficienza non debba necessariamente comportare una revisione delle tradizionali concezioni in tema di garanzie costituzionali, ha escluso che le esigenze di efficienza del processo e le esigenze di tutela delle garanzie individuali debbano considerarsi come necessariamente confliggenti. Vi sono, infatti, casi in cui una maggior tutela del valore dell’efficienza porta anche ad un rafforzamento sul piano delle garanzie. Ed a sostegno di tale assunto, il prof. Chiavario ha richiamato, a titolo esemplificativo, il principio della durata ragionevole del processo, che è principio nel quale si coniugano sia un diritto individuale della persona sia una esigenza di efficienza del processo. A tal proposito il relatore ha evidenziato come il raggiungimento dell’obiettivo di una durata ragionevole del processo sembri in gran parte dipendere dalla soluzione delle difficoltà organizzative che affliggono l’attuale assetto del processo penale. In questa prospettiva ha sottolineato il limitato uso dei mezzi tecnici nella verbalizzazione degli atti (rilevando come ci si sia limitati alla stenotipia, con l’esclusione, in quanto non tassativamente previsti, di tutti gli altri mezzi di verbalizzazione più avanzati); la mancanza di un apparato di interpreti da utilizzare nei processi a carico di imputati stranieri e alloglotti; e, ancora, la necessità di rendere finalmente efficiente il sistema di difesa dei non abbienti, in ottemperanza al monito più volte espresso nei confronti dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Ulteriore punto nodale, secondo il relatore, la questione della obbligatorietà dell’azione penale, laddove una interpretanone meno rigida dell’art. 112 Cost., ad esempio seguendo l’esempio della Germania in rapporto all’istituto dell’archiaviazione condizionata, potrebbe consentire di superare gli attuali problemi sotto il profilo della effettività dell’obbligo del pubblico ministero. Quanto la problema del contemperamento delle esigenze di garanzia della persona con
— 584 — le istanze di efficenza del processo, il prof. Chiavario ha precisato come, concettualmente il problema debba essere diversamente impostato. Infatti, allorché le garanzie della persona non vengano rispettate è forse possibile avere un processo « esemplare », ad esempio in termini di celerità, ma sicuramente non si può configurare sotto questo aspetto un processo efficente e nel contempo « giusto »: non è così senza dubbio, nel momento in cui si sacrificano interessi garantiti, oltre che da norme convenzionali, anche da quei valori di fondo che durante tutto il convegno si è cercato di tenere presenti. Nella relazione affidatagli, intitolata « Oralità, contraddittorio e principio di non dispersione della prova », il prof. Dominioni ha esordito ricordando come il cosiddetto principio di non dispersione dei mezzi di prova (affermato dalla sentenza costituzionale n. 255 del 1992) vada producendo un vero e proprio cataclisma nel processo penale rispetto alla sua struttura originaria. Non si tratta di una mutazione, ma di una vera e propria degenerazione che incide notevolmente sul « giusto processo ». Il principio in parola trova le sue radici culturali in quella giurisprudenza costituzionale che guarda al contraddittorio come a un principio che può essere antitetico alla ricerca della verità (contraddittorio come forma, quindi, che può essere impiegata per la formazione della prova solo quando non intralci la ricerca della verità). Questa impostazione è, secondo Dominioni, dovuta a due ordini di ragioni. In primo luogo il contraddittorio viene concepito come metodo dialettico di formazione della prova da utilizzarsi solo quando, attraverso di esso, sia possibile acquisire al dibattimento i risultati dell’attività di indagine, altrimenti si aprirebbe la strada ad una serie di istituti che recuperano al fascicolo del dibattimento, e quindi alla utilizzazione probatoria, atti non suscettibili di verifica dibattimentale; in secondo luogo il contraddittorio viene inteso in tale ottica, come uno strumento di garanzia dell’imputato e, in quanto tale, da contemperare con le altre esigenze proprie del processo. A ben vedere, una simile concezione del contraddittorio finisce per tradire il contraddittorio stesso, perché lo disconosce come strumento di conoscenza giudiziaria affidabite per acquisire risultati utili al processo. A fronte di ciò, non a caso grande affidamento viene riposto nei risultati dell’attività investigativa posta in essere dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero, i quali (come si legge in un passo della sentenza costituzionale n. 241 del 1994 a proposito del quarto comma novellato dell’art. 500 c.p.p.) « sono soggetti sui quali grava un dovere istituzionale di correttezza ed indifferenza al risultato ». Da questi passaggi secondo il prof. Dominioni, trapela una impostazione ideologica tardo-manziniana nel modo di intendere il processo che è frutto di una concezione del contraddittorio inaccettabile. Lo stesso utilizzo che la Corte costituzionale (sentenza n. 255 del 1992) fa in maniera indistinta dei concetti di contraddittorio e di oralità, quasi che rappresentino un uguale dato tecnico del processo penale, è sicuramente censurabile, in quanto se tali distinzioni non vengono tenute presenti diventa particolarrnente difficile ricostruire l’iter logico giuridico attraverso il quale la Corte giunge ad affermare la rilevanza costituzionale del principio di non dispersione dei mezzi di prova. Ma un altro profilo suscita particolare interesse: le situazioni che nella suddetta sentenza la Corte ha individuato come base per l’affermazione del principio de quo, appartengono tutte a fattispecie eccezionali, alcune delle quali (si pensi ai verbali di perquisizione o di intercettazione telefonica) solo impropriamente possono essere ritenute ipotesi di deroga ai principi di oralità e contraddittorio. Lo stesso dicasi per l’incidente probatorio, paradossalmente usato dalla Corte per la costruzione del suddetto principio: infatti è a tutti chiaro che il legislatore ha voluto creare con questo istituto un ambiente artificiale idoneo a riprodurre in via anticipata il dibattimento proprio in ossequio al principio del contraddittorio, derogando soltanto al rapporto di immediatezza tra il giudice che presiede alla acquisizione della prova e il giudice della decisione. Non diverso appare il discorso per gli atti a irripetibilità sopravvenuta ovvero per le dichiarazioni assunte dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria nel corso di perquisizioni o sul luogo o nell’immediatezza del fatto usate per le contestazioni. Si tratta di previsioni di assoluta eccezionalità, che tuttavia la Corte ha posto a base del « principio di non dispersione ». A tal proposito il prof. Dominioni ha ricordato quanto osservato dal prof. Sira-
— 585 — cusano in merito a tale principio: se siamo nella fase delle indagini preliminari non vi sono prove a rischio di dispersione semplicemente perché ciò di cui si parla non è prova. Allora, va detto chiaramente che attraverso questo principio si attribuisce efficacia probatoria ai risultati delle indagini preliminari in considerazione del fatto che in presenza di determinate condizioni la mancanza di contraddittorio o, meglio, il suo spostamento ad una fase successiva, non è fonte di grandi problemi. Ma le più grandi preoccupazioni, secondo il prof. Dominioni, sussistono quando il contraddittorio viene meno anche nella fase successiva. Il relatore, richiamando la sentenza n. 254 del 1992, nella quale la Corte costituzionale ha riconosciuto la irripetibilità dell’atto con il quale l’imputato in un procedimento connesso ha reso le proprie dichiarazioni nel corso delle indagini preliminari — allorché il medesimo in giudizio si avvalga della facoltà di non rispondere — ha ricordato come tale impostazione comporti quale inevitabile e sconcertante conseguenza la acquisibilità al dibattimento delle dichiarazioni rese da quest’ultimo nelle fasi anteriori. In queste situazioni, ha ribadito con forza il prof. Dominioni, siamo di fronte ad un totale annullamento del contraddittono e del diritto di difesa. Attraverso l’attribuzione della facoltà di non rispondere si tutela l’imputato in un procedimento connesso, che magari ha già visto conclusa la sua vicenda processuale (quindi in assenza di una vera e propria esigenza di difesa) o comunque è titolare di un diritto di difesa solo a livello potenziale. Senonché in tal modo, il processo diventa un perverso meccanismo di introito di verbali relativi ad atti di indagine, intoccati ed intoccabili dal contraddittorio. Ma la degenerazione del sistema ha toccato il fondo con l’acquisizione al processo — ammessa in pronunce recenti — di dichiarazioni rese dall’imputato in un diverso processo connesso, in quanto si ritiene che anche in questo caso il rifiuto di rispondere nella sede processuale propria renda irripetibili le suddette dichiarazioni. Ed infine, ha concluso il prof. Dominioni, il ragionamento della Corte « rasenta la perfidia », quando la situazione riguarda i prossimi congiunti (sentenza costituzionale n. 179 del 1994), per i quali le dichiarazioni rese nel corso delle indagini non dovrebbero costituire rinuncia al diritto di astenersi in dibattimento. Mentre, anche in questo caso, l’esercizio di quest’ultimo diritto da parte del prossimo congiunto chiamato a testimoniare è stato costruito in termini di irripetibilità, delle precedenti dichiarazioni, eludendo così ogni possibilità di contraddittorio dell’imputato. Il prof. Galati ha affrontato il tema della relazione conclusiva, dal titolo « Le degenerazioni del maxi-processo », partendo da un esame della disciplina previgente e ricordando come il codice del 1930, fra l’obbligatorietà dell’azione penale e la tensione verso la ricerca di una verità sostanziale, mancasse di uno strumento che evitasse il nascere di maxi apparati processuali, rendendo inevitabile l’estensione del procedimento a tutti i possibili concorrenti nel reato. A questo si aggiungeva la rigidità del sistema processuale che non permetteva sbocchi alternativi. Nasceva quindi l’esigenza di eliminare il maxi-processo al di là del pregiudizio di chi riteneva che tale strumento fosse indispensabile per contrastare il criniine organizzato. Il prof. Galati ha analizzato la risposta a tali problemi fornita dal codice del 1988, che, come è noto, ha ridotto i casi di connessione di processi, escludendo ogni discrezionalità del giudice nella ampia e tassativa previsione dei casi di separazione, e propiziando lo stralcio delle differenti posizioni grazie all’apparato dei riti alternativi. In tale ottica. vanno letti, ancora, l’art. 238 c.p.p. in tema di « prove collegate », nonché la previsione dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato, volta a far decorrere i tempi delle indagini dalla iscrizione di ciascun indagato. Da tale apparato normativo, secondo il relatore, emerge chiaramente come il legislatore del 1988 si sia impegnato nel tentativo di evitare i maxi dibattimenti anche se non è riuscito ad impedire le maxi indagini o le indagini collegate necessarie ad affrontare la criminalità organizzata. Proprio nel nuovo sistema, però, la discrasia tra il modello del processo accusatorio e le norme emergenziali in tema di criminalità organizzata ha prodotto la degenerazione del cosiddetto maxi-processo. Nell’interpretare il nuovo codice, infatti, la giurisprudenza, privilegiando un’ottica conservatrice, ha riaffermato — contro ogni volontà del legislatore — la
— 586 — prosperità del maxi-processo, seguendo una strada definita dal relatore « una spregiudicata manipolazione genetica »: in altri termini, « ancora una volta ha finito per prevalere l’idea di una prova inscindibile, in nome della quale è stata chiesta prima una maxi udienza preliminare ed è stato chiesto dopo un maxi dibattimento ». Esemplare è stata la sistematica violazione dell’art. 335. Per conseguenza, invece della tanto attesa riforma dei reati associativi abbiamo avuto, contemporaneamente alla modifica dei casi di connessione, l’elaborazione, sul piano sostanziale, del concorso esterno alla associazione. Attraverso una analitica disamina delle singole deviazioni rispetto all’originario disegno concepito dal legislatore della riforma, il relatore ha messo in evidenza come il processo penale sia ormai incanalato su due binari: il primo per i reati di criminalità organizzata e il secondo per le ipotesi residue. Ma la cosa grave, ha concluso il prof. Galati, non è il « doppio binario » in sé, bensì il fatto che la scelta circa l’uno o l’altro dei binari sia lasciata ad una forma di discrezionalità dei pubblici ministeri spesso sconfinante nell’arbitrio. Intervenendo a conclusione di una nutrita discussione il prof. Dalia, pressidente dell’ultima giornata dei lavori, ha osservato come la Corte costituzionale, nel contemplare opposte esigenze di principi garantiti a pari livello, si sia sforzata di mediare tra non dispersione della prova e oralità del processo. Poiché, tuttavia, il sistema risulta finalizzato alla conservazione dei mezzi di prova,e non semplicemente degli argomenti dell’accusa (secondo la fuorviante interpretazione della ricordata sentenza n. 255 del 1992), in questo quadro il giusto equilibrio tra le diverse esigenze avrebbe dovuto forse essere cercato prevedendo che il mezzo di prova suscettibile di dispersione fosse acquisito nelle indagini preliminari con le opportune garanzie. Sviluppando questi rilievi, nell’ottica di un processo penale visto non come strumento di lotta ma come momento di garanzia, il prof. Dalia ha ritenuto che la soluzione preferibile dovrebbe essere quella di anticipare, in certi casi, le garanzie giurisdizionali già nella fase preleminare, così da contemperare l’insegnamento ormai immodificabile della Corte costituzionale, teso ad evitare la dispersione dei mezzi di prova, con le imprescindibili esigenze del contraddittorio. Secondo tradizione ha concluso il prof. Conso, tirando le fila delle relazioni e richiamando i punti cruciali dell’intenso e proficuo dibattito, grazie al quale la problematica del « giusto processo » è stata arricchita di ulteriori profili ed approfondita con riguardo ad aspetti magari soltanto accennati dai relatori, oltreché con il richiamo a temi assolutamente originali provenienti da altre discipline. Il punto fermo da cui prendere le mosse per la realizzazione dei principi del « giusto processo », ha ricordato il presidente Conso, è la crisi del carattere dell’oralità in rapporto alla garanzia del contraddittorio. Ed è, per l’appunto, con riferimento a questa situazione di crisi che ci si deve interrogare alla ricerca delle possibili vie d’uscita. Le proposte per salvare il contraddittorio a scapito dell’oralità hanno trovato critiche ferme, alcune delle quali sicuramente condivisibili. Non si può essere d’accordo, invece, secondo il relatore di sintesi, con la critica indiscriminata alle riforme parziali, perché qualcosa nel frattempo bisogna fare. Del resto, non sono solo le « leggine » a modificare il codice: ci sono le sentenze costituzionali, e talora anche le leggi di altri rami dell’ordinamento. Il sistema è comunque in continua evoluzione e spesso impone di seguire, se del caso facendo leva su soluzioni parziali, i problemi contingenti. Altro problema spinoso è quello della applicazione delle norme. A volte basta un malinteso su una parola per dare il via ad una interpretazione fuorviante. E allora bisogna rendersi conto che la battaglia non va sempre fatta a livello legislativo, ma prima ancora a livello intepretativo, lottando contro le eventuali costruzioni devianti, basate su intepretazioni equivoche delle norme supportate da fraintendimenti rispetto ai valori di fondo. Il « giusto processo » è, quindi, come una scatola vuota che occorre riempire. Una sicura piattaforma di partenza in questa opera di ricostruzione è rappresentata, secondo Conso, dalle convenzioni internazionali, a patto che si sia tutti d’accordo con tale impostazione. Bisosogna sforzarsi di costruire, sull’esempio della Corte Suprema americana, che ha
— 587 — fissato nelle proprie sentenze questi principi, un sistema ragionato delle regole del « giusto processo ». Di qui la necessità, ha concluso il prof. Conso, di un maggiore dialogo costruttivo tra gli studiosi del processo penale e la Corte costiruzionale, in quanto solo dal confronto con un interlocutore così autorevole ed importante possono individuarsi le linee evolutive del sistema. Con l’intento, ovviamente, di fare del « giusto processo » un modello a cui tendere in concreto, e non una bandiera da sventolare solo allo scopo di sottolineare le tante deviazioni dell’attuale assetto del processo penale. MICHELE CURTOTTI Università di Bari Facoltà di Giurisprudenza Istituto di Diritto e procedura penale
GIURISPRUDENZA
a) Giurisprudenza costituzionale
CORTE COSTITUZIONALE — 26 giugno-3 luglio 1996, n. 232 Pres. M. Ferri — Rel. M. Ferri Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale. (C.p.p., art. 34, secondo comma). Processo penale — Udienza preliminare — Giudice delle indagini preliminari che abbia restituito gli atti al p.m. per formulare o modificare l’imputazione ovvero che abbia disposto una misura cautelare personale nei confronti dell’imputato — Incompatibilità dello stesso giudice a partecipare a detta udienza — Omessa previsione — Richiamo all’ordinanza n. 24 del 1996 della Corte costituzionale — Manifesta infondatezza (Cost., artt. 3, 24, 25, 76, 77 e 101). (Omissis). — Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 34, secondo comma, del codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse il 20 ottobre 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Torino, il 24 e il 26 ottobre 1995 dalla Corte d’appello di Napoli, il 27 ottobre 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Verbania, il 28 novembre 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Benevento, il 19 dicembre 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Belluno, il 13 dicembre 1995 dalla Corte d’appello di Palermo, il 28 novembre 1995 dalla Corte d’appello di Napoli, il 10 dicembre 1995 dalla Corte d’appello di Genova, il 13 dicembre 1995 dalla Corte d’appello di Palermo, il 15 dicembre 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Bari, il 21 novembre 1995 dalla Corte d’appello di Napoli, il 9 febbraio 1996 dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Belluno, il 16 gennaio 1996 dalla Corte d’appello di Genova, il 23 gennaio 1996 dalla Corte d’appello di Napoli, rispettivamente iscritte ai nn. 884, 930 e 931 del registro ordinanze 1995 ed ai nn. 6, 22, 127, 159, 184, 219, 231, 232, 244, 313, 342 e 353 del registro ordinanze 1996, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, n. 53 dell’anno 1995 e nn. 3, 5, 6, 8, 9, 10, 11, 12, 15 e 17 dell’anno 1996. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri. Udito nella camera di consiglio del 12 giugno 1996 il giudice relatore Mauro Ferri. Ritenuto che il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Verbania, con ordinanza del 27 ottobre 1995, ha sollevato questione di legittimità co-
— 589 — stituzionale dell’art. 34 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare all’udienza preliminare del giudice per le indagini preliminari che abbia disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero affinché modificasse l’imputazione, in riferimento agli artt. 25, 76, 77 e 101 della Costituzione; che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la infondatezza della questione; che il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Belluno, con ordinanza del 9 febbraio 1996, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare all’udienza preliminare del giudice per le indagini preliminari che abbia ordinato al pubblico ministero di formulare l’imputazione, per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’infondatezza della questione; che il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Torino, con ordinanza del 20 ottobre 1995, il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Benevento, con ordinanza del 28 novembre 1995, il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Belluno, con ordinanza del 19 dicembre 1995, il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Bari, con ordinanza del 15 dicembre 1995, la Corte d’appello di Napoli, con ordinanze del 24 ottobre 1995, del 26 ottobre 1995, del 21 novembre 1995, de1 28 novembre 1995 e del 23 gennaio 1996, la Corte d’appello di Palermo, con due ordinanze del 13 dicembre 1995, la Corte d’appello di Genova, con ordinanze del 10 dicembre 1995 e del 16 gennaio 1996, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare all’udienza preliminare del giudice per le indagini preliminari che abbia disposto una misura cautelare personale nei confronti dell’imputato, in riferimento a numerosi parametri costituzionali, variamente individuati dai giudici remittenti negli artt. 3, 24, 26, 76 e 77 della Costituzione; che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, nei giudizi promossi dalla Corte d’appello di Napoli e dalla Corte d’appello di Palermo, concludendo per l’infondatezza della questione. Considerato che le questioni prospettate sono identiche o analoghe, e che pertanto i relativi giudizi possono essere riuniti e decisi congiuntamente; che la norma impugnata è già stata sottoposta all’esame di questa Corte; che, in particolare, con l’ordinanza n. 24 del 1996 è stata dichiarata la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare alla successiva udienza preliminare del giudice per le indagini preliminari che abbia ordinato al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 409, quinto comma, del medesimo codice, di formulare l’imputazione; che nella predetta ordinanza la Corte ha affermato che il giudice dell’udienza preliminare non è chiamato ad esprimere valutazioni sul merito dell’accusa, bensì
— 590 — a valutare la legittimità della domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero e che ciò non costituisce pertanto attività di ‘‘giudizio’’, inteso come attività finalizzata alla decisione sul merito della regiudicanda; che, quindi, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, secondo comma, del codice di procedura penale, sollevata dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Belluno, è manifestamente infondata; che, con la sentenza n. 131 del 1996, questa Corte ha ribadito per quanto qui interessa che la previsione dell’incompatibilità del giudice è finalizzata ad evitare che possa essere o apparire pregiudicata l’attività di ‘‘giudizio’’, non anche altre attività processuali anteriori o propedeutiche al giudizio; che alla luce della giurisprudenza richiamata anche tutte le altre questioni sollevate sono manifestamente infondate. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. P.Q.M. — La Corte costituzionale, riuniti i giudizi, dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, secondo comma, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 76, 77 e 101 della Costituzione, dai giudici per le indagini preliminari presso i tribunali di Verbania, Belluno e Benevento, e presso i tribunali militari di Torino e Bari, e dalle Corti d’appello di Napoli, Palermo e Genova, con le ordinanze indicate in epigrafe.
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Incompatibilità del giudice e udienza preliminare.
1. Riunite nel medesimo giudizio più questioni di illegittimità ritenute ‘‘identiche o analoghe’’, la Corte costituzionale — in linea con le indicazioni contenute nell’ordinanza n. 24 del 1996 (1) — ribadisce che la natura della valutazione demandata al giudice dell’udienza preliminare, in sede di verifica dell’accusa, non ha per oggetto il merito dell’imputazione, ma la ‘‘legittimità della domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero’’. Non si tratta insomma di quella attività di ‘‘giudizio’’ volta ‘‘alla decisione sul merito della regiudicanda’’, in relazione alla quale, come già sottolineato nella sentenza n. 131 del 1996 (2), deve essere fatta salva la compatibilità del giudice. Sulla base di tali premesse, è stato agevole escludere ogni sospetto di illegittimità in ordine agli interventi del giudice per le indagini preliminari in funzione di ‘‘garanzia’’ o di ‘‘controllo’’ (3). Non può ritenersi pertanto incompatibile il giudice dell’udienza preliminare che nel medesimo procedimento abbia disposto la (1) Corte cost., ord. 5 febbraio 1996, n. 24, in Cass. pen., 1996, p. 1733 s. (2) Corte cost., sent. 24 aprile 1996, n. 131, in Dir. pen. e proc., 1996, p. 579 s., con commento di P.P. RIVELLO, Preclusa la funzione di giudizio ai componenti del tribunale del riesame; anche in Il Sole 24 ore-Guida al diritto, 11 maggio 1996, (19), p. 64 s., con commento di G. FRIGO, Un altro passo della Corte costituzionale verso la direzione del giusto processo; ed in Corr. giur., 1996, p. 619, con commento di G. SPANGHER, Decisioni sulla libertà personale ed incompatibilità del giudice. (3) Utilizza questa espressione per identificare l’attività del giudice per le indagini preliminari, M. FERRAIOLI, Il ruolo di ‘‘garante’’ del giudice per le indagini preliminari, Padova, 1993, p. 79 s., 115 s.
— 591 — restituzione degli atti al pubblico ministero affinché modifichi l’imputazione, ordinato al pubblico ministero di formulare l’imputazione, disposto una misura cautelare nei confronti della persona sottoposta alle indagini. 2. In origine, l’art. 34 secondo comma c.p.p. individuava i casi d’incompatibilità del giudice per le indagini preliminari, rispetto al giudizio, nella emissione del provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare, del decreto di giudizio immediato, del decreto penale di condanna. Tale previsione si era tuttavia rivelata ben presto lacunosa ed aveva indotto la Consulta a molteplici interventi additivi (4): una ideale linea di demarcazione — tracciata dalla sentenza n. 496 del 1990 (5) — distingueva tra attività implicanti valutazioni di contenuto, volte a riflettersi sul successivo accertamento del dovere di punire ed attività non implicanti alcun condizionamento. Per dimostrare come questo criterio non consenta di esaurire, per quel che qui importa, l’ambito operativo dell’art. 34 secondo comma c.p.p., ma interessi soltanto alcune tra le possibili situazioni di incompatibilità, bisogna chiarire se nel restituire gli atti al pubblico ministero affinché modifichi l’imputazione, nell’ordinargli di formulare l’imputazione stessa o nel disporre una misura cautelare, il giudice per le indagini preliminari esprima una valutazione di contenuto sulla consistenza dell’accusa; se questa valutazione sia tale da influenzare il successivo giudizio che il medesimo giudice deve formulare in sede di udienza preliminare; se la decisione emersa al termine di tale fase rappresenti un giudizio di merito assimilabile a quello espresso in dibattimento o all’esito dei riti alternativi. Per quanto concerne la decisione del giudice dell’udienza preliminare di trasmettere gli atti al pubblico ministero perche il fatto è diverso da come descritto nell’imputazione originale, bisogna fare alcune osservazioni volte a chiarire qualche passaggio ambiguo dell’ordinanza in esame. Questa, prevedendo esplicitamente la restituzione degli atti al rappresentante dell’accusa, pare riferirsi all’art. 521 secondo comma c.p.p. Tale soluzione — accolta definitivamente nell’ambito (4) L’art. 34 secondo comma c.p.p. è stato dichiarato incostituzionale laddove non prevede che sia incompatibile: rispetto al giudizio abbreviato, il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale che abbia emesso l’ordinanza di cui all’art. 409 quinto comma c.p.p. (Corte cost., sent. 12 novembre 1991, n. 401, in Giur. cost., 1991, p. 3487 s.); rispetto al giudizio abbreviato, il giudice per le indagini preliminari presso la pretura che abbia emesso l’ordinanza di cui all’art. 554 secondo comma c.p.p. (Corte cost., sent. 15 ottobre 1990, n. 496, in Giur. cost., 1990, p. 2887 s.); rispetto al giudizio abbreviato, il giudice per le indagini preliminari che abbia rigettato la richiesta di pena, concordata ai sensi dell’art. 444 c.p.p. (Corte. cost., sent. 16 dicembre 1993, n. 439, in Cass. pen., 1994, p. 543 s.); rispetto al giudizio, il giudice per le indagini preliminari che abbia rigettato la richiesta di decreto di condanna (Corte cost., sent. l9 dicembre 1991, n. 502, in Cass. pen., 1992, p. 1742, con nota di L. GIOVANNETTI, La sentenza costituzionale n. 502 del 1991: ancora un passo avanti nelle ipotesi di incompatibilità. L’ultimo?); rispetto all’udienza dibattimentale, il giudice per le indagini preliminari presso la pretura che abbia respinto la richiesta di applicazione della pena su richiesta delle parti, per la ritenuta non concedibilità di circostanze attenuanti (Corte cost., sent. 16 marzo 1992, n. 124, in Cass. pen., 1992, p. 1981 s.); rispetto al giudizio, il giudice per le indagini preliminari che abbia rigettato la richiesta di applicazione pena ex art. 444 c.p.p. (Corte cost., sent. 13 aprile 1992, n. 186, in Giur. cost., 1992, p. 1349 s.); rispetto al dibattimento, il giudice per le indagini preliminari, il quale, per la diversità del fatto, sulla base di una valutazione del complesso delle indagini, abbia rigettato la domanda di oblazione (Corte cost., 15 dicembre 1994, n. 453, in Giur. cost., 1994, p. 3918 s., con nota di P.P. RIVELLO, Incompatibilità a partecipare al giudizio dibattimentale del G.i.p. che abbia respinto la richiesta di ammissione all’oblazione); rispetto al dibattimento, il giudice per le indagini preliminari che abbia applicato una misura cautelare personale nei confronti dell’imputato (Corte cost., sent. 6 settembre 1995, n. 432, con nota di P.P. RIVELLO, Un significativo mutamento d’indirizzo della Corte costituzionale: finalmente riconosciuta l’incompatibilità del magistrato chiamato a partecipare al dibattimento dopo avere adottato quale G.i.p. una misura cautelare personale, in Giur. cost., 1995, p. 3371 s.; nonché in Corr. giur., 1996, p. 24 s., con commento di A. GIARDA, Affermati come valori costituzionali i contenuti del ‘‘giusto processo’’; ed in Dir. pen. e proc., 1995, p. 1405, con commento di O. MAZZA, Il progressivo ampliamento delle incompatibilità del giudice). (5) Corte cost., sent. 26 ottobre 1990, n. 496, cit. Occorre sottolineare che lo stesso principio affermato in questa decisione è stato ripreso da Corte cost., sent. 15 settembre 1995, n. 432, cit.
— 592 — dell’udienza preliminare dopo la sentenza della Corte cost. n. 83 del 1994 (6) — si verifica quando il fatto ricostruito in esito all’udienza stessa risulti diverso da quello che costituiva l’oggetto dell’imputazione originale ed il pubblico ministero non abbia raccolto l’invito del giudice ad agire ai sensi dell’art. 423 c.p.p. Ciò significa che l’ordinanza di trasmissione degli atti al rappresentante dell’accusa viene emessa quando il giudice ha già effettuato una completa disamina degli elementi di indagine — eventualmente integrati dalle acquisizioni conseguenti all’udienza preliminare — e si è convinto della necessità di pervenire ad una diversa ricostruzione della vicenda rispetto a quella prospettata nell’accusa iniziale. Se tale circostanza potrebbe indurre a ritenere che la valutazione sulla consistenza dell’accusa sia tale da creare un pregiudizio nel giudice in ordine alla ricostruzione della ipotesi criminosa, un esame più approfondito sembra prospettare una diversa conclusione. L’udienza preliminare è il momento in cui il giudice si pone per la prima volta il problema di valutare la correttezza della definizione giuridica del fatto. Il controllo sull’esistenza delle condizioni necessarie per giungere al dibattimento, impone infatti al giudice di valutare non solo dal punto di vista dei contenuti, ma anche sotto il profilo formale, che vi sia stato un corretto esercizio dell’azione penale. Un controllo di tal sorta, pur coinvolgendo il merito dell’accusa, potrà determinare provvedimenti anche solo di natura formale, come quelli volti a rimediare al fenomeno dell’imputazione generica (7). Sulla base di tali argomentazioni, possiamo allora dire che il controllo in parola risulta indispensabile per tutte le imputazioni e difficilmente eliminabile. Tuttavia, crediamo che questa valutazione, dovuta, pur riguardando il contenuto dell’imputazione, non ne coinvolga la consistenza: il giudice, infatti, compie un esame in ordine alla correttezza dell’accusa senza pronunciarsi sulla sua fondatezza. Passando ora all’ipotesi disciplinata dall’art. 409 quinto comma c.p.p., va subito detto che il provvedimento con il quale il giudice dell’udienza preliminare ordina al pubblico ministero di formulare l’imputazione implica un giudizio completo sulle fonti di prova che costituiscono il risultato delle investigazioni. Al di là del fatto che questa valutazione è di tipo indiziario — in quanto poggia su dati effettivamente verificatisi, ma precari e non definitivi, vale a dire su conoscenze ottenute isolando il risultato raggiunto nell’accertamento del fatto fino ad un certo momento (8) — non si può negare come essa incida sul contenuto dell’imputazione (9) e rappresenti una anticipazione del giudizio in sede di udienza preliminare: in presenza di una richiesta di archiviazione del pubblico ministero, il giudice si esprime sulla necessità di proseguire il processo. In sostanza, risulta impos(6) Corte cost., sent. 15 marzo 1994, n. 88, in Cass. pen., 1994, p. 1797, con nota di A. MACCHIA, è una sentenza interpretativa di rigetto che sostanzialmente afferma come l’art. 424 c.p.p. non precluda al giudice per le indagini preliminari il potere di ordinare la trasmissione degli atti al pubblico ministero affinché descriva diversamente il fatto contestato; anche in Giur. cost., 1994, p. 846; e in Giust. pen., 1994, I, c. 161, con nota di A. VIRGILIO, Fatto diverso: trasmissibilità degli atti dal giudice dell’udienza preliminare al pubblico ministero? Occorre sottolineare che anche prima della richiamata sentenza la dottrina aveva proposto una applicazione analogica dell’art. 521 secondo comma c.p.p.: così G. FRIGO, Commento all’art. 423 c.p.p., in M. CHIAVARIO (coordinato da), Commento al codice di procedura penale, IV, Torino, 1990, p. 653; D. GROSSO, L’udienza preliminare, Milano, 1991, p. 252; A. MOLARI, Lineamenti e problemi dell’udienza preliminare, in Ind. pen., 1988, p. 497 s. (7) Così T. RAFARACI, Le nuove contestazioni nel processo penale, Milano, 1996, p. 500. (8) Così D. SIRACUSANO, Diritto di difesa e formazione della prova nella fase dibattimentale, in Il nuovo processo penale dalla codificazione all’attuazione, atti del convegno, Ostuni, 8-10 ottobre 1989, Milano, 1991, p. 167 s. (9) Cfr. Corte cost., sent. 12 novembre 1991, n. 401, cit.
— 593 — sibile contestare il condizionamento di tale giudizio sulla valutazione del medesimo magistrato in sede di verifica dell’accusa (10). Nonostante la possibilità che dopo la richiesta ‘‘coatta’’ di rinvio a giudizio, il pubblico ministero prosegua le indagini (artt. 419 terzo comma; 430 c.p.p.) ovvero emerga, nel corso dell’udienza preliminare, una imputazione diversa rispetto a quella imposta dal giudice, resta comunque il sospetto che l’esclusione della possibilità di archiviare una notizia di reato tenda ad indurre il giudice che ha operato tale scelta ad emettere, nella successiva udienza preliminare, un decreto di rinvio a giudizio piuttosto che una sentenza di proscioglimento (11). Facendo una breve digressione rispetto al caso trattato, va detto che la situazione processuale si presenterebbe diversa laddove il giudice per le indagini preliminari non ordinasse la formulazione dell’imputazione, ma disponesse soltanto nuove indagini ai sensi dell’art. 409 quarto comma c.p.p. In questa ipotesi, egli non opererebbe una valuatazione sui risultati delle investigazioni ma sulla loro completezza al solo fine di esprimere un giudizio di carattere contenutistico. Appare dunque evidente come simile giudizio non condizionerebbe in alcun modo la decisione che il medesimo magistrato dovrebbe successivamente adottare in sede di udienza preliminare (12). Veniamo infine all’ipotesi relativa alla emissione da parte del giudice per le indagini preliminari, su richiesta del pubblico ministero, di una misura cautelare. Anche in questo caso — pur essendo recente il mutamento di indirizzo operato in tal senso dalla Corte costituzionale (13) — sembra possibile sostenere l’esistenza di una vera e propria valutazione di merito. È stato infatti riconosciuto che il provvedimento applicativo di qualsiasi misura cautelare non si basa su una valutazione meramente formale, ma anche di probabile fondatezza dell’accusa (14). A questa (10) La previsione che nella successiva udienza preliminare il giudice debba essere diverso da quello che ha pronunciato l’ordinanza ai sensi dell’art. 409 quinto comma c.p.p., è stata indicata, da attenta dottrina, come un antidoto al rischio di una ‘‘tentazione inquisitoria’’ in capo al giudice che ha imposto all’accusatore di formulare l’imputazione: così P. FERRUA, Il ruolo del giudice nel controllo delle indagini preliminari e nell’udienza preliminare, in Studi sul processo penale, I, Torino, 1990, p. 55; V. GREVI, Archiviazione per « inidoneità probatoria » ed obbligatorietà dell’azione penale, in questa Rivista, 1990, p. 1304. (11) Così P.P. RIVELLO, Analisi dei più recenti orientamenti della Corte costituzionale in tema di incompatibilità del giudice penale, nota a Corte cost., sent. 22 aprile 1992, n. 186, in Giur. cost., 1992, p. 1349 s. L’ipotesi che il giudice possa addivenire ad una sentenza di proscioglimento dopo avere ordinato l’imputazione ‘‘coatta’’, potrà verificarsi laddove il pubblico ministero formuli una accusa diversa da quella sollecitatagli ai sensi dell’art. 409 quinto comma c.p.p. Va tuttavia sottolineato che tale possibilità è strettamente collegata a quell’opinione dottrinale che vuole il pubblico ministero svincolato dall’individuazione dell’addebito contenuto nella imputazione ‘‘coatta’’. Secondo questa tesi (cfr., in dottrina, F. CORDERO, Procedura penale, 3a ed., Milano, 1995, p. 414; G. GIOSTRA, L’archiviazione. Lineamenti sistematici e questioni interpretative, 2a ed., Torino, 1994, p. 81; A.A. SAMMARCO, La richiesta di archiviazione, Milano, 1993, p. 317; U. NANNUCCI, Analisi critica delle indagini preliminari, in Cass. pen., 1930, I, p. 1614; in giurisprudenza, Cass. 9 febbraio 1990, Tormentoni, in Cass. pen., 1990, II, p. 82), al giudice dell’archiviazione deve attribuirsi una funzione prima ‘‘sollecitatoria’’ (art. 409 quinto comma c.p.p.) e poi meramente notarile (art. 128 disp. att.). In senso contrario, vale a dire che il pubblico ministero è tenuto a rispettare le indicazioni fornite dal giudice per le indagini preliminari attraverso l’ordinanza di cui all’art. 409 quinto comma c.p.p., cfr., in dottrina, F. CAPRIOLI, L’archiviazione, Napoli, 1994, p. 556 s.; in giurisprudenza, Corte cost., sent. 12 giugno 1991, n. 263, in Giur. cost., 1991, p. 2126. (12) Così, in dottrina, T. TREVISSON LUPACCHINI, La ricusazione del giudice nel processo penale, Milano, 1996, p. 161; in giurisprudenza, Corte cost., ord. 8 aprile 1993, n. 157, in Giur. cost., 1993, p. 1179. (13) Così Corte cost., sent. 15 settembre 1995, n. 432, cit.; Corte cost., sent. 24 aprile 1996, n. 131, cit. Per l’indirizzo giurisprudenziale precedente, cfr. Corte cost., sent. 30 dicembre 1991, n. 502, cit., ove si osservava che gli interventi de libertate ‘‘non comportano una valutazione che si traduca in un giudizio sul merito della res iudicanda, idoneo a determinare (o far apparire) un ‘‘pregiudizio’’ che mini l’imparzialità della decisione conclusiva sulla responsabilità dell’imputato’’; nonché, sul punto, in dotttrina, O. MAZZA, op. cit., p. 1404-1406. (14) Così P.P. RIVELLO, Preclusa la funzione, cit., p. 588; nonché S. LORUSSO, Provvedimenti ‘‘allo stato degli atti’’ e processo penale di parti, Milano, 1995, p. 367 s.
— 594 — valutazione — di tipo prognostico e fondata su un accertamento ‘‘allo stato degli atti’’ — se ne abbina una ulteriore, anch’essa di merito, volta a verificare l’inesistenza di condizioni che legittimano il proscioglimento (art. 273 secondo comma c.p.p.) (15). Detta soluzione, raggiungibile — secondo alcuni (16) — anche in vigenza della normativa originaria in tema di misure cautelari, pare oggi scontata a seguito della recente riforma realizzata dalla l. 8 agosto l995, n. 332. Non solo l’applicazione della misura custodiale deve essere subordinata ad una previsione negativa in ordine alla futura possibilità di concessione della sospensione condizionale della pena, ma l’ordinanza che la dispone deve ora contenere anche ‘‘l’esposizione dei motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa’’. In sostanza, con le nuove previsioni, il legislatore ha imposto al giudice una sorta di anticipazione sia sul giudizio finale di responsabilità, sia sull’entità della pena presumibilmente irrogabile (art. 275 comma 2-bis c.p.p.) (17). Va ricordato peraltro che il materiale oggetto di apprezzamento da parte del giudice che adotta la misura cautelare può coincidere — laddove questa sia disposta a ridosso dell’udienza preliminare o in un momento oltre il quale non vengono più svolte indagini — con quello utilizzato per il giudizio sulla fondatezza dell’accusa. Ciò significa che ogni valutazione relativa al rinvio a giudizio verte, perlomeno in questi casi, sugli stessi elementi analizzati in occasione dell’applicazione della misura. Non si dimentichi del resto che la dottrina prevalente è incline a ritenere che la delibazione degli elementi indizianti ai fini dell’applicazione o della verifica di una misura coercitiva sia equivalente — se non addirittura piu penetrante — alla valutazione dell’accusa ai fini del rinvio a giudizio dell’imputato (18). Fissati questi punti, ci si deve ora chiedere se le determinazioni ai sensi dell’art. 424 c.p.p. abbiano natura strettamente processuale ovvero comportino un giudizio, sul pieno merito della causa, assimilabile a quello formulato in dibattimento. L’indagine deve muovere dal presupposto che l’accertamento compiuto in sede di udienza preliminare non può prescindere da una valutazione critica e di merito relativa a tutti gli elementi probatori raccolti fino a quel momento. Tale assunto pare confermato dalle disposizioni contenute negli artt. 422 e 423 secondo (15) Corte cost., sent. 15 settembre 1995, n. 432, cit. (16) In questi termini P.P. RIVELLO, loc. ult. cit., il quale afferma che la ‘‘lettura del testo non novellato evidenzia che il legislatore richiedeva comunque, per l’adozione o la conferma delle misure cautelari personali, la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ed esigeva il riconoscimento dell’assenza di cause di giustificazione o di non punibilità, nonché delle cause di estinzione del reato o della pena imponendo inoltre una valutazione di proporzionalità tra la misura cautelare, l’entità del fatto e la pena irrogabile’’; nonché G. AMATO, Commento all’art. 273 c.p.p., in E. AMODIO-O. DOMINIONI (diretto da), Commentario al nuovo codice di procedura penale, III, pt. II, Milano, 1990, p. 19; G. CIANI, Commento all’art. 292 c.p.p., in E. AMODIO-O. DOMINIONI (diretto da), Commentario, cit., III, pt. II, cit., p. 167 s.; O. DOMINIONI, Misure cautelari personali, in E. AMODIO-O. DOMINIONI (diretto da), Commentario, cit., III, pt. II, cit., p. 5; L. CREMONESI, Orientamenti della giurisprudenza costituzionale sulle incompatibilità contenute nell’art. 34 secondo comma c.p.p., in Giust. pen., 1993, I, c. 276, secondo cui ‘‘non si può certo ammettere che il giudice per le indagini preliminari o altro giudice facente parte del collegio del tribunale della libertà non entrino nel merito della responsabilità dell’imputato, quando i parametri del codice di procedura penale sono quelli dei gravi indizi di colpevolezza, dell’assenza delle cause di esclusione della pena e della proporzionalità della misura cautelare, considerando l’entità del fatto e la pena da irrogare’’; T. RAFARACI, Commento all’art. 34 c.p.p., in M. CHIAVARIO (coordinato da), Commento al codice di procedura penale, secondo aggiornamento, Torino, 1993, p. 43; nonché, con sfumature parzialmente differenti, O. MAZZA, op. cit., p. 1405. (17) Pur essendo una novità sotto il profilo formale, tale soluzione era già stata implicitamente desunta nel ‘‘diritto vivente’’ dall’art. 273 secondo comma c.p.p.: così Sez. VI, 14 giugno 1993, Fontani, in Arch. n. proc. pen., 1994, p. 113; Sez. I, 18 marzo 1992, Angeloni, in Riv. pen., 1993, p. 358; in senso contrario, Sez. VI, 18 maggio 1993, Andreani, in Arch. n. proc. pen., 1994, p. 113. (18) Così M. CERESA GASTALDO, Il riesame delle misure coercitive nel processo penale, Milano, 1993, p. 99; nonché G. AMATO, Commento all’art. 273 c.p.p., cit. p. 19.
— 595 — comma c.p.p., laddove attribuiscono al giudice dell’udienza preliminare sia il potere di sollecitare la integrazione o l’approfondimento di temi di prova, sia quello di autorizzare il pubblico ministero alla contestazione del fatto nuovo (19). Al di là di queste osservazioni, va pure detto che la l. 8 aprile 1993, n. 105, abolendo il criterio dell’evidenza dalla regola di giudizio fissata nell’art. 425 c.p.p., ha rafforzato ed ampliato i poteri valutativi del giudice dell’udienza preliminare. Prima di tale intervento, la valutazione dell’accusa si riferiva esclusivamente ad un parametro di non evidente infondatezza della stessa. Con l’esclusione del criterio dell’evidenza sono stati di fatto perfezionati i poteri di cognizione del giudice dell’udienza preliminare, chiamato ora ad una attività di conoscenza critica degli esiti delle indagini e delle prospettazioni della difesa. La riconducibilità al merito dell’accusa delle valutazioni espresse risultava peraltro chiara dall’art. 34 secondo comma c.p.p., il quale, già nella sua versione originale, individuava una causa di incompatibilità a partecipare al giudizio a carico del giudice che avesse emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare (20). 3. Le considerazioni esposte consentono di ritenere che la valutazione alla base del provvedimento di imputazione ‘‘coatta’’ e del provvedimento che dispone una misura cautelare, in quanto attinente al ‘‘merito’’ dell’accusa, pregiudichi la serenità del giudice chiamato a decidere in sede di udienza preliminare. Allo stesso modo, la decisione adottata ai sensi dell’art. 424 c.p.p. grava sul contenuto dell’imputazione. Muovendo da tali considerazioni, sembra riduttivo e non condivisibile l’orientamento della Corte costituzionale, secondo il quale non importa che uno stesso giudice esprima una duplice valutazione sugli elementi che costituiscono o potranno costituire il fondamento dell’accusa, e limita l’incompatibilità alla circostanza che la seconda presa di cognizione del materiale probatorio sciolga l’alternativa tra assoluzione e condanna dell’imputato (21). L’orientamento seguito dalla Corte costituzionale pare invero ispirarsi ad un eccessivo formalismo e relegare in secondo piano i profili psicologici concernenti la posizione dell’organo giudicante (22). La scelta operata non sembra giustificabile nemmeno invocando l’art. 2, direttiva n. 40 della legge-delega, dal quale emerge un indirizzo legislativo di preferenza per la ‘‘concentrazione’’, in capo al medesimo giudice, ‘‘di tutti gli incidenti probatori e di tutti i provvedimenti relativi allo stesso procedimento’’. Tale direttiva non può essere infatti interpretata nel senso che tutti i provve(19) Corte cost., sent. 15 marzo 1994, n. 88, cit. (20) Retro, nota 5. Sul punto v. M.M. MONACO, Incompatibilità del giudice ed udienza preliminare: un nodo da sciogliere, in Studi sul processo penale in ricordo di Assunta Mazzarra, coordinati da A. GAITO, Padova, 1996, p. 313 s. (21) Non è mancato chi (G. CONSO, Problemi di metodo e scelte di fondo, in AA.VV., Le nuove disposizioni sul processo penale, atti del convegno, Perugia, 14-15 aprile 1988, Padova, l989, p. 178), relativamente all’attività del giudice delineata nel progetto del 1978 ed in considerazione della identità del magistrato chiamato a decidere tutti i provvedimenti richiesti nel corso delle indagini, ha sostenuto che i ‘‘procedimenti caratterizzati da non pochi incidenti probatori, per giunta precedenti o affiancati da questioni di natura cautelare, comporterebbero pressoché inevitabilmente che il giudice per le indagini preliminari, intervenendo ripetute volte, si faccia via via una idea della causa, in un certo senso impadronendosene, così da condizionare, poi, sia pure inconsciamente, il momento dell’epilogo’’. (22) V. ZAGREBELSKY, Il giudice per le indagini preliminari nel quadro dell’ordinamento giudiziario, in Il giudice per le indagini preliminari dopo cinque anni di sperimentazione, atti del convegno, Mattinata, 23-25 settembre 1994, Milano, 1996, p. 24.
— 596 — dimenti concernenti le indagini siano adottati all’interno dello stesso ufficio funzionalmente competente, anche dalla stessa persona fisica (23). Al fine di ovviare alle situazioni d’incompatibilità segnalate, in dottrina si auspica ‘‘una chiara censura a livello di organizzazione degli uffici giudiziari’’ (24). In particolare, sembra praticabile la strada — tracciata nel disegno governativo di legge-delega recante ‘‘Istituzione del giudice unico in primo grado’’ (25) — di creare, mediante modificazioni all’art. 7-ter r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, un giudice per le indagini preliminari diverso dal giudice dell’udienza preliminare. Tale soluzione potrebbe essere perfezionata dalla realizzazione di un autonomo ufficio collegiale — del quale farebbe parte anche il giudice per le indagini preliminari — competente per tutte le funzioni cautelari, salvo quelle riservate alla Corte di cassazione. Questo organo opererebbe nell’intero distretto e sarebbe composto da magistrati appartenenti agli uffici giudiziari compresi nell’area territorialmente considerata. L’ufficio in parola dovrebbe mantenere al suo interno una rigorosa incompatibilità tra chi emette i provvedimenti cautelari e chi li controlla, prevedendo una diversa composizione dei collegi (26). Così operando verrebbero meno non solo possibili situazioni di incompatibilità, ma anche i sospetti di ‘‘appiattimento’’ e di inopportuna contiguità tra le funzioni del pubblico ministero e quelle del giudice per le indagini preliminari. Non può poi sfuggire come l’istituzione della collegialità nell’applicazione delle misure cautelari personali darebbe garanzie di equilibrio molto maggiori di quelle ottenute con il sistema attuale. Una soluzione di questo tipo, che richiederebbe l’impegno di più giudici relativamente ad una funzione attualmente affidata ad un organo monocratico, potrebbe tuttavia risultare in contrasto con la proposta di potenziare l’efficienza del sistema giustizia mediante l’introduzione del giudice unico in primo grado (27). Occorre tuttavia considerare il corrispondente recupero di energie professionali derivanti dalla soppressione — come sarebbe ovvio — dei tribunali del riesame. Il vantaggio derivante da questa proposta si rifletterebbe comunque sul piano dell’efficienza: l’esclusivo esercizio della funzione cautelare da parte dell’organo indicato comporterebbe un affinamento della professionalità, una maggior sicurezza nelle decisioni, una maggiore uniformità giurisprudenziale nonché l’eliminazione dei ritardi procedurali connessi al sistema del riesame e dell’appello in materia cautelare. GIULIO GARUTI Ricercatore di Procedura penale nell’Università di Modena
(23) V. GREVI, La garanzia dell’intervento giurisdizionale nel corso delle indagini, in Giust. pen., 1988, I, c. 355. (24) Cfr. F. RUGGIERI, La giurisdizione di garanzia nelle indagini preliminari, Milano, 1996, p. 321-322, secondo cui ‘‘Una simile opzione porterebbe a compimento quella già rilevata maggiore autonomia del nostro giudice per le indagini rispetto alle soluzioni proposte in altri sistemi e più in generale contribuirebbe a fare della giurisdizione di garanzia il punto di riferimento per una rinnovata riflessione sulla funzione della giurisdizione anche al processo, rovesciando quella pur opportuna prospettiva che, al fine di rafforzare il giudice per le indagini, auspicava invece una sua formazione culturale più vicina a quella della magistratura di giudizio’’. (25) Il testo del disegno di legge, approvato dal Consiglio dei ministri il 2 agosto 1996, è stato pubblicato in Il Sole 24 ore-Guida al diritto, 24 agosto 1996, (33), p. 72 s. (26) Una soluzione simile è stata avanzata da E. MARZADURI, voce Misure cautelari personali (principi generali e disciplina), in Dig. disc. pen., VIII, Torino, 1994, p. 69 nota 51 e ripresa in seguito da O. MAZZA, op. cit., p. 1408. (27) V. nota 25.
— 597 — CORTE COSTITUZIONALE — 27 giugno-9 luglio 1996, n. 238 Pres. M. Ferri — Rel. R. Granata Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale. (C.p.p., art. 224, secondo comma). Processo penale — Incidente probatorio — Sottoposizione dell’indagato o di terzi a perizia medico-legale — Potere del giudice, se lo ritenga necessario per l’esecuzione delle operazioni peritali, di disporre sul periziando, anche senza il suo consenso, prelievi ematici — Mancata precisazione, nella norma su cui tale potere si basa (art. 224, secondo comma, del codice di procedura penale), dei casi e dei modi in cui misure di tal genere possono essere adottate, come richiesto dall’art. 13, secondo comma, della Costituzione a garanzia della libertà personale — Illegittimità costituzionale parziale — Assorbimento di altra censura — Richiamo a sentt. nn. 194 del 1996 e 54 del 1986. (Cost., artt. 3 e 13, secondo comma). RITENUTO IN FATTO. — 1. Con ordinanza del 13 dicembre 1995 il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Civitavecchia ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 224, secondo comma, del codice di procedura penale in riferimento agli artt. 3 e 13, secondo comma, della Costituzione. Premette il giudice per le indagini preliminari rimettente che nel corso del procedimento penale a carico di Gregori Fabio il pubblico ministero aveva chiesto di procedersi con incidente probatorio a perizia medico legale allo scopo di accertare, attraverso prelievo ematico nei confronti dell’indagato e di altre persone appartenenti al suo nucleo familiare, l’eventuale identità dei polimorfismi genetici emergenti dagli effettuandi prelievi con quelli presenti ed accertati nel materiale ematico rinvenuto su una statua raffigurante la Madonna. Ammesso l’incidente probatorio, all’udienza fissata l’indagato manifestava la volontà di non sottoporsi al prelievo ematico ed altresì comunicava che tale era anche l’intendimento dei parenti richiesti del medesimo accertamento; nella stessa sede contestava che il giudice potesse imporre coattivamente il prelievo ematico. Ciò posto, il giudice rimettente osserva che il mezzo di prova, di cui è chiesto l’espletamento anche in assenza della necessaria adesione e disponibilità delle persone interessate, comporta inevitabilmente l’uso di mezzi coercitivi che impongono la privazione della libertà personale e la sottoposizione del soggetto ad accertamenti invasivi del suo corpo. D’altra parte la possibilità di disporre coattivamente gli accertamenti richiesti rientra nell’ambito dei poteri assegnati al giudice dalle norme sulla perizia (artt. 220 e ss. del codice di procedura penale). Però — prosegue il giudice per le indagini preliminari rimettente — se è vero che questa Corte (con la sent. n. 54 del 1986) ha già legittimato il prelievo ematico coattivo con riferimento alle norme del codice di procedura penale abrogato, la questione può non di meno essere riproposta nel mutato assetto processuale del nuovo codice di rito. Ed infatti l’art. 224, secondo comma, del codice di procedura penale consente in modo del tutto generico la possibilità di emettere un provvedimento coat-
— 598 — tivo per assicurare il compimento della perizia perché prevede la facoltà del giudice di dare gli opportuni provvedimenti per la comparizione delle persone sottoposte all’esame del perito e di adottare tutti gli altri provvedimenti che si rendono necessari per l’esecuzione delle operazioni peritali, senza alcuna concreta precisazione circa la natura e la possibilità di estensione della coazione. Invece la norma costituzionale, riconoscendo la inviolabilità della libertà personale, non consente restrizione alcuna della stessa se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge; e ciò implica la necessaria « tipizzazione » delle possibilità di restrizione della libertà personale. D’altra parte il nuovo codice di procedura penale ha curato in modo analitico e scrupoloso il tema della libertà personale dell’indagato, prevedendo tutta una serie di restrizioni dei poteri della polizia giudiziaria, del pubblico ministero e dello stesso giudice, ed ha graduato l’entità delle misure restrittive in relazione alla situazione concreta, riservandole solo a fattispecie di reato di una certa gravità. Invece il riconoscimento al giudice di un indiscriminato potere di sottoporre coattivamente l’indagato o anche persone estranee all’imputazione a prelievi ematici, o ad altre forme di accertamenti medici di carattere invasivo, contrasta con l’assetto normativo complessivo che il legislatore ha posto in tema di libertà personale con il nuovo codice di rito. 2. È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata, richiamando essenzialmente il citato precedente di questa Corte ed evidenziando che comunque il provvedimento che ordina l’esame coattivo del sangue è direttamente impugnabile ex art. 111 della Costituzione. 3. Si è costituito Gregori Fabio, indagato nel procedimento penale pendente innanzi al giudice rimettente, e — aderendo alla prospettazione dell’ordinanza di rimessione — ha chiesto, anche con una successiva memoria, la dichiarazione di incostituzionalità della disposizione censurata. CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. È stata sollevata questione incidentale di legittimità costituzionale — in riferimento agli artt. 3 e 13, secondo comma, della Costituzione — dell’art. 224, secondo comma, del codice di procedura penale nella parte in cui prevede la possibilità per il giudice delle indagini preliminari di disporre coattivamente — in sede di incidente probatorio per l’esecuzione di perizia ematologica — il prelievo ematico nei confronti tanto dell’indagato quanto di terzi per sospetta violazione sia del principio di inviolabilità della libertà personale, non essendo determinati con carattere di tassatività i casi ed i modi in cui sia possibile procedere a tale prelievo coattivo che è anche invasivo dell’integrità fisica; sia del principio di disparità di trattamento, per il carattere indiscriminato ed indistinto dell’assoggettamento al prelievo coattivo di qualsiasi indagato ed anche di persone estranee ai fatti. 2. La disposizione censurata prevede che il giudice che ha disposto la perizia possa adottare tutti « gli altri provvedimenti » — ulteriori rispetto all’ordine di comparizione delle persone sottoposte all’esame del perito — « che si rendono necessari per l’esecuzione delle operazioni peritali ». Tra questi provvedimenti il giu-
— 599 — dice rimettente ritiene compreso implicitamente anche l’ordine di procedere coattivamente al prelievo ematico della persona sottoposta all’esame, ed argomenta le censure di incostituzionalità della disposizione muovendo da tale presupposto interpretativo, che trova peraltro riscontro sia nella giurisprudenza di legittimità, che si è interrogata in ordine ai limiti di ammissibilità di tale prelievo coattivo allorché questo possa compromettere l’integrità fisica o la dignità (comprensiva del diritto alla riservatezza) della persona sottoposta all’esame, sia nella stessa giurisprudenza di questa Corte, che nella sent. n. 54 del 1986 ha già scrutinato analoghe disposizioni dell’abrogato codice di procedura penale. In tale pronuncia la Corte ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 146, 314, 317 di quel codice, in riferimento all’art. 13, secondo e quarto comma, della Costituzione, nella parte in cui, appunto, prevedevano la facoltà del giudice istruttore di disporre, senza limite alcuno, il prelievo ematico coattivo, puntualizzando poi nella motivazione che il giudice incontrava invece precisi limiti, perché le specifiche norme denunziate dovevano esser lette nel contesto della Costituzione e dei suoi principi fondamentali, così che, per un verso, era necessario un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, e, per altro verso, il giudice non avrebbe potuto disporre il prelievo ematico coattivo ove questo, in considerazione delle circostanze del caso, avesse messo in pericolo la vita, la salute o l’incolumità o fosse risultato lesivo della dignità della persona o invasivo dell’intimo della sua psiche. 3. La questione è fondata. 3.1. La prima verifica richiesta dall’ordinanza di rimessione è quella della compatibilità del contenuto precettivo così enucleato dall’art. 224, secondo comma, del codice di procedura penale con la prescrizione espressa dal primo parametro evocato (art. 13, secondo comma, della Costituzione), il quale assoggetta ogni restrizione della libertà personale, tra cui nominatamente la detenzione, l’ispezione e la perquisizione personale, ad una duplice garanzia: la riserva di legge (essendo tali misure coercitive possibili « nei soli casi e modi previsti dalla legge ») e la riserva di giurisdizione (richiedendosi l’« atto motivato dell’autorità giudiziaria »); e così appronta una tutela che è centrale nel disegno costituzionale, avendo ad oggetto un diritto inviolabile, quello della libertà personale, rientrante tra i valori supremi, quale indefettibile nucleo essenziale dell’individuo, non diversamente dal contiguo e strettamente connesso diritto alla vita ed all’integrità fisica, con il quale concorre a costituire la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto, della persona. 3.2. Il prelievo ematico comporta certamente una restrizione della libertà personale quando se ne renda necessaria la esecuzione coattiva perché la persona sottoposta all’esame peritale non acconsente spontaneamente al prelievo. E tale restrizione è tanto più allarmante — e quindi bisognevole di attenta valutazione da parte del legislatore nella determinazione dei « casi e modi » in cui può esser disposta dal giudice — in quanto non solo interessa la sfera della libertà personale, ma la travalica perché, seppur in minima misura, invade la sfera corporale della persona — pur senza di norma comprometterne, di per sé, l’integrità fisica o la salute (anche psichica), né la sua dignità, in quanto pratica medica di ordinaria am-
— 600 — ministrazione (cfr. sent. n. 194 del 1996) — e di quella sfera sottrae, per fini di acquisizione probatoria nel processo penale, una parte che è, sì, pressoché insignificante, ma non certo nulla. È quindi operante nel caso la garanzia della riserva — assoluta — di legge, che implica l’esigenza di tipizzazione dei « casi e modi », in cui la libertà personale può essere legittimamente compressa e ristretta. Né tale rinvio alla legge può tradursi in un ulteriore rinvio da parte della legge stessa alla piena discrezionalità del giudice che l’applica, richiedendosi invece una previsione normativa idonea ad ancorare a criteri obiettivamente riconoscibili la restrizione della libertà personale. 3.3. In passato questa Corte, nella citata sent. n. 54 del 1986, ha fissato i limiti negativi (desumibili dagli artt. 2 e 32 della Costituzione) del prelievo ematico coattivo, ritenendo altresì soddisfatta anche la riserva di legge, quanto sia ai « casi » che ai « modi ». La questione però va rimeditata, ritenendosi di dover pervenire a conclusioni diverse, tenuto conto anche della maggiore forza con cui il valore della libertà personale si è affermato nel nuovo codice di procedura penale, ispirato in modo particolarmente accentuato al favor libertatis. Non senza considerare che proprio il precedente intervento di questa Corte, e le esigenze di garanzia in esso sottolineate, avrebbero dovuto suggerire al legislatore, in sede di redazione del nuovo codice di rito, di fissare e definire condizioni, presupposti e limiti per l’adozione del provvedimento coercitivo in questione, così come puntualmente è stato fatto per altre misure restrittive della libertà personale, seppur non di natura cautelare, quale l’accompagnamento coattivo (artt. 133 e 134 del codice di procedura penale); sicché in tale mutato contesto normativo mentre queste ed altre misure restrittive sono state positivamente, in modo più o meno dettagliato, disciplinate, non altrettanto è avvenuto per il prelievo ematico coattivo, riconducibile soltanto alla generica formulazione dell’art. 224, secondo comma, del codice di procedura penale, senza alcuna previsione espressa né dello stesso provvedimento, né dei suoi presupposti e limiti. 3.4. Non è senza rilievo d’altra parte che, in un diverso (ma anch’esso recente) contesto, che è quello del nuovo codice della strada (artt. 186 e 187), il legislatore — operando specificamente il bilanciamento tra l’esigenza probatoria di accertamento del reato e la garanzia costituzionale della libertà personale — abbia dettato una disciplina specifica (e settoriale) dell’accertamento (sulla persona del conducente in apparente stato di ebbrezza alcoolica o di assunzione di sostanze stupefacenti) della concentrazione di alcool nell’aria alveolare espirata e del prelievo di campioni di liquidi biologici, (prevedendo bensì in entrambi i casi la possibilità del rifiuto dell’accertamento, ma con la comminatoria di una sanzione penale per tale indisponibilità del conducente ad offrirsi e cooperare all’acquisizione probatoria); disciplina — questa — la cui illegittimità costituzionale è stata recentemente esclusa da questa Corte (sent. n. 194 del 1996, citata) proprio denegando, tra l’altro, la denunziata vulnerazione dell’art. 13, secondo comma, della Costituzione atteso che la « dettagliata normativa » di tale accertamento « non consente neppure di ipotizzare la violazione della riserva di legge ». Invece, con riferimento alla generica fattispecie normativa in questa sede cen-
— 601 — surata, si ha che le ragioni relative alla giustizia penale, consistenti nell’esigenza di acquisizione della prova del reato, pur costituendo un valore primario sul quale si fonda ogni ordinamento ispirato al principio di legalità, rappresentano in realtà soltanto la finalità della misura restrittiva e non anche l’indicazione dei « casi » voluta dalla garanzia costituzionale. Così come la considerazione che il prelievo ematico coattivo non possa essere disposto quando lede la dignità della persona o metta in pericolo la vita o l’integrità fisica della stessa costituisce null’altro che il riflesso dei limiti negativi dedotti dall’inquadramento della misura specifica nel contesto generale dell’ordinamento, ma non realizza la indicazione al positivo dei « modi », come prescritto dall’art. 13, secondo comma, della Costituzione. 3.5. Più in generale, con riferimento anche ad ogni altro provvedimento coercitivo atipico che possa astrattamente ricondursi alla nozione di « provvedimenti... necessari per l’esecuzione delle operazioni peritali », la disposizione censurata — nella quale manca addirittura la previsione specifica delle misure che possono essere adottate dall’autorità giudiziaria per l’esecuzione delle operazioni peritali facendosi riferimento, con una unica ed indifferenziata locuzione, ad una serie indeterminata di provvedimenti, senza distinguere tra quelli incidenti e quelli non incidenti sulla libertà personale e cumulando in una disciplina indistinta gli uni e gli altri — presenta assoluta genericità di formulazione e totale carenza di ogni specificazione al positivo dei casi e dei modi in presenza dei quali soltanto può ritenersi che sia legittimo procedere alla esecuzione coattiva di accertamenti peritali mediante l’adozione, a discrezione del giudice, di misure restrittive della libertà personale. E manca anche, come già si è rilevato, la stessa precisazione della tipologia delle misure restrittive adottabili, il che accentua — evidenziandone il contrasto con il parametro evocato — l’assoluta mancanza di indicazioni al positivo circa i « casi » e i « modi ». 4. Va quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 224, secondo comma (seconda proposizione), del codice di procedura penale, nella parte in cui consente misure restrittive della libertà personale finalizzate alla esecuzione della perizia, ed in particolare il prelievo ematico coattivo, senza determinare la tipologia delle misure esperibili e senza precisare i casi ed i modi in cui esse possono essere adottate. Ne segue che — fino a quando il legislatore non sarà intervenuto ad individuare i tipi di misure restrittive della libertà personale che possono dal giudice essere disposte allo scopo di consentire (anche contro la volontà della persona assoggettata all’esame) l’espletamento della perizia ritenuta necessaria ai fini processuali, nonché a precisare i casi ed i modi in cui le stesse possono essere adottate — nessun provvedimento di tal genere potrà essere disposto. 5. Rimane assorbito l’esame dell’ulteriore censura allegata dal giudice rimettente con riferimento all’art. 3 della Costituzione. P.Q.M. — La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 224, secondo comma, del codice di procedura penale nella parte in cui consente che il giudice, nell’ambito delle operazioni peritali, disponga misure che co-
— 602 — munque incidano sulla libertà personale dell’indagato o dell’imputato o di terzi, al di fuori di quelle specificamente previste nei « casi » e nei « modi » dalla legge.
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In tema di prelievo ematico coatto: brevi note a margine della sentenza della Corte Cost. n. 238 del 1996.
SOMMARIO: 1. Premessa — 2. Un antecedente di segno diametralmente opposto: la sent. n. 54 del 1986 — 3. La sentenza della Corte Cost. n. 238 del 1996 — 4. Effetti della sent. n. 238 del 1996 sui procedimenti in corso.
1. Premessa. — La Corte Costituzionale, con la sentenza che si annota, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 224, secondo comma, c.p.p. « nella parte in cui consente che il giudice, nell’ambito delle operazioni peritali, disponga misure che comunque incidano sulla libertà personale dell’indagato o dell’imputato o di terzi, al di fuori di quelle specificamente previste nei ‘‘casi’’ e nei ‘‘modi’’ dalla legge » (1). La decisione della Corte si innesta sulla nota vicenda, balzata agli onori della cronaca, della lacrimazione della Madonnina di Civitavecchia e della successiva apertura di un’indagine nei confronti del proprietario della statua. Il pubblico ministero chiese « di procedersi con incidente probatorio a perizia medico legale allo scopo di accertare, attraverso prelievo ematico nei confronti dell’indagato e di altre persone appartenenti al suo nucleo familiare, l’eventuale identità dei polimorfismi genetici emergenti dagli effettuandi prelievi con quelli presenti ed accertati nel materiale ematico rinvenuto sulla statua raffigurante la Madonna » (2). Il giudice per le indagini preliminari ammise l’incidente probatorio e all’udienza fissata per il conferimento dell’incarico al perito, l’indagato dichiarò di non volersi sottoporre al prelievo ematico e che a tale decisione si associavano anche i suoi congiunti. Il suo difensore « ha reiterato parte delle questioni già sollevate alla precedente udienza ed ha in particolare contestato che il giudice possa imporre coattivamente il prelievo ematico, prospettando contestualmente dubbi di costituzionalità delle norme processuali, in specie degli artt. 131 e 378 c.p.p., ove una interpretazione estensiva delle stesse consentisse di ricomprendere nei poteri del giudice quello di disporre il prelievo ematico coattivo » (3). Il giudice per le indagini preliminari ritenne rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sebbene non in riferimento alle norme processuali indicate dalla difesa. Infatti, egli evidenziò che l’art. 224, secondo comma, c.p.p. « consente in modo del tutto generico la possibilità di emettere un provvedimento coattivo per assicurare il compimento della perizia..., senza alcuna concreta precisazione circa la natura e la possibilità di estensione della coazione » mentre, « per contro, la norma costituzionale, riconoscendo la inviolabilità della libertà personale, non consente restrizione alcuna della stessa se non per atto motivato della autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge » (4). L’art. 224, secondo comma, c.p.p. sarebbe risultato quindi troppo generico, considerando pure il fatto che il nuovo (1) Corte Cost., sent. 9 luglio 1996 n. 238, in G.U., I serie speciale, 17 luglio 1996 n. 29, p. 31. (2) G.I.P. Civitavecchia, ord. 13 dicembre 1995 n. 167, in G.U., I serie speciale, 6 marzo 1996 n. 10, p. 54. (3) G.I.P. Civitavecchia, ord. n. 167/95, cit., p. 55. (4) G.I.P. Civitavecchia, ord. n. 167 del 1995, cit., p. 55.
— 603 — codice di procedura penale, anche a seguito di modifiche successive (5), « ha curato in modo analitico e scrupoloso il tema della libertà personale dell’indagato, prevedendo tutta una serie di restrizioni ai poteri della polizia giudiziaria, del pubblico ministero e dello stesso giudice, graduando l’entità delle misure restrittive in relazione alla situazione concreta e riservandole solo a fattispecie di reato di una certa gravità » (6). Il giudice per le indagini preliminari dichiarò dunque « non manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 224, secondo comma, c.p.p. con riferimento agli artt. 3 e 13, secondo comma, della Costituzione » (7), illegittimità che, come si è già anticipato, venne dichiarata dalla Corte Costituzionale con la sentenza che ci si appresta a commentare. Dopo dieci anni dalla nota sent. n. 54 del 1986 (8) la Corte si è dunque pronunciata in modo diametralmente opposto, ritenendo illegittimo il prelievo ematico coattivo compiuto sull’indagato, sull’imputato ovvero su terzi in assenza di una specifica regolamentazione dei « casi » e « modi » in cui tale atto possa essere compiuto. In un momento in cui si registrano notevoli progressi in campo scientifico per quanto riguarda l’identificazione genetica attraverso lo studio del DNA (9), arriva un preciso segnale di frenata da parte della Consulta che avvalora le tesi di coloro che ritengono le garanzie e i diritti inviolabili della persona più importanti dell’accertamento della verità a qualunque costo (10). In effetti, la perizia, tra i diversi mezzi di prova, riveste un ruolo di primaria importanza, grazie ai continui progressi della scienza e della tecnica che consentono di attribuire ai risultati peritali un alto grado di affidabilità (11). Tra le attività del perito vi è anche quella di formulare valutazioni direttamente acquisibili dal giudice: anche se quest’ultimo non resta vincolato al parere peritale, dal momento che l’art. 192 c.p.p. pone a suo carico solo il dovere di dar « conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati » in sede di (5) Cfr. l. 8 agosto 1995 n. 332, in G.U. 8 agosto 1995 n. 184, p. 3. (6) G.I.P. Civitavecchia, ord. n. 167 del 1995, cit., p. 55. (7) G.I.P. Civitavecchia, ord. n. 167 del 1995, cit., p. 56. (8) Corte Cost., sent. 24 marzo 1986 n. 54, in Foro it., 1987, I, p. 716. Il contenuto di tale decisione sarà analizzato nel successivo paragrafo 2. Per quanto riguarda la giurisprudenza di legittimità successiva alla sent. n. 54 del 1986, cfr. Cass., sez. VI, 7 maggio 1987, in Riv. pen., 1988, p. 199, in cui si sostiene che « a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 54 del 24 marzo 1986 che ha riconosciuto la legittimità per il giudice penale di disporre una perizia, anche mediante coazione fisica sull’imputato o su terzi, al fine di accertare la verità di fatti costituenti reato, non può ritenersi violato il diritto dell’imputato di non collaborazione ad accertamenti che potrebbero essere usati come prova a suo carico, qualora il giudice ordini una perizia sulla sua persona ». In senso contrario si pone, invece, Cass., sez. III, 4 marzo 1991, in Cass. pen., 1993, 1058, p. 1783, secondo cui « in relazione al reato di violenza carnale, legittimamente è esclusa l’ammissibilità del prelievo ematico e della relativa perizia sul bambino nato dal rapporto incestuoso, quando vi osti il diritto personalissimo di riservatezza attribuito all’art. 73 l. 4 maggio 1983, n. 184, al bambino intanto adottato, e opposto dai genitori adottivi, che hanno negato perciò il consenso alla perizia ». (9) Cfr. A. FIORI, L’identificazione genetica: il DNA, in AA.VV., L’investigazione scientifica e criminologica nel processo penale, Padova, 1989, p. 59 ss.; G. PAPPALARDO Il contributo della immunoematologia forense alla attuazione del nuovo c.p.p., in AA.VV., La medicina legale ed il nuovo codice di procedura penale, a cura di F. DE FAZIO-G. BEDUSCHI, Milano, 1989, p. 243 ss. (10) Cfr. A. GARGANI, I rischi e le possibilità dell’applicazione dell’analisi del DNA nel settore giudiziario, in questa Rivista, 1993, pp. 1307-1308, il quale evidenzia che « al di là delle congetture sul futuribile della prassi, l’incalzante progredire delle conoscenze in campo genetico pone infatti, accanto agli indubbi benefici e vantaggi di natura tecnologica, progressivamente nuovi rischi e fonti di pericolo per la vita e la dignità dell’uomo. Essi appaiono sovente di tale consistenza da far dubitare fortemente della ammissibilità della loro applicazione nella società civile ». (11) Cfr. P. ZANGANI, Diritti della persona e prelievi biologici: aspetti medico-legali, in Giust. pen., 1988, I, p. 541, secondo cui « senza nulla togliere a mezzi istruttori rilevanti quali la testimonianza, la ricognizione e il confronto, riteniamo però che ai fini del giudizio, il risultato della perizia tecnica (medico-legale, balistica, immunoematologica, dattiloscopica, ecc.) assuma un valore processuale molto più incisivo e determinante e soprattutto molto più affidante ».
— 604 — valutazione della prova, tuttavia vi è comunque il rischio che il giudice attribuisca al dato peritale un grado di affidabilità maggiore rispetto, ad esempio, ad una testimonianza e che quindi nella sua decisione il primo rivesta un ruolo predominante (12). D’altra parte, occorre sempre tener presente che vi è una netta separazione tra il campo scientifico e quello giudiziario e che per quanto possa la scienza aver compiuto notevoli progressi, in particolar modo nel campo genetico, la perizia deve essere posta sullo stesso piano degli altri mezzi di prova, poiché nel nostro ordinamento non vige un sistema di prove legali. 2. Un antecedente di segno diametralmente opposto: la sent. n. 54 del 1986. — Per una corretta analisi della sentenza che si annota occorre prendere le mosse proprio dalla richiamata sentenza del 1986 per evidenziare le ragioni che allora portarono a quella decisione. Successivamente verranno poste in luce ed esaminate le motivazioni alla base della sent. n. 238 del 1996. Con la sent. n. 54 del 1986 la Corte Costituzionale, in risposta ad una questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice istruttore presso il Tribunale di Torino, nel corso di un procedimento penale per il delitto di alterazione di stato, aveva dichiarato « infondata, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 146, 314, 317 c.p.p., nella parte in cui prevedono la facoltà del giudice istruttore di scegliere, senza limite alcuno, qualsiasi indagine peritale diretta all’accertamento della verità e di fare uso, in presenza di contraria volontà del periziando, della coazione fisica, tramite la forza pubblica, per l’espletamento effettivo del mezzo istruttorio (nella specie prelievo ematico), in riferimento all’art. 13, secondo e quarto comma, Cost. » (13). Dunque la Corte non ritenne che il prelievo ematico coattivo fosse in contrasto con i principi costituzionali in tema di libertà personale. L’art. 13, secondo comma, Cost. vuole che la restrizione della libertà personale avvenga « per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge »: tali condizioni sarebbero state osservate, dal momento che avrebbero integrato i « casi » previsti dalla legge « le ragioni relative alla giustizia penale e all’accertamento della verità che la concerne » (14) ed, inoltre, la perizia medico-legale sarebbe stata « certamente uno dei ‘‘modi’’ legittimi mediante i quali è lecito al giudice previa congrua motivazione attuare una ‘‘qualsiasi restrizione della libertà personale’’ nei limiti » (15) delineati dalla Carta costituzionale. La Corte rilevò che « il prelievo ematico, ormai di ordinaria amministrazione nella pratica medica, talché può essere persino effettuato da infermiere professionale, né lede la dignità o la psiche della persona, né mette in alcun modo in pericolo la vita, l’incolumità o la psiche della persona, salvo casi patologici eccezionali che il perito medico-legale sarebbe facilmente in grado di rilevare » (16). Inoltre, il prelievo ematico coatto non avrebbe violato nemmeno l’art. 13, quarto comma, Cost., dal momento che « le violenze cui quel comma fa riferimento sono (12) Cfr. A. GARGANI, I rischi e le possibilità dell’applicazione dell’analisi del DNA nel settore giudiziario, cit., p. 1324, il quale rileva che « la novità di attribuire le valutazioni all’esperto rischia in un settore tecnico complesso come quello del test DNA di rarefare di fatto il ruolo sostanziale del giudice ». (13) Corte Cost., sent. n. 54 del 1986, cit., p. 716. L’art. 13, secondo comma, Cost. prevede che « non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge »; il quarto comma del medesimo articolo dispone che « è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà ». (14) Corte Cost., sent. n. 54 del 1986, cit., p. 720. (15) Corte Cost., sent. n. 54 del 1986, cit., p. 720. (16) Corte Cost., sent. n. 54 del 1986, cit., p. 720.
— 605 — evidentemente quelle illecite..., e non le minime prestazioni personali imposte all’imputato o a terzi, da un normale e legittimo mezzo istruttorio » (17). Le motivazioni addotte dalla Consulta sollevano notevoli perplessità (18). Quanto alla definizione di ciò che integrava il requisito dei « casi » e « modi » mediante i quali era lecito per il giudice attuare una qualsiasi restrizione della libertà personale, essa appare troppo generica ed elusiva della garanzia costituzionale. Si attribuiva, infatti, al giudice un enorme potere discrezionale, dal momento che questi poteva comprimere la libertà personale del soggetto emettendo un provvedimento restrittivo della stessa, al fine di disporre il prelievo ematico coatto, sulla base di motivazioni alquanto generiche circa i « casi » e i « modi » (19). Infatti, l’unico limite individuato dalla Corte Costituzionale risultava inerente ai mezzi istruttori « che mettessero in pericolo la vita o l’incolumità o risultassero lesivi della dignità della persona o invasivi dell’intimo della sua psiche » o mettessero « in pericolo la salute del periziando » (20). Nonostante tali considerazioni critiche, la decisione della Corte Costituzionale di dieci anni fa era in linea con lo spirito e l’assetto del processo all’epoca vigente. L’art. 299 c.p.p. abr. prevedeva infatti, in capo al giudice istruttore, l’obbligo di compiere « tutti e soltanto quegli atti che in base agli elementi raccolti e allo svolgimento dell’istruzione appaiono necessari per l’accertamento della verità »: con un simile imperativo era forse impossibile attendersi una diversa decisione dalla Consulta. Scomparso dall’attuale codice di procedura penale ogni riferimento ad un obbligo di compiere atti utili all’accertamento della verità e mutato completamente il ruolo del giudice, da attivo investigatore ad imparziale arbitro, era lecito attendersi una specifica regolamentazione, in ottemperanza al dettato costituzionale, circa i casi e i modi in cui possa essere ristretta la libertà personale qualora si debba procedere ad una perizia nel processo attuale, nel quale maggiore attenzione, almeno sulla carta, è riservata ai diritti e alle garanzie dell’individuo. Non vi ha provveduto il legislatore e, quindi, è intervenuta la Corte Costituzionale che, con la sentenza che si annota, ha preso una decisa e coraggiosa posizione a favore della libertà personale. 3. La sentenza della Corte Cost. n. 238 del 1996. — Il ragionamento che ha portato la Corte a dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 224, secondo comma, c.p.p. inizia con una verifica di compatibilità del disposto di tale ultimo (17) Corte Cost., sent. n. 54 del 1986, cit., p. 721. (18) Per un’accurata analisi della sent. n. 54 del 1986, si veda A. FERRARO, Il prelievo ematico coattivo e la violenza lecita, in Cass. pen., 1986, p. 870; F. MASTROPAOLO, Prelievi del sangue a scopo probatorio e poteri del giudice, in Riv. it. med. leg., 1987, p. 1081; A. GARGANI, I rischi e le possibilità dell’applicazione dell’analisi del DNA nel settore giudiziario, cit., p. 1322; E. BERNARDI, Prove ematologiche, poteri coercitivi del giudice e libertà personale, in Leg. pen., 1986, p. 365; N. MAZZACUVA-G. PAPPALARDO, Prelievo ematico coattivo e accertamento della verità: spunti problematici, in Foro it., 1987, I, p. 717. (19) Secondo G. FRIGO, La Consulta « salva » la libertà personale: il legislatore intervenga subito senza ambiguità, in Guida al diritto-Il Sole 24 ore, 1996, n. 30, p. 66, « si proponeva una tutela ‘‘debole’’ dei valori costituzionali evocati, definendo un’area vastissima di possibili compromissioni, consegnate alla discrezionalità giudiziale, di cui venivano fissati semplicemente i limiti negativi ». (20) Corte Cost., sent. n. 54 del 1986, cit., p. 719-720. Oltre ai rilievi sinora avanzati a proposito della sent. n. 54 del 1986, un problema connesso al prelievo ematico coatto che rimane al di fuori dell’ambito processuale, ma che merita di essere evidenziato, è quello deontologico per il medico che esegue il prelievo. A tale proposito, si veda P. ZANGANI, Diritti della persona e prelievi biologici: aspetti medico-legali, cit., pp. 543-544, il quale rileva che « anche se il sanitario non collabora direttamente e personalmente agli atti di svestizione e coercizione fisica, resta pur sempre il fatto che il prelievo di sangue dev’essere svolto in condizioni abnormi e con il rischio di determinare qualche lesione traumatica, sia pure modesta, dei tegumenti e delle pareti vasali, a prescindere dall’agopuntura ».
— 606 — articolo con la prescrizione contenuta nell’art. 13, secondo comma, Cost., laddove si prevede la doppia riserva di legge e di giurisdizione. Il prelievo ematico coatto comporta non solo una restrizione alla libertà dell’individuo, ma addirittura un’invasione della « sfera corporale della persona... e di quella sfera sottrae, per fini di acquisizione probatoria nel processo penale, una parte che è, sì, pressoché insignificante, ma non certo nulla » (21). Per questo motivo, essendo operante la riserva assoluta di legge, devono essere determinati con precisione i « casi » e i « modi » in cui è possibile legittimamente comprimere la libertà personale. La Corte rileva che « né tale rinvio alla legge può tradursi in un ulteriore rinvio da parte della legge stessa alla piena discrezionalità del giudice che l’applica, richiedendosi invece una previsione normativa idonea ad ancorare a criteri obiettivamente riconoscibili la restrizione della libertà personale » (22). Come giustamente è stato evidenziato in dottrina, la legge non può eludere il disposto costituzionale circa l’esatta determinazione dei casi e modi in cui procedere alla restrizione della libertà personale « conferendo un troppo ampio potere di ‘‘identificazione’’ dei casi e dei modi all’organo preposto all’applicazione della legge » (23). La Corte analizza brevemente anche due suoi precedenti. Il primo è rappresentato dalla già citata sent. n. 54 del 1986, le cui conclusioni vengono decisamente rimeditate, « tenuto conto anche della maggior forza con cui il valore della libertà personale si è affermato nel nuovo codice di procedura penale, ispirato in modo particolarmente accentuato al favor libertatis » (24). Viene inoltre considerata la recente sent. n. 194 del 1996 (25) che ha escluso l’illegittimità costituzionale di disposizioni contenute nel codice della strada disciplinanti l’accertamento dello stato di ebbrezza dovuto ad alcool o a sostanze stupefacenti (26). Sempre a parere della Corte, « le ragioni relative alla giustizia penale, consistenti nell’esigenza di acquisizione della prova del reato... rappresentano in realtà soltanto la finalità della misura restrittiva e non anche l’indicazione dei ‘‘casi’’ voluta dalla garanzia costituzionale » (27). E la considerazione « che il prelievo ematico coattivo non possa essere disposto quando lede la dignità della persona o metta in pericolo la vita o l’integrità fisica della stessa costituisce null’altro che il (21) Corte Cost., sent. n. 238 del 1996, cit., p. 30. (22) Corte Cost., sent. n. 238 del 1996, cit., p. 30. (23) A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali, Parte speciale, II ed., Padova, 1992, p. 189. (24) Corte Cost., sent. n. 238 del 1996, cit., p. 30. (25) Corte Cost., sent. 12 giugno 1996 n. 194, in G.U., I serie speciale, 19 giugno 1996 n. 25, p. 20. (26) In tale sentenza la Corte ha escluso che l’art. 187, secondo comma, del codice della strada, nella parte in cui prevede che « in caso di incidente o quando si ha ragionevolmente motivo di ritenere che il conducente del veicolo si trovi sotto l’effetto conseguente all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope gli agenti di polizia stradale » abbiano la facoltà di accompagnare il soggetto presso idonee strutture per il prelievo di liquidi biologici, sia lesivo della garanzia prevista dall’art. 13, primo comma, Cost. Nel motivare tale assunto, la Corte Costituzionale rileva che « il legislatore ha nel nuovo codice della strada opportunamente distinto lo stato di ebbrezza da alcool, dalle predette condizioni di alterazione; ed in relazione a queste ultime ha inteso fissare i termini procedimentali di un articolato controllo che richiede conoscenze tecniche specialistiche, segnatamente per quanto riguarda la qualificazione delle sostanze. All’agente è rimessa esclusivamente una valutazione nel momento iniziale, in ordine a circostanze oggettive e sintomatiche che, per la loro contingenza, egli soltanto può apprezzare; ed a lui, conseguentemente, viene attribuita la facoltà di accompagnare il conducente. In tal modo la libertà personale di quest’ultimo non è affatto violata, considerato che egli non subisce coartazione alcuna, potendosi rifiutare in caso di ritenuto abuso da parte dell’agente ». Inoltre, sempre ad avviso della Corte, « la dettagliata normativa di cui s’è detto non consente neppure di ipotizzare la violazione della riserva di legge prevista nel secondo comma dell’evocato art. 13 ». Per un commento a tale sentenza, si veda S. SCOTTI, Se il giudice verifica l’assenza dei presupposti il rifiuto al prelievo non costituisce reato, in Guida al diritto-Il Sole 24 ore, 1996, n. 26, p. 63. (27) Corte Cost., sent. n. 238 del 1996, cit., p. 31.
— 607 — riflesso dei limiti negativi dedotti dall’inquadramento della misura specifica nel contesto generale dell’ordinamento, ma non realizza la indicazione al positivo dei ‘‘modi’’, come prescritto dall’art. 13, secondo comma, della Costituzione » (28). L’art. 224, secondo comma, c.p.p. è quindi troppo generico laddove prevede in capo al giudice la possibilità di adottare qualsiasi provvedimento necessario all’esecuzione della perizia: non sono tipizzati né i casi e i modi per procedere alla restrizione di libertà necessaria ai fini dell’accertamento peritale, né i provvedimenti da adottare a tale scopo. Si può pertanto concludere l’analisi della sentenza in oggetto rilevando che l’eterna lotta tra le esigenze di difesa sociale e la tutela dei diritti che devono essere assolutamente garantiti all’individuo, ha visto in questo caso il prevalere di quest’ultima. Ora al legislatore è affidato il compito di colmare la lacuna lasciata dalla sentenza della Corte Costituzionale, al fine di permettere il ricorso ad un mezzo di prova di indubbia utilità — la perizia ematologica (29) — nel rispetto, pur sempre, della libertà dell’individuo che deve essere garantita al di là di ogni esigenza di accertamento della verità. 4. Effetti della sent. n. 238 del 1996 sui procedimenti in corso. — Un problema di controversa soluzione posto dalla sentenza in commento è quello relativo alla possibilità o meno di utilizzare nei procedimenti in corso i risultati di una perizia ematologica effettuata in seguito a prelievo di sangue coattivo disposto dal giudice precedentemente alla declaratoria di illegittimità costituzionale. La decisione della Consulta nulla chiarisce al riguardo, limitandosi a precisare che « fino a quando il legislatore non sarà intervenuto ad individuare i tipi di misure restrittive della libertà personale che possono dal giudice essere disposte allo scopo di consentire (anche contro la volontà della persona assoggettata all’esame) l’espletamento della perizia ritenuta necessaria ai fini processuali, nonché a precisare i casi ed i modi in cui le stesse possono essere adottate — nessun provvedimento di tal genere potrà essere disposto » (30). Al fine di risolvere il problema occorre innanzitutto evidenziare quali sono gli effetti delle sentenze che dichiarano l’illegittimità costituzionale di una norma. L’art. 136 Cost. prevede che qualora la Corte dichiari « l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione »; mentre l’art. 30, terzo comma, della l. n. 87 del 1953 prevede che « le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione » (31). Nessuna di tali due disposizioni risolve espressamente il quesito circa gli effetti della pronuncia, cioè se questi si producano ex nunc oppure ex tunc: tale compito è stato quindi affidato all’interprete. Nel caso in cui si aderisca alla corrente interpretativa — che verrà tra breve illustrata — secondo la quale gli effetti della decisione si producono ex nunc, saranno salvi gli atti compiuti anteriormente alla pronuncia di illegittimità costitu(28) Corte Cost., sent. n. 238 del 1996, cit., p. 31. (29) Sui rapporti tra perizia ematologica e « accertamenti per l’individuazione di patologie sessualmente trasmissibili » ex art. 16 l. n. 66/96, si veda N. GALANTINI-M. VIRGILIO, sub art. 16, in AA.VV., Commentario delle « Norme contro la violenza sessuale », a cura di A. CADOPPI, Padova, 1996, p. 323 ss. Sui rapporti tra tale legge e la pronuncia della Corte Cost. n. 238/96, si veda R.E. KOSTORIS, Prelievi ematici coattivi nei procedimenti per violenza sessuale dopo la sentenza n. 238/96, in Dir. pen. proc., 1996, p. 1522; D. VIGONI, Corte Costituzionale, prelievo ematico coattivo e test del DNA, in questa Rivista, 1996, p. 1037. (30) Corte Cost., sent. n. 238 del 1996, cit., p. 31. (31) L. 11 marzo 1953 n. 87, in G.U. 14 marzo 1953 n. 62, p. 984.
— 608 — zionale. Al contrario, se si aderisce alla tesi dell’efficacia ex tunc — che verrà analizzata successivamente — si dovrà concludere nel senso di ritenere invalidi gli atti compiuti precedentemente alla declaratoria di incostituzionalità. A sostegno dell’opinione secondo cui sarebbero salvi gli atti compiuti anteriormente alla declaratoria di illegittimità costituzionale, si è fatto riferimento al principio tempus regit actum, in base al quale, per verificare la validità di un atto, si ha riguardo alla legge vigente nel momento in cui l’atto fu compiuto (32). Tale posizione è stata sostenuta dalla Corte di Cassazione in una serie di decisioni adottate dalle singole sezioni (33) ed infine confermate da una pronuncia delle Sezioni Unite nel dicembre 1965 (34). In questa sentenza la Corte, facendo riferimento alla disposizione contenuta nell’art. 30, terzo comma, l. n. 87 del 1953, operò una distinzione tra « applicazione diretta da parte dell’esecutore dell’atto processuale e l’applicazione, che può qualificarsi indiretta, di colui che effettua il controllo » (35), giungendo alla conclusione che « il divieto di ulteriore applicazione della norma dichiarata costituzionalmente illegittima riguarderebbe soltanto i casi di applicazione diretta, mentre non sarebbe vietato utilizzarla in sede di esercizio del controllo, cioè dare ad essa applicazione indiretta » (36). La Suprema Corte, ritenendo operante il principio tempus regit actum, dedusse « che una volta compiuto l’atto, esso resta fermo nel corso dell’intero giudizio, anche dopo la dichiarazione di illegittimità della norma in base alla quale era stato compiuto: nella diretta applicazione da parte del magistrato esecutore la norma aveva esaurito la sua efficacia, sì che la successiva invalidazione della norma stessa è giuridicamente indifferente, nel processo, rispetto a quell’atto » (37). A sostegno della tesi opposta, in base alla quale le sentenze della Corte Costituzionale che dichiarano l’illegittimità di una norma avrebbero effetto retroattivo in tutti i procedimenti tuttora in corso (38), si possono addurre valide motiva(32) Cfr. Corte Cost., sent. 2 aprile 1970 n. 49, in Giur. Cost., 1970, p. 560, in cui si rileva che « tempus regit actum vuol dire che la validità degli atti è e rimane regolata dalla legge vigente al momento della loro formazione e perciò, lungi dall’escludere, postula al contrario che a tale legge gli operatori giuridici debbano fare riferimento quando siano da valutare atti anteriormente compiuti. Postula, in altre parole, che, se non fosse intervenuta pronuncia di illegittimità costituzionale di norme disciplinanti la formazione di determinati atti, proprio alla stregua di tali norme dovrebbe in prosieguo operarsi, se e quando tuttora possibile, la valutazione degli atti posti in essere nel tempo in cui quelle erano in vigore: ciò che, invece, è vietato dopo la pubblicazione della sentenza di questa Corte, che delle norme stesse abbia accertato erga omnes la incostituzionalità ». Più recentemente, cfr. Cass., sez. VI, 25 ottobre 1990, in Cass. pen., 1992, 656, p. 1266, in cui si rileva che « le sentenze della Corte Costituzionale che dichiarano la illegittimità di una norma processuale non rendono invalidi gli atti compiuti prima della declaratoria stessa, ma, in base al principio tempus regit actum, trovano applicazione dopo la pubblicazione del dispositivo nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica agli atti che ancora devono essere espletati o ai fatti e ai rapporti in via di svolgimento e non ancora esauriti ». (33) Cfr. Cass., sez. III, 1o luglio 1965, in questa Rivista, 1965, p. 1102; Cass., sez. IV, 6 luglio 1965, in questa Rivista, 1965, p. 1101; Cass., sez. IV, 20 ottobre 1965, in questa Rivista, 1965, p. 1101. (34) Cass., sez. un., 11 dicembre 1965, in Foro it., 1966, II, p. 65, secondo cui « nella istruzione penale sommaria sono irrilevanti la mancata comunicazione della ordinanza ammissiva della perizia e la mancata notificazione dell’avviso del deposito della medesima al difensore dell’imputato, se la perizia è stata compiuta in tempo anteriore al 4 luglio 1965 (giorno successivo alla pubblicazione, nella Gazzetta Ufficiale, del dispositivo della sentenza 26 giugno 1965 n. 52, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 392, 1o comma, cod. proc. penale). È manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 30, 3o comma, della legge 11 marzo 1953 n. 87, interpretato nel senso che se ne debba dedurre la irretroattività delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale, in quanto questa interpretazione è evidentemente conforme all’art. 136 della Costituzione ». (35) Cass., sez. un., 11 dicembre 1965, cit., p. 76. (36) A. PIZZORUSSO, Coincidentia oppositorum?, in Foro it., 1966, II, p. 71. (37) Cass., sez. un., 11 dicembre 1965, cit., p. 77. (38) Cfr. M. VESSICHELLI, Incostituzionalità dei procedimenti direttissimi atipici ed effetti sui procedimenti in corso, in Cass. pen., 1993, 1030, p. 1753, la quale rileva che il principio di retroattività delle
— 609 — zioni. Per replicare alla corrente interpretativa esposta in precedenza, si ritiene che il principio tempus regit actum, applicabile nel campo della successione tra leggi processuali, non sia idoneo a risolvere il caso di norme dichiarate incostituzionali (39). Come giustamente ha rilevato la dottrina, è « evidente la diversità che, già sotto un profilo concettuale, si presenta fra la fattispecie della declaratoria d’incostituzionalità e quella dell’abrogazione; quest’ultima trova il suo fondamento ... nel principio di inesauribilità della fonte, nascente dalla necessità di adeguare la normazione positiva alle esigenze di una realtà storicamente mutevole », mentre « la prima, invece, deriva da un giudizio di difformità della norma ordinaria da una superiore norma costituzionale, giudizio che si risolve nell’accertamento di una preesistente invalidità della prima » (40). Nello stesso senso si espresse anche la Corte Costituzionale con la sent. n. 127 del 1966, laddove sostenne che « il riconoscimento del carattere generale, obbiettivo ed erga omnes degli effetti derivanti dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma mal si concilia con le regole che disciplinano l’abrogazione, per la quale rimane pienamente valida la norma abrogata fino all’entrata in vigore di quella abrogante, mentre la dichiarazione di illegittimità colpisce la norma fin dalla sua origine, eliminandola dall’ordinamento e rendendola inapplicabile ai rapporti giuridici, presentandosi con carattere sostanzialmente invalidante, sicché le conseguenze della dichiarazione stessa sono assimilabili a quelle dell’annullamento, con incidenza quindi, in coerenza con gli effetti di tale istituto, anche sulle situazioni pregresse verificatesi nello svolgimento del giudizio nel quale è consentito sollevare, in via incidentale, la questione di costituzionalità, e salvo il limite invalicabile del giudicato, con le eccezioni espressamente previste dalla legge, e quelle derivanti da situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili » (41). Dunque, il principio tempus regit actum trova applicazione nel campo della successione tra leggi, dove una legge successiva abroga norme che non sono in contrasto con l’ordinamento, ma che vengono eliminate « in conseguenza di una valutazione di opportunità politica compiuta dal legislatore » (42). Qualora, insentenze di illegittimità è un principio « ormai affermatosi in termini di assoluta prevalenza e sulla base di argomentazioni da ritenere pienamente condivisibili ». (39) Cfr. G. CONSO, La « doppia pronuncia » sulle garanzie della difesa nell’istruzione sommaria: struttura ed efficacia, in Giur. cost., 1965, p. 1148 ss., il quale sostiene l’efficacia ex tunc delle pronunce di illegittimità costituzionale rispetto ai giudizi in corso, contestando, inoltre, la validità del principio tempus regit actum nei casi di declaratorie di incostituzionalità. (40) P. MOSCARINI, L’efficacia retroattiva delle sentenze costituzionali sugli atti del processo penale, in questa Rivista, 1974, p. 612. (41) Corte Cost., sent. 29 dicembre 1966 n. 127, in Giur. cost., 1966, p. 1699. Si veda, per un’analisi critica della sopracitata sentenza della Corte Costituzionale, F. MODUGNO, Una questione di costituzionalità inutile: è illegittimo il penultimo capoverso dell’art. 30 l. 11 marzo 1953 n. 87?, in Giur. cost., 1966, p. 1723; V. CAVALLARI, Una fondamentale sentenza sull’efficacia nel tempo delle declaratorie d’illegittimità costituzionale, in questa Rivista, 1967, p. 346. Per quanto riguarda le pronunce della Corte di Cassazione a sostegno di tale tesi si veda, Cass., sez. un., 7 luglio 1984, in Giur. it., 1985, II, p. 178, in cui si sostiene che « la dichiarazione di illegittimità costituzionale ha efficacia invalidante e non abrogativa e produce conseguenze simili a quella dell’annullamento. Detta pronuncia, cioè, esplica i suoi effetti non soltanto per il futuro ma anche retroattivamente nei confronti di fatti e di rapporti instauratisi nel periodo in cui la norma incostituzionale era vigente, con esclusione delle situazioni giuridiche ormai consolidate, come tali insuscettibili di essere rimosse o modificate (cosiddetti rapporti esauriti). Ne consegue l’obbligo per il giudice di non applicare la norma dichiarata incostituzionale non soltanto nel procedimento in cui è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale, ma in ogni altro giudizio in cui la norma stessa possa essere assunta a canone di valutazione di qualsiasi fatto o rapporto anche se antecedente alla data di pubblicazione della suddetta sentenza e sempre che trattasi di fatti o rapporti ancora in via di svolgimento, non produttivi, cioè, di effetti giuridici definitivi ». Cfr., inoltre, Cass., sez. III, 21 febbraio 1984, in Cass. pen., 1984, 1646, p. 2435; Cass., sez. III, 14 marzo 1984, in Cass. pen., 1985, 739, p. 1187; Cass., sez. II, 25 gennaio 1988, in Cass. pen., 1989, 1326, p. 1539; Cass., sez. V, 15 giugno 1992, in Cass. pen., 1993, 1018, p. 1741. (42) G. PITRUZZELLA, Ancora sugli effetti della pronuncia di illegittimità costituzionale di norme
— 610 — vece, una norma venga dichiarata incostituzionale ciò significa che la stessa, fin dalla sua origine, si è posta apertamente in contrasto con principi di rango costituzionale. Come giustamente ha rilevato la dottrina, se « si ammettesse al contrario l’efficacia meramente abrogatoria, e perciò irretroattiva, della sentenza di accoglimento, tale atto, risolvendosi in una convalida per il passato della legge incostituzionale, consacrerebbe definitivamente l’avvenuta lesione dei diritti inviolabili » (43). Applicando le due tesi sopraesposte, si può fornire una risposta al quesito formulato in precedenza circa la possibilità o meno per il giudice di utilizzare i risultati di una perizia effettuata in seguito a prelievo ematico coatto nei procedimenti in corso al momento della pronuncia della Corte Cost. n. 238 del 1996. Un ulteriore aspetto che occorre tenere presente a tal fine, è quello della configurabilità della perizia come atto complesso. Se si analizza attentamente tale mezzo di prova, si può notare che se di regola il perito deve rispondere immediatamente e oralmente ai quesiti che gli sono stati sottoposti, in tal modo rispettando i principi di immediatezza e oralità tipici del rito accusatorio, nella maggior parte dei casi, tuttavia, egli necessita di un notevole lasso di tempo al fine di svolgere l’incarico affidatogli mediante l’espletamento di una serie di atti a ciò destinati. Infatti, nel caso ad esempio di perizia ematologica, il perito, una volta nominato e concluse le formalità di conferimento dell’incarico, fissa una data al fine di poter procedere al prelievo ematico, per poi poter analizzare i campioni di sangue e, infine, fornire la relazione peritale. Esaminiamo dunque alcune ipotesi che si possono verificare nei procedimenti in corso a seguito della sentenza della Corte Costituzionale. Una prima ipotesi si ha qualora la perizia sia stata disposta, si siano già svolte le formalità circa l’affidamento dell’incarico, ma la pronuncia della Corte Costituzionale sia intervenuta prima che il perito abbia effettuato il prelievo ematico coatto: a fronte di un rifiuto del soggetto di sottoporvisi volontariamente, il giudice, a seguito della pronuncia n. 238 del 1996, non potrà disporre di mezzi coercitivi a tal fine e, quindi, per il perito sarà impossibile svolgere l’incarico che gli era stato affidato. Una seconda ipotesi si ha nel caso in cui il prelievo coattivo sia già stato effettuato ma la pronuncia della Corte Costituzionale sia intervenuta prima che il perito fornisca il proprio parere in dibattimento (o in incidente probatorio). In tale caso occorre far riferimento alle due opinioni evidenziate in precedenza: se si aderisce alla tesi della retroattività degli effetti delle sentenze della Corte Costituzionale, si dovrà concludere nel senso di ritenere illegittimo il prelievo ematico già effettuato e quindi il perito non potrà utilizzare quel campione di sangue per l’espletamento della perizia stessa. Meno agevole risulta la risposta a tale interrogativo nel caso in cui si aderisca alla teoria del tempus regit actum. Infatti, se con il termine atto si designa esclusivamente il prelievo ematico coatto, essendo quest’ultimo stato compiuto precedentemente alla declaratoria di incostituzionalità, il perito potrà proseguire nel compito che gli era stato affidato e i risultati della perizia potranno essere acquisiti in dibattimento e utilizzabili dal giudice ai fini della decisione. Al contrario, se con il termine « atto » si intende la perizia nel suo complesso, si dovrà concludere nel senso di ritenerla inutilizzabile. processuali penali: un difficile compromesso tra gli indirizzi giurisprudenziali della Corte costituzionale e della Cassazione, in Cass. pen., 1984, 1646, p. 2443, il quale ritiene inoltre che, al contrario dell’abrogazione, « la sentenza che pronunzia la illegittimità costituzionale di una norma ha per presupposto un vizio che inficia la norma stessa fin dal momento in cui si è realizzato il contrasto con la Costituzione. Pertanto essa non può che avere efficacia ex tunc ». (43) P. MOSCARINI, L’efficacia retroattiva delle sentenze costituzionali sugli atti del processo penale, cit., p. 625.
— 611 — Un terzo caso si potrebbe verificare qualora la perizia sia già stata espletata in sede di incidente probatorio e la pronuncia della Corte Costituzionale sia intervenuta prima dell’inizio del dibattimento. La risposta al quesito circa l’utilizzabilità o meno della perizia, il cui verbale è stato inserito nel fascicolo per il dibattimento ex art. 431, primo comma, lett. d) c.p.p., deve conformarsi alle due tesi in precedenza esposte. Se si giudica applicabile il principio tempus regit actum, i risultati peritali saranno utilizzabili mediante lettura in dibattimento (44). Se, al contrario si opta per la tesi della retroattività degli effetti della sentenza, si dovrà concludere nel senso di ritenere inutilizzabile la perizia già espletata in seguito a prelievo ematico coatto. Tuttavia, le parti potranno ancora chiedere che venga disposta una perizia ematologica nell’esercizio del loro diritto alla prova, ovvero il giudice potrà disporre tale mezzo di prova ex officio, ma qualora il soggetto si rifiuti di sottoporsi al prelievo ematico coatto, nessuna misura restrittiva potrà essere adottata nei suoi confronti e, dunque, il perito si troverà nell’impossibilità di svolgere l’incarico affidatogli. Un’ultima ipotesi riguarda il caso della perizia i cui risultati siano già stati acquisiti in dibattimento nel momento in cui si è avuto l’intervento della Corte Costituzionale. Al fine della risoluzione del problema fin qui analizzato occorre nuovamente rifarsi alle due opinioni interpretative già esposte. Si può concludere questa breve disamina rilevando che, se si aderisce alla tesi dell’efficacia retroattiva delle sentenze della Corte Costituzionale, il giudice non potrà, nei procedimenti in corso, utilizzare la perizia espletata, precedentemente alla sent. n. 238 del 1996, in seguito al prelievo ematico coatto. La Corte Costituzionale ha decretato che il prelievo ematico coatto è illegittimo, lesivo del fondamentale diritto alla libertà personale, nel momento in cui viene eseguito senza una specifica regolamentazione ad opera della legge circa i « casi » e i « modi » in cui deve essere compiuto. Se la libertà personale sancita dall’art. 13 Cost., la prima e la più importante norma in tema di diritti del singolo, è compromessa dalla possibilità di operare un prelievo ematico coattivo in assenza di una dettagliata disciplina e se ciò è stato riconosciuto dalla Corte Costituzionale, non si vede come il giudice possa, nei procedimenti in corso, utilizzare una prova che è il risultato di un atto ritenuto a ragione tanto lesivo del diritto fondamentale di ogni individuo, solo perché la perizia è stata disposta precedentemente alla pronuncia di illegittimità costituzionale. MARIUCCIA GIACCA Dottoranda di ricerca in Diritto processuale penale comparato Università di Trento
(44) Secondo l’art. 511, terzo comma, c.p.p. « la lettura della relazione peritale è disposta solo dopo l’esame del perito ».
— 612 — CASSAZIONE PENALE — Sez. VI — 14 dicembre 1994 Pres. Vessia — Rel. Guida — P.M. (concl. conf.) — Ric. Rodolico Interesse privato in atti d’ufficio — Indebito esercizio di attività professionale privata da parte del Rettore di un’Università — Inadempimento degli obblighi di professore universitario e di rettore — Condotta meamente omissiva — Insussistenza (C.p. art. 324, abrogato). L’atto d’ufficio di cui all’art. 324 c.p. (abrogato) non può identificarsi né nell’attività privatistica di medico chirurgo, svolta abusivamente dall’imputato, né nell’ommissione in cui era incorso lo stesso nella qualità di rettore. Può essere penalmente apprezzato, come atto giuridico amministrativo, il cosiddetto silenzio rifiuto, che solitamente viene addotto come prova della rilevanza penale dell’ommissione, ma ad esso possono aggiungersi quelle omissioni del p.u. che determinano una decadenza, una prescrizione, o l’usucapione da parte di terzi, con conseguente mutazione di situazioni giuridiche facenti capo alla P.A. o a soggetti privati; al di fuori di questi casi, l’ommissione non può essere apprezzata come atto giuridico amministrativo e dunque non può sussistere la « presa d’interesse » di cui al previgente art. 324 c.p. (1). (Omissis). — Premesso che la sentenza impugnata ha esattamente ricostruito gli obblighi che incombevano al Rodolico, nella sua duplice qualità di medico universitario a tempo pieno e di rettore dell’università, e premesso che l’imputato aveva violato i primi, ed era inadempiente ai secondi, la problematica penale, prescindendo dalla valutazione amministrativa e disciplinare di tali condotte, va limitata esclusivamente alla verifica della esistenza di fattispecie penali applicabili alle condotte censurate. Ritiene la Corte che tale verifica debba essere conclusa negativamente, non già sotto il profilo, più volte invocato, del nemo tenetur se detegere, perché tale principio ha una valenza generale ed assoluta nel campo del diritto processuale, mentre nel campo del diritto penale sostanziale ne va ricercata di volta in volta la fonte specifica, da ricercarsi nelle scriminanti di diritto comune o speciale, e neppure lo stesso ricorrente invoca stato di necessità, legittima difesa o altre tipiche esimenti, quanto sotto il profilo che, né l’art. 324 c.p., originariamente contestato, né i vigenti artt. 323 e 328 c.p. sono applicabili alla fattispecie. La sentenza impugnata parte dalla considerazione che anche le condotte meramente omissive del pubblico ufficiale potevano, in precedenza, integrare il reato di interesse privato in atti di ufficio, e possono, attualmente, integrare il reato di abuso di ufficio. Diligentemente i giudici di appello non si nascondono le obiezioni che a tale tesi possono venir mosse, con particolare riguardo al problema della causalità, ex art. 40 comma 2 c.p., ma ritengono di superarle affermando che il generale principio penale della causalità mediante omissione ‘‘deve fare i conti’’ con le peculiarità del diritto amministrativo, ‘‘ alla cui stregua si amministra sia con atti positivi, sia con atti negativi, sia... senza atti formali’’. Tale affermazione, peraltro obiettivamente ridimensionata dalla stessa Corte di appello con gli esempi successivamente addotti, va correttamente interpretata. Essa non può certo significare che, nel campo pubblicistico, sempre e comunque il
— 613 — non amministrare equivalga all’amministrare, o che — ipotesi equivalente — per il solo fatto che esista un organo munito di funzioni amministrative, esista anche una fenomenologia giuridica amministrativa, perché qualunque inerzia od ommissione dell’organo si trasforma in concreta gestione amministrativa. Ciò può essere vero nel giudizio economico, politico o disciplinare sulla condotta del P.U., per gli effetti conseguenti ed i giudizi specifici di valore che se ne possano trarre, ma non vale sotto il profilo giuridico, che solo interessa in questa sede, sia in una prospettiva amministrativistica, sia, ed è ciò che più conta, in una prospettiva penalistica. Ai fini giuridici ha valore di fatto rilevante solo ciò che incida su una situazione giuridica, provocando effetti costitutivi, modificativi o estintivi della stessa. Si spiega pertanto perché possa essere penalmente apprezzato, come atto giuridico amministrativo, il cosidetto silenzio rifiuto, che solitamente viene addotto come prova della rilevanza penale dell’omissione, ma ad esso potrebbero aggiungersi quelle omissioni del P.U. che determinano una decadenza, una prescrizione o l’usucapione da parte di terzi, con conseguente mutazione di situazioni giuridiche facenti capo alla P.A. o a soggetti privati. Alla stregua di tali principi deve escludersi che il fatto attribuito al Rodolico possa integrare il reato di cui al previgente art. 324 c.p., contestato all’imputato. Esso invero richiedeva la ‘‘presa di interesse’’ nell’atto di ufficio; il quale ultimo non poteva identificarsi né nell’attività privatistica di medico chirurgo, svolta abusivamente dall’imputato, né, come si è visto, nell’ommissione in cui era incorso nella qualità di rettore. L’insussistenza del reato al momento della realizzazione della condotta rende peraltro irrilevante la possibilità che essa possa inquadrarsi nel nuovo reato di cui all’art. 323 c.p., che non richiede espressamente l’atto di ufficio, ma il solo abuso, concetto tradizionalmente collegabile all’esistenza di un diritto o (trattandosi di P.A.) di un potere, e non potendosi sicuramente escludere la possibilità di un abuso anche nella mera astensione dall’esercizio del potere, prescindendo dalla realizzazione di una condotta rilevante, atta alla mutazione di una situazione giuridica. Altrettanto irrilevante l’esame della possibilità che la condotta del Rodolico potesse integrare il precedente reato di omissione di atti di ufficio, prevista dalla vecchia formulazione dell’art. 328 c.p., posto che la norma vigente ha ridotto le ipotesi rilevanti di omissione a ben tipicizzate fattispecie, che esulano dal caso in esame. Poiché pertanto non esistono figure legali di reato applicabili alla fattispecie, la sentenza della Corte di appello di Catania va annullata senza rinvio, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. In riferimento al reato di cui al capo b), il ricorso del P.G., che risulta regolarmente presentato a mezzo di raccomandata, è fondato, nei termini appresso indicati. Per quanto attiene al ricorso del Rodolico, va rilevato che i motivi appaiono superati ed assorbiti per effetto della qualificazione giuridica che si attribuisce alla fattispecie contestata, in accoglimento del ricorso del P.G. Come più volte ritenuto da questa Corte (da ultimo Cass. 16 maggio 1991, Burgaretto), realizza il reato di peculato per distrazione — ipotesi criminosa che dopo le modifiche apportate agli artt. 314 e 323 c.p. dalla legge n. 86 del 1990 è
— 614 — confluita nell’ultima delle dette norme incriminatrici — il pubblico ufficiale il quale utilizzi in proprio le prestazioni di manodopera da lui dipendente e retribuita dalla P.A., perché in tal modo si attua la distrazione del pubblico denaro speso dall’amministrazione senza alcuna pubblica utilità. Tale orientamento giurisprudenziale va confermato, in quanto non appare inficiato dalla peraltro lunga e complessa motivazione della sentenza impugnata. I profili essenziali e pertinenti delle argomentazioni dei giudici di appello si riducono alle considerazioni che il pubblico ufficiale, che consenta il pagamento della retribuzione al dipendente da parte dell’amministrazione, non si appropria di niente, mentre risparmia solo una spesa, e che il danno che il fatto arreca alla pubblica amministrazione è ben superiore al compenso ricevuto dal dipendente. Il secondo argomento è del tutto apparente, perché in tutti i reati può esservi un danno che trascenda il danno criminale tipico, e ciò non è di per sé sufficiente ad escludere la fattispecie configurata, tranne la possibilità di un reato complesso o di altro fenomeno di assorbimento, che in questo caso non appaiono ipotizzabili. Il primo argomento è del pari irrilevante perché il fatto che il pubblico ufficiale non si appropri della somma non esclude che la sua condotta determini la distrazione della stessa in favore del dipendente per finalità estranea agli interessi della pubblica amministrazione. Che tale fatto poi renda possibile anche un risparmio di spesa personale per il pubblico dipendente è, questo si, elemento ulteriore ed estraneo alla struttura del reato, ma non per questo idoneo ad escluderne la sussistenza. La sentenza va pertanto annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Catania, in relazione al capo b), qualificato il fatto originariamente contestato come peculato per distrazione, ed ora come abuso di ufficio ex art. 323, comma 2 c.p.. P.Q.M. — La Corte, annulla senza rinvio l’impugnata sentenza in ordine al capo a) dell’imputazione, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Rigetta nel resto il ricorso del Rodolico. In accoglimento del ricorso del P.G., qualificato il fatto originariamente contestato di cui al capo b), come peculato per distrazione, ed ora come abuso di ufficio ex art. 323 comma 2 c.p., annulla la sentenza limitatamente a detto reato, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Catania.
—————— (1)
Se una condotta ‘‘omissiva’’ potesse integrare gli estremi dell’interesse privato in atti di ufficio (prima dell’entrata in vigore della legge n. 86/90).
1. La Suprema Corte con la sentenza annotata esclude la punibilità della condotta del rettore dell’Università di Catania sub specie di interesse privato in atti d’ufficio e non la esclude sub specie di abuso d’ufficio, pervenendo tuttavia alla pronuncia assolutoria in relazione al tempus commissi delicti (anteriore all’entrata in vigore della legge n. 86/90). Si assume che la condotta del Rodolico, consistita nell’indebito esercizio dell’attività professionale privata ‘‘extramuraria’’ al riparo dalle possibili iniziative disciplinari del superiore gerarchico, sia irregolare sotto il duplice profilo dell’ina-
— 615 — dempimento degli obblighi del professore universitario, ma anche degli obblighi del rettore (1). Sicché l’irrilevanza penalistica dell’irregolare condotta del rettore risulta fondata unicamente sull’argomento, che a noi pare fragile, della impossibilità di rinvenire l’atto rispetto al quale il rettore, pur ponendo in essere una condotta irregolare, avrebbe preso l’interesse privato. E la fragilità dell’argomento, a nostro avviso, si appalesa in ciò: che mentre si riconosce la possibilità di ravvisare l’‘‘atto’’ (nel quale si realizzerebbe la presa d’interesse) anche in una mera omissione, si limita poi la fenomenologia dell’‘‘atto’’ ai soli casi in cui l’omissione abbia come conseguenza un ‘‘rifiuto’’ (silenzio-rifiuto), una decadenza, una prescrizione ovvero l’usucapione del privato. Questa limitazione, a ben vedere, si pone in contrasto sia con la ratio della riforma del 1990 dei reati contro la pubblica Amministrazione, sia con l’accezione lata dell’‘‘atto di ufficio’’, dominante in dottrina e in giurisprudenza, sia con la considerazione ‘‘dinamica’’ degli interessi. 2. Si osserva innanzitutto che la norma incriminatrice dell’interesse privato in atti d’ufficio è stata abrogata (anche se ciò non ha comportato un’abolitio criminis) (2), perché il fatto è stato ritenuto insufficientemente tipico, tale da ricomprendere una gamma troppo vasta e indeterminata di comportamenti. La condotta del ‘‘prendere interesse’’, proprio perché non postulava un’irregolarità presupposta (3), è stata ravvisata come potenzialmente ‘‘neutra’’ e non sufficientemente pregna di disvalore penale. Al contrario con la condotta dell’abuso si allude all’irregolarità e pertanto la nuova fattispecie (art. 323 c.p.) è stata ritenuta dal legislatore meno generica della precedente (art.324 abrogato) e comunque più pregna di disvalore giuridico-sociale. La successione di leggi tra le due norme è stata ispirata, per un verso, dall’esigenza di determinatezza e tassatività, per l’altro, dall’esigenza di aggiungere una connotazione di antigiuridicità manifesta ad un comportamento di per sé neutro. Che gli effetti siano conformi alle attese è molto dubbio. La fattispecie dell’abuso d’ufficio, nella nuova formulazione, è molto lontana da quel sufficiente livello di tassatività e determinatezza che può dare certezza di diritto ai pubblici amministatori e ai cittadini (4). E tuttavia la ratio legis ha pur sempre una sua fecondità, ancorché inferiore, e di molto , alle attese. È certo comunque che l’‘‘abusare’’ disvela un quid pluris rispetto al ‘‘prendere interesse’’; nell’abuso è insita una irregolarità che il ‘‘prendere interesse’’ non implica necessariamente. Sicché, per quanto generica possa essere ritenuta la condotta dell’abuso, dovrà pur sempre riconoscersi meno generica del ‘‘prendere interesse’’ (5). La sentenza annotata sembra invece ipotizzare un rapporto inverso tra le due fattispecie, tale che l’interesse privato disveli un quid pluris rispetto all’abuso e non viceversa. Il fatto, secondo la Suprema Corte, non costituirebbe interesse pri(1) Sul punto vedasi GELARDI, L’abuso d’ufficio per omissione del controllo e dell’iniziativa disciplinare: il caso del Rettore di un’università, in questa Rivista, 1996, 893 ss. La sentenza della Corte d’Appello di Catania è stata pubblicata su Foro it., 1994, 516 ss. ed ivi commentata. (2) Che l’abrogazione dell’art. 324 c.p. non abbia comportato un’abolitio criminis può ritenersi opinione pacifica. Cfr. ALIBRANDI, A proposito di una discussa ipotesi di ‘‘abolitio criminis’’, in Riv. pen., 1992, 47; PAGLIARO, Principi di diritto penale, PS, Delitti del pubblico ufficiale contro la pubblica amministrazione, VII ed., Milano, 1995, 26 ss.; PATANÈ, Abuso di ufficio ed interesse privato nella successione di leggi del 1990, in Giust. pen., 1991, II, 194 ss.; PISA, Abuso d’ufficio, in Enc. giur., Roma, 1995, 5 ss. (3) Dello stesso avviso PATANÈ, op. cit., 195. (4) Questa contraddizione, tra l’intento ‘‘garantista’’ del legislatore e la portata ‘‘onnicomprensiva’’ della fattispecie di cui all’art. 323 c.p., è ben evidenziata da SCORDAMAGLIA, L’abuso di ufficio, in Reati contro la pubblica amministrazione, a cura di Coppi, Torino, 1993, 191-194. (5) Di una ‘‘migliore tipizzazione’’, che include solo una parte delle ipotesi prima previste dall’abrogato art. 324 c.p., parla PATANÈ, op. cit., 195. Anche la giurisprudenza riconosce che l’abuso richiede un quid pluris rispetto all’interesse privato; in questo senso Cass. sez. 1, sent. 00992 del 16 aprile 1980, Preziosi.
— 616 — vato e costituirebbe abuso d’ufficio; e pertanto la classe degli abusi sarebbe più vasta della classe degli interessi privati. Ora a noi pare che la ratio della riforma può anche essere sottovalutata o perfino trascurata, se si vuole; ma non può essere addirittura invertita. È ovvio che la sentenza annotata non sovverte esplicitamente il senso della riforma del 1990; e tuttavia, a ben guardare, si dovrebbe pervenire pur sempre a questo inaccettabile risultato esegetico, portando alle estreme conseguenze le premesse implicite nell’iter logico-deduttivo seguito dalla Corte. 3. Con questa sentenza, poi, la Suprema Corte accoglie, almeno implicitamente, la nozione restrittiva di ‘‘atti di ufficio’’ come atti di imperio. Mentre si assume la configurabilità della presa d’interesse per omissione in via generale, se ne riduce la rilevanza ai pochi casi esemplificati di omissione di atti d’imperio. La configurabilità della ‘‘presa d’interesse’’ non si fa dipendere dunque dalla natura commissiva (ovvero omissiva) della condotta, bensì dal carattere imperativo dell’atto d’ufficio; il che equivale a dire, seppur per implicitum, che la ‘‘presa d’interesse’’, anche in relazione alle condotte commissive, deve essere limitata agli atti d’imperio. L’assunto urta con l’indirizzo consolidato della dottrina e della giurisprudenza che accoglie l’accezione lata dell’atto d’ufficio (6). Orbene: se la presa d’interesse può riguardare anche gli atti di gestione, com’è opinione diffusa (7), e se la presa d’interesse può avere natura omissiva (8), non può escludersi al contempo la presa d’interesse relativa all’omissione degli atti di gestione. Se così è, non ha ragion d’essere la limitazione opinata dal Supremo Collegio, la quale allude, almeno implicitamente, ai soli atti d’imperio. Solo gli atti d’imperio, infatti, danno luogo alla modificazione autoritativa della posizione giuridica altrui e pertanto solo l’omissione degli atti d’imperio può produrre direttamente la modificazione della posizione giuridica altrui ovvero può modificare la posizione della pubblica Amministrazione in relazione alla posizione di succubanza del privato. La supremazia della pubblica Amministrazione può esprimersi o in positivo come ‘‘rifiuto’’, o in negativo come ‘‘decadenza’’, come ‘‘prescrizione’’, o come ‘‘usucapione del privato’’ (le quali, in varia guisa, configurano il venir meno della potestà che la pubblica Amministrazione avrebbe potuto esercitare); è certo comunque che la tipologia degli atti cui fa riferimento la Suprema Corte è quella degli atti d’imperio. E non si vede il perché di questa limitazione. A nostro avviso, questa accezione restrittiva della presa d’interesse, dietro il velo ‘‘garantistico’’, cela un’ispirazione sostanzialmente ‘‘autoritaria’’: suppone una pubblica Amministrazione che ‘‘opera’’ solo in quanto afferma la sua supremazia sui cittadini. I rapporti che si instaurano iure privatorum tra i cittadini e la pubblica Amministrazione e la stessa dinamica interna della pubblica Amministrazione sembrano sfuggire all’interesse illecito del pubblico ufficiale per il solo fatto che il pubblico ufficiale non può (6) Dell’accezione lata può ritenersi esemplificativa la definizione di atto d’ufficio che si deve a GROSSO, Lineamenti dell’interesse privato in atti di ufficio, Milano, 1966, 113: ‘‘... qualunque manifestazione dei poteri di ufficio... ogni esercizio delle funzioni della p.a. da parte del p.u., quale che sia il valore che esso possiede, in sé, nell’ambito del diritto pubblico...’’. (7) In questo senso BARTULLI, L’interesse privato in atti di ufficio, Milano, 1974, 123 ss; FIANDACA MUSCO, Diritto penale, PS, I, Bologna 1988, 174; MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, 1962, V, 275; PALAZZO, Sindaco imprenditore, stipulazione di contratto di appalto con il Comune ed interesse privato in atti di ufficio, in questa Rivista, 1971, 496. Del resto, secondo la dottrina giuspubblicistica, negli ‘‘atti di gestione’’ la pubblica amministrazione enuncia una vera e propria dichiarazione negoziale; cfr. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, 1969, 331 ss.; ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, 1958, I, 223. (8) La configurabilità del delitto di interesse privato in forma omissiva è riconosciuta da Cass., sez. I, ord. 01653 del 17 aprile 1974, Calandrella; Cass. sez. VI, sent. 03695 del 15 marzo 1980; Trizzini; Cass., sez. VI, sent. 09601 dell’ 11 settembre 1980, Capasso, Contra Cass., sez. II, sent. 05573 del 13 giugno 1984, Pepe.
— 617 — esprimere una posizione di supremazia. Insomma: solo in quanto titolare di una potestà, il pubblico ufficiale può prendere un interesse. Il che equivale a dire che la pubblica Amministrazione è pubblica Amministrazione solo nella posizione di supremazia. In conclusione, la motivazione della sentenza che si annota pecca per eccesso: l’argomento che nega la rilevanza penalistica dell’omissione come presa d’interesse verrebbe a provare troppo. Tale rilevanza viene limitata alle omissioni assimilabili agli ‘‘atti’’, le quali sono ravvisabili solo in quelle omissioni che determinano un ‘‘rifiuto’’, una ‘‘decadenza’’ etc.; non hanno pertanto rilevanza quelle omissioni che, incidendo nella concreta ‘‘gestione’’ della cosa pubblica, alterano il quadro legittimo degli interessi in gioco. Nel negare dunque, nella specie, la configurabilità dell’interesse privato, si viene a negare implicitamente la rilevanza penalistica dell’intera dinamica ‘‘paritaria’’ dei rapporti tra i cives e la pubblica Amministrazione, nonché della dinamica ‘‘gestionale’’ dei servizi resi dalla pubblica Amministrazione alla collettività (9). 4. Ciò che sembra trascurare, infine, la sentenza annotata è la considerazione dinamica degli interessi sui quali il fatto di reato viene ad incidere. L’interesse perseguito o conseguito dal soggetto agente e l’interesse leso, che appartiene al soggetto passivo del reato, sono necessariamente interdipendenti, nel senso che l’uno si estende entro i limiti in cui l’altro si ritrae; sono connessi in quanto si limitano reciprocamente; sono in conflitto in quanto la prevalenza dell’uno determina la soccombenza dell’altro. Dal che deriva che l’alterazione delle condizioni di equilibrio degli interessi in conflitto comporta sempre una ‘‘presa d’interesse’’, nel senso che prevale un interesse sull’altro, a motivo del fatto che l’equilibrio viene turbato. Ora, nella specie, non v’ha dubbio che l’equilibrio legittimo degli interessi in gioco è stato gravemente turbato. Il rettore si è posto volontariamente nella posizione del controllore che non esercita il suo potere ispettivo e di iniziativa disciplinare sul controllato e del controllato che compie atti illegittimi sotto l’usbergo della mancata iniziativa del controllore. Poiché nella stessa persona si cumulano le figure del controllore e del controllato, per un verso, la potestà di controllo è stata privata di ogni valore ed effettività, per l’altro verso, la posizione del controllato è stata innalzata al rango dell’‘‘immunità’’ (dal controllo). Pertanto la regolare dinamica degli interessi in gioco è stata alterata a vantaggio del controllore-controllato e a danno del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica Amministrazione. Se in ciò si ravvisa l’abuso del controllore-controllato, come può al contempo non ravvisarsi la ‘‘presa d’interesse’’? A nostro avviso, la presa d’interesse, nel caso di specie, ha, per un verso, natura omissiva sotto il riguardo dell’interesse del controllore, giacché si concreta nel mancato controllo, per l’altro verso, ha natura commissiva sotto il riguardo dell’interesse del controllato, giacché si concreta nel positivo approffittamento della condizione d’immunità (e cioè nello svolgimento dell’attività professionale privata extramuraria). Poiché nella gestione della cosa pubblica si è alterato l’equilibrio degli interessi in gioco, a cagione dell’indebito prevalere dell’interesse del controllore, apprezzabile come mancato esercizio della potestà di controllo, e del controllato, apprezzabile come positivo ‘‘arricchimento’’, al ‘‘regredire’’ dell’inte(9) Nel caso di specie non vengono in rilievo, per via diretta, ‘‘atti di gestione’’. Si vuole evidenziare semplicemente che l’accezione restrittiva degli ‘‘atti di ufficio’’, implicitamente supposta dal Supremo Collegio, appare ingiustificata, in primo luogo, perché espunge gli atti di gestione. La limitazione ipotizzata non ha ragion d’essere in via generale, a nostro avviso; e dunque l’argomento risulta poco concludente sempre e comunque; anche nel caso di specie, dove pure non vengono in rilievo diretto atti di gestione.
— 618 — resse pubblico corrisponde necessariamente il ‘‘progredire’’ dell’interesse privato e dunque corrisponde la ‘‘presa d’interesse’’ del controllore-controllato. Con ciò non si vuol dire che ogni coincidenza, nella stessa persona, della posizione del controllore e della posizione del controllato determina di per sé l’illecito turbamento dell’equilibrio degli interessi in gioco. L’ordinamento giuridico tollera che questa coincidenza possa aver luogo in alcuni casi; ma solo a condizione che si rispettino determinate regole a presidio della superiore esigenza all’equa composizione del conflitto d’interessi. Così: l’assemblea dei soci è l’organo che controlla il consiglio di amministrazione, e tuttavia i componenti del consiglio possono essere, e di solito sono, anche dei soci; i componenti del consiglio di un ordine professionale (controllori) sono eletti fra coloro che esercitano la professione e, solitamente, continuano ad esercitarla (controllati). Nel solo fatto della sovrapposizione del controllore e del controllato risiede già un’incompatibilità latente, tollerata dall’ordinamento a condizione che non trasmodi in incompatibilità manifesta. Non appena si violano le regole che presiedono al delicato equilibrio degli interessi contrapposti, il conflitto d’interessi ‘‘deflagra’’; l’incompatibilità da latente e, per dir così, potenziale, diventa visibile e attuale; il vantaggio insito nella sovrapposizione, e puramente potenziale, varca i limiti della tollerabilità, in quanto diventa ‘‘profitto’’ individuale a detrimento dell’interesse pubblico. E dunque ciò che, nel caso di specie, ha turbato l’equilibrio legittimo degli interessi coinvolti è l’irregolarità che si atteggia come ‘‘presa d’interesse’’. Il rettore dell’Università di Catania ha tratto ‘‘profitto’’ dalla doppia veste che indossava; ha violato le regole dell’ordinamento interno e con ciò ha turbato l’equilibrio degli interessi tutelato dall’ordinamento generale. Nell’esercitare l’attività professionale extramuraria, ha violato una regola dell’ordinamento universitario; e con ciò ha fatto ‘‘deflagrare’’ un conflitto d’interessi latente. Con il suo ‘‘approfittamento’’ ha fatto ‘‘progredire’’ il suo interesse ed ha fatto ‘‘regredire’’ l’interesse pubblico; in ciò risiede la ‘‘presa d’interesse’’, che la Cassazione non ha ravvisato (a nostro avviso, erroneamente). Se questa è la relazione tra l’irregolarità e la presa d’interesse; se la presa d’interesse ha origine nell’irregolarità; se l’irregolarità altera l’equilibrio tra gli interessi e si configura come presa d’interesse; non trova giustificazione l’avviso della Suprema Corte di rinvenire nel caso di specie gli estremi dell’abuso d’ufficio, ma non quelli dell’interesse privato. L’abuso d’ufficio non può che sostanziarsi nell’irregolarità di cui s’è detto. Il rettore ha abusato del proprio ufficio, perché ha svolto un’attività professionale extramuraria non autorizzata, approfittando della doppia veste di controllore-controllato. In ciò consiste l’abuso e in ciò consiste anche l’irregolarità. Ma questa irregolarità-abuso, come s’è visto, altera il confine dei due campi d’interessi contrapposti e avvantaggia indebitamente il privato; in ciò consiste la presa d’interesse. Sicché, nel caso di specie, gli estremi dell’abuso coincidono inevitabilmente con gli estremi dell’interesse privato. Ed anche per questa via, dunque, la motivazione della sentenza annotata si disvela non del tutto coerente. MICHELE GELARDI Ricercatore confermato presso l’Istituto di Diritto Penale dell’Università degli Studi di Roma ‘‘La Sapienza’’
— 619 — CASSAZIONE PENALE — Sez. Un. — 9 maggio 1995 Pres. Lo Coco — Est. Battisti Ric. P.M. in proc. c. Cardoni Atti e provvedimenti del giudice — Sentenza di proscioglimento immediato — Pronunciabilità da parte del giudice per le indagini preliminari richiesto del decreto penale o dell’applicazione concordata della pena — Condizioni (artt. 129 comma 1, 459 comma 3, 444 comma 2 c.p.p.). Il giudice per le indagini preliminari investito della richiesta di decreto penale o di applicazione concordata della pena può emettere sentenza di proscioglimento immediato ex art. 129 comma 1 c.p.p. non solo in presenza della prova « positiva » dell’innocenza dell’imputato, ma anche in difetto della prova di responsabilità, ove questa non appaia in alcun modo acquisibile. Tale giudice non può, invece, prosciogliere l’imputato quando la prova a carico è insufficiente o contraddittoria, ovvero quando essa allo stato manca, ma appare acquisibile nel prosieguo del procedimento (1). (Omissis). — 1. Il G.i.p. della Pretura di Ancona, con sent. 5 aprile 1994, a seguito di richiesta del p.m. di emissione di decreto penale di condanna, proscioglieva Simone Cardoni perché il fatto non sussiste dalla imputazione di aver partecipato, in un bar di Chiaravalle, il 21 dicembre 1993, al gioco d’azzardo del poker, ponendo in rilievo che, non esistendo alcuna prova del fine del lucro, previsto dall’art. 721 c.p. tra gli elementi essenziali del reato di cui all’art. 720 c.p., non poteva dirsi raggiunta la prova certa della sussistenza dell’illecito. 2. Ha proposto ricorso per cassazione il procuratore generale, indicato in epigrafe, deducendo « violazione dell’art. 129 c.p. ». Questa norma — rileva il ricorrente — può trovare applicazione in ogni stato e grado del processo solo quando gli atti offrono la prova positiva che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non è previsto dalla legge come reato o non costituisce reato o che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità, sicché deve escludersi che possa valere in una situazione processuale in cui la prova appare insufficiente e le parti hanno ancora la possibilità di colmare la insufficienza. Il procedimento per decreto, del resto, è strutturato in modo tale da garantire pienamente i diritti dell’imputato, il quale, ove ritenga le prove acquisite insufficienti per un giudizio di responsabilità quale quello sotteso al decreto penale, può proporre opposizione. Il G.i.p., anticipando una possibile ragione di opposizione, si è posto, dunque, al di fuori dello schema del procedimento monitorio. 3. Il ricorso è stato assegnato alla Sezione III, la quale ha ravvisato l’opportunità di rimetterlo alla Sezioni Unite, a norma dell’art. 618 c.p.p., avendo rilevato un contrasto giurisprudenziale sulla possibilità, per il G.i.p., richiesto dal p.m. di emissione di decreto penale, di pronunciare sentenza di proscioglimento soltanto a norma dell’art. 129 c.p.p., ovvero anche per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova ai sensi dell’art. 530 comma 2 c.p.p.
— 620 — 4. Il primo presidente aggiunto ha disposto che il ricorso venisse trattato dalle Sezioni Unite. MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1. La terza sezione, nella sua ordinanza, ha posto bene in risalto i due indirizzi, enucleando gli argomenti addotti a sostegno dell’uno e dell’altro. a) Secondo il primo, il G.i.p., che ritenga di non poter accogliere la richiesta del p.m. di emissione del decreto penale, non può fare altro che, come prevede l’art. 459 comma 3 c.p.p., restituire gli atti al p.m. oppure pronunciare sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p., norma — si sottolinea — in cui sono indicate determinate cause di non punibilità che il giudice, ove ne riconosca l’esistenza, deve dichiarare di ufficio in ogni stato e grado del processo, cause di non punibilità che non comprendono la mancanza, la insufficienza e la contraddittorietà della prova. Soltanto con la sentenza che conclude il dibattimento, nel quale la prova si è formata è possibile, ai sensi dell’art. 530 comma 2 c.p.p., pronunciare sentenza di proscioglimento per mancanza, insufficienza e contraddittorietà della prova: è soltanto questa norma, e non la norma dell’art. 129 c.p.p., che equipara espressamente la mancanza, la contraddittorietà e la insufficienza della prova all’esistenza della prova positiva (Sez. III, 30 luglio 1994, Frau; Sez. I, 27 gennaio 1994 (dep. 31 marzo 1994), Vescovi; Sez. I, 30 giugno 1993, Mussone; Sez. I, 17 ottobre 1991, Biolcati). b) È la stessa terza sezione che con la sentenza dell’11 gennaio 1995 (dep. il 25 febbraio 1995), Faccin e altri, ha formulato il secondo indirizzo, sostenendo — dopo aver premesso che, in quel caso, se non esisteva la prova positiva della innocenza, era, però, chiarissima la mancanza di prova sulla responsabilità, prova che era da escludere « fosse acquisibile aliunde » — che il G.i.p., al quale sia richiesta l’emissione del decreto penale, deve prosciogliere, non solo se gli atti rechino la prova positiva della innocenza, ma anche se manchi e non sia acquisibile la prova della responsabilità. Premesso che il comma 3 dell’art. 459 c.p.p. attribuisce al giudice un sindacato completo sulla richiesta del p.m. e premesso, altresì, che la richiesta di emissione di decreto penale di condanna è, a norma dell’art. 554 comma 1 c.p.p., uno dei modi — gli altri sono la richiesta di archiviazione e la emissione del decreto di citazione — di conclusione delle indagini preliminari, di guisa che deve ritenersi che il p.m. pervenga alla determinazione di chiedere l’emissione del decreto penale dopo aver effettivamente esperito tutte le indagini necessarie e sufficienti in ordine alla ricerca della responsabilità, non si vede — si osserva — per quale ragione, qualora dagli atti emerga la assoluta mancanza della prova della responsabilità e l’impossibilità di acquisirla, il giudice dovrebbe restituire gli atti al p.m. 2. Come si può facilmente constatare non v’è contrasto tra i due indirizzi, ché le sentenze citate, secondo le quali non v’è possibilità, in sede di procedimento per l’emissione del decreto penale, di far valere la mancanza, la insufficienza e la contraddittorietà della prova, non vanno oltre questa affermazione, non essendosi posto il problema — e la fattispecie al loro esame non importava che se lo ponessero — se la mancanza assoluta della prova, la prova non altrimenti acquisibile debba essere presa in considerazione già in quella sede.
— 621 — I due indirizzi, dunque, convergono esplicitamente nell’attribuire rilevanza, nell’applicazione dell’art. 129 c.p.p., alla prova positiva della innocenza, così come convergono — e questa convergenza interessa in particolare nella specie, nella quale il G.i.p. ha prosciolto ai sensi dell’art. 129 c.p.p. per incertezza della prova — nell’escludere che il giudice, richiesto della emissione del decreto penale possa, avvalendosi dell’art. 129 c.p.p., prosciogliere anche se le prove siano mancanti, insufficienti o contraddittorie. Il secondo indirizzo si pone l’ulteriore quesito, e lo risolve positivamente, se nel procedimento per l’emissione del decreto penale debba essere sottolineata anche la mancanza assoluta della prova, nel senso precisato di prova mancante non altrimenti acquisibile. 3. Queste Sezioni Unite sono dell’avviso che i due indirizzi debbano essere seguiti nella loro convergenza sulla impossibilità di dare rilievo, nel procedimento per l’emissione del decreto penale, alla mancanza, alla insufficienza e alla contraddittorietà della prova. Ritengono, poi, che sul problema della impossibilità o della possibilità di porre in risalto, in quella sede, la mancanza assoluta della prova, sia corretta la soluzione offerta da quello che per comodità viene definito « secondo indirizzo ». 4. Iniziando dal tema della prova insufficiente o contraddittoria, è senz’altro esatto l’assunto che la mancanza, la contraddittorietà e la insufficienza della prova rilevino e possano rilevare soltanto alla fine del dibattimento, topos o luogo naturale, proprio, per la formazione dialettica della prova, e correttamente si perviene a questa conclusione ponendo in evidenza che la formula che attribuisce rilievo alla mancanza, alla insufficienza e alla contraddittorietà della prova è contenuta nell’art. 530 comma 2 c.p.p., la cui rubrica è « sentenza di assoluzione » e il cui comma 1 è pressoché identico al comma 1 dell’art. 129 che non contiene, per l’appunto, la disposizione — che è quella del comma 2 dell’art. 530 — secondo la quale « il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile ». L’art. 530 — è opportuno ricordarlo — è il secondo della Sezione I, « sentenza di proscioglimento » del Capo II, « decisione »; del Titolo III, « sentenza »; del Libro VII, « giudizio », libro il cui Titolo I disciplina, come è noto, « gli atti preliminari al dibattimento » e il cui Titolo II si interessa del « dibattimento » dettando regole, nel Capo III, per la « istruzione dibattimentale » per il rito da seguire per la formazione dialettica della prova, per rendere concretamente esercitabile il diritto alla prova enunciato nell’art. 190 c.p.p. 5. L’art. 530 comma 2 è, quindi, uno dei possibili punti di approdo di un determinato iter processuale che vede le parti soffermarsi sulle proprie e altrui prove, iter soltanto al termine del quale ha senso constatare, oltre che la sussistenza delle condizioni per emettere « sentenza di condanna », come prevede l’art. 533 c.p.p., la sussistenza delle condizioni per pronunciare sentenza di assoluzione « perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non lo ha commesso, perché il fatto non costituisce reato », ecc., come vuole il comma 1 dell’art. 530, o, come dispone il comma 2, per pronunciare sentenza di assoluzione perché manca, è in-
— 622 — sufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, ecc. 6. Ebbene, il procedimento per decreto, di cui agli artt. 459 s. c.p.p. e, per il procedimento dinanzi al pretore, di cui all’art. 565 dello stesso codice, è, per definizione, un procedimento senza dibattimento, un procedimento di « deflazione del dibattimento », al quale si giunge a seguito delle indagini preliminari e, pertanto, con « materiale probatorio » raccolto pressoché esclusivamente da una delle parti, il p.m.; procedimento in cui l’imputato non ha avuto modo di interloquire alla pari e di dimostrare, avvalendosi delle proprie prove e contestando le prove altrui, che la mancanza, la insufficienza e la contraddittorietà della prova potevano essere superate a suo favore. Se la norma dell’art. 129 c.p.p., come già quella dell’art. 152 dell’abrogato codice di rito tende ad assicurare — oltre che « la speditezza, la immediatezza, l’economia del processo » — il favor libertatis, non può davvero dirsi che questo favor sia garantito, se l’imputato viene prosciolto perché mancante, insufficiente o contraddittoria la prova, senza essere stato in grado di dimostrare che era possibile colmare la mancanza, eliminare la contraddizione e superare la insufficienza. Né, evidentemente, può sostenersi — come sembra si faccia nel ricorso — che il giudice nel caso di mancanza, contraddittorietà e insufficienza della prova deve emettere ugualmente il decreto penale, ponendosi in rilievo che avverso quest’ultimo è esperibile l’opposizione, sicché l’imputato, nel giudizio che ne segue, recupera pur sempre il suo « diritto alla prova ». La tesi non può essere condivisa per la decisiva ragione che il decreto penale è un decreto di condanna, come si legge nell’art. 460 c.p.p., tra i requisiti del quale v’è quello previsto dalla lett. c) della norma, della « concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata », esposizione che, ovviamente, non può avere un retroterra mancante, insufficiente o contraddittorio. 7. È superfluo sottolineare che il problema del diritto alla prova si pone anche per il p.m., alla cui richiesta di emissione del decreto penale, se può rispondersi che gli atti, non solo non offrono la prova della responsabilità, ma impongono che si dichiari, ai sensi dell’art. 129 comma 1 che « il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato », ecc., non può rispondersi, avvalendosi dell’art. 129, che la prova è mancante, insufficiente o contraddittoria. La mancanza, la insufficienza e la contraddittorietà della prova sono, infatti, categorie che, per quel che si è detto, possono avere rilevanza soltanto quando le parti, ivi compreso il p.m., abbiano potuto esercitare compiutamente, nella sede a ciò destinata, il loro diritto alla prova. 8. Sembra essere di diverso avviso, rispetto a tutto ciò, una voce della dottrina. I. Premette quest’ultima che « della possibilità di pronunciare una sentenza di proscioglimento, a norma dell’art. 129, si parla negli artt. 444 comma 2 e 459 comma 3 c.p.p., come di una condizione impeditiva all’accoglimento della richiesta di applicazione della pena o dell’emissione del decreto penale » e osserva che, « in entrambi i casi, l’attribuzione al giudice del potere di concludere anticipatamente il processo, con un provvedimento di condanna, ha fatto sì che lo stesso or-
— 623 — gano risulti legittimato a disporre il proscioglimento ex art. 129, quale che sia il livello di evoluzione del processo ». « Pertanto, — aggiunge — si potrà avere l’emissione di una sentenza proscioglitiva anche nell’udienza fissata a seguito della richiesta di applicazione della pena nel corso delle indagini preliminari e, quindi, in un momento nel quale il p.m. potrebbe non avere ancora esaurito tutte le opportunità e le necessità dell’investigazione, sicché sarà su questo materiale probatorio che il giudice dovrà fondare la propria decisione, nella pienezza dei poteri che gli vengono assicurati attraverso il richiamo dell’art. 129 ». « Inoltre, — ed è questo il punto nodale — lo stato in cui si trova il processo non sembra impedire l’operatività delle regole di giudizio, sancite negli artt. 529531 per le sentenze dibattimentali: invero, la richiesta di patteggiamento, non solo consente di riconoscere dignità di prova alle indagini preliminari effettuate, ma impone, altresì, al giudice di considerare tale materiale probatorio, non come il frutto provvisorio di un’indagine in atto, bensì come l’insieme degli elementi sui quali deve basare la decisione finale ». II. Queste considerazioni pare si riferiscano al solo patteggiamento, perché, dopo essersi fatta menzione anche del decreto penale e della norma dell’art. 459 comma 3 c.p.p., ci si sofferma, per avanzare la tesi della rilevanza, anche in sede di indagini preliminari, della norma dell’art. 530 comma 2 c.p.p., unicamente sul patteggiamento. Ma, se dovessero concernere anche il procedimento per decreto, non potrebbero non opporsi le osservazioni fatte dianzi, che possono riassumersi nella proposizione che la formula « mancanza insufficienza e contraddittorietà della prova » è usata dal legislatore nell’art. 530 comma 2, il quale è collocato anche dopo tutta una serie di norme che dicono come deve essere esercitato dalle parti il diritto alla prova, di tal che non si vede come possa anticiparsi un esito processuale che, per sua natura, è proprio di una certa fase del processo. III. Quanto, poi, al patteggiamento — va detto per completezza — è sufficiente notare che anche il rito di « applicazione della pena su richiesta » è un procedimento di « deflazione del dibattimento », senza dibattimento, procedimento, dunque, in cui è ipotizzabile, tra l’altro, che il p.m. dia il suo consenso, nella fase delle indagini preliminari, nella piena consapevolezza di essere in grado di provare, nel dibattimento, la responsabilità dell’imputato, sicché gli si potrà opporre la mancanza, la insufficienza e la contraddittorietà della prova per respingere la richiesta, ma non per pervenire ad una conclusione processuale ontologicamente collegata ad una determinata fase del processo. 9. Conforta ulteriormente la tesi che si va sostenendo — la tesi che la norma dell’art. 129 comma 1 c.p.p. non lascia spazio, nel procedimento per decreto, alla mancanza, alla insufficienza e alla contraddittorietà della prova — la norma dell’art. 129 comma 2, la quale, come è noto, regola il concorso processuale tra una causa di estinzione del reato e una formula di assoluzione nel merito — « quando ricorre una causa estintiva del reato, ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta » — e stabilisce che prevalga la formula di assoluzione nel merito ogni volta che sia assistita dall’evidenza della prova.
— 624 — I. Questa norma è stata sottoposta all’esame della Corte costituzionale, essendosi ritenuto dai giudici di merito che potesse essere illegittima, con riferimento all’art. 3 della Carta costituzionale, nella parte in cui non prevede che la insufficienza di prove prevalga sulle cause di estinzione del reato. II. La Corte costituzionale, con le ordinanze 26 giugno 1991, n. 300 — che ha risolto il problema del concorso processuale tra l’insufficienza di prove e l’amnistia — e 18 luglio 1991, n. 362 — che ha risolto il problema del concorso tra l’insufficienza di prove e la prescrizione — ha dichiarato manifestamente infondate sia la questione di legittimità costituzionale dell’art. 129 comma 2, con riguardo all’ipotesi in cui l’estinzione del reato per amnistia si trovi a concorrere con l’insufficienza della prova, sia la stessa questione con riguardo all’ipotesi in cui con l’insufficienza della prova si trovi a concorrere l’estinzione del reato per prescrizione. La Corte, nei due provvedimenti, ha affermato, anzitutto, che, prima del dibattimento, l’art. 129 non consente si attribuisca valore processuale alla mancanza, alla insufficienza e alla contraddittorietà della prova proprio perché la prova non è stata ancora assunta, ed è la tesi che qui si sostiene. Ha affermato, inoltre, che l’imputato o l’indagato ha pur sempre la facoltà, riconosciutagli dalle sentenze 14 luglio 1971, n. 175 e 31 maggio 1991, n. 275, di rinunciare alla causa estintiva e quindi, la possibilità di provocare, nella sede propria, l’accertamento completo dei fatti, il quale, peraltro, — va notato — può sfociare anche nella mancanza, nella insufficienza e nella contraddittorietà della prova ponendo il problema, che è stato oggetto di contrastanti decisioni e che non deve essere risolto in questa sede, del coordinamento della norma dell’art. 530 comma 2, con la norma dell’art. 129 comma 2, pure alla luce della sentenza del 9 gennaio 1975 n. 5 della stessa Corte costituzionale. 10. Anche quest’ultima sentenza, infine, offre argomenti alla tesi che la richiesta di emissione del decreto penale non può dar luogo ad una pronuncia emessa ai sensi dell’art. 129 c.p.p., di mancanza, di insufficienza e di contraddittorietà della prova. La Corte costituzionale, con la stessa, nel dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 152 comma 2 dell’abrogato codice di rito — nella parte in cui non comprendeva, tra le ipotesi in cui il giudice doveva pronunciare sentenza di proscioglimento nel merito anziché declaratoria di estinzione del reato, anche l’ipotesi in cui mancasse del tutto la prova che l’imputato avesse commesso il fatto — ha posto, come è noto, sullo stesso piano la prova positiva della innocenza e la prova negativa, la mancanza di prova, della colpevolezza. Potrebbe, allora, sostenersi, — ed è stato sostenuto in non poche delle sentenze, cui si è fatto cenno dianzi, che hanno affrontato il tema del coordinamento della norma dell’art. 530 comma 2 con la norma dell’art. 129 comma 2 c.p.p. — che, avendo l’art. 530 comma 2 c.p.p., in attuazione della direttiva n. 11 dell’art. 2 della legge delega n. 81 del 18 febbraio 1987, equiparato la insufficienza e la contraddittorietà della prova alla mancanza della stessa, l’art. 129 comma 2 non può non comprendere, oltre che la mancanza — si vedrà tra poco in che senso debba essere intesa, a questi fini, l’espressione « mancanza della prova » — anche la insufficienza e la contraddittorietà della prova. 11. Orbene, qualunque possa essere la soluzione del problema di quel coordinamento, è certo che la Corte costituzionale, nella sentenza in questione, ha af-
— 625 — fermato che la mancanza della prova poteva avere rilevanza, nel contesto dell’art. 152 comma 2 dell’abrogato codice c.p.p., — oggi, nel contesto dell’art. 129 comma 2, c.p.p. — solo « ad istruttoria ultimata » e dunque, nel nuovo codice, soltanto a dibattimento concluso e non prima dello stesso. Può discutersi, in altri termini, se, ad istruttoria ultimata, allorché acquista valore, ai fini dell’art. 129 comma 2, la « mancanza della prova », possano e debbano essere sottolineate agli stessi fini, anche la insufficienza e la contraddittorietà; ma, è indubbio che, in ogni caso, se « la mancanza della prova » può prevalere sulle cause di estinzione del reato soltanto « ad istruttoria ultimata », il problema della prevalenza della insufficienza e della contraddittorietà della prova rispetto alla causa di estinzione del reato si pone, se si pone, esclusivamente ad istruttoria ultimata e non prima. 12. Venendo al secondo quesito, al quesito se nel procedimento per l’emissione del decreto penale — e, si può aggiungere, in quello della applicazione della pena su richiesta — debba darsi atto, in applicazione dell’art. 129 comma 1 c.p.p., della assoluta mancanza della prova, si impongono, nel rispondervi affermativamente, le seguenti considerazioni. I. La tesi, secondo la quale, in queste due sedi, è possibile, anzi doveroso, prosciogliere ai sensi dell’art. 129 comma 1, allorché si accerti la mancanza assoluta della prova, può sembrare in contraddizione con quanto si è detto sinora, con la tesi che vuole che il procedimento per decreto e quello per l’applicazione della pena su richiesta escludano, per loro natura, che il giudice possa e debba dare risalto, in applicazione dell’art. 129 comma 1 c.p.p., alla mancanza, oltre che alla insufficienza e alla contraddittorietà della prova. II. Così non è ove si rifletta — e si scioglie la riserva formulata dianzi — che « mancanza della prova », se significa, anzitutto, prova incompleta, prova non compiutamente raccolta, ma astrattamente completabile in più direzioni, può significare anche, appunto, mancanza assoluta della prova e impossibilità di acquisirla, mancanza, quest’ultima, che può benissimo emergere già in quelle due sedi. È, in altre parole, astrattamente possibile che il giudice, richiesto della emissione del decreto penale o dell’applicazione della pena, colga, come lo ha colto il giudice alla fattispecie che ha consentito alla terza sezione di questa Corte di affermare il principio del quale si sta discutendo, che, gli atti, pur non offrendo la prova positiva della innocenza, offrono la prova negativa della colpevolezza, nel senso, radicale, della impossibilità di acquisirla. Era stato contestato, in quel processo, a tre imputati il reato di cui all’art. 1164 c. nav., che punisce la navigazione in zona interdetta, e il G.i.p., sollecitato ad emettere il decreto penale, aveva prosciolto ex art. 129 comma 1, per non aver commesso il fatto, sul presupposto che del reato contestato è responsabile il solo comandante della imbarcazione — in quel caso, un gommone — e che nella specie i verbalizzanti non erano stati in grado di identificarlo; era, inoltre, da escludere, secondo quel giudice, per tutta una serie di ragioni, puntualmente indicate, che, ormai, fosse possibile pervenire a quella identificazione. In casi come questo, ove si verifichino, casi, va rilevato, nei quali il confine con le ipotesi del comma 1 dell’art. 129 è davvero molto sottile, per non dire evanescente, evidenti ragioni di economia processuale — sembra indiscutibile — impongono che gli atti non vengano restituiti al p.m., il quale, peraltro, ha la possi-
— 626 — bilità di ottenere una nuova riflessione sul tema proponendo ricorso per cassazione. Tutto ciò premesso, la sentenza impugnata, con la quale il G.i.p. ha assolto semplicemente « per carenza di prova, per prova non certa », deve essere annullata con rinvio.
——————— (1)
Proscioglimento immediato e regola di giudizio.
1. La presente sentenza delle Sezioni Unite ha inteso dirimere il contrasto insorto fra le singole sezioni della Cassazione a proposito dell’individuazione dei casi in cui il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di decreto penale di condanna o di applicazione concordata della pena, può pronunciare sentenza di proscioglimento immediato a norma dell’art. 129 comma 1 c.p.p. (1). Stando ad un primo orientamento, tale giudice, se non accoglie la richiesta di decreto penale o di patteggiamento, può pronunciare sentenza di proscioglimento immediato solo in presenza della prova che il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il reato è estinto o manca una condizione di procedibilità. Egli non può emettere tale sentenza nelle ipotesi di cui agli artt. 529 comma 2, 530 comma 2, 531 comma 2 c.p.p., vale a dire quando manca o è insufficiente o contraddittoria la prova che il fatto sussiste, l’imputato lo ha commesso, il fatto costituisce reato o è insufficiente o contraddittoria la prova dell’esistenza di una condizione di procedibilità o dubbia l’esistenza di una causa di estinzione del reato. La regola di giudizio, che equipara la mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova a carico alla prova a discarico, sarebbe infatti applicabile solo quando l’attività di acquisizione probatoria si sia esaurita, il che, secondo il modello processuale accolto dal codice vigente, presuppone la celebrazione del dibattimento (2). Per un secondo orientamento, invece, il giudice per le indagini preliminari investito della richiesta di decreto penale o di patteggiamento può prosciogliere ex art. 129 comma 1 c.p.p. non solo in presenza della prova « positiva » dell’innocenza dell’imputato, ma anche in difetto della prova di responsabilità se questa non appare in alcun modo acquisibile (3). 2. Le Sezioni Unite, rilevato che il contrasto interpretativo verte appunto sull’equiparabilità di tale mancanza « assoluta » di prova a carico alla prova positiva dell’innocenza, giacché la giurisprudenza è concorde nel negare al giudice per le indagini preliminari richiesto di decreto penale o patteggiamento il potere di (1) La sentenza annotata trae origine dal ricorso proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento immediato emessa da un giudice per le indagini preliminari investito di richiesta di decreto penale (artt. 459 comma 3, 129 c.p.p.). Peraltro le Sezioni unite, presumibilmente in considerazione di un contrasto giurisprudenziale ravvisabile anche in rapporto alla sentenza di proscioglimento immediato emessa dal giudice per le indagini preliminari richiesto di patteggiamento (artt. 444 comma 2, 129 c.p.p.), hanno affrontato la questione in termini generali, riferibili ad entrambe le sentenze. (2) Cass. V 16 marzo 1995, in Arch. nuova proc. pen., 1995, p. 449; Id. 15 marzo 1995, ivi, p. 917; Id. III 1 luglio 1994, ivi, p. 306; Id. I 27 settembre 1991, in GUARINIELLO, Il processo penale nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, 1994, p. 285. (3) Cass. III 11 gennaio 1995, in Arch. nuova proc. pen., 1995, p. 243; Id. V 29 ottobre 1993, in Cass. pen., 1995, p. 1942.
— 627 — pronunciare sentenza a norma dell’art. 129 c.p.p. in caso di « semplice » mancanza o di insufficienza o contraddittorietà della prova, hanno accolto la seconda delle due soluzioni sopra prospettate. La sentenza annotata ritiene corretto limitare al dibattimento l’applicabilità delle regole di giudizio di cui agli artt. 529 comma 2, 530 comma 2, 531 comma 2 c.p.p.: infatti, se alla carenza, insufficienza o contraddittorietà della prova può darsi rilievo quando l’istruzione probatoria è stata esaurita in dibattimento, altrettanto non può farsi in un momento dell’iter processuale — quello della pronuncia del giudice per le indagini preliminari sulla richiesta di decreto penale o di patteggiamento — in cui prove in senso proprio non sono ancora state acquisite. Né può condividersi l’indirizzo dottrinale secondo cui le predette regole di giudizio sarebbero applicabili anche dal giudice richiesto di decreto penale o di patteggiamento in quanto tali richieste attribuiscono dignità di prova al materiale raccolto nelle indagini preliminari, imponendo di considerarlo non « come il frutto provvisorio di un’indagine in atto, bensì come l’insieme degli elementi sui quali basare la decisione finale », che deve essere di proscioglimento se dagli atti non emergono prove della responsabilità o comunque prove sufficienti alla pronuncia del decreto penale o della sentenza di applicazione della pena (4). Sempre secondo le Sezioni Unite, al giudice richiesto di decreto penale o applicazione della pena non si pone, infatti, l’alternativa secca fra proscioglimento e condanna che si pone al giudice del dibattimento (e che giustifica l’operatività, in rapporto a quest’ultimo, delle suddette regole di giudizio). Il giudice richiesto di decreto penale o di patteggiamento, ove negli atti non ravvisi elementi sufficienti all’emissione di tali provvedimenti né la prova dell’innocenza dell’imputato dichiarabile a norma dell’art. 129 comma 1 c.p.p., dispone di una terza soluzione, cioè può respingere la richiesta presentatagli e restituire gli atti al pubblico ministero perché colmi le lacune probatorie (5). (4) MARZADURI, in Commento al nuovo codice di procedura penale coord. da CHIAVARIO, vol. II, 1990, p. 120-121; SANNA, Opposizione a decreto penale di condanna ed operatività dell’art. 129 c.p.p., in questa Rivista, 1994, p. 1148; SMERIGLIO, Dalla richiesta di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. al proscioglimento dell’imputato con formula di merito: ammissibilità di una valutazione probatoria, in Giur. it., 1996, II, c. 166 e ss. (5) Allorché il giudice restituisce gli atti al pubblico ministero per reiezione della richiesta di decreto penale o di applicazione concordata della pena presentata nelle indagini preliminari (art. 447 c.p.p.), si apre un problema in relazione al principio di irretrattabilità dell’azione penale (a sua volta espressione del principio, costituzionalmente sancito, di obbligatorietà di tale azione). Entrambe le suddette richieste costituiscono esercizio dell’azione penale (art. 405 comma 1 c.p.p.) e implicano l’assunzione della qualità di imputato da parte della persona a cui esse attribuiscono il reato (art. 60 c.p.p.). Poiché a norma dell’art. 50 comma 3 c.p.p. « l’esercizio dell’azione penale può essere sospeso o interrotto soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge », in seguito al rigetto delle richieste di cui sopra non parrebbe configurabile la regressione del procedimento alle indagini preliminari e la conseguente restituzione all’organo d’accusa dell’alternativa originaria fra richiesta di archiviazione e nuovo esercizio dell’azione penale: in tale senso v. CAPRIOLI, Il consenso dell’imputato all’applicazione della pena: revocabile o no?, in Giur. it., 1993, II, c. 24; CONSO, I nuovi riti differenziati tra « procedimento » e « processo », in Giust. pen., 1990, III, c. 195. Peraltro taluno osserva che la regressione del procedimento alla fase delle indagini (con tutte le conseguenze che ne discendono, compresa la facoltà del pubblico ministero di chiedere l’archiviazione) rappresenta non una ritrattazione dell’azione penale, ma la logica conseguenza della rilevazione da parte del giudice dell’erronea instaurazione del rito speciale richiesto (procedimento per decreto, applicazione della pena): CORDERO, Procedura penale, 3a ed., 1995, p. 391; NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, 5a ed., 1996, p. 417; G. RICCIO, I procedimenti speciali, in CONSO-GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, 3a ed., 1993, p. 427. Su posizioni intermedie si colloca GAITO, Giudizio immediato, in I procedimenti speciali, a cura di DALIA, 1989, p. 260-261, il quale, nell’affrontare la questione, analoga a quella qui in esame, dell’iter conseguente al rigetto della richiesta di giudizio immediato, osserva che il principio di irretrattabilità dell’azione penale effettivamente sembra vietare al pubblico ministero una successiva richiesta di archiviazione, imponendogli una sorta di prosecuzione delle indagini « vincolate nell’esito » (vale a dire destinate a sfociare in un nuovo esercizio dell’azione penale); tuttavia, considerata la singolarità di tale soluzione, e « trattandosi di problemi teorici », ritiene « auspicabile un adeguamento della prassi in senso pragmatico ».
— 628 — Tuttavia, qualora il giudice riscontri la « carenza assoluta » della prova di responsabilità — con tale locuzione intendendosi, come si è accennato, il caso in cui la prova non solo manca, ma non appare in alcun modo acquisibile nell’eventuale prosieguo del procedimento — ovvie esigenze di economia processuale impongono il proscioglimento a norma dell’art. 129 comma 1 c.p.p., trattandosi di situazione equiparabile all’esistenza in atti della prova positiva dell’innocenza dell’imputato. 3. L’art. 129 comma 1 c.p.p., come già l’art. 152 comma 1 c.p.p. 1930, in ossequio da un lato al favor rei, dall’altro al principio di economia processuale (6), impone in ogni stato e grado del processo al giudice, il quale riconosca « che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità », di emettere immediatamente sentenza di proscioglimento. La nuova disciplina della declaratoria immediata di determinate cause di non punibilità si distingue da quella precedente per la diversa struttura del procedimento penale nei due diversi codici di procedura penale. Mentre il codice del 1930 consentiva al giudice di pronunciare sentenza ex art. 152 « in ogni stato e grado del procedimento », quello attuale prevede la pronuncia dell’omologa sentenza ex art. 129 solo nel « processo », con esclusione, quindi, della fase delle indagini preliminari. La Relazione al progetto preliminare del codice spiega tale esclusione osservando che le situazioni, le quali dopo l’esercizio dell’azione penale (e dunque a « processo » iniziato) comportano la pronuncia della sentenza de qua, prima dell’esercizio dell’azione penale, e dunque nel corso delle indagini preliminari, impongono al pubblico ministero di chiedere (e al giudice per le indagini preliminari di autorizzare) l’archiviazione (7). Quanto alle fasi successive all’esercizio dell’azione penale, il potere del giudice di pronunciare sentenza a norma dell’art. 129 c.p.p. è talora dubbio: a) esso è espressamente riconosciuto dagli artt. 459 comma 3 e 444 comma 2 c.p.p. al giudice investito della richiesta di decreto penale di condanna o di applicazione della pena (in qualunque momento quest’ultima richiesta venga formulata: le indagini preliminari (8), l’udienza preliminare ovvero il predibattimento); b) non pare invece legittimato a pronunciare ex art. 129 c.p.p. il giudice del(6) Sulla ratio dell’art. 129 c.p.p. v. AIMONETTO, La « durata ragionevole » del processo penale (ed. provvisoria), 1996, p. 125 e ss.; MARZADURI, op. cit., p. 107; STURLA, in AMODIO-DOMINIONI, Commentario al nuovo codice di procedura penale, vol. II, 1990, p. 95-96; VOENA, Atti, in CONSO-GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, cit., p. 131. In relazione all’art. 152 c.p.p. 1930 v. per tutti LOZZI, Favor rei e processo penale, 1968, p. 157 e ss. (7) V. Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale (G.U. 1a serie spec. 24 ottobre 1988, suppl. ord. n. 2), in LEX, n. 44-bis 1988, suppl. n. 2, p. 419-420. LOZZI, Lezioni di procedura penale, 2a ed., 1995, p. 128, sottolinea la logicità della scelta legislativa di escludere l’applicabilità dell’art. 129 c.p.p. nel corso delle indagini preliminari, « sia perché la mancata formulazione dell’imputazione preclude quelle declaratorie di proscioglimento nel merito che presuppongono l’imputazione stessa sia perché le cause di non punibilità dimostrano l’infondatezza della notizia di reato e, pertanto, giustificano l’archiviazione ». Sul tema v. anche GREVI, Archiviazione per « inidoneità probatoria » e obbligatorietà dell’azione penale, in questa Rivista, 1990, p. 1289; MARZADURI, op. cit., p. 118-119; STURLA, op. cit., p. 101; VOENA, op. cit., p. 132. (8) STURLA, loc. ult. cit., osserva che l’attribuzione al giudice per le indagini preliminari del poteredovere di pronunciare sentenza di proscioglimento immediato quando la richiesta di applicazione della pena viene formulata nel corso delle indagini medesime (art. 447 c.p.p.) può far credere che « quantomeno limitatamente a questa ipotesi, l’art. 129 finisca per essere praticabile anche in sede preprocessuale ». Peraltro « la richiesta di applicazione della pena finisce per determinare l’apertura di una fase incidentale con i caratteri della giurisdizionalità e, pertanto, si deve affermare che l’art. 129 opera, anche in questo caso, in ambito esclusivamente processuale ». Invero, a norma degli artt. 60 comma 1, 405 e 447
— 629 — l’udienza preliminare (9), a cui la legge impone l’alternativa tra il decreto che dispone il giudizio e la sentenza di non luogo a procedere a norma dell’art. 425 c.p.p. (10). Peraltro quest’ultima sentenza, in forza della modifica apportata all’art. 425 c.p.p. dalla legge 8 aprile 1993 n. 105, oggi dev’essere pronunciata se « sussiste una causa che estingue il reato o per la quale l’azione penale non doveva essere iniziata o non dev’essere proseguita, se il fatto non è previsto dalla legge come reato ovvero quando risulta che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che si tratta di persona non imputabile o non punibile per qualsiasi altra causa », vale a dire in situazioni analoghe a quelle previste dall’art. 129 comma 1 c.p.p. Pertanto, sebbene l’art. 425 c.p.p. rappresenti tuttora una disposizione speciale escludente l’operatività in esito all’udienza preliminare dell’art. 129 c.p.p., disposizione generale (11), i profili di specialità della prima disposizione rispetto alla seconda si sono sensibilmente attenuati (12); c) la legge nulla dice circa la pronunciabilità della sentenza ex art. 129 c.p.p. da parte del giudice investito della richiesta di giudizio immediato. Da tale silenzio, contrapposto alle esplicite previsioni degli artt. 444 comma 2 e 459 comma 3 c.p.p. in tema di patteggiamento e di procedimento per decreto, la giurisprudenza ed una parte della dottrina inducono la soluzione negativa (13). Senonché l’ampia dizione dell’art. 129 comma 1 c.p.p., secondo cui il giudice, ricorrendone le condizioni, emette sentenza di proscioglimento immediato « in ogni stato e grado del processo », e l’assenza di disposizioni derogatorie a tale previsione generale (quali, ad esempio, gli artt. 469 e 425 c.p.p.) ben legittimano il giudice, una volta investito del processo con l’atto di esercizio dell’azione penale (nel caso di specie la richiesta di giudizio immediato), a verificare ex officio la sussistenza di eventuali cause di non punibilità e, se la verifica dà esito positivo, a pronunciare sentenza in tal senso (14); c.p.p. la richiesta concordata di applicazione della pena, pur se formulata nel corso delle indagini preliminari, implica l’esercizio dell’azione penale e dunque l’inizio del processo. (9) A meno che in tale udienza si innesti il patteggiamento, nel quale caso opera il già citato art. 444 comma 2 c.p.p., o il rito abbreviato (per la pronunciabilità della sentenza ex art. 129 c.p.p. in quest’ultimo rito v. VOENA, loc. ult. cit.). (10) Altra questione è se il giudice per le indagini preliminari possa pronunciare ex art. 129 c.p.p. non appena ricevuta dal pubblico ministero la richiesta di rinvio a giudizio, vale a dire dopo l’esercizio dell’azione penale, ma prima dell’udienza preliminare. Condividiamo la soluzione affermativa proposta da Cass. III 5 ottobre 1993, in Cass. pen., 1995, p. 3478 (con nota adesiva di LORUSSO, Immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità e giudice per le indagini preliminari), che, sul presupposto dell’operatività dell’art. 129 c.p.p. in ogni stato e grado del processo, riconosce al predetto giudice il potere di emettere sentenza di proscioglimento immediato senza necessità di fissare l’udienza preliminare. (11) Sul rapporto da genus ad speciem fra l’art. 129 e l’art. 425 c.p.p., cfr. STURLA, op. cit., p. 102; v. anche RAMAJOLI, Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, 1992, p. 68-69. (12) Una certa discrasia fra le due disposizioni permane in quanto l’art. 425 c.p.p., diversamente dall’art. 129 c.p.p., legittima il giudice dell’udienza preliminare ad emettere sentenza di non luogo a procedere quando l’imputato risulta non punibile per qualsiasi causa diversa dalla non imputabilità. Viceversa, a seguito di Corte cost. 10 febbraio 1993 n. 41, in Giur. cost., 1993, p. 297, anche la sentenza di non luogo a procedere, come quella di proscioglimento immediato ex art. 129 c.p.p., non può essere pronunciata per difetto di imputabilità: v. VOENA, op. cit., p. 132 e ss. (13) Cass. III 19 aprile 1990, in GUARINIELLO, op. cit., p. 284, secondo cui l’art. 129 c p.p. è applicabile solo dal giudice investito del potere di definire il processo, quale non è il giudice per le indagini preliminari chiamato a decidere sulla richiesta di giudizio immediato. In dottrina FUMU, Aspetti problematici del giudizio direttissimo e del giudizio immediato, in AA.VV., Questioni nuove di procedura penale — I giudizi semplificati, 1989, p. 263; ILLUMINATI, Giudizio immediato, in I procedimenti speciali, cit., p. 286, nota n. 43; LORUSSO, Provvedimenti « allo stato degli atti » e processo penale di parti, 1995, p. 650; MARZADURI, op. cit., p. 120, nota n. 55; RIVELLO, Il giudizio immediato, 1993, p. 210-211. (14) AIMONETTO, op. cit., p. 130; PAOLOZZI, Profili strutturali del giudizio immediato, in AA.VV., Questioni nuove di procedura penale — I giudizi semplificati, cit., p. 233-234. VOENA, op. cit., p. 132-
— 630 — d) l’art. 129 c.p.p. non si applica nella fase degli atti preliminari al dibattimento, per la quale vige la speciale disciplina dell’art. 469 c.p.p., secondo cui soltanto « se l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita ovvero se il reato è estinto », e se « per accertarlo non è necessario procedere al dibattimento », il giudice, sentiti in camera di consiglio il pubblico ministero e l’imputato, e purché questi non si oppongano, pronuncia sentenza di non doversi procedere (15); e) riteniamo il proscioglimento immediato disciplinato dall’art. 469 c.p.p., e non dall’art. 129 comma 1 c.p.p., anche quando il pubblico ministero esercita l’azione penale presentando o citando l’imputato per il giudizio direttissimo. In tale procedimento, infatti, dopo la convalida dell’arresto e comunque a seguito della predetta presentazione o citazione si apre la fase degli atti preliminari al dibattimento; f) tralasciamo di approfondire se il proscioglimento ex art. 129 c.p.p. trovi spazio nel corso del dibattimento o se in tale sede debba in ogni caso procedersi all’istruzione probatoria, e solo in esito a questa alla pronuncia a norma degli artt. 529 e ss. c.p.p. La questione è delicata per la necessità di contemperare le esigenze di economia processuale sottese al proscioglimento immediato con l’interesse dell’imputato ad esercitare compiutamente il diritto alla prova (16). 4. Ciò premesso circa l’ambito di operatività dell’art. 129 c.p.p., non possiamo condividere il radicale orientanento giurisprudenziale secondo cui la regola, che equipara la prova mancante, insufficiente o contraddittoria della responsabilità dell’imputato alla prova positiva della sua innocenza (17), riguarda solo la sentenza emessa in esito al dibattimento, perché solo in questa fase, secondo il nuovo modello processuale, verrebbero assunte « prove » in senso proprio (18). Come la migliore dottrina osserva, l’attuale sistema processuale accoglie la c.d. « concezione relativistica della prova » (19): se ai fini della decisione dibattimentale è « prova » solo quella acquisita nel dibattimento, ai fini della decisione del giudice investito del rito abbreviato, del patteggiamento e del procedimento per decreto penale sono « prove » anche gli elementi raccolti nel corso delle indagini o dell’udienza preliminare. Tali elementi possono ben dirsi « prove » pure ai limitati fini delle decisioni demandate al giudice per le indagini preliminari in funzione di garanzia o controllo sull’operato del pubblico ministero: pensiamo ai provvedimenti in materia di libertà personale o di intercettazione di comunica133, giustamente osserva che il diniego al giudice investito della richiesta di giudizio immediato del potere di pronunciare ai sensi dell’art. 129 c.p.p. poteva giustificarsi prima della modifica dell’art. 425 c.p.p. ad opera della legge n. 105 del 1993, non rispondendo a logica che detto giudice potesse pronunciare sentenza di proscioglimento ogniqualvolta riscontrasse « che il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato », laddove il giudice dell’udienza preliminare poteva pronunciare sentenza di non luogo a procedere solo se le medesime situazioni si presentavano in termini di evidenza. L’incongruenza, e con essa la ragione per precludere al giudice richiesto del giudizio immediato la sentenza ex art. 129 c.p.p., è venuta meno con il nuovo testo dell’art. 425 c.p.p. (15) Sulla sentenza ex art. 469 c.p.p. v. AIMONETTO, op. cit., p. 128-129; BONETTO, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., vol. V, 1991, p. 51 e ss.; ILLUMINATI, Giudizio, in CONSO-GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, cit., p. 469-470. V. altresì Cass. III 7 aprile 1995, in Cass. pen. 1996, p. 2980-2981. (16) Sulla questione CORDERO, op. cit., p. 843 e ss.; SANNA, op. cit., p. 1147; STURLA, op. cit., p. 102. Con riguardo all’art. 152 c.p.p. 1930 v. LOZZI, Favor rei e processo penale, cit., p. 64 e ss. (17) Ovvero la prova insufficiente, contraddittoria o dubbia dell’esistenza di una condizione di procedibilità o proseguibilità dell’azione penale o di una causa di estinzione del reato alla prova certa dell’insussistenza di tale condizione o della sussistenza di tale causa. (18) Cass. V 16 marzo 1995, cit.; Id. V 15 marzo 1995, cit.; Id. III 1 luglio 1994, cit., Id. I 27 settembre 1991, cit. (19) NOBILI, La nuova procedura penale, 1989, p. 103 e ss.; v. anche UBERTIS, Prova (in generale), in Dig. disc. pen., vol. X, 1995, p. 304 e ss.
— 631 — zioni, ai provvedimenti conseguenti alla richiesta di archiviazione e a quelli conclusivi dell’udienza preliminare. 5. D’altra parte l’esame dei presupposti dell’archiviazione e della sentenza di non luogo a procedere smentisce l’assunto secondo cui la succitata regola di giudizio non opererebbe fuori del dibattimento. L’art. 125 disp. att. — per cui il pubblico ministero chiede l’archiviazione quando ritiene la notizia di reato infondata « perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio » — secondo la più corretta interpretazione impone all’organo d’accusa di richiedere e al giudice per le indagini preliminari di autorizzare l’archiviazione non solo quando sussiste la prova dell’innocenza della persona sottoposta ad indagini, ma anche quando la prova a carico manca o è insufficiente o contraddittoria, sì che, proiettando tale situazione probatoria nel dibattimento e tenendo conto delle regole, processuali e di giudizio, che informano tale fase, l’ipotesi d’accusa non appare fondatamente sostenibile (20). Ove poi il pubblico ministero, pur non disponendo di prove a carico o disponendo di prove a tal punto insufficienti e contraddittorie da far ritenere l’accusa insostenibile nel dibattimento, chieda il rinvio a giudizio, il giudice dell’udienza preliminare, rilevata tale situazione probatoria, deve pronunciare sentenza di non luogo a procedere (21). (20) BERNARDI, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., Normativa complementare, 1992, p. 472 e ss; CORDERO, op. cit., p. 412; DOMINIONI, Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, in AA.VV., Il nuovo processo penale dalle indagini preliminari al dibattimento, 1989, p. 62; GREVI, op. cit., p. 285 e ss; LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., p. 81 e 82; MARAFIOTI, L’archiviazione tra crisi del dogma di obbligatorietà dell’azione ed opportunità « di fatto », in Cass. pen., 1992, p. 207-208; MOLINAR ROET, Eccesso di delega nella disciplina dell’archiviazione per infondatezza della notizia di reato, in Giur. cost., 1990, p. 854-855; SAMMARCO, La richiesta di archiviazione, 1993, p. 134; Cass. III 22 giugno 1990, in Cass. pen., 1990, p. 397-398. V. inoltre diffusamente CAPRIOLI, L’archiviazione, 1994, p. 357 e ss., secondo cui « nei casi dubbi pubblico ministero e giudice possono decidere l’archiviazione della notizia di reato solo quando si possa fondatamente ritenere che la formazione della prova nel contraddittorio delle parti non risulterebbe comunque decisiva ai fini dell’accertamento (positivo o negativo) della responsabilità dell’imputato »; in un’analoga prospettiva cfr. GIOSTRA, L’archiviazione. Lineamenti sistematici e questioni intepretative, 2a ed., 1994, p. 32. Contesta, invece, il ricorso all’archiviazione in presenza di una situazione probatoria insufficiente o contraddittoria PRESUTTI, Presunzione di innocenza e regole di giudizio in sede di archiviazione e di udienza preliminare, in Cass. pen., 1992, p. 1361 e ss. e 1373 e ss. (21) LOZZI, op. ult. cit., p. 298 e ss.; NEPPI MODONA, Indagini preliminari e udienza preliminare, in CONSO-GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, cit., p. 385; contra MANZIONE, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., 2o aggiornamento, 1993, p.217: a parere di questo Autore nemmeno l’attuale formulazione dell’art. 425 c.p.p. legittima il giudice dell’udienza preliminare a pronunciare sentenza di non luogo a procedere in situazioni di carenza, insufficienza o contraddittorietà della prova, posto che in tale caso la valutazione rimessa al predetto giudice diverrebbe troppo incisiva, sì che si creerebbe « una sorta di automatismo tra rinvio a giudizio e condanna, che suona come sostanziale negazione dei principali caratteri della decisione dibattimentale ». La giurisprudenza per lo più ritiene che la sentenza di non luogo a procedere debba essere pronunciata sia in presenza della prova a discarico sia nella completa assenza della prova a carico (Cass. I 12 gennaio 1993, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 629; Id. VI 12 giugno 1991, in Cass. pen., 1992, p. 1572: entrambe le sentenze si riferiscono al vecchio testo dell’art. 425 c.p.p.). Quanto invece alle situazioni di insufficienza probatoria si registrano opinioni discordanti: per Cass. VI 9 ottobre 1995, in Arch. nuova proc. pen., 1996, p. 98; Id. VI 10 giugno 1993, in GUARINIELLO, op. cit., p. 164, l’ambito di azione dell’art. 425 c.p.p. tende a coincidere con quello dell’art. 125 disp. att., con la conseguenza che il giudice può pronunciare sentenza di non luogo a procedere anche a fronte di prove insufficienti o contraddittorie, ma solo quando non sia ragionevolmente ipotizzabile che l’insufficienza o contraddittorietà venga meno in sede dibattimentale; invece, secondo Giud. ind. prel. Trib. Pavia 8 giugno 1993, ric. Inzaghi, inedita, nell’udienza preliminare « l’esistenza di un quadro processuale connotato dall’insufficienza di prove osta ad una valutazione sfavorevole alla pubblica accusa, se non altro perché espressamente il legislatore riserva al giudice del dibattimento l’applicazione della norma di cui all’art. 530 comma 2 c.p.p. ». Si veda da ultimo Corte cost. 7 marzo 1996 n. 71, in G.U. 1a serie spec. 1996 n. 12: secondo tale
— 632 — Da ciò può trarsi una prima conclusione. Poiché, come abbiamo sopra chiarito, i presupposti, che a norma dell’art. 129 c.p.p. impongono al giudice di emettere sentenza di proscioglimento immediato, si traducono prima dell’esercizio dell’azione penale in altrettante ipotesi di archiviazione e nell’udienza preliminare in motivi legittimanti la sentenza di non luogo a procedere, analogamente le situazioni di carenza, insufficienza o contraddittorietà probatoria che giustificano l’archiviazione o la sentenza di non luogo a procedere devono tradursi, dopo l’esercizio dell’azione penale, e fuori dell’udienza preliminare, in motivi di proscioglimento a norma dell’art. 129 c.p.p. (22). Non si vede, infatti, perché il giudice, di fronte alle medesime prove mancanti, insufficienti o contraddittorie, dovrebbe pronunciare decreto di archiviazione o sentenza di non luogo a procedere se richiesto dal pubblico ministero dell’archiviazione o del rinvio a giudizio, mentre dovrebbe rimettere gli atti al pubblico ministero per il prosieguo del procedimento se richiesto di decreto penale o di applicazione della pena concordata (23). 6. Peraltro l’applicazione da parte del giudice richiesto di decreto penale o patteggiamento della regola di giudizio, che equipara la prova mancante, insufficiente o contraddittoria della responsabilità alla prova positiva dell’innocenza, può comportare notevoli inconvenienti se non contenuta entro precisi limiti. Proprio il proposto accostamento della sentenza ex art. 129 c.p.p. pronunciata da tale giudice al provvedimento di archiviazione o alla sentenza di non luogo a procedere deve indurci ad escludere che il ricorso alla suddetta regola di giudizio possa essere indiscriminato. In particolare non condividiamo l’orientamento dottrinale (criticato anche dalla sentenza annotata), secondo cui la richiesta di decreto penale o di applicazione della pena avrebbe l’effetto di consolidare il materiale probatorio a disposizione del giudice, che da « frutto provvisorio di un’indagine in atto » diverrebbe l’insieme degli elementi suscettibili di costituire il fondamento della decisione finale (24). Fuori del dibattimento l’equiparabilità della mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova di responsabilità alla prova positiva dell’innocenza può operare solo in quanto il giudice si trovi di fronte al risultato di indagini complete. È vero che il giudice per le indagini preliminari può disporre l’archiviazione o pronuncia (dichiarativa dell’illegittimità degli artt. 309 e 310 c.p.p. laddove non prevedono che il tribunale investito del riesame o dell’appello avverso provvedimenti restrittivi della libertà personale, possa valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza quando è stato emesso decreto che dispone il giudizio ex art. 429 c.p.p.) il giudice dell’udienza preliminare che ravvisa una situazione di insufficienza o contraddittorietà della prova può emettere sentenza di non luogo a procedere esclusivamente « nei casi in cui si appalesi la superfluità del giudizio, vale a dire nelle sole ipotesi in cui è fondato prevedere che l’eventuale istruzione dibattimentale non possa fornire utili apporti per superare il quadro di insufficienza o contraddittorietà probatoria. Ove ciò non accada... risulterà scontato il provvedimento di rinvio a giudizio ». (22) Per un parallelo fra i presupposti dell’archiviazione e della sentenza di non luogo a procedere da un lato, e quelli della sentenza ex art. 129 c.p.p. dall’altro, v. GREVI, op. cit., p. 1289, secondo cui nei procedimenti privi di udienza preliminare (ad esempio il procedimento pretorile), nei quali non è possibile la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, il pubblico ministero deve chiedere l’archiviazione quando possa fondatamente ritenere che l’esercizio dell’azione penale metterebbe il giudice investito del processo nella condizione di pronunciare sentenza a norma dell’art. 129 c.p.p.; IAFISCO, Il decreto penale di condanna tra immediata declaratoria di cause di non punibilità e restituzione degli atti al pubblico ministero in situazione di insufficienza di prove, in Giur. it., 1995, II, c. 556. (23) V. anche IAFISCO, loc. cit.; VESSICHELLI, Prova insufficiente o incompleta e proscioglimento a norma dell’art. 129 c.p.p., in Cass. pen., 1996, p. 480, sottolinea, a titolo esemplificativo, quale inutile ed antieconomica attività svolgerebbe il giudice per le indagini preliminari se, richiesto dal pubblico ministero di rinvio a giudizio dopo un precedente rigetto di richiesta di patteggiamento sorretta da prove insufficienti o contraddittorie, dovesse fare luogo all’udienza preliminare, in esito alla quale non potrebbe che pronunciare sentenza di non luogo a procedere per insufficienza o contraddittorietà della prova. (24) MARZADURI, op. cit., p. 120-121; SANNA, op. cit., p. 1148; SMERIGLIO, loc. cit.
— 633 — pronunciare sentenza di non luogo a procedere anche quando la prova della responsabilità manca, è insufficiente o contraddittoria, ma ciò può fare se sia in grado di decidere allo stato degli atti, vale a dire riscontri lacune probatorie che, emerse in esito ad indagini esaustive, non appaiono colmabili con un supplemento istruttorio e tantomeno con l’instaurazione del dibattimento. Se in ossequio alla menzionata regola di giudizio il predetto giudice potesse pronunciare decreto o ordinanza di archiviazione o sentenza di non luogo a procedere anche in presenza di lacune probatorie conseguenti ad indagini incomplete, il principio di obbligatorietà dell’azione penale sarebbe vanificato: al pubblico ministero sarebbe sufficiente non svolgere alcuna indagine per essere autorizzato a non esercitare l’azione stessa (25). Analogamente, se il giudice richiesto del decreto penale o dell’applicazione della pena dovesse prosciogliere ex art. 129 c.p.p. ogniqualvolta ravvisasse lacune probatorie, a prescindere dal grado di completezza delle indagini svolte dal pubblico ministero prima di tali richieste, quest’ultimo organo, qualora intendesse eludere l’obbligo di esercitare l’azione penale, non avrebbe che da sollecitare la pronuncia del decreto di condanna o concordare con l’imputato la richiesta di applicazione della pena senza aver svolto alcuna seria attività investigativa. Contro simili inconvenienti il giudice per le indagini preliminari richiesto di archiviazione o di rinvio a giudizio dispone di rimedi: qualora ritenga che le lacune probatorie dipendano dall’incompletezza delle indagini, in sede di controllo della richiesta di archiviazione può imporre al pubblico ministero lo svolgimento di indagini ulteriori (art. 409 comma 4 c.p.p.) (26) e nell’udienza preliminare può sollecitare il c.d. supplemento istruttorio (art. 422 c.p.p.) oppure rinviare l’imputato a giudizio se ritiene che la situazione di dubbio probatorio si chiarirà nel contraddittorio dibattimentale (27). Si aggiunga che il provvedimento di archiviazione non preclude una riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p. e che la sentenza di non luogo a procedere è revocabile ex art. 434 c.p.p. Di quali rimedi dispone invece il giudice che, richiesto del decreto penale di condanna o della sentenza di applicazione della pena, ritenga che alle carenze probatorie emergenti dagli atti potrebbe ovviarsi con un supplemento istruttorio? 7. La sentenza annotata sembra indicare la giusta soluzione. Essa, infatti, pur riconoscendo al giudice investito delle suddette richieste il potere di pronunciare ex art. 129 comma 1 c.p.p. a fronte non solo della prova dell’innocenza dell’imputato, ma anche della mancanza di prova della sua responsabilità, esige l’ulteriore condizione che tale carenza probatoria non appaia rimediabile nel seguito del procedimento. Quando la prova mancante appaia invece acquisibile, il giudice deve restituire gli atti al pubblico ministero. Tuttavia alcune perplessità permangono. Anzitutto non si vede perché la Corte non abbia esteso il principio, così affermato in ordine alla c.d. prova « mancante », al caso in cui il giudice richiesto di decreto penale o patteggiamento si trovi di fronte a prove insufficienti o contraddittorie e abbia ragione di ritenere (25) Il principio di necessaria « completezza » delle indagini preliminari è affermato a chiare lettere da Corte cost. 28 gennaio 1991 n. 88, in Giur. cost., 1991, p. 586, secondo cui esso da un lato assolve alla funzione « di consentire al pubblico ministero di esercitare le varie opzioni possibili e... indurre l’imputato ad accettare i riti alternativi », dall’altro evita « prassi di esercizio apparente dell’azione penale ». (26) Secondo GREVI, op. cit., p. 1299, i poteri riconosciuti al giudice per le indagini preliminari dall’art. 409 comma 4 c.p.p. hanno appunto la funzione di « evitare l’archiviazione motivata da un giudizio di infondatezza della notizia di reato, quando tale giudizio dipende in realtà da lacune investigative o da carenze nell’approfondimento degli elementi già acquisiti ». (27) V. CAPRIOLI, L’archiviazione, cit., p. 357; Corte cost. 7 marzo 1996 n. 71, cit.; Cass. VI 9 ottobre 1995, cit.
— 634 — che l’insufficienza o la contraddittorietà non verrà meno nel prosieguo del giudizio (28). In secondo luogo la soluzione proposta dalla Corte, se può essere senz’altro adottata dal giudice richiesto del decreto penale di condanna, appare di dubbia compatibilità con la disciplina dell’applicazione della pena su richiesta delle parti. A norma dell’art. 459 comma 3 c.p.p. il giudice per le indagini preliminari investito della richiesta di decreto penale ha la triplice scelta fra l’accoglimento della richiesta, la pronuncia della sentenza ex art. 129 c.p.p. e la restituzione degli atti al pubblico ministero. Anche il giudice investito della richiesta di patteggiamento ha analoghe opzioni, ma esso può respingere la richiesta solo in ipotesi tassative, vale a dire solo quando ritiene non corrette la qualificazione giuridica del fatto o l’applicazione e comparazione delle circostanze prospettate dalle parti ovvero considera la pena non congrua alla funzione rieducativa o ancora non ritiene di concedere la sospensione condizionale della pena a cui le parti abbiano subordinato la scelta del rito speciale. Quid allorché, le parti avendo individuato correttamente il nomen iuris, quantificato congruamente la pena e chiesto a ragione la sospensione condizionale, la prova del fatto o della responsabilità dell’imputato manchi o sia insufficiente allo stato, ma appaia acquisibile nel prosieguo del procedimento? In questo caso il giudice non può accogliere la richiesta di applicazione della pena, giacché, in ossequio all’art. 27 comma 2 Cost., tale applicazione non può prescindere da un accertamento della responsabilità penale fondato su « prove », seppure per prove si intendano, nel caso di specie, gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari (29). Peraltro detto giudice, diversamente da quanto la sentenza annotata ipotizza, non può nemmeno respingere la richiesta di applicazione della pena e disporre che il procedimento prosegua nelle forme ordinarie, in quanto non ricorrono le situazioni, tassativamente indicate dall’art. 444 c.p.p., che legittimano la reiezione della richiesta stessa. Non gli resta, quindi, che pronunciare la sentenza di proscioglimento immediato ex art. 129 c.p.p. (30). È vero che tale soluzione ripropone il suaccennato problema di conformità al principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale. Tuttavia delle due l’una: o, in accordo con l’annotata sentenza delle Sezioni Unite, si forza il dato normativo, o il profilo di incostituzionalità permane. 8. Va infine chiarito se la sentenza di proscioglimento immediato, emessa dal giudice investito della richiesta di decreto penale o di patteggiamento, una volta divenuta definitiva per la mancata o infruttuosa impugnazione (31) precluda un nuovo procedimento penale per il medesimo fatto nei confronti del prosciolto (32). A norma dell’art. 649 c.p.p. le sole sentenze « irrevocabili » di condanna o di proscioglimento (oltre ai decreti penali irrevocabili) impediscono che il condannato o prosciolto sia sottoposto a nuovo procedimento penale per il medesimo fatto anche se diversamente considerato per titolo, grado o circostanze. A norma (28) In termini analoghi VESSICHELLI, op. cit., p. 479. (29) V. ampiamente LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., p. 334 e ss. (30) LOZZI, op. ult. cit., p. 337. (31) Cass., Sez. un., 11 maggio 1993, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 409 ha chiarito che l’unico mezzo di impugnazione esperibile avverso la sentenza ex artt. 129 e 459 comma 3 c.p.p. è il ricorso per cassazione a norma degli artt. 111 comma 2 Cost. e 568 comma 2 c.p.p. (32) Sul ne bis in idem quale tipico effetto del giudicato penale v. DE LUCA, I limiti soggettivi della cosa giudicata penale, 1963, p. 89 e ss., e 124 e ss.; LOZZI, op. ult. cit., p. 512.
— 635 — dell’art. 648 c.p.p. solo le « sentenze pronunciate in giudizio » divengono irrevocabili. Occorre quindi chiedersi cosa significa « sentenze pronunciate in giudizio ». Dai lavori preparatori e dalla Relazione al progetto preliminare si evince che il legislatore si è servito di tale locuzione non tanto per indicare una precisa categoria di sentenze, quanto per escludere la riferibilità dell’aggettivo « irrevocabile » alle sentenze di non luogo a procedere, giacché non appariva coerente qualificare irrevocabile un provvedimento di cui l’art. 434 c.p.p. prevede espressamente la revoca (33). Parte della dottrina cerca invece di definire la locuzione « sentenze pronunciate in giudizio » attraverso parametri positivi. Essa esclude che « giudizio » debba intendersi come « dibattimento » e ritiene suscettibili di divenire irrevocabili, oltre alle sentenze dibattimentali, quelle conclusive del giudizio abbreviato, quelle che applicano la pena ex art. 444 c.p.p. e quelle emesse nel predibattimento a norma dell’art. 469 c.p.p., le quali tutte sono pronunciate nel contraddittorio delle parti (sia pure con le forme particolari in cui questo si manifesta nei riti speciali (34)) da un giudice investito di piena giurisdizione in quanto legittimato a decidere nel merito (35). Vuoi che si acceda alla tesi per cui l’art. 648 c.p.p. nega l’attitudine a divenire irrevocabili alle sole sentenze di non luogo a procedere, vuoi che si colleghi tale attitudine alla pronuncia della sentenza nel contraddittorio delle parti ad opera di un giudice investito di piena giurisdizione, anche le sentenze di proscioglimento immediato emesse dal giudice richiesto di patteggiamento o di decreto penale devono ritenersi « pronunciate in giudizio » (36). (33) V. Relazione al progetto preliminare del codice, cit., p. 590. La mancata inclusione della sentenza di non luogo a procedere fra quelle suscettibili di divenire irrevocabili ex art. 648 c.p.p. è aspramente criticata in dottrina (CORDERO, op. cit., p. 1042; TRANCHINA, L’esecuzione, in SIRACUSANO-GALATI-TRANCHINA-ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, vol. II, 1995, p. 564): si osserva che tale sentenza, una volta divenuta definitiva (perché non impugnata, o all’esito del procedimento di impugnazione) è irrevocabile finché non sopravvengano nuove prove atte a giustificare il ricorso al meccanismo ex art. 434 c.p.p., e che d’altra parte anche le sentenze irrevocabili pronunciate in giudizio sono talvolta passibili di revoca (si pensi alla revisione delle sentenze di condanna). V. inoltre LOZZI, op. ult. cit., p. 517-518, secondo cui la revoca della sentenza di non luogo a procedere non si configura come un’eccezione al ne bis in idem, posto che essa è subordinata all’esistenza di nuove fonti di prova che da sole o unitamente a quelle già acquisite possano determinare il rinvio a giudizio, e dunque « non è mai consentita sulla base di una diversa valutazione degli elementi di prova... il che comporta una ravvisabilità di efficacia preclusiva in assenza di nuovi elementi di prova ». (34) In merito alle varie forme di attuazione del contraddittorio nei riti speciali v. ampiamente DI CHIARA, Il contraddittorio nei riti camerali, 1994, p. 441 e ss. (35) SORRENTI, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., vol. VI, 1991, p. 418. Quanto alla sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., l’attitudine a divenire irrevocabile è affermata chiaramente da Cass. V 6 dicembre 1993 n. 4046. V. anche GIOVENE, Giudicato, in Dig. disc. pen., vol. V, 1991, p. 426, secondo cui per « sentenze pronunciate in giudizio » devono intendersi quelle emesse nel dibattimento, nel giudizio abbreviato, e le sentenze di applicazione della pena pronunciate nell’udienza preliminare. (36) Un’indiretta conferma di ciò può trarsi da Corte cost. 15 aprile 1992 n. 200, in Giur. cost., 1992, p. 1473. La Corte, nel dichiarare infondata la questione di legittimità dell’art. 669 comma 9 c.p.p. laddove, nell’ipotesi di conflitto tra sentenza di non luogo a procedere e sentenza pronunciata in giudizio (o decreto penale), dà sic et simpliciter la prevalenza a quest’ultima, osserva che la sentenza con la quale il giudice per le indagini preliminari presso la pretura dichiara il reato estinto per oblazione (a seguito di richiesta formulata dall’imputato nei quindici giorni successivi alla notifica del decreto di citazione a giudizio), va assimilata non ad una sentenza di non luogo a procedere, ma ad una sentenza di proscioglimento (evidentemente ai sensi dell’art. 129 c.p.p.), con la conseguenza che in caso di contrasto fra la stessa, passata in giudicato, ed altra sentenza irrevocabile pronunciata in giudizio, deve applicarsi l’art. 669 comma 7 c.p.p., e non il comma 8 del medesimo articolo. Se ne desume che la Corte annovera la sentenza di proscioglimento immediato emessa dal giudice per le indagini preliminari presso la pretura fra le sentenze pronunciate in giudizio. L’attitudine della sentenza ex artt. 129 e 459 comma 3 c.p.p. a divenire irrevocabile e dunque a precludere il bis in idem è affermata anche da IAFISCO, loc. ult. cit.
— 636 — La decisione del giudice sulla richiesta di patteggiamento interviene a contraddittorio già instaurato (se tale richiesta è formulata nell’udienza preliminare o prima dell’apertura del dibattimento) ovvero ne presuppone l’instaurazione (la richiesta presentata nelle indagini preliminari rende necessaria la fissazione dell’apposita udienza ex art. 447 c.p.p.). Inoltre le parti, nel chiedere l’applicazione della pena, investono il giudice di piena giurisdizione (37). Anche la richiesta di decreto penale di condanna conferisce pieni poteri giurisdizionali al giudice per le indagini preliminari. È vero che questo, a norma dell’art. 459 comma 3 c.p.p., decide fuori del contraddittorio; tuttavia la dottrina osserva che esso, ove ravvisi i presupposti del proscioglimento immediato, pronuncia sentenza previa fissazione di un’udienza in camera di consiglio a norma dell’art. 127 c.p.p. (38). Il riconoscimento alla sentenza ex art. 129 c.p.p., emessa dal giudice richiesto di decreto penale o di applicazione della pena, dell’attitudine a divenire irrevocabile e dunque preclusiva del bis in idem comporta però gravi incongruenze. Poniamo che di due coimputati del medesimo reato citati alla stessa udienza preliminare e interessati da un’identica situazione probatoria, il primo, non avendo richiesto alcun rito speciale, sia prosciolto a norma dell’art. 425 c.p.p.; il secondo, avendo chiesto l’applicazione concordata della pena, sia prosciolto ex art. 129 c.p.p. Non si vede perché, divenute definitive le due sentenze, soltanto il primo, ove emergano o si scoprano nuove prove a carico, debba essere esposto a un nuovo procedimento penale. Non potrebbe certo sostenersi che il secondo fruisce di una situazione più favorevole a titolo di premio per aver richiesto il patteggiamento, giacché la scelta di tale rito ha tutt’altro scopo che quello di sollecitare la pronuncia di una sentenza ex art. 129 c.p.p. (39) e d’altra parte i benefici connessi al patteggiamento sono solo quelli previsti dalla legge. Al contrario, ipotizzando che le sentenze di proscioglimento immediato del giudice richiesto di decreto penale o di patteggiamento non implichino il ne bis in idem (40), si ridurrebbe la portata del problema di violazione dell’art. 112 Cost. che abbiamo evidenziato nel parlare del rapporto fra le sentenze de quibus e la regola di giudizio che equipara la prova mancante, insufficiente o contraddittoria della responsabilità dell’imputato alla prova positiva della sua innocenza. Tuttavia, qualora le sentenze ex artt. 444 comma 2, 129 c.p.p. e 459 comma 3, 129 c.p.p. non divenissero « giudicato » a norma degli artt. 648 e 649 c.p.p., al fine di evitare nuovi problemi di costituzionalità sarebbe opportuno stabilire a quali condizioni ed entro quali limiti consentire l’instaurazione di un nuovo procedimento penale a carico del prosciolto, attraverso un meccanismo analogo a quello che gli artt. 434-437 c.p.p. predispongono ai fini della revoca della sentenza di non luogo a procedere (com’è noto quest’ultima può essere revocata se « sopravvengono o si scoprono nuove fonti di prova che, da sole o unitamente a quelle già acquisite possono determinare il rinvio a giudizio »; inoltre precise garanzie — no(37) STURLA, op. cit., p. 101. (38) MARZADURI, op. cit., p. 121. (39) V. Cass. IV 18 aprile 1991 n. 10746, ric. Sputore, secondo cui la verifica da parte del giudice investito della richiesta di applicazione della pena dell’insussistenza dei presupposti per il proscioglimento ex art. 129 è un dovere d’ufficio del giudice stesso, che « non può essere sollecitato dalle parti, le quali a ciò hanno rinunciato per il fatto stesso di avere richiesto il cosiddetto patteggiamento ». (40) Uno spunto in tal senso può rinvenirsi in LORUSSO, op. ult. cit., p. 488-489: l’Autore sottolinea che la pronuncia delle sentenze di proscioglimento immediato ex art. 129 c.p.p. è legata alle regole decisorie dello stato o grado in cui dette sentenze sono emesse, con la conseguenza da un lato che la portata dell’accertamento in esse contenuto varia a seconda del momento processuale della relativa pronuncia (sotto questo profilo le sentenze emesse ex artt. 129, 444 comma 2 e 129, 459 comma 3 c.p.p. conterrebbero un accertamento incompleto), dall’altro che pure l’efficacia preclusiva delle stesse sentenze varia secondo il medesimo parametro.
— 637 — mina di un difensore ed udienza in camera di consiglio ex art. 127 c.p.p. — sono previste a tutela del diritto di difesa dell’imputato). L’applicabilità analogica al caso qui in esame degli artt. 434 e ss. c.p.p., dettati con esclusivo riguardo alla sentenza di non luogo a procedere (41), va esclusa. L’impossibilità di sottoporre il prosciolto ex artt. 444 comma 2 e 129 c.p.p. o 459 comma 3 e 129 c.p.p. a nuovo procedimento penale per il medesimo fatto se non a fronte del sopravvenire di nuove prove a carico può farsi discendere dal principio generale per cui ogni provvedimento definitivo, anche se inidoneo a costituire cosa giudicata, è dotato di efficacia preclusiva allo stato degli atti (42). Restano però da individuare gli strumenti con i quali garantire il diritto dell’imputato a difendersi dall’eventualità di una nuova azione penale. Ciò, a nostro parere, richiede un intervento legislativo. BARBARA LAVARINI Dottore di ricerca in Procedura penale Università di Torino
(41) Tra l’altro in ossequio ad una specifica direttiva della legge delega (art. 2 n. 56), che impone la « determinazione dei casi e delle forme, con idonee garanzie per l’imputato, in cui può essere esercitata l’azione penale per fatti precedentemente oggetto delle sentenze di non luogo a procedere indicate nel numero 52 ». (42) Per varie applicazioni di tale principio, in materia di procedimenti incidentali conseguenti ad impugnazioni di provvedimenti de libertate, di procedimenti di esecuzione e sorveglianza v. Cass., Sez. un., 1 luglio 1992, in C.E.D. Cass. n. 191183; Id. I 5 maggio 1992, ivi, n. 190527; Id. 3 maggio 1991, ivi, n. 187473; Id. 23 maggio 1990, ivi, n. 184698. V. inoltre CORDERO, op. cit., p. 1057.
— 638 — CASSAZIONE PENALE — Sezione IV — 12 agosto 1996 Pres. Rossi — Rel. De Roberto P.M. Iadecola (concl. conf.) — Ric. Acampora Competenza e giurisdizione penale — Competenza per territorio — Competenza del giudice che dispone la misura cautelare — Sindacabilità della competenza territoriale in sede di impugnazione avverso l’ordinanza cautelare — Affermazione (C.p.p. artt. 24, 27, 311). Competenza e giurisdizione penale — Competenza territoriale determinata dalla connessione — Fattispecie — Reato continuato — Concorso di persone nei singoli reati — Identità dei concorrenti nei singoli reati — Necessità — Affermazione (C.p.p. art. 12). Competenza e giurisdizione penale — Procedimento riguardante un magistrato — Connessione con altri procedimenti — Attrazione nella cognizione del giudice competente a conoscere del procedimento contro un magistrato — Presupposti — Affermazione (C.p.p. art. 11). L’incompetenza per territorio del giudice che ha disposto una misura cautelare è sindacabile in sede di impugnazione avverso la misura stessa (1). La competenza per connessione determinata dalla continuazione opera solo se sia riferibile a più fattispecie criminose monosoggettive o a più fattispecie criminose concorsuali in cui l’identità del disegno criminoso sia comune a tutti i concorrenti (2). I procedimenti connessi a quelli in cui un magistrato assume la qualità di imputato sono di competenza del giudice, egualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto più vicino (3). (Omissis). — Sul ricorso proposto da Acampora Giovanni, avverso l’ordinanza 3 luglio 1996 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano. Visti gli atti, l’ordinanza denunciata ed il ricorso. Udita nell’udienza in camera di consiglio la relazione fatta dal Consigliere de Roberto. Udite le conclusioni del Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. Gianfranco Iadecola, che ha concluso per l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata, in relazione ai gravi indizi di colpevolezza ed alle esigenze cautelari di cui all’art. 274, lettera b, nonché alla ritenuta competenza per territorio, chiedendo trasmettersi gli atti al Tribunale di Roma. Uditi i difensori, avvocati Fabio Dean e Guido Viola. FATTO. — 1. Con ordinanza del 3 luglio 1995 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano disponeva la custodia cautelare in carcere di Capitanucci Carlo per il reato di collusione al fine di frodare la finanza, per avere concordato, quale ispettore del SECIT e colonnello in ausiliaria della Guardia di finanza, il versamento di un’imprecisata somma di danaro proveniente dal costruttore Renato Armellini e dal suo genero Alessandro Mei per fornire informazioni sull’attività del SECIT e copia di atti dello stesso SECIT, reato aggravato dall’a-
— 639 — vere commesso il fatto allo scopo di far conseguire all’Armellini l’impunità dai reati finanziari: in Roma, tra la fine del 1988 ed il 1992; del Capitanucci e del commercialista Sergio Melpignano per il reato di corruzione aggravata, in ordine ai medesimi fatti materiali ora indicati; del magistrato Antonio Pelaggi relativamente al reato di corruzione in atti giudiziari aggravata e continuata, per avere, nella sua qualità di Presidente della VIII Sezione penale del Tribunale di Roma, accettato la promessa e successivamente ricevuto la somma di circa lire 400 milioni dall’Armellini, dal Mei e da altri, al fine di assicurare all’Armellini il favore in un procedimento penale per reati finanziari e l’impunità dai detti reati: in Roma tra il 1991 ed il 1993; dell’avvocato Giovanni Acampora, attuale ricorrente, e del commercialista Antonio Staffa relativamente ai delitti di corruzione e di falsa perizia per avere il secondo, nella sua qualità di perito nominato nel procedimento a carico dell’Armellini, accettato la promessa e poi ricevuto, per il tramite dell’Acampora, parte della somma di lire 2 miliardi versata all’Acampora allo scopo di favorire l’Armellini ed i coimputati nel sopra ricordato procedimento penale, redigendo lo Staffa, in concorso con l’Acampora, una falsa perizia, dopo aver concordato il tenore dei quesiti: in Roma, negli anni 1990, 1991. Per l’addebito di cui all’art. 373 c.p. a carico dell’Acampora e dello Staffa, il Giudice per le indagini preliminari sottolineava che, poiché il Pubblico ministero aveva puntualizzato « che l’imputazione sarà meglio precisata in prosieguo delle indagini preliminari » (esigenze di ‘‘cautela processuale’’ avevano, fra l’altro, impedito di acquisire la perizia), « si deve ritenere che con questa affermazione il pubblico ministero non abbia inteso richiedere la misura cautelare per tale capo di imputazione preliminare, dovendosi attendere l’approfondimento annunciato all’ufficio ». 2. L’impianto accusatorio su cui risulta strutturata l’ordinanza custodiale ha il suo punto di forza nelle dichiarazioni rese dal Mei al pubblico ministero nel 1996. Il dichiarante, che parrebbe indagato di reato connesso — anche se dagli atti trasmessi a questa Corte non risulta quale specifico addebito sia stato elevato a suo carico — descrive tre fasi, per così dire, corruttive, dirette a sottrarre l’Armellini alle sanzioni derivanti da una evasione fiscale di circa 500 miliardi. La prima fase vede come protagonisti il Capitanucci e il Melpignano ed è diretta inizialmente a rivelare all’Armellini l’esistenza di anonimi a suo carico presso il SECIT, così da indurlo, tramite il Melpignano, a ‘‘spersonalizzare’’ fraudolentemente il suo patrimonio attraverso l’acquisto, su consiglio dell’Acampora, della FINCOM per il tramite della FIRP, società del gruppo Armellini. Il tutto era avvenuto previa sottrazione e manipolazione dei documenti sociali, allo scopo di far risultare che gli accadimenti societari si erano verificati circa dieci anni prima. A tanto aveva provveduto il Melpignano, al quale erano stati versati svariati miliardi. L’operazione, peraltro, non era compiutamente riuscita in quanto i documenti erano stati precedentemente microfilmati e le alterazioni e le contraffazioni risultavano evidenti. Il Capitanucci, dal suo canto, oltre a preavvertire l’Armellini dell’inchiesta a suo carico, scaturita da una serie di anonimi pervenuta al SECIT, si era adoperato per far conoscere tempestivamente l’esito delle indagini compiute. La fase successiva (avviata, una volta — come afferma il Mei — ‘‘scaricato’’ il Melpignano) ha ad oggetto il procedimento penale instaurato nei confronti dell’Armellini e dei suoi familiari; una fase, stando alla originaria versione dei fatti
— 640 — fornita dal Mei, non disgiunta, né cronologicamente né logicamente, dalla terza, incentrata sull’esito del processo e nel corso della quale un ruolo cruciale assume il Presidente della VIII Sezione penale del Tribunale di Roma Antonio Pelaggi. Poiché occorreva, anzitutto, espletare una perizia che non facesse emergere le manipolazioni sopra ricordate e le cui operazioni fossero, quindi, precedute da quesiti appositamente concordati con il magistrato, il tutto viene affidato alle cure dell’avv. Acampora con il quale l’Armellini stipula un ‘‘accordo di risultato’’ per svariati miliardi. Afferma il Mei che il Presidente Pelaggi — retribuito con centinaia di milioni dall’Armellini — « nominò tal Staffa come perito del Tribunale e che era l’Acampora che forniva allo Staffa — pur non essendo formalmente il difensore degli imputati, la documentazione sulla quale svolgeva la perizia ». L’atto in parola, dunque, concordati i quesiti (un dato emergente anche dall’imputazione interlocutoria di cui al capo D), era stata redatta non dallo Staffa, ma dall’Acampora. La seconda fase sembra, almeno in parte, dissociarsi dall’ultima, formante oggetto del c.d. accordo di risultato: quella, cioè, riguardante la sentenza favorevole all’Armellini, così da determinare l’insorgere di perplessità circa il coinvolgimento, in tale momento, del Pelaggi. Nel corso di uno degli interrogatori, infatti, il Mei afferma: « la perizia potrebbe essere stata disposta, contrariamente ai miei ricordi, o dal giudice istruttore originario ... o da quello che gli è subentrato ... e il denaro richiesto con riferimento alla perizia dovrebbe essere compreso in quello fissato per l’accordo di risultato ... la nomina del perito e la sottoscrizione della perizia sono costate due miliardi ». Riferiva, ancora il Mei che una parte del rapporto professionale con l’Acampora era stato regolarmente fatturato, mentre — ovviamente — quello riguardante la sua attività ‘‘occulta’’ per favorire l’esito del processo, « è stato dato in nero, in contanti, in buste ». Relativamente alla posizione dell’Acampora, secondo il giudice a quo, le propalazioni del Mei, intrinsecamente attendibili risulterebbero riscontrate dalle dichiarazioni dell’autista dell’Armellini, tale Stossich, il quale ha riferito di aver accompagnato il suo datore di lavoro « spessissimo presso lo studio dell’avv. Acampora » (nell’arco di due anni e mezzo vi erano « stati anche periodi in cui il signor Armellini si recava presso lo studio Acampora anche tutti i giorni ») ed alcune volte dallo Staffa. Le esigenze cautelari venivano indicate dall’ordinanza impugnata nella circostanza che, relativamente all’Acampora, i fatti a lui ascritti « si inseriscono in un contesto di reiterazione ed in ambito dove sono già stati individuati altri soggetti disponibili a erogare somme ovvero raggiunti da indizi di essere percettori delle stesse o quanto meno nei confronti dei quali si è vantato un credito millantato o inesistente. Una situazione, dunque, assimilabile all’omertà; con conseguente sussistenza delle condizioni indicate dall’art. 274, lettera a, c.p.p. Grave sarebbe anche il pericolo di fuga, per disporre l’Acampora di conti all’estero. Una parte dell’ordinanza impugnata viene dedicata all’affermazione della competenza territoriale dell’autorità giudiziaria di Milano, nonostante, alla stregua degli addebiti enunciati nelle imputazioni provvisorie, i fatti risultino commessi tutti a Roma. Il reato più grave è quello di cui all’art. 3 della legge 9 dicembre 1941, n.
— 641 — 1383, ascritto al Capitanucci, connesso, ai sensi dell’art. 12, lettera b, c.p.p., con il reato di corruzione contestato allo stesso Capitanucci e al Melpignano e con quelli addebitati al Pelaggi, all’Acampora ed allo Staffa. A loro volta, i reati ascritti al Capitanucci risultano connessi, sempre alla stregua della norma ora ricordata, con altri reati della stessa specie commessi dall’indagato nel medesimo arco di tempo, mentre era in servizio nell’identico ufficio e per i quali ha riportato due condanne con altrettante sentenze pronunciate dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, l’una ad anni quattro e mesi sei di reclusione, l’altra ad anni tre e mesi sei di reclusione. Il fatto che il titolo per l’attribuzione della competenza riguardi uno soltanto degli imputati non avrebbe alcuna rilevanza in quanto « la continuazione non è titolo autonomo attributivo di competenza... ma è uno dei casi di connessione e la legge processuale non distingue tra i diversi casi ». I fatti per i quali è intervenuta condanna del Capitanucci ad opera della sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano del 30 marzo 1996, relativi alla verifica effettuata presso la COGEFAR, sarebbero comunque antecedenti a quello oggetto della presente procedura incidentale. Se è vero, infatti, che le operazioni relative alla COGEFAR risultano iniziate più o meno nello stesso periodo, è anche vero che esse si sono concluse il 29 settembre 1989, mentre quelle relative alle società del gruppo Armellini si sono svolte dal 1988 al 1993. Cosicché, « in attesa di meglio individuare l’esatto momento consumativo del reato non può che ritenersi la competenza territoriale della A.G. di Milano ». 3. Ha proposto ricorso per saltum in cassazione l’Acampora, deducendo cinque ordini di motivi. Denuncia, in primo luogo, l’incompetenza per territorio dell’Autorità giudiziaria di Milano. Più in particolare, il giudice a quo avrebbe affermato la competenza per connessione rispetto a procedimento già definito con sentenza di condanna, così da vulnerare il principio in base al quale la forza attrattiva conseguente al rapporto sostanziale riconducibile all’ipotesi prevista dall’art. 81, 2o comma, c.p. rimane operante soltanto nel caso in cui i procedimenti si trovino nel medesimo stato e grado. Inoltre, la competenza del Tribunale di Milano sarebbe stata fatta derivare dalla continuazione conseguente ad una sentenza di condanna pronunciata a carico del Capitanucci, in esito a giudizio abbreviato, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, per fatti diversi uniti dal vincolo della continuazione con quelli oggetto del procedimento ora all’esame di questa Corte. Una statuizione contrastante con le regole in materia di competenza per connessione, non potendo la continuazione, quale presupposto per l’attribuzione della competenza, riferirsi a soggetti diversi. E, per di più, rispetto a fatti cronologicamente posteriori a quelli oggetto del presente procedimento. Si denuncia, ancora, incompetenza territoriale del giudice a quo, operando nella specie la competenza ‘‘funzionale’’ di cui all’art. 11 c.p.p., per essere coinvolto nella vicenda in esame, per reato connesso a quello per cui si procede a carico dell’Acampora, un magistrato del Tribunale di Roma. Con conseguente competenza dell’autorità giudiziaria di Perugia. Nel merito, si lamenta omessa valutazione degli elementi obiettivamente favorevoli all’indagato, errori logici e giuridici della motivazione, travisamento dei fatti.
— 642 — In prossimità dell’udienza in camera di consiglio il ricorrente ha contestato l’ipotizzabilità di qualsivoglia reato, per essere la corruzione attiva in atti giudiziari stata contemplata successivamente alla commissione dei fatti e precisamente con l’art. 2 della l. 7 febbraio 1992, n. 481, che ha modificato l’art. 321 c.p. DIRITTO. — 4. Va preliminarmente esaminata l’eccezione relativa alla competenza territoriale sollevata dalla difesa del ricorrente. Come è noto, le Sezioni unite di questa Corte (Sez. un., 25 ottobre 1994, De Lorenzo), dopo aver premesso che la competenza è un presupposto processuale indissociabile dalla attività di giurisdizione, ha ravvisato in essa uno degli strumenti volti ad assicurare l’astratta imparzialità del giudice attraverso la precostituzione di strumenti oggettivi per la determinazione della sua sfera di cognizione; il tutto secondo i principi e criteri direttivi enunciati nella legge-delega del nuovo codice di procedura penale, che ha additato al legislatore la necessità di una ‘‘specifica regolamentazione’’ della competenza per la fase delle indagini preliminari. E poiché, in esecuzione di tali direttive, il codice del 1988, lungi dal precludere il sindacato in ordine alla competenza del giudice che ha disposto una misura cautelare nel corso delle indagini preliminari, ha armonizzato una simile verifica con le particolari caratteristiche del procedimento incidentale che si sviluppa e si esaurisce (almeno di norma) nella fase che precede l’esercizio dell’azione penale, le Sezioni unite sono pervenute alla conclusione che l’incompetenza per territorio del giudice che ha disposto una misura cautelare è sindacabile in sede di impugnazione incidentale. Se e sempreché la detta incompetenza emerga dall’oggettiva formulazione del capo di imputazione provvisoriamente elevato; dovendosi negli altri casi ritenere che l’incompetenza territoriale potrà essere riconosciuta e dichiarata solo se specifiche risultanze acquisite agli atti del procedimento incidentale consentano di formulare conclusioni che, sebbene non dotate dei connotati conseguenti ad un’acquisita e definitiva certezza, rivestano almeno il requisito della ragionevole apprezzabilità. La limitata efficacia delle decisioni sulla competenza assunte nel procedimento incidentale e la loro intrinseca incapacità di diffondere effetti sul ‘‘processo’’, una volta che a questo si darà inizio, trova, quindi, la sua giustificazione proprio nel fatto che la misura cautelare deve essere adottata dal giudice che, secondo le regole stabilite dall’art. 4 e seguenti c.p.p., ha la cognizione del procedimento. Con la conseguenza che, mentre, da un lato, il potere di disporre una misura cautelare da parte di giudice incompetente per qualsiasi causa è del tutto eccezionale, in quanto legittimato soltanto dall’improrogabile necessità di salvaguardare le esigenze cautelari, dall’altro lato, il sindacato sul corretto esercizio di tale potere non può che essere comprensivo della valutazione dei presupposti che lo hanno attivato e, cioè, sia dell’incompetenza del giudice sia dell’urgenza del provvedimento assunto. 5. Poiché dall’imputazione provvisoria emerge che i reati contestati a tutti gli indagati risultano consumati in Roma, diviene più agevole per questa Corte la verifica del requisito della competenza, prospettandosi così una problematica da affrontare e risolvere sulla base di principi di puro diritto. Il giudice a quo ha, del resto, affermato la sua cognizione espressamente richiamando il vincolo della continuazione ravvisato rispetto ad analoghi reati consumati da uno degli indagati a
— 643 — Milano, ed in ordine ai quali è già intervenuta condanna, a seguito di giudizio abbreviato, da parte del Giudice per le indagini preliminari di quel Tribunale. Premette il Collegio di dover prescindere da ogni riferimento al tempus commissi delicti, quale criterio determinativo della competenza per connessione in tema di reato continuato. Il rapporto cronologico tra le verifiche della COGEFAR e quelle relative alle società dell’Armellini, appartiene ancora — nonostante le precisazioni del giudice a quo e le elaborate contestazioni difensive — all’area delle ipotesi; potendo qui ripetersi che ‘‘il vizio di incompetenza territoriale che colpisce un provvedimento applicativo di una misura cautelare’’ deve essere accertato in concreto, ‘‘attraverso una corretta utilizzazione delle specifiche risultanze acquisite agli atti del procedimento penale’’ (Sez. un., 25 ottobre 1994, De Lorenzo); un’operazione non ancora in grado di pervenire a conclusioni connotate da quei requisiti di ‘‘ragionevole apprezzabilità’’ che solo consentono lo spostamento di competenza nella fase delle indagini preliminari. 6. La Corte è, però, dell’avviso che il giudice a quo, con l’affermare la propria competenza, abbia palesemente violato le norme processuali sul tema, cadendo in molteplici errori di diritto; per di più, attraverso l’utilizzazione di argomentazioni non altrimenti definibili che come surrettizie. Sotto il primo profilo, il Giudice per le indagini preliminari, dopo aver rimarcato che ‘‘la continuazione non è titolo autonomo attributivo di competenza (come nel previgente codice di procedura penale), ma è uno dei casi di connessione e la legge non distingue tra i diversi casi’’, subito però aggiunge — in tal modo, almeno in apparenza, contraddicendosi — che, a seguito della modifica dell’art. 12, lett. b, c.p.p., la continuazione è stata inclusa tra le ipotesi di connessione. Vero è che l’art. 4 c.p.p. esclude dalle regole determinative della competenza la continuazione; senonché, a seguito della sostituzione della lett. b dell’art. 12 c.p.p. ad opera dell’art. 1 del decreto-legge 20 novembre 1991, n. 367, convertito dalla legge 20 gennaio 1992, n. 8, la continuazione deve ritenersi autonomo criterio di attribuzione della competenza, ma nei limiti fissati dall’art. 12, lett. b, c.p.p.: nel senso che si ha connessione di procedimenti ‘‘se una persona è imputata di più reati... commessi con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso’’. Il codice del 1988, infatti, riprendendo la scelta sistematica del codice del 1913, ha regolamentato la connessione come vera e propria disciplina di criteri attributivi della competenza, così rispecchiando ‘‘una precisa linea di politica legislativa diretta ad una rigorosa delimitazione della connessione, al fine di non vulnerare il principio del giudice naturale precostituito per legge’’ (cfr. Relazione al progetto preliminare, pp. 3, 4). Ad una simile rielaborazione sistematica ha fatto, però, da indispensabile contrappunto, l’affermazione dell’orientamento volto a ridurre drasticamente i casi di connessione: da un lato, attraverso l’eliminazione delle previsioni di connessione probatoria, ritenute non definibili utilizzando una rigorosa formula legislativa, e, dall’altro lato, restringendo notevolmente i casi di connessione soggettiva. Peraltro, il legislatore ha tenuto ben distinto il sistema della rilevabilità della incompetenza per connessione dal sistema della rilevabilità della incompetenza
— 644 — per materia; e ciò anche quando la connessione incida su tale tipo di competenza per essere i procedimenti connessi attribuiti alla cognizione di giudici diversi ratione materiae. Infatti, mentre il 1o comma dell’art. 21 prescrive la rilevabilità, anche di ufficio, della incompetenza per materia in ogni stato e grado del processo, il 3o comma dello stesso articolo, assimilando il regime della incompetenza per connessione (anche quando comporti una diversa attribuzione di competenza per materia) al regime della competenza per territorio, prescrive che essa può essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell’udienza preliminare o, se questa manchi, subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti. Può, dunque, ribadirsi quanto statuito dalla decisione della Corte costituzionale n. 521 del 1991, con la quale è stata dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità dell’art. 491, 1o comma, c.p.p., nella parte in cui impone la decisione immediata sull’eccezione di incompetenza territoriale e vieta di ritornare sulla questione nel corso del dibattimento — un principio da ritenere, a fortiori, operante nel caso in cui l’incompetenza venga rilevata dal giudice solo al momento della pronuncia della sentenza — osservandosi che l’imposizione di una disciplina particolarmente rigorosa per l’incompetenza territoriale (disciplina cui è assoggettata anche la competenza per connessione) corrisponde alla ‘‘peculiare natura della competenza in esame, per cui il legislatore può legittimamente ritenere, nella sua discrezionalità, di limitare la possibilità di rilevarne i vizi a vantaggio dell’interesse all’ordine ed alla speditezza del processo’’. 7. Le considerazioni che precedono sono state formulate solo allo scopo di sottolineare l’esistenza di una certa vischiosità, anche nel linguaggio della giurisprudenza, circa i criteri ermeneutici da utilizzare in tema di rapporti tra competenza per territorio e connessione per continuazione, nonostante l’implicita designazione di quest’ultima come autonomo criterio attributivo della competenza. Ciò soprattutto in forza dell’irruzione dei nuovi criteri introdotti dal decreto-legge n. 367 del 1991, così da dar conto anche delle contraddizioni rilevate nel testo dell’ordinanza impugnata. Va perciò precisato come in materia di competenza per connessione derivante dalla accertata presenza delle condizioni previste dall’art. 81, 2o comma, c.p.p. le novazioni che hanno coinvolto l’art. 12, lett. b, c.p.p. risultano predisposte in vista di realizzare ‘‘una modifica da più parti auspicata sin dall’epoca di gestazione della nuova normativa processuale, che, riguardando un tipo di connessione soggettiva (concernente cioè più reati addebitabili al medesimo imputato) produce conseguenze irrilevanti in termini di dimensione del processo (così la Relazione al d.d.l. di conversione del decreto-legge n. 367 del 1991)’’. Una puntualizzazione davvero significativa perché sta a comprovare che, anche a seguito della modifica legislativa, l’ambito della connessione rimane — in linea di principio — rigorosamente monosoggettivo. Cosicché, combinando le ipotesi di cui alla lett. b dell’art. 12 con le ipotesi previste dalle lett. a e c dello stesso articolo, se è pur vero che diviene possibile una cognizione unitaria per tutti i procedimenti connessi, è anche vero che l’istituto della continuazione resta — al fine di rendere operante la connessione — decisamente ancorato alla identità dei soggetti nei confronti dei quali si procede.
— 645 — L’argomento letterale offerto dall’art. 12, lett. b, è, infatti, in grado di dissipare ogni dubbio interpretativo circa l’estensione da attribuire, ai detti fini, al vincolo della continuazione. Fermo restando che l’ipotesi contemplata non può determinare alcuna variazione della dimensione soggettiva del processo, la connessione è in grado di giustapporsi come criterio esponenziale nel caso in cui una persona sia imputata di più reati legati dal vincolo della continuazione; ovvero laddove si prospetti una situazione nella quale alcuni dei reati commessi a titolo individuale in esecuzione del medesimo disegno criminoso risultino connessi ad altri commessi in concorso con altre persone. Soltanto in tal caso potrebbe allora ipotizzarsi la trattazione congiunta di tutti i procedimenti per effetto dell’art. 12, lett. b. Ma, poiché la valenza precettiva della connessione meramente soggettiva è stata drasticamente ridimensionata (la lett. a dell’art. 12 lo sta univocamente a dimostrare), la questione non ha neppure ragione di prospettarsi. Poste tali proposizioni, ne consegue, a corollario, che la connessione per continuazione rileva processualmente solo se sia riferibile ad una fattispecie monosoggettiva o ad una fattispecie concorsuale in cui l’identità del disegno criminoso sia comune a tutti i compartecipi. Al di fuori di queste due ipotesi il vincolo della continuazione non è in grado di determinare alcuna attribuzione e conseguente spostamento di competenza (ai sensi dell’art. 16 c.p.p.), producendo i suoi effetti solo sul piano sostanziale, ai fini della determinazione della pena. Il tutto, del resto, seguendo itinerari interpretativi già percorsi dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema, attenta a rimarcare come la continuazione è idonea a determinare lo spostamento della competenza per connessione ai sensi degli artt. 12, lett. b, e 16 c.p.p., solo se l’episodio in continuazione riguardi lo stesso o, se sono più d’uno, gli stessi imputati, giacché l’interesse di un imputato alla trattazione unitaria di fatti in continuazione non può pregiudicare quello del coimputato in uno di questi fatti a non essere sottratto al giudice naturale secondo le regole ordinarie della competenza (cfr. Sez. III, 30 luglio 1993, Bernardini; Sez. I, 5 marzo 1995, Pischedda). 8. Sotto il profilo dell’uso surrettizio della motivazione, assolutamente deviante si ravvisa il richiamo, ad opera del giudice a quo, ad una decisione di questa Corte, la quale, lungi dal seguire, come afferma l’ordinanza impugnata, un’interpretazione dell’art. 12, lett. b, c.p.p., in senso estensivo, ha ritenuto la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della disposizione ora ricordata e dell’art. 16 c.p.p., in virtù dei quali la continuazione criminosa, quale ipotesi di connessione ‘‘oggettiva’’ di procedimenti, comporta il radicamento della competenza territoriale presso il giudice competente per il reato più grave (Sez. II, 7 dicembre 1992, Mannocchi). Un principio che, dunque, resta ancorato alla fattispecie della connessione oggettiva senza alcuna invasione in quella della connessione soggettiva, operante nei casi di continuazione nei limiti tassativi ora indicati. Oltre tutto, si tratterebbe di un principio, quello affermato dal giudice a quo, palesemente contrastante con l’art. 25, 1o comma, della Costituizione, per attribuirsi al giudice per le indagini preliminari la facoltà di determinare lo spostamento di competenza nei confronti di coimputati solo in forza di una ‘‘connessione’’ derivante da un elemento di natura soggettiva ad essi estraneo, quale l’identità del disegno criminoso perseguito da un imputato; facendo così operare una perpetuatio competentiae quale conseguenza di un accertamento meramente discrezio-
— 646 — nale del giudice di merito e, per giunta, non coinvolgente la posizione di tutti gli indagati nei confronti dei quali si procede. Ciò anche a prescindere dalla circostanza — pur essa comunque rilevante — che in relazione al reato che ha prodotto il conferimento della competenza è già stata pronunciata sentenza di condanna; un dato che non potrebbe mai determinare attribuzioni di competenza, non soltanto per l’impossibilità del simultaneus processus (considerata la diversità di stato e grado, cfr., ex plurimis, Sez. I, 11 ottobre 1994, Polverino), ma anche perché l’accertamento giurisdizionale ha consumato l’azione penale. 9. Nonostante i limiti della cognizione incidentale di questa Corte, la dichiarata incompetenza della Autorità giudiziaria di Milano consente di prendere in esame l’ulteriore complementare eccezione di incompetenza (non funzionale, ma) territoriale sollevata dalla difesa dell’Acampora, e relativa alla attribuzione della competenza all’Autorità giudiziaria di Perugia. Gli addebiti, così come formulati (anche per qualche poco comprensibile incoerenza dell’ordinanza impugnata, laddove, intrinsecamente contraddicendosi, si delineano i comportamenti tenuti dagli indagati nelle vicende narrate (‘‘Pelaggi, Acampora e Staffa concordano la redazione di una perizia compiacente’’ e dove — nell’imputazione di cui al capo D — si usa l’espressione ‘‘redigendo lo Staffa una perizia falsa d’intesa con Acampora, dopo avere concordato’’ — senza che sia chiaro se ci sia o no un magistrato concorrente — ‘‘il tenore dei quesiti’’) fanno ritenere la vicenda Acampora, almeno allo stato — secondo il testo dell’ordinanza impugnata — strettamente connessa, non tanto (il che sarebbe di scarsa rilevanza) sotto il profilo probatorio, quanto su quello concorsuale e finalistico all’‘‘affare’’ Pelaggi. Il tutto anche allo scopo di prevenire lo svolgimento di atti di indagine da parte di un Giudice incompetente, come quello di Roma, al quale, in forza della presente decisione, gli atti dovrebbero comunque essere trasmessi per essere la competenza dell’autorità giudiziaria di Milano al di fuori dell’osservanza di ogni criterio legislativo in tema di competenza. Vanno conseguentemente disattese le, pur acute, argomentazioni sviluppate dal Procuratore Generale nell’odierna udienza in camera di consiglio. Non è, infatti, il vincolo della continuazione a determinare l’attribuzione della competenza ai sensi dell’art. 11 c.p.p., altrimenti pervenendosi ad adottare la stessa regula iuris erroneamente applicata dal giudice a quo, ma, per un verso, l’apprezzabile concorsualità tra i fatti ascritti a taluni degli indagati, secondo le cadenze motivazionali dell’impugnato provvedimento e, per un altro verso, l’evidente nesso strumentale che collega le condotte addebitate agli indagati alla vicenda Pelaggi, tanto da coinvolgere l’art. 12 c.p.p. nella quasi integralità del suo contenuto prescrittivo. Con la conseguenza che l’Autorità giudiziaria territorialmente competente, in relazione all’imputazione interlocutoriamente formulata ed anche, quindi, in materia di misure cautelari, è, per essere competente in base alle norme ordinarie l’Autorità giudiziaria di Roma, ove il Pelaggi esercitava le sue funzioni al momento del fatto, quella di Perugia. Infatti, poiché i procedimenti connessi a quelli in cui un magistrato assume la qualità di imputato (ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato) sono di competenza del giudice egualmente competente per materia, che ha sede nel capo-
— 647 — luogo di altro distretto più vicino, tale giudice va individuato nel Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Perugia al quale gli atti vanno trasmessi per competenza. — (Omissis).
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La competenza per connessione determinata dalla continuazione.
1. La decisione si sofferma sui criteri di attribuzione della competenza per connessione, con specifico riguardo alla fattispecie del concorso di persone nel reato continuato (1). La soluzione del problema affrontato assume a presupposto l’analisi del rapporto intercorrente tra le fattispecie previste dall’art. 12 lett. a e b c.p.p., combinate quali elementi costitutivi di una fattispecie complessa (2). Il caso affrontato dalla S.C. presenta, peraltro, profili peculiari, giacché la competenza per connessione era stata affermata nell’ordinanza cautelare, oggetto del ricorso, in base all’ipotizzata sussistenza del vincolo della continuazione tra il delitto di collusione al fine di frodare la finanza (commesso individualmente da uno degli indagati) ed il delitto di corruzione (commesso dal medesimo in concorso con altra persona); tali delitti erano considerati connessi con altri reati della stessa specie (commessi dal medesimo indagato), per cui erano già intervenute sentenze di condanna emesse a seguito di giudizio abbreviato dal G.i.p. presso il Tribunale di Milano. Non vengono invece chiariti i profili di connessione, genericamente individuati dalla sentenza in rapporto all’art. 12 lett. b c.p.p., tra tali delitti e quelli commessi da altri indagati, nei quali non figura come concorrente il soggetto precedentemente condannato. Sicché si verserebbe comunque fuori del campo di applicazione dei criteri previsti dall’art. 12 c.p.p., se si accede, in via preliminare, alla considerazione che le diverse ipotesi di connessione operano esclusivamente rispetto a più procedimenti penali in corso di svolgimento, dato che, come esplicitato dalla sentenza in esame, ‘‘l’accertamento giurisdizionale ha consumato l’azione penale’’ (3). Se così non fosse, ne deriverebbe un’arbitraria limitazione degli effetti ricollegabili alla connessione, escludendosi, in particolare, la possibilità del simultaneus processus e della riunione dei procedimenti; con salvezza di altri effetti, quali, ad (1) In raccordo con l’insegnamento delle Sezioni unite, secondo cui la competenza territoriale del giudice che dispone una misura cautelare è sindacabile dal giudice dell’impugnazione avverso la misura: v. Cass., Sez. un., 25 ottobre 1994, De Lorenzo, in Cass. pen., 1995, p. 869, che ha rilevato come la negazione di siffatto sindacato « equivarrebbe a negare il sindacato giurisdizionale sulla competenza in una materia nella quale sono in gioco fondamentali ed irrinunciabili diritti del cittadino ». Nello stesso senso si era già pronunciata, nei riguardi dell’incompetenza per materia, Cass., Sez. un., 1 agosto 1994, De Lorenzo, in Cass. pen., 1994, p. 2945, con nota di F.M. GRIFANTINI, Misure cautelari e incompetenza del giudice nella fase delle indagini preliminari: quali rimedi dopo la sentenza delle Sezioni unite?. Cfr. anche la pronunzia di Cass., Sez. fer., 13 agosto 1996, Pacifico, in corso di pubblicazione in Giur. it., 1997. (2) Il richiamo alle fattispecie di connessione sostanziale di reati non implica l’introduzione di un parallelismo necessario tra la disciplina sostanziale e quella processuale, quando si tenga conto del carattere ipotetico della fattispecie contestata. Il carattere della ipoteticità, in particolare, rende ragione dell’operatività dei criteri di attribuzione della competenza per connessione anche a fronte di discrasie tra fattispecie sostanziale e fattispecie processuale (ipotetica), rivelantisi a conclusione dell’accertamento processuale. V. anche A. NAPPI, Connessione di procedimenti nel diritto processuale penale, in Dig. disc. pen., III, Torino, 1989, p. 61. (3) Analogamente, C. LAPICCIRELLA, Presupposti della connessione, in Connessione di procedimenti e conflitti di competenza, Milano, 1976, p. 42. Per la considerazione che le norme sulla connessione operano solo tra procedimenti pendenti nel medesimo stato e grado, cfr. Cass., sez. I, 11 ottobre 1994, Polverino, in Arch. nuov. proc. pen., 1995, p. 485. Nella giurisprudenza di merito Trib. Camerino, 15 ottobre 1992, Cerritto, in For. it., 1994, II, c. 111.
— 648 — esempio, la permanenza dell’incompatibilità ex art. 197 lett. a c.p.p. Simile considerazione risulta confermata dalla lettera dell’art. 12 c.p.p., che, mentre riferisce la connessione ai ‘‘procedimenti’’, contiene espressioni volte a designare, con sufficiente chiarezza, lo stato di « pendenza » dei procedimenti di volta in volta rilevanti, quali ‘‘il reato per cui si procede’’ (art. 12 lett. a c.p.p.); ‘‘se una persona è imputata di più reati’’ (art. 12 lett. b c.p.p.); ‘‘se dei reati per cui si procede’’ (art. 12 lett. c c.p.p.). Ponendo tale premessa, la Cassazione preferisce risolvere in via assorbente la questione dedotta al suo esame, negando la sussistenza della competenza territoriale del Tribunale di Milano, e prospettando una ‘‘problematica da affrontare e risolvere sulla base di principi di puro diritto’’, ossia, come detto, quella relativa ai limiti entro i quali il concorso di persone nel reato continuato influisca sulla determinazione della competenza territoriale per connessione. Gli itinerari interpretativi seguiti dalla S.C. in relazione al tema delineato si rifanno all’insegnamento secondo cui la continuazione è idonea ad operare lo spostamento della competenza per connessione solo se l’episodio in continuazione riguardi lo stesso o, se sono più d’uno, gli stessi imputati, giacché l’interesse di un imputato alla trattazione unitaria di fatti in continuazione non può pregiudicare quello del coimputato in uno di questi fatti a non essere sottratto al giudice naturale secondo le regole ordinarie della competenza (4). Rispetto all’insegnamento invalso, la decisione in esame assume connotazioni di novità, ricollegabili, da un lato, all’excursus, compiuto in chiave storica e sistematica, delle diverse ipotesi previste dall’art. 12 c.p.p. nel testo novellato dall’art. 1 d.l. 20 novembre 1991, n. 367 conv. dalla l. 20 gennaio 1992, n. 8; nonché, dall’altro lato, all’estensione dell’analisi alle fattispecie di connessione considerate non atomisticamente, ma nelle reciproche combinazioni oggettive e soggettive. Si pongono in tal modo le basi per radicare più saldamente, rispetto alle precedenti decisioni, le affermazioni compiute circa l’ambito operativo del concorso di persone nel reato continuato ai fini della competenza per connessione. La conclusione raggiunta dalla S.C., subordinando l’operatività della continuazione — quale criterio attributivo di competenza — alla condizione dell’identità soggettiva tra i concorrenti nei reati, deve invero condividersi, alla luce della ratio delle norme sulla connessione processuale. Questa, infatti, pare riconducibile ad un’esigenza probatoria unitaria, derivante dalle concrete modalità di svolgimento degli episodi criminosi contestati. Ove siffatta ratio può dirsi correttamente individuata, restano da stabilire i limiti logici che essa incontra, derivanti dall’esigenza di salvaguardare principî potenzialmente confliggenti, quale, in particolare, quello costituzionalmente garantito del diritto al giudice naturale. L’impianto argomentativo della sentenza consente di isolare due temi di indagine, rispetto ai quali, pur dovendosi annettere autonomia sistematica e normativa, vanno altresì valutate le rispettive implicazioni. Va dapprima segnalata la questione definitoria avente ad oggetto l’istituto della connessione processuale di reati e non priva di conseguenze applicative, quanto meno nell’indicazione di elementi utili alla ricostruzione della ratio normativa della connessione stessa. Occorre poi approfondire i rapporti tra l’istituto della connessione processuale e il principio costituzionale della naturalità e precostituzione del giudice, come note coessenziali all’esercizio della funzione giurisdizionale. (4) Cfr., per tale affermazione, Cass., sez. I, 28 marzo 1995, Pischedda, in C.E.D. Cass., n. rv. 200702; Id., sez. III, 11 agosto 1993, Bernardini, in Cass. pen., 1994, p. 955, con nota adesiva di M. CAL’operatività della connessione nella fase delle indagini preliminari: aspetti problematici (p. 956); ambedue espressamente richiamate dalla decisione in epigrafe.
TALANO,
— 649 — 2. Analizzando i casi di competenza per connessione, la decisione in epigrafe, qualificando la competenza quale ‘‘presupposto processuale indissociabile dall’attività di giurisdizione’’, supera il problema della definizione della connessione e degli effetti che essa produce sulla competenza, soffermandosi esclusivamente sul primo termine del binomio oggetto di indagine. La comparazione tra la disciplina dettata dagli artt. 45 ss. del previgente codice di rito e l’attuale assetto codicistico rivela l’intento del legislatore di disciplinare i casi di connessione come altrettanti criteri autonomi di attribuzione della competenza (5), piuttosto che come casi di deroga alle norme ordinarie sulla competenza, subordinata alla possibilità di disporre l’unificazione dei procedimenti. Senza trascurare tale diversità di approccio, è utile rivolgere l’attenzione all’evoluzione dottrinale del concetto di connessione, quale risulta dall’elaborazione sviluppatasi nel vigore del codice del 1930. Pur nella varietà della terminologia definitoria di volta in volta adottata, le divergenti formulazioni non escludono un’apprezzabile confluenza delle indagini verso l’individuazione della ratio normativa sottesa alla disciplina positiva dei casi di connessione. Sicché appare più utile, in luogo di riportare le singole formulazioni proposte, indirizzare l’analisi sui differenti metodi di indagine adottati, quando conducano ad individuare differenti oggetti d’analisi. In base a tale premessa, una effettiva difformità si segnala tra la posizione di coloro che definiscono la connessione riferendola ai procedimenti, dei quali essa risulterebbe un predicato (6); rispetto alla posizione, invero minoritaria, di chi tende a delineare una nozione di connessione come fattispecie unitaria, distinguendola in due « sottocategorie » a seconda della natura degli effetti che essa produce, sostanziali o processuali. Talché dovrebbe intendersi per connessione processuale di reati « ogni situazione di fatto, nella quale più reati siano collegati da un nesso che abbia rilevanza per il diritto processuale penale »; e per connessione sostanziale « l’istituto giuridico, per il quale è assunta come rilevante per il diritto sostanziale penale la comunanza di qualche elemento a più reati » (7). (5) In dottrina questo aspetto è sottolineato da V. ZAGREBELSKY, sub artt. 4-19, in M. CHIAVARIO (coord.), Commento al nuovo codice di procedura penale, vol. I, Torino, 1989, p. 91. Sulla necessità di qualificare la connessione come « criterio fondamentale di attribuzione della competenza » si era già pronunciata, in epoca non recente, la Corte costituzionale, con la sent. n. 130 del 13 luglio 1963, in Giur. cost., 1963, p. 1454; v. anche la sentenza del 22 giugno 1971 n. 139, ivi, 1971, p. 1592. (6) Secondo l’opinione tradizionale: cfr. V. MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano6, G. CONSO-G.D. PISAPIA (cur.), vol. I, Torino, 1967, p. 268; G. LEONE, Trattato di diritto processuale penale, vol. I, Napoli, 1961, p. 406, nota 2 (l’A. ammonisce, comunque, sull’impossibilità di una definizione del fenomeno dal punto di vista concettuale, risultando esso soltanto dalla disciplina positiva); G. CORDONE, Connessione di reati e connessione di procedimenti loro effetti, in Giust. pen., 1948, III, p. 337. V. anche T. DELOGU, Connessione di reati e falsa testimonianza, in Ann. dir. proc. pen., 1933, p. 477, il quale identifica la coppia di concetti ‘‘connessione sostanziale (o materiale) — connessione processuale (o formale)’’ con quella ‘‘connessione di reati — connessione di procedimenti’’. Nello stesso senso R.A. FROSALI, Sistema penale italiano, Parte II, Diritto processuale penale, vol. IV, Torino, 1958, p. 155; in una diversa accezione v. O. VANNINI, Manuale di diritto processuale penale5, G. COCCIARDI (cur.), Milano, 1965, p. 110. (7) In tal senso A. PAGLIARO, I reati connessi, Palermo, 1956, pp. 23 ss. (ma spec. p. 24, nota 55); con maggiore ampiezza ID., Presupposti della connessione, in Connessione di procedimenti, cit., pp. 16 ss, ove l’A. completa la propria ricostruzione tenendo conto delle osservazioni parzialmente critiche sollevate da F. CORDERO, Appunti sul concetto di « connessione processuale », in Riv. dir. proc. pen., 1957, p. 450, nota 6. Pare assumere una posizione intermedia (sebbene non ulteriormente sviluppata), G. BELLAVISTA, voce Connessione (diritto processuale penale comune), in Nov. dig. it., vol. IV, Torino, 1974, pp. 103 s., secondo cui la connessione processuale è una situazione dipendente, il più delle volte, dalla connessione sostanziale di reati, ma si risolve in un rapporto fra più procedimenti penali. Sull’argomento v. anche M. BARGIS, Incompatibilità a testimoniare e connessione di reati, Milano, 1980, pp. 169 ss. (ma spec. p. 174, nota 48). Va ricordata anche la posizione di V. REINA, La connessione dei reati e dei procedimenti, Catania, 1937, passim, secondo cui la connessione sostanziale di reati produce, tra gli effetti processuali, anche quello della connessione dei procedimenti relativi (cfr. p. 40); nondimeno, la nozione di
— 650 — L’autorevole opinione così manifestata, ispirandosi all’unitarietà — dogmatica prima che positiva — della categoria della connessione, permette di evitare l’identificazione tra connessione processuale di reati e connessione di procedimenti, che potrebbe assumersi valida solo se l’unico effetto ricollegabile alla connessione processuale di reati fosse la connessione dei corrispondenti procedimenti; consentendo, in definitiva, una più sicura fondazione dommatica dell’istituto in esame. Per individuare il proprium della connessione, va comunque tenuto nel debito conto che il problema dell’accertamento si profila come esigenza primaria cui risponde la disciplina processuale della connessione. Un simile rilievo, ricavabile de plano dalla considerazione funzionale delle norme processuali, assume importanza ai fini di una precisa determinazione dei caratteri della connessione processuale, la quale rileva in limine processus, come autonomo criterio di attribuzione della competenza, operante in una fase in cui l’esistenza di nessi sostanziali tra i reati da accertare sono assunti in via di ipotesi, più o meno debitamente confortata. Il problema accennato, non ignoto alla dottrina appena più sopra richiamata, viene da essa risolto in virtù del rilievo per cui la nozione processuale di reato subisce una trasformazione metodologica rispetto a quella sostanziale, identificandosi con « la ipotesi — oggetto di verifica nei modi e nelle forme previste dal processo penale — che sia stato commesso un illecito penale » (8). A prescindere dal rilievo per cui la nozione processuale di reato non sempre pare riducibile ad una mera ipotesi (9), va comunque specificato che l’invocata trasformazione metodologica della nozione di reato sembra corrispondere pienamente al rapporto tra l’attività di accertamento e l’oggetto dell’accertamento stesso. Il contenuto processuale della connessione va in realtà riferito non al reato come ‘‘ente giuridico’’ (10), bensì all’ipotesi criminosa riversata in una determinata articolazione temporale della contestazione. Da questa prima intuizione può partirsi per rendere ragione delle definizioni volte a riferire la connessione alle imputazioni o alle ‘‘regiudicande’’, ricollegandola all’esistenza di uno o più elementi comuni tra le stesse (11) (12). Tali definizioni contribuiscono a radicare il concetto di connessione sul terreno dell’accertamento giudiziale, evidenziando la peculiarità della disciplina processuale della connessione, indipendentemente dalla possibilità di enucleare una compiuta disciplina sostanziale della connessione medesima. Sarebbe, d’altra parte, superfluo soffermarsi su quale tra le definizioni proposte rivesta la maggiore precisione o duttilità, quando ci si ponga sull’angolo visuale della ricerca della ratio e della funzione della connessione processuale. Concentrando dunque l’attenconnessione processuale di reati, essendo più ampia della correlativa nozione sostanziale, va intesa come connessione di procedimenti (cfr. pp. 14 ss.). (8) A. PAGLIARO, op. ult. cit., p. 18; nonché, sia pur implicitamente, ID., voce Fatto (dir. proc. pen), in Enc. dir., vol. XVI, Milano, 1967, p. 961, nota 2. (9) Basti pensare alla disciplina dell’esecuzione, ed a meno di ritenere che in senso processuale, per ciò solo che è possibile la revisione del giudicato, il contenuto di accertamento della sentenza ha sempre natura relativamente ipotetica: ma, così argomentando, non si uscirebbe dal campo degli assiomi. (10) Sia consentito, al proposito, recuperare, a più limitati fini, la definizione programmatica di F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Prefazione alla V edizione, vol. I, Lucca, ed. 1897, p. 10. (11) Secondo l’insegnamento di F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, vol. I, Roma, 1948, p. 131 (va peraltro aggiunto che l’Autore ha più tardi ampliato la propria posizione, sottolineando l’assenza di una definizione normativa della connessione processuale: cfr. ID., Rapporti fra il processo penale e il processo di falsa testimonianza, in Riv. dir. proc., 1957, p. 488); ripreso, più recentemente, da G. BARONE, La separazione dei procedimenti penali, Milano, 1985, p. 6. (12) G. FOSCHINI, Diritto processuale penale. La connessione, Milano, 1952, p. 3 ss., che fa risalire il fenomeno alla mancanza di autonomia delle singole regiudicande; ma v. già ID., La connessione processuale, in Riv. it. dir. proc., 1951, p. 66. Su questa e sulla definizione richiamata alla nota che precede v. comunque le osservazioni critiche di A. PAGLIARO, Presupposti della connessione, cit., p. 17.
— 651 — zione sul profilo funzionale dell’istituto in esame, può scorgersi, come detto, un’apprezzabile confluenza delle indagini verso una tendenziale omogeneità di conclusioni. In particolare, può giungersi a riconoscere che i casi di connessione, esaminati nella rispettiva concreta dimensione normativa, sono ordinati ad un principio di unitarietà nell’assunzione e nella valutazione della prova, ai fini della decisione su tutte le imputazioni sollevate. La comunanza di uno o più elementi tra le imputazioni elevate contro uno o più imputati opera in modo tale che « non si possa decidere su una di esse, senza decidere anche le altre, almeno parzialmente, e cioè per la parte comune alla prima » (13). Le norme che regolano la connessione rivelano, in realtà, in maniera sufficientemente chiara una simile esigenza, che ne costiutisce, ad un tempo, la ratio ed il limite logico ed interpretativo (14). La disciplina codicistica lascia inespresso tale requisito, che si trova in re ipsa nei casi contemplati (e, nel caso che assume in questa sede particolare interesse, ossia quello del concorso di persone nel reato continuato, secondo una struttura complessa, risultante dalla combinazione di una fattispecie di connessione soggettiva, derivante dalla plurisoggettività — eventuale o necessaria — della fattispecie, e di una fattispecie di connessione oggettiva, derivante dalla comunanza del disegno criminoso perseguito). La conclusione così raggiunta non pare smentita dal fatto che l’art. 12 c.p.p. abbia escluso dal novero dei casi di connessione proprio l’ipotesi della connessione probatoria (per cui la prova di un reato o di una circostanza di esso influisce sulla prova di un altro reato o di una circostanza di questo), prevista dall’art. 45 n. 4 del codice previgente, disciplinando il corrispondente caso come motivo di possibile riunione ex art. 17 lett. d c.p.p. Al riguardo, deve osservarsi come le ragioni della dislocazione dell’ipotesi in parola tra le cause di riunione dei procedimenti sono esplicitate dalla relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, nel senso che ciò è dovuto alla difficoltà di tradurre in una formula sufficientemente precisa e vincolante i casi in cui la prova influisca in modo determinante sulla decisione del giudice (15). In tal modo si pongono le basi per una ricostruzione del sistema, orientata nel senso che i profili di influenza probatoria possono dare luogo alla riunione di procedimenti in presenza degli ulteriori requisiti richiesti dall’art. 17 c.p.p., attenendo ad un campo di ipotesi più vasto rispetto a quello disegnato dal complesso dei casi di connessione. (13) Così, riferendosi alle regiudicande, G. FOSCHINI, La connessione, cit., p. 10. La conclusione è però comune nella dottrina: v. A. PAGLIARO, op. ult. cit., p. 27 ss.; F. CARNELUTTI, Principi del processo penale, Napoli, 1960, p. 143, il quale sosteneva, vigente il precedente codice di rito, che la complessa formula dell’art. 45 avrebbe dovuto ridursi all’ipotesi della connessione probatoria; A. SANTORO, Manuale di diritto processuale penale, Torino, 1954, p. 193; V. ZAGREBELSKY, Connessione e giudice naturale, in Connessione di procedimenti, cit., p. 64; A. GIARDA, Separazione dei procedimenti, ibidem, p. 137; D. BIELLI, Competenza per connessione, Milano, 1985, p. 84; A. NAPPI, Connessione di procedimenti, cit., p. 62; implicitamente, seppure in una diversa ottica, T. RAFARACI, Le nuove contestazioni nel processo penale, Milano, 1996, p. 39. Preferisce parlare di ‘‘coordinazione’’, piuttosto che di comunanza tra gli elementi delle regiudicande, C. LAPICCIRELLA, Presupposti della connessione, cit., p. 37 (ma v. anche ID., voce Connessione (Diritto processuale penale). b) Effetti della connessione sulla competenza per materia e per territorio, in Enc. dir., vol. IX, Milano, 1961, p. 32). Per contro, allude soltanto ad esigenze di ‘‘sollecitudine, speditezza od organicità del giudizio’’ A. DE MARSICO, Diritto processuale penale4, G.D. PISAPIA (cur.), Napoli, 1966, p. 64. In senso riduttivo anche T. GALIANI, Unificazione dei procedimenti, in Connessione di procedimenti, cit., p. 100. (14) Sull’interpretazione funzionale delle norme determinative della competenza per connessione, volte alla « speditezza dei giudizi, al miglior accertamento dei fatti, alla coerenza delle decisioni, all’interesse delle parti e in modo particolare a quello dell’imputato », v. Corte cost., sent. 27 giugno 1972 n. 117, in Giur. cost., 1972, p. 1271; v. anche Id., sent. n. 130 del 1963, cit. (15) Cfr. Relazione al progetto preliminare al codice di procedura penale, in Suppl. ord. n. 2 G.U. del 24 ottobre 1988, n. 250, p. 13.
— 652 — Nondimeno, per ciascuno di tali casi può individuarsi un denominatore comune che li proietta sullo sfondo complessivo dell’esigenza probatoria unitaria, derivante dalla comunanza di uno o più elementi formanti oggetto di accertamento nel processo (cumulativamente) instaurato o da instaurarsi. Sicché può dirsi, se la cennata ricostruzione non è arbitraria, che in ognuno dei casi previsti dall’art. 12 c.p.p. si realizza la premessa normativa, per cui la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di una circostanza di questo (16). Nelle fattispecie di connessione rinvenibili nella legislazione extracodicistica, il principio cui si informa la relativa disciplina è talora enunciato espressamente, attraverso il richiamo alla necessità del cumulo processuale per l’accertamento dei reati o della responsabilità dell’imputato (o degli imputati) (17). In definitiva, se non è possibile, per enucleare una definizione concettuale della connessione che aderisca al diritto positivo, risalire esclusivamente ai nessi sostanziali esistenti tra più reati, dovendosi riferire la connessione a figure criminose ascritte in via ipotetica, ciò non conduce a trascurare la necessità di ricongiungere gli effetti processuali ad una realtà sostanziale rilevante in senso penalistico, per la ricostruzione della quale viene costruito il processo. Nell’approccio al concetto di connessione processuale, lo schema definitorio prescelto dovrebbe quindi, mantenendosi fedele alla ratio delle fattispecie disciplinate dal legislatore, tenere conto della specifica natura giuridica dell’oggetto dell’accertamento. Senza pretesa di risolvere il contrasto (proficuamente) sotteso al dibattito dottrinale sin qui brevemente ricostruito, potrebbe dirsi che la connessione processuale si erige su una o più ipotesi di nessi sostanziali rilevanti in sede processuale (18); restando peraltro insoluto il problema, che va solo accennato e che presupporrebbe, in certa misura, la validità di un simile schema definitorio, dei limiti entro i quali può e deve svilupparsi il vaglio giurisdizionale sulla (o sulle) ipotesi formulate in via interinale, anche in ragione degli effetti che la contestazione spiega sulla determinazione della competenza. 3. Entro il quadro sin qui delineato, appaiono del tutto coerenti le conclusioni raggiunte dalla S.C. in rapporto alla fattispecie dedotta al suo esame. L’introduzione della continuazione criminosa tra le ipotesi di connessione si deve all’interpolazione dell’originario testo dell’art. 12 lett. b c.p.p., ove si prevedeva il caso della persona imputata di più reati commessi con più azioni od omissioni in unità di tempo e di luogo, ad opera dell’art. 1 comma 1 del d.l. 20 novembre 1991 n. 367 (19). (16) È opportuno ricordare che, anche nel primo caso previsto dall’art. 12 lett. a c.p.p., comunemente designato come connessione soggettiva (concorso o cooperazione di persone nel reato), la più attenta dottrina non ha mancato di rilevare come si versi in una ipotesi di connessione oggettiva, coincidente con una pluralità di reati: v., per questo rilievo, A. PAGLIARO, op. ult. cit., p. 22. Sulla pluralità di fattispecie criminose corrispondenti al numero dei concorrenti nel reato, v. M. BOSCARELLI, Contributo alla teoria del concorso di persone nel reato. Le fattispecie di concorso, Padova, 1958, pp. 22 ss. (17) Si vedano gli artt. 17 cpv., 26 4o comma, 31 della l. 22 maggio 1975 n. 152; art. 4 cpv. del d.l. 4 marzo 1976 n. 31. Il dato è saliente, anche se le norme menzionate, nell’introdurre tale previsione, specificano che ciò rappresenterebbe una deroga a quanto disposto dall’art. 45 c.p.p. abrogato. (18) V. anche le osservazioni svolte da M. CATALANO, op. cit., pp. 966 ss., la quale ravvisa il limite costituzionale (ex art. 25, 1o comma, Cost.) all’operare della connessione nella « esistenza di un collegamento di natura sostanziale » tra le fattispecie astratte di reato e preesistente al fatto storico. (19) Su cui v. D. MANZIONE, Commento all’art. 1 d.l. 20 novembre 1991 n. 367, conv. con modificazioni dalla l. 20 gennaio 1992 n. 8, in Leg. pen., 1992, pp. 697 ss., il quale, rifacendosi ad un passo della relazione al disegno di legge n. 3066/S, di conversione del d.l. 20 novembre 1991 n. 367 (riportato in Doc. giust., 1991, 12, c. 170), secondo cui la modifica all’art. 12 lett. b c.p.p., « riguardando un tipo di connessione soggettiva (concernente, cioè, più reati addebitabili al medesimo imputato) produce conseguenze irrilevanti in termini di dimensioni del processo », giustamente osserva che l’incidenza della modi-
— 653 — L’unità spazio-temporale dell’azione criminosa, a fronte della quale sarebbe stata agevolmente deducibile un’esigenza probatoria unitaria, viene meno nel caso della continuazione criminosa, la cui struttura normativa è imperniata sull’esecuzione di più reati « anche in tempi diversi ». Nondimeno, anche rispetto alla continuazione di reati è individuabile un’esigenza probatoria unitaria, discendente dai caratteri logici e di struttura emergenti dall’art. 81 c.p. La nota specializzante del reato continuato risiede nell’orientamento finalistico unitario della condotta criminosa, che investe di sé le singole figure di reato assorbendone la stessa eterogeneità materiale. Ove anche venga a mancare tra i reati confluenti nel disegno criminoso un nesso di strumentalità corrispondente ad una delle forme di connessione previste dall’art. 61 n. 2 c.p. e dall’art. 12 lett. c c.p.p., non può mancare un nesso derivante dalla coordinazione dei reati commessi verso un unico fine; nesso che, sia pure in senso lato, richiama quello di strumentalità (20). In ragione di ciò, pare altresì di poter individuare un’esigenza probatoria unitaria, relativa quanto meno alla dimostrazione della sussistenza effettiva di un unico progetto criminoso qualificabile come ‘‘disegno’’. Per quanto attiene, poi, alla realizzazione di una o più fattispecie plurisoggettive, l’identità della fonte probatoria si evince, nella maggior parte dei casi, per il solo fatto che la compartecipazione criminosa si svolge nello stesso contesto spaziotemporale (rispetto alla condotta tipica, senza riguardo al momento di verificazione dell’evento tipico). Nei casi di concorso morale, rispetto ai quali più facilmente potrebbe venire meno la profilata unità contestuale, la permanenza di esigenze probatorie satisfattibili attraverso la stessa o le stesse fonti deriva dalla considerazione che la responsabilità di uno o più concorrenti morali — in relazione alla quale potrebbe essere necessaria una diversa ed autonoma fonte di prova — è pur sempre subordinata all’accertamento preliminare dell’avvenuta esecuzione materiale di una fattispecie criminosa, quanto meno nel grado del tentativo (21). Essendo enucleabile un’esigenza probatoria unitaria sia per il caso della continuazione criminosa, come per il caso del concorso di persone nel reato, a fortiori potrà rintracciarsi siffatta esigenza in caso di concorso di persone nel reato continuato. Va però considerato che l’esigenza probatoria unitaria rimarrà inalterata solo quando sussista la specifica ipotesi risultante dalla richiamata combinazione, ossia quando ricorra l’identità soggettiva dei concorrenti in tutti i reati (pretesi) avvinti dal vincolo della continuazione. Ove pertanto, uno dei reati contestati sia commesso individualmente da uno dei soggetti che hanno concorso negli altri reati, ovvero da più di essi, ma non da tutti, non potrà operare il criterio previsto dall’art. 12 lett. b c.p.p., ma solo quello previsto dalla lett. a, includendovi i concorrenti nei reati, nella composizione soggettiva di volta in volta realizzata (22). fica sulle dimensioni del processo può essere considerata di scarso rilievo solo se l’ipotesi in discorso viene considerata isolatamente, al di fuori cioè della combinazione con le lett. a o c dell’art. 12 c.p.p. (p. 699). (20) Si assume, in via implicita, la nozione di « disegno criminoso » corrispondente alla coordinazione dei reati verso un fine unitario. V., sul concetto, F. MANTOVANI, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, Bologna, 1965, p. 277. (21) Dall’operata ricostruzione resta quindi escluso il solo caso del procedimento instaurato per l’applicazione della libertà vigilata, ex art. 115 c.p. In quel caso, tuttavia, vi è un procedimento unico, non una pluralità di procedimenti connessi. (22) Nella dottrina, il problema in esame è affrontato ex professo da A. MACCHIA, in E. AMODIO-O. DOMINIONI, Commentario del nuovo codice di procedura penale, vol. I, Milano, 1989, p. 89, che, esemplificando con riguardo alla sovrapposizione dei criteri previsti dalle lett. a e c dell’art. 12 c.p.p. (concorso di A e B nel furto di una macchina, che B utilizza per commettere una rapina in altro luogo), lo risolve nel senso della competenza per materia e per territorio del giudice del luogo ove è stata commessa la rapina; per una diversa soluzione, più aderente al fatto che, nell’esempio prescelto, non sussisterebbe alcun titolo
— 654 — Più precisamente, i casi empiricamente verificabili si raccoglieranno intorno a diverse ipotesi: A) Le medesime persone, in concorso tra loro, commettono due o più violazioni della stessa o di diverse disposizioni della legge penale, una o più di esse perseguono un medesimo disegno criminoso, alieno all’altro o agli altri concorrenti (secondo lo schema: Tizio, Caio e Sempronio commettono il reato X; Tizio, Caio e Sempronio commettono il reato Y; Tizio e Caio, ma non Sempronio, perseguono un medesimo disegno criminoso, avente ad oggetto tutti e soli i reati in cui partecipa anche Sempronio). In questo caso, opera la connessione ex art. 12 lett. a c.p.p.; a rigore, non opererebbe la connessione ex art. 12 lett. b, perché il disegno criminoso non è comune a tutti i partecipi. Ciò nonostante, appare opportuno determinare la connessione tenendo conto della continuazione, giacché, seppure il disegno non è noto a tutti i concorrenti, questi sono sempre i medesimi, sicché non risentono effetti negativi derivanti dall’applicazione dell’art. 12 lett. b c.p.p. B) Più persone concorrono in più reati, perseguendo un medesimo disegno criminoso; in alcuni o in tutti i reati facenti parte del disegno, si aggiungono uno o più concorrenti diversi, cui è alieno il disegno (secondo lo schema: Tizio, Caio e Sempronio commettono il reato P; eventualmente, sempre Tizio, Caio e Sempronio commettono il reato Q; Tizio, Caio e Mevio commettono il reato R; Tizio, Caio e Livio commettono il reato S, Tizio e Caio, eventualmente anche Mevio, perseguono il medesimo disegno criminoso, cui sono alieni Caio e Livio). In questo caso, opera la connessione ex art. 12 lett. a, ma non quella ex art. 12 lett. b c.p.p. C) Una persona, in esecuzione del medesimo disegno criminoso, commette una serie di reati in concorso con persone sempre diverse (secondo lo schema: Tizio, Caio e Sempronio commettono il reato X; Tizio, Livio e Mevio commettono il reato Y, solo Tizio persegue il medesimo disegno criminoso). In questo caso, opererà il criterio di connessione previsto dall’art. 12 lett. b c.p.p., con esclusione di quello ex art. 12 lett. a. Deve comunque considerarsi che, nella linea argomentativa seguita dalla S.C., tendono ad individuarsi i presupposti in presenza dei quali ciascuna delle situazioni disciplinate dall’art. 12 c.p.p. può venire in essere. Ciò vale ad evidenziare come, in mancanza degli individuati presupposti, non si ponga propriamente un conflitto tra i criteri della connessione, ma una selezione dei criteri di volta in volta operanti. 4. Per giustificare le conclusioni raggiunte in tema di connessione la S.C. si ricollega al principio del giudice naturale precostituito per legge, che sarebbe violato qualora il giudice potesse operare uno spostamento di competenza nei confronti di alcuni coimputati « solo in forza di una connessione derivante da un elemento di natura soggettiva ad essi estraneo, quale l’identità del disegno criminoso perseguito da un imputato »; conseguente, inoltre, ad « un accertamento meramente discrezionale del giudice di merito » (23). L’interpretazione (24) che fa discendere dal disposto dell’art. 25 1o comma, di competenza per connessione rispetto ad A, qualora esso fosse individuato nel giudice del luogo ove è avvenuta la rapina, v. F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1995, p. 145. (23) La massima è ripresa dalle già menzionate pronunce di Cass., sez. I, 28 marzo 1995, Pischedda; Id., sez. III, 11 agosto 1993, Bernardini. Nel vigore del codice abrogato massime del medesimo tenore erano consolidate in rapporto alla connessione c.d. soggettiva, nel caso in cui una persona fosse imputata di più reati appartenenti alla cognizione di giudici diversi, alcuni dei quali commessi in concorso con altre persone: v., in tal senso, Cass., sez. I, 27 agosto 1984, Freato, in Giur. it., 1985, II, c. 97. (24) Per la ricostruzione delle diverse letture del principio del giudice naturale si rinvia a A. PIZZORUSSO, Il principio del giudice naturale nel suo aspetto di norma sostanziale, in Riv. trim. dir. proc.
— 655 — Cost. un collegamento necessario tra locus commissi delicti e forum iudicis presuppone la lettura disgiunta delle attribuzioni della naturalità e della precostituzione dell’organo giudicante. Tra le tesi che, più o meno consapevolmente, operano siffatta disgiunzione, non si registra un’unitaria attribuzione di significato all’aggettivo ‘‘naturale’’; al quale, d’altro canto, non potrebbe comunque negarsi un’efficacia rafforzativa, qualora dovesse intendersi come necessariamente implicato dalla ‘‘precostituzione’’ del giudice e da questa largamente o integralmente assorbito. Dal punto di vista storico (25), data l’impossibilità di ricavare alcuna indicazione conclusiva dal dibattito che condusse alla formulazione del disposto costituzionale (26), appare del tutto obiettiva la posizione di chi rileva come « dai lavori preparatori, non emerge la consapevolezza di voler tutelare valori differenziati, ma unicamente una faticosa ricerca diretta a formulare, nella maniera più adeguata ai tempi, una stessa garanzia » (27). Si giunge così a sgomberare il campo da ogni pregiudiziale accettazione di refusi storici, facendo spazio all’idea, allo stato insuperabile, che qualsivoglia assegnazione di valori all’aggettivo ‘‘naturale’’ corrisponde ad una consapevole scelta interpretativa, non necessitata, più o meno orientata verso l’ampliamento degli spazi di garanzia per il cittadino. L’insieme delle tesi che avallano la diversificazione di significato tra ‘‘naturalità’’ e ‘‘precostituzione’’ del giudice, dunque, si arrestano all’indicazione di un possibile significato del primo aggettivo compreso nell’art. 25 1o comma, Cost., senza fornire adeguata giustificazione o senza illustrare il fondamento normativo che renda non solo preferibile, quanto piuttosto necessaria l’interpretazione suggerita, intesa ad individuare un più compiuto significato del principio in esame, valorizzando l’idoneità sostanziale del giudice a decidere delle regiudicande (28). Non vi sono, tuttavia, parametri sufficientemente determinati in base ai quali valuciv., 1975, pp. 1 ss.; nonché a M. NOBILI, sub art. 25, Commentario della costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1981, pp. 193 ss. (25) Cenni all’evoluzione storica del principio in esame si rinvengono in M. PISANI, La « garanzia del giudice naturale » nella Costituzione italiana, in questa Rivista, 1961, pp. 415 ss.; SABATINI, La competenza surrogatoria ed il principio del giudice naturale nel processo penale, ivi, 1962, pp. 941 ss.; G. COCCIARDI, Sul concetto di giudice naturale precostituito per legge e di giudice naturale nella nostra Costituzione, ibidem, pp. 277 ss. Si vedano inoltre i fondamentali contributi di E. KERN, Der Gesetzlicher Richter, Berlin, 1927; E. MARX, Der gesetzliche Richter im Sinne von Art. 101 Abs. I Satz II Grundgesetz, Berlin 1969; H.H. KELLERMANN, Probleme des gesetzlichen Richters unter besonderer Berücksichtigung der Grossen Strafverfahren, Tübingen, 1971. (26) In Assemblea costituente. Atti della I sottocommissione, s.l., 1946, pp. 60 ss. (27) Così M. NOBILI, Sub art. 25, cit.,pp. 195, nota 8, il quale nota la tendenza a raggiungere la conclusione opposta. Si veda anche il resoconto fornito da M. BARGIS, Dubbi di costituzionalità nel passaggio di competenza dalla corte d’assise al tribunale per determinate categorie di reati, in questa Rivista, 1975, p. 307, nota 26. (28) La tesi è sviluppata da E. SOMMA, Naturalità e precostituzione del giudice nell’evoluzione del concetto di legge, in questa Rivista, 1963, p. 797; ID, Rapporti tra competenza e connessione, Milano, 1962, p. 38; ma v. anche Gius. SABATINI, op. cit., p. 950; S. RANIERI, Competenza e giudice naturale, in Scuola pos., 1964, p. 259; V. GREVI, Davvero illegittima la competenza del giudice non specializzato nei confronti dei minorenni coimputati con maggiorenni?, in Giur. cost., 1966, pp. 121 ss.; A. MAMBRIANI, Un’ipotesi ricostruttiva del significato del termine naturale di cui all’art. 25 comma 1 Cost., in Arch. nuov. proc. pen., 1990, p. 307. Sul significato della naturalità del giudice come garanzia di imparziale svolgimento delle funzioni di giustizia v. G. CONSO, Limiti inerenti al principio della certezza del giudice e rimessione del procedimento per legittimo sospetto o per gravi motivi d’ordine pubblico, in questa Rivista, 1963, p. 243; ricollega il principio del giudice naturale alla tutela del diritto di difesa, E. SPAGNA MUSSO, voce Giudice (nozione), in Enc. dir., vol. XVIII, Milano, 1969, p. 941. Di particolare interesse è il recente contributo di A. ESER, Il « giudice naturale » e la sua individuazione per il caso concreto. Osservazioni comparatistiche e riflessioni di politica del diritto sulla ripartizione delle cause all’interno degli organi giudiziari, E. Santini (trad.), in questa Rivista, 1996, pp. 385 ss.; l’illustre A. richiama un « principio materiale di amministrazione della giustizia » che armonizzi la massima possibile neutralità del giudice chiamato a decidere con la « più elevata qualità possibile della giurisprudenza, che possa avvalersi della particolare competenza ed esperienza del giudice stesso » (cfr. p. 405).
— 656 — tare l’‘‘idoneità’’ del giudice; mentre appare chiaro che, in assenza di altre precisazioni, il concetto di idoneità è di per sé scarsamente dotato di forza connotante. Pur registrandosi il tentativo di imperniare il giudizio di idoneità sulla indipendenza del giudice (29), riveste particolare interesse, in questa sede, l’opinione di chi sostiene che la ‘‘naturalità’’ del giudice debba esprimersi nel collegamento del giudice medesimo con il territorio nel cui ambito è avvenuto il fatto che forma oggetto di accertamento (30). Se tali fossero le coordinate entro le quali il principio esaminato è destinato a trovare attuazione, apparirebbe semplificata la soluzione dello specifico problema affrontato dalla decisione in rassegna. Invero, qualora la naturalità del giudice derivasse indefettibilmente dal collegamento con il locus commissi criminis, non vi sarebbe dubbio circa l’opportunità di salvaguardare, per quanto possibile, come direttiva ordinatrice della disciplina della connessione, il collegamento del fatto con il contesto spaziale entro il quale esso si pretende avvenuto. Da qui, poi, discenderebbe che il concorso di persone nel reato continuato potrebbe operare come criterio attributivo di competenza solo nel caso dell’identità soggettiva tra i concorrenti in tutti i reati contestati. In caso contrario, infatti, si profilerebbe il rischio di pregiudicare il collegamento dei fatti oggetto del giudizio con la rispettiva dimensione spaziale, nonché, per ulteriore conseguenza, l’idoneità del giudice investito del processo. Ciò va detto senza trascurare che il collegamento del giudice con il territorio assume potenziale rilievo anche nella prospettiva dell’integrità degli strumenti difensivi disponibili alle parti, in rapporto all’esperimento delle indagini difensive e della prontezza nell’acquisizione di fonti di prova delle circostanze a discarico (31). Tuttavia, a fronte di una simile ricostruzione, deve segnalarsi come essa si basi su una lettura niente affatto scontata del requisito della ‘‘naturalità’’; rispetto alla quale sembra opportuno il rilievo di chi avverte come la lettura disgiunta dei valori tutelati dall’art. 25 Cost. possa sfociare in una restrizione della ‘‘precostituzione’’ a vantaggio della ‘‘naturalità’’, con conseguenti rischi di manipolazioni della competenza in nome della maggiore idoneità di un organo diverso da quello precostituito. La Corte costituzionale ha più volte affermato il principio secondo cui la naturalità del giudice non si aggiunge, ma si identifica con l’esistenza di regole precostituite fissate immediatamente ed esclusivamente dalla legge (32). Di recente, la Consulta ha ribadito il proprio orientamento precedente, sottolineando come, ai fini del rispetto del disposto dell’art. 25 comma 1 Cost., « non assume (29) Come sottolineato da E. SOMMA, op. cit., p. 287. (30) La necessità che la naturalità del giudice si esprima nel collegamento tra ufficio e territorio ove si pretende avvenuto il fatto da giudicare è evidenziata, sebbene marginalmente, dalla Corte costituzionale nell’ordinanza 130/1995, cit. In dottrina v. F. CORDERO, Connessione e giudice naturale, in Connessione di procedimenti e conflitti di competenza, cit., p. 55; ID., Procedura penale, cit., p. 115. (31) Accenna a questi profili A. BERRUTI, Presupposti della connessione, in Connessione di procedimenti, cit., p. 49. Nell’ordinamento processuale statunitense siffatte esigenze sono considerate alla base della ‘‘crime-committed formula’’, consacrata nell’art. 3 sect. 2 della Costituzione statunitense e nel sesto emendamento del Bill of Rights. Cfr., sul punto, W.R. LA FAVE-J.H. ISRAEL, Criminal Procedure2, St. Paul, Minn., 1992, pp. 741 ss. (32) A partire dalla sent. 1 aprile 1958, n. 29, in questa Rivista, 1958, p. 539. Cfr. inoltre, tra le più recenti pronunzie, Corte cost., ord. 14 aprile 1995, n. 130, in Giur. cost., 1995, p. 1042; ord. 30 dicembre 1991, n. 521, ivi, 1991, p. 4104; sent. 12 maggio 1977, n. 77, ivi, 1977, p. 675. Al proposito, si è parlato, da parte di chi sostiene la valenza disgiunta della naturalità rispetto alla precostituzione del giudice, di monolitismo della Consulta nell’identificare l’attribuzione della « naturalità » con quella della « precostituzione » del giudice: così A. MAMBRIANI, op. cit., p. 307. La necessità di considerare disgiuntamente la ‘‘naturalità’’ rispetto alla ‘‘precostituzione’’ è particolarmente avvertita e debitamente argomentata da F. CORDERO, Connessione e giudice naturale, cit., pp. 53 ss.
— 657 — rilievo la presunta maggiore o minore idoneità o qualificazione che possa essere rivendicata ovvero riconosciuta all’uno o all’altro organo della giurisdizione » (33). Ciò, se da una parte esclude il riconoscimento, nella giurisprudenza del giudice delle leggi, di significati ulteriori del principio di cui all’art. 25 comma 1 Cost., non pone preclusioni, d’altra parte, allo sviluppo di indagini volte a valorizzare le componenti più propriamente garantistiche del principio stesso. In questa direzione sembra dunque muoversi la sentenza in esame, allorché, nell’affermare la necessaria identità soggettiva dei (pretesi) concorrenti nei reati avvinti dal vincolo della continuazione, ricollega il dictum al rispetto del principio del giudice naturale precostiuito per legge. Va anche aggiunto come l’invocazione del menzionato principio fosse più agevolmente giustificabile in un sistema nel quale la disciplina della connessione figurava come deroga alle regole ordinarie sulla competenza; mentre parrebbe indebolirsi alla luce del rinnovato valore sistematico della connessione, come criterio autonomo di determinazione della competenza. Nondimeno, il richiamo espresso all’art. 25 1o comma Cost. conserva validità se ricollegato all’opportunità di evitare l’attribuzione di poteri discrezionali al P.M., quale soggetto esclusivamente legittimato a formulare la contestazione, determinando la competenza del giudice (34). Per comprendere appieno il significato del rilievo, occorre anche riflettere sul margine ultimo entro il quale può svilupparsi il vaglio del giudice, nel controllo giurisdizionale circa l’esistenza effettiva dei pretesi nessi tra i reati da giudicare. Un vaglio, questo, che deve comunque svilupparsi, se non si vuole ammettere che l’organo del P.M. possa rendersi arbitro della competenza (35). A questo riguardo, non è senza significato la statuizione contenuta nella sentenza in esame, tendente a compiere un passo ulteriore nell’escludere possibilità di aggiramenti interpretativi delle regole, pur flessibili, dettate dall’art. 12 c.p.p., ed inerente al fatto che l’accertamento della sussistenza del vincolo della continuazione tra i reati per cui si instaura il procedimento è comunque rimessa alla discrezionalità dell’organo giudicante. Adottando questa argomentazione, la S.C. sembra compiere una sorta di bilanciamento tra il margine di apprezzamento discrezionale attribuito al giudice nella valutazione della sussistenza di un preesistente disegno criminoso e l’ambito dei soggetti che possono risentire degli effetti del risultato dell’accertamento. Non potendosi limitare il primo termine della comparazione, si ricaverebbe un argomento ulteriore (che pare avvicinarsi all’argumentum ad absurdum) per limitare il novero soggettivo dei concorrenti rispetto ai quali potrebbe operare il criterio di connessione di cui all’art. 12 lett. b c.p.p. Senza accedere all’approfondito esame della validità dell’assunto, secondo cui il giudice compie, in ordine all’esistenza della continuazione, un apprezzamento in termini di pura discrezionalità (36), devono sottolinearsi due aspetti che paiono sottostare all’impianto motivo di questa parte della decisione. (33) V. ord. 16 giugno 1995, n. 257, in Giur. cost., 1995, p. 1874: sent. 15 dicembre 1994, n. 460, ivi, 1994, p. 3967. (34) Si soffermano su questo aspetto M. NOBILI, op. cit., p. 215; V. ZAGREBELSKY, Connessione e giudice naturale, in Connessione di procedimenti, cit., pp. 59 ss. (35) Lo prefigura la Consulta, nella sent. n. 130 del 1963, cit., allorché ammonisce sull’importanza che « l’accertamento della sussistenza dei presupposti legali sia il frutto di una valutazione suscettibile di sindacato ». (36) Ciò che appare problematico, se si identifica il modello concettuale della discrezionalità come eterointegrazione del paradigma normativo. Cfr., sul tema, le analisi di F. CORDERO, Le situazioni soggettive nel processo penale, pp. 168 ss., ma spec. pp. 173 s.; e quelle, di carattere monografico, di F. BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale. Nozione e aspetti costituzionali, Milano, 1965, spec. pp. 43 ss.; S. MESSINA, La discrezionalità nel diritto penale, Roma, s.d., pp. 72 ss.; A.R. LATAGLIATA, Circostanze discrezionali e prescrizione del reato, Napoli, 1967, pp. 7 s., 63 ss. Secondo quanto afferma la Corte co-
— 658 — Il primo aspetto pare incardinato sulle concrete possibilità e sui termini entro i quali far valere l’incompetenza per connessione nel corso del giudizio, data la scelta legislativa di imporre decadenze alla facoltà di eccezione delle parti, e senza trascurare un dato di prassi, per cui la difesa dell’imputato o indagato non ha interesse (almeno in generale) a contestare l’esistenza della connessione determinata dalla continuazione, giusta i benefici che dalla continuazione discendono ai fini della pena. Il secondo aspetto pare invece attenere ad un approccio concreto al regime operativo della continuazione nell’esperienza giudiziaria, per cui essa assurge, secondo una sequenza contrassegnata da un certo automatismo, a regime ordinario del concorso di reati, per cui l’esistenza di un disegno criminoso tende ad essere riscontrata in re ipsa (o, ciò che è lo stesso, presunta) (37). Alle lacune nell’accertamento di un requisito — quello dell’unicità del disegno criminoso — provvido di effetti in punto di pena, farebbe dunque da necessario contrappunto il limite soggettivo individuato dalla S.C., in rapporto al numero dei soggetti coinvolti nell’esecuzione del disegno. L’inquadramento del problema nell’ottica della prassi giudiziaria non deve però oscurare le implicazioni trascinate dall’assunto della S.C., per cui, se l’accertamento dell’esistenza di un disegno criminoso fosse rimesso ad un apprezzamento propriamente discrezionale, nessuna limitazione esegetica, per fondata che sia, del novero dei soggetti coinvolti nella fattispecie concreta parrebbe conciliabile con il rispetto del principio della naturalità e precostituzione del giudice. 5. Le ipotesi previste dall’art. 12 lett. c c.p.p. (38) ricevono breve considerazione, nella sentenza in rassegna, in un obiter dictum che le assimila alle altre forme di connessione previste nello stesso articolo, analizzando una possibile combinazione dell’art. 12 lett. b con le ipotesi previste dalle lett. a e c dello stesso articolo. In realtà, il testo novellato dell’art. 12 lett. c c.p.p. propone, per la rispettiva formulazione letterale, taluni aspetti problematici per la ricostruzione complessivamente condotta dalla S.C., dei quali occorre dare breve conto, anche per saggiare la solidità dell’interpretazione accolta. Il testo originario dell’art. 12 lett. c c.p.p., se da un lato contemplava la sola connessione teleologica delle imputazioni, la riferiva espressamente ai casi in cui « una persona » ne fosse imputata. La clausola di incipienza del vecchio testo della lett. c, eliminata dalla novella del 1992, che incentra la nuova versione sui « reati per cui si procede », è rimasta inalterata nella riformulazione dell’art. 12 lett. b. Da ciò deriva, se non altro, un’esigenza di coordinamento delle due ipotesi, che sembrano comportare differenti ambiti soggettivi di applicazione. Certamente, qualora si dovesse privilegiare l’aspetto teleologico dell’interprestituzionale, sent. n. 117 del 1972, cit., un margine di « relativa discrezionalità » nell’accertamento dei presupposti della connessione è insito nell’attività interpretativa compiuta dal giudice, risultando pertanto legittima. (37) Parte della dottrina si è pronunciata in maniera serratamente critica nei confronti dell’istituto della continuazione, quale risulta a seguito delle innovazioni introdotte dalla legge del 1974. Si censura, nella specie, la strumentalizzazione della figura del reato continuato, che nella prassi giurisprudenziale si è venuta sostituendo al concorso materiale di reati, atteggiandosi a regime ordinario del concorso di reati stesso. Sicché può dirsi che l’applicazione pressoché costante dell’istituto ne costituisce, al contempo, la reale disapplicazione. Cfr. P. NUVOLONE, Il sistema del diritto penale, Padova, 1982, p. 363; T. PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1993, p. 490; V. ZAGREBELSKY, voce Reato continuato, in Enc. dir., vol. XXXVIII, Milano, 1987, p. 854. (38) Approssimativamente coincidenti con le fattispecie di natura aggravante previste dall’art. 61 n. 2 c.p. (ad eccezione della connessione ‘‘occasionale’’), sicché può parlarsi, adottando la terminologia proposta da A. PAGLIARO, I reati connessi, cit., p. 69 ss., di connessione teleologica, ipotattica e paratattica.
— 659 — tazione, sin qui utilizzato nell’indagine sulla ratio della connessione processuale, potrebbe raggiungersi, anche per le ipotesi di cui all’art. 12 lett. c c.p.p., la conclusione affermata per gli altri casi di connessione, per cui essi, ordinandosi al rispetto di una sottostante esigenza probatoria unitaria, dovrebbero essere limitati ai casi in cui la composizione soggettiva dei concorrenti rimane invariata in tutti gli episodi connessi (39). Un simile argomento parrebbe di per sé sufficiente ad escludere interpretazioni a contrariis, fondate sulla difformità letterale delle lett. b e c dell’art. 12, dato che esse, rompendo l’unitarietà funzionale del complesso delle ipotesi di cui allo stesso art. 12, si rivelerebbero imperniate su un astratto formalismo. Tuttavia, il problema in esame rischierebbe di essere in tal modo eluso, fin quando non si dimostri che la funzione esercitata nel sistema dall’art. 12 c.p.p. trovi corrispondenza nella relativa struttura formale. Al riguardo, mentre nessuna conclusiva indicazione è ricavabile dai lavori preparatori, una prima osservazione può trarsi dal campo delle ipotesi pratiche. Sebbene la continuazione di reati, come detto, non involga necessariamente un vincolo di relazione strumentale tra i singoli episodi criminosi realizzati, è pur sempre possibile, se non probabile, che tra i reati legati da uno dei vincoli designati dall’art. 12 lett. c c.p.p. si interponga il vincolo derivante dalla concezione unitaria e dall’unicità del fine ultimo (40). In tal caso, sussistendo ed essendo contestata la continuazione tra i reati ascritti, potrebbe porsi, qualora mancasse l’identità soggettiva tra i concorrenti nei diversi reati, un problema circa i limiti soggettivi della connessione. Occorrerebbe infatti stabilire se valgano i limiti già visti per la continuazione, ovvero se prevalga la (congetturata) mancanza di limitazione soggettiva per la connessione ex art. 12 lett. c c.p.p. Ma un simile problema, ove avesse a porsi, potrebbe essere risolto soltanto sulla base della nozione funzionale della connessione, per cui essa opera nei limiti in cui soddisfi esigenze unitarie nell’accertamento giudiziale delle fattispecie criminose; cioè, in ultima istanza, attraverso l’argomento teleologico. Sicché, giunti a questo punto, non potrebbe trascurarsi di rispettare l’individuato criterio direttivo anche nei casi in cui non vi sia sovrapposizione tra le lett. b e c, per operare esclusivamente quest’ultima. Non potendosi, in questa sede, approfondire compiutamente l’indagine esegetica appena accennata, va aggiunto che l’accoglimento di una direttrice interpretativa difforme in rapporto ai diversi casi previsti dall’art. 12 c.p.p., mentre introdurrebbe nel sistema disarmonie difficilmente giustificabili, solleverebbe dubbi di compatibilità con il principio di uguaglianza, non potendosi scorgere alcuna plausibile ragione sistematica per discernere il regime giuridico proprio delle lett. a e b dell’art. 12, nell’applicazione risultante dalla combinazione delle rispettive fattispecie, in rapporto a quello della lett. c. Talché appare necessitata la conclusione assunta a corollario, per cui il limite soggettivo dei concorrenti nei reati connessi è dettato dal carattere della identità, indicato in via generale dall’art. 12 lett. a c.p.p. (41). (39) Come afferma, pur senza approfondire le premesse argomentative, Cass., sez. I, 28 marzo 1995, Pischedda, in C.E.D. Cass., n. 200701: « Ai fini della configurabilità del caso di connessione di cui all’art. 12 lett. c c.p.p., connessione teleologica, è necessario che ricorrano due condizioni e cioè che dei reati per cui si procede gli uni siano stati commessi per eseguire od occultare gli altri e che il reato-fine sia realizzato dalla stessa persona o dalle stesse persone che hanno realizzato il reato-mezzo ». Conf. Cass., sez. I, 10 gennaio 1992, BARRETTA, in Cass. pen., 1993, p. 1159. (40) Sulla compatibilità tra continuazione di reati e l’aggravante ex art. 61 n. 2 c.p.v. L. DE LIGUORI, Connessione teleologica e concorso di reati, in Cass. pen., 1987, p. 884; C. FERRAIUOLO, Aggravante teleologica e punibilità del reato-fine, in questa Rivista, 1976, spec. p. 671, nota 3. (41) Contra, a quanto sembra, D. MANZIONE, Commento all’art. 1, cit., p. 699. Nella dottrina tradizionale, l’opinione secondo cui gli effetti della connessione si producono anche se i reati connessi siano
— 660 — 6. I procedimenti connessi a quelli in cui un magistrato figura come imputato (o indagato: arg. ex art. 61 1o comma c.p.p.), persona offesa o danneggiata dal reato sono attratti nella cognizione del giudice individuato dall’art. 11 1o comma c.p.p. Rispetto alla regola vigente nel vigore del previgente codice (42), l’attuale art. 11 2o comma c.p.p. non introduce distinzioni tra i diversi casi di connessione per cui opera la vis attractiva del forum iudicis, per cui essa dovrebbe operare sempre, salvo il caso in cui l’applicazione delle norme di cui all’art. 16 1o o 2o comma c.p. portino ad individuare un foro diverso ed idoneo ad ospitare il giudizio (43). La connessione dovrebbe operare, ai sensi dell’art. 11 2o comma, nei limiti fissati in generale dall’art. 12 c.p.p., sin qui tratteggiati. Rispetto al caso in esame, la Cassazione individua il foro competente nel Tribunale di Perugia, richiamandosi non già al criterio di connessione derivante dalla continuazione (che, giusta quanto sin qui detto, non avrebbe potuto operare), quanto invece alle relazioni strumentali tra i reati contestati agli altri indagati e quello ad essi contestato in concorso con un magistrato, senza peraltro precisare in qual modo ciò facesse operare l’art. 12 c.p.p. « nella pienezza del suo contenuto ». Ed invero, per quanto già chiarito, anche il vincolo di strumentalità in senso stretto tra più reati, fatto risalire ad una delle relazioni disciplinate dalla lett. c, necessiterebbe comunque della identità dei concorrenti in tutti gli episodi che si pretendono commessi (44). dott. MASSIMILIANO MASUCCI
realizzati da una o più persone diverse è sostenuta, entro una prospettiva più ampia, da V. REINA, La connessione dei reati, cit., pp. 10 s. (42) Ricavabile dal disposto dell’art. 48-ter del codice previgente, introdotto dalla l. 22 dicembre 1980 n. 879, che affermava espressamente la vis attractiva per il caso del concorso di persone (2o comma), nonché per il concorso formale e per i reati commessi contestualmente con più processi esecutivi, fatta eccezione per gli altri casi di connessione di cui all’art. 45 (1o comma). Sul tema v. Gius. SABATINI, Trattato dei procedimenti incidentali nel processo penale, Torino, 1953, p. 187; nella dottrina più recente L. MARAFIOTI, Connessione « sostanziale » e derogabilità della competenza speciale per i procedimenti concernenti magistrati, in Giur. it., 1985, II, c. 457 ss; L. KALB, Gli effetti della connessione sulla competenza nei procedimenti riguardanti i magistrati, ibidem, 1983, II, c. 266 ss. (43) A. MACCHIA, sub art. 11, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, vol. I, cit., p. 71; F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 141. (44) Come precisato, del resto, nella Relazione al progetto definitivo del codice di procedura penale, in Suppl. ord. n. 2 G.U. del 24 ottobre 1988, n. 250, p. 166.
DOTTRINA
SUI TEMPI DELLA NUOVA FATTISPECIE DI USURA
1. Vigente l’originaria formulazione dell’art. 644 c.p. dottrina e giurisprudenza per lo più propendevano per la natura istantanea del delitto di usura (1). Se ne traevano importanti conseguenze pratiche. Il momento consumativo si identificava con la pattuizione degli interessi usurari, sia che la medesima si concretasse in un versamento anticipato (ipotesi della ‘‘dazione’’), sia che si fermasse all’assunzione di un impegno inteso come vincolante (ipotesi della ‘‘promessa’’). ‘‘L’usura è un delitto istantaneo che si consuma nel momento in cui l’agente si fa dare o promettere gli interessi o altri vantaggi usurari, con effetti permanenti se questi vengono corrisposti in prosieguo di tempo in esecuzione della iniziale promessa’’ (2). Il pagamento degli interessi promessi veniva così degradato a postfatto penalmente irrilevante: confinato nella categoria innocua, puramente esornativa, degli effetti permanenti. Al momento della pattuizione si doveva pertanto avere riguardo nell’accertamento dell’estremo dello ‘‘stato di bisogno’’. ‘‘Poiché l’usura è un reato istantaneo, sia pure con effetti permanenti, che si consuma nell’atto stesso in cui l’agente si fa dare o promettere gli interessi usurari, si deve avere riguardo, per accertare l’esistenza o meno dello stato di bisogno, esclusivamente al momento della stipulazione del contratto » (3). Ciò appariva tanto più plausibile in quanto il requisito dello sfruttamento dello (1) Cfr. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte speciale, I, 10a ed. a cura di Conti, 1992, 328; G.V. DE FRANCESCO, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ, Commentario breve del codice penale, 1992, 1516; GROSSO, Usura, in Enc. dir., XLV, 1992, 1146; MANTOVANI, Diritto penale, Delitti contro il patrimonio, 1989, 195; VIOLANTE, Usura (delitto di), in Nss. Dig. it., XX, 1975, 387. Vedi però nel senso di un’eventuale permanenza MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, IX, ed. 1984 a cura di Nuvolone, 896. Il PISA, Le attuali difficoltà nel reprimere l’usura, in Dir. pen. e proc., 1995, 1283 ravvisa una condotta complessa in caso di promessa seguita dalla dazione. (2) Cass., 24 aprile 1990, in Cass. pen., 1992, 1527. V. inoltre Cass., 26 settembre 1983, ivi, 1985, 395. (3) Cass., 27 dicembre 1971, in Cass. pen., 1973, 284; v. inoltre Cass., 27 maggio 1992, ivi, 1994, 1858. Secondo Cass., 2 gennaio 1981, ivi, 1982, 976, ‘‘quando poi si sia trattato di mutui successivi, anche se contratti in vista del medesimo scopo, il giudice di me-
— 662 — stato di bisogno innestava, per così dire, la situazione menomata del contraente debole nella dinamica della pattuizione usuraria: non potendosi parlare di sfruttamento qualora il mutuatario addivenisse alla pattuizione indipendentemente dalla spinta del bisogno. 2. Il quadro tipico è ora radicalmente mutato: la riforma di cui alla legge 7 marzo 1996, n. 108 ha eliminato il requisito dello sfruttamento. Anche nella fattispecie alternativa dell’usura ‘‘in concreto’’ (4) prevista dal terzo comma del nuovo art. 644 le ‘‘condizioni di difficoltà economica o finanziaria’’ rappresentano un presupposto di fatto che dev’essere abbracciato dal dolo, ma del quale non è richiesta la strumentalizzazione da parte del reo: un collegamento strumentale con la dazione o promessa di interessi sproporzionati alla prestazione ricevuta non è postulato dalla legge (ancorché non sia certo estraneo alla sua ratio, a livello di sospetto se non di presunzione juris et de jure). Per cogliere la reale portata della riforma occorre tuttavia fissare l’attenzione sul primo comma dell’art. 644 nella nuova versione, dove viene descritta la condotta tipica, mentre spetta al terzo comma di stabilire i parametri di qualificazione degli interessi usurari. Come in base al testo precedente la condotta punibile consiste nel ‘‘farsi dare o promettere’’ interessi o altri vantaggi usurari. L’impiego del verbo ‘‘fare’’ non è certo pleonastico. Non è previsto il semplice percepimento di interessi usurari: il reo deve farseli dare o promettere. Non nel senso che l’iniziativa del negozio debba necessariamente partire dallo strozzino (per lo più è la vittima ad andarlo a cercare); è però necessario che la fissazione degli interessi in misura esorbitante sia riconducibile al suo volere, in quanto da lui pretesa o comunque accettata. La definizione della condotta rispecchia la sinallagmaticità caratteristica dell’usura: gli interessi usurari sono dati o pattuiti, per comune volontà dei contraenti, quale corrispettivo di una prestazione di denaro o altra utilità. Nel fuoco della norma penale è ancor oggi il momento della pattuizione, e precisamente della determinazione convenzionale del corrispettivo usurario, in forma reale (dazione) o consensuale (promessa accettata) (5). Vale ancora il vecchio insegnamento secondo cui la corresponsione effettiva di interessi usurari già pattuiti resta fuori dall’area di rilevanza penale? Certamente no: l’art. 11 della legge n. 108 ha inserito un art. 644ter che disciplina espressamente la prescrizione del reato, facendola derito deve accertare per ogni obbligazione se essa sia sorta in costanza e con approfittamento dello stato di bisogno del mutuatario ». (4) Così FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte speciale, II, I delitti contro il patrimonio, 2a ed., 1996, 214. (5) Sull’estremo della promessa e sull’esigenza di una sua accettazione da parte dell’usuraio cfr. CRISTIANI, Guida alle nuove norme sull’usura, 1996, 115.
— 663 — correre dall’ultima riscossione sia degli interessi che del capitale. Che rappresenta, a dire il vero, un’indicazione comprensibilissima nelle sue ragioni politico-criminali (la prescrizione non deve avviarsi prima che siano interamente recisi i vincoli di soggezione economica insiti nell’usura), ma tutt’altro che univoca nei suoi riflessi dogmatici: basti riflettere che il rimborso del capitale — esso pure condizionante — non è per definizione riferibile al paradigma dell’usura, poiché il relativo obbligo è indiscutibile sul piano civilistico. Ciò non toglie che la riscossione degli interessi (spesso rateizzati) appare, dopo la riforma, in luce nuova: trattandosi del naturale compimento lesivo — dell’esecuzione — della pattuizione usuraria, un’emarginazione dall’ambito di rilevanza penale appare incompatibile con il nuovo regime della prescrizione. Si ha come un’omogeneizzazione delle due alternative, dazione e promessa: la dazione continua a rilevare penalmente anche se preceduta da una promessa (che ne assicura la rispondenza al volere dell’usuraio). Il pensiero va alla tesi dominante in tema di corruzione, che vuol posticipato il momento consumativo quando all’accettazione della promessa (sufficiente a perfezionare il reato) fa seguito l’effettiva ricezione. Con in più, in materia di usura, una congenita tendenza a dilatare nel tempo la fase dell’adempimento, data l’abituale rateazione degli interessi non corrisposti in anticipo. Ne risulta una situazione assimilabile alla permanenza (6), e non solo agli effetti della prescrizione: si pensi, p. es., alla responsabilità a titolo di concorso di chi, in tempo successivo alla pattuizione, operi quale collettore degli interessi usurari o si renda cessionario del diritto (7). 3. Viene piuttosto da chiedersi quale significato conservi il primo comma del nuovo art. 644 che, definendo la condotta tipica in termini di ‘‘farsi dare o promettere’’, mette a fuoco la pattuizione iniziale (8). Una prima risposta l’abbiamo già anticipata: le dazioni successive rientrano (6) Alla categoria dell’eventuale permanenza fanno frequente richiamo i commentatori della nuova legge, sia pure con esitazioni lessicali e dogmatiche: cfr. CAPERNA-LOTTI, Per una legge dalla struttura complessa, in Guida al diritto, n. 12/1996, 44; FIANDACA-MUSCO, op. cit., 216; MERUZZI, Usura, in Contr. e impr., 1996, 774; PROSDOCIMI, La nuova disciplina del fenomeno usurario, in Studium juris, 1996, 779; SILVA, Osservazioni sulla nuova disciplina penale del reato di usura, in Riv. pen., 1996, 132. Il richiamo alla categoria della permanenza viene però respinto da altri autori: cfr. CRISTIANI, op. cit., 39 e 112; MUCCIARELLI, Commento alla legge n. 108/1996, di prossima pubblicazione in Legisl. pen., sub art. 11; PISA, Commento, in Dir. pen. e proc., 1996, 418. (7) Su questi ulteriori riflessi cfr. PISA, loc. ult. cit.; PROSDOCIMI, loc. cit., e già MANZINI, op. cit., 897. (8) Cfr. CRISTIANI, op. cit., 63 e 121 e già MANZINI, op. cit., 883. Non diremmo invece che la formula lasci presumere una sorta di coazione da parte dello strozzino, come sembra ritenere CARACCIOLI, Le nuove regole del reato, in Impresa, 1996, 1547.
— 664 — nello schema dell’usura in quanto conseguenziali alla pattuizione, e a tale titolo imputate all’usuraio. Riscuotere interessi significa percepire un frutto dovuto, sia pure in base a un contratto illecito (altrimenti non si parlerebbe neppure di ‘‘interessi’’). Esulerebbe dallo schema tipico l’accettazione da parte del creditore di un donativo spontaneo (salva beninteso l’ipotesi di accordo ad hoc occulto o mascherato). È inoltre la pattuizione originaria a cementare l’unità del fatto di usura nonostante la diluizione dei pagamenti: non si dubita della configurazione unitaria del reato fino a quando gli interessi usurari vengano riscossi in esecuzione di un’unica pattuizione. Può invece accadere che in corso di esecuzione intervengano fra le parti ulteriori accordi, con effetti integrativi o modificativi della pattuizione iniziale. A nostro avviso è opportuno distinguere a seconda dei riflessi sul patrimonio della vittima. Si può ammettere che l’unità del reato si mantenga in caso di semplice rinnovo o proroga che lasci invariati i termini economici del rapporto. Quando invece il nuovo accordo comporti un aggravio degli oneri per il debitore, come in caso di inasprimento del tasso di interessi, siamo in presenza di una novazione suscettibile di autonoma rilevanza penale alla stregua delle due fattispecie del vigente art. 644. La pattuizione di un nuovo più gravoso interesse al di sopra del tasso soglia dà luogo a un autonomo episodio di usura, ancorché la somma data a mutuo rimanga quella iniziale. Anche l’ulteriore godimento di una somma già percepita può valere come controprestazione dell’interesse usurario (9). L’eventualità di una proliferazione di episodi delittuosi attraverso un crescendo di accordi usurari anche senza nuove erogazioni da parte dello strozzino va tenuta presente ai fini di un’efficace lotta contro l’usura: se è vero che la vittima di questo reato si trova spesso trascinata in una spirale di pretese sempre più esose, alle quali è sempre meno in grado di opporre resistenza (10). 4. Soprattutto, a nostro avviso, la rilevanza della pattuizione iniziale investe la qualificazione degli interessi o altri vantaggi come usurari, alla stregua dei parametri di fresca introduzione. I coefficienti dell’usura vanno riscontrati nel momento in cui l’agente si fa dare o promettere. La legge non conosce un’usurarietà sopravvenuta, determinata da parametri intervenuti successivamente: non valgono come usurari gli interessi riscossi sulla base di una pattuizione legittima, rispettosa del tasso soglia vi(9) Diversamente, sul punto, PROSDOCIMI, loc. cit.; MUCCIARELLI, loc. cit. (10) Cfr. INGANGI, Concreta applicabilità delle nuove norme sull’usura e conseguenze civilistiche del reato, in Riv. pen. econ., 1996, 312. Sulla frequenza dei rinnovi nella fenomenologia dell’usura v. CAPERNA-LOTTI, Il fenomeno dell’usura tra esperienze giudiziarie e prospettive di un nuovo assetto normativo, in Banca, borsa, 1995, I, 80.
— 665 — gente, ancorché alla scadenza di qualche rata di interessi, a seguito di un calo generalizzato dei tassi, risulti superato il livello determinato ai sensi dell’art. 2 legge n. 108. È sempre il tasso effettivo globale medio vigente al momento della pattuizione iniziale al quale bisogna fare riferimento, per quanto si protragga nel tempo l’esecuzione del contratto (11). Salva ovviamente l’ipotesi di successivi accordi sostanzialmente novativi, da valutare autonomamente. La legge francese, da cui ha tratto ispirazione il nostro legislatore, definisce espressamente come usurario il prestito il cui tasso supera il limite di legge ‘‘au moment où il est consenti’’ (art. 313-3 legge 26 luglio 1993, n. 93-949, ma già art. 1 legge 28 dicembre 1966, n. 66-1010). Nel sistema della legge n. 108 la stessa conclusione è suggerita, in primo luogo, dalla correlazione grammaticale e concettuale istituita dal primo comma del nuovo art. 644 tra pattuizione e interessi usurari: questi ultimi rappresentando l’oggetto che il reo si fa dare o promettere. Valgono come conferma talune indicazioni ricavabili dalla legge di riforma. a) L’art. 2 legge n. 108, che regola la rilevazione trimestrale del tasso effettivo globale medio, nel terzo comma fa obbligo alle banche, agli intermediari finanziari e a ogni altro ente autorizzato all’erogazione del credito di affiggere nella rispettiva sede, e in ciascuna delle proprie dipendenze aperte al pubblico, in modo facilmente visibile, apposito avviso contenente la classificazione delle operazioni e la rilevazione dei tassi ad opera delle competenti autorità: strumento pubblicitario ovviamente finalizzato a un’adeguata informazione della clientela in fase di contrattazione e quindi di pattuizione degli interessi. b) A norma del nuovo quarto comma dell’art. 644, ‘‘per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per le imposte e tasse, collegate all’erogazione del credito’’. Si tratta di oneri accessori, che la stessa norma correla all’erogazione del credito, e quindi pattuiti insieme con gli interessi (da ricomprendere, ai sensi del testé citato art. 2 legge n. 108, nella rilevazione del t.e.g.m.). Ancora una volta l’attenzione viene richiamata sulla pattuizione iniziale. c) Particolare interesse ci sembra presentare il secondo comma del medesimo art. 2: fra gli elementi di cui tener conto nella classificazione delle operazioni creditizie per categorie omogenee, preliminare alla rilevazione trimestrale dei rispettivi tassi, accanto alla natura, all’oggetto, all’importo, ai rischi e alle garanzie, è menzionata la durata. Alla durata fa pure riferimento l’art. 1 d.m. 23 settembre 1996, contenente la prima classificazione prescritta dalla legge. (11) In senso opposto, sul punto, CARACCIOLI, op. cit., 1553; MUCCIARELLI, op. cit., sub art. 2 e 3. Nel senso del testo PROSDOCIMI, op. cit., 774.
— 666 — Orbene, se il fattore ‘‘durata’’, con tutte le sue implicazioni (in prima linea l’eventualità di una oscillazione nel tempo del livello di mercato dei tassi di interesse), già influisce per volontà di legge sulla classificazione delle operazioni creditizie e quindi sulla rilevazione per categorie omogenee dei tassi effettivi, sarebbe incongruo farlo giocare una seconda volta, commisurando le singole rate di interesse al tasso soglia del momento. È presumibile che il mercato del credito già sconti, nella determinazione degli interessi praticati per le operazioni a lungo o medio termine, le alee insite nella variabilità dei tassi. Ma con riguardo alle operazioni destinate a non esaurirsi nel breve periodo c’è un ulteriore dato di esperienza da non trascurare. Più il rapporto creditizio si protrae nel tempo, più l’onerosità effettiva degli interessi viene a dipendere non solo dal tasso convenuto, ma anche dall’andamento dell’inflazione: più quest’ultima è elevata, meno gli interessi finiscono per gravare sul debitore. Ove si volesse riesaminare ex novo, a ciascuna successiva scadenza, la qualificazione di usurarietà, il tasso nominale andrebbe man mano depurato della svalutazione monetaria. Ed è significativo che la legge non offra alcuna apertura in tal senso. d) Infine la sostituzione del nuovo secondo comma dell’art. 1815 c.c. ad opera dell’art. 4 legge n. 108: ‘‘se sono consentiti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi’’. Non più la riduzione degli interessi nella misura legale, ma una sanzione punitiva, sebbene civile, in funzione deterrente. La quale anche testualmente è ricollegata alla pattuizione degli interessi usurari e non è sicuramente adattabile all’ipotesi di superamento dovuto a un successivo ribasso del tasso soglia. In tal caso la sola conseguenza civilistica immaginabile potrebbe essere rappresentata da una riduzione al livello del nuovo tasso soglia. Il fatto che il legislatore abbia disciplinato, nei riflessi civilistici, la sola ipotesi della pattuizione di interessi usurari conferma che la qualificazione degli interessi va determinata con riguardo al momento in cui essi vengono pattuiti, cioè quello della dazione o promessa. 5. Ovviamente deve valere anche la reciproca, nell’eventualità di uno spostamento verso l’alto del t.e.g.m. La pattuizione di interessi in eccesso rispetto al limite vigente basta a integrare il reato, ancorché al momento della corresponsione i medesimi risultino compatibili con una nuova più elevata soglia (12). In un caso del genere verrebbe però meno l’illiceità della riscossione e conseguentemente la responsabilità concorsuale dell’eventuale partecipe. Riterremmo invece ugualmente applicabile il regime della prescrizione di cui all’art. 644-ter, posto che il legislatore (12)
Cfr. MUCCIARELLI, op. cit., sub art. 2.
— 667 — ha inteso subordinarne il decorso all’estinzione di qualunque obbligazione del debitore, indipendentemente dalla liceità del titolo (si ricordi il rimborso del capitale). Non è superfluo precisare che le periodiche variazioni del tasso soglia mediante atti amministrativi non valgono come successione di leggi penali ai sensi dell’art. 2 c.p. (13). La conclusione fin qui raggiunta — la qualificazione degli interessi con riguardo al momento della relativa pattuizione — vale non solo per l’usurarietà automatica, determinata dal superamento della soglia fissata a norma di legge, ma anche per quella da valutare in concreto, alla stregua della complessa previsione dell’art. 644, terzo comma. La sinallagmaticità che intercorre fra gli interessi (o altri vantaggi o compensi pattuiti) e la prestazione dell’usuraio in denaro o altra utilità esige che la sproporzione venga apprezzata nell’ottica (e nel momento) della pattuizione complessiva. Un’eccessiva onerosità sopravvenuta non può rendere usurarie le rate di interessi ancora dovute (salvo il rimedio dell’art. 1467 o 1468 c.c.). Del pari le condizioni di difficoltà economica o finanziaria (col loro presumibile peso sulla volontà del contraente debole) devono esistere nel momento in cui gli interessi (o altri vantaggi o compensi) sproporzionati vengono dati o promessi. 6. Nel momento della pattuizione (o dell’accordo novativo che integri o modifichi le intese originarie) trovano collocazione anche le aggravanti del quinto comma, per lo più intese a stigmatizzare situazioni che indeboliscono la posizione della vittima, gravando di un ulteriore disvalore il rapporto nel suo complesso. L’esercizio, da parte del reo, di un’attività professionale, bancaria o di intermediazione finanziaria (n. 1) rappresenta un pericolo di abuso dell’affidamento della vittima solo se contestuale all’incontro delle due volontà. Lo stesso vale per la vittimizzazione di soggetti particolarmente esposti, in quanto in stato di bisogno (n. 3) oppure svolgenti attività imprenditoriale, professionale o artigianale (n. 4). Anche la spiccata pericolosità di sorvegliati speciali (n. 5) merita rilevanza quando sia comprovata al momento dell’iniziativa delittuosa. Il discorso può essere parzialmente diverso per la fattispecie della richiesta in garanzia di particolari beni capitali (partecipazioni o quote societarie o aziendali o proprietà immobiliari). Va premesso che, nonostante l’imprecisione testuale, l’aggravante postula che la richiesta dell’usuraio venga accettata, dando vita a un’intesa specifica (14). Normalmente si tratterà di una clausola della pattuizione iniziale; ma non è escluso che possa innestarsi in un rapporto creditizio già in corso. (13) Sul punto, anche per gli opportuni richiami, MUCCIARELLI, loc. ult. cit. (14) Cfr. CRISTIANI, op. cit., 81.
— 668 — In quest’ultimo caso occorrerà distinguere: qualora, come per lo più accadrà, una siffatta garanzia aggiuntiva concreti un vantaggio sproporzionato alla prestazione dell’usuraio, e il debitore si trovi in condizione di difficoltà economica o finanziaria, la nuova intesa presenterà tutti i caratteri di un autonomo episodio di usura aggravata. CESARE PEDRAZZI
I PRINCÌPI DELL’ORALITÀ E DEL CONTRADDITTORIO NEL PROCESSO PENALE (*)
SOMMARIO: 1. La nozione di ‘‘oralità’’. — 2. La nozione di ‘‘contraddittorio’’. — 3. Presupposti per l’esercizio del contraddittorio: contestazione dell’accusa e principio dispositivo. — 4. (Segue): il potere di ricerca della prova. — 5. Eccezioni all’oralità e al contraddittorio: patteggiamento e giudizio abbreviato. — 6. (Segue): valore probatorio delle indagini preliminari. — 7. La l. 7 agosto 1997, n. 263. — 8. Ulteriori eccezioni all’oralità e al contraddittorio introdotte dalla prassi. — 9. Prospettive di riforma per un recupero dell’oralità e del contraddittorio.
1. Vari significati sono stati attribuiti alle locuzioni ‘‘oralità’’ e ‘‘contraddittorio’’. Si rende, pertanto, necessario al fine di individuare quale applicazione abbiano nel processo penale darne una definizione. Come diceva Balzac ‘‘accanto alla necessità di definire si trova il rischio di ingarbugliarsi’’ ma, a ben vedere, si tratta di un rischio molto ridotto poiché i concetti di oralità e contraddittorio sono stati chiariti ed approfonditi. È evidente che per oralità oggi non si intende più soltanto l’esigenza che il giudice non basi il suo convincimento su atti scritti di cui non sia effettuata la lettura in udienza. Siffatta nozione di oralità fa sì che non costituiscano deroghe all’oralità stessa la lettura di verbali di attività probatorie in precedenza compiute senza, quindi, attuazione né dell’immediatezza né del contraddittorio nel momento di formazione della prova. Tesi già criticata vigente il codice abrogato al fine di sostenere una nozione lata di oralità, nella quale ricomprendere l’immediatezza ed il contraddittorio nel momento di formazione della prova e ancor più inaccettabile alla stregua del codice vigente, nel quale i verbali delle indagini preliminari documentano non una prova ma un elemento di prova assunto nel procedimento e non nel processo e con riferimento non ad un fatto imputato e, quindi, documentano un elemento di prova assunto per il fine delineato dall’art. 326 c.p.p., che non è quello dell’accertamento del fatto imputato imposto, per quanto concerneva la fase istruttoria, dall’art. 299 c.p.p. del (*) Testo della relazione tenuta a Trapani il 26 settembre 1997, in occasione del XI Convegno dell’associazione tra gli studiosi del processo penale sul tema ‘‘Oralità e contraddittorio nei processi di criminalità organizzata’’.
— 670 — codice del 1930 (applicabile ex art. 392 c.p.p. anche nell’istruzione sommaria). La nozione lata di oralità già era stata precisata da Calamandrei, il quale asseriva riprendendo l’insegnamento di Chiovenda: ‘‘oralità significa dialogo diretto fra l’organo giudicante e le persone di cui esso deve raccogliere e valutare le dichiarazioni (immediatezza). Questo aspetto dell’oralità è forse, processualmente, il più importante’’; ‘‘oralità significa identità delle persone fisiche che costituiscono l’organo giudicante durante la trattazione della causa’’; ‘‘oralità significa concentrazione della trattazione della causa in un unico periodo (dibattimento), contenuto in una sola udienza o in poche udienze successive’’. In quest’ordine di idee, come efficacemente è stato detto da Siracusano, per processo orale si intende un tipo di processo, ‘‘che punta sull’elaborazione della prova nel contraddittorio fra le parti e che fa dell’immediatezza e della concentrazione le componenti essenziali per il controllo e la valutazione delle acquisizioni probatorie. Il principio dell’oralità costituisce, così, la sintesi di altri princìpi e diventa la nota fondamentale del dibattimento, perché in questa fase del processo convergono contraddittorio, immediatezza e concentrazione’’. Se questa è oggi la nozione di oralità possiamo dire che nel processo penale tale nozione nel senso sopra precisato non trova mai attuazione. Non dico raramente, dico mai. Non mi riferisco al fatto che il contraddittorio nel momento di formazione della prova e, conseguentemente, l’immediatezza subiscono numerosissime eccezioni ma alla banale constatazione che anche quando (a dire il vero ipotesi piuttosto rara) tutte le prove si assumono in sede dibattimentale e, pertanto, immediatezza e contraddittorio per la prova trovano integrale attuazione non è mai possibile, se il processo richiede una istruzione di una qualche rilevanza, una completa attuazione della concentrazione del dibattimento. Orbene, la violazione del principio di continuità, da un lato, svuota di significato l’immediatezza posto che il susseguirsi di rinvii a udienza fissa e la conseguente protrazione dell’istruzione dibattimentale per lunghi periodi fa sì che il giudice decida quando non è più in condizioni di ricordare le modalità dell’assunzione della prova avanti a lui verificatasi e, dall’altro, tale violazione altera sia il contraddittorio per la prova (che spesso avviene quando non si ricordano le modalità di assunzione delle prove in precedenza effettuate) sia il contraddittorio sulla prova che in virtù di tali ritardi viene ad essere un contraddittorio basato sulle trascrizioni o sui verbali. In altri termini, l’impossibilità di attuare la concentrazione del dibattimento sminuisce l’importanza dell’immediatezza e del contraddittorio per la prova e dimostra che l’oralità in senso lato sopra indicata non si attua praticamente mai. È abbastanza significativo che i guasti provocati da questa mancata
— 671 — attuazione della continuità del dibattimento non siano vistosamente denunciati così come avviene per la vanificazione degli altri princìpi del dibattimento e ciò in quanto l’istituto processuale più amato ed attuato è un istituto non previsto dal codice e che realizza una violazione del divieto di sospendere il dibattimento per un periodo superiore a dieci giorni: mi riferisco, come è ovvio, al rinvio a udienza fissa. 2. Precisato il concetto di oralità si tratta di precisare quello di contraddittorio molto più ampio del contraddittorio che rientra nella nozione di oralità sopra indicata in quanto quest’ultimo è il contraddittorio relativo alla elaborazione della prova, che costituisce soltanto un aspetto del concetto di contraddittorio. La Corte costituzionale e la dottrina (Conso) hanno chiarito che con l’affermare la inviolabilità del diritto di difesa si è costituzionalizzato il contraddittorio. Peraltro, si è esattamente rilevato (Giostra) che il diritto di difesa non si identifica con il contraddittorio dal momento che il primo è funzionale agli interessi dell’accusato mentre il secondo è funzionale agli interessi della giustizia ed ha come elemento basilare la struttura triadica. Vediamo, quindi, quali sono i presupposti e le connotazioni del contraddittorio. Prima condizione per l’instaurazione del contraddittorio è la contestazione dell’accusa. Infatti, il contraddittorio sulla prova ed il contraddittorio per la prova presuppongono entrambi e non possono non presupporre la conoscenza e la delimitazione dell’oggetto della prova, conoscenza e delimitazione che si realizza, appunto, con la contestazione dell’accusa. Proprio per questo la Corte costituzionale con la sentenza n. 241 del 1992 e n. 50 del 1995 ha dichiarato illegittimo l’art. 519 c.p.p. nella parte in cui non consentiva nei casi previsti rispettivamente dall’art. 516 c.p.p. e 517 c.p.p. al pubblico ministero ed alle parti private diverse dall’imputato di chiedere l’ammissione di nuove prove ed, inoltre, con la sentenza n. 241 del 1992 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’inciso dell’ultima parte del comma secondo dell’art. 519 c.p.p. là ove consentiva all’imputato di chiedere l’ammissione di nuove prove, nel caso di modifica dell’imputazione, soltanto a norma dell’art. 507 c.p.p. In tal modo si rendeva impossibile il diritto alla prova e, pertanto, il contraddittorio allorquando nonostante la modifica dell’imputazione non si fosse realizzata, terminata l’acquisizione delle prove, la situazione di assoluta necessità prevista dall’art. 507 comma secondo c.p.p. 3. Il contraddittorio sulla prova e per la prova, si è detto, comporta la conoscenza del fatto imputato giacché soltanto conoscendo l’imputazione potrà effettuarsi il contraddittorio. A questo proposito si pone il problema se l’oggetto della prova e, quindi, del contraddittorio e la prova stessa debbano essere introdotti dalle parti oppure no. In altri termini, il principio dispositivo regola o no l’oggetto del contraddittorio ed è, quindi,
— 672 — oppure no un presupposto del contraddittorio stesso? Il principio dispositivo è inequivocabilmente previsto dal legislatore nell’art. 190 comma primo c.p.p. là ove stabilisce: ‘‘le prove sono ammesse a richiesta di parte’’. La rubrica dell’art. 190 c.p.p. suona ‘‘diritto alla prova’’ ma il testo del comma primo della norma predetta fa riferimento al diritto alla prova soltanto nella seconda parte là ove consente al giudice di escludere le prove richieste dalle parti unicamente quando siano vietate dalla legge oppure siano manifestamente superflue o irrilevanti, il che comporta che il giudice ha il dovere di disporre l’assunzione delle prove richieste persino quando le ritenga superflue o irrilevanti sempreché la connotazione della superfluità o della irrilevanza non sia manifesta. Il principio dispositivo, invece, risulta dalla prima parte del comma primo là ove stabilisce che ‘‘le prove sono ammesse a richiesta di parte’’ ed è ribadito dal comma secondo (‘‘la legge stabilisce i casi in cui le prove sono ammesse di ufficio’’), che sottolinea l’eccezionalità di prove non richieste dalle parti. Sono le parti, quindi, ad individuare le prove oggetto del contraddittorio. È evidente che diritto alla prova e principio dispositivo sono concetti completamente diversi. Infatti, il diritto alla prova comporta il diritto alla ammissione della prova nonché il diritto alla corretta assunzione della prova stessa mentre il principio dispositivo enunciato nell’art. 190 c.p.p. riserva alle parti l’iniziativa in tema di assunzione della prova. Per capire esattamente il significato e la portata del principio dispositivo e l’importanza che le deroghe a detto principio comportano nel sistema processuale accusatorio bisogna rifarsi all’insegnamento della dottrina processualcivilistica, nella quale il principio dispositivo viene enunciato con il broccardo secundum alligata et probata a partibus iudex iudicare debet. Detto broccardo comprende, peraltro, due regole di diverso contenuto ed importanza. La prima (iudex secundum alligata a partibus iudicare debet) vieta al giudice di esercitare il suo potere di cognizione su fatti diversi da quelli allegati dalle parti. La seconda (iudex secundum probata a partibus iudicare debet) vieta al giudice di assumere prove d’ufficio (Cappelletti). La distinzione tra queste due regole è indispensabile al fine di sottolineare la diversa gravità che hanno le deroghe ai due divieti predetti. Infatti, si precisa, sottrarre l’allegazione dei fatti ‘‘alla disponibilità delle parti significherebbe sottrarre alle parti stesse la disponibilità dell’azione e dell’eccezione’’, mentre non contrasta con la disponibilità dell’oggetto del contendere nel processo civile il fatto che il giudice possa prendere delle iniziative in tema di assunzione di prova. Questa bipartizione e questa diversa gravità delle deroghe ai due aspetti del principio dispositivo può prospettarsi anche con riferimento al
— 673 — processo penale, nel quale la res iudicanda è indisponibile? La risposta positiva discende dal rilievo che nel nostro processo penale il giudice deve essere super partes e la sua imparzialità imposta dalla stessa Costituzione nell’art. 25 comma primo e nell’art. 97 comma primo preclude al giudice di formulare autonomamente delle ipotesi ricostruttive dei fatti. Se ciò fosse consentito e se il giudice dovesse assumere le prove per avallare un’ipotesi ricostruttiva da lui stesso formulata il principio di terzietà e, quindi, di imparzialità del giudice verrebbe ad essere clamorosamente violato. Del resto, è estremamente significativo il fatto che il legislatore consideri ed abbia sempre considerato un principio fondamentale del dibattimento quello della correlazione tra accusa e sentenza (per cui il giudice deve pronunciare unicamente sui fatti contestati dal pubblico ministero) ed il fatto che conseguentemente le modifiche dell’imputazione nel corso dell’istruzione dibattimentale sono disciplinate in modo estremamente rigoroso e dipendono in ogni caso da una iniziativa della parte pubblica. Non avrebbe senso predisporre una disciplina legislativa estremamente rigorosa per il caso in cui il fatto risulti diverso da quello enunciato nella imputazione contestata se, poi, il giudice potesse in sede dibattimentale modificarlo mediante l’introduzione ex officio di fatti nuovi. Invero, ove fosse consentito al giudice penale formulare dei fatti da provare, si arriverebbe all’assurdo che il giudice si troverebbe a giudicare dei fatti da lui stesso postulati ed introdotti nel processo. L’oggetto del contraddittorio sarebbe fissato dal giudice e, pertanto, il giudice naturale inteso come giudice imparziale non sarebbe più ravvisabile. Indubbiamente costituisce una connotazione fondamentale della accusatorietà del processo penale che i fatti accertabili siano quelli prospettati dal pubblico ministero e dalle parti private. Pertanto, anche nel processo penale una deroga al principio iudex iudicare debet secundum alligata, risulterebbe di estrema gravità. Di minor gravità appare, invece, pure nel processo penale, l’iniziativa del giudice in tema di assunzione della prova. È pur vero, peraltro, che, anche in tal caso, la terzietà del giudice risulterebbe scalfita dal momento che l’iniziativa predetta integrerebbe inevitabilmente un’attività di supplenza rispetto ad un comportamento omissivo di una delle parti. In altri termini, a seconda che la prova assunta su iniziativa del giudice sia favorevole all’accusa o alla difesa, il giudice supplirebbe all’inerzia di una delle parti, il che sembra contrastare con la sua posizione di terzietà. Cionondimeno non si può negare che in questa situazione la violazione della imparzialità sia di minor rilievo rispetto a quella che si realizzerebbe ove si consentisse al giudice di decidere su fatti da lui stesso introdotti nel processo. Questa diversa gravità emerge pure dalle deroghe previste ai due aspetti del principio dispositivo. Deroghe in virtù delle quali l’oggetto del contraddittorio non risulterà più posto dalle parti bensì dal giudice.
— 674 — Per quanto concerne la regola del principio dispositivo ne eat iudex ultra petita partium, tale regola comporta che il giudice dovrà giudicare unicamente sui fatti enunciati nell’esposizione introduttiva di cui all’art. 493 c.p.p., nella quale il pubblico ministero enuncia i fatti oggetto della imputazione ed i difensori delle altre parti indicano i fatti che intendono provare. In altri termini, nell’esposizione predetta si enuncia il thema probandum e di una deroga alla regola del principio dispositivo sopra enunciata potrà parlarsi in tanto in quanto sia consentito al giudice introdurre un thema probandum non indicato dalle parti. Al riguardo, viene in considerazione l’art. 506 c.p.p., il quale con riferimento ai poteri del presidente del collegio o del pretore in ordine all’esame dei testimoni o delle parti private stabilisce che il presidente, anche su richiesta di un altro componente il collegio, oppure il pretore ‘‘in base ai risultati delle prove assunte nel dibattimento a iniziativa delle parti o a seguito delle letture disposte a norma degli artt. 511, 512 e 513, può indicare alle parti temi di prova nuovi o più ampi, utili per la completezza dell’esame’’. Ciò significa che nella particolare ipotesi prevista dalla disposizione sopra menzionata il tema di prova, anziché essere posto dalle parti nella esposizione introduttiva, viene eccezionalmente posto alle parti e, quindi, appare ravvisabile una deroga alla regola per cui iudex iudicare debet secundum alligata. Per quanto concerne la seconda regola riconducibile al principio dispositivo iudex secundum probata a partibus iudicare debet, tale regola comporta che il giudice possa assumere solo prove richieste dalle parti come esplicitamente stabilito dall’art. 190 comma primo c.p.p. (‘‘le prove sono ammesse a richiesta di parte...’’) nonché dall’art. 493 primo e comma secondo c.p.p. là ove stabilisce che nell’esposizione introduttiva il pubblico ministero ed i difensori delle parti private debbono indicare le prove di cui chiedono l’ammissione. L’oggetto del contraddittorio per la prova è indicato dalle parti. La possibilità di eccezioni alla regola iudex secundum probata a partibus iudicare debet, è espressamente contemplata dall’art. 190 comma secondo c.p.p., per cui ‘‘la legge stabilisce i casi in cui le prove sono ammesse d’ufficio’’. Tali eccezioni, che consentono al giudice di assumere iniziative in tema di assunzione della prova sono numerose e previste negli artt. 195 comma secondo c.p.p., 210 comma primo c.p.p., 196 comma secondo c.p.p., 224 comma primo c.p.p., 468 comma quinto c.p.p., 501 comma secondo c.p.p., 237 c.p.p. ed infine 507 c.p.p. L’eccezione più vistosa delineata nell’art. 507 c.p.p. risulta estremamente ampia in seguito all’interpretazione dell’art. 507 c.p.p. effettuata dalle S.U. della Corte di cassazione nella sentenza 6 novembre 1992 ed avallata dalla Corte costituzionale con la sentenza interpretativa di rigetto n. 111 del 1993. Si è, infatti, asserito che l’art. 507 c.p.p. attribuisce al giudice il potere di assumere nuovi mezzi di prova in ogni caso di assoluta necessità e, cioè, anche
— 675 — quando la necessità stessa sia stata determinata da una carenza parziale o totale nella attività di una o di entrambe le parti, che non hanno provveduto alla richiesta di assunzione. Il che significa ammettere l’iniziativa probatoria del giudice in ordine a prove dalle quali le parti risultino decadute sia nel caso in cui vi sia stata una istruzione dibattimentale sia nel caso in cui sia mancata ogni attività istruttoria. A sostegno di questa tesi la Corte costituzionale, riprendendo le argomentazioni delle S.U., ha asserito che l’assunzione delle prove predette si giustifica in quanto il fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità e che ‘‘ad un ordinamento improntato al principio di legalità (art. 25 comma secondo Cost.) — che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate — nonché al connesso principio di obbligatorietà dell’azione penale non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione’’. Al riguardo va rilevato come il riferimento alla ricerca della verità storica non sembri persuasivo in quanto il principio dispositivo in tema di assunzione della prova persegue pure la ricerca della verità storica ma comporta un scelta legislativa in virtù della quale si ritiene che detta verità sia più facilmente raggiungibile subordinando all’iniziativa delle parti l’assunzione della prova, poiché la necessità di questa iniziativa stimolerebbe il contraddittorio e garantirebbe la posizione di terzietà del giudice. In ogni caso è certo che l’interpretazione avallata dalla Corte costituzionale vanifica il principio dispositivo in tema di assunzione della prova, il che è riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale, la quale esplicitamente afferma: ‘‘l’inesistenza di un potere dispositivo delle parti in materia di prova si desume soprattutto dall’art. 507, che conferisce al giudice un potere suppletivo ma non certo eccezionale’’. Conclusione palesemente contrastante con il disposto dell’art. 190 comma primo c.p.p., il quale subordina l’ammissione delle prove alle richieste delle parti. L’amplissimo potere attribuito al giudice ex art. 507 c.p.p., alla stregua della interpretazione delle S.U. della Corte di cassazione e della Corte costituzionale, fa sì che il giudice, determinando l’oggetto del contraddittorio, eserciti una funzione di supplenza dell’accusa o della difesa in ordine alla richiesta di assunzione delle prove rispettivamente formulata dal pubblico ministero e dal difensore dell’imputato ed anche se ciò può in astratto conciliarsi con una posizione di terzietà del giudice, deve riconoscersi come l’amplissima possibilità di assumere prove d’ufficio attribuita al giudice del dibattimento e la conseguente menomazione del principio dispositivo, per cui le prove dovrebbero essere assunte soltanto su richiesta di parte, di fatto non può non comportare, altresì, una menomazione della posizione di imparzialità del giudice, il cui atteggiamento psicologico
— 676 — nel corso della istruzione dibattimentale muta e non può non mutare ove il giudice sappia che è chiamato a colmare le lacune della istruzione dibattimentale conseguenti ad una lacunosa attuazione dell’iniziativa probatoria delle parti. La posizione di terzietà non può non essere scalfita allorquando si richieda al giudice di supplire alla carente attività della parte accusa e della parte difesa. In contrasto con questa conclusione si osserva che la terzietà del giudice viene meno e l’equilibrio processuale risulta alterato se si consente al giudice la ricerca di prove sulla base di una autonoma ipotesi ricostruttiva dei fatti, mentre non si scalfisce la imparzialità e la terzietà del giudice allorquando si subordina il potere probatorio del giudice stesso ‘‘alla doppia condizione (a) che sia esaurita l’attività delle parti e (b) che sia assolutamente necessario’’ (Ferrua) esercitare detto potere. In tal modo, però, non si tiene conto che cambia completamente l’atteggiamento psicologico del giudice, il quale sa che potrà anzi dovrà esercitare una funzione di supplenza della attività delle parti dopo aver valutato se detta attività sia stata o no deficitaria. È molto significativo il fatto che nella prassi giudiziaria, in palese violazione dell’art. 190, comma primo c.p.p., (per cui il giudice ha il dovere di ammettere le prove richieste dalle parti a meno che non siano manifestamente superflue o irrilevanti), il giudice spesso non decida subito (come prescrive l’art. 495 c.p.p.) sulla richiesta di prove indubbiamente di notevole rilievo disponendone l’assunzione, ma riservi tale decisione alla fine dell’istruzione dibattimentale, vale a dire in un momento in cui può d’ufficio disporre l’assunzione delle prove ex art. 507 c.p.p. È il comportamento non del soggetto terzo che agisce in extremis in conseguenza dell’inerzia delle parti bensì di chi ritiene di potere autonomamente investigare. In ogni caso, le deroghe al principio dispositivo comportano una nuova attuazione del contraddittorio nel momento di formazione della prova in quanto muta l’oggetto del contraddittorio o sotto il profilo del fatto da provare o sotto il profilo della prova oggetto del contraddittorio stesso. 4. Se in virtù del principio dispositivo spetta alle parti delineare l’oggetto del contraddittorio sembrerebbe indispensabile attribuire alle parti stesse un potere di ricerca della prova al fine di individuare quali debbano essere, da un lato, i temi di prova e, una volta precisati detti temi, quali debbano essere le prove oggetto del contraddittorio. Indispensabile per l’attuazione del principio dispositivo e, quindi, per la individuazione dell’oggetto del contraddittorio appare pertanto il predetto potere. Orbene, un potere siffatto non è stato previsto dal legislatore né nella versione originaria dell’art. 38 disp. att. né nella versione modificata dalla l. 8 agosto 1995, n. 332. La modifica legislativa è servita unicamente ad
— 677 — attribuire alle indagini difensive valore di elementi probatori dal momento che il difensore può presentare direttamente al giudice elementi che egli reputa rilevanti ai fini della decisione da adottare ed ottenere che vengano inseriti nel fascicolo delle indagini preliminari del pubblico ministero rendendo in tal modo possibile la loro utilizzazione in sede dibattimentale grazie alle eventuali contestazioni effettuate ex art. 500 c.p.p. In tal modo, però, anziché potenziare il contraddittorio mediante l’attribuzione di un potere di ricerca della prova che rende possibile alla parte di contribuire a determinare l’oggetto del contraddittorio, si è ritenuto di potenziare il diritto di difesa estendendo al difensore quei poteri di formazione della prova in violazione del contraddittorio che l’applicazione dell’art. 500 c.p.p. prima rendeva possibile solo al pubblico ministero. Sarebbe veramente errato pensare che una menomazione del contraddittorio nel momento di formazione della prova conseguente al valore probatorio attribuito alle indagini preliminari del pubblico ministero risulterebbe ampiamente compensata dal fatto che analogo valore probatorio viene attribuito alle indagini del difensore. Si è giustamente osservato (Ferrua) che quando le prove sono formate in contraddittorio non vi sono ragioni ‘‘perché il giudice presti maggior credito al teste indicato dall’una o dall’altra parte, o perché valuti diversamente le risposte a seconda di chi ha formulato le domande. Non è così nella formazione unilaterale della prova, nella raccolta segreta di dichiarazioni. Qui è inevitabile che esca trionfante il pubblico ministero; che, valutato in chiave probatoria, l’esito delle sue ricerche sia ritenuto potenzialmente più affidabile’’. Sono osservazioni pienamente condivisibili. La fiducia di una parte pubblica a cui sono connaturate esigenze di giustizia e di obbiettività e che ha il dovere di produrre anche gli elementi probatori a favore dell’indagato non può non essere superiore alla fiducia accordata ad un difensore, il quale sia pure con assoluta correttezza deve agire nell’interesse del suo assistito e non dovrà mai produrre elementi probatori contrari a tale interesse. Abbiamo già avuto occasione di osservare che il valore probatorio di tutta la documentazione inserita nel fascicolo delle indagini preliminari dovrebbe essere identico ma cionondimeno non v’è dubbio che la mancanza di garanzie pubblicistiche nell’atto di acquisizione degli elementi probatori assunti dal difensore inevitabilmente porterà la giurisprudenza a valutare con estrema severità l’attendibilità delle dichiarazioni rese al difensore stesso. In effetti, non può non riconoscersi come sia estremamente più facile rendere dichiarazioni non veritiere al difensore anziché al pubblico ministero se non altro per il fatto che le prime non integrano un reato mentre le seconde comportano l’applicazione di una grave sanzione penale. 5.
Delineate le nozioni di oralità e contraddittorio e precisato l’og-
— 678 — getto del contraddittorio stesso nonché la possibilità data alle parti di individuarlo si rende necessario enunciare le eccezioni ai princìpi in esame per rendersi conto della reale consistenza dei princìpi stessi. La prima vistosa eccezione è data dai riti deflattivi del dibattimento: il patteggiamento ed il giudizio abbreviato, nei quali si attua una rinuncia da parte dell’imputato all’oralità ed al contraddittorio nel momento di formazione della prova. Esistono sedi giudiziarie, nelle quali si è verificata un’ampia attuazione di questi riti e segnatamente del patteggiamento e ciò al fine di poter effettuare numerosi processi. Questa deroga ai principi dell’oralità e del contraddittorio, peraltro, per quanto concerne il patteggiamento ha comportato un prezzo molto elevato in quanto si è risolta in una clamorosa violazione del principio di legalità in tema di applicazione della pena. È evidente che, allorquando per una concussione di miliardi o per una bancarotta fraudolenta aggravata di decine di miliardi, si giunge ad un patteggiamento, inevitabilmente per rientrare nel limite dei due anni si parte nel computo della pena dal minimo edittale in palese violazione dei parametri enunciati nell’art. 133 c.p. e, conseguentemente, del principio di legalità in tema di applicazione della pena nonché del principio di eguaglianza posto che, nel determinare la pena base della concussione, si tratta l’alto burocrate che ha realizzato una concussione di miliardi così come si tratta l’usciere che ha realizzato una concussione di poche migliaia di lire e, nel determinare la pena base della bancarotta fraudolenta, si tratta il grande imprenditore che ha distratto decine di miliardi così come si tratta il panettiere imputato di una distrazione di pochi milioni. La gravità della violazione del principio di legalità emerge in tutta la sua portata se si tiene presente che quando tale violazione si realizza non potrà neppure dirsi che il processo abbia accertato la verità storica. Il riferimento alla funzione del processo penale come funzione di accertamento della verità storica viene fatto per giustificare scelte inquisitorie come se il processo accusatorio non tendesse all’accertamento della verità storica. È ovvio che sia il sistema accusatorio che quello inquisitorio tendono ad accertare la verità storica: si tratta di vedere quale dei due sistemi meglio realizzi questa finalità. Quando si fa riferimento all’accertamento della verità storica per giustificare scelte inquisitorie, in realtà si vuole sostenere che il processo inquisitorio meglio soddisfa la finalità in esame. Orbene, il patteggiamento realizza un processo di stampo inquisitorio, sia pure voluto dall’imputato, posto che in esso non trovano attuazione l’oralità ed il contraddittorio per la prova. Senonché, quando l’attuazione di questo processo comporta, come spesso avviene, una violazione del principio di legalità in tema di applicazione della pena non si può dire che si realizzi l’accertamento della verità storica. Un settore della filosofia del diritto è dato dalla logica delle proposizioni normative detta logica deontica, che è una logica non dell’essere ma del dover essere. Ad esempio: ‘‘L’omicidio
— 679 — deve essere punito. Caio ha commesso un omicidio. Caio deve essere punito’’ (Bobbio). Il processo penale ha natura strumentale in quanto consente l’applicazione della sanzione penale. L’accertamento della verità storica consiste nell’accertamento di tutti i presupposti che giustificano una determinata sanzione penale e, quindi, non solo nell’accertamento della sussistenza del reato attribuibile all’imputato ma, altresì, nell’accertamento di tutti gli elementi di fatto da cui si desume la gravità del reato e la capacità a delinquere e che giustificano l’applicazione della pena base e la concessione delle attenuanti generiche. Un processo che si concluda con l’applicazione di una pena determinata senza accertamento dei presupposti relativi alla gravità del reato e alla capacità a delinquere è un processo che non ha accertato la verità storica. Invero, nel momento in cui si determina una pena base nel minimo al fine di rendere possibile il patteggiamento implicitamente si asserisce che il reato non è grave e che la capacità a delinquere è modesta, il che negli esempi sopra prospettati di gravi concussioni o bancarotte non corrisponde alla realtà storica. Il patteggiamento così come viene attuato ha anticipato quell’ipotesi di pena concordata a cui si dovrebbe giungere grazie alla riparazione pecuniaria dell’offesa dell’interesse pubblico. Questa eccezione ai princìpi dell’oralità e del contraddittorio nel momento di formazione della prova, che è ampliata anche a costo delle violazioni di legge predette, verrà ulteriormente ampliata se diventerà legge il progetto relativo alla condanna a pena concordata. Così pure vi è la tendenza ad allargare l’ambito di operatività del giudizio abbreviato. Al riguardo è opportuno ricordare che la Corte costituzionale con la sentenza n. 92 del 1992 ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 438, 439, 440 c.p.p., sollevata con riferimento agli artt. 3 e 25 comma secondo Cost. ‘‘nella parte in cui non prevedono che, qualora il dissenso del pubblico ministero all’introduzione del giudizio abbreviato sia motivato con l’impossibilità che il processo sia definito allo stato degli atti, il giudice dell’udienza preliminare, che ritenga l’impossibilità addotta dipendente da fatto rimediabile dello stesso pubblico ministero, possa indicare alle parti (sulla falsariga del meccanismo di integrazione probatoria previsto dall’art. 422 c.p.p.) i temi lasciati incompleti, sui quali si rende necessario acquisire ulteriori informazioni ai fini della decisione in ordine alla possibilità di definire il processo allo stato degli atti’’. La Corte costituzionale ha riconosciuto la fondatezza delle eccezioni di illegittimità costituzionale prospettate osservando che ‘‘la possibilità per il pubblico ministero di decidere quali e quante indagini esperire al fine di richiedere il rinvio a giudizio comporta rispetto al giudizio abbreviato, l’inaccettabile paradosso per cui il pubblico ministero può legittimamente precluderne l’instaurazione allegando lacune probatorie da lui stesso discrezionalmente determinate. È, perciò,
— 680 — necessario al fine di rincondurre l’istituto a piena sintonia con i princìpi costituzionali, che il vincolo derivante dalle scelte del pubblico ministero sia reso superabile con l’introduzione di un meccanismo di integrazione probatoria’’. L’impossibilità di accogliere l’eccezione discenderebbe dalla impossibilità di emanare una sentenza additiva. Peraltro, la Corte costituzionale è tornata sull’argomento con la sentenza n. 442 del 23 dicembre 1994, nella quale, pur ribadendo l’impossibilità di emanare una sentenza additiva a causa della pluralità di scelte idonee a risolvere il problema di legittimità costituzionale, ha effettuato una ‘‘minaccia’’ asserendo testualmente: ‘‘corre tuttavia l’obbligo di precisare che avendo la Corte già sollecitato il legislatore ad intervenire... i giudici costituzionali sottolineano come, perdurando la stato di inerzia, non potranno esimersi — ove siano investiti da ulteriori questioni di costituzionalità riguardanti lo specifico tema — dall’adottare le decisioni più appropriate ad evitare che permanga la più volte constatata distonia con i princìpi costituzionali’’. Ed è significativo che il disegno di legge governativo che disciplina la pena concordata preveda, altresì, un ambito di operatività molto più vasto del giudizio abbreviato ritenendo adottabile tale rito quando occorre una integrazione non complessa delle prove risultanti dalle indagini preliminari e quando il processo sarebbe definibile allo stato degli atti se le indagini non fossero state ingiustificatamente incomplete. L’attuazione di questi riti, nei quali non si applicano i princìpi dell’oralità e del contraddittorio nella formazione della prova e che in concreto comportano le incongruenze sopra sottolineate, è il prezzo da pagare per avere una effettiva attuazione dell’oralità e del contraddittorio per la prova nei processi in ordine ai quali l’imputato ritenga più significativa l’applicazione dei princìpi del processo accusatorio. I rilievi sopra effettuati vogliono sottolineare che si paga un caro prezzo che vale la pena di pagare se nei processi che sfociano nel dibattimento effettivamente si attuino oralità e contraddittorio. 6. Per verificare siffatta effettiva attuazione si rende indispensabile vedere in quali casi in sede dibattimentale le indagini preliminari acquisiscano dignità di prova: solo così si individua la reale consistenza dei princìpi predetti. Il contraddittorio nel momento di formazione della prova è strettamente correlato all’oralità poiché, allorquando tra le modalità di escussione delle prove v’è l’oralità, tale contraddittorio può compiutamente esplicarsi. Se, invece, l’oralità si concreta unicamente nella lettura del verbale (a cui è equiparata anche nel nuovo codice, ex art. 511 comma quinto c.p.p., l’indicazione specifica degli atti utilizzabili ai fini della decisione) il contraddittorio si realizza, ovviamente, su una prova già formata
— 681 — e, quindi, non trova attuazione il contraddittorio per la prova e non trova neppure attuazione l’oralità in senso lato come sopra indicata posto che in essa va ricompreso il contraddittorio per la prova. Orbene, mentre nel codice abrogato l’art. 466 comma terzo c.p.p. permetteva la lettura di ogni atto o documento che non fosse espressamente vietata, nell’ordinamento processuale vigente l’art. 514 c.p.p. vieta la lettura di verbali a meno che non sia espressamente consentita. Tale lettura, con la conseguente possibilità di utilizzare come prova il relativo verbale, è prevista, anzitutto, per i verbali degli atti assunti nell’incidente probatorio, che vanno inseriti nel fascicolo per il dibattimento e, quindi, possono essere letti ex art. 511 comma primo c.p.p. Senonché, in ordine a tali prove, oralità e contraddittorio nel momento di formazione della prova hanno trovato attuazione nel corso dell’incidente probatorio (in questo caso viene meno l’immediatezza e conseguentemente l’oralità in senso lato). Una deroga all’oralità e al contraddittorio si ha nel caso di atti originariamente irripetibili posto che sia i verbali degli atti non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria sia i verbali degli atti non ripetibili compiuti dal pubblico ministero sono inseriti nel fascicolo del dibattimento e, quindi, se ne può dare lettura ex art. 511 c.p.p. Tale irripetibilità originaria è ravvisabile, ovviamente, nel caso di perquisizione, sequestro, intercettazione nonché di ispezioni, rilievi e accertamenti tecnici concernenti persone, cose e luoghi il cui stato sia soggetto a modificazione. Una seconda deroga ai princìpi dell’oralità e del contraddittorio nel momento di formazione della prova è prevista dall’art. 512 c.p.p., che nella versione originaria consentiva la lettura unicamente degli atti assunti dal pubblico ministero e dal giudice nel corso della udienza preliminare quando, per fatti o circostanze imprevedibili, ne fosse divenuta impossibile la ripetizione. Se ne desumeva che gli atti di polizia giudiziaria potessero essere introdotti nell’istruzione dibattimentale e valutati ai fini della decisione unicamente quando la loro irripetibilità fosse originaria e non anche quando fosse sopravvenuta. Il d.l. 8 giugno 1992 ha modificato la disposizione consentendo la lettura, nel caso di irripetibilità originaria, pure degli atti assunti dalla polizia giudiziaria ampliando così notevolmente la portata dell’eccezione ai princìpi in questione determinata dall’art. 512 c.p.p., ampliamento che risulterà ancora più vistoso ove si interpreti la locuzione dell’art. 512 c.p.p. ‘‘fatti o circostanze imprevedibili’’ nel senso che in essa deve ricomprendersi l’ipotesi di mancata comparizione in giudizio del teste prescindendo dalle cause determinanti la mancata comparizione. Vi sono, poi, le deroghe all’oralità e al contraddittorio nel momento di formazione della prova previste dagli artt. 500 e 503 c.p.p. Nella versione oggi vigente l’art. 500 c.p.p. stabilisce che le parti, per contestare in
— 682 — tutto o in parte il contenuto della deposizione testimoniale, possono servirsi delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero. Da notare che tale contestazione è effettuabile anche quando il teste rifiuta o comunque omette, in tutto o in parte, di rispondere sulle circostanze riferite nelle precedenti dichiarazioni (art. 500 comma secondo-bis c.p.p.). Il valore probatorio di tali contestazioni è previsto nell’art. 500 comma quarto c.p.p., per cui ‘‘quando, a seguito della contestazione, sussiste difformità rispetto al contenuto della deposizione, le dichiarazioni utilizzate per la contestazione sono acquisite nel fascicolo per il dibattimento e sono valutate come prova dei fatti in esse affermati se sussistono altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità’’. In altri termini, il valore probatorio non è più soltanto indiretto o negativo (nel senso che la contestazione serve soltanto a togliere credibilità alla persona esaminata) ma è un valore probatorio diretto e positivo in quanto la dichiarazione in precedenza effettuata serve a provare la veridicità dei fatti in essa asseriti. Peraltro, il legislatore ha voluto limitare tale portata probatoria attribuendo a tali dichiarazioni il valore probatorio assegnato dall’art. 192 comma terzo c.p.p., alle dichiarazioni del coimputato. Ciò significa che, per provare la veridicità dei fatti asseriti nella dichiarazione contestata, è necessario il supporto di un’altra prova di qualunque tipo. In altri termini, la contestazione di una sola dichiarazione in assenza di altre prove non giustificherà la condanna, che sarà, invece, legittima se basata su due dichiarazioni contestate ognuna delle quali fa da supporto all’altra. V’è di più: il comma quinto dell’art. 500 c.p.p., stabilisce che le dichiarazioni acquisite in seguito a contestazione ‘‘sono valutate come prova dei fatti in esse affermati quando, anche per le modalità della deposizione o per altre circostanze emerse dal dibattimento, risulta che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga o deponga il falso ovvero risultano altre situazioni che hanno compromesso la genuinità dell’esame’’. Pertanto, nelle situazioni predette (alcune delle quali piuttosto generiche) la dichiarazione contestata è sufficiente da sola a provare la veridicità dei fatti dichiarati al pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. Analogamente pieno valore probatorio hanno, ex art. 500 comma sesto c.p.p., le dichiarazioni assunte dal giudice dell’udienza preliminare ai sensi dell’art. 422 c.p.p. L’art. 503 c.p.p., per quanto concerne l’esame delle parti private, prevede che il pubblico ministero e i difensori per contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione della parte, possono servirsi delle dichiarazioni precedentemente rese dalla parte esaminata e contenute nel fascicolo del pubblico ministero. In tal caso, è consentita l’acquisizione nel fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni assunte dal pubblico mini-
— 683 — stero o dalla polizia giudiziaria alle quali il difensore aveva diritto di assistere (e ciò vale anche per le dichiarazioni rese a norma degli artt. 294, 299 comma terzo-ter, 391, 422 c.p.p.). Con riferimento a tale norma, la novità apportata dalla riforma del 1992 è costituita dal fatto che le dichiarazioni utilizzabili a fini contestativi sono anche quelle raccolte dalla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero. È evidente come queste modifiche e segnatamente quella dell’art. 500 c.p.p. abbiano determinato una deroga impressionante ai princìpi dell’oralità e del contraddittorio nel momento di formazione della prova posto che le dichiarazioni rese al pubblico ministero in sede di indagini preliminari (e rese magari da persone preoccupate di una incriminazione ex art. 371-bis c.p.p.) acquisiscono valore di prova in sede dibattimentale in totale assenza del contraddittorio nel momento di formazione della prova. Da sottolineare che la possibilità di un’ampia utilizzazione come prova delle indagini preliminari non soltanto vanifica i princìpi dell’oralità e del contraddittorio nel momento di formazione della prova ma rende, altresì, meno lineare il ruolo di parte che il codice del 1988 ha attribuito al pubblico ministero. Invero, le esigenze di giustizia connaturate ad una parte pubblica come il pubblico ministero e l’ampia possibilità di utilizzare le indagini preliminari, con la vanificazione dell’oralità e del contraddittorio nel momento di formazione della prova, dovrebbero imporre anche una ricerca di elementi di prova a favore dell’imputato (come avveniva nella vecchia istruzione sommaria) non solo in vista della finalità delineata dall’art. 326 c.p.p. Di conseguenza, l’eliminazione di qualunque forma di giurisdizionalizzazione del pubblico ministero verrebbe notevolmente attenuata posto che a tale eliminazione si tendeva anche mediante il diverso valore attribuito agli atti di indagine del pubblico ministero rispetto agli atti di indagine del giudice nel senso che si riservava il valore di prova soltanto alla seconda categoria di attività. Se le indagini preliminari recuperano in sede dibattimentale quel valore probatorio escluso in via generale il ruolo del pubblico ministero è modificato. Da segnalare, inoltre, che il pubblico ministero nell’assumere le dichiarazioni da persone informate dei fatti o da indagati è del tutto legittimato ad effettuare domande suggestive. È del tutto logico che, al fine di capire se debba o no esercitare l’azione penale, nell’assumere meri elementi di prova il pubblico ministero possa tenere un atteggiamento ‘‘provocatorio’’ con molteplici domande suggestive. Senonché, nel momento in cui il teste citato dallo stesso pubblico ministero viene esaminato da quest’ultimo in sede dibattimentale nasce il divieto di effettuare domande suggestive, divieto, peraltro, vanificato dall’applicazione dell’art. 500 c.p.p. Infatti, se il teste rispondendo al pubblico ministero si discosta da quanto dichiarato in sede di indagini preliminari, tramite la contestazione ex art. 500 si introduce in sede dibattimentale la risposta alla domanda
— 684 — suggestiva effettuata nelle indagini preliminari e vietata in dibattimento con una disparità di trattamento rispetto alla difesa difficilmente giustificabile. È dubbio che tali domande suggestive fossero consentite nell’istruzione sommaria posto che l’art. 299 del codice abrogato (applicabile ex art. 392 anche all’istruzione sommaria) imponeva l’accertamento della verità che è una finalità diversa da quella prevista nel vigente art. 326 c.p.p. Una ulteriore deroga è integrata dall’art. 513 c.p.p., per cui il giudice, se l’imputato è contumace o assente ovvero si rifiuta di sottoporsi all’esame, dispone, a richiesta di parte, che sia data lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall’imputato al pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare. Se, poi, le dichiarazioni sono state rese ai sensi dell’art. 210 c.p.p., il giudice a richiesta di parte, dispone, secondo i casi, l’accompagnamento coattivo del dichiarante ovvero l’esame a domicilio o la rogatoria internazionale. Nell’eventualità che non sia possibile ottenere la presenza del dichiarante, il giudice, sentite le parti, dispone la lettura dei verbali contenenti le predette dichiarazioni. L’art. 513 c.p.p. non prevedeva espressamente l’ipotesi in cui l’imputato di reato connesso comparisse ma si avvalesse della facoltà di non rispondere. Pertanto, una corretta interpretazione della norma non consentiva in tal caso la lettura delle dichiarazioni in precedenza rese posto che l’art. 513 c.p.p. doveva considerarsi norma eccezionale (in quanto derogante ai princìpi generali dell’oralità e del contraddittorio). Ne seguiva una disparità di regolamentazione sotto il profilo della ammissibilità della lettura a seconda che non fosse presente l’imputato di reato connesso (in tal caso la lettura era consentita) oppure fosse presente ma si avvalesse della facoltà di non rispondere (in tal caso la lettura era vietata). Siffatta disposizione è venuta meno in quanto la Corte costituzionale con la sentenza n. 254 del 1992 ha dichiarato in relazione all’art. 3 Cost., parzialmente illegittimo l’art. 513 comma secondo c.p.p. ‘‘nella parte in cui non prevede che il giudice, sentite le parti, dispone la lettura dei verbali delle dichiarazioni di cui al comma primo rese dalle persone indicate nell’art. 210, qualora queste si avvalgano della facoltà di non rispondere’’. Con una successiva pronuncia (la n. 60 del 24 febbraio 1995), la Corte costituzionale ha inoltre dichiarato illegittimo l’art. 513 comma primo c.p.p. nella parte in cui — consentendo la lettura delle sole dichiarazioni rese dall’imputato ‘‘al pubblico ministero o al giudice’’ — impediva che, ricorrendone i presupposti, fosse data lettura delle dichiarazioni rese dall’imputato alla polizia giudiziaria in sede di interrogatorio delegato a norma dell’art. 270 comma primo c.p.p. In seguito, la Corte ha chiarito che la regola della leggibilità va estesa anche all’interrogatorio delegato dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p.(Corte cost. 25 luglio 1995, n. 381); rimane invece esclusa ogni possibilità di dare lettura dei verbali delle dichiarazioni che l’imputato o uno dei soggetti indicati nell’art. 210
— 685 — c.p.p. abbiano reso alla polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni ai sensi dell’art. 350 c.p.p. (Corte cost. 22 dicembre 1992, n. 476; Corte cost. 25 luglio 1995, n. 381). L’art. 513 c.p.p., peraltro, è stato modificato, come vedremo, dalla l. 7 agosto 1997, n. 267. Un’altra vistosa deroga ai princìpi dell’oralità e del contraddittorio è determinata dall’art. 511-bis c.p.p. (anch’esso introdotto dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306), per cui il ‘‘giudice, anche di ufficio, dispone che sia data lettura dei verbali degli atti indicati nell’art. 238’’. Quest’ultima disposizione, sostituita a quella originaria dal d.l. 8 giugno 1992, ammette l’acquisizione di numerosi atti di altri procedimenti e precisamente i verbali di prove di altro procedimento penale assunte nell’incidente probatorio o nel dibattimento, i verbali di prove assunte in un giudizio civile definito con sentenza irrevocabile, la documentazione di atti che anche per cause sopravvenute non siano ripetibili. Inoltre, al di fuori dei casi sopra indicati, i verbali di dichiarazioni rese in altri procedimenti possono essere utilizzati nel dibattimento se le parti vi consentano mentre, in mancanza di tale consenso, detti verbali possono essere utilizzati ai sensi degli artt. 500 e 503 c.p.p. L’ultimo comma dell’art. 238 c.p.p. dispone che ‘‘salvo quanto previsto dall’art. 190-bis, resta fermo il diritto delle parti di ottenere a norma dell’art. 190 l’esame delle persone le cui dichiarazioni’’ siano state acquisite nelle situazioni sopra delineate. Dal momento che nel procedimento, da cui provengono gli atti non erano presenti le parti del processo di acquisizione, nelle ipotesi delineate dall’art. 238 c.p.p., si ha una vistosissima deroga ai princìpi dell’oralità e del contraddittorio nel momento di formazione della prova. Tale deroga è ancor più accentuata nella situazione delineata dall’art. 190-bis c.p.p., che, con riferimento ai procedimenti concernenti i delitti indicati nell’art. 51 comma terzo-bis c.p.p., stabilisce che quando è richiesto l’esame di un testimone o di una delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. e queste hanno già reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio ovvero dichiarazioni i cui verbali siano stati acquisiti ex art. 238 c.p.p., le parti non hanno diritto di ottenere l’esame delle persone sopra indicate in quanto l’esame stesso ‘‘è ammesso solo se il giudice lo ritiene assolutamente necessario’’. Una ulteriore deroga è, infine, individuabile nell’art. 238-bis inserito dal d.l. 8 giugno 1992, per cui ‘‘le sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite ai fini della prova di fatto in esse accertato e sono valutate a norma degli artt. 187 e 192 comma terzo’’. La l. 8 agosto 1995, n. 332 con le modifiche apportate all’art. 38 delle disposizioni di attuazione ha ulteriormente ampliato le deroghe al principio di oralità e del contradditorio nel momento di formazione della prova. Invero, come già ricordato, il difensore dell’indagato e della persona offesa può presentare direttamente al giudice delle indagini prelimi-
— 686 — nari elementi probatori a difesa determinando l’inserimento nel fascicolo delle indagini preliminari della documentazione presentata al giudice. Se detta documentazione consiste in dichiarazioni rese al difensore da persone che in sede dibattimentale verranno sentite come testimoni, si pone il quesito se le dichiarazioni stesse varranno come prova ex art. 512 c.p.p., nell’ipotesi di irripetibilità sopravvenuta (il che pare da escludersi posto che l’art. 512 c.p.p., norma eccezionale si riferisce solo ad atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero e dal giudice dell’udienza preliminare) oppure potranno essere valutate come prova dei fatti in esse affermati, a’ sensi dell’art. 500 comma quarto c.p.p., ove sussistano altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità (nel caso di contestazioni effettuate nel corso dell’esame testimoniale e di difformità tra le dichiarazioni rese in dibattimento e quelle rese al difensore) o, infine, potranno essere valutate come prova dei fatti in esse affermati, pur in assenza di altri elementi di prova idonei a confermarne l’attendibilità, nelle situazioni, previste dall’art. 500 comma quinto c.p.p., comprovanti la non genuinità del teste. Alla stregua di questa interpretazione la modifica apportata al nuovo testo dell’art. 38 delle disposizioni di attuazione appare di notevole rilievo in quanto, pur non avendo riconosciuto alcun potere ai difensori delle parti private in ordine alla ricerca delle prove, il nuovo testo dell’art. 38 in parola attribuisce sotto il profilo del significato probatorio alle indagini della difesa (la cui documentazione sia inserita, ex art. 38 comma secondo-ter, nel fascicolo delle indagini preliminari) lo stesso valore delle indagini compiute dal pubblico ministero. Non v’è dubbio, comunque, che l’inserimento nel fascicolo delle indagini preliminari della documentazione relativa ad indagini espletate dai difensori delle parti private ed il valore probatorio attribuito a tale documentazione determina una ulteriore, notevolissima deroga ai princìpi dell’oralità e del contraddittorio nel momento di formazione della prova. 7. La l. 7 agosto 1997, n. 267 ha cercato di ridurre l’ambito di operatività delle deroghe al contraddittorio nel momento di formazione della prova modificando l’art. 513 c.p.p., il quale nel testo oggi vigente dispone che i verbali delle dichiarazioni dell’imputato contumace o assente o che rifiuta di sottoporsi all’esame possono essere letti in dibattimento ma non sono utilizzabili nei confronti di altri senza il loro consenso. Se le dichiarazioni sono state rese dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. ed il dichiarante si avvalga della facoltà di non rispondere il giudice dispone la lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese dalle persone predette soltanto con l’accordo delle parti. In tal modo, si è limitata la deroga all’oralità e al contraddittorio nel momento di formazione della prova per quanto concerne le dichiarazioni rilasciate ex art. 513 c.p.p. Nel contempo si è modificato l’art. 392 c.p.p. in quanto si sono soppresse nelle
— 687 — lettere c) e d) del comma primo le parole: ‘‘quando ricorre una delle circostanze prevedute dalle lettere a) e b)’’. Ciò significa un notevole ampliamento degli incidenti probatori relativamente alla persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la responsabilità di altri e all’esame delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. posto che in tali situazioni l’incidente probatorio non è più subordinato ad alcuna condizione. Il legislatore ha mostrato di voler seguire la via, sia pure a scapito della immediatezza, di ridurre le deroghe al contraddittorio nel momento di formazione della prova escludendo il valore probatorio di determinate dichiarazioni rese al pubblico ministero ma consentendo di recuperare tale valore probatorio con il rispetto del contraddittorio tramite l’incidente probatorio. La l. 7 agosto 1997, n. 267 ha, inoltre, modificato l’art. 238 c.p.p., in coerenza con la modifica dell’art. 513 c.p.p., inserendo un comma secondo-bis, il quale stabilisce che ‘‘nei casi previsti dal comma primo, le dichiarazioni rese dalle persone indicate nell’art. 210 sono utilizzabili soltanto nei confronti degli imputati i cui difensori hanno partecipato alla loro assunzione’’. Apprezzabile l’intenzione del legislatore ma appare improbabile che i difensori abbiano partecipato a tutela della stessa persona all’altro procedimento penale da cui si acquisiscono le prove e anche se questa remota possibilità si sia realizzata non si può dire che vi sia stato un effettivo esercizio del contraddittorio dal momento che il contraddittorio del processo, da cui si acquisiscono gli atti e quello del processo in cui vengono acquisiti riguardano diverse imputazioni e si basano su diversi atti processuali. La legge predetta ha, inoltre, stabilito modificando l’art. 421 secondo comma c.p.p., che l’interrogatorio reso nella udienza preliminare possa effettuarsi nelle forme previste dagli artt. 498 e 499 c.p.p. e, quindi, con l’attuazione del contraddittorio. 8. Viste le numerose eccezioni ai princìpi dell’oralità e del contraddittorio nel momento di formazione della prova, appare opportuno indicare pure quelle eccezioni introdotte dalla prassi e delle quali appare discutibile la legittimità. Ci riferiamo in primo luogo a quella attività integrativa di indagini preliminari che il pubblico ministero effettua in sede dibattimentale ritenendosi a ciò legittimato dall’art. 430 c.p.p., per cui ‘‘successivamente all’emissione del decreto che dispone il giudizio, il pubblico ministero, ai fini delle proprie richieste al giudice del dibattimento, può compiere attività integrativa di indagine, fatta eccezione degli atti per i quali è prevista la partecipazione dell’imputato o del difensore di questo’’. Il sostenere che il pubblico ministero può continuare a svolgere attività integrativa anche dopo l’esposizione introduttiva e l’ordinanza di am-
— 688 — missione delle prove e che i verbali di siffatta attività integrativa entrano a far parte del fascicolo delle indagini preliminari ed in quanto tali sono pienamente suscettibili di contestazione ex art. 500 c.p.p., comporta una gravissima menomazione ai princìpi dell’oralità e del contraddittorio per la prova addirittura in seguito ad indagini espletate dal pubblico ministero nel corso del’istruzione dibattimentale. A nostro avviso, tale interpretazione è errata dal momento che l’art. 430 c.p.p. consente l’attività integrativa del pubblico ministero unicamente ‘‘ai fini delle proprie richieste al giudice del dibattimento’’. Una volta espletate queste richieste in sede di esposizione introduttiva l’attività integrativa non è più consentita nel corso della istruzione dibattimentale. Una interpretazione lata che invece ammette anche nel corso dell’istruzione dibattimentale l’attività integrativa in discorso e ammette l’utilizzazione dei verbali di tale attività ai sensi dell’art. 500 c.p.p. sembrerebbe viziata di illegittimità costituzionale per eccesso di delega in relazione al principio della parità delle armi fissato dalla legge delega al punto 3 dell’art. 2. Consentire al pubblico ministero di condurre, dopo l’ordinanza di ammissione delle prove, un’attività segreta e parallela all’istruzione dibattimentale (che, sola, garantisce il contraddittorio fra le parti nel momento di formazione della prova) accettando, altresì, il prevedibile rischio che gli esiti di tale attività investigativa influiscano sull’elaborazione delle prove compiuta nel corso del giudizio, comporta una macroscopica violazione del principio della parità delle armi tra accusa e difesa. La parità delle armi non trova e non può trovare attuazione nel corso delle indagini preliminari essendo ovvio che una parte pubblica alla quale sono connaturate esigenze di giustizia deve avere poteri investigativi di gran lunga superiori a quelli attribuibili a una parte privata e si può ammettere che tale disparità legittimamente sussista anche nel corso della udienza preliminare nonché nella fase predibattimentale sino all’ordinanza di ammissione delle prove. Dopo tale ordinanza deve trovare attuazione la parità predetta oppure si ha una normativa viziata per eccesso di delega. L’interpretazione sopra criticata, avallata da pronunzie giurisprudenziali di merito e della Corte di cassazione, accentua vistosamente le deroghe al principio di oralità e del contraddittorio nel momento di formazione della prova. Un ulteriore ampliamento di tali deroghe è dato dall’ applicazione dell’art. 210 c.p.p. e, quindi, dell’art. 513 c.p.p., in violazione dell’art. 187 c.p.p. È evidente che quando si pretende di introdurre in sede dibattimentale le dichiarazioni rese dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p., ci si riferisce, appunto, alle persone imputate in un procedimento connesso (art. 210 comma primo c.p.p.) oppure alle persone imputate di un reato collegato nel caso previsto dall’art. 371 comma secondo lett. b) (art. 210
— 689 — comma sesto c.p.p.). Di conseguenza, chi chiede che venga sentito un coimputato oppure che ex art. 513 c.p.p., venga data lettura delle sue dichiarazioni deve provare che esiste una delle situazioni di connessione previste dall’art. 12 c.p.p., oppure che esiste il collegamento previsto dall’art. 371 comma secondo lett. b) c.p.p. La necessità di tale prova discende inequivocabilmente dall’art. 187 secondo comma c.p.p., il quale dispone che sono oggetto di prova i fatti da cui dipende l’applicazione delle norme processuali ed è indiscutibile che l’esame del coimputato o la lettura delle sue dichiarazioni dipendono dall’esistenza della connessione o del collegamento predetto. Se la connessione o il collegamento predetto non vengono provati l’esame del coimputato o la lettura delle sue dichiarazioni risultano inutilizzabili ex art. 526 c.p.p., in quanto non legittimamente acquisite in sede dibattimentale. Nella prassi tale prova non è fornita e, allorquando, come normalmente avviene, è il pubblico ministero a richiedere l’esame o la lettura sopra menzionati i difensori da sempre critici sull’applicazione dell’art. 513 c.p.p., nulla eccepiscono. Ciò è una conseguenza della eccessiva larghezza in tema di valutazione di quella che è l’ipotesi più frequente di connessione, vale a dire la continuazione fatta normalmente in attuazione del favor rei e, quindi, a vantaggio della difesa. In questo caso, però, la violazione dell’art. 187 c.p.p., rende possibile violare il contraddittorio nel momento di formazione della prova nei confronti di imputati di altri reati sulla base del semplice rilievo che questi hanno subito un processo per reati della stessa natura di quelli in ordine ai quali si chiede l’assunzione della prova. Un ulteriore ampliamento anomalo introdotto dalla prassi consiste nel fatto che, allorquando si realizzano le contestazioni previste dall’art. 500 c.p.p., debbono essere acquisite nel fascicolo per il dibattimento ‘‘soltanto le dichiarazioni utilizzate per la contestazione’’ mentre oggi contestazioni su circostanze magari irrilevanti portano all’acquisizione di tutto il verbale. 9. Quale soluzione si prospetta per limitare queste deroghe all’oralità e al contraddittorio per la prova, le quali stanti il loro numero ed importanza finiscono con il vanificare i princìpi stessi? La via oggi indicata e sulla quale pare esservi un accordo è quella dell’ampliamento dell’incidente probatorio ed è parzialmente già stata seguita, come ricordato, dalla recente l. 7 agosto 1997, n. 267. Questa via è presentata come un recupero indiretto dell’oralità e del contraddittorio nel momento di formazione della prova. Si è osservato che ‘‘volere a tutti i costi una prova, che sia raccordata al contraddittorio e all’immediatezza non è realisticamente possibile’’ ed è ‘‘certamente preferibile un contraddittorio senza immediatezza, proprio dell’incidente probatorio, al posto di un contraddittorio,
— 690 — sorretto dall’immediatezza... ma mortificato nei ‘‘ricordi’’ ormai sbiaditi nel tempo’’ (Siracusano). La lunghezza dei tempi processuali sembra rendere ineccepibili tali rilievi. È in sostanza la scelta del male minore. Minore ma pur sempre estremamente grave. Il sacrificio dell’immediatezza va a scapito dell’efficacia del contraddittorio. Infatti, il contraddittorio nel momento di formazione della prova è estremamente importante al fine di evitare alla funzione giurisdizionale una connotazione di inquisitorietà ma tale contraddittorio perde gran parte della sua efficacia in assenza della immediatezza posto che il giudice del dibattimento valuterà le risposte del testimone o del chiamante in correità sulla base delle trascrizioni o dei verbali. La vera efficacia del contradditorio la si ha in dibattimento e ciò, come esattamente è stato detto (Ferrua), ‘‘non solo per le parti, ma anche per il giudice decidente che, nel contatto diretto con la fonte di prova, vede ampliati gli strumenti di critica della testimonianza: il modo con cui si depone costituisce una sorta di linguaggio secondario, di crittogramma, utile all’osservatore per interpretare e, talora, smentire quello principale’’. Il giudice del dibattimento legge nel verbale dell’incidente probatorio la risposta affermativa data ad una certa domanda mentre quando assiste all’esame può realizzare sulla base della titubanza, del lasso di tempo, dell’espressione del volto che quella risposta affermativa ha il il valore probatorio di una risposta negativa. Sono affermazioni che servono a far capire quanto grave risulti il sacrificio dell’immediatezza ma non certo a negare che l’ampliamento dell’incidente probatorio sia il male minore rispetto all’utilizzazione come prova delle indagini preliminari posto che con tale utilizzazione non solo si sacrifica l’immediatezza ma anche il contraddittorio per la prova. L’obiezione alla soluzione di recuperare l’oralità ed il contraddittorio per la prova attraverso un ampliamento dell’incidente probatorio è un’altra e consiste nel rilievo che il contraddittorio per la prova nell’incidente probatorio è un contraddittorio per la difesa meramente formale. A ben vedere questo contraddittorio può risolversi in una mistificazione. Il contraddittorio nel momento di formazione della prova presuppone che le parti in ordine alla conoscenza degli atti siano poste in una condizione di parità: se non si realizza questa parità di conoscenza degli atti il diritto di difesa nel momento di formazione della prova non si concreta. Di ciò si è reso conto il legislatore imponendo nell’art. 393 secondo comma-bis c.p.p. che con la richiesta di incidente probatorio effettuata nei procedimenti per i delitti di cui agli artt. 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609octies c.p. il pubblico ministero deve depositare tutti gli atti di indagine. Peraltro, si tratta di una parità di conoscenza degli atti processuali consentita unicamente per certi procedimenti e non è pensabile che tale disposizione possa essere modificata assumendo una portata generale con l’imporre al pubblico ministero in tutti i processi penali, compresi quelli
— 691 — di criminalità organizzata, una totale discovery proprio nel momento in cui si pensa di rendere l’incidente probatorio un istituto di normale applicazione. L’ampliamento dell’incidente probatorio sta a significare che quella parità delle armi imposta dalla legge delega, la quale non esiste e non può esistere in ordine ai poteri di ricerca della prova non deve esistere sotto il profilo della conoscenza degli atti processuali neppure nel contraddittorio per la prova. Questa sarà la conclusione se si realizzerà una amplissima attuazione dell’incidente probatorio. Da notare che, come è stato giustamente osservato, nell’incidente probatorio al giudice delle indagini preliminari compete lo stesso potere di domanda previsto per il giudice del dibattimento dall’art. 506 comma secondo c.p.p. Orbene, se questo potere segue le cadenze di un contraddittorio, che privilegia una delle parti, ‘‘l’‘integrazione’ non può che assecondare tali cadenze, con domande delimitate dalle cognizioni consentite’’ (Siracusano). L’assunzione della prova è certamente sfalsata a favore dell’accusa. Inoltre, un’ampia attuazione dell’incidente probatorio allungherà ulteriormente i tempi delle indagini processuali e, quindi, renderà il tempo della fase dibattimentale sempre più lontano dal tempo della commissione del fatto e dell’inizio del procedimento penale. L’eliminazione dei rigorosi parametri a cui si è subordinato l’incidente probatorio renderà facilissima la richiesta di incidente probatorio. Come evitare questa possibilità al fine di impedire tattiche dilatorie certamente non serie ma altrettanto certamente realizzabili? La risposta non è facile poiché l’unica possibilità sembrerebbe quella di dare un ampio potere discrezionale al giudice delle indagini preliminari di ammettere o no l’incidente probatorio. Ma in tal modo l’assunzione delle prove in sede di indagini preliminari spetterà ad un giudice che, a differenza del giudice istruttore, non conosce gli atti processuali. Come mai qui non funziona l’horror hereditatis del giudice istruttore? Ho più volte avuto occasione di ricordare quello che nel 1964 al Convegno di Lecce su ‘‘Criteri direttivi per una riforma del processo penale’’ osservava Franco Cordero sostenitore della necessità dell’eliminazione di una fase istruttoria e della necessità di riservare al dibattimento (preceduto dall’inchiesta preliminare) l’assunzione delle prove. Nel porsi il quesito del valore probatorio delle dichiarazioni rese al pubblico ministero da persona che sentita come teste in dibattimento muti versione, Cordero osservava testualmente: ‘‘nell’inchiesta preliminare il testimonio ha narrato d’aver percepito un certo fatto ed ora si smentisce: gli si chiede conto della contraddizione. Il giudice non gli crede e perciò ignora la testimonianza ma non può valersi (ai fini del decidere) della dichiarazione anteriore, la quale, essendo stata resa privatamente a una parte non costituisce prova... Non si può andare oltre senza rinnegare la premessa. Se per un istante si pensasse d’usare come prova una voce captata fuori dal contrad-
— 692 — dittorio, il sistema andrebbe in frantumi e allora riterrei di gran lunga preferibile l’istituto del giudice istruttore, che in linea di principio fornisce garanzie di maggiore imparzialità’’. In altri termini delle due l’una: o si ritiene possibile attuare il contraddittorio nel momento di formazione della prova negando, quindi, valore probatorio alle indagini preliminari oppure no ed allora non resta che ripristinare una fase istruttoria. Non c’è dubbio, come più volte abbiamo avuto occasione di osservare, che la soluzione oggi adottata, per cui si riserva formalmente al dibattimento l’assunzione della prova ma nel contempo si riconosce valore probatorio a gran parte delle indagini preliminari attribuisce al sistema vigente una connotazione tipica del sistema processuale del codice Rocco: quella dell’ipocrisia. La soluzione di ampliare l’ambito di operatività dell’incidente probatorio stante l’impossibilità di pretendere il deposito delle indagini preliminari pare una soluzione anch’essa tipicamente ipocrita. Siffatta soluzione viene prospettata per rendere possibile il contraddittorio per la prova ma in realtà, stante la disparità in ordine alla conoscenza degli atti, non lo realizza. Si è esattamente osservato (Pepino) che oggi si ha una gigantesca istruzione sommaria. Con l’ampliamento degli incidenti probatori si darebbe un alibi, mediante un fantasma di contraddittorio, ad una disparità di poteri tra accusa e difesa nel momento di formazione della prova che poco cambierebbe rispetto alla situazione attuale. Si faccia l’esempio di un banale processo di evasione fiscale in cui il pubblico ministero decida di sentire tramite incidente probatorio il contabile dell’impresa. L’esame incrociato è effettuato da un pubblico ministero che ha a sue mani tutti gli atti delle indagini preliminari e magari una consulenza tecnica molto esauriente che si è preoccupato di richiedere e da un difensore dell’indagato che, nella migliore delle ipotesi, ha preso visione unicamente delle precedenti dichiarazioni della persona che si vuole esaminare nell’incidente probatorio e, se non vi sono precedenti dichiarazioni, non ha visto nulla. Si può seriamente sostenere che questa soluzione sacrifica l’immediatezza ma salva il contraddittorio per la prova? Occorrono scelte lineari. Oggi non si capisce più quale sia il ruolo del difensore. Nel codice Rocco il difensore era un controllore della legalità del processo. La pagina drammatica del processo di Torino alle Brigate rosse ne è stata una pratica dimostrazione. Nel vecchio processo il giudizio di primo grado funzionava spesso come un giudizio di impugnazione, nel quale si controllava la legalità sotto il profilo processuale e sostanziale delle tesi sostenute nella fase istruttoria e, in caso di istruzione formale, nella ordinanza di rinvio a giudizio ed il difensore corretto doveva accuratamente astenersi dal ricercare le prove ed attuare unicamente
— 693 — il contraddittorio sulla prova. Oggi il difensore dovrebbe ricercare la prova ed attuare il contraddittorio per la prova. Un salto culturale inattuabile stante l’assenza di poteri nella ricerca della prova e la disparità nel contraddittorio per la prova che l’ampliamento dell’incidente probatorio accentua. Inoltre, il difensore rischia di esercitare meno bene quel controllo di legalità che nel vecchio rito compiva poiché la cultura del patteggiamento inevitabilmente lo spinge ad essere meno rigoroso nel controllo predetto. Il 24 luglio 1997 il dott. Caselli ha scritto in tema di art. 513 c.p.p., un articolo sul quotidiano ‘‘La Repubblica’’ dal titolo ‘‘la mafia abrogata per legge’’, nel quale esortava ad avere spirito realistico e a non comportarsi come il don Ferrante dei Promessi sposi che, attribuendo la peste all’influsso delle stelle, non prese nessuna precauzione nei confronti del contagio e morì prendendosela con il firmamento. È ineccepibile l’esortazione allo spirito realistico ma v’è un altro personaggio dei Promessi sposi che bisogna evitare di imitare e mi riferisco al conte zio e più esattamente a quel colloquio con il padre provinciale dei cappuccini, nel quale si decide il trasferimento di fra’ Cristoforo. La soluzione prospettata dal conte zio è appunto quella ‘‘di sopire e troncare padre reverendissimo, troncare e sopire’’. Parafrasando il conte zio potremmo aggiungere ‘‘mediare’’. Non è una buona soluzione. Le scelte debbono essere nette. Se non si può fare un processo accusatorio non lo si fa. In caso contrario, il contraddittorio per la prova deve avere piena attuazione in sede dibattimentale con la piena attuazione, altresì, della continuità del dibattimento senza la quale il contraddittorio per la prova perde gran parte della sua importanza. Tutto ciò è utopistico senza riforme di struttura prima fra queste l’eliminazione delle circoscrizioni giudiziarie inutili e la riduzione dei mezzi di impugnazione. Non si può sostenere la necessità di un dibattimento di primo grado con l’attuazione dei princìpi del processo accusatorio e, cioè, la necessità che giudichi un giudice sulla base delle prove che avanti a lui si formano nel corso del contraddittorio per la prova, per poi sostenere che praticamente sempre il giudizio di tale giudice può essere riformato da un organo giurisdizionale che giudica sulle carte e avanti al quale si attua soltanto il contraddittorio sulla prova. Non ritengo che debba eliminarsi il giudizio di appello ma se si vuole dare attuazione al processo accusatorio sostengo che debba limitarsi la possibilità di appellare così come, modificando l’art. 111 Cost., deve ridursi la possibilità di ricorrere per cassazione. Il recuperare indirettamente oralità e contraddittorio con l’ampliamento dell’incidente probatorio non porterà a nessun risultato apprezzabile ma l’attuazione del processo accusatorio richiede il pagamento di un prezzo ulteriore in tema di impugnazioni. GILBERTO LOZZI
SCIENZA PENALE E PRODUZIONE LEGISLATIVA: PARADOSSI E CONTRADDIZIONI DI UN RAPPORTO PROBLEMATICO (*)
SOMMARIO: 1. Un inventario preliminare di paradossi e contraddizioni. — 2. La scienza penale nella dinamica della produzione giuridica. — 3. Il ruolo della dottrina nella vicenda della mancata codificazione penale. — 4. L’evoluzione della scienza penale: dal tecnicismo giuridico alla vocazione progettuale. — 5. Successi ed insuccessi della scienza penale nel diritto penale in trasformazione. - 5.1. I criteri ‘‘scientifici’’ di criminalizzazione nelle tendenze legislative di depenalizzazione e razionalizzazione del sistema penale. - 5.2. I limiti del contributo della scienza nella prassi legislativa dei criteri di criminalizzazione. — 6. Contiguità e lontananze tra scienza giuridica e giurisprudenza costituzionale. — 7. Sguardo d’insieme all’evoluzione legislativa penale nei suoi rapporti col pensiero giuridico. — 8. Un’impressione finale.
1. Un inventario preliminare di paradossi e contraddizioni. — Due sono le coordinate di fondo lungo le quali intende svilupparsi il presente contributo: a) da un lato, la constatazione di alcuni apparenti o reali paradossi o contraddizioni constatabili a proposito del ruolo svolto dalla scienza penale nel processo di produzione legislativa; b) dall’altro, l’individuazione delle linee fondamentali e dei momenti più significativi dell’evoluzione, sia degli orientamenti e degli indirizzi della scienza penale, sia delle trasformazioni subite dal diritto penale, al fine di formulare qualche ipotesi esplicativa di tali paradossi o contraddizioni. Ad esempio, sembra essere una clamorosa contraddizione il fatto che ad un crescente impegno della cultura penalistica sul versante della politica criminale e della scienza della legislazione penale non abbia corrisposto la riforma organica del codice penale del 1930; sembra una contraddizione che la riforma organica di adeguamento alla Costituzione si sia avuta là, e cioè nel campo processuale e in quello penitenziario, dove la vocazione progettuale della scienza aveva tradizioni meno risalenti o non ne aveva affatto (1). (*) È il testo, ampliato e corredato delle note, della relazione svolta all’Incontro di studio su « Giuristi e legislatori. Pensiero giuridico e innovazione legislativa nel processo di produzione del diritto », organizzato dal Centro di Studi per la Storia del Pensiero Giuridico Moderno dell’Università di Firenze e svoltosi nei giorni 26-28 settembre 1996. (1) Di « stranezza » parla in proposito VASSALLI, Presentazione, in Per un nuovo co-
— 695 — Contraddizione che però — come vedremo — trova assai facilmente una spiegazione nell’interesse « politico », più o meno contingente, che ha spinto al varo della riforma penitenziaria e di quella processuale (2). Soprattutto per quanto riguarda quest’ultima, è chiaro che la tendenza in atto alla « spettacolarizzazione » della giustizia penale rende la riforma processuale, organica o meno, assai più percepibile ed immediatamente spendibile nella vita politica quotidiana di quanto non lo sia quella del codice penale, anche perché la disciplina processuale — in particolare dell’attività requirente — riflette in modo diretto il rapporto dell’istituzione giudiziaria col cittadino e con gli alti poteri dello Stato.
Ancora, sembra essere una contraddizione il fatto che la scienza penale, contrariamente al suo naturale spirito di sistemazione organica della materia, abbia mantenuto i rapporti più stretti con la produzione legislativa sul piano della legislazione speciale, o meglio di talune grandi leggi extra codicem, piuttosto che sul piano della rifondazione codicistica del diritto penale. Come vedremo, nessuna delle due grandi linee di influenza della scienza sul diritto penale riesce a concretizzarsi nella rifondazione codicistica, ponendosi piuttosto fuori del codice così da contribuire anche per questa ragione a quel fenomeno di « svalutazione » del codice nonostante la sua sopravvivenza (3). I principi costituzionali e comunque i principi di indirizzo politico, che costituiscono il prodotto scientifico più apprezzato ed utilizzato dal legislatore, giungono infatti a tradursi in innovazione legislativa o per il mezzo delle varie leggi o provvedimenti di depenalizzazione e di riforma sanzionatoria ovvero per il tramite dell’opera della Corte costituzionale: nell’uno come nell’altro caso, dunque, al di fuori — sebbene per ragioni diverse — di una trama organica coinvolgente l’intero edificio codicistico.
Così come, inoltre, può sembrare un paradosso che, nonostante il maggior titolo di « legittimazione » che nel sistema democratico-parlamentare la scienza penale può vantare rispetto alla magistratura, sia stata invece quest’ultima ad alimentare più intensamente e frequentemente i canali della innovazione legislativa, specie per quanto riguarda la legislazione dell’« emergenza ». E infine, lo stesso ruolo della scienza penale rispetto all’innovazione legislativa sembra stretto nella morsa di una contraddizione: quanto più la scienza penale rimane osservante dei suoi limiti dice penale, a cura di M. Pisani, Padova, 1993, 1, rammentando che la prima grande riforma fu quella penitenziaria del 1975, poi quella processuale del 1988, mentre lontana rimane quella del codice penale sostanziale, che — in un ordine logicamente inverso — avrebbe dovuto essere la prima. (2) FIANDACA, Concezioni e modelli di diritto penale tra legislazione, prassi giudiziaria e dottrina, in La riforma del diritto penale. Garanzie ed effettività delle tecniche di tutela, a cura di L. Pepino, Milano, 1993, 16. (3) Sulla questione, assai dibattuta nella dottrina penalistica, del ruolo assunto dal codice Rocco in epoca di « decodificazione », v. Il codice Rocco cinquant’anni dopo, fasc. spec. de La questione crim., 1981, 1.
— 696 — o titoli di legittimazione, che realizzi ciò o appiattendosi nel tecnicismogiuridico ovvero sviluppando il suo ruolo storico di controllo critico e garantista della politica criminale legislativa, tanto più debole o indiretta si rivela la sua influenza. Al contrario, quanto più la sua influenza diventa incisiva e il suo ruolo coassiale alle scelte della produzione legislativa, mediante la predisposizione dei mezzi tecnici per la loro attuazione, tanto più il giurista vede attenuarsi il titolo sostanziale che lo legittima quale interlocutore paritario del legislatore. A parte l’orientamento tecnico-giuridico e a parte la discussione sulla « valenza politica » di questo atteggiamento (4) che non ha mancato di contrassegnare per molti decenni la scienza penale (5), attualmente i suoi maggiori titoli di legittimazione sembrano più specificamente risiedere, da un lato, nel disinteresse (e nella garanzia che ne deriva) che contrassegna la valutazione del giurista rispetto a quella del politico e, dall’altro, nella sua capacità di riferire la produzione legislativa al quadro dei principi di politica criminale intra - ed extra sistematici (6), di origine interna o anche sovranazionale (7), così da offrire al legislatore le linee di equilibrio tra le sempre rinnovantisi pretese della decisione politica e quelle costanti della razionalità sistematizzante, e all’operatore giuridico la chiave per la migliore comprensione delle norme nella continuità ed unitarietà del sistema. Senonché, anche a questo proposito è possibile annotare fin d’ora un duplice paradosso. Per un verso, vedremo in seguito (8) come una delle situazioni di maggiore compenetrazione tra scienza e legislazione penale sia quella che potremo dire della « coincidenza personale », del giurista che si fa legislatore in una vicenda dai caratteri sostanzialmente biografici. Ma, è chiaro che, se questa « coincidenza personale » è l’occasione che assicura una consistente ancorché episodica capacità di penetrazione alla scienza, è anche la situazione in cui — almeno presuntivamente — si deve mettere nel conto una verosimile caduta del « disinteresse », e dunque di uno dei suoi maggiori titoli di legittimazione. Per un altro verso, non è un mistero che l’influenza che la scienza penale ha esercitato nel rapportare la produzione normativa al quadro dei principi è stata — come meglio vedremo — non trascurabile rispetto all’attività della Corte costituzionale, ma assai più indiretta, generica e blanda rispetto all’attività del parlamento e ancor più del governo. (4) NEPPI MODONA, Tecnicismo e scelte politiche nella riforma del codice penale, in Dem. dir., 1977, 666; PIASENZA, Tecnicismo giuridico e continuità dello Stato: il dibattito sulla riforma del codice penale e della legge di pubblica sicurezza, in Pol. dir., 1979, 269. (5) V., oltre, quanto sinteticamente osserviamo — con la relativa bibliografia essenziale — nel § 4. (6) Una delle più cospicue elaborazioni sistematiche dei principi della scienza penale è quella del VASSALLI, I principi generali del diritto nell’esperienza penalistica, in questa Rivista, 1991, 699 ss.; più in generale, sul compito della scienza di elaborazione dei principi, v. PULITANÒ, Quale scienza del diritto penale?, in questa Rivista, 1993, 1209 ss. (7) Sul tema, cfr. in particolare BERNARDI, « Principi di diritto » e diritto penale europeo, vol. II degli Annali dell’Università di Ferrara, Sc. Giur., Ferrara, 1988; ID., Sulle funzioni dei principi di diritto penale, ivi, vol. VI, 1992, 59 ss. (8) V., oltre, § 7.
— 697 — L’ultimo e più stridente, quasi sconcertante, paradosso si riassume nella progressiva divaricazione che si è venuta a creare tra l’orientamento « spirituale » della scienza penale e le consolidate pratiche di legiferazione. Il che, per contro, non esclude che proprio negli ultimi anni sia vieppiù cresciuto il numero dei penalisti « prestati » — come si suole dire — alla politica attiva nel ruolo vuoi di consulenti stabili od occasionali, palesi od occulti, di gruppi o partiti politici, vuoi di parlamentari vuoi, infine, di titolari di precise cariche istituzionali come in particolare il dicastero della giustizia. La divaricazione trae origine, da un lato, dalla evoluzione della scienza penale sempre più in direzione di una scienza della politica criminale se non addirittura di una scienza politico-criminale e, dall’altro, dalle condizioni (fattuali e istituzionali) in cui il legislatore si trova ormai costretto ad operare sempre più lontano dalle indicazioni della scienza, nell’emergenza di necessità, apparenti o reali, di discipline settoriali e mutevoli e tra gli ostacoli del sistema democratico-pluralistico. L’impegno personale di non pochi penalisti in ruoli di politica attiva, d’altra parte, trova le sue cause tanto nel versante della scienza quanto in quello della politica. E così, da un lato, può essere un certo senso di inappagamento dello scienziato, motivato in gran parte proprio dalla sua impotenza legislativa, a spingerlo all’impegno politico attivo; dall’altro lato, la caduta di presa e mordente sociale della politica può spingere a cercare patenti di riaccreditamento nella partecipazione di « tecnici » e di uomini che siano espressione della cultura. 2. La scienza penale nella dinamica della produzione giuridica. — Esiste una « specificità penalistica » del rapporto tra scienza giuridica e innovazione legislativa? Credo che la risposta debba essere positiva e che le ragioni affondino proprio in due caratteristiche tra le più marcanti la fisionomia peculiare del diritto penale. In primo luogo, la distinzione tra parte generale e parte speciale del diritto penale. Si tratta di un « modo di essere » di questa disciplina che, condizionando lo sviluppo della scienza penale, ha finito per influenzare anche il suo rapporto con la produzione legislativa. Con grande approssimazione, si può dire che, per lungo tempo, dottrina e legislazione si sono in un certo senso divisi i campi: all’acuto interesse legislativo per la parte speciale, ove si fronteggiano in modo politicamente significativo ed immediato gli interessi in gioco, faceva riscontro un’impostazione prevalentemente e non per caso esegetica dell’approccio dei giuristi verso le singole norme incriminatrici. Viceversa, all’impegno teorico-scientifico profuso sulla parte generale e sulle premesse stesse dello jus puniendi, e sovente stimolato dalla perenne « cattiva coscienza » del penalista, corrispondeva un assai modesto interesse del legislatore per gli istituti della parte generale.
— 698 — La divaricazione or ora segnalata è andata vieppiù attenuandosi parallelamente al cosciente ruolo assunto dal diritto penale quale strumento principale od unico di controllo della devianza e di governo della società. Fino ad arrivare al superamento della distinzione tra parte generale e parte speciale nella configurazione dei c.d. « sottosistemi » di tutela (ad es., in materia di criminalità organizzata, o di reati tributari, ecc.) (9), ove la ripartizione di competenze tra parte generale e speciale è del tutto venuta meno. Gli esempi di discipline « speciali », ove le esigenze repressive e di tutela — o comunque le caratteristiche — del singolo settore di materia giungono ad introdurre alterazioni nella fisionomia di consolidati e « classici » istituti di parte generale sono decisamente numerosi. Ma non mancano neppure casi in cui è la stessa disciplina codicistica a subire i contraccolpi derivanti dal manifestarsi di particolari fenomeni criminosi. Esempi del primo tipo sono, tra gli altri, la disciplina della sospensione condizionale prevista dalle leggi antinquinamento (art. 24 l. 10 maggio 1976, n. 319) in chiave spiccatamente riparatoria, oppure la speciale disciplina recentemente introdotta dalla riforma tributaria (art. 8 l. 7 agosto 1982, n. 516) per l’errore di diritto in campo appunto tributario. Esempi del secondo tipo possono essere l’introduzione di nuove categorie di pene accessorie — come l’incapacità di contrattare con la pubblica Amministrazione (art. 32-ter c.p., inserito dalla l. 24 novembre 1981, n. 689) — oppure la previsione di nuove circostanze aggravanti speciali del concorso di persone nel reato (d.l. 31 dicembre 1991, n. 419, convertito nella l. 18 febbraio 1992, n. 172) per reagire al fenomeno criminologico dello sfruttamento di minori per la perpetrazione di tutta una serie di reati « da strada » (furti, scippi, spaccio di droga, ecc.). Orbene, scontato essendo l’interesse — diremmo quasi « obbligato » — della dottrina per il secondo tipo di innovazione legislativa, preme piuttosto segnalare come non di rado il primo tipo di innovazione legislativa (consistente in discipline « speciali » di istituti generali) raccolga il suggerimento della dottrina e costituisca in qualche misura l’anticipazione e un modo di sperimentazione settoriale di taluni indirizzi politico-criminali patrocinati dalla dottrina. Ma, per la verità, rispetto alla parte generale del diritto penale, questo reciproco avvicinamento tra giuristi e legislatori non va solo nel senso di un coerente interesse « politico » del legislatore per un uso in qualche modo strumentale degli istituti di parte generale, ma va anche nel senso convergente di una riscoperta da parte del giurista della connotazione politico-criminale delle categorie dommatiche e dei principi generali (ivi compresi quelli a sfondo tradizionalmente garantista come la legalità, o meglio la tipicità). Il maggiore sforzo in questa direzione è quello compiuto dal Bricola, attraverso l’opera di vivificazione della dommatica resa possibile dai principi costituzionali in (9) Sulla perdita di centralità del modello della parte generale e sulla comparsa dei « sottosistemi », v. da ultimo DONINI, Teoria del reato. Un’introduzione, Padova, 1996, 4 ss.; ma prima, PEDRAZZI, Diritto penale, in Dig. Disc. Pen., IV, Torino, 1990, 74; PADOVANISTORTONI, Diritto penale e fattispecie criminose, Bologna, 1991, 23 ss.; PALIERO, « Minima non curat Praetor ». Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, Padova, 1985, 83 ss.
— 699 — modo da cogliere in quella la concretizzazione di principi direttivi della politica criminale (10).
In secondo luogo, il principio di legalità penale — ancorché proiettato a delimitare il contributo soprattutto giurisprudenziale alla produzione giuridica — non manca di influire indirettamente sul rapporto tra legislazione e scienza. Sia perché, evidentemente, comporta una generale limitazione del ruolo delle « fonti » extralegislative nel circuito complessivo della produzione normativa penale. Sia soprattutto perché, a livello di principio, l’esigenza della legalità impone la ricerca di un titolo sostanziale di legittimazione che la scienza penale possa esibire e vantare in concorrenza rispetto a quello democratico che il legislatore può spendere in ottemperanza al principio di legalità (11). Questa legittimazione sostanziale, che per ipotesi potrebbe essere vista nella funzione in ultima analisi garantista svolta dai « dogmi » penalistici e nello spirito di razionalità sistematica della scienza penale, è ovviamente conquistata sul campo dal giurista nel condizionamento storicamente mutevole di fattori e situazioni molteplici. Né garanzia né razionalità, invero, in sé e per sé considerate, al di fuori di titoli « storici » di legittimazione, possono accreditare un ruolo preponderante della scienza nel circuito di produzione normativa. Vi è infatti un « limite istituzionale » ad « ogni approccio culturalmente affascinato dal giusrazionalismo dell’Aufklärung ». « Le ragioni della scienza, per mantenere legittimità ‘‘politica’’, devono esprimersi nelle istituzioni nella fedeltà alla divisione dei poteri. Ciò che peraltro consente a quelle ragioni di trovare varchi anche ampi attraverso le norme codificate, è la storicità dell’intendere unita al pluralismo ermeneutico... » (12). Senonché il vincolo che la legalità penale pone alla scienza non può non presentare una diversa intensità a seconda che esso operi nel momento dell’applicazione ovvero in quello della formazione della legge penale. In sede di formazione, (10) « Se la dommatica è vista come come concretizzazione di principi direttivi della politica criminale esplicitamente o implicitamente derivati dalla Costituzione, non ha più altresì ragion d’essere lo ‘‘splendido isolamento’’ della dommatica stessa rispetto alla politica criminale intesa come politica delle riforme, ossia come scelta dei mezzi più idonei per combattere la criminalità. I principi costituzionali operano da un lato, come pilastri sui quali appoggiare la ricostruzione dommatica e, dall’altro, come limiti garantistici di selezione tra le possibili scelte da percorrere nella strategia della lotta alla criminalità. Un tentativo di ricostruire delle categorie dommatiche in funzione di questi principi rende il giurista più sensibile alle problematiche della riforma e sollecita la sua collaborazione alla costruzione delle norme future » (BRICOLA, Rapporti tra dommatica e politica criminale, in questa Rivista, 1988, 16). (11) Questa preoccupazione di legittimazione democratica è avvertita per esempio dal PAGLIARO, (Principi di diritto penale, p.g., Milano, 1995, 106), dopo aver osservato che l’elaborazione dommatica, in quanto necessariamente sensibile nelle sue costruzioni alle esigenze teleologiche del diritto (v. ad es. la nozione di dolo eventuale nella misura in cui si allontana dal puro psicologismo), subisce pertanto il condizionamento della politica criminale. (12) DONINI, Teoria del reato, cit., 17.
— 700 — di produzione legislativa, infatti, « siamo su un piano che è politico per definizione, sul quale la dogmatica opera come qualsiasi scienza ausiliaria ». E su questo piano la partecipazione della scienza, lungi dal contrastarvi, non è affatto estranea a quell’esigenza « democratica » sottesa al principio di legalità penale: « all’idea della democrazia corrisponde un modello di formazione delle decisioni, in cui la stessa irriducibilità della Wertfrage, della scelta finale degli obiettivi, ricerca supporto razionale e basi di consenso in ‘‘processi di comunicazione’’ fra gruppi, interessi, concezioni ideali diverse, apporti di conoscenza « (13). Naturalmente il « contributo democratico » della scienza, e quindi la sua coerenza con la legalità penale, è assai fortemente condizionato — come abbiamo rilevato — da molteplici fattori eterogenei e mutevoli. Innanzi tutto sta addirittura l’orientamento politico di fondo sull’uso del diritto penale come affermazione di valori o come tecnica sociale (14), essendo evidente che l’inclinazione assolutistico-autoritaria della prima opzione tende a comprimere il ruolo « democratico » della scienza sotto il manto di un legalismo prevaricatore. Ma anche nella prospettiva di un diritto penale concepito come strumento di tecnica sociale, quale mezzo di tutela della collettività contro fatti dotati di reale dannosità sociale (15), scienza penale e ispirazione democratica della legalità sono termini di un rapporto assai elastico e cangiante. Certamente, la necessità logica prima che politica di collaudare su basi empirico-razionali le scelte di criminalizzazione apre un primo spazio al contributo della scienza. Ma è nel momento logicamente preliminare della individuazione dei valori da tutelare, prima che degli strumenti di tutela, che si pone più immediato ed acuto il problema di una legittimazione democratica della scienza ad interloquire. Legittimazione che è senza dubbio piena quando si pretenda che l’indicazione dei valori sia desumibile con univocità dalla tavola costituzionale: la « giuridicità » dei beni da tutelare comporta una legittimazione per la scienza a scapito però della reale « democraticità » del suo ruolo. Al contrario, quando l’individuazione dei beni sia davvero il risultato di un largo e diffuso dibattito democratico e pluralistico, la legittimazione della scienza diviene inversamente proporzionale alla rappresentatività dei partiti politici. Ma anche in tempi di crisi dei partiti, come quelli attuali (16), il « ruolo democratico » della scienza nella individuazione dei valori è insidiato da un pericolo e da una tentazione. Il pericolo è quello costituito dalla « concorrenza » che nella comunicazione sociale la scienza subisce ad opera dei mass media e della loro fortissima influenza sul ceto politico: dinanzi a questo fenomeno caratterizzato nella materia penale da un elevato tasso di irrazionalità, emotività ed artificiosità della sollecitazione della cd. coscienza sociale, la scienza torna a ricavare il suo titolo di legittimazione sostanziale più dalla razionalità metodologica che dal « ruolo democratico ». Dall’altro lato, la tentazione può essere quella di un ingresso organico dello scienziato nelle strutture del sistema politico e/o istituzionale deputate alla produzione legislativa. (13) PULITANÒ, Politica criminale, in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, 79. (14) Sulla contrapposizione, v. PULITANÒ, Politica criminale, cit., 80-81. (15) Si tratta di quell’indirizzo, pragmatico-razionale, della scienza penale, di cui parleremo tra poco (nel § 4). (16) Con specifico riferimento alle conseguenze sul piano della politica criminale e della legislazione penale, v. MUSCO, Consenso e legislazione penale, in questa Rivista, 1993, 9091.
— 701 — Nel generoso proposito di recare un contributo al miglioramento della relazione fra partiti e realtà culturale e sociale, la scienza rischia così di perdere quella sua dimensione internamente comunitaria, dialogica, critica, imparziale e disinteressata, che ne fonda un ruolo sostanzialmente democratico, di soggetto particolarmente qualificato della « comunicazione sociale », conforme ad una considerazione socialmente pregnante e non riduttivamente formale delle radici sottese al principio di legalità penale. Ma se pure l’impegno della scienza propositivo e progettuale dello ius condendum, oltre che il suo tradizionale ruolo interpretativo dello ius conditum, dipendono storicamente dai principi hic et nunc governanti la materia delle fonti del diritto penale, ciò nondimeno, anche in situazioni di spiccato giuspositivismo e legalismo come l’attuale, la forza espansiva della scienza dipende principalmente dalla « storicità dell’intendere » di cui essa è capace, essendo « garanzia e razionalità » due modi d’essere prescrittivi più che condizioni universali per il successo della scienza. Probabilmente è ancora troppo breve la distanza prospettica rispetto al secondo dopoguerra per accertare se la nostra scienza ha saputo rivelare questa capacità di intendere storicamente. Fatto si è, però, che il costituzionalismo penale di cui diremo tra poco e che quanto a garanzia e razionalità è forse la massima espressione del dopoguerra, non riuscì a « intendere storicamente » il dinamismo, l’inquietudine, il disorientamento se si vuole, di una società, come quella italiana degli anni ’80, che si stava avviando addirittura a rimettere in discussione lo spirito unitario del patto costituzionale. Così come, al contrario simmetrico, la cosiddetta Scuola di Kiel di Dahm e Schaffstein, che quanto a garanzia e razionalità ne era la più flagrante contraddizione, riuscì a imprestare una dignità scientifica a quell’involuzione del diritto penale cui di lì a poco si sarebbe avviato il regime nazionalsocialista.
3. Il ruolo della dottrina nella vicenda della mancata codificazione penale. — La vicenda della mancata codificazione penale nell’Italia repubblicana (17) è estremamente significativa per la storia dei rapporti tra dottrina e legislazione. Essa rappresenta, peraltro, uno scacco per la scienza penale, visto e considerato che, da un lato, quello della progettazione codicistica sembrerebbe essere proprio il terreno di elezione del contributo scientifico all’innovazione legislativa e che, dall’altro, l’esigenza di un nuovo codice ben poteva dirsi esistente in un Paese che aveva mutato regime politico-costituzionale e condizioni economico-sociali. Le ragioni di questo scacco non sono certamente tutte addebitabili alla scienza, ché anzi ne furono fattori condizionanti e decisivi una certa perdurante insensibilità politica e, poi, dagli anni ’70, la pressione di una (17) PAGLIARO, Situazione e progetti preliminari nel procedimento di riforma del diritto penale italiano, in Indice pen., 1980, 477 ss.; VASSALLI, Il tormentato cammino della riforma nel cinquantennio repubblicano, in Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Milano, 1996, 5 ss.
— 702 — continua emergenza (18). Ma, altrettanto sicuramente, anche il pensiero giuridico-penale porta la sua parte di responsabilità. In primo luogo, nel momento che — per la sua prossimità al mutamento costituzionale — poteva essere il più propizio all’elaborazione di un nuovo codice penale, la scienza penale non mostrò un particolare slancio innovativo e anzi palesò un atteggiamento in larga parte di continuità culturale col passato e un orientamento riduzionistico della portata delle norme penali contenute nella Costituzione: le quali, se non nelle intenzioni dei loro artefici, erano però obiettivamente suscettibili di assumere contenuti dirompenti. La sopravvivenza del codice Rocco ha trovato una spiegazione nella considerazione, formulata anche in tempi relativamente recenti, di una sua non plateale contraddizione con le norme costituzionali, che sarebbe comprovata dalla scarsità degli interventi ablativi della Corte costituzionale nel suo primo decennio di funzionamento: ciò indicherebbe « che non è stato avvertito un radicale contrasto tra l’ideologia della Costituzione repubblicana e la ideologia del codice penale: contrasto che, invece, è largamente emerso a proposito del codice di procedura penale, con le conseguenti pronunce di incostituzionalità di parecchi suoi articoli » (19). Nella medesima linea si osserva, poi, che, almeno nei Paesi che hanno un livello culturale analogo [al nostro], il contenuto delle tradizionali fattispecie incriminatrici non muta in modo apprezzabile con il variare dei sistemi politici e sociali, provvedendo d’altra parte legislatore e Corte costituzionale agli adeguamenti — in positivo o in negativo — più urgenti ed indiscutibili, « senza bisogno di mettere in moto il meccanismo troppo complesso (e, nell’attuale situazione politica, troppo incerto nei risultati) di una revisione di tutte le fattispecie della intera parte speciale » (20). Sostanzialmente agli stessi risultati giunge, per ragioni peraltro totalmente diverse e quasi opposte, chi giustifica la sopravvivenza del codice Rocco sulla base dello « svuotamento fattuale » che esso avrebbe subito sia per l’intervento di una legislazione (riforma penitenziaria, sanzioni sostitutive, ecc.) che ha demolito il terrorismo sanzionatorio originario, sia per il processo di disapplicazione di molte fattispecie difficilmente compatibili coi valori costituzionali, sia per l’eliminazione da parte della Corte costituzionale — a partire dagli anni ’80 — dei più illiberali aspetti del codice del 1930. Con la conseguenza ultima che oggi si sarebbero di molto attenuate le aspirazioni anche culturali e sarebbe cresciuto invece il disinteresse verso la riforma globale e la ricodificazione (21). (18) In argomento, v. in particolare FIANDACA, Relazione introduttiva, in Verso un nuovo codice penale. Itinerari-Problemi-Prospettive, Milano, 1993, 12 ss.; v. pure MANNA, Considerazioni sulla riforma del diritto penale in Italia, in questa Rivista, 1996, 541. Sulla perdurante emergenza, v. MOCCIA, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, con prefazione di A. Baratta, Napoli, 1995. (19) PAGLIARO, Situazione e progetti, cit., 478. (20) PAGLIARO, Situazione e progetti, cit., 484. (21) V., recentemente, MUSCO, Consenso e legislazione penale, cit., 82-83. Diversamente, riassume l’aspirazione alla ricodificazione, inserendola in un movimento legislativo
— 703 — Quando, più tardi, dagli anni ’70 in poi la scienza penale svilupperà un’impressionante capacità progettuale, i tempi politico-sociali saranno ormai assai meno propizi essendo il diritto penale impiegato sul fronte del controllo dell’emergenza e della gestione di un società complessa e frammentata. Emergenza criminale e complessità sociale che, sul piano della produzione legislativa, accelerano il fenomeno delle leggi speciali, con il conseguente dibattito teorico-scientifico prima sulla « decodificazione » anche in penale (22), poi sul rapporto tra codice e leggi speciali (23) e infine sulla configurabilità di veri e propri « sottosistemi » di tutela (24), ove spesso strumenti di natura diversa (penale, processuale, penitenziaria, amministrativa) convergono verso un unico obiettivo strategico. Con la conseguenza ultima di contribuire a divaricare l’atteggiamento della dottrina verso la prospettiva codificatoria, tra chi — quasi esasperato dallo stillicidio legislativo — riafferma la « perenne esigenza della codificazione » (25) e chi — considerando almeno per ora inarrestabile la tendenza alla legislazione speciale — ritiene improbabile e impraticabile la riforma codicistica, giudicando « più produttivo e più fecondo un approccio metodologico che privilegia gli aggiustamenti e gli adeguamenti parziali, i correttivi successivi, e che, fra l’altro, consente di prevederne meglio l’impatto sul sistema, nonché la funzionalità operativa » (26). Fra l’altro, dopo che per decenni la riforma del codice penale compariva tralaticiamente tra gli obiettivi dei programmi elettorali dei partiti, in occasione delle ultime elezioni del 21 aprile 1996 essa non figurava in nessuno dei documenti dei maggiori schieramenti politici (27), ove invece si punta a riforme — certamente impegnative — ma dirette a ridonare piuttosto maggiore agilità ed efficienza strutturale, gestionale e applicativa al sistema penale.
In secondo luogo, la maggior parte dei progetti di riforma codicistica che, pur tuttavia, furono il risultato di larghi e diretti contributi della scienza, hanno avuto un carattere spiccatamente « dottrinario »: sono stati europeo, MILITELLO, Il diritto penale nel tempo della « ricodificazione », in questa Rivista, 1995, 758 ss. (22) Cfr. per tutti, DOLCINI, Codice penale, in Dig. Disc. Pen., II, Torino, 1988, 284 ss. (23) Cfr. PALAZZO, A proposito di codice penale e leggi speciali, in Quest. giustizia, 1991, 310. (24) V., retro, nota 9. (25) MANTOVANI, Sulla perenne esigenza della codificazione, in Valore e principi della codificazione penale: le esperienze italiana, spagnola e francese a confronto, Atti del Convegno di Firenze del 19-20 novembre 1993, Padova, 1995, 237 ss.; MILITELLO, Il diritto penale nel tempo della « ricodificazione », cit., 815 ss. (26) MUSCO, Consenso e legislazione penale, cit., 83. (27) Cfr. al riguardo, SCOTTI, La riforma della giustizia nei documenti dei maggiori schieramenti politici, in Doc. giustizia, 1996, 809 ss.; sul programma dell’« Ulivo » in particolare, v. MANNA, Considerazioni, cit., 538.
— 704 — cioè il prodotto di giuristi fattisi per l’occasione legislatori, più che di legislatori-giuristi. La dibattuta questione del metodo, cioè se il codice penale debba necessariamente percorrere una via interamente parlamentare o possa essere confezionato mediante delega (28), rimanda forse ancor prima ad un problema preliminare, che è quello di una migliore percezione delle esigenze « legislative » da parte della scienza e di una migliore ripartizione di competenze tra giurista, teorico e pratico, e legislatore nell’allestimento di un codice. La storia della mancata codificazione italiana si può periodizzare in tre fasi: quella (1947-1973) dei progetti parziali, quella del silenzio (1973-1988), quella dei progetti organici (1988-1995). Dei progetti della prima fase, soprattutto quello « Petrocelli » (1949-1950) ebbe carattere dottrinario mostrando un’impronta fortemente retribuzionista (29), e poi — seppure da un angolo visuale completamente diverso — il progetto Pagliaro (1988-1992) (30). Faceva eccezione invece il progetto Vassalli (1968-1973), che — seppure redatto dal suo autore « in assoluta solitudine » — riuscì a varcare il traguardo dell’approvazione senatoriale e costituì poi la base dell’importantissima « novella » del 1974 (d.l. 11 aprile 1974, n. 99, convertito nella l. 7 giugno 1974, n. 220). Peraltro, come ricorda lo stesso Vassalli (31), il Senato prima, il Governo e il Parlamento poi, andarono assai oltre le indicazioni e le proposte contenute nell’originario progetto, conformando le definitive scelte del 1974 ad esigenze — assai note — di natura spiccatamente « politica » (32).
In terzo luogo, ci si può chiedere se la scienza penale italiana abbia sviluppato un sufficiente « spirito codificatorio ». Ora, a questo proposito è d’obbligo ricordare tutta una serie di iniziative scientifiche prodottesi in anni non lontani in vista della riforma codicistica (33). Ma si tratta pur sempre di lavori caratterizzati da un duplice isolamento: sono, da un lato, (28) MARINUCCI-DOLCINI, Note sul metodo della codificazione penale, in questa Rivista, 1992, 385. (29) Esso costituì « chiaramente il tentativo di prevaricazione in sede legislativa di una determinata posizione dottrinale » (VASSALLI, Il tormentato cammino, cit., 10). (30) Per questo giudizio, v. soprattutto FIANDACA, La parte speciale tra codificazione e legislazione penale speciale, in Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, cit., 237. (31) VASSALLI, Il tormentato cammino, cit., 12. (32) Sugli scopi, appunto palesemente « politici » nonostante il prevalente impegno dogmatico apparentemente implicato dalla natura degli istituti riformati v. VASSALLI, La riforma penale del 1974, Milano, 1975, 49 ss.; PALAZZO, La recente legislazione penale, Padova, 1985, 13 ss. (33) Tra le più significative, quelle che si sono tradotte nella pubblicazione dei seguenti volumi collettanei: Orientamenti per una riforma del diritto penale, Napoli, 1976; Metodologia e problemi fondamentali della riforma del codice penale, Napoli, 1981; Problemi generali del diritto penale. Contributo alla riforma, a cura di G. Vassalli, Milano, 1982; Materiali per una riforma del sistema penale, a cura del CRS, Milano, 1984; Bene giuridico e riforma della parte speciale, a cura di A.M. Stile, Napoli, 1985; Beni e tecniche della tutela penale. Materiali per la riforma, Milano, 1987.
— 705 — il frutto di singoli giuristi, che hanno dunque lavorato in solitudine, potendo contare solo sul dibattito (in certa misura casuale) svoltosi esclusivamente sulle riviste; e sono, dall’altro, contributi in genere dedicati ad uno specifico e delimitato tema, senza raccordo alcuno con quell’ideale complesso unitario che invece dovrebbe essere costituito per l’appunto dalla trama codicistica. Infine, la stessa più recente evoluzione generale del pensiero penalistico, che — come vedremo — è andato progressivamente allontanandosi da stabili certezze ontologiche e valutative per problematizzarsi sempre più, accentua la distsnza tra scienza penale e modello codicistico (34). 4. L’evoluzione della scienza penale italiana: dal tecnicismo giuridico alla vocazione progettuale. — Non può naturalmente essere questa la sede per tentare di ripercorrere anche solo a grandissime linee l’evoluzione del pensiero penalistico italiano del dopoguerra (35). Ma è, peraltro, necessario cercare di individuarne almeno i grandi indirizzi, al fine di segnalare quali di essi hanno potuto meglio e più di altri instaurare un dialogo, più o meno fecondo, con il legislatore: o quantomeno manifestare una vocazione alla progettazione legislativa. Dopo le voci autorevoli ma isolate presenti già durante il fascismo, nel dopoguerra la dottrina italiana non impiega davvero molto tempo a uscire dalle secche di una dogmatica concettualistica e formalistica e da una piatta esegesi marcatamente giuspositivista per prendere a colloquiare direttamente col legislatore (36). Si tratti delle ultime propaggini di un (34) Nel 1974, cioè in uno dei momenti in cui il discorso sulla riforma organica del codice penale è apparso meno irrealistico, Bettiol non nascondeva le responsabilità della scienza penale per questo ritardo culturale nell’intraprendere la via della riforma. Egli imputava alla dottrina sia una persistente « simpatia » per l’indirizzo tecnico-giuridico sia la mancanza di un’omogeneità di impostazione (BETTIOL, Aspetti e problemi dell’attuale scienza penalistica italiana, in Indice pen., 1974, 273 ss.). Orbene, oggi, se le suggestioni dell’indirizzo tecnico-giuridico sembrano sostituite da qualche eccesso di concettualismo dogmatico, la mancanza di omogeneità sembra persistere, forse aggravata dal fatto che lo stesso indirizzo pragmatico-razionale (probabilmente dominante) non manca di problematizzare criticamente le prospettive riformistiche. (35) Oltre al fondamentale saggio del VASSALLI, Diritto penale, in Cinquanta anni di esperienza giuridica in Italia, Milano, 1982, 427 ss., v. le efficaci sintesi di FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p.g., Bologna, 1995, p. XXXVII, ss.; e di MANTOVANI, Diritto penale, p.g., Padova, 1992, 71 ss. (36) « È comunque innegabile che il cinquantennio al quale ci riferiamo [dal 1930 al 1980] ha visto trascorrere il tecnicismo giuridico da una fase prevalentemente acritica (non limitata al periodo fascista, ma propria anche del ventennio successivo) ad una fase decisamente critica, in cui i giuristi tecnici, facciano o meno con ciò della scienza del diritto, cercano di occuparsi molto seriamente di politica criminale e di riforma penale » (VASSALLI, Diritto penale, cit., 434).
— 706 — giusnaturalismo resuscitato dai crimini della guerra (37) ovvero dei più recenti ed anche attuali indirizzi a sfondo tendenzialmente universalistico, di impronta neoclassica (38) oppure di stampo metodologico critico-razionalistico (39), sono in ogni caso orientamenti che aspirano a porre dei limiti alla discrezionalità della politica legislativa, ancorché sul piano dello strumento di protezione (cioè delle forme, presupposti e condizioni della responsabilità penale) più che su quello degli oggetti di tutela (cioè degli interessi e dei beni meritevoli della tutela penale). Ma sarà con la grande stagione del costituzionalismo penale (40) degli anni ’70 che la scienza passa dalla elaborazione di leggi tendenzialmente universali entro le quali collocare la « materia » penale quale che sia, alla individuazione in positivo del « volto costituzionale » del diritto penale, per ciò che concerne non solo forme e presupposti della responsabilità ma anche l’organizzazione contenutistica della parte speciale. Le leve concettuali di questa revisione costituzionale del diritto penale sono principalmente costituite dalla funzione (rieducativa) della pena e dal recupero del bene giuridico (dotato di dignità costituzionale). La dottrina si assume così il compito di una vera e propria mediazione tra la fonte costituzionale e quella legislativa (41). Nell’ultima ideale tappa dell’evoluzione della scienza penale, essa tende a problematizzarsi: senza abbandonare il riferimento alla Costituzione, quest’ultima diventa lo scenario di fondo sul quale vengono elaborati criteri razionali di criminalizzazione di marca più schiettamente metodologica e ispirati a un orientamento pragmatico-finalistico che eleva le conseguenze sociali dell’opzione penale a criterio prevalente di buona le(37) NUVOLONE, La punizione dei crimini di guerra e le nuove esigenze giuridiche, Roma, 1945; BETTIOL, II problema penale, Trieste, 1945. (38) Nella fortunata opera del MANTOVANI, (Diritto penale, p.g., cit., ma anche nei volumi dedicati alla parte speciale [Delitti contro il patrimonio, Padova, 1989, e Delitti contro la persona, Padova, 1995]), sensibilità storica e apertura sociologico-realistica ben si armonizzano con un’indubbia discendenza dalla tradizione scientifica classica di origine addirittura carrariana, senza che sia qui possibile procedere ad una puntuale analisi ricognitiva di questa caretteristica. (39) NUVOLONE, I fini e i mezzi nella scienza del diritto penale, in Riv. it. dir. pen., 1948, 38 ss.; ID., Introduzione ad un indirizzo critico nella scienza del diritto penale, ivi, 1949, 379 ss. (40) Impossibile offrire un elenco di quei penalisti che, soprattutto dalla metà degli anni ’70, cominciarono a trasfondere nella loro riflessione — chi più chi meno — l’ispirazione costituzionalistica, ma indubbio che il maggiore e più conseguente sistematore di questo indirizzo fu Franco Bricola. Cfr., in particolare, BRICOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., XX, Torino, 1974, 7; ID., Rapporti tra dommatica e politica criminale. cit., 3 ss. V. poi, tra gli altri, MARINUCCI-DOLCINI, Costituzione e politica dei beni giuridici, in questa Rivista, 1994, 333 ss.; MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, 81 ss.; MARINUCCI, Ricordo di Franco Bricola, in questa Rivista, 1995, 1024 ss. (41) Per un articolato quadro di sintesi, v. FLORA, Il rilievo dei principi costituzionali nei manuali di diritto penale, in questa Rivista, 1991, 1187 ss.
— 707 — gislazione. Con il risultato ulteriore che ogni valutazione preventiva o consuntiva delle scelte di criminalizzazione dovrebbe essere « scientificamente » collaudata su basi empiriche (42). Ora non vi è dubbio che la capacità progettuale più elevata è rivelata dal costituzionalismo penale, teoricamente idoneo a fornire basi rigorose, perché normative, ad un nuovo sistema penale complessivo, nel suo gioco di interrelazioni tra codice e leggi speciali. Come si è autorevolmente notato, « (...) il discorso dei rapporti tra costituzione e diritto penale (...) viene a costituire un motivo essenziale dell’espansione dell’interesse del cultore del diritto penale a tematiche sociologiche e politiche che per questa via rientrano nella scienza del diritto penale contribuendo (...) a rinnovarne metodo ed indirizzi » (43). Ma, paradossalmente, è proprio questa stringente forza di conformazione — anche contenutistica — della fisionomia legislativa del sistema a favorire la condanna del costituzionalismo al suo sostanziale insuccesso. Già sullo stesso piano dottrinale, autori non certo arroccati su posizioni conservatrici segnalano ben presto i pericoli di una « costituzionalizzazione » della politica criminale (44), cioè di un irrigidimento e di una cristallizzazione del dibattito politico entro le strette maglie di una gabbia costituzionale che rischia di accreditare strumentalmente, sotto le mentite spoglie della dignità costituzionale, quadri di valore frutto di visioni parziali, socialmente non vitali o addirittura contingenti (45). E, inoltre, il legislatore da parte sua si sottrae pervicacemente alle as(42) V., in particolare FIANDACA, Concezioni e modelli di diritto penale, cit., 37 ss.; MARINUCCI, Profili di una riforma del diritto penale, in Beni e tecniche della tutela penale, cit., 19 ss.; PULITANÒ, Politica criminale, cit., 80; PALIERO, Il principio di effettività nel diritto penale, in questa Rivista, 1990, 430 ss.; nonché PALAZZO, Principi costituzionali, beni giuridici e scelte di criminalizzazione, in Studi in memoria di P. Nuvolone, I, Milano, 1990, 372. Per un’applicazione significativa di questo indirizzo al settore sanzionatorio, v. PALIERO, Metodologie de lege ferenda: per una riforma non improbabile del sistema sanzionatorio, in questa Rivista, 1992, 510 ss. (43) VASSALLI, Diritto penale, cit., 439. Nel più generale quadro dell’evoluzione della cultura giuridica, v. anche FERRAJOLI, Scienze giuridiche, in La cultura italiana del novecento, a cura di C. Stajano, Roma-Bari, 1996, 591 spec.: « Si incrinano, insomma, grazie all’affermarsi dei due nuovi punti di vista esterni — quello assiologico-costituzionale quale parametro di validità e quello sociologico-fattuale quale parametro di effettività — sia l’autonomia del diritto quale universo separato dalla politica che l’autonomia della cultura giuridica dalle altre scienze sociali ». (44) PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in questa Rivista, 1983, 484 ss.; ID., Politica criminale, cit., 90: « Si tratta di recuperare — contro le tentazioni di un uso giusnaturalistico o ‘teologico’ dei valori costituzionali — gli spazi e le ragioni delle ‘‘politiche del diritto penale’’, rimesse alla discrezionalità e responsabilità del legislatore (s’intende, entro la cornice comunque segnata dalle libertà e dai principi regolativi costituzionali) ». Il sistema dei beni giuridici desumibile dalla Costituzione viene riconosciuto come un « sistema aperto », « democraticamente aperto a interpretazioni e a sviluppi politici (storici) diversi ». (45) Cfr., anche PALAZZO, Valori costituzionali e diritto penale (un contributo com-
— 708 — sillanti pretese della nozione costituzionale di bene giuridico (46). Nel momento in cui, da un lato, l’evoluzione tecnologica della società italiana e l’interventismo sociale dello Stato italiano toccano l’acme e in cui, dall’altro, la capacità legislativa di governare le trasformazioni con strumenti normativi extrapenali mostra i suoi limiti, la funzione critica e politico-criminale del bene giuridico, così tanto esaltata dalla dottrina, si rivela in pratica davvero modestissima, sopraffatta com’è dal proliferare di miriadi di fattispecie artificiali, formali, sanzionatorie di discipline extrapenali (47). Forse qualche frutto legislativo la teoria dei beni giuridici costituzionali riesce a dare in quella tendenza all’affermazione — anche in sede penale — di interessi supra-individuali, collettivi e diffusi, come ad es. l’ambiente o l’imposizione fiscale. Ma anche qui è forse ragionevole parlare di una consonanza tra scienza e legislazione, più che di una vera e propria influenza della prima sulla seconda. Testimoniano in questo senso non solo il fatto che la « scoperta » dei nuovi beni sembra essere il risultato di una tendenza politica generale indotta da nuove consapevolezze, di gran lunga trascendenti il campo specificamente penale, ma anche la circostanza che assai sovente la tecnica legislativa di costruzione delle nuove fattispecie a tutela degli interessi emergenti è notevolmente distante dai dettami enunciati dall’indirizzo costituzionalistico della scienza penale. Esemplare in questo senso è soprattutto la vicenda del diritto penale tributario (48). Le grandi riforme prima del 1973 e poi soprattutto del 1982 possono esser viste anche come il risultato di quella revisione dei valori effettuata in primis dalla scienza sulla base delle indicazioni costituzionali a vantaggio dei « nuovi » beni pubblici e collettivi, così che il diritto penale tributario può essere considerato, per certi aspetti, un esempio significativo del tentativo di realizzare a livello legislativo i nuovi modelli culturali (49). Ma, se la dottrina ottenne il principale dei suoi obiettivi con l’abolizione della pregiudiziale tributaria, assai distante dagli altri obiettivi rimase la riforma per quanto riguarda la selezione e la tecnica di inparatistico allo studio del tema), in L’influenza dei valori costituzionali sui sistemi giuridici contemporanei, a cura di A. Pizzorusso e V. Varano, I, Milano, 1985, 588. (46) Per un riesame dell’intera problematica, v. ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983; MARINUCCI-DOLCINI, Costituzione e politica dei beni giuridici, cit., 333 ss. (47) V., in modo particolare FIANDACA-MUSCO. Perdita di legittimazione del diritto penale?, in questa Rivista, 1994, 28 ss., ove fra l’altro si nota esattamente che « la concezione del diritto penale come extrema ratio, propugnata con vigore anche dalla dottrina italiana contemporanea, è riuscita ormai a fare breccia nella giurisprudenza costituzionale. Purtroppo la stessa cosa non è avvenuta a livello legislativo, e v’è fondatamente da dubitare che possa avvenire nell’immediato futuro » (p. 37). (48) V., per tutti, CARACCIOLI, Tutela penale del diritto di imposizione fiscale, Bologna, 1992, 11 ss.; PADOVANI, Itinerari della riforma penale tributaria, in Legislaz. pen., 1984, 298 ss. (49) GROSSO, Quale diritto tributario per gli anni novanta?, in questa Rivista, 1995, 1003 ss.
— 709 — dividuazione degli illeciti, caratterizzata come fu da una penalizzazione a vasto raggio di illeciti solo prodromici all’evasione, e talvolta bagatellari, e da una formulazione spesso infelice (50). Né migliore esito ebbe il successivo intervento riformatore del 1991, ove ancora una volta sui propositi di razionalizzazione espressi nel seno della Commissione ministeriale di revisione prevalsero le preoccupazioni politiche di non far apparire segni di cedimento nei confronti del fenomeno dell’evasione fiscale (51). Con riferimento, poi, alla tutela dell’ambiente, l’impegno della dottrina è stato soprattutto quello — in una certa misura quasi contraddittorio o almeno rivelatore di una sorta di « conflitto interiore » — dispiegato sul fronte del bene giuridico in una duplice direzione. Da un lato, e sotto la pressione ineludibilmente esercitata dall’evoluzione della società tecnologica, quella di fare assurgere l’« ambiente », nella sue varie accezioni concettuali e valorative, alla dignità di oggetto meritevole e reclamante la tutela penale; dall’altro, e sotto la preoccupazione delle trasformazioni indotte dalla « modernizzazione » degli oggetti di tutela, quella di mettere in luce tutti i rischi connessi all’« amministrativizzazione » del diritto penale dell’ambiente (52). Propositiva ma generica la prima direzione, assai più puntuale e articolata ma (inanemente) frenante la seconda. Solo più recentemente, con un’incisività in larga parte stimolata ex post dalla complessità legislativa e orientata ad una sua razionalizzazione, si è cominciato ad analizzare in termini di progettazione normativa le varie possibili tecniche di incriminazione e di strutturazione delle fattispecie di « inosservanza amministrativa » al fine di renderle compatibili col principio garantista di legalità e con quello di indirizzo politico di offensività (53).
Sul fronte poi della funzione della pena, l’impressione — e l’ipotesi che qui si formula — è che la svolta legislativa del 1975 in senso rieducativo (poi confermata ancora nel 1986) abbia per un verso trasceso e per un altro trascurato le pur insistenti e convinte indicazioni dottrinali per una piena attuazione dell’art. 27/3 Cost. (54). Da un lato, infatti, anche la riforma penitenziaria (e va sottolineata la dimensione limitatamente carceraria della svolta legislativa) sembra prevalentemente inserirsi di nuovo in (50) In questo senso, cfr. ancora GROSSO, op. loc. cit. (51) V., in proposito le osservazioni critiche di MELE, Riforma penale tributaria: una scelta da compiere, in Doc. giustizia, 1991, fasc. 4, 15 ss. (52) V., per tutti, nella vasta ed eterogenea letteratura al riguardo, FIANDACA-TESSITORE, Diritto penale e tutela dell’ambiente, in AA.VV., Materiali per una riforma del sistema penale, Roma, 1984, 30 ss.; PEDRAZZI, Profili penalistici di tutela dell’ambiente, in Indice pen., 1991, 617 ss.; GROSSO, Reati edilizi ed urbanistici e riforma del sistema penale, in questa Rivista, 1991, 742 ss. (53) V., l’articolato studio di CATENACCI, La tutela penale dell’ambiente. Contributo all’analisi delle norme penali a struttura « sanzionatoria », Padova, 1996, 119 ss. e 205 ss.; più specificamente GROSSO, Reati edilizi, cit., 753 ss. (54) La letteratura al riguardo è vastissima; per un efficace quadro d’insieme, v. FIANDACA, Commento all’art. 27, comma terzo, Cost., in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca e A. Pizzorusso, Bologna, 1991, 222 ss.; MONACO, Prospettive dell’idea dello « scopo » nella teoria della pena, Napoli, 1984.
— 710 — obiettivi di strategia politica generale, prima (1975) di affrancamento ed emancipazione di alcune fasce di emarginazione sociale, e poi (1986) di gestione pacifica, di controllo disciplinare e di alleggerimento della tensione carceraria. E, in effetti, sul piano culturale, la riforma del 1975 non fu estranea al movimento radicale del pensiero criminologico-sociologico italiano, del tutto consentaneo più al generale clima politico-culturale (che inseriva il mondo carcerario tra le istituzioni totali, insieme al manicomio, alla caserma, ecc., prodotte dal regime liberal-capitalista) (55), che agli indirizzi della scienza giuridico-penale « ufficiale ». Diversamente, la riforma del 1986 sembra invece meno impegnativamente collegata all’incontro tra un orientamento politico culturale genericamente umanitario e la sensibilità presente nelle alte burocrazie ministeriali per le — concretissime — esigenze di flessibilità carceraria (56). Paradossalmente, ma solo in apparenza, dopo il tramonto dei radicalismi culturali e degli estremismi veteromarxisti, la cultura criminologica italiana promuove un rilancio e un recupero di « classicismo penitenziario » in rotta di collisione con i persistenti orientamenti degli ambienti ministeriali (57).
Dall’altro lato, non è certo privo di significato il fatto che il legislatore abbia assunto — specie con la legge del 1975 — una posizione in qualche modo più tranciante di quella mantenuta dalla dottrina con le sue ricorrenti e per certi versi insuperabili difficoltà in ordine al coordinamento e conciliazione delle plurime funzioni attribuite alla pena. Una sorta, dunque, di semplicismo e di ardire legislativo che fa premio questa volta sulle ineliminabili incertezze della meditazione teorica su un nodo tanto intricato del pensiero penalistico qual è quello della funzione della pena (58). (55) V., pur in diverse prospettive, MELOSSI-PAVARINI, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, Bologna, 1977; FASSONE, La pena detentiva in Italia dall’800 alla riforma penitenziaria, Bologna, 1980. Con più diretto riferimento alla vicenda legislativa del 1975, v. NEPPI MODONA, Appunti per una storia parlamentare della riforma penitenziaria, in Quest. crim., 1976, 319 ss. (56) Cfr. PALAZZO, La riforma penitenziaria del 1986: contenuto, scopi e prospettive di un ulteriore provvedimento di decarcerazione, in Pol. dir., 1988, 225. (57) V., per i due contrapposti atteggiamenti, rispettivamente PAVARINI, Fuori delle mura del carcere: la dislocazione dell’ossessione correzionale, in Dei delitti e delle pene, 1986, 251 ss.; MARGARA, La pena perduta e il carcere ritrovato: riflessione sulla crisi di una delle tante riforme incompiute, in Quest. giustizia, 1993, 381 ss. (58) Un giudizio forse un poco più unidirezionale esprime NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio: considerazioni in margine ad un recente schema di riforma, in questa Rivista, 1995, 315 ss., il quale, senza voler « sminuire gli effetti potenzialmente paralizzanti ai fini delle scelte di politica legislativa insiti nel perdurante e, probabilmente, irresolubile dibattito sul teleologismo della pena detentiva », ritiene tuttavia rilevante il divario esistente tra l’elaborazione dottrinale e le realizzazioni e le proposte riformistiche. A nostro avviso, come si dice nel testo, le ragioni più sostanziali della discrasia esistente tra pensiero giuridico e realizzazione legislativa in ordine al sistema sanzionatorio, risiedono in una persistente ten-
— 711 — La riforma penitenziaria del 1975 vide la luce dopo una gestazione tutto considerato abbastanza breve e paradossalmente condotta a termine mentre l’attenzione della scienza era, piuttosto, concentrata sulle prospettive — allora non completamente irrealistiche — di una riforma della parte generale del codice. Così che la gestazione di questa legge veramente significativa per la vita concreta del sistema penale avvenne in un clima prevalentemente « politico » (59), sotto l’influenza semmai, da un lato, delle Regole minime per il trattamento dei detenuti da poco emanate dal Consiglio d’Europa e, dall’altro, di una serie di drammatici condizionamenti contingenti (60). L’opera della dottrina fu, invece, assolutamente cospicua nella successiva fase più che altro di razionalizzazione di un sistema sanzionatorio destinato ad avviarsi alla progressiva disintegrazione. Peraltro, non mancarono i moniti provenienti dalla parte più impegnata della dottrina, che giustamente segnalava l’incertezza e la fragilità del pilastro su cui veniva a poggiare l’intero edificio del rinnovato sistema sanzionatono, cioè il potere discrezionale del giudice di cognizione o di sorveglianza (vera scelta politica di « delegazione » al giudiziario), richiamando la necessità di difficili scelte « teleologiche », « finalistiche », sui criteri di governo del sistema sanzionatorio (61). Ma negli anni successivi la scienza sembra assumere un atteggiamento di sostanziale rassegnazione di fronte alle sempre più evidenti connotazioni « politiche » delle riforme sanzionatorie, quale in particolare e soprattutto la c.d. legge Gozzini del 1986. Tuttavia, la dottrina non cessa di mettere in guardia contro il caos imperante ormai nel sistema sanzionatorio, e soprattutto di segnalare il pericoloso ed abnorme scollamento tra i quadri sanzionatori edittali, cui deve necessariamente guardare il giudice della cognizione, e lo strumentario degli istituti « alternativi » posto nelle mani del giudice dell’esecuzione (62). E, proprio nei giorni presenti, non è escluso che questi rilievi abbiano trovato in qualche modo ascolto presso il legislatore, in consonanza da un lato con un più generale orientarnento politico diretto a ridonare un po’ di razionalità ed efficienza al sistema della giustizia penale e, dall’altro, in virtù della specifica competenza e sensibilità di singoli « legislatori » di formazione penalistica (63). denza legislativa ad una utilizzazione delle riforme della esecuzione penale per finalità prevalentemente extrasanzionatorie, siano esse quelle di surrogare la mancata riforma della parte speciale ovvero quelle di agevolare la collaborazione processuale del detenuto (come, del resto, non manca di notare lo stesso NEPPI MODONA, op. cit., 325 e 327). (59) Anche se non mancarono alcuni settori della dottrina penalistica che mostrarono una pronta sensibilità e una viva attenzione alle prospettive di riforma legislativa che sfociarono poi nella l. 354 del 1975: AA.VV., Giustizia penale e riforma carceraria in Italia, Roma, 1975. (60) V., ampiamente NEPPI MODONA, Appunti, cit. (61) V., per tutti DOLCINI, L’art. 133 c.p. al vaglio del movimento internazionale di riforma, in questa Rivista, 1990, 398 ss.; ID., Razionalità nella commisurazione della pena: un obiettivo ancora attuale?, ivi, 797 ss. (62) NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio, cit., 328 spec.; PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in questa Rivista, 1992, 419 ss. (63) Si allude al progetto di legge sulle misure alternative approvato prima dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, sotto la presidenza e l’impulso dell’on. Giuliano Pisapia, e poi dall’Aula il 1o ottobre 1996 (C 464) e attualmente in discussione al
— 712 — 5. Successi ed insuccessi della scienza penale nel diritto penale in trasformazione. — Non sapremmo dire se l’indirizzo pragmatico-finalistico orientato alle conseguenze e aperto alle verifiche empiriche sia oggi maggioritario nella scienza penale italiana che si occupa di politica criminale e di criteri e scelte di criminalizzazione. Fatto sta che, in ogni caso, questo indirizzo è riuscito ad intavolare, negli anni ’80, un dialogo con il legislatore non privo di qualche risultato interessante e significativo. Ma occorre subito precisare e circoscrivere l’affermazione poiché anche qui non mancano contraddizioni e paradossi. In effetti, se l’indirizzo costituzionalistico fu tacitamente ma chiaramente rifiutato dal legislatore, almeno nella sua parte più innovativa concernente la selezione dei beni giuridici da tutelare, l’indirizzo pragmatico-finalistico fu al contrario tanto formalmente consacrato dal legislatore, almeno nel suo nucleo centrale, quanto praticamente ignorato nella quotidiana prassi di legiferazione. Certamente l’ispirazione di fondo dell’indirizzo in esame è diversa nella sua formulazione scientifico-dottrinale, da un lato, e nella sua recezione pratico-legislativa, dall’altro: ad onta delle apparenze, le radici teoriche di questo « pragmatismo » sono assai lontane dall’agnosticismo della decisione caso per caso e affondano invece in un consapevole e meditato rifiuto di ogni contaminazione metafisica del diritto penale e, ancora più in fondo, in una sorta di ansia laica e civile a che la ineliminabile componente di strumentalizzazione violenta dell’uomo insita nella pena sia contenuta in spazi il più circoscritti possibile. Nella recezione legislativa di questa impostazione domina piuttosto una generica preoccupazione di efficienza, di tenuta, di sopravvivenza di un sistema della giustizia penale che l’inflazione legislativa sospinge giorno dopo giorno sull’orlo di una totale dèbâcle. Preoccupazione, del resto, che assilla tutti gli ordinamenti penali delle società tecnologicamente avanzate. Dunque, diversità di motivazioni di fondo ma comunanza di intenti finali per giuristi e legislatori. Ma c’è dell’altro che contribuisce a spiegare la contraddizione, il paradosso cui accennavamo dianzi. 5.1. I criteri « scientifici » di criminalizzazione nelle tendenze legislative di depenalizzazione e razionalizzazione del sistema penale. — I criteri generali di criminalizzazione sviluppati dall’indirizzo pragmaticoempirico-finalistico entrano a pie’ pari nel campo della politica criminale parlando un linguaggio diretto al legislatore, privo della mediazione dogmatica e pertanto assai piu interessante per un legislatore assillato — almeno nelle proclamazioni elettorali e nei programmi di governo — da un’inefficienza galoppante del sistema. D’altro lato, i criteri elaborati dalla Senato (S 1406), ove si tenta una razionalizzazione dei rapporti tra misure alternative e sospensione condizionale della pena, peraltro sempre in un’ottica di sfoltimento carcerario e attraverso modifiche di carattere processuale anziché sostanziale.
— 713 — scienza penale hanno carattere dichiaratamente metodologico, di razionalizzazione delle scelte di criminalizzazione ma non impingono nei contenuti specifici della tutela: il che contribuisce decisamente a vincere la naturale diffidenza del legislatore verso il discorso scientifico caratterizzato da forte connotazione politico-criminale. Il rapporto tra elaborazione scientifica e recezione legislativa si fa pertanto più duttile ed articolato, dovendosi in effetti distinguere tra il momento della formulazione dei criteri di criminalizzazione e quello della loro gestione-concretizzazione sul piano della quotidiana attività di legiferazione. Per quanto riguarda il momento della formulazione, non si può celare la soddisfazione di constatare tutto un trend in senso ampio legislativo di progressiva recezione dei criteri di criminalizzazione elaborati dall’indirizzo scientifico di cui stiamo discorrendo. Negli anni ’80 si susseguono invero testi normativi che fanno propria la formulazione dei criteri di derivazione scientifica e che si pongono come avvenimenti particolarmente significativi — anche per la loro consonanza o risonanza all’estero — nell’evoluzione recentissima del diritto penale italiano. Basti pensare alla grande legge di « modifiche al sistema penale » del 24 novembre 1981, n. 689 (64); alle due circolari della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 19 dicembre 1983 e del 5 febbraio 1986, rispettivamente sul riparto tra sanzioni penali e sanzioni amministrative e sulla scelta tra delitti e contravvenzioni (65); alle ultime leggi « comunitarie », nella parte in cui con(64) V., in particolare l’intervento, negli Atti di questo Convegno, di LUPO, Innovazioni nelle materie penalistiche: una testimonianza, ove bene si coglie il passaggio dall’elaborazione scientifica alla progettazione tecnico-politica. Per più ampie notizie sull’iter parlamentare di elaborazione ed approvazione della legge, che comunque non fu lunghissimo (1977-1981), v. PALIERO, L’iter della legge, in AA.VV., Commentario delle « Modifiche al sistema penale », Milano, 1982, 7 s. Preme semmai sottolineare come, nonostante la dimensione come al solito spiccatamente « politica » della fase elaborativa della legge, in quell’occasione non mancò un interessamento, se non un vero e proprio coinvolgimento, di almeno una parte della dottrina. Ne sono indici, fra gli altri, la puntuale pubblicazione dei testi preparatori sulle principali riviste giuridiche (v. PALIERO, op. ult. cit.) e il dibattito congressuale (v. ad es. Misure alternative e depenalizzazione in una moderna prospettiva di difesa sociale (Roma, 2-3 dicembre 1977), in Rass. penit. crim., 1979, fasc. 3-4) e non (v. ad es. DOLCINI-PALIERO, I « principi generali » dell’illecito amministrativo nel disegno di legge « modifiche al sistema penale », in questa Rivista, 1980, 1154 ss.; PADOVANI, La pena pecuniaria nel progetto di « modifiche al sistema penale », ivi, 1182 ss.) che ne seguì. (65) Anche alle due circolari, che per la loro stessa natura registrano la prevalenza della componente « culturale » su quella « politica », una parte della dottrina non mancò di dedicare una particolare attenzione partecipativa: v., senza pretesa di completezza, DOLCINI, Sui rapporti fra tecnica sanzionatoria penale e amministrativa, in questa Rivista, 1987, 779 ss.; LATTANZI, Sanzioni penali o sanzioni amministrative: criteri di scelta e canoni modali in una circolare della Presidenza del Consiglio, in Foro it., 1985, V, 251 ss.; PADOVANI, La distribuzione di sanzioni penali e sanzioni amministrative secondo l’esperienza italiana, in
— 714 — tengono criteri di delega per l’attuazione sanzionatoria delle direttive comunitarie (66). Solo per chi non abbia dimestichezza con questi documenti normativi, può essere qui sinteticarnente riferito che la l. 689 del 1981 costituisce, innanzitutto, il necessario presupposto della successiva elaborazione dei criteri di criminalizzazione in quanto fonda una disciplina organica dell’illecito amministrativo punitivo, di cui l’Italia era sostanzialmente sprovvista. In ciò la l. 689 del 1981 rappresenta il felice risultato del connubio tra le indicazioni politico-criminali di ascendenza garantistico-costituzionale (la teoria dei beni giuridici costituzionali e il principio di offensività) (67) e quelle provenienti da un indirizzo scientifico, allora agli inizi di un fecondo sviluppo, che propendeva per un’intensa valorizzazione della comparazione al fine non solo della ricostruzione « scientifica » di principi a valenza tendenzialmente universale, ma anche e soprattutto della concreta progettazione di modelli di disciplina da offrire all’utilizzazione legislativa (68). Inoltre, la l. 689 del 1981, nel suo consistente intervento di depenalizzazione, costituisce un’anticipazione applicativa — quasi in corpore vili — di quei criteri di selezione dell’illecito penale e di distinzione da quello amministrativo (rango dell’interesse tutelato, intensità dell’offesa, necessità della pena) che saranno « normativizzati » in forma generale in seguito, prima con l’inconsueto strumento della circolare della Presidenza del Consiglio indirizzata agli uffici legislativi di tutti i ministeri, e poi con le leggi di delegazione al governo sia per l’attuazione interna delle direttive comunitarie (onde cercare di contenere il rischio in esse implicato di un effetto indotto di grossa inflazione penale), sia per la razionalizzazione e depenalizzazione di settori nevralgici del sistema penale (come, ad esempio, quello del lavoro, delle leggi di pubblica sicurezza, ecc.).
Sul versante della gestione-concretizzazione dei criteri di criminalizzazione il quadro si presenta invece assai differente, ancorché si debba nettamente distinguere tra le proclamazioni che i partiti e le loro coalizioni consegnano ai programmi di governo in occasione delle competizioni elettorali e la continuità della successiva attività di iniziativa e proquesta Rivista, 1984, 952 ss.; PALAZZO, I criteri di riparto tra sanzioni penali e sanzioni amministrative, in Indice pen., 1986, 35 ss. Degno di nota è poi l’interesse che i due documenti normativi suscitarono all’estero: v. la loro traduzione francese in Arch. pol. criminelle, 1987, 190 ss., preceduta da una presentazione di A. BERNARDI, Expériences italiennes récentes en matière de science et de technique de la législation pénale, ivi, 171 ss. (66) Si fa riferimento all’art. 2 l. 22 febbraio 1994, n. 146 e all’art. 3 l. 6 febbraio 1996 n. 52, ove sono dettati criteri direttivi generali per la scelta delle sanzioni penali e amministrative a tutela dell’osservanza dei precetti contenuti nei decreti delegati per l’attuazione delle direttive comunitarie. Tali criteri si fondano sulla natura degli interessi tutelati, nonché sulla specie e gravità dell’offesa. (67) V. retro, § 4. (68) V., ad es. DOLCINI-PALIERO, L’illecito amministrativo (Ordnungswidrigkeit) nell’ordinamento della Repubblica Federale di Germania, in questa Rivista, 1980, 1134 ss.; ID.ID., Il carcere ha alternative? Le sanzioni sostitutive della detenzione breve nell’esperienza europea, Milano, 1989.
— 715 — duzione legislativa svolta nella quotidianità dell’azione governativa e parlamentare. Se nelle prime non mancano assai spesso numerosi e significativi momenti di convergenza tra le indicazioni provenienti dal mondo scientifico e i programmi elettorali per la giustizia penale (69), nella seconda invece rimane di regola ben poco di quell’intesa tra giurista e legislatore. Quest’ultimo soccombe anche in penale alla schiavitù della contingenza incalzante, subisce le pressioni irresistibili di lobbies e gruppi varii, inclina regolarmente a quella prassi emergenziale e a quell’uso simbolico tipico del diritto penale e a cui accenneremo tra poco. Nella quotidianità dell’innovazione legislativa si sviluppa così una produzione inflazionistica, minuta e minore, in chiave spesso meramente sanzionatoria di discipline extrapenali, comunque lontanissima dai canoni teorici (« scientifici ») di criminalizzazione, sebbene debbasi dare atto di un recente filone legislativo, essenzialmente ma non esclusivamente di « depenalizzazione », nel quale quei criteri — in particolare i principi di proporzione e di sussidiarietà del diritto penale — trovano una concretizzazione legislativa. Più precisamente, a parte certi richiami espressi ai principi e criteri di criminalizzazione contenuti anche in importanti leggi ordinarie di disciplina penale di nuove materie e nuovi interessi (come, ad esempio, la l. 23 dicembre 1993, n. 547, sulla c.d. criminalità informatica) (70), è soprattutto nell’intervento depenalizzante concernente discipline vecchie o comunque esistenti che si coglie un’attiva influenza della scienza. Alla fine del 1993, per impulso di un Ministro della giustizia che cumula la doppia veste di scienziato autorevolissimo delle discipline penalistiche e di legislatore (si tratta del prof. Giovanni Conso), viene approvata dal parlamento una serie di deleghe al governo per il riordino di talune materie nevralgiche (testo unico di pubblica sicurezza, diritto penale del lavoro, ecc.). La complessità tecnica dell’intervento razionalizzatore permette, ed anzi impone, il ri(69) Con particolare riferimento alle ultime elezioni politiche del 21 aprile 1996, si può — come al solito — constatare (SCOTTI, La riforma della giustizia nei documenti elettorali dei maggiori schieramenti politici, in Doc. giustizia, 1996, 809 ss.) una certa omogeneità di propositi — anche tra le stesse coalizioni principali — per quanto concerne le linee generalissime della politica sanzionatoria in particolare, ove si punta ad un ampliamento delle misure alternative alla detenzione e ad un potenziamento della depenalizzazione (senza contare, invece, il sempre attuale tema della criminalità organizzata e soprattutto del ruolo del « pentitismo » in ordine al quale si registrano tra i partiti posizioni meno omogenee). Le suggestioni della scienza sono, poi, particolarmente avvertibili nel programma dell’ « Ulivo », ove in effetti ci si ripromette di toccare due temi, come sono il concorso di persone nel reato e la responsabilità delle persone giuridiche, non solo decisamente « cari » alla riflessione teorica, ma anche difficilmente abbordabili con serietà senza l’ausilio di tutto un patrimonio conoscitivo (anche comparatistico) che specialmente la cultura giuridica è in grado di offrire. (70) V., la Relazione al disegno di legge governativo n. 2773, presentato alla Camera dei Deputati l’11 giugno 1993, p. 4.
— 716 — corso alla legislazione delegata (71), consentendo così di attribuire un ruolo centrale all’attività di commissioni ministeriali ove è facilmente riconoscibile il contributo essenziale di studiosi specialisti della materia. Soprattutto nel delicato settore del diritto penale del lavoro (72), la delega legislativa (l. 6 dicembre 1993, n. 499) viene esercitata in piena e naturale consonanza con molti di quei principi di politica criminale e di legislazione penale dovuti all’elaborazione scientifica: coi decreti delegati del 24 marzo 1994, n. 211, del 9 settembre 1994, n. 566 e del 19 dicembre 1994, n. 758, la nuova disciplina sanzionatoria in materia di lavoro realizza la riqualificazione di quelle violazioni lesive dei beni di diretta rilevanza costituzionale, come la salute del lavoratore, la depenalizzazione degli illeciti minori e « formali », la previsione di nuovi istituti sanzionatori, come particolari forme di estinzione della punibilità connesse all’adempimento di prescrizioni specifiche, interventi tutti ispirati al superiore principio di extrema ratio del diritto penale e miranti al generale obiettivo di efficienza del sistema penale (73). I maggiori limiti « scientifici » di questo cospicuo filone di razionalizzazione sanzionatoria di alcuni settori particolari, discendono dal tipo di intervento modificativo — la revisione (mediante delega) di discipline preesistenti anziché la loro rinnovazione ab imis (mediante legge parlamentare) — prescelto proprio al fine, tra l’altro, di assicurare in pratica una adesione ai criteri « scientifici » di criminalizzazione più completa di quanto sarebbe stato possibile con l’intervento diretto ed esclusivo del parlamento. In effetti, la revisione puntuale e per forza di cose frammentaria della disciplina preesistente, comporta talvolta un risultato normativo finale non facilmente intellegibile, come la Corte costituzionale non ha mancato di stigmatizzare a proposito ad esempio della depenalizzazione delle leggi di pubblica sicurezza (74).
5.2. I limiti del contributo della scienza nella prassi legislativa dei criteri di criminalizzazione. — Certamente, all’origine di questo pur persistente divorzio c’è un vizio inveterato nella prassi legislativa italiana, ma v’è anche dell’altro. È per l’appunto il postulato centrale di questo indirizzo scientifico, cioè la asserita necessità della verifica empirica delle (71) Cfr. Relazione al disegno di legge recante delega al Governo per la riforma dell’apparato sanzionatorio in materia di lavoro, in Atti parlamentari, Camera dei Deputati, XI Leg., n. 2496, del 26 marzo 1993, p. 2: « l’esigenza di procedere ad una riconsiderazione analitica dei settori di intervento normativo e di prospettare un vigile rimaneggiamento, suggerisce il ricorso alla delega legislativa, trattandosi in definitiva di un’attività tecnicamente molto complessa per il numero e la stratificazione delle disposizioni incriminatrici da rivalutare. È peraltro opportuno stabilire principi e criteri direttivi particolarmente analitici per la necessità di ricondurre saldamente alla volontà del Parlamento le scelte politico-criminali correlate ad una cospicua risistemazione normativa ». (72) PADOVANI, Nuovo apparato sanzionatorio in materia di lavoro, in Dir. pen. proc., 1995. 506 ss. (73) Per un quadro riassuntivo, cfr., tra gli altri BUTTARELLI, Decriminalizzazione e razionalizzazione del sistema sanzionatorio: tre passi avanti per un lungo cammino, in Cass. pen., 1994, 1140 ss.; MORANDI, Primi interventi di riforma dei reati in materia di lavoro, in Leg. pen., 1995, 477; ID., Nuove modificazioni della disciplina sanzionatoria in materia di lavoro, ivi, 1996, 309 ss. (74) Corte cost., sent. 29 gennaio 1996, n. 13. in Giust. pen., 1996, I, 171.
— 717 — scelte di criminalizzazione, a incontrare obiettive difficoltà e contraddizioni pratiche. Chi dovrebbe fornire le conoscenze tecniche, e soprattutto organizzarle e canalizzarle giuridicamente, ai fini delle verifiche empiriche preventive e successive? Piuttosto che le burocrazie ministeriali, sembrerebbe proprio dover essere la « scienza » a rivendicare un ruolo principale in questa metodologia di progettazione legislativa (75). Ma gli interrogativi continuano ad affastellarsi. Potrebbe il legislatore, nella lentezza dei suoi tempi decisionali sempre paradossalmente incalzato dall’urgenza, avere la pazienza di attendere i contributi di valutazione empirica in ipotesi commissionati alla scienza? Potrebbe la scienza, in particolare la scienza accademica com’è nella sua quasi totalità quella giuridica, essere nelle condizioni obiettive, strutturali, materiali di offrire il suo contributo di valutazione empirica? E inoltre, almeno fino a che la scienza penale non avesse maturato una diversa forma mentis consona a questo suo nuovo ruolo, non c’è il rischio che essa rimanga travolta e schiacciata dall’ingovernabile mondo degli empirismi specialistici perdendo così l’orientamento di punti valutativi? Non v’è infine, un ceto di giuristi non-legislatori che possiede già una dimestichezza con la realtà empirica, tale da accreditarlo quale interlocutore privilegiato del legislatore? Senz’altro sì: la magistratura ha una conoscenza diretta della realtà empirica e, soprattutto, delle necessità di strumenti tecnico-giuridici per la sua disciplina penale. Ne consegue che, nella prassi legislativa ormai divenuta corrente, è la « consulenza giudiziaria » più che quella « scientifica » ad imporsi in sede di valutazione empirica (76). Il che comporta, non solo un ulteriore fattore di spostamento del baricentro della radicazione effettiva del sistema penale verso zone istituzionalmente prive di legittimazione democratica, ma anche e soprattutto una crescente conformazione del diritto penale sostanziale in senso repressivo-processuale-probatorio (77). (75) « ... sembrano (...) prevalere visioni decisionistiche che tendono a contrarre anziché espandere i controlli fattuali e valutativi del potere legislativo, e a dare la corsia preferenziale a pacchetti di riforme, ricchi solo della solipsistica fantasia di volenterosi uffici legislativi, sprovvisti della base conoscitiva necessaria per un’incidenza mirata sulla realtà e, se del caso, per correzioni di tiro ». « In queste condizioni — e sono le condizioni, fattuali e culturali, in cui sono costretti a lavorare gli uffici legislativi del Ministero di grazia e giustizia — possono essere compiute operazioni legislative puramente ideologiche e simboliche », (MARINUCCI, Profili di una riforma del diritto penale, cit., 27 e 30). (76) Un cenno nello stesso senso in FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione?, cit., 56; NOBILI, Verso un nuovo garantismo? Spunti per gli studenti di sociologia del diritto, in Crit. dir., 1996, 246. (77) Sotto questo profilo, un’altra situazione paradossale è constatabile nell’evoluzione del rapporto tra scienza e legislazione penale. Se, infatti, la scienza ha per lunghi anni inclinato ad un’elaborazione teorica sottratta alla verifica della prassi e, soprattutto, della sua compatibilità col modello processuale (in argomento, v. fondamentalmente BRICOLA, La verifica delle teorie penali alla luce del processo e della prassi: problemi e prospettive, in Quest. crim., 1980, 453 ss.), questa situazione ha finito per produrre — nei fatti — l’oppo-
— 718 — Non sono certo rari gli esempi che possono essere addotti di questa contiguità tra esigenze (ed indicazioni) giurisprudenziali e innovazione legislativa. A parte la linea di tendenza costituita dalle fattispecie incriminatrici costruite su chiare esigenze probatorie, cioè di alleggerimento dell’onere probatorio e quindi sostanzialmente di sospetto, mette conto qui ricordare in particolare due esempi specifici. L’uno, assai noto per la sua emblematicità, è quello della figura criminosa dell’associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.), introdotta con la legge Rognoni-La Torre (l. 13 settembre 1982, n. 646) ad immagine e somiglianza della nozione di associazione mafiosa che la giurisprudenza era venuta elaborando in sede di applicazione delle misure di prevenzione di cui alla legge speciale del 1965 (78). L’altro esempio è costituito dalla duplice riforma dell’usura (l. 7 marzo 1996, n. 108, di riordino e modifica dell’intera materia, che era già stata modificata dal d l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella l. 7 agosto 1992, n 356). Obiettivamente sollecitata dalla diffusione del fenomeno e dal suo collegarsi con la criminalità organizzata, essa obbedisce a esigenze giudiziarie di carattere prevalentemente probatorio o quantomeno processuale, sia per quanto concerne la dilatazione (del resto effettuata dalla giurisprudenza già sulla base del vecchio testo) dallo « stato di bisogno » personale alle « condizioni di difficoltà economica o finanziaria di persona che svolge un’attività imprenditoriale o professionale », sia per quanto riguarda il sistema di determinazione rigida della soglia di « usurarietà » (79). Pur non essendo riuscito a vedere la luce della approvazione legislativa, non è meno significativo per la complessa dinamica che esso evidenzia dei rapporti tra le varie componenti della produzione giuridica lo schema, elaborato nel pieno delle « mani pulite » milanesi da un gruppo di giuristi pure milanesi ad immagine e somiglianza della prassi applicativa instaurata dalla Procura della repubblica di Milano (eliminazione della distinzione tra corruzione e concussione, responsabilità del privato per ogni ipotesi di dazione di denaro, obbligo della custodia cautelare, riconoscimento « sostanziale » della collaborazione processuale) (80). Qui l’aspetto più clamoroso della vicenda fu che alcuni « scienziati » si assunsero essi stessi il compito di dare veste normativa alle esigenze della prassi requirente, suscitando una reazione negativa in altra parte della comunità scientifica (81). La cosa non fece poi sta reazione di un sopravvento che le esigenze processuali hanno preso su quelle, anche costituzionali, del diritto penale sostanziale (NOBILI, Principio di legalità e processo penale. In ricordo di Franco Bricola, in questa Rivista, 1995, 656; ID., Associazioni mafiose, criminalità organizzata e sistema processuale, in Crit. dir., 1995, 264 ss.). (78) TESSITORE, Commento all’art. 13 l. 13 settembre 1982, n. 646, in Legislaz. pen., 1983, 295; in senso critico, SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1993, 60. (79) V., l’efficace sintesi di PROSDOCIMI, La nuova disciplina del fenomeno usurario, in Studium Iuris, 1996, 771: PISA, Mutata la strategia di contrasto al fenomeno dell’usura, in Dir. pen. proc., 1996, 418. Secondo CAVALIERE, L’usura tra prevenzione e repressione: il ruolo del controllo penalistico, in questa Rivista, 1995, 1206 ss., i termini di ricostruzione della fattispecie, sulla base dei criteri di criminalizzazione di offensività, ultima ratio ed effettività, avrebbero dovuto essere molto diversi da quelli legislativi. (80) Proposte in materia di prevenzione della corruzione e dell’illecito finanziamento di partiti, con relative Note illustrative, in questa Rivista, 1994, 1025 ss. (81) V., tra gli altri, GROSSO, L’iniziativa Di Pietro su Tangentopoli. Il progetto anticorruzione di manipulite fra utopia punitiva e suggestione premiale, in Cass. pen., 1994, 2341 ss.; MOCCIA, Il ritorno alla legalità come condizione per uscire a testa alta da Tangen-
— 719 — grandi passi in avanti, verosimilmente più per la comprensibile ancorché sorda ostilità del mondo politico che per le critiche ricevute dalla scienza (anch’essa, peraltro, non del tutto immune in quella vicenda da preoccupazioni anche extraculturali).
D’altra parte, in assenza di canali e luoghi formalizzati di costante e regolare incontro col legislatore, può la scienza penale interessarsi della incessante produzione legislativa penale in certo senso « minore » ma ove si consumano i più flagranti e clamorosi tradimenti dei criteri razionali di criminalizzazione? La scienza penale italiana ha certamente superato il vecchio complesso di superiorità nei confronti della parte speciale (82), ma si è interessata — spesso con attenzione puntuale e assidua — prevalentemente alle « grandi » riforme della parte speciale: le riforme dei reati tributari, dei delitti contro la pubblica amministrazione, dei reati di violenza sessuale, della disciplina degli stupefacenti, ecc. Peraltro la delicatezza politica di queste materie, che fosse tale per motivi di esibizione simbolica della spada penalistica (leggi sugli stupefacenti e sulla violenza sessuale, ad es.) ovvero per motivi di equilibrio tra interessi forti (riforma dei delitti contro la pubblica Amministrazione e più in generale riforme di diritto penale economico), ha regolarmente comportato una sostanziale sordità del legislatore alle indicazioni formulate dalla dottrina (83). topoli, in questa Rivista, 1996, 463 ss. In particolare, cfr. la meditata riflessione di PADOVANI, Il problema « Tangentopoli » tra normalità dell’emergenza ed emergenza della normalità, ivi, 448 ss. (82) Probabilmente, però, è ancora vigente la tacita regola concorsuale secondo la quale l’accesso alla cattedra universitaria è precluso a chi non si sia cimentato nella teoria generale del reato. Ma, a parte ciò, alcuni fondamentali lavori di questo dopoguerra hanno metodologicamente affrancato lo studio della parte speciale dall’angusta impostazione esegetica per conferirgli una nuova e reale dignità scientifica. V., senza pretesa di completezza, PISAPIA, Introduzione alla parte speciale del diritto penale, Milano, 1948; PADOVANI-STORTONI, Diritto penale e fattispecie criminosa. Introduzione alla parte speciale del diritto penale, Bologna, 1991. (83) A titolo esemplificativo si potrebbe ricordare la vicenda della riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica Amministrazione, la prima grande riforma repubblicana della parte speciale del codice Rocco (l. 26 aprile 1990, n. 86). Nascente da un dichiarato intento, sostanzialmente condiviso dalla dottrina, di contenere l’intervento « suppletivo » della magistratura penale (o di una sua parte) nel campo della discrezionalità amministrativa, la riforma ha finito per ottenere un effetto contrario. Non totalmente sorda ad alcune indicazioni dottrinali per quanto riguarda in particolare le qualifiche soggettive di pubblico ufficiale, la revisione delle fattispecie non tenne gran conto invece (specie per quanto riguarda l’abuso di potere) dei suggerimenti che pure la dottrina in questa occasione fu in grado di formulare (v. ad es. gli Atti del Convegno dell’ISISC, La riforma dei delitti contro la pubblica Amministrazione, a cura di A.M. Stile, Napoli, 1987). Lo impedirono sia — more solito — il sopravvenire ad un certo punto di « motivi di urgenza » che affrettarono l’iter parlamentare, sia la preoccupazione di dare un’impressione di eccessivo alleggerimento della risposta penale in un settore politicamente tanto delicato. Ripropostasi pertanto nuovamente l’esigenza di una revisione in particolare dell’abuso di ufficio, sembra riprodursi in questi
— 720 — Uno dei più frequentati « luoghi » di questo incontro fra giunsti e legislatori, uno dei principali veicoli di penetrazione della scienza giuridica nel mondo della produzione legislativa, sembrerebbe essere quello delle commissioni ministeriali di studio. Assai note quale strumento « istituzionale » di ausilio preparatorio alla legislazione, di esse è pressoché ignoto tutto il resto: dai criteri di costituzione e di nomina, alla loro composizione, all’andamento dei loro lavori: e, in fondo, è abbastanza naturale che sia così. Peraltro, in via generalissima, si può osservare che, se da un lato l’equilibrio tra sapere scientifico ed indicazioni politico-legislative dipende ovviamente in gran parte dalla consistenza rispettiva delle componenti accademica e ministeriale, è indubbio dall’altro che vi è anche un problema di rapporto della commissione (e dei suoi lavori) con la comunità scientifica esterna. Soprattutto quando si tratta di argomenti di grande attualità politica o d’interesse anche scientifico e culturale, funzionalità progettuale e rappresentatività scientifica delle commissioni divengono termini di una relazione alquanto difficile. Se, infatti, la esiguità numerica della componente accademica contribuisce a garantirne la funzionalità, specie quando gli « scienziati » siano oculatamente scelti tra di loro « affiatati », con qualche rischio peraltro di sudditanza rispetto alla componente ministeriale, diventa però difficile che l’intera o la gran parte della comunità scientifica si senta rappresentata in commissione. Al contrario, se la componente accademica è particolarmente ampia e rappresentativa, in una commissione dunque necessariamente consistente, ne risulterà fatalmente pregiudicata la funzionalità (84). Verosimilmente, la soluzione più equilibrata e adeguata non è la medesima per tutte le evenienze, ma dipende — tra l’altro — dal tipo di atto legislativo perseguito, se legge, legge delega, decreto delegato, ecc., e dalla natura dell’argomento sub lege.
In conclusione, le « fortune legislative » senza dubbio arrise all’indirizzo scientifico pragmatico-finalistico non possono indurre eccessivi entusiasmi. Non solo perché l’adesione del legislatore in sede di semplice formulazione dei criteri di criminalizzazione è assai poco impegnativa sul piano della loro effettiva gestione-concretizzazione. Non solo perché sul giorni (settembre 1996) un pericolo simile. Per quello che è possibile conoscere, pare che all’attività di una Commissione ministeriale di studio, ove sono presenti alcuni dei maggiori specialisti della materia, si affianchi l’attività di progettazione svolta in proprio in sede politica, parlamentare e governativa. Il tutto sullo sfondo dell’attesa di una pronuncia della Corte costituzionale, che potrebbe assumersi autorevolmente il compito di sciogliere un modo politicamente — oltre che tecnicamente — difficile. Cfr. in argomento FIANDACA, Verso una nuova riforma dell’abuso di ufficio, in Quest. giust., 1996, 308; CICALA, A proposito di riforma del reato d’abuso d’ufficio, ivi, 321 ss. (84) Per esempio, a proposito della legge delega per un nuovo codice penale, il Guardasigilli Vassalli, quando nominò la Commissione ministeriale presieduta dal prof. Pagliaro (con d.m. dell’8 febbraio 1988, al quale seguirono i tre successivi decreti del 30 dicembre 1988, 30 dicembre 1989 e 29 dicembre 1990, di proroga dei lavori della Commissione), aveva perfettamente presente questo genere di problemi (VASSALLI, Presentazione, cit., 4). Peraltro, proprio trattandosi di legge delega e — soprattutto — di tema tanto caro alla scienza, anzi — si potrebbe dire — caro più alla scienza che al legislatore, sarebbe stata forse più opportuna una composizione più vasta. Senza contare, poi, una certa qual anomalia constatabile nella completa assenza della componente ministeriale, magistratuale e forense.
— 721 — piano delle valutazioni empirico-fattuali sono poi i modelli di soluzione proposti dalla magistratura ad avere le maggiori probabilità di successo. Ma anche perché, in assenza di luoghi istituzionali aperti e trasparenti di incontro tra giuristi e legislatori, gli scienziati occasionalmente presenti in questa piuttosto che in quella commissione ministeriale possono correre il rischio di svolgere un ruolo di sostanziale copertura o, al più di mero ausilio tecnico, rispetto a scelte maturate aliunde e fortemente condizionanti. Una delle poche e più recenti analisi dei rapporti tra cultura giuridica e produzione legislativa giunge a una diagnosi ancor più pessimistica, lumeggiando in particolare il versante della politica penale dei partiti e della decadenza di rappresentatività e di progettazione di questi ultimi. « Il ‘‘vuoto’’ di cultura politica rischia di essere colmato da un ritorno all’integralismo » punitivo, con buona pace del principio dell’extrema ratio del diritto penale e dei criteri razionali di criminalizzazione, travolti da un dilagante uso simbolico della pena. In questo quadro, « non è (...) seriamente contestabile lo stato di crisi dei rapporti tra scienza e politica: a seguito della sempre più accentuata posizione di supremazia assunta dalla politica, il rapporto si è andato progressivamente trasformando in senso servente e in chiave funzionalistica » (85).
Ancora una volta, discorso tutt’affatto diverso va svolto per quanto riguarda la penetrazione dei criteri di criminalizzazione nella giurisprudenza della Corte costituzionale. 6. Contiguità e lontananze tra scienza giuridica e giurisprudenza costituzionale. — È solo un’accezione assai larga, e in qualche modo atecnica, del fenomeno dell’« innovazione legislativa », che può consentire di prendere in considerazione i rapporti tra scienza giuridica e giurisprudenza costituzionale. È bensì vero che l’effetto « ablativo » o addirittura « modificativo » della singola sentenza di accoglimento e — più in generale — l’effetto complessivo di certi trends della giurisprudenza della Consulta su determinati istituti o settori dell’ordinamento hanno la capacità di contribuire efficacemente alla trasformazione della legislazione vigente, così da consentire — sotto il profilo oggettivo dei risultati — una equiparazione tra innovazione legislativa e produzione della Corte. Ma molte sono tuttavia le caratteristiche — istituzionali e soggettive — che differenziano il rapporto che la Corte costituzionale ha con la scienza giuridica rispetto a quello che quest’ultima intrattiene invece con il legislatore. È (85) MUSCO, Consenso e legislazione penale, cit., 90: la scienza, se non si flette a cercare corrispondenze col « principe » di turno, rimane esclusa da quel perverso circuito tra il « popolo sciocco ed ignaro e gli attori del sistema politico » nel quale la legislazione penale diviene una « fabbrica di illusioni ».
— 722 — molto facile, in effetti, rendersi conto delle plurime ragioni della maggiore contiguità esistente tra Corte e scienza giuridica (86). Non si tratta qui solo dell’atteggiamento in certo senso naturalmente « polemico » o quantomeno « critico » che il giudice delle leggi ha verso un prodotto legislativo sempre più condizionato dalle contingenze di una politica penale dell’emergenza quotidiana; anche altri fattori meno significativi ma non meno efficaci vengono in gioco. Per quanto riguarda comunque il primo aspetto, può essere sufficiente richiamarsi all’analisi che è stata fatta soprattutto di due fondamentali sentenze recenti della Corte costituzionale (87), con le quali i giudici della Consulta hanno indirettamente fornito al legislatore una serie di principi direttivi coerenti col ruolo che il diritto penale dovrebbe avere di strumento di extrema ratio, in ragione non solo dei suoi penetranti contenuti sanzionatori ma anche del « coinvolgimento personalistico » — dell’intera personalità, anche morale — del reo che esso comporta (88). In particolare, si può parlare di un vero e proprio capovolgimento di prospettiva che la Corte addita al legislatore, facendo propri i risultati del più cospicuo filone dottrinale degli ultimi anni. La Corte, nel richiamare il legislatore ai requisiti fondamentali di formulazione della norma penale, lo invita implicitamente a legife(86) Non può certo essere compito nostro quello di soffermarsi sulle caratteristiche fondamentali di elaborazione giuridica della Corte in rapporto a quelle della scienza e del legislatore. Tuttavia, è abbastanza evidente che l’innovazione legislativa tende vieppiù ad allontanarsi dai caratteri dell’attività della Corte, specie quanto al metodo di produzione giuridica. Mentre l’attività legislativa assume un carattere sempre più « decisionale » ed ha a che fare con « regole » di limitata portata, quella della Corte ha carattere « argomentativo » e ha a che fare con « principi » (su tutto ciò, v. le illuminanti parole di MENGONI, L’argomentazione nel diritto costituzionale, in Ermeneutica e dogmatica giuridica. Saggi, Milano, 1996, 115). Se ciò avvicina la Corte alla scienza, altri motivi di prossimità metodologico-culturale sono l’ispirazione alla « ragionevolezza » e l’orientazione alle conseguenze dei modelli argomentativi della Consulta. Con riguardo a quest’ultimo profilo, innegabile è la situazione paradossale oggi ravvisabile nel fatto che l’orientazione alle conseguenze è proposta dalla scienza come criterio fondamentale non solo di interpretazione ma anche di legiferazione, mentre per contro il legislatore rimane spesso indifferente alle conseguenze dei suoi prodotti. (87) Si tratta delle due fondamentali sentenze in tema di ignoranza della legge penale (sent. 24 marzo 1988, n. 364, in Foro it., 1988, I, 1402, con nota di FIANDACA, Principio di colpevolezza ed ignoranza della legge penale: « prima lettura » della sentenza n. 364/1988) e di potestà penale delle regioni (sent. 30 ottobre 1989, n. 487, in questa Rivista, 1990, 1562, con nota di PIERGALLINI, La potestà penale delle Regioni, oggi: approfondimenti, reticenze e suggestioni di una recente sentenza costituzionale). Furono entrambe dovute alla penna di un finissimo penalista, molto sensibile — anche per la sua formazione ideologicoculturale — al profilo « personalistico » del diritto penale, e che ben seppe armonizzare questa sensibilità con l’indirizzo empirico-razionale più recentemente diffusosi nella dottrina di matrice « laica »: si tratta del compianto Renato Dell’Andro. (88) V., per questa analisi, il contributo di G.A. DE FRANCESCO, Il principio di colpevolezza tra pensiero giuridico ed evoluzione del sistema normativo, presentato a questo Convegno; ma già prima, v. Il principio della personalità della responsabilità penale nel quadro delle scelte di criminalizzazione, in questa Rivista, 1996. 21 ss.
— 723 — rare prestando attenzione più al momento di efficacia (preventiva) della minaccia penale verso i cittadini che a quello (successivo) della applicazione ed irrogazione della sanzione, del gioco di reciproco condizionamento ed interferenza in cui vengono ad interagire i vari istituti penalistici. Un ruolo ulteriormente polemico e contestativo delle scelte legislative assume la Corte anche con il progressivo intensificarsi del controllo di ragionevolezza sulle singole norme incriminatrici. Pur rimanendo un terreno altamente problematico, ove non mancano cautele ed esitazioni, è indubbio che negli anni più recenti il controllo di ragionevolezza si è sviluppato dalle censure concernenti vere e proprie « sviste » del legislatore fino al controllo della intrinseca « adeguatezza » della disciplina normativa allo scopo di politica criminale, passando per tutta una serie di pronunce sulla proporzione della pena (89). Ma, a proposito di questo trend giurisprudenziale, che certamente è potenziale portatore di intense tensioni col potere legislativo, preme sottolineare che esso si è sviluppato in relativa autonomia dalla scienza giuridica penalistica, che in effetti si è interessata in modo solitamente episodico del problema (90). Più in generale, poi, una delle ragioni del rapporto privilegiato esistente tra scienza giuridica e Corte costituzionale risiede nella sostanziale identità delle radici che legittimano l’operato dell’una e dell’altra. Ovvio essendo il ruolo della Corte di custode dei principi garantistici del diritto penale ed essendosi inoltre assunta — per mezzo dell’art. 3 Cost. — l’ulteriore compito di razionalizzazione del sistema, la scienza giuridica viene così a condividere in definitiva con la Corte il fondamento sostanziale del proprio ruolo, che in effetti abbiamo visto consistere prevalentemente nella garanzia dei principi fondamentali e della razionalità sistematica dell’ordinamento. Anche se questa comunanza di radici ispiratrici non significa — come già si è visto e come ancora vedremo tra un attimo — appiattimento della Corte sulle indicazioni provenienti dalla dottrina. (89) Impossibile in questa sede procedere a citazioni, anche solo esemplificative, di questa copiosa e complessa giurisprudenza. Ci limitiamo, data l’importanza e la novità dello schema argomentativo, a ricordare la recente sentenza che si è spinta a valutare l’adeguatezza razionale della disciplina legislativa rispetto all’opzione politico-criminale: sent. 2 novembre 1996, n. 370, in Dir. pen. proc., 1996, 1473 (con commento di PISA, I reati « di sospetto » nella giurisprudenza costituzionale, ivi, 1477), che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 708 c.p. sul possesso ingiustificato di valori. Per il resto, rinviamo alla recente analisi di INSOLERA, Principio di eguaglianza e controllo di ragionevolezza sulle norme penali, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, I, Torino, 1997, 264. (90) V., però, almeno LATAGLIATA, Principio di eguaglianza davanti alla legge ed equiparazione di condotte « diverse » sotto un unico titolo di reato, in Giur. mer., 1971, II, 94; PADOVANI, La questione di legittimità della pena del furto aggravato, in Studi per E. Graziani, Pisa, 1973, 448; PIZZORUSSO, Le norme sulla misura delle pene e il controllo della ragionevolezza, in Giur. it., 1971, IV, 192; PAPA, Considerazioni sul controllo di costituzionalità relativamente alla misura edittale delle pene in Italia e negli U.S.A., in questa Rivista, 1984, 726.
— 724 — Infine, premesso che — almeno nello spirito del costituente — il sistema di designazione dei giudici costituzionali dovrebbe per l’appunto garantire una partecipazione della scienza all’attività di controllo delle leggi, ne viene che, sebbene nella giurisprudenza della Corte siano sovente rintracciabili le impronte personali dei singoli giudici che hanno trasferito nelle sentenze la loro propria scienza oltre che sensibilità giuridica, tuttavia sembra qui essere più attenuato quel fenomeno di vera e propria « personalizzazione » dei pochi successi ottenuti dalla scienza nella sede propriamente legislativa (v. oltre, § 8). E ciò non solo perché, da un lato, la provenienza culturale dei giudici costituzionali li rende, anche se non specialisti della specifica disciplina, assai più recettivi nei confronti degli indirizzi scientifici esistenti, ma anche e soprattutto perché, dall’altro lato, il « luogo » ove e i metodi con cui le indicazioni (« legislative ») provenienti dalla scienza debbono essere mediate tra loro, confrontate con le esigenze politiche e normativamente formulate, delimitano — almeno in teoria — un campo assai meno mobile, incerto e instabile della sede propriamente legislativa. Tutto ciò, però, non significa affatto che la Corte costituzionale non maturi dei propri orientamenti in cui la piena consapevolezza dei risultati conseguiti dal pensiero penalistico si associa alla doverosa attenzione sia per gli equilibri istituzionali sia per le esigenze pratiche di cui si sia fatto interprete il legislatore. Così, ad esempio, gli interventi della Consulta nel delicatissimo campo del sistema sanzionatono si sono per lunghi anni attestati sulla duttile tesi della polifunzionalità della pena, riflettendo così da un lato le persistenti incertezze e titubanze teoriche della cultura giuridica, ma anche precostituendosi in tal modo lo strumento concettuale ed argomentativo necessario per evitare la progressiva demolizione del vecchio sistema sanzionatorio in nome del nuovo principio rieducativo. E ciò almeno fino al 1990, alla famosa sentenza n. 313 (91) con la quale, invece, anche qui per impulso di un giudice penalista particolarmente sensibile all’ispirazione solidaristico-sociale insita nel principio rieducativo, quest’ultimo veniva affermato in modo assai più vincolante e stringente per il legislatore, al quale sono state dunque interdette scelte sanzionatorie totalmente dimentiche di quel principio costituzionale. D’altro lato, però, non sono mancate numerose pronunce, in gran parte manipolative, con cui la Corte ha proceduto ad un’opera insieme di dilatazione di istituti rieducativi e di eliminazione delle numerose « irragionevolezze » (lacune, omissioni, storture, disparità) disseminate a piene mani dal legislatore nelle incessanti modifiche apportate al sistema sanzionatorio. Ma si può, a questo proposito, rilevare che l’opera della Corte è stata in qualche modo di continuazione e (necessario) sviluppo di quella del legislatore, più che di recezione delle istanze espresse (91) Sent. del 26 giugno 1990, n. 313 (redattore E. Gallo), in questa Rivista, 1990, 1598, con nota di LOZZI, La legittimità costituzionale del c.d patteggiamento.
— 725 — dalla dottrina. Semmai, si deve precisare che le pronunce costituzionali in questo campo sembrano nella loro gran parte obbedire, oltre che ad un intento di dilatazione degli istituti rieducativi e dei c.d « benefici » del tutto consentaneo alla tendenza legislativa verso l’« alleggerimento » del sistema, a un principio di fondo di tipo genericamente umanitario-personalistico. In sostanza, dove la libertà e la dignità del condannato sono direttamente in gioco come negli istituti sanzionatori, la Corte non ammette facilmente esclusioni e limitazioni alle potenzialità degli istituti di favore introdotti dal legislatore. E la Corte si fa costantemente paladina di questo valore umanitario della persona del condannato anche a costo di introdurre profonde alterazioni al modello teorico strutturale e funzionale dell’istituto sub iudice, contribuendo dunque per questa pur nobile ragione a quel processo di disintegrazione del sistema sanzionatorio tanto lamentato dalla scienza penale (92). In conclusione, dunque, con riferimento al sistema sanzionatorio, è dato constatare, per un lato, sul piano dei principi (id est della dirompente affermazione del finalismo rieducativo) un atteggiamento di grande cautela, attenuato solo negli anni più recenti; per un altro lato, sul piano della puntuale disciplina legislativa dei « benefici » penali, un’intensa opera che in nome dell’eguaglianza di trattamento e di valori umanitari ne dilata la portata oltre le scelte legislative ma anche al di là dei loro modelli teorici di coerenza funzionale. Con riferimento poi al principio di legalità penale, la lontananza riscontrabile tra giurisprudenza costituzionale e scienza giuridica è senz’altro molto consistente, giungendo a rasentare talvolta la contrapposizione. A fronte di un’opinione dottrinale di gran lunga maggioritaria sul carattere assoluto della riserva di legge in materia penale, la Corte ha pronunciato un’unica sentenza di accoglimento (93), nonostante che il fenomeno dell’integrazione della norma penale da parte di fonti secondarie non possa certo dirsi raro (94). Al contrario, per quanto riguarda la possibilità delle regioni di emanare norme incidenti più o meno direttamente sulla sfera di punibilità definita da norme statali, la Corte si è attestata su una posizione inflessibilmente negativa, escludendo l’intervento della legislazione regionale ancorché in bonam partem. L’apparente paradosso della Corte, che apre incondizionatamente alle fonti secondarie statali in funzione costitutiva della punibilità quanto incondizionatamente chiude alle fonti primarie regionali in funzione estintiva od esclusiva della punibilità, trova probabilmente la sua spiegazione in esigenze decisamente estranee alle elaborazioni teoriche in tema di legalità penale (95). (92) Il riferimento d’obbligo è all’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale che — introdotto con la riforma penitenziaria del 1975 — ha subito, da un lato, una serie di riforme legislative e, dall’altro, una consistente mole di declaratorie di illegittimità, che hanno profondamente alterato la sua originaria fisionomia di probation penitenziario per farne un istituto dalla forte connotazione clemenziale. (93) Sent. 11 giugno 1990, n. 282 (rel. Dell’Andro), in questa Rivista, 1991, 989, con nota di VICICONTE, Nuovi orientamenti della Corte costituzionale sulla vecchia questione delle norme « in bianco ». (94) Osserva al riguardo VASSALLI, I principi generali, cit., 718, che « il realismo si è finora imposto sulla proclamazione della riserva cosiddetta assoluta, che tuttavia si cerca di far valere nelle premesse e nelle sue finalità sostanziali ». (95) V., in argomento PALAZZO, Riserva di legge e diritto penale moderno, in Stu-
— 726 — Da un lato, infatti, stanno sia l’impossibilità di disciplinare con la tutela penale (spesso meramente sanzionatoria) materie complesse e mutevoli senza fare ricorso alle fonti secondarie, le quali ultime sono inoltre pur sempre espressione di quella stessa maggioranza politica che in definitiva controlla il potere di produzione legislativa primaria. Dall’altro lato, sta il pericolo che proprio l’« autonomia » della potestà legislativa regionale, spesso nelle mani di maggioranze diverse da quella del governo nazionale e comunque sensibile a tutta un’ulteriore gamma di interessi diversi e anche « localistici », possa ingenerare nell’ordinamento penale motivi di tensione o addirittura di neutralizzazione delle scelte di politica criminale che la natura degli interessi tutelati esigerebbe per contro unitarie su scala nazionale. Anche per quanto concerne il principio di determinatezza della legge penale, se certamente la Corte ha dato prova di aver acquisito al suo patrimonio argomentativo le più sofisticate elaborazioni dottrinali in materia, d’altro lato non è affatto inverosimile l’ipotesi — recentemente formulata — che l’utilizzazione di quello strumentario concettuale per l’accoglimento o il rigetto delle eccezioni sia in parte condizionato anche dalla natura e dalla consistenza socio-politica degli interessi tutelati dalla norma sottoposta al suo vaglio per presunto difetto di determinatezza (96).
Non mancano però altri filoni giurisprudenziali in cui la Corte ha sviluppato una più forte contiguità con la scienza penale. I più significativi ci paiono quelli che hanno recepito e attuato due principi particolarmente cari alla dottrina italiana degli ultimi decenni: il principio di colpevolezza e quello di offensività. Se il primo, pur carico di connotazioni ideologicopolitiche, è tuttavia un prodotto tipicamente « scientifico » anche a causa della complessità dogmatica e concettuale di molte sue implicazioni, il secondo attiene — com’è ovvio — direttamente ai contenuti della norma incriminatrice e dunque costituisce uno strumento concettuale fatalmente destinato ad un uso spiccatamente politico-criminale. E la differenza intrinseca fra i due principi si riverbera in qualche modo anche sul rapporto che, nella sua attività di concretizzazione di quei principi, la Corte intrattiene con la scienza penale. Infatti, per quanto riguarda la colpevolezza, « esplosa » nella giurisprudenza della Corte con la sentenza del 1988 dopo anni di quiescenza, la Consulta sembra essere oggi fortemente mutuataria verso l’elaborazione teorica, i cui echi si coldium Iuris, 1996, 276 ss.: PIERGALLINI, Norma penale e legge regionale: la costruzione del « tipo », in AA.VV., Sulla potestà punitiva dello Stato e delle Regioni, Milano, 1994. 103 ss. (96) Cfr., ad es. VISCONTI, Determinatezza della fattispecie penale e bilanciamento degli interessi, in Foro it., 1995, 1, 2773, a proposito di una delle pochissime sentenze dichiarative di illegittimità per insufficiente determinatezza (sent. 6 febbraio 1995, n. 34. concernente la norma che impone allo straniero extracomunitario di « adoperarsi » per ottenere il rilascio del documento di viaggio).
— 727 — gono chiaramente e quasi testualmente proprio nella pronuncia del 1988 (97). Diversamente, per quanto riguarda il principio di offensività, la cospicua elaborazione della Corte, pur essendo certamente recettiva di una dottrina peraltro non proprio unanime (98), sembra tuttavia presentare una larga autonomia applicativa ispirata a criteri anche di opportunità. In effetti, basti pensare, da un lato, al grande margine di discrezionalità che deriva al giudizio costituzionale di offensività dalla preliminare necessità di individuare il bene giuridico di riferimento: l’incertezza, e in qualche misura l’arbitrarietà, di questa operazione condizionante l’esito del giudizio, mette nelle mani della Corte uno strumento di grande duttilità. Non meno preziosa è, d’altro lato, l’ulteriore strada che il principio di offensività offre alla Corte per assicurarsi vasti spazi di manovra. La ritenuta costituzionalizzazione del principio di concreta offensività del reato permette alla Corte di salvare la norma della cui reale offensività si dubita, rimettendo al giudice ordinario la valutazione in concreto della offensività o meno del fatto storico. In definitiva, mentre la forte strutturazione teorico-concettuale della colpevolezza ne fa uno strumento che nelle mani della Corte diventa necessariamente di polemica verso il legislatore, la intrinseca componente politico-sostanziale dell’offensività lo rende un duttile strumento anche di dialogo col legislatore o almeno di compensazione (e talvolta di copertura) delle sue manchevolezze.
In conclusione, se dovessimo riassumere in poche parole i termini del rapporto che la Corte costituzionale ha instaurato con la scienza penale, diremmo che l’indubbia consonanza riscontrabile nelle sue sentenze con i più moderni sviluppi « scientifici » non le ha però impedito di prestare la doverosa attenzione agli equilibri generali del sistema. Più precisamente, si potrebbe forse dire che la Corte, ferme rimanendo la sua sensibilità e la sua attenzione per le conseguenze fattuali (applicative come istituzionali) delle sue decisioni, ha mostrato però un’indubbia contiguità di metodologia argomentativa con la scienza penale. Dunque, un esempio di felice connubio tra cultura giuridica ed innovazione legislativa? 7. Sguardo d’insieme all’evoluzione legislativa penale nei suoi rapporti col pensiero giuridico. — Se ora — invertendo la prospettiva — guardiamo all’esperienza giuridico-penale di questo cinquantennio dal lato dell’evoluzione legislativa del sistema (99), potremo ricomporre il quadro sintetico dei rapporti tra pensiero scientifico ed innovazione legislativa, collaudando altresì quanto siamo venuti dicendo nelle pagine pre(97) Efficace ed approfondita sintesi dello stato della questione in DONINI, Il principio di copevolezza, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, cit., 192 ss. (98) Ad es. il VASSALLI, I principi generali, cit., 735, considera quello di offensività come un principio ispiratore, più che normativo, del diritto penale. Per una valutazione critica delle « virtù » del principio di offensività, v. PALAZZO, Meriti e limiti dell’offensività come principio di ricodificazione, in Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Milano, 1996, 73 ss. (99) Cfr., volendo, PALAZZO, La politica criminale dell’Italia repubblicana, in Annali della storia d’Italia, La criminalità, Torino, 1997 (in corso di pubblicazione).
— 728 — cedenti. In una sintesi estrema si può forse dire che i fenomeni più macrospici di questa evoluzione sono sostanzialmente riconducibili a tre. In primo luogo, l’inflazione penale: aspetto certamente immancabile di una più generale tendenza alla sovrapproduzione legislativa, in penale essa si carica di ben altre ombre quando il pesante strumento punitivo viene brandito disinvoltamente in un repressivismo diffuso a piene mani nella disciplina delle attività più disparate e anche minime o nella pretesa di risolvere così — quasi « dall’esterno » — conflitti e problemi sociali esigenti ben diversi impegni. Qui la contraddizione tra prassi legislativa e pensiero giuridico, teorico-scientifico e anche pratico-giurisprudenziale, è davvero flagrante. Ma ancor più sconcertante è forse la contraddizione che sembra attanagliare lo stesso legislatore stretto tra l’incapacità effettuale di por freno al fenomeno inflazionistico e la volontà formalmente dichiarata di adottare criteri razionali, « scientifici », di criminalizzazione. E proprio sul terreno di questi ultimi, mentre da un lato i giuristi teorici si fanno veri e propri scienziati della legislazione, dall’altro il legislatore nel recepirli, ad esempio nelle leggi c.d. comunitarie dell’ultima versione, raggiunge uno dei massimi storici di legislazione « dottrinaria ». Dunque, una situazione di divorzio pratico e di consonanza teorica. In secondo luogo, il fenomeno della legislazione dell’emergenza. Avviatasi con la recrudescenza della criminalità comune agli inizi degli anni ’70, la legislazione dell’emergenza si sviluppa con il terrorismo e si dilata poi con la lotta alla mafia e alla grande criminalità affaristico-economica ed organizzata. Ma durante il cammino muta d’accento. Caratterizzata soprattutto all’inizio da forti aspetti di simbolismo penale, si orienta poi sempre più verso obiettivi di efficientismo, soprattutto processuale-probatorio. Il pensiero scientifico rimane per gran parte estraneo a questo trend legislativo, mentre per la restante parte assume un naturale quanto inane atteggiamento critico, diretto a salvaguardare principi di razionalità del sistema e — soprattutto — garanzie costituzionali ritenute irrinunciabili. Il punto di maggior tensione tra giuristi e legislatori viene qui raggiunto quando, complice un atteggiamento emotivo diffuso anche in ambienti genericamente culturali, viene coniata l’etichetta dispregiativa del « garantismo » e alimentata la correlativa polemica. Dimenticando, forse, che uno dei compiti più naturali e fisiologici della scienza giuridica nei confronti della legislazione è proprio quello di far sopravvivere i « principi » consolidatisi come espressione di civiltà giuridica, intesa quale identità dell’ordinamento nascente dalla rivoluzione liberale (100). Via via che la legislazione dell’emergenza inclina sempre più verso l’efficientismo e che i risultati giudiziari cominciano a prodursi, mentre ri(100) Cfr. in argomento le riflessioni di VASSALLI, Emergencia criminal y sistema penal, in El Derecho Penal hoy. Homenaje al Profesor David Baigún, Buenos Aires, 1995, 425.
— 729 — mane sostanzialmente interrotto il circuito scienza-legislazione si attiva quello magistratura-legislazione, peraltro lungo canali meno manifesti di quelli che possono essere costituiti dalle pubblicazioni giuridiche. In terzo luogo, vi è una tendenza composita, assai poco unitaria, che potremmo molto genericamente dire all’alleggerimento del sistema: alleggerimento soprattutto sanzionatorio, in sede tanto di irrogazione quanto di esecuzione della pena detentiva. A questo filone legislativo sono riconducibili molti e anche importanti provvedimenti: dalla riforma della parte generale del 1974 alle modifiche del 1990 sul regime di imputazione delle circostanze e sulla sospensione condizionale delle pene accessorie, alle due riforme penitenziarie del 1975 e del 1986. Molti di questi interventi legislativi, nonostante le disorganicità, i limiti e le imperfezioni, non sono affatto estranei ai fermenti innovativi che animano il pensiero scientifico dopo il risveglio dal tecnicismo giuridico. Si tratti del coinvolgente principio della funzione rieducativa della pena, ovvero della avvertita necessità di rivedere gli automatismi repressivi disseminati dal codice Rocco in istituti dalle forti implicazioni dogmatiche (reato continuato, circostanze, recidiva, ecc.), oppure anche dell’episodico filtrare del principio personalistico (nella riforma dei reati di stampa, nella disciplina speciale dell’errore in materia tributaria, nel regime di imputazione delle circostanze, o nell’eliminazione delle presunzioni di pericolosità sociale): in ogni caso sembra qui manifestata una certa sensibilità del legislatore all’esigenza di rinnovamento espressa dalla dottrina. Ma, con espressione sintetica, si può forse dire che ancora una volta il primato politico delle scelte legislative domina il campo della produzione normativa (101). Senza voler dire che il legislatore giunga a « strumentalizzare » le posizioni della scienza al fine della « gestione applicativa » del diritto penale, indubbia sembra però essere la subalternità della scienza agli obiettivi politici della legislazione. Lo sta a dimostrare di regola la consueta estemporaneità e asistematicità della soluzione legislativa rispetto al ben maggiore rigore e organicità dei modelli prospettati, ovviamente quando prospettati, dalla riflessione scientifica. Si profila qui, in definitiva, una doppia subalternità della scienza che, in un primo momento, vede il legislatore attingere al suo laboratorio per confezionare prodotti di cui essa deve spesso disconoscere l’origine. In un secondo momento, la scienza si trova costretta — nell’assolvimento di un (101) Ognuna di queste riforme è, seppur variamente però senza dubbio, riconducibile a un precedente lavorío preparatorio della dottrina, talvolta chiaramente riconoscibile. Ma, in ogni caso, come ha messo in luce De Francesco, queste riforme — in quanto concernenti il momento dell’attribuzione dell’illecito piuttosto che quello della sua tipizzazione — si pongono in quella linea in cui « i ‘‘frutti’’ dell’elaborazione dottrinale sono stati bensí utilizzati e sfruttati in sede normativa, ma soltanto nella prospettiva (e nella misura) in cui potessero venir piegati all’obiettivo di fronteggiare i problemi applicativi del diritto penale » (G.A. DE FRANCESCO, Il principio di colpevolezza tra pensiero giuridico ed evoluzione del sistema normativo, negli Atti di questo Convegno).
— 730 — inabdicabile dovere morale di impegno intellettuale e civile — a profondere i propri sforzi nel cercare di razionalizzare a posteriori il prodotto legislativo al fine di contribuire alla sopravvivenza dell’ordinamento. Un esempio di questo lavoro scientifico, particolarmente significativo perché svolto proprio in sede di progettazione legislativa, fu il disegno di l. n. 2609 del 1985 col quale si tentava di rimettere un po’ d’ordine (dopo le modifiche del 1974 e del 1981) nel sempre più disastrato sistema sanzionatorio (102). Non può infine essere trascurata un’ultima linea evolutiva della legislazione penale. Si tratta di quelle leggi che hanno contribuito all’ammodernamento del sistema, spesso in attuazione dei principi e dei valori costituzionali. E se già talune delle riforme prima ricordate possono dirsi partecipi anche di quest’ultima linea evolutiva, è però più spesso con leggi « speciali » di parte speciale (come ad es. quelle in materia di prostituzione, di interruzione volontaria della gravidanza, di associazioni segrete, ecc.) che avviene questo ammodernamento ed adeguamento. Ma, constatando l’ennesimo paradosso, si deve ribadire che proprio su questo terreno, così ricco di implicazioni ideologiche, di fermenti innovativi e di rilevanza politica, la scienza è stata a lungo in disparte e solo più recentemente va sviluppando la sua capacità di progettazione legislativa su singole aree della parte speciale, patrocinandone l’ammodernamento e l’adeguamento costituzionale senza peraltro registrare molti successi. 8. Un’impressione finale. — Alla progressiva dilatazione dell’oggetto della scienza penale italiana, all’incremento del numero di penalisti fattisi anche scienziati della legislazione penale, alla crescente capacità del pensiero penalistico di progettare l’innovazione legislativa non ha corrisposto un’intensità di scambio e una fecondità di dialogo col legislatore pari a quelle che si sono avute e si hanno con la Corte costituzionale. L’impressione finale è che la storia dei rapporti tra la diverse componenti « cetuali » concorrenti al complessivo processo della produzione giuridica potrebbe forse meglio essere fatta mediante antologia biografica. I pochi, o quantomeno i maggiori, « successi » della scienza sono stati solitamente successi « personali », resi possibili dal fatto che l’iniziativa legislativa — in senso ampio e atecnico — ha potuto trovarsi contigentemente nella mani di un giurista: una antologia biografica, dunque, fatta di figure di giuristi-legislatori. (102) Si trattò di un prodotto confezionato in gran parte sulle indicazioni di un gruppo di studiosi e presentato il 1o marzo 1985 dal Ministro Guardasigilli di allora, on. Mino Martinazzoli (v. testo e relazione, in questa Rivista, 1985, 945), che nel mondo scientifico non mancò di raccogliere consensi (v. gli Atti del Convegno di Gardone, 7-8 giugno 1985, in questa Rivista, 1985, 979 ss.), senza però che potesse poi approdare a grandi mète legislative.
— 731 — A questa antologia va ricondotto, tra gli altri, il caso della duplice riforma in materia di circostanze (ad effetto speciale e regime di imputazione) (103). Anche il recente progetto senatoriale n. 2038 (del 2 agosto 1995) (104) di riforma della parte generale del codice, ancorché non abbia naturalmente visto la luce dell’approvazione e assuma una collocazione molto particolare nel clima riformatore di questi ultimissimi anni, è nondimeno annoverabile nella nostra antologia dato il peculiarissimo ruolo svolto nel suo allestimento da parte del Senatore Roland Riz sullo scorcio dell’ultima legislatura (105). Anzi, il progetto in discorso dà corpo esso pure ad un piccolo paradosso: promosso, infatti, nel dichiarato e meritorio intento di ricondurre nella sede parlamentare il dibattito sulla riforma del codice, al quale lo Schema di disegno di legge delega della Commissione Pagliaro aveva finito per attribuire un tono eccessivamente « dottrinario », esso risente però smaccatamente delle impostazioni ed orientamenti forse ancor più « dottrinari » del suo principale artefice (106).
A parte queste situazioni di incontro rese possibili dalla pur sempre occasionale, episodica e in fondo casuale — ancorché vieppiù diffusa — sovrapposizione personale tra i ruoli di giurista e di legislatore, l’influenza complessiva della scienza penale nei confronti del legislatore sembra limitarsi a quella, certo essenziale ma un po’ generica, di comunicazione di grandi indicazioni di fondo: la colpevolezza, la funzione rieducativa, la depenalizzazione, la ricerca di alternative alla detenzione. Soprattutto, poi, di quelle indicazioni e temi di fondo sui quali si registra una convergenza del pensiero internazionale che tocca proprio alla scienza di segnalare al legislatore. In definitiva, l’impressione è che l’opera scientifica sia recepita dal legislatore più che altro o come un gendarme a guardia dei principi fondamentali e costituzionali o come l’indicatore di un « clima » o di un campo entro il quale l’attività legislativa si muove in autonomia di scelte. Parafrasando il titolo di una fondamentale opera penalistica, nella sua formulazione significativamente aggiornata negli anni ’80 (107), si potrebbe forse dire che la scienza penale corre il pericolo, da un lato, di essere inascoltata sul piano dei dogmi e, dall’altro, di essere sopraffatta sul piano dell’empiria. Quanto i « dogmi » giustificazionisti del potere punitivo, le razionalizzazioni universalizzanti dei principi fondamentali — an(103) Sia la nuova definizione delle circostanze ad effetto speciale (l. 31 luglio 1984, n. 400) che il nuovo regime di imputazione soggettiva delle circostanze (l. 7 febbraio 1990, n. 19) risentirono infatti dell’autorevole influenza del senatore Marcello Gallo. (104) Pubblicato, insieme alla relazione, in questa Rivista, 1995, 927 ss. (105) V., anche per cogliere gli intendimenti dell’atto di iniziativa legislativa, RIZ, Per un nuovo codice penale: problemi e itinerari, in Indice pen., 1995, 5 ss. (106) Per rendersene conto basterebbe considerare il particolare sviluppo dedicato alla disciplina di alcuni istituti o settori (consenso dell’avente diritto, trattamento medicochirurgico, rapporti col diritto comunitario, ecc.), cui era stata dedicata la maggiore attenzione « scientifica » del suo artefice. (107) PETTOELLO MANTOVANI, Il valore problematico della scienza penalistica. 19611983: contro dogmi ed empirismi, Milano, 1983.
— 732 — che garantistici — restano non già estranei ma per così dire esterni alla prassi della produzione legislativa; tanto le (più recenti) impostazioni empirico-criminologiche si mostrano — almeno per ora — insufficientemente attrezzate (specie nel mondo della cultura accademica) di fronte alle necessità di un serio controllo e di una puntuale verifica dell’incessante produzione legislativa d’oggigiorno. Ma, se non è certo possibile ricostruire, altro che raramente e in occasione soprattutto della « convergenza personale », un rapporto unidirezionale di condizionamento della scienza sulla legislazione, non deve tuttavia essere trascurato il dinamismo di una relazione di interdipendenza tra i due mondi. Al giorno d’oggi, proprio il capitolo più sviluppato della scienza penale, e cioè quello della « teoria generale del reato » muove da un lato induttivamente dal dato legislativo — interno e comparatistico — per ricostruire descrittivamente i principi generali dell’ordinamento, e si avvale dall’altro di tutto un materiale normativo — costituzionale, ordinario, nazionale e sovranazionale — per individuare deduttivamente principi prescrittivi o di indirizzo politico-criminale attraverso la ricca mediazione della cultura storica e sociale portata dalla scienza giuridico-penale (108). Si profilano così « realtà strutturali, categorie sistematiche o indirizzi di scienza della legislazione, elaborati in sede dogmatica (...), ma collaudati in ambito internazionale, i quali costituiscono il background epistemologico di ogni discorso scientifico o anche di politica del diritto avente basi scientifiche » (109). Un background, dunque, che costituisce quella dimensione o « clima » unitario nel quale scienza e legislazione interagiscono tra loro al di là di un’influenza specifica dell’una sull’altra in relazione a singoli aspetti di disciplina.
Ciò che dunque sembra invece mancare è un reale e puntuale concorso tra pensiero giuridico e attività legislativa fondato più che su basi paritarie (ché qui non si tratta di rinunciare a primati o a « poteri »), sulla regolarità costante, diffusa e manifesta di un dialogo che si svolga in appositi « luoghi ». Un esempio particolarmente indicativo, più che dell’insufficienza, dell’inadeguatezza delle modalità con cui si svolge, o non si svolge, oggi questo dialogo nella fase della progettazione legislativa, è dato dalla prassi seguita dalle nostre maggiori riviste nella pubblicazione dei progetti di legge. Pur non mancando sia nella Rivista italiana di diritto e procedura penale sia nell’Indice penale un’apposita rubrica dedicata alla legislazione in fieri, da un lato, non risulta sempre agevole poter seguire con continuità l’iter parlamentare, spesso tortuoso, di un determinato testo; dall’altro lato, non si rivela sempre utile e fecondo per il dialogo tra scienza (108) Sulle diverse specie di principi, elaborati dalla scienza penale, v. ancora una volta VASSALLI, I principi generali del diritto nell’esperienza penalistica, cit., 699. Il contenuto dei principi muta in costanza della formula legislativa proprio per l’opera di mediazione svolta dalla scienza tra strutture normative dell’ordinamento ed evoluzione storico-sociale di valori, interessi, sensibilità. Basti ad es. pensare all’evoluzione subita dal contenuto del principio di « personalità » della responsabilità penale di cui all’art. 27, comma primo, Cost. (109) DONINI, Teoria del reato, cit., 23.
— 733 — e legislazione il criterio osservato nella selezione dei progetti da pubblicare: ed invero, al criterio di una pubblicazione tendenzialmente ampia e comprensiva dunque anche di testi scarsamente rilevanti, seguito (almeno di solito) dall’Indice, si contrappone una selezione estremamente rigida ma talvolta anche occasionale, operata dalla Rivista italiana. In ogni caso, sia nell’una che nell’altra, la pubblicazione non è di regola accompagnata da note di commento che possano per un verso orientare il lettore (anche con osservazioni provenienti dall’« interno » degli organi proponenti o redigenti il testo) e per altro verso far sentire da subito la voce « esterna » della dottrina (certamente, però, in tempi che non siano quelli spesso davvero biblici dei nostri ingolfatissimi periodici specialistici). La conseguenza, sotto gli occhi di tutti, è che sempre di più il dialogo e il dibattito tra mondo legislativo e mondo esterno si sposta in altre più dinamiche e meritorie sedi (quali quotidiani o periodici di « pronto impiego »), con conseguente attenuazione però del livello culturale e tendenziale « professionalizzazione » dell’informazione. Con la conseguenza ultima che risulta pienamente condivisibile la sconfortata ed autorevole diagnosi che « il ruolo delle riviste non è certo quello di matrici del sistema penale e di guide del suo contrastato evolversi » (110).
Inoltre, e per concludere, va ribadito che questo dialogo dovrebbe svolgersi su due piani. Prima, quello delle funzioni attribuibili al sistema penale (simboliche od effettive, di mera deterrenza ovvero anche di recupero sociale, ecc.); poi, quello dell’allestimento specifico e puntuale dei mezzi normativi di volta in volta maggiormente coerenti con gli obiettivi funzionali prefissisi (111). (110) PEDRAZZI, in La « cultura » delle riviste giuridiche italiane, Atti del primo incontro di studio (Firenze, 15-16 aprile 1983), a cura di P. Grossi, Milano, 1984, 74, il quale completa lo sconfortante quadro osservando che « a paragone di altre stagioni l’impressione complessiva può essere di un disimpegno culturale. Ma la crisi — se così vogliamo chiamare un’acuita consapevolezza della complessità del problema penale e un rifiuto del semplicismo di impostazioni troppo unilaterali — è a monte delle riviste: è nel pensiero penalistico di cui le riviste sono anche oggi lo specchio fedele ». Quadro senza dubbio ancor oggi corrispondente alla realtà attuale, soprattutto nel riferimento alla complessità delle scelte di fondo e alla necessità di evitare unilateralismi falsamente semplificatori. Peraltro, è forse eccessivo parlare oggi di un totale « disimpegno » culturale e politico della dottrina penalistica, che — come si è visto — ha recentemente conosciuto sia l’approfondimento dei principi di politica criminale e scienza della legislazione, sia un’attività di vera e propria progettazione legislativa, mentre rimane del tutto insufficiente o addirittura carente l’intervento di attivo e puntuale impegno nella specifica vicenda di questo o quel provvedimento legislativo. Sempre a proposito del ruolo delle riviste, mette conto rammentare la sensibilità con cui la direzione di una tra le più giovani riviste penalistiche (« Legislazione penale ») avvertisse come un « sacrificio » la forzata rinuncia ad « escursioni sulla legislazione in itinere », non mancando inoltre di lamentare una « qualche inadeguatezza del grado di elasticità e di agilità di un certo tipo di cultura giuridica, e delle sue capacità di conciliare la serietà con la prontezza delle ‘‘risposte’’ » (CHIAVARIO, in La « cultura » delle riviste giuridiche, cit., 189190), tanto più necessaria quando si tratta appunto di seguire partecipativamente i tortuosi itinerari della produzione legislativa. (111) Sulla necessità di una preliminare chiarezza sui principi-guida, sugli obiettivi
— 734 — È chiaro, peraltro, che un siffatto orizzonte collaborativo presuppone risolto nel senso della sua massima estensione l’annoso problema dell’oggetto della scienza penale (112). Ad essa deve cioè riconoscersi la legittimazione non solo all’analisi esegetica e all’elaborazione sistematica delle norme vigenti di un dato ordinamento, non solo a fornire un contributo di « razionalità strumentale », che — trovando già fissati gli obiettivi finali — prospetti le soluzioni tecniche più adeguate ai fatti. In effetti, « non si vede che senso abbia fermarsi a mezza strada, annettendo al territorio della scienza giuridica il problema tecnico della costruzione di ordinamenti adeguati allo scopo, e non anche i problemi di determinazione degli scopi » (113). Certo, una volta dilatato il campo d’azione della scienza fino al fondamento e — soprattutto — agli scopi del diritto penale si pone il problema tanto della legittimazione quanto dei confini con la politica criminale quale pratica di esercizio del potere punitivo, oltre che quale insieme razionale di principi regolativi. Orbene, mentre sotto il profilo della legittimazione le reali frizioni si producono solamente quando la scienza intenda sovrapporre le proprie valutazioni teleologiche alle scelte già cristallizzate dal legislatore, il rischio di suoi sconfinamenti, inquinamenti o addirittura subalternità rispetto alla politica, anche partitica, è reale. La linea di demarcazione, che in fondo poi garantisce alla scienza la ragion d’essere del suo « ingresso in politica » come scienza, è costituita dal metodo. Un metodo fatto non solo di precisione « scientifica » del linguaggio, ma anche di dogmatica elaborazione sistematica dei principi, tendenze, istituti di un dato ordinamento e, soprattutto, di elaborazione di principi extrasistematici — non importa qui discutere se a carattere universalistico-razionale, costituzionale, sovranazionale, di un ritrovato « diritto comune », ecc. — ma comunque capaci di assicurare il contrappunto costante di un controllo critico. Per molto tempo, in fondo fino a pochi anni fa, l’« ingresso in politica » della scienza penale si arrestava alle soglie dei contenuti specifici di tutela: quali interessi tutelare, e soprattutto quali confini dare alla tutela di questo o quell’interesse specifico, in che termini e in che misura specifica contemperarne la tutela con quella di altri interessi confliggenti, tutto ciò tendeva ad essere riservato al campo esclusivo della politica quale esercizio concreto (legislativo) del potere punitivo. E, in effetti, è indubbio che il contributo scientifico dei giuristi non può che ridurre i suoi spazi via via che le decisioni politiche si fanno più particolari, puntuali e talvolta contingenti. Ma se oggi si constata un coinvolgimento quantitativamente crescente della scienza, o meglio di alcuni studiosi, nell’elaborazione di scelte politico-valutative specifiche sui contenuti stessi della tutela, il fenomeno si presta a una duplice considerazione. Da un lato, non è affatto escluso che la tendenza alla di fondo, v. MARINUCCI, Profili di una riforma del diritto penale, in Beni e tecniche della tutela penale. Materiali per la riforma del codice, a cura del CRS, Milano, 1987, 19. (112) Sui rapporti tra scienza penale, dogmatica, e politica criminale, v. DE FRANCESCO, (G.V.), In tema di rapporti tra politica criminale e dommatica: sviluppi e prospettive della dottrina del reato, in Arch. pen., 1975, 25; MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, Napoli, 1992; PULITANÒ, Politica criminale, in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, 73; VASSALLI, Politica criminale e sistema penale, in Il Tommaso Natale, 1978, 1001 ss. (113) Così PULITANÒ, Quale scienza del diritto penale?, cit., 1213, al quale si rimanda anche per una più generale messa a punto della questione.
— 735 — « scientificizzazione » delle scelte politiche, anche particolari, e il cui input origina spesso dallo stesso legislatore, sia attribuibile ad un proposito più o meno consapevole di conferire in tal modo all’azione politica quella dignità e quel prestigio che la sfera della politica sembra aver in gran parte perduto. Dall’altro, di fronte a questo indubbio pericolo di strumentalizzazione e di fronte all’oggettivo minor spazio che consimili scelte lasciano al contributo scientifico, la penalistica potrebbe garantirsi piena autonomia culturale e indiscutibile legittimazione « istituzionale » a condizione che esaltasse — di nuovo — il proprio contributo di razionalità metodologica. E in questa prospettiva, sul piano delle puntuali scelte contenutistiche della tutela, particolarmente proficuo sarebbe il ruolo della scienza proprio se si concentrasse nelle verifiche preventive e consuntive della fattibilità e coerenza empiriche delle scelte legislative: in conformità, del resto, con quell’indirizzo scientifico di cui abbiamo precedentemente parlato.
È molto probabile che luoghi e modalità del concorso debbano essere diversi a seconda che il dialogo riguardi le funzioni, la « razionalità finalistica », della legislazione penale, ovvero la sua « razionalità strumentale ». Nel primo caso, alla scienza spetta soprattutto il compito di ampliare l’orizzonte in cui si collocano le scelte ideologiche di fondo, rapportandole ad esempio alle grandi tendenze internazionali di politica criminale. Nel secondo caso, alla scienza tocca un compito di più puntuale verifica del rapporto di congruenza tra soluzione legislativa e obiettivo funzionale. È indubbio, poi, che difficilmente potrà svolgersi questo secondo compito senza aver fatto preliminarmente chiarezza sulla « razionalità finalistica ». In ogni caso, il concorso può diventare proficuo solo a condizione di una grande onestà intellettuale di entrambi i soggetti: il legislatore deve ad un certo punto rivelare gli obiettivi funzionali perseguiti, evitando utilizzazioni oblique del diritto penale. La scienza deve evitare di assumere atteggiamenti di presunta superiorità nell’inconfessato tentativo di affermare punti di vista singolari anziché garantire la razionalità delle scelte e la capacità ordinante del sistema. FRANCESCO PALAZZO
UN NUOVO IDOLUM THEATRI: IL PRINCIPIO DI NON DISPERSIONE PROBATORIA
SOMMARIO: 1. La terminologia. — 2. Le matrici culturali del « principio di non dispersione probatoria ». La concezione autoritativa della formazione della prova. — 3. L’autorità come garanzia di attendibilità della prova. — 4. Segue. — 5. Il « principio » e le conseguenti eccezioni a oralità, contraddittorio e immediatezza. — 6. I materiali normativi impiegati dalla Corte costituzionale per costruire il « principio ». — 7. Segue. Loro inidoneità. — 8. Dal « principio di non dispersione probatoria » ai singoli casi di esigenza di salvaguardia delle conoscenze procurate dall’investigazione. — 9. Il punto di maggiore caduta: la soppressione totale del metodo dialettico nella declaratoria di incostituzionalità dell’art. 513 comma 2 c.p.p. — 10. Le « strategie » processuali del pubblico ministero di fronte all’art. 513 comma 2 c.p.p. e le loro potenzialità negative per la genuinità della prova. — 11. La vera origine del problema: l’art. 210 comma 4 c.p.p. — 12. Necessità di verificare se l’art. 210 comma 4 c.p.p., in rapporto alle singole situazioni in esso contemplate, adempia a una reale esigenza di garanzia. Esito negativo di tale indagine. — 13. Le singole figure soggettive a cui è attribuito il diritto di rifiutare l’esame. a) Il soggetto definitivamente giudicato. — 14. Segue. b) Il soggetto nei cui confronti è stato pronunciato un provvedimento di archiviazione o una sentenza di non luogo a procedere. — 15. Segue. c) Il soggetto ancora indagato o imputato in un procedimento separato connesso o collegato. — 16. Segue. L’ipotesi dell’impossibilità dell’esame per irreperibilità o sopravvenuta incapacità naturale del soggetto. — 17. Segue. d) La figura contemplata dall’art. 513 comma 1 c.p.p.: il soggetto imputato nel medesimo processo. — 18. Dal « garantismo inquisitorio » del processo misto al metodo dialettico del processo di parti: dal diritto generalizzato di tacere all’obbligo di deporre assistito dal nemo tenetur se detegere come premessa necessaria per l’esercizio delle tecniche della prova dialettica. — 19. Le dichiarazioni estradibattimentali raccolte dal giudice. Atti « garantiti » in senso proprio e in senso improprio. — 20. L’espansione nel sistema dell’ideologia della non dispersione probatoria.
1. La terminologia. — Il tema che mi accingo a trattare non può vantare una denominazione univoca. Ora si parla di « principio di non diTesto della relazione Oralità, contraddittorio e principio di non dispersione della prova svolta al X Convegno dell’Associazione fra gli studiosi del processo penale su Il giusto processo, Salerno 11-13 ottobre 1996. Della sopravvenuta legge 7 agosto 1997, n. 267, in G.U. n. 186 dell’11 agosto 1997, si è dato conto con richiami nei punti interessati dalla nuova normativa, senza modificare ovviamente i contenuti della relazione, ritenendosi fra l’altro che l’impostazione critica qui sostenuta nell’analisi del problema del rapporto fra dibattimento e dichiarazioni estradibattimentali mantenga ferma la sua validità anche rispetto alla nuova legge. Le sentenze della Corte costituzionale sono citate per esteso la prima volta e, le volte successive, solo con numero e anno.
— 737 — spersione della prova », come nel programma del Convegno; ora di « principio di non dispersione dei mezzi di prova », secondo l’originaria dizione assunta dalla Corte costituzionale. Ma, solo che si ponga mente ai molteplici ambiti normativi che vi sono stati interessati, ci si avvede che né l’una né l’altra locuzione sembrano annettere un preciso significato tecnico ai termini che ne registrano la variante letteraria. Tanto che, se in via di primo approccio può riuscire utile, attraverso la loro analisi, delineare i possibili modi di manifestazione dell’accampato « principio di non dispersione », è necessario scontarne un’accentuata improprietà. La prima delle due locuzioni, giustapponendo il termine « prova » a « mezzi di prova » che compare nella seconda, viene di per sé ad alludere alla prova-risultato (Siracusano), vale a dire il dato storico che, mediante l’attività di formazione della prova, è introdotto nel processo quale conoscenza utilizzabile dal giudice per la decisione. Nel contesto di questo significato la « non dispersione » presuppone dunque una prova già formata e parlando a tale riguardo di « principio » si dice che nell’ordinamento è da riconoscere una tendenza generale a che una conoscenza storica, una volta acquisita al dibattimento come prova, sia utilizzabile: a) in altro dibattimento, senza che vi si debba procedere ex novo all’acquisizione mediante le regole che le sono proprie dell’oralità, del contraddittorio e dell’immediatezza; b) nello stesso dibattimento di origine, quando sopravvengano situazioni (ad esempio, il mutamento del giudice: cfr. Corte cost. 3 febbraio 1994, n. 17, in Giur. cost., 1994, 127) che ne richiederebbero la ripetizione: in quest’ipotesi la « conservazione » della precedente prova comporta, secondo i casi, il sacrificio di una o più delle regole dette. Queste ipotesi sono però marginali rispetto a quelle, ben più corpose, che risultano coinvolte dalla messa in campo del « principio di non dispersione », tanto che è facile cogliere come, collegando a questo la « prova », si sia inteso impiegare il vocabolo in modo del tutto generico per superare l’atecnicismo che a sua volta è annidato nell’altra locuzione, coniata con riferimento ai « mezzi di prova ». Ed è altrettanto facile rilevare come con quest’ultima si sia inteso enunciare un principio destinato a essere applicato precipuamente a situazioni procedurali del genere: il pubblico ministero, ottenuto con l’investigazione un certo risultato (ad esempio, una dichiarazione contenente una chiamata di correo), a causa del sopravvenire di determinate circostanze è impossibilitato a introdurre quel contributo di conoscenza storica nel dibattimento mediante il corrispondente mezzo di prova (esame del chiamante) e cioè con le tecniche dell’oralità, del contraddittorio e dell’immediatezza. Parlare a tale proposito di « non dispersione » significa postulare che la documentazione del risultato dell’atto di indagine sia acquisibile al dibattimento così da far assurgere la risultanza investigativa a prova; e elevare ciò a « principio » significa asserire che l’ordinamento porta in sé la vocazione sistematica a che, non appena nel
— 738 — dibattimento le tecniche di formazione della prova non siano per qualche ragione praticabili, la lettura dei verbali dell’investigazione valga come loro succedaneo. Poiché però l’espressione « mezzi di prova » designa gli strumenti con i quali nel dibattimento si forma la prova e che compongono quindi una categoria estranea all’investigazione, si è giustamente osservato che « non è possibile parlare di dispersione dei mezzi di prova in relazione ad una fase, quella delle indagini preliminari, certamente non destinata ad assumerli » (Siracusano). Se pertanto, ad essere precisi, sono le risultanze investigative ciò che si intende indicare come oggetto che deve essere « salvato » per il dibattimento, la corretta formulazione da adottare è per l’appunto « principio di non dispersione dei risultati dell’investigazione ». Le due locuzioni, così calibrate, non sono tra loro alternative, ma attengono ad ambiti distinti, benché in gran parte siano partecipi della medesima problematica e richiedano quindi una trattazione comune, nello sviluppo della quale può essere impiegata l’enunciazione « principio di non dispersione probatoria » come formula di genus comprensiva di entrambe. 2. Le matrici culturali del « principio di non dispersione probatoria ». La concezione autoritativa della formazione della prova. — Il « principio di non dispersione probatoria » è stato lo strumento con cui si è agito sul livello primario del processo penale, quello della prova, determinandovi una mutazione che l’ha fatto regredire a moduli che il legislatore aveva consegnato al passato. Questa operazione ha preso corpo da apporti assai vasti. « In un sinergismo quasi perfetto » (così, in chiave critica, Frigo) essa è stata iniziata e coltivata da una giurisprudenza sempre più « forte » della Corte costituzionale, è dilagata nella giurisprudenza ordinaria, ha promosso novelle legislative di profonda incidenza, si è vista riconoscere in dottrina apporti al sistema normativo enunciati e assentiti con grande determinazione: la disciplina del processo, si è detto, ha guadagnato una coerenza che non aveva, grazie al fatto che ipotesi originariamente regolate in modo anomalo sono state ricondotte sotto « quel principio di ‘‘non dispersione’’ degli elementi probatori acquisiti prima del dibattimento, e successivamente divenuti irripetibili in tale sede, che ha trovato esplicita enunciazione nella legge delega (ed è stato correlativamente trasfuso in numerose disposizioni del codice) secondo un’ottica derogatoria rispetto ai principi-guida dell’oralità e dell’immediatezza dibattimentale » (Grevi); ancora di più: se non si fosse intervenuti in tal senso, si avrebbe « un processo che tutela il contraddittorio e l’immediatezza, ma pone troppi limiti alle possibilità cognitive del giudice. Questi non potrebbe più accertare la verità storica e rendere Giustizia in relazione ad un fatto reato » (Tonini).
— 739 — Tutto questo ha potuto avvenire evidentemente perché l’enucleazione del « principio » non ha poggiato sull’effimero né si è giovata di escogitazioni estemporanee, ma è scaturita da premesse culturali tanto robuste quanto radicate. È importante cogliere quelle di maggior rilievo. La prima premessa culturale si fa individuare nella mancata assimilazione, anzi nel vero e proprio rifiuto del fondamento gnoseologico del nuovo processo penale, giusto il quale il metodo dialettico è quello che assicura alla conoscenza giudiziaria, come a ogni altra esperienza conoscitiva, i risultati migliori in termini di completezza e di attendibilità; mentre il metodo autoritativo, che assegna il compito di acquisire i materiali probatori all’azione monolitica dell’« autorità giudiziaria » (pubblico ministero e giudice, nonché polizia giudiziaria) è in grado di fornire risultati di qualità inferiore, sino all’inaffidabile. Proprio a cominciare dagli orientamenti della Corte costituzionale è cioè disconosciuto il contraddittorio come struttura che identifica, nel nuovo processo, il metodo di ricostruzione del fatto. Va qui richiamata quella che può dirsi l’affermazione centrale nell’elaborazione dei giudici della Consulta: « l’oralità, assunta a principio ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta, nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo della formazione della prova nel dibattimento, perché il fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità » (Corte cost. 3 giugno 1992, n. 255, in Giur. cost., 1992, 1961, nota Illuminati). Il contraddittorio, dunque, da indefettibile metodo conoscitivo degrada a mera formalità dell’acquisizione probatoria (Iacoviello). È significativo come tenda a riproporsi il lessico manziniano. All’apparenza si asserisce solo che la « ricerca della verità » è una funzione che va comunque espletata, che non può essere compromessa da défaillances del metodo del contraddittorio che pure costituisce il « principio ispiratore del nuovo sistema »; ma in effetti si giunge a sostenere ben altro: contraddittorio e « ricerca della verità », non essendo termini che denotino l’uno lo strumento essenziale dell’altro, sono potenzialmente antinomici e, quando l’antinomia si verifica, la verità va comunque accertata; ad assicurare ciò è deputato il metodo autoritativo, quello che nelle indagini preliminari ha consentito al pubblico ministero di realizzare certi risultati, che dunque debbono diventare prove nel dibattimento. L’elaborazione giurisprudenziale non si è lasciata sfuggire tale ispirazione di fondo: dopo la pronuncia costituzionale n. 254/1992 (Corte cost. 3 giugno 1992, n. 254, in Giur. cost., 1992, 1932, nota Ferraioli) « si deve ritenere privilegiata l’esigenza di un processo giusto alla rigidità della formale assunzione del mezzo di prova » (Cass., 22 ottobre 1994, in C.E.D. Cass., n. 200087). Insomma sono gli accertamenti dell’autorità che garantiscono il « processo giusto » contro limitazioni al raggiungimento della verità che deriverebbero da un « formale » ossequio al con-
— 740 — traddittorio. Non può non sorprendere che una nozione, quella del « processo giusto », generata dalla concezione processuale (Chiavario, Pisapia) secondo cui il contraddittorio è fattore essenziale per assicurare un processo secondo i valori della giustizia sia riconvertita in modo da riporre la propria risorsa nel metodo autoritativo, idoneo a giustificare la menomazione di quello dialettico. D’altronde la stessa Corte costituzionale non ha mancato di impegnare il proprio discorso anche su questo terreno: « ad un ordinamento costituzionale che sancisce il principio di obbligatorietà dell’azione penale, ma è prima di tutto improntato alla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo ed al principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione » (Corte cost. 16 giugno 1994, n. 241, in Giur. cost., 1994, 1982, nota Cenci; tale pronuncia, oltre alla sent. n. 255/1992, richiama pure il precedente 26 marzo 1993, n. 111, in Giur. cost., 1993, 201, note Spangher e Valentini Reuter): dunque sarebbe proprio il sistema dei diritti della persona a pretendere che il contraddittorio, mera forma di garanzia, sia messo in scacco dal metodo autoritativo, depositario primario dell’accertamento dei fatti secondo verità. La « ricerca della verità » di cui parla la Consulta è in effetti molto simile alla categoria dell’« accertamento della verità » che improntava il sistema misto enucleato dal codice Rocco. Lo palesa l’asserto che nella medesima sentenza costituzionale segue quello appena citato: « nel codice è espresso anche un principio di non dispersione dei mezzi di prova, come emerge da quegli istituti che recuperano al fascicolo del dibattimento, e quindi alla utilizzazione probatoria, atti non suscettibili di essere surrogati da una prova dibattimentale » (sent. cost. n. 255/1992). L’idea della prova come surroga dei risultati dell’investigazione non è un lapsus innocuo (Ferrua). Risponde alla concezione generale che radica il « principio di non dispersione probatoria » e, ancora prima, il modo di intendere la prova penale: la « ricerca della verità » ha la sua risorsa primordiale e essenziale nell’azione dell’autorità giudiziaria, grazie ai due momenti in cui questa si manifesta con i tratti che la connotano appunto come autorità e quindi libera dai condizionamenti del contraddittorio: il momento del pubblico ministero, che raccoglie in via d’indagine il dato storico e quindi lo trasferisce nel processo imponendolo unilateralmente; e il momento del giudice, che, ricevuto quel dato, lo valuta con un giudizio avulso da un ambito di reale elaborazione dialettica. In questa concezione atto di indagine, risultato investigativo, mezzo di prova, prova sono i termini di una sequenza autoritativa che costruisce i fondamenti della decisione in una linea rigida di estraneità della parte di difesa; nel raccordo tra investigazione e dibattimento il contraddittorio è una formale modalità che accompagna, per ragioni di garanzia difensiva, la trasmissione da una fase all’al-
— 741 — tra del materiale di conoscenza necessario per il decidere, non la struttura originaria e infungibile di produzione delle premesse storiche della decisione, così che, quando non è in grado di funzionare, vi agisce comunque quella che ne è e ne deve essere la vera struttura portante, cioè il passante da autorità a autorità. Nel che è dato per l’appunto riconoscere una vistosa persistente traccia della cultura del sistema misto, nel quale il contraddittorio non era la struttura naturale della formazione probatoria, ma la sovrastruttura garantistica di una funzione propria dell’autorità giudiziaria. È dunque su questo che occorre tornare a riflettere per riconoscere, contro ogni tardiva ambiguità, la portata dell’evoluzione impressa al sistema con il nuovo impianto processuale. Nel codice abrogato il contraddittorio costituiva niente più che l’apparato tecnico di attuazione del diritto di difesa. L’acquisizione della prova era funzione dell’autorità giudiziaria, ma per evitare che il suo esercizio ignorasse le ragioni dell’imputato o ne travalicasse illegittimamente i diritti di libertà (fisica e morale, di domicilio, di riservatezza e via dicendo) a questo soggetto erano attribuiti, in misura debole e minima all’origine e poi con maggiore incisività e ampiezza via via che veniva a svilupparsi il « garantismo inquisitorio » (Amodio), poteri, facoltà e diritti esercitando i quali gli fosse consentito controllare il « procedere » dell’autorità. Lo stimolare accertamenti probatori su fatti che potessero attestare l’infondatezza dell’accusa o l’intervenire, una volta conclusasi l’acquisizione delle prove, a discuterne criticamente i risultati davano contenuto a un diritto riconosciuto alla difesa alla stessa stregua del diritto di vigilare perché gli atti istruttori fossero compiuti secondo le regole o perché non venissero adottati provvedimenti coercitivi non consentiti (al diritto di difesa, infatti, si richiama Corte cost. 22 dicembre 1992, n. 476, in Cass. pen., 1993, 789; Id. 13 aprile 1993, n. 176, ivi, 1993, 1924, per dichiarare infondata la questione di costituzionalità dell’art. 513 comma 1 c.p.p. laddove non prevede, fra le dichiarazioni suscettibili di lettura, quelle rese alla polizia giudiziaria, che « hanno finalità prettamente investigative »; nonché Id. 25 luglio 1995, n. 381, in Giur. cost., 1995, 2778, nota Trevisson Lupacchini). Con il nuovo codice si è segnato il passaggio dal principio di autorità al principio dialettico, per il quale la formazione della prova è funzione delle parti controllata dal giudice terzo. La conseguenza è che il contraddittorio ha visto cambiare la propria fisionomia: da solo diritto della difesa a struttura del processo (Amodio, Ferrajoli, Ferrua). Con il superamento del marginale « contraddittorio sulla prova » e l’adozione del « contraddittorio per la prova » (Siracusano) si è insediato il meccanismo in cui si svolge l’attività dialetticamente contrapposta e reciprocamente complementare delle parti (De Luca, Ubertis). Questo metodo probatorio,
— 742 — superiore nelle sue potenzialità conoscitive alla ricerca unilaterale dell’accusa e all’istruire autocratico (« a carico e a discarico ») del giudice del processo misto, procura al meglio la ricostruzione oggettiva dei fatti: che è il valore del processo, non l’interesse di una parte. « L’uguaglianza del contraddittorio — in cui ogni parte è giudice dell’altra — è ad un tempo un valore logico e un valore etico » (De Luca). In altri termini le regole della dialettica realizzano il diritto del singolo di essere parte del giudizio che si svolge nei suoi confronti e, assieme, il metodo conoscitivo a cui la struttura processuale è stata affidata dal legislatore come il più idoneo ad assicurarne l’obbiettivo. 3. L’autorità come garanzia di attendibilità della prova. — Affiora nella giurisprudenza della Consulta un altro fattore di sostegno culturale al « principio di non dispersione probatoria ». Nel discutere sulle diverse ipotesi di dichiarazioni raccolte dagli organi dell’investigazione e, in particolare, per discernere quali fra di esse fosse legittimo ritenere che, a seguito di contestazione (art. 500 comma 4 c.p.p.), venissero acquisite al dibattimento, per un verso si è fatto leva su « presunzioni di genuinità » che in tutta una serie di casi sarebbe ragionevole riconoscere (ovvero « irragionevole escludere radicalmente ») e, per un altro verso, al fine di allargare l’area di operatività di presunzioni del genere si è invocato il fatto che polizia giudiziaria e pubblico ministero sono « soggetti sui quali — è bene ricordarlo — grava un dovere istituzionale di correttezza e di indifferenza al risultato » (sent. cost. n. 241/1994). L’idea che il valore di un dato di conoscenza giudiziaria dipenda essenzialmente non dal metodo di acquisizione, ma dalla qualificazione del soggetto che compie l’atto acquisitivo è propria della concezione autoritativa: a far decidere che una dichiarazione sia da utilizzare nella decisione come materiale probatorio attendibile è che la sua acquisizione sia opera dell’autorità perché gli atti compiuti da un organo dell’autorità sono da ricevere come affidabili e meritano perciò, tra l’altro, che i loro risultati siano « conservati » come prove nel dibattimento. Anche qui giova avanzare un’avvertenza. Non si dica che ciò su cui la Consulta incentra il proprio discorso per valorizzare probatoriamente certi atti della polizia e del pubblico ministero non è tanto che questi soggetti siano « autorità », ma che siano giustificati da doveri di « correttezza » e di « indifferenza al risultato ». Invero non è mai esistita autorità che « istituzionalmente » non abbia sfoggiato siffatti doveri e, d’altronde, non si può negare che tali medesime situazioni giuridiche si ritrovino, con varianti discendenti dalla contrapposizione dialettica, nello statuto del difensore. 4.
Segue. — Il fatto è che nei costrutti argomentativi della Consulta
— 743 — il riferimento ai valori dell’autorità non è mera superfetazione dogmatica, visto che vi interviene come elemento fondante, in sede teorica e nell’esperienza, il valore probatorio degli atti della medesima: dalla qualità del soggetto deriva la valenza dell’atto. Si consideri, per averne una riprova, che l’irragionevolezza costituzionale del limite probatorio che era stabilito dall’originario art. 500 comma 4 c.p.p. poteva linearmente ricavarsi dal fatto che le dichiarazioni in esso previste erano destinate a entrare come prova nel dibattimento attraverso i meccanismi del contraddittorio (sul punto cfr. infra, par. 8): dunque un dato raccolto nell’investigazione, ma vagliato e rielaborato dallo strumento dialettico. Senonché la Consulta aveva già orientato le sue stesse scelte generali in ben altra direzione. Con la precedente sentenza aveva sancito che le dichiarazioni rese nelle indagini preliminari da persona indagata in un procedimento connesso o collegato fossero da qualificare acquisibili come prove nel dibattimento quando in tale sede venisse esercitato il diritto al silenzio e perciò risultassero colpite da « assoluta impossibilità di ripetizione » (sent. cost. n. 254/1992); in siffatta fattispecie un’esigenza di « non dispersione probatoria » legittimata dal vaglio e dalla rielaborazione dialettica del dato da salvare non avrebbe consentito di rendere utilizzabili nel dibattimento le dichiarazioni assunte nell’investigazione e perciò era stato necessario forgiare un « principio di non dispersione » sullo stampo della provenienza dell’atto d’indagine da un organo dell’autorità, come tale da ritenersi portatore di un appagante grado di affidabilità. Varato il « principio » in questi termini, è in tale accezione che poi, per necessità di coerenza, esso è stato via via applicato ad altre ipotesi, disseminando nel sistema la concezione autoritativa della prova da cui esso origina. 5. Il « principio » e le conseguenti eccezioni a oralità, contraddittorio e immediatezza. — Occorre qui fissare due notazioni. La prima riguarda ancora la giurisprudenza costituzionale. In essa si usano i termini « contraddittorio » e « oralità » come sinonimi: « il sistema accusatorio positivamente instaurato ha prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale quale criterio maggiormente rispondente all’esigenza di ricerca della verità; ma accanto al principio dell’oralità è presente, nel nuovo sistema processuale, il principio di non dispersione degli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili col metodo orale » (sent. cost. n. 255/1992); inoltre non si menziona l’« immediatezza ». Nella nostra analisi è invece necessario tenere presenti e distinti i tre connotati della formazione della prova, anche nelle relazioni reciproche, per cogliere nell’atteggiarsi delle diverse previsioni normative quale o quali di essi siano pregiudicati, se e come il sacrificio di uno comprometta anche gli altri, quale ne sia il costo, quali conseguenze abbia nello spartiacque tra dialetticità e autoritatività della prova. « Contraddit-
— 744 — torio » come strumento tecnico dell’azione dialettica delle parti; « immediatezza » come fattore tecnico che procura al giudice della decisione la percezione diretta della prova nel suo formarsi e gliene consente la valutazione dall’interno dell’iter formativo; « oralità » come fattore necessario dell’uno e dell’altra, i quali per parte loro stanno in un rapporto per cui possono operare congiuntamente o l’uno in assenza dell’altro. Il che introduce la seconda notazione, che verrà meglio sviluppata in seguito (par. 8). Non c’è dubbio che non si possono ignorare esigenze particolari di adattamento dei meccanismi dialettici di formazione della prova essendo da evitare che nel dibattimento si perdano irragionevolmente determinati contributi di ricerca delle indagini preliminari; ma occorre sul piano metodologico essere avvertiti che altro è erigere siffatte esigenze particolari a « principio » e da qui elaborare un dato sistematico che a sua volta pretenda di offrire inesauribili risorse argomentative per trasformare singole previsioni legali da eccezioni in precipitati particolari di una regola generale. 6. I materiali normativi impiegati dalla Corte costituzionale per costruire il « principio ». — Si tratta, dunque, di ripercorrere l’intenso lavorio interpretativo che è stato esercitato sul tema e misurare se i materiali normativi impiegati per costruire il « principio di non dispersione probatoria » legittimino o no i risultati cui si è ritenuto di mettere capo. La piattaforma per l’avvio di tale analisi è offerta dalla sent. n. 255/1992, nella quale la Consulta, facendo seguito a due precedenti pronunce (Corte cost. 31 gennaio 1992, n. 24, in Giur. cost., 1992, 114, nota Scaparone, e n. 254/1992), si dedica ex professo alla elaborazione organica del principio: « che la volontà del legislatore esprima anche un principio di non dispersione dei mezzi di prova emerge con evidenza da tutti quegli istituti che recuperano al fascicolo del dibattimento, e quindi alla utilizzazione probatoria, atti non suscettibili di essere surrogati (o compiutamente e genuinamente surrogati) da una prova dibattimentale ». a) Come prima ipotesi in cui si manifesterebbe il « principio » è indicata quella degli atti a irripetibilità originaria compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria (art. 431 lett. b) e c) c.p.p.). Tale previsione normativa non si vede però come possa essere conferente a quell’obiettivo. Sono in gioco atti di pura investigazione (con esclusione, infatti, delle sommarie informazioni: Cordero), che cioè possono essere compiuti solo con la tecnica propria dell’investigazione e hanno ragion d’essere solo se compiuti in un determinato momento che è temporalmente e funzionalmente quello dell’investigazione. Tale è paradigmaticamente la perquisizione: la ricerca se in un luogo o su una persona vi sia una cosa pertinente al reato è da farsi necessariamente « a sorpresa » ed è utile in un momento scandito dallo sviluppo delle indagini. Il verbale ne descrive compimento
— 745 — e risultati e la norma legittima che sia acquisito al dibattimento come prova per la ragione elementare che l’atto appartiene di per sé al tempo delle indagini ed è insuscettibile oggettivamente d’essere compiuto con la tecnica dialettica del contraddittorio. Altro è che, poi, ne sia ammesso il controllo a posteriori mediante l’esame come testimoni degli agenti o ufficiali di polizia giudiziaria che vi abbiano avuto parte. La medesima « ontologia » investigativa caratterizza, per continuare nell’esemplificazione, le intercettazioni telefoniche, il cui obiettivo d’indagine è di apprendere se e quali conversazioni intercorrano fra certe persone in un certo lasso di tempo; e, ancora, l’ispezione, che si ripromette di osservare una persona, una cosa o un luogo per registrarne lo stato in un certo momento (rilevano in qualche modo queste peculiarità degli atti in questione Cass., Sez. I, 13 dicembre 1993, in Giust. pen., 1995, III, 60; Id., Sez. I, 14 giugno 1993, in Cass. pen., 1994, 2143, nota Piziali; Id., Sez. I, 28 dicembre 1993, in Cass. pen., 1995, 2187, nota Lorusso; Id., Sez. II, 10 giugno 1994, in C.E.D. Cass., n. 198690). Insomma l’acquisizione originaria, ex art. 431 lett. b) e c) c.p.p., dei verbali di questi atti è espressione del raccordo « naturale » che insiste tra investigazione e giudizio. Con la prima attività l’accusatore (come, per parte sua, il difensore) ricerca e si provvede delle fonti di prova che nel secondo gli saranno necessarie per dimostrare l’accusa e tale seconda attività, se per il testimone, il consulente tecnico o il perito si compie tramite il mezzo di prova (esame incrociato) che è proprio del dibattimento, per gli atti propri dell’investigazione avviene mediante l’impiego dei relativi verbali. L’art. 431 lett. b) e c) c.p.p., dunque, non mette di fronte a una previsione normativa con la quale il legislatore, per assecondare un’esigenza di non dispersione probatoria, abbia derogato al rapporto tra indagini preliminari e dibattimento e perciò nulla arreca all’opera di costruzione dell’invocato principio. b) La seconda ipotesi indicata è quella dell’incidente probatorio, istituto che semmai dimostra proprio il contrario dell’assunto dei giudici della Consulta. Esso riguarda prove che, se per la loro formazione si attendesse il tempo del dibattimento, vedrebbero compromessa irreparabilmente (cfr. Corte cost. 10 marzo 1994, n. 77, in Giur. cost., 1994, 776, nota G. Dean) la possibilità di essere assunte tout-court (art. 392 comma 1 lett. a) c.p.p., le ipotesi delle lettere b), c) e d) che richiamano la situazione di cui alla lett. a) nonché l’ipotesi della lett. f) e, per una parte della previsione, quella della lett. g) o con la necessaria genuinità (art. cit. lett. b), le ipotesi delle lettere b), c), d) nonché, per una parte delle previsioni, l’ipotesi della lett. g)). Per fronteggiare tale evenienza il legislatore ha escluso che il pubblico ministero avesse mano libera di compiere atti d’indagine i cui risultati assumessero poi valore probatorio nel dibattimento e negli artt. 392 ss. c.p.p. ha allestito un ambiente per la formazione in via anticipata della prova nel quale sono riprodotti i meccanismi dialettici
— 746 — propri del dibattimento, in modo da scontare solo il sacrificio dell’immediatezza nel rapporto tra prova e giudice della decisione. Pure qui, dunque, il materiale normativo invocato dalla Consulta non depone affatto nel senso di una tendenza del sistema a che nel dibattimento siano immessi dati di ricostruzione storica ottenuti con i metodi autoritativi dell’investigazione; anzi, addirittura la contraddice. c) La terza risorsa normativa a cui la Consulta ricorre per appoggiare il proprio discorso è l’art. 512 c.p.p., che prevede la lettura in dibattimento degli atti a irripetibilità sopravvenuta della polizia giudiziaria (cfr. art. 8 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in G.U. n. 133 dell’8 giugno 1992, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, in G.U. n. 185 del 7 agosto 1992), del pubblico ministero e del giudice dell’udienza preliminare; ipotesi che si segnalerebbe come particolarmente significativa perché sarebbe « configurata dalla dottrina come una sorta di necessario correttivo, avente carattere generale, al principio dell’oralità ». Se con tale espressione (invero improbabile, laddove postula un ‘‘correttivo generale’’ a un ‘‘principio’’) si intende denotare un dato normativo che sia non eccezionale, ma normale rispetto a un principio che informi il sistema, ciò è proprio quanto l’ermeneutica della disposizione fa escludere. La deroga che in questo caso è apportata alle regole sia del contraddittorio sia dell’immediatezza è oggetto di una norma costruita dal legislatore in termini di pura eccezionalità. In primo luogo occorre che si abbia di fronte, nel momento in cui si celebra il dibattimento, l’impossibilità di assumere la prova: per la precisione, un’impossibilità assoluta (di « assoluta impossibilità » parla la direttiva n. 76 della legge delega), « una vera e propria impossibilità di ripetizione, cui non può certo essere equiparata la difficoltà di assunzione della prova per la temporanea assenza del testimone dal territorio dello Stato » (Cass., Sez. VI, 20 settembre 1993, in Giust. pen., 1994, III, 609). Inoltre occorre che si tratti di una situazione che al tempo delle indagini preliminari « non era prevedibile con obbiettiva probabilità » (Cass., Sez. I, 28 settembre 1993, in Giust. pen., 1994, III, 472, nota Murone), così da non avere ragione, in quelle circostanze, di introdurre un incidente probatorio. Insomma la lettura dei verbali delle indagini preliminari ex art. 512 c.p.p. sta all’apice di un’escalation dell’eccezionalità che, nel suo precedente stadio, aveva precluso anche il ricorso all’incidente probatorio e proprio a causa di ciò comporta la deroga, oltre che all’immediatezza, anche al contraddittorio. Ancora una volta, dunque, non si dispone di alcunché di idoneo a concorrere alla costruzione di un principio. Una norma di natura eccezionale, i cui contenuti sono insuscettibili di applicazione analogica, non può essere la traccia di una impostazione sistematica dell’ordinamento. d) Segue quindi il richiamo all’art. 513 c.p.p. Al cui riguardo occorre intanto distinguere secondo che si versi nel caso dell’imputato a ca-
— 747 — rico del quale, quando in dibattimento eserciti il diritto al silenzio, con la lettura si rendano utilizzabili le dichiarazioni da lui rese nelle indagini preliminari o nell’udienza preliminare (cfr. sent. cost. n. 476/1992) ovvero nel caso che le dichiarazioni estradibattimentali di tale persona o di una delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. siano utilizzate a carico di altra persona imputata nel dibattimento. Nel primo caso la deroga è piena per l’immediatezza; quanto al contraddittorio, si versa qui nella situazione affatto particolare di dichiarazioni in precedenza rilasciate dalla stessa persona contro cui si intendono far valere, tanto che la deroga è il frutto di un bilanciamento tra l’interesse all’acquisizione nel dibattimento delle precedenti dichiarazioni dell’imputato e l’interesse che si riflette nella regola nemo tenetur se detegere: e si comprende come l’esercizio del diritto al silenzio determini la soluzione congegnata dal legislatore. Nel secondo caso la deroga al metodo di formazione dialettica della prova (oralità, contraddittorio e immediatezza) è totale e molto grave. Essa costituisce in effetti il punto più critico del tema in esame e richiede una trattazione ex professo poiché è proprio dalla sua analisi che occorre ripartire per una radicale messa in discussione di tutto quanto è avvenuto sotto l’egida della « non dispersione probatoria ». Del che ci si occuperà tra breve. e) L’ultima citazione è dedicata dai giudici della Consulta agli artt. 500 comma 4 e 503 comma 5 c.p.p. nel loro originario tenore (poi modificati dagli artt. 7 e 8 d.l. 8 giugno 1992, n. 306, cit.), che contemplava le dichiarazioni rese da un testimone al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria « nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell’immediatezza del fatto » e le dichiarazioni dell’imputato al pubblico ministero « alle quali il difensore aveva diritto di assistere »: una volta usate per le contestazioni, era previsto che esse fossero acquisite al fascicolo del dibattimento. Quanto alla prima ipotesi, è solo da dire che si tratta di una previsione che per un verso è caratterizzata dalla eccezionalità più spiccata e per un altro verso contempla l’ingresso di dichiarazioni estradibattimentali nel dibattimento tramite il veicolo del contraddittorio. Ciò è quanto avviene anche nella seconda ipotesi, così che per entrambe la deroga al contraddittorio e all’immediatezza è temperata nei suoi effetti dal filtro dialettico tramite il quale le dichiarazioni in questione penetrano nel materiale probatorio del dibattimento. Pertanto nulla di accostabile a una vicenda di non dispersione probatoria perseguita con la ricezione passiva dei dati autoritativamente raccolti nelle indagini. 7. Segue. Loro inidoneità. — È dunque sulla scorta di materiali normativi del tutto inidonei che la Consulta ha ritenuto di individuare nel sistema la presenza del principio di non dispersione probatoria: « siffatti istituti derogano chiaramente al principio dell’oralità e dell’immediatezza
— 748 — dibattimentale che, come si è detto, non è regola assoluta bensì criterioguida del nuovo processo, e tendono a contemperare il rispetto del metodo orale con l’esigenza di evitare la ‘perdita’, ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irrepetibile in tale sede » (sent. cost. n. 255/1992). Invero, come si è visto, alcuni di questi istituti riflettono addirittura il modo fisiologico di fruizione da parte del dibattimento di dati raccolti nell’investigazione; altri, agli antipodi di una tendenza a sostituire alla prova dialetticamente formata il dato autoritativamente raccolto, rispondono alla volontà del legislatore di fornire al dibattimento prove elaborate dal contraddittorio anche quando questa fase non sia in grado di adempiere a tale compito; tutti sono legati a situazioni affatto particolari; in più casi il dato dell’investigazione entra nel dibattimento per il tramite dialettico, così che, se vi si deroga al contraddittorio e all’immediatezza come tecniche di assunzione del dato probatorio in via originaria, interviene però un recupero efficace delle medesime come tecniche di controllo dialettico dell’accesso al dibattimento del dato investigativo: solo in un caso, quello dell’art. 513 c.p.p. (ora modificato dall’art. 1, legge 7 agosto 1997, n. 267, in G.U. n. 186 dell’11 agosto 1997), la previsione normativa non risponde a situazioni eccezionali e mette capo all’obliterazione totale e non compensata del contraddittorio e dell’immediatezza. Non è certo su queste basi che può trovare fondamento il « principio di non dispersione probatoria », che, estraneo al sistema, dissimula scelte ideologiche sovrapposte con effetto deformante ai dati normativi e va dunque abbandonato a ogni livello: nella giurisprudenza costituzionale, nella quale non può agire da guida per apprezzare la ragionevolezza o meno di previsioni legislative; nell’interpretazione delle norme, che non può trovarvi un criterio ermeneutico per elaborare i testi di legge; e anche nell’attività del legislatore, che non può assumerlo come termine di riferimento a cui ispirare l’enucleazione di nuove norme che si vogliano congeniali al sistema. Dunque un falso principio. Al quale si attagliano, nella loro immutata validità, le risalenti considerazioni critiche svolte in tema di « vero e falso nei principi generali del processo penale ». Su questo terreno ogni enunciazione non corretta « può nuocere allo stesso incauto formulatore per le deduzioni che egli è portato a trarne, talune tendenziose (e son quelle che pretendono di risolvere in conformità allo pseudo-principio le incertezze relative alle più dubbie interpretazioni e ai più vistosi silenzi legislativi), talune forzate (e son quelle che, pur di restare in armonia con lo pseudoprincipio, vengono ricavate con sacrificio della linearità, quando non addirittura della logica o del dato normativo) » (Conso). 8.
Dal « principio di non dispersione probatoria » ai singoli casi di
— 749 — esigenza di salvaguardia delle conoscenze procurate dall’investigazione. — Non c’è un « principio », ma, come già si accennava (par. 5), c’è l’esigenza che, dandosi determinate situazioni particolari, non si deprivi il dibattimento di apporti dell’investigazione quando il naturale sbarramento tra le due fasi possa essere allentato ricorrendo a congegni che riducano a dimensioni sopportabili la rinuncia all’integrità dell’origine dibattimentale della prova. Si possono così indicare i termini in cui il problema viene a prospettarsi: poiché la formazione dialettica della prova ha i suoi strumenti nell’oralità, nel contraddittorio e nell’immediatezza, si tratta di appurare se vi siano situazioni nelle quali si possa convenientemente rinunciare all’uno o all’altro o a tutti e in quale misura. Con l’incidente probatorio — si è già avuto modo di rilevare — la rinuncia è totale per l’immediatezza, mentre è fatto salvo per intero il meccanismo del contraddittorio. Combinazione senz’altro accettabile, dato che è la menomazione del secondo che maggiormente compromette il fenomeno della prova dibattimentale. È infatti precipuamente sul terreno del contraddittorio (Lozzi) che sono da vagliare ipotesi di adattamento dei congegni ordinari (vale a dire, nel sistema del codice, dialettici) di formazione della prova alle esigenze cui si alludeva. La discussione sul tema è stata sinora scandita pressoché esclusivamente dalle polemiche suscitate dalla sent. cost. n. 255/1992. Ma non pare che la linea di pensiero che si è sviluppata da quel momento in poi (e che ha anche informato la modifica dell’art. 513 c.p.p. operata con la legge 7 agosto 1997, n. 267 cit.) sia adeguatamente calibrata sulle questioni che sono da affrontare. Si è visto come le disposizioni contenute nel novellato art. 500 commi 4 e 5 c.p.p. prevedano che le dichiarazioni precedentemente rese dal testimone, una volta fatte oggetto di contestazione nell’esame e quando permanga una difformità con la deposizione dibattimentale, siano acquisite nel fascicolo del dibattimento e valutate come prova del fatto se corroborate da determinati elementi. Orbene in tale fattispecie la tecnica dialettica di formazione della prova, se pure subisce una sensibile limitazione, ha modo cionondimeno di esercitare un ruolo pregnante. La dichiarazione estradibattimentale emerge al dibattimento proprio nell’orbita della dialettica: la contestazione è parte integrante dell’esame incrociato del testimone, anzi è uno dei suoi strumenti, idoneo a volte ad imprimergli particolare efficacia dialettica. Come è stato osservato, qui « l’acquisizione dibattimentale dei verbali di dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari è preceduta da una contestazione, volta a far rilevare le difformità fra le diverse dichiarazioni (art. 500 comma 4 c.p.p.). Da una contestazione, quindi, che, accortamente praticata nel corso dell’esame testimoniale, potrebbe valere a recuperare, almeno in parte, contraddittorio ed oralità » (Siracusano).
— 750 — Ma pure la menomazione dell’immediatezza viene in qualche misura compensata. Il giudice della decisione ha la diretta percezione dell’uso che della dichiarazione estradibattimentale è fatto nell’esame del testimone e dell’innesto della stessa nelle dichiarazioni complessive di cui alla fine consta la testimonianza; inoltre la valutazione di tale dichiarazione come prova del fatto è sottoposta a regole di corroboration, giusto i criteri legali fissati dallo stesso art. 500 commi 4 e 5 c.p.p. (cfr. sent. cost. n. 241/1994): in assenza di tali risorse argomentative, la dichiarazione degrada ex lege a mero elemento di valutazione della credibilità della persona esaminata (art. cit., comma 3. Sul punto cfr., peraltro, par. 17). Le più gravi preoccupazioni per l’integrità della formazione dialettica della prova debbono invece essere nutrite, come si è anticipato, riguardo ai casi nei quali si registra la totale soppressione del contraddittorio e, assieme ad esso, dell’immediatezza: qui le risultanze delle indagini entrano de plano nel dibattimento e per atto burocratico vi si trasformano in materiale probatorio. Ciò che ne consegue è l’affermarsi del metodo autoritativo che soppianta le strutture dialettico-dibattimentali della prova. 9. Il punto di maggiore caduta: la soppressione totale del metodo dialettico nella declaratoria di incostituzionalità dell’art. 513 comma 2 c.p.p. — Bisogna risalire, a tale proposito, alla sent. cost. n. 254/1992. Suscita quasi sorpresa il rilevare che, mentre la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 500 commi 4 e 5 c.p.p. ha provocato un grande fervore di discussioni, quest’altra pronuncia, essa sì davvero grave, ha destato un’attenzione assai minore. Eppure anche quantitativamente la questione che essa ha aperto assume una portata enorme, in conseguenza di più fattori: le maxindagini, sempre più diffuse nei settori della criminalità organizzata e dei reati contro la pubblica amministrazione, producono di norma processi separati; nell’ambito di questi, inoltre, l’accesso ai riti alternativi di alcuni imputati comporta che nei separati dibattimenti le dichiarazioni di imputati o indagati in procedimenti connessi o collegati ricorrano quasi sempre, e con un peso di primo piano, tra le prove dell’accusa. Con il risultato che la qualità e la quantità di tale fenomeno hanno innescato una vera e propria trasformazione del dibattimento da modello processuale basato sulla prova dialettica in modello processuale dominato dalla prova autoritativa. In giurisprudenza esattamente si è sottolineato come la sent. cost. n. 254/1992 abbia « profondamente inciso sul testo dell’art. 513 c.p.p., che rappresenta ormai la norma chiave sul ‘‘recupero’’ dibattimentale di dichiarazioni precedentemente rese » (Cass., Sez. VI, 25 novembre 1995, in Arch. nuova proc. pen., 1996, 101). 10.
Le « strategie » processuali del pubblico ministero di fronte al-
— 751 — l’art. 513 comma 2 c.p.p. e le loro potenzialità negative per la genuinità della prova. — Neppure sono da trascurare i comportamenti che, in conseguenza di ciò, si profilano quasi secondo un modulo paradigmatico negli uffici del pubblico ministero. Vigente l’art. 513 comma 2 c.p.p. nel testo del 1989 le scelte del pubblico ministero dovevano essere molto accorte. Si trattava di evitare che nel dibattimento si perdesse il contributo di chiamate in correità o in reità; il che era da paventare per il caso in cui il « chiamante », dopo le indagini preliminari, vedesse la propria sorte processuale disgiungersi da quella del « chiamato » grazie al suo accesso al patteggiamento o al giudizio abbreviato oppure in conseguenza del fatto che il giudizio a suo carico avesse a celebrarsi separatamente. Infatti, nel caso di giudizio cumulativo, sul « chiamante » grava in modo pressante l’onere di sottoporsi all’esame per far valere le proprie difese o quantomeno per dimostrare un comportamento processuale meritorio in funzione della determinazione della pena; mentre, una volta venuto meno il simultaneus processus, un onere del genere svanisce e il « chiamante » non avrebbe remora alcuna ad avvalersi del diritto di tacere e anzi può scorgere in ciò l’utile espediente per sottrarsi a una magari difficile verifica dibattimentale delle sue originarie dichiarazioni. Di tutto ciò, dunque, in quella originaria situazione normativa il pubblico ministero non poteva non farsi carico e per scongiurare la perdita di importanti opportunità d’accusa doveva destreggiarsi fra riti alternativi e giudizi separati curandone le tempistiche e le interrelazioni in maniera tale da garantirsi l’esame del « chiamante » e però con ciò stesso assicurando anche la verifica delle sue dichiarazioni da parte della difesa. La situazione non era certo delle migliori; non poggiava infatti su un eguale gioco di pesi e contrappesi che la mettesse in equilibrio tra spinte dialettiche dell’accusa e della difesa. Era essenzialmente dominata dall’ipoteca che il pubblico ministero aveva modo di accendere sulla sorte processuale del « chiamante », il quale non poteva non avvertire assai bene la convenienza di mantenersi dalla parte dell’accusa sia nell’accettare l’esame e sia nel modo di comportarsi durante il suo svolgimento. La possibilità per la difesa di esercitare la verifica delle sue dichiarazioni originava da un tale contesto come effetto riflesso delle « strategie » dell’accusa e tuttavia, benché scompensata, rappresentava pur sempre una preziosa risorsa. Questo quadro è svanito come d’incanto con la declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 513 comma 2 c.p.p. La nuova norma che ne è risultata ha innescato per il pubblico ministero una tensione prospettica esattamente rovesciata rispetto a quella che era propiziata dalla precedente situazione normativa. Per il solo fatto che la persona da esaminare con il regime dell’art. 210 c.p.p. eserciti la facoltà di non rispondere le sue dichiarazioni estradibattimentali diventano prova. Dunque il pubblico ministero
— 752 — non ha più il problema di assicurarsene l’esame; anzi, quanto più tale verifica dibattimentale si profili come difficoltosa e quanto più utile, se non addirittura indispensabile, sia quindi per la difesa tanto più egli avrebbe un interesse dialettico contrario al sovrapporsi dell’esame dibattimentale alle dichiarazioni da lui raccolte nelle indagini. Il fatto è che, intervenuta questa nuova norma, in interi settori dell’esperienza giudiziaria, a cominciare da quelli concernenti i reati contro la pubblica amministrazione, il fenomeno si è espanso con effetti di vera e propria deformazione del volto del processo penale. Quando il giudizio tragga origine da indagini appena un poco complesse e che abbiano quindi prodotto processi separati in virtù, si noti, di scelte insindacabili del pubblico ministero, si è già detto come sia ormai ricorrente che il clou delle prove d’accusa si identifichi con i verbali delle dichiarazioni rese nelle indagini preliminari da persone che ex art. 210 comma 4 c.p.p. esercitano nel dibattimento il diritto al silenzio. 11. La vera origine del problema: l’art. 210 comma 4 c.p.p. — Nessuno può negare che una via d’uscita da questa situazione, distruttiva dell’organismo processuale ancor prima e più che dei suoi apparati garantistici, debba essere senz’altro trovata. Tale situazione normativa si è enucleata sulla base di due fattori. Da un lato, il riconoscimento del diritto di difesa nella specie del nemo tenetur se detegere alle persone da esaminare ex art. 210 c.p.p. consente a costoro, esercitandolo, di impedire la formazione dibattimentale della prova; da un altro lato, il preteso principio di non dispersione probatoria, informando di sé l’art. 513 comma 2 c.p.p. derivato dalla declaratoria d’incostituzionalità, impone le risultanze investigative come prova dibattimentale. Il problema è generalmente avvertito come insistente in modo esclusivo sul secondo fattore, così che l’analisi volta a trovare una soluzione ha sempre preso le mosse dalla confutazione del principio di non dispersione probatoria per approdare alla negazione di ogni esigenza di salvaguardia delle risorse investigative per la formazione dibattimentale della prova. Senonché questa impostazione è viziata in un duplice aspetto. Per un verso la negazione di tale principio non comporta, come si è già osservato, che sia improponibile farsi carico di particolari esigenze al riguardo. Per un altro verso il problema ha il suo vero punto di origine nell’art. 210 comma 4 c.p.p. Ciò che in effetti ci si deve chiedere è se questa norma sia o no corretta in base ai principi e se sia o no adeguata alle necessità di funzionamento proprie di un processo a struttura dialettica. Entrambi i quesiti, il primo giuridicamente prioritario al secondo, si vedrà come non possano non ricevere una risposta negativa ed è proprio da qui che si schiude la possibilità di dare al problema una soluzione ragionevole e conforme alle esigenze della struttura dialettica della prova.
— 753 — 12. Necessità di verificare se l’art. 210 comma 4 c.p.p., in rapporto alle singole situazioni in esso contemplate, adempia a una reale esigenza di garanzia. Esito negativo di tale indagine. — L’affermazione da cui correntemente muove l’analisi è la seguente: la norma dell’art. 210 comma 4 c.p.p. è un corollario indefettibile e intoccabile del diritto costituzionale di difesa, la cui inviolabilità esige che quel diritto al silenzio riconosciuto a persone indagate o imputate in un procedimento connesso o collegato non patisca limitazioni di sorta e prevalga su ogni altro interesse costituzionalmente protetto pur presente nel processo. Un assunto così drastico e generico al tempo stesso non deve trarre in inganno circa i suoi motivi ispiratori. Non consono, anzi controproducente per le esigenze funzionali del processo di parti, esso è in realtà la traccia obsoleta delle concezioni pseudogarantistiche del processo misto ultima maniera, nel quale il permanere degli impianti dell’autoritarismo giudiziario si pensava potesse essere compensato o mitigato dall’ampliamento spesso tanto generoso quanto vano dei diritti della difesa. Per propiziare un’indagine puntuale di quell’assunto occorre dunque disaggregarlo in modo da isolare le diverse situazioni che vi vengono indistintamente e confusamente racchiuse. Questa operazione analitica è necessaria perché quello che si sta esaminando è un problema di bilanciamento tra interessi potenzialmente fra loro contrastanti, ma tutti oggetto di tutela costituzionale. Infatti l’interesse sotteso al diritto al silenzio riconosciuto alle persone di cui all’art. 210 c.p.p. (Bargis) è contrapposto all’interesse di difesa dell’imputato a carico del quale il pubblico ministero deduce le dichiarazioni provenienti da quelle persone e all’interesse alla formazione dialettica della prova. Giova sottolineare come anche quest’ultimo sia un valore di rango costituzionale. La giurisprudenza della Consulta ritiene che tale sia l’interesse alla « ricerca della verità », nel senso che sia costituzionalmente irragionevole e quindi illegittimo sacrificarlo contro uno dei principi costitutivi dell’ordinamento processuale, volto alla salvaguardia dell’integrità della prova. Invero siffatta tutela costituzionale compete non alla « ricerca della verità » intesa in modo qualunque, che in realtà si finisce poi per far coincidere con l’accertamento giudiziario autoritativo; bensì all’esigenza di compiuta formazione della prova nella veste modale con cui è incarnata nei principi dell’ordinamento processuale: e in virtù dei quali essa è esigenza di compiuta formazione dialettica della prova. Poiché dunque si tratta di comparare questi due interessi costituzionalmente protetti con l’interesse riconosciuto dall’art. 210 c.p.p. e, quindi, di stabilire, in caso di contrasto, quale debba prevalere, in quale misura e a quali condizioni, occorre in primo luogo avere chiari i termini che si pongono a confronto. In effetti l’analisi avrà modo di far rilevare come l’art. 210 comma 4
— 754 — c.p.p. preveda un diritto di tacere non giustificato dalle reali esigenze di tutela insite, pur in misura differente, nelle singole situazioni in cui versano i soggetti contemplati dalla norma e come tali esigenze trovino invece adeguata soddisfazione nelle garanzie che competono in via generale al testimone in un conseguente assetto normativo che salvaguardi, ad un tempo, tutti gli interessi in campo: la compiutezza della ricostruzione probatoria, il metodo dialettico, il nemo tenetur se detegere della persona chiamata a deporre, il diritto di difesa dell’imputato. Le persone a cui si riferisce l’art. 210 c.p.p. possono rivestire le seguenti qualità: a) soggetto già definitivamente giudicato in sede separata; b) soggetto nei cui confronti è stato pronunciato un provvedimento di archiviazione o una sentenza di non luogo a procedere; c) soggetto indagato o imputato in un procedimento separato ancora in corso. A queste situazioni è poi da aggiungere quella contemplata nell’art. 513 comma 1 c.p.p. che attiene al: d) soggetto coimputato nel medesimo processo. 13. Le singole figure soggettive a cui è attribuito il diritto di rifiutare l’esame. a) Il soggetto definitivamente giudicato. — In questa ipotesi la persona non è titolare di un diritto attuale di difesa quale situazione soggettiva incardinata in uno « stato o grado del procedimento ». Essa infatti ha consumato tale diritto, cioè la somma di poteri, facoltà e pretese di cui la categoria si compone, nel procedimento ormai concluso: con l’atto irrevocabile con cui questo è stato definito la condizione di imputato si è estinta e cioè si sono estinte le situazioni giuridiche soggettive che le attengono. Né è postulabile che in capo a tale soggetto sopravviva la garanzia nemo tenetur se detegere come diritto « perpetuo » di non rendere dichiarazioni in alcuna sede in ordine al fatto già definitivamente giudicato. Una garanzia come diritto di non fare dichiarazioni che possano produrre contra se conseguenze giuridico-penali sfavorevoli non ha ragion d’essere quando sia escluso, in virtù del precedente giudicato, che conseguenze del genere possano determinarsi. Parrebbe che si debba considerare, distinta da quella del prosciolto definitivamente, la posizione del soggetto condannato definitivamente, che, testimoniando, « può correre il rischio di pregiudicare le proprie possibilità di ottenere la revisione del proprio processo o tenti di precostituirsi le condizioni per ottenerla » (Giostra. Un contrario avviso parrebbe esprimere Trib. Milano, Sez. V pen., ord. 3 luglio 1996, pres. Cappelleri, Mandelli, ined., nell’asserire che è corretta la facoltà di sottrarsi all’esame riconosciuta dall’art. 210 comma 4 c.p.p. « non essendo la posizione dell’imputato in procedimento con-
— 755 — nesso in nessun modo equiparabile a quella del testimone, neppure nel caso in cui sia stato condannato con sentenza passata in giudicato »). Senonché, quanto al secondo aspetto, è in gioco un problema di attendibilità, che deve essere rimesso al vaglio critico del giudice e non già essere risolto escludendo un soggetto dalla testimonianza perché interessato; quanto al primo, varranno le garanzie di cui agli artt. 63 e 198 comma 2 c.p.p. (su cui infra. Il tema involge anche un problema di costituzionalità dell’art. 197 c.p.p., già esaminato, sotto altro profilo, da Corte cost. 18 marzo 1992, n. 108, in Giur. cost., 1992, 984). Si è anche asserito che il soggetto definitivamente giudicato serba ancora un interesse a non rendere dichiarazioni a sé sfavorevoli, che « possono acquisire rilevanza nell’ambito di un eventuale giudizio civile per il risarcimento dei danni o di un procedimento disciplinare » (Trib. Torino, Sez. II pen., ord. 27 giugno 1996, pres. Malchodi, Dell’Utri, ined.). Il rilievo però non coglie nel segno. L’esame ha per oggetto dichiarazioni già rese, cosicché il problema si porrebbe, semmai, per dichiarazioni sfavorevoli ulteriori, riguardo alle quali il soggetto sarebbe però tutelato sia nell’ambito penale (se dovessero concernere un fatto di reato diverso da quello per il quale è stato già definitivamente giudicato: cfr. infra in questo paragrafo e parr. 14 s.) sia negli ambiti civile e amministrativo alla stessa stregua del testimone. Tanto meno si può pensare a un diritto al silenzio come esonero dall’obbligo di parlare negativamente di sé in sede pubblica in funzione di tutela della dignità o dell’immagine personale: una simile garanzia non trova di certo fondamento nell’art. 24 cpv. cost., la cui area di operatività è in ogni caso il processo come luogo in cui possono statuirsi conseguenze giuridiche a carico del soggetto; né nell’art. 2 cost., che, a tacer d’altro, annovera nel suo arco normativo anche la prescrizione di obblighi. Tutto ciò non senza trascurare, ancora una volta, che nell’ipotesi in esame si è già in presenza di dichiarazioni precedentemente rese. Dunque, quale che possa essere la ragion giuridica di siffatta ipotesi di diritto al silenzio, essa non ha in ogni caso nessuna chance di riuscire a prevalere, in sede di bilanciamento, né sul pieno e attuale diritto di difesa dell’imputato a carico del quale il loro titolare è dedotto come fonte probatoria d’accusa né sull’esigenza di compiuta formazione dialettica della prova nel dibattimento. Né può convenirsi sull’asserto che, trattandosi di dichiarazioni che debbono essere valutate ex art. 192 commi 3 e 4 c.p.p. (il dato è valorizzato da Cass., Sez. VI, 25 novembre 1995, cit., per sottrarre l’art. 513 c.p.p. a un giudizio di incostituzionalità. Cfr. sul punto par. 17. Cfr. ora la norma ex art. 6 legge 7 agosto 1997, n. 267, cit.), la disposizione « assicura il diritto di difesa dell’imputato sub iudice, consentendogli il contraddittorio nell’acquisizione di quei riscontri indispensabili per conferire
— 756 — piena valenza probatoria alle dichiarazioni dell’imputato di reato connesso » (Trib. Torino, Sez. II pen., ord. 27 giugno 1996, cit.). L’argomento, proprio perché evidenzia l’estrema marginalità delle opportunità difensive che residuano a favore dell’imputato, non fa che confermare la grave e irrimediabile lesione del diritto di difesa nel momento primario di tale prova, cioè l’acquisizione delle dichiarazioni. Analogo rilievo è da muovere a un’altra affermazione giurisprudenziale, secondo cui « la disposizione dell’art. 513 c.p.p. non è lesiva del diritto alla difesa, garantito dall’art. 24 della Costituzione, in quanto tale diritto, nel caso in esame, ha una adeguata possibilità di estrinsecazione nella facoltà, comunque pienamente esercitabile a prescindere dal controesame, di dedurre e dimostrare circostanze contrarie a quelle di contenuto accusatorio, eventualmente emergenti da quanto affermato dal dichiarante » (Trib. Palermo, ord. 4 aprile 1996, pres. D’Agati, D’Acquisto, ined.). Pure qui si fa emergere, in verità, come all’imputato nelle situazioni in esame rimanga solo il diritto di controprova, che di certo non vale a riparare la lesione del « diritto di difendersi provando » nella formazione della prova a carico. Insomma la facoltà di non rispondere riconosciuta dall’art. 210 comma 4 c.p.p. al soggetto in esame è incostituzionale sotto ogni profilo, non potendo vantare fondamento costituzionale alcuno o comunque preminente rispetto agli interessi costituzionalmente protetti che lede. Infatti: a) non può essere riconosciuta come espressione della garanzia nemo tenetur se detegere che origina dall’art. 24 cpv. cost., perché questa non spetta più al soggetto già giudicato definitivamente; b) ammesso e non concesso che possa correttamente essere concepita come garanzia nemo tenetur se detegere derivante da una sorta di ultrattività della garanzia di difesa ex art. 24 cpv. cost. o dalla tutela della dignità della persona ex art. 2 cost., essa in ogni caso lede due interessi assistiti da una tutela costituzionale più forte. L’assetto normativo deve dunque essere ricondotto dentro l’alveo della legittimità costituzionale con la prescrizione a carico del soggetto che si sta considerando dell’obbligo di deporre secondo verità, situazione giuridica che peraltro non lo depriva della necessaria tutela. Egli, infatti, nel corso dell’esame, sarà salvaguardato da una effettiva garanzia nemo tenetur se detegere, quale è quella che ha come matrice normativa l’art. 198 comma 2 c.p.p., dettato per il testimone ma applicabile per via analogica anche al caso in questione, pur debitamente calibrato: i « fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale » sono, in quest’altra ipotesi, fatti di reato diversi da quello su cui verte l’esame e che per il soggetto di cui si sta trattando è già materia di cosa giudicata. Inoltre per il caso di violazione di tale garanzia varrà l’art. 63 c.p.p., norma che la giurisprudenza esattamente riconosce « di carattere generale, applicabile in tutti i casi in cui un soggetto è sentito dall’autorità giudiziaria e quindi
— 757 — anche in dibattimento » (cfr. Cass., Sez. VI, 11 aprile 1994, in Giur. it., 1996, II, 176, nota Sanna). 14. Segue. b). Il soggetto nei cui confronti è stato pronunciato un provvedimento di archiviazione o una sentenza di non luogo a procedere. — In tale seconda ipotesi il soggetto riveste una qualificazione che reca in sé elementi diversi dalla precedente. Il dato di cui ci si deve far carico è che la decisione che ha concluso il procedimento è a irrevocabilità relativa: il provvedimento di archiviazione può essere revocato con l’autorizzazione a riaprire le indagini quando vi sia l’« esigenza di nuove investigazioni » (art. 414 c.p.p.), da intendersi, secondo l’interpretazione messa a punto dalla giurisprudenza, nel senso di « nuovi elementi », non essendo sufficiente che il pubblico ministero prospetti al giudice soltanto un nuovo « piano d’indagine » (cfr. Corte cost. 19 gennaio 1995, n. 27, in Giur. cost., 1995, 260); la sentenza preliminare di non luogo a procedere è suscettibile di revoca se, dopo la sua pronuncia, « sopravvengano o si scoprano nuove fonti di prova che, da sole o unitamente a quelle già acquisite, possono determinare il rinvio a giudizio » (art. 434 c.p.p.) (cfr. Cass., Sez. I, 18 febbraio 1994, in Foro it., 1994, II, 684). Cosicché, se nell’esame dibattimentale il soggetto dovesse rendere dichiarazioni contra se che non aveva già reso nel procedimento definito con l’archiviazione o con la sentenza di non luogo a procedere e tali da integrare i requisiti legittimanti la revoca del provvedimento, ne deriverebbe la possibilità di ripresa del procedimento a suo carico con la riapertura delle indagini preliminari o, secondo i casi, con la fissazione di una nuova udienza preliminare (artt. 414 e 436 c.p.p.). Senonché anche in relazione a questa situazione, il diritto al silenzio accordato dall’art. 210 comma 4 c.p.p. al soggetto che riveste la qualità che si sta considerando è una tutela sovrabbondante, che perciò non giustifica la lesione che produce agli altri due interessi in gioco costituzionalmente protetti. Sicuramente tale soggetto, a differenza del precedente, è portatore del diritto costituzionale al nemo tenetur se detegere. Questa posizione di garanzia non riguarda però le dichiarazioni già rese nel procedimento conclusosi con una decisione la cui irrevocabilità (pur se relativa) non è intaccabile da una loro riedizione; non riguarda cioè le dichiarazioni il cui oggetto è lo stesso dell’esame che il pubblico ministero si ripromette di svolgere in dibattimento. La sua ragion d’essere concerne invece dichiarazioni contra se ulteriori rispetto a quelle rese, le quali, se fatte nell’esame dibattimentale, potrebbero innescare la vicenda revocatoria della pronuncia che aveva suggellato il procedimento ormai concluso. Dunque la tutela a cui questo soggetto ha costituzionalmente diritto
— 758 — si attua compiutamente attribuendogli una facoltà di non rispondere non generalizzata, ma correlata a domande rivolte a ottenere come risposta dichiarazioni pregiudizievoli ulteriori rispetto alle precedenti. E questa è la garanzia che, essendo portatrice di una protezione costituzionale, giustifica i limiti che ne derivano al diritto di difesa dell’imputato e alla formazione dibattimentale della prova. Ogni misura sovrabbondante è invece incostituzionale perché provoca tali limiti ingiustificatamente. La disposizione dell’art. 210 comma 4 c.p.p., dunque, si rivela anche qui illegittima. Mentre, una volta soppressa per incostituzionalità, lascerebbe spazio, nei confronti del soggetto restituito all’obbligo di esame sulle circostanze che già hanno costituito oggetto delle dichiarazioni rese nella fase dell’investigazione, all’operare della salvaguardia apprestata dagli artt. 63 e 198 comma 2 c.p.p., necessaria e sufficiente ai reali bisogni di tutela in gioco. Né sarebbe fondato dire che quell’esigenza di tutela dall’autoincriminazione, pur se parziale, una volta riconosciuta non può non vedere l’espandersi totale della facoltà di non rispondere sulla base di una ragione pratica, così enucleabile: l’esame ha un tema che si innesta sul medesimo fatto-reato che costituì l’oggetto del procedimento precariamente chiuso nei confronti della persona ora chiamata a deporre, cosicché la sua insidiosità, ancorché limitata in linea di partenza, non è suscettibile di essere tenuta sotto controllo; i molti immaginabili collegamenti tra circostanze già dichiarate e altre inedite potrebbero esporre l’esame a degenerazioni difficili da fronteggiare. Orbene, se è vero che in determinate situazioni l’esame può prospettarsi delicato per un tale ordine di motivi, non mancano però gli adeguati mezzi processuali per evitare che esso assuma un andamento autoincriminante: non solo e non tanto l’esame diretto è condotto dal pubblico ministero, il cui interesse alla prova è e deve essere perimetrato sulle circostanze già acquisite nelle precedenti occasioni di indagine; ma la deposizione avviene secondo il metodo dialettico che consente al difensore, che necessariamente assiste la persona, di « partecipare all’esame » (art. 210 comma 3 c.p.p.) e quindi anche di attivare l’intervento del presidente a assicurarne la « lealtà » (art. 499 comma 6 c.p.p.) e la legittimità (art. 198 comma 2 c.p.p.); inoltre, nel caso di inosservanza di tali limiti di garanzia, varrà la regola ex art. 63 c.p., invalidante eventuali dichiarazioni contra se (Molari; Cass., Sez. I, 11 luglio 1994, in C.E.D. Cass., 198808). 15. Segue. c). Il soggetto ancora indagato o imputato in un procedimento separato connesso o collegato. — Anche questa ipotesi trova la propria adeguata definizione in tutto quanto si è detto con riguardo alla precedente e nelle soluzioni messe a punto.
— 759 — Qui il soggetto citato in dibattimento perché sia sottoposto a esame in relazione a circostanze già dichiarate nella fase delle indagini preliminari del medesimo procedimento o di altro connesso è, in tale sede, ancora indagato o imputato e perciò titolare attuale del diritto nemo tenetur se detegere; questo diritto si proietta fuori dall’ambito procedimentale che gli è proprio e investe anche il dibattimento in cui il soggetto è chiamato per l’esame a norma dell’art. 210 c.p.p. Ancora una volta, però, questa garanzia contro l’autoincriminazione ha ragion d’essere in relazione non alle dichiarazioni precedentemente rese, ma ad altre: dalle quali è adeguatamente tutelato, pure quando su di lui si faccia insistere l’obbligo di esame in ordine alle circostanze già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, dai meccanismi di garanzia previsti dagli artt. 63 e 198 comma 2 c.p.p. (Cass., Sez. VI, 25 marzo 1994, in Giust. pen., 1995, III, 567, nota Murone). Posto un tale apparato di tutela, pretendere di assicurare a tale soggetto un diritto al silenzio che copra anche queste circostanze, che ora sono tema dell’esame dibattimentale facendo derivare dall’esercizio di tale diritto, come è nell’art. 513 comma 2 c.p.p., la trasformazione in prova di quelle dichiarazioni significa che a un diritto riconosciuto in quantità sovrabbondante rispetto alle effettive esigenze di protezione vengono sacrificati in modo totale il diritto dell’imputato al controesame e l’interesse alla formazione dialettica della prova dibattimentale. Il che è il prodotto di un bilanciamento tra interessi contrapposti che fa soccombere quelli assistiti da tutela più forte, con esiti che non possono non essere stigmatizzati in termini di illegittimità costituzionale. Con riguardo alle situazioni in cui si verifichino le violazioni del diritto di difesa ipotizzate dall’art. 63 c.p.p. si è osservato che, se la completa inutilizzabilità delle dichiarazioni mette il dichiarante al riparo da ogni loro uso formale, « di fatto, però, non saranno da escludere risvolti sfavorevoli perché, inevitabilmente, ciò che fu affermato rappresenterà una traccia idonea ad indirizzare le indagini dell’inquirente e avrà psicologicamente il suo peso nel momento delle decisioni » (Molari). Il rilievo, senz’altro fondato in via generale, non interferisce peraltro nella situazione qui in questione, nella quale sono in gioco dichiarazioni che il soggetto ha già reso nel procedimento a suo carico. È piuttosto da considerare il caso che questo soggetto, sottoposto a esame nel dibattimento ex art. 210 c.p.p., non reiteri le dichiarazioni fatte nelle indagini preliminari, ma le modifichi in termini per lui vantaggiosi nel procedimento connesso o collegato ancora aperto a suo carico: per fare un esempio limite, che ritratti la confessione che aveva coinvolto anche il soggetto ora imputato nel dibattimento. Su ciò non è possibile fare questione di obbligo di verità violato o no, poiché anche a questo proposito vi è un persistente manifestarsi del diritto di non fare dichiarazioni
— 760 — autoincriminanti; sarà semmai questione se nella prima occasione sia stato commesso il reato di calunnia o di autocalunnia. Da ciò si ricava un’ulteriore messa a punto dello specifico regime che in termini costituzionalmente corretti debba competere nell’esame ex art. 210 c.p.p. al soggetto di cui si sta trattando. Su di lui deve incombere l’obbligo di rispondere, ma non quello di rispondere secondo verità, non potendo non operare in ogni caso l’esimente prevista dall’art. 384 c.p. (Cass., Sez. VI, 25 marzo 1994, cit.). Messi così a punto i termini nei quali si articola il costrutto normativo in esame, non si può dire che esso rappresenti « il portato di una lettura comparativa di valori costituzionali, opinabile ma non certo qualificabile in termini di irragionevolezza o abnormità » ovvero il frutto di « una valutazione comparativa di due valori costituzionali entrambi rilevanti e significativi, sulla base di un’operazione di tipo politico sussumibile nella discrezionalità legislativa, pacificamente non censurabile in sede di giudizio di costituzionalità » (Trib. Milano, Sez. VII, ord. 5 marzo 1996, pres. Crivelli, Arces, ined.). Il fatto è che a un diritto costituzionalmente protetto, qual è quello di difesa dell’imputato, si contrappone e si fa prevalere una situazione della persona indagata o imputata in procedimento connesso che per una parte non ha bisogno della tutela che si pretende di apprestarle con il diritto di rifiutare l’esame e per un’altra parte, nella quale si manifesta un reale bisogno di tutela, trova adeguata protezione in altre previsioni normative. 16. Segue. L’ipotesi dell’impossibilità dell’esame per irreperibilità o sopravvenuta incapacità naturale del soggetto. — L’art. 513 comma 2 c.p.p. contempla, oltre alla situazione del soggetto indagato o imputato in un procedimento connesso o collegato il quale si avvalga della facoltà di non rispondere, la situazione in cui non è possibile ottenere la presenza di tale soggetto per l’esame neppure con un provvedimento di accompagnamento coattivo, con l’esame a domicilio o con una rogatoria internazionale. In questa parte la previsione normativa si incentra dunque sull’ipotesi del soggetto irreperibile o impossibilitato per causa oggettiva sopravvenuta a rendere l’esame (cfr. Corte cost. 19 gennaio 1995, n. 20, in Cass. pen., 1995, 1145, per l’ipotesi di sopravvenuta infermità del testimone in relazione agli artt. 512 e 514 c.p.p.; Cass., Sez. VI, 25 marzo 1994, cit.). Tale previsione reca in sé una componente che muta sensibilmente i termini in cui abbiamo sinora visto prospettarsi il problema della utilizzabilità probatoria delle dichiarazioni rese nell’investigazione. Qui si è di fronte a una causa oggettiva che preclude l’esame; nella situazione precedente l’esame è impedito da una scelta del soggetto (Cass. 14 giugno 1994, Sez. VI, in C.E.D. Cass., n. 199528, ha puntualizzato che la lettura è innescata anche dall’esercizio della facoltà di non rispondere intervenuto nel corso dell’esame), immotivata e insindacabile, imperscrutabile
— 761 — nelle ragioni che l’hanno determinata e che possono ben attingere a un novero di elementi del tutto estraneo agli interessi autodifensivi. Questa origine in sé arbitraria è la connotazione che innesca per siffatta ipotesi normativa la valutazione di incostituzionalità, mentre la sua assenza nell’altra propizia la « ragionevolezza » del contemperamento operatovi tra opposte esigenze. 17. Segue. d). La figura contemplata dall’art. 513 comma 1 c.p.p.: il soggetto imputato nel medesimo processo. — Quest’ultima linea di considerazioni rileva anche per l’ulteriore sviluppo dell’analisi del nostro problema, la quale deve ora farsi carico dell’ipotesi contemplata dal comma 1 dell’art. 513 c.p.p. Essa riguarda l’imputato che, rifiutando di sottoporsi all’esame, determina la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese nelle indagini (al pubblico ministero e, su delega, alla polizia giudiziria: Corte cost. 24 febbraio 1995, n. 60, in Cass. pen., 1995, 1748, nota Santacroce, 2455, nota F. Massa. Per le dichiarazioni rese nell’udienza preliminare cfr. infra par. 19) e la loro utilizzabilità anche nei confronti del coimputato (cfr. ora la modifica apportata all’art. 513 comma 1 c.p.p. dall’art. 1 legge 7 agosto 1997, n. 267, cit.). Il dato specializzante questa situazione è che il soggetto in questione è titolare del pieno diritto di difesa ex art. 24 cpv. cost. Vi sono dunque due interessi che qui si contrappongono assistiti da uguale tutela costituzionale: l’uno, in capo all’imputato che si sottrae all’esame, è non solo interesse a non autoincriminarsi, ma ancor prima interesse a condurre la propria difesa processuale secondo valutazioni autonome circa la convenienza di un’iniziativa piuttosto che di un’altra, tra le quali vi è anche quella di fondamentale rilievo se offrirsi o no alla prova per esame; l’altro, in capo al coimputato, è interesse a partecipare in modo dialetticamente attivo alla formazione delle prove. A questo si affianca (anzi, lo sovrasta) l’interesse dell’ordinamento alla formazione dialettica della prova. Per uscire da un tale quadro di situazioni confliggenti non è pensabile che si possa intaccare il diritto di sottrarsi all’esame da parte dell’imputato autore di precedenti dichiarazioni a carico del coimputato: menomare tale garanzia significherebbe violare il diritto di difesa quale elemento costitutivo essenziale dello status del soggetto come parte del medesimo processo. Il che, peraltro, non può fare concludere tout-court per la legittimità della soppressione in capo al coimputato del diritto di controesame, componente anch’essa essenziale del diritto di difesa. Infatti l’esigenza che nel dibattimento non vada perso il contributo delle dichiarazioni rese nelle indagini dalla persona che si avvale del diritto di tacere non può pretendere d’essere soddisfatta incondizionatamente e senza limiti, non essendo assistita da una tutela costituzionale superiore a quella apprestata dall’art. 24 cpv. cost. al coimputato contro cui quelle dichiarazioni sono dirette.
— 762 — Neppure si può pensare che la lesione del diritto alla difesa che si procura al coimputato contro cui vengano rese utilizzabili le dichiarazioni rilasciate nell’investigazione dall’imputato che nel dibattimento eserciti il diritto al silenzio possa trovare un idoneo correttivo applicando la regola del riscontro, invero già avallata dalla giurisprudenza costituzionale in tema di utilizzabilità delle precedenti dichiarazioni del testimone usate nell’esame dibattimentale per le contestazioni (sent. cost. n. 241/1994). Si tratterebbe di fare affidamento sul fatto che la mancanza del controllo dialettico sulla dichiarazione proveniente dall’investigazione sia adeguatamente compensata dal declassamento del valore di questa, che dovrebbe ricevere conferma della propria attendibilità da altre risultanze probatorie. Intanto è da dire che altro è che si voglia ricorrere alla regola degli artt. 192 commi 3 e 4 e 500 comma 4 c.p.p. per compensare la problematicità di dichiarazioni rese o vagliate nell’esame (Cass., Sez. IV, 14 giugno 1994, cit.) e altro che la si voglia praticare allo stesso fine per dichiarazioni recepite dall’investigazione senza il vaglio dibattimentale della fonte. Per le prime è da superare « la presunzione di inattendibilità » (Cass., Sez. VI, 19 gennaio 1990, in Arch. nuova proc. pen., 1991, 129) ovvero l’« insufficiente » attendibilità (Cass., Sez. IV, 26 febbraio 1991, in Cass. pen., 1992, 1293) della persona da cui promanano; per le seconde, oltre a questo, è da ovviare al fatto che sono state raccolte con il metodo autoritativo nelle indagini preliminari e che su di esse non è dato alcun controllo in dibattimento. Inoltre la regola dell’art. 192 comma 3 c.p.p., quand’anche non si acceda all’opinione che sia in se stessa meramente didascalica e vuota di alcuna precettività (Cordero), per la verità ha subito un logoramento interpretativo così sensibile da renderla inidonea a vincolare la motivazione del giudice a un uso tanto contenuto o addirittura marginale delle dichiarazioni in questione da neutralizzarne le caratteristiche di risultanza acquisita in via autoritativa e sottratta a un qualsivoglia controllo dialettico. Si asserisce che sono necessari « riscontri esterni », ma poi se ne perde ogni consistenza di significato. Ad esempio, all’ovvio rilievo che il riscontro non deve provenire da una risultanza che già costituisca « prova autosufficiente di colpevolezza » si fa seguire l’affermazione che esso, potendo essere di qualsiasi tipo e natura, deve « formare oggetto di giudizio complessivo assieme alla chiamata » da riscontrare (Cass., Sez. VI, 17 ottobre 1990, in Cass. pen., 1993, 134, nota Squarcia). Né sarebbe realistico aspettarsi una minimizzazione così drastica del loro valore: se fosse questo il risultato a cui puntano quanti trattano la questione mettendo in campo il principio di non dispersione probatoria, il gioco non varrebbe la candela; tanto varrebbe non impegnarsi in costruzioni così complesse e laboriose ma del tutto sproporzionate a risultati di ben poco conto: più semplice sarebbe abbandonare a un destino di oblio
— 763 — quelle dichiarazioni. Il fatto è che ciò che invece ci si prefigge è che il giudice se ne possa servire ogni qual volta l’economia dei materiali probatori e della decisione richieda per una soddisfacente ricostruzione dei fatti la loro utilizzazione a pieno titolo: ovviamente, con i criteri e i limiti, ma nulla di più, che sono propri del vaglio critico di ogni risultanza probatoria, ora più insistito ed esigente e ora meno, secondo le particolarità del singolo giudizio, ma senza amputazioni da imporre ex lege al « naturale » svolgersi del libero convincimento. E nel gioco a tutto campo della motivazione di un tale libero convincimento, quando una regola di esclusione non operi in modo categorico e sia anch’essa affidata all’apprezzamento del giudice, si entra in un circolo vizioso e riesce davvero difficile non convenire che, « dove il narrante sia creduto, le conferme non mancano mai » (Cordero). Ma è da introdurre un’ulteriore considerazione circa l’implausibilità di un’attitudine effettiva della regola dell’art. 192 comma 3 c.p.p. a ridurre l’uso decisorio di quelle dichiarazioni investigative entro limiti che ne disinneschino l’insidia dell’origine sommata alla sua insindacabilità nella dialettica del contraddittorio. Nell’ipotesi in esame siffatte dichiarazioni, una volta che siano acquisite mediante la lettura del verbale, assumono nei confronti del loro autore un valore pieno di prova, non condizionato da alcun giudizio di riscontro. La giustificazione di ciò è indicata nel fatto che si tratta di dichiarazioni « garantite ». Ne deriva che nel medesimo giudizio e per la medesima decisione le dichiarazioni investigative dell’imputato che si avvale della facoltà di non sottoporsi all’esame valgono nei confronti di questi, a seguito di lettura, senza necessità di riscontro mentre nei confronti del coimputato debbono essere « valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità » (art. 192 comma 3 c.p.p.) (cfr. ora l’art. 513 comma 1, ultima parte c.p.p. modif. da legge 7 agosto 1997, n. 267 cit.). Il che è del tutto irrealistico, anzi logicamente improponibile, e conferma l’inettitudine di un tale « canone valutativo particolare » (sent. cost. n. 254/1992) a dare l’affidamento che se ne pretende per un giudizio al riparo dalle insidie di siffatti materiali probatori. Una soluzione davvero soddisfacente non può dunque risiedere che fuori da un quadro che ha come esito non scongiurabile il sacrificio netto della dialetticità della prova e del diritto di difesa del coimputato. La strada alternativa a cui si deve pensare è quella della separazione dei giudizi: si tratta di prescrivere che il processo cumulativo nei confronti di più soggetti lasci il passo a giudizi separati quando un imputato che nelle indagini abbia reso dichiarazioni a carico di un altro non si sottoponga all’esame e il pubblico ministero non ritenga di rinunciare al suo apporto come prova d’accusa. Di modo che, nel dibattimento separato in cui non figuri più come imputato, a questo soggetto possa non essere con-
— 764 — cessa la facoltà di sottrarsi all’esame e tuttavia intervengano a sua protezione tutti i meccanismi già esaminati con riguardo all’ipotesi dell’imputato in procedimento connesso. A una prospettiva di soluzione di questo genere non varrebbe opporre che ne uscirebbe compromessa l’economia processuale. A parte che la prassi giudiziaria, anche e soprattutto nel settore della criminalità organizzata, dà mostra di un ricorso assai ampio allo strumento della separazione dei processi nel proposito di accorpare in coacervi unitari le vicende processuali dei collaboratori di giustizia, la posta in gioco è così alta da non ammettere transazioni ispirate alla ragion economica: si tratta di dare attuazione al « diritto di difendersi provando » dell’imputato, che è il nucleo del diritto di difesa, e al principio dialettico del processo, l’uno e l’altro aunnullati, e non semplicemente limitati, nella situazione in esame proprio in relazione a una fonte probatoria spesso destinata a essere il momento clou dell’acquisizione dei materiali di prova. 18. Dal « garantismo inquisitorio » del processo misto al metodo dialettico del processo di parti: dal diritto generalizzato di tacere all’obbligo di deporre assistito dal nemo tenetur se detegere come premessa necessaria per l’esercizio delle tecniche della prova dialettica. — Occorre prendere atto, a questo punto, che la polemica sul tema della utilizzabilità probatoria delle dichiarazioni in precedenza rese dal coimputato ovvero dall’imputato o indagato in un procedimento connesso o collegato a seguito dell’esercizio del diritto al silenzio deve essere esercitata non solo nei confronti delle posizioni che propugnano tale utilizzabilità facendo leva sul preteso principio di non dispersione probatoria, ma anche nei confronti di quanti la contrastano in nome di una doppia professione di fedeltà sia al principio della prova dialettica e sia al riconoscimento totale e incondizionato della facoltà di quei soggetti di non sottoporsi all’esame. La cultura processualpenalistica sembra pervasa ancora oggi da una forte remora quando deve affrontare il tema del rapporto tra diritto di difesa e esame dell’imputato. Di questo si esalta la natura di mezzo di prova evidenziando la valorizzazione che in tale chiave esso ha ricevuto nel nuovo codice rispetto alla natura eminentemente difensiva e, per necessario contrappunto, scarsamente probatoria a cui l’interrogatorio anche dibattimentale dell’imputato era relegato nel sistema previgente. E si sottolinea come questa mutazione metta in buona sostanza di fronte all’istituto della testimonianza dell’imputato, prova storica fruibile dal giudice non più soltanto nella versione della confessione (tale, nonostante volonterose ma vane enunciazioni di principio, l’uso praticamente utile che si era disposti a riconoscere in sede decisioria alle dichiarazioni rese con l’interrogatorio dall’imputato), ma come risultanza da vagliare alla stregua di ogni altro materiale
— 765 — probatorio. E se il « sapere della parte » ha potuto guadagnare questo nuovo e pregnante ruolo — si continua — ciò è avvenuto grazie al metodo del contraddittorio e dell’immediatezza che consente, per questa fonte come per ogni altra, una escussione capace di far affiorare, assieme ai dati di conoscenza, anche le ragioni della sua attendibilità o inattendibilità. Vediamo allora di soffermarci sul punto. Dichiarazioni spontanee, interrogatorio, esame incrociato sono istituti a differente tasso di efficienza probatoria in conseguenza della loro diversa attitudine a fornire narrazioni storiche appaganti sui due piani della compiutezza e dell’attendibilità. Quando l’iniziativa della narrazione rimane tutta nelle mani del dichiarante, il suo destinatario è un ricettore passivo, sguarnito di ogni strumento per intervenire a far emergere una maggiore completezza dell’esposizione o, se del caso, a rimarcarne i limiti, nonché a far leva sul suo andamento per ricavarne ogni risorsa utile a capacitarsi se si manifesti in modo veridico o meno. L’interrogatorio, con la sua conduzione monolitica, assicura aperture solo parziali su questi due piani; gli insegnamenti che vengono dalla prassi, anzi, inducono ad attendersi risultati unilaterali, segnati dall’unico punto di vista dell’interrogante. Con l’esame incrociato l’esperienza conoscitiva si spiega invece a tutto campo: dai contrapposti punti di vista delle parti d’accusa e di difesa, e poi dalla posizione di terzietà del giudice, la fonte è sollecitata a che la narrazione si esplichi in modo completo e contemporaneamente è verificata in corpore vivo negli elementi idonei ad accreditarla o a screditarla in punto di attendibilità; è in questo momento del suo divenire, prima e più che nel vaglio critico finale dei suoi risultati, che le parti hanno modo di far emergere e il giudice di percepire le ragioni del persuadersi che le dichiarazioni abbiano o meno manifestato in modo completo e attendibile le conoscenze della loro fonte. L’esame della parte, insomma, si alimenta nella sua attitudine probatoria alla metodologia generale della prova dialettica, cioè alle regole dell’oralità, del contraddittorio e dell’immediatezza cui l’intero impianto processuale si vuole che sia informato. Ma è proprio qui che si vede frapporsi l’accennata remora, con una conseguente grave incongruenza. Una volta postisi nell’ottica dialettica, è indispensabile che il processo sia attrezzato con le tecniche proprie di questa, che sono per l’appunto l’oralità, il contraddittorio e l’immediatezza. Con ciò contrasta, invece, l’insistenza in assunti concettuali e normativi che impediscono di praticare queste tecniche: tale è il caso della facoltà di non rispondere che acriticamente si vuole confermata negli stessi assetti in cui era conosciuta dal sistema previgente, senza preoccuparsi, per un verso, di verificare se la tutela del soggetto sia realizzabile anche con altri mezzi (quali sono quelli che si è cercato di enucleare in relazione alle differenti situazioni processuali analizzate) e senza avvedersi, per un altro verso, che quella indiscriminata facoltà di non rispondere, se era in-
— 766 — nocua nel quadro del codice abrogato, ha nell’attuale modello un effetto pernicioso per non dire devastante. Infatti in un modello processuale che si impernia sulla normale utilizzabilità come prova dibattimentale dei risultati dell’investigazione istruttoria il riconoscimento di quella facoltà con una generosità anche sovrabbondante non ha nessun costo per il sistema; anzi, ne asseconda la propensione a stabilire una linea di diretta e automatica comunicazione tra ricerca investigativa e dibattimento. In un modello processuale imperniato su un rapporto tra investigazione e dibattimento per il quale i risultati della prima costituiscono il bagaglio di conoscenza da impiegare, ad opera delle parti, nel secondo per la formazione in via originaria della prova quella medesima scelta normativa agisce da fattore di crisi: compromette l’operatività delle tecniche dell’oralità, del contraddittorio e dell’immediatezza e, poiché la vita pratica del sistema non può sopportare chiusure eccessive a che le conoscenze procurate dalle indagini siano messe a frutto nell’acquisizione al dibattimento delle conoscenze necessarie per la decisione, dà la stura alla ricerca di soluzioni che assegnino alle prime il valore di prova. Esattamente questo è l’effetto perverso che va contrastato riconducendo il diritto al silenzio, nelle diverse situazioni considerate, alle dimensioni realmente richieste da esigenze di tutela che non sia possibile soddisfare altrimenti, così da fare salva l’integrità funzionale delle tecniche di formazione dialettica della prova e neutralizzare le spinte a un recupero del metodo autoritativo (diversamente orientata è la posizione di chi — Tonini — sostiene che l’obbligo di esame e di verità debba essere imposto ai cosiddetti collaboratori di giustizia per ragioni etiche e giuridico-sanzionatorie). D’altronde si è già avuto modo di rilevare (par. 10) come nelle situazioni in esame siano annidati potenziali elementi di tensione che sconsigliano il ritorno tout-court all’originario tenore dell’art. 513 comma 2 c.p.p. (questa, invece, la strada battuta con la legge 7 agosto 1997, n. 267, cit., che pure prevede la possibilità di lettura del verbale delle dichiarazioni rese nelle indagini « soltanto con l’accordo delle parti »), e il mantenimento del comma 1, quasi che una soluzione del genere fosse la panacea di ogni male. In realtà norme del genere consentono al pubblico ministero di tenere in scacco la persona che nelle indagini abbia fatto dichiarazioni accusatorie a carico di altri. Libera in dibattimento di sottrarsi all’esame, questa persona è giocoforza aspettarsi che prenderà le proprie decisioni anche e soprattutto tenendo conto dei desiderata del pubblico ministero ogni qual volta questi abbia ancora la possibilità di condizionare la sua sorte processuale, a cominciare dall’accesso ai riti alternativi premiali. E questi condizionamenti è facile intravvedere come siano destinati a passare dall’an al
— 767 — quomodo dell’esame, con il rischio per nulla teorico che ne sia compromesso uno svolgimento impregiudicato. Un esame posto sotto l’ipoteca del pubblico ministero, si è già visto, non è la migliore risorsa per la prova genuina. Anche da questa prospettiva, dunque, la soluzione di ricondurre alla misura davvero necessaria il diritto al silenzio delle persone di cui all’art. 210 c.p.p. è quella che meglio concorre a salvaguardare l’integrità delle tecniche della prova dialettica: queste persone sin dal momento in cui, nelle indagini, rendessero dichiarazioni a carico di altri saprebbero che in dibattimento non avrebbero la possibilità di sottrarsi all’esame e il pubblico ministero non avrebbe modo di influenzare, anche solo involontariamente, i loro comportamenti sia nelle indagini e sia nella fase dibattimentale. 19. Le dichiarazioni estradibattimentali raccolte dal giudice. Atti « garantiti » in senso proprio e in senso improprio. — Si deve infine verificare se le conclusioni del discorso condotto con riferimento alle dichiarazioni raccolte dal pubblico ministero nelle indagini preliminari valgano anche per gli altri tipi di dichiarazioni estradibattimentali, raccolte dal giudice per le indagini preliminari mediante interrogatorio, dal giudice dell’udienza preliminare a norma dell’art. 421 comma 2 c.p.p. (per il potenziamento della natura dialettica di tale atto, in funzione della possibilità di lettura del verbale in dibattimento, cfr. ora artt. 514 comma 1 e 421 comma 2 c.p.p. modificati dall’art. 2, l. 7 agosto 1997, n. 267, cit.), dal giudice del giudizio abbreviato ovvero rese mediante incidente probatorio o mediante esame in altro dibattimento (cfr. ora l’art. 238 c.p.p. come modificato dalla legge ult. cit.). Occorre distinguere secondo che si tratti di dichiarazioni raccolte con un atto a cui la persona contro cui si intendono far valere vi abbia o no partecipato esercitando o comunque potendo esercitare il contraddittorio. Nel caso positivo sono atti « garantiti » e rispondenti a un modello dialettico più o meno accentuato. Per essi ciò che viene a mancare è l’immediatezza dibattimentale, che però non è elemento sufficiente per farne escludere l’utilizzabilità. Nel caso negativo debbono invece trovare conferma le soluzioni che si sono messe a punto per le dichiarazioni raccolte dal pubblico ministero. In senso contrario non possono deporre né il fatto che originino da atti compiuti dal o alla presenza del giudice, né il fatto che siano dichiarazioni acquisite comunque con il metodo del contraddittorio. Quanto alla componente giurisdizionale di tali atti, essa non compensa di certo la mancanza di oralità, contraddittorio e immediatezza nel dibattimento; il valore della prova dialettica è tale proprio perché non è riposto in una garanzia prestata dall’esterno del suo metodo di formazione. Quanto all’aspetto del contraddittorio intervenuto intra alios, è da osservare che ciò che rileva,
— 768 — perché una risultanza estradibattimentale veda realizzati i requisiti di dialetticità indispensabili ad ammetterne l’utilizzabilità in dibattimento, è un contesto di contraddittorio non qualsiasi, ma specifico, del quale siano cioè partecipi gli stessi soggetti destinatari dell’utilizzazione probatoria dei suoi esiti. Anzi dichiarazioni acquisite nel contraddittorio svoltosi tra soggetti diversi presentano a ben vedere, per la loro utilizzabilità dibattimentale, una controindicazione in più rispetto a quelle raccolte unilateralmente dal pubblico ministero. E non è, ancora una volta, solo questione di diritti della difesa. Infatti l’elaborazione dialettica di una prova che avvenga ad opera di certi soggetti, ovviamente portatori di interessi e punti di vista propri, può produrre risultati assistiti da requisiti di completezza e affidabilità funzionali ad essi, ma non funzionali ed anzi potenzialmente contrari a quelli di altri soggetti. 20. L’espansione nel sistema dell’ideologia della non dispersione probatoria. — La linea del « principio » di non dispersione probatoria iniziata con l’impatto duro prodotto dalle sent. cost. n. 254/1992 e n. 255/1992, è in continuo avanzamento in pressoché tutto il corpo del sistema. a) Si è già avuto modo di richiamare il caso del prossimo congiunto che, dopo avere reso dichiarazioni alla polizia giudiziaria o al pubblico ministero nelle indagini preliminari, nel dibattimento si avvale della facoltà di astenersi dal deporre a norma dell’art. 199 c.p.p. (per la legittimità costituzionale del riconoscimento di tale facoltà cfr. Corte cost. 30 novembre 1971, n. 190, in Giur. cost., 1971, 2227, nota Melli; Id. 12 gennaio 1977, n. 6, ivi, 1977, 29). La Corte costituzionale, per dichiarare non fondata una questione di costituzionalità che era stata proposta riguardo a tale disposizione sull’assunto che essa preclude l’uso dibattimentale delle precedenti dichiarazioni, ha affermato che all’opposta conclusione si deve invece pervenire sulla scorta dell’art. 512 c.p.p.: l’esercizio della facoltà di tacere integra l’ipotesi di impossibilità sopravvenuta della ripetizione dell’atto e quindi apre la strada alla lettura di quelle dichiarazioni (Corte cost. 16 maggio 1994, n. 179, in Giur. cost., 1994, 1589, nota Pitton, 1601, nota Cenci). È in primo luogo da registrare la singolarità dell’interpretazione normativa su cui la questione è impostata e che si vedrà poi perpetuarsi nella prassi giudiziaria facendo del combinato disposto degli artt. 238 comma 3 e 512 c.p.p. un tramite sempre più ampio per il passaggio di atti dall’investigazione al dibattimento. L’esercizio di un diritto apparterrebbe al novero di « fatti o circostanze imprevedibili » come se la sua previsione in una disposizione di legge non ne facesse una evenienza normale (Cass., Sez. VI, 21 aprile 1994, in C.E.D. Cass., n. 198476, infatti, ha escluso che nella specie possa trovare applicazione l’art. 512 c.p.p. che presuppone
— 769 — che la ripetizione dell’atto « sia divenuta impossibile per fatti imprevedibili e non già per l’esercizio di una facoltà debitamente preveduta e garantita dalla legge »). Il fatto è che questo capovolgimento logico-normativo del costrutto della disposizione, messo a segno assumendo come eccezionale un fatto di normale previsione in modo da farne il presupposto per convertire da eccezionale in normale l’uso dibattimentale di risultanze investigative, era necessario per propiziare il ricorso interpretativo all’asserito « principio »; così che, riplasmata in questi termini la norma, si è detto che l’esercizio della facoltà di tacere è stato ricompreso dal legislatore nei casi di « sopravvenuta impossibilità di ripetizione dell’atto » che legittimano la lettura dei verbali degli atti compiuti prima del dibattimento, « e ciò in linea con il criterio tendente a contemperare il rispetto del principio dell’oralità con l’esigenza di evitare la perdita, ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede (cfr. sent. n. 254 del 1992) » (sent. cost. n. 179/1994). D’altronde, osserva la Corte, al prossimo congiunto che abbia deposto rinunciando alla facoltà di astenersi non può essere riconosciuto un potere di invalidazione della deposizione; questa, una volta legittimamente assunta a seguito dell’avviso dato dalla polizia giudiziaria dal pubblico ministero o dal giudice della facoltà di tacere, è « stabilmente acquisita » (il che peraltro è contestato da Cass., Sez. VI, 21 aprile 1994, cit. che ha osservato come, per introdurre in dibattimento la deposizione precedentemente resa dal prossimo congiunto che si avvalga della facoltà di non rispondere, non si possa ricorrere alle dichiarazioni de relato dell’agente di polizia giudiziaria che l’abbia verbalizzata: queste « sarebbero ammissibili sempre che fosse possibile acquisire la dichiarazione diretta della persona che è fonte primaria della notizia ») e come tale entra nel circolo dell’utilizzabilità mediante le letture in dibattimento a norma dell’art. 512 c.p.p. posto che sarebbe irragionevole serbare a tale ipotesi un trattamento diverso da quello attribuito alle dichiarazioni delle persone di cui all’art. 210 c.p.p. Il primo elemento critico di questa costruzione è che una deposizione sarebbe da considerare alla stessa stregua « stabilmente acquisita » sia che sia stata assunta nelle indagini preliminari o nel dibattimento: non correrebbe cioè alcuna differenza tra la testimonianza resa a seguito di esame dibattimentale, che il prossimo congiuto non può certamente sottrarre all’utilizzazione per la decisione dichiarando che avrebbe voluto astenersi dal deporre, e una deposizione resa nelle indagini, per la quale il problema è invece del tutto diverso dovendosi stabilire se e come nel dibattimento questa possa diventare prova di fronte a una dichiarazione, resa in questa sede dal prossimo congiunto, di non volersi sottoporre all’esame. Una volta di più si deve registrare una omologazione per così dire programmatica fra risultanze investigative e prove, contrastante in radice con il sistema.
— 770 — Ed è proprio in questo orientamento che si coglie come la Corte abbia ritenuto di dare ulteriore spazio all’applicazione del principio di non dispersione probatoria anziché puntare su una soluzione del problema che facesse salve le tecniche di formazione della prova. Un orientamento davvero radicato, visto che di una tale diversa soluzione, conforme al processo dialettico, la stessa Corte non aveva mancato di individuare le premesse quando aveva rilevato che « la dottrina e la giurisprudenza hanno ampiamente dibattuto se la rinuncia alla facoltà di astensione precluda al prossimo congiunto l’esercizio successivo del diritto in esame » (sent. cost. n. 179/1994). Questa, invero, era la strada maestra da percorrere per risolvere il problema dentro le coordinate del sistema. Il prossimo congiunto che, regolarmente avvisato dalla facoltà di tacere, non se ne avvale e rende la deposizione fa una scelta di rinuncia definitiva e irrevocabile a tale situazione soggettiva di favore. Così che, citato in dibattimento per l’esame, egli non vi si può sottrare e ha gli ordinari obblighi del testimone, con la conseguente normale applicabilità di tutto il quadro normativo delineato dall’art. 500 c.p.p. b) La regola risultata dalla declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 513 comma 2 c.p.p. è stata poi estesa dalle dichiarazioni estradibattimentali rese in una fase del medesimo procedimento a quelle rese in altro procedimento (per la soluzione negativa nella vigenza dell’originario art. 513 comma 2 c.p.p. cfr. Cass., Sez. III, 26 settembre 1991, in Giur. it., 1993, II, 78, nota Sanna). E ciò, si noti, si tratti di un diverso procedimento connesso o collegato oppure a tutti gli effetti « terzo »: una volta che la persona separatamente imputata o indagata in un procedimento connesso o collegato si avvalga, nel dibattimento in cui è citata per l’esame, del diritto di non rispondere, le dichiarazioni dalla stessa rese in qualsivoglia sede processuale vi hanno accesso come prova mediante la lettura del verbale (Nappi). Un vero e proprio passe-partout che propizia esiti perversi, ricavato dal combinato disposto degli artt. 238 e 511-bis c.p.p., frutto della novellazione legislativa ispirata dalle sentenze costituzionali nn. 254/1992 e 255/1992. Dall’art. 238 comma 3 c.p.p. si trae pure qui la regola che il rifiuto di deporre integri una causa sopravvenuta di irripetibilità dell’atto (come se, tra l’altro, l’esame dibattimentale fosse niente più che la ripetizione dell’atto investigativo), mentre nell’art. 511-bis c.p.p. si trova la conferma che, se l’esame non ha luogo, il verbale delle dichiarazioni estradibattimentali è suscettibile di lettura. A seguito della quale esso « è allegato al fascicolo d’ufficio (art. 515 c.p.p.) ed è utilizzabile dal giudice a norma dell’art. 526 c.p.p., non potendo essere limitato alla sola funzione della credibilità della persona esaminata, perché l’esame non vi è stato » (Cass., Sez. VI, 11 aprile 1996, in C.E.D. Cass., n. 204476; per il ri-
— 771 — chiamo al solo art. 238 c.p.p. cfr. Trib. Marsala 15 luglio 1994, in Foro it., 1995, II, 574. Nel senso che la medesima conclusione sia da trarre sulla base della nuova lettura del combinato disposto degli artt. 210 e 513 comma 2 c.p.p. a seguito della sent. cost. n. 254/1992 cfr. Trib. Torino 23 settembre 1993, in Dif. pen., 1994, 4, 103; e, per un’applicazione alla situazione contemplata nell’art. 513 comma 1 c.p.p., Id. 17 marzo 1992, ivi, 1992, 37, 88. In senso contrario, Nobili). Tutto questo, si sottolinea, « in conformità al principio di non dispersione della prova cristallizzato dalla Consulta con la sent. n. 254/1992 » (Trib. Milano, ord. 25 settembre 1996, pres. Crivelli, Arces, ined.). c) Il combinato disposto, questa volta, degli artt. 513 comma 2 c.p.p. (come risultante dalla sent. cost. n. 254/1992) 238 novellato e 511-bis c.p.p. ha condotto poi all’estensione alla ricognizione della linea normativa elaborata per l’esame. Quando come ricognitore sia chiamato in dibattimento un soggetto imputato o indagato in un procedimento separato connesso o collegato e questi si avvalga del diritto al silenzio (riconosciutogli senza riserva alcuna: cfr. Corte cost. 30 giugno 1994, n. 267, in Giur. cost., 1994, 2177), per irripetibilità dell’atto è suscettibile di lettura il verbale dell’individuazione compiuta dal medesimo soggetto nelle indagini (Cass., Sez. VI, 18 febbraio 1994, in Giust. pen., 1995, III, 144). È evidente che una conclusione del genere deve fare i conti con il regime normativo attribuito all’individuazione di persone o cose dal legislatore e legittimato dai giudici della Consulta: l’individuazione è « un puro atto d’indagine finalizzato ad orientare l’investigazione, ma non ad ottenere la ‘‘prova’’ », tanto che l’art. 361 c.p.p. ne prevede il compimento « quando è necessario per la immediata prosecuzione delle indagini »; esso ha dunque « una funzione esclusivamente endoprocessuale » (cioé chiusa dentro la fase investigativa) e non può ravvisarsi alcuna illegittimità costituzionale dell’art. 364 c.p.p. per il fatto che non annoveri l’atto fra quelli a cui il difensore ha diritto di assistere (Corte cost. 12 giugno 1991, n. 265, in Giust. pen., 1992, I, 255). Che è come dire: poiché il risultato di questo atto non potrà mai emergere in dibattimento, non c’è alcun interesse difensivo da tutelare. Ma l’argomento, meglio il decisum della Consulta sembra che non possa non cedere il passo alla necessità di non disperdere la prova in caso di irripetibilità dell’atto: il regime prefigurato dalla legge e collaudato dalla giurisprudenza costituzionale « presuppone che sia possibile nella fase del dibattimento espletare il mezzo di prova corrispondente e cioè la ricognizione. Quando, invece, l’atto è divenuto irripetibile per il rifiuto opposto dal coimputato di rendere alcuna dichiarazione, ne è consentita l’utilizzazione ai fini previsti dall’art. 526 comma 1 c.p.p. » (Cass., Sez. VI, 18 febbraio 1994, cit.). Difficile negare che la cosiddetta non dispersione della prova sia in realtà intesa come trasmigrazione pura e semplice delle risultanze investigative dalla fase delle indagini al dibattimento.
— 772 — E ciò oltre ogni limite. L’individuazione è atto non garantito e — si è detto — è corretto che così sia perché esaurisce la propria funzione entro l’investigazione; la ricognizione, dunque, neppure metaforicamente può dirsi che ne sia la ripetizione; senonché l’impossibilità di espletare questa deve consentire l’utilizzazione dibattimentale di quella per sopravvenuta irripetibilità. d) Di non minore forza è stato l’impatto dell’ideologia della non dispersione probatoria con il tema della perizia. Il primo passo è stato scandito dagli artt. 238 novellato e 511-bis c.p.p. Foggiati con l’obiettivo precipuo di conservare mediante il veicolo della scrittura le dichiarazioni acquisite fuori dal dibattimento, queste disposizioni, convertendo in prova i « verbali di prove di altri procedimenti », hanno in effetti interessato, oltre all’esame, anche gli altri mezzi di prova e anzi, per alcuni di questi, hanno generato deviazioni dalle regole dialettiche forse ancora più penetranti che per il primo. Tale il caso della perizia assunta in altro procedimento mediante incidente probatorio o nella fase dibattimentale. L’art. 238 c.p.p., mentre nel comma 1 ricomprende nella sua generale previsione anche questo mezzo di prova, nel comma 4 limita alla prova testimoniale il diritto delle parti all’esame della persona da cui provengono le dichiarazioni recepite da altro procedimento mediante la lettura del verbale; lettura che, giusto l’art. 511 comma 2 c.p.p., può essere disposto solo dopo l’esame. L’art. 511-bis c.p.p., dal canto suo, nel disciplinare la lettura di verbali di altri procedimenti ha richiamato solo questo comma 2 dell’art. 511 c.p.p. e non anche il comma 3, che, per il caso di perizia espletata nel medesimo procedimento (in fase dibattimentale o con incidente probatorio), stabilisce che la lettura della relazione peritale sia disposta solo dopo l’esame del perito. La conseguenza normativa che ne è derivata ha del paradossale. Per la testimonianza la ricezione dall’esterno di dichiarazioni in veste di prova scritta è stata temperata con il diritto all’esame della loro fonte, mentre per la perizia la riduzione a prova scritta, senza contraddittorio e immediatezza, è radicale: non solo il soggetto imputato nel diverso processo in cui questa è fatta valere non ha potuto partecipare alle operazioni peritali espletate nel procedimento d’origine, ma per di più, e senza che ne ricorra alcuna impossibilità, si vede precluso l’esame del perito consentito invece all’imputato del processo d’origine che pure ha o avrebbe potuto partecipare alle dette operazioni. Il secondo passo s’è incaricata di farlo la Corte costituzionale, sullo specifico terreno della perizia espletata con incidente probatorio. Denunciato l’art. 238 comma 1 c.p.p. di contrasto con l’art. 24 cpv. cost. (Trib. Pistoia, ord. 14 maggio 1993, in G.U. n. 35 del 25 agosto 1993, la serie spec.), i giudici della Consulta da un lato hanno confermato la correttezza dell’interpretazione di tale disposizione che era stata fatta propria dal giu-
— 773 — dice rimettente nei termini sopra esposti, dall’altro ne ha escluso un qualsiasi profilo di incostituzionalità (Corte cost. 26 maggio 1994, n. 198, in Giur. cost., 1994, 1718). Questo il ragionamento: l’art. 238 c.p.p. va coordinato con l’art. 403 c.p.p. (ora modificato dall’art. 5 legge 7 agosto 1997, n. 267, cit.), che deve trovare applicazione anche nel caso di perizia eseguita con incidente probatorio e utilizzata in altro procedimento e che, nell’interpretazione già collaudata dalla giurisprudenza costituzionale (cfr. Corte cost. 16 maggio 1994, n. 181, in Cass. pen., 1994, 2393) non esclude l’utilizzazione della perizia nei confronti dell’imputato che non abbia partecipato alle relative operazioni in quanto al tempo dell’espletamento di queste non era ancora stato individuato come soggetto a cui attribuire la qualità di indagato o (è da aggiungere dopo Corte cost. 10 marzo 1994, n. 77, in Cass. pen., 1994, 1788, nota Macchia e 1994, nota Tonini) di imputato, e ciò senza alcuna lesione del diritto di difesa potendo questo « riferirsi soltanto ad un soggetto nei cui confronti sussistono elementi di colpevolezza e non anche nei confronti di chi non sia stato raggiunto da indizi di responsabilità » (sent. cost. n. 198/1994). L’argomento risulta però inconferente. Dà conto del fatto che nel dibattimento del diverso processo quella perizia sia utilizzabile per l’imputato nei cui confronti non si procedeva al tempo dell’espletamento dell’incidente probatorio alla stessa stregua che nei confronti di un imputato del processo d’origine. Ma non risolve il problema circa il fatto che a quel primo soggetto, a differenza del secondo (Cass., Sez. I, 6 febbraio 1997, in Guida dir., 24 maggio 1997, n. 19, 94), è disconosciuto il diritto di esame del perito prima della lettura della relazione peritale. Senza dire dell’eccentricità di una costruzione che fa dipendere l’utilizzabilità di una prova in un diverso processo dal fatto che al tempo della formazione di questa l’imputato del procedimento connesso o collegato o semplicemente « terzo » fosse già stato individuato come soggetto contro cui procedere così da essere doveroso consentirgli di parteciparvi: eventualità assai improbabile o senz’altro impossibile in numerosi casi facilmente ipotizzabili. Pure qui è in realtà da registrare nella giurisprudenza della Corte una progressiva penetrazione della convinzione che la prova scritta, cioè, fuor di metafora, imposta nel dibattimento senza l’esercizio dello strumento dialettico, non deve ormai suscitare alcuna diffidenza, ma, piuttosto, ricevere il più ampio accesso per adempiere all’« accertamento della verità ». Il che sembra trovare un interprete ancora più insistito nella giurisprudenza ordinaria (Cass., Sez. VI, 24 giugno 1996, in C.E.D. Cass., n. 205206): che la perizia sia prova da recepire per via scritta anche in altro processo è cosa autorizzata tout-court e senza limiti dall’art. 511-bis c.p.p. ORESTE DOMINIONI Ordinario di diritto processuale penale comparato nell’Università degli Studi di Milano
LE OPZIONI PENALI IN TEMA DI USURA: DAL CODICE ROCCO ALLA RIFORMA DEL 1996
SOMMARIO: Introduzione; 1. Premesse storiche alla criminalizzazione dell’usura. — 2. L’usura nel codice Rocco: il modello soggettivizzante. — 3. La riforma del 1992. — 4. I diversi modelli di disciplina; esperienze straniere a confronto: a) il modello soggettivizzante di tipo elastico. - b) il modello oggettivizzante di tipo rigido. — 5. La scelta italiana del 1996. — 6. Alcune riflessioni sull’interesse protetto dalla nuova fattispecie. — 7. (Segue): verso una pubblicizzazione dell’interesse tutelato. — 8. Ancora repressione: gli artt. 7, 8 e 9. — 9. Dalla repressione alla prevenzione: a) gli interventi preventivo-afflittivi. - b) gli interventi preventivo-solidaristici. — 10. Per una politica criminale integrata.
Anche per gli storici dell’economia « ... il credito si presta a numerosi abusi: da una parte, il non-rimborso; dall’altra, l’esigenza di una remunerazione esorbitante o la pratica di penalità eccessive inflitte in caso di non-rimborso. Perciò l’uso del prestito e i suoi possibili abusi hanno rapidamente sollecitato l’attenzione del legislatore, il giudizio del moralista, e più tardi la riflessione del teologo o del filosofo » (1). Particolarmente sensibile al problema degli abusi legati al credito, l’occidente cristiano proibisce il prestito a interessi, chiamato semplicemente usura fino alla fine del XVI secolo, in nome di una serie di precetti morali che si trasmettono per secoli e entrano a far parte del corpus delle leggi sacre e inviolabili (2), secondo le quali il prestito a interesse deriverebbe la sua illiceità morale dal fatto di non essere gratuito. Mentre, per esplicito precetto divino, il mutuo avrebbe dovuto esserlo, in quanto secondo l’insegnamento biblico esso doveva servire a sopperire a un grave bisogno legato allo stato di povertà del mutuatario (3). (1) GELPI, JULIEN-LABRUYERE, Storia del credito al consumo, Bologna 1994, p. 31. (2) SANTARELLI, Mercanti e società tra mercanti, Torino 1992, p. 144 « Le fonti di questo divieto non potevano essere più autorevoli, in una società come quella medievale: si trattava, come tutti sanno, di pagine bibliche ». V. anche CLAVERO, Del uso economico de la religion en la historia, Madrid 1984, passim. (3) SANTARELLI, op. cit., p. 147: « Nato così, e così inscindibilmente e vitalmente connesso a una certa struttura economica, il divieto delle usure fu chiamato a traversare millenni di storia, e a riproporsi identico a se stesso in situazioni profondamente diverse — strutturalmente e culturalmente — rispetto a quella originaria, ma pur sempre provvisto di
— 775 — Ma presto quelle leggi, che si trasmettono cristallizzate nel tempo (4) in una società in continua mutazione, non risultano più rispondenti all’evoluzione storico-economica della società. « Da qui la necessità rapidamente sentita dalla società di aggirarle, di reinterpretarle e infine di abrogarle » (5). Si tratta di un percorso prettamente ideologico, legato però costantemente alle contingenze economiche del momento « come un contrappunto morale allo sviluppo della società mercantile » (6). Tuttavia è un processo che ha lasciato profonde tracce nell’atteggiamento sociale verso il prestito a interesse, anche perché l’occidente cristiano ha faticato non poco a « inventarsi un sistema dottrinale elaborato per mettere la sua pratica in armonia con la sua fede » (7). Alla pratica del prestito a interesse la società occidentale infatti non poteva ormai più rinunciare, in quanto esso rappresentava una « delle prime manifestazioni economiche della vita in società e un momento essenziale della sua evoluzione » (8). Queste brevi considerazioni mettono già in luce l’origine antichissima del prestito a interesse e del relativo divieto (9) e indirizzano verso una preliminare indagine storica, che consenta una ricostruzione più attenta del fenomeno attuale dell’usura. Oggi non è possibile impostare un’indagine su un istituto senza che la comprensione e conoscenza del fenomeno una sua ‘‘naturale’’ intangibilità derivante dall’essere inserito in un contesto di cui nessuno avrebbe osato discutere l’infallibilità propria di un precetto ‘‘divinamente ispirato’’ ». (4) In realtà, il divieto delle usure « sembra attraversare immutabile una lunga e frastagliata storia, e che invece — come la situazione di illecito a cui tese a contrapporsi — finì con l’assumere molti e diversissimi connotati a seconda dei contesti sociali e culturali in cui si trovò ad essere applicato » (SANTARELLI, op. cit., p. 144). (5) GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 32: « Il problema vero, con cui la prassi e la riflessione teorica si trovarono insieme a fare i conti, non fu quello di eludere il divieto o di colpire i suoi contravventori, ma — molto più in profondità — fu scoprire la connessione del divieto con una certa struttura sociale ed economica (quella che poco fa definivamo la società ad economia di sussistenza), di constatare l’avvenuto passaggio ad una nuova struttura sociale di tipo mercantile, di vedere come e perché in questa nuova società non aveva significato una conferma rigorosa e indiscriminata dell’antico divieto, di elaborare infine strumenti analitici che consentissero di distinguere le fattispecie nelle quali — permanendo una situazione di povertà del mutuatario — il divieto delle usure conservava intatto il proprio valore da quelle in cui — mancando il bisogno, non solo, ma essendovi addirittura l’aspettativa di un profitto utilmente divisibile fra le parti — la conservazione del divieto sarebbe stata del tutto priva di adeguato fondamento » (SANTARELLI, op. cit., p. 148). (6) GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 32. (7) GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 32. V. anche SANTARELLI, op. cit., p. 165. (8) GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 33. (9) « La regolamentazione del prestito a interesse è al centro dei primi corpus giuridici elaborati nell’antichità; ciò fa supporre a alcuni storici che il credito potrebbe essere di origine ancora più antica e addirittura risalire alla sedentarizzazione agricola del neolitico » (GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 33). La prima legge conosciuta sull’usura è quella contenuta nell’art. 71 del codice di Hammurabi, che punisce con la perdita del credito il superamento dell’interesse fissato. Il codice di Hammurabi, come è noto, è uno dei codici più antichi e meglio conservati e risale al 1700 a.C. circa.
— 776 — oggetto di disciplina rappresenti la premessa metodologica necessaria, de iure condito, per una verifica circa la effettività e ragionevolezza della disciplina normativa e, de iure condendo, come iniziale garanzia di una disciplina che intenda essere orientata allo scopo di prevenzione. Essendo però, quello dell’usura, un fenomeno con caratteri squisitamente economici, accanto a quella storica l’indagine sull’usura dovrà tenere conto anche delle componenti economiche del processo evolutivo che hanno segnato tale fenomeno dal suo manifestarsi ai tempi attuali. Ecco dunque l’altro profilo dell’indagine, che insieme a quello storico occorre affrontare nell’esame giuridico-penale dell’usura. 1. L’atteggiamento verso il fenomeno dell’usura oscilla storicamente tra la proibizione pura e semplice e la regolamentazione di esso. Così, mentre la Chiesa osteggiava e condannava il prestito a interessi in quanto produce denaro laddove dal denaro non può nascere denaro (10), influenzando notevolmente, ad esempio, le leggi carolingie che proibivano la pratica dell’usura (11), la legge gotica non la proibisce affatto ma, secondo la tradizione greco-romana (12), la regolamenta. Il cre(10) Di derivazione aristotelica è l’idea che non si possa trarre guadagno da una cosa per sua natura improduttiva, sterile come viene definita da Aristotele la moneta. Invece con il prestito a interesse il denaro diventa produttivo e non adempie più al fine per il quale è stato creato, di facilitare cioè gli scambi. La condanna di Aristotele, ma anche di Platone nei confronti dell’usura, influenzerà notevolmente il Medioevo nel suo rifiuto dell’usura. Nella considerazione medievale, il denaro oggetto per eccellenza del mutuo, è « qualcosa di sterile per sua natura, semplice strumento si scambio, mezzo per acquistare beni di consumo » (BOARI, Usura, b) Diritto intermedio, in Enc. dir., p. 1138). All’uomo medievale non appare suscettibile di compenso legittimo la differenza temporale fra dazione e restituzione, in particolare se si tratta di un bene e la restituzione consiste nel tantundem. « Si configurerebbe altrimenti una sorta di vendita del tempo, di per sé difficile da concepirsi e comunque illecita, perché il tempo appartiene a Dio » (BOARI, op. loc. cit.). Per quanto riguarda in particolare la Chiesa, la proibizione del prestito a interessi, derivata e giustificata dalle Sacre Scritture e dalla tradizione dei Padri della Chiesa, rimane assoluta fino al secolo XII; per ulteriori approfondimenti si rinvia a GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 39 ss. e p. 67 ss. (11) La prima legge civile che proibisce ai laici l’usura è L’Admonitio generalis di Carlo Magno del 789. Al tempo dei carolingi, proprio perché essi ricevono la loro consacrazione dal papato, si rafforza la proibizione della pratica dell’usura. A tal fine Lotario, nell’825 « conferisce espressamente ai vescovi non solo il potere di cercare e di punire gli usurai, ma anche quello di richiedere l’appoggio dei conti per imporre le loro decisioni, anche con la forza. Inoltre sanziona penalmente il reato di usura emanando contro gli usurai pene di reprimenda, di ammenda e di imprigionamento. In un altro capitolare dell’832 Lotario ordina ai missi dominici di ricercare gli usurai e di consegnarli ai vescovi da cui dipendono affinché sia loro imposta la pubblica penitenza » (GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 63). (12) V., fra gli altri, CERVENCA, Usura, a) Diritto romano, in Enc. dir., p. 1125; GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 34 ss.
— 777 — dito, una volta autorizzato e regolato, « diventa un fattore di crescita e uno strumento di benessere di una società in piena espansione » (13). Tuttavia la Chiesa fino al secolo XII rimane ancorata al principio dell’assoluta proibizione dell’usura, in quanto pretesa in denaro o in natura di un di più rispetto a quello che si è prestato (14). Ma a partire dal XII secolo si vede costretta ad abbandonare il proprio atteggiamento intransigente verso l’usura (15), proprio a causa delle profonde trasformazioni sociali e economiche che si verificano da quel momento e nelle quali il protagonista, il prestito a interessi (16), assume sempre maggiore rilievo. Il passaggio è infatti dalla società feudale fondata su un’economia rurale a quella fondata sugli scambi commerciali e in via di inurbanizzazione. In questo contesto « il prestito a interessi, in tutte le sue forme, diventa un elemento importante della vita economica e un fattore essenziale dello sviluppo e del cambiamento soprattutto in Italia » (17). Lo sviluppo dell’economia di mercato e dell’egemonia del ceto mercantile, che segna il passaggio dall’età feudale a quella dei comuni, porta dunque con sé una « sostanziale mutazione » della « ‘‘natura’’ stessa del denaro... nel contesto di questo passaggio » e, di conseguenza, un profondo cambiamento del « complesso delle regole destinate a governarne l’uso » (18). (13) GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 66. (14) Anzi, ogni prestito che dia interesse viene dalla Chiesa del tempo considerato furto. Ed è opera della più antica tradizione scolastica l’aver definito l’avarizia, nella quale rientra anche l’usura, come il primo dei sette peccati capitali, al posto dell’orgoglio. Ma il declassamento di quest’ultimo, tipico peccato feudale, rispecchia in realtà l’evoluzione sociale e economica delle città soprattutto italiane verso la borghesia, cfr. GELPI, JULIEN-LA BRUYERE, op. cit., p. 67 s.; v. anche LE GOFF, La borsa e la vita, Bari 1988, passim. (15) Cfr. sul punto analiticamente GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 74 ss. (16) D’altra parte, « l’interpretazione medievale — con la sua forzosa omologazione del precetto di Luca alla normativa mosaica, che comportò alla fine l’altra più grave omologazione, del dovere morale alla norma giuridica — ridusse quella pagina evangelica nei termini angusti di una controversia sostanzialmente talmudica capace soltanto di intralciare in modo estrinseco una vicenda di fatti economici e di strumenti giuridici che aveva per sé... le ragioni invivibili della storia. Resta tuttavia certo che la lettura divulgata per secoli di questo passo di Luca fu quella che abbiamo detto, che riduceva un precetto così delicato e complesso a semplice divieto delle usure » (SANTARELLI, op. cit., p. 155). La frase celebre, tratta dal Vangelo di san Luca in tema di usura è la seguente: « fate il bene e prestate senza aspettare niente in cambio ». Sulla interpretazione ‘‘edulcorata’’ e ‘‘eccessiva’’ della frase, nel senso che il mutuo non potesse che essere gratuito e che anche la più tenue usura fosse da condannare come illecita, v. ancora SANTARELLI, op. cit., p. 152 ss. (17) GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 68. (18) SANTARELLI, op. cit., p. 149: « Questo passaggio da un mondo ‘‘feudale’’ ad uno mercantile di considerare il denaro, e il conseguente rinnovamento delle regole giuridiche (e morali) del suo uso — con tutto ciò che questo passaggio e questo mutamento comportavano sul terreno specifico del divieto delle usure — furono facilitati e resi possibili dalla riflessione, per tanti versi nuova e spregiudicata, degli Ordini mendicanti, in primo luogo dei
— 778 — Inizia così un processo di ‘‘storicizzazione’’ dell’antico divieto delle usure « che, senza in nulla smentirne il valore e la cogenza, non lo trasformasse in un fattore di paralisi economica » (19). In altre parole, sono le nuove esigenze economiche di una società in rapida evoluzione a spingere verso un progressivo temperamento dell’antico e assoluto divieto. Tale storicizzazione, che rinviene nella stretta connessione fra « bisogno sfruttato ed usura pretesa », la ragione del « giudizio di iniquità morale e di illiceità giuridica » (20) del divieto, si traduce nella relativizzazione di esso. Conseguentemente il prestito a interesse di consumo o di produzione rimane illegittimo e al tempo stesso irrazionale (21), ma l’« afflusso e il bisogno di ricchezza moltiplicano le occasioni di prestito e di usura. Una comprensione sana degli interessi della Chiesa e della società civile conduce dunque a numerose attenuazioni » (22). In particolare si elaborano pratiche lecite per eludere la proibizione dell’usura; nel senso che « semFrancescani ». V. anche GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 75 ss. Sulla nuova funzione del prestito, non più teso a sopperire a una necessità di consumo, ma a favorire un’operazione lucrativa, v. anche BOARI, op. cit., p. 1140. Si tratta di « un ‘‘prestito’’ che corrispondeva a nuove funzioni e poteva essere dal giurista qualificato in schemi contrattuali diversi. Protagonista di questa vicenda fu il mercator, figura socialmente emergente e tendenzialmente egemone, pronto a rappresentare emblematicamente le peculiari ragioni dell’imprenditoria e della finanza. A lui si attaglia perfettamente la vera chiave di volta nel processo di superamento della concezione assoluta e radicale dell’usura, e cioè il riconoscimento del lucro cessante come titolo per pattuire lecitamente degli interessi nel mutuo ». (19) SANTARELLI, op. cit., p. 150 s.: « Questa storicizzazione del divieto, che aveva preso le mosse nel colmo della civiltà comunale per rispondere in modo adeguato alle esigenze di ceto dei mercanti, dette i suoi frutti definitivi e più maturi alle soglie dell’Età moderna ». V. anche BOARI, op. cit., p. 1141: « Ma il valore storico del divieto non va cercato tanto nel rigore delle pene e della loro applicazione, quanto nell’influenza che esso ha dispiegato nel configurarsi e nell’evolversi delle figure tipiche nelle quali si è sostanziata l’esperienza giuridica di quel lungo periodo ». (20) SANTARELLI, op. cit., p. 152; nella presa di coscienza di tale necessaria connessione starebbe appunto il processo di storicizzazione del divieto, « e sulla base di questa acquisita consapevolezza, attraverso la ricognizione di quelle fattispecie tipiche nelle quali, mancando lo stato di bisogno, era impossibile che si verificasse un’ipotesi di usura illecita ». Cfr. anche BOARI, op. cit., p. 1138, il quale osserva che « l’evoluzione successiva va messa in relazione con il realizzarsi nel vivo e concreto moltiplicarsi dei rapporti economici e commerciali di un nuovo ‘‘tipo’’ di prestito, con i suoi propri presupposti, funzioni e finalità di grande rilievo sociale ». (21) GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 77: « Secondo gli Scolastici tutti i guadagni che derivano da un prestito devono essere considerati usura, o persino tutti i guadagni ottenuti con l’intento principale di trarre profitto da un prestito. Il carattere usurario di un contratto non dipende dal suo tasso di interesse: non è importante che esso sia eccessivo, moderato o modico. Qualunque guadagno realizzato con un prestito, per quanto minimo, è usurario. Non merita nessuna considerazione, invece, come lo usi colui che lo prende a prestito ». (22) GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 77: « Nonostante la gravità degli argomenti contrari ad ogni compromesso occorre sottolineare che l’effettività e l’osservanza del divieto furono sempre molto relative, tanto che, ad esempio, la figura dell’usuraio appare aver fatto parte stabilmente del tessuto sociale medievale, anche se il quadro delle sanzioni previste ri-
— 779 — brò sufficiente che un rapporto obbligatorio potesse essere qualificato come diverso dal mutuo, perché per esso non si ponesse il problema dell’illiceità dell’usura » (23). Sotto la spinta delle situazioni economiche, la dottrina relativa all’usura si evolve dunque lungo due direttrici: « 1) ravvisare (e smascherare) l’eventuale presenza dell’usura in tutte le vecchie e nuove figure contrattuali, diverse dal semplice mutuo, che nella prassi andavano emergendo — o riemergendo —, vuoi per la vivacità delle esigenze finanziarie, vuoi per la malizia dei suoi operatori; 2) ravvisare quali elementi specifici connotassero alcune nuove fattispecie concrete tanto da poterle sottrarre all’applicazione indiscriminata del divieto, non certo in via di eccezione, ma per la individuazione di precise ragioni di essenziale diversità » (24). Con il passare del tempo anche la Chiesa ammorbidì sempre di più la propria posizione negativa verso il credito al consumo, ma, secondo gli insegnamenti della Scolastica, il prestito a interessi rimase comunque proibito. E lo rimane fino alla Riforma del XVI secolo ad opera di Lutero, il quale, dopo non pochi ripensamenti, elabora il principio che l’usura non deve essere confusa con l’interesse. Essa è, in realtà, un abuso di interesse. Se così stanno le cose, il tasso di quest’ultimo deve essere normativamente definito (25). Da queste premesse, soprattutto nei paesi della Riforma protestante, si evolve il significato della parola usura, nel senso, che possiamo dire moderno, di interesse eccessivo rispetto a quello legalmente fissato o di interesse percepito abusivamente (26). Nei paesi cattolici l’evoluzione si presulta imponente, estendendosi dalla scomunica all’obbligo della restituzione, all’infamia e alla pena arbitraria » (BOARI, op. cit., p. 1140). (23) SANTARELLI, op. cit., p. 155: « L’errore di lettura fu fecondo di storia: se per esplicito precetto divino, il mutuo doveva essere gratuito, da questa premessa — erronea sì, ma generalmente ritenuta valida — si trasse la conclusione che mutuo e gratuità fossero consustanziali tra loro, che del mutuo la gratuità fosse elemento tipico ed essenziale e cioè che solamente per il mutuo — o, per lo meno, che tipicamente per il mutuo — si ponesse il problema dell’illiceità dell’usura... tutto al fine si riduceva — in un’ottica nominalistica — ad evitare ogni riferimento al mutuo (se il mutuo era — per diritto divino positivo — il luogo geometrico del divieto dell’usura); o meglio, di individuare le fattispecie oggettivamente esenti dal divieto qualificandole come diverse dal mutuo »; su tali pratiche, v. anche GELPI, JULIEN-LA BRUYERE, op. cit., p. 74 ss. « Piuttosto i valori che sottendevano alla concezione tradizionale dell’usura si decantarono dalla cristallizzazione in cui erano stati precedentemente formalizzati e semplificati nella necessaria approssimazione normativa e si specificarono riproponendosi in nuovi assetti aderenti all’esperienza in atto » (BOARI, op. cit., p. 1141). (24) BOARI, op. cit., p. 1138. (25) Sugli sviluppi della riforma con riferimento al prestito a interesse, v. GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 89 ss., il tasso legale per lo più oscilla fra il 5% e l’8%. (26) « In effetti, fin dagli inizi del secolo XVI, le autorità ecclesiastiche che cercano di far rispettare la morale tradizionale devono scontrarsi con una corrente d’opinione che nega loro il diritto d’esercitare la minima giurisdizione in materia economica. L’idea che la
— 780 — senta più lenta e caotica, nonostante dal nord Europa venga l’esempio di un’economia, nella quale la « legittimazione dell’interesse non ha assolutamente avvantaggiato la professione degli usurai. Anzi, grazie alla libertà di mercato, essa prospera meno nei paesi protestanti che negli altri; infatti l’immagine dell’usuraio appartiene all’iconografia dell’economia medievale; quando si prolunga fino ai tempi moderni, è più legata ai paesi della proibizione che a quelli del liberalismo nascente » (27). Ma a favore della proibizione si pronuncia proprio il Concilio di Trento (1545-1564), riproponendo il tradizionale significato dell’usura come prestito a interesse tout court (28). L’Europa della Controriforma non riuscirà facilmente ad affrancarsi da questa involuzione, con la conseguenza di una sempre maggiore distanza dai modelli economici che si vanno rapidamente sviluppando nel nord Europa tra il XVII e XVIII secolo. La proibizione del prestito a interesse riproposta dalla Controriforma ostacola lo sviluppo degli scambi commerciali, soprattutto marittimi e quindi la nascita delle compagnie, e rende difficile la circolazione delle tratte e delle cambiali. Ciononostante, l’usura continua a svolgere un ruolo di primo piano nella famiglia borghese, che, ancora legata alla terra, ricorre al prestito a interesse per aumentare il proprio patrimonio terriero, secondo una prassi antica e consolidata (29). Ma a chiedere il prestito sono anche i contadini, le condizioni sociali e economiche dei quali si aggravano notevolmente nel XVII secolo (30). In una società comunque avviata al fallimento generale il credito diventa ancora una volta il capro Chiesa abbia un criterio indipendente di valori da cui dipendono le istituzioni sociali è progressivamente contestata. Ben presto la Chiesa non avrà più nulla da ridire in materia di morale commerciale, poiché una sana morale coincide sempre con la saggezza commerciale » (GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 101). Sul ruolo di Calvino in questo processo evolutivo, con particolare riferimento all’usura e al suo divieto, v. ancora GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 94 ss.; v. anche BENEDETTO, Usura (diritto intermedio), in Nov.mo Dig. it., p. 375. (27) GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 103. (28) Tale posizione è favorita, « d’altra parte, dal persistere di una struttura conservatrice nei due principali paesi cattolici e dai disastri economici provocati dalle guerre in economie tuttora fragili a causa di un’agricoltura che evolve poco e che mal si adatta alla crescita demografica » (GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 105). (29) In proposito, v. più analiticamente GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 107 ss. (30) Cfr. sul punto PLACANICA, Il mondo agricolo meridionale: usure, caparre, contratti, in BEVILACQUA (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, Padova 1990, p. 261 ss.: « Nel Mezzogiorno dell’antico regime, e — con certezza — fino a quando gravi trasformazioni strutturali non vennero a travolgere antichi rapporti nelle campagne (si pensi alle conseguenze dell’emigrazione tardottocentesca), le classi contadine furono fortemente condizionate dalla scarsezza di moneta contante, indispensabile in determinate contingenze dell’anno: contingenze fattesi sempre più frequenti a mano a mano che la modernizzazione delle strutture economiche e amministrative (ampliamento dei mercati, razionalizzazione della pressione fiscale) venne eliminando le varie forme di baratto, che resistettero — con vitalità a cui quasi non si pensa — fino alla tarda età moderna, et ultra ».
— 781 — espiatorio (31). Esso viene visto quale strumento di impoverimento di strati sociali estesi e di distruzione del tessuto sociale. Occorre aspettare il XVIII secolo per la legalizzazione completa del prestito a interesse. Mentre però in alcuni paesi, come la Scozia, gli Stati Uniti d’America e l’Inghilterra nel secolo successivo si arriva anche alla liberalizzazione dell’usura, cioè alla assoluta libertà circa la percentuale di interesse (32), in altri, come l’Italia, si continua sterilmente a condannare l’usura e a promulgare leggi di tipo compromissorio che cercano di contemperare le esigenze legate allo svolgimento dei commerci, rinunciando alla proibizione assoluta dei mutui onerosi, con le istanze di repressione delle forme più gravi di usura; leggi che, peraltro, rimangono del tutto inapplicate (33). Per quanto riguarda poi il fenomeno del tutto originale della liberalizzazione dei tassi di interesse avvenuta negli ordinamenti anglo-americani, è noto come esso sia da ricondurre alle teorizzazioni del Bentham. Anche in Italia nel periodo dell’unificazione prevale lo spirito liberista, che, non disgiunto da un’insofferenza verso il clero e le sue norme, anche in materia di usura orienta le scelte liberali del primo codice penale unitario, il codice Zanardelli del 1889. Sotto l’influenza del liberismo economico imperante in altri paesi e del principio civilistico della libertà assoluta di determinazione degli interessi (art. 1831 del codice civile del 1865) (34), nella cornice del più generale precetto della libertà contrattuale, l’ordinamento penale del 1889 non offriva alcuna tutela a chi si (31) « La depressione del XVII secolo è, innanzitutto, crisi di sottoconsumo legata ai prelevamenti dello Stato. Essa è favorita dalla grave mancanza di metalli preziosi provocata dall’interruzione degli arrivi d’argento dall’America Latina e dalla regolamentazione dei prodotti dall’Estremo Oriente » (GELPI, JULIEN-LABRUYERE, op. cit., p. 115). (32) In Inghilterra nel 1854 viene soppressa qualsiasi determinazione del tasso oltre il quale gli interessi devono considerarsi usurari. (33) Emblematica la legge del 7 aprile 1828 promulgata nel Regno delle due Sicilie, in proposito v. OSTUNI, Finanza e economia nel Regno delle due Sicilie, Napoli 1992, p. 235. Il codice penale toscano del 10 giugno 1853 limita l’incriminazione alla sola usura prava o qualificata (scrocchio), mentre il Regolamento Pontificio del 20 settembre 1832 colpisce l’usura solo nel caso in cui la misura degli interessi sia superata « notabilmente » (art. 364). Il codice sardo del 1839 punisce le condotte usurarie dissanguatrici. Ma è solo con il codice sardo-piemontese del 1859, codice dell’Italia unita fino all’emanazione del codice Zanardelli del 1889, che nell’Italia liberista del periodo della unificazione scompare la criminalizzazione dell’usura, cfr. VIOLANTE, Il delitto di usura, Milano 1970, p. 220 ss.; GALLO E., L’usura nell’evoluzione dei tempi fino agli ultimi provvedimenti normativi, in Dir. pen. e processo, 1995, p. 298; LA PORTA, La repressione dell’usura nel diritto penale italiano, Milano 1963, passim. (34) L’art. 1831 prevedeva infatti che l’interesse convenzionale fosse fissato secondo la volontà dei contraenti, salvo i contemperamenti offerti dall’art. 1832 e dall’art. 1831, ultimo comma. Quest’ultimo fissava il requisito della forma scritta per l’interesse convenzionale eccedente la misura legale.
— 782 — trova costretto a sottoscrivere contratti di mutuo a interessi usurari, nonostante la dottrina e la giurisprudenza sollecitassero l’intervento del legislatore sia in campo civile che penale. La giurisprudenza, in particolare, ai fini di coprire il vuoto di tutela, quando le condizioni del contratto lo consentivano, applicando i princìpi generali del diritto delle obbligazioni, configurava come nullo o annullabile il contratto di mutuo ovvero, seppur raramente, applicava la sanzione degli artt. 409, 413, 415 del codice penale, allorché era dato rinvenire gli estremi del reato di estorsione, di truffa o di circonvenzione di incapace. Le pressioni della teoria e della prassi a favore di un controllo del fenomeno dell’usura portarono alla redazione e presentazione di cinque progetti tra il 1894 e il 1910, ma senza successo. Ma è solo con il codice del 1930 che l’usura ritorna a essere un delitto (art. 644), anche se già dal 1926 il regime fascista con Circolari ministeriali aveva cercato di controllare tale fenomeno, sollecitando provvedimenti di polizia e successivamente con il T.U. di pubblica sicurezza del 1931 introduceva l’ammonizione e il confino per gli usurai. La nuova fattispecie, secondo la tradizione, in particolare della Chiesa che vedeva la ratio del divieto nella necessità di proteggere il contraente più debole che versava in stato di bisogno, fa di questo stato un elemento costitutivo del reato di usura, elemento di cui l’agente deve essere consapevole al punto di volerne approfittare. 2. Il reato di usura assume dunque la sua definitiva configurazione nei termini appena descritti nell’art. 644 del codice Rocco, articolo che senza particolari problemi fu inserito nel titolo XIII, intitolato ai « Reati contro il patrimonio », nel capo II relativo ai « Delitti contro il patrimonio mediante frode ». Tuttavia la collocazione del reato fra quelli contro il patrimonio, se sembrò a molti la soluzione naturale e obbligata, fu accolta con qualche riserva e a volte anche contestata perché riduttiva da coloro che evidenziavano la natura plurioffensiva del delitto di usura e da coloro che tendevano a valorizzare gli aspetti pubblicistici sottesi al reato in esame. In particolare, per i primi il delitto di usura offenderebbe due differenti beni giuridici, il patrimonio e la libertà morale della vittima (35) ovvero, secondo una versione più moderna, l’interesse alla autonoma determinazione del contenuto del contratto e l’interesse attinente al patrimonio o alla sfera personale del soggetto passivo (36). Per i secondi il bene leso (35) CANDIAN A., Contributo alla dottrina dell’usura e della lesione nel diritto positivo italiano, Milano 1946, p. 38 ss. (36) VIOLANTE, op. cit., p. 235 ss.; ID., Usura, in Nov.mo Dig. it., 1975, p. 388.
— 783 — dall’usura sarebbe di natura collettiva e cioè l’economia nazionale, più specificamente l’ordinamento del credito (37). Per quanto attiene poi all’oggettività giuridica del reato, il legislatore del ’30 concepisce l’usura solo come pecuniaria, secondo la concezione tradizionale dell’usura quale elemento di patologia del solo contratto di mutuo e non di qualsiasi contratto con prestazioni corrispettive. La prestazione del soggetto attivo doveva dunque consistere in « denaro o altra cosa mobile », così si esprimeva l’art. 644. Dalla fattispecie rimanevano fuori perciò l’usura reale, consistente nella prestazione di un servizio o di una attività professionale e l’usura immobiliare, identificabile nella condotta di chi vende o fornisce in locazione un appartamento a persona in stato di bisogno per un compenso esorbitante. Invero, parte della dottrina aveva tentato di far rientrare l’ipotesi di usura reale nella fattispecie di cui all’art. 644, dilatando al massimo la nozione di cosa mobile (38), ma con scarso successo di fronte al rimprovero di realizzare così un’analogia in malam partem. Il codice Rocco accoglie dunque una concezione ristretta del reato, che vedremo superata dal legislatore del 1996. Non solo, ma forte di una tradizione, prima che giuridica, morale e sociale che legava il divieto dell’usura alla necessaria gratuità del mutuo in quanto prestazione rivolta a aiutare colui che si trova in una particolare situazione di indigenza, il codice del ’30 costruisce la fattispecie dell’art. 644 secondo un modello di tipo soggettivizzante o soggettivistico. Infatti, la fattispecie di usura viene strutturata intorno ai due elementi essenziali dello stato di bisogno del soggetto passivo e dell’approfittamento di tale stato da parte del soggetto attivo. L’usurarietà degli interessi rimane un elemento essenziale non definito, di tipo normativo extragiuridico, che in quanto tale compete al giudice individuare sulla base di norme economiche, etiche, sociali (39). La natura soggettivizzante del modello assunto dal codice Rocco emerge in particolare dal fatto che lo stato di bisogno e l’approfittamento si delineano secondo una dimensione del tutto soggettiva che si riflette inevitabilmente su tutta la fattispecie. L’approfittamento, così come emerge anche dai lavori preparatori, viene inteso come mera volontà di approfittare, indipendentemente da una connotazione attiva della condotta dell’usuraio, che caratterizzerebbe invece la condotta di abuso di cui all’articolo precedente, relativo alla circonvenzione di incapace (40). (37) FLORIAN, Il delitto di usura. Nota economico-giuridica, in Giur. it., 1935, IV, p. 95. (38) Così VIOLANTE, Il delitto, cit., p. 98 ss.; ID., Usura, cit., p. 384; nello stesso senso DE ANGELIS, Usura, in Enc. giur., 1994, p. 3. (39) Così PROSDOCIMI, Aspetti e prospettive della disciplina penale dell’usura, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, p. 588. (40) Sul punto v., da ultimo, PROSDOCIMI, op. cit., p. 578 e la bibliografia ivi richia-
— 784 — Sull’onda di quest’orientamento interpretativo, anche la spiegazione del concetto di stato di bisogno, dopo qualche incertezza fra concezione oggettiva (41) e concezione soggettivo-psicologica, finisce con l’indirizzarsi, soprattutto nella giurisprudenza, a favore della seconda, che definisce l’elemento dello stato di bisogno in ragione del modo in cui lo stesso viene avvertito e vissuto dal soggetto passivo e cioè in relazione con la situazione interiore della vittima (42). Una volta connotato soggettivamente lo stato di bisogno, gli interpreti approdano « ad una visione piuttosto ampia di tale concetto, da considerarsi ben diverso da quello di stato di necessità così come da quello di indigenza, lo stato di bisogno potendo radicarsi — alla stregua di tale ampia nozione — anche in una temporanea mancanza di liquidità e potendo, in ogni caso, concernere non solo il soddisfacimento delle elementari esigenze di vita, ma anche la tutela della propria situazione sociale, della propria attività lavorativa, della propria onorabilità, della propria situazione patrimoniale (es.: urgente bisogno di denaro per pagare imposte di successione) » (43). Quanto all’oggetto della tutela, la prospettiva soggettivistica lo individua nella libertà contrattuale, quale bene giuridico che l’art. 644 intende tutelare nella sua effettività. Anche l’interesse tutelato assume dunque una connotazione soggettiva, secondo un’interpretazione evolutiva, che coinvolge l’intera fattispecie. L’elasticità del modello interpretativo di tipo soggettivizzante, per vero, era in perfetta sintonia con la scelta legislativa di non fissare un limite oltre il quale l’interesse diventava usurario. E in mancanza di parametri normativi certi sui quali fare affidamento per determinare il conmata anche con riferimento all’elemento soggettivo del reato, con particolare riguardo alla configurabilità del dolo eventuale. (41) Che definisce lo stato di bisogno come un impellente assillo in grado di limitare la volontà del soggetto passivo, inducendolo ad accettare interessi usurari, così Cass. 15 marzo 1983, in Giust. pen., 1983, p. 586, ovvero come la situazione che spinga il soggetto passivo a aderire a una richiesta eccessivamente gravosa di interessi per non subire un danno maggiore, Cass. 18 gennaio 1980, in Cass. pen. Mass. ann., 1981, p. 227. In dottrina v. MALINVERNI, Interessi usurari e stato di bisogno, in Giur. it., 1965, p. 259 ss., secondo il quale occorrerebbe far riferimento allo stato di bisogno avvertito come tale dal buon padre di famiglia, cioè alla coazione oggettivamente valutata che proverebbe ogni buon padre di famiglia; in proposito v. PROSDOCIMI, op. cit., p. 580 ss. (42) V. Cass. 5 maggio 1993, in Cass. pen., 1995, p. 75: « Lo ‘‘stato di bisogno’... non è considerato dalla legge come una situazione materiale, ma come una condizione psicologica in cui la persona si trova »; Cass. 13 gennaio 1989, in Cass. pen., 1992, p. 82; Cass. 16 giugno 1986, ivi, 1988, p. 462. (43) PROSDOCIMI, op. cit., p. 583. In giurisprudenza, v. da ultimo Cass. 12 settembre 1996, n. 205565, secondo la quale « in materia di usura... lo stato di bisogno individua e definisce una situazione di disagio del soggetto, che lo induce a sottostare all’esosa richiesta dell’agente usuraio nello svolgimento della sua complessa personalità anche di operatore economico, e quindi in tutte le forme di relazione e del convivere sociale ».
— 785 — cetto di usurarietà, si era ricorsi a formule stereotipate e per lo più tautologiche, quale quella di notevole eccesso della controprestazione richiesta ovvero di manifesta sproporzione degli interessi rispetto alla prestazione o infine di vantaggio o interesse la cui esorbitanza rompeva il rapporto di equivalenza fra le due prestazioni sinallagmatiche. La dottrina più recente, poi, aveva individuato l’usurarietà anche nell’ingiustizia del profitto, meglio nella « non congruità del vantaggio richiesto rispetto alla prestazione effettuata » (44). Mentre la giurisprudenza, rinunciando a qualsiasi collegamento con parametri tecnici (45), aveva di solito evitato di ricorrere a definizioni di tipo giuridico a favore di criteri di valutazione di tipo fattuale, desumibili talora dall’insieme degli elementi della convenzione usuraria, talaltra dalle valutazioni volta a volta correnti nella particolare congiuntura economico-sociale. Quella apprestata dal codice Rocco si rivela perciò « una rete che ben si può definire ‘‘a maglie larghe’’ » (46), per la presenza nella fattispecie di elementi strutturali di non facile accertamento. È questa la ragione che spiega l’atteggiamento tradizionalmente molto cauto della giurisprudenza, che ha applicato raramente la norma di cui all’art. 644 nel testo originario. L’inadeguatezza della norma emergeva anche nella prospettiva teleologica del bene tutelato. Infatti, così strutturata, essa risultava non conforme all’esigenza di tutela dell’economia sia privata che pubblica, dal momento che il disvalore della condotta era incentrato su una condizione di debolezza particolarmente qualificata della vittima. Di contro, il requisito della sproporzione fra le due prestazioni si risolveva in un requisito necessario ma non sufficiente ai fini dell’integrazione del reato, nonostante sia caratteristica ontologica dell’usura quella di porsi in contrasto con il principio di etica economica che « impone di non perseguire una massimizzazione esasperata del profitto » (47). (44) VIOLANTE, Usura, cit., p. 385. (45) V. DOLCINI, PALIERO, Il diritto penale bancario: itinerari di diritto comparato (II parte), in questa Rivista, 1989, p. 1375. (46) Così PROSDOCIMI, op. cit., p. 577 e già NOCENTINI, Riflessioni sul delitto di usura, in Riv. pen., 1971, p. 342, il quale definisce la disciplina del codice Rocco « per le sue lacune, per la sua indeterminatezza e sopratutto per la molteplicità degli elementi soggettivi ed oggettivi che vuole riscontrabili nell’azione dell’agente per la sua applicabilità... come una tenue rete dalle larghe maglie ». Cfr. anche EUSEBI, Brevi note sul rapporto fra anticipazione della tutela in materia economica, extrema ratio ed opzioni sanzionatorie, in Riv. trim dir. pen. econ., 1995, p. 742, il quale a proposito del sistema penale in materia economica osserva che è proprio del sistema penale simbolico l’essere « spesso eccessivo nella sua episodica severità, ma ad un tempo caratterizzato da maglie alquanto larghe nella sua funzione di filtro preventivo ». (47) Sottolinea questi aspetti SEMINARA nella Relazione presentata al Seminario di studio, dal titolo: La nuova legge in materia di usura, Milano 29 marzo 1996, p. 14 ss. datt., il quale rileva tra l’altro come l’inadeguatezza della norma permanesse nonostante l’interpre-
— 786 — Ma il legislatore storico non sembra particolarmente sensibile a valorizzare le potenziali capacità di tutela derivanti dalla penalizzazione del comportamento usurario. Esso descrive la nuova figura criminosa utilizzando due elementi, quello dell’approfittamento e quello dello stato di bisogno che, come si è detto, rendono la fattispecie non del tutto conforme allo scopo di tutela del patrimonio nella sua dimensione privata, quale entità esposta comunque al rischio di un notevole o totale depauperamento già in conseguenza della sproporzione fra le due prestazioni e nella sua dimensione pubblica, allorché la condotta usuraria assume carattere seriale e ripetitivo, quale fenomeno di massa che coinvolge imprenditori, professionisti, artigiani (48). 3. È quest’ultimo il fenomeno che il legislatore ha ben presente, quando nel 1992 introduce la c.d. usura impropria fra le misure legislative promulgate per contrastare la delinquenza di tipo mafioso. Consapevole del grave problema della connessione ormai instauratasi fra usura e criminalità organizzata, la quale utilizza la prima per riciclare denaro proveniente da traffici illeciti, ovvero per impadronirsi del patrimonio del debitore, proprietà immobiliare o impresa, il legislatore inserisce nel codice penale un’ipotesi di usura qualificata dalla particolare attività, imprenditoriale o professionale, del soggetto passivo e dal nuovo oggetto della condotta di approfittamento: non più lo stato di bisogno ma le condizioni di difficoltà economica o finanziaria della vittima (art. 644-bis). Vale la pena di svolgere alcune considerazioni su quest’ultimo requisito, poiché, con la riforma del 1996, la difficoltà economica o finanziaria diventa uno degli elementi costitutivi del reato di usura c.d. in concreto di cui all’art. 644, terzo comma (49), nuova formulazione. Tale figura criminosa, come è noto, si realizza quando gli interessi, pur inferiori al tasso usurario legalmente predeterminato, sono tali da risultare « sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità » e quando la vittima si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria. L’introduzione dell’art. 644-bis nel 1992 rispondeva all’esigenza di rinforzare la protezione contro l’usura nei confronti dei soggetti che esercitano attività professionale o imprenditoriale alla luce delle nuove fenomenologie del reato. Il richiamo alle condizioni di difficoltà economica o tazione estensiva del concetto di stato di bisogno offerta dalla giurisprudenza e come tale inadeguatezza derivasse anche dall’esclusione dalla punibilità dell’usura reale. (48) « I risultati conseguiti — sul piano della tutela — dalla norma italiana sono assai modesti. In vista di una tutela più efficace ci si può domandare se un modello di condotta vincolata all’approfittamento non selezioni eccessivamente le ipotesi meritevoli di pena... » (DOLCINI, PALIERO, op. cit., p. 1375). (49) Per questa definizione v. FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, pt. spec. 2o, Bologna 1996, p. 214.
— 787 — finanziaria entra dunque in funzione tipicizzante della nuova figura criminosa. Quello di difficoltà economica o finanziaria è un concetto di carattere sussidiario rispetto a quello di stato di bisogno contemplato dall’art. 644, e volto a ricomprendere situazioni che con difficoltà potevano essere sussunte in quest’ultimo. Abbassando la « soglia della condizione soggettiva della vittima » (50), si è così ampliato l’ambito di tutela, consentendo di incriminare condotte di approfittamento di situazioni che rappresentavano qualcosa di meno in confronto a quelle enucleabili dal concetto di stato di bisogno. Quest’ultimo diveniva inevitabilmente un termine dal contenuto in qualche misura più ristretto (51). L’espressione ‘‘condizioni di difficoltà economica o finanziaria’’ andava infatti riferita a qualsiasi situazione di rischio ovvero di disagio, indipendentemente da una urgenza o drammaticità, come invece sembrava richiedersi per lo stato di bisogno (52). Tale espressione, in particolare, « può riferirsi non solo al capitale che è venuto a mancare ma anche ad una crisi di liquidità della vittima che si trova ad essere indotta a ricorrere all’usuraio » (53). (50) SEMINARA, op. cit., p. 17 datt. (51) Poiché quello di difficoltà economica o finanziaria, anche se nei confronti di una cerchia determinata di soggetti, si prestava a ricomprendere quelle situazioni particolari, di disagio, di mancanza di liquidità e in generale di difficoltà di tipo economico che la dottrina e parte della giurisprudenza, attraverso una lettura più lata del concetto di stato di bisogno, avevano riportato a quest’ultimo concetto nell’esigenza di colmare presunti vuoti di tutela. Però nei confronti di chi non esercitava attività imprenditoriale o professionale la nuova disciplina aveva « di fatto impoverito ed abbassato il livello della tutela », così PROSDOCIMI, op. cit., p. 585. (52) « È altrettanto indubbio, tuttavia, che il concetto di condizione di difficoltà rimane in sé assai generico, per cui sorge il rischio di una interpretazione eccessivamente lata. Nel circoscriverne la portata, sembra indispensabile fare ricorso a criteri oggettivi di accertamento: cioè la condizione di difficoltà economica o finanziaria non deve essere frutto di opinabili valutazioni soggettive, ma deve essere verificata secondo parametri di mercato » (FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, pt. spec., vol. II, Bologna 1992, p. 181). Lo stesso orientamento oggettivo viene dagli autori riproposto con riferimento alla nuova fattispecie di usura, v. FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, pt. spec. 2o, cit., p. 215. Tuttavia ci si è chiesti, ad esempio, se tali parametri oggettivi siano da rinvenire nella situazione contabile ufficiale, oppure nella posizione economica bancaria, così TRONCONE, Le innovazioni legislative in materia di usura. Problematiche della c.d. usura impropria, in Riv. pen., 1994, III, p. 1214. (53) SEMINARA, op. cit., p. 17 datt. « Si osservi che, dal punto di vista puramente linguistico, la nozione di ‘‘difficoltà economica o finanziaria’’ potrebbe, di per se stessa, apparire più pregnante rispetto alla nozione di bisogno, se quest’ultima sia ricostruita in senso lato, con particolare riferimento a chi esercita attività imprenditoriale o professionale, ad esempio, il concetto di difficoltà economica o finanziaria appare inapplicabile in termini ancor più netti a chi tenda ad incrementi od ampliamenti di attività: lo stato di difficoltà potrà derivare anche da un (tentato) incremento di tal fatta, che peraltro si collochi in una fase anteriore. Il fatto, tuttavia, che l’approfittamento dello stato di bisogno dia luogo ad una risposta penale più severa, sta ad indicare che il bisogno penalmente rilevante è solo quello che si pone in termini di maggiore urgenza e drammaticità rispetto allo stato di difficoltà econo-
— 788 — Malgrado l’intervento del 1992, il fenomeno dell’usura non sembra però subire alcuna flessione (54). Anzi, l’introduzione del nuovo elemento della difficoltà economica o finanziaria ha di fatto indebolito la portata repressiva dell’art. 644 vecchia formulazione. Nei confronti di chi non svolgeva attività imprenditoriale o professionale ha finito con l’operare un concetto di stato di bisogno impoverito rispetto a quello di contenuto più ampio che la dottrina e la giurisprudenza fino alla riforma del 1992 gli avevano infine riconosciuto (55). 4. È questa, con i limiti descritti, la disciplina penale dell’usura di cui disponeva lo Stato per combattere un fenomeno criminale, che sembra non incontrare ostacoli in un processo di continua espansione (56). Si tratta di un fenomeno che desta particolare allarme sociale soprattutto per le sue connessioni, ormai evidenti, con la criminalità organizzata e di stampo mafioso, connessioni che ridescrivono la fisionomia dell’usura nella società di questi ultimi anni. L’esigenza di una nuova normativa, non solo penale, in grado di combattere un fenomeno così pericoloso è fortemico-finanziaria » (PROSDOCIMI, op. cit., p. 585 s.). Nello stesso senso MUCCIARELLI, Commento all’art. 11-quinquies, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in Leg. pen., 1993, p. 140: la condizione di difficoltà economica o finanziaria « per certo denota una condizione meno gravosa e meno compromessa, tale da non costituire quell’impellente assillo per il soggetto passivo che, per comune consenso, rappresenta appunto il tratto distintivo dello stato di bisogno rilevante ai fini dell’art. 644 c.p. ». (54) Secondo i dati forniti dal Commissario Straordinario del Governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura, Prefetto Luigi Rossi, in occasione dell’incontro di studio sul tema « Usura e disciplina penale del credito », svoltosi a Frascati, 6-8 febbraio 1997, in Italia, nell’anno 1993, sarebbero state denunciate 1928 persone, di cui arrestate 636; nell’anno 1994, 3955 persone di cui arrestate 1160; nel 1995 sarebbero state denunciate 3295 persone, arrestate 782 e nel 1996 (periodo gennaio-febbraio) 1952 persone, arrestate 370. (55) « Sembra così di poter concludere che le due figure delittuose designino sul piano applicativo due insiemi distinti: l’uno caratterizzato dallo ‘‘stato di bisogno’’ in cui versa il soggetto passivo, essendo indifferente rispetto all’art. 644 c.p. l’attività svolta dal soggetto passivo medesimo; l’altro, sotto questo profilo più ampio, denotato dalle ‘‘condizioni di difficoltà economica o finanziaria’’ in cui si trova la vittima, rispetto al quale l’applicabilità della norma incriminatrice di cui all’art. 644-bis è però limitata dalla tipologia dell’attività svolta dalla vittima stessa » (MUCCIARELLI, op. cit., p. 141). (56) « Le ragioni... sono facilmente intuibili; ci sono ragioni che attengono alla fisiologia del fenomeno dell’usura: chi ricorre all’usuraio normalmente non lo denuncia presso le competenti autorità perché laddove si tratti di un soggetto che versa in stato di bisogno non vi è interesse a suscitare uno scandalo attorno alla propria persona, a reclamizzare l’esigenza di ricorrere all’usuraio e il patto si stringe pertanto fra l’incube e il succube. È un patto effettivo, dove appunto è interesse di entrambi i soggetti a non renderlo conoscibile. Accanto a questa spiegazione che rientra nella fisiologia dell’usura, ci sono poi delle altre situazioni patologiche che derivano dalla posizione in essere di reati, come l’estorsione, la violenza, la minaccia, che costringono la vittima a subire senza denunciare il fatto all’autorità giudiziaria » (SEMINARA, op. cit., p. 18 datt.).
— 789 — mente sentita nella collettività ed è questa la spinta verso la riforma della disciplina codicistica che si realizza appunto nel 1996 con una legge che merita attenzione per i profili di originalità che la caratterizzano (57). In primo luogo, essa abbandona il modello soggettivizzante per un’impostazione di tipo tendenzialmente oggettivizzante. Più chiaramente, al legislatore della riforma si aprivano due strade alternative, entrambe peraltro già percorse in altri paesi: continuare a seguire la tradizione codicistica ovvero passare a un modello normativo diverso. Per vero, era prospettabile anche una terza alternativa, quella liberista o dell’indifferenza legislativa, accolta sorprendentemente dal legislatore spagnolo del 1995, il quale rompendo con il passato, nel nuovo codice, entrato in vigore nel maggio del 1996, non prevede più il reato di usura, fino alla riforma punito dall’art. 542 del codice penale (58). a) Seguire la prima alternativa significava continuare a impostare la disciplina secondo un modello soggettivizzante di tipo elastico già utilizzato — come si è visto — nel codice Rocco e attualmente adottato negli ordinamenti dei paesi di lingua tedesca, Austria e Repubblica federale di Germania, e in Svizzera. Il modello si incentra da una parte su una fattispecie di sfruttamento della situazione di debolezza della vittima, assimilando in un’unica figura criminosa, peraltro molto articolata, la debolezza economica (tipica dell’usura) e quella psichica, la seconda delle quali nel nostro codice caratterizza invece l’autonomo reato di circonvenzione di incapace di cui all’art. 643. Inoltre il novero delle prestazioni usurarie è particolarmente ampio, andando dall’usura pecuniaria a quella immobiliare sino ad ogni altra prestazione, compresa la mediazione. Manca altresì qualsiasi predeterminazione legislativa di un criterio rigido per la individuazione del carattere usurario della prestazione. Essa è tale secondo il par. 302a dello StGB tedesco, riformato nel 1976, quando l’agente con(57) La pressione sociale è fortemente sentita dalla II Commissione permanente (giustizia) della Camera, che il 28 febbraio 1996 deve approvare il disegno di legge n. 1242-B, già approvato dalla Camera, ma incisivamente modificato dal Senato. Come rileva l’on. Marino, « la pressione sociale riscontrata sul disegno di legge in esame ha raggiunto un livello pari a quello registrato per la riforma sulla violenza sessuale » (Resoconto stenografico della Seduta del 28 febbraio 1996, p. 32). E, ancora, l’on. Stajano dichiara che « ci si sta avviando all’approvazione del disegno di legge n. 1242-B nel testo attuale sotto la spinta della pressione sociale e delle elezioni imminenti » (Resoconto, cit. p. 31). (58) Articolo applicato, anche se assai di rado, soprattutto ai prestiti usurari camuffati sotto altre forme contrattuali. « Ciò rendeva assolutamente necessaria una riforma della materia. Invece, non solo non vi è stata la necessaria riforma ma addirittura il reato, che nel Progetto CP 1992 appariva sotto il titolo ‘‘Dei prestiti e negozi abusivi’’, con qualche modifica... rilevante, non si rinviene nel Progetto CP del 1994 » (SANCHEZ, Il diritto penale bancario in Spagna, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1994, p. 795). In generale, sul nuovo codice penale spagnolo, v. le osservazioni di MIR, Das neue spanische Strafgesetzbuch von 1995, in ZStW, 1996, p. 857 ss.
— 790 — segue vantaggi patrimoniali « consistentemente sproporzionati » rispetto alla prestazione o alla intermediazione (59). b) Da questo modello si discosta quello oggettivizzante di tipo rigido accolto dal legislatore francese nella legge del 28 dicembre 1966, n. 661010 e ora nella legge del 26 luglio 1993, n. 93-949. Quest’ultima all’art. 313-3 stabilisce che in materia di usura pecuniaria un interesse o vantaggio è usurario quando supera di un terzo il tasso effettivo medio stabilito dalle autorità amministrative competenti. La fattispecie di usura di cui al successivo art. 313-5 si tipicizza dunque sul solo elemento della usurarietà degli interessi, che sono tali in quanto superiori alla soglia massima fissata dall’art. 313-3 (60). « Ma tale soluzione ha dato luogo da un lato a problemi applicativi, dovuti a difficoltà di calcolo o ad inadeguatezza in concreto dei parametri, dall’altro a censure sotto il profilo del rispetto del principio di legalità, ovvero della riconoscibilità del precetto normativo a causa della complessità del criterio della individuazione del tasso usurario » (61). Tale disciplina viene altresì considerata assai rigorosa. In essa manca « ogni riferimento allo stato di difficoltà o di bisogno della vittima, e viene fissato un limite, oltre il quale scatta il carattere usurario del prestito, che può lasciare perplessi, sia per la sua particolare severità, sia per la sua difficile applicabilità » in situazioni di rischio elevato di insolvenza del mutuatario (62). La stessa dottrina francese, d’altra parte, già con riferimento alla legge del 1966 osservava che « in definitiva, un intervento legislativo volto sia a moralizzare il mercato del denaro, sia soprattutto, a garantire lo sviluppo del sistema produttivo attraverso un equilibrato regime del credito, avrebbe sortito fondamentalmente l’effetto di complicare la regolamentazione dell’usura, al punto da frenarne la stessa repressione » (63). (59) Ad accentuare l’impostazione soggettivizzante della normativa tedesca concorre anche il fatto che per applicare l’aggravante dell’aver commesso il fatto ‘‘professionalmente’’, non occorre che « l’agente abbia commesso il fatto nell’esercizio di un’attività professionale » quanto piuttosto che « il reo, nella sua attività, sia animato dallo scopo di procurarsi una fonte di occupazione continuativa... » (PROSDOCIMI, op. cit., p. 593). (60) L’art. 313-5 stabilisce: « Chiunque concede ad altri un prestito usurario o reca scientemente, a qualunque titolo e in qualunque maniera, direttamente o indirettamente, il suo concorso all’ottenimento o alla concessione di un prestito usurario o di un prestito che diverrebbe usurario ai sensi dell’art. 313-3, per effetto del suo concorso è punito con l’imprigionamento per due anni e con l’ammenda per 300.000 franchi o soltanto con una di tali due pene ». (61) CAVALIERE, L’usura tra prevenzione e repressione: il ruolo del controllo penalistico, in questa Rivista, 1995, p. 1223. (62) PROSDOCIMI, op. cit., p. 592. (63) Così riferiscono DOLCINI, PALIERO, op. cit., p. 972; per un approfondimento circa la situazione francese, cfr. BARRECA, Prestiti e usura. Prevenzione e tutela del consumatore in Francia e in Italia, Milano 1995, passim, spec. p. 12 ss.
— 791 — 5. Relativamente all’Italia, la legge n. 108/96 non si uniforma integralmente né all’uno né all’altro modello, per seguire in parte entrambi. Essa adotta una soluzione mista o intermedia, almeno a prima vista, in quanto l’art. 644 nuova formulazione al primo comma sembra seguire il modello oggettivizzante di tipo rigido alla francese, della predeterminazione legislativa della soglia massima oltre la quale automaticamente l’interesse diventa usurario (64). Ma, sempre nello stesso articolo, al terzo comma, introduce alcuni degli elementi soggettivizzanti già presenti nel codice fino alla riforma e che abbiamo visto caratterizzare anche la disciplina dell’usura in Germania, Austria e Svizzera. Al terzo comma viene infatti descritta una fattispecie di usura c.d. in concreto, poiché l’usurarietà dell’interesse, a differenza dalla fattispecie di cui al primo comma, torna a dipendere da uno stato della vittima, costituito — come si è detto — dalle sue condizioni di difficoltà economica o finanziaria e dalla sproporzione fra le due prestazioni. Diversamente dagli ordinamenti d’oltralpe, non si richiede più che il soggetto attivo approfitti di tali condizioni. La scelta operata dal legislatore italiano con la legge del 1996, n. 108 non solo di punire i casi di interessi usurari per legge, ma anche — per colmare possibili vuoti di tutela — di mantenere una diversa e ulteriore sottofattispecie di interessi la cui usurarietà è lasciata alla discrezionalità del giudice, è certamente una scelta compromissoria, per certi aspetti considerata felice (65). Infatti già con riferimento al rigido modello francese, la dottrina — come si è visto — aveva notato che la disciplina normativa interamente orientata secondo parametri di usurarietà predeterminati normativamente comportava vari inconvenienti; in particolare, quello di una difficile applicazione di essi « allorquando il finanziamento concerna situazioni particolarmente a rischio, che gli istituti di credito non avrebbero probabilmente preso in considerazione e rispetto alle quali non è, quindi, agevole utilizzare con sicurezza il metodo analogico che la norma pre(64) Spetta al Ministero del Tesoro, sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio italiano dei cambi, rilevare trimestralmente il tasso effettivo globale medio, riferito ad anno, degli interessi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari autorizzati per operazioni della stessa natura (art. 2, primo comma della legge del 1996). Gli interessi sono usurari quando superano della metà il tasso medio risultante dall’ultima rilevazione pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso (art. 2, terzo comma della legge). Con decreto 23 settembre 1996 (Gazz. Uff. 26 settembre 1996) è stata pubblicata la prima classificazione annuale delle operazioni creditizie, per categorie omogenee, ai fini della rilevazione dei tassi effettivi globali medi praticati dagli intermediari finanziari. E con decreto del 22 marzo 1997 (Gazz. Uff. 2 aprile 1997) è stata introdotta la prima rilevazione trimestrale dei tassi globali medi ai fini dell’applicazione della legge sull’usura. (65) È questo il giudizio espresso da FIANDACA, MUSCO, op. ult. cit., p. 216.
— 792 — scrive » (66). Questa situazione caratterizza la categoria dei soggetti immeritevoli ma bisognosi, sulla quale in seguito ritorneremo. La previsione di una fattispecie elastica di usura, accanto a quella rigida, da parte del legislatore del 1996 dovrebbe dunque sciogliere le riserve che nel corso dei lavori di riforma la dottrina aveva sollevato con riferimento all’ipotesi di una predeterminazione legislativa degli interessi usurari. A tale proposito infatti delicati interrogativi si sollevavano riguardo all’« idea di fissare in via legislativa il limite oltre il quale l’interesse, o l’altro vantaggio, diviene usurario, sia — in primo luogo — per l’usura reale, sia anche per l’usura pecuniaria. In relazione a quest’ultima, non va dimenticato che vi sono situazioni a rischio particolare, che potrebbero non trovare più alcuna fonte di finanziamento se la soglia dovesse essere fissata in modo molto rigoroso » (67). Difficoltà accentuate dal fatto che la nuova formulazione dell’art. 644, descrivendo la condotta tipica non solo come prestazione di denaro, ma anche di altra utilità, allarga il campo di applicabilità dell’articolo all’usura reale e immobiliare, fino alla riforma non previste (68). Tuttavia, proprio con riferimento alla presenza di una fattispecie elastica a fianco di quella rigida, si è posta a tutta prima la questione se le due fattispecie « siano fra di loro compatibili, cioè se sia possibile, dopo aver stabilito una soglia valida nell’intera nazione, accostare a questa soluzione indifferenziata ed automatica una soluzione subordinata o residuale, dove viceversa rilevano le condizioni del soggetto » e dove viene dato risalto alla sproporzione condizionata alla situazione di difficoltà economica o finanziaria (69). 6.
La risposta a questa domanda non può che passare attraverso
(66) PROSDOCIMI, op. cit., p. 592. (67) PROSDOCIMI, op. cit., p. 598. (68) « L’uso, nell’attuale formulazione della fattispecie incriminatrice, della diversa e più comprensiva espressione ‘‘altra utilità’’ sembra invece d’ora in avanti autorizzare l’interpretazione più lata: nel senso appunto di far rientrare nell’area della rilevanza penale anche i casi di usura c.d. reale. Si pensi, per esemplificare, al caso del chirurgo che chiede compensi estremamente elevati per prestare la propria opera professionale... Ma un’interpretazione così estensiva, oggi forse non impedita dal tenore letterale della norma, reca con sé il rischio di applicazioni giudiziarie eccessivamente rigoristiche o, comunque, poco compatibili col rispetto della libertà di mercato o professionale » (FIANDACA, MUSCO, op. ult. cit., p. 213). Sulla necessità di interpretare il termine ‘‘altra utilità’’ con riferimento a un bene comunque suscettibile di una valutazione economica obiettivamente apprezzabile, v. MUCCIARELLI, Commento all’art. 1 legge n. 108/96, in corso di pubblicazione, p. 7 datt.; PROSDOCIMI, La nuova disciplina del fenomeno usurario, in Studium Juris, 1996, p. 775, il quale però conclude per la non riconducibilità di fatto dell’usura reale alla fattispecie di cui al primo comma dell’art. 644 c.p. nuova formulazione. Tale tipo di usura rientrerebbe nella sola ipotesi di cui al terzo comma dello stesso articolo. (69) SEMINARA, op. cit., p. 15 datt.
— 793 — una preliminare indagine circa l’oggetto di protezione della nuova fattispecie. In altre parole, occorre chiedersi se la nuova disciplina abbia introdotto delle innovazioni in punto di interesse protetto, pur non avendo mutato l’inquadramento sistematico, che anche per il nuovo reato di usura rimane quello del bene categoriale del patrimonio. Ad esso è infatti intitolato il titolo XIII, nel cui capo II, come in precedenza, è collocato il reato di usura riformato. Ma la nuova configurazione di esso nella forma rigida e la previsione di una fattispecie elastica, nella quale non compaiono più gli elementi costitutivi dell’approfittamento sul fronte del soggetto attivo e lo stato di bisogno con riferimento al soggetto passivo, in primo luogo confermano il superamento di alcune concezioni plurioffensive del delitto. In particolare, quelle teoriche che accanto al patrimonio hanno ritenuto tutelata anche la libertà morale della vittima ovvero l’interesse all’autonoma determinazione del contenuto del contratto. Infatti, ad integrare l’illecito è ora sufficiente la presenza di una sproporzione significativa tra i corrispettivi promessi o dati e la prestazione o altre utilità. Variano solo i criteri per la determinazione di tale sproporzione: assolutamente rigido quello del primo comma dell’art. 644, tendenzialmente rigido, almeno nelle intenzioni dei riformatori, quello del terzo comma. « In altri termini — così si è sostenuto — viene a essere sanzionata non più la totale compromissione degli spazi di autonomia negoziale della vittima, bensì la semplice realizzazione di una operazione a contenuto economico difforme dai parametri legali, con l’effetto evidente di oggettivizzazione dell’illecito » (70). Merita invece attenzione l’orientamento dottrinale che, secondo una ricostruzione unitaria del bene protetto, lo individua comunque nel patrimonio del soggetto passivo in stato di difficoltà: « difficoltà presunta iuris et de iure nell’ipotesi di tasso usurario ex lege, e accertata dal giudice nel caso di usurarietà determinata in concreto » (71). Ma, dall’intervento riformatore del 1996 trasparirebbe una scelta di tutela del patrimonio in quanto patrimonio esistenziale, così come sottolineato dalla dottrina che si è sforzata di ricostruire il concetto di patrimonio secondo i caratteri del bene costituzionalmente rilevante. In tale prospettiva, il patrimonio è concepito come « l’insieme dei beni e dei rapporti idonei ad assolvere una (70) CAPERNA, LOTTI, Legge severa, regole difficili, supp. Il Sole 24 Ore, 29 febbraio 1996, p. 6. (71) FIANDACA, MUSCO, op. ult. cit., p. 212: « A sostegno di questa conclusione, che tende a costruire in modo unitario il bene protetto — peraltro nel solco di quella stessa concezione della tutela che ha dominato in passato — sembrano militare sia i lavori preparatori della riforma, sia l’obiettivo politico-criminale esplicitamente proseguito dal legislatore di rafforzare la tutela delle vittime rispetto a un fenomeno stimato in allarmante crescita ».
— 794 — funzione strumentale rispetto all’autorealizzazione e allo sviluppo della persona umana » (72) (concezione c.d. personalistica del patrimonio). Secondo tale concezione fino ad ora il legislatore avrebbe privilegiato la dimensione pubblicistica del risparmio, cioè del risparmio non come entità statica, ma dinamica, come investimento: « come risparmio che si stacca dalla disponibilità individuale per confluire negli impieghi produttivi » (73), di quel risparmio incoraggiato e tutelato dall’art. 47 della Costituzione, nella prospettiva del quale il risparmio adempie a una finalità immediata di interesse pubblico. A questa stregua si devono leggere la legge del 1974, n. 216 (disposizioni relative al mercato mobiliare ed al trattamento fiscale dei titoli azionari), la regolamentazione del mercato ristretto, dei fondi comuni di investimento mobiliare e immobiliare, la disciplina penale in materia di offerte pubbliche di titoli. Non così la legge del 1996 in tema di usura, nella quale, invece, la prospettiva cambierebbe; si passerebbe da quella dell’art. 47 Cost. a quella dell’art. 41, secondo comma, Cost. È « assolutamente importante che il legislatore abbia considerato anche quest’aspetto perché non poteva non rilevarsi che laddove il legislatore tutela il risparmio in fondo viene tutelato un surplus monetario, mentre rispetto all’usura noi parliamo del patrimonio, che può essere anche patrimonio esistenziale, inteso come riflesso della personalità » (74). La nuova formulazione dell’art. 644 sembra dunque individuare l’oggetto di protezione in un interesse patrimoniale individuale, che nell’ottica personalistica è ora meglio rinvenibile nell’interesse ad impedire una lesione consistente nella sproporzione delle prestazioni. Le innovazioni del 1996 consentirebbero dunque « una più organica tutela penale del contratto sotto il profilo della proporzione del sinallagma, in attuazione di fondamentali princìpi di rango costituzionale (in particolare, in conformità al principio posto dall’art. 41 Cost., per cui l’iniziativa privata non (72) FIANDACA, MUSCO, op. ult. cit., p. 25; per tale concezione, nella dottrina italiana v., approfonditamente, MOCCIA, Tutela penale del patrimonio e princìpi costituzionali, Padova 1988, passim; ID., Considerazioni de lege ferenda sulla sistematica dei reati contro il patrimonio, in questa Rivista, 1991, p. 410 ss.; ID., Antinomie apparenti nella riforma dei reati contro il patrimonio: tra restrizione ed ampliamento dell’ambito di tutela penale, in Arch. pen., 1994, p. 16 ss e con riferimento al reato di usura v. CAVALIERE, op. cit., p. 1219 ss. (73) PEDRAZZI, La riforma dei reati contro il patrimonio e contro l’economia, in AA.VV., Verso un nuovo codice penale, Milano 1993, p. 352. (74) Così SEMINARA, op. cit., p. 23 datt.; manifestano tuttavia qualche riserva sulla concezione personalistica FIANDACA, MUSCO, op. ult. cit., p. 25 s., i quali rilevano « la grande difficoltà di elaborare parametri normativi che permettano di selezionare, in maniera plausibile, i rapporti economici davvero strumentali alla realizzazione e allo sviluppo della singola personalità umana ».
— 795 — può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, con la sicurezza, la libertà, la dignità umana) » (75). A sostegno di tale rinnovellamento del bene giuridico tutelato dall’art. 644, si richiama un aspetto significativo e originale della legge n. 108/96 e cioè l’istituzione dell’albo dei mediatori creditizi (art. 16, settimo comma). Attraverso questa disciplina e attraverso l’incriminazione della condotta di colui che nell’esercizio di attività bancaria, di intermediazione finanziaria o di mediazione creditizia indirizza una persona bisognosa di denaro al mercato dell’usura, il c.d. reato di sviamento della clientela dagli intermediari abilitati (art. 16, nono comma), il legislatore del ’96 avrebbe rafforzato la tutela del patrimonio. Ne anticipa infatti la soglia di protezione, incriminando condotte prodromiche a quelle usurarie effettivamente offensive del bene protetto e in quanto tali in grado di ostacolare la funzione personalistica del patrimonio desumibile dall’art, 41, secondo comma della Costituzione, il senso del quale « in estrema sintesi... è di affermare il primato dell’uomo sull’economia: la sicurezza, la libertà, la dignità umana si pongono non tanto come interessi attinenti alla sfera economica, quanto come controinteressi esterni, cui viene subordinata la liceità dell’agire economico. Non si profila una tutela dell’economia, ma piuttosto un suo condizionamento » (76). Il riorientamento del legislatore della riforma in tema di interesse tutelato dalla fattispecie di usura trova una conferma convincente anche da un’analisi che parta dalle novità di struttura del reato in esame; e cioè dalla eliminazione degli elementi costitutivi dello stato di bisogno e dell’approfittamento. Essi, almeno nelle scelte originarie del codice Rocco, manifestavano un concetto dell’usura che non andava oltre la nozione che « dell’usura giuristi, teologi e moralisti avevano avuto nel corso dei secoli precedenti. Come allora, il fenomeno usurario resta concluso in un concetto comune e popolare di sfruttamento di modesti bisogni momentanei che il denaro o cose mobili possono risolvere » (77). Una nozione certo lontana dall’idea di tutela, attraverso l’incriminazione dell’usura, del patrimonio quale strumento di protezione della persona, come invece potrebbe emergere dalla nuova legge proprio prendendo spunto dal requisito che ha sostituito lo stato di bisogno: le condizioni di difficoltà economica o finanziaria. Privilegiando la prospettiva personalistica del patrimonio infatti, tali condizioni assumono un ruolo significativo. Esse non concorrono più, come nella vecchia disciplina dell’art. 644-bis, a caratterizzare negativamente la condotta dell’usuraio, ma attengono a una qualità del soggetto (75) PROSDOCIMI, Aspetti, cit., p. 597. (76) PEDRAZZI, Interessi economici e tutela penale, in STILE (a cura di), Bene giuridico e riforma della parte speciale, Napoli 1985, p. 299. (77) GALLO E., op. cit., p. 301.
— 796 — passivo rilevante ai fini della configurabilità del reato (78). Nell’ottica del bene giuridico in precedenza evidenziato occorre osservare che l’espressione difficoltà economica o finanziaria andrebbe ora riferita a una condizione critica che interessa, anche senza comprometterlo in radice, il soddisfacimento non solo di elementari necessità di vita, ma anche di esigenze di mantenimento di un determinato status socio-patrimoniale. In tale ottica, allora, il requisito della difficoltà diventa un elemento costitutivo del reato che non può certo appiattirsi su quello della sproporzione fra le prestazioni. Esso sembrerebbe richiedere invece un autonomo accertamento, anche in ragione della destinazione impressa dall’usurato al denaro o alla utilità oggetto del prestito. Infatti, dalla nuova formulazione consegue un’estensione dei fatti suscettibili di sanzione penale. Tra questi potrebbero « ora rientrare, ad esempio, episodi di finanziamento ad alto rischio legati a finalità speculative o comunque di investimento economico; e prestiti richiesti per soddisfare esigenze voluttuarie... » (79). Ma il nesso teleologico tra condizione di difficoltà e destinazione del denaro introdotto a livello interpretativo, arricchisce la fattispecie di contenuti di indeterminatezza, in quanto viene lasciata al giudice la definizione delle condizioni di difficoltà anche in ragione della meritevolezza della destinazione. In breve, dalla tutela dell’art. 644, terzo comma risulterebbero di fatto esclusi, oltre ai soggetti immeritevoli non bisognosi, anche i soggetti bisognosi ma giudicati comunque immeritevoli (80) mentre, abbandonato il parametro della meritevolezza, dovrebbero risultare bisognosi tutti i soggetti che stipulano contratti a sé sfavorevoli. Ma nell’un caso dovremmo concludere che la fattispecie tutela solo « la condizione di soggetti particolarmente deboli », nell’altro che « la fattispecie intende reprimere comunque l’approfittamento di una situazione di vantaggio da parte di colui che presta denaro o altra utilità » (81). E proprio alla luce del parametro di meritevolezza la dottrina a proposito dell’usura impropria aveva appunto escluso il ricorrere dello stato di difficoltà nell’ipotesi in cui, tramite il finanziamento, il soggetto intendeva realizzare incrementi o ampliamenti di attività ovvero operazioni di tipo speculativo o voluttuario. Il rischio a cui si espone la fattispecie di cui al terzo comma è dunque quello di eccessiva elasticità per la vaghezza dei suoi elementi costitutivi (78) Ritiene tuttavia che « il riferimento alle ‘‘condizioni di difficoltà economica o finanziaria’’ della vittima... faccia pensare ad una sorta di reintroduzione surrettizia del requisito soggettivo dell’approfittamento, inteso come consapevolezza dello stato di inferiorità patrimoniale dell’altro contraente » SANTACROCE, La nuova disciplina penale dell’usura: analisi della fattispecie-base e difficoltà applicative, in Cass. pen., 1997, p. 1538. (79) CAPERNA, LOTTI, op. cit., p. 6. (80) Con riferimento non solo a parametri squisitamente economici ma anche giuridici, etici, sociali. (81) SEMINARA, op. cit., p. 22 datt.
— 797 — (tassi di interesse sproporzionati in relazione alle concrete modalità dell’affare e stato di difficoltà economica o finanziaria del soggetto passivo), nonostante la conclamata oggettivizzazione dell’illecito attraverso la previsione della fattispecie rigida di cui al primo comma dello stesso articolo, con il risultato di accentuare il divario fra le due figure (82). 7. (Segue). — Proprio alla luce di quest’altra fattispecie dai connotati rigidamente prefissati dalla legge, una parte della dottrina sottolinea la necessità di una attenta riconsiderazione dell’interesse tutelato dal reato di usura. La nuova conformazione strutturale del reato di usura riattualizzerebbe infatti la questione della configurabilità di scopi di tutela di natura pubblicistica, riconducibili all’economia pubblica quale oggetto di protezione della fattispecie in esame in via esclusiva ovvero, nell’ottica della natura plurioffensiva del reato, accanto al patrimonio. A tale riguardo si è sostenuto che a « prima vista, proprio la previsione di un tasso-soglia di usura, che prescinde dallo stato di bisogno o dalla situazione di difficoltà del soggetto passivo, potrebbe indurre a riaccreditare la tesi — minoritaria in passato — che ravvisa l’oggetto della protezione penale nell’esigenza pubblicistica di regolamentare e dare un freno al mercato creditizio: ciò allo scopo di frenare la lievitazione del costo del denaro, specie rispetto ai settori di mercato meno dotati di risorse » (83). (82) D’altra parte l’allora Ministro di Grazia e Giustizia, Caianiello, davanti alla II Commissione permanente (giustizia) della Camera, il 28 febbraio 1996, a proposito del disegno di legge n. 1242-B, osservava che la formulazione della norma di cui all’art. 1, terzo comma « contrasta con il principio di tassatività delle norme penali e ciò porta all’arbitrio del giudice: si pensi che molte ipotesi concrete che nulla hanno a che vedere con l’usura ricadrebbero nelle maglie della disposizione contenuta nel terzo comma dell’art. 1: magari anche chi acquista ad una svendita potrebbe commettere un reato... V’è da chiedersi dunque chi stabilisce la sproporzione tra i vantaggi o compensi e la prestazione di denaro o di altra utilità e che cosa significhi ‘‘concrete modalità del fatto’’ » (Resoconto stenografico, cit., p. 29). V. anche INGANGI, Concreta applicabilità delle nuove norme sull’usura e conseguenze civilistiche del reato sui contratti usurari, in Riv. pen. econ., 1996, p. 312, secondo il quale la fattispecie originariamente prevista come residuale presenta « gravi deficienze sul piano della struttura e del rispetto dei princìpi di sufficiente determinatezza e tassatività ». In senso difforme, cfr. MUCCIARELLI, op. ult. cit., sub art. 1, p. 22 datt. secondo il quale la « possibilità di attribuire un riferimento quantitativo al termine ‘‘sproporzione’’ consente forse di superare le critiche mosse alla formula legislativa. Indiscutibile che la norma di nuovo conio non introduce alcun esplicito elemento idoneo a precisare ulteriormente il contenuto dell’espressione, ma non per questo la fattispecie ne risulta irrimediabilmente troppo impoverita sul piano della determinatezza, soprattutto se la si confronta con la previgente figura del delitto d’usura ». (83) FIANDACA, MUSCO, op. ult. cit., p. 211. Tuttavia già a proposito della legge francese del 1966 si manifesta « il dubbio che la stessa periodica pubblicazione dei ‘‘tassi-plafond’’... abbia contribuito a produrre effetti inflazionistici, sospingendo verso l’alto la remunerazione del credito » (DOLCINI, PALIERO, op. cit., p. 972).
— 798 — L’introduzione della soglia legale del tasso d’usura avrebbe dunque come conseguenza il rafforzamento della tutela del patrimonio nella sua dimensione pubblicistica (84). La nuova disciplina infatti sembrerebbe « mirata, in modo marcato, anche alla tutela di interessi collettivi afferenti alla correttezza dei rapporti contrattuali a contenuto economico, e al corretto svolgimento dei rapporti nell’ambito del mercato finanziario » (85). In altri termini, la previsione del tasso legale svolgerebbe un ruolo « indiretto » rispetto al fenomeno usurario in sé considerato, in quanto essa sarebbe piuttosto finalizzata in via immediata « a consentire allo Stato un controllo sull’attività degli operatori creditizi legali e sul corretto funzionamento del ‘‘gioco’’ della domanda e dell’offerta di denaro nel mercato della moneta... » (86). La tesi riferita coglie certamente nel segno ed è in sé apprezzabile (87). Tuttavia, de iure condito, non può essere condivisa la prevalenza del bene giuridico pubblico che ne risulta tutelato dalla legge. Tale impostazione non pare infatti in armonia con il diritto positivo, rivelandosi anzitutto in contrasto con la logica della riforma del ’96, che ha con(84) « La tutela penale si spinge per tal modo su un terreno particolarmente avanzato, proteggendo non solo la posizione del singolo contraente, ma anche — e forse soprattutto — il regolare funzionamento delle attività connesse alla prestazione del credito. Se è certo che il legislatore ha inteso fronteggiare in maniera più rigorosa il fenomeno dell’usura, ormai giunto a livelli grandemente preoccupanti, è altrettanto indiscutibile che con la legge n. 108/96 — forse con non eguale consapevolezza — si è giunti ad estendere e a rendere più penetrante il controllo penale nel mercato del credito, che in quest’ottica assurge a bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice al pari di quello relativo alla libertà contrattuale, tradizionalmente riconosciuto come scopo della tutela dell’originaria incriminazione dell’usura. Ne segue che la precisione della norma incriminatrice assume una funzione essenziale, posto che proprio il dato quantitativo (il limite massimo oltre il quale non può essere lecitamente richiesto alcunché al mutuatario) non solo rappresenta il fuoco dell’incriminazione, ma diviene anche un fondamentale strumento di controllo sostanziale dell’attività di concessione del credito » (MUCCIARELLI, op. ult. cit., sub art. 1, p. 5 datt.). (85) CAPERNA e altri, Per una legge dalla struttura complessa. Il percorso guidato all’applicazione, in Guida al diritto, Il Sole 24 Ore, 23 marzo 1996, p. 35. (86) INGANGI, op. cit., p. 312: « Il nuovo disegno normativo trasforma l’illecito dell’usura da fatto offensivo solo del patrimonio dell’usurato a delitto che attinge anche beni collettivi, sovraindividuali, quali l’equilibrio nel mercato finanziario e la corretta circolazione della ricchezza »; allo stesso A. si rinvia anche per l’individuazione dei riflessi civilistici del reato che conseguono dalla prevalenza dell’impostazione pubblicistica rispetto a quella individualistica. (87) V. d’altra parte il recente intervento del Governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, davanti la Commissione Parlamentare Antimafia, secondo il quale « il cosiddetto tasso-soglia mira a stabilire un riferimento oggettivo per l’individuazione dell’illecito. Ma i limiti definiti, la loro applicazione anche a intermediari regolamentati possono spingere verso l’alto i tassi di interesse per gli affidamenti di minor importo. E possono provocare il razionamento del credito alla clientela marginale, più debole. Il coinvolgimento anche inconsapevole degli intermediari finisce per incidere negativamente sulla sana e prudente gestione dell’azienda di credito » (da Il Giorno, 24 febbraio 1997, p. 4).
— 799 — tinuato a inquadrare l’usura fra i delitti contro il patrimonio nella sua dimensione propria, che è quella privata. In secondo luogo, essa non è in grado di spiegare la fattispecie a struttura elastica, quella appunto di usurarietà in concreto di cui al terzo comma dell’art. 644, che prescinde dalla soglia legale del tasso e si cala vieppiù nella situazione del singolo usurato (88). È proprio alla luce di quest’ultima fattispecie che il patrimonio, anche nella nuova disciplina, si conferma nel suo ruolo centrale sul fronte della tutela e nello stesso tempo valorizza significativamente la figura criminosa del terzo comma dell’articolo in questione. Anzi, in tale prospettiva di tutela, secondo una parte della dottrina la fattispecie del terzo comma, quanto a tipologia dell’oggetto della prestazione o dazione usuraria, sarebbe la sola destinata a colpire anche le forme di usura reale, che sfuggivano alle maglie della vecchia disciplina, ma che anche oggi risulterebbero irriducibili alla fattispecie di cui al primo comma. Da quest’ultima, stante il parametro di apprezzamento della usurarietà rappresentato dal mero superamento dei tassi predeterminati per legge, resterebbero fuori tutte le prestazioni insuscettibili di essere valutate secondo i criteri basati sulle condizioni praticate da banche e intermediari finanziari (89). Dal riconoscimento dell’inapplicabilità del criterio di cui al primo comma dell’art. 644 alle ipotesi di usura reale e dal fatto che, perché essa possa acquisire rilievo penale, occorrerebbe riconoscere una immediata e completa operatività del criterio previsto al terzo comma, si giunge addirittura alla conclusione che la nuova struttura dei delitti di usura orienta a favore « di un modello costitutivo del fatto base, che, in via principale, àncora la tipicità della condotta penalmente rilevante alla sola sussistenza della ‘‘sproporzione’’ degli interessi e/o dei vantaggi corrisposti dalla vittima, la quale deve tuttavia trovarsi in condizioni di ‘‘difficoltà economica o finanziaria’’. L’eventuale possibilità di accertare un superamento dei limiti massimi di interesse... si offre pertanto solo quale criterio applicativo subordinato... » (90). Altra dottrina ritiene invece che il criterio del primo comma dell’art. (88) Privilegiano la prospettiva individualistica, centrata sulla tutela del patrimonio individuale, FIANDACA, MUSCO, op. ult. cit., p. 212; SILVA, Osservazioni sulla nuova disciplina del reato d’usura, in Riv. pen., 1996, p. 131. Riemerge invece la tesi della plurioffensività del reato d’usura, che colpirebbe il patrimonio e la libertà morale, ma nello stesso tempo anche l’interesse pubblico alla correttezza e genuinità dei rapporti economici in CRISTIANI, Guida alle nuove norme sull’usura, Torino, p. 32. (89) Così PROSDOCIMI, La nuova disciplina, cit., p. 775; CRISTIANI, op. cit., p. 89; MELCHIONDA, Le nuove fattispecie di usura. Il sistema delle circostanze, Relazione presentata all’incontro di studio sul tema: « Usura e disciplina penale del credito », a cura del CSM, Frascati 6-8 febbraio 1997, p. 9 ss. datt.; INGANGI, op. cit., p. 311). (90) MELCHIONDA, op. cit., p. 13 datt.; cfr. anche INGANGI, op. cit., p. 312, il quale giunge alla conclusione che la sanzione prevista per la fattispecie di cui al primo comma dell’art. 644 « troverà scarsi riscontri pratici ». Con la conseguenza di un’inversione applicativa fra norma-regola (primo comma) e norma-eccezione (terzo comma), capovolgendosi il rap-
— 800 — 644 debba astrattamente essere applicato a qualunque forma di interesse o vantaggio, con la conseguenza di lasciare al criterio del terzo comma un ruolo residuale e subordinato, in funzione cioè integrativa delle ipotesi già descritte ai commi precedenti, ma nelle quali la prestazione del soggetto attivo non supera il tasso prefissato normativamente (91). Quest’ultimo orientamento appare più convincente. Esso in primo luogo rispecchia la gerarchia normativa resa evidente dalla previsione della fattispecie rigida al primo comma e di quella elastica al terzo comma, la quale a sua volta rende evidente la funzione di chiusura che il legislatore ha voluto attribuire alla fattispecie di usura in concreto. In secondo luogo rispetta l’origine storica dell’usura, legata da sempre al contratto di mutuo, anzi fino al XVI secolo identificata tout court con il prestito a interesse. In terzo luogo rispecchia il dato reale di una coscienza sociale che percepisce il disvalore dell’usura precisamente nel prestito a interessi esorbitanti. Certo quest’ultima interpretazione, riconoscendo alla fattispecie di cui al primo comma il ruolo preminente, nella rigida predeterminazione legislativa dei requisiti del prestito usurario denota una preoccupazione pubblicistica di vera e propria disciplina del credito, la quale allora va a coniugarsi con la tutela del patrimonio privato che abbiamo detto essere l’obiettivo fondamentale di tutela della normativa esaminata. Del resto la rigidità della predeterminazione legislativa del prestito usurario è stata criticata dalla dottrina contraria alla scelta legislativa. In particolare si è osservato che la qualificazione usuraria della prestazione può dipendere anche da parametri diversi quali le modalità di rientro o il tipo di garanzie richiesto. Ancora, si è affermato che con il sistema rigido si rischia di escludere dal credito legale proprio i soggetti più esposti all’usura, i c.d. soggetti bisognosi razionati. Infine non si è mancato di ricordare che l’offerta di usura tendenzialmente segue le condizioni formali imposte dal mercato legale del credito, adattandovisi ma senza per questo restringere i propri margini operativi (92). Al di là della fondatezza di questi rilievi critici, un risultato viene dato come certo: « che la soglia legale sortirà l’effetto indiretto di regolamentare e limitare i margini di discrezionalità accordati agli operatori fiporto regola-eccezione intercorrente fra le due fattispecie dell’art. 644, rispetto alle intenzioni del legislatore e alle aspettative della collettività. (91) MUCCIARELLI, op. ult. cit., sub art. 1, p. 8 e 17 datt. « Sotto l’ampio significato attribuibile all’‘‘altra utilità’’ vanno dunque ad inscriversi beni di qualunque genere, ivi compresi quelli immobili e le forme di utilizzazione degli stessi, nonché le prestazioni professionali e lavorative, purché si tratti di entità economicamente valutabili ». (92) Per queste osservazioni, v., tra gli altri, CAPERNA, LOTTI, Il fenomeno dell’usura tra esperienze giudiziarie e prospettive di un nuovo assetto normativo, in Banca, borsa e titoli di credito, 1995, p. 88 ss.
— 801 — nanziari nella determinazione delle condizioni di erogazione del credito, assurgendo quindi a strumento di politica creditizia » (93). Queste osservazioni meritano particolare attenzione, perché evidenziano la delicatezza delle odierne scelte di criminalizzazione di condotte che ledono o mettono in pericolo interessi che possono assumere una doppia natura: privata e pubblica. Ciò vale in particolar modo con riferimento al reato di usura, per il quale vale più che mai oggi l’osservazione che anche « l’aggressione di beni tipicamente individuali, per esempio patrimoniali, assume una dimensione collettiva nel caso di reati commessi in serie » (94). La diffusione dell’usura ha avuto come conseguenza il fenomeno della vittimizzazione di massa, che è stato « spesso indicato come caratteristico della criminalità economica » (95); e dell’usura, poi, non si conosce la reale diffusione per l’alta cifra nera che la caratterizza. Non per nulla la dottrina più sensibile ha da tempo sottolineato l’importanza che le opzioni di politica criminale in materia economica e patrimoniale siano attentamente calibrate alla luce delle reali e modernamente intese esigenze di tutela dell’economia e del patrimonio, la disciplina codicistica dei quali si è ormai palesata del tutto inadeguata allo scopo onde la stessa dottrina ne chiede con decisione la riforma. 8. Per concludere le riflessioni sull’impianto repressivo della nuova normativa, a parte l’introduzione di ben cinque circostanze aggravanti speciali di cui all’art. 644, quinto comma, un’indagine circa le quali esorbita dall’economia del presente lavoro, vale la pena ricordare gli artt. 7, 8 e 9 per la loro indubbia valenza repressivo-punitiva. Cominciando dall’art. 8, si rileva che esso, modificando l’art. 266 c.p.p., amplia il numero dei (93) MERUZZI, Usura, in Contratto e impresa, 1996, p. 809. (94) PEDRAZZI, op. ult. cit., p. 301. L’usura dunque quale fenomeno sociale, come ha sottolineato la dottrina tedesca che si è occupata dei rapporti fra Individualwucher e Socialwucher, quest’ultima quale fenomeno di approfittamento di una situazione generalizzata di bisogno, che investe cioè un numero indeterminato di soggetti e quindi interessa la collettività nel suo complesso. Con riferimento alla Socialwucher si discute infatti se venga meno il requisito dell’approfittamento dello stato di bisogno, dal momento che l’agente avrebbe potuto comunque ottenere i medesimi vantaggi usurari da altre persone, (cfr. in senso negativo, fra gli altri, BERNSMANN, Zur Problematik der Missverhältnisklausal beim Sachwucher- eine Untersuchung zu einem « dogmatischen Dunkelfeld », in GA, 1981, p. 141 ss. (95) PEDRAZZI, op. ult. cit., p. 301. Richiama l’attenzione sulla necessità fin dove è possibile di distinguere ‘‘pubblico’’ e ‘‘privato’’ nei fatti economici, onde evitare l’imposizione di interessi privati nel falso presupposto del loro rilievo pubblico, con una generalizzazione dell’interesse dei singoli, elevandolo a rango superiore, PATERNITI, Industria e commercio (delitti contro), in Enc. giur., vol. XVI, p. 1, il quale osserva come i fatti economici in particolare nell’attività industriale e commerciale restino comunque tendenzialmente di rilievo privato. « Senza negare, con ciò, riflessi anche cospicui sulla collettività, specie quando assumano dimensioni notevoli in termini patrimoniali oppure nell’estensione, di tal che risulti nei fatti un coinvolgimento o un’incidenza su molti cittadini ». V. anche FORNASARI, Il concetto di economia pubblica nel diritto penale, Milano 1994, passim.
— 802 — reati per i quali sono ammesse particolari modalità investigative, includendovi anche l’usura. L’art. 9 estende anche al delitto di usura le misure di prevenzione personali e patrimoniali di cui all’art. 14 legge n. 55/90 e all’art. 3-quater della legge n. 575/95 in materia di prevenzione delle delinquenza di tipo mafioso. L’art. 7 prevede invece l’applicabilità al condannato per il reato di usura della pena accessoria dell’incapacità di contrarre con la P.A. Per capire la portata preventiva della disposizione, occorre preliminarmente interrogarsi circa le tipologie dei soggetti destinatari di essa. Accanto alla figura tradizionale dell’usuraio, che opera a livello di quartiere e come singolo gestisce in prima persona e in via esclusiva l’erogazione dei prestiti, investendo ricchezza propria, si è andata infatti affermando quella dell’usuraio semiprofessionale o part-time che a questa attività ne affianca un’altra lecita, strettamente collegata alla prima. È infine possibile delineare una terza tipologia d’autore, rappresentata dalla forma associativa o organizzata (il c.d. usuraio organizzato) (96). A volte tali organizzazioni sono coperte da strutture ‘‘ufficiali’’, quali persone giuridiche o società finanziarie, o, più spesso, società di fatto. Lo scopo del gestore della società è di reinvestire le somme raccolte dai consociati in prestiti usurari a soggetti esterni; mentre l’erogazione di prestiti in favore di soci consente a questi ultimi di speculare sulla differenza dei tassi. Se queste società mutualistiche hanno alla base strutture di notevoli dimensioni, si trasformano in uno strumento di raccolta del capitale che si presta ad essere investito in finanziamenti illeciti ad opera della criminalità organizzata. Il sistema illegale del credito diventa dunque per queste organizzazioni criminali di riciclaggio un sistema che consente di investire e accrescere i capitali di provenienza illecita (97). Sono proprio queste ultime le tipologie d’autore che il legislatore ha presente, allorché, secondo un approccio di tipo funzionale, cioè « incentrato sul ruolo del soggetto agente nel processo economico-sociale », che porta a definire « economico il reato strumentale connesso all’esercizio di (96) All’interno della tipologia associativa viene individuata un’ulteriore categoria di soggetti: quella dei soggetti che svolgono attività di intermediazione tra gli usurai e il potenziale cliente, mentre l’usura connessa al gioco d’azzardo rappresenta una categoria a sé, v. in proposito SAVONA, Le dinamiche del fenomeno dell’usura, Relazione presentata all’incontro di studio sul tema: « Usura e disciplina penale del credito », a cura del CSM, Frascati 6-8 febbraio 1997, p. 4 ss datt. (97) Cfr. CAPERNA, LOTTI, op. ult. cit., p. 77 s.; BARBAGALLO, GUMINA, L’usura tra realtà e prospettive, in Banca, impresa, società, 1995, p. 78. Per quanto riguarda le attività svolte dalle società che praticano l’usura, esse non sono solo di tipo finanziario in generale, ma anche di tipo immobiliare o di prestazione di servizi (cfr. SAVONA, op. cit., p. 6 datt., con particolare riferimento all’area milanese, dove si registra anche un coinvolgimento dei professionisti che curano gli interessi delle aziende dedite all’esercizio dell’usura: « Molto spesso sono anzi addirittura gli stessi professionisti che agiscono in prima persona come usurai »).
— 803 — un attività economica » (98), estende anche al reato di usura la sanzione interdittiva di cui all’art. 32-quater c.p. Rimane un ultimo aspetto della legge, fra quelli repressivi, da menzionare ed è la previsione, all’art. 644, quarto comma, di una specifica forma di confisca, sempre obbligatoria. A tale proposito è sufficiente segnalare il profilo più nuovo e interessante della disciplina del quarto comma dell’art. 644, nel quale per la prima volta in Italia viene introdotta una misura di sicurezza patrimoniale per equivalente, o confisca di valore, già presente in altri ordinamenti europei (99). Oggetto della confisca di cui all’art. 644 possono essere infatti sia i beni (prezzo e profitto) collegati al reato di usura, sia somme di denaro (ma anche titoli di credito) per importo pari al valore degli interessi, dei vantaggi o dei compensi usurari ottenuti. 9. La legge n. 108/96, com’è noto, si caratterizza anche per una serie di norme che ne disegnano il volto preventivo, accanto a quello repressivo descritto nelle pagine precedenti. Gli strumenti differenziati di intervento che vi vengono previsti consentono di distinguere tra una prevenzione in senso lato o preventivo-punitiva e una prevenzione in senso stretto o preventivo-solidaristica. a) Alla prima vanno ricondotti alcuni interventi di tipo più propriamente punitivo, ma in funzione di prevenzione avanzata rispetto all’usura. A parte quelli di tipo civilistico, il riferimento è in particolare alle norme della legge in esame volte a colpire l’abusivismo finanziario nelle sue diverse manifestazioni e le condotte che possono favorirlo. Si tratta di norme che rappresentano « una forma di intervento penale anticipato o a monte per prevenire la stessa usura: una sorta di delitto ostacolo o reato di pericolo rispetto alla consumazione della vera e propria usura » (100). Consapevole che l’abusivismo finanziario costituisce il terreno privi(98) PEDRAZZI, op. ult. cit., p. 295 s.: « Va sottolineato che l’approccio funzionale prescinde totalmente dal criterio dell’oggettività giuridica. È infatti evidente che l’attività economica, e in particolare l’attività organizzata in impresa, può attentare a una grande varietà di beni, attingendo praticamente a tutti i ‘‘titoli’’ della parte speciale, per tacere della legislazione complementare: dalla pubblica amministrazione alla fede pubblica, dall’incolumità pubblica a quella individuale, dal patrimonio al buon costume. Ciò significa che questa prospettiva inquadra l’economia come oggetto non di tutela, ma di disciplina ». (99) La confisca di valore consiste nell’obbligo di versare una somma determinata « in funzione del valore dei beni che l’autore ha tratto dal reato o del valore dei beni di sostituzione; una tale misura di carattere sanzionatorio, nonostante la definizione di ‘‘confisca’’ che spesso assume, ha una funzione analoga a quella della pena pecuniaria, alla quale è assimilata in sede di esecuzione » (ROMANO, GRASSO, PADOVANI, Commentario sistematico del codice penale, Milano 1994, sub art. 240/3). (100) FIANDACA, La disciplina penale dell’usura: problemi e prospettive, in I Quaderni di economia e credito, 1995, p. 50.
— 804 — legiato delle manifestazioni di patologia del credito, e fra queste in particolare dell’usura, il legislatore della riforma aveva rinforzato la tutela già apprestata dalle norme speciali in materia finanziaria e bancaria, contenute nel T.U. del 1993, e finalizzate a un controllo capillare di tale attività. A tale scopo, l’art. 5 innalzava a cinque anni il massimo edittale per il reato di abusiva attività finanziaria, che l’art. 132 del d.lgs. n. 385/93 aveva fissato in quattro anni. Se da un lato tale inasprimento si poneva in sintonia con la severità delle scelte sanzionatorie del 1996, avvicinandosi ai massimi edittali previsti per il reato di usura (pena base fino a sei anni) (101), dall’altro esso rompeva però la coerenza normativa con il reato affine di esercizio abusivo dell’attività bancaria, di cui al precedente art. 131 (102). Inspiegabilmente la cornice edittale per quest’ultimo reato era rimasta fissata nel massimo a quattro anni. E forse sono stati i dubbi di costituzionalità in relazione all’art. 3 Cost. sollevati da subito dalla dottrina, « in quanto emerge una irragionevole disparità di trattamento sanzionatorio fra fattispecie che hanno, viceversa, una valenza illecita quantomeno analoga » (103), a spingere il legislatore a rendere di fatto inoperante l’art. 5 a distanza di soli cinque mesi. L’art. 64, ventitreesimo comma del d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415 (104), infatti riformula la fattispecie di cui all’art. 132 e riporta la pena edittale nel massimo a quattro anni (105). L’art. 16, introduce invece due nuove figure di reato. Dopo aver previsto al primo comma, come già si è detto, un albo dei mediatori finanziari, al settimo comma punisce con la multa colui che esercita la suddetta attività senza essere iscritto all’albo di cui al primo comma. Mentre al nono comma lo stesso articolo prevede la contravvenzione di sviamento della clientela dagli intermediari abilitati. A tale proposito, qualche riserva (101) Più che in termini di ‘‘contiguità’’ di fattispecie l’intervento andrebbe spiegato in termini di coerenza sistematica nel trattamento punitivo rispetto alle tipologie delittuose di cui all’art. 106 d.lgs. n. 385/93, così MUCCIARELLI, op. ult. cit., sub art. 5, p. 2 datt. (102) Cfr. in proposito CAPERNA e altri, op. cit., p. 40 s. (103) MANNA, L’abusivismo bancario e finanziario nel sistema penale, in Banca, borsa e titoli di credito, 1996, p. 390. Sottolinea come l’innalzamento a cinque anni del limite massimo della reclusione rispondesse con tutta probabilità all’esigenza di far rientrare nella competenza del Tribunale anche il delitto di esercizio abusivo di attività finanziaria come quello di usura, ZANNOTTI, in CAMPOBASSO (a cura di), L’Eurosim, Commentario, sub art. 64, p. 447. (104) « Recepimento della direttiva 93/22/CEE del 10 maggio 1993 relativa ai servizi di investimento del settore dei valori mobiliari e della direttiva 93/6/CEE del 15 marzo 1993 relativa all’adeguatezza patrimoniale delle imprese di investimento e degli enti creditizi ». (105) Osserva giustamente MUCCIARELLI, op. ult. cit., sub art. 5, p. 3 datt., che il d.lgs. n. 415/96 sarebbe stato l’occasione propizia per rimediare alla mancanza di coordinamento con il delitto di esercizio abusivo del credito e non tanto l’occasione per tornare all’antico.
— 805 — occorre tuttavia muovere. Da un lato a riguardo della tecnica di redazione delle fattispecie, per alcuni versi carente di tassatività nell’individuazione della categoria dei potenziali soggetti attivi e della condotta tipica (106); dall’altro in relazione al principio politico criminale di extrema ratio, alla luce del quale si può dubitare della opportunità di creare quest’ultima contravvenzione, preferendola all’illecito amministrativo (107). È proprio in tale prospettiva che occorre interrogarsi circa l’adeguatezza della norma allo scopo di tutela del bene giuridico da essa protetto e non univocamente individuato nell’affidamento della clientela alla disinteressata correttezza del dipendente dell’intermediario finanziario o creditizio, ovvero nella salvaguardia del circuito finanziario lecito (108). Rispetto a tale bene infatti sfuma il reale significato di disvalore sociale della condotta di indirizzamento, che risulta carente di tipicità. « Sicché la genericità della norma finisce con l’estendere l’area del divieto, e quindi del penalmente rilevante, anche a situazioni il cui disvalore è ben difficilmente apprezzabile » (109). Il rischio è dunque che, per esigenze di anticipazione della tutela contro l’usura, finiscano per essere incriminate condotte di indirizzamento, che, per vero, grazie alla clausola di riserva contenuta nella norma (« salvo che il fatto costituisca reato più grave »), non integrano « neppure gli estremi della complicità in rapporto all’esercizio abusivo dell’attività bancaria o finanziaria » (110). Esse sarebbero conseguentemente definibili come un semplice « tentativo di partecipazione ad un reato, per di più, a pericolo presunto » (111). Mentre anticipazioni di tutela penale del tipo appena descritto richiedono una attenta verifica della (106) A tale proposito MUCCIARELLI, op. ult. cit., sub art. 16, p. 7 datt., rileva che « il secondo comma dello stesso art. 16 esplicitamente rinvia a un regolamento governativo la determinazione del ‘‘contenuto dell’attività di mediazione creditizia’’. Sicché ad una fonte secondaria viene ad essere attribuito il compito di stabilire i caratteri identificativi di condotte, il cui compimento (in assenza della richiesta iscrizione all’albo) costituisce reato: affermare che ciò sia rispettoso del principio di riserva di legge appare a dir poco avventato », e ancora: « Evidente la genericità della descrizione della condotta vietata, posto che il termine ‘‘indirizzare’’ si presta a designare una vasta serie di comportamenti, connotati da ben diversa pregnanza... ». (107) Nello stesso senso v. MUCCIARELLI, op. ult. cit., sub art. 16, p. 11 datt. (108) PICA, I nuovi illeciti in materia di attività finanziarie introdotti dalla legge sull’usura, in Riv. pen. econ., 1996, p. 36. (109) MUCCIARELLI, op. ult. cit., sub art. 16, p. 8 datt. (110) CAVALIERE, op. cit., p. 1266. In proposito, v. anche MUCCIARELLI, op. ult. cit., sub art. 16, p. 9 datt., il quale individua la soglia minima della non punibilità, per difetto di disvalore, nelle condotte puramente omissive e la soglia massima della non punibilità della norma, per eccesso di disvalore data la clausola di riserva, nelle condotte che si risolvono in un reale condizionamento della scelta di rivolgersi a un soggetto non abilitato. Queste ultime condotte, in particolare, secondo l’A. potrebbero integrare una forma di concorso nel reato di cui al settimo comma dell’art. 16, in quanto esso rappresenterebbe il reato più grave richiamato dalla clausola di riserva. (111) « A meno che non si voglia sostenere che l’esercizio abusivo dell’attività banca-
— 806 — loro tenuta alla luce del principio di extrema ratio e devono trovare sufficiente giustificazione nel valore del bene ultimo per la cui tutela esse vengono previste (112). b) Nella prospettiva di una reale lotta differenziata al crimine dell’usura, che implica interventi a più livelli onde consentire un’azione a raggiera, si giustificano viceversa quegli interventi di tipo preventivo-solidaristico, rappresentati in primo luogo dal Fondo per la prevenzione del fenomeno dell’usura, destinato all’erogazione di contributi a favore di fondi speciali (art. 15). E in un’ottica di intervento post delictum il Fondo di solidarietà per le vittime dell’usura di cui all’art. 14, primo comma, in funzione di aiuto delle vittime del reato che svolgono un’attività imprenditoriale o professionale, onde sottrarle per il futuro al mercato del credito illegale (113). Come è stato osservato, la disciplina di cui all’art. 14 ricalca la normativa del fondo antiracket, che finora però non ha « dato buona prova, come sta a dimostrare il fatto che a tutt’oggi non è stato in grado di impiegare gran parte della pur esigua dotazione patrimoniale di cui dispone » (114). Per evitare questi risultati anche nei confronti del Fondo di solidarietà e per assicurarne una corretta amministrazione, diventa importante una conoscenza precisa della tipologia delle vittime dell’usura. Tale conoscenza consentirebbe infatti una più esatta calibratura delle risorse economiche a disposizione, tra l’altro riducendo il rischio di accesso al Fondo da parte di soggetti immeritevoli, come, ad esempio, secondo la logica economica di c.d. soggetti incapaci sul piano imprenditoriale, che in quanto tali, da un punto di vista economico, non avrebbero alcun diritto di essere tutelati (115). ria o finanziaria integri già la lesione di un bene, con una macroscopica confusione fra bene giuridico e ratio di tutela » (CAVALIERE, op. loc. cit.). (112) « Orbene, nel vigente sistema penale bancario si verifica una tendenza del legislatore ad arretrare la linea di tutela, ovvero a formalizzare la fattispecie spogliandola dei suoi elementi di concreta lesività e spingendo la stessa verso entità evanescenti o di ordine macroeconomico, che non verso interessi materiali e concretamente definibili. Non a caso si registra nel settore in esame una netta prevalenza dello schema formale dell’illecito omissivo proprio e contravvenzionale » (MANNA, op. cit., p. 387). (113) Quindi vittime qualificate, perché devono essere soggetti che esercitano l’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o comunque economica ovvero una libera arte o professione. (114) MERUZZI, SAVONA, Legge anti-usura più prevenzione e solidarietà, in Impresa e Stato, 1996, p. 25. (115) Così SAVONA, op. cit., p. 4 datt. definisce l’usurato per attività produttive che sta immeritatamente sul mercato, in quanto incapace. Esso fa parte della categoria degli usurati per bisogno, categoria che comprende appunto i soggetti costretti all’usura da bisogni di tipo familiare o imprenditoriale. L’altra categoria è rappresentata dagli usurati non bisognosi, i c.d. giocatori d’azzardo, categoria peraltro residuale. Fra gli usurati del primo tipo, all’interno della sottotipologia dell’usurato per bisogno di tipo imprenditoriale, considerato
— 807 — Per quanto riguarda invece il Fondo per la prevenzione di cui all’art. 15, esso è di natura squisitamente preventiva, in quanto mirato a ridurre concretamente il numero dei potenziali clienti degli usurai, offrendo non tanto aiuto alle persone già vittime dell’usura (intervento di tipo preventivo-assistenziale), ma finanziamenti diretti a soggetti in difficoltà, prima che gli stessi divengano vittime del mercato illegale. Tale fondo quindi opera in funzione di agevolare l’accesso al credito di fronte al fenomeno del suo razionamento, sottraendo al credito illegale i potenziali clienti rappresentati, secondo la classificazione introdotta dagli economisti (116), dai soggetti immeritevoli bisognosi (117), i più esposti al rischio dell’usura. 10. Ma il legislatore del ’96 aveva ben presenti anche le altre categorie di soggetti facile preda dell’usura, gli immeritevoli non bisognosi (118) e i meritevoli razionati (119). Pure a questi è assicurata comunque protezione anche attraverso la previsione della fattispecie rigida di usura. Quella solidaristica, che viene presentata come di per sé contraria alla logica economica, è dunque una componente qualificante della legge di riforma, criticata in maniera più severa non per nulla proprio dagli economisti, in particolare sotto l’angolatura dell’impianto definitorio del contratto d’usura, che viene giudicato « illogico e di riflesso potenzialmente inefficace nella lotta contro l’usura, iniquo per la definizione dei contratti legali di credito, inefficiente per il funzionamento dei mercati bancari, infine ambiguo per le sue autentiche finalità » (120). L’illogicità naturale destinatario della nuova legge, si distingue l’imprenditore incapace, che si giudica appunto immeritevole di tutela, dall’imprenditore bisognoso incolpevole, cioè capace, ma sfortunato. (116) « Partendo dunque dal credito legale, i soggetti che domandano credito alle banche possono essere distinti in due categorie, rispetto alle loro potenzialità di ripagare i fondi da loro richiesti: soggetti meritevoli, in quanto solvibili e affidabili e soggetti immeritevoli. La banca deve valutare al meglio il merito del credito; ma, in presenza di asimmetrie informative e incertezza, possono verificarsi fenomeni di razionamento sul mercato legale dei crediti che possono riflettersi sullo sviluppo del mercato legale » (MASCIANDARO, Usura, istituzioni non profit antiusura e sistema bancario, in Banche e banchieri, 1996, p. 21). (117) Si tratta di soggetti « a cui il credito è stato giustamente negato in base all’analisi tecnica, ma che versano in situazioni gravi ed eccezionali di bisogno; anche costoro, definibili ‘‘immeritevoli bisognosi’’ son da proteggere in quanto il loro razionamento è iniquo (il criterio è quello della solidarietà) » (MASCIANDARO, op. cit., p. 22). (118) Per essi non sarebbe richiedibile alcun tipo di tutela, né in base all’efficienza, né in virtù della solidarietà. (119) Prima categoria da tutelare, in quanto il loro razionamento è inefficiente nell’ottica economica. (120) MASCIANDARO, ‘‘Usuranomics’’. Questa legge non funzionerà, in Impresa e Stato, 1996, p. 18. D’altra parte già STUART MILL J., Princìpi di economia politica, trad. it., Torino 1983, p. 1208 ss., sosteneva che la previsione di un tasso d’usura va contro il principio di efficienza, perché riduce il volume del credito disponibile e va contro quello di equità, perché priva i soggetti economicamente inaffidabili della possibilità di accesso al credito.
— 808 — deriverebbe dal fatto di aver definito il contratto di usura prescindendo dal binomio bisogno-approfittamento, che per tradizione distingue il primo tipo di contratto in quanto iniquo da un contratto lecito (121). Inoltre si sarebbe elevato a « elemento costitutivo del contratto di usura una conseguenza accessoria — il tasso d’interesse — che invece potrebbe sì essere — al limite — una condizione aggravante, in quanto l’usura si concretizza con modalità ben più articolate rispetto a quelle del solo interesse (rinnovi, garanzie, altre condizioni) » (122). Ma alla legge gli economisti rimproverano soprattutto di esporsi al rischio dell’inefficienza, rischio del quale invero un diritto penale orientato allo scopo dovrebbe essere scevro. Infatti, si afferma, « un risultato ormai scontato e acquisito dall’analisi economica è che imporre vincoli amministrativi sul credito provoca l’inefficiente razionamento dei soggetti marginali e più deboli » (123). In termini positivi vengono invece giudicati gli aspetti preventivi della legge e in particolare quelli che consentono la correzione dei difetti del mercato, ad esempio grazie ai Fondi per la prevenzione, ovvero che consentono la sostituzione dei meccanismi di mercato, ad esempio attraverso i Fondi di solidarietà. Proprio ai profili preventivi occorrerebbe affidare le sorti della legge, per evitare che anch’essa entri nel novero delle risposte di pura rassicurazione sociale delle richieste emotive e irrazionali di punizione di fronte a (121) « È la disimmetria tra la situazione di chi dà prestito e quella di chi prende a prestito che rende l’usura illegittima », già nel pensiero scolastico medioevale, così ricorda anche BAUDASSE, L’opportunité du taux d’usure.Quelques élémentes de la littérature, in Revue d’economie financiere, 1993, p. 194, il quale sottolinea altresì che in un certo senso è l’imperfezione del mercato all’origine del concetto di usura. Al mutuante è concesso di fissare un tasso usurario, in quanto la concorrenza fra mutuanti non è tale da costringere colui che presta ad abbassare il tasso. (122) A tale proposito si osserva: « Il meccanismo dei rinnovi e dei titoli in garanzia determina che l’usuraio viene in possesso di assegni e cambiali che possono sempre essere utilizzati a danno della vittima. La vera funzione obiettiva dell’usuraio non è, del resto, quella di riottenere la somma prestata ma quella di impossessarsi del patrimonio del debitore che può consistere in una proprietà immobiliare ovvero in una impresa; non assume rilievo, quindi, solo il tasso di interesse applicato, quanto piuttosto l’insieme dei mezzi illegali o legali predisposti per impadronirsi di tali beni. Le garanzie improprie acquisite (preliminari di vendita, cessione di quote o azioni) possono costituire il vero connotato usuraio del rapporto » (DONATO, MASCIANDARO, Economia criminale e intermediazione finanziaria. Profili economici e giuridici, in Banche e banchieri, 1995, p. 28). Non è questa certo un peculiarità del fenomeno moderno dell’usura, se, come scrive BENEDETTO, op. cit., p. 374, nel diritto intermedio, alla fine del Medioevo, « la... discussione si accendeva a proposito dei pegni di cui si appropriava l’usuraio non pagato. Le cose che erano state oggetto di usura potevano poi essere trasformate: il denaro in lingotti e questi a loro volta in moneta di fiera; ma più comunemente era investito in terre; così i banchieri fiorentini diventarono grandi proprietari fondiari ». (123) MASCIANDARO, op. ult. cit., p. 19.
— 809 — un fenomeno che desta particolare allarme nella collettività. Questo potrà accadere, ad esempio, rendendo « più ampi ed efficienti i bacini del credito legale, in modo da rendere sempre minore la domanda potenziale d’usura » (124). Come è stato giustamente osservato, è infatti « lecito ritenere che un’oculata articolazione delle normative riferibili allo specifico settore economico nel quale sia inquadrabile un certo comportamento criminoso possa assumere, in linea di principio, una potenzialità preventiva ben maggiore della stessa norma penale che qualifica quel comportamento come reato » (125). Quella della prevenzione, d’altra parte, è la strada che il nostro legislatore sembra voler percorrere seriamente, nella consapevolezza ormai della assoluta inefficacia di un approccio puramente ‘‘simbolico’’ al fenomeno criminale dell’usura come oggi si presenta. « Non è detto, beninteso, che le barriere prepenalistiche siano sempre risolutive. Di certo, tuttavia, la scorciatoia di un ricorso al diritto penale privo di retroterra costituito da una solida politica criminale extrapenale non è in grado, salvo successi marginali, di essere risolutiva: non è infatti credibile, e lo dimostrano gli studi sulla deterrenza, che in uno ordinamento democratico-garantista il solo timore della pena possa controbilanciare la facilità dell’accesso al crimine e la portata dei fattori che rendono tale accesso appetibile » (126). Da questo punto di vista, la legge del 1996 si può considerare un interessante tentativo di politica criminale integrata nei confronti del fenomeno dell’usura, la polivalenza e complessità del quale impone « un approccio interdisciplinare sullo stesso terreno giuridico » (127). Così il contributo delle scienze economiche potrebbe servire per suggerire approcci innovativi: ad esempio, come è stato già osservato a proposito del riciclaggio, « potrebbe risultare utile aumentare il numero dei soggetti coinvolti nel ‘‘gioco’’, valorizzando il ruolo delle vittime effettive o potenziali » ovvero « avvalersi, quanto più possibile, di banche dati elettroniche integrate, che colmino le asimmetrie informative » (128). Secondo quanto è ormai assodato per la criminologia moderna, l’analisi economica è spesso in grado di indicare come per fronteggiare il crimine economico (124) MASCIANDARO, op. loc. ult. cit. A tal fine diventa importante il settore delle norme che regolamentano gli intermediari finanziari e che mirano alla tutela della clientela. « Un settore normativo di grande importanza nell’ordinamento finanziario è rappresentato dalla disciplina c.d. della ‘‘trasparenza’’ delle condizioni contrattuali posta a tutela della clientela » (DONATO, MASCIANDARO, op. cit., p. 29. (125) EUSEBI, op. cit., p. 747. (126) EUSEBI, op. loc. cit. (127) FIANDACA, op. cit., p. 51. Nel settore della lotta contro la criminalità economica con particolare riferimento al riciclaggio, v. ZANCHETTI, Il ‘‘riciclaggio’’ di denaro proveniente da reato, Milano 1995, p. 146 ss. (128) ZANCHETTI, op. cit., p. 146 ss.
— 810 — più efficace della deterrenza esercitata dalla pena possa risultare la riduzione delle opportunità di esso (129). Al di là di questo, il fenomeno dell’usura nella nostra realtà nazionale aveva « assunto una dimensione tale da richiedere un intervento forte da parte del legislatore » (130); ciò che conta ora è che questo intervento non si riveli come paventato in particolare dagli economisti, un nirvana approach (131) destinato, come tale, all’insuccesso. Occorre dunque sperare di non dover concludere, come invece dovette fare J. Stuart Mill a proposito della legislazione inglese in tema di usura, che la legge è stata riformata « allo stesso modo come si potrebbe accomodare una scarpa stretta, facendo un buco dove fa più male e continuando a portarla » (132). MARTA BERTOLINO Straordinario di Diritto penale nell’Università di Catanzaro
(129) « La sanzione penale sviluppa il suo effetto deterrente — sempre in un’ottica di Law and Economics — solo quando è sproporzionata rispetto all’utile aspettato: caratteristica, questa, intrinseca nelle pene detentive (ma presente anche in pene interdittive, o sanzioni pecuniarie, inclusa la confisca, che abbiano per entità e modalità carattere schiettamente punitivo) » (ZANCHETTI, op. cit., p. 139). (130) SEMINARA, op. cit., p. 24 datt. (131) Esso consiste « nel porsi l’obiettivo totalmente irrealistico di garantire, attraverso il diritto penale, un bene giuridico identificato in una situazione ideale — come la ‘‘parità di chances degli investitori’’ — che non esiste e non ha alcuna possibilità di esistere » (ZANCHETTI, op. cit., p. 130, al quale si rinvia anche per la bibliografia). (132) STUART MILL J., op. cit., p. 1212: « Secondo le leggi inglesi sull’usura, ora opportunamente abolite, le limitazioni imposte da queste leggi erano sentite come una seria aggravante di ogni crisi commerciale, commercianti che avrebbero potuto ottenere l’aiuto del quale avevano bisogno a un interesse del 7 o dell’8%, per brevi periodi, erano costretti a dare il 20 o 30%, o a ricorrere a vendite forzate di merci con una perdita ancora maggiore. Dopo che l’esperienza portò questi mali a conoscenza del Parlamento, ebbe luogo uno di quei compromessi dei quali la legislazione inglese offre tanti esempi, e che contribuiscono a fare della nostra legislazione e della nostra politica quella massa di incongruenze che esse sono ».
DIBATTITI SULLE TEORIE DELLA PENA E ‘‘MEDIAZIONE’’ (*)
Quando divennero colpevoli, inventarono la giustizia e si prescrissero interi codici, per conservarla, e per far rispettare i codici stabilirono la ghigliottina (F. DOSTOEVSKIJ, Il sogno di un uomo ridicolo, 1877, trad. it. Milano, 1995, p. 34)
SOMMARIO: 1. La pena tradizionale come radicalizzazione del conflitto; — 2. ...e la critica sorprendentemente operata nei suoi confronti dal giovane Hegel; — 3. ...e l’idea dello scopo. — 4. Le prospettive di riforma del sistema sanzionatorio nel quadro di una necessaria riprogettazione della politica criminale. — 5. Il concetto di mediazione e la prevenzione generale possibile; — 6. ...e le strategie premiali; — 7. ...e l’orientamento costituzionale alla risocializzazione.
1. Vi sono le teorie della pena, e vi è la pena, sorprendentemente stabile, almeno fino ad epoca recentissima, nelle sue forme di manifestazione. Tale stabilità riflette quella sorta di nocciolo duro inerente all’idea del punire che emerge in Hegel come parte di una ben più complessiva visione del mondo (tuttora alla base di assai radicate concezioni, per esempio, dei rapporti economici o politici) e che è rimasta nella sostanza indenne rispetto all’affermarsi delle teorie relative: l’idea secondo cui il fatto stesso che si renda palese una contraddizione — qual è l’accertamento di un reato rispetto al diritto — ne implicherebbe la negazione, in forza dell’ineludibile attivarsi di un processo ad un tempo identico ed opposto, costituente il suo superamento (1). (*) Relazione svolta al convegno ‘‘La mediazione nel sistema penale minorile’’, Bolzano, 31 gennaio-1 febbraio 1997, in corso di pubblicazione nei relativi Atti. (1) In Hegel ‘‘il concetto della pena si ricava dalla negatività stessa del delitto e consiste nel legame necessario per cui esso, come volontà in sé negativa, implica la sua stessa negazione, che appare come pena’’: così RONCO, Il problema della pena. Alcuni profili relativi allo sviluppo della riflessione sulla pena, Torino, 1996, p. 87, alla luce dei passi notissimi concernenti la pena di cui ai §§ 90 ss. della Rechtsphilosophie. Fra gli altri scritti hegeliani, v. per esempio Sulle maniere di trattare il diritto naturale, in HEGEL, Scritti di filosofia del diritto, trad. it. di A. Negri, Bari, 1971, in part. p. 87 ss.: ‘‘Ciascuna determinatezza è, se-
— 812 — È una negazione la quale, di per sé, appare ricostruibile in due diverse accezioni: ma il risultato, a ben vedere, non cambia di molto. Potrebbe trattarsi (e sarebbe più razionale) di un processo opposto per la natura del suo contenuto materiale ed identico (soltanto) per il peso specifico di tale contenuto: ad esempio, la negazione di una certa quantità di male, in quanto carenza di bene, dovrebbe essere una quantità di bene uguale a tale carenza. Oppure potrebbe trattarsi di un processo identico per la natura del suo contenuto materiale ed opposto (soltanto) per il valore che a tale contenuto venga attribuito: la negazione di un male, allora, sarebbe data dall’attivazione di un altro male, che si differenzierebbe dal primo solo per il suo essere, in quanto contraccolpo, un movimento riflesso. Hegel pare muoversi in quest’ultimo senso (2); ed in effetti ciò che conta per il filosofo tedesco è proprio il significato di ritorsione insito nella pena (3), al di là della sua stessa configurazione quantitativa: la ‘‘qualità o gravità del delitto è variabile secondo la situazione della società civile’’, ed ‘‘è in questa situazione — egli osserva — che risiede la legittimità sia di punire con la morte un furto di pochi soldi o di una rapa, sia di infliggere una pena mite a un furto che implica valori cento e più volte maggiori di quello’’ (4). Tuttavia le cose sostanzialmente non mutano, come si accennava, anche seguendo la prima prospettiva (5): il fatto è che non disponiamo di qualcosa — sia esso un bene o un male — che possa annullare quello che è stato (6). Rispetto a quello che è stato si può solo andare oltre, gettare condo la sua essenza, o + A o − A; ed il − A è indissolubilmente incatenato al + A, tanto quanto il + A al − A (...). Nella riunificazione le due determinatezze sono entrambe negate: + A − A = 0 (...). Applicato ciò al problema della pena, apparirà razionale in essa solamente il criterio del taglione; infatti attraverso di esso viene vinto il crimine. Una determinatezza + A che il crimine ha posto, viene integrata attraverso la posizione di − A, e così entrambe sono negate’’. Cfr. altresì Sistema dell’eticità, ivi, in part. p. 235: ‘‘La vendetta è l’assoluto rapporto contro l’assassinio e il singolo assassino; non è altro che l’inversione di ciò che l’assassino ha posto e che non si lascia sublimare e rendere razionale in alcun altro modo; non si può prescindere da questo; viene infatti posta una effettualità che come tale deve avere il suo diritto, di modo che in conformità alla ragione si produca il contrario di quanto è stato prodotto’’. (2) Così prosegue il passo da ultimo citato alla nota precedente: ‘‘rimane la determinatezza del rapporto, ma all’interno di quella [il prodotto] viene ora mutato nell’opposto, il sussumente viene sussunto; c’è soltanto la forma che muta’’. (3) Come ‘‘lesione che s’abbatte sul delinquente’’: v. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto (1821), ed. it. a cura di V. Cicero, Milano, 1996, § 100, p. 207. (4) V. HEGEL, op. ult. cit., § 218, p. 379. (5) Cfr., in sede letteraria, BERNANOS, Dialoghi delle Carmelitane (1948), trad. it. di G. Piovano, 14a ed., Brescia, 1996, p. 170: ‘‘ho sempre temuto che vi inganniate, quando la generosità vi ispira di opporre l’esaltazione del bene all’esaltazione del male, come due voci potenti che cerchino di coprirsi a vicenda’’. (6) Il tema della rimozione del delitto ricorre più volte nei passi in materia penale
— 813 — (per così dire) nuovi ponti (7). Sarebbe bello che non fosse così: avere sempre, come una riserva, la possibilità di pagare un prezzo foss’anche duro per cancellare i nostri sbagli, o quelli altrui. Ma non è così (8). Dunque, è l’idea stessa del perseguire la negazione di ciò che si manifesta come contraddittorio che resta di per sé pericolosa: tanto che una volta imboccata simile via può sorgere la tentazione di definire a cuor leggero la stessa sofferenza della pena, nonostante il contenuto di malum pro malo, come un bene (9), cioè come qualcosa che intrinsecamente abbia valore morale (10). della Rechtsphilosophie: non nel senso, ovviamente, che possa essere rimosso l’accadimento materiale costituente reato, bensì nel senso che lo debba essere la ‘‘lesione del diritto in quanto diritto’’ (v. HEGEL, op. ult. cit., § 99, p. 207), la quale a sua volta — pur costituendo ‘‘un’esistenza positiva, esteriore’’ — sarebbe ‘‘un’esistenza che, entro sé, è nulla’’ (ivi, § 97, p. 203 s.). Quella che Hegel ritiene la vera esistenza del delitto — un’esistenza del tutto immateriale distinta dalla fisicità del medesimo — dovrebbe dunque, in effetti, essere annullata dalla pena (o meglio, quest’ultima ne verrebbe necessariamente ad esprimere la già sussistente nullità): il problema è che un simile processo totalmente ideale si realizzerebbe per il tramite di una materialissima sofferenza retributiva, la cui asserita attitudine a rimuovere un concetto di lesione del diritto privo di contorni empirici non può di certo temere smentita e la cui ineludibilità per confermare la vigenza del diritto violato resta, comunque, assolutamente indimostrata. (7) Significativa, in questo senso, la definizione di giustizia espressa da uno fra i maggiori teologi protestanti del novecento: ‘‘la giustizia è la forma della ri-unione di ciò che è separato’’ (TILLICH, Amore, giustizia e potere [1954], trad. it. di S. Galli, Milano, 1994, p. 66; l’Autore distingue in particolare fra ‘‘giustizia tributiva o proporzionale’’, che ‘‘si manifesta come giustizia distributiva, attributiva, retributiva’’ ed è ‘‘una giustizia che calcola, che misura il potere di essere di ogni cosa nei termini di ciò che le spetta o le deve essere negato’’, e giustizia ‘‘trasformatrice’’ o ‘‘creativa’’, più elevata della prima, avente per criterio l’‘‘intrinseca richiesta di giustizia di un ente’’, cioè la sua ‘‘piena realizzazione nel contesto della piena realizzazione universale’’, e, pertanto, finalizzata a ‘‘ri-unire’’: ivi, p. 68 ss.). (8) Cfr., ancora in prospettiva teologica, GESCHÉ, Il male (Dio per pensare 1) (1993), trad. it. di R. Torti Mazzi, Cinisello B., 1996, p. 58: ‘‘il peccato può essere perdonato, il male è invece insolvibile’’. (9) Cfr., in senso del tutto coerente con l’esigenza che ogni azione di cui si proponga il compimento sia positivamente qualificabile sotto il profilo etico, RONCO, op. cit., p. 1: ‘‘in tanto il male del delitto può essere superato in quanto realmente la pena sia vissuta ed esperimentata come bene, così come oggettivamente essa è’’ (corsivo nostro; v. anche ivi, p. 174). Più realista, nel medesimo solco delle concezioni retributive, la posizione di MORSELLI, La prevenzione generale integratrice nella moderna prospettiva retribuzionistica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, p. 66: ‘‘la pena è un male che viene inflitto con intento afflittivo [...]; la sua essenza consiste proprio nella lesione forzata, e sia pure legittima, di diritti, in una situazione cui si viene assoggettati con la coazione, e che pertanto si deve subire, proprio perché è nella natura intrinseca della pena l’inflizione di una sofferenza’’ (corsivi dell’Autore). Nello stesso senso, ma in prospettiva critica, PAVARINI, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, vol. I, a cura di G. Insolera, N. Mazzacuva, M. Pavarini, M. Zanotti, Torino, 1997, p. 310: della pena ‘‘possiamo dire a posteriori che ci eravamo illusi [...] che potesse in alcune occasioni essere anche una medicina, un rimedio estremo in grado di guarire. Oggi sappiamo che è solo un male, che oltre ad uccidere il corpo sofferente del condannato, non è capace di arrestare l’epidemia criminale. Allora perché questo male inutile?’’. Il tema complessivo è significativamente sintetizzato nel titolo degli scritti penalistici pubblicati a cura di R. Böllin-
— 814 — In ogni caso, la prospettiva che per secoli si è affermata muove nel senso secondo cui, dato un conflitto del tipo di quello costituito dal reato, ger e R. Lautmann in onore di H. Jäger: Vom Guten, das noch stets das Böse schafft (Frankfurt am Main, 1993), vale a dire ‘‘del bene, che nondimeno continua a produrre il male’’; annotano in proposito i curatori (ivi, p. 10): ‘‘Solo nei suoi abiti festivi il diritto [penale] può manifestarsi come ars aequi et boni. Nei suoi abiti di lavoro esso viene al dunque in modo del tutto diverso: il male viene retribuito col male. Sanzionare nel segno della negazione significa infliggere dei danni’’. In quest’ottica, appare purtroppo un diritto penale dei giorni festivi quello di cui parla D’AGOSTINO, La sanzione nell’esperienza giuridica, 4a ed., Torino, 1993, p. 103 s. (con ulteriori riferimenti filosofici), allorché vede nel male della pena, intesa come pena retributiva, il bene che può consentire all’imputato di ‘‘riacquistare l’innocenza’’ (corsivo dell’Autore). Non hanno del resto perduto di attualità alcune annotazioni sostanzialmente autobiografiche di DOSTOEVSKIJ, Memorie da una casa di morti (1860), trad. it. di M.R. Fasanelli, Firenze, 1994, p. 18: ‘‘Pare proprio che il delitto si sottragga a una comprensione che prenda le mosse da punti di vista consueti, belli e pronti; esso risponde a una filosofia leggermente più complessa di quanto si pensi. Certo è che la prigione e il sistema dei lavori forzati non correggono il delinquente; si limitano a punirlo e a salvaguardare la società da ulteriori attentati del malfattore al suo quieto vivere. Al contrario, la prigione e lo stesso duro sistema del lavoro coatto servono solo a ingenerare odio, brama di godimenti proibiti e nefasta leggerezza. Comunque, sono profondamente convinto che il famoso sistema cellulare raggiunga soltanto uno scopo fallace, illusorio, di facciata. Esso succhia la linfa vitale dell’uomo, snerva la sua anima, la infiacchisce, la intimidisce e poi presenta una mummia, moralmente inaridita e inebetita, come modello di ravvedimento e di pentimento’’. (10) Sul terreno filosofico una delle più radicali contestazioni della prospettiva di matrice kantiana che attribuisce alla retribuzione fondamento morale viene proposta da SCHELER, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori (3a ed. 1927), trad. it. di G. Caronello, Cinisello B., 1996, p. 442 ss., pur riconducendo tale Autore l’idea del punire proprio ai concetti di retribuzione ed espiazione. Constatato come evidente il fatto che si è ‘‘obbligati a comportarsi moralmente bene anche nei confronti di chi sia cattivo o rispetto ad un comportamento cattivo’’, Scheler osserva che ‘‘in effetti la stessa azione del retribuire pretende comunque d’essere un’azione moralmente buona’’; ed in proposito prosegue: ‘‘La retribuzione e la punizione rivendicano senza alcun intrinseco fondamento una radice puramente morale. Di fatto tali idee non sono situabili nell’ambito d’una sfera assoluta e puramente morale delle persone e dei rapporti personali [...]. Se noi distinguiamo nettamente i valori e le esigenze puramente morali da tutto quanto sia ad essi correlato nella natura umana, la constatazione del male morale [...] può suscitare solo tristezza e, in base al principio e al sentimento della solidarietà morale di tutti con tutti, la coscienza di corresponsabilità di ciascuno (nel senso del mea culpa, mea maxima culpa), mai però la pretesa e l’impulso della retribuzione. Tale discernimento morale è già contenuto nel Vangelo con inequivocabile chiarezza. Il giudicare in base al principio di retribuzione viene senz’altro rigettato con chiarezza come cattivo (in senso morale, non giuridico)’’. Per Scheler le idee summenzionate — non necessarie nell’ambito delle ‘‘persone puramente morali’’ — risultano ‘‘del tutto relative al valore del benessere d’una comunità d’esseri viventi’’, non però in vista del raggiungimento di determinati scopi della comunità, bensì nel senso che si possa ‘‘purificare l’anima del soggetto danneggiato da un modo-di-sentire ispirato ad odio’’ e, dunque, ristabilire ‘‘la possibilità di un rapporto di moralità tra soggetto di danno ed autore di danno’’ (corsivi dell’Autore; per una critica assai efficace di questi ultimi profili della teorizzazione scheleriana v. NAEGELI, Il male e il diritto penale [1966], trad. it. di L. Fornari, in AA.VV.,
— 815 — esso esige una reazione la quale, in qualche modo (11), riproponga in forma speculare il medesimo conflitto (12). Il superamento di quest’ultimo, in altre parole, viene visto nella sua radicalizzazione: ove si renda palese una frattura prodotta da A nei confronti di B (o, in genere, nei confronti del diritto), risulterebbe necessario un passaggio che ribadisca giuridicamente la medesima frattura nei confronti di A. Per quanto ciò appaia paradossale, si ritiene che possa scaturire qualcosa di buono proprio e soltanto da una simile radicalizzazione del conflitto (13). Non considerando come sotto il profilo logico il superamento La funzione della pena: il commiato da Kant e da Hegel, a cura di L. Eusebi, Milano, 1989, p. 82 ss.). (11) Che la logica retributiva non sia in grado di definire l’entità della pena in concreto è cosa ben nota. Infatti il concetto di proporzionalità — cui tale logica fa riferimento da quando è apparso inevitabile considerare la colpevolezza e prendere le distanze dall’oggettivismo del taglione — impone che il rapporto fra la gravità di più reati sia identico al rapporto fra i livelli quantitativi delle pene corrispondenti, ma non sa indicare il livello di pena che debba corrispondere a un certo livello di gravità del reato: ne derivano due scale parallele che possono scorrere arbitrariamente l’una rispetto all’altra, mancando un criterio di ragguaglio fra i gradini delle due scale (con la conseguenza che la quantificazione edittale della pena retributiva, esclusa a priori ogni considerazione finalisticamente orientata, finisce per operare un recepimento acritico dei bisogni emotivi di penalizzazione riscontrabili in un dato momento storico: si consenta, in proposito, il rinvio a EUSEBI, La ‘‘nuova’’ retribuzione, sez. I, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, p. 928 ss.). Per una riproposizione recente dell’intera problematica cfr. le critiche opposte nel senso di cui in questa nota da ADAMS, Fitting punishment to crime, in Law and Philosophy, 1996, p. 407 ss., alla prospettiva retribuzionistica di von HIRSCH, Censure and Sanctions, Oxford, 1993, passim. Cenni sul tema anche in FINNIS, Legge naturale e diritti naturali (1980), trad. it. di F. Di Blasi, Torino, 1996, p. 285 ss. (12) Significativamente ALFIERI, Violenza, pena e ordine (Sintesi), in AA.VV., Diritto penale, controllo di razionalità e garanzie del cittadino (XX Congresso della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica, Verona 3-5 ottobre 1996: Schemi e relazioni), Padova, 1996, p. 89 ss., avanza l’ipotesi che la pena si ponga in continuità con la guerra, più che con la giustizia e con il diritto: ‘‘L’elemento comune [fra violenza penale e violenza bellica] è che si tratta di una violenza radicalmente escludente: il condannato è, così come il nemico, collocato dall’altra parte, in una dimensione non comunicativa. Finché dura la pena come finché dura la guerra (e per sempre, quando la pena o la guerra uccidono) condannato e nemico non sono dei nostri, non hanno la nostra stessa identità collettiva’’. L’unica soluzione ‘‘logicamente inoppugnabile’’ sarebbe, secondo l’Autore, quella proposta da un Nietzsche ‘‘poco noto’’, intesa a ‘‘spezzare la spada’’ (come ‘‘compito dei forti, anzi del più forte’’): al di fuori di questa soluzione non resterebbe che riconoscere senza infingimenti la natura retributiva del punire, posta l’impossibilità di continuare a maneggiare la spada ‘‘con buona coscienza’’ (‘‘siamo solo creature spaventate e inconsapevoli che non sanno come difendersi dalla violenza e dalla morte se non con altra violenza, con la morte’’) (corsivi dell’Autore). (13) Per una significativa sottolineatura dei limiti di un concetto di giustizia costruito intorno all’idea di reciprocità (Gegenseitigkeit) v. STRATENWERTH, Wie wichtig ist Gerechtigkeit?, in Festschrift für Arth. Kaufmann, Heidelberg, 1994, in part. p. 360 s.: è curioso notare peraltro come l’illustre penalista non fondi i suoi rilievi (anche) in riferimento alla materia penale.
— 816 — di un conflitto sembri richiedere, piuttosto, procedure di mediazione, che in quanto tali si fondano sulla realistica presa d’atto dell’esistenza di una frattura (14), e non sull’intento velleitario della sua negazione (procedure che potrebbero richiedere, beninteso, l’assunzione di oneri nient’affatto insignificanti da parte dell’offensore). Emerge, conseguentemente, il nocciolo retributivo della pena, che è sempre sopravvissuto e dal quale, parafrasando Klug (15), si devono prendere le distanze: non la giustificazione assoluta del punire, che non ha mai visto, come da tempo evidenziato, traduzioni storiche consistenti (16); piuttosto, l’assunto secondo cui, allorquando una condotta sia qualificata come reato, essa implichi una pena concepita come riproposi(14) Il fatto che il reato implichi una frattura la quale esige di essere quanto più possibile superata è dunque rilievo, sovente sottolineato dai retribuzionisti, di per sé condivisibile. Ma il punto è che i retribuzionisti hanno da sempre identificato il soddisfacimento di tale esigenza con la ritorsione del male, ritorsione che identifica il nucleo concettuale dell’idea retributiva e, tradizionalmente, del punire. Si scambia, cioè, la validità di un certo fine con quella del mezzo che asserisce, senza dimostrarlo, di poterlo conseguire (ed anzi di poterlo esso solo conseguire); per una significativa espressione degli effetti che in questo senso si vorrebbero derivare dal punire, svincolata tuttavia da qualsiasi problematizzazione circa l’adeguatezza dello strumento penale, cfr., fra i classici della filosofia giuridica italiana, CAPOGRASSI, Considerazioni conclusive, in appendice a LOPEZ DE OÑATE, La certezza del diritto, Milano, 1968, p. 267: ‘‘La pena è per il soggetto l’opposto del negativo; è essenzialmente positiva, perché è un tornare a partecipare alla vita della società. La pena è insomma l’atto positivo di avviamento, il metodo, — o traverso la via dell’emenda o traverso la via dell’espiazione, — per assicurare e ripristinare nel caso di azione negativa la partecipazione del soggetto e la formazione della società’’. (15) Cfr. KLUG, Il commiato da Kant e da Hegel (1968), trad. it. di G. Bazzoni, in AA.VV., La funzione della pena: il commiato da Kant e da Hegel, a cura di L. Eusebi, Milano, 1989, p. 3 ss. (16) Dunque, la critica alle concezioni retributive non si fonda affatto sul mero truismo espresso dal carattere contingente delle pene umane, come invece ci attribuisce D’AGOSTINO, op. cit., p. 110, nota 62. Se chi scrive interpreta correttamente il pensiero esposto nell’ambito di un colloquio personale dall’illustre Autore, questi ravvisa l’elemento irrinunciabile della risposta (retributiva) al reato nel fatto che essa dovrebbe configurarsi come espressione di un giudizio di responsabilità: l’essenziale sarebbe, cioè, che non venga meno la possibilità di riconoscere, attraverso quella risposta, una colpevolezza soggettiva. Ora, che al centro dello stesso procedimento penale orientato a fini preventivi vi sia, in effetti, la definizione di responsabilità personali (v. anche infra, n. 5) non è cosa che sembra in discussione (sempre, beninteso, che con ciò non si torni a sottovalutare l’incidenza della corresponsabilità sociale e il carattere inevitabilmente relativo dei giudizi penalistici). Quel che peraltro non si comprende è perché l’imputazione penalistica di una responsabilità personale non potrebbe manifestarsi in forme diverse (realmente capaci di favorire il superamento della frattura prodottasi con il reato) dalla ritorsione retributiva, ovvero perché mai quest’ultima ne dovrebbe costituire l’espressione per così dire naturale e, come tale, acriticamente accettabile. Appare interessante constatare, del resto, come alla radice del retribuzionismo italiano di fine secolo emerga ancora la polemica antipositivista e il connesso timore di una negazione, che invero ormai da tempo non risulta all’ordine del giorno nel dibattito penalistico, del libero arbitrio: il riconoscimento della capacità di libertà dell’uomo, tuttavia, non necessita affatto di una concezione compensativa della giustizia ed appare anzi ben più adeguata-
— 817 — zione della frattura insita in quel reato, quali che siano i fini (del tutto relativi!) che con tale pena si intendano perseguire (17). Questa caratteristica del punire, ampiamente riscontrabile nella prassi sanzionatoria di ogni tempo e di ogni luogo, spiega la fortuna che ha accompagnato sia la formula della prevenzione mediante giusta retribuzione (18), sia la tesi di un inevitabile momento retributivo in sede di commisurazione giudiziaria. Ma è anche alla base della circostanza per cui il dibattito tradizionale sulla funzione della pena non ha prodotto modelli di risposta al reato fra loro veramente alternativi (19), configurandosi piuttosto come ricerca a posteriori della giustificazione più appagante di tipologie sanzionatorie considerate non modificabili nelle loro dinamiche fondamentali (20). mente valorizzato da impostazioni le quali, in sede penale, diano rilievo alla possibilità dell’individuo di compiere scelte di segno opposto a quelle che lo condussero a delinquere. (17) È interessante constatare come le qualifiche di giustizia assoluta e relativa siano state utilizzate sul terreno filosofico, con riguardo all’idea di retribuzione, anche secondo prospettive assai lontane da quella consueta: cfr. ad esempio BERGSON, Le due fonti della morale e della religione (1932), trad. it. di M. Perrini, Brescia, 1996, p. 171 ss., il quale, dopo aver descritto la nozione tradizionale di giustizia retributiva — che ‘‘ha la sua bilancia, con cui misura e proporziona’’ e che in questo senso ‘‘misurerà la pena alla gravità della colpa’’ — e dopo aver significativamente osservato che tale giustizia ‘‘può non esprimersi in termini utilitari, ma non resta per questo meno fedele alle sue origini mercantili’’, ne ipotizza il superamento nei termini di una ‘‘transizione dalla giustizia relativa alla giustizia come un valore assoluto’’ (corsivo dell’Autore), interrogandosi su ‘‘come passare a quella [giustizia] che non implica né scambi né servizi, essendo l’affermazione pura e semplice del diritto inviolabile e della incommensurabilità della persona con l’insieme dei valori’’. (18) Per una riproposizione recente di tale formula v. BOTTKE, Assoziationsprävention. Zur heutigen Diskussion der Strafzwecke, Berlin, 1995, p. 335, secondo il quale scopo della pena è, per l’appunto, una Assoziationsprävention (da intendersi come garanzia delle possibili esperienze di libertà) realizzata mediante la produzione retributiva di costi a carico dell’agente di reato, cioè di costi definiti e delimitati in rapporto alla colpevolezza del fatto. (19) Il problema resta anche per quelle impostazioni, facenti capo al concetto di prevenzione integratrice elaborato soprattutto da Claus Roxin, le quali si sono spinte ad individuare l’obiettivo del punire in un effetto di pacificazione (Befriedigung), che permetta di considerare risolto il conflitto fra coscienza giuridica ed agente di reato (v. ad esempio ROXIN, Risarcimento del danno e fini della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, p. 17); fin quando, infatti, il perseguimento di simili risultati non incida sui modelli sanzionatòri non si ha un mutamento di prospettiva sostanziale (sono tuttavia individuabili nel pensiero di Roxin accenni in quest’ultimo senso, che si affiancano alla nota affermazione dell’accettabilità politico criminale di livelli sanzionatòri inferiori a quelli comunemente richiesti in un’ottica retributiva: cfr. sul punto, anche per ulteriori riferimenti, EUSEBI, La pena ‘‘in crisi’’, Brescia, 1990, p. 42 ss.). (20) Già in questo senso si esprimeva TOLSTOJ, Resurrezione (1899), trad. it. di A. Villa, Roma, 1995, p. 273, con riguardo al dibattito penalistico di fine ottocento (e, fra gli altri, ad alcuni rappresentanti — Lombroso, Garofalo, Ferri — della scuola positiva italiana): ‘‘tutte quelle dissertazioni miravano a spiegare e a giustificare il fatto della pena, la cui necessità era ammessa come un assioma’’. Circa la disponibilità a fornire legittimazioni ampiamente intercambiabili di medesime modalità sanzionatorie da parte dei fini tradizio-
— 818 — 2. Ciò considerato, appare non poco sorprendente che l’inadeguatezza del modello sanzionatorio tradizionale a produrre un superamento della frattura costituita dal reato sia denunciata con grande forza proprio da Hegel in uno degli scritti giovanili, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino (21): uno scritto che antecede l’epoca in cui il filosofo ritenne attribuibile al diritto, nell’ambito dell’eticità, un ruolo diverso da quello di (mera) legalità astratta, ed in cui, conseguentemente, giunse a considerare la pena come qualcosa che ha origine nello stesso atto criminoso (dunque, come qualcosa di non estraneo rispetto a quest’ultimo), essendo ‘‘la vita etica lo spazio dove l’azione delittuosa si manifesta nella sua contraddittorietà interna’’ (22). Avvertita l’esigenza che la cesura aperta dal reato nei rapporti intersoggettivi sia rimarginata, Hegel constata assai lucidamente, in altre parole, che i meccanismi della ritorsione punitiva non sono in grado di produrre riconciliazione. Tuttavia, egli non mette in discussione tali meccanismi, che considera necessitati, e, per far salva la prospettiva di una risoluzione della frattura prodotta dall’agire criminoso, assegna paradossalmente, in una seconda fase del suo pensiero, a quei medesimi meccanismi — utilizzando il concetto di negazione del delitto — portata riconciliativa. L’esito ben noto di un simile svolgimento del percorso teorico di Hegel è reperibile nel § 220 dei Lineamenti di filosofia del diritto, ove la pena è descritta come ‘‘conciliazione (Versöhnung) del diritto’’, non solo dal punto di vista oggettivo, ma anche dal punto di vista soggettivo del delinquente, il quale nell’esecuzione della condanna dovrebbe reperire ‘‘la pacificazione (Befriedigung) della giustizia’’ (23). Prima di simili approdi, nondimeno, l’analisi hegeliana sembra costituire un vero e proprio manifesto della necessità (in seguito non più tematizzata) di ricercare strade che vadano oltre la logica infeconda di ritorsione ordinariamente accolta dal diritto penale. Ma lasciamo spazio, in proposito, alle parole assai nitide del filosofo di Stoccarda (24): ‘‘Se non vi è nessuna via per rendere un’azione non accaduta, se la sua realtà è eterna, allora non è possibile nessuna riconciliazione, neanche nalmente attribuiti alla pena v. di recente, per esempio, DUFF-GARLAND, Introduction: Thinking about Punishment, in ID. (ed. by), A Reader on Punishment, Oxford, 1994, p. 17 s. (21) V. HEGEL, Scritti teologici giovanili, trad. it. di N. Vaccaro e E. Mirri, Napoli, 1972, p. 333 ss. (22) Così, ed in genere su quest’ultimo passaggio del pensiero hegeliano, ALESSIO, Azione ed eticità in Hegel. Saggio sulla Filosofia del diritto, Milano, 1996, p. 141 s. (23) Cfr. HEGEL, Lineamenti, cit., p. 381. (24) Ampi riferimenti allo scritto qui considerato sono presenti in MOCCIA, Contributo ad uno studio della teoria penale di G.W.F. Hegel, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, p. 165 ss., il quale vi rinviene una conferma della compresenza di rigorismo e considerazioni umanitarie che, secondo tale Autore, caratterizzerebbe l’insieme del pensiero penalistico hegeliano.
— 819 — col sottostare alla pena; la legge è sì soddisfatta, giacché è superata la contraddizione fra il dover essere e la realtà del colpevole, è superata l’eccezione che il colpevole voleva fare all’universalità della legge. Ma il colpevole non si è riconciliato con la legge’’ (25). ‘‘La punizione della legge è soltanto giusta; il carattere comune, la connessione di colpa e punizione, è solo eguaglianza, non vita. Il colpevole subisce a sua volta gli stessi colpi che ha dato: ai tiranni corrispondono i carnefici, agli assassini il boia. Carnefici e boia, che fanno la medesima cosa che fecero i tiranni e gli assassini, sono chiamati giusti proprio perché fanno l’eguale (...). Non si può perciò parlare, per quel che concerne la giustizia, di riconciliazione, di ritorno alla vita’’ (26). ‘‘La punizione, inoltre, non porta alcun miglioramento poiché è solo un patire, un sentimento di impotenza di fronte ad un signore con il quale il colpevole nulla ha, nulla vuole avere in comune; effetto della punizione può essere solo l’ostinazione, accanimento a contrastare un nemico da cui sarebbe veramente rovinoso essere oppressi perché con ciò l’uomo rinuncerebbe a se stesso’’ (27). Sono parole molto lontane dalla logica formale e aproblematica che Hegel esprimerà successivamente, onde giustificare la pena, attraverso il concetto di negazione della negazione. Nell’opera giovanile lo sbocco è diverso, essendo in essa prospettata una via alternativa di risposta alla frattura aperta dal reato; una via descritta come l’unica idonea a consentire, proprio in quanto si pone al di là della ritorsione retributiva, la possibilità della riconciliazione: ‘‘Se la punizione dovesse essere considerata solo come un qualcosa di assoluto, se non sottostesse a nessuna condizione e non avesse nessun lato per cui essa e la sua condizione potessero essere subordinate ad una più alta sfera, non vi sarebbe allora nessun ritorno all’unità della coscienza per una via pura, nessun superamento della punizione, della minacciosità della legge e della cattiva coscienza (...). Punizione e legge non possono conciliarsi ma possono essere tolte nella riconciliazione del destino (28). (25) Così HEGEL, Lo spirito del cristianesimo, in Scritti, cit., p. 391. (26) Così HEGEL, op. ult. cit., p. 401. (27) Così HEGEL, op. ult. cit., p. 395. Si consideri, in proposito, il prosieguo della citazione da DOSTOEVSKIJ, Memorie, cit., di cui supra, nota 9: ‘‘Naturalmente, il delinquente che si è ribellato alla società, nutre per essa odio e quasi sempre considera se stesso innocente e la società responsabile. Per di più, egli ha già sopportato il castigo che la società gli ha inflitto, e, per via di questo, si sente già assolto, sdebitato’’. (28) Così HEGEL, op. ult. cit., p. 392 (corsivo nostro). Sull’incapacità della legge di evitare la divisione v. anche ivi, p. 387: ‘‘Sussumere gli altri sotto un concetto espresso nella legge può essere chiamato una debolezza, perché colui che giudica non è forte abbastanza da reggerli interamente e perciò li divide, e, non potendo resistere alla loro indipendenza, li prende non come sono ma come dovrebbero essere. Mediante il giudizio egli li ha sottomessi a sé nel pensiero poiché il concetto, l’universale, è suo. Ma con questo giudicare egli ha ammesso una legge ed ha assoggettato se stesso alla sua servitù, ha posto anche per sé un crite-
— 820 — Ora, secondo Hegel, ‘‘il destino, in rapporto ad una riconciliazione, ha questo vantaggio sulla legge penale, che esso si muove nell’ambito della vita mentre la colpa legalmente perseguibile e la punizione si muovono nell’ambito di opposizioni insuperabili, di realtà assolute (...); e la vita può risanare le sue ferite, la vita separata in modo ostile può di nuovo ritornare in se stessa e togliere il fatto criminoso, la legge e la punizione’’ (29). Hegel non chiarisce in modo esaustivo come possa realizzarsi un simile passaggio (30), che è oggetto, a ben vedere, degli stessi approfondimenti attuali in tema di mediazione (31): ne indica tuttavia l’elemento cardine nel riconoscimento (nostalgia) da parte del colpevole di ciò che è stato distrutto ‘‘come parte di sé, come ciò che doveva essere in lui e non lo è’’, come ‘‘vita riconosciuta e sentita come non essente’’; una nostalgia che ‘‘significa già un miglioramento poiché, in quanto è sentimento della perdita della vita, in quel che è stato perduto riconosce la vita’’ (32). Il risultato (non più dipendente dalla ritorsione retributiva) è che ‘‘la giustizia è soddisfatta poiché il colpevole ha sentito in sé offesa la stessa vita che egli ha offeso’’. L’effetto atteso, descritto con rara forza drammatica, è ben diverso dalla negazione formale del reato fondata sul contrappasso: ‘‘gli aculei della coscienza non pungono più, poiché nell’atto è stato cancellato lo spirito cattivo, non vi è più inimicizia nell’uomo e l’atto rimane tutt’al più come una carcassa senza vita che giace nell’ossario delle realtà, nella memoria’’ (33). rio di giudizio; e con l’amorevole sentimento per suo fratello che lo spinge a rimuovere il bruscolo dagli occhi di questi, è egli stesso caduto fuori del regno dell’amore’’. Secondo Hegel, del resto, ‘‘il sentimento della vita che ritrova se stessa è l’amore, ed in esso si riconcilia il destino’’ (ivi, p. 396). (29) Così HEGEL, op. ult. cit., p. 394. (30) Osserva in proposito MOCCIA, op. cit., p. 167: ‘‘ecco quindi il problema da risolvere, annullare la cattiva coscienza, riconciliare l’uomo con se stesso e quindi con la vita: questa è per Hegel la chiave per ottenere il vero superamento del delitto’’. (31) Hegel, in particolare, non sembra prendere in considerazione, oltre a quello infra-personale, l’aspetto dialogico del percorso riconciliativo. Sui presupposti etico-filosofici e sulle metodologie della mediazione v. MAZZUCATO, Il logos della pacificazione, in AA.VV., Logos dell’essere, Logos della norma, a cura di L. Lombardi Vallauri, Roma-Bari, in corso di pubblicazione. (32) Cfr. HEGEL, op. ult. cit., p. 394 s. ‘‘Il colpevole — spiega poco sopra il filosofo — credeva di avere a che fare con una vita estranea, mentre in verità ha distrutto solo la propria, poiché la vita non è diversa dalla vita, poiché la vita è nell’unica divinità (...); ha certamente distrutto qualcosa, ma solo l’amicizia della vita che egli ha mutata in nemica’’ (ivi, p. 393). (33) Così HEGEL, op. ult. cit., p. 396. V. altresì infra, p. 401: ‘‘Poiché la legge e il diritto del destino non proviene da una legge estranea, superiore all’uomo, bensì sorge primariamente dall’uomo, il ritorno allo stato originario, alla totalità, è possibile perché il peccatore è più che un peccato esistente, un delitto che ha personalità, è un uomo: delitto e destino sono in lui; egli può di nuovo tornare in se stesso; e se lo fa, quelli sono sottomessi a
— 821 — Deve peraltro sottolinearsi come dall’intera analisi consegua un ulteriore esito di grande interesse, vale a dire la radicale contestazione, da parte del giovane Hegel, dell’idea che la sofferenza del punire possa essere concepita, solo perché inflitta in nome della giustizia, come un bene: ‘‘dovunque la vita è offesa, sia pure giustamente, sentendoci cioè soddisfatti, ivi si avanza il destino e si può allora dire che (...) ogni sofferenza è una colpa’’ (34). 3. In un simile contesto problematico, che la pena, così come fino ad oggi s’è ordinariamente manifestata, sia in grado di conseguire quei risultati di prevenzione generale e speciale cui legittimamente aspira l’ordinamento giuridico — e che ciò sia realizzabile limitandosi a gestire una certa modulabilità qualitativa e quantitativa della sua logica di ritorsione, incentrata sul ruolo del carcere — può essere posto seriamente in dubbio. Dopo il commiato da nozioni assolute della giustizia, pertanto, bisogna forse prendere commiato anche dall’idea che alla pena — alla pena che conosciamo — siano ricollegabili significativi effetti di prevenzione. E ciò non perché nella riflessione sulle conseguenze giuridiche del reato debba essere abbandonata, oltre a quella retributiva, pure l’idea dello scopo, ma perché simile idea esige altri strumenti. Su questa via, sembra fondato ritenere che soltanto una politica criminale la quale non si identifichi, di fatto, con la politica penale (con una politica penale caratterizzata da uno strumentario ampiamente predeterminato rispetto alla definizione delle stesse finalità preventive) abbia chances effettive di ottenere risultati. La pena, in quanto prevista ed utilizzata tenendo conto della sola variabile costituita dalla sua intrinseca severità (cioè come frattura più o meno profonda che si contrappone a un’altra frattura), è in grado, probabilmente, di assumere rispetto agli scopi preventivi perseguiti dal diritto un ruolo di supporto nella sostanza marginale. Parrebbe invece che dal punto di vista logico la reazione al reato possa soprattutto avere a che fare, come già si osservava, con esigenze relative alla mediazione del conflitto derivante dalla violazione di norme penali; esigenze le quali, peraltro, rivestono esse stesse un preciso significato preventivo e non escludono, per esempio, che la risposta nei confronti delle attività criminose ricomprenda l’annullamento dei vantaggi ad esse ricollegabili nonché limitazioni più o meno ampie delle opportunità di cui l’agente disponga per tornare a delinquere. lui. Gli elementi della realtà si sono dissolti, spirito e corpo si sono separati. Certo, l’atto ancora sussiste, ma solo come passato, come frammento, come morto rottame; quella parte di esso che era cattiva coscienza è svanita e il ricordo dell’atto non è più cattiva coscienza che intuisce se stessa; nell’amore la vita ha ritrovato la vita’’. (34) Così HEGEL, op. ult. cit., p. 398 (corsivo nostro).
— 822 — Non è dunque dall’entità quantitativa delle conseguenze negative previste per la commissione di un reato che possono attendersi automatici effetti di prevenzione; significative appaiono piuttosto la qualifica di illiceità penale di un certo comportamento, che segnala l’importanza particolare attribuita all’intento preventivo di determinate condotte, e la strategia complessiva di intervento, di tipo penale ma anche di tipo extrapenale (35), che a tale qualifica si accompagna. Esamineremo di conseguenza alcuni spunti derivanti dal dibattito sugli scopi della pena non tanto per reperire una giustificazione preventiva (più o meno forzata) di quest’ultima nelle forme in cui tradizionalmente si esprime, quanto per individuare materiali utili ai fini della progettazione, senza ipoteche precostituite, di una politica criminale preventiva. Occorre, in effetti, una ripresa di progettualità: nel diritto penale tutto quel che è reale non pare razionale (36). 4. Un passaggio fondamentale, mai sufficientemente valorizzato, per l’evoluzione delle scienze criminali avvenne quando si comprese che la spiegazione del reato non può esaurirsi, come presupponeva il retribuzionismo classico, nei meri termini di una libera scelta individuale orientata a commettere il male, e ciò in quanto sussistono condizioni ben precise, di regola alquanto complesse, che favoriscono tale scelta. Questa semplice constatazione implica molteplici conseguenze. In primo luogo essa evidenzia il dato indiscutibile della corresponsabilità sociale al prodursi dei reati: corresponsabilità la quale non investe soltanto le carenze di socializzazione che incidono sulle forme più scontate della devianza penalmente significativa, ma soprattutto quelle condizioni strutturali della vita sociale che creano spazi disponibili, stimoli, opportunità per l’agire criminoso (anche per quello dei non socialmente svantaggiati). Sono condizioni attinenti, in particolare, al sistema economico (non si dimentichi che la stragrande maggioranza dei reati ha come movente l’illecita acquisizione di vantaggi materiali), ma anche allo standard qualitativo dell’attività politica, al livello di tensione etica presente nel contesto (35) Con la precisazione che lo stesso intervento di tipo penale non va affatto inteso come incentrato sulla minaccia della pena detentiva e, in ogni caso, può rendersi esso stesso espressione del tentativo di perseguire la composizione del conflitto (che incrina la credibilità dell’ordinamento giuridico) derivante dall’attività criminosa. (36) Cfr., a contrariis, HEGEL, Lineamenti, cit., Prefazione, p. 59 ss., ove la famosissima affermazione secondo cui ‘‘ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale’’, corrisponde al programma di ‘‘comprendere concettualmente lo Stato’’ — dunque, a fortiori, anche le pene che il medesimo infligge — ‘‘e di esporlo come qualcosa di intimamente razionale’’, nell’ottica di una trattazione la quale, afferma Hegel, ‘‘in quanto scritto filosofico, non può non tenersi lontanissima dal dover costruire uno Stato così come esso dev’essere’’ (corsivi dell’Autore).
— 823 — sociale, ai messaggi lanciati dai mezzi di comunicazione o dalle ‘‘agenzie’’ che assolvono a una funzione educativa, ecc. Di fatto, si è imposta una scelta politico criminale forse non sufficientemente percepita, ai sensi della quale più che intervenendo, anche giuridicamente, sui fattori che fungono da presupposto della criminalità, si è puntato a fare prevenzione diffidando l’individuo dal delinquere, con la minaccia della pena, nonostante la presenza (assai debolmente controllata) di tali fattori. Si tratta di una scelta inevitabile? L’impressione è che l’esistenza del diritto penale abbia fornito alla società un alibi decisivo per non impegnarsi seriamente al fine di contenere quanto più possibile l’operatività degli elementi criminogenetici (37). Certamente si è alquanto parlato di extrema ratio del diritto penale, ma ciò, per una singolare eterogenesi dei fini, ha finito con il suffragare la scarsissima attenzione dedicata all’attività preventiva prepenalistica. Ed infatti, posto che è certamente più facile fissare una pena per l’avvenuta lesione di un certo bene che non individuare strategie intese a rendere meno agevole una simile lesione, si è quasi sempre battuta in modo esclusivo la prima via, facendo leva sulla necessità di utilizzare l’arma più appuntita in mano al legislatore: salvo desumere successivamente dalla sua scarsa efficacia preventiva la conclusione scorretta secondo cui a fortiori sarebbe risultato ancor meno produttivo il ricorso ad altre modalità d’intervento. Un meccanismo, questo, che, data l’elevatezza della cifra oscura, rischia di utilizzare il diritto penale in chiave per gran parte simbolica e che potrebbe perfino coprire la non volontà di ostacolare seriamente la commissione di certi reati (o, quantomeno, la non volontà di incidere su certe precondizioni degli stessi). Spostare il fulcro della prevenzione sul contenimento degli spazi disponibili per delinquere esige peraltro che il contesto sociale sia disposto a ritenersi partecipe della dimensione di male che caratterizza i rapporti fra gli uomini ed in particolare a riconoscere che il male espresso dalla commissione dei reati è solo una parte del male socialmente significativo (38). Solo una società consapevole di tutto questo, infatti, potrà accettare gli oneri derivanti da serie iniziative di sbarramento dell’accesso al crimine, oneri non solo economici (in rapporto ai costi del sistema penale e ai benefici ottenibili potrebbe trattarsi, da questo punto di vista, di un af(37) Cfr. LÜDERSSEN, Alternativen zum Strafen, in AA.VV., Strafgerechtigkeit. Festschrift für Arth. Kaufmann, Heidelberg, 1993, p. 492; v. anche EUSEBI, Può nascere dalla crisi della pena una politica criminale? Appunti contro il neoconservatorismo penale, in Dei delitti e delle pene, 1994, p. 86 ss. (38) Resta in proposito fondamentale il riferimento a NAEGELI, op. cit., p. 57 ss.
— 824 — fare), ma soprattutto riferibili a una serie di vincoli in diversa misura incidenti sulle attività ordinariamente svolte dalla generalità dei cittadini. Di qui l’emergere di un vero e proprio nodo cardine per l’evoluzione della politica criminale contemporanea. Il fatto è che il vecchio diritto penale che interviene (sporadicamente) quando un bene è già stato leso e si limita a coinvolgere nella strategia preventiva soltanto chi, per sua libera scelta, ha usato male degli spazi tendenzialmente incondizionati che la società gli rende disponibili corrisponde assai bene alle esigenze di una società fondata su modelli liberisti, tanto più nel contesto attuale caratterizzato da una marcata tendenza alla deregulation (39). Ma affidare la politica criminale a un simile diritto penale vuol dire non fare prevenzione: quest’ultima richiede un certo livello di intervento giuridico prepenalistico a costo, per così dire, diffuso. Non c’è alternativa. Ciò significa che dev’essere altresì recuperato il senso di una continuità fra gli strumenti preventivi extrapenali e l’intervento penalistico. Potremmo parlare di un primo livello di prevenzione affidato alla dimensione educativo-culturale e alla politica sociale. Di un secondo — decisivo — livello che compete alla legislazione non penale (civile, commerciale, tributaria, amministrativa, ecc.). Di un terzo livello rappresentato da provvedimenti sanzionatòri concernenti la violazione di regole intese ad ostacolare, più o meno immediatamente, la lesione di beni giuridici. Di un quarto livello relativo alle conseguenze dell’avvenuta lesione, o della concreta esposizione a grave pericolo, di uno dei suddetti beni. È evidente, peraltro, che lo scopo di rendere credibile il riferimento al canone dell’extrema ratio verrebbe del tutto frustrato ove la summenzionata continuità venisse ricercata estendendo, con riguardo specifico al terzo livello, l’ambito di utilizzazione delle modalità di intervento tipiche del diritto penale: quando invece sussiste un eccesso di ricorso all’illecito penale nello stesso quarto livello della strategia politico-criminale. Fermo restando l’orientamento inteso a limitare l’area del penalmente significativo, essenziale, tuttavia, non appare tanto la questione di principio se un determinato illecito sia o meno inquadrabile nell’orbita penalistica, bensì il fatto che — lungi dall’essere dilatata — venga circoscritta il più possibile la comminazione della pena detentiva, cioè della modalità sanzionatoria fino ad oggi pressoché egemone nel sistema penale italiano; comminazione che, in particolare, dovrebbe essere esclusa con riguardo all’intero contesto degli illeciti-ostacolo. Emerge dunque l’esigenza che sia finalmente introdotto un serio si(39) Cfr. su questo tema, con specifico riguardo al ‘‘singolare ribaltamento del principio di sussidiarietà’’ non di rado emergente, in favore del (solo) ricorso a strumenti penalistici, nel diritto penale dell’economia, SEMINARA, Insider trading e diritto penale, Milano, 1989, p. 322 ss. (soprattutto in rapporto agli scritti di K. Tiedemann).
— 825 — stema di pene principali non detentive; anche per evitare che l’impraticabilità di una risposta non penalistica a determinate trasgressioni implichi la minaccia del carcere (40). In altre parole: può essere che ragioni di garanzia del cittadino, recepite in modo particolarmente intenso nelle procedure tipiche del sistema penale, nonché esigenze di speciale autonomia ed imparzialità dell’organo deputato a giudicare in determinate materie o, in genere, esigenze di prevenzione generale, rendano opportuna — anche in aree estranee al suo nucleo originario (41) — la competenza del diritto (e della magistratura) penale. Ma altro è tale competenza, altro identificare quest’ultima con la previsione della minaccia di una pena detentiva. Ovvero: sussiste una extrema ratio del ricorso alla reclusione che vale anche rispetto al diritto penale e che, dunque, viene prima, stemperandone in certa misura la portata, dell’extrema ratio concernente la qualificazione di un illecito come illecito penale (42). Da ultimo, va posto in evidenza che il quarto livello dell’intervento politico-criminale persegue, a ben vedere, una modalità di prevenzione del tutto peculiare, concretizzandosi quest’ultima nella risposta a un avvenuto fallimento della strategia preventiva: una modalità la quale, tuttavia, è stata per lungo tempo percepita come l’unica rilevante, con l’effetto di favorire la prassi orientata a risolvere ogni emergenza criminale rimodulando semplicisticamente l’entità delle pene. Gli esiti fallimentari di un simile approccio fanno ritenere che una seria politica criminale, attenta all’insieme dei profili poco sopra menzionati, richiederebbe, piuttosto, la costante operatività di osservatòri riguardanti le principali categorie di reati, in modo che sia resa possibile la predisposizione tempestiva di interventi normativi i quali coinvolgano a fini di prevenzione l’intero ordinamento giuridico: una qualche attenzione alle (40) La situazione italiana sconta in questo senso una particolare arretratezza: per quanto possa discutersi sui criteri di confronto (ed in particolare sul ruolo degli strumenti sospensivi e sostitutivi), non manca di far riflettere, per esempio, la constatazione che in Germania l’ammontare delle condanne a pena detentiva eseguibile è di circa il 5% rispetto al totale delle condanne penali: il dato, riferito al 1991, è riportato in JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, A.T., 5a ed., Berlin, 1996, p. 744. Circa l’incidenza della condanna a pena detentiva rispetto al totale delle condanne e dei procedimenti penali v. anche, sempre per la Germania, STRENG, Strafrechtliche Sanktionen. Grundlagen und Anwendung, Stuttgart, 1991, p. 41 s., il quale parla significativamente, con dati relativi al 1988, di un modello ‘‘a imbuto’’ (Trichtermodell): in Italia potrebbe forse parlarsi di un modello a clessidra, posto che la gran parte dei giudizi penali prevede pur sempre il passaggio costituito dalla condanna al carcere, salva la diversificazione successiva delle forme di esecuzione. (41) Cfr. LÜDERSSEN, Zurück zum alten, liberalen, anständigen, Kernstrafrecht?, in Festschrift für H. Jäger, Frankfurt am Main, 1993, p. 268 ss. (42) Si consenta in proposito il rinvio a EUSEBI, Brevi note sul rapporto fra anticipazione della tutela in materia economica, extrema ratio ed opzioni sanzionatorie, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1995, p. 743 ss.
— 826 — tecniche del problem solving, in un settore finora affrontato con estrema limitatezza di metodologie e di strumenti, potrebbe non essere fuori luogo. Aumentare l’entità delle pene (ma anche, se si vuole, deflazionare il sovraffollamento penitenziario limitandosi ad estendere i limiti di applicabilità delle sanzioni sostitutive) costa solo il tempo di una votazione parlamentare. Progettare le modalità per ridurre gli accessi al crimine e per diversificare l’apparato sanzionatorio è indubbiamente più impegnativo (43): ma è l’unica via che consenta di evitare una utilizzazione simbolica del diritto penale. D’altra parte, sarebbe del tutto incoerente progettare strategie di risanamento della frattura che il reato produce nei rapporti interpersonali (e, complessivamente, nei confronti del patto sociale), ove a ciò non corrispondesse l’impegno inteso, in primo luogo, ad impedire che simile frattura possa determinarsi. 5. Resta nondimeno l’interrogativo se insieme all’intervento sui fattori che oggettivamente favoriscono le scelte criminali vi sia spazio per una incidenza del diritto sulla disponibilità soggettiva — restando ferme le altre condizioni — a commettere reati, e in particolare se una simile incidenza possa derivare dalla pena conseguente all’offesa di un bene tutelato. Che sussistano elementi di autocontrollo tali per cui molti cittadini non commettono reati pur sussistendo fattori criminogenetici esterni è assolutamente ovvio: il punto è se tali elementi possano o meno essere influenzati dal diritto penale (44). È in gioco, a ben vedere, la credibilità complessiva del sistema penale post-retribuzionista, se è vero che la differenza fra il modello della pena assoluta, retrospettivamente disinteressato a qualsiasi obiettivo politicocriminale, e quello della pena-scopo sta proprio nel fatto che il secondo privilegia il momento motivazionale. Un dato alla luce del quale, sia detto per inciso, appare non poco sorprendente l’ostilità sovente manifestata al riconoscimento di una funzione orientativa dei comportamenti legittimamente connessa alle norme penali: ciò in quanto una previsione sanzionatoria pensata a priori come priva di qualsiasi messaggio per i suoi potenziali destinatari non sarebbe altro che un prezzo retributivo — dal pagamento oltretutto incerto — per l’acquisto del crimine. Tuttavia, le prove circa il fatto che la minaccia e l’esecuzione delle pene tradizionali offrano realmente un surplus di motivazione in senso ge(43) Senza che ciò implichi, beninteso, il disinteresse per gli interventi limitativi del ricorso effettivo al carcere, in assenza di riforme strutturali del sistema sanzionatorio. (44) Per un’ampia problematizzazione etico-giuridica di questo tema, utilizzata dall’Autore a sostegno dell’indirizzo abolizionista, v. MATHIESEN, General Prevention as Communication (1990), ora in DUFF-GARLAND (ed. by), op. cit., p. 221 ss.
— 827 — neral- o specialpreventivo sono, quantomeno, scarse. Risulta, anzi, che perfino il ricorso a drastiche strategie neutralizzative nei confronti degli agenti di gravi reati (strategie che pretenderebbero di assicurare, da un lato, la prevenzione speciale e, dall’altro, il massimo grado di intimidazione) non abbia mai lasciato constatare, nel paragone con il ricorso ad altri strumenti in situazioni analoghe, una diminuzione dei tassi complessivi di criminalità, dato che i posti di lavoro criminale lasciati liberi a seguito di una condanna sembrano essere immediatamente coperti da altri soggetti (45). Ciò evidenzia come il sistema sociale stesso tenda a produrre posti di lavoro criminale (o comunque occasioni di reato), secondo dinamiche le quali, probabilmente, possono essere ricostruite utilizzando categorie tipiche dell’analisi economica; e conferma nella convinzione che una buona politica criminale debba cercare, innanzitutto, di chiudere quei posti. Il fatto che, comunque, l’apparato penale sia così scarsamente in grado di controbilanciare le opportunità oggettivamente favorevoli alle scelte criminali sembra dipendere soprattutto dal problema per gran parte insuperabile della cifra oscura (anche se non si deve trascurare che esistono forme di criminalità le quali si configurano per loro stessa natura assai poco sensibili a logiche di ponderazione fra costi e benefici). Ma proprio la consapevolezza di una cifra oscura normalmente elevatissima ha fatto sì che venisse ricercata una strategia di compensazione degli effetti connessi all’alta probabilità dell’agente di reato di non essere scoperto — effetti del tutto disfunzionali rispetto all’intento preventivo — agendo sulla severità delle pene e proponendo, in particolare, un ricorso generalizzato allo spauracchio del carcere (per non parlare dell’uso della pena di morte nei Paesi che continuano ad applicarla). Una tale strategia è e si è rivelata del tutto simbolica. Aumentando la severità delle pene non diminuiscono i reati. Certi livelli di pena, anzi, contraddicono importanti indicazioni comportamentali desumibili dall’ordinamento giuridico e sono in grado di stimolare a loro volta atteggiamenti criminali (se ne rendeva conto Beccaria: ‘‘non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini’’) (46). Agire nel senso delineato serve, in sostanza, solo per dimostrare all’opinione pubblica che lo Stato in qualche modo sta muovendosi, nonostante l’inerzia (sia essa o meno intenzionale) nell’azione di contenimento dei fattori criminogenetici. Un’ottica, questa, paradossalmente confermata dalla tesi che addirittura giustifica la configurazione nella sostanza episo(45)
Sottolineano questo aspetto problematico anche DUFF e GARLAND, op. cit., p.
25 s. (46) V. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, in Edizione nazionale delle opere di Cesare Beccaria, a cura di L. Firpo, vol. I, Milano, 1984, p. 92.
— 828 — dico-casuale dell’intervento penalistico, in quanto considera l’utilizzazione della pena come rispondente a criteri di mera esemplarità (47). Spostando peraltro il punto di riferimento della prevenzione generale sulla portata intimidativa della sofferenza connessa alla punizione, ed in particolare sull’assunto secondo cui quanto più la pena risulti severa, tanto maggiore ne sarebbe l’efficacia, la summenzionata strategia mette in ombra gli aspetti generalpreventivi dell’intervento penalistico realisticamente perseguibili. Non è infatti sul terreno di un più o meno marcato terrorismo sanzionatorio che si colloca quel tanto di prevenzione generale cui, forse, (anche) le modalità di risposta alla commissione dei reati possono contribuire: l’incidenza generalpreventiva di queste ultime va da un lato ricondotta, piuttosto, all’emergere delle responsabilità concernenti la realizzazione dell’illecito (ciò, prima che non l’applicazione di una qualsiasi pena, sembra del resto costituire l’oggetto della stessa richiesta ricorrente dopo la commissione di gravi reati che sia fatta giustizia: il che impone pur sempre di considerare come la ricerca delle prove a carico costituisca una fase psicologicamente delicatissima per l’imputato) (48); dall’altro lato, tale incidenza va ricollegata al conseguimento del risultato che il reato non paghi, salva la previsione di un qualche onere aggiuntivo rispetto al semplice venir meno dei vantaggi illecitamente realizzati, onde evitare che il tentativo di lucrare attraverso il reato quei vantaggi sia ex ante programmabile, nella peggiore delle ipotesi, a costo nullo (o a costo del solo danno di immagine) (49). Se non vi fosse il problema del livello così elevato della cifra oscura, l’alta probabilità che gli obiettivi appena indicati siano raggiunti garantirebbe fondatamente una buona prevenzione generale. I controeffetti derivanti dalla cifra oscura, tuttavia, restano del tutto inalterati agendo sulla severità delle pene. Contrariamente a quel che si è soliti ritenere, dunque, la prevenzione generale non richiede una durezza intrinseca delle pene; un assunto, que(47) Cfr. in proposito FORTI, Tra criminologia e diritto penale. Brevi note su ‘‘cifre nere’’ e funzione generalpreventiva della pena, in AA.VV., Diritto penale in trasformazione, a cura di G. Marinucci ed E. Dolcini, Milano, 1985, p. 62 s. ed ivi ulteriori riferimenti. (48) La logica della mediazione (v. infra, nel testo) dovrebbe riuscire in qualche modo a caratterizzare, pertanto, già il momento delle indagini, al fine di evitare il rischio, non di rado confermato in modo tragico, che esse rappresentino per l’indagato (il quale oltretutto, è ovvio, potrebbe risultare innocente) un processo di colpevolizzazione stigmatizzatrice umanamente non sostenibile. (49) Colpisce in quest’ottica il fatto che BOTTKE, op. cit., p. 328, pur individuando le componenti della strategia preventiva nella revoca dei vantaggi connessi al compimento del reato, nell’imposizione di obblighi restitutòri e nella produzione di costi a carico dell’agente, riferisca il ruolo specifico della pena alla sola ultima dimensione, per di più concepita nei termini di una retributive Kostenproduktion.
— 829 — sto, di grande importanza, in quanto lascia supporre che le esigenze generalpreventive non si oppongano, in linea di principio, alla diversificazione degli strumenti sanzionatòri (50). I fattori che abbiamo considerato rilevanti ai fini della prevenzione generale hanno in realtà a che fare con l’affermazione della capacità dell’ordinamento giuridico di intercettare le attività criminose, non consentendo loro di avere successo: che è quanto dire con l’autorevolezza dei precetti penali. Tali fattori, pertanto, rispondono a un concetto di incidenza motivazionale della risposta giuridica al reato più complesso di quello fondato sul modello della controspinta psicologica. Un simile concetto individua il fulcro della efficacia generalpreventiva nella credibilità del momento precettivo, invece che nel timore della pena. Il che esprime la nozione corretta e realmente centrale della c.d. prevenzione generale positiva. In questo senso un’efficacia generalpreventiva può permanere perfino in casi nei quali ci si astenga dal punire una condotta che resti peraltro qualificata come penalmente illecita, sempre che ciò non nasconda un disinteresse alla sua effettiva prevenzione (51). La credibilità del divieto, cioè la sua capacità di imporsi per ragioni autonome dalla minaccia di una certa pena, dipende d’altra parte per larga misura da elementi di autorevolezza dell’ordinamento giuridico connessi alla coerenza complessiva dell’azione svolta dalle istituzioni pubbliche nella società, come pure agli standards culturali ed etici propri di un certo momento storico: ragioni rispetto alle quali l’effettività dell’intervento penalistico in caso di trasgressione costituisce solo uno degli elementi significativi. Se tutto questo è vero, allora il costo aggiuntivo rispetto alla individuazione delle responsabilità relative a un fatto criminoso e all’annullamento dei vantaggi che ne siano derivati può essere pensato, dal punto di vista della prevenzione generale, non tanto nell’ottica di una più o meno adeguata controspinta intimidativa, bensì, pur sempre, in quella di un rafforzamento dell’autorevolezza del diritto. Proprio su questa via la risposta sanzionatoria penale potrebbe orientarsi a favorire un’impegnativa riassunzione di responsabilità da parte dell’agente di reato, secondo contenuti adeguati, nei confronti delle regole concernenti la convivenza sociale che egli abbia trasgredito. (50) Cfr. sul punto, per esempio, TIEDEMANN, La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto comparato, in questa Rivista, 1995, p. 618: « il giudizio definitivo sulle conseguenze della scelta di una determinata sanzione è reso difficile dalla constatazione, pressoché unanime, della criminologia moderna, secondo cui le sanzioni potrebbero essere vicendevolmente sostituite senza che il risultato pratico muti ». (51) Sul rilievo della qualifica di illiceità penale nell’ambito della strategia preventiva v. supra, n. 3.
— 830 — E la sanzione, in tal caso, verrebbe effettivamente a configurarsi non come frattura che si contrappone alla frattura rappresentata dal reato, bensì come strategia di mediazione post delictum fra agente di reato e società. Una riflessione riferita a una nota vicenda giudiziaria recente può essere in proposito significativa: quel che ha suscitato disagio in relazione alla prima sentenza pronunciata nei confronti del capitano delle SS Erich Priebke per l’eccidio delle Fosse Ardeatine — sentenza che ne riconosceva la colpevolezza infliggendo sì una severa condanna a pena detentiva, ma inapplicabile per prescrizione — non è stato, forse, il fatto che venisse a mancare una ritorsione vendicativa, bensì il fatto che tra il soggetto riconosciuto colpevole e la società potesse non accadere proprio nulla e tutto potesse risolversi con il (comprensibile) sorriso del capitano dopo che l’interprete ebbe finito di spiegargli, davanti alle telecamere, il significato del dispositivo della sentenza. Ciò significa che sarebbe stato necessario, probabilmente, il realizzarsi di una qualche forma di attivazione del condannato verso la società, tale da segnalare un fatto nuovo rispetto alla situazione fissatasi al momento in cui fu posta in essere l’attività criminosa (52). Del resto, la circostanza per cui viene talora riscontrata, rispetto a certi episodi criminosi, una forte richiesta di pena — quale strumento ritenuto indispensabile per ribadire il buon diritto alla tutela di una posizione che, invece, è stata aggredita e, dunque, quale strumento per affermare non solo in astratto, ma anche rispetto a ciò che concretamente è avvenuto, il giudizio di disvalore verso un certo tipo di condotta ingiusta, che ha cercato di imporsi con la forza — dipende anche dal fatto che l’ordinamento non offre nient’altro che la pena (nella sostanza) retributiva per rispondere alle suddette esigenze legittime. Così il bisogno di giustizia (che di per sé è altra cosa) si trasforma facilmente in bisogno di retribuzione, come le correnti neo-retribuzionistiche esprimono nella forma più chiara. L’orientamento alla mediazione rappresenta, quantomeno, la ricerca di una possibile alternativa. Tendendo a superare la logica della radicalizzazione del conflitto, ai sensi della quale il massimo di riprovazione verso una certa condotta finisce per esigere — simbolicamente — il massimo della ritorsione, e dunque tendendo a superare la logica della non-comunicazione fra agente di reato e parte offesa (lato sensu intesa), esso rivaluta proprio il ruolo di quest’ultima: consente, infatti, un riconoscimento della persistente validità dei suoi diritti violati ben più sostanziale di quello fon(52) Il che sembra esprimere la dimensione simbolica effettivamente accettabile della risposta al reato, dimensione la quale nulla ha a che fare con la funzione simbolica attribuita dalle correnti neo-retribuzionistiche al soddisfacimento dei bisogni emotivi di pena.
— 831 — dato sulla mera applicazione della pena tradizionale, in quanto a tale riconoscimento coopera — senza essere egli stesso ridotto a mera figura espressiva del male commesso, com’è nell’ottica semplificatrice del contrappasso — anche chi contro quei diritti ha agito. Tanto che ove la mediazione si realizzi è ordinariamente la vittima — sicura di una vittoria della sue ragioni così salda da non esigere la negazione dell’aggressore (dunque in un’ottica opposta a quella ordinariamente identificata nella c.d. sindrome di Stoccolma) — che per prima richiede un atteggiamento non retributivo nei confronti dell’agente (53). 6. Appare interessante chiedersi se tendano a collocarsi in un’ottica di mediazione quelle strategie già presenti nell’ordinamento che perseguono effetti preventivi — cercando per esempio di incidere sul fenomeno della cifra oscura o di rendere più efficiente il sistema giudiziario — attraverso la rinuncia parziale alla pena. Simili iniziative si inseriscono nel contesto complessivo degli strumenti premiali, cioè delle norme che mirano ad incentivare, rendendole vantaggiose in rapporto alle conseguenze sanzionatorie, certe condotte dell’agente di reato ritenute corrispondenti agli interessi del sistema giuridico. Se ne potrebbe dedurre, in effetti, che tali norme si collochino per loro stessa natura nel solco di una valorizzazione della disponibilità ad assumere atteggiamenti giuridicamente integrati da parte di abbia violato i precetti penali, disponibilità che sarebbe attestata dall’accettazione di uno specifico invito a cooperare — post delictum — formulato dall’ordinamento giuridico. Così che l’intero ambito della legislazione premiale risulterebbe automaticamente in linea con le esigenze sopra considerate di composizione del conflitto scaturente dal reato. Conclusioni di questo tipo, tuttavia, sarebbero per ampia parte affrettate; e non solo per il rilievo marginale o nullo che continua ad avere in simili normative l’atteggiamento di chi abbia commesso il reato nei confronti di chi ne abbia subito le conseguenze. È vero, infatti, che il filone più antico della premialità, rappresentato dalle norme di ravvedimento ad effetto sostanziale (non estranee allo stesso codice Rocco) (54), promuove condotte di reintegrazione parziale o totale dell’interesse leso, e dunque attività di contenimento del danno le quali dovrebbero esprimere una sensibilità più o meno sollecitamente re(53) Mentre allorché persista una radicale non comunicazione fra agente e parti lese qualsiasi esito processuale viene facilmente percepito come inadeguato ed emerge insofferenza verso la considerazione di fattori limitativi della responsabilità (per esempio, verso una messa in discussione del sussistere, nient’affatto scontato, del dolo in relazione alle tragiche conseguenze del lancio di pietre da cavalcavia autostradali). (54) Cfr. PALAZZO, La recente legislazione penale, 3a ed., Padova, 1985, p. 191.
— 832 — cuperata da parte del reo alle esigenze di tutela del bene aggredito: nondimeno, il rilievo di quest’ultimo profilo risulta in tali norme secondario, prevalendo la prospettiva di una tutela per così dire posticipata del medesimo bene (55). Pure i settori di più intensa espansione recente della premialità sembrano del resto privilegiare aspetti pragmatici, più che esprimere un indirizzo complessivamente orientato a logiche di composizione del conflitto (56). Ciò appare evidente nel contesto del tutto peculiare rappresentato dalle norme che mirano a promuovere l’opzione per i riti speciali, rispetto alle quali non sembra a priori proponibile una distinzione circa l’atteggiamento verso il sistema giuridico la quale operi a sfavore dell’imputato che intenda esercitare pienamente i diritti di difesa (se innocente, si noti, confidando nella giustizia) (57). (55) Ne è un indizio il fatto stesso che ordinariamente siano prese in considerazione, stando alla lettera di tali norme, le condotte che riescano a produrre un certo risultato, e non anche gli atti che incolpevolmente siano rimasti infruttuosi (anche se la massima produzione di risultati consegue in realtà alla massima incentivazione delle condotte ex ante idonee): una situazione la quale non potrebbe affatto essere giustificata con riferimento al principio di materialità, sia perché di quest’ultimo non è proponibile, data la sua ratio garantista, un’applicazione speculare nel sistema premiale, sia perché dovrebbe comunque tenersi conto del rilievo attribuito dal diritto penale ai meri atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto. Non si vedono ragioni, in altre parole, perché nell’ottica promozionale propria del settore premiale il valore dell’evento debba prevalere su quello dell’azione; anzi, ove l’attuazione di una condotta idonea non sia possibile (o fors’anche esigibile), non pare potersi escludere, nel medesimo settore, il rilievo stesso del mero atteggiamento soggettivo (parallelo alla colpevolezza richiesta ai fini penali), salvi, ovviamente, i problemi probatori. Quanto si è detto investe anche le disposizioni premiali c.d. di ravvedimento ad effetto processuale (che però rispondono a un’altra logica e pongono in tal senso problemi specifici assai delicati: v. infra, nel testo), rispetto alle quali, tuttavia, il ripetuto ricorso al verbo adoperarsi per definire la condotta rilevante indica, di per sé, una diversa prospettiva, la ritrosità della giurisprudenza (v. però infra, nota 59, per l’accenno agli interventi della Corte costituzionale in materia di premialità penitenziaria). Deve infine osservarsi che per le medesime ragioni evidenziate in questa nota non sarebbe accettabile far dipendere l’applicazione di benefici legati a strategie di mediazione dalla scelta discrezionale della vittima. (56) Tale situazione suscita peraltro l’interrogativo se possano effettivamente bastare, secondo la prospettiva che sembra oggi dominante, interventi orientati a far sì che il sistema processualpenalistico comunque, in qualche modo, funzioni: a nostro avviso, come più sopra evidenziato, è (ormai) indispensabile il passaggio attraverso la riforma dell’apparato sanzionatorio sostanziale. (57) L’incremento complessivo di efficienza del sistema derivante dalla utilizzazione dei riti speciali risponde certamente ad interessi generalpreventivi, ma la maggior punizione del condannato che non abbia optato per tali riti non si riconnette né ad elementi del fatto di reato, né può essere fondata sulla presunzione di una maggiore ostilità all’ordinamento del soggetto interessato. La realtà è che le garanzie proprie del procedimento penale tradizionale, orientate all’applicazione della pena detentiva, si rivelano sempre meno compatibili, nel diritto penale moderno, con le esigenze di certezza e rapidità della risposta statuale al reato (cfr. LÜDERSSEN, op. ult. cit., p. 268 ss.): ed allora l’accesso alle garanzie viene reso oneroso (almeno nelle intenzioni, visto che spesso resta conveniente, nell’ottica difensiva, scommet-
— 833 — Ma le stesse norme premiali miranti ad incidere sull’atteggiamento dell’imputato nel processo (c.d. di ravvedimento ad effetto processuale) danno rilievo soltanto a un certo contenuto della cooperazione, il quale si concretizza soprattutto, in pratica, nel fornire informazioni su responsabilità altrui (salva, per il passato, la parentesi delle regole sulla dissociazione di ex terroristi); tanto è vero che in assenza di quel contenuto l’eventuale significatività della condotta in un’ottica di mediazione non viene considerata. Tali norme, inoltre, pur incidendo sulle modalità sanzionatorie relative al soggetto collaborante (58), conducono di regola a dilatare non solo l’ambito degli autori di reato individuati, bensì anche l’ambito di applicazione delle pene tradizionali, non senza l’emergere di problemi dal punto di vista equitativo (59). Si impone peraltro la domanda se il modello di premialità processuale finora privilegiato sia veramente l’unico proponibile nell’ottica della prevenzione: anche alla luce dei non marginali inconvenienti ad esso notoriamente connessi (60). Ora, se rispetto a talune forme di criminalità organizzata, ed in ispecie allorché si tratti di bloccare attività criminali particolarmente gravi in tere sulla lunga durata dell’iter ordinario). Ma se ciò è vero, invece di incentivare la rinuncia a certe procedure garantistiche sfavorendo chi ne voglia effettivamente beneficiare, non sarebbe forse più logico introdurre per tutti, rispetto al maggior numero possibile di reati, procedure (cautamente) più snelle, intese all’applicazione di pene meno drammatiche di quella detentiva? Non senza prevedere nel contempo, per i casi in cui permanga il ricorso alla reclusione, un ridimensionamento delle pene edittali, corrispondente alla diminuzione che in rapporto ai riti speciali è già stata ritenuta accettabile dal punto di vista politico criminale (venendo a definire quello che costituisce, in effetti, il livello base della punibilità). (58) Come ben si sa, peraltro, lo schema è utilizzato da alcuni anni anche nell’ambito del diritto penitenziario, in relazione all’applicabilità di determinati benefici. (59) Ad esempio circa le chances di accesso ai benefici: il chiamato in correità può venirsi a trovare, sotto questo profilo, e in conseguenza di una condotta per altri vantaggiosa promossa dallo stesso ordinamento giuridico, in una situazione assai più chiusa del soggetto che lo abbia coinvolto (anche del soggetto con responsabilità penali di gran lunga superiori, il quale, fra l’altro, dispone sovente proprio per questo di più ampie informazioni sull’organizzazione criminale). Alcuni interventi mitigatòri della Corte costituzionale hanno peraltro riguardato, finora, il solo settore (v. nota 56) concernente la collaborazione utilizzata come condicio sine qua non dell’accesso a benefici nella fase esecutiva. Si noti, inoltre, come il caso in esame si caratterizzi non tanto per il fatto che alla base dell’atteggiamento incentivato possa agire un mero calcolo utilitaristico (ciò, in effetti, non lo differenzia da altri meccanismi premiali), bensì per il fatto che quel calcolo implichi conseguenze immediate a carico di altri soggetti. (60) Insieme ai vantaggi che si attendono dalla incertezza indotta circa la tenuta del pactum sceleris nelle organizzazioni criminose, entrano per esempio in gioco, come ben si sa, i rischi riferibili alla attendibilità delle deposizioni, che oltre certi livelli potrebbero incrinare la stessa credibilità dell’azione giudiziaria, e i rischi riferibili all’incremento del livello di crudeltà nella protezione criminale, anche attraverso vendette c.d. trasversali, dei vincoli di appartenenza alle medesime organizzazioni (vincoli, fra l’altro, presumibilmente stretti ab initio in maniera più ferrea).
— 834 — corso di svolgimento, può in effetti essere preso in considerazione il ricorso a meccanismi premiali che promuovano forme collaborative intese a far luce su responsabilità altrui, ciò non significa che solo tali meccanismi siano idonei ad assumere rilievo dal punto di vista politico criminale e che dunque debba negarsi spazio ad altri modelli nell’ambito delle strategie premiali; né implica che il ricorso ai meccanismi summenzionati debba comunque costituire (invece dell’eccezione) il modello premiale di riferimento. In particolare, è difficile capire perché non potrebbe essere attribuito rilievo, in via ordinaria (ma anche come subordinata meno vantaggiosa allorché siano utilizzati i meccanismi di cui sopra), all’ammissione di responsabilità proprie (61), stante la curiosa circostanza per cui oggi chi voglia ricostituire un patto con l’ordinamento riconoscendo taluni errori ha di fronte a sé, salva l’operatività di qualche attenuante, la prospettiva di una condanna rapida e sicura, che tale non sarebbe ove nulla egli riconoscesse (62). Andrebbe certamente prestata grande attenzione alla necessità di evitare compromissioni dirette o indirette del diritto alla difesa: ma non si vede come tale necessità possa impedire addirittura di riflettere su una strada che, per sé, avrebbe meno inconvenienti di quella intesa ad incentivare soltanto deposizioni riguardanti condotte altrui e che, inoltre, darebbe effettivamente spazio a un fattore assai importante dal punto di vista della mediazione (63). Nel suo complesso, quindi, l’ambito della premialità oggi prevista in materia penale non si orienta a logiche di mediazione, le quali, nondimeno, potrebbero senza dubbio utilizzare meccanismi premiali; anzi, il quesito che a questo proposito rimane aperto concerne i limiti in cui in(61) La quale, ovviamente, richiederebbe distinzioni, ad esempio in rapporto al fatto che l’agente sappia o meno di rivelare condotte già note all’autorità giudiziaria. (62) Fra l’altro non è da escludersi che una significativa adesione ad incentivi premiali del tipo da ultimo segnalato possa assumere un importante effetto di delegittimazione, altrimenti non conseguibile, relativo alle stesse organizzazioni criminali, com’è avvenuto, seppur in un contesto particolare, attraverso la dissociazione dal terrorismo, ed in particolare attraverso il manifestarsi delle c.d. aree omogenee. (63) Si consideri che attribuisce rilievo all’ammissione (da parte del già imputato) di responsabilità proprie, ed in particolare all’ammissione del fatto oggetto della contestazione quale nuovo presupposto di possibile ricorso al giudizio abbreviato, l’art. 3 del disegno di legge sulla giustizia approvato dal Consiglio dei Ministri il 10 gennaio 1997 (v. per esempio in Guida al diritto, 1997, 3). Con ciò, si noti, un’innovazione che potrebbe assumere notevole importanza sotto il profilo sostanziale, con specifico riguardo alle strategie preventive e alle politiche sanzionatorie (implicando l’automatica riduzione di un terzo della pena), resta per così dire celata nell’ambito di un’iniziativa la quale riveste, almeno nella forma, natura processuale e si colloca nel contesto di provvedimenti finalizzati ad obiettivi di deflazione dei carichi giudiziari.
— 835 — centivi premiali risultino necessari per l’operatività di strategie penalistiche effettivamente finalizzate alla composizione del conflitto. 7. Se un orientamento politico criminale che sia attento ad aspetti di mediazione non si pone in contrasto con le esigenze realmente percorribili di ordine generalpreventivo, esso è del pari in grado di recuperare il significato critico-propulsivo dell’idea rieducativa, che va oltre la tradizionale utilizzazione di tale idea a fini giustificativi delle pene esistenti. D’altra parte, prima ancora di esigere una certa caratterizzazione contenutistica delle sanzioni, l’indirizzo rieducativo sancito dalla Costituzione sembra indicare una scelta precisa fra le possibili strategie politico criminali: una scelta fondata sulla consapevolezza del fatto che la forza dei precetti penali dipende soprattutto dal livello più o meno elevato della loro capacità di imporsi al consenso dei cittadini — perfino al consenso di chi li abbia trasgrediti — per ragioni che vadano al di là di quelle legate alla mera dimensione coercitiva (64). In questo senso, appare fondato ritenere che l’intervento penale realizzi al meglio le sue complessive finalità di prevenzione — consolidando l’autorevolezza dei precetti normativi e contribuendo alla chiusura dei posti di lavoro criminale — allorché ottenga anche dall’agente di reato una autonoma e fattiva adesione al rispetto delle regole precedentemente violate. Quest’ultimo risultato è certamente una possibilità, che evidenzia l’inevitabile elemento di incertezza caratterizzante qualsiasi processo il quale dia rilievo alla prospettiva del recupero di un dialogo, piuttosto che esaurirsi nella presa d’atto di una lacerazione. Ne è consapevole la stessa Costituzione, come emerge dal verbo tendere di cui all’art. 273, che non indica la facoltatività dell’orientamento (definito come) rieducativo, quanto la non automaticità del successo. Tutto ciò, peraltro, non toglie nulla alla razionalità della strategia delineata, in quanto sarebbe ben strano immaginare che effetti preventivi concernenti l’agire volontario dell’uomo (del colpevole e di tutti i cittadini) siano conseguibili in modo meccanico, cioè al di fuori di quelle dinamiche interattive complesse che fungono da sfondo delle decisioni individuali. E, comunque, dovrebbe tenersi conto della circostanza che le modalità punitive classiche (ci si riferisce, ancora, ai tipi di pena, piuttosto che alla qualifica di illiceità penale) non hanno saputo comprovare la loro efficacia generalpreventiva e si sono per ampia parte dimostrate addirittura criminogene dal punto di vista della prevenzione speciale. (64) V. sul punto EUSEBI, Può nascere dalla crisi della pena una politica criminale?, cit., p. 96 s.
— 836 — Il fatto che per certa misura rimanga aperta nei risultati anche una politica criminale orientata a privilegiare obiettivi di risocializzazione e di composizione del conflitto (65) lascia emergere, semmai, l’ambito di rilevanza che assumono, post delictum, talune esigenze di prevenzione speciale negativa (di difesa sociale) (66), le quali possono esigere forme calibrate di controllo o di limitazione nell’esercizio dei diritti da parte dell’agente di reato e costituiscono, probabilmente, l’unica giustificazione sostenibile per la privazione in termini di extrema ratio della libertà personale, allorché, in concreto, permanga un pericolo elevato altrimenti non evitabile della reiterazione di illeciti gravi (67). Resta infine da sottolineare come l’idea rieducativa costituisca l’unico riferimento il quale dia sicuro rilievo nella riflessione sulla pena al destino dell’uomo che delinque, imponendo che questi continui ad essere considerato, non solo formalmente, membro della società; e come, in questo senso, essa soltanto tragga conseguenze tangibili dalle riflessioni sulla corresponsabilità sociale nella genesi dei comportamenti criminali (68). Si tratta di punti di vista fondamentali dell’ottica rieducativa che, in effetti, sono rimasti ampiamente frustrati nell’ambito del sistema punitivo fondato sulla centralità del carcere e che potrebbero trovare ben altro compimento nell’apertura alla logica della mediazione. Riflettere sulla possibilità di una simile apertura — che dunque non riguarda solo l’introduzione o il potenziamento di specifici istituti, più o meno di frontiera (69), bensì investe potenzialmente l’intera articolazione del sistema sanzionatorio — torna a mettere in moto la speranza, lasciata (65) Potrebbe anche dirsi di integrazione, una volta precisato che il termine non viene inteso secondo l’utilizzazione (neo)retribuzionistica: v. in proposito supra, nota 19. (66) Si noti che l’applicazione attuale della pena detentiva in ampia autonomia da esigenze di difesa sociale è attestata, significativamente, dalle condanne eseguite dopo molto tempo dalla commissione del reato, senza che nella fase processale sia risultato necessario il ricorso alla custodia cautelare per ragioni connesse (ex art. 2732, lett. c, c.p.p.) al pericolo della reiterazione di gravi delitti. (67) Il che non depone, tuttavia, per la teorizzazione di un nocciolo duro del diritto penale inevitabilmente costruito secondo logiche retributive: nei limiti in cui si ricorra alla privazione della libertà personale (e ciò dovrebbe avvenire in termini di extrema ratio), restano dunque del tutto giustificate le strategie elaborate dal diritto penitenziario per avviare il detenuto al reinserimento sociale, con particolare riguardo alle misure — aventi fondamento costituzionale — che consentono nel corso dell’esecuzione la rimodulazione quantitativa e qualitativa della pena inflitta. (68) Si consenta ancora, in proposito, il rinvio a EUSEBI, op. ult. cit., pp. 96 e 98. (69) Per quanto concerne il sistema penale italiano ci si riferisce soprattutto agli artt. 92 e 282 d.P.R. n. 448/1988 (processo penale a carico di minorenni); cfr. altresì, peraltro, gli artt. 272 d.P.R. n. 448/1988, 477 ord. pen., 564 c.p.p.; risultano inoltre significativi, seppur riferiti alla composizione di dissidi privati, gli artt. 12 t.u. pubblica sicurezza e 5-6 del relativo regolamento di attuazione.
— 837 — da tempo cadere, di costruire qualcosa di meglio del diritto penale tradizionale (70). Qualcosa che non identifichi il perseguimento di esigenze preventive con l’inflizione del male e che liberi lo stesso cittadino il quale intenda agire, nel contesto in cui vive, contro la criminalità dall’alternativa in qualche caso paralizzante fra il perseguimento di un bene (vero o supposto) per la società e la esposizione a conseguenze esistenziali drammatiche di un suo simile. LUCIANO EUSEBI Associato di Diritto penale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore sede di Piacenza
(70) Analogamente, seppur alla luce di una diversa impostazione, PAVARINI, op. cit., p. 311 s.: ‘‘che si debba cercare qualche cosa di meglio delle pene legali, piuttosto che renderle migliori è una buona raccomandazione da tempo espressa, quanto inascoltata’’.
LA TUTELA DEGLI INTERESSI DIFFUSI NEL PROCESSO PENALE
SOMMARIO: 1. La partecipazione degli enti collettivi al processo penale: un’esigenza costituzionale. — 2. La svolta giurisprudenziale degli anni Settanta: il processo di progressiva ‘‘slabbratura’’ dell’istituto della parte civile... — 3. ...ed il conseguente disorientamento della stessa giurisprudenza. — 4. Il codice di procedura penale del 1988: l’intervento degli enti collettivi come partecipazione al processo per la tutela di interessi diffusi. — 5. La disapplicazione dell’istituto di cui agli artt. 91 ss. c.p.p. tra difetti strutturali, prospettive ‘‘pericolose’’ e più discutibili arrière-pensées. — 6. Proposta di nuove soluzioni ‘‘costituzionalmente orientate’’: l’azione penale ‘‘collettiva’’ come espressione della sovranità popolare... — 7. ...e come strumento di partecipazione e di controllo. — 8. Gli enti collettivi ‘‘agenti’’ della sovranità popolare nel processo penale. — 9. La partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia: efficacia ‘‘correttiva’’ delle tendenze ‘‘semplificatrici’’ della « democrazia maggioritaria ».
1. La tutela degli interessi diffusi nel processo penale (1) affonda le radici nel disegno pluralistico della Costituzione e nel sistema dei diritti fondamentali delle comunità, di cui viene riconosciuta l’esistenza anteriormente a qualsiasi concessione da parte dello Stato (2). Visto nella prospettiva processuale, il problema riguarda le modalità ed i limiti dell’intervento degli enti collettivi che si propongono di tutelare anche in sede penale alcuni interessi generali dei cittadini. E poiché la rappresentanza degli interessi c.d. ‘‘diffusi’’ nel processo penale comporta ancora notevoli difficoltà, il tema riguarda, in ultima analisi, l’adeguamento del processo penale ai principî ispiratori della nostra Carta fondamentale. Oggi, che il primo codice della Repubblica è intervenuto a discipli(1) Il testo rappresenta l’elaborazione dell’intervento orale svolto al IX Convegno dell’Associazione italiana tra gli studiosi del processo penale I nuovi binari del processo penale. Tra giurisprudenza costituzionale e riforme, Caserta-Napoli, 8-9-10 dicembre 1995. Per quella che può considerarsi la vera base di partenza del presente discorso cfr. F. CARRARA, Azione penale, in Riv. pen., III, 1875, p. 5 (« Parvemi sempre che uno dei più eloquenti criterî per giudicare il grado maggiore o minore di libertà civile lasciato ai cittadini dai rettori della nazione sia quello che si desume dalla maggiore o minore balìa che ànno i privati nello esercizio della azione penale da promuoversi contro i colpevoli di un delitto »). (2) Cfr. L. ELIA, Le norme sulle ‘‘formazioni sociali’’ nella costituzione repubblicana in Dir. economia, 1989, p. 351.
— 839 — nare il rito penale, l’impegnativa « presunzione di costituzionalità » (3) di cui esso gode, impone di verificare con maggiore rigore il rispetto dei precetti costituzionali. La Costituzione, tuttavia, ha solo ridefinito i termini di un problema che, per altri versi, è tutt’altro che recente: la vicenda relativa all’intervento degli enti collettivi nel processo penale italiano, invero, percorre le tre codificazioni del Novecento (4) secondo un andamento che, al di là delle apparenze, non registra innovazioni legislative di reale efficacia. Le uniche, autentiche svolte di rilievo sono avvenute attraverso la prassi giurisprudenziale degli anni Settanta, che cominciò ad ammettere sindacati ed associazioni ambientaliste quali parti civili nei processi penali in materia di lavoro e di reati ‘‘ambientali’’. In particolare, per quel che riguarda i sindacati, si passò dall’intervento nei processi per comportamento antisindacale (art. 28, quarto comma, St.) a quelli per inosservanza di norme antinfortunistiche, secondo una linea di politica giudiziaria ispirata al progressivo ampliamento della sfera di partecipazione dei soggetti collettivi al processo penale (5). Nel corso di questa evoluzione, anche le associazioni femministe furono poi ammesse a costituirsi parte civile nei processi per violenza carnale e per licenziamenti dovuti a discriminazione sessuale (6). Il tutto av(3) Cfr. G. RICCIO, Rilevazioni di metodo e osservazioni critiche sulla giurisprudenza costituzionale sul nuovo codice di procedura penale, in Pol. dir., 1996, p. 172. (4) Sebbene il progetto ministeriale del 1911 accordasse la facoltà di esercitare l’azione penale anche alle associazioni legalmente costituite per uno scopo di interesse professionale o pubblico, per i reati incidenti direttamente sui loro fini, già con il codice Finocchiaro-Aprile del 1913 la cd. citazione diretta ad istanza dell’offeso venne circoscritta ai reati di ingiuria e diffamazione; il c.p.p. Rocco, poi, portò il carattere pubblico dell’azione penale alle sue estreme conseguenze (C. MASSA, Azione popolare, dir. pen., in Enc. dir., vol. IV, Milano, 1959, p. 872), abolendo la citazione diretta insieme con le marginali ipotesi di condanna ex officio al risarcimento dei danni previste dal codice precedente, testimonianze di una residua colorazione pubblicistica della cd. accusa privata. Ed anche dopo l’entrata in vigore del codice di rito del 1988, nonostante l’istituto dell’intervento ex artt. 91 ss. c.p.p., gli enti collettivi rappresentativi di interessi diffusi restano privi di un efficace strumento di partecipazione al processo che non sia ancora quello (improprio) della costituzione di parte civile. (5) Cfr. F. BRICOLA, Partecipazione e giustizia penale. Le azioni a tutela degli interessi collettivi, in Quest. crim., 1976, p. 46 ss.; v. G. ICHINO, La parte civile nel processo penale. La legittimazione, Padova, 1989, p. 90 ss.; ID., Costituzione di parte civile di associazioni e sindacati nel processo penale, in Riv. giur. lav., 1977, IV, p. 678; C. SMURAGLIA, La legittimazione dell’associazione sindacale nel procedimento penale, ivi, 1974, I, p. 40 ss.; ID., Le parti sociali e il processo del lavoro: i sindacati, in Mass. giur. lav., 1977, p. 699 ss.; N. TROCKER, Gli interessi diffusi nell’opera della giurisprudenza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, p. 1140 ss. (6) Sui primi casi di costituzione di parte civile del movimento femminista in processi per violenza carnale v. A. LAGOSTENA-BASSI, La risposta istituzionale alla violenza sulla donna: considerazioni dottrinali e giurisprudenziali, in AA.VV., Il comportamento violento sulla donna e sul minore, a cura di G.B. Traverso, Milano, 1988 e la giurisprudenza ivi
— 840 — venne attraverso un’indubbia ‘‘forzatura’’ dell’ordinamento positivo, utilizzando l’istituto della parte civile — creato per tutelare anche nel processo penale interessi strettamente privatistici (7) — al fine di legittimare la partecipazione al giudizio di associazioni o enti portatori di interessi collettivi o diffusi, cripto-accuse private (8) che si muovevano col chiaro intento (si pensi alle conclusioni di risarcimento nummo uno in dibattimento (9)) di perseguire scopi pubblicistici di repressione penale, senza poter vantare alcuna effettiva pretesa risarcitoria. Era il tentativo di attuare, attraverso il processo penale, la tutela di interessi collettivi e diffusi che non trovavano altri interlocutori istituzionali, sebbene esprimessero esigenze strettamente connesse a valori di rilievo costituzionale, fortemente avvertite da strati sempre più vasti di cittadini. 2. A partire dalla fine degli anni Sessanta, infatti, erano emersi, spesso in forma antagonista alle posizioni economico-giuridiche dominanti (10), ‘‘nuovi’’ diritti di libertà (11), « riferentisi al patrimonio stocitata; sull’argomento v. pure l’interessante soluzione adottata da Trib. Trieste, 24 maggio 1979, Aleksic, in Giur. merito, 1982, p. 904; v., altresì, Trib. Potenza, 7 luglio 1982, in Cass. pen., 1983, p. 1240, che decise per l’ammissibilità della costituzione di parte civile dell’U.D.I. in un processo per violenza privata in danno di una donna « perché non è difficile notare che gli atti di violenza privata... possono fin troppo agevolmente, ed imprevedibilmente, trasmodare in attività di violenza carnale ». V. infine Pretura Rho, 31 maggio 1979, Rosati, in Cass. pen., 1980, p. 946, che ritenne il ‘‘Movimento di liberazione della donna’’ legittimato ad intervenire come parte civile in un processo penale per violazione della l. 903/1977 sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro. (7) La funzione eminentemente privatistica dell’istituto della parte civile venne contestata, nella vigenza del codice di rito del 1930, da E. AMODIO, L’azione penale delle associazioni dei consumatori, in questa Rivista, 1974, p. 520 s. Per un apprezzamento della tesi « se non altro come proposta de iure condendo » v. G. CONSO, Formazioni sociali e giustizia penale, in Riv. dir. proc., 1976, p. 7. (8) In questi termini F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1995, p. 266; ID., Codice di procedura penale commentato, Milano, 1991, p. 108. (9) Fenomeno sul quale richiama l’attenzione E. AMODIO, La persona offesa dal reato nel nuovo processo penale, in Studi in memoria di P. Nuvolone, vol. III, Milano, 1991, p. 17 s.; ID., Persona offesa dal reato, in E. AMODIO-O. DOMINIONI, Commentario del nuovo codice di procedura penale, vol. I, Milano, 1989, p. 544. (10) Sul punto si rinvia a F. SGUBBI, Tutela penale di interessi diffusi, in Quest. crim., 1975, p. 439 ss., il quale fa partire la propria analisi appunto dal carattere antagonista delle nuove istanze sociali, « volte — in un contesto di aspirazione all’uguaglianza ed alla libertà sostanziali — nell’affermazione di un controllo sullo svolgimento delle attività economiche e sull’esercizio del ‘‘potere di fatto’’ a queste connesso ». (11) Ovvero ‘‘diritti della terza generazione’’ (cfr. N. BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, 1990, p. XIV ss.) riconducibili, in parte, alla categoria dei diritti sociali (in questo senso SGUBBI, loc. cit). Sulle difficoltà di classificazione dei ‘‘nuovi’’ diritti, anche a causa del conflitto che questi possono innescare con i classici diritti di libertà della tradizione liberale, v. anche S. FOIS, ‘‘Nuovi’’ diritti di libertà, in AA.VV., Nuove dimensioni nei diritti di libertà
— 841 — rico-artistico e paesaggistico, alla salute, alla sicurezza, alla libertà, all’ambiente ed al territorio, all’igiene ed alla genuinità degli alimenti, all’informazione onesta e completa, in rispondenza ad un bisogno esistenziale di larghissime fasce della popolazione, le quali [richiedevano] una tutela contro la condotta arbitraria ed illecita di singoli, di enti, e della stessa pubblica amministrazione » (12). Il ‘‘congelamento’’ della Costituzione (13) aveva per lungo tempo impedito una compiuta espressione di tali istanze, sicché le vie concretamente percorribili da parte dei cittadini per partecipare alle determinazioni politiche e sociali erano state unicamente le organizzazioni partitiche (14). Anche queste, tuttavia, subirono, a partire dal dopoguerra e per tutti gli anni Sessanta, modificazioni strutturali profonde, quasi una ‘‘mutazione genetica’’, la cui causa prima è stata individuata (15) nella scelta iniziale, resa obbligatoria dalla situazione internazionale, che portò il sistema rappresentativo italiano a fondarsi sulla cd. conventio ad excludendum nei confronti dell’opposizione (16). Una ‘‘pre-condizione’’ che incise profondamente sulle strategie dei partiti, concorrendo con la situazione economica e, in particolare, con la debolezza della classe operaia sul mercato del lavoro, a determinare un considerevole riflusso della partecipazione politica. A sua volta questo deficit di partecipazione ‘‘spontanea’’ provocò una maggiore permeabilità dei partiti rispetto a domande particolaristiche insuscettibili di composizionc in sede collettiva (17). Fu così che (Scritti in onore di P. Barile), Padova, 1990, p. 81 ss.; contesta la contrapposizione tra diritti di libertà e dirittti sociali, M. LUCIANI, Sui diritti sociali, in Dem. dir., n. 4-94/1-95, p. 545 ss. Per una diversa soluzione del problema, che vede nella liberaldemocrazia il terreno d’incontro tra libertà e uguaglianza, v. G. SARTORI, Democrazia. Cosa è, Milano, 1993, p. 206. (12) A. ALBAMONTE, Gli interessi collettivi ed il processo penale nel contesto della partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia, in Riv. pen., 1978, p. 435. (13) Non è questa la sede per esaminare le cause e le forme del fenomeno sinteticamente descritto nel testo: sull’argomento v. A. PIZZORUSSO, Il disgelo costituzionale, in AA.VV., Storia dell’Italia repubblicana, vol. 2, tomo secondo, La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri. Istituzioni, movimenti, culture, Torino, 1995, p. 115 ss. e la bibliografia ivi citata. (14) Cfr. G. DE LUNA, Partiti e società negli anni della ricostruzione, in AA.VV., Storia dell’Italia repubblicana, vol. I, La costruzione della democrazia, Torino, 1994, p. 755. (15) Da A. PIZZORNO, Il sistema politico italiano, in Pol. dir., 1971, p. 207. Per l’analisi della temperie politica e sociale del periodo a cavallo degli anni Sessanta sono ampiamente tributario del dibattito promosso da Politica del diritto nel gennaio 1971, i cui interventi furono pubblicati nel n. 2/1971. (16) Sul punto la letteratura è sterminata; per un approccio al problema nel senso che qui interessa, v. E. CHELI, La Costituzione alla svolta del primo ventennio, in Pol. dir., 1971, p. 174 e p. 205. (17) Instaura uno stretto legame tra « caduta della partecipazione politica » ed « elettoralizzazione dei partiti », il PIZZORNO, op. cit., p. 205 ss.
— 842 — le strutture dei partiti conobbero il passaggio dal ‘‘partito-chiesa’’(18) alla ‘‘soluzione arcipelago’’ (19): i gruppi sociali portatori d’interessi considerati fino ad allora ‘‘minori’’ rifiutarono il ruolo di « truppa d’assalto in nome d’altri », non accettarono più di confondere le loro rivendicazioni insieme con altre all’interno di un’unica piattaforma politica, e cominciarono a rivendicare un proprio spazio politico, « una legittimazione propria a premere direttamente sugli organi costituzionali » (20). D’altro canto, una realtà politica frantumata non poteva che portare ad una disaggregazione delle istanze di ‘‘partecipazione’’ (21) che dalla società civile partivano verso le istituzioni. Queste spinte partecipative, unite all’evidente inadeguatezza del potere politico a recepire e difendere i ‘‘nuovi’’ interessi, producevano un paradosso: da un lato si ritenevano inutilizzabili gli strumenti istituzionali predisposti per ricevere le istanze di rinnovamento; dall’altro, proprio a quelle strutture politiche, economiche e sociali di cui si riconosceva crisi ed insufficienza, veniva rivolta un’intensa e consistente domanda di partecipazione popolare (22). Si trattava, tuttavia, di interessi ‘‘diffusi’’ e quindi, per definizione, privi di un pay-out elettorale facilmente contabilizzabile, tale da suscitare (18) Si tratta della struttura del partito di massa analizzata da M. DUVERGER, (Les partis politiques, Parigi, 1951, trad. it. di M. Cambieri Tosi, I partiti politici, Milano, 1975, p. 36 s., 135 e passim). L’A. fa risalire detta struttura al « tipo sociologico » rappresentato dai partiti fascisti e comunisti, riconoscendone al contempo la rapida diffusione anche negli stati democratici. Qui interessa rilevare il declino, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, di tali « partiti di integrazione di massa » che, grazie allo strumento ‘‘impositivo’’ dell’ideologia, riconducevano i diversi interessi presenti nella società ad un unico progetto politico, contemporaneamente all’affermarsi del modello dei « partiti pigliatutto » (l’espressione è di O. KIRCHHEIMER, La trasformazione dei sistemi partitici dell’Europa occidentale, in AA.VV., Sociologia dei partiti politici, a cura di G. Sivini, Bologna, 1971, p. 185), sempre più chiaramente spostati verso la ribalta elettorale, che abbandonano i tentativi di formazione intellettuale e morale delle masse, rinunciano ad agire in profondità e preferiscono un più vasto consenso ed un immediato successo elettorale. Sull’argomento, con riferimento in particolare alla realtà italiana, cfr. G. DE LUNA, Partiti e società, cit., p. 756 s., L. MUSELLA, Formazione ed espansione dei partiti, in AA.VV., Storia dell’Italia repubblicana, vol. 2, tomo secondo, cit., p. 198 ss. (19) Costellazione d’interessi eterogenei, la cui aggregazione è spesso occasionale: qualcosa di simile ai « partiti di patronato » descritti da M. WEBER, (Economia e società, Milano, 1961, vol. II, p. 718): « sprovvisti di ogni contenuto di principi, essi iscrivono di volta in volta nel loro programma, in concorrenza tra loro, quelle richieste alle quali attribuiscono la maggiore forza propagandistica presso gli elettori ». (20) GIUL. AMATO, Le istituzioni e gli interessi, in Pol. dir., 1971, p. 178. (21) Non c’è dubbio che, nel decennio aperto dal 1968, ‘‘partecipazione’’ fu la parola d’ordine dominante, tanto che si è constatato, in riferimento a quel periodo, il fiorire di una ‘‘retorica della partecipazione’’: cfr. F. RUGGE, Il disegno amministrativo: evoluzioni e persistenze, in AA.VV., Storia dell’Italia repubblicana, vol. 2, tomo secondo, cit., p. 274 ss. (22) Tale contraddizione è rilevata da V. VIGORITI, Interessi collettivi e processo. La legittimazione ad agire, Milano, 1979, p. 3.
— 843 — l’interesse del Parlamento (23). Risultava evidente, d’altro canto, che erano interessi in gran parte confliggenti con quelli della grande industria la quale, in seguito alla svolta rappresentata dalla programmazione economica degli anni Sessanta, coesisteva ormai in un’unica struttura con l’organizzazione di governo (24). Si spiega, quindi, come accadde che il potere giudiziario divenne il principale interlocutore istituzionale delle formazioni collettive portatrici delle nuove istanze sociali (25), alle quali cercò in primo luogo di offrire un ingresso nel processo penale. 3. Sebbene lo strumento penale presenti una spiccata attitudine ad intervenire efficacemente in materia di tutela degli interessi diffusi e/o collettivi (26), tuttavia, per l’affermazione giudiziale di essi attraverso la partecipazione delle associazioni, il processo del codice Rocco offriva il solo ‘‘spiraglio’’ (27) dell’istituto della parte civile. È per questo motivo che, lungo i quasi sessant’anni di vita del codice processuale del 1930, la questione relativa all’intervento degli enti collettivi nel processo penale è stata assorbita nella più ampia problematica concernente i requisiti necessari per la costituzione di parte civile. Vexata quaestio, perché l’azione accessoria era uno strumento inadeguato, soprattutto per la rigidità (28) che ne rendeva necessarie manipolazioni interpretative foriere di decisioni imprevedibili, se non addirittura arbitrarie. Fino alla svolta giurisprudenziale di cui si è detto in principio, gli ostacoli che si frapposero all’ingresso degli enti collettivi nel processo penale per la difesa degli interessi diffusi furono diversi e di varia natura: secondo la posizione dominante in dottrina e giurisprudenza, per essere legittimati ad intervenire nei procedimenti penali relativi a fatti lesivi di interessi collettivi o diffusi, gli enti ‘‘esponenziali’’ (29) dovevano in primo (23) Cfr. GIUL. AMATO, op. cit., p 180. (24) Sul punto v. S. RODOTÀ, Le due liberizzazioni, in Pol. dir., 1971, p. 193 s., dove l’A. rileva che l’inserimento della grande industria nel circuito istituzionale di governo rese necessario affidare ad altri soggetti istituzionali, sindacato e magistratura, il controllo sociale sui grandi aggregati imprenditoriali. (25) S. RODOTÀ, ult. loc. cit., ha descritto con la consueta lucidità il processo che portò la magistratura ad uscire da quel circuito istituzionale che veniva modificato dal progressivo inserimento della grande industria. Ciò consentì ai giudici di esercitare credibilmente il controllo su alcuni modi di esercizio del potere economico, anche grazie alla struttura diffusa ed accessibile del potere giudiziario. (26) In tal senso F. SGUBBI, Tutela penale di interessi diffusi, cit., p. 465. (27) L’espressione è adoperata da N. TROCKER, op. cit., p. 1140. (28) G. MARCONI, La tutela degli interessi collettivi in ambito penale, in questa Rivista, 1979, p. 1055. (29) Tale terminologia, ormai di uso corrente, fu adoperata da M.S. GIANNINI nella sua relazione su La tutela degli interessi collettivi nei procedimenti amministrativi tenuta al convegno di studio sul tema ‘‘Le azioni a tutela di interessi collettivi’’ svoltosi per iniziativa della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia e dell’associazione ‘‘Italia Nostra’’
— 844 — luogo essere riconosciuti come persone giuridiche (30). In secondo luogo, l’azione civile esperibile in sede penale dalle associazioni doveva avere ad oggetto esclusivamente il risarcimento di un danno di natura patrimoniale, non essendo configurabile in capo alle formazioni sociali alcuna specie di danno extrapatrimoniale (31). Inoltre, ai fini della costituzione di parte civile, gli enti collettivi dovevano dimostrare di aver subìto un danno che fosse conseguenza immediata e diretta dell’illecito penale e che l’interesse violato fosse configurabile quale diritto soggettivo di pertinenza dell’ente. Tale lesione del diritto soggettivo doveva poi coincidere, almeno di norma, con l’offesa all’oggetto giuridico del reato, poiché l’opinione prevalente identificava la figura del danneggiato civilmente dal reato con quella del soggetto passivo (32). Superati di volta in volta gli ostacoli sopra enunciati, si avvertiva tutnei giorni 11 e 12 giugno 1974 presso l’Università di Pavia (cfr. il testo della relazione in Le azioni a tutela di interessi collettivi, Padova, 1976, p. 23). (30) Il riconoscimento della personalità giuridica ha rappresentato per lungo tempo la « pregiudiziale classica » che ha inibito la costituzione di parte civile alle associazioni non riconosciute (R. FOGLIA, Sindacato e costituzione di parte civile: ancora in discussione la tutela degli interessi collettivi, nt. a Cass., 21 giugno 1982, Polenghi, in Cass. pen., 1983, p.1828). Tale ‘‘sbarramento’’ — che traeva origine dalla cd. ‘‘teoria della finzione’’ del Savigny e dalla successiva teoria normativa del diritto (v. F.K. VON SAVIGNY, Sistema del diritto romano attuale, vol. II, trad. it. Torino, 1868; H. KELSEN, La dottrina pura del diritto, Berlino, 1934, trad. it. di M.G. Losano, dall’edizione della Reine Rechtslehre del 1960, Torino, 1966) — nel vigore del codice di rito del 1930 trovava un argomento testuale, seppure non insormontabile, nella locuzione dell’art. 22, che legittimava a costituirsi parte civile la « persona alla quale il reato ha recato danno ». Tuttavia, si è detto, l’ostacolo poteva essere e fu superato, in primo luogo invocando il principio dell’art. 24, primo comma, Cost. (« Tutti possono agire in giudizio... »), poi facendo riferimento alla disciplina civilistica dei cd. enti di fatto (artt. 36 e ss., c.c.) e, infine, grazie al « contributo risolutivo » delle norme dello Statuto dei lavoratori, che attribuiscono al sindacato la legittimazione attiva a tutela di interessi sia propri che del singolo lavoratore (artt. 16, secondo comma, 18, quarto comma, e 28, secondo comma, St.): cfr. D. GROSSO, Enti esponenziali ed esercizio dell’azione civile nel processo penale, in Giust. pen., 1987, III, c. 5. (31) Per tale concezione ‘‘restrittiva’’ del danno non patrimoniale, v. R. SCOGNAMIGLIO, Il danno morale (Contributo alla teoria del danno extracontrattuale), in Riv. dir. civ., 1957, I, p. 296, il quale rileva anche l’ispirazione ‘‘tedesca’’ della contrapposta teoria ‘‘residuale’’ (con riferimento al § 847 BGB e, per la dottrina, alle posizioni del FISCHER, Der Schaden, Jena, 1903, p. 206 ss.); a tal proposito cfr. CHIRONI, Del danno morale, in Riv. dir. comm., 1913, II, p. 802, che fa risalire l’origine della concezione ‘‘restrittiva’’ proprio all’antica denominazione di pecunia doloris o Shmerzensgeld che il rimedio contro i danni non patrimoniali assunse nel diritto comune germanico (per questi riferimenti storici v. ancora SCOGNAMIGLIO, op. cit., p. 296 e G. PAOLI, Il reato, il risarcimento, la riparazione, Bologna, 1925, p. 185 ss.); accolgono invece una nozione del danno extrapatrimoniale ‘‘residuale’’ e ‘‘per esclusione’’, tra gli altri, F. ANTOLISEI, Offesa e danno nel reato, Torino, 1930, p. 552; A. DE CUPIS, Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, 3a ed., Milano, 1979, vol. I, p. 61. (32) Concezione ormai superata: cfr. M.G. AIMONETTO, Persona offesa dal reato, in Enc. dir., vol. XXXIII, Milano, 1983, p. 318 ss. Sul punto v. anche A.A. SAMMARCO, Consi-
— 845 — tavia palpabile il disorientamento della giurisprudenza che, pur « disposta a riconoscere l’esistenza pura e semplice di interessi superindividuali », incontrava tuttavia « difficoltà insormontabili nell’individuarne i referenti soggettivi e, ancor prima, il nesso di riferibilità » (33). Un punctum dolens, quest’ultimo, che quasi mai consentiva alle pronunzie ‘‘ammissive’’ dei giudici di merito di resistere al vaglio di legittimità. D’altronde, un’interpretazione rigorosa dei presupposti per la legittimazione all’azione civile accessoria avrebbe comportato l’estromissione dal processo penale di tutti gli organismi sociali rappresentativi di interessi diffusi: era consigliabile, era opportuna una soluzione di questo genere? La magistratura, unico potere istituzionale che poteva di fatto presentarsi come interlocutore credibile dei nuovi bisogni sociali, non aveva piuttosto il compito — quasi un dovere ‘‘istituzionale’’ — di offrire una risposta alla domanda di giustizia in ordine ai ‘‘nuovi’’ diritti? 4. Se dunque l’istituto della parte civile risultava inidoneo, piuttosto che censurare l’interpretazione ardita (quanto abusiva) dei giudici, si sarebbero dovute predisporre per legge forme alternative d’intervento (34). Per la verità, le oscillazioni della giurisprudenza (inevitabili in presenza di una tanto palese forzatura di un istituto giuridico) e le inquietudini della dottrina, portarono ben presto alla proposta, de iure condendo, di soluzioni alternative che andavano dalla riformistica previsione di una ‘‘parte lesa di creazione politica’’ alla ‘‘rivoluzionaria’’ messa in discussione del monopolio riconosciuto al P.M. sull’esercizio dell’azione penale (35). La prospettiva di un’azione penale privata era ritenuta particolarmente opportuna nel processo pretorile del codice Rocco, dove la « concentrazione nel pretore penale delle funzioni proprie del pubblico ministero e delle funzioni proprie del giudice », oltre a risultare incompaderazioni sulla persona offesa dal reato nel nuovo processo penale, in Giust. pen., 1989, III, c. 731 ss. (33) A. IACOBONI, Costituzione di parte civile degli enti collettivi e postille in tema di lesione degli interessi superindividuali, alla luce di un decennio di giurisprudenza, in Foro it., 1982, II, c. 185. (34) In tal senso cfr. D. GROSSO, op. cit., c. 7. Per una soluzione ‘‘provvisoria’’ del problema, che utilizzasse gli strumenti offerti dalle riforme introdotte nel rito penale del 1930 ad opera di alcune sentenze costituzionali, v. la proposta di G. CONSO (Formazioni sociali, cit., p. 8) di « oculata utilizzazione » degli istituti che, pur in assenza di una riforma, avrebbero comunque consentito una attiva partecipazione processuale dei portatori di interessi collettivi o diffusi lesi dal reato. (35) Com’è stato giustamente osservato (D. GROSSO, Enti esponenziali, cit., c. 2, nt. 4), « nella tematica della partecipazione delle figure associative esponenziali al processo penale, il discorso sulle possibilità di costituzione di parte civile risulta sovente accostato alle prospettive di cauto superamento della titolarità monopolistica dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero ». Per una proposta autorevolmente avanzata in tal senso, v. F. BRICOLA, Partecipazione e giustizia penale, cit., p. 61 ss.
— 846 — tibile con « l’impianto accusatorio del processo di domani » (36), produceva già nell’immediato un « logoramento della legalità » (37). Ma le speranze della dottrina si affidavano soprattutto alla prospettiva di un nuovo processo penale, nel quale « un’azione ‘‘privata’’ concorrente con quella del pubblico ministero » avrebbe potuto « costituire non soltanto un valido strumento per l’attuazione compiuta del sistema accusatorio, garantendo ancora più ed ancora meglio il contraddittorio, ma il mezzo per la tutela, anche processuale, di ‘‘interessi’’ non sempre o non ancora presenti nel momento della codificazione » (38). Poi le cose, come si sa, sono andate diversamente. Respinta già in sede di approvazione della legge delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale n. 108/1974 (39), l’introduzione di un’azione penale privata non trovò accoglienza nemmeno nella successiva delega legislativa n. 81/1987, sicché oggi l’art. 231 delle norme di coordinamento del vigente c.p.p. conferma il monopolio del P.M. sull’esercizio dell’azione penale (40). Sempre nell’ambito delle norme di coordinamento del c.p.p., l’art. 212 interviene a completare ed esplicare il disegno del nuovo codice di rito nella materia che qui interessa. Al fine di non pagare per intero il ‘‘costo politico’’ (41) del potere monopolistico dell’accusa pubblica, il legislatore del 1988, infatti, ha percorso una strada diversa da quella del passato: non ha fatto più ricorso alle ‘‘cripto-accuse gestite dalla parte civile’’ (42), né ha avallato il florilegio di ‘‘pseudo-parti civili’’ (43) che egli (36) G. CONSO, Formazioni sociali, cit., p. 5 ss. (37) Ciò avveniva soprattutto « allorché si colloca(va) al centro del processo pretorile una contrapposizione netta ed aperta come quella tra l’interesse collettivo e l’interesse economico di un’impresa ». Era inevitabile, allora, « che la scelta di utilizzare il processo come strumento di politica sociale conduc(esse) il magistrato a trasformarsi da interprete a vero rappresentante dell’interesse collettivo » (E. AMODIO, L’azione penale delle associazioni dei consumatori, cit., p. 516). Tale fenomeno, ovviamente, era sì il prodotto di un diverso sistema processuale, ma soprattutto di equilibri sociali e politici affatto diversi da quelli attuali. (38) G. RICCIO, Spunti per un’azione penale a tutela degli interessi collettivi, in Processo penale e modelli di partecipazione, Napoli, 1977, p. 103. (39) V. G.D. PISAPIA, Primi lineamenti del nuovo processo penale, in questa Rivista, 1975, p. 721. (40) Si discute se l’art. 231 delle norme di coordinamento del c.p.p. lasci sopravvivere l’azione popolare in materia elettorale: in senso affermativo, F. CORDERO, Procedura penale, cit., pp. 386-387; contra G.P. VOENA, sub Art. 231, in AMODIO-DOMINIONI, Commentario, cit., Appendice, 1990, p. 189. Sul rafforzamento del monopolio del P.M. in tema di esercizio dell’azione penale, cfr. C. VALENTINI REUTER, Le forme di controllo sull’esercizio dell’azione penale, Padova, 1994, p. 47. (41) F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato, cit., p. 108. (42) F. CORDERO, Procedura penale, loc. cit. (43) Vedi nota che precede.
— 847 — stesso aveva evocato negli anni 1925-30 (44) ed aveva poi stroncato con l’art. 2 disp. att. del c.p.p. Rocco, riesumandole con le leggi del 1986 (45), per poi ricondurle, con il citato art. 212, norme coord. c.p.p., entro il diverso ambito dell’art. 91 c.p.p. vigente. Niente di tutto questo: con la riforma operata dal primo codice della Repubblica si è tentato di canalizzare gli interessi collettivi e diffusi nel processo penale per vie lineari, utilizzando il modulo formale dell’intervento degli enti esponenziali in funzione di accusa privata sussidiaria (46), accessoria e adesiva rispetto a quella pubblica (47), che collabora « alla ricostruzione dei fatti e all’individuazione delle eventuali responsabilità penali » non in funzione dell’esistenza di un danno risarcibile o, comunque, della volontà di richiedere la riparazione della propria sfera individuale, bensì a fini di pubblico interesse (48). È una scelta radicata nella consapevolezza che le esigenze di tutela espresse da una società civile ricca ed articolata non potevano continuare ad essere sintetizzate ed espresse esclusivamente dal pubblico ministero (49), organo la cui azione monopolistica copre un’area vasta ma che talvolta può risultare diluita, « ossia intermittente e meno incisiva, rispetto a possibili accuse private » (50): in un sistema accusatorio che muove dal presupposto della ‘‘divisione della conoscenza’’ (51), un deficit di questo genere sarebbe risultato ancora meno accettabile. L’intento era chiaramente quello di interrompere una ‘‘evoluzione’’ che stava portando la parte civile a non essere più lo strumento per l’esercizio dell’azione aquiliana nel processo penale, ma a far « vela verso altri lidi, laddove sempre più marcata appare la scissione tra soggetto costi(44) Si tratta delle disposizioni che attribuivano la veste di parti civili ad enti controllati dal governo, pur in assenza dei requisiti richiesti dalle norme codicistiche: sono l’art. 46 r.d. 15 ottobre 1925 n. 2033 (frodi agrarie); l’art. 17 d.l. 23 ottobre 1925 n. 2079 (apicoltura); il d.l. 3 agosto 1928 n. 1997 (caccia); l’art. 3 d.l. 11 gennaio 1930 n. 62 (vini tipici). (45) Il riferimento è all’art. 8-bis d.l. 18 giugno 1986, n. 282 (sofisticazioni alimentari), e all’art. 18 l. 8 luglio 1986, n. 349 (ambiente). (46) Cfr. E. AMODIO, Persona offesa dal reato, cit., p. 543. (47) V. A. GHIARA, Commento all’art. 90 c.p.p., cit., p. 406, il quale mette in rilievo come si possa verificare in concreto anche una divergenza dell’attività della persona offesa (e degli enti esponenziali) « dalle iniziative e conclusioni, non necessariamente accusatorie, del pubblico ministero » come nel caso previsto dall’art. 410 c.p.p. (48) In tal senso, con riferimento al progetto preliminare del 1978, v. G. CONSO, La persona offesa dal reato tra interesse pubblico e interessi privati, in Giust. pen., 1979, I, c. 27. (49) Cfr. la dichiarazione di voto dell’on. VIOLANTE nella seduta della Camera dei Deputati dell’11 luglio 1984, ne Il nuovo c.p.p. Lavori preparatori, cit., p. 270 s. (50) F. CORDERO, ult. loc. cit. (51) A. GIULIANI, Prova (filosofia del diritto), in Enc. dir., vol. XXXVII, p. 518. In proposito cfr. P. FERRUA, Studi sul processo penale, Firenze, 1990, p. 22.
— 848 — tuito e interesse addotto, ovvero laddove riesce arduo financo individuare un interesse concretamente leso » (52). L’autoimputazione dell’interesse da parte del soggetto oggi non basta più, nemmeno per l’intervento ex art. 91 c.p.p. La legittimazione della parte civile viene ricondotta alla lesione di un diritto soggettivo (ovvero, secondo alcuni, anche solo di un interesse legittimo) di cui il danneggiato possa vantare la titolarità esclusiva, così come la stessa legittimazione dell’ente esponenziale ex art. 91 c.p.p. deve risultare da precisi criteri: mancanza di scopo lucrativo, riconoscimento legislativo ante factum della qualità di soggetto che persegue finalità di tutela dell’interesse leso dal reato, consenso dell’offeso. Ma proprio a partire da quest’ultimo requisito sono iniziati i problemi che hanno stroncato sul nascere la svolta annunciata. Il nuovo codice non era ancora entrato in vigore, infatti, e già la formula dell’art. 91 appariva « alquanto restrittiva », tanto da consentire facili previsioni circa la scarsa applicazione che l’istituto avrebbe conosciuto (53). Agevole era anche la premonizione della preferenza che sarebbe stata comunque accordata alla costituzione di parte civile dell’ente, « sia pur con una maggiore limitazione temporale di intervento rispetto alla disciplina di cui all’art. 91, in quanto non effettuabile prima dell’udienza preliminare » (54). Tuttavia va detto che quest’ultima possibilità postula una sorta di intercambiabilità tra i due istituti, che però sussisterebbe solo ove si ritenesse che l’ente sia legittimato a costituirsi parte civile anche in presenza del semplice turbamento dei fini istituzionali (55). Ma — è evidente — in questo caso l’istituto dell’intervento ex art. 91 e segg. c.p.p. non avrebbe più ragione di esistere! Non sussiste, infatti, alcuna differenza concreta tra la ‘‘lesione dell’interesse tutelato dall’ente’’, ed il ‘‘turbamento dei fini istituzionali dell’ente’’. Anzi, mentre il primo è solo uno dei requisiti necessari per intervenire ex art. 91 c.p.p., il secondo viene a costituire — secondo l’interpretazione riferita — condizione sufficiente per la legittimazione ad esercitare l’azione civile nel processo penale. Così, tutte le volte in cui l’associazione potrebbe intervenire ex art. 91 ss. c.p.p., essa sarebbe ugualmente legitti(52) A. IACOBONI, Costituzione di parte civile degli enti collettivi e postille in tema di lesione degli interessi superindividuali, alla luce di un decennio di giurisprudenza, cit., p. 185. (53) G. ICHINO, La parte civile nel processo penale, cit., p. 5 s. (54) V. altresì N. CARULLI-C. MASSA-G. ESPOSITO-A. PALUMBO, Lineamenti del nuovo processo penale, Napoli, 1993, p. 54; P.P. RIVELLO, Riflessioni sul ruolo ricoperto in ambito processuale dalla persona offesa dal reato e dagli enti esponenziali, in questa Rivista, 1992, p. 627, nt. 53; diff. E. AMODIO, Persona offesa dal reato, cit., p. 545. (55) Ed infatti tale possibilità è ritenuta « pacifica » da G. ICHINO, op. ult. cit., p. 4.
— 849 — mata a costituirsi parte civile, anche se non sarebbe poi vero l’inverso (56). Viene in questo modo clamorosamente ribaltata la voluntas legis, dal momento che la proliferazione d’interventi delle formazioni sociali sarebbe impedita nella fase delle indagini preliminari, grazie al ‘‘filtro’’ rappresentato dal consenso dell’offeso, mentre in dibattimento — dove ancora maggiore è l’esigenza di assicurare la parità tra accusa e difesa — verrebbe meno qualsiasi limite alla costituzione di parte civile da parte di un numero potenzialmente illimitato di associazioni. L’opzione sistematica del codice, invece, è tutt’altra. Essa riposa sulla normale coincidenza tra persona offesa e soggetto danneggiato dal reato (57), ma sul piano procedurale attribuisce alle due figure ruoli diversi, corrispondenti alla diversa natura della pretesa di cui sono portatori (58). La parte civile vede assicurata la propria partecipazione al processo penale esclusivamente in considerazione degli effetti civili che da tale processo possono sortire (59) e, per tale motivo, esercita le proprie funzioni solo dopo l’esercizio dell’azione penale. Invece, « la fase nella quale l’offeso dal reato esplica istituzionalmente il suo ruolo è, nell’impianto sistematico del nuovo codice, quella delle indagini preliminari », tanto che tra gli istituti della parte civile e della persona offesa si può ritenere che esista un rapporto di complementarità (60). Ben diverso, invece, è il caso degli enti esponenziali di cui all’art. 91 (56) Cfr. M.G. AIMONETTO, Enti per la protezione degli animali tra costituzione di parte civile ed intervento nel processo penale, in Giur. it., 1993, II, c. 421: « se si ammettesse la costituzione di parte civile in base alla semplice interferenza del reato sulle finalità dell’ente, non si vede quale autonomo spazio di operatività resterebbe all’intervento ex art. 91 c.p.p. ». (57) V. la Relazione al prog. prel. del 1988 in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. IV, p. 355, Padova, 1990; cfr. altresì E. AMODIO, Persona offesa, cit., p. 537; A. GHIARA, Commento all’art. 90 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, p. 411. (58) Sul punto, v. il parere della Procura generale presso la Corte di cassazione sul prog. prel. del 1978, in CONSO-GREVI-NEPPI MODONA, op. cit., vol. I, Padova, 1989, p. 341. Cfr. altresì S. OLIVIERO, I titolari di interessi extrapenali, in AA.VV., Protagonisti e comprimari del processo penale, coord. da M. CHIAVARIO, Torino, 1995, p. 204 s. (59) Cfr. Relazione al prog. prel. 1988, cit., p. 349. (60) In tal senso E. AMODIO, Persona offesa dal reato, pp. 536-537: « La sedes naturale dell’offeso dal reato è la fase delle indagini preliminari, lo spazio istituzionale della parte civile si colloca invece dopo l’esercizio dell’azione penale, nell’udienza preliminare e nel giudizio ». A conferma di questa interpretazione sistematica della disciplina processuale v. la sentenza della Corte cost., 28 dicembre 1990 n. 559, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 37, che pone in rilievo « il rapporto di complementarità » tra le garanzie apprestate per la persona offesa nella fase delle indagini preliminari « e quelle riconosciute alla parte civile nella fase successiva all’esercizio dell’azione penale ». Per un’analisi critica della soluzione adottata dal legislatore della riforma, cfr. P.P. RIVELLO, Riflessioni, cit., p. 609 s., il quale osserva che l’impostazione riferita appare peraltro ‘‘gravemente limitativa, in quanto estende alla to-
— 850 — c.p.p. Questi, il più delle volte, non hanno alcun titolo per esercitare l’azione risarcitoria, e per tale ragione il codice processuale attribuisce ad essi (e non alla persona offesa) « un diritto di stare nel processo in posizione diversa da quella della parte, ma con adeguati poteri di sollecitazione probatoria » (61). Tiriamo le somme: dato che, per definizione, il reato aggredisce sempre il fine istituzionale degli enti di cui all’art. 91 c.p.p., e poiché, come si è appena visto, la nuova normativa mostra di ritenere che, di regola, tali formazioni non siano ammesse a costituirsi parte civile (62), ne deriva che, a norma del nuovo codice di rito, la lesione del fine istituzionale non legittima l’ente esponenziale ad esercitare l’azione civile nel processo penale (63). Non si spiegherebbe altrimenti il motivo per cui, nella fase processuale, vengono riconosciuti agli enti poteri che sono invece negati alla persona offesa (v. soprattutto gli artt. 505 e 511, sesto comma, c.p.p.): ciò avviene in quanto quest’ultima, qualora intenda partecipare pienamente anche all’udienza preliminare ed al giudizio, potrà costituirsi parte civile (almeno nella maggior parte dei casi), mentre tale facoltà non verrà di regola riconosciuta agli enti esponenziali (64). Qualora invece si ritenesse che la lesione dello scopo statutario autotalità delle ipotesi una sistematica che è invece sicuramente incongrua laddove la costituzione di parte civile non sia possibile’’. (61) E. AMODIO, Persona offesa, cit., p. 538. (62) Condivide questa opinione S. CINELLI, Sulla legittimazione a costituirsi parte civile delle associazioni ambientalistiche, in Cass. pen., 1995, p. 1936. La ratio che sottende la normativa introdotta con il codice Vassalli — risultante dalle disposizioni degli artt. 74, 91, 93, quarto comma, 505 e 511, sesto comma, c.p.p., nonché dell’art. 212 disp. att. c.p.p. — impone di ritenere che alle formazioni sociali rappresentative di interessi diffusi lesi dal reato sia concesso l’esercizio dell’azione civile nel processo penale esclusivamente in presenza della lesione di una posizione soggettiva di loro esclusiva competenza (cfr. artt. 78 lett. a) e 74, ultima parte, c.p.p.). Tale non può essere considerato un interesse diffuso, la cui titolarità, per definizione, trascende qualsiasi gruppo, più o meno ampio, di appartenenti ad un’associazione. (63) Contra v. il parere sul prog. prel. del codice di procedura penale formulato dal Consiglio Superiore della Magistratura, in Notiziario del C.S.M., luglio 1988, p. 28. (64) Sul punto, criticamente, A.A. SAMMARCO, Considerazioni sulla persona offesa dal reato nel nuovo codice di procedura penale, in Giust. pen., 1989, III, c. 737, il quale osserva che « bisognerebbe assumere, come premessa del ragionamento, che parte civile e persona offesa si identificano », mentre, al contrario, « un’affermazione di questo genere non è sostenibile », perché la persona offesa potrebbe non costituirsi parte civile oppure potrebbe avvenire, « anche se molto difficilmente », che l’offeso non sia anche danneggiato dal reato. La conclusione cui si perviene nel testo è corroborata dalla similarità tra la normativa riguardante i poteri dell’ente collettivo intervenuto ex art. 91 c.p.p. e la regolamentazione delle facoltà della parte civile: particolarmente significativa risulta la norma sull’immanenza dei poteri dell’offeso-ente collettivo (art. 93, quarto comma, c.p.p.), che riproduce quasi letteralmente il disposto dell’art. 76, quarto comma sull’immanenza della parte civile. Tanto che la dottrina ha ritenuto di poter adottare, « almeno per quanto concerne gli enti collettivi... un criterio interpretativo che autorizza a fare ricorso alla normativa in tema di parte ci-
— 851 — rizzi ipso facto l’associazione a costituirsi parte civile, si renderebbe vano lo sforzo compiuto dal legislatore del 1988 per venire a capo dell’intricata questione riguardante la costituzione di parte civile degli enti collettivi nei procedimenti per reati lesivi di interessi diffusi, poiché l’ambiguità dell’istituto della parte civile resterebbe inalterata, e proseguirebbe, probabilmente all’infinito, la ormai quasi secolare querelle tra i fautori dell’indirizzo restrittivo e di quello ‘‘ammissivo’’. 5. Non bisogna quindi sorprendersi se, essendo prevalso l’indirizzo errato di cui si è detto, tutt’oggi i termini della questione appaiono sostanzialmente identici a quelli di vent’anni fa (65). Ma con due differenze: a) Il mutato indirizzo della Suprema Corte, che oggi ammette gran parte degli enti esponenziali di interessi lesi dal reato ad esercitare l’azione civile nel processo penale; b) Il diverso contesto normativo derivante dal nuovo istituto dell’intervento ex artt. 91 ss. c.p.p., che consentirebbe alle associazioni d’intervenire senza ricorrere alla fictio di un danno risarcibile inesistente. a) In primo luogo, la Corte di Cassazione ha assunto un indirizzo che — in modo addirittura più aperto che in passato — sostiene la legittimazione delle associazioni a costituirsi parte civile in presenza di comportamenti lesivi degli scopi statutari. Per affermare la legitimatio ad causam dell’ente esponenziale, infatti, la Suprema Corte richiede che l’interesse leso dal reato sia tutelato dall’associazione con riferimento ad « una situazione storicamente circostanziata », reputando tale circostanza sufficiente a far configurare « la lesione del diritto di personalità o all’identità, che dir si voglia, del sodalizio stesso » (66). Il verificarsi di tale condizione realizzerebbe il requisito — ritenuto imprescindibile — della lesione di un diritto soggettivo di pertinenza dell’ente. Questo orientamento, adottato soprattutto nei giudizi per reati ambientali, al fine di corroborare la legittimazione all’azione risarcitoria delle associazioni ambientaliste si richiama anche all’art. 18 della l. n. 349/1986. Sennonché proprio in riferimento a quest’ultima norma, tanto più se coordinata con il citato art. 212 norme coord. c.p.p., tale interpretazione non risulta condivisibile. L’art. 18, l. n. 349/1986, legittima all’azione civile per danno ambientale esclusivamente lo Stato e gli enti terrivile là dove la disciplina relativa all’offeso dal reato non è compiutamente delineata » (AMODIO, ult. loc. cit.). (65) Cfr. S. OLIVIERO, I titolari, cit., p. 237. (66) Cfr. Cass., sez VI, 16 febbraio 1990, Santacaterina, in Cass. pen., 1992, p. 2429; Cass., sez. III, 26 febbraio 1991, Contento, in Riv. pen., 1991, p. 627 con nota di M. MEDUGNO, p. 1998, Id., 17 marzo 1992, Ginatta, in Giur. it., 1992, II, c. 465; Id., 29 settembre 1992, Serlenga, in Giust. pen., 1993, II, c. 392; Id., 10 marzo 1993, Tessarolo, in Cass. pen., 1994, p. 984.
— 852 — toriali. Per le associazioni registrate ex art. 13 della stessa legge, residua la sola possibilità di « intervenire » in giudizio. Com’è stato giustamente osservato dalla stessa Suprema Corte, in una sentenza ‘‘controcorrente’’ (67), non si può interpretare tale facoltà d’intervento come legittimazione all’esercizio dell’azione civile in sede penale: « che il legislatore abbia parlato di ‘‘intervento’’ e non di costituzione di parte civile non è casuale, né frutto di improprietà di linguaggio », ma è il risultato della precisa scelta (68) di riconoscere in via esclusiva allo Stato ed agli enti territoriali il diritto a costituirsi parte civile nei giudizi per danno ambientale. Una scelta che si è poi rivelata coerente con l’impianto del nuovo processo penale, che fa propria l’« esigenza di contenere il prolificare di costituzioni di parte civile e di interventi nel processo penale », proliferazioni che produrrebbero indubbi problemi per l’equilibrio del contraddittorio (69). Purtroppo, questo orientamento dei giudici di legittimità, maturato — come si è detto — soprattutto in processi per reati ‘‘ambientali’’, ha influenzato la giurisprudenza di merito anche quando la questione dell’intervento degli enti esponenziali si è posta in contesti affatto diversi (70). Così, ad esempio, in un processo per reati contro la P.A., commessi da appartenenti ad organismi ministeriali che concorrono a determinare la politica sanitaria nazionale (Ministero della Sanità, CIP Farmaci, ecc.), i giudici del Tribunale (71) hanno ammesso ben cinque parti civili: Ministero della Sanità, Movimento Federativo Democratico, Tribunale per i diritti del malato, Coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori (CODACONS), Associazione italiana per i diritti del malato e, infine, Movimento consumatori di Cuneo. Nel motivare la decisione, i giudici hanno condiviso l’indirizzo (67) Cass., sez. III, 18 aprile 1994, Galletti, in Giust. pen., 1995, II, c. 83 s. A questa sentenza si rinvia anche per una sintetica quanto esauriente ricognizione degli orientamenti assunti in materia dalla giurisprudenza di legittimità. (68) Come emerge con chiarezza dai lav. prep. della stessa l. n. 349/1986. Cfr. altresì, Corte cost., sent. (17 dicembre) 30 dicembre 1987 n. 641, in Giur. cost., 1987, p. 3800. (69) Cass., sez. III, 18 aprile 1994, cit. Sul punto cfr. P. GUALTIERI, La tutela di interessi lesi dal reato fra intervento e costituzione di parte civile, in questa Rivista, 1996, p. 111. (70) Tra le rare pronunzie dei giudici di merito che non si allineano all’indirizzo prevalente della S.C., v. Pret. Catania, sez. Bronte, 21 novembre 1991, Aricò, in Giur. merito, 1992, III, p. 961, con nota critica di F. NOVARESE, Questioni in tema di tutela dell’ambiente, ivi, p. 967. V. inoltre, per la puntualità e l’esattezza delle osservazioni operate dal giudice in merito alla disciplina dell’art. 18, l. 349/1986 (con riferimento però al c.p.p. abr.), Pret. Genova, Sez. Sestri Ponente, 25 luglio 1989, Parodi, in Foro it., 1991, II, c. 196. (71) Trib. Napoli, sez. VII, ord. 27 dicembre 1994, De Lorenzo, inedita. La sentenza ha poi riconosciuto l’esistenza del danno civile subìto da tutte le associazioni costituite: v. Trib. Napoli, sez. VII, 8 marzo 1997 (dep. 29 maggio), De Lorenzo, inedita.
— 853 — prevalente della Cassazione in materia, ammettendo ad esercitare l’azione risarcitoria associazioni che tutte — ad eccezione del Ministero della Sanità — non potevano vantare alcuna legitimatio ad causam (e, spesso, nemmeno una legitimatio ad processum), ma avrebbero potuto piuttosto — previo consenso della persona offesa — chiedere di intervenire ex art. 91 ss. c.p.p. Tuttavia, se si considera che qualora avessero optato per quest’ultima soluzione le associazioni avrebbero trovato un percorso ancora più accidentato, la decisione dei giudici del Tribunale, sebbene ardua da condividersi sotto il profilo dommatico, allo stato della legislazione vigente appare quella ‘‘politicamente’’ più opportuna. Difatti, ad altri due enti (Comune di Napoli e ‘‘Movimento dei cittadini’’) che avevano avanzato la richiesta di intervenire ex artt. 91 ss. c.p.p., il Tribunale, con la medesima ordinanza, ha negato la possibilità d’intervenire per difetto del consenso della persona offesa. Ma qual’era la persona offesa? Solo il Ministero della Sanità? Certo, se fosse provata l’ipotesi accusatoria, questo avrebbe subìto rilevanti danni morali e materiali e, in ogni caso, la stessa oggettività giuridica dei reati ipotizzati porterebbe ad identificare nell’amministrazione statale sanitaria il soggetto passivo. Eppure, se i fatti contestati risultassero provati, ogni utente della Sanità pubblica potrebbe vantare un danno morale e materiale che lo legittimerebbe a costituirsi parte civile nel processo! Quindi solo lo Stato, attraverso il Ministero della Sanità, nella qualità di persona offesa, avrebbe potuto acconsentire all’ingresso nel processo di una sola associazione ex art. 91 ss. c.p.p., ma poi tutti i cittadini, in quanto danneggiati, avrebbero potuto costituirsi parte civile. Una simile conclusione, sebbene conforme alle norme positive, è incompatibile con lo spirito del nuovo processo penale che, se da un lato riconosce agli enti collettivi un ruolo importante nella fase delle indagini preliminari (art. 91 c.p.p.) e li ammette, sia pure con poteri limitati, a partecipare alla formazione della prova in dibattimento (artt. 505 e 511, ultimo comma, c.p.p.), dall’altro tenta di circoscrivere il numero delle parti civili ‘‘collettive’’ che partecipano al dibattimento (art. 212, norme coord. c.p.p.), sia per esigenze di rapidità del processo che di equilibrio fra le parti. Indirizzo, quest’ultimo, che trova puntuale conferma nel progetto di riforma del codice penale, dove, nel potenziare sul piano funzionale il ruolo del risarcimento del danno, « come strumento sanzionatorio necessariamente cumulato all’inflizione della pena criminale » (72), al con(72) Cfr. Relazione allo Schema di disegno di legge-delega per un nuovo codice penale, in M. PISANI (a cura di), Per un nuovo codice penale, Padova, 1993, p. 26; v. art. 51, n. 4, dello Schema.
— 854 — tempo si circoscrive lo stesso risarcimento alle sole ipotesi in cui il danno costituisca « espressione intrinseca del fatto tipico » (73). Se dunque, tornando alla citata ordinanza del Tribunale di Napoli, si fosse voluta applicare alla lettera la normativa in vigore, i giudici avrebbero dovuto ammettere come parte civile il solo Ministero della Sanità, mentre le varie associazioni, espressione di una comunità fortemente allarmata dai risultati delle indagini, non avrebbero trovato ingresso alcuno nel processo (oppure lo avrebbe trovato una sola di esse, subordinatamente al consenso dello stesso Ministero). Una situazione paradossale che si ripete, identica, nel campo dei processi per reati ‘‘ambientali’’. Anche qui, infatti, solo lo Stato-persona è legittimato a costituirsi parte civile: in capo ad esso sussiste un diritto pubblico soggettivo perfetto (74) che viene leso in conseguenza della manomissione del territorio, cioè di un elemento costitutivo ed essenziale dello Stato e dell’ente territoriale. Essendo ad un tempo, oltre che soggetto danneggiato, anche soggetto passivo del reato, è sempre lo Stato (e/o l’ente territoriale) che può esprimere il consenso all’intervento degli enti collettivi, di cui all’art. 92 c.p.p. Quindi ancora lo Stato, che attraverso il P.M. persegue i responsabili del reato, mediante il consenso ex art. 92 c.p.p. sceglie anche la formazione sociale che, partecipando al procedimento, dovrebbe controllare lo stesso P.M. E tutto ciò con buona pace della vocazione antitotalitaria che dovrebbe connotare il nostro ordinamento! (75). (73) V. art. 51, n. 1, dello Schema. (74) In questi termini, Cass., 18 aprile 1994, cit., c. 80; F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 259. Non a caso si ricorre alla categoria del ‘‘diritto pubblico soggettivo’’ che, sebbene datata, tuttavia esprime efficacemente l’intento di ‘‘funzionalizzare’’ le libertà (e i diritti) civili a fini statali e di controllo, riconducendoli entro una categoria, qual’è quella utilizzata, dove domina il ‘‘principio di autorità’’ (cfr. A. BALDASSARRE, Diritti pubblici soggettivi, in Enc. giur. Treccani, vol. XI, Roma, 1989, spec. p. 9 ss. V. inoltre G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992, p. 57 ss.). Intento che emerge anche dalle ricordate disposizioni della l. n. 349/1986 (soprattutto art. 18, primo e terzo comma) che hanno realizzato quella che è stata definita (da F. SGUBBI, Il reato come rischio sociale, Bologna, 1990, p. 16 ss.) una « nazionalizzazione » del bene ‘‘ambiente’’: « Il bene ‘‘ambiente’’ nasce come interesse collettivo, diffuso; nasce come interesse alla protezione (anche penale) di bisogni essenziali dell’uomo; come istanza allo Stato... Poi, il bene ‘‘ambiente’’ è stato nazionalizzato. Il perseguimento della sua difesa è diventato un fine dello Stato. Sì che la tutela penale risulta essere apprestata non a favore di un bene giuridico appartenente a protagonisti (individuali o collettivi) della società civile, bensì a favore di un bene entrato nella titolarità assoluta ed esclusiva dello Stato. Con ciò il bene ‘‘ambiente’’ non si presenta più come un dato pre-positivo — cioè preesistente alla legge penale — ma si immedesima nella norma che lo tutela, prendendo da essa norma la vita e la fisionomia » (ivi, p. 18). (75) « Tutto ciò dimostra che il meccanismo processuale di cui all’art. 91 e segg. non ha un campo d’applicazione ampio nel settore che gli sarebbe più congeniale », poiché, quando lo Stato appronta la tutela penale unitamente ad un processo di nazionalizzazione del bene protetto, « la violazione di queste norme vede una specifica persona offesa rispetto alla quale non si pone un problema di intervento ad adiuvandum dell’ente o associazione
— 855 — b) Se è vero quanto detto sub a), bisogna rilevare che, tanto nei processi per reati ‘‘ambientali’’ quanto in quello sulla Sanità pubblica, si sarebbero potute sperimentare strade diverse, sicuramente meno contrastanti con la normativa vigente. Ed infatti, in presenza di reati cd. ‘‘vaghi’’ o ‘‘vaganti’’ (76) e, comunque, suscettivi di aggredire interessi la cui titolarità spetta ad una cerchia indeterminata di persone, si potrebbe anche prescindere dal consenso dell’offeso, ed ammettere all’intervento tutti gli enti e le associazioni di cui all’art. 91 c.p.p. Considerato che, a norma del codice di rito vigente, questi enti eserciterebbero i propri poteri soprattutto nella fase delle indagini, ed avrebbero invece un ruolo più ‘‘discreto’’ nel dibattimento, anche l’equilibrio fra le parti non verrebbe leso in modo sostanziale dall’ingresso di una pluralità di essi e, in ogni caso, subirebbe un vulnus certamente minore di quanto avviene in presenza di una molteplicità di parti civili ‘‘collettive’’. Questa soluzione interpretativa, sebbene più volte ed autorevolmente suggerita (77), salvo rare eccezioni (78) non ha trovato accoglimento da parte dei giudici. Eppure, nel caso dei reati a soggetto passivo indeterminato, viene meno proprio quell’esigenza di garantire la persona offesa dalle pressioni e dalle possibili tentazioni ‘‘egemoniche’’ o ‘‘patronali’’ degli enti collettivi, che aveva suggerito al legislatore di prevedere il necessario e costante consenso dell’offeso (79) (già nella direttiva n. 39 della delega legislativa per il nuovo c.p.p.). esponenziale » (F. BRICOLA, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, in Ind. pen., 1989, p. 321). (76) Sui reati a soggetto passivo indeterminato, cfr. C. FIORE, Diritto penale, pt. gen., vol. I, Torino, 1993, p. 161; F. MANTOVANI, Diritto penale, pt. gen., Padova, 1992, p. 239; G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, pt. gen., Bologna, 1995, p. 145. (77) V. E. AMODIO, sub Artt. 91-92, in AMODIO-DOMINIONI, Commentario del nuovo codice di procedura penale, I, cit., p. 559; S. NOSENGO, Commento all’art. 92, in Commento al nuovo c.p.p., coord. da M. Chiavario, cit., p. 432; F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 263, 267; Parere del C.S.M. sul prog. prel. del 1988 in Quaderni del C.S.M., n. 37, luglio 1990, p. 431; M. DI LECCE, Persona offesa dal reato e parte civile, ne Il nuovo processo penale, a cura di C. CASTELLI-G. ICHINO, Milano, 1991, p. 119; P.P. RIVELLO, Riflessioni, cit., p. 638 (il quale tuttavia nota come « la mancanza di ogni previsione al riguardo sembra autorizzare qualunque impostazione teorica, ivi compresa quella secondo la quale, stante l’impossibilità di fare ricorso al consenso dell’offeso, diverrebbe in tal caso irrealizzabile lo stesso intervento degli enti esponenziali »). Altri (G. BARONE, Enti collettivi e processo penale, Milano, 1989, p. 221) ritiene che nei reati diffusamente lesivi il presupposto del consenso non possa operare e quindi che in tali ipotesi l’intervento dell’ente collettivo sia privo di condizionamenti, « pur dovendosi tenere verosimilmente ferma la regola dell’intervento di un solo ente. Ove infatti non si imponesse, ai fini dell’ammissibilità dell’intervento, un accordo tra i vari enti, si aprirebbe, in tali ipotesi, il processo penale all’eventuale ingresso di una molteplicità di soggetti collettivi ». (78) V. Pret. Lecce, 13 agosto 1990, in Foro it., 1991 , II, c. 186. (79) Cfr. le dichiarazioni di voto degli on. MELLINI e REGGIANI, pronunciate nella se-
— 856 — Perché, dunque, si rinunzia in partenza a percorrere la strada più agevole? C’é il problema rappresentato dalla mancanza delle premesse di diritto penale sostanziale (80), certo. Ma l’impressione che si ricava dallo scrupolo con il quale la giurisprudenza deferisce alla lettera dell’art. 92 c.p.p., confrontato con la disinvoltura che adopera nel forzare ancora oggi i limiti della legittimazione all’azione risarcitoria, è che la nuova via, sebbene più agevole, sia ritenuta la più ‘‘rischiosa’’, quasi un congegno esplosivo da maneggiare con cura. Essa, infatti, potrebbe portare a delineare il ruolo degli enti collettivi in modo ben diverso dal passato. Consentirebbe a soggetti collettivi, non appartenenti al corpo giudiziario, di entrare nel processo penale al fine di tutelare direttamente interessi pubblici, prerogativa finora esclusiva della magistratura. D’altro canto è antica — e in gran parte giustificata — convinzione dei giuristi che « il processo penale sia un ordigno pericoloso, del quale non sarebbe prudente concedere l’uso senz’altro agli interessati, spesso, anzi quasi sempre, inesperti ed appassionati » (81). Ma c’è di più. L’intervento di cui all’art. 91 ss. c.p.p. potrebbe, in prospettiva, diventare il viatico per mettere in discussione il monopolio che le procure della Repubblica esercitano sull’azione penale. Ed è noto che « ogni gestione troppo disinvoltamente discriminatoria, anche nel campo della giustizia penale, ha qualcosa da paventare dalle rotture dei monopoli di potere... » (82). Il tradizionale « ostracismo » della legislazione italiana nei confronti di istituti che permettessero a individui o gruppi, estranei all’organizzazione giudiziaria, di esercitare l’azione penale (83), ha fatto il resto (84). duta della Camera dei deputati dell’11 luglio 1984, ne Il nuovo codice di procedura penale. Lavori preparatori della l. del. 16 febbraio 1987 n. 81, a cura della Camera dei Deputati, Roma, 1987, p. 268 s.; v. inoltre i pericoli di strumentalizzazione paventati nel parere della Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Perugia, in CONSO-GREVI-NEPPI MODONA, op. cit., IV, p. 392. Per una critica tout court alla necessità del consenso dell’offeso, v. A. PIGNATELLI, La tutela degli interessi diffusi, in MicroMega, n. 5/89, pp. 189-190. Sull’argomento v., infine, l’esemplare sintesi di CORDERO: « Il punto cruciale è il rapporto (degli enti collettivi) con l’offeso: l’equivalenza delle due figure sottintende interessi genericamente conformi, ma niente garantisce l’armonia sul campo, tanto meno nella dialettica accusatoria, dove strategia e tattica assumono rilievi ignoti alla vecchia prassi; può anche darsi che l’autentico interessato reputi molesto quel censore. Dove tutto vada bene, esistono serie differenze: uno, personalmente coinvolto, ragiona sul metro adeguato ai suoi casi; l’altro lavora in corpore alieno e gli costano poco le mosse eroiche » (F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato, Milano, 1991, p. 110). (80) Cfr. F. BRICOLA, Riforma del processo penale, cit., p. 320 s. (81) F. CARNELUTTI, Saggio di una teoria integrale dell’azione, in Riv. dir. proc., 1946, I, p. 15. (82) M. CHIAVARIO, L’azione penale tra diritto e politica, Padova, 1995, p. 9. (83) Sebbene la titolarità esclusiva dell’azione penale da parte del P.M. fosse estranea alla tradizione giuridica italiana preunitaria (cfr. BARONE, Enti collettivi, cit., p. 6), già il
— 857 — 6. Ora, non solo il rifiuto di accettare l’ipotesi che, in alcuni casi, l’azione penale possa essere esercitata anche da soggetti determinati, diversi dal P.M., non trova alcun appiglio costituzionale, ma si pone addirittura in contrasto con i principî fondamentali della Carta. Il secondo comma dell’art. 1 Cost., nel sancire che « la sovranità appartiene al popolo », ha sostituito la « costruzione giuridica imperniata sul ‘‘dogma’’ della esclusiva sovranità dello Stato-soggetto » (che caratterizzava lo Statuto albertino), con « una diversa impostazione, centrata viceversa sul principio della sovranità popolare e sul conseguente carattere strumentale assunto dallo Stato-soggetto » (85). All’interno di questo quadro generale, gli artt. 67, 87, primo comma, 101, primo comma, e 102, terzo comma, Cost. « considerano taluni aspetti essenziali della sovranità popolare, colta rispettivamente, in ordine alle tre funzioni fondamentali » (86). Alla base di questa concezione della sovranità popolare c’è la distinzione — ormai da lungo tempo acquisita alla scienza giuridica — fra Stato-società e Stato-Governo (87), che rispecchia una realtà positiva primo codice di rito penale dello stato unitario, il codice Finocchiaro-Aprile del 1913, relegò il ruolo dell’offeso e del danneggiato in un ambito strettamente privatistico. Un’opzione che, ovviamente, fu confermata e rafforzata dal codice Rocco, coerentemente con la concezione totalitaria del diritto penale (cfr. G. MAGGIORE, Diritto penale totalitario nello Stato totalitario, in Riv. it. dir. pen., 1939, p. 146). (84) Si avverte, inconfondibile, la nostalgia del passato in alcune disposizioni di leggi, successive al codice di procedura penale vigente, che continuano ad attribuire facoltà di costituirsi parte civile ad enti ed associazioni che, piuttosto, esplicherebbero meglio il proprio ruolo intervenendo per la semplice violazione dell’interesse pubblicistico tutelato dalla norma, senza sobbarcarsi l’onere di dimostrare di aver patito un danno risarcibile: v., ad es., l’art. 36 cpv., l. 5 febbraio 1992 n. 104 (« Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate ») che, nei procedimenti penali per alcuni reati (soprattutto di matrice sessuale o genericamente contro la persona) commessi contro persone handicappate, ammette « la costituzione di parte civile del difensore civico, nonché dell’associazione alla quale risulti iscritta la persona handicappata o un suo familiare ». Ciò che è più grave, in questa norma, è che, legittimando l’ente all’azione risarcitoria, svincola del tutto la sua azione processuale dal consenso dell’offeso, perdipiù in processi concernenti reati che toccano le sfere più intime e riservate della personalità; v. altresì l’art. 11, ultimo comma, l. 9 luglio 1990 n. 188 (« Tutela della ceramica artistica e tradizionale e della ceramica italiana di qualità »), che attribuisce ad una miriade di enti la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per uso illegittimo del marchio di garanzia. (85) V. CRISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana (Note preliminari), in Scritti giuridici in memoria di V.E. Orlando, vol. I, Padova, 1957, p. 460. Per una critica di tale ‘‘dogma’’, v. ivi, p. 413. (86) C. LAVAGNA, Basi per uno studio delle figure giuridiche soggettive contenute nella Costituzione italiana, in Studi economico-giuridici della Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari, XXXVI, Cagliari, 1953, p. 55. (87) Punto d’arrivo (pur sempre non definitivo) di un percorso che prende le mosse dalla concezione del popolo come organo dello Stato, ma in una posizione in qualche modo ‘‘autonoma’’ dall’ente statale, ciò che consente allo JELLINEK (Allegemeine Staatslehre, Ber-
— 858 — « nella quale la collettività popolare sempre più tende ad organizzarsi e a darsi una fisionomia, anche al di fuori dello Stato-governo » (88). Una distinzione ed una contrapposizione che trovano numerose conferme nel nostro ordinamento positivo (89) che « si caratterizza ulteriormente per il tentativo, che in esso chiaramente si esprime, di dare al principio della sovranità popolare una concretezza di contenuto quale raramente si riscontra in altre esperienze costituzionali » (90). Infatti la nostra Costituzione, nell’attribuire al popolo la titolarità e l’esercizio della sovranità (91), configura lo Stato-soggetto come strumento non esclusivo mediante il quale il popolo stesso esercita la sovranità, di cui è, e rimane, il titolare. In riferimento a quella parte della potestà di governo di cui il popolo è titolare, in quanto costituisce esercizio della sovranità (dalla quale vanno quindi esclusi i poteri statali accessori e funzionali rispetto all’esercizio dell’attività di governo vera e propria), lo Stato-soggetto agisce dunque in nome del popolo, esercitando una rappresentanza diretta che si rivela in primo luogo attraverso la contemplatio domini di cui all’art. 1 cpv. Cost. (92). Il popolo è sovrano, infatti, ma non per questo è a dire che debba essere l’operatore principale: il nostro ordinamento costituzionale, quando non ricorre a forme di democrazia diretta, ritaglia per il sovrano un ruolo di propulsore e controllore di un’attività altrui (93). Esiste infatti un rapporto di strumentalità tra il popolo ed il complesso degli organismi di governo, che rende questi ultimi vincolati alla volontà popolare nello scegliere gli indirizzi da perseguire nell’esercizio delle rispettive attribuzioni. Di tale vincolo è espressione il complesso sistema delle ‘‘responsabilità’’ cui fa capo ciascuno degli organi di governo, che si conclude in responsabilità nei confronti del Parlamento, « nei confronti cioè dell’organo che lin, 1914, p. 585, cit. da GIUL. AMATO, La sovranità popolare nello Stato italiano, in Riv. trim. dir. pubbl., 1962, p. 79 s., nt. 16) di considerare le assemblee rappresentative come organi del popolo e, successivamente, d’individuare una contrapposizione tra governanti e governati (per le origini di questa contrapposizione, v. HAENEL, Deutsches Staatsrecht, I, Leipzig, 1892, richiamato da V. CRISAFULLI, op. cit., p. 419, nt. 6). Proseguendo nell’evoluzione, il ROMANO configurò la funzione elettorale come un’attribuzione dei soggetti che compongono la collettività, i quali « l’esercitano nell’interesse generale, che è anche l’interesse dello Stato, ma in nome proprio », con questo palesando « l’esistenza di interessi, facenti capo alla collettività popolare, che, pur essendo comuni allo Stato, si manifestano come propri alla collettività stessa » (cfr. GIUL. AMATO, La sovranità, cit., p. 81). (88) GIUL. AMATO, La sovranità, cit., p. 82. (89) Cfr. ancora GIUL. AMATO, op. ult. cit., p. 87 ss. (90) V. CRISAFULLI, op. cit., p. 461. Di recente, sull’originalità del ‘‘modello italiano’’ di affermazione della sovranità popolare, cfr. T.E. FROSINI, Sovranità popolare e democrazia diretta alla Costituente, in Dem. dir., 4-94/1-95, p. 302. (91) Cfr. R. ALESSI, L’affermazione costituzionale della sovranità popolare ed i suoi riflessi amministrativistici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1959, p. 61. (92) V. CRISAFULLI, op. cit., p. 459. (93) In questo senso GIUL. AMATO, La sovranità, cit., p. 93.
— 859 — rappresenta immediatamente il popolo e che, a sua volta, risponde direttamente a questo del suo operato » (94). 7. ‘‘Svincolata’’ da questo sistema di responsabilità appare invece la magistratura, se si eccettuano i profili riguardanti la composizione del Consiglio superiore e le attribuzioni costituzionali del Ministro della giustizia (profili che, peraltro, non coinvolgono l’esercizio della sovranità, ma incidono solo su poteri accessori e funzionali il cui esercizio da parte dello Stato-soggetto avviene — come si è detto — in proprio). Eppure, non possono nutrirsi dubbi circa il fatto che la funzione giurisdizionale sia « espressione della sovranità della Repubblica » (95); lo dimostra — se ce ne fosse bisogno — il fatto che, a proposito dell’amministrazione della giustizia, l’art. 101 Cost. ribadisce quella contemplatio domini che già si è visto essere effettuata in via generale dal secondo comma dell’art. 1 Cost. (96). Quest’ultima norma, in ogni caso, non potrebbe certamente circoscrivere la propria efficacia all’esercizio del potere legislativo ed esecutivo. Invero, la sovranità popolare non può che essere indivisibile: « potranno distinguersi gli atti di sovranità in base alle funzioni statali (legislativa, esecutiva, giudiziaria) cui possono essere riferiti, ma non potrà mai essa stessa considerarsi suddivisa in parti, al fine di affermare l’autonomia di una di queste rispetto alla collettività » (97). Poiché, secondo il disegno costituzionale, l’amministrazione della giustizia non contempla istituti di democrazia diretta, ma solo la possibilità di « partecipazione » del popolo (art. 102, terzo comma, Cost.), in subiecta materia la sovranità popolare (94) GIUL. AMATO, op. ult. cit., p. 95. (95) Come prevedeva testualmente il primo comma dell’art. 94 del Progetto della Costituzione (« La funzione giurisdizionale, espressione della sovranità della Repubblica, è esercitata in nome del popolo »). L’inciso in questione, di cui non fu mai messo in dubbio il contenuto, fu soppresso solo per la sua pleonasticità e per un problema di coerenza complessiva delle norme costituzionali, dal momento che — osservò l’on. RUINI — la sua formula non era espressa « né a proposito del Parlamento, né a proposito del potere esecutivo, cioè degli altri poteri a cui è parallelo il potere giudiziario » (ASSEMBLEA COSTITUENTE, Atti. Sedute, seduta pomeridiana del 20 novembre 1947, vol. X, p. 2283, Roma, 1948, il corsivo è mio). Sul punto, cfr. L. MORTARA, Lo Stato moderno e la Giustizia, 1885, ora in ID., Lo Stato moderno e la Giustizia e altri saggi, Napoli, 1992, p. 127: l’illustre Autore, ritenendo che il potere giudiziario costituisse « un ramo della sovranità », considerò « la libera elezione dei poteri giudiziari » come « la forma più armonica alle basi del reggimento democratico ». (96) « L’art. 101, primo comma, quale specificazione del principio fondamentale dello stesso proemio della Carta, con il prevedere che la giustizia è amministrata in nome del popolo, titolare della sovranità — così ritenendo superate le teorie della sua esclusiva appartenenza allo Stato — estende l’ombrello del principio della sovranità popolare alla giurisdizione, che costituisce completamento e continuazione della funzione legislativa » (D. MARAFIOTI, A passo di giudice, Napoli, 1994, pp. 26-27). (97) G. UBERTIS, Azione penale e sovranità popolare, in questa Rivista, 1975, p. 1200.
— 860 — deve avere a propria disposizione incisive funzioni di impulso e di controllo. Un’esigenza tanto più pressante nel campo della giustizia penale, sede necessaria di ineliminabili scelte politiche che debbono essere ricondotte a qualche forma di controllo sociale (98). Ebbene, l’unica forma di partecipazione all’amministrazione della giustizia prevista dal nostro ordinamento è quella dei giudici popolari in Corte d’assise; l’unico controllo possibile lo può esercitare l’opinione pubblica sulle motivazioni dei provvedimenti giurisdizionali (art. 111 Cost.). Sia consentito nutrire qualche dubbio circa la consistenza della partecipazione e l’effettività del controllo! Inoltre, sviluppando l’analisi in relazione al processo penale, emerge con tutta evidenza che le (pur insufficienti) forme di partecipazione e di controllo riguardano esclusivamente il momento del giudizio, restando assolutamente esclusa la fase — in verità cruciale — dell’esercizio dell’azione penale (99). Una fase che non dev’essere sottratta a controlli esterni, nonostante il principio di obbligatorietà sancito dall’art. 112 Cost., che comunque, nella pratica giudiziaria, non elimina un cospicuo margine di ‘‘discrezionalità’’, nel senso che il pubblico ministero, di fatto, nel momento in cui compie le « scelte di priorità di carattere generale per la trattazione delle notizie di reato » (100), esercita un potere non soggetto a controlli di alcun genere (101). La conseguenza è che — è opportuno ribadirlo — di fatto, attraverso scelte di politica giudiziaria, s’intro(98) Costituisce infatti « acquisizione irreversibile che il processo penale, in quanto strumento di convivenza sociale e perciò portatore, nelle sue concrete manifestazioni, di ineliminabili scelte politiche, debba essere congegnato in modo da consentire... l’esplicarsi su di esse del controllo sociale »: G. PECORELLA-O. DOMINIONI, Spunti per una discussione su ‘‘azione penale e potere politico’’ (Relazione presentata al Convegno « La libertà del cittadino: riforma del ruolo e dei poteri del Pubblico Ministero », svoltosi a Milano il 19-20 giugno 1971), p. 32. (99) Ad eccezione delle marginali ipotesi di azione popolare previste nel nostro ordinamento, la cui natura è peraltro controversa: sul punto si rinvia, oltre che alle opere citate infra, nota 114, a C. MASSA, Azione popolare, cit., p. 861 ss.; L. PALADIN, Azione popolare, in Nss. Dig. it., vol. II, Torino, 1958, p. 92 s.; C. MIGNONE, Azione popolare, in Dig. disc. pubbl., Torino, 1987, p. 146 ss.; D. BORGHESI, Azione popolare, in Enc. giur. Treccani, vol. IV, Roma, 1988, p. 4 ss. Sulle perplessità che circondano l’ipotesi di azione popolare introdotta dall’art. 7, l. n. 142/1990, v. C. MIGNONE, L’azione popolare prevista dalla legge di riforma delle autonomie locali, in Studi in onore di P. Virga, vol. II, Milano, 1994, p. 1134 ss. (100) V. ZAGREBELSKY, L’obbligatorietà dell’azione penale. Un punto fermo, una discussione mancata, un problema attuale, in Cass. pen., 1992, p. 3186. (101) Sotto il profilo che qui interessa, non può reputarsi soddisfacente la soluzione del controllo gerarchico, nemmeno se si facesse dipendere l’intera organizzazione del pubblico ministero da un unico ufficio competente a livello nazionale: « tali soluzioni, infatti, proprio per l’identica natura del controllore e del controllato », consentirebbero al massimo « un riesame di tipo gerarchico delle decisioni prese dall’ufficio subordinato, senza però alcuna partecipazione nemmeno di altri organi statuali » (UBERTIS, Azione penale, cit., p. 1202).
— 861 — ducono surrettiziamente forme di depenalizzazione. È evidente, perciò, che dette scelte si riflettono sullo stesso principio di obbligatorietà (102), in quanto esplicano « un forte condizionamento sui tempi o addirittura sulla stessa attivazione di indagini una volta acquisita la notizia di reato » (103). Se dunque il principio della sovranità popolare non consente che in una materia tanto delicata ci si affidi esclusivamente a meccanismi di self control (104), nondimeno risulterebbero inidonee a soddisfare le esigenze di partecipazione e di controllo popolare soluzioni che prevedessero la dipendenza diretta o indiretta degli uffici del pubblico ministero dal ministro della giustizia, ovvero dall’ufficio del pubblico ministero più elevato in grado, rendendo quest’ultimo responsabile nei confronti del Parlamento: com’è stato giustamente osservato, « ci si troverebbe sempre nell’ambito di un controllo interno allo Stato-governo. I cittadini, comunque, non avrebbero alcuna voce in capitolo » (105). 8. La questione della partecipazione e del controllo popolare sull’amministrazione della giustizia va impostata correttamente, richiamando — sia pure per rapidi cenni — l’origine del problema e le linee evolutive del sistema istituzionale. Il punto di partenza, si è visto, è dato dal dualismo tra collettività popolare e Stato-soggetto (id est Stato-Governo). Si tratta della constatazione di un fatto, ché certamente la simbiosi tra governanti e governati (102) Tanto che « ad essere ‘‘obbligato’’, anche a causa della carenza di mezzi, non è tanto l’esercizio dell’azione penale, quanto il compimento di scelte prioritarie » (G. CONSO, Introduzione alla riforma, in AA.VV., Pubblico ministero e accusa penale. Problemi e prospettive di riforma, a cura di G. Conso, Bologna, 1979, p. XI). In tal modo, l’esercizio surrettiziamente discrezionale dell’azione penale si traduce, com’è stato osservato (v. C. VALENTINI REUTER, op. cit., p. 43), in « una prassi sommersa in quanto ufficialmente illegale e quindi incontrollabile come tutti i fenomeni che vivono nonostante e al di là delle norme. Il che significa che il principio di obbligatorietà, adottato con l’intento di rendere trasparente il comportamento degli organi dello Stato al momento dell’esercizio dell’azione penale, si trasforma, nella realtà delle cose, in uno schermo mistificante, uno scenario da teatro, alle cui spalle gli attori cambiano travestimento e maschere senza che il pubblico noti alcunché ». (103) M. CHIAVARIO, L’azione penale tra diritto e politica, cit., p. 135. Per un’analisi comparatistica tra sistemi diversi, v. C. GUARNIERI, Pubblico ministero e sistema politico, Padova, 1984, p. 150 s., il quale rileva come « nella prassi la differenza fra sistemi retti dal principio di obbligatorietà e sistemi retti da quello di opportunità sia molto meno netta di quanto si possa credere rimanendo sul piano astratto dei principî ». (104) Su tali meccanismi, cfr. H. JUNG, Le ministère public: portrait d’une institution, in Arch. pol. crim., 1993, p. 15. (105) « A meno che tale non si voglia considerare l’utopistica ipotesi (...) di una campagna elettorale riguardante esclusivamente l’insufficiente sindacato da parte del Parlamento sull’operato del ministro di grazia e giustizia o dell’ufficio del pubblico ministero più elevato in grado. In conclusione, la determinazione del ‘‘potere’’ a cui faccia capo il pubblico ministero è un problema interno dello Stato-apparato » (G. UBERTIS, op. cit., p. 1203).
— 862 — rappresenterebbe la soluzione ideale, ma oggi può costituire tutt’al più un’aspirazione (106) (essendo invero un’utopia). La realtà è che « dovunque esistono strutture organizzate, per perfezionati che possano essere gli strumenti che le ancorano agli organizzati, esse tendono a vivere di vita autonoma » (107). Questa tendenza all’autoreferenzialità non è estranea alla magistratura, ed il fallimento dell’istituto di cui agli artt. 91 e ss. c.p.p., ne costituisce un sintomo, sia pure in scala ridotta. Per quanto riguarda gli organi costituzionali facenti capo al Parlamento ed all’Esecutivo (108), gli strumenti diretti a mantenere vivo e ad aggiornare il rapporto della collettività popolare con tali organi sono dati dal principio elettorale, da quello collegato della rappresentatività degli organi, dagli istituti di democrazia diretta e, soprattutto, dai partiti politici (109). Ognuno di questi strumenti, ad eccezione degli istituti di democrazia diretta, potrebbe applicarsi al potere giudiziario, per collegarlo efficacemente alla sovranità popolare. Ma solo uno, quello offerto dal modello dei partiti politici (nella loro funzione di aggiornamento del rapporto tra organizzazione governativa e collettività popolare) risulta compatibile con l’attuale ordinamento costituzionale. Se infatti i poteri ‘‘sovrani’’ di cui è titolare il popolo spettano ai cittadini intesi tanto uti singuli quanto uti universi (110), e se è vero che la Costituzione attribuisce proprio alle formazioni sociali la garanzia della tutela di interessi diffusi rilevanti costituzionalmente (111), ecco che la forma migliore di partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia per la tutela di tali interessi è quella dell’organizzazione in associazioni ed enti che si propongano tale finalità. D’altro canto, quando il reato lede interessi strettamente individuali, può ritenersi sufficiente il potere di controllo che il codice di rito vigente attribuisce alla persona offesa durante l’intero arco del procedimento (112). Cosicché la vera lacuna si riscontra nelle ipotesi in cui il reato offende interessi sovraindividuali, in special modo quando tali interessi non trovano un titolare, sia pure collettivo, ben identificabile. (106) Cfr. GIUL. AMATO, La sovranità, cit., p. 97. (107) Vedi nota che precede. (108) Naturalmente in questa sede si lascia impregiudicata, perché irrilevante, ai fini che qui interessano, la questione circa la natura (organo costituzionale ovvero organo di rilievo costituzionale) del potere giudiziario, sulla quale v. P. BARILE, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1982, p. 130 s. (109) GIUL. AMATO, La sovranità, cit., p. 96. (110) G. UBERTIS, Azione penale, cit., p. 1199. (111) Cfr. A. BARBERA, Commento all’art. 2 Cost., in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1975, p. 109. (112) Sul potenziamento del ruolo dell’offeso dal reato operato dal codice del 1988, v. E. AMODIO, Persona offesa, cit., p. 533 ss.
— 863 — In questi casi sarebbe opportuno superare il monopolio pubblico dell’azione penale, previsto dall’art. 231 coord. c.p.p., ed abilitare enti e associazioni direttamente all’azione penale privata (113), concorrente ma esercitabile in via autonoma rispetto alla condotta del pubblico ministero. Ovviamente dovrebbe trattarsi di associazioni che rispondano a precisi criteri, legislativamente prefissati, che ne assicurino la serietà e la solvibilità: l’attribuzione del potere d’azione, infatti, porterebbe con sé l’introduzione di meccanismi efficaci, sia sanzionatori che riparatori, in caso di iniziative temerarie o calunniose dell’ente-attore privato. Il ricorso a tali meccanismi, peraltro, non si sostituirebbe ma si accompagnerebbe ad un’eventuale condanna alle spese processuali ed al risarcimento dei danni — già prevista dal codice vigente per il querelante e per la parte civile — ed alla possibilità di configurare il reato di calunnia in capo ai rappresentanti dell’associazione (previa modifica della norma sostanziale) (114). A questi potrebbe anche attribuirsi la qualità di pubblici ufficiali, in modo da poter configurare a loro carico il reato di abuso d’ufficio (115). (113) Un’azione penale sostanzialmente privata, ma che potrebbe definirsi ‘‘collettiva’’ in quanto diretta a tutelare alcuni interessi generali della collettività ed esercitata non da un quivis de populo, bensì da enti ed associazioni qualificate (cfr. la proposta che fu avanzata da F. BRICOLA, Partecipazione e giustizia penale, cit., p. 64 ss.). Sull’opportunità di prevedere ipotesi d’azione privata individuale o collettiva, « dando così sfogo ad istanze partecipative assai pressanti e, contemporaneamente, sfoltendo in parte il carico delle procure », v. C. VALENTINI REUTER, op. cit., p. 49. (114) Per la proposta di tali meccanismi, in riferimento però all’introduzione dell’azione popolare, cfr. G. UBERTIS, op. cit., p. 1212; v. altresì, E. AMODIO, L’azione penale delle associazioni di consumatori, cit., p. 532; A. TROCCOLI, Un istituto giuridico da rivalutare: l’azione popolare, in Rass. parlamentare, 1971, p. 104: « l’introduzione in via generale dell’azione in materia amministrativa ... nonché in materia penale ... costituirebbe la concreta attuazione dell’affermazione del principio che la ‘‘Sovranità appartiene al popolo’’, contenuta nell’art. 1 della Costituzione »; A. GIARDA, La persona offesa dal reato nel processo penale, Milano, 1971, p. 253, in nota, in merito alla cd. azione popolare per reati elettorali di cui all’art. 100, d.P.R. n. 570/1960 ed alla « mancanza di un reato di azione penale privata temeraria o calunniosa », afferma che, « oltre a potersi semplicemente registrare la lacuna ed auspicarne in futuro un superamento, l’‘‘attore popolare’’ potrebbe pur sempre essere incriminato del delitto di abuso innominato d’ufficio e tenuto ad una responsabilità civile in applicazione analogica di quanto è previsto dagli artt. 382 e 482 del codice di procedura penale (oggi abrogato: v. artt. 427 e 542 c.p.p. vigente) riguardo al querelante temerario ». Ritiene che non si possa configurare il delitto di calunnia a carico dell’attore popolare (nei giudizi per reati elettorali), M. PISANI, La cd. azione popolare in materia di reati elettorali, in questa Rivista, 1959, p. 441. Sul punto v. anche F. BRICOLA, Partecipazione e giustizia penale, cit., p. 65 e nt. 271, dove l’illustre A. ritiene opportuno aggiungere agli altri atti tipici elencati dall’art. 368 c.p. quello iniziale dell’azione privata, ma osserva che, « parallelamente », bisognerebbe rivedere anche la responsabilità del P.M. per gli abusi nell’esercizio dell’azione penale. (115) È la proposta avanzata da A. GIARDA (loc. cit.) in riferimento all’attore popolare, accolta dall’UBERTIS e, in riferimento all’azione ‘‘collettiva’’, dal BRICOLA.
— 864 — 9. Nel processo di allargamento della democrazia nella società, la riforma proposta potrebbe rappresentare una tappa dalle implicazioni non trascurabili. Nella società contemporanea, infatti, il passaggio dalla democrazia politica alla democrazia sociale « non avviene soltanto attraverso l’integrazione della democrazia rappresentativa con la democrazia diretta ma anche, e soprattutto, attraverso l’estensione della democratizzazione, intesa come istituzione ed esercizio di procedure che consentono la partecipazione degli interessati alle deliberazioni di un corpo collettivo, a corpi diversi da quelli politici » (116). Se si guarda agli effetti che il metodo elettorale maggioritario produce sul sistema politico, alla semplificazione dello scenario politico che inevitabilmente introduce, alla conseguente « restrizione degli spazi di presenza e di azione istituzionale delle minoranze sociali e politiche » (117), si avverte la necessità di non assecondare, in nessun ambito civile, « una visione demagogica della vita collettiva nella quale alla società, mossa dall’esterno e dall’alto ma incapace di pensare e volere da sé, sia attribuita una funzione soltanto reattiva » (118). Soprattutto nell’attuale assetto politico-istituzionale, nel quale anche il baricentro dell’elaborazione culturale si va spostando dalla parte dei poteri politici ed economici più forti (119), passare alla democrazia in senso sociale vuol dire prendere in considerazione l’individuo « nella molteplicità dei suoi status, per esempio di padre e di figlio, di coniuge, di impresario e di lavoratore, di insegnante e di studente, e anche di genitore di studente, di medico e di malato, di produttore e di consumatore, di gestore di pubblici servizi e di utente, ecc. » (120). La strada è quella di armonizzare « l’incipiente sistema maggioritario » con il « complesso di diritti di libertà e di garanzie di partecipazione » contemplato dalla Costituzione, e per farlo occorrono « soluzioni nuove » (121). Nel momento in cui si riconosce alla giurisdizione il ruolo di « garante e promotrice del consolidamento e dello sviluppo dei diritti sociali di cittadinanza » nella democrazia maggioritaria (122), e si afferma la tra(116) N. BOBBIO, Stato, governo, società. Frammenti di un dizionario politico, Torino, 1995, p. 147. (117) L. PEPINO, Legalità e diritti di cittadinanza nella democrazia maggioritaria, in Quest. giustizia, 1993, p. 253. (118) V. ZAGREBELSKY, Il « crucifige! » e la democrazia, Torino, 1995, p. IV. (119) Cfr. nota che precede. (120) N. BOBBIO, loc. ult. cit. (121) L. PEPINO, op. cit., p. 254. (122) Ruolo che la giurisdizione assume — secondo L. PEPINO (op. cit., p. 257) — a causa dell’inevitabile contrazione dei ‘‘canali di rappresentanza delle minoranze’’, la cui marginalizzazione in sede politico-istituzionale, « farà necessariamente confluire sul giudiziario le richieste di tutela là inascoltate: soggetti e interessi alla ricerca di riconoscimento e legittimazione, quanto più saranno privati del canale politico, tanto più ricorreranno alla giurisdi-
— 865 — sformazione del sistema giudiziario in « strumento di intervento diretto e di partecipazione dei cittadini », è evidente che le « soluzioni nuove » da sperimentare non possono limitare i meccanismi di partecipazione e di controllo dei cittadini — singoli o associati — alla sola attività amministrativa (123). Le formazioni sociali, soprattutto (ma non solo) quelle che sono espressione di diritti sociali che si trovano spesso in contrasto con gli interessi della maggioranza, diritti ai quali la giurisdizione deve dare riconoscimento ed effettività, devono avere la possibilità di agire nel processo penale. Tanto più quando si teorizza la legalità come ‘‘potere dei senza potere’’, e si riconosce al diritto penale una funzione di rilievo « nell’opera di minimizzazione del potere mediante l’affermazione della legalità » (124), non si può prescindere da un controllo popolare effettivo e dall’attribuzione alla collettività, organizzata in formazioni sociali ex art. 2 Cost., di un potere d’impulso immediato nei confronti del giudice penale. Anche per la magistratura deve valere la regola per la quale ‘‘non c’è responsabilità senza potere; non c’è potere senza controllo’’: così come il potere è presupposto della responsabilità, la concreta assoggettabilità a controllo dev’essere presupposto indefettibile di qualsiasi potere democratico. Allo stesso modo di come avviene nel campo legislativo e, in via mediata, nell’ambito dell’esecutivo, anche il potere giudiziario dev’essere permeabile a forme di partecipazione diretta dei cittadini, affinché la sovranità popolare possa essere esercitata nei due modi che la peculiarità della funzione giurisdizionale consente: come esercizio diretto e ‘‘concorrente’’ del potere d’azione e come controllo sull’attività degli organi statali preposti dalla Costituzione ad esercitare il potere medesimo. Per una riforma in questo senso non vi sono ostacoli costituzionali: è noto che, durante la discussione sull’art. 112 Cost., il riferimento alla pubblicità dell’azione penale fu soppresso proprio per consentire al « legislatore futuro... di introdurre accanto all’azione penale di spettanza del pubblico ministero... anche l’azione penale sussidiaria del privato » (125), riconoscendo a quest’ultima un grande valore democratico. Dott. ALBERTO DE VITA
zione ». Le analogie di questo scenario con le dinamiche sociali degli anni Sessanta-Settanta (retro, par. 2) sono davvero sorprendenti! (123) Come invece sembra ritenere L. PEPINO, op. cit., p. 254. (124) V. L. PEPINO, op. cit., p. 258. (125) V. le dichiarazioni dell’on. LEONE e dell’on. PAOLO ROSSI in Assemblea costituente, Atti. Sedute, seduta antimeridiana del 27 novembre 1947, vol. X, cit., pp. 2548, 2550.
NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO
LA PROTEZIONE PENALE DELLA RISERVATEZZA IN DIRITTO COMPARATO ITALIANO E FRANCESE (*)
SOMMARIO: LA PROBLEMATICA DELLA RISERVATEZZA IN ITALIA E DEL « SECRET DE LA VIE PRIVEE IN FRANCIA ». — Il concetto di riservatezza in Italia e in Francia. — 1. Le origini del concetto di riservatezza. — 2. La riservatezza come valore. — 3. L’elaborazione dogmatica del diritto alla riservatezza come un diritto della personalità. — La giurisprudenza italiana e francese e la nuova situazione giuridica « riservatezza ». — 1. La giurisprudenza di merito. — 2. La giurisprudenza di legittimità. — 3. Gli esiti dell’esperienza giurisprudenziale. - 3.1. La giurisprudenza italiana. - 3.2. La ‘‘création prétorienne’’ della giurisprudenza francese. — LA DIFESA DELLA RISERVATEZZA NEI SISTEMI PENALI ITALIANO E FRANCESE. — 1. Il fatto d’intrusione nella vita privata. - 1.1. Elementi comuni nella definizione del reato. - 1.2. Le differenze nella definizione del reato. — 2. Fatti giustificativi dell’attentato alla vita privata e all’intimità di essa. - 2.1. La realtà francese. - 2.2. La realtà italiana. — 3. Il fatto della conservazione, comunicazione e utilizzazione del prodotto dell’indiscrezione. - 3.1. Elementi comuni nella definizione del reato. - 3.2. Il delitto francese di conservazione ed utilizzazione del prodotto dell’indiscrezione. — 4. Prevenzione degli attentati alla vita privata: il delitto di fabbricazione e commercializzazione degli apparecchi capaci d’espionner la vie privée. — 5. Il regime repressivo nei delitti « d’indiscrezione e di divulgazione » della vita privata. 5.1. Punizione del tentativo. - 5.2. Necessità di una querela preliminare. - 5.3. La sanzione. — 6. Le nuove forme di attentato all’intimità della vita privata. — 7. Le condotte lesive della riservatezza mediante le c.d. ‘‘tecnologie dell’informazione’’. - 7.1. Il fatto della registrazione e conservazione di « informations nominatives » nell’art. 42 della legge n. 78-17 del 1978. - a) I testi di riferimento. - b) Osservazioni sull’art. 42, norma di rinvio. - 7.1.1. La diversa formulazione del delitto nel nuovo codice penale. - 7.2. Il trattamento illecito dei dati personali nella legge italiana n. 675 del 1996. 7.3. Il fatto della comunicazione d’informazioni nominative nell’art. 43 della legge francese n. 78-17 del 1978. - a) Delitto doloso. - b) Delitto colposo. - 7.3.1. La nuova formulazione del delitto previsto dall’art. 43 nel nuovo codice penale. - 7.4. Le altre disposizioni a protezione dei dati personali. - 7.5. Considerazioni conclusive. — IL PERFEZIONAMENTO DEI MODI DI PROTEZIONE. — Il diritto civile complemento della tutela penale. — 1. L’art. 9 code civil français. — 2. Le misure atte ad impedire o a far cessare l’attentato alla vita privata o all’intimità di essa. — 3. La misura dell’astreinte. — 4. La responsabilità civile dell’autore di un attentato au secret de la vie privée. - 4.1. Il regime dell’indennizzo. - 4.2. La pubblicazione della decisione. — 5. Suggerimenti per il sistema italiano. - 5.1. Criteri di selezione dal « penalmente rilevante ». — 6. Verifica in concreto e prospettive de iure condendo. — La portata della protezione penale. — 1. Identificazione delle lacune. - a) Quanto al momento dell’indiscrezione nella vita in(*) Il presente lavoro è stato svolto con l’ausilio di una borsa di studio del Consiglio d’Europa in materia dei diritti dell’uomo.
— 867 — tima. - b) La divulgazione. — 2. La riservatezza appartiene alla « materia penale »? — 3. Necessità di precisione legale. — 4. Conclusioni per un regime giuridico adeguato. LA PROBLEMATICA DELLA RISERVATEZZA IN ITALIA E DEL « SECRET DE LA VIE PRIVÉE IN FRANCIA » La protezione della riservatezza, sia in Italia che in Francia, è stata oggetto di una lunga e tormentata elaborazione. Il sistema di garanzie della persona ha conseguito, in entrambi i paesi, risultati apprezzabili, ma solo dopo un lento e articolato processo che ha visto impegnata non solo la dottrina — e più in generale il mondo della cultura — ma la stessa giurisprudenza nella sua opera quotidiana di applicazione del diritto. Il dibattito è stato ricco e articolato. A poco a poco si è sviluppata, in ogni settore della vita sociale, la coscienza del rispetto che è dovuto alla persona umana, e quindi dell’illiceità dei comportamenti che attentano alla sua intimità. Ovviamente il riconoscimento collettivo, non bastava a trasformare la regola della morale in principio di diritto positivo. Occorreva una svolta normativa, che si è verificata prima in Francia e poi — anche se in modo non del tutto soddisfacente — in Italia. Nel compimento di questo processo non poteva non giocare un ruolo di primo piano la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1). Essa infatti proclama solennemente il diritto fondamentale della persona al rispetto della vita privata, e determina i limiti di intervento dell’autorità pubblica nella sfera individuale. Più in generale, la Convenzione europea si propone di promuovere lo sviluppo dei diritti umani, traducendo, in forme pratiche di tutela, sia sul piano internazionale che su quello istituzionale dei singoli paesi, gli ideali che sono a fondamento della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Nel ratificare la Convenzione (per la verità con un certo ritardo e cioè solo nel 1974) la Francia l’ha incorporata nel suo diritto interno, rendendola direttamente applicabile da parte dei giudici. Si trattava di una scelta obbligata, imposta dalla Costituzione del 1958, che, all’art. 55, conferisce anzi ai trattati ratificati ‘‘un’autorità superiore a quella della legge’’ (2). In Italia la Convenzione è stata ratificata nel 1955 (3) ma dottrina e giurisprudenza sembrano orientate ad attribuire ad essa il carattere di legge ordinaria (4). Malgrado l’Italia abbia riconosciuto il diritto alla riservatezza venti anni prima della Francia, tuttavia l’esperienza francese dimostra una maggiore sensibilità nella materia e segnala lo sviluppo di indirizzi giurisprudenziali che, anticipando i successivi provvedimenti legislativi, hanno consentito, in una prima fase, una ‘‘tutela giudiziale’’ della vita privata attraverso una ‘‘création prétorienne’’ di diritto non scritto. Il confronto tra l’esperienza francese e l’esperienza italiana riveste un particolare interesse per chi voglia condurre un’indagine sull’argomento, sia a causa dell’affinità dei due ordinamenti, sia in virtù del fatto che le forme di ragionamento e le tecniche di sistemazione concettuale che sono proprie dei giuristi dei due paesi presentano caratteri comuni. (1) Sulla Convenzione, G. COHEN JONATHAN, La Convention européenne des droits de l’homme, 1989. (2) La Francia ha ratificato la Convenzione europea il 3 maggio 1974 in virtù dell’autorizzazione data dalla legge n. 74/360 del 3 maggio. Essa ha, inoltre accettato il diritto di ricorso individuale aperto ai singoli cittadini solo nel 1981. (3) L’Italia ha ratificato la Convenzione europea con la legge 4 agosto 1955, n. 848 ed ha riconosciuto il diritto di ricorso individuale nel 1973. (4) Cfr. SPERDUTI, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il suo sistema di garanzie, in Riv. dir. internaz., 1963, p. 174; ANDRIOLI, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il processo giusto, in Temi rom., 1964, p. 452; per la giurisprudenza, Cass. civ. 16 novembre 1967, n. 2762, in Giur. it., 1968, I, col. 304. Se ne dovrebbe dedurre che il diritto di manifestare il proprio pensiero, ex art. 21 Cost., prevale sul diritto alla tutela della propria sfera privata. Ma di ciò in seguito.
— 868 — Si deve aggiungere che avendo il legislatore francese, a differenza di quello italiano, disciplinato in modo articolato ed organico la materia, l’ordinamento francese costituisce per noi un punto di riferimento prezioso, un modello, se non da seguire, quanto meno da discutere.
Il concetto di riservatezza in Italia e in Francia 1. Le origini del concetto di riservatezza. — Si rende opportuna qualche precisazione di ordine terminologico, dato che i termini hanno un loro rilievo nell’individuazione degli istituti, e attraverso il linguaggio si determina il contenuto dei concetti. Riservatezza e ‘‘secret de la vie privée’’ sembrano essere due nozioni molto vicine tra loro. Il vocabolario dottrinale e giurisprudenziale dei due paesi naturalmente differisce, ma le espressioni sono utilizzate con un significato affine e con un obbiettivo comune: quello di assicurare all’individuo un settore riservato personale. ‘‘L’espace de l’existence que l’homme mène lorsqu’il vit à l’abri des yeux et des voix indiscrètes’’ (5), lontano da qualsivoglia intrusione e, ancor più, da ogni divulgazione. Naturalmente, se la nozione di riservatezza o di ‘‘secret de la vie privée’’ non viene precisata nel suo contenuto, incerta e imprecisa è anche la sua regolamentazione giuridica. Di qui l’esigenza, sempre avvertita dalla dottrina, di delinearne in modo compiuto la nozione. La ricerca sull’argomento ha avuto inizio fin dagli inizi del secolo: in Francia con l’opera di M. E.H. PERREAU (6), e in Italia, con gli scritti di A. RAVÀ (7). Mentre però la dottrina francese dimostrava una certa indifferenza nei confronti dell’esperienza italiana, da noi la dottrina era assai interessata alle ricerche che venivano condotte nel vicino paese, anche se non ignorava altri modelli, come quelli tedesco, inglese e nordamericano. Quanto alla giurisprudenza, mentre in Francia essa veniva assumendo — come si è accennato — il compito di una vera e propria ‘‘création prétorienne’’, in Italia si rivelava più prudente e circospetta, malgrado l’assenza di un intervento legislativo in materia. L’origine storica e l’evoluzione del concetto di riservatezza (d’ora in avanti per comodità di linguaggio designeremo con questa espressione entrambe le locuzioni — ‘‘riservatezza’’ e ‘‘secret de la vie privée’’ —) sono legate alla struttura della vita sociale, nonché al passaggio da una società di tipo rurale a una di tipo industriale. Il nuovo modello di vita della società industriale sviluppò tecniche d’intrusione sempre più raffinate — e perciò stesso sempre più pericolose — nella sfera privata. In tale contesto, la riservatezza iniziò ad essere avvertita come bisogno fondamentale dell’individuo (8). 2. La riservatezza come valore. — Se tutti riconoscono che la riservatezza è espressione di un bisogno profondo coessenziale alla natura dell’uomo, non vi è accordo sulla precisa determinazione del valore da proteggere. Essa racchiude infatti componenti sociali, culturali, psicologiche che ne fanno variare il contenuto nel tempo e nello spazio (9). Ciò che appartiene alla sfera dell’intimità, è dunque un dato relativo. Il suo oggetto muta col mutare dei costumi. In ogni caso dipende da una serie di variabili: la natura in sé dei dati, il modo in cui sono raccolti o presentati, la cerchia dei destinatari, il tempo. (5) Cfr. L. MARTIN, Le secret de la vie privée, in Rev. trim. dir. civ., 1959, p. 228 s. (6) Cfr. E.H. PERREAU, Des droits de la personnalité, in Rev. trim. dr. civ., 1909. (7) Cfr. A. RAVÀ, I diritti sulla propria persona nella scienza e nella filosofia del diritto, in Riv. it. sc. giur., 1901, p. 289; ID., Istituzioni di diritto privato, Padova, 1938, p. 157-158. (8) Cfr. S. CIPRIANI, Protezione dei dati personali: un problema di equilibrio di interessi, in Informatica ed enti locali, Maggioli ed., n. 1, 1996, § 3, p. 13. (9) Cfr. S. CIPRIANI, op. loc. cit.
— 869 — Alcuni dati sono riservati per il loro contenuto (10) (ad es., fatti sentimentali, sessuali, sanitari); altri per il luogo in cui si manifestano (ad es., nel domicilio). A volte la riservatezza viene infranta per il modo della raccolta dei dati che, se aggregati, forniscono una rappresentazione complessiva (dunque più approfondita) della persona che, altrimenti, sarebbe stata conosciuta soltanto per aspetti frammentari. Vi sono poi circostanze rispetto alle quali l’esigenza di riservatezza è rappresentata dal fatto che l’interessato vuole condividere certi avvenimenti solo con le persone care, parenti (11) o amici. La distanza temporale tra fatto e divulgazione può influire sul diritto alla riservatezza ora includendo in essa alcuni dati ora escludendoli. Nel primo caso si configura il c.d. ‘‘diritto all’oblio’’ (12), cioè il diritto dell’interessato a pretendere che alcuni fatti pubblici — che lo riguardano —, col decorso del tempo cessino di essere tali. Nel secondo caso, per contro, alcuni dati, prima riservati, per il tempo trascorso o per il mutato contesto storico, diventano liberamente diffondibili (13). Al di là delle variazioni nel tempo e nello spazio, la riservatezza va protetta in sé e per sé, indipendentemente da ogni altro attentato ad altri valori della persona. In realtà bisogna riconoscere che raramente la riservatezza si presenta, per così dire, allo stato puro, accompagnandosi per lo più ad altri valori affini, con i quali perciò si confonde. Occorre, allora, isolare la riservatezza dagli altri attributi o valori della personalità. A differenza di aspetti della personalità come il nome o l’immagine (la protezione dell’immagine, peraltro, non sempre concerne la sfera intima della persona), la riservatezza non si esprime in un quid oggettivo (in un segno distintivo), ma designa una situazione del soggetto di fronte alla comunità (14). Diversamente dall’onore e dalla reputazione, strettamente legate alla posizione e all’attività del soggetto nel contesto sociale, e al giudizio che ne (10) Cfr. G. FERRARA SANTAMARIA, Il diritto all’illesa intimità della vita privata, in Riv. dir. priv., 1937, I, p. 168; F. CARNELUTTI, Diritto alla vita privata, in Scritti Calamandrei, I, Padova, 1958, p. 137; B. FRANCESCHELLI, Il diritto alla riservatezza, Napoli, 1960; P. RESCIGNO, Il diritto ad essere lasciati soli, in Synteleia Arangio-Ruiz, I, Napoli, 1964, p. 494; ID., Il diritto all’intimità della vita privata, in Studi Santoro-Passerelli, IV, Napoli, 1972; in Francia: NERSON, La protection de l’intimité, in Journal des tribunaux, 1959, p. 74; ID., Les droits extrapatrimoniaux, Thèse Lyon, 1939; L. MARTIN, Le secret de la vie privée, in Rev. trim. dir. civ., 1959, 227 s.; R. LINDON, La presse et la vie privée, in J.C.P., 1965, I, 1887; P. KAYSER, Le secret de la vie privée et la jurisprudence civile, Mélanges R. Savatier, 1965; SARRAUTE, Le respect de la vie privée et les servitudes de la gloire, in Gaz. Pal., 1966, I, Doct. 2, p. 12. (11) Sulla riservatezza e la vita familiare: T.A. AULETTA, Riservatezza e tutela della personalità, Milano, 1978, p. 191; P. ICHINO, Diritto alla riservatezza e diritto al segreto nel rapporto di lavoro, Milano, 1979, passim; M. DOGLIOTTI, Delle persone fisiche, in Trattato di diritto privato, a cura di Rescigno, Torino, 1982, II, p. 107; in Francia: R. LINDON, Une création prétorienne: les droits de la personnalité et les droits collectifs de famille, in Rev. des travaux de l’Académie des sciences mor. et pol., 1969, II, 43; R. NERSON, Personnes et droit de famille, in Rev. dr. civ., 1971, p. 109 s. (12) Cfr. M. DOGLIOTTI, Tutela della riservatezza, diritto di cronaca, rielaborazione ‘‘creativa’’ (a proposito di un recente originale televisivo) nota sotto Pret. Roma 25 gennaio 1979, in Giust. civ., 1979, I, 1518; T.A. AULETTA, Diritto alla riservatezza e ‘‘droit à l’oubli’’, in G. ALPA e altri, L’informazione e i diritti della persona, Napoli, 1983; D. TALON, Personnalité (Droits de la), in Enciclopédie Dalloz, Droit civil, 1981, n. 55, e relativi riferimenti bibliografici; D. AMSON, obs. a Trib. grande Inst. Paris 25 mars 1987, in D., 1988, Somm. 198 e 199; J. RAVANAS, Le droit à l’oubli ne peut pas être allégué pour des faits licitement révélés (Cass. civ., 1ére, 20 novembre 1990). (13) Cfr. S. CIPRIANI, op. loc. cit. (14) Sul diritto all’immagine, BAVETTA, voce Immagine (diritto alla), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, p. 145; M. DOGLIOTTI, Protezione della vita privata, diritto all’immagine e tutela riparatoria, in Giur. it., 1979, I, 2, 547; J. STOUFFLET, Le droit de la personne sur son image, in J.C.P., 1957, I, 1374; D. BECOURT, Le droit de la personne sur son image, 1969; B.
— 870 — esprime la comunità, la riservatezza riguarda semplicemente un complesso di situazioni non destinate alla conoscenza altrui, quale che sia la loro attitudine lesiva nei confronti dell’onorabilità del soggetto (15). A differenza inoltre della violazione dell’identità personale, la violazione della riservatezza prescinde dal requisito della falsità o inesattezza, perché è proprio la verità ad essere considerata lesiva (16). La rassegna degli elementi di diversità con gli altri attributi della personalità potrebbe proseguire. Tuttavia, ciò condurrebbe solo a scoprire quello che la riservatezza non è, e non a una definizione in positivo, anche perché, spesso, i differenti elementi si sovrappongono. Come vedremo, per superare l’impasse, alcuni hanno proposto di creare un unico diritto della personalità. 3. L’elaborazione dogmatica del diritto alla riservatezza come un diritto della personalità. — L’elaborazione dogmatica del diritto alla riservatezza è stata influenzata dall’apparizione dei diritti della personalità, scoperti dalla dottrina tedesca (17). Ben presto tali diritti penetrarono in Francia (18), dove però si avvertiva qualche difficoltà ad ammettere l’esistenza di diritti extra patrimoniali (19). La dottrina infatti si dimostrava incapace di creare enunciazioni di principio in materia e si limitava ad annotare le sentenze dei giudici (20); i EDELMAN, Esquisse d’une théorie du sujet: l’homme et son image, in D., 1970, Chron. 119; P. KAYSER, Le droit à l’image, Mélanges P. Roubier, p. 73-88; Ch. METZ, Au delà de l’analogie: l’image, in Revue Communication, n. 15, éd. du seuil, Paris, 1970, p. 1-10; sul diritto al nome, cfr. M. NUZZO, Nome (dir. vig.), in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 306; J. BONNECASE, Suppl., Traité de droit civil, de Baudry-Lacantinerie, 1928, t. 6, n. 83; A. COLIN, Nota a Paris 21 janvier 1903, in D.P., 1904, 2, 1; R. NERSON, Les droits extrapatrimoniaux, cit., p. 33, dove l’illustre autore afferma che « Signe habituel et nécessaire de la personnalité, le nom ‘‘la concentre et l’exprime’’ »; Ph. NÉRAC, La protection du nom patronymique en droit civil, in P.U.F., 1981, ivi le réf. cit.; per considerazioni generali sulla problematica relativa al diritto al nome e all’immagine, cfr. M. DOGLIOTTI, Delle persone fisiche, cit., p. 143; L.A. MALAURIE, Droit civil, 1989, p. 61 e 97 s. (15) Per quanto concerne il rapporto tra onore e riservatezza, V. Z. ZENCOVICH, Onore e reputazione nel sistema di diritto civile?, Napoli, 1985, p. 109; P. KAYSER, Diffamation et atteinte au droit au respect de la vie privée, Mélanges A. Jauffret, 1974, p. 427; per uno studio francese recente in merito all’onore: B. BEIGNIER, L’honneur et le droit, in Th. Paris, II, 1991. (16) In merito al c.d. ‘‘diritto di ognuno ad essere rappresentato con la propria identità personale’’, cfr. BAVETTA, voce Identità personale (diritto alla), in Enc. dir., XIX, Milano, 1970; M. DOGLIOTTI, Diritto all’identità personale, garanzia di rettifica e modi di tutela, in Giust. civ., 1981, I, 632; G. GIACOBBE, L’identità personale tra dottrina e giurisprudenza. Diritto sostanziale e strumenti di tutela, in Riv. dir. proc. civ., 1983, p. 810 s.; G. ALPA, Diritti della personalità emergenti: profili costituzionali e tutela giurisdizionale. Il diritto all’identità personale, in Giur. mer., 1989, p. 464 s.; in Francia si parla di ‘‘dénaturation ou altération de la personnalité’’, v. J. MESTRE, La protection indépendante du droit de réponse, des personnes physiques et morales contre l’altération de leur personnalité aux yeux du public, in J.C.P., 1974, I, 2623; R. GASSIN, Vie privée (Atteintes à la), in Droit pénal, 2ème éd., Rép. Dalloz, 1974, t. 3, n. 134 e 154; V.Z. ZENCOVICH, Rapport sur ‘‘vérité et liberté d’expression’’, in La vérité et le droit, Travaux de l’Association H. Capitant, Journées canadiennes, t. XXXVIII, 1987, p. 299. (17) Cfr. REGELSBERGER, Pandekten, I, Leipzig, 1983; HOLDER, Natürliche und juristische personem, Leipzig 1905; HUBMAN, Das persönlichkeitsrecht, Munster, 1953; REINHARDT, Das problem des allgemeinem persönalichketisrect, in Arch. civ., 1954. (18) I diritti della personalità sono penetrati in Francia per l’intermediazione della dottrina svizzera e sono stati lanciati da BOISTEL, Philosophie du droit, 1889, t. 1, n. 131 s. e dall’articolo di H.E. PERREAU, Les droits de la personnalité, in Rev. trim. dr. civ., 1909, p. 509. (19) Cfr. R. NERSON, Les droits extrapatrimoniaux, Paris, 1939. (20) Cfr. P. KAYSER, Le secret de la vie privée et la jurisprudence civile, Mélanges
— 871 — quali, prevalentemente in ambito civilistico, cominciarono a sperimentare una forma di protezione indiretta dei diritti extra patrimoniali, utilizzando lo strumento della c.d. « responsabilité délictuelle et quasidélictuelle » (una sorta di responsabilità aquiliana), e procedettero proteggendo singoli settori come « le secret de la vie privée ». Ciò spiega la mancata elaborazione di un generale diritto della personalità. Anzi, alcuni autori ne contestarono l’utilità pratica se non la stessa esistenza (21). In Italia, solo negli anni quaranta si comincia a parlare del diritto alla riservatezza come diritto della personalità. Successivamente, nel corso dei lavori dell’assemblea costituente non si mancò di registrare il ritardo storico-culturale del nostro paese nell’elaborazione della materia e, nel contempo, fu segnalata da più parti l’esigenza di considerare la persona come valore essenziale da proteggere. Di qui la formulazione dell’art. 2 della nostra Costituzione, che « riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si esplica la sua personalità ». È dubbio però se questa norma salvaguardi anche la riservatezza, riconoscendola, così, a livello costituzionale. Per alcuni si tratta di una norma di « chiusura » (22) che include unicamente i diritti fondamentali già previsti dalla Costituzione. Per la dottrina dominante, invece si tratta di una norma « d’apertura » agli altri valori implicitamente protetti dalla stessa. Insomma di una clausola generale a protezione della persona, che, proprio in quanto tale, permette di rilevare i nuovi aspetti della personalità che si maturano nell’ambito della coscienza sociale, continuamente in evoluzione. Il dibattito, presente anche in Francia, si sviluppa tra fautori e avversari della nuova categoria giuridica: la riservatezza. Alcuni ne colgono gli elementi costitutivi nella più generale categoria dei diritti della personalità. Altri ne contestano l’esistenza a causa della mancanza di riferimenti normativi e della non estensibilità degli attributi della personalità già riconosciuti. Ora non vi è dubbio che il tema della tutela della persona umana, evoca quello più particolare della tutela della riservatezza. La riservatezza, infatti, è un elemento che caratterizza la persona e, per certi aspetti, rappresenta il punto di equilibrio tra l’individuo e i suoi simili. Entro certi limiti, ciascuno ha diritto di vivere con gli altri alle proprie condizioni, secondo la natura, le aspirazioni, le esigenze, le caratteristiche della propria individualità. Certo, l’interesse alla riservatezza può trovarsi in conflitto con altri interessi parimenti degni di tutela e ugualmente protetti sul piano costituzionale, come quello all’informazione o la libertà di espressione del proprio pensiero. Si pone allora un delicato problema di contemperamento di interessi contrastanti, su cui avremo più avanti occasione di tornare. Al riguardo ci sembra però fin da ora opportuno richiamare il pensiero di F. Geny (23) « l’oggetto (dell’ordine giuridico positivo)... non è altro che di dare la soddisfazione più adeguata alle aspirazioni rivali... Il mezzo per ottenere (la giusta conciliazione).... consiste nel riconoscere gli interessi presenti, valutarne la forza rispettiva, pesarli in qualche sorte con la bilanRené Savatier, p. 465 s.; L. MARTIN, Le secret de la vie privée, précité; A. CHAVANNE, La protection de la vie privée, in Rev. sc. crim., 1971, p. 605. (21) Cfr. Le Doyen ROUBIER, Droits subjectifs et situations juridiques, Dalloz, 1963. (22) Per un esame approfondito dell’art. 2 della Costituzione italiana, v. A. BARBERA, Principi fondamentali - art. 2, in Comm. alla Costituzione, a cura di Branca, Bologna-Roma, 1975, 55 s. e 80; DE CUPIS, I diritti della personalità, in Trattato Cicu-Messineo, Milano, 1982; PERLINGIERI, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Camerino, 1982; F. FELICIETTI, I diritti garantiti dall’art. 2 della Costituzione nei lavori della Costituente e nella giurisprudenza costituzionale, in Giur. it., 1985, 62; per l’art. 2 inteso come clausola ‘‘aperta’’: F. MANTOVANI, Diritto alla riservatezza e libertà di manifestazione del pensiero con riguardo alla pubblicità dei fatti criminosi, in Arch. giur., 1968, p. 50; G. GIAMPICCOLO, La tutela giuridica della persona umana e il c.d. diritto alla riservatezza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 458; G.B. FERRI, Persona e privacy, in Riv. dir. comm., 1982, 75; V.Z. ZENCOVICH, Onore e reputazione nel sistema di diritto civile, Napoli, 1985, 62. (23) Cfr. F. GENY, Méthodes d’interpretation et sources en droit privé positif, 1ére éd., n. 155 s.
— 872 — cia della giustizia, in vista di assicurare il prevalere dei più importanti secondo un criterio sociale, e finalmente di stabilire tra di essi l’equilibrio eminentemente desiderabile ».
La giurisprudenza italiana e francese e la nuova situazione giuridica « riservatezza » L’attività dei giudici sin dall’inizio fu rivolta proprio a stabilire il punto di equilibrio tra il rispetto della persona umana e la garanzia della libertà d’informazione. Attori nei giudizi sono prevalentemente attori cinematografici o di teatro, cantanti, pittori, scrittori, talvolta uomini politici, comunque personaggi famosi. Non mancano ipotesi in cui vittime di un’illecita intrusione sono cittadini comuni. Ma si tratta di un filone minoritario. Comune alla realtà dei due paesi è lo stato di grave disagio che investe i tribunali, a causa dell’estrema povertà di strumenti normativi. È prevalente l’attività della giurisprudenza civile, dal momento che la protezione penale, intrinsecamente legata al principio di legalità, mal si conciliava con la creazione di un « diritto giurisprudenziale » agile ed equitativo, che supplisse all’assenza di indicazioni sui contenuti da attribuire all’espressione « riservatezza ». La giurisprudenza francese volle subito dare massima efficacia alle sue decisioni in materia. Le giurisdizioni di merito, con impegno paziente e progressivo, con originalità e concretezza, diedero soluzione ai casi di specie, sperimentando e via via perfezionando una serie di procedimenti di tecnica giuridica a protezione della riservatezza, che saranno successivamente recepiti dal legislatore (24). Quanto alla Cassazione, la Suprema Corte si limitò a confermare le sentenze dei giudici di merito. In Italia, i giudici di merito, dopo qualche iniziale e comprensibile incertezza, finirono anche loro, nel riconoscere l’esistenza del diritto alla riservatezza. La Cassazione, però, non si mosse di pari passo. Questa mancanza di coordinazione giustifica in parte l’assenza di un’efficace normativa italiana in merito. È certo, comunque, che i giudici di entrambi i paesi hanno contribuito notevolmente ‘‘pierre à pierre à la construction juridique du mur de la vie privée’’ (25). 1. La giurisprudenza di merito. — Le prime sentenze dei giudici italiani si limitarono ad ammettere l’interesse pubblico su alcuni episodi della vita intima della persona celebre, al fine di avere una migliore conoscenza e valutazione della sua personalità. Fu il caso della nota vicenda Caruso (26). La controversia riguardava la realizzazione di un film ‘‘Enrico Caruso, leggenda di una voce’’, che narrava la vita del grande tenore dalla fanciullezza, piena di stenti e privazioni, al raggiungimento della celebrità. I discendenti lamentarono la divulgazione di notizie attinenti alla vita privata e chiesero al giudice un provvedimento volto a far cessare la proiezione del film, in quanto lesivo della riservatezza del loro congiunto. (24) Cfr. R. BANDITER, Le droit au respect de la vie privée, in J.C.P., 1968, 1, 2136; Rapport annuel de la Court de Cassation, 1968-69; R. LINDON, in nota J.C.P., 1965, II, 14443. (25) La formula si deve a M.R. LINDON, nota a Trib. grande inst. Seine, 3(e) ch. (2 jugements), in J.C.P., 1966, II, 14875. (26) Cfr. Pret. Roma 19 novembre 1951, in Foro it., 1952, I, 149, nota di A. DE CUPIS: il pretore con questa ordinanza si dichiara incompetente e rimette le parti davanti al tribunale.; Trib. Roma 14 settembre 1953, in Foro it., 1954, I, 115, nota PUGLIESE: il tribunale sostiene che trattandosi di personaggio famoso, la limitazione imposta dalla notorietà al diritto alla ‘‘riservatezza esige un equo contemperamento tra l’interesse generale e quello individuale’’, e quindi non si può escludere talora l’interesse pubblico. Ancora: App. Roma 17 maggio 1955, in Foro it., 1956, I, 793.
— 873 — Nello stesso filone rientra il caso Soraya (27). Parti in causa furono un settimanale italiano e l’ex principessa Soraya Esfandiari, la quale era stata fotografata ai bordi della propria piscina in compagnia di un uomo. In questa pronuncia venne precisato, per l’appunto, che l’interesse pubblico all’informazione deve corrispondere a un giustificato interesse della collettività alla sempre maggiore conoscenza della persona nota. In pronunce in verità più recenti, viene sottolineato come la stessa notorietà dei fatti limita il divieto della pubblicazione dei fatti personali. Così nel caso di un volume a fumetti che rievocava la vita e la carriera del celebre sassofonista jazz Gato Barbieri (28). La pretura giudicò che si trattava di atteggiamenti « strettamente attinenti alla carriera artistica, ai mutamenti e all’evoluzione stilistica del sassofonista Barbieri, come tali, già divulgati e resi pubblici in interviste e dichiarazioni degli stessi ricorrenti alla stampa ». Altro significativo esempio di questo orientamento fu un’ordinanza della Pretura di Roma (29), la quale ribadì che la diffusione di fatti notori non costituisce lesione del diritto alla riservatezza. Oggetto della controversia era uno sceneggiato televisivo, ispirato a un fatto di cronaca nera avvenuto nei primi anni del secolo: la relazione sentimentale tra Vincenzo Paternò e Giulia Trigona, conclusasi con la tragica morte di questa e col processo a carico di Paternò. La figlia di Trigona rivendicò che le vicende narrate erano state ‘‘illegittimamente strappate alla sfera privata, ove dovevano rimanere, non avendo carattere storico tale da giustificare la pubblicità’’. La pronuncia, pur riconoscendo l’esistenza del diritto alla riservatezza stabilì che si trattava ‘‘di fatti di rilevanza e interesse generali’’. Ancora più recenti, due ordinanze della pretura di Roma (30) affermavano ammissibile la divulgazione — sotto forma di racconto romanzato — di fatti privati altrui, allorquando questi presentano una rilevanza sociale o la persona coinvolta appartiene all’attualità o alla cronaca. Rimase però fermo il divieto di arrecare pregiudizio all’altrui decoro o reputazione. In altri casi, invece, venne riconosciuta una sfera d’intimità familiare invalicabile con particolare riguardo ai ‘‘rapporti di carattere amoroso, e, quindi intimo e, perciò, strettamente privato’’. Se ne ha un esempio nel caso Petacci (31), relativo alla pubblicazione a puntate da parte di un periodico della vita di Claretta Petacci. Nel racconto venivano descritti i vari incontri della protagonista con Benito Mussolini e in particolare l’ultima notte trascorsa insieme dai due amanti prima della loro uccisione. In un’altra decisione la Corte d’appello inibì la divulgazione attraverso un libro di al(27) Trib. Milano 2 ottobre 1969, in Giur. it., 1970, I, 2, 1052; App. Milano 19 gennaio 1971, in Giur. it., 1971, I, 2, 1026. Un caso analogo si è verificato in Francia, protagonista la nota attrice Brigitte Bardot, anch’essa ripresa nell’intimità della propria villa da un intraprendente fotografo: Trib. grande inst. Seine 24 novembre 1965 e App. Paris 27 feb. 1967, ambedue in Foro it., 1967, IV, 100. Le due Corti hanno riscontrato nel comportamento del fotografo un’illecita violazione della vita privata dell’attrice. Le argomentazioni della Corte d’appello si basano in particolare sul fatto che ‘‘les photographies de dame Bardot... ont été prises, a son insu, grâce à l’emploi d’un téléobjectif, alors que la dite dame ne se livrai à aucune activité professionnelle et était dans l’intimité de son existence et sans qu’elle ait donné son consentement’’. (28) Pret. Milano 5 marzo 1979, in Dir. aut., 1980, 54. (29) Pret. Roma 25 gennaio 1979, in Giust. civ., 1979, I, 1518. (30) La prima, Pret. Roma 6 maggio 1983, in Giur. mer., 1984, I, 550, inibisce alla R.A.I.-TV. di mandare in onda uno sceneggiato televisivo, in cui l’autore di un noto fatto di cronaca nera viene rappresentato con caratteristiche difformi dal vero particolarmente negative. La seconda ordinanza, Pret. Roma 25 maggio 1985, in Dir. inf. inform., 1985, 988, respinge invece una richiesta di analogo procedimento nei confronti di un altro sceneggiato televisivo sulla vita di Claretta Petacci. (31) Trib. Milano 24 settembre 1953, in Foro it., 1953, I, 1341, con nota di A. DE CUPIS; App. Milano 21 gennaio 1955, della stessa causa dove si parla della violazione di un diritto ‘‘essenzialmente morale’’. In questo senso anche a proposito di un altro film su Caruso: Trib. Roma 23 febbraio 1955, Foro it., 1955, I, 918.
— 874 — cune vicende della vita sempre della Petacci (32), vi si affermò il diritto al riserbo, come ‘‘facoltà giuridica di escludere ogni invadenza estranea dalla sfera della propria intimità personale e familiare’’ e se ne rinvenne il fondamento nella legge 4 agosto 1955, n. 848, legge di ratifica della Convenzione europea. Nel caso di specie i fatti riferiti nel libro erano di natura personale, trattandosi di avvenimenti ristretti alla cerchia familiare e che coinvolgevano diverse persone, rappresentandole negli aspetti più negativi del carattere. Nella parte conclusiva della motivazione si affermò chiaramente che « persino quando si tratta di persone attinenti alla vita pubblica di un Paese, il segreto della loro vita intima deve essere rispettato ». Vi furono però dei casi in cui il bene della riservatezza venne in qualche sorte accomunato se non confuso con l’onore o la reputazione. Una pronuncia del 1958 (33), ad esempio, in cui fu riconosciuto ‘‘a chiare note’’ un unico diritto della personalità, di cui quello alla riservatezza non sarebbe che un aspetto particolare. La fattispecie riguardava la sconfitta elettorale di un noto personaggio della vita pubblica, che veniva rievocata in uno spettacolo teatrale con abbondanza di particolari tale da dedurne una personalità mediocre e meschina. Nella conclusione della pronuncia venne rimarcato il carattere denigratorio dell’opera, quasi riconducendo a questo profilo la protezione della sfera d’intimità del singolo. Si ricorse, cioè, all’antico collaudato schema della tutela della riservatezza come tutela dell’integrità morale dell’individuo, quale fondamento della risarcibilità del danno derivante dalla divulgazione di vicende personali, ritardando, in tal modo, ogni sostanziale progresso di questo particolare aspetto del diritto alla riservatezza. Sempre al limite con la diffamazione fu il caso (34) di una commedia che sottolineava l’ingenuità e l’impreparazione di un candidato alle elezioni. Con presa di posizione molto più chiara, il Pretore concesse il sequestro cautelare del copione e la sospensione delle rappresentazioni della commedia (ex art. 700 c.p.c.). In sostanza, il processo di formazione del diritto alla riservatezza non si sviluppò in fasi consequenziali. Le soluzioni fornite ai casi concreti non ci dimostrano un’evoluzione consapevole conseguita per tappe, anche se, dall’analisi di queste ed altre decisioni, emerge, comunque, come dato reale l’esigenza di riserbo, il tentativo di qualificarlo e la volontà di limitarne lo sfruttamento, a fini di lucro, da parte di soggetti estranei. In Francia, la giurisprudenza si richiamò inizialmente alla legislazione penale — la répression pénale des délits de presse (35) soprattutto di quella detta ‘‘à sensation’’ —, trovando peraltro un inevitabile limite nel numero chiuso delle fattispecie criminose. In una fase successiva essa cercò di dare soddisfazione alla vittima della divulgazione sul terreno della responsabilità civile (ex art. 1382 code civil). Ma anche questa soluzione non sembrò soddisfare in quanto l’art. 1382 (c.c.) non interviene che ‘‘après coup’’ e richiede la sussistenza di una colpa che abbia causato un pregiudizio materiale o morale alla vittima dell’attentato. Così i giudici ne superarono i limiti intrinseci ora escludendoli in modo più o meno esplicito, ora ‘‘sorvolando’’ su di essi ora ravvisando il danno in re ipsa. Non meraviglia che le prime decisioni della giurisprudenza non abbiano fatto alcuna allusione a un ‘‘droit à l’intimité ou au respect de la vie privée’’. I giudizi si limitarono tutt’al più a constatare che un comportamento può costituire una ‘‘immixtion intolérable dans la vie privée’’. (32) App. Milano 26 agosto 1960, in Foro it., 1961, I, 43. Nello stesso orientamento, Pret. Forlì 23 ottobre 1970, in Giur. it., 1971, I, 2, 113, in cui si dispone il ‘‘taglio’’ di due scene di un film (ex art. 700 c.p.c.), che narrava le vicende di una partigiana, realmente vissuta e non difficilmente identificabile ed anche alcuni episodi della sua vita intima. Dunque, « le due scene così come realizzate e proiettate contrastano con la tutela dalla legge accordata alla riservatezza e all’onore della sfera intima della vita privata della persona ». (33) App. Napoli 20 agosto 1958, in Giust. civ., 1959, I, 1811. (34) Pret. Napoli, ord. 25 agosto 1956, in Foro pad., 1957, 757. (35) La legge sulla stampa del 1881 e l’ordinanza del 1944.
— 875 — Così nell’affaire Marlène Dietrich (36), si ravvisò il diritto di sottrarre al pubblico ‘‘ses propres souvenirs et son passé’’. Il settimanale France-Dimanche pubblicò per l’appunto quelli dell’attrice, lasciando credere addirittura che essa stessa ne facesse il racconto. Si affermò che la pubblicazione era avvenuta forse ‘‘sans intention malveillante, mais en tous cas sans l’autorisation expresse et non équivoque de l’artiste’’. Analogamente nell’affaire Bernard Blier (37), il tribunale di grande istanza affermò che la vita privata appartiene al patrimonio morale di ogni persona fisica e costituisce come la sua immagine, ‘‘le prolongement de sa personnalité’’. Poco a poco i giudizi pervennero al riconoscimento che ogni individuo ha diritto al segreto della sua vita privata e ad ottenerne la protezione. Proprio in questi termini la Corte si espresse nell’affaire Trintignant (38). Il settimanale Ici-Paris pubblicò un certo numero di fotografie di Trintignant, sua moglie e sua figlia, accompagnate da confidenze attribuite a questi sulla sua vita sentimentale con Brigitte Bardot. Le fotografie erano state prese col suo accordo ma dovevano essere utilizzate solo per ciò che concerne la sua attività professionale ed egli non aveva dato il suo consenso al testo pubblicato. Si cominciò a profilare la nozione di lesione di un diritto soggettivo. La giurisprudenza pensò, cioè, che una più efficace protezione del diritto al segreto della vita privata poteva ottenersi attraverso l’istituto del diritto soggettivo (39). La lista dei processi che rilevavano dalla cronaca parigina divenne sempre più lunga e quasi tutte le decisioni condannavano l’autore dell’attentato portato all’intimità della vita privata. Man mano i giudici si orientarono verso la ‘‘saisie’’ preliminare dei testi o delle immagini, quando vi era la minaccia seria d’una lesione al segreto della vita privata. Già la legge del 29 luglio 1881 sulla stampa autorizzava la saisie di quattro esemplari da parte del giudice d’istruzione in occasione di un’azione per diffamazione (art. 51). Questa volta, però, si trattava del sequestro dell’insieme degli esemplari pubblicati. Una tale iniziativa, che non trovava appoggio in alcun testo normativo, caratterizzò particolarmente la costruzione pretorile, poiché la concessione di questa misura permetteva di prevenire il danno alla sua origine. Veniva disposta generalmente in référé, ossia con provvedimenti d’urgenza da adottarsi secondo lo schema delineato nel codice di procedura civile, quando sussisteva il pericolo grave e imminente di un danno. Una prima applicazione della saisie si ebbe in tempi assai risalenti nel celebre affaire Felix c. O’ Connel (40) a proposito della fotografia di Rachel presa sul suo letto di morte e riprodotta senza il consenso della famiglia. Il tribunale civile dalla Seine stimò che il diritto di opporsi a questa riproduzione era assoluto. Questo precedente non impedì, tuttavia, a certi reporter e fotografi di liberarsi talvolta ad « assalti » eccessivi al fine d’ottenere ‘‘l’esclusiva’’. Così nel caso del giovane Olivier Philippe (41), di nove anni, fotografato nel suo letto all’ospedale Saint-Louis. Il giudice in référé ordinò il sequestro degli esemplari del giornale nel quale il chiché fotografico venne riprodotto, senza l’autorizzazione della madre del ragazzo e la Corte d’appello confermò l’ordinanza del giudice dei référés. (36) Cfr. Paris 1 mars 1955, in J.C.P., 1955, 295 o Gaz. Pal., 1955, I, 396. (37) Cfr. Trib. grande inst. Seine 23 juin 1966, in J.C.P., 1966, II, 14875, note R. LINDON. (38) Cfr. Paris 17 mars 1966, in D., 1966, 749. (39) Cfr. P. KAYSER, Le secret de la vie privée et la jurisprudence civile, Mélanges offerts à R. Savatier, Paris, 406 e ivi richiami della giur.; CENDON, Profili della tutela della vita privata in Francia, in Riv. dir. civ., 1982, 79. (40) Cfr. Trib. civ. Seine 16 juin 1858, in D., 1858, 3, 62. Il tribunale si esprime così: ‘‘...le droit de s’opposer à cette reproduction était absolu; qu’il avait son principe dans le respect que commandait la douleur des familles, et qu’il ne saurait être meconnu sans froisser les sentiments les plus intimes et les plus respectables de la nature et de la piété domestique’’. (41) Cfr. Paris 13 marzo 1965 (14e ch.), in J.C.P., 1965, II, 14223.
— 876 — Coeva fu la saisie ordinata dal giudice dei référés e dalla Corte d’appello di Parigi nell’affaire Gall (42), in cui non si trattò unicamente di fotografie ma di divulgazione di fatti relativi alla vita intima. Il fatto è il seguente: il giornale ‘‘Ici-Paris’’ insinuò l’esistenza di un legame tra France Gall, una cantante allora minorenne, e un terzo. La giurisdizione dei référés ordinò il sequestro del settimanale. In definitiva, in pochissimi casi i giudici non ammisero l’esistenza di un attentato alla vita privata. Uno di questi è l’affaire Picasso (43), nel quale la sua ex compagna Françoise Gilot aveva scritto e pubblicato un libro intitolato Vivre avec Picasso in cui lo stesso pittore veniva descritto in una maniera a lui insopportabile. La Corte di Parigi reputò, da una parte, che i segreti divulgati appartenevano a pari merito ad una persona che aveva condiviso dieci anni d’intimità col grande artista e, d’altra parte, che l’opera, lungi dal dare l’impressione della ricerca dello scandalo o dall’evocare alcun sentimento di rancore o di risentimento, rivelava al contrario la personalità complessa e accattivante di Picasso. In verità questa decisione è stata oggetto di critiche soprattutto ‘‘en raison de son imprécision, en ce qu’elle risque d’élargir abusivement le domaine de la vie publique’’ (44). Ancora l’affaire Segret (45), nel quale Mme Fernande Segret, amante di vecchia data di Landru, si lamentava del pregiudizio subito a causa della vivente rappresentazione dei suoi amori, evocati nel film ‘‘Landru’’ di Claude Chabrol. Dopo aver trionfato in prima istanza, ottenendo diecimila franchi francesi a titolo di risarcimento danni dalla società Lux compagnie cinématographique, la situazione si capovolse in appello nella constatazione che la Segret aveva anteriormente sollecitato diverse imprese di stampa per la pubblicazione delle sue memorie. Infine, merita attenzione l’affaire G. Sachs (46), in cui la saisie, ammessa in référé venne rigettata in appello dei référés, non sussistendo l’urgenza in quanto i fatti rivelati erano stati già raccontati numerose altre volte; dunque, il danno prodotto dalla nuova pubblicazione poteva essere esattamente riparato dal giudice di merito. Questa sentenza si rivelò interessante perché, pur ammettendo il principio di un sequestro possibile, al servizio della difesa della vita privata, lo subordinava in concreto al verificarsi di due condizioni. Occorreva, innanzitutto, che il pregiudizio potesse realmente essere prevenuto e, in secondo luogo, che l’individuo interessato non avesse ricercato sistematicamente pubblicità. La Corte riconobbe, pertanto, una certa superiorità dello strumento della saisie rispetto alla concessione dei dommages-intérêts. La lettura delle diverse decisioni fornisce un quadro particolarmente concreto: in Francia i giudici di primo grado non esitano a sanzionare e con severe condanne pecuniarie. Al contrario la posizione della Corte d’appello è più sfumata, e, pur riconoscendo una responsabilità di principio quando esse rilevano un’intrusione intollerabile nella sfera intima altrui, tendono a diminuire di molto il montante dei danni-interessi, assegnati senza parsimonia dai primi giudici, riducendolo talvolta addirittura al franco simbolico. Tant’è che le parti in giu(42) Cfr. Paris (14e ch.) 7 aprile 1965, in Gaz. Pal., 1966, I, 40. (43) Cfr. Paris 6 juillet 1965, in Gaz. Pal., 1966, I, 39. (44) Cfr. SARRAUTE, Le respect de la vie privée et les servitudes de la gloire, in Gaz. Pal., 1966, I, Doct. 2, p. 12 s. (45) Cfr. Trib. grande inst. Seine 4 octobre 1965, in J.C.P., 1965, 2, 14482, obs. G. LYON-CAEN e su appello: Paris 15 mars 1967, in J.C.P., 1967, 2, 15107. Un caso simile è l’affare Henry Charnière, detto Papillon, Trib. grande inst. Paris, référ., 27 févebre 1970, in J.C.P., 1970, 2, 16293, obs. R.L. e Gaz. Pal., 1970, I, 353, nota R. SARRAUTE. (46) Cfr. Trib. grande inst. Seine (référé) 2 novembre 1966, in J.C.P., 14875, nota di R. LINDON e appello C. Paris 15 novembre 1966, in Gaz. Pal., 28-31 janvier 1967. Ecco il fatto: l’attore Gunter Sachs, che ha occupato spesso la cronaca della stampa scandalistica, imputa al periodico Lui di avere, sotto il titolo ‘‘Sexy Sachs’’, riproducendo il suo ritratto, pubblicato delle rivelazioni sulla sua vita privata tali che, secondo lui, il numero doveva essere immediatamente ritirato dalla vendita per via di référé.
— 877 — dizio, la maggior parte delle volte, si contentano direttamente del franco simbolico, sapendo di non potere ottenere di più. Le Corti d’appello ridimensionano dunque l’azione dei tribunali, prevalendo il fine ultimo di creare il principio e tecniche pratiche per salvaguardarlo. 2. La giurisprudenza di legittimità. — La Corte di Cassazione francese si limitò a confermare a più riprese la competenza dei giudici dei référés (47). Questi infatti, potendo intervenire d’urgenza, erano gli unici in grado di limitare il danno (alle vittime di illecita intrusione) nei limiti del possibile e soprattutto con la saisie della pubblicazione, sotto riserva della successiva valutazione da parte della « jurisprudence de fond ». L’attività dei giudici dei référés però, anche se sul piano della politica giuridica permetteva di lottare efficacemente contro gli eccessi dei professionisti dell’indiscrezione, comportava la soluzione di svariati inconvenienti sul piano della tecnica giuridica. Un primo paradosso insorgeva dalla constatazione che la saisie, già regolamentata dall’art. 51 della legge del 1881 sulla stampa per l’ipotesi della diffamazione e solo per quattro esemplari dello scritto o del giornale incriminati, venisse più energicamente applicata — ammissione della saisie totale — per un attentato come quello al secret de la vie privée, che non ancora assumeva i crismi di delitto penale (48). Ci si domandò, inoltre, se una misura, come la saisie di un giornale, non eccedesse la competenza dei giudici dei référés; se questi ultimi, cioè, nel sanzionare un danno, il cui apprezzamento appartiene esclusivamente ai giudici di merito, non pregiudicassero nella sostanza il giudizio principale (49). Nonostante la presenza di questi concreti ostacoli d’ordine normativo, anche la giurisprudenza di legittimità continuò a dimostrare profonda determinazione rispetto al bisogno di tutela della riservatezza di ciascuno, giustificando la generica applicazione della saisie per il carattere intollerabile dell’offesa, che ne imponeva la fine d’urgenza (50). Il pregiudizio subito a causa della rivelazione della vita privata, infatti, poteva risultare, e spesso lo era, irreparabile (51). Tuttavia, la Suprema Corte sollecitava un intervento da parte del legislatore, che, contemperando il diritto di stampa col rispetto legittimo della vita privata delle persone, aprisse ai tribunali la possibilità di una misura più duttile e meno soggetta alle controversie cui aveva costretto l’assenza di legislazione appropriata. Il Rapporto della Corte di Cassazione, presentato per rendere conto dei lavori perseguiti durante l’anno giudiziario 1968-69 (p. 14 e 15), pur sottolineando, infatti, che lo sviluppo del giornalismo ‘‘à sensation’’ utilizzava rivelazioni e indiscrezioni scandalose, riconobbe che la misura della saisie si conciliava male con le disposizioni della legge sulla stampa. La Corte di Cassazione intervenne, inoltre, anche in un altro settore, vale a dire la validità delle intercettazioni telefoniche organizzate dalla polizia nel quadro di un’inchiesta preliminare o su commissione rogatoria. Le decisioni in merito si presentarono piuttosto con(47) Cfr. Cour de Cassation 12 juillet 1966, in D., 1967, 181, 1re espèce, nota del primo presidente M.P. MIMIN, Bull. civ., 1966, 2, n. 778, p. 545 a proposito dell’affare Olivier Philippe, già citato nella nota 41 del presente studio; la stessa formula è stata ripresa da Cour de Cassation 25 novembre 1966, 2, n. 929, p. 649 che rigetta il ricorso contro la sentenza resa in C. d’App. de Paris nell’affare Gall, cit. nota 42. (48) Cfr. A. CHAVANNE, La protection de la vie privée dans la loi du 17 juillet 1970, in R.S.C., 1971, 609, 610. (49) Come ha felicemente ricordato MOTULSKY nella nota a Paris 2 févebre 1967, in J.C.P., 1967, II, 15181 non dovrebbe aversi pregiudizio al principale dal semplice fatto che il giudice dei référés ‘‘pre-giudichi’’ nel merito, vale a dire che renda una decisione che sottintende una posizione determinata nel merito, ‘‘s’il ne passe pas outre à une contestation serieuse’’. (50) Cfr. BLIN, CHAVANNE, DRAGO, Traité de droit de la presse, Paris, 1969, n. 781, p. 571. (51) Cfr. L. MARTIN, Le secret de la vie privée, cit., p. 222 e s.
— 878 — traddittorie. Alcune si dimostrarono ostili a tali procedimenti (52), altre, invece, favorevoli (53) anche se con determinate riserve. L’analisi della giurisprudenza di legittimità italiana si rende indispensabile, per il ruolo autorevole che riveste nel contesto giuridico del nostro paese, al di là del valore e dell’incidenza da sempre riconosciuto alla giurisprudenza di merito (54). È degli anni ’50 la prima decisione del Supremo Collegio sulla riservatezza che concludeva la controversa vicenda Caruso (55). La motivazione ampia e articolata negò con decisione l’esistenza del preteso diritto alla riservatezza sui fatti della propria vita privata, in quanto « nessuna disposizione di legge autorizza a ritenere che sia stato sancito, come principio generale, il rispetto assoluto all’intimità della vita privata e tanto meno come limite alla libertà dell’arte ». Di conseguenza « quando la conoscenza delle vicende della vita privata altrui non sia stata ottenuta con mezzi di per sé illeciti o che impongano l’obbligo del segreto, non è vietato comunicare i fatti, sia privatamente ad una o più persone, sia pubblicamente a mezzo della stampa, di opere teatrali o cinematografiche, etc. ». Dunque, « il semplice desiderio di riserbo non è ritenuto dal legislatore un interesse tutelabile », ancor più quando « i fatti narrati... sono scaturiti dalla fantasia dell’autore... per rendere più viva e interessante la narrazione ». « Sono soltanto riconosciuti e tutelati, in modi diversi, singoli diritti soggettivi della persona ». In sostanza, la Suprema Corte non si curò di approfondire un aspetto assai delicato rilevato dagli eredi di Caruso, i quali sostenevano che il narratore o il biografo ha il dovere di astenersi dal riportare fatti che non servono a lumeggiare la personalità storica, artistica, scientifica della persona ma solo ad appagare la curiosità indiscreta del pubblico. Pochi anni più tardi la Cassazione mitigava l’assolutezza della precedente pronuncia, pur mantenendo fermo il principio secondo cui il nostro ordinamento non prevede un diritto autonomo alla riservatezza e riconosceva che l’intimità del singolo poteva trovare protezione solo nell’ipotesi in cui i fatti divulgati si rivelassero lesivi dell’onore, del decoro o della reputazione ovvero venissero deliberatamente deformati. « Come si vede, perciò, l’assenza così postulata di un vero e proprio diritto alla riservatezza non significa affatto che sia sempre lecito diffondere e rendere pubblici i fatti e pensieri altrui... ». Nel caso di specie, Cass. n. 3199 del 1960 (56), vennero attribuite ad un soggetto parole di apprezzamento di un prodotto commerciale in un film pubblicitario, parole da questi mai pronunciate. La Suprema Corte affermava sostanzialmente l’esistenza nel nostro ordinamento del divieto di attribuire alla persona fatti non veri e pensieri mai espressi o rispetto ai quali non sia stata comunque autorizzata la diffusione. Dopo questa pronuncia si registrò un sostanziale revirement. Già in una decisione del 1963 (57) la Cassazione mutò indirizzo e, pur non riconoscendo formalmente il diritto in questione, ammise « la tutela nel caso di violazione del diritto assoluto della personalità inteso quale diritto, erga omnes, alla libertà di autodeterminazione nello svolgimento della personalità medesima dell’uomo come singolo ». « Tale diritto verrebbe violato se si divulgano notizie della vita privata, le quali per loro natura devono ritenersi riservate. Ciò a meno che non sussista un consenso anche implicito dell’interessato deducibile dall’attività in concreto svolta o, data la natura dell’attività medesima o del fatto (52) Cfr. Crim. 12 juin 1952, in J.C.P., 1952, II, 7242, nota BROUCHOT; Civ. 2e, 18 mars 1955, in D., 1955, 573, nota R. SAVATIER e J.C.P., 1955, II, 8909, nota ESMEIN; Crim. 18 févebre 1958, in Bull. crim., n. 163, p. 274. (53) Crim. 16 mars 1963, in J.C.P., 1963, II, 12157, note LARGUIER. (54) I giudici di merito si orientano sia pure in maniera un po’ confusa a riconoscere il diritto alla riservatezza, v. § 1. (55) Cass. 22 dicembre 1956, n. 4487, in Giust. civ., 1957, I, 5, con nota di A. SCHERMI, Diritto alla riservatezza e opera cinematografica, p. 215; per la vicenda nei vari gradi di giurisdizione v. nota 23, p. 9. (56) Cass. 7 dicembre 1960, n. 3199, in Foro it., 1961, I, 43. (57) Cass. 20 aprile 1963, n. 990, in Giust. civ., 1963, I, 1280, nota di V. SGROI, Il diritto alla riservatezza di nuovo in Cassazione, 1284.
— 879 — divulgato, non sussista un prevalente interesse pubblico di conoscenza da considerarsi con riguardo ai doveri di solidarietà politica, economica e sociale, inerente alla posizione assunta dal soggetto ». Pertanto « la violazione della vita privata, come fatto lesivo del diritto assoluto di personalità, al libero svolgimento della stessa, dev’essere accertata con indagine da svolgersi per singole fattispecie, sulla posizione del soggetto e sulla sussistenza di limiti, la cui inosservanza implichi illiceità e l’obbligo al risarcimento danni ai sensi dell’art. 2043 c.c. ». Con questa pronuncia che concludeva il caso Petacci (58) veniva superata la c.d. teoria ‘‘pluralista’’ dei diritti della personalità (tutelabilità di particolari aspetti della personalità stessa, in relazione alle specifiche previsioni normative, interpretazione estensiva e applicazione analogica per ridurre le lacune) a favore dell’adesione alla contrapposta teoria ‘‘monista’’. La tutela della persona umana acquisiva, in tal modo, un rango costituzionale sulla base dell’art. 2 della Costituzione. Finalmente nel 1975, con la storica sentenza che concluse il caso Soraja (59), la Cassazione prese decisa e diretta posizione nei confronti del diritto alla riservatezza, richiamando la ricostruzione effettuata con la pronuncia del 1963 ed occupandosi, soprattutto, di limitarne i confini, « pur non essendo opportuno dare al diritto alla riservatezza rigide descrizioni analitiche d’impaccio alla necessaria duttilità del suo preciso contenuto alle esigenze degli ambienti, delle zone e dei tempi ». Non si trattava in questa fattispecie di indebita divulgazione della sola immagine, ma di fatti attinenti alla sfera intima dell’individuo, anche se celebre; la natura del diritto alla riservatezza veniva quindi identificata « nella tutela di quelle situazioni e vicende strettamente personali e familiari, le quali (...) non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile ». L’aspetto più significativo della sentenza va, tuttavia, rintracciato nel superamento di quello schema che garantiva alla riservatezza protezione sulla mera base degli artt. 614 e 615 del codice penale (quest’ultimo articolo introdotto dalla legge 8 aprile 1974, n. 98). Infine il Supremo Collegio non perse l’occasione per rilevare le maggiori possibilità di insidiose intrusioni nella sfera personale del soggetto a causa del concreto pericolo rappresentato dal raffinarsi delle tecniche moderne. La curiosità gratuita o interessata è di tutti i tempi, tuttavia man mano si moltiplicano i mezzi per soddisfarla e il progresso tecnico mette a disposizione apparecchi di un’efficacia stupefacente. 3. Gli esiti dell’esperienza giurisprudenziale. — La giurisprudenza (60) italiana e francese, dopo aver tentato, nell’ambito della propria rispettiva esperienza, di coordinare analisi teorica e pratica utilizzazione delle tecniche interpretative, pervenne a soluzioni differenti. Entrambe cercarono d’individuare una definizione autonoma e ben delineata della situazione giuridica — riservatezza —; in relazione alla quale, tuttavia, si modellarono strumenti di tutela diversi nelle due realtà. 3.1. La giurisprudenza italiana. — L’elaborazione giurisprudenziale italiana in materia non ha dato risultati costanti. La giurisprudenza procedeva con oscillazioni di orientamento e con non sempre rigore d’impostazione; spesso delude per gli atteggiamenti superati, le prese di posizioni vaghe e generiche e le pronunce dagli schemi vecchi e collaudati. Essa mostra, insomma, di non sapere adeguare l’interpretazione della nozione ‘‘riservatezza’’ (con particolare riguardo alle vicende personali) ai profondi mutamenti della società, della cultura e del costume. Meraviglia la rilevanza sovente attribuita ai concetti d’onore e reputazione che, continuando a costituire riferimenti consolidati in caso di dubbio, contribuivano solo a ritardare la definitiva affermazione del diritto alla riservatezza nell’ordinamento italiano. Un altro dato curioso consiste nel fatto che le pronunce in merito alla riservatezza non (58) V. nota n. 31. (59) Cass. 27 maggio 1975, n. 2129, in Giust. civ., 1975, I, 1686; v. per le altre fasi del giudizio la nota n. 27. (60) Cfr. GORLA, Giurisprudenza, in Enc. dir., 1970, XIX, p. 490 ove si svolge un’accurata indagine storica sul tema.
— 880 — furono molto numerose, come se, a fronte del crescente insorgere di strumenti sempre più sofisticati, invadenti e non facilmente controllabili, si verificasse una progressiva « assuefazione all’intrusione », stante l’importante ruolo che la circolazione dell’informazione andava assumendo. In definitiva, proprio all’incertezza del metodo ed alla sostanziale inefficacia dell’impostazione giurisprudenziale dev’essere addebitata l’inevitabile conseguenza di una regolamentazione disorganica della riservatezza personale da parte del legislatore italiano. 3.2. La ‘‘création prétorienne’’ della giurisprudenza francese. — La giurisprudenza francese elaborò, invece, negli anni sessanta, una costruzione notevole per equilibrio e forza creativa, pur permanendo alcuni elementi di incertezza e incompletezza (61). Intorno al 1968-69 si profilarono i primi accurati bilanci sia da parte della dottrina che, come abbiamo visto (62), nelle relazioni della Corte di Cassazione. Di fronte alla manifesta indifferenza dei contributi dottrinali nei riguardi delle condanne pronunciate, i tribunali francesi si sforzarono di ricorrere ad un sistema variegato di misure atte a proteggere al meglio la vita privata contro un così costante e fruttuoso sfruttamento di essa. Una rimarchevole « escalade » giudiziaria si manifestò nel quadro delle decisioni, nel merito e sulle misure provvisorie. Coscienti che la riparazione pecuniaria non rappresentava che una parte piuttosto irrilevante degli oneri di gestione delle « imprese dello scandalo », i giudici francesi si orientarono verso nuove soluzioni più adatte a reprimere i comportamenti perseguiti. Così utilizzarono in aggiunta al risarcimento danni, il procedimento della pubblicazione della condanna e della sua motivazione in diversi giornali a scelta delle vittime (63) e in primo luogo nello stesso posto e con gli stessi caratteri dello scritto incriminato. In tal modo la clientela del giornale veniva messa in condizione di conoscere la qualità dell’informazione di cui si mostrava così avida. Misura di pressione, accessoria e condizionale, fu l’astreinte, che consisteva nel pagamento di una somma di danaro il cui ammontare variava progressivamente in relazione al protrarsi giornaliero del fatto lesivo (64). Inoltre i giudici si preoccuparono di garantire tempestività nella riparazione. Così, derogando alla regola generale dell’effetto sospensivo dell’appello, ordinavano senza remore provvedimenti provvisori sulla base dell’art. 135-a del codice di procedura civile (65), per ovviare al fatto che tra l’assegnazione del giudizio e della sentenza di solito trascorreva troppo tempo a causa dell’ingombro delle giurisdizioni. Dunque massima attenzione veniva rivolta agli effetti dannosi, scaturenti dalla difficoltà di cancellare l’impressione oramai prodotta sul lettore. Per questo motivo, si ricorreva all’applicazione della « saisie » in réféfé degli esemplari della pubblicazione incriminata, nonostante le riscontrate contraddizioni della misura (66). Comunque, tutte le decisioni, a prescindere dalla concessione o meno della saisie richiesta, riconobbero al giudice dei référé competenza ad ordinarla, soprattutto dopo la menzionata pronuncia della Corte di Cassazione nell’affaire Philippe. Naturalmente la misura veniva disposta nei soli casi di attentato ritenuto « intollerabile », perché si trattava di un minore (affare Philippe e affare Gall), oppure perché la vittima non aveva provocato o accettato rivelazioni della vita privata, o infine perché si trattava di attentato di estrema gravità. In tutti gli altri casi la giurisprudenza reputò che il pregiudizio potesse essere perfettamente (61) Ne sono sottolineati i limiti nel § 2 del presente studio. (62) V. sempre il § 2. (63) J. FOULON-PIGANIOL, Le droit de la personne sur son image, nota a Paris 27 février 1967, in D., 1967, 453. (64) Per un’applicazione di questa, v. Trib. grande inst. Seine 23 juin 1966, Epoux B. Blier, in J.C.P., 1966, II, 14875, nota R. LINDON, cit. (65) Trib. grande inst. Seine 28 avril 1967, Heidi Balzer c. Sté « La France continue »; Trib. gr. inst. Seine 23 et 25 juin 1966, II, 14875, cit. e nota FOULON PIGANIOL a Paris, 27 février 1967, cit. (66) V. nota n. 49 e in generale il § 2 del presente studio.
— 881 — riparato dalla decisione del giudice di merito. Ne conseguì, però, l’incongruenza di subordinare la protezione della riservatezza alla gravità del pregiudizio (67), laddove, trattandosi di un diritto della personalità, essa avrebbe dovuto essere tutelata di maniera autonoma. In definitiva, la ‘‘regola prétorienne’’, oscillando tra il profilo risarcitorio e il profilo inibitorio della tutela, riuscì a prevenire la diffusione di racconti, immagini o parole registrate e a costituire, in tal modo, una difesa del passato privato della persona. Si dimostrò, invece, impotente a proteggere dalle indiscrezioni ‘‘sur le vif’’, nel momento stesso, cioè, della ripresa fotografica, cinematografica o della registrazione o, infine, del semplice ascolto. Fu piuttosto il momento della divulgazione, e non quello dell’indiscrezione, a venire protetto dalla création prétorienne. Ma non poteva essere altrimenti. Infatti, solo la sanzione penale, per la sua intrinseca carica dissuasiva, avrebbe potuto distogliere dalla mera invadenza nella vita privata di una persona e la giurisprudenza era consapevole di non potere essere, da sola, fonte d’incriminazione penale. Ciò spinse successivamente il legislatore ad inserire, oltre al riconoscimento del diritto al rispetto della vita privata così come elaborato dalla giurisprudenza nel codice civile, alcune disposizioni nel codice penale a protezione dell’intimità di essa. * * * L’analisi della dottrina e della giurisprudenza ci ha consentito di comprendere il percorso compiuto dalla nuova situazione giuridica riservatezza, dal suo insorgere nella realtà sociale al suo riconoscimento nel mondo giuridico e all’influenza di tale iter sul legislatore. La scienza del diritto e la pratica di esso, infatti, hanno molto contribuito alla formazione del diritto alla riservatezza. I giudici di concerto con la dottrina, che ne annotava le decisioni, ne delinearono forma e contenuto a fronte del silenzio della legge. Gli interrogativi erano molteplici. Si trattava di chiarire quali circostanze coprire del sigillo del segreto, contro quali attentati e con quali eccezioni. L’esigenza di individuare tecniche di reazione all’atteinte alla riservatezza diverse dall’azione per danni accomunò le esperienze dell’intero diritto continentale. Il terreno fu caratterizzato dalla viva e crescente tensione tra diritto alla riservatezza e diritto all’informazione, esprimendo uno dei tanti conflitti in cui si riflette la vicenda della società tecnologica.
LA DIFESA DELLA RISERVATEZZA NEI SISTEMI PENALI ITALIANO E FRANCESE
L’itinerario conoscitivo della situazione giuridica « riservatezza » implica di soffermarsi sulle scelte legislative compiute a sua protezione nei sistemi penali italiano e francese. In Italia, la legge n. 98 del 1974, intitolata ‘‘Tutela della riservatezza e della libertà e segretezza delle comunicazioni’’, modificava l’art. 617 del codice penale ed inseriva in esso nuove figure di reato (artt. 615-bis, 617-bis e ter, 623-bis). La norma più significativa — l’art. 615-bis —, la cui rubrica è ‘‘interferenze illecite nella vita privata’’, faceva però riferimento al più generale concetto di vita privata anziché a quello più specifico di riservatezza. Di recente, nel 1993 (68), sono state inserite nuove fattispecie incriminatrici (tra cui l’art. 617-quater) in tema di criminalità informatica e, sul medesimo filone, si affaccia sull’odierna scena normativa la tanto agognata quanto travagliata nuova legge n. 675 del 31 dicembre 1996 dal titolo « tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali », volta a recepire, seppure « a suo modo » la direttiva europea C.E. n. 95/46 « rela(67) Cfr. SARRAUTE, Les servitudes de la gloire et le respect de la vie privée, cit. (68) Legge del 23 dicembre 1993, n. 547, Modificazioni ed integrazioni alle norme del codice penale e del codice di procedura penale in tema di criminalità informatica.
— 882 — tiva alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati ». In Francia, il 17 luglio 1970, con la legge n. 70-643, « le respect de la vie privée a été proclamé ». L’art. 23 di questa legge sostituiva le vecchie norme (artt. 368-372) del codice penale in tema di calomnie con altre che istituivano tre nuove figure di reato relative appunto alle ipotesi di atteinte à la vie privée. In tal modo la legge « des garanties des droits individuels des citoyens » forniva tutela agli aspetti del segreto personale esposti ai tipi di ‘‘investigations et divulgations’’ più gravi e insidiosi, sanzionando in maniera rigorosa i fatti di espionnage, loro exploitations e montages non consentiti, di notizie o immagini. Tali fatti di reato sono stati ripresi nel nuovo codice penale francese (69). Particolare interesse rivestono le variazioni in esso intervenute, quale momento di revisione della materia relativamente alla protezione penale ed esempio di aggiornamento a fronte dell’inevitabile obsolescenza dei testi, tenuto conto che, anche rispetto alla tutela dei dati personali oggetto di trattamento informatico, il lungimirante legislatore francese del 1992 — nel recuperare con le dovute modifiche le disposizioni introdotte già dal 1978 — anticipava, in linea di massima, i contenuti sostanziali della direttiva C.E. n. 95/46. Per comodità di metodo, procederemo direttamente alla comparazione tra le norme italiane e la legge francese del 1970, lumeggiando gli elementi di novità e di eventuale maggior chiarezza apportati dal nuovo codice penale francese. 1. Il fatto d’intrusione nella vita privata. — Occorre in primo luogo verificare quale tutela i legislatori dei due paesi abbiano predisposto a fronte dell’illecita intromissione nelle vicende personali; ciò in quanto i comportamenti d’intrusione nella vita privata sono, in ordine temporale, necessariamente precedenti e talora preliminari alla divulgazione dei fatti personali medesimi (70). Una persona può portare attentato all’intimità della vita privata di un’altra procurandosi, con determinate modalità, notizie o immagini attinenti alla vita privata di un suo simile. Tale fatto di reato è disciplinato in maniera, apparentemente, analoga dall’art. 615-bis del codice penale italiano e dall’art. 368 ancien code pénal français — ora art. 226.1 code pénal —. In realtà, la norma italiana (art. 615-bis c.p.) regola con il solo primo comma quanto, invece, viene affidato ad un intero articolo del codice penale francese (art. 368 cod. pén. français e art. 226.1 nouveau cod. pén. fr.). Partendo dai rispettivi dati testuali via via emergeranno gli elementi comuni e le differenze nella definizione del reato. 1.1. Elementi comuni nella definizione del reato. — L’art. 615-bis c.p. it. — ‘‘interferenze illecite nella vita privata’’ —, inserito nella sezione del codice riguardante i delitti contro l’inviolabilità del domicilio (71), recita al primo comma: (69) Il nuovo codice penale è stato promulgato con quattro leggi del 22 luglio 1992 (J.O. 23 juillet 1992, p. 9864, 9875, 9887, 9893) e ognuna di queste leggi corrisponde a uno dei quattro libri del codice. La data di entrata in vigore è stata spostata ripetutamente; l’ultima volta con la legge n. 93-913 del 19 luglio 1993 (J.O. 20 juillet 1993) è stata fissata per il 1o marzo 1994 e difatti in tale data è entrato in vigore con la l. n. 94-89 dell’1 marzo 1994; la parte regolamentare è stata disciplinata invece dal decreto n. 93-726 del 29 marzo 1993 e dal decreto n. 94-167 del 25 febbraio 1994. (70) Cfr. in argomento P. KAYSER, Le secret de la vie privée et la jurisprudence civile, Mélanges offerts à R. SAVATIER, Paris, 1965, p. 406. (71) Tale collocazione potrebbe far supporre che la norma in esame garantisca la mera pace domestica, cfr. in argomento, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, pt. sp., vol. I, Milano 1989, XI ed., p. 191 ss.; v. anche Trib. Roma 13 novembre 1985, in Foro it., 1986, p. 498 ss., con nota di G. FIANDACA, in cui questi rileva il rischio di ‘‘una riduzione interpretativa della riservatezza ex art. 615-bis ad una sorta di tutela rafforzata dello stesso domicilio’’ finendo per l’appunto per proteggere il bene della mera pace domestica, la quale si rivela, per ciò stesso, inadeguata a salvaguardare in modo esauriente la sfera privata dell’indi-
— 883 — Chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’art. 614, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni. I luoghi indicati nell’art. 614 sono abitazione altrui, luoghi di privata dimora e appartenenze di essi ed il significato generalmente attribuito a luoghi di privata dimora è ‘‘qualunque luogo in cui venga svolta anche occasionalmente, purché in pace e tranquillità, una qualsiasi attività privata con la limitazione che dev’essere chiuso o parzialmente aperto, ma isolato dall’ambiente esterno, in modo da rendere chiara la volontà di coloro che ci abitano di escludere da esso persone non autorizzate ad entrarvi o rimanervi (72)’’. L’art. 368 cod. pén. français così dispone: Sera puni d’un emprisonnement de deux mois à un an et d’une amende de 2 000 à 60 000 F, ou de l’une de ces deux peines seulement, quiconque aura volontairement porté atteinte à l’intimité de la vie privée d’autrui: 1o En écoutant, en enregistrant ou transmettant au moyen d’un appareil quelconque des paroles prononcées dans un lieu privé par une personne sans le consentement de celle-ci; 2o En fixant ou transmettant, au moyen d’un appareil quelconque, l’image d’une personne se trouvant dans un lieu privé, sans le consentement de celle-ci. Lorsque les actes énoncés au présent article auront été accomplis au cours d’une réunion au vu et au su de ses partecipants, le consentement de ceux-ci sera présumé. L’art. 226.1 del nouv. cod. pén. fr. recita invece: Est puni d’un an d’emprisonnement et de 300.000= F d’amende le fait, au moyen d’un procédé quelconque, volontairement de porter atteinte à l’intimité de la vie privée d’autrui: 1o En captant, enregistrant ou transmettant, sans le consentement de leur auteur, des paroles prononcées à titre privé ou confidentiel; 2o En fixant, enregistrant ou transmettant, sans le consentement de celle-ci, l’image d’une personne se trouvant dans un lieu privé. Lorsque les actes mentionnés au présent article ont été accomplis au vu et au su des intéressés sans qu’ils s’y soient opposés, alors qu’ils étaient en mesure de le faire, le consentement de ceux-ci est présumé. Sembrano due gli elementi definiti allo stesso modo dall’art. 615-bis c.p. italiano e dall’art. 368 code pén. francese: l’autore e il luogo. L’autore, in entrambe le norme, è ‘‘chiunque’’ (quiconque). Per lungo tempo si è pensato che l’unica tecnica espressiva in grado di raggiungere più efficacemente il destinatario del comando insito nella norma penale, nella duplice peculiare funzione di prevenzione e di repressione, non potesse essere che l’indirizzarsi direttamente alla persona — « chiunque ». Tale modalità di redazione della norma appariva più semplice, chiara e diretta per l’uomo di medio intendimento. Il nuovo codice penale francese segna una svolta importante: scompare la vecchia formula ‘‘Quiconque aura... sera puni de...’’ e viene introdotta una costruzione più astratta — Le fait de... est puni de... — o — Telle infraction est le fait de... —. Nel caso di specie, nell’art. 226.1, viene incriminato il fatto di portare attentato all’intimità della vita privata di altri. La nuova generazione legislativa, nell’intento di dare migliore attuazione al principio di legalità, adotta vere e proprie definizioni; ritiene che esse generino maggiore chiarezza, che viduo, sul punto P. ZAGNONI, Sulla tutela penale del diritto alla riservatezza, in questa Rivista, 1982, 982. (72) Cfr. SINISCALCO, voce Domicilio (Violazione di), in Enc. dir., 1964, XIII, 873, secondo la giurisprudenza vi sono compresi gli studi professionali e commerciali, la bottega, la baita, la tenda, le cabine delle navi o i vagoni letto, le singole camere in un albergo rispetto ai clienti che vi sono alloggiati, v. in tal senso: Trib. Roma 13 dicembre 1984, in Difesa pen., 1985, 116.
— 884 — siano facilmente utilizzabili e meno pesanti (73). L’inconveniente, al quale, tuttavia, va incontro il nuovo modo di formulare la norma, consiste nel fornire ai giudici maggiore discrezionalità, ad esempio, nel designare, come autori del reato, persone diverse da quelle che, in maniera strettamente materiale, hanno contribuito alla realizzazione del fatto criminoso. È interessante in proposito ricordare che anche lo schema di legge delega (74) per un nuovo codice penale italiano, — principi di codificazione (art. 2 n. 4) —, sollecitava l’utilizzo di norme definitorie al fine di assicurare, per l’appunto, maggiore certezza del diritto. Il secondo elemento comune sembra essere il luogo di commissione del reato, individuato in ambedue le formulazioni normative come ‘‘luogo privato’’. Nei travaux parlamentaires (75) della legge francese del 1970, si legge una controversia tra i sostenitori dell’espressione lieu privé, in quanto ‘‘il est facile déterminer ce qu’est un lieu privé’’, e i sostenitori dell’espressione ‘‘en privé’’, meno restrittiva ma che si presta a maggiori difficoltà d’interpretazione. Così si esprime in merito il Guardasigilli dell’epoca, Bignon (76): « L’expression ‘‘dans un lieu privé’’ se définit très simplement par opposition à ce que peut être un lieu public. Il est donc très facile de savoir si l’on se trouve dans un lieu privé, tandis que la formule ‘‘en privé’’ conduit incontestablement à une interprétation beaucoup plus floue qui peut se prêter à des abus ». In un commento alla legge del 1970 (77), poi, veniva sapientemente sottolineata la necessità di distinguere tra la captazione dell’immagine e la captazione della parola. Per la prima, essendo la vista un senso passivo unicamente rivolto alla ricezione dell’immagine dei tratti esterni del corpo, si deve approvare il criterio oggettivo della presenza della persona in un luogo privato. Difatti in un luogo pubblico la persona accetta implicitamente di essere guardata; al contrario il fatto di trovarsi in un luogo privato implica un rifiuto a liberare i propri tratti a coloro che non sono autorizzati ad entrarvi. Rispetto alla captazione di parole siamo, invece, nell’ambito della libertà d’espressione. Il discorso costituisce una manifestazione del soggetto, indipendente dal luogo in cui si esprime: una conversazione confidenziale, infatti, può venire perfettamente scambiata in un luogo pubblico. Nel commento, veniva inoltre circoscritto le lieu privé « all’endroit qui n’est ouvert à personne, sauf l’autorisation de celui qui l’occupe de manière temporaire ou permanente». Solo il consenso della persona interessata valeva, quindi, ad identificarlo. Ne consegue che non è possibile ravvisare similitudine tra la norma francese e la norma italiana, giacché il rigido richiamo operato dall’art. 615-bis ai luoghi indicati nell’art. 614 c.p., diversamente dalla formulazione della norma francese, non consente interpretazioni estensive. Inoltre, il testo dell’art. 615-bis, primo comma, si presenta ancor più irragionevolmente ed inopportunamente costretto a causa della combinazione del limite speciale del luogo in relazione al limite modale dell’uso di strumenti di ripresa visiva e sonora (78). Tuttavia, se rispetto ai mezzi che fissano semplicemente l’immagine, la previsione del requisito spaziale poteva trovare giustificazione nell’esigenza di limitare la tutela penale a quella parte di vita privata che è considerata oggettivamente intoccabile per il solo fatto di svolgersi nel (73) V. in merito, G. CORNU, Les définitions dans la loi, Mélanges J. Vincent, Paris, Dalloz, 1981, p. 81 s. (74) Lo schema di legge delega è pubblicato su ‘‘Documenti giustizia’’ del marzo 1992. (75) V. per esempio, Débats Parlamentaires Assemblée Nationale 2è du 28 mai 1970, 2063. (76) Débats parlamentaires, cit., p. 2075. (77) Cfr. D. BECOURT, Réflexions sur le projet de loi relatif à la protection de la vie privée, in Gaz. Pal., 1970, 1, doctr. 201. (78) Sul punto P. ZAGNONI, Sulla tutela penale del diritto alla riservatezza, in questa Rivista, 1982, 981; F.C. PALAZZO, Considerazioni in tema di diritto alla riservatezza (a proposito del nuovo art. 615-bis), in questa Rivista, 1975, 133.
— 885 — domicilio (79); diversamente, rispetto ai mezzi di ripresa visiva, solo quelli dotati di una particolare capacità di penetrazione avrebbero giustificato il requisito del domicilio. Ancor più eccessivo ed ingiustificato è il limite del luogo in riferimento ai mezzi di ripresa sonora, particolarmente insidiosi data la natura del suono. Si pensi all’ipotesi tipica della trasmittente collocata su di una persona che trasmette notizie riservate. Costituiranno violazione dell’art. 615-bis le sole notizie di carattere privato raccolte dalla voce di quella persona che parla nei luoghi indicati nell’art. 614 c.p., e non le notizie raccolte sempre dalla voce della stessa persona che parla con un amico per strada, le quali saranno, pertanto, ottenute lecitamente (80). Viene spontaneo pensare che il legislatore del 1974, pur potendo agevolmente prevedere che momenti della vita privata si svolgono necessariamente anche al di fuori dei luoghi considerati nell’art. 614 c.p., abbia voluto consapevolmente limitare la protezione a quell’ambito spaziale ben determinato. Ciò non significa che l’art. 615-bis debba rappresentare un prolungamento o un ampliamento della fattispecie di violazione di domicilio ex art. 614 c.p. (81), nonostante la collocazione sistematica di esso porterebbe a supporlo. All’art. 615bis va, comunque, riconosciuto il carattere di novità ed esso costituisce un primo passo compiuto nella direzione della tutela al diritto alla riservatezza. Nonostante la maggiore duttilità di formulazione della norma francese, unanime ne fu la critica da parte dei commentatori della legge, i quali sostennero che l’aspirazione di essa era non tanto proteggere i luoghi ma le persone, mentre il legislatore aveva, così, finito per limitare la tutela penale alle investigazioni cantonnées au périmètre des lieux privés. Il nuovo art. 226.1 cod. pén. francese supera egregiamente l’impasse, sanzionando la captazione o registrazione di parole pronunciate à titre privé ou confidentiel, anche in un luogo pubblico. Resta, invece, il riferimento au lieu privé per quanto concerne la captazione delle immagini. 1.2. Le differenze nella definizione del reato. — Notevoli differenze si possono ravvisare in merito alla struttura e al contenuto delle norme in esame, e naturalmente anche in relazione alle sanzioni previste. Prima di passarle in rassegna, ci sembra opportuno soffermarci sul significato dell’espressione « la struttura e il contenuto della norma », al fine di conseguire, tramite la chiarezza dei concetti, migliore certezza del diritto, stante la particolare delicatezza degli interessi coinvolti nella materia penale. I francesi definiscono la prima ‘‘confection’’ della norma, vale a dire l’architettura esterna, la sua ossatura grammaticale: in alto la rubrica; seguono i commi a definire una o più violazioni. Ihering (82) nel riferirsi a la plastique du droit ne sottolineava l’importanza: ‘‘più la costruzione è semplice e più è perfetta, cioè più è chiara, trasparente e naturale... La costruzione è chiara quando ciò che è esposto è facilmente accessibile al nostro intendimento...; è trasparente quando le conseguenze di ciò che è esposto appaiono chiaramente...; è naturale, quando la costruzione non pretende derogare ai fenomeni del mondo fisico o intellettuale’’. (79) Così F. MANTOVANI, Diritto alla riservatezza e libertà di manifestazione del pensiero con riguardo alla pubblicità dei fatti criminosi, in Il diritto alla riservatezza e la sua tutela penale, Milano, 1970, 406 ss., in cui l’A. sottolinea che la previsione incriminatrice tralascia un’ampia gamma di aggressioni alla riservatezza soprattutto nelle forme della rivelazione, essendo notorio che i fatti, pur sempre rientranti nella sfera privata, ben possono svolgersi anche in luoghi pubblici. (80) Per tutti: ZAGNONI, op. cit., 981. (81) Una diversa valutazione dei concetti utilizzati nella definizione di luoghi di privata dimora si deve attribuire ai due distinti reati: l’art. 614 c.p. tutela i suddetti luoghi da intrusioni fisiche, laddove art. 615-bis, primo comma tutela il diritto alla riservatezza in relazione alle interferenze che attuate con strumenti di riprese visiva o sonora, si mettono in opera senza materiale penetrazione fisica. (82) Cfr. R. IHERING, L’esprit du droit romain dans les diverses phases de son développement, trad. de Meulenaere, Bologna (Forlì), tom. II, p. 16.
— 886 — Una circolare italiana della presidenza del consiglio dei ministri del 5 febbraio 1986, indicava, come « criteri orientativi per la formulazione delle fattispecie penali », un uso linguisticamente corretto delle parole, un utilizzo generalizzato delle rubriche per consentire ‘‘una più agevole e rapida individuazione delle disposizioni’’ (sottolineando l’importanza delle rubriche stesse per la comprensione immediata del contenuto dell’articolo, cui sono poste a premessa) ed ancora, di evitare gli incisi nonché l’eccessivo ricorso alle subordinate. Quanto, poi, ai ‘‘criteri concernenti l’individuazione del contenuto normativo’’, « il legislatore ha il dovere di procedere.... ad una precisa determinazione della fattispecie legale, affinché risulti tassativamente stabilito ciò che è penalmente lecito e ciò che è penalmente illecito », con l’avvertimento, però, che l’uso delle definizioni nella costruzione della fattispecie se, da un lato, contribuisce ad una maggiore determinatezza, dall’altro, presenta l’inconveniente di introdurre elementi di eccessiva formalizzazione del linguaggio legislativo penale, di certo, non auspicabile per una disciplina non suscettibile di analogia. In sostanza, si sosteneva la necessità di adottare definizioni chiare e non tautologiche — in termini di azioni od omissioni —; di coniugare il verbo preferibilmente al presente ed in genere concepire frasi brevi, giacché un testo lungo viene mentalmente tagliato dal lettore (collocare i termini chiave in testa alla definizione in quanto si tende a memorizzare solo i primi termini); infine, regolare un solo precetto per articolo (83). Se esaminiamo gli artt. 368 cod. pén. e l’art. 615-bis c.p. alla luce delle considerazioni svolte, ci accorgiamo, in primo luogo, che l’art. 368 del cod. pén. francese non presenta rubrica; al suo posto viene richiamata la legge grazie alla quale detta norma è stata inserita nel codice. La sua collocazione nella sotto-sezione — Atteintes à la vie privée, dénonciation calomnieuse, révélation de secrets —, appare equilibrata e coerente con il suo contenuto, e tutto l’articolo enuncia una sola regola, anticipando le indicazioni che venivano sucessivamente suggellate nella circulaire Fabius (84). La norma italiana, invece, presenta la rubrica — ‘‘interferenze illecite nella vita privata’’ —, che avrebbe dovuto informare dell’esistenza della norma ed identificarne il contenuto. L’ambito tutelato dall’art. 615-bis — la vita privata — è di gran lunga più ampio e generico rispetto alla norma francese, che protegge solo l’intimità di essa; la collocazione della norma (85), nella sezione — Dei delitti contro l’inviolabilità del domicilio — non è affatto coerente e l’intero art. 615-bis c.p. contiene al suo interno più precetti anche se in rapporto diretto tra loro. Il nuovo legislatore penale francese, al contrario, colloca in maniera ancora più appropriata l’art. 226.1 code pénal nel libro secondo — Dei crimini e delitti contro le persone —, capitolo sesto — Degli attentati alla personalità — sezione prima — Dell’attentato alla vita privata —. La nuova veste con cui viene definito il reato sostanzialmente riproduce quanto disposto dal vecchio codice, ovviamente eliminandone le sperimentate e riconosciute incongruenze. Emerge, ad ogni modo, la maggiore agilità di formulazione del dato normativo francese. Meno semplice è, poi, l’individuazione del significato che i legislatori dei due paesi attribuiscono all’espressione « contenuto della norma ». In Francia si suole distinguere tra un contenuto descrittivo degli elementi costitutivi del reato ed un contenuto normativo che concerne la protezione dei valori impliciti alla norma medesima (86). Tra gli elementi costitutivi (83) V. in tal senso i consigli officiali del Traité de légistique formelle redatto nel 1982 da Martens sotto la coordinazione di M. Lambotte. (84) Cfr. Circulaire Fabius del 21 maggio 1985 sulle difficoltà di redazione dei testi di legge. L’articolo, suddivisione di base della legge, deve contenere una sola idea e quale unità di pensiero legislativo rappresenta una sintesi compiuta della legge. V. in proposito, anche M. LA JOIE, W. SCHWAB e M. SPARER, La rédaction française des lois, in Commission de réforme du droit du Canada, 1980, p. 173. (85) V. nota 78. (86) Diversamente FIANDACA MUSCO, Diritto penale generale, Zanichelli, pt. gen., p. 32, il quale in merito alle tecniche di redazione della fattispecie distingue tra elementi de-
— 887 — del reato il legislatore penale francese individua la componente materiale e la componente morale o psicologica. L’elemento materiale del reato è dato dal fatto o dall’insieme di fatti generatori di un comportamento penalmente rilevante. Non basta, però, che un fatto materiale, previsto e punito dalla legge penale, sia stato commesso, occorre anche che esso sia stato voluto dal suo autore e dunque a lui rimproverabile. La componente psicologica può, quindi, essere astrattamente definita come l’orientamento della volontà nell’atteggiamento illecito del delinquente. In Italia, almeno una parte della dottrina (87) tende a ravvisare tra gli elementi costitutivi del reato anche la cd. antigiuridicità, che esprime il contrasto del fatto con l’intero ordinamento nella sua unitarietà di fonti. Si tratta di una forma di mediazione tra le ragioni particolari dell’incriminazione e gli interessi sociali tutelati dal diritto e si riferisce a fatti, posti a protezione di certi valori sociali, che giustificano comportamenti altrimenti incriminati, per cui viene meno la contrapposizione tra il fatto conforme ad una fattispecie incriminatrice e l’intero ordinamento giuridico. Da un punto di vista sostanziale, il fatto di reato previsto dall’art. 368 ancien code pénal (ora art. 226.1 code pénal), non corrisponde a quello sanzionato dall’art. 615-bis c.p. italiano. La norma italiana tutela genericamente la vita privata (il fatto d’indiscrezione nella vita privata) laddove la fattispecie francese protegge l’intimità di essa (il fatto di portare attentato all’intimità della vita privata). Anche in Francia, la Commission des lois de l’Assemblée Nationale aveva proposto, di sostituire all’espressione « atteinte à l’intimité de la vie privée » prevista dal progetto di legge l’altra « atteinte au respect de la vie privée » (88), ma l’Assemblée Nationale, dietro richiesta del Guardasigilli, ristabilì la formula originaria (89), nella preoccupazione di non limitare eccessivamente il diritto all’informazione. L’« intimité » de la vie privée, si disse, costituisce un aspetto molto più ristretto e può essere più facilmente difeso. Tale restrizione venne impiegata, però, senz’altra precisazione (90). Nessun autore, infatti, riusciva a specificare rispetto a cosa il ricorso alla parola ‘‘intimité’’ restringeva il campo dell’incriminazione. Come diceva un illustre giurista (91) ‘‘non sembra possibile dare dell’intimità una nozione generale, che sia utilizzabile sul piano giuridico’’. Di certo, intimus è il superlativo e interior è il comparativo: l’idea generale è dunque ‘‘ciò che vi è di più interiore’’. Il termine ‘‘interiore’’, però, appare ambiguo a causa del suo doppio significato; da un lato, si oppone a esteriore, pubblico, manifesto: è interiore ciò che è chiuso, inaccessibile alla folla, riservato; dall’altro lato, si contrappone a superficiale: ciò che è intimo, profondo ed essenziale. Si direbbe che la difesa di un settore personale riservato dev’essere assicurato al fine di rendere inaccessibile al pubblico, senza la volontà dell’interessato, ciò che costituisce l’essenziale della personalità. Così l’uomo potrà assaporare il riposo, restare solo con se stesso e vedersi riconoscere il godimento di un ‘‘réduit central’’, ove sfuggire all’influenza altrui ed occuparsi di sé. La dottrina francese, utilizzando lo strumento linguistico del superlativo, ha scrittivi ‘‘che traggono il loro significato direttamente dall’esperienza sensibile’’ ed elementi normativi ‘‘che necessitano per la determinazione del loro contenuto, di una etero-integrazione mediante il rinvio ad una norma diversa da quella incriminatrice’’. (87) La compresenza di diverse « teorie generali del reato » si spiegano in considerazione del carattere (entro certi limiti) « convenzionale » dei modelli d’analisi della struttura dell’illecito penale. (88) Ass. Nat., Prèmiere session ordinaire de 1969-70, n. 1147, p. 11; amendament n. 71 e pag. 39. (89) Ass. Nat., Débats 1ère séance du 28 mai 1970, in J.O., 29 mai, p. 2072 e 2073. (90) Sull’imprecisione di tale nozione, cfr. R. BANDITER, La protection de la vie privée contre l’écoute électronique clandestine, in J.C.P., 1971, I, 2435, n. 3. (91) Cfr. R. NERSON, La protection de l’intimité, in Journal des Tribunaux, 1959, p. 713.
— 888 — quindi inteso attribuire all’intimità della vita privata il valore di « noyau dur » (92), consistente nella vita affettiva e sessuale, nella salute, nelle opinioni religiose e politiche... A dire il vero, l’adozione di questo criterio apparentemente oggettivo (93) (l’intimità della vita privata all’interno della vita privata tout court) è stata oggetto di perplessità. Si osservò infatti che il bene della personalità mal si prestava ad essere definito e correttamente individuato, in una scala gerarchica che ponesse all’interno della vita privata una zona più preziosa d’intimità, tenendo conto, poi, che l’esigenza di intimità va valutata nel suo insieme, sulla base di svariati elementi quali il comportamento anteriore del soggetto, il movente dell’autore, le abitudini professionali, etc. Se, infatti, talune difficoltà insorgevano nel delineare la nozione d’intimità della vita privata; molte di più ne scaturivano rispetto alla non facile individuazione dello stesso bene ‘‘vita privata’’ (94). Di tutte le ‘‘gloriose ambiguità’’ contenute nel catalogo dei diritti e delle libertà fondamentali, quella del rispetto della vita privata appare, tuttora, la più sconcertante, sia a causa del suo aspetto di ‘‘nebulosa’’ indistinta che del particolare groviglio di fonti (95). Viene in aiuto l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che consacra la doppia aspirazione alla liberté di condurre a proprio modo la vita sul piano familiare, sociale, sessuale ma anche al secret, che viene a fondersi ma non a confondersi con la prima; solo un muro protettore dalle intrusioni abusive può permettere l’esercizio di tale libertà d’esistenza (96). Quindi, la protezione del secret sostanzialmente consentirebbe di garantire la libertà individuale, la quale, a sua volta, costituisce un aspetto fondamentale nell’esplicazione della personalità. La formula italiana, riferendosi genericamente alla ‘‘vita privata’’, finisce per comprendere una molteplicità d’interessi facenti capo alla persona, tra cui anche, e non solo, la riservatezza. La vita privata concerne la salute, la vita familiare, affettiva e sentimentale, il domicilio, il tempo libero, le attività professionali non pubbliche e/o gli aspetti non pubblicizzati delle attività medesime, etc. Il fatto di reato, di cui all’art. 615-bis, protegge, dunque, un ambito decisamente più esteso rispetto all’esigenza di riservatezza, nonostante quanto preannunciava l’intitolato della legge n. 98 del 1974 (97). Sempre in riferimento al contenuto, l’art. 368 code pénal esige che l’agente abbia ‘‘volontairement’’ portato attentato all’intimità della vita privata. Non basta che l’autore abbia avuto consapevolezza d’infrangere la legge, cosa che d’altronde rientrerebbe genericamente (92) La maggior parte degli autori hanno insistito su questa esigenza che i tribunali sembrano aver tendenza a minimizzare. V. a proposito, GASSIN, Rép. Dalloz, Droit pénal, in Vie privée, n. 63 e 70; CHAVANNE, ‘‘La protection de la vie privée dans la loi du 17 Juillet 1970’’, in Rev. sc. crim., 1971, p. 612; DECOCQ, ‘‘Rapport sur le secret de la vie privée en droit français’’, Journées libanaises de l’Association H. Capitant, in Travaux, XXV, Paris, 1974, p. 478 ss.; LINDON, note J.C.P., 1974, II, 17623, D., 1976, p. 272. (93) Nonostante ciò la formula ‘‘porter atteinte à l’intimité de la vie privée’’ è ripresa a più di venti anni di sua sperimentazione nell’art. 226.1 del nuovo codice penale francese, sempre nell’intento di contemperare equamente quest’interesse con il rispettivo interesse in conflitto alla libertà d’espressione. (94) Parte della dottrina italiana, infatti ritiene non sufficientemente determinato tale bene, v. per es. MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano 1974, 208 ss. (95) V. in merito l’opera di F. RIGAUX, La protection de la vie privée et des autres biens de la personnalité, Bruxelles, Bruylant, 1990; S. CIPRIANI, op. cit., loc. cit. (96) In realtà, tale distinzione, posta in questa sede solo con uno scopo ‘‘pedagogico’’ è assente dalla giurisprudenza europea che tratta globalmente del diritto al rispetto della vita privata. (97) Tale legge il cui titolo è ‘‘Tutela della riservatezza e della libertà e segretezza delle comunicazioni’’, fa parte, dunque della numerosa serie di leggi dal titolo déceptif, che si sono riscontrate negli ultimi anni in Italia.
— 889 — nell’assenza dell’effetto esonerante dell’errore di diritto (98), occorre che questi abbia voluto ‘‘porter atteinte à l’intimité de la vie privée d’autrui’’. La legge francese esige un del special: il soggetto deve aver cercato di raggiungere un risultato specifico e cioè la violazione dell’intimità della vita privata. Ma se l’intenzione è necessaria perché si abbia il delitto, il movente è del tutto indifferente. Il progetto di legge sottomesso all’Assemblée Nationale aveva soppresso l’espressione ‘‘in vista di portare un attentato all’intimità della vita privata o di tirare profitto da un tale attentato’’ nella stesura definitiva, in quanto si rilevò che « le motivazioni soggettive non possono essere assunte a elemento costitutivo del reato (99) » e che il riferimento allo scopo perseguito non era consono a buona legislazione penale (100). Nell’art. 615-bis del codice penale italiano non è presente questo elemento. Sconosciuto alla formulazione della norma italiana — probabilmente perché, trattandosi di un diritto disponibile, può operare, per l’ipotesi di cui all’art. 615-bis c.p., la scriminante del « consenso dell’avente diritto » ex art. 50 c.p. —, è anche un altro elemento soggettivo presente nella configurazione del reato punito dall’art. 368 ancien code pénal, nonché dal nuovo art. 226.1: l’assenza del consenso della persona, le cui parole o immagini sono state illecitamente captate. Si tratta di un’eccezione ad un principio fondamentale del diritto penale francese, secondo cui il consenso della vittima non fa venir meno l’infraction perché la repressione penale è apprestata nell’interesse generale e non solo nell’interesse particolare del soggetto interessato (101). Nella fattispecie in esame, al contrario, l’assenza del consenso è eretta a elemento costitutivo del reato, che viene costruito quale mero attentato fraudolento alla libera disposizione di un diritto. L’atteint all’intimità della vita privata viene meno nel momento in cui la persona, la cui immagine o le cui parole sono state captate anche a mezzo di un apparecchio qualunque (ora di un procedimento qualunque), ha dato il suo consenso a tale operazione. La protezione della vita privata viene, in tal modo, a fondarsi sull’interesse del soggetto al secret della propria vita privata: volenti non fit iniura e ‘‘la tecnica cessa allora di essere sospettata per venire a mettersi al servizio dell’informazione’’ (102). In quest’ambito, non v’è miglior giudice dell’individuo stesso capace di tracciare i contorni, in certa misura variabili e soggettivi, di un interesse come quello al riserbo: on est en présence, donc, d’un délit privé. Il delitto di illecita captazione non si configura, dunque, quando e se il consenso è anteriore o almeno concomitante all’atto di captazione, mentre il consenso posteriore non elimina il reato (ciò nonostante sul piano pratico il legislatore ha subordinato l’esercizio dell’azione penale alla querela della vittima). Inoltre, il consenso deve provenire da persona libera e capace di comprendere la portata della sua accettazione. Per ciò che concerne la prova, si ha qui un’inversione dell’onere della prova: è il convenuto che deve provare il consenso della vittima con qualsiasi mezzo (103). Tale soluzione trova conferma nell’ultimo comma del(98) Nel nuovo codice penale francese il legislatore ha istituito una causa di esclusione di responsabilità totalmente nuova per il diritto francese: l’errore di diritto ex art. 122.3. Le sue condizioni d’applicazione sono relativamente strette, poiché l’autore dell’infrazione dovrà stabilire che non era in misura di evitare il suo errore, cioè che l’errore presentava un carattere invincibile. Nell’art. 5 del codice penale italiano, invece, si enuncia il principio secondo cui l’ignoranza della legge penale non scusa. Tuttavia una sentenza della Corte costituzionale è intervenuta a considerare valida scusante l’ignoranza inescusabile della legge penale, Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, in Giur. cost., 1988, I, 1504; v. anche F.C. PALAZZO, Ignorantia legis: vecchi limiti ed orizzonti nuovi nella colpevolezza, in Riv. it., 1988, 920. (99) Cfr. J.O., débats Ass. nat., 1970, 2072. (100) Doc. parl. Ass. nat., n.1147, rapport de M. DE GRAILLY. (101) MERLE et VITU, Traité de droit criminel, n. 404 s. (102) Cfr. D. BECOURT, Réflexions sur le projet de loi relatif à protection de la vie privée, in Gaz. Pal., 1970, 1, Doctr. 203. (103) Cfr. R. BANDITER, La protection de la vie privée contre l’écoute électronique clandestine, in J.C.P., 1971, I, 2435, n. 18.
— 890 — l’art. 368, che crea una presunzione del consenso in questi termini: « lorsque les actes énoncés au présent article auront été accomplis au cours d’une réunion au vu et au su des participants, le consentement de ceux-ci sera présumé ». Dal rapporto all’Assemblée Nationale emerge la volontà di mediare tra la giusta preoccupazione di proteggere la vita privata ed il legittimo esercizio ‘‘de cette forme nouvelle de la liberté de la presse ou même de la liberté traditionnelle du commerce et de l’industrie qu’est l’exercice de la profession de reporter photographe’’ (104). La nuova formulazione dell’art. 368 ancien code pénal, l’art. 226.1, ultimo comma, allarga il campo della presunzione del consenso, precisando che il consenso dell’interessato è presunto se gli atti che sarebbero costitutivi del reato sono compiuti sotto gli occhi di questi senza che vi si sia opposto (e non più per gli atti compiuti nel corso di una riunione — art. 368 —). Tuttavia su iniziativa del Governo, il senato ha adottato l’amendament n. 128 secondo il quale l’interessato dev’essere stato, in via preliminare, in condizione di opporsi al compimento degli atti in questione. Quanto alla norma italiana, in essa non compare affatto la specifica previsione del consenso, probabilmente proprio in forza dell’operatività dell’art. 50 c.p., causa di giustificazione dell’illiceità penale. Il fatto, pur se corrispondente astrattamente ad un « fatto tipico al completo dei suoi elementi », per effetto della volontà del titolare del bene protetto, « che può validamente disporne », non costituisce reato e, quindi, non viene punito. Ne consegue però che, non essendo il dissenso uno dei requisiti richiesti esplicitamente dalla norma incriminatrice speciale italiana, non si potrà assumere, in assenza di esso, che il fatto non sussiste, ma solo che il fatto risulta difforme dalla figura tipica delineata dal legislatore a causa di una circostanza giustificativa esterna alla fattispecie. L’ultimo comma dell’art. 615-bis precisa, inoltre, che il delitto è punibile a querela della persona offesa, a meno che gli atti d’indiscrezione abusiva siano compiuti da un’autorità pubblica (un pubblico ufficiale con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti all’esercizio della propria funzione). Anche per il legislatore italiano, quindi, l’interesse a mantenere nell’ambito della propria sfera atti, vicende o notizie a carattere personale è riconosciuto in capo alla persona, la quale sola è in grado di valutare se la riparazione dell’offesa in giudizio gli arrecherà soddisfazione o al contrario aumenterà l’entità del danno subito in conseguenza della maggiore pubblicità del fatto che desiderava mantenere segreto. La formulazione dell’art. 615-bis del codice penale italiano presenta un’altra limitazione nella descrizione della condotta, che va, di fatto, ad appesantirne ulteriormente il contenuto del precetto; limitazione, invece, del tutto assente nella fattispecie francese. Si tratta ‘‘dell’indebitezza’’ del contegno di ‘‘procurarsi’’ le notizie o immagini attinenti alla vita privata altrui. Il legislatore italiano adotta l’avverbio ‘‘indebitamente’’, anziché ricorrere alla formula della ‘‘giusta causa’’ (105) che pure aveva utilizzato nella rivelazione dei segreti. A tale proposito, la Commissione di giustizia del Senato, che approvò l’art. 1 della legge n. 98 del 1974 col quale veniva introdotto, per l’appunto, l’art. 615-bis in esame, giustificò così la scelta di non mantenere la scriminante della giusta causa perché ‘‘... o sarebbe risultata priva di significato specifico o avrebbe creato gravi problemi in ordine ai principi costituzionali di legalità, tassatività ed uguaglianza’’. Al di là di ciò, va osservato che l’espressione « indebitamente » è stata variamente utilizzata in numerose disposizioni del codice, generando quasi sempre problemi nell’interpretazione e nell’applicazione della norma; nella fattispecie, poi, difficoltà insorgono nel comprenderne la portata sia, oggettivamente, come limite alla confi(104) Rapport de M. DE GRAILLY, Seconde session ordinaire de 1969-70, n. 1147, t. II, p. 11. In realtà tale spiegazione è insufficiente poiché la presunzione del consenso copre sia la captazione della parole che dell’immagine. (105) Cfr. BRICOLA, op. cit., 119, secondo l’autore ‘‘...sarebbe auspicabile l’utilizzazione della clausola senza giusta causa della quale il codice penale vigente fa di già uso (art. 616 c.p.). Tale clausola avrebbe la funzione di semplice rinvio alle cause di giustificazione e di discolpa ipotizzate dal codice penale, ma andrebbe interpretata come diretta ad interpretare interessi pubblici prevalenti...’’.
— 891 — gurazione dell’illecito, sia, soggettivamente, in relazione all’antigiuridicità espressa. Parte della dottrina lo considera un limite alla punibilità del fatto tipico: esenti da pena sarebbero le condotte, ad avviso del giudice, giustificate da un interesse superiore e di pari dignità rispetto a quello leso (106). L’espressione, secondo altri, potrebbe sottintendere il dovere di accertare, caso per caso, la sussistenza di talune delle cause di giustificazione previste dagli artt. 50 ss. c.p. — come l’esercizio del diritto o l’adempimento di un dovere —, facendo, comunque, attenzione a che un uso troppo disinvolto non finisca per vanificare la garanzia che la norma stessa intende prestare (107). Quanto all’antigiuridicità richiesta espressamente dalla norma incriminatrice, intesa come ‘‘qualifica di illiceità derivante a un qualche elemento di un fatto costitutivo di reato da norme extrapenali’’ (108), essa dovrebbe rientrare nella rappresentazione soggettiva che del delitto fa il suo autore e quindi andrebbe considerata elemento costitutivo del delitto ai fini della sussistenza del dolo. In tal modo, il principio dell’irrilevanza dell’errore o ignoranza inevitabile della legge penale finirebbe per trovare un’eccezione (109) nell’illiceità speciale. In sostanza, mentre taluni ritenevano che l’antigiuridicità espressa non ha valore normativo (110), altri reputavano che essa dà rilievo a quantificazioni extrapenali d’illiceità, la cui coscienza diviene indispensabile per l’imputazione del dolo (111). Più convincente sembra la tesi (112), secondo la quale il termine ‘‘indebitamente’’ è posto ad abundantiam ed è da escludere sia l’ipotesi di considerarlo sinonimo di ‘‘senza giusta causa’’ sia che la volontà del legislatore fosse d’introdurre una nuova scriminante e, soprattutto, di apporre ulteriori limiti ad una fattispecie già esageratamente compressa, nella punibilità degli atti d’indiscrezione, da requisiti modali e spaziali. Se si prova, infatti, ad elidere l’avverbio dal testo della norma, la condotta del procurarsi notizie o immagini attinenti alla vita privata rimane invariata così pure la causa del reato — offesa della riservatezza nell’ambito della propria sfera privata —. Rispetto, poi, alle scriminanti comuni, va rilevato che esse operano in ogni caso anche se non richiamate espressamente. In realtà, anche questa interpretazione veniva criticata soprattutto in nome dell’inammissibilità di superfetazioni del dettato legislativo (113); seppure la medesima critica si trovava costretta a riconoscere, che, a volte, la legge per ragioni storiche o di tradizione linguistica contiene termini privi di effettiva utilità normativa. Comunque, a noi sembra più corretto ritenere che il termine d’illiceità, nella fattispecie in esame, non concorrendo alla descrizione del fatto tipico, non debba rivestire alcuna rilevanza in tema di dolo e dunque non deroga al principio dell’irrilevanza dell’error juris. Quanto alle modalità di violazione dell’altrui riserbo, vi può essere sostanzialmente un modo diretto d’ingerenza ed uno indiretto. La prima ipotesi si verifica solitamente mediante l’intromissione fisica del soggetto attivo del reato; nel secondo caso, invece, il soggetto si avvale dell’uso di sempre più sofisticati mezzi o strumenti per captare notizie o immagini anche a grande distanza (114). L’art. 368 ancien code pénal incrimina la captazione ‘‘artificiale’’ di parole o immagini à (106) Così F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, pt. speciale, vol. I, Milano, 1989, XI ed., 192. (107) Sul punto, CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale. (108) Cfr. PULITANÒ, Illiceità espressa e illiceità speciale, in questa Rivista, 1967, 123. (109) Ancora PULITANÒ, op. cit., 65. (110) DELITALIA, Il fatto nella teoria generale del reato, 1930, 15. (111) ANTOLISEI, Manuale cit., lc. cit. (112) Tesi sostanzialmente suffragata dai lavori preparatori Atti Senato — VI Legislatura — Assemblea 18 ottobre 1973 — relatore Martinazzoli, p. 414. (113) In tal senso PANNAIN, Manuale di dir. pen., II, ed. 1951, 188 s. (114) Non si possono trascurare i numerosi altri modi con cui si può venire a conoscenza di notizie egualmente riservate come i pedinamenti, l’assunzione d’investigatori privati, l’origliare, il carpire con inganno informazioni ai domestici; nonché la violazione di corrispondenza già attualmente punite, e via di seguito.
— 892 — l’aide d’un appareil quelconque, laddove la norma italiana punisce la captazione di notizie o immagini mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora. È evidente che entrambi i legislatori non hanno voluto punire i comportamenti più spontanei, come il semplice origliare dietro la porta, ma solo gli abusi che potevano manifestarsi con gli strumenti che il progresso delle tecniche audiovisive man mano perfezionava, lasciando nel campo del penalmente irrilevante tutta una serie di condotte, anch’esse potenzialmente lesive. Il legislatore italiano, in particolare, nel respingere la proposta d’includere nel disposto della norma la formula più generica ‘‘con ogni altro mezzo fraudolento’’ (115), dimostra di voler tutelare l’individuo solo contro quei mezzi tecnologici che ritiene particolarmente insidiosi e di fronte ai quali si rivelano inutili i tradizionali accorgimenti per garantire la riservatezza. Una scelta così restrittiva non tiene conto, però, del fatto che lo stesso mezzo può rivelarsi insidioso in un caso e non in un altro. Nonostante la scarsa duttilità del dato normativo italiano, non si può, tuttavia, pervenire alla conclusione che ad esempio il termine ripresa, di cui all’art. 615-bis, vada considerato in senso stretto (116); ciò perché l’incriminazione verrebbe ridotta ai soli strumenti che consentono la stabile fissazione dell’immagine e del suono come il magnetofono o il materiale fotosensibile ed escluderebbe le ipotesi in cui gli strumenti siano normali apparecchi ottici o acustici in grado egualmente d’invadere e ledere l’altrui sfera personale. In una sentenza del 1986 (117), il Tribunale di Roma ritenne che la parola ‘‘ripresa’’ non implicava necessariamente che lo strumento fosse idoneo oltre che a captare anche a fissare le immagini ed il suono captato. L’insidiosità del mezzo, si affermò, è data sia dal fatto di fissare stabilmente l’immagine ed il suono sia dalla particolare capacità di penetrazione nella sfera del domicilio privato, in modo tale da rendere vane le possibilità di isolamento che un individuo può cercare nella propria abitazione. In particolare, però, l’insidiosità della stabile fissazione comporta che l’invasione dell’altrui sfera privata anche se poco penetrante si concretizza in un documento che perdura nel tempo. E mentre si è, solitamente, disposti a tollerare lo sguardo del vicino nella propria abitazione, lo stesso non vale nell’ipotesi in cui ci si procuri una documentazione fotografica o sonora della nostra vita privata (118). L’art. 226.1 del nuovo codice penale francese sostituisce all’espressione ‘‘un appareil quelconque’’ l’altra, ancora più generica, ‘‘un procédé quelconque’’. Diviene punibile dunque qualsiasi procedimento, e non solo qualsiasi mezzo, nato dal progresso delle scienze e delle tecniche, atto a ledere l’intimité de la vie privée. 2. Fatti giustificativi dell’attentato alla vita privata e all’intimità di essa. — Esistono ipotesi di necessaria intrusione nell’altrui vita privata ad opera dell’autorità pubblica. Sono questi fatti giustificativi, nonostante l’attività compiuta integri tutti gli elementi costitutivi del reato? Per rispondere, non possiamo che richiamare il § 2 dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che indica una serie di eccezioni al principio secondo cui « ognuno ha diritto al rispetto della propria vita privata ». Tali eccezioni consentono forme d’ingerenza sulla base di una legge, allorché ciò rappresenta una misura necessaria in una società democratica ‘‘per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale o la protezione dei diritti o delle libertà altrui’’. Ora, il mezzo più frequente d’ingerenza nella vita privata realizzata dall’autorità pub(115) Cfr. F. BRICOLA, Prospettive e limiti della tutela penale della riservatezza, in Il diritto alla riservatezza e la sua tutela penale, Milano, 1970, p. 116. (116) F.C. PALAZZO, Considerazioni in tema di tutela della riservatezza (a proposito del ‘‘nuovo’’ art. 615-bis c.p.), in questa Rivista, 1975, 126; P. ZAGNONI, Sulla tutela penale del diritto alla riservatezza, in questa Rivista, 1982, I, 971; CICCOTTI, Il delitto d’interferenze illecite della vita privata a più di dieci anni dalla sua introduzione, in Temi rom., 1985, 446. (117) Cfr. Trib. Roma 15 novembre 1985, in Cass. pen., 1986, p. 1021 s. (118) In tal senso, PALAZZO, op. cit., p. 132.
— 893 — blica è l’intercettazione della comunicazione di cui una persona è autore o destinatario. Se, però, da un lato l’intercettazione può costituire uno strumento d’indagine e consentire l’acquisizione di elementi probatori a fini processuali; dall’altro lato la sua esecuzione abusiva può dar luogo alle figure di reato appena considerate. 2.1. La realtà francese. — Una recente legge francese (119) proclama all’art. 1: « il segreto delle corrispondenze emesse per via di telecomunicazioni è garantita dalla legge »; al secondo comma prevede che non può essere portato attentato a tale segreto se non da parte dell’autorité pubblique, nei soli casi di necessità dell’interesse pubblico previsti dalla legge e nei limiti fissati da questa. Ne consegue che, le eccezioni consacrate in relazione all’attività dell’autorità pubblica sono fatti giustificativi della violazione prevista e punita dall’art. 226.1 code pénal, nonché ancien art. 368 cod. pén., ove si ravvisino in essa gli elementi costitutivi dell’attentato all’intimità della vita privata. Già nel corso dei lavori preparatori della legge del 17 luglio 1970 (che introduceva l’art. 368 nel codice penale francese), Mitterand propose all’Assemblée Nationale un emendamento (120) mirante ad aggiungere, nell’art. 187, primo comma del code pènal, l’incriminazione di ogni ascolto telefonico registrato o trasmesso a mezzo di un apparecchio qualunque. Ma tale emendamento, rigettato dal Governo, non venne approvato dall’Assemblée Nationale. Ancora, un altro parlamentare propose un emendamento (121) all’art. 368, primo comma, tendente a precisare che detta incriminazione fosse applicabile agli agenti dei servizi pubblici. Ma anche questo emendamento venne respinto dall’Assemblea in seguito alla seguente dichiarazione del Guardasigilli: « quando un funzionario procede ad un ascolto, non può farlo legalmente a meno che sia coperto da una commissione rogatoria dell’autorità giudiziaria o da un’istruzione ministeriale ». V’è chi ha dedotto dal rigetto di questi emendamenti e dalla dichiarazione del Guardasigilli che il Parlamento avesse all’epoca considerato le Commissioni rogatorie e le istruzioni ministeriali come fatti giustificativi della violazione dell’art. 368. Ma una conclusione di questo tipo porterebbe ad allargare eccessivamente la portata del testo dell’articolo sulla mera base di incidenti di discussione dinanzi all’Assemblea Nazionale. Se infatti, il ricorso ai lavori preparatori può rivelarsi utile per interpretare i punti oscuri di una legge in materia penale, di certo non può essere comunemente ammesso come mezzo per allargare o restringere l’ambito naturale ed evidente della legge stessa (122). In verità, da lungo tempo, in Francia ferveva la controversia in merito all’applicabilità del contenuto delle norme del codice penale alle intercettazioni telefoniche ordinate dal juge d’instruction. L’art. 81 c.p.p. francese abilitava detto giudice a procedere, lui stesso o delegando sotto il suo controllo, a qualsiasi atto di informativa ritenesse utile alla manifestazione della verità e la Cour de Cassation ritenne che il potere di disporre intercettazioni fosse compreso in questa ‘‘autorizzazione’’. Benché la Suprema Corte procedeva gradualmente nel prevedere precise regole per convalidare le intercettazioni — soprattutto a tutela dei diritti di difesa —, la necessità di una legge chiarificatrice si faceva sempre più sentire. (119) Legge n. 91-646 del 10 luglio 1991 intitolata ‘‘Le secret de correspondances émises par la voie de télécommunications’’. Il senso della parola corrispondenza nella legge non sembra essere dubbio: lo scambio d’informazioni, a prescindere dell’oggetto, tra persone lontane l’una dall’altra. Quello della parola ‘‘telecomunicazione’’ è definita dalla stessa legge: ‘‘...toute transmission, émission ou réception de signes, de signaux, d’écrits, d’images, de sons ou de renseignements de toute nature par fil, optique, radioélectricité ou autres systémes électromagnétiques’’. Le telecomunicazioni consistono dunque, ai termini di questo testo, nell’emissione, la trasmissione o la ricezione di ogni informazione, quale ne sia la natura, per mezzo dei procedimenti tecnici enumerati. (120) Amendament n. 240, Débats Ass. nat., 2ème séance du 28 mai 1970, in J.O., 29 mai, p. 2070, 1ére colonne et 2072, 1ère colonne. (121) Amendament n. 245, op. cit., 2073, 1ère colonne et 2075, 2ème colonne. (122) Cfr. MUSTAFA YASSEN, Le recours aux travaux préparatoires dans l’interprétation de la loi pénale, in Rév. sc. crim., 1958, 73, e, ivi, la giurisprudenza citata.
— 894 — Ma solo a seguito della condanna della Francia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, il 24 aprile 1990 (123) in occasione delle sentenze che conclusero i casi Kruslin e Huvig, fa progredire concretamente l’intenzione, pure esistente, di regolare la materia. La Corte europea ritenne infatti che la consuetudine di rimettere al giudice d’istruzione il potere di ordinare le intercettazioni, a fini investigativi seppure per reati di certa gravità, non era rispettosa delle precise condizioni imposte dall’art. 8 della Convenzione europea per le ipotesi d’ingerenza necessaria dell’autorità pubblica nell’esercizio del diritto al rispetto della corrispondenza; in particolare, la Corte denunciò l’assenza di una legge accessibile, che potesse, cioè, essere facilmente conosciuta da coloro ai quali è diretta e prevedibile, vale a dire enunciata con sufficiente precisione al fine di permettere loro di conformarvi la propria condotta. Il 10 luglio 1991, una legge pose fine in maniera formale ed esplicita alla questione, prevedendo nel suo art. 2 l’inserimento nel codice di procedura penale dei nuovi artt. 100 a 100.7 in una sottosezione II intitolata ‘‘Delle intercettazioni di corrispondenze emesse per via di telecomunicazione’’. Questa legge, il cui contenuto va oltre il mero ambito delle intercettazioni telefoniche ordinate dal giudice d’istruzione, stabilisce regole precise sia per l’adozione delle intercettazioni che per la loro esecuzione; sia in merito alle intercettazioni ordinate dall’autorità giudiziaria che per le intercettazioni di sicurezza, le quali ultime possono essere autorizzate dall’autorità amministrativa, a titolo eccezionale dal Primo ministro su proposizione dei ministri dell’interno e della difesa e del ministro incaricato delle dogane. Essa si estende alle intercettazioni di corrispondenza emessa o ricevuta su tutti i terminali come il telefono, il telefax, il minitel e il telex. Ci limitiamo a questa breve parentesi senza entrare nel merito delle regole sancite dalla legge francese n. 91-646, richiamata al solo scopo di cogliere il rapporto di collegamento con la fattispecie d’indiscrezione in esame. 2.2. La realtà italiana. — Come il legislatore italiano ha, invece, disciplinato le ipotesi di necessaria intrusione nella vita privata da parte dell’autorità pubblica e l’eventuale rapporto con l’art. 615-bis del codice penale? Siamo nell’ambito della scriminante dell’adempimento del dovere (ex art. 51 c.p.)? Per rispondere, occorre rintracciare la norma giuridica che impone tale dovere. Innanzitutto, l’inviolabilità della libertà e segretezza delle comunicazioni assume, in Italia, rilevanza costituzionale ex art. 15 Cost. I due aspetti risultano intimamente connessi: intanto la comunicazione può dirsi libera in quanto ne sia assicurata la segretezza. La maggioranza della dottrina (124) intende la portata dell’art. 15 comprensiva di ogni forma di comunicazione senza limitazioni di contenuto (dati personali o meramente privati), di forma o strumento di trasmissione. Il secondo comma dell’art. 15 della Costituzione prevede inoltre una doppia riserva di legge e di giurisdizione: solo la legge può disciplinare i casi e i modi con cui interferire nell’esercizio della libertà suddetta e solo l’autorità giudiziaria può predisporre, in concreto, limitazioni a riguardo. Dunque già a livello costituzionale si escludono ipotesi d’intercettazioni di sicurezza. La garanzia costituzionale della libertà e segretezza delle forme di comunicazione di(123) Arrêts KRUSLIN et HUVIG 24 avril 1990, in D., 1990, 353; note R. KOERINGJOULIN, De l’art de faire l’économie d’une loi, in D., 1990, Chron. 187; Gaz. Pal., 1990, 1, 249, note JUNOSZA ZDROJEWSKI et c. et L. PETTITI. (124) BARILE-CHELI, Corrispondenza (libertà di), in Enc. dir., X, Milano, 1962, 744; A. BARBERA, Le libertà dei singoli, le autonomie delle formazioni sociali, i doveri, i diritti civili, in Manuale di diritto pubblico, a cura di G. Amato e A. Barbera, Bologna, 1984, 265266; contra A. PACE, op. cit., 80 ss.; V. ITALIA, Libertà e segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni, Milano, 1963, 29 ss.; nel senso d’intendere la tutela apprestata dall’art. 15 della Costituzione come diretta ad assicurare la segretezza di ogni forma di comunicazione v. in giurisprudenza, Cass. pen., Sez. I, 28 febbraio 1979, in Giust. pen., 1980, III, 6.
— 895 — verse dalla corrispondenza epistolare (125) trova attuazione nelle norme penali che puniscono i fatti di fraudolenta cognizione, interruzione e impedimento delle comunicazioni telegrafiche e delle conversazioni telefoniche (art. 617 c.p., primo comma) ed ora anche delle comunicazioni informatiche o telematiche (617-quater, primo comma) e della rivelazione al pubblico del contenuto di tutte queste (artt. 617, secondo comma e 617-quater, secondo comma). Il nuovo art. 623-bis (così come sostituito dalla legge del 23 dicembre 1993) estende, poi, « le disposizioni... relative alle comunicazioni e conversazioni telegrafiche, telefoniche, informatiche o telematiche... a qualunque altra trasmissione di suoni, immagini o altri dati ». Tali delitti sono punibili a querela della persona offesa, mentre si procede d’ufficio anche quando « il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio con abuso di poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio ». In sostanza, il legislatore si fa interprete dell’esigenza primaria di garantire le libertà fondamentali dell’individuo, che si esplicano grazie alla segretezza delle comunicazioni ed al rispetto della riservatezza nel proprio intimo. E per garantire il diritto costituzionalmente previsto alla segretezza delle comunicazioni, deve determinare i limiti entro i quali ritenere giuridicamente ammissibili le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni poste in essere dall’autorità pubblica per un fine pubblico primario. Così, a norma degli artt. 266-271 del nuovo codice di procedura penale, solo l’autorità giudiziaria attraverso un decreto motivato (in cui indicherà le modalità e la durata delle operazioni) può disporre le intercettazioni purché vi siano ‘‘gravi indizi di reato’’ e ‘‘l’intercettazione è assolutamente indispensabile per la prosecuzione delle indagini’’ (126). Inoltre le intercettazioni sono consentite solo nei procedimenti relativi a reati la cui pena corrisponda almeno a cinque anni di reclusione e per certi delitti specifici come il traffico di stupefacenti, le infrazioni relative alle armi, il contrabbando, le ‘‘persecuzioni telefoniche’’. Ciò al fine di limitarle ai reati più gravi. V’è poi la recente estensione operata dal nuovo art. 266-bis (127) « nei procedimenti relativi ai reati indicati nell’art. 266, nonché a quelli commessi mediante l’impiego di tecnologie informatiche o telematiche, è consentita l’intercettazione del flusso di comunicazioni relativo a sistemi informatici o telematici ovvero intercorrente tra più sistemi ». Un elemento di novità consiste nel fatto che è consentita, oltre all’intercettazione di comunicazione a distanza, effettuate per mezzo del telefono o di altri strumenti di telecomunicazione, anche l’intercettazione di conversazioni tra presenti. In realtà, rispetto a queste ultime, dato l’esplicito riferimento al limite spaziale di cui all’art. 614 c.p., è più immediato il (125) La Costituzione distingue tra corrispondenza ed altre forme di comunicazione garantendo la libertà e segretezza ad entrambe; il quarto comma dell’art. 616 c.p. (Violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza) così come sostituito dalla recente legge del 23 dicembre 1993 specifica che « per ‘‘corrispondenza’’ s’intende quella epistolare, telegrafica, telefonica, informatica o telematica ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza ». La legge del 23 dicembre 1993, n. 547 — Modificazioni ed integrazioni alle norme del codice penale e del codice di procedura penale in tema di criminalità informatica — rappresenta un tentativo di aggiornamento del codice penale attuale completato dalla recente legge n. 675 del 1996. (126) Una disciplina derogatrice a tale previsione è stata introdotta in relazione ai delitti di criminalità organizzata dall’art. 13 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152 recante provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata convertito con modificazioni nella legge 12 luglio 1991, n. 203. L’art. 13 appena citato parla di intercettazione necessaria per lo svolgimento delle indagini in relazione ad un delitto di criminalità organizzata o di minaccia col telefono in ordine ai quali sussistano sufficienti (e non gravi) indizi. Inoltre in presenza di tali delitti l’intercettazione di comunicazioni tra presenti che avvenga nei luoghi indicati dall’art. 614 del codice penale è consentita anche se non vi è fondato motivo di ritenere che nei luoghi predetti si stia svolgendo l’attività criminosa. (127) Cfr. Articolo aggiunto dall’art. 11 della legge 23 dicembre 1993, n. 547, già cit.
— 896 — collegamento con l’art. 615-bis del codice penale come fatto giustificativo della condotta d’indebita percezione di comunicazioni tra presenti. L’art. 266 c.p.p., secondo comma sancisce la possibilità di ‘‘intercettazione di comunicazioni tra presenti’’ negli stessi casi in cui è ammessa l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazioni, col solo ulteriore limite costituito dalla necessità che l’attività criminosa si svolga ‘‘nei luoghi indicati dall’art. 614 del codice penale », ove s’intenda effettuare proprio in tali luoghi l’intercettazione (128). Così formulato, questo articolo non sembra dissipare dubbi e perplessità in merito al fenomeno della captazione di colloqui inter praesentes e finisce per offrire una risposta molto parziale e disorganica al generale problema dell’utilizzabilità a fini probatori di comunicazioni orali captate violandone la segretezza. In primo luogo, non sono sufficientemente chiare le modalità d’esecuzione di esse, in quanto l’art. 268 c.p.p. (esecuzioni delle operazioni) sembra formulato in funzione esclusiva delle intercettazioni telefoniche, le quali sole sono effettivamente eseguibili con gli impianti installati presso le procure della Repubblica (129). Difatti la captazione di un colloquio tra presenti richiede l’impiego di mezzi tecnici incompatibili con gli impianti fissi e centralizzati (130). Cosicché l’eccezione prevista nella seconda parte del terzo comma dell’art. 268 cit. « se esistono eccezionali ragioni d’urgenza che legittimano il pubblico ministero a disporre con provvedimento motivato, il compimento delle operazioni mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria » diviene regola, nonostante l’ambito di operatività del precetto appare assai circoscritto e condizionato, in particolare, alla sussistenza di situazioni eccezionali in evidente contrasto con l’ampia previsione di cui al secondo comma del predetto articolo. I metodi d’impiego dello strumento meccanico per intercettare conversazioni tra presenti quindi non sono chiari, in quanto ‘‘per le sue caratteristiche’’ esso dovrebbe rimanere nascosto e la sua installazione ‘‘può richiedere attività (introduzione in abitazione o in altri luoghi di privata dimora, occultamento sulla persona a sua insaputa)’’ che necessariamente vanno disciplinate, potendo a volte presentare aspetti di discutibile legittimità (131), se non addirittura da vietare. Non si comprende, poi, il perché, a distanza di quasi venti anni, il legislatore italiano riproduce nel secondo comma dell’art. 266 c.p.p il medesimo limite del domicilio, che pure è stato tanto criticato nell’art. art. 615-bis c.p. (132), disattendendo qualunque istanza di riforma nel frattempo consolidata; le critiche pervenivano proprio alla conclusione che non fosse legittimo disegnare confini ‘‘territoriali’’ di maggiore o minore tutelabilità del diritto alla segretezza delle comunicazioni, essendo il dialogo riservato meritevole di tutela a prescindere dal luogo in cui avviene (133). In definitiva, l’analisi svolta conferma quanto sia importante individuare l’esatta portata dei diritti di segretezza e riservatezza, segnando con altrettanta precisione i limiti in cui è le(128) Sul punto cfr. la relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in Suppl. Ord. Gazz. Uff., n. 250 del 24 ottobre 1988, 70. (129) In tal senso v. FUMU, Commento all’art. 266 c.p.p. 1988, in Commento al nuovo codice di procedura penale, Suppl. ord. Gazz. Uff., cit., 804. (130) In tal senso criticamente SCAPARONE, Intercettazione di conversazione tra presenti, nota a App. Firenze 3 maggio 1976, in questa Rivista, 1977, 804. In verità una tale incongruenza non è stata sanata dal legislatore che pure è intervenuto proprio di recente con la già citata legge n. 547 del 23 dicembre 1993 prevedendo esplicitamente per le particolari ipotesi di intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche la possibilità per il P.M. di utilizzare anche ‘‘impianti appartenenti a privati’’ (art. 268, comma 3-bis). (131) Così, FUMU, lc. ult. cit. L’art. 266, secondo comma, c.p.p. potrebbe infatti essere interpretato nel senso di legittimare l’ingresso fraudolento dell’autorità di polizia in luoghi di privata dimora per l’installazione di microspie. (132) V. a proposito § 1.1 Elementi comuni nella definizione del reato (art. 615-bis, c.p., primo comma). (133) In tal senso anche CORDERO, Codice di procedura penale commentato, Torino, 1989, 302.
— 897 — gittimo il loro sacrificio, ad esempio in nome di esigenze investigative e di fronte a fenomeni come la criminalità mafiosa; così pure è egualmente necessario e doveroso coordinare il diritto sostanziale con la disciplina processuale che interessa tali diritti. 3. Il fatto della conservazione, comunicazione e utilizzazione del prodotto dell’indiscrezione. — L’intrusione nella altrui vita privata non viene compiuta, solitamente, per soddisfare la curiosità momentanea del suo autore, quanto piuttosto per sfruttarne ulteriormente ‘‘il prodotto’’ nei modi più svariati, dalla pubblicazione a fini lucrativi fino alla semplice minaccia di divulgazione. Per questo motivo, sia il legislatore italiano che il legislatore francese provvedono ad integrare l’incriminazione del delitto d’indiscrezione con la repressione dello sfruttamento di essa. L’art. 615-bis del codice penale italiano al secondo comma recita: Alla stessa pena soggiace, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chi rivela o diffonde, mediante qualsiasi mezzo d’informazione al pubblico, le notizie o le immagini ottenute nei modi indicati nella prima parte di questo articolo. L’art. 369 ancien code pénal al primo comma prevede: Sera puni des peines prévues à l’article 368 quiconque aura sciemment conservé, porté ou volontairement laissé porter à la connaissance du public ou d’un tiers, ou utilisé publiquement ou non, tout enregistrement ou document, obtenu à l’aide d’un des faits prévus à cet article. Tuttavia in caso di publication a mezzo stampa, il legislatore francese rafforza la repressione, sancendo una responsabilità ‘‘en cascade’’ della cerchia di persone suscettibili di azione giudiziaria; al terzo alinéa stabilisce, inoltre, la competenza internazionale delle giurisdizioni repressive francesi (134). Infine, il nuovo art. 226.1 code pénal si esprime così: Est puni des mêmes peines le fait de conserver, porter ou laisser porter à la connaissance du public ou d’un tiers ou d’utiliser de quelque manière que ce soit tout enregistrement ou document obtenu à l’aide de l’un des actes prévus par l’article 226.1. Lorsque le délit prévu par l’alinéa précédent est commis par la voie de la presse écrite ou audiovisuelle, les dispositions particulières des lois qui régissent ces matières sont applicables en ce qui concerne la détermination des personnes responsables. Il terzo comma è stato soppresso in ragione del principio generale fissato dall’art. 113.2 relativo all’applicabilità della legge penale francese ai reati commessi sul territorio della Repubblica. 3.1. Elementi comuni nella definizione del reato. — Comune alla formulazione di tutte le norme considerate è la previsione di una condizione preliminare alla configurazione del delitto di divulgazione: la commissione e consumazione del fatto d’indiscrezione. L’art. 369 stabilisce che la registrazione o il documento, oggetto di conservazione, comunicazione o generica utilizzazione, siano ottenuti à l’aide d’un des faits prèvus à l’article 368, così come l’art. 615-bis, secondo comma richiede che le notizie o immagini, oggetto di rivelazione o diffusione, siano ottenute nei modi indicati nella prima parte di detto articolo. (134) L’art. 369, secondo comma, prevede: ‘‘En cas de publication, les poursuites seront exercées contre les personne énumérées à l’article 285, dans les conditions fixées par cet article, si le délit a été commis par la voie de la presse, et contre les personnes responsables de l’émission ou, à défaut, les chefs d’établissements, directeurs ou gérants des entreprises ayant procédé à la diffusion ou en ayant tiré profit, si le délit a été commis par toute autre voie, sans préjudice de l’application des dispositions des articles 59 et 60 relatives à la complicité’’. Al terzo comma infine: ‘‘est constituée dès lors que la publication est faite, reçue ou perçue en France’’. Così dal momento in cui la pubblicazione perviene in Francia o l’emissione è percepita in Francia, il reato è reputato come effettuato sul territorio nazionale e ciò comporta la competenza delle giurisdizioni francesi.
— 898 — Sembra di leggere il medesimo rinvio, se non fosse che la condizione preliminare prevista dalla norma italiana risulta, come è stato già detto, di gran lunga più limitata. Così, nella protezione assicurata dall’art. 615-bis, secondo comma non sono comprese le ipotesi di pubblicazioni di notizie o immagini riservate, ottenute con mezzi diversi dagli ‘‘strumenti di ripresa visiva o sonora’’, mentre l’art. 369 nel rinviare al precedente art. 368, considera le ipotesi di utilizzo di qualsiasi apparecchio ed, in maniera ancora più ampia, il nuovo art. 226.2 tutela la divulgazione dei fatti indiscreti ottenuti mediante qualsiasi procedimento (ex art. 226.1). Può accadere, però, che una persona fornisca volontariamente informazioni sulla propria vita privata senza per questo desiderarne la divulgazione. Questa ipotesi non viene affatto considerata da entrambi i legislatori. Persino il più attento legislatore francese, è portato al collegamento automatico tra captazione e divulgazione. Infatti, il consenso dell’interessato alla captazione di fatti intimi viene meccanicamente esteso anche alla divulgazione dei fatti lecitamente captati e, dunque, inteso come preclusivo della consumazione del reato di divulgazione, per difetto di un elemento costitutivo dell’art. 368 cod. pén. — condizione preliminare cui è fatto espresso rinvio. Durante i travaux préparatoires della legge del 1970 (135), fu proposto, in verità, un secondo comma dal tenore: « Sera puni des mêmes peines quiconque aura utilisé à des fins lucratives directes ou indirectes l’image ou l’enregistrement des paroles d’une personne sans son consentement ». Ciò in quanto risultava, sin da allora, copiosa la giurisprudenza (136) relativa all’abuso d’immagini che venivano captate regolarmente. Tuttavia, tale emendamento venne respinto dal Governo e bocciato dall’Assemblea. Anche il nuovo codice penale francese mantiene il rinvio alla fattispecie d’indiscrezione, sebbene meglio formulato, e lascia, pertanto, priva di protezione l’ipotesi di regolare apprendimento di avvenimenti intimi che, però, si desiderano non divulgati. Va comunque precisato che la configurazione del reato di divulgazione, sia nella norma francese che in quella italiana, non è stata subordinata alla condizione che l’incriminazione d’indiscrezione fosse penalmente e preliminarmente perseguita e che, a fortiori, il suo autore fosse condannato; neppure è stato subordinato alla condizione che il suo autore fosse il medesimo del delitto d’indiscrezione (anche se quest’ipotesi potrebbe sembrare la più probabile), con il conseguente rischio (almeno per il contesto normativo italiano) di cumulo materiale di reati e notevole sproporzione sotto il profilo punitivo. Un altro elemento di contraddizione, stranamente comune alle formulazioni delle norme considerate, è che la medesima pena viene prevista sia nei confronti dell’autore dell’indiscrezione che di quello della pubblicazione, pur essendo quest’ultimo delitto più grave e di solito consequenziale al primo. Comune alle due formulazioni è anche l’elemento della comunicazione del prodotto dell’indiscrezione. Tuttavia, la codificazione francese punisce la condotta del « portare o volontariamente lasciare portare a conoscenza del pubblico o di terzi » mentre quella italiana sanziona in maniera meno propria il comportamento del « rivelare o diffondere mediante qualsiasi mezzo d’informazione al pubblico ». Ora l’inesattezza che caratterizza la formulazione (135) Amendament n. 77, op. cit., 2076. (136) Il caso della principessa Soraya che, mentre cenava in un ristorante in Austria, veniva fotografata alla tavola che occupava insieme con degli amici. Il fatto non costituisce, in se stesso, un reato e nessuno d’altronde aveva protestato in quel momento. Ma in seguito quella fotografia ha dato luogo a diverse pubblicazioni e commentari cioè ad uno sfruttamento manifestamente abusivo. Così ancora in Italia in piena estate due turisti sono fotografati davanti alla torre di Pisa in tenuta che si può definire perlomeno stravagante o eccentrica. Questi non protestano ed accettano anche il ticket che gli permetterà di ritirare la foto. Al loro ritorno in Francia, vengono accolti dagli scherzi dei loro amici ed apprendono che certi giornali hanno pubblicato questa foto, accompagnata da commentari sgradevoli. Poiché sono inoltre funzionari dell’educazione Nazionale, essi attirano le rimostranze dei loro superiori gerarchici.
— 899 — della norma italiana — art. 615-bis, secondo comma —, è stata fonte di notevoli difficoltà nell’individuazione della condotta incriminata. I due termini ‘‘rivelazione’’ e ‘‘diffusione’’ vanno riferiti a due tipi di contegno diversi oppure vanno intesi come sinonimi? Se si tratta di sinonimi, il nucleo del comportamento lesivo va individuato nella propagazione indiscriminata di notizie illegittimamente acquisite con l’uso di ‘‘mezzi d’informazione al pubblico’’ (137)? Da un punto di vista prettamente terminologico, i due vocaboli esprimono contenuti sostanzialmente differenti: si rivela solo un fatto ignoto ad una determinata persona o cerchia di persone mentre si diffonde ad un numero indeterminato di persone un fatto noto solo ad uno o ad alcuni. Si profilarono due posizioni. La necessità d’evitare un’interpretazione sostanzialmente abrogante del termine ‘‘rivelare’’ portò parte della dottrina, favorevole a distinguere le due condotte, a concludere, dalla particolare collocazione delle suddette parole, che la locuzione ‘‘l’uso dei mezzi d’informazione al pubblico’’ andasse riferita alla sola condotta della diffusione, rimanendo la rivelazione caratterizzata proprio dalla destinazione ad uno o più soggetti determinati (138). A convalidare la tesi veniva addotto il valore indubbiamente disgiuntivo dalla particella « o » posta a marcare la separazione tra il ‘‘rivelare’’ e il ‘‘diffondere’’. L’identità della pena, inspiegabile per sanzionare due condotte di così diversa gravità venne considerato, al contrario, un argomento a sostegno della sostanziale sinonimia tra il ‘‘rivelare’’ ed il ‘‘diffondere’’; così pure il confronto con le analoghe espressioni contenute nel secondo comma dell’art. 617 c.p. Questa norma punisce, infatti, con la stessa pena ‘‘Chiunque rivela, mediante qualsiasi mezzo d’informazione al pubblico, il contenuto delle comunicazioni o delle conversazioni telefoniche o telegrafiche illegittimamente intercettate’’. In essa, non compare il verbo diffondere e l’uso dei mezzi d’informazione al pubblico è riferito esclusivamente alla condotta di rivelazione, che veniva ad acquisire nella sostanza il significato di divulgazione. Veniva, comunque, rilevato che il legislatore aveva, in altre ipotesi, adottato il verbo rivelare nel suo corretto significato — ad esempio nell’art. 616 c.p., secondo comma — e che, quindi, ingiustamente veniva attribuita identica pena (piuttosto elevata: reclusione da sei mesi a quattro anni) tanto per il semplice curiosare nella vita privata che per il rivelare e addirittura per la divulgazione, magari a fini di lucro. Propendere per l’una o per l’altra interpretazione, non aiuta a risolvere le stridenti contraddizioni insite nella norma. Oggi, sta al giudice mediarne le conseguenze, in attesa di un intervento chiaro del legislatore, diretto ad eliminare le ridondanze ed incongruenze emerse in circa vent’anni d’applicazione. Più chiara ci appare la formulazione della norma francese, che incrimina la condotta del portare o lasciare portare alla conoscenza del pubblico o di un terzo la registrazione o il documento. Essa comprende tutti gli strumenti di divulgazione, dalla pubblicazione da parte della stampa all’emissione radiofonica o televisiva, alla semplice comunicazione ad un terzo isolato anche se neppure la nuova formulazione del reato (art. 226.2) si preoccupa di graduare l’entità della sanzione in rapporto al tipo di comportamento realizzato. Da notare, infine, a proposito della condotta del « lasciare portare a conoscenza », che il legislatore francese finisce per erigere a fatto principale ciò che comunemente punisce come atto di complicità (139). 3.2. Il delitto francese di conservazione ed utilizzazione del prodotto dell’indiscrezione. — Il legislatore francese sanziona anche le condotte della conservazione e dell’utilizza(137) Per l’impostazione del problema cfr. PALAZZO, op. cit., 147. (138) In tal senso PALAZZO, loc. ult. cit.; ZAGNONI, op. cit., 986, l’illustre autrice sottolinea che la separazione tra il rivelare e il diffondere si evidenzia dalla particella ‘‘o’’ con valore indubbiamente disgiuntivo. (139) Sembra utile rimarcare che nel nuovo codice penale francese l’art. 121.6 dispone che sarà punito come autore il complice dell’infrazione; dunque il complice viene assimilato ad un autore e ciò implica che è passibile delle stesse pene cui incorre l’autore dell’infraction.
— 900 — zione del prodotto dell’indiscrezione — art. 369 ancien code pénal —, ipotesi di reato invece del tutto ignorate dall’ordinamento penale italiano. La conservazione del prodotto d’espionnage — banda magnetica, disco, films; oggi anche floppy disk o hardware — è stata accomunata al comportamento punito dal délit de récel (140): il reato consisterebbe nel mero fatto di conservare il prodotto del « furto delle parole o dell’immagine di una persona »; e ad essere punito non è solo il proprietario della registrazione o del documento, autore del delitto di cui all’art. 368, nel conservarli, ma anche il semplice possessore e/o detentore: un depositario ad esempio. L’ipotesi non rileva molto in via pratica, in quanto è raro che la vittima venga a conoscenza del fatto di conservazione. Tuttavia essa assolve ad una funzione preventiva: nel caso in cui la vittima venga casualmente a sapere che un’impresa di stampa sia entrata in possesso delle sue parole o della sua immagine, l’incriminazione di detta impresa a tale titolo potrebbe consentirgli di evitarne la pubblicazione. Nel caso in cui, addirittura, la vittima venisse minacciata della pubblicazione o rivelazione ad un terzo di sue parole o della sua immagine e gli elementi costitutivi del delitto di chantage non fossero riuniti, si potrebbe invocare la protezone assicurata dal delitto in questione; così pure nell’ipotesi in cui i discorsi, di cui si minaccia la diffusione, non abbiano carattere offensivo dell’onore o della reputazione (141). Quanto alla condotta di ulteriore utilizzazione del documento o della registrazione, l’art. 369 punisce anche ogni altro uso del prodotto dell’indiscrezione diverso dalla comunicazione al pubblico o ad una persona determinata. È il caso della produzione in giudizio del documento o della registrazione; è anche il caso del terzo, che dopo la comunicazione del documento al pubblico o ad una persona determinata, se ne serve per proprio conto. Questi non potrebbe più essere incriminato come complice, ai sensi del codice penale francese, poiché il suo agire è posteriore alla condotta punita. Viene, però, spontaneo domandarsi: in tale ipotesi è ancora attuale e concreto l’interesse alla non ulteriore utilizzazione del prodotto dell’indiscrezione, trattandosi di fatto già reso noto? Infine, per la configurazione di tutte e tre le condotte sanzionate dall’art. 369 ancien code pénal, è richiesto, tramite il richiamo all’articolo precedente, il requisito della volontà di portare attentato all’intimità della vita privata ed, inoltre, la consapevolezza dell’origine illecita del documento conservato, divulgato o utilizzato. E mentre per la divulgazione, che si concretizza in un delitto istantaneo, essa si esaurisce al momento della sua attuazione; per i delitti di conservazione e l’utilizzazione occorre che la coscienza della condotta lesiva permanga nel tempo. Il nuovo art. 226.2, invece, elimina l’elemento della consapevolezza ed anche l’avverbio ‘‘volontairement’’ in relazione alla condotta del « laisser porter à la connaissance, pur mantenendo il requisito soggettivo della volontà tramite il richiamo al precedente 226.1. 4. Prevenzione degli attentati alla vita privata: il delitto di fabbricazione e commercializzazione degli apparecchi capaci d’espionner la vie privée. — Il diritto francese si occupa anche di regolare la fase preventiva della fabbricazione e diffusione dei nuovi apparec-
(140) Il delitto di recel è sanzionato, oggi, dall’art. 321.1 (ancien art. 460) nouv. cod. pén. francese: « Le recel est le fait de dissimuler, de detenir ou de transmettre une chose, ou de faire office d’intermédiaire afin de la transmettre, en sachant que cette chose provient d’un crime ou d’un délit. Constitue également un recel le fait, en connaissance de cause, de béneficier, par tout moyen, du produit d’un crime ou d’un délit ». (141) Cfr. BANDITER, in J.C.P., 1971, I, 2435, n. 14; per il delitto di chantage v. art. 312.10 (ancien art. 400 al. 2) nouv. cod pén.: « Le chantage est le fait d’obtenir, en mençant de réveler ou d’imputer des faits de nature à porter atteinte à l’honneur ou à la considération, soit une signature, un engagement ou une renonciation, soit la révélation d’un secret, soit la remise de fonds, de valeurs ou d’un bien quelconque ».
— 901 — chi in grado di realizzare l’espionnage nella vita privata. La legge francese del 17 luglio 1970 s’ispirava ad una legge federale svizzera del 1968 che introduceva nel codice penale svizzero alcuni articoli (precisamente gli artt. 179-bis e 179-septies), che proibivano la fabbricazione, il commercio e l’uso degli apparecchi clandestini (142) capaci di ascoltare, registrare e riprendere parole o immagini. Così l’art. 371 ancien code pénal français prevedeva che « une liste... des appareils qui, conçus pour la détection à distance des conversation, permettent la réalisation de l’infraction prévue à l’article 368, sera établie dans des conditions fixées par décret en Conseil d’Etat. Les appareils figurant sur la liste ne pourront être fabriqués, importés, détenus, exposés, offerts, loués ou vendus qu’en virtu d’une autorisation dont les conditions d’octroi seront fixées par le même décret. Est interdite toute publicité en faveur d’un appareil susceptible de permettre la réalisation de l’ infraction prévue... à l’article... 368, lorsqu’elle constitue une incitation à commettre ces infractions. Sera puni des peines prévues... à l’article... 368 quiconque aura contrevenu aux dispositions des alinéas précedénts ». Quindi un décret en Conseil d’Etat doveva indicare la lista degli apparecchi solitamente utilizzabili per porre in essere il reato previsto e punito dall’art. 368 code pénal. Per fabbricarli e commercializzarli occorreva un’autorizzazione ministeriale e solo in virtù di essa non si incorreva nelle medesime sanzioni previste per il reato di cui all’art. 368. Tuttavia, non risultò facile concepire un decreto siffatto. Nel 1974 il Guardasigilli nel rispondere ad un’interrogazione scritta posta da un parlamentare, affermava: « il s’avère extrêmement difficile de dresser la liste de ces appareils, la plupart d’entre eux pouvant être utilisés à des fins tout à fait licites et n’étant susceptibles de nuire que par l’utilisation qui peut en être faite »; aggiunse anche che la Chancellerie avrebbe cercato una soluzione per rispettare la volontà del legislatore, cercando di evitare di comprimere troppo la libertà di commercio e dell’industria. Quindi, affidò il compito di redigere un progetto di decreto ad una commissione interministeriale, la quale si trovò, per l’appunto, di fronte alla necessità di ovviare ad una significativa limitazione del principio della libertà del commercio; tant’è che il progetto di riforma del codice penale francese del 1986 preferì sopprimere la previsione dell’art. 371. Il nuovo code pénal — art. 226.3 — ripesca la precedente disposizione dell’art. 371 senza apportarvi sostanziali modifiche: « est punie de mêmes peines la fabrication, l’importation, la détention, l’exposition, l’offre, la location ou la vente, en l’absence d’autorisation ministérielle dont les conditions d’octroi sont fixées par décret en Conseil d’Etat, d’appareils ... qui, conçus pour la détection à distance des conversations, permettent de réaliser l’infraction prévue par l’article 226.1 et figurant sur une liste dressée dans des conditions fixées par ce même décret. Est également puni des mêmes peines le fait de réaliser une publicité en faveur d’un appareil susceptible de permettre la réalisation des infractions prévues par l’article 226.1 et le second alinéa de l’article 226.15 lorsque cette publicité constitue une incitation à commettre cette infraction ». L’unica variazione consiste nell’elevazione dell’entità dell’amende e delle pene complementari di cui all’art. 226.25; mentre, come già nell’art. 371 ancien code pénal, è stata ribadita la previsione (art. 226.25, 5o alinéa) della confisca obbligatoria degli apparecchi considerati dall’art. 226.3. Le condotte di fabbricazione, importazione, detenzione, offerta, locazione e vendita di apparecchi atti ad intercettare a distanza conversazioni o a realizzare operazioni punite dall’art. 226.1 sono sottoposte ad autorizzazione ministeriale e alle condizioni di concessione fissate dagli articoli da R-226.1 a R-226.12 del nuovo codice penale la cui violazione è san(142) J.-M. GROSSEN, Le secret de la vie privée et le droit, Rapport Général aux Journées Libanaises de l’Association Henri Capitant, le secret et le droit, Travaux de l’Association Henri Capitant, t. XXV, 1974, p. 363, nota 1.
— 902 — zionata a seconda dei casi come contravvenzione di 3a classe (art. R-623-4) o di 5a classe (art. R-625-9). Ai sensi, poi, dell’art. R. 226.1, la realizzazione della lista di cui all’art. 226.3 code pénal viene affidata ad un arrêté ministériel (arrêté del 9 maggio 1994). In conclusione, il legislatore del 1992 recupera la figura di délit-obstacle presente nel vecchio codice, con lo scopo di prevenire i reati di illecita intromissione e di illecita divulgazione dei fatti attinenti all’intimità dell’individuo e lo configura come délit-contravention, benché punito di peines correctionnelles; l’assenza dell’elemento intenzionale per la sua realizzazione ci fa pensare, infatti, ad una sorta di responsabilità oggettiva. È un delitto autonomo, con caratteri propri rispetto a quelli puniti dagli artt. 226.1 e 226.2 cod. pén.; così, l’art. 226.1 incrimina un procedimento qualunque e non la fabbricazione ed il commercio di quegli apparecchi clandestini comunemente denominati ‘‘espions domestiques’’ e a differenza dell’art. 226.2 che incrimina la mera conservazione del prodotto d’espionnage, l’art. 226.3 non punisce soltanto la condotta della detenzione di uno degli apparecchi da esso considerati; quest’ultimo, inoltre, presenta un regime repressivo proprio. Anche l’art. 9 italiano della citata legge m. 98 del 1974 prevede che: « il Ministro per le poste e le comunicazioni, di concerto con il Ministro per l’interno, e con quello per l’industria, il commercio e l’artigianato, provvede con propri decreti all’elencazione degli apparecchi o strumenti e delle parti di apparecchi o strumenti, idonei in modo non equivoco ad operare le riprese di immagini o le intercettazioni di comunicazioni o conversazioni di cui agli artt. 615-bis e 617 del codice penale. Per gli apparecchi e strumenti di dotazione delle forze armate e delle forze di polizia provvedono i Ministri competenti. Chiunque, senza licenza del Ministro per le poste e telecomunicazioni, da concedersi sentito il parere del Ministro per l’interno, fabbrica, importa, acquista, vende, trasporta, noleggia od in qualsiasi altro modo mette in circolazione gli apparecchi o strumenti indicati nei precedenti commi, o parti di essi, è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la reclusione da uno a quattro anni e con la multa da lire un milione a cinque milioni »; multa raddoppiata dall’art. 1134 della legge 24 novembre 1981, n. 689, in tema di depenalizzazione. Questa norma, anche se destinata a rimanere fuori del codice penale, si collega strettamente alle disposizioni penali che richiama, attuando una tutela indiretta degli interessi protetti da esse; delinea sei forme di condotte tipiche oltre quelle che rientrano nella formula di chiusura ‘‘in qualsiasi altro modo mette in circolazione’’, che seppure apparentemente generica, resta, comunque, sufficientemente determinata rispetto al principio di legalità costituzionale — art. 25, secondo comma della Costituzione —. In sostanza, anche la norma italiana rientra nella categoria dei reati ostativi, privi della concreta e diretta offensività del bene e che mirano a prevenire il realizzarsi di azioni effettivamente lesive o pericolose, mediante la punizione di atti che ne costituiscono la premessa idonea; essi riguardano atti, anteriori allo stesso tentativo punibile, intrinsecamente equivoci dal momento che possono sfociare in delitti ma anche in fatti del tutto irrilevanti e comportano la punizione in sé e per sé. Il genus di appartenenza è quello dei reati di scopo, che rispondono alla finalità di politica criminale di colpire condotte preparatorie, ove non sussista prova dell’avvenuta ripresa e/o intercettazione oggetto dell’intenzione del reo. L’irregolarità, che si traduce nell’assenza di autorizzazione e che sottende l’interesse amministrativo di controllo sulla circolazione di detti apparecchi, viene, in tal modo, mediatamente tutelata in via penale (fattispecie a consumazione anticipata). 5. Il regime repressivo nei delitti « d’indiscrezione e di divulgazione » della vita privata. — I differenti gradi di aggressione al bene della vita privata e/o dell’intimità di essa (indiscrezione e divulgazione) sono sanzionati in entrambi i paesi con il medesimo regime repressivo relativamente alla modalità di promovimento dell’azione giudiziaria e, per certi aspetti, all’irrogazione della sanzione, la cui entità, ovviamente, differisce nei due Paesi, soprattutto per quanto concerne la punizione del tentativo.
— 903 — 5.1. Punizione del tentativo. — Il legislatore francese prevede la medesima punizione sia per il delitto tentato — inteso come commencement d’exécution e non meri atti preparatori non punibili — che per il delitto consumato; così nell’art. 372 ancien code ed ora nell’art. 226.5 del nuovo codice penale. Se gli elementi costitutivi del delitto dell’art. 226.1 code pénal sono stati posti in essere, non ha alcuna rilevanza che la banda magnetica, sulla quale una persona ha creduto registrare le parole di un altro si rivela impercettibile a causa di un problema tecnico. Questa è la ratio della scelta del legislatore francese, che in realtà recepisce l’orientamento conforme della Corte di Cassazione (143), secondo la quale « se un delitto non è consumato per insufficienza o inefficienza dei mezzi attivati, è allora configurabile la tentative de délit ». Il codice italiano configura il tentativo — in una norma di carattere generale, l’art. 56 c.p. — quale compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere il delitto. Nell’iter criminis il delitto tentato può snodarsi fino alla fase dell’esecuzione, « la perfezione... segna il momento-limite alla configurabilità del tentativo... non più possibile tra la fase della perfezione e della consumazione » (144). Il legislatore italiano, inoltre, lo concepisce come un delitto autonomo, dato dalla combinazione della norma generale con la singola fattispecie incriminatrice speciale (come l’art. 615-bis c.p., ad esempio), la cui punizione, rispetto al delitto corrispondente, subisce di regola una diminuzione di pena da un terzo a due terzi. 5.2. Necessità di una querela preliminare. — Sia la codificazione italiana che quella francese subordinano l’esperibilità dell’azione penale alla querela della vittima: trattandosi di un diritto della personalità l’iniziativa doveva appartenere alla vittima. Solo la vittima è in grado di valutare se ottiene migliore soddisfazione con il perseguimento dell’autore del reato in sede penale e/o dinanzi ai tribunali civili ovvero se l’ulteriore pubblicità delle udienze, di cui la stampa può rendere conto, desse più ampia risonanza all’attentato portato alla propria personalità. Quest’impostazione, basata sulla natura dei beni in pericolo o danneggiati, comporta anche come conseguenza che il ritiro della querela da parte della vittima mette fine all’azione penale. Nei lavori preparatori (145) del nuovo codice penale francese veniva proposto da parte del Senato, malgrado il parere sfavorevole del Governo, di spostare in capo al pubblico ministero l’iniziativa dell’azione penale in materia di attentati alla vita privata, qualora le vittime potessero risultare particolarmente vulnerabili o timorose. Si è, tuttavia, ritenuto che, trattandosi di un attentato ad un interesse puramente privato, conveniva lasciare tale iniziativa alla vittima, la quale può, meglio di chiunque altro, sapere se l’azione in giustizia gli apporterà riparazione o, al contrario, non farà che aggravare il pregiudizio subito. 5.3. La sanzione. — Sia in Italia che in Francia la fattispecie di divulgazione viene punita con la stessa pena prevista per la fattispecie d’indiscrezione. Meraviglia constatare che entrambi i legislatori abbiano fornito eguale punizione ad un diverso grado di violazione dello stesso bene. È indubbio, infatti, che la semplice curiosità è meno lesiva della rivelazione a pochi ed ancor meno della divulgazione a tutti. L’entità della pena prevista dal legislatore francese si dimostra, comunque, più congrua rispetto a quella eccessivamente elevata nel caso italiano. La pena prevista dagli artt. 368 e 369 era pari alla reclusione da due mesi ad un anno ed una amende da 2 000 a 60 000 FF, nel nuovo codice viene definitivamente portata a un anno di reclusione ed l’amende è indicizzata a 300.000= franchi d’amende. L’art. 615-bis del codice penale italiano punisce le condotte dell’indiscrezione e della di(143) Crim. 19 mai 1981, in D., 1981, 544, note D. MAYER e Rev. sc. crim., 1982, 125, Obs. Levasseur. (144) MANTOVANI, Diritto penale, Cedam, 1992, p. 428. (145) Rapport de M.C. Jolibois à la seconde session ordinaire de 1990-91 n. 295, annexe au procès verbal de la séance du 18 avril 1991.
— 904 — vulgazione con la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni; tale disposizione viola il principio di proporzione giuridica rispetto alle sanzioni previste per altre ipotesi di reato, come la violazione di domicilio o il reato di diffamazione. A titolo di esempio, se si opera il confronto tra il presunto delitto di rivelazione di una notizia riservata e quello di diffamazione aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato, i quali implicano entrambi la rivelazione di un fatto determinato attinente al soggetto, la prima di fatti riservati e la seconda di fatti offensivi, si può constatare come la pena più elevata (reclusione 6 mesi/4 anni) va a sanzionare il fatto meno grave della rivelazione laddove una pena di gran lunga inferiore (reclusione fino a 2 anni e multa fino a 800.000 lire) va a sanzionare l’ipotesi criminosa più grave della diffamazione. Nel caso, inoltre, che si cumulino le due qualificazioni, dell’indiscrezione nell’altrui vita privata e della divulgazione di essa, in capo allo stesso autore, la pena irrogabile potrebbe divenire estremamente aspra (146). Numerosi problemi interpretativi sono scaturiti proprio dalla considerazione che si avrebbe una sostanziale ingiustizia qualora si ritenesse di assoggettare il reo alla sola pena prevista nel secondo comma (147) oppure una chiara sproporzione qualora venisse applicata, di contro, la mera somma aritmetica delle pene previste dal primo e secondo comma (148). La gravità di quest’ultima ipotesi ha indotto taluno (149) a proporre come soluzione l’incerta categoria dell’antefatto non punibile (150), che, pure, si è dimostrata priva di fondamento nel diritto positivo (151). Molteplici sono, infatti, le osservazioni mosse a critica, finanche riguardo alla sua configurabilità. Le due condotte, ognuna corrispondente astrattamente ad una fattispecie criminosa, costituiscono un diverso grado e tipo di offesa al medesimo bene, sebbene l’una non si ponga necessariamente come naturale premessa dell’altra, secondo l’id quod plerumque accidit (152). La punizione del fatto premessa di quello più grave, cioè, non risulta inutile, come se il suo disvalore fosse sempre e comunque assorbito dal disvalore del fatto principale, in quanto l’indiscrezione può essere posta in essere anche per semplice curiosità e non solo per compiere il diverso reato di divulgazione (153). Si comprende, invece, facilmente che il legislatore ha voluto tutelare ogni aspetto intrinseco al bene della riservatezza e, quindi sia l’interesse ad impedire l’altrui intromissione nella sfera privata sia l’interesse a non divulgare le notizie così apprese (154). Tuttavia, se la stessa persona commette entrambi i reati, si pone il problema della configurabilità del concorso materiale di reati ed eventuale cumulo materiale della pena. Per temperare l’aberrante conseguente sproporzione ed ingiustizia della potenziale sanzione, ancora una volta viene rimessa al giudice la potestà di sopperire alla pericolosa formulazione della norma facendo magari ricorso all’istituto della continuazione dei reati (155). (146) In tal senso PALAZZO, op. cit., 155, che sottolinea come la reclusione in caso di concorso materiale di reati andrebbe da sei mesi a otto anni. (147) Così PALAZZO, lc. ult. cit. (148) Cfr. ZAGNONI, op. cit., 988. (149) Cfr. PALAZZO, lc. ult. cit. (150) L’espressione è di F. MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1979, p. 436. (151) Sul punto F. MANTOVANI, op. ult. cit., 436-437. (152) Per una definizione vedasi per tutti, VASSALLI, Antefatto non punibile, postfatto non punibile, in Enc. dir., III, Milano, 1958, 508. (153) V. ZAGNONI, op. cit., 990, l’A. prospetta il caso di Tizio che per curiosità o altri motivi si procura notizie riguardanti la sfera privata di Caio, a distanza di tempo per la sopravvenuta notorietà di Caio, Tizio pubblica quelle notizie per scopo di lucro; è evidente che la condotta di Tizio sarà completamente distinta, come completamente diversi sono i motivi che lo hanno spinto ad agire. (154) MANTOVANI, op. cit., 412. (155) ZAGNONI, op. cit., 990; ANTOLISEI, op. cit. lc. cit., che sostiene la tesi della rilevanza alternativa; CICCOTTI, op. cit., 456, che parimenti preferisce l’inquadramento del problema nell’ambito dei reati a fattispecie alternative, il reato cioè si consuma al verificarsi alternativo di una delle due fattispecie.
— 905 — Il legislatore francese, al contrario, non incorre nello stesso rischio poiché esclude esplicitamente, per principio generale, il cumulo delle pene e nell’art. 5 code pénal sancisce la prevalenza della pena più elevata nel massimo legale. Secondo un recente orientamento della giurisprudenza francese (156), poi, nel caso in cui il comportamento di un soggetto, lede con più infractions un solo e medesimo valeur, si deve pervenire ad una sola dichiarazione di colpevolezza ed attribuire una sola pena, la più elevata nel massimo legale. Il principio generale del non cumulo delle pene è stato rielaborato, in tutte le sue specificazioni, nell’art. 132.4 nouveau code pénal (157). 6. Le nuove forme di attentato all’intimità della vita privata. — I reati, finora esaminati, concepiti per reprimere le manifestazioni più gravi di lesione dell’intimità della vita privata, non esauriscono la gamma delle possibili forme di violazione della riservatezza personale. Modalità nuove d’intromissione nella vita privata sono divenute possibili a seguito dello sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della conseguente aumentata capacità di stockage d’informazioni. L’avvento della tecnologia digitale computerizzata sta determinando un processo di convergenza ed interazione tra i settori dell’informatica, delle telecomunicazioni e dell’emittenza televisiva. L’infocosm, che emerge dalla rivoluzione multimediale, garantisce ai fornitori dell’informazione un livello di comprimibilità e manipolabilità delle informazioni e, quindi, di loro elaborazione affatto conosciuto in precedenza e consente di raggiungere il grande pubblico con una quantità indeterminata di notizie su chiunque in tempo reale e senza attività defatiganti. Per avere un’esatta dimensione del fenomeno occorre tenere presenti da un lato le condizioni di interconnessione ed interoperabilità del nuovo mondo che non conosce più delimitazioni e confini geografici e dall’altro le applicazioni pratiche tramite le quali si compie detto processo di trasformazione della qualità di vita dei cittadini; se ne possono rintracciare esempi nel c.d. telelavoro, l’insegnamento a distanza, le reti tra università e centri di ricerca, servizi telematici alle piccole e medie imprese, gestione del traffico stradale ed aereo, reti transeuropee in ambito sanitario e delle pubbliche amministrazioni, autostrade urbane dell’informazione. L’attività di raccolta, concentrazione e trattamento dei più svariati dati su un determinato soggetto è, dunque, divenuta alla portata di tutti. Non a caso, è stato detto che « ...lo sviluppo accelerato dell’informatica sbocca in un vero e proprio inquadramento dell’individuo » (158). Le informazioni così stoccate sono suscettibili, poi, di essere comunicate a terzi non autorizzati a riceverle o, comunque, di essere sviate dal fine in vista del quale sono state raccolte. In ipotesi del genere, va ribadito il diritto di chiunque di mettere a parte di determinate informazioni solo i destinatari da lui prescelti senza per questo consentire alla loro divulgazione. La realizzazione e l’apertura delle ‘‘autostrade dell’informazione’’ implica l’ideazione di nuove regole per la costituita popolazione telematica e la chiara indicazione delle condotte (156) V. in proposito J. PRADEL, Droit pénal général, T.I, Ed. Cujas, n. 278 e ivi giurisprudenza cit. (157) In verità, il nuovo codice penale francese pone in maniera piuttosto ellittica il principio di non cumulo delle pene. Esso distingue a seconda che si tratti di reati che sono perseguiti con una o più azioni giudiziarie. Nel primo caso, la giurisdizione può pronunciare tutte le pene incorse per ogni reato in concorso, precisando che se le diverse pene sono della stessa natura, la giurisdizione non può che pronunciarne una sola nel limite del massimo legale più elevato. In caso di azioni distinte, le pene pronunciate si eseguono cumulativamente nel limite del massimo legale più elevato. Tuttavia la confusione totale o parziale delle pene della stessa natura può essere ordinata sia dall’ultima giurisdizione chiamata a giudicare, sia secondo le condizioni fissate nel codice di procedura penale dalla prossima legge di adattamento di esso. (158) Cfr. Quinto Rapporto della Commission nationale de l’informatique et de libertés, p. 5, ma anche, in Italia, Relazione conclusiva dell’indagine conoscitiva sulla multimedialità, svolta dall’VIII Commissione Lavori pubblici e comunicazioni del Senato ed approvata nel gennaio 1995.
— 906 — vietate, e, fra esse, di quelle rilevanti penalmente. Ovviamente, al centro dei dibattiti tra giuristi è emersa la preoccupazione per la protezione dei dati personali destinati a circolare su tali autostrade di fronte agli svariati benefici conseguenti all’aumento delle opportunità pratiche d’informare ed essere informati, all’annullamento delle distanze ed ai multiformi servizi che in generale sono in grado di offrire. Questi ultimi, tuttavia, non giustificano il riconoscimento di un diritto incondizionato ad una indifferenziata conoscenza di tutti su tutto. La coscienza dei pericoli insiti nello sviluppo delle tecnologie dell’informazione aveva spinto il legislatore francese, con ammirevole tempestività e lungimiranza, ad affrontarne la regolamentazione fin dal 6 gennaio 1978 con la legge n. 78-17 (159) relativa à l’informatique, aux fichiers et aux libertés ed il suo decreto complementare n. 81-1142 del 23 dicembre 1981 (160), in cui veniva previsto un certo numero di reati. Lo spirito della legge mirava proprio a realizzare l’equilibrio tra i vantaggi conseguenti allo sviluppo dell’informatica e la protezione dei cittadini in una società democratica; cosicché, la Francia già presentava nel suo diritto interno le regole di attuazione — relativamente ai trattamenti automatizzati delle c.d. ‘‘informations nominatives’’ (161) — della Convenzione, che di lì a poco l’Europa avrebbe stipulato. Il 28 gennaio 1981 veniva, infatti, redatta a Strasburgo la Convenzione europea per la protezione delle persone riguardo ai trattamenti automatizzati di dati a carattere personale, con l’obiettivo, stabilito all’art. 1, di garantire il rispetto dei diritti e delle libertà della persona e soprattutto il suo diritto alla vita privata. Successivamente alla Convenzione di Strasburgo, l’attività normativa dell’Unione europea segna una svolta decisiva per il contesto comunitario ed internazionale con la recente direttiva n. 95/46 del 24 ottobre 1995 ‘‘relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati’’ (162), che in sostanza aggiorna i principi di tutela della riservatezza contenuti nella Convenzione medesima; gli Stati membri dell’Unione europea (163) dispongono di tre anni per il recepimento di essa, di successivi tre anni per conformare i trattamenti antecedenti all’entrata in vigore alle nuove disposizioni di attuazione e di dodici anni per uniformarvi gli archivi manuali. Il legislatore italiano, dopo un lungo periodo di sostanziale ‘‘apatia normativa’’, (disegni di legge decaduti per fine legislatura, alcuni dei quali reiterati o approvati da uno solo dei rami del Parlamento), ha finalmente provveduto a disciplinare la materia con la legge del 31 dicembre 1996, n. 675 ‘‘tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali’’, non potendo ulteriormente procrastinare l’incombente impegno comunitario (164) di entrare a pieno titolo nell’area Schengen (165). Così per la prima volta l’Italia, (159) D., 1978, 77, 114. (160) D., 1982, 13. (161) L’art. 4 della legge del 6 gennaio 1978: « sont réputees nominatives au sens de la prèsente loi les informations qui permettent. sous quelques forme que ce soits directament ou non, l’identification des personnes physiques auxquelles elles s’appliquent, que le traitement soit effectué par une personne physique ou par une personne morale ». (162) G.U.C.E. 23 novembre 1995, n. L. 281/31 ss. (163) Considerando n. 69 direttiva n. 95/46. (164) V. in merito, S. CIPRIANI, Protezione dei dati personali: un problema di equilibrio di interessi, in Informatica ed enti locali, n. 1/96, cit., passim; per un commento analitico alle leggi 31 dicembre 1996 nn. 675 e 676 in materia di trattamento dei dati personali e alla normativa comunitaria ed internazionale, v. G. BUTTARELLI, Banche dati e tutela della riservatezza. La privacy nella Società dell’informazione, Giuffrè ed., 1997. (165) G. BUTTARELLI, Per i ritocchi c’è la delega. - L’entrata in Schengen non può subire ulteriori rinvii, in Il Sole 24 Ore, venerdì 24 gennaio 1996, n. 2, p. 6, ins. Europa; L. OLIVA, Schengen, l’Italia ricomincia da capo, in Il Sole 24 Ore, ins. Europa, venerdì 12 luglio 1996, p. 1; G. PELOSI, L’Italia in Schengen entro l’ottobre del 1997 - L’adesione politica diventerà operativa l’anno prossimo, in Il Sole 24 Ore, venerdì 20 dicembre 1996, n. 347, p. 8; I. TRICOMI, Con una rivoluzione per l’ordinamento italiano si apre la « corsa agli ostacoli » degli adempimenti, in Il Sole 24 Ore, Guida al diritto n. 4 dell’1 luglio 1997, p. 40 ss.
— 907 — contrariamente alla tradizionale cattiva consuetudine di mancato o tardivo recepimento dei provvedimenti comunitari, viene di fatto a costituire il primo paese dell’Unione a possedere una normativa interna in linea con la direttiva comunitaria benché numerose incongruenze sono già state rilevate dai primi commentatori della legge. 7. Le condotte lesive della riservatezza mediante le c.d. ‘‘tecnologie dell’informazione’’. - La recente direttiva europea n. 95/46 individua alcune condotte lesive della riservatezza, rese possibili dalle nuove tecnologie dell’informazione. Oggetto della direttiva (art. 1) è la « tutela dei diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche e particolarmente il diritto alla vita privata con riguardo al trattamento dei dati personali » (166), seppure nel contemperamento con l’esigenza della libera circolazione di tali dati. La legislazione interna francese, che ha assolto nel tempo una funzione sperimentale nella materia, rappresenta, oggi per il nostro diritto, uno dei primi esempi dell’applicazione di una normativa a tutela della sfera privata di fronte alle numerose potenzialità del nuovo mondo dell’informazione ed al conseguente concreto moltiplicarsi delle banche di dati personali. Il legislatore italiano ha potuto, finora, godere degli importanti contributi dell’esperienza giuridica di altri paesi come la Francia ed, in generale, delle indicazioni scaturenti dal contesto comunitario. A questo proposito, il capo II della direttiva n. 95/46 stabilisce le ‘‘condizioni generali di liceità dei trattamenti dei dati personali’’, il cui rispetto dev’essere assicurato dall’ordinamento degli Stati membri, rimettendo ad essi la predisposizione delle misure necessarie a garantire la piena applicazione delle disposizioni di attuazione. Sostanzialmente, la direttiva è volta ad assicurare che i dati siano adeguati, pertinenti e non eccedenti finalità determinate, esplicite e legittime; che siano trattati lealmente e lecitamente, esatti o aggiornati e conservati per il tempo strettamente necessario al conseguimento delle predette finalità (167) ed infine che vengano puniti coloro che pongano in essere trattamenti di dati personali in difetto di adeguata legittimazione (168), particolarmente nei casi di dati c.d. sensibili (169). Gli strumenti di cui può disporre l’interessato sono svariati a cominciare dal diritto ad essere informato (170) dell’esistenza del trattamento di dati che lo riguardano, al suo diritto di accesso (171) nonché al diritto di opporsi al trattamento dei dati medesimi per motivi preminenti e legittimi (172). La sicurezza dei trattamenti di dati personali (173) è strettamente collegata alla riservatezza dei medesimi. L’obbligo di notifica all’autorità di controllo (174) rappresenta infine il primo momento di verifica della sussistenza di tutte le necessarie condizioni di legittimità. Ci sembra, a questo punto, proficuo per conoscere le soluzioni normative scaturite dall’avvento della nuova rivoluzione tecnologica, passare in rassegna le condotte illecite lesive della riservatezza dei dati personali previste e punite dal legislatore francese del 1978, individuare come sono state modificate dal legislatore del 1992, rapportarle alle indicazioni della (166) Il dato personale viene definito: qualsiasi informazione concernente una persona identificata o identificabile (« persona interessata »); si considera identificabile la persona che puo essere identificata, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento ad un numero di identificazione o ad uno o più elementi specifici caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, psichica, economica, culturale o sociale (art. 2, primo comma, lett. a, direttiva). (167) Direttiva n. 95/46, Sez. I ‘‘Principi relativi alla qualità dei dati’’, art. 6. (168) Direttiva cit., Sez. I, art. 7. (169) Art. 8 direttiva. (170) Artt. 10 e 11 direttiva. (171) Art. 12 direttiva. (172) Art. 14 direttiva. (173) Art. 17 direttiva. (174) Artt. 18 e 19 direttiva.
— 908 — direttiva europea (175) e quindi confrontarle con la recente legge italiana di recepimento di essa. 7.1. Il fatto della registrazione e conservazione d’« informations nominatives » nell’art. 42 della legge n. 78-17 del 1978. — L’art. 42 della legge n. 78-17 del 1978 punisce « ... d’un emprisonnement d’un an à cinq ans et d’une amende de 20 000 à 2 000 000 F, ou de l’une de ces deux peines seulement, quiconque aura enregistré ou fait enregistrer, conservé ou fait conserver des informations nominatives en violation des dispositions des articles 25, 26 et 28 à 31. En outre, le tribunal pourra ordonner l’insertion du jugement, intégralement ou par extraits, dans un ou plusieurs journaux, et son affichage dans les conditions qu’il déterminera, aux frais du condamné ». La norma di rinvio finisce per sanzionare penalmente la maggior parte delle possibili condotte illecite collegate alla memorizzazione delle informations nominatives (176), che si tratti della loro raccolta, registrazione o conservazione quando ‘‘quei dati non sono pertinenti, adeguati ed eccedono le finalità per le quali sono memorizzati’’. Il legislatore del 1978 ha elevato a elemento costitutivo della norma la registrazione e la conservazione illecite delle informations nominatives individuate dal riferimento alle regole sancite negli artt. 25, 26 e 28 a 31 della legge stessa. Riporteremo brevemente i contenuti dei testi delle disposizioni richiamate sottolineando, di seguito, come la scelta del legislatore francese del 1978 di fare uso della tecnica del rinvio multiplo si sia dimostrata poco felice, poiché ne sono conseguite sostanziale disomogeneità nella formulazione delle varie fattispecie e difficoltà d’interpretazione differenti a seconda del testo normativo di riferimento. a) I testi di riferimento. — L’art. 25 della legge n. 78-17 del 1978 condanna la raccolta di dati operata con mezzi fraudolenti, sleali o illeciti, consacrando una sorta di principio generale di lealtà. L’art. 26 riconosce alle persone fisiche il diritto di opporsi per ragioni legittime al trattamento delle informations nominatives che lo riguardano. L’art. 28 proibisce la conservazione dei dati sotto forma nominativa al di là della durata prevista. Si è parlato in questo caso di un vero e proprio ‘‘diritto all’oblio’’. L’art. 29 impone ai responsabili dei trattamenti l’obbligo di prendere tutte le precauzioni utili al fine di preservare la sicurezza delle informazioni trattate e soprattutto di impedire che esse vengano deformate, danneggiate o comunicate a terzi non autorizzati. L’art. 30 attribuisce alle giurisdizioni, a certe autorità pubbliche e alle persone giuridiche, che gestiscono un servizio pubblico, il monopolio del trattamento delle informazioni nominative che riguardano i reati, le condanne e le misure di sicurezza. L’art. 31, infine, vieta la memorizzazione delle informazioni più ‘‘sensibili’’, vale a dire quelle che concernono le origini razziali, le opinioni politiche, filosofiche o religiose e le appartenenze sindacali. b) Osservazioni sull’art. 42, norma di rinvio. — Alcuni autori hanno tentato di classificare le fattispecie derivanti dalla lunga enumerazione dell’art. 42 tra reati riguardanti i trattamenti e reati concernenti i dati; altri hanno, invece, distinto tre categorie di reato in considerazione dell’assenza di lealtà, della natura dei dati e della conservazione delle informations nominatives. Ciò nonostante resta disagevole individuare i comportamenti vietati, a causa del tenore impreciso e generico delle fattispecie delittuose che ne risultano, da cui discende discrezionalità interpretativa per il giudice in contrasto con le esigenze di tassatività del diritto penale. (175) Per un analisi della problematica, v. sempre S. CIPRIANI, Protezione dei dati personali: un problema di equilibrio di interessi, cit., passim. (176) Il contenuto delle informations nominatives è specificato dall’art. 4 della l. n. 78-17, v. in proposito nota 161.
— 909 — Il richiamo operato dall’art. 42 all’art. 25 è un primo esempio dell’ambiguità di formulazione della norma; come interpretare l’art. 42 che incrimina la condotta della registrazione delle informations nominatives in violazione della disposizione dell’art. 25 che vieta la fase antecedente della raccolta dei dati realizzata con ogni mezzo fraudolento, sleale o illecito? Il divieto di analogia non consentirebbe di estendere la portata dell’incriminazione alla semplice raccolta con mezzi illeciti. Allora, a fronte di ogni tentativo di interpretazione abrogante o, perlomeno, tendente a svuotarne il contenuto, il significato della fattispecie è stato inteso nel senso che la legge penale vieta la registrazione dei dati raccolti con i mezzi proibiti. Quindi, la sola raccolta dei dati effettuata con mezzi fraudolenti, sleali o illeciti, sarà salvaguardata nell’ambito civilistico o amministrativo o, tutt’al più, potrà rilevare come delitto estraneo al diritto dell’informatica; qualora, invece, alla raccolta segua la registrazione dei dati, allora opererà la disposizione dell’art. 42 della legge del 1978. Così, al di fuori della protezione assicurata dal c.d. diritto delle tecnologie informatiche, l’attività di raccolta indebita delle informazioni è punita comunque nell’ambito del diritto penale sostanziale francese; l’art. 226.1 code pénal (ancien art. 368 cod. pén.) (177), infatti, reprime il procedimento illecito utilizzato anche per raccogliere notizie, proferite a titolo privato o confidenziale, che comporti violazione dell’intimità della vita privata. Per questo motivo, v’è chi ha paventato il rischio del concorso formale di reati tra la fattispecie risultante dal combinato disposto dell’art. 25 e l’art. 42 ed il delitto — ora previsto e punito dall’art. 226.1 — di captazione di parole o immagini con l’aiuto di un procedimento qualunque, laddove si attribuisca anche alle immagini il valore di informations nominatives ai sensi dell’art. 4 della legge del 1978 (178). Inoltre, il legislatore non volle all’epoca precisare il contenuto della nozione di mezzi fraudolenti, sleali e illeciti, impiegata nell’art. 25, rimettendone, di fatto, l’individuazione alla valutazione discrezionale del giudice. Ancora più generica appare la nozione di ‘‘motivi illeciti d’opposizione’’ insita nell’espressione ‘‘raisons légitimes d’opposition’’ di cui all’art. 26. In sostanza, tutte le informations nominatives possono essere oggetto di opposizione, in quanto il legislatore non ha voluto predeterminare le informazioni che non possono essere memorizzate; cosicché le ragioni legittime di opposizione potrebbero andare a confluire persino nelle finalità stesse dell’informatica definite nell’art. 1 della legge del 1978, secondo cui l’informatica ‘‘démocratique’’ dev’essere al servizio di ogni cittadino e svilupparsi nell’ambito della cooperazione internazionale; non deve portare attentato all’identità dell’uomo, ai suoi diritti, alla vita privata, alle libertà individuali o pubbliche. Nessun problema d’interpretazione sembra porre, invece, la combinazione dell’art. 42 con l’art. 28, limitandosi quest’ultimo a proibire la condotta della conservazione delle informazioni sotto una forma nominativa al di là della durata prevista. Quanto al rinvio all’art. 29, che impone ai responsabili dei trattamenti l’obbligo di prendere ogni precauzione utile al fine di preservare la sicurezza delle informazioni trattate, in particolare, evitando che esse siano deformate, danneggiate o comunicate a terzi non autorizzati, è prescritto che l’estensione di questa obbligazione venga precisata nella demande d’avis alla Commission nationale de l’informatique et des libertés per i trattamenti automatizzati pubblici (ex art. 15) o nella déclaration alla medesima Commissione nel caso dei trattamenti automatizzati posti in essere da privati (art. 16) (179). Viene, pertanto, incriminata (177) Cfr. N. AUPECLE-GUICHENEY, Les infractions pénales favorisées par l’informatique, thèse 3e cycle, Montpellier, 1984, n. 314 ss. (178) Cfr. R. GASSIN, Informatique et libertés, v. Libertés publiques, in Rép. Dalloz, n. 28 in cui l’autore sottolinea come una fotografia può essere ritenuta informazione nominativa, soprattutto ora che i progressi delle tecniche informatiche permettono di mettere in memoria e riprodurre sul video di un computer delle fotografie. (179) Ai sensi dell’art. 19, la domanda o la dichiarazione suddette devono indicare ‘‘le disposizioni prese per assicurare la sicurezza dei trattamenti e delle informazioni e la garanzia dei segreti protetti dalla legge’’.
— 910 — dall’art. 42 — nel riferimento all’art. 29 — la trasgressione all’obbligazione precisata nell’art. 19 della stessa legge, accompagnata o seguita dalla registrazione o conservazione delle informazioni. Sebbene, di primo acchito, la portata della fattispecie possa sembrare vaga, in realtà quest’aspetto del delitto configurato nell’art. 42 trova fondamento nel rispetto di alcune misure amministrative e tecniche, ritenute in grado di evitare frodi o errori nella costituzione dei trattamenti di dati ed assolvendo una funzione essenzialmente preventiva. Il richiamo dell’art. 42 all’art. 30 solleva la medesima difficoltà dell’art. 25. L’art. 30 incrimina la registrazione e la conservazione, ma non la raccolta, d’informazioni nominative concernenti i reati, le condanne e le misure di sicurezza effettuate da soggetti diversi da quelli espressamente indicati — le giurisdizioni, certe autorità pubbliche e persone giuridiche gerenti un servizio pubblico. In compenso, esiste piena concordanza tra i fatti incriminati dall’art. 42 e quelli proibiti dall’art. 31, che vieta di mettere o conservare in memoria informatizzata le informazioni più sensibili cioè i dati che fanno apparire le origini razziali, le opinioni politiche, filosofiche o religiose e l’appartenenza a sindacati. Il rinvio operato dall’art. 42 alla lunga serie di disposizioni citate pone, comunque, un altro problema: determinare il suo campo d’applicazione in relazione all’art. 45 (della stessa legge), che riferisce le norme oggetto del rinvio, ma non, genericamente, la disposizione dell’art. 42 nel suo insieme, anche agli schedari non informatizzati. La maggioranza degli autori estende l’operatività dell’art. 42 agli schedari manuali e meccanografici; essi ritengono, cioè, che l’art. 45 nel far riferimento alle disposizioni oggetto del rinvio multiplo richiami indirettamente l’art. 42, secondo l’adagio accessorium sequitur principale (intendendo per principale gli articoli di riferimento e per accessoria la norma di diritto penale di rinvio). La loro è un’interpretazione teleologica (180), che risponde al fine perseguito dalla legge del 6 gennaio 1978 di assicurare l’applicazione delle diposizioni degli artt. 25, 26, 29, 30 e 31 con la forza della sanzione penale senza limitarne la portata ai soli archivi automatizzati, giacché anche gli archivi non informatizzati sono in grado di violare gli obiettivi enunciati dall’art. 1 della legge: ‘‘L’informatica... non deve portare attentato né all’identità umana, né ai diritti dell’uomo, né alla vita privata, né alle libertà individuali e pubbliche’’. La Commission nationale d’informatique et libertés si è espressa in sintonia con questa impostazione nell’affare S. K. F. (181), in cui la nominata società teneva uno schedario manuale sui candidati all’assunzione nel suo stabilimento, nel quale figuravano elementi relativi alla loro vita privata ed informazioni concernenti le loro opinioni politiche e la loro condizione sindacale. Ebbene, la Commissione denunciò questo fatto al Parquet, reputando che la conservazione di informazioni di tal fatta in schedari manuali ben potesse costituire il reato previsto e punito dall’art. 42 (182). La Chambre criminelle suggellò tale opinione nella prima sentenza che rese in merito alle fattispecie penali previste dalla legge 78-17, decidendo che bastava a configurare il reato punito dall’art. 42 che i dati fossero registrati o conservati in uno schedario, automatizzato o meno (183). La Chambre criminelle, tuttavia, escluse dalla protezione assicurata dall’art. 42 (180) V. in questo senso R. MERLE, A. VITU, Traité de droit criminel, t. I, 5ème éd., n. 178 e 180. (181) Cfr. Trib. grande inst. de Créteil 10 luglio 1987, D., 1988, n. 21, p. 319, nota di J. FRAYSSINET. (182) Déliberation n. 84-15 du 3 avril 1984, Cinquième rapport d’activité, p. 217 et obs. p. 34 et 78. (183) Crim. 3 novembre 1987 sul ricorso nell’interesse della legge, formato, su domanda della C.N.I.L., contra la sentenza della Cour de Rennes du 24 juin 1986, in D., 1988, 17, note H. MAISL; J. FRAISSINET, « La Cour de Cassation et la loi de l’informatique, flchiers et libertés », in J.C.P., 1988, I, 3323; R. GASSIN, « Un cas exemplaire de dérive jurisprudentielle du droit pénal technique: l’arrêt de la Chambre criminelle du 3 novembre 1987 relatif
— 911 — la registrazione o conservazione d’informazioni nominative in un dossier manuale cui rinviasse lo schedario, senza spiegare bene il contenuto di una tale distinzione (tra schedari e dossiers) e del cui fondamento si è giustamente dubitato (184). Tale estensione generò, tuttavia, qualche incertezza ed, in generale, confusione, dato che non è prevista alcuna formalità preliminare alla costituzione dell’archivio non informatizzato né in relazione alla durata di conservazione delle informazioni nominative contenute in esso — come avviene nella démande d’avis o nella déclaration (artt. 28 e 42) — né rispetto alla mancata adozione delle precauzioni necessarie a preservare la sicurezza delle informazioni — come la designazione dei destinatari delle informazioni memorizzate (artt. 29 e 42). È stata allora prospettata (185) la possibilità di ovviare alla lacuna mediante la costituzione di un vincolo convenzionale per esempio relativamente alla durata di conservazione delle informazioni nominative contenute in schedari manuali non oltre un certo termine, sebbene è evidente che in simili casi l’obbligato sarà tenuto al rispetto dell’impegno preso non in base alla legge. I termini dell’art. 42 non precisano, infine, se si tratta di un delitto doloso o colposo; la dottrina è incline, tuttavia, a considerarlo delitto doloso (186), benché non venga fatto esplicito riferimento al dolo. 7.1.1. La diversa formulazione del delitto nel nuovo codice penale. — La sezione 5 — relativa agli attentati risultanti dagli schedari e dai trattamenti informatici — del capitolo VI del nuovo codice penale, che punisce le violazioni della vita privata, disciplina l’insieme dei delitti sanzionati dagli artt. 41-43 della legge del 6 gennaio 1978. Non vi si apportano modificazioni sostanziali ma alcune di esse sono state interamente riscritte nell’intento di apportare maggiore chiarezza. Le quattro fattispecie risultanti dal rinvio multiplo operato dall’art. 42 sono ora regolate dagli artt. 226.17, 226.18, 226.19 e 226.20 del nuovo codice penale. Riportiamo il testo di queste norme al fine di comprendere come e se le improprietà nell’uso del linguaggio giuridico finora riscontrate sono state superate nella formulazione delle nuove disposizioni. Art. 226.17. — Le fait de procéder ou de faire procéder à un traitement automatisé d’informations nominatives sans prendre toutes les précautions utiles pour préserver la sécurité de ces informations et notamment empêcher qu’elles ne soient déformées, endommagées ou communiquées à des tiers non autorisés est puni de cinq ans d’emprisonnement et de 2 000 000 F d’amende. Art. 226.18. — Le fait de collecter des données par un moyen frauduleux, déloyal ou illicite, ou de procéder à un traitement d’informations nominatives concernant une personne physique malgré l’opposition de cette personne, lorque cette opposition est fondée sur des raisons légitimes, est puni de cinq ans d’emprisonnement et de 2 000 000 F d’amende. En cas de traitement automatisé de données nominatives ayant pour fin la recherche dans le domaine de la santé, est puni des mêmes peines le fait de procéder à un traitement: 1o Sans avoir préalablement informé individuellement les personnes sur le compte desquelles des données nominatives sont récueillies ou transmises de leur droit d’acces, de recaux délits en matière d’informatique, de fichiers et des liberté », in Lamy droit de l’informatique, 1988, Cahiers du droit de l’informatique, avril 1988, B, note 171, e nello stesso senso, Trib. corr. Paris 2 mars 1989, commentato da R. GASSIN, op. cit., note 173. (184) Contra R. GASSIN, op. ult. cit., note 171, n. 33, la cui opinione è fondata sull’interpretazione stretta della legge penale. Ma nel senso dell’opinione su riportata, v. le Huitième Rapport d’activité de la Commission, p. 30. (185) P. KAYSER et J. FRAYSSINET, Informatiques et libertés. Loi du 6 janvier 1978 relative à l’informatique, aux fichiers et aux libertés et ses décrets d’application, in J.C.P., Lois pénales annexes, n. 66. (186) V.R. GASSIN, op. cit., nota 169, n. 444.
— 912 — tification et d’opposition, de la nature des informations transmises et des destinataires des données; 2o Malgré l’opposition de la personne concernée ou, lorsqu’il est prévu par la loi, en l’absence du consaintement éclairé et exprès de la personne, ou, s’il s’agit d’une personne décédée, malgré le refus exprimé par celle-ci de son vivant. Art. 226.19. — Le fait, hors les cas prévus par la loi, de mettre ou conserver en mémoire informatisée, sans l’accord exprès de l’intéressé, des données nominatives qui, directement ou indirectement, font apparaître les origines raciales ou les opinions politiques, philosophiques ou religieuses ou les appartenances syndicales ou les moeurs des personnes est puni de cinq ans d’emprisonnement et de 2 000 000 F d’amende. Est puni des mêmes peines le fait, hors le cas prévus par la loi, de mettre ou de conserver en mémoire informatisée des informations nominatives concernant des infractions, des condamnations ou des mesures de sûreté. Art. 226.20. — Le fait, sans l’accord de la Commission nationale de l’informatique et des libertés, de conserver des informations sous une forme nominative au-delà de la durée prévue à la demande d’avis ou à la déclaration préalable à la mise en oeuvre du traitement informatisé est puni de trois ans d’emprisonnement et de 300 000 F d’amende. L’innovazione più rilevante consiste nell’abbandono della tecnica del rinvio, fonte dei numerosi problemi interpretativi menzionati ed in generale il nuovo legislatore dimostra di far tesoro di tutte le discrepanze emerse dall’applicazione pratica. Così, l’art. 226.18 reprime anche la condotta della raccolta dei dati effettuata con mezzi fraudolenti, sleali o illeciti, laddove il combinato disposto dell’art. 42 con l’art. 25 si limitava a sanzionare esclusivamente la condotta della registrazione della raccolta dei dati ottenuta con quei mezzi. Ancora, l’art. 226.19 estende l’ambito d’applicazione del delitto previsto dall’art. 31 della legge del 1978, nel senso che viene considerato fatto di reato l’inserimento in memoria di dati che fanno apparire i costumi di una persona in assenza del consenso espresso di questi. E le proibizioni contenute nel secondo comma dell’art. 226.19 e nell’art. 226.20 sono enunciate con termini decisamente più lineari che nei rispettivi artt. 30 e 28 della legge del 1978. Infine l’esplicita estensione della protezione, operata dall’art. 226.23 in relazione alle disposizioni di cui agli artt. 226.17-226.19, agli archivi non automatizzati il cui uso non rileva esclusivamente nell’ambito dell’esercizio del diritto alla vita privata, annulla ogni asperità interpretativa scaturente dall’oscura formulazione dell’art. 45 della citata legge del 1978. 7.2. Il trattamento illecito dei dati personali nella legge italiana n. 675 del 1996. — Il legislatore italiano pare voler ignorare le acquisizioni sperimentate nel vicino paese, persino quelle improntate alla ricerca di chiarezza espressiva. Così, l’art. 35 della legge del 31 dicembre 1996, n. 675 si compone di tre commi, ciascuno con autonome peculiarità e disciplina le condotte penalmente rilevanti adottando la tecnica del rinvio multiplo ed implicando un procedimento ermeneutico fisiologicamente complesso. In sostanza, mentre il legislatore francese si dimostra incline a sperimentare nuove forme di redazione dei precetti in grado di raggiungere con migliore efficacia il destinatario della norma, quello italiano sembra inspiegabilmente perseguire il trend inverso, finendo per consolidare, perlomeno sotto questo profilo, gli errori del passato. Così, fatta salva l’ipotesi che il fatto costituisca più grave reato — per effetto della quale salvezza è posta una deroga al principio generale della retroattività della legge più favorevole al reo — vengono richiamate le disposizioni di cui agli artt. 11, 20 e 27 della legge e quindi molteplici sono i precetti contenuti nel solo primo comma. Nel far riferimento all’art. 11 della legge, l’art. 35 reprime ‘‘chiunque, al fine di trarre per sé od altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali senza il consenso dell’interessato espresso liberamente, in forma specifica e documentata per iscritto e senza aver reso all’interessato le informazioni di cui all’art. 10’’, punendolo con ‘‘la
— 913 — reclusione fino a due anni o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da tre mesi a due anni’’. Manca nella previsione qualsiasi cenno ai casi di esclusione del consenso disciplinati dall’art. 12, da cui insorge il dubbio sulla loro effettiva liceità. L’ultimo inciso, poi, relativo alla condotta della comunicazione o diffusione suscita qualche perplessità e difficoltà nell’interpretazione soprattutto in relazione al richiamo al successivo art. 20 — che individua le condizioni di liceità della comunicazione e diffusione da parte dei privati e enti pubblici economici — ove si richiede ai fini della rilevanza penale solo l’assenza del consenso espresso (187). Infine è previsto il delitto di trattamento illecito di dati personali commesso dalla pubblica amministrazione in violazione delle regole previste dall’art. 27. Il medesimo dolo specifico consistente nel trarre, per sè o altri, un profitto, ovvero nel recare un danno a terzi è richiesto ai fini della punibilità del reato di comunicazione e diffusione di dati disciplinato al secondo comma dell’art. 35, la cui portata si esplicita quando la condotta del comunicare o diffondere è realizzata in violazione delle numerose disposizioni di rinvio, che ci accingiamo ad esaminare. Il riferimento all’art. 21 comporta la punizione di tre differenti condotte: la violazione della finalità del trattamento indicata nella notificazione al Garante, le esternazioni di dati che avrebbero dovuto essere cancellati e la diffusione di dati esplicitamente vietata dal garante. Con il rinvio all’art. 22 sembra che il legislatore abbia voluto punire la sola condotta della comunicazione e diffusione effettuata in violazione del trattamento dei dati sensibili — qualora manchi il consenso (qualificato) dell’interessato e la previa autorizzazione del Garante; mentre resterebbero sostanzialmente impuniti comportamenti altrettanto illeciti ma consistenti solo nell’indebito trattamento dei dati sensibili. L’incongruenza si evidenzia maggiormente in relazione al disposto del precedente comma 1 dell’art. 35 che ravvisa punibile sia l’attività di trattamento illecito che le operazioni della comunicazione e diffusione dei dati personali. Il richiamo dell’art. 23 mira a delineare le ipotesi di reato della comunicazione dei dati inerenti la salute oltre i limiti temporali e modali fissati nell’autorizzazione del Garante e la diffusione di essi al di là delle finalità di prevenzione, accertamento e repressione dei reati. L’art. 35 suscita i medesimi problemi interpretativi nel rinviare all’art. 24 sollevati rispetto all’art. 22; l’art. 24 disciplina solo l’attività di trattamento dei dati personali idonei a rivelare sentenze penali definitive provvedimenti di esecuzione o di applicazione delle misure di prevenzione della sorveglianza speciale; le sentenze straniere e gli altri dati inerenti il casellario, per cui saremo portati a ritenere che l’unica condotta punibile con la sanzione penale sia la comunicazione o diffusione di quei dati ma non il loro trattamento seppure illecito. Infine il riferimento all’art. 28, terzo comma individua il reato di trasferimento illecito all’estero (verso un paese non appartenente all’Unione europea) di dati personali allorquando non assicuri un adeguato livello di protezione o, relativamente ai dati di cui agli artt. 22 e 24, di pari grado a quello assicurato dallo stato italiano. Il terzo comma dell’art. 35 prevede l’aggravante del nocumento alle ipotesi di reato descritte nei due commi precedenti. In conclusione, considerando la sola disposizione di cui all’art. 35 sembra di ripercorrere la medesima disorganicità rilevata nell’ançien code pénal français ed inevitabilmente connesse all’ambiguità della tecnica di redazione della norma per rinvio. Diviene infatti estremamente difficile per l’interprete tentare di coordinare per via interpretativa l’assembramento dei numerosi precetti — ognuno con peculiarità proprie — che il legislatore italiano avrebbe, invece, dovuto e potuto scandire in unità per ovviare all’immancabile conseguente confusione del contenuto della regola da rispettare. 7.3. Il fatto della comunicazione d’informazioni nominative nell’art. 43 della legge francese n. 78-17 del 1978. — Il legislatore francese punisce il fatto della comunicazione (187) In proposito si veda, R. IMPERIALI e R. IMPERIALI, La tutela dei dati personali, in Il Sole 24 Ore, Milano, 1997, p. 188; v. anche G. BUTTARELLI, Banche dati e tutela della riservatezza, cit.
— 914 — delle informations nominatives separatamente dalla repressione del trattamento illecito dei medesimi dati. Il primo comma dell’art. 43 della legge n. 78-17 del 1978 statuisce un delitto doloso dai termini piuttosto complessi: « Sera puni d’un emprisonnement de deux à six mois et d’une amende de 2000 à 20000 F, ou de l’une de ces deux peines seulement, quiconque ayant recueilli, à l’occasion de leur enregistrement, de leur classement, de leur transmission ou de toute autre forme de traitement, des informations nominatives dont la divulgation aurait pour effet de porter atteinte à la réputation ou à la considération de la personne ou à l’intimité de la vie privée, aura sans l’autorisation de l’intéressé, sciemment porté ces informations à la connaissance d’une personne qui n’a pas qualité pour les recevoir en vertu des dispositions de la présente loi ou d’autres dispositions législatives ». Al secondo comma prevede, con una formulazione più semplice e con una sanzione più lieve, il delitto colposo: « Sera puni d’une amende de 2 000 à 20 000 F quiconque aura, par imprudence ou négligence, divulgué ou laissé divulguer des informations de la nature de celles mentionnées à l’alinéa précédent ». L’art. 43 delineava due ipotesi di reato distinte consistenti nel fatto di portare senza diritto alla conoscenza di terzi (siano essi pochi o la generalità) talune informazioni nominative provenienti da trattamenti automatizzati intenzionalmente o colposamente ed escludeva le ipotesi di comunicazione delle stesse informazioni provenienti da schedari manuali o meccanografici (188): la legge impiegava il termine traitement che all’epoca non poteva che indicare i soli archivi informatizzati. A dire il vero, le due fattispecie, così concepite, evocavano, in certa misura, il delitto di violazione del segreto professionale, giacché la medesima manifestazione di discrezione sembrava vincolare — per contratto — soggetti che pure ponevano in essere trattamenti di dati; tuttavia a differenza delle due disposizioni richiamate nel segreto professionale rileva prevalentemente la natura del segreto e la qualità del suo detentore ed è indipendente dagli effetti della divulgazione. Alcuni autori hanno sostenuto che i delitti delineati si risolvevano in una diversa configurazione dei reati — già esistenti — di diffamazione e di violazione dell’intimità della vita privata (189). Questa opinione, però, non teneva conto dei differenti elementi costitutivi dei reati informatici ed in particolare dell’art. 43. Più ragionevolmente, altri affermavano che i delitti di cui all’art. 43 potevano costituire ‘‘una nuova applicazione penale della nozione di attentato all’intimità della vita privata — apparsa per la prima volta nella legge del 17 luglio 1970 —, elemento costitutivo dei delitti previsti dagli artt. 368 e 369 code pénal’’ (190). L’inconveniente di detta posizione dottrinale risiedeva tuttavia nell’eventualità che i comportamenti imputati potessero configurare sia il delitto di cui all’art. 43, primo comma, che uno dei delitti di violazione dell’intimità della vita privata, con le conseguenze inevitabili di un concorso formale di reato: applicazione della pena più elevata — quella codificata per i reati previsti dal codice penale — oltre alla subordinazione ai fini della procedibilità alla querela della vittima (i fatti di reato p. e p. dall’art. 43 della legge del 1978 erano, invece, perseguibili d’ufficio). a) Delitto doloso. — Il delitto di cui al primo comma dell’art. 43 punisce il comportamento di chi, per così dire ‘‘infedele’’, avendo avuto conoscenza delle informations nominatives in occasione della sua partecipazione ad un trattamento automatizzato, violi volontaria(188) L’opinione contraria formulata da A. HOLLEAUX, La loi du 6 janvier 1978 sur l’informatique et les libertés, in Rev. admin., 1978, p. 164 dev’essere considerata inesatta se non altro perché i fatti previsti dall’art. 43 non sono stati estesi espressamente dall’art. 45 agli archivi manuali e meccanografici; in questo senso v. anche P. KAYSER, op. cit., n. 284 e P. KAYSER e J. FRAYSSINET, Informatique et libertés Loi, cit., n. 69. (189) Cfr. S. DIGARD et M. ROMNICIANU, Informatique et libertés, 1981, Entreprise modeme d’édition, p. 51. (190) Cfr. P. KAYSER, La protection de la vie privée, in La protection du secret de la vie privée, 1984, Economica et Presses universitaires d’Aix-Marseille, n. 284.
— 915 — mente l’onore o l’intimità della vita privata di una persona rivelando le suddette informazioni senza l’autorizzazione di questi a soggetti non qualificati a riceverle. Il reato presenta una struttura complessa, sulla quale ci sembra opportuno soffermarci. Il legislatore francese del 1978 sceglie di reprimere le sole informazioni nominative, oggetto di trattamento, la cui divulgazione avrebbe per effetto di portare attentato alla reputazione o alla considerazione di una persona o all’intimità della vita privata. Si tratta di un reato di evento nel quale il legislatore ha determinato il tipo di pregiudizio in relazione alla protezione di valori determinati tra cui l’intimità della vita privata. L’espressione, impiegata nel testo della norma, « avere per effetto... » e non « essere di natura da... » (causare un pregiudizio) sta a significare che l’effetto pregiudizievole recato dev’essere certo ed attuale, e non solo eventuale. Quanto alla nozione di attentato all’intimità della vita privata, che più ci interessa (191), tutti i commentatori della legge concordano nel riconoscere un rapporto di ‘‘filiazione’’ con le disposizioni della legge n. 70-643 del 17 luglio 1970 (artt. 368 e 369) (192). Malgrado l’impiego della parola « quiconque », l’art. 43 è un reato proprio; infatti, non tutti gli individui potevano rendersi colpevoli del delitto, ma solo le persone che avevano raccolto le informazioni divulgate in occasione del loro trattamento. In sostanza, tramite questo requisito, l’art. 43 finiva per imporre a ‘‘les informaticiens’’ — i soli all’epoca (1978) in grado di porre in essere un trattamento automatizzato — regole deontologiche in materia di confidenzialità delle informazioni nominative. L’espressione utilizzata ‘‘à l’occasion de’’ il loro stesso trattamento, più generica di ‘‘par’’ ma non per questo sinonimo di ‘‘en dehors’’, consentiva ad ogni modo fin d’allora di estendere la portata della norma al di là delle persone appartenenti al servizio detentore del trattamento anche, ad esempio, agli appartenenti al servizio tramite il quale si esercita il diritto d’accesso. Non rientravano, invece, tra i destinatari del divieto penale i soggetti estranei al trattamento ma a conoscenza delle informazioni a causa delle indiscrezioni dei qualificati a trattarle. Ci sembra utile, inoltre, ricordare che la definizione adottata dalla legge del termine traitement automatizzato — ex art. 5 (193) è piuttosto ampia e comprende, tra le altre operazioni, lo sfruttamento delle informazioni e delle banche di dati nelle sue svariate modalità. Quanto, poi, all’individuazione della condotta vietata non poche difficoltà si sono manifestate all’interprete a cominciare dall’impiego dell’espressione « porter des informations à la connaissance d’une personne » per delineare l’elemento materiale del reato seppure a premessa la stessa norma dell’art. 43 utilizza il vocabolo divulgation per qualificare le informazioni nominative che intendeva proteggere; la distinzione è ancora più inspiegabile se proviamo un coordinamento col secondo comma, che in relazione al delitto colposo vieta la condotta di divulguer. Benché non sono mancati tentativi di accomunare entrambe le espressioni privilegiandone il significato di divulgare; in realtà emerge evidente la differente essenza dei termini impiegati (194). Resterebbe, quindi, paradossalmente fuori dalla protezione assicurata dall’art. 43 la divulgazione dolosa, cioè il fatto di portare le informazioni, con coscienza e volontà, a conoscenza del vulgus (numero indeterminato di persone); addirittura, la divulgazione delle informazioni nominative che portano attentato all’intimità della (191) Si trascurerà volontariamente la trattazione del riferimento alla diffamazione, che esula dal tema oggetto di analisi. (192) P. KAYSER et J. FRAYSSINET, Articolo precitato, n. 69; MASSE et SARGOS, Le droit pénal special de l’informatique, in Informatique et droit pénal, Travaux de l’Institut de sciences criminelles de Poitiers, 1983, p. 40. (193) L’art. 5 della legge n. 78-17 precisa che per trattamento s’intende l’insieme delle operazioni realizzate con mezzi automatici, aventi per oggetto sia la raccolta, la registrazione, l’elaborazione, la modificazione, la conservazione e la distruzione d’informazioni nominative sia lo sfruttamento di archivi o basi di dati e soprattutto le interconnessioni o gli accostamenti, le consultazioni o comunicazioni d’informazioni nominative. (194) In senso conforme P. KAYSER et J. FRAYSSINET, Art., cit., n. 69.
— 916 — vita privata della persona finisce per non venire punita neppure tramite il delitto previsto dall’art. 369 del codice penale perché tale reato implica la commissione preliminare di quello dell’art. 368, i cui elementi non potranno mai essere praticamente riuniti nel caso di specie. Alcuni proposero allora di considerare la divulgazione delle informazioni nominative punibile ai sensi del delitto di détournement de la finalité des informations d’un traitement sanzionato dall’art. 44 che prevede pene molto più severe rispetto a quelle contemplate dall’art. 43. In sostanza, liberare al pubblico, cognitio causae, informazioni, oggetto di un trattamento, che portano attentato all’intimità della vita privata delle persone interessate, comportebbe uno sviamento dalla finalità del trattamento, delineata nell’atto d’autorizzazione, se rileva dal settore pubblico, o, comunque, sicuramente dichiarata ad altro fine lecito. Si giungeva, così, alla conclusione che presumibilmente il legislatore aveva voluto incriminare, nel primo comma dell’art. 43, il solo fatto di portare a conoscenza di un soggetto le informazioni indicate, rimettendo la punizione della condotta della divulgazione — più pregiudizievole della semplice rivelazione — alla sanzione più severa prevista dall’art. 44. Anche questa opinione, però, non sembrava risolvere l’impasse, giacché il legislatore, pur distinguendo altrove le condotte della rivelazione e della divulgazione di fatti attinenti all’intimità della vita privata, le sanzionava con la stessa pena nel secondo comma nell’art. 369 del codice penale. Né varrebbe pensare ad una sorta di revirement da parte del legislatore, poiché anche il nuovo art. 226.2 del codice penale ripropone la medesima scelta, operata nell’articolo che aggiorna (l’art. 369), di punire cioè della stessa pena le due differenti condotte. Quanto ai destinatari legittimi di tali informazioni essi sono individuati nella demande d’avis, per il settore pubblico, e, diversamente, nella déclaration ai sensi degli artt. 19 e 20 della legge del 1978; oltre alla Commissione nazionale dell’informatica e delle libertà ed ai suoi delegati. Il delitto è doloso, dal momento che la legge punisce il fatto di rivelare sciemment le informazioni. b) Delitto colposo. — Il secondo comma dell’art. 43 (195) sanzionava, con la sola amende de 2 000 à 20 000 F, il delitto d’imprudence, identico, per la verità a quello appena delineato quanto alle informazioni che ne sono l’oggetto, ma differente in relazione alla figura del reo, al comportamento incriminato e per l’assenza dell’elemento intenzionale. Esso punisce infatti quiconque, ogni persona che abia acquisito conoscenza di tali informazioni, anche per vie traverse, e non solo, come nel primo comma, coloro che le hanno raccolte in occasione del loro trattamento, sebbene la distinzione sia più teorica che pratica, poiché è quasi sempre in occasione del loro trattamento che l’autore viene a conoscenza delle informazioni. Questi viene punito per aver divulgato o lasciato divulgare tali informazioni e, quindi, comunicato ad un numero indeterminato di persone mentre la rivelazione ad una o più persone determinate finisce per rilevare ai soli fini della responsabilità civile dell’autore sulla base dell’art. 1382 code civil. Inoltre, viene punito non solo il comportamento del divulgare ma anche il lasciar divulgare; ne consegue che il legislatore erige, nella fattispecie, a fatto principale quello che solitamente punisce come atto di complicità, ovviando ad ogni possibile eccezione sulla compatibilità o meno della nozione di complicità con quella del delitto colposo. Infine, al carattere di delitto non intenzionale si deve riferire la scelta della sazione meno severa — l’amende. 7.3.1. La nuova formulazione del delitto previsto dall’art. 43 nel nuovo codice penale. — L’art. 226.22 code pénal reprime: « Le fait, par toute personne qui a recueilli, à l’ocasion de leur enregistrement, de leur classement, de leur transmission ou d’une autre forme de traitement, des informations nominatives dont la divulgation aurait pour effet de porter atteinte à la considération de l’intéressé ou à l’intimité de sa vie privée, de porter, sans l’autorisation (195) Esso punisce chiunque divulga o lascia divulgare, per imprudenza o negligenza le informazioni nominative la cui divulgazione avrebbe per effetto di portare attentato alla reputazione o alla considerazione della persona o all’intimita della sua vita privata.
— 917 — de l’intéresé, ces informations à la connaissance d’un tiers qui n’a pas la qualité pour le recevoir est puni d’un an d’emprisonnement et de 100 000 F d’amende. La divulgation prévue à l’alinéa précédent est punie de 50 000 F d’amende lorsqu’elle a été commise par imprudence ou négligence. Dans les cas prévus aux deux alinéas précédents, la poursuite ne peut être excercée que sur plainte de la victime, de son représentant légal ou de ses ayants droit ». La nuova formulazione dell’art. 43 della legge del 1978, perlomeno del primo comma, non è molto più chiara della norma che sostituisce; il contenuto del precetto, infatti, è appesantito da molteplici proposizioni incisive. Se ne aggravano, comunque, sensibilmente le pene: un anno di reclusione anziché sei mesi e 100 000 francs d’amende anziché 20 000 francs. L’art. 226.22 nouveau code pénal, nel riscrivere il delitto previsto nell’art. 43 della legge del 1978, non risolve l’incongruenza dell’uso delle espressioni divulgation e porter à la connaissance d’un tiers (qui n’a pas la qualité), acuita dal rinvio ora operato dal secondo comma: la divulgation prévue à l’alinea précédent. Il nuovo legislatore, che pure — nei reati di attentato all’intimità della vita privata — ha protetto l’individuo dalle due distinte condotte — divulgazione e comunicazione ad un terzo — con la medesima pena, ribadisce, ancora una volta, di voler confidare la protezione dalla divulgazione delle informazioni nominative al distinto reato di détournement de la finalité des informations nominatives, che reprime comportamenti fraudolenti volti a sviare dalla finalità lecita autorizzata un trattamento automatizzato di dati nominativi e quindi idoneo, di fatto, a ledere la libertà della vita privata nascondendosi dietro un’attività apparentemente legale. Il nuovo legislatore apporta, invece, una novità in relazione alla perseguibilità del reato rimettendo alla vittima la scelta di portare o meno dinanzi all’autorità giudiziaria il fatto che ha arrecato lesione alla propria intimità. Altra innovazione del nuovo codice penale francese (196) consiste nella possibilità di dichiarare responsabili penalmente anche le personnes morales per le lesioni ai diritti dell’individuo che hanno origine dagli archivi o dai trattamenti automatizzatii, salva l’eventuale divulgazione accidentale delle informazioni nominative. Ciò assume particolare rilevanza se si considera che generalmente i trattamenti dei dati personali sono gestiti da imprese, le quali hanno una personalità giuridica propria e distinta dai soggetti che pure vi partecipano. Le pene previste dall’art. 226.24 in combinato disposto con gli artt. 131-38 e 131-39 sono: l’amende, l’interdizione definitiva o temporanea dell’attività nell’esercizio della quale il reato è stato commesso, il collocamento sotto sorveglianza giudiziaria, la chiusura definitiva degli stabilimenti, l’esclusione definitiva o temporanea dai mercati pubblici, l’interdizione di emettere chèques, la confisca della cosa che è servita a commettere il delitto, l’affissione o la diffusione della decisione pronunciata. 7.4. Le altre disposizioni a protezione dei dati personali. — Sia il legislatore francese che quello italiano hanno scelto di adottare la protezione penale anche per violazioni per così dire di carattere ‘‘procedimentale’’ finendo per attribuire una protezione rafforzata al bene della riservatezza a fronte delle minaccia insita nell’evoluzione del mondo delle teleco(196) La responsabilità penale delle ‘‘personnes morales’’ (persone giuridiche) costituisce una delle principali innovazioni del libro I del codice penale. Tale principio è posto dall’art. 121.2 del nuovo codice penale che definisce sia il campo d’applicazione che le condizioni di sua messa in opera. Con questa norma sparisce la presunzione di responsabilità penale che pesava sui dirigenti in merito ad infrazioni di cui talvolta ignoravano addirittura l’esistenza. La responsabilità è estesa a tutte le persone morali ad esclusione dello Stato. Ad ogni modo, la responsabilità penale delle persone morali non esclude quella delle persone fisiche autori o complici degli stessi fatti. Quindi al fine d’evitare che la responsabilità penale di gruppi costituisca uno schermo utilizzato per mascherare responsabilità personali, la commissione di revisione del codice penale ha previsto la possibilità di un cumulo di responsabilità. Infine la responsabilità suddetta non è prevista per tutti i reati e per essere messa in opera dev’essere specialmente prevista dal testo che definisce il reato, come avviene nell’ipotesi appena esaminata.
— 918 — municazioni. Così ad esempio le nuove fattispecie introdotte dalla legge italiana n. 675 del 1996 — cui si possono variamente comparare norme similari del codice penale francese del 1992 (197) — come « l’omessa o incompleta notificazione, l’inosservanza di provvedimenti adottati dal Garante, l’omissione d’informazioni richieste dal Garante, non ledono né espongono a pericolo ‘‘i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche’’ (198) ». In sostanza, queste figure delittuose non tutelano un bene giuridico ma una funzione e cioè la modalità con la quale l’autorità Garante ha risolto il conflitto d’interessi punendo chi non vi si adegua a prescindere dalla reale offensività della condotta. Il reato di omessa adozione di misure di sicurezza — che causi danno o meno — merita un cenno a parte; esso configura un vero e proprio reato di pericolo presunto e le misure necessarie a garantire la sicurezza dei dati personali saranno previste dai regolamenti di attuazione emanati ai sensi dell’art. 15, secondo e terzo comma della legge. Questo ennesimo rinvio operato dal legislatore italiano, addirittura, a fonti secondarie genera qualche perplessità in relazione al vincolo costituzionale che confida in via esclusiva alla legge la repressione penale ex art. 25, secondo comma della Costituzione. Il reato si applica anche nei confronti dei trattamenti di dati personali per fini esclusivamente personali come potrebbe essere un’agendina telefonica, che, se smarrita, potrebbe provocare al distratto colpevole, che non sia in grado di dimostrare di aver adottato tutte le misure di sicurezza necessarie ad evitare lo smarrimento, sanzioni penali anche di certa gravità. Più chiara è la formulazione della corrispondente norma penale francese, l’art. 226.17 che punisce il fatto di procedere su un trattamento automatizzato di informazioni nominative senza prendere le precauzioni utili a preservare la loro sicurezza e soprattutto d’impedire che vengano deformate, danneggiate o comunicate ad un terzo non autorizzato a riceverle. 7.5. Considerazioni conclusive. — Abbiamo voluto dare una breve « occhiata » anche al profilo della riservatezza dei dati personali, oggetto di trattamento automatizzato giacché lo stesso legislatore ha dovuto prendere atto che perlomeno rispetto all’esplosione di questo settore non era più possibile procrastinare. Si tratta di uno sguardo superficiale, affatto esauriente, per il cui tramite è necessario passare al fine di cogliere la problematica nel suo insieme che, tuttavia, non può esaurirsi nelle conquiste normative pure lungamente attese e faticosamente acquisite. Preme, comunque, precisare che la normativa francese nonostante sia antecedente è per lo più conforme alle prescrizioni della direttiva europea n. 95/46 e prevede la repressione dei comportamenti illeciti di raccolta, registrazione, conservazione e comunicazione delle informations nominatives ma anche dello sviamento dalla finalità del trattamento di tali dati in violazione dei principi di lealtà, di sicurezza e di durata della conservazione di esse. La direttiva europea condivide i medesimi principi con migliore completezza ed organicità nel capo II — « condizioni generali di liceità » — relativamente alla qualità dei dati, ai soggetti legittimati ad effettuare i trattamenti, alle categorie particolari di trattamenti e alla sicurezza degli stessi, individuando per dato personale pressocché la medesima nozione delle informations nominatives. In sostanza, v’è comunanza d’intenti tra il legislatore comunitario ed il precedente legislatore interno francese; il testo europeo pone, però, particolare ed esplicita attenzione al necessario bilanciamento con l’esigenza di diffondere l’informazione. Al contrario alla nuova legge italiana è stata mossa la critica di propendere troppo per la tutela dei dati personali. È, purtroppo, una « Utopia » per la nostra epoca tentare di affermare il diritto ad un’informazione corretta e rispettosa dell’uomo, al cui servizio ed alla cui crescita essa, per prima, dovrebbe concorrere. La fragilità della condizione umana non consente di prescindere dall’esatta individuazione delle regole che gli stessi responsabili dei trattamenti dei dati (197) (198) 186 ss.
Artt. 226.16 e 226.2O nouveau code pénal français. Cfr. R. IMPERIALI e R. IMPERIALI, La tutela dei dati personali, in Il Sole 24 Ore,
— 919 — devono rispettare per non ledere i diritti più essenziali dei propri simili. In sostanza, il profilo sanzionatorio dovrebbe mirare a garantire la riservatezza dell’individuo nella lecita trasmissione dell’informazione (199).
IL PERFEZIONAMENTO DEI MODI DI PROTEZIONE La riservatezza personale, in quanto strettamente connessa allo svolgimento della personalità dell’uomo, richiede, a nostro avviso, una protezione organica mutuata dalle diverse branche dell’ordinamento giuridico. Il legislatore francese ne è consapevole, tant’è che, alle specifiche previsioni penalistiche, affianca il generico ed esplicito riconoscimento del diritto al rispetto della vita privata in sede civile (art. 9 code civil). Il contributo onnivalente ed eclettico del diritto francese evidenzia l’esigenza, peculiare del nostro tempo, di affinare le strategie sociali perlomeno nella regolamentazione delle materie più delicate. Una diversificazione dello strumento sanzionatorio si rende indispensabile nella logica di extrema ratio del diritto penale, unico in grado di comprimere il bene più prezioso per l’individuo, la libertà personale. Questa consapevolezza dovrebbe muovere la nostra civiltà c.d. ‘‘post-industriale’’ ad avvalersi dello strumento penale solo quando gli altri mezzi presenti nell’ordinamento si siano rivelati inadeguati a controllare il fenomeno antigiuridico del caso. Si potrebbe, ad esempio modellare quello che si suole considerare il ‘‘momento dell’efficacia’’ della protezione, graduando la pena in proporzione all’intensità dell’aggressione al bene riservatezza, secondo un crescendo che preveda di ricorrere alla sanzione penale solo nei casi di violazione più gravi. Ben potrebbe, infatti, riuscire a ‘‘ristorare’’ la vittima di una violazione lieve una sanzione a carattere ‘‘restitutorio’’. La combinazione ‘‘ottimale’’ delle varie forme punitive potrà, pertanto, oscillare con preferenza per il generico risarcimento del danno in alternativa o in aggiunta a misure inibitorie o, magari, a sanzioni di carattere amministrativo per il mancato rispetto di formalità preventive con ricorso sussidiario alla repressione penale.
Il diritto civile complemento della tutela penale La protezione civile può porsi a complemento di quella penale, seppure la sanction la plus adéquate des droits de la personnalité se trouve sans doute dans la législation pénale (200). Il diritto penale, in particolare, non è solito definire il diritto in base al quale determinare le condotte da punire, ma si limita a far rispettare le obbligazioni poste altrove negli altri rami dell’ordinamento, come un « gendarme du droit » (201). L’originalità della svolta legislativa francese del 1970 consiste per l’appunto nell’interazione tra tutela civile e protezione penale; in materia civile, accanto alla possibilità di ricorrere al risarcimento del danno, viene sancito un vero e proprio diritto soggettivo, recependo in tal modo le istanze, che la pratica giudiziaria veniva via via registrando. Ci sembra, pertanto, utile e doveroso, dedicare almeno un accenno alla portata ed al contenuto della protezione civile assicurata dal diritto francese, per cogliere gli opportuni spunti e valutare il fenomeno nella sua interezza. (199) Cfr. S. CIPRIANI, Protezione dei dati personali: un problema di equilibrio di interessi, cit., p. 13 e passim. (200) R. NERSON, La protection de la vie privée en droit positif français, in Rev. int. droit comparé 1971, p. 741. (201) E. DURCKEIM, Division du travail social, 1893, Paris, riedizione P.U.F. 1960.
— 920 — 1. L’art. 9 code civil français. — L’art. 9, primo comma, del codice civile francese proclama, negli stessi termini dell’art. 8, § 1 della Convenzione europea, il principio secondo cui: « Chacun a droit au respect de sa vie privée ». Ma, a differenza del testo europeo, non specifica « ... et familiale, de son domicile, de sa correspondance », considerandoli sottintesi. Al secondo comma, poi, autorizza i giudici a prescrivere, oltre alla riparazione del pregiudizio subito, tutte le misure, come le sequestre, la saisie et autres, atte ad impedire o a far cessare un attentato all’intimità della vita privata. Parimenti (così avviene anche nel citato art. 8, § 1 della Convenzione di Roma), non viene determinato il contenuto del diritto alla vita privata, né i limiti di esso, questi ultimi, invece, specificati nell’art. 8, § 2 della Convenzione. E nel caso considerato al secondo comma di attentato all’intimità della vita privata, i giudici possono prescrivere tutte le misure atte a farlo cessare o ad impedirlo. Per la cultura giuridica francese questo intervento normativo riveste notevole importanza. Per la prima volta, infatti, un diritto della persona ottiene riconoscimento giuridico e protezione rispetto a qualsiasi lesione, comunque realizzata, seppure non tipica. Con l’art. 9, il codice civile cessa il suo ruolo di codice dei diritti patrimoniali ed inizia ad assumere anche il valore di « statuto fondamentale dei diritti della persona ». I primi segnali di svolta già si potevano percepire nell’avant-projet del code civil del 1953, nel quale un intero capo veniva dedicato ai « diritti della personalità » e l’art. 165 prevedeva, genericamente: « toute atteinte illicite à la personnalité donne à celui qui la subit le droit de demander qu’il y soit mis fin » (202). L’avant-projet, però, non ebbe seguito e, quindi, l’affermazione coraggiosa dell’art. 9 del code civil segna il radicale cambiamento e non solo per l’ordinamento francese. Nondimeno, la nozione di diritto al rispetto alla vita privata, per quanto di difficile identificazione e di ampia portata, non può essere assimilata al riconoscimento di un generale diritto della personalità, l’unico in grado di rappresentare, di diritto, il regime dei droits extrapatrimoniaux. Viene spontanea una breve digressione sulla realtà giuridica italiana in proposito. La nostra Carta Costituzionale proclama, nell’art. 2, i diritti inviolabili dell’uomo e l’indirizzo dottrinale maggioritario (203) gli attribuisce il valore di un principio personalistico. Più precisamente, l’art. 2 della Costituzione è stato considerato come una sorta di clausola generale a tutela della persona e di tutti gli aspetti della personalità che la coscienza sociale, in quanto fenomeno in continua evoluzione, individua man mano essenziali. Per il suo tramite, la società italiana riconosce, oramai da lungo tempo, l’essenzialità dell’esigenza di riserbo per la personalità dell’individuo; così, al fine di assicurargli tutela giuridica, la dottrina ha operato un’interpretazione mediata tra il disposto dell’art. 2 della Costituzione con le norme delle convenzioni internazionali (204) e grazie ad essa l’interesse al rispetto della vita privata ha assunto a diritto inviolabile dell’individuo. (202) Avant-projet de code civil, Paris, 1955, I parte, 1 e a pag. 78 fra i motivi si legge: « les droits de la personnalité doivent être respectés en eux-mêmes et non par application des dispositions de l’article 1382 du code civil ». (203) Per un esame approfondito sui problemi di carattere generale quali la natura dell’art. 2 della Costituzione italiana, v. A. BARBERA, Principi fondamentali - art. 2, in Comm. alla costituzione, a cura di Branca, Bologna-Roma, 1975, 55 s.; MESSINETTI, Personalità (diritti della), in Enc. dir., vol. XXXIII, Milano, 1983, passim; in merito alle matrici filosofiche e ideologiche sottostanti il riconoscimento dei diritti inviolabili, v. BARBERA, op. cit., 80; sui caratteri propri dell’inviolabilità, v. DE CUPIS, I diritti della personalità, in Trattato Cicu-Messineo, Milano, 1982; PERLINGIERI, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Camerino, 1982. (204) V. l’art. 12 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e l’art. 17 del Patto sui diriti civili e politici prevedono entrambi che: « nessun individuo può essere sottoposto ad interferenze nella sua vita privata [...] »; l’art. 8 della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali afferma il « diritto di ogni persona al rispetto della sua vita privata e familiare ».
— 921 — Tornando alla realtà francese, l’art. 9 code civil, oltre che sotto il profilo sostanziale, sembra innovare anche per gli aspetti, per così dire, processuali. Al secondo comma, esso confida ai giudici la competenza ad emanare le misure atte a garantire la tutela della sfera privata della persona. In casi di particolare gravità, poi, il giudice può intervenire en référé per adottare misure urgenti per far cessare od evitare l’abuso, in totale autonomia dal giudizio di risarcimento danni. Si prefigura, in tal modo, una sorta di oscillazione tra strumenti risarcitori e misure inibitorie e/o cautelari. La gamma delle misure accessorie varia dai provvedimenti di astreinte, destruction di esemplari (e pagine) di libri o enlèvement d’affiches. 2. Le misure atte ad impedire o a far cessare l’attentato alla vita privata o all’intimità di essa. — L’art. 9, secondo comma (205) individua: « toutes misures propres à empêcher ou à faire cesser l’atteinte » e solo a titolo d’esempio menziona le séquestre e la saisie; dette misure (come anche la soppressione di alcuni passaggi di una pubblicazione), nonostante costituiscano una restrizione della libertà di espressione, si giustificano solo quando le descrizioni o divulgazioni di fatti relativi alla vita privata si rivelano intollerabili (206). Esse possono essere ordinate in référé nella sola ipotesi di violazione dell’intimità della vita privata, in relazione alla quale appare giustificata non solo la saisie ma anche il divieto della vendita e della diffusione del documento (207). In realtà le misure adottate dai giudici dei référés, per molto tempo risultarono inadeguate ad impedire e a far cessare gli attentati all’intimità della vita privata, fino a quando si pensò all’adozione di misure complementari atte a garantire l’esecuzione della pena principale. Di solito, si riusciva soprattutto a conseguire l’effetto del far cessare l’attentato, a meno che non era ancora uscito alcun esemplare dello ‘‘scritto attentatore’’ dalla casa editrice o dalla tipografia. 3. La misura dell’astreinte. — Tra le misure complementari, degna di rilievo, seppur non esplicitamente menzionata, era la c.d. astreinte (208). Si trattava di un procédé de contrainte sur les biens (astreindre = contraindre) destinato a far pressione sulla volontà del debitore per obbligarlo ad adempiere e si traduceva in una condanna pecuniaria accessoria ed eventuale, generalmente fissata a un tot per giorno di ritardo, che si aggiungeva alla condanna principale nel caso in cui quest’ultima non veniva debitamente ottemperata nel termine prescritto dal giudice. Lo scopo era di ottenere dal debitore, grazie alla minaccia di un aumento progressivo del suo debito pecuniario, l’esecuzione immediata dell’obbligazione consistente nell’astensione o nella desistenza dal comportamento indebito. Detta misura si rivelò, sin dall’inizio, molto efficace, a dire il vero non solo nella materia considerata, tanto che il legislatore francese ne precisò meglio i contenuti in una legge del 1972 (209), sia nella modalità provvisoria che definitiva (210). In sostanza, la figura dell’astreinte è una misura (205) Si rinvia quanto alla nozione d’intimità della vita privata individuata nel presente studio. (206) Così almeno si può dedurre dalla pratica giurisprudenziale, in proposito Paris 14 mai 1975, in D., 1975, 687, note LINDON; Trib. gr. inst. Paris 15 avril 1987, in D., 1987, 551, note HASSIER. (207) V. Ch. Civ. 1ère, 3 avril 1984, in Bull. civ., I, n. 125. (208) Essa compare, tutavia, nel projet de loi tendant à renfoncer la garantie des droits individuels des citoyens, Assemblée nationale, Première session ordinaire de 1969-70, n. 974, p. 14. (209) V. CHABAS, La rèforme de l’astreinte (Loi du 5 juillet 1972), in D., 1972, Chron. 271. (210) L’astreinte è definitiva, quando la somma, che il giudice o il legislatore stabilisce in ragione di ogni giorno di ritardo nell’esecuzione, è definitivamente attribuita al beneficiario senza possibilità di revisione; essa è al contrario provvisoria quando all’espirazione del
— 922 — accessoria alla condanna principale all’esecuzione di un’obbligazione (211). Il suo carattere arbitrario discende dal fatto che la sua adozione è rimessa dal legislatore alla valutazione discrezionale del giudice, che, solo, può apprezzarne l’opportunità e determinarne la durata e il montante in relazione al caso di specie; il giudice può, persino, prescriverla d’ufficio, al di là di ogni richiesta di parte. Infine presenta un carattere comminatorio, in quanto rappresenta una sorta di minaccia ad una condanna pecuniaria per il colpevole nell’ipotesi di inadempienza del comportamento dovuto nel termine prescritto dal giudice. L’astreinte è, in sostanza, una misura di contrainte e non di riparazione, del tutto indipendente dal risarcimento del danno; essa si risolve in una sanzione pecuniaria e costituisce una pena privata in quanto ne profitta esclusivamente il creditore e non lo stato. In Italia, esiste una figura affine all’astreinte, la c.d. pena privata, sebbene sia caduta in disuso e del suo recupero si discuta da tempo in dottrina. Anch’essa era posta a tutela di interessi privati giacché si traduceva in via pratica a differenza dalla sanzione penale in un beneficio per il privato e non per lo stato; assolveva una funzione prevalentemente preventiva o al più afflittiva ma certamente non riparatoria ed era applicabile d’ufficio dal giudice ma anche su iniziativa della parte danneggiata o esposta al pericolo. 4. La responsabilità civile dell’autore di un attentato au secret de la vie privée. — L’istituto della responsabilità civile ha rappresentato la prima forma di riparazione per le vittime della violazione del secret de la vie privée già molto tempo prima della legge del 1970. Nell’esperienza francese, il principio consacrato dall’art. 1382 del code civil — « Tout fait quelconque de l’homme, qui cause à autrui un dommage, oblige celui par la faute duquel il est arrivé, à le réparer » — è ius receptum, applicato sia al danno patrimoniale che non patrimoniale. Per lungo tempo, in verità, l’art. 1382 aveva svolto il ruolo di lex generalis « bonne à tout faire », ispirando le pronunce giurisprudenziali a tutela della persona quando si verificavano, ad esempio, violazioni della riservatezza che fossero causa di un danno sentito come « ingiusto ». Ora, il pregiudizio per un soggetto conseguente alla divulgazione di fatti appartenenti alla propria sfera privata o semplicemente all’indebita intromissione in essa non è d’ordine patrimoniale e l’indennizzo per il tipo di danno che ne consegue non può certamente risolversi nella mera riparazione in senso stretto, tutt’al più essa potrà assolvere una funzione compensatoria, nel senso che il risarcimento pecuniario consentirà alla vittima di procurarsi gratificazioni per compensare la sofferenza fisica o morale provata (212). A ciò si aggiunge fors’anche una finalità punitiva verso l’autore del danno, il cui patrimonio viene diminuito in difetto di simultaneo impoverimento per la vittima. Ed è in quest’ottica che andrebbe, forse, recuperato anche l’istituto della pena privata. Quindi, presumibilmente il significato implicito alla misura del risarcimento dei danni extrapatrimoniaux avrebbe dovuto condizionare il regime dell’indennizzo della vittima di una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata, alla quale solitamente veniva anche riconosciuto il diritto di vedere pubblicata la sentenza di condanna all’indennizzo medesimo. 4.1.
Il regime dell’indennizzo. — Il regime dell’indennizzo è, in concreto, subordinato
termine per eseguire impartito al condannato, il montante della condanna può essere modificato, secondo il comportamento dell’obbligato. (211) Il legame tra la condanna all’astreinte e l’obbligazione principale è così stretto che la Cour de Cassation ha giudicato che la domanda d’astreinte valeva come domanda implicita di esecuzione in natura dell’obbligazione principale, Civ. 7 avril 1965, in Bull. civ., I, n. 262. (212) Cfr. M.E. ROUJOU DE BOUBÉE, Essai sur la notion de réparation, Préface P. HÉBRAUD, Bibliothèque de droit privé, t. 135, 1974, p. 284; Y. CHARTIER, La réparation du préjudice dans la responsabilité civile, 1983, n. 118, p. 158.
— 923 — in parte alle istanze della vittima, che, a volte, chiede la condanna del convenuto ad un « franco simbolico » (213) mirando, più che altro ad una pronuncia « di principio ». In tal modo, il carattere satisfattorio veniva affidato al pubblico riconoscimento del colpevole, che doveva materialmente sostenere a suo carico le spese del processo e, spesso, anche quelle della pubblicazione della sentenza. Più spesso, la vittima mira ad ottenere il risarcimento dei danni in proporzione al pregiudizio subito, che, però non è di facile determinazione poiché dipende dal grado di sofferenza morale causata dalla divulgazione dei fatti personali, che può variare in relazione alla sensibilità del soggetto. Numerosi sono gli imputs che condizionano una così complessa valutazione come l’oggetto e l’estensione della divulgazione e l’eventuale compiacenza anteriore della vittima rispetto alla diffusione di fatti attinenti alla propria vita privata ed infine, la volontarietà del danno causato (214). La Cour de Cassation ha rimesso alla valutazione del giudice la determinazione del danno in relazione all’estensione del pregiudizio. Per evitare un eccessivo livello d’arbitrarietà direttamente proporzionale all’ampiezza del potere discrezionale conferitogli, gli stessi giudici di merito francesi cominciarono allora ad osservare spontaneamente determinati usages per valutazioni del genere. In un primo momento, le Corti d’appello usavano sistematicamente ridurre l’ammontare dell’indennizzo accordato dai giudici di prima istanza. Successivamente, invece, si tenne conto del calcolo doloso di determinate imprese di stampa, le quali consideravano di gran lunga più redditizio liberarsi a tali attività d’espionnage nonostante il rischio e le spese di un eventuale processo ed, allora, si cominciò a concedere dommages-intérêts relativamente elevati (215). La vittima poteva, inoltre, domandare di mettere fine al pregiudizio che stava subendo mediante la soppressione nella pubblicazione dei passaggi lesivi della propria vita privata e qualora risultasse difficilmente realizzabile in ragione del numero dei passaggi, della loro lunghezza, della loro ripartizione nell’insieme della pubblicazione, poteva chiedere la saisie o, finanche, la distruzione degli esemplari ancora in possesso dell’editore (216). Oltre a cercare la compensazione del pregiudizio subito, si pose attenzione, anche, alla necessità di eliminarne le cause o, quantomeno, di prevenire danni futuri ordinando la soppressione dell’indebita pubblicazione e ristabilendo la legalità. 4.2. La pubblicazione della decisione. — In generale, quasi sempre la vittima domandava e i tribunali concedevano la pubblicazione della sentenza a spese del condannato, ma secondo modalità diverse. Veniva disposta la pubblicazione dell’intera decisione o, solo, di un estratto di essa — solitamente del dispositivo; o, ancora, la pubblicazione solo sul periodico che aveva arrecato offesa alla vita privata o contemporaneamente negli altri periodici. Non sempre, però, la pubblicazione della sentenza di condanna al risarcimento danni ef(213) V. per es. Trib. gr. inst. Seine 24 novembre 1965, e su appello, Paris, 7ème Ch., 27 février 1967, Soc. de presse Marcel Dassault c. Dame Brigitte Bardot, in D., 1967, J. 450, note J. FOULON-PIGANIOL, cit.; Trib. gr. inst. Bordeaux, 19 avril 1988, 1ère Ch., in D., 1989, S. 93, obs. D. AMSON. (214) V., M. CRÉMIEUX, Réflexions sur la peine privée moderne, Etudes Pierre Kayser, t. 1, n. 197, note 198, p. 300, n. 55 in fine, p. 301, n. 56. (215) V. ad es. tra le altre, la 1ère Ch. A de la Cour de Paris ha, in una sentenza del 12 mai 1986, condannato à 150.000 F de dommages-intérèts un periodico che aveva pubblicato fotografie dell’ex imperatrice d’Iran Farah Diba in costume da bagno mentre pescava sulla Costa Azzurra, Jours de France c. Agence Angeli, in D., 1986, I, R., 445, obs. R. LINDON; o ancora la condanna a 250.000 F di dommages-intérets di una rivista che aveva pubblicato fotografie di un’attrice nuda, in posizioni indecenti, e a 20.000 F, sul fondamento dell’art. 700 del nouveau code de procédure civile, Paris, 1ère Ch. A, 4 janvier 1988, S.A.R.L. Editions des Savanes c. Mme B., in D., 1989, S., 92 con obs. D. AMSON. (216) V. Paris, 4ème Ch. A, 24 juin 1980, Consorts Citroën c. Editions Olivier Orban, in D., 1980, J., 583, note R.L.
— 924 — fettivamente ripara il pregiudizio patito dalla vittima, che, al contrario, può sentirsi maggiormente danneggiata dalla più ampia diffusione del fatto in questione. La Cour de Paris sosteneva, al contrario, che la « riparazione » consisterebbe nell’informare i lettori dell’organo di stampa indiscreto che lo stesso non è stato autorizzato alla divulgazione dalla vittima della violazione della vita privata (217). Ma il carattere satisfattorio di tale soluzione in realtà variava a seconda della sensibilità del soggetto leso proprio a causa della maggiore pubblicità, pure volta a diffondere la colpa del reo, che doveva per di più affrontare le spese solitamente elevate della pubblicazione. Quindi, nonostante i tribunali usassero condannare all’esecuzione provvisoria della pubblicazione della loro pronuncia, giustificandola con l’urgenza della riparazione per la vittima; in realtà, non sempre detta misura si risolveva a vantaggio di essa. 5. Suggerimenti per il sistema italiano. — L’esperienza francese fornisce alcuni elementi validi anche per il sistema giuridico italiano. Sicuramente da importare è la scelta di utilizzare, a tutela della riservatezza personale, i diversi strumenti presenti nell’ordinamento giuridico in proporzione all’obiettivo di politica legislativa di prevenzione dell’atteinte, di risarcimento del danno o di punizione del colpevole, disciplinando il ricorso all’intervento penale solo nelle ipotesi più gravi. 5.1. Criteri di selezione dal « penalmente rilevante ». — Per contenere l’area penalmente tutelata, il legislatore francese indica la strada della diversificazione dello strumento sanzionatorio secondo una concezione punitiva che fuoriesce dagli ambiti strettamente penalistici. L’ordinamento giuridico italiano non pare discostarsi molto da tale prospettazione. Anzi, agli inizi degli anni ’80 si sviluppa, in questo trend, il fenomeno della c.d. depenalizzazione; si parla di criteri di selezione del penalmente rilevante sulla base di una politica dei beni giuridici strettamente collegata al rapporto di adeguatezza tra bene e sanzione, tra oggetto e tecnica della tutela, tra natura del bene e tipologia sanzionatoria. In particolare, si delineano due criteri fondamentali di distinzione: la proporzione tra bene protetto e sanzione in termini di meritevolezza della pena e la sussidiarietà in termini di efficienza intesa come utilizzazione del minimo strumento sanzionatorio per il raggiungimento del massimo risultato di tutela (a seconda che si miri ad effetti di deterrenza ovvero di recupero sociale, di orientamento culturale ovvero di dissuasione individuale, etc.). Quindi, mentre originariamente la protezione dei diritti della personalità, implicando beni suscettibili di valorizzazione ideale, veniva in via di principio confidata alla repressione penale, capace di rafforzarne il « credito sociale », man mano si prendeva coscienza del rischio di un’applicazione troppo diffusa della sanzione penale quale mezzo di pedagogia sociale sino a colpire fatti privi di effettiva dannosità sociale. Di qui la rivalutazione delle sanzioni a contenuto « restitutorio ». Certo, esse non potevano svolgere funzioni di orientamento culturale, poiché il loro contenuto sanzionatorio è prettamente « materiale », immediatamente percepibile per chi ha subito l’offesa e si modella sulla base dei risultati dannosi, seppure la loro portata afflittiva non sia in grado di bilanciare l’integrale disvalore del comportamento lesivo. La loro efficacia è, in sostanza, rimessa al caso e non è legislativamente pre-determinabile al momento della formulazione della fattispecie. Per questo motivo, sono escluse da ogni classificazione nell’ambito del penalmente rilevante ma possono combinarsi con la sanzione penale sulla base di un meccanismo che preveda l’intervento della sanzione penale — mediata dalla procedibilità a querela e solo per determinate ipotesi — nel caso di mancata esecuzione od inosservanza della sanzione civile a carattere restitutorio; così, ad esempio, rispetto ad aggressioni di non rilevante gravità ma che comportano un’intensifica(217) Cfr. 1ère Ch., 26 avril 1983, in D., 1983, J. 376, note R. LINDON, Paris, 1ère Ch. A., 28 novembre 1988, in D., 1989, 410, note J.-L. AUBERT.
— 925 — zione dell’offesa a causa del perdurare del comportamento lesivo ovvero della cristallizzazione degli effetti lesivi. Quanto all’obiettivo di « punizione del colpevole », da intendersi in senso ampio, il contenuto afflittivo dovrebbe modellarsi sia in relazione alla gravità e al disvalore oggettivo della violazione che alla misura della colpevolezza, in modo da soddisfare anche finalità di deterrenza e dissuasione di carattere generale ed individuale. Dobbiamo, comunque tener presente che la pena pecuniaria nei casi di comminatoria congiunta trova la sua efficacia dissuasiva-deterrente totalmente assorbita dalla pena detentiva, oltre a non differire sostanzialmente dalla sanzione civile del risarcimento dei danni morali, perlomeno dalla prospettiva di chi la subisce e, comunque, sotto il profilo contenutistico-strutturale ma anche funzionale. Ciò a conferma dello stadio di ‘‘progressiva erosione della pena pecuniaria criminale’’. In sostanza, rispetto allo specifico aspetto della personalità — la riservatezza personale —, appare inevitabile delineare, con metodo deduttivo, l’area da affidare necessariamente alla pena detentiva e quella da confidare, invece, ora alla pena pecuniaria criminale e quindi comunque alla pubblicità e solennità del processo penale, ora, più semplicemente, al risarcimento dei danni morali come, ad esempio, a causa della scarsa afferrabilità del bene protetto. In tale ipotesi, diviene difficile ricorrere alla repressione penale a meno di eludere il principio di tassatività; così pure, quando il conflitto tra beni equivalenti non è di facile soluzione in via astratta da parte del legislatore ed, ancora, quando l’offesa tipica è caratterizzata dall’esistenza di un forte carattere interpersonale tra i soggetti attivi e passivi. In conclusione, la scelta punitiva è condizionata dalla natura e dal contenuto della repressione penale, che incide sui beni fondamentali dell’individuo come la libertà personale con effetti di riprovazione sociale e stigmatizzazione personale. Le sanzioni « civili » hanno invece carattere, lato sensu, reintegrative dello status quo ante la violazione: così le restituzioni, le riduzioni in pristino, il risarcimento dei danni e anche i provvedimenti inibitori che dispongono la cessazione del comportamento antigiuridico o il compimento di attività dirette ad attenuarne gli effetti lesivi. 6. Verifica in concreto e prospettive de iure condendo. — Sebbene non possiamo che approvare l’intuizione francese relativa alla necessità d’interazione tra la componente civile e penale dell’ordinamento giuridico, alcune difficoltà insorgono in concreto dalla trasposizione del criterio nel sistema italiano. Il codice civile italiano riconosce, ad esempio, il danno non patrimoniale, a fini risarcitori, solo allorché il fatto generativo di esso sia un illecito penale (combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p.). Diversamente, l’art. 1382 code civil français si riferisce genericamente a qualsivoglia danno cagionato ad altri, senza restrizioni di sorta. È evidente la differente duttilità del dato normativo francese, cui, agevolmente, possono essere ricondotte le forme di aggressione alla sfera privata. Sarebbe, pertanto, auspicabile liberare la formulazione della norma italiana (art. 2059 c.c.) da queste anguste limitazioni, al fine di assicurare un’efficace alternativa civilistica in chiave punitiva anche tramite il risarcimento del danno non patrimoniale. Abbiamo già segnalato, inoltre, l’opportunità di un recupero della figura della pena privata al fine di supportare l’azione della responsabilità civile e di procurare la reintegrazione, almeno sul piano economico, della vittima offesa dall’altrui indebita curiosità. La pena privata dovrebbe, cioè, subentrare quando lo strumento aquiliano, seppur riformato nell’ipotesi del danno non patrimoniale e manovrato in maniera impeccabile, resti inadeguato, in via preventiva, a scoraggiare l’autore potenziale dell’indiscrezione o divulgazione e, successivamente, a farlo desistere dall’indebita impresa. Ciò, sia perché il danno non patrimoniale risulta difficilmente traducibile in un equivalente economico, sia perché la misura del risarcimento, in quanto ancorata al parametro del danno, si rivela, il più delle volte, inferiore al profitto dell’iniziativa illecita; di qui il soccorso della pena privata all’istituto della responsabilità per danni, introducendo un’obbligazione ulteriore al semplice risarcimento. Nella valutazione relativa all’opportunità della sua applicazione inciderà, ovviamente, l’importanza del bene violato nella scala di valori presente nell’ordinamento ed il carattere particolarmente ri-
— 926 — provevole ed intollerabile della condotta tenuta dall’agente. La pena privata rappresenterebbe, in definitiva, una variante sanzionatoria scaturita dalla necessità di fornire sempre più adeguata protezione alla libertà dell’individuo riducendo al massimo le ipotesi di restrizione di essa (c.d. ‘‘fuga dalla pena detentiva’’). Quanto alla finalità di prevenzione, spesso la vittima della violazione della riservatezza, oltre o più che una tutela risarcitoria (che rischia di dare maggiore pubblicità a ciò che s’intende mantenere segreto), desidera far cessare il comportamento illecito o, meglio ancora, evitarlo. La valutazione, che questa funzione implica, è estremamente delicata in quanto il contenuto della prevenzione si sostanzia nella limitazione della libertà di un soggetto di fronte alla sola minaccia, seppure attuale, di future lesioni di diritti; essa va posta in termini di costi e benefici: il costo del beneficio attuale della libertà d’iniziativa di un soggetto a fronte del beneficio per il soggetto sul quale incombe la minaccia della lesione. Certo, si tratta di una funzione solitamente affidata alla protezione penalistica. Eppure il legislatore francese ha fornito la prova di come anche l’ambito civilistico possa muovere da intenti di prevenzione, riconoscendo il diritto soggettivo al rispetto della vita privata altrui e correlativo generale dovere giuridico di astensione dall’intromissione in essa. Sono noti gli sforzi compiuti dalla dottrina civilistica italiana al fine di desumere l’esistenza di un vero e proprio diritto soggettivo alla riservatezza dalle norme costituzionali e in particolare dal citato art. 2 della Costituzione, che rappresenta il solenne impegno dello Stato italiano a garantire i diritti inviolabili ed esprime una scelta di fondo dell’ordinamento nella sua interezza. Tuttavia, autorevoli obiezioni (218) sono state mosse alla rilevata costante propensione a qualificare diritti soggettivi le « situazioni giuridiche costituzionali » nominate o innominate — diritti inviolabili —, in quanto « il diritto soggettivo non è necessariamente correlato all’oggetto (bene giuridico) della tutela, bensì alle conseguenze eventuali delle violazioni del precetto », cioè situazioni in cui la tutela giuridica generale si riflette solo indirettamente nella tutela della sfera giuridica individuale. Su questo filone, v’è chi, con chiarezza, ha affermato che « l’ordinamento giuridico stabilisce gli attributi essenziali della personalità con norme che sono di diritto pubblico (costituzionale, amministrativo e penale) e non conferiscono alla persona un potere di volontà in ordine alla spettanza degli attributi medesimi: essi costituiscono ‘‘beni giuridici’’ per il soggetto, ma non sono oggetto di altrettanti diritti soggettivi. Rispetto a questa tutela meramente oggettiva si pone come secondaria la tutela realizzata dall’ordinamento mediante l’attribuzione al privato di diritti soggettivi » (219). I diritti della persona, si dice, in quanto implicano valori attinenti l’essere e non l’avere dell’individuo, non possono costituire diritti soggettivi, giacché l’istituto del diritto soggettivo rappresenta l’archetipo per eccellenza del riconoscimento che al soggetto appartiene qualcosa o comunque è dovuto qualcosa ad esclusione di altri. Non è possibile, quindi, pensare a forme di godimento o di appartenenza per caratterizzare il rapporto tra il soggetto e il suo modo d’essere né questo può essere configurato oggetto di un suo potere dominicale. In sostanza, si tratta di stabilire se è il soggetto a determinare il valore formale della propria persona nell’ordinamento o se questo è desumibile da valutazioni che s’impongono dall’esterno come dato oggettivo. Se si aderisce alla prima ipotesi, occorre tenere presente un ulteriore elemento di valutazione: qualora la tutela di tali valori venga subordinata alla volontà e all’arbitrio del soggetto, divengono difficili forme di bilanciamento d’interessi ove a fronte dell’interesse del singolo si ponga un interesse della collettività (nel caso di specie, tra l’esigenza di riservatezza e il diritto all’informazione (220)). (218) PACE, Problematica delle libertà costituzionali, Padova, 1983, p. 7 s. (219) Cfr. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1981, 50 s.; ID., Diritti assoluti e relativi, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, p. 754; in questo senso anche PUGLIATTI, Beni (teoria generale), in Enc. dir., V, 164 s. (220) In particolare, il diritto all’informazione essendo garantito in maniera chiara dalla Carta costituzionale e quindi godendo di un livello di protezione forte nell’ambito del-
— 927 — Oggi più che mai, la nostra società reclama un ordinamento giuridico incentrato sulla persona (ed in tal senso da tempo si discute anche di una specifica riforma dell’intero codice penale italiano). Il riconoscimento formale ed esplicito operato dal legislatore francese del diritto della persona al rispetto della sua vita privata genera un potere di godimento e di disposizione per il soggetto di quest’aspetto della propria personalità da cui scaturisce il potere di pretendere la non ingerenza dei terzi. Ciò, in considerazione del fatto che l’uomo del duemila ha un ruolo fondamentale nella valutazione dei limiti sopportabili di invadenza nella propria sfera privata e non gli si può negare di tenere sotto controllo le pericolose potenzialità insite nello sviluppo delle tecniche di comunicazione, pur permanendo che lo stesso potrà, talora, preferire la notorietà della sua esistenza. Ogni estrinsecazione della persona va, però, tutelata nel rispetto ed in conformità agli altri valori che appartengono alla collettività. Non si può, infatti, inopinatamente rallentare il percorso dell’informazione quando v’è un apprezzabile pubblico interesse alla conoscenza di fatti privati in considerazione di finalità culturali o didattiche o più in generale per la rilevanza sociale di essi. La dignità di ogni essere umano va protetta giuridicamente, evitando la completa e definitiva esposizione della vita intima all’altrui curiosità, seppur tenendo presente che essa stessa si evolve in una prospettiva sociale in cui l’uomo è parte integrante di una comunità » (221). In via pratica, diviene, quindi, necessario che anche il sistema giuridico italiano assicuri la possibilità di avvalersi di differenti rimedi sostanziali a riparazione del danno: in forma specifica per rimuovere direttamente o attenuare il pregiudizio sofferto — distruzione di stampati, pubblicazione di smentite; rimedi inibitori per le ipotesi in cui la violazione non si è ancora compiuta o persiste nel tempo, sulla base dell’art. 700 c.p.c.; misure coercitive indirette come la pena privata, per garantire l’esecuzione della sanzione civile. La tesi del catalogo costituzionale dei beni giuridici metodologicamente presenta il merito di aver saputo aprire sull’unico piano all’epoca possibile, quello della Carta costituzionale, il discorso sulla politica dei beni giuridici. Pur non sottovalutandone il ruolo garantista, sorge il dubbio se oggi sia davvero necessario mantenere il dibattito sugli oggetti di tutela così strettamente vincolato alla tavola dei valori costituzionali, con tutte le conosciute difficoltà di totale praticabilità. In considerazione anche del carattere non sempre rigidamente specifico delle categorie giuridiche, che, anzi, spesso subiscono una sorta di adattamento come ‘‘modelli in divenire’’, la trasformazione nella storia recente dell’oggetto di tutela del diritto penale dai diritti soggettivi ai beni giuridici conserva ancora la stessa intensità in questo periodo di ‘‘flou du droit pénal’’? D’altronde, il diritto soggettivo per eccellenza cioè il diritto di proprietà è un bene giuridico costituzionalmente protetto (art. 42 Cost.) e, quindi, l’istituto civile del diritto soggettivo non contrasta affatto col concetto di bene giuridico costituzionale, giustificandone, al contrario, la specifica posizione di vantaggio che consente una più certa e definita tutela di questi valori. Sulla base di questa considerazione, ben potrebbe essere configurato un diritto soggettivo della riservatezza sul piano civile, permanendo la garanzia costituzionale (art. 2 Cost. ‘‘clausola aperta’’), seppur indiretta, del bene giuridico riservatezza, suscettibile di protezione penale nelle forme di aggressione più intensamente rilevanti. Il segreto della combinazione del penale col civile risiederebbe, in tal caso, nella graduazione dell’aggressione al bene e nel rapporto di congruenza, più dal punto di vista qualitativo che quantitativo, tra le caratteristiche del bene giuridico da tutelare e la tipologia sanzionatoria. Sicuramente si tratterebbe di un éscamotage dal momento che non è facile individuare nel campionario degli istituti tradizionali del diritto civile una forma valida di tutela che si discosti dal diritto soggettivo. Rispetto al diritto alla riservatezza emerge viva l’esigenza di l’ordinamento italiano non sembra rischiare alcuna preclusione di bilanciamento a seguito di un eventuale diritto alla riservatezza riconosciuto dal codice civile. (221) BIANCA, Diritto civile, I, Giuffré, 1987, 145 s.
— 928 — una tutela civile svincolata da finalità meramente riparatorie in grado di rimuoverne l’appannaggio esclusivo alla tutela penale. D’altronde la stessa tesi che ravvisa quale oggettività giuridica necessaria del reato i soli interessi costituzionalmente significativi non comporta per il legislatore l’obbligo (costituzionale) di tutelare esclusivamente in via penale tali valori. Senza contare che il solo riferimento alla Costituzione si è rivelato nella pratica giurisprudenziale degli ultimi cinquant’anni troppo generico ed inadeguato a determinare la consistenza del bene — riservatezza —. In conclusione, anche se alcuni ritengono i principi della nostra Costituzione inerenti alla dignità della persona più che sufficienti a proteggere la situazione giuridica riservatezza, che si evidenzierebbe solo in relazione agli interessi con essa confliggendi, non ci sentiamo di condividere tale opinione, ritenendo, invece, che il legislatore debba intervenire fattivamente nella materia, con chiarezza evitando il « compiaciuto barocchismo del linguaggio legislativo di casa nostra (222) » e considerandone il livello di comprimibilità anche in relazione dell’estensione in continuo divenire dei beni apparentemente confliggendi.
La portata della protezione penale Lo spirito del diritto penale implica scelte difficili di politica del diritto e di tecniche criminologiche perché il momento dell’incriminazione comporta il sacrificio del bene più prezioso per l’individuo e si giustifica solo per la gravità dell’attentato apportato all’ordine sociale costituito ed al cui matenimento in sostanza mira. Le valutazioni relative non sono affatto immediate se si pensa che nulla pare secondario nell’organizzazione di una società. Eppure, alcune legislazioni hanno assolto questo compito con grande sapienza e lungimiranza sino a rappresentare un modello per le altre: è il caso del diritto tedesco relativamente ai diritti della personalità e del diritto francese quanto alla tutela della vita privata e dell’intimità di essa. Già Tito Livio tramandava che i romani, desiderosi di elaborare un diritto nuovo, inviarono un’ambasciata ad Atene; tre uomini studiarono così le leggi e i costumi dei greci e le loro osservazioni ispirarono i redattori della legge delle XII Tavole (223). Leggenda o realtà, questo aneddoto chiarisce l’importanza dell’influenza dei diritti stranieri ed il ruolo complementare del diritto comparato, particolarmente, oggi, nella prospettiva dell’effettivo conseguimento dell’unione europea ed alla luce della necessità di allargare la scelta delle forme organizzative ad ambiti geo-politici e sociali più ampi. Il riferimento, pertanto, all’esperienza del diritto francese è venuto spontaneo nel desiderio di cogliere migliori spunti per l’elaborazione di un generale diritto alla riservatezza giustamente mediato dalla libertà di espressione e d’informazione (224). Passando prima per l’analisi della problematica nel suo insieme, poi, per l’esplorazione della situazione legislativa esistente in Italia ed in Francia, finalmente ora possiamo trarre le nostre conclusioni e soluzioni. Speriamo, comunque, che tutto il percorso tracciato sia servito a riportare interesse ed attenzione alla materia nel suo insieme, i cui risvolti si moltiplicano proporzionalmente all’evoluzione del sapere nella civiltà umana. 1.
Identificazione delle lacune. — Un breve riepilogo delle più consistenti ‘‘zone d’om-
(222) Cfr V. FROSINI, La tutela della riservatezza, in Informatica ed enti locali, Maggioli editore, 1996, n. 1, p. 11. (223) M. DUCOS, L’influence greque sur la loi des Douze Tables, Paris, P.U.F., 1978, p. 14, in realtà Ducos dubita dell’esistenza di questa realtà, v. p. 22. (224) O. LANDO, The contribution of comparative law to law reform by internationals organisations, in The American Journal of comparative law, 1973, vol. XXV, p. 641.
— 929 — bra’’ delle poche norme del diritto penale italiano apparentemente poste a tutela della riservatezza personale ci consentirà di passare, cognitio causae, alla fase propositiva. In primo luogo, è evidente l’estraneità della norma che tutela le interferenze illecite nella vita privata alla sezione dedicata ai delitti contro l’inviolabilità del domicilio. L’errata collocazione va attribuita al fatto che originariamente il problema della riservatezza veniva ricondotto ai due aspetti della vita privata del domicilio e della corrispondenza. Il mutato contesto storico e la differente struttura della società rifiutano tale restrittiva impostazione e reclamano il riconoscimento della riservatezza nella sua dimensione poliedrica. a) Quanto al momento dell’indiscrezione nella vita intima. — In riferimento all’aspetto di interesse alla conoscenza esclusiva, il disposto della norma penale — art. 615-bis c.p. — appare equivoco ed incompleto. Una serie di limitazioni, poste nella configurazione della fattispecie, porta ad escludere dalla protezione della norma alcune condotte sicuramente illecite. Anche accogliendo l’interpretazione estensiva dell’espressione ‘‘ripresa visiva o sonora’’ fuoriescono dalla tutela penale, ad esempio, quelle condotte che si esplicano con l’utilizzo di mezzi diversi da quelli indicati o che comunque realizzano un’indiscrezione nell’altrui vita privata, con qualsiasi mezzo fraudolento o meno, che non si svolge nel domicilio, lato sensu. Il limite spaziale si è rivelato, poi, massimamente inadeguato in riferimento alle captazioni sonore così come è stato riconosciuto il carattere artificioso del requisito dell’indebitezza del procurarsi le notizie o immagini attinenti alla vita privata. Per finire, la pena prevista per la condotta d’indiscrezione di cui all’art. 615-bis, primo comma è apparsa eccessiva rispetto al grado di aggressione, di gran lunga meno grave di quella recata con la condotta della divulgazione. b) La divulgazione. — Quanto alla condotta della divulgazione, oltre all’infelice distinzione tra le espressioni « rivelazione e divulgazione », la principale annotazione va riferita al supposto necessario collegamento tra la condotta d’indiscrezione e quella della divulgazione, lasciando nel penalmente irrilevante le ipotesi di divulgazione non consentita di fatti attinenti alla vita privata conosciuti in maniera lecita. 2. La riservatezza appartiene alla « materia penale »? — Il postulato classico dell’unità e dell’omogeneità del diritto penale è oggi largamente superato. In una conferenza (225) tenuta a Bruxelles dal tema, sintomatico, « Codice penale di ieri, diritto penale di oggi, materia penale di domani » si constatava che i codici penali seppur riformati, riscritti e rimodellati non contengono tutto il diritto penale. Ciò, perché è invalso l’uso di definire il maggior numero dei reati al di fuori del codice penale e perché l’assenza di duttilità che caratterizza la repressione penale si concilia male con la complessità della nuova struttura sociale. Il Consiglio d’Europa, fin dal 1980, in un rapport sur la décriminalisation sottolineava, appunto, la rapida evoluzione delle condizioni sociali e l’impossibilità di farvi fronte per il sistema di giustizia penale e riscontrava, inoltre, il profondo mutamento nella valutazione e definizione di certi problemi sociali, rilevanti tradizionalmente dal sistema penale. Con questa consapevolezza, successivamente, si apprestava a considerare l’opportunità di « nuove strategie sociali » (226) per contenere i comportamenti illeciti. Si affacciava, cioè, l’ipotesi di una politica criminale a strategia differenziata sia a livello legislativo che giudiziario, valorizzando al massimo le potenzialità intrinseche ad ogni sistema sanzionatorio nel suo insieme. Ne conseguiva una sorta di confusione nella classificazione delle categorie penali e la conclusione che la sola pena detentiva assolveva una funzione prettamente penalistica. (225) Conferenza pronunciata l’11 maggio 1985 al Centre de recherche de logique, Ch. Perelman (Bruxelles), nel quadro di un ciclo di conferenza su ‘‘Autorité et raison en droit’’. (226) Tema della XIXa Conferenza di ricerche criminologiche del Consiglio d’Europa 1990.
— 930 — La sovrapposizione — codice, diritto e materia — sembrò, in sostanza, segnare la crisi del sistema penale. In realtà, si trattava soltanto di comprendere se veniva prospettato il puro disordine o se andava, invece, ravvisato un ordine differente secondo una logica pluridimensionale sulla base di « principi cardine ». In quest’ottica, la circolare italiana del 19 dicembre 1983 definiva i « criteri di orientamento per la scelta tra sanzione penale e sanzione amministrativa, enunciando i due principi della proporzionalità secondo il rango dell’interesse protetto e la gravità dell’infrazione e della sussidiarietà (che tiene conto del profilo dell’autore, dell’efficacia della sanzione e della procedura). Combinati fra loro e mediati da sottocategorie, essi avrebbero consentito — perlomeno questo era lo spirito — una scelta pertinente e chiara tra la sanzione penale e la sanzione amministrativa. Certo, in una prospettiva di riforma del codice penale, sarebbe auspicabile la piena integrazione del sistema penale nell’insieme dell’ordinamento giuridico. Per fare ciò, occorrerebbe recuperare, a pieno titolo, criteri di giustizia sostanziale e di utilità nel duplice aspetto dell’indice di proporzionalità che anima l’idea di giustizia e del livello di effettività che fonda il concetto di utilità del diritto. Detti criteri ben possono guidare le scelte di politica criminale sia a livello nazionale che europeo. E sulla base di essi va ricercato il tipo di tutela adeguato alla situazione giuridica della riservatezza. Viene spontaneo, allora, domandarsi: la riservatezza appartiene alla « materia penale »? Cosa s’intende per materia penale? L’espressione compare nella formulazione dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che è posto, in sostanza, a garantire un equo procedimento giudiziario per il cittadino. È probabile che il suo significato originario venisse a coincidere con il diritto penale. Progressivamente, però, si è andata evolvendo una diversa interpretazione nelle istanze europee, tant’è che la Corte di Strasburgo ne suggerisce una lettura più ampia: « penale » senza essere « diritto penale », questa nuova materia sembra sfuggire ai principi della logica giuridica formale (227). La Corte europea riesce ad applicare, grazie a questa nuova chiave di lettura, le garanzie procedurali previste dall’art. 6 della Convenzione in campi che non appartengono, a priori, al diritto penale interno ai singoli Stati (228). Essa si avvale di una logica sfumata che accanto al rigido binario vero/falso-bianco/nero ravvisa tutta una serie di nuances che vanno a graduare la scala della verità. La Corte, in sostanza, mirava, nel rompere l’identità tra materia penale e diritto penale, ad ampliare la portata delle garanzie procedurali assicurate dalla Convenzione di Roma. Ma, le cause dell’affermazione di questa logica giuridica vanno rintracciate, in realtà, nel disagio riscontrato nell’applicazione delle fattispecie penali nel diritto interno, per le caratteristiche della frammentazione e specializzazione del diritto penale ed, anche, nella conseguente progressiva tendenza alla depenalizzazione nonché al deterioramento della funzione propria della pena. Tre criteri furono allora concepiti per delineare la nozione di materia penale: la qualificazione del diritto interno, la natura del comportamento illecito e la severità della sanzione; studiati in dettaglio dal Groupe Logiques juridiques et droits de l’homme; questi criteri venivano completati da sottocriteri ed ulteriori elementi di valuta(227) Logica formale aristotelica fondata sul sillogismo o la logica formale fondata su formulazione matematica di Georges Boole che associa la logica formale alla teoria degli insiemi (caratterizzata da un ‘‘referenziale di base’’). Principio d’identità (A = A; il sistema penale è penale), di non contraddizione (A non è = non-A; il sistema penale non è non penale) e del terzo escluso (se B non è A, allora B = non-A; se il sistema penale non è penale, allora è non penale). (228) Tre applicazioni principali — emblematiche — si possono rintracciare: Affare Engel contro i Paesi Bassi 8 giugno 1976 e 23 novembre 1976; Campbell contro il Regno Unito 28 giugno 1984; Otzürk contro la Repubblica Federale Tedesca 21 febbraio 1984 e 26 ottobre 1984.
— 931 — zione variamente utilizzabili nei casi concreti (229). La materia penale assumeva in tal modo un valore europeo, superiore ed autonomo rispetto al diritto penale interno ad ogni Stato. Dalla combinazione dei vari elementi si poteva individuare quali sanzioni extrapenali potevano essere assimilate alla categoria penale. L’approccio variegato della nuova logica giuridica europea applicato al particolare caso della protezione della riservatezza personale ci porta a concludere che, investendo il valore della persona, essa appartiene, di diritto, alla materia penale nel senso europeo; ciò comporta che di fronte alle forme di aggressione più lievi potrebbero rivelarsi sufficienti ed adeguati gli strumenti di tutela civile. Gli interessi della sfera intima non possono, in sostanza, prescindere dall’interazione con la protezione civile, nonostante la sua natura di bene della persona sfugga a criteri di quantificazione economica. 3. Necessità di precisione legale. — Un’adeguata protezione della riservatezza personale può essere concepita solo dopo aver identificato con esattezza il bene, cosa non facile se non altro in considerazione del necessario bilanciamento con gli altri beni tutelati dall’ordinamento e manifestazioni di altri aspetti della personalità umana. Certo, il confronto col diritto nazionale francese è risultato di grande conforto in questa complessa operazione; abbiamo potuto disporre, infatti, della sperimentazione dell’insieme di nozioni, procedimenti e soluzioni e, di conseguenza, individuare gli elementi potenzialmente insidiosi nella configurazione delle fattispecie e gli effetti anomali da evitare. Tradizionalmente, al diritto penale viene confidata la salvaguardia delle aggressioni più gravi ad un bene giuridico, rinviandone la definizione agli altri rami dell’ordinamento. A questo riguardo, pare opportuno aderire all’intuizione di Nerson, per il quale un settore personale riservato dev’essere assicurato al fine di rendere inaccessibile al pubblico, senza la volontà dell’interessato ciò che costituisce l’essenziale della personalità. Si tratta di un valore che appartiene all’intera comunità degli individui, che, pertanto, ben può essere catalogato tra quelli protetti in via generale dall’art. 2 della Costituzione e per le forme di aggressione di esso più gravi solitamente affidati alla tutela penale. Non vanno sottovalutate in alcun modo le istanze di chiarezza, mosse anche sotto il profilo formale: la civiltà del duemila non può prescindere dall’uso di un linguaggio diretto ed efficace. L’importanza della comunicazione legislativa è strettamente legata alla democrazia. (229) Ricordiamo soltanto le componenti essenziali di ogni criterio. Per ciò che concerne la qualificazione dell’infrazione secondo la tecnica giuridica interna (criterio A) si esaminano i testi giuridici (A1) tenendo conto della loro natura (legislativa o regolamentare) e del loro contesto (soprattutto storico), poi le pratiche giudiziarie (A2) vale a dire di quale grado di giurisdizione si tratta o della natura della procedura seguita; infine la dottrina è talvolta invocata (A3). Quanto alla natura dell’infrazione (criterio B), l’analisi cade sui caratteri e la norma trasgredita (B1), tanto in riferimento all’interesse protetto [interesse generale o a carattere particolare] che al destinatario della norma e alle circostanze dell’infrazione (momento e luogo) e sulla gravità della trasgressione (B2) esaminata rispetto al danno e al grado di riprovazione da collegare alla trasgressione. Infine la severità della sanzione (criterio C) è prima di tutto apprezzata rispetto alla sanzione prevista (C1) che è oggetto di un esame approfondito, si tratti di uno scopo (repressivo) della sanzione, della sua natura (privativa o meno della libertà), della sua misura (durata o montante) o ancora delle modalità di esecuzione di essa (luogo d’esecuzione per le sanzioni principali ma anche per esempio iscrizione al casellario giudiziario per le sanzioni secondarie o ancora in caso di inesecuzione della sanzione principale esistenza di nuove sanzioni). Sono egualmente considerate le sanzioni effettivamente pronunciate (C2) e talvolta quelle realmente eseguite (C3). Ogni criterio viene confrontato alle circostanze dell’affare e poi combinato con gli altri al fine di dedurne la soglia a partire dalla quale ritenere la qualificazione di « materia penale ».
— 932 — Hegel (230) citava l’esempio del tiranno Dionigi che appendeva le leggi ad una altezza tale che alcun cittadino riusciva a leggerle. Oggi le leggi sono comunemente affisse dinanzi agli occhi di tutti ma ben lungi dal livello medio di comprensione del cittadino. La proverbiale verbosità, di emulazione barocca, che caratterizza l’espressione del legislatore italiano non consente al cittadino comune di comprendere la portata esatta del comportamento vietato contribuendo, il più delle volte, a creare confusione, persino, nell’interprete più agguerrito. Di qui l’esigenza di precisione terminologica, seppure senza disdegnare del tutto, e secondo necessità, ogni sorta di tecnicismo. La legge deve evocare in ogni uomo la medesima idea di giustizia. Lo stile dev’essere conciso e semplice; la redazione chiara, comprensibile e sprovvista di ornamenti. L’intelligibilità, qualità di uno strumento di comunicazione, non può essere misurata che in considerazione del destinatario del messaggio: solitamente, il destinatario è il cittadino, l’uomo della strada e non il tecnico. A tale proposito, sembra, in conclusione, utile riportare alcune indicazioni suggerite dalla c.d. legistique formelle (231). A cominciare dall’intitolato della legge, esso deve presentare caratteri di precisione, completezza e sintesi preannunciandone il contenuto senza però precisare troppo e tentare di predire; sarebbe auspicabile, inoltre, che i termini impiegati nel titolo riflettano il vocabolario presente nel corpo della legge (a differenza di quanto avviene ad es. nella legge n. 98 del 1974). In sostanza tre funzioni vengono attribuite al titolo della legge: una funzione informativa, una interpretativa ed una simbolica. La prima informa il cittadino sull’esistenza e sul contenuto del testo legislativo, assumendo un valore di ragguaglio immediato — una legge esiste su tale o tale materia —; detta funzione assume particolare valore oggi in presenza dei nuovi imperativi dell’informatica in base ai quali già nel titolo devono comparire parole chiave che consentano di evocare il testo della legge. La funzione interpretativa interessa soprattutto gli intitolati lunghi, mentre la funzione simbolica si ha solitamente quando la legge assume un valore politico anche tramite il suo intitolato. 4. Conclusioni per un regime giuridico adeguato. — L’indagine, svolta, conduce a concludere per la necessità di una protezione organica che confidi il controllo delle aggressioni meno gravi all’ambito civilistico e di quelle più insidiose alla minaccia della repressione penale. Al di là delle novità legislative, prima francese, poi europea ed italiana (232), in merito alla protezione dei dati personali soggetti ad elaborazione informatica non resta che chiudere ad integrazione con una proposta concreta per il contesto italiano. Una legge dal semplice ma significativo titolo: NORME PER LA TUTELA DELLA RISERVATEZZA, varrebbe, finalmente, ad indicare una chiara volontà di assicurarle protezione organica. Un preambolo, sebbene desueto alla produzione legislativa italiana, potrebbe contribuire a spiegare la ratio legis e guidare l’interpretazione del contenuto della legge medesima. Il tenore del PREAMBOLO lo pensiamo così: « La seguente legge nasce dall’esigenza di proteggere in maniera esplicita ed organica un aspetto della personalità dell’individuo — la cui esplicazione è salvaguardata esplicitamente dalla Costituzione italiana — la riservatezza personale ». Precisando che l’espressione « settore personale riservato » sta ad indicare quella ‘‘parte della vita di una persona, la cui conoscenza, in quanto attinente all’essenza della personalità, è di suo esclusivo dominio. Una norma sulla tutela civile della riservatezza potrebbe trovare collocazione nell’attuale disposizione del codice civile nel Libro I - DELLE PERSONE E DELLA FAMIGLIA — inserendo nel Titolo I - DELLE PERSONE FISICHE, un art. 10-bis dalla rubrica DIRITTO ALLA RISER(230) HEGEL, Principes de la philosophie du droit ou droit naturel et science de l’Etat en abrégé, Paris, Urin, 1975, n. 215, p. 235. (231) Cfr. Traité de légistique formelle belge redatto ad opera di MARTENS sotto il coordinamento di LAMBOTTE. (232) Cfr. S. CIPRIANI, Protezione dei dati personali: un problema di equilibrio di interessi, cit.
— 933 — VATEZZA, di stampo tipicamente francese: « Ogni persona ha diritto a godere della propria riservatezza nel rispetto degli altri valori contenuti all’interno dell’ordinamento giuridico. L’autorità giudiziaria può prescrivere ogni misura utile a rendere inaccessibile al pubblico un settore personale riservato senza la volontà dell’interessato ». Oppure — « Il diritto alla riservatezza di ognuno dev’essere rispettato nel quadro dei valori salvaguardati dall’ordinamento giuridico. L’autorità giudiziaria può prescrivere ogni misura atta a rendere inaccessibile al pubblico un settore personale riservato senza il consenso dell’interessato ». Tra le « misure utili... » sarebbe auspicabile comprendere anche la pena privata. Le espressioni nel rispetto dei valori o nel quadro dei valori insiti all’interno dell’ordinamento giuridico dovrebbero assicurare il necessario bilanciamento dei diversi interessi coinvolti e meritevoli di tutela. Quanto alla protezione penale, viene spontaneo utilizzare le svariate annotazioni rilevate in precedenza e collocare, di conseguenza, nella struttura attuale del codice penale, una serie di norme nel Libro II - DEI DELITTI IN PARTICOLARE, Titolo XII - DEI DELITTI CONTRO LA PERSONA, Capo II-bis - DEI DELITTI CONTRO LA RISERVATEZZA INDIVIDUALE. Due reati principali potrebbero, a questo punto, essere delineati: Ingerenza indebita nella sfera personale riservata e Divulgazione della sfera personale riservata. Ora il disposto dell’art. 599-bis, ad esempio, per rispettare la sequenza numerica adottata nel nostro codice penale, « Ingerenza illecita nella sfera personale riservata » potrebbe essere il seguente: L’ingerenza illecita con qualsiasi procedimento nella sfera riservata di una persona è punita con la reclusione da sei mesi ad un anno e con la multa fino a dieci milioni. In particolare è punita a querela della persona offesa — la captazione, registrazione e trasmissione di notizie e parole proferite a titolo privato o confidenziale o d’informazioni concernenti la sfera riservata di una persona senza il consenso espresso o presunto di essa — la fissazione, registrazione e trasmissione di immagini di una persona che si trova in un luogo privato, senza il consenso espresso o presunto di essa. Segue poi l’art. 599-ter: « Divulgazione della sfera personale riservata »: La comunicazione ad una o più persone di notizie, immagini o vicende concernenti la sfera riservata di una persona senza il consenso espresso o presunto della medesima è punita a querela della persona offesa con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a cinquanta milioni. La scelta dell’elevato ammontare della pena pecuniaria verrebbe posta ai fini dell’efficacia del disposto delle norme, come minaccia di reazione dell’ordinamento giuridico anche in termini di sacrificio economico che il trasgressore dovrà sopportare a fronte dei benefici che pure spera di conseguire dalla loro violazione. Senza dubbio, la soluzione prospettata fuoriesce dai canoni stantii del codice Rocco, sia in relazione alla tecnica dell’imputazione diretta del fatto di reato, ma anche per l’entità della sanzione pecuniaria, di gran lunga superiore all’attuale quantificazione prevista per ipotesi di reato anche più gravi. Potrebbe invece ben conciliarsi nell’ambito di una riforma organica del codice penale, che prediliga forme di comunicazione, del divieto o del comando relativo ai comportamenti contrari all’ordine sociale, chiare e direttamente percepibili dal cittadino e che naturalmente indicizzi l’ammontare delle sanzioni pecuniarie sulla base del costo reale ed attuale della vita. Se, invece, proviamo a trasporre il contenuto del disposto della norma in questione adottando la tecnica espressiva congeniale all’attuale struttura del codice penale, il tenore della norma ‘‘ingerenza illecita nella sfera personale riservata’’ potrebbe essere: Chiunque con qualsiasi procedimento s’intromette nella sfera privata di una persona senza il consenso espresso o tacito di questi è punito... In particolare è punito a querela della persona offesa... A seguire, poi, le norme poste a protezione dei dati personali dalla legge n. 675 del 1996 come verranno modificate in corso di sperimentazione ed applicazione.
— 934 — In definitiva, al di là degli ambiziosi tentativi risolutori, ci preme solo sottolineare che il pieno ed organico riconoscimento legislativo della riservatezza personale non significa necessariamente imbrigliare l’informazione e sacrificare l’iniziativa economica e l’attività d’impresa. La nuova legge n. 675 del 1996 ha introdotto in via di principio il ‘‘diritto all’autodeterminazione informativa’’, affidando alla mediazione del consenso dell’interessato la legittimità del trattamento dei suoi dati personali e quindi della raccolta e trasmissione d’informazioni anche riservate, seppure andrebbero meglio individuate le doverose eccezioni. Il cambiamento intrapreso con la legge dovrebbe essere, tuttavia, più congruo e volgere al riconoscimento esplicito dell’essenzialità che il diritto alla riservatezza riveste nell’esplicazione della personalità dell’individuo, che pure ha bisogno d’informazione, e decisivamente indirizzato verso soluzioni di migliore semplificazione. Dott. SIMONETTA CIPRIANI
GIURISPRUDENZA
b) Giudizi di Cassazione
CORTE DI CASSAZIONE — Sez. V — ud. 26 aprile 1995 (dep. 12 maggio 1995) Pres. Jacomini — Rel. Cicchetti P.M. (conf.) Siniscalchi — Imp. De Padua Violazione degli obblighi di assistenza familiare — Fattispecie: rinvio dell’udienza presidenziale di separazione tra coniugi — Mancata adozione di provvedimenti circa il mantenimento — Omessa prestazione dei mezzi di sussistenza — Errore di fatto — Ignoranza scusabile della legge penale — Configurabilità — Esclusione — Ragione: obbligo derivante da inderogabili principi di solidarietà (C.p. art. 5; c.p. art. 47 comma 3; c.p. art. 570 comma 2 n. 2). In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, nella forma dell’omessa prestazione dei mezzi di sussistenza, non si può invocare l’errore di fatto, né l’ignoranza della legge penale sotto il profilo della sua inevitabilità, poiché l’obbligo sanzionato deriva da inderogabili principi di solidarietà, ben radicati nella coscienza della collettività, prima ancora che nell’ordinamento. (Fattispecie nella quale il difetto di dolo era stato sostenuto dall’imputato adducendo che l’udienza presidenziale di separazione era stata rinviata senza che alcun provvedimento fosse stato adottato riguardo al mantenimento) (1). (Omissis). — SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. — Il pretore di Roma, con sentenza in data 11 dicembre 1992, condannava De Padua Modesto alla pena complessiva di mesi 6 di reclusione e lire 1.000.000 di multa per i reati di cui agli artt. 570, 582 e 612 c.p., uniti gli ultimi due dal nesso della continuazione. La sentenza impugnata concedeva le attenuanti generiche riducendo la pena a mesi 3 di reclusione e lire 300.000 di multa: confermava per il resto la decisione di 1o grado. Argomentava che le risultanze di fatto erano pacifiche; che il De Padua era tenuto al sostentamento anche senza esplicita richiesta ed in attesa del provvedimento presidenziale; che l’eritema al viso con prognosi di giorni 3 integrava gli estremi delle lesioni. Il ricorrente adduceva i seguenti motivi: 1) La sentenza non aveva risposto ai motivi di appello in ordine all’attendibilità della parte lesa; che dal certificato non poteva dedursi il fatto storico di percosse e minaccia, anche tenuto conto delle discordanze sugli orari.
— 936 — 2) Nessun obbligo di mantenimento era stato imposto dal giudice in sede di prima comparizione personale. Le parti hanno concluso a verbale. MOTIVI DELLA DECISIONE. — Il ricorso è infondato e deve subire la sorte del rigetto. Non sussiste il vizio di motivazione, tenuto conto che le due sentenze di merito vanno considerate unitariamente e le rispettive argomentazioni possono integrarsi. Il pretore ha dato credito alla parte lesa per la precisione del racconto dell’intero episodio in querela, né la maggiore istruzione della moglie (addotta nei motivi d’appello) poteva in qualche modo influire sulla veridicità dei fatti esposti. Non può negarsi l’ammissione dell’imputato in relazione alla mancata corresponsione del mantenimento. Le dichiarazioni della D’alessandro contengono precisi riferimenti anche ai reati di minaccia e lesioni a sostegno della certificazione medica. In sostanza la valutazione dei giudici di merito sulla prova è sorretta da congrua motivazione e pertanto non è sindacabile in questa sede di legittimità. Quanto al delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’adempimento (da parte del coniuge più dotato in favore di quello che è sprovvisto di mezzi propri) trova diretto ed inderogabile titolo nelle norme del c.c. (art. 160 in relazione all’art. 143 c.c.) che continuano a regolare i rapporti tra coniugi sino a quando non sopravvenga un provvedimento giudiziario che imponga soluzioni o modalità differenti. Permanendo l’interesse, l’adempimento di un fondamentale obbligo — quale quello di assistenza coniugale — non può subire interruzioni per effetto della domanda di separazione, sicché il mero rinvio dell’udienza presidenziale (senza assunzione di uno specifico provvedimento in ordine al mantenimento) non può in alcun modo interferire sulla permanenza del precedente regime. Non può seriamente sostenersi l’errore di fatto (art. 47 comma 3 c.p.), quale causa di esclusione della punibilità, né l’ignoranza della legge penale sotto il profilo della sua inevitabilità (Corte cost. 24 marzo 1988 n. 364), poiché l’obbligo sanzionato deriva da essenziali principi di solidarietà, ben radicati nella collettività, prima ancora che dalla norma civile e penale. Al rigetto del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. — Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. ——————— (1)
La violazione dei c.d. ‘‘obblighi di assistenza materiale’’ e l’errore inerente a fattispecie connotate da disvalore etico.
SOMMARIO: 1. L’oggetto del dolo nel reato di cui al n. 2 dell’art. 570 cpv. c.p.: l’errore sull’obbligo di prestare i mezzi di sussistenza come errore sul precetto. — 2. La distinzione tra mala in se e mala quia vetita. — 3. La valenza etica dei doveri di assistenza familiare. — 4. Mala in se e giudizio di scusabilità dell’ignorantia iuris. — 5. La soluzione del caso concreto alla luce delle considerazioni svolte. Un ulteriore spunto di riflessione.
1. Con la sentenza in esame la Cassazione affronta la seguente problematica: risponde del reato di cui all’art. 570 cpv. n. 2 c.p. un marito che abbia ces-
— 937 — sato di mantenere la moglie in pendenza di un procedimento di separazione personale, qualora il giudice della separazione, in sede di prima comparizione delle parti, non abbia emesso i provvedimenti ‘‘temporanei ed urgenti’’ relativi ai rapporti economici tra i coniugi ex art. 708 comma 3 c.p.c.? La Corte afferma la non necessarietà di un provvedimento giudiziale per la sussistenza dell’obbligo di assistenza coniugale contemplato dall’art. 570 c.p., derivando quest’ultimo direttamente dalle disposizioni degli artt. 143 e 160 c.c.; dal punto di vista soggettivo, esclude la rilevanza, sia ai fini dell’art. 47 ultimo comma c.p. sia ai fini dell’art. 5 c.p., della convinzione dell’imputato di non essere tenuto al mantenimento, ricadendo questo errore sull’esistenza di un obbligo espressione di ‘‘essenziali principi di solidarietà, ben radicati nella collettività’’. Per quanto riguarda l’integrazione ‘‘oggettiva’’ del reato, basti qui notare che, se effettivamente per la sussistenza dell’obbligo di assistenza penalmente rilevante non è necessaria una sua fissazione formale da parte del giudice, ciò avviene non perché, come sostiene la Corte, questo obbligo trovi la sua fonte diretta nelle norme del codice civile, ma perché esso sorge per il semplice sussistere dei presupposti elencati direttamente dall’art. 570 cpv. n. 2 c.p., tra i quali non rientra un provvedimento giudiziale costitutivo; la norma penale in questione non sanziona, come vedremo meglio tra poco, il semplice inadempimento agli obblighi previsti dall’art. 143 c.c., ma richiede un’omissione caratterizzata da presupposti peculiari, come l’esistenza di uno ‘‘stato di bisogno’’ particolarmente grave, condizione questa che sembra essere stata solo implicitamente considerata in sentenza (là dove si sottolinea come la moglie fosse ‘‘sprovvista di mezzi propri’’). Dando comunque per scontata nel caso concreto, al di là delle riserve in punto di motivazione ora espresse, la sussistenza di tutti gli elementi della condotta penalmente rilevante, la parte più interessante della decisione è quella inerente alla colpevolezza dell’imputato. Sorgono al proposito due questioni: una di diritto (ignorare l’esistenza dell’obbligo del coniuge di fornire i mezzi di sussistenza rileva, in relazione al reato di cui all’art. 570 cpv. n. 2 c.p., ex art. 5 c.p. o ex art. 47 ultimo comma c.p.?) ed una di fatto (era lo specifico errore dell’imputato, fosse esso ricadente sul fatto o sul precetto, tale da escludere nei suoi confronti l’applicazione della pena?). Per la soluzione della prima questione non è rilevante prendere posizione sulla complessa problematica della distinzione tra errore sul precetto ed errore su legge extrapenale determinante errore sul fatto (1), dato che, qualunque sistemazione dogmatica si segua, in nessun caso l’errore sull’obbligo di prestare i mezzi di (1) La nota interpretatio abrogans giurisprudenziale dell’art. 47 ultimo comma c.p. (v. LANZI, L’errore su legge extrapenale, la giurisprudenza degli ultimi anni e la non applicazione dell’art. 47 ultimo comma c.p., in Ind. pen., 1976, 299 ss.; PALAZZO, L’errore sulla legge extrapenale, Milano, 1974, 95 ss.) dettata forse in origine dal timore di eludere per vie traverse il principio dell’assoluta inescusabilità dell’errore su legge penale, si è conservata, come per forza d’inerzia, anche quando il suddetto principio ha perso la sua assolutezza a seguito della celebre sentenza n. 364/88 della Corte costituzionale, che ha dichiarato incostituzionale l’art. 5 c.p. nella parte in cui affermava l’irrilevanza dell’errore inevitabile sul precetto (v. CADOPPI, Orientamenti giurisprudenziali in tema di ignorantia legis, in Foro it., 1991, II, 420, lett. L). Da parte della dottrina sono invece da tempo proposte interpretazioni che attribuiscono precisi e ben distinti ambiti applicativi agli artt. 5 e 47 ultimo comma c.p.. Tra le più convincenti, vi è quella di chi si affida alla distinzione tra ‘‘errore (di diritto o di fatto) risolventesi in errore sul fatto’’ (previsto dall’art. 47 c.p.) ed ‘‘errore (di diritto o di fatto) risolventesi in errore sul precetto’’ (art. 5 c.p.): secondo la disciplina generale dell’elemento soggettivo, non si ha dolo ogni qual volta il soggetto agente non si rappresenti uno o più degli elementi che la fattispecie penale qualifica come costitutivi del reato; questa mancata rappresentazione può derivare egualmente da un errore di fatto o senso-percettivo (se sparo ad un uomo credendo che sia un coniglio, non mi rappresento, a causa di un errore senso percettivo, l’elemento costitutivo ‘‘uomo’’ previsto dall’art. 575 c.p., e non sono dunque in dolo) o da un errore di diritto su norma extrapenale richiamata (se, per errore sulle leggi civili relative al trasferimento di proprietà, ritengo erroneamente mia la cosa mobile che sottraggo al proprietario, non mi rappresento la qualifica di ‘‘altruità’’ della cosa mobile stessa, qualifica che è elemento costitutivo del reato di furto secondo la formulazione
— 938 — sussistenza può essere considerato un errore su legge extrapenale, rilevante eventualmente ai fini dell’art. 47 ultimo comma c.p.. L’obbligo in questione è infatti previsto direttamente dall’art. 570 cpv. n. 2 c.p., che ne indica tassativamente i presupposti ed i possibili titolari, senza rinviare, neppure implicitamente, ad altre norme (2). In particolare, l’obbligo di assistenza c.d. ‘‘materiale’’ si differenzia da quello alimentare previsto dagli artt. 433 ss. c.c., in primo luogo perché incombente su alcuni soltanto dei possibili obbligati agli alimenti (ascendente, discendente e coniuge), in secondo luogo perché limitato, nel suo contenuto, alla prestazione dei ‘‘mezzi di sussistenza’’, ovvero dei beni strettamente necessari per vivere (alimenti, vestiario, abitazione, medicinali etc.), al di là delle condizioni sociali del beneficiario e di quelle economiche dell’obbligato, mentre il debito alimentare concerne le cose necessarie per permettere all’alimentando un modus vivendi adeguato alla propria condizione sociale e può variare nel quantum in relazione alle capacità materiali dell’obbligato (3). Esclusa dunque la possibilità di invocare l’art. 47 ultimo comma c.p., per il semplice fatto che non esiste nell’ordinamento alcuna legge diversa dalla penale che preveda l’obbligo di cui all’ art. 570 cpv. n. 2 c.p., l’errore dell’imputato potrebbe comunque escludere il dolo ex art. 47 comma 1o c.p., qualora si considerasse il suddetto obbligo elemento costitutivo della fattispecie penale. È necessario quindi verificare quali siano gli elementi costitutivi del reato in questione, posto che questi, e questi soltanto, devono essere oggetto di rappresentazione soggettiva ai fini della sussistenza del dolo (4). Un’opera esegetica di questo tipo è resa difficile dalla formulazione ambigua dell’art. 570 c.p. Secondo una dottrina un tempo maggioritaria (5), esso prevederebbe tre distinti titoli di reato: la c.d. ‘‘violazione degli obblighi di assistenza morale’’, consistente nel sottrarsi agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori o alla qualità di coniuge abbandonando il domicilio domestico o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie (comma 1o); una prima ipotesi di ‘‘violazione degli obblighi di assistenza materiale’’, consistente nel malversare o dilapidare i beni del figlio minore o del pupillo o del coniuge (cpv. n. 1); una seconda ipotesi di ‘‘violazione degli obblighi di assistenza materiale’’, concretantesi nel far mancare i mezzi di sussistenza ai discendella fattispecie dell’art. 624 c.p.: errore di diritto determinante un errore sul fatto). D’altra parte, un soggetto può essere in dolo, avendo coscienza e/o volontà della sussistenza nelle circostanze concrete di tutti i fatti elevati dalla norma penale ad elementi costitutivi di reato, e ciò nonostante ignorare l’esistenza dell’astratto precetto penale che sanziona il fatto storico di cui si ha un’esatta rappresentazione: errore di diritto concretantesi in errore sul precetto (MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, Padova, 1988, 364 ss.; analoga è la soluzione di PALAZZO, op. cit., in part. 77 ss., 132 ss., 166; cfr. Trib. Piacenza 27 settembre 1994, Vacca, in Foro it., 1995, II, 315). (2) Come sembrerebbe invece ritenere la Corte, in contrasto con dottrina e giurisprudenza ormai pressoché unanimi sul punto: v. ALIBRANDI, Cenni sul reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Riv. pen., 1992, 451; CRESPI STELLA ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, Padova, 1986, 910; DE FRANCESCO G.A., Il problema della violazione degli obblighi di assistenza economica nei confronti del coniuge al quale sia stata addebitata la separazione personale, in Dir. fam., 1979, 399; DELOGU, Dei delitti contro la famiglia, in CIAN OPPO TRABUCCHI (cur.), Commentario al diritto italiano della famiglia, VII, Padova, 1995, 504; FIERRO CENDERELLI, voce Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, 775; MARCUCCI, voce Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Nss. D.I., XX, Torino, 1975, 868; PISAPIA, Delitti contro la famiglia, Torino, 1953, 705, PITTARO, Sul delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Fam. e dir., 1995, 585; Cass., sez. VI, 25 novembre 1993, Cavallaro, in Riv. pen., 1994, 1000. (3) In particolare, oltre agli A.A. cit. nella nota precedente, v. MANZINI, Trattato di diritto penale, VII, Torino, 1984, 878. (4) V. GALLO, voce Dolo, in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, 752 ss. (5) LEONE, La violazione degli obblighi di assistenza familiare nel nuovo codice penale, Napoli, 1931, 29 ss.; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte speciale, I, Milano, 1960, 348; MANZINI, op. cit., 851; PITTARO, op. cit., 584; v. da ultimo DELOGU, op. cit., 383; v. anche App. Milano, 25 novembre 1992, Motisi, in Giur. mer., 1994, 342.
— 939 — denti di età minore ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa (cpv. n. 2). Accogliendo questa impostazione, è evidente come gli elementi costitutivi del reato autonomo di ‘‘mancata prestazione dei mezzi di sussistenza’’ potrebbero ricavarsi soltanto, per il rispetto del principio di tassatività, dalla specifica disposizione che lo prevede, appunto il n. 2 del cpv. dell’art. 570 c.p., cosicché non avrebbero alcuna rilevanza gli elementi descritti nelle altre disposizioni dell’art. 570 c.p., relative a differenti ipotesi di reato. D’altra parte la dottrina oggi prevalente fa giustamente notare come sia del tutto arbitraria una distinzione tra obblighi di assistenza ‘‘morale’’ ed obblighi di assistenza ‘‘materiale’’, distinzione a cui la lettera dell’art 570 c.p. non accenna in alcun modo. La norma si riferisce invero a ‘‘doveri di assistenza familiare’’ tout court, i quali, per seguire un’interpretazione che fornisca di tassatività l’art. 570 c.p. e che sia dunque rispettosa dell’art. 25 Cost., non potranno che essere doveri di tipo giuridico e mai soltanto di tipo ‘‘morale’’, ovvero doveri sì etici ma fatti propri anche da norme giuridiche (v. in particolare art. 143 ss. c.c.) (6); le tre fattispecie ricavabili dall’art. 570 c.p. non dovrebbero considerarsi tre autonomi titoli di reato, bensì tre distinte modalità di realizzazione della stessa condotta di violazione degli obblighi di assistenza familiare, cosicché l’art. 570 c.p. dovrebbe essere letto come una ‘‘norma a più fattispecie’’, ovvero una disposizione complessa che prevede un unico titolo di reato realizzabile con modalità alternative (7). Più precisamente, l’unitarietà del reato discenderebbe dall’unità dell’evento: evento sarebbe la ‘‘sottrazione agli obblighi di assistenza’’, mentre l’abbandono del domicilio o in generale la condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, la malversazione o la dilapidazione ed il far mancare i mezzi di sussistenza sarebbero le tre possibili condotte alternative (8). Accogliendo alla lettera quest’impostazione, ai fatti elencati nel n. 2 del cpv. dell’art. 570 c.p. andrebbe aggiunto un ulteriore elemento costitutivo della fattispecie, l’evento ‘‘sottrarsi agli obblighi di assistenza’’. In realtà, se sicuramente per tutti i motivi ora visti è preferibile leggere nell’art. 570 c.p. un unico titolo di (6) MARCUCCI, op. cit., 862; PATERNITI, La famiglia nel diritto penale, Milano, 1970, 61. Secondo un’interpretazione ancora più restrittiva (PISAPIA, op. cit., 677 ss.; FIERRO CENDERELLI, op. cit., 771; RONCO, Il principio di tipicità della fattispecie penale nell’ordinamento vigente, Torino, 1979, 209) soltanto i doveri di assistenza familiare di natura economica potrebbero essere penalmente rilevanti; l’affermazione non è del tutto convincente, dato che per questa via, nel lodevole intento di rendere il più possibile tassativa la disposizione dell’art. 570 c.p., si arriva in realtà a fornirla arbitrariamente di requisiti che essa non richiede affatto: se è sicuramente conciliabile con la lettera della norma, e più rispondente al precetto costituzionale di tassatività, l’interpretazione restrittiva della formula ‘‘obblighi di assistenza familiare’’ come obblighi ‘‘giuridici’’, in base a quale indicazione testuale si potrebbero escludere da essi, ai fini dell’applicazione dell’art. 570 c.p., quegli obblighi esplicitamente previsti ad es. dal c.c. (e dunque giuridici) non aventi però le caratteristiche dell’economicità (si pensi all’educazione della prole prevista dall’art. 147 c.c)? Più fondato sarebbe allora ritenere incostituzionale la norma per difetto di tassatività, là dove rinvia anche ad obblighi di assistenza sì di rilevanza giuridica ma non ‘‘quantificabili’’ in quanto non strettamente di natura economica. (7) Del tutto minoritaria, in dottrina e giurisprudenza (cfr. PITTARO, op. cit., 585), è l’opinione secondo la quale le ipotesi del comma 2 sarebbero circostanze aggravanti del comma 1 (da ultimo v. COSSEDDU, voce Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Nss. D.I., Appendice, VII, Torino, l987, 1139). Com’è noto, la fattispecie del reato circostanziato deve essere necessariamente in un rapporto di specialità rispetto alla fattispecie del reato semplice; ora, se si potrebbe arrivare a sostenere che le condotte descritte ai nn. 1) e 2) del cpv. dell’art. 570 c.p. siano in fondo particolari ipotesi della più generale condotta del comma 1 dello stesso articolo (ma v. DELOGU, op. cit., 382), il rapporto di specialità verrebbe a mancare comunque in relazione ai destinatari delle varie fattispecie, posto che nel cpv. citato sono destinatari del precetto soggetti non contemplati nel comma 1, come il tutore, i discendenti, gli ascendenti non esercitanti la potestà dei genitori: è evidente come sia inutile ed assurdo indirizzare la previsione di una circostanza aggravante a soggetti che non possono essere imputati per il reato base. (8) PISAPIA, op. cit., 691; PATERNITI, op. cit., 61.
— 940 — reato (9), qualificare ‘‘evento’’ il ‘‘sottrarsi agli obblighi di assistenza’’ può condurre a degli equivoci. Com’è noto, l’evento, per essere penalmente rilevante, deve essere causalmente determinato dalla condotta tipica di reato (art. 40 c.p.). Se questo è vero, difficilmente si può, da un punto di vista logico, immaginare un rapporto di causalità in senso tecnico tra il ‘‘far mancare i mezzi di sussistenza’’ ed il ‘‘sottrarsi’’ agli obblighi di assistenza familiare, dizione questa che, letteralmente, sembra piuttosto indicare una condotta omissiva (10): affermando che ‘‘Tizio, facendo mancare i mezzi di sussistenza ad un suo congiunto, si è sottratto agli obblighi di assistenza familiare’’, non si esprime un rapporto di causa-effetto tra i due fatti-omissione, bensì una relazione di specialità tra le due omissioni, nel senso che ‘‘Tizio si è sottratto ai generali obblighi di assistenza familiare in modo particolare omettendo di prestare i mezzi di sussistenza al congiunto bisognoso’’ (11). Più precisamente, quindi, elemento unificatore delle tre fattispecie dell’art. 570 c.p. non è un unico ‘‘evento’’, ma l’essere tutte specificazioni della medesima condotta omissiva di sottrazione agli obblighi giuridici di assistenza; l’art. 570 c.p. sanziona l’inadempimento ai suddetti obblighi, ricavabili dal codice civile, (9) Si consideri inoltre che il comma 3 dell’art. 570 c.p. afferma che il delitto (e non ‘‘i delitti’’) è punibile a querela...: v. ALIBRANDI, op. cit., 450. È vero però che, quantomeno nella sistemazione di FROSALI, Il sistema penale italiano, I, Torino, 1958, 342 ss., una delle caratteristiche qualificanti le ‘‘norme a più fattispecie’’ (in contrapposizione alle c.d. ‘‘disposizioni a più norme’’) sarebbe l’unitarietà della sanzione, mentre nell’art. 570 c.p. la sanzione varia a seconda delle modalità di realizzazione della violazione degli obblighi di assistenza familiare (cfr. anche DELOGU, op. cit., 381). D’altra parte non solo l’argomento letterale ora visto, ma anche l’unitarietà dell’oggetto giuridico tutelato (il diritto all’assistenza familiare corrispondente al correlativo dovere, v. infra) lasciano propendere per l’unicità del titolo di reato. Non è comunque questa la sede per approfondire la problematica, posto che rilevante ai nostri fini di identificazione dell’oggetto del dolo era soltanto l’eventuale possibilità di dovere aggiungere altri elementi costitutivi (l’evento) a quelli descritti sub n. 2 del cpv. dell’art. 570 c.p. e questa possibilità sarebbe da escludere a maggior ragione, come già si è visto, se si dovesse ritenere l’art 570 c.p. una ‘‘disposizione a più norme’’ e la fattispecie del cpv. n. 2 un titolo autonomo di reato. (10) V. anche le osservazioni di RONCO, op. cit., 199 ss.: « La tecnica descrittiva adottata dal legislatore dimostra (...) inequivocabilmente che l’inadempimento agli obblighi è considerato dalla legge come una condotta, e non come un evento in senso naturalistico. Anzitutto può osservarsi che quando il legislatore assume a requisito del reato il nesso di causalità, costruendo una figura astratta come evento naturalistico, utilizza normalmente verbi del tipo ‘‘cagionare’’, ‘‘determinare’’, ‘‘procurare’’: verbi tutti che nella specie non sono stati utilizzati. Ma v’è di più. Il riflessivo ‘‘sottrarsi’’ (...) non può immaginarsi senza la volontarietà dell’inadempimento: non è possibile (...) ‘‘sottrarsi agli obblighi di assistenza familiare’’ senza rappresentarsi la propria attuale condotta come volta finalisticamente a disattendere quel preciso fascio di obblighi imposto dalla legge civile: di qui l’ovvia conseguenza che l’inadempimento di cui si discute non è assunto dalla norma come evento nauralistico bensì come una condotta volontaria » (posto che, se l’omissione fosse un evento, sarebbe sufficiente, per l’integrazione del dolo, una sua rappresentazione anche in forma eventuale o indiretta, ma in questo caso, secondo l’A., sarebbe un’imprecisione lessicale affermare che l’agente si è ‘‘sottratto’’ all’adempimento). V. anche, ampiamente, DELOGU, op. cit., 420 ss. (11) Altri autori che parlano del ‘‘sottrarsi’’ come evento, si riferiscono esplicitamente solo all’ipotesi del comma 1 dell’art. 570 c.p.: v. CONTENTO, Sulla violazione degli obblighi di assistenza morale nel corso del giudizio di separazione, in Dir. fam., 1981, 129; FLORIO, L’abbandono del domicilio domestico con riferimento alla normativa di cui all’art. 570 c.p., in Dir. fam., 1981, 133. D’altra parte, se ben letto il brano di PISAPIA (v. nota 8) che qualifica ‘‘evento’’ il ‘‘sottrarsi’’ non dà adito ad equivoci: « L’evento costitutivo del reato consiste nel ‘‘sottrarsi agli obblighi di assistenza’’. Si tratta quindi, in ogni caso, di un reato omissivo ». Quello che l’A. vuole sottolineare è che tutte e tre le fattispecie dell’art. 570 c.p. devono consistere anche in una sottrazione agli obblighi di assistenza, sottrazione qualificata ‘‘evento’’ e da qualificarsi più correttamente condotta ‘‘omissiva’’, come lo stesso A. provvede a fare nel secondo periodo (il ‘‘quindi’’ del secondo periodo dovrebbe indicare una consequenzialità logica tra il primo ed il secondo periodo, che non ci sarebbe se si ritenesse il ‘‘sottrarsi’’ evento in senso tecnico, posto che l’essere una condotta omissiva non dipende certo dal tipo di evento, ma dalle modalità descrittive della condotta stessa, in questo caso ‘‘sottrarsi’’). A cio si aggiunga che è lo stesso A. a qualificare subito dopo ‘‘reati omissivi propri’’ due delle tre fattispecie dell’art. 570 c.p.; com’è noto, per definizione i reati omissivi propri sono quelli caratterizzati dalla non necessarietà della verificazione di un evento materiale per la loro realizzazione (v. ANTOLISEI, Manuale, parte generale, cit., 193; CRESPI STELLA ZUCCALÀ, op. cit., 320; MANTOVANI, op. cit., 168).
— 941 — solo quando connotato da caratteristiche di particolare gravità (interpretazione questa che adegua la norma al principio costituzionale di sussidiarietà dell’intervento penale) (12), particolare gravità data alternativamente: dall’essere la condotta omissiva accompagnata da una condotta attiva nel primo comma (allontanamento dal domicilio domestico o più in generale condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie), cosicché il primo comma stesso contempla una c.d. condotta mista d’azione ed omissione (13); dall’essere la condotta omissiva accompagnata da un’altra specifica condotta attiva nell’ipotesi di cui al n. 1 del cpv. (malversazione o dilapidazione quando concretantesi in comportamenti attivi di disposizione) (14), così da aversi una seconda ipotesi di condotta mista d’azione ed omissione (propria) (anche se, a dire il vero, in questo caso l’omissione sembra sussitere in re ipsa nel malversare o dilapidare), nonché dalla sussitenza di un particolare evento (15) (danno patrimoniale implicito nelle nozioni di ‘‘malversazione’’ e ‘‘dilapidazione’’); dalla violazione di un particolare aspetto del dovere di assistenza familiare in senso lato (il fornire mezzi di sussistenza al discendente o al coniuge in stato di bisogno) nell’ipotesi di cui al n. 2 del cpv., che prevederebbe dunque un reato omissivo proprio, incentrato su un inadempimento ‘‘speciale’’ rispetto alla generale ipotesi di sottrazione ai generici obblighi di assistenza familiare ricavabili dal codice civile. Il ‘‘far mancare’’ sarebbe in conclusione, come si ricava anche dalla lettera della norma, condotta omissiva rilevante di per sé, al di là delle conseguenze, non essendo necessario il realizzarsi di nessun evento. Aggiungendo a questa osservazione quella già in precedenza compiuta, per cui è l’art. 570 cpv. n. 2 c.p. la fonte legale diretta ed unica dell’obbligo di facere di cui sanziona l’omissione, la fattispecie sottoposta al nostro esame può essere qualificata come ‘‘reato omissivo proprio a struttura semplice’’ (16). In conclusione, elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 570 cpv. n. 2 sono tutti e solo quelli elencati in quella specifica parte della disposizione, non dovendosi ricercare né un ipotetico evento in altra parte dell’art. 570 c.p., né eventuali altri presupposti dell’obbligo di fornire i mezzi di sussistenza in norme extrapenali richiamate dalla norma incriminatrice. Oggetto del dolo generico (17) devono dunque essere soltanto i seguenti fatti: la sussistenza di uno stato di biso(12) Sul quale, da ultimo, v. DE FRANCESCO G.A., Il principio della personalità della responsabilità penale nel quadro delle scelte di criminalizzazione, in questa Rivista, 1996, 28 ss. (dell’estratto), e gli A.A. ivi citati. (13) CADOPPI, La nuova configurazione dell’art. 5 c.p. ed i reati omissivi propri, in STILE (cur.), Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, Napoli, 1989, 246 ss. L’idea della ‘‘sottrazione’’ come evento era anche dettata dall’esigenza di ritenere non punibili di per sé il mero allontanamento dalla residenza familiare o la mera condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, qualora non avesse ‘‘cagionato’’ una sottrazione ai doveri familiari; accogliendo la ricostruzione proposta nel testo (reato misto d’azione ed omissione) il risultato sarebbe lo stesso, perché le condotte attive non sarebbero di per sé rilevanti se non accompagnate dalla condotta omissiva di sottrazione agli obblighi. Parla di reato ‘‘a condotta plurima’’ (giungendo alle medesime conclusioni ora viste sull’insufficienza, ai fini dell’integrazione del reato, del mero abbandono di domicilio) RONCO, op. cit., 195 ss.; qualifica en passant la condotta dell’art. 570 c.p. ‘‘condotta mista d’azione e d’omissione’’ MANTOVANI, op. cit., 162. (14) Posto che la dilapidazione può anche concretarsi in una condotta omissiva (restare inerti di fronte alla condotta dilapidatrice di un terzo): v. MARCUCCI, op. cit., 868; MANZINI, op. cit., 870; meglio, se ‘‘dilapidare’’ significa ‘‘dissipare o distruggere l’altrui patrimonio’’, si può dire che in questa ipotesi la ‘‘sottrazione agli obblighi di assistenza familiare’’ si concreta in una fattispecie ‘‘casualmente orientata’’ (l’evento sarà il danno al patrimonio altrui), integrabile sia con una condotta commissiva (implicante di per sé un ‘‘sottrarsi’’ agli obblighi di assistenza nei confronti del congiunto) che con una omissiva ‘‘impropria’’ ex art. 40 c.c. (che potrà considerarsi ipotesi speciale della generale omissione che abbiamo visto unificare le varie fattispecie dell’art. 570 c.p.). (15) DELOGU, op. cit., 492. (16) BRICOLA, Dolus in re ipsa, Milano, 1960, 133 ss.; PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, 402; CADOPPI, op. ult. cit., 230 ss. (17) MANZINI, op. cit., 894; PISAPIA, op. cit., 716; MARCUCCI, op. cit., 869; v. anche Cass., sez. VI, 7 ottobre 1993, Sardu, in Riv. pen., 1994, 1153.
— 942 — gno da parte del discendente, dell’ascendente o del coniuge (presupposto del reato, ricavabile implicitamente dalla nozione di ‘‘far mancare i mezzi di sussistenza’’) (18); l’esistenza del rapporto di discendenza-ascendenza o di coniugio (altro presupposto); la condotta di ‘‘far mancare’’ i mezzi di sussistenza al bisognoso: condotta di tipo omissivo proprio (violazione di uno specifico obbligo di facere, al di là delle conseguenze materiali dell’omissione stessa) (19). Secondo parte della dottrina per aversi dolo nel reato omissivo proprio non sarebbe sufficiente la volontà di non agire, ma sarebbe necessaria anche la consapevolezza che l’azione rifiutata sia oggetto di un obbligo giuridico. Nei c.d. ‘‘reati omissivi a struttura semplice’’, quale quello da noi analizzato, in cui l’obbligo d’agire è sancito dalla stessa norma che prevede la punibilità dell’omissione, potrebbe di conseguenza essere in dolo solo chi conosce il precetto penale: l’obbligo, e dunque il precetto, sarebbe oggetto del dolo (20). In realtà anche nei ‘‘reati omissivi a struttura semplice’’ l’obbligo d’agire sorge in presenza di determinati presupposti di fatto, così che, secondo i principi generali a cui già si è accennato (v. nota 1), è in dolo il soggetto che si rappresenta tutti i fatti che fanno nascere l’obbligo di facere e volontariamente non agisce, mentre ignora il precetto chi non conosce la qualificazione giuridica dei presupposti in questione, chi non sa che alla presenza di quei fatti il precetto penale ricollega il sorgere di un obbligo d’agire (21). Ignorare l’esistenza nel nostro ordinamento di un obbligo di fornire i mezzi di sussistenza quando determinati congiunti si trovino in stato di bisogno si risolve dunque in un errore sul precetto, mentre ben può accadere che, pur conoscendo l’esistenza di un tale obbligo in astratto, non si abbia coscienza e/o volontà della sussistenza nel caso concreto dei presupposti che lo fanno nascere; si abbia in altre parole la consapevolezza dell’obbligo in questione come istituto giuridico esistente nell’ordinamento, ma non se ne rinvengano gli estremi (rectius i presupposti) nel caso concreto (carenza di dolo) (22). Applicando queste conclusioni alla vicenda oggetto della sentenza e sostituendo una motivazione più precisa a quella invero piuttosto affrettata ed inesatta della Corte, si può concordare sull’esistenza del dolo dell’imputato, visto che egli aveva omesso coscientemente e volontariamente di fornire i mezzi di sussistenza; conoscendo lo stato di bisogno del coniuge nonché l’esistenza del rapporto di coniugio. Egli però (dando come provato questo suo errore) non sapeva che, in presenza di quei fatti, era divenuto titolare di un vero e proprio obbligo penalmente sanzionato di fornire i mezzi di sussistenza; riteneva infatti che in astratto la legge ricollegasse quell’obbligo solo alla sua determinazione da parte del giudice civile, affidandosi ad un precetto inesistente ed ignorando quello esistente. L’imputato non poteva invocare l’art. 47 c.p., mentre poteva soltanto tentare di qualificare il suo errore come ‘‘ignoranza scusabile della legge penale’’ ai sensi dell’art. 5 c.p. nuova formulazione. Tutto questo, ripeto, dando per scontato, non potendosi ricavare ciò esplicitamente dalla sentenza, che in effetti nel caso concreto i presup(18) FIERRO CENDERELLI, op. cit., 775; MARCUCCI, op. cit., 868; DELOGU, op. cit., 545 ss.. (19) Si consideri che lo stato di bisogno si ritiene dai più esistente comunque anche quando altri si sostituiscano all’obbligato nel fornire i mezzi di sussistenza: v. ancora MARCUCCI, op. cit., 869; MANZINI, op. cit., 877; Cass., sez. I, 12 gennaio 1994, Tramontano, in Giur. pen., 1994, II, 370; ma v. infra, nota 24. (20) BRICOLA, op. ult. cit., 118 ss. (21) V. le argomentazioni di PALAZZO, L’errore, cit., 231 ss.; PULITANÒ, op. cit., 403 ss.; CADOPPI, op. ult. cit., 230. (22) MANZINI, op. cit., 894; DELOGU, op. cit., 568; v. anche, pur se ricollegata ad un’interpretazione inaccettabile dell’art. 5 c.p. (per cui sarebbe ignoranza della legge penale quella ricadente su ogni precetto di legge lato sensu rilevante per l’applicazione della norma penale) SANDULLI, Inescusabilità dell’errore circa l’obbligo civile di assistenza coniugale, in Riv. pen., 1940, 291.
— 943 — posti del reato sussistessero e fossero conosciuti dall’agente (come si intuisce, tra l’altro, dalla mancanza di eccezioni della difesa sul punto). Per chiarire ulteriormente la distinzione ora affrontata tra errore sul fatto ed errore sul precetto in relazione all’art. 570 c.p., può essere utile considerare brevemente un altro caso concreto risolto dalla Cassazione (23): un padre omette di prestare l’assegno alimentare al figlio minore, ritenendo erroneamente che questi non fosse in stato di bisogno provvedendo la madre a supplire al mancato aiuto economico dell’altro genitore (i due coniugi erano separati). In sede di giudizio di rinvio, il giudice di primo grado aveva escluso la sussistenza del dolo, posto che il padre non si era di fatto rappresentato un presupposto dell’obbligo, lo ‘‘stato di bisogno". La Corte di cassazione, a seguito del ricorso del P.M., considera al contrario l’errore del padre come errore (inescusabile) sulla legge penale; in effetti il padre aveva coscienza della sussistenza in concreto di quei fatti che la legge penale qualifica ‘‘stato di bisogno’’, ma ignorava, errando sull’interpretazione del precetto, la qualificazione stessa. In altre parole, il soggetto riteneva esistente un precetto di questo tipo ‘‘è punibile chi omette di prestare i mezzi di sussistenza al congiunto che concretamente sia privo dei mezzi necessari per vivere’’, ignorando il vero precetto dell’art. 570 c.p. cpv. n. 2 per cui ‘‘è punibile chi omette di prestare i mezzi di sussistenza al congiunto in stato di bisogno, anche se altri provvedono in sua vece’’ (24). Dunque, al solito, l’interprete dovrà porre attenzione a basare la distinzione tra errore sul fatto ed errore sul precetto sulla parallela distinzione tra fatti in concreto e loro qualificazione giuridico-penale astratta (25). 2. Nella sentenza in esame la Cassazione si astiene dall’accertare se l’errore dell’imputato fosse un errore sul precetto o un errore su legge extrapenale determinante errore sul fatto, ritenendo che esso non potesse in ogni caso rilevare in quanto relativo ad un obbligo derivante da ‘‘essenziali principi di solidarietà, ben radicati nella collettività, prima ancora che dalla norma civile o penale’’ e dunque, sembra di capire, inescusabile. Questa argomentazione, a ben vedere, non avrebbe alcun senso se si fosse dovuto qualificare l’errore come ricadente sul fatto, perché la mancata rappresentazione di un elemento essenziale della fattispecie, anche se non scusabile e quindi colposa, avrebbe comunque escluso dolo e punibilità, non essendo prevista dalla legge un’imputazione a titolo di colpa del reato di cui all’art. 570 c.p.; la Corte avrebbe dovuto dare rilevanza alla non sussistenza dell’errore, non alla sua inescu(23) Cass., 7 luglio 1994 (5 maggio 1994), Bonavita, in Riv. pen., 1995, II, 765. (24) V. MARCUCCI, op. cit., 869: ‘‘lo stato di bisogno dell’avente diritto deve essere valutato indipendentemente dal fatto che i mezzi di sussistenza vengano prestati da persone diverse dall’obbligato. Per la realizzazione del delitto è sufficiente che l’omissione del soggetto attivo abbia determinato una situazione di pericolo, nulla importando che ad opera di altri si sia impedito che il pericolo stesso si sia tramutato in danno’’; v. anche MANZINI, op. cit., 878. Se questa è l’interpretazione prevalente, si consideri però che al reato omissivo proprio in questione si potrebbero applicare, mutatis mutandis, le considerazioni svolte in relazione all’art. 361 c.p. da FIANDACA, Lesività e dolo nel delitto di omessa denuncia di reato, in Studi in memoria di Gaetano Costa, Milano, 1982, 96 ss: presupposto del reato sarebbe allora la sussistenza di un effettivo stato di bisogno, perché altrimenti ragionando si punirebbe la semplice violazione di un dovere senza che essa abbia in concreto cagionato alcuna lesione di beni giuridici, affidando alla fattispecie penale l’inaccettabile funzione ‘‘eticizzante’’ di punire la mera ‘‘disobbedienza’’ ai dettami dell’ordinamento; basti qui aver accennato all’esistenza del problema. Cfr. anche DELOGU, op. cit., 488 ss. (25) A dire il vero, nella sentenza ora esaminata la Cassazione affida la qualificazione dell’errore come errore sul precetto ad una motivazione vaga ed imprecisa: ‘‘il convincimento del genitore inadempiente di non essere tenuto alla corresponsione dell’assegno alimentare (...) lungi dal comportare l’esclusione dell’elemento soggettivo del reato (...) si traduce nell’ignoranza non scusabile della legge penale’’, mentre il convincimento di non essere tenuto alla corresponsione dell’assegno potrà dipendere sia da un errore sul precetto (errore sull’esistenza, i limiti e l’interpretazione dell’obbligo in astratto) sia da un errore sul fatto (errore sulla sussistenza in concreto di quei fatti a cui in astratto il precetto ricollega il sorgere dell’obbligo).
— 944 — sabilità. L’affermazione in sentenza acquista invece notevole importanza una volta qualificato correttamente l’errore in questione come ‘‘errore sul precetto’’ che, com’è noto, esclude la punibilità solo se ‘‘inevitabile’’. Il problema si pone dunque in questi termini: è possibile ipotizzare la scusabilità di un’ignoranza avente ad oggetto un obbligo eticamente rilevante, come appunto quello di fornire i mezzi di sussistenza al congiunto bisognoso? La Corte si riallaccia inequivocabilmente, in questa parte della decisione, alla distinzione, ben nota alla dogmatica penalistica, tra mala in se e mala quia vetita. Già nel medioevo (26), mentre non poteva mai scusare l’errore ricadente su norme di diritto ‘‘naturale’’ e di diritto ‘‘comune’’, si ammetteva la rilevanza dell’errore ricadente su precetti rispettivamente di diritto ‘‘civile’’ e ‘‘statutario’’; questa sistemazione giuridica era diretta conseguenza di un preciso presupposto ideologico-culturale: poiché la rivelazione del verbo evangelico è stata universale, i valori del diritto naturale e del diritto comune che da esso deriva non possono non essere conosciuti, una loro ignoranza non è giuridicamente concepibile, mentre è possibile che un soggetto ignori precetti di ordinamenti particolari e limitati, come quelli di diritto civile o come quelli fondati sugli statuti dei singoli comuni. Da parte dei giuristi medioevali, dunque, vi era la precisa coscienza di una contrapposizione tra delitti posti a tutela di beni rilevanti secondo l’etica comune (o presunta tale) e delitti posti a tutela di beni eticamente non significativi ma considerati rilevanti dallo specifico legislatore di uno specifico ordinamento in uno specifico periodo storico; a questa distinzione si ricollegavano effetti proprio nel campo della disciplina dell’errore di diritto. Successivamente, nelle sistemazioni dei giuristi illuministi (27), la distinzione tra mala in se e mala quia vetita divenne un’implicazione della nota teoria del ‘‘diritto naturale’’: mala in se o ‘‘delitti naturali’’ erano considerate le fattispecie criminose tutelanti diritti fondamentali e pre-giuridici della persona, mentre con il termine ‘‘delitti artificiali’’ o mala quia vetita si classificavano condotte lesive di beni non rilevanti per il diritto naturale ma ritenute comunque degne di protezione dal legislatore. Più recentemente (28) si è impostata la distinzione in questione non sulla base di considerazioni di tipo etico o metagiuridico, ma su un’indagine di tipo storico, che ha portato a riconoscere l’esistenza di contenuti ‘‘costanti’’ nelle norme penali dei vari ordinamenti succedutisi nel tempo. Storicamente ‘‘costante’’ risulta la tutela dei beni necessari ed ineliminabili per la sopravvivenza di un qualsiasi gruppo umano organizzato (esempio: il bene ‘‘vita’’, la cui tutela è evidentemente imprescindibile ai fini di un’ordinata convivenza tra i consociati); accanto a questi contenuti ‘‘costanti’’ sarebbero individuabili i c.d. contenuti ‘‘variabili’’, inerenti a norme penali poste a tutela di beni non funzionali all’esistenza di un qualsiasi organismo sociale in quanto tale, ma coerenti con la conservazione e la tutela di un certo ‘‘tipo’’ di ordinamento contingente e legato a specifiche premesse storicoideologiche (29). Su queste basi la classificazione mala in se/mala quia vetita è ricostruita abbandonando la prospettiva etica, rischiosa in primo luogo per il suo in(26) V. MANZINI, Trattato, cit., II, Torino, 1948, 20 ss.; CORTESE, voce Ignoranza (dir. intermedio), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, 8 ss.; PULITANÒ, op. cit., 24 ss. (27) Cfr. CALABRIA, Delitti naturali, delitti artificiali ed ignoranza della legge penale, in Ind. pen., 1991, 40 ed A.A. ivi citati. (28) NUVOLONE, Natura e storia nella scienza del diritto penale, in Studi in memoria di Arturo Rocco, Milano, 1952, II, 258 ss.; in termini analoghi v. MANTOVANI, Il problema della criminalità, Padova, 1984, 56 ss.; v. anche MUCCIARELLI, Errore e dubbio dopo la sentenza della Corte cost. n. 364/88, in questa Rivista, 1996, 232. (29) NUVOLONE, op. cit., 265, pone le seguenti distinzioni: istituzione chiusa-aperta, accentrata-decentrata, agnostica-ideologica, liberista-corporativa-socialista.
— 945 — trinseco relativismo e soggettivismo, ed assumendone una teleologica: è malum in se il reato posto a tutela di beni funzionali alla sopravvivenza e continuità della convivenza umana in quanto tale; l’indagine storica sarà fondamentale ausilio di quella più strettamente giusfilosofica e sociologica nell’individuazione di questi beni fondamentali. Si deve infine ricordare l’opinione di chi, pur non parlando esplicitamente di mala in se/mala quia vetita, si ricollega comunque ad una dicotomia analoga tra condotte lesive/non lesive di beni costituzionalmente rilevanti (30), o tra condotte lesive/non lesive di beni non solo ‘‘fondamentali’’ per la tutela della convivenza sociale ma anche ‘‘riconoscibili’’ nella loro importanza criminale da parte dei consociati (31). Nessuna delle classificazioni da ultimo descritte è però utile ai nostri fini, essendo tutte funzionali ad impostazioni teoriche di tipo ‘‘deontologico’’, che affidano all’analisi filosofica, storica o costituzionale di individuazione dei mala in se un compito non meramente descrittivo, ma anche (e soprattutto) ‘‘prescrittivo’’, di riconoscimento dei beni che un legislatore ‘‘razionale’’ ovvero ‘‘costituzionalmente corretto’’ si deve ritenere autorizzato a tutelare penalmente (32). Come dimostra la riflessione giuridica medioevale, il problema dell’ignorantia iuris deve essere al contrario inserito in una prospettiva strettamente de iure condito relativa al problema della conoscenza-conoscibilità di un precetto già esistente nell’ordinamento; è evidente che un’eventuale definizione dei concetti di mala in se/mala quia vetita dovrà incentrarsi, più che su un’etica astratta o positivizzata (33) o su ricerche di tipo filosofico-storico-sociologico, sulla verifica dei valori conosciuti da un determinato gruppo umano, destinatario delle norme giuridiche: una prospettiva dunque né etica né teleologica ma, se vogliamo, gnoseologica (34). In altri termini, dovendo verificare la possibilità di conoscenza di una norma da parte di un’individuo, non sembra direttamente rilevante accertare se questa corrisponda ad una scelta etica o costituzionale o se risulti necessaria per la conservazione della convivenza sociale. Dovrà piuttosto valutarsi, in via di prima approssimazione, se la norma medesima tuteli valori ampiamente diffusi nel complesso sociale di appartenenza tramite i media di divulgazione delle norme etiche (educazione in famiglia, scuola, mezzi di comunicazione di massa, religione diffusa), sia espressione cioè di un sistema morale contingente, proprio di una contingente realtà storico-sociale (35). Può essere d’aiuto la nota teoria tedesca delle c.d. Kulturnormen: Kulturnormen sono quelle ‘‘norme morali e sociali che la coscienza comune ha interiorizzato prima ed a prescindere dalla norma penale’’; mala in se saranno quei fatti non solo antigiuridici, ma altresì sentiti offensivi anche secondo il sistema delle Kulturnormen, mentre mala quia vetita saranno quei fatti lesivi di interessi non (30) Questa, in estrema sintesi, è la distinzione di base introdotta da BRICOLA, voce Teoria generale del reato, in Nss. D.I., XIX, 1973, 14 ss.; v. anche DE FRANCESCO G.A., Il principio della personalità, cit., 24 ss. (31) Su questo criterio distintivo, la cui importanza deriverebbe da un’originale applicazione dell’art. 27 Cost., sviluppa le proprie argomentazioni DE FRANCESCO G.A., op. ult. cit., 50 ss. (32) Una finalità analoga persegue chi afferma che, se il diritto penale deve sempre e comunque perseguire lo scopo di tutela della convivenza e non di repressione del ‘‘male’’, la norma penale dovrà e potrà coincidere con quella morale quando e solo quando questo sia funzionale alla tutela della convivenza, e per lo stesso motivo dovrà e potrà discostarsene: così ROXIN, Sul rapporto tra diritto e morale nella riforma penale tedesca, in Arch. pen., 1982, 35 ss. (33) Quale può essere considerata la Costituzione: v. CARBONI, Diritto ed etica, in questa Rivista, 1984, 1244. (34) Prospettiva questa comunque assai rilevante anche per un’impostazione ‘‘deontologica’’, come dimostra appunto DE FRANCESCO G.A., op. ult. cit., 55 ss. (35) Sulla distinzione tra morali ‘‘cristallizzate’’ e morali cangianti, v. ROXIN, op. cit., 25.
— 946 — particolarmente rilevanti secondo le Kulturnormen stesse (36); per Kulturnormen bisogna intendere le norme etiche, culturali e sociali di uno specifico gruppo sociale in uno specifico periodo storico, così che esse devono essere considerate per loro natura mutevoli ‘‘con il mutare delle esigenze, bisogni, interessi (e beni giuridici) della società’’ (37): di conseguenza, anche la categoria dei mala in se non può essere considerata un catalogo chiuso ed immutabile di reati; essa comprenderà invece, accanto ad un nucleo ristretto di fatti considerati lesivi per qualsiasi ordinamento (che coincideranno per lo più con quelli offensivi di beni necessari per la sopravvivenza stessa della convivenza sociale), anche fattispecie diverse a seconda del periodo storico e del gruppo sociale a cui si riferisce la ricerca (ricerca che si svolgerà con i mezzi di scienze sociali come la criminologia, la sociologia, la psicologia, l’antropologia) (38). Ma, a ben vedere, la rilevanza del bene protetto secondo le Kulturnormen non è di per sé ancora sufficiente ad identificare una categoria di mala in se utile per la teoria dell’errore sul precetto. Per l’applicazione della scusante di cui all’art. 5 c.p., non interessa infatti sapere se il soggetto agente fosse in grado di percepire il disvalore sociale di un certo fatto, bensì, come vedremo meglio in seguito, valutare se egli avesse la possibilità di conoscerne il disvalore offensivo sotto il profilo penale (39). Se in effetti si può in linea di massima ritenere ‘‘riconoscibile’’ la rilevanza penale di certi interessi in ragione della loro notevole, se non fondamentale, importanza secondo le Kulturnormen, può anche darsi che determinati beni, pur rivestendo una notevole rilevanza etico-sociale, siano di valenza criminale scarsamente ‘‘riconoscibile’’ in quanto per loro natura non sottoponibili, sempre secondo la comune coscienza etico-giuridica, ad una disciplina sanzionatoria da parte dello Stato (si pensi a determinati atteggiamenti interiori: è evidente la notevole rilevanza etico-sociale di sentimenti come l’amore o l’altruismo ed il correlativo disvalore di sentimenti come l’odio o l’egoismo, eppure sarebbe scarsamente ‘‘riconoscibile’’ un intervento penale che sanzionasse chi non ama o chi non è altruista, dato che altro valore di diffusa condivisione e riconoscibilità è quello del(36) A dire il vero, alcuni teorici della dottrina delle Kulturnormen (in particolare M.E. MAYER) affermano che ogni norma giuridica sia espressione di una Kulturnorm cosicché, in pratica, non esisterebbero i c.d. mala quia vetita: per un’approfondita confutazione di questa impostazione, sia sul piano teorico che storico, v. PULITANÒ, op. cit., 131 ss. (37) Citazioni da CALABRIA, op. cit. loc. cit. (38) Ancora CALABRIA, op. cit. loc. cit.; v. anche CADOPPI, Orientamenti, cit., 417: « come l’aborto era sino a qualche tempo fa malum in se, ora è probabilmente — quantomeno entro certi limiti — malum quia vetitum (se vietato); e, all’opposto, mentre la frode fiscale — ai tempi del Carrara ad esempio (...) — era un reato di mera creazione politica, oggi, quantomeno in certi casi, è un vero ‘‘delitto naturale’’ poiché la morale sociale ne avverte la ‘‘criminosità’’ ». (39) Essendo la nostra, come si è detto, un’ottica prettamente gnoseologica, quello che importa non è valutare se, secondo la comune coscienza etico-giuridica, il fatto fosse o meno ‘‘meritevole’’ di essere penalmente rilevante, ma verificare se fosse ‘‘riconoscibile’’ la rilevanza penale assegnatali dal legislatore, essendo ininfluente ai nostri fini il piano del ‘‘consenso’’ della coscienza etico-giuridica collettiva alle scelte politico-legislative dell’ordinamento. Se in effetti certi fattori, come la ‘‘notevole’’ importanza sociale di un certo bene, sono tali da rendere non solo ‘‘riconoscibile’’ ma anche ‘‘condivisibile’’, da parte della corrente e prevalente valutazione sociale, la rilevanza criminale del bene stesso, altri elementi, come l’essere un certo reato previsto costantemente da più ordinamenti succedutisi nel tempo, favoriscono la riconoscibilità della rilevanza penale del fatto a prescindere dalla condivisione sociale di questa rilevanza (anche se poi, di fatto, si avrà una coincidenza quasi assoluta tra beni riconosciuti degni di importanza criminale da una tradizione politico-legislativa risalente nel tempo e beni ‘‘essenziali’’ per la convivenza). La corrispondenza tra scelte di valore del legislatore ed indirizzi etico-giuridici dei destinatari della norma assume invece una notevole importanza in una prospettiva deontologica, potendo operare la funzione general-preventiva del diritto penale, se intesa in un senso di ‘‘orientamento socio culturale’’, soltanto sulla base di una ‘‘legittimazione’’ etica dell’ordinamento da parte dei consociati. Altro problema, anch’esso evidentemente di tipo ‘‘deontologico’’, è se, costituzionalmente, soltanto i beni ‘‘riconoscibili’’ nel senso sopra visto possano essere legittimamente elevabili ad oggetto di reato. Su tutte queste questioni v. ampiamente DE FRANCESCO G.A., op. ult. cit., 32 ss. e passim.
— 947 — l’intangibilità di simili scelte da parte dello Stato), così come è possibile immaginare fatti eticamente poco significativi eppure di riconoscibile rilevanza penale in virtù, ad esempio, di una loro risalente e costante considerazione da parte degli ordinamenti penali succedutisi storicamente. La classificazione utile ai nostri fini è dunque quella tra mala in se o ‘‘reati naturali’’ (40), tutelanti beni di ‘‘riconoscibile’’ rilevanza penale secondo la coscienza comune, e mala quia vetita o ‘‘reati artificiali’’, relativi ad interessi ritenuti da parte del legislatore degni di una protezione penale difficilmente ‘‘riconoscibile’’ da parte della coscienza etico-giuridica collettiva (41). È possibile a questo punto valutare se il reato di violazione degli obblighi di assistenza c.d. ‘‘materiali’’ sia effettivamente, come afferma la Corte, un malum in se; solo qualora potesse essere fatto rientrare in questa categoria dovremo chiederci se, ed a quali condizioni, l’ignoranza di un precetto penale sanzionante un malum in se possa ritenersi scusabile. 3. Se il nucleo sociale ‘‘famiglia’’ è un qualcosa di storicamente mutevole per quanto riguarda la sua funzione e rilevanza sociale nonché per quanto riguarda lo strutturarsi dei rapporti interni tra membri della famiglia, immutabile storicamente è rimasta e rimane la sua funzione di ‘‘luogo privilegiato di espressione degli affetti e di sviluppo armonioso delle personalità’’ (42). Già in un’ottica strettamente antropologica (43) si rileva come l’‘‘unirsi’’ ad altri individui in un rapporto affettivo di familiarità sia esigenza intrinseca ed ineliminabile di ogni uomo: l’uomo in quanto tale ha bisogno di esprimersi nell’affettività ed in particolare in quella specifica forma di affettività che può essere definita ‘‘familiarità’’. L’‘‘amore’’ tra familiari è dunque un quid di ontologicamente proprio della natura umana; già da questa osservazione discende come sia difficilmente immaginabile in astratto, e sicuramente non rinvenibile in concreto, un sistema morale che non valorizzi e tuteli l’affettività tra i membri di uno stesso nucleo familiare. Si può aggiungere, in una prospettiva questa volta sociologica, come oggi la funzione affettiva sia l’unica che competa e caratterizzi, secondo la morale corrente in paesi anche di diversa cultura e struttura politico-sociale (data tra l’altro l’attuale facilità di diffusione di modelli sociali tra le varie nazionalità) (44), il nucleo familiare, avendo quest’ultimo perso altri ‘‘ruoli’’ di tipo politico (come (40) Reati e non ‘‘delitti’’ perché potranno essere anche contravvenzioni: v. CALABRIA, op. cit., 41. (41) Da ciò si ricava come anche i reati artificiali tutelino comunque un interesse preesistente alla norma, cosicché non si può parlare di reati di ‘‘mera creazione legislativa’’; anche se teoricamente si può immaginare un legislatore che sanzioni una condotta non lesiva di alcun bene (ad esempio per absurdum sanzioni penalmente chi ascolta una certa musica), storicamente è difficile immaginare un legislatore che si prenda la briga di intervenire penalmente su fatti che non ledono alcun interesse: v. PULITANÒ, op. cit., 147 ss. D’altra parte, rilevare che di fatto il legislatore tutela sempre, con la norma penale, un qualche bene preesistente alla norma stessa, non vuol dire ritenere legittima la tutela penale di ogni bene per il fatto stesso che sia stata ritenuta adeguata dal legislatore; affermare che storicamente esistono mala quia vetita che tutelano beni eticamente non degni di rilevanza criminale, ma pur sempre beni, non vuol dire affermare che questi mala quia vetita siano anche legittimi per il fatto stesso di esistere, come invece in pratica si sosteneva nelle teorizzazioni del positivismo giuridico. Sui limiti costituzionali gravanti sul legislatore nell’individuazione dei beni penalmente rilevanti non si può che rinviare al celebre studio di BRICOLA, Teoria, cit., 7 ss., nonché, ancora, a DE FRANCESCO G.A., Il principio della personalità, cit., 21 ss. (42) BESSONE, Rapporti etico-sociali, in BRANCA (cur.), Commentario alla Costituzione, sub artt. 29 e 30, Bologna, 1976, 54. (43) V. l’interessante studio di D’AGOSTINO, Linee di una filosofia della famiglia nella prospettiva della filosofia del diritto, Milano, 1991, 14 e 65 ss., teso a dimostrare, con argomenti ora di tipo filosofico ora sociologico ora antropologico, come la ‘‘familiarità’’ sia un’esigenza fondamentale ed ineliminabile dell’individuo in quanto passaggio fondamentale per la scoperta della propria individualità e del proprio ‘‘io’’. (44) BIANCA, Diritto civile, I, Milano, 1995, 6.
— 948 — quello rivestito ad esempio dalla familia romana) od economico (come quello della famiglia occidentale ‘‘borghese’’) (45). Anche la morale cristiana da tempo considera prevalente, tra le varie funzioni etiche della famiglia (i c.d. bona matrimonii di S. Agostino), quella affettiva di unione e procreazione cosciente e responsabile (46). Persino modelli ‘‘futuribili’’ e storicamente non realizzati di famiglia, come quello marxista, ne valorizzano la componente dell’affettività, considerandola assolutamente ineliminabile, ritenendo al contrario collegate a cangianti modelli di rapporti sociali tutte le altre funzioni rivestite dalla famiglia nei vari periodi storici (47). Significativo è anche rilevare come negli attuali laceranti scontri su problemi quali l’aborto o la contraccezione, le opposte (almeno su questi punti) etiche laiche e religiose prendano comunque entrambe le mosse da un valore comune: quello, appunto, della famiglia come ‘‘luogo privilegiato di espressione degli affetti e di sviluppo armonioso della personalità’’, incentrandosi le contrapposizioni sulle modalità più adatte per tutelare e sviluppare quel valore. Nessun dubbio sussiste quindi sulla circostanza che l’affetto tra componenti di una medesima famiglia, tanto più se considerata limitatamente come famiglia ‘‘nucleare’’, sia, secondo l’etica attuale (e non solo) ‘‘generalmente’’ condivisa e diffusa (Kulturnorm), un valore morale; di conseguenza, lasciare in uno stato di grave bisogno materiale un congiunto pur avendo la possibilità d’intervenire in suo aiuto è senza dubbio una condotta moralmente riprovevole. Questa osservazione non è comunque sufficiente per qualificare la fattispecie in questione come malum in se, mentre sarà essenziale verificare se l’accertata rilevanza morale del bene tutelato positivamente dall’art. 570 cpv. n. 2) c.p. sia tale da renderne riconoscibile la rilevanza penale secondo la coscienza etico-giuridica collettiva attuale. Sicuramente non si può dire che la condotta prevista dalla norma del codice non sia ritenuta dalla coscienza sociale penalmente sanzionata in quanto mera ‘‘scorrettezza’’ eticamente poco significativa (48): si è visto anzi come essa sia da considerare una grave violazione di norme morali. Ciò non è di per sé indicativo, poiché la coscienza sociale considera talvolta certe condotte sì altamente negative, eppure per loro stessa natura impermeabili ad un intervento punitivo, posto che oggi valore sicuramente qualificabile come Kulturnorm, per il suo grado di diffusione culturale se non di adesione, è quello del rapporto ‘‘contrattuale’’ tra Stato ed individui, in base al quale lo Stato è legittimato ad agire fin tanto che il suo intervento sia funzionale all’ordinata convivenza ed al benessere sociale tra consociati, non potendo interferire sui c.d ‘‘atteggiamenti interiori’’ socialmente irrilevanti (49). È a questo punto necessario affrontare il problema della possibilità d’intervento del diritto (ed in particolare del diritto penale) nell’ambito dei rapporti familiari. Com’è noto, nella nostra Costituzione esiste una disposizione che sembrerebbe voler segnare i limiti di una ‘‘giuridicizzazione’’ della realtà familiare: art. 29 comma 1 ‘‘La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società natu(45) PARADISO, La comunità familiare, Milano, 1984, 3; la riforma del diritto familiare del 1975, nel suo valorizzare la famiglia come effettivo luogo di affetti e di benessere dell’individuo e nel suo rifiuto di mantenere giuridicamente in vita una famiglia ormai meramente ‘‘anagrafica’’ (si veda la nuova disciplina della separazione), è stata dunque più una recezione giuridica di modelli familiari ormai da tempo condivisi nei fatti che non un intervento di tipo ‘‘propositivo’’ teso al mutamento di una data realtà sociale: v. UCCELLA, Persona e famiglia, Padova, 1980, 29; PATERNITI, op. cit., 93. (46) CARDIA, Il diritto di famiglia in Italia, Roma, 1975, 30 e 242, con una significativa citazione di DUQUOC. (47) CARDIA, op. cit., 44 ss. (48) Anche secondo quella concezione giusfilosofica che ritiene necessaria l’assoluta corrispondenza tra norme penali e norme morali, sarebbero comunque sussumibili a fattispecie criminali soltanto le condotte connotate da un grave disvalore etico: v. ROXIN, op. cit., 27. (49) Ancora ROXIN, op. cit., 33 ss.
— 949 — rale fondata sul matrimonio’’. Secondo alcune letture, proposte da interpreti per lo più di orientamento cattolico, la qualificazione ‘‘societa naturale’’ rinvierebbe ad una sorta di essenza pregiuridica ed immutabile della famiglia, cosicché l’art. 29 Cost. non farebbe altro se non riconoscere l’inevitabile ed intrinseca impossibilità dello Stato di intervenire su questo sistema intangibile ed eterno di rapporti familiari (50). Da tempo è ormai riconosciuta l’inaccettabilità di una simile impostazione. I sostenitori di un diritto naturale della famiglia perseguono invero, più o meno inconsapevolmente, soprattutto l’intento ‘‘conservatore’’ di difendere un dato e contingente modello di famiglia con l’espediente logico, del tutto arbitrario, di elevare quel modello stesso a modello ‘‘eterno’’, ‘‘immutabile’’, quasi ‘‘trascendente’’ (51). Un’indagine storica poco più che approfondita (52) è già sufficiente a dimostrare come invece le relazioni familiari e la famiglia stessa abbiano assunto nei secoli e nelle varie esperienze sociali forme diverse e talvolta opposte, cosicché la dizione ‘‘società naturale’’ non può essere letta come un rinvio al diritto naturale per il semplice fatto che un concetto ‘‘naturale’’ ed ‘‘universale’’ di famiglia non esiste. La sfera di autonomia tutelata dall’art. 29 Cost. si riferisce allora all’insieme dei rapporti affettivi interfamiliari così come oggettivamente rinvenibili in un dato periodo storico: ‘‘società naturale’’ sarebbe una tipica espressione elastica che consentirebbe di definire le caratteristiche dell’istituto giuridico ‘‘famiglia’’ sulla base della fenomenologia concreta di quel particolare aggregato umano, con un continuo adeguamento, in questo campo, della realtà normativa alla cangiante realtà storico-sociale (esattamente l’opposto dunque di una passiva recezione di una realtà immutabile e quasi ‘‘metafisica’’) (53). Se la famiglia non è un qualcosa di immutabile, il diritto — come le altre forme di intervento statale, amministrative ed economiche (54) (si veda al proposito l’art. 30 comma 2 Cost.) — può su di essa agire anche a scopo propositivo (55). Lo ‘‘scopo’’ politico che può legittimare un intervento dello Stato nella famiglia si ricava dall’art. 2 Cost., perché la famiglia è sicuramente una ‘‘formazione sociale in cui si svolge la personalità dell’uomo’’ (56): saranno quindi ‘‘legittimi ed opportuni gli interventi diretti a tutelare interessi o valori (costituzionalmente garantiti) che fanno capo alla personalità individuale di singoli membri della famiglia, e che dalla famiglia o nella famiglia possono ricevere minaccia: appellarsi, contro la loro attivazione, al principio di autonomia della famiglia significherebbe invocare il rispetto di un bene giuridico inferiore per rango a quelli che si mira a proteggere’’ (57). In altre parole il valore dell’autonomia familiare, intesa (50) V. FERRI, Il diritto di famiglia e la costituzione della Repubblica italiana, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1962, 120 che parla di un vero e proprio ‘‘rinvio al diritto naturale’’. V. anche gli A.A. cit. da CARDIA, op. cit., 18; ROPPO, Il giudice nel conflitto coniugale, Bologna, 1981, 280, SANDULLI, Rapporti etico sociali, in CIAN OPPO TRABUCCHI (cur.), Commentario al diritto di famiglia, I, Milano, 1992, 7, nota 15. (51) V. BESSONE, op. cit., 15 ss. e 21; CARDIA, op. cit., 21; PARADISO, op. cit., 31. (52) Cfr. al proposito ROPPO, op. cit., 63 ss., che conclude a p. 67: « ‘‘famiglia’’ non è un concetto e non è neppure, al limite, un determinato istituto sociale, ma è piuttosto un nome, con il quale si sono, nel processo storico, designati istituti sociali diversi per strutture e funzioni specifiche, e accomunati soltanto dalla generale funzione di determinare (...) le modalità di trasmissione del nome, dello status, del patrimonio. Sotto questo nome, oggi si ricomprende l’insieme dei rapporti di sesso, di sangue e di affetto che definiamo matrimonio: ma ciò è espressione di un accidente storico, non di una necessità naturale ». (53) BESSONE, op. cit., 22; PATERNITI, op. cit., 1970, 104. D’altra parte la formulazione dell’art. 29 Cost. fu proposta dall’on. Togliatti, che non può certo considerarsi un cattolico giusnaturalista: v. ROPPO, op. cit., 280 ss. (54) Ritenute preferibili da UCCELLA, op. cit., 137. (55) CARDIA, op. cit., 18; D’AGOSTINO, op. cit., 11; PARADISO, op. cit., 43; BIANCA, op. cit., 9. (56) BESSONE, op. cit., 21; ROPPO, op. cit., 282 ss.; SANDULLI, op. cit., 21. (57) ROPPO, op. cit., 291.
— 950 — nel senso sopra visto, pur essendo di rango costituzionale ex art. 29 Cost, è comunque destinato a soccombere di fronte alla tutela dei diritti inviolabili del membro della famiglia in quanto individuo. Come ogni altro gruppo sociale, la famiglia deve essere funzionale all’individuo, e non viceversa; rispetto agli altri gruppi sociali, essa è comunque caratterizzata da un’autonomia particolarmente rilevante, poiché, ai sensi dell’art. 29 Cost. coordinato con l’art. 2 Cost., l’intervento giuridico nei suoi confronti potrà essere soltanto di natura residuale e sarà legittimo soltanto quando la famiglia di per sé non sia in grado di garantire le esigenze fondamentali dell’individuo (58). In certi casi limite, quando la tutela dei diritti del singolo familiare può essere perseguita efficacemente soltanto con il meccanismo general e special-preventivo della sanzione criminale, sarà legittimo un intervento di tipo penale (59). Già in sede di interpretazione costituzionale risulta dunque come l’intervento penale sulla famiglia non influisca necessariamente su ‘‘atteggiamenti interiori’’ socialmente irrilevanti, ma possa invero essere finalizzato alla tutela di beni personali socialmente, nonché giuridicamente, molto significativi; un’operazione politico-criminale di questo tipo sarà evidentemente, oltre che costituzionalmente corretta, anche ‘‘riconoscibile’’ alla stregua della ‘‘coscienza collettiva’’, data appunto l’importanza ‘‘etica’’ degli interessi tutelati. Per valutare la ‘‘riconoscibilità’’ sociale di una tale ipotesi d’intervento penale sarà però importante anche e soprattutto stabilire se questo intervento sia stato o meno costante dal punto di vista storico, posto che la coscienza etico-giuridica collettiva è in gran parte influenzata dal diritto positivo ad essa in un certo senso ‘‘preesistente’’ (nel senso che la riconoscibilità della rilevanza penale di un bene sarà evidentemente maggiore quando quel bene sia stato oggetto di tutela criminale da parte di più ordinamenti succedutisi nel tempo) (60). La rilevanza giuridico-penale della famiglia, praticamente inesistente nella Roma arcaica (61), si sviluppò nei periodi successivi in modo graduale: con l’evoluzione generale dell’ordinamento ‘‘statale’’, i poteri del pater furono limitati ed incasellati in precise figure giuridiche, così come gli altri familiari, in quanto tali, divennero titolari di interessi e doveri elevati a vere e proprie situazioni soggettive; con questa ‘‘giuridicizzazione’’ degli interessi dei ‘‘singoli’’ nella famiglia ed in relazione ad essa, si apriva la strada ad una possibile tutela anche di tipo criminale di quegli stessi interessi (62). Dai primi interventi sistematici sulla famiglia durante il regno degli imperatori cristiani (la valorizzazione etica dei beni fondamen(58) SANTORO PASSARELLI, in CARRARO OPPO TRABUCCHI (cur.), Commentario alla riforma del diritto di famiglia, Parte I, tomo I, Padova, 1971, 216. (59) Legittimo e non doveroso, non esistendo, quantomeno nel nostro ordinamento, ‘‘obblighi’’ costituzionali di tutela penale: cfr. PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in questa Rivista, 1983, 522 ss. e passim. (60) V. DE FRANCESCO G.A., op. ult. cit., 57, che ricollega la ‘‘riconoscibilità’’ sociale della rilevanza penale di un certo fatto in primo luogo all’essere stato questo stesso fatto considerato degno di interesse criminale da parte di una ‘‘tradizione penalistica ormai da lungo tempo consolidata, almeno a partire dalla nascita e dallo sviluppo del tipo di ordinamento statuale di derivazione illuministico-liberale’’; cosicché, ad esempio, ben diversamente ‘‘riconoscibile’’ sarebbe la valenza criminale di condotte lesive dell’‘‘integrità’’ dello Stato rispetto a quella di fatti lesivi dei c.d. ‘‘interessi diffusi’’, caratterizzati da un ben diverso ed inferiore ‘‘livello di sedimentazione sotto il profilo dell’evoluzione storica e della percezione sul piano politico-sociale’’ (op. ult. cit., loc. cit., nota 61). Per una storia dell’intervento giuridico sulla famiglia v. PARADISO, op. cit., 14 ss.; ROPPO, op. cit., 69 e, per il più specifico intervento penale, PATERNITI, op. cit., 75 ss. (61) Essendo allora la famiglia strutturata in modo rigorosamente autonomo e gerarchico, tanto da potere essere considerata un microcosmo politico, rilevante di per sé e titolare di interessi prevalenti su quelli del singolo familiare, un intervento sanzionatorio dello Stato volto ad interferire sui rapporti psicofisici interni tra familiari sarebbe stato inconcepibile. (62) Comunque, per lungo tempo ancora lo Stato evitò di intervenire penalmente sulla vita interna dell’istituzione familiare; le prime condotte sottratte a giudizio domestico furono l’adulterio (che ebbe una
— 951 — tali dell’individuo propugnata dal cristianesimo, beni per nessuna ragione strumentalizzabili alle esigenze di gruppi politico-sociali, permise lo svilupparsi della normativa penale a tutela del singolo familiare), passando per le codificazioni degli Stati sette-ottocenteschi (inizio di una progressiva ‘‘laicizzazione’’ del diritto di famiglia), fino alle legislazioni dei regimi totalitari (che raggiunsero il massimo grado di intervento giuridico sui rapporti familiari, in vista di una loro funzionalizzazione ai superiori interessi dello Stato) (63), un intervento penale sulla famiglia esiste ormai da secoli, anche se sotto diverse forme e con diversi gradi di ingerenza. In via di prima approssimazione si può dunque affermare che l’intervento penale sulla famiglia, quando basato su determinati presupposti, sia riconoscibile per la sua utilità sociale, essendo tra l’altro questa riconoscibilità favorita dall’essere la famiglia oggetto di un consolidato e risalente interesse politico-criminale; è però necessario operare un’ulteriore specificazione, posto che a noi interessa conoscere la rilevanza nella comune coscienza etico-giuridica non della famiglia in generale, bensì di uno specifico interesse tra tutti quelli inerenti alla famiglia. Per la sua genericità (nonché per le sue implicazioni politico-ideologiche) è infatti ormai da tempo rifiutata dalla dottrina l’impostazione teorica che considerava ‘‘bene’’ tutelato da tutti i reati familiari la ‘‘famiglia’’ in quanto tale, o, in modo ancora più vago ed impreciso, l’interesse dello Stato alla conservazione della famiglia come primo nucleo della società e dello Stato stesso (64). L’opinione ritenuta oggi più convincente, nonché più aderente alle direttive costituzionali (cfr. in particolare l’art. 2 Cost.), è quella per cui la famiglia ed i suoi ‘‘interessi’’ possono essere considerati l’‘‘oggetto della tutela penale’’ sottostante a tutti i reati contro la famiglia (ovvero lo ‘‘scopo’’ politico criminale perseguito dal legislatore nel prevedere i reati contro la famiglia) mentre ‘‘oggetto dei singoli reati’’ (ovvero il ‘‘bene’’ tutelato dalla singola fattispecie criminosa), saranno di volta in volta specifici doveri o diritti tra quelli inerenti ad uno status familiare (padre, figlio, coniuge ecc.) (65). Ogni reato contro la famiglia tutela dunque uno specifico bene ed inerisce ad uno specifico diritto o dovere relativo ad uno specifico rapporto familiare; per valutare se una fattispecie tra quelle previste nel titolo XI del libro secondo del c.p. possa essere considerata un malum in se, non sarà suffficiente riferirsi alla valutazione sociale di un generico intervento giuridico sulla famiglia, ma bisognerà anche e soprattutto considerare la rilevanza etico-giuridica del particolare ‘‘bene familiare’’ (nel senso ora visto) tutelato dalla singola disposizione di legge. L’art. 570 c.p., nella sua interezza, tutela il ‘‘diritto all’assistenza familiare’’ caratterizzante gli status familiari (coniuge, discendente, ecc.) indicati nella norma, diritto ricollegabile ad un ‘‘obbligo all’assistenza familiare’’ di cui sarebbero titolari i detentori di altri status familiari anch’essi indicati nella norma (altro coniuge, ascendente ecc.). Abbiamo visto come, più precisamente, l’art. 570 c.p. sanzioni forme particolarmente gravi di manifestazione dell’inadempimento al disciplina pubblica completa solo con Augusto) ed alcune ipotesi di ratto violento, comportamenti inerenti alla sfera ‘‘esterna’’ e ‘‘sociale’’ della familia. (63) ROPPO, op. cit., 74. (64) Per il complesso dibattito sull’oggetto giuridico dei reati contro la famiglia e sulla rilevanza pubblica della famiglia v. ANTOLISEI, Manuale, cit., Parte speciale, cit., 319; MANZINI, op. cit., 847; PECORELLA, voce Famiglia (delitti contro la), in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 807; SANDULLI, op. ult. cit., 290; DELOGU, op. cit., 9 ss.; FERRI, op. cit., 113 ss.; PISAPIA, voce Famiglia (delitti contro la), in Nss. D.I., VII, Torino, 1961, 56 ss.; ID., voce Famiglia (delitti contro la), in Dig. pen., V, Torino, 1991, 116 ss.; ID., Delitti, cit., 220 ss.; GALOPPINI, Crisi coniugale e violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Dir. fam., 1981, 136; PATERNITI, op. cit., 29 ss.; PEZZI, voce Famiglia (delitti contro la famiglia), in Enc. giur., XIV, Roma, 1989, 3. (65) PISAPIA, Delitti, cit., 217 ss. ; ID., Famiglia, cit., in Nss. D.I., 62 ss. a ID., Famiglia, cit., in Dig. pen., 118 ss.; contra DELOGU, op. cit., 7.
— 952 — suddetto obbligo. A questo punto è opportuno considerare separatamente il primo ed il secondo comma dell’art. 570 c.p., nonché il n. 1 ed il n. 2 del comma 2. È infatti possibile, ripeto, che per la coscienza sociale attuale un intervento penale nel campo degli affetti sia scarsamente ‘‘riconoscibile’’, anche se teso a sazionare forme di ‘‘disaffezione’’ particolarmente riprovevoli, vuoi perché contrastante con la ‘‘diffusa’’ concezione ‘‘laica’’ dello Stato, vuoi perché interventi sanzionatori in certe situazioni potrebbero essere irragionevoli in quanto aggravatori, più che risolutori, di crisi affettive interpersonali (66), vuoi perché l’intervento stesso potrebbe apparire intrinsecamente inutile potendosi con la minaccia della sanzione imporre condotte ma non certo sentimenti che sfuggono al controllo cosciente del loro stesso ‘‘detentore’’ (67); è possibile, in altre parole, che una certa condotta familiare non possa essere considerata malum in se (nel senso qui accolto) non perché mera ‘‘scorrettezza’’ dal punto di vista sociale, ma perché per sua natura non sottoponibile, pur nella sua notevole rilevanza etica, ad un intervento statale di tipo sanzionatorio. Questa osservazione può però valere per il primo comma dell’art. 570 c.p., nel quale possono essere ricomprese, posta la genericità di certi elementi normativi della fattispecie come ordine e morale delle famiglie, condotte caratterizzate da una rilevanza solo morale o affettiva ma non suscettibili, secondo l’attuale e diffusa concezione ‘‘contrattuale’’ dei rapporti Stato-cittadino, di assumere una qualche importanza criminale (68). La gravità della fattispecie prevista nel comma 2 dell’art. 570 c.p., ed in particolare quella considerata dal n. 2 di quella parte di disposizione, deriva invece dal concretarsi in quel caso la violazione degli obblighi di assistenza in una minaccia alle più elementari esigenze materiali del soggetto leso (abbiamo visto il significato restrittivo dello ‘‘stato di bisogno’’ rilevante per la norma in questione), cosicché l’aspetto affettivo viene posto in quella disposizione in secondo piano rispetto a quello economico, mentre l’individuazione dei destinatari della norma nei titolari di determinati status familiari è dovuta, più che alla volontà di sanzionare l’immorale ‘‘disaffettività’’ di certi soggetti, alla considerazione politico-criminale che, non potendo gravare genericamente su tutti i consociati l’obbligo di fornire gli essenziali mezzi di sussistenza a chi ne è privo, i titolari più opportuni di una tale necessario obbligo di garanzia non possono che essere i soggetti legati da vincoli di tipo familiare. In altre parole, esigenza sociale giuridicamente rilevante è quella per cui ogni consociato deve poter fruire dei mezzi materiali minimi necessari per vivere; il legislatore ha ritenuto degno di tutela penale un interesse sociale (oltre che personale) così significativo; essendo necessario, come per ogni reato omis(66) PISAPIA, Famiglia, cit., in Dig. pen., 128; ROPPO (op. cit., 17 ss.) nota come il provvedimento penale sia l’esito di pubbliche indagini e valutazioni sulla vita ‘‘interna’’ della famiglia, sui suoi modelli educativi, sessuali ecc., necessariamente resi di pubblico dominio con grave lesione dell’esigenza di privacy dei soggetti coinvolti nella vicenda familiare; per non parlare delle conseguenze di fatto (aggravamento dell’ostilità tra le parti contrapposte per l’inevitabile risentimento di chi si trova appunto a dover essere giudicato ‘‘pubblicamente’’ per le proprie condotte familiari) e legali dirette (ad es. perdita della potestà del genitore) ed indirette (ad es. possibilità di divorzio a seguito di condanna di uno dei coniugi). (67) SANDULLI, op. ult. cit., 8 (per cui questo intrinseco limite dell’intervento del diritto nel campo dei ‘‘sentimenti’’ familiari sarebbe ciò di cui avrebbe preso consapevolezza il costituente con la formulazione dell’art. 29 Cost.), CONTENTO, Riforma del diritto di famiglia e disciplina penalistica dei rapporti familiari, in Dir. fam., 1979, 175; PARADISO, op. cit., 42. (68) Questa porta in primo luogo a dubitare della legittimità costituzionale del comma 1 dell’art. 570 c.p. per difetto di tassatività e/o di materialità; v. infra; sui problemi di tipicità della fattispecie contenenti riferimenti a concetti extragiuridici, v. RONCO, op. cit., 139 ss., che d’altra parte (op. cit., 191 ss.) considera sufficientemente tassativa, se ben interpretata, la fattispecie dell’art. 570 comma 1 c.p., ridimensionando, sulla scia dell’interpretazione di PISAPIA, Delitti, cit., 677, la connotazione di indeterminatezza che secondo altri (v. nota 69) sarebbe apportata alla disposizione da termini come ‘‘ordine e morale delle famiglie’’ o ‘‘obblighi di assistenza familiare’’. Per una rassegna delle possibili applicazioni concrete della disposizione, v. DELOGU, op. cit., 440 ss.
— 953 — sivo, individuare e limitare il novero dei titolari dell’obbligo di facere il cui inadempimento sia penalmente rilevante, il legislatore ha in questo caso destinato la norma ai consociati che dovrebbero essere più ‘‘vicini’’ alle esigenze minime vitali di una persona, cioè ai familiari più stretti (ascendenti, discendenti, coniuge), con l’espediente tecnico di far rientrare (con la previsione diretta dell’art. 570 cpv. n. 2 c.p.) nel genus ‘‘obblighi giuridici di assistenza gravanti su certi familiari nei confronti di altri familiari’’ la species ‘‘obbligo di fornire i mezzi minimi di sussistenza al familiare che ne sia privo’’; il rapporto affettivo che dovrebbe sussistere tra familiari rileva qui non direttamente, come ‘‘oggetto del reato’’, bensì come criterio di selezione per individuare, tra tutti i consociati, i titolari di un determinato e specifico obbligo di garanzia. Così letta, la norma non può che essere considerata un malum in se: tutela un bene (elevato in questo caso a diritto) eticamente molto rilevante e di natura quasi esclusivamente economica, così che un intervento penale dello Stato può essere considerato, in una valutazione sociale, possibile e coerente, non influendo su un atteggiamento interiore ma su una condotta (omissiva) dotata di evidenti requisiti di materialità (dunque tra l’altro influenzabile da una minaccia penale); l’individuazione dei destinatari della norma è assolutamente corrispondente alla corrente valutazione etico-sociale, che considera primi destinatari del dovere di ‘‘far sopravvivere’’ un uomo le persone a lui legate da vincoli familiari, e che d’altra parte, se può ritenere talvolta comprensibile, giustificabile o inevitabile una mancanza di affetto tra vicini congiunti, certo considera assolutamente riprovevole che questa mancanza di affetto arrivi al punto di privare un soggetto dei più elementari mezzi di sussistenza. Si potrebbe obiettare che, influendo la norma su una condotta risolventesi in pratica in una prestazione economicamente quantificabile, per la coscienza eticogiuridico comune essa sarebbe più razionalmente sottoponibile a rimedi civilistici: in realtà, l’interesse alla base dello specifico ‘‘diritto di assistenza’’ in questione è sì economico ma anche attinente alle esigenze fondamentali della vita di un uomo: entrando in gioco il bene primario ‘‘qualità della vita’’, non sembra che possa essere considerato irrazionale, ad una valutazione sociale, accompagnare alla rilevanza civilistica della fattispecie quella penalistica, soprattutto tenendo conto di come sia socialmente pacifica l’importanza anche penale di altre condotte lesive di interessi meramente economici (furto, danneggiamento) o di beni della persona sicuramente di minor rilevanza (percosse, lesioni lievi). Si potrebbe anche contestare la qualifica della fattispecie in questione come malum in se osservando come quella dell’art. 570 c.p. sia una norma introdotta ex novo nel nostro ordinamento dal codice Rocco, dunque corrispondente non ad esigenze sociali da sempre condivise ma ad interessi politico criminali di uno specifico legislatore in uno specifico periodo storico. Si è però visto come per la nozione di malum in se rilevante ai fini di un giudizio di scusabilità dell’ignorantia iuris ci si debba riferire unicamente alla coscienza etico-giuridica collettiva, intrinsecamente suscettibile di mutare nei suoi caratteri con il mutare delle contingenze sociali e storiche; il fatto che una norma non trovi scelte corrispondenti in ordinamenti giuridici precedenti non è dunque di per sé argomento sufficiente a dimostrare la sua non classificabilità come malum in se. Inoltre, approfondendo la questione, se è vero che da parte di quasi tutti i commentatori si è sottolineato lo stretto legame tra la ratio delle norme del titolo XI del c.p. e le specifiche (ed oggi costituzionalmente inaccettabili) esigenze politico-criminali del legislatore fascista, determinanti una massiccia intensificazione del controllo penale dei rapporti interni della famiglia in vista di una strumentalizzazione di questa istituzione agli interessi superiori dello Stato, è anche vero che da questi stessi commentatori è citato, come esempio di norma dalla ratio tipicamente ‘‘totalitaria’’, soltanto il
— 954 — primo comma dell’articolo 570 c.p. (dove si trova il generico e ‘‘pericoloso’’ riferimento all’ordine ed alla morale delle famiglie) (69), mentre non ci si riferisce mai al cpv. dello stesso articolo. Tutto ciò spiega come sia implicitamente accolta, presso i giuristi, la validità anche attuale dell’interesse specifico tutelato dalla fattispecie sottoposta al nostro esame; d’altra parte, la sanzione penale dell’inadempimento agli obblighi alimentari (omissione questa meno specifica, come si è visto, di quella rilevante per il nostro codice penale) era già da qualche decennio conosciuta in altri ordinamenti caratterizzati da forme di Stato non certo di tipo fascista (Francia e Belgio) (70). Si aggiunga che i numerosi dubbi sulla costituzionalità dell’art. 570 c.p. prospettati dalla giurisprudenza, riferentesi ora al principio di tassatività (art. 25 Cost.) ora al principio di autonomia della famiglia (art. 29 Cost.), non hanno mai toccato, significativamente, quella particolare violazione dei doveri di assistenza concretantesi nel non fornire i mezzi di sussistenza al congiunto bisognoso (71). Concludendo, per tutti i motivi ora esposti, se si possono avere dubbi sulla ‘‘naturalità’’ del delitto di violazione degli obblighi di assistenza di cui al comma 1 dell’art. 570 c.p., o, se si vuole, anche su quella del n. 1 del cpv. dell’art. 570 c.p., che non richiede il carattere ‘‘vitale’’ degli interessi economici offesi (72), sicuramente, ed è quello che a noi interessava, malum in se deve essere considerata la condotta di non fornire all’ascendente, al discendente od al coniuge i più elementari mezzi di sussistenza. È dunque esatta, se letta in questo senso, l’affermazione della Corte per cui ‘‘l’obbligo sanzionato deriva da essenziali principi di solidarietà, ben radicati nella collettività, prima ancora che dalla norma civile o penale’’. 4. Se la fattispecie dell’art. 570 cpv. n. 2 c.p. deve essere considerata un malum in se (73), resta il non facile compito di valutare la rilevanza giuridica di una simile qualificazione ai fini di un giudizio di scusabilità dell’ignorantia iuris. La Cassazione, nella sentenza, afferma chiaramente la seguente regola: l’essere una disposizione un malum in se esclude di per sé, senza che siano necessari altri accertamenti di fatto o di diritto, la scusabilità di un’eventuale errore sul precetto ad essa relativo. D’altra parte la stessa Corte costituzionale, quando afferma che ‘‘l’ipotesi di un soggetto, sano e maturo di mente, che commetta un fatto criminoso ignorandone l’antigiuridicità è concepibile soltanto quando si tratti di reati che, pur presentando un generico disvalore sociale, non sono sempre e dovunque previsti come illeciti penali ovvero di reati che non presentino neppure un gene(69) V. PECORELLA, op. cit., 803 ss.; PEZZI, op. cit., 1 ss.; ROPPO, op. cit., 86 ss.; CARDIA, op. cit., 236 ss.; FIERRO CENDERELLI, op. cit., 767 ss.; GALOPPINI, op. cit., 139 ss.; CONTENTO, op. ult. cit., 175. (70) V. PISAPIA, Famiglia, cit., in Dig. pen., 125 ss. (71) La Corte costituzionale ha sempre sostenuto, con argomenti che non è il caso qui di analizzare proprio perché non riguardanti il nostro specifico campo di indagine, l’infondatezza delle censure proposte dai giudici a quibus: v. Corte cost. 23 marzo 1970 n. 46, in Foro it., 1970, I, 1011; Corte cost. n. 42/72, in Giur. cost., 1972, 187; ord. Pret. Roma 15 marzo 1977, Costa, in Foro it., 1977, II, 367; ord. Pret. Nardò 27 aprile 1978, Mariano, in Foro it., 1979, II, 174; ord. Pret. di Venafro 29 gennaio 1979, in Foro it., 1979, II, 447; ord. Pret. Orvieto 31 maggio 1983; in Giur. cost., 1984, II, 615; ord. Pret. Orvieto 17 dicembre 1987, in Giur. cost., 1987, I, 3453; v. anche RONCO, op. cit., 192 ss. (72) Ma per una verifica della particolare ‘‘gravità offensiva’’ anche di questa fattispecie, v. DELOGU, op. cit., 475 ss. (73) È chiaro che il delitto in questione può essere considerato pacificamente un malum in se solo se esattamente interpretato come sanzionante la specifica condotta di far mancare i mezzi elementari di sussistenza ad un congiunto in stato di bisogno; se si considerasse penalmente rilevante, come sembra ritenere la Corte (per quanto si possa ricavare da una motivazione piuttosto povera e superficiale, che addirittura non specifica neppure a quale comma dell’art. 570 c.p. si riferisca), la mera violazione dell’obbligo civilistico di mantenere il coniuge, probabilmente dovrebbero essere riviste tutte le osservazioni fino ad ora compiute sulla gravità etico-sociale del fatto. Ma, come si vide, una simile lettura dell’art. 570 c.p. cpv. n. 2 è unanimamente e giustamente rifiutata da dottrina e giurisprudenza.
— 955 — rico disvalore sociale’’ (74), sembra limitare l’ambito dell’inevitabilità dell’ignoranza del precetto ai soli mala quia vetita. Viceversa, da parte di certi autori si è affermata esplicitamente la possibile inevitabilità di un’ignoranza ricadente su precetti classificabili come mala in se (75). Per risolvere il problema è allora necessario affrontare la questione dei criteri da adottare per qualificare ‘‘inevitabile’’ un errore sul precetto. Com’è noto l’attuale art. 5 c.p., così come risulta dal dispositivo della sentenza 364/88 della Corte cost., introduce nel nostro ordinamento una particolare scusante (76): non può essere assoggettato a pena il soggetto che ignorava ‘‘inevitabilmente’’ il precetto penale da lui violato. Il termine ‘‘inevitabile’’ sembra richiamare, nel suo significato comune, un’accezione di assoluta non impedibilità di un determinato evento: ignoranza ‘‘inevitabile’’ sarebbe soltanto quella che nessun soggetto, anche se dotato di cognizioni (o possibilità di cognizioni) giuridiche superiori alla media, avrebbe potuto evitare (si pensi al classico esempio della mancata distribuzione della Gazzetta Ufficiale). In altre parole, per valutare l’inevitabilità dell’ignoranza del precetto, il giudice dovrebbe verificare unicamente l’oggettiva possibilità di conoscenza della norma in questione (ovvero la possibilità di conoscere la norma da parte del soggetto dotato della ‘‘miglior scienza od esperienza’’ o, nella migliore delle ipotesi, da parte di un generico cittadino ‘‘medio’’), prescindendo totalmente dalle possibilità cognitive dello specifico soggetto agente. La stessa Corte costituzionale sembra, in certi passi della sentenza 364/88, lasciarsi tentare da una simile impostazione, là dove dice che ‘‘l’inevitabilità dell’errore sul divieto (...) non va misurata alla stregua di criteri c.d. soggettivi puri (...) bensì secondo criteri oggettivi: ed anzitutto in base a criteri (c.d. oggettivi puri) secondo i quali l’errore sul precetto è inevitabile nei casi di impossibilità di conoscenza della legge penale da parte di ogni consociato’’ (77). Un’interpretazione ‘‘oggettiva’’ di questo tipo può considerarsi ormai consolidata nella giurisprudenza della Cassazione (78) che, riallacciandosi spesso esplicitamente all’affermazione della Corte cost. sopra riportata, rifiuta sistematicamente di valutare le potenzialità dell’agente concreto ai fini di un giudizio di scusabilità, riferendosi nella migliore delle ipotesi al rispetto di un criterio di ‘‘ordinaria diligenza’’ nell’informarsi, gravante su un astratto ‘‘cittadino medio’’, tanto da considerare in certi casi la valutazione ex art. 5 c.p. questione di ‘‘mero diritto’’, risolvi(74) § 28 della sentenza n. 364/88, in Foro it., l988, I, 1411; ritenendo però possibile l’inevitabilità di un’ignoranza ricadente su ‘‘reati che, pur presentando un generico disvalore sociale, non sono sempre e dovunque previsti come illeciti penali’’, la Corte esclude che sia concepibile una scusabilità di un’ignoranza ricadente su quei precetti considerati da NUVOLONE ‘‘contenuti costanti’’ della normazione penale (v. nota 28) in quanto tutelanti beni essenziali e necessari per qualunque convivenza civile, mentre ritiene possibile l’incolpevole errore su norme tutelanti valori sociali non condivisi ‘‘sempre e dovunque’’, norme che però, secondo la nozione di mala in se accolta nel testo, possono a certe condizioni essere comunque considerati reati naturali (cfr. DE FRANCESCO G.A., op. ult. cit., 61 ss.). In altre parole, ad una lettura più attenta risulta che la Corte ha sì escluso dal campo di applicazione della nuova scusante i c.d. mala in se, ma solo accogliendo una definizione di malum in se diversa da quella da noi adottata. (75) V. PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1995, 301. (76) Sulle ‘‘scusanti’’ e sulla loro contrapposizione ad altre figure giuridiche genericamente definibili come ‘‘cause di non punibilita’’, v. PADOVANI, op. ult. cit., 300 ss.; ROMANO, Cause di giustificazione, cause scusanti, cause di non punibilità, in questa Rivista, 1990, 53 ss. (77) § 27, in Foro it., cit., 1410. Per una radicale critica a questa parte della sentenza, v. STORTONI, L’introduzione nel sistema penale dell’errore scusabile di diritto: significati e prospettive, in questa Rivista, 1988, 1325 ss. (78) V. Cass., sez. I, 16 ottobre 1989, Spiga, in Cass. pen., 1991, p. 1053, n. 799; Cass., sez. III, 28 ottobre 1991, Lisci, in Cass. pen., 1993, p. 62, n. 34; Cass., sez. VI, 12 marzo 1993, Sicurella, in Giur. it., 1994, II, 753; Cass., sez. V, 3 luglio 1990, Rebattini, in Cass. pen., 1992, p. 1222, n. 622; Cass., sez. I, 30 maggio 1989, Calamai, in Cass. pen., 1991, p. 1776, n. 1331; Cass., sez. un., 10 giugno 1994 n. 8154, in Foro it., 1995, II, 154; Cass., sez. III, 3 ottobre 1995, Ialenti, in Guida al dir. de ‘‘Il Sole 24 Ore’’, n. 4/96, p. 119; cfr. MUCCIARELLI, op. cit., 281 ss.
— 956 — bile a prescindere da qualsiasi accertamento di fatto (con evidenti riflessi anche sul piano processuale) (79). Implicazione necessaria di una simile lettura del nuovo art. 5 c.p. è, come si è visto, l’evitabilità in ogni caso dell’errore ricadente su un malum in se, essendo quest’ultimo conoscibile per definizione dal consociato medio. In realtà, questa interpretazione non è accettabile. Innanzitutto, è bene sottolineare come non sia possibile immaginare, in tema di ignorantia legis, un’impossibilità di conoscenza ‘‘oggettiva’’, ovvero per ogni consociato, se si dà a questa espressione il significato letterale di ‘‘impossibilità di conoscere anche da parte del soggetto dotato della miglior scienza ed esperienza’’. Infatti la categoria in esame ha un senso soltanto se applicata ad un ‘‘fatto’’ (in particolare l’evento) (80) sul quale sono destinati ad operare così tanti fattori causali e casuali (tra cui procedimenti fisici non ancora scoperti dalla scienza) da far sì che il suo verificarsi possa non esser previsto neanche da un soggetto dotato della miglior scienza ed esperienza; non si attaglia, invece, al giudizio di inevitabilità dell’ignorantia legis, il quale ha ad oggetto la possibilità di conoscere (e non di prevedere) una ‘‘norma’’ già esistente, e come tale di creazione puramente umana (mentre sull’evento influiscono sempre cause di tipo naturale). Ragion per cui vi sarà sempre almeno un soggetto (primo fra tutti il parlamentare che ha partecipato alla procedura di emanazione della disposizione di legge) che sarà in grado di conoscere il fatto ‘‘norma’’ alla cui ‘‘creazione’’ o ‘‘diffusione’’ ha contribuito. Se dunque dovesse scusare soltanto l’ignoranza inevitabile per ogni consociato, il nuovo art. 5 c.p., a stretto rigore, non sarebbe mai applicabile nella sua efficacia scusante (81). L’unica lettura ‘‘oggettiva’’ sensata dell’art. 5 c.p. sarebbe allora quella che considerasse ‘‘inevitabile’’ l’ignoranza che non poteva essere evitata da un ipotetico cittadino dotato di cultura e possibilità cognitive ‘‘medie’’. Sulla base di questo criterio (che è poi quello adottato dalla Corte di cassazione) un soggetto con potenzialità culturali, cognitive e sociali molto al di sotto della media dovrebbe considerarsi colpevole qualora la sua ignorantia iuris avesse potuto essere evitata dal consociato medio; al contrario, un soggetto in possesso di cognizioni giuridiche superiori alla ‘‘media’’ sarà scusabile qualora la norma fosse inconoscibile non per lui ma per l’homo medius (82). Un risultato del genere sarebbe tuttavia in contrasto con quanto afferma la stessa Corte costituzionale, e cioè che ‘‘ll fondamento costituzionale (del nuovo art. 5 c.p.) (...) vale soprattutto per chi versa in condizioni di inferiorità’’. Più precisamente sarebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., portando ad un’ingiustificata equiparazione normativa di situazioni personali differenti, nonché con l’art. 27 Cost.; com’è noto, la Corte costituzionale è arrivata a sancire la rilevanza dell’errore inevitabile sul precetto ritenendo costituzionalizzato, nella norma da ultimo citata, il principio di ‘‘colpevolezza in senso normativo’’ (83), in base al quale la pena sarà applicabile solo a chi sia personalmente ‘‘rimproverabile’’ per il fatto di essersi posto contro l’ordinamento, cosicché dovrà (79) V. Cass., sez. I, 25 novembre 1992, Zentile, in Riv. pen., 1993, 815. (80) In relazione ai quali la nozione è stata originariamente elaborata: v. MANTOVANI, Dir. pen. cit., 179 ss. (per il c.d. ‘‘nesso di causalità scientifica’’) e 343 (per la prima fase — oggettiva — del giudizio di colpa basato su un criterio misto oggettivo-soggettivo). (81) Un’intuizione del genere era già presente in PULITANÒ, L’errore, cit., 493 ss., che criticava la giurisprudenza sulla buona fede nelle contravvenzioni quando richiedeva che l’agente avesse fatto ‘‘tutto il possibile’’ per informarsi sulla liceità del fatto. (82) V., in relazione al giudizio di colpa, MANTOVANI, op. ult. cit., 346. (83) Per la comprensione di questo complesso istituto, v. tra i tanti SANTAMARIA, voce Colpevolezza, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, 646 ss.; PADOVANI, Teoria della colpevolezza e scopi della pena, in questa Rivista, 1987, 798 ss.; ID., Appunti sull’evoluzione del concetto di colpevolezza, in questa Rivista, 1973, 554 ss.; ID., Dir. pen., cit., 225 ss.; FIANDACA, Considerazioni su colpevolezza e prevenzione, in questa Rivista, 1987, 836 ss.; PULITANÒ, op. ult. cit., 72 ss.; v. anche le posizioni critiche di PAGLIARO,
— 957 — ritenersi non punibile perché ‘‘non rimproverabile’’ colui che abbia commesso il fatto ignorandone l’antigiuridicità non a causa della sua negligenza o trascuratezza, ma a causa di un’incolpevole impossibilità soggettiva di conoscenza (84). Tale principio potrà dunque considerarsi effettivamente rispettato soltanto facendo ricorso al c.d. criterio dell’homo eiusdem condicionis et professionis (85), l’unico in grado di evitare da una parte i difetti di un giudizio svolto alla stregua del c.d. criterio dell’agente concreto, che porterebbe a scusare pressoché sempre il soggetto agente, ‘‘dovendosi tenere conto di tutte le sue caratteristiche personali e, quindi, delle sole conoscenze che egli ha e non anche di quelle che è tenuto ad avere: incentivo alla ripagante ignoranza, poiché chi più ignora, più è scusato’’ (86); dall’altra un’eccessiva astrazione del giudizio di scusabilità, come quella determinata da una valutazione compiuta sulla base delle caratteristiche di un ipotetico homo medius. Per stabilire l’esatta rilevanza della distinzione mala in se-mala quia vetita ai fini dell’applicazione scusante di cui all’art. 5 c.p. è necessario comunque sottolineare come la valutazione dell’inevitabilità dell’ignorantia iuris presupponga in realtà un doppio giudizio, o, se si preferisce, un giudizio in due fasi. Se è vero, come afferma la Corte costituzionale, che dalla Costituzione (ed in particolare dall’art. 2 Cost., che impone ai cittadini di adempiere agli ‘‘inderogabili doveri di solidarietà sociale’’) si ricava l’esistenza di veri e propri ‘‘doveri di informazione giuridica’’ gravanti sui consociati, è anche vero che, se si vuole adeguare questa affermazione ad un canone di ‘‘ragionevolezza’’ imposto costituzionalmente dall’art. 3 Cost., nonché al rispetto della libertà personale imposto dall’art. 2 Cost. (e dall’art. 13 Cost.), sarebbe assurdo pretendere che un soggetto si informi preventivamente sul valore giuridico di ogni sua azione; il dovere d’informarsi che la Corte ricava dalla Costituzione verrà allora in essere solo quando il soggetto si rappresenti quanto meno la possibilità (dubbio) di una rilevanza penale della condotta che vuole intraprendere (87). Ciò non vuol dire che il soggetto sia scusato ogni volta che, di fatto, non era in dubbio. Infatti, riferendosi pur sempre ad un giudizio ‘‘normativo’’ riguardante le ‘‘potenzialità’’ dell’agente, potrà rimproverarsi anPrincipi del diritto penale, parte generale, Milano, 1993, 310 ss.; BELLINI, Quis est iste qui venit?, in Riv. pen., 1989, 209 ss. (84) Sulle caratteristiche del giudizio di rimproverabilità in relazione all’ignorantia legis, v. da ultimo MUCCIARELLI, op. cit., 240; per i rapporti tra giudizio di rimproverabilità (colpevolezza) ed imputazione soggettiva del fatto (dolo e colpa), nonché per la nota contrapposizione teorica tra Schuldtheorie e Vorsatztheorie, v. PADOVANI, In tema di coscienza dell’offesa e teoria del dolo, in Cass. pen., 1979, 321 ss.; ID., Dolo e coscienza dell’offesa al momento degli addii?, in Cass. pen., 1984, 525; PALAZZO, voce Ignoranza della legge penale, in Dig. pen., VI Torino, 1993, 130 ss.; ID., Il problema dell’ignoranza della legge penale nelle prospettive di riforma, in questa Rivista, 1975, 790; ID., Ignorantia legis: vecchi limiti ed orizzonti nuovi della colpevolezza, in questa Rivista, 1988, 936 ss.; MANTOVANI, Ignorantia legis scusabile ed inescusabile, in questa Rivista, 1990, 380 ss.; MUCCIARELLI, op. cit., 237 ss.; MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa, in questa Rivista, 1991, 32 ss.; CALABRIA, op. cit., 35 ss. (85) Sul punto la dottrina è unanime. V. da ultimo MUCCIARELLI, op. cit., 267 e 277 ed A.A. ivi citati. (86) MANTOVANI, Dir. pen., cit., 346; v. anche ID., Ignorantia legis scusabile ed inescusabile, cit., 391 ss., dove l’A. applica il parametro misto oggettivo-soggettivo, da lui ideato in relazione al giudizio di colpa, al giudizio di scusabilità dell’ignorantia legis; in realtà, non ha senso, prima di intraprendere il giudizio ‘‘soggettivo’’ di scusabilità dell’ignoranza in base al criterio dell’homo eiusdem condicionis et professionis, valutare se l’ignoranza fosse oggettivamente inescusabile sulla base del criterio della miglior scienza ed esperienza, posto che, per i motivi sopra visti, vi sarà sempre un soggetto dotato della miglior scienza ed esperienza per il quale la norma era conoscibile. (87) Mentre, sempre per il rispetto del principio di uguaglianza che impone di trattare differentemente situazioni nei fatti differenti, i soggetti esercitanti professionalmente una certa attività saranno per ciò solo, a prescindere dunque da una situazione effettiva o potenziale di dubbio, titolari dell’obbligo di informarsi sulle norme riguardanti la loro attività, come giustamente sottolinea la Corte costituzionale nella sentenza n. 364/88; nei loro riguardi, ed in relazione a queste norme, il giudizio di scusabilità comprenderà solo la fase relativa alla diligenza tenuta nell’attività d’informazione giuridica.
— 958 — che chi non aveva un dubbio, ma avrebbe dovuto averlo (88). Si può considerare questa fase del giudizio di scusabilità come un ‘‘accertamento relativo all’imprevedibilità dell’illiceità’’. Tale verifica non deve essere confusa con quella avente ad oggetto l’impossibilità di conoscere la norma, a cui si è già accennato; infatti non solo può esserci, in concreto, ed in relazione ad un determinato soggetto, la prevedibilità dell’illiceità di un fatto accompagnata dall’impossibilità di conoscere la norma (ad esempio un cacciatore di bassa cultura che intuisce, o dovrebbe intuire che la detenzione di determinate armi potrebbe essere illegale, ma, d’altra parte, al comando dei carabinieri della sua località di residenza, unica fonte d’informazione possibile per l’homo eiusdem..., riceve informazioni negative circa la punibilità del fatto), ma è viceversa possibile che una norma ben conoscibile (ad esempio una norma fiscale chiarissima ed inserita in un testo unico facilmente reperibile) sanzioni un fatto di per sé così inoffensivo da non far sorgere alcun dubbio sulla sua possibile illiceità. Essendo anche il giudizio sulla ‘‘prevedibilità dell’illiceità’’ un giudizio di tipo ‘‘normativo’’, cioè un confronto tra una realtà storica ed una realtà ‘‘potenziale’’, sarà necessario trovare un ‘‘criterio’’ in base al quale svolgerlo, ed il criterio preferibile, per tutte le ragioni già viste, sarà nuovamente quello dell’homo eiusdem condicionis et professionis. A questo punto si può tentare di elencare ordinatamente le questioni che dovranno essere risolte dall’interprete per l’applicazione della scusante di cui all’art. 5 c.p.: Il soggetto ignorava il precetto quando intraprese la condotta di reato? (questione di fatto) Se no, sarà sempre punibile, rilevando ex art. 5 c.p. solo l’effettiva ignoranza del precetto (89). Il soggetto doveva adempiere all’obbligo d’informarsi? Doveva se aveva un dubbio sulla liceità della propria condotta oppure non aveva un dubbio ma l’avrebbe avuto l’homo eiusdem condicionis et professionis. Se non aveva un dubbio né avrebbe dovuto averlo sarà scusabile. Se aveva un dubbio o avrebbe dovuto averlo si deve passare alla seguente valutazione (anche se ovviamente il soggetto che non aveva di fatto un dubbio nella normalità dei casi non si sarà informato, anche se il dubbio avrebbe dovuto averlo): Il soggetto si è informato bene? Se il soggetto non si è informato sarà ovviamente punibile. Se il soggetto si è informato sarà rilevante valutare, sulla base del solito parametro dell’homo eiusdem condicionis et professionis, se si è informato diligentemente. Se si è informato diligentemente, sarà scusabile. Altrimenti la sua ignoranza non lo esenterà dall’applicazione della pena. (88) Questo, se non erro, è anche il pensiero di ROXIN (così come riportato da PADOVANI, Teoria della colpevolezza, cit., 807) secondo il quale, per valutare se l’ignoranza era evitabile, bisogna considerare ‘‘in primo luogo se la situazione doveva fornire all’agente un particolare motivo per interrogarsi sulla liceità della sua condotta’’ e l’esigenza di prevenzione speciale che dovrebbe fondare la punibilità verrebbe meno se ‘‘nemmeno il contenuto sociale della situazione poteva far sorgere alcun dubbio’’. In sostanza, quello che rileverebbe ai fini della prevenzione speciale, non sarebbe se il soggetto aveva concretamente un dubbio, ma se la situazione era tale per cui il soggetto avrebbe dovuto avere un dubbio. Anche la Corte costituzionale, nella sentenza n. 364/88, non ritiene che il soggetto sia scusabile per il solo fatto di non avere un dubbio, ma richiede la condizione ulteriore che questa mancanza di dubbio derivi da un ‘‘personale non colpevole difetto di socializzazione’’. PALAZZO (Ignorantia legis, cit., 957 ss.) ritiene che in determinati casi si debba ‘‘presumere’’ che il soggetto fosse in dubbio (il che è come dire che deve essere trattato come se avesse avuto un dubbio il soggetto che non lo aveva ma avrebbe dovuto averlo) per evitare accertamenti psicologici che si potrebbero protrarre ad infinitum. V. anche PULITANÒ, op. ult. cit., 473. (89) In realtà, a certe condizioni, può ritenersi la rilevanza scusante del c.d. ‘‘dubbio invincibile’’ (diversa è dunque la rilevanza giuridica del dubbio precedente all’attività d’informazione giuridica rispetto a quella del dubbio successivo): v. PALAZZO, Ignoranza, cit., 132 ss.; PULITANÒ, op. ult. cit., 468 ss.; MUCCIARELLI, op. cit., 252 ss.
— 959 — La classificazione del precetto su cui cade l’ignoranza come malum in se o come malum quia vetitum rileverà nella seconda fase del giudizio, quella relativa all’esistenza del dubbio o all’inescusabilità del mancato dubbio. In relazione ai mala in se nella normalità dei casi per ritenere inescusabile il mancato dubbio sarà sufficiente la presenza del dolo: l’esatta rappresentazione degli elementi del fatto tipico, dato l’alto grado di ‘‘riconoscibilità’’ della loro valenza penale, sarà di per sé tale da cagionare nella psiche dell’agente quanto meno il sospetto che l’azione intrapresa sia illecita (c.d. Appelfunktion del dolo). Per i mala quia vetita più facilmente sarà giustificabile l’assenza di dubbio, non integrando al proposito il dolo una causa sufficiente a ritenere di per sé prevedibile l’illiceità (90). In ogni caso, il dubbio o il mancato dubbio inescusabile non saranno di per sé motivi idonei a far ritenere ‘‘inevitabile’’ l’ignoranza dell’agente, avendo solo la funzione di introdurre l’ultima decisiva fase del giudizio di rimproverabilità. D’altra parte è possibile che un soggetto, pur essendo di fatto in dolo rispetto ad un reato naturale, ciò nonostante non sia in dubbio, per disfunzioni relative alla sua capacità psicologica di ‘‘collegamento’’ o di ‘‘ricettività’’. Questo potrà dipendere in primo luogo da una situazione di desocializzazione del soggetto agente (91); d’altra parte, il difetto di socializzazione è uno di quegli ostacoli ‘‘di fatto’’ alla realizzazione effettiva del principio di uguaglianza rilevanti ex art. 3 comma 2 Cost. e non è dunque costituzionalmente lecito che l’ordinamento non ne tenga conto o che, peggio, lo ponga alla base di un rimprovero (92). In relazione a soggetti con vizi di socializzazione, l’interprete dovrà svolgere il giudizio di ‘‘scusabilità’’ del ‘‘mancato dubbio’’ alla stregua del parametro dell’homo eiusdem condicionis et professionis secondo questa regola di massima: quanto più il fatto è offensivo (rectius, riconoscibile nella sua rilevanza giuridico-penale) secondo la considerazione etico-sociale comune, tanto più alto deve essere il grado di emarginazione o di desocializzazione occorrente per ritenere non rimproverabile l’assenza di dubbio. Tralasciando l’approfondimento dei fatti interessanti il secondo giudizio normativo inerente alla conoscibilità del precetto (93), basti aver dimostrato che, se si vuole effettivamente leggere nella scusante dell’art. 5 c.p. una concretizzazione dei principi costituzionali di colpevolezza in senso personale ed eguaglianza in senso (90) V. PADOVANI, In tema di coscienza dell’offesa e teoria del dolo, in Cass. pen., 1979, 324 ss.; PALAZZO (Ignorantia legis, cit., 955 ss.) aggiunge che in relazione ai mala quia vetita l’assenza di dubbio sarà rimproverabile nel caso in cui il soggetto abbia la ‘‘conoscenza (...) che il fatto progettato si inserisce dal punto di vista strutturale e sociale in una sfera di attività giuridicamente disciplinata’’ ovvero ‘‘la conoscenza che tale fatto è comunque affine a comportamenti per i quali l’ordinamento detta una disciplina giuridica’’. (91) La desocializzazione rilevante non coincide con i casi di mancata accettazione dei valori generali di un complesso sociale, perché l’appartenente ad una c.d. ‘‘subcultura criminale’’ non si trova in una condizione di ignoranza o incomprensione della morale e cultura comune, ma, cosa diversa, non la condivide. La non condivisione, al contrario, presuppone la conoscenza. Quello che conta è infatti il rapporto cognitivo, non quello di identificazione, rispetto ai valori dominanti. La desocializzazione rilevante è quindi quella che deriva da un’assenza di comunicazione tra l’ambiente sociale ‘‘normale’’ ed il soggetto. Caso di scuola è quello del ‘‘selvaggio’’, ma si può fare l’esempio, ben più realistico, di un soggetto che si trasferisca in una metropoli proveniendo da una società rurale chiusa. (92) PULITANÒ, op. ult. cit., 490 ss.; altre ipotesi in cui probabilmente il dubbio non sorgerà saranno quelle in cui sussista ‘‘una sorta di sfasatura tra la (...) personale sensibilità ai valori e l’orientamento valutativo dell’ordinamento: ciò può capitare soprattutto in quei (...) settori ‘‘critici’’, per esempio dell’eutanasia, della attività medica terapeutica o sperimentale, in cui è più facile che il processo di socializzazione-magari elitaria-dell’individuo non corrisponda perfettamente ai più stabili quadri di valore dell’ordinamento’’ (così PALAZZO, op. ult. cit., loc. cit.). (93) Per il quale, in sintesi, rileveranno la cultura giuridica e/o generica del soggetto, la natura qualificata o meno, in assoluto e relativamente al soggetto, della fonte di cognizione, il grado di riconoscibilità, in assoluto ed in relativo, dell’errore nell’informazione nonché la persuasività della motivazione, le possibilità anche di tipo ‘‘fisico’’ del soggetto di ricorrere ad altre fonti d’informazione oltre a quella consultata, nonché altri fatti che si riveleranno importanti nel caso di specie.
— 960 — sostanziale, il fatto che l’ignoranza abbia ad oggetto un reato naturale non è argomento di per sé sufficiente ad escludere la scusabilità dell’ignorantia iuris, come sembrerebbe invece ritenere la Cassazione nella sentenza in esame. Per completezza, resta da accennare brevemente al problema dei rapporti tra giudizio di scusabilità e conoscenza dell’illiceità civilistica o amministrativa dello stesso fatto sanzionato penalmente, visto che, nel caso specifico, il fatto di reato integrava anche gli estremi di un illecito civilistico, risolvendosi in una violazione dell’obbligo di mantenimento del coniuge previsto dall’art. 143 c.c. Se l’imputato avesse saputo di commettere con la propria condotta una violazione delle norme del codice civile, sarebbe stato necessario chiedersi se questa coscienza dell’antigiuridicità generica del fatto fosse sufficiente a ritenere rimproverabile il soggetto agente (94). A questo proposito, basti qui notare come soltanto riferendo la scusante all’ignoranza della specifica illiceità penale della condotta — con un’interpretazione tra l’altro più consona alla lettera dell’art. 5 c.p., che parla esplicitamente di ‘‘legge penale’’— si può dare rilevanza alla non trascurabile diversità psicologica tra chi agisce ritenendo (o dovendo ritenere) che il fatto sia degno di un mero rimprovero ‘‘amministrativo’’ o ‘‘civilistico’’, e chi agisce sapendo (o dovendo sapere) che la sua condotta è degna del pesante rimprovero penale (95): non si può ragionevolmente (cfr. anche art. 3 Cost.) ‘‘rimproverare’’ nello stesso modo soggetti che hanno dimostrato un così differente grado di ‘‘ribellione’’ nei confronti delle direttive del sistema giuridico, posto il sostanziale divario qualitativo, evidenziato dalla correlativa diversificazione fra ‘‘tipi’’ di sanzioni, tra fatti considerati dall’ordinamento meritevoli di conseguenze penali e fatti non ritenuti così gravi da dover assumere rilevanza criminale. Per valutare la scusabilità o meno del soggetto agente, bisognerà dunque avere di mira esclusivamente la conoscenza (effettiva o potenziale) del contrasto tra il fatto e l’ordinamento penale. In linea di massima, la conoscenza o conoscibilità dell’antigiuridicità generica del fatto avrà un mero valore indicativo, dovendo far propendere il giudice per la scusabilità nel caso di mala quia vetita (in relazione a questi reati, sarà probabilmente più di frequente scusata l’ignoranza del soggetto convinto di commettere un illecito amministrativo o civile che non quella del soggetto del tutto inconsapevole di una qualsiasi rilevanza giuridica del fatto: il primo infatti si troverà per lo più nello stato di chi, avendo avuto un dubbio, l’ha già risolto anche se erroneamente, e dunque si porrà solo il problema di valutare la ‘‘diligenza’’ con cui ha adempiuto al dovere di informarsi; per il secondo bisognerà invece compiere ab initio tutto l’iter logico necessario per valutare la scusabilità della sua ignoranza, accertando in primo luogo se aveva avuto dubbio o se avrebbe dovuto averlo, e via di seguito); mentre sarà praticamente del tutto indifferente ai fini di una valutazione di inevitabilità dell’errore ricadente su un malum in se (il cui elevato coefficiente di ‘‘riconoscibilità’’ sarà per lo più tale da rendere prevedibile anche per il quivis de populo una doppia rilevanza giuridica del fatto stesso, civilistica-amministrativa e penale). Nel caso concreto, d’altra parte, l’imputato ignorava anche l’antigiuridicità generica (o meglio, nel caso di specie, civilistica) della sua condotta. Le osservazioni fino ad ora compiute risultano comunque utili, perché impongono di circoscrivere l’indagine di scusabilità alla specifica conoscibilità dell’illiceità penale del (94) Sul problema dell’oggetto dell’ignorantia iuris rilevante, v. PALAZZO, Ignoranza, cit., 133 ss., ID., Ignorantia legis, cit., 942; VENEZIANI, L’oggetto dell’ignorantia iuris rilevante, in Foro it., 1995, II, 498 ss.; v. anche Cass., sez. III, 22 marzo 1994, in Foro it., 1995, II, 498, relativa ad un procedimento aperto davanti a Pret. Reggio Emilia, 4 ottobre 1991, Bondavalli, in Foro it., 1992, II, 57. (95) VENEZIANI, op. cit., p. 504; v. anche DE FRANCESCO G.A., op. ult. cit., 40 ss.; MUCCIARELLI, op. cit., 268 ss.
— 961 — fatto, essendo assolutamente irrilevante l’eventuale conoscibilità da parte del soggetto agente dell’illiceità civilistica del suo inadempimento. Questa considerazione è particolarmente d’aiuto nel caso di specie. Si consideri infatti che la norma dell’art. 143 c.c. viene letta, per precisa disposizione di legge (art. 107 c.c.), in occasione del matrimonio; tale circostanza sarebbe un forte argomento per ritenere inescusabile l’ignoranza della norma del codice civile da parte del coniuge, ma, come abbiamo visto, ciò non influisce minimamente sull’applicabilità della scusante di cui all’art. 5 c.p., per la quale potrebbe rilevare soltanto un’ipotetica lettura dell’art. 570 c.p. da parte del celebrante. 5. Tutte le osservazioni critiche fino ad ora svolte rivelano l’insufficienza della motivazione della Corte, ma non impediscono di ritenere comunque inescusabile l’ignoranza nel caso concreto, posto che la fattispecie dell’art. 570 c.p. cpv. n. 2 è caratterizzata, come si è visto, da una forte connotazione di ‘‘riconoscibilità’’, e dalle risultanze processuali non viene in luce, in relazione al soggetto agente ed ‘‘ignorante’’, quella desocializzazione grave che sarebbe stata l’unica a poter far ritenere scusabile il mancato dubbio sull’illiceità del fatto (e, di conseguenza, la mancata attività d’informazione giuridica). A questo punto, a dire il vero, sarebbe necessario affrontare il problema della prova dell’ignorantia iuris inevitabile, determinare, cioè, se la mancata prova di tale scusante debba effettivamente andare a detrimento dell’imputato (l’affermazione della Cassazione relativa all’importanza etica dei doveri di assistenza materiale se non ha di per sé, come si è visto, rilevanza sostanziale, potrebbe invece avere una particolare rilevanza sul piano probatorio). Ma la questione, fino ad ora piuttosto negletta da dottrina e giurisprudenza (96), meriterebbe uno studio apposito. ANTONIO VALLINI Perfezionando in diritto penale presso la Scuola Superiore « S. Anna » di Pisa
(96)
V. da ultimo un brevissimo accenno in MUCCIARELLI, op. cit., 238.
CORTE DI CASSAZIONE — Sez. III — 22 novembre 1995, n. 11318 (ud. 11 ottobre 1995) Pres. Tridico — Est. De Maio P.M. (diff.) Marchesiello — Ric. Delogu Annulla senza rinvio App. Cagliari 20 marzo 1995 Delitti contro la libertà sessuale — Atti di libidine violenti — Baci su guancia e collo — Persona non consenziente — Azione insidiosa e repentina — Violenza — Sussistenza — Atto — Natura libidinosa — Esclusione (C.p., art. 521). Nel reato di cui all’art. 521 c.p. la nozione di atti di libidine, nei comportamenti-limite, non può sfuggire ad una valutazione di carattere soggettivo e all’inserimento nel più generale contesto del costume e dei rapporti sociali caratterizzanti un determinato momento storico. Non è possibile pertanto ritenere che costituiscano atti di libidine violenti dei baci in zona del corpo non erogena, anche se dati a persona non consenziente, avendo oggi il bacio perso quasi del tutto il carattere di « impudico » o di proibito che aveva in epoche meno recenti (fattispecie in cui un datore di lavoro, con azione insidiosamente rapida, ha baciato una dipendente prima sulla guancia e poi sul collo)(1). MOTIVAZIONE. — Con sentenza del Tribunale di Cagliari in data 17 dicembre 1991, Delogu Guido fu condannato, con le attenuanti generiche, alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione per il reato di cui agli artt. 519-521 c.p. « per aver compiuto con violenza atti di libidine consistiti in baci sul collo e sulla guancia di Siddi Maria Giovanna », in Quartu S. Elena il 30 maggio 1991. Pena condizionalmente sospesa. A seguito di gravame proposto dai difensori dell’imputato (i quali avevano chiesto in via principale l’assoluzione; in via subordinata l’attribuzione al fatto della qualificazione giuridica di molestie ovvero di ingiurie e, in ulteriore subordine, la concessione del beneficio della non menzione), la Corte d’Appello di Cagliari, con sentenza in data 20 marzo 1995 in parziale riforma di quella impugnata, concesse al Delogu il beneficio della non menzione, confermando nel resto. Tale sentenza è stata impugnata con ricorso per cassazione dal difensore del Delogu il quale ha dedotto: I) difetto di motivazione in ordine all’attendibilità della parte offesa Siddi; II) violazione degli artt. 519 e 521 c.p., sotto il profilo che due fugaci baci sulla guancia e sul collo non potevano essere qualificati atti di libidine. Sono stati presentati motivi aggiunti, che hanno riproposto tale seconda questione sotto il profilo della violazione e falsa applicazione dell’art. 521 c.p. e della mancanza e illogicità della motivazione. Il ricorso, con riferimento al suo secondo motivo, è fondato. Premesso che i giudici di merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in questa sede e con logica motivazione aderente alle risultanze processuali, hanno ritenuto che nella circostanza effettivamente il Delogu, contro la volontà della Siddi, diede alla stessa un bacio prima sulla guancia e poi sul collo, va rilevato che è stata affermata la responsabilità del predetto Delogu in ordine al contestato reato di atti di libidine violenti, essendosi ravvisati nel suo comportamento gli estremi, indefetti-
— 963 — bili per la configurabilità di quel reato, della libidinosità e della violenza. I giudici di merito hanno, infatti, rilevato, sotto il primo profilo, che « le cadenze della condotta del Delogu sono risolutive quanto all’indicazione che i baci sono manifestazione di una situazione interiore del Delogu caratterizzata da appetito sessuale »; sotto il profilo della violenza, che « va intesa come violenta non soltanto quella azione che pone il soggetto passivo nell’impossibilità di opporre tutta la resistenza voluta, ma anche quella che si manifesta, come è accaduto nel caso in esame, in una sua esecuzione insidiosamente rapida che ha precluso alla Siddi di esprimere la sua contraria volontà ad essere baciata ». Tali rilievi, ineccepibili per quanto riguarda la definizione di violenza rilevante ai fini della configurazione del reato, sono, quanto alla qualificazione « libidinosa » dei baci sopra specificati, affrettati, apodittici e soprattutto non correlati da un lato alla concreta entità degli stessi (si è trattato di baci in zone del corpo non erogene e per di più fuggevoli e senza insistenza) e dall’altro all’analisi dell’attuale stato dei costumi, sempre più orientati, com’è ad ognuno evidente, nella specifica materia in esame, al superamento di quelli che in altri tempi costituivano dei tabù sessuali e a una sempre più aperta liberalizzazione. Per la verità, anche la giurisprudenza meno recente non riconnetteva, in ogni caso e (per così dire) automaticamente, al bacio dato a persona non consenziente intenti e natura libidinosi, essendosi più volte precisato (v. Cass. 2 aprile 1954; 29 maggio 1954; 18 dicembre 1958; 20 marzo 1959) che « il bacio può essere manifestazione erotica e solo in questo caso può discutersi se costituisca atto di libidine; quando siffatta espressione amorosa, anche se sconveniente, non implica concupiscenza carnale, il bacio non può qualificarsi atto di libidine, in qualunque circostanza e per qualsiasi fine mediato esso venga dato; potrà, semmai, imputarsi a titolo di ingiuria, di violenza o di molestia, ma non come reato contro la moralità pubblica e il buon costume ». Altre volte, è stato affermato (Cass. 9 dicembre 1942) che « anche il bacio, specialmente se ripetuto, costituisce atto di libidine, quando sia dato in modo lascivo o per impulso di lussuria » e, nella stessa linea (Cass. 18 marzo 1935), che « il bacio può non offendere la pudicizia, non eccitare i sensi nè destare pensieri o desideri impudichi; ma può anche, nell’intenzione dell’agente e per il modo con cui lo si dà, manifestarsi lascivo e turbare l’innocenza di chi lo riceve, provocandone la sensualità ». La migliore dottrina distingueva, in modo anche più netto, precisando che « il bacio diviene atto di libidine allorchè attui un intento lascivo, purchè sia dato in modo o in parte del corpo tale da manifestare la lussuria del baciante. Si tenga sempre presente che il fatto, per potersi imputare a norma dell’art. 521 c.p., deve attentare all’altrui inviolabilità carnale, perchè questa è l’oggetto della tutela penale, e non semplicemente al pudore o al decoro altrui. Un bacio dato di sfuggita, o senza un contatto suscettivo di dare sensazioni libidinose, non è certamente atto di libidine ». Meraviglia alquanto che ai giudici di merito siano sfuggite tali precisazioni e distinzioni, che ancor più si impongono nell’epoca attuale, in cui possono dirsi ormai compiute due rivoluzioni, quella sessuale e quella industriale, diverse ma egualmente incidenti nel profondo di una società, a buon diritto ora definita postmoderna. Indubbiamente esistono atti che, per la natura ed entità loro proprie, rien-
— 964 — trano di per sè, cioè indipendentemente da qualsiasi altra valutazione, nella nozione di atti di libidine, ma la nozione nelle zone di confine, nei comportamenti-limite, non può sfuggire a una valutazione di carattere oggettivo e all’inserimento nel più generale contesto del costume e dei rapporti sociali caratterizzanti un determinato momento storico. In un’indagine di questo tipo, non può non convenirsi che il bacio (ovviamente non quello dato sulla bocca o su altre zone del corpo erogene), anche se dato a persona non consenziente, ha oggi perso quasi del tutto quel carattere di « impudico », di proibito, che aveva in epoche meno recenti. Come si evidenzia dalla cronaca, i nostri giovani sono soliti scambiarsi baci, anche nelle scuole; una volta uscitine, di frequente si soffermano ad abbracciarsi e baciarsi apertamente. Al tempo stesso, i concetti di comune senso del pudore e di osceno hanno subito un’evoluzione rapidissima: films « a luci rosse » vengono proiettati liberamente nelle sale cinematografiche; le rappresentazioni teatrali non rifuggono da contenuti sempre più scabrosi (il nudo in scena, sia maschile che femminile, è ormai comunemente ammesso); nella scultura e nella pittura sempre più frequente è la rappresentazione veristica dell’atto sessuale (il nudo è, invece, in queste arti un classico fin dall’antichità); le nostre strade sono piene di cartelloni pubblicitari che evidenziano le parti più intime del corpo umano; nelle sfilate di moda, le modelle mostrano, oltre che splendidi abiti, le proprie più appariscenti attrattive. In un contesto siffatto, non è possibile ritenere che un bacio dato sul collo e uno sulla guancia costituiscano atti di libidine violenti, se dati a persona non consenziente. I vari aspetti di una determinata società in un determinato momento storico procedono di pari passo, influenzandosi reciprocamente, e non è pensabile che alcuni siano avanzatissimi e altri, invece, rimasti fermi sulle posizioni tradizionali. In un’epoca di cameratismo generalizzato, in cui si è da tempo realizzata la completa liberazione della donna, che si affianca all’uomo nei posti di lavoro e che conquista posizioni di rilievo in apparati e strutture un tempo a lei preclusi (e, addirittura, in paesi stranieri, anche nella vita militare), deve necessariamente ritenersi che una nozione tecnico-giuridica di atti di libidine violenti, modernamente intesa ma pur sempre in linea con l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale sopra richiamata, debba essere riferita solo a toccamenti o gesti, che per la loro concreta entità e per le modalità con cui si attuano, costituiscono inequivoca manifestazione di desiderio ed ebbrezza sessuale. Rispetto a esteriorizzazioni di questo tipo, il comportamento incriminato del Delogu può configurarsi, al più, come prodromico o preliminare, ma, essendosi concretizzato e limitato a due baci (uno sulla guancia e uno sul collo), dati fuggevolmente e senza insistenza, certamente non può rientrare nella nozione sopra delineata di atti di libidine violenti. Tale comportamento avrebbe potuto integrare (esclusa l’ingiuria, per l’evidente mancanza del relativo elemento soggettivo) il reato di molestia, ove fossero concorsi altri elementi, in primis quello della pubblicità del luogo, che qui invece manca, essendosi il fatto verificato all’interno di uffici e locali privati. L’impugnata sentenza va, pertanto, annullata senza rinvio perchè il fatto non costituisce reato. Non sfugge alla Corte il risvolto spiacevole del caso in esame, costituito da quegli aspetti di arroganza o di sopraffazione quasi sempre rilevabili in comportamenti poco ortodossi tenuti da un datore di lavoro nei confronti di una dipen-
— 965 — dente; ma tali risvolti, pur innegabilmente rilevanti, non possono alterare la natura di una condotta che, alla luce delle considerazioni fin qui svolte, è chiaramente scevra delle connotazioni proprie del reato di atti di libidine. P.Q.M. la Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non costituisce reato. (Omissis).
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Sulla rilevanza penale del « bacio » come atto di libidine prima e dopo la riforma dei reati sessuali
SOMMARIO: 1. Introduzione. — 2. Sul delitto di atti di libidine violenti. a) Il carattere libidinoso. b) La violenza. — 3. Il bacio come atto di libidine. — 4. Commento ai motivi della decisione. — 5. Alcune considerazioni alla luce della riforma dei reati sessuali.
1. Con la sentenza in oggetto la Suprema Corte ripropone l’annosa e discussa questione relativa alla collocazione del bacio nell’ambito del delitto di atti di libidine violenti ed offre l’occasione di affrontare il tema alla luce della recente riforma in materia di reati sessuali (Legge 15 febbraio 1996 n. 66 « Norme contro la violenza sessuale »). La Cassazione si occupa del caso di un datore di lavoro condannato in primo ed in secondo grado per il reato di atti di libidine violenti previsto dall’art. 521 del codice penale per aver baciato una sua dipendente su una guancia e sul collo (1). La Corte annulla senza rinvio la sentenza di condanna impugnata, ritenendo che il fatto non costituisca reato sulla base della convinzione che quei baci non possano essere qualificati come atti libidinosi, tenendo conto soprattutto del generale contesto sociale e di costume caratterizzante il nostro tempo (2). È opportuno premettere un’analisi del reato ex art. 521 c.p. nei suoi singoli elementi costituitivi, soffermandosi in particolare sugli estremi della libidinosità e della violenza, per poi affrontare il problema che viene in considerazione alla luce dei risultati ottenuti. 2. Posto nel Titolo IX tra i delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, l’art. 521 c.p. disponeva: « Chiunque, usando dei mezzi o valendosi delle condizioni indicate nei due articoli precedenti, commette su taluno atti di libidine diversi dalla congiunzione carnale soggiace alle pene stabilite nei detti articoli, ridotte di un terzo. — Alle stesse pene soggiace chi, usando dei mezzi o valendosi (1) Per un caso analogo, anche se valutato alla stregua del diritto civile e del lavoro, v. Pret. Trento, 22 febbraio 1993, in Riv. it. dir. lav., 1994, 172 con nota di POSO V.A., Dimissioni per giusta causa della lavoratrice che abbia subito molestie sessuali e risarcimento del danno e in Giust. civ., 1994, I, 554 con nota di RAFFI A., Dimissioni per corteggiamento indesiderato e risarcimento dei danni, che ha riconosciuto il risarcimento dei danni morali sul presupposto della sussistenza del reato ex art. 521 c.p. in un caso assai simile a quello qui in esame. La sentenza è stata poi completamente riformata da Trib. Trento, 1 aprile 1994, inedita. (2) Sarà bene precisare che la sentenza è stata pronunciata sotto la vigenza della vecchia disciplina (art. 521 c.p.). A seguito della riforma in tema di reati sessuali i casi in precedenza riconducibili all’art. 521 c.p. — abrogato insieme a tutto il Capo I del Titolo IX del Libro II — sono ora ricompresi nella più generale fattispecie prevista dal nuovo art. 609-bis c.p. intitolato violenza sessuale. In generale sulla Legge 15 febbraio 1996 n. 66 vedi CADOPPI A. (a cura di), Commentario delle « Norme contro la violenza sessuale » (Legge 15 febbraio 1996, n. 66), Padova, 1996.
— 966 — delle condizioni indicate nei due articoli precedenti, costringe o induce taluno a commettere gli atti di libidine su se stesso, sulla persona del colpevole o su altri » (3). L’interesse tutelato è quello della libertà sessuale, definibile secondo le varie prospettazioni offerte dalla dottrina come « diritto a non subire l’altrui sopraffazione, fisica o morale, rivolta al compimento di atti di libidine » (4), come « diritto alla libertà concernente l’esplicazione delle proprie qualità e facoltà sessuali » (5), come « diritto di pretendere che altri non aggredisca il proprio corpo per farne oggetto di manifestazioni di libidine » (6). a) Originariamente gli atti di libidine erano puniti a titolo di tentativo di stupro violento, violenza, ingiuria, ecc. Le prime previsioni di fattispecie autonoma risalgono al codice sardo del 1839 (art. 439) e al codice toscano del 1853 (art. 282). L’art. 333 del codice Zanardelli del 1889 puniva « chiunque, usando dei mezzi o profittando delle condizioni o delle circostanze indicate nell’art. 331 [violenza carnale], commette su persona dell’uno o dell’altro sesso atti di libidine che non siano diretti al delitto preveduto in detto articolo ... ». La dottrina allora dominante identificava « l’atto di libidine » in ogni estrinsecazione dell’istinto sessuale che non fosse diretta al congiungimento carnale (7). Il codice Rocco, abbandonando il criterio soggettivo dell’intenzione dell’agente (atti di libidine che non siano diretti alla congiunzione carnale), adotta, invece, quello oggettivo — con rilevanti conseguenze in tema di dolo — desunto dalla natura intrinseca dell’atto, considerato nella sua obiettività (atti di libidine diversi dalla congiunzione carnale). L’elemento materiale sfugge peraltro ad una determinazione positiva, realizzandosi la condotta criminosa con il compimento di un atto di natura libidinosa diverso dalla congiunzione carnale (8). (3) In questa sede si prenderà in considerazione solo l’ipotesi di cui al primo comma, e non quella prevista dal secondo comma, non attinente al caso deciso. (4) PECORARO ALBANI A., voce Atti di libidine violenti, in Enc. dir., IV, 1959, 7. (5) DE CUPIS A., Il diritto alla libertà sessuale, in Studi giuridici in memoria di F. Vassalli, I, Torino, 1960, 431. (6) LEMME F., voce Libertà sessuale, in Enc. dir., XXIV, 1974, 555. Interessante la recente prospettazione della libertà sessuale sotto il profilo di « un rapporto interpersonale libero e corretto nel campo sessuale » (PICOTTI L., Il dolo specifico, Milano, 1993, 148 ss.). (7) V., per tutti, CARRARA F., Programma del corso di diritto criminale, Parte speciale, II, Firenze, 1908, § 1542, 401 ss. il quale, sulla scia del codice toscano, differenziava gli atti di libidine — da lui classificati come oltraggio violento al pudore — dal tentativo di violenza carnale. (8) In sostanza ai fini di una precisa definizione degli atti di libidine ex art. 521 c.p. è giocoforza riferirsi al concetto di congiunzione carnale ex art. 519 c.p. A questo proposito alla tesi (ANTOLISEI F., Manuale di diritto penale, Parte speciale, I, XI ed. integr. ed agg. a cura di CONTI L., Milano, 1994, 474; MARINI G., voce Violenza carnale (dir. pen.), in Nss. D. I., XX, 1975, 959; CONTIERI E., La congiunzione carnale violenta, Milano, 1980, 44 ss.), secondo la quale per congiunzione carnale dovrebbe intendersi « l’accoppiamento normale o fisiologico fra due persone di sesso diverso » (e, cioè, il coito vaginale), la maggioranza della dottrina (vedi per tutti MANZINI V., Trattato di diritto penale italiano, VII, V ed. agg. da NUVOLONE P.-PISAPIA G.D., Torino, 1984, 306) e la quasi unanimità della giurisprudenza, ormai consolidata (Cass., 19 aprile 1974, in Cass. pen., 1980, 1334; Cass., 19 luglio 1979, in Riv. it. med. leg., 1980, 931; Cass., 19 gennaio 1982, in Giust. pen., 1983, II, 51; Cass., 21 gennaio 1985, ivi, 1985, I, 678; Cass., 30 settembre 1986, in Cass. pen., 1988, 712 e in Riv. pen., 1987, 876; Cass., 19 marzo 1990, in Riv. pen., 1991, 309), contrappongono una nozione di congiunzione carnale capace di abbracciare qualsiasi compenetrazione, totale o parziale, dell’organo genitale del soggetto attivo o passivo in una parte del corpo dell’altro, anche se dello stesso sesso, per via normale od anormale, così da rendere possibile il coito od un suo equivalente (coito anale, orale, ecc.). A seconda di cosa si intende per congiunzione carnale, varia dunque il concetto di atti di libidine. Ma, come ha osservato giustamente NAPPI A., I delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, in BRICOLA F.-ZAGREBELSKY V. (diretta da), Giurisprudenza sistematica di diritto penale-Codice Penale, Parte Speciale, V, II ed., Torino, 1996, 349, « la definizione dei rapporti con la « congiunzione carnale » risolve solo il problema del limite « superiore » del concetto di atti di libidine, non quello del limite « infe-
— 967 — In prima battuta possono dirsi atti di libidine i palpamenti, i toccamenti, gli strofinamenti lascivi, la masturbazione, ecc.: ogni atto insomma avente natura di concupiscenza sessuale (9). Per aversi un atto di libidine occorre un contatto corporeo, non essendo sufficiente una mera contemplazione lasciva (10). Tuttavia non è necessario che tale contatto cada su parti del corpo nude, né che interessi direttamente gli organi genitali (11), né che abbia una certa durata (12). Il reato si consuma con il compimento dell’atto di libidine, non essendo richiesto che l’agente soddisfi il proprio impulso sessuale (13). Un solo atto è sufficiente per concretare il delitto e, se nello stesso contesto si compiono più atti di libidine, si realizza comunque un unico reato (14). Ma le variegate interpretazioni e definizioni date da dottrina e giurisprudenza forniscono un quadro tutt’altro che chiaro ed omogeneo del concetto di « atti di libidine ». La giurisprudenza — soprattutto quella più risalente — richiede « la presenza di un requisito soggettivo di antigiuridicità, vale a dire l’insorgenza di uno stato interiore psichico caratterizzato dalla libidine sessuale » (15): gli atti di libidine devono essere « suscettibili di eccitare » o « di dar sfogo alla concupiscenza carnale » ovvero diretti all’eccitamento o alla soddisfazione sessuale (16). In dottrina si alternano concezioni connotate oggettivamente, che riconducono alla previsione dell’articolo 521 c.p. « tutte le manifestazioni dell’istinto sessuale, e cioè tutte le forme in cui può estrinsecarsi la libidine, escluso il coito », indipendentemente dalle finalità che muovono all’azione (17), ad altre più « soggettive », contraddistinte dal riferimento all’intenzione libidinosa del soggetto agente: riore », del limite, cioè, al di là del quale non si ha nè congiunzione carnale, nè atto di libidine ». Limite che viene in considerazione nel caso deciso dalla sentenza qui commentata. (9) PECORARO ALBANI A., op. cit., 10, il quale, però, ricomprende nella fattispecie di cui all’art. 521 c.p. anche la fellatio in ore, che invece per la maggioranza della dottrina e della giurisprudenza rientra nel delitto di violenza carnale. (10) Per tutti v. ANTOLISEI F., op. cit., 482. In giurisprudenza, tra le altre, Cass., 6 novembre 1967, n. 1491, in C.E.D. Cass. n. 106978. (11) Cass., 10 ottobre 1986, in Riv. pen., 1987, 876; Cass., 7 febbraio 1986, ivi, 1987, 265; Cass., 29 settembre 1986, n. 13303, in C.E.D. Cass. n. 174423 (« è sufficiente il toccamento di qualsiasi parte del corpo e non già soltanto di quelle intime, purché esso sia volto all’eccitazione della brama sessuale (nella specie medico che aveva abbracciato la paziente) »); Cass., 1 giugno 1983, n. 7819, in C.E.D. Cass. n. 160394; Cass., 25 marzo 1971, in Cass. pen. Mass. ann., 1972, 1527; Cass., 22 gennaio 1971, n. 127, in C.E.D. Cass. n. 118646 (« anche il solo toccamento di una coscia o della regione glutea contro la volontà della persona offesa è per se stesso atto di libidine »); Cass., 21 febbraio 1968, in Giust. pen., 1969, II, 43; Cass., 2 maggio 1967, n. 600, in C.E.D. Cass. n. 105771; Cass., 7 aprile 1964, in Giust. pen., 1964, II, 776; Cass., 28 marzo 1960, ivi, 1961, II, 436. (12) Cass., 25 marzo 1976, in Riv. pen., 1976, 1119. (13) Cass., 1 giugno 1983, cit.; Cass., 30 settembre 1986, cit.; Cass., 17 febbraio 1972, n. 2788, in C.E.D. Cass. n. 120917; Cass., 6 novembre 1967, cit.; Cass., 12 aprile 1967, n. 527, in C.E.D. Cass. n. 105536. (14) ANTOLISEI F., op. cit., 482. In giurisprudenza v. Cass., 14 novembre 1984, n. 470, in C.E.D. Cass. n. 167424. (15) Cass., 9 aprile 1976, in Giust. pen., 1977, II, 353, che così prosegue: « l’atto libidinoso si contrappone perciò a qualsiasi altro atto, obiettivamente consimile, ma non contrassegnato dal predetto appetito, quale può essere ad esempio il toccamento di una parte pudenda ad opera di un sanitario a scopo diagnostico o terapeutico. L’indagine sull’elemento intenzionale spiega particolare efficacia nel campo dell’attività medica, ove il sanitario, simulando atti diagnostici o curativi, può compiere sui pazienti veri e propri atti di libidine, qualora al valore e al significato oggettivo degli atti si accompagni lo scopo erotico di eccitamento e di soddisfazione sessuale ». È da rilevare però che accanto all’elemento — fondamentale per ravvisare l’atto di libidine — dell’intenzione dell’agente, si attribuisce rilevanza, se pur minore, anche al « valore e al significato oggettivo degli atti ». (16) Tra le altre cfr. Cass., 12 febbraio 1954, in Giust. pen., 1954, II, 609, 393 (« qualsiasi toccamento lascivo sul corpo di un’altra persona, col quale il soggetto attivo tende a soddisfare la propria concupiscenza ... integra gli estremi del reato consumato degli atti di libidine »); Cass., 25 marzo 1976, cit.; Cass., 19 gennaio 1984, n. 515, in Riv. pen., 1985, 40. (17) ANTOLISEI F., op. cit., 481.
— 968 — si parla infatti di « atti diretti ad eccitare la propria concupiscenza verso piaceri carnali turpi » (18). Ma, a ben vedere, gli stessi assertori della tesi oggettiva finiscono poi per riconoscere l’importanza dell’elemento psicologico ai fini della ricostruzione della stessa natura libidinosa della condotta (19). Si sostiene, infatti, che un atto di per sé non « inequivocabilmente libidinoso ... può esserlo per la intenzione lasciva, diretta cioè al fine erotico, che lo sorregge » (20). E ancora si ritiene che « l’atteggiamento psichico del soggetto agente ... rappresenta il dato prevalente nella ricostruzione del reale contenuto dei fatti ... la qualificazione degli atti di libidine va compiuta attraverso un’oggettivazione di elementi soggettivi » (21). A cagione di questa rilevanza dell’elemento soggettivo già nel giudizio di tipicità del fatto, in passato si era parlato dei reati sessuali in termini di delitti « di tendenza », « a dolo specifico implicito » caratterizzato da un particolare « impulso lussurioso » o « di libidine » desumibile dalla « natura intrinseca » del reato (22). Una originale e più matura visione oggettiva è stata recentemente proposta da chi ha suggerito doversi cogliere la tipicità della condotta « nella specifica prospettiva del ... rapporto illecito col soggetto passivo » con particolare riguardo al tipo di rapporto interpersonale intercorrente fra agente e vittima, al suo contenuto sessuale e alla mancanza di libera autodeterminazione del soggetto passivo. « L’atto può, cioè, dirsi di libidine, ai fini della norma penale, non tanto per l’impulso che lo sorregge, quanto perché attraverso di esso si instaura un rapporto di rilevanza sessuale — si innesti o meno su una preesistente relazione qualificata — con il soggetto passivo sul quale viene commesso » (23). In particolare, tale concezione potrà tornar utile se l’atto compiuto dall’agente risulta ambiguo, equivoco, non chiaro quanto alla sua oggettiva connotazione sessuale o libidinosa: in quest’ipotesi si dovrà tener conto anche dei rapporti tra autore e vittima, perché una considerazione meramente obiettiva del solo comportamento umano risulterà insufficiente a cogliere il pieno « valore » dell’atto (24). È il caso, ad esempio, del bacio o di toccamenti e carezze, il cui significato, nella comune vita di relazione, muta in (18) MANZINI V., op. cit., 359, il quale richiede anche che, ai fini della punibilità, si debba constatare l’intervento di « modificazioni organiche » dell’agente, opinione questa generalmente e giustamente criticata; MORELLI M., Della componente soggettiva nel delitto di atti di libidine violenti, in Giust. pen., 1968, II, 834 che rileva che « il fine di concupiscenza ... costituisce l’elemento propulsore o direzionale » dell’atto di libidine, « fuori del quale l’atto stesso non può essere definito in tutta la gamma delle sue manifestazioni, certamente non esauribili con criteri di descrizione obiettiva ». (19) E questo soprattutto in relazione a quegli atti di per sè non libidinosi che però possono acquistare tale rilievo in quanto commessi con intenzione lasciva (con particolare riferimento ai comportamenti che normalmente si realizzano nell’esercizio dell’attività sanitaria o al bacio). (20) PECORARO ALBANI A., op. cit., 10. (21) BRIGNONE P., Atti di lesività carnale: una qualificazione giuridica in bilico tra violenza privata ed atti di libidine violenti, nota a Cass. 15 maggio 1982, in Cass. pen. Mass. ann., 1983, I, 904. (22) Sull’argomento vedi ampiamente PICOTTI L., op. cit., 139 ss. (23) PICOTTI L., op. cit., 148 ss. (« Alle « reali » intenzioni o tendenze interiori dell’agente, come pure a quelle della vittima, ovvero alla stessa percezione che delle prime questa abbia avuto, si potrà e dovrà certo riconoscere rilievo, visto oltretutto il carattere intimamente « personale » della stessa sessualità: ma soltanto sul piano probatorio ... »). (24) A maggior ragione, secondo l’A. (PICOTTI L., op. cit., 144 ss. e Il delitto sessuale: da sfogo « non autorizzato » della libidine a « rapporto interpersonale » illecito. Spunti di riflessione sull’evoluzione e la riforma dei reati sessuali, in CADOPPI A. (a cura di), Commentario, cit., 421), non trovano spazio quei temperamenti « soggettivistici » normalmente ammessi per definire quegli atti di natura più ambigua e non univoca, argomentando dalla comparazione tra il delitto ex art. 521 c.p. e quelli previsti negli artt. 519 e 520 c.p., rispetto ai quali il primo si presenta come ipotesi « residuale ». In particolare si osserva come il riferimento allo scopo dell’agente o alla tendenza dell’azione, nei reati di cui agli artt. 519 e 520 c.p., non trovi alcun rilievo a causa della « evidente tipicità della congiunzione carnale dal punto di vista fisiologico ». Ulteriore riprova emerge dalla fattispecie di cui al capoverso dell’art. 521 c.p., nella quale è il soggetto passivo che commette l’atto di libidine « su se stesso, sulla persona del colpevole o su altri »: « a dimostrazione che la legge prescinde da ogni impulso sessuale » di chi « commette » gli atti di libidine, essi « restano normativamente tali, anche se frutto di « costrizione o induzione » del soggetto
— 969 — funzione del rapporto instauratosi tra i soggetti (25). Il medesimo comportamento potrebbe non confluire negli atti di libidine nell’ambito di un certo rapporto (come l’abbraccio, il bacio o il toccamento scherzoso tra amici) e configurare invece il delitto in questione nell’ambito di un altro rapporto (tra sconosciuti, tra datore di lavoro e lavoratore, medico e paziente e, in generale, nel contesto di rapporti non connotati da intimità o confidenza). Da parte nostra riteniamo di dover senz’altro privilegiare la connotazione oggettiva dell’atto, attribuendo rilevanza non solo al rapporto tra i soggetti, che certo nell’ambito delle dinamiche sessuali assume un rilievo tutto particolare, ma anche a tutte le circostanze del caso concreto che di volta in volta vengono in considerazione (tipo di atto compiuto, contesto in cui è compiuto, circostanze di tempo, luogo e persona, ecc.) (26). Tuttavia occorre avvertire che in realtà le difficoltà di un simile giudizio non risiedono tanto nell’individuazione degli elementi per esso rilevanti, bensì nel fatto che la valutazione di tali elementi risulta inevitabilmente orientata alla stregua della concezione di morale sessuale che si ritiene di dover accogliere. Si tratta, in sostanza, della difficoltà che da tempo la dottrina (27) ha evidenziato nel definire i c.d. elementi normativi extragiuridici o normativo-sociali. L’interprete dovrebbe assumere come punto di vista la concezione imperante nel contesto sociale in cui opera, così contrastando la naturale tendenza a privilegiare personali convinzioni in materia. Si tratta, come è facile immaginare, di una operazione già di per sé assai delicata e che assume connotati di difficoltà estrema nel caso in cui la società, per la diffusa disomogeneità che la caratterizza, non sia in grado di fornire valori generalmente condivisi. b) Venendo all’estremo della violenza o della minaccia, richiesto dall’art. 521 c.p. in virtù del rinvio alle modalità di cui all’art. 519 c.p., per violenza in senso proprio deve intendersi l’esplicazione di una energia fisica atta a vincere la resistenza della vittima, mentre per minaccia si intende la prospettazione di un male futuro, al fine di coartare la volontà altrui (c.d. violenza morale) (28). Limitando la nostra attenzione all’elemento della violenza, che viene in considerazione nel caso in esame, la giurisprudenza e la dottrina più risalenti richiedevano la resistenza della vittima con tutte le sue energie. In questa prospettiva, non infrequente era il ricorso, nel caso in cui la donna non avesse opposto strenua resipassivo ... che materialmente li ponga in essere ». Infine si fa leva sulla previsione normativa di tutte quelle condizioni che fanno riferimento proprio al « tipo di rapporto » su cui si radica il comportamento penalmente incriminato, al di là della costrizione basata sulla violenza o minaccia (artt. 519 comma II e 520 c.p. e, per rinvio, anche art. 521 c.p.). (25) Si tratta di « casi-limite, quelli di confine tra l’atto di libidine e l’atto solo imparentato alla lontana con esso », che in passato la giurisprudenza talora puniva come atti di libidine dando rilievo all’intenzione erotica del reo (CADOPPI A., Commento all’art. 3, in CADOPPI A. (a cura di), Commentario, cit., 38 ss.) applicando una concezione soggettiva che, isolata dalla considerazione di altri elementi (tipo di atto, concrete modalità d’azione, ecc.), porta a risultati devianti (v. nota infra 26). (26) Dando eccessivo rilievo allo scopo dell’atto si rischia di cadere in assurdità quali considerare atto di libidine l’atto compiuto dall’agente a scopo di libidine ma privo sul piano oggettivo di tale carattere (ad es. caso di colui che si eccita nel toccare i capelli o nel baciare le caviglie altrui). Tale comportamento, infatti, non sembra realizzare l’offesa al bene protetto dalla norma, ossia la lesione alla libertà sessuale della vittima, la quale in tali casi avrà addirittura difficoltà a percepire l’intenzione dell’agente. Fermo restando, ovviamente, che la liceità penale di simili condotte va saggiata alla stregua di tutte le fattispecie criminose esistenti nell’ordinamento (ad es. art. 610 c.p., art. 660 c.p., ecc.). V. però G.i.p. Trib. Bolzano, 15 gennaio 1997, inedita, che ha riconosciuto la sussistenza del reato di violenza sessuale a seguito di patteggiamento ex art. 444 ss. c.p.p. per il caso di un soggetto che ha leccato le caviglie a una ragazza. (27) Cfr. per tutti FIANDACA G.-MUSCO E., Diritto penale, Parte generale, III ed., Bologna, 1995, 71. (28) PANNAIN R., Manuale di diritto penale, Parte Speciale, II, t. I, Torino, 1957, 322.
— 970 — stenza, alla vecchia stereotipata idea, capace di escludere la rilevanza penale del fatto, della vis grata puellae, intesa come violenza che « non « costringe », ma « induce », o « conquista » o « seduce », che dà il viatico al pudore sopraffatto dagli stimoli della già desta e inebriante libidine, che soddisfa l’amor proprio e acquieta la coscienza della donna, che vince quella riluttanza fatta di civetteria e di desiderio che la donna ostenta come le femmine di molte specie di animali » (29). Si tratta, come è evidente, di un vero e proprio pregiudizio culturale che, come osservato da illustre dottrina (30), si risolve sul piano giuridico in un parametro facilmente manipolabile allo scopo di neutralizzare la rilevanza penale di vere e proprie forme di aggressione, attraverso un restringimento ingiustificato dell’estremo della violenza. Sennonché la giurisprudenza ha compiuto passi significativi su questo punto, escludendo la necessità di una resistenza della vittima, tale da dover sfociare in una lotta strenua che lasci segni sul suo corpo (31); ed escludendo altresì che la violenza si debba esplicare per tutta la durata dell’attività criminosa (32). Ma la giurisprudenza si è spinta ancora più in là, avallando una vera e propria interpretatio abrogans dell’elemento della violenza (e della minaccia), generalmente suscitando le critiche della dottrina. Due sono al riguardo le ipotesi che vengono in considerazione: la prima attiene a condotte essenzialmente ingannatorie, particolarmente frequenti nel campo dei rapporti tra operatori sanitari e pazienti (33); la seconda, che viene in rilievo nel caso in esame, è quella degli atti compiuti, senza impiego di violenza o di minaccia vere e proprie, ma con insidiosa rapidità in (29) MANZINI V., op. cit., 311. In senso conforme v. MARINI G., op. cit., 960; ANTOLISEI F., op. cit., 477, che parla di violenza che in realtà « è desiderata dalla paziente per salvare le apparenze, oppure per sedare gli scrupoli della propria coscienza ». Questo atteggiamento, consueto nella giurisprudenza di soli trent’anni or sono (cfr. Cass., 20 febbraio 1967, in Giust. pen., 1967, II, 1400), compare tuttavia anche in alcune sentenze più recenti: Trib. Bolzano, 30 giugno 1982, in Giur. mer., 1984, II, 136 (« Qualche atto iniziale di forza o di violenza da parte dell’uomo, secondo una diffusa concezione, non costituisce violenza vera e propria, dato che la donna, soprattutto tra la popolazione di bassa estrazione sociale e di scarso livello culturale, vuole essere conquistata anche con maniere rudi, magari per crearsi una sorta di alibi al cedimento ai desideri dell’uomo. »). (30) FIANDACA G., voce Violenza sessuale, in Enc. dir., XLVI, 1993, 961. (31) Cass., 20 gennaio 1986, in Riv. pen., 1987, 69 e in Cass. pen., 1987, 753: « agli effetti dell’art. 519 c.p. per violenza deve intendersi anche quella che, a seconda delle circostanze, pone il soggetto passivo in condizioni di non poter opporre tutta la resistenza che avrebbe voluto e la costrizione di cui si tratta può aversi anche se la vittima non ha invocato aiuto, non ha dato l’allarme o non ha riportato lacerazioni d’indumenti e lesioni sul corpo »; Cass, 10 dicembre 1990, in Cass. pen., 1992, 1244; Cass., 22 novembre 1988, in Riv. pen., 1990, 565, secondo cui « il delitto di violenza sussiste non solo quando vi sia stata una lotta strenua capace di lasciare segni sulla vittima, ma anche quando questa si sia concessa solo per porre termine ad una situazione per lei angosciosa ed insopportabile, poiché tale tipo di consenso non è libero consenso, bensì consenso coatto, che ricade sotto la nozione di violenza di cui all’art. 519 c.p. »; App. Milano, 18 maggio 1981, in Riv. it. med. leg., 1981, 1094; Trib. Rieti, 16 maggio 1985, in Foro it., 1988, II, 243. In dottrina v. FIANDACA G., op. cit., 961, secondo il quale « si rischia di accollare in partenza, alle vittime dello stupro, un onere di resistenza che deve necessariamente tradursi in forme di opposizione combattiva o quantomeno visibilmente energica, con tutte le conseguenze negative che possono derivarne a carico della loro stessa incolumità personale ». (32) Cass., 26 gennaio 1971, in Cass. pen. Mass. ann., 1972, 909. In dottrina vedi ANTOLISEI F., op. cit., 476; MARINI G., op. cit., 960. (33) Paradigmatico il caso deciso da Trib. Arezzo, 22 gennaio 1990, in Foro it., 1990, II, 316 in cui un infermiere professionale, nell’eseguire un esame encefalografico ad una ragazza diciottenne, col pretesto di compiere accertamenti tecnici le pratichi palpazioni nel petto e nella vagina. Tuttavia, quando la ragazza si accorge dell’inganno e respinge le offerte amorose dell’infermiere, questi riprende a comportarsi professionalmente. In motivazione si legge testualmente che « ... non è condotta violenta solo la coartazione dell’altrui volontà intesa comunemente come la conseguenza dell’estrinsecazione di una energia fisica ..., bensì ogni attività che un soggetto subisce senza che vi sia il consenso effettivo, esplicito od implicito. In altri termini, nei delitti contro la libertà sessuale non si può lasciare uno spazio neutro tra la condotta violenta e quella consensuale ... ». È evidente in simili decisioni il tentativo di abrogare, in via interpretativa, gli elementi della violenza e della minaccia, come specifiche modalità d’offesa, sostituendoli col semplice dissenso della vittima.
— 971 — danno della vittima. Infatti, secondo la giurisprudenza da ultimo prevalente, per « violenza », nel delitto in esame, deve intendersi non solo quella che pone il soggetto passivo nell’impossibilità di opporre tutta la resistenza voluta, tanto da concretarsi in vero e proprio costringimento fisico, bensì anche quella che può manifestarsi nel compimento insidiosamente rapido dell’azione criminosa, consentendo in tal modo di superare la contraria volontà del soggetto passivo (34). In dottrina si rileva come queste siano ipotesi in cui, pur essendo innegabile la mancanza di consenso da parte del soggetto passivo, non può assolutamente parlarsi di violenza, che è concetto ben diverso da quello della sorpresa o dell’insidia (35). Si sostiene pertanto che gli atti di libidine non attuati con violenza, ma di sorpresa, non realizzano l’illecito e se ne fa la seguente casistica: il bacio di concupiscenza dato di sorpresa, l’accostare deliberatamente il membro a una donna in tram, l’appoggiare una mano su una rotondità femminile, ecc. Pertanto tali comportamenti, pur essendo manifestazioni di immoralità e spesso di degenerazione, non vengono fatti rientrare tra gli atti di libidine punibili, venendo semmai in considerazione, sussistendone i presupposti, altre ipotesi di reato (atti osceni, ingiuria, molestia, ecc.) (36). Da parte nostra riteniamo che nel campo dei reati sessuali si imponga una interpretazione rigorosa dell’elemento in questione, capace, da un lato, di far emergere la rilevanza penale di quelle condotte di vera e propria costrizione, mediante l’impiego di forza fisica, alle quali non abbia fatto riscontro una viva resistenza, per paura od altro, della vittima, giacché l’inerzia della vittima, quando non è sintomatica di un vero e proprio consenso, non elimina la violenza del soggetto attivo del reato; e, dall’altro, di escludere la rilevanza penale, almeno alla stregua dell’art. 521 c.p., di quelle condotte fondate sull’inganno e sulla repentinità o insidio(34) Cass., 24 marzo 1986, in Cass. pen. Mass. ann., 1987, 715, in fattispecie di visita medica estesa, « improvvisamente ed all’insaputa del paziente », agli organi genitali; Cass., 4 giugno 1982, in Riv. pen., 1983, 608, secondo la quale « sussiste il delitto di cui all’art. 521 c.p. anche quando la violenza è solo potenziale per non essersi attuata la necessità di esplicarla (ad esempio, quando l’agente operi improvvisamente o all’insaputa della persona offesa, nella convinzione che il consenso non ci sarebbe stato) »; Cass., 26 febbraio 1980, in Cass. pen. Mass. ann., 1981, 1241 e in Giust. pen., 1980, II, 659; Cass., 24 marzo 1976, cit.; Cass., 5 ottobre 1973, in Giust. pen., 1974, II, 403; Cass., 21 maggio 1973, in Giust. pen., 1974, II, 104; Cass., 20 gennaio 1972, n. 1833, in C.E.D. Cass. n. 120605; Cass., 6 ottobre 1967, n. 1285, in C.E.D. Cass. n. 106215; Cass., 11 novembre 1966, n. 1382, in C.E.D. Cass. n. 103567. E ancora, in giurisprudenza di merito: Trib. Crema, 14 gennaio 1987, in Foro it., 1988, II, 243; Pret. Roma, 8 settembre 1980, cit., secondo la quale « sussiste il reato di cui all’art. 521 e non quello previsto dall’art. 660 c.p. nel fatto di colui che strofina il proprio organo genitale contro il corpo di una donna in un tram affollato », con nota contraria di MIGLIORATI D., Rilevanza dell’estremo della violenza nel reato di atti di libidine, che conclude affermando l’inapplicabilità al caso di specie dell’art. 521 c.p., ritenendo tale soluzione più appagante « in una serena visione dei rapporti sociali eterosessuali ». Contra: Cass., 21 giugno 1968, in Cass. pen. Mass. ann., 1969, 763 (« ai fini del delitto di cui all’art. 521 c.p., la violenza si concreta in qualsiasi impiego di forza o di energia fisica, sia pure minima, purché idonea, secondo le circostanze, a vincere la resistenza del soggetto passivo; il che si realizza allorquando taluno profittando della ressa stropiccia il suo corpo contro una donna e persiste nell’azione nonostante l’espressa contrarietà di essa »); Cass., 13 gennaio 1967, in Giust. pen., 1967, II, 1097, che parla di « una qualunque energia valida a vincere la resistenza della vittima »; Cass., 19 novembre 1965, ivi, 1966, II, 464 (« non costituisce violenza, atta ad integrare il delitto di cui all’art. 521 c.p., l’eiaculare sulle gambe di una donna, approfittando del superaffollamento di un mezzo pubblico di trasporto, senza che la stessa percepisca il compimento dell’atto di libidine ... la violenza fisica, agli effetti del diritto punitivo, consiste nell’impiego di una forza fisica, di qualsiasi grado o intensità, che si sovrapponga alla resistenza fisica dell’altra parte ... »); Giud. istrutt. Bologna, 17 febbraio 1983, in C.E.D. Mer. n. 840366; App. Ancona, 21 febbraio 1994, cit. (35) PECORARO ALBANI A., op. cit., 14; PANNAIN R., op. cit., 350; RAPISARDA C., nota a Trib. Palermo 6 novembre 1987, Trib. Crema 14 gennaio 1987, Trib. Rieti 16 maggio 1985, cit. (« nella prassi giudiziaria sovente si rinvengono applicazioni del reato di atti di libidine a situazioni concrete che appaiono in sè prive di rilevante disvalore »). (36) PECORARO ALBANI A., op. cit., 14. Contra: ZAZA C., voce Atti di libidine violenti, in Enc. giur., III, 1988, 2.
— 972 — sità dell’azione che, in quanto tali, sembrano irriducibili al paradigma della violenza. Una simile interpretazione sembra trovare un valido argomento nella gravità dei reati che vengono in considerazione, riuscendo ad escludere la rilevanza penale di quelle condotte, il cui disvalore appaia ictu oculi sproporzionato per difetto rispetto alle pene previste dall’art. 521 c.p. (37). Questa conclusione sembra addirittura avvalorata dalla riforma, in riferimento sia agli aumentati limiti di pena, sia al mancato accoglimento della proposta, pur autorevolmente sostenuta, di eliminare gli estremi della violenza e minaccia per sostituirli con l’espressione « contro la volontà » (38). Sul piano dell’accertamento processuale, particolarmente delicato in questo campo, si prospetta la necessità che il giudice proceda ad un vaglio scrupoloso di tutte le circostanze (modalità ed entità della coartazione, caratteristiche e condizioni soggettive della vittima, rapporti tra soggetto attivo e soggetto passivo, ecc.), che aiutino a interpretare le dinamiche interrelazionali sottese ai diversi casi concreti, pur nella consapevolezza dell’insufficienza degli strumenti penali per la comprensione di quelle molteplici e contraddittorie motivazioni, sia consce che inconsce, che stanno alla base del comportamento delle stesse vittime (39). 3. A lungo si è discusso in passato — e ancora oggi si pone la questione — circa la riconduzione giuridica del bacio nell’ambito degli atti di libidine violenti ovvero se il bacio debba o meno considerarsi atto di libidine (40). L’acceso dibattito verte sui criteri cui far riferimento, per accertare quando tale comportamento sia da considerare espressione di libidine e quando non lo sia. In conformità a quanto sostenuto in relazione all’elemento materiale del delitto di cui all’art. 521 c.p. (41), la dottrina prevalente e la giurisprudenza hanno dato preferenza a quell’orientamento per così dire « misto », il quale assegna rilevanza sia alla natura e alle modalità degli atti considerati nella loro obiettività, sia all’intenzione dell’agente. Dunque: « ogni qualvolta il bacio rivesta per il fine perseguito o per le modalità dell’azione (parte del corpo, ecc.) il carattere di atto erotico, di concupiscenza, esso rientra nell’ipotesi dell’art. 521 c.p., concorrendo, s’intende, le altre condizioni » (42). E ancora: « il bacio può costituire l’elemento materiale dell’atto di libidine violento quando, per le modalità specificamente erotiche con cui viene dato (37) Si consideri che, secondo la tesi qui criticata, una « mano morta » su di un autobus avrebbe dovuto comportare una pena di almeno un anno e quattro mesi, già considerando la riduzione per le circostanze generiche, essendo la pena minima prevista dall’art. 521 c.p. di 2 anni, il che sembra francamente eccessivo. (38) Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale in Documenti giustizia. La riforma del codice penale, 1992, 306; BERTOLINO M., Libertà sessuale e tutela penale, Milano, 1993, 183 ss.; PADOVANI T., Violenza carnale e tutela della libertà, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, 1301 ss. Contra: FIANDACA G., Prospettive di riforma dei reati sessuali, in CADOPPI A. (a cura di), Commentario, cit., 409. (39) FIANDACA G., voce Violenza sessuale, cit., 961. Occorre evitare anche il rischio di operare una trasposizione della responsabilità dall’aggressore alla vittima, la quale avrebbe, in taluni casi, provocato e stimolato il desiderio erotico, dimostrandosi disponibile ad un invito, ad un ballo, o lasciando desumere la propria disponibilità dall’atteggiamento o abbigliamento provocante. È opportuno, allora, ribadire quanto affermato giustamente dalla Corte Suprema: « una donna ha diritto di vestirsi come crede e di lanciare, se vuole, messaggi erotici, ma ciò non autorizza alcuno a violentarla » (Cass., 22 novembre 1988, cit.). (40) Per una analisi storica del bacio v. ZEGRETTI L., voce Bacio, in N.D.I., II, 1937, 176. (41) V. retro § 2-a). (42) PECORARO ALBANI A., op. cit., 10. Nello stesso senso: MANFREDINI M., Delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, in FLORIAN E., Trattato di diritto penale, IV ed., Milano, 1934, 157; ZEGRETTI L., op. cit., 177; PANNAIN R., op. cit., 353-4; DOLCE R.-GABRIELI F.B., voce Atti di libidine violenti, in Nss. D.I., I2, 1958, 1510; ANTOLISEI F., op. cit., 483; MANZINI V., op. cit., 364 ss.; ZAZA C., op. cit., 2.
— 973 — e per la parte del corpo su cui viene posato, riveli l’intenzione di procurarsi e di procurare un eccitamento d’indole amorosa » (43). Il bacio, infatti, non è un atto di per sè intrinsecamente ed immancabilmente libidinoso (44) in quanto può consistere — nel qual caso non costituisce reato — in semplice manifestazione di simpatia o di amicizia, di riverenza, di devozione, di omaggio oppure espressione dell’affetto più puro. Allo stesso modo, però, esso può tramutarsi in una violenza privata lesiva della libertà morale del soggetto passivo e sanzionata ai sensi dell’art. 610 c.p. (45) o — almeno per la giurisprudenza della prima metà del secolo — in una lesione dell’onore, punibile a titolo di ingiuria (art. 594 c.p.) (46): sempre che, in entrambi i casi, siano presenti gli estremi richiesti dalla legge per la sussistenza di tali reati. Pochi sono invece i casi di bacio configurati come molestia ex art. 660 c.p. sulla base del rilievo che tali comportamenti finiscono col ledere il bene della « moralità pubblica » e non solo quello della « tranquillità personale » e, dunque, vengono attratti nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 521 c.p. (47). La giurisprudenza più risalente vi ravvisava talora anche il delitto di atti osceni (48), qualificando il bacio come classico esempio di « atto relativamente osceno » ovvero atto per il quale, in quanto privo di univoco significato, l’oscenità deve desumersi da peculiari condizioni o circostanze del fatto (49). 4. Ma non tutti i baci costituiscono reato (50): ed è quanto ha sostenuto la Suprema Corte nella pronuncia qui annotata. Pronuncia senza dubbio innovativa (43) Trib. Venezia, 29 aprile 1969, in Giur. mer., 1969, II, 433 con nota critica di ELIA M., Corteggiamenti, ma non troppo: limiti alla libertà sessuale ed alla libertà privata; Cass., 15 novembre 1965, in Giust. pen., 1966, II, 1082 (« Il bacio può concretare o non l’atto di libidine a seconda dell’impulso che lo determina e del modo in cui è dato »); Cass., 10 maggio 1929, ivi, 1929, 1024; Cass., 6 marzo 1933, ivi, 1933, II, 1217; Cass., 18 marzo 1935, ivi, 1935, II, 1087; Cass., 2 marzo 1950, ivi, 1950, II, 903; Cass., 2 aprile 1954, in Giust. pen., 1954, II, 814; Cass., 29 maggio 1954, ivi, 1954, II, 991. (44) Contra MAGGIORE G., Diritto penale, Parte Speciale, II, t. 1, IV ed. riv. e ampl., Bologna, 1958, 565, il quale ritiene che il bacio sia « di solito, atto lascivo ed essenzialmente carnale; onde, se accompagnato da violenza reale o presunta, costituisce il delitto di cui all’art. 521 c.p. ». Nega invece che il bacio sia in ogni caso atto di libidine violento VIAZZI P., Sui reati sessuali. Note ed appunti di psicologia e giurisprudenza, Torino, 1896, 35 (« il bacio, violento o non violento, non è atto di libidine, non appartenendo alle forme dirette di estrinsecazione e di manifestazione della sessualità, ma alle forme indirette, secondarie, derivate »). (45) Cass., 28 giugno 1957, in Giust. pen., 1957, II, 769 (per il caso di chi « costringe taluno a tollerare un bacio su una guancia »); Cass., 18 dicembre 1931, ivi, 1933, IV, 58 (per il caso di « costrizione di una donna a tollerare un abbraccio e un tentativo di bacio in pubblico »). (46) Cass., 1 marzo 1910, in Giust. pen., 1911, 1224, che ritenne costituire reato di ingiuria il bacio dato in pubblico da un uomo a viva forza ad una giovinetta nel fine di arrecarle onta o sfregio e così impedirle o renderle difficile il matrimonio con altro uomo. Nel commento a tale sentenza RENDE D., Il bacio violento e il codice penale, in Riv. dir. proc. pen., III, 1912, 286, configura invece il bacio in questione come atto di libidine violento. Contra: DE LUCA F., Quale reato può costituire il bacio violento?, in Riv. dir. proc. pen., 1912, 658, sulla base del rilievo che una simile conclusione comporti una pena sproporzionata; Cass., 18 marzo 1942, in Riv. pen., 1942, 389 (« Nel fatto di chi bacia in pubblico l’ex fidanzata, al fine di comprometterla nella stima dei concittadini e pregiudicarla di fronte ad altri pretendenti, è configurabile, oltre che il reato di violenza privata, anche quello di ingiuria »). Per la dottrina v. ANTOLISEI F., op. cit., 484; MAGGIORE G., op. cit., t. 2, 1958, 812. (47) A meno che non si ritenga il bacio facente parte di quei « petulanti corteggiamenti, ripetuti benché non graditi da chi ne è l’oggetto » i quali « costituiscono il reato di cui all’art. 660 c.p. » (Cass., 31 gennaio 1966, in Cass. pen. Mass. ann., 1967, 948). (48) È evidente tuttavia che il fatto, alla stregua dell’art. 527 c.p., viene valutato dal punto di vista della tutela al « comune sentimento del pudore », venendo meno, di conseguenza, la prospettiva di tutela di un bene giuridico personale della vittima che, nella specie, manca. (49) Sulla natura di atto relativamente osceno del bacio v. tra le altre: Cass., 16 ottobre 1969, in Cass. pen. Mass. ann., 1970, 1124 (« Il bacio è un atto eventualmente osceno, perché può essere una semplice manifestazione d’affetto, nel qual caso non costituisce reato, oppure espressione di concupiscenza e di libidine e, come tale, offendere la morale sessuale »). Per la dottrina v. MANZINI V., op. cit., 446-7; ZAZA C., voce Atti osceni e contrari alla pubblica decenza, in Enc. giur., III, 1988, 2. (50) In passato, invece, alcuni legislatori si spinsero a punire persino con la morte quello che i pra-
— 974 — poiché si è affermato che due fugaci baci dati sulla guancia e sul collo non possono essere qualificati come atti di libidine violenti, in quanto mancanti di uno degli elementi necessari per l’attuazione della condotta punita ai sensi dell’art. 521 c.p.: la natura libidinosa. A sostegno di tale affermazione i giudici analizzano, in primo luogo, la concreta entità degli atti, parlando di « baci in zone del corpo non erogene e per di più fuggevoli e senza insistenza », ed, in secondo luogo, l’« attuale stato dei costumi, sempre più orientati, com’è ad ognuno evidente, nella specifica materia in esame, al superamento di quelli che in altri tempi costituivano dei tabù sessuali e a una sempre più aperta liberalizzazione » (51). Ma la Corte si è spinta più in là, arrivando a sostenere che « una nozione tecnico-giuridica di atti di libidine violenti, modernamente intesa ... debba essere riferita solo a toccamenti o gesti, che per la loro concreta entità e per le modalità con cui si attuano, costituiscono inequivoca manifestazione di desiderio ed ebbrezza sessuale », così adombrando l’espulsione del bacio — a prescindere da qualsiasi altra valutazione inerente alle concrete modalità della condotta — dal concetto di atti di libidine, e la sua relegazione nel limbo dei « preliminari ». Si deve però osservare che, se nelle conclusioni la sentenza merita l’appellativo di pronuncia innovativa, non altrettanto può dirsi riguardo a gran parte delle motivazioni assunte. In primo luogo, infatti, la Corte continua ad avallare la tradizionale e criticabile connotazione essenzialmente soggettiva degli atti di libidine, perché vi si afferma che se esistono degli atti che, « per la natura ed entità loro proprie, rientrano di per sé, cioè indipendentemente da qualsiasi altra valutazione, nella nozione di atti di libidine », tuttavia la nozione, « nelle zone di confine, nei comportamenti-limite, non può sfuggire a una valutazione di carattere soggettivo ... ». In secondo luogo, il riferimento alla « migliore dottrina » risale addirittura al Manzini (52) e alla superata tesi della « inviolabilità carnale » quale oggetto di tutela del delitto in esame. Ora, non vi è dubbio che un bacio dato su una guancia (come sulla fronte, su una mano, ecc.), alla stregua delle norme culturali vigenti, appaia di per sè non libidinoso e inidoneo a comprimere significativamente la libertà sessuale della persona offesa, in quanto superficiale e posto su una zona del corpo non erogena. Tuttavia, per quanto riguarda il bacio sul collo, questa conclusione appare discutibile, essendo il collo da sempre zona erogena e non « neutra » ai fini sessuali: che il bacio in questione rivesta il carattere di « innocenza » che gli è attribuito appare, pertanto, assai dubbio. Ulteriori perplessità nascono inoltre dalla considerazione del rapporto intercorrente tra i soggetti, che assume particolare rilevanza, come già si è detto, al fine del giudizio sulla natura sessuale o meno dell’atto compiuto, così come tutte le circostanze del caso concreto. Nel caso in questione siamo di fronte ad un rapporto tra datore di lavoro e dipendente, che, di norma, non è connotato da particolare intimità o confidenza tali da legittimare approcci di tipo sessuale. Inoltre, si tratta di un rapporto non « alla pari », perché caratterizzato da una posizione di « autorità » del datore di lavoro nei confronti del lavoratore. In proposito, la stessa Corte ha evidenziato il « risvolto spiacevole del caso in esame, costituito da quegli aspetti di arroganza o di tici non esitarono a chiamare execrabile scelus, ponendolo tra i praeludia coiti. Così lo punì infatti una Prammatica napolitana del 9 marzo 1562 (MAGGIORE G., op. cit., t. 1, 1958, 565). (51) Sul punto vedi già MANCI F., I reati sessuali, Torino, 1927, 153: « ... oggi ... molti scrupoli sono aboliti e si bacia per galanteria nei salotti o in tutte le commedie con trasporto di passione, e le vesti sono fornite di abbondanti scollature o le artiste si possono presentare quasi nude sui palcoscenici ad un pubblico di uomini o di pudiche signorine ... ». (52) MANZINI V., op. cit., 366.
— 975 — sopraffazione quasi sempre rilevabili in comportamenti poco ortodossi tenuti da un datore di lavoro nei confronti di una dipendente » (53). In effetti l’aspetto riprovevole di queste situazioni appare connesso all’abuso della posizione dominante ricoperta dal datore di lavoro, non a caso fatta oggetto di autonoma previsione normativa nella nuova fattispecie di violenza sessuale. Prendendo poi in considerazione le circostanze del caso concreto, assume rilievo il fatto che i baci siano stati imposti sul luogo e durante l’orario di lavoro e siano connotati da una certa progressione (dalla guancia si è passati al collo), interrotta solo dall’opposizione della vittima. Alla stregua delle considerazioni sopra svolte e valorizzando l’aspetto licenzioso connesso al bacio sul collo, si potrebbe giungere a conclusioni opposte a quelle della Suprema Corte, riguardo alla qualificazione dell’atto come atto di libidine. Non solo, ma anche la valutazione soggettiva dell’atto, che la Corte ha mostrato di accogliere, poteva forse comportare una diversa conclusione, perché appare difficilmente negabile che i baci in questione siano stati manifestazioni di desiderio sessuale. Ciò tuttavia non autorizza ancora a concludere per la rilevanza penale della condotta posta in essere ai sensi dell’art. 521 c.p. Viene in considerazione, a questo punto, il secondo elemento costitutivo del delitto ex art. 521 c.p., ovvero la violenza. Al riguardo la Cassazione ha avallato la posizione stereotipata della giurisprudenza in tema di azione insidiosa e repentina, che già sopra si è avuto modo di criticare. Una più attenta valutazione dell’elemento in esame, in rapporto alla gravità del reato contestato, avrebbe in effetti portato ad escludere la sussistenza della stessa violenza a danno della vittima, perché se è esatto che « l’azione insidiosamente rapida » ha impedito alla vittima « di esprimere la sua contraria volontà ad essere baciata », ciò non appare tuttavia sufficiente ad integrare l’estremo della violenza, inteso come coartazione, mediante l’impiego di un minimo di energia fisica, della volontà altrui (54). In effetti, occorre riconoscere che l’orientamento accolto dai giudici comporta la pura e semplice sostituzione dell’elemento della violenza con l’elemento del dissenso, che meglio dovrebbe essere indicato con l’espressione « contro la volontà », con ciò operando un’estensione della fattispecie penale in via interpretativa che viene inevitabilmente a collidere col principio di legalità (art. 25 comma II Cost.) ed il divieto di analogia in malam partem, che di quel principio costituisce una tra le più importanti derivazioni. Del resto, neppure la Corte mostra di credere troppo alla conclusione cui è giunta sul punto, se è vero che, nell’interrogarsi sulla possibile rilevanza penale del comportamento posto in essere dall’imputato, alla stregua di altre norme penali, ha preso in considerazione fattispecie, quali la molestia o disturbo alle persone (art. 660 c.p.) e l’ingiuria (art. 594 c.p.), che nulla hanno a che fare con la violenza. Viceversa, la conclusione della configurabilità della violenza avrebbe inevitabilmente dovuto comportare la sussistenza del reato di violenza privata (art. 610 (53) Il che non autorizza la conclusione secondo la quale la preesistenza di un rapporto di intimità tutto giustifichi. Interessante al riguardo è la pronuncia del Trib. Monza, 5 giugno 1992, in Giur. mer., 1993, II, 732, che ravvisa il delitto ex art. 521 anche tra coniugi, sostenendo che « pur se deve, in linea di principio, ammettersi che, in forza del matrimonio celebrato, un coniuge è legittimato a toccare lascivamente ad libitum l’altro coniuge senza per ciò solo commettere il delitto di atti di libidine violenti, deve tuttavia riconoscersi la configurabilità del delitto, allorchè il coniuge toccato lascivamente abbia precedentemente ed inequivocabilmente manifestato il dissenso a subire tali toccamenti ». (54) Diversa è la conclusione qualora il soggetto attivo persista nella sua azione nonostante l’opposizione manifestata dalla vittima a seguito dell’atto « insidiosamente rapido », toccando e abbracciando l’oggetto del suo desiderio. In tal caso, infatti, non si potrebbe negare la sussistenza dell’estremo della violenza, intesa nel senso precisato nel testo, ossia come impiego di una energia fisica, al fine di coartare l’altrui volontà.
— 976 — c.p.), perché alla stregua di tale fattispecie diviene del tutto irrilevante la natura libidinosa dell’atto compiuto, realizzandosi il reato tutte le volte che il soggetto passivo sia costretto « a fare, tollerare od omettere qualcosa ». Nel caso di specie è evidente che, ammesso l’elemento della violenza, la vittima è stata costretta a tollerare i baci del soggetto attivo, con conseguente integrazione del reato in tutti i suoi elementi costitutivi (55). L’unica possibilità di escludere una simile conclusione, neppure presa in considerazione dalla Corte, sarebbe stata quella di ritenere che il concetto di violenza ai sensi dell’art. 521 c.p. sia diverso e più esteso rispetto all’omologo concetto richiamato dall’art. 610 c.p. Questa prospettiva, che potrebbe risultare attraente in considerazione della più intensa tutela da riconoscersi alla libertà sessuale rispetto alla generica libertà morale di autodeterminazione, a ben vedere risulta tuttavia impraticabile. Si deve, infatti, osservare che la maggiore tutela che certamente va riconosciuta alla libertà sessuale rispetto alla libertà morale sembra dover passare per altre vie: il maggior rigore del trattamento sanzionatorio e la previsione, accanto alla violenza, di diverse modalità di aggressione (minaccia ed, ora, abuso di autorità, casi di c.d. violenza presunta, ecc.). In conclusione, il caso in esame non rientra nel reato ex art. 521 c.p., non tanto per lo scarso significato sessuale dell’atto posto in essere, quanto per la mancanza dell’elemento, richiesto da tale fattispecie, della violenza: e rappresenta piuttosto una delle ipotesi classiche di quella nuova figura delle « molestie sessuali », che neppure il legislatore in sede di riforma dei reati sessuali ha avuto però il coraggio di inserire nell’ordinamento positivo. 5. I risultati raggiunti vanno ora vagliati alla luce di detta riforma, attuata con la legge 15 febbraio 1996 n. 66 (56) e, in particolare, alla stregua della nuova formulazione di cui all’art. 609-bis c.p. incentrata sull’espressione « atti sessuali » (57): si tratta cioè di stabilire se il bacio possa o meno rientrare in questa definizione. Infatti, se non sussistono problemi in ordine alla riconduzione di tutti i com(55) Trib. Venezia, 29 aprile 1969, cit., che ha riconosciuto la fattispecie di violenza privata proprio in un « bacio per corteggiamento » ritenuto non espressione di libidine; Cass., 28 giugno 1957, cit.; Cass., 18 dicembre 1931, cit. (56) In argomento, oltre al volume di CADOPPI A. (a cura di), Commentario, cit., vedi: BERTOLINO M., La riforma dei reati di violenza sessuale, in Studium Iuris, 1996, 401; CADOPPI A., Riflessioni critiche intorno alla nuova legge sulla violenza sessuale (l. n. 66⁄96), in Crit. dir., 1996, 127; ROMANO F., Talune problematiche sollevate dalla Legge 15 febbraio 1996, n. 66, in Giur. mer., 1996, III, 638; MAZZA B., La libertà personale quale elemento centrale delle nuove norme sulla violenza sessuale: prime osservazioni, in Riv. pen., 1996, 129; MULLIRI G., La legge sulla violenza sessuale. Analisi del testo, primi raffronti e considerazioni critiche, in Cass. pen., 1996, 734; MUSACCHIO V., Le nuove norme contro la violenza sessuale: un’opinione sull’argomento, in Giust. pen., 1996, II, 117; NAPPI A., Commento alle nuove norme contro la violenza sessuale, in « Gazz. giur. », n. 8⁄96, 3; PISA P., Delitti contro la persona. Le nuove norme contro la violenza sessuale-Il commento, in Dir. pen. e processo, 1996, 283; BELTRANI S.-MARINO R., Le nuove norme sulla violenza sessuale. Commento sistematico alla L. 15.2.96 n. 66, Napoli, 1996; VESSICHELLI M., Con l’aumento del minimo edittale a cinque anni ora più difficile la strada del « patteggiamento », in Guida al dir., n. 9⁄96, 21 e Prime interpretazioni giurisprudenziali dopo le modifiche al codice penale, in Guida al dir., n. 8⁄97, 79; TRICOMI I., Nuove ipotesi di reato e aggravanti specifiche per tutelare i minori dagli abusi sessuali, in Guida al dir., n. 9⁄96, 30; RICCI P.-VENDITTO M.O., Libertà sessuale ed esigenze di tutela. Riflessioni critiche sulla nuova risposta statuale alla violenza sessuale, in Annali Ist. Dir. Proc. Pen., Univ. Salerno, 2, 1996, 71; AMBROSINI G., Le nuove norme sulla violenza sessuale, Torino, 1997; AA.VV., Commenti articolo per articolo alla L. 15⁄2⁄1996 n. 66 — Norme contro la violenza sessuale, in Legisl. pen., 1996, 413. (57) Art. 609-bis (Violenza sessuale): « Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. — Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. — Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi ». L’espressione « atti sessuali » ha suscitato non poche critiche in dottrina (FIANDACA G., voce Vio-
— 977 — portamenti di « congiunzione carnale » alla definizione legale, diverso è il discorso per quanto riguarda i vecchi « atti di libidine violenti ». La questione consiste nel delimitare « verso il basso » l’area di punibilità della nuova fattispecie della violenza sessuale e vedere se tutte quelle condotte, che in passato potevano trovare rilevanza ai sensi dell’art. 521 c.p., sono ora sanzionate dalla nuova fattispecie criminosa. A rigor di logica così dovrebbe essere, dato che il nuovo reato di « violenza sessuale » nasce proprio dall’unificazione delle ipotesi di violenza carnale e di atti di libidine violenti previste rispettivamente dagli abrogati artt. 519 e 521 c.p. (58). Ad un esame più approfondito, invece, si deve osservare che il concetto di « atti sessuali » non copre la stessa area o una superficie più estesa di quella in precedenza occupata dai vecchi delitti di violenza carnale e di atti di libidine violenti. Anzi, tra i primi commenti alla riforma si è sostenuto (59) che la maggiore connotazione « oggettivistica » (per il mancato riferimento alla « libidine ») del concetto di « atti sessuali » rispetto al concetto, essenzialmente « soggettivistico » (in quanto esplicativo di un giudizio di riprovazione morale), di « atti di libidine » (60) dovrebbe comportare un restringimento dell’area del penalmente rilevante, rispetto a quella coperta dalla « vecchia » fattispecie di cui all’art. 521 c.p. E ciò parrebbe confortato dalla particolare severità dei nuovi limiti edittali di pena (61) e dal fatto che, sin dalle prime proposte parlamentari di riforma dei reati sessuali (62), l’idea di un’unificazione dei delitti di violenza carnale e di atti di libidine violenti fu accomunata a quella dell’introduzione di un’autonoma disposizione, avente per oggetto le « molestie sessuali », capaci di ricomprendere quei comportamenti « di natura sessuale » esclusi dalla nuova fattispecie di violenza sessuale, perché non così gravi da giustificare le pene da questa stabilite (63). « Il semplice fatto che alla fine ... la fattispecie di molestie sessuali non sia stata introdotta non è di per sè sufficiente a far « riespandere » un concetto che lenza sessuale, cit., 960; PIETRALUNGA S., Profili costituzionali delle nuove norme a tutela della libertà sessuale e problematiche criminologiche, in Riv. it. med. leg., 1988, 1183; VACCARO C., Problematiche connesse alla riforma legislativa in materia di delitti sessuali, in Temi rom., 1986, I, 12; BERTOLINO M., La riforma, cit., 403; ROMANO F., op. cit., 639; MUSACCHIO V., op. cit., 118; RICCI P.-VENDITTO M.O., op. cit., 82) per la sua presunta — e forse fondata — indeterminatezza capace di inficiare la norma che la contiene di illegittimità costituzionale per contrasto con il principio di tassatività del diritto penale. (58) Così sembrano sostenere VESSICHELLI M., Con l’aumento del minimo edittale, cit., 21; PISA P., op. cit., 284 ss.; NAPPI A., Commento, cit., 3; BELTRANI S., in BELTRANI S.-MARINO R., Le nuove norme, cit., 43 e 56; DEL CORSO S., Commento all’art. 3, in AA.VV., op. cit., 429 e 431. In giurisprudenza, sia pure con qualche perplessità sulla base delle osservazioni che seguono nel testo, Trib. Tolmezzo, 19 aprile 1996, inedita, che peraltro applica al caso deciso l’art. 521 c.p., in quanto disciplina più favorevole. (59) CADOPPI A., Commento all’art. 3, cit., 39 ss. (60) PICOTTI L., Il dolo specifico, cit., 151, nota 28. In questo senso cfr. anche Cass., 11 novembre 1996, n. 17224, ric. Rotella, inedita, secondo cui, con « la sostituzione dell’aggettivo libidinoso con sessuale », è stato « eliminato il richiamo ... ad una connotazione moraleggiante ... che faceva del sesso un tabù, connotato più da divieti che da comportamenti permessi », mentre « ... l’uso dell’aggettivo sessuale conduce la terminologia in un settore più asettico di connotazione quasi scientifica ». (61) Pena base che va da un minimo di cinque ad un massimo di dieci anni di reclusione. (62) V. CAMERA DEI DEPUTATI, I reati sessuali in Italia e all’estero, Roma, 1981, 281. Una previsione esplicita del reato di molestia sessuale è anche contenuta nello stesso Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, cit., 306. (63) A questo proposito v. PADOVANI T., Commento all’art. 2, in CADOPPI A. (a cura di), Commentario, cit., 20-21: « ... nel nuovo contesto normativo, ferma restando l’indistinguibilità di principio degli atti invasivi della sfera sessuale, sarebbe stato logico scorporare le condotte che, pur assumendo un significato ed una portata sessualmente connotati, si limitassero a determinare mere situazioni di disagio o di turbamento. In questo senso, il progetto di legge delega del codice penale prevede un delitto di « molestia sessuale » ... Insomma, per lo squallore dei cd. « toccamenti lascivi » si poteva pensare ad una dimensione meno ipertrofica della violenza sessuale. ... In questo modo, le molestie sessuali finiscono con l’essere, in parte sopravvalutate, in parte trascurate del tutto ».
— 978 — per quasi vent’anni di lavori preparatori della legge aveva uno spazio d’azione più ristretto » (64). Ne consegue che da questo punto di vista la riforma avrebbe aperto delle lacune di tutela. Ci si riferisce a quei comportamenti, lesivi rispetto al bene della libertà sessuale, che si collocano in prossimità dei limiti inferiori del nuovo reato di violenza sessuale ed il cui significato sessuale, pur non del tutto assente, sia tanto labile da non giustificare le pesanti pene previste dall’art. 609-bis c.p. Ad es. palpeggiamenti, carezze o baci, furtivi o dati in zone del corpo (ad es. gambe, braccia, ecc.) tali da escludere che si tratti di atti « sessuali » veri e propri (65). Si tratterebbe, dunque, di quelle ipotesi di più lieve aggressione alla libertà sessuale che, prima della riforma, o rimanevano impunite, oppure, e questo per la maggioranza dei casi, erano punite ex art. 521 c.p., con la conseguente sproporzione tra la scarsa lesività di tali fatti e la pena, elevata anche nel minimo, da infliggere al reo (66). L’alternativa consisteva nell’applicazione, ai casi di specie, di diverse fattispecie penali, già ampiamente collaudate, come il reato di violenza privata ex art. 610 c.p., quello di ingiuria ex art. 594 c.p., di molestia o disturbo alle persone ex art. 660 c.p. (67), ecc.; ma si trattava comunque di fattispecie che presentavano tutte il grave inconveniente di essere rivolte alla tutela di beni almeno parzialmente diversi rispetto al bene della libertà sessuale — come la libertà morale, l’onore, la tranquillità personale — con la conseguenza che le pene non erano calibrate rispetto alla gravità dei comportamenti qui considerati e alla natura del bene giuridico in effetti offeso. E tra questi tipi di condotta, mancanti dunque di tutela adeguata, potrebbero forse trovare spazio anche i baci dati sulla guancia e sul collo oggetto della sentenza in nota. Infatti, se il bacio « profondo » o in zone « pudende » (organi genitali, seno), che in passato trovava sempre tutela all’ombra dell’art. 521 c.p., è ora (64) CADOPPI A., Commento all’art. 3, cit., 40. L’A. elenca tutta una serie di ulteriori argomenti (di carattere semantico, letterale, sistematico) — decisamente convincenti — a favore di una nozione restrittiva di atti sessuali. (65) « ... perché l’atto sia di natura « sessuale » occorre il contatto fisico tra una parte qualsiasi del corpo di una persona con una zona genitale (compresa la mammella nella donna), anale od orale del partner »: CADOPPI A., Commento all’art. 3, cit., 45. In tema di bacio dato su una gamba v. la recente Cass., 6 febbraio 1997, n. 1040, in Guida al dir., n. 8⁄97, 76, che, in riferimento alla condotta dell’agente, parla espressamente di « molestia sessuale, che non varca la soglia della rilevanza penale in relazione all’art. 609-bis e non è altresì riconducibile ad altre ipotesi criminose ». In questo caso, però, sembra necessario tener conto della zona della gamba sulla quale il bacio sia posto (caviglia, ginocchio, coscia, ecc.) poiché « l’area prossima a quella genitale ha nella generalità degli individui rilevante capacità erogena » (Cass., 11 novembre 1996, cit.). In questo senso cfr. VESSICHELLI M., Prime interpretazioni, cit., 80 — nota a Cass., 6 febbraio 1997, cit. — secondo la quale anche un bacio dato a una occasionale conoscente su una gamba potrebbe essere idoneo ad integrare il concetto di atto sessuale penalmente rilevante, se la persona su cui venga commesso sia dissenziente. (66) « ... la fattispecie di atti di libidine attraeva in una dimensione ipertrofica condotte apprezzabili piuttosto in termini di molestia sessualmente connotata. » (PADOVANI T., op. cit., 8). (67) Fermo restando che l’alternativa tra art. 660 e 521 si pone solo allorquando il fatto si realizzi in luogo pubblico o luogo aperto al pubblico o col mezzo del telefono, la giurisprudenza ha avuto modo di puntualizzare l’elemento materiale dell’art. 521 in comparazione a quello dell’art. 660, osservando che « tra i motivi biasimevoli previsti dall’art. 660 c.p., possono essere compresi quelli destinati a dar sfogo al proprio impulso sessuale, purché l’azione di fastidio e d’incomodo non vada oltre il turbamento della quiete privata. Pertanto, non può ravvisarsi la semplice molestia, bensì il delitto di atti di libidine violenti, nel fatto di chi introduce la mano sotto le vesti di una ragazza e le tocca il corpo per eccitare i sensi, poiché in tal caso il bene violato non è la tranquillità della persona ma la libertà di disporre del proprio corpo nella sfera sessuale » (Cass., 10 dicembre 1973, n. 9011, in C.E.D. Cass. n. 125701). In tal senso vedi anche Cass., 2 luglio 1971, n. 127, in C.E.D. Cass. n. 118647 e Cass., 8 maggio 1967, in Giust. pen., 1968, II, 306. Contra: App. Ancona, 21 febbraio 1994, cit., che ravvisa il reato di molestia, e non quello di atti di libidine, nella « condotta di chi rivolge un pizzicotto sul capezzolo dell’altra in modo proditorio e fugace ... », sebbene sotto il diverso profilo, non condivisibile, della mancanza del « dolo specifico, concernente il fine di concupiscenza »; Cass., 26 giugno 1965, n. 1031, in C.E.D. Cass. n. 099750.
— 979 — sicuramente da configurarsi come « atto sessuale », quello più « casto » (come quelli considerati dalla sentenza: sulla guancia, sul collo (68), ma anche sulla mano, ecc.), guardando alla « oggettiva ‘‘natura sessuale’’ dell’atto in sè considerato » (69), non rientra nella fattispecie di cui all’art. 609-bis. Per risolvere il problema nelle inevitabili zone di confine sarà necessario, come per il passato, riferirsi alle norme culturali vigenti nel contesto sociale di riferimento, con l’avvertenza che, come si è visto sopra, il livello di significatività sessuale dell’atto richiesto dalla nuova norma sembra essere maggiore di quello richiesto dal vecchio art. 521 c.p. Va solo aggiunto che la prospettiva intesa a valorizzare al massimo grado il rapporto instauratosi tra i soggetti (70), qui condivisa, sembra trovare, nella nuova formulazione, decisive conferme, in considerazione della completa assimilazione tra le ipotesi di congiunzione carnale e di atti di libidine conseguente all’unificazione delle fattispecie, nonché della nuova modalità della condotta aggressiva consistente nell’abuso di autorità (71). Non si può infatti negare che spesso, se non addirittura tipicamente, l’abuso di autorità si consuma proprio nell’ambito di uno specifico rapporto pregresso tra i soggetti capace di illuminare il significato dell’atto compiuto (ad es. datore di lavoro⁄lavoratore, medico⁄paziente, ecc.). Al fine di colmare il vuoto di tutela, riferito a quegli atti non meritevoli della qualificazione di « atti sessuali », non è d’aiuto neppure la previsione, nel comma III dell’art. 609-bis c.p., dell’attenuante che si applica « nei casi di minore gravità » e che comporta la diminuzione della pena di cui al I comma « in misura non eccedente i due terzi ». Tale circostanza, infatti, non copre l’area di pertinenza occupata da queste ipotesi, talune delle quali al limite del bagatellare, in quanto « gli atti sessuali di cui all’attenuante sono comunque gli stessi atti sessuali che integrano l’ipotesi-base di violenza sessuale ... » (72). « Se è così, è dubbio che i casi « più lievi » dei vecchi atti di libidine possano tutti rientrare tra i casi « meno gravi » della violenza sessuale » (73). Un ulteriore possibile vuoto di tutela, in gran parte comune alla vecchia disciplina, deve essere ravvisato in riferimento alle modalità di aggressione alla libertà sessuale tipizzate dalla norma incriminatrice. Infatti, il mantenimento degli elementi della violenza e minaccia comporterà l’impossibilità di ricomprendere, almeno alla stregua di una corretta interpretazione, tutti quei comportamenti fondati sull’inganno o sulla insidiosità o rapidità dell’azione, di cui si è già parlato. È ben vero che la nuova formulazione, attraverso il riferimento all’abuso di autorità, comporta un allargamento delle condotte punibili, capace di risolvere in parte l’in(68) Con qualche dubbio per il bacio sul collo. (69) CADOPPI A., Commento all’art. 3, cit., 45. (70) Cfr. § 2-a) nel testo e nelle note retro 23 e 24. (71) È bene ricordare che l’introduzione dell’abuso di autorità quale terza modalità di costrizione — ulteriore ed alternativa rispetto alla violenza o alla minaccia — espande l’area delle condotte rilevanti, che prima della riforma era circoscritta ai casi specificatamente previsti e disciplinati dall’art. 520 c.p., ora abrogato, secondo cui era punita la sola « congiunzione carnale commessa con abuso della qualità di pubblico ufficiale » (corsivo aggiunto). (72) CADOPPI A., Commento all’art. 3, cit., 40, sulla base dell’osservazione che « la previsione di un’attenuante non può considerarsi equivalente alla previsione di una fattispecie autonoma ». Nello stesso senso sembrano ROMANO F., op. cit., 639, riportando MUSACCHIO V., op. cit., 119, a sua volta riportando BRICOLA F., La discrezionalità nel diritto penale, Milano, 1965, 90. (73) CADOPPI A., Commento all’art. 3, cit., 42. Si deve inoltre osservare che ricomprendere nel nuovo reato tali comportamenti esporrebbe ad un grave rischio. Infatti, poiché il giudice non mancherà di avvertire la sproporzione per eccesso della pena edittale, sarà indotto a concedere l’attenuante speciale dei « casi di minore gravità ». Ciò potrà comportare un recupero di equilibrio nel trattamento del caso concreto, ma anche ingenerare nella giurisprudenza, data la grande rilevanza statistica di simili comportamenti, un’abitudine mentale favorevole ad un’applicazione ampia dell’attenuante, estesa anche ai casi più gravi, come l’esperienza in tema di attenuanti generiche dimostra; con la conseguente sostanziale vanificazione della ratio della riforma, da ravvisare in una più intensa tutela della libertà sessuale.
— 980 — conveniente sopra illustrato. Si pensi a tutte quelle attività offensive della libertà sessuale, la cui lesività non si collega ad una violenza o minaccia vera e propria, ma ad una sorta di « costrizione ambientale », fondata sull’abuso di posizione di supremazia, anche privata (il pensiero corre inevitabilmente al classico caso, considerato in sentenza, del datore di lavoro o superiore, che abusando della sua autorità molesta la dipendente), o a quelle attività sostanzialmente ingannatorie in cui l’inganno è reso possibile dall’abuso di relazioni qualificate (ad es. rapporto medico⁄paziente). Verosimilmente è stato proprio questo il motivo per il quale si è deciso di non introdurre la nuova fattispecie di molestie sessuali, fungendo tale nuova fattispecie di violenza sessuale per costrizione mediante abuso di autorità da « strumento normativo surrettizio per punire almeno le più gravi ipotesi di molestie sessuali, il cui ambiente più tipico è proprio il mondo del lavoro » (74). Ma si tratta in tutta evidenza di un rimedio non in grado di colmare in toto il vuoto di tutela prospettato, perché rimangono esclusi, da un lato, tutti quei casi in cui difetta l’intensa connotazione del significato sessuale dell’atto compiuto, richiesta dall’art. 609-bis c.p., come il caso deciso ben esemplifica; dall’altro, i casi in cui l’invasione della sfera sessuale altrui, eventualmente mediante un atto dal chiaro ed intenso significato sessuale, prescinda tuttavia, oltre che da una violenza o minaccia in senso proprio, anche da qualsiasi abuso di autorità (ad es. mano morta in luoghi affollati, inganni compiuti senza abuso di autorità, ecc.). Da questo punto di vista ben si può sostenere che la riforma dei reati sessuali rappresenti una vera e propria occasione mancata, in riferimento alla scelta di non prevedere quel reato di molestie sessuali che avrebbe potuto accogliere nella propria sfera di operatività le ipotesi più lievi di lesione della libertà sessuale, in riferimento alle quali la nuova fattispecie di violenza sessuale non si attaglia, per la mancanza delle modalità di aggressione richieste o per lo scarso, pur se non del tutto assente, significato sessuale dell’atto compiuto (ad es., toccamenti o baci furtivi e repentini, condotte compiute con inganno e senza abuso di autorità, ecc.) (75). Si deve infatti ritenere che la nuova fattispecie avrebbe potuto elidere la stringente alternativa in cui si è trovata — e continuerà a trovarsi — la giurisprudenza di fronte a simili comportamenti, rappresentata da una punizione in tutta evidenza sproporzionata (76) o calibrata su norme dettate a tutt’altri fini e da una impunità per certi versi non meno perniciosa. In definitiva, la criminalizzazione di tali comportamenti poteva svolgere un (74) CADOPPI A., Commento all’art. 3, cit., 60. (75) A favore dell’opportunità, nell’ambito della riforma sui reati sessuali, di introdurre questa fattispecie, soprattutto come necessario « supporto » alla nuova fattispecie unificata, v. BERTOLINO M., La riforma, cit. 405 (l’A., prima della riforma, riteneva invece criticabile « sotto diversi profili » l’introduzione della nuova fattispecie: v. in Dei Delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, in CRESPI A.STELLA F.-ZUCCALÀ G., Commentario al C.P., Padova, 1992, 1151 e in I reati contro la libertà sessuale tra codice e riforma, in questa Rivista, 1983, 1464); MUSACCHIO V., op. cit., 119; MULLIRI G., op. cit., 739, AMBROSINI G., op. cit., 8-9 e 14; PICOTTI L., Il delitto sessuale, cit., 425-6, il quale riconosce il terreno delle molestie sessuali come quello « su cui comincia il confronto sull’opportunità di un nuovo livello avanzato di tutela, non necessariamente offerta dal diritto penale ... ma che certo deve entrare nella valutazione dei « nuovi » bisogni di protezione della libertà sessuale ». Per una posizione problematica con spiragli di apertura v. CADOPPI A., Commento all’art. 3, cit., 89 e Riflessioni, cit., 32. Contra: FIANDACA G., Prospettive di riforma, cit., 415 ss.; STORTONI L., Relazione di sintesi, in CADOPPI A. (a cura di), Commentario, cit., 475 ss. (76) Infatti, l’entità della pena edittale minima prevista, sia applicando il vecchio art. 521 c.p., sia applicando il nuovo art. 609-bis relativo agli atti sessuali, si giustifica solo in relazione alla gravità degli atti connotati da una violenza intesa in modo rigoroso, altrimenti la pena risulta sproporzionata per eccesso rispetto all’offesa arrecata e, contrastando con il principio di proporzionalità del diritto penale, non è in grado di svolgere la funzione rieducativa imposta dall’art. 27, III comma Cost. Ciò emerge con sufficiente chiarezza valutando le pene edittali previste da fattispecie finitime (cfr. ad es. artt. 610 e 660 c.p.). Sul piano della giustizia sostanziale, ciò comporta un appiattimento di afflittività a fronte di diversi gradi di offensività delle condotte al bene protetto, perché si puniscono con la stessa pena atti gravemente lesivi
— 981 — utile ruolo non solo e non tanto per colmare possibili lacune di tutela, ma anche e forse soprattutto per razionalizzare il sistema vigente, venendo ad incidere su comportamenti già puniti alla stregua delle fattispecie esistenti, alle quali erano e presumibilmente saranno ancora erroneamente ricondotti dalla giurisprudenza (77). Certo moltissimi erano i problemi da risolvere, sul piano della tecnica legislativa, in merito alla tipizzazione di questa nuova fattispecie, problemi che forse hanno spaventato il legislatore in sede di stesura della nuova legge (78). In particolare, sotto il profilo della tassatività, occorre guardarsi da due opposti rischi: da un lato, è necessario ritagliare una definizione di comportamenti di molestie sessuali sufficientemente lesivi, così da giustificare la sanzione penale, che deve sempre e comunque costituire l’extrema ratio, ed escludere invece tutti quei comportamenti, magari definiti sul piano sociale come molesti, ma che non posseggono tale requisito, in modo da ottenere una idonea definizione del reato delimitata « verso il basso »; dall’altro, occorre individuare una definizione del reato ben delimitata anche « verso l’alto » e ciò al fine di non invadere l’area di pertinenza legittimamente occupata dai reati già esistenti (ex artt. 609-bis, 660, 594, 610 c.p. ecc.), nella loro forma consumata e tentata. In una prospettiva de iure condendo, che chi scrive ritiene ancora praticabile ed auspicabile, la nuova fattispecie di molestie sessuali potrebbe essere pensata nel senso di ricomprendervi tutte le offese arrecate alla tranquillità della persona nella sfera sessuale ed, in più, anche le offese meno gravi alla libertà sessuale, rispetto alle quali l’art. 609-bis appare troppo severo e gli artt. 660, 610 e 594 non appositamente calibrati per la tutela della sfera sessuale della persona (79). L’opportunità di una scelta di criminalizzazione del genere andrebbe peraltro vagliata anche alla luce dei criteri di politica criminale, essenzialmente riferibili al principio di del bene protetto, per essere violenti e minacciosi (o abusivi), ed atti, invece, che, pur essendo lesivi di quel bene, non posseggono il medesimo grado di disvalore proprio per la mancanza di quei requisiti. Circa la mancata conformità al principio di proporzionalità da parte della previsione unificata v. FIANDACA G., voce Violenza sessuale, cit., 960; BERTOLINO M., I reati, cit., 1480 e La riforma, cit., 404; ROMANO F., La violenza sessuale: luci ed ombre nella normativa vigente e nelle prospettive di riforma, in Giur. mer., 1991, 443; CONTIERI E., La riforma legislativa in tema di delitti sessuali. Commento articolo per articolo, in Giust. pen., 1985, I, 121; CERQUA L.D., La punibilità degli « atti sessuali » nel disegno di legge contenente nuove norme a tutela della libertà sessuale, in Giust. pen., 1986, I, 348; SARACENI L., Difficoltà e ambiguità della riforma dei reati sessuali, in Questione giustizia, 1985, 23. (77) L’adozione dell’espressione « contro la volontà », quale unico requisito oggettivo dell’attività di costrizione del reato di violenza sessuale, avrebbe certamente comportato una maggiore corrispondenza alle attuali tendenze giurisprudenziali in tema di atti di libidine (cfr. CADOPPI A., Riflessioni, cit., 29), ma forse avrebbe determinato un’eccessiva onnicomprensività della nuova fattispecie, che avrebbe finito col ricomprendere atti dalla carica lesiva qualitativamente ed ontologicamente diversa, non componibile ad unità mediante la sola possibilità per il giudice di spaziare entro i limiti edittali di pena previsti. (78) Non si sono invece spaventati i legislatori spagnolo e francese, che hanno introdotto questa nuova fattispecie in sede di approvazione dei rispettivi nuovi codici penali (rispettivamente acoso sexual — art. 184 — e harcèlement sexuel — art. 222-33 —), peraltro limitandola al caso di abuso di autorità. Sull’argomento v. per la Spagna MORALES PRATS F., Tutela di interessi emergenti e « nuove » tecniche di tutela per « vecchi » interessi: i reati contro la persona, relazione tenuta al Convegno di studi Verso un nuovo codice penale: i principi generali, gli interessi emergenti ed i reati economici considerati alla luce del nuovo codice penale spagnolo (1995), Trento, 25-26 ottobre 1996; MORALES PRATS F.-GARCIA ALBERO R., Delitos contra la libertad sexual, in QUINTERO OLIVARES G.-VALLE MUNIZ J.M. (a cura di), Comentarios a la Parte Especial del Derecho Penal, Pamplona, 1996, 227; VEGA RUIZ J.A., El acoso sexual como delito autonomo, Madrid, 1991 e per la Francia SALAZAR L., L’emanazione del nuovo codice penale francese, in Documenti giustizia, 1992, 1421. (79) In prima approssimazione si può affermare che rientrano nel concetto di molestie sessuali quei comportamenti a connotazione sessuale estrinsecantesi in apprezzamenti verbali, contatti fisici, palpeggiamenti, proposte sessuali, ecc. attuati contro la volontà della vittima, ma non caratterizzati da quella carica aggressiva derivante dalle modalità della violenza, minaccia e abuso di autorità. Vanno invece escluse dal novero delle molestie sessuali tutte quelle forme più lievi, bagatellari, quali gli sguardi insistenti, gli ammiccamenti, i fischi e simili, che non sembrano davvero richiedere l’intervento penale, per mancanza sia della meritevolezza che del bisogno di pena.
— 982 — sussidiarietà o di extrema ratio del diritto penale e al principio di meritevolezza e di bisogno di pena, criteri dai quali non si può prescindere al fine di evitare il pericolo di una utilizzazione meramente simbolica del diritto penale (80). STEFANIA TABARELLI DE FATIS Dottoranda di Ricerca in Diritto Penale nell’Università di Trento
(80) In argomento, per tutti, v. PALAZZO F.C., I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di criminalizzazione, in questa Rivista, 1992, 453 ss.
CORTE DI CASSAZIONE — 20 marzo 1996, n. 408 Pres. PAPADIA — Cons. GIAMMANCO Reati tributari — Tassabilità dei proventi illeciti — Ammissibilità — Natura interpretativa dell’art. 14 comma 4 l. 24 dicembre 1993 n. 537. L’art. 14, comma 4 della l. 24 dicembre 1993 n. 537 ha natura interpretativa del D.P.R. n. 917 del 1986 e con tale norma il Legislatore ha inteso porre fine alle possibili interpretazioni normative circa la tassabilità o meno dei proventi illeciti e l’attualità della questione. Non esiste alcuna inconciliabilità fra sottoposizione a tassazione dei redditi da reato e la nostra Carta Costituzionale, mentre occorre distinguere fra conseguenze sanzionatorie del fatto illecito con le relative misure repressive (confisca, obbligo di restituzione, risarcimento del danno) e l’imposizione tributaria senza che la scelta legislativa operata in tendenziale nel primo settore possa essere ritenuta impeditiva della tassabilità dei proventi illeciti (1). (Omissis). — SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. — S.A. ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Venezia, emessa in data 30 ottobre 1995, con la quale veniva condannato per i reati di omessa annotazione nelle scritture contabili di cessioni di beni ai fini delle imposte dirette e di mancata presentazione di dichiarazione dei redditi ed IVA per importi superiori a 150 milioni, deducendo quali motivi la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla responsabilità dell’imputato, poiché sono state apprezzate deposizioni non univoche e valutate risultanze probatorie di diversa lettura, e l’erronea applicazione della legge penale, in quanto i proventi erano provenienti da attività illecita, sicché non erano tassabili. MOTIVI DELLA DECISIONE. — I motivi addotti non sono fondati, sicché il ricorso deve essere rigettato. Infatti, la motivazione dell’impugnata sentenza non appare illogica e dal testo del provvedimento deve ritenersi congrua ed esente da vizi logici e giuridici, non potendosi, in sede di legittimità, procedere all’esame degli atti (Cass., Sez. III, 29 aprile 1991, cui adde Cass., Sez. I, 21 febbraio 1994). Infatti, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella operata dai giudici di merito in ordine all’affidabilità delle fonti di prova e non può investire l’intrinseca adeguatezza della valutazione delle risultanze probatorie, né la rispondenza di esse alle effettive acquisizioni processuali, ma quello di accertare la presenza dei necessari passaggi logici, di verificare l’intervenuto esame dei punti sottoposti all’analisi del giudice e l’insussistenza di una motivazione apparente, mentre non è possibile rivalutare il materiale probatorio mediante un controllo estrinseco, e non intrinseco, al testo del provvedimento, secondo quanto ormai diversamente statuito dall’art. 606, lett. e), c.p.p., che mira a ricondurre il giudizio di Cassazione alle esclusive funzioni di legittimità, evitando che attraverso il vizio del cosiddetto travisamento dei fatti si pervenga ad un’indebita rivalutazione del materiale probatorio. Inoltre, la responsabilità del ricorrente è stata fondata sulla coordinata lettura delle disposizioni testimoniali di testi particolarmente qualificati e di dati oggettivi
— 984 — derivanti dall’agenda sequestrata all’imputato, le cui giustificazioni sono state considerate per nulla credibili. In ordine al secondo motivo di ricorso, che investe la tematica della tassabilità dei proventi illeciti, occorre considerare le differenti prospettazioni del ricorrente e dell’impugnata sentenza. A tal proposito, ove fosse esatta la delimitazione temporale della commissione dei reati effettuata in ricorso al 15 ottobre 1986, per inferire l’inapplicabilità del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 e della successiva l. 24 dicembre 1993, n. 537, in virtù del principio « tempus regit actum », sancito dall’art. 20 della l. n. 4 del 1929, molte problematiche sarebbero risolte, perché, anticipando quanto sarà illustrato in maniera più diffusa successivamente, sotto il vigore della precedente normativa (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597), anche molti fra i fautori della tesi dell’intassabilità di detti proventi, almeno in sede di commento della l. n. 537 del 1993, hanno sostenuto la sussistenza di elementi tali da farne ammettere la possibile tassazione. Tuttavia, la contestazione dell’omessa presentazione della dichiarazione annuale dell’imposta sui redditi sposta, chiaramente, il termine di adempimento e di consumazione del reato al 31 maggio 1987, sicché detta argomentazione appare caduca. Maggior rilievo assume l’impostazione dei giudici di merito, secondo cui non « risulta definitivamente accertato che l’argento commerciato... provenga da contrabbando, né risulta quanta parte del metallo commerciato abbia eventualmente tale provenienza », giacché dinnanzi ad un’omessa dichiarazione di ricavi per oltre nove miliardi per l’anno 1986 e, quindi, a correlate mancate annotazioni, i reati contestati, anche se, eventualmente, per somme minori, sarebbero sussistenti. Peraltro, la decisione dei giudici di appello utilizza detto argomento senza particolarmente approfondirlo, giacché fonda la carenza della prova sulla totale provenienza dei ricavi da profitti illeciti più sul principio di presunzione di non colpevolezza, ex art. 27 Costituzione, che su altre considerazioni, in quanto incentra tutto il suo discorso sulla sottoposizione ad imposizione dei proventi illeciti, pur se una simile notazione non è senza importanza per una differente considerazione. Occorre, quindi, soffermarci sulla tematica in parola, prendendo le mosse dalle affermazioni di un illustre studioso della materia, secondo cui dalle ampie argomentazioni della pronuncia di queste Sezioni Unite penali (Cass., SS.UU., 7 marzo 1994) possono trarsi seri dubbi di costituzionalità dell’art. 14, comma 4, della l. n. 537 del 1993, che, con norma innovativa oppure di interpretazione autentica ovvero esplicativa e chiarificatrice, ha previsto il sorgere dell’obbligazione tributaria, anche per i proventi illeciti. Infatti, anche se per sollevare una simile questione di legittimità costituzionale appare preliminare, ai fini della sua rilevanza, la soluzione del quesito circa la qualificazione di detta norma, non è senza importanza valutare se l’approdo cui è pervenuta questa Corte trovi, effettivamente, il conforto in alcuni valori costituzionali e precisamente negli artt. 1, 41 e 2, in quanto il principio dettato dall’art. 53, comma 1, Costituzione, secondo il quale « tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva », perde tutta la sua pretesa indifferenza rispetto alla fonte della ricchezza, se viene collegato ai principi enunciati nelle cennate disposizioni costituzionali.
— 985 — Ed, invero, i principi costituzionali rappresentano un essenziale momento di riferimento nell’analisi esegetica ed in particolare nella cosiddetta interpretazione adeguatrice, in base alla quale tra due ermeneusi in astratto possibili occorre scegliere quella che non fa sorgere dubbi di costituzionalità. Orbene, le Sezioni Unite penali di questa Corte collegano l’art. 53 Costituzione all’art. 1 dello stesso testo, che pone il lavoro a fondamento della Repubblica, sicché, non essendovi spazio per il lavoro o le attività illecite, il riferimento deve essere limitato solo a quello lecito. Del resto l’attività illecita appare espressamente bandita dall’art. 41, comma 2, della Costituzione nella parte in cui è previsto che l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana, onde, poiché le attività costituenti reato si svolgono certamente in contrasto con quei beni, l’ordinamento deve reprimere il reato ed eliminare completamente le conseguenze e non può sancire un diritto di prelievo tributario che costituirebbe un riconoscimento di dette attività illecite. Inoltre, il principio di solidarietà, sancito dall’art. 2 Costituzione, contraddice alla pretesa neutralità fiscale, giacché l’ordinamento non può chiedere l’adempimento di questo dovere a chi ha dimostrato, con la sua attività in contrasto con l’utilità sociale dannosa per la sicurezza, la libertà e la dignità umana, una visione della vita incompatibile con i diritti inviolabili dell’uomo. Una simile ricostruzione, frutto di osservazioni provenienti da più voci della dottrina, secondo quanto nota l’attento redattore della fondamentale decisione, non è da tutti condivisa ed appare frutto di una visione etica del diritto, se non moraleggiante, che nell’approccio a detta tematica ritiene il Collegio di dover escludere. Infatti, secondo quanto è stato sostenuto da uno studioso, per ripristinare la legalità violata e per infrenare fenomeni illeciti di massa, a volte, lo strumento penale non appare l’unico utilizzabile e l’illusione repressiva si arresta dinnanzi ad oggettive difficoltà sostanziali o processuali, mentre altri strumenti appaiono più idonei a valutare e regolare con maggiore duttilità ed agilità gli effetti di carattere patrimoniale ed economico che le attività illecite producono, sicché l’intervento penale deve essere collegato e coordinato con una serie di altri mirati e particolari. Peraltro parafrasando un’acuta osservazione di un Chiaro Autore a commento dell’art. 1 Costituzione e con riferimento ai cosiddetti redditi parassitari, la funzione assegnata al lavoro come centro motore di mobilità sociale postula la necessità che gli strumenti fiscali « colpiscano duramente i redditi non provenienti da corrispondenti attività lavorative ». Inoltre, l’avere tutelato il lavoro « lecito » non significa affatto avere escluso dalla contribuzione al finanziamento del nostro sistema quei redditi (o quelle « novelle ricchezze ») che non provengano dal lavoro, ma dalla commissione di atti illeciti, tanto più che il parametro costituzionale dell’art. 1, come è facile rilevare da un excursus delle varie decisioni della Corte Costituzionale è utilizzato quale argomento integrativo di ragionamenti fondati su altri e più specifici precetti ed è posto a fondamento di altre, numerose ed importanti disposizioni costituzionali, mentre la Consulta ha sempre rilevato che l’art. 1 Costituzione esprime un principio ispiratore della tutela del lavoro, ma non vuole determinare i modi e le forme di questa tutela (Corte Costituzionale n. 16 del 1980) e neppure al lavoro può es-
— 986 — sere attribuito un significato di esclusività, giacché nella Costituzione sono presenti anche valori diversi (Corte Costituzionale n. 185 del 1981). Una simile notazione può essere svolta, per quanto attiene al principio di solidarietà, in relazione al quale anzi potrebbe affermarsi che la nostra Carta costituzionale rafforza, e non indebolisce, il significato dell’art. 2 Costituzione, quando prevede la partecipazione al sistema tributario di qualsiasi provento comunque conseguito. Muovendo dalla prospettiva costituzionale è pacifico che i doveri inderogabili di solidarietà polica, economica e sociale sono anche alla base dell’obbligo di partecipare alle spese pubbliche e non possono soffrire eccezioni con riferimento alla circostanza che il soggetto, partecipe della comunità statale, ponga in essere, in modo occasionale oppure organizzato ovvero quale abitudine di vita, attività contra legem. Anzi, un esonero dal regime tributario dei cittadini meno corretti porrebbe questioni di legittimità costituzionale con riguardo all’art. 3 della Costituzione, che riempie di contenuti ulteriori la norma aperta del precetto precedente. Ancora non sembra che l’autore dell’illecito si ponga, per ciò stesso, al di fuori della comunità, anche quando la sua condotta sia particolarmente grave, venga penalmente sanzionata ed appaia riprovevole, giacché la nostra Costituzione, all’art. 27 attribuisce alla pena una funzione rieducativa, per consentire appunto il reinserimento e la permanenza del condannato nella stessa società civile, senza alcuna volontà segregante o ghettizzante. Infine, l’art. 2 Costituzione sul piano sistematico si ricollega all’art. 1, giacché tali principi sono già impliciti nel più comprensivo principio democratico, ma sul piano funzionale si combina soprattutto con l’art. 3, c.p.v. Costituzione, in quanto la completa attuazione dei fini sociali postula e presuppone adeguati interventi posti in essere da pubblici poteri. La caratteristica di clausola « generale » e di elenco aperto della norma in esame consente di individuare altri diritti inviolabili e doveri inderogabili, oltre quelli costituzionalmente stabiliti e fa assumere una funzione prioritaria, ma non illimitata, pur non potendo essere i diritti inviolabili della persona umana oggetto di revisione costituzionale, sicché il punto di riferimento sono i vari valori che possono emergere dalla coscienza sociale ed il limite deriva dagli stessi doveri inderogabili, dal contemperamento del principio solidaristico con altri principi fondamentali e con « concetti valvola » quali l’ordine sociale o l’ordine pubblico. Peraltro, seguendo la tesi di un illustre economista, avuto riguardo al concetto di capacità contributiva intesa come « attitudine a sostenere delle decurtazioni di ricchezza, in relazione alla funzione del singolo prelievo », il principio di uguaglianza, sancito dall’art. 3 Costituzione trova applicazione in campo fiscale attraverso l’art. 53 della Carta Costituzionale, che rimanda appunto quello della capacità contributiva. Sembra pure che il valore della trasparenza, anche in campo fiscale, sia stato assunto in questo periodo dalla coscienza sociale quale principio fondamentale del nostro ordinamento e come valore cui si ispira la solidarietà economica e sociale, sicché proprio l’art. 2 Costituzione postula la tassazione dei proventi illeciti. Da tali argomentazioni, prettamente legate al dettato costituzionale ed alla giurisprudenza della Consulta, si è volutamente esclusa un’osservazione moralistica di un Chiaro Autore secondo il quale sarebbe contrario al principio solidari-
— 987 — stico sottoporre a contribuzione fiscale solo il cittadino corretto ed onesto, « premiando con l’esonero quelli meno corretti e meno ossequienti », anche se una simile notazione può inquadrarsi in un’evidente violazione del principio di eguaglianza. L’ultimo argomento tratto dall’art. 41 della Costituzione era stato oggetto di un’attenta riflessione da parte di un Autore, il quale aveva osservato come « il tassare una determinata attività (non significa) agevolarla », mentre si verrebbe ad attribuire ad una norma di libertà, espressione di un compromesso tra opposte ideologie, un’ampia latitudine senza considerare che proprio l’iniziativa economica privata deve indirizzarsi, in virtù della norma richiamata, a combattere fenomeni di illegalità economica diffusa e non certo a giustificarli o ad attenuarli in nome di un contrasto con la dignità umana. La funzionalizzazione dell’iniziativa economica privata, così ben chiarita da un illustre Autore e la necessità di contrastare i poteri privati forti, dimostrano come l’art. 41 Costituzione non sia utilmente invocabile, indipendentemente dalle contrastanti opinioni circa la natura di diritto inviolabile della proprietà privata e dell’esercizio di impresa. Un ulteriore fondamento normativo costituzionale all’impossibilità di tassare i redditi provenienti da illecito o meglio, in maniera più riduttiva, da reato, si rinviene nel principio nemo tenetur se detegere e nell’art. 24 Costituzione. Al riguardo una parte della dottrina legge questo principio in funzione endoprocessuale e lo collega all’art. 384 c.p., sicché verrebbe meno ogni riferimento costituzionale e qualsiasi rilevanza nella tematica in discussione. Peraltro, anche ad attribuire allo stesso una funzione esoprocessuale in contrasto con la giurisprudenza costituzionale (Corte Costituzionale n. 236 del 1984) e di questa Corte (Cass., Sez. V, 22 gennaio 1992) e ad ancorarlo all’art. 24 Costituzione, in tema di tassabilità dei proventi illeciti « non rileva l’obbligo confessorio quanto l’astratta tassabilità del provento », poiché il predetto principio non è richiamabile, « in relazione a comportamenti doverosi che, autonomamente considerati, non costituiscono confessione di reati, ma adempimento di obblighi imposti a tutela di un diverso bene giuridico. Un ultimo apprezzamento sulle argomentazioni di carattere costituzionale, formulate da queste Sezioni Unite penali con la decisione del 1994, non può prescindere dalla costatazione di un contrasto tra premesse e soluzioni e da un’osservazione di carattere generale. Infatti, ogni reato costituisce un vulnus per l’ordinamento, sicché non appare coerente sulla base dell’impostazione seguita (artt. 1, 2 e 41 Costituzione) discriminare fra fattispecie tassabili e non, in relazione alla permanenza o meno del provento nelle mani di chi ha posto in essere l’attività illecita, in quanto la stessa rimane sempre tale, mentre, secondo l’assunto che si è tentato di dimostrare, i principi posti a fondamento di detta ricostruzione costituzionale, indipendentemente dalla loro diversa valenza, proverebbero un po’ troppo, giacché imporrebbero di esonerare dai tributi anche gli illeciti amministrativi e civili in contrasto con quella coscienza sociale, su cui si basa il precetto dell’art. 2 Costituzione. Infine, ogni legislazione premiale ed ogni condono sarebbero « incostituzionali », sol perché escludono la punibilità e, quindi, « avallano » comportamenti illeciti, sicuramente contrari agli interessi della collettività. Dimostrata la piena compatibilità costituzionale della tassazione dei proventi
— 988 — illeciti, non sembra che la puntuale elencazione della normativa e delle ipotesi in cui alla commissione di un dato reato consegua una confisca obbligatoria o facoltativa possa dimostrare la scelta legislativa per la non tassabilità dei predetti redditi, che sarebbero soltanto confiscabili. Ed invero, a parte la possibile evenienza di situazioni processuali e sostanziali, attentamente considerate dall’intelligente redattore della pronuncia delle Sezioni Unite in esame, la decisione non sembra che distingua tra conseguenza sanzionatoria del fatto illecito e l’imposizione tributaria. L’attitudine alla contribuzione, infatti, è legata a fatti sintomatici quali la produzione di un reddito, il possesso di un patrimonio, il trasferimento della ricchezza ed il consumo di beni con le problematiche connesse alla precisazione dei termini « reddito », « possesso », « ricchezza » e « beni », sulla cui delimitazione si è impegnata la dottrina tributaria. Tuttavia, il Legislatore costituente e quello ordinario non hanno considerato la qualificazione giuridica di fatti, attività o atti per escluderli dalla capacità contributiva del soggetto in riferimento alla loro antigiuridicità, tanto è vero che la prefata sentenza di queste Sezioni Unite è costretta ad inserire, dopo il termine reddito, l’aggettivo « lecito » non contemplato in alcuna disposizione tributaria. La previsione di una normativa tendente a disporre la confisca dei patrimoni illeciti dimostra la tendenziale volontà del Legislatore di impedire all’autore del reato di goderne i frutti, ma non esclude la tassabilità dei proventi illeciti sotto un altro profilo, sicché la confisca, se attuata, elimina il possesso del reddito ed esclude un presupposto della tassabilità in generale estesa a qualsiasi provento acquisito in maniera lecita o illecita. Si tratta, in sostanza, di una risposta forte, che non sempre lo Stato riesce ad attuare, ma che è svincolata dall’obbligo impositivo. Queste ultime notazioni palesano il differente approccio di questo Collegio e la diversa impostazione della tematica, ma senza alcuna pretesa di esaustività e di chiarezza, così ben attuate nella decisione delle Sezioni Unite in parola, appare opportuno assumere i differenti orientamenti, dottrinali e giurisprudenziali, e soprattutto considerare il dato normativo. Le argomentazioni poste a base della tassazione o meno dei proventi illeciti sono degne della massima considerazione. In dottrina sulla base della cosiddetta « teoria economica » si è sostenuto che il provento del reato deve essere apprezzato nella sua esistenza oggettiva, a nulla rilevando, ai fini dell’assoggettabilità a tributo, la qualificazione giuridica della fonte da cui promana, in virtù dei principi costituzionali di uguaglianza e della capacità contributiva e di quello legislativamente tratto della neutralità fiscale. Altri, invece, hanno posto l’accento sull’ordinamento tributario, rilevando come in varie ipotesi ad un determinato fatto reato siano connesse conseguenze di natura penale ed obblighi fiscali, così in materia di contrabbando doganale, oltre all’applicazione della sanzione penale, si procede alla riscossione dei diritti di confine gravanti sulla merce oggetto del contrabbando, ancorché questa sia sottoposta a confisca (art. 70 del D.P.R. n. 633 del 1972), oppure in caso di emissione di fatture per operazioni inesistenti, l’imposta sul valore aggiunto esposta in fattura, è dovuta, nonostante non sia sorta la cessione di beni o la prestazione di servizi (art. 21 del D.P.R. n. 633 del 1972). Alcuni autori, inoltre, sostengono che l’obbligo di assolvere al tributo sussiste
— 989 — pure nell’ipotesi in cui il provento del reato sia stato confiscato in considerazione dell’autonomia e dell’indipendenza dei due sistemi normativi. Altri ancora operano una suddistinzione delle attività illecite fra quelle penalmente illecite, quelle compiute in violazione di norme tributarie penalmente tutelate ed altre costituenti illecito civile o amministrativo e derivante dall’omesso rispetto di norme di polizia siano o meno penalmente sanzionate e ritengono solo la prima categoria non soggetta ad imposizione, in quanto tutte le altre prevedono un reddito conseguito in modo non conforme a legge, ma in modo tale da non inficiarne la natura reddituale. Tutti questi autori, poi, convengono nella nozione di reddito formulata per la prima volta da un maestro di questo ramo del diritto, secondo cui « presupposto del reddito tassabile è una ricchezza novella riproducibile in rapporto di effetto a causa con un’energia o una forza produttiva » individuando quale presupposto della tassazione il « possesso » del reddito inteso quale materiale disponibilità da parte del soggetto d’imposta. La dottrina contraria alla tassabilità contesta l’assunto del reddito inteso quale mera realtà economica ed attribuisce allo stesso una valenza etica, sicché un arricchimento senza causa o da causa illecita non potrebbe mai rientrare nella nozione di reddito, in quanto non si può comprendere tra i redditi ciò che per legge non potrebbe avere giuridica esistenza, giacché all’illecito corrisponde una sanzione e non un’attività finanziaria. Peraltro, alcuni autori ritengono non poter rientrare nel concetto di reddito previsto dal D.P.R. n. 917 del 1986, attesa la tipizzazione dei processi propri dei redditi tassabili operata dal Legislatore ex artt. 6 e 81 D.P.R. 917 quello derivante da causa illecita, fornendo così una base giuridica alla autonomia, mentre altri operano una distinzione fra redditi prodotti con attività illecite, che si caratterizzano come tali, perché ne è illecito l’oggetto, non soggetti a tassazione, e quelli derivanti da attività esercitate in presenza delle prescritte autorizzazioni come tali tassabili, perché sempre riferibili all’attività lecita considerata nel suo complesso. Comune a tutti questi autori è l’affermazione secondo cui ove i proventi illeciti fossero soggetti a tassazione la pretesa tributaria verrebbe a legittimare, in capo al soggetto, il possesso del reddito illecito, mentre l’ordinamento appresta altri strumenti (confisca, risarcimento del danno, obbligo delle restituzioni), incompatibili con la nozione di reddito, per impedire che il reo consegua dalle attività illecite utili economici. La dottrina più recente favorevole all’intassabilità ha affrontato anche la problematica della permanenza del profitto proveniente da reato in capo all’autore, risolvendola nel senso che in tal caso « la fattispecie fiscalmente rilevante trova integrale realizzazione e la tassabilità del provento costituisce conseguenza giuridica tipica » con una coerenza con la tesi dell’intassabilità difficilmente condivisibile sotto il profilo logico. Gli orientamenti giurisprudenziali dei giudici civili e penali scontano una certa ritrosia dell’ufficio accertatore a ritenere soggetti ad imposizione tributaria i proventi illeciti e, quindi, un minor numero di controversie, spesso risolte in sede di commissione tributaria e, comunque, decise in base o ad apodittiche asserzioni, ovvero, a tralaticie considerazioni prima della fondamentale pronuncia delle Sezione Unite penali di questa Corte. La giurisprudenza di questa Corte in sede penale, almeno nell’ultimo decen-
— 990 — nio (cfr. Cass., Sez. III, 9 gennaio 1991, e Cass., Sez. III, 20 novembre 1991), è stata decisamente favorevole all’intassabilità dei proventi da reato, anche se la tematica è stata in parte sottovalutata (vedasi ad esempio Cass., Sez. VI, 5 febbraio 1987 e Cass., Sez. VI, 30 maggio 1990, Bologna, che ammettono la concorrenza di due reati; uno relativo al settore penale-tributario (omesso pagamento IVA) e l’altro alla repressione dello spaccio degli stupefacenti, nell’ipotesi di introduzione di droghe nel territorio italiano senza essere muniti delle speciali autorizzazioni, contemplate dalle specifiche disposizione di legge) prima del 1991, cioè del pervenire dinnanzi al giudice di legittimità di alcune appendici del cosiddetto scandalo dei petroli e dell’esplodere della cosiddetta tangentopoli giacché non è senza motivo che questa stessa Sezione con una sentenza, giustamente definita « monito », (Cass., Sez. III, 24 giugno 1992) abbia affermato, la necessità di rimeditare tutte le problematiche connesse ponendo le basi per la successiva rimessione della questione alle Sezioni Unite. Anche la giurisprudenza civile, dopo una risalente e motivata pronuncia (Cass., Sez. I, 30 luglio 1952 n. 2402), ha aderito alla tesi dell’intassabilità sia pure in via incidentale (cfr. Cass., Sez. I, 29 maggio 1992 n. 6520, in Corr. trib. n. 31 del 1992, p. 2225 e Cass., Sez. I, 13 marzo 1993 n. 3028), procedendo, tuttavia, ad una rimeditazione alla luce della recente normativa (l. n. 537 del 1993) e sostenendone la sottoposizione a tributo (cfr. Cass., Sez. I, 19 aprile 1995 n. 4381), mentre più variegati sono gli indirizzi delle commissioni tributarie (cfr. per l’orientamento dominante in sede di legittimità Comm. trib. II Catania 9 marzo 1991 contra per la tesi della tassabilità Comm. trib. II Firenze 24 gennaio 1989 n. 194, in Corr. trib. n. 16 del 1989, p. 1050 e dopo la legge citata Comm. trib. II Bari, Sez. II, 28 maggio 1994 n. 5). La stessa giurisprudenza comunitaria è stata differentemente interpretata dai fautori delle opposte tesi (Corte Giust. CEE 28 febbraio 1984 e 5 luglio 1988), giacché, per la peculiarità delle fattispecie oggetto di giudizio (traffico di sostanze stupefacenti), ricadente in tutti gli stati membri sotto il divieto assoluto di messa in circolazione, non poteva venire in essere il relativo tributo, mentre la Corte di Giustizia delle Comunità europee in tutte dette decisioni, seguendo, peraltro, consolidata giurisprudenza dei giudici di legittimità della vicina Francia o la disposizione di cui al n. 1 dell’art. 4 della sesta direttiva del Consiglio d’Europa in tema di IVA (n. 77/388 CEE), ha sostenuto che il principio di neutralità fiscale deriva dall’indifferenza ai fini tributari della distinzione fra operazioni lecite ed illecite e non consente, in materia di riscossione IVA, una siffatta distinzione, poiché le due funzioni, sanzionatoria ed impositiva, costituiscono, quanto a finalità e regolamentazione (talvolta di un medesimo fatto giuridico), funzioni del tutto autonome. In sostanza la giurisprudenza comunitaria non solo ha accolto il principio della neutralità fiscale, ma ha anche affermato una regola uniformemente riconosciuta secondo la quale un unico fatto generatore ben può dal Legislatore essere diversamente considerato e regolato in relazione ai diversi rami dell’ordinamento giuridico (es. art. 21 del D.P.R. n. 633 del 1972). Illustrati sinteticamente gli orientamenti giurisprudenziali, è necessario tracciare il quadro normativo attraverso un excursus storico, sì da far emergere tramite il dato positivo gli argomenti già individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza su riferite. L’art. 2 del precedente Testo Unico delle imposte dirette del 1958 era intito-
— 991 — lato in rubrica « presupposto dell’obbligazione tributaria » e recitava nel senso che « le disposizioni relative alle singole imposte indicano i fatti e le situazioni che costituiscono il presupposto dell’obbligazione tributaria ». Sicché era necessario avere riguardo alle singole imposte per individuare il relativo presupposto. Al riguardo l’art. 81 relativo all’imposta di ricchezza mobile statuiva che « presupposto dell’imposta è la produzione di un reddito netto... derivante da qualsiasi... fonte ». Questa locuzione è stata riprodotta all’art. 1 del D.P.R. n. 597 del 1973 per individuare il presupposto impositivo dell’IRPEF, mentre l’art. 6 del predetto testo legislativo classificava i redditi in diverse categorie e l’art. 80 quale « norma di chiusura » prevedeva che « alla formazione del reddito complessivo, per il periodo di imposta e nella misura in cui è stato percepito, concorre ogni altro reddito diverso da quelli considerati dalle disposizioni del presente decreto ». La coordinata lettura di queste disposizioni, secondo quanto è stato ammesso in sede di commento della l. n. 537 del 1993 cioè a circa venti anni di distanza, da qualche autore fautore della tesi dell’intassabilità dei proventi illeciti, dimostra la possibilità di ritenere tassabili gli stessi, perché possono rientrare nei redditi diversi e nella norma di chiusura dell’art. 80. Peraltro, detta concessione è tutta rivolta ad esaltare l’intervenuta abrogazione dell’art. 80 da parte del D.P.R. n. 917 del 1996 e l’introduzione della tipizzazione delle tipologie di redditi con un’elencazione tassativa contenuta nell’art. 81, onde non sarebbe più possibile ricomprendere i proventi illeciti fra dette categorie e la disposizione contenuta nell’art. 14 comma 4 della l. n. 537 del 1993 avrebbe evidente carattere innovativo. Tali assunti, però, non sono pacifici e neppure sembrano condivisibili. Infatti, la predetta tipicizzazione non esclude che i proventi di alcune attività costituenti reato possano inquadrarsi nelle categorie reddituali previste dalla legge. Potrebbe, anzi, sostenersi che a qualsiasi attività lecita ne corrisponde una tipologicamente affine ma illecita sia con riferimento ad un linguaggio comune che qualifica l’associazione a delinquere finalizzata al contrabbando come impresa contrabbandiera sia con riguardo a ben più articolate costruzioni, nelle quali il traffico di armi o lo spaccio di sostanze stupefacenti si possono includere nella cessione dei beni, l’esercizio di professioni abusive nella prestazione di servizi, i proventi di furti o rapine negli incrementi patrimoniali gratuiti e le varie associazioni a delinquere nelle attività di impresa senza dimenticare che nell’elencazione tassativa dell’art. 81 del Testo Unico delle imposte sui redditi possono essere inclusi altri redditi provenienti da reato, ove si affronti detta problematica con animo sgombro da convinzioni moralistiche e si considerino i redditi derivanti « da prestazioni di fare, non fare o permettere ». In questo contesto normativo, dottrinale e giurisprudenziale si inserisce l’art. 14 comma 4 della l. 24 dicembre 1993, n. 537 (interventi correttivi di finanza pubblica) il quale stabilisce che « nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del Testo Unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esso classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria ». La norma, certamente non lineare e di difficile esegesi, ha posto una serie di
— 992 — problematiche, non tutte funzionali alla decisione in esame, sicché molte saranno pretermesse, appuntando per prima l’attenzione sulla natura innovativa o di interpretazione autentica della disposizione. Al riguardo in dottrina ed in giurisprudenza si sono avanzate differenti opinioni anche da studiosi seguaci dell’orientamento che ammette la tassabilità dei proventi illeciti. Peraltro, sono diversificate le ragioni poste a base della natura innovativa della norma, giacché alcune si fondano sull’impossibilità di considerare, prima dell’emanazione di detta disposizione, tassabili i proventi illeciti, almeno quelli provenienti da attività penalmente sanzionate in via diretta, sicché appare del tutto irragionevole il comportamento del Legislatore di ritenere emanabile una norma di interpretazione autentica in assenza delle condizioni richieste. Altre, invece, valorizzano il dato normativo dell’intervenuta abrogazione dell’art. 80 D.P.R. n. 597 del 1973 e la cosiddetta tipicizzazione dei redditi tassabili per puntualizzare un mutamento dei profili reddituali e, quindi, aderire all’impostazione su riportata, basata solo su affermazioni di principio. Altre, ancora, si riferiscono alle caratteristiche proprie delle leggi di interpretazione autentica, le quali si configurano come figure di carattere eccezionale, sicché la loro natura deve risultare in modo esplicito e inequivocabile dalla disposizione senza che sia possibile dedurne la ricorrenza dai lavori preparatori. Altre, infine, basano la natura innovativa del precetto sulle sue difficoltà interpretative, sulle distorsioni connesse alla norma in questione per quanto attiene all’inclusione dei proventi illeciti nelle categorie reddituali, di cui agli artt. 6 e 81 Testo Unico delle imposte sui redditi, e alla diversa considerazione degli istituti della confisca e del sequestro, senza dubbio non compresa nella pregressa normazione ed intesa in maniera difforme dalla nota decisione di queste Sezioni Unite penali, sulla efficacia riduttiva e limitatrice dell’art. 14 comma 4 legge citata in ordine all’esistenza di proventi illeciti non classificabili come reddito ex art. 6 D.P.R. n. 917 del 1986, sulla causa di esclusione della tassabilità costituita dalla già irrogata confisca e dal disposto sequestro e sulle connesse questioni derivanti dalla successiva applicazione o revoca di detti istituti, ed, in definitiva, sulla presenza di condizioni positive e negative di tassabilità dei proventi illeciti non risultanti nella pregressa normativa. La natura di interpretazione autentica della disposizione è affermata sulla considerazione che la legislazione tributaria conteneva già in sé i persupposti per considerare quali redditi i proventi illeciti, in quanto ricompresi nelle categorie di reddito individuate dall’art. 6 D.P.R. n. 917 del 1986, e è basata sul tenore letterale della norma, sulla locuzione « devono intendersi ricompresi », sull’omesso inserimento del precetto nel Testo Unico delle imposte sui redditi quale comma aggiuntivo dell’art. 6 citato dall’art. 81, sui connotati tipici delle leggi siffatte, sui lavori preparatori e sulla relazione di accompagnamento, nonché sulla circolare esplicativa n. 150/E del 10 agosto 1994 del Ministero delle Finanze, in Corr. trib. n. 36 del 1994, p. 2407 e n. 37 del 1994, p. 2496. Alcune delle argomentazioni avanzate dai sostenitori dell’una o dell’altra tesi non sembrano decisive né condivisibili come quelle fondate sulle difficoltà interpretative della legge e sulle sue distorsioni oppure sui contenuti di una circolare o soltanto sui lavori preparatori, pur potendo fornire questi ultimi un utile indizio sulla volontà del Legislatore da controllare sempre se si è inverata nel precetto, mentre altre partono da presupposti di pretesa incompatibilità tra provento illecito
— 993 — ed imposizione tributaria, superati da una parte della dottrina e che, comunque, potrebbero essere posti a fondamento della natura di interpretazione autentica della norma, giacché una legge con tale caratteristica è richiesta per fornire un esegesi certa di una disposizione oggetto di differenti letture da rinvenire non necessariamente nei contrapposti orientamenti giurisprudenziali. Appare, quindi, opportuno soffermarsi attraverso un esame necessariamente sintetico sui capisaldi della dottrina dell’interpretazione autentica legislativa quali emergono dalla giurisprudenza della Consulta e di questa Corte, rilevando come il giudice delle leggi abbia affrontato questa tematica in modo ampio e soprattutto per sindacare l’effettiva natura interpretativa al Legislatore di adottare norme innovative mascherate come interpretative, anche se la Corte Costituzionale nonostante la rigida applicazione dei vari criteri elaborati, il più delle volte ha ritenuto esatta la qualificazione legislativa (cfr. per un caso di censura dell’operato legislativo Corte Costituzionale n. 155 del 1990 e n. 233 del 1988 per quanto attiene ad una legge regionale). La « dottrina » della Consulta al riguardo appare mirabilmente sintetizzata in una recente decisione (Corte Costituzionale n. 15 del 1995), in cui si afferma che i caratteri della legge interpretativa sussistono quando « rimanendo immutato il tenore testuale della disposizione interpretata, se ne chiarisca e precisi il significato o si privilegi, rendendola vincolante, una delle tante interpretazioni possibili » (cfr. Corte Costituzionale n. 397 del 1994 con elencazione analitica e puntuale dei precedenti « con stile quasi didattico » e n. 424 del 1993). « In altri termini — prosegue la citata pronuncia del 1995 — è necessario e sufficiente che la scelta ermeneutica imposta dalla legge interpretativa rientri tra le varianti di senso compatibili con il tenore letterale del testo interpretato, stabilendo un significato che ragionevolmente poteva essere ascritto alla legge anteriore... così configurato, l’intervento legislativo non presuppone necessariamente una situazione di incertezza o di conflitto di interpretazioni, ma non si sottrae all’esigenza di rispettare il principio generale di ragionevolezza e gli altri precetti costituzionali ». Inoltre, precisa la citata sentenza n. 397 del 1994, la funzione propria della legge interpretativa è « quella di chiarire il senso di norme preesistenti, ovvero di imporre una delle possibili varianti di senso compatibili con il tenore letterale, sia al fine di eliminare eventuali incertezze interpretative sia per rimediare ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti con la linea politica del diritto voluta dal Legislatore ». « Tale carattere interpretativo deve, peraltro, desumersi non già dalla qualificazione che tali leggi danno di sé stesse, quanto, invece, dalla struttura della loro fattispecie normativa in relazione, cioè, ad un rapporto fra norme — e non fra disposizioni — tale che il sopravvenire della norma interpretante non fa venir meno la norma interpretata, ma l’una e l’altra si saldano fra loro dando luogo a un precetto normativo unitario ». Pertanto, è solo in parte condivisibile quanto sostenuto da un Chiaro Autore secondo cui costituirebbe orientamento oramai acquisito della Corte Costituzionale quello « tendente a restringere la categoria delle norme di interpretazione autentica a quelle qualificate come tali dal Legislatore (e che non siano in effetti di natura innovativa) o che almeno abbiano un contenuto sicuramente interpretativo », giacché varie volte la Consulta ha affermato che è indifferente ai fini di
— 994 — detta qualificazione « l’autodefinizione di interpretazione autentica » (Corte Costituzionale n. 81 del 1958; n. 23 del 1967; n. 36 del 1985; n. 15 del 1995), sicché deve essere considerato il contenuto interpretativo, individuabile in precedenti contrasti di giurisprudenza e/o nell’effettiva ambiguità dei testi (Corte Costituzionale n. 44 del 1957 e n. 175 del 1974) od in un effettivo stato di incertezza (n. 49 del 1965 e n. 163 del 1991) oppure nell’intento di rimediare ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti con la linea politica seguita dal Legislatore (n. 178 del 1987 e n. 6 del 1994). Peraltro, tali criteri e presupposti sono condivisi da questa Corte a Sezioni Unite in sede civile (Cass., SS.UU., 2 febbraio 1993 n. 1281), essendosi affermato che una norma è qualificabile di interpretazione autentica, quando chiarisce un aspetto delle precedenti disposizioni senza sostituirle, in modo che la disciplina concretamente applicabile risulta cumulativamente dalla disposizione interpretativa e da quelle interpretate. È vero che in numerose recenti decisioni della III Sezione civile di questa Corte è affermato che « l’interpretazione autentica è attività di carattere eccezionale e come tale deve essere espressa dal Legislatore in modo esplicito ed inequivocabile » e che « non è possibile dedurre la natura di una norma interpretativa dai lavori preparatori » (Cass., Sez. III, 3 marzo 1994 n. 2115 e Cass., Sez. III, 10 aprile 1995 n. 4117), ma, a parte il monito della Corte Costituzionale al Legislatore di « far ricorso con attenta moderazione » alle leggi di interpretazione autentica (Corte Costituzionale n. 155 del 1990), non può negarsi al potere legislativo la possibilità di ricorrere a queste norme tutte le volte in cui ciò appaia necessario (Corte Costituzionale n. 77 del 1964) senza che la deroga al principio di irretroattività della legge (art. 11 disp. att. c.p.), costituzionalizzato solo in materia penale, possa far ritenere eccezionale in senso tecnico-giuridico una siffatta norma, mentre l’utilizzazione dei lavori preparatori quale criterio ermeneutico, in questo periodo storico caratterizzato da imprecisioni legislative e dalla natura « compromissoria » della legge, è stato varie volte invocato e utilizzato da queste Sezioni Unite, pur con tutti i limiti noti dell’analisi ermeneutica storica. La natura di interpretazione autentica dell’art. 14 comma 4 della l. n. 537 del 1993 in giurisprudenza è stata affermata in sede tributaria (Comm. trib. secondo grado Sez. II, 28 maggio 1994 n. 5, in Corr. trib. n. 40 del 1994, p. 2643), civile (Cass., Sez. I, 19 aprile 1995 n. 4381, in Corr. trib. n. 25 del 1995, p. 1765) e quale obiter dictum in una recentissima decisione di questa terza Sezione (Cass., Sez. III, 6 febbraio 1996), che contiene anche una personale ricostruzione dei contenuti della nota decisione Cass., Sez. Un., 7 marzo 1994, P.M.). Le ragioni svolte da questa Corte in sede penale sono efficacemente sintetizzate nel senso che la disposizione in parola « non modifica né integra l’art. 6 del D.P.R. n. 917 del 1996, ma — tenuto conto della sua formulazione testuale e del mancato inserimento nel testo dello stesso D.P.R. — ha valore d interpretazione autentica di quella previsione normativa », mentre quelle addotte in sede civile, oggetto di numerose critiche da parte della dottrina, riferiscono ad una fattispecie disciplinata dal D.P.R. n. 597 del 1973, la norma contenuta nella legge del 1993, n. 537, ritenuta di interpretazione autentica del testo del 1986 n. 917 e considerata quale criterio ermeneutico decisivo per la normazione precedente, di cui è affermata la continuità. La decisione della Commissione tributaria, infine, premessa la conformità ai
— 995 — principi dell’ordinamento dell’interpretazione autentica, ne trae la natura dal dato testuale e dall’oggettiva pluralità di esegesi configurabile nel vigore del Testo Unico n. 917 del 1986. Prima di procedere ad un’analisi ermeneutica della disposizione e di prendere posizione sulla natura della norma è utile riassumere alcune conclusioni cui si è giunti. Non esiste alcuna inconciliabilità fra sottoposizione a tassazione dei redditi da reato e la nostra Carta Costituzionale, mentre occorre distinguere fra conseguenza sanzionatoria del fatto illecito con le relative misure repressive (confisca, obbligo di restituzione, risarcimento del danno) e l’imposizione tributaria senza che la scelta legislativa operata in via tendenziale nel primo settore possa essere ritenuta impeditiva della tassabilità dei proventi illeciti. Gli stessi lavori preparatori del Testo Unico delle imposte sui redditi dimostrano come le disposizioni abrogate del D.P.R. n. 597 del 1973 (art. 80) e le locuzioni escluse (« redditi provenienti da qualsiasi fonte » art. 1) mirano soltanto ad affermare il principio della tipicità e tassatività della determinazione dei redditi, ma non fanno venir meno la possibilità di tassare i proventi illeciti, se classificabili nelle categorie di reddito di cui all’art. 6 D.P.R. n. 917 del 1986, onde sotto questo profilo più che di un recepimento automatico della pregressa disciplina intervenuta con il Testo Unico delle imposte sui redditi può parlarsi di una continuità logica del principio della tassabilità « non modificato in virtù delle innovazioni introdotte dal citato Testo Unico delle imposte sui redditi nella misura in cui nelle categorie di reddito delineate possano inserirsi pure i redditi da reato. Con l’emanazione dell’art. 14 comma 4 della l. n. 537 del 1993 il Legislatore ha inteso porre fine alle possibili interpretazioni normative spesso contrastanti circa la tassabilità o meno dei proventi illeciti, attese l’importanza e l’attualità della problematica. La norma di interpretazione autentica ha quali caratteri peculiari: la struttura implicante un rapporto tra norme e non tra disposizioni, sicché le previsioni di interpretazione autentica vanno a saldarsi con la disposizione interpretata dando origine a un precetto normativo unitario, la funzione di chiarire il senso di norme preesistenti, ovvero di eliminare eventuali contrasti giurisprudenziali e/o incertezze interpretative o di imporre una delle possibili varianti di senso compatibili con il tenore letterale del precetto; la prevalenza dei caratteri su enucleati rispetto all’autodefinizione legislativa ed alla formulazione letterale nel senso che può essere ritenuta norma di interpretazione autentica anche quella non così espressamente indicata dal Legislatore, la quale, tuttavia, intervenga sul significato normativo delle disposizioni interpretate, chiarendone o esplicitandone il senso ovvero escludendone o enucleandone uno dei contenuti possibili. Orbene, l’art. 14 comma 4 della l. n. 537 del 1993 ha quale suo antecedente parlamentare il disegno di legge Senato n. 1325, comunicato alla Presidenza il 22 giugno 1993, nella cui relazione si specifica di aver ritenuto « opportuno chiarire l’assoggettabilità ad imposizione di tutti gli introiti, quale che ne sia la fonte... ed introdurre un’ulteriore fattispecie residuale da includere nell’art. 81 del Testo Unico delle imposte sui redditi che consenta, data la peculiarità della materia, di avocare a tassazione anche proventi illeciti sforniti dei caratteri reddituali tipici previsti nelle fattispecie attuali (ad esempio furti, tangenti) con lo scopo di ampliare in questo settore le ipotesi per la tassazione rispetto a quelle già esistenti ».
— 996 — Infatti, il predetto disegno di legge conteneva due norme espressamente indicate come di interpretazione autentica (artt. 2 e 3) in cui è utilizzata la locuzione « va interpretata » per affermare in generale che « il carattere illecito dell’attività non esclude l’applicazione del tributo », purché la stessa realizzi il presupposto di assoggettabilità ad un tributo, ed un’altra disposizione (art. 4), che prevedeva una modifica dell’art. 81 Testo Unico delle imposte sui redditi, introducendo una lettera n) del seguente tenore « i proventi di qualsiasi genere, percepiti in conseguenza di atti o attività immorali ovvero civilmente o penalmente illeciti, di cui il contribuente abbia la disponibilità di fatto ». La parziale riproduzione del dettato normativo di questo disegno di legge dimostra in maniera molto evidente la differenza operata fra norma interpretativa autentica e disposizione innovativa, riproducendo quella formulazione tipica della prima e della seconda ed avvalorando quei connotati, che saranno illustrati nella sentenza del 6 febbraio 1996 di questa Sezione con riferimento all’art. 14 in esame. La natura di interpretazione autentica, è, poi, confermata nella relazione alla l. n. 537 del 1993, in cui si legge che « l’intervento legislativo... esplicita l’imponibilità dei proventi derivanti dalle attività illecite, affermando espressamente la compatibilità delle categorie reddituali indicate nel comma 1 dell’art. 6 del Testo Unico delle imposte sui redditi con la qualificazione di illecito... alla condizione che l’attività produttiva del reddito sia di per sé considerata già ricompresa nelle fattispecie imponibili previste dalle norme vigenti... ad esempio i redditi di capitale per usura, i redditi di lavoro dipendente e di lavoro autonomo collegati ad attività illecite, i redditi di impresa derivanti da attività criminose ». Il Legislatore ha, quindi, limitato la portata della norma per ottenere l’effetto retroattivo proprio delle leggi di interpretazione autentica, lasciando all’interprete l’oneroso compito di individuare le categorie reddituali in cui possono inserirsi fatti, atti ed attività illecite. Intesa in tal modo la disposizione in discorso non può obiettarsi che il riferimento alle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del Testo Unico delle imposte sui redditi limiterebbe la portata del principio della tassabilità dei proventi illeciti, introducendo un’innovazione al D.P.R. n. 917 del 1986, poiché la norma interpretativa non può intaccare il dato testuale né integrarlo e tale sarebbe stato un inserimento non circoscritto ai redditi classificabili in dette categorie. Non sembrano neppure centrate le critiche formulate sulla base dell’inciso « se già sottoposti a sequestro o confisca penale », giacché lo stesso introdurrebbe una disciplina non contenuta nell’art. 6 D.P.R. citato, in quanto derogherebbe alla tassabilità di questi profitti, costringerebbe a pensare tutta una serie di conseguenze collegate o al venir meno del sequestro o della confisca ovvero al successivo attuarsi di dette misure ritenute cause di esclusione dell’obbligo retributario. Infatti, il dato testuale si riferisce ad un provvedimento giudiziale concretamente eseguito e in definitiva a quella mancanza di disponibilità di fatto di tutto o parte del reddito in cui si sostanzia il relativo possesso, presupposto della capacità impositiva, sicché anche sotto questo profilo non è possibile riscontrare alcuna innovazione, in quanto non si è in presenza di un portato nuovo ma di un principio generale della scienza tributaria. Qualificata la norma in esame come di interpretazione autentica e tralasciata ogni più approfondita analisi esegetica della disciplina e delle possibili soluzioni
— 997 — sul piano impositivo (dalle modalità di accertamento del reddito alla decorrenza del termine prescrizionale ed alle questioni più propriamente tributaristiche quali ad esempio i criteri di imputazione e di ricostruzione dei redditi), è opportuno rilevare l’incidenza di una simile soluzione sulla responsabilità per reati connessi all’omessa osservanza degli obblighi stabiliti dalla normativa fiscale (nella fattispecie relativi alle mancate annotazioni sulle scritture contabili obbligatorie ai fini IVA e imposte sui redditi ed all’omessa dichiarazione annuale dei redditi ai fini delle predette imposte). Al riguardo la ricostruzione effettuata della normazione vigente e la qualificazione come norma di interpretazione autentica attribuita all’art. 14 l. n. 537 del 1993 non determinano alcuna violazione del precetto stabilito dall’art. 25 della Costituzione né della disciplina contemplata dall’art. 20 della l. n. 4 del 1929, che, come è noto, sancisce in materia fiscale, salvo espresse e sempre più frequenti deroghe, il principio tempus regit actum o della cosiddetta ultrattività della legge penale finanziaria in deroga a quello della retroattività della disposizione più favorevole, ritenuto non in contrasto con i valori costituzionali dalla Consulta anche di recente (Corte Costituzionale n. 80 del 1995). Infatti, secondo quanto si è tentato di dimostrare, già nel D.P.R. n. 917 del 1986 vi era un complesso normativo interpretabile nel senso della sottoposizione ad imposizione dei proventi illeciti e, quindi, anche di quelli provenienti da reato, sicché l’art. 14, più volte citato, ha finito con il ribadire attraverso l’autorità e l’efficacia derivanti dall’interpretazione autentica un’esegesi enucleabile dalla disciplina preesistente, rendendo incontrovertibile detta analisi ermeneutica in attuazione di una precisa direttiva di politica del diritto voluta dal Legislatore per contrastare anche un consolidato indirizzo giurisprudenziale, forse ormai in contrasto con esigenze emergenti dalla coscienza civile e dalla società. Tuttavia, la soluzione accolta comporta la necessità di esaminare ex officio nelle fattispecie oggetto di ricorso la rilevanza dell’elemento psicologico e in particolare dell’errore inevitabile su legge penale, tanto più che, come già illustrato, dinnanzi ad una dottrina divisa sul punto la giurisprudenza di questa Corte, nonostante un « monito » alla rimeditazione, era pressoché unanime nel ritenere intassabili i proventi illeciti. Orbene, secondo giurisprudenza costante di questa Corte (Cass., Sez. VI, 7 dicembre 1991 cui adde Cass., SS.UU., 18 luglio 1994, P.G.), si può ritenere inevitabile l’ignoranza della legge penale, quando l’agente sia incorso nella trasgressione nonostante si sia attenuto correttamente e con l’odinaria diligenza all’obbligo di informazione e di conoscenza dei precetti normativi, posto a carico di tutti i consociati quale esplicazione dell’ampio dovere di solidarietà sociale e l’accertamento di tale diligenza deve essere particolarmente approfondito per chi esercita professionalmente in un determinato settore un’attività alla quale inerisce la disciplina predisposta dalle norme violate (Cass., Sez. IV, 26 ottobre 1990, cui adde Cass., Sez. III, 2 febbraio 1994), sicché non è sufficiente ad integrare gli estremi della scriminante un comportamento meramente passivo dell’agente (Cass., Sez. III, 23 luglio 1993), mentre è necessario che si tratti di un reato di creazione legislativa e non di una norma corrispondente ad un’esigenza morale universalmente avvertita (Cass., Sez. VI, 18 febbraio 1992). Inoltre, se è vero che non ogni contrasto giurisprudenziale può configurare un errore inevitabile (cfr. fra tante Cass. 8 marzo 1990), giacché il convincimento
— 998 — dell’inevitabilità dell’errore non deve essere imputabile neppure a semplice leggerezza dell’agente, in quanto la sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale ha inteso soltanto mitigare un principio, quello dell’inescusabilità dell’errore su legge penale, che, nella sua assolutezza, poteva dar luogo ad ipotesi di responsabilità oggettiva, ed ha voluto scriminare solo l’ignoranza inevitabile della legge penale e non scusare ogni comportamento dell’autore del reato, anche improntato a leggerezza, tuttavia nella fattispecie si era in presenza di un pacifico orientamento giurisprudenziale, sicché l’agente ha potuto trarre da ciò il convincimento dell’interpretazione normativa e, conseguentemente della liceità del comportamento tenuto. Peraltro, nella specifica fattispecie, assume particolare rilevanza l’affermazione dei giudici di merito, secondo la quale non tutti i redditi erano ascrivibili ad attività illecita, suffragata dall’elevatissimo importo evaso (oltre nove miliardi), dall’attività commerciale svolta dal ricorrente e dall’omessa dimostrazione di un provvedimento di sequestro o di confisca già attuato per l’intero importo ed in genere da una serie di attività finalizzate all’elusione di tutte quelle misure prodromiche predisposte e penalmente sanzionate per consentire un controllo dei redditi al fine di contenere l’evasione di imposta, nelle quali si sostanziano molti reati formali contemplati dalla l. n. 516 del 1982. Proprio la funzione di tutela anticipata e la caratteristica formale tipiche dei reati ex lege n. 516 del 1982 e di alcune delle fattispecie criminose contestate, svincolate da un’effettiva evasione fiscale, consentono di escludere ogni rilevanza al cosiddetto errore inevitabile su legge penale. Inoltre la natura del presunto connesso illecito imputato (contrabbando di argento), la disciplina fiscale dello stesso ai fini dell’IVA (art. 70 D.P.R. n. 633 del 1972 e la presenza di alcuni obblighi fiscali basati sul pregresso regime tributario (D.P.R. n. 597 del 1973) dimostrano che il ricorrente ha agito, accettando il rischio conseguente alla violazione della normativa di cui è imputato nel presente giudizio, e, quindi, addirittura con dolo eventuale, nonostante sia sufficiente per le fattispecie contravvenzionali contestate la semplice colpa, mentre la facile catalogazione del reddito conseguito in quello derivante da lavoro autonomo e dall’esercizio di impresa consente l’applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986 (artt. 6 ed 81) nell’interpretazione resa dall’art. 14 comma 4 l. n. 537 del 1993, sicché deve escludersi la sussistenza di un errore inevitabile su legge penale e la carenza dell’elemento psicologico. — (Omissis).
——————— (1)
La tassabilità dei proventi da attività illecita: presupposti, criteri distintivi ed esistenza di obblighi di dichiarazione.
1.
L’individuazione del problema.
La pronuncia che si commenta (1) ha reso di nuovo attuale il tema della tassazione dei proventi derivanti da attività illecita, anche in considerazione dei re(1)
V., nell’immediatezza del deposito P.M. CORSO, in Corr. trib., 1996, pag. 2392 ss; PERINI, in Il
— 999 — centi mutamenti legislativi (2) delle norme di diritto tributario a seguito dei quali il principio costituzionale di « capacità contributiva » sta ricevendo sconvolgimenti e mutamenti nella sua applicazione concreta. Al fine di ricostruire l’attuale dato normativo e per meglio comprendere le soluzioni cui è giunta la decisione in commento, si rende opportuna una preliminare rassegna di opinioni dottrinali e di decisioni giurispruzenziali sul problema, per determinare, in particolare, se ed entro quali limiti coordinare la disciplina tributaria con le sanzioni amministrative o penali connesse all’illiceità dell’attività posta in essere dal soggetto (3). Il quesito cui ha dovuto rispondere nuovamente la Corte di Cassazione era il seguente: sono sottoponibili a tassazione le attività illecite, così come tutte le altre attività produttive di un incremento patrimoniale, oppure tali attività saranno sottoposte solamente alla legge penale; in caso di risposta positiva tali somme dovranno essere annotate in contabilità ed in caso di omissione scatteranno le sanzioni previste dalla l. n. 516 del 1982. A questo primo quesito si aggiungeva quello non secondario dell’applicazione temporale dell’art. 14 comma 4 della l. n. 357 del 1993: applicazione solo per il futuro o fin dall’entrata in vigore del T.U.I.R.? 2.
Il concetto di attività illecita.
Coloro che in passato si sono occupati del problema della tassabilità dei redditi derivanti da attività illecita, hanno analizzato soprattutto il concetto di « attività illecita », attribuendole un’estensione a volte ampia, tale da ricomprendere non solo ogni azione lesiva di altrui interessi penalmente protetti, ma anche comportamenti violativi di norme di qualunque branca del diritto, dei principi del buon costume e dell’ordine pubblico, a volte restrittiva, tale da considerare solo quelle attività che integrano fattispecie sanzionate penalmente. Di fronte a tale eterogeneità di soluzioni dottrinali occorre chiedersi quale « attività illecita » sarà rilevante ai fini della tassazione e quale invece sarà rilevante ai fini dell’applicazione della legge penale. Il problema di sottoporre a tassazione gli incrementi patrimoniali comunque ottenuti dal soggetto, indipendentemente dalla liceità o meno della fonte è stato sentito fin dal secolo scorso; nel corso degli anni è però cambiata la tipologia delle attività illecite che l’ordinamento tributario ha tentato di sottoporre a tassazione: si è partiti da ipotesi classiche quali i proventi derivanti dall’esercizio di una casa di prostituzione (4), o dalla gestione di una casa da gioco (5), fino a considerare i profitti derivanti dalle frodi petrolifere, dalla cessione di fatture per operazioni esistenti (6), da lottizzazioni abusive, da contraffazioni di marchi e di brevetti, da attività imprenditoriali non consentite, da contrabbando di argento, e dall’ottenimento di tangenti. fisco, 1996, pag. 8494; nonché CARACCIOLI, Solo le somme confiscate vanno escluse dalla contabilizzazione, in Guida al diritto, 1996, n. 35, pag. 94. (2) Ci si riferisce alla nuova formulazione dell’art. 14 comma 4 della legge n. 537/1993. (3) Sul punto ci permettiamo di rinviare a BERSANI, Tassazione e redditi derivanti da attività illecita, in Rass. trib., 1990, pag. 477 e ss., nonché a PARLATO, Considerazioni sulla tassabilità dei proventi derivanti da attività illecita, in Dir. prat. trib., 1992, pag. 2199 ss.; REGAZZONI, La tassazione dei proventi conseguenti da attività illecite, in Il fisco, 1994, pag. 2250 ss. (4) Cass. 28 dicembre 1871, riportata dal QUARTA, Commento alla legge sulla imposta di ricchezza mobile, Vol. I, Milano, pag. 210; Comm. centr. 29 febbraio 1928; Comm. centr. marzo 1929, in Giur. imp. dir., 1929, pag. 57, 165. (5) Comm. centr. 15 maggio 1955, n. 69752, in Foro it., 1955, III, pag. 272. (6) Comm. trib. di I grado di Torino, n. 13902 del 15 luglio-23 settembre 1985, in Il fisco, 1986, pag. 1105.
— 1000 — Non si può peraltro sottovalutare il fatto che in un assetto economico-giuridico come quello attuale, in cui obblighi e preclusioni si assommano e si moltiplicano, la illiceità del fatto economico — e conseguentemente dell’attività collegata — è sempre più frequente, e soprattutto, non si limita alle ipotesi plateali come quelle accennate ma si configura anche in attività normalmente lecite, ma qualificabili illecite perché, ad esempio, carenti delle autorizzazioni amministrative o contrarie al buon costume. Né va sottovalutato il fatto che il concetto di attività illecita debba intendersi in continua evoluzione, non escludendosi che attività consentite divengano illecite per essersi scoperta la dannosità di un prodotto, ed attività in passato considerate turpi o immorali perdano tale caratteristica (7). In dottrina è stato detto che per aversi attività illecita è necessario che tale caratteristica influenzi l’attività come tale, occorre cioè che riguardi l’oggetto o il fine, e non uno o più atti singoli funzionalmente non collegati con l’intento perseguito dall’imprenditore. È necessario quindi un nesso di funzionalità e di organicità tra illiceità ed attività. Da quanto sopra risulta chiaramente che un singolo atto illecito commesso nell’esercizio dell’impresa, se non collegato funzionalmente con l’attività — e ciò pare del tutto ragionevole — non la contaminerà. Si spiega, in ultima analisi, come possa configurarsi una attività di impresa lecita anche se al suo interno sono stati commessi uno o più atti illeciti, così come può configurarsi un’impresa illecita anche se per ottenere lo scopo criminoso sono stati compiuti atti leciti. Sarà quindi necessario, trovandosi in presenza di attività organizzate e nell’ambito delle quali siano stati commessi fatti integranti reati, rifarsi al concetto di funzionalità visto sopra, in difetto del quale sicuramente l’attività sarà sottoposta a tassazione. Ma anche nel caso in cui si rappresenti questa organicità con l’evento delittuoso, la sicura applicazione della sanzione penale — ed eventualmente della confisca — non può portare ad escludere, a priori, la tassazione (8). Dopo questa breve ma necessaria premessa sul concetto che a nostro parere è fondamentale, devono essere analizzate le posizioni che ha assunto nel corso degli anni — prima delle recenti modifiche al dato normativo — la dottrina, cominciando dalle argomentazioni contrarie alla possibilità di individuare una base imponibile da sottoporre a tassazione nei proventi delle attività illecite. 3.
Gli orientamenti dottrinali contrari alla tassazione.
Gli autori (9) che per primi si sono occupati dell’argomento hanno sostenuto che, mentre è da ritenersi tassabile il reddito prodotto con l’esercizio di attività tollerate, è da escludere qualsiasi imposizione a carico del titolare di un esercizio vietato dallo Stato, e che in tale ipotesi sarebbe veramente assurdo che si com(7) Cfr. Cass. pen., Sez. III, 19 maggio 1986, in Il fisco, n. 23/1986, pag. 3576, in cui dopo aver affermato che l’attività di chiromanzia, astrologia e grafologia non integra il reato di abuso della credulità popolare previsto dall’art. 661 del codice penale e nemmeno l’illecito di ciarlataneria, punito dall’art. 669 del codice penale ed ora depenalizzato ex art. 33, l. 24 novembre 1981, n. 689, giunge alla conclusione che non sono da considerarsi nemmeno turpi o immorali, in quanto « derivano da studi applicativi di certe scienze o da straordinarie forze individuali, e sono ricercate sempre più frequentemente per la soluzione di problemi personali, molto spesso di ordine clinico, ai quali per ora, la scienza non ha potuto fornire gli stessi sussidi ». (8) Cfr. in particolare le conclusioni al punto 6 e 7. (9) QUARTA, op. cit., pag. 210; a tale orientamento che in seguito sarà analizzato compiutamente, si è in seguito aggiunto ROTONDI, Il regime fiscale delle attività illecite, in Riv. Guardia di finanza, 1953, pag. 611.
— 1001 — prendesse tra i redditi, che debbono concorrere alle spese della sociale comunanza, ciò che per legge non potrebbe avere esistenza. Questa ricostruzione consentiva di recuperare a tassazione tutte quelle attività che, pur illecite perché mancanti di autorizzazioni o licenze, non erano in contrasto con il diritto penale. Da parte di altra dottrina (10) ancor più radicalmente, si è sottolineato come il presupposto di fatto, cioè la causa giuridica di un’obbligazione tributaria, non possa, in alcun modo, essere costituito da un fatto illecito, civile, amministrativo o penale, compiuto dal soggetto passivo dell’obbligazione. In tale ottica si è ritenuto che quando da un fatto illecito sorge l’obbligo di soddisfare una prestazione pecuniaria, questa ha carattere di sanzione e non di tributo, in quanto si ricollega alla funzione punitiva dello Stato, non alla sua attività finanziaria. La causa giuridica del pagamento è costituita nel « fatto illecito », ma si tratta di un’obbligazione penale e non tributaria. Contraria alla tassabilità, ma limitatamente alle ipotesi in cui l’illecito integri una fattispecie penalmente rilevante, è inoltre la dottrina che (11) dopo aver ricordato come il fondamento del tributo è stato generalmente ravvisato in un principio etico, evidenzia le differenze tra illiceità obiettiva assoluta, consistente ad esempio nel furto, ed illiceità relativa, consistente nel compimento di attività generalmente lecite e permesse dalla legge ma che possono essere vietate a taluni soggetti per ragioni diverse, quali ad esempio l’esercizio abusivo di professioni per cui è normalmente prevista l’iscrizione ad un albo o il superamento di un esame. Mentre nel primo caso si pone in essere una situazione delittuosa per cui sarebbe assurdo parlare di diritto a percepire un reddito e, consequenzialmente, di diritto dello Stato all’imposizione fiscale, nella seconda ipotesi, pur potendo la condotta integrare gli estremi di un reato non si esclude in senso assoluto il diritto a percepire il compenso della prestazione, sia pure abusivamente data e, consequenzialmente, non si esclude la legittimità dell’imposizione fiscale (12). La distinzione si ricollega a quella effettuata dalla stessa Cassazione fra violazioni « naturali » quali l’omicidio, il furto, le lesioni personali, la truffa, e le c.d. « fattispecie a creazione legislativa », le quali sono sanzionate solo a seguito di particolari regolamentazioni legislative. Negli ultimi anni il problema si è riproposto nei confronti di fattispecie (13) ben specifiche quali le « frodi petrolifere » ed il pagamento delle cosidette ‘‘tangenti’’, cioè di proventi conseguiti a seguito di condotte che integrano fattispecie criminose sanzionate penalmente. Anche in questi casi la dottrina si è espressa in senso contrario alla tassazione, sulla base della considerazione, non nuova per la verità (14), che tale pretesa verrebbe a legittimare in capo al soggetto, il possesso del reddito illecito (15). (10) TESORO, Principi di diritto tributario, Macrì, 1938, pag. 175. (11) ROTONDI, op. cit., pag. 611. (12) ROTONDI, op. cit., pag. 611. (13) CROCE, In tema di illecite attività: falsa fatturazione e frodi petrolifere, intassabilità dei relativi proventi, in Boll. trib. di inf., 1982, pag 769. (14) Tale considerazione era già stata espressa da ROTONDI, op. cit., pag. 615; sulla irrilevanza di tale circostanza cfr. FORTE, Sul trattamento fiscale delle attività illecite, in Riv. dir. fin. e scienze finanziarie, 1952, pag. 121, il quale ha affermato che « lo Stato prelevando una quota delle ricchezze illecitamente e turpemente conseguite non si fa complice di una attività contraria al diritto ed alla morale pubblica poiché non assorbe tali lucri a titolo di corrispettivo né assume l’impegno di fornire per la loro riproduzione una protezione sociale od un compiacente non intervento. Esso si limita a chiedere a membri della collettività forniti di capacità contributiva che compiano il loro dovere fiscale alla stessa stregua degli altri cittadini parimenti capaci. La massa di vantaggi che si ritrae da una convivenza sociale è da sola sufficiente a sommergere qualsiasi considerazione relativa agli eventuali danni o vantaggi ricevuti in relazione ad una singola attività fonte di reddito e soggetta a tributo ».
— 1002 — Tali autori meritano però menzione perché hanno posto a sostegno delle loro soluzioni specifiche norme tratte dal diritto positivo, sottolineando come ad evitare che il soggetto autore dell’illecito resti in possesso degli incrementi patrimoniali derivanti da tale attività, l’ordinamento giuridico ha predisposto altri mezzi diversi dalla tassazione, tutti tendenti ad impedire che il reo consegua un utile economico da un’attività penalmente perseguibile. Tali misure consistono nella confisca (art. 240 del codice penale), nel risarcimento del danno (2043 del codice civile), nelle restituzioni (art. 185 del codice penale) e nel pagamento delle somme di cui all’art. 191 del codice penale. In particolare l’art. 240 del codice penale tende a prevenire la commissione di nuovi reati mediante l’espropriazione a favore dello Stato di cose che, provenendo da fatti illeciti o collegandosi alla loro esecuzione, manterrebbero viva l’attrattiva del reato. Esso ha per oggetto le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e quelle che ne sono il prodotto o il profitto. Viene inoltre posto in rilievo come, comunque, l’istituto della confisca, non lasciando margine di discrezionalità al magistrato per quanto riguarda le cose che costituiscono il prezzo del reato, impedisce al reo di disporre del prodotto del reato eventualmente residuante al pagamento delle obbligazioni civili nascenti dal crimine; mancando la materiale disponibilità del profitto la tassazione non appare giustificata (16). In un’ottica parzialmente diversa, anche se con identica soluzione, si sono collocati quegli autori (17) che hanno sostenuto che la fattispecie in esame verterebbe nel campo delle obbligazioni ex delicto, la cui sorte è regolata dal combinato normativo degli artt. 1173 e 2043 del codice civile e dagli artt. 185 e 189 del codice penale. Il disposto dell’art. 1173 del codice civile (« Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito o da ogni altro fatto idoneo a produrle in conformità all’ordinamento giuridico ») precisa che il fatto illecito è una fonte delle obbligazioni; l’art. 2043 del codice civile (« qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno »), fa nascere in capo al soggetto attivo l’obbligo di risarcimento. Le norme penali ribadiscono tali principi all’art. 185 (ogni reato obbliga alla restituzione a norma delle leggi civili), ed all’art. 189. La lettura, in combinato delle norme citate evidenzia, secondo tale interpretazione, la natura di fonte del rapporto obbligatorio del fatto illecito, con ciò venendo automaticamente ad escludere la sua possibile ricomprensione fra le fonti di produzione del reddito, data l’impossibilità di coesistenza del concetto di reddito con l’obbligo di restituzione. Pertanto, il frutto dell’illecito, non « potendo assolutamente entrare de iure nella sfera patrimoniale del soggetto agente (cioè nella sua disponibilità giuridica) non può assumersi quale figura di incremento di patrimonio che costituisce la de(15) CROCE, op. cit., pag. 773; tale principio si può ricavare anche da autorevole giurisprudenza: Comm. centr., Sez. II, 3 marzo 1965, n. 74027, in Boll. trib., 1965, pag. 1852. (16) CROCE, op. cit., pag. 773; a fondamento della tesi del Croce, e più in generale di coloro contrari alla tassazione dei redditi da attività illecite, si può aggiungere che quando il legislatore ha voluto colpire gli introiti da attività criminosa ha sempre usato lo strumento della confisca o istituti simili: è sufficiente pensare alla l. 13 settembre 1982, n. 646, più conosciuta come legge La Torre o legge antimafia, la quale all’art. 14 intendendo dotare di strumenti maggiormente incisivi l’autorità giudiziaria nella lotta contro il fenomeno della criminalità organizzata di tipo mafioso, ha disciplinato il sequestro e la confisca delle risorse attraverso cui il criminale esplica la propria attività: cioè il patrimonio illecito accumulato e per lo più reinvestito in attività economiche lecite o comunque intestate fittiziamente a familiari o società fiduciarie. (17) BELLINI, Fatto illecito ed imposizione tributaria, in Boll. trib. di inf., 1985, pag. 1112.
— 1003 — finizione economica del reddito e, di conseguenza, il presupposto dell’imposizione tributaria » (18). Tale conseguenza deriva dal fatto che nel nostro ordinamento la sanzione penale e l’imposta assolvono ciascuna ad una funzione propria: la prima ha scopi di prevenzione e repressione, la seconda di attuare un prelievo presso le economie individuali a favore dello Stato ma, dove entra in funzione la sanzione penale con tutte le sue conseguenze, non rimane spazio per il tributo. Quindi in definitiva, secondo tale dottrina, un unico presupposto (il fatto illecito) non può costituire la fonte di due obbligazioni geneticamente diverse (quella tributaria e quella restitutoria) da parte del medesimo soggetto (lo Stato). 4.
La Dottrina favorevole alla tassazione dei proventi da attività illecita.
Nel panorama dottrinale non mancano i sostenitori della soluzione favorevole alla tassazione dei redditi derivanti dall’esercizio di attività illecite, ma anche in questo schieramento sono diverse le vie seguite per giungere a tale conclusione. Si è delineata in primo luogo una c.d. « teoria economica » (19) — cui sembra aver aderito implicitamente la Suprema Corte nella sentenza che si annota — che, rifacendosi a concetti e principi propri dell’economia, ha preliminarmente affermato che l’eventuale illiceità morale, civile o penale dell’attività produttiva non esclude la tassabilità del reddito così ottenuto, poiché esso non è un dato giuridico ma unicamente economico, per cui unica condizione per la tassabilità è l’esistenza del medesimo. Secondo tale impostazione, la causa dell’obbligazione tributaria consiste nella « partecipazione al godimento della protezione sociale dello Stato da parte del singolo, ma in quanto fondamento dell’esplicazione concreta del potere finanziario stesso, secondo le fattispecie previste dal Legislatore per i singoli tributi, consiste nella capacità contributiva, ossia nell’attitudine a sostenere delle decurtazioni di ricchezza in relazione alla funzione del singolo prelievo » (20). Pertanto anche i soggetti che traggono i loro proventi da attività illecite, turpi o criminose, che lo Stato non solo non protegge, ma in alcuni casi punisce e riprova, devono pagare i tributi in quanto, anche se la provenienza di tale reddito non è lecita, essa costituisce comunque una ricchezza e quindi integra la causa del pagamento del tributo. A questa concezione « economica » si contrappone una teoria che fa maggiormente riferimento a principi giuridici (21). Si è detto infatti che il tributo va riscosso in base al principio di uguaglianza a parità di capacità contributiva: così come è tenuto al pagamento dell’imposta chi produce ricchezza nel rispetto delle leggi, non si vede perché colui che alla società reca un danno ponendo in essere attività vietate debba sottrarsi anche all’imposizione fiscale. Si è pertanto ritenuto che non sarebbe consentito considerare elementi del (18) BELLINI, op. cit., pag. 1115. (19) La soluzione era già stata fomulata nel precedente studio: cfr. BERSANI, op. cit., passim; nell’ambito della c.d. « teoria economica » possono classificarsi FORTE, Sul trattamento fiscale delle attività illecite, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1952, pag. 119 e ss.; BERLIERI, Principi di diritto tributario, Vol. II Milano, 1972, pag. 100; GIANNETTA-SCANDALE-SESSA, Teoria e tecnica dell’accertamento del reddito mobiliare, III ed. Roma 1966, pag. 15 e ss.; ZAPPALA-LANZA, Imposte sui redditi mobiliari, pag. 67; CROCIVERA, Guida alle imposte dirette, III ed. Torino 1956, pag. 394; LIGUORI, Circa la tassabilità dei redditi derivanti da attività illecita, in Giur. imp. dir., 1952, pag. 351. (20) FORTE, op. cit., pag. 120. (21) MASI, Tassabilità di proventi nelle attività illecite, in Il fisco, 1987, pag. 2038; MANGIONE, Contrabbando, finanze regionali e poteri amministrativi delle regioni ordinarie, in Rivista penale, 1972, pag. 418.
— 1004 — fatto fiscale diversi dalla capacità contributiva stessa (quali l’eventuale illiceità) per sottoporlo a trattamento più grave o più tenue, e ciò non sarebbe consentito in quanto la Costituzione non si è accontentata di dire che tutti sono uguali davanti alla legge, ma ha voluto sottolineare che, esistendo anche in campo finanziario, tale uguaglianza è data dalla capacità contributiva. Dal che si ricava che in tale campo la giustizia e l’uguaglianza di fronte alla legge, caratteristiche proprie di uno Stato di diritto, derivano dall’attitudine dei soggetti a sopportare le imposte in base alla loro ricchezza. Le obiezioni di chi sosteneva l’inconciliabilità di due obbligazioni, restitutoria e civile, per lo stesso fatto, con prevalenza della misura penalistica, sono state superate da altri autori dimostrando come nel nostro ordinamento non siano poche le ipotesi in cui allo stesso tempo si ha la configurazione di un fatto come reato e come fatto generatore dell’obbligazione tributaria (22): ad esempio gli artt. 28, ultimo comma del testo unico 8 luglio 1924 sulla birra e 26, ultimo comma, del testo unico sullo zucchero, giungendo alla conclusione che se un simile regime è previsto espressamente in materia di imposta di fabbricazione, analogo regime si deve ritenere adottabile nella materia delle imposte sui redditi (23). Alle due correnti di pensiero più radicali si può aggiungere una posizione intermedia alla quale peraltro appartengono autorevoli autori (24). In tale contesto si colloca chi (25) ha sostenuto che sono tassabili i redditi derivanti dall’esercizio di attività moralmente o giuridicamente illecite, ma tale illiceità deve avere riguardo alla forma o al soggetto: gli esercizi di commerci leciti, ma abusivi perché privi della prescritta licenza, sono da considerare, secondo tale dottrina, un illecito formale; l’esercizio abusivo di un’attività lecita da parte di chi non può ottenere la concessione perché subordinata al superamento di un’abilitazione rappresenta un illecito soggettivo. Tali attività sarebbero quindi sottoposte a tassazione solo in quanto non integrano gli estremi di attività vietate dalla legge penale. 5.
Gli orientamenti giurisprudenziali.
Le contrapposizioni dottrinali hanno avuto la loro manifestazione più evidente nelle pronunce giurisprudenziali. Nel remoto passato la giurisprudenza si è espressa in senso contrario all’imposizione dei proventi di attività illecite. In particolare nel caso di redditi derivanti dal meretricio, nella vigenza del codice civile del 1865, la giurisprudenza ha affermato che è da considerare ripugnante che « i proventi del mercimonio, privo di protezione governativa e riprovato dalla legge, siano sottoposti a tributo, che in ogni Stato bene organizzato è razionalmente il corrispettivo della protezione sociale » (26). Tale orientamento è stato seguito per parecchi anni nel corso del secolo scorso sulla base più di considerazioni di carattere generale che di precise norme di legge. In particolare si è affermato che « un reddito per essere tassabile deve essere legalmente dovuto » (27); che « non è suscettivo d’imposta quel reddito che uno si procaccia compiendo fatti illeciti vietati e puniti dalla legge » (28), e che « i red(22) (23) (24) (25) (26) (27) (28)
Cfr. MANGIONE, op. cit., pag. 42 I; contra BELLINI, op. cit., pag. 1115. Cfr. in tal senso MANGIONE, op. cit.. Cfr. GRIZIOTTI, op. cit.; ROTONDI, op. cit. Cfr. ROTONDI, op. cit., pag. 611. Corte di Cassazione di Firenze, 25 marzo 1871, riportata dal QUARTA, op. cit., pag. 210. Cass. 1 febbraio 1875 e 27 aprile 1877. Comm. centr. 19 giugno 1880, n. 60568.
— 1005 — diti di industrie illegalmente esercitate sono tassabili quando tale esercizio non sia vietato per ragioni di moralità pubblica » (29). Merita particolare considerazione il fatto che nella più remota giurisprudenza le massime sono contrastanti per quanto riguarda determinate fattispecie (30), ma escludono senza perplessità l’imposizione tributaria dei lucri derivanti da attività vietate dalla legge penale, pur sottoponendo a volte a tassazione quelle illecite perché prive di licenza o autorizzazione o quelle tollerate come la prostituzione. Successivamente si è registrato un cambiamento degli orientamenti giurisprudenziali ed amministrativi ed in tale ottica si inserisce una sentenza della Corte di Cassazione che, analizzando il problema della « liceità » o « illiceità » della materia imponibile, ha affermato che « la legge organica prende in considerazione solo la manifestazione economica nella sua obiettività, indipendentemente da ogni riferimento alla natura dell’attività che genera il reddito. I caratteri di tale attività, compresa la liceità o meno, sono irrilevanti per il diritto ad esigere l’imposta, che sorge per il solo fatto dell’esistenza di un reddito nel senso già precisato. Il reddito qualunque sia la fonte, per il solo fatto della sua esistenza materiale, è soggetto all’imposta. La illiceità penale o civile dell’attività che la produce o la mancanza di una specifica licenza o autorizzazione non fa venir meno la manifestazione economica nella sua oggettività e, quindi, la esistenza stessa del reddito. Né può ammettersi che il reddito ricavato dall’esercizio di attività che concretano illeciti civili o penali debba anche godere dell’esenzione dell’imposta con evidente inammissibile vantaggio di chi la svolge, attuando una inconcepibile sperequazione tributaria nei riguardi di chi il reddito ricava dall’esercizio di attività illecite » (31). Il ragionamento compiuto dalla Suprema Corte ricalca, in sostanza, quello compiuto dalla dottrina che abbiamo classificato come « economica » e che assumeva, fra coloro che sostenevano la tassabilità, la posizione più drastica, ricomprendendo nella base imponibile il ricavato comunque ottenuto. L’autorevole precedente è stato seguito, a distanza di una decina d’anni, da una decisione della Commissione centrale (32) che in merito ai redditi derivanti dal contrabbando di sigarette ne ha affermato la tassabilità. La Commissione ha preliminarmente rilevato come nel nostro ordinamento non sussista alcuna norma che escluda dalla tassazione tali incrementi di ricchezza e come ai fini della tassazione rilevi solo il fatto economico della produzione del reddito, indipendentemente dal rapporto giuridico sottostante e dall’eventuale esercizio dell’azione penale. Ha inoltre precisato, a nostro avviso giustamente, che l’incremento patrimoniale deve essere dimostrato e deve essere nella materiale disponibilità del soggetto; conseguenza inevitabile è che, se il reddito viene confiscato, in applicazione della legge penale, cessa ogni questione in ordine alla sua tassabilità per inesistenza della materia imponibile. La massima che si ricava ha il vantaggio di conciliare due diversi orientamenti e due diverse esigenze. Gli orientamenti sono quelli di coloro che escludono la tassazione dei redditi derivanti da reato in quanto sottoposti a misure penali, dimenticando che in concreto non è sempre facile riuscire a provare il collegamento di un’utilità economica o di un qualsiasi aumento patrimoniale alla commissione di un reato, e quello di coloro che chiedono la tassazione sulla base del semplice possesso. (29) Comm. centr. 21 febbraio 1886, n. 83213. (30) È infatti da evidenziare come se, nel 1871 i lucri derivanti dall’esercizio di una casa di meretricio erano esclusi dalla tassazione, siano stati ritenuti reddito tassabile nel 1928. Cfr. Comm. centr. 29 febbraio 1928 e 2 marzo 1929, in Giur. imp. dir., 1929, n. 158 e in Giur. it., 1929, III; Comm. centr. 1 marzo 1923 in Giur. it., 1923 III I 10; Comm. centr. 4 novembre 1929 in Giur imp. dir., 1930, pag. 126. (31) Cass. Civ. 30 luglio 1952, in Giur. cass. civ., 1953, III, n. 3144. (32) Comm. centr. 3 marzo 1965, n. 74027, in Boll. trib. inf., 1966, pag. 1852.
— 1006 — Le due esigenze sono quelle di garantire l’applicazione puntuale della legge penale e di evitare che, quando questa applicazione sia impossibile, e quindi non si abbia la confisca di quanto ottenuto illecitamente, il soggetto sfugga anche all’imposizione tributaria. Va peraltro sottolineato, come durante gli anni ottanta la Corte di Cassazione penale abbia inaugurato un filone interpretativo contrario alla soluzione più sopra indicata; in due pronunce del 1984 e del 1986 (33) anche se incidentalmente, ha aderito allo schieramento dottrinale che afferma l’intassabilità dei proventi da reato. In particolare nella sentenza del 1986, dopo aver affermato l’assoggettabilità in via di principio al prelievo diretto ed indiretto dei redditi derivanti dall’esercizio di chiromanzia, astrologia e grafomania in quanto tali attività sono da considerarsi lecite ed i relativi proventi inquadrabili come redditi di lavoro autonomo, ha chiarito come ai fini dell’assoggettabilità di un reddito al prelievo fiscale il Legislatore stabilisce che esso può provenire da qualsiasi fonte, ma tale espressione va interpretata alla luce dell’intero ordinamento giuridico per cui, salvo specificazione legislativa espressa, deve essere ricondotta nei confini della regola generale della liceità della causa. In tempi recenti si sono però registrate diverse decisioni che, non uniformandosi agli autorevoli precedenti, hanno ricreato un clima di incertezza. In particolare soprattutto le Commissioni tributarie hanno negato rilevanza tributaria ai redditi da attività illecita, ciò senza addurre motivazioni nuove, ma, chi più chi meno, rispolverando le stesse motivazioni della dottrina o della giurisprudenza passata (34). Nell’ambito del filone favorevole alla tassabilità va tuttavia ricordata una decisione della Commissione tributaria di primo grado di Milano, in cui si afferma che « il presupposto dell’imposta è costituito dal reddito comunque prodotto, indipendentemente da ogni riferimento alla natura dell’attività produttiva » (35). Ma l’aspetto più importante è che alla base di tale enunciazione vi è un reddito che derivava dall’illecita attività di emissione di fatture per operazioni inesistenti e sul presupposto logico che tale attività venisse esercitata a fine di lucro con un utile pari al 15% del totale delle fatture emesse, la Commissione ha ritenuto l’accertamento fondato. Va peraltro evidenziato come l’emissione di fatture per operazioni inesistenti integrava una fattispecie delittuosa prevista dall’art. 50, comma 4 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 che recitava: « Chi emette fatture per operazioni inesistenti o indica nelle fatture i corrispettivi e le relative imposte in misura superiore a quella (33) Cfr. Cass. 15 ottobre 1984 n. 5170, in Rass. trib., 1984, 11, pag. 574; Cass. 29 gennaio 1986, n. 179, in Il fisco, 1989, pag. 3756. Nella pronuncia del 1984 il problema è stato risolto sulla base della considerazione, già svolta in dottrina, dell’impossibile consistenza fra le due obbligazioni restitutoria e tributaria da parte dello stesso soggetto (lo Stato) e sulla base dello stesso elemento genetico. In particolare si è affermato che « l’obbligazione restitutoria scaccia quella tributaria », e qualora determinati proventi traggano la loro fonte dalla consumazione di un reato « non sussistono redditi da tassare, ma frutti di reato da confiscare ». (34) Si sono espressi nel senso contrario alla tassazione: Comm. trib. I grado di Treviso, 26 febbraio 1982, n. 428, in Codice imposte dirette IPSOA; Comm. trib. I grado di Torino, 15 luglio 1985, n. 13902, in Codice imposte dirette IPSOA, e in Il fisco, n. 8/1986, pag. I 105; Comm. trib. II grado di Firenze, 30 settembre 1986, n. 10 I 9, in Codice imposte dirette IPSOA; Tribunale di Vicenza, sentt. del 20 maggio 1988, nn. 280 e 283 in Corr. trib., 1988, pagg. 3492 e 3493; Corte di Appello di Milano 29 giugno 1989, in Corr. trib., 1989, pag. 401; Tribunale di Treviso, sentenza del 9 ottobre 1987; Comm. trib. II grado di Bari, 1 febbraio 1984; si sono invece espresse in senso favorevole: Comm. trib. I grado di Milano, 29 maggio 1981, in Boll. trib. di inf., 1982 pag. 883 e Codice imposte dirette IPSOA; Comm. trib. di II grado di Ravenna, 26 giugno 1986, n. 309; Comm. trib. di II grado di Firenze, 24 gennaio 1989, in Corr. trib., 1989, pag. 1050. (35) In tal senso Comm. trib. di I grado di Milano, 29 maggio 1981, cit.
— 1007 — reale è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da lire 100.000 a lire un milione ». Di uguale interesse — in quanto anticipatrice della scelta legislativa del 1993 — è una decisione della Commissione tributaria di secondo grado di Firenze (36); la massima che si può ricavare da tale decisione è che la tassabilità dei proventi da attività illecita deve ritenersi ammessa a patto che tali redditi siano accertati e ricondotti in una delle categorie previste dal Legislatore. Ed anche in questo caso l’incremento patrimoniale derivava da attività penalmente sanzionate, cioè da truffe operate dal soggetto e per le quali non si era avuta condanna in quanto il procedimento era estinto e derubricato per amnistia. Nel caso di specie la classificazione era stata compiuta accogliendo le segnalazioni della Guardia di Finanza e degli Uffici finanziari, ed includendo tali redditi nell’art. 1 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 (37) che recitava: « Presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso dei redditi, in denaro o in natura, continuativi od occasionali, provenienti da qualsiasi fonte ». La locuzione « qualsiasi fonte » prevista dall’art. 1 del D.P.R. n. 597 del 1973 era dunque intesa nel senso che la fonte di produzione del reddito per il Legislatore fiscale sarebbe indifferente, ed un unico elemento necessario per sottoporre il reddito all’imposizione fiscale, consisterebbe nel « possesso » del reddito, cioè nella materiale disponibilità. Gli autori contrari alla tassazione hanno sottolineato come la locuzione « provenienti da qualsiasi fonte » doveva essere letta nel senso di « provenienti da qualsiasi fonte purché lecita », costituendo appunto un limite tacito alla tassabilità. Con l’eliminazione nel testo unico delle imposte sui redditi D.P.R. n. 916 del 1987 dell’espressione in discorso e con la sua sostituzione con la semplice previsione che « presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura nelle categorie indicate nell’art. 6 » il Legislatore avrebbe optato per una chiara, inequivoca e tassativa elencazione delle categorie reddituali sottoposte a tassazione (38). D’altra parte nella vigenza del D.P.R. n. 597 del 1973 questo non è stato l’unico fondamento normativo per giustificare la tassazione: sempre a proposito di redditi derivanti da attività penalmente rilevanti gli Uffici finanziari avevano ritenuto di classificarli sotto la voce « altri redditi » prevista dall’art. 80 del D.P.R. n. 597 del 1973 cioè con la norma con cui il Legislatore tributario operava una chiusura totale del sistema, sottoponendo ad imposta le attività non esercitate abitualmente ed ogni altro reddito diverso da quelli espressamente considerati nel testo legislativo (39). Anche per quanto riguarda questa possibilità il Legislatore tributario del 1986 ha posto all’art. 81 un elenco di cespiti che derivando dal lavoro, dal capitale o dalla combinazione dei due fattori della produzione, non lasciano spazio alcuno per proventi conseguiti con attività illecita. (36) Cfr. Comm. trib. di II grado di Firenze, 24 gennaio 1989, cit. (37) Comm. trib. di I grado di Treviso, 26 febbraio 1982, cit., nonché Tribunale di Vicenza, 20 maggio 1988, n. 280 cit. (38) FERRAÙ, Tassabilità dei proventi da reato e nuovo testo unico IRPEF, in Corr. trib., 1989, pag. 388. Il riferimento al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 contenuto anche in Corte d’Appello di Milano 29 giugno 1989, op. cit., pag. 403. Tale considerazione è peraltro inopportuna in quanto, dovendo la Corte decidere se in un caso di contrabbando di prodotti petrolchimici e petroliferi, potesse configurarsi in capo all’imputato l’obbligo di dichiarare i redditi così ottenuti l’unica normativa a cui riferirsi era il D.P.R. 597/1973, essendo redditi prodotti negli anni 1976, 1977 e 1978. Pertanto, in conformità al principio sancito dall’art. 20 della l. n. 4/1929 se in base al D.P.R. n. 597/1973 si configuravano ipotesi delittuose, unico riferimento opportuno è a tale legge, mentre fuori luogo appare il richiamo al nuovo testo unico delle imposte sui redditi. (39) Cfr. Comm. trib. I grado di Torino, 15 luglio 1985, n. 13902 cit.; Comm. trib. di II grado di Firenze, 30 settembre 1986, cit.
— 1008 — Così operando il Legislatore avrebbe individuato il presupposto reddituale dei redditi diversi in svariate attività, purché non di provenienza illecita, e per evitare di creare incertezza negli operatori giuridici, sul concetto di attività lecita anche nell’art. 81 ha specificatamente indicato i redditi che rientrano in tale categoria (40). Va sottolineato, anche per ragioni di completezza, che la tesi della intassabilità — così come ricordata nella sentenza che si annota — è stata fatta propria anche dalla Corte di giustizia delle Comunità europee (41), in una ipotesi di illegale importazione di sostanze stupefacenti e di conseguente discussa applicabilità dell’I.v.a. Ci si è in sostanza chiesti se l’importazione clandestina di sostanze stupefacenti generalmente riconosciute dannose e di cui sia vietata l’importazione e lo smercio salvo il commercio controllato, in vista di un uso autorizzato a scopi medici, sia sottoposto a tassazione. E la risposta è stata che un debito tributario non può derivare dall’importazione di stupefacenti non idonei ad essere messi in commercio e ad integrarsi nell’economia comunitaria in quanto il momento in cui sorge l’obbligazione doganale deve essere definito tenendo conto del carattere economico dei dazi all’importazione delle circostanze nelle quali le merci vengono integrate nell’economia della Comunità. Stando così le cose non può derivare alcuna obbligazione doganale dall’importazione di stupefacenti compresi nel circuito illegale che, appena scoperti vanno sequestrati e distrutti, anziché essere messi in circolazione (42). Nonostante che da parte di alcuni giudici tributari si cominciasse ad ammettere la tassabilità, le sentenze della Corte di Cassazione più sopra sommariamente ricordate, erano tuttavia costanti nel ritenere che non si potesse configurare nel nostro ordinamento il principio dell’ammissibilità della tassazione dei proventi derivanti da reato, sulla base dell’assunto che « il pretium sceleris non può essere considerato reddito in senso tecnico tributario » (cfr. le sentenze della II Sezione penale della Corte di Cassazione 15 ottobre 1984 n. 5170; 29 gennaio 1986 n. 179; 20 novembre 1991 n. 2475). Secondo tale orientamento, le conseguenze patrimoniali che scaturiscono dal reato, quali l’obbligo di restituzione, il risarcimento del danno e la confisca delle cose che costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo del reato sono incompatibili con l’obbligazione tributaria, sicché « le due pretese, tributaria e restitutoria, non possono coesistere e insistere sul medesimo elemento genetico ». La Corte di Cassazione, con la sentenza 24 giugno 1992 n. 9405, ribadendo il principio che esclude la possibilità di assoggettare a tributo dei proventi illeciti, si è tuttavia discostata dal precedente orientamento, affermando — secondo quanto già sostenuto in tempi non sospetti (43) — che il principio meriterebbe di una rimeditazione, con riferimento a quei casi in cui in sede penale non si pervenga all’adozione di alcuna misura ablativa. Questa soluzione, scaturita forse sulla base della considerazione — fondata su di un sano pragmatismo — che è illusorio pensare di confiscare tutti i proventi dell’attività illecita — anche perché spesso non si raggiunge la prova di tale illiceità — ha provocato l’intervento delle Sezioni Unite che si sono espresse sulla questione con la sentenza in data 12 novembre 1993 n. 18, le cui motivazioni sono state rese note in data 8 marzo 1994. (40) FERRAÙ, op. cit., pag. 388. (41) Sent. 28 febbraio 1984, in causa E. c. H., in Corte Giust. comm. eur., 1984, pag. 1177. (42) Sent. 26 ottobre 1982 in causa E. c. H. (domanda di pronuncia pregiudiziale) in Corte Giust. comm. eur., 1984, pag. 3707. (43) Ci permettiamo di rinviare alle conclusioni da noi esposte in Tassazione e redditi derivanti da attività illecita, op. cit., pag. 492.
— 1009 — Le SS.UU. penali dopo rassegna delle opinioni dottrinali espresse pro e contro la tesi della tassazione dei proventi illeciti hanno aderito alla soluzione negativa. Il riaffermato principio della non tassabilità si fondava, anche in tale occasione, sulla considerazione — già più sopra analizzata — che la ricchezza che promana da un’attività illecita non può ricondursi al concetto di reddito al quale si riferisce il Legislatore fiscale. Il fatto di reato — rilevavano le SS.UU. — si pone nell’ordinamento come un vulnus più o meno lacerante, al quale la legge collega precise conseguenze (privazione della libertà, restituzione, risarcimento del danno, confisca), tutte incompatibili con l’imposizione fiscale, in quanto « la restituzione, il risarcimento del danno, l’obbligatorietà della confisca in alcuni casi e l’esercizio del potere discrezionale di disporla in altri casi non lasciano davvero spazio al Legislatore tributario per apprezzare in un certo modo la ‘‘ricchezza novella’’ che abbia la sua genesi nel reato e per selezionarla come reddito ». Queste misure producono l’effetto di cancellare la fonte reato, sicché appaiono incompatibili « con il prelievo fiscale, il quale, per sua natura, importa l’assorbimento di una parte e non la eliminazione, mediante ablazione, di tutta la ricchezza ». Le SS.UU. contrapponevano alla c.d. « teoria economica » — che trova il suo fondamento nell’art. 53 della Costituzione secondo cui « tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in base alla capacità contributiva » — la circostanza che detto principio deve intendersi in un più ampio contesto e correlato con altri principi di pari rilievo costituzionale. Fra questi — e tali riferimenti costituzionali sono stati utilizzati anche dalla pronuncia della III Sezione penale riportata in epigrafe — destano particolare interesse, secondo le SS.UU., quelli desumibili dagli artt. 1, 41, e 2 della Costituzione. All’art. 1 si statuisce che « L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro », laddove per lavoro non può che intendersi un’attività lecita e quindi degna di assurgere a fondamento della Repubblica; all’art. 41 si precisa che l’attività economica « non può svolgersi » in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Non vi è dubbio — secondo la Suprema Corte — che l’attività economica illecita collida con l’utilità sociale e ai valori richiamati dalla citata norma costituzionale. Ne consegue che, se ne è vietata la nascita e lo sviluppo, a maggiore ragione deve ritenersi impraticabile il prelievo fiscale sul provento che ne scaturisca, all’art. 2 si statuisce che « la Repubblica ...richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale ». Poiché la partecipazione alle spese pubbliche è espressione di solidarietà sociale, come si può chiedere l’assolvimento di questo dovere proprio a colui che con la sua condotta ha assunto una posizione di netta contrapposizione nei confronti dei diritti inviolabili dell’uomo. Le Sezioni Unite osservavano, poi, che la politica criminale degli ultimi anni si è costantemente orientata a colpire con le misure ablative le ricchezze prodotte da attività illecite. Tutta la normativa antimafia si colloca in questa prospettiva. In tale ottica sono infatti l’art. 2-ter della l. 31 maggio 1965 n. 575 recante « Disposizioni contro la mafia » (che prevede la possibilità di sequestrare i beni di coloro nei confronti dei quali sia iniziato un procedimento volto all’applicazione di una misura di prevenzione perché indiziati di appartenere ad un’associazione di tipo mafioso, quando si ha motivo di ritenere che detti beni siano frutto di attività illecite o ne costituiscono il reimpiego. Al sequestro segue le confisca, quando il procedimento si conclude con l’applicazione della misura di prevenzione e non viene dimostrata la legittima provenienza dei beni in sequestro) e l’art. 416-bis del codice penale, ove si prevede che alla condanna inflitta per l’appartenenza ad associazione di tipo mafioso segua la « confisca obbligatoria delle cose che servirono o
— 1010 — furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego ». Pertanto la confisca diventa obbligatoria anche per il prodotto o il profitto del reato, in relazione ai quali la disciplina generale dell’art. 240 c.p. prevede la confisca facoltativa, così che — aggiungevano le Sezioni Unite — « non è inopportuno ricordare che per cose che costituiscono il prezzo, il profitto o il prodotto del reato debbono intendersi anche gli oggetti dell’indebito arricchimento conseguito con i reati scopo dell’associazione, nonché — e la precisazione è di notevole rilievo per il problema che si sta trattando — ciò che sia stato guadagnato con attività economiche formalmente lecite, ma gestite mercé l’esercizio di intimidazione mafiosa ». A tale considerazione si aggiungeva che « L’estensione, inoltre, della confisca delle cose che costituiscono ‘‘impiego’’ del prezzo, del prodotto o del profitto del reato si propone, innegabilmente, di colpire ogni reinvestimento successivo dei profitti delittuosi e degli stessi utili dell’impresa mafiosa e, pertanto, anche le destinazioni sostanzialmente lecite delle utilità ». Nel corso degli anni alle norme sopra citate si aggiungevano gli artt. 648-bis del codice penale (che punisce « chiunque sostituisce o trasferisce danaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo »), l’art. 648-ter c.p. (che punisce « chiunque impiega in attività economiche o finanziarie danaro, beni o altre utilità provenienti da delitto »), l’art. 14 della l. 19 marzo 1990 n. 55 (che estende le disposizioni della l. 31 maggio 1965 n. 575 circa l’applicazione delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale (sequestro e confisca) anche ai soggetti indiziati di appartenere alle associazioni che hanno per finalità il traffico di sostanze stupefacenti e a « coloro che per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose », allorché l’attività delittuosa donde si ritiene derivino i proventi sia una di quelle previste dagli artt. 629, 630, 648-bis e ter codice penale, ovvero da attività di contrabbando) e l’art. 12-quinquies della l. 7 agosto 1992 n. 356. Pertanto sulla base del dato legislativo vigente all’epoca — caratterizzato da una costante e consistente dilazione dello spettro di operatività della confisca obbligatoria, ampliandolo dal prezzo del reato al provento, al profitto e al reimpiego nei confronti di coloro che sono condannati per uno dei delitti indicati — sostenevano le Sezioni Unite, si era correlativamente ridotto l’ipotetico spazio dell’imposizione tributaria. Peraltro — si aggiungeva da parte della Cassazione, aprendo uno spiraglio alla tesi della tassabilità — allorché il giudice non ritenga di disporre la confisca facoltativa ex art. 240 c.p., ovvero non possa disporla per espresso divieto di legge, come avviene in caso di applicazione di pena su richiesta ai sensi dell’art. 445 c.p.p., l’autore del reato sarebbe posto in condizione di godersi i frutti della sua condotta delittuosa senza neppure assolvere all’obbligazione tributaria. In tali ipotesi il provento del reato ben potrà essere aggredito dal Fisco, poiché la scelta del giudice di non applicare la confisca facoltativa ovvero il rispetto del divieto di legge legittimerebbero in capo al reo il possesso di quei proventi. Analoga conclusione valeva, secondo la Corte, in relazione ai proventi di quelle attività non ontologicamente illecite, ma esercitate in difetto delle prescritte autorizzazioni o licenze: anche in questi casi il profitto potrà costituire base imponibile ai fini fiscali solo dopo che il giudice penale si sarà espresso e non avrà disposto la confisca facoltativa. 6.
Le modificazioni legislative e la recente pronuncia della Cassazione penale.
Sulla base di questo stato della giurisprudenza è intervenuto il Legislatore con la norma contenuta nell’art. 14 comma 4 della l. 24 dicembre 1993 n. 537
— 1011 — (« Interventi correttivi di finanza pubblica »). La norma prevede che « nella categoria di reddito di cui all’art. 6 comma 1 del testo unico delle imposte dirette, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottosposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria ». Tale norma pare avere come fondamento teorico la concezione c.d. « economica » come sopra esposta, prevedendo, appunto, che l’ordinamento non esclude, anzi prevede, esplicitamente, la possibilità di assoggettare a tassazione i proventi illeciti. La soluzione è stata oggetto di critiche da parte di alcuni autori (44) — che hanno sottolineato come si tratta di « un approccio che collide apertamente (nelle premesse, non nei risultati) con il postulato delle Sezioni Unite della Suprema Corte, che partono dall’opposto presupposto, secondo il quale l’ordinamento vigente non prevede, anzi impedisce che si possano attrarre a tassazione proventi illeciti », evidenziando come « la citata pronunzia delle Sezioni Unite ben potrebbe essere lo schema di una possibile ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale della norma in esame » (45). La Corte di Cassazione — nella sentenza che si annota — tuttavia prende atto del dato legislativo, e modifica completamente la soluzione che era stata fornita al problema. In particolare pur muovendo dalla medesima prospettiva costituzionale che in precedenza era stata utilizzata per escludere la tassabilità, — e quindi implicitamente aderendo alla c.d. « teoria economica » — ora la Corte afferma che « .. è pacifico che i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale sono anche alla base dell’obbligo di partecipare alle spese pubbliche e non possono soffrire eccezioni con riferimento alla circostanza che il soggetto, partecipe della comunità statale, ponga in essere in modo occasionale, oppure organizzato ovvero quali abitudini di vita, attività contra legem. Anzi un esonero dal regime tributario dei cittadini meno corretti porrebbe questioni di legittimità costituzio(44) L’art. 14 comma 4 della l. n. 537/1993 è stato commentato, fra gli altri da D’ANGIOLELLA, Note (ulteriori) sulla tassazione dei proventi illeciti, in Il fisco, 1994, pag. 815 ss; CORSO, È veramente retroattiva la tassazione dei proventi derivanti da attività illecita, in Corr. trib., 1994, pag. 2644. (45) Cfr. DEL COLLE, Misure cautelari reali, misure di sicurezza patrimoniali ed altre forme di cautele e sanzioni patrimoniali conseguenti alla commissione dei reati: problematiche sostanziali e processuali, relazione al seminario del CSM del 14 novembre 1994, inedito. Il citato autore rileva altresì come « un altro elemento di contrasto si rileva nel fatto che la nuova norma richiede che i proventi da attività illecite siano classificabili in taluna delle categorie di reddito previste dall’art. 6 del testo unico sulle imposte sui redditi e che i relativi redditi siano determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria. Ma tale classificazione si rileverà estremamente difficoltosa. E ancora: che significa che i redditi da illecito debbano determinarsi secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria? Occorrerà, a mente dell’art. 75 comma 4 TUIR, tenere conto « delle spese e degli oneri specificatemente afferenti i ricavi ed altri proventi... nella misura in cui risultano da elementi certi e precisi »? In realtà, ben più logicamente fondato appare lo schema logico della sentenza delle Sezioni Unite, che identificano il fatto legittimante l’acquisizione della ricchezza nella decisione del giudice di merito di non disporre la confisca degli illeciti proventi. È questo il momento in cui si verifica il presupposto impositivo su una ricchezza assolutamente diversa e distinta dai vari tipi di reddito di cui all’art.6 TUIR. E ancora: dovrà pretendersi, grottescamente, che gli autori di gravi reati ottemperino ai doveri strumentali al versamento dell’imposta sugli illeciti proventi, quali la tenuta della contabilità e la presentazione della dichiarazione dei redditi? Stante la dichiarata equiparazione dei proventi illeciti a quelli leciti addirittura nei criteri di determinazione fiscale dovrebbe rispondersi positivamente. Ma ognuno vede quanto sia velleitaria tale conclusione. D’altra parte, pur con una norma imperfetta ed approssimativa, si è chiarita la volontà del legislatore di impedire che attraverso le maglie della legislazione generale possano sfuggire al Fisco immense ricchezze acquisite attraverso l’esercizio di attività criminose di ampio respiro. Si tratta di affinarne il testo in modo da renderlo compatibile con i principi costituzionali, secondo le indicazioni già fornite dall’autorevole giurisprudenza in materia ».
— 1012 — nale con riguardo all’art. 3 della Costituzione, che riempie di contenuti ulteriori la norma aperta del precetto precedente ». In tal modo l’obbligo di contribuire — si badi bene solo di « contribuire » e non di « dichiarare », come si preciserà più avanti — viene esteso a tutti coloro che abbiano avuto un incremento patrimoniale, sia che tale incremento sia conseguente ad attività lecite sia che provenga dalla commissione di reati. Peraltro la tassazione opererà solo nelle ipotesi in cui il sistema penale non abbia saputo — ad esempio perché i vari redditi sono stati occultati per anni, oppure perché non colpiti dalla confisca obbligatoria o facoltativa — o non abbia potuto — perché si trattava di proventi di attività socialmente tollerate, quali chiromanzia, o esercitate in assenza di autorizzazioni o abilitazioni — privare del possesso del reddito il soggetto che, solo in tale ipotesi, diviene « contribuente ». Su questo punto — e quindi sulla necessità che perché si abbia tassazione il reddito sia nel pieno possesso del soggetto che viene chiamato alla contribuzione — la Corte è chiara: « ... la previsione di una normativa tributaria tendente a disporre la confisca dei patrimoni illeciti dimostra la tendenziale volontà del Legislatore di impedire all’autore del reato di goderne i frutti, ma non esclude la tassabilità dei proventi illeciti sotto un altro profilo, sicché la confisca se attuata, elimina il possesso del reddito ed esclude un presupposto della tassabilità in generale estesa a qualsiasi provento acquisito in maniera lecita o illecita ». La considerazione che precede, pienamente condivisibile, consente di ritenere che l’obbligo contributivo sussisterà solo se il reddito non è stato confiscato o sottoposto ad altre misure patrimoniali già descritte più sopra (46). Ciò consente di rispondere in modo negativo al quesito posto da quegli autori che, commentando « a caldo » la sentenza della Corte di Cassazione, si sono domandati se ai reati che hanno dato origine al reddito illecito si affiancherà un obbligo di dichiarazione e quindi gli eventuali reati di omessa dichiarazione ed omessa annotazione (47). Tale soluzione si impone, a nostro avviso, in quanto mentre l’attitudine contributiva costituisce una obbligazione « residuale » in capo al soggetto che da « imputato » diviene « contribuente » solo a seguito dell’impossibilità di confisca da parte dello Stato, l’obbligo dichiarativo del reddito presuppone oltre alla possibilità di inquadrare tale reddito in una delle categorie previste dal Legislatore tributario, (è difficile ritenere che l’estorsione possa essere considerata attività di lavoro autonomo e l’estorsore un « libero professionista », oppure il commercio di stupefacenti una attività commerciale ed il capo dell’organizzazione criminale un imprenditore commerciale) anche il non porsi in palese contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico; inoltre tale obbligo costituisce un adempimento « originario » conseguente a dette attività e finalizzato proprio alla sottoposizione alla tassazione che, come abbiamo visto, opera solo in via residuale e cioè in quanto gli altri strumenti dell’ordinamento si siano rivelati inefficaci. Naturalmente anche tale soluzione porta a dei distinguo, in quanto se è ben vero che non potrà configurarsi un obbligo di dichiarazione — unito a quello di annotazione — per le attività criminose, a diversa soluzione si dovrà giungere con riferimento alle condotte che sono solo ontologicamente illecite (ci riferiamo sempre al paradigma delle attività « tollerate » ed a quelle prive di autorizzazioni abili(46) In senso contrario cfr. CORSO, in Corr. trib., 1996, pag. 2396, ove si afferma che « senonché non si vede perché la perdita per qualsiasi ragione del possesso del provento da illecito dovrebbe far venire meno il principio della tassabilità di detto provento che è legato all’esistenza del provento e non alla permanenza del possesso ». (47) Cfr. CARACCIOLI, op. cit.
— 1013 — tative o amministrative): è infatti agevole rilevare che dette attività non si pongono in palese contrasto con l’ordinamento, ma sono solo « indifferenti » (attività di medium, chiromanti o simili) oppure sanzionate in sede amministrativa in quanto prive di autorizzazione (commercianti senza autorizzazione, professionisti senza abilitazione ecc.). 7.
Conclusioni.
Si possono a questo punto trarre le conclusioni da quanto esposto. Un primo dato di fatto è costituito dalla estrema complessità dell’argomento e della materia, soprattutto perché vengono coinvolti principi economici e principi giuridici, ed in quest’ambito notevoli sono i contatti fra le varie discipline. L’interprete in questi casi è chiamato a coordinare una normativa che, anche a seguito del recente intervento legislativo, sembra apparentemente perfetta, ma che in concreto spesso consente, a chi commette un reato, di sottrarre oltre che alla sanzione penale anche all’imposizione tributaria il frutto della sua illecita attività. Infatti come già si è accennato il collegamento tra l’illecito ed il profitto non è sempre facilmente individuabile, soprattutto quando, fra la commissione del fatto e la decisione dei giudici, il lasso temporale è notevole e le misure cautelari o di sicurezza patrimoniali non sono idonee o sufficienti a privare della disponibilità della ricchezza l’indagato, l’imputato o il condannato. Esaurita tale premessa, la prima conclusione è che, in linea di principio sulla base del dato normativo tributario da ultimo riportato, qualunque attività che porta ad un arricchimento o ad un incremento patrimoniale in capo ad un soggetto dovrà essere sottoposta a tassazione, sia che derivi da attività lecita sia che derivi da attività illecita (in quest’ultima ipotesi, beninteso, solo nel caso in cui non sia possibile applicare la confisca ex art. 240 c.p. o altri istituti analoghi). La soluzione legislativa, per quanto criticabile, — in quanto tende a « legalizzare » i proventi oltre che di attività ontologicamente illecite, anche quelli di attività criminali — deve essere valutata positivamente, poichè l’imposta è sempre stata concepita come una prestazione coattiva prevista dalla legge a favore di un ente pubblico ed a carico di un soggetto, per effetto del verificarsi di un presupposto di fatto da essa stabilito. Il dato fondamentale — come pare di leggere nella sentenza della Corte di cassazione — è pertanto costituito dal concetto di « capacità contributiva », che deve intendersi come il principio fiscale che impone il prelievo di entrate a carico dei soggetti passivi secondo il complesso delle loro manifestazioni economiche e di ricchezza attinenti al godimento dei servizi sociali. Nel caso di attività illecite in senso lato, cioè ricomprendenti attività immorali, non autorizzate e reati, occorre operare una prima divisione: porre cioè da un lato quelle attività i cui proventi saranno sequestrati ed in seguito confiscati, e dall’altro lato quelle che saranno solamente sanzionate, non rilevando il tipo di sanzione: amministrativa, civile o penale. Per quanto riguarda le attività i cui proventi non saranno sottoposti a sequestro e successivamente a confisca, gli stessi saranno indistintamente sottoposti a tassazione, in quanto essi integrano l’aumento di ricchezza che costituisce il presupposto dell’imposta. A questa prima conclusione fondamentale si aggiungono dalla lettura della sentenza della Corte — che costituisce indubbiamente un passo in avanti nell’elaborazione dei concetti e degli sforzi interpretativi svolti da dottrina e giurisprudenza negli ultimi anni, soprattutto per l’impegno interpretativo del nuovo dato legislativo tributario, — altri punti fermi che possono così sintetizzarsi: a) non
— 1014 — sussisterà un obbligo di dichiarazione o di annotazione nelle scritture contabili dei proventi derivanti da attività illecita (48); b) non sarà prospettabile in capo al soggetto che abbia omesso le dichiarazioni o i versamenti tributari per tali redditi, alcun reato riconducibile alla l. n. 516 del 1982. Da ultimo si rileva che la Corte di Cassazione pare orientata ad applicare il nuovo dato normativo costituito dall’art. 14 comma 4 della l. 24 dicembre 1993 n. 537 come interpretazione autentica delle previgenti disposizioni tributarie (in tal senso cfr. anche Cass. 19 aprile 1995, n. 4381); tale disposizione interpretativa, ancorché non vincolante rispetto alla precedente disciplina (artt. 1 e 6 del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 597 ed art. 1 del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 599), integra un criterio ermeneutico influente, alla stregua della sostanziale identità della stessa, sulla determinazione dei presupposti della tassazione, e, pertanto, impone dal punto di vista logico, di considerare parte di detto imponibile il « pretium sceleris » anche nel vigore della normativa previgente al citato D.P.R. n. 917 del 1986 con conseguente possibilità di tassare i proventi di reato anche se conseguiti prima del 24 dicembre 1993. GIUSEPPE BERSANI Magistrato
(48) Si ritiene pertanto di modificare quanto già affermato in precedenza, cfr. BERSANI, Tassabilità dei redditi da attività illecita, op. cit., ove si affermava che « ... tali attività si potranno addirittura configurare come vero e proprio reddito, cioè come ‘‘flusso netto di ricchezza derivato ad un soggetto in via immediata o mediata o mediante un’attività organizzata’’; in capo al precettore potrà quindi concretizzarsi l’obbligo di dichiarazione con le annesse responsabilità in caso di omissione ».
I CORTE DI CASSAZIONE — Sez. VI penale — 7 maggio 1996, n. 793 Pres. Pierantoni — Est. Di Amato — Ric. Martini Pubblico servizio — Attività svolta da privati — Qualificazione come pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio — Esclusione — Non decisivo. Pubblico servizio — Presenza di un provvedimento concessorio — Qualificazione dell’attività come pubblico servizio — Non decisivo — Disciplina di diritto pubblico o svolgimento in proprio dallo Stato o da altro ente pubblico — Necessità. Pubblico servizio — Raggiungimento di pubbliche finalità — Qualificazione come pubblica funzione o pubblico servizio — Non decisivo — Regolamentazione dell’attività in forma pubblicistica — Necessità di entrambi gli elementi. La natura privatistica di una società consortile non è di per sé rilevante al fine di escludere la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, ben potendo non solo il pubblico servizio, ma anche la pubblica funzione essere esercitate da un privato (1). Non è decisiva la presenza di un provvedimento concessorio ai fini della qualificazione di un’attività come pubblico servizio. È necessario piuttosto che l’attività concretamente esercitata dal concessionario sia disciplinata da norme di diritto pubblico, ovvero, con atto normativo o di rango inferiore, venga assunta come propria dallo Stato o da altro ente pubblico (2). L’attività diretta al raggiungimento di pubbliche finalità non è di per sé pubblica funzione amministrativa o pubblico servizio, se non ricorre anche la condizione della regolamentazione dell’attività in forma pubblicistica (3).
II GUP TRIBUNALE DI ROMA — ud. 15 ottobre 1996 Imp. Saladino Pasquale più altri — Est. Capotorto L. Pubblico servizio — Funzionari SIP — Compiti di acquisizione di beni strumentali — Qualifica di pubblici ufficiali — Esclusione. Pubblico servizio — Esercizio telefonico — Gestione da parte di un soggetto privato — Atto di concessione avente natura pubblicistica — Attività sottoposte al regime concessorio e attività sottoposte all’ordinario regime privatistico — Distinzione. I funzionari della SIP (ora Telecom), preposti all’acquisizione dei beni strumentali all’esercizio delle comunicazioni telefoniche, oltre a non essere dipendenti di un ente pubblico, non rivestono la qualifica di pubblici ufficiali in quanto non esercitano alcuna pubblica funzione (4). Benché l’esercizio telefonico costituisca un pubblico servizio, la cui titolarità
— 1016 — è stata trasferita dal soggetto pubblico a quello privato con apposito atto di concessione avente natura pubblicistica, non tutte le attività svolte dalla società concessionaria costituiscono espressione dell’esercizio del pubblico servizio. Bisogna al riguardo distinguere, all’interno della titolarità soggettiva della concessione, le attività sottoposte al regime concessorio da quelle, spesso contemporaneamente presenti, sottoposte all’ordinario regime privatistico. L’acquisizione di beni strumentali da parte della concessionaria non rientra fra le attività soggette al regime pubblicistico e pertanto deve escludersi che i soggetti preposti a tali acquisti rivestano la qualifica di incaricati di pubblico servizio (5).
I (Omissis). — MOTIVI DELLA DECISIONE. — La questione sottoposta dal ricorrente concerne il possesso della qualità di pubblico ufficiale o quanto meno quella di incaricato di pubblico servizio da parte del presidente e dei componenti del consiglio di amministrazione della società consortile « Agroalimentare Sicilia », destinatari di elargizioni di denaro commisurate al valore degli incarichi di progettazione conferiti da detta società consortile alla società « Italimpa ». La questione è stata sottoposta sia sotto il profilo dell’erronea qualificazione del fatto che sotto quelli del vizio di motivazione e della violazione dell’art. 129 c.p.p. Si deve anzitutto premettere che la motivazione della sentenza di cui all’art. 444 c.p.p. richiede una delibazione positiva, in termini concisi, della corretta qualificazione giuridica del fatto, della corretta applicazione e comparazione delle eventuali circostanze, della congruità della pena patteggiata e della concedibilità della sospensione condizionale della pena. La sentenza richiede altresì una delibazione negativa dell’insussistenza delle ipotesi previste dall’art. 129 c.p.p., relativamente alle quali, peraltro, è sufficiente la semplice enunciazione di avere effettuato, con esito negativo, la verifica richiesta dalla legge, e cioè che non ricorrono gli estremi per il proscioglimento ai sensi del citato art. 129 c.p.p. (Cass., sez. un., 15 maggio 1992, n. 5777, Di Benedetto). Una più incisiva e penetrante motivazione può esigersi soltanto nel caso in cui dagli atti o dalle deduzioni delle parti emergano elementi circa la possibile applicazione di cause di non punibilità (Cass., 18 ottobre 1995, n. 10372, Serafino). Da ciò consegue che una delibazione positiva della sussistenza della qualità soggettiva di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, ai fini della qualificazione del fatto, potrebbe esigersi soltanto se la si ritenesse un elemento del fatto stesso. In proposito, tuttavia, questa Corte, conformemente alla tesi dominante in dottrina, ritiene che la particolare qualifica del soggetto agente nel reato proprio (quale quello in esame di corruzione) integri solo la c.d. « legittimazione al reato » e cioè una legittimazione al compimento di una condotta illecita, riconosciuta in virtù del particolare rapporto con il bene giuridico tutelato nel quale il soggetto, proprio per la sua qualifica, si trova. Pertanto, la qualifica del soggetto non costituisce un elemento del fatto, ma, come ogni qualvolta si tratta di legittimazione, un presupposto del reato (Cass., 16 novembre 1995, n. 1698, Ronchi). Nessuna positiva delibazione è, quindi, richiesta sul punto nella motivazione della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti e neppure è confi-
— 1017 — gurabile, in relazione alla mancanza di detto presupposto, una erronea qualificazione giuridica del fatto. La mancanza del presupposto della qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio integra, però, una delle ipotesi di applicabilità dell’art. 129 c.p.p. Il fatto che le parti non abbiano svolto deduzioni che, per quanto sopra si è detto, rendessero necessaria una diffusa motivazione sull’insussistenza delle cause di non punibilità previste dall’art. 129 c.p.p. esclude la configurabilità di un vizio della motivazione, ma non preclude l’accertamento, da parte di questa Corte, di eventuali errori di diritto nell’applicazione dell’art. 129 c.p.p. e non esclude, quindi, la necessità di esaminare, su istanza del ricorrente, la questione della sussistenza del presupposto della qualità soggettiva richiesta per la configurabilità del reato di corruzione. Ciò premesso, si deve rilevare, anzitutto che non è decisiva per la soluzione del problema la questione relativa alla natura pubblica o privata della società consortile « Agroalimentare Sicilia ». Come è noto, infatti, a seguito della novella n. 86 del 26 aprile 1990, gli artt. 357 e 358 c.p. ricollegano esplicitamente le qualifiche di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio non al rapporto di dipendenza tra soggetto ed ente pubblico, ma alla natura della attività concretamente esercitata dal soggetto ed oggettivamente considerata. Da ciò consegue che la dedotta natura privatistica della società consortile « Agroalimentare Sicilia » non è di per sé rilevante al fine di escludere la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, ben potendo non solo il pubblico servizio, ma anche la pubblica funzione essere esercitata da un privato (Cass., 18 gennaio 1994, n. 138, Salvatori). Sotto altro profilo non è decisiva la presenza o meno di un provvedimento concessorio. Infatti, la nozione penalistica di pubblico servizio non si limita ai casi di esercizio di attività amministrativa da parte di soggetti privati in regime di concessione, bastando che l’attività esplicata nel pubblico interesse sia fondamentalmente regolata da norme di diritto pubblico. Pertanto, ai fini della qualificazione di un’attività come pubblico servizio, non ha alcuna rilevanza il fatto che la stessa costituisca oggetto di provvedimento amministrativo che legittimi l’esercizio dell’attività stessa, nel senso che possono esistere servizi pubblici non oggetto di concessione e concessioni aventi ad oggetto attività che non costituiscono pubblico servizio, come nel caso delle concessioni di beni demaniali. Resta soltanto necessaria l’esistenza di un atto normativo, o anche di rango inferiore, dello Stato o di un ente pubblico, con il quale l’attività venga assunta come propria degli stessi (Cass., 18 gennaio 1994, n. 318, Salvatori). In corso di giudizio, nel procedimento incidentale de libertate, questa Corte (Cass., 17 ottobre 1994, n. 2916, Mazzei), ha ritenuto che l’attività di progettazione degli insediamenti agro-alimentari, svolta dalla « Agroalimentare Sicilia », avesse quantomeno natura di pubblico servizio. L’iter argomentativo della ricordata decisione, dopo l’affermazione della natura privatistica della « Agroalimentare Sicilia », prende le mosse dal rilievo che nella specie non viene in considerazione l’attività della società consortile in generale — nell’ambito della libertà d’iniziativa economica del settore — ma quella specifica di progettazione di opere pubbliche. Infatti, secondo la decisione, la progettazione di un mercato comunale (rectius mercato all’ingrosso) « trattandosi di opera pubblica... ha, comunque, natura
— 1018 — di attività amministrativa in senso oggettivo, regolata da norme di diritto pubblico, ed è, pertanto, pubblico servizio », anche quando l’iniziativa della istituzione del mercato venga assunta da soggetti privati. Il passaggio fondamentale della decisione va individuato, pertanto, nell’attribuzione in ogni caso della natura di opera pubblica ai mercati all’ingrosso. La decisione non può essere condivisa. Il requisito decisivo, ai sensi degli artt. 357 e 358 c.p., per aversi una pubblica funzione amministrativa od un pubblico servizio è rappresentato dal fatto che, come si è detto, l’attività sia disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, nella specie l’attività che viene in considerazione è quella di progettazione di un mercato agro-alimentare all’ingrosso, con le agevolazioni previste dall’art. 11, sedicesimo comma, della l. 28 febbraio 1986, n. 41. I mercati all’ingrosso sono oggetto di speciale disciplina dettata dalla l. 25 marzo 1959, n. 125 che, dopo aver affermato la libertà del commercio all’ingrosso sia nei mercati che al di fuori degli stessi (art. 1), prevede che l’istituzione degli stessi possa avvenire ad iniziativa sia di soggetti pubblici che di soggetti privati (art. 5). In ogni caso, l’istituzione del mercato deve essere autorizzata dal Ministro per l’Industria (oggi dal Comune, ai sensi dell’art. 54 lett. c del d.P.R. n. 616 del 1977), « qualora riconosca l’idoneità dell’iniziativa »; lo stesso Ministro, ovvero il prefetto per i lavori di importo minore, deve approvare i relativi progetti tecnici e l’approvazione del progetto equivale a dichiarazione di pubblica utilità (art. 6). Da tale disciplina emerge ovviamente che i mercati all’ingrosso soddisfano obiettivamente finalità di interesse pubblico. L’attività diretta al raggiungimento di pubbliche finalità non è, tuttavia, di per sé pubblica funzione amministrativa o pubblico servizio, se non ricorre anche la condizione della regolamentazione dell’attività in forma pubblicistica. E tale regolamentazione non sembra, ad avviso del collegio, che possa essere rinvenuta nella disciplina della citata l. n.125 del 1959. L’autorizzazione alla istituzione di un mercato all’ingrosso, rappresenta, secondo la nozione tradizionale della relativa categoria di provvedimento amministrativo, l’atto con il quale il Ministro dell’Industria (oggi il Comune) conferisce al soggetto autorizzato la facoltà di esercitare un potere o un diritto, che, comunque, preesistono all’autorizzazione. L’approvazione del progetto, d’altro canto, comportando la dichiarazione di pubblica utilità, consiste nell’accertamento che l’opera progettata risponde ad un fine di interesse generale. Il concetto di opera di pubblica utilità, tuttavia, come sottolinea la dottrina, non è equivalente a quello d’opera da eseguirsi da un ente pubblico ovvero a quello di opera pubblica. Pertanto, quando l’iniziativa per l’istituzione di un mercato all’ingrosso viene assunta da un privato l’opera, per quanto discende dalla l. n. 125 del 1959, resta nell’ambito delle opere private di pubblica utilità, la cui progettazione e realizzazione non è di per sé regolamentata in forma pubblica. La conferma della natura dell’opera si può rinvenire nella stessa l. n. 41 del 1986, che, disponendo (art. 11, quindicesimo comma) una integrazione del fondo per il finanziamento delle agevolazioni per la ristrutturazione dell’apparato distributivo (l. 10 ottobre 1975, n. 517); equipara tout-court ai mercati agro-alimentari all’ingrosso realizzati da società consortili con partecipazione maggioritaria di capitale pubblico, e cioè ai mercati realizzati ad iniziativa di soggetti privati ai sensi della citata l. n. 125 del 1959, i centri commerciali all’ingrosso, che sono estranei
— 1019 — alla regolamentazione dettata per i mercati agro-alimentari. A tale ultimo riguardo le Sezioni Unite civili di questa Corte, con sentenza n. 5973 del 25 febbraio 1994, hanno affermato che una struttura immobiliare da destinare a mercato agro-alimentare all’ingrosso di interesse nazionale, regionale o provinciale, la cui titolarità spetti, ai sensi dell’art. 11 della l. 28 febbraio 1986, n. 41, ad enti di diritto privato, non può ricondursi nel novero delle opere pubbliche, pur in presenza di erogazione di contributi pubblici o di partecipazione maggioritaria di capitale pubblico nelle società promotrici. Ciò, in particolare, sia in ragione della qualità dei titolari, sia per il difetto assoluto di ogni possibile configurazione di un qualsiasi diritto di uso pubblico del bene da realizzare. L’avere escluso che l’opera in questione rivesta i caratteri dell’opera pubblica non significa ancora, tuttavia, escludere che la stessa, in quanto opera privata di pubblico interesse, possa essere disciplinata, quanto alla realizzazione e, per quanto qui interessa, alla progettazione da norme di diritto pubblico. La difesa, a tal fine, ha fatto riferimento alle disposizioni dettate dal d. l. 19 dicembre 1991, n. 406 (attuazione della direttiva comunitaria 89/440 in materia di procedura di aggiudicazione dei lavori pubblici) e dalla l. 11 febbraio 1994, n. 109 (legge quadro in materia di lavori pubblici). Le disposizioni in questione sono, tuttavia, successive ai fatti contestati e, pertanto, inidonee a stabilire se la progettazione dei mercati agroalimentari all’ingrosso fosse o meno soggetta a disciplina pubblicistica. Si può, tuttavia, rilevare che l’art. 3 del citato d.lgs. n. 406 del 1991 estende dalle c.d.« amministrazioni aggiudicatrici » agli enti e soggetti sovvenzionati l’ambito di applicazione della disciplina delle procedure di aggiudicazione quando concorrono due condizioni. La prima consiste nell’aver ricevuto sovvenzioni o contributi in misura superiore al cinquanta per cento dell’importo dei lavori; la seconda consiste nella natura dei lavori affidati, che devono essere o lavori di genio civile o « lavori edili relativi ad ospedali, impianti sportivi, ricreativi e per il tempo libero, edifici scolastici ed universitari, edifici destinati a scopi amministrativi ». Evidentemente la realizzazione di un mercato agro-alimentare all’ingrosso non rientra tra i lavori elencati; d’altro canto, la sovvenzione prevista dall’art. 11, sedicesimo comma, della l. n. 41 del 1986 consiste in contributi in conto capitale nella misura del quaranta per cento degli investimenti fissi realizzati. L’art. 2, secondo comma, della citata l. n. 109 del 1994 determina l’ambito di applicazione della legge con riferimento, tra l’altro, « alle società con capitale pubblico, in misura anche non prevalente, che abbiano ad oggetto della propria attività la produzione di beni o servizi non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza » (lett. b) ed ai soggetti privati che abbiano ricevuto per la realizzazione dei lavori contributi o sovvenzioni in conto capitale e in conto interessi in misura superiore al quaranta per cento del loro importo (lett. c). Mentre il primo criterio non può venire in rilievo, dato che la struttura realizzata dai privati è bene suscettibile di collocazione sul mercato in regime di libera concorrenza, il secondo criterio, in astratto consentirebbe di ritenere applicabile la legge ai lavori di realizzazione di mercati agro-alimentari all’ingrosso, dato che, oltre al ricordato contributo in conto capitale, la l. n. 41 del 1986 prevede anche un contributo in conto interessi. Peraltro, in concreto, la concessione di un contributo in misura complessiva superiore al quaranta per cento non risulta dagli atti. Tuttavia, per quanto si è detto, la ricordata disciplina non è rilevante, poiché
— 1020 — occorre avere riguardo all’esistenza di un’eventuale regolamentazione pubblica al momento dei fatti. Una siffatta regolamentazione non si rinviene né nella citata l. n. 125 del 1959, né nella citata l. n. 517 del 1975. La prima di tali leggi prevede l’istituzione dei mercati all’ingrosso nell’ambito di una disciplina del commercio all’ingrosso dei prodotti ortofrutticoli, delle carni e dei prodotti ittici, che salvo quanto sopra si è detto a proposito di autorizzazione e di approvazione del progetto, si occupa di regolamentare il commercio all’ingrosso sia dentro che fuori il mercato, senza occuparsi minimamente di regolamentare i lavori relativi alla realizzazione di un mercato quando la relativa iniziativa sia stata assunta da un privato. La l. n. 517 del 1975, che disciplina, come si è detto, i finanziamenti per la ristrutturazione dell’apparato distributivo del commercio, non detta neppure essa una regolamentazione dei lavori sovvenzionati e si limita a prevedere un comitato di gestione del fondo per il finanziamento delle agevolazioni al quale, tra l’altro, è affidato il compito di accertare le caratteristiche dei soggetti beneficiari (art. 6, quinto comma, n. 3) e di verificare la rispondenza dei singoli programmi di investimento alle finalità della legge (art. 6, quinto comma, n. 4). È evidente, pertanto, che la fase della esecuzione dei lavori ad iniziativa di privati non riceve, dopo gli accertamenti e le verifiche per l’accesso alle agevolazioni, alcuna disciplina pubblicistica. Neppure la l. n. 41 del 1986, che ha rifinanziato il suddetto fondo, ha dettato una disciplina pubblicistica del genere. Infatti, l’art. 11, diciottesimo comma, si limita ad affidare al CIPE il compito di stabilire « le direttive, le procedure, i tempi e le modalità di erogazione dei contributi e di accertamento degli investimenti ». Ancora una volta, evidentemente, manca una disciplina pubblicistica dei lavori. Infondata sarebbe a questo punto la preoccupazione, che comunque non può assurgere a dignità di argomento, di una possibile impunita dispersione del denaro pubblico. L’art. 316 bis c.p., introdotto dalla l. 26 aprile 1990, n. 86, prevedendo il controllo penale dell’abuso di sovvenzioni pubbliche, rappresenta sotto tale profilo la norma di chiusura del sistema. Per quanto sopra detto si deve concludere che i soggetti destinatari delle somme erogate dall’odierno imputato, per ottenere che l’incarico di progettazione di un mercato agro-alimentare all’ingrosso fosse affidato alla società Italimpa, non rivestivano né la qualità di pubblico ufficiale né quella di incaricato di pubblico servizio. Pertanto, il fatto di corruzione contestato non sussiste. P.Q.M. — Annulla senza rinvio l’impugnata sentenza perché il fatto non sussiste.
II (Omissis). — MOTIVI DELLA DECISIONE. — Nei confronti degli imputati elencati in epigrafe è stato chiesto il rinvio a giudizio in ordine al reato di abuso d’ufficio di cui al capo d’imputazione trascritto in epigrafe. Nel corso dell’udienza preliminare — articolatasi in più udienze — le difese producevano documentazione e memorie ed il GIP disponeva nuovi accertamenti,
— 1021 — all’esito dei quali il PM ed i difensori, concordemente, chiedevano pronunciarsi sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste. Per quanto attiene ai fatti, sinteticamente si osserva che è pacifico e provato documentalmente che la SIP (ora Telecom) nel 1988 stipulò un contratto di fornitura di accumulatori con la società britannica « Chloride Industrial batteries », della quale era amministratore il Mallen, per il tramite delle società di intermediazione « International Batteries » (Interbatteries) s.r.l. ed « Eurobatteries » s.r.l., delle quali era amministratore unico il Saladino. I rapporti tra la SIP e la Chloride ebbero inizio nel 1987, quando la SIP, tramite i propri organi competenti, iniziò le trattative per sperimentare le batterie ermetiche prodotte dalla Chloride, rappresentata in Italia dalla suddetta Interbatteries. Nel 1988, quindi, venne ordinata alla Chloride una fornitura di accumulatori per lire 354.000.000. Nello stesso anno la SIP interpellò 198 ditte fornitrici, tra le quali la Chloride, per le forniture da acquisire nell’anno successivo e, ancora una volta, sulla base delle offerte pervenute, venne preferita la Chloride, alla quale venne commissionata una fornitura per lire 500.000.000 per il 1989. A seguito delle sperimentazioni effettuate, i responsabili dei settori « edilizia » ed « approvvigionamenti » della SIP (in parte diversi dagli odierni imputati) conclusero che la Chloride fosse l’unica azienda in grado di realizzare batterie ermetiche aventi caratteristiche tali da garantire la massima efficienza in relazione alla loro destinazione, per cui si deliberò di ordinare alla Chloride una fornitura per lire 3.500.000.000 per l’anno 1990 (contratto stipulato, nel maggio 1990), che venne considerevolmente aumentata negli anni successivi, questa volta tramite la Eurobatteries. Orbene, come si evince dal complesso ed articolato capo d’imputazione, gli imputati, nelle rispettive qualità di responsabili dei settori della SIP preposti a deliberare gli acquisti dei beni strumentali, sono accusati, unitamente agli amministratori della società fornitrice e della società di intermediazione che hanno agito in concorso con i primi nel reato proprio di cui all’art. 323 c.p., di aver abusato del proprio ufficio deliberando gli acquisti delle batterie prodotte dalla Chloride nonostante queste non fossero corrispondenti alle prescrizioni tecniche del capitolato GMR 181 (fino al 1988 la Chloride non aveva sottoposto, in Italia, i propri prodotti al collaudo previsto dal citato capitolato), al fine di consentire al Saladino ed ai suoi « partners » inglesi di conseguire un vantaggio patrimoniale. Inoltre va sottolineato che dalla documentazione in atti — in particolare dai carteggi relativi alle trattative condotte dal Saladino con la Chloride — risulta che tra le voci che contribuivano a determinare il prezzo delle batterie vi era quella definita « friends » (amici), chiaramente riferibile a tangenti verosimilmente dovute a coloro i quali avevano assunto la decisione (o concorso in modo determinante ad assumerla) di acquistare i prodotti della Chloride. Ad avviso di questo Giudice, la richiesta di non luogo a procedere per insussistenza del fatto — formulata dalle parti concordemente — deve essere accolta sotto vari profili, il primo dei quali, assorbente, è costituito dalla mancanza della qualità di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio in capo agli imputatifunzionari della SIP. Infatti, poiché la quasi totalità dei comportamenti illeciti — secondo la prospettazione accusatoria — posti in essere dagli imputati si è realizzata prima della l. n. 86 del 1990, che ha apportato modifiche alle fattispecie dei reati contro la
— 1022 — P.A., mentre successivamente all’entrata in vigore di detta legge è stato stipulato solamente il contratto di fornitura del maggio 1990, deve innanzi tutto accertarsi, sulla base dei principi che regolano la successione di leggi penali nel tempo e, quindi, sulla base del principio del favor rei, se le condotte in esame integrassero la fattispecie del reato contestato anche precedentemente alla novella del 1990. Orbene, l’originario art. 323 c.p. (come pure l’abrogato art. 324 c.p. riguardante l’interesse privato in atti d’ufficio oggi confluito nel reato di abuso d’ufficio) prevedeva come elemento integrante della fattispecie che il soggetto agente rivestisse la qualità di pubblico ufficiale; qualità che certamente non può attribuirsi ai funzionari della SIP preposti all’acquisizione dei beni strumentali all’esercizio delle comunicazioni telefoniche, i quali, oltre a non essere dipendenti di un ente pubblico, non esercitano neppure alcuna pubblica funzione (legislativa, amministrativa o giudiziaria). È evidente, quindi, l’insussistenza del reato, così come contestato, per difetto della qualità soggettiva richiesta all’epoca dei fatti dalla norma incriminatrice. Per quanto attiene ai fatti successivi alla riforma dei reati contro la P.A., si osserva che la configurabilità del reato di cui al vigente art. 323 c.p. è stata estesa anche all’agente che rivesta la qualità di incaricato di pubblico servizio, la quale, tuttavia, ad avviso del giudicante, non può riconoscersi agli odierni indagati. Infatti è pacifico che la SIP (ora Telecom) sia una società per azioni di natura privatistica concessionaria di un pubblico servizio, in quanto esercita un’attività diretta a perseguire una finalità pubblica assunta come propria dallo Stato, quale è quella di garantire alla collettività il diritto alle comunicazioni sotto qualsiasi forma, riconosciuto e tutelato anche dalla Costituzione (art. 15). Naturalmente l’atto di concessione impone alla società una serie di vincoli ed obblighi allo scopo di garantire la tutela dell’interesse pubblico al quale il servizio è finalizzato, i quali costituiscono l’unico limite all’autonomia gestionale, che alla concessionaria, quale soggetto privato, non può non essere riconosciuta. Ne consegue che la qualifica di incaricato di pubblico servizio può attribuirsi solo ai soggetti che, pur agendo quali organi della società concessionaria, esercitano attività proprie dello Stato, da questo delegate al privato. Secondo l’art. 358 c.p. « per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni d’ordine e della prestazione di opera meramente materiale ». Quindi l’individuazione di un pubblico servizio si fonda su due elementi: il primo attiene alla disciplina che regola l’attività, la quale, come si desume dal rinvio implicito all’art. 357 c.p., deve essere costituita da norme di diritto pubblico o da atti autoritativi; il secondo elemento è costituito dai limiti entro i quali l’attività deve potersi inquadrare (da un lato non devono sussistere i poteri propri della pubblica funzione e dall’altro non deve trattarsi di svolgimento di mansioni d’ordine o meramente materiali). Orbene, benché l’esercizio telefonico costituisca un pubblico servizio la cui titolarità è stata trasferita dal soggetto pubblico a quello privato con apposito atto di concessione avente natura pubblicistica, non tutte le attività svolte dalla società concessionaria costituiscono espressione dell’esercizio del pubblico servizio; bisogna infatti distinguere, all’interno della titolarità soggettiva della concessione, le attività sottoposte all’ordinario regime privatistico. L’acquisizione di beni strumentali da parte della concessionaria dell’esercizio
— 1023 — telefonico non sembra rientrare tra le attività soggette alla disciplina pubblicistica e, quindi, deve escludersi che i soggetti preposti agli acquisti di detti beni rivestano la qualità di incaricati di pubblico servizio. Infatti, il testo unico che regolamenta poste e telecomunicazioni, approvato con d.P.R. 29 marzo 1973, n. 156, mentre prevede la possibilità di concessione dei servizi dettando prescrizioni e divieti in ordine alla determinazione delle tariffe, alla segretezza delle comunicazioni, al contenuto delle comunicazioni, alla scelta del concessionario, ecc., nulla prevede circa le modalità di acquisto dei beni necessari al concessionario per rendere il servizio. Del pari, la concessione intercorsa tra il Ministero delle Poste e Telecomunicazioni e la SIP non sottopone ad alcuna specifica modalità l’attività di acquisizione dei beni strumentali, che quindi deve ritenersi di natura privatistica e rientrante nell’ambito dell’autonomia negoziale e gestionale della concessionaria, la quale può liberamente operare scelte tecniche, con l’unico limite della loro finalizzazione al potenziamento e sviluppo del servizio, che deve costituire « lo scopo sociale esclusivo della Società. ». Anche l’assunzione del personale è espressamente consentita anche per « chiamata nominativa ». È evidente, quindi, come nell’ambito dell’organizzazione di uomini e mezzi la concessionaria agisca in regime privatistico, né vale a provare il contrario la sussistenza dell’obbligo di perseguire gli scopi specificamente indicati dalla convenzione e di rispettare i piani regolatori. Anche la previsione di controlli da parte della P.A. e la necessità dell’approvazione da parte di questa dei piani pluriennali predisposti dalla concessionaria, se costituiscono atti autoritativi finalizzati alla verifica della migliore razionalizzazione ed efficienza del servizio e quindi riconducibili alla funzione propria della P.A., non introducono però automaticamente un regime pubblicistico in relazione alle modalità di scelta ed acquisto dei beni strumentali da parte della concessionaria, che, in mancanza di una specifica disciplina nel suddetto senso, rimangono regolate dalle norme privatistiche. La giurisprudenza dominante, invero, ritiene che l’attività di acquisizione di beni strumentali direttamente connessi all’esercizio del pubblico servizio devoluto al privato concessionario attribuisca ai soggetti responsabili la qualità di incaricati di pubblico servizio. Tale tesi, tuttavia, oltre ad apparire non condivisibile per quanto si è detto sopra, comporta notevoli incertezze interpretative, giacché, in concreto, il concetto è estremamente elastico e potrebbe estendersi a qualsiasi bene strumentale (per assurdo, anche ai più banali, ma necessari, oggetti di cancelleria). Inoltre l’ampliamento delle attività da ritenersi espressione dell’esercizio del pubblico servizio comporterebbe, di fatto, una limitazione sostanziale dell’autonomia privata della società concessionaria, la quale, pur sottoposta agli obblighi ed ai controlli imposti dalla P.A., al di fuori di questi deve poter operare liberamente scelte tecniche e di gestione, anche al fine di adeguare tempestivamente gli impianti alle esigenze del servizio servendosi degli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia. Nel caso in esame le batterie acquistate dalla Chloride, peraltro utilizzate da importanti aziende estere operanti nello stesso settore, facevano parte di un piano di sperimentazione e la loro non conformità al capitolato GMR 181 non integra alcuna violazione degli obblighi imposti alla SIP, giacché, secondo quanto è dato evincere dagli atti, detto capitolato era provvisorio, proprio in considerazione
— 1024 — della necessità di procedere a sperimentazioni in un campo — quello della telefonìa cellulare — all’epoca ancora in fase di perfezionamento. Pertanto, atteso che eventuale istruttoria dibattimentale non potrebbe aggiungere elementi apprezzabili al fine di sostenere l’ipotesi accusatoria (abbandonata dallo stesso P.M. all’esito dell’udienza preliminare), trattandosi di questione puramente interpretativa, deve pronunciarsi sentenza di non luogo a procedere per insussistenza del reato contestato. Per completezza si osserva che dai carteggi intercorsi tra il Saladino (e suoi collaboratori) ed il legale rappresentate della Chloride, si evidenziano trattative circa la percentuale da versare a titolo di tangente a soggetti non identificati con certezza. Tali circostanze sembrano configurare, rimanendo nell’ambito dei reati contro la P.A. il reato di corruzione piuttosto che quello di abuso d’ufficio, attesa la previsione del versamento di un indebito « corrispettivo » ai soggetti (« friends ») preposti a deliberare l’acquisto degli accumulatori da parte della SIP. Tuttavia la mancanza della qualità di incaricati di pubblico servizio in capo ai suddetti soggetti esclude anche la sussistenza di tale fattispecie criminosa. Poiché la percentuale qualificabile come « tangente » ha comportato un pari aumento del prezzo versato dalla SIP, potrebbe ravvisarsi il reato di truffa in danno della SIP, consistente nell’aver « gonfiato » artatamente le voci che hanno contribuito a determinare il prezzo delle batterie includendovi la suddetta percentuale e traendo così in inganno gli organi della SIP che approvarono l’operazione, con conseguente esborso da parte della società della maggior somma artificiosamente fatta rientrare nel prezzo. Trattandosi di somma rilevante (la percentuale, dopo qualche trattativa, fu determinata in oltre il 9% su somme varianti da centinaia di milioni a miliardi), ricorre l’aggravante di cui all’art. 61 n. 7 c.p., che rende procedibile d’ufficio il reato di cui all’art. 640 c.p. Tuttavia detto reato deve ritenersi prescritto ai sensi dell’art. 157 n. 4 c.p., in mancanza di atti interruttivi in relazione ad esso. Pertanto in considerazione di quanto sin qui esposto, appare superfluo disporre la trasmissione degli atti al PM per eventuali contestazioni diverse dall’abuso d’ufficio. P.Q.M. — Visti gli artt. 424 e segg. c.p.p.: dichiara non luogo a procedere nei confronti di Saladino Pasquale, Marolda Massimo, Cirone Mariano F., Grossoni Maurizio, Calderara Gianantonio, Righetti Francesco, Leone Gennaro, Falzone Vincenzo, Taddeini Gastone, Cherubini Carlo M. e Mallem Michael W., in ordine al reato ascritto perché il fatto non sussiste.
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Società concessionarie di pubblico servizio e qualifiche pubblicistiche fra « nuovi » e « vecchi » paradigmi giurisprudenziali.
SOMMARIO: 1. Introduzione — 2. Criteri « oggettivi » e criteri « ontologici » nella qualificazione della pubblicità — 3. (Segue): a) la natura giuridica dell’ente — 4. (Segue): b) le finalità pubbliche perseguite — 5. (Segue): c) il provvedimento di concessione — 6. Impresa e P.A. nella prospettiva costituzionale.
— 1025 — 1. Il coinvolgimento, sul terreno del diritto penale, delle società per azioni concessionarie di « servizi pubblici » dà vita sotto diversi aspetti ad un ampio ventaglio di problematiche. Sul versante della « teoria », tale coinvolgimento costituisce il banco di prova della validità di norme e definizioni che si intrecciano lungo le mobili frontiere intercorrenti fra il diritto amministrativo ed il diritto penale. Sul versante della « prassi », invece, esso delinea il ‘luogo’ in cui si confrontano diverse concezioni giuridiche, le quali si rivelano strettamente legate a peculiari visioni del ruolo e della funzione che il diritto penale deve assumere nell’economia. In questo contesto, la questione di maggior spessore è, con tutta probabilità, quella relativa alla plausibilità teorica e pratica di un modello giuridico che postula una gestione imprenditoriale affidata a « pubblici ufficiali » ed « incaricati di pubblico servizio ». Tale tema — già delineatosi sotto il vigore delle vecchie definizioni codicistiche — pare trovare un’appagante impostazione nelle decisioni che qui si commentano, le quali esprimono un giudizio negativo sull’applicabilità tout court degli artt. 357 e 358 c.p. ad amministratori, sindaci e funzionari degli enti frutto del processo di « privatizzazione » (1). Infatti, una consolidata giurisprudenza formatasi all’indomani della legge di riforma dei delitti dei pubblici agenti contro la pubblica amministrazione (l. 26 aprile 1990, n. 86) (2), sulla scorta di una evergreen « sintomatologia degli indici rivelatori della pubblicità », continua ad applicare lo statuto penale della pubblica amministrazione, qualificando il management aziendale ‘di turno’ lungo il binomio « pubblico ufficiale/incaricato di pubblico servizio ». Simile modo di ‘far’ diritto, tuttavia, si pone in contrasto con regole e principi assolutamente irrinunciabili. In primo luogo, l’estensione ad libitum della cerchia dei pubblici agenti — segnatamente in quei settori economici in cui il ‘pubblico’ si mischia e si colora del e col ‘privato’ secondo modelli gestionali ed operativi nuovi —, non coglie né la ‘lettera’ né lo ‘spirito’ delle nuove definizioni di cui agli artt. 357 e 358 c.p. In secondo luogo, simile accezione ‘pan-penalistica’ dei rapporti economici denota, nei fatti, il perseguimento di obiettivi di politica criminale di marca prettamente giudiziaria e di indiscutibile segno contrario a quelli presi di mira dal legislatore. Il principio di legalità è quindi doppiamente violato: una prima volta, nella misura in cui più che in una funzione di iuris dictio, i giudici sembrano impegnati in una di make law; una seconda volta, nella misura in cui innanzi a pretesi ‘vuoti (1) Sugli aspetti generali vedi AA.VV., Privatizzazioni ed efficienza della P.A. alla luce del diritto comunitario, Milano, 1996; AA.VV., Le privatizzazioni delle imprese pubbliche in Italia, Milano, 1995. Sui profili penalistici cfr. CARMONA, Dagli enti pubblici economici alle public companies: un problema insoluto negli artt. 357 e 358 c.p., in questa Rivista, 1993, 187 ss.; CRESPI, Il nuovo testo dell’art. 358 c.p. e un preteso caso di corruzione punibile, ivi, 1992, 1239 ss. Per i contributi anteriori alla legge n. 86 del 1990 vedi CASTELLANA, Profili di soggettività penale degli interventi pubblici nell’economia, Padova, 1989; DEL CORSO, Pubblica funzione e pubblico servizio di fronte alla trasformazione dello Stato: profili penalistici, I e II, in questa Rivista, 1989, 1036 ss. e 1560 ss.; MARINUCCI, Gestione di impresa e P.A.: nuovi e vecchi profili penalistici, ivi, 1988, 424 ss.; LEMME, Società a partecipazione statale e reati contro la P.A., ivi, 1987, 168 ss.; PERDUCA, Aspetti problematici dell’intervento penale in materia di partecipazioni statali, ivi, 1978, 1215 ss.; PEDRAZZI, Problemi e prospettive del diritto penale dell’impresa pubblica, ivi, 1966, 349 ss. (2) Sulla riforma delle qualifiche soggettive vedi PICOTTI, Le « nuove » definizioni penali di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio nel sistema dei delitti contro la P.A., in Riv. trim. dir. pen. econ., 1992, 264 ss.; SEMINARA, Sub. Art. 357 e 358, in Commentario breve al codice penale, a cura di Crespi-Stella-Zuccalà, Padova, 1992; FIORELLA, voce Ufficiale pubblico, incaricato di pubblico servizio o di un servizio di pubblica necessità, in Enc. dir., XLV, Milano, 1992, 563 ss.; CORRADINO, Il parametro di delimitazione esterna delle qualifiche pubblicistiche: la nozione di diritto pubblico, in questa Rivista, 1992, 1316 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p. spec., I, t. 1o, Appendice (La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A.), Bologna, 1991; RAMACCI, Norme interpretative e definizioni. La nozione di « pubblico ufficiale », in Studi in onore di G. Vassalli, I, Milano, 1991, 474 ss.
— 1026 — di tutela’ adottano proprie opzioni di politica penale, figlie di precise Weltanschauungen (3). Le sentenze della Cassazione e del giudice di merito pertanto, nel cogliere sia lo ‘spirito’ che la ‘lettera’ della riforma, segnano un punto a favore di quelle concezioni del diritto penale che intendano mantenersi ancorate al pieno rispetto del principio di legalità. 2. La validità e la solidità teorica dell’impianto logico-giuridico delle due decisioni in commento, si lascia apprezzare perché denota piena comprensione e padronanza dei nuovi criteri ermeneutici imposti dalla legge di riforma: per un verso, si coglie l’irrilevanza degli « indici sintomatici » e della relativa metodologia e, per altro verso, si adotta la disciplina pubblicistica dell’attività materialmente esercitata come unico elemento decisivo per la corretta qualificazione dei soggetti (4). L’impostazione invalsa presso la giurisprudenza, com’è noto, segue un iter logico argomentativo di segno inverso. Invero, da un lato, v’è la premessa — ‘di stile’ — ormai dell’adozione dell’oggettivo criterio di disciplina, dall’altro, la qualificazione pubblicistica dell’attività viene fatta discendere in concreto dal ricorso a criteri ontologici, nonché da una vasta serie di elementi sintomatici (5). La stratificazione delle decisioni ha finito poi coll’innescare un processo di ‘dogmatiztificazazione’ dei contenuti e dei postulati argomentativi che fungono da supporto teorico all’orientamento in parola. Come anticipato, sia la Corte di legittimità che il giudice di merito disattendono siffatta impostazione, svelandone l’inconcludenza. Nella prima vicenda, la quaestio iuris si incentra sul pagamento di somme di denaro ai componenti del consiglio di amministrazione di una società consortile di diritto privato — qualificati in primo grado come pubblici agenti —, per l’affidamento a terzi dell’incarico di progettazione di mercati agroalimentari all’ingrosso. Nella seconda, il nodo da sciogliere — ai fini della contestazione dell’abuso d’ufficio — è la qualità rivestita dai funzionari della Telecom, i quali avevano stipulato con un’azienda inglese diversi contratti per la fornitura di speciali batterie necessarie per la sperimentazione della telefonìa cellulare. Pur nella diversità dei fatti, il Leitmotiv seguito nelle due decisioni è sostanzialmente identico. In entrambe, i giudici si son dovuti misurare con alcuni fra i più suggestivi indici rivelatori: a) la qualità dell’ente; b) le finalità perseguite; c) l’esercizio in regime di concessione di una determinata attività. È quindi su questi (3) Di « cultura dell’intransigenza » parla in proposito GALGANO, Civile e penale nella produzione di giustizia, in AA.VV., Funzioni e limiti del diritto penale. Le alternative di tutela, Padova, 1984, 93. Peraltro, ciò contribuisce a segnare il passo lungo il difficile cammino della ricomposizione delle ‘discrasie’ fra il mondo dei ‘dottori’ e quello dei ‘giudici’ della legge. Discrasie alle quali non è estranea, d’altronde, la non brillante tecnica legislativa adottata nella riformulazione delle qualifiche normative. Ancora valido è quindi il giudizio di BETTIOL G., Verso un nuovo romanticismo giuridico, in Scritti giuridici, (19661980), Padova, 1980, 244: « L’Italia è un paese nel quale tra i doctores e gli iudices non c’è (salvo casi particolari) conoscenza e collaborazione alcuna ». Di recente cfr. AA.VV., Le discrasie fra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, Napoli, 1991. (4) In questa direzione, Cass., 1 marzo 1996, n. 382, inedita; Cass., 14 giugno 1995, in Giust. pen., 1996, II, 454; Trib. Cagliari, 23 febbraio 1995, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, 1062. (5) I parametri ai quali la giurisprudenza mostra di fare maggiore affidamento sono: la sottoposizione ad un’attività di controllo e indirizzo a fini sociali; il potere di nomina/revoca di amministratori e sindaci; l’adozione di un provvedimento concessorio; il contributo finanziario da parte di enti pubblici; il perseguimento di finalità di interesse pubblico; la natura giuridica dell’impresa; la strumentalità dell’attività sociale ad interessi collettivi; l’esercizio in regime di monopolio. Per maggiori approfondimenti ci si permetta il rinvio a MANGIONE, Questioni aperte in tema di qualifiche soggettive nelle società per azioni a partecipazione pubblica: il ‘ritorno’ agli « indici sintomatici » della pubblicità, in Riv. pen. econ., 1996, 356 ss.
— 1027 — tre parametri ontologici e sul modello argomentativo accolto nelle sentenze annotate, che bisogna soffermare l’attenzione. 3. Il primo criterio si incentra sulla natura giuridica dell’ente. In base ad esso, dalla qualità giuridica dell’ente di appartenenza ne discende sic et simpliciter la qualificazione dell’attività esercitata dall’agente. A seguito della riforma, la questione della natura giuridica (pubblica o privata) della società consortile ovvero della società esercente il servizio di telefonìa non è di per sé decisiva. Le nuove definizioni codicistiche hanno infatti sancito il passaggio dal piano ‘soggettivo’ della natura dell’ente a quello ‘oggettivo’ dell’attività materialmente esercitata (6). Purtuttavia, siffatto parametro mantiene un significativo valore ermeneutico, nonostante l’impostazione oggettiva del criterio di disciplina. La natura giuridica dell’ente infatti contribuisce, quantomeno, a facilitare l’attività ricognitiva dell’interprete. L’esperienza insegna che, il più delle volte, alla natura giuridica dell’ente corrisponde un regime di disciplina dell’attività in linea di massima omogeneo. Tutto ciò — lo si sottolinea — solo in linea di massima, ben potendo l’attività esercitata, ad esempio, da un soggetto privato, trovare in concreto la propria disciplina nel diritto pubblico. Simile criterio, evidentemente, non può che svolgere un ruolo residuale. Esso, in particolare nell’ambito di un rapporto concessorio, può offrire un’utile funzione di ‘riscontro’ del mutamento di regime dell’attività ordinaria svolta dall’ente, e per tal via garantire maggiori certezze in sede di qualificazione penale (7). 4. Il criterio incentrato sulle finalità è uno dei più radicati nella giurisprudenza. Esso viene spesso esplicitato attraverso il riscontro di un’attività « finalizzata al perseguimento di fini pubblici », ovvero « caratterizzata dall’immanenza di un interesse pubblico », ovvero ancora « in rapporto di strumentalità con una funzione pubblica » (8). Nelle due sentenze, l’analisi viene condotta da prospettive in parte differenti. Nel caso all’attenzione del giudice di merito, tale parametro assume un tono più sfumato in quanto viene strettamente connesso e risolto in rapporto al terzo criterio, quello cioè legato all’adozione di un provvedimento di concessione. Ciò nonostante, la conclusione cui entrambe le decisioni giungono è identica: la finalità di interesse pubblico perseguita non ha alcun valore ai fini della qualificazione giuridica dell’attività svolta e non può pertanto condurre al riconoscimento delle qualifiche di pubblico agente. Nella vicenda sottoposta al giudizio della Cassazione il quesito di diritto è così sintetizzabile: i mercati agroalimentari all’ingrosso sono opere pubbliche? E se così fosse, se ne potrebbe dedurre il carattere pubblicistico dell’attività di progettazione? La Corte regolatrice — disattendendo persino una precedente pronuncia (Cass., 17 ottobre 1994, n. 2916) resa nell’ambito del medesimo procedimento — opera un puntuale inquadramento dei differenti piani giuridici su cui si basa la (6) Ciò nondimeno, non è infondato ritenere che, a fronte delle gravi lacune ed incongruenze che le nuove definizioni codicistiche mantengono, il ricorso ad adiuvandum al criterio soggettivo rimanga un’esigenza logica imprescindibile. In tale direzione, PICOTTI, op. loc. cit.; DEL CORSO, op. loc. cit.; MANGIONE, op. loc. cit. Per una replica v. SEVERINO DI BENEDETTO, Commento agli artt. 357 e 358 c.p., in AA.VV., I delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., Torino, 1996, 448 ss. (7) In tal senso cfr. SEVERINO DI BENEDETTO, Commento, cit., 458-9. (8) Fra le tante, Cass., 3 marzo 1994, in Riv. pen., 1994, 1123; Cass., 3 dicembre 1993, ivi, 1994, 753; App. Cagliari, 12 novembre 1993, in Foro it., 1994, II, 704. Sulla « funzionalizzazione » quale criterio decisivo per il riconoscimento della soggettività di diritto pubblico degli enti giuridici, vedi ROMANO A., in AA.VV., Diritto amministrativo, I, Bologna, 1993, 253 ss.
— 1028 — quaestio. Il collegio analizza la normativa di settore ed articola il proprio ragionamento per temi di disciplina: a) l’istituzione di mercati all’ingrosso può avvenire su iniziativa di privati, anche se debitamente autorizzata da un’autorità pubblica; b) i progetti tecnici per la realizzazione debbono essere previamente approvati, con dichiarazione di pubblica utilità dell’opera. Le valutazioni penalistiche s’intrecciano, quindi, con istituti tipici del diritto pubblico, e cioè con provvedimenti formalmente amministrativi a carattere autoritativo: l’« autorizzazione », l’« approvazione » e la « dichiarazione di pubblica utilità » dell’opera. Il primo atto viene reso attraverso una valutazione discrezionale delle finalità perseguite dal soggetto; tuttavia, il provvedimento inerisce ad una sfera di libertà dell’individuo in quanto incide su diritti preesistenti in capo al medesimo. È la necessità che il diritto soggettivo non venga esercitato in termini confliggenti con gli interessi collettivi che impone, a loro salvaguardia, un provvedimento autorizzativo (9). Altrettanto è a dirsi per l’« approvazione », che altro non è che una specie di autorizzazione, sia pur adottata successivamente all’atto da approvare. Anche in tal caso v’è un diritto ed una sfera di libertà soggettive preesistenti, che non vengono cioè costituite ex novo dall’amministrazione procedente; questa si cura solo di condizionarne, a tutela dell’interesse della collettività, le modalità di esercizio. In definitiva, la natura giuridica dell’autorizzazione e dell’approvazione contribuisce a chiarire che non si tratta di opera pubblica, bensì di « opera privata di interesse pubblico ». La « dichiarazione di pubblica utilità », che segue all’approvazione del progetto, infine, conferma tale interesse pubblico per l’opera. Breve. Non v’è un’opera pubblica in progettazione, bensì un’opera privata che coinvolge interessi della collettività (10). Ciò nondimeno, è opportuno precisare che anche se si fosse trattato di progettazione di un’opera pubblica, la conclusione non avrebbe potuto mutare di segno. Ed invero, non è seriamente possibile sostenere che la natura pubblica dell’opera da progettare, di per sé sola, decida per l’applicabilità delle qualifiche normative pubblicistiche. Non è quindi condivisibile l’impostazione accolta dalla Cass., 17 ottobre 1994, n. 2916, la quale, in merito alla progettazione dei mercati agroalimentari all’ingrosso, stabilisce che « trattandosi di opera pubblica... [essa] ha, comunque, natura di attività amministrativa in senso oggettivo, regolata da norme di diritto pubblico, ed è, pertanto, pubblico servizio ». Tutte le premesse, e quindi il risultato, di tale sillogismo sono palesemente falsi: a) la ‘natura pubblica’ dell’opera è postulata e non dimostrata; b) il ‘senso oggettivo’ della natura amministrativa dell’attività è asserzione basata sul vuoto, in quanto è tratta dall’indimostrato punto a); c) la ‘regolamentazione di diritto pubblico’, piuttosto che essere il frutto di autonoma ed ulteriore indagine in concreto, è desunta apoditticamente dal punto b); d) il risultato del sillogismo, cioè la qualificazione di ‘pubblico servizio’, è pertanto l’apparente frutto di una « deduzione » — da a), b) e c) — mentre in realtà è reso in maniera « apodittica »: la « conseguenza » dunque non può che essere « euristicamente falsa ». Non è necessario andare lontano per rendersi conto delle mirabilia cui simile modello argomentativo conduce: Frank Llyod Wright se progetta il Guggenheim Museum di New York è un privato professionista, se progetta la City Hall della medesima città diventa un pubblico agente, solo in virtù della diversa qualifica dell’opera da progettare. (9) Per tutti, SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, I, Napoli, 1989, 626 ss. (10) Cass., Sez. Un. civ., 25 febbraio 1994, n. 5973. Per la dottrina v. ANCORA, Il concessionario di opera pubblica tra pubblico e privato, Milano, 1990.
— 1029 — Quindi, l’accertamento della natura privata o pubblica dell’opera non è di per sé decisivo. Invero, anche la realizzazione di un’opera privata di interesse pubblico potrebbe essere disciplinata da norme di diritto pubblico. È allora indispensabile accertare se, in concreto, la progettazione di « mercati agroalimentari all’ingrosso » riceva una disciplina di segno pubblicistico. Siffatto accertamento, sia che lo si conduca lungo le linee normative del decreto legislativo 19 dicembre 1991, n. 406 e della legge sugli appalti pubblici 11 febbraio 1994, n. 109, sia che lo si conduca sulle normative in vigore al tempo dei fatti, (la l. 25 marzo 1959, n. 125 e la l. 28 febbraio 1986, n. 41) dà esito negativo. Non si riscontra cioè alcuna disciplina pubblicistica applicabile all’attività di progettazione di mercati agroalimentari all’ingrosso. La conclusione è allora obbligata: la progettazione di un mercato agroalimentare all’ingrosso ha per oggetto un’opera privata e non è disciplinata da norme di diritto pubblico. Non v’è quindi spazio per il riconoscimento della qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio. 5. Il terzo criterio che le due sentenze sfatano è quello inerente all’adozione di un provvedimento concessorio. Il tema è sin troppo noto, oltre che complesso nei suoi risvolti pubblicistici, per essere esaminato in queste note (11). Tuttavia, non si può fare a meno di rilevare che la concessione rimanda inevitabilmente all’art. 358 c.p., in quanto la sua presenza, per consolidata tradizione, dà luogo all’unica ipotesi certa di servizio pubblico. È da vedere però se ciò sia sufficiente onde concludere sic et simpliciter per l’applicabilità dello statuto penale della pubblica amministrazione. Deve premettersi che sul terreno della concessione di pubblico servizio le intersezioni fra diritto penale e diritto amministrativo si problematizzano ulteriormente. Ciò in quanto, neppure in seno alla branca giuridica di appartenenza si è raggiunto un livello di precisione ed una accettabile — per le peculiarità della materia penalistica — stabilità di certezza nella definizione degli istituti in gioco. Al riguardo, basti infatti sottolineare che, da un lato, v’è chi sostiene che la concessione di servizio pubblico sia traslativa del solo esercizio dei poteri pubblici (12), dall’altro, v’è invece chi sostiene che la traslazione abbia ad oggetto anche la titolarità del potere (13). Le implicazioni teoriche sono quindi sensibilmente differenti: l’una comporta che la concessione dia luogo ad un ‘organo indiretto’ dell’amministrazione pubblica, l’altra invece ammette che in tal caso si possa parlare di ‘esercizio privato di funzioni pubbliche’. Entrambe le teoriche riconoscono però che, in virtù del principio di legalità, vi debba essere, a monte, una disposizione di legge che legittimi tale fenomeno traslativo. È questo lo sfondo concettuale in cui si inserisce l’affermazione di principio — apparentemente paradossale — contenuta nella decisione della Cassazione: « non solo il pubblico servizio, ma anche la pubblica funzione [può] essere esercitata da un privato (Cass., 18 gennaio 1994, n. 138, Salvatori) ». Com’è inevitabile, le incertezze concettuali gravanti sulla nozione amministrativistica si riflettono anche nelle pieghe della problematica penalistica. Si puntualizza infatti che ove il concessionario sia un imprenditore — il che accade nella quasi totalità dei casi — ha poco senso distinguere fra ‘esercizio’ e ‘titolarità’, giacché l’impresa si coglie giuridicamente proprio nell’aspetto dinamico dell’esercizio dell’attività, la quale coniuga in un tutt’uno i due momenti — solo per esi(11) Per approfondimenti v. AA.VV., La concessione di pubblico servizio, Milano, 1996; ROMANO A., Profili delle concessioni di pubblici servizi, in Dir. amm., 1994, 459 ss. (12) Per tutti GUARINO, Sulla nozione di pubblico ufficiale, in Giust. pen., 1996, II, 541. (13) Per tutti SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, I, cit., 622, e spec. 565 ss.
— 1030 — genze schematiche distinti — dell’‘esercizio’ e della ‘titolarità’. Inoltre, la teorica della natura traslativa della concessione è costretta a riconoscere che determinate attività appartengono naturaliter allo Stato. Tale riconoscimento traspare anche dalla sentenza del giudice di merito laddove afferma che: « l’esercizio telefonico costituisce un pubblico servizio la cui titolarità è stata trasferita dal soggetto pubblico a quello privato con apposito atto di concessione avente natura pubblicistica ». Simile assunto è però seriamente discutibile. Autorevole dottrina ha ben osservato che « per l’ordinamento giuridico non esistono appartenenze ‘naturali’ a favore dello Stato delle attività aventi scopi di utilità generale: sovente anzi l’iniziativa privata concorre con quella pubblica verso gli stessi obiettivi di quest’ultima, senza che a tal fine occorrano concessioni o provvedimenti analoghi. Lo Stato... non ha affatto il monopolio generale per il perseguimento degli scopi di benessere collettivo » (14). Il settore della telefonìa, al riguardo, è emblematico. I servizi telefonici in molti paesi sono gestiti da aziende private in regime di libera concorrenza. Il che lascia intendere come tale servizio non appartenga naturaliter allo Stato ma che, piuttosto, la definizione del relativo assetto gestionale risulti determinata da « precondizionamenti » latu sensu politico culturali. Da altra prospettiva, si osserva che gli atti adottati dall’impresa concessionaria sono ricorribili presso l’autorità giudiziaria amministrativa per lesione di interessi legittimi; il che implica necessariamente la sussistenza di una soggettività pubblica (15). La critica coglie in parte nel segno e merita di essere analizzata nei suoi risvolti. Il principio di legalità (art. 97 Cost.), che governa e disciplina l’azione e l’assetto gestionale ed organizzativo della pubblica amministrazione, impone che i poteri certificativi ed autoritativi si estrinsechino in provvedimenti formalmente amministrativi. Com’è noto, il mancato rispetto delle norme (pubblicistiche) che disciplinano tali poteri determina la lesione di una peculiare situazione giuridica soggettiva del privato, l’interesse legittimo. La carta fondamentale, agli artt. 24, 103 e 113, garantisce contro gli atti della pubblica amministrazione lesivi di interessi legittimi la tutela giurisdizionale. Altrettanto non è però previsto nei confronti di atti lesivi provenienti da soggetti distinti dalla pubblica amministrazione. Ciò si spiega in quanto non è concettualmente ammissibile che un privato cittadino, non legato da alcun rapporto alla pubblica amministrazione, possa adottare provvedimenti amministrativi (16). Tutte le volte in cui ciò avviene, in realtà, è perché v’è una disposizione legislativa che crea una relazione soggettiva sotto(14) POTOTSCHNIG, I pubblici servizi, Padova, 1964, 438. Ciò nondimeno, non si vuole in questa sede accogliere la pur raffinata ricostruzione del « servizio pubblico » che l’A. propone deducendola direttamente dalla lettura congiunta degli artt. 43 e 41 terzo comma, Cost. Siffatta tesi, a tacer d’altro, finisce col delineare un contenuto troppo ampio del concetto in parola, giacché in base ad essa un servizio pubblico potrebbe essere svolto da un’impresa privata senza necessità di alcun provvedimento della P.A. Ma col che sfumano, sino a diventare impalpabili, le differenze fra realtà che sono e rimangono distinte quali il servizio pubblico, l’intervento pubblico nell’economia e l’impresa privata. Per approfondimenti critici cfr. MERUSI, I servizi pubblici negli anni ’80, in Quad. regionali, 1985, 42; CATTANEO, voce Servizi pubblici, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, 366 ss. (15) In tema cfr. AZZARITI, La giurisdizione sulle controversie contro gli atti di società concessionarie di opere pubbliche, in Dir. proc. amm., 1991, 526, CANNADA BARTOLI, Degli atti di gara del concessionario di sola costruzione, in Foro amm., 1991, 929. (16) GUARINO, Sulla nozione di pubblico ufficiale, cit., 541, puntualizza che « l’attribuzione di competenze amministrative a privati, se ammessa darebbe luogo ad una elusione al sistema delle garanzie costituzionali in materia di interessi legittimi e darebbe luogo a violazione degli artt. 24, 103, 113 Cost. ».
— 1031 — stante che lo legittima all’adozione di quell’atto (17). In tal modo, il diritto delinea un’entità giuridica dalla non chiara fisionomia dogmatica e che la dottrina amministrativistica definisce ora come « organo indiretto » ora come « ufficio straordinario ». In fondo, anche nell’ipotesi del « funzionario di fatto » e dell’« arresto in flagranza di reato eseguito dal privato », il problema non è dissimile. Sulla qualificazione pubblicistica di tali soggetti la giurisprudenza non nutre dubbi, a condizione che, per quel che riguarda il primo, questi abbia agito col « consenso anche tacito » dell’ente pubblico (18). In questo caso, la speciale relazione soggettiva che lega l’agente privato all’ente pubblico e che, al contempo, costituisce il titolo di legittimazione all’esercizio dei poteri pubblici è il consenso anche tacito dell’ente medesimo. Tant’è vero che in mancanza di tale consenso anche tacito, più che un « funzionario di fatto » avremmo un « usurpatore di funzioni pubbliche ». Per l’« arresto eseguito dal privato in flagranza di reato », provvede direttamente l’art. 383 c.p.p. a costituire un titolo di legittimazione all’esercizio di poteri coercitivi, altrimenti illeciti. I rapporti fra privati e poteri pubblici sono, da questo punto di vista, regolati dal principio della prohibitio di ogni ingerenza estranea all’attività funzionale della pubblica amministrazione, il cui presidio è garantito dal ricorso alla sanzione penale. Tuttavia, fra la concessione di servizio pubblico, da un lato, e l’ipotesi del funzionario di fatto e dell’arresto eseguito dal privato, dall’altro, sussiste una sensibile differenza. Nelle ultime due ipotesi, invero, si può ben dire che si tratta di attività naturaliter appartenenti allo Stato; non altrettanto è possibile sostenere per le attività sottoposte a concessione. Sembrerebbe, dunque, che le attività appartenenti naturaliter allo Stato si risolvano in termini di pubblica funzione, mentre le altre in termini di pubblico servizio (19). In questo contesto concettuale, si è proposto un diverso modello ricostruttivo del ruolo e del significato della concessione (20). Per mezzo di essa la pubblica amministrazione consentirebbe che l’esercizio da parte del privato di una determinata attività, che è e rimane privata, venga altresì canalizzata al perseguimento di interessi collettivi. La concessione, quindi, inserirebbe nella gestione privata quegli elementi che la rendono ‘congrua’ alle finalità, sia pubbliche che private, precedentemente individuate. Ciò che conta, però, è che l’attività rimane privata, l’azione che muove il soggetto è sempre il fine di lucro, e sia gli atti che i risultati non vengono imputati all’ente bensì rimangono propri dell’esercente. Il modello ricostruttivo proposto è di segno contrattualistico. Le posizioni di potere che l’ente si riserva sono funzionali alla tutela della propria posizione di creditore. Dette posizioni si esprimono sostanzialmente in direzione tale da consentire la vigilanza sul soddisfacente adempimento della prestazione debitoria, garantendosi inoltre la possibilità della cooperazione del creditore all’esecuzione della prestazione contrattualmente dedotta in capo alla controparte. (17) Anche nella dottrina francese si pone l’accento, tra l’altro, sulla necessità che per esservi pubblico servizio vi sia una relazione soggettiva sottostante fra impresa privata ed ente pubblico. Per tale tesi v. AUBY-DUCOS ADER, Grandes services publics et enterprises nationales, Paris, 1969, 29 ss. (18) Cfr. App. Cagliari, 12 novembre 1993, cit.; Cass., 10 luglio 1990, in Riv. pen., 1991, 562. Per una casistica vedi GROSSO C.F., Nozione di pubblico ufficiale, di incaricato di pubblico servizio e di persona esercente un servizio di pubblica necessità, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, a cura di Bricola e Zagrebelsky, IV, 2a ed., Torino, 1996, 438. (19) In questo senso vedi pure GIANNINI, Diritto amministrativo, II, Milano, 1988, 455; ERICHSEN, Das Verwaltungshandeln, in ERICHSEN-MARTENS, Allgemeines Verwaltungsrecht, I, Berlin-New York, 1988, 172. Tuttavia, la formula ‘dubitativa’ è d’obbligo in quanto residuano delle fattispecie di pubblico ufficiale la cui attività non è certo possa riconoscersi naturaliter allo Stato; ad esempio ciò vale per le funzioni notarili. (20) Cfr. SATTA F., Concessioni di opere pubbliche e atti del concessionario, in Foro it., 1992, I, 326 ss.
— 1032 — L’attività del concessionario è dunque attività privata. Tuttavia, la valutazione degli interessi facenti capo alla controparte concedente può rendere opportuno che nella determinazione contrattuale delle reciproche sfere, alcuni poteri pubblici vengano delegati, in esercizio, al debitore. Ragioni di funzionalità e di ottimizzazione in effetti possono rendere in questi termini la soluzione più vantaggiosa. Peraltro, tutto ciò è ammissibile nella misura in cui una disposizione di legge consenta tale trasferimento contrattuale (21). Al contempo, simile disposizione normativa rende pubblicistica la disciplina di questi specifici poteri delegati al concessionario. Tuttavia, questa dimensione privatistica del fenomeno convive necessariamente con quei profili derivanti dalla presenza di un interesse pubblico all’attività esercitata. In effetti, l’organizzazione del servizio nonché le relative scelte gestionali sono rimesse alla valutazione discrezionale dell’impresa concessionaria. Vi sono però alcuni aspetti che, pur riflettendosi sulle scelte imprenditoriali, sono il frutto di valutazioni indiscutibilmente ‘politiche’ giacché coinvolgono da vicino l’interesse pubblico all’erogazione di una data prestazione. Questi momenti di emersione dell’interesse pubblico generano sul piano delle privatizzazioni il ricorso alla golden share, mentre sul piano delle concessioni di pubblico servizio comportano la riserva di determinati poteri in capo al concedente. V’è quindi un’esigenza di garanzia la quale trova la sua ragione nella consapevolezza delle storture e degli abusi di posizione che — quale che sia l’assetto del mercato — l’imprenditorìa privata può realizzare a danno del consumatore sfruttando i margini di profitto di una domanda che, avendo ad oggetto beni e servizi indispensabili, si rivela anelastica. Questa realtà si presenta quindi come il ‘nastro di Möbius’, solo apparentemente dotato di due facce, le quali tuttavia ad un più attento esame si rivelano essere per quello che sono: un unico lato del medesimo nastro. Non può sorprendere allora il fatto che tale ambiguità, una volta tradotta sul piano penalistico, generi incertezze e confusioni. Il problema della qualificazione soggettiva del concessionario pare in definitiva impostarsi lungo un più complesso ed articolato quadro concettuale. Escluso, a monte, che l’attività del concessionario sia in quanto tale un’attività pubblica, a valle bisogna in concreto accertare se ‘quella sfera di attività’ che viene in esame subisca un mutamento di regime sottostando ad una regolamentazione pubblicistica. Tale accertamento è puntualmente condotto, oltre che dalla esaminata sentenza della Cassazione, anche da quella del giudice di merito. In particolare, si osserva che nella concessione intercorsa fra il Ministero delle poste e telecomunicazioni e la Telecom non v’è alcuna disposizione relativa alla disciplina dell’attività incriminata. Invero, sia l’attivita di scelta ed acquisizione dei beni, sia l’organizzazione interna del personale e dei ruoli sono rette da un regime privatistico. Non possono quindi cogliersi quei profili di disciplina che, sul piano oggettivo, determinerebbero l’assunzione delle qualifiche soggettive pubblicistiche. 6. Il giudizio fortemente negativo sull’estensione giurisprudenziale delle qualifiche pubblicistiche in ambito economico trova la migliore conferma sul terreno della Costituzione. È, quella costituzionale, una prospettiva teoretica sovente trascurata se non, addirittura, assente nelle argomentazioni a sostegno dell’orientamento estensivo criticato. Eppure essa meriterebbe un rilievo centrale, quanto(21) Non si dimentichi infatti che l’art. 97 secondo comma, Cost., impone il principio della riserva di legge nella predisposizione delle sfere di competenza e delle attribuzioni degli uffici pubblici. Essi hanno dunque il dovere di esercitare i poteri loro demandati dalla legge; esercizio che può essere delegato a terzi solo in presenza di una disposizione legislativa che lo consenta.
— 1033 — meno per la preminenza che si riconosce alla Costituzione, la quale si riflette sul piano dell’ermeneutica giuridica in precisi vincoli di contenuto e di metodo (22). Se le ‘ragioni’ e le ‘scelte’ di fondo del quia puniri debbono trarsi dai principi costituzionali (23), una trasposizione tout court del regime penale della pubblica amministrazione sul versante tematico delle società commerciali si rivela un arbitrio teorico. Sul piano degli interessi costituzionalmente rilevanti, infatti, non sembra che vi possa essere omogeneità fra le ‘ragioni’ del controllo penale sugli enti pubblici e quelle che presiedono al controllo penale sulle strutture economiche. La differente collocazione sistematica dovrebbe già indurre in riflessione: lo ‘statuto’ costituzionale dell’impresa è ricostruibile lungo le direttive che la Costituzione detta nel Titolo III, Parte I, dedicate ai ‘rapporti economici’ (24); laddove quello della P.A. trova la sua sede nel Titolo III, Parte II, Sezione II (25). Vero è che la disgregazione del modello monistico di P.A. ha generato una variegata costellazione di unità funzionali; vero è che la procedimentalizzazione dell’attività pubblica tende a plasmarsi lungo moduli gestionali tipicamente privatistici (26); vero è, infine, che la « privatizzazione » delle strutture economiche dello Stato genera soggetti imprenditoriali la cui fisionomia è sempre più distante dalla dimensione pubblicistica, assumendo sfumature ibride. Ciò nondimeno, rimane il fatto che i principi guida dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost., assumono una connotazione difficilmente esportabile sul terreno dell’impresa. Ancor più dell’« efficienza », è il principio d’« imparzialità » che risulta incompatibile con lo ‘statuto’ aziendale e costituzionale dell’iniziativa privata. In effetti, il canone dell’imparzialità pretende che la publica potestas si eserciti attraverso una congrua e sufficiente valutazione degli interessi rilevanti ai fini del perseguimento dell’obiettivo prestabilito. Il suo valore di garanzia si apprezza quindi nell’impedire che il sacrificio degli interessi secondari (privati e/o pubblici) avvenga senza che ciò sia opportuno né necessario alla luce del fine primario da realizzare. Un modulo gestionale così caratterizzato non è però compatibile con l’essenza dell’impresa privata, giacché l’attuazione dell’interesse sociale dell’ente può ben implicare una ‘non valutazione’ degli interessi confliggenti dei terzi. Il loro eventuale bilanciamento svuoterebbe alle radici l’autonomia privata negandone l’intima essenza; questa infatti si alimenta in una continua ‘dialettica’ con gli interessi ed i beni altrui. Né giova far riferimento ai limiti che l’art. 41 della carta fondamentale pone sul terreno della libertà d’impresa. Le possibilità di « indirizzo e coordinamento », con « programmi e controlli », dell’impresa privata lungo l’arco dei « fini sociali » non esprimono una sorta di mal celato ritorno ad un improponibile dirigismo statale dell’economia. Piuttosto, per loro tramite lo Stato intende regolare il mercato garantendo, per un verso, la libertà d’iniziativa economica e, per altro verso, che (22) Al riguardo, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, cfr. MENGONI, L’argomentazione nel diritto costituzionale, in Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, spec. 120 ss. (23) La produzione dottrinale al riguardo esistente è ormai imponente. Sia quindi concesso il limitato rinvio a BRICOLA, voce Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. it. XIX, Torino, 1973; nonché MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974. Una puntuale sintesi del dibattito scientifico è svolta da MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale. Nozione, struttura e sistematica del reato, I, Milano, 1995. Per una rivisitazione critica dei fondamenti della pena si rimanda a FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in questa Rivista, 1994, 23 ss. (24) BRICOLA, Lo statuto penale dell’impresa: profili costituzionali, in Trattato di diritto penale dell’impresa, diretto da Di Amato, I, Padova, 1990, 117 ss. (25) RAMPIONI, Bene giuridico e delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., Milano, 1984; BRICOLA, Tutela della P.A. e principi costituzionali, in Studi in onore di Santoro Passarelli, VI, 1970, 123. (26) La letteratura esistente sul fenomeno è sterminata, quantomeno vedi AA.VV., Pubblica amministrazione e modelli privatistici, Bologna, 1993; MASUCCI, Trasformazione dell’amministrazione e moduli convenzionali, Napoli, 1988.
— 1034 — essa si esplichi compatibilmente col godimento e coll’attuazione dei diritti fondamentali della persona (27). V’è pertanto una diversità significativa del quadro costituzionale rispettivamente ascrivibile all’impresa privata ed all’intervento pubblico nell’economia. Per quel che concerne la prima, si pone un problema di rispetto e garanzia sia della libertà dell’agire privato che dei diritti fondamentali che essa può coinvolgere. Per quel che riguarda il secondo, invece, il versante prospettico è differente: gli interessi pubblici che lo Stato persegue istituzionalmente postulano la massimizzazione delle energie nella direzione di cui all’art. 3, secondo comma Cost., imponendo direttive gestionali ed investimenti di risorse qualitativamente incompatibili con il contenuto e le possibilità che l’autonomia negoziale consente all’azione dei privati. Infatti, la redditività degli investimenti non è il meccanicistico frutto della relazione « capitale/lavoro salariato/condizioni strutturali »; piuttosto, è in significativa parte dovuta alla qualità ed alle modalità di gestione delle risorse indicate. Quanto più queste ultime sono imbrigliate da motivazioni ‘esterne’ di natura non compatibile col « fine di lucro » o con la « destinazione dei risultati al mercato », tanto più si riducono i margini di redditivà dell’investimento. Detto altrimenti: più si incentra l’attenzione sul fine pubblico, più svaniscono i connotati salienti dell’impresa. D’altra parte, l’impresa non è una realtà che può sic et simpliciter « funzionalizzarsi » al perseguimento di interessi pubblici, se non a costo di realizzare qualcosa di profondamente diverso (28). Se lo Stato, come la Costituzione gli consente, decide di ‘fare impresa’ non può che assumere le forme e i contenuti indicati dall’art. 41 Cost.; se all’inverso, decide di perseguire finalità di interesse pubblico non ‘fà impresa’, per la semplice ragione che questa non si regge su un paradigma istituzionale e concettuale incentrato sul fine pubblico dell’azione. Il fenomeno delle privatizzazioni, così come l’esercizio da parte di imprese private di servizi pubblici in concessione si colloca quindi in una dimensione borderline, in cui cioè v’è una costante e problematica ricerca di un equilibrio fra istanze ed esigenze disomogenee ma convergenti verso il medesimo ‘luogo’. Ciò evidentemente non può che ripercuotersi sul piano delle scelte di tutela penale, le quali debbono conseguenzialmente riflettere le segnalate specificità. Vero è che la disciplina penale delle società appare per molti versi inadeguata (29), ma è ancor più vero che il ricorso agli artt. 314 e seguenti del codice penale sarebbe una terapia peggiore del male (30). L’autonomia privata e gli interessi che in essa vengono coinvolti, dunque, non possono sottostare alla normativa penale della P.A. per il semplice fatto che le « condizioni al contorno » sono intrinsecamente differenti. Ogni modello penale riflette valutazioni dogmatiche e politico criminali così come espresse dalle specificità del settore di tutela. E non v’è dubbio che fra P.A. e impresa non vi siano intersezioni al riguardo significative. Il ricorso ad un si(27) Cfr. MENGONI, Autonomia privata e costituzione, in Banca, borsa e titoli di credito, 1997, 1 ss.; GALGANO, Sub Art. 41, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca-Pizzorusso, Bologna, 1982; OTTAVIANO, Intervento statale, mercato e impresa, in Crisi e riforma dell’impresa, Bari, 1977, 194 ss.; BALDASSARRE, voce Iniziativa economica privata, in Enc. dir., XXI, Milano, 1971, 592 ss. (28) MINERVINI, Contro la « funzionalizzazione » dell’impresa privata, in Riv. dir. civ., 1958, I, 618 ss. (29) Per tutti cfr. MUSCO, La società per azioni nella disciplina penalistica, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, IX, Torino, 1994, 215 ss. (30) A tacer d’altro, basti pensare che all’estensione delle qualifiche pubblicistiche, operata dalla giurisprudenza penale, corrisponde la parallela estensione del controllo contabile, così v. Corte dei Conti, 3 ottobre 1992, n. 29; Corte dei Conti, 18 giugno 1992, n. 23, entrambe in Foro it., 1993, III, 283 ss. Contra però Cass. civ., 22 maggio 1991, n. 5792; Cass. civ., 18 ottobre 1991, n. 11037.
— 1035 — stema penale ‘pensato’ e ‘costruito’ per la tutela dell’attività funzionale della prima, allora, sconterebbe già questo inammissibile vizio di fondo. Tale consapevolezza emerge dalla motivazione della sentenza di merito. Infatti, nel sottolineare che « l’ampliamento delle attività da ritenersi espressione dell’esercizio del pubblico servizio comporterebbe, di fatto, una limitazione sostanziale dell’autonomia privata della società concessionaria, la quale, pur sottoposta, agli obblighi ed ai controlli imposti dalla P.A., al di fuori di questi deve poter operare liberamente scelte tecniche e di gestione » (31), il giudice mostra di cogliere bene il rischio che una siffatta concezione del diritto penale comporta sul terreno dei rapporti economici. Rischio che appare evidente nella sua gravità, non appena si considerano le implicazioni che ne deriverebbero dall’applicazione di una ‘fattispecie aperta’ quale l’abuso d’ufficio. Appare di immediata evidenza che la struttura dell’art. 323 c.p. traslerebbe la sfera d’incriminazione sul terreno delle infedeltà e degli abusi funzionali del management aziendale, disattendendo d’un colpo tutte le questioni dogmatiche e politico criminali che da tempo si agitano su tale specifico versante (32). Per questa via però, da un lato, la ‘tenuta’ di tale fattispecie col principio di tassatività — già di per sé alquanto problematica nel settore d’origine — non sarebbe più difendibile; dall’altro lato, il delitto in parola finirebbe coll’assumere un’invasività ed un gigantismo assolutamente sovradimensionati rispetto alle sue potenzialità operative. Infine, siffatta ‘operazione’, ritagliando post factum nuove aree di illiceità, si tradurrebbe in un’inammissibile violazione di un fondamentale principio di civiltà giuridica, oltre che di rango costituzionale: quello per cui l’incriminazione delle condotte deve avvenire esclusivamente in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. ANGELO MANGIONE Ricercatore di Diritto penale nell’Università di Roma ‘Tor Vergata’
(31) Il corsivo è mio. (32) Per tutti, MARINUCCI-ROMANO M., Tecniche normative nella repressione penale degli abusi degli amministratori di società per azioni, in questa Rivista, 1971, 681 ss., spec. 705 ss. Da ultimo v. FOFFANI, Infedeltà patrimoniale e conflitto di interessi nella gestione d’impresa. Profili penalistici, Milano, 1996, spec. 14 ss.
CASSAZIONE PENALE — Sez. IV — 3 dicembre 1996 Pres. Consoli — Est. Galbiati — P.M. (conf.) — Ric. Prignacchi Procedimento pretorile — Annullamento con rinvio — Decreto di citazione a giudizio — Rinnovazione — Competenza (Artt. 549, 555 c.p.p., 143 disp. att. c.p.p.). Procedimento pretorile — Annullamento con rinvio — Decreto di citazione a giudizio — Termine per comparire — Venti giorni (Artt. 429, 549, 567 c.p.p., 143 disp. att. c.p.p.). Procedimento pretorile — Annullamento con rinvio — Termine per comparire — Inosservanza — Nullità di ordine generale a regime intermedio — Sussistenza (Artt. 178 lett. c), 180, 429 c.p.p.). Nel giudizio di rinvio davanti al pretore conseguente all’annullamento con rinvio di sentenza di primo grado il decreto di citazione va emesso dallo stesso pretore (1). Nel giudizio di rinvio davanti al pretore, il termine dilatorio a comparire dell’imputato è di venti giorni e non di quarantacinque giorni, in virtù del combinato disposto degli artt. 429 c.p.p., 549, 567 c.p.p. e 143 disp. att. c.p.p. (2). L’inosservanza del termine di comparizione dell’imputato determina una nullità di ordine generale a regime intermedio, ex art. 178 lett. c) c.p.p. e 180 c.p.p., poiché incide sul diritto di intervento del medesimo in giudizio, restringendo indebitamente il tempo a lui concesso per organizzare la propria difesa (3). (Omissis). — 1. Il Pretore di Mantova, con sentenza del 29 settembre 1995, assolveva l’imputato Alberto Prignacchi dal reato di cui all’art. 21 3o comma l. n. 319/1976 a lui contestato, in qualità di legale rappresentante della Alar Calze S.n.c., per avere effettuato uno scarico di sostanze residue di attività produttiva in un corso d’acqua (denominato ‘‘fosso Cerano’’) con superamento dei limiti di accettabilità. Il Pretore non lo riteneva colpevole perché il fatto era avvenuto imprevedibilmente a causa dell’interruzione dell’energia elettrica che aveva temporaneamente arrestato il ciclo depurativo dell’impianto sussistente. 2. A seguito di ricorso per cassazione proposto dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Brescia, la Corte di Cassazione — con sentenza del 21 maggio 1996 — annullava con rinvio la decisione del Pretore, rilevando che l’interruzione dell’energia elettrica era un’evenienza prevedibile, non configurava il ‘‘caso fortuito’’, e ad essa l’imputato avrebbe potuto ovviare dotando l’impianto di un gruppo elettrogeno autonomo. 3. In sede di giudizio di rinvio, il Pretore di Mantova, con sentenza del 17 settembre 1996, condannava il prevenuto, per il reato sopra-indicato, alla pena di Lire 10.000.000 di ammenda. 4. Alberto Prignacchi ha proposto ricorso per cassazione avverso quest’ultima decisione, deducendo due mezzi di annullamento. Con il primo motivo, denuncia la nullità del decreto di citazione emesso dal Pretore per la celebrazione del giudizio di rinvio, decreto notificato nell’agosto 1996 con fissazione dell’udienza dibattimentale per il 17 settembre 1996; il ter-
— 1037 — mine a comparire, limitato ad un giorno (per effetto della sospensione dei termini nel periodo feriale), evidentemente non appariva affatto adeguato. (Omissis). 5. Il primo motivo di doglianza si palesa fondato. Invero, il processo, a seguito del provvedimento di rinvio adottato dalla Corte di Cassazione, riprende innanzi, appunto, al giudice di rinvio secondo le norme proprie della fase e del grado nei quali il processo è restituito. Ne discende che i requisiti di cui deve essere fornito il decreto di citazione a giudizio vanno desunti dalla normativa del procedimento che viene ripreso, in relazione naturalmente alle peculiarità della fase del rinvio. In specie, per quanto concerne il processo pretorile, deve escludersi l’applicabilità dell’art. 555 c.p.p. che, nella fase originaria, prevede la emissione del decreto di citazione a cura del P.M. e stabilisce un termine a comparire lungo (45 giorni) perché in tale lasso di tempo (entro 15 giorni dalla notifica) l’imputato è ammesso a richiedere la definizione anticipata del processo (giudizio abbreviato o patteggiamento). Una volta venuta meno la possibilità per l’imputato di scegliere il rito speciale (per non avere manifestato tale intendimento nell’originario procedimento la cui sentenza è stata annullata dalla Cassazione) e con ciò l’esigenza di far emettere il decreto di citazione dal P.M. (v. così, Cass. 2 dicembre 1992, Giavarna), la citazione va disposta a cura del Pretore. Per quanto, poi, concerne la determinazione del termine a comparire dell’imputato, questo va desunto dal combinato disposto ex artt. 549-567 c.p.p., 143 Disp. Att. c.p.p. (ripetutamente interpretato quest’ultimo come applicabile anche al procedimento pretorile: v. Cass., Sez. un., 24 marzo 1995, Cirulli), secondo cui nel processo pretorile, in mancanza di specifiche disposizioni, debbono applicarsi le norme relative al procedimento davanti al Tribunale. In particolare, appare richiamabile l’art. 429 c.p.p. che indica in 20 giorni il termine minimo di comparizione del prevenuto davanti al Tribunale. D’altro canto, deve sottolinearsi che il termine per comparire deve essere in principio congruo per consentire la preparazione delle difese e gli altri incombenti da effettuarsi prima dell’udienza (deposito liste dei testi: 2 giorni prima: v. art. 567 c.p.p.; eventuale citazione della parte offesa: 5 giorni prima: v. art. 558 c.p.p.). Pertanto, deve ritenersi che nel giudizio di rinvio da svolgersi davanti al Pretore secondo il rito ordinario, a seguito di sentenza di annullamento della Cassazione, il decreto di citazione va notificato all’imputato almeno 20 giorni liberi prima. 6. Parimenti tempestiva deve ritenersi l’eccezione in tema sollevata dal ricorrente (circa l’inadeguatezza del termine a comparire) nel caso del processo pretorile di rinvio. Difatti, ad avviso di questa Corte di Cassazione, l’inosservanza del termine minimo di comparizione dell’imputato configura una nullità di ordine generale ex art. 178 lettera c) c.p.p., poiché incide sul diritto d’intervento del medesimo in giudizio restringendo indebitamente il tempo a lui concesso per organizzare la propria difesa. Quanto al regime di rilevabilità, la mancata osservanza del termine è riconducibile nell’ambito delle nullità a regime intermedio ex art. 180 c.p.p. (e non semplicemente relative ex art. 181 c.p.p.), giacché non può essere riferita all’art. 179 1o comma o quale nullità assoluta per ‘‘omessa citazione dell’imputato’’, poiché non attiene direttamente ai presupposti della ‘‘vocatio in iudicum’’, ma solo alle condizioni perché la difesa possa esplicarsi nel modo più favorevole (v.
— 1038 — così Cass. 10 novembre 1994, Malaspina; Cass. 12 aprile 1995, Racuti; Cass. 13 dicembre 1995, Prudente). 7. In conclusione, nel caso che ne occupa, il Pretore procedente ha erroneamente concesso all’attuale ricorrente un termine inadeguato per intervenire in giudizio, consistente in un solo giorno libero (atteso che il dibattimento era fissato per il 17 settembre ed il decreto era stato notificato durante il periodo feriale, senza la contestuale emissione di decreto di sospensione del termine feriale per la notifica). La fondatezza del primo motivo di ricorso esime questa Corte dall’esame del secondo motivo. La sentenza impugnata va annullata, con rinvio per nuovo giudizio davanti al Pretore di Mantova, che si atterrà al principio di diritto sopra indicato. (Omissis).
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Annullamento con rinvio al pretore, citazione del pretore e termine a comparire.
1. Non esiste più fervida fantasia ermeneutica della quotidiana prassi del foro; l’interprete non frettoloso non lo può dimenticare e deve, con cura paziente, analizzare le fattispecie più significative che il legislatore pur diligente non ha previsto o non ha disciplinato. Con la sentenza che si annota ancora una volta la Suprema Corte è dovuta intervenire in materia di competenza funzionale a rinnovare il decreto di citazione a giudizio per il procedimento pretorile (1), sotto il particolare profilo del termine a comparire per l’imputato; un vuoto normativo, a conferma, se necessario, della sommarietà di una disciplina, alla quale non è stata riservata — forse — la necessaria attenzione (2). 2. In breve la vicenda. Il Pretore assolve l’imputato dal reato di cui all’art. 21 3o comma della l. 319/1976, attribuendo il fatto oggetto dell’imputazione al caso fortuito. Il Procuratore generale, trattandosi di sentenza di proscioglimento inappellabile, propone ricorso per cassazione, in accoglimento del quale la Suprema Corte, escludendo il caso fortuito, annulla con rinvio una prima volta la sentenza. Il nuovo giudizio davanti al Pretore termina con una condanna. Senonché lo stesso Pretore aveva provveduto a rinnovare il decreto di citazione nei confronti (1) Numerose sono le sentenze della Cassazione in materia. Vedi ad es. Cass. 6 maggio 1996, in CED, rv. 204999; Id. 1 marzo 1996, in CED, rv. 204237; Id., Sez. un., 24 marzo 1995, in Cass. pen., 1995, p. 2829 con nota di A. GALANTI, Una nuova decisione delle Sezioni unite sull’autorità competente alla rinnovazione della citazione degli imputati nel procedimento pretorile; Id. 13 gennaio 1995, in Dir. pen. proc., 1995, p. 700, con nota di S.F. VITIELLO, Il rinnovo della citazione ad opera del pretore; Id. 26 novembre 1993, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 280; Id., Sez. un., 18 giugno 1993, in Cass. pen., 1993, p. 2511; Id. 22 maggio 1992, in questa Rivista, 1994, p. 327 con nota di F. VIGGIANO, In tema di competenza funzionale del giudice per le indagini preliminari; Id. 9 luglio 1991, in Giur. it., 1992, II, c. 420 con nota di M. PAGLIA. (2) Nello stesso senso, seppure con specifico riferimento alla disciplina dei termini, A. GIARDA, I termini di citazione della persona offesa dal reato e del responsabile civile, in Praxis criminalis, Milano, 1994, p. 459. Lo stesso Autore accenna anche al fatto che il legislatore ha delineato il procedimento pretorile in modo sommario in quanto ritenuto del tutto erroneamente relativo a reati di scarso valore e contenuto.
— 1039 — dell’imputato senza rispettare alcun termine dilatorio per la relativa notifica. Computando la sospensione del periodo feriale era decorso, infatti, un solo giorno fra la notifica del decreto ed il giorno fissato per l’udienza. Da qui il primo e fondamentale motivo di doglianza del ricorso proposto dall’imputato ed accolto dai Giudici di legittimità con la sentenza che si annota. 3. La Corte non si è limitata a dare una risposta al quesito centrale, ma ha avuto occasione di svolgere talune considerazioni di sistema che sembra opportuno richiamare. Innanzitutto ha enunciato un primo fondamentale principio: nel caso di annullamento con rinvio di una sentenza di primo grado la citazione per il nuovo giudizio davanti al pretore non va disposta dal pubblico ministero, secondo quanto stabilito in via generale dall’art. 555 c.p.p. (3), bensì dallo stesso pretore. La spiegazione che viene fornita è in larga misura condivisibile. ‘‘Una volta venuta meno la possibilità per l’imputato di scegliere il rito speciale (per non aver manifestato tale intendimento nell’originario procedimento la cui sentenza è stata annullata dalla Cassazione)’’, viene meno pure ‘‘l’esigenza di far emettere il decreto di citazione dal P.M.’’. La motivazione sul punto è chiara, ma stringata; impone perciò un approfondimento, nonché alcune precisazioni. Al riguardo è da ricordare che il risultato interpretativo, al quale è giunta la sentenza annotata, si riallaccia direttamente ad un orientamento ormai consolidato (4), imperniato sul distinguo di fondo tra rinnovazione della citazione valida e rinnovazione della citazione nulla. Si è chiarito infatti che, nel caso in cui, a seguito di decreto ritualmente emesso dal pubblico ministero — ci si riferisce ovviamente, sempre, al procedimento pretorile — si sia una prima volta correttamente passati dalla fase delle indagini preliminari a quella del giudizio, come nel caso di specie, spetta al pretore (5) rinnovare il decreto di citazione a giudizio, secondo quanto disposto in via generale dall’art. 143 delle disp. att. c.p.p., applicabile anche al procedimento pretorile (6). La nullità del decreto di citazione a giudizio, ovvero del primo atto di impulso processuale, determina, invece, a norma dell’art. 185 1o e 3o comma c.p.p. la nullità di tutti gli atti consecutivi, (per effetto del principio di diffusività delle nullità), e la conseguente ‘‘regressione del procedimento allo stato... in cui è stato compiuto l’atto nullo’’, ovvero alla fase conclusiva delle indagini preliminari. Il Pre(3) Nella Rel. Min. (vedila in AA.VV., Codice di procedura penale. Commentario, coordinato da GIARDA, Milano, 1990, sub Libro VIII, p. 1164) si legge che l’attribuzione del potere di emettere il decreto di citazione al pubblico ministero ‘‘si attaglia alla particolare struttura del procedimento pretorile, caratterizzato dalla espressa esclusione dell’udienza preliminare, che nel processo di Tribunale è il momento in cui il giudice valuta l’ipotesi accusatoria del pubblico ministero e dispone, se del caso, il rinvio a giudizio. Mancando nel processo di partenza tale momento è del tutto congruo attribuire direttamente al pubblico ministero i poteri di impulso processuale e di scelta del rito’’. Solo in caso di opposizione a decreto penale di condanna spetta al G.I.P. provvedere alla citazione a giudizio. In dottrina G. TRANCHINA, Il procedimento davanti al pretore, in AA.VV., Dir. proc. pen., vol. II, Milano, 1995, p. 405; A. PIGNATELLI, Il procedimento davanti al pretore, in AA.VV., Manuale pratico del nuovo processo penale, Padova, 4a ed., 1995, p. 931; A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, Milano, 6a ed., 1997, p. 537; G. LOZZI, Lezioni di proc. pen., Torino, 2a ed., 1997, p. 467. (4) Cass., Sez. un., 24 marzo 1995, cit., p. 2829; Cass., Sez. un., 18 giugno 1993, cit., p. 2511. (5) Per la casistica relativa alla rinnovazione del decreto di citazione da parte del pretore vedi A. GALANTI, Una nuova decisione delle Sezioni unite sull’autorità competente alla rinnovazione della citazione degli imputati nel procedimento pretorile, cit., p. 2835; G. DI NARDO, La rinnovazione del decreto di citazione nel giudizio pretorile, in Arch. nuova proc. pen., 1992, p. 315. (6) In dottrina, prima dell’intervento delle Sezioni unite, con diverse soluzioni E. SELVAGGI, Sulla competenza a rinnovare il decreto di citazione a giudizio nel procedimento pretorile, in Cass. pen., 1990, p. 58; G. BOCCHICCHIO, L’applicabilità dell’art. 143 disp. att. c.p.p. nel procedimento pretorile, ivi, 1991, p. 1913; G. DI NARDO, La rinnovazione del decreto di citazione nel giudizio pretorile, cit., p. 315.
— 1040 — tore, pertanto, dovrà limitarsi a rilevare la nullità del decreto ed ordinare la restituzione degli atti al pubblico ministero, che provvederà ad emanare un nuovo decreto di citazione a giudizio (7). Tale interpretazione è confermata, per altro verso, in funzione della natura del decreto di citazione emanato ai sensi dell’art. 555 c.p.p. Si tratta, come ben messo in evidenza, di un atto complesso (8), che non solo costituisce una forma di vocatio in iudicium, ma anche assolve alla funzione di rendere edotto l’imputato della facoltà di chiedere, nel termine di quindici giorni dalla notifica, la definizione anticipata del procedimento con un ‘‘rito alternativo’’, mettendolo in condizione di esercitarla. Se la rinnovazione del decreto di citazione nullo avvenisse ad opera del pretore, l’imputato si vedrebbe definitivamente preclusa la facoltà di chiedere il giudizio abbreviato davanti al giudice per le indagini preliminari (9), senza essere mai stato in condizione di esercitarla, con grave lesione del diritto di difesa sancito dall’art. 24 2o comma della Costituzione (10). Per converso la rinnovazione da parte del pubblico ministero di un decreto di citazione validamente emesso, oltre a fare regredire in modo anomalo il procedimento dal dibattimento alla fase delle indagini preliminari, attribuirebbe all’imputato di nuovo quella facoltà di scelta dei riti alternativi, che, per non esser stata esercitata originariamente, gli è oramai preclusa (11). 4. Di certo più interessante, anche per una riflessione di sistema, il secondo principio enunciato dalla Suprema Corte: esso rappresenta un novum nel panorama giurisprudenziale della materia che ne occupa. Il Pretore, chiamato a rinnovare il decreto di citazione dell’imputato in sede di rinvio, non deve provvedere alla relativa notifica nel rispetto del termine di ‘‘almeno quarantacinque giorni prima della data fissata per il giudizio’’ (art. 555 3o comma c.p.p.), bensì nel rispetto del termine dei venti giorni previsto dall’art. 429 3o e 4o comma c.p.p. (12). (7) Le Sezioni unite, nel chiarire questo aspetto, hanno altresì spiegato come l’art. 487 1o comma c.p.p., applicabile al procedimento pretorile in base al richiamo generale delle norme relative al processo davanti al tribunale di cui all’art. 549 c.p.p., non è attributivo di un potere per il Giudice di rinnovare direttamente le citazioni nulle, in quanto lo stesso art. 487 1o comma c.p.p. va interpretato ‘‘nell’ottica del generale disposto dell’art. 185 2o comma c.p.p.’’ (Cass., Sez. un., 18 giugno 1993, cit., p. 2513). In dottrina A. PIGNATELLI, Il procedimento davanti al pretore, cit., p. 943. (8) M. D’ANDRIA, Commento all’art. 555 c.p.p., in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, vol. V, Torino, 1991, p. 646; A. PIGNATELLI, Decreto di citazione a giudizio nel procedimento davanti al pretore, in Dig. disc. pen., vol. VI, 1992, p. 559; G. NEPPI MODONA-E. SELVAGGI, Procedimento davanti al pretore, in Dig. disc. pen., vol. X, 1995, p. 91; A. MOa LARI, Il procedimento davanti al pretore, in AA.VV., Manuale di proc. pen., 2 ed., Bologna, 1997, p. 519 e 521. (9) Rimane impregiudicata la possibilità per l’imputato di chiedere il ‘‘patteggiamento’’ e l’oblazione in limine al dibattimento. (10) È stata la Corte costituzionale nella sentenza 11 marzo 1993, n. 76, (si può leggerla con nota di A. GIARDA, in Praxis criminalis, cit., p. 484), a fissare sostanzialmente tale principio, nel dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 23 1o comma c.p.p. nella parte in cui disponeva che, quando il giudice del dibattimento dichiarava con sentenza la propria incompetenza per materia, ordinava la trasmissione degli atti al giudice competente, anziché al pubblico ministero presso quest’ultimo. La trasmissione degli atti dal Tribunale incompetente al Pretore competente, con la conseguente necessità in capo a quest’ultimo di rinnovare la vocatio in iudicium (vedi F. CORDERO, Proc. pen., Milano, 3a ed., 1995, p. 155), a detta dei giudici costituzionali, priverebbe infatti l’imputato senza sua colpa della possibilità di richiedere il giudizio abbreviato con violazione dell’art. 24 2o comma della Costituzione, in modo del tutto analogo al caso che ne occupa. (11) Cass., Sez. un., 24 marzo 1995, cit., p. 2831. La Corte Costituzionale, a partire dalla sentenza n. 593/90 (in Giust. pen., 1991, I, c. 134), ha chiarito che, ‘‘quando l’inerzia dell’imputato abbia impedito l’introduzione di un rito speciale e si sia pervenuti al dibattimento, sarebbe irrazionale che si ammettesse egualmente il giudizio abbreviato, o altri riti alternativi, secondo le contingenti valutazioni dell’interessato’’. (12) Per la verità un precedente significativo aveva già adombrato la soluzione che ora è stata ri-
— 1041 — Meritevole di approvazione l’insieme delle cadenze argomentative. Intanto va chiarita la diversa ratio sottesa alla previsione legislativa di un termine più lungo per la citazione dell’imputato davanti al pretore, rispetto a quello previsto per la citazione davanti al tribunale ed alla corte d’assise. Come lo stesso Giudice costituzionale ha avuto modo di rilevare ‘‘la prescrizione dell’art. 555 3o comma del codice di procedura penale... è strettamente collegata alla facoltà [per l’imputato stesso] di richiedere i riti alternativi di deflazione del dibattimento entro quindici giorni dalla notifica del decreto di citazione’’ (13). Se l’imputato nel termine previsto non abbia fatto alcuna richiesta in tal senso, viene meno qualsiasi motivo che giustifichi e imponga l’applicazione della norma de qua. La citazione per il dibattimento, e l’affermazione vale per tutte le ipotesi di rinnovazione del decreto di citazione da parte del pretore, perde la sua natura di atto complesso e viene ad assolvere la stessa e prevalente funzione rivestita nel procedimento davanti al tribunale ed alla corte di assise dal decreto che dispone il giudizio di cui all’art. 429 c.p.p.; ovvero la funzione fondamentale di vocatio in iudicium, oltre che di precisazione della contestazione nei confronti dell’imputato. In altri termini il decreto di citazione, quando sia emesso dal pretore, va considerato alla stessa stregua del decreto che dispone il giudizio, semplice atto di impulso processuale. Nessuna peculiarità del procedimento pretorile è pertanto di ostacolo al richiamo ed all’operatività dell’art. 429 c.p.p., che diviene perfettamente compatibile e, quindi, applicabile anche nel giudizio davanti al pretore in virtù del combinato disposto degli artt. 549 e 567 c.p.p. Si tratta, con tutta evidenza, di un’applicazione diretta di quella norma, specificatamente laddove fissa in 20 giorni il termine minimo che deve intercorrere tra l’emissione o la notifica del decreto e la data fissata per il giudizio. 5. Per completezza di analisi pare opportuno sondare anche un ulteriore profilo per così dire di patologia processuale. Il nuovo codice di rito, a differenza dell’art. 412 c.p.p. del 1930, non individua espressamente tra le cause di nullità della citazione a giudizio la violazione della disposizione sul termine a comparire dell’imputato (14), giacché l’art. 429 2o comma c.p.p. si limita a stabilire che: ‘‘il decreto è nullo se l’imputato non è identificato in modo certo ovvero se manca o è insufficiente l’indicazione di uno dei requisiti previsti dal 1o comma lett. c) e f)’’. È ben noto, tuttavia, che l’assenza di una previsione espressa di nullità non sta, per ciò solo, a significarne una eliminazione dal sistema (15). Il termine minimo di venti giorni che deve intercorrere tra la citazione delmarcata con l’annotata sentenza. La Cassazione, Sez. II, 8 febbraio 1996, n. 14900 (udienza 22 novembre 1995), Di Matteo, in CED, rv. 203730, ha statuito che ‘‘nel giudizio pretorile il termine minimo a comparire, fissato in quarantacinque giorni dall’art. 555 3o comma c.p.p., deve essere rispettato soltanto in occasione della prima citazione e non in altre ipotesi in cui occorre procedere a rinnovazione della citazione diverse da quelle di ravvisata nullità del decreto medesimo o della sua notificazione, nonché di probabile mancanza di conoscenza del decreto da parte dell’imputato ex art. 485 c.p.p.’’. (13) Così Corte costituzionale, Sent. 17 novembre 1992, n. 453, in GIARDA, Praxis criminalis, cit., p. 452, che ha dichiarato illegittimo l’art. 83, 5o comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedeva per la citazione del responsabile civile nel procedimento davanti al pretore il medesimo termine assegnato all’imputato dall’art. 555 3o comma dello stesso codice. (14) Non è riprodotta inoltre la disposizione dell’art. 189 1o comma c.p.p. 1930, per la quale ‘‘la nullità della notificazione rende(va) nullo il decreto di citazione’’. (15) In questo senso Cass., Sez. un., 24 marzo 1995, cit., p. 2831. Contra O. DOMINIONI, Commento all’art. 185 c.p.p., in AA.VV., Commentario del nuovo codice di procedura penale, coordinato da E. AMODIO-O. DOMINIONI, vol. II, Milano, 1989, p. 302.
— 1042 — l’imputato e il giudizio è un classico esempio di termine dilatorio (16), e tutte le norme che prevedono un termine di tale natura conferiscono ‘‘alle parti un potere finalizzato al concreto ed effettivo esercizio del diritto di difesa’’ (17). L’inosservanza del termine di cui all’art. 429 3o e 4o comma c.p.p. va ricondotta, pertanto, nell’ambito delle nullità di ordine generale previste dall’art. 178 lett. c) del nuovo codice di rito, poiché ‘‘incide sul diritto di intervento del medesimo [imputato] in giudizio, restringendo indebitamente il tempo a lui concesso per organizzare la propria difesa’’ (18). E non può che trattarsi di una nullità a regime intermedio (19), dato che l’inosservanza del termine a comparire, che presuppone una notifica ritualmente compiuta e un decreto perfetto nei suoi elementi essenziali, non è riconducibile a nessuna delle nullità assolute individuate dall’art. 179 1o comma c.p.p. e in particolare all’ipotesi di omessa citazione dell’imputato. La nullità de qua dev’essere eccepita o rilevata, in quanto attiene alla fase del giudizio (20), prima della deliberazione della sentenza del grado successivo a quello in cui si è verificata, ovvero la pronuncia della sentenza del grado di appello o di cassazione (se trattasi di sentenza di primo grado inappellabile). Se così non fosse, non si comprenderebbe altrimenti il motivo per cui la Suprema Corte, nella sentenza in commento, abbia considerata tempestiva la deduzione della nullità della citazione per inosservanza del termine a comparire dell’imputato nei motivi del relativo ricorso (21). 6. In conclusione, se da un lato occorre riconoscere l’importanza degli interventi giurisprudenziali, volti a fissare o a ribadire principi importanti in una disciplina ingiustamente trascurata, come quella dei termini processuali, dall’altro non ci si può esimere dall’auspicare un intervento organico del legislatore in materia (22), per evitare che, anche sotto questo profilo, la salvaguardia del diritto di difesa dell’imputato — e lo stesso discorso vale per tutte le parti private — rimanga, come spesso accade, una mera enunciazione di principio. GIANLUCA VARRASO Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
(16) I termini dilatori sono quelli con i quali ‘‘si indica che un atto non può essere compiuto prima del loro decorso’’: così A. GALATI, in AA.VV., Dir. proc. pen., vol. I, 2a ed., 1996, p. 301. (17) A. GIARDA, voce Termine (dir. proc. pen.), in Enc. dir., vol. XLIV, Milano, 1992, p. 254. (18) Così la sentenza in commento, retro. (19) Conforme Cass. sez. III 10 novembre 1994, Malaspina, in CED, rv. 200279. Individua una nullità a regime intermedio in tutti i casi di ‘‘termini dilatori insufficienti’’ F. CORDERO, Proc. pen., cit., p. 1031. (20) Gli atti che permettono all’interno del procedimento il passaggio dalla fase delle indagini preliminari al dibattimento — primo fra tutti la notifica del decreto di citazione che completa la vocatio in iudicium — attengono alla fase predibattimentale: E. ZAPPALÀ, Introduzione al libro VII c.p.p., in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da CHIAVARIO, vol. V, 1991, p. 6. Ed è preferibile considerare la fase del giudizio comprensiva e del dibattimento vero e proprio e degli atti preliminari ad esso. In questo senso O. DOMINIONI, Commento all’art. 180 c.p.p., in AA.VV., Commentario del nuovo codice di procedura penale, coordinato da E. AMODIO-O. DOMINIONI, vol. II, 1989, p. 285; E. ZAPPALÀ, Introduzione al libro VII c.p.p., cit., p. 6. In senso contrario V. CAVALLARI, Commento all’art. 180, in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da CHIAVARIO, vol. II, Torino, 1990, p. 330. In giurisprudenza App. Firenze, sent. 23 giugno 1992, in Foro it., 1992, II, c. 254 con nota adesiva di SCAGLIONE. (21) Conforme Cass. sez. III 10 novembre 1994, Malaspina, in CED, cit. (22) Così A. GIARDA, I termini di citazione della persona offesa dal reato e del responsabile civile, cit., p 459.
c) Giudizi di merito
PRETURA DI BOLOGNA — 31 maggio 1996 Pret. Lenzi — Imp. Martinelli e altri Omicidio colposo — Attività medico-chirurgica in équipe — Trapianto di organi da cadavere — Omessa raccolta di dati anamnestici sul donatore proveniente da altra struttura ospedaliera — Assenza di indizi sulla inesattezza o incompletezza dei dati raccolti dalla struttura ospedaliera di provenienza — Principio dell’affidamento — Colpa — Esclusione. Omicidio colposo — Attività medico-chirurgica in équipe — Trapianto di organi da cadavere — Omessa esecuzione del test anti-HIV sul donatore — Non prevedibilità della sussistenza di effettivi rischi di contagio in base alle conoscenze scientifiche dell’epoca dei fatti — Esclusione della colpa. Per il principio dell’affidamento è da escludersi una responsabilità per colpa dei medici che hanno effettuato un trapianto di organi da cadavere senza previamente raccogliere i dati anamnestici sul donatore proveniente da un’altra struttura ospedaliera, in assenza di alcun indizio che rendesse doveroso un controllo della esattezza e completezza dei dati da quest’ultima raccolti (1). La omessa esecuzione del test anti-HIV sugli organi di un donatore, destinati ad essere trapiantati in un altro soggetto, non può dar luogo ad un rimprovero per colpa per il sopravvenuto decesso del ricevente, se la sussistenza di un effettivo rischio di contagio della malattia anche nei trapianti di organi non era prevedibile, in base alle conoscenze scientifiche del momento (2). (Omissis). — Il sette maggio 1986 Giacomo Orizio, giovane muratore impiegato in una impresa edile che operava nella provincia bolognese, precipitava da una impalcatura riportando gravissime lesioni e veniva ricoverato nel reparto di neurochirurgia dell’ospedale Bellaria di Bologna. Risultata vana ogni iniziativa di cura (compreso un intervento chirurgico al capo) i familiari, accorsi da una provincia lombarda, venivano resi edotti della ineluttabilità della morte e, sensibilizzati sulla possibilità della utilizzazione degli organi per il trapianto, prestavano il necessario consenso, raccolto dall’anestesista rianimatore dott. Pomponio, il quale provvedeva anche a disporre il trasporto del corpo dell’Orizio alla rianimazione dell’ospedale S. Orsola per il previsto periodo di osservazione. In quest’ultimo ospedale veniva allertata la commissione medica prevista per i trapianti dalla allora vigente legge del 1975 e la clinica nefrologica perché, attraverso i test di istocompatibilità, venissero individuati i potenziali riceventi. Il paziente perveniva al S. Orsola alle ore 17 dell’8 maggio e veniva ricevuto dal medico di turno dott. Rossi il quale, dopo aver provveduto alle prime incombenze, veniva sostituito per il turno notturno dalla dott. Landuzzi, a sua volta rilevata dallo stesso Rossi la mattina successiva. Il 9 maggio veniva effettuato il trapianto dei reni sui due riceventi eletti: Cam-
— 1044 — pagni Agnese (in dialisi per nefrite lupica presso l’ospedale Malpighi di Bologna) e Dradi Paolo (in dialisi presso l’ospedale di Ravenna per nefropatia da reflusso vescicouretrale). Entrambi i pazienti superavano le complicazioni immunologiche ed infettive riferibili alla terapia immuno-soppressiva. Ma il 31 dicembre 1986 il Dradi risultava positivo al test HIV (noto allora come HTLV 3), mentre analogo controllo eseguito poco prima del trapianto ne aveva accertato la negatività; stessa positività veniva riscontrata nella Campagni nel marzo 1987. Il 26 ottobre 1991 il Dradi moriva per polmonite interstiziale e sepsi generalizzata. Analoga morte subiva la Campagni (per emorragia cerebrale) l’11 ottobre 1992. L’indagine del P.M. iniziava a seguito di querela per lesioni colpose proposta dalla Campagni in data 7 febbraio 1992 e di un esposto denuncia presentato dai familiari del Dradi il 2 marzo successivo. L’ispettore di P.S. Borgia ha proceduto al sequestro delle cartelle cliniche dell’Orizio presso gli ospedali S. Orsola e Bellaria prima e poi presso l’ospedale di Desio, nel quale era stato ricoverato tra il 1972 e il 1982 tre volte in rianimazione a seguito di overdose. Ha accertato che l’Orizio era già segnalato per la sua condizione dai carabinieri di Cesano Maderno alla fine degli anni ’70: che frequentava un gruppo di tossicodipendenti associati in una specie di cooperativa per eseguire lavori saltuari e di vario genere; che molti di questi giovani risultavano morti per AIDS. Ha poi eseguito una lunga e complessa indagine sulle trasfusioni di sangue ricevute dall’Orizio durante la sua degenza al Bellaria e dalla Campagni e dal Dradi a cominciare dalla prima dialisi; controllando le schede personali di ogni donatore ed accertando che tutti questi avevano sostenuto più esami specifici per l’HIV risultando sempre negativi. (...) Veniva esperito incidente probatorio con perizia affidata al Prof. Claudio Ponticelli (Primario della divisione di nefrologia e dialisi dell’Ospedale Maggiore di Milano) e al Prof. Adriano Lazzarin (Primario della divisione malattie infettive all’Ospedale S. Raffaele di Milano) che concludevano per una corretta indicazione al trapianto per entrambi i pazienti (« erano giovani, senza controindicazioni cliniche da trapianto e solo questa terapia poteva permettere loro di sperare di sospendere il trattamento dialitico »); per un andamento immunologico successivo soddisfacente, che faceva loro ben superare la fase acuta del rigetto; per la assenza di appunti « circa le indicazioni al trapianto, la corretta selezione immunologica e le scelte terapeutiche ». Ma affermarono « come altamente probabile » una trasmissione di HIV dal donatore ai due riceventi, desumendo tale giudizio dalla accertata sieropositività del donatore, dalle analoghe sieropositività dei riceventi appena dopo il trapianto e dalla negatività di tutti i donatori di sangue dai quali le vittime avevano ricevuto trasfusioni. Le ulteriori indagini istruttorie consentivano al P.M. di formulare addebiti di colpa al Prof. Mario Zanetti, Direttore Sanitario del S. Orsola perché, ricevendo dall’Assessorato regionale alla Sanità una circolare ministeriale nella quale era indicato l’obbligo di procedere alla effettuazione del test HIV oltre che per le emotrasfusioni, anche per i trapianti di organi, aveva delegato l’esame delle stesse al suo aiuto Prof. Manfredo Pace, preposto al settore trasfusioni, e non anche al
— 1045 — Prof. Bongiovanni che curava il settore trapianti, apponendo sul documento un laconico ed ambiguo « Manfredo, parliamone », e disinteressandosi poi della concreta realizzazione del programma operativo. Al Prof. Gerardo Martinelli, Primario del reparto di rianimazione del S. Orsola, per non aver organizzato tra i suoi collaboratori e preteso da questi un adeguato e generalizzato sistema di anamnesi che individuasse i potenziali rischi nei donatori prima che si procedesse al trapianto di organi. Al Prof. Vittorio Bonomini, Direttore dell’Istituto di nefrologia e dialisi del S. Orsola, e al suo aiuto Prof. Sergio Stefoni, preposto al settore trapianti ed al laboratorio interno, per avere omesso la esecuzione del test per la ricerca dell’HIV per garantire i riceventi dai rischi eventualmente connessi all’organo da trapiantare. (...) Veniva quindi assunta la testimonianza del dott. Pomponio, il quale ricordava come fosse stato chiamato per una consulenza dai colleghi del reparto di neurochirurgia del Bellaria dopo che per l’Orizio era stato diagnosticato lo stato di coma irreversibile e come, nonostante non rientrasse nei suoi compiti per la appartenenza del paziente ad altro reparto, avesse preso contatto con i familiari per comunicare la inutilità delle cure e per renderli edotti della possibilità di utilizzare degli organi per il trapianto, ottenendone l’assenso scritto. Quest’ultima cosa gli parve « Deontologicamente corretta nei confronti dei colleghi rianimatori che avrebbero ricevuto il paziente ». Non fece domande « di carattere clinico, anamnestico, generale » e si limitò ad organizzare l’avviamento dell’Orizio al S. Orsola. Il silenzio del dott. Rossi (che, prosciolto in istruttoria, si è avvalso della facoltà di non rendere dichiarazioni) e la mancata audizione al dibattimento della dott. Landuzzi non hanno consentito di chiarire se, quanto e con chi i familiari dell’Orizio si trattennero nel reparto di rianimazione del S. Orsola. È certo, comunque, che non vi fu un colloquio con i medici finalizzato alla raccolta di informazioni. Sulla prassi organizzativa del reparto hanno deposto con chiarezza la Prof. Anna Sara Corticelli e la Prof. Antonina Pigna, distinguendo i casi di politraumatizzati ricoverati originariamente per essere curati e quelli di pazienti provenienti da altra struttura ospedaliera ove già era stata riscontrata la morte cerebrale. Nel primo caso, quando le complicanze legate al trauma conducevano alla morte cerebrale, si faceva (o meglio si completava) la anamnesi iniziata durante i periodi di degenza con i parenti con i quali esisteva già un rapporto umano che facilitava una richiesta così delicata e traumatizzante. Nel secondo caso, quando il consenso veniva acquisito presso un altro istituto, era abbastanza normale l’affidamento, anche per non provocare il comprensibile disagio del contatto con i medici che avrebbero provveduto all’espianto da parte dei parenti che avevano già subito il duplice trauma del lutto e della richiesta. (...) La raccolta dei dati anamnestici viene da sempre ritenuta fondamentale per rendere adeguate le cure mediche alle necessità del paziente, sul conto del quale è necessario assumere la quantità maggiore possibile di informazioni in ordine alle malattie pregresse, a disturbi funzionali, alla eventuale « familiarità » di caratteristiche patologiche, al tenore e alle abitudini di vita nella assunzione di sostanze ritenute dannose per l’equilibrio psicofisico. Fa parte dei primi insegnamenti impartiti alla classe medica e necessita di ca-
— 1046 — pacità istruttorie, di intuito interpretativo, di dati di sintesi chiara e completa perché tale elaborato, una volta fissato sulle cartelle cliniche, deve costituire un dato di partenza sicuro ed affidabile per ogni clinico che dovrà successivamente intervenire. Lo stato di tossicodipendenza, per le sue sempre più numerose manifestazioni e per le implicazioni anche di ordine terapeutico che comporta, rientra ovviamente tra i dati anamnestici che vanno ricercati. Non vi è certezza su cosa sia venuto a conoscenza dei medici del Bellaria durante il periodo di permanenza in tale istituto di Giacomo Orizio. Sono stati comunque quei sanitari che hanno ricevuto dopo i primi soccorsi il giovane, che hanno tentato di scongiurare l’esito letale delle gravissime lesioni, che hanno avuto l’onere dei drammatici rapporti con i parenti presumibilmente annichiliti dalla rapidità degli eventi; sia nelle disperanti informazioni sulla negativa evoluzione della prognosi, sia nella delicatissima prospettazione del dono degli organi. Se vi furono dichiarazioni esplicite sullo stato di tossicodipendenza (o, più verosimilmente, segnali velati da reticenti pudori ma agevolmente interpretabili), grave sarebbe la colpa dei sanitari che hanno omesso di annotare e di comunicare notizie anamnestiche di tale rilevanza. Le risultanze istruttorie non sono chiarificatrici del contenuto dei colloqui, comunque intercorsi, allorché venne ricercato ed ottenuto il consenso. La conoscenza o la conoscibilità dello stato di tossicodipendenza evidenzierebbero una negligenza che assume anche maggior rilievo in relazione a circostanze di fatto (avviamento del donatore presso altro istituto, appartenenza dei parenti ad altra regione) che rendevano tale accertamento difficilmente ripetibile o completabile (...). (...) Occorre però verificare, per decidere sull’imputazione elevata al Prof. Martinelli, se la prospettabile omissione del Bellaria assumerebbe carattere ablativo della responsabilità di altri o se questa, invece, può sussistere e permanere in virtù di una colpa endogena, identificabile nel dovere di compiere una indagine anamnestica indipendente. Qui soccorrono la tesi difensiva, le dichiarazioni della Prof. Pigna già ricordate e quelle analoghe del Prof. Zuccoli (Primario della rianimazione all’Ospedale di Parma) che fa riferimento a prassi operative ancora più largamente fondate sull’implicito. È noto che le prestazioni mediche di un certo rilievo vengono oggi eseguite normalmente da una pluralità di soggetti, inseriti all’interno di una struttura ed organizzati secondo princìpi di divisione del lavoro, sono spesso interdisciplinari e richiedono a volte la stretta collaborazione di istituti diversi. Tutti questi soggetti, che interagiscono fornendo ciascuno il proprio apporto, quando e in che termini possono essere chiamati a rispondere di comportamenti colposi altrui? Ex facto oritur ius: tale nuova situazione ha condotto la dottrina e la giurisprudenza ad elaborare il principio dell’affidamento. Come sempre accade, varie teorie si sono intrecciate sulla valutabilità di tale principio ai fini dell’esonero dalla colpa. Da quelle più rigoristiche, postulatrici di un dovere generale di controllo reciproco, che ammetterebbe deroghe soltanto in caso di assoluta imprevedibilità dell’errore altrui; a quelle privilegianti la definizione di una sfera di responsabilità propria del singolo partecipante alla presta-
— 1047 — zione; a quelle, compromissorie e temperanti, che senza prendere posizioni definitorie rigide, segnalano la necessità di adeguare la valutazione alle circostanze concrete. E cioè, la sostituzione di un criterio predeterminato con un obbligo di controllo e vigilanza (al di là della osservanza delle regole del proprio specifico settore), ove sussistano circostanze che lascino temere contegni altrui non conformi a perizia e diligenza. Il che, tradotto in termini di comune buon senso e sfiorando la ovvietà, significa che il principio dell’affidamento intanto può essere fatto valere in quanto sussistano le condizioni per la affidabilità. Sussistevano tali condizioni all’atto del ricevimento del corpo dell’Orizio al S. Orsola? La difesa del Prof. Martinelli ha evidenziato correttamente i parametri per la valutazione di tale affidabilità in concreto. Anzitutto la qualità della struttura ospedaliera da cui proveniva il donatore e la frequenza dei rapporti con la stessa: un centro qualificato in genere e, in specie, nel settore dei trapianti che non poteva indurre dubbi sulla diligenza e sulla professionalità dei comportamenti. Nella fattispecie l’Orizio risultava anche operato durante la sua degenza e questo lasciava presupporre una indagine anamnestica non solo già effettuata ma anche più diffusa e approfondita di quella solo mirata ad accertare l’idoneità al trapianto. Fu questa situazione a determinare l’affidamento interno del dott. Pomponio (« nessun campanello d’allarme » dice) e la sua omissione dell’anamnesi prima della raccolta del consenso sulla presunzione di una valutazione di idoneità già esperita. (...) In tale situazione l’affidamento deve ritenersi legittimo e quindi incolpevole. E la mancanza di doverosità dell’anamnesi non solo conduce al riconoscimento della assenza di un comportamento negligente del dott. Rossi, ma deve escludere anche la ipotizzabilità di un nesso causale tra la deficienza organizzativa contestata al Martinelli e l’evento, esimendo anche il giudicante da ogni valutazione sulle prove addotte per dimostrarne la sussistenza. Passando a valutare la fondatezza degli addebiti contestati ai Proff. Bonomini e Stefoni, abbiamo appreso dalla istruttoria (dott. Luigi Carlo Borgnino e dott. Alessandro Nanni Costa) che nel reparto di nefrologia il servizio era diviso in una sezione di degenza, una sezione di dialisi e un laboratorio con caratteristiche di autonomia non ben definite e, comunque, non ufficializzate. Tale laboratorio faceva capo, di fatto, allo Stefoni, allora dottore, che aveva una specifica preparazione nel campo biologico ed immunologico ed era il punto di riferimento per i problemi che potevano sorgere a livello amministrativo e programmatico. Si occupava anche della ricerca per il trapianto renale e veniva informato delle metodiche scelte. All’inizio del 1986 il laboratorio iniziò a fare esami per la ricerca dell’HIV con la prima metodica uscita (Elisa), con kits forniti dalla ditta farmaceutica Orto non ancora sufficientemente perfezionati: la loro attendibilità non era totale in quanto, testandoli contro sieri di cui era stata accertata con sicurezza la positività o la negatività, fonivano risultati falsamente positivi o falsamente negativi. Lo studio di tali metodiche proseguì ma necessitava di una certa strumentazione, vi erano problemi di fondi e una certa rigidità amministrativa sulla fornitura dei materiali che, a volte, venivano addirittura richiesti un anno per l’altro. Anche per questo vi fu richiesta in data 21 febbraio 1986 ritenendo la mac-
— 1048 — china per fare i test Elisa « necessaria per la ricerca degli anticorpi anti-HTLV 3 da utilizzare di urgenza nei donatori di trapianto renale ». Riferisce il dott. Nanni Costa che, frequentando all’epoca la scuola di immunologia di Firenze « si cominciava appena ad intravvedere » una potenzialità di rischio di trasmissione nel trapianto di organi e lui con tale richiesta intese segnalarlo anche « come rafforzativo per giustificare l’ordine ». Che comunque sarebbero occorsi mesi per imparare ad usare la strumentazione, per passare dalla ricerca all’uso clinico e poter cominciare a fornire i dati in maniera sistematica (il che avvenne alla fine del 1986). Vediamo quindi sotto quali aspetti può essere formulato un addebito di colpa ai medici del reparto di nefrologia. Esclusa la conoscenza dello stato di tossicodipendenza del donatore (manca la prova di un suo accertamento da parte dei sanitari del Bellaria e del reparto di rianimazione e quindi, conseguentemente, di una sua comunicazione). Escluso un dovere di conoscibilità attraverso attività anamnestiche, che competevano a strutture poste a monte. Esclusa la doverosità di un test anti-HIV in osservanza di regole o discipline impartite dalla direzione sanitaria, in quanto è certa (e costituisce appunto specifico addebito di colpa) la mancata segnalazione della circolare ministeriale. Altro non rimane che il dovere di conoscenza della necessità dell’esperimento di tale test e quello conseguente di organizzazione del servizio relativo riferito alle medie qualità di diligenza e di perizia. A riprova di tale dovere vengono individuate dal P.M. alcune circostanze specifiche. Si sostiene che alla Nord Italian Trasnplant (struttura considerata tra quelle a livelli più avanzati in Italia) tali esami venissero correntemente effettuati già a quell’epoca. In realtà dalla documentazione prodotta (verbale di assemblea in data 12 marzo 1986) risulta che « dalla discussione è emersa la necessità di disporre in tempi utili della determinazione degli anticorpi HTLV 3 per i donatori di organi. Questi esami devono essere richiesti dal reparto dove è ricoverato il potenziale donatore ». Tale documento evidenzia soltanto che il problema ed il pericolo iniziavano ad essere avvertiti nell’ambiente scientifico. Di qui le proposte e le indicazioni di modalità organizzative ed operative in relazione ad una ulteriore possibilità di contagio da un morbo sempre più insidiosamente pervasivo. E ammette implicitamente che in tale struttura di avanguardia, la diffusione di una pratica di laboratorio di quel tipo era ancora allo stato embrionale. Ha provato ancora il P.M. che l’istituto di Ematologia del S. Orsola, al di là della deposizione minimizzante del Prof. Gugliotta, già dall’aprile del 1986 aveva iniziato lo screening sistematico dei donatori di midollo, cioè di un tessuto (« qualcosa che per composizione e struttura non può che essere assolutamente analogo ad un organo »). Tale argomento del P.M., al di là delle perigliose argomentazioni tecniche sulla assimilabilità fra strutture anatomiche diverse, in realtà prova troppo: in quanto non considera il perché non vi fu nell’ambiente scientifico una altrettanto immediata ed intuitiva correlazione con le trasfusioni di sangue, già da tempo riconosciute come potenziali veicoli del morbo. In realtà fu proprio, in quel periodo, la pluriforme insidiosità della malattia che travolse uno dopo l’altro i ba-
— 1049 — luardi che la scienza elevava (non si comprende se in modo fondato o scaramantico), ogni volta arretrando per la sottovalutazione o la imprevedibilità del male. Nella stessa perizia del dott. Ippoliti, nominato dal P.M., si fa riferimento ad « una rapida evoluzione che si è avuta in termini di conoscenza della trasmissione attraverso il trapianto renale dopo il 1986 » e si individua in termini probabilistici il rischio per un trapianto eseguito senza screening in un caso ogni 11.000. Sostiene a tale proposito la difesa che la percepibilità di tale problematica era all’epoca così tenue e poco diffusa che integrava a livello scientifico soltanto un giudizio probabilistico non sussumibile, per la sua indeterminatezza ed incertezza, in campo giuridico, come elemento probatorio della sussistenza di una colpa. E che il test anti-HIV non veniva eseguito neppure nella struttura del S. Orsola che eseguiva i trapianti di fegato. Non si può, sotto questo profilo, attribuire valore decisivo alle comunicazioni provenienti da prestigiose università estere che indicano la adozione del test in epoca successiva ai fatti di causa; sia perché il tono confidenziale con cui vengono indirizzate al Prof. Bonomini (dear Vittorio) è indicativo (forse) di sollecitazioni e (certo) di particolare condiscendenza; sia perché i mittenti avrebbero dovuto essere chiamati a deporre e a sottostare alle prevedibili richieste di chiarimenti da parte dell’accusa. Ma, per converso, l’accusa al di là delle già commentate allegazioni, non ha fornito indicazioni di una consistente diffusione di tale pratica clinica presso le altre strutture nazionali destinatarie della medesima circolare; in modo tale da poter valutare comparativamente una negligenza che, per definizione giuridica, ha natura relativa (homo eiusdem condicionis et professionis). (...) Per valutare se nella fattispecie sussistano tali profili di responsabilità occorre spogliarsi delle acquisizioni scientifiche successive ai fatti. Compito non facile per la difficoltà di reinserimento temporale di dati che sono entrati nella scienza, nella cultura, nella informazione quotidiana e, quindi, nel nostro soggettivo sapere, in tempi e con modalità diversi; che oggi costituiscono un contesto sufficientemente compiuto ed analizzabile, una summa soggettiva ben diversa da quella congerie di elementi sparsi e precari, di allarmi, di affermate certezze e di smentiti pericoli che ci hanno investito per anni, alternando l’enfasi alla riduzione. E questo per evitare, anche inconsciamente, suggestioni che potrebbero condurre, come segnala un difensore, ad una specie di « retroattività surrettizia » della norma, eludendo l’obbligo della valutazione ex ante come misura della prevedibilità. Ed è proprio su quest’ultimo centrale punto della prevedibilità dell’evento che si ritiene carente la prova proposta dall’accusa. E la gravità dell’evento non può sovvertire i criteri dati di valutazione della sua prevedibilità. Rimane da valutare, da ultimo, la posizione del Direttore sanitario Prof. Zanetti e quello che viene prospettato come un inconciliabile dilemma della tesi accusatoria. Se fosse vero — si dice — l’assunto del P.M. che lo stato della conoscenza scientifica dell’epoca (quello che con compiaciuto e compiacente veterologismo si definisce stato dell’arte) era tale da qualificare come imperdonabile disinformazione la ignoranza della necessità di procedere anche per i trapianti di organi al test HIV, la mancata diffusione della circolare a quel reparto da parte del Prof. Zanetti dovrebbe considerarsi omissione priva di apporto causale.
— 1050 — Se invece così non fosse, il mancato ricevimento della prescrizione conferirebbe natura non colposa alla attività prestata dal reparto di nefrologia. Ma, a volte, la brutalità delle semplificazioni è inversamente proporzionale alla chiarezza e alla verità. È infatti concettualmente evidente che la interazione di meccanismi concausali può distribuire tra diversi soggetti la responsabilità penale, solo attenuandola in capo ad ognuno di essi. E le omissioni addebitate alla Direzione sanitaria e alla nefrologia non appaiono perfettamente complementari, ma mantengono caratteristiche non giustapponibili pur nella loro contiguità. Vi è un dovere di informazione, di coordinamento e di organizzazione da un lato e un obbligo indipendente di aggiornamento professionale dall’altro. Sostiene l’accusa che lo Zanetti, ricevendo nella sua veste professionale la circolare regionale, che accompagnava e comprendeva quella ministeriale allegata, avrebbe dovuto esaminare anche quest’ultima (l’unica che conteneva il riferimento al test anche per il trapianto di organi) e, nel caso che intendesse delegarne la esecuzione, assicurarsi che il delegato avesse posto in essere tutte le attività organizzative e diffusive necessarie. Nella fattispecie, invece, vi fu solo l’affidamento al vicedirettore Pace con quella annotazione interlocutoria cui non venne dato alcun seguito; con la conseguenza che il reparto ove si eseguivano i trapianti renali non venne a conoscenza della nuova prescrizione. La difesa rivendica la legittimità dell’assegnazione, effettuata non con una delega in senso tecnico, ma nella ripartizione dei compiti all’interno di un organo nel quale i vicedirettori avevano una posizione istituzionale ed una competenza funzionale propria. Ed interpreta quel « parliamone » non come il segnale di una competenza trattenuta, ma come una doverosa ma eventuale disponibilità. Rileva che (a differenza degli organi regionali che, pur privi di incombenze, trattennero la circolare dal 4 agosto al 30 settembre 1985) la Direzione sanitaria si attivò immediatamente insediando in pochi giorni la Commissione prevista dal testo ministeriale, ottenendo la prescritta relazione e comunicando alla amministrazione le risoluzioni adottate entro il mese di ottobre. (...) È stata documentata anche una pressante attività epistolare dello Zanetti diretta ad ottenere dalla Amministrazione un adeguamento del personale e dei mezzi strumentali per far fronte alle nuove incombenze: vedasi la lettera in data 19 marzo 1986 all’Assessorato regionale alla sanità, ove si sollecitavano risposte evidenziando che « a tutt’oggi non vengono eseguiti gli accertamenti sierologici per l’HTLV 3 nel sangue raccolto presso il Servizio trasfusionale » e lamentando la soppressione di due unità di personale medico. Recrimina, quindi, la difesa che il comportamento richiesto al Direttore sanitario sia proprio quello meramente diffusivo e smistante; criticabile come criterio di amministrazione in quanto, affidandosi all’effetto deresponsabilizzante della comunicazione, eluderebbe di fatto i problemi spostandoli a valle, anziché affrontarli con un impegno diretto. D’altra parte, anche ove il reparto del prof. Bonomini avesse ricevuto la circolare, altro in concreto non avrebbe potuto fare che chiedere di rimando all’Amministrazione di attivarsi nella predisposizione di quel servizio; il che, nei termini suddetti, già veniva fatto con il lavoro della Commissione e con le sollecitazioni alla Regione. (...) La prospettata possibilità di contagio anche attraverso i trapianti di or-
— 1051 — gani passava necessariamente in secondo piano rispetto alla già accertata necessità operativa per le trasfusioni ematiche che, per frequenza di esecuzione e riscontri scientifici ormai risalenti, costituivano la prima ragion d’essere della circolazione e quella ulteriore indicazione (priva, tra l’altro, di riferimenti alle fonti dell’informazione e alla casistica) appariva come una raccomandazione a sorvegliare altri fronti dalle insidie di un male, il cui carattere onnioffensivo si stava rivelando in tragica progressione. Si ritiene quindi, per tutte le considerazioni sopra esposte, che nessuno degli imputati possa essere gravato da una condanna conseguente all’accertamento delle responsabilità colpose contestate (Omissis).
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Alcune puntualizzazioni sul principio di affidamento.
1. Due sono gli aspetti di maggiore rilevanza, nel quadro della problematica della colpa, che la sentenza qui annotata, chiamata a pronunciarsi sugli eventuali profili di responsabilità penale collegati all’omessa adozione di cautele doverose da parte di una pluralità di medici — ricoprenti ruoli diversi in seno alla medesima struttura ospedaliera — coinvolta nell’esecuzione di un trapianto di organi da cadavere (1), mette in risalto. Dando per scontata la qualifica di detti medici sub specie di garanti della vita e dell’integrità fisica dei riceventi, sì da farne discendere la configurabilità a loro carico di un obbligo di attivarsi onde impedire (il verificarsi di) eventi lesivi in danno di questi ultimi, la decisione in esame prende posizione in ordine al quantum di diligenza che vale a tipicizzare il comportamento dovuto da ciascuno di essi (2). Il che si traduce, in rapporto all’effettuazione dei tests anti-HIV con riferimento agli organi del donatore prima di far luogo al trapianto, nell’accertare se questa cautela potesse formare lo specifico contenuto di una regola di diligenza indirizzata ai sanitari che vi avevano proceduto alla stregua del parametro dell’homo eiusdem professionis ac condicionis. Si tratta cioè di appurare se in ambienti scientifici corrispondenti a quelli propri degli specialisti deputati al trapianto fosse previamente riconoscibile, in modo da doverlo essere anche per i medesimi, il pericolo del prodursi di eventi lesivi — nella specie quelli derivanti dal contagio di Aids — collegati alla loro mancata attuazione (3), quesito al quale la sentenza in questione dà risposta negativa. Laddove, per ciò che attiene alla mancata rilevazione dello stato di pregressa tossicodipendenza del donatore quale fattore di rischio per l’esito del trapianto, puntualmente concretizzatosi nell’evento dato dalla (1) Per un quadro della problematica in materia si rinvia a F. MANTOVANI, voce Trapianti, in App. Nss. D.I., Torino, 1987, p. 795 ss. Per ulteriori ragguagli circa lo stato attuale della normativa, strettamente connessa con la tematica dei trapianti da cadavere, in punto di accertamento e certificazione della morte cfr. PARODI-Nizza, La responsabilità penale del personale medico e paramedico, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, diretta da F. Bricola e V. Zagrebelsky, Torino, 1996, p. 456 s. (2) Per ciò che attiene all’inquadramento dei medici sub specie di titolari di una posizione di garanzia, rientrante fra quelle estrinsecantisi in obblighi di protezione e l’estensione della quale risulta dal complesso dei compiti attribuiti dalla normativa vigente ai diversi profili professionali (primario, aiuto, ecc.) che vi rientrano, cfr. GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, p. 317 s. La funzione di tipicizzazione del comportamento dovuto dal garante spiegata dalle regole di diligenza che gli si indirizzano è parimenti evidenziata da GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 370 ss. (3) Per questa ricostruzione del meccanismo genetico di una regola di diligenza cfr. M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale. I. Art. 1-84, II ed., Milano, 1995, p. 426 ss.
— 1052 — trasmissione del virus HIV in danno dei riceventi, si pone il problema se tanto il responsabile dell’organizzazione del servizio di rianimazione della struttura nella quale aveva avuto luogo il trapianto, quanto i medici (del reparto) che direttamente vi avevano provveduto, fossero autorizzati a fare affidamento sulla corretta raccolta dei dati anamnestici da parte dei medici operanti nella diversa struttura ospedaliera nella quale il donatore era stato originariamente ricoverato; sicché l’àmbito dei loro doveri non si estendesse ad una nuova raccolta degli elementi rilevanti in sede di anamnesi ovvero ad un controllo di quella precedentemente da altri compiuta, in forza della limitazione di tali doveri discendente dall’applicazione a favore dei soggetti in questione del principio di affidamento. Proprio su questo secondo punto la sentenza che si commenta presenta gli spunti di maggior interesse e di più significativa novità, ancorché bisognosi di approfondimento ed anche di revisione critica quanto ai passaggi argomentativi che conducono alla soluzione ultima riservata al caso concreto: esclusivamente su di essi concentreremo pertanto la nostra attenzione. 2. A questo ultimo riguardo, si può notare come il thema decidendum sottoposto all’organo giudicante fosse, in buona sostanza, la legittimità di una prassi invalsa nel rapporto fra due distinte strutture ospedaliere; prassi per effetto della quale gli accertamenti anamnestici compiuti dalla prima, sul presupposto della loro conformità agli standards di diligenza richiesti a coloro che vi avevano proceduto in quella sede, non venivano ripetuti nella seconda. Il concetto stesso di prassi evoca, a sua volta, I’idea di una reiterazione di comportamenti di identico segno: nella vicenda oggetto della decisione che interessa, si trattava evidentemente (della ripetizione) di condotte omissive da parte dei soggetti che pure erano titolari degli obblighi di attivarsi connessi all’esigenza di tutelare i pazienti da pericoli, quali quelli immanenti alla propria sottoposizione ad un trattamento medicochirurgico, che questi non sono in grado di fronteggiare per effetto dell’essere allocata la gestione dei fattori di rischio nell’esclusiva competenza dei medici, proprio per questo elevati a garanti della loro salute. La liceità di una prassi suddetta, ferma restando l’inidoneità a legittimarla della sola circostanza che essa sia di fatto osservata o, quanto meno, tollerata (4), sta e cade, inevitabilmente, con la possibilità di inquadrarla o meno nell’alveo di un rischio che possa considerarsi come (ancòra) consentito dall’ordinamento. Quanto ai criteri utilizzabili per decidere se essa vi rientri ovvero se ne collochi al di fuori, è abituale, almeno in termini generali, il rinvio alla presenza di eventuali autorizzazioni amministrative aventi ad oggetto il contegno da tenersi da parte di chi esercita attività pericolose ovvero è comunque titolare di posizioni di garanzia dirette ad impedire il verificarsi di eventi lesivi in pregiudizio di coloro che vi risultino esposti (5). Nondimeno, la pretesa di ancorare alle autorizzazioni suddette la legittimità di una prassi concernente la ripartizione dei compiti fra gli appartenenenti a diverse strutture ospedaliere sconta invariabilmente il dato della loro assenza sullo specifico terreno della distribuzione di competenze fra i soggetti chiamati a dar corso ad un trattamento medico-chirurgico organizzato secondo i canoni della divisione del lavoro. In effetti, se del ruolo dell’autorizzazione in rapporto all’attività medico-chirugica si vuol parlare, lo si dovrà necessariamente circoscrivere al fatto che l’articolata normativa che ne disciplina l’esercizio lascia chiaramente intendere come il suo svolgimento in sé e per sé considerato, malgrado i pericoli che vi sono insiti per coloro che volontariamente vi si sottopon(4) Cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. g., III ed., Bologna, 1995, p. 498. (5) Sulla funzione (di strumenti) di concretizzazione della soglia del rischio consentito cui assolvono le autorizzazioni amministrative cfr. ancora FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. g., cit., ibidem.
— 1053 — gono (6), debba ritenersi autorizzato in via generale dall’ordinamento. Da ciò non potrebbe peraltro desumersi un’autorizzazione acché siano altresì corsi i pericoli discendenti dalla sua esecuzione secondo i moduli della divisione delle competenze fra coloro che vi prendono parte, quest’ultima risultando fonte di pericoli distinti ed ulteriori rispetto a quelli immanenti al trattamento medico-chirurgico riguardato nel suo complesso: si pensi a quelli discendenti dal difetto di coordinamento, dalla mancanza di una tempestiva e completa informazione ecc., fra coloro che vi partecipano. Pericoli di questo genere non sono coperti dalla generale autorizzazione allo svolgimento dell’attività medico-chirugica ed il rischio che vi si riconnette, per (poter) fruire di una patente di liceità di fronte all’ordinamento, dovrà reperirne altrove la propria legittimazione (7). Soccorre a questo punto il richiamo all’idea-cardine secondo la quale a determinare il rispetto dei confini del rischio c.d. consentito da parte di condotte pur apportatrici del pericolo di eventi lesivi in danno di quanti sono esposti ai loro effetti sarebbe pur sempre — fuori dei casi nei quali si riscontrino le autorizzazioni di cui si è appena discorso — l’osservanza delle regole di diligenza che presiedono alla loro concreta attuazione (8). Ciò posto, se ne deduce che sempre sul versante di tali regole si potrebbero individuare gli eventuali limiti degli obblighi incombenti su chi dette condotte tiene; con il risultato che per la quota di obblighi interessata da tali limiti le condotte in questione non potrebbero mai essere definite come contrarie a diligenza ed i rischi da esse promananti dovrebbero pertanto qualificarsi come consentiti. La sentenza che si commenta percorre questo sentiero e ravvisa il limite del quantum di diligenza dovuto dal responsabile del reparto di una determinata struttura ospedaliera nell’esistenza di specifici doveri facenti capo a medici operanti presso una diversa struttura ospedaliera. Si fa leva sul fatto che precisamente a questi ultimi competesse l’obbligo di procedere alla raccolta dei dati anamnestici relativi ad un paziente che ivi era stato sottoposto a cure e che ad altra struttura era stato avviato unicamente perché in quella sede avesse luogo il trapianto degli organi. Se ne deduce che i responsabili dei reparti di tale seconda struttura, in cui il trapianto degli organi era stato effettuato, potessero richiamarsi al principio di affidamento: il fatto che destinatari dell’obbligo di raccogliere gli elementi utili ai fini dell’anamnesi del donatore fossero i medici della struttura alla quale il medesimo era stato originariamente avviato, autorizzava l’aspettativa che questi ultimi vi avessero adempiuto in conformità di quanto contenuto nella lex artis relativa a tali accertamenti, che si precisa essere patrimonio elementare degli appartenenti alla scienza medica, Né, d’altro canto, si erano palesati indizi dai quali i responsabili (dei reparti) della struttura alla quale il donatore era stato successivamente avviato potessero o dovessero inferire l’incompletezza e/o l’inesattezza dei dati anamnestici loro pervenuti, sì da rimuovere la loro aspettativa circa la conformità della stessa ai doveri mettenti capo ai soggetti deputati a raccoglierli. Nell’ottica fatta propria dall’organo giudicante, dunque, il principio di affidamento (Vertrauensgrundsatz) — al di là degli equivoci nel delinearne l’effettivo atteggiarsi, sui quali infra — viene ricavato dalla proiezione nei rapporti intersogget(6) Per questo modo di ricostruire la liceità penale dell’attività medico-chirurgica globalmente intesa cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, pt. g., III ed., Padova, 1992, p. 284. (7) Gli specifici pericoli immanenti all’esecuzione pluripersonale di un trattamento curativo erano, del resto, già evidenziati da STRATENWERTH, Arbeitsteilung und ärztliche Sorgfaltspflicht, in Festschrift für Eberhard Schmidt, Göttingen, 1961, p. 389. (8) Per il rilievo che una data condotta può iscriversi nell’alveo del rischio consentito « perché (e purché) concretamente diligente » M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale. I, cit., p. 429. Sul rapporto fra rischio consentito e dovere di diligenza cfr., altresì, l’approfondita disamina di MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988, p. 55 ss.
— 1054 — tivi dei doveri di diligenza riferibili a ciascuno dei soggetti chiamati a dare il proprio contributo ad una forma di trattamento medico-chirurgico articolantesi in più fasi, quale quella postulata da un trapianto di organi. La sua concreta applicazione, nel caso di specie, a favore di medici che hanno utilizzato prestazioni di altri medici sul presupposto della loro conformità agli standards richiesti vale a ritagliare, a vantaggio dei primi, una sfera di pericoli che, in quanto autorizzata dall’operatività del principio de quo, rientra nei confini del rischio consentito e lo concretizza. Quanto rimarcato a proposito di questa decisione in tema di legittimità di una prassi nei rapporti fra il personale medico appartenente a due diverse strutture ospedaliere consente di trarre due immediati corollari non privi di importanza in ordine all’interrelazione fra l’àmbito di operatività del rischio consentito e quello del principio di affidamento. Da un lato ne esce scalfita l’idea di due limiti al dovere di diligenza operanti su piani distinti e tra loro non comunicanti, il primo afferente a condotte pericolose ma permesse in nome dei vantaggi che da esse si ripromette di ottenere l’ordinamento, il secondo rivolto a sancire l’ordinaria — ma per questo non assoluta — irresponsabilità per fatti colposi di terzi (9); e risulta all’opposto asseverato come proprio lo spazio riservato all’applicazione del principio di affidamento sia atto ad ampliare il margine di estensione del rischio consentito, secondo quella che è un’acquisizione ormai consolidata nella dottrina d’oltralpe (10). Dall’altro traspare anche il dato che, proprio perché è il principio di affidamento, rectius la sua applicazione, ciò che contribuisce a definire i contorni del rischio consentito, sì che la determinazione dell’estensione di questo rappresenta il risultato dell’operatività di quello, la categoria del rischio consentito non può essa stessa costituire il fondamento dogmatico del principio di affidamento; come viceversa è incline a ritenere la dottrina maggioritaria di lingua tedesca (11), non senza qualche adesione nel panorama italiano (12). La premessa indispensabile per inquadrare correttamente il problema del fondamento del Vertrauensgrundsatz va piuttosto individuata, secondo meccanismi che altrove abbiamo esaminato (13) e che in questa sede sarebbe un fuor d’opera ripercorrere, nel riverberarsi su ogni consociato delle attese di comportamento aventi ad oggetto la produzione di comportamenti conformi alle richieste di diligenza loro rivolte da parte dei rispettivi destinatari con le condotte dei quali la condotta del primo venga comunque ad interferire. 3. Quanto ai tratti del principio di affidamento evidenziati dalla decisione che si annota, giova sgombrare preliminarmente il campo da un equivoco, attinente alla reale funzione spiegata del principio in questione, che sembra potersi cogliere nella sua motivazione. (9) La fissazione della linea di demarcazione fra detti limiti (al dovere di diligenza) che si critica nel testo può rinvenirsi in FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. g., cit., p. 497 ss. (10) La funzione di concretizzazione dei limiti del rischio consentito spiegata dal principio di affidamento trovasi già sottolineata da WELZEL, Fahrlässigkeit und Verkehrsdelikte. Zur Dogmatik der fahrlässigen Delikte, Karlsruhe, 1961, p. 17 s. e n. 35. Nello stesso senso cfr., tra gli altri, BURGSTALLER, Das Fahrlässigkeitsdelikt im Strafrecht. Unter besonderer Berücksichtigung der Praxis in Verkehrssachen, Wien, 1974, p. 59. Nella nostra dottrina cfr. FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, p. 261 ss. (11) Fra gli altri si vedano WELZEL, Das deutsche Strafrecht. Eine systematische Darstellung, XI ed., Berlin, 1969, p. 132 s.; KIRSCHBAUM, Der Vertrauensschutz im deutschen Straßenverkehrsrecht, Berlin, 1980, p. 213 ss.; ROXIN, Strafrecht. Allgemeiner Teil. I. Grundlagen. Der Aufbau der Verbrechenslehre, II ed., München, 1994, p. 897. (12) Cfr. PAGLIARO, Imputazione obiettiva dell’evento, in questa Rivista, 1992, p. 781 s. (13) Facciamo riferimento, in questo caso, al nostro lavoro Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo Milano 1997, nel quale il problema del fondamento del principio di affidamento è trattato al Cap. II.
— 1055 — Invero, in quest’ultima non si fa cenno esplicito alcuno all’esigenza di esonerare ognuno dei soggetti impegnati in un trattamento medico-chirurgico snodantesi fra più strutture — quale quello messo in luce dalla vicenda qui in esame — dall’obbligo di controllare la conformità alle rispettive leges artis dei contributi apportati dagli altri medici in esso coinvolti per meglio concentrarsi su quelli rimessi alla propria esclusiva competenza. E vi compare, invece, un richiamo del tutto eccentrico ad una funzione ulteriore che il ricorso ad una prassi informata a tale principio è suscettibile di assolvere non su un piano generale, ma in esclusivo rapporto alla fattispecie concretamente esaminata. Si puntualizza, in questa prospettiva, come il fatto di contare sulla completezza dei dati anamnestici forniti dai medici addetti alla cura originaria del donatore presentasse la specifica valenza di dispensare i medici chiamati a prestare il proprio contributo nelle operazioni di conservazione, espianto e trapianto degli organi dall’oberare i familiari del donatore medesimo dell’obbligo di una nuova comunicazione degli elementi utili a comporre il quadro anamnestico definitivo che lo riguardava. Ciò in quanto si riteneva opportuno risparmiare a detti familiari, « che avevano già subito il duplice trauma del lutto e della richiesta » rivolta ad ottenerne il consenso riguardo al trapianto degli organi del proprio congiunto, la vessazione di carattere psicologico segnatamente collegata all’entrare in diretto contatto « con i medici che avrebbero provveduto all’espianto ». Ora, che nel caso di specie la mancata ripetizione dell’assunzione di informazioni utili a chiarire il quadro anamnestico riferibile al donatore abbia sortito anche l’effetto « umanitario » a vantaggio dei suoi familiari descritto dalla sentenza è certamente indiscutibile; nondimeno, ciò non deve far intendere che quello che è un semplice riflesso contingente dell’adozione di una prassi modellata sui canoni del principio di affidamento sia un fattore (con)costitutivo della ratio del principio di cui si discute. Al di là dell’ovvia constatazione — fatta del resto propria anche dalla decisione che si analizza — che quest’ultima va ricercata nell’esigenza di avviare a soluzione le problematiche della delimitazione (delle reciproche sfere) dei doveri e delle responsabilità per colpa ascrivibili a quanti prendono parte a forme di trattamento medico-chirurgico soggettivamente complesse (attualmente si tratta della maggioranza di quelle praticate) come quelle che presuppongono l’interazione fra più strutture ospedaliere, il richiamo al movente umanitario evocato appare fuorviante anche in considerazione del fatto che questo deve necessariamente soccombere a fronte dei beni che i medici sono tenuti a tutelare in veste di garanti. Questi ultimi vanno senza dubbio individuati in quelli della vita e dell’integrità fisica dei pazienti, in questo caso impersonati dai riceventi, sottoposti al relativo trattamento. Rispetto alla loro salvaguardia, quella dei sentimenti dei familiari del donatore non gode di rilevanza alcuna: pertanto una prassi che privilegiasse questi a detrimento di quelli si inscriverebbe certamente in una cornice di illiceità, comportando essa il mancato attivarsi dei medici responsabili nell’unica direzione che ad essi è imposta. Posta questa doverosa premessa, giova sottolineare come la ricostruzione dei meccanismi di operatività peculiari del principio di affidamento proposta dJalla decisione in esame, benché nel caso concreto se ne sia fatta una corretta applicazione, tradisce imprecisioni di non lieve momento. A suscitare riserve è, in particolare, la prospettazione sub specie di altrettanti varianti di questo (principio) di un modo di intenderlo nei termini seguenti: a) come l’effetto di deroga al dovere generale di controllo reciproco, da ritenersi ammessa soltanto « in caso di assoluta imprevedibilità dell’errore altrui »; b) come l’esito di una chiave di lettura propensa a ravvisarne uno strumento ermeneutico che muove dalla rigida predeterminazione « di una sfera di responsabilità propria del singolo partecipante » alle ipotesi di trattamento medico-chirurgico ad esecuzione pluripersonale, efficiente ad escluderne a priori qualsiasi forma
— 1056 — di corresponsabilità per eventi costituenti la realizzazione di pericoli la cui prevenzione spetta ad àmbiti di competenza altrui; c) quale criterio di ripartizione delle responsabilità intersoggettiva, alla cui stregua insorge per l’uno un obbligo di controllo sull’operato delle prestazioni apportate dall’altro in quanto « sussistano circostanze che lascino temere contegni altrui non conformi a perizia e diligenza ». Quanto alla ricostruzione che ne è estrapolabile attenendosi ad una sua formulazione nei termini di cui sub a), ci sembra che essa, lungi dal costituire una possibile variante del principio di affidamento, ne rappresenti un’integrale ed inequivoca negazione. Presupporre un generale dovere di controllo reciproco fra i diversi soggetti coinvolti in un trattamento medico-chirurgico soggettivamente complesso, al quale può farsi eccezione soltanto in casi rigorosamente circoscritti, equivale a sostituire al principio di affidamento il suo esatto contrario, vale a dire un contrapposto principio della sfiducia nell’operato altrui. Sarebbe una contraddizione in termini etichettare il criterio dell’affidamento alla stregua di un principio, evocandone con ciò stesso quella generale operatività con riferimento ad una pluralità indeterminata di casi (nella specie, quelli connotati dall’interazione — riportabile a correlativi obblighi di attivarsi gravanti su ciascuno — di più soggetti destinatari di differenti obblighi di diligenza in ragione del comportamento che da ognuno di essi si pretende) che è peculiare di un principio, quando poi lo si intendesse in realtà confinare al rango di mera eccezione ad un criterio generale di segno opposto; criterio appunto ravvisabile in quello improntato alla sfiducia nel corretto operato di quanti collaborano all’esecuzione di un medesimo trattamento curativo, dalla quale (sola) potrebbe discendere l’enucleazione di un dovere generale di controllo sul loro operato. Quanto ai modi di concepire il principio di affidamento risultanti da quanto riportato sub b) e sub c), pare che essi siano da ricondurre non a due antitetiche letture del principio in parola, quanto — piuttosto — a due punti di vista bisognosi di una reciproca integrazione ai fini di una sua piena comprensione. Pecca per difetto quello di cui sub b), in quanto dà corpo all’idea che il principio de quo altro contenuto non abbia che quello di ancorare l’ambito di responsabilità di ogni partecipante ad un trattamento medico-chirurgico implicante la collaborazione con altri medici — della stessa o di diversa struttura, non importa — ad una sfera di obblighi previamente ritagliata ed insuscettibile di subire modificazioni in conseguenza del contesto concreto in cui esso si colloca; con il che si viene a negare ogni spazio al limite che la sua applicabilità incontra ogniqualvolta si diano circostanze idonee ad attestare che quanti sono chiamati ad arrecare il proprio contributo al trattamento in questione verosimilmente non lo faranno ovvero non lo faranno in modo corretto (14). Neppure atta a dar conto della reale portata del principio di cui si discute risulta, d’altra parte, la sua formulazione secondo le cadenze argomentative sviluppate sub c): in essa si evidenziano sì le limitazioni cui l’efficacia del Vertrauensgrundsatz deve sottostare ove ricorrano le circostanze appena indicate; nondimeno, con il porre l’accento soltanto su tali limitazioni, si perde di vista quello che del principio di affidamento rappresenta pur sempre il nucleo fondamentale, ossia l’autorizzazione, ricavabile nel suo carattere generale dall’esistenza di regole di diligenza indirizzate ad altri soggetti in relazione a condotte destinate ad interferire con le proprie, a contare sull’osservanza delle medesime e ad (14) Limite riconosciuto, del resto, dalle voci che nella nostra dottrina hanno preso posizione sul punto: cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. g., cit., p. 499; M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale. I, cit., p. 431; F. MANTOVANI, Diritto penale, pt. g., cit., p. 353; FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, p. 284 s.
— 1057 — assumere tale attesa quale criterio di orientamento per predeterminare il proprio comportamento. In realtà, una delineazione corretta del modus operandi del principio di affidamento si impernia sul suo radicarsi su aspettative del singolo in ordine al rispetto degli standards di diligenza da altri pretesi. Ciò muove dal presupposto — costituente un’emanazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3, comma 1, Cost. (15) — che allo stesso modo in cui l’ordinamento si attende da lui l’osservanza dei precetti di diligenza, siano essi forniti di sanzione penale autonoma (si pensi alle fattispecie contravvenzionali in materia di sicurezza sul lavoro) ovvero siano elementi normativi di integrazione di una fattispecie colposa di evento, parimenti esso si attende lo stesso dagli altri consociati. Il che autorizza il singolo, appunto in forza del principio di uguaglianza, ad attendersi che coloro sui quali incombono determinati doveri di diligenza, in relazione alla preevenzione dei pericoli immanenti alle condotte suscettibili di interferire con le proprie, vi si uniformeranno ed a porre tale aspettativa a criterio informatore delle proprie. Ciò che vale, naturalmente, sino al momento in cui non si venga a disporre di indizi concreti attestanti che i consociati de quibus verosimilmente non vi si atterranno, infirmando ciò l’aspettativa cennata e determinando una riespansione (della quota) dei doveri di diligenza che essa era efficiente a limitare. Al di là di queste considerazioni, vi è poi un aspetto, che non emerge dalla motivazione della sentenza in parola a ragione della sua irrilevanza pratica rispetto al caso da decidere, che presenta un profilo teorico di un certo interesse rispetto alla costruzione — riguardata anche nelle sue componenti terminologiche — del principio di affidamento qui proposta. Nella specie, ad avvalersi dell’effetto di esonero da responsabilità indotta dalla sua efficacia è chi contava sulla conformità alla rispettiva lex artis di una prestazione — id est la raccolta dei dati anamnestici e la correlativa individuazione di eventuali controindicazioni al trapianto degli organi del donatore — già eseguita da altri: la circostanza di spiegare effetto anche riguardo a contributi, dei quali si presuppone la conformità alle regole di diligenza che ne disciplinano l’effettuazione, già compiuti, da un lato apre sì al principio di affidamento orizzonti di portata più ampia; dall’altro, tuttavia, sembra mettere in crisi il suo effettivo fondarsi sull’aspettativa di una condotta conforme a diligenza da parte di terzi, legittimata appunto dalla presenza di regole di diligenza che essi sono tenuti ad osservare. Il concetto di aspettativa evoca infatti un quid necessariamente relazionato ad un accadimento, in questo caso costituito da un comportamento umano, indefettibilmente futuro. Di qui la difficoltà di individuarne un impiego plausibile in rapporto a contegni passati. La discrasia insita nell’associare al concetto di aspettativa un comportamento già compiuto non ci pare peraltro sufficiente ad infirmare i moduli di operatività del Vertrauensgrundsatz qui indicati, una volta che si precisi meglio qual’è l’oggetto dell’aspettativa di cui in questa sede si parla. Detto oggetto è precisamente rappresentato dall’osservanza della norma cautelare della quale è/sono destinatario/i il/i soggetto/i con cui si interagisce o si è chiamati a farlo in attuazione di un coesistente, anche se differente quanto a contenuto, obbligo di attivarsi rivolto all’impedimento di eventi lesivi in danno di soggetti che da essi vanno appunto salvaguardati. Il messaggio di quella norma, a sua volta, è sempre orientato al futuro: ciò sia in forza della natura preventiva della norma in questione, la quale è segnatamente diretta ad evitare il pericolo che si (15) In argomento, rinviamo ancora a quanto sviluppato nelle note conclusive del nostro lavoro menzionato sub nota 13.
— 1058 — realizzino eventi comunque futuri rispetto alla posizione della norma stessa (16); sia in forza di quel suo (poter) disporre soltanto per il futuro che discende dal divieto di retroattività che la investe direttamente quando essa è penalmente sanzionata in via autonoma e, comunque, indirettamente nei casi nei quali essa funge da elemento normativo di integrazione di una fattispecie colposa di evento, tale effetto discendendo dal suo condividere i caratteri di un precetto penale che essa norma viene in ogni caso a concretizzare. Ciò posto, il contare sull’osservanza di quella norma, per la rimarcata caratteristica di quest’ultima di essere proiettata verso il futuro, si rapporterà pur sempre a quello che ne è l’oggetto: la produzione di un comportamento rivolto a prevenire la futura verificazione di situazioni di pericolo o di eventi dannosi. Ergo, se ciò su cui si conta è l’osservanza di una norma; e questa norma fa riferimento ad un comportamento da tenersi nel futuro e per prevenire i pericoli che esso può trarre seco, se ne evince che il contare sul suo rispetto si traduce nell’attesa di un quid che, nell’ottica della norma, si può indubbiamente classificare come futuro: ciò anche se il comportamento preteso dalla norma medesima si deve assumere di fatto come già tenuto. Poiché è a questa e non a quello che occorre avere riguardo ed essa precisamente si proietta sempre nel futuro, anche rispetto a comportamenti doverosi che si presumono già tenuti da coloro che vi sono obbligati si può dire che sussiste un’aspettativa, avente ad oggetto la norma che li impone, che le condotte da essa prescritte e nella sua ottica — lo ripetiamo — sempre da qualificarsi come future siano effettivamente prodotte. Proprio perché, per il tramite della norma che lo fonda, il contare sul suo rispetto si rapporta sempre ad un dato futuro, id est il contegno che essa pretende, risulta corretta una sua qualificazione in termini di aspettativa, sebbene il relativo comportamento di fatto sia già stato prodotto ovvero avrebbe comunque dovuto esserlo. Ciò vale, naturalmente, non nel senso di autorizzare qualsivoglia affidamento in ordine all’osservanza delle regole (di diligenza) da parte delle prestazioni precedentemente effettuate da altri soggetti chiamati a fornire il proprio contributo al trattamento curativo; ma solo a condizione che esso non sia contraddetto da indizi atti a far dubitare della loro effettiva conformità agli standards richiesti. 4. Le condizioni da ultimo segnalate erano effettivamente presenti nel caso che ha formato oggetto della decisione in esame: qui poteva legittimamente darsi un’aspettativa circa la conformità alle regole dirette a garantire una corretta raccolta dei dati anamnestici delle prestazioni in tal senso effettuate dai medici operanti nella struttura di prima accoglienza del donatore; né si erano palesati elementi atti a far dubitare dell’immunità da errori della sua esecuzione. L’acclarata possibilità di appellarsi al principio di affidamento, da parte dei responsabili (dei reparti) della struttura sanitaria alla quale il donatore era stato avviato, per ciò che atteneva alla puntuale raccolta dei dati anamnestici, sortisce l’effetto di limitare la diligenza dovuta dai medesimi in una misura corrispondente all’estensione degli obblghi che si è autorizzati ad assumere come puntualmente assolti dai medici che avevano provveduto agli interventi curativi praticati sul donatore stesso. Poiché, d’altro canto, a segnare i confini del comportamento dovuto dai primi nella loro veste di garanti dei beni e dell’integrità fisica dei riceventi sono appunto i doveri di diligenza oggettiva che a loro mettono capo (17); ed atteso che, per effetto dell’operatività del Vertrauensgrundsatz, detti ulitmi doveri risultano ristretti per una quota pari al novero dei doveri che si possono contare (16) Questa peculiare connotazione della norma cautelare è ben colta da ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, Milano, 1984, p. 154, n. 78. (17) Sul punto è d’obbligo il rinvio ancora a GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 370 ss.
— 1059 — come già adempiuti dai medici che sono intervenuti in precedenza, se ne deduce che l’impegno richiesto ai primi quali titolari delle rispettive posizioni di garanzia poste in questo caso a tutela dei pazienti sottoposti a trapianto risulti indirettamente limitato, data la funzione di tipicizzazione in tale sede spettante agli obblighi di diligenza, dai confini che ai summenzionati doveri di diligenza discendono dall’applicazione del principio di affidamento a vantaggio dei rispettivi titolari. In altri termini, posto che nel reato omissivo improprio colposo è tipica soltanto l’omissione della condotta richiesta dalle regole di diligenza oggettiva che si rivolgono al titolare dell’obbligo di attivarsi, per la parte « coperta » dall’applicazione del principio di affidamento la relativa omissione non potrà che definirsi atipica. Così stando le cose, non ci pare fuori luogo interrogarsi sull’esattezza, almeno per quel che concerne i soggetti interessati dall’applicazione a loro favore del principio di affidamento, della formula di assoluzione prescelta per tutti i prevenuti dall’organo giudicante, ivi precisandosi che il giudizio assolutorio che alla loro situazione si addice risulta essere quello espresso dalla formula « perché il fatto non costituisce reato ». Ciò finisce certo con il far risaltare in modo evidente l’esclusione di ogni addebito di colpa a carico degli imputati che possono appellarsi al Vertrauensgrundsatz; ma trascura i nessi testé messi in luce tra la sua operatività e l’atipicità dell’omissione del garante che può richiamarvisi. Malgrado tali nessi non tralucano dalla formula di assoluzione adottata, non può dirsi che essi siano completamente ignorati dalla sentenza qui esaminata. Anche se in forma di obiter dictum, la loro percezione può cogliersi nell’affermazione giusta la quale « la mancanza di doverosità dell’anamnesi », indotta da quella riduzione dell’obbligo di diligenza del garante che si riverbera immediatamente sull’estensione del suo obbligo di garanzia, esclude « la ipotizzabilità di un nesso causale » fra l’omissione contestata al Vertrauende — nella specie identificantesi con il responsabile del servizio di rianimazione — e l’evento-morte verificatosi in danno dei riceventi. Donde rampolla il dato che la possibilità di rifarsi al principio che interessa, dal momento che restringe l’àmbito dei doveri di diligenza e, con ciò stesso, la portata dell’impegno da riferirsi ad uno dei garanti, fa sì che la mancata produzione dei comportamenti che l’applicazione del principio di affidamento rende non più doverosi iscriva i medesimi nello schema di un’omissione atipica, in quanto non colposa. In effetti, vero che le regole di diligenza intervengono a tipicizzare il comportamento dovuto dal garante, la stessa valenza deve necessariamente competere a quei criteri che, come quello espresso dal principio di affidamento, valgono a delimitarle. Queste considerazioni non possono comunque essere disgiunte dal riconoscimento, contenuto nella parte della sentenza che fa da preambolo alla disamina delle eventuali responsabilità dei prevenuti, che nel caso di specie aveva comunque avuto luogo un difettoso coordinamento fra (l’operato di) due strutture ospedaliere, sfociante in un « comportamento omissivo con efficacia causale » (sott.: rispetto all’evento finale dato dalla morte dei riceventi). Ciò porta ad affermare che, in conformità del prevalente orientamento dottrinale e giurisprudenziale incline a ricomprendere nella nozione di fatto nel suo significato processualpenalistico la presenza della condotta, del nesso di causalità e dell’evento (18), nell’ipotesi de qua il fatto effettivamente sussistesse. Ciò di cui si poteva predicare l’assenza era, piuttosto, la riferibilità di detto fatto ai garanti deputati all’esecuzione delle operazioni di espianto e trapianto degli organi, stante l’atipicità della loro omissione di provvedere alla raccolta dei dati anamnestici determinata dall’operatività a loro favore del principio di affidamento (18)
In argomento cfr. PAGLIARO, voce Fatto (dir. proc. pen.), vol. XVI, Milano, 1967, p. 962.
— 1060 — con riferimento all’essere tali doveri già stati correttamente adempiuti dai medici a ciò chiamati nella struttura di prima accoglienza del donatore; con la precisazione che una declaratoria di responsabilità di questi ultimi non era resa possibile — come la decisione in esame esplicita in premessa — dalla loro non identificabilità. Se questa ricostruzione è esatta, la formula terminativa realmente idonea a dar conto che il fatto, in sé sussistente, non era riferibile alla condotta omissiva dei garanti intervenuti successivamente ai medici che avevano proceduto alla raccolta dei dati anamnestici del donatore ed alla loro relativa annotazione sulle cartelle cliniche di riferimento, per effetto della sua atipicità determinata dall’operatività a vantaggio dei primi del principio di affidamento, pare essere, fra quelle menzionate dall’art. 530, comma 1, c.p.p., quella fondata sul dato che « l’imputato non lo ha commesso ». A conferma di ciò può addursi l’argomento che l’unica sentenza della Cassazione (19) che, sempre sul terreno delle fattispecie omissive improprie, ha escluso la responsabilità dei relativi garanti per essere questi legittimati ad avvalersi dell’efficacia del principio di affidamento, ha fatto ricorso alla formula d’assoluzione basata sul non avere questi commesso il fatto (20). Le conclusioni ora delineate non spiegano i propri effetti soltanto sul terreno della costruzione sistematica del reato omissivo improprio colposo, allineando la soluzione favorevole all’applicazione del principio di affidamento fatta propria dalla sentenza della Pretura di Bologna al dato che, come la diligenza dovuta assolve una funzione di tipicizzazione del comportamento attivo che si pretende dal garante, così i suoi limiti non possono che riverberasi sull’impegno posto a suo carico. Ma sono altresì dense di riflessi pratici: basti pensare che ex art. 652, comma 1, c.p.p. — ferma restando la facoltà del danneggiato di esercitare l’azione civile ai sensi dell’art. 75, comma 2, c.p.p. — la sentenza penale irrevocabile di assoluzione recante la formula terminativa che l’imputato non ha commesso il fatto, diversamente da quella recante l’accertamento che « il fatto non costituisce reato » (21), ha efficacia di giudicato nel giudizio civile promosso dal danneggiato che si sia costituito parte civile nel processo penale (o, quanto meno, sia stato posto nelle condizioni di farlo). MARCO MANTOVANI Dottore di ricerca in Diritto penale Università di Bologna
(19) Ci riferiamo a Cass., sez. IV, 9 febbraio 1993, pubblicata in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, p. 101 ss., con nota di VOLPE, Infortuni sul lavoro e principio di affidamento. (20) La formula di assoluzione della sentenza richiamata nella nota precedente è riportata da VOLPE, Infortuni sul lavoro e principio di affidamento, cit., p. 102, n. 1. (21) Sui rapporti fra sentenza penale di assoluzione e giudizio civile di danno rinviamo al quadro delineatone da GHIARA, Commento all’art. 652, in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. VI, Torino, 1991, p. 454.
DOTTRINA
BENE GIURIDICO E VITTIMA DEL REATO: PREVALENZA DELL’UNO SULL’ALTRA? Riflessioni sui rapporti tra bene giuridico e vittima del reato (*)
Una premessa personale ‘‘Se derubi un altro, derubi te stesso ». Mi confrontavo proprio con questa idea di Kant (1) quando ricevetti l’invito a contribuire ad una raccolta di scritti in onore di Ernst-Joachim Mestmäcker, mio collega al MaxPlanck, presso l’Istituto di Diritto privato straniero ed internazionale di Amburgo. Riflettendo sulla possibilità di trovare un punto di collegamento tra Kant e Mestmäcker (2), mi è tornato in mente il postulato di quest’ultimo, secondo cui « i conflitti tra cittadini innanzi tutto devono essere risolti là dove essi sorgono » (3). L’apertura alle esigenze dei cittadini e la delimitazione dei compiti dello Stato fa riferimento ad un tema che domina, come nessun altro, la attuale politica del diritto penale: la soluzione dei conflitti tra soggetti coinvolti per mezzo della « composizione del conflitto tra autore e vittima ». Per tale motivo — come pure per altre ragioni, che in questa sede (*) Il presente lavoro, nella traduzione italiana della dr. Désirée Fondaroli (Università degli Studi di Bologna), è stato oggetto di una conferenza tenuta il 21 marzo 1997 presso l’Università Statale di Milano. Esso riproduce — senza essenziali modifiche — il mio contributo « Rechtsgut und Opfer: zur Überhohung des einen auf Kosten des anderen » alla raccolta « Festschrift für Ernst-Joachim Mestmäcker », a cura di U. IMMENGA, Nomos Verlag Baden-Baden, 1996. (1) A proposito dell’espressione e del contesto delle due affermazioni di KANT nel senso espresso si veda infra in corrispondenza della nota (20). (2) Cfr. di recente E.-J. MESTMÄCKER, Aufklärung durch Recht, in H.-F. FULDA, R.P. HORSTMANN (Hrsg.), Vernunftbegriffe in der Moderne, Stuttgart, 1994, p. 55-72, così come lo scritto citato infra alla nota (3). (3) E.-J. MESTMÄCKER, Die Wiederkehr der bürgerlichen Gesellschaft und ihres Rechts, in Jahrbuch der Max-Planck-Gesellschaft, München, 1991, p. 24-36. Il passo citato è del seguente tenore letterale (p. 34): « I conflitti tra cittadini innanzi tutto devono essere risolti là dove essi sorgono. Perciò lo Stato di diritto inizia, dal punto di vista storico, come garanzia di libertà nei rapporti tra cittadini e, sulla stessa base, anche nei confronti dello Stato stesso. Quindi non deve crearsi alcuno spazio in cui non possa verificarsi l’intervento di quest’ultimo. Piuttosto, si tratta di circoscrivere i compiti dello Stato in modo che essi restino conciliabili con la libertà dei cittadini ».
— 1062 — non verranno ulteriormente approfondite — anche la vittima ha vissuto una Renaissance (4), il cui carattere innovativo tuttavia non è stato chiarito sotto ogni profilo. Tenterò allora di offrire un contributo sul tema della relazione tra bene giuridico e vittima, tenendo conto, non ultima, anche della affermazione di Kant menzionata in apertura — proposizione sulla quale la discussione è ancora aperta. Resta inteso che questo studio non può essere più che un primo approccio alla ricostruzione del ruolo della vittima concreta e dell’offesa da questa subìta come parte dell’Unrecht (illecito) penale. Dalle premesse poste emerge la centralità di uno spunto di riflessione, la cui ambivalente efficacia finora non sembra essere stata del tutto compresa: ovvero il fatto che la sistematizzazione — di per sé meritoria — del « bene giuridico » come criterio di orientamento della politica criminale e come oggetto sostanziale del concetto di reato ha condotto tanto ad una emarginazione della vittima individuale quanto ad una caratterizzazione in senso statale della pena — forse una evoluzione sbagliata, che necessita di una riflessione correttiva. In questo senso si può anche pensare ad un intervento alla luce della relazione tra il diritto, che è al servizio del cittadino, e lo Stato, che deve giustificarsi in funzione di esso: una posizione kantiana a ragione ricordata da Mestmäcker (5). Il reato come scioglimento dei legami con il consorzio umano Non si può comprendere il sorgere tardivo del concetto di bene giuridico nel diciannovesimo secolo e la sua marcia trionfale nel ventesimo — che ha avuto come ripercussione l’esclusione della vittima dalla concezione del reato e della sua sanzione — se non si prende in considerazione ciò che aveva preceduto il paradigma del bene giuridico e ciò contro cui esso era rivolto. Senza poter tuttavia risalire troppo indietro nella ricostruzione dogmatica del concetto di reato e del suo contenuto essenziale (6), si può de(4) Per alcuni riferimenti si veda A. ESER, Zur Renaissance des Opfers im Strafverfahren. Nationale und internationale Tendenzen, in G. DORNSEIFER, E. HORN, G. SCHILLING, W. SCHÖNE, E. STRUENSEE, D. ZIELINSKI (Hrsg.), Gedächtnisschrift für Armin Kaufmann, Köln, 1989, p. 723-747, ed ulteriori contributi in A. ESER, G. KAISER, K. MADLENER (Hrsg.), Neue Wege der Wiedergutmachung im Strafrecht, Freiburg i.B., 1992; per una panoramica complessiva della letteratura fino ad ora apparsa, cfr. D. FREHSEE, Schadenswiedergutmachung als Instrument strafrechtlicher Sozialkontrolle, Berlin, 1987, p. 1-11. Ed ancora — in particolare anche sulla c.d. « vittimo-dogmatica » — cfr. infra in corrispondenza delle note (103), (108) e (109). (5) MESTMÄCKER, in FULDA-HORSTMANN (cfr. supra nota 2), p. 60. (6) A riguardo si veda la completa rassegna di C. ROXIN, Strafrecht. Allg. Teil, 2a ed., München, 1994, p. 144 ss., con ulteriori riferimenti.
— 1063 — lineare un quadro retrospettivo a riguardo, considerando il « bene giuridico » quale rifiuto della teoria della « lesione del diritto », come soprattutto ed eminentemente aveva sostenuto Feuerbach, che a sua volta si basava sulle teorie di Kant: teorie, queste ultime, da collocare sullo sfondo della filosofia giusnaturalista ed illuminista. Pertanto, all’inizio di una carrellata retrospettiva, occorre dedicare un breve cenno a tali concezioni del diritto penale: sul punto, però, tanto ora quanto in seguito si limiterà l’analisi soltanto ad alcuni esponenti delle diverse teorie — secondo un criterio chiaramente soggettivo. Se ci si interroga, nella prospettiva della vittima, sul suo ruolo nella concezione del reato, si osserva che già nel fondamento giusnaturalistico del diritto penale di John Locke la vittima era relegata ad un ruolo marginale, quando non era addirittura del tutto esclusa. Come illustrato nel suo studio « Of Civil Government » (1689) — che analizza il passaggio dallo stato di natura alla società civile (7) — lo stato di natura viene dominato dalla ragione, che a tutti impone di non offendere la vita, l’integrità fisica, la libertà o il patrimonio di alcuno (8): perciò nello stato di natura la difesa di tale legge di natura spetta a ogni individuo (9). Il conseguente diritto per ciascuno di punire in modo da impedire la lesione del diritto di natura si basa sul fatto che il diritto di natura sarebbe un diritto eterno — di origine divina, fondato sull’idea della ragione e dell’eguaglianza, che l’umanità deve proteggere di fronte alla violenza ed alle lesioni. Chi viola questa legge, offende l’umanità nel suo complesso, la sua pace e la sua sicurezza, garantite dalla legge di natura, e diventa così pericoloso per gli altri uomini, che hanno il diritto di punirlo, diventando esecutori del diritto naturale (10). Su questa base il passaggio alla società civile ha come sola conseguenza il fatto che il potere punitivo di origine divina connesso allo stato di natura passa alla società (11). Già nell’impostazione della teoria del patto sociale di Locke la concezione del reato si delinea come offesa della società, la quale supera l’offesa della vittima in concreto. Tale offesa trova infine un fondamento, indipendentemente dal mandato divino, nelle teorie caratterizzate in modo singo(7) Si veda a proposito MESTMÄCKER (cfr. supra nota 3), p. 26 s. (8) Cfr. J. LOCKE, Of Civil Government (1689), Chapter II (Of the State of Nature), § 6, cit. da Th. VORMBAUM (Hrsg.), Texte zur Strafrechtstheorie der Neuzeit, I, Baden-Baden, 1993, p. 81-89. (9) LOCKE (cfr. supra nota 8), § 7. (10) LOCKE (cfr. supra nota 8), § 8. (11) LOCKE (cfr. supra nota 8), §§ 87, 88. LOCKE tuttavia non si pronuncia sulle modalità di tale « passaggio » — così anche K. SEELMANN, Vertragsmetaphern zur Legitimation des Strafens im 18. Jahrhundert, in H.S.M. STOLLEIS (Hrsg.), Die Bedeutung der Wörter. Festschrift für Sten Gagnér zum 70. Geburtstag, München, 1991, p. 441-459, in particolare 445; del resto, ciò non è necessario, dal suo punto di vista, poiché il potere punitivo esiste ex ante, per cui non occorre trovarne un fondamento attraverso il contratto sociale.
— 1064 — larmente accentuato dal contratto sociale, secondo cui gli uomini, stanchi di difendere isolatamente la loro vita ed il loro patrimonio contro le aggressioni altrui, attraverso un contratto rinunciano all’esercizio individuale della violenza e, invece di ciò, incaricano lo Stato della protezione della loro vita, della loro libertà e del loro patrimonio. Senza poterci soffermare oltre sulle particolarità di questa concezione sostenuta soprattutto da Rousseau e Beccaria (12), ma nel medesimo contesto, occorre in particolare dare rilievo a quanto segue: per un verso, per mezzo del contratto sociale, il singolo consente l’ingerenza (dello Stato) anche nel potere punitivo che gli compete — forse fino alla pena di morte, tesi accolta da alcuni (come Rousseau) (13), al contrario fermamente negata da altri (come Beccaria) (14); per l’altro, attraverso la violazione del contratto sociale, l’autore del reato diviene traditore della sua patria, rinunciando così ad appartenere ad essa (15). Anche se nelle citate teorie il fondamento del diritto penale si connota diversamente di volta in volta — legittimato ora come potere divino, ora come conseguenza discendente dal contratto sociale — ad esse, sotto il profilo della concezione del reato, è comune un elemento: attraverso il reato si spezza il consenso sociale di base — espresso sotto forma di legge di natura oppure di contratto sociale (16); ma in tal modo l’autore del reato non solo offende direttamente la vittima colpita (in concreto), ma aggredisce anche i fruitori dell’ordinamento giuridico e del contratto. Ne consegue che la vittima non è estromessa dalla concezione del reato né necessariamente né del tutto, ma deve condividere la sua posizione (di minore rilievo) con quella (di livello superiore) della società. Il reato come violazione della sfera della libertà e dei diritti soggettivi Mentre, secondo le teorie del diritto penale fino a questo punto prese in esame, l’aggressione della società insita nel reato appare ancora piuttosto non specifica e generale, con Kant emergono profili individuali. Senza rinunciare a ricondurre al contratto sociale il diritto di punire, la funzione del diritto diviene significativa per comprendere l’Unrecht (12) J.-J. ROUSSEAU, Du contrat social (1762): Livre premier. Chapitre VI. Du pacte social, cit. da VORMBAUM (cfr. supra nota 8), p. 114-118; C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene (1764), § 2: Origine delle pene. Diritto di punire, cit. da VORMBAUM (cfr. supra nota 8), p. 119-135. (13) J.-J. ROUSSEAU, Du contrat social. Livre II. Chapitre V. Du droit de vie et de mort (cfr. supra nota 12): « ... c’est pour n’être pa la victime d’un assassin que l’on consent à mourir si on le devient. Dans ce traité, loin de disposer de sa propre vie on ne songe qu’â la garantir ... ». (14) Cfr. BECCARIA (cfr. supra nota 12). (15) ROUSSEAU (cfr. supra nota 13), Chap. V. (16) Cfr. O. FISCHL, Der Einfluß der Aufklärungsphilosophie auf die Entwicklung des Strafrechts, Breslau, 1913 (ristampa 1976), p. 36.
— 1065 — (l’illecito) (17). Partendo dal presupposto che sia conforme al diritto quella condotta che, nella sua espressione anche estrema, lascia coesistere la libertà di arbitrio di ciascuno con la libertà di ognuno in modo conforme ad una legge generale (18), si devono impedire, in quanto illecite, quelle condotte che limitano lo spazio indispensabile per il dispiegarsi della personalità morale. Sulla scorta di ciò, tenendo conto della differenziazione tra doveri morali e doveri giuridici, si deve intendere come reato « ogni violazione della legge pubblica che rende colui che la pone in essere incapace di essere cittadino » (19). Di primo acchito questa interpretazione, che prende le mosse dalla tutela della sfera di libertà individuale, potrebbe sembrare esprimere un orientamento in favore della vittima. Ciò, se non si fosse già sottolineato come essenziale l’effetto del reato di pregiudicare l’autore nella sua capacità di essere « cittadino dello Stato », e se così non si fosse evidenziata la rilevanza del reato (anche) per lo Stato. Ancora più chiaramente nel senso di una concezione superindividuale del reato si esprime l’affermazione di Kant citata all’inizio: « Se derubi un altro, derubi te stesso ». Vero è che questa idea emerge in due differenti versioni, ma entrambe si riferiscono soltanto alla questione del tipo e del grado della pena: si tratta, da un lato, del principio di eguaglianza (sotto l’aspetto dello ius talionis di matrice retributiva) (20) e, dall’altro, della perdita per il punito connessa alla retribuzione (21), cosicché entrambi gli aspetti citati si trovano discussi — quando lo sono — soltanto nell’ambito (17) Questo aspetto è stato trattato da Kant non come fatto storico, ma come puro modello di riflessione (cfr. I. KANT, Metaphysik der Sitten (1797), Akademie-Textausgabe, VI, Berlin, 1914/1968, p. 315): « L’atto, attraverso cui il popolo stesso si costituisce in uno Stato, o piuttosto la semplice idea di quest’atto, che da sola permette di concepirne la legittimità, è il contratto originario ... ». (18) KANT, Metaphysik der Sitten (cfr. supra nota 17), p. 230 ss., in particolare p. 232. (19) KANT (cfr. supra nota 17), p. 331. (20) Il punto della Metafisica dei costumi di KANT (Akademie-Textausgabe, VI, p. 332), relativo a « Del diritto di punizione e di grazia », rispondeva alla domanda: « Ma quale è il tipo ed il grado di pena che si rende principio e paradigma della giustizia pubblica? » nei seguenti termini: « Nessun altro, se non il principio di uguaglianza (quale ago della bilancia della giustizia), che non si inclina più da una parte che dall’altra. Quindi si può dire: quel male immeritato che tu fai ad un altro che appartiene al popolo, lo fai a te stesso. Se oltraggi lui, oltraggi te stesso; se derubi lui, derubi te stesso; se colpisci lui, colpisci te stesso; se uccidi lui, uccidi te stesso. Ma solo la legge del taglione (ius talionis) ... può indicare in modo preciso la qualità e quantità della pena... ». (21) KANT (cfr. supra nota 17), p. 333: « Ma che cosa significa: ‘Se tu derubi lui, derubi te stessò? Colui che ruba rende incerta la proprietà di tutti gli altri; egli priva dunque se stesso (secondo il diritto del taglione) della sicurezza di ogni proprietà possibile. Egli non ha nulla e nemmeno può acquistare nulla; eppure vuol vivere, il che non è altrimenti possibile che nella misura in cui gli altri lo mantengano ».
— 1066 — della teoria della pena di Kant (22). Se si tenta tuttavia di desumere la concezione del reato dalla concezione della pena, allora il secondo profilo consente quell’interpretazione, alla stregua della quale attraverso il furto non solo viene offeso il patrimonio della vittima in concreto, ma viene anche reso non sicuro il patrimonio di tutti, e si pone in discussione, insieme alla « sicurezza di ogni possibile patrimonio », l’istituto della proprietà in quanto tale (23). (22) Circa la teoria del diritto penale di Kant cfr. soprattutto A. DYROFF, Zu Kants Strafrechtstheorie, in Archiv für Rechts- und Wirtschaftsphilosophie, 17 (1923), p. 351 ss.; H. MAYER, Kant, Hegel und das Strafrecht, in P. BOCKELMANN ed altri (Hrsg.), Festschrift für Karl Engisch zum 70. Geburtstag, Frankfurt a.M., 1969, p. 54-80, in particolare p. 56 ss.; O. HÖFFE, Immanuel Kant, 2a ed., München, 1988, p. 234 ss.; sulla teoria del diritto di Kant cfr. G. DULCKEIT, Naturrecht und positives Recht bei I. Kant, Aalen, 1987; B. LUDWIG, Kants Rechtslehre, Marburg, 1985; P. UNRUH, Die Herrschaft der Vernunft — Zur Staatsphilosophie I. Kants, Baden-Baden, 1993. (23) Apparentemente fino ad ora non è mai stata tentata una interpretazione di questo punto inquadrandolo nella concezione del reato di Kant, a meno che non mi sia sfuggito uno studio ad esso relativo — cosa che, considerata la produzione letteraria concernente il pensiero kantiano, ancora difficile da dominare, può essere perdonata allo studioso del diritto. Ciò forse trova spiegazione nel fatto che la teoria del diritto e della pena di Kant erano dirette in primo luogo a garantire la possibilità di una condotta morale: il che, tuttavia, non deve escludere una certa tendenza alla « perdita di individualizzazione » del diritto penale. Se si prendono le mosse dal presupposto che l’imperativo categorico assume, all’interno della filosofia morale di Kant, la funzione di un parametro etico, in base al quale si misura la conformità (necessaria per un agire in modo moralmente buono) della condotta progettata ai comandamenti morali della ragione, allora — sempre secondo il medesimo schema di verifica — è possibile pensare l’azione che si intende porre in essere come condotta suscettibile di essere realizzata da tutti, e in seguito analizzarla in modo che sia concepita senza contraddizioni. Se a riguardo emerge una contraddizione, l’imperativo categorico, in quanto comando negativo di condotta, impedisce di compiere la condotta programmata. Interessante a riguardo è che la contraddizione per lo più consiste nella perdita di valore di un « bene » che non è più concreto, ma astratto-generale, poiché punto di partenza del giudizio è la condotta da chiunque intrapresa. A riprova si consideri, ad esempio, il furto: si ponga innanzi tutto la questione se io, dal punto di vista morale, posso incrementare il mio patrimonio, derubando un altro. In tale contesto si pone poi un secondo interrogativo, connesso al primo: ovvero che cosa accadrebbe se, allo stesso modo, tutti derubassero il loro prossimo. Si può intendere allora questa situazione come priva di contraddizioni? A tale questione si dovrebbe rispondere in modo negativo, se il senso della proprietà consiste nel possedere, in uno spazio determinato ed individualmente circoscritto, oggetti protetti contro le interferenze di altri e nel poterne disporre a piacimento. Quindi, se tutti allo stesso modo potessero derubare gli altri ed aumentare così il proprio patrimonio, la proprietà (in quanto tale) — nel senso una protezione garantita di quanto si possiede — non potrebbe esistere più. Affiorerebbe dunque nel concetto di proprietà una contraddizione irresolubile, la cui conseguenza è che il furto programmato sia (moralmente) vietato. Pertanto, quanto meno nell’ambito della filosofia morale, il furto conduce ad una perdita di valore della proprietà in sé e con essa dell’istituto « proprietà ». Ma se questo ragionamento è corretto, appare legittimo riconoscere in Kant, almeno nella metodologia, le prime enunciazioni di principio di un processo di astrazione dall’individuale al general-obiettivo. Ciò si può rilevare financo nella teoria del diritto: vero è che in quest’ambito si anticiperebbe forse troppo lo sviluppo successivo del principio, se si volesse vedere ideata già in Kant — che ancòra si colloca nell’alveo della « teoria della le-
— 1067 — Sebbene questa concezione superindividuale del contenuto illecito del reato non necessariamente comporti come conseguenza l’estromissione del danno individuale della vittima in concreto, quanto meno si apre una breccia in tale direzione, come già si è verificato per la concezione del reato inteso quale risoluzione del contratto sociale. Ma, d’altro canto, per evitare sin da ora possibili fraintendimenti, la interpretazione del reato di Kant, nella accezione prima accennata, così come il successivo paradigma del bene giuridico, in nessun modo può superare l’obiezione di avere aperto le porte del diritto penale alla tutela degli interessi relativi al bene pubblico in generale. Ma, sebbene elevato a piani istituzionali, nocciolo della concezione kantiana del diritto e dell’Unrecht resta la difesa della sfera individuale indispensabile per il libero sviluppo della personalità morale individuale. Quanto a tale punto di partenza individuale, anche Feuerbach rimane del tutto vincolato alla posizione di Kant (24). Soltanto la precisazione degli elementi riceve una veste più giuridica, intendendo il superamento dei confini della libertà come « lesione del diritto » e considerando « reato » soltanto l’offesa del diritto che è disciplinata da una legge penale e che viola il contratto sinallagmatico tra il cittadino e lo Stato (25). Anche se in tal modo un reato è possibile solo nello Stato (26), il paradigma sione del diritto » di matrice illuministica — la « teoria del bene giuridico » successivamente proposta da Binding; nondimeno nel suo pensiero si riconoscono già le prime manifestazioni del processo di astrazione verso il « bene giuridico ». Se, come ritiene Kant, il diritto ha il compito primario di tutelare e di garantire lo spazio vitale necessario per lo sviluppo della personalità morale, esso protegge per conseguenza indirettamente anche la libertà morale data all’uomo con l’imperativo categorico. Se dunque un autore infrange una norma giuridica, ciò non solo comporta come conseguenza la perdita di un interesse (individuale) concreto meritevole di tutela (ad esempio, nel caso del furto, determina non soltanto una diminuzione del patrimonio); piuttosto, prendendo le mosse dalla citata causa finalis del diritto, diventa chiaro che ogni violazione del diritto significa al contempo tanto una offesa della libertà (di azione), quanto indirettamente una negazione della libertà morale in sé. Ciò premesso, appare legittimo supporre che nella teoria del diritto di Kant le sanzioni di violazioni del diritto si riallaccino alla lesione di un « bene giuridico » — per quanto omnicomprensivo — nel senso di un interesse astratto, tutelato dal diritto: l’interesse consistente nella libertà. Perciò anche nella teoria del diritto di Kant si possono riconoscere i primi passi verso una astrazione dall’individuale al generale-oggettivo, anche se non si deve perdere di vista la sua collocazione storica. (24) In generale, sull’influenza di Kant su Feuerbach cfr. K. AMELUNG, Rechtsgüterschutz und Schutz der Gesellschaft, Frankfurt a.M., 1972, p. 33 s., come pure FISCHL (cfr. supra nota 16), p. 146 s. (25) Così la stesura — tuttavia modificata più volte nelle successive edizioni — della prima edizione di P.J.A. FEUERBACH, Lehrbuch des gemeinen in Deutschland geltenden peinlichen Rechts, Gießen, 1801, § 26 (p. 21 s.), mentre nella terza edizione (1805) si precisa che commette un reato « colui che viola la libertà garantita dal contratto tra i cittadini e resa sicura dalle leggi penali » (p. 22); infine, nella tredicesima edizione (1840) si parla della offesa della « libertà garantita dal contratto dello Stato, resa certa dalle leggi penali » (p. 45). (26) FEUERBACH, ibidem.
— 1068 — determinante per l’ulteriore discussione sull’illecito viene identificato nella figura della lesione di un diritto soggettivo. Nella prospettiva della vittima, naturalmente, un concetto di reato orientato alla lesione di un diritto soggettivo sarebbe il miglior fondamento per non essere dimenticata dal diritto penale, sebbene nella punizione dell’assassinio, delle lesioni personali, dell’ingiuria e del furto si tratti anche, oltre a ciò, di difendere la vita, l’integrità fisica, l’onore o la proprietà in quanto tali. Ma Feuerbach stesso non riuscì a tener fede del tutto al suo punto di partenza basato sulla lesione di un diritto soggettivo, quando successivamente assunse anche le semplici violazioni di polizia tra i reati in senso lato. Esse — nella prospettiva dell’Autore — ledono soltanto il diritto all’obbedienza dello Stato, perciò perfino le condotte che sono illecite soltanto moralmente oppure esclusivamente in modo formale, vengono inquadrate tra le lesioni del diritto (27). Quindi la posizione di partenza di Feuerbach, indirizzata alla tutela della libertà individuale, offriva il fianco alla introduzione di un nuovo paradigma, cioè il paradigma di una concezione della tutela e dell’illecito più generale, a tutt’oggi dominante. Dalla violazione del diritto all’offesa del bene giuridico Con l’entrata in scena del concetto di bene giuridico si raggiunge un grado di sviluppo che, a causa della molteplicità delle sfumature, in questa sede può essere approfondito solo con riguardo ai suoi effetti sul ruolo della vittima nella concezione del reato. E ciò a prescindere del tutto dal fatto che la tormentata storia di questo nuovo paradigma sia stata descritta così spesso (28) — anche in alcuni miei lavori (29) — che in quest’ambito non si può aggiungere nulla di veramente nuovo, né ci si può aspettare una parola definitiva (30), peraltro tuttora mancante nonostante i molteplici sforzi. Anche senza voler ripercorrere le tappe della « marcia trionfale », ancora in corso, del paradigma del bene giuridico, vanno citati, a partire dalla fase iniziale, almeno tre autori — ovvero Birnbaum, Binding e von (27) Cfr. FEUERBACH, Lehrbuch, 11a ed. (1832), § 22; AMELUNG (cfr. supra nota 24), p. 34 s. (28) Cfr. in particolare P. SINA, Die Dogmengeschichte des strafrechtlichen Begriffs « Rechtsgut », Basel, 1962; AMELUNG (cfr. supra nota 24); M. MARX, Zur Definition des Begriffs « Rechtsgut », München, 1972; W. HASSEMER, Theorie und Soziologie des Verbrechens. Ansätze zu einer praxisorientierten Rechtsgutslehre, Frankfurt a.M., 1973. (29) Cfr. A. ESER, Die Abgrenzung von Straftaten und Ordnungswidrigkeiten, Diss. Würzburg, 1961, in particolare p. 83 ss.; ID., The Principle of « Harm » in the Concept of Crime. A Comparative Analysis of the Criminally Protected Legal Interests, in Duquesne University Law Review, 4 (1966), p. 345-417, in particolare p. 357 ss. (30) In tal senso la constatazione di H.-J. RUDOLPHI, Die verschiedenen Aspekte der Rechtsgutsbegriffs, in Festschrift für Richard M. Honig zum 80. Geburtstag, Göttingen, 1970, p. 151-167 (151); analogamente di recente anche C. ROXIN (cfr. supra nota 6), p. 13 s.
— 1069 — Liszt — per poter illustrare in modo esemplificativo la interrelazione con la vittima, che costituisce il punto centrale delle mie riflessioni. Per quanto l’influenza sostanziale di Birnbaum, appena percepita dai suoi contemporanei, sia stata inferiore a quella generalmente riconosciutagli (31), e sebbene l’espressione « bene giuridico » sia stata coniata da Binding (32), fu proprio Birnbaum, nel 1834, a contrapporre la teoria dell’offesa di un « bene » (33) alla teoria feuerbachiana, fino ad allora dominante, dell’offesa di un « diritto ». Sorvolando sull’obiezione, di ordine più che altro semantico, che in tutti i casi è in relazione ad un bene, e non ad un diritto, che si può parlare di « offesa », questione centrale era soprattutto la dilatazione — perseguita da Birnbaum — dell’ambito di tutela al di là delle persone e delle cose. Tale dilatazione doveva essere conseguita non con una limitazione della sfera di tutela ai diritti soggettivi, ma con la inclusione in essa di « beni comuni », quali i princípi religiosi e morali della collettività (34). Quindi, con la possibilità di sanzionare condotte, che in primo luogo sono moralmente illecite o che violano soltanto le norme ordinamentali dello Stato (35), si è tuttavia aperta una breccia anche nella distinzione kantiana tra diritto e morale. Tale breccia, del resto, era già delineata nella teoria di Feuerbach, a cui non era riuscito di tener saldo il proprio punto di partenza, che si imperniava sulla violazione di un diritto (36). Riguardo alle possibili conseguenze per la vittima concreta, tuttavia, la stessa introduzione, da parte di Birnbaum, del concetto di bene e la sua espansione fino ad includere « beni comuni » non necessariamente avrebbe dovuto portare ad una « disindividualizzazione » del concetto di reato. Ciò però avrebbe dovuto presupporre già da tempo — principio ancora oggi a fatica accettato — l’abbandono degli sforzi, che costringono ad astrazioni sempre più elevate, finalizzati a chiarire il contenuto materiale del reato attraverso una concezione monista dell’Unrecht, e l’accoglimento di una bipartizione dell’offesa in offesa di beni giuridici personali ed offesa di beni giuridici collettivi (37). (31) In questo senso AMELUNG (cfr. supra nota 24), p. 45, solleva addirittura il dubbio che lo studio di Birnbaum sarebbe forse scomparso dal panorama scientifico penalistico, se successivamente Binding non vi avesse fatto riferimento. (32) Cfr. infra nota (40). (33) BIRNBAUM, Ueber das Erforderniß einer Rechtsverletzung zum Begriffe des Verbrechens, in Archiv des Criminalrechts, 14 (1834), p. 149-194, in particolare p. 166 ss., 175 s. (34) BIRNBAUM (cfr. supra nota 33), in particolare p. 178. (35) BIRNBAUM (cfr. supra nota 33), p. 169, dove l’Autore critica la classificazione, a riguardo errata, di Feuerbach. (36) AMELUNG (cfr. supra nota 24), p. 35 ss. (37) Per tale questione si veda infra in ordine alle prospettive politico-criminali.
— 1070 — Sostanzialmente Birnbaum mostra, da un lato, di aver adottato tale duplice categoria; dall’altro, di essere rimasto fedele al nocciolo individuale del concetto di reato che colpisce beni personali. Birnbaum, quindi, non solo richiama, nella contrapposizione tra « persone e cose », da un lato, e « beni », dall’altro, una certa dualità dell’oggetto del reato (38), ma soprattutto rigetta l’obiezione di strumentalizzare la difesa della singola vita umana quale mezzo per raggiungere lo scopo prioritario della conservazione dello Stato (39). Di contro, le tendenze alla perdita di individualizzazione si riconoscono già chiaramente in Binding, il vero ideatore del concetto di « bene giuridico » (40). Senza soffermarci neppure in questa sede su questioni, di natura soprattutto semantica, concernenti la distinzione tra beni giuridici come oggetto di diritti soggettivi e questi stessi diritti e la loro differenziata vulnerabilità (41), e non volendo prendere posizione sul grado di maggiore o minore liberalità della concezione di Binding (42), ci si limita anche qui a sottolineare quali conseguenze derivino dal concetto di bene giuridico adottato da Binding riguardo al ruolo della vittima nella concezione del reato. Se si concorda con l’Autore nell’intendere il reato come colpevole infrazione della norma — infrazione che sia minacciata di (38) Ciò emerge dall’osservazione — che tuttavia già per SINA (cfr. supra nota 29, p. 21) appare non particolarmente chiara — alla stregua della quale « il concetto più naturale di offesa sembra essere quello secondo cui occorre riferirsi ad una persona o ad una cosa, in particolare a quella che noi riteniamo appartenerci, o a qualcosa che per noi costituisca un bene, che può essere sottratta o diminuita dall’azione di un altro » (BIRNBAUM, cfr. supra nota 34, p. 150). (39) Così, quando BIRNBAUM — e, secondo SINA (cfr. supra nota 29, p. 27), neppure Feuerbach avrebbe potuto esprimersi facilmente in modo più liberale — sottolinea (cfr. supra nota 33, p. 180): « In particolare, l’affermazione che la pericolosità comune è elemento essenziale di ogni reato potrebbe portare agevolmente all’idea che il dovere dello Stato di punire l’assassinio starebbe non tanto nell’obbligo in sé di tutelare la vita del singolo essere umano in quanto tale, quanto piuttosto nel dovere di mantenere lo Stato come ‘un tutto’. In conseguenza si potrebbe avere l’impressione che si voglia sostenere che gli uomini esistono soltanto affinché lo Stato sussista, invece di riconoscere che lo Stato è necessario per gli interessi degli esseri umani ». In questo senso, anche secondo AMELUNG (cfr. supra nota 24, p. 81) BIRNBAUM era ancora assolutamente vicino al pensiero individualista degli illuministi. (40) Così per la prima volta nella grande opera di K. BINDING, Die Normen und ihre Übertretung, I, 1a ed., Leipzig, 1872, p. 187 ss., dove l’Autore richiama il pensiero di Birnbaum, oltre i lavori successivi di Merkel ed Hälschner (p. 189, nota 312). Completando il sistema della propria teoria del reato, nella seconda edizione di « Die Normen » (Leipzig, 1890, p. 312 ss.) Binding poteva già mostrare con soddisfazione che il concetto di bene giuridico era penetrato ormai abbastanza profondamente nella teoria e nella prassi tedesca, e che era quasi unanimemente riconosciuto (p. 329, nota 18). Cfr. anche A. KAUFMANN, Lebendiges und Totes in Bindings Normentheorie, Göttingen, 1954, che attribuisce a Binding il merito di avere procurato al concetto di bene giuridico diritto di cittadinanza nella teoria del diritto penale (p. 69). (41) Cfr. BINDING, Normen, I, 2a ed., (cfr. supra nota 40), p. 327 ss. (42) Sul punto AMELUNG (cfr. supra nota 24), p. 77 ss.
— 1071 — pena (43) — tale concetto formale si adatta ad ogni tipologia di fatto di reato, ed una differenziazione è possibile solo in relazione ad un elemento sostanziale (44). Tale elemento di distinzione va individuato, secondo Binding, nello scopo delle norme, la cui funzione consiste nel garantire, attraverso la tutela di determinate persone, cose e situazioni, le condizioni di una vita giuridica pacifica ed integra. In tal senso, per Binding, « bene giuridico » è « tutto ciò che agli occhi del legislatore è di valore come condizione di vita integra della comunità giuridica, e al cui immutato ed indisturbato mantenimento la società, secondo il legislatore, ha interesse, sforzandosi di proteggerlo da indesiderate lesioni o pericoli per mezzo delle sue norme » (45). Se pure la disindividualizzazione dei diritti soggettivi a ciò connessa non si trae dal fatto che un bene diventa un bene della società attraverso il giudizio di valore della comunità giuridica (46), tuttavia tale « disindividualizzazione » emerge dalla marcata svolta di Binding, ostile ad ogni individualismo nella teoria del reato (47). Né si devono desumere spunti di segno contrario dal fatto che i giudizi di valore posti alla base del fondamento dei beni giuridici possano avere peso diverso e che, di conseguenza, per la comunità giuridica la vita appaia più preziosa del diritto di proprietà. Mentre la disobbedienza, in forma di infrazione della norma minacciata con pena, « costituisce il fattore costante in ogni illecito » (48), e la violazione del bene giuridico da impedire rappresenta solo la ratio legislativa del divieto dell’azione (49), il vantaggio dogmatico della teoria del bene giuridico, come Amelung ha già rilevato (50), si esaurisce proprio in ciò, ovvero: da un lato, nel poter graduare — a seconda del valore del bene giuridico — delitti del tutto equivalenti sotto il profilo della disobbedienza del precetto normativo; dall’altro, nel consentire una distinzione tra reati che ledono beni giuridici e reati che soltanto pongono in pericolo l’oggetto della tutela. Ed oltre a ciò, il fatto che i beni si trasformino in beni giuridici esclusivamente sulla base del loro « valore sociale » e nella misura in cui siano sempre beni di tutela della collettività (43) K. BINDING, Handbuch des Strafrechts, I, Leipzig, 1885, p. 499. (44) Riguardo tale aspetto e a quelli di seguito presi in considerazione cfr. AMELUNG (supra nota 24), p. 73 s. (45) BINDING, Normen, I, 2a ed., (cfr. supra nota 40), p. 339 ss. (353-355). (46) BINDING, Normen, I, 2a ed., (cfr. supra nota 40), p. 357 s. (47) AMELUNG (cfr. supra nota 24), p. 75, riferendosi a BINDING, Normen, I, 2a ed., (cfr. supra nota 40), p. 353 ss., 357 s. (48) BINDING, Normen, I, 1a ed., (cfr. supra nota 40), p. 205; nel medesimo senso, nella seconda edizione (cfr. supra nota 40), p. 410 s. (49) BINDING, Normen, I, 2a ed., (cfr. supra nota 40), p. 365, nota 1; si veda anche SINA (cfr. supra nota 29), p. 43. (50) AMELUNG (cfr. supra nota 24), p. 76.
— 1072 — (invece di intenderli innanzi tutto come beni dell’essere umano), fa concludere per un punto di partenza non-individualista (51). Tale oblio per la figura della vittima non va imputato a Franz v. Liszt, il grande politico-criminale antagonista di Binding. Egli non solo fece del bene giuridico il concetto centrale della sua teoria del reato (52), ma attribuì a questo — allacciandosi alla teoria dell’« orientamento sociologicofunzionale del diritto » di Jhering —, in quanto « interesse giuridicamente tutelato », anche un fondamento precedente al giudizio di valore, e con questo riconobbe un significato fondamentale alle necessità degli esseri umani (53). Postula v. Liszt: « Ogni diritto è per gli uomini, ogni diritto tutela interessi della vita umana. L’esistenza umana dunque è il bene giuridico; nelle variegate manifestazioni di tale esistenza emerge la differenziazione tra i beni giuridici » (54). Tali interessi sono generati non dall’ordinamento giuridico, ma dalla vita (55), perciò i beni giuridici, per usare un gioco di parole, sono non beni del diritto, ma beni dell’essere umano (56). Si dovrebbe quindi ritenere che il pregiudizio subìto dalla vittima concreta di un reato si ripercuota sul concetto di Unrecht. Ma v. Liszt, introducendo una ulteriore distinzione, si è costruito — consapevolmente o per sbaglio — una barriera che gli impedisce di proseguire. Questa trova fondamento senz’altro in se stessa e per questo ha occupato una posizione stabile nella dogmatica giuridico-penale. Essa, tuttavia, nella poco fortunata presentazione di v. Liszt, ha portato ad una ulteriore astrazione del concetto di bene giuridico: e ciò attraverso la sua differenziazione dall’oggetto dell’aggressione. Sebbene certa ed importante sia la necessità di una tale dicotomia (57), il cambiamento reiterato di v. Liszt nella terminologia (58) non ha solo reso difficile la comprensione; piuttosto, anche la distinzione tra un concetto di azione estremamente materiale, unito ad un corrispondente oggetto di aggressione naturalistico, da un lato, ed un con(51) AMELUNG (cfr. supra nota 24), p. 81. (52) Fondamentale F. v. LISZT, Rechtsgut und Handlungsbegriff im Bindingschen Handbuche, in ZStW, 6 (1886), p. 663-698, in particolare p. 673; ID., Der Begriff des Rechtsgutes im Strafrecht und in der Encyklopädie der Rechtswissenschaft, in ZStW, 8 (1888), p. 133-156, in particolare 136 ss.; ID., Lehrbuch des deutschen Strafrechts, 3a ed., Berlin, 1888, p. 19 ss. (53) AMELUNG (cfr. supra nota 24), p. 82 ss., 94; SINA (cfr. supra nota 29), p. 47 ss. (54) Cfr. in ZStW, 8 (1888), p. 141 s. (55) Cfr. Lehrbuch, 3a ed. (cfr. supra nota 52), p. 20. (56) Cfr. Lehrbuch, 6a ed. (Berlin, 1894), p. 49. (57) Più dettagliatamente sulla storia dello sviluppo di tale idea, cfr. SINA (supra nota 29), p. 54 ss.; AMELUNG (cfr. supra nota 24), p. 85 ss., 102 ss.; HASSEMER, Theorie (cfr. supra nota 29), p. 17 s.; riguardo ad una mia personale posizione — che necessita forse di essere rivista sulla base di una nuova riflessione — cfr. ESER, Harm (cfr. supra nota 28), p. 381 ss. (58) Sugli aspetti particolari cfr. AMELUNG (cfr. supra nota 24), p. 91.
— 1073 — cetto di interesse violato da ricercare in ambito spirituale, dall’altro, doveva favorire l’immagine secondo cui, nel caso del bene giuridico, e corrispondentemente del fatto illecito dei delitti contro la vita, si tratti non (anche) della vita di un uomo concretamente offeso, ma (solo) della difesa della vita in assoluto (59). Per questo va osservato anche in v. Liszt uno sviluppo del reato « dall’offesa individuale all’offesa istituzionale ». Sul processo di elevazione dell’oggetto del reato verso il generale Non sorprende che questa tendenza alla spiritualizzazione comunque non possa essere contenuta da una teoria giuridica, che a sua volta è stata fondamentalmente generata dall’impulso al generale e all’astratto. Dall’epoca della genesi dell’idea del bene giuridico nel diciannovesimo secolo ciò vale soprattutto per la teoria del diritto e del reato che si riallaccia a Hegel. Se si intende il reato come ribellione consapevole alla volontà generale (60), allora — come accaduto anche di fatto per il lungo oblio della teoria del bene giuridico di Birnbaum — esso si contrappone necessariamente allo sviluppo di una idea articolata in categorie determinate di beni giuridici. Della Scuola di Hegel, un tempo dominante nella teoria del reato, fu soprattutto Köstlin a ravvisare le particolarità del reato — in contrapposizione ad ogni altra tipologia di illecito — nel fatto « che esso è diretto non solo contro una specifica manifestazione del diritto, ma contro la sua essenza » (61). E se proprio per Hegel e per i suoi allievi occorre sempre tenere in considerazione che nel generale si devono osservare di volta in volta anche le relative manifestazioni nel particolare, tuttavia nel culmine di questa particolarizzazione e frazionamento resterebbe « precisamente solo la sostanza del diritto che costituisce l’oggetto essenziale della aggressione del reato » (62). Partendo da qui, dunque, non si era lontani — con ciò, però, superando Hegel — dal ritenere con Bekker che « nel reato non si deve vedere ciò che esso appare in primo luogo, ossia una offesa del soggetto direttamente colpito, ma ... un turbamento dell’ordinamento giuridico invisibile, ... una lesione dell’ordinamento statale » (63). Ma per quanto nella Scuola di Hegel le suggestioni di Birnbaum nel (59) Nel medesimo senso si esprime anche la critica di AMELUNG (cfr. supra nota 24), p. 91 ss. (60) Cfr. G.W.F. HEGEL, Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821), 4a ed. (Hoffmeister-Ausgabe), Hamburg, 1955, § 85 ss., in particolare § 95. (61) R. KÖSTLIN, System des deutschen Strafrechts, Allgemeiner Theil, Tübingen, 1855, § 6. Con maggior dovizia di particolari sulla questione cfr. SINA (cfr. supra nota 29), p. 28 ss. (62) KÖSTLIN (cfr. supra nota 62), § 36. (63) E.I. BEKKER, Theorie des heutigen deutschen Strafrechts, I, Leipzig, 1859, p. 45, cit. da SINA (cfr. supra nota 29), p. 32 s.
— 1074 — senso della teoria del bene giuridico siano state seguite, in particolar modo da Hälschner, si vede nella particolare forma e configurazione del diritto, quale oggetto prossimo del reato, « soltanto il mezzo attraverso il quale si manifestano quegli impulsi della volontà che contraddicono il diritto in sé » (64). In questo secolo — seguendo l’ulteriore evoluzione della teoria dopo v. Liszt (65) — una materializzazione in senso individuale del paradigma del bene giuridico, nel frattempo stabilizzato, ancor meno ci si poteva aspettare da quelle teorie del reato, che — in modo non dissimile dalla teoria del reato di Hegel, almeno nelle conclusioni, se non nella ratio e nel fondamento — sono orientate alla tutela della collettività, alla quale il singolo è sottordinato: sintomatica è la teoria del reato nazionalsocialista. Anche se proprio riguardo al dogma della offesa del bene giuridico essa è stata oggetto di discussione, e, allo stesso tempo, nell’idea di bene giuridico si intuivano i bastioni del pensiero liberale da superare (66), non ci si doveva aspettare un rafforzamento del concreto elemento individuale nel concetto di reato né dalla Scuola teleologica di Marburgo, sostenuta specialmente — soprattutto dopo Honig (67) — da Schwinge e Zimmerl (68), né dalla Scuola di Kiel, marcatamente orientata al nazionalsocialismo, rappresentata in particolar modo da Dahm e Schaffstein (69). Non riusciva la prima a suscitare queste aspettative perché il bene giuridico veniva inteso, nel suo fondamento, solo come « scopo, riconosciuto dal legislatore nei singoli enunciati di diritto penale, nella formula più sintetica », quindi come qualcosa non di reale e concreto, bensì come un quid di meramente categoriale (70) e, dunque, ridotto soltanto ad un « principio dominante della configurazione concettuale » (71). Né vi riusciva la concezione della Scuola di Kiel, che si dichiarava come « sostanziale », perché con l’espressione « sostanza » si intendevano essenzialmente nient’altro che i valori di volta in volta difesi, i beni vitali, in parti(64) H. HÄLSCHNER, System des preußischen Strafrechts, Theil I, Bonn, 1858, p. 3, cit. da SINA (cfr. supra nota 29), p. 32; cfr. anche AMELUNG (supra nota 24), p. 52. (65) Per ulteriori precisazioni su questa fase cfr. AMELUNG (supra nota 24), p. 96123; SINA (cfr. supra nota 29), p. 54-69. (66) Cfr. infra nota (86). (67) R.M. HONIG, Die Einwilligung des Verletzten, I, Mannheim-Berlin-Leipzig, 1919. (68) E. SCHWINGE, Teleologische Begriffsbildung im Strafrecht, Bonn, 1930; ID., Der Methodenstreit in der heutigen Rechtswissenschaft, Bonn, 1930; E. SCHWINGE, L. ZIMMERL, Wesensschau und konkretes Ordnungsdenken im Strafrecht, Bonn, 1937. (69) Si veda in particolare G. DAHM, Der Methodenstreit in der heutigen Strafrechtswissenschaft, in ZStW, 57 (1938), p. 225 ss.; ID., Der Tätertyp im Strafrecht, Leipzig, 1940; F. SCHAFFSTEIN, Das Verbrechen als Pflichtverletzung, Berlin, 1935; ID., Das Verbrechen eine Rechtsgutsverletzung?, in Deutsches Strafrecht, 2 (1935), p. 97 ss.; ID., Der Streit um das Rechtsgutsverletzungsdogma, in Deutsches Strafrecht, 4 (1937), p. 335 ss. (70) HONIG, Einwilligung (cfr. supra nota 68), p. 94. (71) Così SCHWINGE, Begriffsbildung (cfr. supra nota 69), p. 27.
— 1075 — colare anche i « valori popolari », come il carattere nazionale, la razza e, « l’essere tedesco » (72). Ulteriori spiritualizzazioni verso la « pretesa di osservanza » Sebbene il paradigma del bene giuridico abbia superato anche gli attacchi nazionalsocialisti (73), e comunque si sia radicato al punto che difficilmente si poteva pensare al diritto penale tedesco a prescindere da esso (74), tuttavia il suo contenuto espressivo continuava ancora a rimanere oscuro ed indeterminato (75). A tal punto Schmidhäuser ritenne di poter portare un ulteriore chiarimento, introducendo nella dogmatica del bene giuridico il concetto di « pretesa di osservanza » e tracciando una differenziazione tra « bene giuridico », « oggetto del bene giuridico » ed « oggetto del fatto » (76). Poiché, secondo tale Autore, dai beni giuridici promana una pretesa di osservanza erga omnes a che non vengano violate le corrispondenti situazioni di fatto, l’offesa del bene giuridico consiste nella violazione della pretesa di osservanza nascente dal bene giuridico. Quindi l’offesa del bene giuridico è caratterizzata da un fenomeno spirituale, per cui non si può parlare di una lesione del bene giuridico, quando essa riguardi un oggetto tangibile, leso per effetto di un processo causale (la vita concreta, la salute dell’essere umano, ecc.); quest’ultima lesione, piuttosto, riguarda l’oggetto del bene giuridico o l’oggetto del fatto (77). Non pensa a nulla di sostanzialmente diverso Jescheck, quando utilizza il concetto di « pretesa di efficacia vincolante » (78) in luogo del concetto di « pretesa di osservanza ». Sebbene possa essere fondata l’obiezione paventata dallo stesso Schmidhäuser (79), ovvero che il suo chiarimento sia una questione meramente terminologica (80), in questa ottica il bene giuridico subisce una (72) In dettaglio SINA (cfr. supra nota 29), p. 79 ss.; AMELUNG (cfr. supra nota 24), p. 216 ss., in particolare 226 ss., 251 ss. (73) Cfr. infra sub nota (86). (74) Cfr. a titolo esemplificativo H.-H. JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts. Allgemeiner Teil, 4a ed., Berlin, 1988, p. 6 ss.; ROXIN, Strafrecht (cfr. supra nota 6), p. 11 ss.; R. MAURACH-H. ZIPF, Strafrecht Allgemeiner Teil, I, 8a ed., Heidelberg, 1992, p. 266 ss. (75) Cfr. RUDOLPHI (cfr. supra nota 30), p. 151; cfr. anche Th. LENCKNER, in A. SCHÖNKE-H. SCHRÖDER, StGB, 25a ed., München, 1996, Pre-§ 13, n. 8 ss., con ulteriori riferimenti. (76) E. SCHMIDHÄUSER, Der Unrechtstatbestand, in Festschrift für Karl Engisch (cfr. supra nota 22), p. 433-455, in particolare p. 445 s., dove però la distinzione tra oggetto del bene giuridico ed oggetto del fatto, per il momento, viene accennata, mentre solo in seguito sarà esposta nel suo manuale (Strafrecht. Allgemeiner Teil, Tübingen, 1970, p. 24 ss.). (77) SCHMIDHÄUSER (cfr. supra nota 76), p. 444 s. (78) JESCHECK (cfr. supra nota 74), p. 7. (79) Cfr. Der Unrechtstatbestand (cfr. supra nota 76), p. 445. (80) Cfr., ad esempio, LENCKNER, in A. SCHÖNKE-H. SCHRÖDER, StGB, 24a ed., München, 1991, Pre-§ 13, n. 9 (meno chiaramente nella 25a edizione, per la quale cfr. supra nota (75)).
— 1076 — ulteriore spiritualizzazione e la vittima concreta viene relegata sempre più sullo sfondo. Allora, mentre nel concetto di bene giuridico, che resta « sostanziale, pieno di contenuto e ricavato dalla realtà sociale », la norma di condotta (e corrispondentemente anche l’illecito) conserva ancora un nocciolo sostanziale (81), la « pretesa di osservanza », una volta avanzata, diviene oggetto principale — non più solo oggetto relazionale-formale — della lesione, e l’offesa del bene giuridico è soltanto secondaria e fungibile. Se quindi il bene giuridico è, a sua volta, una astrazione istituzionale — come la vita in sè o la proprietà come istituto —, allora della lesione dell’essere umano colpito in concreto, intesa come elemento dell’illecito, non resta più niente. Posta una tale « volatilizzazione » del bene giuridico, non ci si deve meravigliare nemmeno che l’individuo in quanto vittima sia comunque incluso, nella configurazione dei beni giuridici, ancora in modo unitario tra « beni della vita comune » caratterizzati da una pretesa di osservanza (82). Sul requisito del bene giuridico come limite del diritto penale Alla discussione relativa alla dogmatica del reato nell’ambito del bene giuridico si è sempre in maggiore o minor misura intrecciato anche un dibattito di natura politico-criminale (83): talvolta in modo meno evidente, come in Binding o nell’ambito della « Scuola di Marburgo », perché in tale contesto il bene giuridico è utile in una accezione giuspositivista quasi solo come ratio cognoscendi strumentale per gli interessi meritevoli di protezione secondo il legislatore (84); talvolta più marcatamente, come in v. Liszt, per il quale i beni non vanno creati dal legislatore, ma è necessario che essi preesistano come « interessi » dell’essere umano, per cui la mancanza di essi (così, ad esempio, nel caso di mere violazioni morali) in una ottica liberale, può essere di ostacolo alla criminalizzazione (85). In(81) Così LENCKNER, in A. SCHÖNKE-H. SCHRÖDER (cfr. supra nota 80), Pre-§ 13, nn. 9 e 10. (82) SCHMIDHÄUSER, Strafrecht (cfr. supra nota 76), p. 169. Ma in Der Unrechtstatbestand (cfr. supra nota 76, p. 443 s.) si parla pur sempre anche di beni vitali del singolo e della esistenza prospera del singolo o della comunità (analogamente in Strafrecht, per il quale cfr. supra nota (76), p. 25). Per altri aspetti cfr. anche infra nota (103). (83) Fondamentale per le teorie del bene giuridico in relazione agli aspetti dogmatici e politico-criminali HASSEMER, Theorie (cfr. supra nota 29), p. 57 ss. (84) Per cui AMELUNG (cfr. supra nota 24, p. 78) può rimproverare Binding di avere tradito, sotto l’etichetta della tutela dei beni giuridici, il positivismo giuridico per gli ideali dell’illuminismo; nello stesso senso, anche per Hassemer (cfr. supra nota 29, p. 47) Binding fu sopraffatto dalla miopia di uno stretto positivismo legale. (85) Questa idea appare successivamente anche in MARX (cfr. supra nota 29), p. 62 e p. 84 ss., che intraprende un tale tentativo ricorrendo ad un concetto di bene giuridico antropocentrico, anteriore al diritto penale. Che questa conseguenza liberale non sia tuttavia una conseguenza obbligatoria, era stato dimostrato già da BIRNBAUM, per il quale il supera-
— 1077 — fine, l’idea di bene giuridico è stata ripresa in una prospettiva consapevolmente politica, soprattutto da Schaffstein, per opporsi proprio alle tendenze liberali del principio del bene giuridico, scoprendone il contenuto di matrice « individual-illuministica » (86). Questo potenziale politico del requisito del bene giuridico ha acquistato significato sotto l’influsso della Legge Fondamentale tedesca, soprattutto con riguardo alla riforma del diritto penale, sotto un duplice aspetto. Per un verso, si trattava, sotto l’ègida della formula della « dannosità sociale » del reato, di decriminalizzare tutte le modalità di condotta che, per assenza di un’offesa del bene giuridico, non possono essere ritenute socialmente dannose (87). All’insegna di ciò viene in causa — sebbene non esclusivamente, certo almeno prevalentemente — la decriminalizzazione nell’ambito di quei delitti un tempo definiti offensivi della morale in quanto meri illeciti etici (88). Per altro verso, ci si attende un rafforzamento della funzione limitatrice del concetto di bene giuridico dal suo ancoraggio giuridico-costituzionale, potendo venire in considerazione come beni giuridici suscettivi di sanzione penale, soltanto diritti e valori che derivino dal dettato costituzionale, oppure che, quanto meno, orbitino nell’ambito del costituzionalmente protetto (89). Ma per quanto esatti ed importanti siano entrambi questi postulati, non si deve sperare da essi alcun effetto troppo restrittivo. Per quanto, dunque, si equipari la dannosità sociale all’offesa del bene giuridico, delle due l’una: o la dannosità sociale dipende da che cosa vada innanzi tutto definito come bene giuridico; oppure, al contrario, è necessaria — per poter raggiungere soprattutto un effetto decriminalizzante — una definizione pregiuridica della dannosità sociale, della quale, a sua volta, occorrerebbe stabilire i parametri determinanti. Al contempo, nemmeno dal diritto costituzionale sono da attendersi linee di demarcazione troppo precise; infatti, anche se si circoscrive la criminalizzazione a quelle modalità mento della violazione del diritto di feuerbachiana memoria attraverso l’offesa del bene, serviva a poter rendere penalmente sanzionabile anche l’offesa di « beni comuni », come i princìpi religiosi e morali del popolo (cfr. supra nota 34). (86) In tal senso una pretesa di SCHAFFSTEIN, Das Verbrechen (cfr. supra nota 69), in Deutsches Strafrecht, 2 (1935), p. 97, 101. In dettaglio a riguardo cfr. SINA (cfr. supra nota 29), p. 80 ss., ma anche AMELUNG (cfr. supra nota 24), p. 231 ss., 235 ss. (87) Un contributo fondamentale a questa « teoria della ‘dannosità sociale’ del reato » si ritrova soprattutto in AMELUNG (cfr. supra nota 24, in particolare p. 330 ss.); cfr. anche C. ROXIN, Sinn und Grenzen staatlicher Strafe, in JuS, 1966, p. 377 ss., come pure RUDOLPHI (cfr. supra nota 30), p. 154 ss. (88) Cfr. specialmente H. JÄGER, Strafgesetzgebung und Rechtsgüterschutz bei Sittlichkeitsdelikten, Stuttgart, 1957; inoltre C. ROXIN, Franz v. Liszt und die kriminalpolitische Konzeption des Alternativentwurfs, in ZStW, 81 (1969), p. 613 ss., 622 ss. (89) Cfr., a riguardo, ROXIN, Strafrecht (cfr. supra nota 6) p. 14, che si riallaccia a RUDOLPHI (cfr. supra nota 30), p. 158 ss., il quale aveva come punto di riferimento il principio dello Stato di diritto.
— 1078 — di condotta che sono considerate socialmente dannose, in quanto pregiudicano interessi individuali o collettivi socialmente riconosciuti, ed offensive di beni giuridici, poiché interessano il cono di protezione giuridicocostituzionale (90), rimane tuttavia ancora molto ampio l’ambito di tutela riconducibile al diritto penale (91). In tal guisa difficilmente si potranno circoscrivere gli stessi beni giuridici collettivi (92), soggetti ad un continuo processo di espansione (soprattutto nell’alveo del diritto penale dell’economia e dell’ambiente) — a meno che, in forza di una presa di posizione legislativa, si voglia delimitare il diritto penale fondamentalmente alla tutela dei beni giuridici individuali, come di recente, in contrapposizione alla tendenza legislativa generale, sostiene con insistenza l’entourage della cosiddetta « Scuola di Francoforte » (93). Non da ultimo resta da chiedersi, riguardo alla vittima, che è oggetto precipuo di questo studio, quale vantaggio potrebbe derivare alla sua posizione nel concetto di reato dal riconoscimento della funzione limitatrice del requisito del bene giuridico. Per dirla senza perifrasi: davvero nessuno, o quasi. Al contrario: tanto più orientato a favore della vittima è il concetto di bene giuridico, tanto più le limitazioni di questo possono condurre ad una perdita di tutela per la stessa vittima. Pertanto, non sorprende che nelle ricerche mirate alla riduzione dell’area del penalmente rilevante non si ponga la questione del ruolo della vittima in concreto (ad esempio, in Rudolphi) (94); né la vittima o il soggetto leso figurino come topoi degni di nota (si pensi ad Hassemer) (95). (90) Con maggior approfondimento circa un tale concetto di bene giuridico che si basi su un interesse effettivo quale substrato del valore, riconosciuto da determinate norme sociali e che si inquadri nell’ambito della Costituzione, cfr. ESER, Harm (cfr. supra nota 28), p. 376 ss. (91) Anche secondo il lavoro di O. LAGODNY, Strafrecht vor den Schranken der Grundrechte, Tübingen, 1996, 139 ss., 424 ss., ci si deve comunque aspettare, nella prospettiva del diritto costituzionale, una delimitazione negativa dell’ambito molto esteso delle lesioni dei beni giuridici non suscettibili di sanzione penale. (92) A riguardo, per esempio, F. HERZOG, Gesellschaftliche Unsicherheit und strafrechtliche Daseinvorsorge, Heidelberg, 1991, in particolare p. 109 ss. (93) Sul punto cfr. già HASSEMER, Theorie (supra nota 29), p. 68-86; ID., Kennzeichen und Krisen des modernen Strafrechts, in ZRP, 1992, p. 378-383; ancora, HERZOG (cfr. supra nota 92); W. NAUCKE, Schwerpunktverlagerung im Strafrecht, in KritV, 1993, p. 135-162; P.-A. ALBRECHT, Erosionen des rechtsstaatlichen Strafrechts, in KritV, 1993, p. 163-182. (94) Oltre al lavoro citato supra alla nota (30), si veda anche H.-J. RUDOLPHI, Der Zweck des staatlichen Strafrechts und die strafrechtlichen Zurechnungsformen, in B. SCHÜNEMANN (Hrsg.), Grundfragen des modernen Strafrechtssystems, Berlin, 1984, p. 69-84. (95) Quando HASSEMER, nella Theorie (cfr. supra nota 29), tratta della « offesa », ciò avviene di volta in volta solo riguardo alla violazione del diritto, col che non si fanno passi avanti nella questione che si è posta. Per una valutazione di Hassemer in chiave più positiva circa il ruolo della vittima nella evoluzione del concetto di bene giuridico, cfr. anche infra in corrispondenza della nota (106).
— 1079 — Bilancio provvisorio per la vittima Sebbene la precedente ricapitolazione sia frutto di una selezione e non pretenda in alcun modo di delineare i contorni di una completa ricostruzione evolutiva, già i pochi passaggi su cui ci si è soffermati lasciano intuire una totale mancanza di interesse per la vittima. Per vincere l’impressione che ciò possa essere posto in relazione esclusivamente con la storia del principio del bene giuridico, prima di trarre le conclusioni del mio discorso, prenderò in esame alcuni ulteriori fattori che hanno contribuito a fare della vittima dell’illecito penale anche una vittima della teoria del reato. Tra detti fattori vi è, da un lato, l’attenzione concentrata in via prioritaria sull’autore del reato, il quale costituisce il filo rosso che attraversa la recente evoluzione del diritto penale ed i suoi tentativi di riforma. Tale processo ha avuto inizio già al tempo della Repubblica di Weimar, fra l’altro, con l’introduzione della legge del Tribunale per i minori, ed è proseguito — sebbene con aspettative opposte — con il nazionalsocialismo; quindi, mentre all’epoca della Repubblica di Weimar gli sforzi erano diretti ad ottenere miglioramenti per il reo, in particolare nella esecuzione della pena (96), il nazionalsocialismo moltiplicò l’interesse per l’autore dal punto di vista del « turbamento della pace » da contrastare (97). L’indirizzo orientato all’autore raggiunse poi il suo apice nel dibattito sulle riforme degli anni Sessanta, quando, specialmente con il Progetto Alternativo, nei cui princìpi fondamentali l’imperativo della risocializzazione si poneva come scopo della pena alla stessa stregua della tutela di beni giuridici (98), le conseguenze del fatto per l’autore rivestivano una posizione centrale nella discussione (99). A tale focalizzazione degli scopi della pena nell’autore si addice perfettamente che il giudizio di colpevolezza — nella misura in cui trova ancòra una legittima collocazione nell’ambito della commisurazione della pena (100) — sia considerato non tanto un problema del rapporto individuale di colpevolezza rispetto al soggetto direttamente colpito, quanto piuttosto una questione che, in ordine all’of(96) In particolare, sul punto, R. SEIDL, Der Streit um den Strafzweck zur Zeit der Weimarer Republik, Frankfurt a.M., 1974, in particolare p. 186 s.; H.-H. JESCHECK, Strafrecht. Allgemeiner Teil, 2a ed., Berlin, 1972, p. 75. (97) Cfr., ad esempio, R. FREISLER, Willensstrafrecht; Versuch und Vollendung, in F. GÜRTNER (Hrsg.), Das kommende deutsche Strafrecht, Allgemeiner Teil, Berlin, 1934, p. 936, in particolare p. 12. (98) Alternativ-Entwurf eines Strafgesetzbuches. Allgemeiner Teil, 2a ed., Tübingen, 1969, § 2, prima parte. (99) Anche la criminologia, che fu la prima ad occuparsi della vittima, in questo momento rivelò una impostazione ancora puramente orientata all’autore del reato. Cfr. G. KAIa SER, Kriminologie, Heidelberg, 2 ed., 1988, p. 406 ss. (100) Essenziale sul punto BGHSt 24, p. 40 ss., in particolare p. 42.
— 1080 — fesa del bene giuridico, va riguardata dal punto di vista dell’ordinamento giuridico in generale. In tale contesto non ci si può stupire nemmeno del fatto che proprio nella descrizione del fenomeno della punizione non venga in considerazione la vittima. Per chiarire tale aspetto, si consideri lo « Studienbuch » di Schmidhäuser, nella parte relativa a « I singoli ruoli nel processo di punizione »: in essa viene sì data voce al legislatore, agli organi del procedimento, ai giudici, agli apparati dell’esecuzione della pena, al soggetto punito (cioè all’autore) ed infine alla società, ma non alla vittima, proprio come se questa non avesse nulla a che spartire con il procedimento di irrogazione della sanzione (101). Soltanto nella più completa monografia di Schmidhäuser, « Del senso della pena », si trova menzione dell’offeso, ma anche in questo caso solo alla fine, in quanto elemento della società sottordinato, e solamente nel medesimo contesto della famiglia dell’autore (102). A fronte di un orientamento che si esprime unilateralmente a favore dell’autore (103), allo scopo della pena consistente nella tutela dei beni giuridici potrebbe aggiungersi il compito di introdurre, a pari condizioni, anche gli interessi della vittima. Ciò presupporrebbe, tuttavia, che la vittima, per così dire, trovasse allocazione in qualche modo nel bene giuridico. Però — come illustrato dalla indagine retrospettiva che precede — ci si è allontanati da tale prospettiva, quanto più si è abbandonato il punto di partenza individuale del reato inteso come violazione di un diritto soggettivo, estendendo il concetto alla violazione di un bene giuridico (non necessariamente soggettivo), in una progressiva astrazione dalla vittima individuale. Col considerare la vita o la proprietà della vittima concreta soltanto come oggetto della condotta, e nell’interpretare invece il bene giuridico « vita » o « proprietà » come mera figura avulsa dal soggetto leso in concreto ed istituzionalizzata, il bene giuridico non è più niente che possa trovare corrispondenza nell’individuo. È diventato un principio globale, che soltanto fa confluire in una astrazione superindividuale i singoli beni giuridici dell’individuo ritenuti di valore significativo. Attraverso la (101) Cfr. SCHMIDHÄUSER, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Studienbuch, Tübingen, 2a ed., 1984, p. 21 s. (102) E. SCHMIDHÄUSER, Vom Sinn der Strafe, 2a ed., Göttingen 1971, p. 101: « La punizione statale è questione di natura non solo collettiva ... ma riguarda ogni individuo che la viva da lontano ... o che abbia un particolare interesse ad un determinato procedimento ed al suo esito (come, ad esempio, lo ha il soggetto leso dal fatto di reato o la famiglia dell’autore) ». (103) Sul pregiudizio per la vittima a ciò connesso si veda FREHSEE (cfr. supra nota 4), che parla di un « disprezzo per la vittima come soggetto » (p. 121), oppure H.-J. HIRSCH, Wiedergutmachung des Schadens im Rahmen des materiellen Strafrechts, in ZStW, 102 (1990), p. 534, secondo cui il bisogno di giustizia della vittima non è stato tenuto in conto, mentre la politica criminale si è orientata unilateralmente alla risocializzazione dell’autore.
— 1081 — spiritualizzazione del concetto di Unrecht connessa a tali presupposti, che, partendo da una lesione individuale, conduce ad una violazione istituzionale (104), secondo la tesi sostenuta fino alla più recente letteratura manualistica senza la benché minima parvenza di consapevolezza del problema (105), nella relazione tra bene giuridico e vittima va in realtà ravvisata una sopravalutazione del primo a scapito della seconda. Ne consegue che, nel tempo, poco è mutato dalla affermazione di Sessar di quasi quindici anni fa: « Perciò la vittima è oggi quasi completamente inghiottita dal bene giuridico » (106). Prospettive politico-criminali Dobbiamo dunque rassegnarci a lasciare le cose come stanno? Certo non si può negare, come ha osservato Hassemer, che il diritto punitivo statuale va di pari passo con la neutralizzazione della vittima e che, di conseguenza, non sia un caso che il diritto penale rimuova la vittima dalla sua posizione antagonista rispetto a quella dell’autore, assumendo esso stesso tale ruolo (107). Nondimeno, resta da chiedersi se la rimozione della vittima dal diritto penale sostanziale e processuale connessa a tali premesse non si sia spinta troppo oltre. Infatti va registrato già dalla fine degli anni Settanta un cambiamento di tendenza nel senso della riscoperta della vittima del reato (108), accompagnato da una produzione letteraria (104) Cfr. supra nel testo. (105) Così, quando, ad esempio, secondo JAKOBS (Strafrecht. Allg. Teil, 2a ed., Berlin, 1991, p. 8 s.), nel caso del furto la tutela penale della proprietà segue « senza tenere in conto il suo titolare ... principalmente per l’orientamento della tutela con riguardo al significato di proprietà nel contesto sociale ». (106) K. SESSAR, Rolle und Behandlung des Opfers im Strafverfahren, in Bewährungshilfe 27 (1980), p. 328-339 (329). — L’effetto dell’allontanamento della vittima prodotto dall’idea del bene giuridico non necessariamente è comunque in contraddizione con l’osservazione di HASSEMER: secondo il principio « può essere allora penalmente illecita la condotta umana soltanto quando offende un bene giuridico », « la vittima viene di nuovo in gioco, dopo essere scomparsa per secoli nei princìpi della riprovevolezza, della infrazione della norma, della condotta criminale » (Einführung in die Grundlagen des Strafrechts, 2a ed., München, 1990, p. 24). Se, da un lato, questa osservazione risultò corretta, seguendo Feuerbach, per la nascita del principio del bene giuridico (all’inizio del diciannovesimo secolo) finalizzato a circoscrivere un diritto criminale ipertrofico e tendente a sanzionare (anche) i meri illeciti morali, dall’altro, non si può disconoscere la tendenza alla disindividualizzazione insita nel concetto di bene giuridico. (107) HASSEMER, Einfuhrung (cfr. supra nota 106), p. 70 ss. (108) Oltre alla dottrina citata alla nota (4), per la letteratura più recente cfr. soprattutto S. BIERI, Täter-Opfer-Ausgleich: Ansatz einer kriminalpolitischen Reform im Strafrecht, Bern, 1994; R.-D. HERING, D. RÖSSNER, Täter-Opfer-Ausgleich im allgemeinen Strafrecht, Bonn, 1993; St. KUNZ, Probleme der Opferentschädigung im deutschen Recht, Baden-Baden, 1995, come pure l’opera collettanea di G. KAISER, H. KURY, H.-J. ALBRECHT (Hrsg.), Victims and Criminal Justice, 3 tomi, Freiburg, 1991.
— 1082 — così alluvionale (109), che si deve ormai parlare — in modo leggermente dispregiativo — di un « nuovo tema alla moda » (110). Ciononostante, non ci si dovrebbe far lusingare dalla fallace impressione che tutta questa recente letteratura orientata allo studio della vittima abbia di mira il miglioramento della posizione di questa. Allora, come la riparazione (Wiedergutmachung) e la composizione del conflitto tra autore e vittima del reato (Täter-Opfer-Ausgleich) possono essere proficui anche per l’autore quali sostitutivi (in tutto o in parte) della pena, allo stesso modo la cosiddetta « vittimo-dogmatica » — contrariamente al dato terminologico — porta alla vittima vantaggi di gran lunga inferiori rispetto a quelli derivanti all’autore dalla limitazione della punibilità e⁄o della sanzione (111). Non si può intendere questa riserva critica come rifiuto di sanzioni e modi di procedimento forse vantaggiosi (anche) per l’autore, né dovrebbe aversi l’impressione che sia scopo del presente contributo ottenere semplicemente miglioramenti per la vittima a scapito dei riconoscimenti giuridici per l’accusato, tanto faticosamente conseguiti. L’obiettivo di queste riflessioni consiste piuttosto nel tentativo di dare un equilibrio al rapporto tra il soggetto leso in concreto e gli interessi generali difesi dallo Stato, eliminando la sperequazione favorevole a questi ultimi a scapito della tutela del primo. Forse ciò potrebbe contribuire a che alcuni dei più recenti provvedimenti di riforma in favore della vittima, rispetto ai quali non si riesce ad eliminare l’impressione che si tratti di meri palliativi, possano essere motivati in modo più coerente e con meno contraddizioni. Senza poter sviluppare esaustivamente questa idea nel quadro illustrato, mi limiterò a fornire soltanto tre linee direttrici a mò di tesi. Primo. Per ciò che concerne il concetto di reato, e quindi anche la concezione dell’Unrecht, è necessario contenere sia il progressivo processo di astrazione e spiritualizzazione di esso che conduce alla lesione dell’ordinamento giuridico in quanto tale, sia la conseguente disindividua(109) Cfr. F. DÜNKEL, D. RÖSSNER, Täter-Opfer-Ausgleich in der Bundesrepublik Deutschland, Österreich und der Schweiz, in ZStW, 99 (1987), p. 845-872, secondo cui già al tempo (1987) era quasi impossibile raccogliere tutta la produzione letteraria sul tema in discussione. (110) HIRSCH (cfr. supra nota 103), in ZStW, 102 (1990), p. 534. (111) Così, ad esempio in ROXIN, Strafrecht (cfr. supra nota 6, p. 487 ss.) — cui si deve una delle più recenti e sintetiche esposizioni relative a tale topos — si riscontra « al centro (della riflessione) una questione, ovvero come una corresponsabilità della vittima per il fatto influisca sull’Unrecht, ed in particolare se essa possa comportare l’esclusione del fatto tipico o dell’antigiuridicità », così che non si può evitare l’impressione che nella vittimo-dogmatica complessivamente venga in considerazione una specie di programma di alleggerimento della posizione dell’autore. Per ulteriori prospettive riguardo alla vittimologia, tuttavia, si veda anche il quadro dipinto a riguardo da G. KAISER, Kriminologie, 9a ed., Heidelberg, 1993, p. 630 ss.
— 1083 — lizzazione del concetto di bene giuridico. Se, da un lato, è corretto ravvisare nel reato qualcosa di più che una mera offesa individuale, e se quindi la lesione generale del diritto è irrinunciabile come elemento dell’Unrecht, dall’altro, tuttavia, la violazione dell’interesse individuale solo in parte può dissolversi in tale offesa generale. Così, come l’autore è presente nel concetto di reato attraverso la sua condotta illecita e colpevole, anche l’offesa dell’interesse individuale della vittima colpita deve essere contenuta nel concetto di illecito penale accanto alla offesa del bene giuridico generale — solo così, per esempio, è possibile anche capire perché e fino a che punto una corresponsabilità propria della vittima possa condurre ad una riduzione dell’illiceità o ad una esclusione di essa. In quale modo si debba raggiungere questa inclusione dell’offesa individuale (se, forse, attraverso un concetto di bene giuridico che comprenda l’interesse tanto generale quanto individuale, oppure per mezzo dell’integrazione dell’offesa del bene giuridico istituzionale con un elemento individuale di illecito), è questione secondaria, trattandosi di un problema di mera costruzione sistematica. Anche il fatto che spesso possano sussistere fatti di reato, nei quali manchi una vittima individuale in quanto si tratta della mera offesa di beni giuridici collettivi, non costituisce un motivo decisivo per privare l’offesa dell’interesse individuale, laddove esso esista, dell’attenzione dovutagli come elemento dell’Unrecht. Anche in questo contesto deve valere il principio, secondo cui la perfezione e l’astrazione nella sistematica del reato non possono pregiudicare le necessità sostanziali. Secondo. Una tale duplice concezione — istituzionale ed individuale — del reato è significativa anche per il concetto di pena. In particolare si spiega così con facilità anche la riparazione come parte della pena; se quindi l’Unrecht va inteso in modo duplice come offesa sia del diritto generale sia dell’interesse concreto, allo stesso modo la sanzione corrispondente ha anche bisogno della riparazione individuale, al di là delle finalità general-statali. Per questo la riparazione non solo non rappresenta un corpo estraneo al diritto penale, ma piuttosto va intesa come essenziale figura rientrante nel novero degli strumenti sanzionatori penali. Terzo. Naturalmente, un tale ancoraggio della vittima alla concezione dell’illecito e della pena comporta conseguenze anche per il procedimento penale. Se (anche) nel procedimento penale si fa questione della riparazione dell’illecito individuale, allora una efficace partecipazione processuale della vittima deve essere interpretata, e quindi concettualmente elaborata, non come una mera concessione, bensì come un diritto autoctono. Certo, mi è ben chiaro che al mutamento interpretativo cui si è accennato si oppongono concezioni divenute ormai care, ed anche delimi-
— 1084 — tazioni di materia interne al diritto. Tuttavia, tali deviazioni di percorso non sono da temere, quando si tratta, di fronte ad un reato, di conseguire tanto il ripristino della pace giuridica, quanto la riparazione per la vittima, per una via — sotto entrambi i profili — « umanamente orientata » (112). Professor Dr. Dr. h.c. ALBIN ESER, M.C.J. Direttore del Max-Planck-Institut für ausländisches und internationales Strafrecht in Freiburg i.Br.
(112) Con riferimento alle prime riflessioni in questa direzione cfr. A. ESER, Vision of a « Humane » Criminal Justice, in Prestige Lecture No. 1, University of Pretoria, 1995.
REATI ASSOCIATIVI E PROCESSO PENALE (*)
1. Alla fine degli anni ottanta le perplessità della dottrina penalistica sull’incerto impatto della fattispecie di diritto sostanziale con le nuove forme processuali erano ricorrenti. Chiara la messa a punto di Padovani: il processo è costruito sul paradigma del contraddittorio per la prova... Il diritto penale attuale, farcito di fattispecie grondanti elementi valutativi elastici o addirittura vaghi, è forse il peggior nemico del nuovo processo, proprio perché tali fattispecie ripropongono di per se la signoria del giudice in un apprezzamento valutativo a maglie larghe, rispetto al quale le garenzie del procedimento di acquisizione probatoria perdono ogni effettiva consistenza... In realtà, il nuovo paradigma processuale, per esprimere compiutamente il proprio significato, abbisogna di fattispecie incriminatrici che al nitore della tipicità uniscano un solido impianto lesivo: soltanto offese reali costruite intorno ad un nucleo materiale, capace di indentificare il disvalore, rappresentano il contrappunto armonico del contraddittorio per la prova, che su di esse potrà davvero esercitarsi con pienezza di significato pratico. Sulla stessa lunghezza d’onda Bricola: se si vuole che il contraddittorio per la prova non sia di mera apparenza e se si ha di mira la fecondità logica della contestazione della pretesa punitiva, nonché della sua esposizione al controllo da parte dell’accusato, presupposto epistemologico necessario è la tassatività e la materialità della fattispecie penale. Il fatto oggetto del contraddittorio non deve essere, perciò, né ad offensività evanescente, neutrale e tutto proiettato verso una sua utilizzazione in chiave sintomatica, né, come avviene per le fattispecie ricche di elementi valutativi, dotato di un’offensività che si materializza soprattutto od esclusivamente nel profilo valutativo dello stesso. È bene intendersi. Il contraddittorio è effettivamente il modello di elaborazione probatoria, introdotto dal nuovo codice di procedura penale. Serve, però, per la verifica di un tema di prova, o di più temi di prova, ormai sufficientemente delineati nei loro elementi: quando le indagini preliminari hanno già specificato i fatti e le circostanze da sottoporre al con(*) Testo della relazione svolta al XXI Convegno del Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale a Courmayeur nei giorni 10-11-12 ottobre 1997 sul tema « I reati associativi ».
— 1086 — trollo delle parti. L’ipotesi, qualsiasi ipotesi di reato, va in altri termini processualizzata attraverso il tema (o i temi) di prova. È la posizione del tema che introduce il procedimento probatorio. Il contraddittorio non è destinato, perciò, ad esaurirsi in un « dibattito di opinioni » su un giudizio di valore o su asserzioni di significato indeterminato. Tende, all’opposto, a verificare fatti e circostanze con le variabili insite nello specifico procedimento probatorio. Il problema è, quindi, diverso. Prima di misurare l’adeguatezza del modello processuale (...appunto il contraddittorio) all’accertamento di questa o di quella ipotesi di reato bisogna considerare il tema di prova da sottoporre al controllo delle parti. Consci dell’impegno che una simile operazione comporta sul piano delle indagini preliminari, al fine di tradurre in termini processualmente apprezzabili fattispecie penalistiche, dai contenuti diversissimi. Se queste premesse sono esatte è possibile trarre le prime provvisorie conclusioni sulla posizione del tema e sulla reale incidenza del contraddittorio e dell’oralità. Il tema di prova seleziona e registra i risultati delle indagini preliminari. Il contraddittorio punta sui verbali relativi a queste indagini, perché l’escussione — con il controesame e la contestazione — non può che essere calibrata dal patrimonio di conoscenze a disposizione delle parti. Queste le ulteriori illazioni: riguardano le dimensioni delle iniziali incertezze della nostra pratica giudiziaria sulla gestione della prova dibattimentale. Le disfunzioni non dipendevano dall’inadeguatezza del contraddittorio a provare questa o quell’ipotesi di reato; ma dalla difettosa e lacunosa posizione del tema di prova. Le precise indicazioni della Corte costituzionale circa la necessaria completezza dell’indagine (ancorate al divenire dell’azione) hanno, almeno in parte, eliminato l’impasse; attengono ai limiti del contraddittorio senza oralità. Il potere di domanda, esercitato nel corso dell’incidente probatorio, può sfruttare le sole acquisizioni delle indagini preliminari, ritualmente depositate. Se non vi sono state precedenti più ampie discovery (sempre imposte nella procedura de libertate) può basarsi soltanto sui verbali delle dichiarazioni provenienti dalla stessa fonte di prova. La lesione della par condicio è evidente. Le « aperture » consentite dalla sentenza n. 74/1991 della Corte costituzionale schiudono la via alle possibili « contestazioni » delle dichiarazioni depositate nella cancelleria del giudice, ma non risolvono i problemi dell’esame e del controesame (legati ad un più ampio e differenziato « sapere investigativo »); afferiscono alla reale portata del contraddittorio in una fase del processo, contrassegnata dall’oralità e dalla completa discovery. Il dibattimento è la sede in cui la parte può condurre un esame incrociato « più mi-
— 1087 — rato », sulla base delle acquisizioni filtrate dalle indagini preliminari. Contraddittorio per la prova e par condicio coincidono solo al dibattimento. Ed è questa ampia piattaforma probatoria a dare un senso all’oralità e a « vestire » l’immediatezza fra il giudice e la fonte di prova. Per una partecipazione più attenta all’escussione e alla possibile integrazione probatoria; l’acquisizione degli atti irripetibili percorre itinerari diversi. La semplificazione probatoria, scontata nei casi di acquisizione di atti ad irripetibilità originaria, ha ricevuto sempre più copiosi riconoscimenti con riferimento all’acquisizione degli atti ad irripetibilità sopravvenuta. 2. I processi di criminalità organizzata: le difficoltà del rapporto fra diritto e processo assumono più vaste proporzioni. La carica simbolica e l’indeterminatezza della fattispecie ex art. 416-bis c.p. (qui assunta come prototipo dei reati di criminalità organizzata) e le cadenze del maxiprocesso (inteso come forma specifica dei procedimenti di criminalità organizzata) rendono più complicata la posizione del tema di prova ed impongono notevoli deroghe all’oralità e al contraddittorio. Muoviamo da una premessa. Le fattispecie associative, come tutte le fattispecie che salvaguardano beni giuridici di consistenza superindividuale, palesano gravi difficoltà di « concretizzazione ». È vero. Ed è anche vero che in questi reati l’« ordine pubblico », oltre ad essere specifico oggetto di tutela penale, è anche considerato effettiva ratio dell’incriminazione. È anzi questa ratio che accentua il ricorso ai reati associativi nei momenti di emergenza legislativa, quando i confini tra norma di diritto penale sostanziale, strumenti processuali ed istituti attinenti alla polizia di sicurezza tendono inevitabilmente a confondersi. È nota, infine, la posizione di chi dà all’associazione criminosa una valenza spiccatamente politica, quale istituzione che per il solo fatto di esistere si contrappone all’ordinamento penale statuale. L’art. 416-bis c.p. non ha eliminato i problemi affiorati nell’applicazione dell’art. 416 c.p. O li ha eliminati solo in parte. Ha fissato i limiti della nuova fattispecie, ma ha anche plasmato le « scorciatoie » per l’elaborazione probatoria. Ha ragione Fiandaca quando rileva l’inammissibilità, in termini di principio, di soluzioni legislative, volte ad aggirare problemi di prova, grazie ad una diversa strutturazione della fattispecie sostanziale. Le « aggiunte » alle prescrizioni contenute nell’art. 416 c.p. (relative alla « forza d’intimidazione del vincolo associativo » e alla « condizione di assoggettamento ed omertà ») hanno un’evidente caratura sociologica e tendono sicuramente a rimarcare il particolare disvalore della delinquenza di stampo mafioso. Servono, però, solo a circoscrivere, nel segno della « pertinenza », l’area dell’investigazione e della prova. Saggiamo tre variabili. L’ipotesi di reato meramente associativo prescinde dal compimento
— 1088 — di reali atti intimidatori da parte dell’associato. Non prospetta, per questo aspetto, effettive difficoltà circa la prova della partecipazione all’associazione. L’elaborazione probatoria tende alla verifica di un tema composito, ancorato ai fatti e alle circostanze inerenti all’« organizzazione » e saldato alla « disponibilità » dell’associato. La semplificazione in punto di prova sembra quasi « innervata » nella struttura della fattispecie di diritto sostanziale. Procede per facta concludentia. Appurata l’esistenza dell’organizzazione criminale l’affiliazione ad essa, intesa come « compenetrazione del soggetto con l’organismo criminale », diventa sicuro indice dell’intenzione e del proposito di associarsi « allo scopo di avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo per commettere delitti... ». L’ipotesi del reato a struttura mista configura la forza intimidatrice del vincolo associativo quale dato effettuale, come risultato del ricorso alla forza intimidatrice da parte dell’associato. Impone per questo aspetto un’indagine ad hoc sull’aggregazione all’associazione: in base ad un tema specifico, relativo ad una partecipazione « almeno a livello di violenza privata ». Un’ipotesi intermedia è stata saltuariamente profilata dalla giurisprudenza puntando « sulla carica autonoma di intimidazione diffusa », quale tangibile ulteriore acquisizione per la verifica dell’« assoggettamento » e dell’« omertà ». Neppure questa ipotesi risulta, però, esente da « pregiudiziali di ordine probatorio », e utilizza alla fine dispositivi che svelano « quanto sia tradizionalmente difficile nei processi di mafia addurre la prova di concreti atti intimidatori ». Restano, ovviamente, escluse da questi schemi le ipotesi in cui l’indagine spazia oltre l’area della « partecipazione » e della partecipazione alla « sola » associazione: per un accertamento che attiene al concorso esterno all’associazione o che si estende dall’associazione al reato scopo. In questi casi i temi d’indagine comprendono le particolari sequenze circa il « contributo atipico » dell’estraneo alla realizzazione degli scopi dell’associazione e le specifiche modalità del fatto, relativo al reato scopo. Senza intaccare, come pare evidente, il nucleo essenziale della fattispecie associativa o l’autonomia del reato mezzo rispetto al reato scopo. 3. La posizione del tema di prova: i risultati delle indagini preliminari nei procedimenti di criminalità organizzata. L’adeguamento delle indagini preliminari alle esigenze dell’accertamento dei reati di criminalità organizzata è avvenuto attraverso molteplici interventi legislativi in ordine ai tempi ed alla « tutela » delle indagini, in relazione alla latitudine del controllo del P.M., in merito agli strumenti operativi da adottare nei procedimenti di criminalità organizzata. Su questa strategia differenziata e sulle sue possibili ulteriori specificazioni, in base ad un progetto organico, occorre approfondire il discorso.
— 1089 — È opportuno, per ora, prendere atto che gli interventi legislativi degli ultimi anni: a) hanno introdotto una serie di rilevanti deroghe alla disciplina delle misure cautelari: comprensibili con riferimento ai tempi delle indagini (...di possibile più lunga durata nei procedimenti di criminalità organizzata), meno comprensibili con riferimento alla protezione di queste indagini (operata con una presunzione iuris et de iure delle esigenze cautelari della custodia in carcere); b) hanno imposto nuove regole circa la durata delle indagini preliminari (e la connessa esigenza di « copertura » delle stesse) ed in merito ai meccanismi di « proroga »: con rilevanti innovazioni sui limiti dell’inutilizzabilità degli atti compiuti fuori termine e senza l’osservanza delle forme delle proroghe; c) hanno previsto una più decisa linea di intervento circa il coordinamento delle indagini: con le prerogative attribuite alla procura nazionale antimafia (quale organo di coordinamento centralizzato di tutte le indagini in corso sull’intero territorio nazionale), che comprendono la raccolta e l’elaborazione delle conoscenze sul crimine organizzato e che si estendono fino al potere di avocazione. Può essere ricondotta alla predetta funzione di coordinamento l’attività propulsiva nei confronti delle forze di polizia, mentre rilevanti perplessità suscita la previsione del « colloquio investigativo »; d) hanno ridisciplinato l’uso delle intercettazioni telefoniche ed ambientali: con nuove prescrizioni circa la durata e le possibili proroghe dei provvedimenti autorizzativi delle intercettazioni telefoniche e con la previsione di intercettazioni ambientali nel domicilio « anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi suddetti si stia svolgendo l’attività criminosa ». La difficoltà dell’accertamento dei reati di criminalità organizzata e l’alta potenzialità probatoria, riconosciuta all’impiego di questi strumenti d’indagine, stanno alla base delle aggiornate risposte normative; e) hanno incentivato l’uso di fonti privilegiate di conoscenza, costituite dai coindagati in procedimenti di criminalità organizzata. Come è noto sono stati gli effetti premiali a dare nuovo impulso alle indagini ed a consentire più sicuri risultati. 4. Dalla posizione alla verifica del tema di prova: lo snodo relativo alla separazione dei processi e al frazionamento dell’azione penale. L’impegno alla semplificazione della maxindagine è stato paralizzato dal rischio dello « scollegamento » delle iniziative investigative. E al favor separationis la pratica giudiziaria ha opposto i timori di visioni monche e parziali del momento valutativo. Le conclusioni dei pubblici ministeri sono state perentorie: « l’idea delle maxindagini da cui cavar fuori tanti miniprocessi è un’idea sbagliata in partenza, utopistica, semplicistica e soprattutto irrealizzabile ».
— 1090 — Il quadro normativo consente queste chiusure. È inutile negarlo e le consente sia con riferimento all’ipotesi di separazione dei processi, sia per ciò che attiene al possibile frazionamento dell’azione penale. Il 1o comma dell’art. 18 c.p.p. pone la regola della separazione dei processi, ma prevede un’eccezione per il caso in cui « il giudice ritenga la riunione assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti ». È proprio questa eccezione ad assumere una decisiva importanza nei processi di criminalità organizzata, quando la prova relativa all’esistenza dell’« associazione » implica la rilevazione dei « fatti sintomatici » in ordine alle singole aggregazioni. Il 2o comma dell’art. 18 c.p.p. disciplina l’ipotesi della separazione su base consensuale. Il parametro per tale scelta è costituito, come è noto, dall’utilità « ai fini della speditezza del processo ». Ma si tratta di parametro difficilmente utilizzabile nella gestione dei giudizi sui reati associativi. La frantumazione di queste regiudicande non agevolerebbe la speditezza dei processi; varrebbe solo a moltiplicare i dibattimenti e le istruzioni dibattimentali, per ripetere magari l’assunzione delle stesse fonti di prova. L’art. 130 delle disposizioni di attuazione delinea le operazioni connesse al frazionamento dell’azione penale. La disciplina riguarda i casi in cui « gli atti di indagine preliminare riguardano più persone o più imputazioni »; comprende perciò in primo luogo le fattispecie associative. Quando gli atti d’indagine sono « completi » il P.M. esercita l’azione penale (e forma il fascicolo da trasmettere al giudice dell’udienza preliminare). Se gli atti d’indagine sono « incompleti », con riferimento ad una o più imputazioni, l’azione penale deve essere necessariamente frazionata: va esercitata con riguardo alle « posizioni » ormai sufficientemente definite e va « rinviata » con riguardo alle posizioni ancora da definire. La normativa non sembra dare spazio ad altre scelte. Ma l’applicazione dell’art. 130 delle disposizioni di attuazione ha disegnato nuove alternative, agganciate alla strategia processuale del pubblico ministero. Ricorrenti sono le ipotesi di frazionamento dell’azione penale in base ai differenti termini finali delle indagini o della custodia cautelare e ancora più frequenti sono i casi di « frazionamento », volti a consentire regiudicande, riservate agli associati-collaboratori di giustizia. 5. La verifica anticipata nei processi di criminalità organizzata. Le forme apprestate dal sistema per una anticipazione del contraddittorio, che riduca in maniera considerevole i rischi di una ritardata oralità, sono state poco utilizzate. Le resistenze nei confronti dell’incidente probatorio sono note. La maxindagine è un moltiplicatore di indagati e di fonti di prova: l’incidente probatorio deve fare i conti con questa realtà e l’ipotesi dell’anticipazione della prova senza oralità diventa veramente complessa. Il « nuovo » art. 392 c.p.p. non elimina queste disfunzioni. La previsione
— 1091 — di un più agevole ricorso all’incidente probatorio (con riferimento ai casi di esame dell’« indagato » su fatti concernenti la responsabilità degli altri e di esame delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p.) amplia gli spazi della prova senza oralità e svela nuovi squilibri in tema di discovery. Dopo le innovazioni apportate con la l. 7 agosto 1997 n. 267 saranno i pubblici ministeri a paventare i rischi di intempestive discovery e di possibili inquinamenti delle indagini. Tempi della discovery, par condicio, oralità offuscata: la scelta dell’incidente probatorio pone una serie di problemi di cui bisogna tener conto. Il tempo della discovery: l’ipotesi di incidente probatorio con discovery intempestive non tiene conto dell’esperienza, maturata nel settore delle misure cautelari. Ci riferiamo ai casi in cui l’incidente probatorio sia successivo alla misura cautelare e la discovery dell’incidente segua, perciò, le cadenze del procedimento de libertate: dalla motivazione della misura (che specifichi i contenuti di questa o di quella « dichiarazione ») al deposito degli atti (che memorizzino rilevanti acquisizioni). In questi casi la discovery, imposta dall’incidente probatorio, poco aggiunge alle conoscenze pregresse. La par condicio: esclusa nei casi di incidente probatorio, « sostenuto » dal deposito del solo verbale della dichiarazione utile per la contestazione, diventa possibile nei casi di incidente probatorio, effettuato nell’ambito di un procedimento di criminalità organizzata. Non è difficile rendersene conto: è una costante di questi procedimenti l’adozione della misura cautelare, con le conseguenze che sappiamo in tema di discovery. L’oralità offuscata: le più duttili procedure introdotte con il « nuovo » art. 392 c.p.p. potranno avere l’effetto di aumentare il numero degli incidenti probatori e di incrementare l’area delle « prove anticipate ». Questa strategia differenziata potrà indubbiamente servire a semplificare l’istruzione dibattimentale dei maxiprocessi. Ma sfalderà l’immediatezza del rapporto fra il giudice e la fonte di prova. La riduzione del tasso di oralità dell’acquisizione della prova è evidente. Sappiamo, però, che un’offuscata oralità non pregiudica il modello di elaborazione probatoria costituzionalmente garantito. Il problema è sempre lo stesso: possono essere magari « tollerate » talune deroghe all’immediatezza, purché l’acquisizione della prova sia avvenuta attraverso un « effettivo » contraddittorio fra le parti. 6. La verifica probatoria nel dibattimento a distanza. Nel sistema attuale può parlarsi di questa deroga con riferimento alle modalità di esame delle persone che collaborano con la giustizia. Il collegamento audiovisivo, previsto come « possibile » dall’art. 147-bis delle norme di attuazione, evita la presenza del collaboratore di giustizia nell’aula di
— 1092 — udienza, instaura una cross examination a distanza, e sagoma un rapporto giudice-fonte di prova « mediato » dal mezzo audiovisivo. La disciplina prevista dal disegno di legge, presentato dal ministro di Grazia e Giustizia l’11 luglio 1996, introduce le nuove prescrizioni circa la partecipazione dell’imputato nel dibattimento a distanza e modifica l’art. 147-bis delle norme di attuazione, rendendo fra l’altro obbligatorio l’esame a distanza del collaboratore di giustizia. La normativa, come pare evidente, non altera il processo di acquisizione della prova. La funzionalità della partecipazione o la genuinità dell’esame non sono realtà necessariamente legate alla presenza fisica dell’accusato o del dichiarante, e possono essere comunque garantite dalle condizioni, volte ad assicurare l’effettività dell’oralità e del contraddittorio. La partecipazione e l’esame a distanza, attraverso un idoneo collegamento audiovisivo, calibrano il diritto all’udienza ed appagano, inoltre, le esigenze di ragionevolezza dei tempi del processo e di tutela da pericolose sovraesposizioni. 7. La verifica probatoria contratta. Di questa verifica può anzitutto parlarsi con riferimento ai limiti di ammissione della prova, imposti dall’art. 190-bis c.p.p. Nei procedimenti per taluno dei delitti indicati nell’art. 51, 3o comma-bis c.c.p. l’esame del testimone o delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. è ammesso solo se il giudice lo ritiene « assolutamente necessario ». Le dichiarazioni, acquisite nell’ambito di precedenti esperienze processuali, rendono « inutile » la ripetizione dell’atto. Un riesame (o più riesami) del testimone o della parte potrebbero provocare l’« erosione » della fonte di prova. Con le conseguenze facilmente immaginabili per l’attività probatoria del procedimento in corso e dei tanti procedimenti in cui il testimone o la parte siano chiamati a deporre. Le deroghe al contraddittorio e all’oralità sono vistose. Non si tratta, in questi casi, di strategia differenziata, sganciata dalla costruzione della prova. Non vengono qui in considerazione « forme », comunque compatibili con i « modelli » di elaborazione probatoria, voluti dal nostro codice (come nei casi di dibattimento a distanza). La disciplina introdotta con l’art. 190-bis c.p.p. contraddice proprio a questi modelli; introduce forme che si sostituiscono ad essi. Escluso il diritto all’ammissione della prova, saltano gli schemi del contraddittorio « per » la prova e vengono riesumate le regole del contraddittorio « sulla » prova (costituita dalle dichiarazioni rese nell’ambito di altre esperienze processuali). 8. Una seconda ipotesi di verifica contratta è costituita dai casi di contraddittorio imperfetto (per una prova che può essere formata solo parzialmente al dibattimento). L’incombente emergenza e la proclamata esigenza di razionalizzazione del sistema sono alla base delle modifiche introdotte dagli artt. 7 e 8 della l. 7 agosto 1992 n. 356.
— 1093 — Che le innovazioni apportate alla disciplina delle indagini preliminari, ed i possibili più articolati risultati di tali indagini, preludessero a corpose modifiche dell’istruzione dibattimentale era immaginabile. Per i critici del sistema la « ripartizione delle fasi » non costituiva, peraltro, un insuperabile argine all’instaurazione di più saldi rapporti fra l’indagine e la prova. Le stragi del 1992 hanno solo accelerato i tempi di tali modifiche, con scelte normative affrettate e destinate, purtroppo, a funzionare oltre l’emergenza. Questa la svolta: potenziato il sapere investigativo e riscontrata la sua accresciuta importanza per l’elaborazione probatoria, sono apparsi sempre meno tollerabili i limiti apprestati dal sistema per valorizzare detto « sapere » nel giudizio. I meccanismi delle domande, filtrate dal patrimonio di conoscenze a disposizione delle parti, non sono più bastati; non hanno assicurato (e non potevano peraltro assicurare) la « ripetizione » dell’atto e la « processualizzazione » del sapere investigativo. Le acquisizioni delle indagini preliminari, destinate a sorreggere l’esame, sono così diventate — e con un indice di frequenza sempre più alto — il tessuto connettivo della prova. L’accertata difformità tra le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari e nel corso dell’istruzione dibattimentale (o la contestazione intervenuta dopo la mancata risposta del testimone) spianano dunque la via all’introduzione dell’atto da valutare secondo i casi come elemento di prova o come prova. Sulla reale portata di questa distinzione e sulla tendenza a ridurre lo spessore degli « altri elementi di prova » torneremo di qui a poco. Il codice regola lo scarto fra le acquisizioni come elementi di prova e le acquisizioni quali vere e proprie prove nell’art. 500, 5o comma c.p.p. con riferimento alla contestazione nell’esame testimoniale. Nei casi in cui la difformità fra le due dichiarazioni dipenda dall’intimidazione, dalla subornazione o « da altre situazioni che hanno compromesso la genuinità dell’esame » l’inaffidabilità della dichiarazione successiva diventa quasi il parametro della veridicità della dichiarazione precedente. Serpeggia un’inestricabile « stranezza gnoseologica » ed il codice sembra in qualche modo ratificarla: invece di regolare espressamente l’« utilizzabilità » dell’atto delle indagini preliminari prevede che le dichiarazioni rese nel corso di queste indagini sono « valutate come prova dei fatti in esse affermati ». 9. Le ipotesi di « silenzio » dell’imputato o del coimputato in un procedimento connesso. L’esercizio del diritto al silenzio da parte dell’imputato limita l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese nelle indagini preliminari o nell’udienza preliminare: queste dichiarazioni non sono utilizzabili nei confronti di altri « senza il loro consenso ». L’accordo delle parti all’acquisizione dell’atto delle indagini preliminari o dell’udienza prelimi-
— 1094 — nare è, inoltre, indispensabile nei casi di silenzio del coimputato di procedimento connesso. In base al « nuovo » art. 513, 3o comma c.p.p. nessun consenso e nessun accordo sono necessari nelle ipotesi in cui il contraddittorio per la prova è stato esercitato attraverso l’incidente probatorio. La norma non prevede alcuna particolare prescrizione per il caso in cui il silenzio del coimputato o dell’imputato in reato connesso sia conseguenza di violenza, minaccia o corruzione. Un recente disegno di legge (d’iniziativa del senatore Fassone e di altri parlamentari del gruppo della sinistra democratica) integra la normativa con la prevista utilizzabilità dell’atto delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare, nei casi in cui « in forza di concrete e specifiche circostanze risulta che l’imputato o la persona indicata nell’art. 210, che si sia avvalso della facoltà di non rispondere, è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta di denaro o altra utilità, ovvero risultano altre situazioni che hanno compromesso la sua libera determinazione ». La disciplina appare più precisa di quella dettata con riferimento al « silenzio » del testimone. L’intimidazione o la corruzione debbono risultare in base a « concrete e specifiche circostanze », e non possono essere quindi desunte dalle stesse « modalità della deposizione o per altre circostanze emerse dal dibattimento » (come suggerisce l’art. 500, 5o comma c.p.p.). Ma il rischio che l’intimidazione o la corruzione possano schiudere la via a « letture », che diano per scontata l’attendibilità della precedente dichiarazione, rimane. Ed incombe nel segno di un’opzione, argomentata in base alla compatibilità dell’atto delle indagini preliminari con l’ipotesi ricostruttiva saggiata nel corso del dibattimento. Non è stata, inoltre, eliminata la genericità dell’indicazione, relativa alle « altre situazioni » che potrebbero compromettere, secondo i casi, la genuinità dell’esame o la libera determinazione del dichiarante. 10. Un discorso a parte merita il tema sui collaboratori di giustizia. Le premesse da cui muove la dottrina penalistica sono senz’altro esatte. Le possibili condotte di collaborazione processuale (confessione, chiamata di correo, indicazione di prove d’accusa) attengono ad un piano « decisamente eccentrico rispetto al piano della lesione criminosa ». Incidono, insomma, ed in modo rilevante sullo svolgimento e sugli esiti del processo penale. Più complessa è l’argomentazione circa la funzione della premialità. La considerazione della premialità in chiave « general preventiva » fa leva sul coefficiente di insicurezza (nei rapporti tra i complici), determinato dalla collaborazione e dalla « rottura dell’omertà ». Pur fuoriuscendo dallo schema reintegratorio il diritto premiale risponderebbe ugualmente alla funzione di « orientamento culturale » della norma penale. « La diffusione del fenomeno della dissociazione all’interno delle associazioni ma-
— 1095 — fiose è una concreta riprova dell’efficacia general preventiva della normativa premiale ». La funzione « special preventiva » della premialità viene di solito esclusa in base all’indifferenza della normativa agli aspetti soggettivi del pentimento. Ciò che conta non è « l’autentica motivazione della dissociazione », ma la « rivelazione » dei fatti dell’associazione e degli associati. La rottura effettiva del vincolo associativo potrebbe emergere durante la collaborazione, magari nella procedura incidentale de libertate, quando la verifica delle esigenze cautelari ex art. 274, 3o comma c.p.p. e l’accertamento della definitiva dissociazione diventano indispensabili per le scelte circa la revoca e la sostituzione della misura. Il ragionamento non fa una grinza. È stato, però, pesantemente condizionato da malintese urgenze di stampo premiale: nei casi di collaborazione il « primo » effetto premiale vien tante volte scandito dalle scelte ex art. 299 c.p.p. Il rapporto fra diritto e processo saggia nuove regole. La strategia differenziata, di cui abbiamo parlato con riferimento ai casi di esame a distanza e di incidente probatorio allargato, copre aree sempre più ampie. E di tali opzioni bisogna tener conto: per assumere la condotta di collaborazione a tecnica privilegiata d’indagine nei processi di criminalita organizzata occorre anche intendersi sulle « forme concrete » di questa condotta (tratte dall’applicazione dell’art. 192, 3o comma c.p.p.) e sui principali criteri, posti a base del sistema di protezione. Una ricorrente forma di collaborazione è costituita dalla mutual corroboration. La rilevanza processuale dei « convergenti » elementi di prova è saldata all’indipendent evidence, all’impossibilità per i collaboratori di concordare un’uniform story in vista dell’esame. Completa il quadro l’ipotesi dei riscontri, costituiti da elementi logici e da valutazioni globale circa la « maggiore aderenza dell’atto delle indagini preliminari alla verità dei fatti ». Su questa ipotesi di lavoro la giurisprudenza della cassazione è assolutamente prevalente. E la Corte costituzionale, con la sent. n. 241 del 1994, ha mostrato di condividere tale orientamento. Riaffiorano i quesiti sull’effettiva portata della corroboration. Le « dichiarazioni » richiamate dall’art. 192, 3o comma c.p.p. non debbono essere riscontrate da elementi di prova, appartenenti ad una « diversa » categoria? Gli altri elementi di prova, espressamente previsti dalla norma per confermare l’attendibilità della dichiarazione, non si risolvono in una « formula graziosamente vuota » se il quid pluris può fare a meno dei riscontri individualizzanti e, in mancanza di contrarie acquisizioni, può anche esaurirsi in una valutazione complessiva dei fatti? Una maggiore specificazione normativa degli elementi di prova non servirebbe a regolare in modo più adeguato un essenziale momento del procedimento probatorio?
— 1096 — Contraddittorio ed oralità reclamano spazi vitali ed accessibili temi di prova, in un procedimento accortamente disciplinato; ma le chiusure all’insegna del libero convincimento sono tante. E non lasciano prevedere significative svolte giurisprudenziali o nuove specificazioni normative. Restano da vagliare le prescrizioni dei sistemi di protezione più direttamente collegate alla condotta processuale del collaboratore ed agli effetti premiali. Come è noto la disciplina attualmente vigente è quella dettata dalla l. 15 marzo 1991, n. 82. Ma l’argomento della protezione e del trattamento di coloro che collaborano con la giustizia attende una più ampia ed organica regolamentazione. Il disegno di legge, presentato dai ministri di Grazia e Giustizia e dell’Interno nel marzo di quest’anno, mira a questo risultato. Può servire, inoltre, ad integrare, in qualche nevralgico passaggio, la normativa introdotta con la l. 7 agosto 1997, n. 356. Nel sistema di protezione, delineato dal recente disegno di legge: a) la collaborazione processuale è limitata ai contributi forniti nei procedimenti di terrorismo e di mafia. I contenuti di questa collaborazione debbono essere specificati in un apposito verbale (redatto entro sei mesi dall’inizio della collaborazione) e sono costituiti dalle « notizie utili alla ricostruzione dei fatti di maggiore gravità ed allarme sociale ed all’individuazione e alla cattura dei loro autori ». Gli impegni del collaboratore sono a vasto raggio e si estendono fino a comprendere gli interrogatori, gli esami ed altri atti d’indagine. Il rifiuto di sottoporsi a questi atti può portare alla revoca delle misure di protezione; b) gli effetti premiali conseguono ad una valutazione circa l’indispensabilità, la tempestività e la genuinità della collaborazione. Parametrano una condotta processuale e ne misurano la rilevanza nello svolgimento e negli esiti del processo penale. Con questa nuova iniziativa la legislazione premiale assume una più chiara fisionomia. L’apporto del collaboratore è disciplinato negli essenziali snodi, relativi al tema, ai tempi, ed all’estensione della collaborazione. E si tratta di disciplina di chiara impronta processuale (che potrà magari presentare qualche difficoltà di coordinamento con le previsioni del codice). Gli effetti premiali sono, invece, saldati all’applicazione della norma penale sostanziale ed « ubbidiscono » ad obiettivi processuali ben determinati. Secondo paradigmi che ribaltano il rapporto fra diritto e processo. Ma su queste prescrizioni di natura penalistica, « serventi » rispetto alle esigenze del processo, occorre approfondire il discorso. E non solo con riferimento alla legislazione premiale. DELFINO SIRACUSANO Ordinario di Procedura penale nell’Università « La Sapienza » di Roma
IL DIRITTO PENALE DELL’AMBIENTE IN ITALIA: TUTELA DI BENI O TUTELA DI FUNZIONI? (*)
I. Il tema della tutela dell’ambiente ha assunto da tempo una rilevanza internazionale, oltre che sul piano culturale, anche su quello giuridico. Lo conferma il rilievo che tutti i Paesi europei prevedono oggi una specifica normativa in materia ambientale e che tale normativa sia a sua volta espressione di una crescente sensibilità sociale per i problemi dell’habitat. A ciò va aggiunto l’importante contributo dato dal diritto comunitario all’implementazione e all’armonizzazione delle normative nazionali (1). Più che mai in questo settore, l’Unione Europea svolge una funzione di sensibilizzazione e di orientamento delle politiche nazionali verso obiettivi comuni di tutela (2). Si può dire pertanto che, anche dal punto di vista del diritto, vi è largo accordo nel considerare l’ambiente un bene fondamentale comune, da proteggere contro aggressioni che possono superare agevolmente le frontiere nazionali (3). E in questa prospettiva, non manca chi inserisce il diritto all’ambiente nel più ampio quadro dei diritti dell’Uomo (4). (*) Si tratta della versione italiana, rielaborata e corredata di note, della relazione tenuta all’Institut für Umweltschutz-, Wirtschafts- und Steuerstrafrecht dell’Università di Kiel, il 14 febbraio 1997. (1) Per uno sguardo d’insieme, v. Normativa comunitaria in materia ambientale, a cura della Commissione delle Comunità europee, Lussemburgo, 1993; più di recente, v. anche Codice dell’ambiente con direttive comunitarie e leggi regionali, a cura di A. Postiglione, 4a ed., Rimini, 1996. Per ulteriori e dettagliate informazioni, v. P. DELL’ANNO, Manuale di diritto ambientale, Padova, 1995, p. 35 s. (2) Sul punto, tra gli altri, cfr.: G. CORDINI, Ambiente (tutela dell’) nel diritto delle Comunità europee, in Dig. disc. pubblic., I, 1987, p. 205 s.; L. BERTOLINI, Il diritto comunitario ambientale e l’ordinamento nazionale. Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, 1990, n. 35, p. 69 s.; F. LETTERA, La Stato ambientale. Il nuovo regime delle risorse ambientali, Milano, 1990, p. 31 s.; L. KRAMER, Focus on European environmental, London, 1992, p. 26 s.; E. HARREMOES, La protection de l’environnement et le droit pénale, in Protection of the Environment and Penal law, a cura di C. Zanghì, Bari, 1993, p. 51. (3) Di recente, cfr.: G. BADIALI, La tutela internazionale dell’ambiente, Napoli, 1995, p. 9 s.; G. CORDINI, Il diritto dell’ambiente nell’Unione Europea, in Tutela dell’ambiente e nuove tecnologie, Padova, 1995, p. 148 s. (4) Così: A. POSTIGLIONE, Ambiente e i suoi effetti sul sistema giuridico, in Unità
— 1098 — Seppure con qualche ritardo rispetto ad altri Paesi europei (5), anche in Italia il diritto dell’ambiente ha ricevuto adeguata attenzione sia da parte del legislatore, sia da parte della dottrina. Purtroppo il quadro legislativo italiano non è del tutto armonico (6). Esso è frutto della stratificazione nel tempo di una pluralità di leggi, non sempre facili da coordinare tra loro e con la normativa comunitaria. Si spiega così la difficoltà che incontra la dottrina nel ricostruire in modo sistematico la tutela giuridica dell’ambiente (7). In particolare, dal punto di vista penalistico, i problemi che pone in Italia la tutela dell’ambiente sono molteplici. In larga misura essi si riconnettono ad uno stesso fattore: nel diritto penale dell’ambiente, non sono molte le fattispecie che tipizzano direttamente condotte di alterazione dell’equilibrio ambientale. Frequente è invece l’impiego di incriminazioni, che vengono costruite intorno al requisito dell’inosservanza di precetti amministrativi, al cui rispetto è subordinato lo svolgimento dell’attività ritenuta pericolosa per l’ambiente (8). Si tratta di un fenomeno ben conosciuto in Germania come Verwaltungsstrafrecht (9). Si pensi, ad esempio, della giurisdizione e tutela dell’ambiente, Milano, 1986, p. 62 s.; C. ZANGHÌ, Protezione dell’ambiente e diritto penale, in Protection of the Environment, cit., p. 22. Con varietà di argomenti, v. anche: E. SPATAFORA, Tutela dell’ambiente (diritto intenazionale), in Enc. dir., XLV, 1992, p. 462; F. LUCARELLI, E. FORTE, Diritto all’ambiente, Napoli, 1992, p. 15. Per un riesame della tematica, v. di recente: A. PALAZZO, La tematica ambientale e i diritti umani, in Diritti umani, poteri degli Stati e tutela dell’ambiente, a cura di L. Lippolis, Milano, 1993, p. 85 s.; G. CORDINI, op. loc. ult. cit.; ID., Diritto ambientale: elementi giuridici comparati della protezione ambientale, Padova, 1995, p. 24 s., cui si rimanda anche per ulteriori indicazioni bibliografiche. (5) Tra gli altri, denunciano tale ritardo: G. COGLIANDRO, L’evoluzione del diritto ambientale, in Protection of the Environment, cit., p. 217; F. TRIMARCHI, La protezione dell’ambiente. (Considerazioni generali), ivi, p. 225. (6) Il carattere disorganico della normativa ambientale italiana è di frequente segnalato; v. ad esempio: G. FIANDACA, G. TESSITORE, Diritto penale e tutela dell’ambiente, in Materiali per una riforma del sistema penale, Roma, 1984, p. 28; P. D’AMELIO, Ambiente (tutela dell’). I) Diritto amministrativo, in Enc. giur. Treccani, I, 1988, p. 1; A. GUSTAPANE, Tutela dell’ambiente (diritto interno), in Enc. dir., XLV, 1992, p. 413; A. CALAMANTI, Tecnica sanzionatoria e funzione della pena nei reati ecologici, in Protection of the Environment, cit., p. 249 s.; C. ZANGHÌ, op. loc. cit. (7) Segnala questa difficoltà anche A. GUSTAPANE, op. loc. cit. (8) Cfr.: P. NUVOLONE, La delinquenza ecologica in Italia, in Indice pen., 1978, p. 24; G. FIANDACA, G. TESSITORE, op. cit., p. 37 s.; A. FIORELLA, Ambiente e diritto penale in Italia, in Protection of the Environment, cit., p. 232; V. PAONE, I reati in materia di inquinamento, Torino, 1993, p. 23. Di recente, v. ampiamente M. CATENACCI, La tutela penale dell’ambiente. Contributo all’analisi delle norme penali a struttura ‘‘sanzionatoria’’, Padova, 1996, p. 57 s. e p. 61 s. (9) In generale, v. K. TIEDEMANN, Tatbestandfunktionen im Nebenstrafrecht, Tübingen, 1969, p. 45 s.; con riferimento specifico alla tutela penale dell’ambiente, cfr.: H. LAUFHÜTTE, M. MÖHRENSCHLAGER, Umweltstrafrecht in neuer Gestalt, in ZStW, 1980, (92), p. 919 s.; H.J. ALBRECHT, G. HEINE, V. MEINBERG, Umweltschutz durch Strafrecht?, in ZStW,
— 1099 — alla gran parte delle fattispecie poste a tutela delle acque dall’inquinamento (artt. 21-23-bis) nonché ai reati commessi da chi effettua scarichi industriali in assenza dell’autorizzazione amministrativa o in violazione delle prescrizioni in essa contenute (artt. 24-25 d.P.R. 24 maggio 1988, n. 203). La stessa struttura caratterizza le incriminazioni in materia di smaltimento di rifiuti solidi, introdotta dal recente d.lvo 5 febbraio 1997, n. 22 (artt. 50-51) (10). Ma l’esemplificazione, com’è intuitivo, potrebbe essere ben più lunga. Introdotta con l’intento di raccordare sinergicamente l’intervento repressivo con la tutela amministrativa dell’ambiente, questa tecnica di normazione penale è parsa a taluno in tensione con il principio costituzionale della riserva di legge (11). Inoltre, il ricorso legislativo a fattispecie incentrate sull’inosservanza di precetti amministrativi rende problematica la disciplina dell’errore che cade sulla regolamentazione extrapenale richiamata dalla norma penale (12). Last but not least, la tipizzazione della fattispecie incriminatrice intorno alla violazione dell’atto amministrativo autorizzativo richiama l’attenzione sul profilo offensivo di tali reati. E precisamente, ci si chiede se le fattispecie in questione tutelino un qualche bene giuridico o se esse mirino piuttosto a garantire le funzioni di controllo e di governo dell’ambiente, che competono alla pubblica amministrazione. Le riflessioni che seguiranno si concentreranno su quest’ultimo profilo della materia. Esso, infatti, attenendo alla legittimazione sostanziale dei reati ambientali, assume comprensibilmente un’importanza assorbente. In particolare, si toccheranno due punti della questione. Il primo può riassumersi nel seguente interrogativo: nel diritto penale italiano 1984, (96), p. 950; R. BLOY, Die Straftaten gegen die Umwelt im System des Rechtsgüterschutzes, in ZStW, 1988, (100), p. 499 s.; A. ESER, La tutela penale dell’ambiente in Germania, in Indice pen., 1989, p. 232 s. (10) Per un quadro della materia, prima dell’entrata in vigore del d.lvo n. 22 del 1997, v. F. MUCCIARELLI, Rifiuti (reati relativi), in Dig. disc. pen., XII, 1997, p. 262 s. (in relazione alla costruzione delle fattispecie penali sul requisito dell’inosservanza dell’autorizzazione amministrativa, v. specificamente p. 275 s.). (11) In argomento, v.: D. BORTOLOTTI, Potere pubblico e ambiente. Contributo allo studio della ‘‘eterointegrazione’’ di norma penale, Milano, 1984, p. 5 s.; M. CATENACCI, Rapporti tra tecniche penali e amministrative nel sistema italiano di tutela dell’ambiente, in Protection of the Environment, cit., p. 261; S. PANAGIA, La tutela dell’ambiente naturale nel diritto penale d’impresa, Padova, 1993, p. 61 s. Con riferimento all’esperienza legislativa tedesca, cfr. M. CATENACCI, G. HEINE, La tensione tra diritto penale e diritto amministrativo nel sistema tedesco di tutela dell’ambiente. Problemi fondamentali e tendenze di riforma, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1990, p. 926 s. Per una sdrammatizzazione del problema, v. però G. GRASSO, I rapporti tra la legislazione penale nazionale e la normativa internazionale e comunitaria in materia di tutela delle acque, in Protection of the Environment, cit., p. 240 s. (12) Su questa tematica, v. ampiamente A. CADOPPI, La natura giuridica della ‘‘mancanza dell’autorizzazione’’ nella fattispecie penale: riflessi in tema di errore, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1990, p. 363 s.
— 1100 — l’ambiente costituisce un bene giuridico unitario e autonomo? Com’è intuitivo, il quesito sottende il problema dell’ampiezza nozionale dell’ambiente come oggetto di tutela e la questione, tutt’altro che pacifica, della sua rilevanza costituzionale. Il secondo punto, strettamente connesso con il primo e di portata più generale, concerne la compatibilità dei reati ambientali con il principio di offensività, che in Italia si ritiene costituzionalizzato (13). II. 1. In relazione al primo punto, va osservato che, già nel linguaggio comune, il termine ‘‘ambiente’’ è polisenso (14). Nel suo significato minimale esso indica gli elementi della biosfera (atmosfera, acque e suolo); nella sua accezione più ampia, per ambiente si intende il complesso delle condizioni sociali, culturali e morali nel quale l’essere umano si trova, si forma e si sviluppa (15). In quest’ultima accezione, che non a caso si è venuta diffondendo più di recente, l’ambiente risulta comprensivo anche del paesaggio, oltre che dei beni artistici e culturali. L’ambiente diventa, cioè, la base di una visione globale del rapporto fra l’uomo e le risorse naturali, che condiziona molteplici settori della vita sociale: dalla gestione della tecnologia all’assetto economico. In nome di una visione sistemica dello sviluppo ambientale si è venuta così affermando una vera ideologia ecologica, non priva di ramificazioni (se non di sconfinamenti) finanche nel campo della bio-etica (16). Ne consegue che se la prima accezione del termine ‘‘ambiente’’ può risultare riduttiva, la seconda sconta l’inevitabile indeterminatezza dei suoi massimi confini. Naturalmente, qui interessa la nozione giuridica di ambiente, quale si ricava dalle scelte di tutela effettuate dall’ordinamento giuridico. Senonché, il già accennato carattere disorganico della normativa italiana rende difficile anche la messa a fuoco di questo profilo. (13) Nella vasta letteratura sull’argomento, v. fondamentalmente F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Nss. D.I., XIX, 1973, p. 81 s.; di recente E. DOLCINI, G. MARINUCCI, Costituzione e politica dei beni giuridici, in questa Rivista, 1994, p. 334 s. Nella manualistica, v. per tutti: F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, 3a ed., Padova, 1992, p. 206; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, 3a ed., Bologna, 1995, p. 12 s. (14) Si tratta di un rilievo ricorrente. Per tutti: R. BLOY, op. cit., p. 492; R.K. KINZELBACH, Ökologie, Naturschutz, Umweltschutz, Darmstadt, 1989, p. 1 s.; da ultimo, cfr. M. CATENACCI, La tutela penale, cit., p. 2. (15) G. DEVOTO, G. OLI, Dizionario della lingua italiana, Firenze, 1995; N. ZINGARELLI, Vocabolario della lingua italiana, Bologna, 1996. (16) Con riferimento ai settori delle manipolazioni genetiche e della inseminazione artificiale, v. S. COTTA, Una nuova conoscenza della natura, in Studi cattolici, 1972, n. 131. Nella letteratura tedesca, cfr. anche B. GLAESER, Entwurf einer Humanökologie, in Humanökologie, a cura di B. Glaeser, Bernhard, Opladen, 1989, p. 38.
— 1101 — Al riguardo, non può farsi a meno di considerare che le stesse indicazioni costituzionali in materia di ambiente non sono né univoche, né complete. A differenza di quanto avviene in altri ordinamenti, la Costituzione italiana non afferma un vero diritto all’ambiente (17), ma fa riferimento piuttosto alla tutela di una serie di beni singolarmente considerati, quali il patrimonio storico e artistico (art. 9, comma 2), da un lato, e dall’altro la salute come diritto dell’individuo e della collettività (art. 32, comma 1) (18). Anzi, contrariamente a quanto avviene in Germania, dove l’opportunità di inserire nel Grundgesetz un’apposita norma sulla tutela dell’ambiente è oggetto di vivace dibattito (19), un’analoga proposta in Italia non ha avuto pari risonanza (20). Ciò significa che la Costituzione non offre all’interprete una nozione espressa e compiuta di ambiente, in grado di guidare la ricostruzione sistematica di una congerie legislativa, già di per sé difficilmente razionalizzabile. Limitando l’attenzione alle norme penali, va osservato, poi, che solo alcune di esse sono dichiaratamente finalizzate a regolare la materia ambientale. Il riferimento va alla normativa speciale sulla repressione dell’inquinamento, che, mirando alla tutela degli elementi della biosfera, interviene sul nucleo indiscusso della nozione di ambiente e, conseguentemente, afferisce altrettanto pacificamente all’area del diritto penale ambientale. Altri complessi normativi, invece, possono essere ricondotti alla materia ambientale solo sulla scorta di una preliminare opzione dell’interprete a favore di una nozione allargata di ambiente. Si pensi alla legislazione, anch’essa extracodicem, in materia urbanistica (l. 28 gennaio 1977, n. 10 e l. 28 febbraio 1985, n. 47), nonché alle contravvenzioni codicistiche in materia sia di danneggiamento del patrimonio archeologico, storico e artistico (art. 733 c.p.), sia di distruzione e deturpamento di bellezze naturali (art. 734 c.p.) (21). Per non dire di altre fattispecie che, variamente collocate nella topografia del codice, potrebbero considerarsi anch’esse poste a tutela dell’ambiente, seppure con un ambito operativo residuale (17) Questa affermazione è contenuta invece nell’art. 45 della Costituzione spagnola del 1978. (18) Per analoghi rilievi, v. L. BERTOLINI, Ambiente (tutela dell’). IV) Diritto penale, in Enc. giur. Treccani, I, 1988, p. 1. (19) Sul punto cfr. S. PATTI, Ambiente (tutela dell’). V) Diritto comparato e straniero, in Enc. giur. Treccani, I, 1988, p. 2. (20) Sull’opportunità di introdurre nell’art. 9 Cost. uno specifico e formale riferimento alla tutela dell’ambiente (in tal senso, v. la Relazione della Commissione parlamentare per le riforme istituzionali, Presidente A. Bozzi, I, Doc. VI-bis, n. 3), v. G. RECCHIA, Tutela dell’ambiente: da interesse diffuso a interesse costituzionalmente protetto, in L’ambiente e la sua protezione, a cura di C. Murgia, Milano, 1991, p. 144 s.; F. LUCARELLI, E. FORTE, op. cit., p. 10. (21) Ritiene che l’art. 734 tuteli l’ambiente nelle sue componenti essenziali, comprese la flora e la fauna, G. AMENDOLA, La tutela penale dell’inquinamento idrico. Manuale operativo, Milano, 1996, p. 296.
— 1102 — ed eventuale. A titolo esemplificativo, si pensi ai reati di incendio (artt. 423-424 c.p.), inondazione, frana o valanga (artt. 426-427 c.p.), avvelenamento di acque o di sostanze alimentari (artt. 439, 440 e 452) (22), danneggiamento di opere destinate all’irrigazione (art. 635, comma 2, n. 4) (23) e getto pericoloso di cose (art. 674 c.p.) (24). Ebbene, stante la disorganicità della legislazione e la laconicità dell’ordinamento sul punto, la scelta di includerle o meno nell’area del diritto penale dell’ambiente finisce per risultare oltremodo opinabile. La questione — si badi — non ha una rilevanza solamente sistematica: non si risolve, cioè, nell’accreditare la trattazione unitaria del diritto penale dell’ambiente (espressione, quest’ultima, che, in caso contrario, verrebbe a perdere buona parte della sua plausibilità). La messa a fuoco dei rapporti intercorrenti tra i vari settori normativi segnalati, siano essi rapporti di connessione funzionale o di indifferenza, ha anche un’importanza più immediatamente esegetica. Essa rifluisce infatti sul significato da attribuire al termine ‘‘ambiente’’, le volte che compare nell’ambito di una fattispecie incriminatrice. In effetti, vi sono norme penali che, dopo aver preso in considerazione singoli e specifici aspetti dell’ambiente, fanno riferimento anche all’‘‘ambiente’’ più genericamente inteso (25). Ci si chiede allora se con quest’ultimo termine si sia voluto indicare un quid novi, un concetto cioè dotato di una sua autonomia, ovvero se esso sia stato aggiunto ad abundantiam, con funzione meramente ripetitiva. Come si vede, l’ambivalenza che il concetto di ambiente presenta nel linguaggio comune si ripropone anche sul piano giuridico, con conseguenze applicative sensibilmente differenti a seconda che si intenda l’ambiente nella sua accezione ristretta ovvero in quella ampia. Si pensi, ad esempio, alla previsione dell’art. 19, comma 5, l. 20 febbraio 1985, n. 41; la norma citata punisce il cittadino italiano, che, nello svolgere un’attività di coltivazione o di esplorazione dei fondi marini, arreca danno grave all’ambiente marino. Se si intende l’ambiente marino in senso puramente biologico, non rientrerà nello spettro operativo della fattispecie il fatto di (22) Cfr. sul punto G. AMENDOLA, op. cit., p. 281. V. anche V. MUSACCHIO, La tutela penale della natura: spunti per una discussione e prospettive evolutive di diritto penale dell’ambiente, in Riv. pen., 1995, p. 148. (23) Sul ruolo di ‘‘supplenza’’ che, prima dell’entrata in vigore della legge Merli, la norma sul danneggiamento ha svolto nella tutela delle acque dall’inquinamento, v. G. AMENDOLA, op. cit., p. 5 s. (24) Sull’afferenza dell’ipotesi prevista nell’art. 674 c.p. al campo del diritto penale dell’ambiente, v. F. FONDERICO, L’ambiente nella giurisprudenza, Milano, 1995, p. 12 s. Più in generale, sull’orientamento secondo cui l’art. 674 c.p. appresterebbe una tutela sussidiaria dell’ambiente, v. anche L. EUSEBI, in A. CRESPI, F. STELLA, G. ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, 2a ed., Padova, 1992, sub art. 674, p. 1594 s. (25) Su questa problematica, v. M. CATENACCI, op. ult. cit., p. 6 s.
— 1103 — chi danneggia in modo irreparabile uno scoglio avente un particolare valore paesaggistico e finanche storico. Tale fatto potrà risultare penalmente rilevante se si muove invece da una nozione allargata di ambiente marino. Orbene, solo un’interpretazione sistematica può risolvere in modo non arbitrario la scelta tra le due opposte soluzioni interpretative. Senonché, proprio la riconduzione a sistema dell’attuale assetto legislativo in materia ambientale costituisce il principale ostacolo nel quale si imbatte l’interprete. E ciò non a caso: la difficoltà di organizzare la materia ambientale riflette a sua volta la difficoltà insita nell’individuazione di un bene giuridico unitario intorno al quale aggregare e riordinare l’imponente quantità di leggi che si sono stratificate nel tempo. In effetti, soprattutto in settori normativi disomogenei, come quello in esame, il bene giuridico costituisce il perno su cui può farsi leva per creare, seppure a posteriori, le necessarie connessioni funzionali all’interno di scelte legislative scoordinate, quando non addirittura espressione di anarchismo politicocriminale. 2. Il problema delineato — va da sé — ha una portata assai più generale di quella che emerge in questa sede, sottintendendo la questione, peraltro negletta, dell’individuazione e delle funzioni del bene giuridico nel diritto penale complementare. Una prima annotazione pare opportuna: già la frequente mancanza nel diritto penale complementare di partizioni sistematiche e di intitolazioni legislative (come quelle di solito espresse nei codici in apertura di titoli, capi e sezioni) fa sì che l’interprete non possa avvalersi dell’ausilio di tali indicazioni, le quali, ancorché vengano ritenute non vincolanti sul piano ermeneutico (26), sono almeno sintomatiche di una determinata volontà legislativa (27). A parte ciò, il carattere disorganico della normativa extracodicem, soprattutto nei settori caratterizzati dalla continua stratificazione di testi legislativi tra loro disomogenei, ostacola la messa a fuoco di un bene giuridico di categoria, dotato di adeguate capacità sistematiche e dogmatico-intrepretative. In effetti, il carattere autarchico dei singoli interventi legislativi favorisce piuttosto la nozione metodologica del bene giuridico (28), che, valorizzando la dimensione di scopo di ogni singola norma incriminatrice, allontana dalla ricostruzione dell’oggetto giuridico in termini catego(26) Sul punto v. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte speciale, I, 11a ed., Milano, 1994, pp. 29 e 82. (27) Cfr. G.D. PISAPIA, Introduzione alla parte speciale del diritto penale, I, Milano, 1948, p. 83, che estremizza però il peso giuridico delle epigrafi legislative, assegnando loro forza di legge e valore obbligatorio. (28) Su tale nozione, v. ampiamente A. PAGLIARO, Bene giuridico e interpretazione della legge penale, in Studi in onore di Francesco Antolisei, II, Milano, 1965, p. 389 s.
— 1104 — riali. Invero, al di fuori di una legislazione organica è davvero difficile che la ratio legis di ogni singola norma possa contribuire a comporre uno scopo di tutela non solo armonico, ma ad un tempo unitario, come tale dotato di funzioni sistematiche. D’altro canto, se, accedendo alla concezione liberale dell’oggetto giuridico, per bene di categoria si intende un’entità preesistente a un sistema di norme e da esso tutelato (29), la sua individuazione nel campo del diritto penale ambientale parrebbe destinata a incontrare difficoltà ancora maggiori. In effetti, le singole fattispecie incriminatrici in materia ambientale non prevedono differenti modalità di aggressione allo stesso bene (come — si osserva (30) — avviene ad esempio nel campo dei delitti contro il patrimonio), bensì offese a specifiche entità ambientali tra loro distinte. A rigore, dunque, qui non si potrebbe nemmeno parlare di bene di categoria, con la conseguenza di dover rinunciare a una ricostruzione unitaria del diritto penale ambientale, ancorata al piano dell’offesa. A ben vedere, però, questo epilogo non è inevitabile. Anche nell’ambito del diritto penale ambientale è possibile cogliere un sostrato offensivo che accomuna le pur diverse ed eterogenee fattispecie incriminatrici. Per rendersene conto è sufficiente pensare che, seppure le singole fattispecie tipizzino aggressioni a oggettività distinte, le diverse entità tutelate non sono tra di loro incompatibili. Anzi, nonostante la loro connessione non sia stata perseguita dal legislatore, essa può essere creata dall’interprete sulla base di determinati parametri normativi esterni alle fattispecie incriminatrici e, pertanto, idonei a svolgere quella funzione fondante della illiceità penale, comunemente riconosciuta alla nozione di bene giuridico. 3. Prima di procedere all’individuazione di tali connessioni, è utile ricordare che la normativa in materia ambientale coinvolge molti settori dell’ordinamento giuridico: dal diritto amministrativo al diritto penale; dal diritto civile al diritto comunitario e internazionale. E va aggiunto che ciò ostacola la messa a fuoco di un’unica e indifferenziata nozione giuridica di ambiente, posto che il concetto di ambiente rilevante per un ramo dell’ordinamento giuridico non coincide necessariamente con la nozione di ambiente regolata da altre branche del diritto. È per questa ragione dunque che, a differenza di quanto avviene in altri settori disciplinari, dove la dottrina più recente sta tentando di ricostruire in termini unitari il concetto di ambiente (31), nel diritto penale (29) Cfr. F. MANTOVANI, op. cit., p. 220. (30) V. per tutti F. MANTOVANI, Diritto penale, parte speciale. Delitti contro il patrimonio, Padova, 1989, p. 4 s. (31) Tra gli altri, cfr.: S. PATTI, Ambiente (tutela dell’) nel diritto civile, in Dig. disc. priv. (sez. civilistica), I, 1987, p. 286 s.; B. CARAVITA, Diritto pubblico dell’ambiente, Bologna, 1990, p. 43 s.; A. GUSTAPANE, La tutela globale dell’ambiente, Milano, 1991, p. 15 s.;
— 1105 — resiste l’insegnamento tradizionale secondo cui la legge penale tutela non già l’ambiente nella sua globalità, ma singoli elementi ambientali (32). E non manca chi considera tale scelta preferibile anche da un punto di vista politico-criminale, in quanto assicurerebbe una tutela dell’ambiente più efficace (33). La normativa extrapenale in materia ambientale non è però senza rilievo per l’inquadramento dei reati ambientali. Valgano soprattutto alcuni sintetici riferimenti al diritto comunitario e costituzionale: a fonti cioè sovraordinate al diritto penale. Anzitutto, va osservato che, in base all’art. 2 del Trattato CE, la normativa comunitaria mira a favorire un ‘‘miglioramento delle condizioni di vita’’, che, secondo l’orientamento prevalente, non può intendersi solo in senso economico, ma va considerato come ‘‘miglioramento della qualità della vita’’ (34). Ne consegue che l’adeguamento della normativa nazionale alle indicazioni comunitarie si sviluppa nel segno di una concezione globale e transnazionale di ambiente. E questo rilievo vale anche per il diritto penale degli Stati membri, dato che il diritto comunitario ne influenza in modo significativo lo sviluppo, fissando — attraverso regolamenti e direttive — obiettivi e suggerendo tecniche di tutela (35). In secondo luogo, non va trascurato lo spirito personalistico che ID., Tutela dell’ambiente (diritto interno), cit., p. 413. Contra, per la tesi secondo cui l’ordinamento tutelerebbe, non già l’ambiente nella sua globalità, ma i diversi aspetti che ne compongono la nozione, v. M.S. GIANNINI, ‘‘Ambiente’’: saggio sui suoi diversi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, p. 15 s.; E. CAPACCIOLI, F. DAL PIAZ, Ambiente (tutela dell’). Parte generale e diritto amministrativo, in Nss. D.I., App., I, 1980, p. 257 s.; A. PREDIERI, Paesaggio, in Enc. dir., XXXI, 1981, p. 50 s. In argomento, di recente v. G. CORDINI, op. ult. cit., p. 131 s., cui si rimanda anche per ulteriori indicazioni bibliografiche. (32) Cfr.: R. BAJNO, Ambiente (tutela dell’) nel diritto penale, in Dig. disc. pen., I, 1987, p. 116 s.; A. ALBAMONTE, Sistema penale ed ambiente, Padova, 1988, p. 8 s.; L. BERTOLINI, op. loc. cit. Per il rilievo che, come entità unitaria autonoma, l’ambiente costituisce un bene giuridico vago, v. F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 232. (33) Così A. FIORELLA, op. cit., p. 231 s. (34) Cfr. C. CURTI GIALDINO, Ambiente (tutela dell’). II) Diritto della comunità europea, in Enc. giur. Treccani, I, 1988, p. 1 s. Diffusamente, v. anche P.A. PILLITU, Profili costituzionali della tutela ambientale nell’ordinamento comunitario europeo, Perugia, 1992, p. 8 s. (35) Più in generale, sulle tecniche di influenza del diritto comunitario sul diritto penale degli Stati membri, v.: G. GRASSO, Comunità europee e diritto penale, Milano, 1989, passim; A. BERNARDI, Principi di diritto e diritto penale europeo, in Annali dell’Università di Ferrara, sez. V, Scienze giuridiche, II, 1988, p. 156 s.; S. MANACORDA, L’efficacia espansiva del diritto comunitario sul diritto penale, in Foro it., 1995, IV, c. 58 s.; S. RIONDATO, Competenza penale della comunità europea. Problemi di attribuzione attraverso la giurisprudenza, Padova, 1996, in particolare, p. 69 s. Nella dottrina tedesca, v. G. DANNECKER, Strafrecht der Europäischen Gemeinschaft, in Strafrechtsentwicklung in Europa, vol. 4.3, a cura di A. Eser e B. Huber, Freiburg im Breisgau, 1995, p. 59; K. TIEDEMANN, Diritto comunitario e diritto penale, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1993, p. 209 s.; ID., L’europeizzazione del diritto penale, in corso di pubblicazione in questa Rivista.
— 1106 — anima la Costituzione italiana; esso fa sì che anche i beni ambientali vadano considerati come condizioni per il pieno sviluppo della persona umana (36). Ne consegue che una politica criminale conforme alla Costituzione non dovrà proccuparsi di tutelare i beni ambientali in quanto tali. Anche sul piano delle scelte di penalizzazione, l’ambiente viene in considerazione come diritto dell’uomo (37) e delle generazioni future (38): come un bene superindividuale che appartiene a ciascun individuo e dunque alla collettività impersonalmente intesa. Questa concezione dell’ambiente, comunemente indicata come antropocentrica (39), consente di impostare in modo equilibrato il fondamento giustificativo della tutela ambientale. Invero, sottolineando la strumentalità dell’ambiente alla piena valorizzazione della persona, tale impostazione scongiura gli eccessi di tutela che possono discendere dall’adesione all’opposta concezione ecocentrica della tutela ambientale (40): ci si riferisce — tra l’altro (41) — al rischio di una progressiva trasformazione della tutela dei beni ambientali nella tutela dell’ideologia (se non addirittura dell’etica) ambientalista. Al contempo, la concezione antropocentrica evita l’inconveniente opposto: che il fondamento della tutela ambientale, cioè, venga concepito riduttivamente, in termini di tensione e di bilanciamento con l’attività economica. In effetti, mentre l’attività economica trova nell’ambiente un elemento di eterolimitazione, la tutela dell’ambiente mantiene un fondamento giustificativo del tutto autonomo rispetto allo sviluppo dell’economia. In tal modo — si badi — non si finisce per aderire a quell’orientamento che, semplificando eccessivamente il problema, considera la tutela dell’ambiente esclusivamente come uno strumento di protezione anticipata della salute individuale e collettiva (42). In effetti, se è innegabile che (36) Si tratta di una tesi recepita già da Cass. civ., sez. un., 6 ottobre 1979, in Giur. it., 1980, I, c. 464 s. In dottrina, cfr. S. PATTI, La tutela civile dell’ambiente, Padova, 1979, p. 12 s.; ID., Ambiente (tutela dell’) nel diritto civile, cit., p. 288 s. (37) Si rinvia agli A. citati supra, nota n. 3. (38) Cfr. F. LETTERA, op. cit., p. 3; ID., Lo Stato ambientale e le generazioni future, in Riv. giur. ambiente, 1992, p. 235 s. In argomento, v. anche E. DOLCINI, G. MARINUCCI, op. cit., p. 347. (39) Si tratta di una definizione ricorrente: cfr. ad esempio B. CARAVITA, op. cit., p. 53 s.; M. CATENACCI, op. ult. cit., p. 42. Nella dottrina tedesca v. per tutti R. BLOY, op. cit., p. 488. (40) Cfr. K. BOSSELMANN, Die Natur im Umweltrecht: Plädoyer für ein ökologisches Umweltrecht, in Natur und Recht, 1987, p. 1 s.; da noi, v. V. MUSACCHIO, op. cit., p. 145. Per un raffronto tra le due opposte concezioni ecocentrica e antropocentrica, v. R. RENGIER, Zur bestimmung und Bedeutung der Rechtsgüter im Umweltstrafrecht, in NJW, 1990, p. 2506 s. (41) Per ulteriori rilievi, v. L. KUHLEN, Umweltstrafrecht- auf der Suche nach einer neuen Dogmatik, in ZStW, 1993, (105), p. 702 s. (42) A. CALAMANTI, Tecnica sanzionatoria e funzione della pena nei reati ecologici, in Riv. pen., 1992, p. 617.
— 1107 — il bene della salute trae indubbi benefici dalla tutela dell’ambiente (43), è pur vero che tale rapporto di strumentalità non risulta né indefettibile, né esclusivo, specialmente in relazione a quegli aspetti della nozione di ambiente (si pensi al patrimonio faunistico e floreale), la cui tutela, pur risultando strumentale al pieno sviluppo della persona, può prescindere dallo scopo ultimo di prevenire offese alla salute individuale e collettiva. Tutto ciò considerato, se si riconosce alla normativa comunitaria e alle indicazioni costituzionali un’incidenza sulle scelte politico-criminali, è giocoforza ammettere che una nozione globale di ambiente, attenta a tutte le interazioni tra l’uomo e l’habitat, ha, intanto, una sua legittimazione penalistica come elemento di orientamento delle future opzioni legislative, oltre che come base per una verifica critica delle scelte di penalizzazione già compiute in materia. In particolare, va tenuto presente che la frammentarietà caratteristica del diritto penale fa sì che l’obiettivo di tutelare l’ambiente come entità complessa passi inevitabilmente attraverso modelli e tecniche di tutela, che si concentrano su singoli elementi ambientali. Ebbene, la nozione globale di ambiente si presenta come lo sfondo su cui ricomporre, in una prospettiva di tutela finale (44), i singoli punti di intervento del diritto penale, allo scopo, da un lato, di valutare appieno la razionalità di ciascuna scelta legislativa e la sua congruità rispetto alle esigenze complessive di tutela, dall’altro, di evitare che la frammentarietà dell’intervento penale si risolva in un alibi per le inadempienze del legislatore. 4. Ma non è tutto. Non meno della normativa comunitaria, le indicazioni costituzionali consentono di instaurare quei collegamenti tra i vari beni ambientali, che conducono a una loro visione unitaria. Per cogliere tale unitarietà è sufficiente un’interpretazione delle scarne indicazioni costituzionali in materia ambientale, fondata sull’argomento a fortiori. Quale punto di partenza va osservato che il rilievo, espressamente assegnato dalla Costituzione al patrimonio storico e artistico (art. 9, comma 2), perderebbe gran parte della sua significatività ove esso non presupponesse la tutela dell’assetto urbanistico e paesaggistico, come bene avente una rilevanza costituzionale implicita, oltre che una contiguità funzionale con quello del patrimonio storico e artistico. In altri termini: che senso avrebbe postulare la rilevanza costituzionale dei beni storici e artistici, se poi tali beni vengono a collocarsi in una cornice urbanistica e paesaggistica cui non è riconosciuta una pari significatività? A sua volta, sulla base delle medesime cadenze logiche e argomentative, la tutela dell’assetto ur(43) C. PEDRAZZI, Profili penalistici di tutela dell’ambiente, in Indice pen., 1991, p. 618. (44) Cfr. P. D’AMELIO, op. cit., p. 3; sul punto v. anche M. CATENACCI, op. ult. cit., p. 7.
— 1108 — banistico e paesaggistico presuppone la rilevanza costituzionale dell’ecosistema. È giocoforza chiedersi, infatti, che senso avrebbe la ricerca di un punto di equilibrio tra lo sviluppo urbanistico e il rispetto del paesaggio se tale ricerca non potesse contare sulla pari rilevanza dell’ecosistema naturale, nel cui contesto si inserisce lo sviluppo urbanistico. In breve: l’espressa significatività costituzionale riconosciuta alla dimensione più estrema del concetto di ambiente — vale a dire il patrimonio storico e artistico — induce a riconoscere l’implicita costituzionalizzazione dei significati che afferiscono ai contenuti centrali della nozione di ambiente (45). D’altro canto, anche la lettura costituzionale dell’ambiente come diritto dell’uomo rafforza l’idea che le varie dimensioni della nozione di ambiente siano tra loro reciprocamente correlate e che l’elemento di unificazione funzionale risieda nella loro finalizzazione al miglioramento della ‘‘qualità della vita’’. Naturalmente, dalla ricostruzione unitaria dell’ambiente come bene costituzionale non devono trarsi implicazioni ultronee. E precisamente: anzitutto, va da sé che la strumentalità dell’ambiente alla piena realizzazione della persona umana non contrasta con la concezione penalistica dell’ambiente come bene superindividuale (46). Tale inquadramento consente semmai una protezione avanzata dell’ambiente. Come dimostra il diritto positivo, infatti, la tutela dell’ambiente viene affidata alla previsione di fattispecie destinate a operare indipendentemente dalla condizione che i singoli comportamenti incriminati mettano effettivamente in pericolo beni di singoli individui, quali ad esempio la vita e la salute (47). In secondo luogo, va pure precisato che l’unitarietà dell’ambiente come bene giuridico non impedisce di cogliere al suo interno tre specifici e più ristretti settori di intervento della normativa penale. Il primo settore ha ad oggetto le componenti naturali della biosfera (l’aria, l’acqua e il suolo), che formano l’ecosistema naturale e vengono tutelate contro le condotte di inquinamento atmosferico (48), idri(45) Con diversità di argomenti, ritiene che il bene dell’ambiente abbia una rilevanza costituzionale implicita, F. ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, p. 196 s. Sul fondamento costituzionale dell’ambiente come bene giuridico, v. anche: S. PATTI, op. loc. ult. cit.; E. SPAGNA MUSSO, Diritto costituzionale, 4a ed., Padova, 1992, p. 271 s.; A. GUSTAPANE, op. loc. cit. In senso difforme, G. MARINUCCI, Relazione di sintesi, in Bene giuridico e riforma della parte speciale, a cura di A.M. Stile, Napoli, 1985, p. 350. (46) V. anche C. PEDRAZZI, op. cit., p. 617, che riconduce i valori ambientali al genus dei valori collettivi. (47) Sul punto v. R. BLOY, op. cit., p. 497. (48) In particolare v. gli illeciti previsti dagli artt.: 216 r.d. 27 luglio 1934, n. 1265; 9, 10, 14, 15, 18 e 20 l. 13 luglio 1966, n. 615; 24-26 d.P.R. 24 maggio 1988, n. 203; 3 d.lvo 27 gennaio 1992, n. 97.
— 1109 — co (49), del suolo (50), acustico (51) e radioattivo (52). In quest’area si inscrivono altresì le norme del codice penale che, seppure in via sussidiaria, puniscono condotte di aggressione all’ecosistema naturale (artt. 423, 424, 426, 427, 439, 440, 452 e 674 c.p.). Il secondo settore di intervento è costituito dall’ambiente inteso come assetto paesaggistico (53) e razionalità dello sviluppo urbanistico, e tutelato contro l’attività edilizia abusiva (54). In questo ambito di tutela può farsi rientrare anche la variegata normativa che mira alla salvaguardia della flora e della fauna (55). Il terzo settore di intervento è quello del patrimonio storico, artistico e archeologico, tutelato contro le condotte di depauperamento (56). Fermo restando che dal punto di vista legislativo ciascuno dei tre settori ha una propria omogeneità interna, è pur vero che la tutela di ciascuno di essi contribuisce al rafforzamento degli altri. Ne consegue che, se dal punto di vista interpretativo ogni settore può considerarsi autonomo (ovvero rispondente alla logica di quello specifico sottosistema), dal punto di vista funzionalistico le diverse entità ambientali, che sono tutelate dalle singole fattispecie incriminatrici, risultano proiezioni di un medesimo bene definibile anche in un’accezione categoriale affatto particolare: vale a dire, come entità complessiva che accomuna, non già direttamente il profilo offensivo dei singoli reati, ma gli spettri di tutela dei sottosistemi in cui ciascuno di essi si inscrive. III. Passando al secondo punto della tematica, la compatibilità dei reati ambientali con il principio di offensività va verificata con riferimento a due tipologie problematiche di reati ambientali: 1) i reati che risiedono (49) V. i reati di cui agli artt.: 21-23-bis e 24-bis l. 10 maggio 1976, n. 319; 2-bis d.l. 30 dicembre 1981, n. 801; 14 d.l. 25 novembre 1985, n. 667; 21 d.P.R. 24 maggio 1988, n. 236; 13 d.l. 5 febbraio 1990, n. 16; 14 d.lvo 25 gennaio 1992, n. 130; 18 d.lvo 27 gennaio 1992, n. 132; 18 d.lvo 27 gennaio 1992, n. 133. (50) Cfr. l’art. 50 d.lvo 5 febbraio 1997, n. 22. (51) Cfr. il disposto dell’art. 659 c.p., che si discute se sia stato depenalizzato dall’art. 10, commi 1 e 2, della l. 26 ottobre 1995, n. 447. In argomento, v. La tutela dell’ambiente dall’inquinamento acustico, a cura di A. Jazzetti, R. Tumbiolo, Milano, 1996, p. 66 s. (52) V. gli artt. 29-31 l. 31 dicembre 1962, n. 1860. (53) V. le previsioni di cui agli artt. 734 c.p. e 1-sexies d.l. 27 giugno 1985, n. 312. (54) V. in particolare gli artt. 20-21 l. 28 febbraio 1985, n. 47. (55) V. gli artt.: 28-33 r.d. 22 ottobre 1914, n. 1486; 56-60 r.d. 29 ottobre 1922, n. 1647; 24-38 r.d.l. 30 dicembre 1923, n. 3267; 5 l. 6 gennaio 1931, n. 99; 33-41 r.d. 8 ottobre 1931, n. 1604; 4 d.lvo lgt. 27 luglio 1945, n. 475; 24 l. 14 luglio 1965, n. 963; 10 e 11 l. 1 marzo 1975, n. 47; 30 l. 11 febbraio 1992, n. 157. (56) V. gli artt.: 733 c.p.; 58-70 l. 1 giugno 1939, n. 1089; 20 l. 1 marzo 1975, n. 44; 20 l. 28 febbraio 1985, n. 47.
— 1110 — nell’inosservanza dei precetti, imposti dalla pubblica amministrazione allo scopo di coniugare la tutela dell’ambiente con la libertà individuale di svolgere determinate attività; 2) i reati che consistono in condotte ritenute offensive dell’ambiente, direttamente descritte dalla fattispecie incriminatrice (anche se attraverso l’uso di elementi c.d. normativi). 1. Cominciando dalla prima tipologia di reati, la tecnica di tipizzazione che li caratterizza ha una precisa ragion d’essere (57): quella di affidare alla pubblica amministrazione, e non direttamente al diritto penale, il compito di individuare in concreto il comportamento dannoso per l’ambiente. A differenza della norma penale, l’intervento della pubblica amministrazione è in grado di tentare una gestione preventiva e compositiva degli interessi che entrano in conflitto con i beni ambientali. Oltre tutto, la subordinazione dell’intervento penale a quello della pubblica amministrazione si spiega con la necessità di dare concretezza a un bene giuridico proteiforme e complesso come l’ambiente (58). Per contro, l’intervento penale tende ad assumere un ruolo subalterno e accessorio rispetto alla regolamentazione amministrativa (59), in quanto destinato ad assicurare il rispetto delle valutazioni effettuate dall’amministrazione competente. Per questa ragione, non si manca di osservare in dottrina che le fattispecie penali in questione sarebbero meramente sanzionatorie; punirebbero cioè la disobbedienza al precetto amministrativo (60) e, come tali, tutelerebbero esclusivamente funzioni amministrative di governo (61). Da qui, la difficoltà di conciliarle con il principio di necessaria offensività del reato. 1.1. All’interno del dibattito che, al riguardo, si è sviluppato in dottrina possono distinguersi tre orientamenti. Secondo il primo, le funzioni amministrative di governo dell’ambiente (e più in generale la tutela delle funzioni amministrative) non possono considerarsi in nessun modo un bene giuridico nel senso proprio del (57) In argomento, v. D. PULITANÒ, La formulazione delle fattispecie di reato: oggetti e tecniche, in Beni e tecniche della tutela penale. Materiali per la riforma del codice, a cura del CRS, Milano, 1987, p. 37. (58) Cfr. T. PADOVANI, Tutela di beni e tutela di funzioni nella scelta tra delitto, contravvenzione e illecito amministrativo, in Cass. pen., 1987, p. 672. (59) V.: A. ESER, op. cit., p. 242 nonché L. VERGINE, Ambiente nel diritto penale (tutela dell’), in Dig. disc. pen., IX, Appendice, Torino, 1995, p. 757. (60) Cfr.: R. BAJNO, Contributo allo studio del bene giuridico nel diritto penale ‘‘accessorio’’: l’ipotesi urbanistico ambientale, in questa Rivista, 1979, p. 146 s.; L. BERTOLINI, op. cit., pp. 3 e 6; P. PATRONO, Inquinamento idrico da insediamento produttivo e tutela penale dell’ambiente, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1989, p. 1027. Nella dottrina tedesca, v. H.H. JESCHECK, Lehrbuch des Strafrecht, 5a ed., Berlin, 1995, p. 368 s. (61) Da ultimo, v. in argomento S. MOCCIA, Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, in questa Rivista, 1995, p. 348 s.
— 1111 — termine (62). La funzione amministrativa di governo — si osserva — è un fine dello Stato, non un bene determinato e preesistente alla norma penale, in grado di delimitare l’area dell’intervento penale (63). L’impostazione in esame, però, trascura che la funzione amministrativa viene penalmente tutelata, non in quanto tale, bensì come strumento di governo dell’ambiente; è l’ambiente, cioè, il bene finale che il legislatore mira a proteggere in modo mediato. Questo rilievo non è senza importanza: l’entità tutelata in via mediata è qualcosa di diverso dallo scopo della norma, che, come tale, è presente anche nei reati sprovvisti di oggetto giuridico. Mentre lo scopo della norma esprime la valutazione effettuata dal legislatore circa l’opportunità dell’intervento penale, la tutela strumentale di una funzione coinvolge una valutazione sulla congruità tra la scelta dello strumento utilizzato e il fine perseguito. E anche se non emerge al livello della tipicità, tale rapporto di strumentalità non può ritenersi irrilevante, allorché si valuti la legittimità dei reati di inosservanza alla luce del principio di offensività. Un secondo orientamento, invece, non esita a considerare le funzioni amministrative di governo autentici beni giuridici: tutte le funzioni dello Stato sarebbero beni giuridici in quanto entità offendibili dal comportamento dell’uomo e dunque capaci di tutela penale, non diversamente dai beni che posseggono una dimensione materiale (64). Il limite di questa impostazione consiste nella sua radicalità: identificando la funzione amministrativa con il bene giuridico, essa trascura il modo in cui in concreto viene esercitata la funzione amministrativa, con la conseguenza di formalizzare la tutela penale. Dovrebbe affermarsi, cioè, che ogni inosservanza del provvedimento amministrativo, punita penalmente, offende un bene giuridico (anche quella di chi non ottempera a un provvedimento assurdo, ancorché legittimo). La presunzione di offensività è evidente, così come indubitabile è l’incapacità di una siffatta nozione di bene giuridico a delimitare l’area del penalmente rilevante. Il terzo orientamento, infine, percorre una via intermedia. Da un lato, ammette che le funzioni amministrative di governo non costituiscono di (62) Cfr. A. BARATTA, Integrazione-prevenzione. Una nuova fondazione della pena all’interno della teoria sistemica, in Dei delitti e delle pene, 1984, p. 13; W. HASSEMER, Il bene giuridico nel rapporto di tensione tra Costituzione e diritto naturale, ivi, p. 110; R. BAJNO, La tutela penale dell’ambiente, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1990, p. 356; P. PATRONO, Diritto penale dell’impresa e interessi umani fondamentali, Padova, 1993, p. 101 s.; S. PANAGIA, op. cit., p. 42. (63) Cfr. P. PATRONO, Inquinamento, cit., p. 1027; ID., Diritto penale, cit., pp. 53 e 102 s. (64) Cfr. G. MARINUCCI, E. DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 1995, p. 183 s. Analogamente, v. G. COCCO, L’atto amministrativo invalido elemento delle fattispecie penali, Cagliari, 1996, p. 425.
— 1112 — per sé il bene giuridico offeso dai reati di inosservanza (65). Dall’altro lato, però, riconosce che la tutela delle funzioni amministrative è strumentale alla salvaguardia di un bene giuridico finale, che risulta protetto indirettamente (66). Ne consegue che, rapportata al bene giuridico finale, la violazione della funzione amministrativa di governo viene assimilata allo schema del pericolo astratto (67) e valutata alla stregua delle condizioni che legittimano un siffatto modello di anticipazione della tutela penale. In altre parole: è con riferimento al bene giuridico finale che va effettuato il fondamentale giudizio di proporzione e sussidiarietà dell’intervento penale (68). La compatibilità di tali reati con il principio di offensività dipenderà pertanto dalla significatività del bene finale (69), che nel caso dell’ambiente è tale da consentire il ricorso alla pena. In effetti, quest’ultima impostazione è certamente da preferire. Essa, però, per risultare del tutto convincente, non può limitarsi a dimostrare la (peraltro scontata) significatività del bene finale e di conseguenza la meritevolezza di una sua tutela anticipata. In via assolutamente preliminare, è necessario chiarire da quali elementi può desumersi che la tutela penale delle funzioni amministrative di governo è realmente strumentale alla protezione dell’ambiente. In caso contrario, vi è il rischio di postulare una mera presunzione di pericolo, che aggira il contenuto politico-garantista del principio di offensività (70). La questione, dunque, può così formularsi: quali requisiti deve presentare la condotta inosservante della funzione amministrativa di governo per poter integrare una messa in pericolo, ancorché astratta, del bene giuridico finale? 1.2.
Per rispondere correttamente al quesito, va tenuto presente che
(65) Cfr. T. PADOVANI, La problematica del bene giuridico e la scelta delle sanzioni, in Dei delitti e delle pene, 1984, p. 119; ID., La scelta delle sanzioni in rapporto alla natura degli interessi tutelati, in Beni e tecniche, cit., p. 97. (66) Parla di tutela mediata C. PEDRAZZI, op. cit., p. 620. Conformemente C. FIORE, Il principio di offensività, in Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Milano, 1996, p. 70 s. (67) In tal senso, sostanzialmente: G. FIANDACA, G. TESSITORE, op. cit., p. 38; G. FIANDACA, La tipizzazione del pericolo, in Dei delitti e delle pene, 1984, p. 465; D. PULITANÒ, op. cit., p. 38; F. ANGIONI, Il principio di offensività, in Prospettive di riforma, cit., p. 114. (68) Cfr. T. PADOVANI, La problematica, cit., p. 120. (69) Oltre agli A. citati alla nota 66, v., di recente, F.C. PALAZZO, I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di criminalizzazione, in questa Rivista, 1992, p. 470, in particolare nota 65. Nella prospettiva di una riforma organica del codice, v. anche F. MANTOVANI, Il principio di offensività nello schema di delega legislativa per un nuovo codice penale, in Prospettive di riforma, cit., p. 102. (70) Osserva che, così opinando, si finisce per dilatare senza limiti l’area del penalmente rilevante, in contrasto con il principio dell’extrema ratio, F.C. PALAZZO, Principi costituzionali, beni giuridici e scelte di criminalizzazione, in Studi in memoria di Pietro Nuvolone, I, Milano, 1991, p. 382; ID., I confini, cit., p. 472.
— 1113 — la legislazione penale in materia ambientale prevede tre tipi di fattispecie costruite sull’inosservanza della funzione amministrativa di controllo. Il primo tipo prende in considerazione condotte per il cui svolgimento la legge prevede l’obbligo della comunicazione alla pubblica amministrazione competente. Qui la sanzione penale punisce, non tanto lo svolgimento dell’attività in sé, ma il mancato ottemperamento dell’obbligo di informazione della pubblica amministrazione. Si tratta, dunque, di reati omissivi, in quanto di per sé la condotta pericolosa per l’ambiente non è illecita, né lo diventa in ragione della mancata comunicazione, la quale da sola costituisce oggetto della pretesa comportamentale presidiata dalla sanzione penale. Il secondo tipo di fattispecie punisce invece lo svolgimento dell’attività in assenza dell’autorizzazione da parte della pubblica amministrazione competente a rilasciarla. Qui la sanzione penale presidia l’interesse della pubblica amministrazione a valutare la tollerabilità in concreto della pericolosità della condotta: ovvero la conciliabilità tra l’interesse allo svolgimento dell’attività e i vari interessi confliggenti, tra cui rientra anche il bene giuridico finale. Poiché l’esistenza dell’autorizzazione è una condizione della liceità della condotta (71), l’oggetto del divieto è costituito dalla condotta in sé considerata, con la conseguenza che il reato presenta una natura commissiva (72). Il terzo tipo di fattispecie, infine, punisce l’attività svolta in violazione di determinate prescrizioni, impartite dalla pubblica amministrazione competente. Questo gruppo di reati costituisce una sottospecie di quello esaminato per secondo: la differenza principale consiste nel carattere più penetrante del controllo amministrativo, che si spinge fino a indicare le modalità di svolgimento della condotta, ritenute necessarie al contenimento della sua pericolosità per il bene finale. Ora, per stabilire se la tutela delle funzioni amministrative è strumentale rispetto al bene finale non può che assumersi un punto di vista intrasistematico; la questione, cioè, va impostata ed esaminata in base alle valutazioni dell’ordinamento. E dal punto di vista intrasistematico non può dirsi che nel primo gruppo di reati la tutela delle funzioni amministrative sia strumentale alla salvaguardia del bene finale. Il controllo amministrativo, che viene tutelato penalmente, ha ad oggetto la pura conoscenza dell’attività. Quest’ultima potrà essere anche pericolosa per il bene finale, ma ciò non è dato desumerlo dal tipo di controllo amministrativo, che non si (71) Nella letteratura tedesca, sul ruolo sistematico dell’autorizzazione amministrativa (quale elemento che afferisce al giudizio di tipicità o a quello di antigiuridicità), v. R. BLOY, op. cit., p. 501 s. Da noi v. A. CADOPPI, op. cit., p. 370 s. (72) Per la natura mista, omissiva-commissiva, di tali reati, v. invece A. CADOPPI, op. cit., p. 373 s.
— 1114 — esprime attraverso valutazioni di merito (73). Solo dal punto di vista empirico potrà dirsi, semmai, che l’attività è pericolosa; è questa, però, una valutazione extrasistematica, in quanto tale, utile nella diversa prospettiva di una rimeditazione delle scelte legislative sul piano politico-criminale. Dal punto di vista dell’ordinamento giuridico, invece, non vi sono elementi per far supporre che la condotta punita sia ritenuta dal legislatore astrattamente pericolosa per il bene finale. Ci si trova dunque in presenza di reati che offendono la mera tutela di funzioni amministrative in sé considerate: ovvero un’attività di governo che non può ritenersi strumentale alla tutela mediata del bene finale. Trattandosi di fattispecie del tutto svincolate dalla logica della tutela del bene giuridico, esse non assurgono nemmeno al livello di reati di pericolo astratto. Con altre parole: le condotte tipizzate da tali fattispecie possono considerarsi ‘‘neutre’’ rispetto all’asserito bene finale. E per questa ragione parrebbe preferibile la loro depenalizzazione. A opposte conclusioni deve pervenirsi invece in relazione al secondo e al terzo gruppo di reati. Qui la subordinazione della liceità penale del comportamento a una valutazione di merito della pubblica amministrazione lascia desumere che, a giudizio del legislatore, si tratta di condotte che risultano astrattamente pericolose per il bene finale, nella misura in cui disattendono le modalità di svolgimento, ritenute dalla pubblica amministrazione necessarie al contenimento della loro pericolosità in concreto. Naturalmente, si può anche ipotizzare che la pubblica amministrazione non sia in grado di effettuare tali valutazioni, o che in taluni casi esse siano del tutto errate (74). Ma questa è una critica che attiene al modello di tutela tipica del Verwaltungstrafrecht e che, in quanto tale, ha importanza de iure condendo. Dal punto di vista ordinamentale — che è quello che qui rileva — non par dubbio che si tratti di condotte considerate ‘‘pregnanti’’ dal legislatore, in quanto potenzialmente capaci di offendere il bene finale. E questo basta per affermare che qui la tutela delle funzioni amministrative è strumentale alla tutela del bene finale, e che conseguentemente tali fattispecie di inosservanza possono assimilarsi ai reati di pericolo astratto. In conclusione: sotto il profilo dell’offensività, la legittimità di tali fattispecie si pone negli stessi termini in cui la questione viene affrontata in relazione ai reati di pericolo astratto, di cui si dirà di seguito. (73) Cfr. F.C. PALAZZO, op. ult. cit., p. 471, dove si osserva che la repressione penale di un’attività svolta in violazione del controllo amministrativo prescritto dalla legge si giustifica solo quando detto controllo è finalizzato ad appurare la pericolosità dell’attività controllata per il bene finale. (74) Sul punto, v. i rilievi di A. ESER, op. cit., p. 242, che considera anche il pericolo di una ‘‘malvagia consorteria’’ tra industrie private e organi pubblici.
— 1115 — 2. Passando alla seconda tipologia di reati, come si è già detto, la loro caratteristica risiede nel fatto che il legislatore descrive direttamente la condotta ritenuta offensiva per l’ambiente. Anche quando la fattispecie rinvia a una fonte diversa dalla legge statale per la definizione di determinate caratteristiche dell’azione, quest’ultima risulta individuata pur sempre in astratto e per classi di comportamenti aventi le medesime caratteristiche. Si pensi ad esempio alla fattispecie che punisce le emissioni nell’atmosfera superiori ai valori stabiliti da apposite tabelle, apprestate dalla normativa regionale e a loro volta richiamate dalla fattispecie penale (75). Com’è evidente, ci si trova in presenza di reati di pericolo astratto (76). Il problema assume dunque una portata più generale, talché quanto si verrà osservando vale anche per quei reati costruiti sulla violazione di precetti amministrativi, che sono assimilabili alla struttura del reato di pericolo astratto. Ci si deve interrogare infatti sulla legittimità dei reati di pericolo astratto, che, con alterne fortune (77), sono da tempo al centro dell’attenzione della dottrina internazionale. Riassumendo brevemente i termini del dibattito odierno, va ricordato che, dopo un primo atteggiamento di critica nei confronti dei reati di pericolo astratto (78), oggi la dottrina italiana tende alla loro rivalutazione politico-criminale (79). Si osserva che essi risultano adatti e addirittura necessari quando si tratta di tutelare beni giuridici superindividuali e non sempre afferrabili (80). Con riferimento specifico al bene dell’ambiente, la pericolosità di ogni singola condotta vietata è apprezzabile solo se si tiene (75) V. ad esempio l’art. 25, comma 3, d.P.R. 24 maggio 1988, n. 203. (76) Del resto, frequente è in dottrina il rilievo che il modello del pericolo astratto costituisce la tecnica di tutela più ricorrente e più opportuna nel campo del diritto penale ambientale; in tal senso, v. G. FIANDACA, op. ult. cit., p. 458 s.; G. GREGORI, P.J. DA COSTA, Problemi generali del diritto penale dell’ambiente, Padova, 1992, p. 65. Più in generale, v. anche: G. FIANDACA, G. TESSITORE, op. cit., p. 38; V. PAONE, op. cit., p. 19; M. CATENACCI, op. ult. cit., p. 2; nella dottrina tedesca, sulla frequenza del reato di pericolo astratto nella materia ambientale, v.: H.J. ALBRECHT, G. HEINE, V. MEINBERG, op. cit., p. 950; G. HEINE, Zur Rolle des strafrechtlichen Unweltschutzes, in ZStW, 1989, (101), p. 732 s. (77) Così F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 232. (78) Cfr. M. GALLO, I reati di pericolo, in Foro pen., 1969, p. 8; F. BRICOLA, op. cit., p. 82; (79) Cfr.: G. FIANDACA, op. ult. cit., p. 454 s.; G. GRASSO, L’anticipazione della tutela penale: i reati di pericolo e i reati di attentato, in questa Rivista, 1986, p. 690; G. MARINUCCI, Profili di una riforma del codice penale, in Beni e tecniche, cit., p. 29; D. PULITANÒ, op. loc. cit.; M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, 2a ed., Milano, 1995, p. 319 s.; S. CANESTRARI, Reato di pericolo, in Enc. giur. Treccani, XXVI, Roma, 1991, p. 7. Per una recente rimeditazione del problema, attenta anche ai costi connessi alla scelta legislativa di allestire fattispecie di pericolo astratto, v. S. MOCCIA, op. cit., p. 369 s. (80) Cfr. C. PEDRAZZI, Problemi di tecnica legislativa, in Comportamenti economici e legislazione penale, Milano, 1979, p. 32 s. Con riferimento specifico ai beni ambientali, v. anche G. FIANDACA, op. ult. cit., p. 459 s. Nella dottrina tedesca, analogamente, K. TIEDEMANN, Wirtschaftsstrafrecht und Wirtschaftskriminalität, I, Hamburg, 1976, p. 46 s.
— 1116 — conto che essa si aggiunge ad altri comportamenti analoghi, e che, considerate nella loro serialità, le condotte in questione acquistano una forza sinergica ulteriore (81). Orbene, per l’orientamento prevalente la legittimità dei reati di pericolo astratto viene fatta dipendere da due fattori. Il primo consiste nella particolare importanza del bene giuridico; quanto più è rilevante il bene tutelato, tanto più è giustificata l’anticipazione della tutela (82). E si è già detto che, sotto questo profilo, nessuno dubita della significatività dell’ambiente come bene giuridico. La seconda condizione rileva invece sul piano della tipicità. Si richiede infatti che il reato di pericolo astratto sia descritto con una ricchezza linguistica, tale da valorizzare gli elementi di pericolosità della condotta e da consentire una reale coincidenza tra la condotta tipizzata e la condotta offensiva del bene tutelato (83). Minore attenzione viene invece riservata alla possibile divergenza tra il piano della tipicità e il carattere in concreto non pericoloso della condotta. Secondo l’opinione maggioritaria, la base empirico-criminologica su cui si fonda la tipizzazione della condotta non può essere assunta come criterio ermeneutico, né può essere verificata dall’interprete. A quest’ultimo non è dato esprimere giudizi sulla ragionevolezza della scelta legislativa: se una condotta è tipica, essa è punibile anche se in concreto non è pericolosa per il bene tutelato (84). Com’è evidente, però, così opinando, si finisce per svilire uno dei corollari del principio di necessaria offensività del reato: vale a dire la possibilità sia di sindacare le scelte legislative sotto il profilo della proporzione tra bene giuridico ed entità della pena, sia a fortiori di scongiurare che per un fatto inoffensivo venga comminata una pena, anche se di modesta entità (85). In breve: in nome dell’importanza del bene giuridico e della sostanziale verosimiglianza della sua offesa, la presunzione di pericolosità della condotta, insita nei reati di pericolo astratto, tende a trasformarsi in una presunzione di legittimità sostanziale dell’intervento penale. (81) Cfr.: G. GRASSO, I rapporti, cit., p. 240; M. CATENACCI, op. ult. cit., pp. 142143, in particolare nota 47. Più in generale, D. PULITANÒ, op. cit., p. 37 s. Nella manualistica, v. per tutti G. FIANDACA, M. MUSCO, op. cit., p. 177. Nella letteratura di lingua tedesca, v. sul punto E. SAMSON, Kausalitäts- und Zurechnungsprobleme im Umweltstrafrecht, in ZStW, 1988, (100), p. 618; M. PONZANI, Erfolg und individuelle Zurechnung im Umweltstrafrecht, Freiburg im Breisgau, 1992, p. 45. (82) Cfr. F. ANGIONI, Contenuto, cit., p. 181 s.; G. FIANDACA, Il ‘‘bene giuridico’’ come problema teorico e come criterio di politica criminale, in Bene giuridico, cit., p. 52 s.; ID., La tipizzazione, cit., p. 442. (83) G. MARINUCCI, Relazione di sintesi, cit., p. 339 s. Di recente, cfr.: F.C. PALAZZO, Meriti e limiti dell’offensività come principio di ricodificazione, in Prospettive di riforma, cit., p. 82; S. CANESTRARI, op. cit., p. 8. (84) Cfr. G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 176. (85) Per un aggiornato quadro del criterio di ragionevolezza e delle sue articolazioni, v. per tutti M. ROMANO, op. cit., p. 22.
— 1117 — Un siffatto epilogo, però, non è inevitabile. Come non si manca di rilevare, infatti, tra le condizioni di legittimità dei reati di pericolo astratto vi è anche la correttezza empirico-criminologica delle valutazioni legislative relative alla pericolosità della condotta tipizzata (86). Se questo requisito non ha rilevanza autonoma, non è perché sia poco importante, ma per la ragione che esso è già implicito nel più generale requisito della significatività del bene tutelato e della sua vulnerabilità. Invero, l’arretramento della soglia della punibilità non avrebbe senso, ove non si ritenesse che la condotta punita sia potenzialmente idonea ad offendere il bene giuridico. Ciò equivale a dire che la fattispecie tipica sottende una cornice empirico-criminologica, che fonda e giustifica la prima. Per le particolarità del reato di pericolo astratto, dunque, la cornice criminologica da cui si desume la potenzialità lesiva della condotta tipizzata assume una rilevanza, oltre che politico-criminale, giuridica in senso stretto. Traendo da quanto precede delle conclusioni, ne consegue la possibilità di attingere dalla cornice empirico-criminologica quei correttivi di delimitazione della fattispecie legale, che quest’ultima, seppure non esprime, certamente presuppone. Così, potrà ritenersi non punibile la condotta conforme al tipo, che si svolge al di fuori della presenza sinergica e seriale di altre analoghe condotte (87). Invero, la compresenza di una pluralità di condotte, potenzialmente pericolose per l’ambiente solo nel loro insieme, non è un requisito espresso della fattispecie legale, ma appartiene alla cornice criminologica su cui quella si fonda e si giustifica. Infine, poiché è la cornice empirico-criminologica che giustifica il reato di pericolo astratto, essa diventa al contempo uno dei parametri alla cui stregua va valutata la proporzione della pena comminata dal legislatore. La rilevanza giuridica di una siffatta valutazione non dovrebbe precluderne il controllo anche da parte della Corte costituzionale (88), soprattutto nei casi di manifesta sproporzione o, a fortiori, nell’ipotesi di una scelta legislativa del tutto smentita dalle necessarie basi empirico-criminologiche. IV. Il complesso delle considerazioni svolte impone di affrontare, conclusivamente, ancora due quesiti. Il primo riguarda la validità politico-crimi(86)
Limitatamente alla più recente manualistica, analogamente, v. per tutti T. PADOa ed., Milano, 1995, p. 172. Parla di ragionevolezza della presunzione legislativa relativa alla pericolosità della condotta, C. FIORE, Diritto penale, I, Torino, 1993, p. 188. (87) Con diversità di argomentazioni, v. anche M. CATENACCI, op. ult. cit., p. 156. (88) In tal senso v. M. ROMANO, op. cit., p. 320. VANI, Diritto penale, 3
— 1118 — nale della tecnica normativa, che caratterizza la tipizzazione del reato ambientale nell’ordinamento italiano. In altre parole: posto che le fattispecie penali tutelano l’ambiente in via mediata, assicurando cioè effettività alle funzioni amministrative di controllo, è giocoforza chiedersi se a tale opzione non sia preferibile piuttosto il ricorso a fattispecie incentrate sull’offesa o sull’effettiva messa in pericolo dell’ambiente. Il secondo quesito richiede invece una valutazione intrasistematica: si tratta di verificare se, considerata nel suo complesso, l’odierna disciplina penale risulta coerente con la scelta di fondo di assegnare alla pubblica amministrazione, e non direttamente al giudice penale, l’individuazione della soglia oltre la quale la condotta astrattamente pericolosa per l’ambiente diventa meritevole di pena. 1. In relazione al primo quesito, va osservato che la tecnica di tipizzazione del reato ambientale è fortemente condizionata da due fattori. Il riferimento va, anzitutto, al rapporto esistente tra la natura dell’ambiente quale bene giuridico superindividuale, da un lato, e dall’altro le sue modalità di aggressione, considerate nella loro dimensione empirica. In effetti, come si è avuto modo di osservare, la dimensione superindividuale dell’ambiente fa sì che la sua offesa si presti ad essere tipizzata più in termini di pericolo, che di danno. D’altro canto, è anche vero che le condotte di aggressione ambientale possono risultare realmente pericolose alla sola condizione che esse operino in modo seriale e sinergico con altre analoghe condotte. Ne consegue che l’alternativa all’attuale modello di tipizzazione del reato ambientale, come reato di pericolo astratto, è costituita dal ricorso a fattispecie incentrate, più che sull’effettiva lesione del bene tutelato (89), sulla sua effettiva messa in pericolo. Si tratta, cioè, di scegliere tra lo schema del pericolo astratto e quello del pericolo concreto. In entrambi i casi, la tipicità richiede una valutazione di pericolosità in concreto che nell’un caso è effettuata dalla pubblica amministrazione (e presidiata dalla sanzione penale), nell’altro caso viene rimessa direttamente al giudice penale poiché rilevante ai fini della tipicità. Ebbene, già queste notazioni possono giustificare una preferenza di massima per la vigente tecnica di tutela, dal momento che, più del giudice penale, la pubblica amministrazione sembra dotata delle competenze specifiche e del quadro informativo necessari per meglio effettuare le anzidette valutazioni di pericolosità. Senza considerare che la nota difficoltà di accerta(89) Per questa soluzione v. invece l’art. 102 dello Schema di legge-delega per l’emanazione di un nuovo codice penale, in Indice pen., 1992, p. 657, nonché le esplicazioni contenute nella Relazione, ivi, p. 626. Per un apprezzamento di questa scelta, v. L. VERGINE, op. cit., p. 110.
— 1119 — mento del pericolo per l’ambiente (90), da un lato, finirebbe per spostare in capo al perito la decisione relativa alla sussistenza del più significativo elemento della fattispecie oggettiva, dall’altro lato, determinerebbe un inevitabile allungamento dei tempi di definizione dei processi in materia ambientale, con intuibili riflessi sull’efficacia della sanzione penale eventualmente irrogata. In secondo luogo, sulla tecnica di tipizzazione del reato ambientale influisce anche l’esito di una scelta preliminare: quella tra la concezione antropocentrica dell’ambiente e l’opposta concezione ecocentrica. In effetti, il ricorso al reato di pericolo concreto risulta maggiormente funzionale a una tutela, per così dire, statica dell’ambiente: a una tutela, cioè, che non ha bisogno di passare attraverso un bilanciamento in concreto con altri interessi, in quanto tale compensazione è stata già effettuata dal legislatore, e ha dato come esito — in astratto, ovvero sempre e comunque — la prevalenza della tutela dell’ambiente. Diversamente, muovendo dalla concezione c.d. antropocentrica, la salvaguardia dell’ambiente non può non essere subordinata a quelle valutazioni in concreto, che si impongono per la rilevanza riconosciuta ad altri interessi compresenti, che — a determinate condizioni — possono anche comprimere l’ambito della protezione penale dell’ambiente. E si sono già dette le ragioni per le quali la concezione antropocentrica dell’ambiente risulta preferibile anche alla luce delle indicazioni costituzionali. Ciò, naturalmente, non significa che il ricorso a una tutela mediata dell’ambiente sia privo di implicazioni problematiche sul piano dei principi penalistici. In particolare la tecnica di tipizzazione della fattispecie penale sulla violazione del controllo amministrativo acuisce i già tormentati rapporti tra legalità e offensività sotto un duplice profilo. Quanto al primo, la subordinazione della tutela penale alle determinazioni della pubblica amministrazione può far sì che un fatto realmente pericoloso per l’ambiente risulti atipico (e dunque non punibile), in quanto autorizzato dall’amministrazione competente per l’inettitudine o, peggio, per l’infedeltà dei pubblici amministratori. Per quanto l’opzione a favore di una tutela mediata dell’ambiente faccia sì che la concreta composizione degli interessi in gioco si inscriva nell’ambito di una discrezionalità tecnica, è chiaro che le distorsioni macroscopiche e sistematiche del potere conferito alle amministrazioni competenti non possono essere pre(90) Per il rilievo che ‘‘quanto più è difficile, per le caratteristiche oggettive del fatto disciplinato, valutare di volta in volta l’esistenza del pericolo in base alle regole di esperienza, tanto più è proficuo ricorrere alla determinazione astratta di esse da parte della legge’’, v. M. PARODI GIUSINO, I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, Milano, 1990, p. 383 e, con riferimento specifico ai reati in materia di ambiente, pp. 384 e 428 nota 191. Sulle difficoltà di accertamento dell’offesa per l’ambiente, considerate dall’angolazione del nesso di causalità, v. anche E. SAMSON, op. cit., p. 618 s.
— 1120 — venute solamente attraverso il controllo politico. Per questa ragione, soprattutto quando la discrezionalità dell’amministrazione è funzionale all’applicazione dei parametri di tutela dell’ambiente già stabiliti in astratto nella legge (91), parrebbe opportuna l’introduzione di un reato proprio dei pubblici amministratori, finalizzato a reprimere l’inosservanza dei parametri di tutela dell’ambiente fissati dalla legge. La fattispecie incriminatrice — che, per la gravità del fatto tipizzato, andrebbe qualificata come delitto — potrebbe essere arricchita da altri indicatori di offensività, quali, la distorsione del potere discrezionale in vista del perseguimento di interessi privati e il concreto pericolo per lo specifico profilo ambientale, che la normativa disattesa mirava a tutelare; requisito, quest’ultimo, che, limitatamente all’ipotesi delittuosa in questione, è in grado di superare le riserve sopra esposte. Per quel che concerne il secondo profilo, il rischio che la formalizzazione della tutela penale conduca alla punizione di fatti tipici non offensivi potrebbe fronteggiarsi attraverso l’allestimento di un’apposita causa estintiva, comune a tutti i reati ambientali costruiti in termini di inosservanza e collegata alla ratifica del comportamento inosservante, ad opera dell’amministrazione competente ad autorizzarlo. Il riferimento va più specificatamente alla concessione dell’autorizzazione, che, prima dell’inizio dell’attività pericolosa, non è stata richiesta alla pubblica amministrazione o non è stata ottenuta da parte dell’agente. 2. Passando al grado di coerenza dell’attuale sistema sanzionatorio, i profili di interesse sembrano essenzialmente due. Anzitutto, non può farsi a meno di rilevare che le spinte, soprattutto recenti (92), verso la depenalizzazione dei reati ambientali hanno portato alla trasformazione in illeciti amministrativi di talune fattispecie, che avrebbero meritato di mantenere l’originaria rilevanza penale. Il riferimento va, esemplificativamente, all’ipotesi di effettuazione o mantenimento di uno scarico senza l’osservanza delle prescrizioni contenute nel provvedimento di autorizzazione (art. 22 l. 319 del 1976), che è stata depenalizzata ad opera dell’art. 4 d.l. 17 marzo 1995, n. 79. Invero, stante la funzione cautelare delle prescrizioni imposte dall’autorità amministrativa (che non a caso vengono considerate le più incisive modalità di intervento della pubbica amministrazione nella gestione dell’ambiente), la loro violazione lascia ragionevolmente supporre che la condotta tipica abbia un elevato grado di pericolosità per l’ambiente e vada prevenuta nel modo più efficace. (91) Sul punto v. anche M. CATENACCI, op. ult. cit., p. 144. (92) Cfr. in argomento G. CASAROLI, Il sistema sanzionatorio dei reati ambientali, dattiloscritto in corso di pubblicazione, p. 9.
— 1121 — In secondo luogo, il rapporto di subordinazione dell’intervento penalistico all’attività ‘‘compositiva’’ della pubblica amministrazione, che caratterizza i reati ambientali al livello della tipicità, sembra invertirsi ove si passi a considerare gli ambiti di discrezionalità che la legge assegna al giudice in relazione a due importanti cause estintive del reato, quali l’oblazione e la sospensione condizionale della pena. In relazione al primo istituto, la rilevanza applicativa dell’oblazione si riconnette alla natura, per lo più, contravvenzionale dei reati ambientali. In particolare, trattandosi di reati puniti solitamente con pena alternativa, il reato ambientale diventa uno dei principali campi di intervento dell’oblazione discrezionale. Ne consegue che spetterà al giudice valutare se permangono quelle conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte del contravventore, che, a norma dell’art. 162-bis, comma 3, c.p., precludono l’accoglimento della domanda di oblazione. Ebbene, com’è fin troppo evidente, il potere conferito al giudice non si esaurisce nella mera presa d’atto dell’inammissibilità della domanda di oblazione. Il riferimento legislativo all’eliminabilità di tali conseguenze da parte del reo attribuisce implicitamente al giudice un potere di indirizzo dell’attività riparativa (93), che, oltre a essere rafforzato dall’alternativa della condanna penale, risulta assai ampio e libero da vincoli, nel senso che il giudice non è tenuto a chiedere alla pubblica amministrazione direttive in tal senso. Il potere di intervento del giudice penale nella gestione dell’ambiente risulta ancora più marcato nel funzionamento della sospensione condizionale della pena, dato che l’art. 24 l. n. 319 del 1976 consente al giudice sia di subordinarne la concessione alla riparazione del danno ambientale, sia, conseguentemente, di indicare le concrete modalità di riparazione (94), senza interpellare l’autorità amministrativa (95). Così facendo, quello che, nella logica della sospensione condizionale, è un onere con funzione specialpreventiva si è progressivamente trasformato in uno strumento di intervento giudiziale nel campo delle valutazioni ‘‘compositive’’, che, al livello della tipicità, la legge di settore riserva unicamente alla pubblica amministrazione. Come noto, il fenomeno in questione si è progressivamente accentuato con la riforma dell’art. 165, comma 1, c.p. ad opera dell’art. 128 l. 24 novembre 1981, n. 689, che ha introdotto, in termini generali, la possibilità di subordinare la sospensione condizionale all’eliminazione delle (93) In termini generali, rileva questo potere di indirizzo comportamentale e l’ampiezza della discrezionalità giudiziale che lo caratterizza, A. MARTINI, Oblazione (profili sostanziali), in Dig. disc. pen., VIII, p. 423. (94) Cfr. G. AMENDOLA, op. cit., p. 168, cui si rimanda anche per ampi riferimenti giuriprudenziali. (95) Sottolinea che tale richiesta di indicazioni è una facoltà, non un dovere del giudice, Cass. pen., sez. III, 28 giugno 1991, Lo Turco, in Giust. pen., II, c. 37.
— 1122 — conseguenza dannose e pericolose del reato. Da qui, il tormentato dibattito, soprattutto giurisprudenziale (96), in merito all’applicazione di tale norma in materia urbanistica. E seppure attraverso alterne vicende, sembra tornare a prevalere oggi la tesi della subordinabilità della sospensione condizionale alla demolizione del manufatto abusivamente realizzato (97), sulla base della significativa motivazione che la demolizione svolge una funzione direttamente ripristinatoria del bene offeso (98). Del resto, l’art. 7, comma 9, l. 28 febbraio 1985, n. 47, offre ai sostenitori di tale orientamento un appiglio testuale, là dove prevede che, con la sentenza di condanna per il reato di costruzione edilizia abusiva, il giudice ordini la demolizione delle opere stesse ‘‘se ancora non sia stata altrimenti eseguita’’. L’argomento non è decisivo, dato che la riserva anzidetta si limita a conferire al giudice un potere di supplenza di fronte all’inerzia della pubblica amministrazione (99), nel senso che l’intervento del giudice è ammissibile nei soli casi in cui l’opera sia stata acquisita dal comune ed, in assenza della delibera consiliare, non sia stata demolita, ovvero quando, al riguardo, non è stato preso alcun provvedimento dall’autorità comunale (100). Nondimeno, il citato art. 7, comma 9, consente di essere letto anche nel senso che il potere d’intervento conferito al giudice sia alternativo a quello della pubblica amministrazione (101), talché l’art. 7, comma 9, non ostacolerebbe l’operatività dell’art. 165, comma 1, c.p. nella parte in cui, a sua volta, subordina il potere giudiziale di disporre l’eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose del reato alla condizione che la legge non disponga altrimenti. Ebbene, per evitare le attuali commistioni tra la ratio specialpreventiva delle prescrizioni inerenti alla sospensione condizionale e l’istanza di ripristino dello status quo, sarebbe preferibile prevedere la possibilità (se non anche la necessità) di subordinare la sospensione condizionale alle specifiche indicazioni, che il giudice penale riceve dalla pubblica amministrazione. In tal modo, rimarrebbero distinte le rispettive aree di competenza, evitando al contempo un’eccessiva discrezionalità giudiziale nella concreta individuazione degli oneri riparatori. (96) Per un quadro, v. T. PADOVANI, in M. ROMANO, G. GRASSO, T. PADOVANI, Commentario, cit., vol. III, Milano, 1994, p. 161. (97) V. Cass. pen., sez. un., 3 febbraio 1997, Luongo, in Studium iuris, 1997, p. 660, con scheda di C. BERNASCONI; nello stesso senso, v. anche: Cass. pen., sez. III, 18 maggio 1994, Amaranto, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1996, p. 1996; Id., sez. VI, 11 ottobre 1991, Palmucci, in questa Rivista, 1992, p. 1514 s., con nota di M. MONTAGNA. Contra Cass. pen., sez. IV, 24 marzo 1993, Pappacena, in Giust. pen., 1994, II, c. 78. (98) Cfr. ancora Cass. pen., sez. un., 20 ottobre 1996, cit. (99) Cfr. Cass. pen., sez. un., 10 ottobre 1987, Bruni, in Giur. it., 1988, II, c. 145. (100) Così, Cass. pen., sez. un., 10 ottobre, 1987, cit., c. 146. (101) Cfr. Cass. pen., sez. IV, 11 novembre 1991, Palmucci, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 1514.
— 1123 — Almeno quest’ultima preoccupazione sembra essere stata recepita, di recente, dall’art. 50 d.l. 5 febbraio 1997, n. 22, in materia di rifiuti, là dove si prevede che la sospensione condizionale della pena possa essere subordinata all’esecuzione di quanto stabilito nell’ordinanza del sindaco, con cui vengono disposte le operazioni necessarie al ripristino dello stato dei luoghi ovvero negli obblighi legislativi non eseguiti. FAUSTO GIUNTA Straordinario di diritto penale nell’Università di Ferrara
DEL METODO E DELLA CRISI DEL DIRITTO PENALE
SOMMARIO: 1. Del metodo: la dimensione assiologico-valutativa della norma penale. — 2. Del metodo e dell’applicazione della norma penale: le origini della crisi. — 3. Verso un nuovo metodo: premesse. — 4. Ulteriori approfondimenti, il ragionamento di tipo analogico e l’analogia iuris. — 5. L’interpretazione assiologica delle norme penali. — 6. I principi generali come punto di riferimento dell’ordinamento in crisi: verso una metaetica del diritto penale.
1. Il diritto penale come scienza non dimostrativa presuppone l’elaborazione di un linguaggio, di un apparato concettuale i cui mezzi di prova sono affidati alla logica dell’argomentazione (1). Là dove sono in gioco valori-oggetto di tutela, la ragione dimostrativa, propria della logica in senso stretto, nulla può: in uno Stato tollerante ove i valori-oggetto di tutela penale non si possono imporre con la forza o indurre con la coazione psicologica, non resta che individuare le buone ragioni che presiedono alla scelta di essi ovvero, in caso contrario, le buone ragioni per la confutazione degli stessi (pseudovalori) (2). (1) Approfondisce il tema della semantica giuridica riconducendo la stessa alla logica giuridica come comprensiva di una vera e propria teoria del linguaggio che si articola nell’ambito delle due grandi strutture (l’analogia e l’argomento a contrario): ERNST-JOACHIM LAMPE, Juristische Semantik, Berlin-Zürich, 1970, pp. 11-12. E vedi pure KARL ENGISCH, Aufgabe einer Logik und Methodik des juristischen Denkens, in Studium generale 1959, S. 80; ULRICH KLUG, Juristische Logik (3. Aufl.), Berlin-Heidelberg-New York, 1966, S. 145 ff.; RUPERT SCHREIBER, Logik des Rechts, Berlin-Göttingen-Heidelberg, 1962, S. 10 ff. E vedi anche, Trattato dell’argomentazione, a cura di PERELMAN, OLBRECHTS-TYTECA, Torino, 1989, pp. 16 e ss. Il KELSEN (Teoria generale delle norme, a cura di M.G. Losano, Torino, 1985, pp. 462463) critica tuttavia l’opinione del PERELMAN (Logique formelle, logique juridique, in Logique et Analyse, III, 1960, p. 228) perché esclude la possibilità di una logica giuridica che si possa applicare alle proposizioni descrittive dell’interpretazione e alle norme prescrittive del diritto. In buona sostanza per il Kelsen è la logica generale che viene applicata al diritto e pertanto le conclusioni tratte per similitudine (ragionamento analogico: argumentum a simile) non possono essere oggetto della logica intesa come logica formale. Al contrario il Perelman, rivalutando il ragionamento analogico, individua degli argomenti specifici di una logica giuridica — da distinguersi come logica dell’argomentazione dalla logica formale — che servono soprattutto al giudice quando deve applicare la norma giuridica al caso concreto attraverso l’argumentum a simile. In tal modo la sentenza interpreta il diritto, rimuove le incompatibilità e le contraddizioni e colma le lacune del legislatore. (2) OTA WEINBERGER, Die Sollsatzproblematik in der modernen Logik, in Rozpravy
— 1125 — Ciò posto, per l’individuazione del metodo di interpretazione (3) è necessario considerare i modi di sussunzione dei valori-oggetto nell’ambito delle norme penali. Si dovrà convenire che l’odierna tendenza della tutela penale, soprattutto in delicati settori del diritto penale dell’economia, si orienta verso la protezione di finalità sociali (momento pregnante del concetto di funzione) (4) piuttosto che verso la trasformazione di interessi sociali (Lebensgüter) in beni giuridici (Rechtsgüter) (5). Il metodo dovrà tener conto di queste differenti forme di tutela. Českoslovenké Akademie Věd, Bd 68 (1958) Heft 9, S. 82 u. ö.; vedi inoltre, PERELMAN, Trattato dell’argomentazione, cit., pp. 79-82 e ss. E vedi sul punto inoltre le considerazioni svolte alla nota 1 circa la logica dell’argomentazione. (3) Il problema del metodo di interpretazione delle norme penali — pur considerato essenziale premessa all’interpretazione delle norme giuridiche dagli studiosi degli altri rami del diritto (vedi le considerazioni di SANTORO-PASSARELLI, in Atti dei Convegni Lincei, I principi generali del diritto, Roma, 1992, pp. 9 e ss.) — non è, di regola, oggetto di autonoma trattazione nell’ambito del diritto penale: per utili riferimenti bibliografici, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, X Ed. a cura di L. Conti, 1985, p. 75; RAo MACCI, Corso di diritto penale, I , Torino, 1991, pp. 194 e ss. Sull’aspetto teleologico della scienza del diritto penale vedi in particolare, BETTIOL, Diritto penale, Padova, 1966, pp. 57-60; SABATINI, Istituzioni di diritto penale, 2a ed., Roma, 1935, vol. I, p. 56; ID., La scienza del diritto penale nel sistema delle scienze giuridiche e affini, in Principi di scienza del diritto penale, Napoli, 1918; e vedi anche sugli aspetti sistematici ed extrasistematici dei principi fondamentali del diritto penale, TARDE, La philosophie pénale, Lione, 1890; RAMACCI, Istituzioni di diritto penale, II ed., Torino, 1992, p. 147. La dottrina tedesca (ARTHUR KAUFMANN, Beiträge zur Juristischen Hermeneutik, Köln-BerlinBonn, München, 1993, p. 28) rivaluta il rapporto fra diritto naturale e diritto positivo nell’ambito dell’interpretazione delle norme giuridiche, sia pur considerando l’ontologica differenza ‘‘von Positivität und Naturrechtlichkeit oder auch aus der inneren Analogizität des Rechts im Sinne einer Entsprechung von Sollen und Sein’’. In questo contesto si analizza il rapporto fra l’analogia ‘‘und Natur der Sache’’. E si rinvia anche agli autori appena citati circa il rapporto fra diritto (ed in particolare il diritto penale) e l’etica iscritta nella natura delle cose. (4) Il problema della tutela di finalità sociali non riconducibili al concetto di bene giuridico è stato, per la prima volta, in Italia, approfondito dall’ANTOLISEI, Il problema del bene giuridico, in Scritti di diritto penale, Milano, 1955, p. 110. Sul concetto di funzione nell’ambito del diritto penale, vedi HASSEMER, Il bene giuridico nel rapporto di tensione tra Costituzione e diritto naturale, in Dei delitti e delle pene, 1984, p. 108; PADOVANI, Tutela dei beni e tutela di funzioni nella scelta fra delitto, contravvenzione e illecito amministrativo, in Cass. pen., 1987, pp. 675-676; PEDRAZZI, Interessi economici e tutela penale, in AA.VV., Bene giuridico e riforma della parte speciale, a cura di A.M. Stile, Napoli, 1985, p. 296; MOCCIA, Dalla tutela dei beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, in questa Rivista, 1995, p. 348. (5) Il concetto di bene giuridico nel momento della sua prequalificazione giuridica costituisce un ‘‘Lebensgüter’’, cioè un interesse sociale di natura individuale o collettiva. È in questo momento che l’interesse, non ancora divenuto bene oggetto di tutela penale — ‘‘Rechtsgüter’’ — mira esclusivamente a soddisfare le esigenze del titolare dell’interesse (individuale o collettivo): sul punto vedi PUGLIATTI, Beni e cose in senso giuridico, Milano, 1962, pp. 21, 23. Questa distinzione relativa al momento di prequalificazione giuridica del bene non è presa in considerazione dal PALAZZO, I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di criminalizzazione, in questa Rivista, 1992, p. 463. Una volta avvenuta la qualificazione giuridica il ‘‘Lebensgüter’’ non è più nella disponibilità dei soggetti destinatari perché
— 1126 — Altra preliminare osservazione è la seguente: il bene giuridico, contenuto espressamente o implicitamente nelle norme penali, anche quando venga assegnato ad esso il compito di referente materiale della tutela penale (bene giuridico con funzione critico-selettiva), sul piano sistematicointerpretativo, viene usato in senso teleologico: individuare il bene giuridico significa allora interpretare la norma penale secondo i suoi scopi, cioè secondo la ratio. Scopo (della norma penale) e bene giuridico sono dunque espressioni che stanno a significare la stessa cosa da due punti di vista (6). Da qui lo sforzo — non sempre convincente — della dottrina di ritagliare sul piano sistematico l’autonomia del bene o dei beni giuridici — oggetto di tutela penale — distiguendoli dai valori-fine della tutela e dalla ratio o rationes legis rinvenibili nelle norme penali (7). Esaminata la questione (della differenza) da un punto di vista intrasistematico (restando all’interno e solo all’interno del sistema penale senza sconfinare nella politica criminale o legislativa) la trasposizione teleologica del concetto di bene giuridico rende effimera la differenza fra rationes e beni giuridici ed i risultati per dimostrare il contrario non convinesso è tutelato oggettivamente dal diritto penale a prescindere dalle esigenze del titolare. Diventa cioè un dato di fatto della norma penale che può tutelare il ‘‘Lebensgüter’’ divenuto ‘‘Rechtsgüter’’, in una prospettiva in cui l’aspetto soggettivo (l’interesse) non assume alcun rilievo rispetto a ciò che rappresenta un bene per l’ordinamento giuridico. Essendo la tutela penale teleologicamente orientata alla realizzazione dei fini essenziali dell’ordinamento giuridico è agevole comprendere come l’interesse economico, ad esempio, si possa oggettivizzare con riferimento a finalità quali la corretta gestione dell’economia, la regolare percezione dei tributi, il razionale svolgimento della vita economica (v. PEDRAZZI, op. cit., p. 304; e vedi anche ROMANO, Diritto penale in materia economica, riforma del codice, abuso di finanziamenti, in AA.VV., Comportamenti economici e legislazione penale, Milano, 1979, p. 190), ove sfuma il rapporto individuo-oggetto dell’interesse perché preminente diventa il rapporto comunità-Stato oggetto dell’interesse. Insomma il concetto di bene giuridico, sul piano sistematico interpretativo, viene usato in senso teleologico, sicché scopo e bene giuridico diventano due aspetti di un’unica realtà, invece, nel momento della prequalificazione giuridica, il bene giuridico assume il compito di referente materiale della punibilità onde delimitare l’intervento penale anche tramite l’utilizzazione delle finalità della pena (vedi sul punto MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992, p. 173). Per ulteriori approfondimenti circa la concezione critica del bene giuridico come realtà preesistente alla norma penale: v. FIANDACA-MUSCO, Diritto Penale, parte generale, Bologna, 1994, p. 25. (6) Per un approfondimento di questa problematica, vedi PUGLIATTI, op. cit., p. 23; SCARANO, I rapporti di diritto penale, Milano, 1942, p. 111; ed anche STELLA, La teoria del bene giuridico ed i c.d. fatti inoffensivi conformi al tipo, in questa Rivista, 1973, p. 3. Distinguono invece i beni giuridici dalle rationes di tutela — e ciò può avvenire solo attraverso la scissione tra concezione critica e concezione sistematica del bene giuridico — HASSEMER, op. cit., p. 108; MAZZACUVA, La legislazione penale in materia economica: normativa vigente e prospettive di riforma, in questa Rivista, 1987, p. 509; SGUBBI, Il reato come rischio sociale, Bologna, 1990, p. 16. (7) MOCCIA, Dalla tutela dei beni alla tutela di funzioni..., cit., pp. 351-352. Si rinvia a questo autore anche per gli approfondimenti bibliografici sul punto.
— 1127 — cono dal momento che il bene giuridico altro non rappresenta che il concetto di scopo espresso sinteticamente (8). Scopo e bene giuridico da questo punto di vista adempiono ad una medesima funzione interpretativa, che è quella appunto di delimitare il significato del testo legislativo. Ben diversa è la prospettiva ove si operi la scissione fra concezione critica e concezione sistematica del bene giuridico (9), detta distinzione sposta la dimensione dell’analisi secondo un orizzonte che non è più intrasistematico ma extrasistematico (e cioè preesistente alla norma penale) (10). Ciò comporta l’individuazione di un corretto metodo di interpretazione e di una sua razionale giustificazione non potendosi confondere l’aspetto descrittivo della norma penale con la sua dimensione assiologico-valutativa (11). I problemi sono complessi e tutti richiamano la necessità di individuare un corretto metodo, non a priori, fondato sulla logica dell’argomentazione. L’interpretazione tradizionale delle norme penali muove da un momento centrale, l’attribuzione di significato del testo legislativo considerato, anche attraverso un’attività di interpretazione sistematica, cui resta estraneo il momento di applicazione delle norme penali. Si tratta di un’attività logico-deduttiva (12) ove la fattispecie concreta rappresenta un dato (8) Anche per riferimenti bibliografici sul punto si rinvia a STELLA, La teoria del bene giuridico ed i c.d. fatti inoffensivi conformi al tipo, cit., pp. 3 e ss. (9) HASSEMER, op. ult. cit., loc. cit. (10) La concezione critica del bene giuridico considera lo stesso come una realtà preesistente alla norma penale (v. sul punto FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, op. cit., p. 25). Il bene giuridico in funzione critica, rinvia dunque ad una dimensione extrasistematica ed assiologica della norma penale. (11) Per considerazioni di ordine generale circa l’esistenza di principi inespressi desumibili anche da giudizi di valore o assiologici nella giurisprudenza della Corte Cost.: v. VASSALLI, I principi generali del diritto nell’esperienza penalistica, in Atti dei Convegni Lincei, cit., p. 256. Il problema del metodo di interpretazione delle norme penali viene trascurato da quell’indirizzo di dottrina che pur ha preso in considerazione la struttura assiologica del sistema penale (v. MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, cit., pp. 72 e ss.). Tema di fondamentale importanza ove si rifletta che il citato autore, a proposito di un’impostazione metodologica orientata ai valori, lamenta la mancata revisione generale della dommatica e quindi la realizzazione di un nuovo sistema del diritto penale con riferimento alla funzione della pena, op. cit., pp. 77, 78 e ss. (12) Anche gli autori che affermano di voler prendere le distanze dalla concezione del bene giuridico come dato oggettivo consistente in un ‘‘esserci’’ meramente statico (MOCCIA, Dalla tutela dei beni..., cit., p. 356) finiscono, prescindendo dal metodo, con l’adottare un’interpretazione logico-deduttiva (ad es. MOCCIA, op. ult. cit., pp. 344, 356) che è in contrasto con i postulati di partenza anche quando le deduzioni si vorrebbero far derivare dalle clausole generali di livello costituzionale. Sul punto, giustamente rileva il KELSEN (Teoria generale delle norme, cit., p. 460) che il momento applicativo della norma penale non può essere prodotto solo attraverso una deduzione logica perché la norma positiva da applicare è condizionata ‘‘da un atto di volontà (del giudice), di cui essa è il senso’’. È proprio questo atto di volontà che non può essere prodotto attraverso una deduzione logica. Nella dottrina
— 1128 — marginale, periferico, punto di riferimento contingente di una qualificazione giuridica che muove dalle definizioni linguistiche dei tipi legali (13). L’interpretazione — nell’ambito di questo metodo — malgrado gli sforzi di taluni autori che pur muovono da schemi tradizionali (14), è e resta essenzialmente attività di deduzione logica volta a determinare la portata normativa di formule legislative pre-date quasi si trattasse di individuare un valore oggettivo una volta per tutte dato, e non il significato di valore che la singola norma penale acquista nel divenire della storia (15). Il riferimento alla dimensione storica dei Lebensgüter, e quindi alle premesse economiche, sociali, etiche, morali, ecc. dei beni giuridici o delle rationes, in questa concezione dell’interpretazione resta sullo sfondo, tutt’al più connotato di contorno di rationes o beni giuridici analizzati teleologicamente in termini intrasistematici e quindi con i limiti di cui già si è detto (referenti linguistici del significato del testo normativo). La teoria tradizionale dell’interpretazione mira a realizzare una conoscenza oggettiva del testo (16) ed essa è essenzialmente opera di conoscenza, mentre il momento valutativo-applicativo del singolo caso contedesca, v. SCHNEIDER, Logik für Juristen, 3.Auflage, Munchen, 1991, pp. 120, 122 e ss., si rinvia a questo autore per gli approfondimenti circa la natura dell’interpretazione analogica come componente essenziale della logica giuridica ove le conclusioni per analogia sottendono anche l’argomento ‘‘a minore ad maius’’; l’argomento a fortiori; l’argomento a maiore ad minus. (13) Circa le critiche alla teoria tradizionale dell’interpretazione, si rinvia ad ASCARELLI, In tema di interpretazione ed applicazione della legge. (Lettera al Prof. Carnelutti), in Riv. Dir. Proc., 1958, p. 16, ove il chiaro autore sostiene giustamente che l’interpretazione e applicazione della norma non sono atti separati, ma un processo unitario: significato normativo interpretato e significato applicato sono il medesimo concetto. Ciò sta alla base del concetto giurisprudenziale di diritto vivente proprio di ASCARELLI. (14) È il caso di Moccia che attraverso il concetto di interesse giuridico vorrebbe creare un sistema aperto — senza per altro indicare il metodo di interpretazione — onde evitare di creare un ordine normativo in via assiomatico-deduttiva (MOCCIA, op. ult. cit., p. 356). Sfugge a questo autore il fatto che la dimensione dell’interesse come attitudine del bene a soddisfare l’esigenza del titolare, rileva in un momento di prequalificazione giuridica del fatto, mentre nell’ambito dell’interpretazione della fattispecie penale, ciò che rileva è la nozione di bene giuridico che da un punto di vista intrasistematico non può formare oggetto di prospettive di funzioni sociali estranee alla schematizzazione linguistica. (15) Anche i giuristi che ribadiscono l’importanza fondamentale del metodo sistematico avvertono la necessità di coordinare le categorie concettuali così desunte con il mutamento dell’ordinamento giuridico. Senza sistema non si fa diritto, ma il sistema non può essere rinchiuso nell’immutabilità dei dogmi (sul punto v. FALZEA, in Atti dei Convegni Lincei, cit., pp. 9, 12 e ss.). (16) Il KELSEN (Dottrina pura del diritto, Torino, 1966, p. 385) sostiene che non esiste la possibilità di individuare un metodo attraverso il quale possa definirsi esatto uno dei molteplici significati linguistici di una norma. Sussistono vari metodi interpretativi (ad esempio quello fondato sulla espressione letterale, quello invece fondato sulla presunta volontà del legislatore) però non è possibile individuare quello esatto. È quindi inutile la ricerca di un metodo esatto nell’applicazione del diritto. Non sussiste così alcun criterio valido per stabilire quale metodo sia preferibile fra quello fondato sul ragionamento analogico e quello
— 1129 — creto rispetto all’ipotesi normativa assume un ruolo accessorio, subordinato, comunque estraneo all’attività ermeneutica (17). I modelli legali sono il risultato essenziale della schematizzazione dei tipi linguistici. Questo è il compito dell’interprete (18). L’ermeneutica, tuttavia, non può ridursi ad esplicitare il significato di una formula legislativa. Questo metodo astratto che confina il singolo fondato sull’argumentum a contrario. Eppure questi due metodi conducono a risultati opposti senza che sia possibile stabilire quale fra i due si debba preferire. Il chiaro autore evidenzia la relatività del metodo interpretativo, ma questo ancora non può significare porre sullo stesso piano di efficacia l’argumentum a contrario ed il ragionamento analogico. Attraverso il ragionamento analogico, infatti, si superano le posizioni dell’interpretazione tradizionale, secondo la quale la legge applicata al caso concreto può fornire una ed una sola soluzione interpretativa: l’unica esatta. Lo stesso Kelsen finisce con il riconoscere che l’organo che deve applicare il diritto (il giudice) non pone in essere solo una pura attività intellettuale, ricognitiva del significato della norma, ma anche un’attività di tipo volitivo, scegliendo fra le varie interpretazioni possibili, quella che diventa diritto positivo attraverso la sentenza (KELSEN, op. ult. cit., p. 384). (17) È nota la contrapposizione della teoria ascarelliana rispetto alla teoria del Kelsen in tema di attività interpretativa delle norme giuridiche. Secondo l’Ascarelli l’interpretazione delle norme non si riduce ad attribuire significato, sia pur secondo un ordine sistematico, alle disposizioni legislative, bensì invece l’attività ermeneutica riguarda anche il momento dell’applicazione delle norme. È altresì vero, però, che il KELSEN (Teoria generale delle norme, cit., loc. cit.) ammette che il giudice nel momento in cui applica la norma individuale crea nuovo diritto. Solo che per il Kelsen l’attività applicativa, rientrando nel ragionamento analogico, è dubbio che si possa collocare all’interno della logica giuridica e quindi dell’interpretazione della norma penale. Sull’evoluzione del pensiero ermeneutico ascarelliano si rinvia al lavoro del CAIANI, La filosofica dei giuristi italiani, Padova, 1955, p. 146; anche sul punto BOBBIO, L’itinerario di Tullio Ascarelli, in Studi in memoria di T. Ascarelli, I, Milano, 1969, CXII; e vedi di recente PUGIOTTO, Sindacato di costituzionalità e diritto vivente, Milano, 1994, pp. 48-49. (18) Esisterebbe cioè, secondo i presupposti metodologici della concezione giuridicopositiva dell’interpretazione del diritto, un punto di vista ‘‘esegetico-dommatico’’ che presuppone il carattere chiuso dell’ordinamento e la natura meramente dichiarativa dell’interpretazione (sul punto v. KELSEN, La dottrina pura del diritto, cit., pp. 384, 385). Accanto a questa metodologia, se ne profila un’altra — come ha ben rilevato CAIANI (I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1954, pp. 195, 199, 206) — incompatibile con la prima per differenti mezzi e tecniche di interpretazione, che valorizzando come momento intraneo dell’interpretazione l’applicazione concreta della norma conduce a riconoscere natura creativa all’ermeneutica e quindi a concepire la norma penale vivente come momento essenziale dell’interpretazione in quanto attività di adeguamento del sistema giuridico-penale ad una mutevole realtà sociale. L’interpretazione, dunque, non può essere ridotta a mera parafrasi del testo perché il modificarsi delle premesse economiche, sociali, morali comporta il modificarsi delle valutazioni giuridiche delle norme (sul punto, FERRI, Il pensiero giuridico di Tullio Ascarelli, in Studi in memoria di T. Ascarelli, I, Milano, 1969, CLII; MERONI, La teoria dell’interpretazione di Tullio Ascarelli, Milano, 1989, 5). Vedremo nel prosieguo come ciò debba avvenire senza scalfire il principio della certezza del diritto penale. Per ulteriori approfondimenti sul punto rinviamo alla dottrina germanica: MÜLLER, Strukturierende Rechtslehre, Berlin, 1984, pp. 26, 401. Questo autore nell’ambito dell’interpretazione delle norme penali evidenzia l’esigenza di individuare un Methodenehrlichkeit per una corretta interpretazione delle norme giuridiche.
— 1130 — caso concreto ai margini dell’interpretazione, non rispecchia la realtà. La discrezionalità dell’interprete non si limita a risolvere l’ambiguità della formula legislativa in un significato normativo ‘‘oggettivo’’ del tipo legale ove calare la fattispecie concreta. L’interprete opera diversamente, si misura con la realtà, con la ‘‘storia’’ del singolo caso; egli parte dal concreto dell’esperienza ed emette sia giudizi descrittivi di una realtà (normativa) pre-data, sia giudizi di valore relativi all’adeguamento della norma al divenire dei tipi variabili. Questo adeguamento avviene sempre non solo quando il testo legislativo richiami concetti extragiuridici. Si pensi alla prequalificazione giuridica del caso concreto, in questo caso, il giudizio (di valore) può evidenziare la sussistenza o meno di un disvalore (del fatto) penalmente rilevante e quindi la meritevolezza di pena (19); ovvero può riguardare — valga un altro esempio — la ricostruzione tipologica del singolo caso concreto per fissare la gravità del reato (v. art. 133 c.p.). Non è la norma (penale) astratta ma la norma applicata ciò che interessa l’interprete e cioè la determinazione dei tipi variabili da non confondere con il potere dell’interprete di creare norme (20). Il momento valutativo-applicativo è dunque intraneo all’interpretazione, esso svolge un ruolo centrale, senza il quale l’ermeneutica si identifica con un metodo logico-deduttivo astratto e sterile. Vedremo subito (19) La Corte Cost. ha affrontato questo tema a proposito dei reati di pericolo apparentemente astratto ove, facendo applicazione del principio di offensività, ha inteso individuare una soglia minima di offensività al di sotto della quale i fatti non appaiono portatori di un disvalore penalmente rilevante per la loro oggettiva esiguità, essi dunque restano fuori dalla sfera del penalmente rilevante (Corte Cost., 26 marzo 1986 n. 62, in Giur. Cost., 1986, I, p. 415; e vedi anche a proposito della divergenza tra tipicità ed offesa a causa della necessaria astrattezza della norma: Corte Cost., 11 luglio 1991 n. 333, in Giur. Cost., 1991, p. 2660). (20) Sostiene CAIANI (La filosofia dei giuristi, cit., p. 156) che ciò accade sempre non solo quando il testo legislativo fa espresso riferimento a concetti extragiuridici e ciò perché ‘‘le norme contengono riferimenti ad una tipologia di cose, atti, eventi che mutano nel tempo’’. Ogni norma penale, insomma, in quanto presuppone situazioni mutevoli della realtà sociale apre la via al momento valutativo dell’interprete. Occorre, a tal proposito, scandire vari momenti storici in cui cresce il tasso di creatività dell’attività interpretativa con la parallela abdicazione da parte del legislatore della sua funzione magistrale di risoluzione dei conflitti sociali. In questo contesto, si comprende come la creatività, e cioè la presenza di giudizi valutativi nel processo ermeneutico (adeguamento della norma al divenire dei tipi variabili), abbia sovente ceduto il posto alla creatività intesa come capacità dell’interprete di creare norme (e vedi sul punto le osservazioni di CAIANI, op. ult. cit., p. 160). Già negli anni ’60 la giurisprudenza, abbandonando l’interpretazione tradizionale, tende ad avere una funzione sempre più incisiva nelle soluzioni dei conflitti sociali. È però a partire dagli anni ’70 che i giudici — a fronte di un’imponente proliferazione legislativa (ipertrofia della legge penale), caratterizzata da lacune vistose e da ambiguità spesso volute o da un’accresciuta, necessaria, rilevanza del procedimento ermeneutico a fronte di una esasperante e generica casistica (vedi ad esempio l’art. 19, comma 1o, l. n. 194/1978, aborto volontario commesso con violazione degli artt. 5 e 8 l. cit.) — privilegiano gli interventi di tipo valutativo a fronte di testi legislativi carenti sotto il profilo della tipicità della condotta vietata.
— 1131 — perché questo metodo — dati determinati presupposti — non può identificarsi con quello analogico-circolare (21), prima, però, dobbiamo render conto di alcune obiezioni di fondo al metodo di interpretazione tradizionale. L’interpretazione tradizionale (22), come abbiamo appena precisato, enfatizza la conoscenza dei tipi legali a scapito del momento valutativo dell’applicazione della norma penale. Ma già seguendo gli schemi tradizionali ci troviamo di fronte alla seguente difficoltà: in taluni casi i vocaboli usati nelle formule legislative non possono essere definiti dalla legge (penale o extrapenale) o da altra norma giuridica (elementi normativi, nozioni generiche ma determinabili, norme in bianco, lacune ideologiche (23), ecc.). In questi casi si riconosce all’interprete un potere discrezionale, di concretizzazione della norma penale da applicare, ove la sua attività va ben al di là dell’attribuzione di significato della formula legislativa considerata. Attraverso l’applicazione, la norma penale assume il significato che il caso concreto le conferisce e ciò avviene attraverso la valutazione da parte dell’interprete di dati extrasistematici: senza questa valutazione la norma penale non diverrebbe testo. Il momento applicativo-valutativo, dunque, non è esterno, ma interno all’attività ermeneutica ed è uno dei momenti centrali senza il quale la norma penale non è (24). Ecco una prima conclusione: la norma penale, anche muovendo da (21) Ritiene che il procedimento interpretativo delle norme penali abbia carattere analogico-circolare senza però porsi il problema del metodo: PALAZZO, Orientamenti dottrinali ed effettività giurisprudenziale del principio di determinatezza-tassatività in materia penale, in questa Rivista, 1991, p. 333. (22) In materia penale si segnalano per i riferimenti bibliografici della dottrina meno recente, GABRIELI-DOLCE, voce Diritto penale (diritto vigente), in Noviss. Dig. it., V, Torino, 1964. Per la bibliografia più recente vedi ZACCARIA, L’arte dell’interpretazione, Padova, 1990, pp. 175 e ss.; CORDERO, Legalità penale, in Enc. Giur. Treccani, XVII, Roma, 1990, pp. 2 e ss.. Per la manualistica FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., pp. 102 e ss.. Nell’ambito della teoria generale si rinvia a TARELLO, Frammenti di una teoria dell’intepretazione, in Problemi di teoria del diritto, a cura di R. Guastini, Bologna, 1980, p. 281; N. BOBBIO, op. cit., CXXVI; CAIANI, La filosofia dei giuristi, cit., p. 156; MERONI, La teoria dell’interpretazione, cit., p. 169. (23) Sulla categoria delle lacune ideologiche in materia penale ci permettiamo rinviare al nostro lavoro: PANAGIA, Alcuni problemi di interpretazione della legge penale in relazione ad una recente giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Funzioni e limiti del diritto penale. Alternative di tutela, a cura di M. De Acutis-G. Palombarini, Padova, 1984, pp. 307-338. (24) Sostiene l’Ascarelli che il significato normativo interpretato e il significato applicato non sono atti separati, ma due aspetti di un medesimo processo unitario sicché è il criterio dell’interpretazione-applicazione prevalente che permette di individuare la norma vigente (T. ASCARELLI, In tema di interpretazione, cit., p. 16). E vedi però le critiche che a siffatto indirizzo muovono: TEDESCHI, L’insufficienza della norma e la fedeltà dell’interprete. (Riflessioni sul pensiero di T. Ascarelli), in Riv. dir. civ., 1962, I, p. 550, MERONI, La teoria dell’interpretazione, cit., p. 291.
— 1132 — schemi tradizionali, non ha un valore oggettivo (25), ma il valore che il fatto storico le conferisce attraverso l’applicazione dell’interprete. Di più, la norma penale può acquistare dei significati nuovi passando al vaglio dell’interprete, e ciò avviene solo attraverso l’applicazione e la valutazione del caso concreto. Si pensi a talune fattispecie di osceno che, con il mutare dei riferimenti eterointegrativi di natura etico-sociale (v. artt. 527, 529, comma 1o, 726 c.p.), la prassi giudiziaria non ha più ritenuto meritevoli di pena, ferma restando la medesima formula legislativa che qualche tempo prima ne aveva consentito la punizione (26). 2. L’interpretazione come attività di deduzione logica rischia di ridursi, attraverso il criterio dei tipi legali, ad una mera parafrasi del testo e subisce una crisi profonda quando il principio di determinatezza-tassatività dimostri la sua insufficienza nel realizzare un’interpretazione oggettiva ed univoca del testo normativo (27). La determinazione dei quadri linguistici più appropriati che, secondo un’opinione di recente ribadita (28), dovrebbe costituire il compito precipuo dell’ermeneutica, l’antemurale alla ‘‘prepotenza dei fatti storici’’, non riesce a soddisfare le esigenze della prassi giudiziaria. (25) Il CAIANI, La filosofia dei giuristi italiani, cit., pp. 156-159, riconosce ad Ascarelli il merito di aver dimostrato essere un paralogismo il carattere oggettivo e scientifico dell’interpretazione giuridica, essendo invece decisive, nel momento dell’interpretazione-applicazione, le valutazioni dell’interprete. Sul punto, nell’ambito delle norme penali, valorizza l’aspetto valutativo BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, Milano, 1965. E vedi anche le considerazioni generali di PETTOELLO-MANTOVANI, Il valore problematico della scienza penalistica. 1961-1983 contro dogmi ed empirismi, Milano, 1983, Ed. 2a, pp. 13 e ss. (26) È il caso del ‘‘topless’’ che negli anni ’70 veniva punito riconducendolo o nell’ambito dell’art. 527 c.p. o nell’ambito dell’art. 726 c.p. (v. Cass. pen., 4 luglio 1978, in Cass. pen. Mass., 1980, p. 1514). Negli anni ’80 e seguenti, invece, la Cassazione e la giurisprudenza di merito hanno finito con il considerare lecito il cosiddetto ‘‘topless’’ almeno in determinate circostanze di tempo e luogo (v. sul punto Cass. pen. 4 ottobre 1982, in Cass. pen., 1983, p. 1962). È altresì da precisare che parte della giurisprudenza di merito, sia pur per finalità naturistica e ove sia realizzato in determinate condizioni di tempo e di luogo, ha ritenuto lecito il nudo integrale maschile e femminile (Pretura Ancona 2 maggio 1979, in Foro It., 1980, II, p. 320; Pretura Roma 12 luglio 1985, in Cass. pen., 1985, p. 2129) che invece la giurisprudenza della Cassasione, almeno fino al momento in cui scriviamo, ritiene costituire un comportamento penalmente rilevante (Cass. pen., 12 luglio 1982, in Mass. Uff., 1982, m. 156228; Cass. pen. 22 settembre 1982, in Foro it., 1983, II, p. 273). (27) Per l’approfondimento di questi concetti rinviamo alla nota 16. Sul principio di determinatezza rinviamo a BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, cit.; ID., Legalità e crisi: l’articolo 25, commi 2o e 3o, della Costituzione rivisitato alla fine degli anni ’70, in Quest. crim., 1980, p. 179. Per un’opera di ampio respiro sistematico vedi anche RONCO, Il principio di tipicità della fattispecie penale nell’ordinamento vigente, Torino, 1979; PALAZZO, Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova, 1979. Per una diversa concezione circa il principio di determinatezza-tassatività considerato con specifico riferimento alla pena e alle sue finalità, v. MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, cit., p. 122. (28) PALAZZO, Orientamenti dottrinali, cit., p. 336.
— 1133 — La terminologia della legge penale — soprattutto del nostro tempo — non è rigorosa e non sempre può fornire una base oggettiva per la determinazione dei concetti e ciò senza intaccare — essendo i termini non rigorosi ma determinabili — il principio di determinatezza-tassatività. Ancora, il testo legislativo si presta sovente, sul piano dell’astrazione-deduzione, ad infinite interpretazioni suggerite dalla polivalenza delle espressioni (si pensi al concetto di patrimonio (29)), dai singoli incisi (tanto si è discusso sulla nozione di misura rilevante dell’alterazione in tema di frode fiscale ai sensi dell’art. 4, comma 1o, n. 7, l. n. 516/82 (30); sul concetto di modica quantità di cui all’art. 80 l. n. 685/1975 prima delle modifiche legislative e del referendum del 18 Aprile 1993), dal contesto globale (31) (il con(29) Sul concetto di patrimonio e sul contrasto che sussiste circa la sua definizione nell’ambito della scienza penalistica (e lo stesso dicasi per le nozioni di proprietà, possesso, detenzione, profitto, danno): vedi SGUBBI, Tutela penale del patrimonio, in AA.VV., Materiali per una riforma del sistema penale, Roma, 1984, p. 280; e vedi anche PECORELLA, voce Patrimonio (delitti contro il), in Noviss. Dig. it., Torino, XII, 1965, p. 632 e vedi anche MOCCIA, op. ult. cit., pp. 255 e ss. (30) A tal proposito la Corte di Cassazione (Cass. pen., sez. III, 12 febbraio 1988, in Corr. Trib., 1988, n. 14) aveva dichiarato non manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3 e 25, comma 2o, Cost., l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1o, n. 7, l. n. 516/1982. La Corte Cost. pronunziandosi sul punto (Corte Cost. n. 247 del 1989, in Cass. pen., 1989, p. 1652, n. 1380) aveva però escluso l’illegittimità costituzionale della norma, ritenendo che l’inciso sopra considerato assume compiuto significato attraverso il confronto sistematico con le altre ipotesi di frode fiscale di cui all’art. 4, comma 1o, D.L. n. 429/1982 e con le ipotesi contravvenzionali previste dall’art. 1, comma 2o, stesso decreto legge. Malgrado questa prima pronunzia della Corte Cost., l’inciso della misura rilevante dell’alterazione, analizzato in chiave sistematica con riferimento ai due termini di simulazione e dissimulazione, aveva dato luogo ad indirizzi difformi nell’ambito della giurisprudenza della Corte di Cassazione: ad una prima pronuncia delle Sezioni Unite Penali 6 luglio 1990, in Cass. pen., 1991, p. 45, n. 10, aveva fatto seguito una seconda pronuncia delle Sezioni Unite (in data 23 novembre 1990 n. 16768, in Cass. Pen., 1991, p. 546, n. 470), fino alla sentenza n. 35 del 28 gennaio 1991 con la quale il giudice delle leggi aveva finalmente statuito che per l’ipotesi delittuosa de qua occorreva che l’autore utilizzasse documenti attestanti fatti materiali non corrispondenti al vero. E vedi oggi sul punto l’art. 4 così come modificato alla lettera f) dall’art. 6 D.L. 16 marzo 1991 n. 83, convertito con modifiche nella l. 1991 n. 154. (31) La nozione di utilità nell’ambito dell’art. 317 c.p. è assai controversa sia in dottrina che in giurisprudenza. (In dottrina, esclude dalla nozione di utilità le prestazioni sessuali: MONACO, Il concetto di utilità e la prestazione sessuale, in questa Rivista, 1980, p. 923; contra TURNATURI, Sulla rilevanza delle ‘‘prestazioni sessuali’’ in rapporto al delitto di concussione, in Arch. pen., 1969, II, p. 194). Attraverso il riferimento al contesto globale in cui si inserisce la nozione la giurisprudenza ritiene che debba trattarsi pur sempre di un vantaggio economico o personale. In tal senso v. Sez. Un. 11 maggio 1993, in Cass. pen., 1993, p. 2252, che ha ritenuto che il termine utilità debba comprendere sia un dare che un ‘‘facere’’ ritenuto rilevante dalla consuetudine o dal convincimento comune come appunto i favori sessuali. Per un’opinione diversa che tende ad escludere dal concetto di utilità le prestazioni sessuali, v. Cass. pen., 15 gennaio 1988, in Riv. pen., 1989, p. 104, ed ancora Cass. pen., 28 gennaio 1976, in Cass. pen. Mass., 1977, p. 822. Secondo questa giurisprudenza il concetto di utilità, analizzato nel contesto globale dell’art. 317, non può non coincidere con un inte-
— 1134 — cetto di utilità ex art. 317 c.p.), dai parallelismi delle parole (es. i termini osceno e indecente di cui agli artt. 529 e 726 c.p.) che favoriscono le scissioni necessarie all’interprete per attribuire il ‘‘suo’’ significato, secondo la personale cultura, al testo letterale. Il metodo deduttivo (32), fondato sul criterio astratto dei tipi legali, lungi dal realizzare il carattere oggettivo dell’ermeneutica, si presta alle personali valutazioni dell’interprete. Anche muovendo dal punto di vista tradizionale, si deve dunque convenire sulla funzione creatrice dell’interpretazione, questa creatività è propria della natura e non del metodo (tecnica) dell’ermeneutica giuridica (33). Il problema si pone dunque in termini di limiti; l’interpretazione — qualunque sia il metodo — in nessun caso può realizzare un vulnus alla certezza del diritto penale (34). I sostenitori del tradizionale metodo logico-deduttivo, tenuto conto delle osservazioni testé enunciate, rischiano di trovarsi di fronte le stesse obiezioni che essi muovono al metodo adottato dalla dottrina del diritto vivente. E v’è di più, mentre il diritto vivente, ponendo un limite all’interpretazione della norma penale nella continuità dei precedenti giudiziari (35), sembra rivolgere la sua attenzione alla varietà dei fatti storici resse giuridicamente valutabile, per queste ragioni le prestazioni sessuali, pur rappresentando un vantaggio personale per l’agente, non costituiscono l’oggetto di un interesse giuridico o giuridicamente valutabile. (32) Per una puntuale critica al metodo di interpretazione fondato sulle deduzioni e per una valorizzazione dell’analogia come ragionamento giuridico, v. ZACCARIA, Analogia come ragionamento giuridico, in questa Rivista, 1989, n. 4, pp. 1535 e ss. (33) La graduale rivalutazione della funzione creatrice dell’interpretazione ha seguito un andamento parallelo all’accentuazione dell’origine extrasistematica dei principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato (v. art. 12 D.G.). Il BETTI (Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1949, p. 52) ha così potuto sostenere la tesi della funzione eterointegrativa dei principi generali, attribuendo loro una forza di espansione non meramente logica ma assiologica, tale da trascendere il mero diritto positivo. Questa posizione, critica rispetto al dogma positivistico, è stata inoltre ulteriormente approfondita dal BARATTA, Note in tema di analogia giuridica, sta in Studi in onore di E. Betti, Milano, 1961, p. 17; e vedi anche dello stesso autore, Antinomie giuridiche e conflitti di coscienza, Milano, 1963, pp. 70 e ss. Non vi è dubbio che la rivalutazione dell’interpretazione, nel suo aspetto creativo, cioè di concretizzazione della norma penale e quindi la riscoperta della connessione fra attività ermeneutica e principi generali del diritto, nasce dall’insufficienza della tecnica giuridica quale metodo istituzionale per la risoluzione dei conflitti sociali. (34) NUVOLONE, voce Pena (diritto penale), in Enc. dir., XXXII, 1982, pp. 790-791; VASSALLI, Nullum crimen sine lege, in Noviss. Dig. it., Appendice, V, Torino, 1984, p. 294. Circa le considerazioni critiche sul criterio di continuità ascarelliano che non si armonizerebbe con il valore della certezza del diritto, TEDESCHI, L’insufficienza..., cit., pp. 501-550. E vedi anche BOBBIO, L’itinerario, cit., CXXVII. (35) Il criterio della continuità ascarelliano non può essere un criterio legibus solutus, sicché la creazione dell’interprete è vincolata dalla sua continuità con il dato normativo dal quale prende le mosse: v. ASCARELLI, Antigone e Porzia, in Studi in memoria di F. Vassalli, I, Torino, 1960, p. 116. Per una critica a siffatto criterio e per il suo contrasto con il
— 1135 — più consona al momento valutativo-applicativo dell’interpretazione; l’interpretazione tradizionale, invece, enfatizzando l’astrazione del tipo legale, con metodo logico-deduttivo, vorrebbe costringere i ‘‘tipi’’, attraverso il criterio di determinatezza-tassatività, entro la cittadella dei quadri linguistici più appropriati (che la dottrina definisce ‘‘nei suoi laboratori’’) (36). In questa concezione, il contatto con il divenire della storia che la norma penale reclama sembra assumere un ruolo periferico, si colloca in ultima analisi più che nell’ambito dell’interpretazione della legge penale nell’ambito della politica legislativa cioè del futuro legislatore. Malgrado autorevole dottrina abbia escluso che il criterio di continuità ascarelliano rappresenti un vulnus alla certezza del diritto (37) perché conforme a Costituzione (v. art. 101, comma 2o, Cost.), particolari problemi sorgono nell’ambito dell’interpretazione delle norme penali: ivi, l’attività dell’interprete non può considerarsi legibus soluta, essa invece è attività prescrittiva, deontica, non potendosi applicare le leggi penali oltre i casi e i tempi in esse considerati (art. 14 preleggi): esclusione dell’analogia per le norme penali (incriminatrici). Questo aspetto prescrittivo dell’interpretazione penale, se non rettamente inteso attraverso la precisazione del metodo, non riesce, a nostro avviso, a garantire la compatibilità del criterio della creatività nella continuità con il principio della certezza del diritto (nullum crimen sine lege, nulla poena sine lege). Incompatibile con detto principio in particolare a noi sembra il metodo di interpretazione inteso in senso analogico-circolare ove presupponga la predeterminazione dei quadri linguistici più appropriati (38). Ed è singolare, a tal proposito, che un autore, di recente, pur muovendo non poche critiche al criterio del diritto vivente, a proposito della svalutazione del principio di determinatezza-tassatività da parte sia del giudice delle leggi sia dei giudici di merito (39), convenga però con la dottrina del diritto penale vivente sulla natura analogico-circolare dell’interpretazione penale. Afferma questa dottrina che il metodo di interpretazione, sia pur ancorato ai tipi legali, ha carattere analogico-circolare nel senso che il fatto storico viene ricondotto nell’ambito della fattispecie legale mediante un reciproco confronto valutativo (40). Questo schema valore della certezza del diritto, v. per tutti, TEDESCHI, op. cit., loc. cit. Sul problema della continuità nelle sue diverse accezioni (ivi compresa quella ascarelliana), v. TARELLO, L’autonomia dell’interprete, in Riv. Internaz. Fil. Dir., 1965, p. 159. (36) È questa l’opinione testuale di PALAZZO, Orientamenti dottrinali..., cit., p. 336. (37) TORRENTE, Il giudice e il diritto, in Studi in memoria di T. Ascarelli, IV, Milano, 1969, p. 2313. Questo autore espressamente afferma che la concezione ascarelliana non rappresenta un vulnus alla certezza del diritto, perché il limite della creatività nella continuità non è estraneo alla portata normativa dell’art. 101, comma 2o, Cost. (38) PALAZZO, op. ult. cit., p. 333. (39) PALAZZO, op. ult. cit., pp. 336, 338, 340 e ss. (40) ZACCARIA, op. loc. cit.
— 1136 — logico-valutativo è proprio anche della giurisprudenza di merito anche se questa nel trascorrere dalla fattispecie astratta al fatto storico e viceversa (circolarità) finisce con il cedere alla prepotenza dei fatti storici (41). Si lamenta, in sostanza, che il criterio dei tipi legali inteso come ‘‘sintesi unitaria di un disvalore omogeneo e costituente nella sua elastica identità il riferimento del procedimento interpretativo’’ viene svilito dal criterio del diritto vivente a tutto vantaggio del fatto storico rispetto alla fattispecie astratta (42). A ben vedere il metodo di interpretazione, secondo questo autore, rientra nel ragionamento analogico (43): ebbene il procedimento analogico-circolare comporta sempre una sussunzione che, per quanto elastica possa essere la circolarità, è pur sempre vincolata — secondo questa dottrina — dalla formula legislativa predeterminata che, nell’ambito del diritto penale, non può consentire (momento prescrittivo) l’estensione analogica della norma incriminatrice espressa al caso concreto non espresso ma simile. Il metodo analogico-circolare, ove presupponga l’astratta predeterminazione dei quadri linguistici più appropriati, limita la creatività dell’interprete con il divieto di estensione analogica ed allora non è un elemento di novità dell’interpretazione (delle norme penali: v. art. 14 preleggi) ovvero, l’attività analogico-circolare, senza un diverso fondamento prescrittivo del metodo interpretativo, cedendo alla varietà dei fatti storici, rischia di identificarsi con il diritto libero o con la giurisprudenza sociologica che, nell’ambito del diritto penale, non possono conciliarsi con il principio della certezza del diritto (44). La definizione dell’interpretazione penale come procedimento analogico-circolare, in particolare ove abbia come premessa maggiore la definizione dei tipi legali più appropriati, si fonda sulla scissione fra fattispecie astratta (tipo legale) e fattispecie concreta (fatto storico). Detta premessa è inaccettabile perché postula un’antitesi tra interpretazione giurisprudenziale (intesa come interpretazione preferibilmente orientata al fatto storico) ed interpretazione dottrinale (intesa come interpretazione preferibil(41) PALAZZO, op. cit., p. 337. (42) PALAZZO, op. cit., p. 336. (43) Il ragionamento analogico come ragionamento giuridico caratterizza il metodo di interpretazione in quanto volto a porre in corrispondenza l’enunciato giuridico con il caso simile non espressamente previsto. Dal punto di vista della teoria generale del diritto, il ragionamento in senso analogico evidenzia la necessità di ricorrere alla metodica analogica come strumento di interpretazione giuridica e di integrazione del diritto. Il procedimento analogico, quale procedimento di ricerca del diritto, viene distinto dall’argomento analogico, quale argomento produttivo di norme nuove che devono colmare le lacune presenti nella legge. Mentre nel primo caso una norma particolare esiste e si opera l’extensio al caso simile non previsto, nel secondo caso non esiste alcuna norma particolare e viene creata appunto attraverso l’argomento analogico. Per l’ampia bibliografia sul punto si rinvia a VASSALLI, voce Analogia nel diritto penale, in Dig. disc. pen., I, Torino, 1987, p. 159. Nella dottrina germanica vedi sul punto SCHNEIDER, op. cit., MÜLLER, op. cit. (44) Sul punto v. NUVOLONE, op. loc. cit.
— 1137 — mente orientata al fatto ipotizzato) quasi si trattasse di due entità diverse e non di due aspetti di un’unica realtà: l’interpretazione delle norme penali. Le conseguenze sono evidenti: mentre l’interpretazione dottrinale opererebbe attraverso il criterio dei tipi legali ‘‘contribuendo alla determinazione dei quadri linguistici più appropriati al riparo della prepotente invadenza dei fatti storici nel chiuso dei suoi laboratori’’, la giurisprudenza invece si piegherebbe all’invadenza della storia (45). Ora, mentre già si sono indicate le ragioni che dimostrano come il carattere oggettivo e scientifico dell’interpretazione dottrinale sia un mito (46), risulta altresì evidente che scopo precipuo dell’interpretazione (giurisprudenziale e non) è la determinazione dei tipi variabili (47) e non di un tipo astratto. Questa dottrina, inoltre, malgrado le apparenze, sembra distinguere fra interpretazione ed applicazione delle norme penali quasi che il momento applicativo fosse un momento marginale o estraneo e non, per le ragioni a suo tempo indicate, il momento centrale, intraneo, dell’interpretazione (48). È la norma penale vivente e non l’ipotesi normativa che interessa l’interprete. La crisi del diritto penale è stata aggravata anche dai diversi piani di operatività che, dialetticamente, dottrina e giurisprudenza si sono assegnati, giungendo in taluni casi ad una situazione di incomunicabilità che mentre ha trascurato il problema del metodo e dei suoi limiti, ha sancito la crisi del sistema. In sostanza la dottrina rimprovera alla giurisprudenza di essersi affrancata — con ciò svilendo il compito dell’intepretazione dottrinale — dal limite dei tipi legali in nome di esigenze di effettività e concretezza dell’ordinamento giuridico-penale (49). 3. L’interpretazione consiste, per sua natura, in asserti fattuali riguardanti l’identificazione della norma penale da applicare (es. l’impossessamento della cosa comune mediante sottrazione a chi la detiene è reato punibile a querela, ai sensi dell’art. 627 c.p., purché, trattandosi di cose fungibili, il valore di esse ecceda la quota spettante all’autore) ed an(45) PALAZZO, op. loc. ult. cit. (46) Afferma il KELSEN (La dottrina pura del diritto, op. cit., p. 389) che ‘‘nessun vantaggio politico può derivare dalla finzione della univocità delle norme giuridiche..., proclamando come unica interpretazione esatta, da un punto di vista oggettivamente scientifico, un’interpretazione che, da un punto di vista politico-soggettivo, è preferibile ad un’altra interpretazione egualmente possibile dal punto di vista logico. In questo modo si presenta falsamente come verità scientifica ciò che è soltanto un giudizio di valore politico’’. (47) Sul punto si rinvia alla nota 20. (48) Valorizza il momento dell’applicazione concreta del diritto come momento intraneo all’attività ermeneutica, ASCARELLI, In tema di interpretazione, cit., p. 16 e vedi inoltre la nota 20. (49) PALAZZO, op. cit., p. 336.
— 1138 — cora in asserti valutativi riguardanti la concretizzazione-applicazione della norma penale (50). Il corretto inserimento degli elementi della norma penale (lo scopo, il bene giuridico, ecc.) nell’uno o nell’altro schema interpretativo discende dalla correttezza del metodo che regge l’attività ermeneutica. Si tratta in sostanza di un metodo complesso ove accanto a giudizi descrittivi che forniscono (all’interprete) informazioni su questioni di fatto (l’identificazione della norma penale) — ove il bene giuridico o la ratio adempiono ad una funzione interpretativa esclusiva (Analogieverbot) o estensiva rispetto al caso considerato — sussistono giudizi valutativi che, a differenza dei primi, sia pur su un fondamento prescrittivo e deontico (es. art. 12 ultima parte D.G.), rinviano anche ad una dimensione extrasistematica e cioè assiologica e valutativa della norma penale (51). Il fondamento deontico, per quest’ultimo aspetto, dovrebbe garantire, con rilevante grado di verosimiglianza, che nel momento di concretizzazione-applicazione della norma penale l’apprezzamento dell’interprete coincida con l’apprezzamento dell’ordinamento giuridico-penale (52). Per quanto riguarda i primi asserti, quelli fattuali, la norma penale si presenta come un dato di fatto che l’interprete individua, così come individua l’oggettività giuridica tutelata o la ratio. In buona sostanza, sia i beni giuridici, sia le rationes, di regola, non sono un parametro di riferimento esterno all’interpretazione delle norme penali, costituiscono invece (50) Il tema trova un fugace accenno, a proposito dell’art. 133 del c.p., in DOLCINI, L’art. 133 c.p. al vaglio del movimento internazionale di riforma, in questa Rivista, 1990, pp. 399-401. Esprime l’esigenza che, a proposito dell’art. 133 c.p., l’interprete riviva il singolo fatto nella sua dimensione di valore, RAMACCI, Istituzioni di diritto penale, cit., p. 108. Questo autore pur evidenziando l’impossibile identità dei casi concreti (op. cit., p. 106) che non consente di preporre la regola di giustizia formale al divenire della storia e cioè il modello ai fatti futuri, non pone però l’accento sulla conseguente necessità che il momento applicativo costituisca il momento centrale dell’interpretazione delle norme penali: noi riteniamo che non si possa giustificare, nel sistema penale, la scissione fra regola formale (giustizia formale) e regola sostanziale (giustizia sostanziale): regola e regolato fanno parte di un’unica realtà, quella della norma penale vivente. (51) Il Vassalli nel lambire il tema dei rapporti fra i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato di cui alle preleggi ed i principi propri del sistema penale riconduce fra i primi, con dignità di principi assiologici oltre che giuridici, l’eguaglianza, la pari dignità, il dovere di osservanza delle leggi: v. VASSALLI, Atti dei Convegni Lincei, cit., p. 257; BETTIOL, Bene giuridico e reato, in Scritti giuridici, 1966, I, p. 328; ID., Sistema e valori del diritto penale, in Scritti giuridici, cit., I, p. 501; MORO, L’antigiuridicità penale, 1947, p. 55, nota 72. Circa poi la formulazione della norma riflettente atteggiamenti di pensiero valutante fra bene tutelato ed interessi contrapposti: PULITANÒ, La formulazione della fattispecie di reato: oggetti e tecniche, in AA.VV., Beni e tecniche della tutela penale, 1987, p. 33. (52) Pur accogliendo la distinzione fra principi generali espressi ed inespressi, riteniamo con autorevole dottrina (VASSALLI, op. ult. cit., p. 256) che detti principi siano pur sempre desumibili attraverso il tradizionale metodo analogico consistente in progressive astrazioni da norme particolari o attraverso giudizi di valore o assiologici, ovvero attraverso principi ormai unanimemente acquisiti.
— 1139 — a loro volta, pur nella dimensione teleologica della norma penale (53), dati normativi interni come tali soggetti anch’essi alle regole ermeneutiche. Il significato dei beni giuridici (espressi o impliciti), delle rationes (espresse o implicite) può estendersi, ma non oltre limiti razionali intrasistematici (54), non costituendo di regola elementi normativi della fattispecie. L’interpretazione teleologica, fondata sul bene giuridico o sulla ratio, solo apparentemente appartiene alla categoria degli asserti valutativi; nella realtà delle cose non si dà bene giuridico o ratio in chiave sistematica che (53) Il MOCCIA (Il diritto penale..., cit., p. 30), approfondisce l’aspetto teleologico della norma penale ‘‘in una prospettiva ordinamentale di stato sociale di diritto che non trae fondamento da ipostatizzazioni di tipo extragiuridico’’ e coerentemente con le premesse vede nella concezione retributiva della pena ‘‘la tipica espressione di una fondazione irrazionale del diritto e dello Stato’’. Quest’indirizzo teorico presuppone l’effettiva esistenza di uno Stato sociale. Circa la crisi dello stato sociale, l’ipertrofia della legge (anche penale), la crisi della certezza del diritto ed il rischio di soluzioni di tipo totalitario: v. per tutti CORSALE, La certezza del diritto, Milano, 1970, pp. 228, 233, 237 e ss. (54) Per queste ragioni non si può accogliere la tesi esposta dal MOCCIA (v. Dalla tutela dei beni..., cit., p. 346) secondo il quale la categoria del bene giuridico segue o segna l’evoluzione della realtà sociale. Afferma questo autore: ‘‘che la funzione del bene non si esaurisce in un ‘esserci’ meramente statico....’’, ma attraverso il concetto di interesse si apre a quelle ‘‘prospettive di funzione sociale che passano attraverso la relazione individuo-oggetto dell’interesse’’. Questa impostazione — afferma il predetto autore — ‘‘non postula un’idea sistematica di valore assolutamente pre-data, in base alla quale ricostruire un ordine normativo in via assiomatico-deduttiva’’. Si vorrebbe configurare un sistema aperto che sia cioè capace di adattarsi alle concrete contingenze della tutela penale, tenendo effettivamente presente la realtà in cui la norma penale vive. A parte la fragilità del criterio dell’interesse quale criterio dinamico di adattamento della norma penale all’evoluzione della realtà sociale (e sul punto rinviamo alla nota 5) v’è da rilevare ulteriormente che l’autore pur avvertendo il problema non indica il metodo da seguire nell’interpretazione delle norme penali, limitandosi ad affermare che: ‘‘le valutazioni ordinamentali non sono, dunque, cristallizzate in un modulo normativo immodificabile, ma attraverso le clausole generali, di livello costituzionale, della difesa dei diritti fondamentali, è possibile un loro adeguamento all’evoluzione dei rapporti sociali’’. È evidente poi che in questa costruzione teorica il tema dei principi generali che possono avere anche natura extrasistematica (giudizi di valore o assiologici), pur da tempo affrontato dalla dottrina più autorevole, (v. VASSALLI, op. ult. cit., loc. cit.; TORRENTE, Il giudice e il diritto, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., XVI, 1962, pp. 1261-73), resta estraneo al tema dell’indagine. Si è sostenuto però da tempo (TORRENTE, op. cit. loc. cit.) il valore creativo della giurisprudenza attraverso un elenco di principi generali del diritto, anche di natura extrasistematica (sul punto v. specificamente BOBBIO, Principi generali di diritto, in Nov. Dig. it., Torino, XIII, 1966, p. 896) imposti dall’autorità di decisioni giudiziarie conformi. Si è affermato ancora (v. PUIG PEÑA, Los principios generales del derecho como fuente normativa de la decisión judiciál, (Revista de derecho privado, XL, 1956, pp. 1047-65) che compito della Corte di Cassazione non sarebbe soltanto quello di stabilire un’orientamento nell’interpretazione della legge ma anche di precisare e concretare i principi generali del diritto. E vedi per ulteriori approfondimenti nella dottrina italiana: Atti dei Convegni Lincei, I principi generali del diritto, cit.; nella dottrina tedesca: SCHNEIDER, Logik für Juristen, op. cit; NEUNER, Die Rechtsfindung contra legem, München, 1992; MAYER (HEINZ), Die Interpretationstheorie der Reinen Rechtslehre in Schwerpunkte d. Reinen Rechtslehre, 1992, S. 61-70.
— 1140 — non sia già nel sistema, rinvenibile tra i dati oggettivi dello stesso attraverso un giudizio di fatto ricognitivo del disvalore della norma penale. Il disvalore o è rinvenibile nella norma penale con la correlativa offesa ovvero non è rinvenibile com’è dato riscontrare negli illeciti penali di mera trasgressione (55). La dimensione teleologica della norma penale, in una prospettiva intrasistematica, non autorizza la conclusione di recente dottrina che la tutela di funzioni è in ogni caso una tutela di beni giuridici (56). Si tratta invece di riconoscere che alcune norme penali (si pensi (55) Non è condivisibile l’opinione di chi (PADOVANI, Il problema del bene giuridico e la scelta delle sanzioni, in Dei delitti e delle pene, 1984, p. 119; ID., Tutela dei beni e tutela di funzioni, cit., pp. 675-676) sullo sfondo della tutela di funzioni pone pur sempre il bene giuridico in un ruolo di centralità. Ciò è sostenibile solo da un punto di vista extrasistematico, invece da un punto di vista intrasistematico la funzione non può essere strumentalmente posta in relazione al concetto di bene giuridico ed alla correlativa offesa. E ciò perché o la funzione amministrativa costituisce di per sé il bene (immateriale) oggetto della tutela penale e allora la strumentalità è possibile stabilirla, ad esempio, con riferimento alla progressione criminosa fra beni giuridici di diverso rango, ma appartenenti allo stesso sistema penale (ad esempio, il corretto esercizio della funzione di indagine giurisdizionale di cui all’art. 371-bis rispetto al corretto accertamento della verità da parte dell’autorità giudiziaria di cui all’art. 372 c.p.) ovvero, sempre da un punto di vista intrasistematico, la tutela della funzione amministrativa si può dire strumentale alla tutela penale di un bene solo in un senso distorto e del tutto inaccettabile perché attraverso la tutela della funzione si vuole surrogare o meglio dissimulare la mancata tutela del bene (ad esempio, nei reati ambientali: l’ambiente salubre) che il legislatore non intende, nella realtà normativa, preferire ad altro bene (l’economia) con cui il primo si trova in conflitto. In questo caso la funzione dissimula la mancata tutela effettiva del bene da parte del legislatore. Non si può dunque parlare di tutela strumentale, ma di mancata tutela del bene. Il correlativo schema normativo, che è quello tipico dei reati d’obbligo, evidenzia questa realtà: si puniscono, insomma, condotte che violano un obbligo (e non che offendono un bene) come ad esempio lo scarico in violazione dell’obbligo di chiedere (art. 21, comma 1o, l. n. 76/319) o di ottenere l’autorizzazione (art. 25 D.P.R. n. 82/915). (56) A noi sembra che in materia ambientale non sia ravvisabile la tutela della funzione di amministrazione dell’ambiente (sui connotati tipici della funzione amministrativa: v. GIANNINI, Lezioni di diritto amministrativo, I, Milano, 1950, pp. 130 e ss; MODUGNO, voce Funzione, in Enc. Dir., XVIII, Milano, 1969, pp. 301 e ss.) proprio perché detta funzione non è l’oggetto della tutela penale, quanto piuttosto lo strumento o artificio dissimulatorio con cui il legislatore prescinde dall’effettiva tutela di qualsivoglia bene giuridico. Si rifletta infatti come la tutela di una funzione amministrativa non possa essere avulsa dal suo espletamento, da ciò la necessità di sanzionare penalmente tutte quelle condotte infedeli che ne impediscono il retto esercizio. Ebbene nell’ambito delle norme penali ambientali, non si punisce, di regola, la domanda infedele di autorizzazione (e vedi in tal senso oltre l’art. 21 l. n. 1976/319, l’art. 25 D.P.R. n. 1988/203 e l’art. 31 D.P.R. n. 1982/915, oggi abrogato). Allo stato attuale della legislazione ambientale è da ritenere quindi che il legislatore non voglia rafforzare con la sanzione penale l’esercizio di una funzione amministrativa (carente nei presupposti di individuazione), quanto piuttosto ‘‘scaricare’’ sull’amministrazione la composizione ‘‘politica’’ del conflitto tra economia e ambiente che il legislatore non intende direttamente risolvere. Con l’ulteriore conseguenza che, stante l’inefficienza della pubblica amministrazione a provvedervi, è in ultima analisi il giudice penale il vero mediatore del conflitto, così come avviene del resto in altri settori del diritto penale dell’economia ove la tecnica legi-
— 1141 — al vasto settore del diritto penale economico-ambientale) non tutelano neppure funzioni sociali, ma interessi che non assurgono al rango di beni giuridici perché l’offesa, poiché avviene sensim sine sensu (allo stato, ci sono solo vittime potenziali), non è attualmente afferrabile e quindi non consente l’uso dello schema offensivo con correlativa individuazione del bene e cioè la trasformazione degli interessi sociali (Lebensgüter) in beni giuridici (Rechtsgüter). L’argomentare con asserti di pensiero valutante — che si discostano e dai giudizi fattuali concernenti l’individuazione della norma penale e la sua ratio e dai giudizi di logica formale riguardanti il testo di legge — attiene al momento di concretizzazione (57), applicativo della norma penale (ove confluiscono anche elementi normativi, spazi in bianco, lacune di tipo ideologico, ecc.). Si pensi al motivo ispiratore dei criteri valutativi che presiedono la ricostruzione tipologica del caso considerato secondo la sua gravità (v. artt. 132 e 133 c.p.) (58). Il mutamento di prospettiva richiede una premessa: ipotesi normativa e fatto storico sono, a nostro avviso, due aspetti di un’unica realtà. I problemi di interpretazione sorgono, infatti, nel momento in cui un fatto storico, nella variabilità dei tipi, preme per essere sussunto in una norma penale. Già nel momento della prequalificazione giuridica di esso (59), l’interprete si trova di fronte al dilemma se includerlo, attraverso l’extensio, nell’ambito delle fattispecie penali quali storicamente si sono sedimentate attraverso i precedenti consolidati di dottrina e giurisprudenza (e mancando questi ultimi, o essendo controversi, soccorrono i primi e se anche questi sono controversi si pone il problema dei criteri integrativi desunti dai principi generali) ovvero escluderlo attraverso l’Analogieverbot. Nella prima ipotesi, come nella seconda, ciò che è oggetto di interpretazione è la norma penale vivente, sicché la distinzione fra ipotesi normativa e fatto storico è solo ideale, dialettica, non reale. slativa, spesso lacunosa e volutamente approssimativa, devolve al giudice la concretizzazione della norma penale. (57) Rinviamo sul punto alle note 18 e 20, nonché alle considerazioni svolte alla nota 33. (58) VASSALLI, Il potere discrezionale del giudice nella commisurazione della pena, in AA.VV., Conferenza 1o Corso di perfezionamento per uditori giudiziari, Tomo 2o, Milano, 1958, p. 741. (59) Evidenzia TARELLO, Frammenti di una teoria dell’interpretazione, cit., pp. 279 e ss., come la prequalificazione giuridica del caso concreto, cui la norma va applicata, rappresenti un momento accessorio all’attività di interpretazione delle norme. Ribadisce l’autore che l’interpretazione delle norme giuridiche è un insieme di operazioni complesse ove l’attribuzione di significato ad uno o più documenti legislativi costituisce, se non andiamo errati, uno schermo nel quale la vita proietta un’infinita varietà di casi. CARNELUTTI (L’equità nel diritto penale, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1935, I, pp. 110 e ss) riteneva in tal senso necessario evitare l’esasperazione del legalismo penale proprio perché lo schermo legale potesse aderire all’infinita varietà dei casi.
— 1142 — Dobbiamo, insomma, sciogliere il seguente dilemma: l’integrazione della norma penale può comprendere o meno giudizi assiologici o valutativi riconducibili, a livello deontico, all’art. 12 ultima parte D.G.? 4. Consideriamo ora l’ipotesi in cui la norma penale del caso simile non si possa applicare al caso da giudicare per il divieto dell’analogia legis (art. 14 D.G.; art. 1 c.p.; art. 25 Cost. (60)), e tuttavia si controverta sulla sussunzione della fattispecie nonostante il dato letterale sia in crisi di tassatività rispetto al fatto non previsto, e nonostante contrasti sussistano sull’esistenza dell’eadem ratio. Sovente in questi casi, l’interpretazione estensiva consentita maschera l’integrazione analogica vietata (61), questa pone, a sua volta, un problema interpretativo fra il divieto dell’analogia legis e l’analogia iuris il cui fondamento deontico, anche per il diritto penale, è individuabile nell’art. 12 ultima parte D.G. (62). Questa norma, (60) Sulla crisi della certezza del diritto intesa come certezza legale causata dall’ipertrofia della legge dovuta al rapporto stato-società: ‘‘quale si è venuto instaurando nel passaggio dallo stato di diritto allo stato sociale con conseguente aumento della produzione legislativa chiamata ad intervenire in misura sempre crescente nei vari settori della vita sociale’’: v. CORSALE, La certezza del diritto, cit., p. 231; v. anche LOPEZ DE OÑATE, La certezza del diritto, Milano, 1968, pp. 71 e ss.; CARNELUTTI, La crisi della legge, in Discorsi intorno al diritto, Padova, 1937, p. 167. E vedi inoltre per un’attenta critica del diritto legislativo come pericolo per la certezza legale — proprio perché rende possibile la mutevolezza e l’eccessiva produzione legislativa — LOMBARDI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1967, p. 568. Per una diversa accezione della certezza nella prospettiva del diritto giurisprudenziale onde superare la crisi della certezza legalistica intesa come concezione meccanica del rapporto fra formulazione legislativa e applicazione del diritto: v. CORSALE, op. cit., p. 245 (si rinvia a questo autore anche per riferimenti bibliografici) e vedi anche BARATTA, Responsabilità civile e certezza del diritto, in Riv. Intern. di Filos. Dir., 1965, p. 28. Nella dottrina tedesca per un’approfondimento della crisi del rapporto fra certezza del diritto e certezza della legge: v. HASSEMER, Kennzeichen und Krisen des modernen Strafrechts in Criminal law theory in transition, 1992, pp. 113-125. Sulle istanze di parziale revisione del principio nel diritto penale italiano: v. VASSALLI, Nullum crimen sine lege, in Noviss. Dig. it., XI, Torino, 1965, p. 502. (61) L’interpretazione estensiva è sostanzialmente un argomentare a similibus ad similia, e detto argomentare è identico a quello posto a base dell’analogia, sicché giustamente si è fatto rilevare che la differenza fra interpretazione estensiva ed analogica è in concreto assai labile e oscillante anche se, ragionando in astratto, è possibile distinguere fra le due forme di interpretazione nel senso che con l’interpretazione estensiva il testo legislativo riguarda una norma giuridica esistente che si estende a casi non espressamente previsti, ma simili; con l’interpretazione analogica invece si crea una norma giuridica nuova che include sia il caso simile da regolare, sia il caso regolato: per queste considerazioni rinviamo a GIANNINI, L’analogia giuridica, in JUS, 1941, p. 519; ed anche BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, p. 605; IDEM, Ancora intorno alla distinzione tra interpretazione estensiva e analogica, in Giur. it., 1968, I, I, p. 695. (62) Per un fugace accenno del problema v. VASSALLI, Atti dei Convegni Lincei, cit., p. 257. Questa problematica non è stata mai adeguatamente approfondita dalla dottrina penalistica, con riferimento all’art. 12 ult. parte D.G.; nell’ambito della dottrina penalistica A. ROCCO (Il problema e il metodo della scienza, op.cit.) ha enunciato tuttavia la necessità che
— 1143 — accanto a principi generali di ordine sistematico comprende, per pacifica ammissione, anche principi assiologici generalissimi (extrasistematici) (63). Ove un caso si trovi in un rapporto di similitudine con una fattispecie penale, può non soccorrere, data la sua novità, il diritto penale vivente, vuoi perché esso non è stato mai deciso, vuoi perché non esiste un uniforme o prevalente indirizzo giurisprudenziale, vuoi perché non è rintracciabile una communis opinio dei giuristi. L’interprete, tuttavia, malgrado la lacuna, sovente opera l’extensio (interpretazione estensiva) attraverso l’argomento analogico (64) — costituito da giudizi di valore per similitul’interpretazione delle norme penali, oltre l’aspetto sistematico, mirasse ad elaborare i principi fondamentali del diritto penale (v. sul punto anche SABATINI, Istituzioni, op. cit., p. 56). Occorre analizzare se e quale rilevanza giuridica assuma l’art. 12 D.G. nel caso in cui, non sussistendo una norma penale espressa e non essendo la norma regolante il caso simile suscettibile di estensione se non attraverso l’interpretazione analogica, il momento applicativo della fattispecie rilevi tuttavia un difetto di tassatività che assume un ruolo di stridente minusvalenza rispetto all’interpretazione vivente della norma penale (si pensi alle cause di giustificazione non codificate), sicché l’intentio legis misurandosi con i principi generali elaborati dalla dottrina penale e dalla giurisprudenza, evidenzia l’angustia della formula legislativa data. (Riferimenti in ROTONDI, voce Interpretazione della legge, in Noviss. Dig. it., Torino, VIII, 1968, p. 900. E specificamente VASSALLI (voce Analogia nel diritto penale, cit., pp. 167, 168) ove il chiaro autore fa riferimento ai principi generali del diritto penale o ai principi razionali e comuni per ammettere l’esistenza, pur non codificata, di alcune cause di giustificazione. (63) Il Vassalli distingue fra principi generali del diritto penale codificati o costituzionalizzati e principi generali del diritto sovraordinati ai principi dei singoli sistemi giuridici ed aventi una valenza superiore coincidente con i valori ispiratori dell’intero ordinamento giuridico dello Stato. In tal senso detti principi generali sono principi non del singolo sistema, bensì principi extrasistematici — anche di natura assiologica — perché distinguibili dai principi propri del sistema penale. L’illustre autore conviene con il Nuvolone nel riconoscere che l’interpretazione delle norme penali non esclude il riferimento a valori e principi universalmente validi che sottendono la ricostruzione del diritto positivo (VASSALLI, Atti dei Convegni Lincei, cit., p. 291). Sull’annosa disputa circa la natura extrasistematica o intrasistematica dei principi generali del diritto (e quindi anche del diritto penale di cui all’art. 12 D.G.), a noi sembra che il pensiero del BOBBIO, (Principi generali del diritto, op.cit.) abbia con chiarezza evidenziato in modo assai convincente come sussistano principi generali che si pongono dentro il sistema, e principi generali che si pongono fuori del sistema. L’intensità vincolante dei principi generali del diritto penale, ovviamente, ha un diverso grado sol che si rifletta che alcuni di essi hanno una funzione integrativa della fattispecie penale (si pensi al principio generale che la responsabilità penale è personale), mentre altri principi, come quello di retroattività della legge penale favorevole sancito dall’art. 2, comma 3o c.p., non sono stati elevati al rango di principi costituzionali. Ne deriva, nell’esempio appena indicato, che il divieto di retroattività di nuove norme incriminatrici può essere derogato dalla legge ordinaria (v. art. 20 l. 7 gennaio 1929 n. 4 che sancisce il principio dell’ultrattività delle leggi penali finanziarie. Questa norma è stata ritenuta costituzionalmente legittima e non contrastante con l’art. 25, comma 2o, Cost.: vedi sul punto C. Cost. 6 marzo 1995 n. 80, in Cass. pen. 1995, n. 2073). (64) Affronta la dimensione assiologica della norma penale relativamente al principio di uguaglianza con riferimento all’analogia iuris dal punto di vista della filosofia del diritto: ZACCARIA, op. cit., p. 1541.
— 1144 — dine — che è identico in entrambe le forme di interpretazione (estensiva ed analogica) (65). Ciò rende difficilmente controllabile l’operato del giudice dal momento che in concreto diventa assai opinabile la distinzione fra i due tipi di interpretazione. Il giudice penale, in questi casi, se non infrange formalmente il principio di legalità, pone in crisi il principio della certezza del diritto inteso come certezza della legge (66). Alcuni autori sostengono però che il criterio che sta alla base dell’extensio trova il suo fondamento — e noi dissentiamo da questa opinione — in un modo nuovo di intendere la certezza del diritto da parte del giudice: cosiddetta certezza sostanziale (67). È noto che il metodo che vincola il giudice esclusivamente alla predeterminazione dei tipi legali è entrato in crisi proprio a seguito del decadere della certezza del diritto come certezza legale (68). Abbiamo già indicato le ragioni per le quali il metodo tradizionale di interpretazione (metodo deduttivo) non può più garantire la stessa certezza in senso formale (69) sotto l’incalzare dell’ipertrofia della legge penale (non eliminabile, a nostro avviso, neppure attraverso affinamenti tecnico-legislativi essendo espressione diretta della crisi dello Stato (70)) e (65) Si rinvia alla nota 61. (66) NUVOLONE, voce Pena (diritto penale), op. loc. cit. (67) Vedi per tutti CORSALE, La certezza del diritto, op. cit., p. 245 e autori ivi citati. Su questa problematica, illuminanti risultano ancora le pagine di CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1954. Per la critica di quest’assunto si rinvia alla nota seguente. (68) La dissociazione fra certezza formale e certezza sostanziale è sintomatica della crisi dell’ordinamento giuridico. Detta dissociazione dovrebbe consentire di superare le gravi difficoltà in cui versa il principio nullum crimen nulla poena sine lege, difficoltà nascenti soprattutto dalla ipertrofia della legge penale. È però da rilevare che la certezza del diritto non può ammettere dissociazioni, la certezza è una sola: la certezza legale (v. SCARPELLI, Il problema della definizione ed il concetto di diritto, Milano, 1955, p. 96). Rileva inoltre giustamente CORSALE (op. cit., p. 233) come un requisito indispensabile per la certezza legale sia costituito dal numero limitato delle leggi e dalla loro stabilità nel tempo, solo ove siano rispettate anche queste condizioni, la certezza del diritto può coincidere con la certezza legale. E vedi anche sul punto dell’ipertrofia della legge penale: CARNELUTTI, La crisi della legge, cit., p. 167. (69) Il legislatore abdicando alle sue funzioni istituzionali ha trovato comodo, in taluni casi, rimettere al giudice o alla pubblica amministrazione la soluzione del conflitto di interessi che sottende la norma penale. LARENZ, Methodenlehre der Rechtswissenschaft, Berlin, Heidelberg, New York, Tokio, Springer, 1983 (5 ed.), pp. 365 ss. (70) Sull’ipertrofia della legge (penale), come conseguenza della crisi dello Stato sociale, v. CORSALE, La certezza del diritto, op. cit., pp. 228 e ss. E vedi sul punto anche CAPOGRASSI, La nuova democrazia diretta, in Opere, Milano, 1959, I, p. 448. Un attento studioso (v. RODOTÀ, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964, p. 138) ritiene che la certezza della legge si possa attuare solo quando si sia realizzato un sicuro assetto socio-politico. E vedi inoltre, circa i rapporti fra ‘‘utopia’’ e diritto penale, le considerazioni di Baratta nell’introduzione al testo del MOCCIA, La perenne emergenza, tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli, 1995, XI e ss.
— 1145 — della formulazione di fattispecie (v. ad esempio art. 323 c.p.) ove volutamente il legislatore affida all’interprete l’individuazione dell’ambito più appropriato di concretizzazione ed applicazione della legge penale (71). Inoltre, sussistono fattispecie (v. ad esempio art. 643 c.p.) ove la struttura argomentativa dell’interpretazione non riguarda gli elementi essenziali del reato necessari per fondare la punibilità, quanto piuttosto la valutazione della prova di quegli elementi da parte del giudice. Si riscontra cioè un trasferimento dell’argomentazione dal diritto sostanziale al diritto processuale ove l’argomentazione serve per risolvere problemi processuali. L’applicazione del diritto penale diventa quindi più flessibile e meno garantita anche perché la libera valutazione della prova — allo stato delle cose — non ha trovato un compiuto approfondimento nell’ambito di una necessaria revisione della teoria generale del processo. E così, ad esempio, nel caso citato, la Corte di Cassazione (72) per configurare l’elemento materiale del delitto di circonvenzione di incapace ritiene necessario distinguere tra ‘‘induzione e mero approfittamento della deficienza psichica o infermità della vittima’’ precisando altresì che indurre vuol dire ‘‘convincere, agire sulla volontà altrui attraverso un input che porti il soggetto passivo a compiere un atto dannoso’’. Questa generica e quanto mai ampia interpretazione giurisprudenziale costringe la Corte a riconoscere che ‘‘mancando nella norma ogni tipizzazione delle condotte è la prova a risolvere i problemi da deficit di tipicità’’. Non a caso la Corte di legittimità indica gli argomenti processuali (la prova può anche essere indiretta, presuntiva, ecc.) sui quali fondare l’individuazione dei criteri di diritto sostanziale. Gli elementi della fattispecie, in questo caso, sono oggetto di una struttura argomentativa processualistica che risponde alle regole probatorie con conseguente apertura verso il Case Law. Si pensi all’eccessiva mutevolezza delle leggi penali, alla loro sovrapposizione — valga l’esempio dei nove decreti legge che hanno preceduto la l. n. 172/1995; della diciottesima reiterazione (almeno al momento in cui scriviamo) del d.lgs. 15 novembre 1993 n. 507 sui residui riutilizzabili e sullo smaltimento dei rifiuti (73), con conseguente diverso regime (a se(71) Ci riferiamo specificamente all’art. 323 c.p. che, così come modificato, incentra la condotta penalmente rilevante sull’abuso di ufficio il cui carattere neutro non favorisce la determinatezza dell’elemento soggettivo (dolo specifico). Nella realtà delle cose, attraverso questa fattispecie, si arriva ad una concretizzazione giudiziale del diritto penale e si affida al giudice la determinazione dei limiti di estensione della sfera — volutamente ampia — del penalmente rilevante. Sul punto v. Ordinanza G.I.P. Tribunale di Piacenza, 16 Aprile 1996, che ha sollevato eccezione di incostituzionalità dell’art. 323 c.p. per violazione degli artt. 25, comma 2o e 97, comma 1o Cost. Cfr. PICOTTI, Il dolo specifico, Milano, 1993, p. 269. (72) Cass. pen., sez. II, 25 settembre-8 novembre 1995, n. 11013, in Guida al Diritto, 1996, n. 4, p. 120. (73) Il d.l. del 6 settembre 1996 n. 462 rappresenta la diciottesima versione del d.lgs. del 15 novembre 1993 n. 507 sui residui utilizzabili e sullo smaltimento dei rifiuti (nel mo-
— 1146 — conda del momento di commissione) e conseguente diversità di trattamento per gli stessi fatti disciplinati ‘‘a tempo’’ (v. art. 2, comma 5o, c.p.) dalla mutevole decretazione d’urgenza (74) — come contributo ‘‘legislativo’’ alla crisi del principio di certezza del diritto inteso come certezza legale o formale (certezza della legge). Venuta meno la coerenza dell’ordinamento, è perfino comprensibile che il giudice operi sovente l’extensio ispirandosi (forse inconsciamente) ad un principio che non si richiama più alla certezza formale, avendo natura extrasistematica ossia assiologica (art. 12, ultima parte D.G.) e cioè al principio dell’uguaglianza di trattamento (75) rispetto a casi simili che si vogliono ricondurre all’eadem ratio: ubi eadem legis ratio, ibi eadem legis dispositio (76). C’è da chiedersi però se questo principio generale di mento in cui pubblichiamo è in vigore la l. 11 novembre 1996 n. 575, sanatoria degli effetti della mancata convesione dei d.l. in materia di recupero dei rifiuti). È importante rilevare che il sistema agevolato si applica solo ed esclusivamente ai residui individuati nell’allegato 3 al D.M. 5 settembre 1994 e nell’allegato 1 al D.M. 16 gennaio 1995. In ogni caso il riutilizzo difforme dalle prescizioni del D.M. 5 settembre 1994 è punito con l’arresto fino a un anno o con l’ammenda da 3 a 10 milioni di lire. La pena aumenta in caso di residui pericolosi. Per quanto riguarda invece il riutilizzo non conforme al D.M. 16 gennaio 1995 sono previste le sanzioni indicate dal D.P.R. n. 203/88 in tema di qualità dell’aria. Giova rilevare tuttavia che il residuo è individuato in base ad un duplice criterio: a) normativo secondo i D.M. indicati; b) oggettivo, in quanto il residuo anche se individuato normativamente deve effettivamente essere avviato al riutilizzo, altrimenti viene qualificato come rifiuto e quindi soggetto alla disciplina penale prevista dai D.P.R. n. 915/82 e 203/88. Il D.P.R. n. 915/82 è oggi abrogato dall’art. 56 D.lgs. n. 22/97. (74) Vedi sul punto Cass. pen. 9 gennaio 1995 (3 febbraio 1995), in Riv. giur. amb., 1995, fasc. 6, p. 857. Questa giurisprudenza ha correttamente fatto riferimento alle norme penali contenute nel d.l. in vigore al tempo del fatto commesso, ancorché detto d.l. non fosse stato poi convertito. L’efficacia abrogatrice o modificatrice delle disposizioni contenute in un d.l. si realizza immediatamente con l’entrata in vigore del decreto stesso e non al momento della sua conversione (v. ultimo comma, art. 2 c.p.). La Corte d’Appello di Milano, Sez. IV, 7 marzo 1995 n. 1055, è andata di contrario avviso, obiettando che la Corte Cost. con sentenza 22 febbraio 1985 n. 51 (in Cass. pen. 1985, p. 816) autorizzerebbe una diversa soluzione. L’obiezione non è fondata perché il giudice delle leggi, con la citata sentenza, non ha voluto affatto sancire la sospensione (in attesa della conversione in legge) dell’efficacia abrogatrice o modificatrice di una norma penale emanata con decretazione d’urgenza, in relazione al fatto commesso durante il suo vigore, sia pur effimero; quanto piuttosto stabilire che la norma penale contenuta in un d.l. decaduto non può inserirsi in un fenomeno successorio quale descritto e regolato (ed espressamente richiamato dal giudice delle leggi) dai commi 2o e 3o dell’art. 2 c.p. In sostanza non può essere invocata la disposizione più favorevole contenuta in un d.l. decaduto (tranne il caso in cui il fatto contestato sia stato commesso durante il vigore del d.l.) per fatti commessi fuori dalla sua vigenza. (75) VASSALLI (op. ult. cit., p. 257) qualifica il principio di uguaglianza di trattamento come principio assiologico dell’ordinamento giuridico dello Stato. Sul principio di giustizia come proporzione e sulla sua efficacia oltre i confini del ragionamento analogico v. LAZZARO, L’interpretazione sistematica della legge, Torino, 1965; ZACCARIA, op. cit., 1550. (76) Sul criterio dell’eadem ratio legis che include anche la possibilità dell’interpretazione analogica in malam partem, vedi CORDERO, Legalità penale, cit., p. 6.
— 1147 — interpretazione possa valere nell’ambito del diritto penale e ciò segnatamente quando — a proposito di una fattispecie simile a quella prevista dalla norma penale — già si censura il fatto che attraverso l’extensio, sovente si dissimula l’interpretazione analogica vietata come interpretazione estensiva consentita. L’interpretazione analogica è ammessa in bonam partem per le cause di giustificazione ecc., e tuttavia si dubita che essa da sola possa risolvere tutti i problemi di interpretazione ivi esistenti (77). Secondo una corrente minoritaria (78), invece, il ricorso all’analogia in bonam partem per le scriminanti dovrebbe escludersi perché comporta un superamento dei limiti normativi sanciti (con la conseguente arbitraria restrizione della sfera del penalmente illecito: contronorma (79)); il problema interpretativo concerne, in particolare, la possibilità di estendere o meno, attraverso il ragionamento analogico, le cause di giustificazione codificate a quei casi per i quali si dubita se sussista o meno uno degli elementi essenziali delle scriminanti. La controversia, ad esempio, può sorgere circa i criteri sui quali fondare l’attualità del pericolo, ovvero quando si discuta se la scriminante di cui all’art. 54 c.p. sia applicabile alle ipotesi di pericolo non attuale (80). A noi sembra valida, anche per queste fattispecie, l’obiezione che il ricorso all’interpretazione estensiva possa dissimulare l’interpretazione analogica, né il dilemma a nostro avviso è sempre superabile attraverso l’analogia in bonam partem che è da preferire comunque ai criteri proposti: a) dell’interpretazione fondata sul significato letterale del testo sia pur teso all’estremo; b) dell’arricchimento della classe premessa sia pur individuata con riduzione all’essenziale di ciascun fatto (81). L’eadem ratio individua l’identità di valore fra fattispecie prevista e fattispecie non prevista, ma simile alla prima; tuttavia mentre nell’interpretazione estensiva la ratio trova un limite invalicabile (sul quale si in(77) VASSALLI, voce Analogia, cit., pp. 169, 170; BOBBIO, voce Analogia, cit., p. 605; ENGISCH, Einführung in das juristische Denken, Stuttgart, Kohlhammer, 1977, 7 Ed., p. 150, trad. it. di Baratta e Giuffrida Repaci, Milano, 1970, p. 238; HASSEMER, Einführung in die Grundlagen des Strafrechts, München, Beek, 1981, p. 254. Più radicalmente W. SAX (Das strafrechtliche ‘‘Analogieverbot’’, Göttingen, Vandenhoek und Ruprecht, 1953) nega ogni differenziazione tra interpretazione estensiva e analogica. Sull’argomento v. anche ZIEMBINSCKI, ‘‘Analogia legis’’ et interpretation extensive, in La logique juridique, Paris, Pedone, 1967. Per approfondimenti sulla struttura del ragionamento analogico: v. SOHNGEN, Analogie (Fn. 7), bes. S. 57 ff; KAUFMANN, Analogie (Fn.27), bes. S. 37 ff. (78) Impostano in questi termini il problema, fra gli altri, RAMACCI, Istituzioni di dirito penale, cit., p. 154; PADOVANI, Le ipotesi speciali di concorso nel reato, Milano, 1973. (79) PADOVANI, Le ipotesi speciali di concorso nel reato, cit. (80) In tal senso riteniamo non esaustivo l’esempio formulato da RAMACCI in Istituzioni, cit., p. 154. (81) Per l’approfondimento di questi criteri si rinvia alle note 78 e 79.
— 1148 — frange l’extensio) nel dato letterale che non può essere interpretato, per le ragioni che a suo tempo sono state indicate, oltre i limiti razionali del sistema; nell’interpretazione analogica, invece, il dato letterale in crisi di tassatività non può impedire l’extensio ove si riscontri un’identità di valore (di ratio) fra causa di giustificazione prevista e causa di giustificazione non prevista. Tuttavia l’interpretazione analogica non risolve tutti i problemi interpretativi in materia di cause di giustificazione e ciò perché può sorgere il dubbio proprio sull’identità di valore (o ratio) fra fattispecie prevista e fattispecie simile (non prevista): in questi casi, essenziale per risolvere i problemi interpretativi è il ricorso ai principi generali, anche assiologici, dell’ordinamento giuridico dello Stato (82). I principi generali che, nei casi ove l’interpretazione analogica non sia sufficiente, giustificano l’extensio in tema di cause di giustificazione, sono a loro volta, a nostro avviso, riconducibili al principio assiologico di uguaglianza di trattamento che realizza la sua efficacia come principio fondamentale dell’ordinamento giuridico dello Stato (art. 12 ult. parte D.G.) a fronte di posizioni di libertà che non possono essere escluse dall’ambito delle norme sulle cause di giustificazione, in virtù del mero dato letterale in crisi di tassatività (primato della libertà sulla stessa certezza del diritto) (83). Ciò premesso, la causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma 2o, c.p. è, a nostro avviso, estensivamente applicabile, in virtù del principio generale testé indicato, alla falsa testimonianza resa nel processo civile, anche se ivi, non è espressamente prevista la facoltà di astensione del prossimo congiunto ed il correlativo avviso del giudice (art. 199, comma 2o, c.p.p.). Il problema si pone soprattutto quando la testimonianza in sede civile è articolata su fatti che, proprio attraverso la deposizione testimoniale del prossimo congiunto, assumono penale rilevanza obbligando il giudice civile a trasmettere gli atti in sede penale. Il ricorso all’interpretazione analogica e ai principi generali dell’ordinamento giuridico, nella prassi giudiziaria, è un dato riscontrabile anche al di fuori delle cause di giustificazione. La Corte Cost. (84), ad esempio, ha fatto riferimento proprio al pro(82) VASSALLI, voce Analogia, cit., pp. 169, 170. (83) Per l’ammissibilità dell’analogia nell’ambito delle cause di giustificazione: GALLO, La legge penale (Appunti delle lezioni), Torino, 1967, pp. 32 e ss.; MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, 2a ed., Padova, 1988, pp. 109 e ss.; SINISCALCO, Giustizia penale e Costituzione, Milano, 1968, pp. 54 e ss.; PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, 3a ed., Milano, 1987, pp. 95 e ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, op. cit., p. 90. (84) La Corte Costituzionale (Sent. C. Cost. n. 31 del 1995, Pres. Casavola, ordinanza interpretativa di rigetto sull’asserita indeterminatezza di un elemento della fattispecie penale di rivolta militare disciplinato dall’art. 174, comma 1o, n. 3 c.p.m.p.) non ha ritenuto che l’espressione ‘‘abbandonandosi ad eccessi’’ sia indeterminata. Il giudice delle leggi — ritenendo sufficientemente determinato il bene tutelato — ha ribadito che la determinatezza
— 1149 — cedimento analogico quando, a proposito del reato di rivolta militare (art. 174, comma 1o, n. 3 c.p.m.p.), si è interessata delle norme penali contenenti descrizioni sommarie, elementi valutativi, espressioni meramente indicative di comuni esperienze ecc.. Il giudice delle leggi ha sancito che, pur essendo ricostruibile solo in via analogica la condotta tipica — gli eccessi — non sussiste tuttavia vulnus per la certezza del diritto, ove, attraverso l’ordinario procedimento di interpretazione, sia pur sempre individuabile il bene oggetto di tutela. Con ciò, a nostro avviso, la Corte ha introdotto una limitazione al principio della certezza del diritto ritenendo che l’interpretazione sistematica del bene giuridico sia l’unico criterio di tipicità non derogabile della fattispecie penale, mentre la condotta può essere oggetto di interpretazione analogica. Secondo questa interpretazione, insomma, l’eadem ratio prevale sul significato letterale della fattispecie penale (85). Il giudice penale ha fatto ricorso ai principi assiologici quando, valga un altro esempio, ha operato l’extensio in malam partem considerando — malgrado il dettato legislativo (art. 1-quater, l. 8 ottobre 1976 n. 690) — gli scarichi degli insediamenti suinicoli, per loro natura ad alto tasso inquinante, come assimilabili agli scarichi di insediamenti produttivi e quindi soggetti al regime penale previsto dall’art. 21 l. n. 76/319 (86). Il criterio di uguaglianza di trattamento non è stato preso in considerazione, in siffatta ipotesi, dalla giurisprudenza nella sua dimensione costituzionale (art. 3 Cost.) perché non si poteva giustificare il ricorso al giudice delle leggi (essendo sul punto necessario l’intervento legislativo) (87). Il giudice penale, invece, ha operato diversamente: ricorrendo del precetto può realizzarsi attraverso l’accostamento della fattispecie in cui il termine è inserito con le ipotesi delittuose più prossime: relazione che non attinge solo all’interpretazione sistematica, ma al vero e proprio ragionamento analogico (similibus ad similia) come appunto è dato riscontrare nell’interpretazione del termine ‘‘eccessi’’ che si devono concretizzare, secondo la Corte, in comportamenti di estrema indisciplina tendenti ad esercitare una forma di violenza morale nei confronti del superiore e cioè ‘‘una minacciosa pressione morale collettiva sulla volontà del superiore’’. (85) Vedi le considerazioni svolte alla nota precedente nonché la sentenza della Corte Cost. n. 247 del 1989. (86) Vedi Pretura Parma 9 febbraio 1978, in Giur. Mer., 1978, II, p. 865, che per mascherare l’interpretazione analogica, tale da comprendere l’allevamento dei suini nell’ambito degli insediamenti produttivi, ha posto l’accento su un indirizzo della Cassazione civile ove, sulla base di diversi criteri e presupposti, si era esclusa la natura agricola di un impresa di allevamento di bovini da ingrasso per gli evidenti fini speculativi cui questa era improntata. Si tratta di una evidente forma di analogia legis mascherata da interpretazione estensiva. E vedi anche Trib. Forlì 18 febbraio 1977, in Giur. Mer., 1977, p. 840. È da ricordare infine come la l. n. 172/1995, in aperto contrasto con le Sezioni Unite della Cass. Pen. che avevano equiparato gli scarichi civili a quelli produttivi, gli scarichi esistenti a quelli nuovi in ordine alla comminatoria penale (Cass. Pen. Sez. Un. 23 febbraio 1993, in Dir. Giur. Agr., 1994, p. 366), ha trasformato in illecito amministrativo (v. art. 6, comma 2o) l’apertura o l’effettuazione degli scarichi civili senza la preventiva richiesta di autorizzazione. (87) Vedi Sentenza Corte Cost. 18 ottobre 1983 n. 314 che ha dichiarato inammissi-
— 1150 — ad una motivazione ‘‘apparente’’ per giustificare l’extensio, ha nella sostanza applicato l’analogia iuris, in virtù della dimensione assiologica del principio di uguaglianza, inteso come principio generale dell’ordinamento, privo di qualsivoglia valenza ideologica o politica, riguardante la giustizia come proporzione. Spinto da questa esigenza, l’interprete ha ridimensionato il significato del testo legislativo (art. 1-quater l. 8 ottobre 1976 n. 690) (88) e ciò perché, nella realtà delle cose, detta norma, creando una situazione di favore per gli allevamenti di animali ad alto tasso inquinante, attentava alla certezza del diritto attraverso il venir meno dei caratteri tipici della norma penale quali l’astratezza e la generalità. Non c’è dunque da stupirsi, in questo contesto di crisi del diritto penale, se ci si interroghi ancora circa un possibile temperamento del divieto di analogia legis nei casi limite (norme incriminatrici) in cui il principio di uguaglianza di trattamento fa decisamente agio sulla lacuna di regolamentazione, essendo il singolo dato letterale, arbitrariamente incompleto, minus valente rispetto a tutti gli altri elementi essenziali della fattispecie penale: si pensi all’oltraggio al Corpo a mezzo telegrafo di cui al comma 2o dell’art. 342 c.p. (89). In queste ipotesi, ove si volesse punire l’oltraggio bile, con riferimento agli artt. 2, 3, 9 e 32 Cost., una questione di legittimità dell’art. 1-quater l. 8 ottobre 1976 n. 690, nonché, in combinato disposto con esso, altra questione degli artt. 9, 12, 13, 15, 21, 22 e 25 della predetta legge, nelle parti in cui alcune specie di insediamenti, adibite a ‘‘prestazioni di servizi’’ o ricadenti fra le ‘‘imprese agricole’’, sono state ‘‘considerate alla stregua degli insediamenti civili anziché degli insediamenti produttivi, sebbene diano luogo a scarichi non assimilabili a quelli abitativi’’: e ciò perché ‘‘la questione non attiene alla legittimità costituzionale, bensì al merito delle scelte operate in materia dal legislatore’’. La l. n. 1979/650 all’art. 17, ultimo comma, com’è noto, ha affidato al Comitato Interministeriale (Delibera 8 maggio 1981) il compito di provvedere a definire le imprese agricole da considerarsi insediamenti civili ai sensi dell’art. 1-quater l. n. 1976/690. Circa le ulteriori modifiche legislative si rinvia alla nota 86. (88) Rinviamo per l’approfondimento concernente la dissociazione tra motivazione apparente e motivazione reale, alle sentenze indicate nella nota 86. (89) Esemplare è l’ipotesi prevista dall’art. 342 cpv c.p. in relazione alla quale si ritiene che l’offesa recata con mezzi di comunicazione telefonica non possa configurare il reato di oltraggio ivi previsto. Ciò perché il comma 2o fa espresso riferimento solo alla comunicazione telegrafica (sono di questo avviso: FIANDACA-MUSCO, Diritto Penale, parte speciale, vol. I, 1993, p. 226). Questi autori si limitano a riportare come motivazione — per escludere l’idoneità offensiva della comunicazione telefonica — quella enunciata dalla Cassazione (Cass. 23 novembre 1959, in Riv. pen., 1961, II, p. 256) secondo la quale l’offesa deve essere sempre comunque diretta al Corpo in quanto tale, escludendo che la comunicazione telefonica possa sortire questo effetto. Se la difficoltà consiste solo nel fatto che i membri del Corpo non apprendono tutti direttamente l’espressione oltraggiosa fatta a mezzo telefono, questa difficoltà potrebbe non sussistere nell’ipotesi in cui le telefonate dirette al Corpo si possano diffondere, mediante idonei apparecchi di usuale installazione, nell’ambiente di ascolto e siano udite direttamente da tutti i membri del Corpo. Più coerente sembra a noi riconoscere che la comunicazione telefonica, ascoltata dal Corpo, rientra nell’ambito del cpv. dell’art. 342 c.p., anche se l’extensio in tal caso — superando l’argomento letterale — potrebbe costituire una forma di analogia in malam partem.
— 1151 — recato con il telefono munito di impianto di diffusione, l’extensio troverebbe il suo fondamento non nell’analogia legis (che è vietata) ma nell’analogia iuris e alla base dell’argomentazione dovrebbe porsi il principio assiologico dell’universalizzabilità dell’eguaglianza di trattamento (v. art. 12 ultima parte D.G.) posto a presidio della certezza del diritto e quindi dell’astratezza e generalità della norma penale: il che noi escludiamo possa oggi avvenire trattandosi di estendere la portata di una norma incriminatrice. Il ricorso all’analogia iuris potrebbe, a nostro avviso, giustificarsi, de iure condendo, solo quando si sia in presenza di norme incomplete (90) che creano situazioni di favore, per determinati soggetti, in evidente contrasto con la generalità e astrattezza della norma penale e cioè con il principio di certezza del diritto. L’interprete, in questi casi estremi, più che integrare la tassatività adeguerebbe la fattispecie penale ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato. Certo questa soluzione è prospettabile, de iure condendo, attraverso una modifica dell’art. 14 D.G. (opzione legislativa circa il metodo di interpretazione delle norme penali (91)) norma questa che certamente rispecchia l’idea dell’unità, completezza e coerenza dell’ordinamento giuridico, tutti connotati che, nell’attuale crisi dello Stato, dismagano nella proliferazione di gruppi portatori di interessi collettivi diversi (92). Detta modifica legislativa potrebbe meglio bilanciare i rapporti fra potere legislativo e giudiziario suonando remora verso ingiustificate obsolescenze o eventuali ‘‘favori’’ che il primo intenda accordare a forti gruppi di pressione ‘‘dimenticando’’ di inserirli, a scapito dell’astratezza e generalità della norma penale, nell’ambito dei soggetti destinatari. Ciò costituirebbe una palese violazione del principio generale universalizzabile della parità di trattamento (uno stesso trattamento si impone per fatti giuridicamente identici). Si dovrebbe, insomma, riconoscere, de iure condendo, che l’Analogieverbot non può costituire un limite al principio generale assiologico (prima che giuridico) dell’uguaglianza di trattamento nei (90) La Corte Cost. ha ritenuto di non poter estendere in materia penale, con una sentenza additiva, l’efficacia della norma incriminatrice a soggetti irragionevolmente esclusi dalla previsione normativa. Una norma di per sé ragionevole, può secondo il giudice delle leggi (Corte Cost. 31 dicembre 1986 n.297, in questa Rivista, 1986, p. 1319) contenere un’omissione irragionevole. E ciò non comporta di per sé l’illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, a meno che la discriminazione fra soggetti non ‘‘assurga’’ a lesione qualificata e perciò diretta dell’art. 3, comma 1o, Cost.. E vedi però sul punto le critiche mosse a questa sentenza in nota da ROMANO, ibidem, p. 1332. (91) Non vi è dubbio che la modifica all’art. 14 D.G., nel senso da noi auspicato, costituirebbe l’interpretazione autentica circa il metodo assiologico di interpretazione delle norme penali distinto da quello fondato sul ragionamento analogico e da quello fondato sull’argumentum a contrario. Per ulteriori considerazioni rinviamo alla nota 3. (92) Per l’approfondimento di questi concetti si rinvia alla nota 70.
— 1152 — casi in cui, sussistendo l’identica situazione giuridica, il solo dato letterale incompleto si oppone all’estensione della norma penale (incriminatrice) a condotte irragionevolmente escluse dall’ambito della previsione normativa. È necessario precisare che la valutazione alla stregua dei principi generali dell’ordinamento giuridico non riguarda fattispecie fra loro in rapporto di più o meno stretta affinità: fattispecie, sotto il profilo socio-politico prima ancora che giuridico, soggette a soluzioni legislative differenziate sulla base di un insindacabile potere discrezionale del legislatore. Abbiamo già detto che il ricorso ai principi generali dell’ordinamento giuridico va distinto dall’Analogieverbot ed attinge quelle situazioni ove è necessario tutelare la certezza del diritto perché ci si trova di fronte a situazioni giuridiche identiche ma che ricevono un irragionevole trattamento sanzionatorio diverso e ciò perché solo una fattispecie è sanzionata penalmente e l’altra, pur essendo identica la situazione giuridica, no. In questi casi non è neppure possibile spiegare il differente trattamento partendo dalla differente situazione di fatto tale da giustificare apprezzamenti diversi da parte del legislatore. Il giudice delle leggi, interessato della questione, non ha ritenuto di dover dichiarare l’illegittimità della norma penale incompleta per un’omissione di per sé irragionevole, giustificando il rigetto con l’affermare che la norma penale, pur discriminatoria, era in sé ragionevole perché destinata alla tutela di un bene giuridico altrimenti sfornito di protezione e non realizzava la lesione qualificata del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. (93). A noi sembra che in questi casi, previa un’opportuna modifica dell’art. 12 D.G., possa il giudice delle leggi provvedere direttamente, sulla base dei principi generali, a correggere l’arbitraria discriminazione della norma incriminatrice, attraverso un ampliamento dell’ambito di operatività della norma penale incompleta includendovi le situazioni giuridiche identiche irragionevolmente omesse senza attendere l’intervento legislativo. Ad esempio, non può non definirsi priva di ragionevolezza, oltre i casi già indicati, la discriminazione riscontrabile nel sanzionare penalmente solo alcuni fra più soggetti obbligati a comportamenti identici sulla base della totale identità della situazione giuridica in cui versano. Ci riferiamo espressamente agli amministratori ed ai sindaci di società con azioni quotate in borsa, penalmente perseguibili per l’inadempimento dell’obbligo di comunicare alla Consob i compensi percepiti o per l’invio di comunicazione falsa, rispetto agli amministratori, sindaci o revisori di enti i cui titoli sono quotati in borsa, tenuti all’adempimento dei medesimi obblighi, ma non indicati fra i soggetti penalmente responsabili dall’art. 17, comma 7o, l. n. 689/81 (94). Ed ancora è irrazionale la (93) Cfr. Corte Cost. 31 dicembre 1986 n. 297, cit. (94) La disparità di trattamento fra i soggetti indicati nel testo è stata oggi finalmente eliminata con l’art. 14 della l. 4 giugno 1985 n. 281.
— 1153 — discriminazione che si opera quando rispetto a fatti identici (peculato d’uso) si prevede che della minore pena (da sei mesi a tre anni: art. 314, comma 2o c.p.) possa beneficiare il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, ma non i militari che, pur potendo rivestire le medesime qualifiche e versando nella medesima situazione giuridica (peculato d’uso), sono irragionevolmente esclusi dalla previsione legislativa e si dubita che in questi casi possa operare l’art. 16 c.p. essendo il peculato militare espressamente disciplinato dalle norme speciali. In questi casi, la sentenza manipolativa riguarda situazioni giuridiche identiche, ove l’ampliamento della fattispecie incriminatrice da parte del giudice (delle leggi), suona come remora all’inerzia legislativa consentendo, in virtù del principio generale assiologico di uguaglianza di trattamento, l’operatività di norme incriminatrici in sé ragionevoli pur in presenza di un’omessa previsione normativa irragionevole (95). Né in siffatte ipotesi, la discriminazione fra situazioni giuridiche identiche può assurgere a lesione qualificata e perciò diretta dell’art. 3 Cost., perché non sussiste, nei casi appena indicati, uno dei motivi di discriminazione previsti dalla predetta norma costituzionale (‘‘sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali o sociali’’). Il problema attiene più all’astratezza e certezza (formale) del diritto penale che alla lesione qualificata del principio di uguaglianza. La differenza irragionevole del trattamento sanzionatorio fra soggetti è dovuta, a fronte di identità di situazioni giuridiche in cui versano (identiche condotte omissive o commissive, infedeli, ecc.), ad una incompletezza tecnica del dato letterale della norma penale incriminatrice. Non riteniamo, dunque, in questi casi, che la Corte Cost. possa eliminare la norma penale contenente un’omissione discriminatrice per violazione dell’art. 3 Cost. (96). Il problema, invece, è risolvibile de iure condendo, secondo i criteri di cui si è detto, attraverso l’intervento del giudice delle leggi che ristabilisca, con riferimento al principio generale assiologico di uguaglianza di trattamento (art. 12, ultima parte D.G.), l’astrattezza della norma penale e la certezza (legale) del diritto penale eliminando così l’irrazionale crisi di tassatività (omissione) concernente norme penali incriminatrici in sé ragionevoli e non sindacabili in sede costituzionale in (95) La Corte Cost. con sentenza n. 473 del 1990 ha ritenuto non essere conforme a razionalità che l’ipotesi attenuata del peculato d’uso di cui al cpv. dell’art. 314 c.p., introdotta con la l. n. 86 del 1990, non sia stata estesa al peculato militare. Ciò perché — come già il giudice delle leggi aveva affermato con sentenza n. 4 del 1974 a proposito del peculato per distrazione — sussiste una sostanziale identità fra la vecchia formulazione dell’art. 314 c.p. e quella di cui all’art. 215 c.p.m.p.. Sulla base di questi presupposti la Corte Cost. con sentenza n. 298 del 1995 ha ritenuto applicabile al peculato militare d’uso la pena più mite prevista dal cpv. dell’art. 314 c.p. ‘‘attraverso un esito necessitato di surrogazione della illegittima previsione speciale con quella comune’’. (96) Di diverso avviso è ROMANO, op. ult. cit., p. 1331.
— 1154 — quanto non realizzano una lesione qualificata del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.). Il tema che ci occupa in fondo affronta il seguente dilemma: come tutelare coercitivamente il principio della certezza del diritto (97) se in effetti, già attraverso l’interpretazione estensiva, detto criterio limite della punibilità è aggirato? Invero il ragionamento analogico sta a fondamento sia dell’interpretazione estensiva, sia della vera e propria interpretazione analogica, con la conseguenza che si può mascherare come interpretazione estensiva l’integrazione analogica vietata o viceversa come integrazione analogica vietata l’interpretazione estensiva consentita. Il ricorso ai principi generali, nei casi eccezionali di cui si è detto ed entro i limiti rigorosi di cui si è detto, porrebbe il giudice delle leggi di fronte alle sue responsabilità, obbligandolo a riflettere, al di là dello schema analogico, sulla necessità di una motivazione oggettiva sui principi generali dell’ordinamento giuridico-penale tale da escludere in radice quel soggettivismo arbitrario che, attraverso il pretesto dell’interpretazione estensiva, attinge sovente le soglie del diritto libero non consentito dall’ordinamento. 5. Un’altra considerazione è da farsi. Se lo schermo legale non riesce ad aderire all’infinita varietà dei casi, spetta pur sempre al legislatore, al teorico del diritto, al giudice, l’elaborazione di tecniche che permettono di conciliare interessi opposti. E tuttavia queste tecniche che mirano alla fusione delle antitesi non possono risolversi in un’abdicazione del legislatore dai suoi compiti perché ciò ‘‘esaspererebbe una già allarmante tensione nelle strutture’’ (98). Se il diritto fallisce il suo compito, se non realizza la fusione delle antitesi è la crisi dello Stato (99). Per quanto riguarda il legislatore, abbiamo già detto per i correttivi dei casi estremi attraverso la modifica, de iure condendo, dell’art. 14 D.G. che vieta l’applicazione della legge penale ol(97) Per tal via l’esigenza della certezza non si pone in conflitto con il primato della libertà del cittadino, semmai, per le considerazioni indicate nel testo, la certezza del diritto completa e rende effettiva la libertà del cittadino, evitando disparità di trattamento del tutto arbitrarie (per considerazioni di ordine generale si rinvia a M. GALLO, La legge penale (Appunti delle lezioni), cit., p. 28; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 109; SINISCALCO, Giustizia penale e Costituzione, cit., p. 54; PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., p. 95. (98) Sul tema dell’abdicazione del legislatore dai suoi compiti istituzionali in materia di legislazione penale e sui conseguenti rischi per le strutture politiche del Paese vedi CORSALE, op. cit., p. 262. Circa il problema di una nuova democrazia diretta e sul trapasso della sovranità dal Parlamento al corpo elettorale con la nascita di un nuovo concetto di legge, come consociazione di volontà degli organi dello Stato, specie del potere esecutivo con le forze sociali, vedi CAPOGRASSI, La nuova democrazia diretta, cit., p. 489. (99) Vedi BOBBIO, La certezza del diritto è un mito?, in Riv. Inter. Filos. del diritto, Milano, 1951, p. 6 e vedi le considerazioni di cui alla nota precedente.
— 1155 — tre ‘‘casi e... tempi’’ ivi considerati. Se le questioni dubbie non sempre trovano un limite razionale nel divieto di analogia (norme incriminatrici) ben venga il correttivo di tale dato positivo (art. 14 D.G.) per evitare l’arbitrio. Per quanto riguarda il giudice penale (e ciò vale anche per i teorici del diritto) egli certo deve delimitare il campo di azione di ogni norma penale tenendo conto del diritto vivente, non per attingere alla pericolosa deriva del diritto libero (che prepara l’avvento di deprecabili dittature) ma per ristabilire la coerenza del sistema giuridico. È necessaria, dunque, una modifica dell’art. 65 dell’ordinamento giudiziario per trasformare — entro certi limiti — detta norma da programmatica in norma vincolante. Il giudizio delle Sezioni Unite deve assicurare il superamento delle antitesi e quindi l’uniformità nell’interpretazione della legge penale, cioè l’unità del diritto oggettivo nazionale (100). E se il sistema è in crisi di identità, il ricorso ai principi generali dell’ordinamento giuridico (art. 12 D.G.), come principi di natura anche assiologica, diventa un tema non più eludibile (101). È stata posta in evidenza la forza di espansione non meramente logica ma assiologica di alcuni principi generali tali da trascendere il diritto positivo. Questi principi trovano la loro forza cogente nell’ultima parte dell’art. 12 D.G., e servono per il superamento delle antinomie, delle antitesi, nei momenti particolarmente difficili di trasformazione di un dato ordinamento giuridico (102). Conveniamo, dunque, con autorevole dottrina (103) nel riconoscere (100) Senza incidere sulla libertà interpretativa dei giudici di merito, è a nostro avviso necessario che i compiti istituzionali della Corte di Cassazione — specie se a Sezioni Unite — nel sancire l’uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale, non vengano sviliti da interpretazioni difformi ove si tratti di identica situazione giuridica i cui aspetti problematici siano stati chiariti dal giudice di legittimità, onde ristabilire la coerenza del sistema giuridico. Solo ove dimostri l’incoerenza o l’erroneità dell’interpretazione delle Sezioni Unite il giudice è autorizzato a disattendere, con adeguata motivazione, la decisione delle Sezioni Unite. Su questa problematica v. ACCATTATIS, Conflitti interpretativi, in Riv. Pen., 1966, p. 512; VELA, Per la Corte di Cassazione, II. La Corte di Cass., oggi, in Foro it., 1987, V, pp. 219 e 221. (101) Per utili approfondimenti circa la distinzione fra principi normativi di natura anche assiologica e ideologie che sottendono talora le concezioni giuridiche: v. VASSALLI, Atti dei Convegni Lincei, cit., p. 290. È evidente che il problema si pone anche nell’ambito delle modifiche legislative che riguardano le strutture politiche fondamentali dello Stato (sul punto v. BOBBIO, Principi generali di diritto, cit., p. 896). Ci permettiamo anche di rinviare al nostro lavoro: PANAGIA, Il delitto politico nel sistema penale italiano, Padova, 1980, pp. 14 e ss. (102) Sulla rilevanza dell’integrazione dell’ordinamento giuridico attraverso i principi assiologici generali (quali la tolleranza, il rispetto per la persona, per la sua libertà, ecc.) nel tentativo di soluzione della crisi della certezza del diritto per l’insorgere della Freirechtsbewegung, v. SIMON DIETER, Die Rechtswissenschaft als Geisteswissenschaft in Rechtshistor journal, 1992, S. 351-366. (103) BOBBIO, Principi generali, cit., p. 896, PARESCE, voce Intepretazione (filosofia), in Enc. Dir., 1972, Milano, XXII, p. 236. Cenni anche in VASSALLI, op. ult. cit., p. 256.
— 1156 — che non si può identificare l’intera categoria dei principi generali con i principi desunti per successive generalizzazioni dalle norme particolari e quindi in fondo con il ragionamento analogico. Ciò perché vi sono alcuni principi generali, operanti nell’ordinamento giuridico penale, che non sono estratti dalle norme espresse dal sistema (che ad esempio non consente univoche generalizzazioni), e non possono quindi ricondursi allo schema di sussunzione tipico dell’analogia (ove il caso non previsto viene ricondotto nell’ambito del principio generale desunto dalla norma particolare sulla base del criterio di similitudine). Vi sono, insomma, dei principi generali, pur operanti nell’interpretazione delle norme penali, che non sono conseguenza di generalizzazioni tratte da norme positive e ciò pertanto costituiscono un procedimento di interpretazione e d’integrazione diverso dall’analogia. Si rifletta, ad esempio, sul seguente caso: mentre la dottrina prevalente (104) riconosce natura costituzionale al principio generale di offensività — sicché non solo l’interprete, nell’applicazione delle norme penali, è tenuto a ricostruire le fattispecie in chiave di offensività, ma anche il legislatore è vincolato a strutturare i reati come forme di offesa a un bene giuridico — il giudice delle leggi, invece, ritiene di non condividere questa opinione, pur evidenziando che il principio di offensività ‘‘deve reggere ogni interpretazione di norme penali in quanto ciò rappresenta un canone unanimemente accettato’’ (105). A parte il dissenso del giudice delle leggi, gli argomenti della dottrina che sostiene la natura costituzionale del principio di offensività divergono a tal punto nelle conseguenze che, mentre taluni ammettono rientrare nello schema dell’offesa la tutela penale di funzioni (106) (come autentici beni giuridici offendibili), altri, invece, lo esclude considerando codesti illeciti come illeciti di mera trasgressione e cioè come reati privi di offesa reale ed effettiva (107). Ciò premesso, per superare l’antinomia e dare spessore cogente al principio di offensività, a noi sembra utile ancorarlo all’ultima parte dell’art. 12 D.G. e svelarne la natura extrasistematica. Si tratta cioè di un principio di natura etico-politica recepito fra i principi generali dell’ordinamento giuridico penale — ciò del resto riconosce la Corte Cost. allorché usa l’argomento del canone di interpretazione unanimemente accettato (108) — rispondente ad una concezione liberale del reato: il reato come offesa a un bene giuridico, si contrappone al reato (104) Rinviamo all’ampia ed esaustiva bibliografia indicata da MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 1995, p. 75. (105) Corte Costituzionale 11 luglio 1991 n. 333, in questa Rivista, 1992, p. 285. (106) MARINUCCI-DOLCINI, op. cit., p. 189. (107) Vedi per tutti MOCCIA, Dalla tutela dei beni alla tulela di funzioni, cit., pp. 346 e ss. (108) C. Cost., ult. cit.
— 1157 — come violazione di un dovere, come tradimento ecc. La forza cogente dell’ordinamento (art. 12 D.G.) ne sancisce la correlativa effettività. In quest’ottica di etica politica si collocano i corollari propri di parte della dottrina, secondo i quali: ‘‘le fattispecie di pericolo astratto (senza offesa) contrastano con i principi garantistici dello Stato liberale’’ (109). Questi enunciati sono di tipo valutativo (e non fattuale), esprimono cioè un giudizio etico (di etica-politica) secondo il quale in uno Stato di democrazia liberal-solidaristica (110) non dovrebbero sussistere reati che prescindano da un’offesa reale ed effettiva ad un bene giuridico. Lo schema dell’offesa formale contrasta, insomma, con i principi realistici di una concezione liberale del reato. Quegli asserti di deeticizzazione, laicizzazione, secolarizzazione (che escludono obblighi di criminalizzazione fondati su istanze etiche) che riguardano la politica criminale e legislativa e l’interpretazione delle norme penali sembrano dunque non poter a loro volta escludere il riferimento, almeno nei casi dubbi di interpretazione delle norme penali, a principi assiologici di natura etica (111) che costituiscono lo spirito del sistema: fra questi, il principio generale del reato come offesa ad un bene giuridico. A principi di etica politica (la tutela della libertà della persona, valore fondamentale dello Stato di diritto) si ispira a nostro avviso anche il principio di sussidiarietà del diritto penale che impone di ricorrere alla criminalizzazione solo di quei comportamenti per i quali non sia possibile adottare misure diverse dalla sanzione penale. L’individuazione di principi generali aventi natura assiologica nell’ambito del diritto penale esclude che il metodo analogico-circolare (argumentum a simile) possa caratterizzare in modo esaustivo — sia pur con i limiti già evidenziati — l’interpretazione delle norme penali. L’analogia, nell’ambito delle norme penali, è un’attività deontica, limitata, secondo la prevalente dottrina, alle norme non incriminatrici, e l’eadem ratio che dovrebbe rappresentare il criterio di distinzione fra interpretazione estensiva ed analogia (ove l’eadem ratio travalica il dato letterale) è criterio ambiguo che consente di mascherare come interpretazione estensiva ciò che nella realtà delle cose è una forma di analogia vietata: l’eadem ratio sovente dissimula l’Analogieverbot. Il ragionamento analogico ha dunque un ruolo assai limitato nel si(109) MOCCIA, op. ult. cit., p. 368. (110) L’espressione appartiene al MOCCIA e viene riferita allo Stato sociale in: Bioetica o biodiritto, in questa Rivista, 1990, III, p. 864. E vedi più diffusamente dello stesso autore le considerazioni svolte sul punto in: Il diritto penale tra essere e valore, cit. (111) Sul contrasto fra diversi postulati ideologici in sede di codificazione della parte speciale del diritto penale e sulla efficacia, non risolutiva del conflitto, della direttiva di laicizzazione adottata dalla Commissione, v. PEDRAZZI, Relazione di sintesi, in Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Milano, 1996, p. 294.
— 1158 — stema penale ove si tratti di superare le antinomie e le eventuali lacune; invece, l’uso corretto dei principi generali, anche di natura assiologica, di cui all’art. 12 ultima parte D.G., può efficacemente operare in tal senso. L’interpretazione assiologica è dunque un’attività deontica che si distingue, per metodo e struttura, dall’interpretazione analogica, da quella sistematica, e da quella letterale; essa opera sia a livello intrasistematico sia a livello extrasistematico, consentendo di soddisfare le esigenze che ivi affiorano in taluni ambiti di interpretazione (es. Strafwürdigkeit: valutazione dell’opportunità di punire certi reati o certe condotte come reato; es. aspetti di prequalificazione giuridica: concezione critica del bene giuridico; ecc.). Da un punto di vista sistematico, inoltre, l’interpretazione assiologica consente di orientare la stessa attività interpretativa secondo i principi cardine dell’ordinamento giuridico, secondo cioè lo spirito del sistema penale. Non v’è dubbio che fra diverse interpretazioni possibili della stessa fattispecie penale dovrà preferirsi quella che si armonizza con i principi realistici dell’offesa effettiva ad un bene giuridico (principio generale di natura assiologica), ovvero quella costituzionalmente orientata secondo valori assiologici recepiti nella carta fondamentale (ad es. il carattere personale della responsabilità penale: art. 27 Cost.) o recepiti nell’ambito del diritto comunitario (primato del diritto comunitario nell’interpretazione delle norme penali emanate dal legislatore nazionale per dare attuazione alle direttive comunitarie: v. Corte Cost. sent. n. 127/1990 ed art. 189 Trattato) o nelle convenzioni internazionali le cui leggi di esecuzione, non a caso, trovano un limite di efficacia nel rispetto dei principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico e dei diritti inalienabili della persona umana (112). 6. Se valutiamo ora l’operatività di alcuni principi generali di natura assiologica (es: il rispetto della vita umana come valore fondamentale non coercibile neppure da parte dello Stato (v. art. 27, ultima parte, Cost.); il rispetto dell’ambiente naturale come valore fondamentale, non strumentale, della collettività e dell’individiuo (113)) non possiamo non rilevare alcune incongruenze nell’ambito della politica legislativa (e quindi del sistema). In taluni casi, come ad esempio l’aborto ed i reati di inquinamento, il legislatore ha rinunziato a risolvere il conflitto fra i valori a confronto (diritti del concepito e libertà della madre: aborto volontario commesso senza l’osservanza delle modalità indicate negli artt. 5 e 8 l. n. 194/1978; economia e ambiente naturale) sancendo, entro certi limiti di (112)
Corte Cost. 18 aprile 1991 n. 168, in Foro it., 1992, p. 666. In dottrina v. PE-
DRAZZI, Interessi economici e tutela penale, cit., p. 295; PATRONO, Diritto penale dell’im-
presa e interessi umani fondamentali, Padova, 1993, p. 12. (113) Cfr. Cass. Sez. Un. 6 ottobre 1979 n. 5172, in Foro it., 1979, I, c. 2302; Corte Cost. 28 maggio 1987 n. 210, in Riv. giur. amb., 1987, p. 1620.
— 1159 — tollerabilità, la disponibilità dell’ambiente e la disponibilità parziale del concepito (almeno per determinati tipi di aborto che risultano legalizzati) da parte di coloro che sono penalmente perseguibili ove omettano o disattendano le misure politico-sociali di intervento (consultorio per consiglio, sostegno ecc., controlli amministrativi in materia ambientale). Ciò da taluni si giustifica in nome dell’efficienza del controllo sociale (114) che consiglia — su questi temi — un tipo di controllo diverso da quello penale. Questi tipi di controllo (amministrativo) più che alternativi, sovente risultano inesistenti. La cosificazione del neonato è un dato evidente della nostra epoca. L’aumento vertiginoso degli infanticidi è forse conseguenza di una malintesa libertà della donna, in tema di aborto, di disporre del concepito, come se non si trattasse di una vita umana, ma di un oggetto di cui si può liberamente interrompere la vita interrompendo la gravidanza. Non sono, infatti, prevalenti sulla volontà della madre le modalità sociali di intervento e la comminatoria penale è del tutto evanescente, almeno per la gestante, ai fini della dissuasione per la mancata osservanza delle predette modalità (115). La sanzione penale (per la sola gestante) si limita com’è noto ad una multa di lieve entità: v. art. 19, comma 1o, in relazione agli artt. 5 e 8 l. n. 194/1978. In quanto all’ambiente, i controlli preventivi di natura amministrativa sono a tal punto inesistenti che solo davanti al giudice penale è possibile (ed ora meno di prima dopo le modifiche introdotte dalla l. n. 172/95 alla l. n. 319/76) (116) realizzare un efficace intervento dell’amministrazione pubblica (soprattutto con la sospensione ulteriormente condizionata della pena che impone il controllo degli organi amministrativi). Si pensi, inoltre, all’ecomafia (117) in tema di smaltimento di rifiuti ove la criminalità organizzata realizza ingenti profitti con grave danno per l’ambiente naturale la cui salubrità risulta (114) È questa la teoria del MOCCIA, Bioetica o biodiritto, cit., p. 873, nota 36. (115) La disciplina penale dell’aborto deve essere inserita, de iure condendo, a nostro avviso, nell’ambito della tutela che l’ordinamento giuridico deve accordare alla maternità. (116) Ci riferiamo alla normativa che ha introdotto delle modifiche alla disciplina degli scarichi delle pubbliche fognature e degli scarichi industriali che recapitano in pubbliche fognature, nonché alla disciplina degli scarichi degli insediamenti civili che non recapitano in pubbliche fognature. Com’è noto la l. n. 172/95 ha depenalizzato alcune fattispecie penali già previste dalla Legge Merli. Ad esempio l’art. 22 della l. n. 319/76 non costituisce più reato: l’inosservanza delle prescrizioni indicate nel provvedimento di autorizzazione è perseguito con una sanzione amministrativa pecuniaria; manca poi qualsivoglia sanzione di tipo afflittivo, diversa dalla pecuniaria, che possa efficacemente dissuadere (soprattutto le grandi imprese) dall’inosservanza delle prescrizioni imposte dagli organi di controllo preventivo. (117) Il tema dell’ecomafia, come strumento per il riciclaggio del denaro sporco attraverso il business dei rifiuti, non è stato sufficientemente approfondito dal punto di vista della politica criminale e delle conseguenti scelte di politica legislativa: si rinvia al lavoro di CIANCIULLO e FONTANA, Ecomafia: i predoni dell’ambiente, Roma, 1995, p. 28, per utili riferimenti di cronaca sociale riguardanti alcuni casi all’attenzione della Procura Nazionale Antimafia.
— 1160 — compromessa anche per le generazioni future. Ciò si verifica per l’inesistenza dei controlli preventivi di natura amministrativa ovvero perché le autorizzazioni sono frutto di collusione tra ecomafia e pubblica amministrazione. A fronte dell’inesistenza o dell’inefficienza dei controlli sociali alternativi (a quello penale), quanto meno discutibili se non effimere sembrano le scelte di politica legislativa che affidano, entro certi limiti di tollerabilità, al potenziale autore del reato la disponibilità del bene oggetto di tutela penale concernente fatti che sia sul versante del lecito come in quello dell’illecito penale si ritengono egualmente connotati di forte disvalore etico-sociale (118). In una prospettiva extrasistematica ove si volesse saggiare la meritevolezza di pena di questi fatti ritenuti socialmente dannosi sarà necessaria una valutazione anche etico-politica dei valori in gioco (vita umana — libertà della madre, salubrità dell’ambiente-economia), conflitti che il legislatore non può ignorare abdicando ai suoi doveri istituzionali con il demandarne la soluzione al nulla e cioè alla pubblica amministrazione. Il ricorso al consenso sociale per saggiare l’efficienza del sistema in una prospettiva di politica legislativa (119), pur con eleganti accorgimenti, non tranquillizza a fronte di effimeri facitori di consenso, a fronte dell’insensibilità della coscienza sociale sulla gravità di taluni temi (es. l’ambiente) (120). Vero è che in questi campi il diritto penale non può rinunziare alla sua funzione di indirizzo etico (121). Sarà necessario, a nostro avviso, sancire a livello costituzionale, così come avviene per la libertà dell’individuo, che gli interventi dell’uomo concernenti la vita dell’embrione o l’ambiente, sono eccezionalmente tollerati dall’ordinamento e solo per la salvaguardia di un bene dotato di pari dignità costituzionale. (118) Pur riconoscendo che l’aborto resta comunque un fatto connotato di forte disvalore etico-sociale, il MOCCIA, op. ult. cit., loc. cit., ritiene, tuttavia, che l’efficienza del controllo sociale giustifichi la legalizzazione di alcuni tipi di aborto in quanto detto controllo, diverso da quello penale, è più efficace di quest’ultimo. Si tratta di una mera astrazione perché la realtà dismaga di fronte all’evidenza della storia: di fronte all’aumento vertiginoso degli aborti, dei feticidi e degli infanticidi. E vedi sul punto le osservazioni critiche di ROMANO, Legislazione penale e tutela della persona umana (contributo alla revisione del titolo XII del c.p.), in questa Rivista, 1989, p. 67. (119) PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in questa Rivista, 1992, pp. 919 e 921. (120) Sul punto vedi MARINUCCI-DOLCINI, op. cit., p. 45. (121) Circa la funzione moralizzatrice o di orientamento culturale del diritto penale v: ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, 13a ed., 1994, p. 10; PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte generale, 4a ed., 1993, pp. 9 e 660; MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, 3a ed., 1992, p. 8; FIORE, Diritto penale, Parte generale, vol. I, 1993, p. 10; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit. p. 47. E vedi anche sul punto le originali considerazioni di PEDRAZZI, voce Diritto penale, in Dig. pen., vol. IV, 1990, p. 67.
— 1161 — In questi casi eccezionali la prevenzione ai fini di un effettivo controllo sociale deve operare con strumenti diversi da quelli amministrativi che si sono rivelati talvolta inefficienti, talvolta inesistenti, talvolta collusi con la criminalità organizzata (122). Questo sforzo per risolvere le incompatibilità non pone forse il problema di una vera e propria politica della cultura giuridica? Quando il sistema è in crisi lo scopo del giurista non può essere la sintesi logica ma la conciliazione di interessi opposti che permettono al diritto penale di prevalere sulla forza e dunque di progredire. Senza però un comune sentire sui motivi ispiratori dell’ordinamento (123), e cioè sui principi generali anche di natura assiologica, la civiltà del diritto declina. Da qui l’opportunità che una politica della cultura giuridica si affermi come proemio al rischio di onniscienza della politica legislativa (124). I casi sono là e di dirompente attualità, non solo per le generazioni presenti ma anche per le future, si pensi alle manipolazioni genetiche. A nostro avviso, per quest’ultima fattispecie e per quelle appena citate — che comportano un rapporto di mutua implicazione fra etica e diritto penale — non si potrà invocare la neutralità (125) della dottrina, auspicandone la soluzione a livello legislativo, forse attraverso un trascorrere dalla concezione retributiva del diritto penale, come spartiacque tra il giusto e l’ingiusto, verso forme di tutela penale ove la sanzione penale dovrebbe solo rafforzare l’attività amministrativa di prevenzione (i controlli amministrativi — si è detto — sono sovente inesistenti o collusi) (126). Osservazione tanto più necessaria ove si rifletta come le finalità di integrazione sociale, l’effetto retributivo o (fine) rieducativo della pena sono elisi perché, in vasti settori dell’ordinamento giuridico penale l’esecuzione della sanzione penale — che tende ad assicurare il fine rieducativo della pena, pur non appartenendo al diritto penale sostanziale (127) — si avvia a diventare un’opzione variabile nel rapporto conseguenziale reato-pena, secondo il criterio utilitaristico (che nell’immaginario collettivo già assurge a principio) del ‘‘delinqui fortemente onde poi (122) Vedi nota 117. (123) Sul tema rinviamo al contributo del VASSALLI, I principi generali del diritto nell’esperienza penalistica, op. ult. cit., pp. 255 e ss.; e vedi anche dello stesso autore, voce Analogia, cit., p. 163. (124) Vedi sul punto le acute osservazioni di PALIERO, op. cit., pp. 861 e ss. (125) V. RADBRUCH, Der Relativismus in der Rechtsphilosophie (1934), in Der Mensch im Recht, Göttingen, 1957, pp. 80 ss. (126) Su questa problematica a proposito dell’aborto rinviamo a MARINUCCI-DOLCINI, op. cit., p. 146. Più in generale, per una critica alla concezione retributiva della pena e per una definizione della stessa adeguata all’assetto ordinamentale dello stato sociale di diritto, v. anche per ulteriori riferimenti bibliografici, MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, cit., pp. 85 e ss., pp. 122 e ss. (127) Cfr. per tutti, Cass. pen., 8 ottobre 1993, in Cass. pen., 1995, p. 286.
— 1162 — tu possa pentirti utilmente’’ con conseguente trasformazione del diritto penale da diritto fondato sull’efficienza del controllo sociale in diritto virtuale. Nell’ambito dei principi ispiratori di un diritto penale laico — per quanto possa essere difficile distinguere questi principi da quelli propri di una attenta politica criminale — non si potrà prescindere, a nostro avviso, dal considerare la tutela dell’embrione come tutela della vita umana in una prospettiva più generale relativa ai valori fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato. Non basta, dunque, proclamare i diritti inviolabili dell’uomo (l’art. 2 Cost., come più volte la Corte Cost. ha ribadito (128) necessariamente si riporta alle norme successive in cui i diritti stessi sono particolarmente presi in considerazione: da ciò la necessità di codificare a livello costituzionale il concetto di vita umana ed i limiti di intervento dell’uomo sulla stessa) se alla radice di tutti i diritti di libertà non si pone come principio generale del nostro ordinamento l’affermazione che l’essere umano in fieri (embrione) non ha altra ragione di esistere se non quella di compiersi nel ‘‘suo’’ ambiente biologico e che è proprio questo fine che distingue la bestialità naturale dallo stadio superiore ove si situa la libertà responsabile. Il compito ‘‘politico’’ di una cultura giuridica attenta sta appunto in questo, che essa deve rivolgersi al legislatore per agevolarlo nel comprendere ciò che è la libertà. Da qui la necessità che senza l’inutile confusione di ruoli (tra morale e diritto penale) (129) si abbia ben presente che l’etica della persuasione o dell’argomentazione non è più sufficiente senza un’etica della responsabilità, e ciò comporta su taluni temi, la necessità di liberamente convenire su determinati valori e sulle modalità di tutela di questi valori (metaetica (130) del diritto penale). SALVATORE PANAGÌA Docente di Diritto penale dell’ambiente nell’Università Cà Foscari (128) Nella pur vasta letteratura sul tema rinviamo al classico lavoro di BISCARETTI DI RUFFIA, voce Diritti sociali, in Nov..Dig. it., V, 1964, p. 761, ove l’illustre autore, commentando i primi quattro articoli della costituzione contenenti i ‘‘principi fondamentali’’ dell’ordinamento giuridico dello Stato, afferma che essi esprimono le linee direttive e ‘‘programmatiche’’ che devono essere attuate con leggi successive. V. anche BALDASSARRE, Diritti inviolabili, in Enc. giur. Treccani, XI, Roma, 1989. (129) Circa l’impossibilità di sottoporre il singolo a tutela morale attraverso lo strumento del diritto penale, v. per tutti FIANDACA, Laicità del diritto penale e secolarizzazione di beni tutelati, in Studi in memoria di P. Nuvolone, I, Milano, 1991, pp. 167 e ss. (130) Il termine viene usato nell’accezione propria indicata da Scarpelli nella prefazione al libro di OPPENHEIM, Etica e filosofia politica, Bologna, 1968, XX, pp. 215 e ss. La metaetica a cui facciamo riferimento richiede quindi uno sforzo di riflessione comune fra una pluralità di soggetti, ciascuno dotato di una propria etica, perché, attraverso l’esplorazione, l’analisi, il confronto, si arrivi a convenire su alcuni valori fondamentali che sono alla base della nostra civiltà.
LA TUTELA DELLA PERSONA NELLA RECENTE LEGGE SULLA VIOLENZA SESSUALE ALL’EPILOGO DI UN TRAVAGLIATO CAMMINO LEGISLATIVO
SOMMARIO: 1. Introduzione: tutela penale della libertà sessuale e legislazione simbolica. — 2. La dimensione della libertà sessuale nella l. n. 66/96: presupposti e logica della novella di riforma. — 3. Spunti problematici. — 4. La ridefinizione dell’intangibilità sessuale: i minori... — 5. Gli handicappati.
1. Com’è stato autorevolmente sottolineato, il rispetto e l’efficacia di una norma incriminatrice sono strettamente connessi alla sua capacità di ‘‘tradursi in atto’’, cosicché la funzione deterrente della minaccia penale risulta fortemente condizionata dall’idoneità del precetto a porsi come guida del comportamento umano (1). Ciò significa non solo che i precetti penali devono essere formulati in maniera ‘‘chiara e nitida’’, ma anche, che nei loro contenuti devono trovare espressione sia i giudizi di valore dominanti nella società, che la promozione della tutela dei beni qualificati meritevoli dalle direttive costituzionali. Sotto questo profilo le recenti norme sulla violenza sessuale, faticosamente elaborate sulla consapevolezza della necessità di una rimeditazione del codice Rocco (2), non appaiono l’adeguato epilogo di un iter legisla(1) G. FIANDACA, Il ‘‘bene giuridico’’ come problema teorico e e come criterio di politica criminale, in questa Rivista, 1982, 42 ss. (2) Ripercorrendo retrospettivamente le tappe dell’iter normativo che ha condotto alla l. n. 66/96, si nota come il tratto comune a tutti i progetti di modifica dei delitti contro la libertà sessuale, ha visto la previsione del costante recupero di essi, dalla sistematica utilitaristico-statualistica alle offese dei beni personali (attraverso la collocazione fra i delitti contro la libertà). Tuttavia, fra i progetti di legge elaborati nella XII legislatura, si evidenzia l’assenza di ogni esigenza di rimeditazione del contenuto delle singole fattispecie poste a tutela della libertà sessuale; così nella Proposta n. 1572 (JERVOLINO RUSSO, MAFAI, IOTTI e altri), la quale si limitava a suggerire uno spostamento ‘‘fisico’’ del capo dei delitti in parola fra i reati contro la persona, lasciando al Governo il compito di coordinare la normativa vigente. Si può comunque individuare una duplice prospettiva lungo la quale si sono mosse le più recenti proposte di riforma: nella maggior parte dei casi si coglie una percezione ancora non nitida del fenomeno della violenza sessuale, che portava a ricalcare la disciplina del c.p. Rocco; più raramente è emersa una maggior sensibilità nella focalizzazione della problematica definitoria, con l’attenzione rivolta alla modifica culturale e sociale in via prioritaria. Nel primo senso, Senato della Repubblica (XI Legisl.): Disegno di legge n. 194, (FILETTI), e n. 466 (MINUCCI, COLOMBO ed altri) citt.; Camera dei Deputati (XII Legisl.): Proposta di legge
— 1164 — tivo di durata ventennale, quanto piuttosto la testimonianza dell’uso improprio della forza general-preventiva della sanzione penale, in sostituzione di una politica di educazione culturale di tipo extrapenale. Rimangono così insoddisfatte le aspettative di quanti avevano riposto la speranza in una riforma effettiva della tutela della libertà sessuale. Di fronte alla necessità di recuperare al dato normativo le nuove regole comportamentali derivanti dall’evoluzione dei costumi (3), il legislatore penale ha dimostrato di non essere in grado di comporre il conflitto sociale derivante dalla tradizionale, e persistente, contrapposizione di ‘‘ruoli sessuali’’, e quindi, in ultima analisi, di elaborare gli adeguati confini della tutela penale in materia (4). Il risultato delle ambiguità e contraddizioni che accompagnano il fenomeno della liberalizzazione dei costumi sessuali si riproduce fedelmente a livello normativo, offrendo una confusa percezione della portata delle ipotesi di violenza sessuale penalmente rilevanti, tanto più insoddisfacente se inquadrata nell’ottica di una affermazione prioritaria del bene della libertà individuale, che non tollera una scissione anacronistica fra tutela del corpo e tutela della volontà. Ancora oggi il complesso intreccio del profilo socio-psicologico e criminologico con quello più strettamente giuridico, impedisce di considen. 990, (BASSI LAGOSTENA, PARENTI ed altri) cit., e quella recentissima, presentata da tutte le donne parlamentari il 2315/95. Nel secondo senso, invece, si segnalano: lo schema di leggedelega per una riforma del c.p., elaborato dalla Commissione Pagliaro, in Documenti Giustizia, n. 3, 1992, nonché la Proposta di legge n. 1434, (MELANDRI, AMICI), la quale recepisce l’iniziativa redatta dalle donne del Telefono Rosa, nel senso di tutelare la dignità della donna in quanto privata del diritto di decidere in ordine alla propria sessualità. Si segnala come ulteriore indice di diversificazione metodologica, che mentre le proposte di modifica del Titolo IX prevedevano l’istituzione di una sez. II bis (‘‘dei delitti contro la libertà sessuale’’), immediatamente successiva a quella sui delitti contro la libertà personale, il progetto di riforma del c.p. prevede la creazione di un autonomo e nuovo Titolo ‘‘Dei reati contro la libertà’’, in cui i delitti contro la libertà sessuale sono disciplinati al capo III (sull’impostazione della riforma del c.p. si veda A. PALIERO, Valori e principi nella bozza italiana di legge-delega per un nuovo c.p., in questa Rivista, n. 2, 1994). La novella approvata invece, prevede che le norme incriminatrici della violenza sessuale siano inserite direttamente nella sezione ‘‘Dei delitti contro la libertà individuale’’; ‘‘perdono così il riferimento alla libertà sessuale, e confluiscono... tra reati che presuppongono una dimensione corporea e fisica della libertà personale’’: così M. VIRGILIO, Diritto penale sul corpo delle donne: le proposte delle donne parlamentari contro la violenza sessuale, in Crit. dir., 1995, p. 197. (3) La continua evoluzione dei costumi sessuali, benché non omogenea nelle diverse regioni italiane, è testimoniata dall’aumento costante dei tassi delle denunce per violenza, come affermazione della maggior sensibilità del corpo sociale ai problemi delle vittime, e come consapevolezza della donna che il prezzo da pagare per il raggiungimento della piena libertà sessuale è costituito dal rischio di una maggiore esposizione agli episodi di violenza: TRAVERSO, MANNA, Analisi statistica e considerazioni criminologiche sulle denunce di violenza carnale in Italia nel periodo 1982-87, in Rassegna it. criminologia, 1991, I, 135 ss. (4) M. BERTOLINO, I reati contro la libertà sessuale tra codice e riforma, in questa Rivista, 1983, 1465 ss.
— 1165 — rare pacificamente acquisito il concetto di libertà sessuale come diritto di libertà della donna di autodeterminarsi nei propri comportamenti sessuali, pur nella consapevolezza della sua identità, e nonostante si riscontri una maggior reattività collettiva ai fenomeni di abuso e violenza. È stato evidenziato come l’educazione a stereotipi comportamentali, maschili da un lato e femminili dall’altro, origina ‘‘aspettative di ruolo’’ in ciascuno dei partners, spesso fraintese da parte dell’uomo, e quindi capaci di degenerare in atti sessuali violenti (5). Infatti, un uomo che abbia socialmente appreso di dover ‘‘vincere la naturale ritrosia femminile’’, difficilmente sarà in grado di percepire il rifiuto della donna come mancanza effettiva di consenso, sentendosi anzi, eventualmente legittimato a fare uso di costrizione fisica o psichica; ciò tanto più quando concorrano quegli elementi che, per una certa cultura, sono segni inequivocabili di una volontà consenziente all’atto sessuale (tipici i casi di seduzione femminile intesi come ‘‘provocazione allo stupro’’, o come consenso putativo) (6). L’impressione che si può trarre dalla l. 15 febbraio 1996 n. 66 (peraltro costante lungo tutto l’iter progettuale che l’ha preceduta), è che il legislatore si sia preoccupato prevalentemente di assicurare la punizione dello stupratore piuttosto che tutelare la libertà della vittima (7). Quest’uso sostanzialmente ‘‘politico’’ della sanzione penale (8), condotto nel manifesto (5) La stretta relazione tra comportamento sessuale deviante e comportamento sessuale socialmente appreso ha evidenziato come il ‘‘ruolo sessuale maschile socialmente appreso sia caratterizzato da elementi di aggressività, prevalenza di fattori razionali sulle emozioni, oltreché da una superiorità fisica rispetto alla donna. Per essa, quindi, viene ritagliato un ruolo sessuale complementare, caratterizzato da generale passività, ritrosia naturale al rapporto sessuale, che l’uomo dovrebbe vincere....’’: M. BERTOLINO, op. cit., 1468; F. ROMANO, La violenza sessuale: luci ed ombre nella normativa vigente e nelle proposte di riforma, in Giur. mer., 1991, p. 456. Sulla unilateralità delle contrapposte ideologie della ‘‘seduzione femminile’’ e ‘‘aggressione maschile’’, in materia di vittimologia: F. MANTOVANI, I delitti sessuali: normativa vigente e prospettive di riforma, in Iustitia, 1989, p. 36 ss. (6) M. BERTOLINO, op. cit., 1469. Per il problema della provocazione, come effetto di una distorsione comunicativa che investe la cultura e i ruoli assegnati al ‘‘maschio’’ e alla ‘‘femmina’’, e che, comunque, lasciando intatto il diritto della donna a negarsi, rende illecita la non accettazione del suo rifiuto all’atto sessuale: TRAVERSO, MANNA, MARENGO, La violenza carnale in Italia, Padova, 1989, p. 11 ss. (7) Tutta la normativa è infatti caratterizzata da una maggior severità delle pene realizzata attraverso un aumento del minimo edittale: al maggior disvalore del fatto, espresso mediante il vincolo a non poter applicare una sanzione individuata al di sotto della soglia prestabilita (ex art. 132 c.p.), corrisponde evidentemente l’esigenza processuale di escludere i presupposti per l’applicazione del patteggiamento. (8) G. FIANDACA, Violenza sessuale, in Enc. dir., XLVI, 1991, p. 953 ss. Sulla legislazione simbolica e sull’uso politico della sanzione penale: E. MUSCO Consenso e legislazione penale, in questa Rivista, 1993, p. 80 ss. A questo proposito anche F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Nss. Dig. it., XIX, p. 17 ss. In generale, sulla problematica dell’ineffettività della norma penale: A. PALIERO, Il principio di effettività del diritto penale, in questa Rivista, 1990, p. 537 ss.
— 1166 — intento di aggregare il consenso sociale attorno al riconoscimento dell’autodeterminazione della donna in campo sessuale, nasconde in realtà l’esigenza di accreditare un’immagine di capacità ed efficienza del sistema (9). Ma una legislazione che si preoccupa in via prioritaria degli effetti sulla società, piuttosto che della sua funzionalità ed efficienza sul piano politico-criminale, è purtroppo una legislazione puramente ‘‘simbolica’’, la quale ‘‘contiene nella sostanza meno di quello che promette’’ (10). La sua incapacità di orientare effettivamente le condotte dei consociati, lasciando solo apparire una ‘‘controllabilità’’ del fenomeno della violenza sessuale, è sintomo di una incapacità più generale di selezionare adeguatamente i beni giuridici da tutelare, e perciò, di elaborare fattispecie criminose realmente offensive. Solo un concetto di libertà sessuale affrancata dagli intenti propagandistici di affermazione dei movimenti sociali, e arricchita dei contenuti che la concezione personalistica della Costituzione impone, può assolvere ad un effettivo orientamento delle condotte dei consociati, individuando i confini della tutela penale nella garanzia di una concreta esplicazione di un diritto di libertà, attraverso l’autonoma determinazione della volontà del suo titolare; i limiti contenutistici della recente l. n. 66/96 non tarderanno a manifestarsi nelle applicazioni giurisprudenziali, lasciando emergere impietosa l’inadeguatezza dell’attuale dimensione della tutela penale della libertà sessuale e riproponendo irrisolti i nodi interpretativi che avevano tormentato la vigenza della vecchia normativa. 2. Da una prima lettura della nuova fattispecie di cui all’art. 609-bis sembrerebbe che l’enfasi polemica dei movimenti sociali di riforma del vecchio art. 519 c.p. abbia trovato adeguata risonanza. Tuttavia, la composizione dell’inconciliabile binomio di tutela, che nella formulazione originaria del codice Rocco tentava di coniugare l’interesse pubblico e astratto della moralità, con quello individuale e concreto della salvaguardia della persona, è stato superato solo illusoriamente attraverso lo spostamento sistematico del delitto fra i reati contro la persona (11); per(9) E. MUSCO op. cit., p. 87, sottolinea come ‘‘l’obiettivo politico di stimolare una rinnovata fiducia nel sistema, sia sempre più sostenuto da un massiccio ricorso alla politica dell’informazione’’, per far sorgere nell’opinione pubblica ‘‘la consapevolezza della capacità di prestazione del Potere’’. (10) E. MUSCO op. cit., p. 87 ss. (11) È stato sottolineato che, nell’ideologia del codice Rocco la libertà sessuale assume una ‘‘finalità latu sensu politica’’, in quanto vincolata e funzionalizzata nel suo esercizio, alla tutela dello status politico e sociale dell’individuo in seno all’ordinamento, aggiungendosi così, connotati ulteriori a quelli già offerti dalla morale tipica di quel determinato momento storico (inevitabilmente recepita dal diritto nei suoi contenuti materiali): T. PADOVANI, Violenza carnale e tutela della libertà, in questa Rivista, 1989, I, p. 1304 ss.; sostanzialmente nello stesso senso, M. BERTOLINO, op. cit., p. 1465. L’esaltazione della libertà,
— 1167 — tanto, l’impressione complessiva che si può trarre è quella di una mancata riformulazione della fattispecie in chiave di tutela effettiva del bene giuridico della libertà sessuale, nonostante il proclamato scopo di privilegiare la persona piuttosto che lo Stato. Alla duplice dichiarazione d’intenti che la libertà è un attributo essenziale della personalità e dignità umana, e che (per opinione ormai matura) il bene giuridico tutelato non è la moralità pubblica, ma l’esplicazione della sessualità individuale quando concorra un ‘‘dissenso’’ della persona offesa, non corrisponde un nuovo nucleo descrittivo dell’art. 609-bis. Anzi, i primi segni di una tendenza alla repressione simbolica del fenomeno della violenza sessuale, si colgono già da una più attenta lettura della nuova fattispecie rubricata come ‘‘violenza sessuale’’; la norma riproduce sostanzialmente la descrizione dell’art. 519 c.p., nell’illusoria aspettativa che, una fattispecie ab origine non concepita in chiave di tutela della persona (12), possa mutuare contenuti di cui in realtà risulta priva da un mero rinnovamento della propria collocazione sistematica. Infatti, la scelta terminologica di modernizzazione della rubrica ‘‘violenza carnale’’, si è realizzata attraverso la sostituzione con l’espressione ‘‘violenza sessuale’’, la quale, esigendo che la coartazione della volontà della vittima si esplichi attraverso modalità aggressive, lascia sopravvivere il tradizionale ‘‘onere di resistenza’’ (13). quale diritto naturale dell’individuo, riceveva invece una tutela di rango primario nella parte speciale del Codice Zanardelli, la quale traspariva dalla collocazione sistematica autonoma e precedente il titolo dei delitti contro la persona: M. ROMANO, Legislazione penale e tutela della persona umana (contributo alla revisione del Titolo Xll del codice penale), in questa Rivista, 1989, p. 58 ss.; più specificamente, sui delitti contro la libertà: G.M. FLICK, Libertà individuale (delitti contro la), in Enc. dir., XXI V, 1974, p. 538. (12) L’accoglimento di un’impostazione ideologica di tipo statualista, in cui la tutela dell’individuo sfuma in quella di beni sovraindividuali, non poteva accogliere lo stampo liberale della codificazione previgente, assegnando ai delitti contro la libertà un titolo apposito; semmai, pubblicizzando artificiosamente interessi schiettamente personali, si è istituzionalizzata la tutela della persona in chiave di pendant, residuale e strumentale, di beni giuridici di categoria intrinsecamente astratti. (13) Retrospettivamente non è inopportuno notare che un maggiore spessore contenutistico sarebbe derivato dall’accoglimento di quel ‘‘filone ricostruttivo’’ che, in sede di progettazione normativa proponeva una chiavc di lettura del bene giuridico più coerente con gli scopi perseguiti dalla riforma rubricando il novellato delitto come ‘‘stupro’’ (in questo senso, art. 71 schema di legge-delega per la riforma del c.p. cit. e relazione introduttiva della parte speciale, in Documenti Giustizia, p. 370; art. 609-bis Proposta di legge n. 1434 (Melandri-Amici), cit.). Il tenore letterale del testo proposto era conseguentemente rivolto ad eliminare ogni riferimento alle originarie esteriorizzazioni della condotta attiva, attraverso una formulazione che incriminava « chiunque si congiunge sessualmente o compie atti di identico significato offensivo contro la volontà della persona »; violenza e minaccia venivano dunque tipizzate in veste di circostanze aggravanti, al dichiarato scopo di ‘‘evitare la non punibilità di fatti non commessi con tali modalità’’, ma pur sempre nel mancato rispetto del dissenso opposto dalla vittima.
— 1168 — Da una considerazione retrospettiva condotta lungo i binari dei limiti della normativa previgente, emerge che l’esigenza di una riformulazione della disciplina della tutela della libertà sessuale non muoveva solo dall’inadeguata collocazione sistematica della fattispecie di cui all’art. 519, ma specialmente dai contenuti da essa sottesi, fedele spaccato di una cultura ormai anacronistica. Nel codice Rocco la dimensione della tutela della sfera sessuale della donna non era quella tipica di un diritto di libertà, le cui modalità di estrinsecazione sono frutto di scelte squisitamente personali, ma, in quanto mediata da esigenze collettive superiori trascendenti la volontà individuale, si concretizzava in un onere di resistenza attiva alle ‘‘aggressioni’’ che insidiavano l’indisponibilità del proprio corpo, fuori dai contesti reputati legittimi. In questa dimensione di assorbente tutela della moralità pubblica, si comprendono anche le radici dell’equazione espressa nell’art. 519/1 c.p. (offesa alla libertà sessuale=congiunzione carnale coartata da violenza o minaccia), in quanto il soggetto passivo, sostanzialmente spogliato di un diritto di libertà di cui appariva solo titolare, si è visto degradare a mera occasione di turbamento delle convenzioni sociali, abitudini, tabù di origine psicologica generalmente acquisiti. Dall’infelice connubio fra tutela della libertà sessuale e moralità pubblica, confluito nella scelta normativa di tipizzare il disvalore dell’art. 519/1 nelle modalità della condotta piuttosto che nell’offesa del soggetto passivo (14), è derivata la costante prassi applicativa che ha cristallizzato il baricentro della verifica della lesione della libertà sessuale nell’accertamento della violenza o minaccia, come se, solo in tal modo potesse acclararsi l’implicita coartazione della volontà, e quindi, l’illiceità del rapporto sessuale (15). Tale più incisiva scelta terminologica avrebbe fotografato la brutalità di un comportamento immediatamente lesivo della dignità individuale, calpestata nell’inviolabile diritto di esprimere un rifiuto che, al pari dell’omonimo archetipo già incriminato nelle codificazioni dell’ancien règime, non richiede violenza o minaccia come modalità lesive necessarie all’integrazione del fatto tipico. Più precisamente, in quelle codificazioni il sistema delle incriminazioni veniva concepito in termini gradualistici, per cui stupro ‘‘semplice’’ era il mero ‘‘concubito con persona libera e di onesta vita’’, in quanto, secondo la concezione del tempo, il disvalore del fatto s’incentrava già nella consumazione di un rapporto sessuale fuori dai contesti considerati legittimi. A prescindere dalla consensualità della donna, si reprimeva la lesione dell’integrità della futura ‘‘destinazione sessuale’’ di essa, mentre, lo stupro ‘‘violento’’ costituiva un’ipotesi criminosa autonoma, la cui maggior gravità si radicava nell’uso di violenza o minaccia (così T. PADOVANI, La libertà, cit., p. 1306). Ora che il rapporto sessuale in sé deve considerarsi lecito, il termine ‘‘stupro’’ avrebbe potuto recuperarsi ad un significato idoneo a focalizzare il baricentro dell’offesa nella dignità e libertà individuale, anziché nelle modalità della condotta. (14) E. CONTIERI, La congiunzione carnale violenta, Milano, 1974, p. 17 ss. (15) Il tenore testuale dell’art. 519 c.p., dunque, ha sempre costituito un forte vincolo per l’interprete, imponendo di accertare essenzialmente lo stato di coazione della vittima, fino a ‘‘colpevolizzarla’’ quando le indagini processuali si spingono inevitabilmente a
— 1169 — Una riforma adeguata avrebbe preteso pertanto, non solo un’imprescindibile nuova collocazione sistematica della fattispecie, ma anche una riqualificazione della violenza e minaccia, da requisiti modali della condotta ad elementi eventuali di incremento della gravità del fatto, così da affrancare l’art. 519 dall’impronta di evidente connotazione pubblicistica e incentrando piuttosto il fulcro dell’offesa tipica nel mero ‘‘dissenso’’ della vittima al compimento dell’atto sessuale, univocamente e consapevolmente espresso. Sarebbe stato opportuno rivisitare quello che secondo una ricostruzione dottrinaria costituiva il primo stadio dell’aggressione (c.d. bifasica) alla libertà sessuale, sostituendo al ruolo primario della violenza o minaccia, qualificante ai fini di rendere punibile una congiunzione carnale in quanto non libera, quello della contraria volontà del soggetto passivo (id est, dissenso). Di conseguenza, il secondo stadio della condotta: il compimento di un atto sessuale (secondo la terminologia originaria, la congiunzione carnale), di per sé lecito, avrebbe mutuato il proprio disvalore penale non più da un costringimento fisico o psichico, bensì dal mancato rispetto del rifiuto consapevolmente opposto dalla vittima ad un’interferenza non desiderata nella propria sfera sessuale. L’atto sessuale non avrebbe rappresentato più l’oggetto o il fine a cui sono rivolte le modalità coercitive della condotta dell’agente, ma solo un mezzo di cui egli si serve per integrare una lesione della libertà del soggetto passivo, quando concorra il dissenso; solo attraverso una ricostruzione normativa basata su questi presupposti, la tutela della personalità verificare le modalità di ‘‘adempimento dell’onere di resistenza, la sua reattività e financo il suo eventuale coinvolgimento emotivo, in un crescendo inquisitorio che rischia (...) di spostare l’asse del procedimento dalla condotta del reo a quella vittima’’ (T. PADOVANI, Violenza, cit., p. 1312 ss.). A poco è servito il tentativo, peraltro non univoco, della giurisprudenza di dilatare il significato di tali requisiti modali fino a ritenerli impliciti nello stesso fatto di aver subìto un atto sessuale. La non univocità della giurisprudenza si segnala da un lato, nelle pronunce che ripropongono il modello comportamentale ‘‘vis haud ingrata puellis’’, mascherando vere aggressioni dietro il paravento della donna che ‘‘ vuole essere conquistata, anche con maniere rudi, magari per crearsi un alibi al cedimento ai desideri dell’uomo’’ (Trib. Bolzano, 30 giugno 1982 in Giur. mer., 1984, 135; Cass., sez. III, 11 marzo 1994, in Cass. pen., 1995, 227); dall’altro, nelle decisioni in cui, pur non ammettendosi la configurabilità di un mero dissenso inerte (per il vincolo testuale della norma), non si esige che ‘‘la violenza dell’agente sia tale da non potervi resistere o comunque sottrarsi, né che da parte dell’offeso venga opposta una costante resistenza (...) con inevitabili segni esteriori’’ (Cass., sez. III, 20 gennaio 1986, in Cass. pen., 1987, 549; Cass., sez. III, 22 novembre 1988, in Riv. pen., 1990, 565; Cass., sez. III, 25 febbraio 1994, in Cass. pen., 1995, 230). Si riconosce tuttavia, che ‘‘non esiste un valido consenso alla congiunzione se il soggetto passivo abbia ceduto solo per porre fine ad una situazione divenuta angosciosa ed insopportabile a causa del comportamento dell’agente’’, o comunque si trovasse in ‘‘uno stato di diminuita resistenza’’: Cass., sez. III, 10 dicembre 1990, in Cass. pen., 1992, 634.
— 1170 — individuale non sarebbe stata condizionata alla resistenza od opposizione ad una vis maior (16), o comunque ad una generica presunzione iuris et de iure di incapacità di autodeterminarsi nella direzione del compimento di un atto sessuale. Risulta testualmente invece che la logica normativa alla base della riforma è volta a tutelare la libera determinazione della volontà in materia sessuale passando attraverso il vecchio paradigma della salvaguardia del corpo della vittima; e ciò è confermato dal tenore letterale dell’art. 609bis, che conserva infatti immutata, da un lato, la qualifica di violenza e minaccia come elementi costitutivi del fatto tipico; dall’altro, la presenza del verbo ‘‘costringe’’, che nella vecchia formulazione avevano rappresentato l’ostacolo più tenace da abbattere in vista di un’estensione interpretativa della fattispecie. Permanendo l’idea di fondo consistente nel concepire la libertà sessuale in termini di libertà di disporre del proprio corpo, parrebbe quasi che l’illiceità del fatto criminoso possa essere rimossa attraverso un ‘‘atto dispositivo’’ del titolare del bene protetto. In realtà, se è vero che un diritto di libertà, in quanto strettamente personale, è anche indisponibile, non può concepirsi nell’atto sessuale una reciproca disposizione del proprio corpo ad opera di entrambi i partners, i quali esprimerebbero un ‘‘consenso’’ alla limitazione del proprio diritto alla sessualità. Piuttosto, la libertà sessuale in quanto oggetto del diritto di esprimere in maniera autonoma e consapevole la propria personalità, si estrinseca concretamente attraverso un’autodeterminazione al compimento di atti sessuali, i quali derivano la propria liceità penale dal fatto di essere accompagnati, ab origine, dall’assenza della ‘‘contraria volontà’’ di uno dei soggetti (17). L’art. 2 Cost., imprescindibile referente normativo di ogni chiave di lettura, supporterebbe autorevolmente la ricostruzione della libertà ses(16) In questo senso in dottrina, oltre a T. PADOVANI e G. FIANDACA, opp. citt., anche PADOVANI-STORTONI, Diritto penale e fattispecie criminose, Bologna, 1991, p. 53 ss. (17) Così F. LEMME, Libertà sessuale (delitti contro), in Enc. dir., XXI V, p. 556. Da un punto di vista strettamente strutturale il ‘‘consenso’’ all’atto sessuale, sinonimo di una volontà consapevole, rileverebbe come ‘‘dissenso’’ implicito nella stessa criminalizzazione del fatto sessuale, e quindi come elemento costitutivo negativo del fatto tipico; più precisamente, in quanto presupposto dell’azione, concomitante ad essa e necessario affinché sussista la condotta tipica, qualora manchi non viene meno l’antigiuridicità, bensì il fatto non sussiste: E. CONTIERI, op. cit., p. 68 ss. Talvolta, fra le proposte di riforma, sono emerse formulazioni ambigue, del tipo: ‘‘Chiunque con violenza o minaccia, o comunque senza il consenso... commette’’ (in questo senso, Proposta di legge n. 990 cit., art. 609-bis), le quali parrebbero accogliere la diversa impostazione tendente a configurare il ‘‘consenso’’ come scriminante del fatto tipico, piuttosto che come elemento costitutivo, in quanto inteso in senso tecnico-giuridico di consenso dell’avente diritto: così, A. CICCIA, Ratto di minore infraquattordicenne a fini di libidine: dalle SS.UU. ai progetti di riforma, in Giur. mer., 1992, p. 1302.
— 1171 — suale in chiave di esplicazione di una ‘‘personalità libera’’, il cui contenuto non si discosta dalla definizione generale di libertà dell’individuo come ‘‘assenza di impedimenti alla formazione della volontà’’, né dal più specifico significato penalistico di ‘‘libertà morale’’, come possibilità di autodeterminarsi spontaneamente, in maniera cosciente e razionale’’ (18). La violazione di un diritto avente questo contenuto, si realizzerebbe attraverso un’aggressione alla personalità individuale, volta ad impedire, o comunque ostacolare, la formazione del suddetto procedimento interno di autodeterminazione (id est, la manifestazione stessa del diritto di libertà), senza che siano necessarie particolari esteriorizzazioni della condotta offensiva (19); anzi, la tipizzazione, nella fattispecie criminosa, delle modalità di aggressione del bene protetto, pur se rilevanti in sede di determinazione della pena in base alla gravità del fatto concreto (ex art. 133 c.p.), potrebbe condurre ad effetti precettivi distorti, qualora venga realizzata attraverso la loro formulazione in chiave di elementi costitutivi, annacquando in tal modo, l’effettiva offensività del fatto tipico (come ha insegnato la pregressa esperienza normativa, recepita da quella attuale). 3. Ai limitati fini di quest’indagine giova concentrare l’attenzione sugli spunti problematici che già solleva il nuovo tenore testuale della l. n. 66/96, nella prospettiva di individuare l’effettiva portata della dimensione attuale della tutela penale della libertà sessuale. Alla già citata sostituzione dell’originaria ‘‘congiunzione carnale’’ (20) con l’apparentemente più neutro e onnicomprensivo ‘‘atti sessuali’’ corrisponde l’abrogazione dell’art. 521 c.p., cosicché deve ritenersi che nel raggio applicativo dell’art. 609-bis rientrano tutti gli atti che siano espressione dell’istinto sessuale, dalla vecchia congiunzione carnale violenta ai meno gravi atti di libidine (21). In tal modo, secondo le intenzioni (18) Nel senso di una funzionalizzazione dell’ordinamento in chiave di tutela della persona, M. ROMANO, Legislazione penale, cit., p. 62, F. BRICOLA, Teoria generale, cit., p. 17 ss.; nella stessa direzione: A. CICCIA, Ratto, cit., p. 1060 ss; G.M. FLICK, Libertà individuale (delitti contro), in Enc. dir., XXIV, p. 541 ss. Per un riferimento all’art. 13 Cost., quale referente normativo che focalizza nella persona umana un valore avente un fondamento autonomo e preminente, idoneo a delimitare e determinare i comportamenti penalmente sanzionabili, si veda M. BERTOLINO, op. cit., p. 1476. Non esiste invece nella Costituzione traccia alcuna di tutela della moralità pubblica, e tanto meno della morale sessuale, come risultato della c.d. ‘‘secolarizzazione dell’ordinamento giuridico’’. (19) G.M. FLICK, op. cit., p. 545; F. LEMME, op. cit., p. 557; E. CONTIERI, op. cit., p. 25. (20) G. FIANDACA, Violenza, cit., p. 953 ss; sulla disputa dottrinaria e giurisprudenziale in ordine al significato da attribuire al concetto di violenza carnale: G. CAMPISI, Note sulle modifiche in tema di violenza sessuale, in Riv. pen., 1996, n. 2, p. 681. (21) È opportuno ricordare che la discussa contravvenzione di ‘‘molestie sessuali’’, spesso proposta autonomamente nel corpo dei diversi progetti di legge, talvolta attratta nel concetto di atti sessuali, è stata poi stralciata dal testo legislativo finale, e pare ormai avviata
— 1172 — del legislatore troverebbe espressione in un’unica condotta criminosa l’offesa comunque arrecata alla libertà di autodeterminazione, senza che abbiano rilevanza le concrete modalità di estrinsecazione della violazione di un diritto della personalità; d’altro canto, sarebbe possibile salvaguardare la dignità della vittima dagli accertamenti compiuti in sede giudiziaria, al fine di individuare il labile confine fra due condotte che comunque attentano alla libertà sessuale. Tuttavia, siffatta scelta di unificazione delle due tradizionali tipologie di reati sessuali continua ad incontrare gli stessi ordini di obiezioni che ne hanno caratterizzato il travagliato iter normativo; sotto il primo profilo, la critica muove dal rilievo che l’intenzione iniziale non ha trovato coerente attuazione nella descrizione della fattispecie dato che violenza e minaccia, continuando ad essere strutturate in termini di elementi costitutivi, polarizzano l’attenzione giudiziale nell’accertamento della loro presenza quali modalità imprescindibili di una condotta materialmente aggressiva; in questo contesto normativo, ora come durante la vigenza della precedente fattispecie, l’esito negativo della mancata prova dell’onere di aggressione posto in capo alla vittima, non potrà che risolversi in una presunzione di consenso all’atto sessuale, trascurando in definitiva, ogni eventuale lesione del diritto di libertà della persona; sotto il secondo profilo, poi, sarà altamente improbabile che il diritto vivente possa cancellare la vecchia scissione tra ‘‘violenza carnale’’ e ‘‘atti di libidine violenta’’: non è difficile, infatti, pronosticare l’imprescindibilità in sede giudiziale, di indagini minuziose e spesso umilianti, dirette a valutare la concreta entità lesiva del fatto, dapprima per identificarne i limiti esterni di rilevanza penale (escludendone tutti gli atti che, ‘‘per le circostanze e le modalità del fatto’’ verso un autonomo cammino legislativo (approvazione al Senato il 15 febbraio 1996). La regolamentazione di questa materia, che pone problemi di tecnica legislativa analoghi a quelli della violenza sessuale, viene sollecitata, fra l’altro, anche dalla Racc. Comm. Cee 27 novembre 1991, con specifico riferimento alle molestie sui luoghi di lavoro. Sulle precedenti progettazioni normative in tema di molestie: Senato della Repubblica (XI Legisl.): Disegno di legge n. 743 (FABIJ RAMOUS, SENESI ed altri), art. 14 Disegno di legge n. 194 (FILETTI), e art. 14 Disegno di legge n. 466 (MINUCCI, COLOMBO SVEVO ed altri); Camera dei Deputati (XII Legisl.): art. 9 Proposta di legge n. 1434 (MELANDRI, AMICI), e art. 10 Proposta di legge n. 990 (BASSI LAGOSTENA, PARENTI ed altri). Sull’esigenza di contrastare il sempre più diffuso fenomeno di ‘‘gallismo’’ verbale o anche gestuale, capace di cagionare un ‘‘disturbo della tranquillità personale’’ dell’individuo:. G. CONTENTO, Molestie e disturbo delle persone, in Enc. giur. Treccani, XX; G.M. FLICK, Molestia (dir. pen.), in Enc. dir., p. 714; R. ERRICO-M. MOTTALINI, Brevi riflessioni in materia di molestie sessuali, in Quest. giust., n. 4, 1993, p. 899. Infine, sul problema dell’assenza di una fattispecie incriminatrice a cui ricondurre il c.d. ‘‘consenso indotto’’ cagionato dalle molestie compiute sul luogo di lavoro: R. IANNIELLO, Proposta di una nuova disciplina della molestie sessuali: un’espressione nuova per un problema antico, in Critica del dir., n. 1, 1994; N. GANDUS-L. HOESH, Molestie sessuali, diritto e processo penale, in Riv. crit. dir. lav., 1993-II, p. 707.
— 1173 — non sono riconducibili alla libidine sessuale), e in un secondo momento per tradurre la differente gravità dei due tipi di atti sessuali nella determinazione di una pena ‘‘giusta’’, all’interno dell’ampia cornice edittale che la norma prevede. D’altra parte, a queste obiezioni ‘‘storiche’’ si aggiunge quella del ‘‘simbolismo’’ nell’uso della sanzione, in adesione ad una concezione della pena in funzione generalpreventiva, che mina in radice l’effettività dell’intera normativa: la forte risposta repressiva all’aumento statistico dei reati sessuali vede l’evidente elevazione dei limiti della cornice edittale nell’art. 609-bis, risultando particolarmente rigorosa in relazione a quelle condotte che precedentemente venivano inquadrate fra gli atti di libidine e che oggi sono assoggettate al medesimo minimo edittale previsto per un atto di congiunzione carnale violenta. Alle riserve suscitate dall’eccessiva indeterminatezza dell’espressione ‘‘atti sessuali’’ (in relazione all’art. 25 Cost.), non può che aggiungersi l’ulteriore preoccupazione motivata dalla scelta di riservare lo stesso trattamento sanzionatorio ad ipotesi che obbiettivamente sono caratterizzate da un diverso grado di offesa; si insinua pertanto il dubbio della compatibilità costituzionale della norma con i principi di ragionevolezza e di proporzionalità tra la pena irrogata e il valore tutelato (artt. 3/1 e 27/3 Cost.), senza che la previsione di una circostanza attenuante indefinita e ad efficacia speciale (art. 609-bis ultimo comma) possa stemperare quella che è stata l’assorbente volontà legislativa di neutralizzare il meccanismo processuale di cui all’art. 444 c.p.p. (e la conseguente probabilità di ottenere la sospensione condizionale della pena patteggiata). Infatti, la previsione di una diminuzione della pena-base fino a due terzi nei ‘‘casi di minore gravita’’ (art. 609-bis ultimo comma), si riconduce all’esigenza di recuperare l’oggettiva diversità lesiva degli atti di libidine e quindi consentire un’adeguata graduazione delle pene da irrogare, fugando ogni dubbio di costituzionalità; questa formula espressiva, tuttavia appare destinata sin dalla nascita ad avere poca fortuna, disancorata com’è da parametri oggettivi e determinati a cui ricondurre la minor lesività concreta della condotta criminosa; essa semmai pare avere la pretesa di quantificare, a fini selettivi, la gravità del fatto di violenza sessuale giungendo però ad una vanificazione del criterio ispiratore volto a valorizzare la persona nella sua globalità. Il criterio della ‘‘minor gravità’’ infatti (molto più lato dei consueti parametri della ‘‘lieve entità’’ o ‘‘particolare entità’’), porta ben aldilà dei limiti che l’art. 133 c.p. statuisce per la discrezionalità del giudice nella determinazione della pena, disegnando piuttosto i contorni netti di una delega in bianco. Anche a voler tacere della possibilità che, nel giudizio di comparazione l’attenuante in parola porti ad elidere circostanze aggravanti even-
— 1174 — tualmente concorrenti, equiparando così a livello sanzionatorio l’eterogenea gravità di comportamenti aventi differente valenza criminale, non deve sottovalutarsi il rischio di uno svuotamento degli obiettivi perseguiti attraverso l’inasprimento delle sanzioni, dato che la riduzione ‘‘in misura non eccedente i due terzi’’ può condurre all’applicazione di una pena inferiore anche nel minimo a quella prevista nelle vecchie fattispecie, e quindi rendere tecnicamente ammissibile il patteggiamento e la sospensione condizionale della pena (22); ma ciò che più preoccupa a causa dell’indeterminatezza del parametro della ‘‘minore gravità’’, è che la significativa riduzione della pena di cui all’art. 609-bis ultimo comma potrà applicarsi a tutti gli atti sessuali non esistendo alcuna ragione ostativa espressa a riguardo, sia che rientrino fra i vecchi atti di libidine, sia che integrino un’ipotesi di congiunzione carnale, magari caratterizzata in concreto da un semplice diniego della vittima, qualora, nella condotta dell’agente, non siano presenti modalità di violenza o minaccia. Non resta che sperare che la prassi giudiziaria che si andrà formando recepisca il messaggio trasmesso dal legislatore della riforma neutralizzando per quanto possibile i potenziali effetti distorti derivanti dai limiti definitori delle nuove norme e dall’eccessiva discrezionalità conferita a chi le dovrà applicare. 4. Nella prospettiva di un superamento dei contenuti dell’art. 519/2 che, a torto o a ragione, ha condotto la prassi a qualificare la fattispecie come ipotesi di ‘‘violenza presunta’’, quasi che l’elemento della ‘‘violenza’’ fosse (rectius, dovesse essere) l’imprescindibile costante lesiva dei delitti contro la libertà sessuale (23), la l. n. 66/96 ha dedicato un’atten(22) Sulla possibilità di ottenere comunque un definizione anticipata del processo, M. VESSICHELLI, Con l’aumento del minimo edittale a cinque anni ora più difficile la strada del ‘‘patteggiamento’’, in Guida al diritto, Il Sole 24 ore, 2 marzo 1996, p. 23: si nota infatti che l’imputato incensurato potrà vedersi riconoscere le attenuanti generiche, le quali assieme all’attenuante del risarcimento del danno di ammissibilità della diminuente prevista, lo condurranno di diritto all’irrogazione di una sanzione rientrante nei limiti per il patteggiamento e per la sospensione condizionale; né le prospettive sono meno favorevoli per l’imputato intraventunenne o ultrasettantenne cui spetti una sola attenuante, nel caso in cui venga scelto il rito abbreviato. In generale, sulle problematiche suscitate dal nuovo testo di legge, A. NAPPI, Violenza carnale e atti di libidine violenti. Commento alle nuove norme contro la violenza sessuale, in Gazz. Giur. Giuffrè Italia Oggi, n. 8/96, p. 1 ss.; P. PISA, La violenza sessuale è reato contro la persona, in Dir. pen. e proc., n. 3/96, 283 ss. (23) Contro un’eliminazione tout court della violenza sessuale presunta, F. MANTOVANI, I delitti sessuali, cit., p. 38; secondo l’Autore, non sarebbe corrispondente ad un sistema coerente di politica criminale pretendere di considerare i minori come ‘‘adulti in miniatura’’, in quanto vanno tutelati nel loro diritto fondamentale ad essere protetti dalle sopraffazioni di altri soggetti, specialmente gli adulti.
— 1175 — zione particolare alla problematica tutela sessuale dei minori; anzi è stato proprio sul dilemma del mantenimento del tradizionale schema di presunzione di immaturità del minore che ha rischiato di naufragare l’intera normativa durante le ultime fasi della discussione parlamentare, nella preoccupazione di non ignorare i maggiori spazi di autonomia che la moderna evoluzione dei costumi gli riconosce, anche in materia sessuale. Secondo il c.p. Rocco, l’incriminazione della mera congiunzione carnale con un minore esprimeva l’opportunità politica (ed etica) di sostituire alla valutazione individuale su una eventuale disposizione del proprio corpo, quella superiore statuale, che ne sanciva l’intangibilità iuris et de iure. La vittima in ragione dell’età veniva sollevata dall’onere di resistere alle manifestazioni della libidine altrui, anche quando non sussistesse violenza o minaccia: l’ordinamento, infatti, non consentiva una concreta verifica delle ipotesi in cui il rapporto sessuale fosse stato consapevolmente voluto, e non invece subìto, inibendo in tal modo ad una vasta categoria di soggetti di esprimere compiutamente la propria sessualità. I nodi cruciali da sciogliere in sede di riforma, si sono dunque concentrati sull’esigenza di un’adeguata ponderazione di due ordini di opportunità: da un lato, il mantenimento della presunzione di immaturità sessuale del minore, e dei limiti anagrafici di essa; dall’altro, la traduzione normativa della diversa gravità dell’offesa cagionata, quando l’atto sessuale venga consumato con un altro minore, o con una persona adulta. Solo un equo contemperamento tra queste due esigenze complementari, poteva consentire di evitare il pericolo maggiore sotteso dalla conservazione di un meccanismo di tipo presuntivo, rappresentato dalla concreta negazione di un diritto alla sessualità del minore. Occorreva, cioè, cogliere il confine fra i comportamenti leciti, espressione di una personalità sessuale in fieri, e quelli che invece esigevano la delimitazione di una sfera di intangibilità del minore perché immaturo, al fine ultimo di non criminalizzare indiscriminatamente rapporti sessuali fra coetanei, ‘‘reciprocamente illeciti’’ (24). Gli artt. 609-ter e quater rappresentano il risultato dell’accoglimento di una ‘‘soluzione intermedia’’ di tutela, in quanto adottano una disciplina differenziata a seconda che l’atto sessuale venga compiuto con, o senza, violenza o minaccia e a seconda che i partners siano minori (quasi) coetanei o vengano coinvolti anche adulti. (24) Per un’impostazione del problema, in generale: G. FIANDACA, Violenza, cit., p. 957; G. SPAGNOLO, La problematica dei rapporti sessuali con minori e tra minori, in questa Rivista, 1990, p. 72 ss.; T. PADOVANI, L’intangibilità sessuale del minore degli anni quattordici e l’irrilevanza dell’errore sull’età: una presunzione ragionevole e una fictio assurda, in questa Rivista, 1984, p. 429 ss.; S. RAMAJIOLI, Luci (poche) nell’elaborazione della normativa in materia di violenze sessuali, in Giust. pen., 1989, I, 152; da ultimo, F. ROMANO, Talune problematiche sollevate dalla l. 15 febbraio 1996 n. 66, in Giur. mer., 1996, III, p. 639.
— 1176 — Più precisamente, l’art. 609-ter definisce fra le circostanze aggravanti dell’art. 609-bis, l’aver compiuto un fatto di violenza sessuale in danno di persona minore di anni quattordici (un ulteriore aumento di pena viene previsto se il minore non ha compiuto gli anni dieci): l’intangibilità del minore viene cioè conservata attraverso il tradizionale sistema presuntivo fondato sui limiti d’età, ma solo per i casi in cui la condotta si realizzi con modalità costitutive di costrizione o induzione; viceversa, qualora concorra il consenso dell’infraquattordicenne la fattispecie applicabile sarà quella del successivo art. 609-quater rubricata come ‘‘Atti sessuali con minorenne’’. A ben vedere, il rafforzamento della tutela penale contro gli abusi sessuali commessi sul minore, non appare in linea di principio un’‘‘occasione perduta’’ nella direzione di una valorizzazione della personalità in fieri dell’adolescente, in quanto si è stati in grado di recepire la differente portata offensiva dei rapporti sessuali fra minori e con minori, anche se rimane sempre attuale la necessità di perseguire soluzioni di tipo educativo, anziché repressivo, qualora il consenso non sia stato estorto con violenza o minaccia. Tuttavia, il tenore testuale delle nuove fattispecie non manca di offrire spunti critici significativi: il sensibile innalzamento dei limiti edittali della pena connota il carattere meramente simbolico del messaggio normativo, non solo per la riproposizione dell’attenuante indefinita di cui già all’art. 609-bis ultimo comma, ma anche per il fatto che il maggior disvalore della fattispecie risulta vanificato nel momento stesso in cui la minore età viene qualificata come circostanza aggravante anziché come elemento costitutivo; in quanto variante di intensità di un elemento generale della fattispecie semplice, non potrà tecnicamente sottrarsi al giudizio di bilanciamento con altre circostanze concretamente configurabili ed essere eventualmente considerata tamquam non esset, determinando così una sostanziale frustrazione degli scopi perseguiti per la repressione di ipotesi che invece meriterebbero un maggiore rigore sanzionatorio; né d’altra parte, la sostanziale conservazione dell’art. 539 c.p. all’art. 699-sexies, impedendo di invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa, sarà sufficiente a contenere gli effetti della qualificazione circostanziale della minore età, in quanto operante in un momento logicamente diverso (25). (25) Il legislatore della riforma, all’art. 609-sexies ripete sostanzialmente identico il vecchio art. 539, la cui abrogazione (art. 1) risulta motivata solo da esigenze di mera ricollocazione sistematica. Sul problema della legittimità costituzionale dell’art. 539 c.p., nella misura in cui rappresenta un’eccezione alla regola della necessaria imputazione colpevole di tutti gli elementi costitutivi del fatto tipico (nonché ‘‘significativi’’ dopo la sent. Cost. n. 364/88): Sent. Cost. n. 209/83, con nota critica di T. PADOVANI: L’intangibilità sessuale, cit., in questa Rivista, 1984, p. 429; G. CAMPISI, Note, cit., p. 683. In senso contrario all’eliminazione della norma sull’inescusabilità dell’ignoranza dell’età della persona offesa: F. MANTO-
— 1177 — Nell’art. 609-quater il contenuto del concetto di intangibilità sessuale si articola secondo l’ulteriore opzione di mantenere, sul piano generale, il tradizionale limite di età (quattordici anni o sedici quando il colpevole possieda determinati requisiti soggettivi: art. 609-quater/1 n. 2) come soglia di rilevanza penale di un rapporto consumato con il consenso del minore (presunto invalido iuris et de iure), e prevedendo in via eccezionale un abbassamento dell’età a tredici anni quando fra i due soggetti corra una differenza d’età non superiore a tre anni. In questo modo, ridefinendo in termini più ridotti la soglia di presunzione assoluta della capacità di autodeterminarsi sessualmente, si è ritenuto di poter aggiornare quel coefficiente di maturità che il codice Rocco stigmatizzava nei quattordici anni, scartando la proposta che prediligeva un accertamento casistico e sottraendo così il minore ad una verifica a posteriori della sua immaturità psico-fisica, che avrebbe potuto trasformarlo da persona offesa in ‘‘oggetto di prova processuale’’ (26). Allo stesso tempo, si è focalizzato normativamente che il disvalore tipico di un abuso sessuale su un minore non risede tanto nella non consensualità dell’atto, quanto piuttosto nella sua precocità, come fatto potenzialmente pregiudizievole per un’equilibrata maturazione della personalità sotto il profilo sessuale (27). Di qui l’esigenza di prevedere una causa di VANI, op. cit., p. 40, il quale adduce come esempio negativo, l’esperienza degli Stati Uniti e
dell’Inghilterra, dove si è assistito a: a) un incremento della prostituzione minorile, specialmente nei casi di strumentalizzazioni da parte di organizzazioni di sfruttamento, dovuta alla ‘‘consegna’’ di falsi documenti di identità con età ‘‘maggiorata’’ ai minori; b) offerta di un comodo alibi ai clienti fornito dalla semplice lettura della carta d’identità falsificata; c) conseguente aumento della domanda di prostituzione minorile. (26) Così T. PADOVANI, L’intangibilità, cit., p. 433. Sulla giurisprudenza in materia di rilevanza del consenso del minore, anche mediante una valutazione in concreto da parte del giudice sulla sussistenza di una maturità etica e intellettuale, I. TRICOMI, Nuove ipotesi di reato e aggravanti specifiche per tutelare i minori dagli abusi sessuali, in Guida al diritto, Il Sole 24 Ore, n. 9, 2 marzo 1996, p. 31. (27) Da un’analisi retrospettiva delle proposte che hanno preceduto la normativa ora in esame, si nota come nei progetti che proponevano la modifica dell’art. 519 c.p. rubricandolo in termini di ‘‘stupro’’, si ricostruiva l’offesa in capo al minore come ipotesi di ‘‘consenso non rilevante’’ (Proposta di legge n. 1434, cit., art. 4/2 n. 2, e schema di legge-delega per la riforma del c.p. della Commissione Pagliaro, cit., art. 6/1 n. 3). Anzi, particolare ed autonomo rilievo dell’immaturità del minore, come fulcro della scelta di conservare una sfera di intangibilità sessuale, si rinviene nella soluzione prospettata dallo schema di riforma del codice penale, elaborato dalla Commissione Pagliaro. Scorporato dall’ambito dei reati contro la libertà sessuale, lo ‘‘stupro in danno del minore’’, viene ricompreso nell’autonomo Titolo ‘‘Dei reati contro l’integrità psichica’’ (Titolo XII; Relazione alla parte speciale, p. 363). Il riconoscimento di un diritto alla sessualità del minore viene qui salvaguardato attraverso la previsione della non punibilità del fatto, quando la differenza d’età fra il colpevole e la persona offesa non supera i due anni (art. 61/2); analogamente, nella proposta di legge che muoveva nella stessa direzione, l’intangibi-
— 1178 — esclusione della punibilità quando il fatto si consuma fra due minori di età compresa fra i tredici e i sedici anni: in questo caso, si prende atto della rilevanza del consenso prestato, e quindi della capacità di autodeterminarsi nella sfera sessuale, in precise situazioni concrete (rapporti con minori quasi coetanei), nonostante la mancanza della capacità di agire (art. 2 c.c.); pur permanendo l’antigiuridicità della condotta e l’imputabilità di uno dei due partners, si vuole cioè evitare da un lato, ogni disparità di trattamento fra coloro che si pongono ai limiti della soglia anagrafica d’immaturità (per intendersi: minori che stanno per compiere o che hanno appena compiuto i quattordici anni), quali inconvenienti della rigidità insita nella natura stessa di un meccanismo presuntivo; dall’altro, di criminalizzare inutilmente anche fatti che teoricamente sarebbero riconducibili al generico concetto di atti sessuali, senza comunque creare un’indiscriminata liberalizzazione dei costumi sessuali negli adolescenti. Un’ultima considerazione si presenta degna di nota: nel segno di una valorizzazione generale della persona e quindi della sua capacità di esprimere un consapevole consenso al compimento dell’atto sessuale, si è proceduto all’abrogazione dell’intero capo primo del titolo IX nonché dell’art. 530 c.p. (art. 1 L. 66/96); pertanto, le ipotesi prima riconducibili ai delitti di ratto (artt. 523, 524, 526 c.p.) ricadranno nella fattispecie di sequestro di persona, eventualmente in concorso con la violenza sessuale, in considerazione della lesione del bene della libertà personale; d’altra parte, la vecchia fattispecie sulla corruzione di minorenne è stata ridisegnata all’art. 609-quinquies. Ciò che accomuna queste ipotesi in maniera problematica e già solleva discussioni di ardua composizione, è il vuoto di tutela che si viene a creare quando il ratto o la corruzione vedano come soggetti passivi minori ultraquattordicenni ma infrasedicenni, il consenso dei quali venga carpito da soggetti adulti diversi da quelli tipizzati all’art. 609-quater n. 2. La sostanziale depenalizzazione di fatti in cui la gravità dell’offesa cagionata al minore vede soccombere la ‘‘capacità di agire seslità del minore veniva subordinata alla contemporanea presenza dei due requisiti dell’età inferiore ai quattordici anni nella persona offesa, e della maggiore età nel colpevole (Proposta di legge n. 1434, 11 ottobre 1994, art. 4/2 n. 2). Viceversa, le proposte che senza soluzione di continuità con l’ipotesi-base, ripercorrevano lo schema descrittivo dell’art. 519/1 c.p., ripresentavano immodificato anche il paradigma della violenza sessuale presunta, in danno del minore, salva l’autonomia formale della nuova fattispecie (‘‘Atti sessuali nei confronti dei minori’’), nonché la previsione di circostanze aggravanti, in presenza di violenza o minaccia. Nessuna considerazione specifica veniva invece dedicata alla diversa gravità del fatto dipendente da una certa differenza d’età fra i due soggetti del rapporto: in questo senso, il Disegno di legge n. 194, cit., art. 3/2, e n. 466 cit., art. 3/2; nonché la Proposta di legge n. 990 cit., art. 4/2. Si distingueva dalle altre, la recentissima proposta del 23 maggio 1995, la quale non si preoccupava di descrivere un’autonoma fattispecie in danno di minore, ma si limitava a prevedere un’aggravante specifica del fatto di ‘‘violenza sessuale’’, quando commesso nei confronti di persona che non avesse compiuto gli anni quattordici: art. 2/1 n. 1.
— 1179 — suale’’ riconosciutagli di fronte all’insidia di particolari ‘‘attenzioni’’ prestate da alcuni soggetti, deve ritenersi non in linea con i principi costituzionali che hanno animato la riforma e quindi frutto accidentale del meccanismo di successione di leggi, la cui incidenza esige una tempestiva rimeditazione (28). 5. La problematica dell’intangibilità sessuale ha suscitato altrettante polemiche qualora i termini di una concreta compatibilità con un diritto alla sessualità si spostino in capo ai portatori di handicap, o c.d. ‘‘disturbati psichici’’. È opinione comune che questi soggetti devono poter condurre una vita quanto più normale possibile, spogliati della tradizionale immagine che li dipinge come ‘‘esseri asessuati’’, ancorando piuttosto i limiti della tutela penale della loro sfera sessuale alla concreta e autonoma incapacità di autodeterminarsi al compimento dell’atto sessuale. D’altra parte, gli insegnamenti delle più recenti concezioni psichiatriche impongono di prescindere dalla diagnosi necessaria di ‘‘malattia mentale’’, in quanto questa non sempre determina un così grave perturbamento delle facoltà psichiche, tale da inibire al soggetto la concreta capacità di valutare l’importanza materiale e morale dell’atto compiuto (29). In sede di riforma l’auspicio era quello di specificare la locuzione originaria ‘‘malato di mente’’, di cui all’art. 519/2 n. 3, attraverso la richiesta tassativa di una ‘‘menomazione (o infermità) tale da impedire una libera e autonoma determinazione all’atto sessuale’’, in termini specularmente negativi rispetto alle esigenze di tutela della libertà sessuale. In tal modo, la tutela del portatore di handicap sarebbe potuta confluire fra le ipotesi di ‘‘irrilevanza del consenso’’ (assieme a quella del minore), da accertarsi in concreto e con una portata espansiva della vecchia formulazione della fattispecie, in quanto si esigeva, a prescindere dalla diagnosi clinica di malattia mentale, un’incapacità di autodeterminarsi consapevolmente (30). L’art. 609-bis/2 n. 1, invece, si muove nel senso di affidare la tutela di questi soggetti ad una formulazione che, pur nella costante richiesta di un accertamento concreto, coniuga la richiesta del requisito soggettivo (28) È recentissima, a questo riguardo, la rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità dell’art. 1 legge 66/96 nella parte in cui ha abrogato l’art. 530 in quanto determina il vuoto di tutela menzionato, per violazione degli artt. 2, 29/1, 31/2, 32 Cost.: Pret. Sondrio, Sez. dist. Di Morbegno, ord. di rinvio 6 giugno 1996, in Riv. pen., 1996, n. 2, p. 700. In generale sulla problematica, G. CAMPISI, op. cit., p. 684 ss. (29) G. FIANDACA, Violenza, cit., p. 957; per un’analisi del problema nella letteratura medico-legale: M. ANGELINI ROTA, Violenza carnale, in Criminologia e psichiatria forense delle condotte sessuali normali, abnormi, e criminali, 1988, p. 322. (30) In questo senso, la soluzione offerta dallo schema di legge-delega della Commissione Pagliaro, cit.: art. 71/2 lett. a); art. 4/2 n. 1, Proposta di legge n. 1434, cit.
— 1180 — dell’incapacità di intendere e di volere del soggetto passivo, con quello oggettivo della commissione di atti che ‘‘costituiscono abuso della persona’’ (31). Il preteso significato di tale locuzione, secondo le intenzioni del legislatore, dovrebbe collocarsi in una ‘‘posizione intermedia tra la garanzia dell’espressività sessuale e la protezione dalla violenza sessuale’’ (32). Tuttavia, la sopraffazione della dignità della persona, attuata mediante una deliberata strumentalizzazione della conosciuta condizione di inferiorità fisica o psichica, non sempre può individuarsi con facilità nella realtà applicativa. Espressa in questi termini, l’offesa al portatore di handicap non consente di cogliere la labile linea di confine fra gli atti sessuali compiuti senza abuso, e quelli che invece costituiscono approfittamento dell’incapacità della persona a manifestare il suo dissenso o comunque, ad esprimere un valido consenso. A parte la problematica individuazione concreta degli atti abusivi, e quindi l’affiorare concreto dell’interrogativo più generale sul rispetto del principio di tassatività e determinatezza del fatto, l’impressione che qui emerge nitidamente è che, per il legislatore, la sola incapacità del soggetto passivo a percepire il significato dell’atto sessuale non appare sufficiente a fondare i presupposti dell’incriminazione, occorrendo invece offrire al giudice parametri oggettivi di conferma. Lo spettro delle note problematiche esegetiche, sollevate dal ruolo di violenza e minaccia nella formulazione del vecchio art. 519/1 c.p., incombe sostanzialmente anche sulla nuova fattispecie criminosa nel momento in cui si descrive una condotta a forma libera capace, però, di raggiungere la tipicità solo se si concretizza in un abuso della persona, intrinseco nell’atto stesso o indotto dalle circostanze del caso (33). Ancora una volta si demanda al prudente affidamento del giudice l’individuazione del confine fra la sfera del lecito e dell’illecito, attraverso l’espletamento di un compito che appare già estremamente gravoso ‘‘per gli imponderabili problemi di carattere morale, sociale e psicologico, che si intrecciano e si cumulano’’ (34). Tutto sommato, la sensibilità del legislatore penale nel recepimento di un concetto costituzionalmente orientato di libertà sessuale, non ha ancora raggiunto una maturità tale da offrire un’adeguata tipizzazione dei casi di ‘‘rilevanza del consenso’’ della vittima, senza privarla del proprio diritto alla sessualità. Piuttosto, su tutta la normativa in materia di libertà sessuale incombe pesante il rischio (31) Si riprende così la stessa impostazione già proposta dal Disegno di legge n. 194, 12 maggio 1992 art. 4, e disegni di legge n. 466, 14 luglio 1992, art. 4. (32) F. ROMANO, La violenza sessuale, cit., p. 444. (33) L. PAVONCELLO SABATINI, Violenza carnale, in XXXII, p. 11; G. SPAGNOLO, op. cit., p. 79. (34) F. ROMANO, Talune problematiche, cit., p. 640.
— 1181 — di una severità solo ‘‘virtuale’’: una penalizzazione a tutti i costi che pare poter prescindere da una prioritaria definizione dei contenuti non è che un’illusoria risoluzione positiva di un conflitto di natura sociale, ancora bisognoso di assimilare i valori culturali del rispetto della dignità della persona nelle relazioni fra i sessi. ANTONIANNA COLLI Perfezionanda in diritto penale presso la Scuola Superiore « S. Anna » di Pisa
lMPUTATO E PUBBLICO MINISTERO NELLA SCELTA DEL RITO ‘‘PATTEGGIATO’’
SOMMARIO: 1. I poteri delle parti in generale. — 2. Contenuto della richiesta. — 3. Contenuto del dissenso. — 4. Patologie dell’accordo.
1. Per determinare l’estensione dei poteri delle parti nel patteggiamento appare prioritario operare una distinzione tra le facoltà in punto di determinazione della pena ed i poteri di scelta del rito a queste riconosciuti. Su questi due differenti profili della richiesta, infatti, si realizza un controllo da parte dell’organo giurisdizionale variamente modulato. Così, esigenze di rispetto del principio di legalità che presidia la sanzione penale hanno imposto di estendere il vaglio del giudice alla congruità della pena (1), di modo che le parti non abbiano alcun potere dispositivo in proposito. Diversamente, la scelta del rito è per lo più rimessa proprio alla volontà delle parti: difatti, non si può procedere con il rito semplificato in assenza di una comune richiesta di p.m. ed imputato e quindi il dissenso di uno dei due impone sempre e comunque la prosecuzione del giudizio secondo le forme ordinarie. Certo, anche il giudice mantiene un potere di esclusione della procedura patteggiata, ma il suo rigetto, lungi dall’essere fondato su basi di opportunità, è ancorato a specifiche e tassative condizioni processuali: dispone infatti l’art. 444, secondo comma, c.p.p., che il giudice respinge la richiesta solo se ‘‘deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129’’ ovvero se, sulla base degli atti, ritenga non decidibile la questione nel senso richiesto dalle parti. A ciò si aggiunge il potere di verificare che l’accordo si sia formato validamente con riguardo all’effettività della manifestazione di volontà proveniente dalla parte privata, secondo quanto disposto dall’art. 446, quinto comma, c.p.p. Già da queste preliminari osservazioni, si nota come i poteri di cui (1) Il riferimento è alla nota sentenza della Corte cost., 2 luglio 1990, n. 313 (in Giur. cost. 1990, p. 1982); fra i numerosi commenti a tale pronuncia, v. M.G. CACCOPARDI, La posizione della Consulta sul patteggiamento ex art. 444 c.p.p., in Arch. n. proc. pen. 1990, p. 368; G. LOZZI, La legittimità costituzionale del c.d. patteggiamento, in questa Rivista 1990, p. 1601; R. MUSSO, Patteggiamento e sindacato sulla congruità della pena, in Arch. n. proc. pen. 1991, p. 376.
— 1183 — sono titolari le parti secondo l’attuale modello del procedimento ex art. 444 ss. c.p.p. siano per lo più inquadrabili entro i confini ordinariamente posti alle attività di tali soggetti processuali (2); del resto, le attività delle parti, qui come altrove, trovano il proprio fondamento ed i propri limiti, da un lato nel diritto di difesa, e dall’altro nei poteri inerenti l’esercizio e lo svolgimento dell’azione penale. Ovviamente, i diversi referenti costituzionali che identificano e delineano i ruoli dei due soggetti processuali impongono una più incisiva delimitazione dei poteri della parte pubblica. Così, in ossequio ai principi costituzionali di cui agli artt. 13, 24, secondo comma, 27, secondo comma, Cost., i limiti al diritto di difesa non possono essere che quelli strettamente indispensabili al funzionamento della macchina processuale e dunque tale diritto conferisce alla parte privata una libertà di manovra e di scelta che non può caratterizzare la figura del pubblico ministero (3); quest’ultimo, viceversa, in quanto soggetto portatore di un interesse pubblico, è vincolato nelle proprie opzioni dal principio di legalità che ne domina l’azione in forza del disposto dell’art. 112 Cost. ed è limitato nelle proprie attività dal bilanciamento tra il diritto di difesa dell’imputato ed il potere di azione di cui è titolare. Il riferimento all’art. 112 Cost. impone di richiamare la questione dei rapporti tra applicazione della pena su richiesta delle parti e principio di obbligatorietà dell’azione penale. Il contrasto tra il principio costituzionale e l’istituto processuale sarebbe da rinvenirsi già nella logica negoziale che sottende il rito in oggetto, ma, com’è noto il richiamo alle categorie negoziali per identificare la natura del rito ex art. 444 ss. è dei più controversi. Si impone, comunque, di verificare la compatibilità tra ‘‘patteggiamento’’ e principio dell’obbligatorietà dell’azione penale in senso stretto, contrapposto alla discrezionalità della stessa, la quale ultima implica una disponibilità in ordine alla configurazione giuridica dell’illecito ed un regime di opportunità nelle scelte inerenti l’esercizio dell’azione: da questo punto di vista, non c’è dubbio che il procedimento di applicazione della pena su richiesta recepito dal nostro legislatore non confligga con il ricordato precetto costituzionale, poiché non è lasciato spazio per considerazioni di opportunità sul promuovimento dell’accusa e sulla configurazione giuridica del fatto che possano consentire una negoziabilità dell’imputazione, a differenza di quanto avviene nella procedura statunitense del plea bargaining (4). (2) V., sul punto, le considerazioni svolte da A. CONFALONIERI, Volontà delle parti e controlli del giudice nel patteggiamento, in Cass. pen. 1994, p. 1003, ove l’autrice sottolinea la corrispondenza dello schema attuale del rito in parola con quello del processo come actus trium personarum. (3) Cfr. A. PIGNATELLI, sub art. 446, in Commento al nuovo c.p.p., coordinato da M. Chiavario, vol. IV., Torino 1990, p. 807. (4) In materia di ‘‘giustizia contrattata’’ e del ruolo della discrezionalità dell’azione
— 1184 — Ma dall’art. 112 Cost. discende anche un principio di legalità dell’azione penale che guida l’intera attività del p.m. e che, pertanto, esclude ogni negoziabilità anche in punto di conseguenze sanzionatorie, di modo che al p.m. non è consentito richiedere l’applicazione di una pena la cui specie e quantità non discenda da una corretta operazione di commisurazione della stessa secondo i canoni normativamente individuati (5); anche sul punto l’attuale disciplina del c.d. patteggiamento non pare presentare profili di contrasto con il dettato costituzionale, essendo previsto che il vaglio del giudice operi anche sulla correttezza delle operazioni di commisurazione della pena, ed oggi — a seguito degli interventi addittivi della Corte costituzionale — si estenda anche alle ampie e consistenti valutazioni connesse all’art. 133 c.p. (6). Esclusa la sussistenza di diretti conflitti fra l’attuale assetto positivo del ‘‘patteggiamento’’ ed il principio di obbligatorietà dell’azione penale, v’è anzi da precisare che l’art. 112 Cost. contribuisce anche qui ad individuare i contenuti e l’estensione dei poteri del p.m. ed impone una configurazione di tale organo decisamente lontana da quella dei paesi di common law. In verità, già dalle disposizioni codicistiche emergono i tratti generali di una differenziazione dei ruoli e delle facoltà proprie di ciascuna delle due parti processuali: in particolare, a fronte della completa libertà di determinazione della parte privata, due paiono essere i principali referenti normativi di delimitazione dello spazio discrezionale del p.m., e concernono rispettivamente la disciplina dell’assenso e quella del dissenso alla richiesta di applicazione di pena. In primo luogo, l’adesione del p.m. al rito speciale non pare poter prescindere dal soddisfacimento delle condizioni volte ad assicurare il corretto esercizio dell’azione penale nel rispetto del principio di legalità che presidia l’attività della parte pubblica. Così, benché non vi sia una disciplina ad hoc nella specifica sedes materiae dei riti alternativi, la richiesta e l’assenso del p.m. non possono ritenersi del tutto liberi da vincoli, è pur vero che l’adesione non abbisogna di alcuna motivazione, ma ciò non significa che siano superabili i limiti entro i quali la pubblica accusa deve penale nell’ordinamento statunitense v. V. FANCHIOTTI, Spunti per un dibattito sul plea bargaining, in Il processo penale negli Stati Uniti d’America, a cura di E. Amodio e M. Cherif Bassiouni, Milano 1988, p. 271. Per un’accurata analisi comparativistica, con alcuni spunti di riforma, cfr. A. MARINI, Patteggiamento e riti alternativi come mezzo di deflazione del processo penale, in Riv. pen. dell’economia 1993. p. 264. (5) V., sul punto, le puntuali osservazioni di V. GREVI, Riflessioni e suggestioni in margine all’esperienza nordamericana del plea bargaining, in Il processo penale negli Stati Uniti d’America, cit., p. 299. (6) In tal modo anche le pur consistenti analogie con il modello nord-americano del sentence bargaining non consentono che un accostamento limitato di tale figura con il ‘‘patteggiamento’’ proprio del nostro sistema processuale.
— 1185 — sempre muoversi. L’art. 125 att. c.p.p. impone la richiesta di archiviazione ogni qual volta ‘‘gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non [siano] idonei a sostenere l’accusa in giudizio’’ ed esige dunque, ai fini della formulazione dell’imputazione, che sia raggiunta un’apprezzabile completezza degli elementi raccolti (7). Tale meccanismo non può non valere anche per l’applicazione della pena su richiesta delle parti, e, del resto, non esiste alcun dato normativo specifico né argomento sistematico che ne consenta il superamento; anzi, gli artt. 60 e 405 c.p.p., nel disciplinare rispettivamente l’assunzione della qualità di imputato e la formulazione dell’imputazione, dettano la regolamentazione generale espressamente riferita anche alla procedura ‘‘patteggiata’’ (8). Dunque, il c.d. patteggiamento non è una terza via fra la richiesta di archiviazione e la formulazione dell’imputazione e, conseguentemente, allorquando il p.m. avanzi richiesta o presti consenso devono essere soddisfatte le condizioni richieste dall’art. 125 att. c.p.p. (9); del resto, se così non fosse, il rito in oggetto, oltre a poter pregiudicare la posizione dell’indagato (10), dispiegherebbe un’efficacia deflattiva del tutto fittizia, poiché potrebbe di fatto sostituirsi alla procedura di archiviazione (11). (7) Cfr., analogamente, le considerazioni svolte da A. MACCHIA, Il patteggiamento, Milano 1992, pp. 79 e 82; nonché C. TAORMINA, Qualche riflessione in tema di natura giuridica della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, in Giust. pen. 1990, III, c. 280. Ma v., in termini diversi M. PISANI, A. MOLARI, V. PERCHINUNNO, P. CORSO, Appunti di procedura penale2, Bologna 1994, p. 406 nonché F. CAPRIOLI, Il consenso dell’imputato all’applicazione della pena: revocabile o no?, in Giur. it. 1993, II, c. 25. (8) Nel senso che la formazione dell’accordo e la richiesta del p.m. implicano la formulazione dell’imputazione, v. G. CONSO, I nuovi riti differenziati tra ‘‘procedimento’’ e ‘‘processo’’, in Giust. pen. 1990, III, c. 198; D. SIRACUSANO, A. GALATI, G. TRANCHINA, E. ZAPPALÀ, Manuale del processo penale2, Milano 1995, p. 247. (9) Circa il livello probatorio necessario ai fini dell’attivazione della procedura alternativa in parola, è possibile configurare un ulteriore innalzamento della piattaforma probatoria rispetto a quanto previsto in via generale dall’art. 125 att. c.p.p., sol che si ritenga che il giudizio di applicazione della pena su richiesta configuri una ipotesi di giudizio allo stato degli atti; tale ricostruzione sarebbe peraltro confermata, al di là della non del tutto inequivoca dizione normativa dell’art. 444, secondo comma, da certa giurisprudenza di legittimità sviluppatasi in materia di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. (10) Difatti, l’imputato può trovarsi in una situazione di debolezza probatoria tale da non consentirgli di valutare adeguatamente la convenienza della linea difensiva di adesione al rito alternativo e tale condizione, considerato che la discovery avviene solo successivamente alla formazione dell’accordo, può di fatto rivelarsi particolarmente pericoloso, soprattutto se — come ritiene la prevalente giurisprudenza — non è ammessa una revoca unilaterale dell’assenso prestato alla richiesta della controparte (in materia di revoca, v. infra par. 4). (11) Sul significato ‘‘sistematico’’ attribuito all’art. 125 att. c.p.p., v. la nota pronuncia della Corte cost. n. 88/1991, in Cass. pen. 1991, p. 207, nella qual occasione è stato chiarito come la mancata soddisfazione della condizione posta da tale norma ‘‘equivale a dire che... l’accusa è insostenibile e che quindi la notizia di reato è, sul piano processuale, infondata’’.
— 1186 — Ben diversa risulta la posizione della parte privata, le cui valutazioni in merito all’adozione del c.d. patteggiamento trovano la propria base e ragion d’essere in un regime di assoluta libertà ed opportunità. Le motivazioni che inducono l’imputato-indagato a muoversi nella direzione del rito speciale sono del tutto irrilevanti e, comunque, non individuabili se non sulla base di un intuizionismo epidermico assolutamente estraneo alla logica del nostro processo. Non pare proprio, al contrario di quanto sostenuto da parte della dottrina (12) ed in talune pronunce della giurisprudenza di legittimità (13), che l’esercizio dei diritti difensivi e le connesse opzioni di strategia processuale possano essere confusi con una implicita ammissione di colpevolezza o con una confessione per facta concludentia. Sul punto, se le scelte puramente tattiche non sono consentite al p.m., non possono nemmeno essere presunte nelle richieste dell’imputato: dunque, così come non è proponibile che il primo si determini ad avanzare istanza o a prestare consenso al rito patteggiato perché non è in grado di sostenere l’accusa in giudizio, allo stesso modo non è presumibile che il secondo formuli richiesta o presti il proprio consenso perché responsabile del fatto ascritto, e non piuttosto perché ritiene troppo alto il costo della celebrazione di un processo, in considerazione dei numerosi e rilevanti benefici di cui può usufruire a seguito di ‘‘patteggiamento’’ (14). Ma una più incisiva differenziazione dei ruoli delle due parti emerge da un secondo limite dettato, con riferimento all’attività del p.m. ed all’interno della stessa disciplina del ‘‘patteggiamento’’, dagli artt. 446, sesto comma e 448, primo comma, c.p.p.: laddove il dissenso della parte privata è immotivato, insindacabile ed incensurabile, il parere negativo del rappresentante la pubblica accusa deve essere sorretto da motivazione (15) e l’insoddisfacenza di questa, seppur implicante una preclu(12) Cfr., sul punto, C. TAORMINA, Qualche riflessione, cit., c. 276., ID., Qualche altra riflessione sulla natura giuridica della sentenza di patteggiamento, in Giust. pen. 1990, III, c. 650. (13) Nel senso che la richiesta o l’assenso dell’imputato implichino ammissione di responsabilità, si è pronunciata Cass., I, 1 agosto 1991, Criscuolo ed altro, in Arch. n. proc. pen. 1992, p. 110; Cass., I, 22 marzo 1993, Perruzzo, in Cass. pen. 1994, p. 3075; Cass., I, 7 luglio 1994, Dellegrottaglie, in Arch. n. proc. pen. 1995, p. 130; Cass., I, 5 dicembre 1995, Nulli Moroni ed altri, ivi 1996, p. 445. (14) Ritengono, così, che la richiesta o l’adesione della parte privata al ‘‘patteggiamento’’ non comportino alcuna ammissione di colpevolezza F. CORDERO, Procedura penale3, Milano 1995, p. 887; G. LOZZI, La legittimità costituzionale del c.d. patteggiamento, in questa Rivista 1990, p. 1601; M. PISANI, A. MOLARI, V. PERCHINUNNO, P. CORSO, Appunti, cit., pp. 405 e 406. In giurisprudenza v., invece, Cass., IV, 10 ottobre 1991, Giannelli, in Arch. n. proc. pen. 1992, p. 266; Cass., IV, 21 maggio 1993, Paone, in Cass. pen. 1995, p. 651, Cass., I, 6 giugno 1994, Lo Monaco, ivi 1996, p. 1912. (15) La sola ipotesi in cui il p.m. non è tenuto a motivare il proprio dissenso si ha allorquando si versi ancora in fase di indagini preliminari, poiché la pubblica accusa potrebbe
— 1187 — sione al rito, non rende vana — se congrua — la richiesta dell’imputato, che, al termine del dibattimento, può vedersi applicare la pena così come dallo stesso quantificata e con l’applicazione di tutti i benefici (16). Tale meccanismo trova il proprio fondamento nella caratterizzazione del c.d. patteggiamento come modalità di esercizio del diritto di difesa (17) e dunque, in quanto tale, incomprimibile arbitrariamente ad opera del p.m. Con ciò si intende evidentemente realizzare un bilanciamento tra potere di azione del p.m. e diritto di difesa dell’imputato (18). Infatti, se non può imporsi al p.m. una determinata scelta procedimentale, è pur vero che, quando dall’adozione di una procedura discendono effetti incidenti su diritti dell’imputato (limitazioni del diritto di difesa, variazioni del trattamento sanzionatorio), non è ammissibile che le opzioni processuali della pubblica accusa si risolvano in un incontrollabile pregiudizio di tali diritti. Dunque, nel caso di specie, il dissenso del p.m. impone l’adozione delle forme ordinarie, ma, per escludere anche l’applicabilità dei benefici che seguono alla richiesta dell’imputato ex art. 444 c.p.p., deve essere sostenuto da una soddisfacente motivazione. Al contrario, all’imputato che dissentisce non si richiede alcuna motivazione, poiché questi esercita il proprio diritto di difesa che non è comunque comprimibile in vista delle esigenze di snellezza e celerità procedimentali. 2. A fronte delle previsioni dei presupposti procedurali per l’accesso al rito e delle prescrizioni dettate in ordine alle forme (art. 446, secondo comma, c.p.p.) ed ai tempi (art. 446, primo comma, c.p.p.) per la non avere ancora raccolto elementi sufficienti a determinarsi sulla scelta del rito e perché, comunque, il ‘‘silenzio-dissenso’’ non pregiudica (quantomeno giuridicamente) la posizione della parte privata, non essendovi stato ancora esercizio dell’azione penale. V., sul punto, P. DUBOLINO, Pubblico ministero e riti alternativi, in Quad. C.S.M. 1989, n. 27, p. 404. (16) Fatta eccezione, ovviamente, per l’assenza di pubblicità connessa alla procedura patteggiata e vanificata dalla celebrazione del dibattimento, situazione che talora viene ricompresa fra gli aspetti di premialità insiti nel rito ex artt. 444 ss. c.p.p., cfr., in tal senso, F. TAFI, Sugli aspetti premiali connessi al ricorso alla ‘‘applicazione della pena su richiesta delle parti’’, in Arch. n. proc. pen. 1993, p. 497, tale configurazione trova peraltro una parziale conferma nell’esperienza nordamericana, v. al proposito il caso riportato da V. FANCHIOTTI, Spunti per un dibattito sul plea bargaining, cit., p. 282. (17) Cfr., per tale qualificazione, Corte cost., 30 giugno 1994, n. 265, in Giur. cost. 1995, p. 2163, e giurisprudenza ivi richiamata. (18) Ma, cfr., al proposito, seppure in materia di giudizio abbreviato, Corte cost., 15 febbraio 1991, n. 81, in Giur. cost. 1991, p. 559, che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 438, 439, 440 e 442 c.p.p., nella parte in cui non prevede la motivazione del dissenso del p.m. al giudizio abbreviato e la possibilità di applicare al termine del dibattimento, se il giudice ritiene ingiustificato tale dissenso, la riduzione di un terzo della pena, rinviene un contrasto non tanto con l’art. 24 Cost., bensì con l’art. 3 Cost. per la ‘‘irrazionale disparità cui la normativa impugnata, vista dall’interno della sua applicazione, darebbe luogo tanto nei rapporti fra p.m. e imputato, quanto nei rapporti fra imputato e imputato’’.
— 1188 — richiesta di patteggiamento, v’è da dire che il legislatore si è espresso con una certa laconicità in merito al contenuto di tale richiesta. Pervero, se l’oggetto principale della domanda è costituito dall’applicazione di una determinata specie e quantità di pena, questa non esaurisce il contenuto dell’atto. È ovvio, infatti, che il giudice deve essere posto in grado di valutare la correttezza dell’operazione di commisurazione di pena e, pertanto, costituiscono elementi necessari dell’istanza anche i dati elencati nel secondo comma dell’art. 444 c.p.p. Dunque, la richiesta deve contenere la configurazione giuridica del fatto, ivi comprese le circostanze ritenute esistenti ed il relativo giudizio di comparazione e, sulla base di tale ricostruzione della cornice giuridica, viene determinata la pena conseguente dalla quale si sottrae la diminuzione ex art. 444, primo comma, c.p.p., di entità variabile fino ad un terzo (19): a seguito di tale ultima operazione, la pena da applicare deve essere tale da non eccedere i due anni di reclusione o di arresto. Limiti sanzionatori di tipo quantitativo all’operatività del ‘‘patteggiamento’’, dunque, sono posti con esclusivo riferimento alla pena detentiva, mentre non ne sono previsti per la pena pecuniaria, e, per le sanzioni sostitutive, valgono quelli, soggettivi ed oggettivi, ordinariamente prescritti dagli artt. 53 ss. della l. n. 689/1981 (20). Sul punto, al di là di taluni dubbi — agevolmente fugati dai giudici delle leggi — circa un contrasto con l’art. 76 Cost. della previsione dell’operatività del ‘‘patteggiamento’’ anche in relazione alle pene pecuniarie (21), è stato soprattutto con riguardo alle sanzioni sostitutive che si sono presentati taluni problemi interpretativi circa la loro cumulabilità con il beneficio della diminuzione di pena e sulla relativa operazione di calcolo. Parte della giurisprudenza di legittimità (22), in forza di una visione premiale della sanzione sostitutiva e sulla base di una interpretazione letterale dell’art. 444, primo comma, c.p.p., incentrata sull’uso della disgiuntiva ‘‘o’’ e sul diretto riferimento dell’operatività della diminuente alle pene pecuniarie, aveva ritenuto che la riduzione non operasse in caso di applicazione di pena sostitutiva su richiesta. Sulla questione, poiché si (19) La giurisprudenza di legittimità ha risolto celermente la questione interpretativa circa l’entità della diminuente (se la riduzione di un terzo dovesse essere riferita alla pena o alla stessa diminuente), sorta nell’immediatezza del varo del codice di rito, nel senso che la misura della riduzione non può eccedere un terzo; v. Cass., SS.UU., 28 aprile 1990, Borzaghini, in Arch. n. proc. pen. 1990, p. 411. (20) Oltre al limite di pena ‘‘verso l’alto’’, espressamente posto dall’art. 444 c.p.p., v’è comunque l’ulteriore implicita limitazione data dall’illegittimità di applicare pene inferiori al limite legale; in proposito cfr. Cass., VI, 12 maggio 1992, Poleo, in Arch. n. proc. pen. 1992, p. 384. (21) Cfr. Corte cost., 6 aprile 1993, n. 141, in Cass. pen. 1994, p. 3. (22) Cfr. Cass., I, 2 marzo 1992, Mancaruso, in Cass. pen. 1993, 1789; Cass., VI, 23 giugno 1993, p.m. in proc. Menazza, in Arch. n. proc. pen. 1994, p. 92; Cass., III, 21 luglio 1993, p.m. in proc. Arnò, ivi 1993, p. 760.
— 1189 — era creato un contrasto giurisprudenziale (23), sono intervenute le Sezioni unite (24), le quali hanno stabilito la piena cumulabilità della richiesta di applicazione di sanzione sostitutiva con la riduzione premiale derivante da ‘‘patteggiamento’’ ed hanno, nel contempo, chiarito l’iter da seguire nell’operazione di sottrazione della diminuente, stabilendo che la conversione ha ad oggetto la pena determinata in concreto al netto della riduzione ex art. 444 c.p.p. (25). Ma taluni punti relativi all’estensione dell’oggetto del patteggiamento rimangono ancora in discussione: difatti, l’oggetto della richiesta di applicazione di pena è solo in parte desumibile dalla disciplina dettata dagli artt. 444 ss. c.p.p., che indica in positivo (art. 444) e per esclusione (art. 445) l’area del ‘‘patteggiabile’’. Non è stato chiarito, però, se anche altri istituti connessi alla risposta sanzionatoria penale possano entrare a far parte dell’accordo; così, in materia di applicabilità di sanzioni amministrative connesse al reato per il quale si procede, la giurisprudenza è delle più oscillanti (26), tanto che si imporrebbe la necessità di un intervento delle Sezioni unite a dirimere la questione, il che potrebbe anche costituire l’occasione per chiarire il peso del ruolo delle parti nel c.d. patteggiamento. È evidente, difatti, che, a prescindere dalle ipotesi in cui la sanzione amministrativa consegue di diritto alla condanna penale, l’inclusione nella piattaforma dell’accordo di questa conseguenza sanzionatoria comporterebbe la configurazione del primo elemento veramente negoziabile. Un ulteriore momento di dubbio interpretativo in merito al contenuto dell’accordo fra le parti è costituito dalla disciplina, contenuta nel terzo comma dell’art. 444 c.p.p., sulla sospensione condizionale della pena, che pare atteggiarsi con modalità differenti rispetto agli altri elementi. Difatti, se in relazione agli elementi sin qui visti le parti sono poste su (23) Ritenevano la cumulabilità tra applicazione della sanzione sostitutiva e riduzione ex art. 444 c.p.p. Cass., II, 5 dicembre 1992, Persiani, in Arch. n. proc. pen. 1993, p. 608; Cass., V, 26 aprile 1993, p.m. in proc. Bassetti, in Giur. it. 1994, c. 567; Cass., V, 27 maggio 1993, p.g. in proc. Botton, in Arch. n. proc. pen. 1993, p. 417. (24) SS.UU., 12 ottobre 1993, Scopel, in Cass. pen. 1994, p. 893. (25) Peraltro ancora in materia di sanzioni sostitutive, proprio la previsione dell’art. 444 c.p.p. ha determinato un mutamento di orientamento giurisprudenziale sul problema della applicabilità delle stesse anche ai reati puniti con pena congiunta. Cfr. Cass., II, 8 novembre 1991, Bartalucci, in Arch. n. proc. pen. 1992, p. 266., Cass., III, 2 luglio 1994, Pescetelli, ivi 1995, p. 130. Contra, v. Cass., I, 14 ottobre 1994, D’alena, in Cass. pen. 1996, p. 603. Sulla questione v. anche F. TAFI, Sugli aspetti premiali, cit., p. 496. (26) V. nel senso dell’applicabilità della sanzione amministrativa se ricompresa nell’accordo delle parti, Cass., III, 9 ottobre 1990, Accancirioco, in Cass. pen. 1991, p. 746, Cass., III, 12 aprile 1994, Crudo, ivi 1996, p. 1591. Contra, Cass., IV, 20 aprile 1994, Lotto, in Arch. n. proc. pen. 1995, p. 130; Cass., IV, 20 aprile 1994, Colucci, ivi 1995, p. 130. Sotto il profilo dei poteri del giudice, favorevoli all’applicabilità, cfr. Cass., VI, 12 marzo 1993, Boscarini, in Cass. pen. 1994, p. 3076; Cass., IV, 23 giugno 1993, p.g. in proc. Gherardini, in Arch. n. proc. pen. 1994, p. 245.
— 1190 — un piano di sostanziale parità, nel senso che la richiesta dell’una abbisogna dell’assenso dell’altra e l’eventuale dissenso anche su un singolo elemento blocca l’accesso al rito, appare invece diversamente impostata la disciplina relativa alla concessione della sospensione condizionale. Al proposito, è doveroso premettere che sia in dottrina che in giurisprudenza si sono sviluppate sul punto due diverse interpretazioni, che conducono a soluzioni decisamente divaricate, anche se entrambe sostenute con ponderate argomentazioni. Da una parte si inserisce la disciplina della concessione della sospensione condizionale nel quadro di quella generale dettata per gli altri elementi della richiesta e si ritiene così che anche su tale aspetto sia necessaria la formazione dell’accordo (27); è evidente come tale impostazione si muova nella direzione di una armonizzazione con lo schema di base del ‘‘patteggiamento’’, soprattutto in considerazione della estrema rilevanza che la sospensione condizionale ha, oltre che come beneficio in sé per sé, anche da un punto di vista special preventivo. Altra soluzione è, invece, quella che individua nella richiesta di concessione della sospensione condizionale un elemento estraneo all’accordo, in ordine al quale dunque non è necessario che abbiano aderito entrambe le parti (28); è evidente che, accogliendo siffatta impostazione, si infrange l’equilibrio nei poteri delle parti, con tendenziale favore verso l’imputato, il quale potrà ottenere un beneficio di tal significato indipendentemente o anche contro il parere del p.m. (29). Del resto, questa seconda scelta intepretativa — sebbene non in linea con la fisionomia del rito in oggetto — pare la sola in grado di dare un senso a quanto disposto nel terzo comma dell’art. 444 c.p.p.; difatti, a voler adottare una diversa impostazione, non si riesce a comprendere il motivo per cui il legislatore avrebbe inserito la (27) Cfr., per questa impostazione, Cass., VI, 10 settembre 1993, Hachroun, in Arch. n. proc. pen. 1993, p. 729; e in dottrina v. F. BARTOLINI, Un caso di dissenso del p.m. sulla richiesta di applicazione della pena nel dibattimento: la subordinazione alla concessione della sospensione condizionale della pena, ivi 1990, p. 74; F. PERONI, Ruoli dell’accusa e sospensione condizionale della pena in sede di patteggiamento, in Cass. pen. 1993, p. 1199. (28) In adesione a tale indirizzo, v. Cass., VI, 20 settembre 1991, P.G. in proc. Lanciotti e altro, in Arch. n. proc. pen. 1992, p. 71; in dottrina cfr. V. ADAMI, Il ‘‘patteggiamento’’ e la sospensione condizionale della pena, in Cass. pen. 1994, p. 550; E. SERRAO, Sulla sospensione condizionale della pena, ivi 1992, p. 1156; A. TASSI, Sospensione condizionale della pena e patteggiamento, in Giur. it. 1991, II, c. 341. (29) Il parere del rappresentante della pubblica accusa in merito alla sospensione condizionale risulta così del tutto irrilevante, se non da un punto di vista strettamente dialettico al fine di intervenire sul processo di formazione del convincimento del giudice. Vale la pena di puntualizzare, sebbene si tratti di automatiche conseguenze di quanto detto, che non potrà che essere ingiustificato il dissenso del p.m. alla richiesta di applicazione della pena proveniente dall’imputato motivato alla luce della concessione della sospensione condizionale e, parimenti, il p.m. non potrà opporre una sorta di ‘‘contro condizione’’ subordinando il proprio consenso alla mancata concessione del beneficio in parola, poiché in tal modo si tornerebbe ad applicare l’ordinaria disciplina prevista per gli altri elementi dell’accordo, mentre la sospensione condizionale ‘‘non è affar suo’’.
— 1191 — disciplina relativa alla sospensione condizionale in un’autonoma previsione, usando un linguaggio decisamente divergente da quello impiegato con riferimento agli elementi dell’accordo ed omettendo qualsiasi riferimento al consenso dell’altra parte (30). Su tale situazione sono intervenute le Sezioni unite (31) che si sono pronunciate nel senso dell’ammissibilità di entrambi i meccanismi sopra visti, e dunque la sospensione condizionale può entrare a far parte del contenuto dell’accordo, ma qualora su tale elemento non sia stato ottenuto il consenso dell’altra parte, il soggetto interessato (32) potrà comunque subordinare in modo vincolante l’efficacia dell’accordo alla concessione del beneficio in questione. Di fatto, tale pronuncia (diretta principalmente a risolvere il contrasto giurisprudenziale relativo alla concedibilità d’ufficio del beneficio in parola) non muta la situazione di tendenziale favore per l’imputato, poiché, di fronte alla richiesta di questo ai sensi dell’art. 444, terzo comma, c.p.p., rimane ferma l’impossibilità per il pubblico ministero di opporre efficacemente il proprio dissenso. 3. Al di là della peculiare disciplina dettata in materia di sospensione condizionale, è noto come, per innescare la procedura ‘‘patteggiata’’ la richiesta di una parte abbisogna dell’assenso dell’altra; già si è detto (v. retro, sub 1) come il dissenso della parte privata e quello del p.m. assumano un differente valore e siano soggetti a distinte discipline, avendo in comune il solo effetto di impedire l’instaurazione del rito alternativo. In proposito, il meccanismo delineato dall’art. 448, primo comma, c.p.p., appare adeguato a soddisfare le opposte esigenze delle due parti processuali: da una parte il p.m. mantiene il proprio diritto a provare la fondatezza della propria scelta di negare il consenso e dall’altra l’imputato (30) Peraltro, poiché è chiaro che l’intero art. 444 c.p.p., ivi compreso il terzo comma, disciplina non la richiesta di una parte diretta all’altra parte, bensì l’istanza presentata al giudice, sarebbe stato sufficiente, a voler ricomprendere la disciplina de qua all’interno di quella dettata per l’accordo, formulare la disposizione nel senso di riferire l’istanza ad entrambi i soggetti (‘‘le parti, nel formulare la richiesta, possono subordinarne la richiesta alla concessione della sospensione condizionale della pena’’), con ciò ponendo il vincolo di subordinazione dell’efficacia della richiesta solo in capo al giudice. (31) V. Cass., SS.UU., 11 giugno 1993, Iovine e altro, in Arch. n. proc. pen. 1993, p. 415. (32) Un problema del tutto singolare si presenta nel caso in cui la sospensione condizionale sia stata richiesta dal pubblico ministero e sul punto l’imputato esprima il proprio dissenso (ad es. perché, in considerazione della tenuità della pena da applicare, ritiene preferibile conservare la possibilità di ottenere il beneficio in futuro). Al riguardo la formulazione della norma parrebbe non ammettere un trattamento differenziato, anche se è ben possibile che al legislatore codicistico fosse sfuggita tale non frequente eventualità. V., al proposito, sul tema specifico dell’interesse dell’imputato a non vedersi concessa la sospensione condizionale, M. DIGLIO, Sospensione condizionale e pena pecuniaria, in Cass. pen. 1995, p. 2101, e più in generale E. SERRAO, Sulla sospensione condizionale della pena, cit., p. 1156.
— 1192 — ha la possibilità — nel caso in cui la pena richiesta fosse congrua — di ottenere l’applicazione della pena così come dallo stesso quantificata nell’istanza di ‘‘patteggiamento’’, senza l’esclusione di alcun beneficio (con ciò vanificando l’efficacia di qualsiasi dissenso pretestuoso o erroneamente fondato del p.m.). La disciplina del dissenso del p.m. prevista dagli artt. 446, sesto comma e 448, primo comma, c.p.p., pare in questo senso delle più ben congegnate, se non che il legislatore ha trascurato di indicare quali siano i parametri alla cui stregua valutare la fondatezza o meno del dissenso del p.m., ovverosia sulla base di quali elementi il p.m. può legittimamente orientarsi nel senso di negare il proprio consenso al rito alternativo. Considerato che il meccanismo in discorso opera direttamente sulla severità della risposta sanzionatoria, il vuoto normativo non è sottovalutabile ed infatti già i primi commentatori della disciplina in oggetto avevano sottolineato i pericoli che potevano derivarne sotto il profilo della certezza del diritto e dell’uguaglianza di trattamento (33). Sul punto, i contributi più attenti provengono dalla dottrina penalistica che ha tracciato il collegamento tra la funzione sostanziale a cui assolverebbe la diminuente ex art. 444, primo comma, c.p.p. ed i criteri di scelta del rito. La strada così intrapresa non pare affatto sgombra da difficoltà ed, infatti, ha dato vita a ricostruzioni, tanto autorevoli quanto fra loro divergenti, volte ad attribuire alternativamente maggiore o minore rilevanza alle diverse funzioni di prevenzione speciale e di prevenzione generale. Una prima impostazione (34), richiamando la nota concezione polifunzionale della pena, individua un analogo substrato anche nella diminuente ex art. 444 c.p.p., che realizzerebbe un effetto generalpreventivo nella parte in cui consente una maggiore certezza e celerità della risposta sanzionatoria e, contemporaneamente, costituirebbe il sintomo di un positivo atteggiarsi della personalità dell’imputato che dimostra la ‘‘sua disponibilità ad entrare in dialogo con l’ordinamento giuridico’’ (35). Se tale ricostruzione trova una parziale ed indiretta conferma nella sentenza n. (33) V.S. GIANBRUNO, Prime considerazioni sull’applicazione della pena a richiesta delle parti nel nuovo codice di procedura penale, in Cass. pen. 1989, p. 719; P. SECHI, Sul dissenso del pubblico ministero all’applicazione della pena su richiesta, in Giur. it. 1990, II, c. 278. Per la dottrina penalistica, cfr., E. DOLCINI, Razionalità nella commisurazione della pena: un obiettivo ancora attuale? Note a margine dell’art. 444 c.p.p., in questa Rivista 1990, p. 804, T. PADOVANI, Il nuovo codice di procedura penale e la riforma del codice penale, ivi 1989, p. 935; A. PAGLIARO, Riflessi del nuovo processo sul diritto penale sostanziale, ivi 1990, p. 45. (34) Cfr. A. PAGLIARO, Riflessi del nuovo processo sul diritto penale sostanziale, cit., pp. 38 ss. (35) Così testualmente, A. PAGLIARO, Riflessi del nuovo processo sul diritto penale sostanziale, cit., p. 42.
— 1193 — 313/1990 della Corte costituzionale che ha dichiarato la rispondenza della pena applicata ex art. 444 c.p.p., alla finalità rieducativa (36), è da dirsi, però, che tale tesi, oltre a sollevare taluni problemi sul piano della razionalità della commisurazione della pena (37), si scontra con il dato reale che vede estranea alla scelta di ‘‘patteggiare’’ qualsiasi considerazione incidente sulla gravità del reato e sulla capacità a delinquere del reo (38). Maggiormente aderente sia alla realtà delle cose che alla volontà del legislatore delegato pare la diversa ricostruzione incentrata sul richiamo alla funzione di prevenzione generale (39); in effetti, se risulta difficile ricondurre ad un’ottica specialpreventiva l’adesione dell’imputato al rito alternativo, pare arduo negare che la premialità insita nella scelta di ‘‘patteggiare’’ sia giustificata in virtù della maggiore certezza e prontezza di intervento della risposta sanzionatoria (40) che con ciò si garantisce, e dunque a considerazioni di schietta prevenzione generale, tant’è vero che tale rapporto è per lo più riconosciuto, anche se non sempre condiviso (41). Al riguardo, però, si impone di sottolineare come il collegamento che in tal modo si realizza fra funzione di prevenzione generale e adozione della procedura patteggiata possa risultare oltremodo pericoloso proprio (36) Corte cost., 2 luglio 1990, n. 313, in Giur. cost. 1990, p. 1982. (37) Su tale problematica, v., per una esauriente disamina, E. VENAFRO, Natura giuridica ed effetti della diminuzione di pena disposta in sede di giudizio abbreviato e di patteggiamento, in questa Rivista, 1993, p. 1120. (38) V., sul punto, le pertinenti osservazioni di F.C. PALAZZO, Qualche riflessione su plea bargaining e semplificazione del rito, in Il processo penale negli Stati Uniti d’America, cit., p. 325, ove si osserva come non può attribuirsi alla rinuncia al procedimento ordinario ‘‘alcun significato in chiave di adattamento sociale’’, dal che deriva l’inconsistenza dell’impostazione tesa a giustificare il premio sulla scorta dell’art. 133, secondo comma e n. 3 c.p., sottolinea, altresì, l’impossibilità di ricondurre la scelta di ‘‘patteggiare’’ ai parametri ex art. 133 c.p., E. VENAFRO, Natura giuridica ed effetti della diminuzione, cit., p. 1108. (39) Cfr. T. PADOVANI, Il nuovo codice di procedura penale e la riforma del codice penale, cit., pp. 931 ss.; E. VENAFRO, Natura giuridica ed effetti della diminuzione di pena, cit., p. 1108; in posizione critica v. DOLCINI, Razionalità nella commisurazione della pena, cit., p. 807. (40) Peraltro, se quanto alla certezza dell’applicazione di pena ci si muove all’interno del singolo rito ‘‘patteggiato’’, il vantaggio conseguito in termini di celerità trascende il caso singolo e si trasmette — nella sommatoria delle varie opzioni per le procedure alternative — all’intero sistema processuale, così amplificando la portata generalpreventiva dell’istituto. (41) V., fra l’altro, la diversità di posizioni assunte con riferimento alla componente positiva della prevenzione generale, cioè la funzione di orientamento culturale; al proposito infatti è dato registrare una disomogeneità di vedute fra chi ritiene che anche tale finalità venga raggiunta dalla diminuizione di pena ex art. 444 c.p.p. (cfr. T. PADOVANI, Il nuovo codice di procedura penale, cit., p. 935) e chi, al contrario, rinviene in tale meccanismo un vero e proprio fattore di disorientamento (cfr. E. DOLCINI, Razionalità nella commisurazione della pena, cit., p. 809; F.C. PALAZZO, Qualche riflessione sul plea bargaining, cit., p. 326); per una posizione intermedia v., invece, A. PAGLIARO, Riflessi del nuovo processo sul diritto penale sostanziale, cit., p. 44.
— 1194 — con riferimento ai criteri di scelta del rito (e dunque di motivazione del dissenso del p.m) in una situazione, come quella corrente, di silenzio legislativo sul punto. Difatti, se l’effetto principale derivante dall’adozione del ‘‘patteggiamento’’ (diminuzione di pena) è giustificato alla luce di considerazioni di prevenzione generale, allora l’adesione e il dissenso del p.m. al rito alternativo possono ben essere fondati su istanze di tal genere (42); così, non sarebbe, ad esempio, ingiustificato il dissenso motivato con l’affermazione per cui l’ufficio della pubblica accusa ritiene di non consentire alla procedura de qua per determinate serie di reati connotati da particolare gravità o da notevole diffusione o ad alto rischio emulativo (43). Ma ammettere che, in assenza di qualsiasi criterio normativamente individuato, la scelta del rito — con le immediate conseguenze sul piano sanzionatorio — venga motivata sulla base di considerazioni di politica giudiziaria, significa annullare di fatto ogni controllo da parte del giudice sulla fondatezza del dissenso, nonché legittimare evidenti disparità di risposta punitiva a seconda degli indirizzi e delle strategie di lotta alla crirninalità adottate dai singoli uffici della pubblica accusa (44). È pur vero che il legislatore del 1988, nel segnare il passaggio da un modello inquisitorio ad uno accusatorio, ha tratteggiato una nuova fisionomia del p.m. che può indurre a ritenere accolta una figura della pubblica accusa più vicina a quella dei sistemi anglossassoni, ma la riforma in tal senso è stata delle più tenui, e non poteva non esserlo se non osando una certa qual forzatura dei dati costituzionali. Ma, al di là di queste considerazioni, è ovvio che il p.m si faccia portatore di istanze di prevenzione generale e che gli competa, altresì, un potere di determinare la propria strategia processuale; meno ovvio, e, anzi, niente affatto in linea con il (42) Del resto, tali distorsioni sono segnalate dagli stessi autori che operano il collegamento tra prevenzione generale e diminuente ex art. 444 c.p.p.; cfr., sul punto, E. DOLCINI, Razionalità nella commisurazione della pena, cit., p. 804; T. PADOVANI, Il nuovo codice di procedura penale, cit., p. 937; A. PAGLIARO, Riflessi del nuovo processo, cit., p. 45; F.C. PALAZZO, Qualche riflessione sul plea bargaining, cit., p. 330; E. VENAFRO, Natura giuridica ed effetti della diminuzione di pena, cit., p. 1109. (43) Altri criteri di scelta del rito adottabili dal p.m. ed ispirati alla funzione di prevenzione generale sono stati individuati dalla dottrina nella produttività ed efficienza dell’ufficio della pubblica accusa rispetto al carico di lavoro, nella esigenza di non rinunciare alla pubblicità derivante dalla celebrazione del dibattimento, nella necessità di tutelare gli interessi del danneggiato dal reato, nella inconsistenza del livello probatorio raggiunto (il quale, però, stante il disposto dell’art. 125 att. c.p.p., non dovrebbe poter influire sulle scelte procedimentali). Cfr., sul punto, A. MACCHIA, Il patteggiamento, cit., p. 74, che esclude la rilevanza di siffatte questioni; nella stessa direzione si muove anche Trib. Perugia, 1 febbraio 1990, Benincasa, in Giur. it. 1990, c. 276. (44) V., invece, nel senso che la scelta del rito da parte del p.m. debba porsi in linea con la strategia dell’ufficio e ‘‘riflettere valutazioni che trascendono il caso concreto’’, A. GAITO, Accusa e difesa di fronte ai nuovi istituti: problemi di scelta e strategia processuale, in I giudizi semplificati, coord. da A. Gaito, Padova 1989, pp. 19 e 25.
— 1195 — principio di legalità della sanzione penale, è che la strategia processuale del p.m. comporti conseguenze sulla severità della risposta sanzionatoria insindacabili da parte del giudice. Dunque, se ammettiamo che il p.m. motivi il proprio dissenso alla procedura patteggiata sulla base di considerazioni di politica giudiziaria, si propone una secca alternativa: o si riconosce un potere di controllo da parte del giudice su tali scelte, che però vengono adottate non con il metro della discrezionalità tecnica, bensì con quello — confliggente con gli artt. 101 e 112 Cost. — dell’opportunità politica (il quale dunque verrebbe paradossalmente fatto proprio anche dall’organo giudicante), oppure si ritengono tali opzioni del p.m. insindacabili, con buona pace di quanto disposto dall’art. 448, primo comma, ultima parte e dei principi di legalità della pena e della soggezione del giudice alla sola legge. Ad una diversa soluzione si sarebbe potuti pervenire solo se il legislatore avesse individuato i criteri assumibili a fondamento del dissenso e fra questi avesse indicato anche parametri in sintonia con la funzione di prevenzione generale che connota la premialità del rito in oggetto; sulla base delle direttive normativamente espresse il p.m. avrebbe allora potuto legittimamente fondare le scelte procedimentali, poiché sarebbe stato attivabile un successivo controllo giurisdizionale sulla conformità di tali opzioni al dato legislativo, proprio sulla scorta di un meccanismo quale è quello delineato dall’art. 448, primo comma, c.p.p. (45). La tormentata questione della tutela dell’offeso dal reato in sede di patteggiamento può offrire spunti di esemplificazione al proposito: difatti, non parrebbe censurabile (a patto di prevedere un adeguamento alle condizioni economiche del reo) una previsione che indicasse la possibilità di esigere la riparazione delle conseguenze dannose derivanti dal reato, se questa fosse collegata a specifici criteri, quali, ad esempio, l’avvenuta lesione di interessi pubblici o la particolare gravità del danno prodotto o ancora la posizione di garanzia che il soggetto attivo avrebbe dovuto ricoprire a tutela dell’interesse offeso. Allo stato della vigente normativa, invece, l’esigenza che i parametri di scelta del rito da parte del p.m. siano omogenei rispetto ai criteri di giudizio ex art. 448, primo comma, c.p.p., da parte del giudice e che questo sia posto in grado di realizzare un serio ed adeguato controllo, impone di concludere nel senso dell’esclusione di criteri di politica e strategia giudiziaria dalla motivazione del dissenso del p.m. Tale conclusione è in parte confortata anche da quanto affermato dalla Corte costituzionale con la ri(45) Tale esigenza fu subitamente avvertita da T. PADOVANI, Il nuovo codice di procedura penale, cit., p. 938, il quale sottolinea come sia ‘‘assolutamente indispensabile che i criteri di questa interpretazione siano predeterminati in modo chiaro, per lo meno in forma di direttiva, e che sulla loro attuazione si eserciti un adeguato controllo, beninteso interno all’ordine giudiziario’’.
— 1196 — cordata pronuncia n. 313/1990; com’è noto, in tale occasione i giudici della legittimità delle leggi hanno dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 444, secondo comma, c.p.p., nella parte in cui non consente un controllo sulla congruità della pena richiesta ad assolvere alla finalità rieducativa. Oltre al fatto che il richiamo di quanto prescritto nell’art. 27, terzo comma, Cost., richiede di privilegiare le esigenze special-preventive (46), il condizionamento della legittimità costituzionale del ‘‘patteggiamento’’ al rispetto del finalismo rieducativo della sanzione penale impone come criterio valutativo il riferimento al caso concreto (47) ed esclude, pertanto, la possibilità di adottare parametri selettivi delle istanze di accesso al rito alternativo sganciati dalla gravità del fatto specifico e dalla capacità a delinquere del reo. È evidente che il giudizio di non incongruità della pena richiesta ad assolvere la finalità rieducativa implica una valutazione inerente la personalità del reo che impone un rigoroso ed imprescindibile riferimento al caso concreto, escludendo così qualsiasi possibilità di motivare l’eventuale dissenso del p.m su considerazioni generali di politica giudiziaria. 4. Oltre alle ipotesi di illegittimità delle statuizioni contenute nell’accordo, in ragione della quale la richiesta delle parti non può trovare accoglimento, è rinvenibile quantomeno un altro caso in cui non può essere dato corso alla richiesta di applicazione di pena: com’è noto, l’art. 446, quinto comma, prevede che il giudice possa verificare la volontarietà della richiesta dell’imputato, all’uopo disponendone la comparizione. La norma in parola, di chiara matrice anglossassone (48), evidenzia il rilievo attribuito alla volontà della parte privata nel senso della consapevolezza delle conseguenze giuridiche connesse all’adozione della procedura speciale, prima fra tutte la rinuncia alle garanzie del giudizio ordinario; essa, però, soffre di una certa estraneità rispetto all’impianto culturale del no(46) Certo, resta da vedere (poiché la Corte non lo ha indicato) in che modo la finalita rieducativa ‘‘giochi’’ all’interno dello schema del patteggiamento: com’è noto, non è facile individuarne una portata specifica e, difatti, anche gli autori che hanno salutato con maggiore favore la pronuncia in oggetto ne hanno adottato una lettura riduttiva. Cfr., al proposito, E. DOLCINI, Razionalità nella commisurazione della pena, cit., p. 810, che ravvisa nel principio enunciato dalla Corte l’attribuzione al giudice di un controllo di non incongruità, teso a censurare solo le richieste di pena assolutamente inadeguata. Nello stesso senso, in giurisprudenza, cfr. Cass., IV, 25 maggio 1993, Landucci, in Cass. pen. 1994, p. 3076, che enuncia come ‘‘il giudizio, pur sempre di merito, sulla congruità della pena... va motivato solo in ipotesi estreme, quando... si manifesti un’assoluta sproporzione tra fatto, pena e grado di diseducazione sociale del giudicabile’’. (47) Riteneva imprescindibile il riferimento al caso concreto, già prima della pronuncia della Corte costituzionale, anche P. SECHI, Il dissenso del pubblico ministero, cit., c. 278. (48) Cfr. A. MACCHIA, Il patteggiamento, cit., p. 75; A. MARINI, Patteggiamento e riti alternativi, cit., p. 265.
— 1197 — stro processo che ne rende poco frequente l’applicazione (49), considerato anche il silenzio serbato dal legislatore in merito alla sanzione processuale da applicarsi in caso di esito negativo della verifica sulla volontarietà. Le sanzioni processuali previste dal sistema codicistico non paiono, in effetti, offrire una soluzione soddisfacente al problema in oggetto, difatti, la conseguenza più coerente riposerebbe certo nel ricorso alla categoria dell’inammissibilità, che risulta però inapplicabile al caso di specie per mancanza di un’espressa previsione (50). Il richiamo alle nullità di ordine generale, in particolare alle ipotesi disciplinate dall’art. 178, lettera b) e c), se risulta astrattamente possibile, pare forzato nella sostanza e comunque sembrerebbe idoneo ad intervenire solo nel caso in cui l’accordo viziato sia stato raggiunto nella fase delle indagini preliminari. Certo è che la mancanza di volontarietà comporta una non riconducibilità della scelta di patteggiare alla effettiva volontà dell’imputato, di modo che la richiesta o il consenso da questo prestati non possono che risultare inefficaci per mancanza di un presupposto essenziale. Una questione particolarmente dibattuta e per la quale non è agevole individuare una soluzione univoca è, invece, quella relativa alla ammissibilità di una revoca della manifestazione di volontà positiva successivamente alla formazione dell’accordo, ma prima della decisione del giudice (51). Premesso che la giurisprudenza assolutamente prevalente (52) e (49) Un’ipotesi in cui sicuramente potrebbe trovare utile applicazione la norma de qua (non nel senso di disporre la comparizione dell’interessato, quanto nel senso di verificarne la volontà a procedere ex artt. 444 ss.) pare essere quella in cui, presente l’imputato in udienza, il difensore sprovvisto di procura speciale avanza richiesta o presta assenso in ordine al ‘‘patteggiamento’’; purtroppo la giurisprudenza ha invece escluso la necessità di ricorrere a quanto disposto dall’art. 446, quinto comma, c.p.p. (nonostante che la presenza dell’imputato ne consentisse una davvero agevole applicazione), configurando il difensore come mero nuncius della volontà del rappresentato, v., al proposito, Cass., I, 25 luglio 1995, Bruni, in Arch. n. proc. pen. 1996, p. 281. (50) Sulla tassatività dei casi di inammissibilità, v., per tutti, F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 1037. (51) Rimane indiscussa invece la possibilità di revocare o modificare la richiesta allorquando non sia intervenuta l’adesione dell’altra parte, così come è consentita anche la reiterabilità della medesima proposta. Del pari, è indubbio che, una volta intervenuta la decisione del giudice, non sia possibile alcun mutamento della volontà delle parti accolta nella sentenza. Rimane invece controversa, oltre che l’ipotesi della revoca unilaterale, anche quella del mutuo dissenso, generalmente ammessa da quanti adottano un’impostazione negoziale, ma che incontra le stesse obiezioni sollevate con riferimento alla revoca unilaterale. (52) Cfr., per la giurisprudenza di merito, Pretura di Trani, 23 aprile 1990, Canzio, in Arch. n. proc. pen. 1991, p. 612; Tribunale di Isernia, 16 ottobre 1990, Fratarcangeli, ivi 1990, p. 574; Pretura di Reggio Emilia, 1 luglio 1991, Pellegrini, ivi 1992, p. 100, per la giurisprudenza di legittimità, cfr., fra le molte, Cass., V, 13 Isarzo 1992, Pasquarelli e altro, in Arch. n. proc. pen. 1992, p. 566; Cass., III, 27 marzo 1992, P.M. in proc. Iezzi, in Giur. it.
— 1198 — buona parte della dottrina (53) escludono che le parti siano titolari di una facoltà di revoca, occorre esaminare gli argomenti addotti a sostegno di tale posizione, argomenti diretti ad evidenziare principalmente le problematiche che suscita la revoca con riferimento all’accordo formatosi nel corso delle indagini preliminari (54). Al di là delle argomentazioni fondate su richiami alla disciplina civilistica del negozio (55) (che imporrebbero quantomeno l’individuazione in campo processual-penalistico dei tratti essenziali di una categoria negoziale, della quale però non v’è traccia), la prima considerazione a sostegno dell’irrevocabilità è tratta dall’art. 447, terzo comma, c.p.p., dov’è disposto che la richiesta debba rimanere ferma nel c.d. periodo di interpello, cioè in un momento in cui non si è ancora formato l’accordo, e quindi ‘‘a maggior ragione la proposta è da ritenersi irrevocabile una volta intervenuto l’accordo’’ (56). A ciò si aggiunge che la revoca espressa in relazione ad un accordo formatosi in fase di indagini genera due ordini di problemi: uno eminentemente pratico, dato dalla possibilità di un uso pretestuoso della richiesta di ‘‘patteggiamento’’ volta a bloccare le attività di indagine 1993, II, c. 17; Cass., III, 12 giugno 1992, P.M. in proc. Roberto, in Arch. n. proc. pen. 1992, p. 752; Cass. V, 27 settembre 1993, Chizzola, in Cass. pen. 1995, p. 126. (53) Cfr. D. CENCI, Giustizia negoziata, volontà delle parti e possibilità di ripensamenti, in questa Rivista 1993, p. 1420; F. CORDERO, Procedura penale3, Milano 1995, p. 888, che si esprime però in senso favorevole ad un doppio recesso; M. MERCONE, Sulla revocabilità della richiesta nel c.d. patteggiamento, in Arch. n. proc. pen. 1990, p. 575; SANTANGELO, Patteggiamento: il pentimento è abnorme?, in Crit. dir., 1990, n. 4/5, p. 74; E. SELVAGGI, È revocabile la richiesta di patteggiamento?, in Cass. pen. 1992, p. 720. (54) L’ipotesi della revoca relativa ad un accordo formatosi dopo l’esercizio dell’azione penale è assai meno frequente nella prassi giudiziaria e pare esente dalle obiezioni generalmente mosse contro la revoca del consenso prestato in fase di indagini preliminari; tale considerazione — in assenza di qualsiasi disposizione espressa — dovrebbe far propendere per una estensione del principio generale che viene enunciato in materia di revoca, che non pare poter essere quello della inefficacia, poiché nessuna disposizione offre conforto a tale tesi (v. infra, in questo stesso par.); certo, a fronte dell’assenza di obiezioni sul piano teorico, militano forti argomenti di carattere pratico contro l’ammissibilità di una revoca del consenso prestato in tale fase, che non possono però di per sé soli fondare un’applicazione generalizzata di un presunto principio di irrevocabilità del consenso, bensì suggeriscono una particolare cautela del giudice nel verificare la pretestuosità o meno di un siffatto comportamento. (55) Richiama, assieme ad altre argomentazioni, la disciplina del recesso in relazione alla materia negoziale Cass., III, 27 marzo 1992, p.m. in proc. Iezzi, cit.; peraltro, per la questione che qui interessa, il richiamo alla categoria negoziale non pare affatto decisivo, poiché, anche a voler adottare tale logica, sembra evidente che, se l’accordo si forma quando sulla richiesta di una parte sia espresso il consenso dell’altra, il negozio si perfeziona solo con la ratifica del giudice; in questo senso, cfr. in giurisprudenza, Cass., I, 27 settembre 1994, Magliulo, in Cass. pen. 1996, p. 599. (56) Così, testualmente, Pretura di Reggio Emilia, uff. G.I.P., 1 luglio 1991, Pellegrini, cit.
— 1199 — e ad ottenere una discovery anticipata (57), l’altro di carattere sistematico, costituito dal conflitto della tesi che ammette la revocabilità con il c.d. principio della irretrattabilità dell’azione penale (58). Peraltro, non tutti gli argomenti ricordati paiono fondati e, anzi, da taluno di questi è possibile desumere conclusioni a sostegno della tesi opposta. In primo luogo, il problema in discorso non si porrebbe, o comunque risulterebbe decisamente attenuato, se il legislatore non avesse previsto all’art. 447, terzo comma, c.p.p. l’irrevocabilità nel c.d. periodo di interpello; non si vuole qui riferirsi alla possibilità di leggere tale disposizione in senso favorevole alla revocabilità del consenso (59), bensì alle conseguenze derivanti da detta disposizione in punto di attualità del consenso. Pervero, se in tale periodo la richiesta deve rimanere ferma mentre le indagini proseguono (e del tutto ingiustificato sarebbe un blocco delle attività inquirenti), è ben possibile che, quando interviene il consenso dell’altra parte, siano stati reperiti elementi che mutano profondamente la ricostruzione del fatto di reato, tale da rendere del tutto inadeguata l’originaria richiesta di pena o anche la configurazione giuridica del fatto e dunque viziare, nella sostanza, di inattualità l’accordo raggiunto. Non sembra, in secondo luogo, che l’ammissibilità della revoca possa avallare tattiche difensive dirette a pregiudicare gli esiti delle indagini preliminari; è evidente, infatti, che l’arresto delle attività investigative si può avere solo se, alla richiesta dell’imputato, segue il consenso del p.m. e tale consenso, com’è noto, deve essere sorretto dalla presenza di ‘‘elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio’’ ex art. 125 att. c.p.p. Se cosi è, non vi può essere alcun pregiudizio delle indagini già espletate né si pongono problemi di discovery anticipata (60); se invece il pubblico ministero — distrattamente o furbescamente — ha prestato il proprio consenso, pur non avendo reperito sufficienti elementi a sostegno della tesi dell’accusa, la discovery disposta dall’art. 447, primo comma, ult. periodo c.p.p. assolve ad una funzione difensiva tutt’altro che patologica, poiché è diretta (57) In questo senso, v. Cass., III, 14 dicembre 1991, Faticanti, in Foro it. 1992, II, 348; Id., III, 27 marzo 1992, P.M. in proc. Iezzi, cit. (58) Cfr., al proposito, Pretura di Trani, 23 aprile 1990, Canzio, cit; Cass., V, 20 novenbre 1991, Pasquarelli. in Mass. uff. C.E.D., rv. n. 189485. (59) È noto, infatti, come dottrina e giurisprudenza abbiano impiegato tale norma alternativamente a sostegno delle due opposte tesi; v., al proposito, nel senso che tale norma conferma la revocabilità della manifestazione di volontà, Cass., I, 7 novembre 1991, Grossi in Cass. pen. 1992, p. 717, A. MACCHIA, Il patteggiamento, cit., p. 26; A. PIGNATELLI, sub art. 447, cit., p. 812. (60) Analogo ragionamento è applicabile anche per l’ipotesi in cui si ritenga che il livello probatorio necessario per dare ingresso alla procedura alternativa sia quello, più consistente, proprio di un giudizio allo stato degli atti. Anche in tale caso, difatti, un problema di discovery anticipata non si pone se non con l’espressione del consenso da parte del p.m., il quale in fase di indagini preliminari non è tenuto a prestare motivazione del proprio eventuale dissenso.
— 1200 — a far valere l’inconsistenza degli elementi della pubblica accusa ed il rimedio più semplice e più coerente parrebbe proprio la revoca della richiesta originariamente prestata (61). Più consistenti sembrano, invece, le argomentazioni addotte dai sostenitori della tesi dell’irrevocabilità con riferimento al c.d. principio di irretrattabilità dell’azione penale, e ciò non tanto per l’assolutezza del precetto in questione, quanto per le problematiche che suscita un ritorno alle indagini preliminari. Difatti, in assenza di espresse disposizioni legislative, non è possibile stabilire quali e quante attività e che genere di provvedimenti possano essere adottati nel corso ed al termine di tale fase, nulla ostando in teoria alla prosecuzione ordinaria delle indagini e fin’anche alla richiesta di archiviazione (nell’ipotesi in cui il p.m. abbia aderito alla procedura patteggiata senza che fossero soddisfatte le condizioni ex art. 125 att. c.p.p., oppure quando nel periodo di interpello siano emersi elementi decisivi a discarico dell’indagato). Volendo ammettere la revocabilità del consenso o della richiesta, le soluzioni astrattamente possibili sono due: secondo una prima prospettazione, la revoca potrebbe provocare la caducazione dell’accordo, ovverosia del presupposto specifico sulla cui base era stata esercitata l’azione penale, configurando una sorta di sopravvenuta condizione di improcedibilità specifica, con la conseguenza di un ritorno alle indagini preliminari con esito libero (62). In alternativa a tale ricostruzione, si può sostenere che la revoca determini sì la caducazione dell’accordo, ma non infici la validità del promovimento dell’azione penale e quindi imponga la restituzione degli atti al p.m., il quale è tenuto a richiedere contestualmente il rinvio a giudizio (il che non preclude, ovviamente, la possibilità di pervenire ad una nuova richiesta di ‘‘patteggiamento’’). Tale seconda strada pare agevolmente percorribile (63) e idonea a far fronte alle ipotesi in cui, a seguito della emersione di fatti nuovi nel periodo di interpello tali da rendere inattuale l’accordo originario, sia necessario modificare la formu(61) Più farraginosa e meno coerente risula la soluzione alternativa di arrivare davanti al giudice, tenendo ferma da una parte la richiesta e dall’altra evidenziando gli argomenti a favore dell’applicazione dell’art. 129 o comunque dell’inadeguatezza della pena richiesta; inoltre, non si vede quale possa essere la funzione della discovery disposta dall’art. 447 c.p.p., se non quella di consentire una riorganizzazione della strategia difensiva, che, una volta orientata verso forme di rinuncia alle garanzie del processo ordinario, non può restare bloccata a siffatte determinazioni adottate ‘‘al buio’’. V., al proposito, le meditate osservazioni di F. CAPRIOLI, Il consenso dell’imputato all’applicazione della pena: revocabile o no?, in Giur. it. 1993, II, c. 28. (62) Pare infatti viziata da una contraddizione interna la tesi per cui si torna alle indagini preliminari con un esito vincolato all’esercizio dell’azione penale; è del medesimo avviso anche F. CAPRIOLI, Il consenso dell’imputato, cit., c. 24. (63) Del resto, com’e noto, questo è quanto ordinariamente avviene nel ‘‘patteggiamento’’ per i reati di competenza pretorile, in forza di quanto disposto dall’art. 563, terzo comma, c.p.p.
— 1201 — lazione dell’imputazione e la richiesta di pena. Ma, allorquando la revoca dovesse essere motivata dalla mancanza dei presupposti per l’esercizio dell’azione penale ex art. 125 att. c.p.p., tale soluzione non pare del tutto coerente, poiché, una volta accertata la mancanza di elementi per sostenere l’accusa in giudizio, la soluzione meno logica è proprio quella di imporre un rinvio a giudizio; non pare però possibile, sulla base delle norme vigenti, adottare la tesi del ritorno alle indagini preliminari, poiché per tale regressione procedimentale l’art 50, terzo comma, c.p.p., esige una espressa previsione di legge. Ed allora, per tale peculiare eventualità può rivelarsi congrua soluzione attribuire all’imputato la facoltà di scegliere fra due alternative: lo schema applicabile sarebbe quello di affiancare all’accordo ormai inattuale una richiesta di applicazione dell’art. 129 c.p.p., ed in tal caso, com’è noto, se il giudice decide di disattendere quanto sostenuto in tal senso ed applicare la pena, ha un obbligo di specifica ed accurata motivazione sul punto (64); ma, tenuto conto del fatto che gli elementi che sostengono la richiesta di applicazione dell’art. 129 c.p.p. possono non essere a disposizione del giudice, di modo che la pronuncia di proscioglimento può rivelarsi assai aleatoria, pare opportuno fornire all’imputato la possibilità di un ripristino totale delle sue facoltà difensive, ammettendo che tale soggetto possa comunque revocare il proprio consenso e tornare nei binari del giudizio ordinario secondo il meccanismo ex art. 563, terzo comma, c.p.p. Del resto, non pare potersi affermare, in assenza di un espresso sostegno normativo, che in una materia tanto delicata viga un principio generale di irrevocabilità del consenso o della richiesta, e pare francamente azzardato dedurre l’esistenza di un siffatto principio generale da una disposizione, quale quella dell’art. 447, terzo comma, c.p.p., che è con evidenza diretta a disciplinare l’ipotesi ivi specificamente prevista, e la cui ratio, peraltro, è solo quella di consentire un ordinato sviluppo della fase di formazione dell’accordo. VALENTINA BONINI Perfezionanda in procedura penale presso la Scuola Superiore ‘‘S. Anna’’ di Pisa
(64) p. 377.
V. Cass., SS.UU., 15 maggio 1992, Di Benedetto, in Arch. n. proc. pen. 1992,
ABUSO D’UFFICIO E PROGETTI DI RIFORMA: I LIMITI DELL’ATTUALE FORMULAZIONE ALLA LUCE DELLE SOLUZIONI PROPOSTE (*)
SOMMARIO: Premessa. — 1. L’attuale configurazione del delitto di abuso di ufficio. - 1.1 L’elaborazione dottrinale. - 1.2. La « anamorfosi » della fattispecie nell’applicazione giurisprudenziale. - 1.3. Antinomie costituzionali. — 2. Le proposte di legge avanzate dopo la riforma del ’90. - 2.1. Il progetto della Commissione Morbidelli. - 2.2. Il progetto del Comitato ristretto della Commissione giustizia, XIII legislatura. - 2.3. Il testo definitivo approvato il 10 luglio 1997. — 3. Conclusioni.
Premessa. — L’articolata materia dei delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a. deve forse alla natura « ancipite » che la sostanzia la sua complessità, riflesso del difficile equilibrio tra le opposte esigenze della salvaguardia della autonomia dell’azione amministrativa da un lato, e dell’efficacia del controllo penale su di essa dall’altro. Esigenze « antinomiche » che culminano nella fattispecie dell’« abuso d’ufficio »: norma che prima fra tutte ha ereditato dalla riforma del ’90 il compito di segnarne il confine, in forza delle rilevanti modifiche subite e sotto il profilo sistematico e sotto il profilo strutturale. D’altronde l’interesse della dottrina è solo un riflesso della forse esasperata frequenza con cui la giurisprudenza si avvale della norma, e non sempre correttamente. E proprio la multiformità delle soluzioni interpretative che l’attuale art. 323 permette e la conseguente incontrollata applicabilità a cui si presta hanno spinto il legislatore a riconsiderare, in modo deciso, la fattispecie in esame. Attraverso un’analisi delle posizioni maggiormente affermatesi in dottrina e delle esigenze che le hanno motivate, così come dell’eco che le stesse hanno avuto nella giurisprudenza si cercherà in questo lavoro di valutare la rispondenza e la validità delle proposte di riforma succedutesi, anche alla luce delle soluzioni avanzate nel corso del dibattito che ha preceduto la novella del ’90 e da questa « inopinatamente » tralasciate. Pur (*) Il lavoro era già in corso di stampa quando è stata definitivamente approvata, in giorno 10 luglio 1997, la riforma dell’art. 323 c.p. dal Comitato ristretto della Commissione giustizia del Senato (legge n. 234 del 16 luglio 1997), su cui, tuttavia, è stato possibile soffermarsi in un paragrafo aggiuntivo (cfr. infra, par. 2.3): restano comunque valide le considerazioni generali in una prospettiva de iure condendo accennate nelle Conclusioni.
— 1203 — senza dimenticare le rilevanti questioni di legittimità cui la norma è stata anche ultimamente esposta. 1. L’attuale configurazione del delitto di abuso d’ufficio. — Occorre dunque prendere le mosse dagli interventi modificativi della riforma del ’90 e in primo luogo dalle modifiche sul piano sistematico che trasformano l’abuso d’ufficio da fattispecie residuale (di chiusura) a fulcro del sistema politico-amministrativo. L’abrogazione della « ambigua » fattispecie di interesse privato in atti d’ufficio e della malversazione a danno dei privati; la riduzione del peculato alla sola condotta appropriativa; accompagnate alla dichiarata volontà di non procedere ad una indiscriminata abolitio criminis, ma di ricomprendere « selettivamente » le condotte fino ad allora ivi rientranti nel riformulato art. 323 c.p., ne allargano notevolmente, già sul piano oggettivo, l’ambito di rilevanza applicativa (1). Corrispondentemente, sotto il profilo dei soggetti attivi, la norma è stata estesa non più solo al pubblico ufficiale ma anche all’incaricato di un pubblico servizio, come risultante dalla nuova definizione degli artt. 357 e 358 c.p. (2). Infine la sostituzione della clausola di sussidiaretà assoluta con la clausola solo relativamente determinata « se il fatto non costituisce più grave reato » completa la forza sinergica delle modifiche. E non che al mutato ruolo sistematico della norma sia corrisposto uno sforzo di tipizzazione adeguato: che, al contrario, proprio per consentire di rilevare la heredithas damnosa (3) delle norme abrogate, e per adeguare la fattispecie ai nuovi contitolari soggettivi si è optato per una formulazione, sotto il profilo della struttura formale, persino più generica rispetto al vecchio « abuso innominato d’ufficio ». Al cospetto della formula prescelta, tutta incentrata sul concetto (normativo) di « abuso » e sul « dolo specifico » e svincolata da un evento determinato, ben si comprende la problematicità di pervenire ad una interpretazione univoca che ne permetta una lettura compatibile con i principi costituzionali sia sotto il profilo della condotta che sotto quello dell’elemento soggettivo. 1.1. L’elaborazione dottrinale. — Sul piano della condotta, la sostituzione attuata dalla novella della locuzione modale « abusando dei poteri (1) In un modo che a parere dello stesso ministro Vassalli sarebbe potuto divenire « intollerabile ». Cfr. Relazione definitiva alla l. n. 86 del 1990, in Atti parlamentari, Senato della Repubblica, X legislatura, seduta del 5 aprile 1990. Per una critica decisa su questa scelta cfr. SCORDAMAGLIA, L’abuso d’ufficio, in Studi Latagliata, Torino, 1991, p. 192 e p. 207; proponeva una modifica delle suddette norme e non l’abrogazione la proposta Vassalli presentata nel corso della IX legislatura. (2) Sulla genesi di tale estensione, approfonditamente, PISA, voce Abuso d’ufficio, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. aggiornamento IV, Roma, 1995, p. 4 dell’estratto. (3) L’espressione è di SCORDAMAGLIA, op. cit., p. 201.
— 1204 — inerenti la funzione » con la più diretta « abuso dell’ufficio » (4) ha spinto la dottrina a ricercare nuovi limiti all’oggettività della fattispecie. Sotto il profilo dei limiti « esterni » (5), pur se il riferimento al più generico « ufficio » è apparso suscettibile di un significato più ampio della precedente dizione, la dottrina prevalente si è soffermata sulla interpretazione più restrittiva, tendente ad escludere la rilevanza penale della mera violazione dei doveri e dell’abuso della qualità (6). Il che non ha tuttavia impedito di ammettere la configurabilità della fattispecie mediante condotta omissiva, come mancato esercizio del potere (7), alla luce sia della relativa sussidiarietà della nuova norma, che non lo vieterebbe, sia della limitata portata applicativa della nuova fattispecie di omissione di atti d’ufficio, che di fatto lo permetterebbe. Più problematica l’individuazione dei limiti « interni » (8) della condotta oggettiva, cioè del concetto stesso (4)
« Locuzione predicativa di una realtà di per sé non effettuale », così SCORDAMA-
GLIA, op. cit., p. 254; cfr. pure L. STORTONI, La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali, in
Riv. trim. dir. pen. ec., 1990, p. 707, secondo il quale: « il termine abuso [...] ha un preciso significato se riferito ad un dato giuridico che descrive rapporti tra soggetti qual è il potere, mentre perde inevitabilmente di certezza riferito ad un’entità organizzativa qual è l’ufficio »; sulla genericità del concetto di « ufficio » cfr. pure SEMINARA, Il delitto di abuso d’ufficio, in questa Rivista, 1992, pp. 562 e ss., 565). Già il Rocco aveva avuto modo di dire, con riferimento alla locuzione « abusando del suo ufficio » dell’art. 175 codice Zanardelli: « ... troppo vago ed indeterminato appare il concetto di abuso d’ufficio; [...] e per questo ho considerato [...] la formula tradizionale [abuso dei poteri] » cit. in SCORDAMAGLIA, op. cit., p. 253. Il riferimento all’ufficio è apparso ai più scelta obbligata dall’estensione della norma agli incaricati di un pubblico servizio: cfr., fra gli altri, PARODI GIUSINO, voce Abuso d’ufficio, in Digesto pen., Appendice, v. VIII, 1994, pp. 587 e ss., 590. (5) Quei limiti, cioè, che individuano l’estensione o denotazione della locuzione, cioè l’insieme degli « oggetti » cui essa si applica. (6) Cfr., per tutti, SEMINARA, Il delitto di abuso, cit, p. 565; in senso conforme anche PISA, op. cit., p. 5., il quale tuttavia distingue tra la violazione di doveri estremamente generici e la violazione di specifici doveri, che rappresenta un « chiaro sintomo dell’abuso dell’ufficio ». (7) Già ammessa da Corte cost. n. 7, 1965, in questa Rivista, 1966, pp. 984 e ss., con nota di BRICOLA, in cui si identificava l’abuso con « la trasgressione di un dovere inerente l’ufficio, che si concreti in un atto o in comportamento illegittimo posto in essere con dolo »; sul punto cfr. da ultimo IADECOLA, Abuso mediante omissione per il pubblico ufficiale che tace la sua incompatibilità?, nota a Cass., sez. VI, 27 aprile 1995, Rodolico, in Dir. pen. e processo n. 1/1996, pp. 64 e ss., il quale ribadisce come il concetto generale di abuso comprenda « anche il non esercizio del potere »; sul punto, analogamente, cfr. già PAa GLIARO, Principi di diritto penale, Parte speciale, Milano 1992, 5 ed., p. 238; SEMINARA, Commento all’art. 323, in Commentario breve al codice penale, a cura di CRESPI-STELLAZUCCALÀ, Padova 1991, 2a ed., pp. 730 e ss., 734; PARODI GIUSINO, op. cit., p. 600; per contro, escludono la configurabilità dell’abuso in forma omissiva GROSSO, L’abuso d’ufficio, in questa Rivista, 1991-I, pp. 319 e ss., 321; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, Bologna 1991, Appendice, p. 32. (8) Ovvero quei limiti che individuano l’intensione o connotazione del termine, cioè l’insieme delle caratteristiche da esso evocate e possedute dai singoli oggetti che rientrano nella sua estensione. Come si vedrà, proprio nell’indefinitezza del termine abuso dell’ufficio,
— 1205 — di abuso, soprattutto a causa del nesso che ontologicamente lo lega al « contenuto della volontà » riassunto nel dolo specifico. Occorre innanzitutto ricordare come nell’operare la scelta di allocazione della condotta abusiva, nella linea in successione contigua evento (naturalistico)-azione-fine dell’azione, linea che segna la progressiva astrazione dal piano oggettivo al momento soggettivo, il legislatore abbia innestato il concetto solo sugli ultimi due segmenti. La scelta di svincolare la norma dall’evento materiale (di danno o di profitto), quale elemento costitutivo della fattispecie (consumata), come suggerito dal testo del Comitato ristretto « 2 maggio 1989 » (9), è apparsa segno di rottura definitiva con la tradizione liberale cui la norma era radicata (10). Dall’art. 175 del codice Zanardelli che richiedeva il compimento (o l’ordine) da parte del pubblico ufficiale di « qualsiasi atto arbitrario » « contro gli altrui diritti », tutelando dunque in via diretta le posizioni giuridiche degli amministrati, si assiste, già con la formulazione del codice Rocco, ad un progressivo allontanamento dalla sfera oggettiva (liberale) verso una dimensione soggettiva che l’abbandono della previsione dell’evento ribadisce e che la definitiva scelta del dolo specifico sembra sancire definitivamente (11). Scelta che, lungi dal riflettersi solo sulla prospettiva generale dell’interesse tutelato (12) comporta come è noto rilevanti ripercussioni sulla stessa estensione applicativa della fattispecie incriminatrice e, sembra potersi affermare, già con riferimento alla capacità di ricomprendere « seletin cui manca un preciso riferimento ai poteri riconnessi all’ufficio stesso sì da poter escluderne con certezza l’estensibilità alle strumentalizzazioni della qualità (o posizione) o al (strumentale) non-esercizio di doveri, risiede la maggiore problematicità della norma: posto che « [...] un termine è vago e indeterminato se la sua intensione non consente di determinarne con (relativa) certezza l’estensione »; cfr. FERRAJOLI, (cit. test.), Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari 1996, 3a ed., parte I, cap. III, par. 9, L’interpretazione. Il potere di denotazione e le garanzie penali, pp. 94 e ss. (9) Secondo l’art. 323 dell’articolato del Comitato ristretto, elaborato sulla base dei disegni di legge presentati nel corso della legislatura precedente, in parte riassunti nella X legislatura, era punito « il pubblico ufficiale che, abusando della sua funzione, procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio ovvero arreca ad altri un danno... »; lo si legge in appendice a GROSSO, Riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a.: pregi e difetti del testo 2 maggio 1989, in questa Rivista, 1989, p. 1163. (10) Per queste osservazioni, pur tese a fondare una particolare interpretazione del dolo specifico, cfr. PICOTTI, Il dolo specifico, Milano, 1993, pp. 290 e ss. (11) Per una critica a questa progressione fino alla « soluzione della intentionsunwert » cfr. SCORDAMAGLIA, op. cit., p. 205; nel senso analogo di un progressivo arretramento « verso una dimensione molto più soggettiva », se non spiccatamente psicologica, cfr. SEMINARA, op. cit., p. 568. (12) Che si trasforma in una corrispettiva progressione privato-pubblico: tutela dei diritti degli amministrati → efficienza e imparzialità della p.a. → dovere di fedeltà del pubblico agente.
— 1206 — tivamente » la materia criminis devoluta (ex lege) dall’abrogazione dell’art. 324 e del peculato e malversazione per distrazione. L’eredità delle fattispecie abrogate. — Difatti, già con riferimento al peculato per distrazione, il refluire delle condotte prima ivi rientranti nella norma dell’art. 323 n.f. (13), ha avuto come effetto di escludere che il profitto « proprio o di altri », realizzato dall’agente mediante una utilizzazione abusiva (e non momentanea) del danaro o altra cosa mobile di cui il medesimo abbia il possesso (o comunque la disponibilità), possa essere rilevante quale elemento costitutivo del reato, così come, prima della riforma del ’90, dottrina e giurisprudenza erano giunte a sostenere (14). Con la conseguenza che, stante la uniformità del nucleo abusivo (come si vedrà) della condotta, ciò che una volta era punibile solo a titolo di tentativo, e solo qualora ricorresse l’idoneità dell’atto distrattivo, viene ora ad integrare un « abuso » (consumato), alla sola presenza del fine illecito. Discorso in parte analogo per ciò che concerne l’interesse privato in atti d’ufficio, illecito di mera condotta, pertanto avente struttura similare all’attuale art. 323: ma circa il quale la migliore dottrina aveva decisamente affermato, in assenza di una previsione esplicita del profitto quale requisito della fattispecie, la necessità che la condotta fosse idonea a produrre l’utilità privata (15). Con ciò tracciando una ben definita linea di confine nei rapporti tra artt. 324 e 323 v.f. (16): « ... posto che quest’ultimo ipotizza un abuso commesso al fine di « recare ad altri un vantaggio » senza implicare tra l’abuso e il vantaggio un legame di idoneità » (17). Dunque, anche con riferimento all’eredità dell’art. 324, il vigente art. 323 parrebbe, sotto questo aspetto, non più selettivo, ma più « comprensivo »: non richiedendo che l’ingerenza profittatrice attuata tramite (13) Sul punto, non manca chi abbia sostenuto, quale conseguenza della riforma, la ricomprensione delle condotte distrattive entro la (più generica) « appropriazione » di cui all’art. 314 c.p.: in tal senso PAGLIARO, Principi cit., p. 37. (14) Cfr. SCORDAMAGLIA, op. cit., p. 216. (15) Così BRICOLA, voce Interesse in atti d’ufficio, in Enc. dir., vol. XXII, 1972, pp. 74 e ss., 75, il quale ne desumeva che « lo sfruttamento dell’ufficio o l’alterazione dei criteri di valutazione o delle regole procedimentali non ricadono nell’art. 324 c.p. tutte le volte in cui non siano atti a garantire l’inserimento nel provvedimento e nel contratto di una prospettiva solida di vantaggio ». (16) Art. 323 v.f. che, sotto questo aspetto, risulta identico al nuovo art. 323. (17) Così BRICOLA, op. cit., pp. 75-76; in senso conforme SEMINARA, op. cit., p. 590; contra PARODI GIUSINO, op. cit., p. 591, il quale in merito al dolo specifico sostiene che « ... non può essere caratterizzato da un puro disvalore della condotta: esso dovrà mostrare un’almeno generica idoneità della condotta abusiva alla realizzazione del danno o del vantaggio, capace di creare quel pericolo astratto per il bene giuridico tutelato che, nel nostro ordinamento costituzionale, costituisce l’estrema frontiera oltre la quale un fatto non può assumere rilevanza penale »; anche PICOTTI, op. cit., passim, propende per una interpretazione tipicizzante del dolo specifico come si vedrà infra.
— 1207 — l’« abuso » sia idonea a realizzare il fine alternativo di danno o vantaggio (18). Il concetto rilevante di abuso tra tipicità oggettiva e tipicità soggettiva. — Come si è anticipato, l’esclusione dell’evento quale elemento costitutivo decentra la condotta abusiva sull’asse azione-fine sopra cui la dottrina ha cercato di « costruire » il concetto di abuso: come « strumentalizzazione » dell’ufficio, cioè come esercizio strumentale dei poteri inerenti la funzione (e dei « compiti » inerenti il servizio) per fini (di danno o di vantaggio privato) diversi da quelli istituzionali per cui gli stessi sono conferiti. Definizione che, di per sé sola, appare ictu oculi non esaustiva, necessitando uno svolgimento ulteriore che aiuti a distinguerne i contenuti oggettivi e soggettivi (19). Ma occorre procedere per gradi. Sotto il primo aspetto va anzitutto sottolineato come non sembra possibile sostenere, sulla base della formula normativa, la necessità che la « strumentalizzazione » si risolva nel compimento di un atto. La proposta, poi disattesa, di vincolare l’esercizio dei poteri alla realizzazione di un atto (illegittimo) era stata avanzata nel corso dei lavori preparatori alla riforma del ’90 (20) al duplice fine di escludere dall’ambito di rilevanza penale gli abusi consistenti in attività materiali o comunque non inserite in un contesto procedimentale volto all’emanazione di un atto; e di circoscrivere il sindacato del giudice penale alla verifica incidentale della illegittimità dell’atto, così precludendone espressamente il riesame del merito. Dunque, quanto meno alla luce del dato storico deve ammettersi come la nozione di abuso non soffra limitazioni di sorta, ma sia idonea a ricompredere qualsiasi esercizio strumentale di poteri, estrinsecantesi in atti (vincolati o discrezionali) (21) o in mere attività materiali (seppur en(18) Infatti, come puntualmente rileva PAGLIARO, Principi cit., p. 246, « non è vero che se manca l’idoneità, non può esservi seria intenzione di recare danno o vantaggio: perché una intenzione seria può anche realizzarsi in modo del tutto inadeguato ». (19) Cfr. SEMINARA, op. cit., p. 567, « ... L’espressione ‘‘abuso d’ufficio’’ [...] non si pone come meramente descrittiva di una realtà empirica, ma possiede una connotazione di valore la cui carica significante rinvia ad un comportamento caratterizzato in senso oggettivo, in rapporto alle funzioni esercitate, e soggettivo, in rapporto all’atteggiamento psicologico dell’agente ». (20) Cfr. disegno di l. n. 2844/c, IX legislatura, presentato dal ministro Martinazzoli il 22 aprile 1985, che sanzionava il pubblico ufficiale che « ... utilizza i poteri inerenti alle sue funzioni per compiere un atto illegittimo ovvero per determinarne comunque il compimento », pubblicato in D’AVIRRO, L’abuso d’ufficio, Milano, 1995, Appendice, p. 256. (21) Sul punto cfr. D’AVIRRO, op. cit., p. 169, il quale, identificata la condotta con lo sviamento di potere che è vizio tipico degli atti discrezionali, esclude la possibilità di configurare un abuso in atti vincolati.
— 1208 — tro i « limiti esterni » accennati, tendenti ad escludere la mera violazione dei doveri e l’abuso della qualità) (22). A questa « onnicomprensività » oggettiva farebbe riscontro solo l’esigenza che il comportamento (giuridico o materiale) posto in atto si identifichi in un uso distorto dei poteri, valutabile attraverso la distanza tra il fine (pubblico) predisposto ed il fine (privato) perseguito; il che, è stato sostenuto, corrisponderebbe al paradigma di quel vizio amministrativo tipico che è l’eccesso di potere, nella forma dello sviamento; quantomeno quando l’abuso si concretizzi in un atto (23). Nel solco di questa impostazione si è affermato che proprio lo sviamento di potere dalla causa tipica esaurirebbe la condotta materiale della fattispecie e che pertanto il suo accertamento, alla stregua delle c.d. figure sintomatiche tipiche, ne costituirebbe il presupposto oggettivo (24). Ora, a prescindere dalla esattezza scientifica della conclusione, l’accostamento del concetto di abuso al c.d. vizio teleologico ne sottolinea la natura mista oggettivo-soggettiva, in cui la valutazione del comportamento (o atto), neutrale in sé, solo alla luce dell’analisi dei fini (di cui è spesso solo veicolo potenziale) può trasformarsi in giudizio di « strumentalità »: come non perseguimento di fini pubblici o come perseguimento di fini privati. D’altronde, l’estrema disinvoltura con cui il legislatore ha potuto « giocare » proprio la « carta » del dolo specifico (vero coup de théâtre della riforma) (25), eludendo il vincolo di un evento naturalistico (26), conferma l’estrema « neutralità » che la coesistenza di elementi oggettivi e soggettivi determina nella condotta alla base dell’abuso: in cui il riformatore ha potuto elevare ad elemento costitutivo dell’illecito il « contenuto dell’intenzione dell’agente », ciò che già rappresentava « il punto (almeno iniziale) di un adeguato riferimento per la determinazione dell’atto, o del fatto, come abuso » (27). (22) Dottrina largamente maggioritaria: cfr., da ultimo, PISA, op. cit., p. 5. (23) Cfr. PAGLIARO, Principi, Parte spec., cit., p. 227, secondo il quale « l’abuso di potere comporta sempre uno sviamento del potere dalla causa tipica, per la quale il potere stesso è conferito al pubblico ufficiale. Dove vi sia un atto amministrativo [...] l’atto in questione ne risulta sempre viziato da eccesso di potere ». (24) Così D’AVIRRO, op. cit., pp. 160 e ss. (25) Si noti in proposito l’improvvisa comparsa del dolo specifico giustificata nella relazione Battello (sul d.d.l. trasmesso dalla 2a Commissione permanente Giustizia, comunicata alla Presidenza del Senato il 3 aprile 1990, pubbl. da ultimo in D’AVIRRO, op. cit., Appendice, n. 13, p. 274) con l’esigenza di impedire la configurabilità del dolo eventuale: il che è frutto di un « evidente equivoco dogmatico fra dolo specifico e dolo intenzionale », come precisa PICOTTI, op. cit., p. 283. (26) Cfr. sul punto, ancora, la rel. Battello, che così motiva: « Non inserendo un evento naturalistico, col che la condotta resta incentrata sull’abuso, si anticipa opportunamente la soglia della punibilità, così evitando rimproveri di eccessiva indulgenza ». (27) Così, approfonditamente, SCORDAMAGLIA, op. cit., pp. 255 e ss.
— 1209 — Così, non meraviglia la (solo apparente) dicotomia tra la posizione di chi, da un lato, ha considerato il dolo specifico come « mera proiezione soggettiva del concetto di abuso d’ufficio » (28) e chi, all’opposto, ne ha visto il centro nevralgico della norma, capace di scandire la distinzione tra la mera illegittimità amministrativa e la (ben più onerosa) illiceità penale (29). Nel solco di uno sforzo interpretativo teso a ridimensionare un ruolo così gravoso e a « riscoprirne » connotati di tipicità già a livello oggettivo una valente dottrina ha sostenuto, sulla base di una approfondita indagine, la inammissibilità dell’inquadramento del dolo (specifico) in una prospettiva meramente psicologica, ad esso attribuendo al contrario una più spiccata funzione di tipizzazione già sul piano oggettivo (30). Proprio l’elemento finalistico, oltre alla funzione « materiale » di anticipazione della tutela sul piano della consumazione, avrebbe funzione di richiamare, sul piano della tipicità, « l’esistenza costitutiva di un sottostante ‘‘oggettivo’’ e reale conflitto con interessi altrui, nel cui contesto soltanto può assumere valore negativo il perseguimento di un interesse proprio o di terzi, in ogni caso ‘‘non imparziale’’ e perciò diverso o in contrasto con quello ‘‘generale’’ che avrebbe dovuto garantire lo stesso agente » (31). In quest’ottica, il mero abuso risulterebbe il semplice mezzo attraverso cui si instaura tale rapporto; così che il delitto di abuso richiederebbe sempre per la sua consumazione (o meglio: perfezione) « un’oggettiva concretizzazione nella condotta, della scelta dell’agente per un interesse (proprio od altrui) od a sfavore di quello di un altro » (32); e tale scelta tra interessi contrapposti parrebbe risultare, secondo altri, un sin(28) Così, ad es., SEMINARA, op. cit., p. 593, il quale propende per una interpretazione volta a risolvere l’abuso tutto sul piano oggettivo; in senso sostanzialmente analogo SEGRETO-DE LUCA, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1995, p. 533, secondo i quali « Il disvalore della condotta [...] già individua ed esaurisce il contenuto offensivo del fatto [...] ». (29) Così, tra gli altri, SCORDAMAGLIA, op. cit., passim; in senso conforme e per una sintesi su queste posizioni, cfr. SIRANI, nota a Trib. Piacenza, ord., 16 aprile 1996, in Dir. pen. e processo n. 9/1996, p. 1141. (30) Cfr. PICOTTI, op. cit., pp. 261 e ss; per un precedente di questa impostazione tesa a considerare il dolo specifico quale elemento di tipicità della condotta oggettiva con riferimento ai reati di abuso di potere, cfr. STORTONI, L’abuso di potere nel diritto penale, Milano 1976, p. 84; secondo tale impostazione, l’elemento teleologico della condotta introdurrebbe una valutazione mirante a cogliere non l’intenzione del soggetto, bensì « l’accertamento dell’effettiva potenzialità eziologica del comportamento verso il raggiungimento del fine »: così FORNASARI, I criteri di imputazione soggettiva del delitto di bancarotta semplice, in Giur. comm., 1988-I, p. 677, cui si rimanda per una efficace sintesi sul punto, con riferimento anche alle posizioni (anticipatorie) della dottrina tedesca. (31) Così PICOTTI, op. cit., p. 305. (32) Ancora PICOTTI, op. cit., p. 308.
— 1210 — tomo della idoneità della condotta stessa a ledere il bene protetto, l’imparzialità che il pubblico agente avrebbe dovuto mantenere nel perseguimento dei fini pubblici (33). L’ammirevole sforzo alla base di questa tesi, volta a rendere compatibile il delitto de quo ai principi costituzionali e in particolare al principio di offensività, è stato tuttavia giudicato vano da chi ha autorevolemnte sottolineato come « una qualificazione [...] di un contenuto della volontà non corrisponde certo alla realizzazione della volontà stessa, che resta tale: portatrice di uno scopo che potrà realizzarsi oppure no, senza alcuna rilevanza sul piano effettivo » (34). Nell’ambito di quest’ultima impostazione, si è visto piuttosto nel requisito di illiceità speciale identificato nell’« ingiustizia » del danno o del vantaggio l’elemento in grado di meglio focalizzare la necessaria diseguaglianza tra illecito penale e mero illecito extrapenale (35). Secondo questa tesi, l’introduzione della nota di qualificazione giuridica (36) risponderebbe all’esigenza di verificare che all’obiettiva strumentalizzazione dell’ufficio corrisponda il perseguimento di un risultato obiettivamente qualificabile come ingiusto: « un risultato che non deve essere nell’ordine giuridico; perché si porrebbe come violazione di posizioni tutelate dal diritto » (37), garanzia dunque di un autonomo connotato di disvalore, che permette di risolvere, nel senso dell’insussistenza dell’illiceità penale, casi problematici quali la distrazione (mediante abuso), a profitto esclusivo dell’amministrazione (e non in danno altrui), o l’interesse privato coincidente con un interesse pubblico essenziale o dominante; e in generale i casi di attività del funzionario che, pur manifestando un uso strumentale dei poteri, risultano non lesive delle posizioni altrui (dei singoli o della p.a.) essendo invece protese al perseguimento di un interesse giuridicamente degno di rilievo pubblico (38). (33) Così D’AVIRRO, op. cit., p. 206, il quale, accogliendo l’impostazione di Picotti ne desume siffatta conseguenza. (34) Cfr. SCORDAMAGLIA, op. cit., p. 205. (35) Così SCORDAMAGLIA, op. cit., pp. 218 e ss.; D’AVIRRO, op. cit., p. 217; PAGLIARO, Principi, cit., p. 245; GROSSO, L’abuso cit., p. 322; contra, tra gli altri, FIANDACAMUSCO, op. cit., Appendice, p. 33. (36) « Nota di qualificazione normativo-giuridica sostanziale, (non solo formale: ingiusto, infatti, e non illegittimo) »; così SCORDAMAGLIA, op. cit., p. 222; peraltro, sull’introduzione di questo requisito il legislatore del ’90 non si è soffermato in spiegazione alcuna: cfr. la citata rel. Battello, che sul punto, inspiegabilmente, tace. (37) Così SCORDAMAGLIA, op. cit., p. 230. (38) Altri ha preferito interpretare l’ingiustizia come nota di illiceità espressa e non speciale, ridimensionandone notevolmente la funzione: così PADOVANI, L’abuso d’ufficio, in Evoluzione e riforma del diritto penale moderno (studi in onore di Giuliano Vassalli), vol. I, Milano, 1991, pp. 593-594; ad una sostanziale svalutazione dell’autonomia del requisito giunge anche SEMINARA, L’abuso, cit., p. 579, che lo interpreta come una pleonastica ripetizione del concetto stesso di abuso; nello stesso senso FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 33.
— 1211 — Ma, sembra doversi sottolineare, questo autonomo connotato di disvalore qualifica pur sempre l’oggetto di una « intenzione » dell’agente; e pertanto rischia di mutuare le stesse incertezze e gli stessi pericoli che l’accertamento di un connotato psicologico comporta, pur se orientato in vista di risultati profittevoli o pregiudizievoli, che possano in concreto dirsi capaci di ledere gli altrui diritti. Analoghe perplessità suscita l’analisi di un altro elemento normativo della fattispecie avente « funzione connotativa » dell’intenzione dell’agente; la « patrimonialità » del vantaggio perseguito (39), cui è affidato il compito di identificare la condotta affaristica rispetto alla condotta favoritrice o prevaricatrice (40). Alla distinzione corrisponde non di meno una marcata differenza sanzionatoria (da due a cinque anni di reclusione per l’abuso patrimoniale del comma 2o rispetto al massimo di due anni per i restanti abusi di cui al comma 1o) e, anche a voler tralasciare le critiche circa la opportunità politico-criminale di un così sensibile scarto edittale per condotte che spesso possono presentare un analogo disvalore, va rilevato come la differenziazione ancora una volta sia affidata ad una connotazione che ha come referente l’elemento psicologico: e che di fronte all’inevitabile intreccio di finalità diverse coesistenti nel medesimo « abuso » mostra tutta la sua problematicità (41). Il rapido excursus compiuto nel panorama dottrinale dimostra la molteplicità di opzioni interpretative che la scarsa tipizzazione dell’attuale abuso d’ufficio inevitabilmente dischiude. Occorre ora verificare, in merito alle questioni più problematiche, quanto delle soluzioni proposte sia stato recepito dalla giurisprudenza più significativa, e se siano definibili delle linee di tendenza univoche nella configurazione della tipicità oggettiva della fattispecie. 1.2. La « anamorfosi » della fattispecie nell’applicazione giurisprudenziale. — Nella copiosa elaborazione giurisprudenziale, occorre, anzitutto, rilevare come già sul piano dello svolgimento del concetto di abuso si assista ad una duplice interpretazione. (39) Entrambi gli elementi, dell’ingiustizia e della patrimonialità, contribuiscono, nella suggestiva interpretazione di PICOTTI, op. cit., pp. 274 e ss., a meglio definire il dolo specifico, e data la funzione tipicizzante a questo riconosciuta già a livello obiettivo, ad assicurare la tassatività della nuova formulazione quanto meno nella sua « soglia minima ». (40) Cfr.sul punto la citata rel. Battello; la dottrina si è peraltro da subito interrogata sulla natura circostanziale o autonoma della fattispecie di cui al comma 2o: per la prima soluzione propende PAGLIARO, Principi, cit., p. 244; per la seconda la dottrina dominante, cfr. tra gli altri PADOVANI, L’abuso d’ufficio e il sindacato del giudice penale, in questa Rivista, 1989-I, p. 82; FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 33; PARODI GIUSINO, op. cit., p. 593. (41) Cfr. per tutti GROSSO, L’abuso d’ufficio, cit., p. 324; circa la determinazione del fine rilevante in concreto e sulla distinzione tra teorie incentrate sul fine prevalente e teorie incentrate sul fine immediato, cfr. SEMINARA, op. cit., p. 594, il quale propende per queste ultime.
— 1212 — Un primo orientamento, identificando il significato dell’abuso in una « strumentalizzazione oggettiva dell’ufficio tale da frustrare o alterare le finalità istituzionali perseguite » (42) da intendersi come « esercizio del potere per scopi diversi da quelli imposti dalla natura della funzione » (43), ne sottolinea così in via diretta l’aspetto (di abuso) funzionale (44), ma sembra cedere il passo di fronte ad una interpretazione volta ad identificarlo nella « condotta del pubblico ufficiale in violazione delle regole normative disciplinanti l’ufficio [...] ed improntate ai principi di legalità, di buon andamento o di imparzialità » (45). Tale ultima impostazione, facendo consistere l’abuso in una « violazione del parametro di doverosità come risulta dalle regole normative » (46) improntante ai principi suddetti, violazione « consumata attraverso la mancata osservanza o la distorsione dai fini propri di normative dirette a garantire il perseguimento di dette finalità » (47), sembra incentrarne il contenuto nell’« esercizio antidoveroso della potestà pubblica (48), così svalutandone l’aspetto funzionale (e dinamico), fino a risolverlo nella (statica) violazione dei doveri (49). Quanto alla manifestazione concreta dell’abuso, è ormai pacificamente ammesso che « esso rimane integrato sia dal porre in essere atti o provvedimenti amministrativi, cioè da un’attività volitiva o intellettiva tipica, sia da attività materiali, quali le operazioni tecniche e i comportamenti che si concretano nei fatti costituenti manifestazioni dell’attività amministrativa e quindi dell’ufficio » (50). (42)
Cfr. Cass., sez. VI, 27 maggio 1993, Talarico, in Cass. pen., 1994, pp. 2975
e ss. (43) Cfr. Cass., sez. VI, 25 ottobre 1991, Giunta, in Cass. pen., 1993, p. 1403, « ...così, per un verso, da far conseguire all’atto uno scopo estraneo rispetto a quello preordinato dalla norma e, per altro verso, da realizzare un vero eccesso del mezzo rispetto al fine tipico da essa presupposto ». (44) Cass., sez. VI, 12 marzo 1991, Cherubini, in Foro it. (45) Così Cass. pen., sez. VI, 31 aprile 1991, Ragni, in Cass. pen., 1993, III, p. 2516. (46) Cfr. Cass. pen., sez. VI, 30 aprile 1992, Favale, in Giur. it., 1993, II, p. 534. (47) Cass. pen., sez. VI, 15 maggio 1995, Buonocore, in Riv. pen., 1995, II, p. 1021. (48) Cfr. Cass. pen., sez. VI, 14 dicembre 1992, Palamara, in Giur. it., 1994, II, p. 400; sul punto, approfonditamente, sostiene l’irrilevanza della mera violazione di un dovere e la necessità che la stessa evolva in uno sfruttamento della funzione a proprio vantaggio, App. Catania 8 febbraio 1994, Rodolico, in Foro it., 1994-II, p. 515. (49) In alcune decisioni sembra per altro profilarsi la risoluzione dell’abuso dell’ufficio nell’abuso della qualità: così, viene inquadrato nel paradigma dell’art. 323 il caso in cui un incarico di pubblico servizio « profittando della sua qualifica abbia fatto lavorare per sé i suoi dipendenti », cfr. Cass. pen., sez. VI, 27 gennaio 1994, Liberatore, in Giust. pen., 1995, II, p. 401; così pure il caso di un primario ospedaliero che abbia sollecitato in varie occasioni e con modalità diverse pazienti che avevano necessità di interventi chirurgici a ricoverarsi presso la propria casa di cura privata, cfr. Trib. Lecce 6 aprile 1992, Antonelli, in Riv. pen., 1992, p. 1068. (50) Cfr., ex plurimis, Cass. pen., sez. VI, 30 aprile 1992, Favale, cit.; nello stesso
— 1213 — Il contrasto riemerge tuttavia qualora l’abuso si estrinsechi in un atto amministrativo. Secondo una linea interpretativa l’illegittimità dell’atto sarebbe requisito non necessario dell’abuso penalmente rilevante, poiché questo prescinderebbe dall’inquadramento dell’atto in possibili vizi amministrativi (51), stante l’autonomia dell’accertamento penale sull’abuso di potere, che potrebbe anche essere celato da (apparente) legittimità formale; impostazione che non esclude tuttavia la rilevanza « sintomatica » dell’illegittimità (formale) dell’atto ai fini dell’illiceità della condotta (52). Secondo una opposta tesi, che muove dal concetto di abuso come « uso illegittimo dell’ufficio », alla base stessa della condotta « abusiva » starebbe sempre l’illegittimità del comportamento, accertabile attraverso le categorie pubblicistiche dell’incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere (53), inteso quest’ultimo come « esercizio del potere per un fine improprio rispetto a quello funzionale ». Nel solco di questa impostazione, alcune decisioni sostengono che i vizi di incompetenza e violazione di legge sarebbero solo sintomo della condotta di abuso, mentre l’illegittimità in cui essa si esprime sarebbe sempre rappresentata dallo sviamento di potere (54). È bene tuttavia sottolineare come, anche le tesi che fondano l’abuso sull’illegittimità dell’atto o del comportamento, tendono ad escludere comunque la configurabilità di un limite all’accertamento del giudice penale che, attraverso l’indagine sulle figure sintomatiche dell’eccesso di potere, deve pur sempre riscontrare « una reale divergenza tra risultato effettivo e risultato istituzionale e potenziale dell’atto » (55). Ma è forse il terreno dell’elemento soggettivo quello ove più stridenti si fanno le divergenti tendenze interpretative. senso Trib. Bari 12 maggio 1994, Naglieri, in Riv. pen., 1994-II, p. 912, secondo cui ne « consegue che non rappresenta una forma di sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa l’accertamento della sussistenza del fatto di abuso condotto mediante l’esame in concreto [...] di singoli comportamenti posti in essere dal p.u. »; contra, isolatamente, Trib. Roma 18 giugno 1993, in Cass. pen., 1994-II, p. 1376, con nota di GAMBARDELLA. (51) Cfr. Cass. pen., sez. VI, 12 marzo 1991, Cherubini, cit.; nello stesso senso Cass. pen., sez. VI, 25 ottobre 1991, Giunta, cit. (52) Cfr. sul punto Trib. Napoli 4 dicembre 1991, Mandico ed altri, in questa Rivista, 1994, I, p. 703. (53) Cfr. Cass. pen., sez. VI, 21 agosto 1995, Aragona, in Riv. pen., 1996, p. 1329; Cass. pen., sez. VI, 15 luglio 1996, Ferretti, in Riv. pen., 1996, p. 839; Trib. Ragusa 14 luglio 1995, Prestana, in Riv. pen., 1995, I, p. 618, secondo cui « ricorre l’elemento materiale del reato quando l’agente ecceda dai limiti della sua competenza, o non osservi le norme che disciplinano obbligatoriamente la sua attività o, infine, faccia uso dei poteri discrezionali riconosciutigli per uno scopo diverso da quello per cui i poteri stessi gli sono stati conferiti ». (54) Cfr. Cass. pen., sez. VI, 15 febbraio 1995, Chieffallo, in Riv. pen., 1996, p. 1471. (55) Cfr. Cass. pen., sez. VI, 15 luglio 1996, Ferretti, cit., secondo cui « Non si tratta, infatti, di valutare il ‘‘merito’’ amministrativo, e cioè l’opportunità dell’atto o del comportamento, ma la legittimità che, come si è detto, è lesa non solo dalla incompetenza o dalla violazione di legge, ma anche dallo sviamento di potere nell’accezione suddetta ».
— 1214 — Infatti, a fronte di orientamenti volti a sottolineare la necessità di accertare autonomamente la presenza del fine specifico di danno o di vantaggio rispetto ad una condotta pur macroscopicamente antidoverosa e illegittima (56), si riscontrano decisioni che ne inferiscono la sussistenza dalla strumentalizzazione stessa dell’atto (57). La differenza assume importanza dominante sotto il profilo della prova del dolo specifico, stante il rischio che la sussistenza dello stesso venga desunta dal solo elemento oggettivo, il « comportamento abusivo » (dando così vita ad una forma di dolus in re ipsa). Infatti, al di là di mere enunciazioni di principio sulla necessità di ricavare aliunde elementi di prova del fine illecito, in non poche decisioni è dato verificare come tali elementi siano in concreto gli stessi richiamati nel capo d’imputazione a prova dell’abusività oggettiva della condotta, ossia dell’atto o del comportamento illegittimo (58), in particolare una recente sentenza della Suprema Corte evidenzia questo (opinabile) procedimento logico, desumendo dalla illegittimità dell’atto la sua strumentalità per fini diversi, e dalla strumentalità stessa il fine (di vantaggio) illecito (59). Analogamente, con riferimento al requisito dell’« ingiustizia » del danno o del vantaggio, ad un’interpretazione tesa a desumerne la sussistenza dall’« abuso » stesso, considerandola mera conseguenza di esso (60), si contrappone un prevalente orientamento che ne sostiene l’autonoma rilevanza, nel senso che detta ingiustizia non può essere valutata esclusivamente in relazione al fatto « abusivo » ma « anche in relazione al (56) Cfr., ex plurimis, Cass. pen., sez. VI, 18 luglio 1995, Pasetti, in Riv. pen., 1996, p. 501; espressamente sul punto, Trib. Chieti 17 gennaio 1994, in Riv. pen., 1994, p. 1169, secondo cui la sussistenza dell’intenzione dell’agente « non può essere desunta dalla mera illegittimità dell’atto amministrativo, ma deve essere in concreto provata l’esistenza del dolo specifico di affarismo o di prevaricazione »; in senso analogo, approfonditamente, Cass. pen., sez. VI, 15 luglio 1996, Ferretti, cit. (57) In questo senso Cass. pen., sez. VI, 4 marzo 1994, Viti, in Riv. pen., 1995, I, p. 642, secondo cui « [...] l’elemento psicologico è costituito, non soltanto dal cosciente e volontario uso illegittimo dei poteri d’ufficio, ma anche dalla strumentalizzazione dell’atto a vantaggio del destinatario, in modo da creare una situazione amministrativa e giuridica di vantaggio alla quale lo stesso non avrebbe diritto ». (58) Così sembra procedere Cass. pen., sez. VI, 16 marzo 1995, Gadani, in Riv. pen., 1996, p. 1026, pur dopo aver affermato che « Ai fini probatori dell’abuso d’ufficio assumono rilievo sia l’atto o il comportamento isolatamente valutato, sia quegli elementi sintomatici che, appartamenti estrinseci all’atto e al comportamento (comportamenti antecedenti, contestuali ed anche successivi), consentono una verifica di più alto contesto »; per analoghi rilievi su questa decisione cfr. D’AVIRRO, op. cit., p. 212. (59) Cass. pen., sez. VI, 4 gennaio 1996, Vallese, in Riv. pen., 1996, p. 604. (60) Cass. pen., sez. VI, 9 luglio 1993, Morello, in Riv. pen., 1994, II, p. 927, secondo cui « perché il vantaggio possa dirsi ingiusto è sufficiente che esso non sia dovuto, sia cioè iniuste datum, non occorrendo che sia anche turpiter datum ».
— 1215 — risultato in sé che l’agente si propone ed alla stregua del diritto oggettivo » (61). Tuttavia va sottolineato come, pur affermandone l’autonomia, tale ultimo filone giurisprudenziale ne nega poi, di fatto, la rilevanza nel caso concreto (62) a volte mettendone in dubbio l’indipendenza stessa (63); e sostenendo peraltro che, pur costituendo tale requisito di illiceità « una componente del dolo specifico, l’erronea convinzione dell’agente in merito è irrilevante, risolvendosi la norma che qualifica l’ingiustizia [...] in norma integratrice di quella penale » (64). 1.3. Antinomie costituzionali. — Come può rilevarsi, anche l’esame del quadro giurisprudenziale non offre soluzioni interpretative uniformi, anzi da esso sembra emergere un concetto di abuso sì indefinito da ricomprendere, alla volta, comportamenti riconducibili a mera violazione di doveri o ad abuso della qualità di pubblico agente. Il che desta non poche perplessità, specie al cospetto del solo dato univoco che la ricostruzione percorsa ci mostra essere denominatore comune tra dottrina e giurisprudenza: la assorbente rilevanza che assume l’elemento psicologico, e in particolare la sua frazione più labile, il dolo specifico, sia nella ricostruzione del concetto di strumentalizzazione, sia nella « asettica » verifica dell’intenzione soggettiva. Il rischio di una interpretazione « unilaterale » che tenda a considerare il dolo specifico o come mero riflesso psicologico della condotta strumentale (risolvendolo in essa) o come fulcro determinante la strumentalità della stessa (risolvendo in sé la condotta materiale) è quello di incorrere in gravi obiezioni di legittimità costituzionale, come è stato più volte rilevato in dottrina, pur in dissenso con una decisione della stessa Corte (65); tale rischio palesandosi nel contrasto con un triplice ordine di principi: 1) in primo luogo con il principio di legalità, sotto il profilo della tassatività e determinatezza, poiché il concetto stesso di abuso, per la indefinitezza « tautologica » che lo caratterizza, si risolve in una « non defi(61) Così fra le tante Cass. pen., sez. VI, 19 aprile 1995, Bussolati, in Riv. pen., 1996, p. 1452. (62) Cass. pen., sez. VI, 19 aprile 1995, Medea, in Riv. pen., 1996, p. 95; Cass. pen., sez. VI, 15 luglio 1996, Ferretti, cit.; Cass. pen., sez. VI, 5 aprile 1996, Marini, in Riv. pen., 1996, p. 979. (63) Così Cass. pen., sez. VI, 19 aprile 1995, Bussolati, cit., che sembra desumere la sussistenza dell’ « ingiustizia » proprio dalla violazione della normativa sull’ordine di assegnazione di alloggi IACP a persone comunque in possesso dei requisiti ». (64) Ibidem; analogamente, Cass. pen., sez. VI, 15 luglio 1996, Ferretti, cit. (65) Corte cost. n. 7/1965, cit., con nota di BRICOLA, In tema di legittimità costituzionale dell’art. 323 c.p.
— 1216 — nizione » (66); e poiché la norma è peraltro articolata su un meccanismo di « tipicità doppia » (condotta prevaricatrice o favoritrice-condotta affaristica) assicurata da un continuum di pene scandito solo sulla base di un momento interiore dell’agente (67); 2) ancora con riguardo alla legalità, ma sotto il profilo della riserva assoluta di legge, palesemente aggirata dalla tendenziale sovrapposizione del concetto di abuso alla violazione delle norme regolanti l’« ufficio », i cui confini sono in concreto delineati da una miriade di fonti sublegislative, di rango dunque secondario (regolamenti interni, circolari, ordini, disposizioni anche verbali, etc.) (68); 3) infine e complessivamente con riguardo al principio di offensività, poiché la previsione del dolo specifico radicato su di una condotta « neutrale » riconducibile al mero illecito amministrativo o disciplinare, quindi di per sé non necessariamente offensiva di valori costituzionalmente significativi, risolve il rapporto fra fatto e bene giuridico tutelato in un legame di natura solo o prevalentemente psicologica che ne assorbe l’intero disvalore (69). Tali problematiche sono state messe in luce da una recente questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Piacenza, che ha sottolineato l’insufficiente determinatezza della fattispecie e « per i termini del tutto evanescenti della nozione di abuso d’ufficio e per il ruolo centrale del dolo specifico, che finisce per decidere della stessa illiceità di una condotta di per sé neutra » (70). (66) Opinione condivisa dalla dottrina dominante; tuttavia, sulla non incompatibilità della attuale formulazione con i principi di cui all’art. 25 comma 2o Cost., cfr. PISA, op. cit., p. 17. (67) Su queste tecniche di svalutazione della legalità cfr. i rilievi di SGUBBI, Meccanismi di aggiramento della legalità e tassatività nel codice Rocco, in La questione criminale, 1981, pp. 319 e ss. (68) Per questi rilievi, traendone conclusioni che avvalorano la tesi sostenuta, cfr. PICOTTI, op. cit., p. 293; rilievi analoghi in VINCIGUERRA, L’abuso d’ufficio: stato delle cose e ragioni di una riforma, in Dir. pen. e processo, n. 7/1996, p. 860, con riferimento alla citata sentenza Cass. pen., sez. VI, 27 maggio 1993, Talarico. (69) Sulla incompatibilità di un tale modello di reato con la Costituzione, cfr. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. it., XIX, Torino 1973, p. 87; recentemente sul punto E. GALLO, Aperto il dibattito sull’abuso d’ufficio, in Dir. pen. e processo, n. 3/1996, pp. 271 e ss.; per una interpretazione costituzionalemnte orientata dei reati a dolo specifico cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 1995, pp. 211 e ss., in particolare p. 221. Una autorevole dottrina (ESPOSITO, La responsabilità dei funzionari e dipendenti pubblici secondo la Costituzione, in La Cost. it., Saggi, 1954, p. 109, cit. in BRICOLA, In tema di legittimità dell’art. 323 c.p., cit., p. 990) ne rilevava il contrasto anche con l’art. 28 Cost., a norma del quale si sancisce la responsabilità dei funzionari per gli « atti compiuti in violazione dei diritti »: il che escluderebbe che il fatto dell’agente possa consistere nel mero agire con l’intenzione di ledere il diritto altrui, necessitando che da tale cosciente attività sia derivata effettiva lesione dei diritti altrui. (70) Trib. Piacenza ufficio Gip, 16 aprile 1996, cit., con nota di SIRANI.
— 1217 — Ma i risvolti forse più problematici della questione sono analizzati nel passo in cui si afferma che « tale insufficiente determinatezza [...] compromette il buon andamento della p.a., poiché le incursioni del giudice penale nella sfera amministrativa, in assenza di univoci criteri oggettivi idonei a determinare il confine fra lecito ed illecito, rischiano di paralizzare anche le più ordinarie attività dei pubblici funzionari ». È infatti proprio sul rapporto giudice penale-pubblica amministrazione che incide più gravemente l’ambiguità dell’attuale formulazione dell’abuso d’ufficio. Difatti, come è stato definitivamente dimostrato dalla dottrina più accorta (71), l’estensione del giudizio penale non può soffrire limite alcuno (di legittimità, come pure è stato affermato (72), rispetto al merito) neppure nei confronti della sfera di valutazione discrezionale della p.a., pur « normativamente riservata », come afferma la stessa ordinanza citata. Ciò contribuisce a porre gli amministratori nella posizione di soggetti sempre e comunque sotto tutela giudiziaria, nei cui confronti ben si comprende come la norma dell’art. 323 possa essere definita una vera e propria « spada di Damocle ». La problematica può avere effetti espansivi che vanno oltre il rapporto giudice — singolo amministratore, potendo coinvolgere il più generale rapporto giudice — organo amministrativo. Per valutarne la portata « dirompente » essa va analizzata anche nella prospettiva del concorso di persone nel reato e, in primis, della configurabilità di una partecipazione a titolo di concorso nella emanazione di un atto collegiale: posto infatti che per aversi partecipazione punibile occorre e il contributo causale del partecipe alla realizzazione del fatto e l’elemento soggettivo integrante il dolo di partecipazione (73), appare particolarmente problematica la posizione del pubblico agente membro di un organo collegiale che partecipi all’adozione di un atto estrinsecantesi in uno sviamento dei poteri senza condividere l’eventuale fine (illecito) ulteriore perseguito da un altro componente. Ammessa infatti la rilevanza causale del contributo rispetto all’emanazione dell’atto, sotto il profilo dell’elemento soggettivo occorrerebbe provarne anche la finalità illecita, mentre la dottrina afferma che per il partecipe ad una condotta altrui integrante un reato a dolo specifico è sufficiente provare la mera rappresentazione del fine illecito altrui (74), pur senza condividerlo personalmente. (71) Cfr. CONTENTO, Il sindacato del giudice penale sugli atti amministrativi, con particolare riferimento agli atti discrezionali, in Quaderni del C.S.M., n. 42, 1991, pp. 13 e ss.; ID., Giudice penale e p.a. dopo la riforma, in Quaderni del C.S.M., n. 59,. 1992, pp. 175 e ss., in specie p. 179; T. PADOVANI, L’abuso d’ufficio e il sindacato del giudice penale, cit., p. 88; D’AVIRRO, L’abuso d’ufficio, cit., p. 174; da ultimo E. GALLO, op. cit., p. 275. (72) Cfr. C.F. GROSSO, L’abuso d’ufficio, cit., p. 321. (73) Cfr. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, 1992, p. 518. (74) Così M. GALLO, voce Dolo (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XIII, p. 797.
— 1218 — È inutile sottolineare quanto possa risultare problematico l’accertamento della percezione di una intenzione altrui; e quali estreme conseguenze possa portare tale conclusione per l’esplicarsi della attività di componenti organi (non solo amministrativi) collegiali (75). Ancor più problematica la valutazione della posizione di chi si astenga dall’impedire l’adozione dell’atto abusivo: qui, ammessa l’astratta configurabilità di un abuso in forma omissiva, potrebbe considerarsi integrato l’obbligo giuridico di impedire l’evento (ex art. 40, comma 2o, c.p.) in capo al membro di un organo collegiale solo alla stregua dei generali principi di buon andamento e imparzialità della p.a. ex art. 97 Cost. Dal che si desume come l’interlocutore del giudice penale non sia il singolo amministratore ma l’organo amministrativo (giudiziario, legislativo) incardinato su un singolo titolare o una pluralità di persone. Ma anche il rapporto giudice-amministrati può, per il tramite dell’amministratore « imputato » di un abuso, venire in rilievo. Si pone il problema di valutare la posizione del soggetto a vantaggio del quale l’abuso è commesso, nel quadro generale del concorso nel reato proprio (76). Occorre premettere che, sebbene sia stata talvolta sostenuta in giurisprudenza, è da escludere l’appartenenza del delitto di abuso d’ufficio alla categoria dei reati necessariamente plurisoggettivi (77). Dunque è alla luce delle disposizioni sul concorso eventuale che occorre verificare se l’eventuale condotta (autonoma) dell’extraneus abbia la consistenza di un contributo necessario o anche solo agevolatore, e quindi punibile, a titolo di partecipazione materiale o morale. Posto che è generalmente da escludere, in capo al soggetto avvantaggiato, la configurabilità di un obbligo giuridico di impedire l’abuso (78), è (75) A testimonianza di tali problematiche cfr. l’emendamento, non accolto, avanzato in sede deliberante dai Senatori Centaro, Valentino e altri sul progetto di legge attualmente all’esame della Camera (n. 2442, su cui infra, § 2.2), in cui si aggiungeva il seguente comma: « Non sono punibili i componenti di organi collegiali di Enti pubblici, la cui condotta, concorrente a dare rilevanza formale all’atto, non sia stata inequivocabilmente indirizzata con le modalità di cui al primo comma alla determinazione dell’ingiusto vantaggio o danno ». (76) Nell’ambito della tematica del concorso, un dato appare pacifico: che il soggetto non avente la qualifica (c.d. extraneus), oltre alla conoscenza della qualifica dell’intraneus, debba avere la consapevolezza della rilevanza della funzione che tale qualifica esprime in rapporto al tipo di reato (così, nel caso dell’art. 323, dei poteri o compiti di cui si abusa), cfr. PAGLIARO, Il concorso dell’estraneo nei delitti contro la pubblica amministrazione, in Dir. pen. e processo, n. 8/1995, p. 979. (77) Cfr. PAGLIARO, op. ult. cit., pp. 981. In senso analogo cfr. Cass. pen., sez. Vi, 29 novembre 1995, Marino, in Riv. pen., 1996, p. 1003 (m). (78) Cfr. PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte speciale, cit., p. 259, il quale esclude l’ammissibilità stessa dello schema omissivo improprio non essendo la fattispecie costruita in termini causali.
— 1219 — (al contrario) sotto il profilo del contributo morale che si profilano le questioni più problematiche. Infatti, sotto quest’ultimo profilo come è noto non si ritiene necessaria la determinazione del proposito crimonoso altrui, essendo sufficiente il mero rafforzamento o il sostegno psicologico dell’altrui intento (79): che è intento specifico di procurare un vantaggio all’extraneus, il quale normalmente ne sarà cosciente e, più spesso, consenziente. Di qui il pericolo che sullo stesso fulcro su cui si basa il dolo specifico (ad es. il legame di parentela o di affari tra i soggetti) si possa far leva per inferire la istigazione altrui. La rilevanza delle problematiche sottese alla norma dell’abuso di ufficio non merita di essere ulteriormente evidenziata: a fronte di esse numerose istanze di riforma si sono levate, e numerose sono giunte le proposte di legge. Si cercherà di analizzare due progetti che, con esiti diversi, ne rappresentano in certo senso la sintesi. 2.
Le proposte di legge avanzate dopo la riforma del ’90.
2.1. Il progetto della Commissione Morbidelli. — Il primo progetto degno di nota è il testo elaborato nell’aprile-maggio 1996 dalla Commissione per la riforma dei delitti contro la p.a. istituita nel corso della XII legislatura e presieduta dal professor Morbidelli (80). L’impressione che si ha ad un primo sguardo d’insieme è quella di as(79) Cfr. MANTOVANI, op. cit., p. 526. (80) Il testo proposto dalla Commissione, istituita dall’allora guardasigilli Caianiello, (vicepresidente professor Pagliaro), e comunicato nel maggio 1996 al neo ministro Flick, è il seguente (pubbl. su Italia oggi, sabato 15 giugno 1996, p. 25): ART. 1. — L’art. 323 del codice penale è sostituito dai seguenti: ART. 323. (Prevaricazione). — Il pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico servizio, che, esercitando in maniera arbitraria e strumentale i poteri inerenti alle funzioni o al servizio, arreca intenzionalmente ad altri un danno che sa essere ingiusto, è punito, se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a lire venti milioni. ART. 323-bis. (Favoritismo affaristico). — Il pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico servizio, che, esercitando in maniera arbitraria e strumentale i poteri inerenti alle funzioni o al servizio, al fine di favorire taluno gli procura un vantaggio patrimoniale che sa essere ingiusto, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. ART. 323-ter. (Sfruttamento privato dell’ufficio). — Il pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico servizio, che, esercitando in maniera arbitraria e strumentale i poteri inerenti alle funzioni o al servizio, si procura un vantaggio patrimoniale che sa essere ingiusto, è punito con la reclusione da due a cinque anni. ART. 323-quater. (Disposizioni comuni). — I fatti previsti dai tre articoli precedenti possono essere commessi anche mediante l’omissione arbitraria e strumentale dell’esercizio dei poteri. La presenza di vizi di legittimità nell’atto amministrativo non equivale, di per sé, all’esercizio arbitrario e strumentale dei poteri. Non può essere considerato arbitrario e strumentale il comportamento conforme alla
— 1220 — sistere ad una riformulazione « centrifuga » dell’attuale fattispecie di abuso d’ufficio, tesa a limitarne la « portata onnivora » sia attraverso interventi volti a ridisegnarne i confini ab externo, sia procedendo ad una vera e propria ristrutturazione dei suoi elementi costitutivi (81). Anzitutto, il vigente art. 323 risulta scomposto in tre autonome fattispecie di Prevaricazione, Favoritismo affaristico, Sfruttamento privato dell’ufficio: tripartizione emblematica dell’intento di migliorare la tipizzazione delle condotte, che, pur singolarmente specificate, conservano un nucleo comune in cui la prima novità è lo svolgimento del concetto di abuso attraverso una locuzione modale che ha come contenuto espresso l’esercizio arbitario e strumentale dei poteri. Questa previsione, indicando per tabulas la necessità di una strumentalizzazione oggettiva ed arbitraria non più riferita all’« ufficio » inteso come « astratta sfera di attribuzioni », ma ai poteri (tipici) inerenti alla funzione o al servizio, sembra sancire l’irrilevanza (non sempre condivisa dalla citata giurisprudenza) della mera violazione dei doveri e dell’abuso della qualità. Peraltro, la duplice aggettivazione che qualifica tale esercizio non solo strumentale ma anche arbitrario, sembra esigere che lo sviamento dei prassi amministrativa consolidata o al risultato di un procedimento amministrativo imputabile ad altri o alle Carte dei servizi pubblici ed agli usi nella prestazione dei servizi. I fatti previsti dai medesimi articoli non sono punibili fino a quando non producono effetti esterni alla pubblica amministrazione. Non è punibile chi ha commesso ad esclusivo vantaggio della pubblica amministrazione taluno dei fatti previsti in questo capo, sempre che non si tratti di concussione o di distrazione di denaro o di altra cosa appartenente a privati. Nei casi previsti dagli artt. 314, 315, 316-bis e 323-ter, la punibilità è altresì esclusa, quando il fatto non ha cagionato, né era idoneo a cagionare, un danno patrimoniale pubblico o privato di ammontare superiore a lire dieci milioni, sempre che il danno medesimo sia stato riparato per intero. Ove siano commessi più fatti, si tiene conto del danno patrimoniale complessivo. Se i fatti previsti dai rimanenti articoli di questo capo, fatta eccezione per gli artt. 319-bis e 319-ter, sono di particolare tenuità, le pene sono diminuite. ART. 2. — Il pubblico ministero, contemporaneamente alla richiesta di archiviazione o di rinvio a giudizio o alla formulazione della imputazione per un fatto nel quale sia configurabile un esercizio arbitrario e strumentale dei poteri da parte di un pubblico ufficiale o di un pubblico servizio, dispone la trasmissione di tali atti anche alla procura della Corte dei conti nonché all’amministrazione, ente od organismo presso i quali presta servizio il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, per l’esercizio delle azioni di responsabilità in materia di contabilità pubblica e disciplinari. Gli atti in questione sono trasmessi altresì al Prefetto del luogo in cui ha sede l’ufficio presso il quale il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio svolgono la propria attività, al fine della iscrizione in apposito elenco per la trasparenza ed il buon andamento dell’attività amministrativa. Il Prefetto inoltra trimestralmente gli elenchi aggiornati ai Nuclei di valutazione di cui all’art. 20 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 ed alle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità ed alle altre agenzie od organismi indipendenti per la vigilanza sui servizi pubblici. (81) Un antecedente dottrinale è sicuramente rinvenibile in PAGLIARO, Per una riforma delle norme sull’abuso d’ufficio, in Dir. pen. e processo, n. 5/1996, pp. 535 e ss.
— 1221 — poteri tipici dai fini cui sono connessi esorbiti la discrezionalità di scelte rimessa all’agente, scadendo nell’arbitrium, cioè in una decisione del tutto svincolata da criteri oggettivi. Ma l’innovazione più rilevante è sicuramente l’aver vincolato la condotta abusiva alla realizzazione di un evento naturalistico: di danno, nel caso della prevaricazione, di vantaggio (patrimoniale in ambo i casi), nelle fattispecie favoritismo affaristico e di sfruttamento privato dell’ufficio. Il progetto accoglie sul punto una proposta già avanzata, come visto, nel corso dei lavori preparatori della riforma del ’90 e col subordinare la punibilità (a titolo di consumazione) alla realizzazione di ciò che nell’attuale formulazione rappresenta solo l’oggetto « del fine », dimostra di esigere una ben diversa « cifra » di offensività del fatto tipico di reato (82). Ancora sul piano dell’elemento oggettivo, l’intento di espungere i fatti abusivi di minore gravità ha portato ad escludere dall’area di rilevanza penale le condotte che procurino un vantaggio non patrimoniale: scelta che appare opinabile sia sotto il profilo politico-criminale che sotto quello tecnico-interpretativo. Sotto il primo profilo va rilevato come non sempre può sostenersi che una condotta che non realizzi un fine di lucro sia meno grave sul piano criminologico: emblematico il caso dell’abuso volto ad intessere una fitta rete di rapporti politico-clientelari, molto frequente nel campo della criminalità organizzata. Sul piano tecnico-intepretativo, perplessità desta l’affidare al non univoco concetto di « vantaggio patrimoniale » il compito di segnare il confine della rilevanza penale; stante peraltro il rischio che la giurisprudenza consideri irrilevante, come si è visto a proposito del requisito dell’« ingiustizia » (83), l’errore dell’agente sulla patrimonialità stessa (84). Conseguenziali alla ristrutturazione del reato sul piano oggettivo, le modifiche apportate sul piano dell’elemento soggettivo sono volte a « calibrare il tiro » di ogni singola fattispecie, in una logica di graduale ricom(82) Con effetti rilevanti anche sul piano dell’interesse tutelato, che viene così liberato definitivamente dall’ « ossessione del prestigio » insita nell’abuso come violazione dei doveri, facendo emergere, soprattutto nella fattispecie di prevaricazione, l’ottica schiettamente liberale dell’abuso come « violazione dei diritti » individuali dei singoli (cfr. l’art. 175 del codice Zanardelli). (83) Cfr. supra, § 1.2, nota 59. (84) A prescindere da tali rilievi, va sottolineata la necessità di una disposizione espressa sull’eventuale regime di diritto transitorio, in cui si specifichi la volontà di escludere la rilevanza penale di determinate condotte rispetto ad altre (pervenendo, così, ad una abolitio criminis e non ad una successione di leggi penali); così da scongiurare le incertezze interpretative che, a seguito della riforma del 1990, hanno caratterizzato i fatti di reato precedentemente riconducibili al peculato per distrazione e all’interesse privato. Sulla problematicità di tale successione, da ultima, L. DURIGATO, Succesioni di leggi penali e abuso d’ufficio, in questa Rivista, 1995-II, pp. 1047 e ss.
— 1222 — prensione dell’intenzione inversamente proporzionale alla carica lesiva dell’azione (secondo il giudizio dei proponenti). Così, nella prevaricazione il dolo è generico anche se l’avverbio « intenzionalmente » sembra voler escludere la rilevanza del dolo eventuale; stabilendo la soglia minima del « dolo intenzionale », che esclude la configurabilità della prevaricazione quando un atto che abbia un qualche profilo di pubblico interesse abbia come risvolto il danno di un terzo; con una forse eccessiva onerosità sotto il profilo psicologico, che non potrà arrestarsi alla soglia del dolo diretto ma dovrà spingersi fino alla prova della intima ed unica volontà prevaricatrice. Anche nello sfruttamento privato dell’ufficio il dolo è generico; e qui non può escludersi la compatibilità col dolo eventuale. Diversamente, nel favoritismo affaristico il dolo specifico, centrale e portante nell’attuale fattispecie, riacquista la « naturale » funzione di criterio di selezione delle condotte punibili e dunque di elemento realmente tipicizzante. Sempre sul piano dell’elemento soggettivo, con riferimento all’« ingiustizia » del danno o vantaggio la consapevolezza dell’agente circa la speciale illiceità viene elevata a requisito del reato (85), così risolvendo esplicitamente i problemi intepretativi accennati. Ma la qualifica normativo-giuridica perde in questo nuovo contesto la centrale importanza che la dottrina più accorta tende ad attribuirle nel vigente art. 323: assicurata la tipicità obiettiva nell’« evento », nell’« ingiustizia » del nuovo testo sembra piuttosto guadagnare rilievo principale il ruolo di mero testimone di un latente conflitto di interessi fra le parti, pubblica amministrazione e privati; per risolvere il quale la stessa riforma detta alcuni criteri, di estrema rilevanza, contenuti nelle Disposizioni comuni. A queste ultime è affidato il compito di limitare dall’esterno l’illiceità penale; prevedendo veri e propri « criteri di composizione di un conflitto » tra interessi che, come le esperienze del peculato per distrazione e dell’interesse privato confermano, spesso possono sovrapporsi, coincidere e naturalmente collidere. In questo quadro si inserisce il comma 3o dell’art. 323-quater, che erge a « fonte di legittimazione » la conformità del comportamento alla « prassi amministrativa consolidata, o al risultato di un procedimento amministrativo imputabile ad altri o alle carte dei servizi pubblici », e perfino agli « usi nella prestazione dei servizi ». Il comma 4o sembra avvalorare questa impostazione, stabilendo che, ove il conflitto di interessi non sia in atto, perché i fatti di abuso non hanno ancora prodotto « effetti esterni », la punibilità sia esclusa. (85) Cfr. PAGLIARO, Per una riforma, cit., p. 538, il quale rimanda ad una analoga soluzione adottata nel nuovo codice penale spagnolo (art. 404).
— 1223 — Ma forse il criterio principale alla cui stregua risolvere gli interessi confliggenti è svelato dal comma 5o, in cui la preminenza è assegnata senza esitazione agli interessi pubblici, ritenuti non lesi da un fatto pur « abusivo » che rechi tuttavia un esclusivo vantaggio alla p.a. (86). Emerge da queste disposizioni un concetto di pubblica amministrazione se non « palesemente asfittico in uno stato di diritto » (87) quantomeno non in sintonia con quei principi di imparzialità e buon andamento che si vorrebbero tutelare; e in certo contrasto con quella amministrazione imparziale, trasparente e accessibile agli amministrati che è voluta dalla nuova legge sul procedimento amministrativo (l. n. 241/1990). Con riguardo alle previsioni di cui ai commi 1o e 2o, esse sembrano dettate dall’urgenza di risolvere i già segnalati problemi interpretativi in ordine e alla configurabilità dell’abuso in forma omissiva, ammettendola espressamente, e alla necessaria distinzione che deve separare l’illegittimità amministrativa di un atto dalla illiceità del medesimo. Tale ultima precisazione, pleonastica, specie alla luce della nuova formulazione delle condotte, sottolinea l’intento di scongiurare le accennate interpretazioni formalistiche non rare in giurisprudenza. Ancora una causa di non punibilità nell’ultimo comma, « quando il fatto non ha cagionato, né era idoneo a cagionare, un danno patrimoniale pubblico o privato di ammontare superiore a lire dieci milioni »: si stabilisce così una soglia minima di offensività anche nei confronti degli abusi patrimoniali che, negli effetti, risultino minori; e che la subordinazione alla riparazione del danno fa scadere a livello di illeciti civilisticamente riconnessi ad una sanzione di tipo risarcitorio. Quanto alle disposizioni non strettamente penali, l’art. 2 prevede significativi meccanismi di attivazione di forme di responsabilità contabile e disciplinare chiamate ad interagire soprattutto ove la responsabilità penale si dimostri insussistente. In un giudizio di sintesi, la formulazione delle nuove fattispecie proposta dal progetto che si va commentando sembra riuscire nell’intento di migliorare la tassatività e determinatezza della norma; eccezion fatta per la indiscriminata abolitio criminis attuata con riferimento agli abusi non affaristici, le tre figure di reato proposte sembrano offrire soluzioni condivisibili (88). Perplessità destano invece alcune cause di non punibilità, troppo tese a disegnare una vera e propria area di liceità e di autonomia tra la sfera (86) Tale causa di non punibilità, proposta sin dal citato d.d.l. Martinazzoli del 1985 e invano riproposta fino al culmine dell’iter parlamentare, ha lasciato poi il posto al requisito dell’« ingiustizia »; cfr. SCORDAMAGLIA, op. cit., pp. 226 e ss. (87) Così SCORDAMAGLIA, op. cit., p. 226. (88) Anche il riferimento all’incaricato di pubblico servizio quale detentore di poteri, se rischia di annullare completamente le già labili differenze segnate negli artt. 357 e 358 c.p. proprio tramite il riferimento ai poteri tipici della funzione pubblica, sembra scelta ob-
— 1224 — pubblica e la sfera privata non sempre compatibili con i principi di uno stato sociale di diritto. 2.2. Il progetto del Comitato ristretto della Commissione giustizia, XIII legislatura. — Soluzioni estremamente diverse dal progetto appena esaminato offre il testo elaborato dalla Commissione giustizia del Senato in sede referente e successivamente approvato in sede deliberante (89). L’unico segno di continuità è dato infatti dalla strutturazione della norma secondo lo schema del reato di evento, che avanza la linea di consumazione o alla realizzazione del vantaggio per sé o per altri, o al momento lesivo dei diritti altrui. Per il resto, cambia radicalmente la tecnica di formulazione seguita, proprio con riguardo alla descrizione della condotta oggettiva tipica. Per descrivere questa, il progetto in epigrafe abbandona la formulazione sintetica scelta prima dal Rocco e sostanzialmente mantenuta nel ’90, per adottare una elencazione analitica di modalità esecutive simile a quella che già il protoformatore del 1930 aveva preso in esame nel progetto preliminare del codice emanando (90). L’elencazione in quest’ultimo proposta, che identificava l’abuso nell’usurpazione, nella incompetenza, nella violazione di legge (sostanziale e formale) e nell’eccesso di potere come sviamento, fu poi abbandonata perché le specificazioni indicate, « pur indiscutibilmente esatte dal punto di vista scientifico, mal si prestano ad essere accolte in una formula legislativa » (91). Dunque, già all’epoca era avvertita la difficoltà di utilizzare concetti mutuati dal diritto amministrativo per definire una condotta penalmente rilevante. E non che il legislatore del 1930 fosse tecnicamente meno avveduto dell’attuale. bligata dall’esigenza di rinunciare alla formulazione sintetica « abuso dell’ufficio » per la più tassativa « esercizio dei poteri in maniera arbitraria e strumentale ». (89) La proposta di legge, approvata dalla II Commissione permanente (Giustizia) del Senato l’8 ottobre 1996 (e trasmessa il 9 ottobre alla Camera dei Deputati, ivi in procinto di esame) accoglie numerose proposte di legge di iniziativa parlamentare unificate dal Comitato ristretto nel seguente unico testo: « ART. 1. (Modifica dell’art. 323 del codice penale). 1. L’art. 323 del codice penale è sostituito dal seguente: ART. 323. (Abuso d’ufficio). — Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nell’esercizio dei suoi poteri, violando norme sulla competenza o altre norme di legge o regolamenti ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità ». (90) Cfr. Lavori preparatori del codice Rocco, vol. V, 2, p.132. (91) Così, nelle parole dello stesso Rocco.
— 1225 — Ma la scelta dell’attuale proposta va comunque in questo senso, e scorpora la condotta abusiva in tre manifestazioni tipiche: la violazione delle norme sulla competenza, la violazione di leggi o regolamenti, la mancata astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti. Del concetto di abuso come uso strumentale dei poteri, e quindi come distorsione funzionale, dinamica degli stessi, non rimane traccia: è la violazione di un dovere la forma statica prescelta per sostituirlo. Circa la prima forma tipizzata di abuso, la violazione di norme sulla competenza, essa risulta anzitutto di difficile configurazione accostata alla previsione secondo cui il soggetto deve agire comunque « nell’esercizio delle sue funzioni », tanto da apparire « termini assolutamente inconciliabili » (92). Ma è la violazione di altre norme di legge o regolamenti la previsione che maggiormente rischia di legittimare l’allargamento dell’area di illiceità penale fino a ricomprendere anche le mere inosservanze formali o procedurali: sanzionando la condotta « antidoverosa » del pubblico agente produttiva di un danno o vantaggio. Così, la conclamata intenzione di emarginare gli abusi minori, quali gli abusi « non patrimoniali », verso forme di responsabilità disciplinari (amministrative o contabili), rischia di risultare frustrata in partenza. Peraltro, se il riferimento a solo due dei tre vizi tipici dell’atto amministrativo sembra valere ad escludere lo sviamento di potere dall’ambito delle condotte punibili (escludendo forse la figura che più efficacemente identificava l’abuso quale uso strumentale di poteri, e aprendo il varco a possibili lacune di tutela contro le forse più pericolose manifestazioni di illecite attività amministrative), esso non pare tuttavia postulare il necessario compimento di un atto formale, cui i vizi elencati si riferirebbero. Infatti, il riferimento incidentale al generico « esercizio dei poteri » e l’impiego del verbo « procurare » sembra autorizzare nella norma « una più ampia sussunzione di comportamenti non necessariamente consistenti nel compimento di atti amministrativi veri e propri » (93). Tanto più che assume rilievo il comportamento di chi « omette di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti ». Al riguardo occorre premettere che la viola(92) Così PATALANO, Sulle condotte punibili per abuso d’ufficio il parlamento di fronte a difficili scelte, in Guida al diritto, n. 37 del 21 settembre 1996, p.13, secondo il quale non può essere realizzata violazione delle norme sulla competenza nell’esercizio di poteri propri, se si identifica col termine « competenza » proprio quel complesso di poteri e di funzioni che un organo può esercitare secondo la legge, « a meno di non voler aggiungere che deve trattarsi di esercizio illegittimo dei poteri stessi, ma allora si tornerebbe al concetto di abuso ». (93) Così CONTENTO (commento al nuovo d.d.l.), in Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 1996, n. 277.
— 1226 — zione del dovere di astensione, secondo dottrina e giurisprudenza più recenti in tema di interesse privato in atti d’ufficio, non era ritenuta sufficiente ad integrare l’illecito; e, su questa scorta, anche con riferimento all’attuale art. 323 la Suprema Corte ha affermato l’irrilevanza della mera « mancata astensione » se non accompagnata da una concreta « ingerenza profittatrice » (94). Dunque sotto questo aspetto la norma sembra porsi in netto contrasto con la attuale tendenza: scegliendo di temprare con la sanzione penale un obbligo di astensione già ribadito dall’art. 64 della l. 8 giugno 1990 n. 142 sull’ordinamento delle autonomie locali, che nel disporre l’abrogazione dei Testi Unici delle leggi comunali e provinciali del 1915 e 1934 ha fatto salve le norme che impongono a determinati soggetti di astenersi dal prendere parte alle deliberazioni in cui si tratta degli interessi degli stessi o dei propri congiunti. Questa scelta non è, naturalmente, priva di conseguenze sul piano dell’interesse tutelato, ma contribuisce a proiettare l’oggettività giuridica della norma in una dimensione di rigorosa tutela della spersonalizzazione dell’attività pubblica; decentrandola in modo forse eccessivo rispetto a quell’equilibrio degli opposti che l’art. 97 Cost. così chiaramente prescrive. In modo accettabile (e forse auspicabile) per ciò che riguarda la funzione giudiziaria (95); ma in modo eccessivo e forse insostenibile per ciò che concerne la funzione amministrativa, che la costituzione vuole imparziale, sì, ma efficiente; e che la l. n. 241/1990 sul procedimento amministrativo ordina anzitutto in base ai principi di economicità ed efficacia (art. 1), e di doverosità e di immediatezza (art. 2); e che la previsione in questione rischia di intralciare o persino vanificare (96). Peraltro, l’accertamento della « corposità » dell’interesse, rischia di schiudere al controllo del giudice penale un canale di penetrazione ancora più diretto, perché incentrato (nuovamente, come per l’art. 324 abrogato) sull’interesse del singolo, e non sull’interesse pubblico, normativamente predisposto e pertanto, almeno in linea di principio, oggettivamente verificabile. Sotto il profilo dell’elemento psicologico, il connotato richiesto dal nuovo abuso è il dolo generico, pur qualificato dalla presenza dell’avver(94) Cfr. Cass. pen., sez. VI, 5 aprile 1996, Marini, cit. (95) La diversità di soluzioni che una corretta tutela delle diverse funzioni richiederebbe era già stata messa in luce da F. BRICOLA, Tutela penale della p.a. e principi costituzionali, in Temi, 1968, pp. 563 e ss., 566. (96) Con una crescita esponenziale dell’obbligo penalmente sanzionato (e del relativo pregiudizio per l’efficienza amministrativa) inversamente proporzionale alla rilevanza degli interessi in gioco e dunque della gravità degli « abusi »: si pensi ai comuni minori, in cui più fitte si fanno le relazioni tra i soggetti ed è sempre (o quasi) rinvenibile un interesse (personale o, più facilmente, « personalizzato ») astrattamente perseguibile, anche tramite l’adozione di un provvedimento avente efficacia « generale » (ad es. l’approvazione di un piano regolatore).
— 1227 — bio « intenzionalmente » che esclude la configurabilità del dolo eventuale e del dolo diretto, stabilendo come soglia minima il dolo intenzionale: scompare però la necessità che l’agente si rappresenti l’ingiustizia del vantaggio o danno, prevista, come visto, nel progetto precedente. Di qui il rischio che si conservi quell’interpretazione giurisprudenziale che, come accennato, tende a conferire valore meramente oggettivo al requisito di illiceità speciale, escludendo la rilevanza dell’errore su di esso. Sotto il profilo sanzionatorio, alquanto distonico con la conclamata volontà di circoscrivere l’area penale agli « abusi » più gravi risulta l’abbassamento del limite edittale a tre anni di reclusione, così equiparandolo alla pena prevista per la corruzione impropria antecedente (art. 318 c.p.). Le conseguenze di una siffatta modifica sono di estrema rilevanza, sia sul piano sostanziale che processuale: anzitutto l’inapplicabilità delle misure cautelari (art. 280 comma 1o c.p.p.) e, quanto ai mezzi di ricerca della prova, l’impossibilità di disporre intercettazioni di conversazioni o comunicazioni (art. 266 comma 1o lett. b) c.p.p.) (97); poi la notevole anticipazione dei termini di prescrizione ordinaria del reato (ridotta da dieci a cinque anni: art. 157 c.p.). Da ultimo, l’abbassamento sanzionatorio è ridimensionato dalla previsione di una aggravante incentrata sulla « rilevante gravità » del vantaggio o del danno. Complessivamente, non sembra che lo sforzo di tipizzazione alla base della riformulazione in esame sia sufficientemente soddisfatto, anzi sembra potersi affermare che le maglie intrecciate dalla nuova norma presentano una trama tanto disomogenea da impedire il reflusso degli abusi di minore gravità senza assicurare adeguatamente la repressione delle distorsioni più gravi (98). La soluzione adottata, sembra dunque inidonea a perseguire l’intento garantista che la muove, e, in ultima analisi, il miglioramento dell’efficienza amministrativa, messa in pericolo dalla sanzionabilità sia di violazioni di norme di rango secondario, sia di mere violazioni di un dovere (di astensione) scaturente da un « interesse » soggettivo. 2.3. Il testo definitivo approvato il 10 luglio 1997. — Il dettato normativo da ultimo analizzato è stato definitivamente approvato dalla Com(97) Anche rilevante è l’estensione della possibilità di ricorrere all’applicazione della pena su richiesta delle parti (art. 444 c.p.p.). (98) A tal proposito, era stato presentato (sen. Fassone) un emendamento volto a ricomprendere anche il « manifesto ed oggettivo sviamento di potere » nell’elencazione analitica delle condotte punite dalla norma: emendamento disatteso, sul presupposto che lo stesso avrebbe consentito al controllo giudiziale un accesso diretto alla sfera discrezionale degli amministratori (cfr. Atti del Senato, Commissione Giustizia, 8 ottobre 1996, 32a seduta).
— 1228 — missione giustizia del Senato in sede deliberante il giorno 10 luglio 1977 (99). Gli emendamenti correttivi non alterano tuttavia la struttura iniziale della proposta, in cui viene sostanzialmente espunto solo il riferimento alla violazione delle norme sulla competenza quale modalità tipicizzata di condotta. Anche il riferimento allo « svolgimento della funzione o del servizio » in alternativa all’« esercizio dei poteri » risulta un (più) corretto adeguamento (formale) della formula alle attribuzioni proprie degli incaricati di un pubblico servizio, titolari di un servizio, appunto, ma sforniti di veri e propri poteri tipici. Eccezion fatta per queste due modifiche, restano dunque valide le considerazioni svolte nel paragrafo precedente, e persistono le perplessità circa una formulazione ancora molto vaga, strutturalmente disomogenea e sfuggente, in cui il rimando ad una tipicizzazione di rango sublegislativo, di volta in volta affidata a norme (di legge) o di regolamento, a mere « posizioni di fatto » (di conflitto di interessi) o agli « altri casi prescritti » (senza specificare né dove, né da chi, in modo affatto ambiguo), tradisce una opzione legislativa ancora sensibilmente orientata in chiave meramente sanzionatoria, con tutti i gravi difetti in termini di tassatività o di offensività che, com’è noto, una formula del genere comporta. Peraltro, la soluzione accolta comporta altresì problematiche di diritto transitorio che le norme approvate lasciano inspiegabilmente irrisolte. Infatti, sotto un primo profilo la sostanziale elisione dal dettato normativo delle condotte non affaristiche lascia propendere per una ipotesi di (99) Il testo del disegno di legge approvato definitivamente dal Senato, (poi convertito nella legge n. 234 del 16 luglio 1997), recante « Modifiche dell’art. 323 del codice penale, in materia di abuso d’ufficio, e degli articoli 289, 416 e 555 del codice di procedura penale » è il seguente: Art. 1. - Modifica dell’art. 323 del codice penale 1. L’articolo 323 c.p. è sostituito dal seguente: « Articolo 323. (Abuso d’ufficio). Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità ». Peraltro, come anticipato nella rubrica della legge, la riforma ha comportato rilevanti novità processuali, stabilendo da un lato l’interrogatorio dell’indagato come condizione inderogabile per l’adozione della misura cautelare della sospensione dall’esercizio di un pubblico o servizio, dall’altro l’invito a presentarsi (per rendere l’interrogatorio) come presupposto obbligatorio (a pena di nullità) sia per la richiesta di rinvio a giudizio che il pubblico ministero ritenga di dover presentare al giudice per le indagini preliminari, sia, nei procedimenti di pretura, per l’emissione del decreto di citazione a giudizio che il rappresentante dell’accusa è legittimato ad emettere direttamente.
— 1229 — deliberata abolitio criminis, con conseguente estromissione dall’area del penalmente rilevante di tali condotte, che refluiscono nell’area della mera responsabilità disciplinare (e amministrativa) (100). Di qui la necessità di valutare, con riguardo alle questioni giudicate o giudicande, se le condotte oggetto di giudizio siano ancora punibili o meno (101). Analogo problema di successione di leggi si pone con riguardo all’elemento psicologico. Difatti, a parità di condotte oggettive, la nuova formulazione richiede una particolare tipologia di dolo che l’avverbio « intenzionalmente » sembra limitare alla sola forma intenzionale, appunto, con esclusione delle ipotesi di dolo diretto e eventuale (cfr. supra, par. 2.1.). Sicuramente, dunque, una restrizione legislativa volta al favor rei, che non può non ripercuotersi sulle vicende intertemporali che agiteranno i processi pendenti, nel senso della necessaria applicazione retroattiva della norma più favorevole, in questo caso col solo invalicabile limite del giudicato. Da ultimo, la compressione del diaframma edittale entro il massimo di tre anni comporta, come già visto, una riduzione dei termini di prescrizione che inciderà inevitabilmente sui processi in corso (102). 3. Conclusioni. — L’analisi del progetto di riforma da ultimo esaminato, permette di avanzare alcune considerazioni generali sulla riformulazione della norma in epigrafe. Anzitutto, l’eccessiva fiducia riposta nella strutturazione della norma sulla base di categorie mutuate « oleograficamente » da altri rami del diritto, nel nostro caso del diritto amministrativo, sembra poter essere vanificata dalla (necessariamente) diversa prospettiva che angola i rispettivi campi di applicazione, prospettiva che, come osservato, nel campo del diritto penale difficilmente soffre limiti imposti ab externo. Difatti, non sembra che la pur preordinata esclusione dello sviamento di potere risulti idonea a garantire l’irrilevanza penale di comportamenti (o atti) estrinsecantisi in un uso strumentale dei poteri (specie discrezionali) per fini impropri: perché gli stessi comportamenti ben potreb(100) In proposito, occorre ricordare come la fattispecie di cui al primo comma (oggi espunta) abbia avuto una applicazione del tutto marginale, sia a livello di contestazioni di accusa, sia a livello di decisioni giurisprudenziali. Per un (raro) caso di addebito della condotta meramente favoritrice cfr., ad es., Cass. Sez. VI, 4 gennaio 1996, Vallese, in Riv. pen. 1996, p. 604. (101) Al riguardo, nulla si dice anche circa le condotte prevaricatrici: ma verosimilmente anche il « danno » arrecato, per essere penalmente rilevante, dovrà essere economicamente significativo, cioè almeno suscettibile di valutazione economica. (102) Il silenzio legislativo sul punto rischia di trasformarsi in un « silenzio-assenso » decisivo per la risoluzione (almeno parziale) di molte vicende rientranti nel noto fenomeno c.d. Tangentopoli, che, quantomeno per il dibattito che hanno suscitato, avrebbero forse meritato una presa di posizione esplicita o almeno più « apertamente » consapevole.
— 1230 — bero essere giudicati contrastanti con quei principi fondamentali a tutela dell’efficienza e dell’imparzialità della funzione amministrativa sanciti dall’art. 97 comma 2o Cost., e come tali rientrare in una pur estensiva interpretazione della violazione di « altre norme di legge »; come peraltro le recenti decisioni della Suprema Corte sopra ricordate lasciano intravedere. La fragilità della « costrizione » dell’accertamento penale entro schemi formalizzati aliunde rischia di frantumarsi nella prassi giudiziaria. Al contrario, per procedere ad una riforma che si dimostri seriamente consapevole della complessità delle problematiche che siamo venuti illustrando, sembra non potersi prescindere da alcune considerazioni di ordine generale sui profili dogmatici delle modifiche possibili della fattispecie. Considerazioni che devono necessariamente prendere le mosse dalla riconsiderazione del bene giuridico sotteso alla norma e delle tecniche di strutturazione della fattispecie più idonee ad una tutela efficace ma non incompatibile con i principi costituzionali. Così, seppur non possa più dubitarsi sulla natura non meramente programmatica, ma tipicamente precettiva dell’art. 97 Cost., in base al quale « imparzialità » e « buon andamento » — da intendersi come « divieto di far preferenze » ed « efficienza » — « sono i valori-fine costituzionalmente prefissati che devono caratterizzare l’azione della pubblica amministrazione intesa in senso stretto (103), pur tuttavia occorre interrogarsi sulla capacità di rendimento del concetto di bene giuridico rispetto a beni strumentali (riferibili o meno a istituzioni) la cui vaghezza e genericità potrebbe compromettere la funzione limitatrice e garantista del bene giuridico (stesso) » (104). Cioè: al cospetto di quei beni che, come l’efficienza e l’imparzialità amministrativa, costituiscono l’ipostasi di « processi sociali normativamente guidati », (mutuando una felice espressione di Amelung), « le norme incriminatrici rischiano di delineare un nesso tra fattispecie legale e bene giuridico molto meno stringente di quello postulato dal tipo ideale ‘‘diritto penale classico’’, incarnato da attentati ai soli diritti soggettivi individuali » (105). Di fronte a questi beni, troppo vaghi e generici, « il principium individuationis delle norme incriminatrici dovrebbe discendere sempre più dalla forma dell’attacco, che tanto più è vincolata, tanto più sarà in grado di illuminare la specifica direzione lesiva, ritagliando lo spazio o il profilo in cui il bene viene tutelato e (offeso) » (106). (103) Così RAMPIONI, Bene giuridico e delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a., Milano, 1984, p. 260. (104) Così MARINUCCI, Bene giuridico e riforma della parte speciale, a cura di Stile, Napoli, 1985, p. 341, il quale riprende uno spunto di Amelung. (105) Così MARINUCCI, op. ult. cit., p. 341. (106) Ibidem, p. 342.
— 1231 — È così che assume rinnovata importanza la tecnica di strutturazione della fattispecie, simmetricamente correlata alla tecnica di tutela perseguita. Ora, una precisazione sul punto necessaria è che nella scelta alternativa tra oggettivismo e soggettivismo non può esservi dubbio sul carattere oggettivo che la Costituzione impone al diritto penale, per cui « condizione necessaria, seppur non sufficiente, per la configurabilità di un fatto a titolo di reato è che esso si concreti in un comportamento obiettivo, lesivo di un bene giuridico indipendentemente non solo dal modo di essere del soggetto ma, altresì, dal coefficiente psicologico che ad esso si accompagna » (107). Corollari di queste affermazioni sono da un lato la necessaria autonomia che l’elemento oggettivo del reato deve conservare nell’esprimere la contrarietà al bene giuridico tutelato, dall’altro la necessaria idoneità lesiva del fatto materiale rispetto all’oggetto della tutela. Come si è cercato di segnalare, non pare che nessuna di queste due condizioni sia soddisfatta dalla norma in esame: perché in essa l’abuso di potere (come modalità d’azione) pare ricoprire l’intera area dell’illiceità penale, venendo ad assorbire la condotta alla base del reato tanto da risolvere in sé l’intero disvalore d’azione, così lasciando sfumare la distinzione necessaria tra abuso (antigiuridico) extrapenale ed abuso penalmente rilevante. Come è stato puntualmente rilevato, il vincolare l’an (o il quantum) della punibilità al tipo di condotta, alle modalità con cui si realizza il comportamento criminoso, assume in ogni caso un significato extragiuridico: essendo le modalità d’azione già di per sé un « qualcosa che sta dietro l’oggettività naturalistica della condotta esteriore dell’individuo », e addirittura potendo essa rappresentare l’« osservatorio privilegiato dell’autore » (108); tanto più quando ci si affida ad un concetto modale di riferimento tanto intriso di soggettività qual’è il concetto di abuso. In quest’ottica, l’abbandono della formula sintetica per una formulazione che svolga il significato dell’abuso in modo più compiuto non può essere una modifica sufficiente, pur costituendo una indicazione esteriore, sul piano della forma, di una modificazione strutturale che deve avvenire altrove, sul piano sostanziale: occorre pertanto riconsiderare il disvalore di evento (Erfolgsunvert), « quale strumento irrinunciabile al fine di indicare la nota oggettiva che legittima il rigore dell’intervento punitivo pre(107) Così STORTONI, L’abuso, cit., p. 74, ove si rimanda, per una approfondita analisi di questi temi, al fondamentale studio di BRICOLA, Teoria, cit., p. 65. (108) Così SGUBBI, Uno studio sulla tutela penale del patrimonio, Milano 1980, p. 23.
— 1232 — scelto » (109); e questo sembra essere un obiettivo condiviso dai progetti di riforma analizzati. Ma occorre rivalutarne non la mera Indizfunktion (funzione di indizio) circa l’effettiva esistenza dell’illecito (110); ma la funzione di elemento recante « il compito fondamentale di rappresentare sempre la nota oggettiva (esterna all’autore) tipica di ogni fattispecie », in modo da costituire non solo il punto di riferimento del dolo, ma da evidenziare l’esistenza di « un più intimo collegamento tra l’evento — il sostrato di fatto — indice dell’offesa e l’offesa medesima » (111). Alla luce di questa impostazione l’inserimento di un evento nella norma dell’art. 323 deve garantire una funzione tipicizzante già sul piano della condotta oggettiva, riducendo lo spettro della tutela alle sole condotte idonee ad aggredire il bene giuridico protetto con quella gravità ed intensità tali da giustificare la meritevolezza di pena (Strafwürdigkeit). Il « precipitato tecnico » di questa impostazione potrebbe riassumersi in alcune modifiche alla norma in esame che a nostro parere sembrano essere sufficienti anzitutto a renderla compatibile col dettato costituzionale, « appesantendo » la tipicità oggettiva e avanzando così la soglia minima di offensività (dell’aggressione al) e di lesione del bene tutelato: 1) anzitutto la previsione di un evento naturalistico, « consapevolmente » (112) procurato, di vantaggio o danno, che si sa essere contrario a diritto; il che, mantenendo il concetto di abuso come uso strumentale dei poteri, consentirebbe di dare « misura concreta » alla distanza tra fini normativamente predisposti e fini realmente perseguiti; (109) Così MAZZACUVA, Il disvalore di evento nell’illecito penale, Milano 1983, p. 124, cui si rimanda per una approfondita analisi sulla funzione tipicizzante dell’evento nel quadro di un generale raffronto tra Erfolgsunwert, Handlungsunwert e Intentionsunwert. (110) Funzione che, come rileva MAZZACUVA, op. cit., p. 100, certamente all’evento comunque residua, se è vero che « spesso la sussistenza di una condotta criminosa risulta (pienamente) riconoscibile a seguito del verificarsi dell’evento, indizio appunto dell’avvenuta commissione di un (Handlungs-) Unrecht ». (111) Così ancora MAZZACUVA, op. cit., rispettivamente pp. 113 e 118. (112) L’uso dell’avverbio consapevolmente sembra idoneo ad escludere il rischio di una eccessiva psicologicizzazione della fattispecie; evitando che l’accertamento dell’elemento soggettivo si risolva in una probatio diabolica, rischio aggravato dalla pleiade di interessi pubblici che, a la volta, possono essere chiamati a suffragare la « non intenzionalità » (intesa come scopo « unico ») del comportamento abusivo tenuto. A tal fine la sostituzione dell’avverbio « intenzionalmente » con « consapevolmente » (wissentlich), pur mantenendo l’esclusione del dolo eventuale, varrebbe a riportare l’elemento soggettivo alla soglia del dolo diretto, per cui sarebbero perseguibili anche gli abusi solo « mascherati » da un interesse pubblico, che la rigorosa prova di un abuso « intenzionale » contribuirebbe ad occultare. Peraltro non pare che così si esponga a rischio eccessivo l’amministratore che, operando seriamente per un fine di interesse pubblico, procuri un danno o un vantaggio privato: ché soccorrerebbe a tal fine il requisito di illiceità speciale dell’evento, recuperato nella sua funzione di « mediatore » degli interessi in gioco, a garantire la non « ingiustizia » di un danno o un vantaggio iure (publico) dati.
— 1233 — 2) in secondo luogo la sostituzione della formula sintetica « abuso dell’ufficio » con una formula descrittiva che ne svolga il contenuto (strumentale) attraverso un preciso riferimento ai « poteri » (113). A queste due modifiche prioritarie si potrebbe accostare la ulteriore separazione della condotta prevaricatrice dalle condotte favoritrici e affaristiche, e per queste ultime la necessità che l’abuso si inserisca in un contesto procedimentale, sia volto dunque all’emanazione di un atto, pur prescindendo dall’illegittimità dello stesso; si arriverebbe così ad escludere dall’area del penalmente rilevante quei comportamenti che si riflettono solo in un abuso della qualità o nella mera violazione dei doveri, come tali meglio perseguibili sul piano disciplinare (114). Queste le modifiche essenziali: a fronte delle quali è pure auspicabile un ridimensionamento della pena edittale, in cui la reclusione divenga decisamente residuale rispetto a sanzioni diverse quali ad esempio l’interdizione dai pubblici uffici (115). Un’ultima considerazione appare necessaria: resta infatti da verificare se una norma siffatta, così « appesantita » sul piano della tipicità obiettiva e della lesività, trovi ancora una giustificazione nell’ambito di uno statuto penale della p.a. che presenta, come quello italiano, già diverse ed importanti norme incentrate sull’abuso di potere. Come è stato infatti rilevato, attraverso l’analisi delle numerose ipotesi di abuso (lato sensu inteso) del pubblico ufficio o dei (pubblici) poteri già previste nel codice (peculato, corruzione, concussione, omissione d’atti d’ufficio, rivelazione di atti d’ufficio, ma anche, ad es., truffa aggra(113) Per il necessario compromesso che questa soluzione comporta con riferimento all’« incaricato di un pubblico servizio », cfr. supra, nota 84; d’altronde, il vincolo imposto dal riferimento dell’esercizio strumentale ad un potere, valendo ad escludere la rilevanza penale di un « abuso » di mere attribuzioni o compiti, risulta coerente con la cennata proposta di escludere le mere attività materiali dall’ambito applicativo della norma; così riducendo, peraltro, la configurabilità di un « abuso » dell’incaricato di pubblico servizio ai soli casi in cui lo svolgimento della sua attività in concreto possa ricondursi a quel rapporto di diseguaglianza, di disparità di forze che sta alla base del concetto di potere. (114) In base a questi rilievi una formulazione possibile per le condotte favoritrici-affaristiche potrebbe essere: « Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, esercitando in modo strumentale i poteri inerenti la funzione o il servizio nel compimento di un atto, procura consapevolmente a sé o ad altri un vantaggio che sa essere ingiusto, è punito con la reclusione fino a tre anni e la interdizione dai pubblici uffici da due a cinque anni »; mentre per la prevaricazione « Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, esercitando in maniera strumentale i poteri inerenti la funzione o il servizio consapevolmente procura ad altri un danno che sa essere ingiusto è punito con la reclusione fino a due anni e l’interdizione temporanea dai pubblici uffici da uno a cinque anni ». (115) Seguendo l’esempio del nuovo codice penale spagnolo, che per il delitto di « prevaricación » (art. 404) prevede la sola « inhabilitación especial para empleo o cargo pùblico por tiempo de siete a diez años »; e per il favoritismo teso a procurare ad altri un pubblico impiego fuori dalle condizioni richieste (art. 405) commina la multa e la « suspensión de empleo o cargo pùblico por tiempo de seis meses a dos años ».
— 1234 — vata ecc.) si può constatare come la punizione delle condotte abusive più gravi sia già assicurata (116): dunque il perseguimento di un abuso così strutturato ex se penalmente rilevante, difficilmente sfuggirebbe a problematiche sovrapposizioni con norme già caratterizzate da un profilo di vantaggio (come ad es. la corruzione) o da una ipotesi di danno (come la concussione) (117), faticando a guadagnare una sua ratio essendi che lo sottragga al pericolo di una duplicazione sine necessitate. E al rischio della « superfluità » di un tale risultato se ne aggiunge un altro, tanto più grave e già patente in un sistema normativo così affetto da ipertrofia qual’è l’attuale sistema penale italiano, in cui l’eccesso di penalizzazione « dà la stura alla c.d. funzione criminogenetica delle leggi penali, già stigmatizzata da Francesco Carrara quando censurava la mania di tutto governare col mezzo di criminali giudizi » (118). Di fronte ad un panorama siffatto, la proposta forse più sensata sarebbe l’ablazione della norma stessa, se solo si potesse fidare su un miglioramento del macchinoso sistema amministrativo (119); il cui vero ruolo in questo ambito dovrebbe essere quello di assicurare attraverso controlli disciplinari, amministrativi e contabili efficaci (ed immediati) una differenziazione di responsabilità tale da garantire alla sanzione penale il compito sussidiario che le spetta; ma solo un intervento strutturale sulle norme che ne disciplinano i meccanismi potrebbe rimuovere le inerzie che ancora caratterizzano, ad esempio, i procedimenti disciplinari (120). (116) Per questo rilievo cfr. VINCIGUERRA, op. cit., p. 861, il quale, sulla base di questo presupposto, propone l’abrogazione tout court dell’attuale figura di reato e il contestuale inserimento di una generica fattispecie di « conflitto di interessi », idonea a colpire quelle forme di « affarismo » non rientranti negli schemi di corruzione e concussione. (117) Per altro, non è forse inutile sottolineare come già la problematica distinzione tra corruzione e concussione sia una peculiarità tutta italiana, dato che tutti i principali orientamenti occidentali (Germania, Austria, Spagna, Portogallo, Gran Bretagna, Stati Uniti) si segnalano per l’assenza di una fattispecie autonoma di concussione: il rilievo è di FORTI, L’insostenibile pesantezza della « tangente ambientale »: inattualità di disciplina e disagi applicativi nel rapporto corruzione-concussione, in questa Rivista, 1996, p. 499. (118) Così PADOVANI, Il problema « Tangentopoli » tra normalità dell’emergenza ed emergenza della normalità, in questa Rivista, 1996, p. 450, cui si rimanda per una analisi degli effetti di questa problematica con riferimento al fenomeno c.d. Tangentopoli. Più in generale, sull’ipertrofia legislativa in materia penale e sulla pericolosa riduzione dell’area di liceità (penale) che questa ha comportato, in un « drastico rovesciamento dei postulati tradizionali », per cui « frammentaria ora è la libertà », cfr. SGUBBI, Il reato come rischio sociale, Bologna 1990, pp. 11 e ss. (119) L’ipotesi è avvalorata dalla constatazione dell’assenza nei principali ordinamenti continentali (ad es. Germania, Francia, Spagna) di una norma paragonabile al nostro « abuso d’ufficio », a fronte di sistemi sanzionatori amministrativi e disciplinari molto più duttili ed efficienti. Peraltro, l’abrogazione dell’attuale art. 323 c.p. è stata proposta anche in sede legislativa, (da ultimo, proposte c. 924 Novelli e c. 1812 Caroti, Maggi). (120) Correlativa a questa differenziazione delle responsabilità extrapenali dovrebbe
— 1235 — Allo stato dei fatti, rimettere la potestà sanzionatoria nelle esclusive mani della Pubblica Amministrazione in aree così nevralgiche come quelle ove più spesso questa patologia si manifesta (edilizia, ambiente, appalti, attività di impresa ecc.) appare quantomeno prematuro, oltre che non realisticamente prospettabile sotto il profilo « politico » (121). In definitiva, dunque, la soluzione proposta deve essere riguardata come una soluzione di « transizione »: in attesa di una « ristrutturazione » dei controlli extrapenali, sembra più conveniente deporre « facili illusioni » e impegnarsi in quelle modifiche, che, medio tempore e senza la pretesa di risolvere una problematica così vasta entro gli angusti limiti della riforma di questa sola norma, sembrano idonee ad aumentare la cifra di tassatività ed offensività dell’art. 323, così rendendolo compatibile con i principi costituzionali e capace di « resistere » alle emergenze impostesi nella indiscriminata applicazione giurisprudenziale; la cui imprevedibilità mostra il rischio di una radicale osteoclàsia modificativa, e suggerisce la scelta di una soluzione di « piccolo cabotaggio », se si vuole, ma improntata ad una certa dose di realismo; non esaustiva, certamente, ma volta solo a ridare misura alle cose, in attesa di una rimeditazione più ampia della materia, quando i presupposti tecnici (e politici) lo consentiranno. VITTORIO MANES Dottorando di ricerca nell’Università di Trento
auspicarsi anche una ridefinizione delle qualifiche soggettive penalmente rilevanti, così da poter « modellare » su ciascuna figura forme di responsabilità effettivamente rispondenti alle specifiche esigenze di tutela sottese e ai singoli ambiti applicativi (necessaria distinzione delle funzioni) e ai singoli modelli soggettivi ( necessario « aggiornamento » della figura dell’incaricato di un pubblico servizio, per cui il semplice riferimento negativo all’assenza di poteri tipici non sembra risolvere le problematiche sottese alle multiformi attribuzioni inerenti il pubblico servizio). (121) Per una critica sulla « capacità demiurgica » di una « semplice » depenalizzazione sempre con riferimento al fenomeno c.d. Tangentopoli, cfr. ancora PADOVANI, op. ult. cit., p. 451.
CRISI DELLA GIUSTIZIA, NOTIZIA DI REATO E PROCEDIMENTO PROBATORIO
1. Il dibattito sulla crisi della giustizia. — L’ampio dibattito in corso da anni sulla crisi della giustizia ha messo chiaramente in luce come questa crisi investa l’assetto medesimo del nostro ordinamento. Si tratta di un dibattito caratterizzato da una notevole concordanza di opinioni circa la gravità del fenomeno nonché per quanto concerne l’individuazione dei suoi tratti fondamentali: lentezza delle procedure, progressivo aumento dell’arretrato giudiziario, inadeguatezza degli organici, scarsità dei mezzi umani e materiali a disposizione. In sostanza una situazione di tendenziale paralisi che impedisce di far fronte alla domanda di giustizia. Assai differerenziate invece — a sottolineare l’ampiezza e varietà delle prospettive che la crisi involge — le soluzioni via via prospettate circa le iniziative da prendere. Così chi ritiene complessivamente soddisfacenti le linee fondamentali del sistema sul quale la resa della giustizia attualmente si regge propugna la semplificazione delle procedure, l’aggiornamento e comunque la rivisitazione delle norme ritenute inadeguate, più forti investimenti nel settore. Di contro v’è chi sostiene che proprio dalla logica di tale sistema occorra uscire e, pertanto, pur non trascurando il valore degli interventi di riaggiustamento (si faccia mente all’importanza assunta da recenti provvedimenti quali l’istituzione del giudice unico in campo penale o l’intervento di depenalizzazione ormai in dirittura d’arrivo in Parlamento), propugna anzitutto il radicale riassetto della codificazione, nuovi meccanismi di reclutamento dei magistrati insieme ad un più ampio ricorso alla magistratura onoraria, un più forte impegno nel campo della prevenzione e della repressione per quanto riguarda il settore penale e il ricorso a meccanismi di semplificazione normativa e delle procedure tali da ridurre l’esigenza di adire il giudice civile o amministrativo, anche al fine di porre rimedio a quella che è diventata una vera e propria fuga dalla giustizia, la quale si concreta nel sistematico ricorso a procedure di composizione extragiudiziale delle liti. Sorge la questione se queste differenze di prospettiva non derivino tanto da impostazioni metodologiche o addirittura ideologiche, quanto,
— 1237 — vista l’inanità dei ripetuti sforzi di riforma fin qui succedutisi, da incertezze ed equivoci cui potrebbero in realtà prestarsi gli stessi fondamenti che reggono l’edificio della giustizia. Il che in altri termini pone il problema se a questo punto non convenga spingere l’analisi a un livello superiore. Infatti, al di là dei condizionamenti pure fortissimi legati ad una legislazione ordinaria e a una gestione della giustizia a dir poco confuse e frammentarie, sembra farsi strada la consapevolezza — come dimostra anche il dibattito sulla giustizia apertosi in sede di Commissione parlamentare per le riforme costituzionali — che le cause della crisi, anche per la singolare identità di connotati con cui si manifesta in tutti i settori, debbano essere fatte risalire anzitutto a scelte di fondo operate dalla Costituzione. E sono scelte che nell’incidenza sulla situazione determinatasi sembrano avere effettivamente un rilievo centrale. 2. La crisi della giustizia penale. La crisi del diritto penale sostanziale e del concetto di pena. — Paradigmatica è la situazione del settore penale, dove si assiste addirittura all’affievolimento della capacità del sistema di rispondere al suo obiettivo primario: esprimere un’immagine ordinata e sicura, tale da confortare la collettività e i singoli circa la tutela dei propri diritti, tra cui primi tra tutti quelli alla sicurezza e alla libertà personali. Il che comunemente si ritiene debba avvenire sia attraverso un complesso organico di norme di carattere generale e di specifiche fattispecie di reato in grado di rispondere prontamente alle sollecitazioni di una società in continua evoluzione; sia realizzando un complesso di misure sanzionatorie e preventive di chiara ed immediata applicazione, comunque sempre rispondenti a quei caratteri della certezza e dell’adeguatezza che dovrebbero caratterizzare ogni sistema penale; sia, infine, mediante la predisposizione di meccanismi processuali informati alla tempestività e all’efficienza, base essenziale per un effettivo rispetto delle garanzie fondamentali dell’individuo. Tutto ciò invece non accade. V’è in ispecie da segnalare in primo luogo una larga convergenza d’opinioni fortemente critiche circa l’assetto di ampie zone del diritto penale sostanziale, sia di parte generale sia di parte speciale, ritenute ormai bisognose di radicali interventi. Donde un movimento di riforma che, se ha condotto a numerose iniziative legislative anche di riassetto globale del codice penale, non è sembrato tuttavia fin qui in grado di aggregare sufficienti consensi e soprattutto un quadro preciso di obiettivi. Per cui non meraviglia che esso sia sfociato prevalentemente in interventi limitati e episodici, comunque del tutto inadeguati alla gravità dei problemi e tali invece da aumentare il senso di inadeguatezza e
— 1238 — disomogeneità della legislazione penale vigente; tanto più che molti dei tentativi di introdurre maggiori elementi di organicità cozzano spesso contro consolidati princìpi da ritenere pressoché insuperabili. Si pensi in proposito ai problemi che allo sforzo di raggiungere una maggiore organicità pone il fatto che appunto caratteristica precipua delle fattispecie penali sembrerebbe essere la frammentarietà (1), per cui la sfera di ciò che rileva penalmente è assai più ristretta rispetto a ciò che si può considerare illecito, giacché le fattispecie di reato tutelano i beni oggetto di esse non contro tutte le aggressioni ma solo contro alcune specifiche. Sull’ammissibilità di tale principio (2) si è sostenuto che esso contrasterebbe con l’esigenza di reprimere ogni comportamento capace di ledere il bene protetto dalla norma penale anche se formalmente non tipizzato. In altri termini il principio sarebbe in contrasto con le esigenze di una prospettiva di prevenzione generale nonché con quelle di prevenzione speciale, atteso che il processo di risocializzazione in cui questa si estrinseca importa la riacquisizione da parte del soggetto interessato del rispetto dei valori dominanti visti come un continuum che non sopporta cesure e graduazioni. A queste critiche è stato buon giuoco rilevare come esse in realtà siano dirette a prefigurare un sistema chiuso e totalizzante di tutela dei valori ritenuti rilevanti in un ordinamento; accedendo al quale, peraltro, difficilmente ci si potrebbe sottrarre alla tentazione di incentrare la valutazione penalistica sulla personalità del soggetto, col rischio di costruire un diritto penale fondato sulla pericolosità soggettiva del tipo di autore e quindi totalmente in contrasto con i principi di civiltà fin qui affermatisi in campo penale (3). Ma la costruzione di un simile diritto penale, che postula la capacità e la forza di imporre un sistema completo e coerente di valori di riferimento, non sembrerebbe ormai più possibile nemmeno in via di ipotesi in una situazione come quella delle società contemporanee dove è andata in crisi la stessa nozione di devianza, con cui in passato si è cercato di legare il contenuto dell’opera di rieducazione ai valori dominanti. E questo non solo per l’estrema difficoltà di individuare, salvo per alcuni fondamentali temi legati alle garanzie e alla libertà della persona, un organico sistema di principi comunemente accettato, ma anche perché sovente chi delinque non si limita a rifiutare i valori della società ma ritiene di fondare il proprio comportamento su princìpi diversi, con una loro propria valenza, e quindi è portato a respingere l’attribuzione di una connotazione di devianza alle sue azioni. (1) Su di essa si veda l’opera di MAINWALD, Zum fragmentarischen Charakter des Strafrechts, Festschrift für Maurach, Karlsruhe 1972, p. 9 ss. (2) Si vedano le diverse posizioni assunte dalla dottrina in FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna 1995, p. 33. (3) FIANDACA-MUSCO, op. loco cit.
— 1239 — Un secondo elemento di crisi del settore penale riguarda la nozione di pena, da una parte sempre più piegata alle esigenze degli obiettivi di prevenzione generale e speciale sopra richiamati e dall’altra sottoposta conseguentemente a continui ondeggiamenti per quanto attiene al contenuto che essa assume in relazione al variare dei medesimi; in una prospettiva che, come accennato, vede sovente colui che delinque non isolato nel rifiutare il disvalore sociale dei propri comportamenti e nel contestare anzi la validità di quelli in nome dei quali viene perseguito. Di questa situazione si ha una chiara manifestazione nella questione della depenalizzazione ritenuta comunemente necessaria al fine di evitare le dannose conseguenze delle pene detentive di breve durata (sia per i loro negativi effetti in termini criminogeni sia per l’aggravamento che comunque determinano sull’affollamento carcerario e sui carichi di lavoro giudiziario); alla quale peraltro si contrappone il persistere di una serie imponente di microincriminazioni volte per lo più a rafforzare il rispetto delle norme disciplinanti ampi settori del diritto pubblico e amministrativo. Incertezze e oscillazioni le quali spiegano anche, traendone nel contempo ulteriore alimento, le modalità con cui si è arrivati in tempi recenti alla revisione della disciplina della pena in funzione dell’accentuazione delle finalità rieducative stabilite dalla Costituzione. Probabilmente anche per l’estrema difficoltà, per le ragioni sopra evidenziate, di tratteggiare una nozione di pena finalizzata a obiettivi di rieducazione chiaramente determinati, si è infatti posta in essere una riforma (4) che, senza affrontare direttamente il tema della pena, ne ha però profondamente modificato il contenuto (5) attraverso le modalità applicative. La qual cosa è stata ottenuta procedendo ad una profonda revisione dell’ordinamento penitenziario ed introducendo tutta una serie di procedure ritenute idonee per il conseguimento della rieducazione secondo la prospettiva segnata dal principio della individualizzazione del trattamento penitenziario. 3. La crisi della giustizia penale e il ruolo centrale assunto dal processo. La tendenza a configurare la giurisdizione come un potere. — Un simile modo di procedere non poteva tuttavia non dar luogo a gravi per(4) Cardini di questa riforma sono la legge 26 luglio 1975 n. 354, recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, e la legge 10 ottobre 1986 n. 663, e successive modificazioni, la quale ha ampiamente rimaneggiato la prima. (5) Sulla profonda influenza che la riforma dell’ordinamento penitenziario ha avuto sul processo e sul diritto penale sono concordi gli autori. In via esemplificativa si vedano le esplicite affermazioni di Conso in CANEPA-MERLO, Manuale di diritto penitenziario, Milano 1993, Presentazione, p. XIV, nonché di LEONE nel suo Manuale di diritto processuale penale, Napoli 1988, p. 755.
— 1240 — plessità. A parte la considerazione che il principio di individualizzazione del trattamento penitenziario è solo una modalità, sia pure importante, di tale trattamento e non può quindi certo costituire l’obiettivo della procedura rieducativa, si deve osservare che in realtà, come in tante altre occasioni, anche nel caso in ispecie ci si trova davanti al solito tentativo di risolvere in via processuale (tale è sicuramente la natura dell’esecuzione, basti pensare all’introduzione di una serie di meccanismi di chiaro contenuto giurisdizionale tesi a garantire l’effettività dei nuovi diritti garantiti al condannato) una questione di natura sostanziale, con le connesse conseguenze proprie di simile operare. Ne è seguita una sorta di processualizzazione della pena (6) che ha condotto al passaggio da una concezione della pena irrogata come tendenzialmente ferma e immutabile ad una opposta concezione della stessa improntata alla provvisorietà per la possibilità di continui adattamenti e trasformazioni in relazione all’evolversi del trattamento penitenziario; adattamenti e trasformazioni legati, mancando — come accennato — un aggancio ai riferimenti sostanziali, solo agli spazi concessi dalla disciplina processuale. Tutto questo peraltro in chiara contrapposizione con l’art. 27 della Costituzione il quale si limita a indicare i princìpi cui si deve ispirare l’esecuzione della pena, senza toccare peraltro il fondamento e il contenuto della stessa, che appartengono chiaramente al diritto penale sostanziale (7). Le perplessità suscitate dalla tendenza in atto — la quale ha assunto ormai tale sostanza che nella Relazione ministeriale al Codice di procedura penale vigente si è dovuto arrivare ad escludere esplicitamente in riferimento alla fase dell’esecuzione che la delega consentisse ‘‘l’introduzione di un sistema bifasico puro, tale cioè da far risultare riservata alla sola fase dell’esecuzione la determinazione della pena’’ — sono state accresciute dalla legislazione premiale in materia di pentiti. Essa ha infatti finito col legare strettamente l’applicazione della pena, nelle sue modalità e nella stessa entità, a finalità specificamente processuali, come quelle della utilizzazione del contributo di simili collaboratori nell’attività di giustizia. Allo spostamento nell’ambito processuale di un momento tanto importante del diritto penale sostanziale si è aggiunto, a far assumere ormai al processo un ruolo centrale nel sistema penale, un ulteriore elemento. Si tratta della trasformazione che nel contempo ha investito soprattutto la (6) Su tale fenomeno si rinvia a LEONE-MENCARELLI, Processo penale (diritto vigente), in Enc. dir., vol. XXXVI, Milano 1987, p. 408, secondo cui connota questo fenomeno il fatto ‘‘per il quale il contenuto della pena viene rinviato pressoché interamente alle decisioni che al riguardo saranno prese in sede esecutiva’’. (7) In tal senso è esplicito LEONE, Elementi di diritto e procedura penale, Napoli 1987, p. 123.
— 1241 — fase iniziale del processo penale davanti all’estendersi dell’azione della criminalità organizzata e dei fenomeni di diffusa e sistematica violazione delle disposizioni, anche penali, disciplinanti importanti settori dell’ordinamento come quelli tributario e dell’attività contrattuale della pubblica amministrazione. La complessità e l’ampiezza di queste situazioni di vera e propria criminalità di massa hanno importato l’esigenza di anticipare il più possibile l’attività di indagine per risalire da una parte alle radici di vario genere che tali situazioni alimentano e dall’altra per controllarne e, se possibile, prevenirne le manifestazioni penalmente più pericolose. Il che ha però spesso significato l’instaurazione di complesse indagini (basti pensare ai problemi posti dalla lotta contro i gruppi di criminalità organizzata) travalicanti i fatti all’origine dell’instaurarsi di un determinato procedimento penale e delle quali peraltro non si possono nascondere le ripercussioni sul medesimo. Donde la spinta del processo penale a debordare dalla tradizionale impostazione che lo configura come l’esercizio della giurisdizione nei confronti di determinati soggetti in relazione a fatti specifici per porsi invece quasi come un momento di una più ampia e importante attività: quella di una giurisdizione che si presenta come un potere affidato, e quindi gestito in modo tendenzialmente uniforme — gli indirizzi giurisprudenziali —, ad un complesso di soggetti, la magistratura, costituita in ordine autonomo e indipendente (8). La quale si ritrove(8) Particolarmente significative, per comprendere perché l’attività di quest’ordine abbia potuto delinearsi all’esterno con le connotazioni di un potere, le considerazioni di CORDERO, Procedura penale, Milano 1995, pp. 116-117, il quale osserva che ‘‘i corpi collettivi, specie se eretti a ordini, hanno identità visibili e imprimono uno stile ai componenti’’; stile che nella giurisprudenza si trasformerebbe quasi in un indirizzo tenuto sistematicamente, tanto che, secondo Cordero, si potrebbe ben arrivare a parlare in proposito di ‘‘scritture automatiche connesse all’adozione ipnotica delle massime’’. Più in generale, in relazione al valore da attribuire al ricorso da parte dei Costituenti al termine ordine per indicare la magistratura, non va trascurata la considerazione che una soluzione ricorrente nel diritto pubblico antecedente alla Costituzione era quella di regolamentare le varie funzioni pubbliche operando soprattutto sulla disciplina dei soggetti ad esse addetti. Basti per tutti il testo unico dei dipendenti civili dello Stato. Un sistema che aveva il pregio di consentire, attraverso la individuazione di un complesso di diritti e doveri incombenti sui soggetti in questione, la emanazione a quest’ultimi di direttive vincolanti in ordine alla gestione delle funzioni affidate, senza intervenire, se non attraverso l’indicazione di alcuni principi generali, con una minuta regolamentazione e organizzazione di tali funzioni. Al riguardo la dottrina ha evidenziato la necessità di distinguere, nell’ambito della nozione di funzione, la nozione di funzione ufficio, cioè il complesso dei soggetti preposti ad una determinata funzione, dalla funzione compito o attività: v. in tal senso MODUGNO, Enciclopedia del diritto, vol. XVIII, Torino 1969, p. 301 ss. Sulla nozione di funzione, e per la distinzione dalla nozione di potere, che resta fondamentale, pena gravi equivoci e fraintendimenti, si veda altresì CARNEVALE VENCHI, Contributo allo studio della nozione di funzione pubblica, Padova 1969. È in questa prospettiva che all’Assemblea costituente (in proposito si rinvia a MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova 1976, p. 1279) si arrivò a distinguere l’aspetto
— 1242 — rebbe così ad adempiere al compito di assicurare il rispetto della legalità dell’ordinamento non più, secondo appunto la concezione tradizionale, indirettamente ed episodicamente mediante l’applicazione della norma nel caso concreto, ma invece in via sistematica; gestendo unitariamente, in grazia delle possibilità di raccordo offerte soprattutto dalla disciplina delle indagini preliminari, le attività processuali relative a identici fenomeni. Facile di qui il passo per considerare non la norma sostanziale ma proprio l’attività processuale nel suo svolgimento, stante la capacità di incidere immediatamente sulle situazioni con misure sia pure interinali o cautelari ma comunque dotate di tale efficacia da potersi addirittura considerare in campo penale una sorta di pene anticipate, come la vera risposta fornita dall’ordinamento contro la violazione della legge. Una risposta che peraltro, in questa prospettiva, si svilupperebbe non solo sulla base delle linee segnate dall’applicazione delle norme nel caso concreto ma soprattutto secondo le linee, che travalicano queste ultime, cui si informa il quadro generale regolante l’azione del potere giurisdizionale. Si tratta, in altri termini, di un orientamento che identifica la funzione, cioè l’attività svolta istituzionalmente in vista di determinati fini assegnati, con il potere, nozione che ricomprende non solo tale attività ma anche il complesso di uffici e mezzi a tali funzioni preposto. È siffatta identificazione della funzione giurisdizionale come un potere dello Stato che finisce col porre il problema dell’indirizzo politico complessivo da cui tale potere verrebbe autonomamente governato — caratteristica precipua di ogni potere dello Stato, connotato in quanto tale dal carattere della sovranità — e quindi dei condizionamenti conseguenti su ogni singolo procedimento in cui la funzione si estrinseca. Si comprende dunque il senso della preminenza che sembra essere andato assumendo il momento processuale rispetto al diritto penale sostanziale (9). Ragion per la quale le singole fattispecie di diritto penale sosoggettivo della organizzazione della giurisdizione — l’ordine — dall’aspetto oggettivo. Si riteneva infatti che il giudice nello svolgimento dei propri compiti non operasse attività volitiva, dato il vincolo su di lui incombente della legge di cui era ritenuto mero applicatore, e non esplicasse quindi, esercitando competenze derivate, funzioni con il connotato della sovranità, caratteristico della nozione di potere. Diverso il discorso passando dal piano della organizzazione strutturale a quello dell’esercizio della funzione: in proposito è stato notato (BONIFACIO-GIACOBBE, Ordinamento giurisdizionale, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca, Bologna-Roma 1986, art. 104, pp. 16-17) che in tale ambito non può negarsi che la giurisdizione sia un potere dello Stato, come attestato in relazione alla tematica dei conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato e giudici. (9) Questo fenomeno finisce con l’agganciarsi sul piano dogmatico all’indirizzo che definisce come norme penali quelle applicate attraverso un procedimento penale: così GALLO, Capacità penale, Novissimo digesto italiano, vol. II, Torino 1958, p. 885. Per una forte critica a tale impostazione PAGLIARO, Princìpi di diritto penale, Milano 1996, p. 16.
— 1243 — stanziale possono anche venire a perdere — e ciò è stato talora affermato pure esplicitamente nel dibattito che si è accompagnato a tante vicende giudiziarie contrassegnate dalla cosiddetta supplenza dei giudici rispetto all’inefficienza o all’inerzia di altri poteri ovvero anche alla pretesa frammentarietà delle norme penali — la loro tradizionale posizione di fondamento esclusivo per l’esercizio della giurisdizione per presentarsi piuttosto, con un completo rovesciamento della situazione, come occasione e tutt’al più limite per lo svolgimento di questa attività di giustizia. Tanto che appunto, lo si è già rilevato, v’è ormai da chiedersi davanti alla complessa legislazione dettata per la lotta alla criminalità organizzata che punta ad una unificazione delle indagini in materia anche su scala nazionale quando non internazionale — si pensi ai meccanismi di coordinamento fra più uffici del pubblico ministero, alle direzioni distrettuali antimafia, al coordinamento del procuratore nazionale antimafia e ai servizi centralizzati di polizia giudiziaria come la direzione investigativa antimafia — se il processo penale possa davvero continuare ad essere considerato come l’applicazione della norma a un caso concreto in relazione a specifiche responsabilità individuali. Ovvero se in esso non si riflettano talora, e comunque sempre più di frequente, le esigenze connesse all’esplicazione di una funzione chiamata a far fronte a più ampi e vasti obiettivi di difesa dell’ordinamento contro il crimine. Esigenze cui ormai viene piegata la stessa applicazione della pena: si pensi da una parte al sistema premiale dettato per i pentiti e dall’altra alle speciali cautele che circondano il regime dei detenuti ritenuti particolarmente pericolosi. 4. I problemi connessi alla configurazione della giurisdizione come potere. Diritto penale sostanziale e processo. La notizia di reato. — Per la natura stessa della giurisdizione che si dirige nei confronti dei singoli tutte le volte che si postula un intervento in forma specifica dell’ordinamento, la tendenza al suo configurarsi come un potere dello Stato, con finalità di portata generale, non può non porre, anche a livello costituzionale, seri problemi in ordine anzitutto alle stesse modalità con cui esso si attiva concretamente; e quindi a quell’attivarsi in forma specifica dell’ordinamento nella zona di confine tra diritto penale sostanziale e processuale dove si colloca la notizia di reato, con la quale per l’appunto si avvia l’insieme di interventi previsti dall’ordinamento in relazione al verificarsi di un fatto criminoso. In proposito si può ricordare come nel passato la dottrina processual penalistica, accogliendo la nozione dei cd. presupposti processuali, visti come le condizioni di esistenza, i requisiti essenziali per la nascita e la valida prosecuzione del rapporto processuale, avesse individuato una distinzione tra presupposti riguardanti il contenuto materiale del processo e
— 1244 — presupposti concernenti l’essenza e il contenuto formali del processo stesso (10). I primi attinenti alla ‘‘realizzabilità della pretesa punitiva: immanenza dell’azione penale’’, e quindi ‘‘al diritto penale sostanziale, ancorché si riflettano necessariamente sul diritto processuale’’. I secondi invece al processo penale, o meglio, al rapporto giuridico processuale (iniziativa del P.M. nell’esercizio del potere penale e partecipazione dello stesso agli atti in cui è necessaria la sua partecipazione; legittima costituzione del giudice; intervento, assistenza e rappresentanza dell’imputato). Tra i presupposti materiali e quelli processuali, senza i quali si riteneva che non potesse aversi un legittimo procedimento penale, la citata dottrina era poi arrivata ad individuare ‘‘un elemento meramente materiale, o materiale-formale indispensabile’’ per la pratica attuazione dei presupposti processuali. Questo elemento era ‘‘il fatto giuridico della notizia del reato (notitia criminis), notizia che può riconnettersi a determinati atti giuridici influenti sulla costituzione del rapporto processuale (denuncia, querela, richiesta, ecc.), ovvero può provenire da altra fonte, determinando l’attività dell’organo competente a promuovere la costituzione del rapporto medesimo’’ (11). Su cosa intenda il codice attuale per notizia di reato si è osservato (12) che significativi spunti si traggono già dalla terminologia adottata: l’aver notizia indicherebbe per lo più un atteggiamento di mera registrazione di un fatto, la notizia come fatto, giammai un atteggiamento positivo di conoscenza. In sostanza il prendere notizia indicherebbe che l’autorità procedente ‘‘constata quel che percepisce o gli riferiscono: stando alle parole, non è una cognizione attiva acquisita dal lavoro investigante’’. P.M. e polizia giudiziaria lavorerebbero su segnali diretti immediatamente al primo ovvero a questi ritrasmessi dalla polizia. Si tratta comunque — si riconosce (13) — di una impostazione di massima, visto che il codice attuale confonde poi la notizia di reato con l’informativa: così l’art. 347 dove si prevede che la polizia giudiziaria nelle 48 ore dall’acquisizione della notizia di un reato riferisce per iscritto al P.M. gli elementi essenziali del fatto e tutti gli altri elementi raccolti, in pratica individuando la notizia di reato come contenuto di una informazione (nello stesso senso risulta d’altronde esplicita la Relazione al Progetto preliminare sub art. 347). La distinzione assume una significativa rilevanza e su di essa si dovrà tornare più avanti. Qui basti osservare che in realtà dal codice sembrereb(10)
MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, vol. IV, Torino 1972,
p. 5. (11) MANZINI, op. loco cit. (12) CORDERO, Codice di procedura penale, Torino 1992, p. 69. (13) CORDERO, op. ult. cit., p. 399.
— 1245 — bero emergere almeno tre diverse valenze della nozione di notizia di reato (14): la notizia di reato che avvia il complesso di attività in cui si sostanziano le indagini preliminari; la notizia di reato come informativa (15); e infine la notizia di reato che si pone come fatto immediatamente produttivo di effetti processuali, quando si confonde con la constatazione diretta del reato da parte dell’autorità (fenomeno della cd. flagranza) da cui deriva l’immediato attivarsi di questa, con il ricorso a misure restrittive della libertà personale o con l’instaurazione diretta del processo senza la necessità della fase preliminare (giudizio immediato). È probabilmente anche rispecchiando queste diverse situazioni che la dottrina è andata definendo la notizia di reato ora come informazione su un fatto (16), accentuandone dunque il profilo informativo; ora come opinio delicti o come sospetto di reato (17) per meglio sottolineare la mera eventualità che al fatto oggetto della notizia sia attribuibile un rilievo penale; ora ancora come ipotesi di reato, evidenziando l’immediatezza con cui il fatto, considerato alla stregua di un mero dato, si deve inserire in un precisa fattispecie penale perché l’autorità giudiziaria possa procedere. Anche quando se ne esalta il profilo informativo resta dunque che solo l’aver notizia di un fatto di reato consente l’avvio dell’attività della polizia giudiziaria e del P.M., mentre l’informativa eventuale di cui la notizia è oggetto non ha modo di dispiegarsi in assenza di tale notizia (18). Ciò in quanto — e qui si conferma l’intuizione di quella dottrina che configura la notitia criminis come fatto giuridico — la notizia di reato è appunto percezione o avvenuta comunicazione di un fatto penalmente rilevante e non può essere in alcun modo sostituita da ipotesi o sospetti personali che non siano agganciati alla recezione di una notizia. La precisazione si rende particolarmente necessaria in relazione al nuovo codice. Infatti nel codice Rocco l’incertezza sul significato attribuito alla nozione di notizia di reato non poneva grossi problemi, giacché all’indubbia indeterminatezza connotante le modalità di acquisizione della notizia corrispondeva l’incertezza sulla funzione da attribuire alla mede(14) Sulle varie accezioni di tale nozione si veda in generale ARICÒ, Notizia di reato, Enciclopedia del diritto, vol. XXVIII, Milano 1978, p. 757 ss. (15) Sulla esigenza fondamentale di tener distinta la notizia di reato, come percezione appunto di una notizia di reato, dalle informative relative si veda in particolare TAORMINA, Diritto processuale penale, I, Torino 1996 p. 5 ss. Tale impostazione tuttavia non è sempre accolta, confondendosi le due situazioni: v. ad esempio FUMU, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da Chiavario, vol. IV, Torino 1990, p. 47 e passim. (16) CONSO-GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, Padova 1996, p. 219. (17) Così ARICÒ, op. cit., p. 759. (18) In questo senso esplicitamente TAORMINA, op. cit., p. 7.
— 1246 — sima, anche se prevaleva nella dottrina la sua identificazione con l’impulso attivante il pubblico ministero in vista dell’esercizio dell’azione penale. Di fatto accadeva poi che nel sistema di quel codice la notizia di reato finiva col confondersi col rapporto della polizia giudiziaria la quale, in posizione di maggiore indipendenza rispetto al P.M. di quanto non lo sia attualmente, era in sostanza il dominus della notizia e poteva in pratica arrivare, attraverso la cd. preistruzione, a condizionare lo sviluppo di tutto il processo. Diversa la situazione attuale, dove il nuovo codice di procedura penale pone saldamente le indagini fin dalle prime fasi nelle mani del P.M., e, fatto scomparire il rapporto con il suo valore privilegiato, ha introdotto una nuova disciplina della notizia di reato. E questa si caratterizza per il fatto che non v’è più distinzione tra notizie di reato qualificate e non qualificate (atteso che la disciplina della denuncia si rivela avere ormai una portata generale, applicabile ad ogni notizia di reato), e che la nota contrassegnante la notizia di reato è ora il rigido controllo su di essa esercitato da parte del P.M., consacrato con l’istituzione del registro delle notizie. Ed essendosi specificamente individuati gli elementi della notizia che qui vanno iscritti, la stessa è ormai confinata entro uno schema rigido: da una parte l’indicazione obbligatoria della figura di reato cui la notizia si riferisce, dall’altra l’elencazione degli elementi del fatto, oggetto della notizia; elementi che debbono necessariamente ricondurre il fatto nell’ambito della figura di reato. Dal che scaturiscono chiare conseguenze in ordine allo sviluppo dell’indagine processuale. Più precisamente: con l’iscrizione nel registro della notizia che abbia le caratteristiche prescritte appunto per l’iscrizione si avviano le indagini preliminari. Ma proprio qui appare chiara l’impossibilità di continuare ad attribuire alla notizia di reato un valore diverso dalla mera registrazione di un fatto penalmente rilevante, di cui si abbia avuto notizia, e l’inaccettabilità della tendenza ad ampliare la nozione in oggetto, in funzione soprattutto delle già richiamate esigenze della lotta alla criminalità organizzata, estendendo al massimo l’ambito delle attività di polizia giudiziaria. Infatti questo sforzo entra in contrasto con quello che è l’ambito dell’iniziativa del pubblico ministero e della polizia giudiziaria, rigorosamente legati al delinearsi di una notizia di reato, sfuggendo totalmente ad essi la possibilità di iniziativa nella fase antecedente l’emergere di questa notizia (19). Fase di natura amministrativa (19) È questa la conseguenza inevitabile di un sistema in cui ciò che rileva ai fini del processo è un fatto inserito in un preciso contesto spazio-temporale, caratterizzato quindi per la sua storicità, come d’altronde evidenzia chiaramente la nozione di notizia di reato. Contemporaneamente questa storicità che caratterizza il thema probandum involge anche la prova, che verte quindi sulla verità del fatto: CARLI, Fatto e verità nell’ideologia della riforma e della controriforma del codice di procedura penale, in questa Rivista, 1995, p. 238 ss. Ma è altresì una impostazione assai antica, già pienamente affermata anche in ambienti minori
— 1247 — rientrante nell’ambito dei poteri della polizia di sicurezza la quale, come è noto, non dipende dal pubblico ministero. 5. Inaccettabilità di una configurazione della giurisdizione come potere. Profili costituzionali della questione. — Le considerazioni sopra svolte in ordine alla inaccettabilità dei tentativi diretti ad ampliare l’ambito della nozione della notizia di reato al di là dei limiti ad essa connaturati portano certo ad incidere fortemente sulla possibilità di gestire a livello generale e organico la giustizia penale e quindi a configurare almeno quest’ultima come un vero e proprio potere. Ma non va dimenticato che l’abnorme ampliamento dell’attività della polizia giudiziaria e del P.M., travalicando precise garanzie di ordine costituzionale relative sia alla determinazione dei confini tra i poteri dello Stato sia a fondamentali diritti del cittadino, tra cui quello di essere perseguiti solo per fattispecie penali tassativamente determinate, può finire col vanificare proprio queste garanzie. Di tal che non infrequentemente è possibile riscontrare situazioni dove il cittadino viene a trovarsi addirittura in balìa di indagini che non muovono da una notizia di reato ma da ipotesi di cui si intende cercare nel concreto una verifica senza che vi siano segni, notizie, circa l’esistenza di fattispecie penalmente rilevanti, che sole potrebbero invece in via di principio giustificare l’avviarsi dei meccanismi processuali. Confortano simili conclusioni le considerazioni che si possono svolgere in ordine a una serie di problematiche anch’esse attinenti, almeno prevalentemente, al momento iniziale del processo: basti pensare alla impostazione della giurisprudenza secondo cui i sufficienti indizi di colpevolezza che giustificano le misure restrittive della libertà possono essere di spessore ben più ridotto rispetto a quelli che consentono il semplice rinvio a giudizio; o, ancora, alla sempre maggiore difficoltà di tener separati nell’ambito delle intercettazioni, in modo particolare di quelle cd. ambientali, i fatti in relazione a cui è stata concessa la relativa autorizzazione dagli altri di cui con esse si venga a conoscenza. Si tratta di un complesso di situazioni dalle quali trapela continuamente l’aggancio con fondamentali garanzie costituzionali, il cui scolonel 1500: v. ad es. RANUCCI, Cultura giuridica e società civile a Valentano (VT) nel 1500, Roma 1994, p. 169 ss., che sottolinea come il meccanismo giudiziario (il testo fa riferimento in maniera specifica ai crimini cd. minori, ma le osservazioni sono di portata generale) sia avviato da una relazione della Guardia Comunale al Potestà. Nella relazione vengono riferiti i fatti, che devono essere contestati entro 3 giorni al responsabile: ‘‘Il Potestà, avuta la notitia criminis, cita l’imputato a comparire in giudizio per dire le sue ragioni. La citazione viene fatta per il tramite del Castaldo con la cedola... Nella cedola deve essere chiaramente specificato il tenore della contestazione... il giorno, l’ora e il luogo dove il reato è stato commesso, il nome della Guardia che lo ha accertato...’’. ‘‘Non è inopportuno richiamare l’attenzione sul fatto che la relazione delle Guardie è sì, degna di fede ma che può essere contestata e ribaltata con la testimonianza contraria di due persone’’.
— 1248 — rirsi, sulla base di esigenze ricollegate a quelli che pure si ritengono obiettivi essenziali dello stesso esercizio della giurisdizione, certamente involge irrisolte questioni a livello costituzionale che il tentativo di configurare la giurisdizione come un potere finisce col rendere ancora più complesse (20). Tra queste situazioni qui si possono citare la non chiara individuazione dei confini tra l’attività preventiva della polizia di sicurezza e quella della polizia giudiziaria; la incerta definizione, alla prima in varia misura legata, dei criteri di esercizio dell’azione penale — di fatto ormai divenuto discrezionale —; la particolare posizione infine in cui si collocano — tutte le volte in cui si tratta di avviare l’azione penale o comunque di adottare provvedimenti che si muovano in questa prospettiva — i P.M. rispetto ai magistrati esercenti funzioni giudicanti, già per il solo fatto che i primi come i secondi appartengono tutti al medesimo ‘‘ordine’’. Posizione che incide profondamente sul principio, pure elevato a livello costituzionale, di terzietà ed imparzialità del giudice. Ma a monte di queste problematiche v’è soprattutto la troppo generica soluzione adottata dalla Costituzione nel tratteggiare la magistratura come un ordine. Il quale, seppure autonomo e indipendente da ogni altro potere, con gli altri poteri, ancorché potere esso non sia, non può non correlarsi (secondo una impostazione che si rinviene pressoché in tutti gli ordinamenti delle democrazie contemporanee e come del resto conferma la (20) La tendenza a parlare di potere giurisdizionale o giudiziario emerge talora presso singoli costituzionalisti: così SPAGNA-MUSSO, Diritto costituzionale, Padova 1990, p. 602; MARTINES, Diritto costituzionale, Milano 1994, p. 487. Tale tendenza — come accennato (v. supra nota n. 8) — ha comunque riferimento essenzialmente al piano operativo, cioè al piano dello svolgimento della funzione, e non involge la visione complessiva della struttura organizzativa soggettiva (l’ordine) e oggettiva per la quale l’attribuzione alla giurisdizione della qualifica di potere è contrastata decisamente dall’opinione dominante: così PALADIN, Diritto costituzionale, Padova 1995, pp. 493-494, il quale afferma: ‘‘legislativo ed esecutivo da un lato, giudiziario dall’altro non sono concepibili e non sono stati concepiti come centri di potere tra loro simili’’. Ragion per cui, secondo l’Autore, solo ‘‘in senso riassuntivo’’ per indicare le ‘‘autorità comunque giudicanti’’ si potrebbe parlare di potere giurisdizionale. Nello stesso senso viene richiamata la conforme opinione di Pizzorusso. Su questa linea SILVESTRI, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Torino 1997, p. 67: « La magistratura è riconducibile ad unità solo sotto il profilo della specificità di status dei suoi membri e si pone come struttura organizzativa a sé stante solo per i profili attinenti alla posizione soggettiva di quella particolarissima categoria di pubblici funzionari costituita dai giudici: rileva in sé come ordine. Il resto rimane affidato alla competenza di un apparato amministrativo dipendente dal Governo, ed in particolare dal Ministro della giustizia (art. 110 Cost.). Ecco perché non è possibile parlare di un « potere » giudiziario nello stesso senso in cui è possibile farlo a proposito dei poteri legislativo ed esecutivo, per i quali non è stabilita dalla Costituzione la scissione tra profili di status, che qualificano l’ordine giudiziario, e profili organizzativi generali, che ineriscono all’attività giudiziaria intesa come manifestazione specifica della potestà statuale ». Secondo MORTATI, op. cit., p. 1280, quello giudiziario è un potere, ma con caratteristiche assai peculiari che lo differenziano dagli altri poteri.
— 1249 — stessa Costituzione con il CSM, organo dove confluiscono rappresentanti di diverse istanze costituzionali: il Presidente della Repubblica, i membri eletti dal Parlamento, quelli eletti dai magistrati, il primo presidente e il procuratore generale della Cassazione) essendo comunque preposto all’esercizio di una funzione, come la giurisdizione, fondamentale per l’assetto complessivo dell’ordinamento. Questa funzione, pur nella sua peculiarità che la vede esercitata di volta in volta in riferimento a singoli concreti casi da parte di singoli predeterminati soggetti secondo le procedure dettate dalla legge e non secondo una propria autonoma potestà autorganizzativa come invece accade per i poteri dello Stato, deve pertanto essere rapportabile nei suoi indirizzi complessivi alle altre funzioni dello Stato. Ovviamente nei modi propri ad un esercizio così frammentato e disperso della funzione: e quindi con il monitoraggio della giurisprudenza, che ha da sempre consentito al legislatore di ovviare alle distorsioni o agli inconvenienti della interpretazione giudiziale delle leggi; con la vigilanza — disciplinare e di valutazione della professionalità — sui soggetti componenti l’ordine della magistratura, che in quanto tale deve pur avere una sua struttura organizzativa; col controllo, infine, sui criteri con cui la funzione stessa si attiva. A quest’ultimo proposito deve essere infatti ricordato che solo apparentemente l’art. 112 della Costituzione sembra dare una chiara sistemazione alla materia affidando l’attivarsi della giurisdizione allo stesso ordine, nella persona del P.M., che è chiamato ad esercitarla; dacché proprio l’esperienza concreta dimostra come dietro l’assolutezza dell’obbligo di esercitare l’azione penale si delinea un tale margine di discrezionalità da travalicare, secondo quanto già evidenziato, il limite medesimo dell’esistenza di un fatto di reato. Sono punti dove si è avuto da sempre modo di avvertire gravi carenze, che non potevano certo trovare adeguata risposta nel corso degli anni nelle sole garanzie offerte dalla formazione tecnico giuridica del magistrato professionale: che è la scelta centrale operata dal Costituente, la quale offre però sicurezze solo per quanto attiene alla preparazione giuridica del magistrato non certo per quel che concerne l’esercizio delle funzioni affidate. Né per il resto la Costituzione ha saputo dare indicazioni concrete circa il ruolo della partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia, che rappresenterebbe indubbiamente un importante momento riequilibratore di quella scelta. E, anche laddove, in questa logica, nella Carta fondamentale si è prevista in via specifica l’ammissione all’ufficio di consigliere di Cassazione di membri estranei all’ordine dei magistrati, non sono poi seguiti tentativi apprezzabili di darvi attuazione. Né, ancora, in questa direzione ha servito a molto l’opera del CSM, da una parte troppo condizionato dalle indubbie spinte interne dell’ordine e dall’altra comunque privo di effettivi poteri di gestione e di indirizzo. Tanto
— 1250 — più in presenza di un ordinamento giudiziario, che resta in larga misura quello del 1941 e anzi rispetto a questo non contempla più neppure quei meccanismi di selezione che garantivano il mantenimento di un certo standard di professionalità; mentre per quanto concerne la gestione dei magistrati consente addirittura, attraverso un sistema di copertura dei posti a domanda, di lasciare sguarnite le sedi giudiziarie più scomode. È peraltro assai sintomatico delle conseguenze della non adeguata configurazione di tale organo da parte della Costituzione e del nesso obiettivamente instauratosi tra questa inadeguatezza e il tentativo di configurare la giurisdizione come potere, il fenomeno del ricorso sempre più frequente da parte del C.S.M. a proprie circolari contenenti in realtà vere norme organizzative, assolutamente non previste dalla Costituzione che in proposito prevede una riserva assoluta di legge, le quali incidono talora anche pesantemente sull’esercizio della giurisdizione debordando così dai limitati compiti ad esso attribuiti. Né un ancoraggio sicuro contro lo straripamento dalle funzioni affidate si rinviene nei rimedi interni previsti avverso i vizi delle decisioni e delle procedure: infatti tali rimedi sono essenzialmente rivolti ai vizi interni del procedimento e raramente risultano utilizzabili per colpire le distorsioni lamentate. Le considerazioni fin qui svolte hanno d’altronde trovato ampia conferma nel dibattito apertosi in sede di Commissione parlamentare per le riforme costituzionali che sul tema della giustizia è sfociato in precise proposte di riforma del C.S.M. e in materia di distinzione tra P.M. e giudice. 6. I principi costituzionali utilizzabili per fronteggiare le distorsioni lamentate in tema di giustizia. La realtà dei fenomeni a base di tali distorsioni. — Se quanto fin qui osservato evidenzia le distorsioni applicative e le stesse lacune della Costituzione da cui deriva la crisi della giustizia, resta da vedere su quali principi far leva per rimediare a questo stato di cose. Ad una situazione contraddistinta dal venir meno di fondamentali garanzie del cittadino, che non può essere lasciato in balia di una attività giudiziaria in grado ormai di attivarsi senza alcun riscontro concreto esterno — e cioè il delinearsi di fatti illeciti di cui pervenga notizia — potendo appunto avviarsi anche sulla sola ipotesi che simili fatti possano venire in esistenza (è a ciò che in sostanza si arriva secondo una certa interpretazione della nozione di notizia di reato) (21); ad una simile situazione si può trovare risposta solo richiamando i princìpi ai quali ci si è sopra ri(21) In proposito si vedano le considerazioni sui condizionamenti che sull’azione penale hanno le scelte discrezionali del P.M. fatte da CARDINO, La discrezionalità nell’azione penale, in Archivio della nuova procedura penale, 1997, n. 2, IV, p. 97 ss.
— 1251 — fatti per inquadrare le contraddizioni e le distorsioni che la contrassegnano. In proposito la lettura della Costituzione mostra chiaramente come la crisi attuale metta in forse anzitutto il sistema di diritti dei singoli, definiti inviolabili, e quindi tali anche davanti alla giurisdizione penale, fissato negli artt. 13 e seguenti. In effetti appare indubitabile che la complessa problematica relativa ai rapporti tra fatto reato, notizia di reato e avvio del procedimento investe il contenuto centrale di tale sistema. Venendo a quest’ultimo si può osservare come esso si articoli su una serie di affermazioni circa l’inviolabilità della libertà personale (art. 13, comma 1); del domicilio (art. 14, comma 1); della libertà e segretezza della corrispondenza (art. 15, comma 1); della libertà di manifestazione del pensiero e di stampa (art. 21, commi 1 e 2); delle guarentigie dei membri del Parlamento (art. 68). A dar contenuto e spessore alle affermazioni in oggetto la Costituzione provvede contestualmente ad individuare una serie di attività ritenute in contrasto con i princìpi in questione: di qui il ripetuto divieto per l’autorità di procedere nei confronti dei singoli ad operazioni il cui fine è chiaramente identificato nella ricerca o assicurazione di elementi probatori ovvero, sempre in questa prospettiva, di adottare misure che involgono la restrizione della libertà personale. Divieti superabili, lo si stabilisce espressamente, solo con provvedimenti motivati. Che simili attività vadano attentamente regolamentate in quanto incidenti su fondamentali aspetti della libertà dell’individuo non è certo dubitabile; così come esse configurano per lo più tipici mezzi di ricerca delle prove. Ne segue che il ricorso a tali attività può essere giustificato solo dall’esistenza di elementi concreti sui quali fondare il provvedimento che le autorizza. Altrimenti si dovrebbe ritenere sufficiente per porre in non cale fondamentali garanzie a tutela dell’individuo la semplice emissione di provvedimenti con motivazioni generiche o meramente congetturali. Ma l’acquisizione probatoria si rivela essere parte di un complesso iter che, secondo norme specificamente dettate dal codice di procedura, collega gli elementi via via raccolti, che confluiscono in sostanza in un procedimento probatorio, il quale ha una propria ratio e un proprio sviluppo. Appunto in relazione a questa caratteristica, che connota il procedimento probatorio per una sua logica progressiva, nella quale l’antecedente influenza il susseguente e quest’ultimo a sua volta il primo, la Corte costituzionale ha potuto spingersi fino a ritenere l’esistenza di un principio di conservazione della prova. Con il che si sono rotte le pur fragili barriere innalzate, a garanzia dei diritti inviolabili di difesa, dal nuovo codice contro l’ingresso indiscriminato in dibattimento degli elementi raccolti
— 1252 — nelle indagini preliminari (22); facendosi riemergere quel processo di polizia del vecchio codice certo non superato dopo gli interventi riformatori della Corte costituzionale e del legislatore ordinario sfociati anzi nella prospettazione di una sorta di inquisizione garantista, contro il quale il codice del 1989 doveva appunto muovere al fine di garantire i singoli contro la stortura di processi fondati essenzialmente su prove raccolte fuori del giudizio e senza il contraddittorio tra le parti. Di qui anche lo spessore del ruolo assunto ormai dalla notizia di reato sulla quale si è scaricato il peso di una funzione impropria, originariamente attribuita all’esercizio dell’azione penale da parte del P.M.: e cioè quella di garantire il singolo avverso immotivate attivazioni della giurisdizione e, prima ancora, avverso qualsiasi forma di raccolta di elementi probatori fuori dalla sede privilegiata del dibattimento. Risultato che la legge delega n. 81 del 1987 si prefiggeva di raggiungere attraverso un sistema fondato fondamentalmente sui punti seguenti: anzitutto stabilendo il ‘‘potere-dovere della polizia giudiziaria di prendere notizia dei reati e di descrivere i fatti costituenti reato compilando i verbali relativi alle attività compiute, di assicurare le fonti di prova e di evitare che i reati vengano portati ad ulteriori conseguenze’’ (23). In secondo luogo fissando ‘‘l’obbligo della polizia giudiziaria di riferire al P.M. immediatamente e comunque non oltre 48 ore, anche oralmente, la notizia del reato indicando le attività compiute e gli elementi fino ad allora acquisiti’’ (24). Prescrivendo poi al P.M. l’obbligo di ‘‘iscrivere immediatamente la notizia di reato e il nominativo della persona alla quale il reato è attribuito in apposito registro’’ (25). Ancora sancendo il ‘‘potere-dovere del P.M. di compiere indagini in funzione dell’esercizio dell’azione penale e dell’accertamento di fatti specifici’’ documentando altresì l’attività compiuta (26). E infine ponendo entro termini rigidi al P.M. l’obbligo di richiedere o l’archiviazione o la fissazione dell’udienza preliminare (27). Dunque un sistema incentrato su una notizia di reato vista come un fatto trasmesso alla conoscenza del P.M, fatto che solo poteva giustificare l’attività del P.M. volta a valutare l’esercizio o meno dell’azione penale. Una costruzione, in conclusione, in chiave nettamente garantista, a patto ovviamente del mantenimento di saldi raccordi tra la notizia e la realtà cui si riferisce. Priva di essi, la notizia di reato viene meno alla sua funzione di garanzia come (22) Su questo sforzo operato dai redattori del nuovo codice e che anzi doveva costituire la sua precipua caratteristica v. RICCIO, Profili funzionali e aspetti strutturali delle indagini preliminari, in questa Rivista, 1990, 1095 ss. (23) Art. 2, n. 31. (24) Art. 2 cit. (25) Art. 2, n. 35. (26) Art. 2, n. 37. (27) Art. 2, n. 48.
— 1253 — unica via che consente l’attivazione della giurisdizione (28); e non poteva non trasformarsi in suggestione e premessa per l’immotivato avviarsi della funzione giurisdizionale e, in ultima analisi, come occasione per una distorsione degli stessi rapporti tra le funzioni fondamentali dello Stato. La tendenza a configurare una parte almeno del complesso sistema attraverso cui si amministra la giustizia, e cioè il settore dove operano i magistrati ordinari, come un potere, trova dunque insuperabili ostacoli prima ancora che nella lettera della Costituzione nella natura stessa della giurisdizione, intesa come giustizia nel caso concreto. E questo emerge in modo particolare in campo penale, dove il profilarsi di una attivazione dei meccanismi giurisdizionali sulla base di linee di politica giudiziaria fatte proprie da chi esercita la giurisdizione o ne consente l’avvio viene a incidere sui diritti inviolabili del singolo che invece l’intero sistema di poteri delineato dalla Costituzione e in primo luogo, proprio la giurisdizione, è chiamato a garantire. E quindi colpisce il complessivo equilibrio delle nostre strutture costituzionali. Seppure non sempre consapevolmente e con chiarezza di caratteri, la tendenza in oggetto è ad ogni modo in atto. E se essa riesce, ancorché sfruttando i varchi di un non compiuto disegno del Legislatore costituente in materia di giustizia, ad avere un radicamento, è perché si riallaccia a imponenti fenomeni che investono le moderne società contemporanee. Il massiccio sviluppo dei processi economici e delle relazioni sociali connotante queste società non poteva non avere forti ricadute anche sul piano giuridico nonché, conseguentemente, sul piano delle patologie che vengono a contrassegnare i sistemi normativi regolatori di tanto complesse attività. Si deve, in altri termini, tener presente che tra gli effetti prodotti sul diritto delle società contemporanee dai fenomeni della produzione e dello scambio di massa vi sono anche quelli discendenti dalla illegalità di massa. Non solo, ma l’imponenza di questi fenomeni trova, in relazione anche all’interesse sociale che inevitabilmente suscitano, risonanza e amplificazione nell’attenzione che i mass media prestano alle relative vicende giudiziarie, che divengono talora emblematici punti di riferimento per i comportamenti generali, con evidenti ricadute sulle stesse strutture ordinamentali. Davanti a tale situazione diventa già difficile distinguere chi è chiamato a rendere giustizia rispetto agli altri componenti dell’ordine cui è affidato il compito di attivare questa funzione e che vengono visti in sostanza come partecipi di un unico potere, in relazione al quale i singoli (28) La situazione è resa plasticamente da COPPI, I delitti contro l’amministrazione della giustizia, a cura di Coppi, Torino 1996, prefazione p. X ‘‘Un reato non può essere legalmente punito se — come è ovvio — di esso non viene data notizia all’autorità giudiziaria’’.
— 1254 — procedimenti sono considerati all’esterno essenzialmente nell’ottica di una mera esplicazione di precisi indirizzi di cui il potere medesimo è ritenuto portatore. Ma la distinzione appare non agevole anche rispetto all’apparato politico-burocratico che non solo fornisce gli ingenti mezzi e le strutture ormai necessarie per l’esercizio della giurisdizione, condizionandone quindi già sotto questo profilo l’attività, ma addirittura gli elementi su cui si fonda l’atto stesso del decidere: elementi che sempre più dipendono dallo sterminato complesso di informazioni che regge oggi le attività socialmente rilevanti. È il grandioso fenomeno di conservazione, gestione e utilizzazione di massa dei dati e dell’informazione, cui solo quell’apparato per le sue dimensioni può sovrintendere. Una massa di dati che condiziona, per la diretta influenza che essi hanno sul processo attraverso il meccanismo probatorio su questi dati fondato, non solo la decisione giudiziaria, ma, in determinati settori giuridici (si pensi a quello finanziario, a quello tributario, ecc.), addirittura la possibilità di avvio dei meccanismi processuali di indagine. Si spiega allora l’importanza centrale assunta dalla notizia di reato e dalla polizia giudiziaria, che ne è in qualche misura se non il dominus certo l’organo alla sua ricezione prevalentemente preposto, come momenti del trasfondersi di questa massa di informazioni entro gli stampi delle fattispecie penali. Nonché l’emergere della ragione prima delle tensioni che investono l’ambito delle attribuzioni della polizia giudiziaria, dove l’equilibrio tra il controllo della magistratura e quello del potere esecutivo si manifesta in termini di forte dialettica, incontrandosi qui le diverse esigenze di cui sono entrambi portatori. Da ciò anche i grandi scompensi che si verificano nel mondo giudiziario e forense, dove i tradizionali rapporti tra parte pubblica, giudice e avvocatura risultano profondamente alterati, per il peso preponderante assunto ormai dall’apparato giudiziario, per i mezzi di cui esso, come si è visto, può disporre, rispetto alla capacità di azione che nel campo del processo hanno le parti private, quand’anche supportate da rilevanti mezzi economici. In questa prospettiva appare obbligata l’esigenza di superare istituti che, consegnati dalla tradizione di una diversa società, si prestano, come si è visto in riferimento alla nozione di notizia di reato, a equivoci tali da ripercuotersi gravemente sulle garanzie dei singoli nonché sul complessivo assetto dell’ordinamento. In ispecie non è più possibile continuare a fondare un momento essenziale del nostro ordinamento processuale su una nozione di notizia di reato che ha assunto connotazioni così ambigue da presentarsi da una parte come un mero dato — tale quindi da poter costituire la base di un meccanismo automatico di attivazione della giurisdizione — dall’altra come informazione; la quale consisterebbe nel dare o prendere notizia di qualcosa o su qualcosa, procedendo ad una elaborazione e un giudizio che in nessun modo si possono nascondere sotto l’ap-
— 1255 — parenza dell’obiettività del dato. Una situazione in cui ci si è spinti fino a delineare la possibilità da parte del P.M. di ipotizzare la notizia di reato onde consentire l’autoattivazione del tutto discrezionale della giurisdizione. Di qui l’esigenza di una rivisitazione di tutta la materia. Al riguardo si imporrà anzitutto uno sforzo di individuazione delle linee nelle quali ci si muove. Ora, una prima linea sicuramente attiene alla garanzia prioritaria, emergente dalla stessa Costituzione, del rispetto del principio della prevalenza del dato sostanziale — la figura di reato dettata nella norma — rispetto a quello processuale. Una seconda riguarda la necessità del rispetto del complessivo equilibrio dei poteri e delle funzioni, dovendosi evitare la trasformazione, con conseguente snaturamento, in effettivo potere di quella che è, nel nostro ordinamento almeno, una funzione affidata al magistrato in relazione a singoli casi concreti. Se per quanto attiene alla necessità di ristabilire i corretti rapporti tra diritto penale sostanziale e attività di giustizia non sembrano occorrere ulteriori cenni, potendosi rinviare a quel che si è più sopra rilevato, un maggiore approfondimento andrà senza dubbio dedicato alla corretta impostazione, soprattutto a livello di organizzazione, dei rapporti tra la giurisdizione e gli altri poteri. Alle radici delle disfunzioni attuali v’è indubbiamente una deviazione rispetto all’inquadramento dato dalla Costituzione alla giurisdizione; una deviazione che investe la sostanza medesima della prospettiva in cui i Costituenti hanno collocato la magistratura definendola come ordine. Ora, il ricorso a tale nozione, lo si è detto, si legava all’intento di evitare che si potesse configurare un autonomo potere giurisdizionale portatore di propri valori in grado di condizionare o comunque influire sugli organi di diretta espressione della sovranità popolare. Un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, con cui può entrare anche in conflitto, ma che potere in senso proprio non è. In quanto non è un potere, l’ordine non ha potestà autorganizzativa — lo sancisce espressamente l’art. 108 della Costituzione prevedendo che le norme sull’ordinamento giudiziario siano stabilite con legge —. Esso rappresenta una precisa scelta organizzativa operata a livello costituzionale che costituisce quindi una direttiva vincolante per il legislatore ordinario. La scelta delinea, secondo lo schema proprio degli ordini professionali (29), una istituzione di diritto pubblico avente struttura corporativa (Gemeinschaft), caratterizzata all’interno da vincoli di lealtà e correttezza tipici di una associazione tra eguali e verso l’esterno dalle note del prestigio e della indipendenza: il tutto nella prospettiva del perseguimento delle finalità di rilevanza pubblica cui l’ordine è preposto. (29) Si veda LEGA, Ordinamenti professionali, in Nss. Dig. it., vol. XII, Torino 1965 p. 10 passim.
— 1256 — Come tutti gli ordini, la magistratura ha una struttura di gestione, il CSM, con compiti di controllo interno a livello anche disciplinare, nonché sulla selezione degli appartenenti all’ordine e sull’attribuzione ad essi degli incarichi. La composizione mista di quest’organo assume valore significativo non solo per quel che attiene alla conferma che la giurisdizione non è un potere né ha potestà autorganizzativa — e infatti si esclude comunemente che il CSM sia un organo qualificabile di autogoverno della magistratura — ma anche per quel che attiene alle linee portanti dell’organizzazione della magistratura quale dovrebbe realizzarsi in sede di emanazione del nuovo ordinamento giudiziario, di cui si è tuttora in attesa a quasi cinquant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione. In ispecie tra i componenti del CSM la Costituzione indica due figure di alti magistrati (il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione) i quali si pongono al vertice rispettivamente della funzione giudicante e di quella requirente. Dato certo non secondario (30) — attesa anche l’eccezionalità di una menzione diretta da parte della Costituzione di questi che restano comunque degli alti funzionari, il che li ha in tal modo resi organi necessari — non appena si richiami la disposizione dell’art. 107, comma 3, della Costituzione, la quale, stabilendo che i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni, ha senza dubbio fatto riferimento alle funzioni svolte in concreto, secondo quanto ha avuto modo di chiarire la giurisprudenza costituzionale; ma ha soprattutto fatto riferimento alle due funzioni base essenziali su cui si articolano tutte le altre concretamente affidate ai singoli magistrati, e cioè appunto la funzione giudicante e quella requirente. L’ordinamento giudiziario tuttora vigente non sembra peraltro attribuire particolare sostanza a questa indicazione costituzionale, tant’è che ai due alti magistrati sono attribuiti solo generici poteri di sorveglianza e direzione nell’ambito dei propri uffici presso la Corte di cassazione; nonché, per quanto riguarda il procuratore generale presso la Corte di cassazione, una sorta di potere disciplinare concorrente con quello, però affidato direttamente dalla Costituzione, del Ministro di grazia e giustizia. Sembrerebbe invece più congrua, rispetto alla prospettiva seguita dalla Costituzione, una rivalutazione del ruolo attribuito ad essi, evidenziandone le potenzialità insite nella loro veste di massima espressione delle due fondamentali funzioni su cui si articola la magistratura. Occorrerebbe quindi dotarli correlativamente di adeguati poteri in maniera sia da consentire gli opportuni controlli sull’esercizio delle funzioni cui sono chiamati a vigilare, sia da porli in grado di riferire sugli orientamenti comples(30) Per l’ammissibilità, senza bisogno di alcuna modifica costituzionale, di un conferimento con legge ordinaria al procuratore generale della Corte di cassazione di poteri di coordinamento, indirizzo e sorveglianza su tutti i pubblici ministeri CHIMENTI, Accusa penale e ruolo del p.m., a cura di Gaito, Napoli 1991, p. 285.
— 1257 — sivamente assunti nell’esercizio delle suddette funzioni dalla magistratura, consentendo così al CSM, la cui disciplina ovviamente andrebbe simmetricamente rivista, di procedere a tutte le valutazioni e gli interventi poi indispensabili perché l’ordine non debordi nella sfera degli altri poteri (31). professor FRANCO MENCARELLI
(31) Questa della utilizzazione delle funzioni giudicante e requirente al fine di realizzare una più adeguata organizzazione dei magistrati, è una prospettiva che sembra farsi sempre più strada. In tal senso si può ricordare il disegno di legge n. 1383 presentato al Senato della Repubblica il 30 settembre 1996 dai senatori Salvi, Fassone, Barbieri, Bertoni, Calvi, Senese ed altri, recante ‘‘Istituzione di un centro superiore di studi giuridici per la formazione professionale dei magistrati, denominato Scuola nazionale della magistratura, e norme in materia di tirocinio e di distinzione delle funzioni giudicante e requirente’’. Nella stessa direzione vanno le ripetute dichiarazioni del Ministro di grazia e giustizia Flick (si veda da ultimo l’intervento in sede di bilancio della giustizia presso la Commissione giustizia del Senato il 27 novembre 1996, Giunte e Commissioni parlamentari, Resoconto sommario 27 novembre 1996, p. 47 ss.). Su questa linea si è collocato anche il progetto di legge costituzionale predisposto dalla Commissione parlamentare per le riforme costituzionali; si veda in particolare l’art. 126 del testo proposto.
NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO
CONSIDERAZIONI SUI RAPPORTI TRA PREVISIONI LEGALI E PRASSI APPLICATIVE NEL DIRITTO PENALE FEDERALE STATUNITENSE (*) (A proposito del reato di mail fraud)
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — 2. Il peculiare illecito di mail fraud come terreno per un’analisi dei meccanismi di ascrizione della responsabilità penale nel sistema statunitense. — 3. Cenni sulle caratteristiche generali dell’ordinamento federale statunitense e sulla struttura delle fattispecie incriminatrici ivi previste — 4. L’evoluzione storica del reato di mail fraud. — 5. Gli elementi costituivi del reato di mail fraud. - 5.1. Il piano fraudolento (scheme to defraud). - 5.1.1. Il piano fraudolento come aggressione ad interessi patrimoniali. - 5.1.2. Il piano fraudolento come violazione della « fiducia » nei rapporti pubblici o privati: l’« intangible rights doctrine ». 5.2. L’uso della posta (e degli altri mezzi di comunicazione) al fine di dare esecuzione al piano fraudolento. — 6. Dal reato di mail fraud ad un più generale modello di ascrizione della responsabilità penale: uno sguardo alle principali fattispecie incriminatrici del sistema federale statunitense. — 7. L’ascrizione della responsabilità penale nel sistema federale statunitense tra presupposti giuridici e fattuali. - 7.1. Ascrizione della responsabilità ed inflizione della pena. Estraneità alla presente indagine dei problemi relativi al sentencing. — 8. I presupposti della responsabilità nel momento della previsione legale: le vastissime dimensioni del campo di illiceità delineato dalle fattispecie incriminatrici federali — 9. L’individuazione dei presupposti della responsabilità attraverso un’analisi del « momento applicativo »: pluralità dei centri decisionali ed eterogeneità dei criteri di giudizio. - 9.1. Il contributo della giurisprudenza delle corti inferiori. - 9.2. Il contributo di altre « fonti » incidenti sulla ascrizione della responsabilità penale - 9.2.1. Il ruolo selettivo degli organi investigativi e del prosecutor. - 9.3. Lo sviluppo della giustizia contrattata e l’abbandono della giurisdizione. — 10. Considerazioni conclusive.
1.
Considerazioni introduttive. — Il ritrovato interesse per la comparazione (1) —
(*) Il presente lavoro, in parte presentato al Convegno Il diritto giurisprudenziale in Italia e nel mondo, organizzato dall’Associazione italiana di diritto comparato (CagliariChia, 15-17 giugno 1995), costituisce la prima concretizzazione di un più ampio studio sulla responsabilità penale nel sistema federale statunitense. (1) L’importanza della comparazione in materia penale, già sottolineata nella prima metà del Settecento da L.A. MURATORI, fu certo avvertita dalla dottrina italiana del secolo scorso, come riscontrabile, ad esempio, nel Programma del Carrara, nelle voci del Digesto italiano, nei contributi comparatistici alla Rivista penale di Lucchini (cfr., A. CADOPPI, Dalla Judge-made law al Criminal code, in questa Rivista, 1992, 924 n. 6). In questo secolo, dopo l’eclissi registrata in concomitanza con l’affermarsi dell’indirizzo tecnico-giuridico, i segnali di un ritrovato interesse per la comparazione penale emergono alla fine degli anni Settanta. Si vedano, H.H. JESCHECK, Il significato del diritto comparato per la riforma penale, in questa Rivista, 1978, 803 ss.; P. NUVOLONE, Il diritto penale comparato quale mezzo di ricerca nell’ambito della politica criminale, (1980), in Il diritto penale degli anni settanta, Padova,
— 1259 — tratto davvero caratterizzante gli studi penalistici italiani (2) nell’ultimo decennio — ha, come è noto, portato più volte l’attenzione della dottrina sui sistemi giuridici di common law. Si è cominciato così a colmare un vuoto le cui cause erano varie ed articolate: dalla tradizionale abitudine a trovare riferimenti prioritari nella cultura giuridica tedesca; al disagio per l’assenza, negli ordinamenti anglo-americani, di testi legislativi organici da cui attingere informazioni immediate ed esaurienti sulla fisionomia dei vari istituti o dei reati oggetto di studio (3). Accanto a tali storiche ragioni di incuria, ne vanno poi menzionate altre, per la verità ancor oggi attuali: la percezione che in quegli ordinamenti la trama delle fonti in materia penale continui a nascondere — anche dopo la conversione alla statutory law (4) — mille insidie; il conseguente disorientamento per un panorama normativo che presenta « isole di tecnicismo in un mare di discrezionalità » (5); la difficoltà di capire come scelte legislative e giurisprudenziali decisamente innovative, se non addirittura spregiudicate, possano maturare in un environment giuridico spesso conservatore e tradizionalista (6), ove circola ancora una pletora di formulette che sanno di latinorum (7) e dove rimangono pervicaci (8), nonostante 1982, 171 ss.; C. PEDRAZZI, Apporto della comparazione alle discipline penalistiche, in L’apporto della comparazione alla scienza giuridica, a cura di R. Sacco, Milano, 1980, 179 ss. (2) A differenza che in Italia (v. la nota precedente), una maggiore continuità negli studi di diritto penale comparato si è registrata, ad esempio, in Francia. V. la ricostruzione storica di, J. PRADEL, Droit pénal comparé, Paris, 1995, 13 ss. (3) Per un indagine storica sull’uso delle regulae juris come strumento di sbrigativa e superficiale conoscenza dell’esperienza giuridica, si vedano le sempre suggestive pagine di P. STEIN, Regulae iuris, Cambridge, 1966, spec. 81 ss. (4) In merito alla progressiva avanzata, in ogni ramo del diritto, della legge scritta a scapito del common law, v., per tutti, la meditata analisi di G. CALABRESI, A Common Law for the Age of Statutes, Cambridge, Mass., 1982. Nella dottrina italiana, L. FIORAVANTI, Una storia del diritto americano: ovvero alla ricerca di una tradizione giuridica, in Mater. stor. cult. giur., 1990, 300 s. (5) L. HALL, S. GLUECK, Cases on Criminal Law and its Enforcement, 2d ed., St. Paul, Minn., 1958, p. 3. Nel sistema statunitense — è notissimo — una diffusa e spesso libera discrezionalità (del giudice, del pubblico ministero, della giuria e in generale di tutti i soggetti coinvolti nel sistema della giustizia penale) convive con momenti di esasperante tecnicismo. Un esempio particolarmente significativo di spiccato formalismo può essere rinvenuto nella evoluzione storica dei crimes against property, ossia dei reati contro il patrimonio, sul punto si rinvia a, M. PAPA, Patrimonio (reati contro il) in diritto anglo-americano, in Dig. disc. pen., IX, Torino, 1995, 313 ss. Quanto al tema della discrezionalità, esso risulta essere tra i più attuali nel dibattito della dottrina angloamericana, almeno a partire dal classico studio di K. DAVIS, Discretionary Justice: A Preliminary Inquiry, Baton Rouges, 1969. Da ultimo, Discretion in Criminal Justice, a cura di L. Ohlin e F. Remington, Albany, NY, 1993. In termini più generali, The Uses of Discretion, a cura di K. Hawkins, Oxford, 1992. (6) La generalizzazione contenuta nel testo si giustifica, evidentemente, solo quale giudizio di estrema sintesi. Non sfugge ovviamente la rilevantissima serie di variabili spaziotemporali capaci di modificare, anche sensibilmente, tale valutazione. Difficile negare comunque gli effetti di conservazione e stabilizzazione prodotti, ad esempio, del precedente giudiziario vincolante e dalla teoria che a lungo ha sostenuto la natura c.d. dichiarativa del common law, (in sintesi, cfr., A. GAMBARO, R. SACCO, Sistemi giuridici comparati, Torino, 1996, 120 ss.) In merito al presunto orientamento « classista » del ceto dei giudici in Inghilterra, si veda, per tutti il classico, J.A.G. GRIFFITH, The Politics of the Judiciary4, London 1991, spec. 269 ss. (7) Significativo, in proposito, il sarcastico rilievo di G. FLETCHER, Introduction, in Rechtfertigung und Entschuldigung, Rechtsvergleichende Perspektiven, a cura di A. Eser e G. Fletcher, II, Freiburg, 1988, 798. Parlando della povertà dogmatica della teoria del reato angloamericana, l’A. paragona quest’ultima ad una « stanza vuota, al cui interno non c’è altro che frasi latine: secondo molti tutto l’arredamento intellettuale di cui abbiamo bisogno ». (8) Le cause della secolarizzazione solo parziale del diritto penale anglosassone (per
— 1260 — la tanto proverbiale ispirazione utilitaristica, collegamenti forti, tra diritto penale e morale (9). Alimentati dalla tendenza a banalizzare e distorcere gli ordinamenti di common law nel luogo comune del « diritto non scritto », i fattori menzionati — assieme ad altri che sarebbe alcune riforme del Settecento, v. tuttavia, W. HOLDSWORTH, A History of English Law, XI, London, 1938, 546 ss.) sono più complesse di quanto si potrebbe supporre. D’altro canto, lo stesso concetto di secolarizzazione possiede molteplici sfaccettature (v. L. FERRAIOLI, Diritto e ragione, Teoria del garantismo penale, Bari, 1990, 203 ss.) ed interessa in modo diverso più settori di tutela (M. ROMANO, Secolarizzazione, diritto penale moderno e sistema dei reati, in questa Rivista, 1981, 488 ss). Semplicistico appare dunque attribuire la limitata secolarizzazione alla mancata partecipazione inglese all’esperienza delle codificazioni illuministiche. Se infatti al di là dell’effettiva approvazione di un codice penale, si guarda piuttosto all’ideologia retrostante, il mondo giuridico inglese risulta essere stato pienamente coinvolto dal movimento per la codificazione (S. KADISH, Codifiers of the Criminal Law: Wechsler’s Predecessors, in 78 Columbia L.R., 1978, 1098 ss.; da noi, A. CADOPPI, Dalla judge made law al criminal code, cit., 939 ss.). D’altro canto, è proprio in quell’alveo culturale che nasce, con Hobbes, il « positivismo giuridico », sviluppandosi poi da Bentham e Austin fino alle odierne teorie analitiche (v. M.A. CATTANEO, Il positivismo giuridico inglese. Hobbes, Bentham e Austin, Milano, 1962, spec. 106 ss., 279 ss.). Senza avventurarsi in velleitarie speculazioni di carattere storico, si possono qui evidenziare, come fattori determinanti l’incompleta secolarizzazione: a) la mancata unificazione del potere dello Stato nella figura del Sovrano e dunque l’impossibilità di dare attuazione all’unificazione delle fonti ed all’idea, risalente a Hobbes, secondo cui il diritto scaturisce esclusivamente dai comandi del Sovrano; b) la particolare forza politica, di cui fu dotato, per converso, il pensiero giusnaturalista antipositivista incarnatosi negli apologeti del common law, (Coke, Blackstone, Mansfield) e culminato, nel Seicento, nella vittoria delle corti di common law sul potere regio (per tutti, A. GAMBARO, R. SACCO, Sistemi giuridici comparati, cit, 110 ss.); c) la particolare debolezza politica del positivismo dovuta, oltre che alle cause appena ricordate, all’oscillare tra posizioni di mera speculazione teorica e posizioni politiche ad impronta molto progressista (cfr., M.A. CATTANEO, Positivismo giuridico, in Nss. Dig. it., XIII, Torino, 1968, 318); d) il passaggio, dalla metà del Seicento, della competenza per molti illeciti a sfondo morale-religioso dalle corti ecclesiastiche a quelle di common law (v. W. HOLDSWORTH, op. cit., VIII, 2d ed., London, 1937, 406 ss.). Infine, non si può escludere che lo stesso sviluppo dell’Equity, riconducibile alla « coscienza morale » del Lord Cancelliere e l’attività delle corti regie (pur sconfitte nello scontro con le corti di common law) abbiano condizionato la successiva evoluzione del diritto inglese, contaminandolo di un forte moralismo (v., W. HOLDSWORTH, op. cit., V, 3d ed., London, 1945, 167 ss., 188 ss.): la principale corte di common law (la Court of King’s Bench) dichiarò, ad esempio, alla fine del Seicento, di aver ereditato dalla corte regia di Star Chamber il ruolo di « custos morum » (ID., ivi, VIII, cit., 407 s.). Ma al di là di questi rapidi rilievi, ciò che qui preme notare è che le cause della limitata secolarizzazione del diritto penale inglese, e poi di quello americano pur molto più propenso a codificare, vanno probabilmente cercate anche nelle peculiarità del rapporto funzionale tra diritto e processo tipico di quegli ordinamenti. Un sistema penale sostanziale fortemente intriso di valori etici (apparenti o reali, in fondo poco importa) ben si concilia infatti con il ruolo tradizionale del giudice di common law, con la presenza della giuria, con la discrezionalità dell’azione penale, con una procedura penale eletta quale baricentro delle garanzie formali. (9) Per una consapevole e abbastanza recente celebrazione del legame diritto penalemorale, P. DEVLIN, The Enforcement of Morals, Oxford-New York, 1965 e successive edizioni. In senso diametralmente opposto, H.L.A. HART, Law Liberty and Morality, OxfordNew York, 1963 e successive edizioni. La polemica tra i due autori ha innescato negli ultimi lustri un acceso dibattito sui rapporti tra diritto penale e morale, in merito al quale basterà qui menzionare la monumentale opera di J. FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, voll. I-IV, Oxford, 1984-1988; per una sintesi della problematica, si veda nella manualistica, A. ASHWORTH, Principles of Criminal Law, 2nd ed., Oxford, 1995, 42 ss.. Ulteriori riferimenti in, A. CADOPPI, Moralità e buon costume (delitti contro la) (diritto anglo-americano), in Dig. disc. pen., VIII, 1994, 188 ss.. Sottolineano la particolare importanza del le-
— 1261 — qui un fuor d’opera inventariare — hanno in pratica alienato il diritto penale anglo-americano non solo dalle simpatie della dottrina italiana fedele all’approccio tecnico-giuridico e comunque alla classica metodologia dogmatica, ma anche da quelle degli indirizzi « critici », pur affacciatasi anche nel nostro panorama penalistico a partire dai primi anni Settanta (10). Se la distanza tra la cultura giuridica anglo-americana ed il metodo dogmatico continentale appare intuitiva, neppure deve sorprendere la scarsa frequentazione di quel diritto da parte della dottrina italiana più sensibile ad una valutazione critica della questione criminale. Vuoi per la già menzionata impronta conservatrice e talora eticizzante di quei sistemi [si pensi alla perdurante previsione, almeno sulla carta, di reati quali l’omosessualità, la fornicazione, l’adulterio etc. (11); oppure, nel settore delle sanzioni, alla vitalità della pena di morte (12)]; vuoi per una evidente vetustà delle categorie giuridiche ivi dominanti, il diritto penale sostanziale anglo-americano non ha mai esercitato, in Italia, un fascino paragonabile a quello del modello processuale adversary (13) ovvero, nel campo delle scienze criminali, a quello della « criminologia radicale ». Tale povertà di carisma non è rimasta, peraltro, priva di conseguenze: ci si può chiedere — ad esempio — se la rilevata « difficoltà di comunicazione » tra le « ipotesi di avanguardia [...] in campo giuridico » avanzate in Italia negli anni Settanta e la contemporanea accumulazione, sempre in Italia, di un « sapere criminologico e socio-giuridico [...] in gran parte importato da culture di lingua inglese [...] » (14) non derivasse, in fondo, proprio dalla mancanza di un collegamento, tra quei due campi, realizzato attraverso la dimensione tecniconormativa della comparazione giuridica, dimensione rispetto alla quale lo studio del diritto penale sostanziale anglo-americano risultava assolutamente propedeutico. Si tratta comunque di considerazioni che non possono essere qui approfondite. Ciò che preme rilevare, soffermandoci piuttosto sulle fasi successive dell’evoluzione, è come la recente « riscoperta » del diritto penale comparato, ed in particolare dei sistemi di common law (15), abbia, in Italia, dato origine, almeno inizialmente, ad « indagini di taglio settoriale, volte a porre in confronto tra loro singoli istituti o categorie giuridiche [...] senza tuttavia preoccuparsi di inquadrarli in una visione d’insieme dedicata all’analisi dei principi generali del sistema penale vigente in un determinato ordinamento » (16). game tra diritto penale e morale nel sistema scozzese, A. CADOPPI, A. MCCALL SMITH, Diritto penale scozzese, Padova, 1995, 13. (10) Si pensi, ad esempio, al filone di studi raccolto dalla rivista La questione criminale, diretta da F. Bricola e A. Baratta. (11) Accurata, in proposito, la disamina di, A. CADOPPI, Moralità e buon costume (delitti contro la) (diritto anglo-americano), cit., 189 ss. V. anche retro, nota 8. (12) Per un aggiornato resoconto sullo stato della questione, Punishment and the Death Penalty, a cura di R. Baird, S. Rosembaum, Amberst, N.Y., 1995, spec. 95 ss.; W. WHITE, The Death Penalty in the Nineties. An Examination of the Modern System of Capital Punishment, Ann Arbour, 1991. (13) La fortuna di cui ha goduto in Italia la procedura penale anglo-americana e la contemporanea sfortuna del diritto penale sostanziale non sono prive di significativi collegamenti. Già G. RADBRUCH, Der Geist des englischen Rechts (1946), trad. it. dell’ed. 1958, Lo spirito del diritto inglese, Milano 1962, 54) notando come « il diritto penale inglese dei nostri giorni, e specialmente la dottrina della colpevolezza, sembrano essersi fermati ad un grado di sviluppo, che nella storia continentale appartiene al passato », rilevava nel contempo che « [c]iò che al giurista del continente sembra una arretratezza del diritto penale inglese, riposa in gran parte proprio sui riconosciuti meriti della procedura penale ». (14) D. MELOSSI, Il penalista, il sociologo e la costituzione, in Sociologia del dir., 1995, 148 s. (15) Sulla comparazione civil law-common law come comparazione per eccellenza, G. GORLA, Diritto comparato, in Enc dir., XII, 1963, 934. (16) G.A. DE FRANCESCO, Nuove frontiere negli studi di diritto comparato, (In margine ad un recente volume sui principi generali del sistema penale inglese), in Giur. it.,
— 1262 — Solo nei tempi più recenti è maturato — sia per quanto riguarda in generale la comparazione penalistica che in particolare quella relativa ai sistemi angloamericani — anche un diverso approccio (17), scaturito non solo nella comparsa di veri e propri manuali di diritto penale straniero (18), ma anche nella elaborazione di monografie (19), saggi (20) e persino recensioni (21) di taglio originariamente comparatistico. Si è fatta insomma strada l’idea che il ricorso alla comparazione, in particolare alla comparazione con i sistemi di common law, possa offrire ben di più che un limitato strumento per effettuare pur utili digressioni nello studio di singoli istituti del nostro diritto penale. L’analisi comparata consente piuttosto di comprendere, nel loro complesso, altri sistemi giuridici. Non solo per curiosità, quantunque la curiosità basti di solito a legittimare molte branche del sapere umano (22); quanto piuttosto allo scopo di poter arrivare, tramite lo studio di ordinamenti diversi, ad una conoscenza più approfondita dei principi, delle categorie generali, dei reali meccanismi di attribuzione della responsabilità penale (23). 1994, IV, 3 (dell’estratto). V. anche A. CADOPPI, Recensione del volume di S. Vinciguerra, Introduzione allo studio del diritto penale inglese, in questa Rivista, 1993, 333. (17) L’importanza di tale indirizzo viene particolarmente sottolineano dagli autori citati nella nota precedente. (18) Limitandosi all’area anglosassone, S. VINCIGUERRA, Introduzione allo studio del diritto penale inglese. I princìpi, Padova, 1992 e A. CADOPPI, A. MCCALL SMITH, Diritto penale scozzese, cit., già preceduti dalla traduzione italiana del volume Substantive Criminal Law di, M.C. BASSIOUNI (Diritto penale degli Stati Uniti d’America, Milano, 1985). (19) Ad esempio, E. GRANDE, Accordo criminoso e conspiracy. Tipicità e stretta legalità nell’analisi comparata, Padova, 1993, e da ultimo, G. MANNOZZI, Razionalità e « giustizia » nella commisurazione della pena, Il Just Desert Model e la riforma del Sentencing nordamericano, Padova, 1996. (20) Tra i molti lavori pare qui opportuno menzionare tre saggi in cui l’analisi comparata è strettamente funzionale all’approfondimento di temi generali del diritto penale e della politica criminale: G. MARINUCCI, E. DOLCINI, Note sul metodo della codificazione penale, in questa Rivista, 1992, 385 ss.; A. CADOPPI, Dalla judge made law, cit., 923 ss.; V. MILITELLO, Il diritto penale nel tempo della « ricodificazione », ivi, 758 ss. (21) Si allude qui al lavoro di G.A. DE FRANCESCO, citato supra n. 16. Il genere letterario della recensione offre all’A. lo spunto per elaborare una sintesi efficacissima dell’intero diritto penale inglese. (22) R. SACCO, Legal Formants: A Dynamic Approach To Comparative Law, in 39 American J. of Comparative L., 1991, 1: « Se si chiede ad un astronomo quali sono i fini dell’astronomia, egli risponderà probabilmente in un modo che ripete la domanda stessa. Il fine è la conoscenza della natura e del movimento delle stelle. Tale risposta è perfettamente appropriata. Il fine della scienza è soddisfare il bisogno di conoscenza che è caratteristico dell’uomo ». V. anche ID., Introduzione al diritto comparato, 4a ed., Torino, 1990, 7 ss.; sostanzialmente nello stesso senso già G. GORLA, Diritto comparato, cit., 930 ss. (« gli interessi immediati del comparatista sono interessi di conoscenza pura », ivi, 933) il quale individua anche una serie di fini mediati della scienza comparatistica (ad esempio, l’uniformizzazione dei diritti). Tali fini ulteriori non vengono peraltro misconosciuti dalla dottrina sopra menzionata, la quale tiene tuttavia a ribadire che « la comparazione rimane scienza anche se questi risultati fanno difetto », A. GAMBARO, R. SACCO, P.G. MONATERI, Comparazione giuridica, in Dig. disc. priv., sez. civ., III, Torino, 1988, 52. Per una sintesi dell’annoso dibattito sui fini della scienza comparatistica, per tutti, il classico, O. KAHN-FREUND, On Uses and Misuses of Comparative Law, in 37 Modern L.R., 1974, 1 ss.; nella manualistica, H. ZWEIGERT, H. K⁄TZ, Introduzione al diritto comparato, I, Principi fondamentali, 16 ss. In merito alla comparazione giuridica come scienza priva di immediati fini pratici, si vedano anche i classici, P. LEPAULLE, The Function of Comparative Law, in 35 Harvard L.R., 1922, 852 ss.; M. SCHMITTHOFF, The Science of Comparative Law, in 7 Cambridge L.J., 1939, 94 ss. (23) Non è un caso che l’interesse per la comparazione giuridica, intesa quale metodo euristico puro (v. retro n. 22), privo cioè di immediati fini pratici (come, ad esempio, la formulazione di proposte de jure condendo) sia fortissimo proprio nel pensiero giuridico di impronta « realista ». La comparazione pura, al pari della sociologia, è infatti una strumento
— 1263 — Il presente lavoro tenta di collocarsi idealmente in quest’ultima prospettiva metodologica. L’indagine prende le mosse dalla parte speciale del diritto federale statunitense ed ha come immediato oggetto di studio una particolare figura d’illecito, denominata « mail fraud » (lett. frode postale). La scelta di affrontare un tema della parte speciale nasce proprio dall’esigenza di andare oltre lo studio astratto delle « corrispondenze metaforiche » tra istituti del nostro diritto e istituti del diritto straniero. A tale possibilità viene qui preferita un’indagine « a tutto tondo » sulle condizioni in presenza delle quali scattano concretamente, cioè rispetto ad una particolare figura di illecito, i meccanismi di attribuzione della responsabilità penale. Come talora accade, l’analisi microscopica finisce tuttavia per schiudere orizzonti molto più vasti. Non solo perché lo studio della parte speciale coinvolge inevitabilmente quello del « software » che ne consente l’applicazione (24) (principi, parte generale, ed altri c.d. « formanti »): nel nostro caso, la necessità di procedere ad un’ampia ricognizione dei molteplici fattori che condizionano la concreta attribuzione della responsabilità penale è sollecitata proprio dal volto camaleontico della figura d’illecito qui oggetto di esame. 2. Il peculiare illecito di mail fraud come terreno per un’analisi dei meccanismi di ascrizione della responsabilità penale nel sistema statunitense. — La singolarità del reato di mail fraud e la sua attitudine a dar luogo a qualche considerazione più generale rispetto alla mera esegesi della relativa fattispecie legale si colgono con immediatezza leggendone la presentazione in uno dei più noti saggi sull’argomento, elaborato all’inizio degli anni Ottanta da J. Rakoff, già federal prosecutor (25) ed autorevole studioso di white collar’s crimes: « Per [noi] prosecutors federali [...] il reato di mail fraud è lo Stradivari, la Colt 45, [...] l’unico vero amore. Possiamo flirtare con RICO, farci vedere in giro con 10b-5 e chiamare « darling » la conspiracy, ma alla fine torniamo sempre a casa, dalla virtuosa fattispecie di mail fraud, per ritrovare la sua semplicità, la sua flessibilità, la sua comoda familiarità » (26). Che una simile predilezione dei prosecutors federali possa riguardare un reato la traduzione del cui nomen juris è « frode postale » è certamente un dato, a prima vista, sconcertante: non solo per l’assoluta marginalità, nel nostro sistema penale, degli illeciti evocati da una simile espressione linguistica. Ma anche perché, volendo proseguire la metafora, se il reato di frode postale è davvero l’« unico vero amore » dei pubblici ministeri federali, si deve supporre che l’affaire gradisca una particolare riservatezza: mail fraud è, infatti, un illecito il cui volto e la cui stessa esistenza sono pressoché sconosciuti fuori dagli Stati Uniti. insostituibile per svelare le effettive dimensioni del fenomeno giuridico, superando lo schermo delle norme cartacee, sul punto, K. ZWEIGERT, K. SIEHR, Jhering’s Influence on the Development of Comparative Legal Method, in 19 American J. of Comparative L., 1971, 215 ss. (24) Per alcuni rilievi in merito alla trama di collegamenti che determina il concreto funzionamento della parte speciale del diritto penale nel sistema nordamericano, rinviamo a, M. PAPA, Patrimonio (reati contro il) in diritto anglo-americano, cit., 309 ss. (25) In particolare negli anni Settanta, capo della sezione per le Business Fraud Prosecutions presso la « procura federale » del Southern District di New York. (26) J. RAKOFF, The Federal Mail Fraud Statute, part. I, in 18 Duquesne L.R., 1980, 771. La citazione originale è qui riportata, tralasciando ulteriori colorite metafore poco significative per il lettore italiano. Quanto ai riferimenti, può essere sin d’ora utile segnalare che R.I.C.O. è l’acronimo del Racketeering Influenced and Corrupt Organizations Act (confluito per la parte penale sostanziale nei §§ 1961-1968 Title 18, U.S. Code), potente strumento di controllo della criminalità organizzata. 10 b-5 è l’espressione convenzionale per indicare la fattispecie del § 240.10 b-5 del Title 17 del Code of Federal Regulations, relativa all’uso di espedienti fraudolenti nell’acquisto o nella vendita di titoli. Infine, l’accostamento del termine « darling » alla fattispecie di conspiracy deriva dall’ormai proverbiale frase del giudice Learned Hand secondo cui tale figura giuridica sarebbe « the darling of the modern prosecutor’s nursery ». In merito a tali reati si veda, infra, § 6.
— 1264 — Tali considerazioni potrebbero da sole giustificare un’analisi particolare del fenomeno: com’è possibile che negli Stati Uniti si commetta così di frequente un reato di cui, viceversa, non c’è traccia nei nostri certificati penali, se non addirittura nelle nostre leggi? Come è possibile che tale misteriosa fattispecie sia addirittura, secondo una realistica, anche se critica, ricostruzione della dottrina nordamericana: « ciò che Archimede aveva a lungo cercato: il singolo punto d’appoggio da cui si può sollevare il mondo » (27)? Vediamo dunque, subito, nelle sue parti essenziali, il testo della norma incriminatrice in questione. In base al § 1341, Title 18, U.S. Code: « Chiunque, avendo escogitato o intendendo escogitare un piano o un artificio diretto a frodare, ovvero ad ottenere denaro o cose attraverso una falsa o fraudolenta rappresentazione o promessa [...] colloca in un qualsiasi ufficio postale o in un contenitore di raccolta autorizzato, al fine di dare o di tentare di dare esecuzione a tale piano o artificio, un qualsiasi oggetto affinché questo sia spedito o consegnato dal Servizio Postale [...] o da un corriere privato o commerciale interstatale, oppure lo prende o lo riceve [...] o consapevolmente causa che lo stesso sia inviato per posta o per [...] corriere [...] è punito con la pena pecuniaria fino a 1000 dollari (28) o con la reclusione fino a 5 anni (29) o con entrambe. Nel caso il reato colpisca una istituzione (27) J. COFFEE, The Metastasis of Mail Fraud: the Continuing Story of the « Evolution » of a White-Collar Crime, in 21 American Criminal L.R., 1983, 3. (28) In merito all’entità della sanzione pecuniaria, occorre ricordare la disposizione di carattere generale introdotta nel 1984 dal Comprehensive Crime Control Act ed inserita nel § 3623 del Title 18 U.S. Code. In base a tale norma la pena pecuniaria per qualsiasi reato può essere innalzata sino alla misura maggiore tra le seguenti: 1) la pena edittale prevista dalla particolare fattispecie; 2) 250.000 dollari per le persone fisiche e 500.000 per le persone giuridiche; 3) il doppio del profitto lordo realizzato dell’imputato o il doppio delle perdite lorde accusate dalla vittima. Anche la quantificazione della pena pecuniaria è peraltro sottoposta ai rigidi criteri di commisurazione previsti dalle U.S. Sentencing Guidelines (in particolare, dal 5E4.2, ed. 1995, d’ora in avanti qui abbreviate come U.S.S.G.). In generale sulle Guidelines federali, v., G. MANNOZZI, Razionalità e « giustizia » nella commisurazione della pena, cit., 279 ss. (29) Per una indicazione circa le condanne e le pene comminate v. infra n. 43. Anche la quantificazione della pena detentiva irrogabile per mail fraud è oggi disciplinata dalle U.S. Sentencing Guidelines. In base al 2F1.1 U.S.S.G., per i reati di frode — l’indicazione, si badi, è generica e non riguarda solo mail fraud — la pena detentiva parte da un livello base 6. Ciò implica l’applicabilità di una pena che, in relazione alle caratteristiche dell’agente e passando attraverso altre quattro fascie intermedie, può essere determinata all’interno di griglie cha vanno da 0-6 a 12-18 mesi. In presenza di una serie di circostanze, relative soprattutto (ma non solo) al valore del danno economico prodotto, la pena detentiva per reati di frode può, tuttavia, agevolmente aumentare anche di 18 livelli arrivando dunque ad una ammontare tabellare di livello 24, il che comporta griglie da 51-63 mesi a 100-125 mesi. Per determinare la pena concretamente irrogata, occorre tuttavia tenere in conto non solo i fattori di aggravamento previsti dalla specifica guideline per reati di frode, appena citata, ma anche quelli di carattere generale, ad esempio, quello del 3A1.1, relativo alla presenza di una « vulnerable victim ». Non bisogna poi mai dimenticare che le guidelines non possono determinare un travalicamento dei limiti edittali stabiliti dalla singola fattispecie incriminatrice [v. 5 G.1.1 (a) U.S.S.G.]: dunque un massimo di cinque anni di detenzione nel caso di mail fraud « semplice » e di trenta nel caso la frode colpisca una istituzione finanziaria. È di estremo interesse notare che, quando il reato di mail fraud è usato strumentalmente per attrarre nella competenza federale un reato ivi non previsto (ad esempio, l’incendio) è possibile fare ricorso, alternativamente, o alle guidelines per mail fraud (cui si è appena accennato) oppure a quelle previste per il reato federale più simile all’illecito che realmente si voleva perseguire (cfr. United States Guideline Manual, 1995, Washington, 1995, Commentary sub § 2F1.1., punto 13).
— 1265 — finanziaria, si applicherà la pena pecuniaria fino a 1.000.000 di dollari o la reclusione fino a 30 anni o entrambe » (30). Benché la lettura della fattispecie — assai faticosa anche nella sintesi qui proposta — consenta già qualche considerazione circa l’estrema ampiezza dell’area di illiceità ritagliata, i dati linguistici riportati non sono evidentemente in grado di spiegare neppure in parte l’esuberanza retorica con cui tale figura d’illecito viene presentata. D’altro canto, ciò non fa che confermare le buone ragioni metodologiche che sconsigliano analisi comparatistiche limitate al testo legale e chiuse nell’orizzonte della singola fattispecie. L’indicazione pare preziosa soprattutto rispetto alla parte speciale del diritto penale, ove potrebbe essere forte, per l’influenza del principio di legalità, la tentazione di aggrapparsi ai dati linguistici, ritenendo che gli stessi costituiscano — anche nella comparazione — dei « fattori primi » insuscettibili di essere scomposti e convertiti in « qualcosa di equivalente ». La fedeltà al dato positivo nasce da uno scrupolo del tutto condivisibile, la fondatezza del quale non fa che confermare le difficoltà dell’analisi comparatistica relativa a singole fattispecie incriminatrici: l’indagine pare, infatti, stretta fatalmente tra la ricerca dell’aspetto funzionalistico delle norme — aspetto che rappresenta il fondamento più saldo per instaurare rapporti di comparazione (31), ma che il testo non sempre può esprimere — e l’impossibilità di abbandonare la lettera della legge. Nel nostro caso, la strettoia è, per fortuna, meno angusta del solito: la fattispecie di mail fraud riceve infatti una così ricca interpretazione giurisprudenziale da proiettarsi, immediatamente e da sola, ben oltre i confini dei dati linguistici ostesi dal diritto positivo. Tale riscontro, unito alla preoccupazione di cogliere nella fattispecie in esame (ed in altre analoghe che si menzioneranno) qualche spunto di carattere più generale, induce allora ad indirizzare subito l’indagine oltre il testo della norma, secondo le seguenti linee di approfondimento. Nella prima parte del lavoro, dopo aver premesso qualche cenno generale sulla fisionomia complessiva del diritto penale federale statunitense, cenno necessario per avvertire il lettore che le peculiarità del reato in esame traggono la loro origine anche dalla natura dell’ordinamento giuridico di appartenenza, procederemo ad esaminare il « volto reale » dell’illecito di mail fraud così come determinatosi nel diritto vivente nordamericano. L’indagine di parte speciale proseguirà quindi con una breve ricognizione attorno ad altre figure di illecito che rappresentano, a nostro avviso, espressioni di un analogo, anche se non sempre identico, modo di costruire la responsabilità penale. Tale prospettiva di analisi è suggerita proprio dalla citazione riportata in apertura, in particolare, dalla indicazione delle altre fattispecie predilette dai prosecutors federali statunitensi; può riproporsi qui, sia pure in scala minore, la sorpresa ed il disorientamento suscitati dall’estrema importanza attribuita alla « frode po(30) Il testo completo della norma, così come modificato da ultimo nel settembre 1994, è il seguente: « Whoever, having devised or intending to devise any scheme or artifice to defraud, or for obtaining money or property by means of false or fraudulent pretenses, representations, or promises, or to sell, dispose of, loan, exchange, alter, give away, distribute, supply, or furnish or procure for unlawful use any counterfeit or spurious coin, obligation, security, or other article, or anything represented to be or intimated or held out to be such counterfeit or spurious article, for the purpose of executing such scheme or artifice or attempting so to do, places in any post office or authorized depository for mail, any matter or thing whatever to be sent or delivered by the Postal Service or deposits or causes to be deposited any matter or thing whatever to be sent or delivered by any private or commercial interstate carrier, or takes or receives therefrom any such matter or thing, or knowingly causes to be delivered by mail or such carrier according to the direction thereon, or at the place at which it is directed to be delivered by the person to whom it is addressed any such matter or thing, shall be fined not more than $ 1, 000 or imprisoned not more than five years, or both. If the violation affects a financial institution, such person shall be fined not more than $ 1, 000, 000 or imprisoned not more than 30 years, or both ». (31) H. ZWEIGERT, H. KOTZ, Introduzione al diritto comparato, I, cit., 36 ss.
— 1266 — stale »: « RICO, 10b-5, conspiracy », in cosa consistono tali reati? Più radicalmente, ci si può chiedere come avvenga che le più significative categorie d’illecito operanti nel sistema penale (sia pure federale) di un Paese da cui, sul piano culturale, molto importiamo prevedano tipologie offensive la cui fisionomia neppure riusciamo a immaginare. Ma oltre che per i numerosi profili d’interesse — qui non affrontabili — legati all’applicazione di tali ulteriori figure d’illecito, lo studio di alcuni reati federali, ed in primis di mail fraud, può essere interessante — come già si accennava — anche da un punto di vista più generale. Nella seconda parte del presente lavoro si cercherà dunque di approfondire l’analisi dei meccanismi che governano l’applicazione di questi illeciti; si giungerà così ad ipotizzare l’esistenza, nel sistema statunitense, di un modo assai peculiare di configurare i « presupposti effettivi » della responsabilità penale. Al di là dell’oggettiva curiosità per il fenomeno particolare della « frode postale », tale modo di costruire l’ascrizione della responsabilità penale risulta di straordinario interesse. Il primo dato peculiare è costituito infatti dalla estrema ampiezza del campo di (teorica) illiceità tracciato dalle fattispecie astratte, anche alla luce dell’interpretazione particolarmente creatrice della giurisprudenza. A prescindere dai problemi di legalità-determinatezza ed offensività, sarà possibile, in proposito, constatare subito come tale ampio terreno non coincida tuttavia affatto con l’area di effettiva attribuzione della responsabilità penale, non essendovi alcun rapporto di necessaria implicazione tra l’astratta illiceità di un fatto, da un lato, e dall’altro il riconoscimento, nella prassi, di una « significatività » davvero capace di condurre all’attribuzione della responsabilità e poi, eventualmente, all’applicazione di una pena criminale. Volgendosi quindi al « momento applicativo », quale luogo ove rintracciare, per così dire, i « reali » presupposti della responsabilità penale, si avrà modo di constatare come lo stesso concetto di « diritto giurisprudenziale » meriti, alla luce dell’esperienza penalistica statunitense, un deciso ampliamento atto a comprendere qualcosa di più che i soli testi prodotti dagli organi giurisdizionali di grado superiore. Di qui, innanzitutto, la necessità di occuparsi anche delle decisioni di « primo grado », caratterizzate, da un lato dalla presenza della giuria popolare quale organo giudicante, dall’altro dalla mancata esposizione scritta dei motivi della decisione. Tuttavia, anche questo ampliamento d’orizzonte non basta: far coincidere il « momento applicativo » con il « diritto giurisprudenziale » espresso « ufficialmente » nelle sentenze, comporta infatti il rischio di aprire una discrasia con la prassi assai più ampia di quella esistente tra la prassi stessa e la dogmatica più rarefatta, alla quale, almeno, accade talora davvero di essere « quo magis speculativa, magis pratica ». Senza addentrarsi per ora nell’argomento, basti pensare, con riferimento agli Stati Uniti, al ruolo quantitativamente marginale delle pronunce giurisdizionali rispetto all’insieme delle tecniche di selezione penale (selective enforcement), da un lato, e di risoluzione negoziale dei procedimenti penali (plea bargaining), dall’altro. Sottoponendo, allora ad una decisa dilatazione⁄integrazione l’angusto concetto di « diritto giurisprudenziale » sarà inevitabile aprire una finestra ben più ampia sul mondo della prassi. Attraverso tale finestra potremo scorgere un articolato sistema di « fonti », formali e sostanziali, la cui complessità risulterebbe invisibile non solo nel caso lo studio si fermasse all’esegesi della sola legge positiva, ma anche — ripetiamo — laddove la prospettiva « realista » si limitasse a suggerire una « ricognizione della prassi » riduttivamente circoscritta ai soli testi ufficiali prodotti dalla giurisprudenza di grado superiore. 3. Cenni sulle caratteristiche generali dell’ordinamento federale statunitense e sulla struttura delle fattispecie incriminatrici ivi previste. — Come si accennava sopra, allo scopo di contestualizzare la nostra indagine, conviene prendere le mosse da una molto sommaria descrizione dell’ordinamento penale federale statunitense, ricordandone subito i tratti più significativi ed evidenziando quindi le peculiari caratteristiche di struttura dei reati ivi contemplati. Poiché — è noto — il generale potere legislativo in campo penale spetta, negli USA, ai singoli Stati, gli interventi del Congresso, solitamente settoriali e disorganici, risultano con-
— 1267 — dizionati, tanto nella materia regolata quanto nella tecnica di tutela, dalla limitata competenza attribuita dalla Costituzione al legislatore penale federale (32). Il X emendamento del Bill of Rights regola infatti con chiarezza la ripartizione di competenza tra ordinamento federale e singoli Stati, stabilendo che « i poteri non delegati dalla Costituzione agli Stati Uniti (cioè all’Unione), o da essa non vietati, sono riservati ai rispettivi Stati, ovvero al popolo ». Per individuare l’ambito della giurisdizione federale in materia penale, occorre dunque far riferimento all’art. I sect. 8 della Costituzione statunitense, dove sono elencate le materie attribuite al potere legislativo federale, i c.d. enumerated powers. All’interno di tali enumerated powers, vengono espressamente richiamati poteri di legislazione penale solo in quattro casi molto particolari (33). Tuttavia, a chiusura dell’elenco relativo ai menzionati enumerated powers vi è una disposizione che prevede la facoltà del Congresso di emanare « tutte le leggi necessarie e adatte (necessary and proper) per l’esercizio dei poteri di cui sopra » (cioè per l’esercizio di tutti gli enumerated powers) e « di tutti gli altri poteri di cui la Costituzione investe il Governo degli Stati Uniti, i suoi ministeri ed uffici ». In base a tale disposizione di chiusura, denominata « necessary and proper clause », il legislatore federale può così estendere la propria giurisdizione ben oltre le quattro ipotesi di enumerated powers specificamente attributivi di competenza penale. Il Congresso può infatti emanare ogni norma penale ritenuta « necessaria e propria » per un’efficace regolamentazione di tutte le materie (come si diceva: anche non penali) di sua competenza. In altre parole, il potere di legiferare attraverso norme penali risulta coinvolgere tutte le materie degli enumerated powers e non soltanto le quattro ipotesi — sopra ricordate — in cui si fa espresso riferimento alla possibilità di emanare criminal statutes. Tra gli enumerated powers diversi dai quattro ricordati, quello più sovente invocato a fondamento della legislazione penale federale è il potere di « regolare il commercio tra stati » (34). Di grande rilievo sono an(32) Sulla complessa questione, si vedano, per tutti, N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, 2nd ed., St. Paul, Minn., 1993, 16 ss.; W. LAFAVE, A. SCOTT, Substantive Criminal Law, I, St. Paul, Minn., 1986, 164 s.; H. FRIENDLY, Federal Jurisdiction: An Overview, New York, 1973. Nella letteratura italiana, esaurientemente, V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, Torino, 1987, 11 ss.; G. NEPPI MODONA, Giudice penale americano, in Dig. disc. pen., V, Torino, 1991, 462 ss., nonché, M.C. BASSIOUNI, S. CUNNIGHAM, Il sistema giudiziario, in Il processo penale negli Stati Uniti d’America, a cura di E. Amodio e M.C. Bassiouni, Milano, 1988, 3 ss. (33) Si tratta delle seguenti materie: a) contraffazione di titoli e monete; b) repressione della pirateria; c) reati compiuti in alto mare; d) crimini contro il diritto delle genti. (34) La legislazione penale federale fondata sulla « commerce clause » ha spesso fatto riferimento — forzando decisamente la nozione di « commercio tra Stati » — non tanto alla diretta lesività per il commercio tra Stati, ma anche ad una qualsiasi relazione tra la condotta criminosa e l’attraversamento della frontiera tra Stati dell’Unione da parte di persone o di cose. Le decisioni della Corte Suprema che hanno posto le premesse costituzionali per tale tecnica legislativa risalgono all’inizio di questo secolo, Champion v. Ames, 188 U.S. 321 (1903) e Hoke v. United States, 227 U.S. 308 (1913). Come si vedrà oltre nel testo, quando lo scopo ultimo della norma incriminatrice sovrastatuale è quello di dotare il prosecutor federale del potere di perseguire — strumentalizzando una presunta lesione dell’interstate commerce — anche i reati comuni ( la cui competenza spetterebbe ai singoli Stati), la tecnica legislativa in questione produce risultati assai peculiari. In pratica l’elemento centrale della fattispecie (il trasporto in interstate commerce) assume un ruolo del tutto marginale, mentre la condotta aggressiva « comune », condotta che appare a margine della fattispecie, costituisce la vera ragione per cui la norma viene invocata e poi applicata. Il superamento di tali profili di irrazionalità e di arbitrio potrebbe avvenire tramite lo sviluppo di un’orientamento giurisprudenziale della Corte Suprema federale noto come Perez doctrine [Perez v. United States, 402 U.S. 146 (1971)], orientamento secondo il quale il legislatore federale ben potrebbe decrivere direttamente la condotta lesiva che intende vietare, anche omettendo un diretto riferimento alla lesione dell’interstate commerce. Basterebbe che la classe di condotte enucleata fosse, generalmente considerata, offensiva di tale bene (v., N. ABRAMS, S.
— 1268 — che, il potere di regolare la materia fiscale (35) e, soprattutto per ciò che qui interessa, quella dei servizi postali. Illustrato sommariamente il quadro costituzionale, e passando ora ad esaminare più da vicino la struttura dei reati federali, si può rilevare che tale « sistema » (36) contempla, nella maggior parte dei casi, fattispecie al cui interno sono distinguibili due ordini di elementi (37): da un lato, c’è il c.d. « substantive element », cioè la condotta tipica attraverso la quale prende corpo il reato nella sua forma, diremmo, « comune » (omicidio, rapina, violenza carnale etc.). Dall’altro lato, le norme incriminatrici contemplano il c.d. « jurisdictional element », cioè l’indicazione legale attraverso cui risulta espresso il legame tra la condotta offensiva « comune » e l’area di rilievo federale che giustifica, appunto, l’intervento sovrastatuale (ad esempio, la circostanza che la vittima dei reati sopramenzionati sia un pubblico ufficiale federale). Nel corso dell’ultimo secolo, per una serie di ragioni che in questa sede non possono essere approfondite, ma che in parte sono intuitive, si è manifestata una crescente tendenza del legislatore, ed in genere dell’apparato federale (38), ad occupare, nel campo della giustizia penale, spazi ben più ampi di quelli originariamente attribuitigli dalla Costituzione (39). Ha così avuto luogo un intervento sempre più incisivo nella repressione di numerose tipologie d’illecito solitamente assoggettate alla giurisdizione del singoli Stati (fenomeno denominato « federalization of crime ») (40). Dati i vincoli costituzionali, la menzionata tendenza espansiva non si è manifestata tuttavia in modo espresso e palese. Piuttosto, essa ha preso corpo attraverso la creazione legislativa di peculiari modelli d’illecito, la cui struttura si differenzia nettamente dalle tradizionali figure di reato che duplicavano, con l’aggiunta di alcuni requisiti « speciali », alcuni tra i tradizionali reati comuni. Sia per la natura indeterminata delle SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 25 ss., 35 s.) Ritenendo legittima tale tecnica normativa, la Corte suprema ha, in definitiva, tradotto il limite di materia imposto dalla Costituzione al legislatore federale nell’obbligo che il reato federale risulti in astratto, cioè per « classi di azioni », lesivo di un interesse federale. (35) È curioso notare come il taxing power offrisse, fino alla riforma del 1970, un fondamento costituzionale anche alla legislazione federale in materia di stupefacenti. Successivamente, questa ha fatto riferimento, nei modi cui si è accennato alla nota precedente, al « commerce power ». (36) Il « sistema » dei reati federali è in realtà assai poco sistematico. I vari illeciti penali sono infatti disseminati nei molteplici Titles del vastissimo U.S. Code, contenente tutta la legislazione federale. Anche il Title 18, quello espressamente dedicato alla materia penale, presenta una elencazione dei reati secondo l’ordine alfabetico. Sulle difficoltà di una riforma organico-sistematica della legislazione penale federale, R. GAINER, Report to the Attorney General on Federal Criminal Code Reform, in 1 Criminal L. Forum, 1989, 99 ss.; L. SCHWARTZ, Reform of the Federal Criminal Laws: Issues, Tactics, and Prospects, in 41 Law and Contemporary Problems, 1977 1 ss. (37) J. RAKOFF, The Federal Mail fraud Statute, cit., 773 s. (38) Accanto all’attività legislativa, ed anzi prima di questa, va segnalata la nascita, a partire dalla fine degli anni Venti (specie con l’inizio della presidenza di Herbert Hoover), di una « forte » politica criminale federale, saldamente diretta dagli organi amministrativi centrali e tendente a caricarsi di ruoli di controllo sociale prima sconosciuti ed impensabili. Si veda, in argomento, J. CALDER, The Origins of Federal Crime Control Policy, Westport, 1993, 7 ss. e passim. (39) Per tutti, N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 43 ss.; ID., Federal Criminal Law Enforcement, cit., 779 ss. Si veda anche, G. NEPPI MODONA, Giudice penale americano, cit., 463 s. (40) Il tema è fra quelli di più scottante attualità nel dibattito penalistico statunitense. Da ultimo, P. HENNING, Statutory Interpretation and the Federization of the Criminal Law, in 86 J. of Criminal L. and Criminology 1996, 1167 ss.; nonché, K. BRICKEY, Criminal Mischief: The Federization of American Criminal Law, in 46 Hastings L.J., 1995, 1135 ss.; S. SUN BEALE, Too Many and Yet Too Few: New Principles to Define the Proper Limits for Federal Criminal Jurisdiction, ivi, 979 ss.
— 1269 — fattispecie, sia perché, evidentemente, le sottostanti esigenze di tutela risultavano ampiamente condivise nella prassi, questi particolari reati federali sono stati peraltro oggetto di un ulteriore potenziamento attraverso l’interpretazione dei diversi soggetti istituzionali operanti nel campo della giustizia penale federale, prima tra questi, ma come si vedrà non sola, la giurisprudenza. Senza scendere qui in dettagli, e senza anticipare quanto si dirà oltre, pare opportuno segnalare che tali nuovi illeciti paiono ispirati a tre diversi modelli. In una prima serie di ipotesi il legislatore ha provato a fornire una definizione del tipo di attività illecita oggetto dell’intervento repressivo, inserendo poi nella fattispecie un jurisdictional element idoneo a garantire la costituzionalità dell’intervento federale (così, ad esempio, nella legislazione RICO, diretta contro la criminalità organizzata, si definiscono le attività illecite connesse ad una « impresa », prevedendo che le stesse coinvolgano l’interstate commerce). In un secondo ordine di casi, si è tentato, invece, di porre in primo piano il requisito di rilevanza federale quale vero e proprio interesse sovrastatuale meritevole di autonoma tutela, individuando classi di condotte astrattamente idonee a ledere tale interesse (41). In terzo luogo, è il caso, ad esempio, della frode postale, si sono costruite infine norme incriminatrici nelle quali la condotta consiste in una attività del tutto lecita, ma di sicura rilevanza federale (l’uso della posta), mentre il contenuto realmente offensivo dell’illecito (lo schema fraudolento) si dissolve sul piano del dolo specifico dell’agente (42). Benché la sommaria ricognizione appena effettuata renda chiara la peculiarità del quadro costituzionale in cui maturano e vivono le menzionate figure d’illecito, la relativa problematica riveste un interesse che va ben oltre lo studio specialistico dei rapporti tra potere federale e potere locale negli Stati Uniti. A parte le considerazioni che seguiranno in merito ai rapporti tra presupposti legali e prassi applicative (ed all’interesse che tali rapporti presentano in generale per lo studio dei meccanismi di concreta ascrizione della responsabilità penale), non sfugge come le menzionate peculiarità costituzionali possano rimanere del tutto in secondo piano laddove si ponga mente al fatto che, sulla base delle « curiose » figure di reato cui s’è fatto cenno, e tra esse mail fraud, vengono quotidianamente irrogate — non certo in un Paese culturalmente sottosviluppato o politicamente autoritario — sanzioni penali detentive anche di lunga durata (43). 4. L’evoluzione storica del reato di mail fraud. — Descritto nei suoi tratti fondamentali il volto dell’ordinamento giuridico in cui si inserisce il reato di mail fraud, e prima di (41) N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 25 ss., 35; si veda anche la c.d. Perez doctrine, cui si è accennato supra n. 34. (42) La peculiarità di tale fenomeno è nota da tempo, L. SCHWARTZ, Federal Criminal Jurisdiction and Prosecutor’s Discretion, in 13 Law and Contemporary Problems, 1948, 79 ss. È singolare notare come la circostanza che fattispecie quali mail fraud spostino il fuoco della descrizione legale dai profili realmente significativi del fatto criminoso ad una condotta neutra in punto di valore (l’uso della posta), utile solo per fondare la competenza federale, palesi tutta la sua assurdità quando l’ordinamento federale statunitense viene in contatto con ordinamenti di Paesi diversi. SCHWARTZ (ivi, 80) ricorda ad esempio, il rifiuto all’estradizione per mail fraud deciso da una corte canadese (la Suprema corte dell’Alberta, il caso è Re Lamar, in 2 Western Weekly Report, 1940, 471), pur a fronte di un trattato di estradizione contemplante i reati di frode e truffa. La corte canadese ritenne in tale occasione impossibile estradare un individuo per il solo fatto di aver « spedito delle lettere », a nulla rilevando la retrostante natura fraudolenta dell’operazione, natura del tutto eclissata, sul piano oggettivo, dalla descrizione legale di mail fraud. (43) Nell’anno 1995, le U.S. District Courts hanno processato per mail fraud 2215 imputati. Tra questi, 1952 hanno imboccato la via del plea bargaining e solo 25 sono stati assolti a seguito di un jury trial (v. UNITED STATES DEPARTMENT OF JUSTICE, BUREAU OF JUSTICE STATISTICS, Sourcebook of Criminal Statistics, Washington, 1995, Table 5.29). Nello stesso anno, la condanna media a pena detentiva per mail fraud è stata di 28.2 mesi; 61 dei complessivi 1952 condannati hanno ricevuto pene detentive di durata superiore a 60 mesi, Sourcebook, cit., Table 5.30.
— 1270 — passare ad illustrare i vari elementi costitutivi dello stesso, conviene soffermarsi brevemente sull’evoluzione storica della fattispecie. Il reato fu introdotto nel 1872 come parte di un pacchetto legislativo destinato alla riforma della legislazione concernente i servizi postali (44). Senza poter qui ripercorrere analiticamente le tappe di uno sviluppo storico pur di straordinario interesse (in esso si rispecchia una parte significativa della storia costituzionale americana), basterà notare che la formulazione originaria della norma prevedeva, accanto agli elementi del piano fraudolento e dell’uso effettivo del sistema postale, anche la necessità che l’agente ricorresse all’uso della posta quale essenziale modalità esecutiva del piano fraudolento (45). Tale requisito, costituendo un fisiologico ponte di passaggio tra i due poli attorno a cui ruota la norma incriminatrice (appunto, il piano fraudolento e l’uso effettivo dei servizi postali) non solo rendeva evidentemente più organica e razionale l’intera fattispecie, ma svolgeva un ruolo davvero fondamentale nella messa a fuoco della particolare tipologia aggressiva e dell’interesse protetto. Così costruita, la norma aveva infatti la specifica finalità di prevenire l’abuso dei servizi postali, ma solo in quanto realizzato al fine di porre in esecuzione una vera e propria sottospecie qualificata di truffa. Una sottospecie di truffa destinata a maturare in un’area di sicura rilevanza federale (l’espletamento dei servizi postali) e dotata, al contempo, di una chiara autonomia tipologica: quella espressa dall’abuso, per fini di ingiusto profitto, delle potenzialità strumentali offerte dai servizi postali. Poiché la scelta legislativa di focalizzare la tutela sul « tipo di fatto » appena delineato (abuso del servizio postale quale species di truffa) era dettata, evidentemente, anche dalla preoccupazione di non invadere la competenza dei singoli Stati in materia penale, si comprende come le vicende generali del rapporto tra poteri dei singoli Stati e potere federale — ma anche le convinzioni ideologiche nutrite in proposito dai vari soggetti operanti nel sistema della giustizia federale — non potessero non riverberarsi sull’ambito interpretativo dei reati federali, e, tra questi, anche sulla fattispecie di mail fraud. In proposito, va sottolineata sin d’ora l’importanza, nella dinamica evolutiva del diritto vivente, del ruolo propulsivo svolto dai soggetti istituzionalmente deputati all’investigazione ed al promuovimento dell’azione penale. Prima ancora di ricevere avallo ufficiale da parte degli organi giurisdizionali, specie di quelli di grado superiore, il mutamento interpretativo matura nell’input dei casi che sia le agenzie investigative federali, sia i prosecutors (U.S. Attorneys) ritengono (o vorrebbero) sussumibili in una determinata fattispecie. Considerato il fatto che nel sistema federale tali organi dipendono direttamente dal potere esecutivo e non ricevono alcuna investitura popolare, non sfugge come dietro l’evoluzione di questi reati possa esserci anche la realizzazione di orientamenti e scelte di politica del diritto effettuate in sede diversa da quella giudiziaria e qui successivamente avallate. (44) Sulla storia del reato di mail fraud, si veda, soprattutto, J. RAKOFF, The Federal Mail Fraud Statute, cit., 779 ss.; nonché, M. EFFKEN, The Mailing Element of the Federal Mail Fraud Statute: Schmuck v. United States, in 23 Creighton L.R., 1989, 104 ss.; D. MORANO, The Mail-Fraud Statute: A Procustean Bed, in 14 John Marshall L.R., 1980, 45 ss.; sinteticamente, S. SUN BEALE, Mail: Federal Mail Fraud Act, in Encyclopedia of Crime and Justice, a cura di S. Kadish, III, New York-London, 1983, 1015 ss. Il nuovo reato si inserisce nel filone legislativo legato alla crescita dell’economia interstatale dopo la guerra civile. In tale fase, l’intervento federale era sollecitato da un lato dall’arretratezza di molti codici statali, ancora condizionati dal localismo e dai vecchi modelli di società rurale. Dall’altro dalla filosofia centralista, e dunque fautrice di un maggior intervento del legislatore federale, sostenuta dalle forze che avevano vinto la guerra civile. (45) J. RAKOFF, The Federal Mail Fraud Statute, cit., 783 ss. Il testo della norma prevedeva, infatti che lo schema fraudolento o l’intenzione di realizzare tale schema fossero « effected by either opening or intending to open correspondence or communication with any other person [...] [or] by means of the post-office establishment of the United States ». L’intera fattispecie originaria si può leggere, ID., ivi, 783.
— 1271 — Nel merito, è chiaro come la scelta in favore dell’ampliamento dei reati federali ed in particolare di quello di mail fraud denoti non solo l’adesione ad un modello forte di stato federale contrapposto ad un modello meramente confederativo, ma anche l’avallo di un crescente intervento pubblico nell’economia. Altre volte, tuttavia, pare giocare un ruolo decisivo anche la considerazione della vicenda concreta da cui prende le mosse la prosecution, a fronte della quale l’interpretazione delle fattispecie federali viene piegata all’esigenza di punire comunque, e severamente, particolari comportamenti dannosi; comportamenti la cui repressione sarebbe, se perseguita attraverso le norme penali statali, problematica o comunque meno vigorosa (46). Tornando all’evoluzione storica di mail fraud, merita qui ricordare come, a seguito di una importante decisione della Corte Suprema relativa alla rilevanza penale federale del trasporto interstatale di biglietti di lotteria clandestina (47), ebbe modo di prendere ben presto ufficiale consistenza, a soli dieci anni dall’entrata in vigore della fattispecie di mail fraud, il filone giurisprudenziale orientato alla progressiva espansione del reato in esame. Nel caso United States v. Jones, del 1882, si ritenne così sufficiente ad integrare la frode postale il comportamento di un soggetto che, con una lettera circolare, aveva contattato una serie di individui, proponendo loro l’acquisto di banconote false ad un prezzo unitario inferiore — ovviamente — al valore nominale dei biglietti (48). Poiché in questo caso non risultava provato alcun intento fraudolento rivolto verso i destinatari della corrispondenza (che anzi finivano per condividere i profitti della falsificazione), l’abuso del servizio postale non veniva a configurarsi come momento esecutivo di una particolare sottospecie di truffa, appunto la truffa postale. L’uso della posta si configurava qui come comportamento che, da un lato, era privo — in sé e per sé considerato — di autonomo disvalore; dall’altro, risultava strumentale all’esecuzione di una condotta illecita, cui solo eventualmente — solo nella futura circolazione del denaro falso — poteva conseguire la frode e dunque il danno patrimoniale di altri soggetti (49). In altra decisione di poco successiva, la norma incriminatrice di mail fraud veniva quindi applicata ad una condotta fraudolenta consistente nel procacciarsi, sempre attraverso l’uso della posta, somme di denaro, facendo credere ai destinatari del denaro da raccogliere, di investire poi dette somme nel mercato mobiliare (50). La situazione parrebbe in questo caso dissimile dalla precedente, giacché l’inganno risulta qui perpetrato proprio in danno dei destinatari delle comunicazioni postali. Tuttavia, considerando che nei sistemi angloamericani il reato comune di truffa (false pretenses) richiede sempre che l’inganno riguardi un fatto passato o presente (51), e che nel caso di specie la falsa rappresentazione riguardava l’uso futuro del denaro raccolto, risolvendosi dunque in una falsa promessa, si comprende come tale schema fraudolento dovesse essere considerato, rispetto al sistema dei reati contro il patrimonio, penalmente lecito. È interessante notare come queste decisioni affermino un principio davvero importante nel successivo sviluppo del reato di mail fraud. Quello secondo cui la fattispecie indicherebbe, attraverso l’elemento dello « scheme to defraud », una condotta fraudolenta i cui tratti essenziali possono essere ricostruiti autonomamente, senza cioè far riferimento ai tradizionali elementi del reato di truffa o di altre figure poste a tutela del patrimonio. (46) J. RAKOFF, The Federal Mail Fraud Statute, cit., 800 ss. (47) Si tratta del leading case, Ex parte Jackson, 96 U.S. 727 (1877). (48) 10 F. 469 (C.C.S.D.N.Y., 1882), il caso Jones fu deciso da una delle vecchie Circuit Courts (la Circuit Court for the Southern District of New York) abolite nel 1912. Di qui la natura inconsueta della citazione. Similmente, infra, note 50 e 63. (49) Diffusamente, J. RAKOFF, The Federal Mail Fraud Case, cit., 797 ss. (50) United States v. Loring, 91 F. 881 (C.C.N.D. Ill. 1884). (51) Sul punto, rinviamo a, M. PAPA, Patrimonio (reati contro il) in diritto angloamericano, cit., 324 ss.
— 1272 — Si tratta di un principio di grande importanza pratica, nella cui affermazione gioca un ruolo decisivo un particolare espediente retorico utilizzato dalla giurisprudenza: quello di sottolineare incessantemente come l’essenza del reato risieda tutta nell’« abuso del servizio postale », piuttosto che nell’aggressione patrimoniale (52). Così facendo, si sospinge sempre di più il contenuto della condotta fraudolenta nella sfera del dolo specifico dell’agente, sfera al cui interno le analitiche modalità fraudolente finiscono per confondersi in un generico proposito di incidere disonestamente sul patrimonio altrui. Non sfugge, tuttavia, la natura artificiosa e mistificante di tale argomentare: poiché l’uso dei servizi postali, quando non pregiudica la funzionalità dei medesimi, è condotta del tutto neutra sul piano dei valori (53), non è difficile accorgersi che l’autentico scopo dell’intervento penale tramite la fattispecie di mail fraud non è altro che la repressione extra ordinem di condotte fraudolente (o addirittura, come si vedrà, di condotte genericamente dannose) non punibili, o non facilmente punibili, sulla base delle altre fattispecie di parte speciale. La successiva evoluzione conferma decisamente tale ipotesi. La dilatazione interpretativa del reato di mail fraud, avallata in diverse occasioni da successive « ratifiche » legislative (54), corre infatti lungo un duplice binario: da un lato risulta sempre più ampliata la nozione di « schema fraudolento »; dall’altro si sminuisce progressivamente il legame tipologico tra l’uso dei servizi postali e tale finalità fraudolenta, accettando nessi sempre più labili ed « accidentali » tra i due elementi. Avviandoci al termine di questa rapida ricostruzione dello sviluppo storico di mail fraud, merita accennare ad una recente modifica della fattispecie incriminatrice qui in esame. Prendendo atto della crescente importanza dei corrieri postali privati, il legislatore federale ha da ultimo stabilito che l’uso fraudolento della posta possa riguardare anche le comunicazioni inviate attraverso un « private or commercial interstate carrier ». Si tratta di una riforma le cui generali implicazioni, di notevole rilievo anche sotto il profilo dei rapporti tra ordinamenti federale e statali, sono tuttora al vaglio degli interpreti (55). Infine, per esigenze di completezza, occorre pure ricordare un intervento legislativo non direttamente incidente sulla fattispecie di mail fraud, e peraltro vecchio ormai di qualche anno, ma tuttavia di grande importanza. Si tratta dell’introduzione nel sistema dei reati federali di una norma incriminatrice praticamente parallela alla frode postale: la fattispecie di « frode via filo » (wire fraud) (56). Il legislatore ha infatti clonato la struttura della frode postale, creando un reato, del tutto omologo, sussistente laddove il piano fraudolento venga (52) Il rilievo è unanime, cfr., J. RAKOFF, The Federal Mail Fraud Statute, cit., 795 ss., 819. (53) È per la verità talora presente, nei casi più antichi, una concezione del servizio postale visto come servizio la cui « purezza » è un bene da tutelare in sé. In assenza di qualsivoglia pregiudizio per la funzionalità del servizio, tale concezione risulta caratterizzata da contenuti eticizzanti, comprensibili solo in una visione arcaica dei mezzi di comunicazione, cfr., J. RAKOFF, The Federal Mail Fraud Statute, cit., 787 n. 72, 796 s. (54) In merito all’evoluzione legislativa, il resoconto più dettagliato è sempre quello di J. RAKOFF, The Federal Mail Fraud Statute, cit., 809 ss., 816 ss. (55) La recente modifica che ha inserito il riferimento al « private or commercial interstate carrier » (v. il testo aggiornato retro n. 30) è contenuta nel Senior Citizens Against Marketing Scams Act (diretto al controllo delle frodi mediante televendite dirette agli anziani), un provvedimento legislativo incorporato nel più ampio Violent Crime Control and Law Enforcement Act del settembre 1994. Per una prima analisi critica, P. HENNING, Maybe it Should Just Be Called Federal Fraud: The Changing Nature of The Mail Fraud Statute, in 36 Boston College L.R., 1995, 435 ss.; nonchè, K. FLAVIN, K. CORRIGAN, Mail and Wire Fraud, in 33 American L.R., 1996, 861 ss. (56) Benché gemella di mail fraud, wire fraud ha tuttavia, rispetto a questa, un diverso fondamento costituzionale, rapportandosi alla competenza federale in materia di interstate commerce. A differenza di mail fraud, è necessario che la comunicazione via filo attraversi dunque il confine tra Stati, v., per tutti, K. FLAVIN, K. CORRIGAN, Mail and Wire Fraud, cit., 864.
— 1273 — realizzato attraverso la comunicazione di « scritti, segni, segnali, immagini o suoni » effettuata via filo (dunque via telefono), ovvero via radio o televisione (57). 5. Gli elementi costitutivi del reato di mail fraud. — Passando dunque ad esaminare più nel dettaglio gli elementi costitutivi della fattispecie di mail fraud (e per relationem quelli dell’incriminazione gemella denominata wire fraud), si può notare come il reato ruoti fondamentalmente attorno a due poli: da un lato vi è lo « scheme to defraud », cioè il piano fraudolento; dall’altro, l’uso effettivo dei servizi postali (o del telefono, della radio o della televisione). L’ulteriore profilo soggettivo, costituito dall’« intent to defraud », pare sostanzialmente relegato ad un ruolo operativo marginale, svolgendo soprattutto la funzione di rendere chiara la non punibilità nei casi di errore sulla natura fraudolenta dello schema (58). 5.1. Il piano fraudolento (scheme to defraud). — Cominciando dunque l’analisi dallo « scheme to defraud », va sottolineato che tale elemento appartiene al dolo specifico del reato in esame, non essendo dunque necessario, per l’accusa, dimostrare né l’effettiva realizzazione, né tantomeno il successo del piano fraudolento (59). Nonostante ciò, i casi in cui vengono perseguiti schemi fraudolenti meramente abbozzati o ancora gestiti in interiore hominis sono, nella pratica, davvero rari. Come si vedrà meglio oltre, la discrezionalità degli organi investigativi e dell’accusa porta quasi sempre a selezionare come ipotesi di « effettiva significatività » penale solo schemi fraudolenti concretamente lesivi di particolari interessi. Forse anche per tale ragione, la dottrina statunitense analizza l’elemento « scheme to defraud » con cadenze che, per minuziosità e per il costante riferimento a dati di realtà, ricordano quelle delle indagini su elementi oggettivi di fattispecie. Anche noi, per comodità espositiva, tradurremo dunque il termine scheme to defraud non solo con il corrispondente letterale « piano diretto a frodare », ma anche con il sintagma « schema fraudolento »: resta inteso che, nonostante l’aggettivo « fraudolento » possa non rendere immediatamente il concetto, tale elemento della fattispecie — come si è appena sottolineato — non è altro che una parte del dolo specifico. Va detto subito che non è possibile mettere a fuoco con precisione il significato del verbo « to defraud »: il termine esprime d’altronde un concetto non esclusivo del reato di mail fraud e tradizionalmente assai elastico. Esso compare — come si avrà modo di accennare oltre — anche in un’altra importante figura d’illecito caratteristica dei sistemi angloamericani: la conspiracy to defraud (60). « Defraudare » vuol dire essenzialmente cagionare una lesione di tipo patrimoniale in modo « disonesto », senza che sia necessaria tuttavia la sussistenza di particolari modalità della condotta (ad esempio, artifizi o raggiri) (61). Per estensione, vuol dire tuttavia anche cagionare una lesione fraudolenta alla serie di « diritti immateriali » riassunti nella c.d. intangible rights doctrine (v. infra, § 5.1.2.). (57) 1343, Title 18 U.S. Code, « Fraud by wire, radio or television ». Tale norma riproduce, nella sua parte iniziale, la fattispecie-madre di mail fraud, prevedendo poi, quale condotta esecutiva quella di chi « transmits or causes to be transmitted by means of wire, radio or television communication [...] any writings, signs, signals, pictures, or sounds for the purpose of executing such scheme or artifice [...] ». (58) In merito a tale tautologica finalità, si veda comunque, i cenni contenuti nel lavoro di, L. EILERS, H. SILIKOVITZ, Mail and Wire Fraud, in 31 American Criminal L.R., 1994, 711 ss. (59) Per tutti, L. EILERS, H. SILIKOVITZ, Mail and Wire Fraud, cit., 704 s.; S. SUN BEALE, Mail: Federal Mail fraud Act, cit., 1916. Il leading case che affermò incontestabilmente tale conclusione, peraltro già agevolmente desumibile dal testo legislativo, è assai remoto: Durland v. United States, 161 U.S. 306 (1896). (60) Si veda, infra, note 117, 118 e testo relativo. (61) È sufficiente, ad esempio, « una qualche sorta di rappresentazione fraudolenta o una omissione ragionevolmente programmata per ingannare una persona di normali capacità e di di ordinaria prudenza », United States v. Pearlstein 576 F. 2d 535 (3d Cir. 1978).
— 1274 — Lo schema fraudolento è dunque tale, da un lato quando offende (rectius: mira ad offendere) interessi altrui di natura (anche parzialmente) patrimoniale; dall’altro quando incide (rectius: mira ad incidere) in modo pregiudizievole su una serie di ulteriori, articolati, interessi, grosso modo riconducibili alla « fiducia » che caratterizza taluni rapporti sia di diritto pubblico che di diritto privato (c.d. intangible rights doctrine). 5.1.1. Il piano fraudolento come aggressione ad interessi patrimoniali. — « Scheme to defraud » vuol dire dunque, in primo luogo, piano diretto ad offendere in modo « disonesto » il patrimonio altrui. Come accennato, non è richiesto che la condotta programmata si caratterizzi per il ricorso a determinate modalità tipiche di azione. Si vedrà oltre come tale caratterizzazione modale non sia necessaria neppure alla luce del secondo elemento costitutivo di mail fraud e cioè l’« uso effettivo dei servizi postali ». Piuttosto che arricchire la tipicità della condotta, tale elemento finisce infatti per essere, alla luce dell’interpretazione di gran lunga prevalente, una sorta di « condizione di rilevanza federale » del tutto incapace di mettere meglio a fuoco in termini generali ed astratti una qualsiasi sottoclasse di « piani fraudolenti ». Ciò che qui preme subito rilevare è che quando il piano fraudolento è diretto a provocare una lesione patrimoniale, mail fraud finisce per diventare — è evidente — uno strumento di tutela del patrimonio supplementare e parallelo sia rispetto al sistema dei tradizionali crimes against property, sia rispetto ad altri specifici illeciti a parziale connotazione patrimoniale. Una tutela, come si vedrà subito, di maggior ampiezza e di maggior efficacia. La maggior ampiezza deriva innanzitutto dalla già menzionata possibilità di prescindere — facendo ricorso a mail fraud — dai vari elementi costitutivi che caratterizzano i singoli reati contro il patrimonio (62) o quelli comunque offensivi dello stesso. Addirittura, in qualche caso limite, si è giunti sino al punto di ammettere la frode postale anche in assenza di qualsivoglia comportamento decettivo: così, ad esempio, in presenza di comportamenti sostanzialmente estortivi, realizzati mediante invio di lettere di minaccia a fine di ricatto (63). Qui risultano evidentemente travalicati anche gli esili confini semantici del sintagma « scheme to defraud ». È chiaro infatti che, per quanto lato possa essere il significato delle parole, è difficile concepire uno schema fraudolento privo di qualsivoglia componente fraudolenta. Si tratta, come s’è detto, di casi limite, peraltro smentiti da altri risolti in senso contrario (64) e forse poco significativi al fine di tracciare i « confini ufficiali » della fattispecie. Tuttavia, il cenno a tali precedenti può essere interessante nel quadro delle considerazioni sopra accennate circa l’opportunità di andare oltre il « diritto giurisprudenziale » esposto ufficialmente nelle sentenze. Benché gli sparuti casi di mail fraud estorsiva non vengano invocati quali rationes decidendi, essi risultano pur sempre utilizzati, in funzione argomentativa, quali meri dicta: addirittura, in una importante decisione degli anni Settanta uno di tali casi è menzionato senza addirittura alcuna citazione di casi contrari (65). Questi segni possono indicare la presenza di un iceberg sottostante: se l’estensione della frode postale ai comportamenti estortivi è avallata, sia pure come dictum, nel diritto giurisprudenziale ufficiale, non possiamo forse supporre un’applicazione più diffusa di tale interpretazione ai livelli inferiori (62) Sui confini delle tradizionali fattispecie contro il patrimonio nei Paesi di common law, si rimanda ancora a, M. PAPA, Patrimonio (reati contro il) in diritto anglo-americano, cit., 318 ss. (63) Weeber v. United States, 62 F. 740 (C.C.D. Colo. 1894), e soprattutto United States v. Hormann 118 F. 780 (C.C.D. Ohio 1901). In merito a tali decisioni, J. RAKOFF, Federal Mail Fraud, cit., 802 ss. (64) Anche ad opera della Suprema Corte, Fasulo v. United States, 272 U.S. 620 (1926). (65) United States v. States, 488 F.2d 761 (8th Cir. 1973), decisione come si vedrà assai importante (cfr., infra, nota 78). Il caso Hormann (supra, nota 63) viene citato in States senza menzionare l’autorevole overruling operato dalla Corte Suprema in Fasulo (supra nota 64).
— 1275 — dell’esperienza giudiziaria o pre-giudiziaria? Davvero, ad esempio, si può escludere che simili ipotesi accusatorie non siano idonee, nel caso vengano energicamente sostenute dagli organi dell’accusa, ad indurre taluno a negoziare una dichiarazione di colpevolezza? Sono spunti che si cercherà di riprendere tra qualche pagina. Tornando, per ora, all’analisi dello « scheme to defraud », occorre ribadire come il reato di frode postale realizzi dunque, rispetto al generale sistema dei reati patrimoniali o comunque offensivi del patrimonio, un ampliamento della tutela che consente innanzitutto di far fronte — in modo, sia ben chiaro, assai preoccupante dal punto di vista della legalità — ad esigenze repressive legate all’emersione di nuove tipologie criminose (66). Così, ad esempio, la fattispecie di mail fraud ha consentito di punire le frodi informatiche (67), quelle perpetrate mediante uso di carte di credito (68), quelle relative al mercato dei titoli mobiliari (69), l’abuso del diritto di franchising ed altre sofisticate frodi legate a nuovi sistemi di vendita commerciale (70), l’usura (71), la speculazione immobiliare (72). Oltre che una maggiore ampiezza, mail fraud consente tuttavia — si diceva sopra — anche una maggiore efficacia dell’intervento repressivo. La prova più evidente di ciò è data dal fatto che i prosecutors federali, in presenza di nuovi fenomeni criminali, contestano il reato di mail fraud non solo quando ancora mancano specifiche fattispecie incriminatrici, ma anche quando il legislatore abbia poi provveduto a colmare le lacune di tutela (così, ad esempio, in materia di carte di credito). La preferenza per mail fraud ha luogo d’altronde anche in presenza di specifiche fattispecie incriminatrici esistenti da tempo nell’ordinamento ma caratterizzate da qualche elemento di difficile prova o da pene troppo miti: paradigmatica in proposito è la funzione di tutela « parallela » espletata da mail froud rispetto alla frode fiscale (73) e talora, addirittura, rispetto a RICO (74). L’organo dell’accusa, insomma, risulta enormemente avvantaggiato sia dalla amplissima portata della fattispecie; sia dalla forte componente soggettiva del reato, cui consegue la pos(66) Sottolinea in termini positivi tale funzione di « first line of defense » rispetto alle nuove forme di offesa, la dissenting opinion del Chief Justice Burger, in United States v. Maze, cit., infra n. 110 (uno dei pochi casi di giurisprudenza restrittiva). (67) Cfr., ad esempio, United States v. Alston, 609 F2d 531 (D.C. Cir. 1979), caso relativo alla cancellazione di « referenze commerciali » non lusinghiere registrate su computer. (68) Si veda, in proposito, N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 181 ss. In senso contrario, United States v. Maze, citato infra n. 110. (69) Ciò sia prima che dopo l’introduzione, nel 1933, del Federal Securities Act; sul punto diffusamente, A. MATHEWS, Criminal Prosecutions Under the Federal Securities Laws and Related Statutes: The Nature and Development of SEC Criminal Cases, in 39 George Washington L.R., 1971, 901 ss. (70) Comment, Multi-level or Pyramid Sales Systems: Fraud or Free Enterprise, in 18 South Dakota L.R., 1973, 358 ss. (71) S. LYNCH, Prosecuting Loan Sharks Under the Mail Fraud Statute, in 14 Fordham L.R., 1945, 14 ss. Fin dal 1968, la materia è oggetto anche di autonoma penalizzazione da parte dei §§ 891 e ss. del Title 18 U.S. Code. (72) S. COFFEY, J. WELCH, Federal Regulation of Land Sales: Full Disclosure Comes Down to Earth, in 21 Case Western Reserve J. of International L., 1969, 5 ss. La materia è ora regolata ex professo dai §§ 1701 e ss. del Title 15 U.S. Code. (73) Rispetto al reato di frode fiscale (§§ 7206 e 7207 Title 26 U.S. Code), mail fraud presenta, per l’accusa, due vantaggi: il primo è costituito dal fatto che la frode postale può essere collegata ad una RICO prosecution essendo mail fraud un RICO predicate crime (su questo, anche per la terminologia, v. infra nn. 136, 137 e testo corrispondente); il secondo vantaggio riguarda le difficoltà di provare il dolo previsto dalla fattispecie di frode fiscale, dolo caratterizzato dalla piena « consapevolezza » (wilfullness) circa la fraudolenza delle dichiarazioni, v. E. PODGOR, Tax Fraud-Mail Fraud, Synonymous, Cumulative or Diverse?, in 57 U. of Cincinnati L.R., 1989, 903 ss. (74) Circa la possibilità che in talune ipotesi mail fraud comporti addirittura pene più pesanti di RICO, v. infra n. 136 e testo corrispondente.
— 1276 — sibilità di limitarsi a provare, sul piano materiale, il mero uso dei servizi postali, ovvero, nel caso di « wire fraud », del telefono e degli altri mezzi di comunicazione elencati. Per quanto riguarda poi il trattamento sanzionatorio, mail fraud offre limiti edittali non certo trascurabili nell’ipotesi base (massimo di cinque anni) e decisamente consistenti nel caso sia coinvolta una « istituzione finanziaria » (massimo di trent’anni) (75). Con particolare riferimento poi al problema della unità o pluralità dei reati, occorre segnalare il consolidato orientamento secondo cui si ritiene sussistano tanti reati di mail fraud quanti sono i singoli casi di effettivo uso del servizio postale (76). Ciò comporta la possibilità di stratificare nell’atto d’accusa numerose ipotesi di mail (o wire) fraud in concorso, sol che l’agente, durante l’esecuzione di un sia pure unico piano fraudolento, abbia inviato più lettere o effettuato più telefonate (77). 5.1.2. Il piano fraudolento come violazione della « fiducia » nei rapporti pubblici o privati: l’« intangible rights doctrine ». — Come già segnalato, la fattispecie di mail fraud non si limita soltanto a fungere da strumento di tutela parallelo e surrogatorio rispetto al sistema dei reati patrimoniali: il reato in esame si pone talora in aggiunta e talora in concorrenza con numerose altre fattispecie dell’ordinamento. Ciò in quanto la giurisprudenza, a partire dall’inizio degli anni Settanta, ha cominciato ad elaborare, in tema di frode postale, la c.d. « intangible rights doctrine » (lett.: teoria dei diritti immateriali) (78). Si tratta di una prospettiva interpretativa che dilata il già ampio ambito della punibilità in modo dirompente: tramite la stessa si arriva infatti a ritenere integrato l’elemento dello (75) In merito alle pene per mail fraud, cfr., retro, nn. 28, 29, 43. (76) Tale orientamento è da tempo assolutamente pacifico, Badders v. United States 240 U.S. 391 (1916). Di recente, United States v. Gardner, 65 F.3d 82, 85 (8th Cir. 1995): « non è il piano o schema complessivo che viene punito, ma piuttosto ciascun particolare uso della posta in esecuzione del piano »; United States v. Calvert, 523 F2d 895, 913 (8th Cir. 1975). (77) Come è evidente, in caso l’agente abbia fatto più volte ricorso alla posta o al telefono, le scelte discrezionali del prosecutor in merito a quanti reati contestare risultano davvero decisive. Come segnalato da N. ABRAMS, S. SUN BEALE (Federal Criminal Law, cit., 179 s.), spesso il numero dei reati contestati dipende — e ciò sarebbe anche ragionevole — dalle dimensioni della frode e dalla pluralità delle vittime. L’ampia discrezionalità del prosecutor può portare tuttavia, potenzialmente, a risultati aberranti: nel caso United States v. Helms [897 F.2d 1293 8th Cir., 1985)], per esempio, a fronte di 629 vittime di una frode su larga scala, vennero contestati 41 reati di mail fraud, con il risultato di ottenere, per i due imputati, condanne rispettivamente a 60 e 75 anni di carcere, a fronte di un possibile limite massimo che toccava addirittura, per ciascuno di essi, i 205 anni (!). In merito al trattamento sanzionatorio applicabile in caso di concorso di reati non bisogna tuttavia dimenticare che oggi la quantificazione della pena risulta — almeno negli auspici — ricondotta entro limiti di razionalità ad opera delle Federal Sentencing Guidelines. La pena complessiva non è più quella derivante dal cumulo materiale, ma piuttosto quella del « cumulo giuridico » determinato alla stregua delle indicazioni di « grouping of offenses » in cui assumono rilievo fattori quali l’entità del profitto, il numero delle vittime, i precedenti del reo [cfr., 3D1.1., 3 D 1.2(d), 3D1.3(b) delle U.S.S.G.]. Ad esempio, in United States v. Brown, [948 F.2d 1076 (8th Cir. 1991)] — caso relativo ad un individuo condannato per essersi spacciato come « falso invalido », nei cui confronti il prosecutor aveva pur contestato decine di ipotesi di mail fraud valorizzando ciascuna comunicazione mensile relativa all’assegno di invalidità — a fronte di un cumulo materiale di oltre 200 anni, la condanna è risultata contenuta nel termine di 57 mesi. Sul problema del concorso di norme e di reati nell’ordinamento statunitense, si rimanda a, M. PAPA, Concorso apparente di norme e definizioni legislative: note comparatistiche, in Omnis definitio in jure periculosa?, a cura di A. Cadoppi, Padova, 1996, 437 ss. (78) La prima significativa decisione in materia è United States v. States, 488 F.2d 761 (8th Cir. 1973), relativa ad un caso di frode elettorale. La corte sostenne che, nel caso di specie, il piano fraudolento diretto a ledere « intangible political and civil rights » dei cittadini rientrava sicuramente nello schema della frode postale.
— 1277 — « scheme to defraud » anche laddove la condotta fraudolenta risulti diretta ad aggredire una serie variegata di « diritti immateriali » (appunto gli intangible rights) (79). E con tale ultima espressione non si fa solo riferimento a diritti patrimoniali non incorporati in beni materiali: la portata del concetto è di gran lunga più ampia. In primo luogo, l’intangible rights doctrine offre la possibilità di tutelare, anche qui spesso in modo « parallelo » rispetto a più specifiche ipotesi criminose, una serie eterogenea di situazioni soggettive di carattere non patrimoniale e riconducibili ad interessi privati e quasi personalistici. Tra queste troviamo, accanto a diritti emergenti quali la privacy [è dunque responsabile di mail fraud chi cerca di ottenere abusivamente informazioni commerciali dalla società dei telefoni o dall’ufficio postale (80)], confusi futuribili quali l’interesse a « non perder tempo e a non veder disilluse le proprie aspettative » [interesse leso, ad esempio, dalla condotta del sedicente produttore cinematografico che utilizza tale falsa qualifica per ottenere le prestazioni sessuali di alcune aspiranti attrici (81)]. In secondo luogo, e si tratta di un filone applicativo assai più fecondo, l’intangible rights doctrine consente di tutelare una serie di situazioni soggettive, di rilievo sia pubblico che privato, sintetizzabili nella pretesa ad ottenere, laddove sussista un rapporto di carattere fiduciario tra l’agente e il titolare dell’aspettativa, un « servizio onesto e fedele » (a honest and truthful service). Posto che il rapporto ha natura fiduciaria quando taluno « agendo nell’interesse altrui, deve subordinare il suo personale interesse a quello del beneficiario del servizio » (82), si deve subito segnalare come la pretesa ad un servizio onesto e fedele si risolva soprattutto nell’obbligo di segnalare alla controparte possibili situazioni di conflitto di interesse (83). Si tratta di un dovere generico, non necessariamente derivante dalla legge o da altra fonte formale, ma scaturente dalla natura del rapporto così come « sostanzialmente » valutata nell’ottica della fattispecie in esame (84). La repressione penale che colpisce la violazione del « duty to disclose a conflict of interests », segna — come si intuisce — un ulteriore alleggerimento dell’onere accusatorio. Nel caso in cui viene contestata tale omissione, risulta, infatti, del tutto superflua qualsiasi prova sia in merito alla sussistenza di (o al proposito di conseguire) un profitto patrimoniale, sia in merito alla verificazione di (o al proposito di arrecare) un danno patrimoniale alla vittima del piano fraudolento (85). (79) Sull’intangible rights doctrine nel reato di mail fraud, cfr., nella vasta bibliografia, Comment, The Intangible-Rights Doctrine and Political-Corruption Prosecutions Under the Federal Mail Fraud Statute, in 47 University of Chicago L.R., 1980, 562 ss.; J. COFFEE, From Tort to Crime: Some Reflections on the Criminalizations of Fiduciary Breaches and the Problematic Line Between Law and Ethics, in 19 American Criminal L.R., 1981, 150 ss.; ID., The Metastasis of Mail fraud, cit., 1 ss.; D. HURSON, Limiting the Mail Fraud Statute: A Legislative Approach, in 20 American Criminal L.R., 1983, 423 ss.; R. LOOMIS, (Comment), Federal Prosecution of Elected State Official: Creative Prosecution or an Affront to Federalism, in 28 American University L.R., 1978, 63 ss.; D. MORANO, The Mail-Fraud Statute, cit., 45 ss.; P. OXMANN, (Note), The Federal Mail Fraud Statute After McNally v. United States, in 107 S. Ct. 2875 (1974): The Remains of The Intangible Rights Doctrine And Its Proposed Congressional Restoration, in 25 American Criminal L.R., 1988, spec. 749 ss.; G. MOOHR, Mail Fraud and the Intangible Rights Doctrine: Someone to Watch Over Us, in 31 Harvard J. on Legislation, 1994, 153 ss. (80) United States v. Louderman, 576 F.2d 1383 (9th Cir.). (81) Il fatto che simile condotta possa essere punita come « frode postale » dà il segno di tutta la distanza esistente tra il nostro e quel sistema, a dispetto di ogni diagnosi di progressiva affinità. Il caso in questione è United States v. Condolon, 600 F.2d 7 (4th Cir. 1979). Cfr., in merito, J. COFFEE, The Metastasis of Mail Fraud, cit., 8 e n. 40. (82) Si veda, in termini generali, Black’s Law Dictionary, 6th ed., St. Paul, Minn., 1990, 625. (83) P. EZERSKY, (Note), Intra-corporate Mail and Wire Fraud: Criminal Liability for Fiduciary Breach, in 94 Yale L. J., 1985, 1427 ss. (84) Si veda, infra, nota 90. (85) J. COFFEE, The Metastasis of Mail Fraud, cit., 1 s.
— 1278 — Con riferimento ai rapporti di carattere pubblico, la nozione di intangible rights consente la tutela di una serie di aspettative e diritti lato sensu politici, orbitanti attorno alla pretesa all’onestà e fedeltà dei comportamenti degli uomini politici e dei pubblici funzionari. La natura fraudolenta della condotta viene qui desunta non tanto dalla intrinseca illiceità del comportamento realizzato dal pubblico ufficiale (ad esempio, atto contrario ai doveri d’ufficio eseguito dietro compenso). Piuttosto, la frode sta — come si diceva — nell’occultare o anche solo nel non rivelare la presenza di un conflitto di interessi (duty to disclose one’s personal interests). Non sfugge, anche sulla base di questi rapidi cenni, come la fattispecie di frode postale, così interpretata, vada ben oltre i tradizionali confini della tutela patrimoniale, configurandosi piuttosto come un vero e proprio strumento di controllo penale posto a presidiare la correttezza dell’azione politica ed amministrativa. Uno sguardo alla casistica giurisprudenziale, consente infatti di rilevare l’applicazione della fattispecie ad un’ampia gamma di situazioni: dalla frode elettorale (86), alla corruzione nelle sue varie forme (87) (compresa l’istigazione da parte dell’extraneus) (88), al finanziamento illecito dei partiti (89). Ciò che rende particolarmente incisiva la tutela è proprio la possibilità di costruire la fattispecie anche in termini omissivi: al pubblico ufficiale, ma anche al soggetto di fatto capace di controllare l’esercizio di una funzione pubblica (ad esempio, chi è a capo, a livello locale, di un partito politico) incombe infatti un generale dovere, non derivante necessariamente da una fonte formale preesistente al reato di mail fraud (90), di rendere manifesto l’interesse personale sottostante al compimento di un determinato atto. Così, nel leading case, United States v. Mandell, in cui l’allora Governatore del Maryland fu condannato per non avere rivelato l’esistenza di interessi personali coinvolti da una legge di cui sollecitava l’approvazione (91). Così, nel caso United States v. Margiotta, in cui un influente uomo politico, pur privo di cariche istituzionali, fu ritenuto responsabile di mail fraud per avere condizionato la stipulazione dei contratti assicurativi effettuata da un ente locale, facendo versare al proprio partito parte delle commissioni percepite a titolo di mediazione da suoi « uomini di paglia » (92). Sul piano dei rapporti di privati, l’intangible rights doctrine, ha consentito l’intervento penale all’interno di una serie di relazioni di carattere fiduciario, talora legate alla stipulazione di un episodico contratto, più spesso legate all’esistenza di rapporti a carattere continuativo quali quelli legati al mondo del lavoro dipendente, a quello sindacale, alla materia societaria. Anche in tali ambiti, si è operata una particolare valorizzazione del dovere di in(86) Si veda la casistica riportata in L. EILERS, H. SILIKOVITZ, Mail and Wire Fraud, cit., 709 n. 33. (87) Comment, The Intangible-Rights Doctrine and Political-Corruption Prosecutions, cit., 562 ss.; R. LOOMIS, (Comment), Federal Prosecution of Elected State Official, cit., 63 ss. C. WHITAKER, Federal Prosecution of State and Local Bribery Inappropriate Tools and a Need for a Structured Approach, in 78 Virginia L.R., 1992, 1617 ss. Nelle trattazioni di carattere generale, si veda soprattutto, N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 139 ss., J. COFFEE, The Metastasis of Mail Fraud, cit., 13 ss., con ampia casistica. (88) United States v. Lovett, 811 F.2d 979 (7th Cir., 1987), la condotta di chi corrompe il sindaco al fine di assicurarsi la concessione di una rete televisiva via cavo priva i cittadini del diritto ad avere un servizio imparziale da parte del vertice dell’amministrazione cittadina. (89) Si veda soprattutto il caso citato, infra, n. 92. (90) Come nota, J. COFFEE, From Tort to Crime, cit., 150 « la relazione [da cui nasce la responsabilità omissiva] non deve essere necessariamente di carattere giuridico, ma può essere di tipo morale, sociale, domestico o meramente personale », Sul punto, J. GAGLIARDI, Back to the Future: Federal Mail and Wire Fraud Under 18 U.S.C. 1346, in Washington L.R., 1993, 905 ss. (91) 591 F.2d 1347 (4th Cir. 1979). Per un commento, J. COFFEE, The Metastasis of Mail Fraud, cit., 14 ss. (92) 698 F.2d 108 (2d Cir. 1982).
— 1279 — formare circa eventuali conflitti di interesse, ipotizzando che l’inosservanza di tale dovere costituisca una omissione fraudolenta idonea ad integrare l’elemento dello scheme to defraud. In questi casi, l’applicazione dell’intangible rights doctrine si presenta come particolarmente allettante per l’accusa, in quanto consente di prescindere dalla prova che la condotta fraudolenta fosse idonea a provocare un immediato danno patrimoniale per la parte titolare dell’aspettativa di informazione disattesa (93). L’ampia casistica consente di rilevare, con riferimento a relazioni contrattuali di carattere episodico, decisioni giurisprudenziali relative alla responsabilità del consulente legale che omette di segnalare al cliente l’esistenza di un conflitto di interessi (94). La maggior parte dei casi riguarda, tuttavia, relazioni di carattere fiduciario tendenzialmente continuative, quali quelle che si instaurano, tra datore di lavoro e dipendenti, ovvero, nelle società commerciali, tra la corporation, da un lato, e gli amministratori e i dirigenti dall’altro. Si possono così riscontrare decisioni che hanno ritenuto sussistente la frode postale nella condotta di chi omette di segnalare l’esistenza di conflitti di interessi derivanti: dall’aver percepito una « indebita retribuzione » dalla controparte negoziale del datore di lavoro (95); dall’aver creato disponibilità finanziarie occulte (96); dall’utilizzare informazioni riservate per operazioni di insider trading (97). Nella materia sindacale, esistono pronunce che affermano la responsabilità del datore di lavoro che omette di rivelare di aver corrotto un dirigente sindacale al fine di condizionare la contrattazione collettiva (98). Come si è visto, l’intangible rights doctrine presenta, tanto nel campo dei rapporti di diritto pubblico quanto in quelli tra privati, potenzialità espansive davvero rilevanti. I rischi connessi ad una eccessiva duttilità della fattispecie di mail fraud non hanno dunque mancato di attirare le critiche sia della dottrina (99) sia della giurisprudenza, specie nelle voci delle dissenting opinions (100). Forse in parte condizionata da tali pressioni, ed in modo dunque non del tutto improvviso, la Corte Suprema, nel 1987, tentò di imporre una brusca battuta (93) J. COFFEE, The Metastasis of Mail Fraud, cit., 1 s. e giurisprudenza ivi indicata. (94) United States v. Bronston, 658 F. 2d 920 (2d Cir. 1981). Nel caso di specie, l’imputato aveva fornito servizi di consulenza legale a due soggetti in competizione per la stipulazione di un contratto con un terzo. (95) United States v. Lemire 720 F.2d 1327 (D.C. Cir. 1983), nel quadro di un contratto di appalto, il lavoratore dipendente di una società aveva indebitamente percepito una somma di denaro, omettendo quindi di rivelare al datore di lavoro l’indebita lievitazione dei costi dell’appalto. Ovvero United States v. Bohonus 628 F.2d 1167 (9th Cir. 1979), relativa al dipendente che aveva percepito indebiti emolumenti da una compagnia di assicurazione in cambio della stipulazione di polizze per i beni della società di appartenenza. (96) United Stated v. Siegel, 717 F.2d 9, (2d Cir. 1983). In senso contrario, United States v. Dixon, 536 F.2d 1388 (2d Cir. 1976). Sul punto, P. EZERSKY, (Note), Intra-corporate Mail and Wire Fraud, cit., 1439 ss. (97) United States v. Newman 664 F.2d 12 (2d Cir. 1981). Sul particolare problema della repressione dell’insider trading tramite la fattispecie di mail fraud, M. DREEBEN, Insider Trading and Intangible Rights: The Redefinition of the Mail Fraud Statute, in 26 American Criminal L.R., 1988, 181 ss. (98) United States v. Boffa, 688 F. 2d 919 (3d Cir. 1982). Questa decisione tuttavia si muove ai confini tra la frode postale incentrata sull’intangible rights doctrine e quella tradizionale di carattere patrimoniale. Nel caso di specie, infatti, la condotta fraudolenta risultava diretta ad ottenere un profitto patrimoniale con correlativo danno economico per la controparte. Ulteriori particolari in, J. COFFEE, The Metastasis of Mail Fraud, cit., 6. (99) Efficacemente, E. PODGOR, Mail Fraud: Opening Letters, in 43 Southern California L.R., 1992, 223 ss., spec. 269: « Mail fraud ha sorpassato i confini dell’attivismo giudiziario entrando nell’arena dell’assurdo ». J. COFFEE, The Metastasis of Mail Fraud, cit., spec. 7 ss.; ID., From Tort to Crime, cit., 144 ss.; G.H. WILLIAMS, Good Government by Prosecutorial Decree: The Use and Abuse of Mail Fraud, in 32 Arizona L.R., 1990, 137 ss.; D. MORANO, The Mail-Fraud Statute, cit., spec. 78 s. (100) Particolarmente significativa quella del giudice federale J. Winter nel caso Mar-
— 1280 — d’arresto all’espansione del reato di mail fraud. Nel caso McNally v. United States (101), la corte sancì, infatti, l’applicabilità del reato in esame alle sole aggressioni di carattere strettamente patrimoniale, dichiarando nel contempo inammissibili le interpretazioni estensive adottate alla luce dell’intangible rights doctrine (102). La sentenza della Supreme Court tentava dunque di fare, come si dice, de albo nigro, stabilendo autoritativamente, per la fattispecie, più angusti e certi confini. Una consistente parte del mondo della prassi non gradiva, tuttavia, l’amputazione applicativa sancita dalla giurisprudenza ufficiale: la fattispecie di mail fraud con i suoi vasti ed indeterminati confini, precedenti alla decisione McNelly, era ormai penetrata in modo così pervasivo nell’esperienza giuridica da non poter essere espunta in modo indolore. La pressione critica, esercitata soprattutto dagli organi investigativi e dai prosecutors federali, riusciva dunque a guadagnare l’avallo del legislatore, il cui pronto intervento sanciva inequivocabilmente che « il termine ‘‘piano o artificio fraudolento’’ include un piano o artificio [...] diretto a privare taluno del diritto intangibile ad un servizio onesto » (103). 5.2. L’uso della posta (e degli altri mezzi di comunicazione) al fine di dare esecuzione al piano fraudolento. — Passando adesso al secondo polo della fattispecie, ricordiamo che, secondo il testo dei §§ 1341 e 1343 Title 18 U.S. Code (relativi appunto ai reati di mail e wire fraud), è necessario che l’agente faccia effettivo uso dei vari mezzi di comunicazione previsti (servizi postali, strumenti via filo, radio, televisione) allo scopo di dare esecuzione al piano fraudolento. Non è richiesto tuttavia un uso personale di tali media, essendo sufficiente, per espresso disposto legislativo, che taluno consapevolmente causi l’espletamento del particolare servizio postale, telefonico etc. La comunicazione, anche questo profilo è di particolare ampiezza, può avere ad oggetto « scritti, segni, segnali, immagini, o suoni ». Tale parte della norma non ha sollevato, in sé e per sé particolari problemi interpretativi, essendo difficile immaginare significative modalità di trasmissione del pensiero a distanza diverse da quelle menzionate (104). Di gran lunga più problematico è risultato viceversa interpretare l’indicazione normativa secondo cui l’utilizzo della posta e degli altri mezzi di comunicazione deve essere effettuato « allo scopo di dare esecuzione al piano fraudolento » (105). È del tutto evidente, infatti, come risulti davvero cruciale stabilire se l’uso dei menzionati mezzi di comunicazione debba essere una modalità strumentale intrinseca del piano fraudolento, una modalità cioè ontologicamente connessa alla tipologia criminosa della frode postale; ovvero possa essere giotta (citato supra n. 92). Brani di tale dissenting opinion sono riportati in N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 144 ss. (101) 483 U.S. 350 (1987). Diffusamente, C. BRADLEY, Mail Fraud After McNally and Carpenter: The Essence of Fraud, in 79 J. of Criminal L. and Criminology, 1988, 618 ss.; J. GAGLIARDI, Back to the Future: Federal Mail and Wire Fraud, cit., 901 ss.; Scettico sulla reale portata restrittiva della decisione, J. COFFEE, Does « Unlawfull » Mean « Criminal »?: Reflections On The Disappearing Tort⁄Crime Distinction In American Law, in 71 Boston University L.R., 1991, 193 ss.; ID.., Hush!: The Criminal Status of Confidential Information After McNelly and Carpenter and the Enduring Problem of Overcriminalization, in 26 American Criminal L.R., 1988, 121 ss. (102) Sei mesi dopo McNelly, tuttavia, la stessa Corte Suprema, precisava che il rigetto dell’intangible rights dottrine non significava che la fattispecie di mail fraud non potesse essere applicata rispetto alle frodi dirette ad offendere diritti immateriali di carattere patrimoniale, Carpenter v. United States, 484 U.S. 19 (1987). (103) L’« interpretazione autentica » prende corpo (1988) nel nuovo 1346, Title 18, U.S. Code. (104) Circa la punibilità quali wire frauds delle comunicazioni fraudolente inviate via fax: United States v. Norris, 34 F.3d 530 (7th Cir. 1994). (105) Per un’ottima sintesi della problematica, con analitica rassegna di casi, M. EFFKEN, The Mailing Element of the Federal Mail Fraud Statute, cit., 97 ss.
— 1281 — una mera contingenza storica: una eventualità concomitante all’esecuzione, in concreto, di una qualsiasi generica truffa. L’alternativa in questione, da un lato, sposta, lo si accennava sopra, la messa a fuoco dell’interesse protetto; dall’altro, rende la fattispecie più o meno in sintonia con i principi di tipicità, materialità e offensività. Quanto al primo profilo, cioè quello dell’interesse protetto, non sfugge il fatto che soltanto ipotizzando la « indispensabilità » — per così dire — « tipologica » dell’uso della posta nel piano fraudolento, si chiariscono le note di specialità capaci di distinguere mail fraud da una generica ipotesi di « truffa » e quindi di evidenziare la particolare fisionomia dell’interesse protetto dalla frode postale. Quando, infatti, si sostiene la diversa interpretazione secondo cui sarebbe sufficiente un uso della posta meramente « accidentale », « contingente », rispetto al piano fraudolento, l’individualità tipologica di mail fraud si dissolve e muta pure l’interesse protetto. Negato infatti un collegamento necessario, come s’è detto, « tipologico » tra uso della posta e modalità fraudolenta dell’aggressione, il reato di mail fraud viene a configurarsi come un illecito in cui, per così dire, forma e sostanza divergono in modo schizofrenico. Nella sostanza, nella sua reale dimensione applicativa, il reato svolge infatti la funzione di una comune ipotesi di truffa, una truffa caratterizzata dalla presenza accidentale e contingente dell’uso della posta. Tale presenza, proprio per la sua « accidentalità » non sposta l’oggetto effettivo della tutela: il patrimonio o gli altri interessi veicolati dall’intangible rights doctrine. Nella forma, cioè nelle apparenze del testo e nelle declamazioni delle sentenze, le cose vengono tuttavia rappresentate in modo affatto diverso. Come già si notava, la norma incriminatrice di mail fraud non esprime infatti testualmente il suo essere una comune fattispecie di truffa; la norma positiva ostende piuttosto, come condotta vietata, il mero « uso della posta » per fini illeciti. In tale quadro, si comprende allora come la giurisprudenza, preoccupata di non rilevare un evidente contrasto con i criteri di competenza federale — e posto che l’esecuzione del piano fraudolento non è a rigore richiesta dalla norma — possa agevolmente eclissare la visione dei « reali » interessi tutelati (il patrimonio e la gamma di posizioni comprese nella intangible rights doctrine), individuando il bene protetto nella « purezza » del « servizio postale » in sé e per sé considerato. Si tratta tuttavia — è intuitivo — di una giustificazione comunque mistificante e pericolosa: sia che si fondi su arcaiche visioni che intendono in modo quasi eticizzante la tutela del mezzo di comunicazione; sia che — come è più verosimile — riveli l’ipocrisia di una prassi che non vuole affermare chiaramente che la fattispecie di mail fraud è un mero strumento surrogatorio per punire condotte fraudolente e dannose che non sarebbero di competenza federale e⁄o che sarebbe comunque impossibile o difficile punire altrimenti. Quanto ai profili di tipicità, offensività e materialità, non servono molte parole per sottolineare come un’incriminazione fondata, quanto al suo elemento oggettivo, esclusivamente su di una condotta neutra ed assiologicamente insignificante qual è l’uso della posta o del telefono assuma caratteri di estrema pericolosità. Si determina infatti una anticipazione della soglia della punibilità che supera anche le più soggettivistiche visioni del delitto tentato (106). E sebbene la casistica dimostri che sono di fatto inesistenti le prosecutions di piani fraudolenti abortiti precocemente, ad esempio dopo il mero invio di una lettera o la conclusione di una telefonata, lo squilibrio soggettivo della fattispecie è pur sempre idoneo a tradursi, anche nel caso di piani fraudolenti completi e seriamente aggressivi, in uno strumento per porre in essere una repressione penale extra ordinem. Venendo dunque alle posizioni della giurisprudenza — e trascurando le decisioni remote (107) — occorre subito rilevare come negli orientamenti recenti, la prospettiva più rigorosa sopra menzionata trovi scarso seguito. Assai rara è dunque l’affermazione secondo (106) Sottolinea l’esigenza di riconciliare il reato di mail fraud con la problematica dei reati preparatori, J. COFFEE, The Metastasis of Mail Fraud, cit., 10 ss. (107) In proposito, M. EFFKEN, The Mailing Element of the Federal Mail Fraud Statute, cit., 118 s.
— 1282 — cui occorre una stretta essenzialità strumentale tra il ricorso alla posta e la tipologia delle frodi realizzate (108). Nonostante il superamento della interpretazione che richiedeva l’« essenzialità strumentale » tra l’uso della posta e la realizzazione della frode, è tuttavia pur sempre possibile riscontrare, nell’odierna giurisprudenza, un orientamento più vicino a tale posizione ed uno invece che intende in modo particolarmente lasco il nesso tra il ricorso al mezzo di comunicazione ed il piano fraudolento. La visione più restrittiva è avallata soprattutto da alcune sentenze meno recenti della Suprema Corte. Così, ad esempio, in un caso del 1944, si è stabilito che l’automatica trasmissione di un assegno dalla banca presso cui è presentato per l’incasso alla banca dove è presente la provvista, non configura, rispetto al cliente che per realizzare il suo piano fraudolento presenta l’assegno, l’« uso della posta » richiesto dalla fattispecie di mail fraud (109). La comunicazione tra banche, e dunque la trasmissione, come nel caso di specie, di un assegno, è una prassi ordinaria e costante: essa non può dirsi, dunque, effettuata « for the purpose of executing the scheme » (110). Nella prospettiva in esame, la giurisprudenza non fa tanto leva sul fatto che l’uso della posta debba essere effettuato direttamente dall’agente, piuttosto che da terzi (negli esempi citati, da enti bancari). Stante il disposto di legge secondo cui la condotta vietata consiste non solo nel fare uso dei servizi postali, ma anche nel causare deliberatamente l’uso altrui dei servizi postali stessi, il rapporto diretto tra agente e servizi postali risulta comunque superfluo. Piuttosto, si ribadisce la necessità di un nesso strumentale quantomeno essenziale (anche se non « ontologico »), tra uso della posta ed esecuzione del piano fraudolento. Si esclude così che il mailing element possa seguire cronologicamente il conseguimento dell’indebito profitto. Un indirizzo giurisprudenziale meno restrittivo interpreta invece l’elemento di mail fraud qui in esame in modo decisamente più funzionale alla dilatazione applicativa della fattispecie. Tale indirizzo risulta quantitativamente più nutrito, suffragato da decisioni più recenti e molto più diffuso anche tra i tribunali di grado inferiore. Ad esso paiono inoltre ispirarsi i comportamenti e le decisioni degli organi di investigazione e dell’accusa. L’interpretazione in esame ricostruisce il nesso tra uso della posta e condotta fraudolenta in termini del tutto evanescenti. Fatta salva, ma a volte solo quale mera clausola di stile, l’affermazione secondo cui l’uso della posta non può essere meramente accidentale all’interno del piano fraudolento, si sottolinea innanzitutto come il ricorso alla comunicazione possa imputarsi all’agente anche solo laddove questi si rappresenti la eventualità che l’uso della posta faccia seguito alla sua condotta quale « ordinary business practice » esistente tra altri soggetti (111). Il requisito della strumentalità viene quindi ulteriormente minimizzato, per quanto attiene al rapporto tipologico con la truffa, ritenendosi sufficiente che l’uso della posta sia, in (108) L’abbandono di tale posizione si collega d’altronde all’abrogazione legislativa, avvenuta fin dal 1909 e già ricordata, di quella parte della fattispecie ove si prevedeva la necessità che l’agente intendesse realizzare il piano fraudolento proprio confidando sull’uso della posta. V. anche retro, note 45 e 54. (109) Kann v. United States, 323 U.S. 88 (1944). (110) D’altro canto, le particolari modalità attraverso cui le banche provvedono al pagamento degli assegni, per posta o in altro modo, è del tutto irrilevante per la vittima della truffa. Nello stesso senso, anche decisioni più recenti, relative, ad esempio, all’uso della posta quali modalità di trasmissione dei bollettini attraverso cui vengono effettuati pagamenti con carte di credito, Parr v. United States, 363 U.S. 370 (1960) e United States v. Maze, 414 U.S. 395 (1974), ove tuttavia l’irrilevanza dell’uso della posta viene a dipendere dall’inesistenza di un nesso significativo con la realizzazione del piano criminoso realizzato nel caso concreto. (111) Pereira v. United States, 347 U.S. 1 (1953).
— 1283 — concreto, « un passo della macchinazione » fraudolenta (a step in the plot) (112). Quanto poi alla possibilità che l’uso della posta segua cronologicamente, anziché accompagnare, l’esecuzione del piano criminoso, si distingue tra singole fasi del piano e globalità del disegno criminoso, ritenendo che il reato sia sicuramente configurabile laddove l’uso della posta, pur successivo alla singola transazione fraudolenta, intervenga mentre la « fraudulent venture » è comunque ancora in corso (113). Ciò che importa insomma è che l’uso della posta non sia del tutto irrilevante per la piena riuscita dell’impresa. Così ad esempio, nel caso delle carte di credito, è sufficiente che il fisiologico ritardo con cui la società emittente riceve, via posta, comunicazione della transazione giovi in concreto all’agente (114). Similmente, in uno dei più recenti casi decisi dalla Corte Suprema, si è ritenuto sussistente il reato in esame nell’ipotesi del grossista di automobili usate che, dopo aver alterato il chilometraggio effettivo delle vetture, le rivendeva ad ignari concessionari, i quali provvedevano a loro volta, in occasione di ciascuna vendita al dettaglio, ad inviare via posta allo State Department of Trasportation le richieste di « passaggio di proprietà » con annotato il chilometraggio delle vetture (115). Peraltro, non pare di secondaria importanza anche un’altra presa di posizione della recente giurisprudenza. Si tratta della scelta interpretativa orientata a ritenere che, nella fattispecie in esame, l’interpretazione del mailing element sia una mera questione di fatto, insuscettibile di definizione astratta e come tale di esclusiva pertinenza della giuria popolare (116). Tale conclusione, oltre ad accentuare ulteriormente la frizione tra la fattispecie di mail fraud ed il principio di legalità, conferma, le osservazioni sopra più volte accennate in merito alla nozione di « diritto giurisprudenziale » ed alla sua non identificabilità con i testi prodotti dalle corti di grado superiore. Non sfugge infatti come, anche a seguito del riconoscimento effettuato dalla Corte Suprema nel caso citato, gli ambiti reali della fattispecie in esame risultino essere quelli che le vengono di fatto assegnati, senza alcuna motivazione scritta, dalla giuria popolare al dibattimento. 6. Dal reato di mail fraud ad un più generale modello di responsabilità penale: uno sguardo ad altre fattispecie incriminatrici del sistema federale statunitense. — Sulla base dell’analisi sin qui sviluppata, si comprendono ora meglio le ragioni che spingono la dottrina statunitense a formulare, in merito al reato di mail fraud, le considerazioni riportate in apertura del presente lavoro. Benché la fattispecie in questione presenti caratteristiche del tutto peculiari, tali da spiegare la spiccata predilezione nutrita dai prosecutors, essa non costituisce un’aberrazione isolata nel complessivo quadro dei reati federali. Senza poter scendere qui in dettagli, basterà richiamare, innanzitutto, la fattispecie di conspiracy, prevista nella sua forma base dal § 371 del Title18, U.S. Code e poi da numerosissime altre disposizioni speciali (117). Tale figura, detta ironicamente « darling of the prosecutor’s nursery », consente di punire il mero accordo diretto alla commissione di un qualsiasi (112) Si veda, il caso Schmuck, citato infra, nota 115. M. EFFKEN, The Mailing Element of the Federal Mail Fraud Statute, cit., 125. (113) United States v. Sampson, 371 U.S. 75 (1962). (114) Si veda, ancora, il caso, Pereira, retro nota 111. (115) Schmuck v. United States, 489 U.S. 705 (1989). Nel caso di specie, come è evidente, l’uso della posta non era nè direttamente effettuato dall’imputato, nè destinato ad ingannare le vittime, nè antecedente al conseguimento dei profitti. Cfr., M. EFFKEN, The Mailing Element of the Federal Mail Fraud Statute, cit., 98 ss.; in senso decisamente critico, E. PODGOR, Mail Fraud: Opening Letters, cit., 239 ss. (116) Si veda, ancora il caso Schmuck, citato, retro, nota 115, nonchè, M. EFFKEN, The Mailing Element of the Federal Mail Fraud Statute, cit., 126 s. (117) Sulla peculiare figura giuridica, E. GRANDE, Accordo criminoso e conspiracy, Padova, 1993, spec. 71 ss., nonché, M. PAPA, Conspiracy, in Dig. disc. pen., III, Torino, 94 ss.
— 1284 — reato. Una forma speciale di conspiracy, la conspiracy to defraud (118), va ancora oltre: tale figura camaleontica, all’interno della quale ritroviamo molti topoi della frode postale, permette addirittura la repressione degli accordi diretti genericamente a « defraudare gli Stati Uniti ». Si pensi poi al reato gergalmente denominato « 10b 5 », già menzionato in apertura: la condotta vietata consiste qui nel porre in essere « comportamenti decettivi in connessione con la vendita o l’acquisto di titoli » (119). Anche in questo caso, la giurisprudenza ipotizza la sussistenza del reato laddove semplicemente l’agente venga meno ad un dovere di comunicazione derivante da un particolare rapporto fiduciario. Così, ad esempio, nel caso del dipendente della banca d’affari che utilizza informazioni riservate, apprese in ragione del suo rapporto di lavoro, per effettuare proprie speculazioni di borsa, senza che ciò implichi un effettivo inganno o un danno immediato né per la banca d’affari né per i clienti della stessa (119bis). Prescindendo qui dalle complesse ed interessantissime aree della legislazione concernente i reati fiscali (120), il traffico di stupefacenti (121), la disciplina dell’antitrust (122), la tutela dei diritti civili (123), conviene far qualche rapido cenno ad una serie di altre norme incriminatrici, dirette teoricamente alla repressione del fenomeno della criminalità organizzata, ma suscettibili di applicazione anche a forme delinquenziali di minore complessità. Sebbene coinvolgano molti profili attinenti ai particolari rapporti tra legislazione federale e legislazione statale, tali disposizioni rivestono un’importanza più generale. Non sfugge infatti come, a prescindere dalle questioni di carattere istituzionale concernenti i rapporti tra ordinamenti, tanto lo spostamento della competenza dalla sede statale a quella federale, quanto, soprattutto, il rilevante aumento di pena che le fattispecie federali autorizzano rispetto alle corrispondenti fattispecie comuni, vengano ad operare sulla base di presupposti normativi del tutto evanescenti. Tra queste fattispecie viene innanzitutto in esame, anche considerando l’ordine cronologico di emanazione, il c.d. Mann Act (o White Slave Traffic Act) (124), volto a reprimere il fenomeno della prostituzione, la cui principale fattispecie incriminatrice prevedeva, fino al 1986, il reato di chi « trasporta una donna da uno Stato all’altro per fini di prostituzione o per altro fine immorale », consentendo così di reprimere tanto il grande traffico di prostitute gestito dalla criminalità organizzata, quanto gli spostamenti di residenza delle coppie non sposate (125) o le gite oltre confine delle famiglie poligamiche mormoni (126). Il Mann Act, (118) A. GOLDSTEIN, Conspiracy to Defraud The United States, in 68 Yale L.J., 1959, 405 ss. (119) Il reato è previsto dal § 240.10 b - 5 del Title 17 del Code of Federal Regulations. (119-bis) United States v. Dial, 757 F.2d 163 (7th Cir. 1984). (120) Un piccolo compendio di diritto penale tributario federale si trova nella prima edizione di N. ABRAMS, Federal Criminal Law, St. Paul, Minn. 1986, 451 ss. (ogni citazione di tale manuale diversa dalla presente, deve intendersi riferita alla seconda edizione, citata, retro, n. 32). (121) N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 256 ss. Nel quadro dei reati in materia di stupefacenti, un cenno particolare va fatto alla fattispecie « associativa » denominata Continuing Criminal Enterprise (C.C.E.), ID., ivi, 299. (122) H. HOVENKAMP, Economics and the Federl Antitrust Law, St. Paul, Minn., 1985, 135 ss.; nonché, E. FOX, L. SULLIVAN, Cases and Materials on Antitrust, St. Paul, Minn., 1989, 282 ss.. (123) N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 580 ss. (124) Risalente al 1910 e le cui fattispecie incriminatrici sono inserite nei §§ 2421 e ss. del Title 18 U.S. Code. Sul Mann Act, N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 49 s.; Note, Interstate Immorality: the Mann Act and the Supreme Court, in 56 Yale L.J., 1947, 718 ss. (125) Il caso, tutt’altro che recente, è Caminetti v. United States, 142 U.S. 479 (1917). (126) Cleveland v. United States, 329 U.S. 14 (1946).
— 1285 — è stato di recente riformato (127), ma più che altro per eliminare l’evidente gender bias da cui era affetto: oggi non si punisce più soltanto il trasporto di una persona di sesso femminile, ma di qualunque individuo. Il dolo specifico è stato poi precisato in modo più tassativo: attualmente consiste — scopi di prostituzione a parte — nel proposito che l’individuo sia avviato alla pratica di attività sessuali costituenti di per sé reato. Se si considera tuttavia che in numerosi Stati sono ancora penalmente rilevanti comportamenti quali la « fornicazione », l’adulterio, la « sodomia » e simili (128), si comprende come il progresso sul piano della tassatività si accompagni ad un sostanziale stallo sul piano dell’offesa. Passando adesso al c.d. Hobbs Act (129), si segnala come lo stesso punisca « chiunque, in qualsivoglia modo e misura ostacola, ritarda, pregiudica il commercio o il movimento di una cosa o di merce in commercio, mediante rapina o estorsione, ovvero tenta di fare ciò o si accorda a tal fine; ovvero ancora minaccia violenza fisica a persone o a cose al fine di dare esecuzione a qualsiasi piano che sia contrario alla presente disposizione ». Anche qui, le potenzialità della norma vengono esasperate dalla giurisprudenza attraverso la c.d. « depletion of assets theory » (teoria del depauperamento patrimoniale), in base alla quale l’incidenza sul commercio interstatale si verifica ogni qual volta la vittima sia solita acquistare beni prodotti fuori dallo Stato in cui risiede (130). In tal caso infatti, l’aggressione patrimoniale su tale soggetto, ed il conseguente impoverimento di questi, si rifletterebbero indirettamente sul traffico commerciale tra Stati. L’Hobbs Act è stato così applicato nel caso di estorsione commessa ai danni di un barista che serviva birra prodotta in un altro Stato (131), e persino nel caso della tentata rapina ai danni di un albergo i cui clienti provenivano da altri Stati (132). Poiché il termine extorsion, presente nella fattispecie, viene normativamente definito (§ 1951 (2) Title18) come comprendente le condotte estorsive poste in essere avvalendosi di un pubblico ufficio, il reato in esame costituisce anche uno strumento repressivo di condotte di concussione poste in essere da pubblici funzionari (133). Nel 1961, la fattispecie dell’Hobbs Act viene affiancata da quella del c.d. Travel Act (134) tramite la quale può essere punito « chiunque viaggia tra Stati [...] o usa qualsiasi struttura destinata al traffico interstatale, compresa la posta, al fine di 1) distribuire i proventi di una attività illecita [...] « commettere qualsiasi reato violento per promuovere tale attività 3) promuovere, gestire, [...] facilitare la promozione [...] di ogni attività illecita, realizzando o tentando di realizzare taluna delle condotte menzionate. L’attività è illecita quando posta in essere nel quadro di una impresa che gestisce il gioco d’azzardo, il traffico di liquori di contrabbando, il traffico di stupefacenti, [o che commette] estorsioni, corruzioni, incendi [...] ». Sempre in tema di spostamenti tra Stati merita un cenno, poi, la norma incriminatrice del § 2101, Title 18 U.S. Code, attraverso la quale è possibile punire chiunque attraversi il confine tra due Stati con il proposito di incitare pubbliche manifestazioni sediziose. (127) La riforma è avvenuta in due tempi: nel 1978 è stata introdotta, nel Title 18, la norma del § 2423, relativa al « traffico di minori » per scopi sessuali; nel 1986 è stata invece riformulata — nel senso indicato nel testo — la fattispecie base del § 2421. (128) Cfr., A. CADOPPI, Moralità e buon costume, cit., 189 ss., nonché, retro nn. 8, 9, 11. (129) La fattispecie incriminatrice, creata nel 1948 e poi riformata, è inserita nel § 1951 Title 18 U.S. Code. Nella manualistica, N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 198 ss. (130) Comment, Federal Criminal Jurisdiction under Hobbs Act Satisfied by Showing Potential Effect on Commerce, in 28 Vanderbilt L.R., 1975, 1348 s.; nella dottrina italiana, V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, cit., 19 s. (131) United States v. Pacente, 503 F.2d 543 (7th Cir. 1974). (132) United States v. Pearson, 508 F.2d 1167 (5th Cir. 1975). (133) Sul punto, N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 204 ss. (134) Travel Act in Aid of Racketeering (I.T.A.R.), confluito nel 1952 nell’U.S. Code; N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 58 ss. 243 ss.
— 1286 — Più note sono infine le fattispecie della legislazione RICO, emanata nel 1970 e diretta soprattutto a prevenire l’infiltrazione del crimine organizzato nell’economia legale (135). Tra i vari reati RICO, si segnala qui la norma incriminatrice concernente la condotta di chi « gestisce un impresa, o partecipa a tale gestione, attraverso uno schema di attività illecita ». Tale schema si identifica, il punto è fondamentale, nella mera commissione di due particolari reati (individuati in un’ampia lista e denominati predicate crimes) nell’arco di dieci anni. Si tratta di una fattispecie incriminatrice dalle potenzialità dirompenti, ancora una volta pienamente valorizzate dalla giurisprudenza (e prima ancora dagli organi investigativi e dai prosecutors): la norma — originariamente destinata a prevenire l’infiltrazione del crimine organizzato nelle imprese operanti nell’economia legale — viene infatti interpretata in modo da consentire di qualificare come « gestione illecita d’impresa » anche la mera conduzione di vere e proprie associazioni per delinquere. Senza scendere qui in ulteriori dettagli, conviene inoltre ricordare anche la particolare ipotesi di conspiracy prevista dalla legislazione RICO, combinandosi con le varie fattispecie RICO ed in particolare come quella di « gestione illecita d’impresa » appena ricordata, consenta di punire per RICO anche chi « partecipa » tramite un mero accordo (la conspiracy appunto), nei due « reati comuni » (c.d. predicate crimes, sopra citati) integranti il pattern of racketeering activity, lo schema di attività illecita. È peraltro assai importante segnalare come nell’elenco dei predicate crimes idonei a fondare (tramite il pattern of racketeering activity) la responsabilità per i reati RICO compaiano anche i reati di mail e wire fraud. L’interrelazione tra le due figure d’illecito sviluppa, come segnalato da una allarmata dottrina statunitense, sinergie devastanti: RICO consente infatti di innalzare di molto i limiti di pena fissati dalla fattispecie di frode postale, mentre nel caso la frode coinvolga una istituzione finanziaria è addirittura mail fraud, prevedendo una pena fino a trent’anni, a dilatare i limiti edittali di RICO (136). Considerando i verosimili usi strumentali di tali potenzialità nel quadro della giustizia contrattata, si comprende come mail fraud sia il predicate crime di RICO più frequentemente contestato dagli organi dell’accusa federale (137). 7. L’ascrizione della responsabilità penale nel sistema federale statunitense tra presupposti giuridici e presupposti fattuali. — Volendo trarre qualche conclusione dal discorso sopra svolto in merito al reato di mail fraud e agli altri fugacemente esaminati, si può rilevare come il tratto a tutti comune sia l’estrema ampiezza del campo di illiceità delineato. Tale ampiezza deriva non solo dalla descrizione legislativa della fattispecie, ma anche, come si è visto, dalla interpretazione particolarmente creativa della giurisprudenza che ha talora esteso la portata incriminatrice di singole norme incriminatrici ben oltre i già vasti confini linguistici tracciati dal legislatore. Se tuttavia la nostra analisi dovesse concludersi qui, al termine cioè di una ricognizione attenta sì anche alla giurisprudenza, ma limitata al campo di teorica illiceità comunque riferibile alle fattispecie astratte, il quadro tracciato non potrebbe certo dirsi realistico. La tanto proverbiale democrazia americana ne uscirebbe, a tacer d’altro, sfigurata: come può dirsi libera una società in cui ogni telefonata, se fatta con animo men che limpido, può condurre in carcere? dove ogni accordo illecito è già una conspiracy penalmente rilevante? dove basta attraversare la frontiera interstatale con la « famiglia di fatto » per essere sottoposti a procedimento penale? (135) Cfr., §§ 1961 — 1968, Title 18, U.S. Code. Sui reati della legislazione RICO, si vedano per tutti, nella sterminata bibliografia, il classico, B. TARLOW, RICO The New Darling of the Prosecutor’s Nursery, in 48 Fordham L.R., 1980, 183 e l’aggiornata panoramica di T. DOHERTY, D. DRUFFNER, R. SINGH, A. WARDE, Racketeering Influenced and Corrupt Organizations, in 31 American Criminal L. R., 1994, 769 ss. Nella dottrina italiana, G. TESSITORE, La nuova legge antimafia e il precedente « modello » americano, in questa Rivista, 1984, 1043 ss. (136) E. PODGOR, Mail Fraud: Opening Letters, cit., 250 ss. e ivi nn. 294 ss. (137) N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 120.
— 1287 — Fuor d’ironia, le domande appena elencate suggeriscono allora, con intuitiva evidenza, l’opportunità di approfondire ulteriormente l’indagine, interrompendo la contemplazione di un quadro in cui l’illiceità rappresentata è puramente teorica e cercando piuttosto di capire meglio come maturi, al di là della portata potenziale delle fattispecie, l’ascrizione effettiva della responsabilità penale. Avviando l’indagine nella direzione appena indicata, occorre subito constatare come la scelta di tracciare, tramite fattispecie indeterminate e⁄o prive di offensività, amplissimi campi di teorica rilevanza penale, magari destinati ad essere ulteriormente dilatati dalla giurisprudenza, è solo il primo momento di una strategia politico-criminale assai più complessa e articolata (138). Tale scelta non implica infatti in alcun modo, a ben vedere, che vengano poi perseguiti e puniti tutti i fatti compresi nel vasto terreno delimitato: anzi la piena implementazione⁄applicazione dalla fattispecie incriminatrice è obiettivo cui il legislatore federale statunitense rinuncia consapevolmente ed in partenza (139). Alla vasta area di teorica rilevanza penale si accompagna piuttosto — non senza ambiguità (140) — l’idea che il « momento applicativo » si incaricherà poi di mettere a fuoco, o comunque di individuare in concreto, un più limitato insieme di fatti da perseguire e punire effettivamente: nessuno penserebbe mai — nota efficacemente la dottrina statunitense — di perseguire penalmente, ad esempio per wire fraud, l’uomo politico reo di avere « fraudolentemente » annunciato, in televisione, il proprio impegno — poi non mantenuto — a non aumentare la pressione fiscale (141). Utilizzando una terminologia assai diffusa nelle scienze criminali, si può dunque dire che le fattispecie penali federali presentano, fisiologicamente, una « cifra grigia » (grey figure) (142) particolarmente elevata. Molti reati, pur risultando, come si dice, « chiariti », cioè pur giungendo a conoscenza dell’autorità e pur essendone noto l’autore (presunto), non danno poi luogo ad alcuna formale ascrizione di responsabilità. E tale fenomeno si inserisce normalmente, e in buona misura ufficialmente, nel funzionamento del sistema. 7.1. Ascrizione della responsabilità ed inflizione della pena. Estraneità alla presente indagine dei problemi relativi al sentencing. — Prima di esaminare più nel dettaglio lo schema di ascrizione della responsabilità cui si è appena accennato, occorre segnalare una netta delimitazione del campo d’indagine: il presente lavoro non potrà affrontare le numerose questioni concernenti la fase che segue l’attribuzione della responsabilità e che concerne il determinarsi della conseguenza giuridica, cioè l’inflizione e la commisurazione della pena (138) N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 82. È significativo notare come anche nel quadro degli sforzi di ricodificazione del diritto penale federale, si faccia fondamentale assegnamento sulla « ragionevolezza » dei prosecutors e sul loro self-restraint nel dare applicazione alle varie fattispecie incriminatrici federali; tale l’opinione della National Commission on Reform of the Federal Criminal Laws, riportata in ID., ivi, 47. (139) T. ARNOLDS, (The Symbols of Government, New Haven, 1935, 88), paragona l’utopia del full enforcement alla strategia di chi, in guerra, pensasse di attaccare contemporaneamente tutti i nemici su tutti i fronti. (140) Circa l’ipocrisia che talora si cela dietro l’applicazione selettiva o la non applicazione di taluni illeciti, è significativo ricordare quanto già sottolineava, ancora una volta il « realista », T. ARNOLD, (The Symbols of Government, cit., 160): « Molte leggi inapplicate sopravvivono per soddisfare le nostre resistenze morali verso comportamenti diffusamente praticati. Sono inapplicate perchè vogliamo continuare nei nostri comportamenti e non vengono abrogate perchè vogliamo preservare la nostra morale ». (141) E. PODGOR, Mail Fraud: Opening Letters, cit., 230 ss. e n. 99. L’esempio fa riferimento alla celebre affermazione televisiva del Presidente Bush: « Read my lips: No new taxes », poi notoriamente smentita dai fatti. (142) In merito a tale nozione, v. nella dottrina italiana, G. FORTI, Tra criminologia e diritto penale. Brevi note su « cifre nere » e funzione generalpreventiva della pena, in questa Rivita, 1982, 161; C.E. PALIERO, Minima non curat praetor, Padova, 1985, 238 ss.
— 1288 — (sentencing) (143). E ciò malgrado l’estremo interesse che assumerebbe lo studio di una fase nella quale il sistema delle « fonti », per dir così, concretamente incidenti sul collegamento reato — sanzione vedrebbe ulteriori e complesse articolazioni. La scelta di limitare in tal modo la presente indagine è dovuta al fatto che la prospettiva del sentencing dischiuderebbe un campo problematico completamente eterogeneo rispetto a quello concernente l’ascrizione della responsabilità, un campo la cui autonomia costituisce caratteristica tra le più tradizionali e, ad un tempo, attuali del diritto penale statunitense. Tradizionali in quanto la risalente natura « bifasica » del processo penale americano ha visto per decenni — fino alle recenti riforme — il giudice del sentencing muoversi in assoluta libertà rispetto all’accertamento effettuato al trial (144). Attuali in quanto il sofferto raccordo tra le due fasi processuali dell’accertamento e del sentencing è andato ulteriormente complicandosi dopo le recenti, profonde, modificazioni legislative in tema di commisurazione della pena. L’introduzione delle c.d. sentencing guidelines, segnando la fine della libera discrezionalità del giudice in fatto di commisurazione, ha posto infatti in modo assai più manifesto che in passato la questione del coordinamento e del conflitto tra due « giudizi » (quello del trial e quello, appunto, del sentencing); giudizi che oggi sono entrambi rigidamente strutturati in base a norme giuridiche e tuttavia ancora, in varia misura, indipendenti. Senza entrare qui neppure in modo tangenziale nella problematica, ci limiteremo a segnalare l’alternativa tra un sentencing basato sulla c.d. real offense (nel quale il quadro storico del reato viene interamente e nuovamente ricostruito ai soli fini della commisurazione) e un sentencing fondato invece sulla c.d. charge offense (cioè sul reato formalmente accertato al trial) (145). Mentre la prima soluzione crea rilevantissimi problemi di garanzia stante la natura sommaria ed informale di un nuovo « accertamento » al cui interno possono addirittura essere valutati fatti di reato non contestati o per i quali si è stati assolti al trial (146). La seconda non riesce mai a realizzarsi compiutamente, prima di tutto sul piano legislativo: sia perché le fattispecie incriminatrici, in assenza di un articolato sistema di circostanze, non riescono a cogliere neppure le grandi differenze tra i casi concreti in esse sussumibili (147), (143) Nella sterminata bibliografia sul sentencing, basti qui segnalare il recente lavoro di M. TONRY, Sentencing Matters, New York — Oxford, 1996; nonché, A. ALSCHULER, The Failure of Sentencing Guidelines: A Plea for Less Aggregation, in 58 U. of Chicago L.R., 901 ss.; D. FREED, Federal Sentencing in the Wake of the Guidelines, in 101 Yale L.J., 1681 ss.; S. SCHULHOFER, Assessing the Federal Sentencing Process: The Problem is Uniformity not Disparity, in 29 American Criminal L. R., 1992, 833 ss. (144) Per tutti, D. FREED, Federal Sentencing in the Wake of the Guidelines, cit., 1712; Note, An Argument for Confrontation Under the Federal Sentencing Guidelines, in 105 Harvard L.R., 1992, 1885 ss.; illo tempore: Note, Procedural Due Process at Judicial Sentencing for Felony, in 81 ivi 1968, 843 ss.; il caso di riferimento era Williams v. New York 337 U.S. 241 (1949), nel quale si era affermata la piena facoltà del giudice di raccogliere ai fini del sentencing la più ampia gamma di elementi di giudizio. (145) In merito a tale alternativa, cfr., le pagine introduttive dell’U.S. Sentencing Guidelines Manual, cit., in particolare il punto 4 (b) sub (a). In generale, S. BREYER, The Federal Sentencing Guidelines and the Key Compromise Upon which They Rest, in 17 Hofstra L.R., 1988, 7 ss.; D. FREED, Federal Sentencing in the Wake of the Guidelines, cit., 1712, ss.; M. TONRY, Real Offense Sentencing: The Model Sentencing and Correction Act, in 72 J. of Criminal L. and Criminology, 1981, 1550 ss.; W. WILKINS, J. STEER, Relevant Conduct: The Cornestone of the Federal Sentencing Guidelines, in 41 Supreme Court R. 1990, 495 ss. V. anche gli atti del convegno, The Issue of Relevant Conduct, pubblicati in 2 Federal Sentencing Reporter, 1989. (146) Per tutti, S. HERMANN, The Tail that Wagged the Dog: Bifurcated Factfinding and the Limits of Due Process Under the Federal Sentencing Guidelines, in 66 Southern California L. R., 1992, 289 ss.; Note, An Argument for Confrontation Under the Federal Sentencing Guidelines, cit., 1881 ss. (147) S. BREYER, The Federal Sentencing Guidelines and the Key Compromise Upon which they Rest, cit.
— 1289 — sia perché per la natura spesso convenzionale ed esemplificativa della qualificazione contenuta nell’atto d’accusa rende l’etichetta giuridica della condanna assai poco significativa. 8. I presupposti della responsabilità nel momento della previsione legale: le vastissime dimensioni del campo di illiceità delineato dalle fattispecie incriminatrici federali. — Tornando dunque al tema che qui interessa, e cioè ai meccanismi di ascrizione della responsabilità penale, conviene ripartire dalla constatazione circa l’estrema latitudine del campo d’illiceità delineato dalle fattispecie incriminatrici federali e dalla glossa giurisprudenziale ad esse relativa. Talora l’ampiezza dell’area di teorica illiceità penale deriva dal caos sistematico della legislazione statunitense e dalla presenza di numerose previsioni legali concorrenti o parzialmente sovrapposte. Spesso tuttavia, e queste sono le ipotesi che qui interessano, l’ampiezza deriva proprio dalla portata della singola fattispecie incriminatrice. Volendo analizzare un po’ più da vicino quest’ultimo fenomeno, si può innanzitutto rilevare — ma la constatazione è ovvia dopo l’esame di mail fraud — come la vastità dell’area di teorica rilevanza penale non sempre derivi da una eclatante indeterminatezza dell’enunciato normativo: mentre talora siamo davvero in presenza di definizioni legali icto oculi inafferrabili (è il caso, ad esempio, della conspiracy to defraud), altre volte — è il caso appunto della frode postale — la tecnica normativa è assai più insidiosa. In quest’ultimo tipo di reati, la condotta vietata viene infatti descritta indicando comportamenti chiaramente ed univocamente definiti (ad esempio, l’uso dei servizi postali), ma tuttavia — questo è il punto — privi di autonoma consistenza offensiva. Si utilizzano cioè dati di realtà del tutto neutri sul piano dei valori e tuttavia di facile riscontro sul piano empirico — fattuale, lasciando che solo nel dolo specifico si intravedano — semmai — classi di condotte offensive realmente meritevoli di punizione. Rispetto ai principi generali del diritto penale, così come intesi nella nostra tradizione giuridica, la tecnica legislativa in esame cozza in maniera evidente, sia con l’idea di extrema ratio (148), sia con l’esigenza di necessaria lesività dell’illecito (149). Più in particolare, l’attrito si manifesta per l’assoluta inidoneità della condotta materiale indicata a postulare la lesione di un interesse significativo, anche solo di quello stilizzato dal dolo specifico (150). Quest’ultimo, peraltro, spesso non palesa neppure un vero e proprio proposito di lesione, limitandosi a far intravedere il mero pericolo della stessa (151). Così, ad esempio, nel quadro della più volte menzionata intangible rights doctrine, l’agente viene punito in assenza di qualsiasi nesso, anche solo soggettivo, con l’aggressione al patrimonio altrui: la violazione del dovere di informazione è infatti momento del tutto eventuale rispetto alla effettività della lesione (152). Si potrebbe continuare, estendendo le considerazioni critiche anche ai profili di vera e propria indeterminatezza, sia di mail fraud (153) che di altre norme incriminatrici. Sebbene, infatti, la fattispecie di frode postale, presenti, a prima vista, una « apparenza di significato », a ben vedere l’assoluta eterogeneità di disvalore esistente tra i fatti in essa sussumibili smentisce presto tale frettolosa diagnosi. Come infatti è stato ormai ampiamente dimostrato, la mancata descrizione, nella fattispecie, di un tipo di fatto valutativamente omogeneo rende (148) Su tale principio, v. per tutti, G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, 3a ed., Bologna 1995, 28 ss. (149) Per tutti, F. MANTOVANI, Diritto penale, 3a ed., Padova, 1992, 203 ss. (150) Limpidissime, in proposito, le considerazioni di, F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Nss. D.I., XIX, Torino, 1974, 87 s. (151) In merito a tale distinzione ed al suo rilievo per l’accettabilità del dolo specifico nel sistema italiano, F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 234. (152) J. COFFEE, The Metastasis of Mail Fraud, cit., 1 ss. (153) C. BRADLEY, Mail Fraud after McNally and Carpenter, cit., 620 ss.; E. PODGOR, Mail Fraud: Opening Letters, cit., 236 ss., 267 ss.; G.H. WILLIAMS, Good Government by Prosecutorial Decree, cit., 151 ss.
— 1290 — assai difficoltoso mettere a fuoco il reale contenuto significativo dei dati linguistici, pur estrinsecamente comprensibili, offerti dal legislatore (154). Si tratta di prospettive d’analisi che comunque non possono essere approfondite in questa sede. D’altronde, ciò che qui preme rilevare non è tanto l’accettabilità o meno della fattispecie di frode postale (o degli altri reati federali) rispetto ad una serie di principi (extrema ratio, offensività, determinatezza) astrattamente intesi; e neppure quella di verificarne l’accettabilità nel sistema giuridico di appartenenza, i cui standards evidentemente dovremmo considerare (155). Per quanto riguarda l’ordinamento statunitense, nonostante le critiche, anche molto aspre, della dottrina (156), la risposta è già data dai fatti: la persistente vitalità di tali reati, il loro continuo sostentamento da parte del legislatore, l’orientamento in fondo consenziente della giurisprudenza (157) dimostrano con chiarezza che questi illeciti occupano lì, malgrado le critiche, solide posizioni. Pare dunque più opportuno indirizzare l’analisi in altra direzione, cercando di capire meglio quale ruolo svolga — nel sistema statunitense — la previsione legislativa di tali fattispecie rispetto all’attribuzione della responsabilità penale e quale ruolo svolgano altre « fonti » incidenti sulla effettiva ascrizione della stessa. Una prima conferma circa la fecondità di tale prospettiva può essere data dal fatto che, a ben vedere, reati come la frode postale non sono facilmente inquadrabili nelle categorie enucleate dalla dottrina italiana a proposito dei c.d. reati senza offesa. Le condotte individuate dal legislatore statunitense (l’uso della posta nel caso di mail fraud; l’attraversamento della frontiera interstatale in altri reati) sono infatti così neutre nel loro valore oggettivo, da non porsi quali sintomi, neppure remoti, né di un iter criminis successivo, né di una pericolosità soggettiva dell’autore. Ma ciò che maggiormente disorienta è il fatto che, come ampiamente confermato anche dalla casistica disponibile in merito al reato qui in esame, il sistema penale americano non assomiglia affatto al modello di ordinamento che solitamente si accompagna al ripudio, espresso o « occulto », del principio di offensività (158). Gli Stati Uniti non sono certamente un paese totalitario. Non interessa dunque, né sarebbe politicamente accettato, punire lì embrioni di reato, o meri atteggiamenti soggettivi. Ed infatti, l’esame dei fatti storici, così come prospettati nelle decisioni giurisprudenziali (ad esempio, in tema di mail fraud), lascia molto spesso intravedere — al di là dei paradossali casi limite — piani criminosi pienamente rea(154) F.C. PALAZZO, Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova, 1979, 421 ss.; ID., Tecnica legislativa e formulazione della fattispecie penale in una recente circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in Cass. pen., 1987, 230 ss.; M. RONCO, Il principio di tipicità della fattispecie penale nell’ordinamento vigente, Torino, 1979, 239. (155) Sul principio di legalità - determinatezza nel sistema statunitense, per tutti, J. JEFFRIES, Legality, Vagueness, and the Construction of Penal Statutes, in 71 Virginia L.R., 1985, 189 ss., J. MILLER, The Language of Justice: Vagueness, Discretion and Sofistry in Criminal Law, 13 Western State University L.R., 1985, 129 ss. (156) Si vedano gli autori citati retro n. 153. (157) Nè contraddice quanto sostenuto nel testo la presa di posizione della Suprema Corte Federale nel caso Mc Nally in tema di intangible rights doctrine (supra, n. 101). Specie se guardata alla luce del successivo sviluppo storico, anche giurisprudenziale, della fattispecie, tale decisione pare, oggi, una vera e propria parentesi. D’altro canto, secondo alcuni (J. COFFEE, Does « Unlawfull » Mean « Criminal »?, cit., 193 ss.), la portata restrittiva di quell’intervento era, anche illo tempore, tutt’altro che incontestabile. Comunque sia, il sostanziale favore della giurisprudenza di grado superiore per mail fraud e la natura del tutto incidentale degli interventi restrittivi, trova conferma ricordando che quando la U.S. Supreme Court prende con convinzione determinate posizioni (anche in forte conflitto con il legislatore), difficilmente recede dalle stesse per mera soggezione politico-istituzionale. (158) Da ultimo su tale modello, F. MANTOVANI, Il principio di offensività nello Schema di delega legislativa per un nuovo codice penale, in Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Milano, 1996, 91 s.
— 1291 — lizzati e — per quanto può valere questa generica espressione — « sostanzialmente » lesivi di un qualche interesse meritevole di tutela. 9. La individuazione dei presupposti della responsabilità attraverso un’analisi del « momento applicativo »: pluralità dei centri decisionali ed eterogeneità dei criteri di giudizio. — Alla luce delle considerazioni appena svolte, si può dunque ribadire che, nel sistema federale statunitense, i « presupposti effettivi » della responsabilità penale, cioè le condizioni in presenza delle quali un fatto conforme ad una norma incriminatrice e di autore noto risulta poi realmente ascritto ad un soggetto, sono evidentemente assai più articolate che nel nostro ordinamento, maturando, in gran parte, non tanto nel momento della previsione astratta quanto piuttosto in quello applicativo. Se tuttavia ci chiediamo in cosa esattamente consista questo « momento applicativo », notiamo subito come il riferimento all’attività della giurisprudenza, in particolare ai testi prodotti dagli organi giurisdizionali di grado superiore, non costituisca affatto indicazione capace di riflettere accuratamente la complessità dei modi attraverso cui l’esperienza giuridica porta effettivamente all’ascrizione della responsabilità penale (159). L’insufficienza della prospettiva deriva innanzitutto dal fatto che — lo si vedrà subito — il contributo dato della giurisprudenza alla formazione del diritto vivente è assai più articolato di quanto appaia limitandosi ad analizzare i soli testi prodotti dalle corti di grado superiore. Più radicalmente, tuttavia, ciò che appare del tutto riduttivo è proprio l’appiattimento del « momento applicativo » sulla sola attività interpretativa e decisionale della giurisprudenza, diremmo noi: della « magistratura giudicante ». Appiattimento derivante dall’ignorare le attività e le decisioni di una più ampia gamma di soggetti, tutti capaci di incidere, in vario modo, sulla concreta ascrizione della responsabilità, secondo un modello che è l’esatta antitesi di quello che immagina la prassi come luogo in cui il giudice e solo il giudice fa applicazione — più o meno meccanica — del diritto sostanziale. Insomma: la selezione penale che ha luogo nel « momento applicativo » opera secondo schemi molto più complessi ed articolati rispetto a quello riconducibile alle soluzioni interpretative — anche particolarmente creative — cui può far ricorso la giurisprudenza (160). 9.1. Il contributo della giurisprudenza delle corti inferiori. — Rimandando di qualche rigo l’approfondimento della prospettiva da ultimo delineata, conviene soffermarci brevemente sull’altro punto e cioè sulla complessa articolazione che assume, negli USA, il diritto giurisprudenziale propriamente detto, cioè quello prodotto dalle case law, dalle decisioni delle corti. Innanzitutto, e sottolineando così anche i problemi di cognizione del diritto giurisprudenziale globalmente inteso, occorre ricordare che a fronte dei limiti assai circoscritti in cui è configurato il diritto d’appello (consentito solo per ragioni di diritto, e solo a favore dell’imputato) e stante la natura episodica ed eccezionale dell’intervento della Corte Suprema (161), risultano di fatto « invisibili » molte delle decisioni prese dalle corti di grado inferiore (trial courts), in particolare quelle che non percorrono gli ulteriori gradi di giudizio. Il contenuto di tali decisioni può essere dunque ipotizzato solo supponendo pienamente rea(159) Sottolinea, in via generale, l’inaffidabilità del diritto delle « massime » giurisprudenziali, R. SACCO, La massima mentitoria, in La giurisprudenza per massime e il valore del precedente, a cura di G. Visentini, Padova, 1988, 51 ss. (160) In merito alle tecniche deflattive operanti tramite soluzioni penalistiche di tipo dommatico e interpretativo, C.E. PALIERO, Minima non curat praetor, cit., 412 ss. Circa l’insufficienza, nel sistema federale statunitense, di una analisi limitata al risibile filtro selettivo costituito dall’attività della giurisprudenza propriamente detta, N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 49 ss., 82. (161) Per tutti, V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, cit., 149 ss.
— 1292 — lizzato il meccanismo del precedente vincolante (161-bis). La supposizione tuttavia, presenta un grado di verosimiglianza discutibile: pur mettendo da parte le critiche generali alla dottrina dello stare decisis — oggetto, da tempo, di una vera e propria demistificazione (162) — basti ricordare il fatto che, negli Stati Uniti, la forza del precedente vincolante è comunque più debole che in altri sistemi di common law (163). D’altro canto, le decisioni delle corti di grado inferiore non risultano solo difficilmente reperibili. La loro cognizione non è problematica solo per « ragioni editoriali ». Ciò che rende davvero problematica la ricostruzione del diritto giurisprudenziale delle corti di prima istanza è piuttosto un ulteriore duplice ordine di fattori. Innanzitutto, le decisioni degli organi giudicanti di primo grado non risultano espresse attraverso la motivazione scritta: mancano insomma i testi attraverso cui prendere cognizione del diritto applicato da tali organi. In secondo luogo, occorre ricordare che al dibattimento (all’unico dibattimento, stante il fatto che in appello non viene mai rinnovato il giudizio) l’organo giudicante è la giuria popolare. La particolare composizione soggettiva delle trial courts rende allora verosimile ipotizzare decisioni guidate talora da criteri anche eterogenei rispetto a quelle delle Courts of Appeals o della Supreme Court. La presenza della giuria, proprio nel momento in cui tende ad assicurare un ponte di collegamento tra processo penale e opinioni della collettività, finisce per consentire, almeno di fatto, un vero e proprio giudizio sulla « meritevolezza di pena », con conseguente valutazione di « irrilevanza » penale per tutti quei fatti che, pur astrattamente sussumibili in particolari fattispecie incriminatrici, non vengono avvertiti come illeciti dalla coscienza sociale (in particolare da quella dei giurati) (164). A fronte di ciò, si può addirittura supporre — introducendo così il tema dei prossimi paragrafi — che (161-bis) Sul grado di osservanza del precedente vincolante da parte delle corti inferiori statunitensi, cfr., U. MATTEI, Stare decisis, Milano, 1988, 295 ss. e due tra i lavori ivi citati, in particolare, Note, Stare decisis in Lower Courtis: Predicting the Demise of a Supreme Court Precedent, in 60 Washington L.R., 1984, 87 ss.; Note, Lower Court Disarwoval of Supreme Court Precedent, in 60 Virginia L.R. 1974, 494 ss. (162) Opera avviata sopprattutto a partire dal « realismo giuridico » americano, (v., ad esempio, i lavori di Liewellin e Radin citati alla nota seguente). Nella dottrina contemporanea, per tutti, W. TWINING, Il precedente nel diritto inglese: una demistificazione, in La giurisprudenza per massime, cit., 33 ss. Nonchè, più diffusamente, ID., D. MIERS, How to Do Things with Rules3, ed., London, 1991, 290 ss., 299 ss. (163) Le affermazioni contenute nel testo costituiscono la semplificazione di un fenomeno giuridico, lo stare decisis, davvero molto complesso. Sulla multiforme natura della regola e l’articolazione dei suoi vari « formati », U. MATTEI, Stare decisis, cit., spec. 83 ss.; ID., Common Law Torino, 1992, 236 ss. Nella dottrina americana, da ultimo, C. PETERS, Foolish Consistency: On Equality, Integrity, and Justice in Stare Decisis, in 105 Yale L.J., 1996, 2031 ss. In argomento, si vedano pure, per tutti, i classici, W.O. DOUGLAS, Stare Decisis, in 49 Columbia L. R., 1949, 735 ss.; K. LLEWELLIN, The Common Law Tradition, Boston, 1960, spec. 63 ss.; M. RABIN, Case Law and Stare Decisis, ivi, 33, 1933, 199 ss.; ID., The Trial of The Calf, in 32 Cornell L. Quarterly, 1946, 137 ss.. (164) La funzione ed il ruolo della giuria popolare nel processo penale sono tornati di recente al centro del dibattito della dottrina statunitense. Si vedano in particolare, tra i lavori più recenti e autorevoli: A. ALSCHULER, Racial Quotas and the Jury, in Duke L.J., 1995, 704 ss; G. FLETCHER, With Justice for Some: Victims’ Rights in Criminal Trials, Reading, Mass., 1995, spec. 236 ss. e l’ampia e molto critica recensione di tale volume elaborata da, S. SCHULHOFER, The Trouble with Trials: the Trouble with Us, in 105 Yale L.J., 1995, 825 ss.; nonché, P. ROBINSON, P. GREENE, N. GOLDSTEIN, Making Criminal Codes Functional: A Code of Conduct and a Code of Adjudication, in 86 J. of Criminal L. and Criminology, 1996, spec. 327 ss.. In generale, sulla giuria popolare nel processo penale statunitense, si veda pure il recente volume S. ADLER, The Jury, 1994; nonché il classico H. KALVEN, H. ZEISEL, The American Jury, Chicago, 1967. Nella letteratura italiana, V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, cit., 97 ss.; G. NEPPI MODONA, Giudice penale americano, cit., 469 s.
— 1293 — la giuria svolga una vera e propria opera di selezione penale, in particolare un’opera di selezione in parte non regolata dal sistema delle norme penali sostanziali vigenti. 9.2. Il contributo di altre « fonti » incidenti sulla ascrizione della responsabilità penale: il c.d. selective enforcement. — Ma oltre alle peculiarità che contraddistinguono, da un lato, la fisionomia e l’organizzazione dell’ordinamento giudiziario statunitense, dall’altro le procedure ivi vigenti e la conseguente scarsa visibilità del diritto prodotto dalle corti di grado inferiore, occorre ribadire l’assoluta insufficienza di una analisi sul « momento applicativo » che si limiti ad esaminare le sole decisioni delle corti. La riduzione di scala che segna lo scarto tra i reati, come si dice, « chiariti », cioè scoperti e per i quali è stato individuato un autore, e reati dei quali viene effettivamente ascritta la responsabilità penale, è infatti di misura tale da non poter essere in alcun modo spiegata sul mero piano del diritto giurisprudenziale professato nelle sentenze. A ben vedere, dunque, lo sforzo teso a mettere a fuoco — tramite l’esame della giurisprudenza — le « norme reali », superando lo schermo di quelle « apparenti », è ancora insufficiente. La giurisprudenza, infatti, pur interpretando assai liberamente i dati linguistici offerti dal legislatore, talora addirittura dilatandone la portata, non mette infatti mai in discussione un assunto di fondo, e cioè che tutte le condotte sussumibili nelle varie fattispecie federali sono, ad ogni effetto, illecite e punibili: subito e senza condizioni. Ogni frode postale, anche quella più chiaramente bagatellare, costituisce, non solo teoricamente, ma anche in pratica sol che il caso venga portato a giudizio, un illecito penale perfetto ed immediatamente punibile. Insomma, sia stando alla lettera della legge che stando alla glossa giurisprudenziale « ufficiale », è sicuramente consentito, in presenza di un qualsiasi fatto sussumibile in una di quelle latissime norme incriminatrici, mettere in moto e poi condurre fino al capolinea la macchina della giustizia penale (165): operando indagini, disponendo provvedimenti cautelari, avviando formalmente il procedimento penale, proseguendolo, pronunciando una condanna, dando rigorosa esecuzione alla stessa (166). Come tuttavia si è avuto modo di accennare sopra, benché ogni singola condotta sussumibile nella descrizione astratta possa dar luogo — teoricamente — ad un procedimento penale ed alla irrogazione di una pena, in pratica la piena implementazione della norma, il c.d. full enforcement, non ha luogo. Al vasto campo di teorica illiceità delineato dalla norma astratta si accompagna piuttosto l’idea di un selective enforcement; l’idea di un processo di selezione attraverso il quale emerga ciò che, per così dire, è « realmente significativo » o, assai più spesso, ciò che risulta « opportuno » punire: un sottoinsieme delle condotte teoricamente vietate, caratterizzato da confini fluidi ed incostanti, ma tuttavia numericamente molto più ridotto rispetto all’insieme generale di riferimento. La selezione penale (167) costituisce, negli USA (168) come d’altronde in Ita(165) Nel caso United States v. Sears 544 F.2d 585 (2d Cir. 1976), citato esemplificativamente da N. ABRAMS, S. SUN BEALE, (Federal Criminal Law, cit., 48 s.) l’applicazione di un reato federale di tipo estorsivo (§ 894 Title 18 U.S.C.) risulta ad esempio, invocata con successo in una banale lite tra postini avente ad oggetto un piccolo prestito. (166) N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 51. (167) Per una trattazione generale di tale tema è imprescindibile il riferimento al lavoro di, C.E. PALIERO, Minima non curat praetor, cit., spec. 207 ss., con ampi riferimenti bibliografici; v., anche, F. GIUNTA, Depenalizzazione, in Dizionario di diritto e procedura penale, a cura di G. Vassalli, Milano, 1986, spec. 192 ss.; ID., Interessi privati e deflazione penale nell’uso della querela, Milano, 1993, 57 ss.; nonché il volume di, F. SGUBBI, Il reato come rischio sociale, Bologna, 1990. Sul particolare problema — qui non affrontato — della selezione che si verifica rispetto alla c.d. cifra nera, cioè rispetto ai reati non scoperti, v. G. FORTI, Tra criminologia e diritto penale. Brevi note su « cifre nere » e funzione generalpreventiva della pena, cit., 173 ss. (168) Cfr., nella manualistica, W. LAFAVE, J. ISRAEL, Criminal Procedure, St. Paul, Minn., 1985, 559 ss.; fondamentale anche il recente volume, Discretion in Criminal Justice,
— 1294 — lia (169), un fenomeno di straordinaria complessità: sia per il numero delle variabili condizionanti il processo di concreta attribuzione della responsabilità; sia per la difficoltà di analizzare tali variabili — in gran parte costituite da scelte puramente discrezionali e⁄o di mero fatto (170) — tramite rigorose categorie giuridiche. In questa sede sarà dunque privilegiata — in merito alle dimensioni di tale fenomeno nel sistema federale statunitense — una ricognizione di tipo prevalentemente descrittivo; non sembra infatti opportuno, per vari motivi, tentare qui di ricostruire il non semplice raccordo tra il fenomeno del selective enforcement ed una serie di nozioni dogmatiche e di istituti tipici proprie della cultura penalistica continentale: categorie sia di diritto sostanziale (la « punibilità », il binomio « meritevolezza⁄bisogno di pena », il problema delle condizioni obiettive e delle cause di non punibilità); sia di procedura (le condizioni di procedibilità, il tema e la disciplina dell’azione penale). Ci limiteremo pertanto a qualche osservazione per passare poi ad osservare più da vicino, anche se comunque per grandi linee, i meccanismi della selezione. In primo luogo occorre chiarire quale siano le forme di selezione che qui interessa analizzare. Sebbene infatti possa essere forte la suggestione di interessarsi ad ogni fattore che di diritto o di fatto incida sull’ascrizione della responsabilità (dalla descrizione legale degli elementi di fattispecie, alla effettiva denuncia della vittima; dalla imputabilità del reo, alla disponibilità dei testimonia a parlare), intuitive ragioni — di principio e di buon senso — sconsigliano simili avventure « nel gran mar dell’essere ». A tacer d’altro, c’è infatti il rischio di giungere, al termine dell’indagine, alla generica constatazione secondo cui in tutti i sistemi penali l’attribuzione della responsabilità penale risulta di fatto influenzata da mille variabili, non ultima la scaltrezza dei delinquenti. A parte la banalità dell’esito, tale conclusione eclissa i tratti peculiari delle singole variabili ed il situarsi di alcune di esse in un campo dove l’ombrello della giuridicità arriva o non arriva a seconda dei tempi e dei luoghi. Ecco dunque la necessità di analizzare qui la selezione penale, in particolare quella operante nel sistema federale statunitense, circoscrivendo il campo d’indagine. A tal fine, proprio alla luce di quanto appena accennato, pare opportuno limitarsi ad osservare le ipotesi di screening effettuate in relazione a reati rilevati come tali dall’ordinamento e dunque suscettibili di « enforcement »; in relazione cioè a reati già « chiariti » in quanto noti all’autorità e di autore conosciuto. Il potere di selezione verrà dunque in esame come potere, riconosciuto o tollerato dall’ordinamento, di decidere conclusivamente una controversia già entrata nel circuito del law enforcement. Sulla base di tali premesse vanno dunque individuati i soggetti che — dentro e fuori il a cura di L. Ohlin e F. Remington, cit., e ivi spec. i contributi di H. GOLDSTEIN, (Confronting the Complexity of Policing Function, 23 ss.) e F. REMINGTON, (The Decision to Charge, the Decision to Convict on a Plea of Guilty and the Impact of Sentence Structure on Prosecution Practice, 73 ss.). Nella vasta letteratura relativa alla discrezionalità della polizia o del prosecutor, R. ALLEN, The Police and Substantive Rulemaking: Reconciling Principle and Expediency, in 125 U. of Pennsylvania L.R., 1976, 62 ss.; K. DAVIS, Police Rulemaking and Selective Enforcement: A Reply, ivi, 1977, 1167; ID., Discretionary Justice, cit., 27 ss.; J. GOLDSTEIN, Police Discretion not to Invoke the Criminal Process: Low - Visibility Decisions in the Administration of Justice, in 69 Yale L.J., 1960, 543 ss.; S. KADISH, Legal Norm and Discretion in the Police and Sentencing Process, in 75 Harvard L.R., 1962, 904 ss. (169) I fenomeni di accentuata selezione penale, diffusi oggi in Italia e caratterizzati forse da una più marcata natura patologica rispetto a quelli statunitensi non sono sfuggiti all’analisi della dottrina: « Oggi il reato è diventato un rischio sociale. [...] Un rischio: perché la configurazione della responsabilità penale non può essere più prevista in via assoluta e a priori, ma si presenta come un dato incerto quando non addirittura di mera sorte; e perchè la configurazione della responsabilità penale dipende con sempre maggiore frequenza da fattori diversi dalla commissione colpevole di una condotta lesiva », F. SGUBBI, Il reato come rischio sociale, cit., 7. (170) Sottolinea l’importanza di riportare la selezione meramente prasseologica ad una selezione guidata da criteri razionali di tipo legale, C.E. PALIERO, Minima non curat praetor, cit., 215 ss.
— 1295 — processo — partecipano al processo di selezione penale, contribuendo a modificare le condizioni di effettiva ascrizione della responsabilità. E benché dunque, in termini generali, il novero delle agenzie della selezione vada molto oltre la coppia giudice⁄giuria (171), comprendendo, nel sistema statunitense, quantomeno i privati (vittime e testimoni) denuncianti, le agenzie investigative, i prosecutors, il grand jury, l’imputato, il difensore (172), la nostra indagine sarà molto più limitata. Non verrà qui esaminato, ad esempio, il ruolo selettivo della vittima ed in generale dei privati. L’esclusione di tale fattore di selezione — pur statisticamente rilevantissimo (173) — è dovuta non solo alle difficoltà di analizzare un fenomeno sociologicamente davvero complesso, ma discende soprattutto dai limiti di indagine sopra fissati. Lo screening dei privati incide infatti, a ben vedere, soprattutto sulla « cifra nera » stricto sensu intesa, cioè sulla scoperta dei reati. In assenza di istituti quali la querela (174), la selezione dei privati influenza solo mediatamente il rapporto tra reati « chiariti » ed effettiva ascrizione della responsabilità. Sia pure per ragioni diverse, neppure si tratterà qui del grand jury, organo di natura e funzione particolarissime (175), la cui autonoma capacità di selezione risulta essere — a causa della consolidata accondiscendenza rispetto alle scelte del prosecutor — del tutto trascurabile (176). Delimitata così, nei confini esterni, l’attività di selezione che qui interessa, occorre segnalare innanzitutto la peculiarità degli obiettivi che caratterizzano il selective enforcement nel diritto penale federale statunitense. A tal fine si può rilevare come la riduzione di scala prodotta dallo screening delle varie agenzie è decisamente drastica: il solo filtro del prosecutor comporta, nel sistema federale, la « cestinazione » di circa il 75% dei reati giunti a tale stadio del procedimento (177). La presenza di un simile « tasso di mortalità » dei reati chiariti è tale da mettere seriamente in discussione l’idea che il selective enforcement costituisca soltanto una « tecnica di alleggerimento » del carico giudiziario, in particolare una tecnica di selezione diretta ad espungere dal circuito della giustizia penale i fatti bagatellari. A ben vedere, i termini del rapporto di selezione paiono in realtà rivelare, specie nel sistema federale, la presenza di obiettivi e funzioni ulteriori. Lo scopo del selective enforcement non è solo quello di « depenalizzare » di fatto le condotte di minima rilevanza; lo scopo è piuttosto quello di individuare i pochi fatti per i quali si ritiene opportuno procedere. La selezione, in altre parole, costituisce l’indispensabile complemento di ogni fattispecie astratta; costituisce il fondamentale meccanismo tramite cui si individua il target di tutela cui il sistema mira ad arrivare. Tale target è determinato secondo criteri che solo vagamente sono riconducibili al binomio « meritevolezza/bisogno di pena » (178). La tecnica legislativa utilizzata per la de-
(171) Sul punto, v. l’ampia trattazione generale di C.E. PALIERO, Minima non curat praetor, cit., 231 ss., 253 ss., 323 ss. (172) Di un certo rilievo appare anche, sullo sfondo, il ruolo selettivo di coloro che, sul piano politico, fissano le priorità di politica criminale. (173) C.E. PALIERO, Minima non curat praetor, cit., 231, 253 ss. (174) La querela è infatti uno strumento di selezione — affidato ai privati — funzionale ad una « depenalizzazione in concreto » di reati già « chiariti ». Sulla querela come strumento di selezione penale orientato da valutazioni di opportunità, diffusamente, F. GIUNTA, Interessi privati e deflazione penale nell’uso della querela, cit., 57 ss. La querela costituisce peraltro anche una « modalità di chiarimento » di reati non conosciuti dall’autorità: è infatti una via particolarmente efficace (più efficace di una mera denuncia) per segnalare all’autorità i fatti meritevoli di punizione, sul punto, v. ID., ivi, 59 s. (175) Sul grand jury, v. per tutti, W. LAFAVE, J. ISRAEL, Criminal Procedure, cit., 347 ss.; V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, cit., 97 ss. (176) Come riportato da V. FANCHIOTTI, (Lineamenti del processo statunitense, cit., 102), l’arrendevolezza del grand jury è tale da produrre, nel sistema federale, decisioni contrarie alle richieste del prosecutor solo in meno del 2% dei casi. (177) V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, cit., 89. (178) Per opportune precisazioni in merito a tali concetti, M. ROMANO, « Meritevolezza di pena », « bisogno di pena » e teoria del reato, in questa Rivista, 1992, 39 ss.
— 1296 — scrizione degli illeciti dimostra quanto sia scarsa la sensibilità nordamericana per l’idea garantista di sussidiarietà-extrema ratio. Piuttosto, prevalgono qui esigenze di mera politica criminale legate soprattutto ad una gestione ottimale delle risorse (179). Per quanto riguarda poi la natura giuridica degli strumenti di selective enforcement, va ribadito il disagio ad inquadrare gli stessi nella categoria della « punibilità ». Per quanto infatti tale nozione possa essere ampia (180), travalicando talora gli stessi confini tra diritto e procedura (181), la selezione penale non passa, nel diritto penale statunitense, né attraverso l’indicazione astratta di una classe di accadimenti che fanno venir meno la punibilità; né attraverso la previsione di apposite cause di non punibilità affidate ad uno specifico potere discrezionale del giudice. Ma anche al di là di questo, la categoria della « punibilità » pare, nei termini generali in cui è da noi ricostruita, legata all’idea che la « potestà punitiva » venga — in presenza di certi presupposti — liberata o onerata da un vincolo (182). La categoria pare, insomma, comunque richiedere — anche alla luce del principio di legalità — che la situazione soggettiva di chi si trova a condizionare l’ascrizione della responsabilità (e della pena) sia giuridicamente regolata (183). Anche quando il singolo istituto conferisce al giudice poteri autenticamente discrezionali (cioè poteri destinati ad essere esercitati fuori da una significazione astratta del legislatore), la giuridicità risiede pur sempre nella determinazione legale dei presupposti di esercizio di quei poteri. Vero ciò, non resta, allora che constatare, nel sistema statunitense, l’assenza di veri e proprio vincoli legali — corrispondenti ad esempio alle nostre condizioni obiettive di punibilità — destinati a rendere la punibilità giuridicamente condizionata nei suoi presupposti di diritto penale sostanziale. Come si è detto, ogni fatto conforme ad una fattispecie federale, anche quello più insignificante, è a tutti gli effetti penalmente rilevante e punibile: subito e senza condizioni. Gli attributi di giuridicità, che da noi comunque accompagnano la previsione normativa di cause di non punibilità, anche discrezionali, trovano insomma debole riscontro nel vasto ed insindacabile arbitrio esercitato dai vari soggetti che, nel sistema penale statunitense, decidono, spesso in via di mero fatto, se perseguire o ignorare i fatti teoricamente sussumibili nelle varie fattispecie incriminatrici. Ma inoltre, negli USA, la mancata punizione di molti reati pur « chiariti » (cioè come si è detto, scoperti e di autore noto) è solo uno dei possibili effetti di una serie articolata ed eterogenea di possibili scelte operate non tanto dal giudice quanto da un ampia gamma di agenzie della selezione. Molto prima che venga in esame il problema della formale ascrizione di responsabilità, il reato « chiarito » è oggetto di una serie variegata di decisioni, tutte idonee a sospingerlo nel limbo degli accadimenti in concreto non produttivi di effetti giuridici. La po(179) W. LAFAVE, J. ISRAEL, Criminal Procedure, cit., 562. (180) Secondo G. MARINUCCI, E. DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., 297, all’interno della « punibilità » va ricondotto « l’insieme delle condizioni, ulteriori ed esterne rispetto al fatto antigiuridico e colpevole, che possono fondare o escludere l’opportunità di punirlo ». Sulle varie accezioni del termine, per tutti, G. RUGGIERO, Punibilità, in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988, 1123 ss. (181) Per un’esposizione critica di tali indirizzi, v. F. GIUNTA, Interessi privati e deflazione penale nell’uso della querela, cit., 80 ss. (182) Cfr., F. ANGIONI, Condizioni di punibilità e principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1989, 1440 ss. F. BRICOLA, Punibilità (condizioni obiettive di), in Nss. dig. it., XIV, Torino, 1967, 591; L. STORTONI, Premesse ad uno studio sulla « punibilità », in questa Rivista, 1985, 397 ss.. (183) Sui legami — anche storici — tra condizioni obiettive di punibilità ed esigenze di certezza del diritto ed obbligatorietà dell’azione penale, v. per tutti, G. NEPPI MODONA, Condizioni obiettive di punibilità, in Enc. giur. Treccani, VII, Roma, 1988, 1 s.; ID., Condizioni obiettive di punibilità e concezione realistica del reato, in questa Rivista, 1971, 186 ss.; cfr., G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, 3a ed., Bologna, 1995, 726 s.
— 1297 — lizia o il prosecutor possono restare indifferenti alla possibile « notizia di reato » non dandosi cura neppure di rilevarla; possono rilevarla informalmente e poi « cestinarla »; possono registrarla ufficialmente e poi decidere di non fare indagini e di non perseguire; possono compiere alcuni atti e poi abortire il procedimento (184). Sulla scia di tali rilievi, la stessa riconoscibilità del selective enforcement alla dialettica obbligatorietà⁄discrezionalità dell’azione penale, appare, in fondo, riduttiva. Come s’è accennato, non c’è qui solo una « discrezionalità dell’azione penale ». La gamma dei soggetti coinvolti nel processo di selezione va ben oltre il solo « pubblico ministero »: organi investigativi di polizia, parti processuali coinvolte nel fenomeno della giustizia contrattata, addirittura organi politici chiamati ad indicare « priorità di politica criminale ». Tutti questi soggetti, e l’indicazione non è certo esaustiva, partecipano, ciascuno secondo le sue competenze, al processo di concretizzazione che collega le potenzialità testuali della norma incriminatrice con la sua effettiva applicazione. D’altronde, anche considerando la sola selezione del pubblico ministero, sono la misura dello screening e la sua sostanziale insindacabilità a scardinare le categorie: quando il vaglio del prosecutor giunge a scartare più del 75% dei reati « chiariti »; quando l’organo dell’accusa determina insindacabilmente i confini concreti della tutela, sobbarcandosi apertamente la responsabilità per gli indirizzi di politica criminale, siamo forse all’interno di un campo problematico davvero eterogeneo rispetto a quello in cui si svolge, qui da noi, il dibattito sull’art. 112 Cost. 9.2.1. Il ruolo selettivo degli organi investigativi e del prosecutor. — A) Nella prospettiva d’indagine sopra delineata, occorre dunque subito rilevare come l’area della effettiva attribuzione della responsabilità penale subisca un primo, forte, condizionamento ad opera del potere discrezionale di cui godono gli organi di polizia. Lo studio della police discretion, e in particolare di quella operante nel quadro del selective enforcement, costituisce, per la verità, interesse abbastanza recente anche per la dottrina statunitense (185). Benché i limiti di esercizio di un generale ed esplicito potere di selezione della polizia non siano del tutto chiari sul piano istituzionale e normativo (la disciplina positiva e la case law riguardano perlopiù l’espletamento di singoli atti, come perquisizioni, sequestri etc.), è comunque opinione diffusa che lo screening operato da tali agenzie sia, da un lato, indispensabile per il funzionamento quotidiano del sistema penale, dall’altro, più incisivo e, in fondo, incontrollabile di quello effettuato dal prosecutor (186). Ciò accade soprattutto per la scarsa visibilità delle scelte della polizia, operate spesso « sulla strada » o comunque in modo informale. La selezione penale operata dalla polizia costituisce dunque, perlopiù, un potere di fatto, rispetto al quale manca quell’investitura se non normativa, quantomeno politico — costituzionale, che legittima invece l’enorme discrezionalità del prosecutor. Il potere di cui gode la polizia in merito allo screening di fatti pur costituenti reato e di autore noto deriva soprattutto dall’assenza di « obblighi di rapporto » e più in generale dall’autonomia organizzativa e istituzionale dei vari corpi investigativi, come noto istituzionalmente slegati da qualsivoglia vincolo di dipendenza dagli organi della pubblica accusa (187). In ambito federale, il ruolo degli organi investigativi è svolto da un ampio numero di agenzie tra loro del tutto indipendenti (188). Nella particolare materia dei reati postali, un (184) V. in proposito il paragrafo seguente. (185) Si vedano gli autori citati retro n. 168. (186) Per tutti, W. LAFAVE, J. ISRAEL, Criminal Procedure, cit., 563. (187) Per tutti, V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, cit. 88. (188) Gli organismi di polizia federale sono numerosi, dentro e fuori del Department of Justice. Oltre all’FBI (Federal Bureau of Investigation), che, come è notissimo, è la principale agenzia investigativa federale, competente per oltre 200 categorie di reati (anche se di fatto concentrata soprattutto nella repressione dei reati di criminalità organizzata), si possono qui menzionare: la DEA (Drug Enforcement Administration) con competenza nella materia degli stupefacenti; il Custom Service (che si occupa di violazioni delle leggi doganali); l’IRS (Internal Revenue Service) con compiti di investigazione nel campo dei reati tributari.
— 1298 — compito prioritario spetta all’U.S. Postal Service, da cui dipendono i Postal Service Inspectors. L’importanza operativa di tale agenzia si coglie rilevando come, nell’anno 1995, a fronte di 1952 individui condannati per mail fraud, 1473 sono stati oggetto di indagini dei Postal Inspectors (189). Per quanto riguarda poi il ruolo selettivo esercitato dall’U.S. Postal Service, esso pare essere particolarmente alto: dei casi trasmessi da tale agenzia ai vari prosecutors, si stima che circa il 90% dia effettivamente luogo ad un procedimento penale (190). Poiché il tasso di selezione del pubblico ministero è dunque qui particolarmente basso — 10% circa a fronte della già ricordata media generale del 75% (191) — si può supporre che il grosso dello screening sia operato, nel caso di mail fraud, proprio dall’agenzia investigativa in questione. Per ciò che concerne i criteri alla cui stregua viene effettuata la selezione penale delle agenzie investigative, si rimanda, per alcune indicazioni di massima, a quanto si dirà di seguito in merito allo screening operato dal prosecutor non senza rilevare come sia stata proprio l’analisi dei comportamenti della polizia ad aver indotto la dottrina a partorire il suggestivo concetto di « second code » (192). Con tale termine si allude — come è noto — ad un sistema di norme « parallelo » a quello del codice penale, ma in parte ricavato proprio da una interpretazione soggettiva delle norme del codice stesso, alla cui stregua gli organi di polizia misurano la legittimità dei propri e degli altrui comportamenti. B) Passando adesso ad esaminare il ruolo selettivo del prosecutor, si può ricordare ancora una volta come il « pubblico ministero » statunitense, sia assolutamente libero (193) di decidere — in teoria fino alla formulazione dell’atto d’accusa (indictment), di fatto fino al dibattimento — se esercitare o meno l’azione penale o se, avendola iniziata, ritrattarla (194). Si tratta di un potere discrezionale che, benché del tutto consolidato, non cessa di suscitare anche nel mondo giuridico statunitense ricorrenti perplessità, ben riassunte nel pensiero di H. WECHSLER, il padre del Model Penal Code: « Una società che crede, come noi crediamo, Per un panorama di sintesi sulle numerose agenzie investigative federali, N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 6 ss.; nella dottrina italiana, V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, cit., 61 s. (189) Cfr., Table 5.29 e Table 5.88, 5.89, Sourcebook of Criminal Justice Statistics 1995, cit. Nello stesso anno l’U.S. Postal Service ha arrestato per mail fraud 1538 individui (Table 5.88, 5.89). (190) R. RABIN, Agency Criminal Referrals in the Federal System: An Empirical Study of Prosecutorial Discretion, in 24 Stanford L.R. 1972, 1091. (191) La media del 75% è tuttavia comprensiva di tutte le notizie di reato sottoposte al prosecutor. (192) In merito alla nozione di second code, v. C.E. PALIERO, Minima non curat praetor, cit., 313 s. (193) E ciò a dispetto del tenore letterale di talune disposizioni legislative. Nel sistema federale, ad esempio, il § 547 del Title 28 U.S. Code dispone: « Salvo diversa disposizione di legge, ogni US Attorney, nell’ambito del proprio distretto, procederà per tutti i reati commessi contro gli Stati Uniti », sul punto, v. V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, cit., 86. (194) Sul potere discrezionale del prosecutor statunitense, si segnalano, nella vastissima letteratura, N. ABRAMS, Prosecution: Prosecutorial Discretion, in Encyclopedia of Crime and Justice, a cura di Kadish, II, New York, 1983, 1272 s.; C. BREITEL, Controls in Criminal Law Enforcement, in 27 University of Chicago L. R., 1960, 427 s.; S. COX, Prosecutorial Discretion: An Overview, in 13 American Criminal Law Review, 1976, 383 s.; K. DAVIS, Discretionary Justice cit., 27 ss.; R. FRASE, The Decision to File Federal Criminal Charges: A Quantitative Study of Prosecutorial Discretion, in 47 University of Chicago L.R., 1980, 246 ss.; J. JACOBY, The American Prosecutor: A Search for Identity, Lexington — Toronto, 1980, spec. 205 ss.; W. LAFAVE, The Prosecutor’s Discretion in the United States, in 18 American Journal of Comparative Law, 1970, 532 ss; F. MILLER, Prosecution: The Decision to Charge a Suspect with a Crime, Boston, 1969; R. MISNER, Recasting Prosecutorial Discretion, in 86 J. of Criminal L. and Criminology 1996, 717 ss.; nonchè il volume collettaneo Discretion in Criminal Justice, a cura di L. Ohlin e F. Remington, cit., spec. 73 ss.
— 1299 — nel diritto non può non essere preoccupata, constatando come gli organi dell’accusa possano esercitare una straordinaria influenza sulle decisioni che comportano l’applicazione di sanzioni criminali, senza essere dover osservare altre norme che quelle che essi danno a sè stessi » (195). Senza poter entrare qui neppure in modo tangenziale nella complessa problematica, conviene approfondire piuttosto la natura ed il ruolo sistematico delle norme che tali organi, per dirla con Wechsler, « danno a sè stessi ». Non sfugge in particolare come il potere discrezionale del pubblico ministero, quando esercitato in modo uniforme sulla base di c.d. guidelines, interne ad uno o più uffici, finisca per ritagliare, all’interno della fattispecie astratta, una sottoclasse generale ed astratta di ipotesi « veramente rilevanti » per il diritto penale (196). Nel campo dei reati federali, la presenza di guidelines è assai diffusa, prendendo corpo in vari testi elaborati dal Department of Justice, quali i Principles of Federal Prosecution, ora incorporati nel più ampio e dettagliato US Attorney’s Manual (197). Oltre ad una serie di criteri generali circa l’esercizio del potere discrezionale relativo all’azione penale, le guidelines del « ministero della giustizia » forniscono indicazioni di dettaglio relative a singole fattispecie incriminatrici. Con riferimento al reato di mail fraud, leggiamo, ad esempio, che « Di norma il procedimento non dovrà essere avviato quando il piano [fraudolento] consiste in una o più transazioni isolate tra sole persone fisiche, a seguito della quale le vittime riportano danni di modesta entità. [I]n questi casi le parti dovranno essere lasciate libere di tutelare le loro ragioni in sede civile o penale a livello statale. Al contrario, se il piano [fraudolento] è per sua natura diretto a defraudare una classe di individui, o il pubblico in generale, attraverso l’uso della posta [e] il piano è di una certa consistenza, l’opportunità di avviare la prosecution dovrà essere presa in seria considerazione » (198). Accanto alle guidelines, per così dire, ministeriali, esistono poi ulteriori indicazioni generali elaborate, localmente, dai singoli capi degli uffici e denominate U.S. Attorney’s local declination policies (199). Sulla base di quanto appena riportato, si può rilevare come le guidelines, ritaglino dunque, all’interno delle norme incriminatrici, più circoscritte « sottofattispecie », individuando classi di fatti « davvero significativi » rispetto agli obiettivi di tutela. Poiché le guidelines sono formulate in termini generali ed astratti, ci si potrebbe allora chiedere se esse vadano addirittura ad incidere sulla descrizione normativa del tipo d’illecito, configurando una vera e propria integrazione tra fonti (200). Sebbene, talora, sia questa la sostanza del fenomeno, non si possono tacere — neanche (195) Il pensiero di H. WECHSLER (The Challenge of a Model Penal Code, in 65 Harvard L.R., 1952, 1102) è qui liberamente tradotto dall’originale: « A society that holds, as we do, to belief in law cannot regard with unconcern the fact that prosecuting agencies can exercise so large an influence on dispositions that involve the penal sancion, without reference to any norms but those that they may create for themselves ». (196) Cfr., N. ABRAMS, Internal Policy: Guiding the Exercise of Prosecutorial Discretion, in 19 University of California Los Angeles L. R., 1971, 1 s.; L. BECK, The Administrative Law of Criminal Prosecution: The Development of Prosecutorial Policy, in 27 American University L. R., 1978, 310 s. In merito alla distinzione, avvertita anche dalla più sensibile dottrina italiana, tra una « discrezionalità che si traduce in valutazioni di opportunità in merito alla singola notizia di reato » e una discrezionalità che implica « scelte di priorità di carattere generale per la trattazione delle notizie di reato », V. ZAGREBELSKY, Stabilire le priorità nell’esercizio penale, in Il pubblico ministero oggi, Milano 1994, 115 ss.; nonché M. CHIAVARIO, Obbligatorietà dell’azione penale: il principio e la realtà, ivi, 71 ss.; G. NEPPI MODONA, Principio di legalità e nuovo processo penale, ivi, 124 ss. (197) §§ 9-27.000 — 9-27.760. (198) U.S. Attorney’s Manual, § 9-43.120. (199) Per maggiori informazioni, N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 103 ss. (200) Per opportune precisazioni teoriche sul concetto di integrazione tra fonti, M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, 2a ed., Milano, 1995, 35 ss.; ID., Repressione della condotta antisindacale, Milano, 1974, 117 ss., 159.
— 1300 — nella presente analisi, pur ispirata da una accezione non certo formalistica del termine « fonte » (201) — una serie di elementi capaci di escludere la presenza di una vera e propria integrazione incidente sulla descrizione astratta. Senza poter scendere qui in particolari, basterà notare come — in realtà — le guidelines non vincolino, davvero cogentemente, nessuno: non vincolano la giurisprudenza, che come s’è visto rimane libera di condannare anche per la frode postale più insignificante; e non vincolano neppure il singolo prosecutor, che pure, delle guidelines, dovrebbe essere il destinatario. Pur violando un dovere, tale organo infatti mantiene il potere di disporre dell’accusa anche in contrasto con le indicazioni delle guidelines. Il che si risolve, dal punto di vista del privato interessato, nella impossibilità di « azionare » giudizialmente l’aspettativa all’osservanza delle stesse (202). Accanto alle vere e proprie guidelines, vanno poi menzionate le c.d. « Enforcement priorities or missions » (203). Si tratta di direttive generali di politica criminale, proclamate dal Department of Justice ed aventi come destinatari sia gli organi investigativi ed i prosecutors, sia — in senso del tutto diverso — la collettività. Mentre i soggetti istituzionali sono infatti tenuti a regolare la propria azione sulla base delle priorità delineate dal « ministero della giustizia », rispetto alla comunità generale le enforcement priorities costituiscono, su di un piano squisitamente politico, un impegno qualificato rispetto alla repressione prioritaria di determinati fenomeni criminali. Sul piano dell’organizzazione burocratico — amministrativa della repressione penale, le « Enforcement priorities » determinano peraltro sia una riorganizzazione delle risorse in funzione appunto delle priorità politico criminali; sia la creazione di speciali nuclei operativi destinati ad investigare e perseguire solo specifiche forme di criminalità. Si pensi ad esempio, all’Organized Crime Racketeering Section all’interno del Department of Justice o alle Organized Crime Strike Forces nei principali uffici giudiziari locali (204). Un ulteriore meccanismo idoneo a condizionare l’effettiva repressione, da parte dei pubblici ministeri federali, di talune attività pur formalmente illecite è costituito dalla necessità che le prosecutions per particolari reati siano approvate dal Department of Justice, o, in altri casi, che siano quantomeno discusse con l’amministrazione centrale (205). È necessaria, ad esempio, una preventiva approvazione per ogni RICO prosecution (206). Nel caso poi di mail fraud, il singolo pubblico ministero deve « consultare » il Department of Justice in tutti i casi in cui sia ipotizzabile una frode elettorale. Al di là dei casi in cui la discrezionalità del pubblico ministero è in qualche modo condizionata dalle guidelines o da altri criteri astratti, tale organo mantiene comunque, come è notissimo, un arbitrio pressoché incontrollato riguardo all’an e al quomodo della prosecution (207). Nel suo complesso, la prosecutorial discretion determina — come più volte menzionato — uno screening negativo per oltre il 75% delle notizie di reato federali. Poiché la gestione delle notizie stesse è esclusivo monopolio del pubblico ministero, senza alcun vero controllo da parte dell’organo giurisdizionale, non sfugge come rispetto ai casi « cestinati », il giudizio di irrilevanza penale possa determinarsi anche ai margini o addirittura fuori dal diritto penale « ufficiale », espresso dalle interpretazioni dominanti, in particolare della giurisprudenza di grado superiore. Se infatti si pone mente ai criteri in base ai quali può essere effettuata la valutazione che porta al non esercizio dell’azione penale, risulta agevole constatare come tali criteri possano essere sia di mero arbitrio, sia di carattere normativo. (201) Sulle varie nozioni di « fonte del diritto », per tutti, V. CRISAFULLI, Fonti del diritto, in Nss.mo Dig. it., VII, Torino, 1961, 525 ss.; A. PIZZORUSSO, Delle fonti del diritto (Disposizioni sulla legge in generale, artt. 1-9), in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna - Roma, 1977, 14 - 57. (202) V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, cit., 87 s. (203) N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 83 ss. (204) N. ABRAMS, S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, cit., 91 ss. (205) R. RABIN, Agency Criminal Referrals in the Federal System, cit., 1036 ss. (206) V. § 9-110.320 del U.S. Attorney’s Manual. (207) V. retro, n. 194.
— 1301 — Nel primo caso, la responsabilità penale viene a dipendere da una scelta del prosecutor difficilmente qualificabile come scelta giuridica: l’ampiezza della discrezionalità e l’assenza di controlli proiettano in fondo la decisione sul piano della mera ragion pratica. L’attribuzione della responsabilità penale viene a dipendere da una serie di presupposti così distanti dal mondo delle norme da confondere gli stessi confini tra condizioni giuridiche e condizioni meramente fattuali della responsabilità. Senza con ciò dimenticare le profonde e notissime differenze che intercorrono tra un fatto che mantiene astrattamente la sua rilevanza penale, ed un fatto che concretamente non viene punito, ci si potrebbe infatti chiedere, provocatoriamente, se la decisione insindacabile — questo è il punto — di non svolgere indagini o di non perseguire un determinato fatto, non svolga, rispetto al configurarsi della responsabilità, un ruolo del tutto simile alla mancata scoperta del reato o alla impossibilità di rintracciarne l’autore. Tale ipotesi presenta una sua evidente e problematica plausibilità, solo in parte scalfita dal rilievo che quei vastissimi poteri discrezionali vengono pur sempre esercitati legittimamente. Il fatto che quell’ampia discrezionalità, quando non attribuita espressamente dalle legge, possa trovare talora l’avallo, magari indiretto, nella case law, talaltra il sostegno di una diffusa opinio juris circa la sua conformità al diritto non sposta il rilievo di fondo. Quei fatti formalmente vietati, ma sistematicamente e arbitrariamente non perseguiti, si collocano in un’area dove lo stesso concetto di rilevanza penale si fa, in pratica, evanescente. Per ciò che concerne invece il secondo gruppo di criteri decisionali sopra distinto e cioè quello dei criteri più autenticamente normativi che possono guidare la scelta di non perseguire un determinato fatto, pur astrattamente illecito, preme qui sottolineare la possibilità che gli organi dell’accusa sviluppino valutazioni di irrilevanza in base a proprie interpretazioni delle fattispecie incriminatrici; interpretazioni, per così dire, « autistiche »: del tutto indipendenti da quelle professate dal diritto penale « ufficiale », in particolare da quello della giurisprudenza dominante. Non si tratta — è bene sia chiaro — solo di sottolineare l’importanza rivestita dalla percezione soggettiva delle regole nell’applicazione delle regole stesse (208): evidentemente anche nel nostro sistema può accadere che la polizia giudiziaria o il pubblico ministero elaborino proprie interpretazioni delle varie norme penali, attribuendo eventualmente alle stesse contenuti non del tutto coincidenti con quelli ritenuti corretti, ad esempio, dalla corte di Cassazione. Quello che distingue il sistema statunitense, e che rende il fenomeno lì rilevato di estremo interesse, è piuttosto il fatto che le interpretazioni « autistiche » del diritto penale sostanziale elaborate dagli organi investigativi e dal prosecutor, essendo prive di controllo giurisdizionale sono idonee a terminare conclusivamente la controversia. Il che vuol dire, rovesciando la visuale prospettica, che la controversia è decisa in base a norme giuridiche nella sostanza « diverse » da quelle ricostruite nelle interpretazioni dominanti: norme interpretate in modo parallelo ed « autistico » rispetto al diritto penale « ufficiale »; appartenenti perciò ad un « diritto penale della prassi » che risulta essere eterogeneo anche rispetto alla glossa interpretativa della « magistratura giudicante ». 9.3. Lo sviluppo della giustizia contrattata e l’abbandono della giurisdizione. — Il quadro sin qui delineato in merito alle condizioni che determinano la responsabilità penale nel sistema statunitense, in particolare in quello federale, sarebbe del tutto incompleto senza un cenno al fenomeno della giustizia contrattata, in particolare al c.d. plea bargaining (209), (208) La versatilità delle regola giuridica, cioè il mutare di significato in relazione al fruitore della regola stessa è sottolineata, in particolare, nella riflessione di W. TWINING, D. MIERS, How To Do Things with Rules, cit., spec. 184 ss. (209) Cfr., per tutti, nella vastissima bibliografia, le posizioni fortemente critiche di A. ALSCHULER, Alternatives to the Plea Bargaining System, in 50 University of Chicago L.R., 1983, 975 ss.; ID., Implementing the Criminal Defendant’s Right to Trial The Changing Plea Bargaining Debate, in 69 California L.R., 1981, 652 s.; ID., The Trial Judge’s Role in Plea Bargaining, in 76 Columbia L.R., 1976, 1059 ss.; S. SCHULHOFER, Plea Bargaining as Disa-
— 1302 — vera e propria « antiprocedura » (210) considerata da molti non il rimedio per i problemi della giustizia penale, ma essa stessa uno dei più gravi problemi della giustizia penale statunitense (211). Il tema coinvolge, come è noto, un groviglio di complesse questioni (212) alle quali non è evidentemente possibile dare qui spazio. Basterà segnalare alcuni punti. Innanzitutto, non si può sottovalutare il fatto che la diffusione epidemica della giustizia contrattata, nel cui seno vengono risolti oltre il 90% dei procedimenti penali, segni di fatto l’abbandono della giurisdizione quale luogo di attribuzione della responsabilità penale. Si tratta di una considerazione davvero fondamentale, trascurando la quale qualsiasi analisi comparatistica dei sistemi nordamericani è destinata ad essere falsata. Il volto di questi ordinamenti non può essere tracciato senza ricordare costantemente come negli stessi la giustizia penale operi di fatto in virtù di meccanismi amministrativi e negoziali. Se tuttavia ci chiediamo quale sia il volto del diritto penale nel mondo della giustizia ster, 101 Yale L.J., 1992, 1979 ss.; ID., Criminal Justice Discretion as a Regulatory System, in 17 J. of Legal Studies 1988, 43 ss.; ID., Is Plea Bargaining Inevitable?, in 97 Harvard L.R., 1984, 1050 s.; J. STANDEN, Plea Bargaining in the Shadow of the Guidelines, in 81 California. L.R., 1993, 1471 s. Decisamente favorevoli alla giustizia contrattata, tra gli altri, T. CHURCH, In Defense of the « Bargain Justice », in 13 Law and Society R. 1979, 509 ss.; F. EASTERBROOK, Criminal Procedure as a Market System, in 12 Journal of Legal Studies 1983, 229 ss.; R. SCOTT, W. STUNTZ, Plea Bargaining as Contract, in 101 Yale L.J., 1992, 1909 ss.; Sul tema del plea bargaing nella letteratura italiana v., V. FANCHIOTTI, Processo penale nei paesi di Common Law, cit., 158 ss.; e poi, ID., Spunti per un dibattito sul plea bargaining, in Pol. dir., 1986, 99; ID., Origini e sviluppo della giustizia contrattata nell’ordinamento statunitense, in questa Rivista, 1984, 56 s.; R. GAMBINI — MUSSO, Il plea bargaining tra common law e civil law, Milano, 1985. (210) V. FANCHIOTTI, Processo penale nei paesi di Common Law, in Dig. disc, pen., X, Torino, 1995, 158. (211) Gli effetti negativi del plea bargaining coinvolgono pressochè tutti gli aspetti della giustizia penale, dalla redazione legislativa delle fattispecie penali alla esecuzione della pena. Una efficace, anche se asistematica, sintesi di tali inconvenienti si trova in, A. ALSCHULER, Implementing the Criminal Defendant’s Right to Trial, cit., 932 ss.; il plea barganing fa dipendere l’irrogazione di una sanzione criminale non dal fatto commesso o dalla personalità dell’autore, ma da scelte tattiche che nulla hanno a che vedere con gli scopi del processo; sostituisce l’accertamento processuale con un mercato delle questioni controverse; sostituisce l’obbligo di provare la « colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio » con l’ambiguo concetto di « colpevolezza parziale »; svilisce il valore della libertà personale e della pena, riducendoli a merce di scambio; porta i difensori a percepire sè stessi come giudici o amministratori piuttosto che come avvocati; li sottopone ad una serie di pressioni, anche economiche, in deciso conflitto con gli interessi dei clienti; fa del giudice una figura di cartapesta, trasferendo, di fatto, gran parte dei suoi poteri ad una serie di soggetti dotati di minori strumenti conoscitivi, di minore cultura giuridica e di minore obiettività; stravolge la qualificazione giuridica dei fatti, sia nell’atto d’accusa che nella decisione finale; spinge gli imputati a credere che hanno « venduto » qualcosa e dunque qualcosa hanno avuto in cambio; favorisce l’idea che il sistema penale sia afflitto dalla corruzione; svilisce l’esigenza sociale di « ascoltare » ciò che un accusato ha da dire a sua difesa; mina in radice uno straordinario numero di garanzie processuali; impedisce ogni seria riforma della commisurazione della pena; offre opportunità straordinarie per gli avvocati pigri il cui unico obiettivo è « tagliare gli angoli » ed occuparsi del « caso successivo »; aumenta i rischi di favoritismi ed influenze personali; occulta gli abusi; produce enormi disparità, con esiti processuali ora draconiani ora di indebita mitezza; confonde la funzione di accertamento giudiziario, quella di commisurazione della pena e quella amministrativa in un unico calderone a scapito di ciascuna di esse; aumenta sensibilmente, è empiricamente dimostrato, il numero degli innocenti condannati. (212) Particolarmente delicate quelle connesse alla modifica del sistema di commisurazione con l’entrata in vigore delle Sentencing Guidelines, sul punto, per tutti, I. NAGEL, S. SCHULHOFER, A Tale of Three Cities: An Empirical Study of Charging and Bargaining Practices Under the Federal Sentencing Guidelines, in 66 California L.R., 1992, 501 ss.; J. STANDEN, Plea Bargaining in the Shadow of the Guidelines, cit., 1471 ss.
— 1303 — contrattata, dobbiamo subito constatare come in tale ambito operi una serie articolata e complessa di criteri decisionali idonei a risolvere la controversia. Indubbiamente, il sistema delle norme penali sostanziali, quale risulta dal diritto positivo vigente, gioca ancora un ruolo importante. Tuttavia, da un lato, tali regole tendono — lo si vedrà tra breve — ad assumere anche qui (come già nel caso delle scelte relative all’azione penale) una autonoma e particolare fisionomia. Dall’altro, tale sistema di norme positive è ancora una volta affiancato da una serie di spuri criteri decisionali ai limiti della giuridicità: criteri influenzati, ad esempio, dalla posizione di forza delle parti, dalla valutazione circa la consistenza del materiale probatorio, dalla considerazione circa la possibilità che altri reati possano essere scoperti proseguendo le indagini o il processo etc. Pure importanti possono essere le valutazioni di mera ed insindacabile opportunità, formulate sia dall’accusa che dalla difesa; valutazioni capaci di spingere le parti all’accordo pur in assenza di una chiara responsabilità dell’imputato per il reato a lui attribuito. Valga per tutte, a quest’ultimo proposito, l’ipotesi che la pubblicità del dibattimento venga avvertita dall’imputato come « sanzione », di fatto più grave della pena per cui è possibile « patteggiare ». Lasciando da parte i criteri decisionali di mero fatto e soffermandosi invece sul volto delle norme penali sostanziali operanti nel contesto dei procedimenti negoziali, si deve ancora una volta sottolineare come tali regole possano, in pratica, essere oggetto di una autonoma ricostruzione interpretativa ad opera dei vari soggetti che partecipano alla contrattazione e cioè ad opera del prosecutor, dell’imputato e del suo difensore. Viene così a delinearsi, ancora una volta, un « diritto penale della prassi » parallelo a quello ufficiale. In particolare, nei casi di patteggiamento, un « diritto penale dei corridoi di tribunale »: un diritto che, come già si è visto con riferimento ai criteri orientativi della discrezionalità del prosecutor, è diverso ed ulteriore non solo rispetto a quello « oggettivamente » ricavabile dai testi legali, ma anche rispetto al diritto penale giurisprudenziale propriamente detto. A differenza del diritto penale sostanziale solipsisticamente ricostruito dal prosecutor al fine di esercitare o meno l’azione penale, quello operante nel mondo della giustizia negoziale non presenta esasperate sindromi « autistiche »: se non altro perché al negoziato partecipa un gruppo di individui eterogeneo e conflittuale. Tuttavia anche il diritto penale del patteggiamento presenta un tratto di vistosa anomalia, consistente nell’avere una spiccata connotazione, come si dice oggi, « virtuale ». Con tale aggettivo si vuole alludere al fatto che nel plea bargaining le norme penali destinate a risolvere la controversia operano non solo alla stregua del loro autentico, « reale », contenuto prescrittivo, cioè quello attribuito dalle interpretazioni giurisprudenziali dominanti. Le norme producono effetti giuridici, questo è il punto, anche e soprattutto alla stregua dei contenuti alle stesse attribuiti dalle parti in ambito negoziale. Il fenomeno presenta molteplici sfaccettature. In primo luogo, può darsi che le parti del negoziato tentino effettivamente di ricostruire il « contenuto autentico » delle regole di diritto penale sostanziale. Abbiamo qui una attività ermeneutica realmente diretta ad utilizzare le norme sostanziali come criteri di decisione. È ben difficile tuttavia che tale uso delle norme sostanziali non risenta, da un lato, della percezione soggettiva che le parti stesse hanno delle regole, dall’altro dell’assenza di un incisivo controllo giurisdizionale sulla correttezza dell’interpretazione adottata (213). Non si tratta tuttavia solo di riscontrare la presenza di eventuali, grossolani, errores juris riconducibili al fatto che sono le parti a maneggiare le regole. Il fenomeno assume dimensioni assai più peculiari: può infatti accadere che, nella contrattazione, taluno tenti consapevolmente di piegare a proprio vantaggio il significato linguistico della norma sostanziale in gioco, prospettando alla controparte una interpretazione della norma stessa molto difforme (213) Per tutti, A. ALSCHULER, The Trial Judge’s Role in Plea Bargaining, cit., 1163 ss., 1137 ss.; nonché il classico, D. NEWMANN, Conviction: the Determination of Guilt or Innocence Without Trial, Boston, 1966, spec. 100 ss.; nella manualistica, W. LAFAVE, J. ISRAEL, Criminal Procedure cit., 799 ss., 808 ss.
— 1304 — da quella ufficiale. Poiché tuttavia nel plea bargaining non si argomenta, in genere, di fronte ad un giudice, bensì direttamente all’indirizzo della controparte negoziale; poiché, dunque, manca un serio ed imparziale controllo sulla plausibilità giuridica dell’argomentazione, l’affermarsi della singola, magari assurda e faziosa, interpretazione di parte dipende in fondo da due fattori interdipendenti. Da un lato, dalla forza negoziale complessiva di cui gode chi sostiene l’interpretazione aberrante; dall’altro, dalla disponibilità dell’altra parte ad uscire dall’ambito negoziale per rivolgersi ad un giudice che, in sede di « procedimento ordinario », riaffermi l’interpretazione corretta. Come (e perché) ribattere, ad esempio, ad una forzatura interpretativa, anche in malam partem, della fattispecie di percosse quando si sa che la controparte ha le prove per giungere ad una condanna per violenza carnale? Concludendo queste brevi osservazioni sul diritto penale delle prassi negoziali, non si può non rilevare come, in alcuni casi, l’autonomia delle regole di diritto sostanziale operanti nel quadro negoziale, la tendenza cioè di tali regole a porsi come complesso normativo parallelo ed indipendente rispetto al diritto penale della giurisprudenza di grado superiore, risulti essere, addirittura, la spia di un fenomeno ancora più estremo di quelli menzionati: talora, le norme di diritto penale sostanziale hanno in realtà cessato completamente di essere i criteri alla cui stregua viene decisa la controversia. Tale fenomeno — è evidente — non è estraneo neppure ai casi cui si è appena accennato, quelli cioè in cui le parti elaborano e poi accettano interpretazioni molto peculiari delle norme sostanziali: anche in quelle ipotesi infatti l’interpretazione (si era detto: « virtuale ») delle norme penali sostanziali presenta aspetti di forte « convenzionalità », dovuti proprio all’operare di criteri decisionali diversi dalle norme penali sostanziali. I casi ancora più estremi, cui ora si vuole alludere, costituiscono l’esasperazione di tale modo di risolvere le controversie: grazie all’enorme potere discrezionale del prosecutor ed all’onnipotenza del consenso dell’imputato, il plea bargaining permette, addirittura, l’applicazione di norme incriminatrici non supportate — o supportate molto approssimativamente — dai quadri storici di riferimento (214). La corretta qualificazione giuridica di tali quadri viene, insomma, del tutto stravolta: deciso il caso in base a criteri puramente negoziali, l’applicazione di una particolare fattispecie o di altra finisce infatti per dipendere non tanto dal prevalere di particolari opzioni interpretative, sia pure di parte e « faziose », di norme giuridiche, quanto dalla mera volontà delle parti di concordare un determinato nomen juris — anche incongruente rispetto ai fatti — al fine di pervenire ad un determinato ammontare di pena (215). Quando giunge ai limiti delle sue potenzialità, il fenomeno in esame ha poi dell’incredibile: non paga di aver divorato la qualificazione dei fatti, la bulimia negoziale conduce talora le parti — nei casi estremi — a fabbricare, per la singola controversia, entità giuridiche di fantasia: fattispecie astratte ad hoc (ad esempio, il tentativo di omicidio preterintenzio(214) Va tuttavia segnalato che negli anni più recenti è cresciuta — pur con vario successo — la richiesta di una factual basis per il plea bargaining. Cfr., ad esempio, per il sistema federale, le indicazioni di Rule 11(f), delle Federal Rules of Criminal Procedure: « Nonostante l’accettazione della dichiarazione di colpevolezza, la corte non ratificherà tale dichiarazione senza aver accertato che la stessa abbia una base fattuale ». La natura convenzionale dell’accertamento e della qualificazione giuridica è tuttavia una caratteristica del plea bargaining difficilmente eliminabile attraverso pletoriche indicazioni legislative, cfr., infatti, V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, cit., 107 ss. Anche attenendosi alle indicazioni normative, sarà peraltro sempre possibile sostenere, ad esempio, che la commissione di una violenza carnale fornisca una sufficiente « base fattuale » per una condanna concordata che utilizzi come etichetta il solo reato di percosse. (215) Cfr., per tutti, A. ALSCHULER, The Trial Judge’s Role in Plea Bargaining, cit., 1137 ss.; D. NEWMANN, Conviction: the Determination of Guid or Innocence Without Trial, cit., 100 ss.; L. MATHER, Comment on the History of Plea Bargaining, in 13 Law and Society R., 1979, 282. Come efficacemente sottolineato da P. UTZ, (Settling the Facts: Discretion and Negotiation in Criminal Court, Lexington, Mass., 1978, 138 s.) « il plea bargaining costituisce, in ultima analisi, soprattutto uno strumento di commisurazione della pena ».
— 1305 — nale) prive di ogni riscontro nel catalogo dei reati ufficialmente previsto dall’ordinamento (216). Dopo avere così evidenziato alcune delle caratteristiche che rendono del tutto peculiare l’interpretazione delle norme giuridiche nel quadro del plea barganing e ricordato come tali regole siano costantemente affiancate da criteri decisionali di mero fatto, occorre concludere segnalando come, nel suo complesso, la diffusione del plea bargaining si rifletta anche sul diritto giurisprudenziale « ufficiale », quello delle corti di grado superiore. L’ampia diffusione del patteggiamento modifica sensibilmente lo stesso processo evolutivo del diritto penale: la risoluzione contrattata di oltre il 90% dei procedimenti, riducendo il numero e soprattutto il tipo di casi che giungono alle giurisdizioni superiori, non può non comportare un inevitabile effetto di « raffreddamento » sull’attività interpretativa delle fattispecie effettuata dalla giurisprudenza (217). 10. Considerazioni conclusive. — Volendo sintetizzare in poche battute l’analisi condotta nelle pagine che precedono, si può sottolineare, innanzitutto, come l’esame del reato di mail fraud e di alcune figure d’illecito previste del sistema federale statunitense renda palese l’esistenza di meccanismi di ascrizione della responsabilità penale del tutto diversi da quelli evocati dalla tradizionale immagine del sillogismo giudiziale. Si è visto tuttavia che un ampliamento dell’indagine al diritto giurisprudenziale, identificato con i testi prodotti dalle corti di grado superiore, potrebbe essere ugualmente riduttiva. L’idea che il diritto positivo venga interpretato soltanto dai giudici e possa essere eventualmente affiancato « soltanto » da un « diritto giurisprudenziale » prodotto dalle corti di grado superiore, risulta, forse, condizionata troppo incisivamente dall’abitudine mentale che ci porta ad affrontare anche l’analisi della prassi nel prisma della « legge » e delle sue vicende « applicative ». La prospettiva legalistica rimane, sia chiaro, assolutamente irrinunciabile sul piano, per così dire, del dover essere: laddove, ad esempio, i principi (o la Costituzione) impongano in modo perentorio il monopolio legislativo sulle fonti del diritto penale e quello interpretativo del giudice in sede processuale. Risulta tuttavia fuorviante, specie con riferimento agli ordinamenti anglo - americani, sul piano descrittivo: allorquando, cioè, si tratta di capire come operi realisticamente l’ascrizione della responsabilità penale. Almeno nell’indagine comparatistica, è dunque opportuno sottrarsi ai condizionamenti, anche di carattere metodologico, derivanti dall’idea che la legge sia l’unica categoria ordinante dell’esperienza giuridica. Questo abito mentale, derivante dalla tradizione continentale dell’« assolutismo giuridico » (218), è capace talora di sterilizzare anche le aperture verso la « prassi », appiattendo, semplicisticamente, la proteiforme complessità dell’esperienza giuridica sulle meccaniche vicende applicative della legge positiva. L’indagine condotta dimostra invece l’esistenza, almeno in taluni sistemi, di una straordinaria articolazione delle « fonti » capaci di condizionare il reale determinarsi della responsabilità penale. Un’articolazione che finisce per confondere, in ultima analisi, gli stessi confini tra i presupposti giuridici ed i presupposti fattuali della responsabilità. L’opzione in favore di un maggior realismo nell’analisi non sminuisce in alcun modo — è appena il caso di sottolinearlo — l’importanza dei valori fondamentali che sono alla base dell’istanza di legalità e del correlativo primato della legge, così come tramandati dal pen(216) Ad esempio, People v. Foster, 19 N.Y.2d 150, 225 N.E. 2d 200 (1967). (217) L’osservazione, relativa ai possibili effetti del c.d. patteggiamento (artt. 444 e ss. c.p.p.) nel sistema processuale italiano è di Alessandro MELCHIONDA, Definizioni normative e riforma del codice penale (spunti per una rinnovata riflessione sul tema), in Omnis definitio in jure periculosa?, cit., 418 ss. (218) L’espressione è qui utilizzata nell’accezione di, P. GROSSI, Assolutismo giuridico e diritto privato nel secolo XIX, in Rivista di storia del dir. it., 1991, 1 ss.; ID., Epicedio per l’assolutismo giuridico (dietro gli « atti » di un convegno milanese e alla ricerca di segni), in Quaderni fiorentini, 1988, 517 ss.
— 1306 — siero illuminista. Piuttosto, tale scelta metodologica pare costituire, oggi, condizione fondamentale sia per una più effettiva realizzazione di tale primato, sia per la ricerca di soluzioni che consentano, anche nel quadro delle drammatiche trasformazioni dei sistemi penali contemporanei, il soddisfacimento delle stesse irrinunciabili esigenze di garanzia (219). MICHELE PAPA Ricercatore di diritto penale nell’Università di Modena
(219) In merito all’opportunità di considerare l’esigenza di garanzia come l’unico vero punto fermo della legalità penale, F. C. PALAZZO, Ancora sulla legalità in materia penale, (Storicità ed universalità del principio), in Associazione per gli Studi e le Ricerche Parlamentari, Quad. 5 — Seminario 1994, Torino, 1995, 60 ss.
IL TITOLO VI DEL TRATTATO DI MAASTRICHT E IL DIRITTO PENALE (*)
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — 2. Natura e funzione del terzo pilastro. - 2a. La natura giuridica del terzo pilastro. - 2b. L’opera di reductio ad unum delle iniziative già esistenti. — 3. Struttura e contenuto del terzo pilastro. - 3a. I settori interessati e gli strumenti predisposti. - 3b. Le autorità interessate e le relative competenze. 3c. Le garanzie offerte nel quadro del titolo VI. — 4. La mise en oeuvre del terzo pilastro. - 4a. I risultati già conseguiti. - 4b. Le prospettive future del terzo pilastro. — 5. Considerazioni conclusive. 1. Considerazioni introduttive. — L’apertura della Conferenza intergovernativa volta alla revisione del testo del Trattato di Maastricht adottato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vi(*) In corso di pubblicazione, ha avuto luogo ad Amsterdam l’incontro conclusivo della Conferenza intergovernativa volta a modificare il Trattato sull’Unione Europea. Sebbene il testo attualmente disponibile costituisca esclusivamente una versione provvisoria del Progetto di Trattato, si tiene a precisare che esso incide in maniera significativa sull’argomento di questo contributo. Non potendo qui evidenziare tutte le diverse implicazioni che le modifiche proposte potranno avere sulla materia esaminata, ci si limita a segnalare alcuni punti qualificanti. In particolare, la previsione, nell’ambito del Trattato CE, di un nuovo titolo, concernente la libera circolazione delle persone, l’asilo e l’immigrazione, previsione che, sancendo la possibilità dell’applicazione di regole e procedure propriamente comunitarie alle iniziative della Comunità in materia di asilo, visti, immigrazione, controlli alle frontiere esterne e cooperazione giudiziaria in materia civile — riguardo alle quali viene sancito comunque l’obbligo di rispettare « l’acquis Schengen » —, determina l’eliminazione delle stesse tematiche dall’ambito del titolo VI. La materia di tale parte del Trattato viene così a coincidere essenzialmente con la cooperazione giudiziaria in materia penale e la cooperazione di polizia. Nel novero degli strumenti previsti nel contesto del titolo VI al fine di perseguire l’obiettivo di garantire un elevato livello di sicurezza ai cittadini dell’Unione vengono inoltre ricompresi i nuovi strumenti della decisione — atto vincolante nella sua interezza — e della decisione-quadro, quest’ultima avente ad oggetto il riavvicinamento delle legislazioni nazionali e vincolante per gli Stati solo in ordine al risultato da conseguire mentre la scelta di forme e metodi per il raggiungimento dell’obiettivo disposto viene lasciata alle autorità nazionali. Si prevede inoltre una procedura di autorizzazione delle iniziative degli Stati membri volte alla realizzazione di forme di cooperazione più stretta, autorizzazione subordinata alla verifica che la cooperazione disposta abbia lo scopo di realizzare gli obiettivi di tale parte del Trattato e non infici comunque competenze ed obiettivi della Comunità. Viene sancita infine, previa dichiarazione degli Stati all’atto della firma o successivamente, la competenza della Corte di Giustizia a pronunciarsi in via pregiudiziale sulla validità ed interpretazione di decisioni e decisioni-quadro, sull’interpretazione delle convenzioni e sulla validità ed interpretazione delle relative misure di attuazione. La competenza della Corte di Giustizia è altresì disposta in ordine alla legittimità delle decisioni e delle decisioniquadro ed al fine di regolare i conflitti tra Stati e Commissione, riguardo all’interpretazione delle convenzioni, e tra Stati, riguardo all’interpretazione degli atti adottati nell’ambito del
— 1308 — gore il 1o novembre 1993, costituisce un evidente stimolo a profonde riflessioni su diverse problematiche e, tra queste, senza alcun dubbio, su quella dei rapporti tra diritto comunitario e diritto penale. Il Trattato sull’Unione europea ha rappresentato, infatti, un momento decisivo per quanto attiene un tale aspetto, ed in particolare per ciò che concerne le ‘‘disposizioni sulla cooperazione nel campo della giustizia e degli affari interni’’ contenute nel relativo titolo VI. Se la presenza di numerosi e significativi punti di incidenza del diritto comunitario sul diritto penale nazionale era stata già accettata pressoché unanimemente (1), seppure spesso con molte critiche e perplessità (2), dalle istituzioni comunitarie e dagli Stati membri, con il Trattato sull’Unione che prospetta la preparazione di una futura unione politica come sviluppo naturalmente conseguente ad una unione economica già realizzata, l’affermazione che il diritto penale resta completamente al di fuori delle competenze delle istituzioni comunitarie risulta ancor meno accettabile. Dedicando un apposito titolo, il VI, alle tematiche afferenti alla cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni, il Trattato di Maastricht è la dimostrazione che tale materia ha cessato di costituire un tema di interesse esclusivamente dottrinario, divenendo il ‘terzo pilastro’ della costruzione europea (3). Si può affermare così che un tale Trattato ha gettato le basi per una ‘‘Europa globale’’ che potrebbe dare vita, in futuro, persino ad un diritto e ad una procedura penali comunitari. La previsione del titolo VI si fonda sulla presa di coscienza che l’apertura delle frontiere e gli eventuali sviluppi futuri dell’integrazione europea possono favorire la diffusione di forme di criminalità c.d. transnazionali, se le ‘frontiere’ comunque persistono in ambito giudiziario (4). titolo VI, allorquando il Consiglio, investito della questione, non l’abbia risolta nel termine di sei mesi. Attente valutazioni dovranno infine essere svolte riguardo al nuovo testo dell’art. 209 A CE, in tema di tutela degli interessi finanziari dell’Unione. Se da un lato le modifiche apportate fanno di tale disposizione la base giuridica per eccellenza di ogni iniziativa comunitaria in materia, dall’altro si esclude esplicitamente dall’ambito di tale norma « l’applicazione del diritto penale nazionale e l’amministrazione della giustizia ». (1) Cfr. J.W. BRIDGE, ‘‘The European Communities and the Criminal Law’’, Criminal Law Review, 1976, p. 88 ss.; Ch. VAN DER WYNGAERT, ‘‘Droit pénal et Communautés européennes’’, Revue de droit pénal et de criminologie, 1982, p. 837 ss.; G. GRASSO, Comunità europee e diritto penale, Milano, Giuffrè, 1989; H. SEVENSTER, ‘‘Criminal Law and EC Law’’, Common Market Law Review, 1992, p. 29 ss. Una incidenza indiretta del diritto comunitario sul diritto penale degli Stati membri è stata da molto tempo affermata dalla Corte di Giustizia, cfr. per esempio, CGCE 25 febbraio 1988, Drexl, causa n. 299/86, in Raccolta, 1988, p. 1213; CGCE 2 febbraio 1989, Cowan, causa 186/87, in Raccolta, 1989, p. 221. (2) Considerazioni particolarmente critiche sul riconoscimento degli effetti del diritto comunitario sul diritto penale degli Stati membri sono state sviluppate da J. BORÉ, La difficile rencontre du droit pénal français et du droit communautaire, Mélanges Vitu, Paris, Cujas, 1989, pp. 25 ss. (3) In generale, sul terzo pilastro del Trattato sull’Unione, cfr. U. EVERLING, ‘‘Reflections on the structure of the Union’’, Common Market Law Review, 1992, p. 1053 ss; H. LABAYLE, La coopération dans les domaines de la Justice et des Affaires Intérieures, in Les accords de Maastricht et la constitution de l’Union Européenne, Montchrestien, Paris, 1993, p. 147 ss., e dello stesso autore, ‘‘L’application du titre VI du Traité sur l’Union Européenne et la matière pénale’’, Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1995, p. 35 ss. (4) Per la definizione di criminalità transnazionale, cfr. G. GRASSO e G. POLIMENI, Cooperation among States in the fight against organized crime, in The international dimension of contemporary societies in the field of criminality and the responses of the movement of social defense, Rapporto del Ministero della Giustizia e del Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale dell’Undicesimo Congresso Internazionale di Difesa Sociale, Milano, 1986, p. 62 ss.
— 1309 — Non può infatti essere sottovalutato che successi significativi sul piano della costruzione comunitaria — come la creazione di un unico mercato interno nel quale potranno liberamente circolare persone, merci, servizi e capitali — rappresentano, al tempo stesso, un pericoloso incentivo per le attività della criminalità organizzata su scala internazionale che non possono non risultare avvantaggiate dall’attuale ‘frazionamento’ dello spazio penale europeo e dalle incoerenze che ne conseguono sul piano della repressione e che permettono spesso di raggiungere una certa immunità. Attualmente, peraltro, di fronte ad una liberalizzazione dei mercati e della circolazione di merci, persone e capitali in continua espansione — liberalizzazione che comporta una riduzione delle possibilità di ciascuno Stato membro di scoprire e bloccare eventuali traffici illeciti all’attraversamento delle proprie frontiere —, sta una cooperazione giudiziaria certamente non adeguata alle nuove esigenze, in quanto ancorata a principi e procedure non più ammissibili nel nuovo contesto dell’Unione europea (5). La commissione di illeciti potrebbe inoltre risultare incentivata dalla disomogeneità del trattamento sanzionatorio esistente sul territorio comunitario. Tale situazione, potendo dare vita ad eventuali fenomeni di forum shopping, costituisce infatti un possibile ostacolo alla cooperazione giudiziaria, impedendo una repressione efficace degli stessi illeciti. Non dovrebbe quindi essere ulteriormente differito l’inizio di un’indispensabile opera di armonizzazione e di coordinamento di tutte le fattispecie penali connesse alle attività della criminalità organizzata, ed in particolare di quelle concernenti la criminalità economica. È ad una tale duplice esigenza di intensificata cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri e di armonizzazione di rilevanti settori del diritto penale che il titolo VI mira a dare una seppure parziale risposta (6). Anche se la soluzione prescelta per le questioni poste dalle disposizioni di tale parte del Trattato si rivela, come si vedrà, piuttosto un compromesso tra la ‘logica comunitaria’ e la ‘logica intergovernativa’, senza dubbio a vantaggio di quest’ultima, ciò non vanifica la constatazione che ormai anche le problematiche di carattere penale sono affrontate secondo quello che potremmo definire un ‘approccio comunitario’. 2. Natura e funzione del terzo pilastro. — Se la previsione di un apposito titolo dedicato alla cooperazione giudiziaria anche in materia penale consacra l’irruzione di un ‘punto di vista’ comunitario — o più estesamente europeo — nella gestione di questioni particolarmente significative per la sovranità degli Stati membri, un esame attento della realtà europea, ma soprattutto delle stesse disposizioni contenute nel titolo VI, impone di mitigare la portata pressocché rivoluzionaria che si sarebbe tentati di attribuire, ad una prima lettura, a questa parte del Trattato. In primo luogo, infatti, esisteva di già in Europa una cooperazione giudiziaria che toccava la maggior parte delle tematiche ora ricomprese nel titolo VI e che trovava il suo noyau dur in una parte dell’attività del Consiglio d’Europa (7) e nella cooperazione politica instauratasi tra gli Stati membri già a partire dalla metà degli anni Settanta, in particolare a seguito dell’idea di creare uno spazio giuridico europeo, lanciata dal Presidente francese Giscard d’Estaing al Consiglio europeo di Bruxelles del 1977 (8). (5) Secondo H. LABAYLE è proprio questa la considerazione che può veramente giustificare l’integrazione giuridica anche in materia penale, cfr. ‘‘L’application du titre VI du Traité sur l’Union Europeénne et la matière pénale’’, cit., p. 49. (6) Cfr. G. GRASSO, ‘‘Le prospettive di formazione di un diritto penale dell’Unione Europea’’, Rivista trimestrale di diritto penale dell’economia, 1995, pp. 1183-1184. (7) Cfr. in generale, su questo punto, E. DECAUX, ‘‘Les activités normatives du Conseil de l’Europe’’, Juris Classeurs Europe, 1993, fasc. 6110. (8) Cfr. J. CHARPENTIER, ‘‘Vers un espace judiciaire européen’’, Annuaire français de droit international, 1978, p. 927 ss.; Ch. VAN DER WYNGAERT, ‘‘L’espace judiciaire européen: vers une fissure au sein du Conseil de l’Europe’’, Revue de droit pénal et de criminolo-
— 1310 — In secondo luogo, il terzo pilastro non prevede una competenza propriamente comunitaria nei settori interessati ma una forma, seppure particolare ed unica, di cooperazione intergovernativa. Ai fini di un corretto inquadramento e di una precisa comprensione delle disposizioni del titolo VI, si presenta necessario quindi individuare esattamente la natura giuridica del terzo pilastro, come anche l’effettiva funzione che, nell’attuale contesto europeo, le relative disposizioni esplicano. a) La natura giuridica del terzo pilastro. — A differenza delle disposizioni del primo pilastro che, apportando delle modifiche ai trattati istitutivi delle tre Comunità europee, costituiscono a pieno titolo espressione di diritto comunitario propriamente inteso, le previsioni del titolo VI non rientrano in tale ambito e ad esse non sono applicabili, a rigore, i principi fondamentali del diritto comunitario, tra cui, in particolare, la preminenza assoluta sul diritto interno. La natura di tali disposizioni si avvicina piuttosto a quella delle norme di diritto internazionale pubblico alle quali deve riconoscersi, pur in assenza di un meccanismo che ne assicuri, eventualmente in forma coattiva, l’effettivo rispetto, un’innegabile funzione politica di persuasione e di sensibilizzazione nelle relazioni tra gli Stati (9). Dinnanzi ad un déficit sécuritaire che esigeva una risposta chiara a livello europeo, e nonostante le numerose argomentazioni sostenute dalla Commissione e dal Parlamento europeo, come anche da qualche Stato membro, riguardo alla necessità di una specifica azione comunitaria nei settori ricompresi nel titolo VI, gli Stati membri si sono infine rifiutati di prevedere una competenza propriamente comunitaria in questi settori, politicamente sensibili, e hanno deciso di procedere sulla via della cooperazione intergovernativa già sperimentata a Schengen tra Francia, Repubblica Federale di Germania e Paesi del Benelux (10). È stato così definitivamente superato il conflitto, delineatosi a tal proposito già in seguito all’adozione del Libro Bianco nel 1985 e rimasto per lungo tempo latente, tra la Commissione e qualche raro Stato membro, da un lato, e gli altri Stati, dall’altro (11). gie, 1981, p. 512 ss.; E. CRABIT, Recherches sur la notion d’espace judiciaire européen, Presses Universitaires de Bordeaux, Bordeaux, 1988, p.l. ss.; J.W. DE ZWANN, Institutional Problems and Free Movement of Persons: the Legal and Political Framework for Cooperation, in Free movement of persons in Europe: legal problems and experiences, Schermars, TMC Asser Institut, La Haye, 1993, p. 335 ss.; G. KERCHOVE, ‘‘La coopération intergouvernementale dans le domaine de la libre circulation des personnes: son développement et ses différentes formes avant et après Maastricht’’, in Actualités du droit, 1994, p. 303 ss. (9) Cfr. P.C. MÜLLER-GRAFF, ‘‘The Legal Bases of the third Pillar and its Position in the framework of the Union Treaty’’, Common Market Law Review, 1994, p. 49. Nel senso di una più decisa impossibilità per gli Stati di addurre la presenza di norme nazionali contrarie a giustificazione del non ossequio di un’obbligazione nascente dal Trattato, cfr. J.H.H. WEILER, Neither Unity nor three Pillars - The Trinity Structure of the Treaty on European Union, in J. MONAR, W. UNGERER, W. WESSELS, The Maastricht Treaty on European Union. Legal Complexity and Political Dynamic, European University Press, Brussels, 1993, p. 54. (10) Sulla genesi del Trattato sull’Unione, e anche dunque del terzo pilastro, cfr. J. CLOOS, G. REINESCH, D. VIGNES, J. WEYLAND, Le Traité de Maastricht. Genèse, analyse, commentaires, Bruylant, Bruxelles, 1993. (11) L’ambiguità della situazione non era stata certo superata dall’adozione dell’Atto Unico Europeo. Se rispetto all’art. 8A, che stabilisce il principio secondo cui ‘‘il mercato unico comporta uno spazio senza frontiere interne nel quale è assicurata la libera circolazione [...] delle persone [...]’’, la Commissione aveva interpretato il termine ‘‘persone’’ come sicuramente concernente anche i cittadini degli Stati terzi, situazione che esigeva una risposta comunitaria per tutti i provvedimenti che potessero riguardare tali soggetti, una delle dichiarazioni allegate allo stesso Atto Unico (concernente più specificamente gli artt. 13-19), pur affermando che ‘‘la Comunità stabilisce le misure destinate a dare vita progressivamente al mercato unico’’ precisava comunque che nessuna disposizione avrebbe potuto pregiudi-
— 1311 — La previsione di una competenza comunitaria sarebbe stata tuttavia certamente auspicabile in quanto essa avrebbe permesso di conseguire il duplice risultato di rafforzare l’integrazione europea e di assicurare il controllo parlamentare e giurisdizionale sulle relative procedure, con l’evidente maggiore garanzia che ne consegue per i diritti dell’individuo. Se però non può essere contestata la veridicità delle considerazioni finora esposte, non si può con assoluta nettezza affermare che quella disposta nel titolo VI costituisca una semplice forma di cooperazione intergovernativa. E ciò a causa delle evidenti — e quanto mai ricche di potenziali evoluzioni — connessioni esistenti tra il terzo pilastro ed il pilastro comunitario. Il primo elemento di ‘saldatura’, il più evidente come anche il più importante, è sicuramente dato dal fatto che, al fine di eliminare la crescente confusione di forme di cooperazione e di istituzioni differenti, il Trattato sull’Unione dispone, all’art. C, che l’Unione deve essere costituita da un unico apparato istituzionale che possa assicurare la continuità e la coerenza delle attività intraprese per conseguire gli obiettivi prefissati. Ciò significa che protagonisti delle iniziative intraprese nel quadro del terzo pilastro, ovviamente accanto agli Stati, sono le quattro istituzioni delle Comunità europee, cioè il Consiglio, la Commissione, il Parlamento europeo e la Corte di Giustizia, ognuna con un proprio ruolo e tutte sotto le direttive politiche generali del Consiglio Europeo. Passando dal piano istituzionale a quello sostanziale, bisogna poi osservare che l’art K1 TUE precisa, già nel primo comma, che la cooperazione nei settori elencati nello stesso articolo dovrà essere realizzata ‘‘senza pregiudizio delle competenze della Comunità europea’’; formulazione, questa, che solleva la delicata questione — senza peraltro indicare una soluzione — della legittimità di una eventuale azione propriamente comunitaria in tali settori alla luce del principio di sussidiarietà. Non bisogna infatti sottovalutare che la Comunità ha già delle competenze, seppure limitate, nei settori indicati all’art. K1 TUE, allorquando le relative problematiche risultino collegate all’abolizione dei controlli esterni; competenze che hanno come base giuridica l’art. 100 CE o l’art. 235 CE, dato che l’art. 100A CE esclude esplicitamente la circolazione delle persone (12). La questione che viene inevitabilmente a porsi è se le previsioni del titolo VI impediscano l’applicazione degli strumenti propri del diritto comunitario stricto sensu inteso ai settori interessati, permettendo esclusivamente una cooperazione intergovernativa così come concepita nel terzo pilastro. Un’attenta riflessione sulla formulazione, sopra riferita, del primo comma dell’art. K1 TUE, come anche sulla lettera dell’art. M TUE — secondo il quale nessuna disposizione del nuovo trattato può comunque intaccare i trattati istitutivi delle Comunità europee o gli atti successivi che li modificano o li completano —, deve a nostro avviso indurre senza incertezze a dare una risposta negativa a tale quesito (13). Ciò comporta che, allorquando una stessa questione possa essere fatta rientrare nell’ambito delle disposizioni del pilastro comunitario come anche in quello delineato dalle disposizioni del titolo VI, sono le prime a dover care il diritto degli Stati membri a disporre quelle misure che essi avessero ritenuto necessarie in materia di controllo dell’immigrazione, così come in materia di lotta contro il terrorismo ed il traffico di droga. (12) Cfr. R. ADAM, ‘‘La cooperazione nel campo della giustizia e degli affari interni: da Schengen a Maastricht’’, in Rivista di diritto europeo, 1994, p. 231. In generale, sulla questione dell’esercizio delle competenze comunitarie alla luce del principio di sussidiarietà, cfr. K. LENAERTS et P. VAN YPERSELE, ‘‘Le principe de subsidiarité et son contexte: étude sur l’art. 3B du Traité CE’’, Cahiers de droit européen, 1994, p. 3 ss. (13) La necessità di individuare, all’interno dei settori elencati all’art. K1 TUE, gli ambiti rientranti nelle competenze proprie della Comunità, e quindi ascrivibili al primo pilastro, è sottolineata da J.A.E. VERVAELE, ‘‘L’application du droit communautaire: la séparation des biens entre le premier et le troisième pilier?’’, in Revue de droit pénal et de criminologie, 1996, p. 16.
— 1312 — prevalere mentre le seconde potranno intervenire solo al fine di completare e perfezionare l’azione comunitaria. Ulteriore ed importante elemento di collegamento risulta essere, inoltre, la norma contenuta all’art. K8 TUE che prevede la possibilità che la predisposizione dei mezzi necessari per la realizzazione della cooperazione prevista al titolo VI sia posta, dopo un voto all’unanimità, a carico del bilancio comunitario. Bisogna sottolineare poi la possibilità che le convenzioni previste all’art. K3 2c) TUE siano soggette al controllo della Corte di Giustizia; elemento, questo, che rivela un possibile collegamento ben più che semplicemente formale all’ordinamento comunitario. Infine non può certamente essere trascurata l’importanza della c.d. norma-passerella dell’art.K9 TUE. Attraverso tale disposizione, infatti, in seguito ad una decisione unanime del Consiglio, la procedura comunitaria dell’art. 100C CE, cioè la procedura di decisione a maggioranza qualificata, può essere estesa a più della metà dei settori elencati all’art. K1 TUE, e precisamente a quelli previsti ai commi da 1 a 6. Proprio in relazione alla difficile questione della definizione della natura del terzo pilastro ed anche alla luce delle constatazioni sopracitate, qualche autore ha parlato di una sorta di ‘‘porosità’’ tra i tre pilastri, che va anche oltre la semplice struttura comune delle istituzioni comunitarie (14). La stretta connessione e l’interdipendenza tra il sistema comunitario e l’Unione rende in effetti difficile considerare le disposizioni del titolo VI sic et simpliciter come norme di diritto internazionale. Anche se, per le considerazioni sin qui svolte, esse non rientrano nel diritto comunitario stricto sensu inteso, tali disposizioni creano tuttavia delle limitazioni per gli Stati membri e devono sottostare ad alcune prerogative proprie della costruzione comunitaria, come quella di non violare l’acquis communautaire. Non risulterebbe di conseguenza concepibile il libero operare di meccanismi propri del diritto internazionale pubblico, quali la reciprocità o gli atti di rappresaglia. L’interesse delle disposizioni del titolo VI sta dunque nel fatto che esse configurano un ambito che, pur rimanendo distinto da quello propriamente comunitario, non rientra comunque più nella cooperazione politica tra gli Stati membri, ricadendo invece tra le competenze dell’Unione europea. Alla luce di quanto appena detto, la struttura dei ‘tre pilastri’ non solleva soltanto un problema di scelta politica ma anche l’interessante questione di individuare esattamente l’elemento che conferisce la ‘qualità comunitaria’ ad una procedura o ad un atto. La semplice esclusione, per esempio, della funzione giurisdizionale della Corte di Giustizia stabilita dall’art. L TUE, che limita la competenza di questa Corte alle disposizioni comportanti modifiche dei Trattati CEE, CECA ed EURATOM, al terzo comma dell’art. K3 2c) TUE e agli artt. da L a S TUE, non sarebbe sufficiente di per sé a denotare una totale differenza ontologica tra atti comunitari e non comunitari. L’assenza di una competenza della Corte di Giustizia, infatti, non esclude automaticamente la possibilità che atti adottati in seno al terzo pilastro creino vincoli giuridici precisi o diano vita a prassi dalle quali sia difficile che uno Stato membro possa discostarsi a sua totale discrezione. A questo proposito bisogna anche considerare, infatti, che è la Corte di Giustizia stessa che, in un certo senso, controlla l’ambito della propria competenza, dato che essa è competente ad interpretare l’art. L TUE; ulteriore indizio, questo, di una qualche evanescenza del criterio appena enunciato. Ci si rende conto così che, in realtà, soltanto la combinazione di una varietà di fattori determina la ‘qualità comunitaria’ di politiche e disposizioni; cosa che denota il carattere particolare del Trattato sull’Unione dove ‘‘unità’’ e ‘‘separazione’’ tra le parti coesistono (15). (14) Cfr. J.H.H. WEILER, Neither Unity nor three Pillars - The Trinity Structure of the Treaty on European Union, cit., p. 51. (15) Cfr. J.H.H. WEILER, Neither Unity nor three Pillars - The Trinity Structure of the Treaty on European Union, cit., p. 62.
— 1313 — In conclusione bisogna a nostro avviso ritenere che, seppure la situazione risultante dalla creazione del terzo pilastro del Trattato di Maastricht non è certamente la più auspicabile per quanto concerne il progresso dell’integrazione europea — dato che, creando il terzo pilastro, il Trattato sull’Unione evita di incrementare il pilastro comunitario — non si dovrebbe comunque sottovalutare la scelta operata riguardo alle disposizioni del titolo VI. In effetti, almeno per quanto concerne la prima fase del processo di integrazione nei settori interessati, il coordinamento delle legislazioni e delle pratiche nazionali e la realizzazione di una progressiva armonizzazione dei sistemi nazionali potrebbero avverarsi più utili ed opportuni di un’applicazione uniforme di regole rigorosamente comunitarie. La presenza di disposizioni, quali l’art. K8 TUE ed in special modo l’art. K9 TUE, rappresenta comunque una fondamentale chiave di volta di questo processo di ‘maturazione’, lasciando essa aperta la prospettiva di sviluppi futuri verso l’ambito propriamente comunitario. Non mancano peraltro autori che, oltre a mettere in evidenza la totale differenza, attualmente esistente, tra le procedure propriamente comunitarie e quelle essenzialmente intergovernative delineate nel titolo VI, si mostrano alquanto scettici sulla possibilità e sulla opportunità — anche in via tendenziale e pur nel riconoscimento dell’esistenza di sensibili interessi comuni — di un passaggio nei settori ricompresi nel terzo pilastro a forme e procedure comunitarie, anche per il pericolo rappresentato dai possibili fallimenti di una ricerca eccessivamente ostinata di armonizzazione in settori tanto sensibili (16). L’approccio comunitario rimane comunque, a nostro avviso, il più auspicabile, almeno come risultato finale, soprattutto se si considerano i vantaggi conseguenti all’applicazione dell’art. 177 CE, all’interpretazione uniforme dei testi, al controllo del Parlamento europeo, all’adozione, insomma, di un approccio comune, a livello comunitario, dei numerosi e complessi problemi che ricadono nel terzo pilastro. b) L’opera di reductio ad unum delle iniziative già esistenti. — Al fine di una corretta valutazione della portata delle disposizioni del titolo VI, si presenta altresì necessario individuare la loro esatta funzione sulla base del dato che le questioni connesse alla cooperazione giudiziaria hanno costituito da tempo l’oggetto di numerosi studi e documenti, dapprima in seno al Consiglio d’Europa, ed in un secondo tempo anche nell’ambito più ristretto della Cooperazione Politica tra gli Stati membri. Dalla Convenzione europea sull’estradizione alla Convenzione di cooperazione giudiziaria in materia penale, dalla Convenzione sul riconoscimento internazionale delle sentenze penali alla Convenzione sulla trasmissione dei procedimenti penali, l’essenziale del patrimonio giudiziario europeo era stato già delineato, infatti, dai documenti adottati dagli Stati membri del Consiglio d’Europa. In questo contesto, inoltre, dopo la battuta d’arresto determinata dall’opposizione olandese nel 1980 dei lavori condotti sulla base dell’iniziativa francese caldeggiata dal Presidente Giscard D’Estaing, si sono inseriti i testi elaborati nell’ambito della Cooperazione Politica Europea, quali la Convenzione relativa all’applicazione del principio ne bis in idem del 1987, l’accordo dello stesso anno relativo all’applicazione tra gli Stati membri della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, l’accordo di San Sebastian sulla semplificazione e la modernizzazione dei modi di trasmissione delle domande di estradizione del 1989, la Convenzione sul trasferimento dei procedimenti penali aperta alla firma a Roma il 6 novembre 1990 e la Convenzione sull’esecuzione delle sentenze penali straniere aperta alla firma a Bruxelles il 13 novembre 1991 (17). (16) Cfr. H. LABAYLE, La coopération dans les domaines de la Justice et des Affaires Intérieures, in Les accords de Maastricht et la constitution de l’Union Européenne, cit., p. 177. (17) Cfr. sul punto, G. GRASSO, ‘‘La cooperazione giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri della Comunità europea’’, in Foro italiano, 1987, IV, p. 458 ss.; V. LIBRANDO, ‘‘La cooperazione giudiziaria nell’ambito della Comunità economica europea’’, in Diritto co-
— 1314 — L’organizzazione di uno ‘‘spazio giudiziario unitario’’ come nuova dimensione da affiancare a quella puramente economico-commerciale dei trattati originari ha interessato, quindi, il dibattito europeo sin dal lontano 1977, pur essendo stata tale tematica rilanciata soprattutto a partire dalla Presidenza italiana del 1985 (18). Nella delineazione di un tale quadro non può inoltre non sottolinearsi l’importanza del c.d. Documento di Palma, elaborato nel 1989 e contenente una lista di misure considerate come necessarie, o anche semplicemente auspicabili, per realizzare l’obiettivo della libera circolazione delle persone; o il lavoro del c.d. Gruppo di Trevi, istituito verso la metà degli anni Settanta come risposta al dilagare del terrorismo internazionale e della grande criminalità e incaricato di coordinare le misure concernenti il terrorismo, la sicurezza e il mantenimento dell’ordine pubblico da parte della polizia; o ancora l’attività del gruppo ad hoc sull’immigrazione concernente più specificamente i settori dell’asilo, dei controlli alle frontiere esterne, dei visti, ed alla quale si deve l’elaborazione della Convenzione di Dublino sull’asilo. L’analisi potrebbe dilungarsi notevolmente se si passassero in rassegna anche tutte le altre iniziative assunte nei settori più diversi: la creazione del comitato europeo di lotta antidroga, del gruppo di cooperazione giudiziaria, di Trevi ’92. Ma soprattutto in questa analisi non può non attribuirsi un ruolo fondamentale agli Accordi di Schengen sulla eliminazione graduale dei controlli alle frontiere, la cui logica — primo esempio del fenomeno che è stato denominato ‘‘Europe à deux vitesses’’ — è stata anche in un certo senso istituzionalizzata all’art. K7 TUE. In tale articolo si afferma chiaramente, infatti, che le disposizioni del titolo VI non impediscono l’istituzione o il potenziamento di una cooperazione più sviluppata tra due o più Stati membri, nei limiti in cui la suddetta cooperazione non entri in conflitto con quella prevista nel terzo pilastro. Il riferimento implicito agli Accordi di Schengen è comunque frequente in diverse disposizioni del titolo VI. Le parti del Trattato sull’Unione concernenti la politica dell’asilo o quella dell’immigrazione corrispondono, più o meno, ai relativi articoli di Schengen o della Convenzione di esecuzione. Per ciò che riguarda poi la cooperazione a livello di polizia, gli Accordi di Schengen costituiscono una vera e propria ‘pietra miliare’. Si può affermare che il ruolo catalizzatore di un tale sviluppo della cooperazione giudiziaria in ambito più rigorosamente comunitario sia stato assolto dall’adozione dell’Atto Unico Europeo. L’art. 13 AUE, divenuto l’art. 8A CE, per l’appunto, disponendo la creazione progressiva di un mercato unico che comporta uno spazio senza frontiere interne, ha fatto nascere l’esigenza improcrastinabile, in particolare per quanto concerne la circolazione delle persone, di adottare misure comunitarie in settori di competenza dei Ministeri della Giustizia e degli Interni dei vari Stati membri (19). L’Atto Unico ha quindi un duplice merito. Non soltanto, infatti, esso ha istituzionalizzato quella cooperazione politica europea svoltasi, fino a quel momento, al di fuori della Comunità e attraverso meccanismi diversi da quelli comunitari, predisponendo a tal fine un quadro istituzionale di riferimento (che non faceva venir meno comunque la dimensione inmunitario e degli scambi internazionali, 1990, p. 7 ss.; R. KOERING-JOULIN, L’entraide judiciaire répressive au sein de l’Union Européenne, in Quelle politique pénale pour l’Europe?, Economica, Paris, 1993, p. 169 ss.; S. OSCHINSKY e P. JENNARD, L’espace juridique et judiciaire européen, Bruxelles, 1993; S. CARBONE, Lo spazio giudiziario europeo. La Convenzione di Bruxelles e di Lugano, Giappichelli, Torino, 1995. (18) Cfr. sull’argomento, E. HARREMOES, ‘‘L’espace judiciaire des vingt et un’’, Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1981, p. 813; J. CHARPENTIER, ‘‘Vers un espace judiciaire européen?’’, cit.; R. DE GOUTTES, ‘‘Variations sur l’espace judiciaire pénal européen’’, in Dalloz chroniques, 1990, p. 245; A. TYRREL, ‘‘Rapport sur les fondements juridiques susceptibles d’autoriser une action communautaire dans le cadre de l’espace judiciaire européen’’, P.E. Doc., 1-318/82. (19) Cfr. M. LEPOIVRE, ‘‘Le domaine de la Justice et des Affaires Intérieures dans la perspective de la Conférence Intergouvernementale de 1996’’, in Cahiers de droit européen, 1995, pp. 324-325.
— 1315 — tergovernativa), ma soprattutto esso ha realizzato una radicale modifica della prospettiva della cooperazione giudiziaria degli Stati membri. Mentre anteriormente all’Atto Unico la cooperazione nel campo della giustizia si identificava con una cooperazione giudiziaria in senso stretto — costituita cioè essenzialmente da una serie di misure di collaborazione operativa non collegate ad un miglior funzionamento del sistema comunitario ma dirette pressoché esclusivamente ad agevolare in via generale il conseguimento dei fini propri della giurisdizione civile o penale degli Stati — la previsione nel Trattato comunitario della creazione di uno ‘‘spazio senza frontiere’’ fa sì che una tale cooperazione cessi di essere vista come fine a se stessa, come aspetto autonomo delle relazioni di solidarietà tra gli Stati membri, per risultare collegata ad una finalità comunitaria in senso proprio. In un certo senso la cooperazione nel campo della giustizia e degli affari interni diventa funzionale al raggiungimento dell’obiettivo comunitario di realizzazione dello ‘‘spazio senza frontiere’’, come previsto dall’art. 8A CE (20). La conferma di quanto sin qui detto si può d’altronde facilmente rinvenire nel preambolo della c.d. Convenzione di Bruxelles sull’esecuzione delle sentenze penali straniere che al primo ‘considerando’ dichiara, appunto, che tale Convenzione è volta a ‘‘rafforzare la cooperazione giudiziaria nella prospettiva della creazione di uno spazio europeo senza frontiere interne nel quale la libera circolazione delle persone sia assicurata in base alle disposizioni dell’Atto Unico Europeo’’. Se per quanto concerne il contenuto della cooperazione, quindi, le disposizioni del titolo VI del Trattato sull’Unione non rappresentano una grande innovazione giuridica, può tuttavia individuarsi, a nostro avviso, un ruolo particolare e specifico — anche rispetto a quello fondamentale già assolto dall’Atto Unico — che le disposizioni del terzo pilastro sono chiamate ad assumere e che costituisce la loro ragion d’essere. Si tratta, più precisamente, di un ruolo di chiarificazione e di coordinamento delle forme preesistenti di cooperazione intergovernativa, di un’operazione di ricomposizione della moltitudine di iniziative tecniche o politiche sparse, all’interno di una logica europea. I diversi organismi fino a questo momento interessati, infatti, non solo avevano ciascuno un proprio metodo di lavoro e dei propri obiettivi particolari ma dipendevano anche da istanze politiche diverse (21). Nonostante la creazione, da parte del Consiglio d’Europa in occasione del Consiglio di Rodi, di un ‘‘gruppo di coordinamento’’ formato da alti funzionari — proprio al fine di superare un momento di crisi che in proposito era intervenuto nei rapporti tra Stati membri e Commissione europea —, non si era riusciti comunque ad evitare che le iniziative assunte in sede di cooperazione intergovernativa si presentassero come un mosaico estremamente variegato e carente di qualunque struttura unitaria. Una tale molteplicità e disorganicità di iniziative nell’ambito dello stesso art. 8A CE non costituiva certamente il mezzo migliore per conseguire dei risultati tangibili. Infatti, pur essendo stato realizzato un complesso di atti quantitativamente e qualitativamente non irrilevanti, non si può certo affermare che esso abbia rappresentato un successo in termini di operatività. La gran parte delle convenzioni firmate non sono entrate in vigore per la mancanza del numero minimo necessario di ratifiche, ed alcune di esse trovano applicazione solo tra quegli Stati che, dopo aver ratificato, hanno esplicitamente dichiarato di considerarle imme(20) Cfr. R. ADAM, ‘‘La cooperazione nel campo della giustizia e degli affari interni: da Schengen a Maastricht’’, cit., pp. 226-228. (21) Così il c.d. Gruppo di Trevi rientrava essenzialmente tra le competenze dei Ministri della Giustizia e degli Interni, il gruppo ad hoc sull’immigrazione dipendeva dai Ministri incaricati di tale problema nei vari Stati membri, il gruppo di cooperazione giudiziaria operava nel quadro della cooperazione politica europea, ricadendo nelle competenze, secondo gli Stati, del Ministero della Giustizia o degli Interni.
— 1316 — diatamente applicabili nei rapporti con gli altri Stati che abbiano fatto la stessa dichiarazione al momento del deposito del relativo strumento di ratifica (22). Un tale stato di cose dimostra l’inadeguatezza di quell’approccio all’integrazione giuridica realizzato attraverso un sostanziale ‘trasferimento’ nell’area comunitaria di precedenti accordi conclusi in seno al Consiglio d’Europa e fondato sull’idea che l’applicazione dei principi contenuti in queste convenzioni sarebbe stata alquanto agevole tra gli Stati membri della Comunità per la maggiore omogeneità di tradizioni e valori giuridici esistente tra di essi piuttosto che nel più numeroso ed eterogeneo cosmo dei partecipanti al Consiglio d’Europa. Il fallimento di una tale prospettiva ha indicato la necessità di un nuovo approccio. Dopo il primo passo fatto da alcuni Stati membri, con l’adozione degli Accordi di Schengen, verso la creazione di un unico quadro convenzionale in cui regolare certi aspetti della cooperazione in materia giudiziaria e di polizia, tutti gli Stati membri hanno avvertito la necessità di una razionalizzazione degli organi e degli strumenti interessati nella cooperazione. Da ciò la scelta, nell’ambito del Trattato sull’Unione, di una struttura istituzionale unica per le diverse forme di cooperazione in tali settori che confluiscono tutte nel terzo pilastro. Se questa è la funzione principale del titolo VI, la prima difficoltà che la sua esecuzione solleva è l’inserimento dell’azione dell’Unione in questo insieme di iniziative preesistenti e caratterizzato, da un lato, dalle sovranità nazionali che rivendicano il mantenimento ed il riconoscimento delle proprie prerogative e, dall’altro, dalle competenze propriamente comunitarie che, seppure per lo più marginali e spesso indirette nei settori qui interessati, non possono comunque essere sottovalutate. Si tratta quindi di realizzare, se possibile, un delicato equilibrio tra la logica della cooperazione e la logica della ‘‘comunitarizzazione’’ nella dualità delle reazioni — nazionale ed europea — a fenomeni come l’immigrazione, la tossicomania o il terrorismo. Una delle difficoltà principali risulta essere allora quella di conciliare i diversi quadri normativi ed istituzionali preesistenti e di assicurarne una corretta articolazione (23). In questa prospettiva rappresenta sicuramente un elemento di riferimento determinante l’indicazione contenuta al primo comma dell’art. K1 TUE e concernente il fine della cooperazione ivi prevista. Qui si afferma infatti che gli Stati considerano un certo numero di questioni di ‘‘interesse comune’’ ai fini della ‘‘realizzazione degli obiettivi dell’Unione, in particolare della libera circolazione delle persone’’. Se da un lato tale precisazione può ridurre considerevolmente l’ambito di intervento dell’Unione — dal momento che vengono specificati gli obiettivi in vista del raggiungimento dei quali i settori elencati all’art. K1 TUE possono essere considerati di interesse comune —, dall’altro essa indica un possibile trait d’union con il resto del sistema comunitario. La libera circolazione delle persone costituisce, invero, un principio fondamentale di tale sistema, e dunque uno strumento importante per l’attività di armonizzazione dei testi preesistenti in questo campo. Inoltre, il riferimento a tutti gli altri obiettivi dell’Unione diversi dalla libera circolazione delle persone come base giuridica di un eventuale intervento dell’Unione, sembra far pensare che altri elementi potranno giocare a tal fine, come, per esempio, il tema della cittadinanza europea che si presenta estremamente ricco di potenzialità a questo proposito e che potrebbe avere numerose ripercussioni, in particolare nell’ambito della cooperazione giudiziaria in materia penale (24). (22) Cfr. R. ADAM, ‘‘La cooperazione nel campo della giustizia e degli affari interni: da Schengen a Maastricht’’, cit., pp. 229-230. (23) Cfr. H. LABAYLE, La coopération dans le domaine de la Justice et des Affaires Intérieures, in Les Accords de Maastricht et la constitution de l’Union Européenne, cit., p. 175. (24) Cfr. D. O’KEEFFE, Union Citizenship, in D. O’KEEFFE and P.M. TWOMEY, Legal Issues of the Maastricht Treaty, Chancery Law Publishing, Chichester, 1994, p. 102. Sul tema della cittadinanza europea e sulle sue potenziali estrinsecazioni, cfr. anche, nella stessa
— 1317 — 3. Struttura e contenuto del terzo pilastro. — a) I settori interessati e gli strumenti predisposti. — Già la sola lettura delle disposizioni del titolo VI del Trattato sull’Unione permette di constatare che questa parte del Trattato consacra, in un certo senso, l’irruzione dell’approccio comunitario in settori particolarmente significativi per la sovranità degli Stati membri e che, proprio per tale ultima ragione, sono stati da sempre sottratti ad ogni diretta incidenza dell’attività comunitaria. L’art. K1 TUE fornisce l’elencazione dei settori interessati dalla cooperazione, che potrebbero essere raggruppati sotto due rubriche principali — che sono poi quelle che danno il nome a questo terzo pilastro — cioè gli Affari interni e la Giustizia. Per quanto concerne il primo gruppo, si tratta essenzialmente delle questioni legate all’immigrazione e all’asilo; per quanto riguarda il secondo, esso coinvolge settori piuttosto vasti ed eterogenei del diritto nazionale. Infatti, le espressioni adottate, quali ‘‘cooperazione giudiziaria in materia civile o penale’’ o ‘‘cooperazione doganale’’, ricomprendono tutta una serie di questioni molto diverse, come quelle concernenti la trasmissione di atti processuali in materia di cooperazione giudiziaria, l’applicazione del principio di ne bis in idem, la trasmissione dell’esecuzione del giudicato, ecc. Il settore della ‘‘cooperazione doganale’’, d’altronde, può essere considerato un settore-pilota, essendo l’attività di questi servizi strettamente legata, al tempo stesso, alla libera circolazione delle persone e a quella delle merci, per cui possono essere fatte risalire ad una tale denominazione tutte le questioni concernenti i diversi tipi di traffici, di armi, di esplosivi, ecc. (25). L’art. K1 TUE, primo comma, afferma esplicitamente che i settori in esso elencati — tra cui si annoverano anche ‘‘la lotta contro la frode su scala internazionale’’ e ‘‘la cooperazione a livello di polizia al fine della prevenzione e della lotta contro il terrorismo, il traffico di droga e altre forme gravi di criminalità internazionale’’ — costituiscono ‘‘questioni di interesse comune’’ per gli Stati membri; definizione, questa, che indica la ragione della presenza delle disposizioni del titolo VI nel Trattato di Maastricht, cioè la presa di coscienza della necessità di un’azione europea in tali settori (26). L’elencazione contenuta in questo articolo risulta, peraltro, di grande interesse poiché, secondo quanto disposto dall’art. K3 TUE, nei suddetti settori, il Consiglio dell’Unione può adottare delle ‘‘posizioni comuni’’, delle ‘‘azioni comuni’’ — nella misura in cui gli obiettivi dell’Unione possano essere meglio realizzati da un’azione comune anziché con azioni isolate dei singoli Stati membri — o elaborare delle convenzioni. Si tratta di strumenti specifici già utilizzati, in materia di politica estera, nell’ambito della cooperazione che costituisce il secondo pilastro dell’Unione. Tuttavia, se in quel contesto il Trattato fornisce importanti indicazioni quanto al loro significato ed alla relativa portata giuridica, esso nulla dice invece nell’ambito del titolo VI. È peraltro evidente che, proprio dall’individuazione del contenuto, della portata e della precisa natura giuridica riconosciuti a ciascuno di tali atti, dipende l’entità dell’impatto del terzo pilastro nella struttura dell’Unione e, alla luce di questa considerazione, non può quindi non lamentarsi la laconicità e l’incompletezza del testo del Trattato in proposito. raccolta, H.U. JESSURUN D’OLOVEIRA, European Citizenship: its meaning, its potential, p. 81. Sull’argomento cfr. anche, C. CLOSA, ‘‘Citizenship of the Union and nationality of Member States’’, in Common Market Law Review, 1995, p. 487 ss.; S. O’LEARY, ‘‘The relationship between community citizenship and the protection of fundamental rights in Community Law’’, in Common Market Law Review, 1995, p. 519 ss. (25) Cfr. H. LABAYLE, La coopération dans le domaine de la Justice et des Affaires Intérieures, in Les Accords de Maastricht et la constitution de l’Union Européenne, cit., p. 172. (26) Qualche autore, riferendosi all’elencazione contenuta nell’art. K1 TUE, ha persino sostenuto che potrebbe parlarsi di ‘‘affari interni dell’Unione’’, nel senso che tale articolo mette in evidenza alcune preoccupazioni comuni agli Stati membri che acquistano una dimensione particolare nell’ottica della eliminazione dei controlli alle frontiere. Cfr., in particolare, H. LABAYLE, La coopération dans le domaine de la Justice et des Affaires Intérieures, in Les Accords de Maastricht et la constitution de l’Union Européenne, cit., p. 150.
— 1318 — Non sembrano porsi particolari problemi per quanto concerne l’adozione di convenzioni. Si tratta infatti di atti che, secondo il modello tradizionale esistente in diritto internazionale, pur rivelando l’accordo degli Stati su alcune tematiche, richiedono sempre, per produrre effetti nei singoli ordinamenti giuridici nazionali, un procedimento nazionale di ratifica. Le convenzioni adottate in seno al terzo pilastro presentano, tuttavia, alcune peculiarità. Al di fuori di quelle concernenti le materie che rientrano nell’ambito dell’art. 220 CE — e per le quali, appunto, l’art. K3 2c) TUE fa comunque salva l’applicabilità dell’art. 220 CE —, tali convenzioni devono essere concluse esclusivamente secondo la procedura prevista dalle disposizioni del titolo VI (27). Secondo l’art. K3 2c) TUE, il testo definitivo non viene stabilito da una conferenza intergovernativa ma dal Consiglio. Da ciò potrebbe desumersi che non siano automaticamente applicabili a tali convenzioni le norme di diritto internazionale pubblico che regolano, in genere, la conclusione di convenzioni (28). Tale articolo prevede in ogni caso che, nel contesto del titolo VI, le eventuali misure di applicazione di tali convenzioni, a meno che esse non stabiliscano diversamente, siano adottate in seno al Consiglio alla maggioranza dei due terzi. Per quanto attiene alle ‘‘posizioni comuni’’, la lettura combinata degli artt. K3 2a) e K5 TUE sembra indicare che con una tale espressione si intendano dichiarazioni o raccomandazioni comuni, condivise da tutti gli Stati — e che potranno essere espresse anche da un singolo Stato membro, soprattutto all’interno di organizzazioni o conferenze internazionali —, prive comunque di un reale effetto giuridicamente vincolante per gli Stati membri. È stato giustamente rilevato, tuttavia, che il fatto che da una posizione comune pubblicata derivi una posizione più favorevole per i singoli individui può determinare una certa vincolatività anche di tali atti, allorquando si ponga eventualmente la necessità di tutelare il legittimo affidamento del singolo (29). Ma i dibattiti più accesi sono stati sollevati riguardo la natura delle ‘‘azioni comuni’’ previste all’art. K3 2b) TUE. Sebbene non siano mancate voci autorevoli in senso contrario, sembra più logico, oltre che più consono agli obiettivi dell’Unione, ritenere che si tratti di provvedimenti vincolanti per gli Stati membri, e ciò tenendo soprattutto in considerazione il dato che una tale natura è esplicitamente riconosciuta dall’art. J3 TUE, quarto comma, con riguardo alle ‘‘azioni comuni’’ nell’ambito della cooperazione in materia di politica estera (30). Secondo quest’ultima opinione, il silenzio dell’art. K3 TUE avrebbe il significato di un rinvio implicito alla lettera dell’art. J3 TUE, quarto comma, che, tra l’altro, precede, nella struttura del Trattato, il titolo VI. Un eventuale effetto vincolante non è comunque del tutto escluso neanche dai sostenitori dell’opposta opinione, secondo la quale, la mancanza di esplicite indicazioni nell’art. K3 2b) TUE, deve far propendere per l’esclusione della natura vincolante espressamente attribuita invece alle ‘‘azioni comuni’’ in materia di politica estera. Secondo questi autori, l’effetto più o meno vincolante dipenderà non dalla forma in astratto dello strumento utilizzato, bensì dal tipo concreto di ‘‘azione comune’’ e soprattutto dalle concrete misure di esecuzione di volta in volta adottate in conseguenza dell’azione co(27) Di parere contrario, D. O’KEEFFE, ‘‘The New Draft External Frontiers Convention and the Draft Visa Regulation’’, in The Third Pillar of the European Union, Bruxelles, Monar & Morgan, 1994, pp. 135-149. (28) Cfr. A. LO MONACO, ‘‘Les instruments juridiques de coopération dans le domaine de la Justice et des Affaires Intérieures’’, in Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1995, pp. 18-19. (29) Cfr. P.C. MÜLLER-GRAFF, ‘‘The Legal Bases of the third Pillar and its Position in the Framework of the Union Treaty’’, cit., p. 509. (30) Cfr. J. CLOOS, G. Reinesch, D. VIGNES, J. WEILAND, Le Traité de Maastricht: genèse, analyse, commentaire, cit., p. 504.
— 1319 — mune deliberata (31). In questa prospettiva, l’ambito delle azioni comuni potrà solo gradatamente e solo attraverso l’esperienza pratica riempirsi di contenuto e vedere definiti i propri confini. A tal proposito sembrerebbe essersi consolidato, in seno al Consiglio, un certo orientamento secondo il quale sarebbero individuabili quattro diverse ‘figure’ di ‘‘azione comune’’, secondo le obbligazioni che da esse discendono: a) le azioni che non necessitano di alcuna misura nazionale, tranne eventualmente la concessione di un finanziamento nazionale nel caso in cui il Consiglio decida in questi termini ai sensi dell’art. K8 TUE; b) le azioni che impongono la modifica delle pratiche amministrative nazionali; c) le azioni che implicano un adattamento delle regolamentazioni; d) le azioni che esigono una modifica della legislazione nazionale. Soltanto nei primi tre casi ci si troverebbe dinnanzi ad una obbligazione di risultato. Nell’ultima ipotesi, in capo ai Governi degli Stati membri incomberebbe esclusivamente l’obbligo di presentare ai rispettivi Parlamenti nazionali le proposte di modifiche da apportare, eventualmente con la fissazione di un termine massimo, non potendo i Parlamenti nazionali risultare direttamente vincolati dall’ ‘‘azione comune» (32). Il riconoscimento poi della natura vincolante delle ‘‘azioni comuni’’ lascia comunque irrisolta la diversa questione della concreta possibilità di fare eventualmente valere giudizialmente un tale vincolo, in caso di non spontaneo rispetto, da parte degli Stati, dell’azione deliberata. Si deve tenere conto, infatti, che ci si trova comunque al di fuori del diritto comunitario propriamente inteso e quindi anche nell’impossibilità di utilizzare, almeno in linea di principio, gli strumenti a ciò predisposti nel pilastro comunitario. L’assenza di un organo giurisdizionale di controllo, tuttavia, non esclude di per sé il carattere vincolante di tali atti (33). Alla luce di quanto finora riferito, si presenta oltremodo opportuno, in sede di revisione del Trattato, che il carattere vincolante delle ‘‘azioni comuni’’ di cui all’art. K3 2b) TUE sia sancito espressamente, dato il grande rilievo che questi provvedimenti possono assumere nella prospettiva di una progressiva armonizzazione nei settori considerati nel titolo VI. b) Le autorità interessate e le relative competenze. — Passando ad esaminare le autorità competenti ad attivare gli strumenti predisposti dal titolo VI, come già sottolineato, gli Stati membri hanno optato per un quadro istituzionale unico e comune al pilastro comunitario. (31) Cfr. A. LO MONACO, ‘‘Les instruments juridiques de coopération dans le domaine de la Justice et des Affaires Intérieures’’, cit., p. 16. Secondo l’autrice, l’esclusione della natura necessariamente vincolante delle azioni comuni nell’ambito del titolo VI scaturirebbe dalla differenza fondamentale esistente tra il secondo ed il terzo pilastro dell’Unione. A differenza dell’ambito della politica estera e di sicurezza comune, dove le azioni comuni, esprimendo la posizione dell’Unione sul piano internazionale, determinano in capo agli Stati membri obblighi solo su tale piano, l’obiettivo principale del titolo VI — cioè la libera circolazione delle persone — implica, invece, che le azioni comuni adottate nell’ambito del terzo pilastro siano spesso destinate a produrre effetti sul piano interno, necessitando una certa armonizzazione delle legislazioni nazionali. L’automatica natura vincolante delle ‘‘azioni comuni’’ è esclusa anche da P.C. MÜLLER-GRAFF, ‘‘The Legal Bases of the third Pillar and its Position in the Framework of the Union Treaty’’, cit., p. 509. (32) Sul punto cfr. M. LEPOIVRE, ‘‘Le domaine de la Justice et des Affaires Intérieures dans la perspective de la Conférence Intergouvernementale de 1996’’, cit, p. 334. (33) Cfr. A. LO MONACO, ‘‘Les instruments juridiques de coopération dans le domaine de la Justice et des Affaires Intérieures", cit., p. 17. In questo ambito si inserisce anche la delicata questione di valutare quando la violazione da parte dello Stato membro possa risultare giustificata, ai sensi dell’art. K2 n. 2 TUE, dalla necessità di assicurare l’ordine pubblico e la sicurezza interna. Secondo l’autrice, tale controllo verrà probabilmente esercitato dal Consiglio, dinnanzi al quale gli Stati dovranno esporre le ragioni di eventuali ritardi nell’attuazione dell’azione deliberata.
— 1320 — Competente in tutti i settori ricompresi nel titolo VI è il Consiglio dell’Unione, situazione che non può se non andare a vantaggio dell’efficacia del processo decisionale. Secondo le disposizioni del titolo VI, spetta al Consiglio adottare, su iniziativa di uno Stato membro o, nei settori di cui all’art. K1 n. 1-5 TUE, anche della Commissione, le ‘‘posizioni comuni’’, le ‘‘azioni comuni’’, o ancora preparare le convenzioni o promuovere le forme di cooperazione necessarie per perseguire gli obiettivi dell’Unione. In particolare poi spetta al Consiglio, sulla base del disposto dell’art. K9 TUE, dichiarare alcuni dei settori di interesse comune ex art. K1 TUE come questioni propriamente comunitarie, applicandovi la procedura ex art. 100C CE. Il Consiglio, inoltre, è il destinatario di eventuali interrogazioni e raccomandazioni del Parlamento europeo come anche dei pareri del Comitato di coordinamento di cui all’art. K4 TUE. Spetta infine al Consiglio decidere se ascrivere al bilancio comunitario le eventuali spese necessarie alla realizzazione della cooperazione prevista nel terzo pilastro. In riferimento al ruolo dell’altra grande istituzione comunitaria, la Commissione, il titolo VI le attribuisce il potere di iniziativa, sia riguardo all’adozione, da parte del Consiglio, delle misure di cui all’art. K3 TUE, sia riguardo all’applicazione della c.d. norma-passerella, cioè l’art. K9 TUE. Pur non potendosi negare quindi che la Commissione svolga anche qui un fondamentale ruolo di impulso, si deve comunque precisare che il relativo potere di iniziativa non presenta la stessa portata, né lo stesso peso politico che ricopre nell’ambito propriamente comunitario. Da un lato, infatti, all’esercizio di un tale potere — per il quale, non a caso, si è preferito non utilizzare il terrnine ‘‘proposta’’ — non si applica il disposto dell’art. 189A CE che regola i rapporti tra proposta della Commissione e deliberazione del Consiglio in ambito comunitario; dall’altro, tale potere non è assoluto né esclusivo, essendo esso del tutto escluso dalla cooperazione in materia penale, da quella doganale e di polizia — materie per le quali solo gli Stati hanno il potere di iniziativa — e risultando invece concorrente con un analogo potere di iniziativa degli Stati nelle materie elencate ai numeri da 1 a 6 dell’art. K1 TUE (34). Accanto a queste specifiche competenze, il titolo VI afferma che la Commissione è associata all’insieme delle attività ricomprese nel terzo pilastro. Pur nell’ambiguità dell’espressione, è facile constatare che non si tratta di una funzione corrispondente a quella spettante alla stessa Commissione nell’ambito del pilastro comunitario, sulla base dell’art. 155 CE. Alla Commissione, più precisamente, non spetta il compito di vegliare sul rispetto e sull’applicazione delle disposizioni del titolo VI. Il ruolo piuttosto limitato attribuito alla Commissione da questa parte del Trattato si spiega, d’altronde, con il fatto che ci si trova pur sempre all’interno di una forma di cooperazione intergovernativa, seppure molto evoluta. Non può comunque negarsi che, anche in questi termini, si tratti di un passo importante, se si tiene conto che in molti settori — come per esempio per alcune attività del Gruppo di Trevi — la Commissione era del tutto assente o possedeva esclusivamente uno status di osservatore. Per quanto riguarda il Parlamento europeo, secondo la lettera dell’art. K6 TUE, esso deve essere tenuto costantemente informato, tramite la Presidenza della Commissione, delle attività intraprese nell’ambito del terzo pilastro. La stessa Presidenza, inoltre, deve assicurarsi che le opinioni espresse dal Parlamento europeo siano tenute dovutamente in considerazione. È evidente comunque che tali previsioni non riescono a superare quel déficit démocratique più volte denunciato, anche in seguito agli Accordi di Schengen. Le disposizioni con(34) Cfr. sul punto, R. ADAM, ‘‘La cooperazione nel campo della Giustizia e degli Affari Interni: da Schengen a Maastricht’’, cit., p. 240.
— 1321 — cernenti le modalità del controllo politico che il Parlamento europeo dovrebbe esercitare sull’attività dell’Unione in questi settori si rivelano quasi un ‘‘omaggio di maniera’’ (35). Per di più, nella Risoluzione adottata il 14 dicembre 1995 dallo stesso Parlamento europeo sui progressi realizzati nel 1995 nell’attuazione della cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni, quest’ultimo sottolinea che non solo a nessuna delle sue raccomandazioni formulate nella Risoluzione adottata l’anno precedente sui progressi realizzati nel 1994 è stato dato seguito, ma che il Consiglio ha persino totalmente disatteso l’obbligo di informazione e di consultazione del Parlamento previsto dall’art. K6 TUE (36). Infine, le convenzioni di cui all’art. K3 2c) TUE possono prevedere espressamente la competenza della Corte di Giustizia ad interpretare le disposizioni ivi contenute ed a risolvere ogni conflitto eventualmente sorto in merito alla loro applicazione. Al di fuori di questa esplicita previsione, ogni competenza della Corte di Giustizia è, in linea di principio, esclusa. È importante in proposito sottolineare però che nessuna limitazione alla competenza della Corte è posta nel caso in cui un atto adottato nel quadro del terzo pilastro violi il diritto comunitario. Ciò significa che una decisione del Consiglio o un comportamento di uno Stato membro, in contrasto con il diritto comunitario, non possono risultare giustificati per il fatto di essere stati assunti nel contesto del terzo pilastro. Così, ad esempio, una misura adottata sulla base delle disposizioni del titolo VI e concernente la situazione di cittadini di Stati terzi riguardo a un certo settore, potrebbe andare a sovrapporsi ad accordi internazionali conclusi dalla Comunità e concernenti la stessa questione. In questi casi non solo sorgerebbe il problema di un eventuale conflitto tra la misura adottata in seno al terzo pilastro ed una normativa comunitaria preesistente, ma potrebbe porsi anche la delicata questione di una violazione da parte degli Stati membri del divieto di intraprendere qualunque attività che possa risultare in contrasto con le regole comunitarie vigenti in materia o alterarne gli obiettivi (37). Una tale considerazione può essere applicata a molte iniziative eventualmente assunte in seno al terzo pilastro. Così non potrà essere negato il rischio di conflitti di tale natura conseguente all’inclusione della cooperazione doganale tra i settori elencati all’art. K1 TUE, e questo a causa dell’evidente contiguità tra una tale materia e la competenza esclusiva della Comunità in tema di politica commerciale comune. È difficile immaginare, infatti, una qualunque questione concernente direttamente le dogane che non presenti anche una ‘dimensione’ comunitaria. Da quanto sin qui detto non sussistono dubbi sul fatto che in futuro potranno prospettarsi numerose e quanto mai delicate dispute in proposito che la Corte di Giustizia sarà chiamata a risolvere. Il ruolo di tale Corte nell’ambito del terzo pilastro potrebbe inoltre rivelarsi più incisivo se si affermasse che, alla luce del principio fissato dalla stessa Corte di Giustizia e secondo il quale la Comunità è vincolata dalle disposizioni di diritto internazionale pubblico, le decisioni riguardanti settori ricompresi nel titolo VI e che possono violare un’obbligazione incombente sulla Comunità in base alle norme di diritto internazionale pubblico, non possono essere sottratte al controllo giurisdizionale della Corte. Per concludere sull’analisi istituzionale del titolo VI, l’art. K4 TUE si spinge sino a prevedere la creazione di un nuovo organismo — il ‘‘Comitato K4’’, appunto, dall’articolo che lo istituisce — composto da alti funzionari e con il compito specifico di coordinare tutte le attività relative alla giustizia e gli affari interni. Il ‘‘Comitato K4’’ è chiamato a formulare pareri, su richiesta del Consiglio, o eventualmente anche di propria iniziativa, e ad elaborare proposte di decisioni dell’Unione, queste ultime potendo sostanziarsi in regolamenti o diret(35) Cfr. R. ADAM, ‘‘La cooperazione nel campo della Giustizia e degli Affari Interni: da Schengen a Maastricht’’, cit., p. 241. (36) GUCE C17 del 22 gennaio 1996. (37) Quest’ultimo principio è stato fissato in CGCE 31 marzo 1971, Commissione c. Consiglio, causa 22/70, in Raccolta, 1971, p. 264 ss.
— 1322 — tive da adottarsi sulla base dell’art. 100C CE, in ‘‘posizioni comuni’’, ‘‘azioni comuni’’ o convenzioni intergovernative. Dalla rapida analisi sin qui condotta emerge in maniera evidente che, nel sistema delineato nel titolo VI, il processo decisionale propriamente comunitario e quello tipicamente intergovernativo risultano fortemente connessi e costituiscono l’oggetto di un ‘approccio integrato’. Se una tale considerazione rende facilmente comprensibili le numerose critiche suscitate dalla definizione di questa struttura piuttosto complessa, non si può, al tempo stesso, non riconoscere che in moltissimi casi forme di cooperazione intergovernativa e iniziative propriamente comunitarie rappresentano le due facce della stessa medaglia. c) Le garanzie offerte nel quadro del titolo VI. — L’inserimento dei nuovi settori della cooperazione giudiziaria e di polizia nel quadro dell’Unione fa emergere la fondamentale questione del rispetto dell’individuo e della predisposizione di tutta una serie di garanzie per i diritti spettanti ai singoli. Il progresso delle competenze dell’Unione, anche in materia penale, non può in ogni caso determinare, infatti, un affievolimento delle garanzie dei diritti fondamentali predisposte dall’ordinamento di ciascuno Stato membro, con un conseguente peggioramento del ‘‘clima costituzionale’’ (38). A questo proposito l’art. K2 TUE, primo comma, afferma che la cooperazione prevista nel titolo VI deve comunque svolgersi ‘‘nel rispetto della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del 4 novembre 1950 e della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 28 luglio 1951, tenendo conto della protezione che gli Stati membri concedono alle persone perseguitate per motivi politici’’. Questa disposizione mostra che, data la tradizione europea di rispetto dei diritti dell’uomo, gli obiettivi del mercato unico non possono essere perseguiti se non con modalità comunque rispettose dei diritti dell’individuo. In effetti, se si considera che la Corte di Giustizia ha stabilito, ormai definitivamente, che il diritto comunitario deve rispettare i diritti fondamentali, la previsione dell’art. K2 TUE, primo comma, appare piuttosto riduttiva, poiché essa si limita a menzionare le due Convenzioni (39). Ma una tale lacuna può risultare facilmente colmata se si tiene conto della disposizione comune contenuta all’art. F n. 2 TUE e del principio fissato agli artt. B TUE, quinto comma, e C TUE, primo comma. L’art. F n. 2 TUE, infatti, intervenendo esplicitamente sulla questione, rappresenta la consacrazione definitiva del riconoscimento dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario, disponendo che ‘‘l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario’’ (40). Se si considera infatti che, secondo l’orientamento largamente prevalente — fatto proprio, nella sostanza, dalla Corte di Giustizia (41) —, il riferimento alle ‘‘tradizioni costituzio(38) Questa espressione è stata usata da C. TOMUSCHAT, Commento all’art. 24, in Kommentar zum Bonner Grundgesetz, Bonn, 1981, p. 46. (39) In generale, sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia concernente la tutela dei diritti fondamentali, cfr. C. COHEN-JONATHAN, ‘‘La Cour des Communautés européennes et les droits de l’homme’’, in Revue du marché commun, 1978, p. 384; M. MENDELSON, ‘‘The European Court of Justice and Human Rights’’, in Yearbook of European Law, 1981, p. 10; J. PIPKORN, ‘‘La Communauté européenne et la Convention européenne des droits de l’homme’’, in Revue trimestrelle des droits de l’homme, 1993, p. 221. (40) Il corsivo è nostro. (41) CGCE 21 settembre 1989, Hoechst, cause C 46/87 e 227/88, in Raccolta, 1989, p. 2923 ss; CGCE 17 ottobre 1989, DOW BENELUX, causa C 85/87, in Raccolta, 1989, p. 3156 ss.
— 1323 — nali comuni’’ degli Stati non implica che un certo diritto sia riconosciuto e tutelato in tutti gli Stati membri, ma richiede una situazione tale da poter affermare che la protezione di quel certo diritto rappresenta una ‘‘tendenza generale’’ o un ‘‘orientamento prevalente’’ tra gli Stati membri (42), la lista dei diritti fondamentali che devono comunque essere rispettati in seno all’Unione si estende sensibilmente. A completamento di quanto appena detto, non può essere sottaciuto che la giurisprudenza della Corte di Giustizia che ha consacrato il rispetto dei diritti fondamentali come principio generale del diritto comunitario, di cui essa stessa assicura l’osservanza, costituisce ormai parte dell’acquis communautaire (43) e che secondo le disposizioni comuni contenute agli artt. B, quinto comma, e C, primo comma TUE, l’Unione deve mantenere e sviluppare un tale acquis. Infine, proprio la delicata questione della tutela dei diritti fondamentali potrebbe costituire un importante ‘banco di prova’ della potenziale ‘pervasività’ delle competenze della Corte di Giustizia. Se è vero infatti che tutti i cittadini comunitari hanno diritto a vedere tutelati giudizialmente i propri diritti fondamentali allorquando essi risultino violati nell’ambito del diritto comunitario, la Corte potrebbe ritenere che, nell’ambito del terzo pilastro, la sua eventuale incompetenza ratione materiae ex art. L TUE non preclude una sua competenza ratione personae concernente le istituzioni comunitarie in materia di diritti fondamentali. La Corte di Giustizia potrebbe cioè ritenere che il rispetto dei diritti fondamentali da parte delle istituzioni comunitarie costituisce uno dei principi fondamentali dell’intero ordinamento giuridico comunitario, principio che non può essere disatteso neanche rispetto alle misure adottate nell’ambito del terzo pilastro (44). Una tale conclusione risulterebbe logicamente ineccepibile nel momento in cui la Corte affermasse che proprio il concetto di cittadinanza europea — fissato, tra l’altro, all’art. 8 CE, cioè in seno al pilastro comunitario, e che rientra tra le disposizioni sulla cui applicazione la Corte di Giustizia è competente, ex art. L TUE, ad esplicare il suo controllo — implica, in qualunque circostanza e ambito, il diritto al rispetto dei diritti fondamentali da parte delle istituzioni comunitarie. In una tale situazione, infatti, la competenza della Corte di Giustizia in tema di tutela dei diritti fondamentali anche nell’ambito del terzo pilastro conseguirebbe logicamente alla combinazione degli artt. L e M TUE, rientrando l’art. 8 CE tra le disposizioni di modifica dei trattati originari che, secondo l’art. M TUE, non possono, in nessun caso, essere inficiate dal nuovo Trattato sull’Unione. Sulla base di queste considerazioni non sarebbe allora ammissibile la creazione e lo sviluppo di uno ‘‘spazio giudiziario comune’’ che potesse rivelarsi pregiudizievole per i diritti del singolo. La resistenza degli Stati membri a riconoscere una competenza generale di controllo giurisdizionale della Corte di Giustizia nei settori ricompresi nel titolo VI, tuttavia, non solo ostacola la realizzazione di une approche intégrée dell’integrazione europea in seno all’U(42) In tal senso, cfr. le conclusioni dell’Avvocato Generale Mischo nella causa Hoechst, cit., e dell’Avvocato Generale Sir Gordon Slyn nella causa AM & S c. Commissione, CGCE 18 maggio 1982, causa 155/79, in Raccolta, 1982, p. 1575. (43) Cfr. G. GRASSO, ‘‘La protezione dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario e i suoi riflessi sui sistemi penali degli Stati membri’’, in Rivista internazionale dei diritti dell’uomo, 1991, p. 627. L’autore più precisamente afferma che essi costituiscono ‘‘parte integrante dell’ordinamento comunitario’’. (44) Ad una tale conclusione potrebbe giungersi facendo leva sulle parole dell’Avvocato Generale Capotorti che, nelle conclusioni presentate in occasione della causa Defrenne III, ha affermato che la protezione dei diritti fondamentali a livello comunitario implica che ‘‘qualsiasi atto attraverso il quale si esercitino le competenze delle istituzioni comunitarie è soggetto a quel limite, e in tal senso l’intera struttura della Comunità è tenuta ad osservare tale limite’’, CGCE 15 giugno 1978, Defrenne III, causa 149/77, in Raccolta, 1978, p. 1365 ss.
— 1324 — nione ma potrebbe costituire un rischio inquietante per la tradizione di tutela giurisdizionale faticosamente elaborata dalla Corte di Giustizia. 4. La mise en oeuvre del terzo pilastro. — a) I risultati già conseguiti. — I) La prima convenzione fondata sul terzo pilastro che i rappresentanti degli Stati membri hanno firmato, il 10 marzo 1995, è volta a semplificare le procedure estradizionali e a disciplinare il consenso all’estradizione e la rinuncia al principio di specialità (45). Tale recente Convenzione, riguardando esclusivamente il caso in cui l’estradando abbia acconsentito alla propria estradizione, deve quindi essere letta in congiunzione con la Convenzione europea di estradizione adottata dal Consiglio d’Europa nel 1957 della quale, per l’appunto, essa mira a facilitare l’applicazione nel caso specifico in cui le persone ricercate acconsentano alla propria estradizione. Di conseguenza, le disposizioni della Convenzione europea del 1957 restano applicabili per tutte le questioni non disciplinate dalla Convenzione dell’Unione, con particolare riferimento alle condizioni dell’estradizione. Allo stesso modo rimangono perfettamente applicabili le disposizioni più favorevoli contenute in accordi bilaterali o multilaterali in vigore tra gli Stati membri. Il principio fondamentale su cui è strutturata la Convenzione in esame è rappresentato dalla regola secondo la quale, in caso di accordo dell’autorità competente dello Stato destinatario della richiesta di estradizione e di consenso dell’estradando, l’estradizione può essere effettuata pur nell’assenza di una domanda formale, consentendo così di ridurre ad alcune settimane — ed in taluni casi addirittura a pochi giorni — l’espletamento del relativo procedimento. L’attuazione di tale principio è comunque subordinata all’esistenza di alcune condizioni sostanziali e di alcune garanzie procedurali destinate ad assicurare un giusto equilibrio tra i diritti della difesa e la necessità di un’accelerazione delle procedure. Così, per quanto concerne in special modo il consenso dell’interessato, esso deve essere prestato dinnanzi all’autorità giudiziaria competente dello Stato richiesto e verbalizzato secondo le norme di diritto interno. La Convenzione fa inoltre carico agli Stati membri di disporre le misure necessarie a che il consenso sia prestato volontariamente e nella piena consapevolezza delle relative conseguenze. A tal fine l’estradando ha il diritto di farsi assistere da un difensore. II) Accanto a questa prima Convenzione, il Consiglio dell’Unione ha adottato, il 27 settembre 1996, un’altra Convenzione volta a modificare le ‘‘condizioni di fondo’’ dell’estradizione al fine di snellire la relativa procedura e di eliminare alcuni dei tradizionali motivi di rifiuto (46). Tale Convenzione si fonda essenzialmente sul principio di fiducia reciproca degli Stati membri nella struttura e nel funzionamento dei rispettivi sistemi giudiziari e nelle proprie capacità di assicurare ai cittadini degli altri Stati un giudizio equo ed in tutto e per tutto analogo a quello predisposto per i propri cittadini, e mira anch’esso a conciliare le esigenze di un’estradizione più semplice e più efficace con il rispetto dei diritti della persona, conformemente alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Pur ribadendo il principio della doppia incriminazione, la Convenzione in esame esclude la possibilità che l’estradizione venga rifiutata sulla base di tale requisito nel caso si tratti di comportamenti qualificati nell’ordinamento dello Stato richiedente come concorso o associazione al fine di commettere uno dei reati di cui agli artt. 1 e 2 della Convenzione europea per la lotta al terrorismo del 1977 o altri reati puniti nel massimo con la reclusione della durata (45) GUCE C 78 del 30 marzo 1995. Questa Convenzione affonda le sue radici in una dichiarazione dei Ministri della Giustizia, riuniti in via informale a Limelette nel settembre 1993, e adottata dal Consiglio Giustizia e Affari Interni nel novembre dello stesso anno, dichiarazione che fissava le linee generali per un miglioramento delle procedure di estradizione tra gli Stati membri. (46) GUCE C 313 del 23 ottobre 1996.
— 1325 — di almeno un anno e concernenti il traffico di droga, le diverse forme di criminalità organizzata, atti di violenza contro la vita, l’integrità fisica o la libertà personale o ancora atti costituenti una situazione di pericolo collettivo. Sebbene venga prevista la possibilità per ciascuno Stato membro di formulare, al momento del deposito dello strumento di ratifica, una dichiarazione di riserva riguardo all’applicazione di tale ultimo disposto, l’estradizione non potrà comunque essere rifiutata per nessuna forma di concorso doloso alla realizzazione degli stessi reati, anche quando il relativo contributo non intervenga nel concreto iter esecutivo del reato ma sia stato comunque fornito nella consapevolezza del proposito criminoso comune e del carattere criminoso delle attività del gruppo. Gli stessi reati di cui agli artt. 1 e 2 della Convenzione sul terrorismo, inoltre, non potranno in nessun caso essere qualificati come reati politici; viene così preclusa ogni possibile giustificazione di un rifiuto dell’estradizione per tali reati. Quest’ultima, poi, non potrà essere rifiutata per quei reati di natura fiscale inerenti alle imposte dirette, alle tasse sul valore aggiunto o alle dogane. La semplice prescrizione del reato non potrà in nessun caso essere addotta come ragione di un eventuale rifiuto. La Convenzione, infine, dopo aver affermato come principio generale la non rifiutabilità dell’estradizione di un nazionale, prevede comunque la possibilità per ciascuno Stato di effettuare una dichiarazione di riserva in proposito, valida per la durata di cinque anni ma successivamente rinnovabile. È evidente che la ratifica da parte degli Stati di un tale testo potrebbe rappresentare un passo di estrema importanza per il progresso della cooperazione in materia penale. III) Uno sviluppo di grande interesse delle disposizioni del titolo VI è rappresentato, inoltre, dalla Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari della Comunità europea, firmata dai rappresentanti dei quindici Stati membri il 26 luglio 1995 (47). Tale documento acquista rilievo ai fini di questo studio per la natura essenzialmente penalistica delle sue previsioni. Esso infatti, oltre a sancire il principio di ne bis in idem ed a prevedere interessanti disposizioni in tema di applicazione della legge penale nello spazio e di estradizione — disposizioni che rivelano l’interesse degli Stati membri a formulare una risposta uniforme in materia di protezione degli interessi finanziari comunitari —, stabilisce in capo agli Stati membri precisi vincoli, sia per quanto attiene ai comportamenti da erigere ad illecito penale, sia per quanto riguarda la scelta delle sanzioni da irrogare. Sotto il primo profilo, ad esempio, gli Stati membri risultano obbligati a disciplinare come illeciti penali comportamenti quali la presentazione o l’utilizzazione di documenti falsi, inesatti o incompleti, la mancata comunicazione di informazioni in violazione di un obbligo giuridico cui consegua un danno per il bilancio comunitario, o ancora la distrazione di fondi comunitari per fini diversi da quelli per i quali essi sono stati concessi. Per quanto riguarda il profilo sanzionatorio, la Convenzione giunge persino a prevedere, per le frodi più gravi, l’introduzione di pene privative della libertà personale. Per quanto concerne, inoltre, la definizione della responsabilità penale, il disposto dell’art.1 § 4, secondo il quale ‘‘il carattere doloso di un’azione od omissione [...] può essere dedotto da circostanze obiettive’’, sembra sancire una vera e propria presunzione di colpevolezza, una forma di responsabilità oggettiva che risulterebbe in contrasto con i principi fondamentali del diritto penale di alcuni Stati membri, tra cui innanzitutto l’Italia, dove il principio di personalità della responsabilità penale, sancito all’art. 27, primo comma, della Costituzione, esclude la legittimità di forme di responsabilità di questo genere. La formulazione della disposizione in esame si presenta, comunque, alquanto vaga ed anche fuorviante. La delicatezza dell’argomento e l’affermazione generale contenuta nei §§ 1 e 3 dello stesso art. 1, circa il carattere necessariamente ‘‘doloso’’ dei comportamenti consi(47)
GUCE C 316/48 del 27 novembre 1995.
— 1326 — derati, esigerebbero invece una previsione più chiara ed esplicita dei caratteri della responsabilità penale disposta nel testo. Una tale constatazione acquista tanto più rilievo quando si consideri che il testo della Covenzione è stato adottato successivamente ad uno studio comparato condotto, su iniziativa della Commissione, da esperti nazionali, riguardo alle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative di ciascuno Stato membro poste a tutela delle finanze comunitarie. Nel rapporto finale di tale studio, infatti, gli esperti formulavano tutta una serie di ‘‘raccomandazioni’’, tra le quali la necessità del rispetto del principio di colpevolezza. L’analisi dei diversi ordinamenti giuridici europei — e dello stesso ordinamento comunitario —, condotta da tali esperti, ha permesso in effetti di rilevare che il principio nulla poena sine culpa, oltre a rivestire il rango di principio costituzionale in alcuni paesi come l’Italia, la Repubblica Federale Tedesca e la Spagna, è stato progressivamente introdotto in pressoché tutti i progetti di riforma penale ed esso trova pieno riconoscimento anche in alcuni settori dello stesso ordinamento comunitario, principalmente in diritto della concorrenza. Pur dovendo prendere atto che la Corte di Giustizia, nella sentenza Hansen (48), ha negato che ipotesi di responsabilità oggettiva siano incompatibili con il diritto comunitario — il che esclude, conseguentemente, che il principio di colpevolezza costituisca un diritto fondamentale dell’ordinamento comunitario —, gli esperti hanno sollecitato un più ampio rispetto del principio di colpevolezza, ‘‘en admettant pour toutes les infractions la possibilité de prouver la bonne foi, conformément aux exigences de la Cour europénne des droits de l’homme‘‘ (49). Infine, nel caso in cui si giungesse alla conclusione che la Convenzione esige il carattere effettivamente doloso dei comportamenti incriminati, escludendo quindi ogni forma di responsabilità oggettiva, il silenzio intorno alla punibilità di comportamenti colposi non comporterebbe, comunque, la loro esclusione dal novero dei comportamenti sanzionabili alla luce del diritto comunitario. A differenza della Convenzione che ruoterebbe attorno al concetto di ‘‘frode’’, definita come un’infrazione connotata anche da un certo elemento soggettivo, il Regolamento n. 2988/95, adottato il 18 dicembre 1995, concernente le sanzioni amministrative in materia, permetterebbe infatti una loro repressione, in quanto fondato su una nozione piuttosto generica di ‘‘irregolarità’’, costituita da qualsiasi violazione di una disposizione di diritto comunitario che provochi un danno al bilancio comunitario. Secondo quanto disposto dall’art. 5 del suddetto Regolamento, non solo condotte dolose ma anche ‘‘irregolarità’’ colpose possono condurre all’irrogazione delle sanzioni ivi previste (50). (48) CGCE 10 giugno 1990, Hansen, causa 326/88, in Raccolta, p. 2911. (49) M. DELMAS-MARTY, Incompatibilités entre systèmes juridiques et mesures d’harmonisation: rapport final du groupe d’experts chargé d’une étude comparative sur la protection des intérêts financiers de la Communauté, in Actes du Séminaire sur la protection juridique des intérêts financiers de la Communauté: Bilan et perspectives depuis le Séminaire de Bruxelles de 1989, Bruxelles 25-26 novembre 1993, Oak Tree Press, p. 120. (50) GUCE L312 del 23 dicembre 1995. Da notare che la Proposta di tale Regolamento era stata presentata contemporaneamente al Progetto di Convenzione. È interessante sottolineare inoltre che, nell’ipotesi in cui la definizione di ‘‘frode’’ contenuta nella Convenzione qui in esame richiedesse il carattere doloso dell’infrazione, una tale disposizione indicherebbe un cambiamento significativo della posizione assunta dalla Commissione in documenti precedenti, secondo la quale, in contrapposizione ad un generalizzato atteggiamento degli Stati membri ad utilizzare il termine ‘‘frode’’ per designare solo reati gravi, avrebbe dovuto adottarsi un’accezione più ampia dello stesso termine, ricomprendente anche condotte non dolose e non necessariamente perseguibili penalmente. Cfr., in tal senso, COM (87) 572. Nella stessa direzione si era mosso anche il Parlamento europeo che aveva auspicato una definizione della ‘‘frode’’ come ‘‘ogni infrazione dolosa o meno ad una disposizione di carattere giuridico in ambito finanziario, che essa sia passibile di sanzioni penali o di altra natura’’, P.E. Doc. AZ 20/89. Grazie al combinarsi delle disposizioni della Convenzione e
— 1327 — Riguardo al diverso problema dell’individuazione della responsabilità penale all’interno dell’impresa, la Convenzione sancisce il principio secondo il quale essa deve essere riconosciuta in capo a chiunque, all’interno dell’impresa stessa e nel caso di specie, abbia un certo potere di decisione o di controllo (la ‘‘responsabilité du décideur’’) (51). Nessuna disposizione invece è prevista in tema di responsabilità delle persone giuridiche, contrariamente al relativo Progetto della Commissione che proponeva di disporre, in capo ad esse, ‘‘almeno delle sanzioni pecuniarie’’ per ogni frode agli interessi finanziari comunitari che fosse stata commessa da un proprio organo, rappresentante legale o da qualunque persona titolare, di diritto o di fatto, di un potere di decisione (52). Restando muta sulle relative questioni — ed evitando così di prendere una posizione in proposito —, la Convenzione ha disatteso le raccomandazioni formulate dagli esperti che, consapevoli del particolare rilievo che una tale questione assume riguardo alle frodi alle finanze comunitarie — essendo gli operatori economici il cui comportamento può integrare tali frodi costituiti per lo più da imprese — suggerivano di prevedere una responsabilità penale o ‘‘amministrativa-penale’’ (53). Una tale scelta, indicata anche nella proposta presentata dalla Commissione, avrebbe implicato, in primo luogo, il riconoscimento di una responsabilità diretta delle persone giuridiche — non condizionata quindi alla verifica della sussistenza di una responsabilità in capo alla persona fisica del rappresentante — e, in secondo luogo, l’irrogazione di sanzioni penali o di sanzioni amministrative particolari, caratterizzate, queste ultime, da una finalità di prevenzione generale e da un chiaro contenuto afflittivo nei confronti dell’autore della violazione, analoghi a quelli propri delle sanzioni penali (54). Non può evitarsi di sottolineare che lo strumento per la fissazione di vincoli alle scelte degli Stati membri in questa delicata materia sia stato quello di una convenzione conclusa nel quadro del terzo pilastro, il che ha come necessario presupposto la ritenuta inesistenza di una competenza propria delle istituzioni comunitarie al riguardo. Una tale prospettiva sembra però trascurare che una competenza comunitaria in materia esiste ed è fondata sul nuovo art.209A CE. Detto articolo, infatti, stabilendo al primo comma che ‘‘gli Stati membri adottano, per combattere le frodi che ledono gli interessi finanziari della Comunità, le stesse misure che adottano per combattere le frodi che ledono i loro interessi finanziari’’, riproduce il principio — affermato, proprio in tema di tutela degli interessi finanziari della Comunità, dalla Corte di Giustizia nella sentenza c.d. del maïs greco — secondo il quale ‘‘in mancanza di una norma comunitaria in materia, gli Stati membri sono obbligati a sanzionare le violazioni del diritto comunitario in condizioni sostanziali e processuali analoghe a quelle previste per le violazioni del diritto nazionale di natura ed importanza similari’’ (55). Alla luce delle argomentazioni sviluppate dalla Corte in questa sentenza, l’obbligazione ad assimilare gli interessi finanziari comunitari a quelli nazionali, condel Regolamento qui in considerazione, un tale cambiamento di rotta non avrebbe comunque determinato un vuoto di tutela riguardo i comportamenti colposi. (51) Anche a questo proposito la Convenzione ha seguito le relative raccomandazioni, cfr. M. DELMAS-MARTY, Incompatibilités entre systèmes juridiques et mesures d’harmonisation, cit., p. 121. (52) COM (94) 214. (53) Cfr. M. DELMAS-MARTY, Incompatibilités entre systèmes juridiques et mesures d’harmonisation, cit., p. 121. (54) Si tratta quindi di sanzioni che, nella fondamentale bipartizione tra sanzioni riparatrici e sanzioni punitive, devono essere fatte rientrare nella seconda categoria. A questa distinzione ha fatto riferimento il rapporto conclusivo del gruppo ad hoc ‘‘droit communautaire et droit pénale’’, istituito nell’ambito della cooperazione politica tra gli Stati membri, rapporto presentato al Consiglio dei Ministri della Giustizia del 13 novembre 1991, cfr. doc. n.8859/91, p. 7. (55) CGCE 21 settembre 1989, Commissione c. Grecia, causa 68/88, in Raccolta, 1989, p. 2985. Per un commento a questa importante sentenza, cfr. J.A.E. VERVAELE, La fraude communautaire et le droit pénal européen des affaires, PUF, Paris, 1994, p. 6 ss.
— 1328 — tenuta all’art. 209A CE, primo comma, costituisce la disposizione comunitaria specifica che va a completare il generale principio di coopération loyale espresso dall’art. 5 CE sul quale la Corte fonda l’intero suo ragionamento, evincendo da esso, non un semplice obbligo per gli Stati a reagire dinnanzi ad una frode al bilancio comunitario con procedure volte al recupero delle somme interessate, ma un obbligo ben più penetrante ad intraprendere una vera e propria azione repressiva contro l’autore per la riparazione del danno causato al buon funzionamento del sistema. Sulla base di quanto appena detto, non avrebbero dovuto sussistere dubbi che l’art. 209A CE dovesse costituire la base giuridica specifica per ogni nuova iniziativa in materia di tutela degli interessi finanziari (56). Per le stesse considerazioni, non appare accettabile, inoltre, la giustificazione della scelta in favore dello strumento intergovernativo che sembra desumibile dall’‘‘exposé des motifs’’ contenuto nel testo del Progetto di Convenzione presentato dalla Commissione. Quest’ultima, dando seguito ad una proposta formulata dal Regno Unito sulla base del diritto di iniziativa spettante agli Stati membri secondo l’art. K3.2 TUE, ha ritenuto di dover articolare la propria proposta in due diverse iniziative, tra di esse collegate; cioè, da un lato, un Progetto di Regolamento concernente i controlli, le verifiche in loco e le sanzioni amministrative applicate in materia e fondato sull’art. 235 CE e, dall’altro, un Progetto di Convenzione tra gli Stati membri fondato sull’art. K3 TUE. Da una tale scelta dovrebbe desumersi che, ad avviso della Commissione, mentre l’introduzione di sanzioni amministrative — come del resto riconosciuto dalla Corte di Giustizia (57) — rientra nelle competenze delle istituzioni comunitarie, tutto ciò che concerne il diritto penale e le sanzioni penali rientra nella competenza esclusiva degli Stati membri. Nonostante la Commissione abbia indirettamente motivato la propria opzione manifestando la ferma intenzione ad attuare la più estesa utilizzazione possibile delle nuove disposizioni del Trattato sull’Unione, ed in particolare del titolo VI (58), è evidente l’intrinseca pericolosità di una tale scelta che, nel tentativo di conciliare logica comunitaria e logica intergovernativa, potrebbe contribuire alla cristallizzazione di quella netta ripartizione di competenze che escluderebbe qualunque intervento comunitario in materia di repressione penale, non tenendo in alcuna considerazione gli sviluppi intervenuti proprio in tema di tutela degli interessi finanziari della Comunità (59). A parte la constatazione che, come già accennato, una precisa competenza in materia è prevista dall’art. 209A TUE, il fondamento della tutela delle finanze comunitarie può e deve, innanzitutto, essere ricercato con riferimento a quelle disposizioni che attribuiscono alle istituzioni comunitarie poteri specifici in singoli settori, come l’art. 43 CE per l’agricoltura. Il fatto che alcune delle nuove disposizioni del Trattato CE escludano esplicitamente l’armonizzazione dal loro campo di applicazione rivela, infatti, che la relativa competenza è normalmente ricompresa nei poteri accordati alle istituzioni comunitarie in un certo settore, allorquando una tale armonizzazione sia necessaria per il raggiungimento degli obiettivi prefissati dalla normativa comunitaria. Sempre allo stesso fine, possono essere individuati come base giuridica di un’iniziativa (56) In senso contrario, cfr. H. LABAYLE, ‘‘L’application du titre VI du Traité sur l’Union européenne et la matière pénale’’, cit., p. 45. Secondo l’autore, l’imprecisione dei termini utilizzati nel testo dell’art. 209A CE — si è preferito il termine di ‘‘misure’’ anziché quello più specifico di ‘‘sanzioni’’ — ed il silenzio riguardo una presunta natura penale delle misure invocate indicherebbero che gli Stati hanno voluto fare riferimento esclusivamente ad una cooperazione amministrativa. (57) CGCE 27 ottobre 1992, RFA c. Commissione, aff. C-240/90, in Raccolta, 1992, p. 5383. (58) Cfr. Stratégie antifraude de la Commission - Programme de travail pour 1994, Commission européenne. (59) Cfr. J.A.E. VERVAELE, ‘‘L’application du droit communautaire: la séparation des biens entre le premier et le troisième pilier?’’, cit., pp. 13-21.
— 1329 — in materia di tutela degli interessi finanziari della Comunità, l’art. 5 CE — soprattutto alla luce degli sviluppi della sentenza Commissione c. Grecia del 21 settembre 1989 (60) — o ancora l’art. 235 CE che, oltre ad essere stato più volte richiamato dal Parlamento europeo, è stato utilizzato come base giuridica del Regolamento concernente la tutela delle finanze comunitarie sul piano amministrativo (61). Le considerazioni appena svolte permettono di evidenziare il pericolo insito nelle previsioni del titolo VI, cioè quello di ostacolare ogni possibile iniziativa in materia penale nell’ambito propriamente comunitario (62). Inoltre, non possono ignorarsi gli inconvenienti che derivano dal ricorso alle disposizioni del titolo VI, quali, ad esempio, l’esclusione della competenza della Corte di Giustizia e dell’intervento del Parlamento europeo. L’uso di tali previsioni deve quindi avvenire in via esclusivamente residuale, almeno per quelle questioni per cui il ricorso a strumenti propriamente comunitari sia comunque possibile. Peraltro, come già precisato, la stessa disposizione dell’art K1 TUE afferma che l’applicazione delle previsioni del titolo VI lascia impregiudicate le competenze comunitarie propriamente dette. Quest’ultimo elemento dovrebbe, a nostro avviso, costituire oggetto di attente valutazioni prima di procedere nella cooperazione regolata nell’ambito del terzo pilastro. IV) Nonostante le vivaci critiche appena riportate e persino la diversa opinione in proposito del Parlamento europeo (63), la Commissione ha tuttavia confermato la necessità di fondare le proprie iniziative in materia di tutela degli interessi finanziari della Comunità sulle previsioni del terzo pilastro in occasione della redazione del Progetto di Protocollo alla Convenzione del 26 luglio 1995 concernente, tra l’altro, la responsabilità penale delle persone giuridiche (64). Nell’‘‘exposé des motifs’’ la Commissione afferma esplicitamente che, nonostante la Convenzione non fissi alcuna obbligazione riguardo alla natura giuridica dell’atto chiamato a completarla (65), le argomentazioni da essa svolte a sostegno della base giuridica prescelta per il Progetto di Convenzione del 1994 — progetto poi divenuto, con alcune modifiche, il testo della Convenzione firmata il 26 luglio 1995 — conservano il loro valore, pur senza pregiudicare una eventuale competenza comunitaria in materia. Nel testo presentato dalla Commissione al Consiglio il 19 gennaio 1996, il Progetto di Protocollo prevedeva la responsabilità penale delle persone giuridiche per ogni infrazione di frode commessa non solo dai rispettivi organi, dai rappresentanti legali e da coloro che abbiano, di diritto o di fatto, un potere di decisione, ma anche da chiunque abbia agito ‘‘in nome’’ o ‘‘in favore’’ dell’ente. Come era intuibile, una responsabilità penale così estesa delle persone giuridiche ha suscitato le riserve di numerosi Stati membri. Il testo è stato infatti profondamente modificato in occasione della riunione, il 2 settembre 1996, del gruppo ‘‘diritto penale-diritto comunita(60) CGCE 21 settembre 1989, Commissione c. Grecia, causa 68/88, in Raccolta, 1989, p. 2965. (61) Cfr. G. GRASSO, ‘‘Prospettive di uno spazio giudiziario europeo’’, Indice Penale, 1996, p. 119. (62) Cfr. J.A.E. VERVAELE, ‘‘Criminal Law in the European Community: About Myths and Taboos’’, Agon, Bulletin trimestriel des Associations des juristes européens pour la protection des intérêts financiers des Communautés européennes, 1995, n. 7, pp. 4-5. (63) GUCE C 89 del 10 aprile 1995. Il Parlamento europeo, infatti, consultato ai sensi dell’art. K6 TUE sul Progetto di Convenzione, aveva respinto la proposta fondata sull’art. K3 TUE ed aveva invitato la Commissione a formulare una proposta fondata sulla combinazione degli artt. 100A CE e 209A CE. (64) COM (95) 693. (65) Il terzo considerando del preambolo della Convenzione si limita a disporre che ‘‘[...] è necessario stabilire un primo testo di convenzione, da completarsi, a breve termine, con un altro strumento giuridico in modo da migliorare l’efficacia della protezione penale degli interessi finanziari delle Comunità europee’’.
— 1330 — rio’’, in seguito alla quale all’affermazione della esplicita natura penale della responsabilità delle persone giuridiche e delle relative sanzioni è stata sostituita una ben più generica obbligazione per gli Stati membri di disporre ‘‘les mesures nécessaires pour assurer que les personnes morales puissent être tenues pour responsables de la fraude et de la corruption active commises pour leur compte par toute personne ayant le pouvoir de décision [...] ou le pouvoir de contrôle [...]’’ (art. 2, primo comma), e di prevedere nei confronti delle persone giuridiche ritenute responabili, sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive ‘‘qui incluent des amendes pénales ou non pénales et éventuellement d’autres sanctions [...]’’ (art. 3, primo comma) (66). V) Accanto a questo Progetto di Protocollo sulla tutela degli interessi finanziari, un altro Progetto di Protocollo era stato presentato, relativo quest’ultimo alla lotta contro la corruzione dei funzionari. Tale progetto ha avuto un ben più rapido iter burocratico: adottato il 27 settembre 1996, esso è divenuto il primo Protocollo addizionale alla Convenzione del luglio 1995 (67). Il Protocollo in esame si fonda sulla consapevolezza, peraltro espressa nel relativo preambolo, che ‘‘gli interessi finanziari delle Comunità europee possono essere lesi o minacciati da altri illeciti penali, in particolare quelli costituenti atti di corruzione in cui risultano coinvolti funzionari sia nazionali che comunitari, responsabili della riscossione, della gestione o della spesa dei fondi comunitari soggetti al loro controllo [...]’’ e della necessità ‘‘per un’azione efficace contro questi atti aventi ramificazioni internazionali, che il diritto penale degli Stati membri ne valuti in maniera convergente la natura perseguibile [...]’’ (68). Lo stesso preambolo sottolinea inoltre che, perché le legislazioni penali degli Stati membri possano contribuire efficacemente alla tutela degli interessi finanziari della Comunità europea, il loro adattamento, volto ad includere i funzionari europei, non dovrebbe essere limitato agli atti di corruzione ma estendersi ad altri reati che possano comunque nuocere alle finanze comunitarie. Al fine di raggiungere gli obiettivi prefissati, tale Protocollo adotta però una soluzione alquanto articolata. Dopo aver proceduto, agli artt. 2 e 3, alla definizione della corruzione attiva e passiva, — definizione peraltro non necessariamente coincidente con quella nazionale e riguardante anche i funzionari di altri Stati membri — il Protocollo infatti dispone nell’ambito degli stessi articoli un semplice obbligo di penalizzare i comportamenti ivi descritti, mentre all’art. 4 § 2 viene sancito un vero e proprio ‘obbligo ad assimilare’ limitato però, per quanto concerne i funzionari comunitari, alle condotte di frode riconducibili all’art. 1 della Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari del 1995. Riguardo ai membri della Commissione, del Parlamento europeo, della Corte di Giustizia e della Corte dei Conti, invece, l’obbligo di assimilare, disposto dall’art. 4 § 2, ricomprende anche le ipotesi di corruzione di cui agli artt. 2 e 3. Così, mentre riguardo ai membri delle istituzioni comunitarie gli Stati membri saranno tenuti ad applicare le stesse fattispecie previste secondo il proprio diritto nazionale, rispettivamente per i ministri del Governo, i membri del Parlamento, i membri degli organi giudiziari supremi e quelli della Corte dei Conti, limitatamente ai funzionari europei una tale assi(66) JUSTPEN 120 n. 10135/96. Di grande interesse per l’oggetto di questo studio è la constatazione che dal nuovo testo del Progetto di Protocollo sia stato eliminato ogni riferimento alle proposte formulate dalla Commissione nel testo precedente in materia di cooperazione giudiziaria. Le disposizioni al riguardo suggerivano l’organizzazione di una procedura centralizzata per le indagini concernenti le frodi riguardanti più Stati membri e la creazione di una rete di magistrati di collegamento che assicurasse una cooperazione regolare a livello operativo. Pur inserendo tali disposizioni nel testo, la Commissione precisava comunque in nota che si trattava di materie non rientranti nelle sue competenze ma che venivano portate all’attenzione del Consiglio solo a titolo esemplificativo. (67) GUCE C 313 del 23 ottobre 1996. (68) Ibidem, p. 2.
— 1331 — milazione sarà obbligatoria solo per le condotte di frode. Per le ipotesi di cui agli artt. 2 e 3 del Protocollo — cioè gli atti di corruzione attiva e passiva — sarà invece sufficiente la previsione di una fattispecie penale ad hoc o l’estensione di una qualunque fattispecie penale preesistente, anche diversa da quella connotata come corruzione secondo il diritto penale nazionale, ed eventualmente sanzionata in maniera notevolmente più lieve. Quest’ultima affermazione, per essere correttamente intesa, deve comunque essere letta alla luce dei principi fondamentali del diritto comunitario vigente in materia. Così, secondo quanto sancito dalla Corte di Giustizia nella ormai famosa sentenza del ‘maïs greco’ (69) il principio di coopération loyale sancito all’art. 5 CE comporta per gli Stati membri l’obbligo di sanzionare le violazioni del diritto comunitario in condizioni sostanziali e processuali analoghe a quelle applicabili alle violazioni del diritto nazionale ‘‘di natura e importanza similari’’, verificando sempre che essi presentino comunque ‘‘un carattere effettivo, proporzionato e dissuasivo’’. Alla luce di quanto appena detto, un ‘obbligo ad assimilare’ relativo ai funzionari europei ed ai funzionari nazionali di altri Stati membri, anche per le condotte di corruzione di cui agli artt. 2 e 3 del Protocollo, seppure non previsto dal testo stesso, potrebbe quindi discendere dalla già citata sentenza del ‘maïs greco’. In entrambi i casi qui esaminati, la soluzione prospettata differisce comunque da quella proposta nel Progetto di Trattato sulla tutela e la responsabilità penale dei funzionari e degli altri agenti della Comunità europea, presentato dalla Commissione al Consiglio nel 1976 (70). Infatti, anziché sancire, come il più recente Protocollo, un obbligo per gli Stati membri di adottare ‘‘le misure necessarie affinché, ai sensi del diritto penale nazionale, le qualificazioni degli illeciti [...] commessi dai suoi funzionari nazionali [...] siano applicate allo stesso modo ai casi in cui gli illeciti vengano commessi da funzionari comunitari [...] (71), il Progetto del 1976 procedeva esso stesso ad estendere l’ambito di applicazione delle norme penali nazionali ai funzionari delle Comunità Europee. Riguardo a tale Progetto — e non invece per il Protocollo qui in esame — avrebbe così potuto parlarsi di una vera e propria funzione incriminatrice indiretta della disposizione comunitaria. Attraverso l’assimilazione dei funzionari europei a quelli nazionali, infatti, la norma comunitaria, estendendo l’ambito di applicazione della fattispecie nazionale, ne modifica, in realtà, la struttura e soprattutto l’oggettività giuridica, dando vita ad una nuova fattispecie incriminatrice finalizzata alla tutela dell’interesse preso in considerazione da tale norma (72). VI) Sempre in materia di lotta alla corruzione dei funzionari europei, la Presidenza italiana ha presentato un Progetto di Convenzione che, rispetto al corrispondente Protocollo — di cui, tra l’altro, riproduce pressoché integralmente le disposizioni definitorie — si presenta come strumento più generale, ricomprendendo tutti gli atti di corruzione e non soltanto quelli concernenti le finanze comunitarie (73). Secondo i redattori, comunque, tale Convenzione non sarebbe da considerare uno strumento alternativo rispetto al Protocollo, ma servirebbe invece a completarlo, come emerge chiaramente dal relativo preambolo. Questo approccio più globale sembra avere riscosso particolari consensi da parte della maggioranza delle delegazioni degli Stati membri presenti ad una riunione informale nel dicembre 1995. Lo stesso Parlamento europeo, inoltre, nella sua Risoluzione sulla lotta alla corruzione europea del 15 dicembre 1995, si è espresso in favore di un inquadramento complessivo della lotta alla corruzione che vada quindi al di là della protezione degli interessi fi(69) CGCE 21 settembre 1989, cit. (70) GUCE C222 del 22 settembre 1976. (71) GUCE C313 del 23 ottobre 1996, cit., art. 4 § 1. (72) Sul principio di assimilazione in generale, cfr. G. GRASSO, Comunità europee e diritto penale, Milano, Giuffrè, 1989, p. 129 ss. (73) JUSTPEN 15 n. 4640/96.
— 1332 — nanziari della Comunità (74). Così facendo è evidente che esso auspica che l’Unione europea abbia un ruolo suo proprio nella lotta contro la corruzione in Europa. VII) Due azioni comuni, infine, sono state adottate in materia di cooperazione giudiziaria. La prima, adottata il 22 aprile 1996, delinea l’inquadramento generale degli scambi di magistrati di collegamento (75); la seconda, adottata il 28 ottobre 1996, dispone un programma di sostegno e di scambi — il Programma GROTIUS — concernente gli operatori del diritto; termine quest’ultimo con cui i redattori hanno voluto fare riferimento non solo a giudici ed avvocati ma anche ad accademici, funzionari ministeriali, funzionari di polizia, ufficiali giudiziari ed agli appartenenti ad altre professioni collegate all’amministrazione della giustizia (76). L’obiettivo perseguito da entrambi gli strumenti è quello di stimolare la conoscenza reciproca dei sistemi giuridici, al fine di facilitare la cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri. In questa prospettiva, lo scambio di magistrati di collegamento può risultare di estremo interesse. Se la loro utilità emerge immediatamente nell’ambito dell’esecuzione delle rogatorie internazionali — allorquando si presenti necessaria la spiegazione delle motivazioni alla base della richiesta — o ancora nel caso della comunicazione di documenti inerenti ai dossiers di estradizione, lo svolgimento di tutte le competenze proprie di un magistrato di collegamento permette di entrare nel vivo del sistema giuridico ‘ospite’ e di comprenderne a fondo i relativi meccanismi. Una tale situazione mette il magistrato in condizione di cogliere le reali peculiarità del sistema e di superare al tempo stesso quei preconcetti che costituiscono un ostacolo ingiustificato ad un avvicinamento dei sistemi giuridici degli Stati membri. b) Le prospettive future del terzo pilastro. — Le previsioni del titolo VI potrebbero avere un ruolo determinante, fornendo la base giuridica più consona ad iniziative di armonizzazione e di coordinamento in materia di repressione della criminalità organizzata. Iniziative in tal senso — come anche un rafforzamento della cooperazione giudiziaria — sono state raccomandate dal Consiglio dei Ministri della Giustizia, dopo aver esaminato i problemi connessi allo sviluppo di tale forma di criminalità. L’azione comune adottata il 28 novembre 1996 e volta a facilitare la cooperazione tra gli Stati membri in materia di lotta alla criminalità organizzata su scala internazionale, può essere considerata un primo passo in questa direzione. Il ricorso alle disposizioni del titolo VI, d’altronde, potrebbe rivelarsi estremamente opportuno al fine di superare la ritrosia degli Stati membri ad accettare un intervento della normativa comunitaria; una riluttanza che ha determinato spesso l’adozione di testi inefficaci o comunque incompleti (77). Se, secondo l’opinione dei più, non appare accettabile la tesi secondo la quale, preso atto dell’innegabile connessione esistente tra la creazione del mercato interno e la lotta alla (74) GUCE C17 del 22 gennaio 1996. (75) GUCE L105 del 27 aprile 1996. (76) GUCE L287 del 8 novembre 1996. (77) Di un tale atteggiamento degli Stati costituiscono prova evidente la direttiva sull’insider trading e quella sul riciclaggio in cui, diversamente dalle originarie proposte della Commissione, non viene affermata la natura penale dell’illecito ivi previsto — con il conseguente obbligo per gli Stati membri di erigere in infrazione penale le relative condotte — né quella delle corrispondenti sanzioni, né ancora la misura di queste ultime. Limitandosi a disporre che le condotte considerate siano ‘‘vietate’’ negli ordinamenti nazionali e che le relative sanzioni siano ‘‘sufficientemente dissuasive’’, è evidente che tali direttive non siano in grado di evitare il configurarsi di fondamentali differenze di disciplina degli stessi illeciti da parte dei diversi Stati membri; situazione, questa, che costituisce un chiaro ostacolo ad un’efficace repressione delle infrazioni in questione oltre che ad una razionale cooperazione giudiziaria, innanzitutto per il più che probabile configurarsi di fenomeni di forum shopping.
— 1333 — criminalità transnazionale, risulterebbe giustificabile un’iniziativa propriamente comunitaria volta all’armonizzazione o al coordinamento delle legislazioni nazionali concernenti le condotte criminose in questione e le relative sanzioni, non dovrebbe invece sembrare altrettanto difficile da accettare per gli Stati un’attività di armonizzazione delle legislazioni penali nazionali attraverso gli strumenti predisposti nel titolo VI, particolarmente mediante l’eventuale assunzione di ‘‘azioni comuni’’ (78). È evidente l’importanza di una tale soluzione, soprattutto se si dovesse giungere, in seguito alla Conferenza intergovernativa attualmente in corso, all’esplicita affermazione del carattere vincolante di tali atti. Nel contesto del titolo VI, inoltre, nuove ed interessanti prospettive si aprono per tutte le tematiche afferenti allo ‘‘spazio giudiziario europeo’’. Nella mise en oeuvre del terzo pilastro, l’obiettivo deve essere, in effetti, quello di creare un quadro complessivo — e al tempo stesso razionale — di strumenti di cooperazione giudiziaria che, attraverso la semplificazione delle procedure estradizionali, l’eliminazione o l’alleggerimento di taluni limiti all’estradizione, il miglioramento dell’assistenza giudiziaria ed il ricorso a nuove tecniche di cooperazione, controbilanci la libera circolazione delle persone e l’eliminazione dei controlli alle frontiere. È auspicabile quindi che, proprio nel quadro del terzo pilastro, possa essere ripreso anche l’esame del tema degli effetti internazionali del giudicato penale. L’apertura alla firma, il 13 novembre 1991, della Convenzione sul trasferimento della esecuzione delle condanne penali straniere, pur intendendo rispondere ad una delle esigenze più sentite nell’ambito della cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri, non può assolutamente essere considerato il punto di arrivo in questo settore. Oltre alla constatazione che la sua entrata in vigore non può certamente essere attesa in tempi brevi — in quanto essa è subordinata, come per tutte le convenzioni in materia, al deposito degli strumenti di ratifica, accettazione o approvazione di tutti gli Stati membri — e nonostante tale accordo abbia riscosso un evidente consenso venendo sottoscritto, il giorno stesso dell’apertura alla firma, da nove dei dodici Stati membri nel 1991, la suddetta Convenzione lascia la definizione di molteplici elementi alla discrezionalità degli Stati. Rientrando la questione della circolazione dei giudicati penali nella cooperazione giudiziaria penale di cui all’art. K1, n. 7, TUE, tutte le problematiche connesse all’applicazione di tale Convenzione potranno essere trattate in seno al Consiglio dell’Unione, nel quadro configurato dal terzo pilastro. Esse potranno quindi essere oggetto di informazioni o consultazioni volte al coordinamento dell’attività delle autorità nazionali competenti. Una tale considerazione acquista rilievo, per esempio, allorquando si sottolinei che, a differenza della Convenzione dell’Aja sul valore internazionale delle sentenze penali del 1970, non esiste alcun obbligo, per lo Stato richiesto, di accettare il trasferimento, ma ‘‘la trasmissione dell’esecuzione di una condanna è subordinata all’accordo dello Stato di condanna e dello Stato di esecuzione’’ (art. 5.1). L’unico vincolo posto a carico delle Parti risulta quindi quello di ‘‘prestarsi la più ampia cooperazione reciproca in materia di trasmissione dell’esecuzione delle condanne [...]’’, condizione nella quale deve ritenersi inclusa, oltre la presa in considerazione delle richieste di trasmissione e la conduzione di serie trattative al fine di favorire il raggiungimento di un accordo di trasferimento, la predisposizione, nell’ordinamento interno, di misure atte ad assicurare la possibilità di un trasferimento. Così configurati tali obblighi, emerge chiaramente il ruolo determinante che, per il rispetto degli stessi vincoli, potrebbe essere assunto dal Consiglio dell’Unione e dal meccanismo delineato nel titolo VI, una volta che l’attuazione della suddetta Convenzione venga concretamente ascritta al terzo pilastro. L’armonizzazione delle legislazioni nazionali mediante gli strumenti predisposti dal titolo VI si presenta inoltre necessaria al fine di un’efficace utilizzazione della Convenzione di Bruxelles. (78)
Cfr. G. GRASSO, ‘‘Prospettive di uno ‘spazio giudiziario europeo’’’, cit., p. 121.
— 1334 — La suddetta Convenzione — come numerosi altri testi adottati nell’ambito della cooperazione giudiziaria — pone, infatti, come condizione per la trasmissione dell’esecuzione, la c.d ‘‘doppia incriminazione’’, per l’integrazione del quale requisito non si presenta certo sufficiente la semplice corrispondenza del fatto alle fattispecie astratte previste nelle due legislazioni nazionali, ma occorre che il fatto in questione sia concretamente assoggettabile a pena in entrambi gli ordinamenti. Ne consegue quindi la necessaria presa in considerazione di tutti quegli elementi da cui dipende in concreto la punibilità, come le cause di giustificazione e le condizioni di punibilità. La fissazione del principio della ‘‘doppia incriminazione’’, d’altronde, rivela la necessità, per una proficua cooperazione penale, di un certo grado di uniformità dei sistemi giuridici; grado minimale che l’insuccesso pratico di molte iniziative precedenti ha dimostrato non essere stato ancora raggiunto, neanche tra gli Stati membri dell’Unione. Da qui l’imprenscindibilità, anche a questo fine, di un’attiva opera di armonizzazione. La lettura della Convenzione di Bruxelles alla luce delle disposizioni del titolo VI rivela poi un altro interessante nucleo di evoluzione del terzo pilastro dell’Unione. Questa Convenzione si presenta infatti estremamente carente per quanto concerne la previsione di garanzie minime per il condannato. Se si vuole evitare l’incompatibilità di tale strumento con i trattati internazionali sulla tutela dei diritti dell’uomo e, di conseguenza, con il disposto dell’art. K2 TUE — che stabilisce che i settori elencati all’art. K1 TUE, e quindi anche la cooperazione giudiziaria in materia penale, debbano essere trattati ‘‘nel rispetto della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali [...]’’ — occorre dare per presupposto che il trasferimento dell’esecuzione penale tra gli Stati membri dell’Unione europea regolato da tale Convenzione possa avere ad oggetto solo sentenze emanate nel rispetto delle regole di protezione dei diritti fondamentali. Una tale considerazione può dare vita ad importanti conseguenze se si considera che, essendo i diritti fondamentali ormai da tempo riconosciuti come ‘‘principi generali del diritto di cui la Corte di Giustizia garantisce l’osservanza’’ (79), una loro eventuale violazione potrà ben determinare l’intervento della Corte pur nell’ambito del terzo pilastro — configurandosi un conflitto con il diritto comunitario stricto sensu inteso — e lasciare un certo spazio all’opera di tale istituzione, che tanta parte ha avuto nel processo di sviluppo e di consolidamento del diritto comunitario. Le disposizioni del titolo Vl potrebbero inoltre presentarsi estremamente utili ai fini del riconoscimento delle sentenze pronunciate all’estero sotto il profilo dell’applicazione di pene accessorie o di altri effetti penali diversi dall’esecuzione della pena principale. In un sistema nel quale si garantisce la libertà di stabilimento su tutto il territorio comunitario, sembrerebbe in effetti logico che anche le sanzioni interdittive conseguenti a talune condanne penali possano essere applicate in tutta la Comunità. Nonostante queste considerazioni appaiano quanto mai ovvie, un tale profilo sembra invece essere stato fino ad oggi del tutto trascurato. Oltre alla constatazione che sul piano comunitario nessuna operatività sia riconosciuta alle pene accessorie inflitte in uno Stato membro, non si può non prendere atto che soltanto alcuni dei sistemi penali nazionali riconoscono il valore della condanna straniera al fine di ricollegarvi taluni effetti — diversi dall’esecuzione della pena principale — che conseguono alle sentenze di condanna pronunciate dalle diverse autorità giudiziarie (80). Un ruolo importante nello sviluppo del terzo pilastro potrebbe poi essere assunto dal concetto di cittadinanza dell’Unione (81). Come già rilevato nella prima parte di questo studio, l’art. K1, primo comma, TUE, pur (79) CGCE 12 novembre 1969, Stauder, causa 29/69, in Raccolta, 1969, p. 425. (80) Cfr. G. GRASSO, ‘‘La cooperazione giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri delle Comunità europee’’, cit., p. 463. (81) In generale, su questo argomento, cfr. nota 24.
— 1335 — mettendo in rilievo il principio della piena realizzazione della libera circolazione come filo conduttore delle attività in seno al terzo pilastro, non esclude certo la presa in considerazione della realizzazione di altri obiettivi come base per un intervento fondato sulle disposizioni del titolo VI. E, tra questi, di indubbio rilievo si presenta appunto il tema della cittadinanza europea, introdotto dall’art. 8 CE. L’interesse delle disposizioni concernenti questa forma di cittadinanza è rappresentato dal fatto che si tratta di un concetto dinamico che può essere rafforzato ma non indebolito (82). La Corte potrebbe dedurne tutta una serie di diritti fondamentali del cittadino che avrebbero sicuramente importanti elementi di collegamento con il terzo pilastro. Da quanto appena riportato, è evidente che un passo estremamente significativo per il futuro del terzo pilastro sarebbe rappresentato dalla estensione alle relative materie e procedure della competenza automatica ed in via ordinaria della Corte di Giustizia, non solo per quanto concerne le controversie tra gli Stati e tra questi e la Commissione ma anche, e soprattutto, per quanto attiene alla sua competenza in via pregiudiziale. Tale modifica è peraltro tra le proposte più importanti presenti nell’agenda della Conferenza intergovernativa attualmente in corso e, la pressoché isolata posizione contraria del Regno Unito in proposito, sembra legittimare, a nostro avviso, l’auspicio che una tale avancée, per quanto limitata, possa essere realizzata. 5. Considerazioni conclusive. — Nonostante le lacune e le ‘occasioni perdute’, il Trattato sull’Unione costituisce certamente il segno concreto della presa di coscienza, da parte degli Stati membri, che l’interdipendenza esistente tra i sistemi nazionali non concerne solo il settore economico-finanziario ma anche altri settori, come quello della giustizia, considerati per lungo tempo responsabilità esclusiva di ciascuno Stato membro chiamato a decidere individualmente, nel rispetto del proprio sistema giuridico e della propria sovranità. Alla luce dei dati storici e politici che hanno portato alla redazione delle disposizioni del titolo VI, l’introduzione della cooperazione internazionale concernente i settori della giustizia e degli affari interni nella struttura dell’Unione potrebbe essere interpretato come l’espressione di una volontà politica di aggiungere tali tematiche, tra le quali anche la giustizia penale, nell’agenda europea. In una tale prospettiva, persino il carattere intergovernativo del titolo VI dell’Unione potrebbe essere inteso come ‘potenzialmente di transizione’, nel senso che queste stesse tematiche potrebbero divenire, nel futuro, parte integrante della Comunità. Questo processo di integrazione graduale potrebbe creare le condizioni sostanziali ed istituzionali necessarie per la delineazione di un modello completamente europeo di cooperazione anche nel settore della giustizia penale. Così, iniziative a carattere intergovernativo come gli Accordi di Schengen potrebbero essere gradualmente sostituite da strumenti comunitari. Anche se manca a tutt’oggi un’indicazione chiara sulla direzione che le politiche nei settori interessati dovrebbero, a tal fine, intraprendere, potrebbe configurarsi un processo evolutivo, sicuramente molto lento, attraverso il quale si realizzerebbe un trasferimento graduale di competenze alle istituzioni comunitarie (83). Il Parlamento europeo, del resto, ha da sempre auspicato il riconoscimento, in capo alla Comunità, di una competenza propriamente penale, perlomeno in determinate aree. In particolare, questa istituzione ha più volte ribadito che una competenza penale comunitaria esiste di già, tra le righe dei trattati, almeno in alcuni settori — primo fra tutti quello concernente la tutela degli interessi finanziari — ma essa non è definita e disciplinata in ma(82) Cfr. D. O’KEEFFE, Union Citizenship, cit., p. 102. (83) Cfr. J.J.E. SCHUTTE, ‘‘The European Market of 1993: Test for a regional Model of Supranational Criminal Justice or of Interegional Co-operation in Criminal Law’’, Criminal Law Foram, 1991, p. 55.
— 1336 — niera sufficientemente chiara e soprattutto non è conferita alla sola istanza che potrebbe esercitare una tale competenza secondo i principi generali del diritto penale, cioè lo stesso Parlamento europeo, in quanto autorità eletta democraticamente. Il Parlamento europeo aveva persino domandato, con una Risoluzione del 24 novembre 1991, che il Trattato sull’Unione disciplinasse, una volta per tutte, l’esercizio di una tale competenza penale da parte della Comunità, disponendo un potere di co-decisione dell’istanza democraticamente eletta (84). Dalla lettura del testo definitivo del Trattato di Maastricht si deduce facilmente che un tale potere normativo diretto in materia penale non è stato riconosciuto alla Comunità. Detta questione è stata ultimamente al centro di accesi dibattiti in seguito alla trasmissione ufficiale del Parlamento europeo, da parte della Direzione Generale del Controllo Finanziario della Commissione europea, del progetto di un nuovo documento — un Corpus Juris contenente disposizioni penali per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea — la cui eventuale adozione getterebbe le basi per la realizzazione di uno spazio giudiziario europeo, circoscritto, almeno per il momento, al campo della tutela penale del bilancio dell’Unione (85). Risultato di uno studio comparato condotto da un gruppo di esperti nazionali rappresentanti le diverse tradizioni giuridiche europee, il Corpus Juris propone un insieme di regole penali comuni, concernenti tanto il diritto penale sostanziale quanto il diritto processuale penale (86). Sebbene il documento in esame non affronti la questione della base giuridica su cui esso deve fondarsi, le considerazioni svolte nel testo riguardo alla motivazione dello studio, indicando chiaramente la necessità dell’adozione a tal fine di uno strumento comunitario, sollevano evidentemente il problema della competenza della Comunità nel settore penale e, di conseguenza, quello di un eventuale rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo nel processo decisionale comunitario. La previsione delle disposizioni del terzo pilastro — e soprattutto le possibili connessioni tra questo ed il pilastro comunitario — devono comunque costituire oggetto di attento studio da parte dei penalisti per gli sviluppi di estremo interesse che da esse possono scaturire ai fini di una ridefinizione dei rapporti tra diritto comunitario e diritto penale. Nell’ambito della cooperazione prevista nel titolo VI, gli Stati dispongono, evidentemente, di una grande autonomia e di un pressoché illimitato margine di manovra politica. Ciò non significa, comunque, una totale assenza di responsabilità e di vincoli anche nei settori della giustizia e degli affari interni. Se si esamina, infatti, la dichiarazione allegata al Trattato sull’Unione e concernente l’applicazione del diritto comunitario, vi si trova l’affer(84) GUCE C305 del 25 novembre 1991. (85) Cfr. Corpus Juris portant dispositions pénales pour la protection des intérêts financiers de l’Union européenne, a cura di M. DELMAS-MARTY, versione bilingue (francese-inglese), Economia, Parigi, 1997. (86) Per quanto attiene al diritto penale sostanziale, il documento in questione definisce otto incriminazioni comuni, concernenti i reati più ricorrenti nel settore degli interessi finanziari e le relative sanzioni, e propone inoltre una serie di norme riguardanti l’elemento soggettivo, l’errore, il concorso, la responsabilità all’interno dell’impresa, la responsabilità penale delle persone giuridiche, che vanno a costituire una sorta di ‘parte generale’ degli stessi reati. Per quanto concerne il diritto processuale, il cosiddetto ‘‘principio di territorialità europea’’ — secondo cui i territori degli Stati membri costituiscono un unico spazio giudiziario — determina l’affermazione di una competenza estesa all’intero territorio comunitario di giudici e pubblici ministeri, i quali risulterebbero competenti a perseguire e giudicare chiunque abbia realizzato, su una qualsiasi parte del territorio comunitario, uno dei reati definiti nel testo. Il documento propone al riguardo la creazione di una Procura europea, costituita da pubblici ministeri nazionali coordinati da un Procuratore Generale europeo, ed un insieme di norme concernenti i mezzi di prova ed alcune regole di procedura.
— 1337 — mazione che gli Stati dovranno mettere in atto tutte le loro forze affinché il diritto comunitario sia applicato e rispettato con lo stesso rigore e la stessa efficacia del diritto nazionale. Da quanto appena detto si deduce che essi sono tenuti non solo a dare un contenuto concreto alla cooperazione regolata nel terzo pilastro, ma anche a garantire l’effettivo rispetto del diritto comunitario nella mise en oeuvre di tale cooperazione. I risultati operativi conseguiti nel quadro della cooperazione giudiziaria in questi tre anni di vita del Trattato di Maastricht rivelano, tuttavia, una limitata efficacia del terzo pilastro, imputabile innanzitutto all’incapacità o forse all’assenza di una seria volontà degli Stati di cooperare nei suddetti settori secondo modalità e schemi nuovi. Ben lungi dal dimostrare una auspicata complementarietà del terzo pilastro rispetto alle competenze propriamente comunitarie, gli sviluppi registratisi in materia di lotta alla frode agli interessi finanziari della Comunità sembrano mostrare, in effetti, che l’intenzione degli Stati di realizzare una sempre maggiore integrazione del diritto penale nella cooperazione europea si accompagna al desiderio, più o meno mascherato, di escludere comunque un intervento incisivo della Comunità in tale ambito (87). La conseguenza paradossale che viene a prodursi è che il controllo sul rispetto del diritto comunitario, in settori anche particolarmente sensibili per questo, viene ad essere disciplinato da norme esterne al diritto comunitario stesso (88). A riprova di quanto detto sta il dato secondo il quale, nel corso dei primi due anni dall’entrata in vigore del Trattato, a fronte dell’estrema esiguità dell’uso dei nuovi strumenti predisposti dal titolo VI, è stata perpetrata una quasi esclusiva utilizzazione di quegli strumenti tipici della cooperazione intergovernativa classica come raccomandazioni e risoluzioni, riguardo ai quali la non menzione all’art. K3 TUE, pur non precludendone l’utilizzo, avrebbe dovuto indicare un loro carattere volutamente secondario rispetto ai nuovi strumenti. In questa prospettiva si comprende, quindi, la situazione per cui gli atti più frequentemente adottati tra quelli elencati all’art. K3 TUE siano state le convenzioni, strumenti lungamente collaudati ma che, per le caratteristiche procedure di negoziazione — che implicano, il più delle volte, il raggiungimento di un compromesso al livello più basso, corrispondente cioè a quel minimo accettabile per tutti gli Stati e per tutti i sistemi giuridici (89) — e soprattutto per le procedure di ratifica ed entrata in vigore, si presentano certamente inadeguati a segnare quella svolta decisiva che, nei settori qui considerati, Maastricht avrebbe dovuto realizzare. Soltanto nell’ultimo anno gli Stati sembrano aver dimostrato una maggiore apertura verso gli strumenti di cooperazione disposti nell’ambito del titolo VI. Numerose infatti sono le azioni comuni adottate nei diversi settori ricompresi nel terzo pilastro e sempre più frequenti sono diventati gli incontri volti alla predisposizione di interventi dell’Unione fondati sugli strumenti di cooperazione previsti nel titolo Vl del Trattato. La ‘pesantezza’ del processo decisionale previsto per l’adozione di tali atti e che, realizzando quasi una ‘‘somma aritmetica delle strutture proprie del vecchio sistema della CPE e di quelle del Trattato CE’’ (90), risulta scandito in ben cinque livelli di negoziazione (91), costituisce, tuttavia, la causa principale dell’inefficacia dell’attività finora svolta in seno al terzo pilastro. (87) Cfr. J.A.E. VERVAELE, ‘‘L’application du droit communautaire: la séparation des biens entre le premier et le troisième pilier?’’, cit, p. 12. (88) Cfr. J.A.E. VERVAELE, op. ult. cit., p. 21. (89) Cfr. L. SALAZAR, ‘‘Gli sviluppi nel campo della cooperazione giudiziaria nel quadro del terzo pilastro del Trattato sull’Unione europea’’, Documenti giustizia, 1995, p. 1519. (90) Cfr. L. SALAZAR, ‘‘Gli sviluppi nel campo della cooperazione giudiziaria nel quadro del terzo pilastro del Trattato sull’Unione europea’’, cit., p. 1521. (91) Gruppi di esperti, ‘‘comitati direttori’’, Comitato di coordinamento (c.d. Comitato K4), Coreper e Consiglio, in luogo dei tre livelli — Gruppi di esperti, Coreper e Consiglio propri delle procedure del primo pilastro.
— 1338 — Alla luce di queste considerazioni, alcune modifiche — quali quelle concernenti l’estensione del diritto di iniziativa della Commissione alle c.d. materie sensibili, o l’analoga estensione dei poteri della Commissione nella c.d. ‘norma-passerella’ di cui all’art. K9 TUE — si presentano come obiettivi minimi e improcrastinabili per la razionalità stessa dell’intero sistema, essendo le disposizioni originarie esclusivamente giustificabili nell’ambito della difficile mediazione che ha caratterizzato la conclusione del Trattato sull’Unione nel 1992. La Conferenza intergovernativa attualmente in corso rappresenta, evidentemente, un’occasione unica per gli Stati per dimostrare la volontà di procedere in modo serio ed efficace — oltre che democratico, con l’estensione del ruolo della Corte di Giustizia e quello del Parlamento europeo — nella nuova forma di cooperazione europea che costituisce il terzo pilastro dell’Unione. Se gli stessi Stati membri utilizzeranno la libertà di manovra, che comunque continuerà a spettare loro in questi settori, secondo il vero spirito del Trattato sull’Unione, sarà forse possibile, in un futuro non troppo lontano, dare vita ad una vera e propria politica europea anche nel settore della giustizia e gettare persino le basi di un sistema penale comunitario. ROSARIA SICURELLA Dottoranda in Diritto penale italiano e comparato presso l’Università di Pavia
RASSEGNE
L’OMESSO IMPEDIMENTO DEL REATO ALTRUI NELLA DOTTRINA E GIURISPRUDENZA ITALIANE
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — 2. I confini della responsabilità per omesso impedimento del reato. — 3. Rassegna di giurisprudenza. - 3.1. Gli obblighi di impedimento dei reati nascenti da rapporti di parentela, convivenza, cura o custodia. 3.2. L’obbligo di impedimento dei reati gravante sui pubblici ufficiali. - 3.3. L’obbligo di impedimento dei reati gravante sugli appartenenti alle forze dell’ordine. 3.4. L’obbligo di impedimento dei reati derivante da rapporti di gerarchia militare. 3.5. L’obbligo di impedimento dei reati in ambito societario. — 4. La posizione di garanzia volta all’impedimento dei reati altrui. - 4.1. Sistematica degli obblighi di garanzia e peculiarità dell’obbligo di impedire l’altrui reato. - 4.2. Poteri di comando, disvalore della condotta altrui e conversione per equivalente. - 4.3. Gli altri requisiti dell’obbligo di garanzia: la specialità del rapporto di protezione. — 5. Omissione, concorso, concorso per omissione. - 5.1. Omesso impedimento dell’evento ed omesso impedimento del reato: i rapporti tra le fattispecie incriminatrici estensive della tipicità. 5.2. Reato omissivo improprio e concorso di persone: cenni per una disciplina generale del concorso per omesso impedimento del reato. - 5.2.1. Disciplina del concorso ed omissione: le norme compatibili. - 5.2.2. Il rapporto di causalità. - 5.2.3. Elemento psicologico. - 5.2.4. Desistenza e recesso. - 5.2.5. Omesso impedimento dell’altrui concorso? - 5.2.6. Mancato impedimento della condotta altrui e tardiva impedibilità dell’evento. - 5.2.7. Concorso materiale o morale? - 5.2.8. Il trattamento sanzionatorio. — 6. Analisi critica degli orientamenti giurisprudenziali sulle posizioni di garanzia volte all’impedimento dei reati altrui. — 7. Sintesi conclusiva.
1. Considerazioni introduttive. — Secondo l’unanime giurisprudenza, e larghissima parte della dottrina, l’inadempimento dell’obbligo giuridico di impedire il reato altrui determina la responsabilità penale per concorso nel reato medesimo, in virtù del disposto dell’art. 40 cpv. c.p. (1). Il concetto di evento ivi richiamato (benché evochi, principalmente, un ‘materiale accadimento naturalistico’) potrebbe difatti estendersi a quello (più lato) di ‘fatto di reato’, comprensivo di tutti i suoi elementi costitutivi oggettivi; di tal che la norma costituirebbe il fondamento non solo del noto meccanismo di ‘conversione-duplicazione’ delle fattispecie commissive monosoggettive di parte speciale, in altrettante ed autonome fattispecie omissive improprie — esse pure monosoggettive — alle prime ‘equivalenti’, ma anche di un particolare (1) ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, vol. II2, 1996, 165 ss.; ROMANO, Commentario sistematico, cit., vol. I2, 1995, 353 e 360 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale3, 1995, 538 ss. e 567 ss.; MANTOVANI F., Diritto penale3, 1992, 199, e soprattutto 528 ss.; PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale5, 1996, 563; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale4, 1994, 516 s.; FIANDACA G., Il reato commissivo mediante omissione, 1979, 181 ss.; SGUBBI F., Responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, 1975, 112 s.; INSOLERA, Concorso di persone nel reato, in Dig. discip. pen., II, 1988, 469 ss. Per i rapporti tra l’art. 40 cpv. c.p. e la disciplina del concorso ex art. 110 c.p., vd., infra al par. 5.1.
— 1340 — profilo di responsabilità a titolo di concorso, in virtù di un principio o meccanismo di ‘duplicazione per equivalente’ del tutto omologo. L’art. 40 cpv. c.p. rappresenterebbe, pertanto, il criterio di determinazione della rilevanza concorsuale della condotta (meramente) omissiva, ed integrerebbe il disposto dell’art. 110 c.p. ai fini della tipizzazione delle condotte (altrimenti atipiche) dei concorrenti, alla stregua del medesimo criterio della loro efficienza causale, ma dettando, altresì, i requisiti peculiari per la sostituzione del contributo concorsuale effettivo-attivo con un contributo meramente omissivo (2). In tal modo, peraltro, il presidio di garanzia approntato da tali ulteriori requisiti consentirebbe anche il superamento dell’incertezza che da sempre caratterizza il problema della distinzione tra l’omissione punibile a titolo di concorso (perché contraria ad un obbligo giuridico di attivarsi) e la mera connivenza, moralmente riprovevole ma giuridicamente irrilevante (3). Secondo recente dottrina (4), detta soluzione troverebbe una precisa conferma, testuale e sistematica, nel disposto dell’art. 138 c.p.m.p., il quale, nel configurare una autonoma fattispecie di reato per ‘il militare, che, per timore di un pericolo o altro inescusabile motivo, non usa ogni mezzo possibile per impedire l’esecuzione di alcuno dei reati contro la fedeltà o la difesa militare, o di rivolta o di ammutinamento, che si commette in sua presenza’, fa però espressamente salva ‘in ogni altro caso la disposizione del 2o comma dell’art. 40 c.p.’. Ora — si osserva — a tale inciso può conferirsi un significato positivo solo accedendo alla tesi per cui, quegli ‘altri casi’ di mera inerzia, pur sussumibili nel disposto dell’art. 138 c.p.m.p., siano però evidentemente connotati da un quid pluris che — giustificando la clausola di riserva — consenta anche il richiamo all’art. 40 cpv. c.p.; di tal che, quando l’inerzia inescusabile del militare integri altresì l’inadempimento di un obbligo di impedimento, questi debba rispondere non già del reato omissivo di cui all’art. 138 c.p.m.p., ma proprio di concorso nel reato altrui non impedito. 2. I confini della responsabilità per omesso impedimento del reato. — In ordine al concreto regime applicativo, tra la forma plurisoggettiva-concorsuale, e la responsabilità per omissione in forma tradizionalmente monosoggettiva, fondata sul mancato impedimento (2) Così GRASSO G., Il reato omissivo improprio, 1983, 140 ss.: ‘‘se nell’ambito del concorso punibile sono da ricondurre tutte le condotte che abbiano avuto un’efficacia causale rispetto all’evento (rectius al reato) e il non impedimento di un evento — in presenza di un obbligo giuridico di attivarsi volto in tale direzione — è equiparato alla sua attiva causazione, ne segue che il non impedimento di un reato da parte del titolare di un obbligo di garanzia di tale contenuto deve essere considerato come una condotta di partecipazione punibile’’. (3) Così la giurisprudenza costante, fin dalla Cass. 3 maggio 1948, Bonaccini, in Giust. pen., 1948, II, 681: ‘‘con la sola presenza inattiva non si assumono responsabilità; la semplice connivenza passiva non dà luogo a partecipazione delittuosa, fuori dell’ipotesi d’un obbligo giuridico fatto al soggetto di impedire l’evento’’ (corsivi nostri). Vd. poi: Trib. Sup. Militare 26 giugno 1958, Privitera, in Giust. pen., 1958, II, 587; Cass. 20 giugno 1973, Volpe, in Giust. pen., 1974, II, 352; Cass. 20 novembre 1973, Giammarco, in Mass. Cass. pen., 1974, 439; Cass. 16 ottobre 1978, Bertoli, in Giust. pen., 1979, II, 351; Cass., sez. I, 9 febbraio 1979, Fracchetti; Cass. 29 maggio 1981, Stimolo, in Riv. pen., 1982, 525; Cass. 22 marzo 1983, Presti, in Riv. pen., 1983, 909; Cass. 13 febbraio 1985, Cariccia, in Riv. pen., 1985, 1119; Cass. 10 ottobre 1985, Albanese, in Riv. pen., 1986, 827; Cass. 17 ottobre 1985, Onorato, in Riv. pen., 1986, 991. Per un panorama della casistica giurisprudenziale al riguardo, si veda infra il par. 3. Espressamente, nel senso che la sussistenza di un inadempiuto obbligo (di garanzia) di impedire il reato consente di ‘‘distingue(re) il concorso mediante omissione dalla semplice connivenza... (che)... di per sé sola non è punibile’’, vd. ANTOLISEI, op. loc. ult. cit. (4) GRASSO, Il reato omissivo cit., 140 ss.
— 1341 — dell’‘evento’ inteso in senso strettamente naturalistico, sussiste — però — una rilevante differenza. È noto, difatti, che la ‘clausola di equivalenza’ di cui all’art. 40 cpv. c.p. soffre di una limitazione — per così dire — ‘logico-genetica’ quanto alla propria sfera di operatività, che non solo ne limita l’applicazione ai soli reati di evento, ma ne impedisce altresì l’estensione fuori del campo delle fattispecie c.d. ‘causali pure’ o ‘causalmente orientate’, nelle quali — si suol dire — il disvalore penale è tutto assorbito proprio dal verificarsi dell’evento naturalistico, e quanto alla condotta, dalla sua mera efficienza causale rispetto alla produzione di quello. Ne rimangono perciò escluse tutte le ipotesi in cui il globale disvalore del fatto non sia pienamente intellegibile se non valutando anche (e, a fortiori, quando lo sia valutando soltanto) le caratteristiche della condotta stessa, come espressamente tipizzate dalla norma incriminatrice. Solo nella prima categoria di fattispecie è possibile, difatti, imputare ad una condotta omissiva il medesimo giudizio di disvalore originariamente riferito ad una condotta del tutto eterogenea, perché attiva-commissiva: solo nella misura in cui, cioè, operata la ‘conversione per equivalente’ tra il ‘cagionare’ ed il ‘non impedire’, identica permanga la valutazione politico-criminale che sottende al reato, siccome espressa dalle scelte tecnico-giuridiche di tipizzazione; il che accade quando quella valutazione si esaurisce, si ‘consuma’ nella riprovazione dell’evento lesivo verificatosi a carico del bene tutelato, quali che ne siano stati i ‘percorsi causali’ responsabili (5). Detto limite ‘salterebbe’ del tutto, però, quando quell’equivalenza — tipica e causale — fosse riferita non già ad un evento naturalistico, bensì ad un più complessivo fatto oggettivo di reato: in una parola, mediante l’omissione del dovuto intervento impeditivo, sarebbe possibile concorrere in qualunque reato (6), finanche di mera condotta. Simile soluzione, che è senza dubbio portatrice di notevolissimi effetti di allargamento della ‘base imponibile’ della responsabilità omissiva, è però radicalmente avversata da autorevole (benché minoritaria) dottrina (7). Il confine dell’ ‘orientamento causale’, si osserva, discende anzitutto dall’analisi strutturale del reato omissivo improprio, attiene — cioè — alla stessa ‘compatibilità strutturale’ delle fattispecie di parte speciale con la ‘forma omissiva’ della responsabilità penale, e pertanto non v’è, già su questo piano, alcuna plausibile ragione per sconfessarne la generale validità, pur se riferita alla responsabilità in forma concorsuale anziché monosoggettiva. Peraltro, la generale operatività di tale limite è altresì confermata — prosegue questo Autore — anche da considerazioni di politica criminale, secondo le quali vi è una urgente esigenza di non acconsentire ad ulteriori ed irragionevoli dilatazioni della responsabilità omissiva impropria, al di là di un ristretto, tradizionale novero di beni giuridici di particolare rilievo, da intendersi sostanzialmente circoscritto alla vita ed alla incolumità, individuale e collettiva. (5) Vd. per tutti: SGUBBI, op. cit., 99 ss.; ROMANO, Commentario cit., I, 352 ss. (6) In tal senso la dottrina quasi unanime: vd. per tutti SGUBBI, op. cit., 112 s.; GRASSO, op. cit., 141 s.; in giurisprudenza si vd. per tutte la recente Cass., sez. I, 5 febbraio 1991, Aceto, in Mass. Cass. pen., 1991, 5, 55: ‘‘Il principio posto dal 2o comma dell’art. 40 c.p. inerisce al generale rapporto di causalità ed è applicabile anche ai reati con solo evento giuridico; ai fini della regola de qua l’evento deve intendersi coincidente con quello consumativo del reato, questo rappresentando il vietato risultato giuridico della condotta, alla cui verificazione l’omittente ha volontariamente concorso (nella specie, in cui si imputava a taluni appartenenti alla Guardia di Finanza il reato di contrabbando militare per non aver impedito fatti di contrabbando interno, la Cassazione... ha respinto l’assunto di un ricorrente secondo cui il principio di cui al 2o comma dell’art. 40 c.p. atterrebbe solo ai reati con evento naturalistico e non anche a quelli di pura condotta)’’. (7) FIANDACA, op. cit; FIANDACA-MUSCO, op. cit.
— 1342 — E ciò non solo per ossequio alla tradizione ed alla storia della responsabilità per omissione, affermatasi e sviluppatasi proprio a protezione di detti beni; e neppure tanto perché l’applicazione sistematica del ricordato limite strutturale alle fattispecie di parte speciale riduce quasi esclusivamente ad essi la ‘concreta sfera d’azione’ dell’art. 40 cpv. c.p. (8): ma anche, e soprattutto, a motivo di un più sostanziale giudizio di ‘meritevolezza’ della particolare e rafforzata tutela che la responsabilità per omissione offre. Tutela che, passando costitutivamente per la creazione di ‘garanti’ dei beni tutelandi, ha un senso — così la citata dottrina — solo ove riferita a beni di particolare rilevanza politicocriminale, individuabili proprio in virtù della tecnica di tipizzazione adoperata dal legislatore. Da una parte, dunque, quanto più scarna e circoscritta alla mera efficienza causale della condotta del reo è la descrizione legale del tipo, tanto più ampia possibile è la tutela che l’ordinamento vuole apprestare al bene, e quindi tanto più alto deve intendersi il rango di quest’ultimo; dall’altra parte, poi, solo l’alto rango del bene tutelando consentirebbe, di porre ragionevolmente in conflitto il bene tutelando con quello della libertà personale del garante — la cui compressione è conseguenza inevitabile della previsione di una simile responsabilità — con prevalenza del primo (9). La pericolosa debolezza originaria di cui soffre — sotto questo profilo — la responsabilità per omissione, determinata dalla assoluta ‘latitanza’ del legislatore nell’indicazione dei beni meritevoli di tutela, espone l’intera materia all’intollerabile rischio di ‘vivere di vita propria’, e di finire ‘preda’ delle esigenze ideologico-politiche di tutela avvertite, di volta in volta e nel singolo caso concreto, dal singolo interprete (10). Anzi, proprio la responsabilità concorsuale per omissione si presta a divenire lo ‘strumento elettivo’ di tale strumentalizzazione, come comprovato dal modo del tutto acritico ed irriflesso con il quale si sono progressivamente affermati gli ‘automatismi’ tecnico-dogmatici posti a suo fondamento. In definitiva, ad arginare un simile fenomeno di strumentalizzazione — conclude questa dottrina — rimane solo il mantenimento dei ricordati limiti strutturali dell’ambito di operatività dell’art. 40 cpv. c.p., quali criteri generali, validi per ogni forma omissiva di responsabilità fondata sulla predetta norma (11). Recentissima dottrina (12), allineandosi sulle medesime posizioni di principio di quella ora riassunta, ritiene di confermarne la validità superando, in particolare, quel dato testuale (l’art. 138 c.p.m.p.) che in apparenza osterebbe decisivamente agli intenti di riduzione dell’area di rilevanza dell’omissione impropria. La norma in esame, infatti, lungi dal legittimare simile interpretazione, ad una più attenta lettura condurrebbe anzi ad esiti opposti, in linea con la soluzione che nega l’equiparabilità, ai fini dell’art. 40 cpv. c.p., delle nozioni di evento e di fatto di reato altrui. In ogni caso, si aggiunge, dovrebbe senz’altro negarsi la possibilità di una qualche interferenza dell’art. 138 c.p.m.p. nelle esigenze interpretative affatto peculiari dell’art. 40 cpv. c.p., e nella applicazione di questa norma ad ipotesi del tutto estranee a quella (13). (8) Ad eccezione di qualche reato contro il patrimonio, quale il danneggiamento (art. 635), sulla cui realizzabilità per omissione (da un punto di vista solo ‘strutturale’) vd. GRASSO, op. cit., 157 ss.; vd. anche PAGLIARO, op. cit., 362. (9) FIANDACA-MUSCO, op. cit., 534 ss.; FIANDACA, Reati omissivi e responsabilità penale per omissione, in Foro it., 1983, V, 29 ss.; Il reato cit., 40 ss. (10) FIANDACA, Reati omissivi cit., 33 ss.; FIANDACA-MUSCO, op. loc. ult. cit. (11) FIANDACA, Il reato cit., 181. (12) L. RISICATO, La partecipazione mediante omissione a reato commissivo. Genesi e soluzione di un equivoco, in questa Rivista, 1996, 1267 ss., in particolare 1275 ss. (13) E difatti, si sottolinea, innanzitutto, la radicale diversità dei piani sui quali le due norme operano (l’una configurando un reato omissivo proprio, l’altra dettando una clausola di parte generale, peraltro con distinti esiti di pena), il che impedirebbe per ciò stesso di fondare reciproci rapporti di interpretazione sistematica. In secondo luogo, quanto al significato della clausola di riserva contenuta nell’art. 138 c.p.m.p., per gradi successivi si sottolinea che: a) l’art. 138 c.p.m.p. fa salva l’operatività del disposto dell’art. 40 cpv. c.p. in ogni
— 1343 — L’obiezione alla generale configurabilità di una responsabilità concorsuale ex art. 40 cpv. c.p., per quanto articolata, suggestiva e così recentemente arricchita di argomenti ermeneutico-testuali accattivanti, non può tuttavia essere accolta. È certamente vero, da una parte, che non pare corretto sopravvalutare l’argomento testuale ricavabile dall’inciso dell’art. 138 c.p.m.p. (14), cioè attinto da un sistema di norme (15) sì coordinato con le norme penali ordinarie (16), ma pur sempre dotato di una propria spiccata autonomia; è però altrettanto evidente, d’altra parte, che l’opposto argomento, che nega qualsiasi, anche minima rilevanza argomentativa a quel dato testuale sol perché contenuto in una fattispecie di parte speciale, come tale inidonea ad influenzare l’interpretazione di norme di parte generale, prova palesemente troppo. Né vale richiamare, nel medesimo senso, la problematica parallela del concorso colposo nel fatto doloso altrui, poiché non si pretende di desumere — in questa ipotesi — l’operatività di una generale forma di responsabilità (concorso per omissione) dalla sussistenza di fattispecie di parte speciale del medesimo genere (l’art. 138 c.p.m.p.) (17); bensì di conferire significato sistematico ad un inciso testuale di una tra queste fattispecie, che appare richiamare e presupporre quella generale forma di responsabilità, al punto da preoccuparsi di disegnare i reciproci confini. caso diverso da quello contemplato dal medesimo art. 138 c.p.m.p.; b) in tal modo esso delimita la propria sfera di applicazione ai casi in cui non ricorrano gli estremi della clausola generale dell’art. 40 cpv. c.p.; c) l’art. 138 c.p.m.p. è dunque norma speciale, di modo che il disposto dell’art. 40 cpv. c.p. soccombe qualora converga con le ipotesi da esso previste; d) tuttavia, lo stesso art. 138 c.p.m.p. non può interferire con l’applicazione dell’altra norma ad ipotesi estranee alla propria portata. Perciò, in definitiva, le esigenze interpretative proprie dell’art. 40 cpv. c.p. non possono essere pregiudicate dall’art. 138 c.p.m.p., che non può determinarne una diversa interpretazione ed un allargamento di applicazione a fattispecie che non soddisfano i requisiti di applicabilità previsti dallo stesso art. 40 cpv. c.p. (RISICATO, op. loc. ult. cit.). (14) Art. 138 c.p.m.p.: ‘‘Ferma in ogni altro caso la disposizione del 2o comma dell’art. 40 c.p. il militare, che, per timore di un pericolo o altro inescusabile motivo, non usa ogni mezzo possibile per impedire la esecuzione di alcuno dei reati contro la fedeltà o la difesa militare, o di rivolta o di ammutinamento, che si commette in sua presenza, è punito: 1o con la reclusione non inferiore a dieci anni, se per il reato è stabilita la pena [di morte con degradazione o quella] dell’ergastolo; 2o negli altri casi, con la pena stabilita per il reato, diminuita dalla metà a due terzi. Se il colpevole è il più elevato in grado, o, a parità di grado, superiore in comando o più anziano, si applica la pena stabilita per il reato. Nondimeno, il giudice può diminuire la pena. Agli effetti delle disposizioni dei precedenti commi, per la determinazione della pena stabilita per i reati in essi indicati, non si ha riguardo a quella che la legge stabilisce per i capi, promotori o organizzatori del reato o per coloro che ne hanno diretto l’esecuzione’’. Di simile tenore anche l’art. 230 c.p.m.g.: ‘‘Ferme in ogni altro caso le disposizioni del 2o comma dell’art. 40 c.p. e quelle dell’art. 138 c.p.m.p., il militare, che, per timore di un pericolo o per altro inescusabile motivo, non usa ogni mezzo possibile per impedire la esecuzione di alcuno dei reati preveduti dagli artt. 186, 187, 192, 193, 202 e 203, è punito...’’ etc. (15) Per la considerazione del diritto penale militare come sistema di norme organicamente unitario, e dotato di una propria spiccata fisionomia, sebbene strumentale rispetto alle più elementari esigenze di conservazione dell’intera comunità statuale, vd. VENDITTI, Il diritto penale militare nel sistema penale italiano, Milano, 1992, 1 ss. (16) Nel senso che la specialità della legge penale militare non produce una sua separatezza rispetto alla legge penale comune, vd. VENDITTI, op. ult. cit., 29 s. (17) Se così fosse, peraltro, potrebbero invocarsi anche molte altre tra le numerose previsioni dei codici penali militari, che puniscono (secondo le varie locuzioni) il militare (o l’ufficiale) che ometta di usare (o adoperare) ogni mezzo possibile (o di cui può disporre) per impedire la commissione di determinati reati militari (vd. art. 138 c.p.m.p. e artt. 105, 114, 189 e 230 c.p.m.g.).
— 1344 — Si deve convenire, infatti, che detto inciso non può non aver altro scopo che quello di risolvere un potenziale concorso di norme (18). Se così è, l’unica via per negare rilievo al presente argomento testuale-sistematico sembra quella di dimostrare che il richiamo all’art. 40 cpv. c.p. di cui all’art. 138 c.p.m.p. ha comunque un significato positivo anche mantenendo fermi i limiti strutturali che si assegnano all’art. 40 cpv. c.p. in chiave monosoggettiva. Il che può ammettersi alla sola condizione che tra le fattispecie del cui mancato impedimento si occupa l’art. 138 c.p.m.p. ve ne siano talune suscettibili di ‘conversione’ ex art. 40 cpv. c.p. indipendentemente dal ricorso ad ipotesi concorsuali (e dunque nel pieno rispetto dei suddetti limiti strutturali della responsabilità per omissione in chiave monosoggettiva): di tal che in talune ipotesi il dilemma circa l’applicabilità della fattispecie omissiva propria (art. 138 c.p.m.p.) o di quella impropria (combinato disposto dei reati ivi indicati con l’art. 40 cpv. c.p.) non possa sciogliersi se non in virtù proprio della clausola di riserva di cui alla norma del c.p.m.p. In una parola, qualora tra i reati richiamati dall’art. 138 c.p.m.p. vi fossero fattispecie di evento a condotta libera, lo scopo della clausola di riserva ivi prevista potrebbe agevolmente spiegarsi con la finalità di impedire che il militare inerte per inescusabile motivo dinanzi alla commissione di uno dei predetti reati, e che sia altresì garante ex art. 40 cpv. c.p. dell’integrità del bene tutelato da quella norma incriminatrice, venga incriminato del reato omissivo proprio di cui all’art. 138 c.p.m.p. anziché del reato causale puro, commesso per omissione ex art. 40 cpv. c.p.; senza alcun bisogno — come si vede — di ricorrere a forme concorsuali di responsabilità omissiva. Ma guardando analiticamente alle fattispecie chiamate in causa dall’art. 138 c.p.m.p., deve prendersi atto che molte di esse sono del tutto prive di un evento naturalistico in senso stretto (19), e che molte altre sono a condotta vincolata (20). A conferire significato alla norma, nella linea interpretativa ricordata, residuerebbero perciò le sole ipotesi di commissione mediante omissione dei fatti previsti: — dall’art. 85 c.p.m.p. (soppressione, distruzione, falsificazione o sottrazione di atti, documenti o cose concernenti la forza, la preparazione o la difesa militare dello Stato), ma solo limitatamente alle condotte che possono (probabilmente) tradursi nella causazione di un evento (la distruzione e la soppressione); — nonché dall’art. 77 c.p.m.p., limitatamente alle fattispecie del c.p. (da questa norma ulteriormente richiamate) suscettibili di conversione per equivalente (vale a dire i delitti di (18) Che le due norme debbano in tal senso coordinarsi, è opinione pressoché unanime in dottrina: cfr. VENDITTI, I reati contro il servizio militare e contro la disciplina militare, Milano, 1995, 92; vd. anche ROSIN, Obblighi di impedire reati, obblighi di impedire l’evento, obbligo di impedire fatti rivolti contro l’ordine pubblico militare, in Rass. Giust. mil., 1983, 49 s. Sebbene non si possa non convenire con chi rileva la ambiguità della formula ‘ferma in ogni altro caso la disposizione del 2o comma dell’art. 40 c.p.’ (NICOLOSI, voce Omesso impedimento di reati militari, in Dig. disc. pen., VIII, 1994, 488), leggere l’inciso — come pure taluno paventa — nel senso che ‘nei casi diversi da quello qui contemplato, nei quali ricorrano però i requisiti per l’applicazione dell’art. 40 cpv. c.p., la presente norma non si applica, e si applica l’art. 40 cpv. c.p.’ significherebbe mancar di riguardo all’intelligenza del legislatore. La clausola non può che servire, perciò, ad escludere la contemporanea applicazione di entrambe le forme di responsabilità, con prevalenza di una delle due: quale, è problema di cui si dirà infra, in nota. (19) Inteso come accadimento esterno conseguente alla condotta di reato: artt. 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 86, 87, 88, 89, 90, 91, 94, 98, 99, 100, 174, 175 c.p.m.p., nonché, con riferimento al richiamo dell’art. 77 c.p.m.p. a norme del c.p., l’art. 288 c.p. (20) Si vedano, quanto all’art. 138 c.p.m.p., e con riferimento al richiamo di cui all’art. 77 c.p.m.p., gli artt. 241, 283, 285, 289 c.p., tutti necessariamente commissivi per l’insuperabile dato testuale della descrizione della condotta come commissione di un fatto diretto a.
— 1345 — attentato alla vita, alla incolumità ed alla libertà del Presidente della Repubblica: artt. 276 e 277 c.p.). D’altro canto, si è anche detto che la tesi restrittiva tende a negare legittimità a forme di responsabilità per omissione che non siano dirette alla tutela di beni di particolare rango (21): l’estraneità del bene giuridico ‘documenti e cose concernenti la forza, preparazione e difesa militare dello Stato’ (22) rispetto al ristretto novero tradizionale dei beni effettivamente meritevoli di tutela ex art. 40 cpv. c.p. (23), restringerebbe ulteriormente il significato pratico della clausola di riserva. Per relegarlo, in definitiva, alla soluzione del concorso di norme tra l’ art. 138 c.p.m.p. ed il combinato disposto degli artt. (40 cpv. c.p. e) 77 c.p.m.p. e 276 c.p.; cioè della sola (marginalissima) ipotesi in cui l’omissione del militare possa altresì apprezzarsi come equivalente (ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p.) all’attentato alla vita, alla incolumità o alla libertà personale del Presidente della Repubblica. Non vi è allora chi non veda come simili esiti interpretativi siano del tutto ‘improbabili’, comprimendo il significato positivo della clausola in oggetto — quale che sia il suo concreto significato di disciplina (24) — ad ipotesi così irragionevolmente marginali da renderla sostanzialmente inutile (25). (21) Vedi poco supra nel testo di questo stesso par. (22) Nonché, probabilmente, anche del bene giuridico delle libertà (diverse da quella personale) del Presidente della Repubblica di cui all’art. 277 c.p. (23) Per i motivi di politica criminale già illustrati supra. (24) Vale a dire sia che essa disponga la prevalenza dell’art. 138 c.p.m.p. (così sembrano ritenere RISICATO, op. loc. ult. cit., e SUCATO, Istituzioni di diritto penale militare, Roma, 1941, II, 139), sia che — al contrario — faccia espressamente salva l’applicazione dell’art. 40 cpv. c.p. a scapito del disposto dell’art. 138 c.p.m.p. (come ritiene la dottrina dominante: cfr. GRASSO, op. ult. cit., 141; NICOLOSI, op. loc. ult. cit.; VENDITTI, I reati cit., 93; vd. anche DE ANGELIS, Omesso impedimento di reati da parte di militari, in Temi rom., 1960, 470 ss.). Interpretazione, quest’ultima, da preferirsi, e già accennata nel testo: non solo perché dogmaticamente più corretta (è la norma di cui all’art. 138 c.p.m.p. ad atteggiarsi come generale rispetto al combinato disposto delle fattispecie criminose ivi contemplate e dell’art. 40 cpv. c.p., poiché in queste ultime, oltre alla commissione in propria presenza del reato, ceteris paribus, si richiede altresì la ricorrenza di un obbligo giuridico inadempiuto, che integra un quid pluris rispetto alla disposizione del codice militare); ma anche perché, a voler opinare per la prevalenza del disposto dell’art. 138 c.p.m.p., si giungerebbe a due inaccettabili risultati, e cioè da una parte a punire più blandamente rispetto alle ipotesi di concorso per omesso impedimento — attesa la possibilità comunque di irrogare edittalmente una pena inferiore — proprio l’omesso impedimento di reati di particolare gravità (NICOLOSI, op. cit., 488); e, dall’altra, a punire più gravemente, cioè mediante l’imputazione del fatto a titolo di concorso ex art. 40 cpv. c.p., colui che, pur non presente alla commissione dei reati di cui all’art. 138 c.p.m.p., ometta comunque di impedirli, avendone obbligo giuridico e possibilità materiale (ad esempio, omesso impedimento del reato di ammutinamento da parte di chi, non presente al fatto materiale, abbia comunque avuto notizia certa della sua imminente commissione), rispetto a chi — ceteris paribus — sia altresì presente alla stessa commissione materiale dei fatti, che potrebbe invece invocare il più benevolo disposto dell’art. 138 c.p.m.p. (cfr. VENDITTI, op. ult. cit., 93 s.). Distinguono alla stregua del solo elemento soggettivo, invece, ROSIN (op. loc. ult. cit.) e NICOLOSI (op. cit., 488 s.), per i quali, comunque ricorrendo, in entrambe le ipotesi, un medesimo obbligo giuridico di impedimento, dovrebbe applicarsi la norma di cui all’art. 138 c.p.m.p. solo qualora non ricorra, altresì, la ‘specifica psicologica’ della compartecipazione criminosa, data dalla volontà di agevolare, con la propria inerzia, l’altrui esecuzione del delitto; la ricorrenza di una simile volontà determinerebbe, invece, la responsabilità a titolo di concorso. (25) E neppure convince l’opinione di chi, pur ammettendo la funzione di clausola di riserva dell’inciso dell’art. 138 c.p.m.p. riferito all’art. 40 cpv. c.p., ritiene però che esso, proprio per quanto finora detto, altro non sia che un generico ‘richiamo di principio’ alla astratta possibilità che la violazione di un obbligo giuridico di impedimento possa determi-
— 1346 — In conclusione, l’argomento testuale e sistematico ricavabile dal disposto dell’art. 138 c.p.m.p. appare perciò idoneo a rafforzare (26) la correttezza della tesi tradizionale in ordine alla configurabilità di una generale forma di concorso nel reato altrui per suo omesso impedimento, anche relativamente alla più lata sfera di applicabilità di cui godrebbe questa forma di responsabilità omissiva rispetto a quella (omissiva ma) monosoggettiva: poiché solo l’inapplicabilità dei più volte ricordati ‘limiti strutturali’ della responsabilità per omissione ex art. 40 cpv. c.p. consente di assegnare alla clausola di riserva in oggetto un (sostanzioso) significato precettivo. Ma al di là della reale portata persuasiva degli argomenti letterali o sistematici desumibili dall’art. 138 c.p.m.p., sembra — a chi scrive — che possano rinvenirsi almeno due altri dati testuali — più interni al sistema penale ordinario, dunque più cogenti — idonei a confermare, e più agevolmente, la medesima conclusione interpretativa. Si guardi, anzitutto, al disposto dell’art. 57 c.p., il quale, nel delineare una ipotesi di (anomala) responsabilità colposa a carico del Direttore Responsabile di pubblicazioni a stampa proprio per ipotesi di omesso impedimento di un fatto di reato, individua l’area applicativa della fattispecie espressamente escludendone le ipotesi concorsuali (‘fuori dei casi di concorso’). L’argomento testuale che se ne ricava è dunque il seguente: a pena di una grave ed irragionevole disparità di trattamento, tale locuzione non può non ‘coprire’, fra le altre, anche le ipotesi di omesso impedimento doloso del fatto di reato giornalistico, in tutto eguali — cioè — a quelle ivi propriamente disciplinate, eccetto che in ordine all’elemento psicologico (27). Ed infatti, poiché la norma, nel fondare una responsabilità tipicamente ‘colposa’ (28), comunque non consente l’estensione della sua portata incriminatrice ad ipotesi dolose (29), delle due l’una: o l’omissione dolosa è punita in virtù della clausola di equivalenza di cui alnare — ma solo se riferita ad un reato di evento — anche la responsabilità per concorso nello stesso (così ROSIN, op. loc. ult. cit.). (26) Anche se con l’avvertimento di non sopravvalutarlo come detto supra. (27) Ci sia consentita una pur ovvia precisazione: il presente lavoro riguarda la disciplina concorsuale delle sole omissioni ‘pure’, con esclusione, cioè, di tutte quelle fattispecie in cui alla mera inerzia si accompagnino altre condotte di compartecipazione ‘positiva-commissiva’, suscettibili anch’esse di autonoma rilevanza (quali l’istigazione, l’agevolazione, la co-autoria, etc.). Ogni considerazione qui di seguito svolta assume perciò a paradigma la condotta di chi, inesistente ogni altro legame con il reo (finanche la consapevolezza di quest’ultimo della mera presenza fisica del primo), semplicemente rimane inerte dinanzi al reato commesso dal terzo, così venendo meno ad un obbligo giuridico di attivarsi rilevante ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p. (ma della sussistenza e rilevanza di detto obbligo si dirà ampiamente infra). Pertanto, anche con riferimento alla condotta del Direttore Responsabile, l’esemplificazione del testo è sempre riferita esclusivamente alla sua ‘pura inerzia’, diversamente qualificata sotto il solo profilo soggettivo, e fuori di ogni altra ipotesi di diversa ed ulteriore condotta concorsuale, quale l’accordo (anche tacito) con l’autore dell’articolo, l’istigazione, etc. (28) Appaiono in tal senso superate, per dottrina e giurisprudenza sostanzialmente unanimi, le incertezze sulla natura della responsabilità ivi prevista, già numerose nella vigenza del previgente testo normativo, novellato dalla l. 4 marzo 1958, n. 127: per un’ampia disamina dell’argomento, vd. per tutti: MUSCO, Stampa (dir. pen.), in Enc. dir., XLIII, 1990, 639; POLVANI, La diffamazione a mezzo stampa, Padova, 1995, 219 ss., in particolare 250 ss.; nello stesso senso vd. anche FIANDACA-MUSCO, op. cit., 477; MANTOVANI, op. cit., 394; in giurisprudenza, vd. per tutte Cass., sez. un., 18 novembre 1958, Clementi, in Giust. pen., 1959, II, 321. Per la (minoritaria) contraria opinione, secondo cui, anche successivamente alla riforma del ’58, la fattispecie continuerebbe a configurare una ipotesi di responsabilità oggettiva, indifferente all’elemento soggettivo sotteso all’omissione (che dunque ben potrebbe essere anche doloso), vd. PISAPIA, La nuova disciplina della responsabilità per i reati commessi a mezzo stampa, in questa Rivista, 1958, 319. Per le prospettive di riforma della responsabilità penale per i reati di stampa, vd. PAGLIARO, Diversi titoli di responsabilità per uno stesso fatto concorsuale, in questa Rivista, 1994, 3 (in part. 16 ss.). (29) Così MANTOVANI, op. cit., 395. Per l’isolata opinione contraria, secondo cui la
— 1347 — l’art. 40 cpv. c.p., ma allora costituisce precisamente uno di quei possibili ‘casi di concorso’ che, insieme alla fattispecie colposa in esame, esauriscono l’area delle omissioni punibili in materia (30); o, al contrario, proprio la forma dolosa della omissione, non essendo tipica alla stregua di nessun’ altra disposizione incriminatrice, e tanto meno della fattispecie colposa di cui all’art. 57 c.p., deve andare impunita (31). Il che — per evidenti motivi di ragionevolezza — non può essere. Per riparare lo strappo di tutela altrimenti provocato dalla tesi ‘restrittiva’, neppure potrebbe invocarsi l’applicazione autonoma (in forma monosoggettiva) dell’art. 40 cpv. c.p., dal momento che il campo applicativo ‘d’elezione’ della responsabilità in esame attiene a fattispecie certamente non ‘convertibili’ ai sensi della predetta norma (32). Anche a tacer d’altro, inoltre, una simile soluzione comunque determinerebbe una sicura disparità di trattamento, difficilmente comprensibile. È noto, difatti, che nel ‘diritto penale della stampa’, il Direttore Responsabile è oggetto di un preciso rigore sanzionatorio (33), e di una altrettanto rigorosa, tendenziale perequazione quoad poenam, perseguita proprio dal disposto dell’art. 57 c.p., che fissa la pena per l’omissione colposa per relationem rispetto a quella prevista per i reati non impediti. In tal modo diviene applicabile, tra l’altro, la generale disciplina di aggravanti stabilita dall’art. 595 c.p. per i fatti di diffamazione: l’aggravante di cui al 3o comma di detta norma (per le ipotesi in cui il fatto diffamatorio sia ‘commesso col mezzo della stampa’) è così applicabile anche al Direttore che abbia colposamente omesso il doveroso controllo sul pezzo diffamatorio, pur trattandosi di fatto non concorsuale (nel qual caso l’applicazione dell’aggravante discenderebbe dal disposto dell’art. 118 c.p.) (34), ma autonomo (35). Laddove, al contrario, la responsabilità del Direttore — se dolosa — potesse ricostruirsi solo in forma monosoggettiva, non vi sarebbe alcuna possibilità di applicare la medesima aggravante: non in chiave di qualificazione circostanziale della fattispecie di reato commissiva, seppure convertita per equivalente, poiché trattasi pur sempre di circostanza che attiene ad una modalità della condotta (con il mezzo della stampa), sicuramente insuscettibile di concondotta di reato ex art. 57 c.p. andrebbe invece riguardata come dolosa, disciplinata ‘come se fosse colposa’ solamente quoad poenam, e ciò perché l’inciso a titolo di colpa sarebbe collocato nella parte non precettiva ma sanzionatoria della norma, e perciò difetterebbe ogni riferimento alla colpa come requisito soggettivo dell’omissione, vd. ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, Milano, 1984, 110 s.; contra: POLVANI, op. cit., 224 ss.; VITARELLI, Evento colposo e limiti del dovere obiettivo di diligenza nella responsabilità penale del direttore di stampa periodica, in questa Rivista, 1990, 1224. (30) Così dottrina e giurisprudenza unanimi; vd. per tutti: MANTOVANI, op. cit., 395 (per il quale, solo considerando il complessivo fatto di reato dell’articolista quale evento — alla stregua dell’art. 40 cpv. c.p. — può evitarsi l’incongruenza di non sapere come punire il fatto doloso); POLVANI, op. cit., 256 ss. (secondo cui l’autentica linea di demarcazione tra fatto di reato autonomo ex art. 57 c.p., e fatto di concorso ex art. 40 cpv. c.p., va ricercata nel diverso atteggiarsi dell’elemento soggettivo, colposo nel primo caso, doloso nel secondo); ROMANO, op. cit., 582. In giurisprudenza, da ultimo, Cass. sez. V, 2 maggio 1990, Scalfari, in Dir. inf., 1991, 951. (31) ‘Non si saprebbe come punirla’, per dirla con MANTOVANI, op. loc. ult. cit. (32) Vale a dire soprattutto reati ‘di opinione’, prima fra tutti la diffamazione, ma anche le varie fattispecie di propaganda illecita (es. art. 272 c.p.), di istigazione o apologia (es. artt. 266, 303, 414, 416 c.p.), di vilipendio (es. artt. 290 ss. c.p.), di divulgazione di notizie false o di segreti (es. artt. 261 s., 501 c.p.), etc. (33) Al punto da essere punito per l’agevolazione colposa di reati di regola solo dolosi. (34) Vd. infra al par. 5.2.1. (35) Come confermato, tra le altre, anche dalla norma di cui all’art. 58 bis c.p.: così ROMANO op. cit., 590 ss.
— 1348 — versione ex art. 40 cpv. c.p. (36); né, evidentemente, in spregio al divieto di analogia in malam partem (37). Con l’inaccettabile conseguenza, perciò, di dover punire il fatto doloso con una pena edittale (reclusione fino a un anno) sicuramente e largamente inferiore a quella prevista per il fatto colposo (operate le dovute diminuzioni, reclusione da 4 mesi a due anni); e dunque con una tanto ingiustificata quanto evidente disparità di trattamento. D’altra parte, ed al di là della evidente ‘consistenza’ dell’argomento testuale ora illustrato, deve anche osservarsi che, quando la tesi restrittiva vuole rigorosamente circoscrivere il significato dell’evento di cui all’art. 40 cpv. c.p. alla sola sua accezione naturalistica — con rigetto della intepretazione lata che vi ricomprende anche il fatto di reato nel suo complesso — essa non sembra tener conto della problematicità della nozione di evento nel nostro sistema penale, ed in particolare della poliedricità di significati ad esso riconnessi dallo stesso legislatore, che, lungi dal recepire puramente e semplicemente la tesi c.d. naturalistica, ha invece inteso accoglierne anche diverse accezioni: quella giuridica di ‘offesa del bene giuridico tutelato insita nel fatto di reato’ (38); e soprattutto, per quanto qui interessa, quella di fatto di reato nel suo complesso. Come appare confermato, difatti, dall’altro dato testuale che ci sembra decisivo, vale a dire dall’art. 116 c.p., che, nello stabilire la responsabilità del concorrente per il fatto diverso da quello voluto, espressamente dispone che di quel reato egli risponde quando ‘‘l’evento è conseguenza della sua azione o omissione’’. Ci pare evidente, per un verso, che nel riferirsi all’evento, il legislatore voglia significare — precisamente — il ‘complessivo fatto di reato commesso dagli altri concorrenti’, che ben può essere privo di un evento naturalistico in senso stretto. Per altro verso, è altrettanto evidente che nel ‘costruire’ simile responsabilità, il codice segue il medesimo criterio di tipizzazione causale (la conseguenza dell’azione o omissione) che informa l’intera disciplina del concorso (39), e che pone in relazione causale — appunto — la condotta del concorrente e il complessivo fatto tipico di reato (commesso in concorso) (40). Ed è allora estremamente significativo che la norma individui i primi termini di tale relazione, indifferentemente, nell’azione e nell’omissione. Può trarsene una duplice conclusione. Innanzitutto, nella specifica materia del concorso di persone, è espressamente prevista (36) L’imputazione delle circostanze oggettive non può non seguire le medesime regole dettate per la conversione per equivalente dall’art. 40 cpv. c.p., ed esse saranno perciò imputabili all’omittente solo ove attengano o ad una particolare qualificazione dell’evento (gravità del danno o del pericolo, oggetto materiale dell’evento) ovvero a qualità personali dell’ offeso, ovvero (al più) alle circostanze di tempo e di luogo dell’omissione (ma non anche dell’azione non impedita); mai qualora riguardino, invece, la natura o la specie dei mezzi o delle modalità dell’ azione che ha materialmente cagionato l’evento, poiché l’equivalenza normativa ex art. 40 cpv. c.p. tra azione e omissione deve intendersi rigorosamente circoscritta alla sola efficienza causale; in tema, vd. anche infra. (37) E nemmeno, lo si dirà infra al par. 5.1, applicando alla fattispecie monosoggettiva, siccome sostanzialmente concorsuale, la disciplina di estensione delle aggravanti di cui all’art. 118 c.p. (38) Per un’ampia ricostruzione della disputa tra sostenitori della concezione naturalistica e quelli della concezione giuridica, specie nella dottrina più risalente vd. SANTAMARIA, voce Evento, in Enc. dir., XVI., 1967, 118 ss.; per una proposta di superamento della annosa diatriba, MAZZACUVA, voce Evento, in Dig. disc. pen., IV, 1990, 445 ss. (39) Sulla quale vd. amplius al par. 5.1. (40) ROMANO-GRASSO, op. cit., 150 ss..; SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione nel delitto colposo, 1988, 36 ss. Sulla relazione causale tra condotta dei compartecipi e reato vd. VIGNALE, Ai confini della tipicità: l’identificazione della condotta concorsuale, in questa Rivista, 1983, 1358 ss.; INSOLERA, op. cit., 458 ss. Per la specifica problematica dell’art. 116 c.p. vd. PAGLIARO, La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto, Milano, 1966, 95 ss.
— 1349 — la rilevanza concorsuale di una relazione causale tra l’inerzia di un soggetto, qualificata come omissione, ed un fatto tipico di reato riguardato nel suo complesso e commesso necessariamente da altri. In secondo luogo, il legislatore penale è ‘abituato’ a configurare linguisticamente simile relazione in termini di rapporto causale tra ‘omissione’ ed ‘evento’. La conferma dell’interpretazione lata dell’art. 40 cpv. c.p. non potrebbe essere più puntuale. Si obietta, tuttavia, che l’accezione di evento qui accolta pregiudica e/o viola le ‘specifiche esigenze interpretative’ dell’art. 40 cpv. c.p. (41). Ma non è così. Quel che solo rileva, nell’ottica della ‘responsabilità omissiva per equivalente’ ex art. 40 cpv. c.p., difatti, è che l’evento, da una parte, rappresenti un accadimento ‘esteriore alla condotta, da essa logicamente e cronologicamente diverso e distinto’; e, dall’altra, che esso rappresenti ed esaurisca il disvalore del fatto tipico, e ciò perché altri e diversi connotati materiali del fatto, pur necessari a ‘completarne’ la tipicità, non sarebbero comunque rintracciabili nella mera inerzia del reo, e perciò debbono tutti rinvenirsi fuori di lui, per essergli poi imputati ai sensi della norma. Una simile ratio, se impone di limitare l’ambito di applicazione dell’art. 40 cpv. c.p. ai soli reati causali puri quando si riguardi alla condotta di un solo soggetto, non è però in alcun modo violata quando quei connotati di disvalore — ulteriori all’evento naturalistico — possano invece mutuarsi dalle condotte di altri soggetti, esterne alla sfera di inerzia del reo, secondo un criterio di imputazione causale per niente sconosciuto al sistema, come si è appena visto a proposito dell’art. 116 c.p. Le peculiarità della responsabilità per omissione impropria rilevano, piuttosto, altrove, e cioè sul piano della tipicità della condotta omissiva, che in certo senso è più ricca e peculiare di quella concorsuale ‘attiva’. Nella prima, difatti, la tipizzazione causale che è propria della seconda, e che consente di imputare al concorrente il fatto di reato sol che egli vi abbia apportato un qualsiasi contributo causalmente rilevante (sebbene non necessariamente ‘tipico’ ai sensi della norma incriminatrice di base), è solo uno dei requisiti (‘per equivalente’, secondo la causalità normativa dell’art. 40 cpv. c.p.) della ‘rimproverabilità’ dell’inerzia, che richiede altresì la ricorrenza di ulteriori presupposti di imputabilità del fatto (la preesistente posizione di garanzia, l’obbligo giuridico inadempiuto, la possibilità materiale di agire, etc.). In definitiva, non vi è dubbio, da una parte, che quando ‘sia in gioco’ soltanto l’inerzia di un soggetto ed un accadimento naturalistico a lui esterno (42), non vi è modo di apprezzare l’omissione de quo come equivalente agli specifici profili di disvalore sottesi ad una condotta espressamente ‘tipizzata’ dal legislatore (43). D’altra parte, è anche vero che quando però siano in gioco — nel medesimo contesto criminoso — le condotte di una pluralità di agenti (dunque non solo quella omissiva dell’inerte), il ‘complesso degli accadimenti esterni a quest’ultimo’ può invece integrare tutti i connotati di disvalore della fattispecie, pur a condotta vincolata. E se è vero che non vi sono ostacoli per ipotizzare un criterio di imputazione di quel ‘complesso di accadimenti esterni’ all’inerte, come comprovato — lo si è appena detto — anche da altre forme di responsabilità, del tutto pacifiche ed incontroverse (art. 116 c.p.); ebbene, deve concludersi che l’unica, autentica esigenza interpretativa da presidiarsi con rigore è che anche per questo criterio di imputazione rimangano impregiudicati i requisiti propri della responsabilità per omissione: vale a dire, che anche rispetto alle condotte altrui sussi(41) Vd. il lavoro della RISICATO più volte citato. (42) Per comodità espositiva, questa ipotesi verrà d’ora in poi indicata come di ‘responsabilità omissiva monosoggettiva’; l’altra, come responsabilità in forma ‘concorsuale’. (43) Nelle fattispecie di mera condotta o a condotta vincolata, si intende.
— 1350 — stano i requisiti di rimproverabilità dell’inerzia dettati all’art. 40 cpv. c.p. (posizione di garanzia, obbligo giuridico inadempiuto, etc.) (44). In conclusione, gli argomenti che depongono a favore di un generale meccanismo di responsabilità concorsuale per omesso impedimento dell’altrui reato non sono efficacemente contrastati dalle obiezioni testuali e sistematiche illustrate, ed appaiono — al contrario — ben più cogenti di queste; occorrerà, dunque, ricostruire i profili di disciplina di tale fenomeno, anche con il preciso intento — per quanto subito si dirà — di riassegnargli spazi operativi sensibilmente più ristretti di quelli di cui sembra godere nell’attuale prassi giurisprudenziale. Un’ ultima notazione è infatti necessaria. Tra gli argomenti portati dalla tesi restrittiva qui criticata, spicca — come si è accennato — l’esigenza politico-criminale di porre una limitazione ‘contenutistica’ alla responsabilità per omissione, per circoscriverla alla sola tutela dei beni della vita ed incolumità (privata e pubblica). Sotto un profilo squisitamente tecnico-interpretativo, una simile limitazione non è però dato desumerla né da altre norme dell’ordinamento, né da una corretta interpretazione dell’art. 40 cpv., che depone, al contrario, per la più ampia operatività del meccanismo di equiparazione dell’‘omettere di impedire’ al ‘cagionare’, alla sola stregua della tecnica di tipizzazione adoperata dal legislatore (45), e salvo — come visto — il caso della responsabilità ‘concorsuale’. Tuttavia, le istanze politico-criminali che muovono quella dottrina, non debbono affatto sottovalutarsi, e meritano anzi sostanziale accoglimento, seppure per altra e più articolata via. Non vi è dubbio, difatti, che la prassi giurisprudenziale (46) abbia a tal punto dilatato gli ambiti applicativi tradizionali del concorso per omissione, da munire del rafforzamento di tutela di cui all’art. 40 cpv. c.p. anche beni giuridici la cui inferiore rilevanza (o rango) costituzionale potrebbe — al contrario — destare qualche fondata perplessità, e più d’una (47). Senza voler qui entrare nel tema dei riflessi politico-ideologici dell’evoluzione dei reati omissivi (propri ed impropri) (48), è certo, infatti, che la responsabilità per omissione sconta costi rilevantissimi, sia in termini di ‘legalità e certezza’ del sistema penale (49), sia, soprat(44) Per i quali vd. al par. 4. (45) GRASSO, op. cit., 167 ss. (46) Che viene illustrata nelle sue linee essenziali poco oltre, al par. 3. (47) L’excursus giurisprudenziale che segue, letto anche in chiave cronologica, ben esemplifica questa progressiva dilatazione: una forma di responsabilità che nasce, storicamente, a tutela quasi esclusiva di beni di altissimo rango (oggi anche costituzionale), in tempi recenti arriva a presiedere all’incriminazione, ad esempio, di sindaci di una società di capitali per l’omesso impedimento di un reato urbanistico (contravvenzionale) commesso dagli amministratori della stessa: vd., ad es., Pret. Napoli 13 maggio 1976, Giovinetti e altri, in Foro it., 1977, II, 30. Sull’esigenza che si consolidi il consenso sociale intorno ad un bene tutelando mediante fattispecie omissive, vd. ampiamente CADOPPI, Il reato omissivo proprio, Padova, 1988, 571 ss. (48) Per cui vedi, per tutti, FIANDACA, Reati omissivi cit., 30 ss.; per un’ampia disamina del medesimo fenomeno nei paesi di common law, vd. CADOPPI, op. cit., 1057 ss. (49) Il che, peraltro, parrebbe tendenzialmente inevitabile almeno sotto il profilo tecnico-legislativo, ove si preferisca lo strumento della clausola incriminatrice di parte generale. È comunque aperto il dibattito su come possa perseguirsi — attesa l’insufficienza delle attuali discipline positive — il miglioramento delle tecniche di incriminazione di questo tipo di reati. La via, apparentemente piana, di una integrale disciplina a mezzo di apposite fattispecie di parte speciale, difatti, comporterebbe il serio pericolo di ampie lacune di tutela, sebbene non possa ignorarsi che tale pericolo ‘è, non di rado, il prezzo della legalità e certezza giuridica’ (MANTOVANI, op. cit., 201). E neppure potrà mai confidarsi nel completo superamento delle censure di indeterminatezza (tuttora rivolte anche al nostro art. 40 cpv. c.p.) mediante miracolose riformulazioni di una clausola di parte generale. Del tema de iure condendo si è espressamente occupato il XIII Congresso dell’AIDP (Urbino, 1982), per il quale
— 1351 — tutto, in termini di ‘libertà’ dell’individuo (50), la cui compressione deve sempre costituire ‘eccezione’ alla opposta regola della tendenziale incoercibilità (penale) della collaborazione alla preservazione o promozione del ‘bene’, previo un rigoroso giudizio di necessarietà (51). Non può non essere condivisa, perciò, la preoccupazione che, in difetto di espresse e precise scelte legislative, la caduta anche del criterio ‘strutturale’ di delimitazione della responsabilità per omissione, fondato sull’analisi della tecnica di tipizzazione, apra pericolose prospettive di ‘automatismi irriflessi’ di incriminazione, determinati solo da valutazioni di ‘meritevolezza di pena’ soggettive ed indimostrabili (52). La necessità di porre argini al fenomeno della tendenziale ‘ipertrofia giurisprudenziale’, è generalmente avvertita, peraltro, dalla stessa dottrina che pur rifiuta la generale operatività del limite strutturale; e non mancano — esplicite od implicite — proposte di individuazione di altri criteri-argine, in chiave di elemento soggettivo (53) o oggettivo (54). In definitiva, può qui anticiparsi che l’adesione all’esigenza di delimitazione del campo di responsabilità in oggetto, può sì passare — sul piano operativo — attraverso (alcuni dei) detti criteri, ma può anche condurre proprio alla rivalutazione del citato confine strutturale, adoperando però i percorsi argomentativi di una diversa e più feconda analisi. Occorrerà perciò muovere da quel medesimo criterio-guida che già informa la responsasi veda l’intervento di FIANDACA, trasfuso nell’articolo Reati omissivi più volte citato; vd. anche GRASSO, op. cit., 447 ss. (50) Quale che sia lo strumento normativo prescelto. (51) Il principio liberale secondo cui la pena deve colpire principalmente azioni, e solo eccezionalmente omissioni, non può essere rovesciato, difatti, neppure dalle prospettive ‘promozionali’ di riforma del sistema penale. Sul punto si vedano le limpide osservazioni di FIANDACA, Il reato cit., 46 s.: ‘la responsabilità per omissione, storicamente, tende ad assumere un carattere di eccezionalità: obbligo fondamentale del cittadino, almeno in una società di tradizione liberale, è quello di non aggredire positivamente i beni giuridici altrui. Se questa è la regola, le deviazioni appaiono giustificate allorché la creazione di obblighi di attivarsi si appalesa indispensabile: precisamente, quando l’esigenza di tutelare in modo rafforzato un determinato bene è avvertita come prevalente rispetto al grave sacrificio della libertà personale inevitabilmente connesso all’attivazione del meccanismo della responsabilità per omissione’ (corsivi nostri). Sul punto vd. anche FIANDACA, Reati omissivi cit., 32 s.; NEPPI MODONA, Tecnicismo e scelte politiche nella riforma del codice penale, in Dem. dir., 1977, 661; BRICOLA, Funzione promozionale, tecnica premiale e diritto penale, in La questione criminale, 1981, 445. (52) Significativo che si affermi, in dottrina, che ‘anche con riguardo a talune ipotesi di reato che non presentano un evento naturalistico nella relativa fattispecie (e che quindi non sono da considerarsi casualmente orientate) possano sussistere esigenze di tutela che giustifichino pienamente la configurazione di un concorso nel reato realizzato mediante una condotta omissiva’ (GRASSO, op. cit., 141 s., corsivo nostro). Altri osserva (SGUBBI, op. cit., 69 ss.) che, proprio per la sua estrema ‘maneggiabilità’ e adattabilità, la responsabilità per omissione può anzi divenire strumento elettivo di integrazione delle palesi lacune che il sistema penale mostrerebbe nella tutela di quei beni il cui nuovo rilievo emerge dalla Carta Costituzionale; e che l’estensione ai massimi confini interpretativi possibili della detta forma di responsabilità è, in particolare, suggerita dal disposto dell’art. 41 cpv. Cost. Sulla stessa linea vd. NEPPI MODONA, op. loc. cit., per il quale sarebbe opportuno ‘un notevole sviluppo delle fattispecie omissive e quindi un approfondimento della struttura della condotta omissiva, in modo da renderla congeniale alle nuove finalità promozionali del diritto penale’ (corsivi nostri). In giurisprudenza, si veda, infine, la recente Cass., sez. IV, 6 dicembre 1990, Bonetti, in Foro it., 1992, II, 36, sulla tragedia del disastro idrogeologico di Stava, ove si afferma che ‘la norma dell’art. 40 cpv. c.p... può e deve essere interpretata in termini solidaristici, avendo presenti le norme degli artt. 2, 32 e 41 cpv. Cost.’. (53) Così PAGLIARO, op. cit., 363 s., per il quale dovrebbe escludersi la rilevanza del dolo eventuale; vd. infra al par. 5.2.3. (54) In tal senso GRASSO, op. loc. ult. cit., che ritiene che ad una opportuna delimitazione comunque si pervenga ‘‘attraverso una più precisa individuazione delle posizioni di garanzia penalmente rilevanti’’.
— 1352 — bilità in chiave monosoggettiva, e che impone di verificare se in materia di concorso per omesso impedimento del reato altrui, una volta operata la ‘conversione per equivalente’ della condotta commissiva (apporto di un contributo concorsuale rilevante) in quella omissiva (mancato impedimento del reato), e ferma l’impossibilità di rinvenire profili di ‘disvalore di condotta’ nella mera inerzia del reo, la ‘posizione di garanzia’ violata consenta però di imputare al ‘colpevole-perché-inerte’ il disvalore del complessivo evento di reato verificatosi, con tutti i suoi connotati di evento naturalistico nonché di condotta (necessariamente altrui) (55). 3. Rassegna di giurisprudenza. — Prima di procedere oltre nell’analisi della struttura della responsabilità per omesso impedimento dell’altrui reato, è opportuno offrire un panorama complessivo delle tematiche applicative che emergono dalla esperienza giurisprudenziale in materia. L’esposizione che segue si attiene ad una classificazione secondo ambito di origine del preteso obbligo di impedimento violato (56). 3.1. Gli obblighi di impedimento dei reati nascenti da rapporti di parentela, convivenza, cura o custodia. — La riflessione giurisprudenziale sulla responsabilità per omesso impedimento si è tradizionalmente sviluppata nel campo dei reati contro la vita e l’integrità fisica, con particolare riguardo agli obblighi di impedimento derivanti da rapporti di parentela o convivenza. La prassi giudiziaria relativa alla forma concorsuale della responsabilità omissiva ne ha evidentemente seguito le orme. Così, i ‘prodromi’ del concorso nel reato altrui per non averlo impedito, salvo rare eccezioni, riguardano essenzialmente l’omesso impedimento di un omicidio, imputato a familiari della vittima o dell’omicida. Tra le prime pronunce di legittimità, si colloca una sentenza in cui la S.C. nega l’esistenza, a carico del figlio, di un obbligo di impedimento dell’omicidio perpetrato ai danni del proprio genitore: pur trattandosi del ‘più sacro’ dei doveri, esso ha natura solo morale, e non giuridica. Pertanto il figlio non è responsabile di concorso nell’omicidio del padre, commesso dalla propria moglie, pur se previamente consapevole della di lei volontà omicida (57). Al contrario, altra sentenza degli stessi anni afferma la sussistenza dell’obbligo inverso (del padre di impedire l’omicidio del figlio), in un celebre caso in cui il crimine era stato deliberato alla silente presenza del genitore — che nulla aveva fatto per impedirlo — in una specie di ‘consiglio di famiglia’ (58), motivato dalla superstiziosa convinzione che il sangue dell’innocente avrebbe consentito di scoprire un tesoro sepolto tra le rovine di una diruta chiesetta nel bosco (59). Secondo la S.C., un simile obbligo di impedimento riceve precise connotazioni di giuridicità, e pertanto di rilevanza penale ex art. 40 cpv. c.p., dalle stesse norme dell’ordinamento che pongono ai genitori il ‘dovere primo e fondante ogni altro’ di (55) Vd. infra al par. 4.2. (56) Che può nascere dai rapporti con l’autore o con la vittima, ovvero dalla particolare qualifica dell’inerte (militare, poliziotto, sindaco di società, pubblico ufficiale etc.). (57) Cass. 21 dicembre 1932, Cuccuru, in Giust. pen., 1934, II, 335. Trattandosi di fattispecie commessa nella vigenza del codice Zanardelli, è inoltre interessante il passo della pronuncia che, previa disamina della novità legislativa costituita dall’art. 40 cpv. c.p., afferma l’inapplicabilità della predetta norma in chiave concorsuale, perché di più ampia portata incriminatrice rispetto alle previgenti norme sul concorso; si rinvia a nuovo giudizio, dunque, per l’accertamento della responsabilità concorsuale dell’imputato secondo la previgente disciplina del concorso di persone. In dottrina, sul punto, vd. GIORDANO, Il reato non impedito secondo il nuovo c.p., Genova, 1932. (58) Che l’indignazione di un commentatore descrisse ‘una raccolta di iene’: ALOISI, Applicazioni giurisprudenziali sui nuovi codici, in Riv. dir. pen., 1935, 321. (59) Cass. 1 febbraio 1935, Ferruccio, in Giust pen., 1937, II, 932.
— 1353 — provvedere alla conservazione della prole (art. 138 c.c. previg., in parte riprodotto dal vigente art. 147 c.c.). Altra pronuncia di merito esamina il caso di una moglie che non ha impedito che la figlia uccidesse il padre (e proprio marito) (60), ed espressamente riconosce l’esistenza dell’obbligo giuridico di ciascun coniuge di impedire fatti delittuosi contro la vita e l’incolumità dell’altro (61) Nello stesso senso, una pronuncia della S.C. specifica che l’obbligo reciproco dei coniugi di impedire fatti lesivi dell’integrità dell’altro commessi da terzi — pena la ‘correità nelle lesioni inferte’ — discende dalle disposizioni del codice civile che fondano il reciproco dovere di assistenza (art. 143) (62). Non sussiste, invece, alcun obbligo da parte della ‘zia’ di impedire alla propria sorella l’infanticidio del nipote (63). Attiene invece a rapporti di cura e custodia una recente vicenda decisa dalla Cassazione relativamente a fatti di maltrattamento di anziani, commessi da terzi, il cui mancato impedimento è stato imputato ai responsabili della pubblica struttura di assistenza ove le vittime erano ricoverate. In verità, la S.C. non si pone espressamente il problema dei profili di concorso nel fatto tra i diretti agenti e gli inerti, bensì solo quello della realizzabilità monosoggettiva del delitto in questione (art. 572 c.p.): se, cioè, indipendentemente dal ricorso all’interpretazione ‘lata’ dell’art. 40 cpv. c.p. che consente — come visto — l’estensione della forma omissiva della responsabilità concorsuale anche al di fuori dei limiti della ‘causalità pura’, il reato in oggetto sia già autonomamente suscettibile di conversione per equivalente nel rispetto del predetto limite. La sentenza conclude nel senso che il reato di maltrattamenti ben possa essere realizzato anche a mezzo di soggetto estraneo (64), quando i responsabili della cura delle vittime consapevolmente e deliberatamente si astengano dall’impedire che terzi realizzino l’elemento oggettivo del reato, stante il dovere funzionale di attivarsi per impedire l’evento (65). Le più recenti cronache narrano, infine, di un caso di infanticidio, commesso da una minore abbandonando il proprio neonato in un cassonetto di rifiuti, a seguito del quale i genitori della giovane madre sono imputati di concorso nel delitto, siccome ‘da loro cagionato per non averlo impedito’ (66). (60) Sebbene minacciata dalla stessa omicida che, impugnata l’arma del delitto, le aveva intimato di non tentare di fermarne la volontà di strage. (61) Mandando poi assolta la donna per difetto del necessario elemento psicologico doloso: Corte Assise Salerno 25 novembre 1950, Gallotta, in Giust. pen., 1952, 1211, con nota di GRIECO, Osservazioni sull’obbligo giuridico di impedire l’evento. (62) Cass. 31 marzo 1952, Magnani, in Giust pen., 1952, II, 734; la fattispecie in questione, peraltro, è connotata da un particolare aspetto, e cioè che le lesioni alla donna erano state inferte dai figli (non è dato sapere se minori o adulti) della coppia, con ciò assumendo precisa ed ulteriore rilevanza giuridica anche il diverso profilo dell’obbligo di (educazione e vigilanza sugli stessi, nonché, comunque, di) richiamo all’osservanza del dovere — morale ed insieme giuridico — di ‘rispettare ed onorare i genitori’, sancito dall’(oggi novellato) art. 315 c.c. (63) La semplice inattività della prima dinanzi al proposito criminoso della seconda non è perciò sufficiente ad integrare gli estremi del concorso nel reato: Cass. 1 giugno 1964, Pedalino, in Mass. pen., 1965, 692. (64) Proprio la ‘mediazione’ della condotta di un terzo rende pertinente l’esame della vicenda in questo lavoro; si vedrà diffusamente infra, al par. 5.2, della necessità di distinguere, in simili ipotesi, fattispecie che rimangono ‘monosoggettive’ — nel senso che sarà ivi specificato — e fattispecie che integrano ipotesi di concorso. (65) Cass. 16 ottobre 1990, Cosco, in Cass. pen., 1992, 1505. In tema di maltrattamenti tramite omissione nell’ambito di pubbliche strutture di assistenza, vd. anche Cass., sez. VI, 17 ottobre 1994, Fiorillo, in Cass. pen., 1996, 511, con ampia nota di BLAJOTTA, Maltrattamenti nelle istituzioni assistenziali e dovere costituzionale di solidarietà, ivi, 514 ss. (66) L’intera vicenda giudiziaria è riportata dalla motivazione della pronuncia di legittimità: Cass. 21 settembre 1992, Ferri, in Cass. pen., 1994, 1499.
— 1354 — Dalla ricostruzione giudiziale dei fatti, sebbene si escluda l’esistenza di un previo accordo (anche tacito) tra i genitori e la figlia, emerge la convinzione che i primi non potessero non essere a conoscenza della gravidanza in corso (di cui si erano avveduti persino i vicini e altri parenti); e che perciò, richiesti di soccorso dalla figlia immediatamente dopo il parto, pur avendo a quel momento la certezza dell’avvenuta procreazione, essi abbiano consapevolmente omesso ogni intervento per scongiurare la morte del neonato, il cui corpo la figlia aveva frattanto nascosto in casa, con l’intenzione di liberarsene la mattina successiva. Entrambe le decisioni di merito affermano la violazione dell’obbligo dei genitori di ‘evitare che la prole generata dai propri figli minori venga a morte’, la cui positiva giuridicità si è desunta dagli artt. 433 c.c. e 570, 2o comma c.p. (67). Il ricorso per Cassazione proposto dai condannati censura la pronuncia proprio in ordine all’affermata sussistenza di un tale obbligo. La S.C., rilevata la sostanziale esattezza della ‘conclusione’ dei giudici di merito, ritiene però di doverne mutare il quadro giuridico-sistematico di riferimento, con ovvie conseguenze in punto di fatti costitutivi della responsabilità. A parere della Corte, infatti, nella fattispecie rileverebbe non tanto l’inosservanza di un obbligo dai riflessi di natura tipicamente economica, quale quello agli alimenti di cui all’art. 433 c.c. (insufficiente a fondare una specifica posizione di protezione), bensì la violazione dell’obbligo di controllo di cui all’art. 2048 c.c., che impone ai genitori di vigilare sulla condotta dei figli minori, ponendo a loro carico gli eventi di danno da questi cagionati e non impediti. Quanto all’omesso impedimento dei reati diversi da quelli riguardanti la vita e l’integrità fisica, una risalente pronuncia in tema di violenza carnale afferma la responsabilità della madre — a titolo di concorso — per il fatto commesso ai danni della figlia dal genero, per avervi assistito consenziente lasciando compiere l’illecita congiunzione carnale senza impedirla; così violando, a parere della S.C., lo specifico obbligo giuridico dettato dalle norme del codice civile, che impongono ai genitori di educare la prole (68). È stato invece negato, seppure in diverso contesto, che l’obbligo di impedire il comportamento criminoso altrui possa sorgere da un rapporto di mera ‘temporanea convivenza’, escludendosi perciò ogni responsabilità per chi abbia convissuto con una donna pur nella consapevolezza che ella fosse in possesso di un quantitativo di droga (69). Ma neppure da un rapporto formale di coniugio, secondo altra decisione di merito, può derivare un simile obbligo di ‘far rispettare le leggi penali’, neppure riguardo ai più gravi reati (70). Poche le pronunce in tema di omesso impedimento di reati da parte del custode di de(67) Il cui combinato disposto impone all’ascendente l’obbligo di mantenimento del discendente, sanzionato anche penalmente. (68) Cass., sez. I, 15 aprile 1940, Santagati, in Giust. pen., 1941, IV, 472; non solo la morale, vuole sottolineare la S.C., ma altresì la legge fanno obbligo ai genitori di impedire alla figlia minore di congiungersi carnalmente in illecito concubito, specie quando — come nel caso di specie — un simile episodio si inquadri in un più ampio contesto di immoralità, nel quale la madre consenta compiaciuta alla ‘iniziazione sessuale’ della propria figlia, cioè al ‘turpe amplesso compiuto nello stesso letto dove giacevano madre e figlia, e dove poco prima si erano congiunti suocera e genero in presenza della figlia’. Non sembra conferente con il tema del presente lavoro un’altra pronuncia, spesso citata unitamente a quella ora riportata, nella quale si è ritenuta l’insussistenza della responsabilità della madre per induzione alla prostituzione della figlia, per non averne impedito la prostituzione stessa, e ciò per l’inesistenza di un generale dovere del genitore di vigilare a che la figlia non si corrompa moralmente, anche prostituendosi (Cass., sez. III, 20 maggio 1963, Angeloro, in Riv. pen., 1963, 741); l’estraneità sta in ciò, che non si ha riguardo, in simile ipotesi, all’impedimento di un altrui reato, perché la prostituzione tale non è. (69) Cass. 13 febbraio 1985, Cariccia, in Riv. pen., 1985, 1119. (70) Così la Corte Assise Torino 19 ottobre 1936 (imp. Gillo, in Corti reg., 37, 89), nel pronunciarsi su un caso in cui si imputava alla moglie di non aver impedito un fatto di omicidio commesso dal marito; nell’escludere la responsabilità dell’imputata per concorso, la Corte osserva che, non essendovi complicità in un reato per il mero fatto di non impe-
— 1355 — terminati beni, in forza di contratto di diritto privato; in generale la giurisprudenza è però propensa a riconoscerne la responsabilità, come nei casi (quasi ‘di scuola’): — del guardiano che si sia impegnato per contratto a vigilare sulla incolumità personale e sui beni di un terzo, che perciò risponde di concorso nel reato di rapina commesso da terzi, ove non impedisca di proposito il compimento del misfatto (71); — o ancora, della domestica che, in assenza dei padroni di casa, permette che un uomo si introduca nell’abitazione, allo scopo di congiungersi carnalmente con lui, così concorrendo nell’altrui reato di violazione di domicilio, per non averlo impedito (72). Del pari sporadiche, infine, le pronunce riguardo ad obblighi di impedimento nascenti da relazioni di proprietà tra taluni soggetti e taluni beni (di regola, immobili). La giurisprudenza appare sostanzialmente incline a negare l’esistenza di un generale dovere — gravante sul proprietario o su suoi mandatari — di impedire fatti delittuosi commessi a mezzo dei ovvero sui predetti beni. Così, in tema di scarico di rifiuti, più precisamente in ordine alla responsabilità del proprietario di un fondo per il reato di discarica abusiva ex art. 25 d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, commesso da altri, si è ritenuto che non possa ritenersi sussistente uno specifico obbligo giuridico di impedire ad estranei — attraverso recinzioni, apposita vigilanza, etc. — lo scarico di rifiuti sul proprio fondo, e dunque che non possa esservi concorso del proprietario nel reato altrui (73). Similmente, il comproprietario di un fondo non ha alcun obbligo giuridico di impedire che altro comproprietario costruisca abusivamente sul bene comune un manufatto edilizio, poiché la contitolarità di un bene non comporta ex se l’obbligo di garantirne la protezione contro l’abuso dei contitolari (74). Così come l’amministratore di un condominio non può essere ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 221 T.u.l.s., per il fatto che i proprietari dei singoli alloggi li abbiano abitati nonostante fossero notoriamente privi della prescritta licenza di abitabilità: poiché un dovere — rilevante ex art. 40 cpv. c.p. — di impedire che i singoli condòmini abitino le rispettive porzioni immobiliari prive di licenza ex art. 221 T.u.l.s. non può ricavarsi né dalla legge, né dal contratto, e neppure può ritenersi che l’amministratore sia costituito in una generale ‘posizione di garanzia’ vòlta all’impedimento di reati da parte dei condòmini (75). 3.2. L’obbligo di impedimento dei reati gravante sui pubblici ufficiali. — La responsabilità di pubblici ufficiali (76) è normalmente affermata, in giurisprudenza, con riferimento alla posizione di pubblici amministratori che non abbiano adottato determinati provvedimenti amministrativi, altrimenti idonei — se tempestivi — ad impedire la commissione di taluni fatti di reato. Così nel caso di un assessore regionale al territorio, cui si imputa il concorso nell’altrui reato di deturpamento di bellezze naturali (art. 734 c.p.) per avere (tra l’altro) omesso di adottare i necessari provvedimenti interdittivi e sanzionatori, utili ad interrompere l’altrui condotta criminosa in atto (77). La vicenda si inserisce nel quadro di una importante manifestazione sciistica di alcuni anni orsono, il cui comitato promotore, al fine di predisporre le infrastrutture tecniche necessarie allo svolgimento della manifestazione, intraprende talune dirlo, neppure poteva esservi correità nel caso di specie, non incombendo alla moglie alcun obbligo di impedire comportamenti criminosi del marito. (71) Cass. Regno 4 marzo 1936, Minai, in Riv. dir. pen., 1936, 706. (72) Trib. Pescara 11 dicembre 1951, Zafenza, in Riv. giur. abruzz., 1952. 76. (73) Pret. Caltagirone, sez. dist. di Niscemi, 27 maggio 1994, Alario, in Riv. pen., 1994, 652. (74) Cass., sez. III, 27 ottobre 1995, Abbate, in Giust. pen., 1996, II, 432. (75) Cass., sez. III, 28 giugno 1995, Capuano, in Cass. pen., 1996, 3131. (76) Diversi dagli appartenenti alle forze dell’ordine, per i quali vd. al par. che segue. (77) Pret. Tirano 4 dicembre 1985, Ricotti ed altri, in questa Rivista, 1987, 1085 ss., con nota di VERGINE, Riflessioni critiche su una particolare ipotesi di concorso nel reato di distruzione di bellezze naturali.
— 1356 — opere di ampliamento di una pista di discesa mediante il sistematico abbattimento degli alberi che si trovano lungo il suo percorso. Trattandosi però di zona soggetta a vincolo paesistico-ambientale, i promotori provvedono poi — ma solo in corso d’opera, con le opere di ‘disboscamento’ già iniziate ed ancora in atto — a richiedere le necessarie autorizzazioni al competente assessorato regionale. L’iter amministrativo si conclude positivamente, ed in breve tempo, con il rilascio di una autorizzazione anche ‘in sanatoria’ delle opere già eseguite, nella unanime indignazione delle associazioni ambientaliste, che denunciano il fatto alla Autorità Giudiziaria. Si discute della sussistenza di un concorso nel reato, ascrivibile non solo agli esecutori materiali del fatto (ignoti), ed ai ‘committenti’ le opere deturpatrici, ma anche all’assessore regionale firmatario del tardivo provvedimento autorizzatorio. Il giudice di merito, ritenuta la sussistenza del fatto oggettivo di reato, ritiene che anche in capo a quel pubblico amministratore sussistano tutti i requisiti del concorso nel fatto contestato: vi è pluralità di soggetti, poiché, sebbene taluni dei concorrenti (cioè gli esecutori materiali delle opere di disboscamento) siano ancora ignoti al momento della pronuncia, è evidente che la materiale realizzazione dell’ampliamento della pista sia stata eseguita da soggetti diversi dall’assessore (78); vi è un contributo causale, poiché può a questi imputarsi non solo di aver attivamente contribuito alla realizzazione del reato con il rilascio dell’autorizzazione, relativamente ai fatti di deturpamento successivi alla stessa, ma anche — ed è ciò che qui interessa — di ‘non avere adottato, come pure avrebbe dovuto, provvedimenti di natura sanzionatoria e repressiva degli illeciti’ in corso di esecuzione, prima del rilascio della predetta autorizzazione (79). In materia di inquinamento delle acque, alcune pronunce si sono occupate dei profili di responsabilità penale in capo a sindaci che abbiano omesso di adottare — in presenza di gravi fatti di inquinamento cagionati da altri — i provvedimenti necessari a fronteggiare ed impedire tali fenomeni. In una recente vicenda processuale, si è dapprima affermata la responsabilità di un sindaco per il reato di scarico extra-tabellare (art. 21, 3o comma l. n. 319/76 c.d. ‘legge Merli’) imputabile ad una azienda chimica con sede nel comune, a titolo di concorso con gli amministratori di questa, per avere omesso, nella sua qualità di autorità sanitaria locale, di revocare l’autorizzazione al predetto scarico, siccome superiore ai limiti prescritti dalla legge, come invece era suo obbligo funzionale espressamente previsto dalla stessa l. n. 319/76 all’art. 15, penultimo comma (80). La pronuncia di condanna è stata però annullata dalla S.C., che ha rilevato la sussistenza di un concorso apparente tra le due predette norme della medesima legge Merli (che prevedono l’una l’obbligo di revoca dell’autorizzazione, l’altra il reato di scarico extratabellare) da risolversi in favore della prima di esse, in base al principio di specialità: con conseguente configurabilità non già di un concorso nel reato previsto dalla legge speciale, ma solo di una omissione di atti d’ufficio (81). (78) A proposito di simili notazioni, vd. anche infra al par. 5.1. in nota. (79) Loc. cit., 1104. Nella nota cit. (VERGINE, 1109 ss.) si muove un triplice ordine di critiche alla pronuncia: a) innanzitutto, perché — si osserva — appare errato ascrivere all’assessore un reato che, al momento in cui egli ebbe notizia delle opere in corso, si era già consumato (con il taglio di un numero di alberi sufficiente a determinare il danno paesistico incriminato), sebbene non fosse stato ancora portato alle sue conseguenze dannose più gravi; b) in secondo luogo, perché si contesta che in capo all’assessore sussistesse una posizione di garanzia volta all’impedimento del reato contestato, piuttosto configurabile in capo agli organi deputati con legge regionale alla vigilanza del territorio boschivo (comunità montane, guardia forestale); c) infine, perché l’art. 734 c.p. configura un reato a condotta vincolata. (80) Nonché, più in generale, dall’art. 217 r.d. n. 1265/34 che impone al sindaco, in qualità di ufficiale sanitario, di prescrivere le norme opportune quando scoli di acque provenienti da manifatture possono riuscire di pericolo o di danno alla salute pubblica. (81) Cass., sez. III, 15 marzo 1994, Belloni, in Riv. pen., 1994, 888. In senso analogo, vd. anche Cass., sez. VI, 21 giugno 1985, Puccini, in Giust pen., 1986, II, 1, in ordine ad una nota vicenda di gravi fenomeni di inquinamento del fiume Arno nel territorio di un
— 1357 — Secondo talune pronunce di merito (82), sussiste una responsabilità a titolo di concorso nell’altrui reato di lottizzazione abusiva (art. 17, lett. b, l. 28 gennaio 1977, n. 10) in capo al notaio che riceva atti di compravendita di lotti abusivi: perché, così facendo, egli contravviene alle disposizioni della legge notarile (83), che lo obbligano a non ricevere atti che sono espressamente proibiti dalla legge, e dunque, ricevendo ed autenticando atti che integrano un fatto di reato, omette di impedire un fatto illecito che ha l’obbligo giuridico di impedire (84). In materia di reati valutari, risponde di correità nei fatti di illecita costituzione all’estero di disponibilità valutarie (85) commessi da taluni correntisti, il direttore di filiale (pubblico ufficiale) che non abbia volutamente impedito il reato, omettendo di adottare i controlli ed i provvedimenti di sua competenza, così contravvenendo ad un obbligo impostogli da espresse disposizioni di legge (86). Risponde infine del peculato altrui a titolo di concorso, il direttore di consorzio agrario che non impedisca i fatti appropriativi commessi dal cassiere dell’ente, poiché omette di ottemperare ad un obbligo di vigilanza che incombe al superiore, e così facendo facilita la commissione del reato, con un contributo causalmente rilevante ai sensi del combinato disposto degli artt. 40 cpv. e 110 c.p. (87). Del pari, risponde di concorso nelle altrui appropriazioni di denaro pubblico il ragioniere comunale che abbia volutamente omesso ogni controllo sulle condotte illecite poste in essere dall’esattore del servizio di cassa e tesoreria (88). comune toscano, ove il sindaco di questo fu chiamato a rispondere dei fatti per non aver adottato i provvedimenti sanitari necessari alla protezione della salute pubblica. La S.C. ha ritenuto di dover confermare le pronunce di condanna per i reati non già previsti dalla legislazione speciale in materia (appunto, art. 21 legge Merli), bensì per quelli di danneggiamento ed omissione di atti di ufficio, sulla scorta del rilievo che la legislazione speciale avrebbe come destinatari, quali soggetti attivi, esclusivamente coloro cui siano direttamente imputabili i fatti di scarico ed inquinamento ivi incriminati, e non coloro che siano invece solo destinatari di poteri-doveri di sorveglianza (come il sindaco), della cui inosservanza — conclude la S.C. — questi ultimi risponderanno penalmente, oltre che per l’omissione di atti d’ ufficio, anche a titolo di danneggiamento, qualora per effetto di quella negligenza si siano verificati specifici danni o si sia prodotto l’aggravamento di un danno preesistente. Ancora in materia di igiene delle acque, si veda infine Cass., sez. III, 18 gennaio 1995, Vitacolonna, in Giust. pen., 1996, II, 237: nel reato di fornitura al consumo umano di acque non idonee (art. 21, d.P.R. 24 maggio 1988, n. 236), commesso da altri (cioè dai responsabili dell’acquedotto), concorrono anche gli organi tecnici del comune, qualora omettano i dovuti controlli nell’ambito delle proprie competenze (fattispecie in tema di inammissibilità del ricorso per Cassazione proposto dai predetti tecnici, ed in particolare dal responsabile della ripartizione dell’ufficio idrico del comune, già condannato per concorso nel fatto di reato, il quale aveva dedotto che l’adozione di misure atte ad avvertire la popolazione e/o ad adeguare la qualità delle acque somministrate competeva al Sindaco). (82) Pret. Roma 13 gennaio 1981, Mennuni, in Riv. giur. edil., 1982, 415; Pret. Civitacastellana 9 marzo 1982, Garofalo, in Giur. mer., 1982, II, 482. (83) Art. 28 l. 16 febbraio 1913, n. 89. (84) La prima delle suddette pronunce è stata però cassata dalla S.C., sul rilievo — tra gli altri — che l’attività del notaio, intervenendo con la autentica delle sottoscrizioni in un momento successivo alla manifestazione del consenso contrattuale delle parti, è del tutto irrilevante ai fini della commissione del reato, poiché successiva alla sua consumazione: Cass., sez. III, 6 aprile 1982, Mennuni, in Giur. mer., 1982, II, 481, con nota di CICALA, Reato di lottizzazione abusiva e responsabilità del notaio. (85) Art. 1, 2o comma d.l. 4 marzo 1976 n. 31. (86) App. Milano 22 aprile 1986, Novelli, in questa Rivista, 1987, 1060, con nota di EUSEBI, In tema di accertamento del dolo: confusioni fra dolo e colpa. (87) Cass., sez. III, 4 maggio 1950, Romano, in Giust. pen., 1950, II, 774, con nota di GRANATA, Qualità di pubblico ufficiale degli impiegati dei Consorzi agrari provinciali ed altri riflessi di penale responsabilità. (88) Cass., sez. VI, 22 settembre 1994, Di Giovanni, in Cass. pen., 1996, 79.
— 1358 — 3.3. L’obbligo di impedimento dei reati gravante sugli appartenenti alle forze dell’ordine. — Il tema dell’obbligo incombente alle forze di polizia di impedire che vengano commessi reati, rappresenta — insieme a quello riguardante i rapporti familiari o di convivenza — l’altro ambito classico di applicazione della responsabilità concorsuale per omissione. Anzi, il compito di identificare paradigmaticamente il problema stesso del concorso per omissione è da sempre affidato proprio all’esempio del ‘carabiniere che vede Tizio nell’atto in cui sta per uccidere l’avversario, e non compie il dovere incombentegli di fermare il malintenzionato e d’impedirgli d’uccidere’ (89). E di simili ipotesi, difatti, la giurisprudenza non è avara; ad iniziare dal caso di un carabiniere in licenza, che assiste in silente inerzia alla rapina commessa da un proprio ‘compare’ (di ritorno piuttosto ‘alticcio’ dalle copiose libagioni di una festa paesana) ai danni di un trasportatore di sale. Condannato per concorso nel reato, il milite impugna la sentenza di merito, adducendo l’inesistenza di un qualsiasi apporto causale al fatto di reato. La S.C. ritiene che il thema decidendum si esaurisca proprio nel verificare se, data la qualifica dell’imputato, egli avesse o meno l’obbligo di impedire il reato (poi concludendo che tale obbligo certamente sussiste in capo ad ogni carabiniere, anche se in licenza, poiché ogni milite dell’Arma è in servizio permanente) (90). Similmente, risponde di concorso nel delitto altrui il comandante di un corpo di polizia carceraria che, a conoscenza del massacro che si sta tramando contro taluni detenuti, non lo impedisce (91). Concorre nel furto l’agente di polizia giudiziaria che, pur avendo sorpreso il ladro in flagranza di reato, permette che egli porti a consumazione il fatto, allontanandosi dal luogo del delitto (92); così come, ancora l’appartenente alla polizia giudiziaria, concorre nel reato dei propri amici se, venuto a conoscenza del loro proposito di congiungersi carnalmente con una prostituta sulla pubblica spiaggia, non impedisce l’iniziativa, anche semplicemente non partecipandovi (93). Infine, concorre nel delitto di estorsione l’appartenente alla polizia penitenziaria (94), il quale, richiesto di intervenire da un amico ripetutamente minacciato a scopo di estorsione, sfrutti le proprie conoscenze nel mondo malavitoso per porre fine alla vicenda con il pagamento dell’estorsore (95); perché, ciò facendo, vìola il suo specifico dovere di impedire il reato, omettendo di avvertire del delitto medesimo le competenti autorità (96), ed anzi consente che lo stesso si consumi, anche grazie al proprio fattivo intervento di mediazione (97). (89) Trattasi del testuale esempio portato dalla Corte di Cassazione nelle sue ‘osservazioni’ al progetto di codice sottoposto all’esame delle varie componenti del mondo giuridico nel corso dei lavori preparatori al Codice Rocco. Su tale dibattito, vd. anche FIANDACA, Reati cit., 27 ss. (90) Cass., sez. I, 5 maggio 1950, Santru, in Giust. pen., 1951, 872, con nota di COLACE, Osservazioni sul capoverso dell’art. 40 c.p. (91) Corte Assise Milano, 13 novembre 1952, Maltauro, in Riv. pen., 1953, II, 172. (92) Cass. 2 aprile 1960, Stanga, in Giust. pen., 1960, II, 858. (93) Cass. 18 giugno 1965, Deiana, in Giust. pen., 1965, II, 939. (94) Anche se fuori servizio ed in luogo diverso e lontano da quello nel quale è svolto il servizio medesimo. (95) Sebbene in misura inferiore a quella richiesta. (96) A proposito dei rapporti tra il concorso per omissione ed altri reati contigui, più d’una pronuncia osserva, però, che il fatto concorsuale nel reato non impedito deve tenersi distinto dal diverso ed autonomo reato omissivo (proprio) di omessa denuncia (art. 361 c.p.); mentre in questo il pubblico ufficiale omette di dare notizia del reato di cui è venuto a conoscenza, nel primo egli omette non tanto la semplice notizia, bensì il doveroso comportamento positivo volto all’impedimento del reato (in questo senso, vd. le ultime tre sentenze citate). I rapporti con il delitto di favoreggiamento personale (art. 378 c.p.), sono invece espressamente risolti dalla clausola di riserva che esclude i ‘casi di concorso nel reato’ (stessa Cass. 2 aprile 1960, Stanga, cit.). (97) Cass. 8 maggio 1984, Calvaruso, in Cass. pen., 1985, 1830, in verità, questa de-
— 1359 — Nella giurisprudenza più recente, conviene dar conto di due vicende di particolare interesse. Nella prima, si giudica di una rapina commessa da due agenti della P.S., l’uno in servizio di pattuglia, l’altro in abiti civili, ai danni di due prostitute nigeriane, e consistita nel derubarle del denaro frutto dell’attività di prostituzione, e nel trasportare una delle due fuori dell’abitato cittadino, per poi abbandonarla sul ciglio di una strada extra-urbana. Al fatto assistono altre due agenti, l’una in servizio, l’altra in abiti civili, che non si oppongono al reato dei colleghi. Assolte in primo grado (98), le due agenti vengono invece condannate in appello (99), per concorso nel fatto altrui non impedito. I Giudici di legittimità confermano tale decisione, osservando come alle imputate — in virtù della loro qualifica — incombesse un preciso obbligo di impedire i fatti di reato loro ascritti (100). In una seconda, recentissima decisione (101) la S.C. ha giudicato del seguente caso: Tizio, indagato per l’omicidio di un commissario di P.S., si ‘consegna’ alle forze dell’ordine, e rimane affidato al comandante di un Nucleo operativo dei Carabinieri, fino al momento dell’interrogatorio, svoltosi presso gli uffici della locale Squadra Mobile; l’interrogatorio viene condotto alla presenza di due dirigenti della stessa Squadra Mobile, nonché di numerosi altri agenti e funzionari di Carabinieri e Polizia. L’atmosfera si fa subito pesante, e precipita poi drammaticamente in seguito allo scatto d’ira di uno dei dirigenti, che schiaffeggia Tizio intimandogli di dire la verità, così scatenando anche la furente reazione dei presenti, che trascinano l’interrogato in una diversa stanza, lo malmenano, lo costringono a distendersi su due tavolini accostati, e lo sottopongono violentemente al c.d. trattamento con acqua e sale, vale a dire alla forzata immissione nella bocca — mediante tubo ed imbuto — di acqua salata. La fortuita penetrazione nelle vie aeree del tubo e di una piccola quantità d’acqua, determina però la morte di Tizio. Alla seconda parte dei fatti, seguiti allo scatto d’ira del dicisione tratta con apodittica marginalità il tema della violazione dell’obbligo rilevante ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p., pur incentrandovi la statuizione di condanna, ma si sofferma piuttosto — quasi a giustificare l’esito del giudizio — sui profili ‘oscuri’ o moralmente censurabili della condotta dell’imputato, sul suo inserimento ‘per nulla secondario e marginale’ nella vicenda criminosa, nonché sulla sua sospetta sicurezza e capacità di orientarsi nello stesso mondo del crimine locale. E non manca neppure di sottolineare come ‘l’atteggiamento omissivo dell’ufficiale di p.g. fosse valso a rassicurare il gestore dell’intrapresa criminosa’ che — nel caso di specie — il corso degli eventi mai sarebbe giunto ‘al cospetto della Giustizia’. Simili rilievi destano però più d’una perplessità: innanzitutto, in ordine alla natura della condotta contestata, che parrebbe rilevare più per profili attivi-commissivi che non omissivi; in secondo luogo, proprio in ordine all’oggetto immediato (per cui vd. infra al par. 4.2) dell’omissione contestata, che sembrerebbe riguardare più il reato di cui all’art. 361 c.p. che non una efficace opera di diretto impedimento del reato medesimo (sul punto vd. immediatamente supra; l’omessa denuncia del reato — così sembra ragionare la S.C. — ha un rilievo causale perché con essa si sarebbero attivati una serie di meccanismi istituzionali, tali da impedire il pagamento dell’estorsione, e con esso la consumazione del reato). Infine, nel corpo della decisione si avvertono tracce — neppur tanto silenti — di quelle ‘ragioni di giustizia sostanziale’ che animano spesso l’intera materia, muovendo la giurisprudenza in un senso ovvero in quello opposto sulla sola scorta delle esigenze di tutela (e/o di repressione) volta per volta avvertite dal singolo interprete nel singolo caso concreto (per cui vd. supra al par. 2 e infra al par. 6). (98) Tribunale di Siena, sentenza del 3 ottobre 1989, ined. (99) Corte d’Appello di Firenze, sentenza del 17 ottobre 1990, ined. (100) Cass. 14 febbraio 1992, Viani, in Riv. pen., 1992, II, 659; la S.C. sottolinea, altresì, che un simile comportamento inerte ha integrato non tanto un concorso materiale nei fatti materialmente commessi dagli altri due agenti (la cui illiceità penale è palese), bensì una forma di ‘concorso morale nel cagionarli’; sul punto vd. infra al par. 5.2.7. (101) Cass. pen., sez. V, 5 maggio 1995, Russo e altri, in Giust. pen., 1996, II, 178 (m. 94). La decisione è commentata anche da PALAZZO, Concorso mediante omissione in omicidio preterintenzionale: un caso e un problema ‘delicati’, in Studium iuris, 1996.
— 1360 — rigente della P.S., non assistono (né in altro modo prendono parte) né i due dirigenti, né il comandante dei CC. Della responsabilità di questi ultimi, tuttavia, si discute, per valutare se ad essi possa imputarsi la morte di Tizio, a titolo di concorso per omesso impedimento del reato. La sentenza di secondo grado, difatti, manda assolti gli imputati, sulla base del duplice rilievo della loro assenza dalla ‘scena del delitto’ al momento della commissione del reato-base (il violento trattamento vessatorio), e di una pretesa ‘soluzione di continuità’ — nel nesso di causalità materiale — tra la prima e la seconda parte dei fatti. La S.C., nel cassare la pronuncia, osserva però che i Giudici di merito avrebbero dovuto tener conto delle posizioni di garanzia dei dirigenti della P.S. nei confronti della vita dell’interrogato, e dunque del loro obbligo di impedire che la condotta degli altri partecipanti all’interrogatorio trasmodasse in ulteriori violenze, cause della successiva morte. Tali obblighi derivavano: per il dirigente nella cui stanza si era svolto l’interrogatorio, ed al quale l’indagato si era consegnato, da detto specifico affidamento; per il secondo, il dirigente ‘schiaffeggiatore’, dall’aver lui medesimo innescato l’intero episodio con la predetta condotta violenta, e dunque da una sorta di condotta pericolosa precedente che lo obbligava a vigilare — senza neppure alcuna facoltà di delegare, anche implicitamente, tale funzione — a che la condotta altrui, da lui stesso indotta, non giungesse ad esiti ulteriori. Quanto al comandante dei CC., infine, la S.C. ritiene di dover invece confermare il verdetto assolutorio, rilevando che la particolare posizione ufficiale e personale che egli ricopriva nell’ambito dei luoghi in cui si svolsero i fatti, avrebbe reso ogni suo eventuale intervento probabilmente inidoneo ad impedire il reato. 3.4. L’obbligo di impedimento dei reati derivante da rapporti gerarchia militare. — Anche in questo ambito si segnalano numerose pronunce. I primi motivi di riflessione in materia sono stati offerti dagli eventi bellici del secondo conflitto mondiale, ed in particolare dai fatti delittuosi che hanno caratterizzato il periodo della resistenza. L’adesione alla tradizionale (ed allora indiscussa) concezione formale dell’obbligo di impedimento, per cui ogni fattispecie può risolversi solo guardando all’esistenza o meno di un obbligo (giuridico perché) formalmente posto, ha però determinato decisioni non di rado sorprendenti. Così, si è affermata l’innocenza del superiore di reparti di ‘brigate nere’ rispetto alla strage per rappresaglia commessa dai suoi sottoposti (102) — delle cui intenzioni era pienamente a conoscenza — sulla base del solo rilievo che la struttura gerarchico-istituzionale di simili formazioni non potesse avere alcuna giuridicità perché illegittima (103). Fuori degli episodi bellici, la giurisprudenza ritiene normalmente che sussista la respon(102) Trattasi dell’eccidio di Sesso, eseguito da una squadra vicentina delle brigate nere della R.s.i. (103) Cass. pen., sez. II, 3 marzo 1948, Bonini, in Arch. pen., 1949, II, 19. Poiché la responsabilità per omissione presuppone un obbligo giuridico — si legge in motivazione — dovendosi escludere ‘la legittimità delle formazioni militari e di polizia create dalla R.s.i. [come da giurisprudenza unanime, affermatasi in particolare in ordine alla legittimità-giuridicità degli ordini e delle norme emanate nel suo seno, ai fini della loro rilevanza — però esclusa — quali scriminanti ex art. 51 c.p.], non può riconoscersi un ordine gerarchico tra gli appartenenti a queste formazioni, ordine che solo potrebbe dare impronta di giuridicità ai rapporti di fatto nascenti tra costoro’; perciò, pure ammettendosi che l’imputato avesse un obbligo morale di attivarsi per impedire l’eccidio, certo ’non può ritenersi che egli ne avesse l’obbligo giuridico’ (corsivi nostri). Nel commentare brevemente la decisione, il VANNINI (Sull’obbligo giuridico di impedire l’evento, ivi, 20), osserva come all’obbligo de quo conferisse giuridicità non tanto la legge, bensì la propria precedente attività pericolosa, collegata causalmente all’evento, e consistita nella volontaria e consapevole direzione di una brigata di O.P. Si veda anche il caso simile deciso da Cass. 17 novembre 1948, Palomba, in Giust. pen., 1949, II, 219, nel quale si escluse analoga responsabilità in capo al comandante una brigata di O.P., rispetto alla fucilazione di un partigiano decisa dai suoi sottoposti, sebbene
— 1361 — sabilità concorsuale del superiore gerarchico per i fatti di reato commessi dai sottoposti, in forza dell’espresso disposto dei vari regolamenti di disciplina militare, succedutisi nel tempo (104). Risponde, perciò, di concorso nel furto commesso dal militare addetto all’armeria, anche il di lui capo-squadra che — pur blandamente minacciato di non ‘immischiarsi nella faccenda’ — nulla oppone alla sottrazione di un’arma, commessa in sua presenza (105). Del pari, il superiore militare che assiste al reato perpetrato da un subalterno, se non lo impedisce, ‘associa il suo delittuoso consenso alla produzione dell’‘evento’; perciò, il caporale che sorprenda un autiere nell’atto di sottrarre carburante dal serbatoio di un automezzo egli fosse stato tempestivamente informato dell’intenzione omicida, e ciò perché, non essendogli imposto da alcuna legge o uso di guerra l’applicazione di rappresaglia, a lui non incombeva neppure un obbligo giuridico di impedire l’evento. In verità, leggendo con attenzione le motivazioni di queste come di altre simili pronunce, ci si avvede di come i giudicanti abbiano voluto fondare i verdetti assolutori anche e soprattutto in punto di elemento soggettivo, in considerazione della mancanza di una autentica adesione psichica degli imputati al progetto delittuoso altrui. In proposito, si vedano ancora: Cass. 13 aprile 1949, Tacconi, in Giust. pen., 1949, II, 358 (in cui la S.C. cassa una decisione di condanna a carico del comandante di una squadra di militi nazifascisti, i quali, nello scortare un partigiano appena fatto prigioniero, inopinatamente lo ‘giustiziano’ lungo il percorso di rientro in caserma, senza che il superiore — pur presente — intervenga per impedirlo; i Primi Giudici — osserva la Cassazione — avrebbero dovuto accertare se il mancato attivarsi dell’imputato corrispondesse ad una reale volontà adesiva alla perpetrazione dell’evento, ovvero solo ad un atteggiamento di negligenza rispetto ai propri doveri di ufficio); Cass. 20 dicembre 1948, Sardi, in Riv. pen., 1949, II, 703 (ancora in ordine ad un comandante di brigate nere). Alla ricerca di una formale giuridicizzazione dell’obbligo di impedire l’altrui strage, vd. poi: Cass. 3 maggio 1948, Bonaccini, in Giust. pen., 1948, II, 681 (secondo cui per il semplice fatto di aver partecipato all’arresto di coloro che furono poi fucilati da altri e per ordine del loro superiore, nonché per la sola passiva assistenza alla fucilazione medesima, il militare non può considerarsi compartecipe dell’omicidio, perché con la sola presenza inattiva non si assumono responsabilità); Cass. 7 giugno 1948, Geminiani, in Giust. pen., 1948, II, 681. (104) Per i superiori gerarchici si veda l’art. 94 r.d. 24 giugno 1929, n. 1959: ‘Il superiore (di qualsiasi grado) deve tenere per norma del proprio operare che il grado ed il comando gli sono dati... per fare osservare le leggi, i regolamenti e gli ordini militari’; norma ripetuta anche dall’art. 21 del recente d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545 (Nuovo regolamento di disciplina militare, in attuazione dei princìpi già dettati dalla l. 11 luglio 1978, n. 382, recante ‘Norme di principio sulla disciplina militare’). In senso più generale, si veda invece l’art. 23 d.P.R. 31 ottobre 1964 (privo di numero d’ordine perché mai pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale), il quale prevede che il militare ‘in caso di reato flagrante deve procurare con tutte le forze di impedirlo e di arrestare il colpevole’. Un particolare obbligo di impedimento (anche) di reati è dettato dall’art. 20 d.P.R. n. 545 cit. (‘Tenuta e sicurezza delle armi, dei mezzi, dei materiali e delle installazioni militari’) il cui 1o comma recita: ‘Il militare deve avere cura delle armi, dei mezzi, dei materiali a lui affidati ed adottare le cautele necessarie per impedirne il deterioramento, la perdita o la sottrazione. Egli deve opporsi con decisione ad ogni atto che possa anche indirettamente determinare pericolo o arrecare danno alle armi, ai mezzi, ai materiali ed alle installazioni militari’. Sulla disciplina militare e le sue fonti, vd. anche infra al par. 6. (105) Trib. Sup. mil. 9 febbraio 1960, Romano, in Riv. pen., 1960, 522; della medesima vicenda si veda anche la sentenza di primo grado: Trib. mil. terr. Roma 22 settembre 1959 in Temi rom., 1960, 470 (con la già citata nota di DE ANGELIS, Omesso impedimento etc.), nella quale si afferma che quel dovere di impedimento scaturisce ‘non solo da quell’insieme di obblighi che la disciplina militare impone, ma chiaramente... dall’art. 52 del regolamento di disciplina’, che conferisce anche piena giuridicità all’obbligo; il non avere impedito l’evento ‘significò in sostanza partecipazione completa alla volontà del reo di cagionare l’evento. Il R., pur nulla materialmente facendo, agevolò indiscutibilmente con la sua inerzia l’amico, e tale inerzia... divenne vera e propria partecipazione’. Il DE ANGELIS esprime dubbi sulla giuridicità del dovere di cui al regolamento di disciplina; e similmente, ROSIN (op. cit., 33 ss.) pone l’accento sulla palese violazione della riserva di legge che conseguirebbe al riconoscere rilevanza ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p. ad un testo solo regolamentare.
— 1362 — affidatogli, e non intervenga ad ‘ingiungere la desistenza’, ne risponde in concorso con il medesimo, perché — vuole aggiungere la Corte — anche un semplice richiamo sarebbe stato sufficiente ad impedire il fatto delittuoso (106). 3.5. L’obbligo di impedimento dei reati in ambito societario. — Notevole rilievo assume, nella più recente giurisprudenza, il tema della responsabilità di sindaci ed amministratori delle società di capitali per l’omesso impedimento di reati societari o a danno della società (107), che discenderebbe — quanto agli amministratori — dall’art. 2392 c.c. (108), e quanto ai sindaci — dagli artt. 2403 e 2407 c.c. (109). Perciò è affermazione corrente che, soprattutto in tema di reati fallimentari, tanto i primi che i secondi siano responsabili, a titolo di concorso, dell’omesso impedimento dei reati di bancarotta commessi da taluni amministratori, anche di fatto. Così, nel celeberrimo ‘caso Sindona’ (110), relativo al crack di un istituto di credito privato, si giudica dell’opera sistematica di ‘spoliazione’ commessa da parte del Sindona ai danni della fallita, con l’inerte connivenza degli amministratori di questa, che nulla avevano fatto per impedire spericolate operazioni finanziarie disposte direttamente dallo stesso Sindona. Nell’esaminarne la posizione, la S.C. non ha esitazioni a confermare le pronunce di condanna delle Corti di merito, in base al combinato disposto degli artt. 2392 c.c. e 40 cpv. c.p. (111), e ciò perché gli amministratori, anche non delegati, ben avrebbero potuto avvalersi di una serie notevole di strumenti giuridici (diffide, denunce, intimazioni a desistere, impugnative, etc.) per impedire il reato. Allo stesso modo, neppure può escludersi la responsabilità dell’ amministratore ‘prestanome’ rispetto ai reati commessi dall’amministratore ‘di fatto’, poiché l’obbligo penalmente sanzionato di impedire detti illeciti deriva direttamente dall’investitura formale della carica, e non può perciò essere vanificato dalla semplice circostanza che il primo si sia volutamente mantenuto estraneo alla attività di amministrazione (112). Dalla predetta responsabilità non vanno esenti — infine — neppure i componenti del (106) Trib. mil. terr. Milano, 5 agosto 1948, Pennecchi, in Giust. pen., 1949, II, 48 (n. MARINA, Responsabilità per omissione e connivenza). (107) Poche le pronunce che riguardano violazioni diverse; se ne da atto brevemente infra. In tema vd. ampiamente GRASSO, op. cit., 338 ss. (108) Il cui 1o comma prevede la responsabilità solidale degli amministratori per i danni derivanti dall’inosservanza dei doveri impostigli dalla legge e dall’atto costitutivo, ed il cui 2o comma testualmente dispone che essi sono in ogni caso solidalmente responsabili ‘se, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose’. Il 3o comma della norma detta, poi, particolari formalità per la separazione della responsabilità degli amministratori dissenzienti da quella degli altri amministratori. (109) La prima norma impone ai componenti il collegio sindacale di controllare l’amministrazione della società, di verificarne i bilanci e le scritture contabili, nonché (più in generale) di vigilare sull’osservanza della legge e dell’atto costitutivo. Il 2o comma dell’art. 2407 c.c. stabilisce, poi, la loro responsabilità solidale con gli amministratori, per i fatti o le omissioni di questi, ‘quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica’. (110) Cass., sez. V, 26 giugno 1990, Bordoni, in Cass. pen., 1991, 828 ss. (nota di CARRERI, Nuova prospettazione di una vecchia questione sulla controversa struttura del reato di bancarotta), ove si ricostruisce esaurientemente l’intero corso dei fatti, nonché l’iter processuale di merito. (111) A nulla vale obiettare — secondo un inciso della motivazione — che la prima norma atterrebbe soltanto alla tutela del patrimonio della società, e non anche alla generica tutela dei terzi (offesi dal fatto di bancarotta per distrazione), stante il disposto dell’art. 2394 c.c., che stabilisce la responsabilità degli amministratori anche nei confronti dei creditori sociali ‘per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale’. (112) Fattispecie ancora in tema di bancarotta fraudolenta: Cass., sez. V, 7 luglio
— 1363 — collegio sindacale, qualora (relativamente a fatti di bancarotta documentale) omettano consapevolmente di esercitare i propri poteri di controllo e di denunciare le irregolarità delle registrazioni contabili (113). Analogamente, i sindaci sono responsabili anche del reato di valutazione esagerata di conferimenti ed acquisti, perché — sebbene non siano inclusi tra i soggetti indicati dall’art. 2629 c.c. — essi possono comunque concorrere nel reato omettendo di impedire la sopravvalutazione dei conferimenti, commessa dagli amministratori, anche al di là dei precipui compiti di controllo previsti dall’art. 2343 c.c. E ciò perché incombe loro (lo si ricava dal complesso delle norme che ne definiscono i profili funzionali) un obbligo di garanzia sostanziale di impedire in ogni caso che gli amministratori, nell’esercizio delle loro funzioni, compiano atti contrari alla legge (114). Ma v’è di più. Se è indiscusso obbligo dei componenti del collegio sindacale di intervenire per scongiurare danni al patrimonio sociale, ben può essere a questi imputata una responsabilità a titolo di concorso con gli amministratori anche in reati estranei al diritto societario, ivi compresi i reati edilizi (115), ‘per il tramite’ del predetto obbligo di impedire danni al patrimonio sociale: poiché è di tutta evidenza che la realizzazione di una costruzione, poi soggetta — per essere abusiva — ad ordine di demolizione, determina precisamente quel danno patrimoniale (costituito dal dispendio di risorse per la realizzazione di un’opera inutile) che i sindaci avrebbero invece dovuto impedire (116). 4.
La posizione di garanzia volta all’impedimento dei reati altrui.
4.1. Sistematica degli obblighi di garanzia e peculiarità dell’obbligo di impedire l’altrui reato. — Problema centrale, ed autentico nodo strutturale dell’intera sistematica dei reati omissivi impropri, secondo gli esiti della migliore e più recente dottrina (117), è l’indi1992, Boccolini, in Cass. pen., 1993, 674; nello stesso senso vd. anche Cass., sez. V, 6 settembre 1993, Trovero, in Riv. pen., 1994, 695. (113) Cass., sez. V, 21 gennaio 1989, Piras, in Riv.pen. econ., 1990, 489. (114) Cass., sez. V, 28 febbraio 1991, Cultrera, in Cass. pen., 1991, 1849, con ampia nota di richiami. (115) Pretore Napoli, 13 maggio 1976, Giovinetti, in Foro it., 1977, II, 30. (116) Cass. 31 agosto 1993, Minelli, in Cass. pen., 1994, 716 (fattispecie di abusiva costruzione di un capannone industriale di grande estensione, appartenente a società per azioni). (117) Viene qui sostanzialmente accolta la sistemazione della materia compiuta da GRASSO, op. cit., il quale, all’esito dell’analisi tanto della tradizionale Rechtspflichttheorie (cioè della teoria formale dell’obbligo) quanto della più moderna concezione funzionale-sostanzialistica, afferma la necessità di una loro reciproca integrazione (nello stesso senso, vedi anche MANTOVANI, op. cit., 194 ss.). Occorre ricordare da subito che, sebbene la ricostruzione dell’obbligo di impedimento penalmente rilevante in chiave di risultante di una posizione di garanzia (cioè alla luce di una sua rilettura funzionale-contenutistica) sia ormai patrimonio comune della moderna dottrina italiana (specie dopo gli studi di SGUBBI, FIANDACA e GRASSO, autori delle monografie più volte citate), le posizioni dei singoli autori si differenziano, però, in un punto: e cioè a seconda che si riguardi il fondamento materiale-funzionale dell’obbligo come presupposto costitutivo da sé solo sufficiente o meno della responsabilità in questione (nel primo senso FIANDACA e SGUBBI). La posizione di GRASSO si segnala, appunto, nel ritenere altresì necessario un preesistente fondamento giuridico-formale dell’obbligo, ricavabile da espresse disposizioni di legge: l’analisi funzionale non vale da sé sola a selezionare, tra l’infinita varietà delle omissioni di azioni potenzialmente impeditive, quelle rilevanti perché rispondenti ad una materiale posizione di garanzia, bensì a selezionare tra gli obblighi di impedimento già positivamente previsti dalla legge, quelli rispondenti anche alle caratteristiche funzionali di una posizione di garanzia. Questa seconda posizione appare preferibile, perché, pur non eliminando i gravi margini di indeterminatezza e discrezionalità che dominano la materia nei suo profili applicativi, certo consente almeno parzial-
— 1364 — viduazione della posizione di garanzia, cioè di quella posizione soggettiva doverosa costruita a carico dei soggetti che l’ordinamento costituisce garanti dell’integrità di determinati beni, e dalla quale discende l’obbligo giuridico dei primi ad attivarsi per impedire eventi pregiudizievoli a carico dei secondi, a pena della responsabilità per omissione ‘impropria’ fondata sul disposto dell’art. 40 cpv. c.p. Gli studi più recenti — seguendo, peraltro, indirizzi interpretativi già delineati dalla dottrina d’oltralpe (118) hanno difatti rilevato come l’espressa previsione legislativa di obblighi di impedimento (o di attivarsi) costituisca presupposto necessario ma non sufficiente dell’esistenza di una correlativa ‘posizione di garanzia’ penalmente rilevante; deve cioè respingersi, perché insufficiente e parziale, l’equazione tradizionale ‘obbligo giuridico di attivarsi = obbligo di impedimento dell’evento rilevante ex art. 40 cpv.’, ed occorre invece vagliare detti obblighi alla luce delle ‘esigenze proprie’ della responsabilità per omissione, per verificare se ricorrano le particolari, ulteriori caratteristiche contenutistico-funzionali che sole conferiscono, all’obbligo di impedimento formalmente posto dalla legge (119), la consistenza di un obbligo di garanzia, e conseguentemente al suo inadempimento la rilevanza penale prevista dall’art. 40 cpv. c.p. (120). Tra tali peculiari caratteristiche si individua, prima fra tutte, l’incapacità, totale o parziale, del titolare del bene garantito, di attendere efficacemente, ed in via autonoma, alla sua protezione contro potenziali eventi lesivi: la finalità che connota funzionalmente la responsabilità penale per omesso impedimento, costituendone il primario fondamento politico-criminale, è pertanto quella di fornire a tali beni (e dunque non a tutti, ma solo ad alcuni) una tutela ‘rafforzata’ (121). È altresì opinione consolidata che detta funzione possa atteggiarsi in duplice modo, e possa perciò essere svolta, in concreto, o mediante l’affidamento diretto del bene tutelando al garante (posizione di protezione del bene medesimo), ovvero mediante l’imposizione a questo di un dovere di controllo su una determinata fonte di pericolo, cui consegue l’indiretto affidamento a titolo di garanzia di tutti i beni che vengano in contatto con la sfera di potenziale lesività della stessa fonte (122). Quanto alla posizione di garanzia riferita all’impedimento di reati di terzi, è parso — e, come diremo, ve n’è ragione — ch’essa non possa semplicemente ricondursi ad una delle due categorie ora descritte, che non si atteggi (in particolare) come species del genus delle ‘pomente di ridurli, tentando di mantenere l’intera categoria il più vicino possibile al principio di legalità, ad onta della sua ineliminabile forza centrifuga (SGUBBI) rispetto a questo. (118) Cioè di lingua tedesca. Per esaurienti indicazioni di diritto di comparato, si veda per tutti GRASSO, op. cit., cap. II. (119) Rimane estranea all’ambito del presente lavoro la vasta e complessa tematica della individuazione delle fonti formali dell’obbligo di impedimento, di rilievo logicamente preliminare a quella qui affrontata delle sue ulteriori caratterizzazioni in chiave di istanza di garanzia; le modeste peculiarità che presentano, rispetto al tema generale, le sue applicazioni alla specifica posizione di garanzia qui in esame, consigliano di rimandare direttamente alle trattazioni generali di cui alle citate monografie di GRASSO (cap. IV, sez. I), FIANDACA (cap. IV, sezioni II-III) e SGUBBI (parte II, cap. II, sez. III). (120) Così GRASSO, op. cit., 184 ss. (e in ROMANO, op. loc. cit.), oltre a FIANDACA e SGUBBI cit.; per la manualistica, accolgono tale impostazione, tra gli altri: FIANDACA-MUSCO, op. cit., 444 ss.; FIORE, op. cit., 238; PADOVANI, op. cit., 163; ANTOLISEI, op. cit., 233; in senso fortemente riduttivo PAGLIARO, op. cit., 362 (n. 34), che appare non voler discostarsi dalla sistematica formale delle fonti. La prevalente giurisprudenza — come può intuirsi dalla rassegna offerta — è tuttora ancorata (e saldamente) alla tradizionale sistematica formale, cui è del tutto estranea ogni considerazione circa contenuto e funzione dell’obbligo medesimo. Fanno eccezione talune più recenti pronunce: vd. per tutte Cass. 21 settembre 1992, Ferri, cit. al par. 3.1. (121) GRASSO, op. cit., 256; FIANDACA, Il reato cit., 130. (122) Vd. per tutti: FIANDACA, Il reato cit., 132 e 171 ss.; GRASSO, op. cit., 291 ss..
— 1365 — sizioni di controllo’, e che debba per essa costruirsi un apposito tertium genus di ‘posizioni di garanzia’ (123). E difatti: nelle ‘posizioni di protezione’, la fonte sostanziale dell’obbligo di attivarsi sta nel particolare legame esistente tra il garante ed il titolare del (o, direttamente, ‘il’) bene tutelando; quanto al contenuto del ‘quod debetur’, l’ordinamento ‘affianca’ le capacità di difesa del garante a quelle — ritenute insufficienti — del titolare, senza però conferire al primo particolari poteri di impedimento’, diversi da quelli che ben potrebbe avere, anche in misura superiore, il terzo quisque de populo del tutto estraneo alla relazione di garanzia. Così, nel classico esempio del bambino che annega dinanzi al di lui padre ed all’amico di famiglia, non vi è dubbio che entrambi possano intervenire, ed anzi può darsi che l’amico di famiglia, in concreto (ad esempio perché campione subacqueo), possa farlo ben più efficacemente di quanto non possa il genitore: eppure la sola inerzia di quest’ultimo acquista rilevanza penale, essendo lui soltanto venuto meno a quell’obbligo funzionale di tutela, impostogli dall’ordinamento, di porre le proprie — magari povere — capacità di difesa a vigile disposizione del bene protetto, di ‘aggiungerle’ a quelle insufficienti di cui solo può disporre il titolare del bene tutelato. Nelle ‘posizioni di controllo’, al contrario, la tutela rafforzata scaturisce proprio dalla posizione particolare (‘di signoria’) in cui un determinato soggetto si trova nei confronti di una fonte di pericolo, perché fornito di particolari poteri fattuali di intervento e di inibizione rispetto ad essa (124). Sono le non comuni e peculiari capacità di intervento a connotare diversamente — così conferendole rilevanza penale — l’inerzia del garante rispetto a quella del quisque de populo: si è esattamente osservato che, anche ammettendo che entrambi — garante e terzo estraneo — abbiano la medesima possibilità concreta di impedire l’evento finale, solo il primo, e non il secondo, è in grado di dominare il processo causale che ab origine determina il pericolo della lesione, il secondo potendo solo evitare che detta situazione di pericolo evolva nella effettiva lesione del bene. Così, è ben vero che tanto il casellante quanto lo spettatore casuale possono egualmente impedire — in concreto — l’evento dell’investimento del passante, il primo abbassando le sbarre ed impedendo l’accesso di persone e mezzi alla sede ferroviaria, il secondo semplicemente trattenendo il malcapitato sul limitare dei binari al sopraggiungere del convoglio; ma solo il casellante ha il potere di inibire la nascita della specifica situazione di pericolo. Casellante e spettatore occasionale non hanno, in una parola, i medesimi poteri di intervento. La possibilità concreta di impedire l’evento si salda — qui — ad un potere di effettiva e diretta signoria sui fattori causali dell’evento medesimo, ed in virtù di essa soltanto si connota come posizione di garanzia (125). Si noti, come i profili funzionali-contenutistici della ‘posizione di controllo’ si atteggino in senso quasi invertito rispetto alla ‘posizione di protezione’: non dal bene (specifico) alle capacità di tutela (comuni) nei confronti delle potenziali fonti di pericolo (quali che siano), ma dalle capacità di tutela (specifiche, non comuni ai terzi estranei) nei confronti di una potenziale fonte di pericolo (specifica) ai beni potenzialmente vulnerabili (quali che siano). Vi è uno specifico motivo sostanziale, allora, per costruire le posizioni di garanzia volte all’impedimento di fatti illeciti altrui come tertium genus rispetto alle due tradizionali categorie ricordate. Tale terza categoria può difatti attingere le proprie caratteristiche funzionali da ciascuna delle altre due, poiché la previsione di un obbligo, penalmente sanzionato, di attivarsi per impedire fatti illeciti di terzi può trovare fondamento sostanziale in due distinti ordini di esi(123) GRASSO, op. cit., 327 ss. (124) Per il rilievo che, pertanto, il presupposto della signoria del garante su determinati fattori dell’evento non possa atteggiarsi a caratteristica genetica comune di tutte le posizioni di garanzia (come opinato da altri: FIANDACA, Il reato cit., 163 ss.), ma costituisca il presupposto funzionale delle sole posizioni di controllo, vd. GRASSO, op. cit., 237 ss. (125) FIANDACA, Il reato cit., 167 ss.
— 1366 — genze: o in quella di vigilare e contenere la potenziale pericolosità di determinati soggetti (motivo sostanziale prossimo a quello che sottende alle posizioni di controllo), ovvero nella necessità di far fronte alla particolare vulnerabilità di determinati beni (motivo prossimo alle posizioni di protezione). In una parola, l’esigenza di tutela che presiede funzionalmente alla costituzione di un garante, titolare del dovere di impedire la commissione di reati, può certo essere rappresentata, e forse con maggiore evidenza, dall’esistenza di soggetti le cui caratteristiche personali determinino il fondato pericolo di condotte delittuose (soggetti pericolosi e/o incapaci), facendo così scaturire la posizione di garanzia da relazioni del tutto simili a quelle dalle quali discendono posizioni di controllo di una fonte di pericolo (si pensi ai rapporti tra genitori e figli minori, tra tutore e incapace, tra personale di ospedale psichiatrico ed infermi di mente pericolosi, etc.). Ma una esigenza di tutela del tutto analoga può anche derivare da situazioni vicine a quelle che determinano, invece, l’insorgenza di obblighi di protezione, e cioè quando debba supplirsi mediante il garante a condizioni di ‘particolare vulnerabilità di determinati beni anche o esclusivamente rispetto a condotte criminose di terzi’. Si pensi a tutte quelle ipotesi in cui gli obblighi di impedimento attengono a reati ‘commissibili’ da parte di soggetti perfettamente capaci (quali i dirigenti o gli amministratori di una società, i redattori di un quotidiano, i militi subalterni) rispetto a beni cui il garante appare, però, prima facie peculiarmente legato (rispondenza al vero delle scritture contabili e amministratori; correttezzaobiettività dell’informazione e direttore responsabile; beni delle Forze armate e superiore militare). Simile ambivalenza funzionale rende perciò impossibile la riconduzione sic et simpliciter delle posizioni di garanzia in oggetto ad una delle due categorie tradizionali (126), e rende necessaria la delineazione di un tertium genus categoriale. 4.2. Poteri di comando, disvalore della condotta altrui e conversione per equivalente. — Riguardata funzionalmente, la posizione di garanzia in esame desume perciò il proprio fondamento dall’esigenza di rafforzare la tutela di taluni beni, i cui titolari appaiono incapaci di attendervi efficacemente in via autonoma, o perché nessun terzo, di fronte alla specifica fonte di pericolo signoreggiata, appare in grado di difendersi efficacemente (e così il genitore del minorenne esplosivo dovrà vigilare a che egli non aggredisca con la fionda appena costruitasi l’ignaro postino), oppure perché lo stesso bene tutelando appare particolarmente vulnerabile, per la ridotta capacità difensiva del suo titolare o per altre ragioni, rispetto alle condotte aggressive di terzi. Vi è, però, un quid pluris affatto peculiare che, oltre a rappresentare il criterio sistematico unificante di queste posizioni di garanzia (127), ne caratterizza tanto il fondamento politico-criminale, quanto lo specifico contenuto del relativo obbligo giuridico di impedimento, (126) In questo senso, invece, vd. FIANDACA, op. cit., 193 ss. (anche in nota); per questo A., la necessità che sussista un effettivo potere di signoria sulle condizioni dell’evento, che costituirebbe requisito generale di ogni obbligo di garanzia, nelle ipotesi in cui il controllo del garante sia rivolto all’impedimento di fatti illeciti altrui si tradurrebbe nell’esigenza che il terzo-reo versi in una condizione di incapacità; con esclusione, pertanto, di tutte le ipotesi in cui i soggetti sui quali dovrebbe appuntarsi detto obbligo di impedimento siano invece ‘capaci di governare responsabilmente la loro condotta’: ‘diversamente, in base al principio dell’auto-responsabilità, dell’illecito potrebbe rispondere soltanto il soggetto che lo commette’ (in nota). Può ammettersi — al più — la sussistenza di una posizione di garanzia qualora l’obbligo di impedire altrui condotte criminose si specifichi dalla parte della vittima, in un ‘rapporto di tutela personificabile’ nei confronti di specifici beni o soggetti; in tali ipotesi, però, si tratterebbe pur sempre di un obbligo di protezione, per il quale permarrebbero le perplessità di cui sopra relativamente all’inesistenza di un potere di signoria sul terzo pienamente responsabile (op. cit., 198, in nota). (127) Così GRASSO, op. cit.
— 1367 — che solo gli conferisce la consistenza di un ‘obbligo di garanzia’ rilevante ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p. Si rifletta, difatti, sulla seguente considerazione: l’impedimento del reato di un terzo necessariamente consiste in una attività di contrasto dell’altrui (altrimenti libera) condotta, quindi in una fattiva limitazione dell’altrui libertà di autodeterminazione. Tanto nell’ipotesi che la posizione di garanzia derivi dalla pericolosità di un determinato soggetto, quanto che essa discenda dall’esigenza di proteggere determinati beni perché particolarmente vulnerabili nei confronti della condotta di determinati soggetti, quel che rileva è che comunque si impone al garante di interferire con la condotta di un terzo. D’altra parte, una specifica previsione che ponga un obbligo (di impedimento) che si risolve in una ingerenza-interferenza nel diritto di autodeterminazione dei terzi, non può non attribuire al medesimo garante, contestualmente, un efficace potere giuridico di comando nei confronti dell’agente, non solo perché la compressione della libertà di quest’ultimo sia riguardabile come lecita (128), ma anche — e soprattutto — perché egli sia posto in grado di attivarsi con successo. In una parola, si è dinanzi ad un obbligo di garanzia volto all’impedimento dei reati altrui solamente ove l’ordinamento si faccia altresì carico di conferire, al soggetto che istituisce come garante, specifici poteri giuridici di impedimento-comando nei confronti del reo, così ponendo il primo in grado di interferire direttamente (e lecitamente) con l’intera condotta di reato posta in essere dal secondo (129). E difatti, il genitore, consapevole dell’intenzione del figlio minore ‘esplosivo’ di recarsi presso un giovane nemico di giochi a fini di congrua e violenta rappresaglia, ha la possibilità (fattuale, ma insieme giuridicamente prevista) di azionare una serie di efficaci strumenti interdittivi nei confronti del ‘delinquente in erba’ (coercitivi, inibitori, finanche di limitazione della sua libertà personale), tali da rendere non solo lecita, ma anche possibile ed efficace una fattiva interferenza impeditiva nei confronti della di lui condotta criminosa. Ed ancora, l’amministratore di società di capitali (tenuto ad un generale e penetrante obbligo di vigilanza sulla gestione della società: art. 2392 c.c.) può esercitare specifici poteri giuridici nei confronti dei sottoposti gerarchici, specificamente idonei ad interferire sulle modalità di conduzione dell’amministrazione sociale da parte di questi (130), inibendo o ponendo nel ‘nulla giuridico’ le relative azioni; poteri che pongono il garante nell’effettiva possibilità giuridica di attivarsi con successo per evitare quelle ‘conseguenze pregiudizievoli’ che la norma altrimenti pone a suo carico. Solo simili poteri, in definitiva, conferiscono al generale obbligo di impedimento di altrui fatti illeciti — che incombe al garante per espressa disposizione legislativa — la consistenza di un obbligo di garanzia, penalmente rilevante. (128) A nulla rileva, evidentemente, che in determinate ipotesi, e comunque nel rispetto dei relativi requisiti, possano operare le scriminanti comuni della legittima difesa e dello stato di necessità, ovvero anche la specifica scriminante dettata, nell’ordinamento penale militare, dall’art. 44 c.p.m.p.; norme che, pur non consentendo la punizione dell’intervento difensivo, tuttavia mai lo rendono doveroso o necessariamente efficace; in tal senso, in particolare in ordine all’art. 44 c.p.m.p., vd. lucidamente ROSIN, op. cit., in part. 45 ss.: ‘la disposizione configura una speciale causa di non punibilità; ma rimane, evidentemente, impregiudicato se essa derivi da un dovere, o da situazione giuridica di altro tipo’. La liceità del descritto intervento difensivo con compressione della libertà personale altrui deve fondarsi, difatti, più su una generale previsione in termini di adempimento del dovere che sulla occasionale e non necessaria ricorrenza degli ulteriori requisiti delle ipotesi scriminanti a carattere (latamente) eccezionale quali la legittima difesa e (marcatamente) lo stato di necessità. (129) Medesima conclusione in GRASSO, op. cit., spec. 327 ss. (e nella dottrina tedesca ivi cit.). (130) Di norma, e salvo diverse previsioni statutarie, o specifiche ripartizioni di compiti, che peraltro la stessa legge mostra di prendere in considerazione: vd. ultimo inciso dell’art. 2392, 1o comma, c.c.
— 1368 — In verità, potrebbe anche obiettarsi che un’azione impeditiva direttamente rivolta ad interferire anche solo sul processo causale ‘innescato’ dalla condotta di un terzo, del tutto simile a quella imposta da un obbligo di impedimento di un evento naturalistico, può spesso condurre al medesimo risultato finale, può cioè egualmente valere ad evitare che la condotta criminosa altrui sfoci nel risultato lesivo cui tende, e quindi che il reato perseguito si perfezioni. Di tal che si potrebbe comunque contestare il concorso nel reato altrui (per non averlo impedito) sulla scorta del solo omesso impedimento dell’evento naturalistico che si aveva l’obbligo giuridico di impedire (131): il che, come si è visto a proposito degli obblighi di protezione, ben può darsi senza alcun conferimento di peculiari poteri giuridici al garante. Esemplificando, si potrebbe affermare la responsabilità per concorso nell’altrui delitto: — del casellante che, accortosi della presenza di un masso sui binari, postovi da un gruppo di terroristi al fine di cagionare un disastro ferroviario, non impedisca il disastro medesimo, arrestando — come avrebbe altrimenti dovuto fare — il traffico ferroviario sulla linea; — del curatore che non abbia impedito la truffa commessa ai danni dell’emancipato sottoposto alla propria vigilanza, attivandosi perché l’atto negoziale non venisse compiuto, ovvero perché fosse svelato l’inganno sotteso alla condotta criminale altrui. Ci pare, tuttavia, che simile conclusione sia errata, o quanto meno che lo sia — per quanto diremo infra (132) — ove si assuma a suo fondamento il solo disposto dell’art. 40 cpv. c.p., la cui ‘logica interna’ ed i cui relativi requisiti strutturali delineano in senso decisamente più ristretto la propria sfera operativa. In primo luogo, è la stessa ratio politico-criminale che presiede alla previsione di queste posizioni di garanzia ad impedirne l’estensione — in chiave di art. 40 cpv. c.p. — in tali termini. Quando l’ordinamento riguarda alla particolare vulnerabilità di un bene come al motivo sostanziale per la creazione di una posizione di garante, vale a dire in tutti i casi in cui è — per così dire — aperto il novero delle potenziali fonti specifiche di pericolo per il bene, la posizione di garanzia si traduce concretamente — l’abbiamo visto — nell’imposizione al garante dell’obbligo di porre le proprie capacità di difesa a fianco di quelle, insufficienti, del garantito, ovvero anche di vigilare su una più complessiva occasione di pericolo (es. il traffico ferroviario) che rende più vulnerabili tutti i beni che vi entrano in contatto (133). Ebbene, in tali casi è del tutto indifferente — rispetto alla finalità di rafforzamento della tutela perseguita tramite la costruzione della posizione di garanzia — che la concreta ed individuata fonte del pericolo sia rappresentata da una causa naturale ovvero da una causa umana. Ciò che interessa all’ordinamento non è tanto chi o cosa determini il pericolo della lesione del bene garantito, se l’intenzione criminosa di un uomo ovvero l’infausto atteggiarsi del caso, bensì che il bene stesso sia comunque protetto dalle potenziali fonti di pericolo, cioè che il garante, quale che ne sia la fonte, adoperi ogni mezzo di cui dispone per interrompere la vicenda causale innescatasi che altrimenti sfocerebbe nell’evento lesivo. Ancora esemplificando, non interessa se il neonato sia deceduto per fatto naturale e/o casuale o per fatto illecito altrui: se, cioè, sia accidentalmente precipitato dal davanzale della (131) Anche alla luce dell’esperienza giurisprudenziale di cui supra al par. 3.1. si vedano le ipotesi in cui si imputa al padre il concorso nel reato del terzo, omicida del figlio minore, per non aver impedito la morte di questo. (132) Al par. 5.1. (133) Anche in ipotesi normalmente ricondotte alla categoria delle posizioni di controllo di fonti di pericolo, la fonte controllata può non essere essa stessa causa diretta della situazione di pericolo, ma solo occasione perché altra causa — naturale o umana — crei un motivo di pericolo: in simile ottica, non vi è forse differenza tra l’affidamento della propria incolumità fisica alla guida alpina da parte degli escursionisti (tradizionale posizione di protezione), e l’analogo affidamento operato quotidianamente dai clienti delle compagnie ferroviarie nei confronti del personale di queste (tradizionale posizione di controllo).
— 1369 — finestra di casa dopo esservi incautamente salito sua sponte o se sullo stesso sia stato invece posto con intenzione omicida dalla bambinaia rancorosa; come neppure rileva se il macigno che ha cagionato il disastro ferroviario sia stato collocato sulle rotaie dal terrorista, o piuttosto sia ivi rotolato dalla malferma scarpata della trincea. Ciò che interessa, e che determina la rilevanza penale dell’inerzia del garante, è che questi non abbia impedito un fatto dannoso che avrebbe dovuto impedire alla stregua della sua posizione di tutela, ‘riacciuffando’ prontamente il bambino proteso nel vuoto o interrompendo il traffico ferroviario fino alla rimozione del masso (134). Solo questa inerzia — dal punto di vista della posizione di garanzia violata — assume disvalore penale ai sensi della disciplina sull’omissione, e tale giudizio di disvalore non muta alla stregua delle diverse fonti causali del danno non impedito, poiché esse — semplicemente — non ‘interessano’. Al contrario, quando si guarda alla concreta funzione dell’obbligo di impedire gli altrui fatti delittuosi — e quindi al suo contenuto di tipicità, che è materia specifica dell’art. 40 cpv. c.p. — la finalità di garanzia conferisce un diverso contenuto all’obbligo di impedimento. Qui è la condotta del terzo che emerge in primo piano, è essa l’oggetto primo di un interesse di tutela che l’ordinamento esprime proprio con il conferimento al garante di specifici poteri giuridici di interferenza-impedimento. I due profili si chiariscono reciprocamente. Da un lato, la posizione di garanzia volta all’impedimento dei reati altrui copre tutte le condotte sulle quali il garante abbia poteri giuridici di interferenza-impedimento; dall’altro lato, solo quando l’obbligo di garanzia è presidiato da simili poteri di interferenza con la condotta del terzo, è possibile valutare l’inerzia del garante come ‘tipicamente equivalente’ a quella condotta, non solo con riguardo alla sua attitudine causale rispetto all’evento di danno, bensì con riguardo anche ai suoi connotati esteriori, che possono contribuire positivamente a connotare e/o completare il giudizio di disvalore penale espresso dal ‘tipo’. In altre parole, il mancato impedimento ‘del reato’ assorbe ogni elemento di disvalore della condotta del reo, abbraccia ogni caratteristica oggettiva del reato non impedito, a patto che anche la condotta dell’agente formi oggetto diretto ed immediato dell’obbligo di garanzia. Ove l’obbligo sia rivolto, invece, alla sola salvaguardia diretta del bene, la conversione della condotta tipica riguarderà la sola forza causale della condotta del terzo aggressore, e pertanto l’omissione assorbirà il disvalore della sola ‘causazione dell’evento’, e non anche quello dei connotati della condotta, dello ‘stampo esteriore’ del reato come compiutamente disegnato dal legislatore. Questa distinzione rileva anche in ordine alla ‘collocazione temporale’ dell’intervento impeditivo doveroso. Nella seconda ipotesi, il garante può ben attivarsi anche successivamente alla condotta altrui, lungo lo svolgersi dell’iter criminis o anche del processo causale già innescato: potrà cioè assolvere al proprio compito di protezione attivandosi utilmente in qualsiasi momento anteriore all’evento, fino al ‘termine ultimo’ costituito dal definitivo instaurarsi della situazione lesiva a carico del bene protetto. Quando, al contrario, la condotta altrui costituisce oggetto dell’obbligo di impedimento, l’istanza di protezione arretra al momento medesimo in cui sorge il pericolo che essa condotta venga attuata o — se iniziata — portata a compimento; e d’altra parte, a riprova di quanto abbiamo già detto in precedenza, un intervento difensivo che prescinda dall’effettivo innescarsi di processi causali potenzialmente lesivi, può essere reso concretamente possibile solo con il conferimento di specifici poteri giuridici di inibizione della altrui libertà di autodeterminazione . Ma allora, che l’intervento di chi non sia dotato dei più volte ricordati poteri giuridici (134)
Per notazioni simili, sebbene a diversi fini ed in diverso contesto, vd. anche RI-
SICATO, op. cit., 1283 (nota 74, ed ivi la dottrina tedesca citata) e 1295.
— 1370 — possa avere egualmente successo ad impedire la perfezione del reato, è circostanza irrilevante, che non può valere ad estendere — cioè — l’area di equivalenza dell’omissione rispetto ad altrui fatti di reato non impediti, prescindendo dal contenuto precipuo, dall’oggetto immediato dell’obbligo di garanzia. Ancora un esempio può forse chiarire meglio. Il curatore dell’emancipato, conosciuta l’intenzione di questi di sottoscrivere un contratto dal dubbio contenuto, può sì attivarsi e così impedire che egli rimanga vittima di una truffa perpetrata da un terzo (135), ma non dispone di nessun potere di interferenza con la condotta del reo: non può cioè impedirgli di porre in essere gli artifizi o i raggiri necessari a conseguire il risultato criminoso, ed espressamente considerati dal legislatore (mediante la descrizione del tipo) come elementi oggettivi dai quali anche scaturisce il complessivo giudizio di disvalore dettato dalla norma incriminatrice. Attivandosi, egli può sì impedire che la catena causale innescata dal reo sfoci in un danno per il bene tutelato (il patrimonio dell’emancipato), evento che egli ha l’obbligo giuridico di impedire essendo (indubbiamente) garante di quel bene. Ma solo questo danno potrà essergli imputato — per equivalente — per colpevole inerzia, e non anche la condotta del terzo, sulla quale nessun potere di intervento gli è conferito dall’ordinamento. L’omesso impedimento del danno patrimoniale non costituirà, perciò, concorso nel reato di truffa, perché il contenuto dell’obbligo di garanzia, e la sua violazione, consentiranno la conversione tipica della sua condotta omissiva nei soli termini dell’aver cagionato ad altri un danno patrimoniale, il che non integra il reato de quo. Le osservazioni che precedono hanno un preciso riflesso in seno ai requisiti generali degli ‘obblighi di garanzia’ (136). Primo tra essi, vi è difatti il princìpio secondo cui l’evento, il cui mancato impedimento può imputarsi al garante, deve essere precisamente del medesimo tipo di quello che la posizione di garanzia mira ad impedire; principio che può leggersi, a contrariis, come imputabilità all’inerte soltanto di quegli eventi che aveva specificamente l’obbligo di impedire, e non anche di quegli eventi ulteriori che pur sarebbero stati impediti di riflesso o implicitamente se fosse stato adempiuto l’obbligo principale. Perciò, ove l’obbligo di impedimento abbia come suo oggetto specifico non un reato, bensì un evento naturalistico, sulla base della disciplina dell’omissione (137) potrà impu(135) Si condivide evidentemente la tesi, largamente invalsa in dottrina ma avversata dalla giurisprudenza, secondo cui il delitto di truffa non è suscettibile di commissione per omissione, stante l’insuperabile tenore letterale della norma, la quale, nel richiedere che l’altrui induzione in errore debba essere conseguita dal reo a mezzo di ‘artifizi o raggiri’, delinea una fattispecie ‘a condotta vincolata’. Sul punto vd. per tutti GRASSO, op. cit., 158 ss. e bibliografia ivi richiamata. (136) Come si è accennato, la recente dottrina (vd. per tutti GRASSO, op. cit., 252 ss.) individua 3 principali requisiti perché, al di là dei connotati peculiari di ciascuna delle tre categorie illustrate (protezione, controllo, impedimento di reati), un obbligo di impedimento giuridicamente posto possa avere la rilevanza penale di cui all’art. 40 cpv. c.p. E precisamente: 1) occorre che l’obbligo sia rivolto all’impedimento di eventi del medesimo tipo di quello verificatosi, con esclusione degli eventi sussidiari, accessori o occasionali che l’adempimento dell’obbligo pur avrebbe potuto impedire di riflesso; 2) occorre poi che l’obbligo de quo abbia carattere speciale, gravi, cioè, non sulla generalità dei soggetti ma solo su specifici garanti, e a tutela di taluni e non di tutti i beni: ciò perché la posizione di garanzia mira a colmare-integrare una preesistente situazione di incapacità del titolare del bene garantito, e perciò nasce con il compito di rappresentare una specifica istanza di protezione tra determinati soggetti e determinati beni; 3) è infine necessario che la protezione di un determinato bene giuridico — sotto il profilo dell’obbligo di impedire eventi dannosi a suo carico — sia l’oggetto immediato e diretto dell’obbligo, e non anche un suo riflesso accessorio. (137) Altra cosa è, difatti, il problema di cui si dirà subito infra al par. 5.1. e cioè se in tali casi, pur non potendo essere riguardata — la condotta inerte — come tipica per equivalente alla fattispecie di reato altrui, non possa la stessa disciplina del concorso valere a ricomprendere il ‘risultato’ (atipico) dell’omissione nel più ampio quadro della tipicita ‘con-
— 1371 — tarsi all’inerte solo questo evento e non anche il complessivo fatto di reato, pure nel caso — non improbabile — che l’impedimento del primo comporti, di riflesso, l’impedimento del secondo (138), come si è visto nell’ultimo esempio. Per dirla altrimenti, l’omissione si aggancia in un caso ad una condotta altrui (anche con quanto eventualmente può conseguirne in termini causali), nell’altro ad un processo causale — quale che sia — esterno all’inerte. Del resto, l’argomento interpretativo che fonda la forma concorsuale della responsabilità omissiva — consentendone l’estensione oltre i confini della ‘causalità pura’ — sta tutto in una accezione estesa di ‘evento’, quale ‘fatto oggettivo di reato’ (139). Se in esso debbono necessariamente ricomprendersi anche le particolari caratteristiche e modalità della condotta, tutte le volte in cui il ‘tipo’ esprime anche attraverso tali connotazioni il disvalore del fatto, ebbene, evidentemente occorre che anche nei confronti di detta condotta — quale ‘porzione’ dell’evento in senso lato — sussistano specifici doveri di impedimento. In conclusione, dunque, può ben darsi che l’inerte sia nella concreta possibilità di impedire altrimenti che la condotta criminosa del terzo sfoci in un risultato lesivo per il bene garantito; ma se la posizione di garanzia che egli riveste riguarda la sola integrità del bene — perché egli è privo di quei poteri di interferenza con l’altrui condotta che invece connotano l’obbligo di impedimento di reati — solo l’evento dannoso potrà essergli imputato per equivalente ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p., benché esso sia causalmente collegato alla condotta criminosa altrui; ma non quest’ultima, nella sua considerazione tipica (anche) di disvalore. Analoghe considerazioni possono ripetersi anche con riguardo all’altro requisito della responsabilità per omissione, di identità tra il bene garantito mediante la previsione dell’obbligo di impedimento e quello tutelato dalla fattispecie incriminatrice convertibile ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p.; requisito per il quale, secondo il celebre esempio, la violazione da parte del soggetto assicurato contro l’incendio dell’obbligo di fare il possibile per impedire il fatto lesivo del bene patrimoniale, non può comportare una responsabilità per il reato di ‘incendio’ di cui all’art. 423 c.p., e ciò perché il bene tutelato dalla posizione di garanzia (l’integrità del patrimonio dell’ente assicuratore) è completamente diverso da quello tutelato dalla fattispecie penale in oggetto (l’incolumità pubblica), sebbene non possa escludersi che la tutela del primo comporti anche quella del secondo, in via riflessa ed accidentale. E dunque, riprendendo un caso di giurisprudenza riportato supra al par. 3.5. (140), è pur vero che la tutela del patrimonio societario, cui è funzionalizzata la posizione di garanzia dei sindaci delle società di capitali, può comportare la tutela riflessa di una indefinita gamma di ulteriori e diversi beni giuridici, anche collettivi: come nel caso in cui l’intervento dei garanti sarebbe valso ad impedire, insieme all’inutile dispendio di risorse economiche della società per la costruzione di un immobile abusivo, anche la stessa violazione dell’interesse pubcorsuale’ del reato il cui solo evento possa imputarsi all’inerte; le osservazioni che seguono vogliono solo verificare se una responsabilità concorsuale, in tali casi, sia già ricostruibile sulla sola base dell’art. 40 cpv. c.p. (138) Parafrasando una limpida notazione — sebbene in altro contesto — del FIANDACA (Il reato cit., 135), si può dire che il valore euristico della individuazione dell’evento specifico garantito consiste nel ricercare un nesso tra questo e l’omissione che va al di là della mera impedibilità di eventi lesivi. (139) Trattandosi di responsabilità a titolo di concorso — come si vedrà meglio infra al par. 5.1. — e che perciò ivi attinge la propria disciplina, per medesimo reato (art. 110 c.p.) deve intendersi un fatto tipico non necessariamente colpevole. Non pare che rilevi, in questa sede, se il fatto tipico debba essere o meno anche antigiuridico-non scriminato, questione sulla quale la dottrina si divide. Sul punto, vd.: ROMANO-GRASSO, op. cit., 149 s.; ANTOLISEI, op. cit., 512; FIANDACA-MUSCO, op. cit., 364; FIORE, op. cit., 87 ss.; MANTOVANI, op. cit., 520; SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, 1987, 352 ss.; LATAGLIATA, Concorso di persone nel reato (dir. pen.), in Enc. dir., VIII, 1961, 575 ss. (140) Cass. 31 agosto 1993, Minelli, in Cass. pen., 1994, 716, cit.
— 1372 — blico alla pianificazione urbanistica ed al controllo dell’assetto del territorio. Ma non vi è chi non veda come i due beni giuridici in campo siano tra loro assolutamente eterogenei. Una estensione della responsabilità per omissione che prescinda dal ‘tipo di evento’ e dalla specificità del ‘bene giuridico’ garantito, comporterebbe l’assoluto stravolgimento della funzione della posizione di garanzia, che persegue la tutela di beni giuridici specificamente individuati (perché vulnerabili) rispetto ad eventi lesivi anch’essi specifici. Deve perciò respingersi, perché viola palesemente la ratio di questa funzione, l’equazione secondo cui l’omesso impedimento dell’evento dannoso a carico del bene garantito, qualora tale evento costituisca il risultato di una altrui condotta criminosa, determina la responsabilità del garante a titolo di omesso impedimento di quel reato altrui: salvo che l’evento da impedirsi non sia precisamente l’intero fatto oggettivo di reato altrui, previo conferimento di adeguati poteri giuridici di intervento a tutela del bene giuridico specificamente leso dalla condotta altrui. Per dirla ancora in altro modo, solo in quest’ ultima ipotesi assume rilievo la condotta dei terzi, vale a dire la circostanza che vi siano altri soggetti, diversi dall’inerte, cui possa ascriversi il medesimo evento lesivo a titolo commissivo (141). Ma v’è di più: questa distinzione tra le ipotesi in cui deve tenersi conto — nella valutazione penale del fatto — della ‘pluralità’ dei soggetti in campo e delle condotte di questi, da quelle in cui questa circostanza è del tutto irrilevante, opera anche quando dalla predetta valutazione non scaturisce una diversità di titoli di reato. Si è già fatto l’esempio del curatore che omette di impedire il danno patrimoniale a carico dell’emancipato, cagionato da un terzo con artifizi e raggiri; e si è anche detto che la posizione di garanzia del primo non vale a determinare una responsabilità omissiva per truffa, attesa la non imputabilità dell’altrui condotta tipica all’inerte. È chiaro che, in questa ipotesi, l’impossibilità di porre i connotati di disvalore della condotta del terzo a carico del garante determina una potenziale diversità dei titoli di responsabilità: mentre il terzo risponderà di truffa, il curatore infedele potrà rispondere al più solo di danneggiamento (sempre che lo si consideri reato causale puro incentrato sulla mera causazione dolosa di un danno patrimoniale). Quando però il reato del terzo sia anch’esso ‘causale puro’ (ad es. l’omicidio), la distinzione di cui sopra sembrerebbe non determinare alcuna conseguenza: ma non è così. Si faccia l’ipotesi del padre che non impedisce al figlio minorenne di uccidere il compagno di giochi, e che al fatto assista — inerte anch’egli — il genitore della vittima. Ebbene, anche in questa ipotesi occorre nettamente distinguere la posizione del genitore dell’omicida da quella del genitore della vittima; mentre il primo aveva l’obbligo di garanzia di impedire la condotta omicida del figlio, dunque il di lui fatto di reato, l’altro genitore aveva l’obbligo di impedire la morte del figlio, cioè l’evento naturalistico di danno a carico del bene tutelato. Come si dirà al par. che segue, questa precisazione — lungi dall’essere inutile — reca in sé il germe di un’apprezzabile diversità di disciplina, sulla scorta della quale deve affermarsi la responsabilità del primo genitore a titolo di concorso nel reato di omicidio commesso dal figlio; e ciò a fronte di una responsabilità di natura monosoggettiva del secondo, che risponderà di omicidio per omissione ai danni del figlio, non diversamente da quanto sarebbe accaduto se responsabili della morte della vittima fossero stati il caso o la natura. In conclusione, l’obbligo di garanzia vòlto all’impedimento del reato altrui: 1) si fonda su un obbligo — giuridico perché positivamente posto da una norma di legge (142) — di (attivarsi per) impedire il reato; (141) Si chiarirà infra, al paragrafo che segue, che una simile diversità determina la sussistenza di una responsabilità a titolo concorsuale nell’un caso, e di natura invece monosoggettiva nell’altro. (142) Solo un cenno alla questione della fonte formale dell’obbligo, per cui si è già rimandato (poco supra, in nota) alle opere monografiche: per sottolineare come, se è vero che la posizione di garanzia in oggetto deve essere connotata da specifici poteri giuridici di co-
— 1373 — 2) scaturisce da una posizione di garanzia istituita al fine di impedire a terzi la commissione di reati in considerazione o della loro pericolosità, ovvero della particolare vulnerabilità di determinati beni rispetto a potenziali condotte criminose altrui; 3) è specificamente caratterizzato, ed in ciò si distingue da obblighi di diverso contenuto, da effettivi poteri giuridici di interferenza (di prevenzione, di comando, di ‘inibizione’, etc.) rispetto alla condotta del reo; 4) ha ad oggetto specifico precisamente il fatto di reato altrui nella sua ‘globalità oggettiva’, comprensivo, cioè, oltre che dell’eventuale evento naturalistico, altresì di tutte le caratteristiche e modalità oggettive della condotta, che comunque abbiano rilevanza ai fini della sussistenza dell’illecito, contribuendo a connotarne il disvalore; 5) è rivolto alla tutela diretta di uno specifico bene giuridico ‘vulnerabile’, che deve coincidere con il bene giuridico alla cui protezione è preposta la norma che incrimina la condotta altrui che si ha l’obbligo di impedire; 6) si distingue dagli obblighi di garanzia di contenuto diverso, la cui violazione non può di per sé sola (e cioè in base al solo disposto dell’art. 40 cpv. c.p.) rilevare ai medesimi effetti, neppure quando l’impedimento dell’evento-accadimento naturalistico che si aveva l’obbligo di impedire sarebbe valso ad impedire, di riflesso e/o in concreto, un fatto illecito altrui. 4.3. Gli altri requisiti dell’obbligo di garanzia: la specialità del rapporto di protezione. — Poiché come si è accennato, l’obbligo di garanzia corrisponde sempre a istanze di protezione specificamente individuate, traducibili in specifiche relazioni garante-bene, non vi può essere una posizione di garanzia diretta alla protezione di tutti i beni di tutti i consociati (143). Vi è, dunque, un requisito di specialità del rapporto di protezione, che è certamente soddisfatto — con riguardo alla posizione di garanzia in esame — tutte le volte in cui l’esigenza di tutela che lega il garante ad un particolare soggetto trae motivo dalla incapacità di autodeterminazione e/o pericolosità del secondo: similmente a quanto accade per le posizioni di controllo, infatti, i beni tutelandi sono qui individuati per relationem, sono cioè tutti quei beni che entrano in contatto con la sfera di potenziale lesività della fonte di pericolo. In questa ipotesi, l’esigenza di vigilare sulla condotta non autoresponsabile del terzo consente il più ampio spettro dei beni tutelabili (144). mando, appare inammissibile che essa scaturisca da qualcosa di diverso da norme di legge, con esclusione delle altre fonti, normalmente indicate nel fatto pericoloso precedente, nella assunzione spontanea dell’obbligo o nel contratto privato; salva, in quest’ultimo caso, la sola ipotesi in cui con il negozio giuridico privato non tanto si creino (il che ci pare impossibile) ma si trasferiscano (dal genitore alla baby sitter o al precettore; dal tutore del pazzo al personale della casa di cura privata, etc.) posizioni giuridiche di comando già previamente costituite dalla legge. Sulla differenza tra la creazione e la disciplina delle posizioni di garanzia, ricomprendendosi in questa seconda categoria anche le vicende di trasferimento o delega delle stesse (sebbene in ottica sostanzialistica), vd. SGUBBI, op. cit., 189 ss.; critico su questa sistematica invece GRASSO, op. cit., 228 ss., anche in tema delle conseguenze in capo al tradens a seguito del trasferimento della posizione giuridica di garanzia. (143) Dottrina unanime: GRASSO, op. cit., 258 5.; FIANDACA, Il reato cit., 195 ss.; MANTOVANI, op. cit., 197; FIANDACA-MUSCO, op. cit., 448; FIORE, op. cit., 239 s.; ROMANO, op. cit., 360; da ultimo RISICATO, op. cit., 1282. (144) Salvo avvertire che il potere di vigilanza-ingerenza del garante, lungi dal doversi necessariamente avvalere di tutti i mezzi astrattamente disponibili per il raggiungimento dello scopo, deve — al contrario — armonizzarsi con le finalità (normalmente pedagogiche o terapeutiche) che sottendono allo stesso rapporto di protezione. Il dovere di vigilare sul contegno del figlio minore, pertanto, non può né deve trasformare il genitore in autoritario ‘poliziotto’, poiché ciò sarebbe in palese contrasto con la connotazione marcatamente fiduciaria del suo compito educativo. In questo senso FIANDACA, op. cit., 194; GRASSO, op. cit., 329 s.
— 1374 — Diverso il quadro quando il dovere di impedimento di fatti illeciti sia invece rivolto verso soggetti capaci ed autoresponsabili (145). Qui l’individuazione dei beni da proteggere non può che essere specifica e diretta, poiché non sarebbe tollerabile — per il generale principio dell’autoresponsabilità (146) — sottoporre taluno, adulto e sano di mente, alla tutela generale ed incondizionata di altri. L’individuazione dei beni potrà essere più o meno agevolmente compiuta muovendo dalla funzione svolta dalla posizione di garanzia, che — fuori dei casi di incapacità — è sempre motivata dall’esigenza di accordare una tutela rafforzata a taluni beni particolarmente vulnerabili rispetto alle condotte di terzi. Si pone però il problema se relativamente a questo secondo gruppo di posizioni di garanzia vi sia l’esigenza di specificare anche i soggetti la cui condotta illecita deve inibirsi; il che equivale a domandarsi se i poteri giuridici di cui il garante è fornito debbano altresì essere specificati in capo a determinati soggetti, ovvero possano sussistere anche verso la generalità dei consociati. Il problema ha una sua rilevanza: se si ammette, infatti, la specificazione unilaterale della posizione di garanzia (dalla parte dei soli beni tutelandi), si potrà allora ammettere l’operatività di questa forma di responsabilità omissiva, ad esempio, anche in capo alle forze di polizia, o ai pubblici ufficiali, alla sola condizione che ad essi siano specificamente affidati non tutti i beni di tutti i consociati, ma solo taluni beni (sufficientemente specificati); di tal che risponderebbe di omesso impedimento dell’altrui reato di omicidio il componente della scorta (147) che non impedisca l’attentato all’uomo politico scortato. Al contrario, ove si reputi necessaria la specificazione bilaterale della situazione di garanzia (a tutela di alcuni beni, nei confronti delle azioni lesive di alcuni soggetti), in questo caso la responsabilità dell’agente di scorta dovrà ricostruirsi in chiave necessariamente monosoggettiva, non potendo la di lui condotta omissiva ‘agganciarsi’ alla condotta degli attentatori, bensì al solo processo causale letale da essi innescato. Pur non esistendo argomenti decisivi a favore dell’una o dell’altra soluzione, pare preferibile la tesi (restrittiva) della necessaria specificazione bilaterale, per un triplice ordine di motivi. Sotto un primo profilo, la pre-determinazione del soggetto che la doppia specificazione offre, appare più consona alle finalità protettive della responsabilità per omissione, e di quella inerente ai fatti illeciti altrui in particolare. Si è già detto (148) che compito della posizione di garanzia è quello di offrire una tutela non solo rafforzata, ma anche anticipata al bene tutelando; è allora evidente che un simile compito appare di gran lunga più agevole ove si individuino anche le potenziali fonti della lesione, specie quando l’attività impeditiva del garante debba operare fin dai ‘primordi’ della situazione di pericolo, a monte del processo causale, direttamente sulla condotta. In secondo luogo, il potere di interferenza con l’altrui condotta appare in realtà — nella grande maggioranza delle posizioni rinvenibili nel nostro ordinamento — come ‘l’altra faccia’ di un diverso e più complesso potere di controllo, di per sé specificato, cui inerisce anzitutto la facoltà di vigilare e di conoscere quella condotta: si pensi al potere degli amministratori di conoscere con esattezza quali atti di amministrazione sia stati compiuti dai propri (145) Inutile dire che non sono ammissibili ulteriori distinzioni penalmente rilevanti, diverse da questa, magari fondate su valutazioni di ordine morale o psicologico, con l’individuazione di altre categorie di soggetti inclini al delitto: quelli di animo malvagio, quelli caratterialmente aggressivi, gli egoisti, i cinici, i depressi, gli atei, i malinconici, i nevrotici, i sessuomani, etc. (magari con le successive combinazioni dei cinici sessuomani, degli atei aggressivi, dei malvagi nevrotici, etc.). (146) Cfr. FIANDACA, Il reato cit., 193. (147) Vd. infra al par. 6. (148) Al paragrafo che precede.
— 1375 — sottoposti (o anche dagli altri amministratori), di ‘chiederne il conto’; o al potere di ispezione del superiore militare nei confronti dei propri sottoposti; etc. Infine, si noti che in tal modo si riduce, per quanto possibile, l’indubbia anomalia già segnalata, secondo cui l’obbligo di garanzia connesso alla protezione di determinati beni dalle condotte aggressive altrui è pur sempre il frutto di una aprioristica sfiducia dell’ordinamento nei confronti dei consociati, ‘temuti’ alla stregua di potenziali criminali. La doppia specificazione consente invece di limitare gli effetti di simile anomalia, ancorando la tutela non tanto (e non solo) alla natura vulnerabile di un certo bene, bensì alle peculiari esigenze di protezione che insorgono da uno specifico rapporto che lega quel bene ad un determinato soggetto: quasi a voler dire, insomma, che quel bene diviene vulnerabile proprio perché — o quando — entra in contatto con uno specifico soggetto, non per le sue caratteristiche personali (irrilevanti, come detto, se diverse dalla incapacità), ma per motivi oggettivi, normalmente dettati dalla disponibilità che proprio quel soggetto ha di quel bene (per ragioni di servizio, di cura, etc.). Il patrimonio sociale è più vulnerabile quando entra in contatto con l’azione di un amministratore di quanto non lo sia quando entra in contatto — ad esempio — con un socio privo di poteri di amministrazione; i beni delle forze armate sono più vulnerabili rispetto alle condotte dei militari che direttamente ne usano o che li hanno in custodia, piuttosto che rispetto agli altri militari che non ne hanno la disponibilità; etc. Anzi: potrebbe anche ritenersi che in tutte queste ipotesi, il potere di controllo ed inibizione sulla condotta di determinati soggetti relativamente a determinati beni, altro non sia che il bilanciamento dei poteri di disponibilità, uso, amministrazione, etc. di cui quei soggetti dispongono riguardo ai medesimi beni. In conclusione, il requisito della specialità dell’obbligo è soddisfatto: 1) in ogni caso, quando l’obbligo di impedimento si appunta sulla condotta di un terzo incapace, venendo specificati i beni tutelandi in relazione alla sua sfera di attività; 2) dalla specificazione bilaterale sia dei beni tutelandi, che dei destinatari del potere di inibizione ed interferenza, quando l’obbligo si appunta sulla condotta di terzi autoresponsabili. 5.
Omissione, concorso, concorso per omissione.
5.1. Omesso impedimento dell’evento ed omesso impedimento del reato: i rapporti tra le fattispecie incriminatrici estensive della tipicità. — Riassumendo le conclusioni fin ad ora raggiunte: 1) la posizione di garanzia volta all’impedimento dei fatti di reato altrui, rispetto alle due categorie tradizionali delle posizioni di protezione e controllo, ha caratteristiche sue proprie e specifiche, rintracciabili sulla scorta della funzione della responsabilità per omissione; 2) la ricorrenza di queste caratteristiche (poteri di comando, inibizione e/o interferenza nei confronti della condotta di terzi; specificità dei soggetti nei cui confronti detto potere può esplicarsi; specialità dei beni garantiti) consente di imputare al garante inerte il disvalore del complessivo fatto di reato commesso da altri, ivi compresi i connotati di tipicità e disvalore connessi alle modalità della condotta; 3) per determinare la medesima imputazione non è invece sufficiente la violazione di un obbligo di garanzia vòlto ad impedire eventi comunque lesivi di taluni beni, indipendentemente dalla origine (naturale o umana) del processo causale che ne è responsabile, sol perché l’adempimento di esso avrebbe impedito di riflesso l’altrui reato; e ciò sia perché trattasi di evento diverso da quello che l’obbligo di garanzia mirava specificamente ad impedire; sia perché il bene giuridico offeso dal reato altrui può non coincidere con il bene giuridico tutelato mediante quell’obbligo di garanzia; 4) dunque non risponde ‘del fatto altrui’ (si può già anticipare, ‘di concorso nel fatto altrui’), sulla scorta della sola disciplina dell’omissione, neppure colui che omette di impedire il fatto di reato ‘causale puro’ commesso da altri, pur sussistendo un suo specifico obbligo di impedimento di quel medesimo evento naturalistico, poiché non ha alcun rilievo, ai
— 1376 — fini della responsabilità dell’inerte ex art. 40 cpv. c.p., quale sia la causa — se umana o naturale — di quell’evento, né simile qualificazione ha ingresso nella tipicità per equivalente da tale norma stabilita: del fatto commissivo altrui questa diversa forma di responsabilità per omissione mutua la sola forza causale che ha cagionato l’evento garantito; 5) in base al contenuto precipuo dell’obbligo di garanzia, perciò, è possibile discernere se un determinato fatto di reato possa essere imputato ad un terzo garante inerte per intero (cioè, come si dirà, a titolo di compartecipazione criminosa per omissione), ovvero limitatamente al solo mancato impedimento dell’evento naturalistico che lo caratterizza (cioè a titolo di fattispecie monosoggettiva omissiva impropria, con il medesimo titolo di reato dei compartecipi, o anche a titolo diverso: es. furto e danneggiamento), ovvero a nessun titolo (quando la semplice produzione dell’evento naturalistico che si aveva l’obbligo di impedire, e che è stato cagionato da altri, non integra alcun reato se privo di taluni connotati peculiari della condotta, pur presenti nella condotta del terzo). La delicata tessitura concettuale che così ricostruisce caratteristiche e requisiti della responsabilità per omesso impedimento del fatto illecito altrui, sulla scorta del 2o comma dell’art. 40 c.p., deve però a questo punto misurarsi con le regole del concorso di persone, e con gli effetti estensivi potenzialmente amplissimi che l’innesto del formidabile ‘moltiplicatore di tipicità’ di cui all’art. 110 c.p. potrebbe determinare sui delicati equilibri della responsabilità per omissione. I rapporti tra le due discipline pongono un triplice ordine di problemi, vale a dire: — se le due ‘tipicità estese’ del concorso e del reato omissivo improprio possano tra loro combinarsi, dando vita ad una tipicità ancor più vasta, o se ad esse possa ‘attingersi’ solo alternativamente; — se l’omesso impedimento del reato altrui integri una forma concorsuale di responsabilità; — se ed in che misura la disciplina del concorso possa estendersi alle fattispecie di omesso impedimento dell’altrui reato. Il primo quesito ha, evidentemente, carattere preliminare: non solo perché, ove si dovesse rispondere positivamente, ne deriverebbero soluzioni quasi automaticamente positive anche per gli altri due; ma soprattutto per gli effetti di incriminazione che comporterebbe. Come accennato, ove si dovesse opinare per la reciproca ‘combinabilità’ delle due norme, qualora, cioè, si ritenesse di potere assumere la ‘causalità equivalente’ di cui all’art. 40 cpv. c.p. quale sub-criterio del generale criterio di ‘tipizzazione causale’ accolto dall’art. 110 c.p. (149), salterebbe ogni peculiarità della tipicità omissiva dettata all’art. 40 cpv. c.p., insieme stemperata e ‘travolta’ dalla forza omnicomprensiva della tipicità causale della fattispecie plurisoggettiva eventuale. Con effetti paragonabili a quelli del trionfale ingresso di un pachiderma in un negozio di cristalli. Verrebbe meno ogni esigenza di ‘distinguo’, perché non occorrerebbe più che l’imputazione del fatto, determinata alla stregua della fattispecie omissiva impropria, avesse riguardo all’intero fatto di reato, ma sarebbe sufficiente che essa consentisse di imputare all’inerte anche solo una ‘porzione atipica’ della fattispecie monosoggettiva, purché a sua volta causale rispetto alla fattispecie plurisoggettiva, e perciò tipica a titolo di concorso. Quel che è impossibile al solo art. 40 cpv. c.p., diverrebbe senz’altro possibile con l’intervento integratore della tipicità concorsuale. Dovrebbe rispondere di concorso in rapina colui al quale possa imputarsi anche solo l’omesso impedimento del danno patrimoniale, poiché l’equivalenza tipica della sua inerzia all’altrui fatto di spoliazione (prima ‘estensione’ della tipicità ex art. 40 cpv. c.p.) ‘parteciperebbe’ altresì della tipicità cui il fatto di spolia(149) Per un panorama delle varie teorie, vd.: ROMANO-GRASSO, op. cit., 154 ss.; MANTOVANI, op. cit., 525; FIANDACA-MUSCO, op. cit., 447. Per diverse concezioni non condizionalistiche, vd. INSOLERA, op. cit., 462 ss.; GIULIANI BALESTRINO, L’equivalenza non causale tra le condotte dei concorrenti nel reato, in questa Rivista., 1985, 650 ss.
— 1377 — zione — di per sé atipico rispetto alla fattispecie complessa — a sua volta ‘accederebbe’ in chiave di tipizzazione concorsuale (seconda estensione ex art. 110 c.p.). Allo stesso modo, non vi sarebbe più alcun dubbio circa la responsabilità del curatore dell’emancipato per concorso nell’altrui fatto di truffa, poiché la sua inerzia potrebbe prima ‘convertirsi’ nella attiva causazione di un danno patrimoniale, per poi apprezzarsi quale contributo causalmente necessario alla commissione del fatto plurisoggettivo. E persino il custode del grande magazzino, o il portiere dello stabile condominiale, non andrebbero esenti dalla pena per l’altrui rapina, ove omettessero di impedire una porzione del fatto causalmente rilevante ai fini della commissione del reato, e perciò indipendentemente dal contenuto tipico del loro obbligo di garanzia (impedire l’accesso di estranei non autorizzati, impedire l’uso di accessi secondari riservati, impedire il danneggiamento patrimoniale, impedire fatti lesivi all’incolumità dei clienti, etc.) (150). Ci pare, tuttavia, che una simile soluzione sia inaccettabile, per più motivi. Innanzitutto, come è stato acutamente osservato da una recente dottrina, tale ‘combinazione’ consisterebbe non già nella applicazione distinta e successiva delle due clausole generali alle fattispecie-base di parte speciale, bensì in una interferenza delle due norme, in una combinazione cumulativa dei rispettivi effetti espansivi della tipicità, con un progressivo allontanamento esponenziale dalla tipicità ‘originaria’ espressa dalla fattispecie monosoggettiva-commissiva (151). Quando i presupposti applicativi di clausole di parte generale si integrano reciprocamente — come accade applicando congiuntamente le norme incriminatrici del concorso e dell’omissione — le esigenze proprie di ciascuna si stemperano in un tertium genus che non risponde alle logiche ed ai fondamenti di nessuna di esse; al contrario di quel che accade nelle ipotesi (solo apparentemente simili) del concorso nell’altrui reato omissivo improprio, o del concorso nel delitto tentato, ove rimane inalterata tanto la fisionomia del concorso, quanto quella del reato omissivo o del delitto tentato. In secondo luogo, se può rinvenirsi già in una norma diversa dall’art. 110 c.p. (l’art. 40 cpv. c.p.) la disciplina integrale di tutti i presupposti e requisiti di operatività della responsabilità per omesso impedimento dell’altrui reato, ivi compreso il suo fondamento tecnico-giuridico di incriminazione, e se ciò avviene sulla scorta dei medesimi princìpi che regolano in via generale lo stesso fenomeno della omissione-equivalente; ebbene, deve probabilmente concludersi che quella norma generale esaurisce il campo delle omissioni rilevanti per equivalente. Non sembra esservi posto, cioè, per equivalenze ‘ulteriori’ rispetto a quelle fondate integralmente sull’art. 40 cpv. c.p., o per effetti di tipicità più ampi di quelli direttamente desumibili dalla medesima norma. In terzo luogo, si osservi ancora che la norma-base di incriminazione dell’omissione, pur ‘arricchendo’ l’inerzia di peculiari connotati tipici incentrati sulla violazione di una istanza di garanzia, detta pur sempre un criterio di tipicità omologo a quello di tipizzazione delle condotte concorsuali, vale a dire quel medesimo criterio di rilevanza causale della condotta (anche se ‘per equivalente’) che richiede di valutare, volta per volta, se quella condotta abbia ‘condizionato’ o meno l’evento (naturalistico o di reato) incriminato. Accogliendo la tesi della combinabilità delle due norme, la già debole capacità di effettiva tipizzazione del (solo) criterio causale rispetto alle condotte di concorso (152) svanisce (150) A condizione che, si intende, in tutte le predette ipotesi l’inerte abbia altresi il dolo di concorso. (151) RISICATO, op. cit., 1294; sulla interferenza tra le norme in esame, vd. anche PALAZZO, Concorso per omissione cit.: ‘La realizzazione plurisoggettiva del reato verrebbe a costituire la leva idonea a svincolarsi per due volte dall’originaria tipicità della singola norma incriminatrice, ponendo sostanzialmente ‘‘fuori controllo’’ la fattispecie concorsuale’ (corsivi nostri). (152) Sulla formulazione dell’art. 110 c.p., con una stringente critica anche di diritto comparato alle soluzioni accolte dal codice Rocco per la tipizzazione delle condotte concorsuali, vd. per tutti l’ampia indagine di SEMINARA, op. cit.
— 1378 — nelle nebbie di un doppio passaggio causale (dall’omissione ad una porzione del fatto, da questa porzione al reato complessivamente ascrivibile a titolo di concorso) assolutamente privo di certezze quanto ai termini di ‘appoggio intermedio’ delle due relazioni causali (153). In una parola, l’allargamento dell’area di rilevanza concorsuale dell’inerzia colpevole, oltre i confini fissati dall’art. 40 cpv. c.p., crea insanabili difficoltà di determinatezza della nuova fattispecie concorsuale, che risulta ‘sganciata’ tanto dalla tipicità originaria della fattispecie incriminatrice di base, quanto dalla già malferma determinatezza dello stesso contributo concorsuale. Da quanto appena detto scaturisce una ulteriore considerazione: se il criterio causale comunque domina il problema del ‘contributo al reato altrui’, tanto attivo che omissivo, le norme degli articoli 110 e 40 cpv. c.p. altro non rappresentano che le distinte applicazioni di un più generale criterio di tipicità, comune ad entrambe, secondo i diversi campi di applicazione loro propri: l’art. 110 c.p. per il contributo attivo o effettivo, che limita ogni indicazione di tipicità — con i noti problemi di determinatezza — al solo criterio causale; l’art. 40 cpv. c.p. per il contributo omissivo o potenziale, che ‘colma’ le distanze tra il mondo dei fatti e quello delle ipotesi, cioè tra una condotta effettiva ed una solo possibile, arricchendo il criterio causale ‘ipotetico’ degli ulteriori connotati dell’obbligo giuridico e della posizione di garanzia. Un’ultima notazione, infine, solo apparentemente descrittiva; la funzione incriminatrice propria dell’art. 110 c.p. è già interamente svolta, nel campo dell’omissione, dall’art. 40 cpv. c.p., poiché, come la fattispecie plurisoggettiva eventuale consente di far accedere una condotta atipica ad una tipica più complessiva, facendo partecipare la prima di tutti i connotati di tipicità della seconda, ciò fa esattamente anche l’art. 40 cpv. c.p. in tema di omesso impedimento del reato altrui, consentendo alla inerzia del garante di accedere a tutti i connotati di tipicità e disvalore della condotta altrui. Ma allora, su questo piano l’art. 110 c.p. è del tutto inutile (154). In conclusione, le norme sul concorso ‘commissivo’ non possono svolgere alcuna funzione incriminatrice ‘ulteriore’ in ordine alle condotte omissive, per le quali opera con assoluta sufficienza ed esclusività l’art. 40 cpv. c.p.; non è perciò possibile alcuna applicazione congiunta o cumulativa dei due criteri di ‘estensione’ della tipicità originaria espressa dalla fattispecie monosoggettiva di base, ma solo l’applicazione distinta dell’uno o dell’altro, a seconda della natura — omissiva o commissiva — del contributo al fatto di reato altrui. Residua, dunque, il problema se la responsabilità omissiva per il fatto delittuoso altrui, pur incriminata da norme diverse da quelle che fondano il concorso commissivo, abbia comunque natura ontologicamente concorsuale, e sia come tale assoggettabile alle norme sul concorso quanto meno in funzione di disciplina. L’omesso impedimento del reato altrui, in una parola, determina una responsabilità di tipo concorsuale nel fatto altrui, come fino ad ora genericamente affermato? In verità, non vi sono ostacoli ad assimilare in tal senso il contributo omissivo alla partecipazione concorsuale commissiva-attiva, di cui ricorrono i requisiti estrinseci: 1) la violazione dell’obbligo di garanzia de quo consente di imputare all’inerte l’intero fatto di reato commesso dal terzo, e dunque può ben dirsi che le diverse condotte convergono nel medesimo reato; (153) Con evidente, ulteriore aggravamento del problema — già segnalato in dottrina — della esatta individuazione dei termini del rapporto causale che deve legare la condotta del singolo concorrente al complessivo fatto di reato: cfr. al riguardo VIGNALE, Ai confini della tipicità: l’identificazione della condotta concorsuale, in questa Rivista, 1983, 1358 ss.; INSOLERA, op. cit., 443 ss.; il problema si ripropone, oltre che in termini generali, anche per questioni particolari: vd., ad esempio in tema di art. 116 c.p., PAGLIARO, La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto, Milano, 1966, 95 ss.; INSOLERA, op. loc. ult. cit. (154) Analoghe considerazioni, seppure nella diversa linea interpretativa più volte ricordata, in RISICATO, op. cit., 1283 e 1295.
— 1379 — 2) il numero delle persone è senz’altro superiore a quello necessario per integrare la fattispecie monosoggettiva-base, commessa integralmente dal terzo. Ma v’è di più: l’omesso impedimento dell’altrui illecito configura, in realtà, una forma necessaria di concorso (155), poiché l’autonomia delle due condotte (quella attiva e quella omissiva) è solo formale, e non sostanziale: l’omissione deve necessariamente accedere all’azione delittuosa altrui, ha sempre bisogno del reato altrui per mutuarne tipicità e disvalore (156). Similmente a quanto accade per le ipotesi speciali di concorso di cui agli articoli 46, 48, 51 cpv., 54 3o comma e 86 c.p., la natura accessoria di questa responsabilità ne impone il collegamento con una fattispecie a realizzazione monosoggettiva tutta estranea all’inerte, facendone una ipotesi a concorso eventuale solo rispetto alla fattispecie monosoggettiva, non rispetto alle sue caratteristiche sostanziali (157), che richiedono invece una valutazione unitaria e complessiva del fatto, quanto meno — ed è ciò che conta — dalla parte dell’inerte. Ciò detto, deve però anche avvertirsi che l’applicazione della disciplina del concorso alla responsabilità per omissione non potrà essere immediata ed automatica in tutte le sue articolazioni: occorrerà perciò verificare la compatibilità delle singole norme con le caratteristiche peculiari di detta responsabilità (158), ancora similmente a quanto accade per le altre ipotesi speciali di concorso (159). Tra l’omesso impedimento di un ‘frammento atipico’ della fattispecie plurisoggettiva (destinato a rimanere tale perché insuscettibile di ulteriori ‘estensioni di tipicità’ anche in chiave concorsuale ex art. 110 c.p.), e l’ omesso impedimento del ‘fatto di reato’ altrui (tipico ex art. 40 cpv. c.p. e concorsuale ai fini della disciplina di cui agli artt. 110 ss. c.p.), residua infine una terza ipotesi — per così dire — intermedia: e cioè, precisamente, l’ipotesi nella quale il reato altrui consista in una fattispecie causale pura, ed all’inerte, destinatario di un obbligo di garanzia di contenuto diverso (di controllo o di protezione), sia comunque imputabile l’evento non impedito che caratterizza ed esaurisce il fatto delittuoso altrui, come nell’ esempio, più volte ricordato, del padre che assiste inoperoso all’omicidio commesso da un terzo ai danni del proprio figlio minore. (155) In senso descrittivo, si intende, perché, a differenza delle autentiche ipotesi di reato necessariamente plurisoggettivo, qui il fatto non assume disvalore in funzione della pluralità dei soggetti. (156) Sebbene in diverso contesto, e probabilmente con riguardo ad una fattispecie in cui si è erroneamente assunta una posizione di protezione come posizione di garanzia volta all’impedimento del reato altrui (cfr. infra al par. 6.), è significativo quanto meno sotto un profilo ‘descrittivo’ il passaggio di una pronuncia giurisprudenziale che ben sintetizza la necessità logica che la condotta dell’inerte acceda a quella di altri: ‘Sulla pluralità di agenti, non vi è dubbio che la stessa sussiste per il sol fatto che l’imputato si è affrettato a negare una partecipazione all’attività esecutiva [del reato]: orbene, se altri... ha realizzato materialmente [il fatto di reato] ne consegue che tutta l’attività è il frutto del concorso e dell’apporto di più persone’ (Pretura Tirano 4 dicembre 1985, cit. supra al par. 3.2., 1101). (157) Vd. per tutti PADOVANI, Le ipotesi speciali di concorso nel reato, Milano, 1973; cfr. anche INSOLERA, op. cit., 452; ROMANO-GRASSO, op. cit., 144 ss. Perplessità sulla natura concorsuale di tutte le ipotesi speciali ricordate sono però espresse da SEMINARA, op. cit., 360 ss., che tale natura escluderebbe tutte le volte in cui non ricorra una coscienza e volontà del terzo agente, in quanto inconsapevole strumento dell’ingannatore o coartatore fisico, che rimarrebbe perciò del fatto unico autore (non mediato, bensì diretto), per averne il completo ed esclusivo dominio; vale a dire nelle ipotesi delineate dagli artt. 46, 48 e 86 c.p. (nei casi di cui agli artt. 51 cpv. e 54, 3o comma c.p., l’agente coactus tamen voluit, conservando con ciò il proprio dominio sul fatto). Anche accedendo a simile critica, tuttavia, rimarrebbe la validità della soluzione qui proposta per il concorso per omissione, nella cui ipotesi generale di riferimento il fatto di reato commesso dal terzo è altresì sorretto quanto meno dalla corrispondente suitas. (158) Vd. al proposito i brevi cenni di cui al par. 5.2. (159) PADOVANI, op. cit., 193 ss.; in senso analogo anche ROMANO-GRASSO, op. cit., 147.; INSOLERA, op. cit., 453.
— 1380 — Si è già detto che in tale ipotesi, riguardando la fattispecie nella prospettiva dell’art. 40 cpv. c.p. e della funzione dell’istanza di protezione affidata al padre, potrà rimproverarsi all’inerte di non aver impedito, cioè di aver cagionato per equivalente, non già l’altrui omicidio, bensì la morte del figlio, irrilevanti essendo tutti i connotati ulteriori al processo eziologico non ostacolato che ha condotto a quell’evento. Entrambi i soggetti, il terzo ed il garante, sono però responsabili della medesima fattispecie astratta di reato: il problema che si pone è, dunque, se i due fatti possano unificarsi ex art. 110 c.p. in un ‘medesimo reato’, consentendo anche in questa ipotesi l’applicazione delle norme di disciplina del concorso di persone. Si noti che anche la dottrina che nega ‘cittadinanza’ al generale fenomeno della compartecipazione per omissione, ammette però che, in queste ipotesi, le norme della compartecipazione criminosa rilevino in chiave di disciplina: anzi, tali fattispecie — rispettose dei limiti strutturali causali puri della responsabilità omissiva — rappresenterebbero le sole ipotesi possibili di ‘concorso per omissione’ (160). In effetti, qui l’inerte appare coautore del medesimo fatto di reato (161), poiché compie — per equivalente — la medesima condotta causale tipica contemporaneamente tenuta dal terzo, dalla quale poi attinge gli esiti di disvalore. Simile soluzione, tuttavia, ci sembra errata. L’argomento della coautoria pretende di provare troppo: l’equivalenza stabilita dall’art. 40 cpv. c.p. assimila l’inerzia del garante non già alla effettiva condotta di un terzo, ma alla ipotetica condotta attiva del garante medesimo, e così sostituisce nella fattispecie monosoggettiva commissiva, ai connotati di tipicità che si aggregano intorno ad un effettivo nesso causale, quelli diversi che discendono dai presupposti e dai requisiti dell’istanza di garanzia inadempiuta. Ove la condotta altrui non rilevi ai fini dell’istanza di tutela, e dunque non rientri in alcun modo nel contenuto della posizione di garanzia, l’equivalenza normativa non la riguarderà affatto. Le due condotte, per dirla altrimenti, si equivalgono, ma non coincidono nel ‘medesimo reato’. Del resto, l’applicazione delle norme di disciplina del concorso non corrisponde ad una opzione politico-criminale incolore o neutra, poiché determina, al contrario, precisi e rilevanti effetti penali (162), che non possono discendere da notazioni meramente descrittive, quali quelle da cui muove l’opposta interpretazione. Un dato, sopra tutti, deve indurre a riflettere. L’art. 118 c.p., anche nella versione riformata (163), dispone l’estensione a tutti i concorrenti delle circostanze del reato (o nel concorso), ivi comprese quelle attinenti a particolari modalità o connotazioni della condotta. Nell’esempio fatto supra dell’omicidio del minore che sia ascrivibile all’inerzia del padre presente al crimine, si ipotizzi che il terzo commetta il fatto mediante sostanze venefiche o adoperando sevizie: pur non rilevando in alcun modo, ai fini della posizione di garanzia del padre, chi o cosa abbia cagionato l’evento, ed in che modo (164), ciò nonostante in una simile prospettiva l’inerte — proprio in forza della disciplina concorsuale — non potrà sottrarsi agli aggravamenti di pena stabiliti agli artt. 576 e 577 c.p. (165), sebbene egli non ab(160) RISICATO, op. cit., 1284, 1291 e 1294 ss.; ROSIN, op. loc. ult. cit. (161) Cfr. anche le riflessioni di RISICATO, op. cit., 1290 ss.; FIANDACA-MUSCO, op. cit., 569. Sulle nozioni di autore e coautore, vd. estesamente SEMINARA, op. cit., 336 ss. (162) Vd. il paragrafo che segue. (163) Sulla nuova formulazione dell’art. 118 c.p., vd. per tutti MELCHIONDA, La nuova disciplina di valutazione delle circostanze del reato, in questa Rivista, 1990, 1433. (164) Si è detto supra al par. 4.2. che ciò non ha alcuna rilevanza per l’ordinamento penale. (165) ‘A tacer d’altro’, poiché — come è noto — la nuova formulazione dell’art. 118
— 1381 — bia alcun potere di intervento, inibizione o interferenza rispetto a quelle condotte, e dunque pur non essendogli rimproverabile alcunché fino al momento ultimo della verificazione dell’evento (166). Opinando per la natura concorsuale, in una parola, un fatto geneticamente monosoggettivo diviene passibile di una diversa disciplina — quella del concorso — per motivi e circostanze che rimangono in ogni caso estranee all’inerte ed alla sua sfera di signoria (167), e che infatti non interessano sul piano della funzione della responsabilità omissiva. Come si è visto, invece, la ratio che informa le norme di disciplina del concorso di persone non discende affatto da opzioni neutre di politica criminale, ma risponde a specifiche esigenze di tutela, che a loro volta appaiono il portato delle stesse tecniche di incriminazione: così, se tali norme rispondono tutte al c.d. dogma dell’unitarietà del titolo di responsabilità di tutti i compartecipi (espresso dalle disposizioni che riducono le distanze tra il fatto voluto ed il fatto realizzato nonché tra il fatto proprio e quello comune, o che consentono l’estensione a tutti i concorrenti delle cause di esclusione dell’antigiuridicità) (168), ciò è conseguenza della equivalenza posta tra le diverse condotte dallo stesso criterio di tipizzazione causale-condizionalistico espresso dall’art. 110 c.p., per cui non può porsi alcuna differenziazione qualitativa tra le diverse cause di un medesimo fatto. La pari-valenza causale delle condotte dei compartecipi le lega tutte tra loro, in un unicum che la disciplina esalta sotto diversi profili. Si è però appena detto che la funzione incriminatrice dell’art. 110 c.p., con le sue opzioni politico-criminali, rimane sempre estranea al campo dell’omissione, in cui le medesime opzioni di incriminazione sono esaurientemente ed esclusivamente dettate dall’art. 40 cpv. c.p., secondo sue direttrici peculiari: si concorre nell’altrui reato non perché la propria inerzia è causalmente equivalente all’altrui condotta, perché il piano causale non esaurisce la tipicità dell’art. 40 cpv. c.p., che ‘si muove’ invece principalmente su quello della sussistenza e violazione di un’istanza di tutela che lega soggetti e beni. Se, perciò, il legame tra le condotte dei potenziali compartecipi non risalta già dall’applicazione dei princìpi della responsabilità per omissione, non lo si può creare in virtù dei criteri di incriminazione che sono dettati altrove, e precisamente in una norma dalla cui tipicità — già lo si è visto — non si può ‘attingere’. Riassumendo le osservazioni che precedono, e traendone le debite conclusioni: 1) i fondamenti di incriminazione ed estensione della tipicità delle due forme di responsabilità (per omissione e concorsuale) sono insuscettibili di combinarsi reciprocamente, pena un grave stravolgimento della tipicità originaria dettata dalla fattispecie-base; 2) quando l’obbligo di garanzia sia rivolto ad impedire non le altrui condotte, bensì i soli eventi lesivi a carico di determinati beni, rivive integralmente il limite strutturale generalmente fissato alla forma monosoggettiva della responsabilità per omissione: non è cioè possibile superare le insufficienze dell’equivalenza omissiva, rispetto ai fatti altrui che siano connotati da elementi di disvalore ulteriori all’evento lesivo, attraverso l’art. 110 ss. c.p.; in dette ipotesi lo ‘strumento concorsuale’ non può essere adoperato per ‘aggirare’ il confine c.p. sembra consentire l’estensione ai concorrenti persino delle circostanze concernenti i rapporti tra colpevole e offeso e persino quelle riguardanti qualità personali del colpevole; potrebbe così rispondere degli aggravamenti di pena stabiliti agli artt. 61 n. 6, 576 e 577 c.p. il tutore che non impedisca l’uccisione del pupillo da parte del genitore, ovvero il genitore che non impedisca il medesimo fatto compiuto dal latitante, per sottrarsi alla cattura o semplicemente nel periodo della latitanza. (166) Si ricordi quanto si osservava poco supra, in ordine alla natura accentuatamente preventiva dell’obbligo di impedimento dei reati, e dei diversi momenti ultimi entro i quali si configura possibile l’intervento difensivo del garante: par. 4.3. (167) Per dirla con la stessa dottrina citata alla nota 160. (168) O che consentivano, prima della riforma del ’90, l’automatica estensione a tutti i concorrenti delle circostanze comunque riverberatesi oggettivamente sul fatto concorsuale.
— 1382 — della causalità pura ed estendere la portata della responsabilità per omissione a tipi di reato insuscettibili di commissione per omissione in forma monosoggettiva; 3) qualora, al contrario, l’omesso impedimento punibile attenga ad un complessivo fatto di reato altrui, l’inerte risponderà del reato in concorso con il suo autore effettivo, rimanendo altresì soggetto alla disciplina delle norme di cui agli artt. 110 ss. c.p., in quanto compatibili; 4) l’omesso impedimento di un evento naturalistico ‘stricto sensu’, già esso rilevante ex art. 40 cpv. c.p., non costituisce ipotesi di concorso nell’altrui reato causale puro, pur se quell’evento sia cagionato dalla condotta criminosa altrui, e deve perciò disciplinarsi alla stregua di un reato omissivo improprio monosoggettivo autonomo. 5.2. Reato omissivo improprio e concorso di persone: cenni per una disciplina generale del concorso per omesso impedimento del reato. — Della natura concorsuale della responsabilità per omesso impedimento del reato si è appena detto, precisando che da essa discende l’applicabilità delle norme di cui agli artt. 110 ss. c.p. in funzione di disciplina, laddove compatibili con le peculiari caratteristiche della responsabilità omissiva. Si pongono, pertanto, taluni problemi di rapporto tra il concorso di persone e l’omissione impropria, che — pur non potendosi qui affrontare con la necessaria completezza di analisi — meritano di essere almeno segnalati, accennando ad una possibile disciplina generale del concorso per omissione. 5.2.1. Disciplina del concorso ed omissione: le norme compatibili. — Veniamo, innanzitutto, al problema della individuazione delle norme di disciplina del concorso compatibili con la struttura del reato omissivo, e dunque applicabili all’omesso impedimento dell’altrui fatto criminoso. Vengono in luce, in primo luogo, le circostanze: sgomberato il campo dalla maggior parte delle aggravanti, costruite su condotte necessariamente attive (la determinazione, la direzione, etc.), residuano tre fattispecie. La prima, quella del n. 1 dell’art. 112 c.p., riferita al numero dei concorrenti. Anticipando le osservazioni che si svolgeranno infra a proposito dell’omesso impedimento dell’altrui concorso, ed anche in considerazione della necessità di limitare comunque il campo di applicazione di siffatta circostanza (perché assolutamente priva della benché minima giustificazione politico-criminale) (169), può suggerirsi di applicare l’aumento di pena ivi previsto soltanto quando l’inerte abbia omesso di impedire — avendone l’obbligo — le condotte concorrenti di almeno quattro altri soggetti, e non anche quando il fatto delittuoso tipico del soggetto nei cui soli confronti sussiste un obbligo di garanzia si sia poi inserito nell’opera collettiva di un più vasto numero di ulteriori concorrenti, estranei alla ‘portata’ della posizione di garanzia; e ciò perchè tra la condotta di questi altri soggetti e l’omissione dell’inerte, come subito si dirà, non sussiste alcun legame di concorso. Quanto all’attenuante facoltativa di cui all’art. 114 c.p., deve osservarsi che se è vero che l’inerte cui sia imputabile l’intero fatto di reato deve considerarsi come coautore dello stesso (170), non vi è alcuno spazio per apprezzarne il contributo in termini di minima rilevanza. Interessanti, infine, i possibili rapporti tra l’omissione e la nuova circostanza aggravante, di fresco conio, di cui all’art. 112, 2o comma c.p., secondo la quale la pena è aumentata per chi si sia avvalso dell’opera di un non imputabile nell’esecuzione di delitti di particolare gravità. Non vi è dubbio, infatti, che il genitore che non impedisce l’omicidio della propria odiata moglie ad opera del figlio minore o psicopatico, senz’altro si avvale, fruisce dell’opera di un non imputabile. (169) Cfr. per tutti SEMINARA, Numero dei partecipanti nel concorso di persone nel reato e attenuante ex art. 114, 1o comma c.p., in questa Rivista, 1984, 1419: ROMANO-GRASSO, op. cit., 188 s. (170) Cfr. supra al par. 5.1.
— 1383 — Quel che suscita perplessità, tuttavia, è che i profili di disvalore sottesi alla circostanza appaiono già integralmente assorbiti dalla stessa giustificazione (o funzione) della responsabilità per omissione: in una parola, il genitore risponde del fatto del figlio minore perché questi è non imputabile. Appare allora sicuramente opportuna ma interpretazione correttiva — già abbozzata dalla dottrina (171) — che ai fini dell’applicazione della circostanza de qua richieda non già una generica fruizione dell’opera del minore, ma un attivo adoperarsi del concorrente imputabile perché il minore prenda parte al piano criminoso, con un’ opera di esortazione o istigazione comunque idonea a condizionare la volontà del non imputabile. Quanto all’applicabilità dell’art. 116 c.p., potrebbe suggerirsi di distinguere, a seconda che l’evento diverso corrisponda o meno alla posizione di garanzia dell’inerte, sia sotto il profilo dei poteri di impedimento che del bene tutelato; nel caso positivo, non vi è motivo di discostarsi dalla disciplina generale del concorso, ed anzi si è già visto come lo stesso legislatore abbia espressamente previsto che l’evento non voluto possa essere conseguenza della omissione di uno dei concorrenti (172); in caso contrario, non vi è motivo di discostarsi dai generali criteri di incriminazione dettati dall’art. 40 cpv. c.p., in base ai quali non può imputarsi all’inerte — e, lo si è visto, neppure passando per gli effetti ‘estensivi’ dell’art. 110 c.p. — se non quanto costituisce oggetto specifico del suo obbligo di impedimento. Non sembrano porre problemi le altre norme: l’art. 115 c.p. è palesemente inapplicabile; per l’art. 117 c.p. varranno le medesime regole già viste per l’art. 116 c.p. (applicabilità in caso di obbligo di impedimento riferibile anche al reato qualificato, inapplicabilità altrimenti). Le disposizioni degli artt. 118 e 119 c.p. appaiono, infine, del tutto compatibili. 5.2.2. Il rapporto di causalità. — Quale causalità si applica al nesso causale ipotetico ‘atto impeditivo dovuto-reato altrui’?. Il quesito sorge nel guardare alle diverse teorie causali, prospettate, da una parte per il nesso causale tout court, dall’altra per il criterio di tipizzazione causale dettato dall’art. 110 c.p.. È evidente, infatti, che alla stregua del primo criterio dovrebbe sempre richiedersi l’alto grado di probabilità, se non la certezza dell’impedimento del reato (173); alla stregua del secondo, parrebbe sufficiente accertare che l’attivazione dei poteri di impedimento del garante — secondo le diverse impostazioni — avrebbe reso anche solo meno agevole la commissione del reato, ovvero ne avrebbe diminuito il rischio. Un’eco di impostazioni di questo secondo genere si ritrova, peraltro, in quella giurisprudenza che ritiene sufficiente rilevare che il tempestivo intervento dell’obbligato avrebbe comunque frapposto ostacoli alla condotta criminosa del reo (174). In verità, si potrebbe anche discutere della effettiva rilevanza del quesito, poiché non sembra esserci alcuna reale differenza tra il modello di spiegazione causale applicato ai reati monosoggettivi di evento, e quello applicabile al criterio di tipizzazione delle condotte concorsuali, anche ove si accolga la teoria della c.d. causalità agevolatrice: in ogni caso, si os(171) Cfr. i primi commenti di DE FRANCESCO, Commento all’art. 7 d.l. 31 dicembre 1991, n. 419, in Leg. pen., 1992, 769; e PAZIENZA, Sulle recenti modifiche all’art. 112 c.p., in questa Rivista, 1992, 273. Nello stesso senso ora anche ROMANO-GRASSO, op. cit., 193 s. Si propone, in sostanza, una interpretazione correttiva di quella più immediata che guarda più al risultato vantaggioso conseguito dal concorrente che alla sua condotta qualificata, rendendo del tutto evanescente la ratio dell’aggravamento, con ciò suscitando anche forti dubbi sulla costituzionalità della norma, sotto il profilo del principio di materialità. (172) Vd. supra al par. 2. (173) Con una formula della condicio sine qua non ‘adattata’ alla natura contrafattuale dell’enunciato causale omissivo, cioè alla premessa che i termini di questa relazione causale sono ‘per definizione falsi’. (174) Cfr. Trib. mil. terr. Milano 5 agosto 1948, Pennecchi, cit. al par. 3.4.
— 1384 — serva da più parti (175), è causale ogni presupposto che abbia contribuito a cagionare l’evento hic et nunc, senza che rilevino percorsi causali ipotetici rimasti di fatto inoperanti. In questa ottica, il requisito della rilevanza causale dell’inerzia è soddisfatto tutte le volte in cui l’intervento difensivo avrebbe concretamente determinato un diverso decorso dei fatti, impedendo il fatto di reato come realizzatosi hic et nunc. Senza pretese di completezza, e senza voler qui affrontare il complesso problema della c.d. ‘causalità in concreto’ applicata al concorso di persone, simili notazioni debbono però integrarsi sulla scorta delle caratteristiche peculiari della responsabilità per omesso impedimento del reato: così, nel descrivere l’evento (176), cioè nel procedere alla individuazione dei suoi profili concreti significativi (177), occorrerà guardare non già a qualsiasi modalità di commissione del fatto, bensì al fatto di reato non impedito, poiché questo nella sua interezza è oggetto della posizione di garanzia, e perciò riferimento dello stesso nesso causale posto dall’art. 40 cpv. c.p. Si vuol dire, in una parola, che, seppure ai fini della responsabilità ‘commissiva’ di uno dei compartecipi è sufficiente che il contributo di questi abbia determinato la migliore realizzazione del reato (ad esempio la sottrazione di una maggiore quantità di denaro nel corso di una rapina), per la responsabilità concorsuale omissiva non sarà invece sufficiente verificare, ai fini della responsabilità del padre, che, ove egli fosse intervenuto, il figlio minorenne avrebbe cagionato un danno meno grave, ma sarà al contrario indispensabile provare che il di lui intervento avrebbe impedito del tutto — sebbene hic et nunc — la commissione del reato. Del resto, ad opinare diversamente si finirebbe con il trasformare il concorso per omissione — che mutua le proprie caratteristiche pur sempre da una fattispecie ad ‘evento necessario’ — in un reato di pericolo, incentrato su una mera condotta omissiva, o finanche in una fattispecie di pura infedeltà (178). Anche perché, si noti, è difficilmente immaginabile che l’intervento di chi sia animato dalla volontà di impedire il reato, ed all’uopo possa esercitare specifici poteri, non renda in alcun modo ‘più difficoltoso’ o ‘meno agevole’ l’operato crimlnoso altrui: non si può dar torto, in questo senso, a quella giurisprudenza che osserva che l’intervento del garante in ogni caso ‘disturba’ — e cioè rende meno agevole — la commissione del reato. Adottando una simile prospettiva, vi è dunque il pericolo che l’indagine sul nesso causale perda ogni rilievo pratico, per sua sostanziale sostituzione mediante una generalizzata (175) Cfr. FIANDACA-MUSCO, op. cit., 451; ROMANO-GRASSO, op. cit., 155 ss. (176) In tema vd. per tutti STELLA, La descrizione dell’evento, Milano 1970, 87 ss.; vd. anche ROMANO, op. cit., 346 s. (177) L’individuazione dei profili penalmente significativi del fatto occorre — come è noto — ad evitare il paradosso di considerare ‘causale e perciò rilevante’ — in particolare in tema di condotte concorsuali — qualsiasi modifica del fatto storico concreto, quale — ad esempio — anche il ‘passaggio in macchina nel luogo e nel momento di una rapina’ (così PAGLIARO, Principi cit., 558 s.); è difatti ovvio che dovrà aversi riguardo — nel descrivere il reato quale evento concreto realizzatosi hic et nunc ai fini della successiva verifica secondo il principio della condicio sine qua non — dei soli aspetti giuridicamente rilevanti del fatto, vale a dire ‘tenendo conto di quelle circostanze che assumono rilevanza nella prospettiva del necessario condizionamento del fatto di reato’ (così FIANDACA-MUSCO, op. cit., 451, nota 29). Perplesso sulla possibilità di una tassativa individuabilità dei profili significativi del fatto, MANTOVANI, op. cit., 524. (178) È davvero soprendente, nella storia, la contiguità delle due forme di responsabilità: si veda la casistica giurisprudenziale del periodo pre-illuminista riportata da SGUBBI, op. cit., 9 s., ove, tra gli obblighi di impedimento, i doveri di attivarsi per scongiurare reati contro l’autorità rappresentano la netta maggioranza delle ipotesi; e si ricordi, ancora, l’introduzione da parte del legislatore nazista di Vichy (cioè da parte ‘del regime più autoritario che sia concepibile: il regime di occupazione bellica di un paese nemico’) di una fattispecie generale di omesso impedimento di reati: ancora SGUBBI, op. cit., 56 s. (note 41-42) e GRASSO, op. cit., 72.
— 1385 — presunzione di rilevanza causale dell’intervento impeditivo; una sorta di causa in re ipsa, evidentemente inammissibile. Deve allora concludersi che, perché possa imputarsi al garante il reato non impedito, appare più conforme alla struttura del reato omissivo richiedere che il suo intervento fosse idoneo ad impedire (e non solo a rendere più difficile o meno agevole) la commissione del reato medesimo. 5.2.3. Elemento psicologico. — Premesso che, secondo le regole generali dell’elemento soggettivo del concorso, per aversi concorso per omissione sarà comunque sufficiente che l’inerte abbia coscienza e volontà di cooperare, con la propria colpevole inerzia, al delitto altrui (179), merita qui un cenno la posizione di una dottrina (rimasta isolata) che ritiene incompatibile con la struttura del reato omissivo improprio tout court il dolo eventuale, di modo che dovrebbe sempre richiedersi, anche nelle fattispecie concorsuali, la diretta intenzione di cooperare nel fatto delittuoso altrui (180). In verità, questa interpretazione sembra dettata più da una mai sopita (e, come detto, fondata) esigenza di ‘arginare’ il fenomeno dilagante della responsabilità per omissione, che da reali fondamenti positivi (181); ed è inaccettabile nella stessa misura in cui è invece condivisibile la preoccupazione che la muove. Anche in tempi risalenti, difatti, si è sottolineata l’insufficienza dei correttivi fondati sul solo elemento psicologico, anche per l’insuperabile difficoltà di fornire la prova diabolica della effettiva volontà dell’inerte (182): cinico compiacimento dell’altrui malvagità, intima soddisfazione per l’offesa al comune nemico, volontà di cooperare all’opera delittuosa altrui, adesione ai motivi del delitto? È comunque pacifico che il dolo eventuale ben possa ‘reggere’ la responsabilità concorsuale (183), la cui disciplina è informata a ben altri rigori in punto di elemento soggettivo (184). Appare perciò senz’altro preferibile affidare ad altri correttivi — e cioè ad una più rigorosa ricostruzione del contenuto dell’obbligo di garanzia — il compito di delimitare il campo delle omissioni rilevanti in chiave concorsuale, riconoscendo la sufficienza della coscienza e (179) Per l’elemento soggettivo dei reati omissivi impropri, si rinvia alle trattazioni più ampie in: GRASSO, op. cit., 363 ss.; FIANDACA, Il reato cit., 120 ss.; vd. anche ROMANO, op. cit., 403 ss.; FIANDACA-MUSCO, op. cit., 559 ss. (180) PAGLIARO, Princìpi cit., 363 s.; riportando l’esempio del carabiniere che assiste inoperoso per viltà all’altrui ferimento mortale, questo Autore osserva che ‘ogni sana coscienza giuridica avverte che sarebbe un’enormità punire per omicidio chi, senza volere direttamente l’evento, si è tuttavia astenuto dall’agire per impedirlo’. Perplessità simili sono espresse anche da INSOLERA, op. cit., 469. Si è anche visto che posizioni analoghe sono sostenute da parte della dottrina in tema di art. 138 c.p.m.p., laddove si ritiene che la riserva ivi espressa a favore dell’art. 40 cpv. c.p. debba intendersi proprio nel senso che quest’ultima norma possa applicarsi soltanto qualora l’omesso intervento fosse sorretto non già da un qualche ‘timore o altro inescusabile motivo’ (ipotesi nelle quali dovrebbe invece applicarsi proprio l’art. 138 c.p.m.p.), bensì dal dolo diretto di cooperazione delittuosa: cfr. supra al par. 3.4. ed ivi i richiami di dottrina. (181) E del resto lo avverte lo stesso A., laddove riconosce che essa deriverebbe non da esplicite disposizioni di legge, bensì dalla ‘logica interna della realizzazione del volere’ (PAGLIARO, op. loc. ult. cit.). (182) VANNINI, Quid iuris?, Milano 1954, 11 s.; sulla stessa linea FIANDACA-MUSCO, op. cit., 569. (183) Risponde senz’altro di concorso in furto aggravato il danneggiatore per fini di protesta politica che pur senza volere il fatto di furto, ma ben sapendo che dal proprio atto vandalico rivolto contro il portone dell’istituto di credito deriverà l’assalto saccheggiatore della banda di malviventi, accetta il rischio di tale evento ulteriore. (184) Si pensi al disposto degli artt. 116 e 117; sarebbe ben strano ammettere simili titoli anomali di responsabilità — pur con tutti i correttivi interpretativi del caso — e negare cittadinanza a requisiti soggettivi più pregnanti della semplice prevedibilità o conoscibilità.
— 1386 — volontà della propria violazione dell’obbligo di garanzia, ove accompagnata dall’accettazione del rischio che da essa consegua — in forza di un nesso causale ipotetico — la commissione di un reato da parte di terzi. 5.2.4. Desistenza e recesso. — La questione si pone nei noti termini secondo cui i requisiti delle due ipotesi di ravvedimento operoso, in campo omissivo, sembrerebbero coincidere; e ciò perché da un omesso impedimento di un evento non si ‘tornerebbe indietro’ se non impedendo il fatto dannoso. Attenta dottrina ha peraltro già rilevato che una distinzione è pur sempre possibile sulla scorta del contenuto dell’istanza di garanzia: poiché può esservi desistenza finché l’inerte, ravvedutosi, adempia seppure tardivamente al proprio obbligo di garanzia, secondo il suo contenuto ordinario (la madre, che non aveva più allattato per uccidere la figlioletta, riprende l’allattamento); vi è invece recesso qualora per impedire l’evento non sia più possibile attivarsi secondo quanto ordinariamente dovuto, ma solo attraverso interventi difensivi di carattere eccezionale e diverso (quando a causa della gravità dell’inedia, nell’esempio fatto sopra, non è più sufficiente riprendere semplicemente l’allattamento, ed è necessario il ricovero ospedaliero della neonata) (185). È però in ogni caso necessario — per operare le suddette distinzioni — individuare previamente il contenuto dell’obbligo di garanzia, cioè quale sia il comportamento normalmente dovuto. Su questo piano, diviene decisiva, allora, la distinzione tra obbligo di impedimento del reato ed obbligo di impedimento dell’evento naturalistico previsto da una fattispecie di reato ‘causale pura’. E ciò perché l’omittente potrà beneficiare dell’esenzione da pena prevista per la desistenza, nel primo caso solo attivandosi in tempo utile per influire sulla condotta altrui, nel secondo (quand’anche l’evento ‘cagionando’ sia opera potenziale di un terzo) fin quando potrà efficacemente attivare le proprie difese a favore del bene garantito, e dunque anche successivamente all’esaurimento della condotta del reo. Una tardiva attivazione a questo ‘stadio’ del processo causale costituirebbe invece, nel primo caso, solo un’ ipotesi di recesso. Desiste il genitore che, lasciato partire il figlio minore con evidenti intenzioni di vendetta verso la casa del nemico di giochi, re melius perpensa, lo ‘cattura’ lungo il percorso di guerra; ma recede se, avuta notizia di quanto preordinato dal figlio per raggiungere il fine vendicatorio, interviene sui processi causali da quello frattanto attivati (spegnimento dell’esca incendiaria collegata al serbatoio del motorino, cattura delle vipere liberate nella casa della vittima, etc.). Desiste in entrambi i casi, invece, il genitore della vittima che si attivi efficacemente prima dell’innescarsi del processo causale (ma recede anche egli se, rimasto inoperoso, interviene solo tardivamente, ad es. per iniettare il siero anti-vipera alla vittima). 5.2.5. Omesso impedimento dell’altrui concorso? — Su quali condotte deve appuntarsi l’obbligo di impedimento? Se si appunta su quella di un soggetto che a sua volta è concorrente e tiene una condotta atipica ai sensi della fattispecie monosoggettiva di base, potrà imputarsi all’inerte il fatto concorsuale? Per quanto la questione sia stimolante, e sembri aprire prospettive davvero insospettate nel tema del concorso per omissione, nel limitarci qui ad accennare alle soluzioni possibili, non ci pare corretto discostarci dai criteri generali già individuati, alla cui stregua può imputarsi all’inerte-concorrente la sola ‘porzione’ degli accadimenti a lui esterni che costituiscono oggetto specifico immediato della sua posizione di garanzia. Se dunque il terzo — nei cui confronti occorreva attivarsi — porrà in essere lui solo una porzione tipica del fatto, ovvero se anche detta tipicità risalti dalla somma delle singole porzioni atipiche commesse da tutti i soggetti sui quali si appuntava il medesimo potere-dovere di impedimento, l’inerte risponderà di concorso insieme a tutti i concorrenti sui quali si appuntava detto dovere; nel caso opposto, se cioè la somma delle porzioni del fatto commesse dai soggetti ‘garantiti’ non raggiunga la tipicità di un reato, egli non risponderà di quel fatto (185)
Così MANTOVANI, op. cit., 457.
— 1387 — concorsuale, quand’anche il numero complessivo dei concorrenti sia maggiore, ed essi abbiano commesso un reato con il contributo causalmente determinante delle condotte di partecipazione imputabili all’inerte per non averle impedite. Fatto salvo, evidentemente, il caso in cui dalla condotta dei concorrenti derivi un evento lesivo comunque corrispondente alla posizione di garanzia dell’inerte: potrà allora ricorrere una responsabilità in forma monosoggettiva, tutte le volte in cui la posizione di garanzia volta all’impedimento di reati altrui promani da una più generale istanza di protezione di determinati beni, e ne costituisca un ulteriore rafforzamento. 5.2.6. Mancato impedimento della condotta altrui e tardiva impedibilità dell’evento. — Quest’ultima riflessione stimola un altro interrogativo: posto che, in una determinata fattispecie concreta, il garante non abbia potuto — incolpevolmente — intervenire tempestivamente per impedire l’altrui condotta, ma gli sia ancora possibile intervenire per impedire che il processo causale da quella innescato giunga alla produzione dell’evento lesivo, avrà egli l’obbligo penalmente rilevante di attivarsi, e se sì di cosa risponderà in caso di ulteriore — stavolta colpevole — inerzia? Si pensi al caso riportato dalla giurisprudenza del giovane malmenato in Questura, con la complice inerzia del dirigente l’ufficio; quid iuris se quest’ultimo, incolpevolmente impossibilitato ad intervenire per impedire la condotta criminale degli agenti (perché, ad esempio, ignaro delle intenzioni criminose altrui), fosse però stato ancora in grado di attivarsi per salvare la vita dell’interrogato e ciò nonostante non si fosse attivato? In questi termini il problema può anche apparire irrilevante: si osserverà, difatti, che comunque incombeva al dirigente una posizione di garanzia volta alla protezione dell’integrità fisica dell’arrestato, e che dunque egli è comunque responsabile — se è rimasto inerte — degli eventi lesivi che avrebbe potuto impedire. Ma, si noti, anche in questa prospettiva il problema non appare del tutto risolto, perché occorre comunque chiedersi a che titolo egli risponde della morte della vittima: a titolo di concorso o di responsabilità ‘monosoggettiva’? Si ipotizzi, sulla scia di altro esempio poco sopra riportato, che l’ignaro genitore, cui il figlio esplosivo ha confidato di aver liberato un cospicuo numero di rettili velenosi in casa del nemico di giochi, rimanga egualmente inerte, e non si attivi per scongiurare l’evento lesivo. A nostro parere, l’inerzia successiva all’esaurimento dei poteri specifici di intervento, applicando correttamente i princìpi generali in tema di omissione e di dolo subsequens (186), deve considerarsi irrilevante; in base ai primi, rileva soltanto quel che il soggetto aveva l’obbligo specifico di impedire (nel caso del genitore, la condotta delittuosa del figlio minore, non già eventi lesivi a carico del suo compagno di giochi); in ossequio al principio di irrilevanza del secondo, rileverà il solo atteggiamento psicologico concomitante alla possibilità e doverosità dell’intervento, non già quello ad esse successivo (187). Ne consegue che, oltrepassata la soglia dell’impedibilità delle altrui condotte, il dirigente di P.S. che non si attivi per salvare la vittima dalle angherie dei propri sottoposti, non risponderà di concorso nell’altrui fatto delittuoso, bensì di omicidio per omissione in forma monosoggettiva, del quale soltanto sussistono tutti i requisiti richiesti dalla posizione di garanzia (di protezione) che ne fonda la tipicità. 5.2.7. Concorso materiale o morale? — Una ulteriore notazione, meramente ‘descrittiva’: l’omesso impedimento dell’altrui reato costituisce una forma di contributo concorsuale morale o materiale? Non è mancata giurisprudenza che abbia opinato per la prima soluzione (188), proba(186) Cfr. MANTOVANI, op. cit., 196. (187) La questione da ultimo illustrata richiama, peraltro, la vasta problematica dell’azione pericolosa precedente quale possibile fonte dell’obbligo di impedimento: sul punto vd. estesamente FIANDACA, Il reato cit., 204 ss.; GRASSO, op. cit., 277 ss. (188) Vd. Cass. 14 febbraio 1992, Viani, cit. supra al par. 3.3.
— 1388 — bilmente sulla scorta del facile rilievo che nulla di materiale vi è nell’inerzia. In realtà occorre guardare al valore normativo per equivalente dell’omissione, non alla sua natura ontologica: e sotto questo profilo essa è meglio assimilabile al contributo materiale. Il che appare opportuno anche al fine di non confondere le ipotesi di mera inerzia con quelle di inerzia collegata ad un previo accordo criminoso con i concorrenti, esse sì ipotesi di contributo morale al fatto altrui (189). 5.2.8. Il trattamento sanzionatorio. — Infine, il problema della misura della sanzione applicabile al concorrente per omissione — se quella dettata dalla disciplina dell’omissione, ovvero quella stabilita per il concorso di persone — è, in verità, rimasto fuori di ogni anche più approfondita ricerca, semplicemente perché tanto l’art. 40 cpv. c.p. che l’art. 110 c.p. pongono la medesima regola di assoluta equiparazione del trattamento sanzionatorio (tra l’inerte e l’autore diretto, tra i concorrenti). La casualità della circostanza — e la rilevanza del problema — è però evidente, poiché tale disciplina non discende certo da insuperabili esigenze logiche, ma rappresenta — appunto — una scelta di politica criminale; come tale suscettibile di ripensamenti ed adattamenti, che, si badi, neppure appaiono tanto peregrini, ove si guardi alle odierne istanze di riforma (190). Si prospetti l’ipotesi che un domani il legislatore, accedendo alle richieste unanimi della dottrina, introduca una attenuazione di pena per le ipotesi omissive improprie tout court: nulla questio per le ipotesi non concorsuali, evidentemente, ma per l’omesso impedimento del reato altrui? Occorre dunque chiedersi quale disciplina sanzionatoria debba direttamente applicarsi. Appare tendenzialmente preferibile la soluzione che lasci agli artt. 110 ss. c.p. la regolamentazione di queste ipotesi, in quanto ontologicamente concorsuali, e ‘generate altrove’ solo per fondamento di incriminazione; del resto, applicazione della disciplina del concorso significa anzitutto applicazione delle regole sulla pena. A ben vedere, una diversa scelta sfumerebbe a tal punto la differenza — come visto, fondata e significativa — tra ipotesi omissive concorsuali e monosoggettive, da renderla concretamente irrilevante. 6. Analisi critica degli orientamenti giurisprudenziali. — Illustrate le caratteristiche generali della posizione di garanzia in esame, e chiarito che le sue peculiarità possono determinare rilevanti effetti di disciplina, può tentarsi, in chiusura, una brevissima verifica critica delle pronunce della giurisprudenza (191). In materia di rapporti di parentela, convivenza, cura o custodia, occorre distinguere: le ipotesi — e sono la maggioranza — in cui rileva una posizione di garanzia di protezione dei beni facenti capo a soggetti incapaci di attendervi autonomamente (i figli minori, i pazienti anziani di una casa di cura, il bambino affidato alla baby sitter, etc.), e la cui violazione perciò consente di ascrivere all’inerte una responsabilità in chiave solo monosoggettiva; dalle altre ipotesi, in cui — al contrario — quel che risalta dalla istanza di garanzia è proprio l’obbligo di impedire che soggetti incapaci di intendere e volere tengano condotte penalmente rilevanti (ancora, l’anziano in stato di avanzata demenza senile esplosiva, il figlio minore, il paziente di manicomio psichiatrico, etc.) (192). Perciò, potrà rispondere di omicidio (e non di concorso nell’altrui omicidio) il padre che (189) Vd. alle note che precedono. (190) Per il concorso di persone, vd. per tutti l’ampia disamina di SEMINARA, op. cit., spec. 141 ss.; per l’omissione, si ricordi la proposta di introduzione di una attenuazione di pena (facoltativa o obbligatoria) per le ipotesi di omissione impropria tout court, portata avanti dalla dottrina unanime, anche sulla scorta di rilievi di diritto comparato (una simile attenuazione è prevista dal 2o comma del novellato § 13 StGB); vd. per tutti GRASSO, op. cit., 460; RISICATO, op. cit., 1300 ss.: ROMANO, op. cit., 364; MANTOVANI, op. cit., 201. (191) In tema vd. anche GRASSO, op. cit., 329 ss. (192) La fonte formale dell’obbligo è normalmente ravvisata nell’art. 2048 c.c.
— 1389 — assiste inerte alla programmazione, e quindi all’esecuzione di un omicidio a danno del proprio figlio (193); mentre rispondono invece di concorso in infanticidio (se ricorrono i presupposti dell’art. 578 c.p. anche in capo agli inerti, altrimenti concorso in omicidio) i genitori della minorenne che non impediscono a questa di sopprimere la propria prole (194); risponde di maltrattamenti (e non di concorso in essi) l’infermiere della casa di cura che non impedisce l’altrui fatto vessatorio commesso in danno di pazienti affidatigli (195). Non risponde di alcun reato, al contrario, la madre che non impedisce il congiungimento carnale della figlia minorenne con un terzo: non certo di concorso nella violenza carnale, poiché ella non ha alcun potere giuridico di interferenza con la condotta del terzo; nemmeno di violenza carnale per omissione, trattandosi di reato a forma vincolata (196). Non possono evidentemente sussistere tra conviventi, parenti o coniugi — per il solo fatto della convivenza o del vincolo di parentela o di coniugio — reciproci obblighi di garanzia volti a garantire l’osservanza dei precetti penali, difettandone ogni e qualsiasi requisito (197). Quanto alla posizione dei pubblici ufficiali, in particolare degli amministratori di enti locali, ci pare dubbio che sussista in capo ad essi un obbligo di garanzia vòlto all’impedimento di fatti illeciti, anche se con riguardo a campi e/o materie oggetto dei loro poteri di amministrazione (pianificazione del territorio, tutela dei suoli e delle acque, etc.), laddove manchino elementi di specificazione dei predetti poteri (interdittivi, di vigilanza, etc.) in capo a determinati destinatari, poiché tali non sono, evidentemente, tutti i cittadini ‘amministrati’; e ciò perché, in linea con quanto si dirà subito infra riguardo agli appartenenti alle forze dell’ordine, un simile difetto di specificità pone seri dubbi sulla configurabilità di un obbligo di garanzia penalmente rilevante. Può forse ipotizzarsi, invece, una posizione di garanzia rilevante quando il pubblico amministratore debba svolgere, relativamente a soggetti beneficiari di provvedimenti autorizzatori o concessori ad hoc (come in materia di scarichi), funzioni di vigilanza e di polizia amministrativa o sanitaria: alla sussistenza di evidenti poteri interdittivi, corrisponde — in tali casi — altresì la specificazione degli stessi riguardo a singole posizioni, previamente determinate. Dovrà al più discutersi, come anche nelle pronunce riportate (198), dei problemi di rapporto tra l’ipotesi di concorso nell’altrui reato ed il reato omissivo proprio eventualmente configurato in capo all’amministratore che ometta determinati provvedimenti (199). Palesemente errate ci sembrano, invece, le pronunce in tema di responsabilità del notaio, agganciate ad una condotta che ha palesemente natura attiva-commissiva (il rogare atti illeciti) e non omissiva. (193) Cfr. la diversa soluzione in Cass. 1 febbraio 1935, Ferruccio. cit. al par. 3.1. (194) Esatta, dunque, la Cass. 21 settembre 1992, Ferri, cit. al par. 3.1., che — invertendo l’ottica delle decisioni di merito — statuisce la necessità di una indagine non tanto sull’esistenza di un obbligo di ‘impedire che la prole generata dai propri figli minori venga a morte’, bensì sull’esistenza di un obbligo di impedire alla minorenne di commettere delitti, sulla scorta dell’art. 2048 c.c. (195) Ancora esatta Cass. 16 ottobre 1990, Cosco, cit. al par. 3.1. (196) Errata in diritto, perciò, la decisione Cass., sez. I, 15 aprile 1940, Santagati, cit. al par. 3.1: in verità, anche in questa ipotesi (come spesso accade: vd. infra alle note che seguono) la sostanziale giustizia della pronuncia di condanna sta nell’essersi punita non la mera inerzia, bensì l’attiva agevolazione dell’altrui reato; il richiamo a profili omissivi vuole piuttosto inconsapevolmente connotare i profili moralmente ripugnanti del contegno della madre degenere, che tutto consente ai danni della figlia ai fini di una sua turpe ‘iniziazione sessuale’. (197) Esatte, perciò, Cass. 13 febbraio 1985, Cariccia, e Assise Torino 19 ottobre 1936, Gillo, entrambe cit. al par. 3.1. (198) Cfr. supra al par. 3.2. (199) Si ripropongono anche qui, dunque, i medesimi problemi che si vedranno subito infra in ordine alla generale configurabilità dei delitti di omissione d’atti d’ufficio, o di abuso per omissione.
— 1390 — Per ciò che riguarda, la posizione degli appartenenti alle forze dell’ordine, deve subito osservarsi — con la gran parte della dottrina (200) — che ad un generico obbligo di prevenire ed impedire fatti criminosi in danno della generalità dei consociati, difetterebbe del tutto l’imprescindibile requisito di specialità: si ammetterebbe un obbligo di garanzia rispetto a tutti i beni di tutti i cittadini. Una situazione — si è esattamente osservato — ‘impossibile da reggere per chiunque’ (201). Non può trattarsi, dunque, di un ‘obbligo di garanzia’ rilevante ex art. 40 cpv. c.p. In verità, l’opposta interpretazione assolutamente dominante in giurisprudenza, sembra poggiata più che su reali argomentazioni di diritto positivo, sulla esigenza sostanziale (quasi emozionale, talvolta) di stigmatizzare l’infedeltà del tutore dell’ordine pubblico, che lasciando operare indisturbate le forze del crimine diserta ai suoi compiti, tradisce la fiducia in lui riposta dai consociati. E non è un caso che l’argomento del tradimento, nelle motivazioni di molte pronunce, sia ben più forte e decisivo di altri argomenti, pur possibili e più corretti, che condurrebbero alla medesima pronuncia di condanna. Così nel caso dell’appartenente alla polizia penitenziaria che non solo non impedisce l’altrui fatto estorsivo, ma vi collabora (202): non vi è chi non veda come sia ben più decisiva — ai fini della responsabilità concorsuale — la collaborazione attiva al fatto di reato di quanto non lo sia il suo omesso impedimento (nella fattispecie consistente nella mancata denuncia del fatto). Ma al giudicante sembra quasi più cogente, da un punto di vista di riprovevolezza sostanziale, stigmatizzare non tanto questa collaborazione, quanto il tradimento delle finalità proprie del munus. In una parola, nella prassi giudiziaria, il disvalore dell’omissione degli atti che sono dovuti in forza della qualità rivestita, spesso supera ed assorbe ogni ulteriore valutazione, anche quando vi siano condotte di collaborazione attiva al fatto altrui che determinano una ben più evidente responsabilità concorsuale commissiva. E neppure è un caso che le ipotesi di concorso per omesso impedimento del reato nascano (storicamente) in ordinamenti ove non è possibile altrimenti colpire con la sanzione penale l’infedeltà del pubblico ufficiale, nei quali — cioè — non esiste la fattispecie di omissione di atti d’ufficio (203); e che essa sia ammessa persino in quei sistemi penali ove si nega la stessa generale configurabilità di una responsabilità per omissione impropria (204): il che appare la più significativa riprova delle quasi insopprimibili esigenze sostanziali di tutela e/o riprovazione che sottendono alla variegata (ed inconsapevole) prassi di punire per concorso nel reato altrui il poliziotto che non abbia ‘fatto il suo dovere’ contro le forze del crimine. Nel nostro ordinamento simili esigenze apparivano ieri sufficientemente soddisfatte proprio dalla fattispecie che sanzionava autonomamente il mancato adempimento di doveri di ufficio; in una tale situazione normativa non si potevano perciò lamentare quei significativi vuoti di tutela avvertiti invece in altri ordinamenti, e ben poteva richiedersi alla giurisprudenza — insieme ad un maggior rigore ermeneutico — il coraggio di assolvere poliziotti, carabinieri, finanzieri (certo infedeli ai propri doveri d’ufficio) da accuse di concorso in fatti illeciti altrui, davvero enormi e spoporzionate nella stragrande maggioranza dei casi, grazie alla diretta ‘copertura’ del fatto di infedeltà ad opera dell’art. 328 c.p. Non può nascondersi, oggi, un nuovo imbarazzo nel proporre le medesime soluzioni ri(200) FIANDACA, Il reato cit., 195 s.; GRASSO, op. cit., 331 ss.; ROMANO, op. cit., 360; ROMANO-GRASSO, op. cit., 166; RISICATO, op. cit., 1282, contra ANTOLISEI, op. cit., 516 s. (201) ROMANO, op. loc. ult. cit. (202) Vd. Cass. 8 maggio 1984, Calvaruso, cit. al par. 3.3. (203) Come in Germania: vd. al proposito FIANDACA, Il reato cit., 197 s., ed ivi la dottrina tedesca citata. (204) Si veda, emblematicamente, la situazione della giurisprudenza in Francia, ove pur negandosi con coerenza quasi assoluta, in altri campi, la configurabilità di una responsabilità omissiva per equivalente, in difetto di una norma che la consenta, si ammette però la punibilità per concorso di chi lasci che si commetta un reato e, rimanendo inerte, violi un dovere professionale di intervenire: GRASSO, op. cit., 76 ss.
— 1391 — gorosamente restrittive anche qui prospettate, poiché — come è noto — la riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, intervenuta nel 1990, ha sostanzialmente abrogato la fattispecie di omissione di atti d’ufficio, così che l’inconfigurabilità di una responsabilità a titolo concorsuale dell’inerte oggi equivale (tendenzialmente) ad una assoluta impunità penale dell’appartenente alle forze dell’ordine che assista compiaciuto a reati commessi ai danni dei cittadini (205). La verità è che altre soluzioni — al di là dell’imbarazzo — non vi sono. In dottrina, taluno ritiene di poter comunque ricostruire una simile responsabilità in particolari fattispecie, nelle quali l’istanza di protezione sia specificata a monte del fatto, mediante l’affidamento di beni specifici, come nel caso emblematico degli appartenenti alla scorta di un uomo pubblico; poiché, si osserva, la specificazione dell’istanza di protezione consentirebbe di superare la consueta obiezione anche sopra riportata. Neppure simile soluzione convince, tuttavia. Si è già visto (206), infatti, che in tutte le ipotesi in cui l’obbligo di impedimento sia rivolto verso soggetti autoresponsabili, è preferibile esigere una specificazione bilaterale della situazione di garanzia, tanto per i beni da proteggersi, quanto per i soggetti su cui vigilare. Nel caso della scorta, la specificità della posizione del garante attiene alla sola predeterminazione dei beni, e non anche — né potrebbe essere altrimenti — dei soggetti da controllare. Non solo: i poteri della scorta ‘pubblica’ dell’uomo politico non sembrano atteggiarsi diversamente da quelli di una scorta privata, poiché consistono essenzialmente nell’apprestare strumenti di tutela di fatto, e non giuridici (la macchina blindata, tecniche di guida e protezione, porto delle armi, etc.) al bene (specifico) garantito. In una parola, appare più corretto ritenere che agli agenti di scorta incomba sì una posizione di garnzia nei confronti della vita ed incolumità dello scortato, il cui contenuto, tuttavia, è diretto non già all’impedimento dei fatti delittuosi altrui, bensì alla protezione del bene affidato (207): di tal che risponde di omicidio, non di concorso nell’altrui fatto di omicidio, l’agente che non impedisce volontariamente la commissione dell’attentato. Diversa, al contrario, la soluzione che deve accogliersi per le guardie carcerarie, nonché in generale per coloro che hanno in custodia soggetti loro affidati in regime di restrizione della libertà (208). In questi casi vi è, da una parte, affidamento di un bene vulnerabile, poiché tali sono la vita e l’incolumità fisica del detenuto (le cui ridotte capacità di autotutela derivano direttamente dal regime di restrizione della libertà cui è soggetto) (209), nonché lo stesso ordine all’interno del carcere, soggetto alle pressioni e tensioni psicologiche di una popolazione spesso sovrannumeraria e frustrata; dall’altra, vi è conferimento di poteri coercitivi di ordine e disciplina nei confronti di tutti i detenuti, diretti a supplire alle incapacità singole di difesa, ovvero ad assicurare la tutela di beni generali (210). (205) Salva la controversa possibilità di configurare, in talune ipotesi, un abuso d’ufficio per omissione: in tema vd. PAGLIARO, Princìpi di diritto penale. Parte speciale. Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione7, Milano, 1995, 242 s. (206) Supra al par. 4.3. (207) Anche se — ma la circostanza non sembra rilevare — la protezione è motivata non già da un generico pericolo di eventi lesivi, ma proprio dal pericolo specifico di possibili aggressioni altrui: l’uomo politico non è vulnerabile perché incapace di attendere alla propria vita in genere, ma perché può essere oggetto, per la posizione che ricopre, delle criminali ‘attenzioni’ dei più svariati soggetti. (208) Vd. Corte Assise Milano 13 novembre 1952, Maltauro, cit. al par. 3.3. (209) La fonte formale dell’obbligo di tutela della vita ed incolumità dei detenuti è normalmente ravvisata negli artt. 1 e 11 della legge sull’ordinamento penitenziario (n. 354 del 1975). (210) Vd. ad esempio l’art. 41 ord. pen.; poteri che hanno spesso, in piena armonia con la funzione della responsabilità per omissione, una spiccata attitudine preventiva: si pensi alla prassi di dividere in diversi ‘bracci’ degli istituti talune classi di detenuti da altri, proprio al fine di evitare disordini o violenze.
— 1392 — La posizione di garanzia de qua ha, evidentemente, un ristretto campo di applicazione quanto ai beni tutelandi; un obbligo di impedire tutti i fatti delittuosi di tutti i detenuti — sebbene sussistano, in capo alla direzione carceraria, i più ampi poteri coercitivi — sarebbe non solo contrario al requisito di specialità già visto, ma anche lesivo della dignità personale dei detenuti medesimi, che verrebbero considerati tutti ed indifferentemente incapaci di autodeterminarsi rettamente, in contrasto — oltretutto — con le più recenti ‘conquiste’ della legislazione carceraria. Occorre individuare, perciò, un catalogo di beni tutelandi più ristretto, in cui spiccano senz’altro la vita e l’incolumità fisica dei detenuti, nonché i beni principali della ‘vita’ carceraria (l’ordine, i beni dell’amministrazione). Alla luce di quanto detto, può risolversi il caso — già analizzato (211) — dell’omicidio preterintenzionale commesso, ai danni di un indagato, nel corso di un interrogatorio degenerato in atti di vessazione e violenza. Qui la giuridicità dell’obbligo di tutela della libertà, dignità ed incolumità fisica dell’indagato-interrogato, sussistente in capo al dirigente l’ufficio ove egli è custodito rispetto alle condotte vessatorie di quanti lo hanno in custodia, potrebbe farsi discendere persino da indicazioni di ordine costituzionale (212). Della posizione di garanzia sussistono, poi, tutti i requisiti: funzione di tutela di un bene vulnerabile, perché tali sono considerati la vita e la libertà morale del detenuto, persino (come visto) dallo stesso Costituente; specialità del bene tutelando nonché dei destinatari dei poteri di impedimento; poteri di comando ed inibizione nei confronti di terzi (derivanti dal rapporto di gerarchia) (213). Quanto alle posizioni di garanzia in capo agli appartenenti alle forze armate, una prima difficoltà sta nell’individuazione della fonte formale dell’obbligo di impedimento, spesso indicata in norme ‘di contegno’ di dubbia natura, dettate — oltretutto — non già da una fonte legislativa, bensì da regolamenti di disciplina (214). Ove si dovesse però ammettere la sussistenza della predetta fonte formale, occorrerebbe che l’obbligo de quo fosse caratterizzato: da una specificazione del rapporto di gerarchia quale fonte dei poteri di comando o impedimento, poiché non appare certo sufficiente — ai (211) Al par. 3.2., Cass. 5 maggio 1995, Russo, cit. (212) L’art. 13, 4o comma della Costituzione prevede infatti l’unico obbligo espresso di incriminazione di tutta la Carta, disponendo che ‘è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni della libertà’. È significativo come norme del tutto analoghe siano contenute in altre Costituzioni moderne, principalmente di quei paesi che, con il nuovo assetto Costituzionale, intendono lasciarsi alle spalle esperienze dittatoriali di vario genere. Ad esempio, la Costituzione spagnola del 1978 prevede la responsabilità penale per coloro che comunque utilizzino ingiustificatamente o abusivamente la propria facoltà di sospendere l’esercizio di taluni diritti nei confronti degli accusati o sospettati di atti di terrorismo, memore della drammatica esperienza maturatasi sotto il regime di Franco; la Costituzione italiana rispecchia, a sua volta, la consapevolezza degli arbìtri e delle vessazioni commesse dalla polizia fascista. Di particolare interesse la recente Costituzione brasiliana del 1988, che pone al legislatore ordinario l’obbligo di incriminare tutta una serie di delitti di particolare gravità, e tra essi — al fine di impedire che si protraggano sotto il nuovo regime democratico comportamenti tipici della passata esperienza autoritaria — anche la pratica della tortura: ma quel che rileva è che, nel disporre che simili delitti sono imprescrittibili, non amnistiabili, etc., la norma costituzionale impone altresì che di essi rispondano i mandanti, gli esecutori, e coloro che, potendolo, ometteranno di impedirli. Per i rilievi che precedono vd. MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale. Nozione, struttura e sistematica del reato, Milano, 1995, 128 ss. (anche in Costituzione e politica dei beni giuridici, in questa Rivista, 1994, 333); vd. anche PALAZZO, Principi costituzionali, beni giuridici e scelte di criminalizzazione, in Studi in memoria di P. Nuvolone, 1991, I, 375 s. (213) Esatta, perciò, la pronuncia della S.C. citata, laddove invita i giudici di rinvio ad esaminare il profilo della responsabilità per omesso impedimento del reato in capo al dirigente rimasto inerte dinanzi al fatto delittuoso realizzato dai sottoposti. (214) Alcuni dei quali neppure pubblicati in Gazzetta Ufficiale; si vedano le notevoli perplessità espresse al riguardo dalla dottrina specialistica, cit. supra al par. 3.4. in nota.
— 1393 — fini della specialità — ammetterne l’esistenza alla stregua di un mero raffronto tra gradi; da una indicazione dei beni tutelandi, anche qui preferibilmente da individuarsi sulla scorta di specifici rapporti di affidamento (i beni delle Forze Armate per il custode degli stessi, l’ordine e la disciplina della caserma per il suo dirigente). Con riguardo, infine, agli obblighi di vigilanza ed impedimento posti dalla legge civile (artt. 2392 e 2407 c.c.) a carico degli amministratori e sindaci delle società (di capitali), la funzione di garanzia che si incardina su dette disposizioni deriva in parte dalla incapacità ’congenita’ della persona giuridica di difendere autonomamente i propri beni (215), in parte, come si è accennato, dalla vulnerabilità di determinati beni rispetto alla posizione di supremazia di determinati soggetti all’interno della compagine societaria. Occorre innanzitutto individuare i beni da proteggere, che debbono rispondere a caratteristiche di specifica vulnerabilità rispetto all’azione degli organi societari: tra di essi vi è la regolarità contabile, anche come corollario tecnico di una più vasta tutela dei creditori, dei soci, ed in generale del patrimonio sociale (216). In secondo luogo, l’identificazione dei poteri di impedimento dovrà passare per una attenta distinzione tra quelli che sono effettivamente tali (e che sembrano sussistere tra amministratori, ma solo relativamente a funzioni non delegate singolarmente ad uno di essi, nonché in capo agli amministratori nei confronti dei terzi subalterni), ed i poteri di mera vigilanza sull’operato altrui, quali quelli che solo sussistono in capo ai sindaci e revisori, che non dispongono di alcuno specifico potere di interferenza con le azioni degli amministratori (non possono bloccarle o porle nel nulla in via diretta), ma solo di poteri di denuncia o di azione indiretta, cioè di ‘interpello’ dei poteri di intervento esercitabili da altri (l’assemblea dei soci, il giudice, etc.) (217). 7. Sintesi conclusiva. — Abbiamo aperto questo lavoro nel segno di una legittima preoccupazione: che la pericolosa debolezza originaria di cui soffre la responsabilità per omissione, per la marcata indeterminatezza delle norme che la fondono e disciplinano, nonché per la assoluta latitanza del legislatore nel circoscriverne l’area di applicazione a pochi beni realmente meritevoli di una tutela rafforzata, si rifletta — secondo ormai ben noti automatismi giurisprudenzali — in un progressivo ed incontrollato proliferare delle ipotesi di responsabilità a titolo di concorso nel fatto altrui non impedito, alla totale mercé delle esigenze ideologico-politiche di tutela avvertite, nel singolo caso concreto, dal singolo interprete. Si è detto come, per porre un argine ad un simile fenomeno, parte della dottrina abbia prescelto una strada — per così dire — radicale, cioè quella della stessa negazione del fenomeno: l’ordinamento penale italiano, si afferma, non prevede una responsabilità per omesso impedimento del reato con caratteristiche diverse dalla responsabilità per omissione impropria ‘ordinaria’; di quest’ ultima debbono perciò mutuarsi le caratteristiche, e soprattutto tutti gli stringenti limiti ‘strutturali’. Si è anche tentato di dimostrare, tuttavia, che simile opinione non appare accoglibile, per molteplici motivi di ordine testuale e sistematico, pur essendo senz’altro condivisibili le istanze di politica criminale che la muovono. Riguardando invece la materia da un punto di vista ad essa interno, vale a dire muovendo dalla funzione e dalle caratteristiche generali della posizione di garanzia che sottende alla responsabilità per omissione, si sono invece individuati molteplici ed altrettanto stringenti requisiti di quella responsabilità; e si è altresì verificato che neppure la ‘forza espansiva’ propria delle norme incriminatrici del concorso di persone appare capace di travolgere i (215) Cfr. GRASSO, op. cit., 257. (216) Che però non può prestarsi, come detto supra al par. 4, a divenire la chiave di tutela di ogni altro bene siccome comunque offeso ‘di riflesso’ da altri fatti illeciti. (217) In senso simile anche GRASSO, op. cit., 357 s. Appaiono dunque inesatte Cass. 21 gennaio 1989, Piras, e Cass. 28 febbraio 1991, Cultrera, cit. al par. 3.5.
— 1394 — risultati di questa indagine, nonostante che l’omesso impedimento di reati rappresenti certamente una forma di responsabilità ontologicamente concorsuale. Anzi, proprio lo studio dei rapporti tra disciplina dell’omissione e disciplina del concorso testimonia di una netta distinzione tra le due forme di responsabilità, con precise conseguenze su rilevanti aspetti di disciplina. L’applicazione dei requisiti di cui sopra alla casistica giurisprudenziale offerta, dimostra, infine, come ben possano raggiungersi i medesimi risultati di rigore e delimitazione delle ipotesi di responsabilità — già opportunamente invocati dalla dottrina invece incline a negare il fenomeno alla sua radice — anche per questa diversa e più articolata via. LUCA BISORI Dottorando di ricerca Università degli Studi di Firenze
GIURISPRUDENZA
a) Giurisprudenza costituzionale
CORTE COSTITUZIONALE — Sez. III — 13 dicembre 1996 (dep. 7 febbraio 1997) Pres. Tridico — Rel. Quitadamo — P.M. Albano (concl. diff.) Bella Misure cautelari — Riesame — Deposito del solo dispositivo della decisione nel termine perentorio di cui all’art. 309, comma 9, c.p.p. — Perdita di efficacia dell’ordinanza impositiva per inosservanza del termine — Sussistenza (C.p.p. artt. 309, commi 9 e 10, 127, 128). L’ordinanza che dispone una misura coercitiva perde immediatamente efficacia se entro il termine perentorio prescritto dall’art. 309, comma 10, viene depositato in cancelleria soltanto il dispositivo e non anche la motivazione della decisione del tribunale del riesame (1). FATTO e DIRITTO. — Con ordinanza in data 7 giugno 1996 il Tribunale di Sassari rigettava l’istanza di riesame di Bella Antonello, Pacchioni Luigi e Deplano Angelo avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP presso la Pretura circondariale di Sassari in data 2 maggio 1996. Avverso tale ordinanza interponeva Bella Antonello ricorso per cassazione deducendo l’avvenuta violazione dell’art. 324 n. 7 c.p.p. in relazione all’art. 309 n. 10 c.p.p. per l’omesso deposito della decisione nel termine perentorio di dieci giorni decorrenti dalla data in cui pervennero gli atti al Tribunale del riesame. Aggiungeva ch’era stata del tutto omessa la motivazione in ordine alla contestata sussistenza di esigenze cautelari. Ciò premesso, va osservato che ai fini della legittimità del sequestro disposto ex art. 321 c.p.p. allorquando sia stato ipotizzato, come nella specie, il reato di lottizzazione abusiva, è necessario mettere in luce la sussistenza dell’esigenza di prevenire il pericolo di commissione di ulteriori reati di abusivismo edilizio mediante la sottrazione agli aventi diritto della disponibilità delle aree lottizzate. Nella specie l’ordinanza impugnata contiene solo un accenno alle esigenze cautelari genericamente individuate nella necessità di ‘‘salvaguardia di preesistenti esigenze di tutela di interessi pubblici’’ e di ‘‘evitare la persistenza e gli effetti del reato in ordine al quale si indaga’’. Quanto al dedotto tardivo deposito della ordinanza di cui trattasi va osservato che gli atti pervennero al Tribunale del riesame il 30 maggio 1996 e che la decisione venne depositata il 13 giugno 1996 ossia oltre il previsto termine perentorio di dieci giorni.
— 1396 — Nell’ipotesi, come quella di specie, di deposito nel termine del solo dispositivo dell’ordinanza l’orientamento giurisprudenziale sulla rilevanza di tale deposito non è concorde anche se risulta prevalente l’opinione che attribuisce esclusiva rilevanza al deposito dell’intero provvedimento (cfr. in tal senso, Cass., Sez. I, 30 giugno 1990; id., Sez. III, 12 giugno 1992; id., Sez. pen., 5 agosto 1994 e 11 ottobre 1995; id., Sez. I, 27 luglio 1990; id., Sez. V, 9 settembre 1991). Recentemente nel pronunciarsi sul perdurante contrasto le Sez. un. (sent. n. 7 del 17 aprile 1996) hanno ritenuto sufficiente il deposito entro il previsto termine del solo dispositivo avendo riguardo al fatto che lo stesso può spiegare determinati effetti anche prima della redazione della motivazione del provvedimento. Questa Corte non ritiene di poter condividere l’esposto orientamento delle Sez. un. Non solo perché in contrasto con quello prevalente in giurisprudenza ed in dottrina, ma anche perché comporterebbe la sostanziale disapplicazione di una norma comportante l’inefficacia della misura coercitiva. Invero una volta avvenuto il deposito del dispositivo rimarrebbe esclusivamente rimesso al senso di responsabilità del giudice il rispetto del termine (meramente ordinatorio) di cinque giorni dalla deliberazione. Per quanto esposto l’impugnata ordinanza va annullata senza rinvio e va disposta la perdita di efficacia del provvedimento di sequestro. P.Q.M. — La Corte annulla senza rinvio l’impugnata ordinanza e dispone la perdita di efficacia del provvedimento del Gip Pretura Sassari. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 626 c.p.p.
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Incertezze interpretative circa il momento in cui ‘‘interviene’’ la decisione del tribunale del riesame.
1. Una delle questioni più controverse poste dalla disciplina del procedimento di riesame riguarda l’individuazione degli adempimenti richiesti al tribunale della libertà al fine di evitare la scadenza del termine imposto per la decisione (art. 309, comma 9, c.p.p.). Il problema assume particolare rilevanza atteso che il legislatore, per tutelare l’imputato contro l’eventuale inerzia dell’organo di controllo, ha previsto l’automatica perdita di efficacia della misura impugnata ‘‘se la decisione sulla richiesta di riesame non interviene entro il termine prescritto’’ (1) (art. 309, comma 10, c.p.p.). Proprio l’ambiguità di questa proposizione normativa ha dato luogo ad alcune incertezze interpretative, soprattutto nella giurisprudenza (2). Inizialmente ci si è domandati se la tempestività della decisione del tri(1) La decisione del tribunale del riesame deve intervenire entro dieci giorni dalla ricezione degli atti posti a fondamento del titolo cautelare impugnato (art. 309, comma 9 c.p.p.). Vale la pena ricordare che, in seguito alle modifiche operate dalla l. 8 agosto 1995, n. 332, la misura impugnata perde efficacia non solo se nel termine di dieci giorni non interviene alcuna decisione, ma anche quando gli atti posti a fondamento di essa non vengono trasmessi al tribunale dall’autorità procedente nei termini di cui al comma 5 dell’art. 309 c.p.p. Per un commento su questa modifica v. G. SPANGHER, Commento all’art. 16 della legge n. 332 del 1995 in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale, Padova, 1995, p. 231 s. (2) Gli stessi dubbi interpretativi si ponevano con riferimento all’art. 263-ter del codice di rito previgente, per il quale la decisione del tribunale doveva intervenire ‘‘entro tre giorni dal ricevimento degli atti’’ (art. 263-ter, comma 3): tale termine poteva essere prorogato per un ulteriore periodo di tre giorni in ragione ‘‘della complessità dei fatti oggetto dell’imputazione’’ (art. 263-ter, comma 4). La mancata deci-
— 1397 — bunale del riesame vada determinata con riguardo al momento in cui è intervenuta la deliberazione o, piuttosto, facendo riferimento alla data in cui è avvenuto il deposito del provvedimento decisorio. L’alternativa è limitata a questi due poli, poiché nel silenzio legislativo pare da escludere che nel procedimento di riesame sia consentito ‘‘pubblicare’’ la decisione mediante la lettura del dispositivo in udienza. Tale procedimento, infatti, si svolge in camera di consiglio secondo lo schema generale dell’art. 127 c.p.p., ossia senza la necessaria presenza in udienza dei contraddittori (art. 309, comma 8, c.p.p.) (3). Per effetto del rinvio alle forme tipiche del rito camerale, anche i provvedimenti emessi dal tribunale del riesame sono soggetti alla disciplina generale sancita dall’art. 128 c.p.p. secondo la quale, salvo le eccezioni espressamente previste, ‘‘gli originali dei provvedimenti (camerali)... sono depositati in cancelleria entro cinque giorni dalla deliberazione’’. Vale, dunque, la regola del distacco temporale tra deliberazione e deposito del provvedimento, così come avviene per le sentenze dibattimentali. Facendo leva su quest’ultima disposizione, una parte della giurisprudenza sostiene che la tempestività della decisione del tribunale del riesame va determinata con riguardo alla data della deliberazione e non anche del deposito dell’ordinanza (4). La tesi opposta è accolta, invece, dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (5) ed incontra il consenso quasi unanime della dottrina. Appare invero decisiva la considerazione che la pronuncia emessa con il rito della camera di consiglio acquista efficacia giuridica soltanto con il deposito, unico atto che la fa esistere, in quanto la rende conoscibile alle parti (6). A sostegno di quesione sulla richiesta di riesame entro questi termini rendeva inefficaci i provvedimenti impugnati (art. 263-ter, comma 7). Sulla disciplina attuale dei termini apposti agli organi di controllo de libertate v. A. CONFALONIERI, Il controllo giurisdizionale sulla custodia cautelare. Esperienza italiana e francese a confronto, Padova, 1997, p. 182 s.; per più ampie prospettazioni critiche cfr. anche C. VALENTINI REUTER, Il rispetto dei tempi delle decisioni de libertate, in questa Rivista, 1993, p. 1142. Sul meccanismo di caducazione della misura impugnata v. M. CHIAVARIO, Tribunale della libertà e libertà personale, in Tribunale della libertà e garanzie individuali, a cura di V. Grevi, Bologna, 1983, p. 182 s.; V. GREVI, Tribunale della libertà, custodia preventiva e garanzie individuali: una prima svolta oltre l’emergenza, ivi, p. 36 s.; G. ILLUMINATI, Commento agli artt. 8-9 legge 12 agosto 1982, n. 532, in Leg. pen., 1983, p. 107 s. (3) Nella procedura in camera di consiglio la lettura in udienza del dispositivo del provvedimento conclusivo è irrituale e non esaurisce il processo formativo della decisione: così Sez. I, 16 dicembre 1994, Cerciello, in Giur. it., 1995, II, c. 454, con osservazioni di R. Variglia. (4) In questo senso cfr. Sez. II, 25 maggio 1993, Guarnieri, in Arch. nuova proc. pen., 1994, p. 281; Sez. VI, 11 giugno 1992, Boni, in Cass. pen., 1993, p. 1777, n. 1053. (5) Cfr. Sez. I, 11 ottobre 1995, Ietto in Arch. nuova proc. pen., 1996, p. 282; Sez. III, 8 maggio 1992, Oliveri, in Foro it, Rep. 1993, voce Sequestro penale, n. 125; Sez. VI, 25 febbraio 1991, Rello, in Giust. pen., 1991, III, c. 431, m. 106; Sez. I 18 giugno 1990, Bertolo, in Giur. it., 1991, II, c. 286, con nota adesiva di A. SZEGÖ, Sulla decorrenza del termine per la decisione del tribunale della libertà in sede di riesame. In alcune pronunce la giurisprudenza si è spinta sino al punto di sostenere che nel termine di dieci giorni occorre provvedere anche alla spedizione degli avvisi ai fini della eventuale impugnazione: così Sez. fer., 20 agosto 1991, Mercurio, in Cass. pen., 1992, p. 3099, n. 1648; Sez. I, 5 luglio 1990, Cardone, Giur. it., 1991, III, p. 450, n. 142. Con riferimento all’art. 263-ter c.p.p. abrogato cfr., tra le altre, Sez. I, 28 maggio 1985, Sala, in Cass. pen., 1986, p. 1989, n. 1585. (6) Per tale opinione cfr. E. AMODIO, Commento agli artt. 127 e 128 c.p.p., in Amodio-Dominioni, Commentario del nuovo codice di procedura penale, vol. II, Milano, 1989, p. 93; V. GREVI, Scadenza del termine per la decisione da parte del tribunale del riesame ed orario di chiusura degli uffici giudiziari, in Cass. pen., 1995, p. 2614, per il quale ‘‘così interpretata la norma dell’art. 309, comma 10 c.p.p. finisce per configurarsi come una previsione in deroga rispetto al principio generale enunciato dall’art. 128 c.p.p. circa i rapporti tra deliberazione e deposito dei provvedimenti emessi a seguito di procedimento in camera di consiglio’’. Nello stesso senso si veda anche M. FERRAIOLI, ll riesame dei provvedimenti sulla libertà personale, Milano, 1989, p. 490; M. GARAVELLI, voce Riesame dei provvedimenti limitativi della libertà personale, in Enc. dir., vol. XL, Milano, 1989, p. 781; M. CERESA GASTALDO, Il riesame delle misure coercitive nel processo penale, Milano, 1993, p. 171; A. GIANNONE, Misure cautelari (impugnazioni), in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da Chiavario, Primo aggiornamento, Torino, 1993, p. 581; S. RAMAJOLI, Le misure cautelari (personali e reali) nel codice di procedura penale, Padova, 1993, p. 155; G. DI CHIARA, Il contraddittorio nei riti camerali, Milano, 1994, p. 186; E. APRILE, Le impugnazioni delle ordinanze sulla libertà personale, Milano, 1996, p. 66. In senso contrario cfr. P. DUBO-
— 1398 — sto secondo indirizzo può aggiungersi che, mentre la deliberazione resta un atto interno della procedura, solamente il deposito del provvedimento consente agli interessati di verificare il rispetto del termine da parte del tribunale del riesame (7). Del resto, tale soluzione risulta più coerente sotto il profilo sistematico. Alcuni studiosi (8) non mancano di evidenziare, infatti, l’analogia della situazione in parola con l’ipotesi della caducazione automatica del fermo e dell’arresto che il codice, nel testo modificato dal d.lgs. n. 12 del 1991, ricollega espressamente al mancato deposito dell’ordinanza di convalida entro il termine prefissato (art. 391, comma 7, c.p.p.). 2. Ribadita l’esattezza dell’impostazione appena delineata, resta da risolvere l’ulteriore quesito sul quale si è pronunciata la sentenza in epigrafe, ossia se la decisione del tribunale del riesame acquisti rilevanza esterna solo mediante il deposito dell’ordinanza completa di motivazione oppure se sia sufficiente il deposito del dispositivo. Anche su tale problematica si è delineato un contrasto giurisprudenziale, successivamente risolto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione. Muovendo dal presupposto che nei provvedimenti decisori il dispositivo ha autonoma rilevanza rispetto alla motivazione e alla deliberazione, le Sezioni unite giungono a sostenere che, ai fini dell’osservanza del termine perentorio di dieci giorni, è necessario e sufficiente il deposito del dispositivo, ‘‘che della decisione è la sintesi’’ e ‘‘spiega determinati effetti anche prima della redazione della motivazione’’ (9): resa visibile la decisione con il deposito del dispositivo, il giudice del riesame dovrà provvedere al deposito della motivazione nei cinque giorni successivi alla data della deliberazione ai sensi dell’art. 128 c.p.p. Alle lineari e persuasive argomentazioni espresse dalle Sezioni unite si oppone adesso la pronuncia in commento, sulla base di motivazioni non propriamente giuridiche. Su di esse ci soffermeremo più avanti. Prima sembra necessario stabilire se nella pronuncia emessa dal tribunale del riesame debba essere esplicitamente formulato il dispositivo, ossia il comando della legge nel caso concreto così come individuato dal giudice. Il dubbio deriva dal fatto che tale pronuncia assume la veste formale di una ordinanza e nessuna norma di legge esige per questo tipo di provvedimento l’enunciazione espressa del dispositivo. Solamente in relazione ai requisiti della sentenza il codice di rito richiede la presenza del dispositivo (artt. 426 e 546 c.p.p.). Ed invero la giurisprudenza tende ad escludere la necessità che il dispositivo risulti individualizzato dal resto dell’ordinanza, purché la volontà giudiziale sia coLINO-T. BAGLIONE-F. BARTOLINI, Commento all’art. 309 c.p.p., in Il nuovo codice di procedura penale illustrato, Piacenza, 1992, p. 814. (7) Sulla scia dell’indirizzo prevalente in giurisprudenza, le Sezioni unite della Cassazione hanno precisato che il termine per il deposito dell’ordinanza emessa dal tribunale del riesame scade perentoriamente non nel momento in cui gli uffici vengono chiusi al pubblico, bensì nella ventiquattresima ora del decimo giorno dalla ricezione degli atti necessari per la decisione: cfr. Sez. un., 27 settembre 1995, Mannino, in Cass. pen., 1995, p. 1087, n. 597; Contra, isolatamente, Sez. V, 11 aprile 1995, Mendella, ivi, 1995, p. 2612, n. 1568. Al riguardo, si registrano opinioni contrastanti in dottrina: in conformità alla tesi enunciata dalle Sez. un. cfr. V. GREVI, ult. op. cit., loc. cit.; in senso contrario v. E. AMODIO, Orario degli uffici giudiziari e garanzie costituzionali, in Cass. pen., 1995, p. 1103, n. 597. (8) Così V. GREVI, op. ult. cit., p. 2616; cfr. anche A. SZEGÖ, op. cit., c. 287. (9) Cfr. Sez. un., 17 aprile 1996, Moni in Cass. pen., 1996, p. 3275, n. 1812. Per l’affermazione che la misura impugnata perde di efficacia se entro il termine di dieci giorni non viene depositata la decisione del tribunale completa di tutti i suoi elementi (motivi, dispositivo e sottoscrizione) si veda Sez. II, 28 luglio 1994, Susi, ivi, 1996, p. 232, n. 106; in senso contrario cfr. Sez. I, 6 febbraio 1995, Castiglia, in Mass. cass. pen., 1995, fasc. 7, m. 23; Sez. II, 3 giugno 1993, Guarnieri, in Arch. nuova proc. pen., 1994, p. 281.
— 1399 — munque desumibile dalla motivazione (10). Tuttavia un argomento testuale induce ad accogliere una diversa conclusione, almeno in ordine alle ordinanze emesse all’esito del procedimento in camera di consiglio. Si intende far riferimento al secondo periodo dell’art. 128 c.p.p. che, al fine di consentire ai soggetti legittimati di esercitare la potestas impugnandi, prevede la comunicazione ad essi di un avviso di deposito nel quale deve essere indicato il dispositivo del provvedimento camerale impugnabile (11): da qui sembra ragionevole desumere l’autonoma collocazione del dispositivo nella struttura di questo genere di provvedimenti (12). Con riferimento alle ordinanze pronunciate dal tribunale del riesame la presenza del dispositivo è ancor più necessaria, data l’ampia gamma di provvedimenti che possono concludere il procedimento. Come noto, il tribunale del riesame ha il potere di annullare o di confermare la misura cautelare impugnata, ma può anche sostituirla con un’altra, ovviamente nei limiti posti dal principio generale del divieto della reformatio in pejus. In concreto, quindi, potrebbe risultare piuttosto difficile desumere il contenuto imperativo della decisione de libertate dalla sola motivazione, spesso peraltro assai complessa. 3. Anche ai provvedimenti giurisdizionali, in quanto atti giuridici, possono applicarsi i concetti generali di perfezione, di validità e di efficacia. Un provvedimento può dirsi perfezionato quando presenta tutti i requisiti, essenziali ed accidentali, di sostanza e di forma, richiesti dalla legge. A seconda della gravità del vizio da cui è affetto, il provvedimento non conforme al modello legale (provvedimento imperfetto) sarà irregolare oppure invalido. Mentre l’irregolarità non incide sull’efficacia di un atto giuridico, l’invalidità, se fatta valere con gli strumenti e nei modi previsti dalla legge, comporta l’inefficacia ex tunc dell’atto giuridico, ossia sin dal momento in cui è stato posto in essere (13). Ciò premesso, è da ritenere che la ‘‘decisione’’ del tribunale del riesame possa dirsi ‘‘intervenuta’’ con la emissione da parte del giudice dell’impugnazione di un provvedimento munito dei requisiti minimi di esistenza. Sembra, invece, del tutto irrilevante che si tratti anche di un provvedimento valido. Sotto il profilo formale, i requisiti minimi di esistenza di qualsiasi provvedi(10) In questo senso si è espressa una parte della giurisprudenza: v. Sez. II, 26 marzo 1993, De Rosa, in C.E.D. Cass., n. 195244; Sez. III, 3 marzo 1992, Bolognini, in Cass. pen., 1994, p. 1234, n. 725; Sez. I, 4 novembre 1991, Rados, ivi, 1994, p. 623, n. 386; in senso contrario v. Sez. I, 2 febbraio 1994, Di Giorgio, in Foro it., 1995, II, c. 297. Per l’opinione che la mancanza del dispositivo determina la inesistenza dell’ordinanza si veda G. ARICÒ, voce Ordinanza (dir. proc. pen.), in Enc. dir., XXX, Milano, 1980, p. 965; nessuna causa di invalidità si verifica, invece, secondo M. VANNUCCI, voce Ordinanza, in Dig. pen., Torino, 1995, IX p. 69. (11) L’indicazione del dispositivo nell’avviso di deposito non è prescritta a pena di nullità, a differenza di quanto sanciva l’art. 151 del codice abrogato per i provvedimenti camerali. Tuttavia in dottrina si sostiene che tale omissione, incidendo sul diritto di difesa, determina la nullità di ordine generale prevista dall’art. 178, lett. c, del codice di rito: così A. GALATI, Atti, in AA.VV., Diritto processuale penale, vol. I, Milano, 1994, p. 275. Secondo un altro studioso, invece, in questo caso si applica l’art. 171, lett. a, c.p.p., per il quale la notificazione è nulla ‘‘se l’atto è notificato in modo incompleto’’: cfr. G.P. VOENA, Atti, in CONSO-GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, Padova, 1993, p. 131. Di inesistenza dell’avviso per inidoneità a provocare il decorso del termine di impugnazione parla M. GARAVELLI, Commento all’art. 128 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale coordinato da Chiavario, II, Torino, p. 104. Dalla notificazione dell’avviso di deposito, infatti, decorrono i termini per impugnare mediante ricorso per cassazione il provvedimento emesso dal tribunale del riesame. Purtroppo, però, questa attività non è sottoposta ad alcun termine. Per evitare pericolose stasi, sarebbe quindi auspicabile un intervento legislativo. (12) Nello stesso senso v. A. DIDDI, Decisioni in camera di consiglio ed integrazione della relativa fattispecie, in Giust. pen., 1996, III, c. 212. (13) Sugli effetti precari dell’atto annullabile si veda G. CONSO, Il concetto e le specie d’invalidità, Milano, 1972, rist., p. 45 s.
— 1400 — mento giurisdizionale sono costituiti dal dispositivo, dalla indicazione dell’organo che lo ha emesso e dalla sottoscrizione del giudice o di coloro che compongono il collegio giudicante. Tra di essi non va ricompresa la motivazione che rappresenta solamente un requisito di validità delle ordinanze, delle sentenze e, talvolta, dei decreti (art. 125 c.p.p.). Pur se munito dei requisiti minimi di esistenza, il provvedimento giurisdizionale acquista rilevanza giuridica mediante la pubblicazione: soltanto con la manifestazione esteriore del procedimento deliberativo, infatti, la decisione fuoriesce dalla disponibilità del giudice, divenendo intangibile e vincolante per i suoi destinatari. A conferma di queste asserzioni si possono ricordare alcune norme processuali che ricollegano la produzione di determinati effetti giuridici alla pubblicazione del solo dispositivo. Così l’art. 154-bis delle norme di attuazione del codice di rito stabilisce che ‘‘l’imputato detenuto è posto in libertà immediatamente dopo la lettura in udienza del dispositivo della sentenza di proscioglimento, se non detenuto per altra causa’’. Allo stesso modo l’art. 626 c.p.p., nel disciplinare gli effetti della sentenza pronunciata in camera di consiglio dalla Corte di cassazione sui provvedimenti di natura personale o reale, dispone che se per effetto della sentenza ‘‘deve cessare una misura cautelare, ovvero una pena accessoria o una misura di sicurezza, la cancelleria ne comunica immediatamente il dispositivo al procuratore generale presso la Corte medesima perché dia i provvedimenti occorrenti’’. Sulla base di tali rilievi è corretto concludere che la decisione del tribunale del riesame viene ad esistere giuridicamente già con il deposito in cancelleria del dispositivo dell’ordinanza. Si potrebbe obiettare che il codice non contempla per i provvedimenti camerali un momento di pubblicazione del dispositivo disgiunto da quello della motivazione. Ma la replica pare agevole. Il deposito degli atti e dei documenti processuali in cancelleria costituisce una semplice attività materiale ed i relativi adempimenti non sono soggetti a rigidi schemi formali. Basta, pertanto, che il deposito realizzi in concreto lo scopo di rendere conoscibile la decisione giudiziale ai soggetti ai quali è diretta. Va sottolineato ancora che mediante il deposito del dispositivo gli interessati sono in grado di stabilire con certezza se sia stato osservato il termine ex art. 309, comma 10, c.p.p. Esistono ottimi argomenti, dunque, a sostegno della tesi secondo cui, al fine di evitare la caducazione automatica della misura cautelare impugnata, è sufficiente che entro il termine di dieci giorni venga depositato il dispositivo dell’ordinanza, fermo restando il dovere del giudice di provvedere nei cinque giorni successivi al deposito della motivazione ai sensi dell’art. 128 c.p.p. 4. A questo indirizzo non aderisce la sentenza in epigrafe. La critica si appunta unicamente sulla circostanza che non può rimettersi al senso di responsabilità del giudice del riesame il rispetto del termine ordinatorio previsto dall’art. 128 c.p.p. per il deposito della motivazione. Questo modo di argomentare appare viziato e non può essere condiviso, perché finisce per far dipendere la soluzione della problematica in oggetto da eventuali situazioni patologiche del tutto estranee al sistema normativo. Come peraltro dispone l’art. 124 c.p.p., il giudice è tenuto al rispetto di tutte le norme processuali anche quando la loro inosservanza non cagioni alcuna invalidità. Tanto più che il ritardo dell’organo giudicante nel compiere un atto per il quale sia fissato un termine può dar luogo a responsabilità disciplinare e civile (14), specialmente quando sono in discussione le libertà delle persone. (14)
Ai sensi dell’art. 3 della l. 13 aprile 1988 n. 117, quando è in gioco la libertà personale del-
— 1401 — Altre obiezioni alla tesi sostenuta dalle Sezioni unite potrebbero sembrare più fondate. Abbiamo accennato in precedenza che, stante l’analogia degli istituti, l’attività richiesta al giudice del riesame per evitare la caducazione automatica della misura impugnata dovrebbe essere la stessa che è imposta al giudice dell’udienza di convalida del fermo o dell’arresto per preservare l’efficacia delle misure precautelari. Ebbene la formula linguistica impiegata dal legislatore nel testo originario dell’art. 391, comma 7, c.p.p. era identica a quella utilizzata a proposito della procedura di riesame: in entrambi i casi la perdita di efficacia del titolo cautelare o precautelare veniva ricollegata alla mancata ‘‘decisione’’ del giudice nel termine fissato dalla legge. L’identità di formulazione è venuta meno in seguito al d.lgs. 14 gennaio 1991, n. 12, che ha modificato il comma 7, dell’art. 391 c.p.p.: attualmente le misure precautelari divengono inefficaci ‘‘se l’ordinanza di convalida non è pronunciata o depositata’’ nei tempi richiesti. Tale intervento legislativo è stato variamente interpretato. Secondo alcuni studiosi il legislatore avrebbe stabilito il principio generale che, al di là dei casi in cui la decisione può essere pronunciata in udienza, soltanto il deposito del provvedimento nella sua completezza impedisce la caducazione delle misure tout court provvisorie (15). Al contrario, per le Sezioni unite la diversa formulazione delle due norme è riconducibile non ad una semplice dimenticanza, ma piuttosto alla consapevolezza da parte del legislatore che, di solito, nell’udienza di convalida il giudice affronta problemi meno complessi di quelli che deve risolvere il tribunale del riesame: di conseguenza, non possono estendersi a quest’ultimo gli incombenti richiesti al giudice della convalida. Sotto il profilo logico-giuridico entrambe le affermazioni sembrano ugualmente sostenibili. Si rende perció necessario mutare la prospettiva dell’indagine. Poiché il termine entro cui deve intervenire la decisione del tribunale del riesame è posto a tutela delle libertà della persona, riteniamo che l’interprete debba propendere per la tesi che meglio realizzi questa finalità. In tale ottica potrebbe sembrare che la soluzione adottata dalle Sezioni unite sia più sfavorevole per l’imputato, atteso che l’inosservanza del termine comporta la perdita di efficacia della misura cautelare impugnata. Tuttavia l’assunto risulta scarsamente persuasivo, poiché il mancato deposito della decisione entro quel termine non determina, come conseguenza imprescindibile, la cessazione del vincolo cautelare. In dottrina ed in giurisprudenza, infatti, è ormai pacifico che la perdita di efficacia della misura cautelare per mancato deposito della decisione nel termine di legge ‘‘non costituisce di per sé causa di preclusione per l’emanazione di un successivo provvedimento di contenuto identico’’ (16). Sicché, nella prassi, accade di frequente che, nonostante l’intervento di un fattore estintivo, il vincolo cautelare sia ripristinato l’imputato, costituisce diniego di giustizia il rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio se, trascorso il termine di legge, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, cinque giorni dalla data del deposito in cancelleria della relativa istanza. (15) In tal senso cfr. A. SZEGÖ, op. cit., c. 287. Val la pena di evidenziare che nella motivazione della sentenza emessa dalle Sezioni unite tale tesi è riferita, in maniera inequivoca, anche al pensiero di V. GREVI, Scadenza del termine, cit., loc. cit., (a nostro avviso però quest’ultimo Autore, volutamente, si limita a sostenere che la tempestività della decisione del tribunale del riesame va accertata con riguardo al deposito dell’ordinanza de libertate, senza addentrarsi nella ulteriore problematica relativa alla necessità o meno del deposito della motivazione). (16) Così, sulla scia della giurisprudenza prevalente, Sez. un., 10 settembre 1992, Grazioso, in Cass. pen., 1992, p. 2290, m. 1568, con osservazioni di M. Vessichelli; in dottina v. F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1993, p. 504, per il quale ‘‘la revoca ex lege non preclude nuovi interventi cautelari, se il caso li richiede’’, ma si deve ‘‘estendere l’art. 307 c.p.p. sullo scarcerato per decorso dei termini (analogia in bonam partem)’’. In argomento cfr. M. BARGIS, Misura caducata per tardato deposito della pronuncia di riesame, in Dir. pen. e proc., 1995, p. 1065, e più ampiamente M. CERESA GASTALDO, op. cit., p. 162.
— 1402 — prima ancora che venga eseguita l’ordinanza di cessazione della misura impugnata. Stando così le cose risulta notevolmente ridimensionata, se non addirittura nullificata, la valenza garantistica attribuita alla tesi che sostiene la necessità del deposito della motivazione entro il termine posto dall’art. 309, comma 10, c.p.p. Al contrario, non sembra seriamente contestabile che le libertà personali ricevono una più adeguata tutela se si ammette che anche il deposito del solo dispositivo nel termine legale impedisce la caducazione della misura impugnata. L’assunto vale in rapporto alle decisioni favorevoli per l’imputato, che producono effetti immediati anche quando sono in corso i termini per l’impugnazione. Invero, consentendo al giudice del riesame di depositare il dispositivo dell’ordinanza decisoria subito dopo aver deliberato l’annullamento o la riforma della misura impugnata, è possibile ottenere l’effetto di far cessare il vincolo cautelare in anticipo rispetto ai tempi necessari alla stesura della motivazione, che di solito si presenta assai laboriosa. Giova, inoltre, evidenziare le conseguenze paradossali che possono derivare se si ammette la perdita di efficacia della misura cautelare per il decorso del termine, nonostante il deposito del dispositivo di un provvedimento favorevole: in tal caso, infatti, per le ragioni enunciate più sopra, l’imputato correrebbe il rischio di essere sottoposto ad una nuova misura cautelare fondata sugli stessi presupposti della precedente (17). In sintesi, la tesi secondo la quale la decisione del tribunale del riesame può dirsi intervenuta già al momento del deposito del dispositivo non confisca alcuna garanzia all’imputato, ed anzi risulta senz’altro più rispettosa del principio del favor libertatis. Merita, dunque, piena adesione la soluzione interpretativa sostenuta dalle Sezioni unite, che ha il formidabile pregio di riuscire a contemperare le esigenze di efficienza e di massima semplificazione del processo con le garanzie delle libertà personali. GIAN MARCO BACCARI Università di Firenze
(17) Le conseguenze sono ancora più gravi se si ritiene che la perdita di efficacia della misura cautelare impugnata faccia venire meno il potere-dovere del tribunale del riesame di pronunciarsi sul merito della vicenda. In tal caso, infatti, all’imputato non resterebbe altro che formulare un’altra richiesta di riesame nei confronti del nuovo titolo cautelare. In ordine alla dibattuta questione degli effetti della caducazione della misura impugnata sulla prosecuzione del giudizio di controllo v. M. CERESA GASTALDO, op. cit., p. 164 s.; E. MARZADURI, voce Riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, in Nss. Dig. it., Appendice, vol. VI, Torino, 1986, p. 786. Si vedano anche F. VIGGIANO, Invalidità dell’ordinanza di riesame ed efficacia della misura coercitiva, in Giur. it., 1994, II, c. 326; R. ADORNO, Sui limiti di deducibilità dell’inosservanza del termine di cui all’art. 309 comma 9 c.p.p., in Cass. pen., 1996, p. 1505, n. 890; F. TODISCO, Il riesame delle misure cautelari personali, Padova, p. 110.
— 1403 — CORTE COSTITUZIONALE — 14 febbraio-3 marzo 1997, n. 58 Pres. Granata — Rel. Onida Estradizione — Pendenza di procedimento penale in Italia per gli stessi fatti per cui l’estradizione è richiesta — Convenzione europea di estradizione (art. 8) — Facoltà di estradare riconosciuta allo Stato in caso di procedimento penale in corso — Discrezionalità del Ministro di grazia e giustizia nella concessione dell’estradizione — Contrasto coi princìpi di cui agli artt. 24, secondo comma, 25, primo comma e 112 Cost. — Esclusione — Non fondatezza della questione (Cost., artt. 24, secondo comma, 25, primo comma, 112, l. 30 gennaio 1963, n. 300, artt. 1 e 2). È infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della l. 30 gennaio 1963, n. 300, sollevata con riguardo agli artt. 8 e 9 della Convenzione europea di estradizione, e in riferimento agli artt. 24, secondo comma, 25, primo comma, e 112 della Costituzione, dalla Corte di cassazione. L’art. 8 della Convenzione europea di estradizione attribuisce allo Stato richiesto che abbia in corso un procedimento penale per lo stesso fatto la facoltà di rifiutare l’estradizione. In presenza di siffatta norma internazionale non può che rimanere rimesso all’ordinamento interno di ciascun Stato contraente regolare la fattispecie, stabilendo se e a quali condizioni, e per determinazione di quale autorità, l’estradizione possa o meno essere concessa. Qualunque sia la soluzione discendente dall’ordinamento interno dello Stato richiesto la norma internazionale risulta pienamente osservata. L’art. 705 c.p.p. in assenza di contrastanti disposizioni di convenzioni internazionali comporta ora il divieto di estradare, e dunque comporta una pronuncia di non estradabilità da parte dell’autorità giudiziaria competente, con esclusione di ogni potere discrezionale del ministro. Il sistema normativo, in presenza del nuovo codice, va dunque ricostruito nel senso che la pendenza del procedimento penale vieta, anche nelle fattispecie cui risulta applicabile la Convenzione europea di estradizione, di adottare una pronuncia di estradabilità. Così ricostruito il sistema normativo, ed escluso quindi che alle norme di origine convenzionale denunciate dal giudice a quo si debbano attribuire il significato e la portata da esso presupposti, la questione di legittimità costituzionale resta priva di fondamento (1). (Omissis). — RITENUTO IN FATTO. — 1. La Corte di cassazione, pronunciandosi su di un ricorso promosso avverso i provvedimenti di convalida dell’arresto provvisorio a fini di estradizione, eseguito ai sensi dell’art. 715 c.p.p. dalla polizia giudiziaria, e di applicazione della misura coercitiva della detenzione in carcere, adottati nei confronti di un imputato sottoposto a processo penale in Italia per lo stesso fatto a cui si riferisce la richiesta di estradizione, ha sollevato d’ufficio questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, 25, primo comma, e 112 Cost., l. 30 gennaio 1963, n. 300 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea di estradizione, firmata a Parigi il 13 dicembre 1957), « a riguardo degli artt. 8 e 9 di detta Convenzione ». Rileva la Corte remittente che propedeutica all’esame di vari motivi del ri-
— 1404 — corso appare la verifica richiesta dall’art. 714, terzo comma, c.p.p. — applicabile in tutti i casi di estradizione, anche se regolati pattiziamente — secondo il quale le misure cautelari coercitive non possono comunque essere disposte « se vi sono ragioni per ritenere che non sussistono le condizioni per una sentenza favorevole all’estradizione ». Nella specie — osserva il giudice a quo — è pacifico che la richiesta di estradizione riguarda gli stessi fatti (l’eccidio delle Fosse Ardeatine, avvenuto in Roma il 24 marzo 1944) per i quali si procede penalmente in Italia nei confronti della persona di cui è chiesta l’estradizione (era già stata pronunciata sentenza di merito in primo grado, peraltro dichiarata nulla successivamente all’ordinanza di rimessione, onde il processo è tornato allo stadio del rinvio a giudizio dell’imputato, in attesa di processo). La normativa specificamente applicabile non sarebbe tuttavia quella risultante dall’art. 705, primo comma, ultima parte, del codice di rito, che vieta, fra l’altro, la pronuncia di sentenza favorevole all’estradizione ove per lo stesso fatto sia in corso procedimento penale in Italia, poiché su di essa prevarrebbe la normativa pattizia risultante dalla combinazione degli artt. 8 e 9 della Convenzione europea di estradizione, resa esecutiva in Italia con la legge n. 300 del 1963, dalla quale emerge che l’estradizione può essere rifiutata quando la persona reclamata sia oggetto nello Stato richiesto di procedimenti penali per i fatti per i quali l’estradizione è domandata (art. 8), mentre l’estradizione non è accordata quando la persona richiesta è stata giudicata in via definitiva dalle autorità competenti della parte richiesta per i fatti per i quali l’estradizione è domandata (art. 9). Nell’ordinanza si afferma che secondo tale sistema normativo il ricorrente potrebbe essere estradato per rispondere degli stessi fatti per i quali egli è sottoposto a giudizio in Italia, e che la decisione sull’accoglimento o meno della richiesta di estradizione spetterebbe, secondo la giurisprudenza uniforme della stessa Corte di cassazione, al Ministro di grazia e giustizia, il quale deciderebbe a discrezione, senza essere vincolato a (o anche solo indirizzato da) criteri o parametri normativi, rendendosi così evanescente la garanzia giurisdizionale, che pure assiste tutto il procedimento di estradizione. Tale sistema normativo sarebbe, secondo il giudice remittente, lesivo anzitutto del diritto di difesa di cui all’art. 24, secondo comma, Cost., poiché, non essendo possibile l’abbandono del procedimento nel nostro Stato, per il principio di irretrattabilità dell’azione penale, la persona sottoposta a tale processo, una volta estradata, non sarebbe più in grado di difendersi personalmente partecipando al processo medesimo. Né si potrebbe eccepire la possibilità di riestradizione o di sospensione del processo per legittimo impedimento dell’imputato: da un lato, infatti, sarebbe interesse costituzionalmente protetto quello dell’accusato di veder decisa la controversia in tempi ragionevoli; dall’altro lato, la decisione penale definitiva cui si pervenga nello Stato richiedente renderebbe giuridicamente impraticabile l’ulteriore prosecuzione del giudizio in Italia, opponendosi il principio del ne bis in idem internazionale, enunciato dall’art. 9 della Convenzione europea di estradizione. In secondo luogo, secondo il giudice a quo, la normativa applicabile sarebbe in contrasto col divieto di distrazione dal giudice naturale precostituito per legge,
— 1405 — di cui all’art. 25, primo comma, Cost., perché la discrezionale determinazione dell’autorità politico-amministrativa risulterebbe capace di sottrarre l’imputato al giudice precostituito per legge, già individuato attraverso la celebrazione del processo. In terzo luogo, si avrebbe violazione del principio di irretrattabilità dell’azione penale, corollario indefettibile della regola dell’obbligatorietà dell’azione penale, di cui all’art. 112 Cost., perché, per effetto della discrezionale decisione dell’autorità politico-amministrativa, con l’esecuzione dell’estradizione il giudizio verrebbe consumato nello Stato richiedente, sicché il processo penale in Italia dovrebbe essere abbandonato. La Corte remittente ritiene che la predetta situazione di contrasto con i principi costituzionali costituisca il frutto del recepimento nell’ordinamento giuridico italiano delle due richiamate disposizioni (artt. 8 e 9) della Convenzione europea di estradizione, sicché il vizio di incostituzionalità si appunterebbe sugli artt. 1 e 2 della legge di autorizzazione alla ratifica e di esecuzione, per la parte in cui essa ha recepito nella nostra legislazione norme in contrasto con l’ordine costituzionale, che condiziona anche l’esercizio delle potestà dei soggetti pubblici attraverso le quali si realizza la cooperazione internazionale ai fini della mutua assistenza giudiziaria. Rileva il giudice a quo che l’art. 705, primo comma, ultima parte, c.p.p., individua il corretto meccanismo cui dovrebbero — e, nel caso di accoglimento della questione, dovranno — attenersi sia l’organo giurisdizionale che quello politicoamministrativo, vale a dire la reiezione della richiesta di estradizione quando sia già stata esercitata in Italia l’azione penale per gli stessi fatti per i quali l’estradizione stessa è domandata: tanto più quando, come nella specie, i fatti siano stati commessi in Italia e in danno di cittadini italiani, così che l’estradizione implicherebbe anche una deroga alla disposizione di cui all’art. 11, primo comma, c.p., che prevede in tal caso il rinnovamento del giudizio nello Stato anche quando l’imputato sia stato giudicato all’estero. In punto di rilevanza, la Corte remittente osserva che a seguito dell’eventuale accoglimento della questione verrebbe meno la possibilità giuridica dell’estradizione richiesta, sicché dovrebbe riconoscersi l’inesistenza del presupposto di legittimità per l’applicazione della misura coercitiva provvisoria adottata ed impugnata. 2. È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata. L’Avvocatura osserva che la regola, enunciata nell’art. 705, primo comma, c.p.p. (il quale però fa salve le diverse disposizioni delle convenzioni internazionali), rispondente alla tradizionale concezione per cui l’estradizione presuppone la previa soddisfazione delle pretese punitive dello Stato richiesto, non assurge alla dignità di principio di diritto internazionale generalmente riconosciuto: al contrario, la disposizione di ciascuno Stato a soddisfare le pretese altrui, pure in presenza di un concomitante esercizio della propria giurisdizione penale per lo stesso fatto, formerebbe oggetto di apprezzamento anche alla luce dei criteri e dei vantaggi connessi alla cooperazione internazionale. In tale ottica l’art. 8 della Convenzione europea di estradizione contemple-
— 1406 — rebbe in termini di semplice facoltà il diniego dello Stato richiesto di concedere l’estradizione in caso di « litispendenza internazionale », lasciando alla valutazione dei poteri a ciò preposti in ogni ordinamento il compito di verificare se sia opportuno o meno avvalersi di detta facoltà, in relazione alla pregnanza dell’interesse di ciascuno Stato al perseguimento del giudicabile nel caso concreto: in linea con il moderno fondamento dell’istituto dell’estradizione, consistente nel riconoscimento internazionale del dovere reciproco degli Stati di consegnare gli imputati o i condannati a quello Stato che ha il maggior interesse alla punizione del colpevole, salvo espresso divieto stabilito dalle convenzioni internazionali. In questo quadro organico, secondo l’Avvocatura, dovrebbe escludersi la fondatezza della questione. Non sussisterebbe, in primo luogo, contrasto con l’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto lo stato di detenzione all’estero costituisce motivo di legittimo impedimento dell’imputato che impone la sospensione o il rinvio del processo penale. Né si potrebbe far rientrare nell’orbita del diritto di difesa il distinto e più sfumato interesse a vedere decisa la controversia penale in tempi ragionevoli, interesse riconosciuto dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in una disposizione diversa da quella attinente al diritto di difesa. Gli artt. 8 e 9 della Convenzione europea di estradizione, secondo l’interveniente, non avrebbero, inoltre, derogato all’art. 11 c.p. (sul rinnovamento del giudizio nei confronti dell’imputato già giudicato all’estero) in relazione al principio del ne bis in idem, onde non sussisterebbe il divieto per il giudice italiano di conoscere degli stessi fatti che formano oggetto di procedimento penale in un altro Stato firmatario della convenzione. Del resto, il principio del ne bis in idem non sarebbe generalmente riconosciuto in ambito internazionale, e non potrebbe essere fatto derivare né dal Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, dato il carattere meramente programmatico delle relative disposizioni, né dalla Convenzione degli Stati membri delle Comunità europee firmata a Bruxelles il 25 maggio 1987 e resa esecutiva con legge 16 ottobre 1989, n. 350, che contiene una espressa riserva relativamente, fra l’altro, al caso di fatto commesso nel territorio dello Stato. In definitiva, secondo l’Avvocatura, una volta cessata la impossibilità di partecipare al procedimento legata allo stato di detenzione all’estero, il processo sospeso nei confronti della persona estradata potrebbe ben proseguire, a norma dell’art. 11 c.p., anche se nel frattempo l’imputato fosse stato giudicato in via definitiva all’estero. Non si avrebbe nemmeno, secondo l’interveniente, alcuna sottrazione dell’estradato al giudice precostituito dall’ordinamento italiano, ma solo la possibilità che sia invertita la normale priorità nell’esercizio della giurisdizione penale fra Stato richiesto e Stato richiedente, e non già uno spostamento di competenza dal giudice italiano a quello straniero. Comunque il principio di cui all’art. 25, primo comma, Cost., sarebbe posto essenzialmente a garanzia dell’assoluta imparzialità degli organi giudiziari, e sarebbe del tutto estraneo all’ipotesi di coordinamento fra le giurisdizioni di diversi Stati. Egualmente dovrebbe escludersi, ad avviso dell’Avvocatura, la violazione del
— 1407 — principio di irretrattabilità dell’azione penale, in quanto l’accoglimento della richiesta di estradizione non precluderebbe la possibilità della prosecuzione del procedimento penale in Italia, anche dopo la formazione del giudicato nello Stato richiedente. In ogni caso l’art. 112 Cost. mirerebbe essenzialmente ad escludere qualsiasi discrezionalità del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale, e pertanto non vieterebbe che l’ordinamento introduca determinate condizioni per il promuovimento o la prosecuzione dell’azione penale: così non sarebbe in contrasto con il precetto costituzionale la previsione di una decisione, impeditiva della proseguibilità dell’azione, da parte del Ministero, volta a realizzare il più acconcio regolamento dei rapporti fra le giurisdizioni di diversi Stati, ove pure volesse in via di ipotesi leggersi in tale chiave l’accoglimento della richiesta di estradizione in situazione di litispendenza internazionale. Infine l’Avvocatura dubita della rilevanza della questione, osservando che il giudizio a quo non ha ad oggetto il provvedimento di estradizione, ma la convalida dell’arresto provvisorio, ai cui fini la legittimità costituzionale o meno del potere del Ministro di concedere successivamente, ove lo ritenga, l’estradizione, non avrebbe diretto rilievo. 3. In prossimità della camera di consiglio l’Avvocatura dello Stato ha depositato memoria insistendo per l’inammissibilità ovvero, in ogni caso, per l’infondatezza della questione. Dopo aver ricordato che il procedimento di estradizione disciplinato dal codice di procedura penale si articola in due fasi, la prima giurisdizionale, culminante in una sentenza del giudice ordinario che dichiara la estradabilità della persona richiesta dallo Stato estero, e la seconda, nella quale il Ministro di grazia e giustizia, sulla base della pronuncia giurisdizionale, decide se concedere o meno l’estradizione, con atto soggetto al sindacato del giudice amministrativo, l’interveniente ricostruisce il rapporto tra la valutazione dell’autorità giudiziaria e quella del Ministro in ordine al caso della pendenza in Italia di procedimento penale a carico della persona richiesta. Mentre nel codice di rito abrogato la valutazione di tale elemento era in toto confidata al Ministro, secondo il nuovo codice (art. 705, primo comma) la Corte d’appello può pervenire ad una pronuncia di estradabilità a condizione che per lo stesso fatto non sia in corso un procedimento penale in Italia. Se però esiste una convenzione internazionale che consente l’estradizione anche in pendenza di procedimento penale in Italia, tale ultima circostanza perderebbe ogni rilevanza per il giudice ordinario, che « deve pronunciarsi a prescindere dall’esistenza o meno del procedimento penale » che abbia ad oggetto lo stesso fatto. Se dunque la questione della pendenza di siffatto procedimento, soggiunge l’Avvocatura, è estranea al giudizio di estradabilità, essa è ovviamente estranea anche al giudizio di convalida della misura cautelare, rispetto alla quale il giudice ordinario, oltre a verificare la sussistenza delle condizioni richieste dal codice per l’adozione delle misure cautelari coercitive (fatta eccezione per quelle di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p.), potrebbe valutare in questa sede processuale solo « se vi sono ragioni per ritenere che non sussistano le condizioni per una sentenza favorevole all’estradizione ».
— 1408 — La questione sollevata, dunque, secondo l’Avvocatura, potrebbe avere rilevanza solo qualora fosse impugnato davanti al giudice amministrativo il decreto ministeriale che conceda l’estradizione. CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. La questione sollevata dalla Corte di cassazione investe gli artt. 1 e 2 l. 30 gennaio 1963, n. 300 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea di estradizione, firmata a Parigi il 13 dicembre 1957), concernenti rispettivamente l’autorizzazione alla ratifica e l’esecuzione in Italia della Convenzione europea di estradizione, nella parte in cui consentono che abbiano esecuzione gli artt. 8 e 9 di detta Convenzione. L’art. 8, ad avviso della Corte remittente, darebbe facoltà al Ministro della giustizia di concedere o meno l’estradizione, con determinazione discrezionale, nel caso in cui sia in corso in Italia procedimento penale nei confronti della persona richiesta, per lo stesso fatto per il quale è domandata l’estradizione (art. 8), come sarebbe altresì confermato a contrario dall’art. 9, che esclude invece l’estradizione quando per lo stesso fatto sia stata pronunciata nel nostro paese sentenza definitiva. Secondo il giudice a quo, il riconoscimento all’autorità politico-amministrativa del potere discrezionale di concedere l’estradizione in pendenza del procedimento interno per il medesimo fatto comporterebbe violazione dell’art. 24, secondo comma, Cost., poiché l’estradato non potrebbe difendersi partecipando al processo, che d’altra parte non potrebbe né venir meno (data l’irretrattabilità dell’azione penale), né essere sospeso senza violare il diritto dell’imputato ad una sollecita definizione del processo, né comunque riprendere successivamente in Italia perché lo impedirebbe il divieto del bis in idem dopo la formazione del giudicato nello Stato destinatario dell’estradizione. Sarebbero inoltre violati l’art. 25, primo comma, e l’art. 112 Cost., perché la decisione politico-amministrativa discrezionale di estradizione sottrarrebbe il processo al giudice interno precostituito e comporterebbe l’abbandono del processo pendente in Italia e la rimessione della formazione del giudicato alla giurisdizione dello Stato richiedente, sfociando nella retrattazione dell’azione penale esercitata nel nostro Stato. 2. L’eccezione di irrilevanza della questione, sollevata dall’Avvocatura erariale, non può essere accolta. La Corte remittente ha infatti argomentato, con motivazione congrua e convincente, che il giudizio sul ricorso contro la decisione di convalida dell’arresto provvisorio e di applicazione della misura cautelare coercitiva provvisoria nei confronti dell’estradando comporta, ai sensi dell’art. 714, terzo comma, c.p.p., la verifica che non vi siano « ragioni per ritenere che non sussistono le condizioni per una sentenza favorevole all’estradizione »: tali ragioni sussisterebbero se, a seguito dell’accoglimento della questione, si dovesse applicare l’art. 705, primo comma, ultima parte, c.p.p., che prevede il diniego dell’estradizione quando per lo stesso fatto sia pendente procedimento penale in Italia nei confronti dell’estradando. 3. Nel merito, la questione non è fondata nei termini di seguito precisati. La premessa — esplicita, ma non argomentata — dell’ordinanza di rimessione è che alla specie risulti applicabile l’art. 8 della Convenzione europea, inteso nel
— 1409 — senso che esso comporti la facoltà discrezionale del Ministro di concedere l’estradizione in pendenza del processo in Italia, e non invece l’art. 705, primo comma, ultima parte, c.p.p., che vieta l’estradizione quando per lo stesso fatto sia in corso procedimento penale nei confronti della persona della quale è domandata l’estradizione. La Corte remittente si limita ad affermare che sulla normativa codicistica prevale quella pattizia. Questa è anche, evidentemente, la premessa da cui hanno preso le mosse sia il Ministro della giustizia, quando ha autorizzato l’arresto provvisorio dell’estradando, sia la Corte d’appello, che ha convalidato detto arresto e ha disposto la misura coercitiva provvisoria: conformandosi in ciò agli unici due precedenti di legittimità che si riscontrano nel vigore del codice di procedura penale del 1989, secondo i quali l’art. 8 della convenzione comporterebbe, prevalendo sull’art. 705 del codice di rito, la possibilità di estradizione in pendenza di procedimento per lo stesso fatto (Cass. 29 aprile 1992, Stokman; nonché, implicitamente, Cass. 27 settembre 1995, Celik Oral). 4. Tuttavia, ad avviso di questa Corte, tale ricostruzione del sistema non tiene sufficiente conto della natura della norma contenuta nell’art. 8 della Convenzione europea di estradizione, ai cui sensi « une Partie requise pourra refuser d’extrader un individu réclamé si cet individu fait l’objet de sa part de poursuites pour le ou les faits à raison desquels l’extradiction est demandée ». Si tratta di una norma di diritto internazionale pattizio, rivolta agli Stati contraenti e non operante direttamente negli ordinamenti interni di questi. Essa attribuisce allo Stato richiesto (la Partie requise è lo Stato come soggetto di diritto internazionale, non questo o quell’organo previsto dall’ordinamento interno), che abbia in corso un procedimento penale per lo stesso fatto nei confronti del soggetto di cui è chiesta l’estradizione, la facoltà di rifiutarla: ponendo dunque un limite all’estensione dell’obbligo di concedere l’estradizione, che costituisce l’oggetto principale della Convenzione, il cui art. 1 appunto stabilisce che « les Parties Contractantes s’engagent à se livrer réciproquement, selon les règles et sous les conditions déterminées par les articles suivants, les individus qui sont poursuivis pour une infraction ou recherchés aux fins d’exécution d’une peine ou d’une mesure de sûreté, par les autorités judiciaires de la Partie requérante ». Questa, e non altra, è la portata normativa, nel diritto internazionale, della disposizione in questione: la quale non costituisce e non regola poteri o competenze degli organi interni degli Stati contraenti, ma si limita a prevedere una condizione, verificandosi la quale non sussiste l’obbligo internazionale di estradizione. Non sussiste, peraltro, nemmeno un divieto internazionale di concedere l’estradizione in presenza di procedimento penale in corso nello Stato richiesto, come invece è previsto dall’art. 9 della stessa Convenzione nella diversa ipotesi di esistenza di un giudicato definitivo, per lo stesso fatto, nel medesimo Stato richiesto. Ciò significa che, dal punto di vista internazionale, lo Stato richiesto può sia concedere, sia negare l’estradizione, senza incorrere in violazione degli obblighi derivanti dalla Convenzione. 5. In presenza di siffatta norma internazionale che riconosce una facoltà, non può che rimanere rimesso all’ordinamento interno di ciascuno degli Stati con-
— 1410 — traenti regolare la fattispecie, stabilendo se e a quali condizioni, e per determinazione di quale autorità, l’estradizione possa o debba essere concessa o negata. Qualunque sia la soluzione discendente dall’ordinamento interno dello Stato richiesto - e dunque sia che si preveda la possibilità o l’obbligo di estradare, sia che viceversa si preveda un divieto di estradare — la norma internazionale risulta pienamente osservata. Orbene, allorché l’art. 705, primo comma, c.p.p., determina le condizioni alle quali la Corte d’appello pronuncia sentenza favorevole all’estradizione, « quando non esiste convenzione, o questa non dispone diversamente », pone in essere una norma certamente cedevole rispetto a contrastanti norme internazionali pattizie, che lo Stato si sia impegnato ad osservare dandovi esecuzione nell’ordinamento interno, ma, appunto, solo quando tali norme internazionali risultino incompatibili con la predetta norma interna. L’applicazione di quest’ultima è infatti esclusa non per il solo fatto che esista una convenzione, bensì quando questa esista e disponga altresì « diversamente ». Se la convenzione esiste, ma non dispone « diversamente », la norma interna resta pienamente applicabile. Da questo punto di vista l’art. 705, primo comma, prima parte, non fa che ripetere la clausola generale contenuta nell’art. 696 dello stesso codice, secondo cui le estradizioni « sono disciplinate dalle norme delle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato », oltre che dalle norme di diritto internazionale generale (cui l’ordinamento interno si « adatta » automaticamente in forza dell’art. 10, primo comma, Cost.), ma « se tali norme mancano o non dispongono diversamente, si applicano le norme che seguono », cioè le norme del codice, fra le quali quelle di cui all’art. 705. Non può ritenersi che si sia in presenza di una convenzione che dispone « diversamente » per il solo fatto che la formulazione della norma pattizia non coincide con quella della norma del codice. Infatti, così argomentando, non si terrebbe conto della diversa natura delle due disposizioni: l’una, quella interna, diretta a disciplinare le condizioni alle quali, secondo l’ordinamento interno, l’organo giudiziario deve pronunciare una sentenza favorevole all’estradizione (condizioni fra le quali è compresa l’assenza di un procedimento penale in corso per lo stesso fatto nei confronti dell’estradando); l’altra, quella internazionale, diretta a disciplinare gli obblighi internazionali dello Stato nei confronti degli altri Stati contraenti, e, in particolare, le condizioni in presenza delle quali l’obbligo internazionale di estradare viene meno, pur senza essere sostituito da un divieto, sempre internazionale, di estradare. Alla norma internazionale che riconosce una facoltà corrisponde, come si è detto, una situazione di assenza di obbligo a carico dello Stato verso gli altri Stati (in concreto, verso lo Stato richiedente), e pertanto può trovare piena applicazione, perché non contrasta con detta norma internazionale, la norma interna che disciplina le condizioni per la pronuncia di estradabilità, ricomprendendo fra queste, l’assenza di un procedimento interno per lo stesso fatto. Tali condizioni valgono quando siano compatibili con le norme convenzionali: la compatibilità sussiste, a sua volta, se l’applicazione di dette condizioni (e dunque della norma interna che le stabilisce) non comporta violazione della norma internazionale, e pertanto violazione degli obblighi che lo Stato ha assunto con la stipulazione della convenzione. Ora, come si è detto, il diniego dell’estradizione, ai sensi dell’art. 705, primo comma, ultima parte, allorquando penda un procedimento penale nello Stato per
— 1411 — il medesimo fatto, non comporta alcuna violazione degli obblighi convenzionali, dal momento che la convenzione consente appunto allo Stato richiesto, in tale situazione, di rifiutare l’estradizione. 6. Non sarebbe corretto, d’altra parte, desumere dalla sola disposizione dell’art. 8 della Convenzione l’esistenza di un potere discrezionale, attribuito al Ministro della giustizia, di concedere o meno l’estradizione in pendenza del procedimento penale nello Stato. La norma pattizia in quanto tale, come si è detto, non disciplina le procedure e i poteri relativi all’estradizione nell’ordinamento interno, ma solo gli obblighi internazionali e i relativi limiti. Né diversa portata può attribuirsi alla norma interna di esecuzione della corrispondente clausola pattizia. La Convenzione in questione, infatti, ha ricevuto attuazione in Italia mediante la tecnica dell’« ordine di esecuzione »: quello contenuto nell’impugnato art. 2 l. n. 300 del 1963. Tale tecnica — che si esprime nella clausola secondo cui « piena ed intera esecuzione è data alla convenzione... » — dà luogo alla produzione nell’ordinamento interno delle norme di « adattamento » ai disposti del trattato. L’ordine di esecuzione produce implicitamente tutte le norme interne necessarie perché lo Stato possa adempiere, sul piano internazionale, agli obblighi convenzionalmente assunti, ma anche le sole norme interne strettamente indispensabili a tale scopo. Dall’ordine di esecuzione non può dunque desumersi alcuna norma interna ulteriore che disciplini l’uso che lo Stato italiano abbia inteso fare della facoltà ad esso riconosciuta di rifiutare l’estradizione in pendenza di procedimento penale in Italia, e quindi nemmeno una norma che attribuisca, in proposito, poteri discrezionali al Ministro. Tale disciplina si desume esclusivamente dal diritto interno (cfr., per un analogo rilievo, in una fattispecie sotto questo profilo non dissimile, sent. n. 446 del 1990). In assenza di ogni altra norma interna, l’applicazione della norma internazionale comporterebbe certamente l’espansione del generale potere di concedere o meno l’estradizione, che l’ordinamento interno attribuisce al Ministro (cfr. art. 708, primo comma, c.p.p.). Si comprende perciò come, nel vigore del codice di procedura penale abrogato, che non conteneva una disposizione analoga all’art. 705, primo comma, ultima parte, del codice vigente, sul divieto di estradizione in pendenza di procedimento penale per lo stesso fatto, la giurisprudenza abbia ritenuto che l’applicazione dell’art. 8 della convenzione europea comportasse il potere discrezionale del Ministro di concedere o non concedere, in tale caso, l’estradizione (cfr. Cass., I sez., 7 aprile 1982, Batrouni). Ma la situazione è mutata con l’entrata in vigore del nuovo codice, il quale ha introdotto la regola di cui all’art. 705, primo comma, ultima parte, in omaggio al principio ne bis in idem, che pur non essendo ancora assurto a regola di diritto internazionale generale (sentt. nn. 48 del 1967 e 69 del 1976), né essendo accolto senza riserve nelle convenzioni internazionali che ad esso si riferiscono (cfr. gli artt. 1 e 2 della convenzione fra gli Stati membri delle Comunità europee relativa all’applicazione del principio « ne bis in idem », firmata a Bruxelles il 25 maggio 1987 e resa esecutiva in Italia con la legge 16 ottobre 1989, n. 350), è tuttavia principio tendenziale cui si ispira oggi l’ordinamento internazionale, e risponde del resto a evidenti ragioni di garanzia del singolo di fronte alle concorrenti potestà punitive degli Stati.
— 1412 — L’art. 705 c.p.p., in assenza di contrastanti disposizioni di convenzioni internazionali (cioè di disposizioni che sanciscano l’obbligo per lo Stato italiano di concedere l’estradizione pur in pendenza di procedimento penale in Italia), comporta ora il divieto di estradare, e dunque comporta una pronuncia di non estradabilità da parte dell’autorità giudiziaria competente, con esclusione di ogni potere discrezionale del Ministro. Alla facoltà, riconosciuta allo Stato nell’ordinamento internazionale, di rifiutare l’estradizione, corrisponde ora dunque, nell’ordinamento interno, il divieto di concederla. Che tale regola risponda ad esigenze dell’ordinamento, anche di pregnanza costituzionale, è del resto convinzione della stessa Corte di cassazione remittente, la quale dubita, per questa ragione, della legittimità costituzionale di una diversa norma, che essa ritiene esistente ed applicabile, traendola dalla convenzione, in base alla quale sussisterebbe un potere discrezionale del Ministro di concedere l’estradizione pur in pendenza di procedimento penale per lo stesso fatto. Tali esigenze appaiono peraltro perfettamente soddisfatte proprio dall’applicabilità generale dell’art. 705, primo comma, non derogata e non impedita dall’esistenza di una clausola convenzionale che si limita a riconoscere la facoltà dello Stato, in detta ipotesi, di rifiutare l’estradizione. 7. Il sistema normativo, in presenza del nuovo codice, va dunque ricostruito nel senso che la pendenza del procedimento penale vieta, anche nelle fattispecie cui risulta applicabile la Convenzione europea di estradizione, di adottare una pronuncia di estradabilità. Né la conclusione qui raggiunta trova ostacolo in un contrario diritto « vivente ». Ancorché, come si è accennato, risultino, nel vigore del nuovo codice, due sentenze della sesta sezione penale della Corte di cassazione che — in linea con quanto sostenuto anche nell’ordinanza introduttiva del presente giudizio — traggono dall’art. 8 della Convenzione l’esistenza di un potere discrezionale del Ministro di concedere l’estradizione in pendenza di procedimento penale per lo stesso fatto (Cass. 29 aprile 1992, Stokman; 27 settembre 1995, Celik Oral), non si può dire, anche per il numero ancora esiguo di pronunce, che tale interpretazione sia incontrastatamente consolidata. Anzi è significativo che proprio la sentenza sul caso Stokman sia stata resa su un ricorso della Procura generale presso la Corte d’appello di Torino, nel quale si faceva valere l’opposta interpretazione. Del resto, rispetto ad un indirizzo interpretativo non consolidato, gli stessi dubbi di costituzionalità proposti dal giudice di legittimità nell’ordinanza che ha promosso il presente giudizio testimoniano l’esigenza di un ripensamento. 8. Così ricostruito il sistema normativo, ed escluso quindi che alle norme di origine convenzionale denunciate dal giudice a quo si debbano attribuire il significato e la portata da esso presupposti, la questione di legittimità costituzionale risulta priva di fondamento. P.Q.M. — la Corte costituzionale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 l. 30 gennaio 1963, n. 300 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea di estradizione, firmata a Parigi il 13 dicembre 1957), sollevata, con riguardo agli artt. 8 e 9 di detta Convenzione, e in riferi-
— 1413 — mento agli artt. 24, secondo comma, 25, primo comma, e 112 Cost., dalla Corte di cassazione con l’ordinanza indicata in epigrafe.
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Procedimenti penali in corso ed estradizione.
SOMMARIO: 1. Introduzione. — 2. I principi del ne bis in idem estradizionale ed internazionale. — 3. La litispendenza internazionale come limite all’estradizione. — 4. Il rapporto tra norma convenzionale e norma codicistica secondo l’interpretazione della Corte costituzionale.
1. La sentenza della Corte costituzionale n. 58 del 1997 si inserisce nel complesso iter processuale concernente il caso Priebke (1), con una pubblicità e un rilievo nei mezzi di comunicazione che forse non avrebbe avuto, se il protagonista e i fatti a lui ascritti fossero meno tristemente conosciuti. Tuttavia la rilevanza di questa pronuncia trascende il caso specifico, sia per l’importanza del chiarimento da essa apportato sui rapporti tra norme internazionali e norme interne in materia di estradizione, sia per gli spunti di riflessione forniti su alcuni aspetti specifici di questo istituto. Per quanto riguarda il primo profilo vengono in rilievo i rapporti tra la Convenzione europea di estradizione (2) e la normativa processualpenalistica interna (3). Le precisazioni della Corte costituzionale a tale proposito devono essere accolte con soddisfazione per la ‘‘correzione di tiro’’ che viene così effettuata nei confronti della precedente giurisprudenza che, benché quantitativamente limitata, adottava in materia una irragionevole soluzione interpretativa, antitetica a quella ora correttamente prospettata dalla Corte costituzionale. Sotto il secondo profilo vengono in rilievo i principi del ne bis in idem e della c.d. litispendenza internazionale. La questione di legittimità costituzionale viene sollevata dalla Corte di cassazione (4) in occasione dell’esame del ricorso presentato dal Priebke avverso la convalida della misura di arresto provvisorio a fini estradizionali pronunciata dalla Corte d’appello di Roma. Tale misura era stata eseguita a seguito di una richiesta di estradizione da parte della Repubblica Federale di Germania per gli stessi fatti per i quali Priebke era imputato in Italia. Poiché al momento della richiesta di estradizione era ancora in corso il proce(1) Dopo la concessione dell’estradizione da parte del governo argentino nel novembre del 1995, Priebke viene rinviato a giudizio dal Gip militare. Il conflitto di competenza tra il tribunale militare e la procura di Roma, che pure aveva aperto un procedimento per strage nei confronti di Priebke, era stato risolto in favore del tribunale militare dalla Corte di cassazione nell’aprile 1996. Due istanze di ricusazione di alcuni membri del collegio giudicante e poi del Presidente vengono presentate rispettivamente il 7 giugno ed il 5 luglio, ma sono ambedue respinte dalla Corte d’appello militare, rispettivamente l’8 e il 30 luglio. La sentenza con cui il tribunale militare ordina la scarcerazione del Priebke, essendosi il reato estinto per avvenuta prescrizione, è del 1 agosto 1996. In seguito, oltre ai ricorsi alla Corte di cassazione presentati dal Priebke, e di cui si dirà in seguito, viene presentato ricorso da parte del procuratore generale della Corte d’appello militare e dagli avvocati di parte civile in Cassazione contro il rigetto dell’istanza di ricusazione del Presidente Quistelli. Il ricorso è accolto dalla Cassazione che dichiara nullo il procedimento a carico del Priebke. Per un esame del processo Priebke cfr. W. LESZL, Priebke, Anatomia di un processo, Roma, 1997. (2) Convenzione europea di estradizione firmata a Parigi il 13 dicembre 1957, ad essa è stata data esecuzione in Italia con la legge 30 gennaio 1963, n. 300 in Gazz. Uff., 28 marzo 1963, n. 84. Il testo della convenzione è riprodotto in F. MOSCONI, M. PISANI, Codice delle convenzioni di estradizione e assistenza giudiziaria, Milano, 1993. (3) Cfr. Articoli 696 e ss. del c.p.p. e specificatamente l’art. 705 c.p.p. (4) Cassazione penale, sez. feriale, ord. 13 settembre 1996. Se ne veda il testo in Dir. pen. proc., 1996, p. 1235 ss., con nota di P. PISA.
— 1414 — dimento penale a carico del Priebke, si configuravano gli estremi per l’applicazione dell’art. 705, primo comma del c.p.p., ai sensi del quale osta all’estradizione la circostanza che sia ancora in corso un procedimento penale a carico dell’estradando per lo stesso fatto per cui è richiesta l’estradizione. Tuttavia, provenendo la domanda di estradizione dalla Repubblica Federale di Germania, veniva in rilievo anche l’art. 8 della Convenzione europea di estradizione del 1957, di cui Germania ed Italia sono parti contraenti. Questa norma dispone che ‘‘Una Parte richiesta potrà rifiutare l’estradizione di un individuo reclamato se questi è oggetto da parte sua di un procedimento penale per il fatto o i fatti per i quali l’estradizione è domandata’’. Sollevando la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della l. n. 300 del 1963 — nella parte in cui dà esecuzione agli artt. 8 e 9 della Convenzione europea di estradizione — per contrasto con gli artt. 24, secondo comma, 25, primo comma e 112 della Costituzione, la Cassazione fondava il suo ragionamento sul presupposto che l’autorità politico-amministrativa competente (il Ministro di grazia e giustizia) si vedeva attribuita dall’art. 8 della Convenzione europea di estradizione la facoltà di decidere discrezionalmente sulla estradabilità del Priebke in Germania; a ciò non si sarebbe opposto, secondo la Cassazione, il divieto stabilito dall’art. 705, primo comma, c.p.p., in quanto derogato dalla citata convenzione internazionale, che, disponendo difformemente rispetto alla norma interna, prevarrebbe su quest’ultima secondo quanto previsto dallo stesso art. 705, primo comma, c.c.p. (5). In altri termini, la Corte di cassazione interpreta la norma della Convenzione di Parigi che attribuisce la facoltà di concedere o meno l’estradizione in caso di procedimento penale in corso, come dettante una disciplina diversa rispetto a quella prevista dalla norma interna che, come si è visto, considera tale circostanza preclusiva dell’estradizione. Sulla base di questo ragionamento la Cassazione ritiene che la norma facoltizzante l’estradizione, in caso di procedimento penale in corso per gli stessi fatti, si pone in contrasto con il diritto alla difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), il diritto al giudice naturale precostituito (art. 25, primo comma, Cost.) e con il principio della irretrattabilità dell’azione penale (art. 112 Cost.). Per la Corte di cassazione infatti, una volta concessa l’estradizione da parte dell’Italia, l’imputato non avrebbe più potuto difendersi personalmente attraverso la sua partecipazione al processo nel nostro Paese; inoltre, quando nello Stato richiedente si fosse pervenuti alla sentenza definitiva, l’applicazione del principio ne bis in idem avrebbe precluso al giudice italiano l’ulteriore prosecuzione del giudizio in Italia con violazione dei principi sopra indicati. Prima di esaminare le varie questioni sollevate dall’ordinanza della Corte di cassazione e la soluzione apportata dalla Corte costituzionale, sembra opportuno riflettere, se pur brevemente, su un ulteriore problema. Si tratta dell’interpretazione dell’art. 8 della Convenzione europea di estradizione e più esattamente dell’espressione « procedimenti penali in corso » contenuta in questa disposizione. Ci si dovrebbe interrogare sulla correttezza di un richiamo a questa norma in una situazione in cui la persona per la quale è richiesta l’estradizione non sia, come era il caso per il Priebke nel momento in cui viene arrestato, sottoposto a procedi(5) L’art. 705, primo comma, dispone che « quando non esiste convenzione o questa non dispone diversamente, la Corte d’appello pronuncia sentenza favorevole all’estradizione se... non è in corso procedimento penale... ». Cfr. anche l’art. 696 che dispone la prevalenza delle convenzioni e del diritto internazionale generale sulla normativa codicistica. Sulla funzione ‘‘pedagogica’’ di questa disposizione cfr. F. MOSCONI, Disposizioni generali, in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di M. CHIAVARIO, Vol. VI, Torino, 1990, p. 679. Cfr. anche G. CARELLA, I rapporti tra le convenzioni internazionali e le norme interne sull’estradizione secondo il nuovo c.p.p., in Riv. dir. intern., 1988, p. 857.
— 1415 — mento penale, anche se la richiesta di estradizione era stata avanzata mentre era in corso il processo a suo carico (6). Da un esame del rapporto esplicativo allegato alla Convenzione europea di estradizione sembrerebbe emergere la volontà di accogliere una interpretazione estensiva di quei termini. Nel rapporto infatti si afferma non solo che l’espressione procedimenti penali (poursuites nella versione francese) comprende anche i casi di citazione ed arresto (7), ma che tutte le delegazioni presenti al negoziato hanno accettato l’interpretazione per cui l’art. 8 si applicherebbe anche al caso in cui una parte richiesta persegua l’individuo dopo essere stata investita di una richiesta di estradizione nei suoi confronti purché essa avvii il procedimento prima di decidere di rifiutare l’estradizione (8). 2. Si è visto che la Corte di cassazione, nell’ordinanza di remissione alla Corte costituzionale, nega la possibilità di una ripresa del processo in Italia, una volta avvenuta l’estradizione del Priebke nell’ipotesi di una pronuncia definitiva da parte dell’autorità giurisdizionale tedesca nei sui confronti. Come si è anticipato, la Corte costituzionale ritiene che l’estradizione in caso di procedimento penale in corso sia esclusa dal nostro ordinamento, per cui cadendo questo presupposto anche il ragionamento della Cassazione sul ne bis in idem perde rilevanza nel caso di specie. Tuttavia riteniamo che le riflessioni svolte qui di seguito siano comunque utili per chiarire la scelta operata dall’ordinamento italiano in relazione all’estradizione anche a fronte di una affermazione della stessa Corte costituzionale che sembra voler sottolineare che quella specifica soluzione normativa è in perfetta sintonia con i principi tutelati dalla Costituzione. Nel ragionamento della Cassazione vengono in rilievo due principi diversi: il ne bis in idem estradizionale e il ne bis in idem internazionale. Il primo impedirebbe allo Stato di estradare un individuo una volta che le autorità giudiziarie nazionali abbiano emanato nei suoi confronti una sentenza passata in giudicato sugli stessi fatti per i quali l’individuo è richiesto (9), il secondo impedirebbe ad uno Stato di sottoporre un individuo a procedimento penale qualora esso sia stato già giudicato per gli stessi fatti con sentenza definitiva in uno Stato estero (10). Ora non è chiaro se la Corte di cassazione consideri il principio del ne bis in idem internazionale una conseguenza logica del ne bis in idem estradizionale qualora i rapporti tra Stati si inquadrino all’interno di una Convenzione di estradizione, nei termini che si argomenteranno più avanti, o se più semplicemente confonda i due profili. Si tratta infatti di due principi che pur richiamandosi alla stessa ratio — quella di garantire ad un individuo che ha già subito un processo che non vi sarà ripetizione del giudizio per gli stessi fatti — vanno comunque tenuti distinti perché sono oggetto di una diversa disciplina sia a livello interno che internazionale (11). (6) In realtà il mandato di cattura era stato diffuso dall’Interpol (tedesca) il 16 luglio 1996, l’Interpol italiana ne dava notizia al Ministro di grazia e giustizia il 19 luglio successivo, ma la richiesta ufficiale di estradizione giungeva al Ministero il 9 agosto. (7) Termine che ovviamente non dovrebbe ricoprire l’arresto per fini estradizionali. (8) Rapporto esplicativo e Commento agli articoli in La Convenzione Europea di Estradizione, a cura di M.R. MARCHETTI, Milano, 1990, p. 297. (9) Nell’ipotesi che si discute, applicando questo principio, la Germania non avrebbe potuto estradare Priebke in Italia una volta pervenuta ad una sentenza definitiva sugli stessi fatti. (10) Nella stessa ipotesi, l’Italia non potrebbe sottoporre a giudizio Priebke per gli stessi fatti per cui egli è stato processato con sentenza passata in giudicato in un altro Stato (Germania) qualora egli successivamente si venga a trovare sul territorio italiano. (11) La differenza dei due principi non sempre risulta chiaramente anzi in alcuni casi i due vengono accumunati. Cfr. M. CHIAVARIO, Cooperazione internazionale ed obiettivi di garanzia e di efficienza nella nuova disciplina dei rapporti con autorità giudiziarie straniere, in Commento, cit., Vol. VI, p. 661
— 1416 — Il nostro ordinamento, mentre esclude l’estradizione in caso di sentenza passata in giudicato (art. 705, secondo comma, c.p.p.) (12) (sempre che non si tratti di estradizione esecutiva), prevede all’art. 11, primo comma, c.p. che nel caso in cui il reato sia commesso nello Stato, il cittadino o lo straniero vengono giudicati nello Stato anche se il reato è stato giudicato all’estero. Tuttavia il nostro ordinamento riconosce, anche se solo parzialmente, il principio del ne bis in idem internazionale all’art. 739 c.p.p., in base al quale il riconoscimento di una sentenza straniera osta sia all’estradizione sia alla risottoposizione del condannato ad un procedimento penale nello Stato (13). Il diritto internazionale generale disciplina diversamente l’ipotesi in cui un individuo già giudicato in uno Stato sia presente, per sua scelta, nel territorio di un altro Stato che ha titolo a giudicarlo, e il caso in cui la sottoposizione dell’individuo ad un altro giudizio sia una conseguenza dell’azione (estradizione) dello Stato che ha già giudicato. Nell’ordinamento internazionale infatti è opinione comune che il divieto del ne bis in idem internazionale non sia oggetto di una norma di diritto consuetudinario (14), a differenza di quanto avviene per il ne bis in idem estradizionale. Allo stato attuale del diritto internazionale, quindi, la garanzia per l’individuo non può dirsi assoluta in quanto una persona che si trova nel territorio di uno Stato che ha competenza a giudicarlo non potrà sottrarsi allo jus puniendi dello Stato territoriale invocando l’emanazione di una sentenza defintiva in un altro Stato. A livello convenzionale il ne bis in idem estradizionale è riconosciuto nella maggior parte delle Convenzioni di estradizione, mentre il ne bis in idem internazionale è stato più raramente oggetto di regolamentazione pattizia. Ciò è tuttavia avvenuto recentemente con la Convenzione di Bruxelles sul ne bis in idem internazionale (15), elaborata nel quadro del Consiglio d’Europa, che l’Italia ha ratificato e che è entrata in vigore nei rapporti con la Danimarca e con la Francia il 16 giugno del 1992 e con i Paesi Bassi il 6 gennaio del 1994. Il principio è anche contenuto nell’Accordo di Schengen del 1985 (16) che però non è entrato ancora in vigore per l’Italia anche se le procedure per la ratifica sono in fase di conclusione. Nel momento in cui la Cassazione viene investita del ricorso l’Italia non era dunque parte ad alcuna convenzione che accogliesse il principio del ne bis in idem che unifica sotto lo stesso concetto del ne bis in idem internazionale le ipotesi di preclusione all’estradizione costituite da sentenza irrevocabile e da pendenza di procedimento penale connettendovi la ‘‘relativa problematica’’ della procedibilità in Italia di fatti già giudicati all’estero. (12) Ai sensi dell’art. 641 del codice di procedura penale del 1913 era fatto divieto di estradizione nel caso in cui per la legge penale italiana o la straniera l’azione penale non potesse essere esercitata o l’azione penale o la condanna fossero estinte, ovvero se l’imputato avesse scontato la pena. Il divieto (che si noti non contemplava l’ipotesi di litispendenza) non veniva poi riprodotto nel codice di procedura penale del 1930: nella relazione ministeriale al nuovo codice si affermava che a fronte di tale silenzio ‘‘rimane salva agli stati che stipulano un trattato di estradizione di regolare convenzionalmente tale ordine di limiti’’. Relazione citata da GIUSEPPE SABATINI, Trattato dei procedimenti speciali e complementari del processo penale, Torino, 1956, p. 481. (13) P. PITTARO, Commento all’art. 739, in M. CHIAVARIO, Commento, cit., Vol. VI, p. 874. (14) Il ne bis in idem internazionale non è, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, considerato norma di diritto internazionale generale in quanto il principio si trova nella maggior parte degli Stati ma con riferimento alle sentenze emanate da organi giudiziari appartenenti allo stesso ordinamento. Cfr. le sentenze nn. 48/67, in Giust. cost., 1967, 1, p. 299 e 69/76, in Giur. cost., 1976, p. 432 e i commenti di N. PALAIA, Efficacia preclusiva di sentenze penali straniere, in Riv. dir. int. priv. proc., 1969, p. 725 e G. GAJA, Sull’accertamento delle norme internazionali generali da parte della Corte costituzionale, in Riv. dir. intern., 1968, p. 320. Analoga interpretazione era stata data dalla Corte al divieto contenuto nel Patto sui diritti civili e politici del 1966. (15) S. FARINELLI, Sull’applicazione del principio ne bis in idem tra gli Stati membri della Comunità europea, in Riv. dir. intern., 1991, p. 878 ss. (16) Cfr. la Convenzione di Schengen del 16 giugno 1990 il cui testo è riportato in Riv. dir. intern., 1991, p. 361.
— 1417 — internazionale nei confronti della Germania e quindi, se l’estradizione fosse stata concedibile per il nostro ordinamento, sarebbe comunque stata anche possibile una ripresa del procedimento in Italia qualora il Priebke (17) si fosse venuto successivamente a trovare in territorio italiano. Non vi sarebbe stata quindi violazione di quei principi costituzionali indicati dalla Cassazione (18). È vero tuttavia che nell’ambito di un rapporto convenzionale di estradizione che si fonda sulla logica della collaborazione e sul riconoscimento delle affinità degli ordinamenti (19) non sembrerebbe logico e conforme alla ratio che ispira il ne bis in idem estradizionale che un individuo possa essere sottoposto a nuovo giudizio se si trova sul territorio dello Stato parte contraente che ha titolo a giudicarlo ma non possa essere estradato qualora questo stesso Stato lo richieda per sottoporlo a giudizio. Se si ammettesse questa possibilità si verrebbe ad eludere in sostanza la garanzia prevista dalla norma che proibisce, come avviene ad esempio per l’art. 9 della Convenzione europea di estradizione, il ne bis in idem estradizionale. Nel quadro del rapporto convenzionale di estradizione tra Stati dotati di ordinamenti affini che si ispirano agli stessi principi e alla tutela degli stessi valori, sarebbe più coerente proibire sia l’estradizione che la sottoposizione a giudizio nel caso di sentenza passata in giudicato. Ciònondimeno, un tale risultato non è ancora stato raggiunto e ci sembra azzardato far discendere il principio del ne bis in idem internazionale, anche se limitato ai rapporti tra Stati parte di una convenzione di estradizione, dalla ratio della norma in presenza di un testo convenzionale che si limita invece a riconoscere il solo ne bis in idem estradizionale. L’esistenza di queste convenzioni è senza dubbio significativa di una tendenza verso una tutela completa dell’individuo contro la duplicazione dei procedimenti: tuttavia, il fatto stesso che gli Stati si siano preoccupati di inserire questo principio in una Convenzione ad hoc sembra significativo del convincimento che tale principio non possa essere dedotto dalla proibizione contenuta nell’art. 9 della Convenzione europea di estradizione. Infine la Convenzione di Bruxelles è stata ratificata da pochi Stati, ed attualmente è in vigore solo tra Italia, Francia, Danimarca e Paesi Bassi, elemento questo che ci pare indicativo del fatto che gli Stati, anche se parti di un processo di creazione di uno spazio giuridico europeo, siano molto restii a rinunciare alla loro potestà giurisdizionale. Diverso il caso dell’Accordo di Schengen, che è in vigore tra gli Stati firmatari ed aderenti ma nel quale il principio del ne bis in idem internazionale ha una rilevanza marginale. Nell’ultima parte della sentenza il giudice costituzionale sostiene che il divieto di concedere l’estradizione previsto nel c.p.p. risponde ad ‘‘esigenze... dell’ordinamento anche di pregnanza costituzionale’’. Se questi principi coincidano con tutti o solo con alcuni dei parametri costituzionali indicati dalla Cassazione nell’ordinanza di remissione non può che essere oggetto di supposizione. In altri termini, non è chiaro se la Corte costituzionale ri(17) L’ipotesi è ovviamente piuttosto improbabile, anche se non può escludersi. È comunque necessario, ci sembra, seguire un ragionamento astratto, che possa applicarsi anche a casi diversi da quello qui in discussione. (18) Si potrebbe sostenere che se un imputato già giudicato degli stessi reati all’estero rientrasse in Italia per sottoporsi a nuovo processo potrebbe evidentemente esercitare il diritto alla difesa. Se, libero, decidesse di non farlo, il procedimento potrebbe riprendere in contumacia venendo a mancare un legittimo impedimento. Verrebbe meno anche la violazione della norma che riconosce il diritto al giudice naturale e che stabilisce la irretrattabilità dell’azione penale. (19) La Convenzione di estradizione non è l’unica espressione di una aspirazione verso la creazione di uno spazio giuridico europeo. Cfr. anche la Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 1959 ratificata con l. 23 febbraio 1961, n. 215, la Convenzione europea per il trasferimento dei procedimenti penali del 1972, e la Convenzione europea per il trasporto delle persone condannate del 1983, ratificata dall’Italia con l. 25 luglio 1988, n. 334.
— 1418 — tenga che estradando in caso di litispendenza verrebbero violati sia il diritto alla difesa (art. 24) che il diritto al giudice naturale precostituito per legge (art. 25) che il principio della irretrattabilità dell’azione penale (art. 112 Cost.). Ci pare tuttavia che sia da rilevare il fatto che la Suprema Corte con questa affermazione abbia voluto sottolineare con forza che la prassi giurisprudenziale seguita fino allora dalla Corte di cassazione era scorretta e che la scelta operata dal legislatore risponde a valori tutelati dalla Costituzione. 3. Prima di esaminare le argomentazioni della Corte costituzionale relative ai rapporti tra norma interna e norma internazionale ci sembra utile svolgere alcune riflessioni relative all’oggetto delle disposizioni ora citate ovvero al principio della c.d. litispendenza internazionale come limite all’estradizione. Si ha litispendenza internazionale nel caso in cui lo Stato richiesto sta esercitando nei confronti dell’individuo domandato la funzione giurisdizionale; questa è stata attivata prima che fosse inoltrata la richiesta di estradizione (20) ma l’iter processuale non si è ancora concluso. Ci si trova in altri termini in una situazione in cui l’obbligo di estradare si trova in contrasto con una funzione primaria dello Stato che, merita sottolinearlo, è già in esercizio. Non si tratterebbe quindi per lo Stato di rinunciare all’esercizio di una funzione sovrana (lo Stato, estradando, rinuncia a giudicare qualora evidentemente sia competente a farlo) ma di interrompere l’esercizio di una funzione già attivata. Quando una convenzione di estradizione riconosce allo Stato la facoltà di non estradare ciò significa che si riconosce che l’obbligo di estradizione, assunto tramite la stessa convenzione, possa cedere davanti all’esigenza (per lo Stato) di tutelare una competenza primaria. Ovvero, se lo Stato esercita già una funzione sovrana questa non può essere interrotta a meno che lo Stato stesso non decida di farlo, essendo a lui rimessa la scelta di rinunciare all’esercizio della funzione oppure di farla valere come causa preclusiva dell’estradizione: questo dovrebbe essere il significato di quel verbo ‘‘potrà’’ utilizzato dall’art. 8 della Convenzione europea di estradizione. C’è da chiedersi quale sia la posizione dello Stato nel caso in cui invece una convenzione di estradizione non prenda in considerazione l’ipotesi di litispendenza. Se, in altri termini, sia lecito per lo Stato opporre rifiuto alla richiesta di estradizione motivandolo con la circostanza che è in esercizio la funzione giurisdizionale oppure se esso sia comunque tenuto ad estradare. Non sembra stata dimostrata l’esistenza di un principio di diritto internazionale generale o di logica giuridica che disponga la prevalenza sull’obbligo di estradizione della esigenza dello Stato di tutelare una competenza primaria quale quella giurisdizionale. Pur potendosi affermare che il potere giurisdizionale è l’espressione massima della sovranità dello Stato, si può controbattere che lo Stato, stipulando una convenzione di estradizione in cui si impegna ad estradare in luogo di giudicare, ha acconsentito a limitare l’esercizio del potere giurisdizionale e quindi la sua sovranità. Questo vale naturalmente anche quando oggetto della richiesta di estradizione siano i propri giustiziabili. Se si vuole sostenere la prevalenza della funzione giurisdizionale, in assenza di esplicita previsione convenzionale, si può farlo solamente sulla base di una diversa considerazione, ovvero sul fatto che lo Stato richiesto si è mostrato maggiormente attivo (21). (20) Cfr. il problema di interpretazione dell’art. 8 della Convenzione europea di estradizione e i rilievi svolti sopra. (21) « Quindi non è questione di prevalenza della pretesa punitiva dello Stato richiesto. Se l’obbligo internazionale è stato assunto in deroga a tale pretesa punitiva, la pretesa punitiva dello Stato estero non può essere proposta. Ma l’obbligo cessa, per una prassi generalmente riconosciuta, se lo Stato richie-
— 1419 — Ci sembra di dover inoltre sottolineare che il limite della litispendenza vada tenuto distinto dal ne bis in idem estradizionale. La litispendenza viene spesso considerata (22) un aspetto del ne bis in idem estradizionale o comunque viene ad esso collegata in quanto ambedue sarebbero ispirati dalla stessa esigenza di garanzia per l’estradando (23). Se in effetti il divieto di estradizione in caso di sentenza passata in giudicato garantisce l’individuo nei confronti di un provvedimento la cui esecuzione avrebbe come risultato di sottoporlo ad un altro procedimento per lo stesso fatto per il quale è stato già giudicato, tale preoccupazione non è presente nella norma che considera la litispendenza come limite all’estradizione. Sembra che sia più corretto quindi tenere distinti i due principi, poiché l’uno si ispira essenzialmente alla tutela dell’individuo, mentre l’altro al principio dell’economia dei giudizi. Questa affermazione naturalmente si riferisce alla ratio della norma internazionale. Dal punto di vista del diritto interno le considerazioni possono essere diverse. Si è visto come la Corte costituzionale abbia fatto riferimento ai valori tutelati dalla Costituzione che sarebbero violati da una estradizione in corso di procedimento. Quindi nel nostro ordinamento il divieto di estradizione in caso di procedimento in corso (e sul presupposto che questa comporti una interruzione definitiva del processo) si potrebbe configurare come norma posta a tutela dell’individuo, ma non nei confronti del pericolo di una ripetizione del giudizio per gli stessi fatti quanto a garanzia di altri e non certamente meno importanti valori riconosciuti dall’ordinamento che vieta l’estradizione in quelle circostanze. 4. Nell’ordinanza di rimessione la Cassazione chiedeva alla Corte costituzionale di pronunciarsi sulla costituzionalità degli artt. 1 e 2 della legge contenente l’ordine di esecuzione della Convenzione di Parigi nella parte in cui tali articoli inseriscono nell’ordinamento interno gli artt. 8 e 9 della Convenzione: i parametri di costituzionalità invocati erano quelli di cui agli artt. 24, secondo comma, 25, primo comma e 112 della Costituzione. La Corte emana una sentenza di rigetto risto si è già reso parte diligente per la repressione », R. QUADRI, Estradizione, in Enciclopedia del diritto, Vol. XVI, spec. p. 35. (22) La questione è esaminata molto marginalmente dalla dottrina che si occupa di estradizione. La maggior parte degli autori non menziona nemmeno il limite della litispendenza o lo collega al ne bis in idem estradizionale. Cfr. per il primo esempio le voci sull’estradizione redatte da R.M. MARCHETTI, Estradizione, in Digesto delle discipline pubblicistiche, p. 395; G. D’ORAZIO, Estradizione. Diritto costituzionale, in Enc. giur., Vol. XII, p. I; V. ESPOSITO, Estradizione. Diritto processuale penale, ibidem, p. 14. Cfr. per il secondo caso SATYA DEVA BEDI, Extradition in International Law and Practice, Rotterdam, 1966, p. 171 ss.; C. BASSIOUNI, International Extradition and World Public Order, Leiden, 1974 e le convenzioni ivi riportate, p. 452 ss.; G. DE FRANCESCO, Estradizione, in Appendice al Nuovo Digesto, p. 565; R. QUADRI, cit. Interessante notare che la litispendenza e sentenza definitiva come cause preclusive dell’estradizione sono contenute in molte convenzioni nella stessa disposizione (cfr. le citazioni del QUADRI cit. in nota 118), mentre in altre convenzioni più recenti il limite del ne bis in idem estradizionale è previsto in una disposizione separata rispetto a quella che prevede la litispendenza come causa di non estradizione. Si noti inoltre che anche la formula utilizzata in molte convenzioni è diversa, obbligo di non estradare nel caso di sentenza irrevocabile, facoltà di non estradare in caso di procedimento penale in corso. Per quanto concerne l’Italia, il divieto di estradizione in caso di litispendenza è contenuto in pochi trattati di estradizione; cfr. le convenzioni di estradizione con il Canada del 1991, con l’Ungheria del 1977 e con il Brasile del 1989. Facoltà di non estradare è invece prevista nelle Convenzioni concluse con l’Australia del 1985 e l’Argentina del 1987. Se ne vedano i testi in F. MOSCONI, M. PISANI, cit. (23) Cfr. la sentenza qui commentata in cui la Corte afferma ‘‘... il nuovo ordinamento che ha introdotto la regola di cui all’art. 705, primo comma, ultima parte, in omaggio al principio ne bis in idem’’. Cfr. anche Cass., sez. I, 8 aprile 1970, Tognolini ‘‘gli artt. 8 e 9... non hanno derogato... al principio ne bis in idem (internazionale)’’. Commentando l’art. 705, primo comma M. CHIAVARIO, Cooperazione internazionale, cit. p. 669, sostiene ‘‘si può anzi notare che a differenza di quanto previsto dall’art. 9 della Convenzione europea la preclusione è qui dilatata sino a comprendere anche l’ipotesi di semplice pendenza in Italia di procedimento penale per lo stesso fatto anche se la citata clausola non è propriamente qualificabile come espressione di una regola di ne bis in idem internazionale’’.
— 1420 — tenendo non corretta l’interpretazione dell’art. 8 sopra citato proposta dalla Cassazione. La Suprema Corte riteneva che in caso di litispendenza la norma internazionale contenuta nell’art. 8 permettesse l’estradizione, rimettendone la decisione caso per caso nelle mani dell’autorità nazionale competente, che nel nostro ordinamento è il Guardasigilli. Poiché la disciplina pattizia prevale su quella interna nel caso di difformità, e poiché la norma interna vieta l’estradizione in caso di litispendenza, la Cassazione reputava si dovesse applicare la norma internazionale: ‘‘... la normativa specificatamente applicabile, prevalendo la pattizia su quella codicistica... è estraibile dalla combinazione degli artt. 8 e 9 della Convenzione europea di estradizione... dalla quale emerge... che l’estradizione può essere rifiutata quando la persona reclamata sia oggetto da parte sua di procedimenti penali per lo stesso fatto o per i fatti per i quali l’estradizione è domandata... e che da tale sistema normativo... la decisione sul se accogliere la richiesta di estradizione... spetta... secondo uniforme giurisprudenza di questa Corte... all’autorità politicoamministrativa la quale decide a discrezione...’’. Questa interpretazione è dovuta ad una scorretta percezione del rapporto fra fonti (quella internazionale e quella interna). Notiamo che la Cassazione cita alcuni precedenti giurisprudenziali che conforterebbero la sua interpretazione dell’art. 8, letto in connessione con l’art. 705, primo comma, c.p.p. Curiosamente però si tratta di casi decisi prima dell’entrata in vigore del nuovo c.p.p. (24), e di nessun rilievo quindi per una interpretazione dell’art. 8 della Convenzione alla luce del nuovo codice giacché, si ricorda, il c.p.p. precedente non vietava, come dispongono invece le norme sull’estradizione attualmente in vigore, l’estradizione in pendenza di giudizio per gli stessi reati. La Cassazione non fa alcun cenno poi ai due casi decisi in vigenza del nuovo codice, che vengono invece richiamati dalla Corte costituzionale (25). Il ragionamento della Corte costituzionale, nel respingere i presupposti su cui si fonda la richiesta della Corte remittente, è molto chiaro. L’art. 705 del c.p.p. vieta l’estradizione in pendenza di giudizio, ma dispone anche che questo divieto si applichi qualora non vi sia convenzione internazionale che disciplini la materia in modo difforme. E a detta della Corte costituzionale ciò non avviene nel caso della Convenzione europea di estradizione, che con l’art. 8 non prescrive un comportamento diverso da quello indicato dalla norma interna. La Convenzione riconosce, infatti, facoltà allo Stato di estradare, facoltà che è indirizzata allo Stato quale destinatario della norma internazionale. Pertanto, quando la Corte costituzionale sostiene che l’art. 8 è una norma ‘‘non operante direttamente negli ordinamenti interni’’, svolge una affermazione corretta solo nei limiti in cui essa voglia intendere che tale disposizione non regola poteri e competenze degli organi interni degli Stati contraenti. Non si potrebbe invece sostenere che essa non sia una (24) Si tratta delle sentenze della Cassazione: sez. I, 15 febbraio 1952, Satrouni; sez. II, 23 febbraio 1977, Ceccaldi e sez. I, 30 aprile 1974, Meyer. (25) Cass. 29 aprile 1992, Stokman; Cass. 27 settembre 1995, Celik Oral. La sentenza della Corte d’appello di Torino, sez. V, del 25 novembre 1991, nel primo dei due casi citati, che deliberava di potersi far luogo all’estradizione dello Stokman per inapplicabilità nel caso di specie dell’art. 705 c.p.p. stante la prevalenza della norma pattizia (art. 8 Conv. europea di estradizione), che disciplina la litispendenza in maniera diversa da quella nazionale, era stata impugnata dalla Procura davanti alla Cassazione per violazione di legge per erronea interpretazione del disposto dell’art. 705.1 c.p.p. in relazione all’art. 8 L. 300, 1963 Convenzione europea di estradizione. La Procura infatti argomentava tra l’altro che ‘‘In caso di litispendenza internazionale è rimesso alla legislazione interna, regolamentabile come appare opportuno, senza che possa sussistere un conflitto normativo; la norma della Convenzione non dispone in modo diretto, consente di esercitare una facoltà di estradizione, regolamentata, nel caso, dalla norma interna, che con la disposizione richiama il principio di obbligatorietà dell’azione penale’’ (art. 112 Cost.). La Cassazione respingeva il ricorso accogliendo invece l’interpretazione della Corte d’appello di Torino.
— 1421 — norma direttamente applicabile nel significato che comunemente è dato a questa nozione. Come è noto per norma direttamente applicabile (o self-executing) si intende una norma internazionale che, una volta immessa nel nostro ordinamento tramite il procedimento dell’ordine di esecuzione, possa essere attuata dall’operatore giuridico senza che sia necessario un ulteriore intervento del legislatore (26). Ci sembra che tale sia il caso dell’art. 8 della Convenzione europea di estradizione. Si tratta di una norma internazionale che non impone allo Stato un comportamente preciso, ma lo lascia libero di decidere quale comportamento adottare. Limitandosi quindi a riconoscere allo Stato piena libertà di decisione (27), l’art. 8 non ha bisogno di ricevere misure esecutive sul piano interno. L’ordine di esecuzione è quindi perfettamente idoneo a rendere operativa la norma. Uno Stato parte contraente della Convenzione potrà, come è avvenuto nell’ordinamento italiano con il codice del 1988, senz’altro decidere di operare una scelta ammettendo oppure vietando l’estradizione in caso di litispendenza, ma la norma interna che contenga questo divieto o questa autorizzazione non si può ritenere una norma necessaria a dare esecuzione all’art. 8. Chiarito ciò, risulta anche con evidenza che, quale che sia questa scelta, essa non si pone in contrasto con quanto stabilito dalla Convenzione. Così, nel sistema del vecchio codice, che nulla prevedeva nel caso di litispendenza, la soluzione seguita nella prassi estradizionale, ovvero quella di riconoscere (28) in questo caso piena discrezionalità al Ministro di concedere o meno l’estradizione, è senza dubbio corretta dal punto di vista del diritto internazionale. Poiché l’art. 8 lasciava libertà allo Stato nel decidere, e l’ordinamento interno non vietava espressamente l’estradizione in questo caso, il Ministro non trovava, qualora lo Stato richiedente fosse stato parte contraente della Convenzione, nessun limite a questo suo potere discrezionale. Lo Stato italiano, come si è visto, ha nel nuovo codice di procedura penale orientato la sua scelta nel senso di vietare l’estradizione in caso di litispendenza. Questa scelta, non solo ci sembra corretta dal punto divista dei valori dell’ordinamento interno, come ha avuto modo di sottolineare anche la Corte costituzionale, ma ci pare risponda anche perfettamente alla ratio della Convenzione europea di estradizione. FRANCESCA MARTINES Ricercatrice di diritto internazionale Facoltà di Scienze Politiche di Firenze
(26) Sull’argomento cfr. L. CONDORELLI, Il giudice italiano e i trattati internazionali, Padova, 1974. (27) Non si tratta quindi di una vera facoltà come quella prevista ad esempio dall’art. 4 della Convenzione di Ginevra del 1958 sul mare territoriale che lascia lo Stato libero di decidere se adottare il sistema delle linee di base o delle linee rette per determinare il limite interno del mare territoriale. In questo caso si tratta effettivamente di una norma non self-executing che necessiterà dell’intervento del legislatore statale che deve operare una scelta tra queste due possibili. (28) Cass., sez. I, 15 febbraio 1982, Batrouni in Cass. pen., 1984, p. 335 in cui la Corte afferma che ‘‘... la cosiddetta litispendenza internazionale di cui all’art. 8 della Convenzione europea di estradizione... non esplica nessuna influenza nel procedimento di competenza della sezione istruttoria di cui agli artt. 664 del c.p.p. giacché l’esercizio della facoltà di rifiuto di concessione dell’estradizione ai sensi del predetto art. 8 è riservato in via di esclusiva agli organi di governo e per essi al ministro di grazia e giustizia che è titolare del relativo potere. Pertanto, anche ove ricorra l’ipotesi di litispendenza internazionale la sezione istruttoria, qualora ricorrano tutte le altre condizioni richieste, deve conferire parere favorevole all’estradizione onde non pregiudicare i poteri discrezionali dell’autorità amministrativa riconosciuti dall’art. 8 sopra citato’’. Non è invece rilevante, benchè citato dalla stessa Cassazione il caso in cui l’individuo richiesto sia oggetto di procedimento penale per reati commessi in Italia, qualora essi non siano gli stessi per cui è richiesta l’estradizione. In questo caso non si ravvisano gli estremi di litispendenza internazionale ai sensi dell’art. 8 della Convenzione di estradizione. Cass., sez. II, 23 febbraio 1977, Ceccaldi, in Cass. pen., 1978, p. 1391. Cass. 30 aprile 1974, Meyer, in Cass. pen., 1976, p. 1174.
b) Giudizi di Cassazione
CASSAZIONE PENALE — Sez. VI — 11 dicembre 1996 (dep. 21 marzo 1997) Pres. Tranfo — Rel. Serpico P.M. Albano (concl. conf.) — Ric. Samperi Subornazione — Bene tutelato — Genuinità processuale — Soggetti chiamati a riferire davanti all’Autorità Giudiziaria — Pressioni esterne — Offerta o promessa di qualsivoglia utilità — Fine di indurre a commettere falsità processuale (C.p., artt. 371-bis, 372, 373 e 377). Subornazione — Reato di pericolo — Evento di natura formale — Necessaria previa assunzione della qualità di « persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria » (C.p., art. 377). Qualità di subornato — Soggetto chiamato dalla polizia giudiziaria come autorità delegata dal pubblico ministero — Configurabilità del delitto di subornazione (C.p., art. 377; C.p.p., artt. 362, 348 comma 3o e 370 comma 1o). Celebrando processo — Conseguente ovvia induzione a commettere il delitto di falsa testimonianza — Irrilevanza della non configurabilità del reato di cui all’art. 371-bis c.p. per effetto dell’art. 2 c.p. regolante la successione delle norme penali nel tempo (C.p., artt. 371-bis, 372, 2 e 377). Il delitto di subornazione mira a tutelare la genuinità processuale di quanti sono chiamati a riferire sui fatti di causa davanti all’Autorità Giudiziaria, posizione che potrebbe venire inevitabilmente ed indebitamente condizionata e compromessa da pressioni esterne, rappresentate dall’offerta o anche dalla sola promessa di qualsivoglia utilità, anche non patrimonialmente apprezzabile, per indurre il soggetto subornato a commettere i reati di false informazioni al pubblico ministero, di falsa testimonianza, e di falsa perizia o interpretazione (1). Il delitto di subornazione è reato di pericolo, il cui evento, di natura formale, si verifica con la semplice offerta o promessa, finalizzata alla falsità giudiziale e, per la sua configurabilità, richiede che il subornato abbia assunto la qualità di « persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria » (2). La qualità della quale l’art. 377 c.p. richiede si caratterizzi il soggetto subornato va estesa anche al soggetto chiamato dalla polizia giudiziaria come autorità delegata dal pubblico ministero al compimento dell’attività di indagine, alla luce del combinato disposto degli artt. 362, 348 comma 3o e 370 comma 1o c.p.p. (3). Essendo conseguente l’induzione a commettere il delitto di falsa testimonianza nel celebrando processo, resta superata la questione della non configurabilità del reato di cui all’art. 371-bis c.p., per effetto dell’art. 2 c.p., regolante la successione delle norme penali nel tempo (4). (Omissis). — OSSERVA. — Con sentenza del Tribunale di Messina del 20 luglio 1995, Samperi Paolo veniva condannato alla pena di mesi sei di reclusione perché dichiarato colpevole del reato di cui all’art. 377 c.p. per avere offerto la
— 1423 — somma di lire 10 milioni a D’Urso Paolo, chiamato a rendere dichiarazioni all’Autorità Giudiziaria, per indurlo a commettere il reato previsto dall’art. 372 c.p. e cioè a ritrattare le dichiarazioni con le quali riconosceva nell’imputato e in uno dei correi di costui, tal De Francesco Paolo, due tra gli autori di una rapina pluriaggravata in suo danno commessa il 15 luglio 1991 (reato acc.to in Messina il 24 marzo 1992). A seguito di appello dell’imputato, la Corte di appello di Messina, con sentenza del 21 giugno 1996, ha confermato il giudizio di I grado, ribadendo la fondatezza dell’accusa secondo le dichiarazioni del D’Urso, confermate da quelle del De Francesco, frattanto divenuto collaboratore di giustizia ed ha denegato la concessione delle attenuanti generiche per i pessimi precedenti penali anche specifici del Samperi, condannato pure per omicidio. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, deducendo a motivi: 1) violazione di legge e motivazione mancante ex art. 606, lett. b) ed e) c.p.p. in relazione all’art. 377 c.p., per carenza della qualità di testimone del D’Urso al momento del fatto, essendo stato esaminato dalla polizia giudiziaria, ancorché delegata dal pubblico ministero, né il contestato reato poteva dirsi finalizzato ad indurre la vittima a commettere il reato di cui all’art. 371-bis c.p., intendendo l’invito del Samperi a ritirare la denuncia come invito a dichiarare al pubblico ministero, nel corso delle indagini, cose diverse rispetto a quelle già dette alla p.g., perché il fatto è anteriore alla data in cui la norma in parola è stata modificata con il richiamo al cit. art. 371-bis, introdotto anch’esso dalla legge n. 356 del 1992, con effetti non interessanti esso ricorrente ex art. 2 c.p. In ogni caso l’offerta era inidonea ad integrare l’ipotesi delittuosa contestata, rappresentando, per contro, una mera offerta di risarcimento danni; 2) violazione di legge e motivazione mancante ex art. 606 lett. b) ed e) c.p.p., in relazione agli artt. 62-bis e 133 c.p., stante l’immotivato diniego alla concessione delle invocate attenuanti generiche se non con l’insufficiente richiamo ai precedenti penali dell’imputato. Il ricorso è infondato e va rigettato con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Quanto al Io motivo di gravame, rileva la Corte che, nel quadro dei delitti contro l’Amministrazione della Giustizia (Libro II - Titolo III) e segnatamente tra quelli di cui al Capo I (delitti contro l’attività giudiziaria), il delitto di subornazione (art. 377 c.p.) mira a tutelare la genuinità processuale di quanti sono chiamati a riferire sui fatti di causa davanti all’Autorità Giudiziaria, posizione che potrebbe venire inevitabilmente ed indebitamente condizionata e compromessa da pressioni esterne, rappresentate dall’offerta o anche dalla sola promessa di qualsivoglia utilità, anche non patrimonialmente apprezzabile, per indurre il soggetto subordinato a commettere i reati di falsa testimonianza (art. 372 c.p.) e (dopo la novella del 7 agosto 1992, n. 356) di false informazioni al pubblico ministero (art. 371-bis c.p.), oltre che di falsa perizia o interpretazione (art. 373 c.p.). Trattasi di reato di pericolo, il cui evento, di natura formale, si verifica con la semplice offerta o promessa, finalizzata dalla falsità giudiziale e, per la sua configurabilità, richiede che il soggetto subornato abbia assunto la qualità di « per-
— 1424 — sona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’Autorità Giudiziaria » (secondo la più vasta accezione del termine, come introdotto dalla novella n. 356/92, rispetto all’originaria, precedente qualifica di « testimone »). Ciò posto, è accertato in atti che il D’Urso, dopo le dichiarazioni rese il 22 gennaio 1992 al N.O. dei CC. di Messina in merito alla denunciata rapina della quale era rimasto vittima il 15 luglio 1991 ad opera di quattro malviventi, fu invitato dai predetti CC., operanti nella qualità di P.G., su delega ex art. 370 c.p.p. del P.M., frattanto intervenuto, a compiere un riconoscimento fotografico dei malviventi, attività di indagine espletata il 22 febbraio 1992. Da questo momento il D’Urso ha assunto la qualità della quale l’art. 377 c.p. richiede si caratterizzi il soggetto subornato, non potendosi revocare in dubbio, a modifica di precedente e remoto indirizzo di questa Corte (Cass. pen. 7 giugno 1977, Alessio, in Cass. pen. Mass. ann., 1979, n. 1524), che tale qualità vada estesa anche al soggetto chiamato, come nella specie, dalla polizia giudiziaria come autorità delegata dal pubblico ministero al compimento dell’attività di indagine, alla luce del combinato diposto degli artt. 362, 348 comma 3o e 370 comma 1o c.p.p. Correttamente, pertanto, è stato configurato il delitto di subornazione, a nulla rilevando che l’offerta di denaro fosse asseritamente finalizzata al solo risarcimento dei danni e non a secondi fini, poiché la circostanza è motivatamente smentita in sentenza dalle precisazioni del D’Urso e da quelle del collaboratore De Francesco che inequivocabilmente riferiscono di condotta intesa a « convincere » la vittima a smentire le accuse, ritirando la denuncia sporta a suo tempo per la nota rapina subita ad opera, tra gli altri, del ricorrente, con l’altrettanto inequivoca, conseguente induzione a commettere il delitto di falsa testimonianza, nel celebrando processo a carico del Samperi e del De Lorenzo per la rapina del 15 luglio 1991. Resta, così, superata, perché ultronea, la questione della non configurabilità del reato di cui all’art. 371-bis c.p. per effetto della normativa regolante la successione delle leggi penali nel tempo (art. 2 c.p.). Quanto al IIo motivo di gravame, la denegata concessione delle invocate attenuanti generiche trova sufficiente e sostanzialmente corretta motivazione con riferimento ai gravi e specifici precedenti penali dell’imputato (condannato anche per omicidio) che rappresentano, in siffatta portata di allarme sociale, fondato ostacolo ad un trattamento sanzionatorio maggiormente benevolo, rispetto a quello di quale il ricorrente è stato già destinatario in I grado. P.Q.M. — Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
——————— (1-4)
Principio di legalità ed esigenze di tutela nella ‘‘subornazione’’ di soggetto esaminato dalla polizia giudiziaria.
1. Nel leggere la motivazione della sentenza in commento, si ha l’impressione che la Suprema Corte abbia piena consapevolezza di molte tra le questioni
— 1425 — riconducibili al delitto di subornazione, ma finisca poi per non rendersi del tutto conto degli effetti dell’intervenuta entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, nonché delle conseguenze provocate, anche in termini intertemporali, dall’art. 11 d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (1). 2. La parte ricostruttiva, nella quale sono riassumibili alcune caratteristiche fondamentali del delitto di subornazione, è quella espressa dalle prime due massime. Sia pur brevemente, è necessario esaminarla ed, eventualmente, integrarla proprio al fine di accertare se le conseguenze che possono derivare dal ritenuto modo di intendere il delitto de quo siano in linea con i corollari rappresentati dalla due massime successive. A voler condensare quanto asserito dai giudici di legittimità, possono indicarsi i seguenti punti, giustificando l’estrema sintesi con il rinvio ad un precedente studio sull’argomento (2). In ordine al bene tutelato, mentre la sentenza accentra l’attenzione sui soggetti (per essa, infatti, « il delitto di subornazione mira a tutelare la genuinità processuale di quanti sono chiamati a riferire »), è preferibile guardare alla prestazione cui si vuole indurre il subornato. Ed allora, occorre distinguere le due eventualità previste dall’art. 377 c.p.: accettazione e non accettazione dell’offerta o promessa del subornatore da parte del subornato. Nella prima ipotesi, l’effettivo coinvolgimento del subornato consente di affermare che il delitto di subornazione è ricollegabile alla « lesione dell’obbligo di dire il vero nel processo » (3), e che esso fornisce una tutela indiretta (4), ma avanzata, del convincimento del giudice. Viceversa, nel caso in cui il destinatario legislativamente predeterminato non accetti l’offerta o la promessa, non sembra convincente collegare la punibilità del subornatore ai delitti di cui agli artt. 371-bis, 372 e 373 c.p. e, cioè, di nuovo, alla formazione del « mezzo del falso » (5). Piuttosto, qui vi è la lesione dell’obbligo di astenersi dal compiere atti che possano pregiudicare un corretto e sereno svolgimento del giudizio. Si tratta, in entrambe le ipotesi delineate, della lesione di un bene strumentale o intermedio, di un preinteresse (6), poiché il bene finale è costituito dall’interesse statuale ad un regolare e giusto processo. Quanto detto, chiarisce altresì la fondatezza della necessaria presenza del requisito della pertinenza all’oggetto della prova, implicitamente richiesto dalla sentenza allorché specifica che i soggetti sono « chiamati a riferire sui fatti di causa » (7). Spostandoci alla condotta, propria di un delitto a forma vincolata (8), essa è descritta, nella riportata motivazione, con la formula « pressioni esterne, rappre(1) Tale decreto è stato poi convertito, con modificazioni, in l. 7 agosto 1992, n. 356, recante « Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa ». (2) B. ROMANO, La subornazione. Tra istigazione, corruzione e processo, Milano, 1993. (3) Così, ma per entrambe le ipotesi, ARDIZZONE, Amministrazione della giustizia (delitti contro l’), in Enc. giur., vol. II, Roma, 1988, p. 2. (4) Similmente PISANI, La tutela penale delle prove formate nel processo, Milano, 1959, p. 189, tuttavia generalizzando l’affermazione. (5) Così, invece, CARNELUTTI, Teoria del falso, Padova, 1935, p. 52. (6) Su tali concetti, per tutti: PAGLIARO, Il delitto di bancarotta, Palermo, 1957, p. 8; GRASSO, L’anticipazione della tutela penale: i reati di pericolo e i reati di attentato, in questa Rivista, 1986, p. 691; FIORELLA, Reato in generale, in Enc. dir., vol. XXXVIII, Milano, 1987, p. 797 (che parla di « seriazione dei beni giuridici »); PARODI GIUSINO, I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, Milano, 1990, pp. 298 e 389, nt. 134; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 1, Milano, 1995, p. 178. (7) Cfr. V. D’AMBROSIO, Commento all’art. 377, in Codice penale, a cura di T. Padovani, Milano, 1997, p. 1442. Più in generale (ma in relazione anche alla falsa testimonianza), MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., p. 175 e p. 202. (8) Analogamente, tra gli altri: PISANI, La tutela, cit., p. 188; VIOLANTE, Istigazione (nozioni gene-
— 1426 — sentate dall’offerta o anche dalla sola promessa di qualsivoglia utilità ». Al riguardo, però, è bene chiarire che il delitto di subornazione non è più integrato, a differenza della corrispondente disposizione del codice Zanardelli (9), da un comportamento incidente negativamente sulla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria ovvero a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete (10). Inoltre, la parallela esclusione di mezzi certamente atti ad ‘‘infastidire’’ o a porre in imbarazzo il subornato — ad es. preghiere o vincoli morali — mostra che non si è voluto proteggere né la persona, né la mera funzione dalla stessa temporaneamente ricoperta (11). Invece, se con la locuzione « pressioni esterne » si vuol esprimere la particolare efficacia della condotta di cui all’art. 377 c.p., si tratta di opinione condivisibile. Infatti, l’azione subornatrice si serve di « mezzi che hanno purtroppo notevole efficacia suasiva e corruttrice sull’animo umano, in quanto prospettano, di fronte ad un bene puramente spirituale qual’è la rettitudine, l’acquisizione di mezzi che, come il denaro o altre utilità, consentono di soddisfare ad esigenze materiali della vita e delle relazioni sociali » (12). Circa la nozione di altra utilità, la Corte, aderendo all’indirizzo preferibile, ne afferma la non necessaria patrimonialità e la intende in senso assai ampio (« qualsivoglia utilità ») (13). Per quanto attiene all’aspetto subiettivo, la finalità ulteriore del subornato è opportunamente correlata, in sentenza, alla commissione dei reati di false informazioni al pubblico ministero, di falsa testimonianza, e di falsa perizia o interpretazione (14). Secondo la pronuncia in epigrafe, la subornazione sarebbe, poi, reato di pericolo; ma tale conclusione, per quanto abbiamo sostenuto in ordine al bene tutelato, è convincente per il solo caso dell’accettazione (15). rali), in Enc. dir., vol. XXII, Milano, 1972, p. 986; TONINI, Istigazione, tentativo e partecipazione al reato, in Studi in memoria di G. Delitala, vol. III, Milano, 1984, p. 1577. (9) Ci riferiamo all’art. 218 del codice del 1889. In senso analogo anche gli artt. 434-15, 434-19 e 434-21 Code pénal francese del 1993 (e gli artt. 365 e 367 del precedente codice di quel Paese). (10) In tal caso, sarà applicabile l’art. 611 c.p. (violenza o minaccia per costringere a commettere un reato), con l’aggravante di cui all’art. 61 n. 10 stesso codice. Tra gli altri, sono di questa opinione: PANNAIN, Subornazione di testimoni, periti, interpreti, in Nuovo dig. it., vol. XII, tomo I, Torino, 1940, p. 935; MAGGIORE, Diritto penale, pt. s., 4a ed., vol. II, tomo I, Bologna, 1950, p. 286; MANZINI, Trattato di dir. pen. it., 5a ed., aggiornata da Nuvolone e Pisapia, Torino, 1981, vol. V, p. 947. Analogamente, in giurisprudenza, Cass. 5 marzo 1941, in Riv. pen., 1941, m. 516 e Cass. 29 gennaio 1932, in Giust. pen., 1932, II, c. 502. Ritiene, invece, applicabile l’art. 336 c.p. (violenza o minaccia a un pubblico ufficiale o a un incaricato di un pubblico servizio) CANTARANO, I delitti contro l’attività giudiziaria nella giurisprudenza, Padova, 1978, p. 317 (però, nella specie, si vuol far commettere non solo un atto contrario ai doveri d’ufficio, ma addirittura un reato). (11) In senso analogo sembra anche l’esperienza anglo-americana, che affianca alla subornation talune ipotesi di criminal contempt: VARANO, Contempt of Court, in Dig. disc. pen., vol. III, Torino, 1989, p. 111 (by publication) e p. 116 (out of the court). Il tedesco StGB, a sua volta, accanto ai §§ 159 (« Versuch der Anstiftung zur Falschaussage ») e 160 (« Verleitung zur Falschaussage ») (sui quali: LENCKNER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, 25. Auflage, München, 1997, p. 1231), prevede l’Aussageerpressung (§ 343): CRAMER, Strafgesetzbuch Kommentar, cit., p. 2283. (12) Il passo riportato nel testo è di E. GALLO, Il falso processuale, Padova, 1973, p. 308. (13) Poiché si tratta di un concetto studiato approfonditamente nel campo dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, si possono utilmente consultare i recenti scritti di CONTENTO, Concussione, in I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, coordinato da T. Padovani, Torino, 1996, p. 134 e di GROSSO, Corruzione, ivi, p. 181. (14) Amplius, B. ROMANO, La subornazione, cit., p. 101 ss. (per l’impostazione dominante si tratterebbe di « dolo specifico »). (15) Nel senso più comprensivo rappresentato dalla sentenza de qua: MANZINI, Trattato di dir. pen. it., vol. V, cit., p. 949; MANTOVANI, Diritto penale, pt. g, 3a ed., Padova, 1992, p. 234. Analogamente, in giurisprudenza, Cass. 28 ottobre 1985, in Riv. pen., 1986, p. 993.
— 1427 — L’evento sarebbe di natura formale, bastando « la semplice offerta o promessa, finalizzata alla falsità giudiziale ». L’affermazione, tuttavia, pur trovando ancoraggio nella diffusa opinione dottrinale che distingue i reati in formali e materiali (16), rischia di condurre a conclusioni non lineari. Dal punto di vista generale, infatti, può affermarsi che un accadere esteriore deve sempre verificarsi (17). Con riferimento specifico al delitto di subornazione, poi, si può anche sottolineare come non basti un’offerta o una promessa, ma occorra altresì che essa integri almeno le caratteristiche della riconoscibilità (18). Venendo al problema relativo alla previa assunzione della qualifica processuale, si afferma correttamente che la subornazione, per la sua configurabilità, richiede che il subornato abbia assunto la qualità di « persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria » (19). A tali dati, ricavabili tutti dalla decisione qui pubblicata, è forse possibile aggiungere che è convinzione radicata che il delitto di subornazione di cui all’art. 377 c.p. deroghi all’art. 115 c.p. (20). Ma la tesi ci è sembrata non convincente, per una serie di ragioni, altrove approfondite (21), le quali sono state anche oggetto di riflessione di parte della dottrina più recente (22). 3. Sin qui le affermazioni della Suprema Corte, condivisibili nella misura appena indicata, sul delitto di subornazione. Tuttavia, la peculiarità della sentenza annotata è che la stessa ritiene che sussista la qualità di subornato anche nel soggetto chiamato dalla polizia giudiziaria come autorità delegata dal pubblico ministero al compimento dell’attività di indagine, alla luce del combinato disposto degli artt. 362, 348 comma 3o e 370 comma 1o c.p.p. (16) Su tale distinzione (spesso rappresentata dal corrispondente binomio reati di mera o pura condotta e reati di evento), cfr., anche per la letteratura più risalente: MANTOVANI, Dir. pen., cit., p. 171; ANTOLISEI, Manuale di dir. pen., pt. g, 14a ed., a cura di L. Conti, Milano, 1997, p. 257; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. g, 3a ed., Bologna, 1995, p. 167; PADOVANI, Diritto penale, 3a ed., Milano, 1995, p. 153; M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, 2a ed., Milano, 1995, sub pre-art. 39, n. 104 (p. 315). (17) ARDIZZONE, Evasione, in Enc. giur., vol. XIII, Roma, 1988, p. 3. (18) Di recente, LONGARI, Subornazione, in I delitti contro l’amministrazione della giustizia, a cura di F. Coppi, Torino, 1996, p. 370. (19) Per tale soluzione, già CARACCIOLI, Appunti sulla qualità del soggetto passivo nella subornazione di testimoni, in questa Rivista, 1961, p. 865. (20) In tal senso, per tutti: GAJOTTI, Istigazione e determinazione nella teoria del reato, Genova, 1948, p. 87; DESSÌ, Appunti sui reati di istigazione, in Riv. pen., 1971, I, p. 178; OLIVERO, Apologia ed istigazione (reati di), in Enc. dir., vol. II, Milano, 1958, p. 622; VIOLANTE, Istigazione, cit., p. 986; SANTORO, Testimonianza, perizia, interpretazione (falsità in), in Noviss. dig. it., vol. XIX, Torino, 1973, p. 302; MANZINI, Trattato di dir. pen. it., vol. V, cit., p. 943; PULITANÒ, Il favoreggiamento personale tra diritto e processo penale, Milano, 1984, p. 200; TONINI, Istigazione, cit., p. 1575, nt. 12; VITARELLI, L’istigazione di militari a delinquere tra diritto penale comune e militare, in questa Rivista, 1991, p. 1312; LEONCINI, Rapporti tra tipicità e offensività nella condotta di favoreggiamento personale, in Cass. pen., 1992, p. 177; TENCATI, Le mendaci informazioni dei collaboratori della giustizia fonti di responsabilità penali, in Riv. pen., 1993, p. 406; ANTOLISEI, Manuale di dir. pen., pt. s., vol. II, 12a ed., a cura di L. Conti, Milano, 1997, p. 466; CARACCIOLI, Delitti contro l’amministrazione della giustizia, Torino, 1995, p. 38; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. s., vol. I, 2a ed., Bologna, 1997, p. 386. (21) Oltre alla monografia su La subornazione, prima citata, siamo tornati sull’argomento in Le apparenti deroghe all’art. 115 c.p. alla luce del principio di specialità e le differenze tra accordo non punibile, concorso di persone e reato associativo, in Cass. pen., 1997, p. 3391. A tali scritti, pertanto, si rinvia chi volesse attingere ulteriori informazioni, anche per quanto attiene l’indeterminatezza del soggetto attivo (« chiunque »), la specificità della condotta tipica e del suo oggetto (offrire o promettere « denaro o altra utilità »), la qualifica pubblicistica del subornato ed il conseguente deciso parallelo con le norme in tema di corruzione. (22) LONGARI, Subornazione, cit., p. 380; PISA, I delitti contro l’amministrazione della giustizia, in BRICOLA-ZAGREBELSKY, Giurisprudenza sistematica di diritto penale, pt. s., vol. IV, 2a ed., Torino, 1996, p. 479. Sul punto, cfr. anche ZANOTTI, in CORSO-INSOLERA-STORTONI, Mafia e criminalità organizzata, vol. II, Torino, 1995, p. 872 (nella collana Bricola-Zagrebelsky, cit.).
— 1428 — Di tale rilevante ed innovativa affermazione, però, la Corte non fornisce alcuna espressa motivazione, limitandosi anzi a richiamare un contrario e risalente precedente giurisprudenziale per il quale « perché si realizzi il reato di subornazione è necessario che il subornato assuma la qualità di testimone con la citazione, anche orale, dinanzi al giudice o al p.m., mentre non acquista tale qualità chi sia esaminato dagli organi di polizia giudiziaria di propria iniziativa e su delega del magistrato » (23). Ora, la convinzione della sentenza in commento, apoditticamente sostenuta, trova un flebile momento di trasparenza nell’affermazione che non si potrebbe « revocare in dubbio » che la qualità di subornato « vada estesa anche al soggetto chiamato, come nella specie, dalla polizia giudiziaria come autorità delegata dal P.M. ». Senonché, per valutare appieno la natura di detta ‘‘estensione’’, occorre preliminarmente mettere a fuoco alcuni passaggi, che permettono di inquadrare la subornazione, nel suo necessario rapporto con i delitti cui deve tendere il subornatore, attraverso l’induzione del subornato. A tal riguardo, è opportuno rammentare che l’originario 1o comma del delitto di subornazione relazionava la condotta allettatrice solo all’induzione alla falsa testimonianza ed alla falsa perizia o interpretazione. L’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale aveva però comportato l’inapplicabilità della norma sulla falsa testimonianza anche alle analoghe condotte poste in essere davanti al pubblico ministero, al quale veniva attribuito il ruolo di parte (24). Di qui, l’introduzione dell’art. 371-bis, rubricato « false informazioni al pubblico ministero », ad opera del comma 1o dell’art. 11 del citato d.l. 8 giugno 1992, n. 306 e la conseguente sostituzione del 1o comma dell’art. 377 c.p. ad opera del comma 6o del medesimo art. 11 (25). Ora, sebbene il d.l. 8 giugno 1992, n. 306, cit. avesse previsto, all’art. 11 comma 1o, il delitto di false informazioni al pubblico ministero e alla polizia giudiziaria, la legge di conversione del 7 agosto 1992, n. 356, invece, ha eliminato ogni riferimento alla polizia giudiziaria, sicché non appare convincente una forzatura del delitto di false informazioni al pubblico ministero nel senso di farvi rientrare anche la sola attività delegata della polizia giudiziaria. A ciò si aggiunga che sia il decreto-legge che la legge di conversione menzionati richiedono (art. 11) che il subornato sia in rapporto con l’autorità giudiziaria. A dire il vero, talune perplessità potrebbero sorgere dalla considerazione che il codice dell’88 prevede che la polizia giudiziaria possa assumere sommarie informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini, sia di propria iniziativa (ex art. 348 c.p.p.) sia a seguito di specifica delega del pubblico ministero (ex art. 370 c.p.p.). Senonché, almeno ai fini strettamente penalistici, la distinzione sembra priva di conseguenze giuridiche. Infatti, anche il codice di rito del ’30, sebbene più sfumatamente, conosceva una attività autonoma (artt. 219 e 225) ed una esecutiva (artt. 231 e 232) della polizia giudiziaria. È dunque agevole concludere che la facoltà della polizia giudiziaria di assumere sommarie informazioni non conferisce a questa natura di autorità giudiziaria, né (23) Cass. 7 giugno 1977, in Cass. pen., 1979, p. 1525, con breve nota redazionale. (24) In senso analogo, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. s., vol. I, cit., p. 365. Più in generale, PISA, La riforma dei reati contro l’amministrazione della giustizia tra adeguamenti ‘‘tecnici’’ e nuove esigenze di tutela, in questa Rivista, 1992, p. 814 ss. (25) Introduzione opportuna per chi riteneva comunque che si potesse ricorrere al delitto di favoreggiamento, innovazione necessaria per coloro i quali negavano la possibilità di ricorrere a tale norma: sul punto, BRICOLA, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, in Ind. pen., 1989, p. 337.
— 1429 — alle persone assunte qualità di testimoni (26). In tal senso sembra peraltro essersi coagulata l’opinione della dottrina e della giurisprudenza (27). Sebbene la Corte non lo abbia fatto, si sarebbe forse potuta invocare, a sostegno dell’opinione criticata, anche l’evoluzione della recente giurisprudenza costituzionale in materia. In particolare, la Corte costituzionale, con sentenza n. 60 del 24 febbraio 1995, ha dichiarato l’illegittimità del 1o comma del l’art. 513 c.p.p. « nella parte in cui non prevede che il giudice, ricorrendone le condizioni, disponga che sia data lettura dei verbali delle dichiarazioni dell’imputato assunte dalla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero » (28). Tuttavia, quale che sia il regime processuale, è significativo notare che il legislatore, pur essendo tornato a ragionare sull’art. 371-bis c.p. e sulla possibilità di effettuare l’arresto facoltativo in flagranza, non ha ritenuto di modificare la menzionata norma penale, sulla quale si era già formata una costante giurisprudenza nel senso della sua inapplicabilità alle false informazioni rese alla polizia giudiziaria (29). Ed il (26) Concludevano in questi termini, in relazione al codice di procedura penale del ’30: PISANI, La tutela, cit., p. 172; FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, 2a ed., Milano, 1968, vol. II, p. 90; E. GALLO, Il falso, cit., p. 268; MANZINI, Trattato di dir. pen. it., cit., vol. V, p. 897. Contra, invece, RANIERI, Manuale di diritto penale, pt. s., 2a ed., Padova, 1962, vol. II, p. 363. In senso analogo a quanto sostenuto nel testo, con riferimento al nuovo codice di procedura penale, ANTOLISEI, Manuale di dir. pen., pt. s., vol. II, cit., p. 454. Si deve tuttavia osservare che se non sembra possibile configurare il delitto di falso (e, conseguentemente, la subornazione), si è sostenuto che possa configurarsi il c.d. favoreggiamento-mendacio (art. 378 c.p.): MANZINI, Trattato di dir. pen. it., vol. V, cit., p. 997 e la giurisprudenza dominante (tra le tante, Cass. 8 giugno 1982, in Riv. pen., 1983, p. 614 e Cass. 17 ottobre 1978, in Cass. pen. Mass. ann., 1980, p. 370). Contra, invece, PULITANÒ, Il favoreggiamento personale fra diritto e processo penale, Milano, 1984, pp. 15 ss. e 167 ss. e, adesivamente, FIANDACA-MUSCO, Dir. pen., pt. s., vol. I, cit., p. 395. Sul punto, cfr. anche: ZANOTTI, Studi in tema di favoreggiamento personale, Padova, 1984, p. 45 ss.; E. DINACCI, Favoreggiamento personale e tipologia delle attività investigative tra vecchio e nuovo, Padova, 1989, p. 38 ss. Nel noto Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale (da ultimo in Giust. pen., 1994, II, c. 88 ss.), si è voluto opportunamente restringere l’ambito di applicabilità del delitto di favoreggiamento personale (art. 130, n. 8), poiché « il testo dell’art. 378 del c.p. del 1930 risulta carente sia sul piano della determinatezza, che su quello dell’offensività » (così la Relazione allo Schema, cit., c. 158). Inoltre, si è prevista l’introduzione del delitto di false informazioni al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria (art. 130, n. 7). In tal modo, si è cercato di limitare i rischi di una interpretazione del delitto di favoreggiamento come norma di chiusura che finisce col punire condotte inidonee o comunque poco lesive del bene tutelato, risolvendo anche alcuni dubbi relativi alle norme oggi vigenti. (27) In dottrina sembrano prediligere tale soluzione: FORLENZA, I nuovi reati elettorali e contro l’amministrazione della giustizia nella l. n. 356 del 1992, in Riv. pen. econ., 1992, p. 532; B. ROMANO, La subornazione, cit., p. 71; PADOVANI, Commento all’art. 11 d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in Leg. pen., 1993, p. 117; RAVAGNAN, L’art. 371-bis c.p. e l’arresto della persona informata sui fatti d’indagine, in Riv. pen., 1993, p. 893; SANTACROCE, L’art. 371-bis c.p. e la tutela penale delle indagini preliminari svolte dalla polizia giudiziaria, in Giust. pen., 1994, II, c. 515; CACCIATORE, Osservazioni sul reato di false informazioni al pubblico ministero, in Annali dell’Istituto di dir. e proc. pen. dell’Università di Salerno, 1995, p. 175; PREZIOSI, Falsa testimonianza e false informazioni al pubblico ministero, in I delitti contro l’amministrazione della giustizia, a cura di F. Coppi, cit., p. 295; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. s., vol. I, cit., p. 367; V. D’AMBROSIO, Commento all’art. 371-bis c.p., in Codice penale, a cura di T. Padovani, cit., p. 1416. Per la giurisprudenza: Cass. 27 novembre 1992, in Cass. pen., 1994, p. 598 (per la quale « diversamente opinando, si opererebbe un’interpretazione di tipo analogico su norma penale »); Cass. 8 febbraio 1993 e Cass. 10 marzo 1993, in Cass. pen., 1994, p. 1845 (la prima delle due sentenze è pubblicata anche — ma con la data del deposito: 19 aprile 1993 — in Riv. pen. econ., 1993, p. 539). (28) La sentenza è pubblicata in Guida al diritto, n. 22, del 3 giugno 1995, p. 69, con nota di PATALANO, L’equiparazione agli atti del pubblico ministero si estende al reato di false informazioni. (29) Ci riferiamo alla nota riforma operata con l. 8 agosto 1995, n. 332, che — per quel che qui rileva — ha inserito un secondo comma all’art. 371-bis c.p., introducendo la sospensione del procedimento penale in caso di false informazioni, e ha aggiunto il comma 4-bis all’art. 381 c.p.p., in base al quale « non è consentito l’arresto della persona richiesta di fornire informazioni dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero per reati concernenti il contenuto delle informazioni o il rifiuto di fornirle »: in proposito cfr. l’ampio commento di L. D’AMBROSIO, in Dir. pen. e processo, 1995, p. 1224 ss. Prima della citata ri-
— 1430 — tema non è stato riaffrontato neppure nella recentissima modifica dell’art. 513 c.p.p. (30). Ed allora, si considerino unitariamente i seguenti dati. Persino chi ritiene che la giurisprudenza costituzionale prima riportata dovrebbe comportare l’estensione dell’operatività dell’art. 371-bis c.p. anche alle false informazioni rese alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero ritiene comunque necessario che ciò avvenga « previa una futura pronuncia d’incostituzionalità anche di questa norma » (31): ed una tale sentenza non vi è stata. Si è già detto della vicenda che ha visto l’introduzione dell’art. 371-bis c.p. e delle modifiche successive: e nessuna incide sulla questione qui affrontata. A ciò si aggiunga che il testo della norma è chiaro nel senso di punire chiunque « richiesto dal pubblico ministero di fornire informazioni ai fini delle indagini » renda dichiarazioni false ovvero taccia, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali viene sentito: il ché non è lo stesso di « informazioni rese su richiesta del p.m. », come invece si è scritto affermerebbe l’art. 371-bis c.p. (32). Nel tenore letterale della disposizione in esame vi è certamente un rapporto personale, diretto, tra il soggetto che richiede le informazioni e chi ha il dovere di renderle; solo nella seconda accezione, tuttavia non desumibile in alcun modo dal significato letterale della disposizione, potrebbe ricavarsi la punibilità dell’analogo rapporto instaurato, mediatamente, tramite la polizia giudiziaria. Ed allora, in base ai canoni che regolano i delicati rapporti tra interpretazione estensiva ed analogia, può forse affermarsi che si incappa, nel caso di specie, proprio nel divieto rappresentato dall’analogia in malam partem (33). Peraltro, anche la tesi dell’interpretazione estensiva, se accolta in apicibus, dovrebbe essere adeguatamente motivata nel singolo caso concreto: e nell’assoluto silenzio della sentenza in commento, valgano le opposte considerazioni precedentemente svolte. Pertanto, non sussistendo la possibilità di commettere il delitto di false informazioni al pubblico ministero, non potrebbe neppure ritenersi configurabile il delitto di cui all’art. 377 c.p. 4. Ma la sentenza in esame è interessante anche per un ulteriore profilo, che sembra legare l’interpretazione del delitto di subornazione al profilo intertemporale. Infatti, la condotta offertoria nella quale era stata individuata l’attività allettatrice propria del delitto di subornazione era stata posta in essere certamente in data antecedente al 24 marzo 1992, data indicata in sentenza come momento nel quale venne accertato il reato. Di contro, come precisato all’inizio, l’introduzione dell’art. 371-bis c.p. e la conseguente modifica dell’art. 377 stesso codice risalgono alla data dell’8 giugno 1992, cioè dell’emanazione del d.l. n. 306 (ed, in particolare, per quel che qui rileva, del suo art. 11). forma, mentre un orientamento ammetteva la possibilità dell’arresto in flagranza (Cass. 6 maggio 1994, in Cass. pen., 1995, p. 1860, con nota di MERCONE, L’estromissione del pubblico ministero dal potere di arresto in flagranza; Cass. 4 giugno 1993, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 732; Trib. Milano, ord. 4 marzo 1993, in Giust. pen., 1993, II, 365, con nota contraria di RAMAJOLI, È costituzionalmente legittimo l’art. 371-bis c.p.?), altra opinione propendeva per la tesi contraria (Cass. 30 maggio 1994 e Cass. 25 marzo 1994, in Cass. pen., 1995, p. 1867, con nota di MARANDOLA, False dichiarazioni al pubblico ministero e arresto in flagranza. La seconda sentenza è pubblicata anche in Dir. pen. e processo, 1995, p. 93, con nota di UBERTIS, Assunzione di informazioni, divieto di arresto e ‘‘nemo tenetur se detegere’’). (30) La l. 7 agosto 1997, n. 267, è riportata, con ampio commento, in Guida al diritto, n. 22, del 30 agosto 1997, p. 58 ss. (31) In tal senso PATALANO, L’equiparazione agli atti del pubblico ministero, cit., p. 73. Per riserve, non del tutto infondate, su una tale eccezione di illegittimità costituzionale in malam partem: PREZIOSI, Falsa testimonianza, cit., p. 294. (32) Così, invece, PREZIOSI, Falsa testimonianza, cit., p. 295. (33) In tal senso, Cass. 27 novembre 1992, cit.
— 1431 — Non vi è alcun dubbio, pertanto, che anche sotto tale profilo non era configurabile la subornazione, ostandovi il divieto di cui all’art. 25, comma 2o, Cost. ed all’art. 2, comma 1o, c.p. (34). Almeno ai limitati effetti della sussistenza del delitto di cui all’art. 377 c.p., l’inclusione dell’art. 371-bis c.p. tra i reati richiamati costituisce un ampliamento della sfera del penalmente illecito; sicché, mancando la persistenza dell’illecito per l’inesistenza di quel medesimo illecito sotto il vigore della vecchia norma, non sussisterà neppure un effettivo rapporto intertemporale (35). Per tentare di superare tali invalicabili ostacoli relativi alle regole della successione di norme penali, la Cassazione afferma che sarebbe comunque inequivoca la « conseguente induzione a commettere il delitto di falsa testimonianza, nel celebrando processo » a carico dello stesso imputato e di altro correo per il reato di rapina che costoro, secondo il soggetto poi ‘‘subornato’’, avrebbero precedentemente commesso in suo danno. Senonché, se tale affermazione guarda al passato, e cioè alla condotta già posta in essere, occorre semmai domandarsi se era configurabile la subornazione per induzione alla falsa testimonianza nella condotta sin qui esaminata: ed al riguardo, non possiamo non riaffermare l’inesattezza dell’assunto, così ricostruito. Se poi con la frase riportata si vuole intendere che l’imputato avrebbe certamente commesso in futuro la subornazione, avendo già posto in essere i prodromi della condotta, si lumeggia impropriamente la teoria dell’attualità della condotta (36). È infatti vero che il reato sussiste anche se l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità, effettuata prima della richiesta assunzione della qualifica processuale, venga anche soltanto richiamata successivamente: ma se manca l’assunzione della qualifica processuale, il reato non sussiste (37). Pertanto, non basta un ‘‘pronostico’’, quale quello cui potrebbe far pensare la Suprema Corte. Di fronte a così univoche emergenze ed al dovuto rispetto del principio di legalità, anche nella sua tutela dinamica dovuta al baluardo dell’irretroattività, le pur apprezzabili esigenze di tutela avrebbero dovuto far concludere per la non configurabilità della ‘‘subornazione’’ di soggetto esaminato dalla polizia giudiziaria. 5. A questo punto, rimane solo da chiarire se la condotta posta in essere potesse dar luogo al diverso delitto di favoreggiamento personale (art. 378 c.p.) (38). Si potrebbe, infatti, pensare che nel momento nel quale si istighi altri al proprio favoreggiamento si esca dai limiti dell’autofavoreggiamento, generalmente ritenuto non punibile (39), e si entri nel campo del penalmente rilevante. In partico(34) Sul principio di irretroattività, si vedano (e ivi ulteriori riferimenti): PULITANÒ, Commento all’art. 2, in CRESPI- STELLA-ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, 2a ed., Padova, 1992, p. 13; M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, 2a ed., cit., art. 1, n. 38 (p. 44) e art. 2, n. 1 (p. 52); B. ROMANO, Commento all’art. 2, in Codice penale, a cura di T. Padovani, cit., p. 24. (35) Sul criterio della persistenza dell’illecito, richiamato nel testo, sia consentito il rinvio a: B. ROMANO, Il rapporto tra norme penali. Intertemporalità, spazialità, coesistenza, Milano, 1996, p. 88 ss. (36) Per tale orientamento, MANZINI, Trattato di dir. pen. it., vol. V, cit., p. 945. (37) Così CARACCIOLI, Delitti contro l’amministrazione della giustizia, cit., p. 39. (38) La questione affrontata nel testo appare non solo non risolta, ma addirittura aggravata dall’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale. Da un lato, infatti, la ricordata introduzione, nel codice penale, dell’art. 371-bis e le modifiche apportate all’art. 377 c.p., attenuano il pericolo che la medesima condotta ivi punita possa integrare, come pure era già stato ipotizzato, l’art. 378 c.p. Dall’altro, però, non solo si ripropone il problema legato alle attività di polizia giudiziaria, già noto sotto il vigore del codice di rito del ’30, ma ci si trova di fronte alla non applicabilità dell’art. 371-bis (e dell’art. 377 c.p.) ai consulenti tecnici del pubblico ministero ed agli interpreti dallo stesso nominati (per la spiegazione di tale assunto, B. ROMANO, La subornazione, cit., p. 81 ss.). Anche sotto tale profilo, il ricorso al favoreggiamento potrebbe essere ritenuto ovvio e necessario. (39) Per tale conclusione, tra gli altri: BOSCARELLI, La tutela penale del processo, vol. I, Milano, 1951, p. 249; DE CHIARA, Alcune osservazioni in tema di favoreggiamento personale, in Giust. pen.,
— 1432 — lare, mentre secondo taluno in tal caso il soggetto sarebbe punibile a titolo di concorso di persone (40), secondo altri mancherebbe il dolo, dal momento che l’istigatore vuole essere aiutato, e non aiutare (41), e comunque si sarebbe sostanzialmente in presenza di un autofavoreggiamento (42). Sebbene quest’ultimo orientamento ci sembri essere quello preferibile, nel caso di specie si può anche ritenere che non sia in assoluto configurabile il favoreggiamento (e, cioè: anche a prescindere dalla circostanza che l’istigatore sia lo stesso soggetto che deve essere aiutato). E ciò non solo perché, contrariamente ad un’opinione assai diffusa (43), il favoreggiamento personale non costituisce un delitto c.d. sussidiario, capace di configurarsi solo allorché la condotta non possa essere sussunta sotto altra disposizione (44). Ma soprattutto alla luce della considerazione che, sebbene il delitto di favoreggiamento personale sia reato a forma libera e cioè integrabile in molteplici modi (45), occorre sempre che la relativa condotta raggiunga comunque un minimo risultato, sebbene la lettura della giurisprudenza formatasi sull’argomento non sempre sia di conforto in tal senso (46). Si è infatti affermato che integra il favoreggiamento la condotta di colui il quale eserciti una pressione su un teste per indurlo a ritrattare (47). Con specifico riguardo ad un’attività allettatoria, si è poi escluso che configuri l’art. 378 c.p. una promessa di denaro a una persona assunta in sede di indagini di polizia giudiziaria, ma solo perché « l’azione del giudicabile... in sostanza si concretò in un invito non accolto in una discussione fra persone conoscenti riguardo al procedimento a carico d’un giovane del luogo, perciò carente d’ogni seria pressione sull’interlocutore » (48). Inoltre, si è ritenuto non punibile un difensore che aveva istigato (infruttuosamente) un teste a ritrattare, perché si trattava di istigazione alla falsa testimonianza, mentre si riteneva punibile la medesima condotta a titolo di favoreggiamento, ove si fosse trattato di istigazione avvenuta in sede di indagini di polizia 1979, II, c. 708; MANZINI, Trattato di dir. pen. it., vol. V, cit., p. 977; PADOVANI, Favoreggiamento, in Enc. giur., vol. XIV, Roma, 1989, p. 2; PISA, Favoreggiamento personale e reale, in Dig. disc. pen., vol. V, Torino, 1991, p. 167; ANTOLISEI, Dir. pen., pt. s., vol. II, cit., p. 480; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. s., vol. I, cit., p. 393. In giurisprudenza: Cass. 22 febbraio 1982, in Giust. pen., 1983, II, 66 ed in Cass. pen., 1983, p. 1982 (ipotesi di favoreggiamento personale c.d. reciproco). (40) BOSCARELLI, La tutela penale del processo, cit., p. 250. (41) PAGLIARO, Favoreggiamento (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XVII, Milano, 1968, p. 43. (42) Con diverse sfumature: PANNAIN, Favoreggiamento personale e reale, in Noviss. dig. it., vol. VII, Torino, 1968, p. 148; MANZINI, Trattato di dir. pen. it., cit., vol. V, p. 978; PADOVANI, Favoreggiamento, cit., p. 2. (43) Per tale opinione, ad es.: MAGGIORE: Dir. pen., pt. s., vol. II, cit., p. 289; CODAGNONE, Subornazione, in Enc. Forense, vol. VII, Milano, 1962, p. 359; SANTORO, Testimonianza, perizia, interpretazione (falsità in), cit., p. 303 (così dobbiamo evidentemente intendere l’espressione « il titolo di cui all’art. 376, essendo specifico, deve ritenersi prevalente »; infatti, non soltanto si cita Cass. 12 dicembre 1951 — in Riv. pen., 1952, II, p. 857 e anche in Giust. pen., 1952, II, c. 361 — ma l’art. 376 c.p. è relativo alla ritrattazione. Si tratta, allora, di un tipico caso di refuso tipografico); MANZINI, Trattato di dir. pen. it., vol. V, cit., p. 951, nt. 1 e p. 983, nt. 11. In giurisprudenza, oltre alla sentenza appena citata, cfr., più recentemente, Cass. 7 febbraio 1986, in Riv. pen., 1987, p. 459 e in Cass. pen., 1988, con nota di CERESA GASTALDO, A proposito del confine tra atto defensionale atipico e reato di favoreggiamento. (44) Per le ragioni di tale orientamento: PAGLIARO, Favoreggiamento cit., p. 43; PISA, Favoreggiamento personale e reale, cit., p. 172. (45) PAGLIARO, Favoreggiamento, cit., p. 41; FIANDACA-MUSCO, Dir. pen., pt. g., vol. I, cit., p. 294; App. Firenze 12 ottobre 1990, in Cass. pen., 1992, p. 172. (46) Al riguardo, per un opportuno ampliamento di orizzonte: PISA, Giurisprudenza commentata di diritto penale, vol. II, 2a ed., Padova, 1997, p. 415 ss. (47) Cass. 11 dicembre 1989, in C.E.D. Cass., n. 184776. Secondo Cass. 5 novembre 1994 (in Dir. pen. e processo, 1995, p. 335), se alle pressioni tese al mantenimento del silenzio seguono egualmente le dichiarazioni all’autorità che investiga, si avrebbe favoreggiamento tentato e non consumato. (48) Cass. 7 ottobre 1971, in Cass. pen., 1972, p. 1594 (nella parte motiva).
— 1433 — giudiziaria (49). Ancora, una più recente sentenza della Suprema Corte ritiene che il caso in cui il difensore di un imputato proponga al teste di attenuare le sue dichiarazioni accusatorie, ricevendo un immediato e reciso rifiuto a modificare in qualunque modo tali dichiarazioni, integri il tentativo di favoreggiamento personale, che sarebbe ammissibile ogni qualvolta « il mezzo adoperato sia in sé idoneo a concretizzare l’aiuto diretto ad eludere le investigazioni, ma tale aiuto non si realizza per cause indipendenti dalla volontà del soggetto attivo » (50). Ora, sebbene la questione che qui interessa da vicino sia stata soventemente affrontata proprio sotto il profilo, interessante ma limitato, dei rapporti tra favoreggiamento ed esercizio del diritto di difesa (51), occorre, invece, ricercare il confine tra attività sottoponibile a pena e attività penalmente lecita già all’interno di una corretta ricostruzione del delitto di favoreggiamento. Ciò consente, inoltre, di fornire una risposta unitaria e valida a prescindere dalla configurabilità di una scriminante legata ad una particolare qualifica del soggetto che ne dovesse beneficiare (id est: il difensore). Per fare chiarezza, a nostro avviso, più che sulle modalità esecutive, è bene intendersi sul concetto di ‘‘aiuto’’ rilevante ai sensi dell’art. 378 c.p. A tal proposito, dallo studio del delitto di favoreggiamento pare potersi trarre la conclusione che necessaria e sufficiente sia l’idoneità della condotta a realizzare l’evento significativo. E se è vero che questo non coincide con l’effettiva elusione delle investigazioni, non sembra neppure possibile che idoneo ad aiutare sia anche « un comportamento che non è affatto idoneo a eludere le investigazioni dell’autorità » (52). In altri termini, è preferibile la tesi mediana: l’art. 378 c.p. richiede che l’aiuto sia idoneo ad eludere le investigazioni dell’autorità o a sottrarsi alle ricerche di questa (53). Dunque, nel caso che ci interessa, l’aiuto può essere concretamente prestato o, meglio, può ritenersi idoneo solo ove all’offerta o promessa segua la commissione del delitto di falsità voluto dall’istigatore. Unicamente in questo caso avrebbe senso riflettere sulla consumazione o sul tentativo di un favoreggiamento (49) Cass. 7 febbraio 1986, cit. (50) Cass. 17 aprile 1990, in Riv pen., 1991, p. 280. (51) Infatti, uno degli aspetti che più frequentemente ha interessato, soprattutto negli ultimi anni, dottrina e giurisprudenza è stato quello della configurabilità del favoreggiamento personale nei confronti del difensore. Ed in particolare, proprio la presa di contatti, da parte del difensore, con soggetti che dovevano deporre nel corso di un processo (per tutti: MOSCARINI, Difesa tecnica e favoreggiamento, in questa Rivista, 1981, p. 1594; CORSO, Difesa tecnica e favoreggiamento, in Indice pen., 1982, p. 21; MAZZA, Sul favoreggiamento del difensore, in Giust. pen., 1982, II, c. 132; PULITANÒ, Il favoreggiamento personale, cit., p. 185 ss.; CALAMANTI, Il diritto di difesa tra favoreggiamento e patrocinio infedele, Milano, 1987, p. 32; ROSSI VANNINI, Favoreggiamento e difesa: quali rapporti?, in Cass. pen., 1987, p. 303; CERESA GASTALDO, A proposito del confine tra atto defensionale atipico e reato di favoreggiamento, cit.; PISA, Favoreggiamento personale e reale, cit., p. 167; GELARDI, L’oggetto giuridico del favoreggiamento come dover essere del processo, Padova, 1993, p. 118. Per la giurisprudenza, oltre alle sentenze citate nelle precedenti note, cfr. PISA, Giurisprudenza commentata di diritto penale, vol. II, cit., p. 445 ss.). Contatti istituzionalmente rari ed anzi tendenzialmente vietati nel quadro di un modello inquisitorio che spesso identificava la prestazione dell’avvocato con un’attività passivamente difensiva. Nel quadro del diritto alla prova, proprio di un diverso processo accusatorio, ad un ruolo passivo e statico del difensore deve ovviamente sostituirsi una nuova opera di dinamica ed attiva ricerca ed individuazione degli elementi di prova. A tal fine, il codice di procedura penale del 1988, ha opportunamente previsto (art. 38 delle norme di attuazione) che i difensori, anche a mezzo di sostituti e di consulenti tecnici o avvalendosi di investigatori autorizzati, possano « conferire con le persone che possano dare informazioni ». Occorre dunque evitare che interpretazioni aberranti proiettino sinistramente « lo spettro del favoreggiamento personale » (così PADOVANI, Il nuovo codice di procedura penale e la riforma del codice penale, in questa Rivista, 1989, p. 925) anche sulle attività difensive lecite o, comunque, non passibili di sottoposizione a pena. (52) In tal senso, invece, PAGLIARO, Massime astratte e problemi giuridici concreti, in Cass. pen., 1983, p. 77. (53) Analogamente, FIANDACA-MUSCO, Dir. pen., pt. s., vol. I, cit., p. 393; Cass. 6 novembre 1981, in Cass. pen., 1983, p. 886. Secondo PULITANÒ, (Il favoreggiamento personale, cit., p. 100), il compimento della condotta di aiuto dovrebbe addirittura migliorare in qualche modo la posizione dell’aiutato.
— 1434 — comunque commesso e potrebbe punirsi il concorso di persone in un reato consumato o tentato: il nostro art. 115 c.p. chiarisce invece che deve rimanere esente da pena l’istigazione non seguita dalla commissione del reato (54). Non sarebbe neppure esatto affermare che il tentativo di favoreggiamento personale è configurabile ogni qual volta « il mezzo adoperato sia in sé idoneo a concretizzare l’aiuto » (55). A opinare in tal senso, infatti, dovrebbe ritenersi sempre punibile ogni istigazione non seguita dalla commissione del reato-fine, ove il soggetto istigato sia « idoneo » a commettere il reato. E la conclusione sarebbe ancora meno convincente, ove si facesse riferimento a reati commissibili da parte di chiunque, come nel caso del favoreggiamento che non sconfini in una falsa deposizione. Dunque, nel caso della condotta riconducibile alla subornazione e — di più — in ogni ipotesi nella quale il favoreggiamento personale ha bisogno di una realizzazione concorsuale, dovranno applicarsi le regole di cui agli artt. 110 ss. c.p., con la conseguente non sottoponibilità a pena dell’istigazione c.d. sterile (56). Per quanto la soluzione possa lasciare insoddisfatti, la condotta di colui il quale offra o prometta denaro a altra utilità ad un soggetto chiamato a rendere dichiarazioni davanti alla polizia giudiziaria rimane estranea all’area del penalmente rilevante, che seppure a volte meriterebbe di essere normativamente allargata, deve però rimanere interpretativamente legata al dato oggettivo e non ai desiderata. In altri, e conclusivi, termini: è preferibile denunciare l’esistenza di una lacuna non colmabile ermeneuticamente che giungere alla punizione di determinate condotte in spregio a princìpi penalistici generalmente condivisi. BARTOLOMEO ROMANO Ricercatore di Diritto penale presso l’Università di Palermo
(54) Similmente, E. DINACCI, Favoreggiamento personale, in I delitti contro l’amministrazione della giustizia, a cura di F. Coppi, cit., p. 437. (55) Così, invece, Cass. 17 aprile 1990, cit. (56) Analogamente, PULITANÒ, Il favoreggiamento personale, cit., p. 200 e, sia pure in senso dubitativo, PISA, Favoreggiamento personale e reale, cit., p. 168. Da tale soluzione non può peraltro trarsi agevolmente la deduzione che il delitto di subornazione costituisca una vera e propria deroga all’art. 115 c.p. (così, invece, LEONCINI, Rapporti tra tipicità e offensività, cit., p. 185). Anzi, le stesse peculiarità dell’aiuto rilevante ai sensi dell’art. 378 c.p., unite a tutta una serie di argomentazioni traibili dal più diretto rapporto dell’art. 115 c.p. con la subornazione, confermano la fondatezza dei nostri dubbi su tale assiomatica conclusione, in altre sedi confutata diffusamente (cfr. gli scritti citati in nt. 21).
— 1435 — CASSAZIONE PENALE — Sez. II — 4 aprile 1997 Pres. D’Asaro — Rel. Celentano — P.M. Albano (concl. diff.) Ric. P.G. in proc. c. Bussei Appropriazione indebita — Uso arbitrario sotto qualsiasi forma — Sussistenza — Condizioni (C.p. art. 646). Appropriazione indebita — Distrazione di riserve extrabilancio per finalità illecite — Sussistenza (C.p. art. 646). Il termine appropriarsi non significa soltanto annettere al proprio patrimonio il danaro o la cosa mobile altrui bensì anche disporne, arbitrariamente, uti dominus sotto qualsiasi forma, sicché l’uso arbitrario dell’uno o dell’altra dal quale derivi per il proprietario l’irreversibile perdita dell’uno o dell’altra è equiparato all’appropriazione (1). Sussiste il delitto di appropriazione indebita nel fatto dell’amministratore di società che costituendo riserve di danaro extrabilancio, con gestione occulta, le distragga in favore di terzi per finalità illecite ed estranee all’oggetto sociale e alle finalità aziendali, così procurando agli stessi un ingiusto profitto (2). (Omissis). — Nel procedimento penale a suo carico Bussei Marco era imputato: a) del delitto p. e p. dagli artt. 110, 81, 1o comma, c.p. 2621, co. 1o n. 1 c.c.; a-1) del reato p. e p. dagli artt. 1, 2o comma, lett. a) e b) della l. n. 516 del 1982 e succ. mod., 8, 2o comma, della l. n. 4 del 1929; b) del delitto p. e p. dagli artt. 110, 81, 2o comma, 646, 2o e 3o comma, 61, n. 7 del c.p perché, nella qualità di amministratore della soc. coop. Orion a r.l., in concorso con ..., con una pluralità di condotte esecutive di un medesimo disegno criminoso, costituendo e poi via via alimentando — mediante il versamento di ricavato da attività imprenditoriali, non fatturato e non altrimenti contabilizzato — fondi extrabilancio con gestione bancaria occulta e apparentemente non riconducibili all’impresa Orion s.c.r.l., ... si appropriava, mediante la loro distrazione dalle lecite finalità aziendali, di risorse economiche dell’impresa al fine di procurare a terzi un ingiusto profitto; fattispecie aggravata per essere stato cagionato alla società un danno patrimoniale di rilevante gravità. Lo stesso Bussei, con gli altri imputati, aveva dichiarato che una quota dei ricavi d’impresa non veniva annotata né fatturata né iscritta nei bilanci per essere invece collocata su libretti di deposito al portatore, contraddistinti con nomi di fantasia, e poi utilizzata per pagare artigiani, cottimisti, proprietari di terreni che intendevano nascondere i loro guadagni al fisco, politici e amministratori che gestivano appalti pubblici, così come la somma di oltre un miliardo di lire era stata « data » a Finamore Renzo, tenente colonnello della Guardia di Finanza. All’udienza preliminare il Bussei, a mezzo del suo collegio di difesa, concordava con ii P.M. l’applicazione di una pena sul presupposto che i fatti integrassero — anche — il delitto di appropriazione indebita. La richiesta non veniva accolta dal Giudice che, all’esito della disamina in punto di diritto ex art. 129 c.p.p., pronunciava sentenza di non luogo a procedere
— 1436 — (art. 425 c.p.p.) in ordine (limitatamente) al delitto di appropriazione indebita, come contestato, mandando « assolto » il Bussei dal delitto stesso con la formula « perché il fatto non sussiste ». Avverso la sentenza hanno proposto ricorso il Procuratore della Repubblica presso il tribunale ed il Procuratore Generale territoriale, richiedendone l’annullamento. (Omissis). — Il ricorso del P.M. presso il tribunale, ai motivi del quale si è richiamato il P.G. facendoli propri, impugna la sentenza per l’erronea applicazione della legge penale in ordine alla ritenuta insussistenza del delitto di appropriazione indebita contestato al Bussei, censurandola nell’interpretazione della norma penale sostanziale in relazione alla corretta individuazione degli elementi costitutivi della fattispecie (l’appropriazione, se o non comprensiva di una condotta di distrazione) nonché per la negata ingiustizia del profitto conseguito, nel caso di specie, dai terzi beneficiari dei fondi distratti. La censura è dunque in diritto, riconducibile al mezzo indicato dall’art. 606, lett. b) del c.p.p., esattamente rapportabile alla natura « di diritto » appunto, delle questioni che il G.i.p. ha ritenuto non sottratte al vaglio impostogli dall’art 129 c.p.p.; e anche se in altra parte è rubricata come « mancanza e illogicità della motivazione » essa non perde la suddetta sua natura, avendo riferimento, in tale parte, a questioni di qualificazione giuridica e di asserita erroneità d’interpretazione della norma penale sostanziale. Il denunciato vizio di illogicità della motivazione è invero manifestamente riferito alle argomentazioni in diritto che la sentenza espone sul tema sicché la censura proposta è sostanzialmente di erronea applicazione della legge penale; ciò che alla Corte è richiesto, in definitiva, non è altro che un controllo sull’interpretazione della norma. Il ricorso dunque risulta correttamente proposto quale mezzo d’impugnazione previsto dall’art. 429, n. 4, c.p.p., che rinvia alla norma dell’art. 569 il cui 3o comma non è applicabile nel caso di specie, appunto per la natura delle censure proposte, sicché la richiesta di conversione del ricorso in appello non trova accoglimento. La sentenza di proscioglimento è dunque censurata (anche perché emessa ai sensi dell’art. 129 c.p.p, su questione controversa e nell’ambito di un raggiunto accordo di patteggiamento) innanzitutto per l’interpretazione data alla norma dell’art. 646 c.p. in relazione alla condotta dell’agente — interpretazione che i ricorrenti denunciano come ingiustificatamente restrittiva e riduttiva rispetto alle più accreditate opinioni della dottrina penalistica e alla stessa giurisprudenza di legittimità, e sostanzialmente come erronea —. Se ne riportano (della sentenza) le argomentazioni decisive: la distrazione, che in talune ricostruzioni sarebbe annoverata tra le forme in cui può essere attuata l’obiettività del reato previsto dall’art. 646 c.p., non assumerebbe valenza se non puramente descrittiva del fenomeno, restando invece non attinta, con il riferimento a tale condotta, la sostanza economico-giuridica dello stesso; appropriarsi, « già nel linguaggio comune » significa fare propria la cosa, incamerarla, in senso civilistico, nel proprio patrimonio, giacché l’espressione — l’appropriarsi — designerebbe, « senza possibilità di equivoci, un trasferimento di ricchezza dalla vittima al reo »;
— 1437 — soltanto avuto riguardo all’interesse economico-giuridico in gioco — quello del reo al soddisfacimento, attraverso la destinazione della cosa, di un interesse o di un’utilità propria, quello del soggetto leso (il dominus della cosa) alla conservazione dell’integrità del suo patrimonio — sarebbe possibile tracciare il confine della condotta appropriativa. La motivazione della sentenza prosegue con le ulteriori argomentazioni — riferite anche all’altro aspetto dell’antigiuridicità del fatto, ossia all’ingiustizia del profitto esprimente il carattere illecito dell’appropriazione — secondo le quali: allorché vengano in considerazione, quali soggetti attivi del reato, gli amministratori di società, il corretto meccanismo d’imputazione delle fattispecie alla società verrebbe reciso, emergendo nelle relative situazioni l’elemento dell’ingiustizia del profitto, solo allorché l’atto compiuto superi il limite dell’oggetto sociale, ponendosene all’esterno, e dunque, per il caso di specie, « versare i ricavi non annotati né fatturati su libretto di deposito anziché sui conti correnti bancari intestati alla società Orion » sarebbe stata « condotta in sé non particolarmente significativa » atteso che « delle somme depositate sui libretti era ancora la società a disporre tramite gli amministratori » senza che il meccanismo d’imputazione degli atti, come definito dalla legge civile, ne restasse travolto; « il destino avuto in concreto dalle provviste » si era compendiato — « punto, questo, non controverso » — in fatti di distrazione, non di appropriazione e nei confronti della società Orion « nessun elemento di ingiustizia il Bussei aveva realizzato, nemmeno quando aveva dato denaro a pubblici ufficiali », atteso che « pagare per ottenere appalti, soddisfare il concussore » si configuravano non come atti estranei all’oggetto sociale bensì come « spese promozionali, volte ad incrementare il volume degli affari » o come modi (nel caso dei pagamenti al concussore) per evitare alla società mali maggiori — onde, conclusivamente, all’imputato Bussei « nessuna lesione del patrimonio sociale poteva addebitarsi, che anzi egli lo aveva tutelato e probabilmente incrementato ». Punto della motivazione, quest’ultimo, che i ricorrenti denunciano come « inaccettabile », privo di fondamento giuridico, contrastante con i principi costituzionali in materia di iniziativa economica privata e dunque censurabile sotto il profilo della violazione di legge. Il ricorso è fondato in tutte le censure. Negli addebiti mossi alla sentenza sul tema della condotta costituente l’elemento materiale del delitto di appropriazione indebita, innanzitutto. Individuare la condotta penalmente rilevante, punibile ai sensi dell’art. 646 c.p., sulla base del c.d. interesse economico-giuridico del soggetto — l’agente o l’offeso — potrebbe accreditarsi come operazione interpretativa non priva di dignità intellettuale. È decisivo, tuttavia, che nulla si rinviene nella norma che di tale interesse economico-giuridico del soggetto, in termini strettamente legati al lessico civilistico di acquisizione-perdita del danaro o della cosa mobile, legittimi assunzione a criterio interpretativo esclusivo, quale fondamentalmente significante dell’appropriazione. Ciò che per di più dovrebbe avvenire valorizzando il significato che il termine appropriarsi avrebbe nel linguaggio comune piuttosto che quell’altro che ad esso assegna il linguaggio tecnico-giuridico, nell’ambito del quale il termine è notoriamente registrato come il disporre arbitrariamente di una cosa altrui da parte di chi l’ha in possesso. Può anche prospettarsi che vi sia necessità di un altro passaggio estensivo per
— 1438 — ricondurre al comportarsi uti dominus da parte del possessore la destinazione della cosa ad altra piuttosto che a quella sua di volta in volta legittima — ciò che appunto sembra richiedere il caso degli amministratori di società rispetto alla gestione dei ricavi d’impresa — ma esso può apparire ben giustificato dalla tutela delle ragioni del possesso, ossia di quel rapporto fiduciario o di affidamento messo in rilievo dalla dottrina, che è insita nella norma dell’art. 646 c.p. È manifestamente erroneo, poi, argomentare dall’eliminazione della figura del peculato per distrazione (art. 314 c.p. dopo la riforma ad opera della l. n. 86 del 1990) per affermare — come nella sentenza impugnata — che ne sia derivato una sorta di messaggio all’interprete perché intenda che « chi distrae non si appropria ». L’affermazione — già smentita dal rilievo che nemmeno « costituiva ostacolo la distinzione, negli artt. 314 e 315 c.p., tra distrazione e appropriazione, nulla vietando che questa sia interpretata restrittivamente nel peculato e malversazione ed estensivamente nell’appropriazione indebita » — appare invero il frutto di una trasposizione arbitraria, sul terreno del linguaggio e dei suoi significati, di una scelta del Legislatore della riforma che rispondeva semplicemente ad una deliberata restrizione dell’area di ciò che sulla base dell’originaria formulazione della norma risultava punibile a titolo di peculato. Che anzi, com’è stato acutamente rilevato dalla dottrina e come ha puntualizzato la sentenza Sez. un. 28 febbraio 1989 (v. in motivazione: « Si tratta soltanto... »), il venir meno in alcuni soggetti delle qualifiche soggettive pubblicistiche ha reso punibili a titolo di appropriazione indebita alcuni fatti di distrazione a vantaggio di altri - ciò che è stato giuridicamente possibile proprio per l’ampiezza concettuale del termine appropriarsi dell’art. 646 c.p. che consentiva di sussumere in esso la condotta di distrazione come una specie dell’appropriazione, ossia come uno degli altri modi di comportarsi del possessore nei confronti della cosa tutti realisticamente riconducibili al novero degli atti di disposizione. Concludendo, dunque, sul punto, l’appropriarsi non può non esser letto, nella norma dell’art. 646 c.p. in tutta la gamma dei possibili significati che siano riconducibili al tipo originario del comportarsi rispetto alla cosa uti dominus, nel quale anche scolasticamente è ravvisato il « nucleo materiale » di quelle condotte che, qualificate ulteriormente dal requisito dell’arbitrarietà, risultano punibili a titolo di appropriazione indebita — concorrendo, s’intende, quell’aspetto del dolo che qualifica di consapevole irreversibilità l’interversione del possesso in dominio, senza del quale la distrazione non rientrerebbe tra gli atti di disposizione, nonché l’elemento ulteriore dell’ingiustizia del profitto, specificativo del dolo. La distrazione del denaro o della cosa, nel suo significato di « destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che ne giustificano il possesso (così la sentenza Sez. un. 28 febbraio 1989) implica necessariamente che un titolo proveniente dal dominus abbia fissato e prestabilito per il denaro o la res una specifica destinazione (quel vincolo appunto di destinazione che l’impugnata sentenza ha inteso rifiutare) ed è per questo che l’esercizio da parte del possessore di facoltà spettanti al dominus, in quanto estranee alle ragioni e al titolo che sorreggono il trasferimento del possesso in capo ad altro soggetto, assume inevitabilmente la configurazione del comportarsi, da parte di costui, indebitamente uti dominus, sub specie di abuso del titolo e sviamento del possesso. Può dirsi che le conclusioni dianzi riaffermate costituiscano nella giurispru-
— 1439 — denza di questa Corte — dalle pronunce dell’11 marzo 1975 (Semeraro), del 1o febbraio 1983 (Rapollo), entrambe nel senso che il reato di appropriazione indebita sussiste anche « nel caso in cui l’agente abbia dato alla cosa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni del suo possesso », alle altre del 25 ottobre 1972 (Girelli) e del 16 aprile 1985 (Fugaroli) che, intervenute in casi più specifici, statuivano che « quando il possesso del denaro comporti l’impiego dello stesso per un determinato uso, tale possesso non conferisce il potere di compiere atti di disposizione non autorizzati o comunque incompatibili col diritto del proprietario e che ove ciò avvenga l’agente commette il reato di appropriazione indebita » — un punto d’arrivo, nell’interpretazione della norma, assumibile a jus receptum in quanto espressione di una tendenza ulteriormente confermata, poi, dalla pronuncia a Sez. un. del 28 febbraio 1989 (Vita ed altri), qui già richiamata, dall’altra successiva del 9 luglio 1992 (Boyer) nonché dalle pronunce emesse dalla Sez. V il 15 gennaio 1997 (Flosci) — con la quale è stato deciso che « il cassiere o il diverso dipendente di un istituto di credito che comunque abbia il potere, connesso al rapporto di lavoro subordinato, di disporre dei valori, compiendo operazioni bancarie inerenti alle mansioni affidategli, si rende responsabile di appropriazione indebita nel caso in cui non rispetti i limiti, fissati nel contratto di lavoro e nelle norme che lo regolano, al potere di utilizzare il denaro nella sua specifica funzione di intermediare gli scambi » — e da questa Sez. II in data 11 febbraio-10 aprile 1997 (Parenti ed altri) che ha ritenuto configurabile il delitto di appropriazione indebita aggravata (artt. 646, 61 n. 7 e 11 c.p.) a carico di amministratori di società (nel caso di specie, azionarie) « che eroghino in favore di un proprio dipendente una somma di danaro attraverso la simulazione di un mutuo (non previsto dallo statuto ed erogato attraverso una procedura distorta ed illegittima) che in realtà dissimulava un’effettiva erogazione a fondo perduto disposta per finalità totalmente estranee agli scopi sociali in quanto diretta, in parte, a soddisfare esigenze personali del dipendente stesso, ed in parte ad assicurare il sostegno ad una campagna elettorale cui uno di loro era interessato ». Non può tacersi che in altri casi — ultima la sentenza 23 giugno 1989 (Bernabei) che si è richiamata al precedente costituito dalla sentenza Sez. un. 23 maggio 1987 (Tuzet) a sua volta, però, già rivista e superata dalla più volte richiamata successiva pronuncia a Sez. un. 28 febbraio 1989 — questa Corte si è discostata da tale orientamento interpretativo (ciò che tuttavia è avvenuto, in detta sentenza Bernabei, senza dar luogo ad un consapevole contrasto, motivato sulla base di argomentazioni e rilievi specificamente critici; nella motivazione si dà atto, infatti, che la nuova pronuncia delle Sez. un. era nota solo attraverso la massima provvisoria) qualificando come « ortodossa » l’interpretazione dell’appropriarsi nel senso del « farla entrare nel proprio dominio, incamerarla al proprio patrimonio » e facendo proprie talune preoccupazioni emerse in sede dottrinale circa l’uso di procedimenti interpretativi a tal punto estensivi da poter essere assimilati all’analogia in malam partem, rifiutata dal sistema. Deve ammettersi, tuttavia, che riaffermare la diversità e con essa l’autonomia concettuale della condotta di appropriazione rispetto a quella di distrazione sulla base del rilievo che le stesse si diversificano « nella fase successiva alla nuova destinazione, che nell’ipotesi dell’appropriazione è soggettivamente e oggettivamente orientata ad impadronirsi della cosa, cioè ad instaurare un completo dominio su di essa con definitiva acquisizione al patrimonio dell’agente, mentre in quella di di-
— 1440 — strazione è rivolta semplicemente ad un uso arbitrario del bene con impiego per fini diversi da quello cui era destinato », significa restare sul piano del puro, formale descrittivismo, cogliere e valorizzare gli elementi soltanto formali del fenomeno e trascurare, invece, il dato comune alle due forme di condotta che la stessa sentenza non ha mancato di individuare allorché ha rilevato che le due attività di appropriazione e di distrazione « implicano entrambe la sottrazione del bene alle sue finalità istituzionali »; ciò che non è altro se non violare il titolo e le ragioni del possesso, non è altro che il comportarsi uti dominus del quale è rimasto così ancora riaffermato il carattere ed il valore di « nucleo materiale della condotta », onde ancora si legittima, per il significato tecnico-giuridico del termine appropriarsi, il diniego della dicotomia appropriazione-distrazione e la reductio ad unum di tali condotte in sede di interpretazione della norma dell’art. 646 c.p. Quando ciò si consideri, può ammettersi che resti superata anche la preoccupazione o la riserva insita nell’obiezione che « la specificità dell’ipotesi di reato descritta dall’art. 646 c.p. » non ammetterebbe dilatazioni interpretative di sorta traducentesi in « eccedenze superanti i limiti dell’interpretazione estensiva per travalicare nell’interpretazione analogica in malam partem ». Può infatti ritenersi che sino al limite dell’omologabilità delle condotte sul fondamento di una loro unitaria corrispondenza al significato connotativo e referenziale della norma — il che sussiste nel caso dell’appropriazione e della distrazione per la riconducibilità di entrambe a quel nucleo materiale comune del comportarsi arbitrariamente uti dominus, individuato sul fondamento della tutela del titolo e delle ragioni del possesso del quale anche la norma dell’art. 646 è espressione — il principio di tassatività delle fattispecie penali, inteso come vincolo all’interprete per l’applicazione della norma ai soli casi dalla stessa previsti, non sia violato. E certamente spetta all’interprete un’indagine del genere, allorché egli sia richiesto nel processo di far luogo all’accertamento dell’eventuale conformità del fatto storico, quale anche attraverso la mediazione del linguaggio emerge dalla realtà, alla fattispecie legale. Nel caso di specie — per il quale possono compiutamente essere precisate le ragioni di fondatezza dei motivi di ricorso nelle censure di erronea applicazione della norma penale, volte alla sentenza impugnata — si sarebbe dovuto considerare che la destinazione da parte dell’amministratore Bussei di una quota ingente dei ricavi d’impresa alla costituzione di riserve extrabilancio, sottratte ad ogni controllo contabile societario attraverso una gestione bancaria occulta, e l’utilizzazione delle stesse in attività, quali quelle che la stessa sentenza ha indicato, manifestamente estranee, almeno in parte (secondo quello che si dirà), alle finalità aziendali, intese nel senso corretto, assumevano rilievo unitario come fatto di distrazione travalicante il titolo e le ragioni della disponibilità giuridica dei ricavi istituzionalmente e fiduciariamente affidata agli amministratori di società. E si sarebbe dovuto dar risposta al quesito se le risoluzioni e le condotte tenute dall’amministratore Bussei in relazione a detta parte delle riserve costituite extrabilancio e in maniera occulta non fossero caratterizzate da illiceità ed illegalità al punto tale da rendere eccessiva e superflua qualsiasi loro parametrazione (in negativo) all’ambito dei poteri a lui commessi, di gestione dell’impresa secondo l’oggetto sociale. La destinazione finale delle medesime riserve occulte, per quella parte devoluta, già secondo la contestazione, ai « politici e amministratori » (di enti pubblici)
— 1441 — « che gestivano appalti pubblici » e, « secondo la tesi dell’accusa portata al vaglio del tribunale, a soddisfare le pretese del concussore » (così la sentenza impugnata), lungi dal rientrare nell’oggetto sociale alla stregua di « spese promozionali volte all’incremento degli affari » o di prezzo utile ad « evitare alla società mali maggiori » — come solo trascurando in toto sia il principio generale di legalità sia il necessario requisito di liceità dell’oggetto sociale e quasi volendo limitare ai mezzi usati dal Bussei l’innegabile carattere di illiceità e antigiuridicità, facendone salvi i fini, la sentenza ha potuto ritenere — appariva tale da realizzare l’ingiusto profitto altrui, onde nei fatti come prospettati dalla contestazione di reato veniva in evidenza anche l’ulteriore elemento di qualificazione di dolo del delitto di appropriazione indebita. Le diverse conclusioni raggiunte dalla sentenza ora impugnata, riassunte nell’esito processuale di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p. con la formula del fatto non sussiste, sono dunque il risultato di un’erronea applicazione della norma penale sostanziale. La sentenza va dunque annullata con rinvio al tribunale di Reggio Emilia (altro giudice per le indagini preliminari) per il nuovo esame nel quale al caso di specie, in vista dei provvedimenti da adottare sulle richieste delle parti, la norma dell’art. 646 c.p.p. sarà applicata nel senso risultante dalle esposte considerazioni in diritto e nell’interpretazione riassunta nella massima secondo la quale « il termine appropriarsi non significa soltanto annettere al proprio patrimonio il denaro o la cosa mobile altrui bensì anche disporne, arbitrariamente, uti dominus sotto qualsiasi forma, sicché l’uso arbitrario dell’uno o dell’altra dal quale derivi per il proprietario l’irreversibile perdita dell’uno o dell’altra è equiparato all’appropriazione in senso stesso », mentre anche si riterrà che « sussiste il delitto di appropriazione indebita nel fatto dell’amministratore di società che costituendo riserve di danaro extrabilancio, con gestione occulta, le distragga in favore di terzi per finalità illecite ed estranee all’oggetto sociale e alle finalità aziendali, così procurando agli stessi un ingiusto profitto ». — (Omissis).
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Sui limiti dell’« appropriazione ».
1. Con una scrupolosa elencazione di precedenti la presente sentenza si riallaccia al filone giurisprudenziale che tende a dilatare la figura dell’appropriazione indebita, per concludere che « il termine appropriarsi non significa soltanto annettere al proprio patrimonio il denaro o la cosa mobile altrui, bensì anche disporne arbitrariamente uti dominus sotto qualsiasi forma ». Non si rinnega la formula tradizionale dell’appropriazione come comportamento uti dominus rispetto alla cosa altrui, ma a tale « nucleo materiale della condotta » viene ricondotta qualunque violazione del titolo e delle ragioni del possesso: l’arbitrio del possessore nomine alieno sfocerebbe inevitabilmente nell’appropriazione. L’interesse della decisione sta nello sforzo di motivazione che spiana la via all’analisi critica. Muovendo dalla premessa di un’oggettività giuridica ravvisata nella « tutela delle ragioni del possesso, ossia di quel rapporto fiduciario o di affidamento messo in rilievo dalla dottrina », viene decisamente accantonata un’individuazione della
— 1442 — condotta tipica « sulla base del c.d. interesse economico-giuridico del soggetto »: perché, si sostiene, « nulla si rinviene nella norma che di tale interesse economicogiuridico del soggetto, in termini strettamente legati al lessico civilistico di acquisizione-perdita del denaro o della cosa mobile, legittimi l’assunzione a criterio interpretativo esclusivo, quale fondamentalmente significante dell’appropriazione ». L’art. 646 c.p. disegnerebbe dunque un’appropriazione in senso lato, comprensiva sia dell’appropriazione in senso stretto che della distrazione, « per la riconducibilità di entrambe a quel nucleo comune del comportarsi arbitrariamente uti dominus ». La distrazione viene così risolta senza residui nell’appropriazione, come intesa dalla descrizione legale. All’ovvio argomento in contrario offerto dall’abolizione, con la riforma del ’90, del peculato per distrazione, viene contrapposta la possibilità di una divergente interpretazione del termine appropriazione: restrittiva nel peculato, estensiva nell’appropriazione indebita (1). Ciò che peraltro smentisce il richiamo, di poche righe precedente, al significato che si assume assegnato al vocabolo dal linguaggio tecnico-giuridico. Per non dire che in tema di peculato, una volta espunta la previsione della distrazione, viene a mancare il termine di confronto per l’interpretazione della stessa appropriazione (col rischio di vanificare la riforma) (2). 2. La sentenza avverte, e ne dà atto, che, intesa come destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che giustificano il possesso, la distrazione « implica necessariamente che un titolo proveniente dal dominus abbia fissato e prestabilito per il denaro o la res una specifica destinazione... ed è per questo che l’esercizio da parte del possessore di facoltà spettanti al dominus, in quanto estranee alle ragioni e al titolo che sorreggono il trasferimento del possesso in capo a un altro soggetto, assume inevitabilmente la configurazione del comportarsi, da parte di costui, indebitamente uti dominus, sub specie di abuso del titolo e sviamento del possesso ». E ancora: la sottrazione del bene alle sue finalità istituzionali « non è altro se non violare il titolo e le ragioni del possesso, non è altro che il comportarsi uti dominus ». Non occorre dire quanto un siffatto indirizzo interpretativo possa portare lontano. Varrebbe come appropriazione qualsivoglia scostamento dalle istruzioni del dominus: p. es. il pagamento, con la somma affidata, del creditore Caio anziché del creditore Tizio. Agevole la reductio ad absurdum: puniremo per appropriazione il mandatario che, ricevuta una somma con l’obbligo di effettuare un pagamento, la restituisca intatta al mandante senza adempiere l’incarico? È una strada che porta a cancellare ogni confine tra violazione del rapporto contrattuale che funge da titolo e ragione del possesso e illecito penale; e impedisce che fra responsabilità penali e civili si stabilisca un ragionevole equilibrio. Col rischio financo di uno scavalcamento della norma penale da parte di quella civile: si pensi alla disposizione che consente al mandatario di discostarsi dalle istruzioni ricevute qualora circostanze ignote al mandante, e tali che non possano essergli comunicate in tempo, facciano ragionevolmente ritenere che lo stesso mandante avrebbe dato la sua approvazione (cfr. art. 1711, cpv. c.c.). La patrimonialità della figura delittuosa ne verrebbe abbondantemente annacquata: il dominus risulterebbe leso innanzitutto nella sua autorità, quasi un attributo della persona, e solo in via eventuale (nei casi di appropriazione in senso (1) Su tale bivalenza del termine v. in dottrina MANTOVANI, Diritto penale, Delitti contro il patrimonio, Padova, 1989, 102; PROSDOCIMI, Esercizio del credito e responsabilità penali, in questa Rivista, 1988, 998. (2) Sul problema ermeneutico derivante dalla soppressione dell’ipotesi distrattiva v. SEMINARA, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ, Commentario breve del codice penale, 2a ed., Padova, 1992, 694.
— 1443 — stretto) in un interesse patrimoniale. È plausibile che la previsione alternativa della distrazione in tema di peculato e malversazione mirasse proprio a una tutela assoluta delle destinazioni pubblicistiche e della relativa determinazione a mezzo di procedure vincolate e vincolanti. 3. Ma non vogliamo ricorrere ad argomenti impressionistici. Sul piano strettamente tecnico è anzitutto da osservare che la premessa da cui muove la sentenza: della tutela di un « rapporto fiduciario o di affidamento », si regge sul piano statistico dell’id quod plerumque accidit, ma non centra il nocciolo essenziale dell’incriminazione. Il possesso nomine alieno non postula necessariamente un affidamento da parte del dominus (3): oggetto di appropriazione indebita può essere p. es. la cosa altrui, di cui il soggetto sia venuto in possesso per errore proprio (ricadendo il possesso dovuto a errore altrui nella terza fattispecie dell’art. 647). Si pensi del pari a un possesso in ragione di una gestione di affari. In realtà la fonte del possesso che funge da presupposto dell’appropriazione indebita (« a qualsiasi titolo ») è definibile soltanto in negativo: nel senso che non deve provenire da sottrazione furtiva o da altra attività delittuosa (4). Ne deriva un primo motivo di inaccettabilità della nozione estensiva: della c.d. appropriazione in senso ampio. Essa si richiama a un presupposto di affidamento estraneo al modello legale. Se la nozione unitaria che definisce la condotta tipica deve valere per l’intero ambito di applicazione della fattispecie, essa non può ammettere la variante della distrazione intesa come semplice inosservanza, da parte del possessore, di istruzioni del dominus, non essenziali al presupposto possessorio. A maggior ragione il discorso vale per le appropriazioni minori dell’art. 647, dato che il riferimento a istruzioni vincolanti non ha senso per la cosa smarrita né per la cosa posseduta a seguito di errore altrui o per caso fortuito (né vi è ragione di pensare che il termine appropriarsi muti di significato nel passaggio dall’art. 646 al 647). La decisione soprattutto emargina l’estremo del dolo specifico, rappresentato dalla finalità di ingiusto profitto: che non è qualcosa che dal di fuori si aggiunga alla condotta di appropriazione, ma ne costituisce l’ispirazione motrice. L’appropriazione rileva in quanto rivolta a un profitto dello stesso agente o di terzi. Con l’avvertenza che il pronome « altri » ha riferimento a un qualsiasi soggetto, purché diverso dall’offeso. Il concetto di profitto si dimensiona alla luce di considerazioni sistematiche: le quali in mancanza di una previsione ad hoc — con sanzione congruamente attenuata, come quelle degli artt. 626, n. 1 e 314, cpv. (5) — non consentono di configurare una mera appropriazione d’uso (6). Vale a dire che il profitto deve delinearsi come tendenzialmente duraturo se non definitivo. (3) Per tutti ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte speciale, vol. I, 10a ed. a cura di Conti, Milano, 1992, 279. (4) Rinviamo alla nostra voce « Appropriazione indebita », in Enc. dir., vol. II, 1958, 838. V. inoltre ANTOLISEI, op. cit., 279; G.V. DE FRANCESCO, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ, op. cit., 1519; FIANDACA-MUa SCO, Diritto penale, Delitti contro il patrimonio, 2 ed., Bologna, 1996, 100. (5) Si avverta che il peculato d’uso dell’art. 314, cpv. non è una sottospecie del peculato appropriativo del 1o comma, avendo piuttosto carattere distrattivo: cfr. Cass., 27 gennaio 1994, in Giust. pen., 1995, II, 401. V. in dottrina FIANDACA-MUSCO, op. cit., 194; PAGLIARO, Brevi note sulla riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, in Ind. pen., 1989, 27 (vedi però Principi di diritto penale, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, 7a ed., Milano, 1995, 70). (6) Cfr. Cass., 8 novembre 1983, in Riv. pen., 1984, 519. V. in dottrina, sia pure con qualche divergenza circa i limiti dell’uso non punibile, ANTOLISEI, op. cit., 287: MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. IX, 5a ed. a cura di Nuvolone, Torino, 1984, 943; PAGLIARO, voce « Appropriazione indebita », in Digesto disc. pen., vol. I, Torino, 1987, 228; PEDRAZZI, voce cit., 843; PETROCELLI, L’appropriazione indebita, Napoli, 1933, 377.
— 1444 — Etimologicamente il verbo « appropriarsi » gravita su di un risultato, anche se non in forma di vero e proprio evento naturalistico. La semplice disposizione abusiva della cosa altrui non è ancora appropriazione. L’usurpazione di un potere dispositivo spettante al dominus significa abuso del possesso, ma non ancora necessariamente appropriazione. Che violare il titolo e le ragioni del possesso altro non sia, come assume la sentenza, che comportarsi uti dominus è affermazione che non si può senz’altro sottoscrivere. Sembra evidente che appropriarsi significa assoggettare la cosa a una nuova signoria (di fatto), espropriandone con ciò stesso il dominus (7). L’argomento letterale, che potrebbe non essere decisivo, trova conferma nelle considerazioni che precedono: nell’esigenza che la fattispecie materiale si proietti verso un obiettivo di profitto a vantaggio di persona diversa dall’offeso; nell’esigenza, quindi, di uno sbocco fattuale della condotta che a tale obiettivo sia funzionale. La destinazione arbitrariamente impartita dal possessore alla cosa non rileva per il solo fatto di essere difforme dalle eventuali istruzioni dell’offeso (o più semplicemente dalla sua volontà), ma per il fatto di essere strumentale a un profitto del reo o di altri incompatibile con la supremazia del dominus (8). Si finisce così per ammettere un certo superamento del dato strettamente letterale: dalla formulazione del dolo specifico si ricava che ci si può appropriare anche procurando la signoria di fatto a un altro soggetto (9). Esula invece dalle previsioni della norma una distrazione a vantaggio dello stesso offeso: l’arbitrio del possessore di cui l’offeso sia beneficiario. 4. Meritevoli di particolare attenzione i casi frequenti in cui l’oggetto materiale della condotta e del reato sia rappresentato da una quantità di denaro o di altri beni fungibili, il cui utilizzo si concreti nella spendita o consumazione. È ovvio che in tal caso il reato non potrà consistere nella disposizione delle specie ricevute come tali. Sarà indispensabile guardare oltre e individuare il beneficiario dell’utilizzo: trattandosi di denaro, il soggetto nel cui interesse esso venga erogato, quale destinatario della controprestazione. Nessuna appropriazione fino a quando l’interessato finale si identifichi con il dominus (non importa, in questa sede, se coincidente o meno con il proprietario del diritto civile). Nulla vieta di riconoscere nella distrazione una sottospecie dell’appropriazione, caratterizzata da un mutamento arbitrario, a opera del possessore, della destinazione prescritta dal dominus. Ma a patto che non venga obliterato il requisito chiave dell’utilizzo in funzione di interessi estranei al dominus e incompatibili col suo interesse (10). A ben vedere il possessore che non osserva le istruzioni del do(7) Resta valida l’analisi del PROTO, che enuclea i due momenti dell’espropriazione e dell’impropriazione: cfr. Analisi del concetto di appropriazione e uso del possesso, in Riv. it. dir. pen., 1953, 332; analogamente di recente PAGLIARO, voce cit., 226. (8) Cfr. ANTOLISEI, op. cit., 286; G.V. DE FRANCESCO, op. cit., 1519; MILITELLO, Aspetti penalistici dell’abusiva gestione nei gruppi societari: tra appropriazione indebita e infedeltà patrimoniale, in Foro it., 1989, II, 433; PAGLIARO, loc. ult. cit.; PISAPIA, voce « Appropriazione indebita (diritto penale) », in Nss. Dig. it., vol. I, 1, Torino, 1974, 800. Per un’applicazione del concetto rigoroso di appropriazione alla concessione abusiva di fidi bancari cfr., per tutti, FLICK, Diritto penale e credito: problemi attuali e prospettive di soluzione, Milano, 1988, 224; FIANDACA-MUSCO, Delitti contro il patrimonio, cit., 105; CASTELLANA, Riflessioni a margine degli orientamenti giurisprudenziali in punto di rilevanza penale dei fidi abusivi, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1991, 83; MEZZETTI, L’appropriazione indebita nell’abuso di fido bancario, in Giust. pen., 1990, II, 200. In senso estensivo v. invece PROSDOCIMI, op. cit., 1000. (9) Cfr. MILITELLO, Gli abusi del patrimonio di società controllate e le relazioni fra appropriazione e distrazione, in questa Rivista, 1991, 284. (10) Cfr. FIANDACA-MUSCO, loc. ult. cit.; MILITELLO, Aspetti penalistici, cit., 434. Sulla distrazione come forma dell’appropriazione vedi già PETROCELLI, op. cit., 401.
— 1445 — minus, ma continua a impiegare il bene nell’interesse del medesimo, ne riconosce la signoria e quindi non si comporta uti dominus. Del resto lo stesso principio di diritto enunciato in chiusura sembra segnare un arretramento rispetto alle posizioni della motivazione: si premette che il termine appropriarsi significa anche disporre arbitrariamente uti dominus sotto qualsiasi forma, ma subito si precisa che all’appropriazione in senso stretto è equiparato l’uso arbitrario « dal quale derivi al proprietario l’irreversibile perdita » del denaro o della cosa mobile (11). Ci chiediamo come possa comportare un’irreversibile perdita un uso sia pure difforme dalle istruzioni del dominus (e quindi arbitrario), ma che assicuri a quest’ultimo le utilità traibili dal bene. 5. La soluzione non può essere diversa quando il possesso desume il suo titolo dalla funzione esercitata dal soggetto ed è quindi vincolato a destinazioni non stabilite volta per volta dal dominus, ma di matrice istituzionale. Così il possesso degli amministratori di società trova un vincolo statutario nell’oggetto sociale, che i medesimi sono tenuti a perseguire in ogni momento della loro attività. Un’interpretazione che bollasse come appropriativa qualunque disposizione di beni sociali solo perché estranea all’oggetto sociale (rapporto, com’è noto, non sempre di agevole determinazione) porterebbe troppo lontano: a colpire con sanzioni criminali disposizioni vantaggiose per la società e per i soci. E troverebbe una smentita nella legge: nell’art. 2630, 2o comma, n. 3, c.c., che punisce con pena decisamente inferiore a quella dell’appropriazione indebita aggravata (la reclusione fino a un anno e la multa da lire duecentomila a due milioni) gli amministratori che non solo eccedono dall’oggetto sociale, ma lo modificano sostanzialmente mediante l’assunzione di partecipazioni ad esso estranee per la misura e per l’oggetto (così usurpando i poteri dell’assemblea straordinaria). Al riguardo va anche considerato che il diritto penale societario tutela l’oggetto sociale in funzione di interessi organizzativi inconfondibili con il patrimonio sociale (12). Non è escluso che il delitto societario possa concorrere con l’appropriazione indebita: ma in quanto (e solo in quanto) i fondi della società vengano erogati nell’interesse di soggetti distinti dalla medesima (qualora p. es. la partecipazione fuori oggetto venga acquistata per favorire l’alienante). 6. Quanto alla seconda massima, per cui commette appropriazione indebita l’amministratore di società che distragga a favore di terzi le riserve costituite extrabilancio « per finalità illecite ed estranee all’oggetto sociale e alle finalità aziendali », occorre intendersi. A parte l’irrilevanza, come si è appena visto, della semplice estraneità all’oggetto sociale nella prospettiva dell’appropriazione indebita, vi è da considerare che la qualificazione di illiceità di un certo utilizzo di beni della società, alla stregua di una qualunque norma penale, neppure dice necessariamente estraneità all’oggetto sociale e alle finalità aziendali. Quando, come nei consueti esempi, si tratti di erogazioni strumentali a ulteriori obiettivi, bisognerà vedere in concreto: basti pensare alle tangenti pagate non per locupletare amministratori pubblici, ma per ottenere in cambio appalti o forniture rientranti nell’attività economica (ovviamente lecita) statutariamente prevista. E in ogni caso l’illiceità alla stregua di norme poste a tutela di interessi ben (11) Del pari la sentenza Boyer equipara l’uso arbitrario all’appropriazione in senso stretto « nei limiti in cui comporta una dismissione irreversibile del bene » (Cass., 9 luglio 1992, in Cass. pen., 1993, 1985 e 2108). (12) Rinviamo alla nostra voce « Società commerciali (disciplina penale) », in Digesto disc. pen., vol. XIII, Torino, 1997, 400; si veda inoltre NAPOLEONI, Reati societari, II: Infedeltà e abusi di potere, Milano, 1992, 225. Per analoghi rilievi critici si veda il commento del MAZZACUVA alla presente decisione, in Guida al diritto de Il sole-24 Ore, del 21 giugno 1997 (n. 23), 85.
— 1446 — distinti dal patrimonio comporta le responsabilità conseguenti, ma di per sé non significa appropriazione, secondo la nozione ricavabile dal contesto dell’art. 646 c.p. (13). È vero che il profitto cui deve tendere la condotta è ivi qualificato come ingiusto: ma deve sempre trattarsi del profitto del reo o di un terzo, mai dello stesso dominus (14). La destinazione a utilità (lecita o illecita) del dominus nega l’appropriazione, ponendosi come limite interno, strutturale, della fattispecie, non come scriminante estrinseca che possa essere paralizzata da un vizio di illiceità. Il mandato ad acquistare una partita di stupefacenti è nullo: ma nessuno penserebbe di punire per appropriazione della somma affidata l’incaricato che lo esegua. Quando manchino specifiche istruzioni del dominus, e segnatamente nel caso di un possesso istituzionale come quello degli amministratori di società, l’individuazione del reale interesse motore potrà porre in concreto delicati problemi probatori (specie sul piano del dolo). Ma il principio giuridico non potrà essere diverso. CESARE PEDRAZZI
(13) Cfr. MAZZACUVA, op. cit., 87. (14) Analogamente FLICK, Responsabilità penali dell’imprenditore indagato per tangenti nell’ottica dei reati fallimentari e societari, in questa Rivista, 1994, 1450.
c) Giudizi di merito I PRETURA DI TORINO — 9 febbraio 1995 Giud. Giordano — P.M. Guariniello Imp. Barbotto Beraud e altro Omicidio e lesioni personali colpose — Omicidio colposo — Responsabilità del datore di lavoro — Inosservanza di regole cautelari — Reato (C. p., art. 589; D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, norme generali per la prevenzione degli infortuni, artt. 377, 387; D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, norme generali per l’igiene del lavoro, artt. 4, 20, 21; D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, art. 157, 176). Reato in genere — Rapporto di causalità — Criteri generali di accertamento — Modello della sussunzione sotto leggi scientifiche — Leggi universali e statistiche — Sufficienza del ricorso a leggi statistiche — Fattispecie (C.p., art. 40). Reato in genere — Responsabilità per omesso impedimento dell’evento — Fattispecie (C.p., artt. 40, 43). Reato in genere — Colpa — Prevedibilità ed evitabilità dell’evento — Accertamento (C.p., art. 43). Posto che la individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro e sull’igiene del lavoro, deve fondarsi sull’effettivo svolgimento di compiti organizzativi e logistici o sulla competenza a gestire l’impresa, a prescindere dal ruolo sociale svolto all’interno della stessa e dalla relativa denominazione, nel caso di morte di un proprio dipendente, avvenuta per mesotelioma pleurico dopo circa venticinque anni dall’esposizione ad amianto, sussiste la responsabilità per omicidio colposo del datore di lavoro il quale abbia omesso di adottare tutte le misure tecniche, organizzative e procedurali necessarie a eliminare o almeno ridurre lo sviluppo e la diffusione — con conseguente aerodispersione — delle polveri, nonché di curare l’effettivo impiego di idonei mezzi personali di protezione (1). Secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, universali o statistiche, il giudice può affermare che è « probabile » che la condotta dell’agente costituisca, coeteris paribus, una condizione necessaria dell’evento; probabilità che altro non significa se non « probabilità logica o credibilità razionale » ovvero attendibilità, verosimiglianza, dimostrabilità, la quale deve essere di alto grado, nel senso che il giudice dovrà accertare che senza il comportamento dell’agente l’evento non si sarebbe verificato, appunto, con alto grado di probabilità (2). Ai sensi dell’art. 40, cpv., c.p., nei casi in cui il legislatore imponga degli obblighi a tutela di beni giuridici quali la salute e la vita, il comportamento dovuto consiste non soltanto nell’impedire che l’evento si verifichi, ma anche nell’astenersi dal porre condizioni che innalzino notevolmente l’indice di probabilità portandolo fino ad un livello tale da rendere altamente probabile o quasi certa, se-
— 1448 — condo le leggi scientifiche — universali o statistiche — la produzione dell’evento (3). Ai fini della sussistenza della responsabilità colposa, è sufficiente che il giudizio di prevedibilità ed evitabilità — da effettuarsi ex ante alla stregua dell’homo eiusdem condicionis et professionis — abbia riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita a una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione dell’evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione (4). II CORTE DI APPELLO DI TORINO — Sez. III — 15 ottobre 1996 Pres. Aragona — Est. Russo P.M. (concl. diff.) — Ric. Barbotto Beraud Reato in genere — Responsabilità colposa — Prevedibilità dell’evento — Accertamento — Fattispecie: conoscibilità degli effetti cancerogenetici dell’amianto negli anni ’60 — Esclusione. Reato in genere — Responsabilità colposa — Inosservanza delle misure di prevenzione degli infortuni sul lavoro — Prevedibilità dell’evento mortis — Esclusione — Prevedibilità di un grave danno alla salute o alla vita — Sufficienza. L’obbligo di protezione e controllo che grava sul datore di lavoro va correlato in primo luogo alla legislazione vigente all’epoca in cui si estrinsecava la presunta condotta colposa e in secondo luogo al patrimonio di conoscenze tecniche o stato dell’arte a disposizione dell’imprenditore di buon livello. Gli effetti cancerogenetici dell’amianto erano sconosciuti negli anni ’60, durante i quali la vittima fu esposta all’amianto: non era perciò esigibile dall’imputato un comportamento diverso da quello tenuto (5). Nel campo della responsabilità colposa generica e specifica per la morte di un lavoratore, non occorre che il soggetto tenuto ad adottare specifiche misure cautelari si sia rappresentato in modo specifico la prevedibilità dell’evento mortis, apparendo necessario e sufficiente che il soggetto agente abbia potuto prevedere che adottando le misure imposte si sarebbe potuto evitare un grave danno alla salute o un danno alla vita del lavoratore (6). I FATTO E DIRITTO. — 1. L’imputazione. — L’imputato Barbotto Beraud Ognissanti (quale proprietario e titolare delle imprese Siceac e Beraud nonché quale direttore generale della Beraud) e l’imputato Ercole Marte (quale amministratore unico della Siceac) vengono tratti a giudizio per rispondere ex art. 589 c.p. della morte di Terlingo Leonardino. Agli imputati viene ascritta un’omissione colposa generica e specifica di una serie di misure di prevenzione degli infortuni sul lavoro (avvenuta fra il 1961 e il 1970) che non avrebbe impedito la morte di Terlingo per mesotelioma pleurico nel 1992, dopo circa trenta anni dal fatto. Alle dipendenze della Siceac e della Be-
— 1449 — raud il Terlingo Leonardino avrebbe lavorato tra il 1961 e il 1970, in più cantieri (presso il palazzo Rai di via Cernaia in Torino, negli stabilimenti Fiat Mirafiori e Ceat) addetto ad operazioni di coibentazione con uso di prodotto contenente amianto e quindi in condizioni di esposizione sul lavoro ad amianto (in particolare ad amosite). La morte di Terlingo Leonardino (avvenuta in Torino il 6 giugno 1992 per mesotelioma pleurico) sarebbe stata cagionata per colpa generica e per colpa specifica, in particolare per inosservanza delle norme sull’igiene del lavoro (artt. 4, lett. a), b), c) e d), 20 e 21 D.P.R. 19 marzo 1956, nn. 303, 377 e 387 D.P.R. 27 maggio 1955, n. 547, 157-176 D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124), in quanto i datori omettevano di adottare tutti i provvedimenti tecnici, organizzativi, procedurali necessari per contenere l’esposizione all’amianto (impianti localizzati di aspirazione, limitazione dei tempi di esposizione, procedure di lavoro atte ad evitare la manipolazione manuale, lo sviluppo e la diffusione dell’amianto), di curare la fornitura e l’effettivo impiego di idonei mezzi personali di protezione, di sottoporre il lavoratore ad adeguato controllo sanitario, di informare lo stesso circa i rischi specifici derivanti dall’amianto (e, in particolare, circa la sua cancerogenicità) e circa le misure per ovviare a tali rischi. (Omissis). 2. I destinatari delle norme. — Attraverso l’istruzione dibattimentale non è emersa la prova sufficiente, non contraddittoria, certa e convincente che all’epoca dei fatti entrambi gli imputati fossero i reali destinatari delle norme preventive e delle norme penali. (Omissis). Occorre stabilire se (sotto il profilo del soggetto attivo del reato) gli odierni imputati fossero effettivamente (quali responsabili delle imprese Beraud e Siceac tra il 1961 ed il 1970) i datori di lavoro di Terlingo e, quindi, i destinatari delle norme antinfortunistiche. Invero dall’esame di Barbotto Beraud Ognissanti, di Arcangeli, di Allaud e di Bartolomeo, nonché dall’osservazione dei documenti prodotti dal p.m. e dalla difesa si ricava che l’effettivo datore di lavoro fosse solo Barbotto Beraud Ognissanti, a prescindere dal ruolo sociale svolto all’interno delle due imprese e dalle relative denominazioni. (Omissis). 3. La condotta: il tempo. — Il comportamento omissivo colposo ascritto all’imputato riguarda specificamente le misure obbligatorie che sarebbero state disattese quando veniva adoperato l’amianto; sicché l’analisi della prova sul fatto deve essere svolta in relazione non a tutto il periodo lavorativo prestato da Terlingo presso le ditte Siceac e Beraud bensì soltanto al periodo in cui ha prestato attività lavorativa adoperando amianto. Di conseguenza, occorre accertare precipuamente se nel periodo dal 1961 al 1970 presso la Beraud-Siceac Terlingo Leonardino abbia lavorato e per quanto tempo a contatto con l’amianto e in quali condizioni ambientali. Durante il dibattimento è emerso che soltanto dal 1963 la ditta Beraud-Siceac ha iniziato a lavorare presso il palazzo Rai di via Cernaia in Torino adoperando il prodotto Asbestospray. Prima di quella data la ditta Beraud-Siceac non aveva mai
— 1450 — adoperato amianto né Terlingo era stato a contatto con quel prodotto; soltanto nel 1963 per la prima volta la ditta ha importato dalla Francia l’Asbestospray e lo ha utilizzato per la coibentazione di un edificio. Tale prodotto è stato acquisito in esclusiva per l’Europa dalla citata ditta che per espresso mandato del Barbotto Beraud ha inviato il tecnico Allaud in Francia al fine di contattare la ditta francese che commercializzava il « migliore » amianto e acquisire la possibilità anche tecnica e operativa di utilizzare l’amianto a spruzzo in Italia. La seconda volta unitamente ad Allaud si è recato in Francia anche l’imputato Barbotto Beraud. (Omissis). L’arco temporale in cui si inscrive la condotta omissiva addebitata agli imputati quindi va ridotto al periodo che va dal gennaio 1963 al 1970 circa. Soltanto in ordine a tale periodo è emersa la prova che il Terlingo, assieme agli altri operai, ha lavorato in condizioni di esposizione all’amianto applicandolo attraverso la spruzzatura. 4. L’Asbestospray. — Una volta delimitato senza approssimazione il momento iniziale in cui Terlingo ha lavorato con l’amianto, coincidente con l’inizio dell’utilizzo dell’amianto da parte del suo datore di lavoro (che era di fatto la ditta Beraud di Beraud Santino e Beraud Mario, quest’ultimo oggi deceduto), dall’esame dei compagni di lavoro del Terlingo, di Allaud e dell’imputato Barbotto Beraud si ricava pacificamente la prova che dal 1963 veniva utilizzato dalla ditta Beraud-Siceac il prodotto Asbestospray, contenente amianto del tipo amosite. Sul punto si legga attentamente il depliant dimostrativo della ditta Santino e Mario Beraud in cui vengono descritte le varie applicazioni possibili dell’Asbestospray. Su tale documento viene esposta (anche in maniera grafica) la tabella degli spessori del rivestimento Asbestospray onde descrivere le capacità protettive dello stesso contro il fuoco, il rumore, la condensa e gli sbalzi termici. È interessante notare che l’applicazione dell’Asbestospray utilizzato dalla ditta Beraud poneva in relazione lo spessore dell’applicazione con le ore di resistenza al fuoco e con il tipo di struttura su cui l’applicazione veniva operata (trave di acciaio, supporto grigliato per l’involucro di trave in acciaio, soffitto di solai cellulari, soffitto di solai nervati, controsoffittatura con applicazione diretta su supporto grigliato). Lo stesso depliant espone le caratteristiche dell’Asbestospray ai fini dell’isolamento termico, del controllo di condensa, della correzione acustica. In particolare il depliant descrive l’effetto di isolamento termico, di insonorizzazione e di correzione acustica quale conseguenza dell’applicazione di un « rivestimento continuo di fibre di amianto lunghe o un miscuglio di fibre di amianto e di lana minerale, sotto forma di fiocchi molto leggeri, proiettati pneumaticamente da una macchina cardatrice appositamente concepita a questo scopo ». L’Asbestospray « aderisce perfettamente e definitivamente su tutte le superfici... Non contenendo che fibre naturali ad alta resistenza, mescolate, incollate le une alle altre, senza aggiunta di prodotti organici, il rivestimento Asbestospray è leggero, incombustibile, inattaccabile dai roditori e dai parassiti ». E ancora « un altro modo di protezione delle costruzioni metalliche contro il fuoco è la spruzzatura con o senza aggiunta di lana minerale a fibre di amianto insieme con un adesivo resistente al calore ». Tale prodotto viene utilizzato per il rivestimento del palazzo Rai di via Cernaia in Torino, il primo edificio su cui è applicato l’Asbestospray ad opera della
— 1451 — ditta Beraud-Siceac, servendosi anche della manodopera di Terlingo, Arcangeli, De Rossi, Zacchero. (Omissis). Non v’è dubbio quindi che l’Asbestospary venne applicato anche dal Terlingo presso il palazzo Rai a cominciare dal 1963. 5. Il metodo di applicazione dell’amianto. — Pare rilevante esporre come venne applicato il prodotto Asbestospray in particolare per precisare che le modalità descritte nel depliant pubblicitario erano quelle effettivamente eseguite dalla ditta Berau-Siceac anche per mano del Terlingo. Da tutte le deposizioni utili e rilevanti si ricava, invero, che i metodi di applicazione dell’Asbestospray si sono sviluppati attraverso varie fasi durante le quali vi è stata quotidianamente, più volte, in vari momenti e ai danni di più persone l’aerodispersione di fibre di amianto. Il prodotto Asbestospray giungeva alla ditta in sacchi di 20-25 chili che venivano aperti e il contenuto rovesciato manualmente all’interno della tramoggia di una macchina cardatrice appositamente costruita per miscelare l’asbesto con un prodotto che fungeva da collante attraverso « una vite senza fine... che trasportava l’amianto verso una tubazione ». Durante tale operazione avveniva la prima aerodispersione delle fibre che colpiva tutti gli operai che si avvicendevano per svuotare i sacchi all’interno della tramoggia nonché chiunque si trovasse nelle vicinanze. Lo svuotamento dell’Asbestospray avveniva infatti da parte di tutti coloro che non si trovavano ad operare in quel momento con lo spruzzo. (Omissis). Anche durante la spruzzatura avveniva l’aerodispersione delle fibre perché una parte aderiva immediatamente mentre un’altra restava in aria in base alle correnti d’aria e ai luoghi aperti o chiusi. In particolare, si ponga l’attenzione su quanto dichiarato da Arcangeli che, a distanza di tanti anni, ricorda bene « ... alla Rai... ancora non c’erano né vetri attorno, non c’erano finestre, era tutto aperto... era il vento che portava via tutto... la polvere (d’amianto) c’era, però la portava via, anzi sono venuti anche a reclamare in via Cernaia che gli andava giù l’amianto perché col vento se lo portava fino dove sta la caserma ». E aggiungendo che tale dispersione della polvere d’amianto provocava anche le lamentele degli abitanti del condominio. L’aerodispersione era direttamente proporzionale alla leggerezza delle fibre quindi molto probabile proprio per il contenuto dell’Asbestospray che espressamente veniva pubblicizzato per avere un contenuto dotato di « fibre leggere ». 6. Le condizioni di lavoro. — Ai fini di valutare se tale operazione tecnica — palesemente pericolosa — avveniva con il rispetto delle misure di prevenzione antinfortunistiche occorre verificare in quali condizioni Terlingo — unitamente ai colleghi di lavoro che hanno deposto in dibattimento — era costretto ad applicare il prodotto denominato Asbestospray. In primo luogo, è da rilevare che le operazioni descritte di versamento dall’Asbestospray e di spruzzatura della miscela sulla superficie da coibentare avvenivano senza che in quei locali vi fosse un impianto di aspirazione. Ciò appare pienamente provato attraverso l’esame dell’imputato che ha ammesso l’inesistenza di aspiratori « perché non ci sono assolutamente stati imposti da nessuno ». (Omissis).
— 1452 — La coibentazione con l’uso di Asbestospray avveniva con manipolazione manuale senza alcuna precauzione specifica come chiaramente affermato dal teste Battistutta che ha lavorato anche presso il palazzo Rai per tre o quattro settimane, adibito anche a caricare e spruzzare l’Asbestospray: « si apriva il sacco, e si gettava dentro la macchina oppure si prendeva il sacco e a pugnate si versava... con le mani ». Tali operazioni, in siffatte condizioni, avvenivano senza alcuna limitazione dei tempi di esposizione anzi per periodi di tempo al di sopra di una situazione umanamente accettabile. (Omissis). Da tali emergenze processuali, univoche e convergenti, si evince che nelle condizioni di lavoro in cui veniva applicato il prodotto Asbestospray nei vari edifici (e in particolare nel palazzo Rai di Torino) non era stata adottata alcuna misura tecnica organizzativa, procedurale per eliminare o almeno ridurre lo sviluppo e la diffusione con conseguente esposizione alla polvere d’amianto. Lo stesso dicasi in ordine all’adozione di idonei mezzi personali di protezione. Dall’esame dell’imputato, dalle deposizioni dei testi Ricco, Ghetti, Arcangeli, Zagato, Allaud, Battistutta, Bertinotti, De Rossi e dalle dichiarazioni rese dallo stesso Terlingo all’ispettore Ricco si evince che la ditta Beraud-Siceac aveva distribuito ai propri dipendenti che lavoravano in condizioni di esposizione all’amianto un tipo di mascherina (verosimilmente del tipo di quella prodotta dalla difesa) inidonea a prevenire i rischi tipici dell’asbesto e comunque non operando affinché l’uso di tale maschera fosse effettivo, continuo ed efficace. (Omissis). È molto verosimile che la ditta Beraud-Siceac abbia fornito anche di caschi gli operai che lavoravano a contatto con l’amianto ma dell’utilizzo di tali caschi non è emersa una prova convincente. Piuttosto, il Pretore sottolinea che per il teste De Rossi « non c’era nessun casco ventilato, avevamo le pagliette, i cappelli di paglia in testa perché faceva caldo, ...era impossibile lavorare con i caschi ventilati, il casco ventilato si adoperava soltanto per la sabbiatura e basta ». Tale circostanza è avvalorata anche dalla deposizione di Battistutta che ricorda l’uso dei caschi soltanto « quando si andava a sabbiare... davano il casco adatto per fare la sabbiatura... un tipo con l’affare davanti, e poi un altro tipo senza l’affare davanti »... e precisa Zagato « che i caschi li avevamo tutti in dotazione ma erano caschi normali, non erano caschi speciali ». Si sottolinea comunque che anche il fornitore di tali caschi (Parisi) ricorda bene che i caschi costruiti sulla base di un modello della Beraud erano « cappucci antipolvere per sabbiatura ». In ordine all’adozione di tali caschi da parte della Beraud-Siceac è emersa la prova che non siano stati effettivamente utilizzati durante l’applicazione dell’amianto; peraltro, lo stesso imputato Barbotto Beraud ha ammesso che il casco è stato utilizzato « qualche rara volta » « ... però era talmente inutile in quel caso specifico perché... si lavorava all’aperto, poi c’era la maschera, era inutile usare quel casco... perché era fastidioso... L’amianto che veniva spruzzato non veniva assolutamente ingerito... questo casco non era neanche richiesto ». Inoltre, e comunque, pare dimostrata la loro eventuale inidoneità a prevenire, non aumentare o quantomeno ridurre i rischi per la salute dovuti all’esposizione ad amianto in assenza di altre misure preventive non personali. L’istruzione probatoria ha consentito di evidenziare che le condizioni di lavoro in cui operava Terlingo, applicando l’Asbestospray, non solo avvenivano in
— 1453 — un ambiente privo di protezione tecnica e personale ma coinvolgevano degli operai tenuti all’oscuro in ordine ai rischi specifici cui andavano incontro coibentando con le modalità e il materiale contenente amianto (in particolare del tipo amosite). (Omissis). Nessuno dei testi ricorda di essere stato specificamente edotto sui rischi dell’esposizione ad amianto. Piuttosto, da alcune deposizioni è emerso che « si parlava di amianto, ma non in fatto di prevenzione... lo escludo completamente... ci facevano vedere dei pezzi di amianto già fatto di vari spessori, ci dicevano questo cos’è, questo cosa serve, perché ogni spessore aveva una cosa, perché c’era uno spessore per il rumore, un altro spessore antifuoco... » (De Rossi). (Omissis). In definitiva, è certa la prova che prima di avviare i lavori di coibentazione del palazzo Rai di Torino, la ditta Beraud-Siceac — già allora gestita anche dal Barbotto Beraud — non affrontò in alcun modo coi propri dipendenti una qualsiasi forma di istruzione sui rischi specifici ricollegabili all’uso dell’amianto, in particolare dell’amosite contenuta nel prodotto Asbestospray. Pare evidente che anche sotto il profilo della c.d. protezione dei lavoratori attraverso l’informazione l’imputato ha disatteso il precetto ex art. 4, lett. b), D.P.R. n. 303/56 che impone al datore, al dirigente e al preposto l’obbligo di informare, istruire e avvertire i lavoratori in ordine sia ai rischi specifici (che nel caso di specie riguardavano l’asbestosi, il mesotelioma pleurico e il tumore ai polmoni, già allora conosciuti quali patologie associate all’esposizione di amianto) sia alle modalità per impedire, o diminuire la possibilità di insorgenza dei danni alla salute. Infine, il Pretore intende sottolineare che la condotta omissiva assunta dall’imputato ha riguardato anche la mancata sottoposizione dei lavoratori esposti all’amianto — fra cui Terlingo — a periodici controlli sanitari. Sebbene vari testi abbiano riferito dell’esistenza e della periodicità delle visite mediche (compreso Terlingo che dichiarò di essere stato sottoposto a visite « ogni due anni », vedi s.i.t. del 13 settembre 1991) nessuno di loro ha deposto nel senso di affermare che trattavasi di visite specificamente volte ad accertare l’insorgenza di eventuali patologie asbesto-derivate. Anche lo stesso imputato Barbotto Beraud, riferendo, su tali visite, non ha indicato minimamente che lo scopo del controllo sanitario fosse volto anche e specificamente a sondare eventuali indizi delle citate patologie. Anche sotto il profilo degli accertamenti sanitari non pare che l’imputato abbia osservato l’obbligo di sottoporre i propri dipendenti ad adeguate visite in linea con il disposto degli artt. 157 ss. D.P.R. n. 1124/65, per la frazione di condotta omissiva posta in essere dopo l’entrata in vigore del citato decreto del Presidente della Repubblica, che pur è diretto in special modo ad imporre gli accertamenti medici su un’eventuale asbestosi, patologia tipica dell’amianto. 7. L’evento morte. — L’ampiezza delle questioni probatorie riguardo la condotta omissiva non si registrano anche in ordine all’evento-morte del Terlingo avvenuta in Torino il 6 giugno 1992. Infatti, in base ad una serie di atti diagnostici compiuti prima della morte di Terlingo, illustrati dal c.t. del p.m. dr. Bugiani e confutati dal prof. Piolatto (c.t. della difesa) è possibile affermare sul piano medico-legale che la vittima è deceduta per mesotelioma pleurico.
— 1454 — A favore di tale diagnosi depongono tutti i certificati medici, accertamenti diagnostici e valutazioni eseguite mentre il Terlingo era ancora in vita; nessuno di tali atti ha prospettato una patologia diversa. In relazione a tale materiale, già noto nella fase terminale della malattia, non è stata eseguita un’autopsia o comunque un esame istologico al microscopio. Quest’ultimo accertamento — come ha riconosciuto il prof. Piolatto — avrebbe creato soltanto « un accanimento diagnostico », un’ulteriore sottoposizione del Terlingo (certamente affetto da patologia tumorale estesa ed irreversibile) ad un accertamento ai fini soltanto medico-legali. (Omissis). Invero, tutti gli indici e i criteri utilizzati dal c.t. Bugiani (e che attingono direttamente ai documenti che trovansi agli atti) univocamente conducono verso la diagnosi di mesotelioma pleurico. Si pensi innanzitutto alla storia lavorativa di Terlingo occupata per un periodo verosimilmente di diversi anni da un’esposizione ad asbesto, in particolare ad amosite, a dosi elevate e correlativamente si ricordi che il mesotelioma pleurico costituisce una patologia monocausale. Si pensi anche al periodo di latenza di circa 20-25 anni (precisamente rientrante nel periodo di latenza statisticamente più probabile); inoltre si ponga attenzione sull’insorgenza dei sintomi tipici del mesotelioma. Anche i risultati degli accertamenti radiologici appaiono determinanti se letti e combinati unitamente ad altri elementi; in particolare il risultato della Tac permette di escludere la presenza di altre lesioni neoplastiche (polmonari e non). (Omissis). Alla luce di accertamenti sanitari che depongono a favore della diagnosi di mesotelioma pleurico, considerato che gli unici dubbi sono stati avanzati dal prof. Piolatto (unico medico che però non ha mai visto o visitato il Terlingo ma che si è limitato ad un’osservazione della citata documentazione), il Pretore rileva che ai fini di un accertamento sul fatto, in particolare sull’evento, è emersa la prova certa, univoca, convergente, sufficiente sulla malattia che ha condotto Terlingo alla morte: mesotelioma pleurico. (Omissis). 8. Il nesso di causalità. — In forza dell’art. 40, 1o comma, c.p. « nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione ». Per ricondurre un evento ad una azione o omissione è sufficiente porre una conditio sine qua non dell’evento, formula spiegata sul piano logico attraverso il procedimento di eliminazione mentale della causa: un’azione è conditio sine qua non di un evento se non può essere mentalmente eliminata senza che l’evento stesso venga meno. Tale iter logico rischia di apparire tautologico se non si chiarisce che si può mentalmente eliminare l’azione (per verificare se viene meno l’evento) soltanto se si conosce il rapporto di derivazione che può esserci da una certa azione verso un certo evento, attraverso l’applicazione di massime empiriche o leggi scientifiche. L’individuazione della legge scientifica che spieghi causalmente l’evento rappresenta il presupposto per affermare che una condotta costituisce condizione necessaria di un evento; in breve, prima viene in considerazione la legge scientifica (generale ed astratta) e quindi si verifica se il fatto storico sub iudice sia riconducibile nell’alveo dello schema generale degli effetti delineati sul piano scientifico. Se in
— 1455 — base ad una successione regolare conforme ad una legge dotata di validità scientifica un antecedente può considerarsi come condizione necessaria, anche sul piano della causalità giuridica si potrà affermare che l’evento deriva da quella causa concreta. Le leggi di copertura o leggi scientifiche che consentono al giudice di determinare il nesso di causalità sono rappresentate dalle c.d. leggi universali (in base alle quali è possibile affermare allo stato dell’attuale conoscenza umana che tassativamente e invariabilmente ad un certo atto corrisponde la realizzazione di un certo evento) e dalle leggi statistiche, oggettivamente dotate di minore certezza scientifica (in base alle quali si può affermare che in una data percentuale di casi la realizzazione di un atto è seguito dal verificarsi di un evento). Posto che ogni evento materiale della storia dell’uomo ha la possibilità statistica di verificarsi (ancorché con un indice percentuale molto basso), per evitare di cadere nella facile critica in base a cui tutto è statisticamente possibile è necessario rifarsi alle ipotesi dotate di maggiore validità scientifica perché possono trovare applicazione in un numero sufficientemente alto di casi e quindi ricevere conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali e controllabili. Attraverso le leggi statistiche è possibile allontanarsi dalla logica deduttiva — spesso sottesa alla spiegazione del nesso causale — che implica un’impossibile conoscenza di tutti i fatti e di tutte le leggi pertinenti; non appare necessario, quindi, trovare e provare tutti i profili della situazione storica in cui è stata compiuta l’azione o l’omissione. In linea con la giurisprudenza di legittimità, « nella spiegazione causale si dovrà, così, ricorrere ad una serie di assunzioni nomologiche tacite e dare per presenti condizioni iniziali non conosciute o soltanto azzardate »; cosicché in definitiva il nesso di causalità tra azione ed evento può essere affermato dal giudice avvalendosi del modello della sussunzione sotto leggi scientifiche (universali e statistiche) e in base alle quali « è ‘‘probabile’’ che la condotta dell’agente costituisca, coeteris paribus una condizione necessaria dell’evento, probabilità che altro non significa se non ‘‘probabilità logica o credibilità razionale’’, probabilità che deve essere di alto grado, nel senso che il giudice dovrà accertare che senza il comportamento dell’agente, l’evento non si sarebbe verificato, appunto, con alto grado di probabilità » (Cass., Sez. IV, 6 dicembre 1990, Bonetti, Foro it., 1992, II, 36). 9. La causalità omissiva. — Nella fattispecie concreta in esame si ascrive agli imputati la responsabilità per la morte di Terlingo per aver omesso una serie di misure preventive. Quindi occorre portare l’attenzione in particolare sulla struttura della causalità omissiva che si articola in quattro momenti: la sussistenza di un obbligo giuridico di agire, la violazione di tale obbligo (che rende la condotta comunque illecita), la verificazione di un evento, il rapporto causale fra l’omissione e l’evento. Su quest’ultimo momento il legislatore ha imposto l’equivalenza fra l’omissione non impeditiva (in violazione di un obbligo giuridico di attivarsi) e l’azione causale (art. 40, 2o comma, c.p.). Per comprendere la ratio di tale equivalenza non basta affermare che l’omissione, in quanto non facere, essendo fisicamente inconsistente e insussistente, non si manifesta nel mondo esterno sotto forma di energia capace di sviluppare processi causali reali. Piuttosto, occorre specificare che la causalità omissiva muove
— 1456 — dalla necessità di assicurare una speciale tutela a determinati beni attraverso l’imposizione di obblighi giuridici a taluni soggetti, diversi dai titolari dei beni giuridici protetti. La posizione di garanzia ricoperta dal destinatario dell’obbligo giuridico caratterizza non soltanto genericamente la struttura del reato omissivo, ma caratterizza più specificamente la causalità omissiva costituendone il prius logico. Soltanto delineando il comportamento dovuto è possibile tracciare un collegamento eziologico con l’evento verificatosi attraverso un giudizio ipotetico e prognostico su come l’eventuale compimento dell’azione doverosa avrebbe influenzato il corso degli accadimenti, impedendo l’evento a sua volta direttamente cagionato da un accadimento naturale o dall’azione di un terzo. In definitiva, il giudice penale nel campo della causalità omissiva deve porre mentalmente due condizioni entrambe false, rectius ipotetiche: prima deve supporre un fatto che non si è verificato, dopo deve supporre le conseguenze che ci sarebbero state (ma che non ci sono state) se tale fatto si fosse realizzato. Gli spazi per la discrezionalità del giudice a tal punto devono essere ben delimitati o delimitabili. Il giudice, recependo all’interno del processo ipotetico le regole scientifiche, deve ricostruire il legame eziologico e affermare che sussiste nesso di causalità quando secondo le leggi di copertura è certo o probabile che con l’azione dovuta (ma omessa) non si sarebbe verificato l’evento. La panoramica giurisprudenziale evidenzia costantemente — da più di un decennio — la sussistenza del nesso di causalità fra l’omissione e l’evento anche nel caso in cui l’azione avrebbe avuto « solo poche probabilità di successo » (Cass. 7 gennaio 1983, Melis, id., 1986, II, 351). Per un precedente analogo in cui è stata affermata la responsabilità degli imputati pur emergendo la prova della scarsa probabilità di evitare l’evento mortis con l’intervento messo, vedi Cass. 30 ottobre 1979, Castelli (id., Rep., 1981, voce Omicidio colposo, n. 117). La giurisprudenza di legittimità, in verità, già con Cass. 7 gennaio 1983, Melis, cit., ha stabilito che « il rapporto causale sussiste anche quando l’opera... avrebbe avuto non già la certezza quanto soltanto serie ed apprezzabili possibilità di successo... ». In altre pronunce è stato ravvisato il nesso di causalità anche sulla scorta di « un buon 70-80% » di probabilità di esito positivo (Cass. 2 aprile 1987, Ziliotto, id., Rep., 1989, voce cit., n. 110, laddove la citata percentuale di successo è indicata quale « seria e apprezzabile possibilità di successo »; con la medesima ratio decidendi Cass. 23 gennaio 1990, Pasolini, id., Rep., 1991, voce cit., n. 85; 13 giugno 1990, D’Erme, id., voce Reato in genere, n. 25; 18 ottobre 1990, Oria, id., Rep., 1992, voce Omicidio colposo, n. 94). L’indice di probabilità sufficiente è stato ritenuto anche nell’ordine del 50% (Cass. 7 marzo 1989, Prinzivalli, id., Rep., 1990, voce cit., n. 79) o nella misura del 30% (Cass. 12 luglio 1991, Silvestri); infine, con ampie argomentazioni, Cass. 6 dicembre 1990, Bonetti, cit., ha richiesto « un alto grado di probabilità logica o credibilità razionale ». Dalla lettura di tale giurisprudenza si evince che la causalità omissiva, proprio perché causalità ipotetica, fondata su un metodo a struttura probabilistica può essere determinata con un grado di attendibilità minore rispetto a quello normalmente raggiunto nell’ambito della causalità reale. 10. La probabilità. — L’ampiezza della sfera semantica delle locuzioni utilizzate dalla Corte di cassazione (« serie ed apprezzabili possibilità di successo », « probabilità di esito positivo », « alto grado di probabilità », « credibilità razio-
— 1457 — nale ») induce a soffermarsi su cosa si intenda per « probabilità logica », quando questa sia di « alto grado », quali siano le leggi universali e quelle statistiche. In ordine al concetto di probabilità (sempre « logica » perché non esiste una probabilità « illogica ») si evidenzi che tutti gli eventi hanno sempre una probabilità anche minima di verificarsi. Così dicasi anche dell’« alto grado di probabilità » che costituisce una formula talmente discrezionale da non consentire di determinare esattamente il limite minimo della probabilità, rectius del grado di probabilità, al di sotto del quale si deve escludere e al di sopra del quale si deve ritenere il nesso eziologico. Di conseguenza, la definizione del concetto di probabilità merita alcuni approfondimenti che non ricorrano a sinonimie, tautologie o formule semantiche che dilatano un concetto fino a renderlo indefinibile. Un evento è « probabile » che si verifichi in relazione ad una pregressa azione od omissione quando appare attendibile, verosimile, dimostrabile; occorre che l’evento verificatosi sia spiegato plausibilmente e ragionevolmente sulla base di argomenti positivi. La modificazione fisica, chimica, biologica, ecc. costituisce un’eventualità dimostrabile se (una volta osservato) l’evento verificatosi sia anche verificabile con l’applicazione di leggi scientifiche universali o statistiche. Di conseguenza, ciò che connota sostanzialmente la formula adottata dalla Cassazione, e già presente in alcuni autorevoli studi, è il riferimento a leggi universali o statistiche. Assumendo tali leggi quali referenti normativi è possibile accedere ad una nozione di « alta probabilità logica » definita o quanto meno definibile. La legge scientifica costituisce la norma che attribuisce rigore logico alla ricostruzione del rapporto di causalità assai simile al rapporto matematico tra il numero dei casi positivi e il numero di tutti i casi possibili (positivi e non) cioè al calcolo delle probabilità. Più alto è tale rapporto più vicino alla certezza sarà il giudizio ipotetico espresso dal giudice per stabilire la causalità omissiva. In definitiva, si può osservare che una certa omissione è stata conditio sine qua non quando — secondo leggi scientifiche — era molto probabile che se fosse stata tenuta l’azione dovuta non si sarebbe verificato l’evento. Il giudice non può mai dare una spiegazione completa del meccanismo di produzione dell’evento dovendo ricorrere a « soluzioni tacite », può solo affermare che vi è una spiegazione probabile che pone in collegamento logico-induttivo l’azione e l’evento. Tracciando tale relazione logica tra l’evento da spiegare e la premessa (l’azione che si sarebbe dovuta compiere) il giudice si avvale dei criteri e dei parametri offerti dalle leggi scientifiche per analizzare gli elementi raccolti, per « provare », cioè dimostrare e verificare che il comportamento umano inerte si è collocato fra le condizioni agevolanti dell’evento facendole prevalere in modo apprezzabile e quindi penalmente rilevante (perché condizionante) sui fattori ostacolanti. Posto che ogni evento ha sempre una probabilità o possibilità scientifica di verificarsi (ancorché minima) — per la presenza di altri fattori preesistenti o concomitanti, non esimenti per il principio dell’equivalenza causale ex artt. 40 e 41 c.p. — la « probabilità » che integra una conditio sine qua non, in effetti consiste nell’aumento delle probabilità o possibilità che si verifichi l’evento. L’azione o l’omissione integra una conditio sine qua non (quindi sussiste il nesso di causalità) se tale conditio ha scatenato, se ha costituito l’incipit del processo eziologico; parimenti se ha rappresentato una conditio senza la quale la probabilità naturale di
— 1458 — quell’evento (antecedente al comportamento umano) sarebbe rimasta ad un livello tanto basso da rendere « molto poco probabile » o addirittura quasi improbabile il verificarsi dell’evento. In altri termini, l’azione o l’omissione può costituire conditio sine qua non dell’evento anche se ha elevato il grado o indice di probabilità da un livello basso o prossimo allo zero ad un livello tanto alto da far ritenere l’evento con un grado di approssimazione vicino alla certezza. Tale indagine va condotta in base ai parametri e ai criteri offerti dalle leggi di copertura (universali o statistiche) come ad es. i dati desumibili dalla ricerca epidemiologica. L’indagine — insegna Cass., Sez. IV, 11 maggio 1990, Papini (id., n. 77) — può consistere « nell’accertare e porre a confronto i tassi di incidenza di patologie sulla parte di popolazione esposta e su quella non esposta al presunto fattore di rischio ambientale specifico, in modo da poter trarre significativi elementi di giudizio dalla eventuale apprezzabile superiorità del primo tasso rispetto al secondo, in quanto dimostrativa, appunto, dell’efficienza almeno concausale di detto fattore ». Riguardo la causalità omissiva si può affermare, quindi, che ex art. 40, 2o comma, c.p. sussiste il nesso di causalità fra l’omissione e l’evento se l’azione dovuta (ma non tenuta) avrebbe impedito l’evento cioè avrebbe evitato con un alto grado di probabilità il verificarsi dell’evento, e specificamente avrebbe evitato che il grado di probabilità dell’evento aumentasse notevolmente, fino ad un livello tale da rendere molto probabile o quasi certo, secondo le leggi scientifiche, la realizzazione dell’evento. 11. L’aumento dell’indice di probabilità e il principio di legalità. — La lettura del nesso di causalità inteso anche come aumento « condizionante », determinante, notevole della probabilità potrebbe riecheggiare (ma non coincidere con) la c.d. teoria dell’aumento del rischio per la quale per sussistere il nesso causale dovrebbe essere sufficiente accertare che l’inosservanza della regola di condotta ha determinato un rilevante aumento del rischio di verificazione dell’evento. Pare opportuno esprimere alcune osservazioni sui timori di parte della dottrina penalistica in ordine alla citata teoria. Il criterio dell’aumento del rischio, secondo alcuni studi, trasformerebbe surrettiziamente gli illeciti colposi di danno in corrispondenti illeciti di pericolo con la conseguenza di ledere il principio in dubio pro reo. a) In primo luogo si noti che sostanzialmente coincidono le sfere semantiche delle locuzioni (e quindi dei relativi concetti) « alta probabilità » (adottata dalla Corte Suprema) e di « rischio ». Il termine probabilità è equivalente a quello di rischio; affermare che compiendo A vi è la probabilità che succeda l’evento sgradito B equivale ad affermare che compiendo A vi è il rischio (l’eventualità, la possibilità) che succeda l’evento B. Di conseguenza, sostenere che l’azione A è causa dell’evento B se è molto probabile che ad A segua B perché l’azione ha innalzato l’indice naturale di possibilità dell’evento giungendo al livello di « alta probabilità » di verificazione, equivale ad affermare che compiendo A aumenta in misura determinante la possibilità, l’eventualità, il rischio che si verifichi l’evento B (che quindi viene attribuito al soggetto che ha compiuto A). b) Non soltanto sul piano semantico ma anche su quello penale va analizzata l’obiezione di violazione del principio di legalità perché si punirebbero reati di danno anche per aver messo soltanto in pericolo il bene giuridico.
— 1459 — Innanzitutto, in ordine ai reati colposi commissivi tale obiezione non è accoglibile. Il criterio dell’aumento di rischio integra l’accertamento della causalità intervenendo ad adiuvandum nella ricerca fattuale del nesso eziologico condotto dal giudice; non avviene una sostituzione dell’accertamento della causalità ma una mera integrazione e di conseguenza non estende ma restringe l’ambito della punibilità. In ordine ai reati colposi omissivi, privi di una causalità reale (come quello in esame) l’accertamento dell’aumento del rischio (o della probabilità) agevola la verifica della causalità. Per cui non pare che avverrebbe una surrettizia trasformazione dei reati omissivi impropri in reati di mera condotta, puniti contra legem in base alla semplice idoneità a porre in pericolo il bene protetto. Si tratta di stabilire in effetti se la condotta, qualora fosse stata realmente tenuta, sarebbe stata soltanto capace di non mettere in pericolo il bene giuridico oppure sarebbe stata capace di impedire il danno realmente successo. c) Al riguardo si noti che nella struttura del reato omissivo rileva precipuamente l’obbligo giuridico di compiere una determinata azione che si lega con la singola fattispecie astratta di parte speciale; ogni considerazione sull’eventuale violazione del principio di legalità non può prescindere dall’analisi di tale obbligo giuridico, rectius del comportamento che connota l’obbligo giuridico. Di conseguenza, occorre portare l’attenzione sui limiti ontologici del comportamento imposto in correlazione col bene giuridico tutelato. Scorrendo alcune delle ipotesi più importanti di previsioni legislative di comportamenti dovuti balza evidente che — quando il legislatore detta obblighi (im)posti a tutela della salute e della vita — il comportamento è costituito dal non impedimento dell’evento e specificamente dal non aumento o in certi casi dalla riduzione del rischio (o probabilità) dell’evento. Dall’osservazione di tali obblighi si evince chiaramente che l’obbligo di impedire eventi lesivi della persona umana significa anche non aumentare e in certi casi diminuire le probabilità di realizzazione di tali eventi. (Omissis). Si pensi nel campo specifico della prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, a numerose norme del d.lgs. n. 277/91 laddove espressamente vengono imposti degli obblighi di non aumentare il rischio e addirittura di ridurlo. (Omissis). Si pensi soprattutto alle norme la cui violazione viene contestata agli odierni imputati. Le norme previste dal D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, e in particolare l’art. 4, lett. B), impongono ai datori di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, nell’ambito delle proprie mansioni effettivamente svolte, l’obbligo di informare « i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro conoscenza i modi di prevenire i danni derivanti dai rischi predetti »; già dal contesto letterale si evince che l’obbligo di informare i lavoratori non è un obbligo che può tendere direttamente ad impedire un evento nocivo per la salute dei lavoratori ma è specificamente un obbligo volto ad istruire i lavoratori, quindi a renderli edotti sia sui « rischi specifici » che corrono in un determinato ambiente di lavoro sia sui « modi di prevenire i danni » e cioè a metterli nelle condizioni culturali per non aumentare o addirittura ridurre i rischi citati.
— 1460 — La medesima considerazione emerge dalla lettura degli artt. 20 e 21 dello stesso D.P.R. n. 303/56 laddove in caso di lavori in ambiente con aria con prodotti nocivi, in particolare con odori o fumi di qualunque specie, il datore è obbligato ad « adottare provvedimenti atti ad impedirne od a ridurne... lo sviluppo e la diffusione ». La medesima formula ricorre nell’art. 21 in ordine ai lavori ove si sviluppa la formazione di polveri di qualunque specie. La considerazione che il legislatore — anche nelle norme la cui violazione è contestata nel caso che ci occupa — abbia voluto imporre non solo l’obbligo di impedire un evento (come vuole l’art. 40, 2o comma, c.p.) ma specificamente l’obbligo di ridurre il rischio di eventi lesivi o comunque di non aumentarli, si ricava anche dalla lettura degli artt. 377 e 387, D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547. Tali disposizioni impongono al datore di lavoro l’obbligo di predisporre mezzi personali di protezione « appropriati ai rischi » e in particolare maschere respiratorie « idonee » rispetto alle lavorazioni, operazioni effettuate e quindi agli « specifici rischi di inalazioni pericolose di gas, polveri o fumi nocivi ». Dall’interpretazione letterale e sistematica degli artt. 377 e 387, D.P.R. n. 547/55, si ricava in maniera certa l’obbligo per il datore di lavoro di predisporre mezzi personali di protezione volti non soltanto a impedire il rischio tipico derivante dalle citate lavorazioni od operazioni, ma specificamente a ridurre tale rischio. Infatti l’adozione di una maschera non capace di ridurre gli « specifici rischi di inalazioni pericolose... » non sarebbe una misura « idonea » come preteso dall’art. 377, 2o comma, e 387, D.P.R. n. 547/55. (Omissis). Dalla lettura di tali norme e dal ruolo fondamentale che svolgono nella struttura del reato omissivo si possono trarre tre considerazioni. In primo luogo con la collocazione dogmatica del bene giuridico (la cui lesione è posta a fondamento del reato omissivo) nell’ambito dell’obbligo previsto da una norma si evita l’impropria commistione fra nesso di causalità e oggettività giuridica che qualcuno ha voluto intravedere nella giurisprudenza di legittimità formatasi soprattutto nel campo della colpa professionale. Da una lettura di tale giurisprudenza, volta ad evidenziare gli obiter dicta che si riferiscono al bene giuridico emerge che il bene giuridico non è assunto a criterio di misura o di determinazione dell’esistenza o inesistenza del nesso causale. L’indagine sul nesso causale prescinde dal valore giuridico attribuito a un determinato bene: si pensi che, ad esempio, il lancio di un sasso da una finestra ha un proprio sviluppo eziologico a prescindere dalla considerazione che il sasso possa cadere nel vuoto, possa colpire un oggetto o possa ledere o uccidere una persona o un animale. Il bene giuridico rileva non nel momento eziologico bensì in un momento logicamente precedente a quello meramente applicativo della norma, cioè rileva nel momento in cui il legislatore pone una norma che obbliga alcuni soggetti ad un determinato comportamento. Scorrendo le pronunce di legittimità più significative si nota che il riferimento all’oggettività giuridica — nella determinazione del nesso causale ipotetico — nell’ambito di una fattispecie omissiva non è volto a riscontrare la misura della probabilità dell’evento bensì a cogliere la peculiarità dei reati omissivi impropri che muovono dalla violazione di obblighi giuridici posti a tutela della persona umana e in particolare della vita, della salute, dell’ambiente, della dignità umana. Tutte ipo-
— 1461 — tesi in cui normativamente si coglie in primo luogo l’ampiezza degli obblighi giuridici imposti a determinati soggetti che si trovano in una posizione giuridica, economica, sociale che li rende particolarmente legati alla tutela delle persone che operano, vivono o comunque si trovano in un determinato contesto di tempo e di luogo. La seconda considerazione, conseguenziale alla prima, riguarda la prova del nesso di causalità, quale elemento fattuale, che può emergere dal collegamento fra il contenuto specifico delI’obbligo imposto (che nel caso di atti che possono incidere sul bene vita o salute consiste sempre nel non aumentare il rischio di danno) e l’evento realmente verificatosi. In altri termini il criterio di aumento della probabilità dell’evento — quale metodo di ricerca e di prova del nesso causale — aiuta a verificare se l’azione dovuta avrebbe potuto non aumentare l’eventualità della lesione portando la probabilità di verificazione dell’evento da un grado molto basso ad un grado tanto alto da costituire una ipotetica conditio sine qua non. La terza considerazione verte sulla validità del criterio accolto, maggiormente confermata nell’ipotesi in cui non ci siano concause. L’assenza di concause induce alla logica conclusione per cui il comportamento che ha innalzato l’indice di probabilità dell’evento rappresenta non una delle possibili conditiones sine quibus non ma l’unica vera conditio che ha cagionato l’evento. In definitiva non aver posto in essere una condotta che avrebbe potuto non aumentare le probabilità di verificazione dell’evento equivale ad aver compiuto una condizione necessaria ex art. 40, 2o comma, c.p. (Omissis). Quando l’obbligo riguarda specificamente i beni giuridici della salute e della vita il legislatore impone l’obbligo non soltanto di impedire un evento ma anche di non aumentare le probabilità di danno (cioè di non aumentare l’indice di rischio per il bene giuridico). Ciò non significa che viene messo soltanto in pericolo tale bene bensì si imprime un impulso eziologicamente rilevante che spinge in misura determinante il corso dei fatti verso l’evento lesivo. Accelerare o caratterizzare in modo irreversibile lo sviluppo eziologico che muove da un’azione o da un’omissione costituisce non una semplice minaccia per il bene giuridico protetto ma una conditio sine qua non del danno, cioè un momento fattuale che si rileva scientificamente o statisticamente necessario per giungere all’evento. Di conseguenza, non si punisce per aver messo in pericolo il bene, ma per aver cagionato l’evento ex art. 40, 2o comma, c.p. 12. L’evoluzione della scienza sulla nocività dell’esposizione ad amianto. — Occorre determinare se alla luce delle conoscenze scientifiche attuali e nel periodo 1963-1970 (in cui Terlingo Leonardino prestava la propria attività alle dipendenze di Barbotto Beraud lavorando a contatto con l’amianto) era probabile che in assenza dell’adozione delle misure di prevenzione, venendo a contatto o comunque ad operare in un ambiente contaminato da amianto, ne scaturisse un danno per la salute dei lavoratori in particolare il mesotelioma alla pleura. In via generale, occorre determinare se operando in un ambiente di lavoro per l’applicazione di prodotti contenenti amianto, già allora era probabile che seguisse una delle malattie tipiche dell’amianto e in particolare il mesotelioma maligno. (Omissis).
— 1462 — Gli effetti nocivi legati all’esposizione ad amianto in particolare emersero negli ultimi anni del secolo scorso in relazione ai casi di asbestosi. Nel 1906 H. Montague Murray, medico del Charing Cross Hospital di Londra, affermò che già nel 1899 aveva notato in un uomo che aveva lavorato in una fabbrica di asbesto come cardatore una grave insufficienza respiratoria e dall’autopsia presentava nei polmoni profonde alterazioni di tipo sclerotico. La deduzione scientifica di Murray fu nel senso di porre in relazione quelle alterazioni con la polvere di asbesto presente nell’ambiente di lavoro (MURRAY, Report of the department commitee on compensation for industrial disease, Londra, 1907, 58). (Omissis). Nell’arco di tempo che va dal 1928 al 1935 in Inghilterra e negli Stati Uniti si condussero indagini statistiche nell’ambito di attività lavorative ove vi era esposizione al rischio dell’asbesto, tant’è che in Inghilterra si adottò nel 1933 un regolamento riguardante il controllo dei rischi nella lavorazione dell’asbesto (Asbesto industry regulation). (Omissis). Va evidenziato sia sotto il profilo della conoscenza scientifica sia sotto il profilo della conoscibilità concreta da parte dell’imputato Barbotto in ordine alla nocività dell’uso dell’asbesto, che proprio a Torino nel 1939 venne pubblicata l’indagine condotta da Vigliani sulla realtà della zona torinese. Dobbiamo a tale autore la notizia che il primo caso di asbestosi diagnosticato in Italia era stato già oggetto di una tesi di laurea discussa all’università di Torino nel 1910, sul caso di un soggetto deceduto per asbestosi polmonare che aveva lavorato in una piccola manifattura tessile dell’amianto a Nola Canavese (VIGLIANI, Asbestosi polmonare, in Rass. med. ind., 1939; ID., A glance at the early italian studies on the health effects of asbestos, Med. lav., 1991). Lo stesso Vigliani nel 1940 portò l’attenzione su due casi di asbestosi (v. Rass. med. ind., 1940) e successivamente ponendo l’attenzione sui lavoratori dell’industria estrattiva e manifatturiera dell’amianto in Piemonte, visitati nel periodo 1941-1948 rilevò che il 13,2% dei lavoratori delle cave di amianto, il 18,1% dei lavoratori delle manifatture tessili di amianto, il 13,3% dei lavoratori addetti alla produzione di nastri e freni e il 2,5% dei lavoratori del cemento amianto soffrivano di asbestosi (v. Atti del XV Congresso nazionale di medicina del lavoro, Genova, 1949). Negli anni ’50 si raggiunse non soltanto la certezza scientifica e statistica del collegamento fra l’attività lavorativa in presenza di amianto e l’asbestosi (o comunque danni ai polmoni) ma vi fu l’ampia diffusione di pubblicazioni che si preoccuparono di analizzare, studiare ed esporre i casi di asbestosi e di malattie da polvere di amianto (v. MOLFINO e ZANNINI, Malattie da polveri dei lavoratori dei porti, in Folia medica, 1956; VECCHIONE, Indagine igienico-sanitaria in un moderno stabilimento per la lavorazione dei manufatti in fibro cemento e affini, id., 1960). (Omissis). Dalla panoramica degli studi ora tracciata, sia sotto il profilo causale sia sotto il profilo della prevedibilità e dell’evitabilità della patologia che ha colpito il Terlingo, emerge che nel mondo scientifico e in particolare in quello italiano proprio in ordine al problema della prevenzione degli infortuni vi era un’ampia documentazione e diffusione del legame eziologico esistente fra asbesto e asbestosi o altre patologie polmonari. In definitiva, va sottolineato che già dal secolo scorso e in
— 1463 — Italia in particolare dal 1940 costituiva un dato scientifico acquisito e diffuso la nocività e la pericolosità del lavoro prestato in ambiente contaminato da amianto. A conferma di ciò si ricordi che l’assicurazione contro l’asbestosi è divenuta obbligatoria in Italia già nell’aprile 1943 e i casi indennizzati negli anni 19461954 in Italia erano 205 di cui ben 181 in Piemonte e Valle d’Aosta. (Omissis). Evidenziata la sussistenza di una serie di lavori scientifici volti ad analizzare il rapporto eziologico fra ambiente di lavoro con amianto ed asbestosi, occorre entrare nel merito di tali lavori per verificare se la scienza medica avesse già alla fine degli anni ’50 (quindi prima dei fatti per cui è processo) evidenziato il collegamento eziopatogenetico fra amianto ed asbestosi. (Omissis). 13. In particolare, la cancerogenicità dell’amianto e l’esposizione della vittima. — Esaminata la relazione fra l’uso dell’amianto e l’asbestosi, occorre concentrarsi sugli effetti cancerogenetici dell’amianto per stabilire in primo luogo se secondo la scienza è possibile individuare nell’esposizione all’amianto la causa scatenante del mesotelioma alla pleura; successivamente, sotto il profilo soggettivo accerteremo che già negli anni ’60 era prospettabile anche per una persona appartenente alla categoria degli imprenditori il nesso eziologico fra l’amianto e il mesotelioma maligno. Occorre precisare gli effetti cancerogenetici dell’amianto: riguardano il mesotelioma maligno, il tumore del polmone o altri tumori in altre sedi. Tale associazione è evidenziata dai vari studi compiuti fra il 1933 e il 1965 in base ai quali viene affermato pacificamente nella comunità scientifica l’insorgenza di tali tipologie di cancro a seguito dell’uso dell’amianto. Per la prima volta Wagner, Sleggs e Marchand nel 1960 segnalarono sia la comparsa di mesotelioma in sede pleurica sia una associazione mesotelioma-asbesto. (Omissis). Il 1965 costituisce comunque la data in cui la comunità scientifica internazionale suggella definitivamente l’esistenza di effetti cancerogenetici dell’amianto: infatti nel 1965 vengono pubblicati gli atti della conferenza organizzata nel 1964 (proprio l’anno in cui la Beraud-Siceac iniziava ad adottare l’uso dell’Asbestospray) dalla New York Academy of Sciences sugli effetti biologici dell’asbesto (Annals of New York Academy of Sciences 1965). In ordine alla certezza scientifica del potere cancerogeno dell’amianto il Pretore deve rilevare che sul punto oggi la comunità scientifica è totalmente concorde tant’è che le pubblicazioni richiamate dalla consulenza tecnica del p.m. nonché le altre cui è possibile ricorrere ponendosi alla ricerca della bibliografia specialistica affermano che « è ormai indiscutibile che l’amianto ha un potere cancerogeno. Questo potere è sicuramente imputabile all’amianto blu, ma anche l’amianto bianco è fortemente sospettato di essere capace a determinare il medesimo evento. La forma più conosciuta è il mesotelioma... » (v. la pubblicazione della regione Piemonte, assessorato alla sanità: Amianto piano di intervento, di prevenzione del rischio amianto, Torino, 1986). (Omissis). Anche sul piano statistico emerge la prova di un legame non soltanto meramente associativo ma strettamente eziologico fra l’esposizione ad asbesto e il me-
— 1464 — sotelioma. Mac Donald nel 1977, ponendo l’attenzione su tutta la casistica mondiale pubblicata e coprendo un arco di tempo che va fino al 1975 evidenziò che su 4.539 casi di mesotelioma ben 2.721 (pari al 66%) presentavano una storia di esposizione all’asbesto. Inoltre nell’epidemiologia mondiale, ed italiana in particolare, nello studio del mesotelioma l’attività (lavorativa o comunque sociale) durante la quale vi è esposizione ad asbesto, e la collocazione geografica svolgono un ruolo determinante. Dall’osservazione dei cosiddetti casi-controllo emerge che il mesotelioma è « uno dei rari casi nei quali l’analisi della distribuzione geografica del tumore fornisce una migliore evidenza del rischio rispetto allo studio analitico tipo caso-controllo » (P.A. BERTAZZI, G. PIOLATTO, in Mesotelioma maligno, Torino, 1985, 19). Posto che la gran parte di malattie asbesto-derivate erano state registrate in Piemonte, vari studi hanno confermato già dal 1964, soprattutto per una serie di casi registratisi in Piemonte, che vi è una altissima percentuale di esposti ad amianto che viene colpita da mesotelioma (v. relazione Chellini). Posta la prova scientifica del rapporto eziologico fra asbesto e mesotelioma maligno, occorre analizzare le caratteristiche di tale tumore per capire se è sufficiente ed eventualmente quale sia il livello di esposizione ad amianto che può cagionare tale tumore. Il mesotelioma pleurico è un tumore a prognosi infausta, caratterizzato da una breve sopravvivenza e che può manifestarsi mediamente dopo un lungo periodo di latenza (20-30, talvolta anche 50 anni dopo l’esposizione) e che non sempre si accompagna all’asbestosi. Il mesotelioma maligno sorge frequentemente a livello pleurico, ma può manifestarsi anche in altre sedi (cioè laddove è presente tessuto mesoteliare quale il peritoneo, il pericardio, la tunica della vaginale del testicolo). (Omissis). Dal complesso degli studi scientifici — e in particolare dagli studi recepiti unanimemente nel 1965 — si ricava che il mesotelioma maligno costituisce un tumore molto raro, la cui presenza aumenta in misura direttamente proporzionale all’esposizione ad amianto. Emerge così l’associazione fra l’amianto e il mesotelioma maligno. La validità scientifica di tale affermazione è comprovata dagli studi statistici che sono stati condotti su soggetti affetti da mesotelioma maligno e che hanno evidenziato la corrispondenza reciproca fra asbesto e mesotelioma. Infatti, vi è una coincidenza molto alta fra i casi in cui il soggetto è stato esposto ad amianto e i casi in cui si registra il mesotelioma maligno, tant’è che quest’ultimo è oggi considerato un « evento sentinella di esposizioni passate ad amianto »; in altri termini dal 1983 gli studi scientifici consentono di ritenere che nella gran parte dei casi in cui vi è mesotelioma maligno, è possibile risalire ad una pregressa esposizione ad amianto. (Omissis). Ai fini della valutazione dell’eventuale incidenza di altri fattori causali del mesotelioma maligno la comunità scientifica ha evidenziato la possibilità che il mesotelioma pleurico possa aver origine anche da inalazione di fibre minerali naturali diverse dall’amianto quale l’erionite, o da radiazioni ionizzanti. Tali studi — in verità ancora a livello sperimentale — depongono a favore di una concausalità teorica di altre fibre o radiazioni in ordine alla produzione del mesotelioma alla
— 1465 — pleura; ma di tali eventuali concause nella fattispecie concreta che ci occupa non è emersa alcuna prova o indizio. Dall’anamnesi medica del Terlingo, dai trascorsi lavorativi, dalle deposizioni della moglie e delle figlie non è affiorato alcun elemento che induca a sospettare di eventuale esposizione alle citate altre fibre. Ancorché si volesse valutare astrattamente la presenza di concause idonee a scatenare, rectius concorrere a scatenare, il mesotelioma pleurico che ha portato alla morte Terlingo Leonardino, resterebbe comunque aperto il problema della provocazione della malattia da parte dell’imputato che ha posto in essere altra conditio sine qua non dell’evento morte. L’eventuale presenza di concause (non prospettate dalla difesa e che non emergono da nessun atto processuale e sul quale comunque il giudice vuole pronunciarsi per completezza dell’analisi scientifica) non eliderebbe il nesso di causalità in forza dell’art. 41, 1o comma, c.p., che conferma il principio dell’equivalenza causale recepito dal nostro legislatore. A favore dell’affermazione per cui già dagli anni ’40 si conosceva la nocività dell’uso dell’amianto depongono anche gli studi condotti nel medesimo campo in ordine all’eziologia del tumore polmonare. In particolare tali studi hanno evidenziato un sicuro nesso eziologico tra asbestosi (a sua volta cagionata dall’esposizione all’amianto) e tumore polmonare. I risultati di tali studi furono diffusi già nel 1955 con lo studio di DOL (Mortality from lung cancer in asbestos workers, Br. J. Ind. Med., 1955, 12) e in Italia con lo studio di ROMBOLÀ (Asbestosi e carcinoma polmonare in una filatrice di amianto, in Med. lav., 1955, 46). Da quest’ultimo studio emerge la conferma della tesi — già sostenuta dal comitato per il cancro professionale dello Stato di New York — secondo cui l’amianto era una sostanza clinicamente oncogena. L’ulteriore conferma giungerà dallo studioso Vigliani proprio su studi eseguiti in Piemonte e in Lombardia in ordine ai soggetti asbestosici indennizzati nel periodo 1943-1964 (v. la relazione di VIGLIANI alla conferenza della New York Academy of Sciences). Sulla stessa scia di conferma scientifica si colloca lo studio di DOLL (Considerazioni sul nuovo caso di associazione fra asbestosi e neoplasia polmonare, in Med. lav., 1967, 58) per il quale « i dati della letteratura possono con buona verosimiglianza spingere ad ammettere la dipendenza dall’asbesto di una neoplasia pleurica o polmonare primitiva insorta in un asbestosico o comunque in un lavoratore dell’amianto ». In definitiva negli anni ’50 e negli anni ’60, prima che la ditta Beraud-Siceac adottasse e applicasse anche per mano del Terlingo il prodotto Asbestospray, era noto il dato scientifico per cui il mesotelioma maligno deriva dall’esposizione ad amianto. (Omissis). In conclusione, il mesotelioma pleurico si manifesta quale malattia caratteristica dell’esposizione ai due anfiboli (crocidolite ed amosite, quest’ultima componente dell’Asbestospray) il cui potenziale oncogeno sulla pleura dipende dalle dimensioni delle fibre. L’induzione del mesotelioma può essere prodotta anche da brevi esposizioni e non è possibile stabilire se vi è una soglia minima al di sotto della quale la dose inalata non sia nociva. Inoltre la probabilità di contrarre il mesotelioma dipende in modo determinante dal tempo trascorso dall’inizio dell’esposizione, comportante per conseguenza un rischio maggiore di contrarre la neoplasia nell’arco della vita per i soggetti esposti in età giovane (G. SCANSETTI, G. PIOLATTO e PIRA, Il rischio da amianto oggi, 129).
— 1466 — Provata la sussistenza di un rapporto eziologico fra l’esposizione ad amianto e il mesotelioma, ai fini di valutare se in concreto la morte per mesotelioma che ha colpito Terlingo sia da attribuire al periodo e alla quantità di esposizione che ha patito lavorando presso la ditta Beraud-Siceac, in concreto va stabilito se la quantità e il tempo di esposizione all’amianto da parte del Terlingo è stata sufficiente a cagionare in lui il mesotelioma pleurico che lo ha condotto alla morte nel 1992. Sul punto gli studi scientifici, non solo recenti, consentono di affermare che — data l’impossibilità pratica di stabilire la dose inalata — si è fatto ricorso ad una serie di criteri per determinare la relazione fra la dose inalata (cioè l’entità dell’agente) e la risposta (cioè la frequenza di comparsa dell’evento indagato). Tali criteri sono costituiti dal numero di fibre, dalla concentrazione di fibre, dalla durata dell’esposizione da cui emerge che non esiste una dose sufficientemente bassa da non provocare l’insorgenza di mesotelioma. (P.A. BERTAZZI, G. PIOLATTO, 23) tant’è che si sono riscontrati casi di mesotelioma anche per inalazione da parte di familiari di fibre portate nell’ambiente domestico da lavoratori professionalmente esposti attraverso i vestiti, le scarpe, i capelli, ecc.; nel caso di soggetti residenti nei pressi di impianti dove si adopera l’amianto ed ancora nel caso di esposizione paraprofessionali vi è un rischio (cioè la probabilità) di causare una delle varie patologie legate all’amianto anche per basse esposizioni. La Iarc, infatti, non ha indicato alcuna soglia minima al di sotto della quale non vi sia rischio per la salute umana. (Omissis). Tale problema scientifico comunque nel caso concreto che ha riguardato il Terlingo non è particolarmente rilevante. Infatti, il Terlingo di certo è stato esposto non per un breve lasso di tempo, bensì per anni, quotidianamente, in condizioni di lavoro caratterizzate dall’assenza di protezione anche personale, in un ambiente in cui di certo ha respirato in gran quantità polveri di amianto. (Omissis). La suddetta esposizione ad amianto è avvenuta sia per la qualità, quantità e modalità di applicazione del prodotto denominato Asbestospray, sia perché il Terlingo ha operato senza che i suoi datori di lavoro avessero adottato le misure anche personali di protezione. La conseguenza dell’assenza continua di idonee ed efficaci misure di prevenzione, ha portato il Terlingo ad inalare per anni le fibre di amianto. Si ricordi che l’inalazione costituisce il meccanismo fisico attraverso cui le fibre di amianto entrano in contatto con l’organismo umano. Le caratteristiche fisiche dell’amianto aerodisperso, in particolare quelle delle fibre dell’amosite (componente principale dell’Asbestospray) hanno quei parametri fisici metrici che consentono la facile inalazione a prescindere dalla quantità di tempo o dalla quantità di fibre per cui vi è esposizione. In particolare, l’amosite costituisce uno dei tipi di amianto che hanno le maggiori dimensioni di fibre, nel senso di avere la lunghezza all’incirca corrispondente alle altre tipologie di amianto, ma in diametro mediano di 0.20-0.26 µm a fronte di un diametro del crisotilo di 0.05-0.06 µm. (Omissis). A tal punto occorre sciogliere il nodo della prova del nesso causale nel caso concreto verificando se l’omissione generica e specifica di idonee misure di prevenzione dal rischio di esposizione all’amosite, sia stata conditio sine qua non della morte del Terlingo. In particolare occorre chiedersi, se l’azione dovuta, cioè l’adozione di idonee misure di prevenzione avrebbe evitato, ed eventualmente con
— 1467 — quale grado di probabilità, la morte di Terlingo per mesotelioma pleurico; specificamente occorre chiedersi se le misure non adottate dai datori di lavoro del Terlingo avrebbero ridotto, o non aumentato, o addirittura impedito il rischio rappresentato dal probabilissimo danno per la salute. Dalle leggi scientifiche e statistiche già richiamate si ricava il dato certo che più alto è il livello di esposizione all’amianto, maggiori sono le probabilità che si verifichi una delle patologie tipiche provocate dall’amianto. In termini inversi, più bassa è l’esposizione, minore è la probabilità di un danno alla salute. Secondo un elementare sviluppo di tale logica proporzionale si può affermare che se l’indice di esposizione del Terlingo fosse stato azzerato (con le misure dettate dall’ordinaria diligenza e dalle norme specifiche) con un alto grado di probabilità il Terlingo non avrebbe avuto alcun danno alla salute e in particolare non sarebbe insorto il mesotelioma pleurico. L’indice di probabilità è offerto dai dati scientifici e statistici che consentono di affermare — che il rigore logico derivante dall’ampiezza, dal livello internazionale nonché dall’autorevolezza dei singoli studiosi — che una mancata o minore esposizione di Terlingo Leonardino al micidiale Asbestospray avrebbe impedito, non aumentato o comunque ridotto notevolmente la probabilità dell’evento morte effettivamente verificatosi. Gli studi già richiamati, le indagini statistiche rendono atto che esistono (ed esistevano già negli anni ’40-’50) una serie di misure preventive primarie e personali in grado di prevenire gli effetti nocivi delle polveri in genere. Si pensi alle misure volte ad impedire o limitare la dispersione delle fibre nell’atmosfera, ad allontanarle rapidamente dall’ambiente, a proteggere la persona del lavoratore (cfr. la relazione di Chellini). Pertanto, si ricordi che tali misure erano conosciute già negli anni ’20 tant’è che il legislatore ha previsto nel 1927 delle norme ad hoc che costituiscono il precedente storico dell’art. 21 d.P.R. n. 303/56. In definitiva, si può affermare che la morte per mesotelioma pleurico di Terlingo Leonardino, è stata cagionata con alto grado di probabilità (derivante dalle conoscenze scientifiche e statistiche) dalle condizioni di lavoro in cui operava il Terlingo in assenza di misure di prevenzione specificamente previste dalla legge e comunque genericamente dettate dal dovere di diligenza e prudenza preteso dal datore di lavoro. 14. La colpa. — All’imputato viene ascritta l’omissione colposa generica e specifica dell’adozione di alcune misure di prevenzione. L’istruttoria ha evidenziato la sussistenza di entrambi tali profili di colpa posto che è colposa quella condotta violatrice di regole cautelari cioè delle regole che prescrivono comportamenti non realizzando i quali è prevedibile l’evento dannoso e tenendo i quali è prevedibile ed evitabile l’evento dannoso. La condotta è colposa se appare contraria a specifici precetti di agire o non agire, o a norme generiche di condotta derivate da comune esperienza che impongono prudenza, diligenza e perizia. Tali norme — ispirate dalla conoscenza della capacità produttiva di danno o di pericolo di particolari contegni commissivi od omissivi — devono comprendere anche le regole non comuni, non diffuse a livello sociale affinché possa esserci un continuo e automatico aggiornamento dei livelli di sicurezza rispetto alle progres-
— 1468 — sive conquiste della ricerca scientifica. Una condotta che non si adegui al miglior risultato scientifico e/o tecnologico appare oggettivamente pericolosa. I criteri attraverso cui determinare la prevedibilità e l’evitabilità di un evento dannoso si determinano anche con il parametro relativistico dell’agente modello, cioè dell’homo eiusdem conditionis et professionis. Assumendo il parametro dell’uomo coscienzioso ed avveduto, è possibile cogliere se un certo evento è legato alla violazione di un determinato dovere oggettivo di diligenza, prudenza, ecc. Attraverso tale parametro è possibile inoltre fondare il giudizio in ordine alla prevedibilità sulla diversità di ruoli e di specializzazioni sulle diverse posizioni attribuite a particolari soggetti dalla Costituzione. Ogni società impone comportamenti particolari al fine di offrire una più intensa tutela a particolari diritti e, in relazione alla loro rilevanza sociale, li protegge anche dal danno e dal pericolo derivanti da una condotta che aveva la potenzialità causale di tali eventi, pur non essendo diretta a produrli. In particolare da una lettura della nostra Costituzione si ricava il concetto di solidarietà che impone ad una serie di soggetti e genericamente a tutti i consociati di adoperarsi nel rispetto della persona umana, dei suoi diritti inviolabili e specificamente del diritto alla salute (artt. 2, 3, 4, 32 e 41 Cost.). In particolare dalla lettura dell’art. 41 Cost. si ricava che la legislazione antinfortunistica ha un suo preciso referente normativo costituzionale laddove si impone il limite all’iniziativa economica privata del rispetto della sicurezza, della libertà e della dignità umana. Dalla lettura di tali norme costituzionali si evince l’obbligo di un livello di attenzione indicato dalle migliori conoscenze scientifiche e tecnologiche. Il profilo di colpa specifica va accertato attraverso la violazione delle norme cautelari contestate (che già prevedono in sé una presunzione ope legis di prevedibilità ed evitabilità per l’agente modello: cosicché l’indagine sul piano colposo della concreta prevedibilità rileva soltanto quando si sia violata una norma generica di condotta per la quale occorre indagare se vi era in ipotesi un contegno diverso non pericoloso). Ciò non significa che sussiste una responsabilità per tutti gli eventi verificatisi in presenza della violazione di norme scritte cautelari bensì soltanto di quelle che per le norme specifiche mirano a prevenire, salvo che residui un profilo di colpa generica. Nel caso di specie residua una generica colpa perché le norme cautelari scritte non comprendono tutta la prudenza, diligenza e attenzione concretamente necessarie, cioè le norme cautelari specifiche non assorbono tutta la riprovevolezza che può sussistere per la morte di Terlingo. A tal punto occorre chiedersi quale sia il rapporto in astratto e in concreto tra la formazione psicologica (in modo imprudente, negligente, imperito e in violazione di norme cautelari specifiche) e il fatto. Nel determinare su cosa deve cadere la colpa si precisi che la prevedibilità e l’evitabilità, per un soggetto tenuto ad un comportamento altamente rispettoso della dignità e della salute di determinati soggetti, deve avere ad oggetto non il danno in concreto effettivamente verificatosi ma è sufficiente che abbia per oggetto la « potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione ex ante dell’evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione » (Cass., Sez. IV, 6 dicembre 1990, Bonetti, cit.). In tema di accertamento della colpa va accertato se al momento del fatto era prevedibile che si verificasse non l’evento cagionato ma un evento (cioè un qua-
— 1469 — lunque danno) del genere di quello prodottosi e non l’evento così come si è verificato storicamente e specificamente (App. Milano 28 gennaio 1980, Foro it., Rep. 1984, voce Reato in genere, n. 52); non certo, quindi, un qualunque evento ma un evento appartenente al genus delle conseguenze che possono cagionarsi con la condotta umana nell’ambito del bene giuridico che le regole di comportamento generiche specifiche tendono a tutelare. La descrizione dell’evento deve avvenire riconducendo l’evento storicamente realizzatosi in un genus, ridisegnando quegli aspetti del fatto che lo rendono irripetibile. La colpevolezza dell’agente è integrata anche dalla possibilità di rappresentarsi da parte dell’homo eiusdem conditionis et professionis l’evento (del genere di quello verificatosi) quale possibile realizzazione della pericolosità insita nella propria condotta. La prevedibilità consiste nella possibilità generica che un uomo di una determinata cultura e in un certo contesto storico ha di prevedere l’evento come conseguenza della sua condotta, cioè quale probabile esito di una condotta avente una capacità lesiva del bene giuridico tutelato. Nel campo della responsabilità colposa generica e specifica per la morte di un lavoratore non occorre che il soggetto tenuto ad adottare specifiche misure cautelari e comunque una generica attenzione si sia rappresentato in modo specifico la prevedibilità dell’evento mortis o addirittura del decorso causale attraverso cui si può giungere alla morte. Piuttosto è necessario e sufficiente che il soggetto agente abbia potuto prevedere che adottando le misure imposte si sarebbe potuto evitare un grave danno alla salute o un danno alla vita. Nel caso di specie, l’istruttoria ha consentito di stabilire che nel momento in cui l’imputato ometteva di adottare norme cautelari scritte e non scritte, era prevedibile che da tale mancata adozione ne potesse derivare un danno alla salute dei lavoratori. Tale prevedibilità si ricava innanzitutto dal complesso di studi esposti precedentemente e da cui si evince pacificamente che già prima degli anni ’60 erano noti gli effetti altamente nocivi dell’esposizione ad amianto. Ciò non soltanto nel mondo scientifico ma anche nella realtà piemontese laddove il Vigliani, tra gli altri, aveva già registrato (e pubblicato) le statistiche prima illustrate. Alla prevedibilità, secondo l’homo eiusdem conditionis et professionis dell’imputato, di effetti gravi e irreversibili per la salute si univa la piena consapevolezza degli effetti citati anche nel periodo in cui la Beraud-Siceac applicava l’Asbestospray. A favore di tale diffusa consapevolezza hanno espressamente deposto, oltre che il c.t. Chellini, vari testi che già negli anni ’60 adoperavano l’amianto alle dipentdenze della ditta dell’imputato. Il teste Arcangeli, narrando le condizioni di lavoro presso la Beraud-Siceac negli anni ’60, in particolare riguardo la coibentazione con amianto presso l’edificio Rai di Torino, ha precisato che « io sapevo già che l’amianto faceva male... erano già cose che si sapevano, si sentiva dire che l’amianto faceva male... ai polmoni, ci si stava un po’ attenti » (p. 58-59). Anche Ghetti ha ribadito che riceveva « l’indennizzo del latte » (circa un litro al giorno) perché era già noto che l’amianto era nocivo « si sapeva! Si doveva lavorare e bon... le voci che correvano (erano nel senso) che faceva male ». Anche il teste Fasano ha ribadito che « nei corsi si parlava del pericolo dell’asbestosi semmai, a livello di propaganda, a livello di pubblicazioni dell’Enpi l’asbestosi era considerata, l’asbesto era conside-
— 1470 — rato come sostanza che poteva provocare l’asbeslosi ». Ulteriore conferma è giunta dalla deposizione del teste Allaud: « al di là della mascherina l’amianto spruzzato non solo dà fastidio, ma fa male, punge, quindi... assicuro che gli operai, quelli addetti che erano lì si proteggevano tutto... dalle mani al viso, a tutto il possibile per evitare che facesse male ». L’elemento probante, la consapevolezza degli effetti gravemente e irreversibilmente nocivi proviene dallo stesso imputato che, in sede dibattimentale, esaminato sulla pericolosità dell’amianto ha dichiarato: « ero consapevole... certo che ero consapevole della pericolosità dell’amianto ». Inoltre egli stesso ha precisato che in relazione al periodo in cui venivano eseguiti i lavori presso la Rai di Torino gli era nota la malattia professionale legata all’uso dell’amianto (« l’unica conosciuta era l’asbestosi », oltre alla silicosi, come altra malattia professionale). Tali dichiarazioni appaiono pienamente significative ma, per integrare ulteriormente il quadro probatorio del profilo soggettivo, il Pretore evidenzia la plausibilità tecnico-scientifica delle misure precauzionali che se fossero state adottate avrebbero potuto evitare l’insorgenza del mesotelioma pleurico (cfr. relazione del c.t. Chellini). Infatti, già allora l’adozione costante di misure di protezione individuale e collettiva avrebbe notevolmente ridotto e verosimilmente azzerato il rischio di danni alla salute strettamente legati all’esposizione ad asbesto; considerazione desumibile anche dalle argomentazioni del prof. Onofrio che non riescono a dimostrare perché — attesa l’alta nocività del materiale — non si sarebbero potute adottare misure più rigorose ed efficienti. Ma l’imputato Barbotto Beraud Ognissanti sull’uso delle maschere appropriate, ha precisato che « non mi sono prospettato questo problema perché non esisteva secondo me ». In definitiva, il comportamento di Barbotto Beraud Ognissanti appare integrare pienamente gli estremi della colpa specifica contestata nonché della colpa generica, atteso che la sussistenza delle norme di prevenzione comunque lasciava residuare in capo al datore di lavoro l’obbligo di diligenza, prudenza e perizia. 15.
La pena. — (Omissis). II
MOTIVI DELLA DECISIONE. — L’appello dell’imputato è fondato. Il Pretore, nella sua per molti versi pregevole sentenza, ha compiuto un gravissimo errore di fondo: ha giudicato il Beraud sulla base del patrimonio di conoscenze tecniche e normative oggi esistenti e non, come pacificamente avrebbe dovuto, sulla base della legislazione e delle conoscenze vigenti ed esistenti all’epoca in cui Terlingo ebbe a lavorare l’amianto. Anche il periodo di lavoro del Terlingo è stato ampiamente dilatato (dal 1963 al 1970) allorché è rigorosamente provato in causa che i lavori al grattacielo RAI in Torino iniziarono nel 1964 e terminarono a metà del 1965. (...) La precisazione non è risolutiva perché anche un contatto più breve (e 18 mesi non possono considerarsi tali) appare sufficiente a costituire in colpa un datore di lavoro, secondo quello che sul tema specifico è il costante insegnamento del Supremo Collegio: « colui che ha creato una fonte di pericolo è tenuto a quella particolare forma di garanzia, chiamata di controllo, la quale insieme con l’altra, definita di protezione, costituisce il contenuto dell’art. 40, 2o comma, c.p., che detta la disciplina del reato omissivo improprio ». Controllo e protezione, ad av-
— 1471 — viso di questa Corte di merito, che va sempre correlato in primo luogo, come ovvio, alla legislazione vigente all’epoca in cui si estrinsecava la presunta condotta colposa e in secondo luogo al patrimonio di conoscenze tecniche o stato dell’arte a disposizione dell’imprenditore di buon livello. Il Pretore di Torino sembra aver dimenticato del tutto tali principi pervenendo a declaratoria di responsabilità penale errata in via generale, ma nella specie particolarmente ingiusta perché indirizzata non nei confronti di imprenditore privo di scrupoli, inosservante di legge e discipline, ma di un datore di lavoro sicuramente all’avanguardia nella applicazione di misure antinfortunistiche. L’equivoco di fondo è che il Pretore, in supina sintonia con la Pubblica Accusa, dà per dimostrato e pacifico che l’imputato dovesse sapere negli anni in questione (1964-1968) che l’amianto, oltre ad essere responsabile della nota malattia professionale asbestosi, lo fosse anche di malattie tumorali in genere e nella specie del mesotelioma pleurico, causa della morte del Terlingo. Questa Corte non ritiene di soffermarsi più di tanto sulla pregiudiziale della difesa Beraud secondo cui mancherebbe la prova certa dell’evento nel delitto contestato, cioè della riconducibilità a mesotelioma pleurico della causa della morte. Effettivamente la prova certa, sul piano scientifico, poteva derivare solo sottoponendo il Terlingo ad autopsia. Si è molto battuta la difesa su questa pregiudiziale, parlando di giudizio di non esclusione e di mera compatibilita relativa di fronte ad un evento che non poteva essere ricavato per via indiziaria, attraverso il metodo della convergenza del molteplice, ma solo attraverso una perizia da affidarsi di preferenza ad un anatomo-patologo. Ma seguendo questa impostazione la Corte avrebbe dovuto disporre, come pure richiesto, una rinnovazione parziale del dibattimento, mentre, agli atti, per quel che si dirà, v’è già la prova sufficiente della innocenza dell’imputato. Si diceva dunque dell’assurda pretesa dell’accusa, fatta propria del Pretore, che Beraud dovesse sapere, (e quindi comportarsi di conseguenza), degli effetti cancerogenetici dell’amianto già in quegli anni, precorrendo lo stesso legislatore di almeno 20 anni. Si perché lo stesso lessico usato nel capo d’imputazione « ... omettevano di adottare tutti i provvedimenti tecnici, organizzativi, procedurali necessari per contenere l’esposizione dell’amianto », ricalca in toto il linguaggio delle direttive Cee nn. 83/477, 86/188, 88/642 in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici, biologici... direttive attuate con d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277 e poi ancora con d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, una legislazione che ha relegato la lavorazione dell’amianto come attività meramente sistemica, circondandola di una infinità di precauzioni, attività preceduta dalla collocazione ufficiale dell’amianto come sostanza classificata con la menzione R49 « può provocare il cancro per inalazione » (vedi art. 72, d.lgs. n. 626). È quindi con d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277 che al capo III si parla per la prima volta di protezione dai rischi della lavorazione dell’amianto e si impone al datore di lavoro (art. 24) la c.d. valutazione del rischio, l’obbligo di notifica all’autorità di vigilanza (art. 25), l’obbligo di informazione del rischio specifico ai lavoratori (art. 26); l’adozione delle misure tecniche, organizzative, procedurali (art. 27), si fissano i valori limite di esposizione (art. 31) in 0,6 fibre per cm. cubo dal gennaio 1996, e si istituisce il registro dei tumori (art. 36) e nell’art. 37 (finalmente!) vieta l’uso dell’amianto a spruzzo.
— 1472 — Contestazioni che, si badi bene, oltre ad essere sfasate temporalmente, vengono a colpire non un professionista del settore, come quelli che estraevano, commercializzavano, utilizzavano in fabbrica l’amianto con il cemento, ma un utilizzatore occasionale, richiesto da un ente pubblico, come la RAI, con tanto di capitolati, di rivestire la avveneristica struttura in ferro cemento, di un materiale allora comunemente richiesto (senza remore) per le specifiche qualità e di cui certamente si sconoscevano i micidiali effetti nocivi. Sul punto l’accurata istruttoria dibattimentale non lascia dubbi: gli effetti cancerogenetici dell’amianto erano sconosciuti non solo al Beraud (e ciò poteva essergli imputato come colpa) ma agli organi pubblici di controllo dell’epoca, come l’Enpi, l’Ispettorato del Lavoro, per tacere dello stesso legislatore. Il Congresso di New York del 1964, gli studi di Wagner e dell’italiano Vigliani del 1965, non possono essere considerati la data limite da cui il mondo imprenditoriale avrebbe dovuto prendere coscienza del rischio cancerogenetico dell’amianto. Il fenomeno per tutti gli anni ’60 fu sicuramente sottovalutato anche nel mondo scientifico se è vero che gli igienisti americani raccomandavano livelli di esposizione per lavoratori addetti all’asbesto incredibilmente alti, 50 f.f. per c.c. poi scese a 12, limiti ben lontani dallo 0,2 degli ultimi anni. Soprattutto non si era presa sufficiente coscienza che anche una modesta esposizione ad amianto (cioè non prolungata nel tempo) sottoponeva il lavoratore e/o il terzo al rischio di ammalarsi, ferma restando l’ovvia considerazione che il rischio tende ad aumentare con il livello e la durata dell’esposizione. Se proprio una data si vuole trovare è negli anni ’70, con la triste esperienza storica delle morti massicce in grossi stabilimenti industriali, che in Italia, e fra le prime regioni in Piemonte, si ha piena coscienza del fenomeno. Non ha quindi senso imputare al Beraud (che oltre tutto fruiva di una tecnologia per lo spruzzo di produzione francese) di non aver informato i lavoratori del rischio cancro, di non aver contingentato i tempi di esposizione, di non aver dotato i lavoratori di mezzi di protezione (in allora avvenieristici) quali i caschi di ventilazione ecc. La causa potrebbe ritenersi chiusa qua, sul presupposto della non esigibilità di un diverso comportamento da parte del Beraud. Senonché, ad avviso del Pretore, l’imputato si sarebbe comunque reso responsabile della violazione dell’art. 21, D.P.R. n. 303/56. Anche se non dettata per prevenire in particolare il rischio del cancro, ma in generale dettata per la salute dei prestatori d’opera, l’art. 21 imponeva anche al Beraud, che con lo spruzzo dell’asbestospray provocava polveri, di dotare gli strumenti di un sistema di aspirazione, ovvero sembra dire il Pretore, di adottare misure personali di protezione più efficaci di quelle pacificamente messe a disposizione dei lavoratori, cioè maschere in gomma e filtri. E siccome il Pretore aderisce a quell’insegnamento giurisprudenziale secondo cui « nel campo della responsabilità colposa generica e specifica per la morte di un lavoratore non occorre che il soggetto tenuto ad adottare specifiche misure cautelari si sia rappresentato in modo specifico la prevedibilità dell’evento morte, apparendo necessario e sufficiente che il soggetto agente abbia potuto prevedere che adottando le misure imposte si sarebbe potuto evitare un grave danno alla salute o un danno alla vita »... ecco che la non prevedibilità degli effetti cancerogeni verrebbe comunque a costituire in colpa, penalmente rilevante, il Beraud. Questa Corte concorda con l’impostazione metodologica del Pretore e nella sentenza 29 novembre 1995 (richiamata dal P.G. a conforto) ha fatto applicazione di tale principio.
— 1473 — Ma nella specie neppure l’art. 21 risulta violato nella sostanza da parte dell’imputato. Non si deve dimenticare che il lavoro fatto svolgere dal Beraud era di quelli c.d. all’aperto, di cui al 6o comma dell’art. 21, pei quali l’Ispettorato del Lavoro poteva tout court esonerarlo dagli obblighi di munirsi di aspiratori. La difesa ha molto insistito sulla prospettazione che l’esonero sarebbe stato ottenuto e di non aver ritrovato la relativa documentazione, riproponendosi di provare per testi tale esonero. Ma il punto è un altro: lo stesso legislatore ha mostrato di tener ben presente che non sempre per abbattere o ridurre le polveri le misure tecniche sono possibili o concretamente efficaci, tanto da affiancarle con altre misure, quelle personali. Queste ultime,contrariamente all’assunto pretorile, non sembrano per il legislatore un ripiego, tant’è che solo in caso di necessità scatta il relativo obbligo per l’imprenditore (ove necessario recita il 6o comma dell’articolo citato). Ripercorrendo le modalità d’impiego dell’asbestospray si nota come il fenomeno della pulvirulenza (di ben altre dimensioni di quello che accadeva all’interno degli stabilimenti industriali dove l’amianto veniva lavorato a sacco) si concentrava in due fasi, nello svuotamento dei sacchi da 25 Kg di amianto nella tramoggia (gli operai parlano di sbuffi) e maggiormente nello spruzzo del prodotto umidificato sulle pareti di metallo del grattacielo. La difesa ha potuto dimostrare (vedi deposizione ing. Onofri consulente di parte non contraddetto dal consulente della accusa Botta) l’inefficacia di un sistema di aspiratori fissi o mobili. Ha spiegato il consulente che non si può aspirare con una velocità così elevata che garantisca l’aspirazione di tutte le fibre, perché si rischierebbe di non consentire alle fibre di uscire; più radicalmente, ha ancora spiegato il consulente, la capacità di depurazione dei filtri in gomma per polveri finissime appariva superiore alla capacità di captazione di aspiratori. Le argomentazioni del consulente Onofri appaiono condivisibili ove si pensi che il consulente dell’accusa Botta ha finito per concludere che l’unico presidio efficace in quelle circostanze sarebbe stato quello di dotare gli operai di caschi ventilati, presidi in possesso della ditta Beraud, ma utilizzati raramente, per lavori in condotti, serbatoi o per la sabbiatura. Lo stesso dott. Botta a specifica domanda dell’avvocato della difesa (in trascrizioni udienza pag. 102) ha dovuto convenire che quei caschi di cui aveva in precedenza esaltato l’efficacia, venivano comunemente usati solo e sempre in ambienti chiusi. E allora può ragionevolmente concludersi che per le circostanze di tempo (anni ’60) e luogo (lavori all’aperto) il Beraud non si dimostrò insensibile al fenomeno delle polveri e mettendo a disposizione degli operai quanto di meglio la tecnica dell’epoca prevedeva a livello di misura personale di protezione, non abbia violato né nella forma, né tanto meno nella sostanza, l’art. 21 del D.P.R. n. 303/56. S’impone pertanto la riforma della impugnata sentenza con assoluzione piena dell’imputato secondo la formula che segue. (Omissis)
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Attività produttive e imputazione per colpa: prove tecniche di « diritto penale del rischio ».
0. La parola « rischio » è diventata una delle più frequentate del nostro lessico, provvista com’è di un’immediata efficacia evocativa: il rischio nucleare, il ri-
— 1474 — schio ambientale, i soggetti « a rischio » costituiscono espressioni ormai comuni e approfondiscono quel senso di incertezza che accompagna la vita dell’intera umanità. E fronteggiare le incertezze è diventato uno degli scopi della scienza che, con sempre maggiore impegno, procede alla c.d. valutazione dei rischi nella speranza di pronosticarne la nascita e di imprigionarne, o almeno ridurne, gli effetti. Del resto, le catastrofi di questi ultimi vent’anni (a partire dal disastro di Seveso per giungere all’incubo « Chernobyl ») hanno notevolmente contribuito a disegnare l’immagine di una umanità che si sente davvero « appesa ad un filo ». Non è un caso, allora, che si sia proposto di descrivere questo stato di precarietà coniando un nuovo tipo macrosociologico: la « società del rischio », in cui gli uomini sono messi a confronto con la sfida della possibile autodistruzione. « Così come nel XIX secolo il progresso ha dissolto la società agricola fossilizzata ed ha liberato il modello della società industriale, la modernizzazione dissolve oggi i confini della società industriale e, nella continuità del moderno, si staglia un’altra figura sociale (...), cioè la società del rischio » (1). A differenza dei rischi insiti nella fase di sviluppo della società industriale, caratterizzati da una sostanziale riconoscibilità delle vittime e attutiti da forme di socializzazione dei costi (si pensi alla rapida diffusione delle assicurazioni), i « nuovi rischi » della società postindustriale colpiscono gli uomini « nello stesso modo », senza distinzione di classe, professione o ceto, alla stregua delle catastrofi naturali. A ragione, si può dunque evocare una sorta di « democratizzazione del rischio ». Esso si presenta, infatti, in forma « indefinita »: sia con riguardo al numero dei colpiti, sia rispetto all’entità e alla durata dei danni che possono presentarsi. I nuovi grandi rischi tecnologici, individuabili nei pericoli atomici, chimici, ecologici e dell’ingegneria genetica, presentano in definitiva una molteplicità di inquietanti e paralizzanti lati oscuri: per un verso è impossibile circoscrivere la loro dimensione spazio-temporale; per altro verso, risulta assai spesso proibitiva la loro ricostruzione e la loro attribuzione secondo le tradizionali regole di causalità, colpa e responsabilità. Per la scienza si apre allora un duro confronto: dinanzi all’impossibilità di fronteggiare e risolvere gli effetti dannosi delle sue stesse creazioni, è chiamata a riflettere sull’incertezza delle sue fondamenta attraverso un percorso cognitivo che non può più estromettere l’attenzione verso i risultati e le conseguenze della propria attività. Un compito davvero arduo, specie se si pensa che ormai la valutazione del rischio non è traducibile utilizzando i tradizionali modelli scientifici. Questi riescono ad evidenziare problemi reali, ma denotano un grave deficit di efficacia predittiva. Il tema dei rischi alla salute lo dimostra con preoccupante immediatezza: la moderna epidemiologia molecolare ha messo a nudo l’insufficienza dei modelli di spiegazione aristotelica della causalità (2); lo sviluppo delle malattie degenerative, come il cancro e l’infarto, insuscettibili di riduzione nell’ambito del concetto di « causa necessaria », ha orientato gli studi epidemiologici verso il riconoscimento del carattere inequivocabilmente « stocastico » della relazione causa-effetto in medicina (3). Il tradizionale schema deterministico di Henle-Koch, incentrato sulla causa necessaria e sufficiente, risulta ormai soppiantato, nella spiegazione delle patologie degenerative, dal modello contrassegnato dall’operare di una web of causation (rete di causazione), incentrata sul concetto di causazione multipla. (1) Così BECK, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, Frankfurt a. M., 1986, 14; in argomento, cfr. inoltre LAU, Risikodiskurse: Gesellschaftliche Auseinandersetzung um die Definition von Risiken, in Soziale Welt, 1989; in chiave squisitamente sociologica, v. LUHMANN, Sociologia del rischio, Milano, 1996. (2) In proposito, cfr. l’approfondito e stimolante studio di VINEIS, Modelli di rischio. Epidemiologia e causalità, Torino, 1990. (3) V. ancora VINEIS (nt. 2), 13 ss., 37 ss.
— 1475 — La sommaria descrizione della dimensione e della proiezione del rischio nella società moderna, i nuovi sentieri della ricerca epidemiologica costituiscono, dunque, il terreno in cui si cala il più specifico rischio da esposizione ad amianto che il Pretore e la Corte d’appello di Torino hanno affrontato, pervenendo ad opposte conclusioni. Il caso presenta, tra l’altro, uno spiccato interesse sia perché è destinato a non rimanere isolato (4), sia perché concerne una particolare fisionomia del rischio, oscurato da un lungo, quanto subdolo, periodo di latenza. Ed è proprio la latenza del rischio, sviluppatasi nell’arco di un trentennio, che sollecita una attenta riflessione. La carenza di immediatezza nello sviluppo della serie causale mette infatti seriamente alla frusta la compattezza di figure come la causalità e la colpa: si tratta, allora, di verificare se il diritto penale, facendo appello alla forza della sua tradizione e della sua dommatica (frutto di una faticosa opera di sedimentazione), riesca davvero a « dominare » fenomeni dannosi così « complessi », che approfondiscono nei consociati la sensazione della continua incombenza di rischi in gran parte indomabili e insuscettibili di riduzione nei consueti schemi di individuazione e imputazione della responsabilità (5). 0.1. Il Pretore di Torino ha condannato il titolare di una impresa, specializzata nei lavori di coibentazione interna degli edifici, per aver provocato la morte per cancro (mesotelioma pleurico) di un lavoratore, non affetto comunque da asbestosi, addetto all’applicazione « a spruzzo » di un prodotto (l’Asbestospray) contenente amianto-amosite. La vittima aveva lavorato alle dipendenze dell’impresa edile gestita dall’imputato dal 1961 al 1970 e, durante questo periodo, aveva applicato il prodotto con la citata tecnica « a spruzzo », caratterizzata da una elevata aerodispersione di fibre di amianto. I lavori furono eseguiti in assenza di impianti di aspirazione, senza alcuna limitazione nei tempi di esposizione (si lavorava dalle sei alle dieci ore al giorno) e senza il ricorso a mascherine e caschi che eliminassero o comunque riducessero i pericoli connessi alla diffusione delle polveri di amianto. In definitiva, il periodo di esposizione all’amianto si protrasse, secondo le risultanze istruttorie, dal 1963 al 1970; la vittima morì di cancro nel 1992, cioè quasi trent’anni dopo il periodo di esposizione. L’imputato, come si è detto, è stato condannato per omicidio colposo, aggravato dalle violazione di norme antinfortunistiche, segnatamente le contravvenzioni di cui agli artt. 4, 20 e (4) Secondo notizie di stampa, infatti, sono in corso di svolgimento presso la Pretura di Torino altri procedimenti per decessi di lavoratori che furono esposti ad amianto negli anni ’60-’70. In termini, per quanto consta, sussiste un unico precedente: v. Pret. Pordenone 7 luglio 1992, in Foro it., 1992, II, 720. Più di recente, si segnala, per ricchezza argomentativa, Pret. Crema, 28 febbraio 1995, inedita. Per un primo sintetico commento della sentenza in esame, v. DEIDDA, Un po’ di chiarezza sull’uso indiscriminato dell’amianto in Italia fino agli anni ’70, in Diritto penale e processo, 1996, 751 ss.; cfr. altresì TERMINI, in Foro it., 1996, II, 107 ss. Sulle problematiche giuridiche poste dalle lavorazioni a base di amianto, v. l’efficace contributo di DEIDDA, Principali problematiche in materia di smaltimento di amianto, in Questione giustizia, 1995, 846 ss. Per quanto concerne il tema dell’aspetto medico-legale collegato ai rischi alla salute derivanti dall’esposizione alle fibre di amianto, v.: CARNEVALE CHELLINI, La diffusione delle informazioni sulla cancerogenicità dell’amianto nella Comunità scientifica italiana prima del 1965, in La medicina del lavoro, 1995, 295 ss.; MURRAY, Asbesto: una cronologia delle sue origini e dei suoi effetti sulla salute, ivi, 1991, 480 ss.; AA.VV., Il rischio da amianto oggi, Torino, 1985. (5) Sul tema della « complessità » delle fenomenologie criminose legate al moderno sviluppo delle attività produttive e della ricerca tecnologica, specie in punto di ricostruzione della loro eziologia e delle loro modalità esecutive, v. i recenti contributi di: HASSEMER, Produktverantwortung im modernem Strafrecht, Heidelberg, 1994; HILGENDORF, Strafrechtliche Produzentenhaftung in der « Risikogesellschaft », Berlin, 1993; PRITTWITZ, Strafrecht und Risiko. Untersuchungen zur Krise von Strafrecht und Kriminalpolitik in der Gesellschaft, Frankfurt a. M., 1993; KUHLEN, Fragen einer strafrechtlichen Produkthaftung, Heidelberg, 1989. Nella nostra dottrina, il tema ha formato oggetto di stimolanti saggi per opera di: PALIERO, L’autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, 1220 ss.; e FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, ivi, 1994, 23 ss.
— 1476 — 21, D.P.R. n. 303/56, 377 e 387, D.P.R. n. 547/55, 157 e 176, D.P.R. n. 1124/65 (6). La Corte d’appello ha rovesciato il descritto verdetto giungendo ad assolvere l’imputato attraverso scansioni interpretative esclusivamente orientate sul terreno della imputazione « per colpa ». L’errore, qualificato « gravissimo », commesso (6) Ecco, qui di seguito, il testo delle norme citate: — per il D.P.R. n. 303/56: ART. 4: « I datori di lavoro, i dirigenti e i preposti che esercitano, dirigono o sovraintendono alle attività indicate nell’art. 1, devono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze: a) attuare le misure di igiene previste dal presente decreto; b) rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro conoscenza i modi di prevenire i danni derivanti dai rischi predetti; c) fornire ai lavoratori i necessari mezzi di protezione; d) disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di igiene ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione ». ART. 20: « Nei lavori in cui si svolgono gas o vapori irrespirabili o tossici od infiammabili, ed in quelli nei quali si sviluppano normalmente odori o fumi di qualunque specie, il datore di lavoro deve adottare provvedimenti atti ad impedirne o a ridurne, per quanto possibile, lo sviluppo e la diffusione. L’aspirazione dei gas, vapori, odori o fumi deve farsi, per quanto è possibile, immediatamente vicino al luogo in cui si producono ». ART. 21: « Nei lavori che danno luogo normalmente alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare i provvedimenti atti ad impedirne o ridurne, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell’ambiente di lavoro. Le misure da adottare a tal fine devono tener conto della natura delle polveri e della loro concentrazione nell’atmosfera. Ove non sia possibile sostituire il materiale di lavoro polveroso, si devono adottare procedimenti lavorativi in apparecchi chiusi ovvero muniti di sistemi di aspirazione e di raccolta delle polveri, atti ad impedirne la dispersione. L’aspirazione deve essere effettuata, per quanto è possibile, immediatamente vicino al luogo di produzione delle polveri. Quando non siano attuabili le misure tecniche di prevenzione indicate nel comma precedente e la natura del materiale polveroso lo consenta, si deve provvedere all’inumidimento del materiale stesso. Qualunque sia il sistema adottato per la raccolta e la eliminazione delle polveri, il datore di lavoro è tenuto ad impedire che esse possano rientrare nell’ambiente di lavoro. Nei lavori all’aperto e nei lavori di breve durata e quando la natura e la concentrazione delle polveri non esigano l’attuazione dei provvedimenti tecnici indicati ai commi precedenti, e non possano essere causa di danno o di incomodo al vicinato, l’Ispettorato del lavoro può esonerare il datore di lavoro dagli obblighi previsti dai commi precedenti, prescrivendo, in sostituzione, ove sia necessario, mezzi personali di protezione. I mezzi personali possono altresì essere prescritti dall’Ispettorato del lavoro, ad integrazione dei provvedimenti previsti al 3o e 4o comma del presente articolo, in quelle operazioni in cui, per particolari difficoltà di ordine tecnico, i predetti provvedimenti non sono atti a garantire efficacemente la protezione dei lavori contro le polveri »; — per il D.P.R. n. 547/55: ART. 377: « Il datore di lavoro, fermo restando quanto specificamente previsto in altri articoli del presente decreto, deve mettere a disposizione dei lavoratori mezzi personali di protezione appropriati ai rischi inerenti alle lavorazioni ed operazioni effettuate, qualora manchino o siano insufficienti i mezzi tecnici di protezione. I detti mezzi personali di protezione devono possedere i necessari requisiti di resistenza e di idoneità nonché essere mantenuti in buono stato di conservazione. ». ART. 387: « I lavoratori esposti a specifici rischi di inalazioni pericolose di gas o fumi nocivi devono avere a disposizione maschere respiratorie o altri dispositivi idonei, da conservarsi in luogo adatto e facilmente accessibile e noto al personale »; — per il D.P.R. n. 1124/65: Art. 157: « I lavoratori, prima di essere adibiti alle lavorazioni di cui all’art. 140, e comunque non oltre cinque giorni da quello in cui sono stati adibiti alle lavorazioni stesse, debbono essere sottoposti, a cura e spese del datore di lavoro, a visita medica da eseguirsi dal medico di fabbrica, oppure da enti a ciò autorizzati, secondo le modalità di cui agli artt. 158 e ss., allo scopo di accertarne l’idoneità fisica alle lavorazioni suddette. Detti accertamenti debbono essere ripetuti ad intervalli non superiori ad un anno, ugualmente a cura e spese del datore di lavoro. A seguito di tali accertamenti viene rilasciata una particolare attestazione secondo le modalità di cui all’articolo seguente. Per i lavoratori per i quali le disposizioni legislative vigenti prescrivano visite mediche periodiche ad intervalli più brevi di un anno, una di dette visite è sostituita da quella annuale prevista nel comma precedente.
— 1477 — dal Pretore sarebbe consistito — secondo il collegio — nell’aver giudicato l’imputato sulla base delle conoscenze tecniche e normative oggi esistenti e non già sulla base della legislazione e delle conoscenze vigenti o esistenti all’epoca in cui la vittima ebbe a lavorare l’amianto. L’obbligo di controllo e protezione, che grava sul datore di lavoro, deve essere correlato alla legislazione dell’epoca in cui si estrinsecava l’asserita condotta colposa e al patrimonio di conoscenze a disposizione di un imprenditore di buon livello. Poiché negli anni in cui la vittima operò con l’amianto (1964-1968) la cancerogeneticità dell’amianto non era ancora sufficientemente conosciuta, questo deficit di prevedibilità dell’evento non rendeva corretta l’ascrizione colposa dell’evento lesivo. Sennonché, prosegue la Corte, questo rilievo non può reputarsi decisivo. Infatti, nel campo della responsabilità colposa generica e specifica per la morte di un lavoratore non occorre — secondo un insegnamento giurisprudenziale, fatto proprio dal Pretore — che il soggetto obbligato si sia rappresentato in modo specifico la prevedibilità dell’eventum mortis, apparendo necessario e sufficiente che il soggetto agente abbia potuto prevedere che adottando le misure imposte (nella specie quelle indicate nell’art. 21, D.P.R. n. 547/55) si sarebbe potuto evitare un grave danno alla salute o un danno alla vita. Di conseguenza la non prevedibilità degli effetti cancerogeni dell’amianto non vanificherebbe la possibilità di « costituire in colpa » l’imputato. Sulla scorta di questa premessa, la Corte perviene comunque ad un esito assolutorio attraverso argomentazioni « in fatto » tendenti ad evidenziare come l’imputato avesse, nella sostanza, ottemperato agli obblighi imposti dalla norma cautelare, mettendo a disposizione della vittima i caschi ventilati, considerati dai giudici come l’unico presidio efficace, pur nella consapevolezza che quel mezzo cautelare veniva usato solo raramente e per lavori in ambienti chiusi. I delineati, contrapposti esiti decisori sono stati raggiunti attraverso motivazioni approfondite anche se — come vedremo — la sentenza di primo grado denota una maggiore coerenza argomentativa ed una più apprezzabile linearità espositiva. La conformazione del nesso causale all’interno del reato omissivo e la struttura delle regole di diligenza che contribuiscono a tipizzare il fatto colposo rappresentano le questioni più delicate affrontate nelle due sentenze: temi, questi, che attingono il « cuore » della teoria generale del reato, percorrendola trasversalmente. Pare perciò opportuno descrivere brevemente le soluzioni proposte dalle due decisioni sopra ciascuno di essi, per poi saggiarne la correttezza. I 1. La questione del nesso causale ha formato oggetto di esame solo da parte del giudice di primo grado e la motivazione si è snodata attraverso alcuni importanti passaggi, che possono essere riepilogati nel modo che segue: a) anzitutto, viene prospettata l’adesione alla teoria condizionalistica orientata secondo il modello di « sussunzione sotto leggi scientifiche » universali o statistiche, in sintonia con l’orientamento dottrinale attualmente maggioritario (7). Non possono essere assunti o permanere nelle lavorazioni suindicate i lavoratori che risultino affetti da silicosi o da asbestosi associate a tubercolosi polmonare in fase attiva, anche se iniziale. — (Omissis). (7) In proposito, si rinvia alla fondamentale opera di STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1975; inoltre, ID., La nozione penalmente rilevante di causa: la condizione necessaria, in questa Rivista, 1988, 1218 ss. Nella manualistica, cfr., per tutti FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. P.te gen., Bologna, 1995, 194 ss.
— 1478 — b) L’attenzione si proietta poi sulla struttura della causalità omissiva (8). Il Pretore sostiene che la posizione di garanzia ricoperta dal destinatario dell’obbligo giuridico caratterizza non soltanto genericamente la struttura del reato omissivo, ma più specificamente condiziona la causalità omissiva, costituendone il prius logico. Solo delineando il comportamento dovuto è possibile tracciare un collegamento eziologico con l’evento verificatosi, attraverso un giudizio ipotetico su base prognostica su come l’eventuale compimento dell’azione doverosa avrebbe influenzato il corso degli avvenimenti. In definitiva, nel campo della causalità omissiva, occorre riferirsi mentalmente a due condizioni entrambe false, cioè ipotetiche: prima si deve supporre un fatto che non si è realizzato (l’azione dovuta), poi si deve supporre le conseguenze che ci sarebbero state (ma che non si sono verificate) se tale fatto fosse veramente accaduto. Dopo questa accurata premessa, si perviene alla conclusione che « la causalità omissiva, proprio perché causalità ipotetica, fondata su un metodo a struttura probabilistica, può essere determinata con un grado di attendibilità minore rispetto a quello normalmente raggiunto nella causalità reale » (9). c) Per fugare le prevedibili obbiezioni di equivocità e genericità insite nell’uso di espressioni quali « grado di attendibilità », « serie e apprezzabili possibilità di successo », viene affrontata la questione relativa al concetto di « probabilità » da utilizzarsi nell’accertamento della sussistenza di un nesso di causalità penalmente rilevante. In proposito, si evidenzia che un evento è « probabile » che si verifichi in relazione ad una pregressa azione od omissione quando appare attendibile, verosimile, dimostrabile; la sua verificabilità dipende dall’applicazione di leggi scientifiche universali o statistiche. Posto che ogni evento ha sempre una probabilità o possibilità scientifica di verificarsi (ancorché minima) — per la presenza di fattori preesistenti o concomitanti — la « probabilità » che integra una « condicio sine qua non » consiste nell’aumento delle probabilità o delle possibilità che si verifichi l’evento. d) La lettura del nesso di causalità inteso come aumento « condizionante » della probabilità sembra riecheggiare, secondo il Pretore, la c.d. teoria dello aumento del rischio per la quale « per sussistere il nesso di causalità dovrebbe essere sufficiente accertare che l’inosservanza della regola di condotta ha determinato un rilevante aumento del rischio di verificazione dell’evento » (10). Mostrando di essere consapevole delle critiche rivolte alla teoria in questione, specie per quanto riguarda il rischio di surrettizia trasformazione degli illeciti di danno in corrispon(8) Sulla struttura del nesso causale nei reati omissivi impropri, v. GRASSO, Il reato omissivo improprio. La struttura obbiettiva della fattispecie, Milano, 1983, 385 ss.; STELLA, La nozione penalmente rilevante di causa, cit., 1249 ss.; PALIERO, La causalità nell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Riv. it. med. leg., 1992, 821 ss.; FIANDACA, voce Causalità (rapporto di), in Dig disc. pen., II, Torino, 1988, 126 ss. (9) In dottrina, sostengono la tesi: FIANDACA (nt. 8), 127; GRASSO (nt. 8), 385 ss. (10) Sul criterio dell’« aumento del rischio », quale versione della teoria dell’« imputazione oggettiva dell’evento », cfr. DONINI, Lettura sistematica della teoria della imputazione oggettiva dell’evento, in questa Rivista, 1989, 1118 ss.; CASTALDO, L’imputazione oggettiva dell’evento nel delitto colposo d’evento, Napoli, 1989, 93 ss.; PALIERO (nt. 8), 831 ss. Quanto alla teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento, la letteratura in argomento è particolarmente vasta: cfr. il saggio del « padre » della teoria, ROXIN, Gedanken zur Problematik der Zurechnung im Strafrecht, in Festschrift für Honig, 1970, 133 ss.; nella dottrina italiana si segnalano: DOLCINI, L’imputazione dell’evento aggravante. Un contributo di diritto comparato, in questa Rivista, 1979, 755 ss.; DONINI, Lettura sistematica, cit., 588 ss.; ID., Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991, 291 ss.; CASTALDO, L’imputazione oggettiva, cit.; PAGLIARO, Imputazione obiettiva dell’evento, in questa Rivista, 1992, 779 ss.; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 1995, sub art. 41, 374 ss. Fortemente critico sulla possibilità di riconoscere un autonomo ruolo dogmatico alla teoria in questione, MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa. Morte della « imputazione oggettiva dell’evento » e trasfigurazione nella colpevolezza?, in questa Rivista, 1991, 3 ss.
— 1479 — denti illeciti di pericolo (11), il giudice rileva che: 1) nell’ambito dei reati commissivi colposi, il criterio dell’aumento del rischio svolgerebbe una funzione meramente integrativa nell’accertamento della causalità, intervenendo ad adiuvandum nella ricerca fattuale del nesso eziologico; non si sarebbe pertanto in presenza di una sostituzione dell’accertamento della causalità, ma di una mera integrazione tesa a restringere l’ambito della punibilità; 2) in ordine ai reati omissivi colposi, privi di una causalità reale, l’accertamento dell’aumento del rischio avrebbe il compito di agevolare la verifica della causalità. e) Sulla scorta di queste premesse dogmatiche, viene formulata la seguente conclusione: poiché la vittima è stata sottoposta ad un lungo periodo di esposizione all’amianto, senza che fossero rispettate le previsioni cautelari imposte dalla legge; poiché le conoscenze scientifiche ormai consolidate consentono di stabilire che quanto più alto è il livello di esposizione tanto maggiori sono le probabilità di verificazione di patologie tipiche legate all’uso dell’amianto; poiché, infine, è da escludere che la vittima fosse stata esposta a diversi fattori naturali di rischio; ebbene, da tutti questi presupposti deriva la conclusione che una mancata o minore esposizione della vittima al micidiale Asbestospray avrebbe impedito, non aumentato o comunque ridotto notevolmente la probabilità dell’evento morte effettivamente verificatosi. 2. Già a prima vista, è piuttosto agevole cogliere la sostanziale correttezza della decisione per quanto concerne il riconoscimento del nesso di causalità fra la condotta omissiva del datore di lavoro e l’evento lesivo occorso alla vittima. La stessa struttura della causalità omissiva è stata sviscerata con acribia, anche se con un’eccessiva insistenza nella prospettazione dell’assenza di una reale « forza causale » nella condotta omissiva e nel ricorso al concetto di « causalità in senso normativo » per tradurre l’idea che la causalità omissiva ha poco a che fare con la causalità attiva (12). In proposito, vale la pena di ricordare che, ancora di recente, il dibattito dottrinale si è arricchito di notevoli contributi che hanno, sia pure in parte, scalfito l’incontrovertibilità della posizione sostenuta in sentenza (13). Quanto alla spiegazione nomologica dell’evento (ridescritto), la sentenza denota un apprezzabile approfondimento. La correlazione tra l’evento lesivo, vale a dire il mesotelioma pleurico ad esito infausto, e il suo antecedente statico, cioè il « permanere » dell’esposizione all’asbesto in assenza di qualsiasi cautela e per un cospicuo intervallo di tempo, viene dimostrata attraverso il richiamo della più accreditata letteratura scientifica. Questa è ormai concorde nel ritenere il mesote(11) Per un panorama di queste critiche, v. CASTALDO (nt. 10), 166 ss. (12) Cfr., sul punto, GRASSO (nt. 8), 416-417; FIANDACA (nt. 8), 127. In giurisprudenza, v., per tutte, Cass. 7 gennaio 1983, Melis, in Foro it., 1986, II, 351, con nota di RENDA. (13) Ci si riferisce ai ben noti lavori di STELLA, La nozione penalmente, cit., 1251 ss.; e PALIERO (nt. 8), 821 ss. Quanto al contributo di STELLA, l’A. ha inteso rimarcare l’efficacia condizionante « effettiva » dei c.d. processi statici rispetto all’evento e ha sottolineato l’identità di struttura del nesso causale nella condotta attiva e in quella omissiva: in entrambi i casi, il nesso causale dovrà essere accertato per il tramite del modello di « sostituzione mentale » (della condizione statica, cioè, con la condizione dinamica prevista dalla norma, nel caso di condotta omissiva) e facendo ricorso a quelle « leggi di copertura » provviste di un alto grado di credibilità razionale (o di probabilità logica). Per quanto concerne la posizione di PALIERO, l’A. condivide i rilievi di Stella in ordine all’inquadramento della omissione tra i « processi statici » e soprattutto con riferimento alla natura controfattuale che informa il criterio di giudizio verso i modelli di causalità attiva ed omissiva. A differenza di Stella, però, l’A. evidenzia la diversità della base del giudizio: « se (...) la formula che esplica la causalità attiva — in quanto « controfattuale » — è certamente ipotetica, la formula euristica della causalità omissiva è però doppiamente ipotetica », atteso che il ragionamento controfattuale che sostiene la causalità omissiva poggia sopra un solo dato reale, posizionato nell’apodosi, cioè l’evento lesivo verificatosi: nella premessa (protasi), al contrario, risalta l’assenza di dati reali: l’omissione, seppure provvista di effettiva staticità, rinviene la sua rilevanza giuridica solo con l’accostamento all’azione impeditiva che, però, è completamente immaginaria.
— 1480 — lioma maligno un evento sentinella di passate esposizioni ad amianto (14) e una tale valutazione epidemiologica è sorretta da accurate indagini statistiche, in parte agevolate dalla rarità del mesotelioma (15). Ne deriva un esito di intuitiva evidenza: il lungo periodo di esposizione ad asbesto (nella specie, amosite) sofferto dalla vittima, senza il ricorso a misure preventive, e l’assenza di una esposizione a differenti fattori naturali di rischio rendono provata, con un elevato grado di credibilità razionale, la correlazione causale fra il « perdurare » dell’esposizione all’asbesto e il mesotelioma pleurico. Il secondo passaggio del paradigma esplicativo della causalità omissiva attiene alla individuazione della condotta impeditiva voluta dalla legge e all’accertamento delle sue potenzialità di tutela nei confronti del bene giuridico. La tesi sostenuta dal Pretore è che, sulla scorta dei dati ontologici e nomologici costitutivi della base del giudizio di accertamento del nesso causale, è possibile riconoscere che una mancata o minore esposizione della vittima al micidiale Asbestospray avrebbe impedito, non aumentato o comunque ridotto notevolmente la probabilità dell’evento morte effettivamente verificatosi. L’assunto, così formulato, si espone a consistenti perplessità. Non è infatti corretto mettere sullo stesso piano, quanto all’efficacia dell’azione « dovuta », « l’impedimento, il non aumento ovvero la riduzione » delle probabilità di verificazione dell’evento. Si tratta, a ben vedere, di una equiparazione che rende sostanzialmente indistinguibili le chances di salvezza del bene tutelato, che finiscono così per coincidere con la verifica sul grado di innalzamento del rischio derivato dalla mancata predisposizione delle misure preventive. In altre parole, il nesso di causalità, attraverso la prospettata assimilazione, tende vieppiù a « fondersi » con la violazione della regola cautelare. Ecco, allora, che l’equiparazione proposta dal giudice non è da ricondurre a mera corrività linguistica, ma costituisce una iniziale, arbitraria anticipazione, all’interno del terreno causale, dei criteri di « causalità normativa » che regolano l’imputazione « per colpa » dell’evento (16). Va perciò ribadito, con forza, che l’accertamento della causalità omissiva si svolge secondo coordinate che, da un lato afferiscono alla spiegazione dell’evento (ridescritto) in base al modello nomologico; dall’altro lato, si traducono in un giudizio di natura prognostica sulla capacità di salvaguardia del bene protetto insita nell’azione impeditiva richiesta dall’ordinamento. Alla stregua di questi criteri, va subito detto che il rispetto delle misure cautelari vigenti durante l’esposizione del lavoratore non avrebbe potuto interamente eliminare il contatto con le fibre di amianto. Questo per due ragioni, che riguardano la struttura e la funzione delle norme cautelari imposte dall’ordinamento e la particolare natura del lavoro svolto dalla vittima. Quanto alle misure preventive, non vi è dubbio che queste prevedevano obblighi generali non immediatamente funzionali ad evitare o ridurre il rischio di assunzione della citata patologia ad esito infausto (17). Del resto, e il rilievo sarà maggiormente approfondito in sede di esame della colpa, si trattava di prescrizioni volte a contrastare i pericoli derivanti dalla diffusione delle polveri e, più in particolare, l’insorgenza di patologie degenerative, quale l’asbestosi. Tra i rischi selezionati dalle norme non vi erano dunque quelli relativi al pericolo di carcinomi (14) Cfr., per tutti, AA.VV. (nt. 4), 97. (15) Cfr. ancora AA.VV. (nt. 4), 117 ss.; gli studi epidemiologici hanno evidenziato che, sebbene esista una relazione dose-risposta, l’induzione del mesotelioma può essere prodotta anche da brevi esposizioni, purché di sufficiente intensità, senza che si possa tuttavia quantificare il termine « sufficiente ». (16) In argomento, cfr. la dottrina citata alla nota 10. (17) Cfr. ZUCCHETTI, Dagli obblighi generici della vecchia normativa è stata dedotta la responsabilità per colpa (Commento alla sentenza in esame), in Guida al diritto - Il Sole 24 Ore, 1995, n. 24, 94.
— 1481 — polmonari o pleurici. Purtuttavia, appare innegabile che il rispetto di queste disposizioni preventive avrebbe senz’altro apportato una riduzione dell’esposizione alle fibre di amianto. Tutto sta ad accertare, però, se tale riduzione fosse per se causalmente determinante rispetto al tipo di evento (al tipo di morte) realizzatosi (exitus per mesotelioma). L’apprestamento di impianti di aspirazione e la dotazione in capo ai lavoratori di idonei mezzi di protezione (guanti, mascherine e caschi) erano in effetti in grado di abbassare il livello dell’esposizione, pur senza eliminarla del tutto. L’impossibilità della completa eliminazione e, verosimilmente, della significativa riduzione del rischio di cui stiamo parlando, discendeva, per un verso dalla carenza di puntuali conoscenze in ordine agli effetti cancerogenetici derivanti dal contatto con l’amianto, che rendeva perciò non determinabile la soglia di esposizione al di sotto della quale non vi era il rischio di contrarre simili patologie; per altro verso, dalla particolare tecnica di utilizzazione dell’amianto adottata nel cantiere ove lavorò la vittima. Questa consisteva nella tecnica di applicazione « a spruzzo » che notoriamente provoca un’elevatissima aerodispersione di fibre, insuscettibile di integrale aspirazione e contenimento. In proposito assume una immediata efficacia evocativa la circostanza che, nella lenta e travagliata presa d’atto dei rischi connessi alla cancerogenicità dell’amianto, uno dei primi divieti di utilizzazione dell’amianto riguardò proprio i materiali e i preparati destinati ad essere applicati a spruzzo (v. D.P.R. n. 215/88). La predisposizione delle misure di sicurezza, vigenti all’epoca dell’esposizione della vittima, non erano dunque idonee e funzionali alla eliminazione del contatto con le fibre di amianto. Detto in altre parole, non erano preordinate all’integrale contenimento del rischio, ma alla sua semplice riduzione. Si tratta allora di stabilire se una minore esposizione della vittima avrebbe impedito, o reso meno probabile la verificazione della morte dell’operaio per mesotelioma maligno in sede pleurica. La risposta affermativa discende proprio dalle considerazioni epidemiologiche sopra svolte. L’esistenza di un ragguardevole periodo di esposizione incontrollata all’amianto (di oltre sette anni) unita all’intensità del contatto (derivante dalla tecnica di applicazione del prodotto a base di asbesto) incardina una correlazione causale, di tipo probabilistico, con l’insorgenza del mesotelioma pleurico. Il rischio di contrarre il cancro è strettamente correlato al tempo di durata e alla quantità della esposizione, traducibile con l’equazione: più esposizione più probabilità di cancro. Se provassimo a graduare una tale prognosi, in termini di probabilità logica (18), potremmo affermare che l’azione impeditiva, tesa a ridurre l’esposizione, avrebbe avuto l’effetto di impedire l’evento lesivo con apprezzabile probabilità. Il privilegio accordato a questa ipotesi controfattuale è provvisto di un alto grado di credibilità razionale, non solo per l’esistenza di leggi statistiche di copertura, ma soprattutto per le verifiche e i controlli eseguiti sopra l’attendibilità di una simile inferenza. È estremamente significativo, in proposito, che ogni diversa ipotesi esplicativa sarebbe destinata ad essere collocata nel campo della « scarsa probabilità ». Così, dal punto di vista astratto, è possibile prefigurare processi causali diversi da quelli strettamente riferibili all’agente: si pensi al contatto con fattori naturali e alternativi di rischio, ovvero alla assunzione di una bassa dose di amianto, non evitabile con l’adozione delle ordinarie misure cautelari. La prima evenienza deve essere tuttavia accantonata, perché difetta di sostrato ontologico: gli accertamenti istruttori avevano consentito di escludere che la vittima fosse venuta in contatto con sostanze cancerogene alternative, quali l’erionite o le radiazioni ionizzanti. La seconda ipotesi esplicativa è invece provvista di maggiore (18)
In argomento, v. STELLA, Leggi scientifiche, cit., 222 ss.
— 1482 — plausibilità. Il mesotelioma maligno possiede carattere di particolare insidiosità sia per il prolungato periodo di latenza, sia perché può essere indotto anche da brevi esposizioni, purché intense. Purtuttavia, non è stata individuata una soglia di sufficienza al di sotto della quale l’inalazione delle fibre risulti innocua. Gli studi epidemiologici più recenti ed informati tendono a ridimensionare le iniziali conclusioni allarmistiche sulla pericolosità dell’asbesto a bassi livelli o contenute concentrazioni di esposizione. Sta di fatto che l’apprestamento di misure cautelari nell’attività di applicazione dell’amianto avrebbe marcatamente ridotto proprio l’intensità dell’esposizione, riducendo in modo significativo i connessi rischi. Il raffronto fra le due ipotesi controfattuali esplicative, l’una predittiva del probabile impedimento dell’evento attraverso il ricorso alle regole preventive volute dalla legge, l’altra tesa invece a pronosticare come probabile la verificazione dell’evento lesivo pur in presenza delle citate misure, può dunque essere « spiegato » nei seguenti termini: i dati ontologici e la cornice nomologica del giudizio causale consentono di dislocare la prima ipotesi controfattuale — che riconosce chances di successo all’azione impeditiva — nel campo della probabilità prevalente; l’ipotesi controfattuale alternativa denota, al contrario, una minore capacità predittiva, sì da dover essere qualificata come ipotesi scarsamente probabile e perciò incapace di vanificare la superiore efficacia dimostrativa della prima ipotesi controfattuale. 2.1. Come si è detto, la pronuncia ha in parte sottovalutato l’elevato spessore inferenziale della conclusione ora prospettata, puntando ad un’inaspettata valorizzazione della tesi dell’aumento del rischio (19). Già ad un primo superficiale esame, non è difficile scorgere l’evidente fragilità dommatica insita in questa parte della sentenza. Quello che non convince è il ritagliare alla categoria dell’aumento del rischio una mera funzione di agevolazione nella verifica della causalità omissiva. La teoria dell’aumento del rischio (Risikoerhöhung) rappresenta una « delle versioni più conseguenti e, diciamo pure, più sincere » (20) della teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento (21). Il suo punto di partenza è il grado di pericolo provocato dalla violazione della regola di diligenza: « il suo aumento — rispetto al rischio-standard consentito — produce di riflesso l’imputazione dell’evento » (22). Il dato che assume un rilievo « centrale » ai fini del nostro discorso è che la tesi secondo la quale il ricorso al criterio dell’aumento del rischio determina una surrettizia trasformazione degli illeciti di danno in altrettanti illeciti di pericolo appare ormai dotata di una forza dogmatica incontrovertibile proprio nel settore dei reati omissivi (23). Al soggetto obbligato a tenere una certa condotta cautelare, si imputerà non tanto di aver aumentato il rischio di lesione, quanto di non averlo diminuito sulla scorta della funzione di protezione incardinata dalla posizione di garanzia. Il problema della causalità si risolve allora, per intero, nell’accertamento della violazione della regola cautelare e questo processo di « compenetrazione » diventa ancor più visibile ove si pensi che, nel contesto delle fattispecie colpose, il criterio dell’aumento del rischio è di regola accompagnato (integrato) dal criterio dello scopo della norma violata, destinato a verificare se la norma trasgredita serviva ad evitare proprio l’evento accaduto (24). (19) Sul criterio dell’« aumento del rischio », v. la dottrina citata supra alla nota 10. (20) ARMIN KAUFMANN, « Objektive Zurechnung » beim Vorsatzdelikt?, in Festschrift Jescheck, I, Berlin, 1985, 251. (21) V. la dottrina citata supra alla nota 10. (22) ROXIN, Pflichtwidrigkeit und Erfolg bei fahrlässigen Delikten, in ZStW, 1962, 411 ss. (23) Cfr., per tutti, CASTALDO (nt. 10), 167 ss. (24) Cfr. PALIERO (nt. 8), 832-833.
— 1483 — Anche in questo caso, dunque, si assiste ad un’anticipazione della criteriologia colposa sul terreno della causalità: con ogni probabilità, si tratta di un’anticipazione sorretta da una singolare « astuzia interpretativa », della quale il Pretore si serve per gettare le basi della successiva ricostruzione dell’imputazione « per colpa », scandita, come vedremo, da passaggi argomentativi visibilmente condizionati proprio dall’« aumento del rischio » derivato al lavoratore dalla trasgressione delle regole cautelari. 3. Le osservazioni sinora sviluppate consentono ormai una definitiva valutazione della sentenza che si annota, relativamente alla tematica della causalità omissiva. a) Il Pretore ha esattamente riconosciuto l’esistenza del nesso causale fra l’esposizione della vittima all’amianto, in assenza di qualsiasi misura protettiva, e l’insorgenza, dopo un lungo periodo di latenza, del mesotelioma pleurico ad esito infausto. La base ontologica (il lungo periodo di esposizione al prodotto contenente amianto, l’assenza di protezioni e di esposizioni alternative « a rischio ») e quella nomologica (la presenza di una legge statistica esprimente una correlazione causale tra l’intensità e la durata dell’esposizione con il verificarsi del mesotelioma) del giudizio causale legittimavano, con un alto grado di credibilità razionale, il riconoscimento del nesso. b) La pronuncia non sembra essersi appagata delle risultanze pacificamente raggiunte in merito alle elevate probabilità di successo della condotta non tenuta nell’evitare l’evento lesivo; al contrario, sottovalutando l’importanza e il valore euristico di tali elementi, punta a dare ingresso al criterio dell’ « aumento del rischio », al quale riconosce una funzione « ausiliaria » in sede di accertamento della causalità omissiva. Peraltro, l’inaspettato e scorretto ingresso del criterio dell’aumento del rischio sul terreno causale dissimula il reale intento del Pretore di prefigurare, seppure in un contesto improprio, la conformazione dell’imputazione colposa dell’evento. II 1. Il tema della colpa costituisce, come vedremo,l’aspetto maggiormente delicato della decisione, il cui contenuto è carico di significati che trascendono la singolarità del caso e si proiettano immediatamente sull’intera struttura del fatto colposo. Entrambi gli organi giudicanti muovono dalla premessa che la prevedibilità e l’evitabilità formino il sostrato del giudizio di riconoscimento della colpa (25). Peraltro, proprio sopra la delimitazione del criterio di prevedibilità e della cornice di rischio sottesa alla regola cautelare si consuma la prima (peraltro non decisiva) divaricazione tra le due sentenze. Secondo il Pretore, una lettura in chiave solidaristica della Costituzione (v. artt. 2, 3, 4, 32 e 41) imporrebbe di riconoscere che, nelle ipotesi di esercizio del(25) Particolarmente ricca è la letteratura sulla colpa: si vedano, tra gli altri, M. GALLO, voce Colpa penale, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, 634 ss.; MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965; MANTOVANI, voce Colpa, in Dig. disc. pen., II, Torino, 1988, 299 ss.; CANESTRARI, L’illecito penale preterintenzionale, Padova, 1989, 94 ss.; CASTALDO (nt. 10); FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990; GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Padova, 1993; MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988, 125 ss. Nella manualistica, cfr., per tutti, FIANDACA-MUSCO (nt. 7), 484 ss. e l’ampia bibliografia ivi citata. Molto vasta risulta la letteratura di lingua tedesca: ci limitiamo a ricordare: ROXIN (nt. 22), 411 ss.; JAKOBS, Studien zum fahrlässigen Erfolgsdelikt, 1972; BURGSTALLER, Das Fahrlässigkeit im Strafrecht, Wien, 1974; STRATENWERT, L’individualizzazione della misura di diligenza nel delitto colposo, in questa Rivista, 1986, 636 ss.
— 1484 — l’attività di impresa, le norme cautelari debbano riferirsi anche a regole non comuni, non diffuse al livello sociale, tese a garantire un continuo ed automatico aggiornamento dei livelli di sicurezza rispetto alle progressive conquiste della ricerca scientifica. Nel caso di specie — ad avviso del Pretore — non vi è dubbio sulla violazione delle norme cautelari contestate ed integranti la colpa specifica; residuerebbe peraltro anche una colpa generica, atteso che le norme cautelari scritte non comprendevano tutta la prudenza, diligenza e attenzione concretamente necessarie. Nel determinare su che cosa debba cadere la colpa, viene precisato che « la prevedibilità e l’evitabilità, per un soggetto tenuto ad un comportamento altamente rispettoso della dignità e della salute di determinati soggetti, deve avere ad oggetto non il danno in concreto effettivamente verificatosi, ma è sufficiente che abbia per oggetto la potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione ex ante dell’evento dannoso, quale si è concretamente verificato storicamente e specificamente » (26). Nel campo della responsabilità colposa generica e specifica per la morte di un lavoratore — prosegue il Pretore — « non occorre che il soggetto tenuto ad adottare specifiche misure cautelari e comunque una generica attenzione si sia rappresentato in modo specifico la prevedibilità dell’evento mortis o addirittura il decorso causale attraverso cui si può giungere alla morte ». Piuttosto è necessario e sufficiente che il soggetto agente abbia potuto prevedere che adottando le misure imposte si sarebbe potuto evitare un grave danno alla salute o un danno alla vita. L’istruttoria aveva consentito di stabilire che, nel momento in cui l’imputato ometteva di adottare le misura cautelari, era prevedibile che da tale mancata adozione ne potesse derivare un danno alla salute dei lavoratori. Tale prevedibilità si ricava dal fatto che già negli anni ’60 erano noti gli effetti altamente nocivi dell’esposizione ad amianto. Va così riconosciuta la condotta colposa dell’imputato nella causazione dell’evento lesivo occorso al lavoratore. 1.1. La Corte d’appello, dal canto suo, dopo aver analizzato con meticolosità la struttura della prevedibilità nell’illecito colposo, contesta al giudice di primo grado di aver condannato l’imputato sulla base del patrimonio di conoscenze tecniche e normative attualmente esistenti e non sulla base di quelle esistenti all’epoca in cui la vittima lavorò a contatto con l’amianto. L’obbligo di controllo e protezione, secondo la Corte, deve essere costantemente correlato alla legislazione e al patrimonio di conoscenze a disposizione dell’imprenditore modello. Atteso che negli anni ’60 gli effetti cancerogenetici dell’amianto non erano ancora sufficientemente noti, l’evento occorso al lavoratore non poteva essere ascritto a colpa del soggetto agente per difetto di prevedibilità. I giudici d’appello, tuttavia, non hanno immediatamente « riversato » questa premessa verso il conseguente epilogo, come era lecito attendersi: attraverso un’inopinata « virata interpretativa » hanno invece — sorprendentemente — mostrato di condividere quell’orientamento giurisprudenziale, recepito dal Pretore, secondo il quale, nel settore della tutela antinfortunistica, la prevedibilità non deve abbracciare l’eventum mortis, essendo viceversa sufficiente che l’agente avesse potuto prevedere che adottando le prescrizioni imposte si sarebbe potuto evitare un grave danno alla salute del lavoratore. In questa ottica, la generale (rectius, generica) nocività dell’amianto, idonea ad accrescere i rischi alla salute e ben nota negli anni ’60, doveva ritenersi sufficiente a « costituire in colpa » il datore di lavoro, stante l’irrilevanza della non prevedibilità dei suoi effetti cancerogeni. L’esito assolutorio al quale la Corte è infine pervenuta, è stato essenzialmente fondato sul convincimento che l’imputato aveva messo a disposizione dei lavora(26)
Nello stesso senso, v. Cass. 6 dicembre 1990, Bonetti, in Foro it., 1992, II, 36.
— 1485 — tori i caschi protettivi ritenuti idonei a contrastare il contatto con le polveri, senza tuttavia analizzare se l’imprenditore si fosse altresì curato, come era suo specifico obbligo, di esigerne l’uso da parte dei lavoratori. Entrambe le decisioni, dunque, al di là del diverso epilogo, denotano comuni lacune, che investono immediatamente la ricostruzione della tipicità del fatto colposo. Ciò che maggiormente risalta è l’assenza di una puntuale riflessione su due aspetti in particolare: a) l’individuazione della sfera di rischio coperta dalla regola di diligenza violata; e b) l’esatta ridescrizione dell’evento. 2. Il quesito a cui occorre dare risposta è, allora, il seguente:« l’evento occorso alla vittima (morte da mesotelioma pleurico) integra il rischio tipico insito nel modello di previsione della regola cautelare violata dal datore di lavoro? » E ancora: « l’osservanza della regola cautelare avrebbe consentito di evitare l’evento? » Questi interrogativi ci proiettano immediatamente al centro della dogmatica del delitto colposo di evento e l’indicata necessità di individuare la classe di rischi sottostante alla norma cautelare evoca un lessico caro alla teoria dell’« imputazione obbiettiva dell’evento » (27). I più accreditati studi sul tema della colpa convergono nel rilevare il duplice teleologismo che ispira la regola di diligenza: per un verso, essa mira ad evitare o contenere lesioni ad un bene giuridico; per altro verso, disegna le condotte strumentali rispetto al conseguimento di una tale finalità (28). L’imputazione dell’evento è perciò condizionata dalla riconducibilità dello stesso alle norme di diligenza, cioè a quella sfera di pericoli che quelle norme tendono a contrastare. Assume, di conseguenza, un rilievo decisivo l’indagine sull’origine dell’obbligo di diligenza, che può consentire di individuare il fine della regola cautelare sulla scorta delle classi di rischio che si presentano ex ante prevedibili. Questa valutazione si fonda sopra un giudizio di natura ontologica e nomologica. In buona sostanza, la regola cautelare costituisce il risultato di un procedimento di inferenza: « data una certa conoscenza fattuale, si inferisce, per mezzo di cognizioni nomologiche, una certa probabilità di verificazione del risultato » (29). Una volta accaduto l’evento, occorrerà porlo a confronto proprio con la misura nomologica che fonda il dovere di diligenza, per accertare che risulti « coperto » da una tale misura. L’accertamento della Risikozusammenhang dovrà tener conto di quelle generalizzazioni causali disponibili al momento del fatto e non anche delle conoscenze nomologiche acquisite in epoca successiva: ci si deve dunque calare in una prospettiva ricostruttiva ex ante, perché involge valutazioni sopra generalizzazioni causali a disposizione del soggetto prima dell’accadimento del fatto (30). La realizzazione del rischio ha dunque a che fare con il « modello di previsione » della regola cautelare (31) e la sua efficacia euristica è però strettamente collegata alla possibilità di delineare una « descrizione del rischio » in termini di sufficiente concretezza (32), specie quando le norme cautelari evocano una sfera preventiva particolarmente ampia e generica, come tale idonea a ricomprendere una vasta gamma di eventi. (27) Cfr. la dottrina citata alla nota 10. (28) Cfr. le lucide osservazioni di FORTI (nt. 25), 468 ss. (29) FORTI (nt. 30), 499. (30) Nell’accertamento del nesso di causalità, si dovrà al contrario tener conto di tutte le generalizzazioni causali disponibili al momento del giudizio. (31) Diversa cosa sono invece i giudizi di evitabilità dell’evento che afferiscono al « modello di prevenzione »: in questo caso, si è in presenza di un evento lesivo espressivo del rischio insito nella norma cautelare e la valutazione di evitabilità dell’evento consiste nel misurare l’effettività preventiva della condotta imposta. Si verifica, cioè, se l’osservanza della norma prudenziale sarebbe valsa a scongiurare l’evento (problema del c.d. comportamento alternativo lecito); sull’argomento, v. FORTI (nt. 25), 659 ss. (32) Sul punto, v. GIUNTA (nt. 25), 386 ss.
— 1486 — Su questo versante, un recente e approfondito contributo dottrinario ha sottolineato la necessità di fare riferimento all’essenzialità di alcuni passaggi causali o eventi intermedi che condizionano la riconducibilità dell’evento alla funzione preventiva della regola cautelare (33). Si tratta, cioè, di « selezionare gli anelli causali (o le modalità dell’evento) di cui è necessario accertare la presenza nell’ambito dell’accadimento concretamente prodottosi, determinando altresì a quali condizioni la loro successione all’interno del decorso causale configuri effettivamente l’evento « finale » come realizzazione del rischio in considerazione del quale la condotta era stata vietata » (34). La regola di diligenza enuclea, infatti, programmi di comportamento diretti a contrastare una ben circoscritta e tipica sfera di rischio e non già la causazione di eventi tout court. Il rinvio alla portata selettiva degli anelli causali consente altresì di mettere in luce un tratto peculiare della struttura del tipo colposo, classificabile in termini di doppia tipicità dell’evento. In buona sostanza, le norme prudenziali sono immediatamente dirette alla prevenzione di un sotto-evento o evento intermedio, (specifico) che a sua volta evoca una possibile correlazione causale con l’evento finale (giocoforza generico: « morte »; « lesioni ») contenuto nella norma penale (35). Da ciò discende il seguente, importante corollario: la punibilità del fatto colposo non può essere radicata sull’esclusiva tipicità dell’evento « finale »; occorrerà pregiudizialmente accertare se l’evento verificatosi risulti altresì tipico rispetto alle classi di rischio coperte dalla regola cautelare. 3. La breve riflessione sulla struttura del delitto colposo di evento consente di percepire subito come un più attento esame di quali rischi si fossero concretizzati nell’evento avrebbe condotto il Pretore e la Corte d’appello a delineare una diversa soluzione. La prima, grave lacuna che caratterizza, già « a monte », l’iter argomentativo delle sentenze e ne condiziona in modo decisivo l’esito, concerne infatti il problema della ridescrizione dell’evento occorso alla vittima (36). Come si vede, all’interrogativo su quale sia l’evento a cui deve essere riferito il giudizio di prevedibilità, le decisioni in commento rispondono che deve trattarsi « non dell’evento cagionato, così come storicamente e specificamente verificatosi, ma di un evento (cioè un qualunque danno) del genere di quello prodottosi ». Ora, se con il rinvio all’evento « così come si è storicamente verificato », si fosse voluto escludere che, in sede di descrizione dell’evento, si possa far riferimento a tutte le modalità concrete che lo hanno contrassegnato, una tale conclusione risulterebbe difficilmente criticabile. L’inclusione nella descrizione dell’evento di tutte le modalità di svolgimento dello stesso enfatizzerebbe d’altra parte oltre misura quel carattere di irripetibilità connaturato ad ogni esperienza di vita individuale, così da vanificare ogni possibile spiegazione dell’evento sia sul versante causale che su quello della prevedibilità. Il problema della descrizione si risolve allora nella ricerca di un discrimen (33) Il riferimento va al lavoro di FORTI (nt. 25), 439 ss. (34) FORTI (nt. 25), 439. (35) Cfr. ancora FORTI (nt. 25), 503. Il settore della disciplina normativa delle misure di prevenzione degli infortuni sul lavoro fornisce, in proposito, illuminanti esempi. Si pensi alla norma che prescrive l’obbligo di dotare le scale di dispositivi antisdrucciolevoli alle estremità inferiori dei montanti. Il rischio che si intende prevenire è chiaramente quello delle cadute dalla scala. Esistono poi generalizzazioni causali che consentono di evidenziare una correlazione tra le cadute e le lesioni all’integrità fisica dei lavoratori. Ecco, allora, che la caduta costituisce l’evento intermedio, o il sotto-evento, di regola idoneo a provocare lesioni che integrano l’evento « finale » e « primario » della fattispecie incriminatrice. (36) In generale, sul tema della « descrizione dell’evento » cfr.: STELLA, La « descrizione » dell’evento, I, L’offesa. Il nesso causale, Milano, 1970; ID., Leggi scientifiche, cit., 231 ss.; FORTI, La descrizione dell’« evento prevedibile » nei delitti colposi: un problema insolubile?, in questa Rivista, 1983, 1559 ss.; ID. (nt. 25), 503 ss.
— 1487 — delle « modalità rilevanti » da inserire nella « ridescrizione » dell’evento. In proposito, deve essere senz’altro accantonata ogni ricostruzione che ritenesse sufficiente a fondare la responsabilità per colpa la prevedibilità del solo evento finale. Così, se si proietta il giudizio di prevedibilità sopra l’evento disegnato dalla fattispecie incriminatrice — seguendo in tal modo la traiettoria argomentativa privilegiata dai giudici — non vi può essere dubbio che la continua, intensa esposizione all’asbesto fosse in grado di determinare la morte del lavoratore: all’epoca dell’esposizione erano infatti noti i rischi per la salute connessi alle lavorazioni a base di amianto, produttive di asbestosi seguite da frequenti decessi per insufficienza cardiorespiratoria. La maggioranza della dottrina ha però dimostrato, in maniera convincente, che ai fini dell’imputazione dell’evento « per colpa » è necessario accertare non semplicemente la corrispondenza dell’evento, « senza ulteriori dettagli, al tipo descritto dalla legge (morte, incendio, disastro, ecc.) », ma anche che esso non « sia estraneo alla gamma di sviluppi causali, la cui ‘‘prevedibile’’ verificazione era tale da rendere la condotta dell’agente negligente, imprudente, ecc... » (37). Ovviamente, la « ri-descrizione » dell’evento dovrà comprendere soltanto gli aspetti ripetibili del decorso causale, atteso che il giudizio di prevedibilità dell’evento deve comunque snodarsi attraverso « generalizzazioni » che permettano di formulare una valutazione di tipo probabilistico in ordine al fatto che l’evento appaia, ex ante, una conseguenza probabile di una certa condotta. Ecco, allora, che l’evento occorso al lavoratore esposto ad amianto deve essere ricostruito nel modo seguente: a) in avvio di ricerca, il giudice deve tendere a riscontrare che l’evento verificatosi (i.e. la morte) — hic et nunc — risulti coincidente con l’evento finaleastratto della norma incriminatrice: nel caso di specie, tale giudizio sortisce senz’altro esito positivo, non potendosi minimamente dubitare della riconducibilità dell’accaduto all’evento astratto indicato dalla norma dell’art. 589 c.p.; b) la « ri-descrizione » dell’evento deve ricomprendere, come si è chiarito, gli accadimenti e aspetti ripetibili del fatto, attraverso una selezione degli « anelli causali intermedi » correlati con l’evento finale; la fisionomia dell’evento ri-descritto risulterà, quindi, così strutturata: morte del lavoratore hic et nunc, provocata da mesotelioma pleurico (generalizzabile come patologia tumorale dell’apparato respiratorio) derivante da esposizione a polveri di asbesto. Completata, in tal modo, l’individuazione dell’evento ri-descritto, bisogna successivamente esaminare se esista una relazione di « congruità » tra lo stesso e la sfera di protezione evocata dalle norme cautelari contestate all’imputato. 3.1. Come si ricorderà, la vittima era stata impiegata nella spruzzatura di materiale di coibentazione contenente amianto (in particolare amosite) dal 1963 al 1970. In questo periodo non erano disponibili norme che tutelassero i lavoratori dagli specifici rischi derivanti dall’amianto (il primo provvedimento legislativo è stato adottato nel 1991). L’addebito di « colpa specifica » è stato pertanto fondato sulle norme a tutela dagli infortuni sul lavoro e a tutela dell’igiene sul lavoro vigenti durante il periodo di esposizione del lavoratore all’amianto. La fattispecie-perno della cornice accusatoria risulta quella dell’art. 21, D.P.R. n. 303/56 (38): la norma si struttura in forma « elastica », nel senso che non indica misure di sicurezza tassative in rapporto a certi rischi. Essa evoca un « contenuto variabile », funzionalmente conformato dall’obbiettivo di apprestare (37) Così MARINUCCI, Criminal Negligence in Italian Criminal Law, in Rapports nationaux ilaliens au IX Congrès Inter. de Droit Comparè, 1974, 634. (38) Cfr. il testo della norma riportato alla nota 6.
— 1488 — provvedimenti atti ad impedire o ridurre, per quanto possibile, lo sviluppo e la diffusione delle polveri negli ambienti di lavoro. Purtuttavia, la norma contiene un primo elemento che scolpisce la fisionomia del rischio: quello che correla, cioè, i possibili danni alla salute con la diffusione delle polveri. In altre parole, qualsiasi sotto-evento (o evento intermedio) potrà dirsi coperto dalla finalità preventiva della norma prudenziale solo se il meccanismo di produzione causale risulterà contrassegnato dall’azione di sostanze polverose in ambito lavorativo. La misura della prevedibilità dell’evento — come meglio chiarito in precedenza — d’altra parte non potrà che dipendere dalle dimensioni dell’armamentario nomologico disponibile al momento del fatto, e non anche di quelle conoscenze ulteriori acquisite in epoca successiva. Questo aspetto è di fondamentale importanza proprio in questo caso, segnato da una profonda dissociazione temporale tra il momento della esposizione all’asbesto, derivata dall’omessa applicazione delle cautele dovute, e il momento di verificazione dell’eventum mortis (seguito a distanza di quasi trent’anni). Durante il lungo periodo di latenza del rischio, la base nomologica del giudizio ha infatti subito una significativa evoluzione, produttiva di rilevanti trasformazioni sulla classe di rischi integranti la finalità preventiva delle norme prudenziali (39). L’esistenza dell’indicata dissociazione temporale consente di cogliere il problema fondamentale che la vicenda processuale pone all’interprete e così formulabile: una volta ri-descritto l’evento occorso alla vittima come morte da mesotelioma pleurico non collegato ad una concomitante asbestosi, la cornice nomologica disponibile per l’agente-modello negli gli anni ’60, durante i quali si verificò l’esposizione incontrollata alle fibre di amosite, permetteva di classificare il mesotelioma alla stregua di un meccanismo di produzione dell’evento-finale morte? Una corretta e plausibile risposta a questo punto è subordinata soltanto allo svolgimento di alcune concise considerazioni sullo sviluppo delle conoscenze scientifiche in tema di cancerogenicità dell’amianto. 3.2. Nessuno dubita più, oggi, degli effetti oncogeni dell’amianto (40). Peraltro, il percorso verso il conseguimento di questa certezza è stato particolarmente controverso e contrastato. Non è certo questa la sede per ripercorrere, nella sua intierezza, il dibattito che ha agitato la comunità scientifica per tanti anni in ordine a questo problema (41). La motivazione della sentenza appare, sul punto, paricolarmente completa e ricca di riferimenti storici e bibliografici, di sicura attendibilità. Non ci resta dunque che richiamare alcuni punti particolarmente significativi. Un primo dato certo è il seguente: già negli anni ’40 erano disponibili stabili (39) Un esempio può meglio chiarire la portata dell’assunto. Qualora si decidesse di commisurare la sfera preventiva della norma cautelare sulle cognizioni attualmente disponibili, non avremmo alcuna difficoltà nel riconoscere la qualità di « anelli causali intermedi » a patologie come l’asbestosi, i carcinomi polmonari legati all’asbestosi, il carcinoma polmonare e il mesotelioma pleurico, quali forme tumorali correlabili al contatto con le fibre di amianto, in assenza di una preesistente patologia asbestosica. Ad un analogo esito non si potrebbe pervenire se il corredo nomologico disponobile venisse retrodatato sino all’anno di emanazione delle norme cautelari (il 1956). È del tutto incontroverso che, in quell’anno, soltanto all’asbestosi era possibile riconoscere la funzione di sotto-evento capace di provocare effetti lesivi sopra l’integrità fisica dei lavoratori. Del tutto sconosciuti erano, per contro, i possibili effetti carcinogenetici derivanti dall’uso dell’amianto. Su questa evoluzione delle conoscenze in punto di conseguenze derivanti dall’esposizione all’amianto, cfr. AA.VV. (nt. 4), 96 ss. (40) Cfr. MURRAY (nt. 4), 481 ss.; DEIDDA, Principali problematiche, cit., 847 ss. (41) Cfr. MURRAY (nt. 4), 480 ss.; CARNEVALE CHELLINI (nt. 4), 295 ss.; DEIDDA, Principali problematiche, cit., 846 ss.; AA.VV. (nt. 4).
— 1489 — conoscenze sulla correlazione causale esistente tra l’esposizione all’amianto e la fibrosi interstiziale diffusa del polmone, denominata asbestosi (42). Ben più controversa si presenta, invece, l’evoluzione delle conoscenze circa l’accertamento di una relazione causale fra l’esposizione all’amianto e le patologie tumorali (43). Pare comunque possibile affermare che negli anni ’60 la comunità scientifica maturò la consapevolezza in ordine alle potenzialità oncogene dell’amianto, pur in assenza di dati statistici che esprimessero tassi di rischio sufficientemente univoci. Solo nei decenni successivi, specie negli anni ’80, la prospettata associazione acquisì una maggiore stabilità, grazie alla disponibilità di una più consistente casistica e di più attendibili tassi di stima del rischio (44). Con specifico riguardo al mesotelioma pleurico, l’attuale orientamento è di ammettere il rischio di contrarre questa malattia ad esito infausto per gli asbestosici, senza tuttavia ritenere l’asbestosi causa necessaria del mesotelioma (45). La sostanziale inesistenza di alternativi fattori di rischio, fa sì che il mesotelioma venga considerato un « evento sentinella » di pregresse esposizioni ad amianto. Permane invece ancora oggi assai dibattuta la questione relativa all’intensità del rischio alle basse esposizioni e alla conseguente possibilità di configurare una relazione dose-risposta per il mesotelioma (46). 3.3. La prevedibilità dell’evento finale e degli anelli causali intermedi che lo sorreggono dipende dalla possibilità dell’homo eiusdem condicionis et professionis di cogliere, nel momento in cui si pone in essere la condotta iniziale, che detto evento e quelli intermedi risultino collegati alla violazione di un dovere di diligenza. Di conseguenza, il problema della « riconoscibilità » del pericolo diventerà essenzialmente una questione relativa alla misura della diligenza dovuta. Sopra questo aspetto, vi è ormai una concordanza di opinioni: « la misura della prevedibilità del fatto (...) è quella oggettiva dell’uomo coscienzioso e avveduto nella situazione data e nel concreto ruolo sociale dell’agente » (47). Il parametro dell’homo eiusdem condicionis è l’unico che consente di tradurre questa esigenza, attraverso una standardizzazione della misura di diligenza dovuta, funzionale al settore di attività in cui opera l’agente concreto (48). L’indagine appena svolta ha evidenziato che negli anni ’60, le cognizioni medico-scientifiche sul mesotelioma e sugli effetti oncogeni dell’amianto erano essenzialmente dibattute nel ristretto ambito universitario. Avevano formato cioè oggetto di convegni internazionali, nei quali eminenti studiosi avevano prospettato, (42) Cfr. MURRAY (nt. 4), 480 ss. (43) I primi studi sono comparsi in Italia nel corso degli anni ’50, in coincidenza con le prime segnalazioni di tumore polmonare (avvenute tra il 1955 e il 1956), e si sono concentrati sopra la considerazione del tumore al polmone quale complicazione dell’asbestosi. Una tale associazione veniva comunque proposta con molta cautela e vi erano studiosi che, negli anni ’60, tendevano a negare una simile capacità oncogena dell’asbestosi (così, ad esempio, CACCURI, La medicina del lavoro, Napoli, 1961). Quanto al mesotelioma, fu un lavoro di WAGNER, pubblicato nel 1960 (Diffuse pleural mesothelioma and asbestos exposure in the North Western Cape Province, Br. J. Ind. Med., 1960, 260-271), ad evidenziare le caratteristiche di straordinarietà di questo tumore. Successivamente, nel 1965, furono pubblicati gli atti del convegno organizzato dalla New York Academy of Sciences a New York l’anno precedente: è opinione corrente che, in detto convegno, fosse stato raggiunto un consenso generale nella comunità scientifica internazionale sulla cancerogenicità dell’amianto. In Italia, i primi convegni dedicati al tema della cancerogenicità dell’amianto si svolsero alla fine degli anni ’60-inizio anni ’70. Per un’analisi di tutti questi aspetti, cfr. CARNEVALE CHELLINI (nt. 4), 295 ss. (44) Cfr. AA.VV. (nt. 4), 118 ss. (45) Cfr. ancora AA.VV., Loco ult. cit. (46) AA.VV. (nt. 4), 115. (47) Così ROMANO (nt. 10), 427; sulla figura dell’agente-modello, v. MARINUCCI (nt. 25), 187 ss.; G.V. DE FRANCESCO, Sulla misura soggettiva della colpa, in Studi Urbinati, 1977, 298 ss.; FORTI (nt. 25), 234 ss.; GIUNTA (nt. 25), 125 ss. In giurisprudenza, v. Cass. 6 dicembre 1990 (nt. 31), 38. (48) Cfr. MARINUCCI (nt. 25), 193 ss.
— 1490 — sulla base di casistiche in verità piuttosto limitate, la possibilità di rinvenire una « associazione » fra l’uso dell’amianto e alcune patologie tumorali. Gli stessi risultati delle ricerche pubblicate all’esito di un convegno tenutosi a New York nel 1965, in cui fu ritenuta verosimile una associazione tra uso dell’amianto e talune patologie tumorali (49), erano pur sempre riferibili al circuito accademico, non ancora disponibili cioè per i soggetti che svolgevano attività imprenditoriali. La circostanza che l’imprenditore debba, per quanto possibile, attingere alla migliore scienza ed esperienza per impedire o contenere la diffusione delle polveri negli ambienti di lavoro non coincide con la necessità di munirsi di un corredo nomologico superiore, di un « sapere » cioè ancora confinato negli istituti di ricerca. Solo la conoscenza scientifica definitivamente penetrata nella comunità sociale, cioè quella che ha oltrepassato il confine della fase formativa e sperimentale, potrà integrare quel patrimonio cognitivo sopra il quale ricostruire i nessi causali sottostanti alle regole prudenziali. Queste considerazioni consentono di tracciare un’importante conclusione. All’epoca dell’emanazione delle norme cautelari contestate all’imputato, il corredo nomologico sotteso alla loro sfera previsionale era da ritenere particolarmente limitato, visto che nell’ampia gamma di « sotto-eventi » da prevenire, quello più gravemente lesivo e capace di predicare anche l’evento finale morte era unicamente l’asbestosi. Questo quadro non ha subito significative modificazioni durante l’intero arco degli anni ’60. Solo negli anni ’80, i risultati di queste complicate ricerche epidemiologiche varcarono i confini della comunità scientifica per entrare a far parte del patrimonio di conoscenze della società. Ne deriva, pertanto, che la morte dell’operaio avvenuta nel 1992, esposto senza cautele all’amianto negli anni ’60, non può imputarsi alla colpa del datore di lavoro: la cornice nomologica integrante il contenuto previsionale delle norme cautelari disattese non annoverava fra i « sotto-eventi » in possibile relazione causale con l’eventum mortis il mesotelioma pleurico o altre forme di tumore polmonare. Non era perciò riconoscibile il pericolo di verificazione di una modalità rilevante e ripetibile dell’accadimento (i.e. il mesotelioma maligno) causalmente collegata all’evento finale descritto dalla norma incriminatrice. A ciò si aggiunga che la vittima morì a causa di un mesotelioma non riconducibile alla degenerazione di una concomitante asbestosi: verrebbe così meno anche la possibilità di individuare nella patologia asbestosica l’anello causale intermedio rispetto all’evento finale. La diversa soluzione a cui si perviene nelle sentenze, frutto — a nostro avviso — di una errata « ridescrizione » dell’evento e di una insufficiente analisi della struttura e della funzione delle regole prudenziali disattese si colloca nella logica dell’« in re illicita versari »: l’evento finale viene infatti imputato all’agente del tutto « oggettivamente », anche se lo stesso non poteva formare oggetto di previsione da parte della figura-modello, perché estraneo alle valutazioni di prevedibilità cristallizzate nella regola di diligenza. È stato sufficiente il riferimento alla generale nocività dell’amianto a fondare la prevedibilità del danno alla salute. Lo scivolamento verso una forma di responsabilità oggettiva per rischio appare in tutta la sua fisionomia: la creazione di un rischio illecito da parte dell’imputato fa sì che questi debba rispondere di tutte le conseguenze lesive iscrivibili nel generico obbiettivo di contenimento del danno alla salute insito nelle norme cautelari violate. Conviene ribadire, allora, che la regola di diligenza delinea un programma di comportamento indirizzato a contrastare una circoscritta e tipica sfera di rischio e non già la causazione di un qualsiasi evento. In tal modo risalta la sua stessa funzione orientativa in termini di concretizzazione della diligenza dovuta. (49)
Cfr. le considerazioni svolte alla nota 43.
— 1491 — Così, con riguardo a quest’ultimo aspetto, non si può escludere che ove l’imprenditore fosse stato in possesso di speciali conoscenze causali (50) relative al più grave rischio incombente sulla vittima (il mesotelioma pleurico), si sarebbe attivato per predisporre tutte le misure idonee a prevenire quel rischio. Proprio la percezione della maggiore gravità del rischio insito nell’evento tumorale, avrebbe potuto indurre l’agente, per altro verso disposto a tollerare il rischio oggettivamente prevedibile (quello dell’asbestosi, cioè), ad apprestare tutte le cautele necessarie ad impedire l’insorgenza dell’evento lesivo. 4. La logica del « versari » costituisce, dunque, l’inevitabile esito di premesse interpretative troppo distanti da una corretta e rigorosa analisi dei nessi intercorrenti fra lo scopo di tutela delle norme cautelari e l’evento « ridescritto ». Vi è, tuttavia, un ulteriore aspetto della decisione di primo grado che merita di essere attentamente vagliato. Il riferimento attiene a quella parte della motivazione in cui si addebita all’imputato di aver trasgredito alle regole di diligenza che integrano la colpa generica, sul presupposto che « le norme cautelari scritte non comprendono tutta la prudenza, diligenza e attenzione concretamente necessaria, cioè le norme cautelari specifiche non assorbono tutta la riprovevolezza che può sussistere per la morte della vittima ». Si tratta di un’affermazione destinata a mantenere, nel contesto della pronuncia, uno spessore meramente « assertivo », nel senso che non vengono compiutamente illustrate le ragioni dell’indicato profilo di concorrenza tra colpa generica e colpa specifica, né si ritaglia la materialità delle trasgressioni alla ordinaria diligenza. Questo passaggio argomentativo merita, tuttavia, di essere segnalato, perché riproduce, sia pure in modo stringato, un orientamento ormai largamente diffuso nella giurisprudenza, in specie nell’ambito della normativa antinfortunistica (51). Le linee ispiratrici di un simile, consolidato orientamento sono abbastanza chiare. Il rilievo costituzionale del bene giuridico protetto (l’integrità fisica dei prestatori d’opera) è di tale intensità da legittimare la configurazione di un « dovere di diligenza » ad ampio spettro, segnato dal sinergico « concorrere » di norme preventive « generiche » e « specifiche », in vista di un complessivo e penetrante rafforzamento dell’efficacia preventiva del sistema antinfortunistico, teso a garantire una più intensa salvaguardia del bene protetto. In tale ottica, spetterebbe alla norma civilistica dell’art. 2087 c.c. la funzione di « cristallizzare » il descritto rafforzamento delle tutele. A questa disposizione viene infatti riconosciuta la natura di norma di chiusura del sistema antinfortunistico: si tratterebbe, cioè, di un precetto ad ampio spettro che impone l’adozione di misure di sicurezza generiche modellate alla stregua delle particolarità del lavoro e delle progressive acquisizioni della tecnica, in concorso con le misure previste di volta in volta dalla normativa antinfortunistica. È piuttosto evidente come l’enfasi riposta sulla valenza costituzionale del bene tutelato condizioni l’intera trama interpretativa, che involge un problema già di per sé carico di intuibili suggestioni assiologiche e metagiuridiche. La posizione in esame finisce con il privilegiare le finalità (pur sacrosante) di tutela del bene giuridico, a discapito di una più attenta riflessione sulla natura modale della re(50) Resta tuttora controversa la questione relativa alla possibilità che le particolari, migliori conoscenze e capacità del soggetto comportino un innalzamento della misura di diligenza oggettiva richiesta al soggetto: circa i termini del dibattito, v., per tutti, ROMANO (nt. 10), 427-428. (51) Cfr. Cass. 6 febbraio 1989, in C.E.D. Cass., n. 180378; Cass. 9 giugno 1982, ivi, n. 154160; Cass. 5 aprile 1989, ivi, n. 180951; da ultimo si segnala, nel contesto di un caso analogo a quello in commento, Pret. Crema, 28 febbraio 1995, Angele, inedita.
— 1492 — gola prudenziale (52) e sopra i profili strutturali e funzionali che caratterizzano la colpa generica e la colpa specifica. 4.1. Il carattere conformativo della regola prudenziale costituisce un elemento strutturale comune alle regole di diligenza scritte e a quelle non scritte (53). Dalla riconosciuta unicità strutturale della responsabilità colposa viene fatto derivare un importante corollario relativo al carattere non risolutivo, ai fini della responsabilità colposa, dell’accertamento relativo all’osservanza o all’inosservanza della regola cautelare scritta (54). In altre parole, il rispetto della disposizione prudenziale positiva potrebbe non esaurire la misura della diligenza richiesta all’agente in una data situazione; come pure alla sua trasgressione dovrebbe riconoscersi un valore semplicemente « orientativo » ai fini del definitivo accertamento della violazione della diligenza dovuta (55). Questa conclusione è destinata a ricomprendere sia le norme cautelari scritte c.d. rigide, sia quelle a « struttura elastica ». Si tratta di un corollario apparentemente condivisibile, ma che abbisogna di ulteriori approfondimenti per evitare il pericolo di stravolgimenti interpretativi. 4.2. Se è vero che sul piano strutturale l’essenza della colpa è essenzialmente unica, nondimeno sussistono non trascurabili differenze tra la colpa generica e la colpa specifica, suscettibili di incidere sulla loro rispettiva operatività. Il principale profilo di distinzione concerne, a nostro avviso, l’aspetto funzionale. Mentre, infatti, la colpa generica si fonda sul ricorso a norme esperienziali alle quali è sottesa una dimensione sociologica, e che tendono ad orientare il comportamento secondo criteri di « normalità » (56), le norme scritte puntano, viceversa, a selezionare le classi di rischio, a fornire, cioè, una più puntuale descrizione del rischio insito in una data situazione di fatto. Ci si affida perciò alle regole positive per disciplinare aree di rischio sostanzialmente omogeneo (si pensi all’area della circolazione stradale e alla materia antinfortunistica), in cui la ripetitività dei comportamenti, la rilevanza dei beni in giuoco e l’affinarsi delle conoscenze consentono una migliore selezione dei rischi da prevenire e contenere. Se si concorda sul fatto che le norme cautelari scritte disciplinano una determinata classe di rischi, pare davvero difficile, e tutto sommato contraddittorio, sostenere che una volta esclusa la trasgressione della regola possa residuare uno spazio di operatività per la colpa generica. Ogniqualvolta l’esercizio di una determinata attività è disciplinato da regole cautelari (modali) scritte, siano esse di contenuto rigido o flessibile, la prevenzione del rischio è strettamente legata alla loro osservanza. Null’altro viene richiesto ai fini del giudizio di responsabilità colposa (57). I risultati di questa breve riflessione rendono perciò quanto meno discutibile il consolidato orientamento giurisprudenziale che, nella materia antinfortunistica, (52) Insiste, con particolare chiarezza, sulla struttura « modale » della regola cautelare, GIUNTA (nt. 25), 233 ss. (53) Cfr. FORTI (nt. 25), 313 ss.; GIUNTA (nt. 25), 246. (54) Cfr. MARINUCCI (nt. 25), 236; M. GALLO (nt. 25), 642; MANTOVANI (nt. 25), 308 ss.; FORTI (nt. 25), 314. (55) FORTI, Loco ult. cit. (56) Così, con grande lucidità, GIUNTA (nt. 25), 243. (57) Qualora l’evento dovesse ugualmente accadere, nonostante il rispetto della norma cautelare positiva, bisognerà verificare la possibile esistenza di elementi circostanziali che sfuggono dalla portata previsionale e preventiva della norma stessa. Può accadere, cioè, che la cornice ontologico-fattuale non coincida interamente con quella evocata dalla norma positiva, a causa del sopraggiungere di elementi perturbativi non contrastabili con l’osservanza del precetto cautelare positivizzato: in una simile evenienza, l’osservanza della regola può risolversi nell’aumento del rischio di verificazione dell’evento che si intendeva evitare o contenere. Su questi aspetti, v. MARINUCCI (nt. 25), 248.
— 1493 — tende a concepire la colpa come la risultante di un « cumulo » di colpa generica e specifica. In presenza di una costellazione di norme cautelari scritte, la fisionomia del rischio non potrà in alcun modo essere ricavata dalle ordinarie norme di diligenza attraverso la mediazione della disposizione dell’art. 2087 c.c. Questa norma — dovrebbe essere chiaro — pone semplicemente un dovere di diligenza, orientato alla prevenzione di un’ampia gamma di « sotto-eventi » da correlare con il bene finale dell’integrità fisica dei prestatori di lavoro. La disposizione non contiene, tuttavia, alcuna descrizione puntuale del rischio, tanto che il suo contenuto può essere assimilato a quello delle regole di diligenza che fondano la colpa generica. Peraltro, anche a voler riconoscere la sostenibilità del rinvio alla colpa generica, questo non può risolversi in modo « autoreferenziale », attraverso la prospettazione, cioè, di un mero, astratto contrasto con le ordinarie regole di diligenza: al contrario, dovrà essere espressamente esplicitato il contenuto modale della regola trasgredita, al fine di conferire « forma e sostanza » alla tipicità dell’illecito colposo. Nel caso in esame, la decisione del Pretore non delinea in alcun modo il contenuto dell’evocata colpa generica: la lacuna non è casuale, ma deriva proprio dall’impossibilità di precisare concorrenti regole modali in presenza di un’articolata rete di norme scritte, a contenuto prevalentemente elastico, che disciplinano quella classe di rischio. In realtà, l’asserita convergenza della colpa generica sembra tradurre l’esigenza di rendere più ampia la sfera della responsabilità colposa per taluni soggetti qualificati, in funzione di una più capillare e accentuata tutela del bene giuridico coinvolto, e proprio in ragione della rilevanza costituzionale della situazione giuridica soggettiva da tutelare. Il generico spettro preventivo evocato dall’art. 2087 c.c. non contribuisce in alcun modo alla descrizione del divieto penale: se gli si assegna la funzione di rendere stabile il collegamento (la sinergia) tra la colpa generica e quella specifica, ci troveremmo fatalmente in presenza di una fattispecie impositiva di un « generale » obbligo di diligenza, del tutto simile ad una clausola generale di responsabilità civile, dove, come noto, la negligenza funge prevalentemente da criterio di ascrizione del danno e non già da elemento di definizione di quanto forma oggetto dell’imputazione (58). In tal modo, si legittima un sostanziale appiattimento della colpa penale su quella civile, attraverso un percorso che tende progressivamente ad « oggettivare » la regola di diligenza in funzione di una più intensa tutela della vittima e che finisce così per svilire il giusto rilievo tipicizzante assegnato alla regola di diligenza nell’illecito colposo. (58) Così GIUNTA (nt. 25), 276 ss. Per una lucida analisi degli sviluppi della responsabilità civile e del ruolo della colpa quale criterio di « ascrizione » dell’illecito civile, v. PONZANELLI, La responsabilità civile. Profili di diritto comparato, Bologna, 1992; BUSNELLI, Nuove frontiere della responsabilità civile, in Jus, 1976, 41 ss.; SALVI, Il paradosso della responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv., 1983, 123 ss.; RODOTÀ, Modelli e funzioni della responsabilità civile, ivi, 1984, 595 ss.; BUSNELLI, La parabola della responsabilità civile, ivi, 1988, 643 ss. Va inoltre segnalato un recentissimo lavoro di CAFAGGI, Profili di relazionalità della colpa. Contributo ad una teoria della responsabilità extracontrattuale, Padova, 1996, nel quale si tende a riconoscere alla colpa una funzione « preventiva », come strumento di controllo sociale delle attività. L’esito della complessa e interessante ricerca non conduce tuttavia all’affermazione dell’identità di struttura tra colpa civile e colpa penale; al contrario, alla struttura prevalentemente monologica della colpa penale viene contrapposta la struttura prevalentemente relazionale della colpa civile, che valorizza il ruolo del potenziale danneggiato nella definizione della colpa oltre che nei criteri di ripartizione del danno. L’analisi economica del diritto rappresenta, secondo l’A., uno dei possibili esiti della descritta prospettiva relazionale. In ordine ai rapporti fra colpa civile e colpa penale, v. RODOTÀ, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1967, 57 ss.; ZENO-ZENCOVICH, La responsabilità civile da reato, Padova, 1989, 61; LOSAPPIO, Dosimetria della colpa civile e penale, in Indice pen., 1992, 701 ss.
— 1494 — 5. Le osservazioni sinora svolte consentono, a questo punto dell’indagine, una definitiva valutazione delle pronunce che si annotano per la parte riguardante l’imputazione « per colpa » dell’evento occorso alla vittima. Su questo versante, la non condivisibilità delle motivazioni va fatta risalire ad un duplice errore concernente: a) la ri-descrizione dell’evento, costruito in termini di grave danno alla salute, senza alcun riferimento alle modalità ripetibili dell’evento verificatosi hic et nunc; b) l’interpretazione teleologica delle norme cautelari integranti la colpa specifica: questa è stata svolta in modo « estremamente generico » e si è risolta nella individuazione dell’obbligo di apprestare misure idonee a prevenire il grave danno alla salute dei lavoratori, e non già l’evento-morte accaduto hic et nunc. La nocività dell’amianto è stato considerato l’unico e generale anello causale intermedio rilevante per la decisione di imputare l’evento all’agente concreto. Una maggiore attenzione nella ridescrizione dell’evento e nell’esame di quali rischi le norme cautelari tendevano a prevenire avrebbe condotto a una ben diversa soluzione. aa) Nella ridescrizione dell’evento avrebbero dovuto essere inserite le modalità rilevanti e ripetibili di causazione dello stesso hic et nunc: pertanto, l’evento verificatosi doveva essere ridisegnato nei seguenti termini: morte (evento finale tipico) da mesotelioma pleurico (sotto-evento intermedio), in assenza di concomitante patologia asbestosica, derivante da esposizione ad amianto-amosite. bb) Lo spettro preventivo (la c.d. connessione di rischio) delle norme cautelari disattese doveva essere sottoposto ad un’interpretazione teleologica estremamente concreta, sul presupposto che le norme prudenziali contengono programmi di comportamento diretti a contrastare pericoli tipici e non già eventi cagionati tout court, eventi quindi che possono prodursi attraverso svolgimenti causali tipici in relazione alla regola stessa. Questo tipo di « lettura » della finalità preventiva delle regole cautelari avrebbe consentito di percepire che, all’epoca dell’esposizione della vittima alle fibre di amianto, il mesotelioma pleurico e, più in generale, i tumori all’apparato respiratorio non ricadevano sotto la copertura della misura nomologica rilevante ai fini della ricostruzione del dovere di diligenza. In altre parole, non rappresentavano anelli causali intermedi prevedibili, fondati, cioè, sopra una cornice nomologica disponibile per la figura dell’agente-modello. In conclusione, sembra emergere, con sufficiente chiarezza, come l’aspirazione a far fronte a un rischio così grave e subdolo, manifestatosi dopo un lungo periodo di latenza, ha finito per sottoporre l’istituto della colpa ad una forte torsione interpretativa, tradottasi nella costruzione di una fattispecie di responsabilità « per rischio » molto vicina al corrispondente modello civilistico (59). L’esigenza (pur comprensibile) di « riparare » un così grave danno ha sollecitato una ricostruzione dell’illecito colposo decisamente orientata verso l’inaccettabile logica del versari. Trova così conferma la nostra preoccupazione iniziale: l’aspirazione al « contenimento » e alla « minimizzazione » del rischio insito nelle attività produttive sembra molto spesso non armonizzarsi agevolmente con i tradizionali istituti dogmatici del diritto penale e con i loro corollari di « garanzia ». Di qui la tendenza ad oltrepassare questi ostacoli attraverso un’opera di « flessibilizzazione » delle tradizionali strutture dogmatiche a vantaggio della possibile configurazione di un modello di responsabilità espressivo di una finalità di prevenzione non solo e non (59) Sulla responsabilità civile « per rischio », v. TRIMARCHI, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961.
— 1495 — tanto « generale », quanto « generalizzata » (60). Le sentenze in commento hanno, sia pure in parte, consentito di « misurare i costi » che una simile trasformazione può indurre sul terreno dei criteri di imputazione dell’illecito penale. CARLO PIERGALLINI Magistrato di tribunale della Direzione Generale degli Affari Penali presso il Ministero di Grazia e Giustizia
(60)
PALIERO (nt. 5), 1240.
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)
Svizzera - Stati Uniti d’America: assistenza giudiziaria penale in tema di insider trading. A seguito di ricorso di diritto amministrativo, il caso — rubricato come X Corp. c. Ufficio federale di polizia — è stato affrontato dal Tribunale Federale elvetico quale 1a Corte di diritto pubblico. Si tratta della sentenza 21 dicembre 1992. Riportiamo, in primo luogo, l’intestazione (RO 118 I b, pp. 547 ss.), seguita dalla ‘‘massima’’ ufficiale (nella versione in lingua italiana): Trattato fra la Confederazione Svizzera e gli Stati Uniti d’America sull’assistenza giudiziaria in materia penale. Doppia incriminazione; reati d’iniziati, artt. 161 e 162 c.p. (**). 1. Diritto applicabile (consid. 1b), decisione impugnabile e legittimazione a ricorrere (consid. 1c e d); nozione di procedura giudiziaria ai sensi dell’art. 1, n. 1, lett. a TAGSU (consid. 2). 2. Art. 29 TAGSU: esigenze formali poste alla domanda di assistenza e nozione di (*) Questa rubrica a cura di Mario Pisani, idealmente continua la rubrica pubblicata — sotto il titolo Rapporti giurisdizionali con autorità straniere— nella rivista Cedam L’Indice penale, lungo l’arco temporale 1981-1996. (**) Riportiamo il testo degli articoli citati del Codice penale svizzero, quali risultano a seguito delle modificazioni del 18 dicembre 1987 (per l’art. 161) e del 17 marzo 1994 (per l’art. 162, limitatamente all’aggiunta del comma 2): ART. 161 (Sfruttamento della conoscenza di fatti confidenziali). — 1. Chiunque, in qualità di membro del consiglio d’amministrazione, della direzione, dell’organo di revisione o di mandatario di una società anonima o di una società che la domina o ne dipende, in qualità di membro di un’autorità o di funzionario, o in qualità di loro ausiliario, ottiene per sé o per altri un vantaggio patrimoniale sfruttando la conoscenza di un fatto confidenziale che, se divulgato, eserciterà verosimilmente un influsso notevole sul corso di azioni, di altri titoli o effetti contabili corrispondenti della società o sul corso di opzioni su tali titoli negoziati in borsa o in preborsa in Svizzera, o portando tale fatto a conoscenza di un terzo, è punito con la detenzione o con la multa. 2. Chiunque, avendo avuto direttamente o indirettamente conoscenza di tale fatto da parte di una delle persone elencate nel numero 1, ottiene per sé o per altri un vantaggio patrimoniale sfruttando questa informazione, è punito con la detenzione fino a un anno o con la multa. 3. È considerato fatto a tenore dei numeri 1 e 2 un’imminente emissione di nuovi diritti di partecipazione, un raggruppamento di imprese o un’analoga fattispecie di simile portata. 4. Qualora sia previsto il raggruppamento di due società anonime, i numeri 1 e 3 si applicano alle due società. 5. I numeri 1 a 4 si applicano per analogia qualora lo sfruttamento della conoscenza di un fatto confidenziale concerna certificati di quota, altri titoli, effetti contabili o opzioni corrispondenti di una società cooperativa o di una società straniera. ART. 162 (Violazione del segreto di fabbrica o commerciale). — Chiunque rivela un segreto di fabbrica o commerciale, che aveva per legge o per contratto l’obbligo di custodire, chiunque trae profitto per sé o per altri da questa rivelazione, è punito, a querela di parte, con la detenzione o con la multa.
— 1497 — « fondato sospetto » di reato giusta l’art. 1, n. 2 TAGSU (consid. 3a); condizioni per l’applicazione di misure coercitive (consid. 3b). 3. Interpretazione dell’art. 161, n. 1 e 3 c.p. Nella diminuzione del reddito netto di una società concernente un solo trimestre non può essere ravvisata una « fattispecie analoga » e di « simile portata » all’emissione di nuovi diritti di partecipazione o a un raggruppamento di imprese ai sensi dell’art. 161, n. 3 c.p., e quindi neppure un fatto confidenziale secondo il n. 1 dello stesso disposto. Irrilevanza delle opinioni in contrario senso risultanti dai lavori parlamentari, che non hanno lasciato traccia nel testo della norma (consid. 4). 4. L’esigenza della punibilità secondo il diritto svizzero (art. 4, n. 2 TAGSU) è tuttavia adempiuta, poiché in concreto ai fatti della domanda è applicabile l’art. 162 c.p. (consid. 5). 5. Principio della specialità (art. 5 TAGSU) e della proporzionalità nella trasmissione di atti (consid. 6b); limitazioni alle quali va assoggettata la presenza di legali o funzionari esteri ad atti istruttori (consid. 6c). Facciamo seguire il testo completo della motivazione. In una domanda americana d’assistenza giudiziaria in materia penale inoltrata all’Ufficio federale di polizia (UFP) concernente un commercio di titoli della società Y nel periodo fra il 1o e il 17 ottobre 1991, in cui indaga la « Securities and Exchange Commission » (SEC) in relazione a presunte operazioni d’iniziati, si espone in sostanza quanto segue: il 17 ottobre 1991, la società Y ha annunciato pubblicamente che il reddito netto della società per il terzo trimestre 1991, chiuso il 5 ottobre 1991, era di 25,8 milioni di dollari, inferiore cioè di circa 18,2 milioni di dollari (42%) al reddito del corrispondente trimestre dell’anno precedente, chiuso il 6 ottobre 1990, di 44 milioni di dollari. La diminuzione del reddito veniva spiegata, da un lato, con un calo del prezzo di mercato delle banane e l’aumento dei costi di produzione, e, dall’altro, con l’inizio della coltivazione nelle Hawaii. Questi dati erano stati calcolati dagli organi della società Y nel periodo tra il 5 e il 10 ottobre 1991. Questo annuncio pubblico ha provocato una caduta di circa US$ 8 — pari al 19% — del corso dell’azione comune della società, che, tra il 1o e il 17 ottobre, si situava su US$ 41.80 per un volume di scambi medio giornaliero di 242.250 titoli. Negli otto giorni precedenti l’annuncio pubblico, un ancora ignoto acquirente ha comperato, valendosi del conto corrente commerciale intestato alla X Corp., presso un istituto bancario di Ginevra, mille contratti di opzioni d’investimento « put » (put option contracts) del titolo comune della società Y, e precisamente cinquecento opzioni per circa US$ 282 500 l’11 ottobre, settanta opzioni per circa US$ 42 500 intorno al 14 e quattrocentotrenta opzioni per circa US$ 246 250 intorno al 15 ottobre. Tali opzioni conferiscono all’acquirente il diritto di vendere centomila azioni ordinarie della società Y in qualsiasi momento prima della metà di marzo 1992 al prezzo di US$ 45 per azione. Gli utili conseguibili con l’operazione sono calcolati dall’autorità richiedente in circa US$ 280 000. Cinquanta contratti di vendita a premio appartenenti a tale lotto sono stati alienati il 19 dicembre 1991 con un profitto di circa US$ 34 375. L’acquisto su cui si indaga costituisce il 70% di tutte le opzioni d’investimento sul titolo della società Y contrattate tra l’11 e il 15 ottobre 1991. L’insolita natura dell’investimento risulta dalla circostanza che, se si prescinde da tale acquisto, solo quarantanove opzioni al giorno sono state in media comperate sino a marzo 1991. La domanda tende a ottenere informazioni sull’identità degli acquirenti e sulla relativa documentazione bancaria, come pure il blocco di qualsiasi utile derivante dalla vendita o dall’uso delle citate opzioni d’investimento. Lo Stato richiedente postula altresì l’audizione di testi alla presenza di avvocati della SEC. L’11 febbraio 1992 l’UFP ha concesso l’assistenza giudiziaria richiesta: la società vi si è opposta. Con decisione del 19 maggio 1992 l’UFP ha respinto l’opposizione. La X Corp. è insorta al Tribunale federale con un ricorso di diritto amministrativo in cui chiede che la predetta decisione sia annullata e, subordinatamente, che l’assistenza giudiziaria sia concessa senza il beneficio di misure coercitive. In via ancor più subordinata essa postula la modifica della decisione impugnata nel senso che le richieste di prove aventi per oggetto fatti anteriori al 1o ottobre 1991 siano respinte. L’UFP ha concluso per la reiezione. Il Tribunale federale ha respinto il ricorso al senso dei considerandi.
— 1498 — Dai considerandi: 1. b) Ai rapporti svizzero-statunitensi nell’ambito dell’assistenza giudiziaria in materia penale si applicano rispettivamente, per le questioni di merito, l’omonimo Trattato concluso il 25 maggio 1973 fra i due Paesi (TAGSU, RS 0.351.933.6) e, per i problemi formali, la relativa legge federale del 3 ottobre 1975 (LTAGSU, RS 351.93). Per le questioni non regolate esaustivamente nel Trattato e nella relativa legge speciale si applicano — nella misura in cui non contrastano con lo spirito e lo scopo degli stessi — la legge federale sull’assistenza internazionale in materia penale del 20 marzo 1981 (AIMP) e la relativa ordinanza del 24 febbraio 1982 (OAIMP; art. 1, lett. b, AIMP; cfr. DTF 117 Ib 82, 62, 55). c) La decisione impugnata è stata presa dall’Ufficio centrale previsto all’art. 28, cpv. 1 TAGSU e concerne un’opposizione giusta l’art. 16, cpv. 5 LTAGSU. Contro tale provvedimento il ricorso di diritto amministrativo è ammissibile (art. 17, cpv. 1 LTAGSU; cfr. DTF 109 Ib 161 consid. 2a e rinvii per quanto attiene invece al ricorso amministrativo al Dipartimento federale di giustizia e polizia riguardo alle esigenze formali della domanda giusta l’art. 18, cpv. 2, lett. d LTAGSU). d) La ricorrente, titolare del conto bancario litigioso, è toccata direttamente nei suoi interessi protetti ai sensi dell’art. 17 LTAGSU in relazione all’art. 103, lett. a OG, ed è quindi legittimata a proporre il gravame (cfr. DTF 115 Ib 371, 113 Ib 265 consid. 3; cfr. invece DTF 116 Ib 109 consid. 2a riguardo alla legittimazione ricorsuale secondo l’art. 21, cpv. 3 AIMP). 2. In conformità al Trattato l’assistenza dev’essere accordata, segnatamente, nel caso di inchieste o procedure relative a reati la cui punizione cade sotto la giurisdizione dello Stato richiedente o di uno dei suoi Stati membri (art. 1, n. 1, lett. a TAGSU). È inoltre pacifico che le investigazioni della SEC rientrano nella nozione di procedura giudiziaria ai sensi dell’art. 1, n. 1, lett. a TAGSU (DTF 115 Ib 191, 109 Ib 50 consid. 3a) e sono considerate espressamente come una procedura d’inchiesta per cui può essere prestata l’assistenza (cfr. lo scambio di lettere del 10 novembre 1987 concernente l’assistenza giudiziaria in procedure amministrative supplementari inerenti a operazioni « insider », RS 0.351.933.65). Si considera reato nello Stato richiedente ogni atto per il quale vi sia in questo Paese un fondato sospetto che sia stato commesso e che soddisfi ai requisiti di una fattispecie penale (art. 1, n. 2 TAGSU). 3. a) La ricorrente sostiene innanzitutto che la domanda di assistenza non adempirebbe le esigenze formali previste dall’art. 29 TAGSU e che, carente il requisito del « fondato sospetto », essa tenderebbe in realtà ad un’inammissibile raccolta indiscriminata di prove. A suffragio di questa censura essa allega che il suo conto bancario, esistente dal 1981, non è stato manifestamente aperto in vista dell’operazione litigiosa; che le autorità americane si fondano su una mera coincidenza temporale tra l’acquisto delle opzioni e gli avvenimenti interni — segnatamente il calo degli utili — della società Y e omettono invece di fornire la pur minima indicazione circa gli organi o i dipendenti di questa società all’origine della sospettata indiscrezione. Essa allega di aver tratto incentivo dell’operazione unicamente da informazioni pubbliche circa un settore commerciale — il commercio delle banane — notoriamente soggetto ad andamenti ciclici, precisando di aver manifestato alla propria banca l’intenzione di vendere « short » azioni della società Y già a metà settembre 1991, in un momento, quindi, in cui il calo dei profitti non si era neppur profilato per la stessa società, e di essersi, poi, decisa invece per l’acquisto di opzioni d’investimento su consiglio dell’istituto di credito. Queste censure sono inconferenti, rispettivamente infondate. Come già si è visto, l’autorità svizzera adita con una domanda di assistenza non può di regola pronunciarsi sulla sussistenza dei fatti esposti dalla parte richiedente e deve soltanto stabilire se essi — così come descritti — costituiscono un reato giustificante l’assistenza. Non v’è motivo per far eccezione in casu a questo principio. La domanda americana è intanto scevra manifestamente da errori o contraddizioni. Essa è inoltre sufficientemente circostanziata per stabilire l’esistenza di un « fondato sospetto » di reato. A questo proposito è innanzitutto da premettere che codesta esigenza non implica per la parte richiedente l’obbligo di provare la commissione del reato,
— 1499 — ma solo quello di esporre in modo sufficiente le circostanze sulle quali fonda i propri sospetti, per permettere alla Parte richiesta di distinguere la domanda da un’inammissibile istanza volta alla ricerca indiscriminata di prove (DTF 116 Ib 95 consid. 4, 115 Ib 78 consid. bb e rinvii): è d’altronde palese che la nozione di « fondato sospetto » di reato non va confusa con quella di « prova » del reato (DTF 118 Ib 122 e rinvii). Ciò premesso, la domanda litigiosa è anche sufficientemente circostanziata sotto il menzionato profilo. Contrariamente all’assunto ricorsuale, essa non si basa infatti soltanto sulla concomitanza temporale tra l’acquisto delle opzioni e gli avvenimenti interni della società Y, ma, insieme con questo elemento, adduce come circostanza essenziale atta ad avvalorare la fondatezza del sospetto il volume delle tre contrattazioni oggetto d’inchiesta, che costituisce un cospicuo multiplo della media giornaliera oltremodo modesta di tutte le altre vendite concluse sino a marzo sugli stessi titoli: insieme, tali elementi sono idonei a far sospettare che l’operazione sia compiuta grazie all’utilizzo d’informazioni confidenziali provenienti da iniziati. Che le autorità statunitensi non siano attualmente in grado di precisare su quali organi o dipendenti della società Y si appuntino i loro sospetti, non è motivo per ritenere lacunosa, e quindi inammissibile, la loro richiesta: l’assistenza giudiziaria, infatti, dev’essere prestata anche per acclarare se il reato fondatamente sospettato sia effettivamente stato commesso, e non soltanto per scoprirne l’autore o raccogliere prove a suo carico. In questo contesto, appare inconferente anche il rilievo della ricorrente secondo cui nella domanda essa non è indicata come autrice del reato: contrariamente a quanto tale critica sottintende, la concessione dell’assistenza non presuppone affatto che l’interessato, nei cui confronti la domanda è rivolta, coincida con l’inquisito o l’accusato nella procedura aperta nello Stato richiedente. Nella misura, poi, in cui, con questa allegazione, la ricorrente intendesse contestare la propria colpevolezza, il quesito sfuggirebbe alla competenza del giudice dell’assistenza. b) L’art. 4, n. 3 del Trattato prevede che l’Ufficio centrale dello Stato richiesto decide se la gravità del reato ove, come in concreto, questo non sia compreso nell’allegata lista, giustifichi l’applicazione — contestata dalla ricorrente — di misure coercitive. Il Tribunale federale riconosce sotto questo aspetto un vasto potere di apprezzamento all’autorità di prima istanza (DTF 113 Ib 77 consid. 4c, 183 consid. 7c, 112 Ib 214 consid. 4b) e non si scosta dalla sua decisione a meno che essa abbia manifestamente ecceduto la latitudine di giudizio conferitale o ne abbia abusato, in altri termini che sia incorsa nell’arbitrio. Tale ipotesi non ricorre nella fattispecie che coinvolge un importante interesse pubblico, quello di esercitare un controllo sull’utilizzazione di informazioni privilegiate. Infatti, riguardo ai reati contemplati nella lista allegata al Trattato, per operazioni « insider » — la cui proporzione non era ancora conosciuta nel 1973 quando il Trattato è stato conchiuso — non dev’essere richiesta una particolare gravità affinché l’applicazione di misure coercitive sia giustificata. Il Tribunale federale ha già avuto modo di stabilire che, di regola, l’applicazione di tali misure può essere ammessa nell’ambito del perseguimento di operazioni d’iniziati (cfr. DTF 113 Ib 77 consid. 4c). Occorre rilevare inoltre che la AIMP — adottata posteriormente al Trattato — ha previsto l’applicazione di provvedimenti coercitivi, se sono dati i presupposti di cui all’art. 64 AIMP, indipendentemente dall’esistenza di una siffatta lista. Ne segue che l’UFP poteva fondare, senza arbitrio, la sua decisione anche sull’art. 4, n. 3 TAGSU. 4. Lo Stato richiesto, dovendo pronunciarsi su una domanda di assistenza che, come nel caso concreto, implica misure coercitive, è tenuto a verificare se i fatti allegati adempiono le condizioni oggettive di un reato punibile secondo la sua legislazione; esso statuisce sull’esistenza di questi presupposti unicamente in base alla propria legislazione (art. 4, n. 4 TAGSU) ed esamina soltanto eventualmente « prima facie » se la punibilità è data anche nello Stato richiedente (DTF 118 Ib 123 consid. 5c e rinvii, 113 Ib 181 consid. 7a, 112 Ib 213 consid. 4a, 109 Ib 53 consid. 4c). a) Secondo la decisione impugnata, i fatti esposti nella richiesta di assistenza giudiziaria dovrebbero essere chiaramente qualificati quale « sfruttamento della conoscenza di fatti confidenziali » ai sensi dell’art. 161 c.p., ove risultasse che l’informazione circa l’intervenuta
— 1500 — contrazione del reddito trimestrale della società Y proveniva da una delle persone menzionate nel n. 1 di tale disposto (« iniziato » o « insider »), ciò che la domanda intende appunto chiarire. La ricorrente sostiene al contrario — con riferimento a dottrina — che perdite di una società non costituiscono per principio fatti confidenziali ai sensi dell’art. 161, nn. 1 e 3 c.p. e quindi non cadono nell’ambito dell’applicazione di questa norma e che — in ogni caso — non vi cadono quelli descritti nella domanda di assistenza, che non si concretano in una perdita, ma semplicemente in una diminuzione dell’utile di un solo trimestre. b) La questione qui evocata non è ancora stata esaminata dal Tribunale federale, neanche nella recente sentenza del 13 ottobre 1992 in re UFP, destinata a pubblicazione, relativa a un caso di applicazione dell’art. 161 c.p. in un caso di assistenza riguardante la Francia. In dottrina essa è oggetto di controversie (per l’elenco delle divergenze, cfr. CHRISTOPH PETER, Aspekte der Insiderstrafnorm, insbesondere der « ähnliche Sachverhalt von vergleichbarer Tragweite », tesi, Zurigo 1991, pp. 58 ss.). Una corrente della dottrina propone una interpretazione larga della norma e ritiene che sopravvenute o incombenti perdite eccezionali, coinvolgenti la sostanza della società, come pure ingenti perdite d’esercizio, rientrino nella nozione di « fatto confidenziale » (così: NIKLAUS SCHMID, Schweizerisches Insiderstrafrecht, Ein Kommentar zu Art. 161 des Strafgesetzbuches, Berna 1988, pp. 108 ss., n. 179 e n. 181, p. 113, nn. 190 ss., 195 ss.; PETER FORSTMOSER, Insiderstrafrecht in: Schweizerische Aktiengesellschaft 60 [1988], pp. 122 ss., in particolare p. 129, n. 71; JEAN-MARC RAPP, L’expérience américaine et l’article 161 c.p.s. in: CEDIDAC, La répression des opérations d’initiés, edito da F. Dessemontet, Losanna 1990, p. 106; LUTZ KRAUSKOPF, Die neue Insiderstrafnorm in: Der Schweizer Treuhänder, 1988, p. 230). Per contro, altri autori propongono un’interpretazione restrittiva del disposto e ne traggono la conclusione contraria (CHRISTOPH PETER, op. cit., p. 110 in alto, p. 112 in alto; PETER BÖCKLI, Insiderstrafrecht und Verantwortung des Verwaltungsrates, Zurigo 1989, pp. 42 ss., 47 ss., in particolare p. 51, n. 3; FELIX STREBEL, Insidervergehen und Banken, tesi, Zurigo 1990, pp. 47 s.; GÜNTHER STRATENWERTH, Schweizerisches Strafrecht, Teilrevisionen 1987 bis 1990, Berna 1990, p. 50, n. 12; MARTIN SCHUBARTH-PETER ALBRECHT, Kommentar zum schweizerischen Strafrecht, Artt. 137-172, Berna, 1990, p. 239, n. 71). c) Giusta l’art. 161 n. 1 c.p. è punito con la detenzione o con la multa chiunque, in qualità di membro del consiglio d’amministrazione, della direzione, dell’organo di revisione o di mandatario di una società anonima o di una società che la domina o ne dipende, o in qualità di membro di un’autorità o di funzionario, o in qualità di loro ausiliario, ottiene per sé o per altri un vantaggio patrimoniale, sia sfruttando la conoscenza di un fatto confidenziale che, se divulgato, eserciterà verosimilmente un influsso notevole sul corso di azioni, di altri titoli o effetti contabili corrispondenti della società o sul corso di opzioni su tali titoli, negoziati in borsa o in preborsa in Svizzera, sia portando tale fatto a conoscenza di un terzo. Secondo il n. 2 del citato disposto è punito con la detenzione fino a un anno o con la multa chiunque, avendo avuto direttamente o indirettamente conoscenza di tale fatto da parte di una delle persone elencate nel n. 1, ottiene per sé o per altri un vantaggio patrimoniale sfruttando questa informazione. In conformità del n. 3 è considerato fatto a tenore dei nn. 1 e 2 un’« imminente emissione di nuovi diritti di partecipazione, un raggruppamento d’imprese o un’analoga fattispecie di simile portata ». d) Il principio della legalità delle pene, consacrato dall’art. 1 c.p. — secondo cui nessuno può essere punito per un fatto a cui non sia espressamente comminata una pena dalla legge — e dall’art. 7 CEDU, non impedisce al giudice penale o, come nel caso di specie, alle autorità incaricate di esaminare l’ammissibilità di una domanda di assistenza, di far ricorso, in presenza di una norma non assolutamente chiara o univoca, ai metodi abituali d’interpretazione dei testi legali allo scopo di dedurne il vero significato (DTF 116 IV 136 consid. 1a, 114 Ia 196 consid. 3b bb). Procedendo a tale esame il giudice vaglierà in primo luogo il testo della norma e la sua posizione nella sistematica legale (interpretazione letterale e sistematica: DTF 116 IV 140 consid. 2b). In secondo luogo egli ricercherà quali siano lo scopo della disposizione — in particolare riguardo all’interesse protetto — e la volontà del legislatore, se-
— 1501 — gnatamente quella risultante dai lavori preparatori (interpretazione teleologica e storica: DTF 117 IV 333 consid. 2, 116 IV 252 consid. 5a). e) Nel quadro dell’esame della domanda di assistenza il Tribunale federale — attenendosi all’esposto delle autorità americane — deve ritenere che la contrazione dei redditi, calcolata dalla società Y, non doveva trapelare all’esterno della società prima della data stabilita per l’annuncio pubblico e che la caduta dei corsi del 20% circa provocata da detta comunicazione ufficiale costituisce un « influsso notevole » ai sensi dell’art. 161, n. 1 c.p. Affinché questi fatti possano esser considerati come « confidenziali » ai sensi della norma, occorre tuttavia ancora che essi adempiano i requisiti richiesti dall’art. 161, n. 3 c.p. Poiché i fatti qui in discussione manifestamente non concernono né un’« imminente emissione di nuovi diritti di partecipazione » né « un raggruppamento di imprese », si pone la questione di sapere se costituiscono un’« analoga fattispecie di simile portata » (ein« ähnlicher Sachverhalt von vergleichbarer Tragweite »; un « fait analogue d’importance comparable ») ai sensi del predetto disposto. aa) Il n. 3 dell’art. 161 c.p. consiste nell’enumerazione di due esempi di « fatto confidenziale », accompagnata da una clausola generale. Il disposto non era contenuto nel progetto del Consiglio federale. Questo, per quanto riguarda le questioni che qui interessano, si limitava a indicare quelle connotazioni del fatto confidenziale che sono tuttora contenute al n. 1 dell’articolo. Illustrazioni ulteriori erano invece contenute nel messaggio, il quale precisava che potevano costituire « tali fatti: progetti di unione di imprese di qualsiasi forma, emissione di nuovi diritti di partecipazione o di obbligazioni; transazioni immobiliari e altre operazioni di grande portata » e — ciò che qui interessa — « perdite importanti incombenti o già subite dalla società » (FF 1985 II 74 n. 221). L’attuale n. 3 dell’articolo (allora n. 2-ter, poi n. 2-bis) fu introdotto nella legge dal Consiglio degli Stati, che si occupò per primo del progetto, su proposta della sua commissione, senza opposizione e con l’adesione della rappresentante del Consiglio federale. ll relatore Bürgi specificò che il nuovo disposto risaliva a una proposta Masoni-Muheim, minoritaria, fatta in commissione, cui quest’ultima aveva per finire aderito; che l’ultima parte della norma aveva per prima cosa il senso di limitare le fattispecie non menzionate a casi di « importanza notevole » (« von erheblicher Tragweite »), e che come tali entravano anche in considerazione tanto « gravi perdite imminenti » (« bevorstehende grosse Geschäftsverluste »), quanto il caso contario, segnatamente « grossi imminenti guadagni derivanti da un nuovo prodotto » (Boll. uff. CS 1986, intervento Masoni [589 seg.], interventi Bürgi, Masoni, CF Kopp [595]). Davanti al Consiglio nazionale furono formulate a proposito della nuova disposizione introdotta dagli Stati tre proposte: quella di stralcio (maggioranza), quella di adesione (minoranza della commissione) ed infine quella Hess-Bonnard consistente nell’aggiunta ai casi di emissione e di raggruppamento di un terzo esempio concernente « eine erhebliche Änderung der Geschäftslage » (« une modification sensible de la situation d’une entreprise ») (Hess) e nel contemporaneo stralcio dell’aggettivo « ähnlich », « analogue ». Dopo due votazioni preliminari, la combinata proposta Hess-Bonnard fu accettata con 77 voti contro 43 (Boll. uff. CN 1987 1380/1384). Nella procedura di eliminazione delle divergenze, il testo adottato dal Consiglio nazionale non trovò tuttavia grazia al Consiglio degli Stati. Dopo che la maggioranza della Commissione ebbe addirittura proposto di eliminare la clausola generale accompagnante i due esempi, approfondendo il solco esistente tra i due consigli, il Consiglio decise su proposta della minoranza (Cavelty) il mantenimento puro e semplice del testo che aveva adottato in precedenza (Boll. uff. CS 1987 630/636). Il Consiglio nazionale si adagiò nella seduta del 16 dicembre 1991 — al fine di consentire l’adozione del progetto — alla versione adottata dal Consiglio degli Stati. Nel dibattito intervennero i due relatori (Fischer-Hägglingen e Grassi), per sottolineare entrambi che la norma, secondo l’opinione di ambo i Consigli, non andava intesa come un’enumerazione esaustiva. Il relatore di lingua francese Grassi sottolineò « que, par cette décision, elle n’entend pas exclure de la punition celui qui obtient un avantage par la connaissance confidentielle d’une modification sensible de la situation de l’entreprise »,
— 1502 — ed aggiunse che questa soluzione — che consacrava « une énumération ouverte » — rispondeva « aux besoins de l’entraide judiciaire internationale ». Anche la rappresentante del Consiglio federale, raccomandando l’adesione al testo adottato dal Consiglio degli Stati, precisò che secondo tale norma — accanto ai casi della riunione d’imprese e delle nuove emissioni — , altre fattispecie — segnatamente perdite e profitti notevoli — potevano entrare in considerazione (Boll. uff. CN 1987 1765/66). bb) L’opinione espressa nel messaggio del Consiglio federale e nelle discussioni commissionali e parlamentari, secondo cui perdite o guadagni rilevanti dell’impresa possono costituire fatti, la cui divulgazione può comportare un influsso notevole sul corso delle azioni o altri titoli o sul corso delle opzioni su tali cartevalori, è in sé indubbiamente corretta e corrisponde a un dato d’esperienza. In questa formulazione generale, essa trovava indubbiamente anche riscontro nel testo legislativo originario proposto nel progetto del Consiglio federale. Essa non trova però riscontro nel disposto dell’art. 161, n. 3 c.p. quale è uscito, per finire, dalle discussioni parlamentari. La clausola generale costituita dall’ultima parte di questo disposto esige infatti che la fattispecie da prendere in considerazione non solo sia di « simile portata » (cioè atta a influire verosimilmente sui corsi, come già richiesto al n. 1), ma che essa sia del pari « analoga » ai due esempi citati nell’ingresso dello stesso disposto, cioè all’emissione di nuovi diritti di partecipazione o a una riunione di imprese. Perché tale analogia possa esser affermata, occorre che sussista tra la fattispecie ed i due esempi citati una corrispondenza di natura qualitativa e non soltanto quantitativa con gli elementi o alcuno degli elementi, che contraddistinguono la nuova emissione, rispettivamente la riunione di imprese e che sono inerenti al finanziamento o alla struttura giuridica dell’impresa. Soltanto una perdita massiccia di sostanza di un’impresa, tale da cambiare profondamente la struttura del bilancio e che rendesse necessario il risanamento o una fondamentale ristrutturazione della società, potrebbe eventualmente entrare in considerazione per fondare l’analogia, richiesta dal testo legale: il quesito — come ancora si vedrà — può rimanere irrisolto, e non è necessario indagare quali esatte caratteristiche tale perdita dovrebbe avere. Certo, tale soluzione può apparire insoddisfacente dal punto di vista degli interessi giuridici che la norma vuole tutelare, tra i quali il messaggio del Consiglio federale annovera la protezione dell’impresa, l’integrità del mercato borsistico e l’uguaglianza di prospettive tra gli investitori (FF 1985 II 70 s.), con prevalenza di quest’ultimo bene giuridico (cfr. PIERRE LASCOUMES e RICCARDO SANSONETTI, Les intérêts protégés par la nouvelle loi fédérale sur les opérations d’initiés [art. 161 c.p.s.] in: Schweizerische Juristenzeitung, 1988, p. 221 ss.). Ora, mere considerazioni teleologiche non consentono di fare astrazione dal testo esplicito della norma, se questo pone loro un limite. D’altronde giova rilevare che il legislatore non è affatto incappato in un’inesattezza linguistica (così TRECHSEL, Schweizerisches Strafgesetzbuch, Kurzkommentar, Zurigo 1989, n. 16 ad art. 161) nel redigere la clausola generale, ciò che d’altronde sarebbe irrilevante vigente il principio della legalità delle pene: infatti non gli sono sfuggite né l’opportunità di completare, allargando il ventaglio degli esempi, la lista di due soli elementi, ritenuta dal Consiglio degli Stati, con l’aggiunta della « modificazione sensibile della situazione dell’impresa » (proposta Hess), né quella di stralciare dalla clausola generale, siccome « de trop », l’aggettivo « analogue », « ähnlich », che lega codesta clausola agli esempi predetti (proposta Bonnard, cfr. Boll. uff. CN 1987 1383; cfr. anche SCHUBARTHALBRECHT, op. cit., n. 71 in fine ad art. 161). Il principio della legalità delle pene, la sicurezza giuridica e l’esigenza che le norme penali siano sufficientemente determinate e comprensibili per il cittadino impongono di concludere che il n. 3 dell’art. 161 c.p. modificante il primitivo progetto del Consiglio federale non ha avuto per conseguenza solo quella di eliminare i casi di poco rilievo, come indubbiamente il legislatore storico ha voluto (Boll. uff. CS 1986 595, CS 1987 631, CN 1987 1381, 1384, 1766; cfr. anche JEAN GAUTHIER, L’article 161 c.p.s.: analyse et commentaire in: CEDIDAC, op. cit., p. 57), ma anche quella di restringere la tutela penale accordata agli investitori del mercato borsistico in un determinato settore delle operazioni d’iniziati. Che, nel corso delle deliberazioni, siano state espresse da alcuni parlamentari ed anche dalla rappresentante del Consiglio federale opinioni in contrario senso non è rilevante. Per tacere del
— 1503 — fatto che, a tal riguardo, non hanno avuto luogo né un vero e proprio dibattito né una votazione, le opinioni emergenti dai materiali legislativi non possono prevalere sul testo in virtù del principio, costantemente ritenuto nella giurisprudenza del Tribunale federale, per cui i lavori legislativi sono di rilievo solo nella misura in cui hanno lasciato traccia nel testo della legge (cfr. DTF 109 Ia 303 consid. 12c con numerosi rinvii). Se la restrizione della tutela giuridica penale, che la norma adottata comporta, può apparire insoddisfacente, spetta al legislatore provvedere, chiudendo una lacuna impropria cui il giudice non può rimediare. cc) Ciò premesso, la censura ricorsuale per cui l’art. 161 c.p. non è applicabile ai fatti descritti nella domanda di assistenza americana dev’esser dichiarata fondata, senza che sia necessario determinare esattamente se e a quali condizioni massiccie perdite imminenti o già subite dalla società possano, per le loro conseguenze sulla struttura del bilancio o per il risanamento o la ristrutturazione della società, esser assimilate ai casi di emissione di nuovi diritti di partecipazione e di raggruppamento d’imprese. Nel caso di specie, infatti, la domanda dello Stato richiedente neppure assevera che il calo degli utili abbia avuto conseguenze del genere sopradescritto, e ciò non è neppur altrimenti ravvisabile, sulla scorta degli atti, dal momento che si è in presenza di un mero calo degli utili, e non di una perdita, e che questa diminuzione è circoscritta ad un solo trimestre. La fondatezza di codesta censura non porta però all’accoglimento del ricorso, se i fatti descritti nella richiesta di assistenza sono punibili in Svizzera in virtù di altra disposizione. 5. a) L’art. 162 c.p. prevede che chiunque rivela un segreto di fabbrica o commerciale, che aveva per legge o per contratto l’obbligo di custodire (cpv. 1), come pure chiunque trae profitto da questa rivelazione (cpv. 2) è punito, a querela di parte, con la detenzione o con la multa. Ai sensi di questa disposizione costituisce un segreto ogni conoscenza particolare che non è di pubblica notorietà né facilmente accessibile e che il suo detentore ha un interesse legittimo a tener segreta. Per segreti commerciali s’intendono segnatamente le informazioni che possono avere un’incidenza sull’esito commerciale, in particolare conoscenze relative all’organizzazione, al calcolo dei prezzi, alla cerchia dei clienti, alla produzione e all’andamento degli affari (cfr. DTF 109 Ib 56 consid. 5c, 103 IV 284 consid. 2b; NIKLAUS SCHMID, op. cit., p. 187, n. 390). È pacifico che il terzo che ha tratto profitto da queste informazioni è punibile in virtù dell’art. 162 cpv. 2 c.p.: verosimilmente tale disposto sarebbe applicabile anche agli organi di una persona giuridica (cfr. al riguardo SCHUBARTH-ALBRECHT, op. cit., pp. 251 s., n. 12 con rinvii alla giurisprudenza; cfr. tuttavia NIKLAUS SCHMID, op. cit., p. 190, n. 398 in fine). Il Tribunale federale, occupandosi di negozi giuridici effettuati da iniziati, ha già accertato che, a certe condizioni, il requisito della doppia punibilità può essere adempiuto poiché tali atti sono punibili nel diritto svizzero giusta l’art. 162 c.p. (DTF 109 Ib 47 ss., 113 Ib 71 consid. 4b, 75 consid. 4a, 79 consid. 2b). L’entrata in vigore dell’art. 161 c.p. non ha avuto per conseguenza che tali atti cessino di esser punibili in conformità dell’art. 162 c.p.: infatti, come si è visto, gli interessi giuridici protetti dagli artt. 161 e 162 c.p. sono parzialmente diversi, poiché il primo, accanto all’impresa, tutela l’uguaglianza di prospettive tra gli investitori, la lealtà negli affari e la protezione dell’integrità del mercato, mentre il secondo protegge principalmente l’impresa. Del resto non è pensabile che il legislatore, con l’introduzione della novella « insider », abbia voluto diminuire la protezione già accordata all’impresa, tutela che dev’essere pertanto mantenuta nei casi in cui l’art. 161 c.p. non può essere applicato. Nel caso di specie, non era necessario che il Tribunale federale attirasse l’attenzione della ricorrente sull’eventualità di un’applicazione dell’art. 162 c.p., poiché essa poteva facilmente prevedere la pertinenza di tale disposto (cfr. DTF 115 Ia 96 s. a contrario con vari riferimenti alla dottrina, 114 Ia 99 consid. 2a). b) Se, come le autorità americane sospettano, dipendenti della società Y hanno rivelato a terzi informazioni circa il calcolo degli utili trimestrali destinate a rimanere segrete sino al momento del comunicato ufficiale, ciò potrebbe adempiere la fattispecie dell’art. 162 cpv. 1 c.p., e i terzi che, al beneficio di tali informazioni, ne avessero tratto profitto, potrebbero essere punibili in Svizzera in applicazione del cpv. 2. La condizione della punibilità secondo il
— 1504 — diritto svizzero non sarebbe per i dipendenti della società Y invece adempita ove costoro, senza rivelare il segreto, si fossero limitati a trarne un profitto personale utilizzando direttamente per proprio conto le informazioni confidenziali che detenevano (DTF 113 Ib 71 consid. 4b). È chiaro che se nel corso dell’inchiesta dovesse emergere in modo inequivocabile che l’operazione finanziaria incriminata è stata effettuata da detentori del segreto commerciale senza violazione dello stesso, l’assistenza richiesta dovrà essere negata. Per contro, se è verosimilmente stato fatto uso d’informazioni confidenziali da parte di terzi, o se sussistono dubbi al riguardo, l’assistenza dovrebbe essere, di massima, concessa, a condizione che sia rispettato il principio della specialità. 6. a) La ricorrente fa valere infine che l’UFP, omettendo di menzionare espressamente il principio della specialità, avrebbe violato il diritto federale. Nelle sue osservazioni l’UFP precisa che il riferimento a tale principio non deve apparire nella decisione sull’ammissibilità della richiesta: esso figurerà invece nella lettera con la quale vengono trasmessi gli atti all’autorità richiedente. b) Il principio invocato dalla ricorrente è espressamente riservato all’art. 5 TAGSU: le informazioni ottenute dallo Stato richiesto non possono quindi essere utilizzate dallo Stato richiedente come mezzi di prova in una procedura relativa a un reato che non sia quello per il quale è stata accordata l’assistenza giudiziaria, segnatamente per il perseguimento di reati fiscali. È d’altronde escluso che lo Stato richiedente, senza previamente avere ottenuto l’autorizzazione da quello richiesto, trasmetta a un terzo Stato le informazioni ottenute (DTF 112 Ib 143 consid. 3b). Ora, il rispetto del principio della specialità da parte di Stati che, come nel caso di specie, sono legati alla Svizzera da un trattato sull’assistenza giudiziaria viene ovviamente presupposto. Si aggiunga che in concreto la ricorrente non fa valere alcuna circostanza che permetta di dubitare della presunzione di buona fede di cui gode tale Stato. La censura è quindi priva di fondamento. Chiaramente, giusta il principio in rassegna (al riguardo DTF 105 Ib 428 in basso), lo Stato richiedente non potrà punire l’uso di informazioni confidenziali, qualora l’iniziato ne abbia tratto profitto utilizzandole unicamente per proprio conto, senza rivelarle a terzi, fattispecie non prevista dall’art. 162 c.p. (DTF 113 Ib 71 consid. 4b, 109 Ib 57 consid. 5c): occorre quindi che l’UFP informi espressamente e in modo univoco lo Stato richiedente riguardo a questa riserva. Giova osservare ancora che l’autorità richiesta, prima di consegnare allo Stato estero gli atti d’esecuzione, deve comunque esaminare previamente eventuali interessi di terzi al segreto giusta gli artt. 10 cpv. 2 TAGSU, 13 cpv. 3 lett. a e 28 LTAGSU (DTF 115 Ib 192 consid. 4), ciò che corrisponde anche al principio della proporzionalità. L’UFP dovrà quindi provvedere a che vengano trasmessi unicamente documenti e prove che siano connessi con la determinazione degli elementi costitutivi del reato in rassegna. La domanda litigiosa può dunque essere accolta — con la riserva appena citata —, sempre che la documentazione sequestrata si riferisca effettivamente a notizie utili per le indagini e che vengano espunti rispettivamente eliminati tutti gli elementi che sono manifestamente estranei all’operazione criminosa oggetto della domanda; con queste riserve non vi è motivo di limitare l’assistenza — come postulato dalla ricorrente — agli atti stesi prima del 1o ottobre 1991, se questi dovessero rivestire una certa rilevanza per il perseguimento dei reati di cui si tratta. Inoltre, l’UFP dovrà procedere direttamente alla cernita dei documenti da comunicare allo Stato richiedente (DTF 115 Ib 194). c) Giova osservare infine che la presenza di legali o funzionari esteri all’audizione di testi va intesa come presenza passiva e che l’interrogatorio dovrà essere svolto dal magistrato svizzero, il quale dovrà anche evitare che i funzionari stranieri prendano conoscenza di documenti che nulla hanno a che fare con il reato di cui all’art. 162 c.p. Detto magistrato dovrà vegliare inoltre affinché non venga vanificato il diritto di decidere, alla chiusura del procedimento, se e quali informazioni dovranno per finire esser trasmesse allo Stato richiedente (art. 82 AIMP, art. 2 OAIMP): in particolare, ove dovesse sorgere il dubbio che, relativamente a determinati documenti o domande, esse debbano esser escluse dalla trasmissione, il magistrato elvetico dovrà provvedere a che la presenza di magistrati esteri o degli avvocati
— 1505 — della SEC venga — momentaneamente — esclusa (artt. 82 e 83 AIMP, art. 26 cpv. 1 e 2 OAIMP; DTF 113 Ib 169 consid. 7c e rinvii; cfr. anche DTF 117 Ib 52 consid. 5b). Italia - Svizzera: in tema di trasmissione di documentazione bancaria. Decidendo, come 1a Corte di diritto pubblico, a seguito di ricorso di diritto amministrativo proposto dalla società Mora Overseas (Panama) contro l’ordinanza 4 marzo 1997 del Ministero Pubblico della Confederazione, il Tribunale Federale Elvetico (presid. Aemissegger; giudici Favre e Jacot-Guillarmod), ha così deciso, in data 24 giugno 1997: Vu les pièces du dossier d’où ressortent les faits suivants: A. Le 15 octobre 1996, l’Office fédéral de la police (OFP) a confié au Ministère public de la Confédération (MPC) l’exécution d’une demande d’entraide judiciaire formée par le Parquet de Milan, chargé d’une enquête dirigée contre Pierfrancesco Pacini Battaglia. Ce dernier est soupçonné d’avoir détourné d’importantes sommes du groupe ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), et d’avoir obtenu des montants considérables de la part d’entrepreneurs italiens, pour le compte du Parti socialiste italien. La Banque des Patrimoines Privés, à Genève (ci-après: BPP), aurait été utilisée pour recueillir le produit de ces agissements. Le Parquet de Milan demande une enquête approfondie sur cette banque, le séquestre des comptes ayant pu recueillir les fonds illicites, et l’interrogatoire de diverses personnes. Par la suite, l’autorité requérante a produit une liste des personnes impliquées dans les malversations commises au préjudice du groupe ENI, parmi lesquelles Duilio Greppi. B. Par ordonnance du 17 octobre 1996, le MPC est entré en matière. La BPP était invitée à bloquer les comptes ayant un rapport avec Pacini Battaglia, et à en produire la documentation; les recherches ont été étendues aux noms figurant dans la liste précitée. Par arrêt du 30 janvier 1997, le Tribunal fédéral a rejeté un recours formé par la société panaméenne Mora Overseas Inc. (Mora), titulaire d’un compte auprès de BPP, dont Greppi est l’ayant droit. La demande était suffisamment claire et les faits décrits étaient punissables en droit suisse, comme délits d’appropriation (artt. 137 ss. c.p.), abus de confiance (art. 158 c.p.), faux bilans (art. 251 c.p.) et recel (art. 160 c.p.). La participation d’enquêteurs étrangers était admissible. C. Par décision de clôture partielle du 4 mars 1997, le MPC a ordonné la transmission, au Parquet de Milan, de la documentation (documents d’ouverture, relevés et justificatifs) relative au compte bancaire détenu par Mora. Agissant par la voie du recours de droit administratif, cette dernière demande au Tribunal fédéral d’annuler l’ordonnance de clôture, de refuser la transmission des documents relatifs à son compte bancaire et de déclarer inadmissible la demande d’entraide en tant qu’elle la concerne. Le MPC conclut au rejet du recours, dans la mesure où il est recevable. Considérant en droit: 1. Formé par le titulaire du compte visé par la demande (art. 80h let. b EIMP et 9a OEIMP) (1), à l’encontre d’une décision de clôture rendue par le MPC, autorité fédérale d’exécution (art. 80g EIMP), le recours de droit administratif est recevable. 2. Invoquant l’art. 80d EIMP, la recourante fait grief au MPC de ne pas avoir motivé sa décision. a) L’obligation de motiver, posée en général par l’art. 4 Cst. au titre du droit d’être entendu, et, en matière d’entraide, par l’art. 80d nouveau EIMP (entré en vigueur le 1er février (1) Si tratta, rispettivamente, della legge sull’Entraide internationale en matière pénale, e della correlativa Ordinanza, recentemente fatte oggetto di modifiche considerevoli: v. P. BERNASCONI, Rogatorie penali italo-svizzere, Milano, 1997; ID., La nuova legislazione svizzera sulle rogatorie penali internazionali, in Cass. pen., 1997, pp. 1182 ss.
— 1506 — 1997), a essentiellement pour fonction de permettre aux intéressés de recourir en connaissance de cause, et à l’autorité de recours d’examiner le bien fondé de la décision (ATF 122 IV 8 consid. 2c p. 14/15; 121 I 57 consid. 2c et les arrêts cités). Sa portée doit être appréciée en fonction de la procédure en cause. L’art. 80d EIMP, selon lequel l’autorité d’exécution ‘‘rend une décision motivée sur l’octroi et l’étendue de l’entraide’’, ne confère en l’espèce pas un droit plus étendu. En effet, dans le cas d’une décision où seule est en cause la transmission des renseignements demandés, l’indication des pièces à transmettre constitue une indication suffisante, car elle permet aux personnes touchées par la mesure de faire valoir leurs motifs d’opposition. L’autorité d’exécution n’a pas, comme le voudrait la recourante, à indiquer pour chacune des pièces recueillies quel serait son rapport possible avec les faits décrits dans la demande; cette démarche n’entre manifestement pas dans les tâches de l’autorité d’entraide, laquelle doit se borner à transmettre toutes les pièces dont l’utilité pour la procédure pénale n’est pas exclue d’emblée. Dès lors, l’indication des documents transmis, avec la considération implicite que ceux-ci ne paraissent pas, prima facie, inutiles à l’enquête (examen limité à l’utilité potentielle, ATF 122 II 367 consid. 2c), satisfait à l’obligation de motiver, puisqu’elle permet aux personnes concernées de s’opposer en toute connaissance de cause à la transmission. b) En l’espèce, le MPC n’a certes pas dressé de liste détaillée des documents remis par la banque. Sa décision indique toutefois qu’il s’agit des documents d’ouverture, des relevés et des pièces justificatives, soit manifestement de l’intégralité des pièces bancaires relatives au compte de la recourante. On peut dès lors considérer que le titulaire du compte visé par la demande est capable de comprendre la portée de la décision de transmission. Dans le cas contraire, on peut attendre de lui qu’il se renseigne, soit auprès de la banque, soit en demandant la consultation du dossier (art. 80b al. 1 EIMP). La recourante aurait d’ailleurs encore pu, si elle s’estimait insuffisamment renseignée, obtenir la consultation des pièces à transmettre dans le cadre de la présente procédure de recours de droit administratif (RHINOWKOLLER-KISS, Öffentliches Prozessrecht und Justizverfassungsrecht des Bundes, Bâle 1996, p. 300), cette dernière permettant la réparation d’éventuelles irrégularités commises en instance inférieure. Or, il n’apparaît pas que la recourante ait tenté l’une ou l’autre de ces démarches; elle ne prétend d’ailleurs pas sérieusement ignorer en quoi consistent les pièces que le MPC s’apprête à transmettre. Le grief doit donc être écarté. c) La recourante reproche aussi au MPC de ne pas l’avoir invitée à participer au tri des pièces remises par la banque. Sur ce point également, l’attitude passive de la recourante n’est guère compatible avec la protection, dont elle se prévaut maintenant, de son droit d’être entendue. En matière d’entraide judiciaire, ce dernier exige que l’intéressé dispose d’une occasion suffisante de s’opposer à la transmission de documents déterminés, soit qu’ils apparaissent manifestement sans rapport possible avec les faits évoqués dans la demande, soit qu’ils violent d’une autre manière le domaine secret. Le droit d’être entendu n’impose pas, en revanche, que la recourante soit personnellement entendue avant le prononcé de la décision de clôture. Or en l’espèce, on ne voit pas ce qui empêchait la recourante, qui devait s’attendre à une décision de clôture imminente, de s’adresser spontanément au MPC en faisant valoir les arguments qui, selon elle, empêchaient la transmission de certains documents. La recourante a encore eu l’occasion de faire valoir ses moyens dans le cadre de la présente procédure, mais elle ne tente pas d’établir — alors que cette démonstration lui incombait (ATF 122 II 367 consid. 2d) — que la transmission de certaines pièces déterminées violerait le principe de la proportionnalité. Le grief doit donc, lui aussi, être écarté. 3. La recourante invoque enfin le principe de la spécialité. Elle évoque plusieurs cas dans lesquels les renseignements transmis par la Suisse auraient été utilisés dans des procédures fiscales. Point n’est besoin de rechercher si les exemples mentionnés par la recourante constituent effectivement des violations, par les autorités italiennes, du principe de la spécialité. En effet, seules des violations particulièrement graves, répétées et délibérées des conditions
— 1507 — posées par la Suisse à sa collaboration pourraient éventuellement conduire cette dernière à envisager, à défaut de tout autre moyen, un refus de l’entraide judiciaire à titre de mesure de rétorsion. Or, la recourante ne cite que quelques cas isolés, impropres à remettre en cause la présomption de respect dont bénéficie l’Etat requérant, partie à la CEEJ, à l’égard des conditions fixées par la Suisse. Le principe de la spécialité, et sa portée, seront dûment rappelés lors de la transmission des documents par l’Office fédéral de la police (2). Enfin, contrairement à ce que paraît soutenir la recourante, le principe de la spécialité ne concerne que les documents transmis par la Suisse; il ne saurait s’étendre aux renseignements — même de teneur identique — obtenus dans le cadre de l’enquête menée en Italie. Il n’y a donc pas lieu d’émettre une réserve sur ce point. 4. Sur le vu de ce qui précède, le recours de droit administratif doit être rejeté. Un émolument judiciaire est mis à la charge de la recourante, qui succombe (art. 156 al. 1 OJ). Par ces motifs, le Tribunal fédéral, vu l’art. 36a OJ: 1) Rejette le recours. 2) Met à la charge de la recourante un émolument judiciaire de 5000 fr. 3) Communique le présent arrêt en copie au mandataire de la recourante, au Ministère public de la Confédération et à l’Office fédéral de la police (B 103792). Pendenza di ricorso contro la rogatoria e utilizzabilità degli atti acquisiti per suo tramite. Gli atti trasmessi dalla Svizzera in seguito a una rogatoria devono ritenersi utilizzabili anche nel caso in cui penda ancora davanti alle competenti autorità elvetiche il ricorso presentato contro la rogatoria. Così ha deciso la Sezione feriale della Cassazione, nella camera di consiglio del 13 agosto 1996 (presid. Rossi, rel. de Roberto, P.M. Iadecola, parz. diff.; ric. Pacifico). Da Cass. pen., 1997, pp. 127 ss., attingiamo la parte della motivazione che affronta la problematica indicata: ‘‘...5. Va, invece, respinta l’eccezione di inutilizzabilità degli atti eseguiti nella procedura rogatoriale svoltasi in Svizzera, fondata sull’assunto che, in pendenza di ricorsi presentati alle competenti Autorità elvetiche avverso tali atti, questi non potevano essere trasmessi alla competente autorità italiana. A parte la considerazione, correttamente formulata dal giudice del riesame, che il ricorrente non ha fornito la specifica prova documentale del presupposto di fatto della propria denuncia, e cioè della effettiva proposizione dell’opposizione davanti all’Autorità elevetica avverso la richiesta di audizione della Battistella e del Rovelli, e che nessuno specifico elemento risulta in proposito dalla documentazione in atti (ivi compresa la lettera in data 20 maggio 1996 del Procuratore generale della Confederazione elvetica prodotta dalla difesa dell’indagato, dalla quale — come ha ineccepibilmente precisato il giudice a quo — si evince che le richieste di rogatoria sono state numerose e che non per tutte sarebbe stata proposta opposizione), appare decisivo il rilievo che, ove lo Stato richiesto di assistenza travalichi, in ipotesi, dai limiti formali posti a propria garanzia dalle convenzioni internazionali, ciò riguarda lo Stato richiedente solo sul piano dei rapporti interstatali e non può, quindi, in mancanza di esplicite previsioni del suo ordinamento far sorgere all’interno di esso diritti soggettivi in capo ai singoli (cfr., Cass., 9 marzo 1983, Bucolo). (2) Per il testo-standard della « Riserva della specialità », secondo la formulazione adottata dall’Ufficio Federale di Polizia a decorrere dal 1o febbraio 1997, v. BERNASCONI, Rogatorie penali, cit., p. 489. Più volte, per il passato, il tema della specialità aveva rappresentato oggetto di dispute e di puntualizzazioni nei rapporti italo-svizzeri: v., nella rubrica « Rapporti giurisdizionali con autorità straniere » dell’Indice penale, la documentazione del non breve itinerario: 1981, p. 446; 1985, pp. 167, 436 e 648; 1986, pp. 692, 701; 1987, p. 129; 1988, p. 660.
— 1508 — In ogni caso, ai sensi dell’art. 83 della legge federale elvetica sull’assistenza internazionale in materia penale del 20 marzo 1981 (c.d. LAIMP), in caso di presentazione di ricorsi nella procedura rogatoriale non è preclusa la trasmissione degli atti all’Autorità richiedente, ma è previsto che con decisione impugnabile si stabilisca se e in quale misura e forma la trasmissione stessa debba avvenire. Inoltre, in forza dell’art. 111 della legge federale elvetica sull’organizzazione giudiziaria del 16 dicembre 1943, e fatta eccezione per le ipotesi di deroga (estradizione o informazioni concernenti la sfera segreta) di cui al 4o cpv. [sic] della LAIMP, i ricorsi al tribunale federale non hanno effetto sospensivo (3), tranne che un effetto di tal genere sia disposto dal presidente della corte giudicante; della ricorrenza dei presupposti (casi di deroga, sopra ricordati, ovvero provvedimento ad hoc) di una simile sospensiva non risulta essere stata data, prima, contestualmente o successivamente alla rimessione degli atti richiesti, comunicazione alcuna alle autorità italiane. Nessun ostacolo, dunque, si frappone, allo stato, alla piena utilizzabilità, nel presente procedimento, degli atti trasmessi dalla Confederazione elvetica (cfr., analogamente, ma con costruzione più articolata, alla quale il Collegio ritiene di dover pienamente aderire, Sez. VI, 26 giugno 1996, Acampora). (...)’’ Sulla non applicabilità dell’art. 710 c.p.p. nei rapporti estradizionali Italia-Stati Uniti d’America. Riportiamo, da Cass. pen., 1996, p. 1423, n. 884, la Massima tratta dalla decisione della Cassazione, sez. I, C.c. 27 giugno 1996 (presid. Sacchetti, rel. Mabellini, P.M. Ciampoli, conf.; ric. Pazienza), segnalando che sul problema affrontato non risultano precedenti specifici: Poiché, in tema di estradizione, vige il principio, dettato dall’art. 696 c.p.p., di prevalenza delle convenzioni e del diritto internazionale, in forza del quale le disposizioni del codice trovano applicazione solo quando i rapporti con le autorità straniere non siano disciplinati da convenzione internazionale e dalle norme di diritto internazionale, è esclusa l’applicabilità dell’art. 710 c.p.p. in materia di estradizione passiva suppletiva nei rapporti tra Italia e Stati Uniti d’America, regolati dal Trattato di estradizione Italia-USA firmato a Roma il 13 ottobre 1983 (sulla base di tale assunto, la suprema Corte ha ritenuto la manifesta infondatezza, per pretesa violazione del principio di eguaglianza, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 710 c.p.p., aggiungendo peraltro che non si potrebbe comunque porre un problema di disparità di trattamento tra norme che disciplinano diversamente l’estradizione suppletiva dall’estero e verso l’estero, tenuto conto che l’art. 710 c.p.p. — che subordina alla stessa procedura prevista per l’estradizione primaria l’estensione dell’estradizione ad altro fatto dall’Italia verso l’estero — è norma processuale interna alla quale non sarebbe logico pretendere che gli USA si adeguino, essendo razionale che ciascuno Stato preveda, in materia di modalità concrete attinenti alla procedura di estradizione, norme corrispondenti al proprio diritto processuale). Un ‘‘trasferimento’’ a favore del Tribunale penale internazionale per il Rwanda. ‘‘X. è stato arrestato in Svizzera l’11 febbraio 1995. Contro di lui è stata aperta un’indagine per violazione delle leggi di guerra, affidata ad un giudice istruttore militare. In so(3) Va però precisato che, per effetto delle successive modificazioni, in data 4 ottobre 1996, della legge federale elvetica indicata nella motivazione come LAIMP, l’art. 83 è stato abrogato, e piuttosto, nell’art. 21, cpv. 4 della nuova formulazione della legge, escluso, come regola generale, l’effetto sospensivo del ricorso avverso ogni decisione resa in applicazione della legge medesima, si è stabilito che alla regola fanno eccezione, tra gli altri, i ricorsi (lett. b) contro le decisioni che autorizzano la trasmissione all’estero di informazioni concernenti la ‘‘sfera segreta’’ o la consegna di oggetti o di valori. Sul tema v. BERNASCONI, La nuova legislazione svizzera, cit., p. 1205.
— 1509 — stanza gli si addebitava di avere, durante la guerra etnica svoltasi nel Rwanda dall’aprile al luglio 1994, favorito, finanziato e organizzato dei massacri di civili nella regione del Bisesero, prefettura di Kibuye. Il 12 marzo 1996, la Camera di prima istanza del Tribunale penale internazionale per il Rwanda, a Arusha (Tanzania; in seguito: il TPIR) ha ufficialmente richiesto la dismissione, a suo favore, di tutte le procedure avviate contro X’’. Abbiamo così tradotto (dal francese) l’esordio della decisione con la quale il Tribunale Federale di Losanna, quale 1a Corte di diritto pubblico, il 28 aprile 1997 disponeva (RO 123 II, pp. 75-191) il ‘‘trasferimento’’ di X. a disposizione del predetto Tribunale internazionale. Dopo un’ampia motivazione, che muove dall’analisi dell’« arrêté fédéral urgent du 21 décembre 1995 relatif à la coopération avec les tribunaux internationaux chargés de poursuivre les violations graves du droit international humanitaire », la Corte conclude, tra l’altro — ne riportiamo le parti centrali della ‘‘massima’’, nella versione in lingua italiana — nel senso che si sono realizzate le condizioni del trasferimento, e che è stato rispettato il diritto dell’interessato ad essere sentito (consid. 4 e 6). Più in particolare viene così precisato: ‘‘Si presume che la procedura dinanzi a un tribunale internazionale penale del genere del TPIR rispetti le esigenze di un equo processo; non v’è motivo di porre condizioni alla consegna, né d’interpellare il TPIR sulle modalità della difesa d’ufficio dei prevenuti (consid. 7a e b), né d’esaminare le possibilità di eseguire in Svizzera un’eventuale pena privativa della libertà pronunciata dal TPIR (consid. 7c)’’. Nella motivazione, a proposito di ‘‘equo processo’’ viene riportato (consid. 6) l’art. 20 dello Statuto del TPIR (Les droits de l’accusé), e si fa inoltre rilevare, tra l’altro, che il legislatore elvetico aveva scelto a proposito l’espressione ‘‘trasferimento’’ (transfèrement), per far comprendere (consid. 4) che non si tratta di una estradizione ‘‘classica’’, tenuto conto della natura dell’autorità richiedente e delle condizioni della risposta adesiva (FF 1995 IV p. 1078). L’appel de Genève (4) Conseil de l’Europe, traité de Rome, accords de Schengen, traité de Maastricht: à l’ombre de cette Europe en construction visible, officielle et respectable, se cache une autre Europe, plus discrète, moins avouable. C’est l’Europe des paradis fiscaux qui prospère sans vergogne grâce aux capitaux aux-quels elle prête un refuge complaisant. C’est aussi l’Europe des places financières et des établissements bancaires, où le secret est trop souvent un alibi ed un paravent. Cette Europe des comptes à numéro et des lessiveuses à billets est utilisée pour recycler l’argent de la drogue, du terrorisme, des sectes, de la corruption et des activités mafieuses. Les circuits occultes empruntés par les organisations délinquantes, voire dans de nombreux cas criminelles, se développent en même temps qu’explosent les échanges financiers internationaux et que les entreprises multiplient leurs activités, ou transfèrent leurs sièges au-delà des frontières nationales. Certaines personnalités et certains partis politiques ont eux-mêmes, à diverses occasions, profité de ces circuits. Par ailleurs, les autorités politiques, tous pays confondus, se révèlent aujourd’hui incapables de s’attaquer, clairement et efficacement, à cette Europe de l’ombre. À l’heure des réseaux informatiques d’Internet, du modem et du fax, l’argent d’origine frauduleuse peut circuler à grande vitesse d’un compte à l’autre, d’un paradis fiscal à l’autre, sous couvert de sociétés off shore, anonymes, contrôlées par de respectables fiduciaires généreusement appointées. Cet argent est ensuite placé ou investi hors de tout contrôle. L’impu(4) La traduzione italiana del testo di questo appello — sottotitolato « Per un’Europa più giusta e più sicura » — è pubblicata in Dir. pen. e proc., 1997, p. 874, con un commento di E. BRUTI LIBERATI, dal titolo: Verso uno spazio giudiziario europeo.
— 1510 — nité est aujourd’hui quasi assurée aux fraudeurs. Des années seronti en effet nécessaires à la justice de chacun des pays européens pour retrouver la trace de cet argent, quand cela ne s’avérera pas impossible dans le cadre légal actuel hérité d’une époque où les frontières avaient encore un sens pour les personnes, les biens et les capitaux. Pour avoir une chance de lutter contre une criminalité qui profite largement des réglementations en vigueur dans les différents pays européens, il est urgent d’abolir les protectionnismes dépassés en matière policière et judiciaire. Il devient nécessaire d’instaurer un véritable espace judiciaire européen au sein duquel les magistrats pourront, sans entraves autres que celles de l’État de droit, rechercher et échanger les informations utiles aux enquêtes en cours. Nous demandons la mise en application effective des accord de Schengen prévoyant la transmission directe de commissions rogatoires internationales et du résultat des investigations entre juges, sans interférences du pouvoir exécutif et sans recours à la voie diplomatique. Nous souhaitons, au nom de l’égalité de tous les citoyens devant la loi, la signature de conventions internationales entre pays européens: — garantissant la levée du secret bancaire lors de demandes d’entraide internationale en matière pénale émanant des autorités judiciaires des différents pays signataires, là où ce secret pourrait encore être invoqué; — permettant à tout juge européen de s’adresser directement à tout autre juge européen; — prévoyant la transmission immédiate et directe du résultat des investigations demandées par commissions rogatoires internationales, nonobstant tout recours interne au sein de l’État requis; — incluant le renforcement de l’assistance mutuelle administrative en matière fiscale. À ce propos, dans les pays qui ne le connaisent pas, nous proposons la création d’une nouvelle incrimination d’« escroquerie fiscale » pour les cas où la fraude porte sur un montant significatif et a été commise par l’emploi de manoeuvres frauduleuses tendant à dissimuler la réalité. À cette fin, nous appelons les parlement et gouvernements nationaux concernés: — à ratifier la Convention de Strasbourg du 8 novembre 1990 relative au blanchiments au dépistage, à la saisie et à la confiscation des produits du crime; — à réviser la Convention européenne d’entraide judiciaire en matière pénale, signée à Strasbourg le 20 avril 1959; — à prendre les mesures utiles à la mise en oeuvre effective des dispositions du titre VI du traité de l’Union européenne du 7 février 1992 et de l’article 209 A du même traité: — à conclure une convention prévoyant la possibilitè de poursuivre pénalement les nationaux coupables d’actes de corruption à l’égard d’autorités étrangères. Par cet appel, nous désirons contribuer à construire, dans l’intérêt même de notre communauté, une Europe plus juste et plus sûre, où la fraude et le crime ne bénécficient plus d’une large impunité et d’où la corruption sera réellement éradiquée. Il en va de l’avenir de la démocratie en Europe et la véritable garantie des droits du citoyen est à ce prix. 1o ottobre 1996. BERNARD BERTOSSA, EDMONDO BRUTI LIBERATI, GHERARDO COLOMBO, BENOÎT DEJEMEPPE, BALTASAR GARZON REAL, CARLOS JIMENEZ VILLAREJO, RENAUD VAN RUYMBEKE